Vale tutto

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Lorenzo Sani Vale tutto. Le storie segrete della pallacanestro italiana Prima edizione in Supermiscela, agosto 2014 Schiaccia a due mani: Samuele Zamuner Porta palla a testa alta: Enrico Brizzi Comanda la difesa a zona: Marcello Fini Vigila su ogni rimbalzo: Alessandra Maestrini Pennella bombe da tre: Serena Tommasini Degna In copertina: Artis Gilmore e Geno Banks tra i tifosi della Fortitudo. Foto di Gianni Schicchi Si ostina a tentare il gancio-cielo: Tommaso Naon ufficiostampa@italicaedizioni.it, +39 347 8725246 Italica edizioni è un sogno nato camminando tra buoni amici nel corso del grande viaggio a piedi Italica 150 Š Lorenzo Sani - Italica edizioni Isbn 978-88-98133-11-6 http://www.italicaedizioni.it www.facebook.com/italicaedizioni info@italicaedizioni.it


Al grande Cesare Covino da Ischia, che predica basket ai Lillipuziani



Indice

Figlio di un dio minors di Mario Boni

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I giorni del “Falco” 13 Il derby impossibile 51 Mike D’Antoni e l’impero del basket 89 Gli spietati di Toscana 115 L’angelo della Fortitudo 147 La parabola di “Spaccaossa” Pondexter 167 “Sugar” Ray, ma chi cazzo sei? 215 Il summer camp più pericoloso del mondo 233 Viva per un canestro 265 275

Ringraziamenti



Gli spietati di Toscana

«Là sotto succedevano tutte quelle cose che non trovavi il giorno dopo sul giornale. Era il nostro terzo tempo». Marco Lanza «Negli anni d’oro dell’Amatori, gli arbitri non ci fischiavano contro canestro e fallo. O era canestro o era fallo». Luca Lanza «Mi sarebbe piaciuto giocare con i miei fratelli. Ma non finivano mai la prima partita». Matteo Lanza «Mi fanno ridere quelli che parlano di stadi caldi, nel calcio. Entrino in certi palazzetti, se vogliono farsi davvero un’idea di cos’è l’inferno». Mario Boni

Leggenda narra di un campo pressoché inespugnabile. Il campo di Carrara, terra di anarchici, cave e cavatori. Per spaccare il marmo devi capire quale sia il suo verso e affondare la lama. Se segui la linea giusta lo tagli come il burro, ma se vai contro il verso, è impossibile. I cavatori lo chiamano in quel modo, “il contro”. E la gente capisce. A quanto si dice, i carrarini, “il contro”, ce l’hanno an


che in testa. Per raggiungere il loro cuore, se questo è l’obiettivo, devi trovare il verso, come si fa con il marmo. Seguire la linea giusta. Sennò è meglio lasciar perdere. Dell’Amatori Carrara che arrivò a sfiorare la promozione in Serie A, miscelando tecnica e furore in parti non uguali, oggi si è sbiadito il ricordo. La squadra che ha imperversato negli anni Settanta fino alla metà della decade seguente non esiste più. Qualcuno sicuramente tirerà un sospiro di sollievo, ma altri hanno grande nostalgia di quei tempi. L’arena era fra le più calde della pallacanestro italiana, un campo temuto come la peste nel XIII secolo, l’isola del Diavolo di Papillon con due canestri piantati ai lati. Nato come edificio militare, oggi è lo “spazio polifunzionale” delle scuole “Einaudi” e “Carducci”, ma una trentina di anni fa le sfumature educative erano assai sfuggenti. Ci voleva uno bravo per coglierle. Progettato nel 1887 dall’architetto piemontese Leandro Caselli, è conosciuto come “palestra Dogali” in ricordo della battaglia combattuta dal Regio Esercito il 26 gennaio di quello stesso anno in Eritrea. Vi persero la vita 430 nostri soldati, su 548: fu una ecatombe. Se si fossero sfidati alla roulette russa, le percentuali di sopravvivenza sarebbero state sicuramente maggiori. Nel solco della tradizione, anche durante le battaglie sportive combattute alla Dogali di Carrara dall’Amatori era usanza non fare prigionieri. «Quando entravi in quella palestra e ti guardavi attorno, mancava l’aria. Perfino raggiungere gli spogliatoi era un incubo: sembrava di scendere nelle catacombe» ricorda Marco Calamai, che è stato giocatore di Firenze e Fortitudo Bologna, prima della carriera di allenatore. Naturalmente la sindrome da soffocamento che assaliva i giocatori ospiti dalle parti della palestra comunale ex Dogali (oggi si chiama così, con quel prefisso “ex” che riesce addirittura a essere peggio della locuzione “spazio polifunzionale”) era di natura psicosomatica e non dipendeva da condizionamenti architettonici o strutturali. 10


Il fatto che quello spazio secolare prima degli sport di squadra ospitasse boxe e lotta greco-romana non è un semplice indizio, ma una sorta di imprinting. I pugili si allenavano nei sotterranei. Non vennero mai sfrattati dall’impianto. La loro palestra con gli attrezzi e i sacchi si trovava infatti tra gli spogliatoi e le famigerate docce comuni, dove era prassi inveterata che avvenisse il redde rationem e si regolassero i conti lasciati in sospeso durante la partita che si era giocata al piano di sopra. «Là sotto succedevano tutte quelle cose che non trovavi il giorno dopo sul giornale. Era il nostro terzo tempo» dice con un sorriso da rettile il maggiore dei Lanza, Marco, ex portiere di calcio, due metri tondi, colonna portante dell’Amatori Carrara in coppia con Maurizio Saccaggi. L’origine della sindrome, ormai sarà chiaro, era determinata dalle persone che riempivano quella struttura tolta ai militari e consegnata ai civili, ammesso e non concesso che la popolazione locale, sia nei panni di tifosi, sia in quelli di giocatori, si possa definire tale. Le testimonianze di molti forestieri, capitati alla Dogali da avversari, inducono a ritenere che l’aggettivo “civile” sia stato utilizzato con una certa leggerezza. Va anche ricordato che, a differenza dei giorni nostri, le squadre erano composte da atleti del luogo; al massimo, parlando di Carrara, si pescava a Massa, come nel caso dei tre fratelli Lanza, Marco, Luca e Matteo, evangelisti apocrifi del basket che agli avversari predicavano l’espiazione terrena delle colpe, senza garantire loro alcuna speranza di redenzione. Il vincolo dell’amicizia tra compagni di squadra che erano cresciuti insieme, se non addirittura della consanguineità, rappresentava un’altra peculiarità della pallacanestro di quei tempi, tant’è che: «Il declino del basket a Carrara è iniziato quando la società ha incominciato a prendere i giocatori da fuori» dichiara convinto Marco Lanza, il più terribile dei tre fratelli («Quello meno tecnico» precisa lui). Pensando alle squadre di oggi, formate da giocatori di sette, 11


otto nazionalità differenti, alla difficoltà di trovare un linguaggio comune per intendersi, data la babele di lingue parlate nello spogliatoio, sembra di raccontare storie di alieni, non solo di epoche lontane. Basket in bianco e nero. A Reggio Emilia, l’Unione sportiva La torre militava in Serie B con i suoi gioielli, Giampaolo Caldiani, Giuliano Spaggiari, Walter Castagnetti, Carlo Marani e Lino Fabbi: l’allenatore che proveniva da più lontano era di Bologna, Corrado Pizzi, e lo “straniero”, Luciano Campanini, veniva da Fidenza. Si comunicava in dialetto. Il pomeriggio di un anno imprecisato, nel corso di una partita di allenamento contro una svogliatissima Virtus Bologna, la piccola Reggio era avanti di 17 a pochi secondi dalla fine. Carlo Marani avanzò fino alla lunetta nemica senza impedimenti. Quando finalmente incontrò il primo avversario gli cedette il pallone con il sorriso della festa. «Toh mo’, ciapa la bala» gli disse. «Fa un canèster da desdòt se t’è bòun». Ecco, bravo. Fai un canestro da diciotto, se sei capace.

I tubi di Fernandino Parlare il dialetto era normale in tutte le squadre d’Italia, esclusi i club di primissima fascia. Carrara non faceva eccezione. Werther Pedrazzi, firma del basket per il Corriere della Sera, prima di essere il compare di tante trasferte sui campi da gioco di Oscar Eleni e di costituire con lui una coppia di penne stile Jack Lemmon e Walter Matthau in Prima pagina è stato una promessa della Forti e Liberi Monza, la società in cui hanno mosso i primi passi giocatori come Antonio Farina, entrato nel mito della pallacanestro canturina sotto la guida di coach Arnaldo Taurisano, con i compagni di squadra Marzorati, Recalcati, Della Fiori, Lienhard; o come Angelo Rovati, che oltre ad aver difeso i colori di Cantù, Fortitudo e Reyer da atleta, ed essere stato dirigente prima nella 12


stessa Fortitudo, poi a Roma e Forlì con l’ineguagliabile Piero Parisini, e infine presidente di Legabasket, è stato anche strettissimo collaboratore di Romano Prodi quando il professore era Primo ministro. Questo per dire che la società di Monza, storica polisportiva che ha cementato il proprio pedigree sulla formazione sportiva dei giovani, era un club dai solidi principi etici e morali, che i suoi atleti assecondavano con slancio tra le brume dell’operoso Nord longobardo. Anche per loro, così bravi e “a modino”, giocare alla Dogali significava rischiare lo shock anafilattico. «Durante una partita di Serie C» testimonia Pedrazzi, «uno del pubblico mi ha arpionato il braccio con il manico di un ombrello mentre stavo rimettendo in gioco il pallone. Io ero pronto per la rimessa, con le braccia ad angolo retto, ma lui mi ha afferrato proprio all’altezza del gomito. Oggi ci rido sopra e dico che quella fu probabilmente la massima interpretazione del gesto dell’ombrello, però allora non risi affatto. Il pallone mi scivolò dalle mani, diventando facile preda del mio avversario. Fradicio di sudore e degli sputi che arrivavano dalla tribuna, guardo allibito l’arbitro, gli urlo qualcosa e lui non solo mi dà palla persa, ma mi minaccia pure il fallo tecnico!» Alla Dogali era difficile per gli avversari portare a casa il risultato, perché ai tempi eroici della pallacanestro carrarina il più tenero dei giocatori di casa, noti per la proverbiale difficoltà a contenersi nei termini di un sano agonismo, era il gigante Enrico Giovanelli, un pezzo di pane di due metri per uno che nella vita di tutti i giorni faceva il bidello e aveva una vaga somiglianza con il gigante che pendeva dalle labbra di Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Era raro che si arrabbiasse. Ma la volta che capitò, a Torino, sradicò dalla parete della palestra il quadro svedese. Non è semplice stabilire se negli anni ruggenti della pallacanestro alla Dogali fossero più “grintosi” i tifosi dell’Amatori Carrara o i suoi giocatori, e l’aggettivo “grintosi” suona come un pietoso eufemismo. 13


La palestra aveva una capienza di alcune centinaia di spettatori. Per gli incontri di cartello riuscivano a imbucarsi anche in duemila. All’epoca, poi, non vigeva il divieto di fumo nei locali pubblici e ciò favoriva il particolare microclima balcanico che si veniva a creare. Non era certamente l’unica causa che induceva negli avversari il senso di soffocamento di cui parlava Marco Calamai, però aiutava. Superfluo sottolineare, inoltre, che il pubblico non fosse composto ed elegante come i frequentatori abituali dell’ippodromo londinese di Epsom, dove si disputò il primo derby della storia, e che non di rado, dati gli esigui spazi disponibili e la totale assenza di posacenere, le cicche delle sigarette venissero spente sulle spalle dei giocatori avversari che si avvicinavano alle balaustre delle tribune per eseguire le rimesse laterali. Questo per ricordare a Pedrazzi che tutto sommato gli andò pure bene, con l’ombrello. In caso di vittoria degli ospiti, era caldamente consigliato ai forestieri di levare le tende da Carrara il più velocemente possibile. A maggior ragione la raccomandazione valeva per i loro temerari tifosi. Così fecero tanti anni fa i sostenitori di Montecatini, arrivati alla Dogali con due pullman, per assistere a un accesissimo derby. Tra le tante passioni della cittadina termale, che a lungo militò nella massima divisione trascinata dai dioscuri Mario Boni e Andrea Niccolai, c’è sicuramente la pallacanestro. E la pallacanestro non si accontenta di sfornare soltanto grandi giocatori, ma talvolta pure tifosi eccezionali: è il caso di Alessio Bellandi, la cui anomalia risiede nel fatto che non abbia in realtà una vera e propria squadra del cuore, perché nel suo c’è spazio soltanto per una persona. Mario Boni. Bellandi tifa per Boni. E quando può lo segue ovunque giochi. Se si considera che Mario Boni è nato nel 1963 (a Codogno) e nel 2014 giocava ancora a Monsummano (Serie C, promosso in B), dopo aver girato mezzo mondo, dagli Usa alla Grecia, dal14


la Spagna alle innumerevoli franchigie italiane di cui ha difeso i colori, è facile immaginare quanti chilometri si sia sobbarcato Bellandi per incitare il proprio beniamino. Quando Boni fu acquistato dalla Virtus Roma, stagione 19981999, Alessio Bellandi incrociò il proprietario del club, Giorgio Corbelli, e gli disse con il tono di chi stava rivelandogli un segreto militare: «Presidente, se hai preso Mario Boni perché pensi che ti faccia cinquanta punti a partita, ti sbagli di grosso. Io Mario lo conosco bene, nessuno lo conosce meglio di me…» Corbelli cambiò espressione e si concentrò sullo strano individuo che gli pareva di aver già incontrato da qualche altra parte. «Fidati, presidente» riattaccò Bellandi. «Mario Boni non è più quello di una volta: oggi te ne potrà fare quaranta, quarantadue al massimo…» Altro storico tifoso di Montecatini, della squadra stavolta e non di un solo giocatore, è il tassista Fernando Zucconi, detto “Fernandino” per la statura non eccelsa. Fernandino non ha un fisico da atleta e il mestiere che esercita di sicuro non lo aiuta a tenersi in forma: è piccolo, rotondo, con i capelli corvini al punto da rientrare a pieno titolo nella categoria umana dei “sempreneri”, esseri umani che – per un fenomeno di fotosintesi difficile da spiegare – si avvicinano molto alle conifere. Ma non è questa la sola peculiarità del personaggio. Nel corso degli anni, partita dopo partita, Fernandino ha infatti elaborato una teoria che spiega con il rigore della scienza la ragione per cui un giocatore riesca o meno a fare canestro. Il tassista ha infatti scoperto che il campo da basket, del quale siamo abituati a considerare profondità e larghezza, ha in realtà anche una dimensione volumetrica, e forse perfino trascendentale: il rettangolo di gioco è infatti sovrastato da un immenso reticolo di tubi invisibili all’occhio umano, che riempie completamente lo spazio tra i canestri e il parquet. (Parliamo di tubi impalpabili come le segrete vie seguite dagli aerei in volo, è ovvio, altrimenti i giocatori vi andrebbero a sbattere 15


contro e addio partita.) In base alla “teoria dei tubi” di Fernandino, ogni traiettoria della palla lanciata verso il canestro è determinata dal tubo che imbocca. Se si azzecca quello giusto, va a bersaglio. Ancora oggi, a Montecatini, di fronte a un canestro impossibile, magari in seguito a un tiro scoccato da metà campo, o dall’arco dei tre punti ricadendo all’indietro con due avversari addosso, c’è chi esclama sbigottito: «Visto? Ha infilato il tubo di Fernandino!» La volta del famoso derby alla Dogali di Carrara, il tassista Fernando Zucconi era con la moglie su uno dei due pullman di tifosi giunti da Montecatini. L’atmosfera era quella di sempre, in occasioni del genere. Mancava l’aria e la poca rimasta se l’erano fumata la miriade di sigarette degli spettatori sugli spalti. Quel derby fu particolarmente tirato dall’inizio alla fine, praticamente una battaglia punto su punto durata per tutto l’arco dei quaranta minuti di gioco. A determinare il risultato finale fu la decisione degli arbitri di annullare il canestro della possibile vittoria dell’Amatori, guidata dallo storico capitano Emilio Dalle Mura, perché realizzato a tempo scaduto. Dato l’epilogo, i tifosi di Montecatini furono assai lesti a mettersi le gambe in spalla e guadagnare il più in fretta possibile i due torpedoni con cui avevano affrontato la trasferta. Non era il caso di soffermarsi in tribuna a festeggiare. L’avrebbero fatto una volta a casa, se vi fossero arrivati sani e salvi, o al massimo da “Gazzosa” e “Testasecca” al bar Splendido. Il controesodo avvenne alla spicciolata. Gli autisti, quando reputarono di essere a pieno carico, richiusero le portiere dei loro mezzi e ripartirono in fretta e furia. Approfittarono della circostanza che i tifosi locali fossero ancora intenti a manifestare il proprio fermo dissenso nei confronti della coppia di arbitri, che aveva trovato rifugio negli spogliatoi e si era chiusa la porta alle spalle a doppia mandata. Avendo perso minuti preziosi, i carraresi non riuscirono a re16


golare i conti con quelli di Montecatini, i quali ormai erano sui pullman, pronti per svignarsela. Tutti meno uno, che durante la concitata fuga dopo la vittoria si era attardato nelle retrovie. Quell’uno rimasto a piedi era piccolo, rotondo e “semprenero”. Quando anche le porte automatiche del secondo bus si richiusero e l’autista ingranò la marcia, Fernando Zucconi detto “Fernandino” stava ancora arrancando a un paio di centinaia di metri. Provò a gridare, ma dalla bocca uscì un indecifrabile suono gutturale. Sentiva l’affanno crescere, così come il terrore di essere abbandonato dai suoi alla mercé delle belve di Carrara. Mentre il pullman cominciava a prendere velocità, Fernandino si accorse di avere alle spalle uno sciame di supporter avversari. E questi, pur trovandosi a una certa distanza, davano la netta sensazione di essere più veloci e di poterlo raggiungere in breve tempo. Il fiato del tassista era cortissimo, minato dalla paura di non farcela. Il pullman si allontanava e quelli dell’Amatori guadagnavano terreno. Riuscì a distinguere sua moglie che si sbracciava dal lunotto posteriore e, a larghi gesti, lo invitava a salire. Affranto e tremolante, Fernandino continuava a correre con tutte le forze e a voltarsi indietro sempre più spesso, ossessionato dai nemici ormai a pochi passi. Sentiva risuonare le loro imprecazioni, il ritmo frenetico dei passi sul selciato. Pochi attimi e l’avrebbero certamente sopraffatto. La moglie aprì un finestrino laterale, sporse mezzo busto e lo esortò con tutta la voce che aveva nei polmoni a darsi una mossa: «Più veloce, Fernando! Corri!» La donna implorò anche l’autista di rallentare, per dare al marito la possibilità di saltare su al volo. Quando il pullman moderò l’andatura e un inconfondibile sbuffo meccanico indicò che le porte automatiche si erano nuovamente aperte, era ormai troppo tardi. Fu in quell’istante che Fernandino ebbe un’intuizione alla quale affidò le residue speranze di salvezza. Mentre la moglie continuava a sollecitarlo a gesti e grida dal finestrino del bus, il tassista adocchiò un paio di pietre, le raccolse 17


e si accinse a scagliarle contro i suoi stessi compagni, inveendo all’indirizzo della donna che, in lacrime, continuava a supplicarlo di sbrigarsi. «Ti prego, Fernando, fai presto!» strepitò lei sull’orlo di una crisi di pianto. Fernandino finse di non conoscerla. «Taci, brutta puttana!» le inveì contro. E giù una sassata contro il pullman. «Bastardi!» strillò a pieni polmoni. «Tornate a Montecatini, merde!» E giù un’altra pietrata. Altri sassi partivano dalle mani dei tifosi di Carrara, che lo avevano raggiunto e si stavano avventando sull’automezzo. Continuando a correre e a lanciare sassi, qualcuno di loro si voltò a guardarlo con un misto di curiosità e ammirazione, per capire chi fosse quel loro coraggioso concittadino che, da solo, aveva messo in fuga due pullman zeppi di tifosi ospiti. Fisicamente non gli avrebbero dato due lire, ma uno non è che le palle se le mette sopra i pantaloni. Fernandino rallentò, e lasciò che i pullman e la torma di furiosi lo distanziassero, fino a quando non li vide scomparire in fondo alla strada. A quel punto, sconvolto dalle emozioni, abbozzò un cenno di saluto con la mano, anche se non era chiaro a chi fosse rivolto, se alla moglie o ai carrarini. Tirò un lungo respiro. Procedendo di passo svelto, perché non si sentiva ancora al sicuro, si soffiò il naso. Imbucò il primo vicolo utile, rallentò fino a fermarsi. Ansimante, piegato in due per lo sforzo, si guardò attorno roteando gli occhi che sembravano uova in camicia. Si sedette sul cordolo del marciapiede, e aspettò che il suo cuore tornasse a battere a un ritmo accettabile. Intorno a lui non c’era più nessuno. Era salvo. Così puntò gli occhi al cielo, e imprecò come solo un toscano scampato d’un pelo a un grave pericolo è in grado di fare. 18


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