L'impero del basket

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alessandro ruta

l' impero del basket i favolosi anni ottanta dell' olimpia milano

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Alessandro Ruta L’impero del basket. I favolosi anni Ottanta dell’Olimpia Milano Prima edizione in Supermiscela, aprile 2015 Schiaccia a due mani: Samuele Zamuner Porta palla a testa alta: Enrico Brizzi Comanda la difesa a zona: Marcello Fini Vigila su ogni rimbalzo: Alessandra Maestrini Pennella bombe da tre: Serena Tommasini Degna Si ostina a tentare il “gancio cielo”: Tommaso Naon ufficiostampa@italicaedizioni.it – +39 347 8725246 In copertina foto di Claudio Scaccini © 2015 Alessandro Ruta – Italica edizioni Isbn 978-88-98133-16-1 Italica edizioni è un sogno nato camminando tra buoni amici nel corso del grande viaggio a piedi Italica 150 http://www.italicaedizioni.it www.facebook.com/italicaedizioni info@italicaedizioni.it


Al campetto di via Dezza e alle nostre partite durante l’università. Quindi a Marco, Stefano, Luca, Alessio e Fabrizio. Più Andy, quando poteva.



A me mi piace Milano, mi piace quasi tutto, tutto quello che di solito la gente disprezza, a me mi piace. Che so, i panini, i paninari, anche il clima… di merda, a me piace. Lo smog? Mi sto cominciando ad abituare. Anche i piccioni, all’inizio mi facevano veramente schifo, adesso cominciano a piacermi. Silvio Orlando, Kamikazen – Ultima notte a Milano Il quartiere taceva, la 125 nel piazzale deserto e ghiacciato sembrava anche lei destinata a un funerale. Si mise invece in moto al primo colpo e Binda tornò verso il centro città, osservando il contrasto tra fuoristrada e automobili lussuose posteggiate sotto citofoni divelti e cancellate arrugginite. Piero Colaprico – Pietro Valpreda, La nevicata dell’85 Ve lo giuro, questo canestro non è buono Flavio Tranquillo (finale scudetto Livorno-Milano, gara cinque, 1989)



Indice

Un gruppo di “ragazzini”, di Franco Boselli p. 11 Ritorno al passato, di Franco Casalini 13 Prologo. Il canestro che non c’era

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Stagione 1984-1985. Campioni senza fissa dimora 19 Squadra che vince non si cambia – La schedina milionaria – Joe “Barely Cares” – La riscossa del fenomeno – La fiocada del 85 – Il crollo del Palasport – Russ il “Rosso” danza sul linoleum – Una nuova casa per l’Olimpia – Verso la finale scudetto – Simac-Scavolini: ultimo atto – Milano capitale del basket italiano Stagione 1985-1986. Pressoché imbattibili 71 Un’imprescindibile precarietà – Il giovane “Cedro” – Europa indigesta – Addio “Signor Simac” – Ancora una Coppa – Spalle troppo grandi per un muro così piccolo – La ressa di Caserta – Ospiti d’eccezione – Sotto il vestito… Stagione 1986-1987. Per gli altri nemmeno le briciole 105 Al Palatrussardi arriva “The Voice”… – Nemici, amici, colleghi – Beata gioventù e benedetta esperienza – La madre di tutte le rimonte – Quando uno è campione – Tra Italia ed Europa – Losanna, provincia di Milano – In trincea per la vittoria – Bentornati al nord – Il Torchietto dove lo metto? – Una città in fermento


Stagione 1987-1988. Cambia tanto, non cambia niente 161 Sarò Franco – Meglio di così è impossibile – Brusco risveglio in città – Succede solo a Milwaukee – “SuperDino” sesto e primo – Che scortesi, questi greci – Belgio in vista – Nella marea gialla – A Gand per la finale di Coppa – In palla per la settima – Bianchini il “Vate” – Un Daye Magnifico Stagione 1988-1989. Un bellissimo tramonto 215 La dinamite chiude un’epoca – La meglio gioventù – Partenza a razzo – Dal nulla, la crisi – La staffetta americana – Il derby che non t’aspetti – Silvio chiama Olimpia – Piovono monetine? – Una serie da antologia – Pressione alle stelle – Il canestro più lungo del mondo – Mezz’ora più tardi – Meritato riposo E poi… 261 Ringraziamenti 269

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Un gruppo di “ragazzini”

La carriera di un professionista sportivo è, come la vita, un susseguirsi di episodi, coincidenze, momenti talvolta unici, legati non solo al risultato, a come lo si è ottenuto, ma soprattutto alle persone con le quali lo si è ottenuto. La mia è stata soddisfacente e di successo grazie anche al fatto di aver giocato lunghi anni per una società, una squadra, di nome Olimpia Milano. Tanti ricordi sono legati a quel periodo, sempre vivi, come vivo è il sorriso che li accompagna. Uomini che, consapevoli dei loro compiti e responsabilità, sapevano affrontare le competizioni con giusta misura, felici nella vittoria, ma ancor più motivati e uniti nella sconfitta. Un esempio fra tutti: spogliatoio di Grenoble dopo la sconfitta della squadra nella finale di Coppa dei campioni per un punto. Il silenzio assoluto rotto dalle parole di Meneghin (che di Coppe dei campioni, nel suo palmares, ne aveva già molte): «Ragazzi, non è la prima che perdiamo, ma di certo ce ne saranno tante altre che vinceremo». La mattina successiva, durante il ritorno in pullman, coach Peterson si alzò, accese la radio e ci fece ascoltare On the road again. Ci si divertiva facendo di un gioco, di una passione, il proprio lavoro. Allenamenti talvolta duri (Dan Peterson i primi tempi non scherzava!) avevano comunque sempre momenti di ilarità, vuoi 11


per errori grossolani che capitavano a tutti noi, con conseguente immancabile presa in giro, vuoi per le divertenti battute del “comico” di turno (Meneghin, Casalini); tutto questo sotto lo sguardo severo del nostro coach Peterson, che in verità si divertiva forse più di noi. Trasferte, partite, viaggi, riunioni, attese negli aeroporti: tutto condiviso da un gruppo di “ragazzini” che nel momento opportuno si trasformavano in giocatori maturi, seri e concentrati. L’Olimpia si inseriva in una Milano vincente, dal punto di vista sportivo; non solo con il basket, ma anche con le due squadre calcistiche. I tifosi formavano un tutt’uno con lo sport meneghino, sia che si giocasse su di un prato verde dando calci a un pallone, sia che la competizione si svolgesse con una palla a spicchi su di un parquet. Moltissimi sono i ricordi e gli aneddoti di quel periodo che riaffiorano nella mente e nel cuore; erano i mitici anni Ottanta. Si doveva proprio scrivere un libro per poter raccogliere tutte le emozioni di quegli anni, e questa piccola prefazione è una porta che apre a una lettura appassionata e arguta di ciò che accadde. Una lettura divertente, non solo per i tifosi dell’Olimpia Milano, ma anche per chi ha sempre amato il basket e lo considera probabilmente lo sport di squadra per eccellenza. Franco Boselli

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Ritorno al passato

«Dove stiamo andando non c’è bisogno di strade!» È la frase con cui finisce Ritorno al futuro, il primo episodio della celebre saga degli anni Ottanta. La trama si svolge nel 1985 e il tempo futuro, la meta del viaggio di cui parla “Doc” Brown, è, guarda caso, il 2015. Ora, a parte il fatto che le strade – ahinoi! – nel 2015 servono eccome, la storia che ci racconta Alessandro Ruta inizia proprio qualche mese prima dell’epoca di ambientazione del film, con i preparativi per la stagione 1984-1985, ma ha il suo inizio ideale nel gennaio 1985, in quella indimenticata nevicata che distrusse il “Palazzone” di San Siro. Chissà, forse, se quella sera non fosse arrivato Mario Pettorossi, tutto il resto della storia sarebbe stato diverso, come leggerete nelle prossime pagine. Il che significa, magari, niente Schoene, niente McAdoo, niente Barlow, Ricky Brown o Albert King, per non parlare di Montecchi e Pessina. Forse Pittis sarebbe esploso altrove. Ma, soprattutto, non avremmo vinto la Coppa Korać quell’anno, primo trofeo, dopo un frustrante digiuno fatto di secondi posti, da cui derivarono i successivi, fino alla doppia Coppa dei campioni di Losanna e Gand. O forse no: in fin dei conti, il cosiddetto “segreto” dei successi legati a quel periodo sta certo in primis nelle eccellenze che andavano in campo e nel gruppo che negli anni si era creato, affiatato anche al di fuori del gioco. Un gruppo fatto, prima di tutto, di amicizia e stima, ma forse principalmente di rispetto delle altrui competenze e responsabilità. In tanti anni, non ricordo una sola 13


volta in cui qualcuno abbia voluto dare consigli non richiesti. In compenso, ho ben presente nella mente una miriade di occasioni in cui qualcuno ha chiesto consigli agli altri. In fin dei conti, è proprio grazie a un’atmosfera come quella che ebbi modo di passare quasi senza soluzione di continuità dal ruolo di assistente a quello di capo allenatore, gestendo per giunta tre supergiocatori più vecchi di me, sia pure di qualche mese. In effetti, Gand arrivò anche per questi motivi. Dopo la batosta (la seconda, dopo il famoso -31) che avevamo preso a Salonicco, bisognava risolvere diversi problemi, in vista della semifinale contro l’Aris. Certo, Galis e Giannakis in primis; ma la vera spina nel fianco, in quella come in molte altre partite di quell’anno, era la marcatura dell’ala piccola Slobodan Subotić (o Lefteris Soumpotits, come si fece chiamare dopo la naturalizzazione). Dovevo trovare la soluzione, che mi venne durante una delle tante notti semi-insonni della vigilia: farlo marcare da Dino. Ora, dopo una carriera come la sua, per anni miglior centro d’Europa, era proponibile che arrivasse un giovane esordiente a indurlo a marcare un esterno, con il rischio di fargli rimediare una figuraccia in una ribalta come quella delle prime final four dopo quasi un ventennio? Be’, bisognava chiedere consiglio. Indissi quindi un pranzo di lavoro con i soli tre amici – e sottolineo “amici” – che potevano, per competenza e ruolo, aiutarmi: Toni Cappellari, Mike e lo stesso Dino, che in fin dei conti doveva “sentirselo”, prima di ogni altra considerazione. Risultato? La discussione, se mai si può chiamare così, non superò l’antipasto: tutti d’accordo, a cominciare da Dino. «Che problema c’è?» E poi via con i soliti lazzi degli ultimi dieci anni. Dimenticavo: la sera della semifinale, Subotić la palla non la vide mai. Le strade servono ancora, ma servirebbero anche persone come quelle. Franco Casalini 14


Prologo Il canestro che non c’era

Le ultime energie, l’ultimo incontro dell’anno. L’Olimpia Milano è arrivata per l’ottavo anno consecutivo a giocarsi lo scudetto del basket: quattro ne ha vinti, tre li ha persi, e poi c’è questa serie di finali del 1989 che non vuole proprio saperne di finire. La gara cinque, per la prima volta da quando esiste il campionato di pallacanestro, risulta decisiva: chi se la porta a casa, si cuce lo scudetto; chi perde, resta sfiancato a pesare i rimpianti. Fa caldo, un caldo atroce, nel palasport di Livorno. È maggio inoltrato, quasi giugno; la stagione è finita un po’ ovunque, ma non in quel catino rovente. Gli studenti, tranne i maturandi e gli universitari, stanno già pensando alle vacanze; i lavoratori, anche loro, attendono le ferie per staccare la spina. E lo sport? Il calcio ha appena chiuso i battenti con i fuochi d’artificio. Lo scudetto è andato all’Inter del “Trap”, che ha portato a termine una stagione da record grazie ai ventidue gol di Aldo Serena e all’apporto dei tedeschi Brehme e Lothar Matthäus; Coppa campioni al Milan guidato da Arrigo Sacchi, che ha raso al suolo in finale lo Steaua Bucarest, trascinato dagli olandesi Rijkaard, Gullit e Van Basten; se l’Italia del calcio è sul tetto d’Europa è anche grazie alla Coppa Uefa, conquistata dal Napoli di Diego Armando Maradona. Sarà un’estate, quella del 1989, senza mondiali, senza Olimpia15


di, senza nessun evento planetario, in uno di quegli anni dispari e balordi in cui lo sport tira un po’ il fiato. Invece lì no, in riva al Tirreno si gioca ancora. Eccome se si gioca. Il pallone è come se sudasse insieme alle persone, la lucidità è andata a farsi benedire, ma nel giro di trenta secondi, se tutto fila liscio, sarà finita. L’Olimpia Milano, sponsorizzata Philips, è a un passo dal ventiquattresimo scudetto della sua storia. Meneghin, D’Antoni, McAdoo e compagnia stanno vincendo 86-85 sul campo dell’Enichem Livorno guidata da Alberto Bucci: due grandissime squadre, meriterebbero entrambe il tricolore, ma la pallacanestro è questo, le finali sono questo. Non può esistere il pareggio. Se i biancorossi di Milano hanno la bacheca stracolma di scudetti e coppe, i gialloblu della Enichem sono a quota zero, Davide contro Golia, la novità contro la tradizione. I secondi scorrono, e il bivio si avvicina: si assisterà al prevalere della favorita o a un ideale passaggio di consegne? L’Olimpia potrebbe far scorrere il cronometro praticamente fino alla sirena, lasciando pochissimo tempo, un battito di ciglia, agli avversari, che non commettono fallo. Accade tutto in un attimo, la Philips decide di tirare quando mancano ancora 6 secondi. È un tiro da tre, per uccidere definitivamente la partita, ma ci sono anche delle controindicazioni: perché se sbagli ti esponi all’ultimo, disperato, tentativo di rimonta. E in effetti il tiro di Roberto Premier è sballato, storto, fluidità zero, figlio di una partita allucinante, di un campionato infinito, di una cavalcata play-off piena di tranelli e insidie. L’americano Wendell Alexis da Brooklyn, autore di una partita maiuscola con 32 punti a referto, acchiappa il rimbalzo, apre alla disperata per Alessandro Fantozzi, e l’Enichem, ventre a terra, corre per segnare il canestro del pareggio. La palla arriva alla guardia tiratrice Andrea Forti, noto ai tifosi come la “Pantera Rosa”: arresto in due tempi, resistenza al fallo di Meneghin, appoggio al tabellone, e la palla scivola nel paniere! L’arbitro con16


valida: sorpasso sulla sirena! I padroni di casa sono passati avanti, e a Milano non resta più tempo per rimediare! Vittoria! Non può essere altrimenti per il popolo di Livorno, che invade il campo, forte di quel canestro e di quel trionfo ottenuto a fil di sirena, goduria massima per qualsiasi tifoso. Premier e Montecchi, provocati a lungo dal pubblico toscano, perdono definitivamente la calma. Il primo si accapiglia con l’addetto alla tribuna stampa della società livornese, che l’ha colpito da dietro con un cazzotto alla nuca: finiscono a terra circondati da tifosi imbizzarriti, e serve l’intervento dei pochi che hanno conservato il buonsenso per consentire al giocatore di uscire dal parquet sulle proprie gambe. Non pago di avere evitato il linciaggio, Premier mostra i pugni con il dito medio levato all’ululante pubblico di casa, tenuto a bada solo dalle forze dell’ordine; è pronto a battersi contro chiunque, e deve essere condotto via prima che la situazione degeneri definitivamente. Archiviata la rissa, può avere inizio la festa: il popolo livornese è ormai pronto a riversarsi per le vie della città in un tripudio di clacson e bandiere. Ben poca gente, in quel turbine di eventi, ha notato che alcuni giocatori dell’Olimpia, prima che si scatenasse il pandemonio, sono scappati di corsa verso gli spogliatoi gridando la loro felicità. Che abbiano notato qualcosa che sfugge ai tifosi dell’Enichem? Che abbiano piazzato la zampata degli eterni campioni? Che abbiano chiuso gli anni Ottanta esattamente come li avevano aperti, prevalendo ancora una volta? Tanti dubbi, troppi per incanalare in un discorso ordinato l’esplosione irrazionale delle passioni. Meglio riassumere gli interrogativi nella madre di tutte le domande: alla fine, chi diavolo ha vinto lo scudetto?

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