Testimonianze, lettere, scritti di persone che hanno conosciuto
ANDREA MANDELLI o ne hanno sentito parlare raccolti da Giovanna Falcon tra il 2013 e il 2018 e pubblicati on-line a corredo del libro Ti regalo la mia molla. La vita di Andrea Mandelli (Itaca 2018)
LA FAMIGLIA, FABBRICA DI SPERANZA PAPA FRANCESCO Festa delle famiglie, Philadelphia 26 settembre 2015
i genitori di andrea ANTONIO E SOFIA i fratelli di andrea MARTA VITTORINO PIETRO FRANCESCO MICHELE GIOVANNI
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ANTONIO E SOFIA MANDELLI Incontro alla vacanzina di GS, Lizzola, 5 gennaio 1991 Sofia Mamma mia, incominciare così… Quando don Gabriele ci ha chiesto questo, io ho pensato che avrei fatto fatica a raccontarvi le cose. Poi però ho pensato che se ero, perché lo ero, timorosa sulla riuscita, ero proprio stupida, e quindi ho detto di sì, anche perché Antonio aveva già detto di sì e perciò non potevo dire diversamente. Ho capito che quello che don Gabriele ci chiedeva era una cosa buona per noi, nel senso che il ripensare insieme a quello che ci è accaduto e comunicarlo a voi era come un rinsaldare il legame con voi, con voi giovani con i quali ho un debito di gratitudine. Mi sono detta: «Allora vado», perché quello che voglio condividere con voi è un’esperienza bella, e vorrei che anche voi nella vostra storia trovaste gli stessi motivi per ringraziare il Signore, che sono gli stessi per cui noi lo ringraziamo, come ben vi racconteremo. Antonio Sarà un po’ un macello… Non faremo la cronistoria di ciò che è accaduto ad Andrea perché molti di voi lo hanno seguito e poi perché non è tanto la cronistoria quello che interessa, ma quanto quegli avvenimenti, quei fatti sono stati vissuti dalla nostra famiglia. Intanto devo dire che due anni fa io ero un po’ stanco: siccome sono uno che si lascia tirar dentro dalle cose da fare, dal Movimento Popolare alla politica, a un certo punto ne avevo piene le tasche, facevo le cose di malavoglia. Tra l’altro era successo, verso la fine del 1988, che alcuni amici mi avevano chiesto se volevo occuparmi insieme a loro di una fondazione che voleva creare una casa di riposo per anziani, per gestirla, perché c’era un donatore che ci aveva donato alcuni miliardi. «Se tu vieni, così lo conosci, tu sei una garanzia perché sai fare i conti, è il tuo mestiere…». E io mi dicevo: «Porca la miseria, anche questa…». Come al solito io non mi tiravo indietro, ma mi davo dello stupido, perché andavo di malavoglia agli incontri, a fare i conti, a perdere le nottate, i sabati. Nella primavera dell’89 la cosa assume la sua concre3
tezza e, insieme al donatore, ci troviamo davanti a un notaio a fare l’atto di costituzione della fondazione. Questo signore stacca un assegno di quelli considerevoli, quelli con nove zeri, e un’altra decina di noi che eravamo lì, poveri pisquani, ci mette l’assegno di un milione a testa come socio della fondazione. E io mi dicevo: «Porca la miseria, oltre che il tempo, le energie che non ho voglia, ci devo mettere pure 1 milione!». Ero proprio tirato dentro per i capelli. Questi amici erano tutti medici. Pochi giorni dopo abbiamo saputo di Andrea e da quel momento è stata una gara di solidarietà di questi: si facevano in sedici per accelerare i tempi, prendere gli appuntamenti, fare la TAC, in un’amicizia che ci ha accompagnato – me, la mia famiglia, perché poi il rapporto si è sviluppato, con i miei figli, con Andrea e con Sofia –, in un rapporto che ci ha accompagnato costantemente in ogni momento, in ogni bisogno, in ogni attenzione. Tanto che quella cosa che era nata come fatica è diventata un’amicizia grande, anche perché era chiara la ragione per cui quelli si davano da fare ed era l’esperienza del movimento che ci univa. Così grande che io mi sono messo a fare con gusto quel lavoro lì che avevo affrontato in un modo veramente scocciato. Direi che da quel momento lì è cambiato il mio atteggiamento di fronte alle cose da fare, che prima spesso erano quasi sempre un peso e che poi invece sono diventate un’opportunità che rende bella la vita e dava concretezza all’esperienza cristiana: le due cose si sommano. Ed è stato utile perché è quello che Andrea ha vissuto in tutto il tempo della sua malattia, quando ha continuato a fare le cose che faceva sempre: l’impegno con GS, il mercatino, la Studenti Card, gli Esercizi, le vacanze… non perdeva un appuntamento; anche le terapie faceva con passione, lo studio… fino a quando ha potuto, studiava con attenzione. Ma questo fare mi era chiaro che anche per lui non era un dopolavoro (il rischio nel quale ero caduto io) o l’alternativa per eludere il problema che lo aveva colpito e del quale era ben cosciente. Era invece il modo di vivere la vita, perché una vita che inizia non ha mai termine. Tanto che in un libretto allegato a «Il Sabato» che riprende un incontro che il Giuss ha 4
tenuto ai giovani universitari la scorsa estate1, mi pare, c’è un capitoletto, il capitolo sesto, intitolato «Per una dimora eterna», che esprime molto bene questo concetto che Andrea ha vissuto e nel quale io sono rinato per l’occasione che mi è stata data e che vi ho detto prima. Il concetto ve lo rileggo perché è molto bello. Dice: «La nostra realtà più profonda, la nostra realtà più sperimentale – dico “più sperimentale” –, non è l’attaccamento al corpo così com’è; […] è attaccamento all’eternità del corpo, a quell’altra cosa diversa, a quella cosa che è la sua verità. Siamo stati fatti non attaccati a quello che abbiamo, ma attaccati alla verità di quello che abbiamo. […] Dio ci ha fatto per questo, Dio ci ha fatto per possedere, per realizzare un lavoro, per vivere l’affezione secondo l’eterno, secondo la verità delle cose, secondo quella differenza che incominciamo a sperimentare. […] chi gli aderisce incomincia a sperimentarlo; incomincia, come l’alba di fronte alla giornata»2 Per me e per Andrea il fare le cose, in quella situazione che era chiaramente segnata per una strada inevitabile, fare le cose è stato vivere già da quel momento lì l’eternità del corpo, l’eternità di una presenza, non il dopolavoro, che poteva anche rendere importante per me o eludere il problema come poteva essere per Andrea. Dico un’altra cosa, poi lascio la parola a Sofia che, siccome ha vissuto più da vicino per ragioni concrete la malattia di Andrea, ha moltissime cose da dire. Un’altra cosa volevo dirvi, che è maturata per me proprio nel vivere con Andrea la vicenda sua: noi di solito siamo abituati a pensare che la libertà sia il luogo, il momento in cui uno esprime il massimo delle possibilità di scelta: io sono libero quando davanti a me ho tutte le porte spalancate e posso scegliere cosa fare nella vita, cosa studiare, la ragazza, il ragazzo, posso scegliere, posso scegliere, Il libretto propone gli appunti di una conversazione di Giussani con alcuni studenti universitari svoltasi ad Arabba dal 21 al 26 agosto 1990. Il testo, nella nuova versione qui riportata, è inserito nel volume: Luigi Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo (1990-1991), a cura di J. Carrón, Bur, Milano 2013, pp. 109-213. 2 Ivi, p. 155. 1
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posso scegliere. Posso, io posso. La malattia di Andrea ci ha fatto toccare con mano come invece il massimo della libertà sia quando la strada è obbligata, perché lì è chiaro che o ci stai o non ci stai. Lì devi esercitare tutta la tua libertà con tutto te stesso. Quello che mi ha fatto maturare il rapporto con la ragazzaccia [Sofia]. Sofia In effetti, abbastanza spesso mi rendevo conto che Andrea, pur facendo progetti e desiderando cose belle – lui le desiderava fortemente –, poi quando i dottori gli dicevano che, ad esempio, non era bene andare in Francia con la sua scuola, oppure non poteva partecipare, non poteva fare, doveva fare le cure, doveva rinunciare, comunque aveva una libertà di cuore nell’aderire alla strada che il Signore aveva fatto per lui. Mi ricordo che una volta ha scritto a don Giorgio che non poteva andare in Francia con lui: «Vuol dire che per questi due giorni il Signore mi chiede di fare altro». E comunque è perché lui si sentiva dentro a quell’amicizia grande, a quella compagnia che lo sosteneva, lui si sentiva dentro. Anche se gli altri andavano e lui era a letto o se passava tre o quattro giorni a star male di stomaco, lui non si sentiva assolutamente slegato. Diceva: «È in forza di una unità che si può restare soli». Era un restare solo fisico, ma lui non era solo, perché si sentiva proprio unito ai suoi. Mi hanno aiutato tantissimo lui, i suoi amici, i nostri grandi preti, in questa cosa, perché è chiaro che uno da solo non ce la farebbe invece a vivere con verità. Una delle prime volte che è venuto a trovarlo in ospedale – lui doveva fare la chemioterapia – don Gianni non gli ha detto: «Sta’ tranquillo, vedrai adesso con le cure…» ma: «Andrea, ti raccomando, offri tutto quello che ti è dato da vivere, ti prego, offrilo perché ce n’è proprio bisogno». Io sono stata veramente grata a don Gianni che in quel momento ha aiutato anche me a porre la questione in questi termini così veri: o aderire alla strada che il Signore piano piano delineava per noi, per Andrea oppure farsi delle illusioni. Io vedevo che i genitori dei piccolini che erano in reparto 6
con Andrea avevano un bisogno incredibile di trovare un senso al cammino anche faticoso dei loro bambini e quindi al loro cammino. Vi assicuro che non c’è niente di più tremendo che voler fare per tuo figlio e non potere: hai almeno bisogno di capire che tutto questo ha un senso, che c’è qualcosa di buono, un positivo che viene fuori anche da questo cammino accettato. Mi pareva proprio che Andrea avesse imparato dai suoi amici grandi e piccoli. Vi leggo un pezzetto di una lettera di un’insegnante: «Che cosa dirti di me… una cosa sola: la meraviglia, la bellezza della nostra vita. Ma dentro la nostra gioia, c’è un Dio dal volto serio, quasi scuro. Quando penso a te e ad altri amici che soffrono è come se un campanello si mettesse a suonare allarmato. Dio ha fretta, una fretta terribile di diventare tutto per noi, di farci suoi. Perciò sempre più dobbiamo essere crocifissi, inchiodati ai segni che Lui ci dà. La tua è una profezia per tutti noi, ma per noi deve essere esattamente come per te. Come tu ogni giorno obbedisci a Cristo dentro il male che ti ha dato, così le mie cose quotidiane – famiglia, scuola, amici eccetera – devono essere per me come quel male, da accettare e portare, come Maria portò Gesù in grembo, con la differenza che oggi ci è rimasto solo il dolore, credo perché la presenza di Cristo possa entrare nella nostra carne e coincidere con la nostra persona e renderci felici». Queste cose dette da un’insegnante, da un adulto, erano segno di tutto un cuore che batteva con lui e che lo sosteneva. Andrea ha potuto imparare anche un’obbedienza: per esempio, durante certe vacanze avevano cantato abbastanza a lungo una canzone di quelle un po’ di poco senso e lui alla fine aveva detto a una sua amica: «Vedi, è stato giusto anche così perché io magari non avrei avuto voglia». Lui non avrebbe avuto voglia di usare il tempo così perché c’erano cose più grosse, più importanti da fare, più significative da vivere, però dice: «Io capisco che cresco andando dietro a quello che mi chiede di cantare». È una banalità, ma obbedendo a piccoli passi uno obbedisce anche a un disegno grande che gli chiede molto. Quando eravamo in ospedale a Milano i medici in pediatria si professavano per la maggior parte atei, non credenti, 7
e uno di loro, parlando con Andrea, gli aveva detto: «Sai, io non credo in nulla, ho paura dei legami». Andrea si era stupito come un uomo avesse potuto rivelarsi, per quello che erano i propri pensieri, a lui che era un ragazzetto. Questo medico stava molto a cuore ad Andrea; mi diceva: «Sai, mamma, vedrai che anche lui prima o poi farà un incontro, gli sarà chiaro che invece il Signore è presente, non solo c’è ma è un Dio che si rivela». Questo medico si era stupito con un’altra dottoressa del fatto che quando dicevano ad Andrea che gli esami erano andati in un certo modo e che occorreva riprendere la chemioterapia oppure cure anche abbastanza pesanti, lui non facesse mai domande, per esempio su quale esito potevano avere le cure, che speranze davano, che era anche una cosa che uno poteva oggettivamente desiderare di sapere. Questo medico si stupiva che Andrea facesse quel che doveva con una serenità che in effetti gli era conquistata, penso, dalle preghiere di tutti quelli che pregavano per lui. Ecco questa obbedienza. Antonio La sua presenza in ospedale non è stata mai una presenza insignificante. Effettivamente nel reparto dov’è stato a lungo di casi come il suo ce n’erano molti, anche di piccoli, ma qual era la differenza? Intendiamoci, il Signore certamente aveva la sua mano su ciascuno di quei piccoli malati come ce l’aveva su Andrea. La differenza è questa: lui, noi, abbiamo vissuto un’esperienza che si comunicava. Intanto Andrea viveva intensamente il legame con il movimento e con la Chiesa, e questa intensità di che cosa era fatta? Il suo tempo, le sue energie, il suo pensiero erano rivolti lì, non tanto alla sua malattia, e poi veniva una marea di gente a trovarlo. Mi ricordo che, appena la cosa si è saputa, lui era ricoverato al reparto di ortopedia del “Pini” ed era in camera con un ragazzo di sedici-diciassette anni. A un certo punto Andrea mi ha detto: «Massimo – si chiamava così quel ragazzo – mi ha chiesto: “ma che cos’è questo movimento?”», perché sentiva tutti i discorsi, gli facevano una testa così di questo movimento movimento movimento e Andrea quindi glielo aveva spiegato. 8
Sofia ha già detto di quel medico il cui interesse era certamente per Andrea in modo particolare, ma era chiaro che era per l’esperienza che vivevamo. Mi ricordo una volta che si è messo a parlare di Formigoni: «ma che cosa fa questa gente qui al Meeting?». Ogni volta che ci si incontrava era inevitabile che il discorso e il giudizio andassero alla vita e all’esperienza che si viveva. Poi c’era il giornalaio che tutte le mattine passava a portare i giornali e che si professava anarchico. Quando passava da Andrea, il discorso cadeva sempre inevitabilmente sul Signore, sulla Chiesa, sempre, fin dal primo giorno. Questo non può essere casuale, è perché comunque chi entrava lì incontrava un’esperienza. Come i genitori degli altri compagni di camera con cui Sofia può dirvi di aver iniziato rapporti bellissimi. Perché quell’esperienza che molti vivono ti interpella fino in fondo. Tu puoi sempre tirar su un velo grigio e aggrapparti alla speranza che siano le medicine che ti salvano oppure puoi domandarti le ragioni vere per le quali tu vivi e le ragioni vere per le quali tu soffri, e quindi le ragioni vere per le quali fai fatica a lavorare, fai fatica ad amare e così via. Quanti incontri! Uno era, per combinazione, il papà di un compagno di scuola di Andrea che aveva un anno in meno e che poi è morto. Il papà Vittorio, che adesso viene a trovarci regolarmente, non accettava che suo figlio stesse morendo, che fosse morto in modo anche più repentino di quanto non sia stato per Andrea, ma anche lontano dall’esperienza religiosa. È venuto domenica a trovarci a Monte Marenzo e mi ha detto che lui sta leggendo le Confessioni di sant’Agostino che Sofia gli aveva dato. E ci dice: «Sono bellissime! Non c’è un uomo più grande di questo, forse Gesù Cristo». Sofia gli ha dato la copia degli ultimi Esercizi della Fraternità. Sofia C’è stato un periodo in cui Andrea aveva i globuli bianchi talmente bassi che si potevano portare molti microbi, perciò si doveva entrare con la mascherina. Allora i medici avevano detto: «Insomma, Andrea, devi proprio limitare l’ingresso dei tuoi amici». Allora don Giorgio aveva chiesto ai suoi compa9
gni che si mettessero in nota e venissero a due a due come gli apostoli. Quindi a scuola c’era un compagno che, molto obbediente, prendeva nota delle prenotazioni, e questo era un grosso sacrificio per loro che avevano un gran voglia di vedersi, sia per Andrea che per chi lo andava a trovare, così razionati. Una sera Andrea ha telefonato a un suo amico e gli diceva: «Sai, voi siete proprio bravi, ma io lo so, anche la mia mamma ha bisogno di vedere le sue amiche». I medici avevano notato che il bene che gli amici gli volevano era anche quello dentro un’obbedienza, perché se a certe cose bisognava rinunciare, loro sapevano farlo. Antonio Era una processione, ogni giorno, di cinque, dieci, quindi, venti, anche trenta persone. Molti medici telefonavano per avere notizie. Potevano essere scocciati da questo andirivieni, di fatto però erano colpiti da questa enorme condivisione e unità attorno a tutta la vicenda vissuta con obbedienza e con serenità. Sofia Io penso che Andrea queste cose abbia potuto viverle così perché aveva ben chiaro che il Signore era presente nella sua vita proprio attraverso il volto dei suoi amici, delle mie amiche che mi portavano da mangiare, e mi portavano le cose morbide perché io facevo fatica a masticare e Andrea ci teneva tantissimo che io mangiassi, perché se no diventavo magra… mi curava. Quella amicizia così grande era proprio la presenza di Dio per noi. Andrea aveva questa cosa molto chiara e ce l’aveva chiara forse da tempo. Sulla sua agenda dove annotava ciò che era importante, agli Esercizi a Rimini oppure in altri incontri, spessissimo si parla della presenza di Dio: «Il cambiamento non è diventar buoni ma è la sua presenza. Beato non più infelice – si riferiva alle Beatitudini, ma poteva applicarlo anche a se stesso – perché puoi dire tu a Cristo». Oppure più avanti: «La preghiera è riconoscere una presenza. La memoria è ciò che mi permette di vivere una presenza». Io ho capito solo che questa presenza non era una presenza astratta, una cosa un 10
po’ vaga, ma era riconoscere che il Signore è incarnato e allora un incontrarlo nelle persone che gli volevano bene. Un’amica ci ha scritto: «Il giorno del suo compleanno, che era il 3 febbraio, Andrea mi ha detto: “La cosa più bella è che ho tanti amici ma la cosa ancora più bella è che questi diciannove anni è valsa la pena di viverli per l’istante in cui L’ho incontrato. Ho impiegato tanto, diciannove anni, ma sono stati utili per quel solo istante. Ne ho sentito sempre parlare, ma la volta dell’incontro personale è una. E una volta accaduto questo momento non lo dimentichi più. E le cose difficili diventano facili”». Mi sembra che sia proprio da questa consapevolezza che lui ha trovato il coraggio di seguire il Signore e quello che gli chiedeva, perché sapeva che Lo incontrava, era un dire “Tu” tutte le volte che lo venivano a trovare, che aiutavano la sua fede a crescere, era proprio un incontro diretto. Guardando Andrea mi sono resa conto che in lui c’era chiara la presenza del Signore, come pure in quelli che aiutavano me e che mi venivano a confortare, e comunque si prendevano cura di me. Tant’è che posso dire che il Signore si è rivelato a me, come figlio, come fratello, come padre, come medico, come sacerdote, come padre spirituale. In tutte queste sfaccettature mi si è proprio rivelato. Questa è una cosa di cui devo rendere grazie. Evidentemente avevo proprio bisogno di questo passo. Se il Signore mi ha dato questo da vivere, si vede che ero ancora un po’ astratta. Mi sembrava che Andrea avesse imparato, proprio per questa compagnia, che poteva vivere con gioia; era una totalità, una libertà, come diceva prima Antonio, un aderire liberamente a ciò che gli veniva chiesto, ma non in maniera eroica. Infatti poi scriveva: «Sembra che io stia facendo qualcosa di straordinario, di eccezionale o di eroico. Invece non è vero. Perché se Dio mi dona qualcosa che ci risveglia è perché sia chiara la ragione fra noi. ». Ecco, forse lui tra i suoi amici, con i suoi amici, voleva dire che se a lui era chiesto quel cammino lì, a loro sarebbe stato chiesto altro, o era chiesta la fatica dello studio o erano chieste altre cose o altri passi. Però Andrea accettava il suo, senza fare niente di straordinario, perché comunque fosse chiaro che, «sia che mangiate sia che beviate» sia che siate in un letto, la 11
vostra vita è per Cristo, è perché cresca la presenza del Signore, «perché sia chiara la ragione tra noi». Antonio Noi ci domandiamo sempre come sarà la nostra vita con la nostra vocazione: uno dei nostri figli vuole sposarsi, un altro vuole fare il filosofo… ognuno è alla ricerca della sua vocazione. Per Andrea il suo male era la sua vocazione, tanto che ha scritto: «Se Dio ci dà questo è perché la nostra vita sia totale. Bisogna dire un SI a Cristo che sia totale. La pienezza della vita sta nella verginità e nella morte. Ne sono gli atti supremi». La sua vocazione era particolarmente nitida (e molto dura per noi) e lui l’ha vissuta con una serenità grande e in attesa, perché, come altre volte abbiamo rilevato io e Sofia, il Signore ti dà le prove che tu riesci a superare. E lui era tranquillo. Sofia Diceva che non bisogna avere paura del dolore, perché se è vero che quando chiedi una prova al Signore Lui te la dà, è pur vero che te la dà commisurata alle tue forze. Quindi non devi avere paura: uno va avanti, passo passo, e si affida. Lui non si sentiva di fare cose eroiche, ma di accettare passo passo quello che gli era chiesto, perché in effetti si può. È vero che il Signore chiede tutto, e io che sono una fifona quando penso ai martiri mi viene un accidente perché mi domando: «ma come facevano a sopportare il martirio?». Io sono una fifona terribile, anche quando nei film si incomincia a vedere qualcosa di un po’ violentino, io scappo. Invece mi è sembrato che Andrea fosse il segno che è vero che il Signore chiede tutto, però te lo chiede passo passo. Chiede tutto a me della mia giornata di massaia e chiedeva tutto a lui nella sua giornata di persona che faceva le cure. E nel frattempo è vero che il Signore ti dà tutto, perché a me non è mancata una briciola di conforto di cui avevo bisogno. Antonio E poi ci sono gli altri, perché il miracolo dell’esperienza del movimento è che anche quando gli altri lo incontrano è stupe12
facente. Vi leggo quello che mi ha scritto un grosso industriale dopo il funerale: «Caro amico, a qualche giorno della perdita di suo figlio, sento il bisogno di esprimere tutta la mia partecipazione ad un così grande dolore. Anch’io mi sono chiesto perché. E tutte le risposte erano nelle preghiere che sono state recitate. In più Andrea ha fatto una cosa straordinaria: è riuscito a fermare per qualche ora il mondo. Eravamo tutti lì, dimentichi delle nostre beghe, dei soldi, dei nostri problemi per aiutarlo a salire velocemente in cielo. E ce l’abbiamo messa tutta, mi creda, e così Andrea ha compiuto anche il miracolo di cavarci la poca fede che ancora c’era rimasta dentro. Allora finalmente ho capito. In realtà, era lui che ci trascinava verso il cielo e riannodava il filo che molti di noi avevano troncato. Con il suo sacrificio, purtroppo. Lo sentivamo lì, potentemente presente, che ci chiedeva di poter aiutare noi. Io gli ho affidato un mio grosso problema personale, e l’ho affidato nelle mani più giuste. Ora tantissime persone non mi chiederanno più perché. Grazie ad Andrea, e a voi che siete stati strumento di questo dono di Dio. Con tantissimo affetto». Allora voi capite qual è il miracolo? Che con questo signore con cui io mi trovo abitualmente a parlare di affari, dopo questo evento non possiamo più guardarci come se niente fosse. Lui che mi ha scritto: «il miracolo di cavarci quella poca fede che ci è rimasta dentro… di riannodare i fili che molti di noi avevano troncato…» esprime un desiderio di fede e di rapporto che mi resta “sul gobbone” e che devo portare avanti io con quella persona lì, adesso. Infatti i saluti che ci siamo dati per Natale non erano i soliti saluti. Oppure c’è una mamma che scrive a Sofia, che adesso legge Sofia, che magari non si mette a piangere come me, lei è più coraggiosa di me io sono proprio… 13
Sofia Ho dodici fazzoletti in modo da essere pronta… Noi abbiamo ricevuto tante di quelle lettere piene di un cuore grande da tutti quelli che ci hanno seguito, che ci hanno conosciuto. E questa è solo una delle tante, ma io dico che questa è il mio tesoro: «Cara mamma di Andrea, sono la mamma di Licia, una ragazza che frequenta il liceo “G.B. Vico” e che, sabato, ha voluto dare l’estremo saluto terreno a tuo figlio. È tornata a casa come trasformata: mi ha parlato di Andrea, della sua famiglia, di te, delle parole del sacerdote e di ciò che aveva capito nell’assistere a quella cerimonia. Aveva le lacrime agli occhi, ma anche una luce che l’animava interiormente. Devo dirti che io mi sono riavvicinata a Dio tramite mia figlia che frequenta l’oratorio e che sto iniziando un cammino di fede con tante difficoltà. La fede di tuo figlio e la tua mi hanno folgorato attraverso le parole di mia figlia: per questo voglio ringraziare te ed Andrea, ma non trovo nemmeno le parole adatte per esprimere ciò che provo: grazie di esistere, grazie di averci fatto capire il valore della vita e il vero significato della morte. Sono certa che la sofferenza e la morte di Andrea riusciranno a rivelare la Verità a tanti giovani e ad altrettanti genitori. Sono certa che Andrea mi aiuterà a trovare la strada giusta ed a te, incredibile madre, chiedo di ricordarmi nelle tue preghiere. Grazie. Ti voglio bene. mamma di Licia San Maurizio del Lambro, 3 dicembre 1990» Ora ditemi se queste cose davvero non ci lasciano un compito; un compito Andrea ce l’ha lasciato ed è quello di continuare a pregare per le persone per cui lui pregava al mattino. In ospedale veniva un sacerdote, gli portava la comunione e poi lui aveva un bell’elenchino di persone per cui pregare e se 14
ne ricordava. E poi veniva don Gianni e gli diceva: «Allora, Andrea, hai fatto il compito?», perché metà di quelle persone gliele aveva affidate don Gianni e poi se ne erano aggiunte delle altre. Adesso io sento che la cosa più giusta è che siamo noi a pregare per questi amici. All’inizio avevo un po’ paura di ricordare, ogni cosa era per me motivo di commozione dopo la morte di Andrea, le cose più banali, il suo letto, le sue cose e facevo un po’ fatica. E adesso faccio fatica ancora. Invece mi sembra che ricordare quello che mi è stato dato da vivere e lo star dentro questa compagnia – tutti gli amici che ci stanno ancora vicino, che ci telefonano, i suoi compagni di classe, che sono tenerissimi con me e mi coccolano –, fare memoria di quello che ci è successo, sia davvero la cosa più importante da fare perché è un modo con il quale io credo fermamente che, avendo Andrea raggiunto la Verità, cioè nostro Signore, e vivendo adesso nella Verità, è comunque presente a noi ed è con noi, anche se in maniera diversa, secondo quanto si leggeva agli inizi. Fra l’altro l’altra sera mi è capitato di ascoltare un incontro del nostro don Gianni alla Fraternità che mi era stato registrato perché io ero in ospedale. Era un incontro sull’Avvento e don Gianni diceva che ripensare a quell’Avvenimento che è la venuta di Cristo nel mondo significa farLo diventare l’origine di una storia. Un fatto, un avvenimento possono restare morti, sono accaduti, fine a se stessi e se vogliamo sterili, invece quando un fatto, un avvenimento diventa memoria, diventa come proprio l’inizio di una storia e diventa un giudizio sulla mia vita in ogni momento. E io pensavo: «Cavolo! Lui lo dice di Cristo che si è incarnato» e io invece lo riferivo mentalmente a mio figlio. Ed è proprio vero: il fatto che lui ha vissuto tra noi quello che gli è successo, se può essere memoria di questo per me è come l’inizio di una storia nuova. Don Gianni diceva che se diventa memoria, l’Avvenimento diventa un punto di riferimento, perché la vita si confronta, si verifica con questo fatto e inizia come una storia nuova. Tutte le azioni si collegano, non sono più fini a se stesse ma si ricompongono per rendere presente il protagonista di questo fatto. E a noi sembrava proprio vero, non è una cosa troppo grossa riferirla anche al 15
nostro Andrea perché penso che il credere nella presenza del Signore nella mia vita passi anche attraverso il credere ancora nella presenza di mio figlio che mi fa guardare con occhio diverso tutte le cose, gli altri bambini, magari la mia fatica di massaia. Prima quando cantavamo «uomini nuovi… costruttori di nuova umanità» [Hombres nuevos] mi sembrava proprio di capire che siamo chiamati a questo. Antonio Sono circa cinquanta minuti che parliamo, dico ancora solo due cose. Prima dico la seconda, che ricorda le ultime parole coscienti che Andrea ha detto prima di morire: «Lo so che il Signore mi ama e io non sono capace». Come posizione umana è proprio quella che ci caratterizza di fronte al mistero del Signore, che non è un lasciare cadere le braccia, «io non sono capace», ma è «il Signore mi ama»: «Lo so che Signore mi ama e io non sono capace». Il rapporto tra noi e il Signore sta proprio in queste due frasi, che sono collegate. Io credo che noi, sia quando siamo giovani sia quando siamo adulti, una constatazione che facciamo ogni giorno è proprio di questa nostra incapacità, mentre la prima affermazione è quella che ci fa star vivi. La seconda cosa la prendo da una lettera di un caro amico di Andrea che io chiamo “scudiero” perché gli era sempre appresso, il quale diceva: la malattia di Andrea è per la nostra salvezza; se non desideriamo sempre più che si compia il miracolo la sua sofferenza sarà stata inutile; amare la salvezza – e qui secondo me sta il punto – vuol dire amare sempre di più il modo della nostra salvezza, la compagnia del movimento. Io non aggiungerei altro a tutto quello che abbiamo detto. Don Gabriele Sofia parlava del senso della presenza: forse si riesce a capire di più la presenza di Dio in quello che fa, così come ci è stato testimoniato oggi da Sofia e da Antonio. Non è necessario parlare, si può stare anche in silenzio; come di fronte a questa montagna si può stare in silenzio. Una delle frasi degli inizi del movimento è: «Tutto deve essere accolto senza parole e tratte16
nuto nel silenzio. […] E il tuo ricordo mi riempie di silenzio» (Laurentius eremita). Antonio Comunque, per la cronaca, Andrea le montagne qui intorno le ha scalate tutte, le più alte, ovviamente con me. Sofia Don Gabriele mi chiede di leggere alcune annotazioni di Andrea a proposito dell’incontro con il Signore vivo e presente: «Chiedo al Signore di prendermi finché ho questa certezza. Oggi finalmente [ecco la libertà!] posso piangere e ridere quando ho voglia, scherzare e giudicare e prendere in giro gli altri e soprattutto amarli. Anche prima lo facevo, ma ora amo. E l’ultima, a settembre, prima dell’ultimo ricovero: «Carissimi [e qui riprende una frase di Claudel], a cosa serve la vita se non per essere data? Io adesso sono a completa disposizione. Non devo più decidere. Chiedere al Signore la forza di sopportare ancora un po’ di fatica, questo sì e lo chiedo e devo chiedere tutti gli istanti. Ma a questo punto è tutto nelle Sue mani. Forse per i dolori che oramai si fanno insistenti, mi sembra che si sia arrivati ad un momento decisivo, se non alla fine. Anch’io voglio essere pronto in ogni istante. Ci tengo ad essere ordinato e lavato [qui è come sua madre, ci tengo all’ordine] (ieri mi sono persino fatto la barba) [perché aveva tenuto tutta l’estate questa barbetta più o meno rada per una scommessa che aveva fatto con un suo amico; aveva vinto la scommessa e aveva potuto farsi la barba – anche perché continuavo a dirgli: “insomma, dai…”]. Ho messo a posto i miei libri di scuola e da parte quelli non miei da rendere agli amici. La scuola è appena cominciata (e io ho già cominciato a saltarla) eppure voglio tutti i libri per potere seguire. Adesso leggerò Hard Times. Voglio concludere ogni cosa per poter non far altro che aspettare». Vi dirò che mi giudica proprio molto il suo amore per l’ordine. Ogni tanto ci ripenso: voglio essere pronta in ogni istante, guardare le cose con quella verità…
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Don Gabriele Ascoltando questa lettera, mi ricordo quando ci parlavano dei santi e ci raccontavano di san Luigi Gonzaga. Quando gli hanno chiesto, mentre giocava al pallone: «Se ti dicessero che tra cinque minuti morirai, tu che cosa faresti?» lui ha risposto: «Continuerei a giocare!». Ci sembrava una risposta un po’ strana, ma se la vita vale per questo essere davanti al Signore, davvero sia che mangiate sia che beviate, non c’è più niente che non c’entri con la vita e tutto è vissuto nel modo migliore davanti al Signore. Questa compagnia non ti aggiunge, ma ti fa vivere. Non ti fa evadere, come ha detto all’inizio Antonio. La tua libertà è come segnata, e quanto più è segnata la strada tanto più è grande la tua libertà. Io chiedo di cantare Il disegno. Il finale dice: «la mia libertà è il tuo disegno su di me» e questa è una delle cose grandi di cui ringraziamo Antonio e Sofia. Sofia Posso chiedervi un favore? Di ringraziare un po’ il Signore anche da parte mia, perciò vi chiedo, se riuscite, nel corso della giornata di recitare un gloria piccolino piccolino per ringraziare il Signore di tutto quello che ci è accaduto. ANTONIO E SOFIA MANDELLI Incontro nella Parrocchia San Paolo di Brugherio, Esercizi spirituali, Pasqua 1991. Antonio Siamo qui per parlare del nostro Andrea. In una frase ho trovato sintetizzato quello che voglio dirvi innanzitutto. «L’uomo appartiene non a suo padre e a sua madre ma al suo destino: essi sono strumenti per introdurlo al suo destino che è il mistero di Dio, entrato nella storia con Gesù Cristo». Questa frase esprime questa dimensione per cui lui era con noi, ma per compiere il suo destino, per compiere la sua vocazione. Secondo me si può dire che Andrea era nostro perché lui ha appartenuto totalmente in primo luogo alla nostra famiglia, 18
poi all’esperienza di GS, di Comunione e Liberazione, dei suoi compagni, certamente alla nostra comunità parrocchiale e al suo cammino della fede. Quando dico che ha appartenuto, intendo dire che il suo cuore, non il suo sentimentalismo, ma la sua affezione, la sua capacità di concentrare le energie, l’intelligenza e la fantasia, hanno sempre appartenuto a questa esperienza, perché si compisse in un modo o nell’altro l’incontro con il Signore. C’è sul Bollettino parrocchiale di questi giorni una sua frase che dice questo appartenere, insieme a quella di don Pietro. Quella di don Pietro dice: «Quando Dio ti mette in certe situazioni lo fa perché ti vuole bene, e vuole spogliarti e sacrificarti perché ti decida ad essere suo». Andrea: «Se Dio ci dona qualcosa che ci risveglia è perché sia chiara la ragione tra noi. Se Dio ci dà questo è perché la nostra vita sia totale. Bisogna dire un sì a Cristo che sia totale». Questa identità di atteggiamento è proprio il segno di una appartenenza. Ma come ha fatto concretamente ad appartenere? Ha vissuto tutti i momenti che venivano proposti dal movimento e dalla parrocchia: vacanze, gite, mercatini, feste, letture, esercizi, coro, giochi, lavoro di approfondimento dei contenuti della fede (la Scuola di Comunità). Uno dei ricordi di Andrea che ho più vivo è una vacanza a Sant’Antonio nel ‘76. Aveva cinque anni. AI ritorno dalla gita ci sorprese un acquazzone e prendemmo tutta l’acqua. Camminava con la mano nella mano di don Pietro. Sofia Sicuramente dentro questa compagnia Andrea ha imparato quella libertà di cui ha parlato così bene padre Claudio. Anche per lui tutto è nato da un incontro, un avvenimento di gratuità. Quando ha cominciato a non star bene, ad aver male al piede, e si è man mano chiarita la malattia, è scattata dentro questa amicizia così grande… una sorta di mobilitazione generale. C’è stato un movimento di cuori che ha dell’incredibile. Lui ha incontrato chiaramente la presenza di Dio concreta in volti di persone che gli volevano bene. Erano gli adulti, che lo seguivano a scuola, i suoi compagni di classe, che lo avevano 19
accolto nella loro scuola dopo un periodo di grossa fatica nel vecchio liceo, e tutti gli avevano dato un gusto nuovo per lo studio; nel rapporto nuovo e più vero con i suoi fratelli e con noi, nell’aiuto dei medici che si sono prodigati in mille modi per aiutarlo: Andrea ha proprio incontrato il Signore. Una nostra amica ci ha mandato in un appunto ciò che Andrea le ha detto nel giorno del suo compleanno, nel febbraio del ‘90: «La cosa più bella è che ho tanti amici: ma la cosa ancora più bella è che questi diciannove anni è valsa la pena di viverli per l’istante in cui L’ho incontrato. Ho impiegato tanto, diciannove anni, ma sono stati utili per questo solo istante. Ne ho sempre sentito parlare ma la volta dell’incontro personale è una, e una volta accaduto questo momento non lo dimentichi più. Le cose difficili diventano facili». Ecco anche lui si è reso conto che il cammino a cui era chiamato era un cammino difficile, ma era per un di più nella sua vita. Tant’è che a un incontro con dei ragazzi che si preparavano alla santa Cresima aveva detto di avere tanti progetti, ma che si rendeva conto che il Signore ne aveva altri su di lui. Ma l’importante era solo darGli credito: il Signore, presente proprio dentro la compagnia dei suoi amici, gli stava proprio cambiando la vita. «Lo Spirito Santo per me è stato restare legato ad una compagnia con dei volti precisi (non era una cosa fuori dalla realtà, era stare legato a voi), questo dà un significato nuovo al dolore, alla fatica, alla malattia. Vi prego, date credito al fatto che Cristo cambia la vita! Chi resta dentro, anche se ha capito pochissimo, impara e cresce moltissimo». Nei suoi appunti ho trovato tanti momenti in cui parla della Presenza di Cristo. Era andato a Rimini (appena poteva partecipava agli incontri) a un incontro sul tema «Guardare a Cristo». Sulla sua agenda trovo scritto tra le altre cose: «Beato, non più infelice, perché puoi dire Tu a Cristo» oppure «Il cambiamento non è diventare buoni ma è la Sua Presenza». Questo era quello che gli dava coraggio e la possibilità di aderire con libertà di cuore. Antonio Infatti Andrea ha continuato a vivere tutto con la stessa intensità e giovinezza. Era uno che se c’era da andare in montagna 20
non si tirava indietro. Un anno fa, era tutto pelato e senza molte energie, siamo andati a sciare insieme. Episodio a parte, ha continuato a vivere con questa coscienza tutti i soliti istanti della sua vita: lo studio, in cui faceva molta fatica nonostante gli aiuti che riceveva da tantissimi che gli volevano bene, il gioco, le cure. Nella sua agenda, giorno per giorno sono segnati: prelievo, gita, studio, terapia, controllo globuli... Ha vissuto tutta la vita che gli si poneva dinnanzi, dalle cose faticose e limitanti, alle cose solite o belle, cogliendo tutto come un istante che lo metteva in rapporto col Destino. Con un gusto che è stato per me un aiuto grandissimo. Io, poco prima che emergesse la sua malattia, ero arrivato a un punto di grande stanchezza. La DC, il consiglio comunale, le cooperative, la fondazione, il lavoro… per dieci-quindici anni era stato un tale affastellarsi di impegni che un po’ alla volta avevo perso di vista il motivo e il significato di tutto, anche del lavoro per il quale mi pagano. Ogni creatività, ogni attività, ogni singolo gesto di ogni lavoro ha senso solo in quanto rapportato al destino3. Vedere Andrea vivere con quella coscienza ciò che gli accadeva è stato per me una ripresa di coscienza e contemporaneamente un rinascere del gusto nel fare le cose. Sofia Proprio nell’amicizia degli amici in Cristo, Andrea aveva ricevuto questo aiuto alla verità, allo scoprire il valore della vita e della chiamata, e quindi il gusto anche per le cose più semplici, che venivano viste non come qualcosa da possedere, perché sei cosciente che non ti danno tutta la felicità di cui tu sei desideroso, ma le vivi lo stesso perché sono un segno, anticipo e primizia della felicità intera che sarà l’incontro definitivo col Signore. San Pietro diceva al Signore: «Tu solo hai parole di vita […] il destino – l’oggetto ultimo del proprio desiderio di felicità, il volto del desiderio di felicità, il volto della felicità: il destino, cioè Dio, il Mistero, cioè Cristo, un uomo che camminava per le strade della Palestina, un uomo che è ora dove sei tu e ti parla dove sei attraverso tutto ciò che ti circonda, ti parla, ti ridice queste cose […]». Da Luigi Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, Bur, Milano 1996, p. 513. 3
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eterna». È proprio vero che anche noi possiamo dire alla Chiesa, Corpo di Cristo: «Tu sola ci dici la verità su noi stessi». Non c’è scienza che tenga, non c’è progresso che possa fare altrettanto. In ospedale la cosa più drammatica e più chiara era proprio la ricerca del senso del dolore e della sofferenza dei piccoli (Andrea era in un reparto di pediatria). Lui stesso desiderava ardentemente che tutti potessero incontrare il significato, e soprattutto che potessero incontrare una compagnia, incontrare il Signore concreto, che ti accompagna. Questo aiuto a vivere con consapevolezza, pensando alla chiamata che veniva fatta a lui, come a tutti, ma a lui in modo particolare per la situazione in cui era, questo aiuto gli è venuto dal modo vero con cui si ponevano i suoi amici. Don Gianni, ad esempio, quando Andrea era in ospedale a fare la prima terapia, quando ancora si poteva pensare che una soluzione del problema si potesse trovare, gli disse bello chiaro: «Andrea, mi raccomando, offri quello che il Signore ti dà da vivere, è preziosissimo!». Andrea era curioso, voleva sapere perché e a chi poteva servire il suo sacrificio. Questa concretezza spiega come quello che ti è dato da vivere ha un valore grandissimo agli occhi di Dio, e quindi il tuo dire di sì è veramente la cosa più grande per te stesso e per gli altri. Un suo compagno di classe gli scriveva: «Il Signore ha un grande disegno su di te. La tua sofferenza sarà la salvezza di molti. Nella carne si sta compiendo il destino tuo e anche il mio. Per questo ti chiedo, se puoi, di pregare per me. Il tuo amore può salvare anche me, e sono certo che tu mi ami, perché tanto ami il Cristo. Sii lieto perché, come esprime il responsorio del Venerdì, nella sofferenza per noi compi ciò che manca ai patimenti di Cristo». In una lettera un suo insegnante scriveva: «Il Signore continua ad offrirsi a noi perché ha fretta che noi diventiamo suoi.» È un po’ quello che diceva don Pietro. lo sono veramente grata per questo aiuto, che è stato per mio figlio ma anche per me, un aiuto a vivere con verità. Antonio Padre Claudio ha detto prima una frase che mi sono annotato: «La libertà è lo spalancarsi alla verità delle cose, non un 22
inquadramento, un accaparramento...». Mi è venuto in mente che l’esperienza di Andrea ha fatto crescere in me questa concezione di libertà. lo sono proprio un accaparratore, uno che è tranquillo solo quando ha inquadrato le ipotesi, le cose, le prospettive, magari le ha anche trasformate in numeri in modo da essere sicuro di quello che gli resta in tasca. Ovvero sono uno di quelli che è portato a pensare che la libertà, in definitiva, è l’opportunità di scegliere tra tante opzioni, tante ipotesi possibili. Tante più sono e tanto più potrò esercitare la mia libertà. L’esperienza che invece mi veniva incontro non era di questo tipo, non ero io a determinare le circostanze: apparivano sempre più inevitabili e sempre meno opzionabili. Così è maturata sempre più in me la concezione di libertà come momento nel quale alla fine ti è chiesto di fare una scelta radicale: o aderire al disegno di Cristo su di te e sui tuoi figli (che fai fatica a capire, anzi ci piangi sopra) e stare a una logica misteriosa, misteriosa perché non si riesce a dominare, anche se se ne intuisce una bontà e ricchezza che sta maturando, oppure attaccarti a quello che vorresti fare tu. Può sembrare assurdo ma questa e la vera libertà. Sofia E lui c’è stato. Scriveva infatti: «Carissimi, a cosa serve la vita, se non per essere data?». Un’altra volta aveva detto: «Non è importante quante cose uno ha fatto, ma quanto ha atteso!». Questo non poter far altro che aspettare non vuol dire lasciarsi andare da rassegnato, vuole invece dire desiderare il compimento, aspettare che piano piano il compimento accada. Ma capiva che questo accadeva e che poteva vivere serenamente questa cosa dentro l’unità di cui si sentiva parte. Diceva: «È in forza di una unità che si può stare soli!». Per cui, anche quando era in ospedale, lui si sentiva talmente dentro al legame con i suoi che poteva, appunto, piano piano aspettare. Antonio Questo essere dentro a un legame con i suoi era una cosa così concreta che traspariva con evidenza. Non perché ci fossero dei gesti particolarmente altisonanti, ma perché era diversa la 23
faccia, il modo di giudicare, il modo di stare in una attesa senza pretesa, senza ansia. Un medico nostro amico – colui che aveva capito quale fosse la malattia di Andrea, che obiettivamente era molto difficile da diagnosticare – periodicamente si recava a parlare con i medici che seguivano Andrea. Una volta, dopo un colloquio, ci disse che i medici erano stupiti perché noi e Andrea non facevamo mai domande. Questo succedeva perché non c’era ansia. Quello che conta è davvero che si compia il cammino che il Signore ha iniziato. Poi quello che è, è. Questo atteggiamento traspariva così tanto che era una continua domanda per tutti, in particolare lì nel reparto. L’amico che vendeva i giornali, che aveva subito terapie nel passato, anarchico, ateo, tutte le mattine si fermava a fare una chiacchierata con Andrea. Dopo il primo saluto, però, la chiacchierata finiva inevitabilmente su Gesù Cristo, perché la domanda era sua. Oppure il medico che lo seguiva più da vicino puntualmente veniva a parlare degli amici e dell’esperienza del movimento a cui aveva capito Andrea apparteneva. C’era la visita medica, però poi si finiva a parlare di quello. Sofia Era un medico per il quale Andrea pregava sempre. Andrea aveva un elenchino, che man mano diventava sempre più lungo, di persone per cui pregare. Don Gianni gli aveva dato un compito ben definito: pregare per la propria conversione personale e per i giovani della parrocchia. Poi c’era una serie di persone ben precise. Questo medico era tra i primi della lista perché una volta con Andrea aveva ammesso che la sua difficoltà a credere veniva dal fatto che lui aveva paura dei legami. Questo aveva colpito molto Andrea, che invece si sentiva tenuto in piedi appunto dai legami, costituito proprio dai legami che aveva. Antonio Ve lo immaginate un medico, che da quarant’anni fa programmi di terapia ed è abituato a tutto, che parla di queste cose con un ragazzo di diciannove anni? Questo mi fa constatare che 24
il contenuto del nostro stare insieme è proprio Gesù Cristo. Il contenuto di ciò che noi comunichiamo agli altri, che gli altri si aspettano, di ciò che gli altri in definitiva desiderano, è proprio Gesù Cristo, che si fa fatica a cogliere, ma basta un piccolissimo spunto perché l’incontro possa avvenire. Anche quello che noi abbiamo vissuto aveva questo scopo. Pensate al funerale a cui penso tutti abbiate partecipato: una grande festa! Davvero il contenuto di quello che viviamo nella nostra comunità, come questi eventi, questi episodi, è proprio Gesù Cristo, con il quale tutti quanti, noi per primi, hanno bisogno di tenere costantemente annodato il filo. Hanno bisogno di quel legame che quel medico diceva di temere, ma che probabilmente nel tempo cercava. Sofia Il significato di tutto, allora, è riscoprire la presenza chiara di Cristo in noi. Andrea diceva: «Quello che conta accade, l’unica cosa che vale è il momento: sembra che io stia facendo qualcosa di straordinario, di eccezionale o di eroico. Invece non è vero! Perché se Dio ci dona qualcosa che ci risveglia è perché sia chiara la ragione fra noi». Questa ragione è proprio ciò che ci lega e muove: nostro Signore. Penso che lo dicesse pensando a sé, ai suoi amici, perché anche la sua esperienza fosse fonte di verità per loro. Nel volergli bene desiderava fortemente che anche loro crescessero nella verità. «Se Dio ci dà questo è perché la nostra vita sia totale. Dobbiamo dire un sì a Cristo che sia totale. La pienezza della vita sta nella verginità e nella morte. Ne sono gli atti supremi». Queste parole in un primo momento mi hanno scioccato. Dicevo: «Caspita, che profondità di sguardo!». Magari non me l’aspettavo nel mio ragazzotto, e invece era stato aiutato ad averla. Prima padre Claudio ricordava che la libertà è riconoscere di essere chiamati per qualcosa di più grande. Sei fatto per donarti; la verità di te è che ti spenda per gli altri. Uno si aspetta il gesto eroico, e invece va dato momento per momento. Andrea diceva che l’unica cosa che vale è il momento, nel senso che la grandezza del tuo cuore è lì che la vivi. Ciò che il Signore ti dà da vivere, che è bene per te, è lì, è nel presente, non nel 25
progetto futuro. Allora non è fare cose straordinarie, ma fare ogni piccola cosa dicendo quell’«accada di me» che diceva la Madonna. Questo veramente genera una novità. Mi sembra che anche il modo diverso di guardare i suoi amici, come le persone che aveva intorno in ospedale, sia maturato in Andrea in ultimo, quando il sì detto al Signore è stato più consapevole. Allora poteva godere delle piccole cose, come il mangiare la pizza insieme a qualche altro ragazzo in reparto o giocare con i bambini, piccolissime cose che avevano dentro l’infinito. Quando sono andata con Andrea a fare la risonanza magnetica ero consapevole che questo esame chiaro e approfondito avrebbe messo in risalto qual era il suo problema. Quella mattina avevo in mente, come un ritornello, un passo molto bello che dice: «Metterò dentro di voi un cuore nuovo, vi toglierò il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne»4. Mentre ero nel salottino ad aspettare lui, che faceva l’esame, sentivo dentro di me che il Signore stava per chiedere alla vita di Andrea e della nostra famiglia qualcosa di grande. E mi dicevo che forse io il cuore di pietra non l’avevo: che bisogno c’era che ci fosse questo cambiamento? Invece mi rendo conto che tutto quello che è accaduto è stato per un di più, perché il cuore diventasse più libero nell’aderire e potesse affidarsi piano piano, sempre di più, invece che alle proprie piccole certezze, che sono umane, solamente a Lui. Il sì detto da Andrea («quello che conta accade») è stato l’accadimento del suo sapersi affidare piano piano, del nostro affidarci con lui. Questo è il miracolo che è accaduto, o forse ne sono accaduti due, o più! Mi sembra che il primo miracolo sia proprio questo: è possibile dire di sì, è possibile seguire umilmente ma serenamente il Signore, dentro la sua Chiesa, perché Lui ti si rivela chiaramente dentro la trama di rapporti che ci sono tra noi. Voi lo sapete, perché siete voi i miei amici! È possibile dire questo sì! Non è una cosa più grande di noi. Andrea, prima di morire, diceva: «lo lo so che il Signore mi ama, ma io non sono capace!». 4
Cfr. Ez 36,26.
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Poi però aggiungeva: «Ok, va bene, andiamo!», perché comunque il cammino era quello, e anche se uno non si sente adeguato, pian pianino va. Se uno accetta di camminare così, il Signore lo rinnova veramente. Tutto quello che accade è proprio per noi. La volontà di Dio per me, quando dicevo il Padre Nostro, mi appariva da accettare, ma in fondo greve. Era un Dio giusto, ma insomma… Invece mi pare di capire che quello che desidera il Signore da me è che io sappia andarGli dietro ed esserGli veramente figlio. Il Signore vuole dei figli che si affidino a Lui, che possano essere simili a Lui e capaci di donarsi. Uno si accorge che è un pasticcione incredibile, che ha un sacco di limiti, che ha paura di tutto, eppure il Signore lo cambia e lo rende capace di donarsi. Noi abbiamo ricevuto delle lettere bellissime che sono proprio la testimonianza del cambiamento dei cuori che è avvenuto proprio solo perché ci è stato dato da vivere la storia di Andrea. Per nessun’altra bravura. Antonio Sì, quello che è accaduto è proprio per la salvezza di ognuno di noi, individualmente, che abbiamo vissuto questa vicenda e, lo sappiamo, ne stiamo vivendo altre analoghe. Quanto accade è perché ciascuno di noi sia salvo, cioè sia lieto. Concludo leggendovi alcune frasi di un opuscoletto sulla dimora eterna, sulla morte, sull’eternità5. Uno può pensare: adesso è dura la vita, perché quando vai a tavola ne manca uno, o meglio due. Eppure queste frasi gettano una luce. Sono stralciate: «“Eterno” vuol dire radicalmente diverso, inconcepibile. San Paolo l’ha già provato, in un momento estatico, su questa terra; per questo, attraverso le primizie dello Spirito, come nell’alba della giornata, noi possiamo già incominciare a sperimentare questa diversità, una dimora eterna, cioè radicalmente diversa, 5 Il libretto propone gli appunti di una conversazione di Giussani con alcuni studenti universitari svoltasi ad Arabba dal 21 al 26 agosto 1990. Il testo, nella nuova versione qui riportata, è inserito nel volume: Luigi Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo (1990-1991), a cura di J. Carrón, Bur, Milano 2013, pp. 109-213.
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“nei cieli”. Nei cieli vuol dire costruita nella verità dell’essere, costruita nella verità, il mio rapporto con te costruito nella verità. Desideriamo il “corpo celeste”. Ora non riusciamo a toccarlo: quello che veramente siamo, a cui veramente siamo destinati non riusciamo a toccarlo – corpo celeste –. Ma io ho fatto questo punto per quest’altro particolare. Noi, dice san Paolo, vorremmo che questo eterno, questo “nei cieli”, questo “celeste”, coincidesse con quello che tocchiamo, vorremmo che l’eterno si collocasse dentro questo corpo senza che esso prima ci venga strappato, vorremmo non morire, vorremmo che la verità emergesse, trasparisse senza il passaggio dello strappo terribile della morte». Ascoltate la concretezza adesso: «Ma non è soltanto la morte: vorremmo che l’affetto alla donna, senza strappo, diventasse totalmente vero, trasparente, di possesso totale, senza mortificazione dell’istinto con cui normalmente invece lo viviamo, riducendolo, meschinizzandolo, distruggendolo; vorremmo che il lavoro diventasse perfetta espressione della personalità, senza che fosse fatica, peso, approssimazione umiliante; vorremmo che il possesso della realtà, il potere, non fosse, senza sacrificio, dispotismo, non fosse strumentalizzazione dell’altro o della cosa, che strappata dalla totalità diventa un fuscello destinato alla scomparsa. Affetto, lavoro, potere. Come vorremmo che la vita entrasse nell’eterno senza lo strappo della morte – lo dice san Paolo –, analogamente, a fortiori, prima ancora vorremmo che l’affetto, il lavoro, il potere fossero senza strappi, senza mortificazioni. Vorremmo vivere senza mortificazioni, vorremmo che fosse abolita la croce. […] la nostra realtà più profonda e più sperimentale è attaccamento all’eternità del corpo, a quell’altra cosa diversa, a quella cosa che è la sua verità. Siamo stati fatti non attaccati a quello che abbiamo, ma attaccati alla verità di quello che abbiamo»6. La verità di quello che abbiamo è quello che ci siamo detti stasera e abbiamo vissuto in questi tempi. 6
Ivi, pp. 153-155.
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MARTA MANDELLI Ricordo un episodio pittoresco, accaduto durante l’estate dell’89. Un pomeriggio Andrea era andato in auto per le strade di Monte Marenzo con mio cugino Umberto che gli insegnava a guidare. A un certo punto, cosa insolita per questo piccolo paese, sono stati fermati dai carabinieri che hanno chiesto i documenti, che loro non avevano con sé. Poi, naturalmente, il fatto che Andrea fosse senza capelli, avesse le occhiaie e le braccia piene di lividi e buchi destava qualche sospetto. Per finire, chiedono di aprire il bagagliaio e trovano il fucile ad aria compressa di Umberto e dei piccoli sacchettini di polvere bianca, che era la sostanza antiumidità nella quale conservare i pallini usati come proiettili. A quel punto, sentite tutte le spiegazioni dei ragazzi, che parevano evidentemente poco credibili, i carabinieri li hanno scortati fino a casa e fatto non poche domande ai genitori. Alla fine dell’accertamento i carabinieri erano increduli, quasi imbarazzati, soprattutto non si capacitavano che un ragazzo così malato potesse vivere in modo così sereno la sua situazione. Un giorno ero in Cattolica e avevo un magone fortissimo. Era una giornata splendida di sole, limpidissima, e io non riuscivo a studiare, non riuscivo a fare niente: Andrea era ricoverato, credo gli avessero fatto un prelievo di tessuto al calcagno e ci era stato dato l’esito. Era un martedì e c’era il mercato di viale Papiniano, ho comperato un cestino di fragole e poi sono andata a piedi al “Gaetano Pini” a trovare Andrea. Ricordo benissimo questa stanzetta dove lui era da solo: gli ho lavato le fragole e le abbiamo mangiate insieme. Sempre quel giorno mi ero comprata una magliettina rosa, un colore che io porto pochissimo, ma quella volta mi era piaciuta: un po’ molliccia, morbida, che poi per anni ho tenuto perché la associavo a questo momento. Non ricordo di che cosa parlammo. Tra di noi, in famiglia, tutto ruotava intorno a questo fatto, ma il babbo e la mamma non ci hanno mai trasmesso di viverlo come una cappa venuta a soffocare la nostra vita. Era 29
una circostanza data che ha portato una fioritura di rapporti innanzitutto, di occasioni – la gente che veniva a trovare Andrea, che telefonava… –, una fioritura di amicizia, di bellezza, di profondità. Una sera ha telefonato don Giussani. Io ho preso la telefonata e ho risposto tutta tremebonda, non so neanche se gli ho dato del tu o del lei, e gli ho passato subito il babbo o la mamma. Forse proprio lo stesso giorno delle fragole, dissi ad Andrea: «Ma sai che ieri sera ha telefonato il don Giussani?». E Andrea, candido, mi chiese: «Perché?». Lì mi sono sentita morire, perché non sapevo cosa dirgli. Ho pensato che forse avrei dovuto stare zitta, ma non avevo saputo trattenere l’emozione e la gratitudine per quella telefonata. Di fronte a questa domanda così ingenua, così candida, ho avuto un attimo di smarrimento e mi sono detta: «Ma che cosa ho fatto!». In quegli anni stavo finendo l’università e quindi ero abbastanza disponibile. I fratellini Michele e Giovanni erano i più piccoli ed io stavo tanto a casa, soprattutto con Gio. Ogni tanto me lo portavo all’università oppure lo imboccavo sul seggiolone, perché lui non ne voleva sapere di mangiare. Oppure mentre studiavo stavo di fianco a lui che giocava, faceva i suoi scarabocchi. Pur essendo molto in casa ad aiutare i miei fratelli, io non ho mai percepito una sensazione di particolare fatica o di peso. Vittorino e Pietro facevano una vita abbastanza normale, non era cambiato molto per loro; per me è stato un po’ diverso, forse perché ero la maggiore ed era più evidente che certe cose le facessi io al posto della mamma. Desideravo che miei fratelli comunque capissero che per me non era un peso, ma consideravo tutto molto normale, e non per bravura (ogni tanto le mie figlie mi dicono: «Sì, sì, tu eri sempre quella bravina, perfettina», perché quando si lamentano che non sanno cosa fare. io rispondo: «Ma ragazze, io non ho mai detto a mia mamma “non so cosa fare”! Avevo mille cose da fare: i miei pastrugni, i miei disegni, le mie bambole, le mie amiche, un libro, i miei fratelli con cui io giocavo tantissimo…», e loro: «Ecco, tu sei sempre quella…»). Io non ricordo di avere vissuto con un sen30
so di pesantezza o di oppressione, era tutto normale, cioè c’era questa situazione e io rispondevo così. Mi ricordo un episodio legato al babbo. Quando Andrea era in ospedale, lui era sceso dopo essere stato a trovarlo e la sua auto parcheggiata lì davanti all’ospedale era bloccata da un’altra macchina. Ha strombazzato, ha aspettato, ha chiesto al bar vicino… non si riusciva a capire di chi fosse questa macchina. Han provato a spostarla… niente da fare. Allora lui, usando il gancio dell’antifurto, ha rotto il vetro dell’auto che lo bloccava, ha tolto la marcia, l’ha spostata un po’ in avanti ed è uscito. Figuriamoci che rabbia doveva avere in corpo, perché lui una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta nella sua vita, ma il babbo era proprio esasperato, era una situazione talmente pesante, carica… Senonché qualche malpensante l’ha visto e l’ha denunciato, mi pare per furto di autoradio. Quando i carabinieri l’hanno chiamato e lui ha raccontato qual era la sua condizione di vita in quel momento, con un figlio ricoverato malato di tumore, con una famiglia numerosa, e l’urgenza di tornare al lavoro, quasi piangevano per la commozione. Hanno archiviato la pratica. Io non andavo spessissimo a trovare Andrea in ospedale, appunto perché c’era bisogno che stessi a casa. Ho in mente una volta che dovevo dare l’esame di geografia, un esame non particolarmente difficile, però mi sentivo impreparata e un po’ indietro nello studio. Quindi sono andata da Andrea con i miei libri perché dovevo stare lì tutto il pomeriggio, poi mi sono accorta di come quella mia preoccupazione fosse un po’ stupida (per carità, dovevo studiare e questo era il mio compito). Quel pomeriggio sono uscita dall’ospedale senza aver studiato, ma con un senso di tranquillità e di pace, come dire: «Guardiamo a quello che conta». Non ricordo di avere mai avuto con Andrea dialoghi rispetto a come stava lui, a come si sentiva, alla percezione che aveva della sua malattia. Non abbiamo mai messo a tema questo argomento perché non ce n’era bisogno. Non è che non lo mettessimo a tema per pudore – “vorrei parlarne, ma non me la sento non glielo dico” –, non ne sentivo proprio l’esigenza. Mi bastava stare con lui. 31
Anche quando tornava a casa dall’ospedale, si cercava di fargli compagnia secondo ciò di cui aveva bisogno: gli portavamo il ghiaccio se aveva male alla caviglia (o il sacchetto dei surgelati, perché non sempre c’era il ghiaccio pronto), lo si aiutava a studiare. E poi c’era un via vai in casa incredibile, tantissime tantissime persone. Ho in mente alcuni suoi amici e ricordo in particolare il rapporto con Simone Mazzoni, perché era – ed è – un ragazzo di una intelligenza straordinaria e con un grave handicap fisico. Quando erano insieme sembravano come il cieco e lo zoppo, ma da come si trattavano, anche ironizzando sulla loro situazione fisica e di salute, era evidente che ti trovavi davanti a due amici nel senso più profondo del termine. Io lo vedevo sempre contento di incontrare gli amici, a volte molto provato, soprattutto quando faceva la chemio e vomitava moltissimo o nell’ultimo periodo, quando faceva anche le trasfusioni: era veramente uno straccio. Però non era mai rabbioso, ribelle, infastidito. Ho sempre avuto l’impressione di uno obbediente. Sicuramente si sarà confidato con don Gabriele e con don Giorgio, avrà tirato fuori anche tutta la sua fatica. Per me Andrea era una persona assolutamente non speciale, ma normale, nel bene e nel male. Non ricordo né ribellioni né esaltazioni: non era uno che voleva a tutti i costi ricevere la comunione tutti i giorni. Una cosa che facevamo tutti i giorni era di recitare il Rosario. La mamma diceva sempre: «Ooooh Padre nostro che sei nei cieli…», con un gran sospirone iniziale, e noi la prendevamo in giro per questo. La mamma è la mistica di famiglia, noi un po’ più babbeschi, un po’ più pratici. Io mi sono sposata circa sei mesi dopo che è morto Andrea. Al mio matrimonio ci saranno state circa seicento persone. Riguardando le foto, non conosco tantissime persone, ma so che erano lì perché avevano avuto un rapporto con Andrea e con la mia famiglia. Noi abbiamo desiderato che tutte queste persone fossero lì a condividere con noi anche la gioia del nostro matrimonio. 32
Tutto ciò che lui aveva detto o fatto, noi lo abbiamo saputo dopo la sua morte. È una grande commozione pensare a ciò che è accaduto e accade: innanzitutto il Mario [Mario Braga, nda] e gli altri amici di Andrea che sono legati al babbo e alla mamma e che hanno fatto compagnia a loro in questi anni. Mi ha colpito tantissimo quando loro hanno fatto un video, per i vent’anni dalla sua morte. Non in modo nostalgico, non da gente che ha vissuto una cosa grande che in gioventù li ha come travolti, poi la vita è andata avanti con un ricordo di sottofondo… No! Ciò che mi ha colpito è come questi ragazzi, che hanno vissuto un momento di grande prova, di grande verità, da quel momento lì abbiano deciso di andare a fondo della verità che avevano visto. Per cui tutta la loro vita si è sviluppata in un crescendo, non in un calando, rispetto a quel fatto accaduto. L’ultima cosa che racconto di me è questa: Andrea è morto a novembre; io e Angelo eravamo fidanzati da un po’ ed è nato a quel punto il desiderio di sposarci. Ci siamo sposati a giugno del ’91, organizzando tutto molto molto in fretta, proprio per il desiderio di dire di sì: Andrea aveva compiuto la sua vita e c’era questa voglia di compimento anche per noi. E poi il buon Dio fa fruttificare come vuole. Ho sempre in mente Andrea. Vicino al mio letto ho la sua fotografia di me e lui da piccoli, e me lo saluto. VITTORINO MANDELLI Nei mesi successivi la morte di Ea – dovrei dire negli anni – tutto in famiglia era occasione per fare memoria del dono che a soli diciannove anni era stato, per la sua fede semplice e il suo «Ok, va bene, andiamo!». Mia moglie Manuela e i miei figli conoscono Ea, lo zio Andrea, un po’ per i nostri racconti, ma soprattutto perché l’andare a casa dei nonni è sempre stato in qualche modo farne memoria. La mamma e il babbo non hanno mai smesso di ringraziare – e farci ringraziare – Dio di tutti i doni che hanno ricevu33
to, delle nostre famiglie, affidandosi sempre al Signore e anche a Ea, il nostro angelo custode speciale. Questa è la certezza, in primis imparata dai miei genitori, che oggi, pur nella mia superficialità soddisfatta, mi rende cosciente che ogni circostanza è richiamo continuo della Sua Presenza. PIETRO MANDELLI Io sono il terzo dei fratelli grandi, Marta, Vittorino ed io, appunto; poi c’erano Andrea e Francesco, i fratelli piccoli. Questa suddivisione tra grandi e piccoli è durata fino al quinto, poi non c’è più stata. Andrea, che era nato dopo di me, chiaramente era quello che mi disturbava di più, mi “insidiava” un po’ di più. Poi naturalmente c’era anche Francesco, il piccolino. Andrea non è mai stato chiamato così, a casa mia tutti lo chiamavamo Ea, nessuno si è mai sognato di chiamarlo Andrea. Lui era molto più godereccio rispetto a me e ai miei fratelli. Solo per fare un esempio, avevamo una gelatiera della Simac che era stata regalata al papà dal suo datore di lavoro e Andrea, quando era un po’ più grande naturalmente, tutti i pomeriggi si faceva un gelato alla crema, così… tranquillamente. I miei genitori alla sera uscivano spesso – c’era la diaconia, la scuola di comunità, gli incontri in parrocchia a Brugherio dove c’era un grande fermento, poi era arrivato don Pietro che era una persona incredibile – e restavamo da soli con mio nonno Vittorino, che era venuto ad abitare da noi. Mio fratello Vittorino aveva un carattere molto forte, era il classico prepotente di famiglia e riempiva di botte incredibili Andrea. L’immagine che ho nella mente è Andrea che si rifugia e Vittorino che gli dà un sacco di botte sulla schiena Allora io facevo da mediatore tra le botte di Vittorino e Andrea. Un anno a Monte di Marenzo facemmo il clan delle cicogne nere: praticamente ero io che cercavo di difendere Andrea – e poi Francesco che era a ruota – da Vittorino e le sue prepotenze. Perché il rapporto era quello: Marta era super partes, già mamma, già capace di gestire tutti, non è mai stata molto stressata, si faceva obbedire 34
con una pacifica serenità. Io ero molto amico di Vittorino, ero capace di gestirlo, avevo un legame con lui molto stretto e quindi non si era creata una grande conflittualità, mentre con Andrea… anche perché Andrea ci metteva del suo, andava a rompere, rispondeva, aveva una sua personalità, serafico ma non sottomesso. Quindi andava a istigare Vittorino. Mio fratello Vittorino ha odiato il proprio nome sempre, quindi anche il rapporto con il nonno era conflittuale: «che nome mi hai fatto dare!». Quando mangiavamo, mio nonno passava dietro a Vittorino prima di sedersi a tavola, gli dava uno scappellotto e Vittorino chiedeva: «ma che cosa ho fatto?». E il nonno in cremonese gli rispondeva: «tanto sei sempre in credito». Andrea e Vittorino, diventati più grandi, hanno poi interrotto la loro conflittualità. Anche io e Andrea avevamo la nostra conflittualità, ma la nostra era più che altro verbale. Andrea ed io siamo molto argomentativi. Eravamo vicini a tavola in questo tavolo ovale e il nostro beccarsi era tutto riferito alle cose più banali: ho apparecchiato io, adesso sparecchi tu… Noi partecipavamo a GS a Monza, e il nostro riferimento era don Pietro che insegnava allo Zucchi dove io studiavo. Pur essendo in scuole diverse, noi di GS ci riunivamo in un unico gruppo intorno a don Pietro, e dopo la sua morte intorno a don Gabriele. Ricordo che per un certo periodo facevamo il mercoledì di studio e studiavamo presso le suore del Bianconi di Monza. C’era una grande affinità con loro e con alcuni docenti di questo Bianconi. Una di questi fu Paola Fertoli, che poi è diventata Memores. Eravamo amici di tutte le età, non si badava alla classe di appartenenza evidentemente. In estate, a Monte Marenzo, don Pietro veniva su con i “suoi” giovani a fare una serata: mangiavano, parlavano e poi si mettevano a cantare. Mia cugina, vedendo quello che accadeva a casa nostra e sentendo cantare, è rimasta talmente affascinata che ha iniziato anche lei a partecipare alla vita di GS. Poi Andrea è andato al Sacro Cuore e ha cominciato a coinvolgersi con la vita di GS a Milano. Andrea era molto positivo e certamente si faceva voler bene. Certe cose tra fratelli non ce le dicevamo, per esempio non 35
so se abbia mai avuto una morosa, ma a casa nostra era così. Se non c’erano particolari problemi, non ci si raccontava tanto di se stessi, anche se poi a tavola, quando mancava qualcuno, sentivamo che quell’uno mancava: “eh, ma che brutto, siamo in pochi oggi!”; ci pareva di essere in pochissimi! Quando ho saputo della malattia di Andrea, non credo di essere stato in grado di valutare subito la gravità, anche perché venticinque anni fa non avevo le conoscenze in materia che possiamo avere oggi. Nel frattempo stavo vivendo un’esperienza bellissima con i miei compagni di università. L’amicizia di questi anni è stata per me fenomenale, un modo di stare insieme bello, vero. Poi quegli anni in università, anche per la presenza di don Giussani, erano proprio un punto di risveglio. Io frequentavo la Statale, ma andavo in Cattolica a sentire le lezioni di don Giussani sul senso religioso. Ricordo le terapie di Andrea, gli amici che lo circondavano e il suo cambiamento. Prima non voleva saperne di studiare, era stato sempre un lazzarone, ma ad un certo punto stava proprio sul pezzo dello studio. Quando fu ricoverato all’Istituto dei Tumori, mio papà, che aveva ricevuto a quel tempo uno dei primi telefoni cellulari, glielo diede, perché in reparto oncologico pediatrico c’era un telefono a gettoni con un filo lunghissimo che potevi trascinare in camera ma era una pena: non sapevi mai quando potevi riuscire a parlare con Andrea. Finita la chemio Andrea tornava abbastanza in forze, a parte i capelli che perdeva a ciocche per il qual motivo si era rasato completamente. Il nostro fratellino più piccolo, Giovanni, che avrà avuto quattro o cinque anni, ce lo portavamo in giro noi fratelli. Io andavo in Statale con Giovanni, in metropolitana, e tenevo Giovanni con me nel retro della CUSL7 (mi ero impegnato in CUSL in Statale): io studiavo e lui disegnava. 7 La CUSL (Cooperativa Universitaria Studio e Lavoro) è una cooperativa di studenti senza scopo di lucro, presente da oltre trent’anni nelle università milanesi. È anche un luogo di incontro tra studenti per condividere percorsi di studio o confrontarsi su problematiche universitarie.
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Nell’estate 1990 – l’anno della morte – Andrea aveva trascorso alcuni giorni dagli Aletti, che avevano preso una grande casa nella campagna pavese. Io ero andato in Calabria quell’estate, tranquillo, perché sembrava che Andrea stesse meglio: sembrava proprio che il tumore si fosse ridotto, non c’erano metastasi, non c’erano più dolori. In realtà poi, tornato da lì, i dolori sono ripresi e Andrea si è sottoposto ad altri controlli. Io tornavo in treno dalla Calabria. Venne a prendermi alla stazione mio papà e mi disse che avevano trovato in Andrea ancora delle piccole macchie nere, nella schiena, e quindi c’erano delle metastasi. Lui aveva un bigliettino in ospedale su cui scriveva il nome di tutte le persone che gli avevano chiesto di pregare per loro o che sapeva in difficoltà per una malattia o per questioni familiari o personali… e pregava per tutti quelli che glielo avevano chiesto. Un giorno feci un tentativo goffo: ero in difficoltà con la mia morosa… e in quel momento avevo la percezione che lui fosse più maturo, più capace di me di vedere le cose bene. Forse non erano i suoi ultimi giorni di vita, ma era evidente che lui era malato gravemente ed era evidente anche a me la profondità con cui viveva. Mi ricordo che eravamo in ospedale, non c’era nessun altro, feci un accenno, come per confidarmi di qualcosa, e lui mi sbolognò proprio via e stoppò sul nascere qualcosa che non era nelle nostre corde, non lo era mai stato, anche se io volevo chiedergli un consiglio, confidarmi, dirgli un po’ come stavo io rispetto a lui. Ecco: forse perché si parlava di lui, liquidò subito l’inizio del discorso e fu tutto lì. Andrea, rimandato a casa dall’Istituto dei Tumori perché ormai non potevano fare più nulla, aveva delle grosse emorragie dal naso e quindi veniva l’aiuto medico del dott. Bigoni, che aveva un rapporto molto stretto con il babbo, a infilare dei tamponi che erano lunghissimi, e quando li toglievano uscivano metri di garza dal naso e ricordo che mi chiedevo come potessero stare nel naso. Aspirava anche la gola perché non riusciva a respirare. Poi veniva un infermiere che gli faceva le trasfusioni, soprattutto di piastrine. Soffriva anche di un persistente sin37
ghiozzo. Io ero in camera con lui e stava molto male. Gli anni precedenti stava male durante le chemio, ma non stava male male così. Ad un certo punto il dott. Bigoni ha suggerito a mio papà il ricovero nel suo ospedale in cui era primario, a Gorgonzola, per gestire la situazione meglio. Poi l’hanno riportato a casa. Il giorno dopo la sua morte sono venuti don Giorgio e don Giussani che ha chiesto a mia mamma se voleva dire una preghiera e la mia mamma gli ha chiesto di dire il Magnificat. Una cosa che posso dire è un effetto: che cosa ho notato fra noi fratelli. Noi abbiamo sempre vissuto un’amicizia fin da quando don Pietro entrò a casa nostra, e poi don Gianni… una normalità. Noi abbiamo sempre vissuto l’appartenenza al movimento, che ognuno di noi ha scelto personalmente perché ha visto una convenienza, ha visto il gusto e la bellezza, nell’ambiente della famiglia e della comunità. Però di ciò che vivevamo non si parlava mai. Forse la parola giusta è pudore. Noi vivevamo la nostra esperienza al CLU, in Cattolica, in Statale, tutti avevamo un po’ il nostro ambiente ed era difficile che si parlasse. Ecco: questa cosa è cambiata completamente. Non che poi si facessero discorsi sul senso della vita, non che invece di parlare di qualsiasi argomento si discutesse della ricerca della felicità, ma è come se Andrea ci avesse fatto fare un’esperienza insieme. Non so dirlo meglio… Io ho cinque figli e anche nella mia famiglia può ancora succedere questo. Tra marito e moglie si danno certe cose come un presupposto, talmente presupposto che poi non esiste neanche più. Secondo me in quegli anni si era dato per scontato – non lo dico come giudizio negativo – per ognuno un qualcosa, che poi invece di nuovo era diventato ciò che ci univa. È un fatto talmente reale – la possibilità di un senso alle cose – che diventa evidente, quindi ne puoi parlare. Anche l’esperienza di ognuno nel proprio ambito non è più data per scontato, c’è stata un’unità. Quando Andrea è morto, ma già un po’ prima, c’è stata una possibilità di profondità di rapporto tra noi fratelli che prima non c’era. 38
Dopo la sua morte ho cominciato a sentirmi strano; tutti i miei amici non mi chiamavano più. Andavano tutti insieme in appartamento a mangiare da tizio e non me lo dicevano. C’è stato un momento in cui ho avuto la percezione di essere come lasciato indietro. Mi sentivo molto insicuro, cercavo la grande sicurezza in loro, ma nessun amico può darti questa sicurezza, e allora gli amici si tirano indietro, perché non possono portare il peso di una domanda così grande. Mia mamma… non potevi uscire dalla porta di casa senza dire un Gloria. Mia mamma sempre ti fa dire un gloria, non importa chi sia la persona che sta uscendo, lei dice: “senti, però ringraziamo…”. Noi recitavamo il rosario, almeno una decina; spesso la sera lo dicevamo insieme. Anche quando veniva Angelo, il futuro marito di mia sorella Marta, insieme si recitava il rosario. Spesso poi la mamma pregava da sola. La mia mamma adesso parla poco, ma mi sono accorto che si è preparata una frase che ha ben memorizzato e che dice a tutti quelli che le chiedono come sta. E la frase è questa: “Sto come Dio vuole”. Se ci penso, è esattamente quello che vuol dire! FRANCESCO MANDELLI Ea – così chiamavamo Andrea – ed io eravamo vicini di età. Marta, Vitto e Pietro erano nati nel giro di tre anni, uno dietro l’altro. Poi c’era un salto di tre anni, quando è nato Andrea, e dopo due anni sono nato io. Quindi, se vogliamo, Andrea ed io eravamo una seconda “tornata”: anagraficamente eravamo i più vicini. Quando eravamo piccoli, la domenica succedeva questo: Vitto tirava fuori il Lego piccolo e si andava in sala, sul tavolo aperto. Si giocava tutta la mattina al Lego. Era bellissimo. Vitto era molto bravo, perché era molto dotato nel fare tutte le cose meccaniche, ed essendo il più grande, comandava. Poi c’era Pietro, che è sempre stato un tipo più estroso, creativo, ma con meno doti meccaniche: lui inventava cose fantasiose. 39
Quindi Pietro andava per la sua strada, in autonomia, mentre Ea riusciva a farsi costruire qualcosa da Vittorino, ma alla fine spesso si litigava. Io ero il piccolo, per cui nessuno se la prendeva con me: rimanevo un po’ defilato e di solito me la cavavo. Io sono stato l’ultimo figlio per quasi dieci anni, ultimo di cinque, per cui da una parte ero molto coccolato, ma dall’altra ero spesso deriso. Se dicevo una qualsiasi scemenza, tutti andavano avanti per settimane a prendermi in giro. Però magari loro avevano otto, nove, dieci anni ed io, poverino, avrò avuto quattro anni! Quando c’erano delle discussioni su cose importanti, di solito riguardavano i tre grandi: io ero un po’ tagliato fuori... allora a volte mi estraniavo. A Monte Marenzo c’erano momenti fantastici e molto divertimenti, tra cui le case sugli alberi costruite da Vitto e Pietro: quella di Vitto era più bella e durò molti anni. Io ed Ea avevamo cercato di scavare un rifugio bunker nel sottosuolo, ma era un’impresa assai ardua e i lavori non furono mai conclusi. Io vivevo tutti i vantaggi di essere l’ultimo: tutte le conquiste che i miei fratelli facevano con fatica, io me le portavo a casa gratis. E le sgridate “comunitarie” del babbo quando veniva perso qualche attrezzo: non è che si sgridava il piccolino! O, insomma, quando era il mio turno lo scapaccione arrivava più soft. Poi è finita la pacchia ed è nato Michele, dopo dieci anni: un’altra generazione! Io ero già abbastanza grandicello, mia mamma aveva tante cose a cui pensare e da fare, quindi spesso me lo affidava e lo portavo a spasso. Quando Micky aveva due anni, la mamma mi diceva: «Tienilo fuori un’oretta», ed io facevo il giro all’Edilnord con il passeggino, facevo anche le gare di corsa con il passeggino…me lo coccolavo. Ricordo anche qualche cavolata fatta con lui: qualcosa di non proprio responsabile l’avrò fatta senz’altro, ma tutto sommato lo accudivo abbastanza. Ogni tanto mia mamma doveva uscire e mi lasciava, magari dopo pranzo, con Michele. Immaginiamoci a quell’età: mi svegliavo tutte le mattine alle 6:30 per andare a Monza con l’autobus, poi tornavo a casa da scuola famelico, mangiavo e poi… crollavo dal sonno. Il richiamo del letto era irresistibile. 40
C’era questo fratellino piccolino, dovevo curarlo e lui veniva lì a cercare di tenermi sveglio, ma mi ciondolava la testa e alla fine mi addormentavo. Noi abbiamo fatto il Sacro Cuore insieme, io tutti i cinque anni del liceo. Quando io ero in quinta ginnasio, Ea è arrivato in terza scientifico… a metà anno. In quell’anno scolastico l’avevano ingessato per un presunto problema di tendinite. Ricordo che diceva alla mamma: «Dammi la Novalgina». Il fatto è che il dottore aveva prescritto su per giù venti gocce, ma lui anche con quaranta gocce aveva un male bestiale. Male, male: insomma non stava bene. Negli anni in cui abbiamo frequentato GS facevamo le cose insieme, ma per certi versi vivevamo anche un po’ due vite parallele: a quell’età un fratello quasi coetaneo… è una vicinanza di età che ti dà quasi fastidio. Devo dire che con la vicenda della malattia a volte ho avuto l’impressione che ci fosse una sorta di “sovraesposizione”. Com’è comprensibile che accada, era come se a causa di questa vicenda a Ea e a tutti noi famigliari venisse spesso riservata un’attenzione superiore a quella che forse sarebbe stata normalmente, e questo in quegli anni a me ha dato talvolta addirittura fastidio. È una cosa che forse a quell’età ho un po’ subìto: centinaia di persone che ci conoscevano… Ma in fondo forse era un modo di essere vicini a Ea, di sostenerlo in questa grossa fatica. La cosa che colpisce di Ea è che non ha mai avuto un momento di scoraggiamento. A pensarci bene, lui ha affrontato il dolore e la fatica mai scoraggiato, almeno per quello che ho visto io: mai disperato. E oltre allo scoramento che non ho mai visto in lui, paradossalmente vedevo più lui che sorreggeva il mio papà e la mia mamma. Lui era su d’animo, la mamma la chiamava Sofia, non mamma: come per tenere su anche lei, un po’ affettuosamente… Anche il fatto della perdita dei capelli, ricordo che lo affrontava scherzandoci sopra, non facendone una cosa drammatica: ci faceva vedere che tirava le ciocche e gli venivano via i capelli. In quegli anni, dentro e fuori dall’ospedale, i suoi 41
compagni gli stavano molto vicini: ora mi viene in mente Igor Vanini, ad esempio, e molti altri. Venivano anche a stare qualche giorno a Monte Marenzo d’estate, a studiare con lui e gli facevano compagnia, gli stavano proprio vicini. Talvolta anche facendo qualche stupidata. Ea poi aveva un rapporto con don Giorgio molto intimo, molto diretto. Lui lo aveva preso con sé fin da subito e lo accompagnava. Non conosco la storia di don Giorgio, ma forse era la prima volta che gli capitava una cosa così vicina, così forte. Credo sia stata un’esperienza veramente difficile anche per lui. E poi per don Giorgio non c’era il grigio, ma c’era il bianco o il nero. Mi ricorderò sempre quando io ero in quarta e Andrea aveva iniziato a stare molto peggio, era stato ricoverato all’ospedale di Gorgonzola. Un professore che insegnava allo scientifico in quel periodo ed era uno dei suoi insegnanti era entrato in tutte le classi a dire: «Ragazzi, guardate che l’Andrea sta molto male e gli sono rimaste poche ore». In tutte le classi, anche nella mia. Sono venuto a saperlo così, quel giorno. O meglio: sapevo che la cosa non stava andando affatto bene, ma non avevo ancora capito (forse non potevo concepirlo) che fossimo arrivati a una situazione così avanzata… fino a quando non me lo sono sentito dire in modo così chiaro da lui. Senza preavviso, davanti a tutti. Certe cose è come se fossero impossibili da capire fino a quando non ci sbatti di fronte. Quel giorno sono tornato a casa e ho detto ai miei fratelli che volevo andare a trovarlo, quindi siamo andati tutti insieme a Gorgonzola. È stata l’ultima volta che l’abbiamo visto vivo. Andrea era già in uno stadio confusionale, non ricordo più nemmeno se mi avesse riconosciuto. Era in una situazione di grande affanno, come in agonia o pre-agonia. Certamente mia mamma ci fece dire una preghiera con lui o, meglio, davanti a lui. Poi ho solo in mente quando è tornato a casa. Ho visto questo telo, sostenuto dai volontari dell’ambulanza, con il braccio di Ea che penzolava fuori… Tornava a casa, dalla stessa porta di oggi. Io ero all’ingresso e l’ho visto entrare così: e solo in quell’istante ho finalmente capito che era davvero morto. 42
Oggi, più che ricordi di fatti o di parole, mi vengono in mente delle immagini, dei flash e, secondo me, delle certezze. Sì, direi proprio così: delle certezze. … Io andavo ancora per i diciotto anni e mi balenavano in testa i pensieri di un ragazzino: la cotta per una ragazza, la patente, poi forse la maturità… ma intanto quell’anno mi ero beccato l’esame di greco a settembre, perché la testa era altrove. Forse me ne sarei meritati tre di esami, forse anche la bocciatura, ma al Sacro Cuore sono stati clementi con me e non hanno infierito. Oggi sono uno a cui, da un certo punto di vista, piace tenere la posizione di comodo. Però devo dire che, in tutto questo, la mia posizione di comodo o di scomodo non scalfisce minimamente alcune certezze che si sono formate, radicate e che oggi non sono più oggetto di discussione. Sia che io litighi con mia moglie, sia che io vada o non vada per quattro mesi alla Scuola di Comunità. È chiaro poi che non andarci non è un aiuto alla mia vita, ma quelle certezze non sono più oggetto di discussione. Pensavo in questo periodo a quel che avrei raccontato: vorrei evitare di dire cose che sono frutto di una mia ricostruzione dei fatti, di un mio ragionamento. Ed è affiorato lentamente che in quegli anni, diciamo gli anni di Ea, forse ha iniziato a maturare in me la consapevolezza della frase di Claudel: «E che vale la vita se non per essere data?». Questa frase è stata l’esperienza che ha vissuto mio fratello Ea: «Forse che il fine della vita è vivere? (…) Non vivere ma morire e dare in letizia quel che abbiamo». È qualcosa che lui aveva pure scritto. Con don Giorgio ci avevamo lavorato a lungo. Una delle certezze per me è questa. Ea ha vissuto questo. Non lo dico per tentare una sintesi di quello che lui ha vissuto, ma perché è l’essenziale che mi è rimasto. Io poi negli anni successivi ne ho combinate e tuttora ne combino “una più di Bertoldo”, per cui ho un certo pudore nel dire questa cosa. Eppure ciò che mi fa sbilanciare nel dirla, senza avvertire una forzatura, è il fatto che la sento indiscutibilmente mia. Neanche volendo potrei togliermela di dosso. La dimentico, ma riaffiora sempre. 43
Ormai sono grande e ho qualche figlio anch’io. Quando si va a scuola con i bambini, al mattino, si dice la preghiera. E quella preghiera, che i bambini non capiscono neanche, è questa cosa qui. E a me basta, anche quando ci sono le situazioni difficili. Di certo, se paragonato a ciò che ha vissuto Ea, i miei sono solo piccoli problemi. Nonostante ciò, uno può viverli con un senso di grande oppressione o di ansia nel cuore. Quell’ansia me la tengo e me la porto fino in fondo. Però quando con i bambini si dice la preghiera in macchina, anche solo un Gloria, a me quella frase viene in mente e mi dà il senso, mi dà l’equilibrio. «Non vivere ma morire e dare in letizia quel che abbiamo». E spesso mi viene in mente Ea con don Giorgio, una volta che si commentava il significato del Gloria al Padre e si chiedevano: «Ma cos’è la Sua Gloria?». E dicevano: «La Sua Gloria è la Sua Presenza». Io non capivo molto, ma oggi, anche quando con i bambini in macchina diciamo solo un semplicissimo Gloria, per me quella preghiera è quella cosa lì. Per me vuol dire ripetere che chiediamo la Sua presenza, che sia presente e che si manifesti, nella fatica piuttosto che nelle belle giornate di sole. E ci renda lieti. MICHELE MANDELLI Sono il sesto, sono nato nel 1982 e quando Andrea è morto dovevo compiere nove anni. Ea ha scoperto di essere malato alla fine degli anni ’80; erano anni in cui la nostra casa era davvero un casino, eravamo in dieci con anche mio nonno Vittorino. Mi ricordo Ea sdraiato a letto; quando passavo davanti alla sua camera vedevo la luce del suo letto accesa, che di solito era spenta, attraverso la porta, quelle vecchie porte che avevano il vetro smerigliato. E d’infilata vedevo anche la cucina, che era il regno della mamma: lei si metteva su un tavolino in fondo, a recitare le Lodi, a leggere la scuola di comunità, o altro. Anche se era sempre di corsa, mia mamma riusciva spesso a ritagliarsi la sera uno spazio per leggere. Non ricordo invece di averla mai 44
vista guardare la televisione. A distanza di anni, quando sono arrivati i primi nipotini e i primi cartoni, abbiamo più volte dovuto farle vedere come si accendeva! Ricordo che un giorno hanno portato me e Giovanni, che allora aveva quattro anni, a salutare Andrea. Lo ricordo perché a me era parsa una cosa strana: erano tutti commossi ed era stato un saluto speciale. Erano gli ultimi giorni, stava morendo. Ricordo la sera, o la notte forse, subito dopo che è morto. La mia mamma era seduta al suo tavolino solito della cucina. Avevano portato Ea a casa, la porta della sua camera era chiusa e la luce spenta, e mia mamma era in cucina che leggeva. Questa per me è l’immagine: lei era lì, ma non era disperata, era lì che, a maggior ragione, si buttava… si attaccava ancora di più. Mia mamma è davvero un tipo robusto. E’sempre stata una che si affida tantissimo e in quella circostanza era chiaro proprio nei fatti a noi figli: c’era una dignità, una certezza e paradossalmente una letizia in mia mamma, proprio in quelle ore. È l’unica cosa che veramente mi ricordo. Ricordo i suoi amici che cantano Signore delle cime il giorno in cui l’abbiamo accompagnato al cimitero, quando è stato sepolto. Da quel momento, quello che mi ricordo di Ea sono i suoi amici. Quello che poi è andato avanti per anni è che il rapporto che c’era fra Ea e i suoi amici è diventato il rapporto tra i suoi amici e i miei genitori, la mia famiglia, quindi un legame veramente incredibile. Tanto che a distanza di anni, qualche mese fa mi è capitato un cliente – io faccio il consulente, quindi giro da un cliente all’altro – simpatico, molto umano, che solo alla fine mi ha chiesto se venivo da Brugherio, se conoscevo i Mandelli etc. Alla fine ho scoperto che per anni è andato al cimitero di Monte Marenzo dove Andrea è sepolto! La testimonianza che Andrea ha dato dura ancora adesso, dopo più di ventisette anni dalla sua morte, e tu conosci delle persone che sono affezionate e legate ad Andrea come a un evento che ha cambiato loro la vita. O perché l’hanno conosciuto o perché hanno conosciuto persone che l’hanno conosciuto. Ho quattro bambini. La più grande, Maddalena, ha sette 45
anni, Daniele cinque, Matteo tre e Simone sei mesi [ora sono arrivati anche due gemelli, nda]. Sono molto piccoli; ciò che loro sanno, vivono, è che c’è questo zio Ea che è in cielo. La cosa impressionante è che è più affezionata mia moglie – che ha conosciuto Andrea attraverso il libretto azzurro8, che non io stesso. Dopo che Andrea è morto, io mi sono forse un po’ ritirato, ho iniziato a leggere veramente tanto, anche come forma di evasione, e quindi ho vissuto un po’ con difficoltà quegli anni. Ma col senno di poi capisco che è giusto così: non è che il fatto di essere suo fratello mi dia necessariamente un punto di vista privilegiato, se non il punto di vista privilegiato che io ho sul modo in cui i miei genitori hanno vissuto quella circostanza. Che cosa c’è di interessante nella morte di Andrea? L’amicizia e la testimonianza di Andrea che dura nel tempo, come se fosse una prova del nove. Io non vado in giro a destra e a manca a raccontare di Ea, eppure la cosa va avanti. Ed è il motivo per cui noi ci ricordiamo delle cose belle dai frutti. Mi ricordo tutti i suoi quaderni belli in ordine sull’armadio nella sua stanza. Don Giorgio mi portava a Onno dove c’era una casa in cui si andava a trascorrere delle brevi vacanze con lui ed era l’occasione per stare con noi ragazzi, con un occhio di riguardo per me che stavo passando un periodo di grande introversione, dopo la morte di Andrea – in seguito mi sono scoperto un po’ tipo Pietro, che è esuberante ed estroverso. In pochi anni erano effettivamente successe molte cose: è
8 Il “libretto azzurro”, menzionato anche nel libro, è un libretto di circa 30 pagine intitolato Una grande grazia che, subito dopo la morte di Andrea, fu realizzato da amici e insegnanti con tutto ciò che riuscirono a mettere insieme (alcune lettere, scritti e fotografie) in brevissimo tempo. Vinse in loro l’urgenza di comunicare ciò che avevano vissuto più che la necessità di ordinare strutturalmente tutti i documenti. Di questo furono grate migliaia di persone a cui questo libretto arrivò e che scosse molte coscienze. E di questo siamo grati anche noi oggi, perché il libretto azzurro, inglobato nel nuovo libro Ti regalo la mia molla, è entrato a far parte dei documenti più importanti della vita di Andrea.
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morto il nonno, è morto Ea e si è sposata Marta. Quindi… sette fratelli, io il piccolino, lei la più grande, l’unica femmina, praticamente una vice-mamma… uno sconvolgimento degli equilibri. Il rapporto con don Giorgio è stato fondamentale per me, per farmi uscire un po’ da questa fase del guardarsi l’ombelico. Quindi per me non è tanto il rapporto diretto con Ea, ma il rapporto con chi con Ea ha vissuto: io godo dei benefici indiretti, questa è la grazia data a me. Sono uno spettatore che ha visto più i frutti che non l’albero: rimane l’essenziale, tutto il superfluo se ne va. GIOVANNI MANDELLI Quando Andrea è morto io avevo quattro anni. Ricordo due cose. Una sul vialetto di Monte Marenzo, un Ducato azzurro sul quale Andrea montava autoradio. Era lì che smanettava – e non so perché ricordo proprio questo con tutte le cose che potrei ricordarmi –, io che camminavo sul vialetto e lui che era lì nel furgone e aveva già i capelli corti, quindi vuol dire che poteva essere l’estate del ’90. L’altra riguarda il giorno in cui Andrea è morto e don Giorgio e don Giussani sono venuti a casa nostra. Ricordo solo don Giorgio – forse perché facevo l’asilo al Sacro Cuore e lo vedevo spesso – in una zona di casa nostra. Ricordo poi la camera di Andrea, condivisa con altri fratelli, quando lui stava male e quindi non si entrava in camera. Ho in mente questi flash. Ero veramente molto piccolo. Ricordo i miei genitori che mi portavano in giro, quando venivano chiamati a raccontare di Andrea, durante le varie vacanze del movimento. Però in quegli anni non ero assolutamente cosciente di quello che vivevano, se non per sentito dire… la classica storia che ti raccontano talmente tante volte che ti convinci di averla vissuta anche tu, ma è impossibile. Comunque vedere come i miei genitori hanno vissuto la storia di Andrea mi riporta in carreggiata rispetto a quello che conta nella vita, rispetto ai miei problemi e ai miei affan47
ni. Non ti spieghi come un ragazzo di diciannove anni possa aver avuto una coscienza del genere. L’ho sempre visto come un adulto che ha un giudizio più chiaro e vero del tuo. Ora quando lo leggo – e ho trent’anni – mi sembra inconcepibile che uno di diciannove possa aver scritto con così tanta lucidità e verità quelle cose. In verità la cosa più bella è che quando sono un po’ in difficoltà prendo in mano il libretto azzurro di Andrea e me lo leggo, perché comunque è un punto da cui ripartire, mi sveglia e mi commuove. Quando poi è morto il mio amico Giovanni Bizzozzero, nel novembre del 2011, io ho legato un sacco la sua morte, pur nella diversità delle circostanze, alla morte di Andrea. Non so come dirlo: interpretavo la vita di Giovanni, rileggendola nel libretto di Andrea. Dopo la morte di Giovanni ho conosciuto alcuni suoi grandi amici, come Matteo Bonaiti e Fabrizio Rossi. Fabrizio è un ragazzo ligure di Imperia che aveva scoperto, non so come, della storia di Andrea, forse al liceo tramite un professore, ed era rimasto molto, molto colpito. Poi è venuto a Milano a frequentare l’università, sente cantare quelli del Coro Alpino della Cattolica, tra loro c’era mio fratello Michele. Quelli del coro lo invitano a una gita, salgono in auto e Fabrizio capita con mio fratello Michele; sul cruscotto dell’auto c’è l’immaginetta di Andrea. Allora fa due più due e si ricorda di Andrea. In questo modo è andata ricomponendosi una storia tra Matteo, Fabrizio, Andrea, Bizzo e gli amici di Bizzo. Se ci pensiamo, Bizzo è morto nel novembre del 2011 e loro hanno conosciuto Andrea attraverso la morte del Giovanni ventun anni dopo! E quindi ho proprio ripreso in mano il libretto azzurro di Andrea più seriamente – seriamente nel senso del paragone con quello che mi succedeva – quando è morto il Giovanni, perché c’era un’affinità di contenuti, di vita. Questa, forse, è la cosa che mi ha più colpito dell’attualità della morte di Andrea, che è diventata una ferita, pur non vissuta coscientemente a quattro anni ovviamente, un’occa48
sione per riprendere in mano qualcosa che altrimenti perdi, per ricordare a un distratto come me chi sono e cosa desidero. La cosa bella, per Andrea, per Bizzo, per altri amici prematuramente morti, è quello che nasce dopo. È questo ciò che ti permette di alzarti il giorno dopo, se sei la mamma e il babbo del figlio che è morto. Un altro momento in cui ho ripreso in mano la storia di Andrea è stata la morte di Stefano Aletti, forse perché consciamente associo la morte di un ragazzo giovane a quella di mio fratello. Perché uno, quando muore un amico o qualcun altro, una domanda deve farsela. Se penso a mia mamma… Ha fatto per cinquant’anni la massaia, però prima ha curato il nonno Vittorino, poi l’Andrea, poi ha curato la sua mamma, poi ha curato la zia Clara, poi ha curato sua sorella. Tutte malattie durate nel tempo, per cui per tre o quattro pomeriggi la settimana andava da loro. Una vita dedicata agli altri, senza lamentarsi mai. Anzi, era contenta. È contenta anche adesso. Può esserlo solo per la fede che certamente la morte di Andrea le ha ridonato. Ed ora è tempo che noi ci occupiamo di lei.
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COME TUTTI, MA DIVERSO
ILARIA PEZZATI DANIELE CONTINI DON GABRIELE MANGIAROTTI i docenti
MARCO CIRNIGLIARO MARIA ELISA GUZZI GIANFRANCO FONTANELLA RAFFAELLA MANARA FRANCESCO VALENTI MARINA CARENZI SILVIA MACCHI PAOLA MONGELLI
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ILARIA PEZZATI Un flash è legato alla mia mamma che, assolutamente stupita, una sera torna a casa e ci racconta questo episodio riportato da Sofia, mamma di Andrea. «Quando gli hanno comunicato di quale malattia si trattasse, la sua prima reazione è stata: “Mamma, mi devi comprare dei pigiami nuovi”». Ricordo benissimo la commozione della mia mamma, che non si capacitava di come un ragazzo così giovane potesse avere tanta forza d’animo e tanta obbedienza a quanto stata accadendo. Ricordo però che quando andavamo a trovarlo, anche all’ospedale, era lui a infondere coraggio a noi. Ai ragazzi, ai compagni con cui si discuteva delle nostre scelte diceva spesso una frase che all’incirca suonava così: “Se hai incontrato qualcosa di davvero grande, di più grande ancora di quello che ho incontrato io, qualcosa che ti rende davvero felice, allora mollo tutto e vengo con te. Altrimenti vieni tu con me e vedi tu stesso». DANIELE CONTINI Dopo la morte di Andrea sono andato quasi sempre alla messa di suffragio ogni anno, in alcune occasioni anche a Monte Marenzo, a casa Mandelli. I genitori di Andrea mi hanno sempre colpito molto: una coppia che per me è stata sempre un’ispirazione. È raro trovare coppie adulte così unite e così soddisfatte della loro vocazione, e poi con temperamenti molto diversi, perché Sofia ha un temperamento angelico mentre Antonio è più rude, più ruvido. Mi ha sempre colpito molto come anche loro sono stati davanti a quel che è accaduto. L’incontro con Andrea è stato uno degli incontri decisivi della mia vita, soprattutto legato ai due temi: primo, vivere la vita nella prospettiva della santità, tenendo presente che la vita può durare quel che dura, può essere lunga o breve, ma non è mai troppo presto per mettersi nella prospettiva giusta. Secondo: l’aspetto del vivere l’istante, così come l’ha vissuto lui, con l’intensità, con la decisività e con la vitalità con cui lui viveva l’istante. Vivere la circostanza come qualcosa che ti 51
è dato misteriosamente, perché poi la malattia è ovviamente sempre qualcosa di misterioso, specialmente in età così giovane, però con questa prospettiva buona dentro. Questo mi è rimasto assolutamente. Andrea non ha lasciato molto di scritto, ma le cose che ha scritto io le ho imparate a memoria: potrei ripetere parola per parola. Più passa il tempo e più le capisco. Quando lo ascoltavo dicevo tra me: «Ma cosa sta dicendo!?!». Per me era incomprensibile. Quando diceva: «La pienezza della vita sta nella verginità e nella morte», questa cosa era completamente incomprensibile! Pazzo! Dopo quasi trent’anni comincio a capire. Andrea è stato profetico, da certi punti di vista. In questo senso continua a farci compagnia. Ad esempio con la preghiera: è un rapporto che continua, in forma diversa. Io lo prego perché è un rapporto che continua: il senso di andare a trovarlo al cimitero di Monte Marenzo… Penso che ad Andrea si possa chiedere. Un bel po’ di “lavoro” l’abbiamo fatto fare ad Andrea negli ultimi anni! DON GABRIELE MANGIAROTTI Ricordo che, durante le nostre vacanzine, Andrea c’era sempre, c’era, c’era, nelle cose, non come dovere di bontà. Era presente nella vita, non era una tappezzeria, era un ragazzo vivo nelle cose. Poi quando c’è stato il passaggio al Sacro Cuore, durante la sua malattia questa sua passione alla realtà, ai fatti, agli avvenimenti era evidentissima, evidentissima. Era venuto in una vacanza invernale addirittura con il piede ingessato. Io non ho mai sentito da parte sua un lamento; addirittura, quando era malato, quando era in ospedale, non mi ha mai, mai una volta detto: sto male. Della sua situazione non ha mai, mai parlato. Una cosa impressionante! Tu andavi e avevi la percezione che c’eri tu e lui con la sua passione della vita. Il fatto della sua malattia non c’era. C’era lui in quella condizione. Nel momento in cui hanno comunicato ad Andrea qual era 52
la sua malattia io non ero presente. Posso dire quello che mi hanno raccontato. Avevano ormai verificato la sua condizione, che non era una tendinite ma una malattia abbastanza grave e rara che colpiva i ragazzi giovani. C’è stato un incontro con Mapelli, Antonio, Pontiggia e don Gianni Calchi Novati, e Andrea ha detto semplicemente: “Ma cosa c’è da fare?”. Il concetto è stato: vedere, aspettare, non è una bella situazione, e lui: «Ok». E basta, finito lì. Come se dicesse: è così, la prendo. La percezione che mi hanno riportato, raccontandomi di questo incontro, è l’accettazione di un disegno che lui non capiva, ma che era il disegno sulla sua vita. Questo mi ha impressionato e non posso dimenticarlo. E poi di questo non ha più parlato, ma non perché ne avesse paura. Non avevi l’impressione di uno scaramantico. Quel che determinava la sua vita non era la sua malattia. Questa era la cosa impressionante. E tutte le volte che sono andato a trovarlo, quando era in ospedale, mai una volta che il problema fosse lui e la sua salute. Il problema era come andava GS, come andava la comunità. Era il tempo della Studenti Card al Sacro Cuore e lui si era dato molto da fare, allora volevamo farla anche a Monza, e infatti l’abbiamo fatta. Mi ricordo che era in questo letto, credo avesse anche un computer portatile, e si dava da fare, si immedesimava su quel che bisognava fare, come era l’organizzazione… insomma, l’aspetto della vita, in quella condizione in cui si trovava. La vigilia di Sant’Andrea, il 29 novembre, c’è stato il ritiro per i cresimandi, con i genitori dei cresimandi. C’era mons. Mascheroni e gli abbiamo chiesto di finire il ritiro un po’ prima perché volevamo andare in ospedale a trovare Andrea. Sapevamo che ormai era gravissimo. Alle 22 siamo partiti. Andrea era nell’ospedale di Gorgonzola. Siamo andati là. Eravamo don Gianni, don Giorgio, i genitori ed io. Abbiamo salutato i genitori e ci siamo un attimo ritirati, poi ci hanno richiamato. Andrea era cosciente. Lui apre gli occhi, si vedeva che era febbricitante, e dice: «Ok, va bene, andiamo!». Poi è morto. 53
Sarà stata anche la febbre, ma non sembravano parole dette a caso. Quell’«Ok, va bene, andiamo!» era la percezione di “sono nelle Tue mani”. Poi sua mamma ha detto: «Diciamo l’Angelus». Arrivati a casa, mancavano Michele o Giovanni, il fratellino più piccolo. Tutti gli altri fratelli l’hanno messo sul letto e la mamma ha detto ancora: “Diciamo il Magnificat”. Anche quando Andrea era venuto da me, quel suo “chiedimi qualunque cosa, ma non chiedermi di studiare” non era per dire “non mi interessa niente”. Quando ha potuto finalmente vedere (ci sono le sue parole riguardo allo studio) che anche lo studio era uno spazio per esprimere la gioia che aveva, ha ripreso a studiare con una passione straordinaria, e lo ha anche scritto. E questa sicuramente è stata la grazia del Sacro Cuore: gli insegnanti che aveva e don Giorgio che l’aveva preso a cuore. E questo passaggio era vissuto con una tale naturalezza che tu non avevi la percezione di un “costruito”. Non è che per parlare di Gesù Cristo devi fare un’astrazione: questa era la percezione che avevi nel rapporto con lui.
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MARCO CIRNIGLIARO Il ricordo più forte che ho è l’immagine dell’atrio del Sacro Cuore, all’intervallo allo scientifico. Andrea frequentava lo scientifico e io insegnavo e insegno all’artistico. Me lo presentano. Lui proveniva da una scuola in Brianza, disastrato, pure bocciato, non studiava. Il mio ricordo passa subito al raggio unitario con don Giorgio, i ragazzi dei tre licei radunati insieme, e ad una sua partecipazione molto forte alla vita della comunità. Quando ha contratto la malattia, ha tagliato subito i suoi boccoli, ha incominciato a portare capelli molto corti e barba. La cosa straordinaria è che lui c’era sempre. Le cose per lui vanno peggiorando notevolmente e gli viene impedito di uscire dall’ospedale, poiché qualsiasi ferita o infezione poteva essergli pericolosa… e lui era pronto: ogni mattina preparava lo zaino per venire a scuola mi dicevano, e io ci credevo e lo dicevo sempre a tutti gli altri studenti della grazia che avevano, per la presenza di Andrea. E contrariamente a quello che ci si aspetta da uno provato dalle cure, quando andavo a trovarlo ci teneva tantissimo a stringere in maniera virile la mano. Lui era, come sempre, pronto a ricominciare. Questo “io voglio essere sempre pronto”, questa stretta di mano virile… Era contagiosa la voglia di vivere: questo è il punto più evidente. Lui c’era sempre, aveva attenzione ad ogni piccola cosa. Don Giorgio ci diceva: «Andrea, che non ha le vostre possibilità, vuol essere sempre pronto, si fa la barba lentamente per essere pronto per venire a scuola, mette tutto in ordine… che amore per la realtà, che amore per Gesù in questi semplici gesti!». Questo è stato il nostro grande riferimento: uno che vuol essere sempre pronto, perché il Signore può chiamarti in qualsiasi momento. E poi la sua incredibile voglia di vivere. La notte in cui è morto io mi sono svegliato, una delle poche volte della mia vita, mai mi succede. Ho terminato un quadretto, che poi ho regalato ai suoi. Al mattino mi hanno detto che, durante la notte, era morto. 55
Non sono un sentimentale, se mi chiedi se ha avuto un valore per me ti rispondo: sì, grandissimo. La ragione sta di fronte a come uno si comporta, perché certe cose sono folli nel cristianesimo, così vere da essere folli. Tu dici: come può uno comportarsi in quella maniera? È impossibile! Io non ho il culto dei morti, perché so che dopo quello che mi è successo… c’è la comunione dei santi. Se io penso a quando Annunciata [ndr sua moglie] è salita al cielo, a come ci siamo comportati come famiglia in quei tre, quattro giorni, io penso che sia impossibile prevedere come tu possa essere certo e come questa certezza passa attraverso tutti: è impressionante! Io sono stupito. C’era la lacrima, ma si fermava sempre qua, perché era più forte la certezza. E non piangeva nessuno di noi quattro [ndr Marco e le sue tre figlie]. E non è che puoi importelo, puoi importelo? No! Tu constati che accade qualcosa che è più forte, Dio, quando tu dici sì e basta: sia fatta la Tua volontà, ma ne sei così pieno che anche il tuo agire cambia. Io mi sono accorto di questo. La più salda tra noi era la più piccolina, quella che faceva la terza media. Era certa. E io dicevo: questa è una grazia! Dopo che è morta e l’abbiamo portata a casa, sono stato a scuola, ho insegnato le mie sei ore, il giorno dopo c’è stato il funerale. Ho fatto tutto come se lei fosse viva. Ho detto: se la vita è eterna, è eterna. Ha vinto la ragione della fede. MARIA ELISA GUZZI Venendo al Sacro Cuore, Andrea aveva riscoperto che la fisica come anche le scienze potevano essere una cosa interessante. Non aveva studiato molto nella sua vita ma era un ragazzo acuto, intelligente, che apprezzava un orizzonte aperto. Quando è accaduto il fatto, don Giorgio è stato una presenza fondamentale nel guidarci a vivere quel momento e quella vicenda di fronte a cui ci trovavamo in modo non sentimentale. Ricordo benissimo i suoi interventi in classe nella prima fase della malattia di Andrea in cui, di fatto, don Gior56
gio chiedeva a noi insegnanti e ai ragazzi che non si erano immediatamente coinvolti in quel che accadeva ad Andrea – perché era comunque una cosa difficile cui stare davanti – di stare sul pezzo. Periodicamente, d’accordo con don Giorgio, andavamo a casa sua e lavoravamo a casa con lui; questo non è accaduto per mesi e mesi, ma sono stati momenti significativi. Studiavamo sotto un meraviglioso Benjamin che arrivava al soffitto e che il papà di Andrea curava con un’attenzione che ricordo ancora. Dico dello “stare sul pezzo” perché nel 1996 io, di punto in bianco, ebbi una diagnosi di un tumore grave e quando quella mattina, mentre andavo a scuola con la cartella in mano, ricevetti la telefonata di recarmi subito in ospedale che il letto era già pronto per me, raccogliendo in fretta quattro carabattole, ritrovai il libretto azzurro di Andrea sempre rimasto nel cassetto. Devo dire che, soprattutto nella fase lunga di attesa di come si sarebbe andati avanti, dopo i quindici giorni di diagnosi definitiva, in quei giorni di solitudine e di ospedale in cui uno è solo con se stesso perché comincia ad apparire all’orizzonte la possibilità che la vita finisca, lì io ho trovato in Andrea un compagno. E mi sono resa conto che, pur mediata attraverso don Giorgio e altri, lui è stato una presenza fondamentale, e davvero io ho una grande gratitudine, non trovo un’altra parola. È’ stato un compagno concreto in quei giorni, molto concreto, e io lo lego all’esperienza che ho fatto con lui, di stare con semplicità sul pezzo. Ricordo di quei giorni che, in uno dei momenti ormai gravi, si comprò una giacca nuova. È una grande cosa per me, una grande lezione, perché si vive l’oggi. Poi c’è come un filo rosso. Subito dopo il funerale scrissi a Sofia, che avevo visto poche volte, e conservo la sua lettera di risposta; quando la rileggo capisco cosa vuol dire essere una mamma nei momenti più difficili che viviamo tutti come genitori. La vita poi ha stabilito un filo rosso per cui ogni volta che vado davanti alla scuola a prendere mia nipote – che avrei immaginato tutto ma non che avrebbe frequentato la scuola “Andrea Mandelli” – davanti alla scuola, mentre aspetto e passeggio, si riallaccia questo filo. E nelle grandi occasioni, durante le feste della scuola a 57
cui Sofia e Antonio partecipano sempre, Sofia mi accoglie e mi abbraccia come se ci fossimo viste il giorno prima. È un abbraccio così sincero che mi commuove sempre. FRANCO FONTANELLA Io sono l’insegnante di educazione fisica di Andrea. Uno degli aspetti che più mi aveva colpito era la questione della card. Questa card doveva servire ai ragazzi di GS perché potessero andare in negozi, bar… e avere degli sconti. E mi ricordo l’accanimento di Andrea nel cercare il più possibile che questa fosse una possibilità concreta e reale per tutti quelli che facevano GS. Andrea aveva, dentro la fatica e dentro il dolore, una trasparenza di letizia e una capacità di stare con tutti, di portarsi dietro tutti, che mi ha fatto capire la grandezza di quello che avevo incontrato [l’esperienza di Comunione e Liberazione, ndr]. Non sempre con questa chiarezza, all’inizio con molta fatica, però ripensando al suo percorso è proprio commovente: io ho visto, ho visto in lui una capacità di presenza, una capacità di accogliere e di guardare tutti con una grandezza unica. RAFFAELLA MANARA Sono stata per due anni la sua professoressa di matematica. Mi pare di rivedere questo ragazzo meraviglioso: Andrea è arrivato in terza scientifico provenendo da una scuola statale in cui era stato bocciato. Ci siamo trovati in classe questo bellissimo giovane, silenzioso e attento. Noi insegnanti eravamo molto contenti, ci siamo affezionati a lui subito. Era una presenza interessante, che si sentiva in classe perché interloquiva volendo comprendere e partecipare. Non si può dire che fosse uno studente particolarmente bravo o geniale, ma era uno studente che si notava: faceva ciò che gli interessava e voleva sempre capire. Non era nemmeno uno studente sempre diligente, faceva molte altre cose oltre lo studio, ma quello che viveva non era 58
una trasgressione, metteva in tutto la serietà di chi cerca il significato delle cose. Si è presto manifestata la sua malattia, e ciò ha reso ancora più evidente la sua posizione. Spesso non veniva a scuola, ma voleva sempre tenersi in pari in tutte le materie: i suoi compagni andavano a studiare da lui. Il suo compagno Giacomo Aletti – ora professore universitario di matematica – andava da lui per aiutarlo in matematica e probabilmente gliela spiegava meglio di me… Con l’aiuto di Giacomo, si era fatto una sintesi – che porta la data del 27 maggio 1989 – delle cose che doveva sapere che poi mi aveva fatto vedere: era così bella la sintesi e così bella la sua posizione che l’ho sempre tenuta in un cassetto, in suo ricordo. Così aveva finito la terza scientifico, bene. Poi in quarta la sua salute si era aggravata, è stato molto assente; nonostante questo, ricordo che era stata una sua iniziativa la Card degli studenti! La sua presenza si sentiva, non solo nella classe ma anche nella scuola. E il sopravvenire della malattia, il modo in cui l’ha vissuta, particolarmente quando si capì che non c’erano speranze, lo rendeva ancora più evidente. Questo giovane è stato per me una grande testimonianza, nella sua vita e nel suo affrontare la morte. Ora il suo ricordo è una compagnia di cui sono sempre grata. FRANCESCO VALENTI Sono stato insegnante di Andrea da quando avevo ventotto anni a quando ne avevo trenta. Anch’io ho tanti ricordi, evidentemente. Il primo ricordo che oggi, cronologicamente, mi viene in mente è un dialogo con sua mamma Sofia durante il colloquio genitori e docenti. Un dialogo di cui mi sono sempre un po’ vergognato, francamente, perché, fraintendendo un po’ l’inizio del suo malessere, che si manifestò già durante la terza liceo, mi era sembrato di poterlo, anzi doverlo attribuire, un po’ moralisticamente, a una difficoltà nel passaggio da ritmi di lavoro della scuola precedente a ritmi di lavoro un po’ più serrati. E le dicevo, un po’ moralisticamente, che Andrea poteva essere impreparato, poteva non sentirsi o non essere 59
all’altezza… ma doveva venire a scuola – proprio nei giorni in cui lui ebbe in certi momenti grandi difficoltà a frequentare a causa della malattia –. Ricordo questo dialogo con Sofia per vari motivi: primo, perché da lì nacque una graduale ma profonda amicizia con lei e con suo marito; in secondo luogo perché, per giunta, mi diede ragione su varie cose – ad esempio sul fatto che dovessimo recuperare una strategia perché lui tornasse a scuola –; e in terzo luogo perché dopo uno o due giorni mi raggiunse la notizia che queste sue difficoltà a venire a scuola erano dovute alla malattia. Diverse volte sono stato a casa sua e diverse volte è venuto da me, come in quegli anni era naturale, come approfondimento e verifica, con alcuni ragazzi. In un giorno d’estate ero stato anche a Monte Marenzo e lui mi aveva poi riaccompagnato al Parco di Monza, dove c’era la mia famiglia. Ancora: ricordo l’ultima telefonata che ci siamo scambiati quando stava male, a casa, prima di essere ricoverato di nuovo, nella quale mi dispiacevo e mi scusavo di non essere potuto andare a una messa celebrata a casa sua. Avevo il raffreddore e c’era la paura di trasmettergli ulteriori complicazioni e mi dispiaceva non averlo potuto vedere. E lui che mi aveva consolato: «Non preoccuparti». Il giorno della sua morte ricordo come fosse ora Ricci, un suo compagno di classe, che avvicinandomi all’entrata a scuola mi disse che Andrea era morto; e a me sembrò spontaneo andare in chiesa, dove c’era don Giorgio. Mi informai su come Andrea fosse morto e qualcuno me lo raccontò. Da allora ho dato concretezza al cristianesimo, nel senso del segno della resurrezione della carne nella morte cristiana: il cristianesimo ti fa vivere e anche morire in un modo completamente umano. Quasi immediatamente, mi venne in mente e capii la frase evangelica di uno dei soldati sotto la croce di Cristo, quando disse: «Davvero costui era figlio di Dio»; e lo disse per come Gesù era morto, ciò che non gli era riuscito quando era vivo. Il funerale di Andrea fu caratterizzato dal canto del Credo all’ingresso della bara in chiesa. Il Credo cristiano è davvero stato il contrassegno di questo ragazzo. 60
MARINA CARENZI Se dovessi definire la figura di Andrea direi che era sicuramente un ragazzo umile, non nel senso di riservato perché non lo era affatto, ma umile davanti alla vita, davanti alle sue difficoltà scolastiche, con il sorriso pronto a correggere e a imparare e a chiedere quando non capiva. Ora, questa umiltà non è di tutti i ragazzi. Lui chiedeva e chiedeva sempre. Sono grata di averlo conosciuto, come è stato anche per altri miei alunni di cui sono sempre grata – pochi anni dopo è morto anche Stefano Aletti –, persone che hanno portato un peso così più grande e totalmente affidati, e proprio perché affidati, sereni. Ecco, questa letizia credo sia un grandissimo dono, una grande testimonianza che rimarrà. A settembre del 1990, com’era d’uso al Sacro Cuore, docenti e allievi abbiamo fatto un’uscita di due giorni; era settembre, Andrea non è venuto a questa uscita. Ma quando siamo tornati dopo due giorni, siamo entrati nel cortile del Sacro Cuore e lui era lì ad aspettarci, ad aspettare i suoi compagni, come per dire: “siete arrivati, io sono qua, io sono sempre stato con voi”. Io sono stata colpita da questa cosa, perché lì ho capito ancora di più con quale spessore vivesse la sua situazione. E quando l’ho visto lì, l’ho abbracciato e gli ho detto: «Andrea, che bello vederti qui! Come stai?». E lui ha risposto: «Sì, sì, sto bene, sto bene». SILVIA MACCHI Un ricordo che ho di lui è questo: al termine delle lezioni, all’una, tutti naturalmente si precipitavano fuori dalla scuola. Lui era già pelato per la chemio e alcuni ragazzi lo guardavano evidentemente un po’ impressionati e lui si accorgeva di quegli sguardi. Quindi un bel giorno si è messo una bandana rossa in testa, si è messo in fondo al corridoio d’uscita e quando tutti passavano lui li salutava a uno a uno con la bandana in testa. Qual è la cosa che a me ha commosso più di lui? Senz’altro che non ha smesso di desiderare di vivere, perché era completamente affidato a Gesù. E in un certo qual modo ha sfidato non soltanto la sua paura, ma anche quella dei suoi compagni. 61
PAOLA MONGELLI Io sono stata l’insegnante d’inglese di Andrea. La cosa in assoluto che mi ha colpito di più è che la malattia non è stata per lui una sfortuna, ma un’occasione per esserci tutto, davanti a una Presenza. Lui aveva scritto: «Se Dio mi dona qualcosa che ci risveglia è perché sia chiara la ragione fra noi. Se Dio ci dà questo è perché la nostra vita sia totale. Bisogna dire un SI a Cristo che sia totale. La pienezza della vita sta nella verginità e nella morte. Ne sono gli atti supremi». Ecco questo giudizio che lui ha dato me lo sono portato dietro tutta la vita. Se devo dire, l’intelligenza della vita che vorrei avere adesso a cinquantaquattro anni è quella che lui ha mostrato a diciannove anni, che già aveva e che mi ha suggerito e che adesso io posso riprendere in mano. Lui è molto più presente a me adesso di prima, perché allora io non capivo niente, avevo una grande commozione sentimentale, ma non capivo nulla di queste cose. Adesso lo sento molto più compagno, più presente di prima. Attraverso la malattia ha detto sì a Cristo, come ha scritto a un certo punto: «Beato, non più infelice, perché puoi dire tu a Cristo». Io questo l’ho visto, ho visto questa libertà accadere.
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LA COMPAGNIA DI ANDREA NEL “FARE LE COSE”: EMERGERE EVIDENTE DELLA PRESENZA DI GESÙ
FABRIZIO PICCAROLO SARA MEDA
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FABRIZIO PICCAROLO I miei ricordi più forti forse, paradossalmente, sono legati più al periodo di non malattia, di non ospedale, senza nulla togliere al fatto che è stato un grosso miracolo quel tempo. Però già quando lui è arrivato a Sacro Cuore, quegli anni lì sono stati per me e per tanti miei amici l’occasione, posso dire, del vero incontro con Cristo. Nel senso che con lui è stato tutto molto più chiaro. Nel rapporto con lui, nella passione con cui lui desiderava il rapporto con me e con gli amici, il modo con cui guardava e stava con don Giorgio o con i professori, con cui affrontava le cose: per me è stato proprio un accendere la luce sulla mia vita. Io ero cambiato tanto, sia con don Giorgio, sia con gli amici. Lo dicevamo tra alcuni amici quando è morto don Giorgio. La presenza di Andrea aveva reso ancora più vera questa cosa: guardando adesso, quegli anni sono stati proprio il seme per me e per molti di noi da cui è nato tutto di noi, tutta la vita di adesso, la nostra vocazione, la famiglia che abbiamo. Se devo dire, nasce tutto da lì, da quegli anni: con don Giorgio, Andrea e gli altri amici. Forse allora quasi inconsapevolmente; poi uno si gira e vede che Dio c’era già, tutto, ed è stato piantato un seme talmente vero che ancora oggi vive in noi. Conosco Sofia e Antonio. Ho conosciuto mia moglie all’università e ho scoperto che lei abitava sopra l’appartamento di Antonio e Sofia. A Monte Marenzo… Io sono uno zero assoluto in tutto ciò che è fai da te e guardavo impressionato la capacità di Antonio e dei figli di saper fare cose manualmente, di ingegnarsi. Ci divertivamo tantissimo perché le cose che facevamo erano per me del tutto sconosciute. Tornare a trovare Andrea a Monte Marenzo negli anni successivi al liceo, anche insieme agli amici di quegli anni, è un’occasione straordinaria di memoria di una storia bellissima che continua ancora oggi. E poi è bello che i nostri figli possano adesso andare alla scuola “Andrea Mandelli”. Bellissima la storia di quest’opera che continua. Io abito sempre in Fontana. I miei quattro figli 64
hanno frequentato e frequentano tutti l’“Andrea Mandelli”. Tra noi che eravamo compagni di classe di Andrea c’è ancora oggi un desiderio di stare insieme e un modo di rapportarci tra noi, anche se non ci vediamo spesso, che è bellissimo e che ci resta dall’esperienza di quegli anni. Dopo tanti anni è una cosa che ancora si sente così vera! SARA MEDA Con Sofia c’è sempre stato un grande affetto e anche i dialoghi andavano sempre al fondo delle questioni. Andavamo anche a Monte Marenzo a studiare, quando c’era qualche ponte o quando in estate a Milano incominciava a fare caldo o ancora per castagnate in autunno. Eravamo molto affezionati a quel luogo: era bellissimo, anche per il modo in cui stavamo insieme tra noi. Ricordo il laboratorio dove Antonio lavorava il legno. Con Antonio, Sofia e i suoi fratelli c’è sempre stata un’amicizia bella, un’accoglienza e un desiderio di stare insieme, anche se noi eravamo più “piccoli”. E poi ricordo dei flash: studiavamo, mangiavamo e ridevamo. Ricordo la nostra gita a Parigi, in primavera durante la quarta. Eravamo in pullman, seduti uno a fianco dell’altro, avevamo parlato di tante cose belle e importanti, della vita e dell’amicizia. Andrea era già malato e stava facendo la chemioterapia; il rapporto con lui era sempre molto profondo. La preghiera che dicevamo era l’Atto di Consacrazione a Maria, che ancora oggi recito. La coscienza che lui aveva della vita era per me un continuo invito a “dare la vita”. Quanto era pronto, anche alla morte! Un ragazzo del liceo… pazzesco! Mi colpisce tanto l’idea che uno nel bene o nel male possa cambiare la storia. A volte viene la tentazione di dire: «Vabbè, ma io che cosa posso fare», invece non è così. Andrea è stato il punto di maturazione della mia fede: è arrivato con una radicalità tale che io dopo aver vissuto una cosa così… era come un punto di non ritorno. 65
Quando ho iniziato l’università per me sono stati anni molto difficili, soprattutto per come erano vissuti in quegli anni i rapporti all’interno della comunità del CLU. Ma ripensavo a tutto quello che avevo vissuto e all’esperienza di GS e in particolare agli ultimi anni con Andrea. Mi domandavo: «Ma io se vado via di qua [dall’esperienza del movimento, ndr], dove posso andare?». E quindi diciamo che sono rimasta fedele più per un giudizio dato, per una ragionevolezza riguardo a qualcosa che avevo visto e vissuto. Preciso meglio: l’esperienza del movimento che vivevo in università era molto diversa da quella del liceo, non mi sembrava centrata su Cristo. In quegli anni ho fatto molta fatica, ma sono rimasta per quanto avevo vissuto in GS e in particolare con Andrea, sono stata costretta a chiedermi le ragioni del mio stare nel movimento, ad andare all’osso della questione. Un mio amico Giorgio Natale – non ricordo se il giorno del funerale o qualche giorno dopo – mi aveva detto: «Ma com’è possibile essere felici, sereni, dopo che un tuo amico è morto?». E tutti abbiamo pensato: ma in realtà il miracolo c’è. È proprio questa gioia, questa serenità che è assurda! E poi tutta l’amicizia che era nata. Sì, era possibile essere sereni. Noi avevamo chiesto il miracolo della guarigione, ma è avvenuto un altro miracolo: il cambiamento del nostro cuore, la nascita di un’amicizia vera e grande tra noi. Infatti io con un gruppettino di amici, tra cui c’era Daniele Contini, abbiamo ripreso l’amicizia tra noi rileggendo la Scuola di Comunità, insieme a Campi che ora è Memores. Questo gruppetto si è poi trasformato nel gruppetto di Fraternità, che ancora oggi viviamo. Una frase di Andrea che mi ha sempre colpito molto e accompagnato è: «Se Dio ci dà questo è perché la nostra vita sia totale. Bisogna dire un SI a Cristo che sia totale». Di questa frase mi colpisce la questione della totalità, del non tenere niente per sé, ma donare tutto a Cristo e anche il fatto che ogni cosa che ci capita, ogni circostanza anche quelle che possono sembrare negative, sono per noi, per essere totalmente di Gesù. Tante volte, di fronte ad avvenimenti imprevisti della mia vita, 66
ho ripensato a questa frase e al modo in cui Andrea l’aveva davvero vissuta – non erano soltanto parole – e mi ha aiutato a dire sì al Signore, a quanto mi stava capitando. Anche con Sofia c’è sempre stato un grande affetto e anche i dialoghi andavano sempre al fondo delle questioni. A me piaceva moltissimo andare a Monte Marenzo. Con Daniele e Alessandro prima andavamo a trovare Andrea e poi andavamo da Antonio Sofia e pranzavamo lì con tutta la famiglia. Andrea non c’era più, ma era come se qualcosa continuasse.
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GUARDARE… PER CERCARE DI CAPIRE COME STARE DAVANTI ALLE SFIDE DELLA VITA
ALESSANDRO CERNIGLIARO
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ALESSANDRO CERNIGLIARO Quando ho conosciuto Andrea eravamo in quarta liceo. È un’amicizia che ricordo proprio come una vena d’oro, un’amicizia nata insieme alla lenta consapevolezza della sua malattia e della sua fatica. Andrea è stato per me la prima esperienza di dolore a cui sono stanco a fianco. Non mi era mai morto nessuno di così vicino… per cui era anche un po’ uno scrutare. Un amico che sta male, uno che viene lì tutti i giorni con una malattia così, senza sensazionalismi… era veramente uno scrutare. L’esperienza di GS ci ha molto avvicinato. Quelli sono stati per me anni mitici, prima di tutto per il cuore che avevamo, poi per i professori che avevamo: veramente una squadra unica, perché Valenti, Doninelli, Manara, Cirni… era una combinazione astrale! E GS era un’esperienza di tutto il giorno, di tutti i giorni, non era separata dalla vita. E con il tempo mi ha fatto conoscere Andrea più da vicino, all’inizio attraverso i rapporti con i suoi amici più cari come la Sara. Sara è sempre stata un’amica privilegiata, c’era tra loro una comunanza di sguardo verso il Mistero, una passione. Capivo che l’avvicinarmi più ad Andrea era una possibilità in più per me. La dico adesso con queste parole, ma fosse stato allora magari non l’avrei descritta in questo modo. Era il fascino della grandezza di una persona. Nel momento in cui la nostra amicizia si è più approfondita è iniziata la fase in cui lui non poteva più stare troppo vicino alle persone, perché le sue difese immunitarie erano molto basse. Perciò uno aveva il desiderio di approfondire, ma al tempo stesso non era fisicamente possibile. Quando era già fortemente provato ha incominciato a scrivere, ad esternare questa sua chiarezza di strada che stava facendo. Così ora posso raccontare la mia esperienza con Andrea: quegli anni di compagnia nella vita, e dopo la morte, la compagnia dei santi. È come se a un certo punto della mia vita fosse entrata 69
questa certezza, questa visione, questo sguardo sulle cose, sulla vita, che non mi ha mai lasciato. Con una certa commozione sto raccontando la cosa più importante che mi è capitata nella vita, che è la compagnia del Signore attraverso questi tratti. Con Andrea non c’è stata l’intimità di un rapporto, ma è stato dirompente. Nel tempo ho capito che la malattia e la morte sono una grande possibilità di capire un po’ di più; ho la grazia di vedere tutto questo come una grande possibilità. Ciò che ho vissuto mi ha consolidato. Come diceva don Eugenio, «in cielo tifano per te…», è così, è così! Siccome Andrea ha vissuto veramente, queste parole di don Eugenio ti si cuciono addosso, si stampano nella mente. Tifano per te, è una compagnia tutti i giorni. È il Signore che ti è vicino. Io il volto di Gesù non so qual è, ma se dovessi disegnarlo – l’aveva fatto Cirni – ho in mente quelle immagini fatte da tante foto minuscole… ecco, quello è il volto. Man mano nel tempo metti insieme tutti quei pezzettini e viene fuori quel Volto. E alcune di queste piccole immagini sono fatte d’oro. Quando al mattino porto a scuola le mie quattro figlie diciamo l’Angelus e poi un Gloria chiedendo a… e faccio l’elenco che diventa sempre più lungo… e le mie figlie mi prendono pure in giro. Diciamo un Gloria a san Pampuri, a santa Gianna, che sono temporalmente recenti, a don Giussani, a Gaudì, che è servo di Dio anche lui (Gaudì l’abbiamo conosciuto attraverso una mostra a Segrate; è un amico, perché uno che ha uno sguardo così…), all’Andrea e al servo di Dio padre Tomas Tyn, che ho conosciuto leggendo un libretto in una chiesa di domenicani a Varazze (è morto a quarant’anni e ha insegnato a Bologna, un uomo spettacolare; è diventato nel tempo anche lui un amico). E dico sempre alle mie figlie: preghiamo loro per tutti coloro che soffrono nel corpo e nello spirito – e così ho tirato dentro tutti, compreso noi – e poi perché il Signore ci dia la grazia di avere un cuore, come questi amici che preghiamo, un cuore che sappia riconoscere quando Lui “accade” nella nostra 70
giornata. Perché se succede questa cosa, dopo uno ricomincia, sempre. Ecco: se devo sintetizzare è questo che chiedo, lo chiedo a loro perché sento che camminano con me. E Andrea è stato il primo. Un’altra cosa che si è generata nel tempo è la stima verso Antonio e Sofia, per come hanno vissuto con Andrea e per come han tirato su la famiglia. Siamo andati molte volte a Monte Marenzo a trovarli, a vedere loro due, anche adesso che Sofia non sta bene, non parla più. È bello stare con loro, è bello vederli insieme: l’amore, il rispetto, lo sguardo che hanno l’un l’altro.
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VIVERE OGNI ISTANTE, “STANDO SEMPRE IN PIEDI” PERCHÉ SI SA DI ESSERE AMATI
SIMONE MAZZONI LILIANA BERETTA
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SIMONE MAZZONI Secondo me è questa densità della vita che si percepiva che ha creato anche tutto il mondo di relazioni che sono nate intorno all’Andrea, perché, se io posso dirla così, è un po’ la dimensione della vita reale, che noi di solito assaporiamo raramente. Invece con lui era un’esperienza unica che è incredibile da dirsi: in quel momento ci stavi, stavi bene, eri contento, anche se non capivi subito il perché. Ci sono tanti esempi: quando stava molto male voleva essere sempre preciso, sempre a posto… Un atteggiamento così spesso può essere visto come qualcuno che vuol quasi far finta di niente. Invece no! Invece – e questo lo dico adesso, non l’avrei saputo dire prima – per Andrea era diverso, forse non l’avrebbe saputo dire neanche lui. Se invece tu ragioni questo è importante, questo non è importante, sto male, quello che non è importante lo lasci andare. Invece con lui non ti veniva mai da dire: «Caspita, stiamo facendo questo, che rottura! Vorrei fare altro». Che non vuol dire che uno non abbia voglia di andare in montagna o a sciare o fare altro, ma vuol dire che, lì dov’è, c’è comunque tutto quello di cui uno ha bisogno. Questo nasceva nella relazione con Andrea. E secondo me in Andrea nasceva una relazione a quattro tra Andrea, la sua malattia, la sua famiglia e Gesù Cristo. La relazione tra queste quattro “cose” rendeva Andrea così, perché se noi eliminiamo una di queste, non è la stessa cosa. Capire come questa alchimia funzionasse credo che non lo potremo mai fare. Però era così, non si può togliere dalla storia nessuna di queste quattro componenti, che poi prendevano forma e vita con gli amici. Sono andato molte volte a casa sua, a tavola avevo il mio posto; ero inserito in questo contesto in cui tutto prendeva questa consistenza. La nostra amicizia è nata fuori dalla scuola, la scuola è stata un veicolo iniziale, ma in realtà a scuola ci eravamo visti ben poco. A settembre, all’inizio di ogni anno scolastico, il Sacro 73
Cuore faceva una due giorni di convivenza e io, dopo la maturità, partecipai ancora, come educatore. Non posso ripetere le stupidaggini che dicemmo in quel periodo… Con Andrea non ho mai fatto niente di particolare – come la Studenti Card, il giornalino – per “n” motivi non abbiamo mai avuto occasione, ci siamo sempre visti in maniera molto amicale, spesso a casa o in ospedale. Quando andavo a trovarlo in ospedale, raccattava su tutto quello che gli avevano portato – cioccolatini, caramelle e schifezze varie – andavamo in sala giochi e giocavamo a carte. Probabilmente con altre persone ha fatto molto di più, però tra noi due c’era una relazione incredibile e sinceramente a tutt’oggi non saprei dare una motivazione. Io mi ricordo benissimo che il giorno del funerale era la mamma che era venuta a consolarci, perché? Secondo me c’è un motivo solo: non era finito niente, cioè per noi amici magari era un po’ più difficile, ma nel rapporto, diciamo così, tra queste quattro entità [Simone sorride: Andrea, la malattia, la famiglia e Gesù, ndr] si è instaurata una dinamica… non saprei esattamente che nome dare, che non si è fermata. Se non sbaglio Kirkegaard avrebbe detto “un movimento”. Quindi sicuramente c’è stato il dolore. Ma secondo me, in Sofia e Antonio, c’era la coscienza che questa cosa non finiva. Cambiò forma, e il cambiamento se è vero è sempre traumatico, ma non finiva. Noi conosciamo un’unica cosa che può cambiare forma e non finire mai: è Dio. Noi diciamo che l’Incarnazione è un Mistero, perché è un Mistero? perché Dio che è immutabile, infinito eccetera eccetera eccetera… prende una forma finita. Quindi è l’Unico che può cambiare senza finire. Ma io stesso, che pure al funerale piangevo come un bambino, dopo è come se già avessi visto, guardato un amico sotto un’altra forma. Infatti io posso dire che la relazione con Andrea non è mai finita; oggi se io guardo la sua foto, io vedo un amico. Io mi sono sposato nel 2004, quindi era passato un bel po’ 74
di tempo. Nel mio album di matrimonio campeggia la foto di Andrea, campeggia tra le foto degli amici. Ma non solo, mia moglie che non l’ha mai conosciuto – ho incontrato mia moglie nel 2002 proveniente dall’altra parte del mondo – lei stessa lo ha voluto: era talmente vera questa cosa che lei ha percepito l’importanza di metterlo tra gli amici: «Qua mettiamo la sua foto». Il senso per me anche di questo mio parlare ora non è la nostalgia, è il racconto dello svolgersi, non dell’essersi svolto, di una relazione. Altrimenti staremmo facendo una delle cose che io odio proprio in assoluto: il parlare della persona deceduta, quando tu vai ad un funerale. Invece non è così. Non tanto tempo dopo la sua morte sono andato a casa sua, perché comunque con la famiglia è rimasto un legame. Un legame che dura oggi. Sofia tirò fuori un crocefisso di legno che don Giorgio Pontiggia aveva regalato all’Andrea. Don Giorgio andò apposta in Trentino a prenderlo e Sofia me lo diede dicendo: «Io sono certa che Andrea l’avrebbe dato a te». Questo mi ha fatto molto riflettere. Ricordo che poi fu buffo: da Brugherio poi dovevo tornare a Milano e feci tutto il viaggio in metrò brandendo questo crocefisso, che era scolpito in legno su un ramo fatto a V [un crocefisso simile sta sulla tomba di Andrea, ndr]. Ora è appeso dietro il mio letto matrimoniale. Voglio dire una cosa, che ci aiuta a capire l’impatto di una storia, che sembra quasi insignificante. Io mi ricordo che, quando Sofia mi ha dato il Crocefisso, oltre a commuovermi profondamente, mi sono sentito quasi in colpa, perché Andrea era morto da pochissimo ed io stavo andando a una festa. E con in mano il Crocefisso pensavo: «Caspita, ma mi è morto un amico e io vado a una festa!». Poi a un certo punto ho guardato il Crocefisso: «Sono un imbecille!». Perché? Perché stavo andando a una festa con un amico e sono andato alla festa tutto contento. Avendo in mano il Crocefisso, era come portarmi dietro Andrea, perché avevo in mano il Crocefisso a cui Andrea era legatissimo. Io non stavo andando a divertirmi, mentre avrei dovuto essere addolorato per lui! No! Perché lui stava con me. 75
Anche questo mi rende difficile ricordare o raccontare fatti, perché il fatto con Andrea era la relazione con lui. Ciò che vale è la relazione con una persona e questa relazione direi misteriosamente, si approfondisce tanto da diventare consistente. I fatti, compresa la morte, non intaccano la relazione, sono accessori. E questa relazione continua anche oggi. A volte se parlo di Andrea qualcuno mi chiede: «Ma è un tuo amico? Eh sì, però non c’è più» e si stupiscono. Per me queste sono le cose fondamentali. Ho fatto conoscere a mia moglie Sofia e Antonio, siamo andati più volte a trovare Andrea. C’è stato come un passaggio, nel senso che se uno sente nominare Andrea e poi incontra Sofia sembra quasi di conoscerla da una vita. Poi magari la vita ti strattona, però il cerchio che si è creato tra i quattro elementi citati prima, rimane. Infatti se vai a trovare Sofia e Antonio – tu puoi andarli a trovare che Sofia sta cucinando e Antonio sta segando un asse o stanno facendo qualcosa di assolutamente banale o Antonio è sdraiato sul divano con il mal di schiena e Sofia è lì seduta che gli fa compagnia … – non è mai banale, non è mai superficiale, anche se parli della spesa, in un secondo tutto si approfondisce. In questi ultimi anni sia per la vita di Antonio e Sofia con la pletora di nipoti che hanno, sia per la vita mia e di mia moglie, abbiamo avuto sempre meno occasioni di incontrarci. Nonostante questo, che ti viene imposto da quello che vivi, da quello che ti accade intorno, appena possiamo vederci è una festa. E adesso te lo dico: devo andare a vedere il mio amico, mi manca. Anche mia moglie ogni tanto mi dice: «Hai sentito Sofia, hai sentito Antonio?». Ricordo, tornando ad oggi: al mio matrimonio, il 21 maggio 2004, avevamo invitato Antonio e Sofia, però avevano un bel po’ da fare, un sacco di nipoti piccolini… Giustamente ci siamo rassegnati al fatto che non potessero venire, anche perché ci siamo sposati a Firenze. Beh, uscendo dalla chiesa ci siam trovati davanti Sofia; sicuramente nel giorno del matrimonio è stato il regalo più bello! 76
Quindi è una storia che continua in me, è presente in mia moglie. La foto di Andrea è in camera con me e ogni tanto lo guardo e gli dico: «E allora… cosa stiamo combinando qua!». Andrea aveva la “consapevolezza di vivere”. Cioè noi siamo vivi, ma non siamo consapevoli di essere vivi. Non so come dire: ogni istante noi siamo vivi e potremmo essere morti, perché basta un inceppo microscopico nel nostro meccanismo che in una frazione di secondo sei morto. Lui aveva la consapevolezza in ogni istante di essere vivo, che sembra quasi un assurdo, difficile da concepire, invece in lui è come se fosse stata sempre presente questa consapevolezza. E quindi se tu sei consapevole di essere vivo in ogni istante, ogni istante lo vivi… «Caspita! Sono vivo! Il bello è che sono vivo! sto lavando i piatti e sono vivo!». Non c’è niente che ti può togliere questo! Quindi anche quando sei sotto chemio… «Sì, sto male… ma sono vivo!». Ma questo non basta! Tutto questo vale, ma deve essere letto nell’ambito di quel quadrumvirato, di quel quadrilatero magico, di cui ho parlato prima. LILIANA BERETTA Mi ricordo questa cosa detta da Antonio, un po’ prima che morisse Andrea e quando Andrea stava molto male. Ed era morto da poco anche il papà di Antonio. Io avevo ventotto anni. Durante un incontro Antonio fece un intervento dicendo che in quel periodo lui aveva proprio sperimentato il fatto che il Signore gli volesse bene. E io la prima cosa che ho pensato è stata che uno per dire così o era matto o era uno che viveva la fede fino in fondo. E io Antonio lo conoscevo. Sapevo che non era né un matto né un visionario, anzi è un uomo molto concreto, con i piedi per terra. Quindi se diceva così in una situazione in cui il figlio stava per morire voleva proprio dire che la fede per lui era proprio un’esperienza: l’esperienza di essere amato. Questo mi ha segnato moltissimo. Io in quel periodo non parlavo molto di me con gli altri, ma il giorno dopo al lavoro ho subito raccontato quello che Antonio aveva detto. 77
Questo fatto è sempre rimasto come un punto di certezza, perché è vero che la fede ti porta a vivere, “stando in piedi” una situazione che è oggettivamente drammatica. Ma “stando in piedi” non per forza di volontà, ma per l’esperienza di essere amato dal Signore e questa è una cosa grandissima.
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IMPOSSIBILE DIMENTICARE
MONICA MASSARI ALBERTO RICCI GIORGIO NATALE BEPPE RESTEGHINI MANUELA BRELICH LUCA LANCELOTTI MARINA GARASSINO
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MONICA MASSARI Per me, anche credo per mia madre che aveva seguito tutto ed era anche venuta al funerale, è stata la consapevolezza, lo dico banalmente, di qualcosa di diverso. Che magari non ho capito al momento in tutta la sua interezza, ma è stato un segno che è rimasto lì, allora e in tutti gli anni che ho vissuto dopo. È come se avessimo visto qualcosa che in qualche modo è entrato dentro di noi, cioè che ci ha cambiato o in quel momento, per come uno l’aveva vissuto, o magari dopo trent’anni. Ma era qualcosa che avevamo visto e che non potevamo far finta di non aver visto. Per tutti. È stato talmente forte, talmente profondo, soprattutto perché Andrea è andato alla radice e per le cose impressionanti che diceva che – come lui stesso affermava – erano il frutto di quello che lui viveva. Per noi è stata la prima forte testimonianza che abbiamo avuto di una fede vissuta proprio con tutta la carne. Ognuno poi è andato avanti, ha fatto il suo percorso di vita, diverso dagli altri, ma quello è qualcosa che c’è stato, incancellabile. È qualcosa di indelebile, ci ha marcato, non puoi far finta che non sia successo. Magari uno nei momenti di maggior debolezza ha visto anche altre strade, ha fatto altre esperienze… però l’Andrea c’è stato. E questo ci sarà sempre, a prescindere dal percorso di vita intrapreso. È un richiamo fortissimo. Di fronte a una cosa così uno dice: ma io chi sono? E soprattutto dove vado? Quello che ho visto nell’Andrea lo posso vivere o no? Ma questo sempre, a meno che uno non sia uno stolto. Andrea è stato forte per noi non in come è morto, ma in come ha vissuto fino alla fine, nella coscienza che forse era l’unico ad avere che sarebbe morto. Anche al funerale c’era molta gente che si era convertita sentendo di lui, ad esempio una suorina che aveva letto di lui e che era dall’altra parte del mondo. Penso che per noi sia stata la prima vera testimonianza di fede. Io credo che, quando ti accade qualcosa di simile, non sempre è facile credere che questo valga anche per te. I Mandelli 80
sembrano la famiglia perfetta; nell’imperfezione di ciò che è successo, sembrano una famiglia di santi, quasi un film, quasi una possibilità che può essere solo per loro. È loro e basta. E tu guardi in ammirazione, ma quasi con distacco, come se questa possibilità non fosse anche per te. L’hanno vissuta in un modo così incredibile, Sofia …che in quel momento era una cosa impensabile anche per qualsiasi mamma. E lo capisco, perché ci vuole una grande grazia per vivere così, oltre alla fede. ALBERTO RICCI La storia dell’amicizia con Andrea è diventata più grande dopo la sua morte, perché eravamo in classe insieme, ci si vedeva, vivevamo insieme quello che si può vivere a diciassette/diciott’anni. Ma tutto quello che è fiorito dopo è molto di più di quello che c’è stato in quei circa due anni al Sacro Cuore, per di più molto assente per la malattia. Quello che è venuto fuori dopo sono stati dei frutti talmente grandi che la mia storia è proprio legata alla sua. È come se il seme che è stato messo da Andrea – oltre che dai miei genitori e da don Giorgio – negli anni avesse fatto crescere una pianta. Ricordo, quando già stava male, la gita che abbiamo fatto a Parigi. Andrea era in camera con me; lo prendevo in giro per il suo pigiama. Proprio in quei giorni il nonno Vittorino è morto. Non c’è stata mai l’idea in me che Andrea fosse sfortunato per quello che gli capitava, anche durante la gita a Parigi. La prima obiezione potrebbe essere proprio questa: “riesce a venire in gita a Parigi nelle sue condizioni… e deve tornare a casa perché muore il nonno!” Ma io ho visto come l’ha vissuta lui… Quando sono tornato a casa, ricordo mia madre che mi ha detto: «Ma proprio tutte a lui!». A me è venuta un po’ una reazione: la può pensare il mondo così, per lui non era così, io lo sapevo che per lui non era così. Io poi avevo conosciuto il nonno, ho visto come Andrea era con lui, come tutti in fami81
glia erano con il nonno – non è che Andrea sia venuto fuori dal nulla, la famiglia gli ha mostrato come vivere le cose in un modo diverso. Ricordo ancora una cosa che può sembrare banale, ma per me non lo è affatto, tanto che a distanza di quasi ventotto anni la ricordo ancora. Eravamo nel giardino del Sacro Cuore e c’era qualche compagna di classe con cui io scherzavo e Andrea mi ha detto: «Come vorrei essere come te!». Ho ancora presente il posto preciso dove eravamo e come mi ha detto queste parole, perché io avrei voluto dirgli: «No, io voglio essere come te!». Nel tempo questa cosa mi ha fatto capire che la grandezza di Andrea era proprio la sua normalità: era un ragazzo come tutti gli altri, però aveva fondato la sua vita su qualcosa che nessuno gli poteva togliere. Quelle parole che mi aveva detto… ecco, lui non censurava nulla. Pensavo che per la sua malattia vivesse in un modo diverso, cioè che dovesse tralasciare qualcosa, che la malattia gli precludesse qualche desiderio. Invece nel tempo ho capito che proprio gli ha spalancato tutto. Pochi giorni prima che Andrea morisse, don Giorgio mi aveva chiesto se volevo andare a casa sua la domenica perché lì avrebbe celebrato la messa. Allora ho telefonato ad Andrea e mi ha risposto Antonio, dicendomi che Andrea non poteva rispondere. Quindi non sono andato a messa. E i giorni a seguire mi sono detto: «No, ma io dovevo insistere, me l’ha detto don Giorgio di andare…». E questo è stato per me un mancato saluto, un ultimo saluto che non sono riuscito a dargli e mi è dispiaciuto. La notte in cui è morto – sapevo che stava malissimo, ma non certo che sarebbe morto proprio quella notte – prima di addormentarmi ho aperto a caso un piccolo Vangelo che tenevo sul mio comodino e leggo: «Se un chicco di grano non muore non porta frutto». Ho chiuso il Vangelo con la percezione che lui stesse morendo. Però mi sono addormentato sereno. Questa vicinanza di Andrea nel corso della mia vita c’è sempre stata, anche nei periodi in cui mi sono distaccato dal movimento. Ho frequentato per venticinque giorni la facoltà di Scienze Politiche, poi ho incontrato Pietro Mandelli che 82
mi ha convinto a lasciare questa facoltà e ad iscrivermi a Giurisprudenza che lui frequentava. In questa facoltà ho rivisto una bella amicizia tra i ragazzi del CLU. Dopo un anno di Giurisprudenza mi sono iscritto ad Architettura – che era in realtà il mio desiderio, infatti ora sono architetto – e dopo tre anni di architettura mi sono trasferito a Roma. Casualmente in un viaggio in treno incontro un ragazzo che faceva Giurisprudenza, amico di Pietro e che lavorava a Roma. E da lì… mi ha invitato alla messa ed è riiniziata un’amicizia. Il legame con Andrea rimaneva. Poteva esserci sopra quel che volevi, ma quel seme che c’era all’inizio era ben piantato ed è bastata un po’ d’acqua per farlo crescere. In modo non formale, in tutti questi anni per Sant’Andrea io telefonavo a Sofia. Ora sento Antonio o qualcuno della famiglia. Questa amicizia continua, c’è. E poi ci sono, diciamo, piccoli miracoli che accadono. Pietro Mandelli un giorno mi dice: «Guarda, tu ad Andrea devi rompere le scatole. Sofia ha detto: “Mi raccomando, siccome lui è un pigro, chiedetegli un po’ di cose, perché se no lui sta tranquillo”. Allora io gli dico: “Andrea, so che nel mondo ci sono problemi più gravi, ma io ho perso le chiavi, fammele trovare”». E io ho detto a Pietro che stavo cercando casa da un anno senza successo e che avrei chiesto questo ad Andrea. Il giorno dopo ho trovato casa. Allora ho chiamato Pietro e gli ho detto: «So che nel mondo ci sono cose più gravi, ma io casa l’ho trovata!». La mia nipotina doveva subire un’operazione molto seria; mia sorella ed io abbiamo pregato Andrea e il chirurgo ha detto di aver trovato una situazione alquanto meno grave di quello che le analisi avevano fatto prospettare. Che poi può essere benissimo che le analisi non potessero rivelare la situazione reale, comunque… qualcosa a qualcuno abbiamo chiesto. Non posso non legare a doppio filo Andrea a don Giorgio, due punti fissi per me, anche il vedere la commozione di don Giorgio rispetto ad Andrea. Mi commuovo solo a ripensarci: 83
come ha raccontato, con gli occhi gonfi di lacrime, dell’ultima sera di Andrea, come l’aveva visto così certo e saldo nella fede. Per noi don Giorgio era don Giorgio, solido e sicuro, ma in quel momento sembrava veramente un bambino, nel senso buono. Era emersa la sua fragilità di fronte a un ragazzo di diciannove anni che guardava al suo Destino in un modo così sicuro da dire: «Ok, va bene, andiamo!». È uscita fuori tutta la sua fragilità, nel senso positivo di tutta la sua umanità, come se avesse visto – che poi rivediamo anche in noi – quanto piccole possano essere le nostre convinzioni se poi sono solo idee e non vissute nella carne. Nel corso degli anni questa tenerezza è come se l’avesse cambiato: la scorza burbera c’era sempre, ma quel lato tenero nell’affetto che aveva per noi è come se fosse emerso di più. Rivedendo un po’ indietro la mia vita è come i puntini della settimana enigmistica che unisci: intravedi un disegno bello che ancora non è terminato e ti viene la curiosità di vedere come va a finire. E ci sono dei punti più grossi che sono quelli che ti fanno cambiare direzione. Oppure, tu non te ne accorgi, ma tra l’1 e il 2 c’è uno dei percorsi più significativi della tua vita. L’incontro con Gesù, volenti o nolenti, ti cambia. Così come era capitato ad Andrea, cambiato in diciannove anni. Ho avuto la grazia di incontrare Andrea e tutta la sua storia. Ho visto e capito nel tempo che quello che ha vissuto Andrea è possibile per ognuno di noi, non solo per lui. Perché, almeno una volta, ognuno di noi ha visto accadere davanti ai suoi occhi, o anche solo sentito raccontare, una vita diversa, più compiuta e più vera. GIORGIO NATALE Nella predica che ha tenuto il don Giuss poco dopo il suo funerale, ha detto: «Per questo è commovente il pensiero che abbiamo di te, sarà sempre più commovente quanto più diventeremo maturi». Riflettendo in questi giorni, capisco che è proprio così: più ci penso e più capisco la portata di quello che mi è successo. 84
A quell’età più che altro era un’intuizione. Non capisci ancora, ma quando vedi uno che vive così, con quello che ha – era un ragazzo! io ero a Fisica e lui era un ragazzo all’Istituto dei Tumori, isolato –, allora ti porti dentro un punto di certezza da cui non torni più indietro. Questo è Andrea per me. All’epoca non avrei potuto dire queste parole. In realtà, di fronte ad alcune sue frasi sulla verginità e la morte oppure «la vita è fatta per essere data» io non capivo neanche cosa stesse dicendo. Non lo capivo allora, ma nemmeno venticinque anni dopo: capisco quanto possa valere il “dare la vita” per qualcosa, ma magari posso dare “tanto tempo”, posso dare “fin qui”, non proprio tutta la vita! L’altra frase che mi ha sempre tanto accompagnato e che capisco sempre di più è «quel che conta accade» che, secondo me, è esattamente quello che era lui. Innanzitutto è una cosa che è accaduta, in secondo luogo non ci sono delle condizioni necessarie perché accada, e non c’è niente che lo impedisca. Ovvero, non ci sono motivi per cui a te non possa capitare o scuse che ti permettano di sottrarti a ciò che ti accade, come al fascino di una umanità così. Ciò che ti deve capitare, e che attendi, accade. Questa sicurezza, detta da lui, capisco che nel tempo non me la sono mai più tolta e capisco che è come una pietra miliare su cui piano piano ho costruito, nel tempo. È la certezza che tante volte viene fuori di fronte a un figlio e alle sue fatiche, quando lo guardi. E devi guardarlo negli occhi e sostenere il suo sguardo. E non puoi dirgli: «Va beh, dai, andiamo avanti». Voglio dirgli: «Io attraverso con te questa tua fatica, ma io sono sicuro che quel che conta ti accade». Che cosa ho io per sostenerlo? Non sono le mie parole – e questo mi sorprende di me stesso. Questo è il punto: questa fatica non toglie l’accadere di quel che conta. Ho visto Andrea lì, nella stanza, al di là del tavolo, nella stanza d’ospedale… Era lui, Andrea, e una vita diversa possibile. Poi la sua compagnia nel tempo è continuata, un po’ perché le sue parole, quelle che ho citato, mi hanno fatto compagnia, e un po’ perché, riparlandone tante volte con Mario Braga, riapprofondisci quello che è successo. E nel tempo sei 85
sempre più commosso perché hai intuito, ci sei andato dietro di corsa all’inizio, ma poi cosa c’era dentro devi ancora finire di capirlo. E questo è il dato interessante del riparlarne ancora a distanza di così tanto tempo. Quando Andrea è morto, ho pensato tanto che avrei potuto andare a trovarlo molto più spesso, però effettivamente durano poco questi pensieri. È più interessante che «quel che conta accade». Per uno come me, a cui vengono spesso questi pensieri su quel che “avrei potuto fare” nel passato, devo dire che è un’altra prova di conferma che mi è successo qualcosa di “tosto”. BEPPE RESTEGHINI Noi abitiamo a Rodano. Agli inizi lì non avevamo ancora la chiesa; c’erano preti di passaggio che celebravano la messa, in un garage prima, poi in una palestra della scuola, però eravamo ancora abbastanza dissestati da quel punto di vista. Passando casualmente dalla chiesa di don Gianni Calchi Novati a Brugherio, abbiamo pensato che quella chiesa potesse essere per noi un punto di riferimento che valeva la pena mantenere. Così abbiamo iniziato a frequentare questa parrocchia. Abbiamo conosciuto i Mandelli, ma Andrea non l’ho conosciuto. Ricordo solo che sono andato al funerale e ricordo solo una frase di Sofia, che ho avvertito mentre stavano portando la bara in chiesa. Sofia ha detto una cosa del genere: “Questo figlio è a posto”. Quando uno arriva a dire così davanti alla bara di suo figlio vuol dire che ci crede, altrimenti per lo meno sta zitto. Collego questo ora alla benedizione della mamma al termine del rito sacramentale del Battesimo: «Dio onnipotente, che per mezzo del suo Figlio, nato dalla Vergine Maria, ha dato alle madri cristiane la lieta speranza della vita eterna per i loro figli, benedica voi mamme qui presenti, e come ora sono riconoscenti per il dono della maternità, così con i vostri figli vivete sempre in rendimento di grazie, in Cristo Gesù nostro Signore». Questo è ciò che Sofia ha vissuto in quel momento. 86
MANUELA BRELICH Quando Andrea ha cominciato a star male, nella mia ingenuità di ragazzina sapevo che aveva un tumore ma non pensavo affatto che finisse così. Vedevi Andrea senza capelli, vedevi Andrea nella sua serenità. Anche quando la mia amica Ilaria ed io siamo andate a trovarlo un paio di volte in ospedale con mascherina e camice – lui era allettato, potevamo star dentro poco, c’era la coda per entrare – gli chiedevamo: “Come stai? Cosa fai? Puoi almeno leggere?”. Lui ci rispondeva: “No, ma non preoccupatevi … e voi?”. Chiedeva a me del mio ragazzo e a Ilaria della scuola. Quando siamo uscite ci siamo dette: “È lui che ha tirato su noi! Ma non dovevamo essere noi a fare questo?”. Quando avevo sedici anni, mi sono “fidanzata” con il ragazzo che ora è il mio ex marito, anche lui molto amico dei Mandelli. Questa esperienza mi ha segnato così tanto che dopo la morte di Andrea ci siamo detti: “Se un domani avremo dei figli e uno fosse maschio, lo chiameremo Andrea”. E il nostro terzo figlio si chiama Andrea. Non come si farebbe in ricordo del nonno, ma in ricordo di qualcosa di importante che è accaduto nella mia vita e dell’affetto che questo ha portato con sé. Portando il suo nome, mi piace pensare che mio figlio porti in sé anche una piccola parte del grande cuore di Andrea. Marta e Vittorino sono stati i suoi madrina e padrino di battesimo. Il giorno del funerale ho nella mente il viso di Sofia: lieto, sereno, sorridente per una certezza. Andrea è sempre presente, anche perché vedo ancora sua sorella e i suoi fratelli. Solo vedere i loro volti me lo ricordano. LUCA LANCELOTTI Negli anni Andrea ha continuato ad essermi compagno, grazie soprattutto a Mario Braga e a Giorgio Natale. Attraverso Mario e poi attraverso la scuola Mandelli abbiamo conosciuto anche Antonio e Sofia. Siamo andati più volte a Monte Marenzo e siamo tornati anche recentemente, perché i nostri figli in questi ultimi anni hanno fatto un torneo di pallone, proprio lì di fianco al cimitero e così siamo andati di nuovo a trovarlo. 87
È impressionante quanto è vivo nella memoria, non nel ricordo, ma nella memoria. Ed è tuttora considerato anche da noi come un amico. È stata una conoscenza fugace, ma se poi ci pensi gli istanti della vita che ti restano stampati nella memoria, sono veramente pochi. E quello c’è. MARINA GARASSINO Tantissima gente si è convertita incontrando Andrea, pari alle persone che c’erano al funerale (circa tremila persone) e alle persone che non c’erano e che l’hanno conosciuto per testimonianza di altri. Quando Andrea è morto, è stata allestita una camera ardente in casa. Sofia ha chiamato noi, i suoi amici, invitandoci ad andare a pregare. Quando siamo arrivati – eravamo in sei o sette –, Sofia ci aveva preparato le torte e una sorta di festicciola. Noi eravamo arrivati lì pensando di consolare Sofia. Sofia era trasfigurata! Se io penso di Andrea che fosse un santo, lo penso anche di Sofia, perché Sofia non è una persona normale. Io ero distrutta, non riuscivo a farmene una ragione, sentivo solo la perdita di un amico, di una persona per me fondamentale. Sofia aveva preparato le torte perché diceva che era un giorno di gioia. Se suo figlio era così è perché ha avuto una madre santa. Quando siamo andati a Monte Marenzo a seppellirlo, Antonio era più sofferente, piegato dal dolore e sempre trainato da Sofia, si lasciava trainare, mentre Sofia era trasfigurata: una donna felice di aver consegnato il figlio nelle mani del Signore. Che grazia! Andrea non ha scavato soltanto in me, ma ha aiutato tanto anche i miei genitori nel momento della loro malattia. Il giorno in cui è morto ho domandato al Signore: «Non fare che nella mia vita ci sia un solo giorno in cui io non pensi a lui». È proprio così: io non ho più mia mamma e non ho più mio papà, mi capita di passare dei giorni in cui non penso a loro, ma non esiste giorno in cui non pensi ad Andrea. Dopo il funerale siamo partiti per la vacanzina invernale 88
dove Antonio e Sofia ci hanno raggiunto. Credo che quella sia stata la loro prima testimonianza. Ho sentito tantissime volte la cassetta con la registrazione, perché quando avevo le mie paturnie mi dicevo: «Adesso resetta tutto, che la vita è un’altra cosa. Ripartiamo da zero». Sofia mi ha aiutato tantissimo quando è morta mia madre (ho perso i genitori molto presto). Sofia ha cresciuto suo figlio nel senso pieno del termine; ha tanti figli, e dopo la morte di Andrea ne ha avuti ancora di più. Tutto per me è stato importante – don Gabriele gli amici, le persone che ho incontrato –, ma Andrea è stato la mia strada senza ritorno.
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LA COMUNIONE DEI SANTI: LEGAME ETERNO TRA IL CIELO E LA TERRA
RAFFAELLA LANCELOTTI PASINI LILIANA E LUCIANO PAOLA MONTORFANO LAURA E ALBERTO TRIMARCHI NANDO AMETRANO
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RAFFAELLA LANCELOTTI Ho il ricordo di una vacanzina invernale. Ero al liceo Omero a Bruzzano, forse il secondo o terzo anno. Noi eravamo una piccola comunità di GS e abbiamo fatto questa vacanzina con il Sacro Cuore ed era una delle prime volte. Conoscevo bene i giessini della Fontana, ma un po’ meno quelli del Sacro Cuore. C’era don Giorgio e mi ricordo dell’Andrea perché era già malato: si riconosceva perché già non aveva più capelli. In particolare lo ricordo per l’amicizia molto diretta e stringente con don Giorgio, che mi aveva impressionato perché comunque don Giorgio era uno che rimproverava, era uno che faceva la voce grossa. Quindi vedere questo affetto e nello stesso tempo questa libertà da parte dei ragazzi di accogliere queste “strigliate”, anche con Andrea così, era una cosa impressionante. Io in quella vacanza non avevo conosciuto tanto Andrea, perché guardavo un po’ a distanza, osservavo, stavo di più con i miei amici. Però mi avevano colpito questi due rapporti molto forti, tra don Giorgio e Andrea e tra Mario e Andrea. E poi comunque si vedeva che Andrea era uno che chiedeva tutto alle piccole cose che si facevano. Anche i suoi interventi erano molto vivi. Dopo la vacanzina che per la prima volta facemmo con il Sacro Cuore, ci diedero la notizia che Andrea era morto. In GS era girato un libretto azzurro, che conteneva anche i suoi scritti e che mi è diventato molto caro. Bellissimo! Negli anni, quando Mario è venuto a fare la fraternità con me, mio marito e alcuni miei amici, noi abbiamo conosciuto meglio Andrea attraverso di lui. La cosa che mi ha sempre molto colpito è che per Mario questa amicizia che mi aveva così impressionato quando eravamo ragazzi, durante quella ormai lontana vacanzina, quando avevamo più o meno diciassette anni, non era mai finita. La morte non aveva interrotto questo rapporto di amicizia. Anzi, anche se nella fatica e nel dolore, l’aveva come trasformata. Abbiamo incominciato a vivere anche noi questa amicizia, insieme a Mario. Si va spesso a Monte Marenzo a trovare l’Andrea, magari gli si chiede per i nostri figli o per i figli dei nostri amici più in difficoltà o anche per le cose più normali 91
della vita. Questa amicizia non è proprio mai finita e questo continua ad affascinarmi: è una verifica in atto, un toccare con mano una delle grandi promesse a cui io tengo, cioè che le cose sono per sempre, che le amicizie son per sempre. Vedere che è possibile che tra due che ho conosciuto e che conosco questa cosa non è stata interrotta neanche dalla morte, è sicuramente una cosa che mi colpisce e che mi affascina. Misteriosamente, perché non saprei spiegarla diversamente, però è una cosa che c’è, presente nella vita di Mario evidentemente, ma poi pian pianino anche nella vita nostra. Attraverso l’amicizia con Mario, l’amicizia con Antonio e Sofia, Andrea non è un ricordo nostalgico, è proprio un richiamo a ciò a cui tengo io. Ci pensavo anche ieri sera: che cos’è questa cosa che tiene in piedi un’amicizia anche dopo la morte?! È proprio questo: deve essere un’amicizia che coinvolge una terza Persona, se no è una cosa che non può durare, perché oggettivamente la vita ti porta a dimenticare o a guardare altro. Siccome in questa amicizia c’era a tema chi era questo Gesù che era venuto incontro a tutti e due … questa cosa non si è mai interrotta: Magari uno è già compiuto e l’altro è ancora per strada, però questa ricerca c’è ed è questo ciò che tiene unita questa amicizia, che poi è la stessa cosa che tiene unite le nostre amicizie, anche qua [testimonianza resa a Pallesieux, durante una breve vacanza estiva per adulti e famiglie, ndr]. Ricordo un pomeriggio a Monte Marenzo, che con Mario eravamo andati a trovare Andrea. Sofia era venuta con noi e avevamo fatto un canto insieme al cimitero. Ho questi due flash: usciti dal cimitero Sofia ci dice «Dai, andiamo a dire una preghiera in chiesa» e siamo andati. Lei è una che desidera tutto e chiede tutto, nel senso che ti chiede sempre un passo in più. E questa cosa mi aveva colpito perché è una che non si ferma mai. E poi mi ricordo che avevamo Simone piccolo, avrà avuto tre o quattro anni, e Giovanni che avrà avuto all’incirca un anno. Allora avevamo solo due figli. Siamo andati nella loro casa che aveva costruito Antonio, in mezzo a questo grande prato. Siamo andati a far merenda lì, abbiamo preso le torte, bevuto il tè… ricordo questi due caratteri lei angelica, gentilissima attenta a tutto; lui un po’ orso, che non sta lì tanto 92
a guardare la torta, il tovagliolo, però fantastico, perché poi ricordo i miei figli conquistati. Antonio li ha portati giù nel suo laboratorio di falegnameria e ha fatto per loro un cavallino in legno, ricavato da un asse, con l’occhio disegnato con il pennarello e loro erano rimasti conquistati completamente perché primo aveva dedicato loro del tempo, secondo perché aveva fatto qualcosa per loro. Ed erano tutti felici. LILIANA E LUCIANO PASINI Con molta sorpresa Andrea venne proprio da noi a chiedere di essere suoi padrino e madrina. Non ce lo aspettavamo! L’amicizia con la famiglia Mandelli era un’amicizia abbastanza fresca e che Andrea fosse venuto personalmente a chiedere a noi è stato commovente. Luciano: La faccenda è che dopo, quando lui è entrato in questa situazione di malattia, ci ha spiazzati proprio: «Strano, proprio quel ragazzo lì che è venuto a chiedere a noi di fare da madrina e padrino di Cresima… adesso è lui che ci fa vedere, è lui che ci mostra come si fa ad affrontare questa salita!». Che non l’abbiamo ancora affrontata e ogni volta che ci penso mi viene una paura tremenda! Faccio fatica ad andare ad analizzare quello che è successo, si vorrebbe quasi andare a scavare qualcosa che invece è dentro il Mistero di Dio. Prima o poi sicuramente il disegno di Dio su tutti noi e su di lui verrà fuori. Quindi bisogna solo avere la pazienza che arrivino i segni, che arrivi il segnale. Perché io di Andrea non ricordo niente, eccetto il suo modo di vivere e questo suo modo di affrontare la morte. Liliana: La morte di Andrea aveva turbato i giovani e i bambini della parrocchia. Facevo la catechista e ricordo di aver detto: «Bambini, guardate, ci aveva scelto per essere padrino e madrina, perché lo aiutassimo nel cammino della vita. Non avrei mai immaginato che lui sarebbe diventato maestro su come vivere e affrontare la morte». Sono convinta che quando verrà il momento anche per noi, non potremo dimenticare! Ci verrà in mente sempre Andrea. 93
PAOLA MONTORFANO L’amicizia con Andrea è storia, c’è sempre stata in casa nostra, fin da quando erano piccoli i Mandelli. I Mandelli sono i primi che abbiamo conosciuto quando abbiamo preso casa all’Edilnord: una bella fila di fanciulli, di ragazzi, con in testa Marta, unica femmina. Andrea era un bambino, aveva un anno di più della mia Chiara. Sono diventati amici presto, prestissimo e in casa mia, insieme anche a Giorgio, mio figlio, che ha qualche anno più della Chiara, hanno giocato tantissimo. Abbiamo un bel ricordo di una settimana in montagna dove le nostre due famiglie hanno percorso di rifugio in rifugio tutta l’Alta Via delle Orobie, divertendosi al massimo. Poi a casa mia ci si trovava spesso anche a mangiare, finché alle superiori Andrea ha cominciato a frequentare il liceo scientifico di Cologno e Chiara l’anno dopo è subentrata e ha avuto dei problemi grossi in questo liceo. Andrea poi era stato bocciato, quindi si è trovato a frequentare lo stesso anno di liceo di Chiara. Appena iniziata la terza liceo, per Chiara le cose non andavano bene per niente. Allora io ho preso una importante decisione e mi sono incontrata con don Giorgio Pontiggia, perché per lei ho pensato proprio solo al Sacro Cuore. Così, subito dopo Natale, Chiara ha cominciato a frequentare la terza liceo del Sacro Cuore. È stata aiutata completamente dai compagni, soprattutto da Giacomo Aletti, che l’ha presa sotto l’ala e le ha insegnato la matematica, sensibilizzato dai professori. Intanto Andrea proseguiva al liceo di Cologno, però continuava a non andar bene negli studi. Allora un giorno ho visto Antonio in chiesa, gli sono andata incontro e gli ho detto: “Antonio, per favore pensaci, pensaci! Guarda che la Chiara sta risorgendo al Sacro Cuore”. Non c’era bisogno che io insistessi a parlare del Sacro Cuore perché Antonio conosceva bene la scuola. Un giorno a scuola ho visto Andrea, che era stato accettato al colloquio di inserimento. Venti giorni dopo che Chiara era arrivata lì è arrivato anche Andrea, nella stessa classe guidata dal prof. Valenti di lettere, quindi hanno incominciato questa 94
scuola insieme. Solo che Andrea aveva una personalità… insomma, se Chiara era risorta da un punto di vista scolastico, appena appena riusciva ad arrancare con l’aiuto dei compagni, Andrea si è inserito in modo splendido con tutti, e tutti lo hanno ammirato. È stato un leader, e la Chiara naturalmente lo guardava. Mi ricordo un colloquio qui a casa mia: eravamo seduti sul divano, non ricordo l’argomento, ma so che è stato la guida, la guida per Chiara. In quarta si è cominciato a capire che Andrea non stava bene: lo guardavamo camminare davanti a noi, zoppicando. Poi un po’ alla volta è scoppiato il problema. L’ultima volta sono stati alla gita scolastica a Parigi, e Andrea, che era già in chemioterapia, era già bello rapato. Ha cominciato ad assentarsi da scuola, ma appena poteva ci andava, tant’è che anche sotto chemio non lasciava perdere gli amici. Chiara ha avuto un dolore terribile che l’ha maturata dentro. Lei è un tipo un po’austero dentro di sé, non era una che tirava fuori quello che provava. Io la vedevo soffrire, come anche gli altri miei figli Alessandra e Giorgio. Poi hanno vissuto con fede questo, perché sono stati aiutati, accompagnati da tutto l’ambiente intorno che ha rafforzato la loro appartenenza al movimento, a cui tuttora appartengono. Chiara ora ha due figli: il maggiore, Edoardo, di sei anni, è iscritto alla scuola elementare Andrea Mandelli. A Natale di solito Sofia fa una testimonianza ai bambini della scuola per raccontare chi era Andrea, per spiegare loro come mai la scuola porta questo nome; ma quest’anno non poteva farlo e così la direttrice ha chiesto a Chiara di sostituirla. Chiara non è una parlatrice, però è andata nella classe di Edoardo, prima elementare, a raccontare di Andrea che era un suo grande amico.
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LAURA E ALBERTO TRIMARCHI Alberto Chi mi ha fatto conoscere veramente Andrea è Mario Braga che ci è sempre stato vicino per la storia di nostro figlio Luca. Siamo andati in vacanza nella sua casa in Sardegna nel 2004, quando Luca aveva due anni. Dal quadro clinico originario di Luca non c’erano certezze sul suo sviluppo. Mario ha sempre avuto un’attenzione particolare nel guardare Luca, come tanti amici della nostra fraternità. Abbiamo scoperto, nel tempo, che pregavano per noi. Tornavamo a casa dalla Fraternità e pregavano perché potessimo essere sereni. Mario ci ha sempre raccontato di tutto riguardo ad Andrea. E così Andrea è diventato anche nostro amico. Un amico ti racconta di un altro amico e quando lo incontri dici: “Oh, ma noi ci conosciamo già!”. Laura I nostri figli frequentavano la scuola Mandelli e io avevo il desiderio di affidarli all’Andrea. Quando Matteo, il nostro figlio maggiore, aveva iniziato da poco la prima elementare, Mario ci ha detto: “Vado a monte Marenzo. Venite anche voi?”. Quella volta lì abbiamo fatto una merenda insieme e poi siamo andati a dire il rosario davanti alla tomba di Andrea. C’erano altri bambini oltre ai nostri: Mario con la sua famiglia, i Lancelotti… A un certo punto Sofia, raccontando di Andrea ai bambini, ha detto loro: “Vedete, bambini, io so di essere molto fortunata, perché sono certa che mio figlio è in Paradiso…”. E io questa cosa non la dimentico. L’anno dopo siamo ritornati; iniziava la prima elementare Luca e volevamo affidarlo doppiamente ad Andrea. Era proprio una scommessa per Luca l’inizio della scuola. E ancora una volta abbiamo incontrato Antonio e Sofia. Per noi è stato proprio importante… l’Andrea ha seguito bene il Luca! Alberto Lavoro vicino a Merate [al tempo in cui è stata resa questa testimonianza, ndr] e sono andato tante volte anche da 96
solo. La pausa pranzo al lavoro dura fino ad un’ora e mezza: se posso mezz’ora andare e mezz’ora a tornare, arrivo a Monte Marenzo, sto lì e dico il rosario. C’è stato un periodo che andavo molto spesso, quasi tutti i 30 del mese. L’altro giorno sono andato con un collega, poi c’è nostra cognata che ha un tumore e ormai… avevo bisogno anch’io per me stesso, sto cercando di cambiare lavoro. Insomma un bel po’ di cose da affidare ad Andrea. Mi piace tanto andare lì: il viaggio, il rosario… in pace. L’altra mattina ho incontrato un mio collega e l’ho invitato a venire con me a Monte Marenzo, abbiamo recitato il rosario e siamo tornati indietro. Quello che poi abbiamo sperimentato è anche l’amicizia con Antonio, pur essendo fuori dalla continuità della scuola, sa sempre tutto del Luca, quando lo incrocio poi me lo racconta. Abbiamo fatto un video da mostrare a scuola con tutto il cammino fatto da Luca alla Mandelli, dalle elementari alle medie, con la carrellata degli amici che ci hanno aiutato in questi anni. E alla fine abbiamo messo le foto di Antonio e di Andrea. NANDO AMETRANO Non ho conosciuto Andrea direttamente. Mario Braga mi ha sempre parlato del suo più grande amico Andrea, come di un amico presente. Mi parlava di Giorgio N. e mi parlava di Andrea e non si notava nessuna differenza rispetto al fatto che Giorgio è vivo e Andrea è morto. Mario ci ha invitato più volte a trovare Sofia e Antonio a Monte Marenzo. Mi sono trovato di fronte alla tomba di Andrea un paio di volte in anni consecutivi con una forte preghiera nel cuore, tanto che in qualche modo ho cominciato a sentirlo amico, soprattutto in una frase: «Pericolo di vita e di morte. Sempre». È di una radicalità che sento consona a me. Fatico a fare le cose tanto per farle e queste parole mi hanno sempre molto affascinato e provocato. Un paio di anni fa inizio a lavorare con un consulente che è Michele Mandelli. 97
Durante questi ultimi due anni vivo un particolare periodo lavorativo, con alti e bassi; passo da momenti di grande esaltazione a momenti di grandissima frustrazione, con il rischio alcune volte di diventare cinico. Ma ho il pungolo della presenza di Michele e attraverso Michele del richiamo di Andrea che in qualche modo ha messo come un segno … mi ricordo della tua preghiera, so che cosa ti sta a cuore. Questo che mi è capitato fa sì che io non possa schiodarmi di dosso l’impressione che comunque il Signore non si distrae, anche se negli alti e nei bassi che mi succedono io sono tentato spesso di dire: «il Signore si è distratto oppure le cose della vita si giocano su un altro livello…». Ma poi mi dico: «Come? Non vedi che Andrea ti ha già risposto facendoti conoscere suo fratello?». È chiaro che questo tu puoi facilmente dismetterlo come una casualità. Certo non è un miracolo incontrovertibile, ma, rispetto alla tentazione di essere cinico, resta come una spina nel fianco. E perciò non posso dire che, anche attraverso queste specifiche problematiche di lavoro, il Signore non dimostri la Sua tenerezza nei miei confronti e me lo dimostra con un volto che pur non avendo conosciuto mi è caro. Mi sento vicino Andrea, con quella nota caratteriale, non come un raccontino o un idolo, ma come un uomo con questa connotazione particolare del «Pericolo di vita e di morte. Sempre», cioè bisogna sempre fare sul serio. Anche quando si scherza, si gioca, si sta con gli amici, quando sei rammaricato, quando ti vuoi arrendere o quando le cose vanno bene e senti che ti inorgoglisci… In genere la parola “pericolo” genera una allerta. Ma non c’è solo il pericolo di morte, ma anche di vita: tu non lo sai ma puoi fare un incontro risolutivo, rivelatorio, puoi incontrare il Signore quando meno te lo aspetti. Ti tien desto, non perché è una preoccupazione moralistica – stai attento a non sbagliare – ti tien desto perché “stai attento a non perderti la vita”. Poi c’è questa cosa di Mario Braga. All’inizio pensavo – dico i pensieri che mi hanno attraversato la testa – questo qui è fissato, ha una fissazione, ti dà il libriccino azzurro di Andrea, i pamphlet su di lui, la sua immaginetta etc … Però dato che tu 98
vuoi bene a Mario, allora incominci a leggere e guardi come ne parla. Da Mario ho imparato questo: per lui Andrea è letteralmente presente. Sinceramente in questo momento, se uno mi chiedesse qual è l’esempio più forte che tu hai di comunione dei Santi? io devo dire la presenza di Andrea Mandelli per come mi è comunicato da Mario.
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CHIUNQUE VIVE E CREDE IN ME NON MORIRÀ IN ETERNO Gv 11,26
MARIO BRAGA GIACOMO ALETTI IGOR VANINI
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MARIO BRAGA Negli ultimi giorni della sua vita, un pomeriggio, tornando dall’università, chiamo a casa sua e mi risponde Andrea; rimango bloccato, senza parole, e lui mi dice: «So che è un momento faticoso, che ti ha lasciato la tua ragazza, ti sono vicino, ti abbraccio». Questa è stata l’ultima volta che l’ho sentito: stava morendo e aveva a cuore me. In quei momenti lui ha avuto a cuore i suoi amici. L’idea di dare la vita per loro era per lui un punto molto chiaro, come lo era quando ci divertivamo. Quando morì io ebbi una grossa crisi, non spirituale, ma un grosso dolore, e non mi pacificò il dire: «Guarda, è morto alla vigilia di sant’Andrea». Ero in Cattolica quando seppi che era ormai alla fine, passai quel giorno in chiesa tutto il tempo a pregare e piangere, chiedendo la grazia per Andrea. Il Signore non poteva esaudirci. Andrea ci aveva già mostrato completamente il volto di Cristo, aveva dato tutto sé stesso, era compiuto il suo cammino nella gloria dell’esistenza. Fu un grandissimo dolore, una grandissima ferita. Il giorno del funerale, dopo la messa di don Gianni, in mezzo a una moltitudine di gente, uscimmo fuori e non si riusciva neanche a ritrovare e ad abbracciare gli amici, tanto era traboccante il numero di persone, superava la vista. C’erano tutti, anche persone che l’avevano incrociato per brevi istanti, e questo mi colpì molto, anche negli anni successivi, quando si faceva la messa di suffragio a Monte Marenzo. Fu un grande dolore. Ricordo che passai giornate intere in camera mia, disteso a letto. Fu una ferita grande. Una ferita che rimane nella sostanza, nel senso che pian pianino cominciò a emergere il gusto del tempo passato con lui. Questo gusto fu la cosa che più lasciò aperte le domande e mi mise in moto rispetto a me, alla mia vita, ai miei amici, al fatto che ero già nel movimento da tanti anni e che quindi non avevo problemi di fede. Però rimase il mistero di questo gusto straordinario, di questo ricordarsi delle giornate con lui nel dettaglio: cioè le cose che erano successe non solo non si dimenticavano, ma è come se, andando avanti nella coscienza, nel cammino del movimento, capissi sempre di più gli episodi che erano capi101
tati con lui. E quindi incominciai a capire le ragioni di quello che stava dentro a ciò che appariva solo come un gusto, ossia il significato del tempo che avevo passato con lui. E questo sempre di più. Così successe e succede una cosa strana: cominciai ad andare su a Monte Marenzo – io non conoscevo i suoi genitori, Antonio ci aveva portato un paio di volte a sciare e per me era stato l’autista – e tutte le cose, anche negative, che capitavano nella mia vita non riuscivano mai ad essere determinanti. Alla fine di queste giornate di sconforto mi veniva in mente l’Andrea, e la positività di questo ragazzo era tale che non riuscivo più ad avere un giudizio negativo. Ripartiva subito la speranza. La testimonianza di una presenza era così determinante che mi costringeva a dire: io sono contento della vita e riparto. L’amore che aveva verso di noi ci ha trapassato. E ora, dopo quasi trent’anni da quando l’ho conosciuto, la sua amicizia è sempre più pressante, da rompipalle, tanto era amichevole Andrea, tanto il suo sorriso rompe costantemente, persiste costantemente. Tutte le volte che vado a trovarlo al cimitero, passo dai suoi genitori. Suono il campanello, entro nella casa di Monte Marenzo e trovo Antonio che sta lavorando il legno e sta facendo le sue cose e Sofia che mi prepara subito un buon tè. Ho sempre voluto terminare la cena con gli amici della Fraternità o con amici appena conosciuti che venivano a casa mia dando loro il libretto azzurro dell’Andrea, raccontando di lui. Per capire quello che c’è di buono in me, rispetto ai tanti enormi limiti che ho, bisogna in qualche modo conoscere Andrea. Il motivo per cui val la pena di stare con me c’entra con quel ragazzo lì. Tutte le volte che vado dall’Andrea c’è da affidargli un lavoro, da chiedergli qualche grazia: per qualche ragazzo malato o sofferente o in difficoltà. Glielo affido. Conoscendo il carattere di Andrea, lui sa come sdrammatizzare queste situazioni, prenderle in carico con gioia. Andrea è un alleato di tutte le cause perse per il mondo, dove ci sia un dolore che deve diventare una cosa gioiosa. Andrea è un punto di verità, perché tutte le volte che vado su c’è 102
una domanda che lui pone immediatamente a me. Sembra che sia lì e mi dica: «A che punto sei con il tuo sì totale a Cristo?». Allora uno chiede perdono e chiede aiuto. E si rimette a camminare. È come se richiarisse sempre l’obiettivo della vita, il desiderio verso cui cammino. È un punto di amicizia concreto, ecco. È come un amico che si incontra la sera tornando dal lavoro o al caffè del primo mattino e che ci ricorda per che cosa viviamo. Non ho mai avuto troppa paura di aver nostalgia dell’Andrea. Un po’ per come sono fatto io: alle persone a cui si comincia a voler bene si desidera voler bene per sempre. E poi perché la nostalgia ti pone una domanda su cosa è stato, e su cosa farai domattina, suscita l’attesa. Mi commuove più adesso che allora, perché è diventata sempre più grande la coscienza dei passi che aveva fatto Andrea e che mi trovo oggi ad affrontare. Tutta quella leggerezza che aveva ci ha come aiutato a non drammatizzare prima del tempo ciò che gli stava accadendo, a godere dell’esperienza che si stava facendo insieme. Io penso che lui sia stato in qualche maniera riservato, tranne che nella forma evidente della sua pelata, perché portava un carico più grande, perché offriva la sua vita per i suoi amici, ma non aveva il desiderio di appesantirli. Io penso che dentro questa sua leggerezza ci sia stata anche questa amicizia franca. Penso. Io sono certo che Andrea sia santo, così come sono certo che abbia già fatto dei miracoli: non so in che forma, tangibili o di ricostruzione umana delle persone. Io ho la memoria fisica di quello che lui aveva addosso – la sua giacca a vento grigio azzurra – e sono sicuro che Andrea ha una consistenza “fisica” di santità e di bene per me e per le persone per cui intercede dal Paradiso. Abbiamo avuto bisogno di tempo per capire la Grazia che avevamo ricevuto. Sofia è forse l’unica che ci ha fatto continuamente capire che non c’era da perdere tempo, che tutto era già positivo. Sofia l’ho conosciuta dopo e con lei è nata un’amicizia straordinaria: io riconosco in Sofia la sensibilità di Andrea, cioè la 103
capacità di vedere l’Invisibile da una parte e dall’altra, la capacità di rendere presente l’Infinito, per cui quando preghi con lei ti rivolgi personalmente a Gesù, sei sicuro che stai parlando con Uno. In lei c’è la stessa attenzione all’istante presente, nel particolare, che aveva anche Andrea. Andrea e Sofia si assomigliano in questa attenzione assoluta all’altro, nel particolare che sta vivendo in quel momento. In questo sono molto simili. Due che non vedi mai arrabbiati, ma sorridenti. E gioiosi. GIACOMO ALETTI Poco prima che morisse ci era stato vietato di andare a trovarlo, a vederlo, e questo mi era pesato molto, anche se qualche professore e la Sofi alla fine ci dicevano di andare comunque, perché sapevano della nostra amicizia con lui. In quel periodo andavo a messa ogni mattina a scuola nella chiesa situata all’interno del Sacro Cuore. Una mattina arrivo e trovo la chiesa strapiena, allora capisco al volo cosa è successo. Alla fine della messa esco e vado verso il motorino pensando: «Io oggi torno a casa». Arrivato davanti allo scalone della scuola, mi sono fermato e sono entrato in classe. Mi ricordo di essermi chiesto: «Dove sto andando? Sicuramente la verità di quello che ho vissuto adesso passa dal salire queste scale!». Capisco che questa amicizia dall’inizio sia stata data per una verità della vita, perché venisse fuori che cosa veramente era un’amicizia, che cos’era lo studio e che cosa fosse la vita. Anche per questo, seppur inconsciamente, il primo giorno ero andato a trovarlo in ospedale. Con lui c’era un livello vero, e questo, come tutte le cose belle della vita, mette in ordine tutto il resto: uno si veste meglio, per esempio, ma non perché ci pensa… Io non ricordo grandi discorsi fatti con lui. Un’altra cosa che mi ha lasciato Andrea è una familiarità con la sofferenza e con la morte, che mi ritrovo addosso anche adesso. Le tragedie di cui sento parlare o che leggo sui giornali – uno ha lasciato il figlio in macchina ed è morto, era una persona che conoscevo – sono cose che spaventano, che allontanano. Invece, per la storia con Andrea, mi viene subito 104
da dire: «Vado a trovare questa persona», non mi allontano. L’amicizia vera è che l’altro è come deve essere. Perciò se questo passa dalla malattia, la malattia poi fa parte della vita. L’amicizia con lui è sempre stata una certezza crescente del fatto che non poteva finire. Per cui alla fine, il giorno in cui è morto, nel dolore, ho dovuto decidere se quella cosa lì per me finiva oppure se la vita diventava ancora più vera. Quando è morto anche mio fratello Stefano, ho capito un’altra cosa: che il dolore che uno prova, l’angoscia che uno prova, è la battaglia che il cuore fa perché non si rassegna al fatto che tutto finisca. Il dolore che uno prova è proprio questa lotta che uno ha dentro, va vinta. Se fossimo rassegnati al fatto che tutto finisce, non ci sarebbe niente che ci lotta contro. Questo l’ho capito bene dopo. Forse anche per questo non sono legato nostalgicamente ad Andrea. La mia vita dipende tanto dalla storia con lui, ma non ho né rimpianti né malinconiche memorie. Dolorose sì, ma malinconiche assolutamente no. Prego Andrea tutti i giorni: chiedo a lui, non per lui. IGOR VANINI Ho incontrato Andrea a scuola, al Sacro Cuore. L’occasione di questo scambio con lei [lettera all’autrice dall’Irlanda, ndr] mi aiuta a fare mente locale e mi ha rimesso in mano il libretto9. E di questo Le sono grato. Andrea portava con sé una letizia che era avanti anni-luce.
9 Il “libretto azzurro”, menzionato anche nel libro, è un libretto di circa 30 pagine intitolato Una grande grazia che, subito dopo la morte di Andrea, fu realizzato da amici e insegnanti con tutto ciò che riuscirono a mettere insieme (alcune lettere, scritti e fotografie) in brevissimo tempo. Vinse in loro l’urgenza di comunicare ciò che avevano vissuto più che la necessità di ordinare strutturalmente tutti i documenti. Di questo furono grate migliaia di persone a cui questo libretto arrivò e che scosse molte coscienze. E di questo siamo grati anche noi oggi, perché il libretto azzurro, inglobato nel nuovo libro Ti regalo la mia molla, è entrato a far parte dei documenti più importanti della vita di Andrea.
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Così grande dentro di sé che usciva anche fuori da sé. Questo fatto sicuramente pone delle domande, che vorrei sempre essere aiutato a ripormi io stesso. Le poneva allora, subito dopo quando andò in Cielo, e poi ancora dopo e ancora adesso. I primi frutti a mio avviso già si vedevano: ad esempio la letterina disarmante di “mamma di Licia” oppure quella di Daniele M. presumo collega e/o conoscente dell’Antonio o alcuni dei pensieri come quello di Anita10. Queste presumibilmente sono tutte persone non necessariamente del movimento di CL eppure catturate, sicché anche io sono di nuovo colpito rileggendo queste cose. Le parole di Andrea mostrano di certo qualcosa di “oltre”, non costruibile – non credo di avere le traveggole – con capacità umana. Tutti gli altri scritti, a lui indirizzati, di saluto e di ringraziamento, non fanno altro che confermare questo: una Luce vista. Chi gli scrisse lo fece, coscientemente o meno (più il secondo caso che il primo, secondo me) perché “irradiato/ raggiunto”. L’omelia di Don Giorgio sul libretto mi aiuta molto; guida molto bene a guardare la vicenda dell’Andrea. L’«Ok, va bene, andiamo!» mi verrebbe da dire che sia sulla stessa identica linea di don Giussani che disse ai presenti di cantare Noi non sappiamo chi era, ma forse quella di Andrea fu ancora più slanciata e di corsa, rivolgendosi in modo diretto a qualcosa/ Qualcuno. ParlandoGli. Per dirla chiara e tonda per come la percepisco: di cause di beatificazione non me ne intendo, ma il punto che credo si dovrebbe metter a tema è quello, altrimenti anche questa bella raccolta di scritti, interviste, libelli vari, etc., laddove non sia compendio alla descrizione di una obbedienza al Signore pienamente avvenuta, non sarebbe in grado di descrivere in modo completo la vicenda dell’ Andrea. E non so, quindi, quanto sarebbe veramente utile. È importante vedere e ricevere testimonianze come la sua perché ci aiutano nelle giornate: Queste lettere sono presenti nelle testimonianze dei genitori e nel capitolo “Lettere”. 10
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il lavoro (per chi ce l’ha), le cose da fare, i casini e i non-casini. I Santi servono per vivere – per me perlomeno. Quel che voglio dire è che, a mio avviso, l’Andrea è stato un esempio di affezione e testimonianza al Signore e lo scopo di raccogliere e ordinare la documentazione della sua vita in terra può essere solo per divulgare questo, altrimenti… perché? Ripeto: basta leggere il libretto azzurro per accorgersi che c’è qualcosa di non-ordinario. La “reputazione” di santità mi sembra già lì. Tutti i miei altri ricordi non sarebbero altro che stupidi aneddoti, pertanto non credo importanti o significativi. Comunque Andrea insegnò anche a me cosa fosse il gioco della ‘lippa’, come si costruisce, cioè come si intarsia e modella il legno e come si usa. Inoltre la scuola guida per le strade di Monte Marenzo, con l’episodio dei carabinieri che, se non fosse stato per papà Antonio e per il buon cuore dei Carabinieri stessi di Monte Marenzo, finivamo entrambi al commissariato. Mi faceva ascoltare le canzoni di Ruggeri e di Paolo Conte, tramite cassette che mi aveva registrato con cura, con tutti i titoli delle canzoni scritti in bella calligrafia (faceva la prima copia a matita e poi riscriveva con la stilografica) sul dorso di carta che allora era interno alle audiocassette. Ruggeri, Paolo Conte e ovviamente, Gaber, che cantavamo anche con GS perché don Giorgio ce ne parlava. Andrea, tra l’altro, Enrico Ruggeri lo incontrò anche direttamente; credo avessero fatto una chiacchierata in un bar o simile. L’idea del “Centro Sociale” fu sua. Non c’era un luogo dove potersi ritrovare a studiare o a stare insieme fuori dall’ambiente scolastico. Lui poi venendo da fuori del Sacro Cuore sentiva probabilmente in modo maggiore un’urgenza come quella. Così lanciò il dardo mentre si metteva in prima linea. Andrea scriveva: «Chiedo al Signore di prendermi finché ho questa certezza». Questa, secondo me, è l’intelligenza che don Giussani proclama più volte nell’omelia del gennaio 1991. Chi chiede a Gesù di essere preso finché ha la certezza di poterGli dire “Tu” è molto acuto. Forse questa è la cosa più grande, più elevata che si possa domandare o almeno una di quelle: che sia Tuo nel momento in cui più Ti voglio. 107
Nel movimento di CL e nella Chiesa ci dicono che la fede e la ragione non sono in contraddizione, anzi sono unite. Leggendo quello che ha detto l’Andrea sarei quasi tentato di dire che sono la stessa identica cosa. Era (e rimane) una cosa impossibile da dire senza l’intervento di un Fattore esterno.
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UNA CANZONE PER ANDREA Claudio Chieffo, noto cantautore e amico di famiglia, dedicò ad Andrea questa bellissima canzone: il viaggio verso la morte apre la visione del cielo vero, che non è fatto delle nuvole grigie della menzogna. Un cielo… da cui non possiamo e non vogliamo tornare indietro.
L’aviatore
Parole e musica di Claudio Chieffo 11
marzo 1991 ad Andrea Mandelli
Le nuvole della menzogna dicono di essere il cielo, ma sono grigie come l’asfalto e tolgono il respiro; il sole lo vedono solo loro e lo raccontano come gli pare, ma sono nere come la morte e non lasciano respirare... Ma io col mio aereo d’argento ho sfidato le nuvole e, grazie a Dio, ho visto il cielo e non volevo guardare indietro, non potevo tornare indietro, non volevo tornare... Le nuvole della menzogna assumono le forme più strane, ma hanno gli occhi dei serpenti e un cuore di squame. I vetri si erano appannati, allora ho puntato dritto contro il sole, ho respirato forte forte e ho cominciato a salire...
Claudio Chieffo (1945 – 2007) ha iniziato la sua attività nel 1962, a seguito dell’incontro e dell’amicizia con Don Francesco Ricci e don Luigi Giussani, portando in tutto il mondo il messaggio cristiano attraverso le sue 114 canzoni. Ha registrato numerosi LP, CD e DVD. Nel 2006 è stato pubblicato da Ares il libro La mia voce e le Tue Parole, a cura di Paola Scaglione, contenente un’intervista e i testi delle canzoni. Ha ricevuto premi e riconoscimenti sia in Italia che all’estero. Ha cantato in diverse occasioni, davanti a Sua Santità Giovanni Paolo II al quale è dedicata la canzone La strada. 11
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E io col mio aereo d’argento ho giocato le nuvole e, grazie a Dio, ho visto il cielo e non volevo guardare indietro, non potevo tornare indietro, non volevo tornare... Quando ho visto la terra così lontano credevo di essere perduto, ho spento il motore dell’aereoplano nel silenzio assoluto... allora ho sentito la musica vera, che le nuvole vogliono soffocare, la musica del silenzio che ci fa cantare... E noi sull’aereo d’argento abbiamo vinto le nuvole e, grazie a Dio, questo è il cielo e non vogliamo guardare indietro, non possiamo tornare indietro, non vogliamo tornare…
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LETTERE
Come una candela ne accende un’altra e così si trovano accese migliaia di candele, così un cuore ne accende un altro e così si accendono migliaia di cuori. Lev Tolstoi
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Uno, ognuno, molti Decine e decine di lettere, cartoline, bigliettini giungono mentre Andrea è ancora in vita, il giorno della sua morte e dopo. Da vicino e da lontano. Impossibile riportarli tutti. Sono scritti di amici e conoscenti. Anche di persone che hanno partecipato al suo funerale senza averlo mai conosciuto o che ne hanno sentito parlare dai figli, dagli amici dei figli, insomma da qualcuno. È un filo ininterrotto che lega queste persone e questo filo è Andrea, vivo nelle persone che della sua vita sono, direttamente o indirettamente, testimoni. G.F. Cagliari, 25 novembre 1990 Festa di Cristo Re
Carissimi, il don Giuss, all’ultimo ritiro, ci ha letto la frase del vostro ragazzo: “l’importante non è quanto uno ha fatto ma quanto ha atteso” che ho portato nel cuore con commozione e gratitudine verso di lui, che non conosco, e voi. Vi ho ricordati spesso in questi mesi e vi ho raccomandato al Cuore misericordioso di Cristo. Oggi, festa di Cristo Re, vi associo a tutti quei santi, nel cuore dei quali Cristo ha stabilito la Sua signoria e che ci permettono di dire con san Paolo “circondati da un così gran numero di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che continuamente ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa tenendo gli occhi fissi su Gesù, autore e perfezionatore della fede”. Un abbraccio di cuore… e un abbraccio specialissimo ad Andrea Giuliana 28 novembre 1990 Caro Andrea, so che può sembrarti strano che io ti scriva una lettera, anche perché non so se ti ricordi di me. Ci siamo parlati molto poco, ma questo non ha importanza, un po’ di tempo fa non l’avrei 112
mai detto ma mi sono avvicinata a te con la preghiera. So che questo non è il momento per te di ricevere posta, ma per favore leggi questa lettera. Circa un anno fa, anche un po’ di più, ero molto inquieta per un motivo in particolare: Dio. Lo sentivo lontano, le preghiere non avevano più significato, e in questa mia inquietudine, mi sentivo sola. Ho seguito molto da vicino la tua vicenda (per quanto possibile), il tuo tumore mi aveva scioccato, era un periodo disastroso ed ero diventata io stessa una domanda in cerca di risposta. Erano fatti che succedono tutti i giorni, ma non li avevo mai sentiti così vicini. Così anche tu insieme ad altri sei entrato nei miei pensieri, senza che me ne accorgessi. Senza chiederlo, mi diedero tue notizie, così la tua storia continuava e io ho sentito che era te che dovevo seguire. In che modo dimmi potevo farlo? L’unico modo che la mia coscienza mi deve aver suggerito è stata la preghiera. Così mentre cercavo di avvicinarmi a Dio, di ritrovarlo nelle mie preghiere, mi ricordavo di te. Mi sei stato molto d’aiuto, faticavo a pregare ma c’eri tu e un Ave Maria legava con un filo sottile te e Dio. Tutti mi dicevano e dicono che pur stando così male fisicamente, hai una grande forza interiore. Ti ammiro veramente, sarà che sono così instabile ma mi sento fragile e debole. In questo periodo poi causa scuola sono nervosissima e qualsiasi cosa faccia non serve a liberarmi da questa carica nervosa. Ma sto divagando, torniamo a te, ho sentito il bisogno di parlarti e per me il mezzo migliore è lo scritto. So che può sembrarti quasi da egocentrica ma ti assicuro non è così. Tu mi hai aiutato e attraverso la preghiera ti ho sentito vicino e ho imparato a volerti bene. A Rimini ti ho visto, ma ti ho riconosciuto tardi e te ne eri già andato; avrei tanto voluto parlarti, ma non sarei mai riuscita a dirti tutto questo, quindi forse è stato meglio così. Se avrò il coraggio di spedire questa lettera, spero tanto che tu la possa leggere e se dovesse farlo qualcuno per te (anche se avrei preferito di no) farà lo stesso, basta che le mie parole arrivino a te, perché è di te che parlano. Di solito riesco a esprimermi meglio, ma le parole e i pensieri sono scivolati a fatica su questa carta e non so spiegarmene il perché. 113
Continuerò a pregare il Signore, ma nel tuo sguardo Lui era là che mi sorrideva. Scusami se in fondo mi sono intromessa così, grazie ancora. Ti voglio bene. Giovanna M. Milano, 29 novembre 1990 Caro Andrea, anzitutto voglio farti gli auguri per Sant’Andrea. Anche se non siamo riusciti a vederci domenica scorsa, vorrei dirti che mi sei sempre vicino, nel ricordo, nella preghiera e in quello che faccio. Mi riesce difficile spiegarti quanto stiamo camminando insieme, tu, io, la mia famiglia e i nostri amici, i nostri compagni; del resto qualche notizia e testimonianza di questo ti è già arrivata e ti arriva proprio in quest’occasione. È proprio adesso che capisco meglio che siamo, dobbiamo essere una cosa sola, avere gli stessi sentimenti, il medesimo dolore e la medesima gioia. Leggi quello che ti inviamo e i saluti che ti provengono, spesso discretamente, come la prova e il desiderio che tu ci sei costantemente presente. Mi sembra poi che anche la compagnia tra di noi stia crescendo. Ora ti saluto, perché sta per suonare la campanella e Doninelli vuole scriverti qualcosa. Ti voglio bene Francesco V. Tanti saluti anche a tua mamma Milano, 29 novembre 1990
Carissimo Andrea, per fortuna esistono gli amici per ricordare a questo cuore cattivo e pieno di sonno che domani è il tuo onomastico! I nomi dei santi sul calendario ci ricordano che ogni giorno è speciale, ogni istante, ogni situazione: perché di ogni singolo istante l’artefice è Cristo. Cosa dirti di me? Una cosa sola. La meraviglia, la bellezza della nostra vita. Ma dentro la nostra gioia c’è un Dio dal volto serio, quasi scuro. Quando penso a te e ad altri cari amici 114
che soffrono, è come se un campanello si mettesse a suonare, allarmato. Dio ha fretta, una fretta terribile di diventare tutto per noi, di farci Suoi [...] La tua è una profezia per tutti noi. Ma per noi deve essere esattamente come per te: come tu, ogni giorno, obbedisci a Cristo, […. ] così le mie cose quotidiane – famiglia, scuola, amici ecc.- devono essere per me come quel male: da accettare e portare, come Maria portò Gesù in grembo... Perdonami se ho fatto il filosofo: del resto, sono il tuo prof di filosofia... Prega per me e per noi tutti. Cristina, Giulia e Giacomo, che non hanno mai smesso di pregare per te, ti abbracciano. Anch’io ti abbraccio forte, tuo Luca D. 29 novembre 1990 Andrea, io non ti conosco, ma ti ringrazio ugualmente: tu mi hai fatto capire che la vita è un dono. Questa non va sprecata ma vissuto veramente, fino in fondo. Anche in classe ti ricordiamo sempre. Ti auguro un buon onomastico Ciao un ragazzo di prima liceo scientifico Paolo 29 novembre 1990 Caro Andrea io sono un primino e quindi non ti conosco, ma conosco i tuoi amici e quelli che ti vogliono bene. Ho detto che sono nuovo e quest’anno mi sono sentito accolto dai tuoi amici. Avrei voluto conoscerti ma purtroppo non è stato possibile; ti penso spesso. Mi hanno chiesto se volevo farti gli auguri e questo è il mio contributo per aiutarti e farmi conoscere da te. Tanti auguri Andrea! Ciao Stefano 115
Ad Antonio Mandelli Roma, 30 novembre 1990
Caro amico, non conosco parole che valgano la pena di essere dette di fronte a tanto dolore, nemmeno quelle così affettuose che Lei seppe rivolgermi quando soffersi la Sua stessa mutilazione di oggi. Il sentimento che allora ed oggi mi assale è lo stesso: una rabbia impotente contro un destino che non capisco, contro una crudeltà che mi appare sempre più intollerabile. Non so consolarLa e non ci provo nemmeno. Sappia solo che il Suo dolore è anche il mio. Sappia che fino all’ultimo ho sperato che, per una qualche oscura forma di compensazione, la perdita della cara persona che mi ha lasciato fosse almeno servita a salvare il Suo caro ragazzo. Così non è stato e non mi resta – anche se so che non La aiuta – che unire le mie lagrime alle sue. La abbraccio con l’affetto di questa comunione nel dolore e con la speranza che la Sua fede dia a Lei quelle consolazioni che io non ho saputo trovare e che hanno sorretto Suo figlio nel Suo calvario Suo Sebastiano Sortino Redecesio, 30 novembre 1990 Noi abbiamo sentito parlare molto di Andrea dalla nostra maestra. Abbiamo pregato molto per lui e continueremo a farlo perché abbiamo capito che era un ragazzo speciale, perché dava gioia e coraggio a tutti, perché aveva molta fiducia in Dio. Lui soffriva, ma accettava il dolore perché aveva capito che Gesù lo amava molto e che aveva bisogno di lui. Noi crediamo che adesso Andrea vi starà sempre vicino, anche se voi non lo vedete, ma lo sentirete sempre nel cuore. Firme di 20 bambini
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Milano, 1 dicembre 1990 Cara signora Mandelli, mia figlia conosceva il suo caro Andrea, io no e non conosco neppure lei, ma mi sento vicina a lei in questo momento e le sembrerà strano che io le scriva. Ma siccome mia figlia mi ha parlato tanto di Andrea e della forza di tutta la famiglia, la prego, Signora, non dimentichi di pregare per tutte le mamme che non hanno la sua forza. Non si dimentichi. Io ho solo una figlia, lei ne ha tanti e uno lo ha reso al Signore: il suo dolore è grande e fa piangere tutti, ma la sua forza e il suo esempio, come ha detto Don Pontiggia, dobbiamo meritarcelo. Come io prego per lei, mi prometta, Signora, di pregare lei per noi. Grazie. La abbraccio una madre che guarda a lei come a un faro 2 dicembre 1990 Andrea è morto! E allora cosa serve a noi in questo momento sapere il greco, risolvere equazioni e disegnare come Giotto, se poi dobbiamo tutti morire? Ieri al funerale non capivo più niente, perché? mi chiedevo. Andrea non lo conoscevo poi tanto bene eppure ascoltando la predica di Don Gianni Calchi Novati e la canzone “D’amor pane dolcissimo” sono scoppiato in singhiozzi proprio come se avesse avuto con lui un grande rapporto. Poi però mi sono reso conto che era da stupidi stare lì a piangere perché Andrea non avrebbe di certo voluto. Ma allora mi sono chiesto: “non c’è più speranza?” e contemporaneamente mi sono risposto che c’è sempre speranza, che il Signore ci dona sempre la forza di andare avanti, di continuare… Allora proprio per questo Andrea è vivo, è vivo nei nostri cuori e che la giornata di ieri non era di lutto, ma di gioia come ha detto il parroco di Brugherio! Mi spiace di averla annoiata ma questo fatto mi aveva proprio sconvolto e volevo sfogarmi. Luca C.
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2 dicembre 1990 Carissimo don Giorgio, mi accorgo che accade e sta accadendo il miracolo della morte di Andrea. Ieri sono stato a scuola di comunità e lì è stato veramente visibile: qualcuno aveva detto che uscendo dal funerale aveva provato una certezza dentro inaudita, altri che subito dopo non avevano perso tempo, a casa, in cavolate, proprio ricordandosi dell’Andrea. È stato realmente un evento sensazionale, il miracolo è accaduto anche per me. La sera stessa della morte di Andrea, mi era venuto in mente la straordinarietà di ciò che il Signore gli chiedeva: la vita. Ci riflettevo, facevo fatica a capire, e poi mi chiedevo se io sarei riuscito a donarla a lui come lo stava facendo Andrea, e faticavo perfino a dare una risposta. Poi quella sera Andrea ha detto un sì semplicissimo a quella Presenza che cambia la vita – OK, VA BENE, ANDIAMO – che mi riempie di gioia tuttora. E non si può più perdere tempo, e neppure avere paura di niente se si intuisce come Cristo è centro di tutto, come Andrea lo aveva capito. Sono proprio quelle tre parole che mi aiutano di più. Quando perdo tempo, mi tornano in mente: OK, VA BENE, ANDIAMO e allora mi ricordo tutto, di come Cristo abbia scelto uno tra noi per testimoniare in un modo così sensazionale la Sua persona. È come se Andrea fosse morto per noi. Adesso mi sento in totale dipendenza con Dio, mi sento in mano Sua, in “balia” di Lui, proprio perché quel VA BENE, quel OK, quel ANDIAMO, è riferito a tutti. Tutta la sua volontà io non la conosco, ma se è Sua...: VA BENE, OK, ANDIAMO. È un affidarsi totalmente a lui. Ora è tutto più chiaro. Pietro Carissima Signora Sofia, chiederle “come sta” … è ridicolo…purtroppo, la prematura scomparsa del suo meraviglioso Andrea, ha “aperto” un profondo dolore in ogni persona che abbia avuto la fortuna di conoscerlo. 118
Cerco di immaginare, quanto ancora più grande, possa essere il dolore per Lei e per il resto della famiglia. Mi scusi, non mi sono fatta riconoscere. Sono Cristina, la giovane infermiera professionale dell’Istituto Nazionale Tumori assunta da tre mesi in Oncologia Pediatrica … si ricorda? Forse potrò sembrare ridicola, scrivendole questa lettera ma volevo comunicarle l’immenso turbamento provato per quanto successo e la commossa partecipazione al vostro grande dolore. Nonostante conoscessi da poco Andrea mi ero affezionata moltissimo. Il bene che gli volevo è quello che unisce un fratello ed una sorella (anche se forse, non l’ho mai dimostrato per paura di essere “invadente”). Sì, il suo Andrea era davvero TANTO GRANDE. La sua bontà d’animo, la sua riservatezza, la sua cordialità, la sua gioiosità, la sua generosità, la sua educazione, i suoi timori (celati molto bene), il suo affetto sono stati per me una fonte da cui dissetarmi; chissà, forse a sentirmi ancora più legata a lui contribuiva il comune anno di nascita. Ne avevamo parlato spesso, Signora Sofia e niente e nessuno poteva “intaccare” lo splendore della “annata” (così l’abbiamo definita!). Adesso, l’unico mio conforto (spero anche vostro) è sapere Andrea accanto a Gesù, sì, ora è nella Luce e dal Cielo intercede per noi. Dobbiamo essere forti e sereni perché Dio è con noi, così come Andrea!!!! Forse sto divenendo ripetitiva (però è quello che si rischia scrivendo quanto detta il cuore), preferisco quindi concludere questa mia lettera e riportare la parte terminale di una lettera (scritta da una madre che perse il figlio quattordicenne per un tumore cerebrale): “siamo sulla terra solo di passaggio e ….. 14, 30 o 80 anni non significano nulla di fronte all’eternità che ci attende …..” Un caloroso abbraccio da chi la ricorda con tanto affetto e “porta” … sempre con sé Andrea Cristina Proietti
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Milano, 3 dicembre 1990
Carissimi, sabato scorso eravamo anche noi presenti alla messa celebrata per il vostro Andrea. Avremmo voluto salutarvi e fermarci qualche istante con voi, ma non ci è stato possibile. D’altro canto non ce ne rammarichiamo. Ciò a cui abbiamo assistito ci ha riempiti di una tale commozione e, osiamo dirlo, di una tale gioia spirituale, che è forse preferibile lasciare ad un altro momento l’incontrarci e il parlarne. In breve, vogliamo però dirvi che ci sembra di aver vissuto uno svelarsi improvviso di realtà e di verità che, nonostante una lunga consuetudine di formazione e di fede, non avevamo mai colto in modo così vivo e profondo. Vi diciamo il nostro grazie più sentito, unito a un desiderio vivissimo di rivedervi, nel segno di un’amicizia che mai come ora ci è sembrata così preziosa e arricchente. Grazie a voi, al vostro, e nostro, carissimo Andrea, e arrivederci al più presto. Un affettuoso abbraccio da Pino, Marialuisa, Mario Lunedì 3 dicembre 1990 Carissimi, anche questo ritiro è iniziato con la presenza di Andrea, con il suo gesto supremo. Ed ora che, dopo aver amato Cristo sopra ogni cosa, come era evidente dalle sue testimonianze, lui vede il Suo volto radioso e gioisce nel suo abbraccio, è presente con Cristo, come Cristo, per sempre in mezzo a noi. Parlandoci di lui il Giuss ci ha detto questa è santità e ci ha detto anche che appena Andrea è spirato, tu Sofia hai fatto recitare l’Angelus: ciò da cui tutto è iniziato! Possiate voi tutti che l’avete amato, noi che abbiamo tanto imparato da lui, seguirlo anche con la sua protezione e il suo aiuto. Nell’abbandono amoroso al nostro dolce Cristo per la nostra letizia e per il bene del mondo. Vi sono vicina con tutto il mio affetto e nella preghiera. Un fortissimo abbraccio Giuliana 120
Bocca di Magra 5 dicembre 1990 Carissimi “Mamma” Sofia e “Papà” Antonio, il mio precedente biglietto è stato scritto forse il giorno in cui lui, Andrea, raggiungeva la meta gaudiosa di un pellegrinaggio, breve nel tempo, ma vissuto con l’entusiasmo di un cuore magnifico, spalancato a ogni valore umano, cioè cristiano. A me, che gli telefonavo una settimana prima di partire per questo periodo di preghiera, ha risposto ancora con voce sicura e chiara: “Sto bene”. Non voleva che ne patissi, abituato com’era a pensare agli altri, con senso di amicizia evangelica, capace di condividere le proprie piccole gioie, con il segreto del proprio patire offerto a Gesù e alla Vergine Santa, così schiettamente amati. Quando ho insistito perché mi dicesse la verità sulla sua salute, mi ha confessato di sentirsi stremato di forze, tanto da faticare a sollevarsi sul letto. “Però” ha aggiunto “se riesco vado a tavola con i miei, per far loro compagnia…” Alla mia domanda di come stessero mamma e papà: “Sono instancabili; mamma è parecchio dimagrita, ma Giovannino gliene combina di tutti i colori!». Gli amici andavano a trovarlo in molti, giorno dopo giorno e lui ne era felice! Io, però, ho pensato (e ho condiviso con Suor Gabriella la decisione) di venirlo a trovare prima di Natale, al ritorno da questa esperienza orante, per la quale Andrea m’ha promesso di collaborare con la sua sofferenza. M’illudevo riuscisse a migliorare e magari a guarire, ostinata nell’arrendermi al disegno di Dio, infinitamente diverso dal nostro, perché intriso del Sangue di Cristo, che sigilla di amore personalissimo la vita di ciascuno di noi. Andrea mi renderà più facile capirlo e abbandonarmi alla volontà del Padre, proprio come hanno dato prova lui, i suoi genitori, i suoi fratelli… Non scorderò mai la risposta di mamma Sofia alla mia amara sorpresa nel sentire, parecchi mesi fa, la gravità del male che minava un suo figlio: “E tu, bambino, andrai avanti al Signore a prepararci le strade…”. Solo la fede autentica come la vostra, coesione vivacissima 121
di tutta la famiglia, poteva soccorrervi nell’aderire a un insondabile mistero di dolore, che vi fa così somiglianti al patire di Gesù e della sua santissima Madre. A Loro vi affido nell’Eucarestia quotidiana e nel Rosario, ringraziandovi per la ricchezza di testimonianza trasparente e lineare che mi avete donato attraverso il vostro Andrea, la cui passione per Cristo, per il Papa, per la Chiesa –amata nella comunità parrocchiale, di CL, della scuola, della famiglia – contagiava tante volte anche me, suora, provocata dal di dentro a una risposta più radicale al mio Signore. Son qui per implorare meglio la grazia di convertirmi e Andrea sembra farmi da battistrada coraggioso ed eloquente, nel suo sacrificio avvalorato dal vostro. Me lo rivedo, accanto alla bara di nonno Vittorino, sereno di essere riuscito a dargli l’ultimo saluto, rinunciando al resto della gita in Francia. Adesso sono tutti e due stretti nell’ineffabile abbraccio della Famiglia Trinitaria, nella gioia senza fine dei beati che ci attendono, senza perderci mai di vista nel nostro arrancare, spesso col fiato corto, offrendoci il viatico indispensabile a proseguire con speranza innamorata dell’Eterno, incarnato nella Croce e nella Resurrezione. … È profonda la riconoscenza che vi debbo. Ad Andrea posso esprimerla ogni momento, rivedendo con anima il sorriso tenerissimo con cui mi salutava ritrovandomi al Bianconi. E ci si intendeva, con quella stima e simpatia reciproche, che ci colmavano di gioia nel lavorare insieme, sempre per far piacere a Gesù e guidati dal Suo Spirito di Sapienza. Un fraterno affettuoso abbraccio. Suor Candida Dicembre 1990 Salve don Giorgio. Sono l’amica … dell’Andrea. Le scrivo innanzitutto per ringraziarla, perché devo anche a lei la grazia di averlo conosciuto. Certo che è pazzesco, sono 16 anni che passo le mie estati a Monte Marenzo eppure l’ho incontrato solo quest’anno … anche questo non è per caso: è un segno, è significativo 122
perché in questo modo ho la possibilità di ricordarlo solo per quello che conta: la sua testimonianza. È accaduto davvero ciò che era importante! In questo periodo mi sto veramente rendendo conto di quanto tutta la realtà sia un segno; ma ve ne sono alcuni che emergono così violentemente e prepotentemente da farmi rabbrividire, o, come dice lei, da far tremare i polsi. Come quando questa mattina il sacerdote ha detto che il corpo di Andrea veniva sepolto a Monte Marenzo: sono scoppiata a piangere, ma penso per la gioia, e così come Andrea aveva quasi paura di non temere del proprio destino, allo stesso modo io avevo quasi paura di essere felice. E se qualcuno mi desse della cretina dicendomi che è morto per sempre e che non lo vedrò mai più, mi stupirei se non avessi di fronte una persona disperata, perché senza Cristo non ha senso neanche questa vita! Se Andrea fosse morto davvero sarebbe disumano non piangere e disperarsi tutta la vita; sarebbe disumano vivere! Oggi solo le persone che avevano capito e gli volevano davvero bene, non piangevano, mia cugina è rimasta talmente stupita nel vedere i volti dei genitori e dei fratelli al cimitero che è corsa subito a telefonarmi per conoscere il motivo della mia assenza e capire il perché della loro serenità. Ero scoppiata a piangere a Brugherio perché in quel momento mi erano balenate in mente le parole che mi aveva detto Andrea l’ultima volta, al telefono. Era mercoledì 21 quando finalmente dopo più di un mese di attesa potevo parlargli. Ero dispiaciuta perché in tutto quel tempo ogni volta che cercavo di andare a trovarlo capitava sempre nei giorni in cui stava peggio e non ne capivo il motivo; lui mi aveva detto di non preoccuparmi perché ci saremmo visti ancora “magari a Monte Marenzo”. Pensavo che stesse scherzando, o che mi prendesse in giro per la lettera che gli avevo scritto, allora gli avevo risposto che speravo di rivederlo prima, a scuola. “Se il Signore vorrà” mi ha detto, ed è stato così, perché lui era già con noi a scuola venerdì, alla sua messa. Domani finalmente andrò dai miei nonni che abitano nella villa di fronte al cimitero e porterò all’Andrea un fiore di quel 123
meraviglioso giardino sfavillante di vita e di colori che aveva visto quest’estate. Ieri notte ha gelato a Monte Marenzo e mio nonno ha detto che di tutti quei fiori è rimasto solo qualche bocciolo di rosa. Sarà perfetto: una rosa appena sbucciata, come la sua vita! E questa certezza non può che renderci felici!!! Un saluto Anita M. 21 gennaio 1991
Cara Sofia, sono Vittorio, il “chitarrista” di GS di Monza. Da molto volevo scriverti queste cose, ma per riserbo e timore non l’ho mai fatto. Ho ancora nel cuore la commozione di quell’assemblea a Lizzola con te e tuo marito e spessissimo penso ad Andrea. Io non ho mai voluto un gran bene ad Andrea, per qualche motivo non siamo mai diventati amici. Ma nonostante il distacco sentivo che ciò che afferrava sempre di più la sua vita era affascinante, era qualcosa che mi faceva desiderare, tutte le volte che lo incontravo e lui mi abbracciava. E non eravamo amici. Una cosa avrei voluto chiedergli: di pregare per me in cielo. Sai, sono veramente afflitto da tutti i miei schemi e le mie meschinità, il cuore è veramente duro e la cosa che più desidero è la conversione, il lasciarmi fare, quel “non dover più decidere”. Ti scrivo queste cose molto mie perché pur non avendoti visto che poche volte sento una familiarità grande: un altro dei miracoli generati dalla testimonianza di tuo figlio. Sai, quando ero in quarta ginnasio avevo come insegnante di religione Don Pietro. Un giorno mi disse: “Vittorio, come sono le ultime parole della canzone “Il disegno?” E io: “Se ieri non sapevo oggi ho incontrato te e la mia libertà è il Tuo disegno su di me. Non cercherò più niente perché Tu mi salverai”. Questo è l’essenziale, diceva Don Pietro. Oggi, dopo tante cose successe nella mia vita, è ancora così, è sempre di più così. 124
Ho sempre nel cuore questa scena: “ciao Andrea, come va?” E ci abbracciavamo. Con tanta gratitudine a te e a tutta la tua famiglia Vittorio Senza data
Cara signora, perdoni l’improvvisazione di questo biglietto, ma mi viene da dentro il bisogno forte di dirle grazie. Grazie per essere venuta a Bussero quella sera in occasione della Giornata per la Vita. Grazie per aver voluto raccontare ancora la sua storia con quella sua umanità che ci ha tutti sollevati al Divino. Grazie per averci fatto assaporare il gusto e la santità, realmente possibile, della vita. Grazie per averci mostrato il valore immenso di una vita, sempre e comunque, breve o lunga che sia. Per me è stato proprio un dono, una grazia, che il Signore mi ha concesso, poterla ascoltare. Attraverso lei e il suo “Andreone”, Lui si è fatto sentire a tutti noi. Credo che lei, la sua famiglia e Andreone siate strumenti luminosissimi di cui il Signore si serve per attirare a sé. Miriam 24 gennaio 1991 Carissimi Antonio e Sofia, […] mi riporto frequentemente alla memoria alcuni momenti o parole vissuti e scambiate con Andrea e con te, Sofia, e mi rilanciano subito nell’iniziativa del “sì” a quel “questo” che il Signore mi dà e che è sempre così diverso da avere talvolta la forte apparenza dell’inimicizia […] e in questi casi il diavolo non rimane inattivo! Ecco perché mi è tanto più preziosa la presenza vostra e di Andrea : mi aiutano a fare le corna a Satanasso e a ricordare che sono nell’abbraccio forte e pietoso di un Padre che da sempre mi ama e per sempre mi vuole. Grazie ancora, dunque anche per mille altre ragioni che non riesco a dire. 125
Siamo compagni, in questa via misteriosa che attraverso il dolore e la morte (anche quella piccola di ogni giorno) costruisce la nostra felicità, e lo siamo per un compito: perché questo povero mondo, così martoriato, possa incontrare, attraverso la nostra vita divenuta un “sì”, lo Sguardo sofferente e dolce di Chi solo lo ama davvero e può davvero donargli la pace. Vi abbraccio forte e, attraverso voi, abbraccio ognuno dei vostri figli. Rita Monza, 20 marzo 1991 Carissima Signora Sofia, […] ho qui parecchie cose care di Andrea: la foto, le lettere sue e di altre persone avute da mamma Sofia, la Via Crucis del Guardini con la sua dedica … Eppure la gioia più grande mi viene da ritrovarmi spesso a ringraziare Dio d’avermi messo vostro figlio dentro la strada che percorrono, quella del quotidiano. La sua testimonianza chiara e precisa della fede in Gesù, la convinta passione per il “movimento”, che gli faceva gustare e apprezzare l’amicizia di tanti fratelli, la dimenticanza di sé per condividere in cordialità semplice, oserei dire “spontanea”, il vissuto degli altri, il suo saluto che si esprimeva nell’appoggiarmi la mano carezzevole sulla spalla, mi spalancano orizzonti di fiducia nell’anima, provocandomi continuamente a implorare fedeltà alla comunione in cui lui credeva con entusiasmo e totalità trasparenti. Davvero mi rendo sempre più conto come la sua vita è stata un “sì” totale a Cristo, della cui pace è misericordia continua a essere messaggero, per voi, per noi e chissà per quanti altri, vicini e lontani. È il seme che germoglia per farsi spiga turgida. Unirà la sua voce al nostro coro di Pasqua per cantare alleluia, nella gioia piena per lui, nella fede coraggiosa e nel naturale sfogo delle lacrime per noi. Tutti avvolti dalla tenerezza di Maria, la Donna della Passione e della Resurrezione. Senta nel mio scritto l’augurio e l’abbraccio di ogni suora, per lei e per ciascuno dei suoi cari. Suor Candida 126
Brugherio, 24 marzo 1991 Il vostro Andrea io non l’ho conosciuto. Ricordo solo un bambino della tribù Mandelli simpatico e gioioso che abitava di fronte. Un pelo di curiosità e forse d’invidia (quella buona) per una famiglia dove intuivo un “ metro” diverso. Ebbene, io Andrea invece lo “conosco” perché la sua presenza, la forza della sua scelta ben celata in un apparente adeguamento (ben lungi dall’essere passivo) alla volontà del Signore ha lasciato una traccia così chiara, così luminosa da essere ineludibile. Questa comunità reca in sé l’evidenza della specificità, della unicità della storia di Andrea, che non riesco ad indicare meglio del termine ARMONIA. Egli ha saputo superare tutti i veli della conoscenza individuale ed è riuscito ad individuare quello stato di armonia con la volontà del Signore dove i parametri sono altri, le gioie immense ed i dolori di poco conto, la logica stessa cosa iniqua. Io non lo capisco, non sono in grado di afferrare ciò che gli ha dato tanta armonia, e non so se si tratti di un miracolo o piuttosto di ordinaria elevatissima spiritualità, ma lui ha voluto che questa sua esperienza speciale restasse alla comunità sia con i suoi messaggi scritti che con il suo esempio, ed a me non resta che contemplare e meditare lo splendore del suo modo di essere. Andrea ha lasciato per tutti i suoi amici un dono di raro valore; non un “gesto” o una “buona azione” che susciti la nostra ammirazione in quanto suo, bensì un fatto misterioso, sottile, che per gli effetti che ha avuto su di lui desta in noi stupore ed amore, ma che per sua volontà e per sua scelta trascende la sua persona e diventa per tutti un fatto concreto, reale manifestazione di un’adesione totale a Cristo al di là di una nostra capacità di comprenderlo. Io, che non ho avuto la gioia di conoscerlo, mi sento fortemente condizionato da questo suo dono e mi sento destinatario delle sue esortazioni a restare “dentro”, anche capendo poco, per imparare a crescere. Quanto ha ragione! Ed il suo esempio è quel genere di prova incomprensibile 127
ma evidentissima che gli evangelisti chiamano miracoli. Ecco, Andrea è di quella parte di umanità che da sola ci salva tutti, che per tutti noi guadagna la benevolenza di Dio, ed io non posso restare indifferente, in virtù del suo esempio ed in amore dei suoi messaggi non posso non dire SÌ e restare “dentro”. Non prego per Andrea che di certo oggi vive nei più alti spazi del Paradiso, al più chiedo a lui di pregare per noi. Prego invece per voi che tanto dovete patire la mancanza del vostro amato ed un poco per me, così lontano da lui. Andrea Z. Monza - S. Pasqua 1991 Carissimi Sofia e Antonio, non potevo non sentirmi vicina in occasione di questa Santa Pasqua e dopo gli Esercizi della Fraternità. Ho 31 anni e due bambini: Sara di tre anni e mezzo e Martino di un anno. Paolo, mio marito, il 29 novembre 1989 ha fatto un incidente nel quale è deceduto sul colpo. Quando la sera stessa del 29 novembre appena trascorso mi hanno telefonato dicendomi di Andrea, il pensiero è stato subito quello di invocare entrambi perché aiutassero me e voi. E così Andrea, anche se non l’ho mai conosciuto, mi è diventato familiare e spesso chiedo il suo aiuto insieme a quello di mio marito. Davvero questo grande dolore è anche bellezza e gioia dentro l’esperienza della fede: a Rimini ho percepito in maniera molto forte la presenza dello Spirito, una sensazione fisica, profonda per la quale ho sì provato molto dolore, ma un dolore dolce, dolce come una carezza di mio marito. Per questo ho sentito una forte nostalgia del Paradiso, il desiderio che tutto si compia e che queste “primizie” siano uno spiraglio che mi fa intravedere il luogo definitivo, quasi che Paolo voglia farmi partecipare di quello che lui sta vivendo. Avremmo voluto raccontare queste cose in maniera meno distaccata e abbracciarvi fraternamente, ma magari questo un giorno succederà. A presto Raffaella M. 128
24 maggio 1991 Svolgimento di un tema V ginnasio – Sacro Cuore Ogni giorno ci accadono tante cose, ma noi presi da mille, piccoli e spesso inutili problemi, non abbiamo uno sguardo abbastanza aperto per riconoscerle grandi e a volte irripetibili. Certo è che di fronte alla morte di una persona a cui si è legati non si può rimanere indifferenti, è forse la volta buona in cui ci si decide a prendere una posizione di fronte alla realtà. È sempre più facile rimanere indifferenti e farsi scivolare addosso la vita, vivere da spettatori, ma in questo modo non si sarà mai contenti. Certo costa fatica reagire, magari andando contro quello che tutti gli altri pensano; è difficile scegliere la propria posizione, anche perché spesso non si sa proprio quale sia, ma questo vuol dire vivere, essere protagonisti della propria vita e solo così si è soddisfatti di quello che si fa anche se, magari subito dopo aver agito, ci si accorge di aver sbagliato. Qualche mese fa è morto un mio amico, Andrea, aveva tre anni in più di me e frequentava il liceo scientifico. Era arrivato a scuola mentre io facevo la quarta ginnasio... Anche se non lo conoscevo in prima persona mi accorgevo quando non c’era. Era un ragazzo semplice che si poneva di fronte alla realtà come se il suo sguardo sapesse andare oltre la fatica momentanea che per lui spesso era proprio grande. Non passava inosservato sia per i suoi occhi azzurri bellissimi e il sorriso che gli illuminava tutto quanto il viso, sia per le sue grida nel corridoio e per la sua infinita disponibilità... Io però non lo conoscevo e per tanto tempo il mio desiderio più grande è stato quello di andare da lui per salutarlo con un semplice “ciao” niente di più, di fare così tutti i giorni e sicuramente lui si sarebbe accorto di me e avrebbe cominciato a volermi bene come faceva con tutti i suoi amici. Sentivo che da lui potevo imparare tanto, soprattutto a prendere un po’ più di coraggio e non lasciarmi andare alla prima difficoltà. E così è stato! Un giorno durante l’intervallo sono andata nella sua classe, 129
ma non c’era, l’ho cercato finché non l’ho trovato che rideva come un disperato insieme a quattro suoi compagni. Mi sono avvicinata, avevo paura, il cuore mi batteva fortissimo, ma i suoi occhi dicevano “forza, vieni!”. – Ciao Andrea Un improvviso silenzio, le risate cessarono, mi sembrava che tutti si fossero fermati a guardare me. – Io non ti conosco, ma vedo che invece tu sai già il mio nome. – Mi chiamo Emanuela, faccio la quarta ginnasio… ci vediamo! Ero troppo contenta, ero riuscita a dire quel ciao che da tanto desideravo. Non abbiamo mai parlato tantissimo, sia perché lui spesso era assente, sia perché avevamo impegni diversi, però ci salutavamo sempre. Quando lo incontravo nel corridoio mi faceva sempre l’occhiolino come se volesse dirmi “so che ci sei!”. Ogni volta che prendevo un quattro a scuola correvo sempre da lui che mi aiutava a non buttarmi giù e a non piangerci sopra, ma piuttosto a rivoltarmi e a ricominciare. Insomma era quel che si dice un ragazzo “vivo” che insegnava agli altri che la felicità sta nelle piccole cose di ogni giorno e ci riusciva senza fare grandi cose, ma vivendo tutto con serenità e semplicità. Ora non c’è più, ma per me non è cambiato niente. Sì certo non lo vedo, ma è ancora più presente di prima. Ogni volta che mi trovo davanti ad una qualsiasi difficoltà non riesco a non pensare a lui e questo mi aiuta a prendere tutto con più gioia e con più fiducia in me stessa. Quello che di più grande e bello mi ha insegnato è reagire di fronte a ciò che mi accade, senza aver paura di sbagliare. Mi è capitato spesso di dire qualche “stronzata”. Se c’era davanti lui ero tranquilla perché certa che non mi avrebbe considerato mai per quello che in quel momento avevo detto, lui mi guardava per quello che ero e non per altro. Davanti alla morte di un amico ci si chiede “ma perché? E perché proprio lui?”. Io credo che quando Andrea ci ha lasciati ha risposto a 130
queste domande, anzi non ci ha neanche dato la possibilità di porcele. P.S. Ora che lui non c’è più, non ho un amico capace di considerarmi per quello che sono io e questo mi fa pensare che non ho più un’amicizia vera. Mi continuo a chiedere perché mi succeda questo, cerco sempre nuovi amici e non sono mai soddisfatta, non riesco mai a stare insieme ad una persona fino in fondo e quindi accettare anche i suoi limiti e il fatto che questa mi faccia notare i miei… Proprio non riesco a dire “BASTA, SONO QUELLA CHE SONO!” e credo proprio che non ce la farò mai finché non troverò qualcuno che in un certo senso mi costringa, mi obblighi ad accettarmi Emanuela S. San Felice, 29 maggio 1992
Carissima Sofia, le scrivo due righe:
Il ballo dell’obbedienza di Madeleine Delbrèl Per essere un buon danzatore, con te (Signore) come con altri, non occorre sapere dove conduca la danza. Basta seguire il passo, esser contento, esser leggero, e soprattutto non esser rigido. Non occorre chiederti spiegazioni sui passi che ti piace fare. Bisogna essere come il prolungamento, agile e vivo, di te. E ricevere da te la trasmissione del ritmo dell’orchestra. Bisogna non volere avanzare ad ogni costo, ma accettare di voltarsi indietro, di procedere di fianco. Bisogna sapersi fermare e saper scivolare anziché camminare. E questi sarebbero soltanto passi da stupidi 131
se la musica non ne facesse un’armonia. Noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito, e facciamo della vita un esercizio di ginnastica, dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza, che la tua Santa volontà è di un’inconcepibile fantasia… Se fossimo contenti di te, Signore non potremmo resistere al bisogno di danzare che dilaga nel mondo, e arriveremmo ad indovinare quale danza ti piace farci danzare sposando i passi della tua Provvidenza. Indovini chi avevo negli occhi e nel cuore mentre leggevo queste righe? Andrea è vivo più che mai e continua ad operare nella mia vita. E più cresce l’amore a Cristo, più sono grata al Signore di avermelo dato come amico. Vi ho sempre nel mio cuore e soprattutto nelle mie preghiere. Non vi dimentico mai. Con infinito affetto. In Comunione Marina 18 giugno 1992 Carissimi Sofia e Antonio, non so come ringraziarvi del dono trovato nel mio cassetto, a scuola, col mio nome. Ora definitivamente Andrea, attraverso di voi, è entrato nella mia vita e ho sentito che anche senza parole tutto era già noto: il momento in cui l’avevo visto nei corridoi, sorridente, da poco arrivato, quando lo guardavo poi un po’ da lontano perché non ero la sua insegnante, quando ho sentito da mio figlio Antonio che stava male, quando ho seguito lui e voi quel giorno in cui si camminava a stento, in silenzio, verso la chiesa e si cantava per lui, circondati da quelle montagne che lui amava tanto, in mezzo a tutti i suoi amici. 132
Io penso spesso ad Andrea e quando c’è un ragazzo, una classe, un problema che ci preoccupa li consegno a lui, il nostro Angelo custode in cielo. Grazie ancora per la vostra testimonianza e generosità nel permetterci di amare tanto anche noi il vostro Andrea. Con affetto Donata Conci Milano, 22 luglio 1992 Istituto dei Tumori – Milano Carissimi signori Mandelli, scrivo per ringraziarvi dell’affetto che ci portate e per il ricordo, a volte concreto come quando ho trovato sulla mia scrivania il libretto azzurro “Una grande grazia”, al ritorno dalle vacanze. Anche se non “credo”, scorrendo le pagine del piccolo libro, non mi sono sentito escluso. Vi sono modi diversi per dire le stesse cose e modi diversi per partecipare a questo doloroso e sorprendente cammino dell’uomo. Andrea era straordinario e la pienezza della sua partecipazione forse compensa la brevità della sua vita. Il dolore per la sua assenza però resta grande. Noi restiamo a chiederci il perché, a spiegarci le ragioni della “sconfitta “e a cercare nuove soluzioni per vincere la battaglia. Abbiamo percorso un tratto di strada insieme con Andrea e con tutti voi e il legame che si è creato, le esperienze e i sentimenti di quel periodo e di adesso rappresentano un bene prezioso. Con affetto Marco G. Milano, agosto 1992 Gentile Signora Mandelli, avrei voluto ringraziarla e salutarla di persona quando ci ha portato il libretto di Andrea. A volte si ha l’impressione di perdere delle occasioni importanti, di non cogliere quei suggerimenti di “grazia” (se vogliamo con la “G”) che possono arrivare non richiesti, ma così indispensabili. 133
Parlo sia dell’esperienza di assistere che ora di essere assistiti dal vostro Andrea. Per me, e penso anche per altri miei colleghi, è quasi una presenza costante quella dei nostri-vostri ragazzi. Il pensiero, anche incosciente, ricorre a loro nei momenti più difficili che sono particolarmente quelli della verità, del dolore, della rivelazione della prognosi infausta. Hanno tutti lo stesso sguardo puro, la stessa voglia di credere e di affidarsi, di non lasciarsi vincere in modo irrazionale dal male e dalla paura. Conoscere Andrea e con lui altri ragazzi magari più silenziosi, ma come lui sereni e coraggiosi, mi ha convinto che questo lavoro non si può fare se non tutti insieme, “curati” e “curanti” per cercare insieme forza e verità e, quando possibile, salute. Purtroppo non c’è la stessa misura di vita per tutti, per lo meno in apparenza, e qualche volta si è costretti alla rinuncia, al distacco violento, a cambiare il compagno di viaggio proprio quando sembrava il migliore. Così è stato per me perdere Andrea, non vederlo più, per doverlo immediatamente ricordare, raccontare a chi non lo aveva conosciuto e ora, anche, pregare. Con affetto e riconoscenza saluti cari a tutti voi Maura M. Brugherio, 22 febbraio 1994 Carissimi, è mezzanotte e un quarto. Sono ritornato dalla partita di calcio: ho infatti gli allenamenti il martedì e il giovedì. Ho messo come sottofondo musicale “Nek”. Il mio psichiatra di Milano diceva che è alla sera tardi, di notte, che si hanno i pensieri più profondi. Ho guardato tutti i miei libri nella mia stanza che è bella come quella di Vittorino ma più in disordine. Ho trovato anche il libretto che parlava di Andrea, subito ho letto la biografia che c’è sul retro. Poi ho guardato le fotografie per rammentarmi, per rendermi conto chi fosse Andrea che io, poiché in seminario, non ho conosciuto di persona. Poi ho letto la dedica che, penso, abbia scritto Sofia. 134
Dice così: «A Stefano perché possa sentire un abbraccio “speciale” e pieno di bene da parte di Andrea e tutti noi. Con tanto affetto Sofia, Antonio e… & – Maggio ’92». Ebbene io questo abbraccio speciale da parte vostra e di Andrea che ci guarda dal cielo lo sento reale e vivo. Questo è il miracolo che Andrea ha compiuto per me, per voi che state diventando per me sempre più un punto di riferimento. Con affetto Stefano Kampala (Uganda), 29 novembre 1994 Carissima Sofia, è ormai sera e, come ogni sera africana, fuori è tutto un “cricri” di grilli. È stata una giornata cupa oggi: ha piovuto quasi tutto il giorno e, se fosse stato per il caldo, il cielo sembrava proprio uno dei nostri “cieli da neve”! Ma per me oggi è stata una giornata particolarmente piena della compagnia del tuo Andrea, del nostro Andrea. Sono già 4 anni che ci guarda da lassù, ma il suo volto è proprio amico dentro lo scorrere del tempo e quando lo rammento, inevitabilmente mi ritrovo a dire con lui quel “ok, va bene, andiamo” che sono state le sue ultime parole, e che per me segnano, nelle varie circostanze, il momento della ripresa, della rinnovata disponibilità di fronte alla libertà di Cristo che mi interpella. Così, anche qui in terra d’Uganda, l’esempio intelligente di Andrea che ha capito così in fretta che tutto nella vita si gioca nel riconoscere Uno presente che ci ama, mi sollecita continuamente a ricordare che la missione non è che non opporre resistenza a Dio che cerca la sua strada in noi, non è che il lasciarsi cambiare qui ed ora da Lui, attraverso il modo che Egli sceglie e che è la concretezza della vocazione, affinché il mondo veda. Andrea ha vissuto queste cose ed è stato missionario, come tu sai molto meglio di me. Ed io chiedo anche a lui di domandare a Gesù che doni a me, a Rose, a Claudia, a Gloria e a ciascuno del Gruppo Adulto e del Movimento, la coscienza che il tempo ci è dato per testimoniare che proprio Gesù è ciò di cui tutto è costituito e che solo per questo la vita, con tutte 135
le prove di cui è fatta, non è tragedia, ma dialogo con Chi in ogni istante ci chiama alla bellezza, alla verità, alla felicità. Ringrazio te e Antonio e, attraverso voi tutta la vostra famiglia, per aver custodito e cresciuto Andrea per gli anni in cui Gesù ce lo ha lasciato. E vi assicuro ancora che siete tra le presenze più care che accompagnano le mie giornate e rendono più facile e più dovuta la mia offerta. Un abbraccio grosso, insieme a un augurio di buon Natale ed alla speranza di ricevere (quando è possibile) due righe! Rita 16 dicembre 1995 Carissimi signori Mandelli, mi chiamo Nora, sono una compagna di università di Giacomo Aletti. Vi scrivo per raccontarvi l’esperienza che ho vissuto in quest’ultimo mese e per cui sento il bisogno di ringraziarvi. Circa due mesi fa ho iniziato ad avere problemi di salute, con possibilità concrete che si trattasse di un male incurabile. Ho tenuto questo nel mio cuore per molto tempo, non sapendo che fare, con la paura di far soffrire i miei cari e non avendo il coraggio di affrontare la situazione, senza nemmeno fare gli esami. Finalmente, proprio il 29 novembre [giorno della morte di Andrea nel ’90, nda], parlando con Giacomo A., senza che lo avessi programmato o voluto, sono scoppiata in lacrime e gli ho raccontato i miei timori. Lui, così, mi ha esortato a fare tutti gli esami necessari e mi ha raccomandato di pregare Andrea per la guarigione. I primi giorni sono stata esitante, non mi sembrava giusto chiedere tanto, però pregavo Andrea affinché mi aiutasse a stare dignitosamente davanti a ciò che mi stava per accadere. In un secondo momento ho iniziato a pregare veramente per la guarigione e quando mi rivolgevo a lui, lo sentivo veramente vicino, pur non avendolo mai conosciuto. Con grande stupore del medico dagli esami non è risultato nulla, assolutamente nulla. Devo ringraziare Andrea per questo (“tanto interpellato” anche da Giacomo e da sua mamma – che ha detto di sentire chiaramente la sua presenza). Dopo 136
quanto è accaduto ho sentito il bisogno di sapere di più su di lui (conoscevo già la sua storia, perché Giacomo ne parla spesso a Scuola di Comunità). Ancor prima che lo chiedessi una mattina, per “caso”, nell’auletta dove studiamo, ho trovato il libretto azzurro con le lettere. L’ho letto tutto, ho osservato le foto e posso dire che la grazia più grande che mi ha fatto Andrea non è stata quella di avermi fatto guarire, ma quella di essersi fatto conoscere attraverso Giacomo. Sì, leggendo ciò che ha scritto ed osservando le foto ho potuto immediatamente vedere che in ciò che due anni fa (quando ero una perfetta esemplare della società odierna, senza più nemmeno la voglia di piangere di tristezza) mi ha colpito di Giacomo e mi ha fatto tornare a piangere, a chiedere, a dire sì a Cristo ed a rinascere, era chiaramente PRESENTE il volto di Andrea, visibile persino nella somiglianza del sorriso e dello sguardo. A Giacomo ho detto che sento sua madre più MAMMA che la mia ed ora aggiungo che vostro figlio Andrea con la sua esperienza, con la sua grandezza, con quanto ha lasciato nel cuore di Giacomo ha partecipato all’azione redentrice che Cristo ha avuto su di me e per cui non potrò mai ringraziare abbastanza. Mi sembra di conoscere Andrea da sempre tanto è vero che gli voglio bene. “BISOGNA DIRE UN SÌ A CRISTO CHE SIA TOTALE. LA PIENEZZA DELLA VITA STA NELLA VERGINITÀ E NELLA MORTE” Leggo e rileggo questa frase in continuazione, è immenso il suo significato. Pensando a come Andrea ha vissuto la morte per amore di Gesù, rimanendo legato ancor più alla realtà, guardandola di fronte, mi dico che anch’io per amare devo stare di fronte alla realtà di ogni giorno disposta a morire per Lui ogni istante, cioè abbandonando l’appartenenza a me stessa per quella di Cristo, per lasciare posto a quel sì che mi ha fatto rinascere. Andrea ha fatto sì che queste frasi, tante volte ripetute a Scuola di Comunità, mi sono davvero passate al cuore. Prego Andrea perché mi aiuti a stare di fronte alla realtà come ci stava lui, perché mi aiuti ad essere amica di Giacomo così come lo è stato lui (…non potrò mai essere come lui!): che possa cioè voler bene al suo destino gratuitamente, ma so137
prattutto perché chi mi incontra possa conoscere vostro figlio attraverso di me perché Andrea è presente nel mio cuore, così come evidente negli occhi di Giacomo. Non si può parlare di Andrea come di una persona che non c’è più: Andrea è vivo. Chi è più vivo di una persona che compie tali miracoli nei cuori della gente? Grazie! Buon Natale, con affetto. Nora Anni 1996-1997 Scritti di alcuni ragazzi e ragazze delle scuole medie Nelle lettere scritte ad Andrea quello che mi ha colpito di più è stato che i suoi amici non scrivevano pensieri di compassione, ma sembrava che avessero bisogno di lui per imitarlo nella loro vita. Infatti Andrea, anche se sapeva che stava per morire, viveva ogni attimo della sua vita con gioia […] Alessia Carissima signora Mandelli, io sono uno dei tanti ragazzi che avendo letto il libretto su Andrea mi sono stupito perché suo figlio è stato buono, gentile ecc. con tutti e per come ha vissuto la sua vita: non ci sarei riuscito […]. Scusi una domanda: perché Andrea ha avuto del bene da tutti i conoscenti? Cosa ha fatto? Firma mancante Un pensiero per la mamma di Andrea. Cara signora suo figlio, per quello che ci ha raccontato la nostra professoressa, era e lo è tuttora un ragazzo stupendo; però di lui mi ha colpito una cosa, il suo modo di fare, cioè sapendo di essere in fin di vita continuò a fare quello che ha sempre fatto, anche perché non poteva fare nient’altro; mentre se fosse successo a me avrei realizzato tutti i miei desideri. Comunque penso che Andrea non si fosse meritato questo dispiacere, anche se lui non la pensava in questo modo. Salve e la ringrazio per la sua presenza Valentina 138
Io, purtroppo, non ho avuto la possibilità di conoscere Andrea ma da quello che ho visto e sentito aveva tanti amici e molto probabilmente era uno dei migliori amici per chi lo conosceva. Di Andrea mi ha colpito il modo di come ha vissuto la sua malattia. Di solito, almeno questa è la mia opinione, quando si sa di avere i giorni contati si fa tutto ciò che non si è fatto durante la vita, si cerca di vivere il tempo nella felicità più assoluta. Andrea no! Forse era un ragazzo che si sapeva accontentare, forse non sarebbe stato capace, forse non era solo lui speciale ma anche la sua famiglia che era tanto bella che il massimo della felicità lo trovava a casa. Fulvio Un suo omonimo Andrea, da quello che dice la gente, è stato un ragazzo eccezionale, capace di qualsiasi cosa per il Signore, anche di morire. La cosa che mi ha colpito di più della sua vita è che nonostante la sua malattia ha continuato a vivere la vita di tutti i giorni, forse con più meditazione ma ha continuato ad aiutare in famiglia. Mi sarebbe piaciuto molto conoscerlo, penso di essermi perso una delle migliori persone che potessero insegnarmi la religione cristiana, non voglio dire che i preti o le insegnanti di religione non facciano bene il loro lavoro ma secondo me un ragazzo giovane e che ci crede veramente può servirci molto. Comunque conosco Marta, Michele e Giovanni che sono miei cari amici. Io penso che Andrea, Marta e gli altri siano delle persone molto buone con cui mi piace passare il tempo anche perché sono cresciuti in un ambiente familiare molto confortevole. Ogni tanto qualcuno che conosceva Andrea, mi dice che devo essere all’altezza di portare il suo nome, comunque io sono anche fiero di portarlo. Andrea Mandelli
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Signora Sofia io credo che lei sia stata una persona fortunata ad avere un figlio come Andrea. Non la conosco, ma penso che per Andrea valga la stessa cosa. Io ammiro suo figlio e mi ha colpito la sua grande forza e il suo coraggio, tutti gli altri avrebbero detto “perché proprio a me”, invece lui no ed è questo che lo rende speciale. Vorrei essere come lui in alcuni momenti. Lui ha affrontato con tranquillità e serenità questo grande dolore, anche se sapeva che in pochi istanti si sarebbe potuto trovare privo di vita. Non si è rassegnato alla vita crudele che lo stava uccidendo e ha continuato come sempre, credevo non esistessero persone così. Andrea ha creato una comunità intorno a sé dove ha conosciuto della gente e ne ha fatto conoscere altra. Andrea è un esempio da seguire. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo, credo di essermi persa qualcosa. Con ricordo Alessia Signora Sofia, lei non ci conosce, ma la mia prof di religione ci ha parlato molto di lei e di suo figlio Andrea. Non abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, ma siamo convinte che intorno a sé abbia creato una comunità, che poi è il primo fattore della Chiesa. Pensiamo essere un po’ gelose del comportamento di Andrea durante il periodo della sua malattia perché lui ha saputo vivere la sua vita così come veniva senza rifiutarla, cercando di vivere normalmente anche nei momenti peggiori. La salutiamo Silvia, Margherita e Irene Gentilissima signora Mandelli, so che sta passando un momento molto triste, per la morte di suo figlio Andrea. La morte abbatte tutti, specialmente quando arriva così presto e quando si è vissuti insieme per molti anni. Io prego il Signore affinché le dia la forza di sopportare 140
questo grande dolore e di continuare a vivere pensando che Andrea è sicuramente andato in Paradiso. Cordiali saluti Salvatore Cara signora Mandelli, la prima volta che ho saputo di suo figlio Andrea sono rimasto stupito della forza e della voglia di continuare che ha avuto anche in quei momenti. Ma anche lei è tutta la famiglia siete stati forti e volenterosi di continuare, ma con il ricordo di Andrea nel cuore e non dimenticandolo. Francamente non ho molto da dire sull’argomento, l’unica cosa che voglio è esserle vicino Matteo 17 dicembre 1997 Carissima Sofia, scusa se ti disturbo ancora, ma l’emozione di questa sera nel venire a trovarti, nell’avere la Grazia di conoscerti e di rivedere quel salotto in cui insieme al Don Giorgio facevamo con Andrea “le Responsabili”12mi riempie il cuore e non mi è possibile addormentarmi. La fortuna di aver condiviso con Andrea quei mesi in cui è stato con noi al Sacro Cuore è l’avvenimento più grande e bello della mia vita. Tutto ciò che di buono e di bello ho la capacità di scorgere ora lo devo all’Andrea ed insieme anche una ferita d’amore – che grazie alla sua memoria, Andrea è più presente nella mia vita oggi, per la coscienza che mi ha lasciato, di allora – una ferita d’amore dicevo che non si chiude più. Rivedo in te e nel tuo sorriso l’abbraccio dell’Andrea. Che questa letizia che ci doni con la tua presenza – sei un po’ mamma di tutti noi amici dell’Andrea – possa accompagnarti sempre. La responsabilità che l’Andrea ci ha lasciato è grande, ma la Incontri di approfondimento e confronto tra coloro che, con maggior decisione, si erano coinvolti profondamente con l’esperienza di GS. 12
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strada che ci ha tracciato è semplice, semplice come le giornate che abbiamo trascorso con lui in cui tutto emergeva positivo. Chiedo al Signore che la mia piccola e fragile vita possa sempre avere come orizzonte il desiderio e l’attesa dell’Andrea, ti abbraccio con infinita commozione e riconoscenza. Marietto 5 maggio 2007 Ad Antonio e Sofia Questo vuol essere solo un biglietto di ringraziamento per l’esperienza che mi avete fatto vivere oggi. Mi scuso se non ho saputo esprimere subito ciò di cui traboccava il mio cuore ma ero troppo commossa ed impotente nel trovare le parole adeguate. Forse perché di parole non ce ne sono, forse perché non sono le parole che mi hanno provocato ma la figura di Andrea vivo attraverso di voi, come vivo era l’abbraccio nel quale lui per primo ha avuto il coraggio di abbandonarsi e che oggi abbracciava ognuno di noi. Quanta vita in una morte, ho pensato, ed era una vita nuova che ha mosso il mio essere a guardare, ad alzare la testa dalle mie misere preoccupazioni, dalla mia misura, consapevole, attraverso di voi, che l’ultima parola è una parola di salvezza. Non quella che intendiamo noi. Capivo che lo sguardo non era più mio, lo sguardo era rivolto Dove guardava Andrea e dove continuate a guardare voi. Conoscevo la sua storia ma mai tanto intensa mi è parsa detta da voi, da sua madre e suo padre, che me l’hanno ritornata. Sì, perché mi è sembrato un dono, non una semplice emozione che non riusciva più a bloccare le mie lacrime, non un fremito del cuore che appartiene all’istante, ma il desiderio di un movimento grande del mio cuore, di un cambiamento, di un cammino appunto. E la consapevolezza che questo non avviene per una forza nostra, ma in un movimento più grande volato al destino. Destino appunto, misterioso ed imprevedibile come diceva Antonio, ma misericordioso nella sua fatica come diceva Sofia. Pensavo da dove Andrea avesse vinto la consapevolezza del142
la sua obbedienza e poi ho guardato voi, uniti in un bene più grande in cui vi sta tutto, la morte di vostro figlio, la vita degli altri e quella di tutti i vostri amici. Vi guardavo complici nella sofferenza e nella gioia, più giovani di noi nell’entusiasmo a vivere la vita perché sempre rinnovati da uno Spirito che vi ha preso e che si è donato oggi anche a noi. Vi prego, non smettete mai di raccontare di Andrea, perché ognuno di noi, perché io, ho bisogno di imparare a 44 anni a morire per vivere. A morire, a donare la mia vita, per rivivere ogni giorno. Grazie firma illeggibile Milano, 30 maggio 2010 Cara Sofia e Antonio, quando torno da Monte Marenzo dopo una giornata così bella come quella di oggi rimango sempre commosso per l’attesa di Andrea ed esausto dal contraccolpo di una risposta sempre infinitamente più grande del mio desiderio. Grazie dunque di rendere in queste giornate sperimentabile e godibile la presenza di Cristo. Stasera ho ripreso ad una ad una le lettere che mi avevi dato. Ma poi… sono arrivato al libretto delle cure, al diario della sua malattia. Sto piangendo ancora adesso mentre vi scrivo, tanto – ad ogni medicina, cure, sofferenza, diagnosi – il mio cuore si immedesimava nelle sofferenze di Andrea e della vostra. È passato di lì, è passato di lì sino in fondo il suo sì, Andrea è passato di lì. Mentre scrivo mi sovviene il suo volto sorridente, i suoi abbracci fuori dalla scuola, il volto indimenticabile scolpito di ogni istante con lui. Oggi come allora e più di allora cerco solo questo: vivere il volto di Cristo dentro un’amicizia così. Con tutti cerco e trovo le tracce di questa amicizia. Gesù che sei l’amico del nostro cuore e che tanto cuore hai avuto dall’Andrea rendi la mia vita di poveretto piena di intensità e commozione, mostrami il Tuo volto […] Ancora grazie! Intimamente vostro. Mario 143
E-mail indirizzata ad Antonio Mandelli
20 dicembre 2011 Antonio, ieri ho raccontato a un amico giessino di Fidenza, Andrea, della cena di domenica da voi. E gli ho girato la storia di vostro figlio, che lui nato nel 1995 certo non conosceva. E guarda cosa mi risponde! Una lettera più bella dell’altra. Grazie Fabrizio per avermi inviato quel libretto13 su Andrea, perché la vita vale la pena di essere vissuta anche solo perché rimaniamo colpiti dalle persone così! Che bello, ogni cosa che ho letto la sentivo per me! Grazie per avermi fatto conoscere Andrea e attraverso di lui, e quindi attraverso anche te, ho conosciuto e conosco meglio Cristo. È vero, quando lo incontri non dimentichi più quell’istante, e le cose difficili diventano facili. Grazie. Andrea Saluti anche a Sofia, nelle vacanze di Natale dobbiamo combinare per una puntata a Monte Marenzo o addirittura nella mitica Val Codera. A presto Fabrizio
13 Si tratta del “famoso” libretto azzurro – a cui si fa cenno anche nel libro – intitolato Una grande grazia che fu composto dagli amici e professori di Andrea immediatamente dopo la sua morte, editato in proprio e distribuito in migliaia di copie.
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