Mio Cuggino

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Aa. Vv. Mio Cuggino. Il fascino senza tempo delle leggende metropolitane Prima edizione in Supermiscela aprile 2013

Fatto trenta, fa trentuno: Samuele Zamuner Cerca e trova: Enrico Brizzi A lacrime di donna non crede: Marcello Fini Conosce la pianta dal frutto: Serena Tommasini Degna Se le canta e se le suona: Tommaso Naon (ufficiostampa@italicaedizioni.it, +39 347 8725246) Ne sa una piĂš del diavolo: Paolo Maggioni Guarda il vecchio con occhio nuovo: Sara Zambotti In copertina: Flavio Allegretti indossa i panni di Mio Cuggino. Foto di Claudia Allegretti.

Italica edizioni è un sogno nato camminando tra buoni amici nel corso del grande viaggio a piedi Italica 150 http://www.italicaedizioni.it www.facebook.com/italicaedizioni info@italicaedizioni.it


Indice

Presentazione «E lei, chi crede di essere? Franco Baresi?» di Paolo Maggioni Cittadini sprovveduti contro i grandi nemici del momento di Sara Zambotti p. 7 Introduzione

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1. Arriva Mio Cuggino!

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2. Storie di stranieri

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Rapimenti al centro commerciale - Il codice degli zingari e altre ingegnose diavolerie - Stile inglese - Viaggio di nozze con sorpresa I cinesi onnivori - Tratta delle bianche - Il terrorista riconoscente 54

3. Storie di orrori

Te lo taglio - Flirt in discoteca - Il rene rubato - L’autostoppista fantasma 67

4. Storie di sesso

Gli amanti scoperti - Gli amanti incastrati - L’incentivo al meccanico - La spesa al supermercato - La festa dei miei diciotto anni - Scandalo a palazzo - Unione d’anime - I denti sbagliati - Una persona per bene - Di zucchine e roditori. L’autoerotismo sfortunato


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5. Storie esotiche

La piscina fertile - Il quadro di Gauguin - Troppo sushi fa male al cervello - Le uova del ragno 105

6. Storie di crimini e droghe

Gli uomini neri - Il passeggero inaspettato - Droghe sintetiche - L’autostoppista pelosa - Nuovi proselitismi - Un cadavere nel bagagliaio - Ladro gentiluomo - Figurine allucinogene - Punture - Il bigliettino e l’autoradio 129

7. Storie di animali

Passeggiata col cane - Il pitone - Il doberman soffocato - Piovono vipere dal cielo - Il succhiarespiro - Il coniglio resuscitato - Il pesce siluro 148

8. Storie di modernità

La Coca Cola - La Prinz verde - Che vita fanno i dottori - Il sommozzatore nella foresta - L’uomo decapitato - Telefonini esplosivi - Gli squillini a pagamento 167

9. Storie di scuola

Risolvere il problema - La cultura accademica - Esami universitari 10. Storie di sportivi, cantanti e altri personaggi illustri

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Il sostituto di Pippo Franco - I calciatori di oggi - Il spietato mondo del rock ’n’roll - Miscellanea, ovvero “Il gran finale” 11. Mio Cuggino una volta è morto

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Presentazione

«E lei, chi crede di essere? Franco Baresi?» di Paolo Maggioni Se le scuole di giornalismo servissero davvero a interpretare la realtà, una delle prime regole che verrebbero insegnate è il confine sottilissimo che passa tra lo scoop e la puttanata. Sta nello spazio di un secondo, quello capace di trasformare la più segreta e incredibile delle verità nel rosario di cazzate destinate a seguire, come in un climax inesorabile. In quello spazio nasce la leggenda metropolitana, il cane un po’ nervoso che nel giro di tre conversazioni si trasforma in drago feroce, la scivolata in motorino che diventa un incidente praticamente mortale, per tacere dell’autocelebrazione sessuale talmente accanita da muoversi tra epica e patetica. Per la comprensione di questo confine vale soprattutto la scuola del bar, a cui ci si approccia con una solida applicazione e dove il tempo trasforma gli assoluti creduloni in assidui complottisti; col tempo crescono gli anticorpi, si distinguono balle e millanterie, ma le leggende metropolitane continuano ad affascinarci, soprattutto per via dei protagonisti, a cui vanno affetto e ascolto incondizionato. E cosi il mio pantheon è pieno di narratori, più che di leggende metropolitane. C’è l’amico che senza quel brutto infortunio nelle giovanili («A tutte e due le ginocchia!», una casistica comunissima tra i leggendari) oggi giocherebbe in nazionale; c’è il Marò dell’Area C, un esercente del centro di Milano che sostiene di gestire un’attività come copertura e passatempo in attesa di nuove missioni («Ho


35 anni e cinquanta medaglie, il mio nome vero ce l’ha solo il Sisde, anzi, quella macchina che ti ha seguito è dei servizi. È una Panda, ho capito, ma sanno chi sei. Va bene sono due anziani, ma funziona cosi, fidati, cià, ti offro uno spritz»); c’è il collega giornalista più anziano, di quelli che «il mestiere non è più quello di una volta», che la verità su Ustica, Piazza Fontana, il Golpe Borghese, la Stazione di Bologna e una quantità di cold case italiani la conosce benissimo ma non gliela fanno scrivere, e forse è meglio cosi, perché sai che rivoluzione verrebbe fuori? «Non ti racconto niente perché ti voglio tutelare, ragazzo». Magari un giorno pubblicherà il libro con tutte le risposte dei misteri d’Italia – tipo soluzioni della settimana enigmistica – e quella data verrà scelta dai complottisti per la loro festa nazionale. Queste leggende hanno in comune architetture narrative raffinatissime e ricche di dettagli verosimili, castelli di sabbia affascinanti in cui l’onda che cancella tutto è solo un’ipotesi secondaria, tanta è la varietà dell’universo immaginato. Hanno un solo difetto: sono arrivate tardi, quando la purezza dell’ascoltatore ha già fatto i conti con le delusioni, e a molte strane storie, quasi per partito preso, non può più credere. Per recuperare una certa verginità bisogna frugare negli angoli della memoria, tornare adolescenti e affiancare a Babbo Natale (uno che comunque si porta dietro una drammaturgia bellissima) due personaggi altrettanto immaginifici: il bagnino Giacomo Forno, e Tony –il nome è di fantasia – del Gratosoglio, inteso come quartiere periferico di Milano. Santa Margherita Ligure, sul tramonto degli anni Ottanta: Giacomo Forno era il bagnino della mia spiaggia, un paio di baffoni neri su un viso abbronzatissimo e già un po’ rugoso, una montagna umana con appoggiata una canotta rossa e la scritta “Salvataggio”; viveva solo, Giacomo Forno, d’inverno imbianchino, d’estate deputato a tirare la sabbia, aprire gli ombrelloni e recuperare tra i flutti le anziane a rischio affogamento. Ai nostri occhi bambini sembrava scazzato ma equanime, lunatico con grandi e piccini ma senza pesi e misure diverse. Noi eravamo una dozzina di otto-novenni scalmanati e non po-


tevamo capire che nella nostra spiaggia (spiaggia? Arena, pista di biglie, campo da calcio, cantiere per castelli fantasmagorici, piccolo Vietnam per battaglie con fucili ad acqua!) riposava un pezzo della Milano da bere, gente che nella prima fila di ombrelloni metteva insieme il Pil dell’Umbria e che pretendeva di godere il sole, i ristoranti e le belle discoteche della zona. A noi interessava solo fare casino, e quando non era sufficiente gavettonare le acconciature rossofuoco delle signore pronte alle danze di ferragosto o i primi cellulari grandi come mattoni, il bagnino Giacomo Forno era chiamato a intervenire con solerzia. «Be-be-belin ba-ba-ba-bambini» era un grido strozzato dalla balbuzie ma perentorio come pochi, una specie di triplice fischio alle nostre intemperanze. Il bagnino Giacomo Forno ci radunava intorno a lui, in semicerchio, e cominciava una narrazione magica, fatta di gigantismo, autocelebrazione e stramba divulgazione scientifica. Noi lo guardavamo con gli stessi occhi di chi guarda il mangiafuoco per la prima volta, e per la stessa ragione non crede ai suoi occhi. «Ba-ba-bambini» esordiva Giacomo Forno per fare colpo su di noi. «Se mi tuffo posso arrivare fino al porto nuotando sott’acqua». Misurato in bracciate bambine il porto era lontanissimo, un orizzonte distante quanto la fine dell’estate, una ipotesi così remota da essere rimandata all’infinito. Anche calcolato dall’essere umano adulto, il porto restava comunque a una distanza incolmabile, tre, quattrocento metri sott’acqua. Le nostre obiezioni venivano raccolte dai baffoni di Giacomo Forno, un po’ bagnino e un po’ crooner, con l’aria di chi incassa prima di sferrare il fortissimo colpo finale. «Ba-ba-bambini. Io uso il sa-sa… » «Cosa, Giacomo?» «Il sa-sa… Il sa-sa-sacchetto!» «Il sacchetto?» ripetevamo increduli. Giacomo si alzava in piedi, estraeva dalla tasca dei bermuda un sacchettino e faceva una dimostrazione meticolosa, come le hostess delle compagnie a costo pieno: si accumula l’aria nel sacchetto, ce la si lega alla cordicella del costume, si fa un tuffo perfetto e quando comincia a mancare ossigeno, sott’acqua, si ricorre a tutto quello raccolto nel sacchetto, che va consumato piano piano, ma che alla


fine consente di arrivare al porto freschi come una rosa, dopo un super tuffo. Nessuno di noi osò obbiettare. Il trucco di Giacomo era così semplice – e irrealizzabile – da risultare magico, da inseguire a ogni costo. Facemmo il bagno con un sacchetto attaccato ai costumini per tutta l’estate, provando a trasformarci in sottomarini. Non funzionò, ma il bagnino Giacomo Forno era riuscito a concentrare il nostro incasinato entusiasmo su una pratica innocua, trasformandosi in una specie di supereroe del nuoto estremo, che per giunta ci aveva anche generosamente regalato il suo segreto. Un pomeriggio il bambino Francesco scambiò una cabina della spiaggia per la porta di San Siro. La differenza sta nella rete: allo stadio si gonfia, mentre se è fatta di legno può incrinarsi, danneggiarsi. Al trentottesimo rigore potente e perfetto la cabina era diventata un incrocio tra una scuola di percussione brasiliana – incessante tambureggiamento – e un coro greco di lamentazione degli spiaggiati, del tipo «Muchela, bastard!» Il bagnino Giacomo Forno doveva adottare una strategia di intervento rapida ed efficace, capace di salvare il resto della cabina (affittata tra l’altro da un colonnello in pensione: dovevamo assolutamente smettere di giocare) e le mance di fine stagione (avesse bucato il pallone si sarebbe giocato quelle delle nostre mamme): tra aquile e colombe, il bagnino Giacomo Forno ha sempre scelto l’ecumenismo. «Be-be-belin ba-ba-bambini» era il solito richiamo, «vi devo raccontare tutto della mitica partita tra Sammargheritese e Pro Recco». Noi bambini tornammo anfiteatro: lo spettacolo erano diventate le sue mani. Grosse come badili, fortissime, ci avrebbero potuto sollevare da terra con la potenza di un ascensore e farci atterrare a chilometri di distanza. «Queste ma-ma-mani» esordì Giacomo Forno, professione un po’ bagnino e un po’ Walter Zenga, «hanno parato il rigore del secolo». Verso la fine degli anni Settanta, il derby contro il Recco era in-


chiodato sullo zero a zero. Alla Sammargheritese bastava il punticino per passare di categoria, ma all’ultimo minuto l’arbitro vede un rigore per il Recco che può cancellare i sogni di gloria. Il centravanti avanza sicuro verso il dischetto, il pubblico di casa è tutto con lui; Giacomo Forno, portiere della Samm e non ancora bagnino, lo aspetta con la stessa sicurezza nel futuro con cui si accoglie un plotone di esecuzione. Giacomo guarda il centravanti, il centravanti guarda Giacomo: nessuno si distrae, nessuno abbassa lo sguardo. Giacomo sputa nei guantoni e battezza le manone. Il centravanti prende coraggio: il pubblico è sempre con lui. La rincorsa è lunghissima. Il tiro potentissimo: la palla è irrimediabilmente destinata all’incrocio dei pali. «Ba-ba-bambini ho chiuso gli occhi e ho pensato che se mi fossi tuffato con tutta la forza del mondo queste ma-ma-manone non mi avrebbero tradito… » Il tempo si sospende, bocche spalancate. Guardiamo Giacomo che mima il suo tuffo, con qualcosa di felino nel gesto, neanche possiamo immaginare che il resto della spiaggia – in buona fede – sta osservando senza capire un signore di mezza età che finge di essere al Maracanà e un gruppo di bambini muti che lo osservano. Di colpo, con un trucco da vecchio illusionista, Giacomo Forno si riappropria del tempo e rompe l’incantesimo. «L’ho pa-pa-parato. Non mi ricordo come. La mano si è allungata e ha fermato la palla. Siamo saliti di categoria». Noi bimbi abbiamo fatto a turno per guardargli le manone, l’incolumità della spiaggia era salva, mentre Giacomo raccontava che quel giorno Il Secolo Xix gli aveva dedicato un lungo articolo, perché i tifosi della Sammargheritese che assistettero alla parata lo portarono in trionfo, a braccia, tra curvoni e tornanti, e lo lasciarono scendere solo sotto casa sua, quindici chilometri dopo e ancora vestito da portiere. Qualcosa di simile era successo solo a Pelè, al millesimo gol in carriera. Che nessuno abbia mai trovato quell’articolo è un dettaglio talmente piccolo da perdersi via nel flusso della storia. Per noi bambini diventati trentenni, il Bagnino Giacomo Forno e i suoi baffoni non sono mai invecchiati. Anche se un infarto se li


è portati via qualche anno fa – un infarto bastardo, di quelli senza alcun preavviso – sono sicuro che dove sono adesso ci sono delle anziane andate troppo al largo da riportare a riva, dei pedalò da rigovernare e un anfiteatro di bambini da intrattenere: tante leggende, sporcate da qualche pizzico di realtà molto più terrena, noiosetta, roba così comune da somigliare alla lunga quotidianità di un bagnino un po’ avanti con gli anni e tutta la spiaggia ancora da tirare. Magari fischiettando, nella testa un’antologia di storie fresche, appena inventate. Tony – ma il nome è di fantasia – è una vera leggenda del mio vecchio quartiere, il Gratosoglio. Un posto un po’ complesso, che resiste all’estrema periferia sud di Milano, consumato nel passaggio di generazioni di nuovi milanesi spinti nei palazzoni e lasciati sempre un po’ soli, in una specie di periferia non solo topografica ma anche sociale. Gratosoglio (per affetto Grato) non è famoso come Quartoggiaro (per affetto, Quarto) ma gode di altrettanta cattiva fama. Così, alla fermata dell’autobus 79, una linea che dalla borghesissima Bocconi conduce a una progressiva discesa agli inferi, capita che l’autista abbia bisogno di fare pipì. È una di quelle serate di mezza estate, con il caldo asfissiante, il cemento che scotta ancora, in certi punti è perfino inarcato; l’autista apre le porte, che almeno passi un po’ d’aria, scende dall’autobus e si prende quei tre minuti di sollievo. Pensa forse alla fine del turno sempre più vicina, mentre sceglie un albero e si libera. Il caldo e la stagione sono sciagure sufficienti e la fiducia nell’umanità degli autisti non lascia presagire alcun colpo di scena. L’autista non ha fatto i conti con Tony, o meglio, con la luce che si accende da qualche parte nel suo scrigno di invenzioni. Tony è già un mito del quartiere: prese una multa per aver impennato lo scooter e il vigile fantasioso scrisse sul verbale “tentato decollo”, che mi è sempre parsa una bella definizione. Tony vuole celebrare degnamente la patente che è appena riuscito a strappare all’autoscuola. Il lungo vialone che porta a casa sua è un teatro perfetto: vorrebbe una macchina per portare a spasso tutti gli amici, dare qualche colpo di freno a mano, qualche sgasata e godersi

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una birra fresca, magari verso il centro. Pensandoci bene, la 79 è una specie di macchina dove ci stanno dentro molte più persone, il freno a mano è molto più serio di quello delle auto, controllori di biglietti a Ferragosto non ce ne sono, la sua corsa finisce quasi in centro. C’è solo un dettaglio: di solito guida l’autista, quel signore che sta pisciando contro un albero venti passi più in là. Chissà che cosa deve aver pensato quell’onesto servitore del traffico cittadino quando ha visto Tony far sussultare il cuore della 79, ingranare la marcia e partire al suo posto. È un furto? Un dirottamento? Il vigile fantasioso cosa avrebbe messo a verbale? La questione è sottile perché Tony ha deciso di seguire il regolare percorso della 79. Accosta ordinatamente alle fermate, suona ogni tanto il clacson, richiama l’attenzione degli amici e delle signore che prendono il fresco e gli chiedono «Tony, che combini?», ma tecnicamente non c’è alcuna differenza con il percorso regolare. Ecco, forse non risponde alla radio di bordo che chiede notizie, ma è anche il primo viaggio della sua vita. L’autista intanto sparisce dalla leggenda: chissà che reprimenda, al deposito, nonostante sia il primo autista di cui si abbia memoria a essere uscito su quattro ruote e rientrato a piedi, senza bus: a suo modo anche questo è un record. Intanto Gratosoglio è diventata sempre più centro, e la gioiosa corsa di Tony, che sulla 79 ormai è a suo agio e avrebbe portato avanti il turno per tutta la vita, è praticamente arrivata al capolinea; ad aspettarlo ci sono un paio di volanti: gente troppo seria, che non apprezza gli scherzi, nemmeno quelli ben riusciti. La leggenda di Tony che prese a prestito la 79 e passò Ferragosto in gattabuia resta scolpita nella memoria collettiva del quartiere. Rileggendola, quindici anni dopo, questa impresa ha regalato all’azienda dei trasporti pubblici un format di grande successo: affittare un tram o un autobus – rigorosamente dotato di autista che abbia avuto l’accortezza di andare in bagno prima della partenza – per fare una festa con gli amici e girare allegramente la città. Fossi l’Atm, regalerei a Tony un giro d’onore: un po’ risarcimento, un po’ anniversario.

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I gruppi su Facebook sono miliardi e sanno anche promuovere cause nobili. Italica edizioni, con questo libro, ha riaffermato l’orgoglio dei narratori di grandi leggende metropolitane. Per logica coerenza, spetterebbe proprio alla redazione della casa editrice il compito di tutelarne – almeno sulla Rete – l’alto valore narrativo, umano e sociale. L’Italia è piena di sigle sindacali, ma nessuna si occupa dei nostri migliori leggendari. Forse è il caso di colmare questa lacuna. Facciamo le primarie per il nome del sindacato e mappiamoli: quel carico di fantasia e narrazione è di una ricchezza inesauribile che va coltivata con gioia e ostinazione. Poscritto. Era uno dei primi giorni di mare di luglio, ad occhio 1991, e alla spiaggia – quella del bagnino Giacomo Forno – arriva Mauro Tassotti, terzino del Milan invincibile di Sacchi, quello colpevole di aver rovinato l’infanzia a me e a una vasta generazione di bambini interisti. Un campione sotto l’ombrellone: il lido è ai suoi piedi – grezzi, tra l’altro. Lui gentilissimo firma autografi a grandi e piccini e risponde a mille domande curiose. Commette un solo errore, dove la legge non ammette ignoranza. Si adagia inconsapevole sulla sdraio di mia nonna, sdraio che è sua pertinenza esclusiva dal 1960, status che le garantisce la carica di “ras assoluta” della spiaggia. Segue scena da Sergio Leone. La mia vecchia che si avvicina alla sua sdraio. Tassotti la guarda senza capire, sdraiato. Ci fosse Morricone sarebbe tambureggiante, ci fosse Leone sarebbe il momento di cercare la pistola nel cinturone. Tassotti comincia ad alzarsi, intuendo forse l’affronto, ma la nonna lo fulmina come il vecchio Clint. «Quella è la mia sdraio. E lei, chi crede di essere? Franco Baresi?» Tassotti, l’uomo che ha annullato i più grandi centravanti del mondo, capisce che le gerarchie dello spogliatoio valgono anche in spiaggia: ripone la coda tra le gambe, prende il telo, lascia la sdraio, si scusa e se ne va. Nonna 1, Tassotti 0: uno dei pochi derby vinti nella mia infanzia. Dove abbia trovato quella battuta, la mia vecchia, resta un mistero: compie novant’anni tra pochi mesi e risulta ancora immarcabile. E questa non è una leggenda, è tutto vero.

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Cittadini sprovveduti contro i grandi nemici del momento di Sara Zambotti Delle numerose leggende metropolitane raccolte da Italica edizioni ne conoscevo quattro o cinque. Alla fine degli anni Ottanta, primi anni Novanta, ricordo perfettamente la diceria qui intitolata La tratta delle bianche: mi aveva colpito perché erano gli anni in cui cominciavo ad andare con le amiche nel centro di Milano per fare qualche spesa, e mi spaventava l’idea di poter fare la fine di quelle malcapitate che non tornarono mai da quei camerini di prova perché vendute a qualche losco figuro orientale. Confesso di aver scoperto che si trattava soltanto di una leggenda metropolitana ritrovandola inserita in questa preziosa raccolta: fino a oggi ero convinta che si trattasse di storia e non di leggenda, di verità, quindi, e non di mito. Come spesso opera la costruzione della leggende, la mia mente aveva costruito un contesto, un’immagine dei camerini dove le ragazze venivano condotte per provarsi i vestiti, un immaginario di dove sarebbero finite (un deserto, nella mia mente). Insomma, avevo costruito il contesto alla leggenda e, facendo così, il racconto mitico assumeva ancora di più i connotati di verità. Mi ha molto colpito trovare altre leggende metropolitane che hanno colonizzato i racconti della mia infanzia e adolescenza: le uova del ragno, le punture che portano l’Aids, i bambini rubati dai Rom, e anche in questi casi confesso di aver registrato negli anni tutto questo come aneddoti, fatti accaduti, e ora finalmente tiro un sospiro di sollievo nel pensare che si trattava di spauracchi. Perché le leggende metropolitane sono questo: spauracchi. La leggenda è un racconto mitico, un monito, che si trasmette oralmente e si radica nei contesti perché in questo passaggio di bocca in bocca riesce ad adattarsi a vari ambiti territoriali, è permeabile al luogo, ne assume le coordinate, le paure e appare in questo modo mutevole e insieme fissa. È fisso il canovaccio, che è archetipo collettivo perché mette in gioco le paure inconsce e profonde, ma mutano i personaggi in scena. L’altro, il pauroso, il cattivo, può essere di volta in volta uno straniero (il rom o il cinese a seconda dei periodi), il gesto te-

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muto può mettere in gioco i vari aspetti che questa raccolta presenta (il sesso, la morte, il corpo, etc.), ma la vittima siamo sempre “noi”, cittadini sprovveduti contro i grandi nemici del momento. C’è sempre un “noi” vittima e un “loro” carnefice sullo sfondo. Da questo punto di vista le leggende metropolitane sono materiale antropologico preziosissimo sia nei contenuti che nelle loro modalità di circolazione. Dal punto di vista dei contenuti, infatti, rivelano tracce delle “paure” di una comunità e degli elementi di mistero; dal punto di vista delle modalità di circolazione mettono in gioco il nostro rapporto con “il potere di verità”. Mappando come i racconti passano di bocca in bocca, come sono contaminati dai mass media (come viene puntualizzato spesso in questa raccolta), come si trasformano viaggiando in diverse città, è possibile ricostruire una rete di “certificazione” della notizia. Tutto questo rappresenta un ambito di ricerca antropologica molto prezioso per indagare il tema della credenza popolare e il rapporto tra oralità e media. Lo storico Michel De Certeau, che si è occupato anche delle pratiche del “credere”, spiega come ogni credenza per sopravvivere e legittimarsi ha bisogno di far riferimento a un “garante”, un soggetto accreditato che certifichi la veridicità dei contenuti della credenza. In questo senso, negli anni Ottanta/Novanta, la leggenda metropolitana poteva vantare il rapporto con la Tv: «L’ho sentito in Tv». Certo, erano i tempi in cui al giornalismo e alla televisione era riconosciuta ancora una certa autorevolezza. Oggi sia Tv che giornalismo hanno perso questo potere di verità e il mondo del web riproduce più quello del mormorio di piazza, dove ognuno dice quello che vuole, e poi ci sono i propri riferimenti personali, i propri guru, ognuno ha il suo Cuggino che le sa proprio tutte, come la Tv. Così le leggende metropolitane ci danno il modo di capire anche quali sono i soggetti dotati di potere di verità: a chi crediamo, alla Tv, al cugino, o a chi altro? Per tutti questi motivi una raccolta dal basso di racconti mitici è preziosa perché non si può dire di conoscere davvero una cultura se non se ne conoscono le leggende. All’antropologo s’insegna che potrà ritenere di aver compreso una comunità solo quando avrà imparato a ridere nei momenti giusti, a capire le battute, perché si

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tratta di saperi informali, che si possono capire solo vivendo insieme alle persone, cogliendone i codici culturali stratificati, il mondo delle paure collettive piÚ nascoste. FinchÊ, insomma, non si diventa un po’ Cuggini anche noi. Buona lettura!

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4. Storie di sesso

Gli amanti scoperti «Alle volte la vita è strana» se ne esce a un certo punto Mio Cuggino. È la notte di San Lorenzo e abbiamo deciso di trascorrerla in riva a un lago dell’Appennino. Siamo soli, abbiamo piantato la tenda, acceso il fuoco e ora ci godiamo le stelle dividendoci il vino. «Tutta questa immensità ti ispira pensieri profondi, Cuggino?» chiedo senza smettere di guardare il cielo. «Già – ammette lui – gli spazi aperti e la natura mi mettono in pace con me stesso, così riesco a riflettere su argomenti che il caos della città mi spinge a non considerare a sufficienza». «Rendimi partecipe, te ne prego» lo esorto, mentre bevo un altro sorso dal collo della bottiglia. «Pensavo che alle volte realizzare i proprio sogni può avere l’effetto di sgretolare il mondo che conoscevi» confida. «Addirittura?» lo prendo un po’ in giro. «Guarda che così rischi di sembrare Rob Brezsny di Internazionale… » «Internazionale? E cos’è?» si ridesta lui. «Lascia perdere e prosegui pure» lo invito. «Pensavo alla vicenda di quel commerciante pugliese che è entrato nella storia del cinema e, allo stesso tempo, ha ritrovato i fantasmi del passato». «Questa non la conosco, vai avanti». Mio Cuggino beve e si sbrodola anche un po’, poi continua ispi-

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rato. «Questo signore ha realizzato il sogno di tantissimi italiani: è comparso nel film Natale in crociera». «Natale in crociera?» lo interrompo incredulo. «Quello con De Sica? Sarebbe questo il sogno di tantissimi italiani? Sarebbe questa la storia del cinema?» «Certo» ribatte lui. «Perché, a chi non piacerebbe?» Evito di rispondere, riprendo a fissare il cielo e lo lascio continuare. Lui riavvolge il nastro e comincia il racconto dall’inizio e cioè da quando una notte un piccolo commerciante pugliese prelevò cinquantamila euro dal suo conto, abbandonò la moglie e il figlio e, come Mattia Pascal, si fece di nebbia. Si persero le sue tracce ma, poiché era chiaro che si trattava di una fuga pianificata, alla famiglia non rimase altro da fare che accettare il fatto compiuto, rimboccarsi le maniche e continuare la vita di tutti i giorni. Dopo qualche anno, però, ecco la sorpresa. Durante le riprese del film Natale in crociera, girate ai Caraibi, l’uomo compare casualmente sulla scena per qualche secondo. Pochi istanti, ma sufficienti ai suoi amici italiani per riconoscerlo e avvertire la moglie che riesce così a rintracciarlo. «Aveva aperto un ristorante a Santo Domingo e si era rifatto una vita con un’altra donna» conclude Mio Cuggino. «Era felice, capisci? Comparire nel film poteva essere la ciliegina sulla torta, ma quando sua moglie lo ha scoperto gli ha subito fatto causa». «Cuggino, questa volta prendi un granchio» lo interrompo. «Quella che hai appena raccontato è una storia vecchia, la conosco anch’io». «Non c’è da stupirsene, infatti» ribadisce convinto. «È finita su tutti i giornali». «Ma no, è solo una storiella che gira da anni, io la conoscevo un po’ diversa». Mi blocco un attimo, perché la notte sull’Appennino si fa fresca. Propongo a Mio Cuggino di infilarci una felpa e lui mi segue all’interno della tenda, dove frughiamo fra i bagagli. «Io conoscevo la storia degli amanti smascherati mentre erano in gita clandestina in riviera. Quel giorno passava il Giro d’Italia e loro finirono per caso in diretta sulla Rai» dico, mentre armeggio con la

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cerniera dello zaino. «Capisci? Sono storielle senza fondamento… » provo a farlo ragionare. «Cosa c’entra adesso il Giro d’Italia?» domanda lui, a gattoni di fianco a me. «Io ti sto parlando di rifarsi una vita a Santo Domingo, e tu mi tiri fuori Pinarella di Cervia?» dice stizzito. «Alle volte mi chiedo se mi ascolti… » Sorrido, ma preferisco non rispondere. Recuperiamo le nostre felpe, le indossiamo e quindi usciamo a riveder le stelle. (Leggenda segnalata da Marco Bruno di Mesagne, Brindisi)

Gli amanti incastrati «Ho una storia incredibile da raccontarti» annuncio fiero a Mio Cuggino. Siamo seduti al tavolino di un bar in attesa di fare colazione. «Sentiamo» concede scettico lui. «Ti ricordi Silvia, la ragazza abruzzese?» comincio allora. «Quella con cui ci hai provato senza successo per mesi?» colpisce basso. «Silvia la mia amica» correggo il tiro. «Lei è una cara amica che ho conosciuto all’università» puntualizzo. «La ricordo, sì. Ci sono nuovi sviluppi della vostra amicizia?» domanda. «No, continuiamo a essere buoni amici» dico rabbuiandomi, ma dura solo un attimo. «Lei mi ha raccontato una storia incredibile». «Capisco» dice Mio Cuggino. «Sentiamo questa storia, dunque». Mi interrompo perché il cameriere è venuto a raccogliere le nostre ordinazioni. Chiediamo un caffè e una brioche per me e una focaccia farcita e una birra per Mio Cuggino. Appena il ragazzo se n’è andato, mi sento libero di cominciare. «Lei vive qui da molti anni, ormai, ma viene da un piccolo centro dell’Abruzzo. Mi ha raccontato che, nel suo paese, c’è una specie di forno che sta aperto tutta notte. Oddio – mi correggo – in realtà è

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un forno che, come tutti gli altri, lavora di notte, ma vende sottobanco i cornetti ai ragazzi che vanno a chiederli. Credo non stacchino troppi scontrini… » mi perdo nei miei pensieri. «Questo comunque non c’entra» mi riprendo un secondo più tardi. Cerco di non divagare e racconto che nel negozio lavora una coppia di sposi, aiutati da un ragazzo che ha l’età della loro figlia. Tutte le notti, però, prima dell’arrivo del marito, la donna e il ragazzo sono soliti appartarsi in laboratorio e consumare focosi rapporti. «Non di solo pane vive l’uomo» commenta sardonico Mio Cuggino. Una sera succede l’irreparabile. Durante l’amplesso, il marito entra in negozio prima del previsto. La donna, a causa della paura di essere scoperta, ha una contrazione dei muscoli vaginali e i due amanti rimangono incastrati in una posizione piuttosto imbarazzante. Non riescono proprio a staccarsi e quando arriva il marito, e li trova così, va su tutte le furie, ma poi è costretto ad accompagnarli in ospedale. Qualche ora più tardi, come è logico che sia, tutto il paese è a conoscenza dell’accaduto. I due sposi si separano e la donna, per la vergogna, è costretta a trasferirsi in un altro paese. «Storiella divertente» commenta Mio Cuggino con sufficienza. «Anche se, nel paese di una ragazza che conosco io, è successo ben di peggio». Vedo il cameriere avvicinarsi con la colazione, così faccio segno a Mio Cuggino di smettere, ma lui non capisce. O, forse, finge di non capire. «Anche nel paese di questa ragazza, una donna ha avuto un fenomeno di vaginismo (questo è il termine tecnico) ed è stata costretta ad andare al pronto soccorso. Il suo caso, però, è ancora più pazzesco, perché lei stava scopando con un cane». Dice così, Mio Cuggino, proprio mentre il cameriere mi serve il caffè. «Ah… può succedere» balbetto imbarazzato. «Il cane glielo aveva regalato il marito per farle compagnia quando lui era in giro per lavoro. E lei lo ha preso in parola». Il cameriere gli serve la birra.

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«E poi ai cani succede una cosa strana: appena hanno finito di scopare, il loro uccello si ingrossa in maniera sproporzionata». «Eh… strano davvero» dico, ormai paonazzo, mentre il cameriere ci augura una buona colazione e se ne va. (Leggenda segnalata da Silvia Quici di Vasto, Chieti)

L’incentivo al meccanico «Ti ho mai raccontato di quando lavoravo come meccanico in un’officina?» mi chiede un giorno Mio Cuggino. «Gesù» sospiro esasperato, e mi preparo al peggio. Il periodo in cui fu assunto come apprendista in un’officina del quartiere è ricordato da Mio Cuggino come il più bello della sua vita. Peccato non sia così per me, perché i suoi aneddoti legati a quei pochi mesi sono di solito noiosi o decisamente incomprensibili per chi non conosca alla perfezione il funzionamento dei motori. «Già» riprende lui. «Bei tempi». Dice così, e apre un’Heiniken. Ho notato questa strana correlazione: ogni volta, o quasi, che gli capita di strappare la linguetta in metallo di una lattina, Mio Cuggino attacca con i racconti dell’officina. Forse succede perché è un gesto legato ai ricordi di quel periodo. Non so darmi una risposta, ma non ho il tempo di pensarci perché lui inizia la sua storia: «C’era un tizio, in officina, un collega che conosceva un altro collega al quale era successa una storia incredibile». A quanto hanno raccontato a Mio Cuggino, una signora molto attraente (gli aggettivi riferiti alla donna sono ogni volta diversi, ma sempre piuttosto espliciti) un giorno torna a casa dal supermercato e decide come prima cosa di controllare se il marito ha riparato l’auto che da settimane si riprometteva di aggiustare. Dopo aver poggiato la spesa, la donna si reca quindi in garage dove trova il marito al lavoro sotto l’auto, con le sole gambe che spuntano. La donna, felice e soddisfatta di vederlo finalmente impegnato, decide

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di gratificarlo con un massaggio al cavallo dei pantaloni, che lui si gode in reciproco silenzio. La donna, sorridente, lo lascia quindi al suo lavoro, e torna in casa. Appena entrata in cucina, però, scopre il marito che fruga tra i sacchi della spesa. «Cosa ci fai qui?» chiede allora sbigottita. «Ci abito, qui» risponde il marito alzando il naso dagli incarti degli affettati. «Piuttosto, hai visto che ho finalmente chiamato il meccanico per riparare l’auto? Mi merito un premio?» (Leggenda segnalata da Fulvio Colombo, Milano)

La festa dei miei diciotto anni La sera in cui festeggiai i miei diciotto anni, Mio Cuggino passò tutto il tempo a pavoneggiarsi con un gin lemon in mano. Da mesi organizzavo quel party perché fosse perfetto, ma lui, come al solito, ha dovuto mettersi al centro dell’attenzione. Era l’unico che avesse la patente, così i miei compagni – ma, soprattutto, le mie compagne – erano disposti a dargli credito e gli si stringevano attorno mentre raccontava le storie più incredibili. Fu inutile proporre partite a calciobalilla o a ping pong; servì a poco anche il concerto di Achille e i suoi talloni, la band di rock demenziale più celebre della scuola che ero riuscito ad assoldare a colpi di preghiere e free drink: appena finita la musica, il tempo di una sigaretta e tutti si erano già radunati di nuovo attorno a Mio Cuggino e al suo maledetto gin lemon. Solo verso la fine della festa decise che anch’io meritavo un po’ di attenzione e mi chiamò a sedersi vicino a lui. Anche se ancora schiumavo di rabbia per come si stava comportando, pensai che forse quel gesto poteva risollevare la serata e lo assecondai. Farmi largo in mezzo alla cerchia di amici che lo circondava e accomodarmi sulla sedia che aveva liberato per me aveva il sapore di un’investitura. Pensai che forse qualcuna delle mie compagne di classe l’avrebbe

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apprezzato, e che da quel momento sarebbe stata capace di guardarmi con occhi diversi. «Gran bella festa, cugino» mi accolse mentre mi sedevo impacciato di fianco a lui, e io sorrisi. «Gran bella festa – riprese allora – ma quelle che facevamo ai miei tempi erano tutta un’altra cosa». Anche se era diventato maggiorenne solo da un paio d’anni, Mio Cuggino cominciò a raccontare della sua maturità come di un periodo mitico, un’antica età dell’oro licenziosa e gaudente nella quale anche le feste più innocenti somigliavano in maniera incredibile a baccanali. «In quegli anni – disse a un certo punto – la gente era serena, voleva solo divertirsi, e non era ancora piegata e intimorita dai posti di blocco del conservatorismo imperante». Disse proprio così, lo giuro. Poi prese a raccontare della festa per i diciott’anni di un’amica di una sua compagna di classe, della sala di una discoteca che lei aveva affittato, della musica a tutto volume, dell’alcol, dei vestiti succinti delle femmine e di quelli sgargianti dei maschi. Io guardai la Fruit of the loom nera che indossavo e all’improvviso me ne vergognai. «Quella volta, però – disse a un certo punto Mio Cuggino – i ragazzi si presero un bello spavento». A quelle parole, tutto l’uditorio gli si fece, se possibile, ancora più vicino. «Potevano essere già le quattro della mattina, ma la festa sembrava non doversi fermare mai» raccontò Mio Cuggino prima di prendere un altro sorso di gin lemon. «La festeggiata, come tutti gli altri del resto, era piuttosto scatenata e a un bel momento salì su un tavolino. Con le braccia al cielo, gridò: “Diciott’anni!”. Indossava una gonna molto corta e i maschi le si fecero sotto per ammirare tutta la sua giovinezza da una prospettiva più ravvicinata. Poi lei scese dal tavolo e, barcollando vistosamente sui tacchi, attraversò il gruppo. “Diciott’anni una volta sola” urlava sconnessa. “Diciotto uomini per diciotto anni!”. Quasi nessuno capì cosa volesse dire, ma quando prese per mano un ragazzo e si appartò nel buio di un divanetto, diventò chiaro a tutti che piega stava prendendo la serata». Mio Cuggino a questo punto fece una delle sue solite pause ad effetto. Nella stanza non volava una mosca, e anche Achille e la sua band, di solito così caciaroni, aspettavano in silenzio il seguito della storia.

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«La festeggiata mantenne i suoi propositi e quella notte, con la sola sapienza delle sue labbra, rese felici diciotto ragazzi. La mattina, però, qualcuno la dovette accompagnare al pronto soccorso perché si sentiva male. Arrivò all’accettazione in stato di incoscienza, così le prescrissero una lavanda gastrica pensandola in coma etilico. Si può immaginare la sorpresa dell’infermiere nel constatare che il liquido che riempiva lo stomaco della ragazza non era certo l’atteso ruhm. Di quel materiale organico, capace di donare la vita e comprovare il piacere, ne fu recuperato il contenuto esatto di una lattina di Coca Cola». Così Mio Cuggino concluse il racconto, ed io ero estasiato perché questa volta aveva avuto la sua punizione: i ragazzi lo guardavano ghignando, ma le ragazze si erano ritratte disgustate. Io allora mi alzai e, scuotendo la testa con aria matura, mi diressi verso di loro. (Leggenda segnalata da Alessio Albani di Foligno, Perugia)

Scandalo a palazzo «Sono anni che vi fate belli con la storia della superiorità morale, ma ecco finalmente che tutti i nodi vengono al pettine» se ne esce un giorno Mio Cuggino. È domenica mattina, e noi, come da rito, stiamo prendendo l’aperitivo prima di andare a pranzo dalla nonna. Mio Cuggino oggi però ha insistito perché ci allungassimo un attimo fino all’edicola. Ha preso una copia del giornale locale e, appena ci siamo seduti al bar, ci ha infilato dentro il naso senza badare a nessuno. Ne è riemerso dopo averlo sfogliato dalla prima all’ultima pagina ma aveva l’espressione piccata e delusa. Poi mi ha guardato e ha detto quella cosa della superiorità morale. «Però anche i giornalisti sono storicamente di sinistra, ed ecco spiegata la loro indegna omertà» dice lasciando cadere i fogli a terra. Io ormai ci sono abituato, ai comportamenti bizzarri di Mio Cuggino, e devo dire che solitamente mi imbarazzano. Stamattina però

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il mezzo calice di Aperol e vino bianco che ho già bevuto a stomaco vuoto mi riempie di benevolenza. «A cosa ti riferisci esattamente, Cuggino?» gli chiedo, anche se mi rendo conto che il discorso può prendere una pericolosa deriva politica che preferirei evitare. «Alla sinistra italiana» mi dà conferma immediata lui. «Alla vostra puzza sotto il naso e al modo in cui avete conquistato la città millantando una superiorità morale sul vecchio sindaco». «In questo momento è in galera, il vecchio sindaco» preciso. «Non mi sembra corretto usare il verbo “millantare”». «Comunque il giornale che si era tanto scandalizzato all’epoca del nostro sindaco adesso mantiene il silenzio più completo su quello che ha combinato ieri alla festa del patrono il vostro sindaco». Sento puzza di pettegolezzo, ma non resisto e chiedo a Mio Cuggino ulteriori dettagli. Lui certo non si fa pregare, e non si preoccupa nemmeno troppo di abbassare la voce. Insomma, sembra che ieri, durante la festa del patrono (che con le sue innumerevoli bancarelle dà lustro alla città e richiama persone da tutta la provincia) una scolaresca abbia fatto una scoperta piuttosto imbarazzante. Erano bambini delle elementari, arrivati lì addirittura da fuori regione per visitare la mostra di Henry Cartier Bresson che in questo periodo ospitiamo nelle sale del Municipio. Uno di questi bambini ha inavvertitamente aperto una porta dietro la quale ci ha trovato nientemeno che il sindaco (sposato e con due bellissimi figli) impegnato in un rapporto orale con la donna che lui stesso, solo pochi mesi prima, aveva nominato assessore alla cultura. «Tutto torna» mi mette alle corde Mio Cuggino mentre provo a cancellarmi la scena dalla mente. «Adesso è spiegata quella nomina frettolosa e sospetta da parte del sindaco che ha reso l’assessore anche presidente della Fondazione». Io non rispondo e sgranocchio qualche patatina mentre valuto quanto questa storia possa essere plausibile. «E tu come l’avresti saputo?» m’informo. «Eri anche tu a vedere la mostra?» «Ma se lo sanno tutti!» s’infervora. «Lo sanno tutti tranne i giornalisti. L’altro ieri, prima della festa, hanno pubblicato una lunga e

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servile intervista nella quale il sindaco rigettava ogni accusa di nomina sospetta, ma oggi preferiscono mantenere il silenzio». Controllo l’orologio e vedo che è quasi ora di pranzo. Allora raccolgo il giornale da terra e mi alzo, mentre sento Mio Cuggino che continua a borbottare: «Sono tutti d’accordo: i giornalisti, Cartier Bresson, la magistratura… è un maledetto complotto!». (Leggenda segnalata da Ennio Pavan di Legnago, Brescia)

Unione d’anime Quando feci l’errore di confessare a Mio Cuggino che mi sentivo un po’ nervoso perché, dopo mesi di insistenze, finalmente la ragazza che mi piaceva aveva accettato di uscire con me, lui volle a tutti i costi che ci incontrassimo «per chiarire un paio di questioni». Così, la sera prima del mio appuntamento ci trovammo davanti a una birra e lui, dopo averci girato attorno per un po’, arrivò al punto. Mi disse, senza troppa cautela, che il sesso anale rappresenta la fusione totale delle anime di due innamorati e che nessuna vera coppia dovrebbe negarsi questa esperienza. Insomma, non disse proprio così, ma ci siamo capiti. Secondo lui, in sostanza, una ragazza che si dimostra insensibile a questo tipo di approccio non merita un secondo appuntamento. «Però capisci bene che su certe questioni – volle mettermi in allerta – deve essere l’uomo a dimostrarsi padrone della situazione. Te lo dico perché è anche nel tuo interesse di maschio che tutto vada bene… » A quel punto avrei potuto lasciar cadere il discorso, oppure cambiare proprio argomento, però mi rendevo conto che Mio Cuggino moriva dalla voglia di raccontarmi qualcosa e so che, quando fa così, non c’è niente che lo possa trattenere. Decisi quindi di dargli corda, anche se sapevo che non era una buona idea. «Io sono sempre stato attento – attaccò lui – ma ho un amico che ha vissuto un’esperienza piuttosto traumatica». Mi raccontò allo-

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ra di questo ragazzo che era riuscito a convincere la sua fidanzata, dopo mille insistenze, a provare un amplesso di questo tipo. Lei però era piuttosto titubante, oltre che “una scema completa”. Lui si era sistemato su una poltrona e lei, dandogli le spalle, si era seduta sopra di lui. La fase della penetrazione, è risaputo, può essere un po’ delicata, così lei, forse per fare in fretta e finire prima, si era lasciata cadere a peso morto spezzando il filetto di lui che aveva reagito spingendola via tra urla disperate. «Immaginati il dolore» disse Mio Cuggino strizzandomi l’occhio. Se voleva farmi coraggio, non ci stava riuscendo. «Eppure – riprese, quando vide che non commentavo nulla – eppure potrebbe andare, se possibile, ancora peggio». Disse così, e io non sapevo cosa ci potesse essere, di peggiore. «Un tizio che incontro sempre quando vado a ballare al Cocoricò – disse – mi ha raccontato che una volta è uscito con una ragazza. Erano fuori con la Mercedes di suo padre e lui, a fine serata, l’ha portata in un luogo appartato. Ora, immaginati questa Mercedes nuova di zecca, tutta tirata a lucido e con i sedili in alcantara». «Me la sto immaginando, ma ti avverto che se vuoi raccontarmi di altri traumi fisici, io non ti voglio ascoltare» lo bloccai. «Non preoccuparti – riprese lui – il suo attrezzo sta benissimo, ma tu ascoltami e impara dall’esperienza di quelli più grandi». Mio Cuggino disse che la ragazza non era certo una tipa alle prime armi e, anzi, si era dimostrata piuttosto divertita e intraprendente. La penetrazione, in questo caso, era avvenuta senza problemi, «tutto liscio come l’olio» aveva specificato Mio Cuggino con un sorrisetto malizioso. Quando era venuto il momento, poi, il ragazzo era uscito soddisfatto. «A quel punto, però, è arrivata la vera inculata» esclamò Mio Cuggino sbattendo il palmo della mano sul tavolo. Io mi stavo interrogando sulla finezza del doppio senso, ma lui non dimostrò di essersene reso conto. Mi raccontò che la ragazza, evidentemente non nuova a questo tipo di pratiche, durante l’amplesso si era rilassata al punto da svuotare, contro ogni suo desiderio, gli intestini sui sedili immacolati dell’auto. Il ragazzo aveva iniziato a sbraitare terrorizzato che la tappezzeria

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fosse rovinata in maniera irreparabile. Lei allora, stravolta dall’imbarazzo, si era alzata le mutandine ed era corsa fuori scappando in mezzo ai campi prima di sparire nella notte. «Una scena pazzesca, te lo giuro. E lui ha dovuto pulire tutto, prima di riportare la macchina in garage, ti rendi conto?» era scoppiato a ridere Mio Cuggino. A quel punto non ne potevo davvero più dallo schifo così, con la scusa che si era fatto tardi, me ne andai. Mentre uscivo dal locale mi dissi che, se davvero ci fosse stato un insegnamento in quello che mi aveva raccontato Mio Cuggino, io proprio non lo avevo capito. (Leggenda segnalata da Luciano Cominato, Rovigo)

) Una persona per bene «Te lo ricordi Giovanni, il mio amico di Manfredonia?» domanda Mio Cuggino, narcotizzato di fianco a me sul divano del salotto. Alla televisione passano in loop le auto della Formula uno e il ronzio ipnotico dei motori, unito alla digestione difficoltosa dopo il pranzo di nonna, intorpidisce le nostre menti. «Mh» mormoro, troppo stanco per articolare una frase. «Lui ha un amico, un tale Franco, che una sera, mentre sono in gruppo in pizzeria, comincia a fare gli occhi dolci a una ragazza seduta assieme ad altre amiche al tavolo di fronte a loro. Lei è molto carina e Franco le lancia subito uno sguardo piuttosto esplicito». Anche se non riceve un cenno di risposta, Mio Cuggino ha deciso che è ora di raccontare una delle sue storie e procede imperterrito. Mi spiega che lei non resta indifferente al suo sguardo e allora lui non resiste più. Si alza e, mentre gli amici ridacchiano, si avvicina a lei e dice diretto: «Senti, ma se tu adesso mi dai il tuo numero di telefono e domani ti chiamo, poi tu ci esci con me?» Anche la ragazza sorride imbarazzata, e le amiche le danno di gomito. Lei se la tira un po’, lo provoca dicendo che lui non sa cosa

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vuol dire uscire con lei, perché è una tipa impegnativa. Poi però cede e, senza nemmeno alzarsi, gli allunga un bigliettino con il suo numero di cellulare. Franco esce con gli amici dalla pizzeria tutto gongolante, mentre lei, ancora seduta al tavolo, lo segue con uno sguardo rapito. La mattina seguente lui la chiama, scherzano al telefono, la fa ridere e si danno appuntamento per la sera. «Passa a prendermi sotto casa, vieni in macchina, mi raccomando!». “Peccato” pensa Franco. “Mi sarebbe piaciuto fare un giro con la Ninja, ma se lei preferisce la macchina, che macchina sia”. Franco arriva puntuale alle nove davanti casa della ragazza, una villetta a un piano appena fuori città. Scende e suona tutto vispo al campanello, la porta si apre, ma lui ci rimane malissimo: la ragazza lo accoglie seduta su una carrozzina! “E mo’ che minchia faccio?” pensa mentre la faccia gli si piega in un ghigno disperato. «Ecco, lo sapevo, anche tu come tutti gli altri» si lamenta lei. «Appena vedete ’sta maledetta carrozzina vi spaventate e non volete più uscire con me». Franco si riprende, alla fine è un bravo ragazzo, e si dice: “Non posso mica fare così lo stronzo”. «No, aspetta, e che problema c’è?» abbozza, mentre lei sta per rientrare in casa. «Andiamo a farci un giro». Lei è felice, e lo è ancora di più quando lui apre lo sportello davanti, se la carica in braccio e la mette a sedere, poi chiude la carrozzella e la ripone nel portabagagli. In quel mentre si affaccia un uomo sulla porta. «Ciao papà» grida lei, tutta raggiante. «Mi raccomando, fate i bravi. E tu, giovanotto riportamela a casa felice!». “Anche il padre ci voleva, mannaggia”, pensa Franco sventolando una mano, poi ingrana la marcia e sgomma via. A sorpresa, però, i due passano assieme una gran bella serata: vanno a fare una passeggiata sul Lungomare Sauro, mangiano un gelato e finiscono anche per baciarsi. Poi Franco la riaccompagna a casa. Appena arrivano davanti alla porta, questa si apre ed esce il padre della ragazza, anche lui è felice. «Complimenti, lo sapevo che avevi

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la faccia da bravo ragazzo» dice rivolto a Franco. Lui non capisce, sente di non aver fatto niente di speciale. A parte l’imbarazzo iniziale, infatti, la serata è volata via liscia e piacevole. Insomma, i due si piacciono e così cominciano a uscire abbastanza spesso. E tutte le volte che lui la riaccompagna a casa c’è sempre il padre sulla porta che li aspetta e lo ringrazia. Anzi, ogni volta lo ringrazia con sempre maggiore trasporto e gli ripete che è davvero un bravo ragazzo. Dopo qualche sera accade l’inevitabile. Lui aumenta le avances ma è impacciato, non sa come muoversi. Lei lo capisce e dice: «Conosco un posto dove potremmo metterci a nostro agio». Così lo guida verso la pineta del parco Mezzanelle, mentre gli slaccia la camicia e lo accarezza. Quando sono al centro della pineta lei lo invita a fermarsi, ma lui non capisce, vede solo pini e cespugli. «Portami a quell’albero» dice allora lei. «C’è un ramo orizzontale al quale posso appendermi con comodità. Tranquillo, l’ho già fatto, ci si diverte. E poi con me, o così, o niente». Franco, a questo punto, ha una tale voglia che farebbe qualsiasi cosa lei gli chiedesse. La porta giù, lascia che lei si aggrappi al ramo, la spoglia e la fa sua. La ragazza però non ne ha mai abbastanza, e proseguono fino all’alba. Quando sono entrambi esausti, lei dice: «Forse è meglio tornare, mio padre starà in pensiero». Rientrati in macchina, Franco guida in stato di estasi fino a destinazione. Arrivati davanti alla porta di casa, però, non fa in tempo a spegnere il motore che il padre esce di corsa. “Mo so’ cazzi”, pensa Franco. Ma si sbaglia: l’uomo non è arrabbiato, anzi, ha un sorriso che gli prende tutta la faccia. Abbraccia la figlia e stringe forte la mano al ragazzo. «Tu sì che sei davvero una gran brava persona. Lo sapevo. Lo sapevo. Sono commosso. Non ce ne sono più tanti in giro di ragazzi come te» mormora quasi in lacrime. «Ma cosa dice?» risponde stupito Franco. «Non ho mica fatto niente di strano» e si vergogna anche un po’, pensando ai numeri da giocoliere che lo hanno tenuto impegnato tutta notte.

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«No no, ti ripeto che sei davvero una gran brava persona, un ragazzo proprio perbene» insiste quello. «Ma cosa dice, adesso mi mette in imbarazzo» reclama Franco. «No, no, davvero, sei proprio bravo e onesto». «Guardi, adesso esagera» fa lui un po’ scocciato. «Sono un ragazzo normale». «No, no, fidati di me, quando ti dico che sei una persona perbene» dice, definitivo, l’uomo. «Tu sei bravo, non sei come tutti quegli altri stronzi che me la lasciavano attaccata all’albero». (Leggenda segnalata da Giovanni Russo di Manfredonia, Foggia)

Di zucchine e roditori. L’autoerotismo sfortunato «Tuo cugino è davvero una persona impossibile, guarda» dice stizzita Laura riferendosi, con ogni evidenza, a Mio Cuggino. «Vuoi dire che ieri sera non è andata come speravi?» chiedo, con una punta di nervosismo. Laura è la ragazza che, ogni mercoledì mattina, mi lascia copiare la versione di latino prima di entrare in aula. Qualche tempo fa mi ha confessato di essere affascinata dalle storie che si sentono in giro su Mio Cuggino e da allora non ha fatto che implorarmi di combinare un’uscita con lui. Poiché la mia media in latino è pericolosamente in bilico tra la sufficienza e il baratro, io l’ho assillato perché ci uscisse almeno una volta per farla contenta. Lui, come sempre succede quando gli chiedo un favore, si è fatto pregare in maniera insopportabile, anche se, ora che guardo con attenzione Laura a un passo di distanza, non mi sento di fargliene una colpa. «Ho spedito i miei genitori per una sera al mare, in modo da avere casa tutta per noi» continua il suo racconto. «Gli ho preparato da mangiare con le mie mani e poi ci siamo spostati in salotto per vedere un film. Durante la cena è stato di poca compagnia, impegnato com’era a strafogarsi di lasagne, ma l’ho preso come un segno di apprezzamento, guarda. Sul divano, davanti al televisore, mi sono

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accoccolata vicino a lui dopo aver messo nel lettore Fratello, dove sei?. Per tutto il tempo ho fatto la gatta morta, ma lui era impegnato a commentare: “Questa è una storia poco verosimile. Una trama così non avrà mai successo”, e io lasciavo perdere. Ho aspettato la scena in cui Ulysses si ritrova tra le sirene, hai presente?» «Ricordo benissimo» confermo, evitando di aggiungere quante volte quella scena sia tornata a farmi visita nei miei sogni più dolci. «Bene, c’è questa scena molto intensa dal punto di vista intellettuale, ma allo stesso tempo molto sensuale. Mi faccio ancora più vicina a lui, convinta che mi bacerà, guarda. Ma lui sai cosa mi dice?» «Gesù» rispondo, nascondendo la faccia tra le mani. Poi prendo fiato e chiedo: «Cosa ti dice?» «Mi dice queste parole» si sfoga lei. «“Lo sapevi che George Clooney tempo fa è stato operato perché si era infilato un topolino nel culo? Te lo giuro!”. Dice così, senza smettere di guardare il film. Non sapevo cosa fare, guarda». «Gesù» ripeto, e non riesco ad aggiungere altro. «A quel punto si è disinteressato al film e si è alzato per spiegarmi – e mimare – il racconto con maggiore chiarezza. Ha detto che Clooney, osannato dal genere femminile e ormai assuefatto alle donne, è sempre alla ricerca di nuove emozioni. Così un giorno ha usato un tubo incastrato nel suo didietro per farci passare un piccolo topolino. Con un animaletto in libera uscita negli intestini, mi ha assicurato tuo cugino, si provano sensazioni incredibili. Il problema è che, per farlo uscire, è dovuto correre all’ospedale, dove l’hanno operato. Volevo sprofondare, guarda». «Eh» tento di sorridere, mentre vedo la mia estate riempirsi di ripetizioni di latino. «Ma ti dico la verità» prosegue lei. «Si fosse fermato lì, ci sarei anche potuta passare sopra, guarda. Mentre lo invitavo a tornare a sedersi vicino a me, lui si è lanciato in una serie di racconti». «Ah – gemo – che genere di racconti?» «Beh, mi ha parlato della ragazza con la quale ti eri fidanzato l’anno scorso. Quella che in città, a quanto dice lui, tutti chiamano Zucchina». «Eh, Zucchina… che fantasia» dico con un filo di voce.

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«Dice che la chiamano così perché amava masturbarsi usando gli ortaggi, fino a quando una zucchina si è spezzata e, per togliere la parte rimasta all’interno, lei è dovuta andare al pronto soccorso. Una cosa schifosa, guarda». «Ah, beh, Laura… sono cose che si dicono… Ma comunque è successo prima che iniziassimo a frequentarci» cerco di arginare la vergogna. «Da quel momento si è scatenato, guarda» prosegue lei. «Ha tirato fuori un intero campionario: uomini e donne che per divertirsi, da soli o in gruppo, usano zucchine, melanzane, carote, wurstel e addirittura lampadine. E tutte che si rompono. Il momento in cui tuo cugino si è dimostrato più brillante è stato quando ha raccontato la storia dell’ombrellaio. Tu la conosci la storia dell’ombrellaio?» Ok, a questo punto voglio morire. «L’ombrellaio… » ridacchio. «Un signore inglese è in vacanza a Roma con la famiglia. Un pomeriggio manda la moglie e la figlia a fare compere, mentre lui rimane in appartamento. Appena resta solo, riempie la vasca d’acqua calda, si immerge e, contorcendosi appena un po’, si infila il manico dell’ombrello della figliuola nel culo. Scusami per il linguaggio, ma appena ripenso a ieri sera perdo ogni controllo, guarda». «Figurati, va tutto bene» la rassicuro. «Non va bene per niente, guarda. Come puoi immaginare, la moglie e la figlia rientrano prima del previsto e lui, appena sente girare la chiave nella toppa, se lo sfila in tutta fretta. Il problema è che il manico dell’ombrello termina con la forma della testa di una paperella e il becco lo ferisce, capisci?, e lui comincia a perdere litri di sangue. Mi viene da vomitare solo a pensarci, guarda. Corrono all’ospedale dove l’uomo prega tutti i medici di non rivelare alla moglie quanto accaduto. L’infermiere che lo porta in sala operatoria, però, mentre spinge il lettino per i corridoi, si mette a urlare: “Donne, è arrivato l’arrotino. Donne, è arrivato l’ombrellaio”». Dice così, Laura, e mi guarda in silenzio. Poi riprende. «Dice così, tuo cugino, e scoppia a ridere. Poi si fa serio e mi chiede se, per caso, c’è ancora qualcosa da mangiare».

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«Eh, significa che apprezza la tua cucina. È un buon segno» provo a rimediare l’irrimediabile. «Gli ho proposto sarcastica un’insalata di carote e zucchine, e lui ha pure accettato. L’ho dovuto sbattere fuori di casa, guarda». Rimaniamo qualche attimo senza parlare, ognuno perso nei suoi pensieri. Poi mi faccio coraggio e chiedo: «Quel che è successo, però, non cambia niente fra di noi, vero? Noi siamo sempre amici, sì?», e il quaderno di latino stipato nello zaino mi sembra sempre più pesante. Laura sbarra gli occhi, poi si gira e se ne va. Senza dire neanche una parola, guarda.

Commento Finalmente arriviamo alla parte più boccaccesca del repertorio di Mio Cuggino: le storie di sesso. Il sesso, in un Paese spesso morboso e puritano come il nostro, non può che essere diventato uno dei temi più esplorati dalle leggende metropolitane. Premesse pruriginose, sfida alle convenzioni, morbosità, un po’ di ignoranza e del sempreverde bigottismo sono gli elementi fondanti e comuni di tutte queste storie. Il rapporto di coppia è uno dei temi più esplorati dalle leggende metropolitane. Liti, tradimenti, amplessi appassionati o difficoltosi: sono queste le variazioni sul tema che da sempre affascinano le fiabe popolari. Nella leggenda degli Amanti scoperti si parla di tradimento o, ancor meglio, di abbandono. Lasciare il coniuge e la famiglia non può che essere un atto che viene quindi sanzionato negativamente. In questo caso è il destino a occuparsi della punizione: la casualità vuole che i colpevoli vengano incastrati, seppur fortunosamente, dalle telecamere. La leggenda del marito in fuga o traditore accenna anche alla giusta diffidenza che bisogna avere nei confronti delle telecamere. Con un rimando orwelliano, infatti, la televisione e la telecamera sono presentati come oggetti da guardare con sospetto, perché indiscreti

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e capaci di coglierci e sbugiardarci anche contro la nostra volontà. Un’altra leggenda molto celebre sul tema degli “amanti scoperti” è ambientata nel ristorante in cui oltre trecento invitati festeggiano una coppia di novelli sposi. Tutto sembra procedere alla grande, ma a un certo punto lo sposo si alza e si dirige verso il palco sul quale si sta esibendo una band. Prende il microfono, ringrazia tutti quelli che sono intervenuti e ringrazia il suocero che ha offerto, come da tradizione, il pranzo. Poi prega gli invitati di aprire la busta che lui ha fatto attaccare sotto ogni sedia. Li osserva mentre, stupiti, recuperano la sorpresa, poi guarda il testimone, guarda la sposa e dice loro: «Buon proseguimento di festa», prima di andarsene. Nella busta ci sono due foto che ritraggono il suo testimone a letto con la futura sposa: l’uomo aveva già intuito la loro relazione, così aveva assunto un detective. Avrebbe potuto annullare tutto, ma ha preferito consumare la sua vendetta, facendo spendere ai genitori della moglie svariate migliaia di euro per il matrimonio e svergognando la novella sposa davanti a tutti. Esistono anche altre varianti, ma il colpo di scena è una costante: in particolare, ritorna l’idea di rovinare per sempre la reputazione della moglie. Una nuove versione, poi, unisce questa leggenda a quella raccontata nella vicenda degli Amanti incastrati: la moglie e il testimone si appartano in bagno durante il banchetto ma, nel mezzo dell’amplesso, rimangono “incastrati”, così gli altri invitati sono costretti a sfondare la porta e li trovano in quella posizione imbarazzante. La leggenda degli Amanti incastrati è presente in ogni parte d’Italia e, probabilmente, del mondo. I racconti popolari hanno sempre avuto un grande interesse per le questioni legate al sesso, soprattutto se proibito e clandestino. Nelle decine di varianti che possiamo incontrare ci sono alcuni elementi che ritornano con costanza: la coppia che rimane incastrata è sempre composta da due amanti, e raramente da due sposi; la persona coniugata all’interno della coppia è di solito la donna, spesso doppiamente “colpevole” per il fatto di appartarsi con un ragazzo più giovane; alle volte il marito è medico dell’ospedale in cui vengono portati i due amanti, oppure lavora

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nell’ambulanza che presta loro soccorso; la storia termina con il paese intero che viene a conoscenza dell’accaduto. La leggenda ha quindi il sapore di una punizione verso chi commette l’adulterio. Sebbene gli amanti cerchino, di solito, posti appartati, nel momento in cui rimangono incastrati sono costretti a uscire allo scoperto ed è questo il giusto contrappasso per un comportamento peccaminoso. Esistono varianti della storia con incastri tra omosessuali o tra donne e animali e si trova anche una versione più pudica di questa vicenda, che coinvolge due adolescenti che si appartano nei bagni della scuola per scambiarsi un bacio di nascosto. I due ragazzini, però, portano entrambi apparecchi per l’ortodonzia che rimangono incastrati fra di loro. Bisogna ricorrere all’intervento di un dentista per “sciogliere” il bacio e, di conseguenza, tutta la scuola viene a sapere della tresca. Anche se, a quanto pare, le coppie dichiarate non rimangono mai vittima di questi incastri, esistono storie che vedono gli sposini finire in ospedale per pratiche erotiche poco comuni. Una di queste è ambientata nel varesotto e racconta di una moglie impegnata in un rapporto orale in favore del marito che, nel frattempo, sta cucinando una frittata. L’uomo, per un errore di valutazione nel girare l’omelette, la lascia cadere sulla schiena della donna che si scotta. Questa, come reazione incontrollata, morde il membro dell’uomo che, a sua volta, risponde con una padellata in testa alla moglie. Risultato: entrambi finiscono in ospedale ed entrambi si asterranno, in futuro, da rapporti amorosi non convenzionali. Un’altra leggenda vede i due amanti impegnati in un amplesso clandestino nella macchina di lui. Proprio sul più bello, quando l’uomo sta per sfilarsi per evitare conseguenze indesiderate, un’auto fuori controllo li tampona e il coito non riesce a essere interrotto. Nove mesi più tardi, la vergogna che è piombata sulla donna adultera trova una parziale contropartita: i due amanti, che si erano rivolti alla loro assicurazione, vengono risarciti per tutti i “danni” subiti. In generale è la donna a essere protagonista di queste storie, come se l’adulterio femminile fosse maggiormente sanzionabile. Non a caso la contrazione muscolare è di origine psicologica, dovuta alla

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paura di essere scoperti o ai sensi di colpa. In realtà i medici dichiarano che un evento simile è molto raro. Il vaginismo, un disturbo di origine nervosa, si manifesta di solito prima dei rapporti, rendendoli quindi impossibili. Il fatto che queste leggende vengano tramandate a voce, infine, permette una licenziosità nel linguaggio che nessun altro medium consentirebbe, rendendole ancora più interessanti da raccontare e ascoltare. Sempre riguardo ai moniti sulla lussuria, ancora più “spinta” e, ammettiamolo, disgustosa, è la storia della Festa dei miei diciotto anni. Questa leggenda è nota in ogni comune d’Italia in un numero infinito di varianti. L’occasione può essere una festa di laurea oppure un addio al nubilato o, ancora, una semplice scommessa. La ragazza, a sua volta, può essere una novellina alle prime armi oppure un personaggio noto a tutti per le sue abilità. L’unico elemento comune a tutte le versioni rimane la quantità di liquido trovato nello stomaco della ragazza che è sempre l’equivalente del contenuto di una lattina di Coca Cola. L’incentivo al meccanico trova ancora una volta per protagonista una donna, ma la storia è decisamente più soft: questa leggenda va idealmente accostata a un’altra simile che racconta di un ragazzo e del suo tentativo di fare colpo sulla ragazza che gli piace. Una sera lui va a prenderla nel palazzo in cui abita, ma lei gli chiede di salire nel suo appartamento e di aspettare che finisca di prepararsi. Una volta dentro, il ragazzo comincia a giocare con il cagnolino di cui tanto ha sentito parlare, nel tentativo di farselo amico e di impressionare positivamente la ragazza. Gli tira una pallina e aspetta che l’animale gliela riporti scodinzolando. Un lancio mal calibrato, però, finisce fuori dalla finestra, e il cane per seguire la pallina si getta a sua volta nel vuoto, facendo un volo di numerosi piani. In entrambe le leggende troviamo i protagonisti immersi nelle situazioni imbarazzanti che possono capitare soprattutto quando cerchiamo di fare bella figura con una persona dell’altro sesso.

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La storia dello Scandalo a palazzo presenta tutti gli elementi della perfetta leggenda metropolitana italiana. Per cominciare troviamo un atto sessuale clandestino, consumato da due amanti. I due coinvolti, però, non sono personaggi comuni, bensì cariche pubbliche (quindi con un obbligo di moralità e rappresentanza) che usano come rifugio d’amore proprio una sala del Comune, il luogo istituzionale per eccellenza. Come se non bastasse, i due amanti vengono scoperti da una scolaresca di bambini, creature innocenti che per di più provengono da lontano, richiamati dal lustro della città nel giorno della festa del patrono. A questa storia poco edificante, si aggiunge anche un risvolto politico “all’italiana”: il sindaco usa il proprio potere per favorire la carriera della donna con la quale intrattiene una relazione extraconiugale. A spingere ancora di più il pedale del politicamente scorretto ci pensa invece la leggenda Una persona per bene. Cominciò a circolare negli anni Ottanta e oggi è conosciuta un po’ ovunque, con piccole varianti: in alcuni casi la ragazza, quando viene il momento, estrae una corda dalla borsetta e si fa legare al tronco dell’albero; in altri casi la ragazza non solo è in carrozzina, ma ha due moncherini al posto delle gambe. La storia, in ogni caso, è politicamente scorretta come possono esserlo solo le leggende metropolitane: il ragazzo, che si sentiva velatamente in colpa per aver approfittato della fragilità di una persona disabile, vede alla fine ribaltarsi la situazione e si sente quasi “usato”. A incrementare il corpus delle leggende che parlano di sesso, ci sono sicuramente quelle che riguardano l’onanismo. Le leggende di masturbazioni finite male sono note in ogni angolo d’Italia e non necessitano commenti: la brutta figura in ospedale, o la voce che circola per tutto il paese, sono la giusta “punizione” per questi eccessi di lussuria contro natura. Il campionario è davvero infinito: oltre a ortaggi e wurstel si trovano lampadine, confezioni di bagnoschiuma, spazzoloni per il wc, oggetti di ogni tipo e perfino un capitone (che però, di solito, si aggrappa con i denti).

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Esistono divertenti varianti anche per quanto riguarda le scuse inventate dai malcapitati. Si va dal “Ci sono caduto sopra per sbaglio”, all’anziano contadino che assicura di aver usato la zucchina “solo per grattarsi il fondoschiena”. A diffondere queste leggende sono di solito amici che lavorano nei pronto soccorso delle diverse città e che conoscono testimoni diretti dell’accaduto. In alcuni casi si favoleggia anche di misteriosi archivi interni agli ospedali che contengono documentazione fotografica di tutti questi incidenti. Quel che è certo, comunque, è che in numerosi piccoli centri d’Italia esistono persone, perlopiù donne, che vengono segnalate senza ombra di dubbio da tutti i compaesani come protagoniste di questi episodi. Nel caso delle leggende di questo tipo che riguardano personaggi famosi, invece, è facile immaginare come queste siano provocate da un’evidente “invidia” o comunque dal desiderio di rendere meno “mitico” un personaggio tanto osannato dal genere femminile.

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