ART AND TIME

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Franco Rella

L’ARTE E IL TEMPO


Indice

Prima parte I.

Il museo. Immagini e figure del tempo

9

II. Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali

21

III. Labirinti. La città museo dell’avanguardia

41

IV. Di alcuni motivi in Walter Benjamin. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

65

V. L’enigma della bellezza

77

VI. La forma del vuoto

87

VII. Specchi e clessidre

101

VIII. Courbet e Baudelaire. La questione del realismo

107

IX. Freud e Leonardo

117

X. Volti e paesaggi

125

XI. Elogio dell’ombra

147

XII. Verso l’estremo. Il mondo come destino

157

5


Indice

Prima parte

Seconda parte. MICROLOGIE 1.

Arte e violenza. La violenza dell’arte 171

2.

Intermezzo in Paradiso 179

3.

La figura lunare dell’arte 181

4.

Inapparenze 183

5.

Natura morta con bottiglie 187

6.

La storia e le storie 189

7.

Committenze 194

8.

En attendant Raffaello 196

9.

Uno sguardo all’indietro 198

10. Street Art. La città museo 200

Tavole Nota

203

Avvertenza 207 Bibliografia 291

6


I. Il museo. Immagini e figure del tempo a Cristiana Collu

Paragonando fra loro quelle diverse impressioni felici (…) sino a far rifluire il passato nel presente, sino a non sapere con certezza in quale dei due mi trovassi; in verità, l’essere che assaporava allora in me quell’impressione la assaporava in ciò che essa aveva di comune in un giorno trascorso e ora, in ciò che aveva di extratemporale: un essere che appariva soltanto quando, grazie a una tale identità fra il presente e il passato, gli era dato stare nel solo ambiente in cui potesse vivere e godere dell’essenza delle cose, ossia al di fuori del tempo. Marcel Proust Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole l’immagine è una dialettica in stato d’arresto. (…) La relazione tra ciò che è stato e l’adesso è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua. Walter Benjamin

1. «Imparo a vedere». Così iniziano i Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke1. Nel periodo in cui lavorava a questo libro, Rilke stava imparando a vedere portandosi ogni giorno, per molti giorni di seguito, davanti ai quadri di Paul Cézanne nella grande esposizione al Grand Palais di Parigi nel 1907, un anno dopo la sua morte. «Imparo a vedere». Eppure Rilke doveva aver già «visto». Aveva sposato un’artista, Clara Westhoff, era amico di Paula Modersohn-Becker, conosceva il gruppo di Worpswede, aveva lavorato per Rodin e, attraverso Rodin su cui scriverà un saggio, aveva conosciuto tutta l’arte che gli era contemporanea. Eppure da Cézanne Rilke realmente aveva imparato a vedere. Sempre, quando ci si avvicina a un grande artista, o a un artista 9


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che ci è nuovo, e si comincia a decifrarne i tratti, a entrare nelle sue opere e a dialogare con le sue figure, si impara a vedere. S’impara a scorgere l’enigma che l’opera, che ogni opera nasconde. 2. L’essenza del sorriso della Gioconda, ha scritto Marina Cvetaeva in Indizi terrestri2, è l’inesorabilità dell’interrogativo che questo sorriso propone. Ed è l’interrogativo stesso che costituisce «l’assoluto della sua risposta». Qui è dato «il Mistero, il mistero come essenza e l’essenza come mistero. È dato il mistero in sé». Il sorriso della Gioconda è dunque l’enigma che questo stesso sorriso esprime, un enigma che non ha soluzione, e che ogni volta si ripropone in quanto tale. Nelle parole di Cvetaeva sembra di avvertire l’eco di Joseph Conrad, che apriva Cuore di tenebra ricordando che il racconto assomiglia «a quegli aloni indistinti che talvolta la spettrale luce della luna rende visibili»3. Una luce che illumina e rende visibile l’indistinto, il buio, l’enigmatico. Con loro concorda anche Theodor W. Adorno che in Teoria estetica4 afferma che tutte le opere d’arte sono enigma. Lo è anche l’arte nel suo insieme, che dice qualcosa nel momento stesso in cui lo nasconde. Questo carattere enigmatico «sopravvive all’interpretazione» che anzi, quando è autentica interpretazione, dà appunto «ragione all’insolubilità» dell’enigma che l’arte propone. Ogni grande opera sembra paradossalmente pretendere la sua interpretazione con la stessa forza con la quale la respinge. Questo ci insegnano le grandi analisi adorniane di Kafka, di Beckett, della musica moderna. Non spiegano, ma dialogano anche conflittualmente con la complessità e il mistero che le opere propongono. Detto questo cerchiamo comunque di avvicinarci non certo a una spiegazione, ma al luogo dell’enigma. Dobbiamo cercare di percorrerne i margini e – se è possibile, se è giusto – porci a guardia dei suoi confini. 3. Fare arte, ha scritto Maurice Blanchot ne Lo spazio letterario5, è consegnarsi al fascino dell’assenza di tempo. E un’assenza di tempo sembra davvero l’aura che circonda le opere d’arte. Antigone non invecchia mai, Diotima parlerà per sempre d’amore, e per sempre la Madonna sosterrà Gesù, il figlio morto, nella Deposizione di Giovanni Bellini a Brera, e gli occhi ciechi e abissali dell’Innocenzo x di Bacon continueranno a fissarci. Tutto questo è vero, ma credo che il discorso di Blanchot si spingesse più oltre, là dove, forse, l’assenza di tempo è di fatto ciò che definisce lo spazio della morte, che è ciò che l’artista – secondo Blanchot – con la sua opera cerca di raggiungere. Ci sarebbe dunque una taciuta e nascosta intimità tra l’opera e la morte? La morte è la fine del tempo, ma se l’opera si pone nello spazio dell’assenza di tempo, l’opera pone para10

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dossalmente se stessa e l’artista nella condizione di non poter morire. L’assenza di tempo è il tempo della morte, ma è anche inevitabilmente il tempo in cui nulla può più avvenire, nemmeno la morte. Stare dunque in prossimità alla morte, senza mai possederla, è l’esercizio dell’arte, come Blanchot ha detto della letteratura, che sembra proporsi come la conquista di «un diritto alla morte»6. È qui il cuore dell’enigma? Oppure possiamo leggere nel «tempo dell’assenza del tempo» una perversione temporale, una delle tante perversioni temporali che costitui­ scono il tempo proprio dell’arte, in cui coesistono «tutte le possibilità, tutte le contraddizioni, tutti i modi in cui il tempo diviene tempo», come dice ancora Blanchot ne Il libro a venire7? 4. In Blanchot risuona anche la raccomandazione di Hegel, «das Tote festzuhalten». Tener fermo, vale a dire stare fermi presso la morte, che è «la più terribile cosa», è «ciò che ci richiede la massima forza», e che, mediata dalle lezioni di Alexandre Kojève, aveva affascinato tutta l’intellettualità francese negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso8. Walter Benjamin, che pure aveva saltuariamente seguito i seminari di Kojève, declina la morte in modo diverso. Proust, egli scrive nel Passagenwerk9, «nel senso più profondo peut-être se range du côté de la mort: il suo cosmo ha forse il sole nella morte intorno al quale girano gli istanti vissuti, le cose raccolte (…). Per capire Proust occorre forse partire soprattutto da questo: che il suo oggetto è il rovescio, le revers-moins du monde que de la vie même». L’attimo è quel frammento di tempo in cui vediamo il rovescio, il rovescio non tanto del mondo quanto della vita stessa. Questo è uno dei compiti dell’arte che, forse perché è toccata dalla morte, ci presenta quel rovescio, che di solito avvertiamo solo in qualche istante della nostra vita, in cui si intrecciano e si addipanano molteplici fili che a noi si rendono visibili in un urto improvviso. È il rovescio della tela ricamata della vita che così si rende visibile (PW, D2a, 1). Normalmente vediamo ricamato un disegno pienamente leggibile. L’arte mostra il rovescio, e dunque rivela la profonda e contraddittoria coerenza che in fondo lega ogni cosa, anche l’inapparente che si manifesta come tale in ciò che appare. 5. Abbiamo parlato di perversioni temporali. Qui si è affacciato, violento e perentorio, un vero e proprio pervertimento nell’ordine del tempo: il concetto di attimo. L’attimo, l’istante, aveva già detto Platone nel Parmenide (156d), è atopos, è «fuori luogo», una sorta di tempo in esilio, perché non appartiene né al prima né al dopo. L’attimo è di per sé, dunque, vertiginoso. È, scrive Kierkegaard10, «quell’ambiguità nella quale tempo ed eternità si toccano; e con ciò è posto il concetto di temporalità nella 11


L’arte e il tempo

quale il tempo taglia continuamente l’eternità e l’eternità penetra continuamente nel tempo». Ma l’istante non è ambiguo soltanto perché è il crocevia in cui tempo ed eternità si toccano, ma pure perché, nel momento in cui in esso si pone il concetto stesso di temporalità, emerge anche la negazione del tempo. «L’istante non esprime altro che il vero svanire». L’attimo. Adorno parla, riferendosi a Benjamin, della «catastrofe dell’attimo che spezza la continuità temporale» (TE, p. 33). Dal tempo dell’assenza di tempo, al tempo che nega se stesso, all’attimo come catastrofe. Siamo davvero in un intreccio di pensieri appena pensabili, in un labirinto di paradossi. Ma Kierkegaard ha pur scritto nel suo Diario (XA573)11 che «il pensatore essenziale spinge sempre la cosa agli estremi», cioè al suo paradosso, e poi, aggiunge, «viene il professore che elimina il paradosso», vale a dire il pathos della vita intellettuale. La verità spesso si muove proprio nello spazio del paradosso. 6. Riportiamoci a un’epocale perversione del tempo, il Barocco, l’epoca del principe melanconico, Amleto, e del cavaliere triste, Don Chisciotte. È il principe malinconico (Amleto, v, 1), che pronuncia la nuova terribile verità: The time is out of joint, il tempo è uscito dai cardini. Scardinato, ha iniziato a correre, inarrestabile, costruendo via via la sua ideologia, o forse meglio la sua teologia: il progresso. Ma l’arte, lo abbiamo visto, non conosce progresso. Da sempre e per sempre non conosce progresso. Il taglio di Fontana non è un progresso rispetto a Picasso e Picasso non lo è rispetto alle Meninas di Velázquez su cui egli si è piegato e ha cercato di capire ripetendole. Ma nel Barocco c’è un’insistita accentuazione di questo arresto del tempo che sembra essere costitutivo dell’arte. Stilleben, vita arrestata, nel cumulo di verdure e frutta e carni su un tavolo. Vita arrestata quella di santa Teresa che sembra sospesa al singulto di un’estasi interrotta, o quella della mano protesa di Apollo all’eterno inseguimento di Dafne. Tutto sospeso, come scrive Benjamin ne Il dramma barocco tedesco12, in una sorta di «pietrificato paesaggio primordiale». Stilleben, natura morta, appunto. La sospensione del tempo sembra riportarci all’assenza del tempo e quindi di nuovo, con Blanchot, all’intimità con una morte che si propone come obiettivo da raggiungere. Eppure nello stato d’arresto implicito allo Stilleben si nasconde anche altro. 7. Benjamin, in una serie di annotazioni che attraversano tutto il Passagenwerk, avanza il concetto paradossale di una dialettica im Stillstand, di una dialettica arrestata, in cui i termini in contraddizione non si risolvono, come avviene appunto nel movimen12

Il museo. Immagini e figure del tempo

to dialettico che in Hegel è l’immagine stessa del progresso, ma invece significano proprio nella loro inesausta e irrisolta tensione. Benjamin afferma che in questa immagine dialettica si realizza «l’ora della conoscibilità» e ne attribuisce, se non la scoperta, almeno la piena efficacia a Proust13. Abbiamo già incontrato il testo di Adorno che afferma che l’immagine dialettica benjaminiana contiene in sé la catastrofe dell’attimo che spezza la continuità temporale, la durata, il tempo progressivo. Proprio dall’arte Benjamin ha imparato l’idea di un tempo che non si condanna alla catena del prima e del dopo, ma fa emergere il tempo-ora, l’adesso, l’attimo che contiene l’ora e l’allora. Il passato può essere così redento. Entra in tensione con il presente e insieme realizzano, come direbbe Proust, un terzo altro tempo. 8. Sono le idee che Benjamin avanza nelle tesi Sul concetto di storia. Benjamin arriva a questo attraverso una scoperta che lo emoziona, e che emozionato comunica in una lettera a Gretel Karpus del 9 ottobre 193514, l’amica che diventerà la moglie di Adorno, e poi a Scholem e quindi a Horkheimer. Benjamin ha appena finito l’exposé dei Passagenwerk, ma la sua scoperta potrebbe presentarle l’exposé stesso in una luce completamente nuova. In sostanza – scrive Benjamin – non posso entrare nel dettaglio, ma dirti soltanto in grandi linee che io – in queste ultime settimane – ho potuto scoprire quel carattere strutturale segreto dell’arte attuale che permette, cosa che è per noi decisiva, di riconoscere ciò che oggi è determinante nel «destino» dell’arte del xix secolo. Ho con ciò realizzato in un esempio decisivo la mia teoria della conoscenza che è cristallizzata nell’«ora della conoscibilità», che forse non ti è familiare e che io ho trattato in modo molto esoterico. Ho trovato quell’aspetto dell’arte del xix secolo, che solo «ora» è conoscibile, che non lo è mai stato prima e che non lo sarebbe più avanti.

Benjamin ha scoperto che nell’ora della conoscibilità tempi diversi entrano in gioco. La perdita dell’aura, nell’epoca della riproducibilità tecnica15, s’incontra con il processo di deauratizzazione tipica del xix secolo, che trova la sua espressione più perspicua in un grande testo dello Spleen di Parigi di Baudelaire, «La perdita dell’aureola», ma che potrebbe declinarsi nelle arti figurative, ne Le déjeuner sur l’herbe o nell’Olympia di Manet. E con questo siamo entrati in un nuovo paradosso temporale. Non soltanto l’arte non progredisce, ma essa, nelle sue opere, continua a specchiarsi nel passato: a trarne senso e a dare ad essa senso. Non parlo solo delle citazioni. L’azzurro della Flagellazione di Cristo di Urbino di Piero della Francesca, richiama – a me irresistibilmente – l’az13


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zurro di Une baignade à Asnières di Georges Seurat, a cui forse Seurat non aveva pensato. E ancora più a fondo: Bacon ha bisogno di Velázquez come, forse, Velázquez ha bisogno di Bacon. In questo caso, non solo l’opera di oggi chiama e illumina l’opera del passato, e viceversa. Ma interviene su di essa. Bacon nell’Innocenzo x, spoglia il quadro di Velázquez di quanto la storia (e il processo di museificazione) vi ha deposto, lo «sfigura» per scoprirne ciò che si è celato da quella patina: il potere, che Velázquez conosceva molto bene, in quanto, come emerge dalle Meninas, lui si raffigura come il portatore del potere immenso dell’arte, che può oscurare anche il volto dei regnanti. Ho detto più sopra che un’opera chiede l’interpretazione con la stessa forza con cui la respinge. L’interpretazione che l’opera non può respingere è quella che viene avanzata da un’altra opera d’arte. Bacon rianima Velázquez. Bacon interpreta Velázquez. 9. Con Benjamin è ancora la questione dell’attimo. A questo dobbiamo tornare, cercando di connetterlo più profondamente con il tempo dell’assenza di tempo da cui all’inizio abbiamo preso le mosse definendolo l’enigma o il mistero proprio dell’arte. Nietzsche scrive, in una delle sue annotazioni pubblicate postume16 (viii, i, 4 [5]), «C’è una parte della notte, in cui il solitario dirà: “ascolta, ora il tempo è cessato!”». La sensazione è quella di «un’anomalia del tempo». Anche Eschilo aveva scritto «in quel punto della notte dove non esiste il tempo». Ma a chi, si chiede Nietzsche, raccontare i propri pensieri notturni? L’attimo in cui il tempo sembra cessare di essere tempo è lo spazio in cui Zarathustra scopre l’eterno ritorno, anzi è l’attimo in cui Zarathustra viene sorpreso, quasi investito da questa rivelazione. Giorgio de Chirico, come testimoniano le sue annotazioni teoriche dei primi anni Dieci17 e la sequenza delle sue piazze e delle sue Arianne, riflette su Nietzsche. Anzi sono convinto che quella sequenza di opere dipinte tra il 1911 e il 1913 siano di fatto la trasposizione pittorica delle immagini che popolano la filosofia di Nietzsche, come se de Chirico avesse preso su di sé, per dirla con Benjamin, il compito del traduttore. De Chirico ha letto Ecce homo di Nietzsche in cui il filosofo riepiloga tutto il suo percorso. Ne è rimasto folgorato. De Chirico (MP, p. 13) richiama l’incontro di Nietzsche sorpreso da Zarathustra. Nel participio sorpreso, egli scrive, «si trova tutto l’enigma della rivelazione che viene d’improvviso». De Chirico si riferisce a un passo di Ecce homo18 in cui troviamo una vera teoria della rivelazione: «Il concetto di rivelazione, nel senso di qualcosa che, subitaneamente, con indicibile sicurezza e sottigliezza, si fa visibile, udibile, qualcosa che ci sconvolge nel più profondo, è una sem14

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plice evidenza di fatto». Ecco dunque, pensa de Chirico, che una cosa qualsiasi, una piazza, una strada, un giardino possono metterci nel cuore di una rivelazione. Ma ciò che si rivela a noi è ancora una volta l’enigma di un tempo senza tempo, un tempo malato, un tempo immoto, come le ombre che si proiettano sulle superfici delle case o per terra, come le lancette degli orologi per sempre fermi, come la locomotiva che spunta dalle arcate de Il viaggio angoscioso, che appare come un mostruoso Minotauro, che però non avanzerà mai sulla piazza, che mai potrà turbare l’immensa solitudine e il silenzio di Arianna sospesa e attonita nell’assenza di tempo. «E ora il sole si è fermato su in alto nel cielo; e la statua nella sua felicità di eternità affonda nella contemplazione della sua ombra» (MP, p. 36). 10. Franz Kafka verso la fine della vita scrive un mirabile racconto, Josefine la cantante ovvero il popolo dei topi19. Dunque Josefine, il femminile di Josef K., il protagonista del Processo, è un’artista. Cosa canta Josefine? Cosa dice la sua arte? Il popolo dei topi si interroga. «È il suo canto che ci rapisce, o non è piuttosto il solenne silenzio che circonda la sua debole vocetta?». La sua arte, l’arte di Josefine, l’arte di Franz Kafka, non è che un punto che serve a rendere visibile «il solenne silenzio», l’immane non detto in cui forse si nasconde la verità, in cui forse si nasconde la bellezza. Georges Bataille in un testo del 1951 afferma20: «Può darsi che la letteratura abbia in profondità lo stesso senso del silenzio». La letteratura dunque e l’arte nel suo insieme come l’esercizio del silenzio. Possiamo accontentarci di questa affermazione di Bataille oppure proprio de Chirico e Kafka indicano qualcosa che riporta ancora a ciò da cui abbiamo preso le mosse? Il silenzio che Arianna rende con la sua stessa postura evidente, o quello che Josefine rende percepibile attraverso la sua piccola voce, sono come quella luce che in Conrad illumina gli aloni oscuri della luna. Sono un interrogativo, sono il mistero, sono l’enigma dell’arte. Sono il mistero e l’enigma della temporalità che è costitutiva dell’arte. Ma proprio l’accenno di Arianna all’eternità pone in campo il concetto di durata, che sembra, in prima istanza, «la protesta che l’arte eleva contro la morte» (Adorno, TE, p. 33), e dunque forse contro il tempo dell’assenza di tempo. In realtà le opere non invecchiano, anche se di fatto non incorporano la durata in quanto tale. Sono più vicine alla morte, di quanto non lo siano a ciò che si designa con il termine «durata». C’è un breve testo di Benjamin del 1921, il Frammento teologicopolitico21, in cui egli avanza il concetto dell’eternità del tramonto. Ciò che è mondano tramonta. «Il ritmo di questa mondanità che eternamente trapassa, e trapassa nella sua totalità, non solo spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è 15


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la felicità. Poiché la natura è messianica per la sua eterna e totale caducità». Un eterno tramontare, un eterno perire, forse è questa la «durata» delle opere d’arte, l’occulta felicità che esse racchiudono e comunicano. È la convinzione di Rilke per cui la parola conquistata nella poesia trasforma anche il perire in una cosa nostra. In felicità anche quell’eterna caducità che in un primo tempo bordava a lutto le Elegie duinesi, sul margine delle quali erompono anche I sonetti a Orfeo, il mitico cantore dilaniato, in un movimento perpetuo di mutamenti e metamorfosi22. D’altronde anche Adorno conviene sull’idea che «nel perire del finito risplenda l’infinito» (TE, p. 40). Questo è uno dei nodi della tragedia greca. Questo emerge nell’eterno perire di Malone muore, o dell’Innominabile di Beckett23, vale a dire una dimensione nichilistica che si apre gnosticamente all’altro da sé, alludendo addirittura a una possibile redenzione. Benjamin conclude il suo frammento teologico-politico affermando che tendere all’eterna e totale caducità «è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve essere chiamato nichilismo». L’arte contemporanea delle grandi sfigurazioni – da Lucio Fontana a Francis Bacon, da Franz Kline a Lucian Freud e a Marlene Dumas – è stata ed è una grande scuola di nichilismo. 11. Ma l’arte porta con sé anche il tempo del museo. Il museo e la ghigliottina sono fratelli gemelli. Il museo nasce quando cade la testa del re che garantiva per diritto e investitura divina l’insieme dei valori che la società doveva far propri e che dovevano quindi garantirne la sopravvivenza. Caduta la testa del re doveva nascere il museo, il luogo, una serie di luoghi, in cui fossero depositate le tracce e le testimonianze di valori che dovevano essere preservati e a cui ci si doveva rivolgere. L’arte, come ben sapeva Napoleone, aveva un ruolo primario in questa gestione ideologica della memoria. Ma il museo entra inevitabilmente in conflitto con la temporalità dell’arte. Tra i valori che il museo comunica c’è sicuramente il valore dell’idea di progresso che è, come abbiamo visto, antitetica al tempo proprio dell’arte. La certezza del passato deve dare certezza al nostro presente. In questo senso il compito del museo è proprio quello di rimettere il tempo sui suoi cardini, che sono ormai quelli del tempo progressivo. Le epoche si susseguono ordinate nella teoria del prima e del dopo. Quando arriviamo a quella che pare essere la tappa finale, quella in cui noi stessi siamo, il tempo del moderno, allora inventiamo un altro «dopo», il postmoderno. La pulsione ideologica è così forte che per limitarla Lyotard24, che aveva proposto l’idea stessa di una condizione postmoderna, ha dovuto mettere in guardia ne Il postmoderno spiegato ai bambini contro un uso ideologico della categoria che egli aveva proposto. Anselm Kiefer ha messo in guardia anche contro un altro rischio 16

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implicito nell’idea stessa di museo. A circoscrivere in parole l’arte, assegnandole un posto «a partire dal quale dovrebbe agire secondo i suoi propri criteri, ci si assume il rischio di impoverirla, di renderla inoffensiva. Il rischio che essa sia circoscritta in uno spazio e che una volta pacificata, non agisca più a suo modo, non provochi più danni, mentre l’arte deve essere sovversiva. L’arte deve essere nociva»25. Deve essere nichilista, come abbiamo visto più sopra con Benjamin e con Adorno e con Beckett. 12. Valéry ha cercato di mettere in discussione l’idea del museo come ordine progressivo. L’immensa varietà di forme che esso racchiude fa sì che quando ne esco scopro che quella varietà in effetti è la stessa molteplice varietà che popola le strade della metropoli26. Si può andare anche oltre Valéry per far incrociare il tempo del museo con il tempo dell’arte. Cammino per le sale e per i corridoi, entro in quell’immensa figura, che il museo vuole propormi. Ne accetto la sfida. Cerco di creare una costellazione di immagini e di figure in cui emergano crepe, fessure, lacerazioni, che raccontino la via crucis che hanno percorso. Vado ancora avanti. Un quadro è appeso a una parete vicino a un altro quadro, lungo un tragitto che mi porta a un’altra parete e a un’altra opera. Le opere tacciono, sono silenziose. Il tempo che preme dentro i loro confini sembra prigioniero. Sono diventate oggetto di mera ammirazione. Eppure, questa è la sfida: nella grande costellazione, nella «gigantografia», l’opera perde il carattere auratico e compiuto che la chiude in una dimensione puramente estetica. Paradossalmente l’opera ridiventa incompiuta: apre i varchi perché il nostro tempo penetri in essa e perché il suo tempo si proietti e penetri in noi. Il museo, mettendo insieme molte opere, ha creato la condizione stessa perché io possa coglierne il carattere frammentario. La compiutezza del loro incompiuto che pur fissato per sempre si protende verso il suo compimento. Benjamin ha scritto: «Il bello deve rendere conto di se stesso, ma proprio in questo rendere conto, esso appare come interrotto, e riceve l’eternità del suo valore in virtù di quell’interruzione. Ciò che non ha espressione (…) spezza quello che resta in ogni bella apparenza come eredità del caos: la totalità falsa, aberrante – la totalità assoluta. Esso compie l’opera riducendola a un pezzo, a un frammento del mondo vero, al torso di un simbolo»27. Restituisce all’opera la sua parola. Con Benjamin scopriamo che il tempo dell’assenza di tempo dell’opera non sta in una totalità – e il tentativo del museo di proporcela paradossalmente ne scopre il carattere illusorio. L’opera, il suo tempo, il suo enigma si danno in schegge e in frammenti. Il museo nato per «ricomporre l’infranto»28, per mettere a posto i vari frammenti e le varie schegge, è diventato o può diventare un immenso operatore di differenze, e al tempo stesso mo17


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strare che queste differenze non si dispongono ordinatamente in un prima e in dopo. Può mostrarci che in un quadro di Boccioni si riflette una verità temporale e insieme extratemporale. Un’epoca e una condensazione di esperienze molteplici. Provo a enumerarle, divisionismo, futurismo, cubismo, espressionismo e poi mi accorgo che sto recitando una litania. Mi fermo. Mi riporto all’opera. Mi riporto al suo mistero, e al fatto che il mistero di questa opera di Boccioni mi ha permesso di entrare in contatto con il mistero di altre opere che via via continuo a scoprire lungo i corridoi, attraverso le sale che sto attraversando. Il mistero dell’arte ha imposto la sua legge anche al museo. Forse così siamo sfuggiti al rischio, su cui ci ha messo in guardia Anselm Kiefer. Abbiamo scoperto che il museo può diventare addirittura il guardiano dell’enigma dell’arte, il custode del suo segreto e del suo significato.

1

R.M. Rilke, Quaderni di Malte Laurids Brigge, tr. it. di C. Groff, Mondadori, Milano 1988. M. Cvetaeva, Indizi terrestri, a cura di S. Vitale, Guanda, Parma 1980, p. 165. 3 J. Conrad, Cuore di tenebra, tr. it. di R. Bernascone, Mondadori, Milano 2000. 4 T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino 2009, pp. 162-164, p. 168. Sarà citata nel testo con l’abbreviazione TE e il numero di pagina. 5 M. Blanchot, Lo spazio letterario, tr. it. di G. Zanobetti, Einaudi, Torino 1967, pp. 15-16. 6 M. Blanchot, La littérature et le droit à la mort, in La part du feu, Gallimard, Paris 1949. 7 M. Blanchot, Il libro a venire, tr. it. di G. Ceronetti e G. Neri, Einaudi, Torino 1969, p. 20. 8 G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, vol. i, la Nuova Italia, Firenze 1963, p. 26. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996. Kojève tiene un seminario sulla Fenomenologia di Hegel dal 1933 al 1939, a cui partecipano praticamente tutti gli intellettuali parigini, da Bataille a Hyppolite, da Breton a Merleau-Ponty. Al centro di queste lezioni è il tema del desiderio e della morte che si dispiegano fino alla fine: la fine della storia, che per Kojève è già avvenuta. Aspettando Godot di Beckett è quasi una puntuale messa in scena delle teorie di Kojève. L’influenza di Kojève dura anche nei decenni successivi fin dentro l’opera di Foucault e di Deleuze. 9 Das Passagen-Werk o Passagenwerk è il titolo con cui si consegnano internazionalmente I “Passages” di Parigi, in Walter Benjamin, Opere complete, ed. it. a cura di E. Ganni, vol. ix, Einaudi, Torino 2000, che cito con la numerazione dei quaderni benjaminiani, qui, S,2,3. Più avanti, nel testo, saranno citati con l’abbreviazione PW seguita dall’indicazione dei quaderni. 10 S. Kierkegaard, Timore e tremore, a cura di C. Fabro, Rizzoli, Milano 1986, p. 109. 11 S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980-1983. Nel testo, tra parentesi, la numerazione che rinvia sia all’edizione originale sia all’edizione italiana. 12 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, p. 141. 2

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Il museo. Immagini e figure del tempo 13 La

dialettica in sospeso, arrestata, e l’ora della conoscibilità – e in questo il ruolo di Proust è decisivo – attraversano tutte le annotazioni di W. Benjamin in I «Passages» di Parigi, cit., dalle prime annotazioni del 1926 fino alla morte. 14 G. Adorno – W. Benjamin, Briefwechsel 1930-1940, a cura di C. Gödde e H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005. 15 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Valagussa, con un’introduzione di M. Cacciari, Einaudi, Torino 2011. 16 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1857, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. viii, tomo ii, Adelphi, Milano 1975. La numerazione riportata nel testo è la numerazione dei Frammenti proposta in questa edizione. 17 G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, a cura di M. Fagiolo, Einaudi, Torino 1985, che sarà citato nel testo con l’abbreviazione MP, seguito dal numero di pagina. 18 F. Nietzsche, Ecce homo, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 1992, pp. 96-99. 19 F. Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, a cura di A. Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1991. La citazione è a p. 211. 20 G. Bataille, Œuvres complètes, Gallimard, Paris, vol. xii, 1988, p. 88. 21 In Opere, cit., vol. i, 2008, pp. 512-513. 22 R.M. Rilke, Elegie duinesi, a cura di F. Rella, Rizzoli-bur, Milano 2015; I sonetti a Orfeo, a cura di F. Rella, Feltrinelli, Milano 2007. 23 S. Beckett, Trilogia, a cura di A. Tagliaferri, Einaudi, Torino 1996. 24 J.-F. Lyotard, La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, Minuit, Paris 1979; Le Postmoderne expliqué aux enfants: Correspondance 1982-1985, Minuit, Paris 1988. 25 A. Kiefer (au Collège de France), L’art survivra à ses ruines, Éditions du Regard, Paris 2011, p. 11. 26 P. Valéry, Le problème des musées, in Œuvres, vol. ii, Gallimard, Paris 1960, pp. 1290-1293. 27 W. Benjamin, Le Affinità elettive di Goethe, in Opere, vol. i, cit., p. 234. 28 Cfr. la ix delle tesi Sul concetto di storia, in W. Benjamin, Opere, cit., vol. vii, 2006.

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II. Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali

L’uomo scaraventato nel tempo era sempre diverso, se lei aveva capito bene D., il che però avrebbe significato che non esisteva un Io, o meglio, esisteva soltanto una serie infinita di Io che emergevano dal futuro, balenavano nel presente e sprofondavano nel passato, di modo che ciò che si definiva il proprio Io era soltanto un nome collettivo per tutti gli Io collezionati nel passato (…) un ammasso di brandelli di esperienze e di ricordi. Friedrich Dürrenmatt Le città sono state costruite per misurare il tempo, per togliere il tempo dalla natura. Don DeLillo

1. Gli orologi a un certo punto segnarono tutti la stessa ora. Il tempo sembrava definitivamente domato. Anche la memoria era stata finalmente ordinata, scandita, messa al suo posto. I Musei erano pieni di cose sistemate «secondo l’ordine del tempo»: oggetti, abiti, costumi, tutto, e in questo tutto anche le opere d’arte. La memoria collettiva, un tempo garantita dal sovrano per diritto divino, ora è garantita dal museo. Infatti, soltanto la certezza del passato dà certezza al nostro presente. Le epoche si susseguono ordinate in tutti i nostri libri di storia. Gli Egiziani, gli Assiri e i Babilonesi, i Greci e Romani, il Romanico, il Gotico, la prospettiva, e via via fino allo Squalo di Damian Hirst, e poi ancora oltre, moderno e postmoderno. L’arte testimonia l’eterna presenza del passato e il suo valore, ciò che ci ha fatti e costituiti. Se lo Squalo di Hirst si decompone, viene restaurato e restituito al suo posto. D’altronde anche Tiziano è stato restaurato e riproposto nel suo inalterato e inalterabile splendore. 21


L’arte e il tempo

Tutto questo è la città, è la metropoli. Per giungere a questo dominio sul tempo, alla catena del prima e del dopo, è stata necessaria una lunga battaglia, in parte ricostruita da Krzysztof Pomian1. L’idea del tempo (cronosofia) ciclica e quella lineare si sono alternate lungo i secoli fino al xix secolo, quando politica, filosofia e scienza dichiarano finalmente la vittoria della cronosofia lineare e cumulativa. Hegel parla delle grandi figure dello Spirito che si dispiegano – l’una dopo l’altra – irreversibilmente nella storia fino alla fine della storia. Il positivismo scientifico si muove attraverso una causalità anch’essa lineare e, come scrive Pomian, «anche la storia politica, quella degli Stati, che più a lungo aveva costituito un rifugio per la cronosofia ciclica, rientra poco a poco nel quadro di una rappresentazione del tempo lineare e cumulativo». L’assioma della conservazione della continuità era nel xix secolo intoccabile. Fino a un certo punto però. 2. Nell’estate del 2006 la videoistallazione di Douglas Gordon 24 Hour Psycho, presentata per la prima volta nel 1993 a Glasgow e a Berlino, viene proposta al Museum of Modern Art di New York. Davanti alla proiezione del film Psycho di Alfred Hitchcock dilatata a ventiquattro ore c’è Don DeLillo, un’esperienza che egli ripropone nel romanzo Punto Omega. Un personaggio anonimo rimane davanti allo schermo, «sensibile a ciò che accade nei più piccoli registri di movimento». L’orrore potente del film, l’orrore di Psycho, viene «incorporato nel tempo. Quanto tempo doveva rimanere lì, quante settimane o mesi, prima che lo schema temporale del film finisse per assorbire il suo; o forse questo processo era già in corso?»2, si chiede. Lo spettatore intravede una fugace presenza, due personaggi, su cui DeLillo apre una storia parallela, che pare svolgersi tra una giornata e un’altra giornata della proiezione, una sorta di tempo interstiziale che si dilata anomalo. Questa storia si dipana altrove, nel deserto, là dove il «tempo è enorme», è «cieco», è incomprensibile. È quindi al di là di ogni possibile esperienza, di ogni possibile narrazione o rappresentazione. Ma quello che qui c’interessa è l’idea del tempo che è fuggito alla misura degli orologi, che si è allontanato da quello che sembra essere l’inesorabile ritmo del prima e del dopo, del susseguirsi dei piccoli tempi e dei grandi tempi e delle epoche. Quello sperimentato qui nel deserto – immane, e incommensurabile – è un tempo che assorbe e attrae a sé. L’aveva intravisto già nel xix secolo Charles Baudelaire quando scriveva: «Il tempo m’inghiotte minuto per minuto come fa la neve immensa d’un corpo irrigidito»3. Tra la pietrificazione baudelairiana e la dilatazione di DeLillo, che la riprende e l’amplifica, c’è un’esperienza del tempo che in qualche modo incorpora entrambe e le supera in una sorta di sospensione mitica. 22

Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali

Walter Benjamin ha colto «il volto mitico della città come labirinto. Di cui fa parte naturalmente l’immagine del minotauro al suo centro. Che esso infligga la morte al singolo non è decisivo. Decisiva è l’immagine delle forze mortali che esso incarna e rappresenta»4. Benjamin ha colto questa dimensione mitica e mortale perché ha combattuto per tutta la sua vita l’idea di un tempo lineare e progressivo, un tempo che si fonda sull’ideologia dei dominatori, e che tradisce sia l’esperienza individuale che una diversa possibile esperienza collettiva. Benjamin mette in tensione il grande attimo – il «tempo-ora», la Jetztzeit – del mito con il «tempo della conoscibilità», il tempo di una possibile redenzione del tempo passato. Su questo torneremo. Per ora guardiamo dentro il tempo mitico della città. È lì che scopriamo Arianna. Arianna sospesa, in attesa. 3. Ci sono numerosi quadri di de Chirico, soprattutto dal 1912 al 1913, dedicati a questa grande figura mitica. Arianna non è nel labirinto. Arianna è il labirinto. È così che la riconosciamo nel Viaggio angoscioso del 1913, nel terribile incombere delle arcate, là dove, sull’ingresso, che è anche l’unica uscita del labirinto, veglia frontale una locomotiva, mostruosa come il Minotauro. È il mito precipitato nel cuore della città moderna. È il mito che congela la metropoli. La sua «anima straniera» si riverbera sulle «statue addormentate», le illumina, come in un lampo, mentre «la locomotiva fischia di notte sotto la volta ghiacciata e sotto le stelle»5. Ma chi è Arianna? «Chi all’infuori di me, sa cos’è Arianna!...», ha scritto Nietzsche. Lei è il labirinto da cui «non si esce fuori»6. Arianna è la Signora del Labirinto, è la donna di un eroe, Teseo, e di un Dio, Dioniso. È congiunta al Minotauro e alle forze ctonie che il Minotauro rappresenta. È donna, è ninfa, è la grande Kore, dea infera legata al ciclo della vita e della morte. Arianna è tutto questo e più di questo. È anche un grande personaggio di Nietzsche, un grande personaggio di de Chirico. De Chirico guarda a Nietzsche. Ha letto Ecce homo. Ha letto dell’urto, dello choc, della rivelazione di «qualcosa che, subitaneamente, con indicibile sicurezza e sottigliezza si fa visibile, qualcosa che ci scuote e sconvolge nel più profondo». L’immagine allora si presenta involontaria7. Giusta, precisa, come le immagini che sembrano sorgere in una piazza, in una esperienza, scrive de Chirico, che «io ho osservato in un solo uomo: Nietzsche»8. Il tempo di Arianna si dilata, dilaga, diventa il silenzio che invade le piazze, è il silenzio di Zarathustra9. È il tempo della città che confligge con il tempo costruito e oggettivo delle città. È la coscienza del Moderno in conflitto con l’ideologia dominante del Moderno. È, in una parola, l’arte che assolve al suo compito. Salvator Dalí, negli «orologi molli» del quadro La persistenza della memoria del 1931 precipita la coscienza del tempo interiore di de Chirico in una dimensione oni23


L’arte e il tempo

rica. Il sogno, ci dirà Proust, è una scorciatoia che ci illude di catturare il tempo, per il quale è invece necessario un nuovo sapere, un «sapere con l’aiuto di figure»10. La visione del tempo di de Chirico è complessa. Dentro questa complessità andrebbe letta anche la coazione a ripetere i suoi quadri, a ridipingere le sue piazze, a rifigurare Arianna come se egli fosse alla ricerca di un misterioso «tempo-ripetizione» in conflitto con il tempo lineare e cumulativo. Il corto circuito tra de Chirico degli anni Dieci del Novecento e DeLillo del 2010 ci ha finalmente portati anche all’inizio della rivoluzione nel rapporto dell’uomo moderno con il tempo. Ci ha portati a Nietzsche, dentro un’altra storia sia rispetto alla cronosofia ciclica sia alla cronosofia lineare. Un’intera tradizione viene rovesciata. È l’Eterno ritorno. 4. Prima di essere una dottrina, o una teoria, l’eterno ritorno è una visione che ha luogo, come scrive Nietzsche (v, ii, 11 [219]), ai «primi di agosto 1881 a Sils-Maria a 6000 piedi di altezza al di sopra del mare e molto più in alto di tutte le cose umane». In questo frammento, che precede la stesura di Gaia scienza, si parla della «transizione» che deve essere messa in atto con l’emergere del «nuovo centro di gravità: l’eterno ritorno delle stesse cose». Nietzsche non sa ancora cosa questa visione esattamente sia, e come di qui si possa articolare una dottrina, tanto che egli afferma che «insegnare questa teoria – è il mezzo più efficace per assimilarla noi stessi». Nei frammenti immediatamente successivi, sempre dell’estate 1881, la dottrina dell’eterno ritorno si affaccia più volte nei suoi quaderni, fino a proporsi come «il pensiero più possente» che ha «l’effetto di trasformare». In esso «risiede la possibilità di determinare e di ordinare di nuovo i singoli uomini nei loro affetti» (v, ii, 11 [295]). Finalmente nell’autunno 1881, quando siamo già all’inizio di Gaia scienza, Nietzsche scrive: «Dal momento in cui questo pensiero esiste, ogni colore si muta, e vi è un’altra storia» (v, ii, 12 [1]). Nella Gaia scienza11 questo pensiero si affaccia alla fine del iv libro (come si sa il quinto libro è stato aggiunto per l’edizione del 1887), nel penultimo aforisma, il 341, prima dell’aforisma 342, Incipit tragoedia, che è già l’inizio di Così parlò Zarathustra: Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te e tut24

Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali

te nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso».

Qui il peso più grande, che rovescia a terra e fa digrignare i denti e maledire il demone, è sicuramente l’idea che il peso della vita sia tale che l’idea di riviverla è incubo, o noia terrificante. Ma l’aforisma prosegue: Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?». Se questo pensiero ti prendesse in tuo potere, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe (…). Oppure quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo sigillo?

Qui il «peso più grande» non finisce nella disperazione e nella noia del «sempre uguale». Emerge nel grande attimo della decisione, del sì alla vita. Nietzsche, nel testo originario, prima di correggere le bozze, aveva scritto: «Diverresti tu quell’atleta e eroe che con un tale peso sulle spalle saprebbe ascendere più in alto». Peso comunque immane, perché il sigillo è di fatto la verità stessa, la verità della vita, come scelta e come destino: come la decisione del proprio destino. Non è maledizione. È, al contrario, «la suprema espressione del coraggio e del sentimento di potenza. Scherno nei confronti di ogni pessimismo finora esistito!» (vii, i, 21 [6]). La visione e l’enigma12 inizia con il racconto che Zarathustra fa ai «temerari della ricerca», a coloro che sono «ebbri di enigmi», dell’«enigma che io vidi – la visione del più solitario degli uomini». Zarathustra sale, sale sempre più in alto, ma sulle sue spalle è il nano ghignante, lo spirito di gravità, che cerca di impedire l’ascesa. Zarathustra alla fine sfida il nano, che non sa il pensiero dell’eterno ritorno. Il nano crede di conoscerlo e afferma che «il tempo è un circolo». Ma non è questo l’eterno ritorno. L’eterno ritorno sta nell’attimo, nella sospensione, nella sincope, nella cesura in cui il tempo passato e il tempo futuro «si contraddicono a vicenda», «battono la testa l’un contro l’altro», convergendo proprio in questa contesa, nella sospensione che questa contesa apre nel tempo: sospensione che rappresenta lo spiraglio da cui l’eterno entra nel divenire, ovvero in cui il divenire stesso diventa eternità. La voce di Zarathustra si fa flebile. È assalito dall’idea che l’«eterno ritorno dell’uguale» sia il sempre uguale, l’infinita e disperata ripetizione. Ed ecco che riappare la luna, il ragno, e l’ululare di un cane, un ululato già sentito nella sua più remota infanzia. È a questo punto – in questa riemergenza del passato – che Zarathustra vede ciò 25


L’arte e il tempo

che non aveva mai visto, vale a dire l’apertura al tempo nuovo dell’eterno ritorno che spezza la malinconia da cui egli era stato afferrato. Vede un pastore soffocato da un serpente che gli è entrato nelle fauci, e Zarathustra grida: «Mordi! Mordi!». Questo è l’enigma che Zarathustra propone agli amanti dell’enigma, l’enigma di «una visione e di una previsione». È la previsione dell’ombra dell’oltreuomo, di colui che saprà farsi carico di questo tempo e del peso più grande. Il pastore morde e sputa la testa del serpente. Il serpente che si morde la coda, l’ouroboros, è il simbolo antico della continuità ciclica del tempo. Il pastore con il suo gesto spezza la continuità del tempo curvo e circolare del nano, la decide. Mozza la testa del serpente e la sputa via, e poi ride come mai nessuno prima di lui aveva riso. Qualsiasi idea dell’eterno ritorno che non conduca a questo attimo, a questa cesura, è, scrive Nietzsche, «una canzone d’organetto», è nichilismo mascherato. Sopportare questo attimo è il peso più grande. Reggere la decisione è il peso più grande. Decidere il futuro è il peso più grande perché «il passato è una scrittura con cento significati e interpretazioni e, in verità, una via verso molti futuri! Colui però che riuscirà a dare al futuro un solo significato determinerà anche l’unico significato del passato» (vii, i, i, 22 [3]). 5. Nietzsche ha individuato il suo compito. Ha proposto una nuova esperienza del tempo per la quale è necessario trovare un altro linguaggio. La filosofia, il linguaggio dei dotti, non basta più. Si deve ricorrere al linguaggio dell’arte e della poesia. Zarathustra si muove nel mondo e ovunque scopre la stessa cosa: «Frammenti e membra e orride casualità». Frammenti del passato e frammenti d’avvenire, che devono essere ricomposti. Questo, dice Zarathustra, il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità! Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni «così fu» in un «così volli che fosse!» – solo questo può essere per me redenzione!

La volontà è libertà, è gioia. È la possibilità di accogliere anche il dolore in una volontà di vita. Contro questo si eleva il «“Così fu” – così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria»13. Questo è il compito che Zarathustra, che Nietzsche, che il Moderno si è trovato davanti, e che esso ancora trova davanti a sé. Benjamin parlerà del passato oppresso 26

Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali

che deve essere redento. Troveremo notazioni che presuppongono la rivoluzione nietzscheana in Sigmund Freud, in Marcel Proust, in Paul Valéry. Ma la lotta contro la legge degli orologi, che precipita tutto nel «così fu», vede contemporaneamente il grande, immobile silenzio di de Chirico e la furia futurista; la ricerca del passato da Picasso e dal «Blaue Reiter» fino alla nostalgia del «Ritorno all’ordine»; la scansione geometrica del movimento e del ritmo in Broadway Boogie-Woogie di Piet Mondrian e il movimento, una somma di microistanti, che si fa opera in Jackson Pollock, e avanti fino all’interrogativo di DeLillo in Cosmopolis, che investe il tempo e anche l’arte. «Ci serve una nuova teoria del tempo», dal momento che dentro questo tempo tutto sembra perdere ogni capacità di suggerire narrazioni, «come è accaduto alla pittura tanto tempo fa»14. Cosmopolis. Un oltre la metropoli? Per ora ci interessa riflettere sul fatto che il tempo che si oppone al tempo degli orologi della città nasce nella città stessa. Solo nella città, solo nella città moderna, nella metropoli, ci sono scarti, urti, collisioni, che spezzano il continuum e aprono a ciò che Nietzsche ha teorizzato: l’attimo, il grande attimo, in cui la vita – con tutti i suoi «tempi» – ci si presenta come uno squarcio aperto nell’ordine delle cose. È la teoria dello choc che occupa tutta la riflessione di Benjamin, soprattutto nel cosiddetto Passagenwerk, nei saggi baudelairiani dei tardi anni Trenta, nelle tesi Sul concetto della storia. È nella metropoli che lo choc si presenta come «una perversione della durata». È dunque capitale, afferma Valéry15, unire la sorpresa e la ripetizione. L’uomo colpito ripete ciò che lo urta, non potendo ricostruirlo né trasformarlo in un atto appropriato. (…) Gli è impossibile produrre ciò che riceve, non può che riprodurlo – il che è molto diverso. Essere sorpresi è riprodurre senza aver prodotto; – rivedere senza aver visto; vedere dopo aver rivisto. La riproduzione è anteriore alla produzione.

6. Il 1° febbraio del 1900 Freud scrive a Fliess: «Ho appena comperato Nietzsche, nel quale spero di trovare le parole per tutto quanto in me resta muto». La lettera, riportata parzialmente nella biografia freudiana di Ernst Jones e integralmente nel libro del suo medico Max Schur, stranamente non compare nella raccolta del carteggio di Freud e Fliess. Secondo Schur Freud citerà una sola altra volta il nome di Nietzsche in una lettera del 1939 ad Arnold Zweig, ma invece proprio ad Arnold Zweig Freud 27


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scrive nel 1934: «Quando ero giovane Nietzsche rappresentava per me una nobiltà irraggiungibile. Un mio amico, il dottor Paneth, che lo aveva conosciuto in Engadina, soleva scrivermi a lungo di lui»16. Eppure, quando nei famosi seminari del mercoledì è questione di Nietzsche, Freud nega di fronte ai suoi allievi e interlocutori di averne una qualsiasi conoscenza. Freud, quando si svolgono questi seminari, ha invece letto Nietzsche, ed è stato inoltre amico e analista di Lou Andreas-Salomé, la donna che per qualche tempo pareva dover costituire con Nietzsche una comunità. Non voglio insistere su questa ambivalenza freudiana: dichiarazioni di disconoscimento e dichiarazioni epistolari private di piena adesione. Che Nietzsche fosse presente a Freud basterebbe a provarlo Al di là del principio di piacere, che richiama non solo nel titolo Al di là del bene e del male di Nietzsche. Ciò che interessa è capire se effettivamente Freud ha trovato in Nietzsche le parole per far parlare ciò che in lui restava muto17. Nel 1900, quando Freud scrive a Fliess, egli ha già «scoperto» l’inconscio, ha pubblicato l’opera capitale che segnerà tutto il xx secolo, L’interpretazione dei sogni. Sta scrivendo Psicopatologia della vita quotidiana. Ha già definito le modalità dell’incontro e del dialogo analitico. Cosa cercava dunque in Nietzsche? Quali erano le parole che egli cercava in Nietzsche per far parlare ciò che fino a quel momento era rimasto muto? Messi sull’avviso potremmo rintracciare via via i segni di ciò che si manifesta infine compiutamente nel saggio Il perturbante, in Al di là del principio di piacere, nei grandi saggi degli anni Trenta e in particolare in Costruzioni nell’analisi e in Analisi terminabile e analisi interminabile. Ciò che qui emerge è appunto la lotta che Freud conduce contro il «così fu» – questo in effetti è l’analisi – e con questa far emergere il tempo-ripetizione, che abbiamo già incontrato, oltre che in Nietzsche, in un altro lettore reticente di Nietzsche, in Valéry, e che incontreremo ancora in Benjamin18. 7. Il perturbante, così è stato tradotto in italiano Das Unheimliche19, insieme ad Al di là del principio di piacere avvia una seconda fase della riflessione freudiana, che apre a ipotesi che scuoteranno anche le convinzioni dei suoi allievi e che lo porteranno per certi versi oltre Nietzsche20. «La parola tedesca unheimlich» scrive Freud «è chiaramente l’antitesi di heimlich, di heimisch». È antitetica dunque a ciò che appartiene alla casa, alla dimora (Heim), alla patria (Heimat)21. Dunque, sarebbe ovvio «dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare». In realtà, invece, Freud anticipa fin dall’inizio del saggio, che «il perturbante è quella sorta di spaventoso [jene Art des Schreckhaften] che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Infatti non è la novità che suscita il «perturbante». L’incertez28

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za intellettuale, che ad esso è spesso connessa, ne è un effetto, non la causa. Viceversa il turbamento, lo sgomento, è prodotto dal «costante ritorno dell’uguale», dalla «ripetizione involontaria». L’elemento angoscioso «è qualcosa di rimosso che ritorna». Dunque il perturbante è il ritorno del rimosso. Ma ciò che turba non è legato alla «qualità» dei contenuti psichici che emergono, che possono anzi, come nel caso delle memorie proustiane, essere tutt’altro che spiacevoli, ma piuttosto al fatto che ciò che è stato superato possa ritornare non come ricordo, ma come qualcosa di attuale. È dunque la rottura del tempo lineare contro cui aveva combattuto Nietzsche. La rottura del tempo lineare, del tempo dello storicismo e dell’ideologia dominante, diventa così spaesamento. Das Unheimliche è ciò che appunto spaesa, è la rottura dei confini di quella patria. È per questo che la psicoanalisi «che mira a mettere in luce queste forze occulte, è diventata unheimlich per molte persone». È per questo che l’opera di Freud, in cui viene teorizzata questa dimensione del tempo ripetitivo, è risultata unheimlich ai suoi stessi seguaci, nel momento in cui essa scopre «una coazione a ripetere» che «dipende dalla natura più intima delle pulsioni stesse» e che è tanto «forte da imporsi sopra il principio di piacere, e fornisce a determinati lati della vita psichica un carattere demoniaco». Con questo siamo dentro il saggio Al di là del principio di piacere, uno dei testi più inquietanti di Freud. Fin da subito qui Freud recupera ciò che era emerso già in Das Unheimliche, la sorpresa, l’urto, lo choc, ciò che ha colpito anche Nietzsche. Freud parla infatti di Schreck, dello «spavento», che «sottolinea l’elemento della sorpresa» all’opera in entrambi i saggi di cui stiamo parlando22. Ma qui emerge, oltre a ciò che la sorpresa permetteva di scorgere (come già in Nietzsche), vale a dire la coazione a ripetere, qualcosa di nuovo, qualcosa di terribilmente nuovo. È emerso infatti nelle nevrosi traumatiche qualcosa che sembra andare al di là del principio di piacere che fino a questo momento pareva avesse il dominio sulla vita psichica, e che comunque aveva dominato la riflessione freudiana sull’inconscio. Il trauma, per esempio il trauma della guerra (siamo immediatamente dopo la prima guerra mondiale), non viene ricordato ma viene rivissuto, viene ripetuto in totale contrasto con il principio di piacere. Questo porta Freud a ipotizzare o addirittura a «legittimare l’ipotesi di una coazione a ripetere, che ci pare più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto» (p. 209). Di qui, nella seconda parte del saggio, si passa a ipotizzare una forza, una coazione al ritorno all’inanimato, a ciò che precede la vita e la coscienza. Siamo così spinti a «dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte». Non dobbiamo farci sviare dal fatto che «le pulsioni di autoconservazione del tipo di quelle che attribuiamo ad ogni essere viven29


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te» sembrano essere «in contrasto col presupposto che tutta la vita pulsionale serva a determinare la morte». Questa convinzione va rovesciata e dobbiamo invece dedurre «che l’organismo vuole morire solo alla propria maniera. Anche questi custodi della vita sono stati in origine guardie del corpo della morte»23. 8. Già all’altezza degli Studi sull’isteria24 Freud si rende conto che non era possibile parlare di ciò che egli andava scoprendo attraverso una «rappresentazione algebrica». È possibile «descrivere» una realtà così complessa «soltanto con l’aiuto di metafore», con una Bildersprache, con un linguaggio figurale di tipo letterario25. Per questo, scrive Freud, «le storie cliniche che scrivo si leggono come novelle ed esse sono, per così dire, prive dell’impronta rigorosa della scientificità. Devo consolarmi pensando che di questo risultato si deve evidentemente rendere responsabile più la natura dell’oggetto». Freud parla di Bildersprache, parla anche di bildnerische Darstellung, e implicitamente di bildnerisches Denken. È anche l’esperienza unheimlich, atopica, spaesante di cui parla Paul Klee quando afferma che, solo desituandoci dalle frontiere abituali del nostro pensiero, siamo in grado di avere attraverso le immagini uno sguardo sul mondo26. Uno sguardo che illumina il mondo come mai è stato veduto prima d’ora, dunque uno sguardo cosmogonico, come forse è sempre lo sguardo di un grande artista, come è anche lo sguardo di Freud. Freud, come Nietzsche, guarda al linguaggio dell’arte. Ma la riflessione sul tempo ripetizione lo porta anche a costruire un vero e proprio paradigma critico. L’analisi deve scoprire, o per essere più esatti, costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste. È quanto emerge nello straordinario scritto del 1937 Costruzioni nell’analisi27. «Questo lavoro di costruzione o di ricostruzione» scrive Freud «è simile a quello dell’archeologo. Entrambi, l’analista e l’archeologo, hanno il diritto di costruire mediante interpretazioni o ricomposizioni il materiale rimasto» ma, mentre «per l’archeologia la ricostruzione coincide con la meta e il termine di tutti gli sforzi, per l’analisi questo è soltanto un lavoro preliminare». A questo punto in luogo di interpretazione, Freud propone di usare il termine di costruzione. L’analista compone gli elementi – i frammenti – che emergono dall’analisi in una storia, in un racconto, che non pretende la verità, anzi si propone come una finzione, come una vera e propria narrazione. L’analizzando può rispondere al racconto che gli è proposto con un sì o con un no, ma «l’unica interpretazione sicura» del sì come del no «rinvia all’incompletezza; certamente la costruzione non ha detto tutto». Nessuna interpretazione, nessuna costruzione dirà mai tutto. È qui in gioco la tensione tra un passato che si ripete oggi come 30

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attualità e il tentativo, attraverso la costruzione interpretativa, di aprire un varco verso quel passato in cui questo evento si è generato. Non è uno scavo archeologico, ma piuttosto «genealogico», simile a quello messo in atto da Nietzsche e riproposto vicino a noi da Michel Foucault28. Se nel sintomo abita un passato irredento che preme sul soggetto, si tratta di riportare gli elementi che emergono nell’analisi al «punto del passato a cui propriamente appartengono» perché si possa aprire tra passato e presente una tensione, da cui emerge il senso stesso di un’esistenza che si proietta così anche sul futuro. Per Freud l’analisi – non solo per la Bildersprache di cui abbiamo parlato – è un atto poetico-poietico, un fatto «artistico», dietro al quale sta uno sconvolgimento del concetto abituale di temporalità. Per Nietzsche e per Freud, e come vedremo anche per Benjamin, non è la prossimità temporale che stabilisce la contemporaneità di due eventi o di due forme, ma è l’atto interpretativo, l’atto poietico che li accosta, facendo emergere quella tensione che rende entrambi significanti: che fa emergere, in una parola, il senso nello spazio della loro tensione. 9. Marcel Proust aveva letto Freud? Ne dubito. È Benjamin che li accosta, confrontandoli e richiamandoli insieme proprio a partire dall’esperienza traumatica descritta da Freud, mettendo dunque in rapporto Al di là del principio di piacere e Alla ricerca del tempo perduto. È un accostamento impensato e geniale. A questo meeting manca Nietzsche, che a buon diritto dovrebbe essere l’ospite d’onore ma che non è stato invitato. Benjamin aveva qualche problema con Nietzsche, già allora nella morsa delle distorsioni fasciste, mentre Proust è l’autore della sua vita. L’ha tradotto, e ha assunto il risveglio, che apre Alla ricerca del tempo perduto, vale a dire quel momento in cui il tempo del sogno e il tempo della veglia si contendono la nostra coscienza, come il modello su cui si fonda la sua teoria de «l’ora della conoscibilità»29. Per ora ci fermeremo su Proust, chiarendo subito un equivoco. Il tempo di Proust non ha nulla a che vedere con il tempo di Henri Bergson, con la «durata». Il tempo di Proust è il tempo di Nietzsche, è il tempo di Freud. È il tempo dello choc, dell’immagine che balena improvvisa, del tempo che si interiorizza, si ripete spezzando la logica spietata del «così fu». L’opera di Proust è anche un immenso tentativo di trovare il linguaggio che possa parlare di questa anomala, spaesante esperienza del tempo. Il mezzo per catturare questa temporalità è, scrive Proust, «un’opera d’arte»30. La definizione del linguaggio e delle forme attraverso cui comprendere e comunicare questa esperienza spinge Proust alla formulazione di una complessa teoria estetica, forse la più significativa del xx secolo. 31


L’arte e il tempo

Proust oppone la memoria volontaria, che ci dà un’immagine priva di spessore e sostanzialmente priva di verità, alla memoria involontaria. Questa irrompe nella nostra vita devastando la nostra percezione del tempo. È una «visione abbagliante» che pare dirci: «Afferrami al volo se ne hai la forza, e tenta di risolvere l’enigma di felicità che ti propongo» (TR, pp. 543-544). Il passato fluisce nel presente, il passato ritorna, scrive Proust, ed egli veniva così a trovarsi nella condizione «di non sapere con certezza in quale dei due mi trovassi». È la situazione di Unhemlichkeit, che Proust subito richiama proprio nel carattere che abbiamo sopra chiarito con Freud. Si tratta infatti di «un essere extratemporale», fuori dal tempo, come l’attimo di Zarathustra, e fuori anche dallo spazio abituale, totalmente atopico. Su questa extratemporalità e su questa extraterritorialità si apre Alla ricerca del tempo perduto, con il risveglio che tanto aveva colpito Benjamin, quando si è contemporaneamente nel tempo immemoriale del sogno e nel tempo vigile, e la nostra camera contiene tutte le camere della nostra vita fino al momento in cui la forza dell’abitudine mette alla fine tutto in ordine. Discrimina i tempi. Riconsegna il passato alla memoria. La complessità dell’esperienza proustiana sta nel fatto che qui non riemerge soltanto un frammento del passato ma «molto di più», «qualcosa che, comune al passato e al presente, è più essenziale di entrambi» (TR, p. 549). Il solo modo per non perdere questa ricchezza era tentare di conoscere queste dimensioni temporali «più compiutamente là dove esse si trovavano, vale a dire in fondo a me stesso» (TR, p. 556). Questa verità si dà in un linguaggio che si muove «con l’aiuto di figure» (la Bildersprache di Freud). Si dà nell’arte, che assume così una stringente necessità. Scoprire l’arte è però scoprire anche la sua parzialità. Un’opera d’arte è infatti costruita con un’«infallibile proporzione di luce di ombra, di rilievo e di omissione, di ricordo e di oblio» (TR, p. 558). Inoltre non tutto è salvato nell’opera che muove dal lampo della memoria involontaria e si costruisce con la precisione di una teoria scientifica. Anzi, «un libro è un grande cimitero dove sulla maggior parte delle tombe i nomi, cancellati, non si possono più leggere» (TR, p. 587). Entra qui, come con Freud, in scena la morte. Scrivere è essere a fianco dell’ombra, essere vicini alla morte. È così che Proust afferma che la morte «si installò in me come fa un amore», così profondamente, «che non potevo occuparmi di una cosa senza che questa cosa non attraversasse in primo luogo l’idea della morte» (TR, p. 754). Ogni cosa ha dunque per lui, come ha detto Benjamin, «il suo sole nella morte». L’io è l’io della morte, l’io e la morte si presentano sempre insieme (TR, p. 724)31. Il tempo interiore dell’opera d’arte. Il tempo esteriore è la disgregazione dei corpi nel cosiddetto bal des têtes che fa seguito alla rivelazione. È lo sconvolgimento socia32

Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali

le, la decadenza. Ci troviamo così di fronte a un tempo redento e a un tempo irredento. Perché la redenzione non sia soltanto individuale ma anche storica, bisogna aspettare che Benjamin, partendo da Proust, faccia un passo ulteriore. 10. Abbiamo visto come la memoria involontaria rompa la linearità del tempo, il tempo dello storicismo, il tempo della logica, il tempo della città. Ma è proprio questa idea della linearità, l’idea del continuum «che rade tutto al suolo, mentre il discontinuum è fondamento di un’autentica tradizione». Torniamo all’idea che la verità del tempo, la verità individuale e collettiva, sia da cercare non tanto nel tempo uguale dell’orologio, ma nelle fratture, e negli urti che sono l’altra faccia della città, l’altra faccia del soggetto che vive nella città. Il tempo che sembrava scorrere «liscio come un filo attraverso le dita», si presenta ora come una fune sfilacciata, che «pende come una treccia disfatta», prima che sia stata di nuovo «raccolta e intrecciata in una acconciatura»32. Lo storico deve appunto cessare di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso [Jetztzeit], in cui sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico33.

La storia è costruzione e questa costruzione è la rottura del tempo omogeneo e vuoto. È necessario far emergere da questa frattura la Jetztzeit, una sorta di adesso extratemporale come quello che Proust aveva ipotizzato per l’esperienza soggettiva, in cui l’epoca in cui agisce lo storico si incrocia con un’epoca passata. Solo così – a partire dall’incrocio tra queste due epoche, o meglio dal loro impatto – il tempo diventa tempo autenticamente storico. Questa è la redenzione, o la liberazione, di quello che Benjamin definisce il «passato oppresso» e del presente, che senza incrociarsi con il passato scorre via come un filo che si sfilaccia. È il compito che Proust si era dato era salvare il tempo in un’opera d’arte. Per Benjamin è il compito dello storico che deve produrre o meglio costruire un’immagine in cui il passato e il presente vengano redenti da ciò che inesorabilmente li consuma in un continuum che è, come Benjamin afferma in Parco centrale, la catastrofe. L’idea proustiana dei due tempi che entrano in tensione e significano proprio nella loro tensione suggerisce a Benjamin un’immagine che attraversa tutto il Passagenwerk: la dialettica im Stillstand, la dialettica in sospeso, in stato d’arresto, la dialettica che dunque non risolve gli opposti conciliandoli come voleva Hegel «senza lasciare 33


L’arte e il tempo

cicatrici»34. Questa tematica che attraversa tutti gli ultimi anni della riflessione benjaminiana è già presente negli scritti degli anni Venti. È l’espressionismo che suscita in lui il barocco, ed è questo che muove alla ricerca di un linguaggio «all’altezza del tumulto degli eventi del mondo»35. Il barocco, l’allegoria barocca, in Parco centrale, si unisce all’allegoria di Baudelaire. Il teschio barocco, la figura, «che è tra tutte la più degradata» (DBT, p. 141), si trasforma e si approfondisce in Parco centrale, richiamando Baudelaire, e spezzando il paradosso di una memoria che è reliquia cadaverica che si dà invece come «esperienza vissuta». Baudelaire con la sua poesia entra sotto questa maschera mortuaria e vede il cadavere anche dall’interno, per così dire nella sua intimità. Di qui Benjamin procede verso il surrealismo e verso «l’introduzione dell’allegoria a partire dalla situazione dell’arte determinata dall’evoluzione tecnica»36. Il riferimento non è soltanto al saggio L’opera d’arte nell’età della riproduzione tecnica del 1936, vale a dire alla caduta dell’aura che talvolta viene, proprio nella riproduzione tecnica, salvata, ma più in generale sul piano estetico alla tecnica della frantumazione e del montaggio, e sul piano più generale e sociale al dominio della tecnica nell’ambito dell’organico e dell’inorganico. Dell’umano e dell’inumano. Nulla di più remoto dalla costruzione della memoria benjaminiana del «rammemorare» di M. Heidegger37. Come d’altronde il concetto di «abbandono», di Gelassenheit, di attesa nella Lichtung, nella radura, dell’avvento dell’essere. Nulla di più remoto da Benjamin della trasformazione heideggeriana della poesia in un dire originario, nella Sage. 11. Benjamin ha trasposto il tempo di Proust e, alle spalle di Proust, di Nietzsche e di Freud, al tempo storico. Ha abbandonato così quella dimensione soggettiva e interiore che abbiamo delineato? Benjamin si tiene stretto a Proust. Si tiene stretto all’esperienza del tempo che anche se proiettata su una scena storica rimane qualcosa che, come aveva detto Nietzsche, ti viene incontro. Non a caso egli preferisce al termine Erlebnis quello di Erfahrung, lo stesso usato da Nietzsche quando parla in Ecce homo dell’esperienza sconvolgente del pensiero di questa nuova temporalità, meine Erfahrung von Inspiration, la mia esperienza dell’ispirazione, quella che gli venne incontro e lo assalì38. Benjamin negli anni Trenta era impegnato nella sua esplorazione del tempo – esplorazione che lo porta di fronte alle avanguardie, e di fronte a un’analisi del passato che è per lui una Traumdeutung, una interpretazione dei sogni, in quanto è il xix secolo che sogna il xx secolo, che sogna il tempo di Benjamin. In quelli stessi anni, come abbiamo ricordato più sopra nel primo capitolo39, Alexandre Kojève tiene alla Sorbona un seminario a cui partecipa saltuariamente anche Benjamin, insieme a Jean 34

Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali

Hyppolite, Georges Bataille, Jacques Lacan, Raymond Queneau. Kojève, in questi seminari, propone una lettura radicale della Fenomenologia dello spirito che ha al suo termine la fine della storia. La filosofia successiva, quella che si afferma a partire dalla fine degli anni Sessanta è una filosofia post-storica, che trova il suo profeta in Maurice Blanchot e che si articola poi nel pensiero del primo Foucault e di Gilles Deleuze, che conclude la sua opera con uno scritto brevissimo e intenso in cui il tempo è solo il tempo dell’ecce, il tempo-ora40. Nulla di più remoto dal «tempo-ora» di Nietzsche, di Proust e di Benjamin. Qui non si tratta di un’esperienza di due tempi individuali o due epoche che entrano ora in tensione. L’ecceità di Deleuze è un presente assoluto e indifferenziato, intransitivo. È il tempo di alcune esperienze dell’arte più vicina a noi, della modernità estrema in cui siamo. Abbiamo il dvd della performance di Marina Abramovi/ The Artist Is Present tenuta al Moma di New York nel 2010. Ma questo dvd è archivio, è archeologia. L’esperienza della performance è nell’ecce. Da essa si esce solo con la possibilità di «rammemorare». Ho l’impressione che ci troviamo oggi di fronte a una vera e propria ossessione temporale. Il soggetto è in gioco in questa ossessione di un tempo che finisce, che si sfarina tra le mani. Il gesto artistico sembra sempre più un atto che si consuma: il suo tempo è sempre un tempo che finisce, che finisce subito. Ho ricordato una performance di Abramovi/, ma questo vale per tutte queste manifestazioni. Se ne possono registrare le tracce soltanto, attraverso segni – video, fotografia – che non appartengono più alla performance stessa: sono un altro linguaggio, un’altra cosa. È dunque in queste forme in opera un linguaggio che già nel suo apparire invita ad altro: alla metamorfosi, o tragicamente al suo nulla. Tino Sehgal proibisce di fotografare e filmare le sue performance. In questo modo non ne sopravvive nessuna traccia, se non appunto quella soggettiva della memoria dello spettatore. Una memoria che le scompone e le ricompone, o le sfrangia o, infine, le condanna all’oblio. Sembra di avvertire qui la manifestazione di qualcosa che vibra su un confine e che spingendosi contro e oltre il confine manifesta la precarietà, la caducità delle cose del mondo. Manifesta drammaticamente la possibilità del nulla. 12. Nel 1979 esce La condition postmoderne di Jean-François Lyotard41, che riprende e trasforma in una teoria e in un’estetica varie proposte di poetica americane, soprattutto nel campo architettonico. Il termine ha avuto un successo enorme, e ad esso, anche dopo che Lyotard si era spostato altrove, si sono riferite varie proposte critiche e storiografiche. Forse non si era tenuto presente in effetti che proporre un «post» per 35


L’arte e il tempo

un’epoca «senza titolo» significava comunque organizzarla nell’ordine del prima e del dopo, in quel quadro storico contro il quale si era mosso Nietzsche addirittura negli anni Settanta del xix secolo in Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Opere, iii, i). È l’idea di un tempo che cumula dal prima al dopo, è lo storicismo contro il quale Benjamin aveva combattuto per tutta la vita. È una temporalità antitetica a quella di Proust e di Freud e di gran parte delle esperienze artistiche del Novecento. È un ritorno al Moderno contro il Moderno? Al Moderno prima della critica nietzscheana, magari depurato dai grandi racconti «progressivi», ma anche del racconto di Zarathustra? In quegli stessi anni Achille Bonito Oliva inventa la transavanguardia italiana42. Uno sviluppo di quanto era emerso nell’Ideologia del traditore, che forse richiamava per qualche tratto il «tradimento» che de Chirico aveva agito nei confronti della sua stessa opera. La transavanguardia, in cui si sono riconosciuti artisti anche molto diversi, tra loro mi pare muovere da un’ipotesi di fondo, vale a dire dall’ipotesi che il tempo storico del moderno sia, come dice Shakespeare del suo tempo nell’Amleto, un time out of joint, un tempo fuori dai cardini. Non esiste un prima o un dopo, come vorrebbero i teorici del post-moderno, ma uno spazio e un tempo da attraversare, un luogo e un tempo in cui, per dirla con lo Zarathustra, le immagini ti vengono incontro e su «ogni similitudine tu galoppi verso ogni verità». È il capitolo Il ritorno a casa di Così parlò Zarathustra. Forse potremmo ipotizzare che quello della transavanguardia italiana sia un ritorno a casa, nella temporalità nietzscheana e postnietzscheana, che è stata in qualche modo negata nell’ecceità deleuziana e nella risistemazione del tempo nella catena del prima e del dopo. 13. Le grandi opere del Moderno, quelle che si erano poste consapevolmente o inconsapevolmente di fronte a Nietzsche e a Freud, sono quelle opere che, come dice Theodor W. Adorno, non sfuggono alle antinomie, ma che hanno saputo «portarle a compimento». Sono le opere che hanno saputo far diventare senso anche l’assenza di senso. In questa chiave mi pare di poter leggere da un lato il balbettio di Samuel Beckett o il taglio di Lucio Fontana. Sono opere che negano il mondo e le parole usuali che lo dicono. Nell’apparenza delle loro opere affiora l’ipotesi di un altro mondo, di una realtà che cerca di riarticolarsi e di dirsi43. L’interiorizzazione del tempo ha portato nel Moderno, paradossalmente, a incidere profondamente sul tempo collettivo. Sulla nostra esperienza di quanto accade dentro di esso. Siamo oggi un altro tempo? È la domanda che emerge da Cosmopolis di Don DeLillo. Nella di città oggi, in Cosmopolis, ci troviamo di fronte «a migliaia di cose da 36

Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali

analizzare ogni dieci minuti, indici, intere mappe di informazioni», eppure la limousine che dovrebbe portare Eric dal barbiere, muovendosi, in mezzo al suono dei clacson che assomiglia a un canto aborigeno (pp. 14-15), procede così lentamente tra pause e fermate e interruzioni, che ci vorrà l’intera giornata per attraversare Manhattan. La realtà che viene attraversata diventa tale – si realizza – però soltanto quando Eric la vede riprodotta sugli schermi dei suoi computer. Come aveva affermato Valéry decenni prima, quasi un secolo prima, la realtà viene colta soltanto nella sua riproduzione. L’ossessione, allora come oggi, è l’ossessione del tempo che «si fa sempre più scarso di giorno in giorno» (p. 60). Anche la ricchezza diventa astratta, ha perduto – come «la pittura tanto tempo fa» – la sua qualità narrativa, la sua capacità di essere immagine o storia (p. 67). Gli orologi hanno cancellato l’eternità, e il tempo è scandito dal succedersi sugli schermi delle immagini della borsa come in una videopittura. Ci vorrebbe una nuova teoria del tempo, ma, come abbiamo visto, siamo ancora nel tempo ripetizione. Eppure forse proprio in questo tempo, che è credo il tempo dell’arte, sta l’opposizione a una razionalità che «finge di non vedere l’orrore e la morte con cui si concludono le sue macchinazioni» (pp. 78-79). Il tempo dell’arte che è il tempo dell’asimmetria, della dissonanza, è il tempo anomalo di cui abbiamo continuato a parlare. Forse siamo ancora dentro questo tempo. Forse siamo proiettati verso un altrove, un via di qui, ma le parole con cui possiamo descrivere la meta che ci pare di intravedere, le tappe del nostro viaggio, sono ancora, almeno in parte, le parole di Nietzsche, di Freud, di Benjamin. Forse le immagini in cui traduciamo le nostre visioni hanno ancora una parentela con le figure che abbiamo continuato a frequentare nel tempo del moderno, nella nostra modernità.

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K. Pomian, «Ciclo», in Enciclopedia Einaudi, vol. ii, Einaudi, Torino 1977. Cfr. anche nello stesso vol. di Pomian la voce «Catastrofe». E sul museo cfr. K. Pomian, Dalle sacre reliquie all’arte moderna. Venezia, Chicago dal xii al xx secolo, tr. it. di A. Serra, Il Saggiatore, Milano 2004. 2 D. DeLillo, Punto Omega, tr. it. di F. Aceto, Einaudi, Torino 2010, p. 8. 3 C. Baudelaire, Voglia di nulla, in I fiori del male, tr. it. di A. Bertolucci, Garzanti, Milano 1975. In un estremo atto di umiltà il grande poeta Attilio Bertolucci traduce Baudelaire in prosa. 4 W. Benjamin, Parco centrale, in Opere complete, ed. it. a cura di E. Ganni, vol. vii, Einaudi, Torino 2006, p. 206. 5 G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, a cura di M. Fagiolo, Einaudi, Torino 1985 , p. 25. 6 F. Nieztsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e ss. Frammenti 37


L’arte e il tempo postumi, viii, 10 [95]. Cfr. anche Ecce homo, in Opere, cit., vi, iii, p. 358. Le opere di Nietzsche saranno richiamate nel testo anche con il solo rinvio al volume e alla pagina o al frammento. 7 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., pp. 348-349. 8 G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero, cit., p. 13. Sul rapporto di de Chirico con Nietzsche cfr. F. Rella, Interstizi. Tra arte e filosofia, Garzanti, Milano 2011, cap. vi. 9 Dopo la grande esperienza dell’eterno ritorno, su cui torneremo, Zarathustra «rimase a giacere muto, gli occhi chiusi, simile a un dormiente, sebbene non dormisse: egli infatti si stava intrattenendo con la sua anima» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Opere, cit., vi, i, p. 270). 10 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, tr. it. di G. Raboni, vol. iv, Il tempo ritrovato, Mondadori, Milano 1993, p. 558 e p. 597 e ss. 11 F. Nietzsche, Opere, cit., v, ii. 12 In Così parlò Zarathustra, cit., a cui rinvio senza dare indicazione di pagina nel testo. 13 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 170. 14 D. DeLillo, Cosmopolis, tr. it. di S. Pareschi, Einaudi, Torino 2003, p. 75 e p. 78. 15 P. Valéry, Cahiers, a cura di J. Robinson, Gallimard, Paris 1973, vol. i, p. 1286 e p. 1289. 16 S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess, tr. it. di M.A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino 1986; E. Jones, vita e opere di Sigmund Freud, tr. it. di L. Marcus, Il Saggiatore, Milano 2000; M. Schur, Freud in vita e in morte. Biografia scritta dal suo medico, a cura di A. Guglielmi, Bollati Boringhieri, Torino 2006; S. Freud, Lettere 1873-1939, tr. it. di M. Montinari, Boringhieri, Torino 1960. 17 Paradossalmente si potrebbe anche dire che Freud ha dato retrospettivamente a Nietzsche concetto e parole. Non c’è dubbio che Freud, attraverso la nozione d’inconscio, dà rappresentazione all’infigurabile di Zarathustra: il tempo della ripetizione. 18 I testi di Freud citati sono in S. Freud, Opere, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1966-1980, in particolare vol. ix e vol. xi. Per il rapporto Valéry-Nietzsche cfr. P. Valéry, Lettere e note su Nietzsche, a cura di B. Scapolo, Mimesis, Milano-Udine 2010. 19 Riproponendo la scelta di James Strachey nella Standard Edition delle opere di Freud: uncanny. 20 S. Freud, Das Unheimliche (1919), in Studienausgabe, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main, vol. iv, 1970, pp. 243-274, tr. it. di S. Daniele, in Opere, vol. ix, cit., pp. 81-114 (dato la modalità dei miei riferimenti non do il rinvio al numero di pagina). Al di là del principio di piacere (1920), anch’esso nel vol. ix delle Opere, è stato di fatto scritto quasi in parallelo a Das Unheimliche. 21 Questo mi induce a proporre una diversa traduzione di das Unhemliche, vale a dire «atopico», «spaesante», qualcosa che segnala una uscita dai confini abituali, una extraterritorialità, quello che Platone definiva appunto con atopon, «atopia». 22 Al di là del principio di piacere, cit., p. 198. 23 Al di là del principio di piacere, cit., pp. 224-225. «La propria morte» è il tema di fondo delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo citati di Rilke. 24 In Opere, cit., vol. i, p. 313. 25 S. Freud, Il problema dell’analisi condotto da non medici, in Opere cit., vol. x, p. 363, Più sotto ancora gli Studi sull’isteria, cit., p. 313. 26 P. Klee, Bildnerisches Denken, in Über die moderne Kunst, Benteli, Bern 1954. 27 In Opere, cit. vol. xi. Data la brevità del saggio non do il riferimento di pagina. 38

Il moderno. Anomalie e costellazioni temporali 28 Non

mi riferisco soltanto a saggi come Nietzsche, la genealogia e la storia, in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, ma anche alla grande ricostruzione della «cura di sé», in Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri ii, ed. italiana a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011. 29 È il tema che attraversa tutto il Passagenwerk, dai primi appunti del 1926 fino agli ultimi del 1940, sull’orlo della morte. Cfr. W. Benjamin, Opere complete, ed. italiana a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000-2010, vol. ix, I “Passaggi” di Parigi. L’accostamento tra Proust e Freud è in Su alcuni motivi in Baudelaire, in Opere, cit., vol. vii, pp. 380-385. 30 M. Proust, Il tempo ritrovato, cit., p. 557. Nel testo abbreviato in TR. 31 «Proust peut-être se range du côté de la mort. Il suo cosmo ha forse il suo sole nella morte, intorno al quale girano gli istanti vissuti, le cose raccolte» (W. Benjamin, I “Passaggi” di Parigi, cit., p. 612). L’io e la morte, un accostamento che troviamo anche in Valéry. In un appunto del 1941 dei suoi Cahiers, egli scrive: «Ascoltami. L’uomo in ogni momento incontra l’indefinibile. Sembra, in ogni istante, che ci si avvicini di qualche punto dal quale viene subito per così dire respinto. Tocca all’estremo una sensazione o un’impressione e ne è respinto, e ricade nel suo luogo o si ritrae nel suo guscio. Così l’idea della morte, così il suo proprio io». 32 W. Benjamin, Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt am Main, vol. iii, 3, 1974, pp. 1233-1243. 33 W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, Tesi xviii, A. 34 G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1972, vol. ii, p. 193. 35 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Gesammelte Schriften (1928), cit., i, 1, pp. 235-236, tr. it. (qui modificata) di F. Cuniberto, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 30. Richiamato nel testo come DBT. 36 W. Benjamin, Parco centrale, cit., pp. 200-204. 37 M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt am Main 1971 pp. 9-31 e Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 297. Gli accenni che seguono sono a tutta l’opera heideggeriana successiva a quella che è stata definita la «svolta», vale a dire il saggio su Hölderlin citato. 38 F. Nietzsche, Ecce homo, in Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, DTV – de Gruyter, Monaco, Berlino-New York 1980, vol. vi, pp. 333-349. 39 Cfr. supra, cap. i, nota 8. 40 G. Deleuze, L’immanenza: una vita, tr. it. di F. Polidori, in «Aut Aut», n. 271-272, 1996, pp. 4-7. 41 Éditions du Minuit, Paris 1979. 42 A. Bonito Oliva, La Transavanguardia italiana, Politi, Milano 1980. Cfr. anche A. Bonito Oliva, L’ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo, del 1976, ora Electa, Milano 2012, e il catalogo della mostra a Palazzo Grassi del 2011, sempre con il titolo La transavanguardia italiana, Skira, Milano 2011. 43 Per questi temi rinvio a F. Rella, Interstizi, cit. cap. i. 39


III. Labirinti. La città museo dell’avanguardia

Dice lo straniero nel deserto: «Ogni cosa al mondo mi è nuova». E la nascita del suo canto non gli era meno straniera. Saint-John Perse È questa mescolanza di contrari ad animare la nostra vita (…). Non esistiamo che in funzione di questo conflitto, nella zona in cui si urtano il bianco e il nero. E che m’importa del bianco e del nero? Essi appartengono al dominio della morte. Louis Aragon

1. Il tempo del moderno Nel «prestissimo» della vita metropolitana l’uomo vive in un rapporto perverso con lo spazio e con il tempo1, un rapporto che è stato avvertito come terribile estraneità, e che solo oggi possiamo leggere come un’atopia produttiva. L’immensamente grande della città – l’intrico delle sue strade e la pluralità delle sue mutevoli prospettive – obbligano il soggetto a percezioni spaziali, a un’atomizzazione dell’esperienza, che non ha riscontro nella storia passata. Il succedersi delle cose, dell’accadere stesso, dell’«immenso nuovo che deborda da tutte le parti», lo pone in uno stato di angosciosa e paralizzante incertezza: «Dove prendere il punto d’appoggio, ammettendo pure che abbiamo una leva? […] Quello che ci manca è il principio intrinseco delle cose, l’idea stessa di soggetto»2. Nulla può dunque essere fermato, trattenuto. Tutto è oscillante lungo l’evanescente frontiera che separa l’essere e il nulla, l’apparenza e l’inapparenza. 41


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D’altronde, come è possibile ordinare e trattenere le cose all’interno di un orizzonte di senso se «l’io si vaporizza» e se non esiste più un centro3? L’attimo presente si trasforma in «un forse mai più», o ritorna «di colpo, come una folgore, un’irruzione istantanea della memoria» che confina con l’allucinazione, e che non è altro, dunque, che «una malattia della memoria, un rilassamento di ciò che essa raccoglie in sé». Così, scrive Flaubert, «vedo perfettamente un mobile, una figura, un frammento di paesaggio. Ma questo oscilla, è sospeso, si trova non so dove». Situare questo frammento, dare senso a questa allucinazione, è discendere nell’inferno del tempo perduto, in cui ugualmente lontani e irrecuperabili appaiono i giorni di Cartagine, o la vita che il soggetto ha passato nel collegio dell’infanzia o dell’adolescenza. Solo una «lingua speciale»4, un infinito paziente lavoro di «costruzione», potrà vincere questo oblio, vale a dire quella perversione temporale implicita nel regime dello choc e della sorpresa, che caratterizza la vita metropolitana, e che ci obbliga a vivere ogni esperienza come «già stata», come un passato. La vita nella grande città è, come ha scritto Valéry, «inversione della durata», un «disordine», per cui l’uomo folgorato ripete ciò che lo urta. (…) Gli è impossibile produrre ciò che riceve, e non può che riprodurlo (…). Essere sorpreso è riprodurre senza avere prodotto (…), vedere dopo aver rivisto. La riproduzione è anteriore alla produzione5.

Il passato si pone dunque sempre tra il presente e il futuro, conservando la nostra esperienza in una demoniaca ambiguità. Il reale diventa così indiscernibile dal sogno, in quanto «ogni sorpresa retroagisce e trasforma in sogno o quasi-sogno ciò che era». Il tempo perduto appare così irredimibile. Qualche immagine, qualche frammento, un volto, un paesaggio, un mobile, che non riescono a comporsi in una figura6. Noi stessi, afferma Valéry, ripetendo quasi alla lettera una grande parola di Friedrich Schlegel, «siamo chiusi in un eterno frammento di noi stessi»7. Da questo «frammento» non sembra possibile uscire. Qualsiasi viaggio che noi possiamo intraprendere sembra avere un solo esito: il labirinto. «Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto, ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in un labirinto, è una cosa tutta da imparare», ha scritto Benjamin anch’egli ripetendo Balzac che aveva detto che «vagabondare è una scienza»8. In effetti sembra che tutta la grande letteratura e il grande pensiero del moderno siano stati un’immensa ricerca di questa scienza, di cui, dopo l’inabissamento del concetto di arabesco della Frühromantik, si era perduta ogni traccia, ogni nozione del suo statuto. 42

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2. Immagini del moderno Confondersi mimeticamente nel labirinto della metropoli, e scomparire in essa, non è la stessa cosa che «smarrirsi», sviarsi, de-situarsi dai confini noti, per scoprire ciò che la «scienza dello smarrimento» – l’arte atopica – può rivelarci. L’uomo della folla di Poe si nasconde come un animale nella massa metropolitana: in essa non cerca sapere ma rifugio. Allo stesso modo Felix Krull, l’artista istrione, si muove «senza nome e senza età» nello spazio metropolitano, come su una scena su cui possono brillare i suoi molteplici talenti. Egli si muove nell’ambiguità delle strade, in mezzo a strane figure, «lasciandosi cullare dal movimento della metropoli». È così che egli incontra «tipi strani che non cercano la donna, ma neppure l’uomo, bensì qualcosa di meraviglioso». Ed è egli stesso questo «meraviglioso», l’ibrido che si trasforma in ogni cosa, che si confonde in ogni linguaggio. Egli, è «sconcertante», «misterioso», «fantastico», come le maschere che coprono il suo viso, ma non è atopico, perché egli ha perduto ogni «limite» fra un volto e l’altro, fra un modo e l’altro. «La realtà senza maschera fra due manifestazioni, l’essere stesso, era qualcosa di indefinibile, perché di fatto inesistente»9. Felix Krull non cerca un esito dal labirinto. Abita in esso. La «malattia del moderno» è la sua dimora e la sua protezione. Per questo egli è «felice». In un certo senso, egli è l’uomo del destino. Avendo rinunciato definitivamente all’«io stesso», egli è in grado di accogliere tutto in sé, di fiutare tutto. Ma tutto gli è indifferente, o equivalente. Egli è l’artista che non dà forma alle cose, un ordine al caos in cui esse appaiono, ma è egli stesso quell’infinito e indifferente e variegato mutare delle cose, in tutti i loro «ingannevoli aspetti». Figura estrema del nichilismo, in lui è sparita anche l’ansia dell’animale braccato che cerca rifugio nella massa, come l’uomo della folla di Edgar Allan Poe indagato da Benjamin nel suo saggio su Baudelaire. Egli non cerca una ragione o un senso dell’accadere, ma vive «la gioia sensuale della superficie», dove non esiste «tempo perduto», in quanto «tutto sulla terra è sempre contemporaneo o parallelo». Egli è l’«artista camaleontico», esempio estremo della ricettività e della «nervosità moderna»10, che ha rinunciato al sapere del nuovo, all’amaro sapere che, secondo Baudelaire, nasce dal viaggio e che può manifestarsi, in prima istanza, come una «ragione mostruosa» e terribile. Nemmeno il mito sembra poter rappresentare questa ragione in quanto si cerca, attraverso un processo di «mitizzazione», di avvolgere tutto ciò che ci sconcerta in un «effetto di verità», che sembra caratterizzare il mito antico solo perché antico. Dal sapere mitico, attraverso una sorta di affannosa riattivazione, si passa a una vera e pro43


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pria invenzione della mitologia11. Il mito dell’eterno ritorno, il mito della malattia, il mito della morte, il mito della terra e del sangue, il mito dell’atemporalità dell’esperienza autentica, il mito apocalittico, o quello del pensiero «debole», ecco alcune delle mosse per vincere il disagio della civiltà, la perversione dello spazio e del tempo del moderno. Il mito, infatti, «porta la sanzione della sua antichissima e inesorabile provenienza, della malleveria divina o dell’ispirazione a tutto ciò su cui si posa, confermandolo in un “segno di verità”»12. O, come dice Thomas Mann, attraverso il mito, possiamo credere che tutte le storie abbiano l’impronta della verità: «In qualche luogo, non importa in che modo, dovevano essere accadute realmente: ci sono sempre madri che vanno errando e cercando...»13. Ma è proprio questo «sigillo di verità» che irrigidisce il mito, lo trasforma da storia in «segno vero», e lo rende incapace di penetrare «il grigio strato di polvere che si è depositato sulle cose», l’uniforme paesaggio del «paese piovoso», in cui tutto si distende uguale e indifferente. Infatti, ciò che caratterizza questo processo di esasperata mitizzazione del moderno è la sua capacità di dar conto delle differenze. O meglio, la mitizzazione produce una figura che è una difesa contro la differenza che, al di fuori del rapporto garantito dalla metafisica classica fra rappresentazione e referente idea­le, si presenta come inafferrabile, presa in un vortice di precarietà, in un movimento che va dall’eccitata esaltazione al declino. Le immagini che balenano improvvise, e che sembrano poter per un attimo illuminare un paesaggio, in cui anche il sogno ingrigisce, si spengono nell’indifferenza di questa verità atemporale, o di questa verità della fine. La promessa di felicità che queste immagini contengono si trasforma nella pura sensualità di Krull, che nasce anch’essa in una sorta di sospensione dei contesti storici, da una sorta di appaesamento in un mitico altrove, a cui conducono le cose stesse nel loro scorrere verso il nulla14. 3. Una strana ragione I viaggiatori, smarriti nella foresta della metropoli, vivono l’esperienza paradossale e sconcertante di uno spaesamento di tutte le cose, e dunque della loro stessa ragione, che le aveva ordinate all’interno di un sistema gerarchico: apparenza e realtà, qualità primarie e secondarie, totalità e particolarità. La loro ragione, in questa situazione atopica, è dunque «assediata e vinta», ma ugualmente «domina tutto». Questo è lo straordinario «paradosso della ragione», illuminato da Leopardi in molte pagine dello Zibaldone15. Essa non può non fare della sua sconfitta una ragione, che coglie ora, 44

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per esempio, gli «sguardi familiari» che le cose continuano a mandarci nella loro accanita speranza di avere da noi la parola o l’immagine che possa esprimere, come dirà Rilke, ciò che «non sanno di essere intimamente». Le cose sembrano affondare nell’intrico di una «foresta di simboli» che continua a mormorare un linguaggio, che appare in prima istanza indecifrabile, ma di cui via via cominciamo a riconoscere i suoni, frammenti di significato, attraverso cui è possibile progettare un nuovo orizzonte di senso16. Ed ecco che, in un «trasporto dello spirito e dei sensi» si iniziano ad avvertire «corrispondenze di profumi, di colori, di suoni» che rinviano a una «tenebrosa e profonda unità». Ma, in questo luogo di confusione e di inganni, come è possibile tradurre in segni intelligibili le varie corrispondenze che affascinano e respingono? Un’«anima mostruosa» può farlo, risponde Rimbaud: l’anima del Poeta divenuto veggente, che penetra anche in questo buio, in questo cuore di tenebre, «attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi»17. Così egli penetrerà nell’ignoto, in quell’ignoto che Baudelaire aveva invano inseguito, corteggiato, incalzato, fino a invocare la morte per avere la possibilità di giungervi18. Ma le «cose strane, insondabili, ripugnanti e deliziose» che la ragione scopre in questo sgretolamento dovranno essere afferrate e comprese in una lingua capace di forma. Una «lingua speciale», quella cercata per tutta la vita da Flaubert, come una rete stesa sull’abisso, quella che sarà al centro dell’opera di Kafka: «Questa lingua sarà dell’anima e per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero, che afferra il pensiero e che tira»19. Una lingua dell’anima e per l’anima, che afferra il pensiero e il sensibile, è la lingua che attraversa tutto il campo dell’esperienza umana, anche quella del corpo, costituendo una ragione che Cartesio, ripetendo il gesto platonico, aveva respinto come origine dell’errore, come ciò che poteva rendere opaca la chiarezza dell’intelletto. Agli occhi del filosofo, assertore della verità ideale e immutabile, il soggetto di questa ragione appare – come dice ancora Rimbaud – come colui che «s’impianti e si coltivi le verruche sul naso»20. Ma è proprio questa ragione, questa «scienza» che può invece permetterci di capire quell’immensa popolazione di esseri anomali, angeli, demoni, ibridi, androgini, animali e folli, che abita la produzione artistica, letteraria e filosofica del moderno. L’amore «appassionato» per l’abnorme è infatti, come avevano già visto Flaubert e, dopo di lui, Musil, il segno di una ricerca appassionata degli statuti di questa «strana ragione»: delle regole dell’Andersdenken, della «logica sdrucciolevole» dell’anima. Ed è ciò che distingue questa ricerca, che è anche di Thomas Mann, dal suo personaggio, Krull, e cioè dall’artista camaleontico, che confonde la sua ambiguità con quella degli esseri che egli mima e ripete senza cercare di capirli, o di dare ad essi forma e linguaggio. 45


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Questa lingua è una lingua di figure, che si articolano in una peripezia narrativa. La figura è irriducibile all’unità dell’Ego cogito, ma è altresì irriducibile all’immagine pura della pura intuizione. È una costellazione di immagini, in cui non è possibile operare una «riduzione» o una separazione chirurgica di «ciò che potrebbe essere vero», secondo la logica classica e di ciò che questa logica ha definito sprezzantemente «la schiuma» dell’intuizione. Operando questa «decisione» di solito, dice Musil, «si ottiene un poco di verità e si distrugge tutto il valore della figura»21. La figura a cui probabilmente Musil si richiama deve avere la precisione, l’inventiva dell’immaginazione, «ma anche l’elemento dell’esattezza e dell’eseguibilità», e diventare così il finis teorizzato da Novalis nel primo romanticismo. Il fine e il limite, cioè, che trasformano la figura in un luogo intermedio, che realizza il contatto fra due mondi, quello dell’idea e quello delle immagini sensibili, ma anche quello dell’io e del tu, come nel grande tentativo musiliano di trovare ciò che fa dell’esperienza di Ulrich e dell’esperienza di Agathe una esperienza: comune o almeno comunicabile22. Nella figura, nell’intreccio, ciò che è differente rimane differente, significa appunto la differenza. È così che la «tenebrosa unità» di cui parlava Baudelaire diventa l’ambigua luce del crepuscolo del mattino, in cui il profilo delle cose torna a disegnarsi nella luce di un pensiero, che non ha più l’inumana chiarezza del cogito cartesiano23, ma ha ugualmente una precisione e una chiarezza che addirittura spaventano: quella dell’emergenza di una inusitata bellezza. 4. Surrealismo La figura è l’immagine di una verità obliqua. Propone, in luogo di una ierofania della luce, la realtà della luce e del buio, la strana verità del crepuscolo. Infatti, la luce della verità, quando nega l’ombra, si fa radente e scortica il mondo da differenze e contraddizioni e degenera in una sorta di feticismo, in una vera e propria morte della cosa. La verità si fa culto di se stessa e diventa sostituto del mondo reale. I surrealisti che avevano eletto Rimbaud, il poeta della strana e mostruosa ragione del nuovo, come loro patrono, combattono paradossalmente per l’amore della verità proprio questa mostruosa ragione. Da questo punto di vista il discorso di Breton, dai primi scritti e dal primo manifesto surrealista fino alle sue ultime cose, mantiene un’assoluta coerenza. Nella similitudine, secondo Breton, non si produce alcuna scintilla di una «conoscenza vera». E dunque dobbiamo cercare dentro la figura non la 46

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tensione delle differenze fra le immagini che la costituiscono, ma appunto la pura immagine, o meglio la trasparenza dell’immagine. Questo è «il funzionamento reale del pensiero», e qui si manifesta la «vera vita»: nell’identità dunque del pensiero e della realtà che, se appare in prima istanza imperfetta, può e deve essere raggiunta «nel progresso infinito, nella serie praticamente infinita delle generazioni umane successive». La mente umana si muove a tentoni, ma «sempre in avanti», dice ancora Breton come un profeta del progresso, verso una crescente «purificazione dello spirito» dalle cose volgari: dalle cose. Esattamente come ha detto Cartesio, anche per Breton è «necessario staccare la mente dai sensi», dalla malattia dello spirito che i sensi producono e manifestano24. È in questo processo di purificazione che ci avviciniamo alchemicamente alla «materia prima» del linguaggio, là dove assistiamo alla «nascita del significante» e alla «germinazione» di una «parola pura», piena, «senza rughe». Ma questo è il punto in cui, come dice Blanchot, «cessano gli antagonismi», e «linguaggio non è il discorso, ma la realtà stessa». Qui abbiamo la totale, assoluta, indiscutibile adaequatio rei et intellectus che «è precisamente una replica dell’esperienza cartesiana»25. Di qui ha origine «l’ideologia del continuo» che caratterizza la filosofia surrealista al di là della sua teoria degli choc, della sorpresa, e del «demone delle combinazioni inattese». Ma questa continuità, nel moderno, non è che una continuità onirica, in cui le cose, sottratte dal contesto finale in cui esse si muovono e mutano, vengono sospese in una purezza che è mitico irrigidimento. Gli «accostamenti improvvisi» allora, come dice lo stesso Breton, sono «coincidenze pietrificanti». La casa di vetro, simbolo di una trasparenza assoluta e perfetta, diventa un sarcofago, una vetrina di un museo pieno di reperti e di reliquie26. «La catena di vetro cui non manca nessun anello» e che collega «le cose […] restituite alla trasparenza totale» è la sequenza delle vetrine in un museo, in cui le cose sono salvate dall’impermanenza nella sospensione – nello Stilleben appunto – di una natura morta, dove cose e immagini appaiono congelate «nel mistero della vita dipinta», come «ritti sulla sponda della vita, l’occhio colmo di immensità e la lingua paralizzata». La lingua germinale di Breton, «senza rughe» e senza lacune, è solo il silenzio «del sesto giorno della creazione: quando Dio e il mondo erano ancora soli, senza gli uomini»27. Necrofilia, dunque, anche se «eterea necrofilia». Lo ha rilevato anche Adorno, affermando che i surrealisti «decomponendo ciò che è invecchiato creano le nature morte», feticci. La realtà, così investita di questo amore distruttivo, si distende come in un cimitero. Infatti, come ha affermato Bloch: 47


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lo sguardo stesso che manda in rovina fa congelare il molteplice, lo fissa (…), immobilizza in modo eleatico anche la fantasia e il suo variabile intreccio. Ciò rende questo pensiero medusiaco (…), immagine irrigidita dell’inquietudine28.

Il soggetto, le sue tensioni, il dissidio che lo costituisce in rapporto a una realtà mutevole, vengono sacrificati a un amore perverso per la verità, e per un linguaggio «i cui elementi» dovrebbero cessare «di comportarsi come i relitti sulla superficie di un mare morto». Ma, paradossalmente, per una sorta di contrappasso, proprio questo tentativo di redimere la realtà mutevole e frammentaria nell’immagine della verità stessa diventa amore per il reperto, per la sua «funzione catalizzatrice». Diventa amore per le rovine29. L’amore che doveva essere spinta icarea verso la redenzione degenera nell’amore della cosa morta: il cadavere squisito in cui si è calato il segreto della vita stessa. Il kairós, l’attimo della redenzione, diventa kairós negativo, e si «capovolge in infinita ripetizione convergente con il nulla»30. Ciò che qui si ripete – nell’eterea necrofilia di Breton come nell’assoluta pura matericità dei primi testi del Bataille surrealista – è il tentativo, che era stato per esempio di Baudelaire, di sottrarre l’animo alla perdita. Questo tentativo, così concepito, anche in Baudelaire trasformava la memoria stessa – la capigliatura di una donna, il profilo di una gamba tesa nel passo – in una reliquia. L’imprudente viaggiatore che ha affrontato ogni rischio per «l’amore del difforme» risulta sconfitto. Il pensiero della redenzione «implica allo stesso tempo una idea di perdita irredimibile»31. Ma l’esperienza surrealistica non si collega solo al «tragico» baudelairiano, ma anche alla grande tensione allucinatoria di Zola32. E, infatti, profeticamente Zola si proponeva di fare con Il ventre di Parigi «un romanzo moderno», e dunque di descrivere la città come «una natura morta». La sua descrizione dei passaggi parigini in Nana è la prima descrizione surrealista, che tornerà, a mio giudizio depotenziata, in Nadja di Breton. «Vetri imbiancati di riflessi», una «cascata di luci, globi bianchi, lanterne rosse», e «file di luci a gas, orologi e ventagli giganti», e ancora «l’oro dei gioiellieri, i cristalli dei confettieri, le sete chiare delle modiste», mentre «nella confusione delle insegne verniciate, un enorme guanto di porpora, lontano, sembrava una mano insanguinata e tagliata e riattaccata ad un polsino giallo». In questa fantasmagoria di luci e di oggetti, «un vecchietto irrigidito e solo davanti all’immensa tavola, che, nella macchia verde di una lampada, reggeva un giornale verde con le mani verdi». E intorno, la decomposizione, il disfacimento della città, nell’odore che esala, «da angoli torbidi»33. Ma con L’Œuvre, questo caos è transizione: polarità fra il cupo inferno di Germinal, e la bellezza, ancora incompresa, della grande «Donna nuda» di Claude Lantier su cui 48

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tornerò più avanti in un prossimo capitolo. Ed è per questo, per questa duplicità, che i surrealisti non hanno colto la loro innegabile parentela con Zola. Solo Aragon, ne Le paysan de Paris, ha riconosciuto questo debito. Ma Aragon è uno strano surrealista. 5. Il paesano Le paysan de Paris34, scritto a partire dal 1924 e pubblicato in volume nel 1926, segna il momento di massima presenza di Aragon all’interno del movimento surrealista. Ciononostante i grandi saggi sul surrealismo, per esempio di Benjamin, di Adorno e di Starobinski, non parlano mai di Aragon e di questa sua opera. Questo è tanto più strano se pensiamo che Aragon diede a Benjamin, come egli stesso ha testimoniato, «l’impulso decisivo» all’opera sui passaggi, di cui i saggi su Kraus, sul surrealismo, su Proust e su Baudelaire dovevano essere i prolegomena. Benjamin, infatti, ancora nel 1935 scrive del Passagenwerk: Ai suoi inizi c’è Aragon – Le paysan de Paris di cui la sera a letto non riuscivo a leggere più di due o tre pagine, perché il batticuore si faceva tanto forte da costringermi a deporre il libro. Quale monito! Quale richiamo agli anni che avrei dovuto frapporre fra me e una tale lettura35.

Perché, allora, Benjamin, che traduce nel 1928 alcuni passi de Le paysan de Paris per la «Literarische Welt», non fa cenno a quest’opera nel saggio sul surrealismo del 1929? Perché si dichiara maturo per quest’opera nel 1935, quando cioè era chiaro che il Passagenwerk sarebbe stato «la valorizzazione filosofica del surrealismo – e quindi il suo superamento»36? Il surrealismo è realizzato a livello filosofico e di pensiero in quanto esso venga superato. L’affermazione di Benjamin diventa chiara se pensiamo che il suo lavoro si proponeva di tradurre la dimensione onirica del continuo, propria del surrealismo, nella figura del risveglio, all’interno di una costellazione in cui queste immagini dovevano contrarre la massima tensione con il pensiero concettuale per produrre una nuova figura di pensiero, quella che Benjamin, in mancanza di termini più adeguati, ha definito «la dialettica in stato di arresto»: il movimento dialettico continuo che diventa discontinuo per la forza stessa della tensione che fa emergere la differenza prima che questa sia assolta e assorbita e conciliata in un’unità superiore37. Il movimento in cui Benjamin si dichiara maturo per Le paysan è davvero il momento in cui quest’opera diventa paradossalmen49


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te inutile, sostituita dall’impianto complessivo del lavoro sui passaggi: da una filosofia del moderno e da una nuova concezione della dialettica storica. Forse qui sta la spiegazione del silenzio di cui abbiamo parlato più sopra, silenzio che è anche di Bloch che avvicina Aragon a Benjamin (e a Max Ernst) e mai a Breton e al movimento surrealista propriamente detto. Uno strano surrealista, abbiamo detto, nel cuore stesso del movimento surrealista. La risposta della critica è, di fronte a questo problema, ingenua. Secondo Alquié ne Le paysan de Paris sarebbe implicita «quella critica del surreale» che avrebbe determinato poi «la sua pura e semplice negazione»38. Yvette Gindine individua la differenza tra Breton e Aragon «nella minuziosa attenzione allo spettacolo quotidiano» in cui quest’ultimo avrebbe voluto cercare la radice stessa del mistero: nella sua attenzione ai minuscoli reperti del reale, descritti con la maniacale precisione di un Baedeker parigino. Ma questa «scienza della vita» è invece analoga in Aragon e Breton, che sono appunto accumunati nel «loro istinto della caccia» del particolare, verso «la scoperta dell’inconscio della città»39. La risposta è complessa, ma comunque limpida, e per così dire sotto gli occhi di tutti. Il libro di Aragon non è un libro surrealista: è una sintesi di molti motivi e movimenti del moderno, tra cui c’è anche quello della filosofia surrealista40. Il cosiddetto «tradimento» di Aragon, come vedremo meglio più avanti, è in realtà una conversione di Aragon stesso al surrealismo, e dunque una rinuncia alla sua collocazione atopica nel movimento, e all’atopia del suo personaggio. Una rinuncia alla descrivibilità della grande vertigine del moderno, di cui Le paysan de Paris è forse una delle rappresentazioni più tese, drammatiche e significative. 6. La promessa dell’incerto Il surrealismo aveva seguito l’amaro consiglio di Hölderlin: «Se hai un intelletto e un cuore, mostra solo uno dei due. Entrambi te li maledicono, se li mostri insieme». Così se Breton cerca «una ragione nuova in cui l’uomo intero potrà ritrovare la sua immagine», questa ricerca avviene in prima istanza attraverso le ragioni «del cuore», in seconda istanza traducendo queste ragioni in ragioni superiori, in cui sia dialetticamente vinta ogni «volgarità e malattia» del cuore: ogni sua debolezza. Dobbiamo giungere, attraverso queste più forti ragioni, al punto in cui la parola pura coglie il rea­le nella sua essenza pura. «È dunque nel Dio di Descartes che è necessario cercare il presentimento dell’essere unificato di cui sogna Breton»41. In un Dio che garantisca con il suo potere la trasparenza assoluta del linguaggio attraverso cui sia possibi50

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le vedere – come nessun altro linguaggio ci permette di vedere – direttamente l’essenza e l’anima delle cose e del mondo. Aragon, viceversa, propone subito nel primo testo tra quelli che compongono il suo libro, nella Prefazione a una mitologia moderna, una strana mescolanza, da cui si originano gli «strani fiori della ragione». La filosofia cartesiana ha illuso con il sofisma che «la certezza è la realtà», ma ogni certezza, ogni evidenza sono tali solo in quanto si accompagnano all’errore. La primavera, che entra dalle finestre, i misteri «luminosi e mutevoli» della strada, il caso, convincono di una presenza irrinunciabile dei sensi. E solo l’abitudine a un pensiero astratto ha condotto alla contrapposizione tra la «coscienza che deriva dalla ragione» e la «coscienza sensibile»: o viceversa, come appunto nelle avanguardie42, a contrapporre la coscienza sensibile alla coscienza razionale. Ma questa ansia di fondamento e di certezza è inadeguata alla realtà. Nulla può «assicurarmi che io non la fondi su un delirio di interpretazioni», dunque, l’unico linguaggio in grado di cogliere la realtà è quello che «dà un senso preciso a espressioni dell’istinto»: è il linguaggio figurale della mescolanza. È questa mescolanza di contrari ad animare la nostra vita (…). Non esistiamo che in funzione di questo conflitto, nella zona in cui si urtano il bianco e il nero. E che m’importa del bianco e del nero? Essi appartengono al dominio della morte.

È, questa, la ragione del corpo, delle dita, dei sensi, che anima molte pagine proustiane. Gli «strani fiori della ragione», in cui l’errore si mescola alla verità, mostrano la bellezza del connubio strano per il pensiero abituale: il connubio del corpo e dell’anima, del concetto e dell’analogia. Attraverso questi fiori il paesano ha trovato il suo oggetto: sono «le metamorfosi spregiate», le mescolanze, gli ibridi, che costituiscono la mossa desituante, lo choc, che spezza un codice e una morfologia all’interno della quale, come in un ossario o in un museo, si depositavano le esperienze umane già atrofizzate e incomunicabili. Questa è la scienza del paesano. Con questo sapere egli inizia la prima stazione del suo viaggio, quella che lo porterà all’interno di una «più forte promessa dell’incerto», nel «glauco chiarore abissale» dei passaggi di Parigi. Il viaggio ha inizio. Davanti al paesaggio si aprono «le plaghe dell’ignoto e del brivido», abitate dagli dèi ignoti43 e dalla strana fauna dell’immaginazione. Con lui si entra nel regno dell’ombra, là dove «si coltiva la più equivoca attività dei viventi», e «l’inanimato talvolta rispecchia i loro movimenti più intimi». Sfingi silenziose pongono i loro mortali quesiti solo a quei passanti, i veri viaggiatori, che a loro rivolgono una «meditabonda distrazione»: che si rivolgono a loro, dunque, distratti dalle regole del51


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la ragione solo ragionante, e anche dalle regole di una sensibilità senza ragione (non «meditabonda»). Le sfingi abitano nei passaggi, «nei santuari dell’effimero», dove «nessuno può sostare più di un istante». Sono luoghi che stanno cedendo di fronte all’avanzare del piccone, dell’«istinto americano», ma che, proprio mentre stanno andando in rovina, diventano il ricettacolo di una miriade di miti moderni, di professioni e di atteggiamenti, che ieri erano incomprensibili, e che «domani nessuno conoscerà più». È qui che il vagabondaggio muta il suo statuto e diventa il portatore del sapere «dei misteri di domani», che in queste plaghe fanno la loro prima apparizione. Il modello del viaggio è quello del Voyage di Baudelaire, che qui viene spesso ripetuto quasi alla lettera. È anche quello dei grandi viaggi romantici nell’Oriente, e del Bildungsroman. Infatti anche qui, in questo viaggio, la scoperta è quella dell’«equivoco e dell’instabilità», della situazione atopica in cui acquista valore ogni dettaglio, che deve essere osservato con l’attenzione dell’entomologo. Così, per esempio, la vita e la morte si mostrano nella bara incongrua di una vetrina, ma senza fissarsi, perché, subito, ne vediamo un’altra manifestazione nel «chiarore sepolcrale e nell’ombra di voluttà» della prostituzione44. In questa mescolanza di vita e di morte si respira un «soffio di disfatta della ragione», che conduce il paesano al limite estremo dell’esperienza dello straniamento, quando anche il ricordo si dissolve «sposandosi alla menzogna». Il paesano è ora come «un uomo che si ponga sull’orlo degli abissi, parimenti sollecitato dalle correnti di oggetti e dai vortici di se stesso, in questa zona strana in cui tutto è lapsus, lapsus dell’attenzione e lapsus della distrazione». Qui è il luogo della vertigine. Tutto «si distrugge alla mia contemplazione». «Sento fremere il suolo e mi trovo subito come un marinaio a bordo di un castello in rovina». È la sensazione terribile, descritta da Flaubert e da Kafka del «mal di mare in terra ferma»45. Il paesano non se ne difende proteggendosi nello Stilleben, nella vita arrestata della natura morta. Egli sfugge «alla prigione perpetua», che sembra inghiottire tutto, anche il ricordo. Esce da essa, e riprende il suo inseguimento degli «uomini cupi in seno alle folle», gli uomini che cercano di strappare al reale un fugace piacere. La sua meta è «la ricerca dell’infinito»: questo è lo scopo del suo «vagabondaggio dell’incertezza», della confusione, dell’asincronismo dei desideri, che spezza in modo inesorabile la linearità del tempo. Così egli giunge là dove sembra potersi intravvedere una sorta di salvezza: alle soglie dell’immaginazione. L’intelligenza non ama l’immaginazione. Non ama la creatività che è sempre anche incertezza46. Ma l’immaginazione prende ugualmente la parola e parla il linguaggio surrealista. Questa è la sua attuale incarnazione: il nuovo «vizio» della coscienza. Sotto il pretesto della letteratura abbiamo una perturbazione e una metamorfosi nell’am52

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bito della rappresentazione: il gioco, la distruzione. Ma anche questa tappa è ben presto lasciata alle spalle. Ecco di nuovo il paesaggio delle vetrine47, le collezioni, la geografia rappresentata nei minuscoli rettangoli dei francobolli, e i turpi segreti che hanno un’aria familiare. Il passaggio diventa così «un metodo […] per accedere al di là delle mie forze a un dominio ancora proibito», non ancora scoperto, nemmeno dall’immaginazione. L’effimero è infatti «una divinità polimorfa». Il nostro itinerario in esso ci porta dunque in un «labirinto senza minotauro». Qui, nel labirinto, la coscienza abituale si sente «un semplice pianerottolo degli abissi». «Non sono che un momento di un’eterna caduta», afferma il paesano. Il paesano è l’abitatore del «dappertutto» del moderno, di un mondo cioè che «sposa le sue maniere di essere», del suo essere ovunque vagabondo. Questo è il mondo in cui nasce una grande crisi, un immenso disordine (…). Il bello, il bene, il giusto, il vero, il reale (…) in questo stesso istante dichiarano fallimento. I loro contrari, una volta preferiti, si confondono ben presto con quelli a cui si opponevano48.

Il paesano, il soggetto di questa esperienza, è anch’egli «un limite e un rapporto». Un essere di frontiera, che sta mutando con il mondo che muta, in un presentimento che si manifesta come un brivido che attraversa tutte le cose. 7. L’agrimensore Vita e morte di esseri minuscoli, che si urtano e si scontrano come in una guerra di batteri. Esseri giganteschi e mostruosi. Strane figure serpentine, sinuose e fallaci. Deliri dei sensi, dell’immaginazione, e quiete perversioni che hanno il volto di una vecchia nutrice, o di una madre amorevole. Furia collezionistica e pura dispersione. Bizzarri accostamenti, choc, lampi improvvisi, ozio e noia e tetraggine. Angoscia e paura, gioia, spaesamento, vertigine. Abitudini ossificate e nuove immagini stravaganti. Il caso e la ferrea fissità della legge. La città intera abita nei passaggi descritti da Aragon. Ma il proposito del paesano non è quello di «collezionare» queste sensazioni e queste percezioni. Il suo non è un proposito o un progetto surrealista. Egli dunque non si arresta alla natura morta, e tanto meno crede alla promessa di una conciliazione del diverso in un’unità superiore. Il viaggio attraverso i passaggi l’ha condotto alla percezione della vertigine, della crisi, del mutamento: del «grande disordine» che è sconvolgimento e de-situazione dei codici noti, che si opera all’interno dell’atopia, nel 53


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«dappertutto» dello spazio e del tempo metropolitano. Ma perché questa costellazione di differenze non svanisca nell’indifferenziato – nel «nero opaco», che è, secondo van Gogh, il vero male – è necessario trovare una «ragione» della vertigine, o come dice Aragon, una sua «metafisica». Aragon pensa che solo il mito possa corrispondere a questa «verità precaria», che la città ha scoperto o forse creato. L’ansiosa ricerca di una «serratura dell’universo» pare potersi risolvere nel percorso mitico, perché il mito è l’unico pensiero che sappia dar ragione «del legame intimo tra l’attività figurativa e l’attività metafisica»49 in cui si manifesta il senso dell’infinito nel suo prender forma nel concreto: la «stella della morte» che brilla nel «nuovo». Una grande rivoluzione ha modificato «le forme del pensiero». Il paesaggio è mutato con le macchine, e con esse è mutata anche la percezione del tempo, della serie, dei rapporti casuali. Si apre a questo punto una tensione fra l’uomo, e ciò che egli percepisce come il suo essere, e il pensiero che diviene. È ciò che Aragon definisce «il tragico moderno: una specie di grande volano che gira e che nessuna mano conduce»50. L’insufficienza del pensiero puro, della logica, e la presenza dei tiranni «provvisori», che dominano la vita dell’uomo come «divinità momentanee», hanno portato Aragon fin sulle soglie della formulazione di un pensiero figurale dell’unificazione dell’inunificabile, che troverà espressione più compiuta nell’opera di Proust e di Kafka. Ma egli è rimasto sedotto, come forse lo stesso Nietzsche, dalla sua stessa ipotesi tragica. Gli dèi effimeri e momentanei tendono a diventare, come vedremo meglio più sotto, divinità incrollabili che garantiscono con la forza del sacro dall’evanescenza sempre possibile di ogni esperienza. Intanto il paesano, colui che ha la purezza e la disponibilità completa alla sorpresa e al nuovo, si avventura in un nuovo viaggio, ancora più terribile di quello portato a termine nei passaggi, alla scoperta del «sentimento della natura» nelle profondità della notte al parco delle Buttes-Chaumont. Infatti, nella città del moderno, non è possibile avere un rapporto diretto con la natura51, ma soltanto un rapporto con la natura ibridata dall’artificio: nel parco, che è «l’immagine della follia umana», della natura compendiata, imitata, collezionata, che assomiglia alla «pace di un cimitero», o alla costruzione di un «monarca giovanissimo senza desideri»52 – e dunque frutto della noia, del «mostro delicato» dello spleen. Spinto da un’oscura tetraggine il paesano, in compagnia di André Breton e di Marcel Noll, entra di notte nel parco. Ma, come il parco è un ibrido di artificio e natura, così ugualmente ibrida è la descrizione del paesano. Egli cerca, di fatto, in questo momento una fondazione mitica e un linguaggio vero, ma le sue parole obbediscono a 54

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una furia descrittiva, da agrimensore, che ha riscontro solo, appunto, nell’opera del Landvermesser kafkiano nel Castello: il massimo di esattezza topografica e il massimo dell’apertura e della dilatazione dello spazio verso una regione oscura, in cui la natura tende a porsi come un limite per lo spirito, e a diventare, in un certo senso, il suo inconscio, il suo «cuore di tenebre». Qui, incedendo nella tenebra che confina con il vago lucore della città lontana, là dove abita un popolo che ha perduto anche «la scelta della sua nostalgia», qui, in mezzo ai brividi oscuri di amori fugaci e ingannevoli e al gesto immane delle statue, l’uomo scopre «l’impronta mostruosa del suo corpo», che precipita l’illusione di ogni potere, anche quello dell’immaginazione in ciò che appare come nulla. In questo cimitero dell’immaginazione egli allora conoscerà la potenza divina, l’imprudente suscitatore di entità, l’infelice preda della sproporzione e del sogno.

Il viaggio era appena iniziato che già nell’aria si avvertiva l’attesa di una catastrofe, di un disastro, di un «minuto violento», che, come dirà Montale negli Ossi di seppia, scioglie le ore «strette in trama» nel tessuto protettivo del tempo abituale. E nel silenzio, attraverso il labirinto del parco, che nessuna topografia può descrivere, nella percezione mostruosa del corpo, nella morte dell’immaginazione, come via alternativa alla coscienza razionale, alla fine, nel «luogo sacro» del terrore panico, il paesano scopre una segreta affinità fra le cose, una «psicologia» che lega l’anima della materia e l’anima dello spirito in una armonia in cui si manifesta il divino: in cui tutto ha luogo, come «in un dizionario da cui nessun termine può essere bandito». È il momento dell’illuminazione profana, in cui il viaggio ha termine. Il paesano sparisce. A poco a poco il suo corpo, come nell’ascesi di Séraphîta nel romanzo di Balzac, «divenne luce». Ed egli, l’uomo, «non fu più che un segno tra le costellazioni»53. 8. Il sogno del paesano Il terribile andirivieni nell’oscurità del parco, attraverso i suoi folli percorsi, che conducono al suo cuore segreto, remoto e pur tuttavia prossimo allo spirito – il luogo del suicidio –, era iniziato nel presentimento della catastrofe, e concludeva così il transito attraverso i passaggi. Un’illuminazione improvvisa, ma in realtà ostinatamente cercata in un serrato confronto con le forme e le immagini che popolano il luogo di tenebre e di luce, di artificio e di natura, aveva portato a una sorta di suicidio dell’in55


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quietudine, e dunque a una trasparenza assoluta, in cui l’uomo, in segreto accordo con tutte le cose, sparisce per diventare un segno etereo. Aragon termina così il suo viaggio con una conversione: precisamente con la conversione al surrealismo che ha come sacerdoti, complici e testimoni, André Breton e Marcel Noll. Ma anche questa conversione è ambigua. Ambiguo è il linguaggio, che mescola classificazione e tensione sacrale. Ambiguo è il luogo in cui essa avviene, là dove la città diventa nulla, sembra sparire, ma dove in realtà si raccolgono i relitti, i sogni, le nostalgie della città stessa, tanto che essa continua a presentarsi come un orizzonte lontano, ma incombente, evanescente ma inaggirabile. Ed è questa ambiguità che non permette che il discorso si chiuda con la folgorazione mistica, e che fa sì che il viaggio si prolunghi ancora per un tratto in una specie di sogno. Il paesano sogna, e il suo sogno ci porta di nuovo, oltre la trasparenza, nella «foresta incantata» delle differenze, che la luce abbagliante della rivelazione aveva reso invisibili, respingendole nella «tenebrosa unità» che anche Baudelaire aveva intravisto nelle sue Corrispondenze. Il sogno rivela il disordine. Proprio quel disordine che l’uomo non può sopportare perché «non può pensarlo». Nel sogno il paesano intravede dunque il pensiero del disordine, che Aragon chiama «metafisica», paradossalmente proprio in quanto «conoscenza concreta». Ma anche questa filosofia, come ogni filosofia, «non può riuscire. Ma è proprio dalla grandezza del suo oggetto che essa deriva la sua propria grandezza, e la conserva nello scacco». Questo pensiero è «il naufragio della legge», in quanto «sconcerta la legge» che ha fondato su quell’unità che è sempre stata, in quanto negazione della differenza, «un suicidio spirituale», che l’uomo, quasi a consolarsene, ha chiamato Dio54. Il paesano, da questa unità, ma anche da quella che aveva intravisto come unio mystica nel parco, torna al particolare, affermando: «Faccio fatica a elevarmi al particolare. Avanzo nel particolare». E con il particolare anche l’immagine, che era sprofondata nel cimitero dell’immaginazione del parco, riprende i suoi diritti, la sua forza. Essa porta in sé lo scacco, che fa grande un pensiero. Infatti «l’immagine non è il concreto». Non esiste una «surrealistica» corrispondenza fra immagine e cosa. L’immagine è solo sapere, è solo «la coscienza del possibile», anche se appunto «la più grande coscienza possibile del concreto». Il paesano, proprio nel suo sogno, è uscito da quello che Novalis avrebbe definito un «Witz delirante», il cattivo misticismo della cosa in sé senza finis – fine e confine, come abbiamo già visto – e afferma perentoriamente: «Affar mio è la metafisica, e non la pazzia», che è «predominio dell’astratto», che è «una realtà, una ragione»: proprio quella realtà e quella ragione che i surrealisti avevano pensato di trovare, come verità segreta e profonda, nascosta dietro il mondo delle cose. 56

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Qui Aragon, in questo sogno, che conclude Le paysan de Paris, spiazza Breton e tutta la filosofia surrealista. Il «meraviglioso» non è una dimensione occulta, che si svela improvvisa nell’illuminazione, ma è «la contraddizione che appare nel reale». La «verità» che nega questa «apparenza», questa «necessaria finzione», è una sorta di sostituto allucinatorio del reale. Non è questa che interessa Aragon, perché, come egli dice, «non amo abbastanza la menzogna per parlare di verità». La verità deve essere elevata, aveva detto Friedrich Schlegel, fino all’idea, vale a dire, paradossalmente, fino all’ironia, che la mette in questione corrodendola. E con la «verità» è messa in questione la nozione di un soggetto in cui si armonizzano «molte qualità». Con un gesto veramente nietzscheano Aragon afferma: «Spingete all’estremo limite l’idea della distruzione della persona e superatela». E in questo superamento si scoprirà quell’infinita ricchezza a cui il soggetto, per amore dell’unità, ha rinunciato. Una nuova tappa del viaggio è stata annunciata al paesano. Gli si è manifestata in sogno. Ma egli non percorrerà questa via, non cercherà di raggiungere questa nuova atopia. 9. Il risveglio Nel Traité du style, subito dopo Le paysan de Paris, Aragon afferma che «il surrealismo è l’ispirazione riconosciuta e accettata e praticata». Infatti «nessun sogno dura eternamente. Alla fine giunge sempre l’ora del risveglio». Aragon era sfuggito nel sogno del paesano all’esito surrealista. Il risveglio lo porta di nuovo a quel punto, che gli si era rivelato potente nella passeggiata nel parco. Ora si impegna «con uno stile che è come la natura» – in cui la parola corrisponde alla cosa – a descrivere la filosofia surrealista. E questa non è la filosofia del concreto, della differenza, del «meraviglioso» che manifesta il dissidio apparente nel reale, ma è la filosofia come sistema. «I metodi del pensiero che sono il presupposto del surrealismo e la sua pratica implicano un certo numero di idee generali e determinano così necessariamente la sistematizzazione». Tali metodi comportano una «più vasta costruzione» e «derivano da una concezione del mondo, che a loro volta essi permettono di illuminare». Questa concezione «abbraccia la molteplicità dei fatti che una prima appercezione ci offriva come irriducibilmente eterogenei»55. Dunque se il paesano aveva detto che era necessario «elevarsi» al particolare contro l’unità, che è suicidio dello spirito; se aveva detto che una ragione tesa a ridurre la molteplicità del concreto in una realtà era follia; se aveva provocato lo sconcerto di ogni legge sistematizzatrice, in quanto nessuna immagine, e tanto più allora nessuna 57


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parola filosofica, poteva essere la realtà stessa, ora, Aragon, nel Traité du style del 1928, dopo il «risveglio», nega il sogno del paesano: accetta, giustifica, sostiene e sistematizza una filosofia, non per lo scacco che la fa grande, ma per il suo potere. Ed è curioso che questo «tradimento» del sogno, questo diventare surrealista sia stato scambiato per un «tradimento» di Aragon nei confronti del surrealismo stesso al tempo del suo passaggio al realismo socialista, quel realismo «di cui portavo in me», ha detto Aragon, «da molto tempo l’istinto confuso»56. Quando la «confusione estrema» del paesano è stata vinta con il potere della filosofia surrealista, Aragon diventa maturo per un’altra filosofia, anch’essa «procedente per necessarie sistemazioni», anch’essa debitrice di una concezione del mondo, che essa, a sua volta, avrebbe contribuito a illuminare: la filosofia del materialismo dialettico. Aragon trae dalla filosofia surrealista delle conseguenze che Breton non seppe o non volle trarre. In questo Breton, e non Aragon, raggiunse, malgrado le sue premesse, il fallimento e lo scacco – quel fallimento e quello scacco che fanno grande un pensiero – della filosofia surrealista. È infatti questo scacco che apre la strada a linguaggi e a figure tese a dare senso al «nuovo che si presenta sempre in modo intricato». In questo senso Breton segna forse il compimento e la crisi di tutta l’avanguardia europea. Il problema della conversione di Aragon alla potenza della filosofia surrealista, e di lì a una filosofia ancora più potente, quella del materialismo dialettico, è stato visto con grande chiarezza da Karel Teige che afferma che «tra il surrealismo e il realismo socialista non v’è contraddizione teorica e che il surrealismo ricade nell’ampio ambito della teoria del realismo socialista»57. Il tardo Aragon ha dunque ragione. Nelle sue mosse surrealiste vi era il presentimento di questa teoria: di questa filosofia. Il surrealismo, infatti, esattamente come il realismo socialista, è «il dio vichiano onnisciente», mentre il realismo precedente, secondo Teige, quello di Balzac o di Zola per esempio, si limitava a registrare «l’esterno e la superficie della realtà naturale e sociale»58. Partendo dalle stesse premesse, il surrealismo risulta dunque «complementare» rispetto al realismo socialista ai fini «della conoscenza del “vero individuo umano”», portando ad esso la dimensione onirica, fantastica e sentimentale che gli mancava. Il «materialismo dialettico» è dunque «la soluzione luminosa e cristallina del primitivo caos delle nostre negazioni anarchiche», scrive ancora Teige (p. 40 e p. 85). Ed è sintomatico, che negli anni Cinquanta, verificato il fallimento e la povertà del realismo socialista, Teige recuperi una posizione pressoché identica a quella che era stata di Aragon prima della sua conversione surrealista; recuperi cioè le «ragioni» mitiche del surrealismo stesso: «Il surrealismo ha aperto, o dischiuso, le porte a una nuova dimensione prodigiosa. Crea un nuovo mito della nostra realtà di vita» (p. 320). 58

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Questa era appunto la premessa – l’introduzione alla mitologia moderna – del paesano di Parigi nella vertigine del moderno, con gli occhi fissi sulla realtà metropolitana, vagabondando nei labirinti «senza minotauro» della città. Partendo da queste premesse Aragon ha tracciato una delle più straordinarie fenomenologie del moderno. Nel momento stesso in cui «tradisce» il paesano e il suo sogno di «sconcertare» tutte le leggi, di «distruggere» tutto ciò che imprigionava le forme e le figure del moderno dentro un sistema univoco, egli accetta coerentemente tutte le conseguenze del suo fallimento. Non è vero dunque, come invece afferma Maurice Nadeau, che egli abbia rinnegato «il surrealismo per diventare comunista»59. Al contrario, egli ha portato il surrealismo fino alle sue ultime ed estreme conseguenze, e dunque fino all’annientamento del surrealismo stesso. In effetti, una volta che si è deciso di sacrificare la molteplicità delle forme del reale a una struttura vera, di cui esse non sono che un fenomeno, una volta che si sia fatta la «mente prigioniera»60 di una ragione, di un pensiero, assunti come vera ragione di una realtà, ne discende inesorabilmente la legittimazione al controllo del linguaggio delle forme affinché questi siano congruenti e adeguati a quella realtà e al pensiero che la rappresenta veramente. Questa conclusione era forse già implicita nella seconda parte de Le paysan de Paris, dopo il grande viaggio nei passaggi e dopo l’esplorazione del parco, quando il presentimento della catastrofe del disordine, in cui sempre si manifesta il mutamento al di fuori della metafisica e del progresso, veniva risolto nell’ipotesi di un’unità sottostante tutti i fenomeni e le apparenze, e di un’astrale trasparenza del soggetto. Il sogno del paesano, che chiude la «strana epica»61 che Aragon ha presentato nel suo romanzo, combatte per l’ultima volta questa unità e questa trasparenza. Il paesano si vota interamente al particolare e al concreto contro ogni spiegazione unitaria e assolutistica del reale, recuperando, attraverso la distruzione della persona stessa, il profumo e la bellezza degli strani fiori della ragione che avevano motivato l’inizio del viaggio. Per questo Le paysan de Paris è un grande romanzo del moderno, del viaggio che spaesa nella difficile avventura dello smarrimento atopico, che è la «scienza» che anche Proust e Benjamin e Kafka cercarono di imparare. Il viaggio nel luogo atopico del «dappertutto» è la ricerca di un senso diverso a ciò che accade, del senso stesso della vita umana e della «nuova storia» che da qui, al di fuori dei sentieri consueti, può cominciare a dipanarsi, ad aprirsi per noi. In questo senso, malgrado Aragon, il sogno del paesano non è finito ancora: ha attraversato la parabola del surrealismo e anche quella del realismo socialista, e torna oggi, quando ancora siamo nella percezione di «una grande crisi» e di un «immenso disordine», a mostrarci le sue figure, ad articolare le sue parole e il suo sapere: il suo brivido, in cui il terrore dell’incognita si mescola alla gioia e alla speranza. 59


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F. Nietzsche, Studienausgabe, cit., Bd. xii, frammento 10 [18] del 1887 (tr. it. in Opere, cit., viii, ii, p. 114). Ma già all’altezza di Umano, troppo umano, in un frammento del 1876 (17[51]) Nietzsche parlava della «malattia moderna [che] è: un eccesso di esperienze», che equivale cioè a una atomizzazione dell’esperienza stessa (SA, viii, p. 305; iv, ii, 324). 2 G. Flaubert, Correspondance, Gallimard, Paris 1973-2007, vol. i, p. 730 e p. 626. 3 C. Baudelaire, Œuvres complètes, a cura di C. Pichois, Gallimard, Paris 1975-1976, vol. i, p. 766 e G. Flaubert, a G. Sand, 30 ottobre 1870, Correspondance cit., vol. iv. 4 «Forse mai più». Cfr. C. Baudelaire, A une passante (Œuvres, i, cit., p. 92). Per la «malattia della memoria» cfr. G. Flaubert, Correspondance, vol. iii, pp. 572-573. Su Cartagine e Salambô cfr. Flaubert, Ivi, pp. 59-60; sul collegio Correspondance, cit., ii, p. 757: «Ti assicuro che non ho mai avuto in viaggio, davanti a una qualsiasi rovina, un sentimento di antichità più profonda. La mia giovinezza è remota come Romolo». Il tema della «lingua speciale» ricorre in tutto l’epistolario di Flaubert, ed è il progetto della sua opera, espresso con una drammaticità che troverà riscontro soltanto nell’opera e nelle lettere di Kafka. 5 Come abbiamo visto nel capitolo precedente. Comunque per l’analisi del «tempo della sorpresa» cfr. P. Valéry, Cahier, cit., vol. i, pp. 1267-1334, in particolare pp. 1284, 1286, 1287, 1289. 6 Questa è anche la percezione di Proust, per cui cfr. F. Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli, Milano 2000, iv, 1-4. 7 P. Valéry, Cahiers, cit., pp. 1289, 1318, 1334. Per Schlegel Cfr. F. Rella, Limina. Le parole e le cose, Feltrinelli, Milano 1986. 8 W. Benjamin, Infanzia berlinese, tr. it. di M. Bertolini Peruzzi, Einaudi, Torino 1973; H. de Balzac, Physiologie du mariage, Garnier-Flammarion, Paris 1968, p. 60 e p. 95. 9 W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, in GS i, ii, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962. Th. Mann, Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, tr. it. di L. Mazzucchetti, in Tutte le opere di Thomas Mann, a cura di L. Mazzucchetti, Mondadori, Milano 1971, vol. v, pp. 666, 685, 688, 855, 877. Qui Thomas Mann delinea la figura dell’artista metropolitano tipico dell’avanguardia: l’artista mimetico, distruttivo e al tempo stesso disperatamente teso alla ricerca del consenso pubblico. Il suo essere metropolitano fino alla sparizione del soggetto è – anche in Thomas Mann – un tratto tipicamente sur­ realista. 10 Felix Krull, tr. it. cit., pp. 917-918, 977, 1033. Nietzsche aveva già creato la figura dell’artista camaleontico nel Caso Wagner, e nei tardi frammenti su Wagner: il ricettacolo della «nervosità moderna». La parentela di Krull (ma anche di Hans Castorp nello Zauberberg) con Ulrich de L’uomo senza qualità è strettissima, molto più di quanto non abbia mai voluto ammettere Musil. Lo stesso Mann in Adrian Leverkühn, nel Doctor Faustus, spinge fino all’estremo tragico le qualità (o l’assenza di qualità) che caratterizzano l’artista moderno. Il Goethe di Carlotta a Weimar, autoritratto dello stesso Mann, è mescolanza di Krull e di Adrian. Ma il tema dell’artista, centrale nella modernità, compare in tutte le opere di Mann, da Tonio Kröger, fino appunto al Krull, che accompagna Mann per tutta la sua vita. 11 Cfr. M. Detienne, L’invention de la mytologie, Gallimard, Paris 1981. Sul processo di mitizzazione in rapporto alle ideologie del moderno cfr. E. Bloch, Erbschaft dieser Zeit (1935), Suhrkamp, Frankfurt am Main 1979. 60

Labirinti. La città museo dell’avanguardia 12 H.

Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, tr. it. di M.V. Serra Hansberg, il Mulino, Bologna 1969, p. 108. 13 Th. Mann, Il giovane Giuseppe, tr. it. di B. Arzeni, Mondadori, Milano 1963, p. 66. 14 Molto spesso i libri che sembrano «drogati di precarietà» sono invece assertori di una «infelicità che offre la sicurezza e il rigore di un rito», come scrive E.M. Cioran (Il demiurgo cattivo, Adelphi, Milano 1986). In questo senso sono spesso opere consolatorie, in quanto, se nel mondo non c’è felicità, non c’è verità e tutto è vanità, c’è però la certezza del discorso che celebra questa vanitas vanitatum, che si propone come un rito o addirittura, come ha visto Cioran, come un metodo. L’esecrazione del mondo diventa molto spesso motivo di celebrazione mondana, e si articola in rubriche, programmi, piccole poste, in cui si insegna involontariamente ciò che aveva affermato coscientemente Leopardi, che «l’uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale necessaria». Sull’«appaesamento» nell’«altrove» cfr. F. Rella, Il mito dell’altro, Feltrinelli, Milano 2003. 15 G. Leopardi, Lo Zibaldone, a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1992. 16 I riferimenti sono, per quanto riguarda la ragione «assediata e vinta», a G. Flaubert, Correspondance, ii, cit., 716; per le «corrispondenze» a C. Baudelaire, Œuvres, i, cit., p. 11, in cui si trova la metafora della foresta di simboli che ricompare anche nella prima delle Elegie duinesi di Rilke, cit. Nelle Elegie vii e ix diventa dominante l’idea che le cose si rivolgano a noi per essere salvate. 17 Cfr. A. Rimbaud, Lettera del veggente, in Œuvres/Opere, a cura di I. Margoni, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 140-149. 18 Cfr. Le Voyage (Œuvres, i, cit.): «Oh morte, vecchio capitano, è tempo! Leviamo le ancore! (…) Noi vogliamo, tanto questo fuoco ci arde la mente, / sprofondare nel fondo dell’abisso,/ Inferno o Cielo non importa. / Al fondo dell’Ignoto per trovare del nuovo!». 19 Tutte le citazioni sono dalla Lettera del veggente, cit. 20 Lettera del veggente, cit. La «logica sdrucciolevole» è espressione musiliana per cui cfr. F. Rella, Miti e figure del moderno, cit., i, 2. L’amore per l’abnorme percorre tutta l’opera di Flaubert e si evidenzia con particolare forza nelle lettere. Ma cfr. anche R. Musil, Diari, tr. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1980, p. 890. 21 R. Musil, L’uomo senza qualità, tr. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1996, p. 675. 22 L’uomo senza qualità, cit., pp. 1475-1476. 23 P. Valéry, Cahiers, i, cit., p. 87. Ma vedi anche tutto Monsieur Teste, in Œuvres, i, cit., soprattutto p. 36. 24 A. Breton, Manifesti del surrealismo, tr. it. di L. Magrini, Einaudi, Torino 1966, pp. 30, 40, 43, 89, 110, 170. 25 A. Breton, Manifesti, cit., pp. 229-233; M. Blanchot, La part du feu, Gallimard, Paris 1949, p. 91. 26 Sull’ideologia del continuo, che «rimanda alla pienezza dell’essere» contro «il discontinuo che viene dal conoscere», cfr. M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, tr. it. di M. Ferrara, Einaudi, Torino 1977, p. 547. Il «demone delle combinazioni inattese» è un’espressione di Valéry (Œuvres, ii, cit., p. 1023) che si riallaccia alle «coincidenze pietrificanti» e alla casa di vetro di A. Breton, Nadja, Gallimard, Paris 1964, pp. 19 ss. 61


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Breton, L’amour fou, tr. it. di F. Albertazzi, Einaudi, Torino 1980, p. 48; R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., pp. 1394-1395. 28 T.W. Adorno, Note per la letteratura 1943-1961, tr. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1979; E. Bloch, Erbschaft dieser Zeit, cit., p. 371. 29 A. Breton, Manifesti, cit., p. 229; L’amour fou, cit., p. 36. 30 T.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 43. Sulla dimensione icarea del pensiero bretoniano ha pagine significative I. Margoni nella sua introduzione a Per conoscere Breton e il surrealismo, Mondadori, Milano 1977. 31 C. Baudelaire, L’irrimédiable (Œuvres, i, cit., p. 79), oltre a tutti i testi citati più sopra. A. Breton, Nadja, cit., p. 10. Si ha spesso l’impressione leggendo i testi surrealisti di trovarsi di fronte a una sorta di coazione a ripetere ciò che Baudelaire aveva pensato e scoperto, senza avanzare oltre i limiti che egli aveva segnato. 32 Per esempio in Germinal o ne L’Œuvre. É. Zola, Les Rougon-Macquart, a cura di A. Lanoux, note, commenti e varianti a cura di H. Mitterand, Gallimard, Paris 1966, vol. iv. Tutti i riferimenti a seguire in questo e nei prossimi capitoli saranno citati secondo questa, riportando il numero del volume e della pagina. Ha visto questo carattere dell’opera di Zola Guido Ceronetti in una serie di testi ora raccolti in G. Ceronetti, La vita apparente, Adelphi, Milano 1982, pp. 63-81. Ceronetti ha anche tradotto in versi alcuni testi di Zola in Come un talismano, Adelphi, Milano 1986. Per Il ventre de Paris cfr. Les Rougon-Macquart, cit. i, xxvi, ma anche l’apparato a L’Œuvre, cit., nel volume iv. 33 É. Zola, Nana, vol. ii, pp. 1259, 1261-1262, 1313, tr. it. di M. Bellonci, Rizzoli, Milano 1981, pp. 196, 199, 256. 34 L. Aragon, Le paysan de Paris, Gallimard, Paris 1923, 1953; tr. it. di P. Caruso, Il paesano di Parigi, a cura di F. Rella, Il Saggiatore, Milano 1982, da cui saranno prese tutte le citazioni senza ulteriore indicazione di pagina. Questi paragrafi sono stati pubblicati per la prima volta, in forma diversa, appunto come introduzione a questa edizione italiana. 35 W. Benjamin, Lettera a T.W. Adorno del 7 gennaio 1935 (in Lettere 1913-1940, a cura di G. Scholem e T.W. Adorno, tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1978). Cfr. anche GS, v; G. Scholem, Walter Benjamin. Geschichte einer Freundschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1975, p. 169; GS, ii, 3, pp. 1018-1044. Il saggio sul surrealismo, infine, in GS, ii, è tradotto da A. Marietti in W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973. 36 Lettera a G. Scholem del 9 agosto 1935 in W. Benjamin – G. Scholem, Briefwechsel, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980 (e in Lettere, cit.). 37 Il rinvio è al Passagenwerk e al suo apparato (cfr. anche l’edizione italiana cit.). I passi che si riferiscono a questo modello teorico sono innumerevoli. Cfr. F. Rella, Il silenzio e le parole, cit., cap. iv, e Metamorfosi. Immagini del pensiero, Feltrinelli, Milano 1984. È abbastanza curioso notare che al silenzio su Aragon corrisponde, specularmente, il silenzio su Zola. Benjamin si accanisce nel collezionare reperti sulla Parigi di Haussmann, e tace su chi l’ha descritta più compiutamente. Forse il batticuore, che nel ’35 era cessato nei confronti di Aragon, continua a manifestarsi nei confronti di Zola. 38 F. Alquié, Philosophie du surréalisme, Flammarion, Paris 1970, p. 20. Alquié, che ha avuto l’indubbio merito di sottolineare il carattere filosofico dell’esperienza surrealista, è anche 62

Labirinti. La città museo dell’avanguardia interessato a difenderne la parentela con il pensiero di Descartes, di cui è stato un grande editore. 39 Y. Gindine, Aragon, prosateur surréaliste, Droz, Genève 1966. 40 E. Lenk in Sinn und Sinnlichkeit, testo che accompagna la tr. tedesca de Le paysan de Paris (Rogner und Bernhardt, München 1972, p. 260), ha colto e sottolineato questo aspetto. Il cosiddetto «tradimento» di Aragon si consuma, come vedremo più avanti, attraverso una adesione senza riserve al surrealismo, qual è quella che si esprime già nel Traité du style del 1928, che è contemporanea alla sua adesione al partito comunista; poi con il suo viaggio in Russia nel 1930; e infine con la rottura con il movimento surrealista, avvenuta nel 1932, dopo la partecipazione al ii Congresso Internazionale degli scrittori di Kharkov. 41 F. Alquié, Philosophie du surréalisme, cit., p. 51. 42 È forse ciò che accumuna, al di là delle differenze di metodo o di stile, le avanguardie storiche. 43 Questa non è l’unica traccia che ricollega questo testo a una certa nascosta dimensione gnostica del moderno. Il «paesano» a Parigi è infatti «lo straniero», la «parola fondamentale della gnosi» (cfr. H.C. Puech, En quête de la gnose: i. La Gnose et le Temps, Gallimard, Paris 1978, pp. 208-209). 44 Il richiamo implicito è alle grandi pagine sulla prostituzione di Baudelaire, di Flaubert e di Zola. Più direttamente con «le parole fanno all’amore» di Breton. E dietro, per quanto non possa essere immediatamente evidente, c’è tutta quella rilettura dell’Eros platonico che trova il suo fondamento nell’esperienza della voluttà, invece che nella sua negazione. 45 Ampiamente descritta in F. Rella, Miti e figure del moderno, Feltrinelli, Milano 2003, ii parte. Ma è l’esperienza stessa dell’essere nel mondo dell’impermanenza (come sulle onde dell’Euripo) e della meraviglia descritta da Platone nel Fedone come l’esperienza di chi è prima o fuori dall’idea e della vera filosofia. 46 Lo afferma lo stesso Aragon: «Dimmi, intelligenza, che cosa pensi dell’immaginazione?». E la risposta: «Non amo l’incertezza!». 47 Una vetrina a Parigi è un quadro sognato da van Gogh nell’ultimo periodo, come un grande paesaggio: «… mi dico sempre che ho ancora in mente di dipingere un giorno un negozio di libri, con tutta la vetrina gialla, rosa, di sera, e con passanti in nero – è un motivo così moderno. Guarda sarebbe proprio un soggetto che starebbe bene fra un uliveto e un campo di grano, la seminagione fra i libri e le stampe. E ho proprio in mente di farlo come una luce in mezzo alle tenebre, c’è la possibilità di vedere il bello anche a Parigi» (V. van Gogh, Lettere a Theo, a cura di M. Cescon, Guanda, Milano 1984, lettera del 18 novembre 1889). 48 Aragon cerca di superare il principio di non contraddizione ipotizzando uno spazio di fluttuazione fra gli estremi. Benjamin, come abbiamo già osservato, «fisserà» questa fluttuazione ipotizzando una «dialettica in stato d’arresto», in cui i contrari significano in una tensione non mediata. Ma anche Nietzsche quando scrive: «La tensione critica: gli estremi vengono in primo piano e prevalgono» (Opere, cit. viii, 9 [128]). 49 Qui Aragon sembra incrociare le ricerche di Henry Corbin sullo spazio di mezzo in cui si situa la conoscenza immaginale (cfr. F. Rella, Bellezza e verità, Feltrinelli, Milano 1990). Non il monte Qâf della tradizione mistica iranica, ma la città stessa diventa per Aragon un «luogo di mezzo», oggetto e strumento insieme di conoscenza. 63


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pare evidente il richiamo alla teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche, uno dei molti echi all’interno del testo di Aragon. 51 È, per esempio, il grande insegnamento de La curée di Zola: la natura è scomparsa dalla città; il parco è solo lo scenario di una rappresentazione teatrale: la sfilata delle carrozze. La natura riappare come inquietudine e pericolo nella serra, e dunque nell’interno della casa. 52 È una citazione indiretta dal testo di Baudelaire lxxvii di Spleen et idéal: «Je suis comme le roi d’un pays pluvieux, / Riche, mais impuissant, jeune et pourtant très-vieux». 53 Esiste una parentela fra l’ascesi del paesano e quella di Séraphîta, forse non casuale. Cfr. H. de Balzac, Séraphîta, tr. it. di L. Magliano, con un saggio di F. Rella, Reverdito, Trento 1986. Comunque anche il paesano, nel momento della sua ascesi, rinuncia alla dissonanza, che recupera, come vediamo più sotto, nella forma del sogno. 54 Un richiamo forse alla morte di Dio di Nietzsche. 55 L. Aragon, Traité du style, Gallimard, Paris 1928, pp. 168, 187. 56 Secondo una tarda testimonianza su quegli anni di Aragon, in L. Aragon, Les collages, Hermann, Paris 1980, p. 14. 57 K. Teige, Surrealismo, realismo socialista, irrealismo, a cura di S. Corduas, Einaudi, Torino 1982, p. 9. 58 K. Teige, Surrealismo, cit., p. 10. 59 M. Nadeau, Storia e antologia del surrealismo, Mondadori, Milano 1976, p. 134. 60 Il riferimento è al libro di C. Miłosz, La mente prigioniera, Adelphi, Milano 1981. 61 La definizione è di G. Neri, Introduzione ad A. Breton, Manifesti del surrealismo, cit.

IV. Di alcuni motivi in Walter Benjamin. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Lo storico (…) cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso [Jetztzeit], in cui sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico. Walter Benjamin Ciò che è vivo nell’opera d’arte si muove contro la seduzione e la bellezza. Judith Butler

1. Lungo il decennio degli anni Trenta abbiamo una serie di testi benjaminiani che insieme formano una costellazione. Sono Il carattere distruttivo del 1931, Esperienza e povertà del 1933, L’autore come produttore del 1934, per arrivare quindi ai grandi torsi incompiuti, che tali rimangono al termine della sua vita: il libro su Baudelaire, il Passagenwerk e, ovviamente, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, testo solo in apparenza compiuto, di fatto continuamente ripreso e totalmente aperto1. Anzi, dal punto di vista teorico, in rapporto alla grande ambizione che esso esprime – vale a dire la costruzione di una nuova estetica materialista –, questo è forse il testo più incompiuto, certamente il più aperto. Gli altri due complessi, il libro su Baudelaire, il cosiddetto Baudelairebuch, e il Passagenwerk sono anch’essi incompiuti, ma diventano via via chiare le linee lungo le quali il loro tragitto poteva se non compiersi, almeno dispiegarsi. Perché forse a Benjamin non era concesso il compimento, o meglio da grande saggista egli non poteva concedersi il compimento. Il saggio procede infatti per approssimazioni, stringe il suo oggetto, e si allontana da esso per ritor64

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narci sempre di nuovo con rinnovato vigore. Non può davvero finire. Finire significherebbe infatti risolvere la tensione degli opposti che anima la struttura delle opere, come anche delle grandi configurazioni storiche. «Al pensiero appartiene tanto il movimento quanto l’arresto dei pensieri». Arresto che crea una cesura da cui emerge «una costellazione carica di tensioni», ovvero «l’immagine dialettica». Il saggista si muove in quella direzione, verso il luogo in cui «la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo» (N10a, 3)2. Tanto l’arresto quanto il movimento, dunque. Come nelle grandi immagini proustiane, che stanno alla base della «rivoluzione copernicana» del risveglio, come l’immagine dell’«ora della conoscibilità», si esce dallo choc – l’arresto – per poi rientrarci, in un movimento che si accentra e che poi divaga, come il caleidoscopio di immagini in Einbahnstrasse. È questa la filosofia del moderno, la filosofia dopo Nietzsche. È questo il movimento di pensiero che Adorno definisce la «prima philosophia che ci è stata assegnata in compito» (Adorno a Benjamin, 6.11.1934), o addirittura, in un’altra lettera (del 20.5.1935), «come la parola decisiva che oggi può essere detta dalla filosofia» e poi ancora, il 6 settembre 1936, come «ultima philosophia». 2. Ho affermato più sopra che il libro su Baudelaire e il Passagenwerk sono incompiuti, ma che chiare sono le linee lungo le quali il loro tragitto poteva dispiegarsi, lungo le quali di fatto si sono dispiegati. È necessario oggi cominciare a guardare al Passagenwerk avendo estrapolato da esso il complesso dei materiali che avrebbero dovuto confluire nel libro su Baudelaire. Che cosa rimane del Passagenwerk avendo compiuto questa operazione, lo possiamo vedere nelle tesi Sul concetto di storia, che probabilmente sono state pensate come una sua premessa teorica o, per richiamare Il dramma barocco tedesco, come la sua premessa gnoseologica. D’altronde è Benjamin stesso che lo dichiara esplicitamente in molte occasioni. A mio giudizio esse sono di fatto lo schema articolato dell’intero libro sui passaggi di Parigi, quello che Benjamin pensava essere la Traumdeutung del xix secolo. Un libro rivoluzionario come rivoluzionaria era stata L’interpretazione dei sogni con cui Sigmund Freud aveva inaugurato il xx secolo. Cerchiamo di individuare anche le possibili linee di sviluppo del libro su Baudelaire. A mio giudizio, né il fallito saggio su La Parigi del secondo impero in Baudelaire del 1938, né il bellissimo saggio Di alcuni motivi in Baudelaire del 1939 ne delineano l’intera complessa geografia. Come per il Passagenwerk è necessario riportarsi alle tesi Sul concetto di storia, così per il libro su Baudelaire è necessario riferirsi alla sequenza delle annotazioni di Zentralpark, insieme premessa teorica e probabilmente struttura dell’intero saggio3. 66

Di alcuni motivi in Walter Benjamin

3. Su queste annotazioni, definite da Adorno «impressionanti» e di «natura estremamente speculativa» vorrei soffermarmi un poco anche in relazione, come si vedrà poi, al saggio su L’opera d’arte. Adorno ipotizza che questa sequenza di notazioni sia dell’ultimo periodo della vita di Benjamin e spiega il titolo – Zentralpark – per «il ruolo centrale» che queste avevano e avrebbero assunto nella strategia benjaminiana, vale a dire, ponendosi di fatto come la risoluzione teorica di quanto si era mosso e doveva muoversi nel libro su Baudelaire. Adorno ipotizza che il titolo potesse alludere anche all’espatrio verso l’America di Benjamin, per il quale gli amici stavano cercando un appartamento a New York nei pressi di Central Park4. Rosemarie Heise su «Alternative» (ottobre-dicembre 1967), che aveva tra l’altro lanciato una campagna di accuse contro Adorno imputato di aver de-marxistizzato Benjamin (campagna ripresa anche in Occidente da Arendt e Heissenbüttel), data questo testo ai primi mesi del 1938 in base ad alcune corrispondenze tra le notazioni di Zentralpark e di La Parigi del secondo impero in Baudelaire. L’argomentazione è a mio giudizio debole. Benjamin pescava soprattutto nella grande miniera del Passagenwerk per l’uno come per l’altro testo. Si tratta di capire perché quei frammenti e quelle annotazioni sono state isolate e poi integrate a far corpo a sé in Zentralpark e cosa venivano a prospettare. Rolf Tiedemann accetta in parte le osservazioni di Heise, ma ipotizza che esse siano state integrate fino all’aprile del 1939, dunque sulle soglie di Di alcuni motivi in Baudelaire. Nell’edizione italiana del 2006, da lui curata, Zentralpark viene però posto come una sorta di appendice a La Parigi del secondo impero in Baudelaire. Giorgio Agamben nel suo tentativo di ricostruzione del Baudelaire­ buch lo pone, senza alcun commento, addirittura tra i materiali preparatori di questo stesso testo. Io credo che avesse ragione Adorno. Zentralpark spinge il discorso su Baudelaire e attraverso Baudelaire a incorporare le grandi annotazioni teoriche sul risveglio del plico K, e sulla teoria della storia del plico N del Passagenwerk, vale a dire sui temi della dialettica im Stillstand e dell’ora della conoscibilità, che, come vedremo, gioca un ruolo assolutamente decisivo nella genesi de L’opera d’arte. Questi temi sono invece assenti in entrambi i saggi su Baudelaire del 1938 e del 1939. Non solo. Zentralpark, attraverso l’allegoria, recupera un legame profondo tra i testi di questo periodo e Il dramma barocco tedesco, che viene richiamato in Zentralpark stesso, in numerose lettere e nelle note stesse del Passagenwerk, come un’esigenza di confronto aperta. La mia ipotesi dunque è che Zentralpark fosse davvero il parco, il luogo centrale, in cui far circolare i temi del Baudelaire presi nella loro curvatura filosofica, e non antropologica come ne La Parigi del secondo impero, insieme ai temi del Passagenwerk, o me67


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glio delle Tesi che ne riassumevano il contenuto teorico e storico, e infine i temi affrontatati ne Il dramma barocco tedesco. «Lo sprofondamento melanconico» del barocco è in trasparenza lo spleen, ed è allo stesso tempo il paradigma dell’allegoria5 che è il massimo dispositivo di deauratizzazione dell’opera d’arte. 4. Il terzo «cantiere» aperto, come si è detto, è quello de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di cui abbiamo tra il 1936 e il 1939 ben quattro stesure. Il continuo aggirarsi intorno a questi testi indica che Benjamin lo considerava tutt’altro che chiuso. Che il saggio non fosse del tutto definito lo mostra il fatto che, come dice Cacciari ne Il produttore malinconico, per essere compreso esso deve essere necessariamente ricondotto a Parigi e a Baudelaire6. Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica non l’ha fatto. Il confronto affiora semmai proprio in Zentralpark là dove, nell’annotazione xxvii, si parla dell’emergenza «dell’allegoria a partire dalla situazione determinata dall’evoluzione tecnica» e della necessità «di rappresentare la disposizione malinconica di quest’opera poetica», vale a dire dell’opera di Baudelaire. È proprio in questo senso che, come dice ancora Cacciari, L’opera d’arte va ridiscussa, proprio per riscoprirne l’importanza decisiva che va al di là della debolezza di molte delle affermazioni che in essa sono contenute. Uno dei momenti critici del saggio sta nella curvatura immediatamente politica che esso propone. Adorno aveva avvertito Benjamin, in una lettera del 6 novembre 1934, parlando del progetto del Passagenwerk, che «l’estetica» incide «nella realtà in maniera rivoluzionaria incomparabilmente più profonda che non la teoria delle classi come deus ex machina». Adorno tornerà a ribadire questo avvertimento nella sua lettera del 10 novembre 1938, a proposito di La Parigi del secondo impero, là dove afferma che Benjamin si è fatto violenza per «pagare tributi al marxismo» che non giovavano né al marxismo né a Benjamin, sbarrando invece la strada ai «suoi pensieri più audaci e produttivi sottoposti a una censura preventiva». Sta di fatto che il greve apparato politico tiene discosto, in entrambi i testi, L’opera d’arte e La Parigi del secondo impero, sia il nano gobbo della teologia, sia la dimensione più autenticamente teorica e dunque rivoluzionaria del suo pensiero. In conclusione de L’opera d’arte Benjamin afferma che, all’«estetizzazione della politica che il fascismo persegue», il comunismo, «risponde con la politicizzazione dell’arte»7. Tale affermazione sembra rovesciare quanto Adorno aveva affermato quando scriveva a proposito della tensione rivoluzionaria dell’estetico. Sembra rovesciare quanto Benjamin stesso aveva affermato nel suo attraversamento di Baudelaire, il poeta dell’annientamento dell’aura nello spleen, in cui non solo si intravede la per68

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dita dell’aureola, ma anche il collasso del tempo lineare e progressivo nelle dinamiche metropolitane. Sembra rovesciare quanto di autenticamente rivoluzionario emerge dalla sua lettura di Kafka quale si esprime nella grande lettera a Scholem del 12 giugno 1938. Sembra rovesciare quanto emerge dalla sua lettura di Proust in cui egli individua la rivoluzione copernicana del risveglio, l’ora della conoscibilità e, addirittura, come abbiamo già ricordato, le revers moins du monde que de la vie (PW, S2, 3). Il desiderio di essere pubblicato in Russia sulla rivista diretta da Brecht, «Das Wort», il desiderio di essere pubblicato anche in russo, probabilmente giustifica questa problematica affermazione. Su di essa forse pesa anche il desiderio di un intellettuale chiuso nella tana della Bibliothèque Nationale di essere in qualche modo partecipe – senza mediazioni – dell’opposizione politica militante al fascismo. 5. Guardiamo ora più da vicino L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. La fotografia e il cinema sfuggono davvero «al regno della bella apparenza» in cui si nasconde la vocazione cultuale? Lo stesso Benjamin ha affermato, al contrario, ne L’autore come produttore8, che la fotografia – «sempre più moderna e tecnicamente capace» – mette nella condizione di fotografare «un mucchio di immondizia trasfigurandolo», anzi non potendo fare a meno di trasfigurarlo nella parvenza che il «mondo è bello»9. Per quanto riguarda il cinema, è vero che l’attore si trova a essere esecutore di parti anche distanti tra loro che vengono poi assemblate, ma questa pratica della composizione è così diversa dai dipinti delle botteghe rinascimentali in cui è già attiva la divisione del lavoro e il maestro affidava a un allievo il paesaggio e a un altro gli elementi decorativi? Il montaggio è sempre «de-auratizzante» oppure, come ha affermato lo stesso Benjamin, il montaggio surrealista ha «un carattere magico»? È vero che «l’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel xix secolo, è un sintomo precoce della crisi della pittura», oppure è il momento in cui si genera l’impressionismo che assume ben presto un carattere auratico? D’altronde, come scrive Benjamin, «un’effige medievale della Madonna al momento in cui veniva dipinta non era ancora autentica, lo diventa nei secoli seguenti». Nel prestissimo metropolitano l’impressionismo diventa «autentico» nel giro di alcuni decenni. È altresì vero che opere nate non solo nell’epoca della riproducibilità tecnica, ma avvalendosi anche degli strumenti e degli elementi messi a disposizione dalla tecnica sono diventate «autentiche» nel giro di pochi anni. Questo vale per esempio per il dadaismo, per cui contrapporre Hans Arp a Rilke, come ha fatto Benjamin ne L’opera d’arte, non appare affatto convincente. Piuttosto possiamo affermare che 69


L’arte e il tempo

la fotografia sembra impadronirsi interamente del territorio della mimesis, aprendo, come afferma lo stesso Benjamin, all’arte per l’arte da un lato e dall’altro alla denuncia del patto mimetico da parte di Mallarmé, che afferma che la parola fiore non è in nessun vaso di fiori, o in Monet quando Kandinskij, osservando il dipinto Il pagliaio, afferma che nel quadro non si vede alcun pagliaio10. Rimarrebbe da chiarire se la denuncia del patto mimetico porti a una rinuncia totale della mimesis e del racconto che è stato e che forse è ancora uno degli elementi decisivi della conoscenza. Ma questo è un altro discorso. Comunque, anche se molte delle affermazioni di Benjamin nel saggio L’opera d’arte possono essere contestate, o talvolta apparire poco convincenti – per esempio quando afferma che il sonoro è stato attuato per depotenziare la carica rivoluzionaria del cinema muto, o quando ipotizza che il cinema «sia la forma d’arte che corrisponde al pericolo sempre maggiore di perdere la vita» –, ciononostante questo saggio è fondamentale. Lo è perché di fatto l’arte contemporanea ha non solo rinunciato ma ha distrutto l’aura. Basti pensare alle «sfigurazioni» dell’arte del Novecento o alla violenza che è racchiusa nella scarnificazione della forma di Giacometti, nell’attacco al linguaggio di Artaud, nella carne ferita di Bacon, nel taglio di Fontana. È fondamentale anche, come vedremo, per altri motivi. 6. L’opera d’arte è un testo malinconico. Lo è per l’assenza del nano gobbo. Lo è per l’assenza di quel poeta che Benjamin avvertiva essere un suo «simile e fratello», Baudelaire. Che è però assente, ma solo fino a un certo punto. Questo saggio lo chiama, in qualche modo lo suscita. Ricordiamo che nell’Exposé del 1935, che è praticamente contemporaneo a L’opera d’arte, già si parla di Baudelaire come di «un genio allegorico». Benjamin sa che l’allegoria è il più potente dispositivo di distruzione dell’aura. Baudelaire non c’è ma comunque questo testo, come ho detto, lo chiama, lo attrae. Arrivo a dire che L’opera d’arte nell’epoca della sua riproduzione tecnica è alla base del lavoro su Baudelaire, forse in modo non del tutto evidente ne La Parigi del secondo impero, ancora sofferente per l’assenza del nano gobbo, e per il pesante tributo pagato a un’analisi immediatamente socio-politica. È evidente però in Zentralpark. Benjamin quando pensa ai temi de L’opera d’arte di fatto pensa anche a Baudelaire, pensa alla scoperta sconvolgente che la poesia di Baudelaire è «la rinuncia all’incanto della lontananza» (PW, J 56a, 12), all’aura che nella sua poesia si raggrinzisce, scolora e si rattrappisce. Baudelaire sa, e anche Benjamin sa, quanto afferma Judith Butler in un testo molto prossimo a Benjamin, che «ciò che è vivo nell’opera d’arte si muove contro la seduzione e la bellezza»11. 70

Di alcuni motivi in Walter Benjamin

Baudelaire ha trasformato, come afferma Patrick Labarthe in Baudelaire et la tradition de l’allégorie, Parigi stessa in un teatro allegorico, in cui allegoria rima con malinconia12. Parigi e il cuore umano, per esempio nella poesia Il cigno, gareggiano nella rapidità in cui, in una sorta di terribile fantasmagoria, le immagini si trasformano e tramontano, affondando in un irraggiungibile altrove. Gli «anni profondi» del cuore umano sono questo altrove. Tutta la città è sul bordo dell’altrove, lambisce le terre d’esilio in cui le immagini emergono e lampeggiano un istante per finire come, nella poesia A una passante, in un «forse mai più». Benjamin sa quanto Baudelaire abbia cercato l’arresto del tempo, o addirittura la sua scomparsa come ne «la camera doppia» dello Spleen di Parigi13. Se l’epoca della riproducibilità tecnica si è misurata su un tempo sbriciolato in attimi, Baudelaire aveva vissuto l’ansia dell’attimo come incrinatura possibile nella catastrofe di cui lo spleen è l’unica esperienza che di essa ci è concessa. È in questa catastrofe che è necessario trovare spazi, interstizi, crepe, incrinature, per poterla destrutturare, per sciogliere il grumo che essa rappresenta, o meglio per far esplodere quel «morto viluppo di memorie» di cui parla anche Montale In limine a Ossi di seppia su cui penso di ritornare tra poco14. 7. Ho detto che Das Kuntswerk in qualche modo genera quel progetto che potremmo appunto intitolare il Baudelairebuch. È quanto possiamo leggere in una straordinaria e intensa lettera a Gretel Karplus del 9 ottobre 1935. Benjamin afferma che potrebbe presentarle l’exposé, che lei già conosce, in una nuova luce. Quale possa essere la nuova prospettiva sull’exposé dei Passagen e del Baudelaire che allora ne era ancora parte cospicua viene detto quasi con esaltazione15: In sostanza non posso entrare nel dettaglio ma dirti soltanto a grandi linee che io – in

queste ultime settimane – ho potuto scoprire quel carattere strutturale segreto dell’arte attuale che permette, cosa che è per noi decisiva, di riconoscere ciò che oggi è determinante nel «destino» dell’arte del xix secolo. Ho con ciò realizzato in un esempio decisivo la mia teoria della conoscenza che è cristallizzata nell’«ora della conoscibilità», che forse non ti è familiare e che io ho trattato in modo molto esoterico. Ho trovato quell’aspetto dell’arte del xix secolo, che solo «ora» è conoscibile, che non lo è mai stato prima e che non lo sarebbe più avanti.

Questi temi tornano anche qualche giorno dopo in una lettera a Horkheimer del 16 ottobre 1935 e in una lettera del 14 ottobre a Gershom Scholem che pure vale la pena di citare: 71


L’arte e il tempo

[Il mio vero lavoro] negli ultimi tempi ha ricevuto un impulso decisivo da alcune conclusioni fondamentali a cui sono giunto nell’ambito della teoria dell’arte. Costituiscono una serie di linee fondamentali di ordine sistematico che, unite allo schema storico che ho disegnato circa quattro mesi fa, formeranno una sorta di reticolo dove si dovranno inserire tutti i particolari. Queste riflessioni legano la storia dell’arte nel secolo xix alla conoscenza della sua situazione che da noi è vissuta nel presente (…). La loro stesura provvisoria s’intitola L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

8. Quello che emerge da queste lettere, ma soprattutto da quella a Gretel, è che proprio Das Kunstwerk illumina tutto quanto era emerso nell’exposé su Parigi e i Passagen. In questa nuova luce emerge l’arte del xix secolo e soprattutto Baudelaire, che di quest’arte non è solo il più grande rappresentante, ma anche il più grande dei suoi interpreti e dei suoi teorici. Se dunque fotografia e cinema hanno ricondotto Benjamin a Baudelaire, e alla sua aureola caduta e abbandonata nel fango della strada, mentre il poeta, senza aureola, si dirige al bordello16, questo è stato possibile perché qui Benjamin ha attivato uno dei nodi fondamentali del suo pensiero teorico, veramente la prima philosophia, o meglio la grande filosofia del moderno. Ha attivato il dispositivo dell’ora della conoscibilità, che emerge nel cuore del Passagenwerk e che è il centro delle tesi Sul concetto di storia. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è l’esempio – anzi dalla lettera a Gretel pare addirittura il primo esempio – in cui questo dispositivo teorico trova la sua applicazione e diventa così, come scrive Benjamin, definitivamente «decisivo». Questa dimensione che è definita «determinante» e che viene presentata come una vera e propria scoperta, è assente dal saggio sull’opera d’arte, pur essendone alla base. Ed è un’assenza che pesa. 9. È in Zentralpark che l’allegoria unisce l’arte «determinata dall’evoluzione tecnica» (xxxvii) a un’altra dimensione ineliminabile. Nella poesia Il cigno Baudelaire fa rimare allegoria con malinconia. Malinconia e allegoria rimano costantemente nel testo benjaminiano a partire già da Della lingua in generale e della lingua dell’uomo per diventare il tema centrale ne Il dramma barocco tedesco. «La mancanza di apparenza e il decadimento dell’aura sono fenomeni identici. Baudelaire mette al loro servizio il mezzo artistico dell’allegoria» (Zentralpark, xix). L’allegoria agisce dunque in funzione della destrutturazione dell’aura e della parvenza. È questo lo sguardo che trasforma il ricordo in cadavere, l’esperienza vissuta in esperienza defunta, e che introduce la salvezza solo «nella piccola incrinatura nella 72

Di alcuni motivi in Walter Benjamin

catastrofe continua» (xxxv). Il ricordo, lo scrigno dell’aura, diventa così la figura chiave dell’allegoria (xliv), e ne rovescia il senso. È di qui che muovo verso la conclusione di queste mie osservazioni richiamando un poeta che non è dadaista e che pure ha a che fare in termini propriamente benjaminiani con il declino dell’aura. 10. Montale in Ossi di seppia vuole distinguersi dai «poeti laureati», dai poeti con la corona, con l’aureola, poeti caratterizzati «dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti». Io, per me, scrive Montale, «amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla». Il poeta ha ormai soltanto «parole» che sono «come donne pubblicate», non ha che «frasi stancate». Molti anni dopo, nelle poesie di Satura ii, scriverà: «La poesia e la fogna, due problemi / mai disgiunti (ma non te ne parlai)». A questo punto voglio richiamare un’altra poesia di Montale, il poeta senz’aura. Da Il dramma barocco tedesco a Parco centrale e alle tesi Sul concetto di storia, attraverso il Passagenwerk e la costellazione di testi che abbiamo richiamato all’inizio, è la memoria stessa, la memoria – che è alla base di ogni storia – che si fa reliquia. Ritroviamo qui la polemica di Nietzsche contro la storia e lo storicismo della ii Inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita17. Ritroviamo qui la straordinaria intuizione di Eugenio Montale posta In limine a Ossi di seppia. Godi se il vento ch’entra nel pomario vi rimena l’ondata della vita: qui dove affonda un morto viluppo di memorie, orto non era, ma reliquario. Il frullo che tu senti non è un volo, ma il commuoversi dell’eterno grembo; vedi che si trasforma questo lembo di terra solitario in un crogiuolo. Un rovello è di qua dall’erto muro. Se procedi t’imbatti tu forse nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti scancellati pel giuoco del futuro. 73


L’arte e il tempo

Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! Va, per te l’ho pregato, – ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine...

Gli Ossi di seppia sono pubblicati nel 1925, tre anni prima della pubblicazione de Il dramma barocco tedesco, undici anni prima de L’opera d’arte, quattordici anni prima delle notazioni benjaminiane di Parco centrale, eppure Montale era arrivato – in rapporto a questi temi – alle stesse conclusioni a cui giungerà Walter Benjamin. L’ondata della vita affonda in un «morto viluppo di memorie» là dove l’orto non è solo pomario, ma è anche origine, il participio passato di orior, sorgere, nascere. L’orto è ciò che è nato e poi scomparso, pietrificato in un gelido reliquiario. Qui, nel reliquiario appunto, «si compongono le storie, gli atti» che sono stati scancellati, e che rimangono appunto come macerie, ossa, res relictae. Di qui si può uscire solo con un balzo, attraverso la «maglia rotta nella rete». Benjamin aveva parlato di una rottura, in Parco centrale e poi nelle tesi Sul concetto di storia, da cui emerge, come in Montale, l’immagine che «guizza via». È il varco, il balzo rivoluzionario, forse la salvezza. Ugualmente Proust, questo autore intimamente benjaminiano, afferma che il grande libro della memoria, il libro che si è via via costruito, «è un grande cimitero in cui sulla maggior parte delle tombe non si possono più leggere i nomi scancellati»18. E anche in Proust la possibilità di sfuggire all’erosione del tempo si realizza, come abbiamo visto più sopra nel primo capitolo, nello squarcio che porta a un tempo extratemporale in cui il passato si salda al presente, diventa di fatto presente, è esperito come tale. Sono i temi che stanno alla base della genesi de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Sono questi che gli hanno permesso di far emergere la teoria dell’«ora della conoscibilità». Che gli hanno permesso di leggere Baudelaire come un contemporaneo, e di lì scoprire l’affinità con la desacralizzazione dell’arte che nella fotografia e nel cinema trova una delle sue espressioni. Non l’unica, come Benjamin ben sapeva. Per esempio, oltre a Proust, oltre al surrealismo, con il suo Kafka, con la sua affermazione di una aufbauende Zerstörung der Welt, di un mondo che si costruisce nell’opera attraverso la distruzione19. 11. Vorrei concludere con una sorta di «fuori testo», riaprendo e rilanciando un problema che ho sollevato più sopra, che ho lasciato aperto e che voglio lasciare aperto. Abbiamo la caduta dell’aura nel procedimento ipermimetico della fotografia e del ci74

Di alcuni motivi in Walter Benjamin

nema. E di converso abbiamo anche il dissolversi dell’aura nella grande arte del xx secolo, proprio quella che ha denunciato e poi rinunciato al patto mimetico. In un’arte dunque che ha rinunciato alla rappresentazione – alla riproduzione – dell’oggetto, ma che ha operato un suo squarciamento o, come abbiamo detto, una sua sfigurazione. Benjamin ha visto questo nell’arco teso che va da Il dramma barocco tedesco, all’esperienza surrealista. Dall’allegoria che dissolve l’aura nell’immagine degradata del teschio ne Il dramma barocco tedesco allo choc de Il paesano di Parigi che lo inquietava nel momento stesso in cui lo spingeva verso la Parigi dei Passaggi, verso la Parigi, come il «teatro allegorico» di Baudelaire. Anche per questo considero L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – con l’enfasi posta appunto sul tema dell’aura e della caduta dell’aura – un cantiere aperto, come il libro su Baudelaire e come il Passagenwerk. Forse il moderno, il tempo di Benjamin, è il tempo in cui paradossalmente la riproducibilità tecnica si muove fianco a fianco con ciò che è Ausdrucklose, con l’infigurabile che è al centro di opere come quella di Kafka o come quella di Schönberg, o di Franz Kline, come se il senso si ponesse sempre più, come ha scritto Paul Celan, nell’ombra: quel cuore di tenebre che anche l’apoteosi hollywoodiana in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola ha finito per scoprire come la cifra profonda della nostra epoca, dell’epoca della riproducibilità tecnica.

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Qui di seguito le opere di Benjamin a cui si fa riferimento nel testo. W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit. ed. it. Opere complete, cit.; L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Valagussa, Einaudi, Torino 2011; Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi e C.-C. Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012; Il dramma barocco tedesco, cit.; Gesammelte Briefe, Band v e Band vi, a cura di C. Gödde e H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999 e 2000; Th.W. Adorno – W. Benjamin, Briefwechsel 1928-1940, a cura di H. Lenitz, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1994; W. Benjamin – Gretel Adorno, Briefwechsel 1930-1940, a cura di C. Gödde e H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005; W. Benjamin – G. Scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, tr. it. di A.M. Marietti, Einaudi, Torino 1987. 2 W. Benjamin, I “Passages” di Parigi, in Opere complete, cit., vol ix. Qui come altrove viene data l’indicazione dei quaderni e non della pagina. Nel testo mi riferisco a questo testo come Passagenwerk – abbreviato nel testo come PW – così come è stato per molto tempo richiamato. 3 Sono i testi dell’ultimo periodo, in Opere complete, cit., vol. vii. 4 Queste affermazioni di Adorno sono riportate nell’apparato di W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit. vol. i, tomo 3, p. 1216. Anche i riferimenti alla polemica antiadorniana nelle righe successive sono nell’apparato del vol. i, 3, delle Gesammelte Schriften. 75


L’arte e il tempo 5

W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 207. M. Cacciari, Il produttore malinconico, Introduzione all’ed. it. di W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit. 7 Non do riferimento di pagina per L’opera d’arte come per Parco centrale (Zentralpark) o per le tesi Sul concetto di storia data la brevità dei testi. 8 W. Benjamin, Opere, cit., p. 51. 9 Il corsivo è mio. 10 V. Kandinskij, Sguardo al passato, in Tutti gli scritti, a cura di A.B. Nakov, vol. ii, Feltrinelli, Milano 1970. Ho discusso la crisi del modello mimetico in F. Rella, Miti e figure del moderno, cit. 11 J. Butler, Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, tr. it. di F. De Leonardis, Raf­ faello Cortina, Milano 2013, p. 118. 12 P. Labarthe, Baudelaire et la tradition de l’allégorie, Droz, Genève 1999, p. 448. 13 C. Baudelaire, Lo spleen di Parigi, a cura di F. Rella, Feltrinelli, Milano 1992. 14 E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984. 15 È questo uno degli snodi fondamentali del pensiero di Benjamin. Lo abbiamo già richiamato più sopra. 16 Riporto il testo di Baudelaire La perdita d’aureola dallo Spleen di Parigi: «Eh! che! voi qui, mio caro? Voi, in un bordello! voi, che sorseggiate la quintessenza! voi che mangiate l’ambrosia! In verità c’è da lasciarmi stupefatto». «Mio caro, voi conoscete il mio terrore dei cavalli e delle carrozze. Poco fa, mentre attraversavo la via in tutta fretta, mentre saltellavo nel fango, attraverso quel mobile caos in cui la morte giunge al galoppo da tutti i lati allo stesso istante, la mia aureola, per un brusco movimento, è scivolata dalla mia testa nella fanghiglia della strada. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Ho pensato che fosse meno sgradevole perdere le mie insegne che rompermi le ossa. E poi, mi sono detto, non tutto il male viene per nuocere. Posso ora passeggiare in incognito, fare delle basse azioni, darmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi qui, del tutto simile a voi, come vedete!». «Dovreste almeno mettere un annuncio per questa perdita d’aureola, o denunciarla al commissario». «Assolutamente no! Mi trovo bene qui. Voi solo mi avete riconosciuto. D’altronde la dignità mi annoia. E poi penso con gioia che qualche cattivo poeta la raccoglierà, e se ne incoronerà impudentemente. Rendere uno felice, quale gioia! E soprattutto far felice uno che mi farà ridere! Pensate a X, o a Z! Che buffonata, no?». 17 F. Nietzsche, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. iii, 1, Adelphi, Milano 1972. 18 M. Proust, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, tr. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1983-1993, p. 596. 19 F. Kafka, Nachgelassene Schriften und Fragmente ii, a cura di J. Schillemeit, Kritische Ausgabe, Fischer, Frankfurt am Main 2002, p. 105. 6

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V. L’enigma della bellezza

L’armonia del cosmo è effetto di tensioni contrastanti, come quella dell’arco e della lira. Eraclito Che cos’è bellezza? Non è luce e non è notte – crepuscolo; nascita di verità e di non-verità – una cosa di mezzo. Johann Wolfgang von Goethe L’essenza del bello è contraddizione, scandalo, e in nessun caso convenienza. Simone Weil

1. L’immagine prevalente che noi abbiamo della bellezza è legata all’idea dell’armonia, che a sua volta si rifà a una lunga tradizione che attraversa il Medioevo, soprattutto quello che presenta tratti neoplatonici, e arriva con il neoclassicismo fino alle soglie del moderno. È l’idea della bellezza come virtus unitiva. Vale a dire come ciò che tiene insieme – risolvendola – la pluralità del reale e che dunque trasforma il mondo in cosmos. Il neoclassico è forse l’estremo gesto che cerca di mantenere questa armonia, congelando in una forma l’esperienza della molteplicità del mondo, una strategia fondata e giustificata dal richiamo all’antico. Winckelmann è il teorico di questa operazione1. Per questo si è mosso contro il barocco e contro la sua «corruzione» dell’arte e ha introdotto, come osserva Hegel, «una nuova sensibilità» dischiudendo «allo spirito un nuovo organo e un modo di vedere interamente nuovo»2. Fuggendo «la molteplicità delle vie» che conducono al cattivo e al brutto e percorrendo «la sola via» che conduce al bello e al buono, Winckelmann giunge all’«idea di 77


L’arte e il tempo

bellezza» che «non presenta parti interrotte». Essa non è mai frammento, ma linea continua, e dolce, che eleva il corpo all’«idea» che non ha riscontro alcuno nella natura. Ma questo corpo, che si è spinto fino all’idea di bellezza, «non ha né vene né tendini» che «lo riscaldano e che lo muovono». È dunque diventato un corpo morto. Ma nemmeno la pietrificazione mortale può salvare questa bellezza – che si vuole «sublime e perfetta» – dall’inquietudine e dalla commistione, dalla pluralità: da uno sconfinamento che non è l’oltrepassamento del limite, ma la sua perversione. Infatti l’idea della bellezza sublime fu «appropriata alle figure di Bacco e di Apollo». Ma queste immagini ci mostrano «una natura mista ed equivoca accostantesi per le anche grandiose e per le membra tondeggianti e delicate a quella degli eunuchi e delle femmine». Perciò Bacco, nelle «figure panneggiate può rassomigliare a una vergine travestita». E anche il virile Ercole, prosegue Winckelmann, ha «fattezze che paiono equivoche fra l’uno e l’altro sesso». Strana idea della perfezione, della «salute greca», dell’armonia, questa, che si muove attraverso l’equivoco, il travestimento o la maschera mortuaria3. Baudelaire liquida definitivamente questa idea. Ne Il pittore della vita moderna egli parla di un carattere inesorabilmente duplice della bellezza, in cui un’oscura aspirazione all’eternità si unisce all’immediato, al contingente, a ciò che è destinato a perire. La bellezza aspira a un oltre ed è al contempo segnata dalla caducità e dalla morte4. 2. È stato Dostoevskij colui che ha messo più radicalmente in questione l’idea di bellezza come armonia. È diventato un luogo comune sostenere che il principe Myškin abbia affermato ne L’idiota che la bellezza salverà il mondo. Dostoevskij, attraverso il principe Myškin, avrebbe dunque affermato che la bellezza salverà il mondo. Di qui si è sviluppata in Russia nei primi decenni del Novecento una teologia della bellezza che si lega a Dostoevskij, e al suo travisamento. Il tema della salvezza attraverso la bellezza viene di fatto sollevato da uno dei personaggi del romanzo, da Ippolìt: «“È vero, principe, che lei ha detto che la ‘bellezza’ salverà il mondo? State a sentire, signori”, gridò a voce alta rivolgendosi a tutti, “il principe sostiene che la bellezza salverà il mondo” […]. Ma quale bellezza salverà il mondo?». E aggiunge: «Me l’ha riferita Kolja questa frase». Ciò che interessa Ippolìt, il giovane morente che si leva contro un mondo che egli vive come una mostruosità irredimibile, è quale «bellezza» – che egli pone tra virgolette – possa salvarlo. «Il principe lo scrutò attentamente ma non rispose». Myškin tace. Ha davvero affermato che la bellezza salverà il mondo? Probabilmente sì, se la sua fidanzata, Aglàja, in vista del ricevimento che avrebbe dovuto uf78

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ficializzare la loro unione, gli raccomanda di non parlare della pena di morte e della bellezza che salverà il mondo. È però difficile pensare che Aglàja, e soprattutto Dostoevskij, abbiano potuto dire quale bellezza salverà il mondo, se Myškin fin dall’inizio della vicenda ha affermato che «è difficile valutare la bellezza, e io non ci sono preparato. La bellezza è un enigma», e se – come abbiamo visto – alla domanda diretta di Ippolìt egli non risponde. Dostoevskij qui, ne L’idiota, sottolinea ed enfatizza piuttosto il carattere inquietante della bellezza. Infatti, di fronte alla «strana bellezza» di Nastàs’ja, la sorella di Aglàja, Adelaide, guardando una sua fotografia, afferma che «con una simile bellezza si può rovesciare il mondo». Si può distruggere il mondo, dunque, e non salvarlo. E proprio la bellezza di Nastàs’ja porterà la vicenda al tragico. Di fronte alla «strana» e inquietante bellezza di Nastàs’ja il principe lascia Aglàja, di cui è innamorato, e decide di sposare proprio lei, Nastàs’ja, che lo abbandonerà sulla soglia del matrimonio. Myškin la ritroverà cadavere accanto a Rogožin che di lei era follemente innamorato e che ha dovuto uccidere la sua ossessiva e ossessionante bellezza. Rogožin finirà ai lavori forzati. Myskin precipita nell’idiozia, nel balbettamento, nell’afasia5. Cosa resta dunque, si è chiesto Nietzsche ne La gaia scienza, della bellezza se le si tolgono i veli di dosso6? Nulla, oppure il tremendo, come afferma Platone nel Fedro (250d) quando scrive che la bellezza è la manifestazione della verità. Nel mondo ne abbiamo pallide tracce e indizi, ma la sua vista, la visione della sua nudità, «susciterebbe terribili amori». Un paradosso su cui torneremo. 3. L’idiota è del 1869. Dostoevskij riprenderà gli stessi interrogativi e la stessa impossibilità di dare una risposta alla questione della bellezza ne I fratelli Karamazov pubblicato nel 1880 a pochi mesi dalla sua morte. La questione è affidata a Dmitrij, che dei fratelli Karamazov è certamente, si potrebbe dire, quello più umano, anzi «umano e troppo umano», e che forse per questo è destinato a scontare la pena di una colpa non commessa. Dmitrij in alcune pagine molto tese si chiede dapprima se la salvezza può venire dalla poesia e dall’arte. «Quando mi capitava di affondare nella vergogna più buia e abbietta (…) allora leggevo sempre la poesia di Cerere e dell’uomo. Mi salvava forse? Mai!». La poesia, che Dostoevskij cita da Schiller, l’autore dell’Inno alla gioia, non dà salvezza. E come potrebbe darla se essa contiene e manifesta quella bellezza che è imperscrutabile e terribile? Semmai l’arte, appunto, dovrebbe coprire e nascondere la bellezza che, dice Dmitrij, «è una cosa terribile e paurosa. Paurosa, perché indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uni79


L’arte e il tempo

scono, qui tutte le contraddizioni coesistono. […] La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui il luogo in cui Satana lotta con Dio». Dunque Sodoma e la Madonna, male e bene sono insieme nella bellezza7. La bellezza è dunque terribile. La bellezza è dunque indefinibile. 4. Il Simposio8 di Platone è il racconto di un banchetto che ha avuto luogo nel 416 a.C. per festeggiare Agatone, lo scolaro di Euripide, che aveva vinto nell’agone tragico la gara in cui erano messe a confronto una serie di tragedie di vari autori. Nel banchetto tra i bevitori c’è anche un gruppo di intellettuali che decidono di passare il tempo non solo bevendo ma anche elogiando Amore. Tra loro è anche Socrate. Il testo è ricco, è complesso. È, a mio giudizio, uno dei libri più belli e profondi e intensi di tutta la filosofia e di tutta la letteratura occidentali. Io mi accontenterò di percorrerne solo un tratto, quello più propriamente platonico, lasciando da parte quell’aculeo antiplatonico che emerge dal discorso di Alcibiade, uno dei grandi protagonisti del dialogo. Socrate parla attraverso la sacerdotessa Diotima. O meglio Platone parla attraverso Diotima, che avvia Socrate lungo la scala amoris, la via che porta l’iniziato al fine di ogni amore, che è sempre la bellezza. L’allievo, o l’adepto, a un certo punto, lungo il suo percorso, scoprirà istantaneamente, quasi per rivelazione, una bellezza immutabile ed eterna, che è il fine stesso dell’amore (telos ton erotikon) e che supera la possibilità di essere colta attraverso il sapere, l’episteme, e attraverso il linguaggio, il logos. È «un bello in sé, puro, limpido, non mescolato e infetto da carni umane e da colori e molte altre vanità mortali». È il bello che ritroveremo anche nel Fedro. È l’idea. È appunto la nascita della metafisica. 5. Quello che ci interessa sottolineare è che per Platone, come per Dostoevskij, la bellezza è indefinibile, è letteralmente indicibile (è oltre logos ed episteme), e che può suscitare, come abbiamo già ricordato, terribili amori. Il tema della bellezza è problematico anche nel più grande dei neoplatonici, Plotino9. L’anima si spinge, nella sua ascesa oltre l’intelletto, fino alla bellezza che non si identifica con la simmetria, o con un ordine, ma solo con la luce, che nel suo splendore è il vero oggetto d’amore. Questa bellezza «non ha dunque più figura alcuna». Ciò che è desiderabile e «di cui non si può cogliere né figura né forma è ciò che è più desiderabile e amabile». L’amore è qui senza limiti, perché «l’amato è lui stesso senza limiti, e la sua bellezza è d’altra specie rispetto a ogni altra bellezza». È un kallos hyper kallos, è sovrabbondanza di bellezza. Essa «non consiste in una forma; è in se stessa senza forma (amorphon)» e dunque ciò che partecipa «non ha forma» (vi, vii, 32). Per questo Plotino ci aveva avvertito di 80

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non pensare a nessuna forma determinata quando si parla di bellezza. Ma egli aveva anche detto (i, vi, 1) che la mancanza di forma è l’assoluta bruttezza. È l’«indigesta materia» che all’inizio delle Enneadi viene proposta con lo stesso linguaggio con cui si parla della bellezza. Lo splendore della bellezza e l’opaco orrore della materia si dicono allo stesso modo, come se si specchiassero l’uno nell’altro. La bellezza è senza forma. È «essenza che è tanto più bella in quanto spogliata di ogni forma». La forma ha misura, e per questo non è la vera realtà, non è la verità, che è, e deve essere, illimitata, in quanto non c’è metro che la possa misurare. Sta in sé e per sé, quasi chiusa, protetta, ma anche nascosta e forse imprigionata nella sua assoluta autosufficienza, nello splendore della sua sovrabbondanza. L’unica cosa che possiamo fare di fronte a questa bellezza impenetrabile, priva di forma e di limite, è impegnarci a valutare indizi. La forma è infatti soltanto un indizio. Ma di cosa è indizio la forma della bellezza? La forma è traccia, indizio dell’informe: della forma che non ha forma (to gar ichnos tou amorphou morphe) (vi, vii, 33). Ritroviamo qui Platone che nel Fedro, come abbiamo visto, aveva affermato che la bellezza si dà nel mondo per tracce, in quanto essa, nella sua nudità susciterebbe terribili amori. Siamo, lo ripetiamo, in un terribile paradosso. La materia (hyle) «essa stessa non ha forma alcuna, nemmeno le forme inferiori». Dunque la materia è senza forma, non è idea, ma anche «la natura del primo bello è aneidos», anch’essa non è idea, non è una forma. È anzi il paradosso impensabile di un’idea che non è un’idea. Qui si apre una crepa metafisica incolmabile. La più grande teoria della bellezza spirituale che sia mai stata tentata, come superamento del corpo e come prossimità al bene, viene alla fine a confondersi con la materia oscura, cieca, senza volto, innominabile. 6. Una grande filosofa, una grande neoplatonica contemporanea, Simone Weil, vede dostoevskianamente la bellezza come un intrico di contraddittori10. La bellezza è, per lei, il luogo in cui i contraddittori si oppongono senza mai potersi né risolvere né pacificare. Salvare il mondo significa salvare la sua immane complessità, in quanto «ogni valore che appare nel mondo sensibile è bellezza». Ma se «il bello è l’apparenza manifesta del reale» dobbiamo tener presente che «il reale è essenzialmente la contraddizione». La bellezza rende visibile e conoscibile la contraddizione, per questo è «scandalo», è «smembramento», rottura degli assetti ricevuti, pensiero che pensa insieme il suo contrario, per cui «in ogni bellezza c’è contraddizione irriducibile». 7. Più volte mi è capitato di accostare il nome di Simone Weil a quello di Georges Bataille. Che rapporto può esserci tra una filosofa tesa a una spiritualità addirittura fe81


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roce, e il filosofo e scrittore che attraversa i territori impervi dell’erotismo più estremo? Entrambi, come li ha definiti Alexander Irwin, «santi dell’impossibile»?11 Ora, se proprio l’idea della bellezza come immagine della realtà e della verità, è per Simone Weil la manifestazione di contraddittori che non possono essere mediati, è anch’essa nel suo smembramento paradossalmente una forma priva di forma. Qualcosa di analogo troviamo anche in Bataille, su cui tornerò tra poco. 8. Franz Kafka verso la fine della vita scrive un mirabile racconto, Josefine la cantante ovvero il popolo dei topi. Dunque Josefine, il femminile di Josef K., il protagonista del Processo, è un’artista. Cosa canta Josefine? Cosa dice la sua arte? Il popolo dei topi si interroga. «È il suo canto che ci rapisce, o non è piuttosto il solenne silenzio che circonda la sua debole vocetta?». La sua arte, l’arte di Josefine, l’arte di Franz Kafka, non è che un punto che serve a rendere visibile «il solenne silenzio», l’immane non detto in cui forse si nasconde la verità: in cui forse si nasconde la bellezza12. Georges Bataille in un testo del 1951, che abbiamo già richiamato più sopra, afferma: «Può darsi che la letteratura abbia in profondità lo stesso senso del silenzio». La letteratura dunque e l’arte come esercizio del silenzio13. 9. Bataille, attraverso un percorso tormentato, arriva al convincimento che non c’è sapere che possa cogliere la nostra esperienza del mondo. È dunque necessario andare oltre il sapere. È necessario affidarsi a un’esperienza interiore in cui anche ciò che non ha concetto possa trovare modo di esprimersi e di comunicarsi. La verità è di per sé indicibile, come è indicibile la bellezza in cui la verità si manifesta o dovrebbe manifestarsi, secondo Platone e secondo Plotino e infine anche per Dostoevskij e Kafka. Per Bataille la verità si manifesta nella nudità. E questo non dovrebbe più stupirci, perché abbiamo già visto emergere l’idea della nudità della verità in Platone e poi in Nietzsche. Per Bataille dunque la verità si mostra nella nudità estrema, anche nel sesso denudato di Madame Edwarda, che si presenta come una ferita metafisica, una breccia, l’accesso drammatico a quell’inattingibile che nel racconto Madame Edwarda Bataille nomina con la parola dell’assoluto indefinibile, con la parola Dio. Bataille scrive nel decennio più intenso del suo pensiero anche L’impossibile, intitolato in un primo tempo L’odio della poesia. Abbiamo ricordato più sopra l’affermazione di Bataille che la letteratura potrebbe avere lo stesso senso del silenzio. Ma subito dopo egli aggiunge: «Ma essa arretra di fronte all’ultimo passo che è costituito dal silenzio». Quindi si deve «odiare» la poesia perché essa non può fare l’ultimo passo, non può dire la verità che si nasconde in quel silenzio, nella nudità e nella morte. 82

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La poesia non può dire nemmeno la bellezza. Ci siamo illusi, in quanto la poesia ha rotto il legame con il linguaggio dell’utile, ma ciononostante essa non può dire la nudità assoluta, quella nudità che è al contempo mistero e orrore. Ecco, Bataille cerca di accostarsi a questo mistero e a questo orrore presentandoci un’immagine enigmatica e terribile: «Bello come la coda di un topo nella neve»14. 10. In un’immagine di topi anche Hoffmansthal nella lettera di Lord Chandos declina la sua decisione di non scrivere più. «Sentivo, scrive Chandos, un oscuro disagio soltanto a esprimere le parole «spirito», «anima», «corpo»! Trovavo impossibile, nel mio intimo, esprimere un giudizio». Le parole ormai si intrecciano e si accavallano convulse, come i topi contro i muri ammuffiti della cantina, in un freddo furore impotente, nella folle ricerca di una via d’uscita. La figura dei topi impazziti è la descrizione che Chandos fa della sua impotenza a giudicare, a «usare» quelle parole, a dire, attraverso di esse, una realtà che sfugge ormai inesorabilmente al loro potere15. Nell’orrore dei topi, che ritroviamo anche in Watt di Samuel Beckett – immagine anche questa forse ripresa da Proust – è individuabile un paradigma che ci permette di vedere nelle grandi sfigurazioni dell’arte e della letteratura del Novecento – da Kafka a Beckett e Artaud e Pasolini di Petrolio, insieme ad Alberto Giacometti e Francis Bacon e Lucian Freud – il tentativo di andare oltre il limite, di raggiungere la bellezza oltre l’orrore o addirittura nell’orrore. È forse questo che ha legittimato la parola poetica e le forme dell’arte nel secolo che ha conosciuto l’orrore estremo, l’orrore dell’Olocausto. 11. Adorno ha affermato in Teoria estetica che l’arte esprime l’inesprimibile in quanto inesprimibile e proprio nell’immagine di questa inesprimibilità si raccolgono, scrive, «le stimmate del repellente e dell’orrido» che caratterizzano l’arte nuova nei suoi aspetti più inquietanti ma anche più significativi16. Come egli afferma ne La dialettica negativa, l’orrore di Auschwitz ha infranto la compatibilità del pensiero filosofico con l’esistenza e la filosofia sembra così non avere più rapporto con l’esperienza che è divenuta non solo indicibile, ma anche impensabile. Dunque impensabile diventa il senso di ciò che c’è e che attraversa le nostre esistenze. L’arte, esprimendo questo inesprimibile, dando forma all’indicibile, in qualche modo fa intravedere una via possibile per riconquistare un rapporto significativo con noi stessi e con il mondo, andando oltre dunque il nichilismo che abbiamo intravisto in Kafka e in Bataille. Ma dobbiamo renderci conto che l’arte e la poesia questo possono perché attraversano zone impervie: proprio quelle zone che sembra83


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no vietate alla poesia e comunque al discorso della bellezza. Montale, come abbiamo già ricordato, scrive: «La poesia e la fogna, due problemi / mai disgiunti (ma non te ne parlai)». Il rischio che l’arte è costretta a correre è quello di perdersi in queste zone che essa è comunque costretta ad attraversare17. 12. La poesia e l’arte chiamano alla verità magmatica che sta sotto le parole, e che le parole nascondono. Orrore, fogna, lordura, istinto, sfrenatezza. Forse potremmo fissare questa tappa della nostra riflessione ancora con le parole di Adorno ne La dialettica negativa, quando afferma che l’attrazione infantile – poi rimossa – per la putrefazione, per lo sporco, per l’osceno è più vicina «al sapere assoluto del capitolo hegeliano che lo promette al lettore per poi negarglielo con superiorità» (pp. 329 e 362). È questo l’inapparente che, sempre secondo Adorno, affiora nell’opera di poesia che è sempre apparenza, ma che riceve la sua forza proprio da ciò che non ha apparenza. È proprio l’apparenza dell’inapparente che legittima la forma artistica, «li belli versi» di cui parla Dante, conferendo ad essi la pregnanza e la necessità etica senza le quali l’arte è solo bella. L’arte che è solo bella, ha detto Hermann Broch, è Kitsch, ottunde il senso, ed è dunque il male, è il male assoluto che nell’arte si manifesta18. L’arte solo bella è dunque l’assenza della vera bellezza, di quella verità che in qualche modo la deve attraversare.

1 Ho discusso queste posizioni nel cap. vii di L’enigma della bellezza, Feltrinelli, Milano 2006, da cui riprendo alcuni motivi. 2 G.F. Hegel, Estetica, ed. it. a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1967, p. 75. 3 J.J. Winckelmann, Il bello nell’arte, a cura di F. Pfister, Einaudi, Torino 1980, pp. 31, 59-60, 110, 133, 146, 150-151. 4 C. Baudelaire, Scritti sull’arte, tr. it. di G. Guglielmi e E. Raimondi, Einaudi, Torino 1981 paragrafo i, ma si veda anche il paragrafo xi, «Elogio del trucco», in cui Baudelaire avanza l’idea di un rapporto tra bellezza e artificio: «E quanto al nero artificiale che cerchia l’occhio e al rosso che segna la parte superiore della guancia, benché l’uso derivi dallo stesso principio, che è il bisogno di superare la natura, il risultato vale per soddisfare un bisogno del tutto opposto. Il rosso e il nero rappresentano la vita, vita soprannaturale e smisurata; il bordo nero fa lo sguardo più profondo e singolare, dona all’occhio un’apparenza più risoluta di finestra aperta sull’infinito; il rosso che infiamma i pomelli accresce vieppiù la luminosità della pupilla e insinua in un bel volto femminile la misteriosa passione della sacerdotessa». 5 F. Dostoevskij, L’idiota, a cura di L. Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 478-479, 645, 115, 118-119.

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F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, in Opere, cit. Prefazione, paragrafo v. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, in Romanzi e taccuini, a cura di E. Lo Gatto, vol. v, Sansoni, Firenze 1961, pp. 173-175. 8 Platone, Simposio, a cura di M. Nucci, Introduzione di B. Centrone, Einaudi, Torino 2009. Sul Simposio e su questi temi cfr. F. Rella, Pathos. Itinerari del pensiero, Mimesis, Udine-Milano 2016, cap. i. I passi citati sono il 211, e in particolare 211a e 211e. 9 Plotin, Ennéades, a cura di E. Bréhier, Belles Lettres, Paris 1954-1963. I riferimenti sono direttamente nel testo. 10 «La bellezza è il mistero più grande del mondo», scrive Simone Weil negli Écrits de Londres (Gallimard, Paris 1957). «Tanto la sventura è brutta, tanto l’espressione della sventura è sovranamente bella» (p. 37). Il suo «splendore è diffuso sulla sventura dalla luce dello spirito di giustizia e di amore», perché qui, a questo livello, «un frammento di verità inesprimibile passa attraverso le parole». La riflessione sulla bellezza è la parola estrema di Simone Weil, ed è una delle grandi parole che il secolo xx ha udito. È la parola dell’essere che si è «radicato nell’assenza di luogo», dell’essere che vive l’atopia estrema e assoluta, ma che attraverso questa può trovare una diversa misura del mondo (Œuvres complètes, tomo vi, vol. ii, Gallimard, Paris 1997, Cahiers ii). È una parola metafisica che va però al di là di ogni metafisica conosciuta, oltre l’implicita volontà di potenza che da Platone a Heidegger – che solo in apparenza la nega – l’ha da sempre sorretta. Simone Weil traccia una possibile identità tra Eros e Logos per poter far emergere un pensiero che vive tutti i conflitti e le contraddizioni e le antinomie del mondo ma al di fuori della violenza, non perché esso sia stato pacificato nel sogno dell’apatheia stoica e filosofica, ma perché esso si è fatto carico della sapienza tragica. È «il sapere attraverso il patire» dell’Agamennone di Eschilo che diventa la parola che ricongiunge Simone Weil alla «grazia» e al kairós della tragedia. Le parole citate nel testo sono tratte da Cahiers iii, Œuvres complètes, cit., vi, iii, Paris 2002. 11 A. Irwin, The Saints of the Impossible. Bataille, Weil and the Politics of the Sacred, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 2002. 12 F. Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, a cura di A. Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1991, p. 211. Abbiamo già richiamato questo racconto nel primo capitolo confrontando il silenzio che circonda Josefine e il misterioso silenzio delle piazze di de Chirico. 13 G. Bataille, Œuvres complètes, cit., vol. xii, 1988. 14 G. Bataille, Madame Edwarda; L’impossible, in Œuvres complètes, cit., vol. iii, 1971; G. Bataille, L’Expérience intérieure, in Œuvres complètes, cit., vol. v, 1973. 15 H. von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos (1902), introduzione di C. Magris, tr. it. di M. Vidusso Feriani, Rizzoli, Milano 1974. 16 T.W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 45. 17 T.W. Adorno, La dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004. E. Montale, Satura, in Tutte le poesie, cit. 18 H. Broch, Il Kitsch, tr. it. di R. Malagoli e S. Vertone, Einaudi, Torino 1990; La morte di Virgilio, tr. it. di A. Ciacchi, Feltrinelli, Milano 2003. 7

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VI. La forma del vuoto

Per la filosofia dell’arte sono gli estremi ad apparire necessari. Walter Benjamin Avvicinarsi a quel punto estremo a cui l’opera tende come alla propria origine, ma che colui che l’intuisce può guardare soltanto come la profondità vuota dell’indefinito. Maurice Blanchot

1. Prima di iniziare il percorso che mi sono proposto farò una deviazione parlando di quanto mi ha occupato negli ultimi mesi disegnandosi come una sorta di orizzonte teorico in cui si sono situati temi e problemi che hanno intersecato o forse delineato l’insieme dei problemi che ho deciso di affrontare in questo testo. Da tempo mi sto occupando delle fratture che la scrittura poetica e l’arte incorporano in sé, e che si rendono evidenti in quella che vorrei definire la linea della sfigurazione che attraversa il Novecento, muovendosi a fianco della storia della letteratura e dell’arte così come si sono codificate. Per esemplificare potrei ricordare Giacometti, Bacon, Fontana, Kafka, Artaud, Beckett e il Pasolini di Petrolio. C’è un’immagine che ho più volte usato e che riassume ed evidenzia questo percorso. È l’immagine del Violino di Picasso nella lettura che ne dà Gottfried Benn. Benn parla di «cosmi esplosi». Picasso vibra come un’ascia il suo violino sul mondo, lo manda in pezzi e poi ne ricompone le schegge, creando così il suo violino di sangue, che è di fatto una nuova immagine del mondo1. Un’immagine del mondo che dunque incorpora il gesto violento, che ne ha fatto emergere la verità. Il gesto dell’artista è un gesto cosmogonico. Crea un mondo ma questa 87


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creazione muove da una violenza implicita al suo gesto. L’artista lo sa. È il rischio che egli sa di dover ogni volta affrontare: decostruire per costruire. O, per usare una straordinaria espressione di Kafka che ho già richiamato, l’artista è impegnato in una zerstörende Aufbau der Welt2: una distruttiva costruzione del mondo. Queste fratture attraversano anche la scrittura saggistica. Benjamin di questo è sempre stato cosciente, fin dal suo saggio Le “Affinità elettive” di Goethe del 1922, fin dalla Premessa gnoseologica a Il dramma barocco tedesco3 del 1926. Il saggio è, secondo Benjamin, una filosofia che ha fatto agire la violenza della forma contro l’imperialismo del concetto. Come si muove questa strana filosofia? Il saggio è arte: «Arte di interrompersi contro il fluire della catena deduttiva» (p. 8). Il saggio non porta «a coincidenza l’omogeneo ma gli estremi pervengono alla sintesi» (p. 14). Questa filosofia è infatti «la forma che, dagli estremi più remoti (…), fa emergere la configurazione dell’idea in quanto totalità contrassegnata dalla coesistenza degli opposti. La rappresentazione di un’idea non può in nessun caso considerarsi riuscita finché non si è passato virtualmente in rassegna il cerchio degli estremi in essa possibili» (p. 21). E dunque, «per la filosofia dell’arte sono gli estremi ad apparire necessari» (p. 13). Il saggista si muove dunque nelle fratture che l’opera nasconde in sé. Si muove nelle fratture che egli stesso apre nell’opera. Svela le cesure, il vuoto, in cui, come egli ha affermato nel saggio su Goethe, anche ciò che è privo di espressione, anche das Ausdrucklose, si manifesta. Per questo il saggista apre il testo a tensioni e a dissonanze inconciliabili e inconciliate: nel testo che attraversa, ma anche nel testo che lui stesso scrive, nato forse come commento e che diventa un’approssimazione al contenuto di verità dell’opera, e alla sua propria verità. Questo fino ad arrivare al concetto di dialettica im Stillstand, dialettica sospesa, arrestata, che si ripete continuamente in appunti successivi nel Passagenwerk più volte ricordato. 2. Dunque eine zerstörende Aufbau. Una costruzione distruttiva. Un ossimoro: una costruzione che distrugge e che incorpora in sé, nel suo atto costruttivo, la distruzione. Una costruzione o un costruttore che manda in rovina, che produce macerie, che ama le macerie, ma le ama, come ha scritto Benjamin in un saggio del 1931, Il carattere distruttivo, per la via che vi passa attraverso4. È percorrendo questa strada che mi sono imbattuto in alcuni problemi, problemi per me abbastanza inconsueti: problemi di architettura, anche se non sono nemmeno in grado di leggere una pianta. È vero che mi sono via via occupato del concetto di progetto e di costruzione storica, ed è vero che il mio interesse per la struttura e la cultura metropolitana ha interagito con 88

La forma del vuoto

le riflessioni relative all’architettura che si muovevano nei miei paraggi, così che, oltre ad aver insegnato per una vita in una Facoltà di Architettura, mi sono trovato a scrivere su varie riviste di architettura come «Domus», «Lotus international», «Casabella», «Assemblage», «Shadow» e «Topos» e a partecipare anche ad alcune lezioni del Master «Architettura. Storia e progetto» di Roma 3. Per me l’architettura è la vibrazione di una città o l’esperienza di uno spazio. È, per esempio, l’esperienza della vertigine all’interno di una cattedrale gotica. La proiezione verso l’alto non è per me una elevazione, ma sprofondamento nel buio, in quel buio a cui hanno accennato i mistici da Angela da Foligno a Meister Eckart. Pensiamo a quello spazio buio sopra le nostre teste. Pensiamo a quando questo spazio era appena lambito dalla fiamma delle candele, dalla fiamma delle torce, quando i monaci andavano in chiesa a pregare, anche prima dell’alba, di notte. Vertigine. Ho provato l’esperienza delle vertigini anche visitando per la prima volta il Muso dell’Ebraismo di Berlino, il Museo di Libeskind. Una vertigine. Un altro tipo di vertigine. 3. Berlino. L’esposizione universale dell’architettura, quasi a fare sospettare una sorta di feticismo come nelle esposizioni universali del xix secolo: Renzo Piano, Aldo Rossi, Frank Gehry, Richard Rogers, Rafael Moneo, Hans Scharoun, Oswald Mathias Ungers, Rem Koolhaas. Poi l’allegoria del cimitero ebraico di Peter Eisenman, e, completamente altra rispetto a tutto questo, l’opera di Daniel Libeskind5. Vertigine, inciampo. Il vuoto. Proprio per la mia formazione ho bisogno di muovermi usando parole e riferimenti extra-architettonici, per esempio le parole di Kafka, e scopriremo così anche quanto Kafka fosse presente a Libeskind. Kafka già in un racconto giovanile, Dialogo con l’orante (tra il 1904 e il 1909), ha scritto: «Ho un’esperienza e non scherzo se dico che è un mal di mare in terra ferma». E più avanti nel 1917 negli Aforismi di Zürau: «La vera via passa per una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra del suolo. Sembra destinata a far inciampare più che ad essere percorsa», e ancora, sempre negli Aforismi di Zürau, Kafka parla del terreno su cui poggiamo i piedi che non è più grande dei due piedi che lo coprono6. 4. L’Olocausto è una cesura, una lacerazione e una fine nella storia. Credo che qui Libeskind abbia tentato quella che potremmo definire un’architettura della fine, provocando incertezza, spaesamento. Spaesamento è ciò che Freud ha definito das Unheimliche7. La parola Unheimliche contiene in termine heim, che significa ciò che è relativo alla «casa», alludendo dunque a ciò che è familiare, e un, che ne è la negazione. Ma 89


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paradossalmente la negazione di ciò che è familiare lo conserva, lo custodisce nella parola stessa che lo nega, nell’ambiguità di un’esperienza sconcertante. Come dicevo l’esperienza del museo è stata per me strana e al contempo familiare. Ma in che senso familiare? Anthony Vidler ha scritto che «il museo ebraico è una lettura architettonica di Benjamin»8. Lo stesso Libeskind ha parlato della sua opera come di una sorta di guida architettonica benjaminiana. E in effetti il progetto, egli ha detto, è ispirato alla scansione dei capitoli di Strada a senso unico di Benjamin, che costituiscono uno straordinario montaggio che porta all’esplorazione sempre interrotta e sempre ripresa della metropoli, così che Strada a senso unico di Benjamin è di fatto una parte costitutiva del progetto architettonico. Ne è «un aspetto incorporato all’interno della sequenza continua delle sue sei sezioni lungo uno zigzag, ognuna di queste sezioni rappresenta una stazione della stella descritta nel testo dell’apocalisse berlinese di Benjamin»9. Si tratta, come appunto ha fatto Benjamin in Strada a senso unico, di intraprendere «un viaggio nella sostanza di una città e della sua architettura [che] comporta un riallineamento di punti arbitrari, linee sconnesse e nomi fuori luogo» (R-M, p. 18). Solo così si reagisce all’«abrasione della storia», solo così si apre al futuro «delineando l’invisibile in base del visibile» (R-M, p. 10). Come si vede c’è una continuità di ispirazione con Benjamin, sia nella valorizzazione che Benjamin aveva fatto del montaggio in Strada a senso unico, sia anche là dove abbiamo incontrato in Benjamin das Ausdrucklose, l’inespresso che si manifesta nelle cesure del visibile. C’è continuità anche con le fratture che Benjamin ha individuato nella struttura del saggio. Ma la continuità è ancora più forte là dove Libeskind scrive che Berlino può essere considerata come una capitale spirituale del xxi secolo ma che al contempo è stata il simbolo apocalittico della caduta del xx secolo. L’identità di Berlino non può essere rifondata sulle rovine della storia o sulla illusoria «ricostruzione» di un passato arbitrariamente selezionato.

Siamo qui, è evidente, in prossimità delle tesi Sul concetto di storia. Non può esservi ricostruzione, non è possibile «ricomporre l’infranto». I conflitti «non possono essere risolti ricostruendo un passato vuoto, ma posando nuove fondazioni e nuove immagini che siano aperte a concrete dinamiche» (R-M, p. 20). Siamo, come si è detto, già dentro i temi e il linguaggio delle tesi Sul concetto di storia10 di Benjamin, faccia a faccia con la ix tesi, con l’angelo che vi compare, che vorrebbe ricomporre l’infranto ma che è strappato via da esso. Non si può ricomporre, non si può ricostruire, ma, se90

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condo Benjamin, è necessario distruggere per aprire strade, per aprire una breccia al Messia, al futuro a cui tende un passato che in esso deve essere riscattato. Fare storia, per Benjamin, è parlare di redenzione. A questo forse aspira ogni grande opera d’arte. 5. Ma l’esperienza per me decisiva è stata l’esperienza del vuoto. Le fratture, i «frammenti rotti», gli strappi, aprono al vuoto in cui l’invisibile si rende apparente in quanto invisibile, come scrive in più luoghi Libeskind. Viene in mente Georges Bataille quando afferma che la fine del fondamento su cui si basavano la filosofia e il suo linguaggio ci mette di fronte a qualcosa di impensabile, di irrappresentabile, ma aggiungeva anche: «Cosa significa la verità […] se non vediamo ciò che eccede la possibilità di vedere? […] se non pensiamo ciò che eccede la possibilità di pensare?»11. Il vuoto nel Museo è concreto. È architettato, sia quello che è chiuso e irraggiungibile, sia quello che è interstiziale tra gli spigoli, e tra le linee, between the lines – il titolo con cui Libeskind ha pensato il suo progetto – che continuamente ci vengono incontro e che ci interrogano. Il vuoto, dunque. Confesso che ho pensato, che penso ancora, che il Museo sarebbe perfetto appunto se fosse completamente vuoto. Se questo vuoto non fosse in qualche modo mitigato dalle cose e dalle testimonianze che in esso sono depositate. Sono cose e testimonianze strazianti, ma non possono esserlo quanto l’invisibile e l’indicibile che respirano, alitano nel vuoto. Uno degli aspetti costitutivi del progetto, ha scritto Libeskind, è l’opera incompiuta di Arnold Schönberg, Mosè e Aronne. Alla fine Mosè non canta più, non può cantare. Parla, ma parla soltanto per invocare la parola assente. «Oh parola, tu parola». «Quando si canta» scrive Libeskind (RM, p. 34) «non si possono capire le parole, ma quando non c‘è più canto, si può capire la parola perduta di Mosè: l’appello alla parola». Questo, conclude Libeskind, è un aspetto del progetto. Il vuoto che si apre nella parola che finisce, che diventa impronunciabile. È anche la parola impronunciabile che conclude Il castello di Kafka: La stanza della casupola di Gestäcker era debolmente rischiarata dalla fiamma del focolare e da un moccolo di candela alla cui luce qualcuno, chino in una nicchia sotto le travi che sporgevano dal tetto, stava leggendo un libro. Era la madre di Gestäcker. Porse a K. la mano tremante e lo fece accomodare accanto a lei, parlava a fatica, si faticava a capirla, ma ciò che disse12

Ciò che disse non lo sapremo mai. Ciò che è scritto nel libro che la donna sta leggendo non lo sapremo mai. Ma il romanzo di Kafka non è incompiuto, come si è 91


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troppo spesso affermato. Il romanzo si compie nell’assenza della parola, nel suo spegnersi, nel suo vuoto. 6. Il vuoto nella trama della scrittura, nella trama dell’architettura. È il tema di un dibattito che a un certo punto ha animato la scena teorica mondiale, impegnando dipartimenti di filosofia e di architettura in Europa e soprattutto in America. La questione della decostruzione. La questione di Derrida, Eisenman, Libeskind13. Derrida pensava di aver trovato il linguaggio e la teoria della nuova architettura. Come vedremo la pietra d’inciampo, che lo allontanerà dal vivo della discussione sull’architettura, è proprio la questione del vuoto. Il vuoto non è veramente vuoto, dice Derrida nella Replica a Daniel Libeskind (AA, p. 281). È piuttosto il tentativo di sottrarsi alla «disseminazione politica». La replica di Libeskind è perentoria (AA, p. 284): «Quello che un architetto deve fare in questo caso è impedire che il vuoto venga riempito. Una delle caratteristiche di questo particolare vuoto è che è molto facile da colmare allo scopo di concludere l’edificio». Su questo c’è una pressione politica e sociale. Si sta costruendo uno spazio, e dunque, si dice, «perché non riempirlo? Perché non utilizzarlo? Il progetto è [pensato] invece per renderlo inaccessibile». Libeskind ha tentato dunque di progettare il vuoto, il vuoto interstiziale, ancora between the lines, attraverso le fratture, e di proporre paradossalmente il vuoto come spazio, il vuoto addirittura come cosa, infatti «il museo è una sequenza di vuoti concreti, due dei quali esprimono la loro concretezza con la loro completa impenetrabilità. Nessun può entrare in essi» (Trauma, p. 57). Cosa c’entra Derrida in tutto questo? Come c’è entrato? 7. Nel 1982 Bernard Tschumi ottiene l’incarico per progettare il Parco de la Villette a Parigi. Propone un progetto a griglie e punti di intersezione che egli chiama «folies». Nel 1985 invita Derrida a occuparsi insieme a Peter Eisenman di un progetto per un piccolo appezzamento, un fazzoletto del giardino. Si trattava di mettere insieme la scrittura filosofica e la scrittura architettonica, perché per Eisenman, e soprattutto per Derrida, anche l’architettura è un testo. Prima di procedere è necessario fare alcune osservazioni preliminari. L’architettura fatta di spigoli, infrazioni, griglie, punti di intersezione, come quella di Tschumi e di Eisenman, pareva potersi riconoscere o addirittura specchiarsi nel pensiero della decostruzione di Derrida che stava diventando centrale nel dibattito europeo e americano. Derrida ha pubblicato negli anni Sessanta un libro fondamentale, La scrittura e la differenza, in cui traduce l’attacco alla metafisica condotto da Heidegger in un at92

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tacco al logocentrismo che è al cuore della civiltà occidentale. È un attacco al logos, come parola e come pensiero, che si muove insinuando in esso una differenza che Derrida propone in una doppia articolazione: différence/différance, e che va oltre – differendosi continuamente – non solo rispetto alla centralità del logos, ma anche della tensione conflittuale del pensiero della contraddizione. Questo differimento diventa via via disseminazione, che è il titolo di un libro di Derrida del 197214. Il logos è alla fin fine un testo, e il testo viene destrutturato all’infinito, trasformandosi in pre-testo su cui si costruisce un altro testo, che a sua volta diventa pre-testo. All’infinito e mai si giunge alla rugosa densità del senso. D’altronde erano gli anni in cui il lacanismo spingeva al privilegio del significante sul significato. Persino i movimenti della contestazione e del postcolonialismo di quegli anni si sono basati anche su Derrida, leggendo l’attacco al logocentrismo come attacco al potere. I movimenti femministi vi hanno letto l’attacco al fallogocentrismo: il dominio del logos identificato con il fallo, con la legge del padre, dunque con il dominio del maschile. Ma torniamo all’architettura. Derrida celebra questo suo incontro con una serie di testi, Point de folie – maintenant l’architecture, dedicato al progetto di Tschumi, poi Pourquoi Peter Eisenman écrit de si bons livres, e Cinquante-deux aphorismes pour un avant-propos (avant-propos perché è l’introduzione a un volume collettivo su filosofia e architettura), tutti del 1986. Inoltre c’è il testo di Chora che Derrida porta in dote al progetto con Eisenman, che sarà appunto chiamato prima Choral work (opera corale), e poi Chora L Works, in cui il primo significato viene per così dire dissolto15. Che il rapporto con Eisenman e con Libeskind, che Derrida a torto legge come protagonisti di una solidarietà architettonica e teorica assoluta, dovesse diventare problematico è evidente alla lettura dell’aforisma 50, uno degli aforismi conclusivi della serie dei 52: Il senza fondo di un’architettura «decostruttrice» e affermativa può dare le vertigini, ma non è vuoto, non è il resto beante caotico, lo iato della distruzione.

L’architettura può dare una sensazione di vertigine, ma di fatto per Derrida non è il vuoto. Non è il negativo. Non è distruttiva. Tutto ciò che è disseminato costituisce anzi in testo letterario o filosofico un reticolo che copre ogni spazio. Non diversamente deve agire il testo dell’architettura nelle sue decostruzioni. Questo Derrida lo ribadisce via via in una serie di interventi ulteriori quando afferma per esempio che «la decostruzione è affermativa […] non è nichilista», o quando ribadisce la sua ostilità al collage, vale a dire al montaggio che Benjamin aveva colto dal 93


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surrealismo come un metodo costruttivo, perché «il collage implica il frammento […] e questo implica che c’è un corpo proprio a cui questo frammento appartiene. È una specie di disintegrazione […] molti pensano alla decostruzione come a qualcosa di prossimo a questa disintegrazione. Questo non è il significato di deco-struzione»16. Queste sono le idee che stanno alla base del testo Chora che Derrida porta in dote a Eisenman per il loro comune progetto. È un testo di filosofia che, scritto in onore di Jean-Pierre Vernant, diventa un testo canonico per l’architettura a cui Derrida si rifà continuamente nelle sue discussioni. 8. Platone avanza il concetto di chora nel Timeo. È il luogo in cui le idee prendono forma nel mondo, ma che è in sé privo di forma, e che è dunque un’«idea che non è idea», un pensiero «bastardo», afferma Platone, come quelli che ci si presentano nei sogni (52b). Platone ha bisogno di un informe che sia fin dall’inizio – dunque ab aeterno – in grado di accogliere forme senza per così dire fare resistenza. La chora è eterna come le idee e le forme, ma non è né idea né forma. Derrida segue Platone con grande maestria filosofica. Nomina anche Aristotele che si riferirà al concetto platonico traducendo chora con hule, «materia», ma che è anche, originariamente, il termine che designa il legname con cui, per esempio, si costruivano le navi. Quello che Derrida non dice è che il concetto si muove poi attraverso Plutarco e poi Numenio, per arrivare alla traduzione latina del Timeo ad opera di Calcidio nel iv secolo dopo Cristo. Calcidio cerca di tenere insieme sia la lezione aristotelica di hule nel significato originario di legname, sia il concetto di «informe» connesso alla chora platonica, e dunque traduce chora con silva dando a questo termine il valore di ciò che è mobile e informe, come il moto ondoso e inestricabile delle fronde, che trova anche un corrispettivo nel moto delle onde e nello scorrere delle acque. «Chora-selva» è qualcosa di «fluido e senza qualità». È un informe dunque, disponibile a ogni forma. Dunque chora è proprio quel movimento caotico che Derrida ha appena negato. Ma è questo – e non la chora di Derrida – che attraversa tutto l’Occidente, da Scoto Eriugena a Dante e su, attraverso il Rinascimento, fino ad arrivare alla città selva di Balzac, ai marciapiedi in cui si muove la folla-foresta di Baudelaire. Fino all’incipit de L’uomo senza qualità di Musil17: Non do particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costruita da regolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose di eventi, e, framezzo punti di silenzio abissali, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi. 94

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La decostruzione non conosce invece collisioni, non conosce disaccordo e sconvolgimento. La chora di Derrida è un vuoto che non è un vuoto. La sua preoccupazione diventa ora quella di distinguere questo suo vuoto dal «cattivo» vuoto di Eisenman e Libeskind, che lui vede comunque appaiati, come risulta chiaramente dalla lettera a Peter Eisenman del 12 ottobre 1989, l’anno in cui, tra l’altro, Libeskind vince il concorso per il museo ebraico di Berlino. 9. Non si capisce se la mancata presenza al convegno Sul postmodernismo e oltre: l’architettura come l’arte critica della cultura contemporanea18 a Irvine sia dovuta a impedimento reale o a una dissidenza che Derrida voleva esplicitare con la sua lettera, che è stata pubblicata nel 1990 da «Assemblage» e che poi ha avuto varie ripubblicazioni. Il titolo del convegno rende esplicita la volontà di potenza che l’architettura esprimeva non come una ma come l’arte critica per eccellenza, dunque confliggendo necessariamente con la stessa volontà di potenza che ha da sempre animato la filosofia. Derrida critica il ricorso al concetto di assenza che – egli scrive – voi, Eisenman e Libeskind, evidentemente, «apprezzate e incoraggiate». L’equivoco di Eisenman è proprio la cattiva interpretazione del testo derridiano Chora che «non è né il vuoto, come a volte suggerite, né l’assenza, né l’invisibilità». E dunque il progetto comune, trasformandosi da opera corale, da Choral work, a Chora L Works, è ancora la stessa cosa? «Quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, se mai lo abbiamo fatto, a questo “Choral Work” che non è ancora costruito ma che si vede e si legge dappertutto? Quando abbiamo smesso?». Eisenman deve spiegare ai convenuti all’Università di California Irvine, dove Derrida ha a lungo insegnato, la sua chora che non è più la chora di Derrida. A lui sta il compito di spiegare cosa e perché ha deviato dal progetto originario. Derrida a questo punto, come una sorta di capo d’accusa, porta il testo di Walter Benjamin Esperienza e povertà19. Secondo Derrida Benjamin in questo testo parla di «nuova povertà», parla o profetizza un insieme errante di poveri, addirittura di homeless assolutamente «irriducibile alle classificazioni e alle localizzazioni antiche della marginalità o della scala sociale, i basso-salariati, il proletariato, i disoccupati, eccetera». Ma Benjamin non parla di questo. Parla di povertà di esperienza comunicabile dominante proprio dopo che la grande guerra ha messo in campo un cumulo di esperienze che non aveva riscontro nella storia dell’umanità. Un’immensa esperienza non comunicabile, una povertà di esperienza che induce a fare con poco, a iniziare dal nuovo. È ciò che fanno i barbari, è ciò che fanno i grandi creatori. Gli «implacabili 95


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che per prima cosa facevano piazza pulita. Essi volevano avere un tavolo per disegnare». Tra questi Descartes, Newton, Einstein, il cubismo, Klee. Tra questi Loos, Scheerbart, l’architettura del vetro, vale a dire l’architettura senza aura. Come si vede Benjamin non parla di homeless, o di una povertà che va oltre ogni classificazione, di fronte alla quale forse il nichilismo intellettualistico dell’architettura dovrebbe arretrare. Derrida cita, modificandolo ampiamente, anche Il dramma barocco tedesco affermando che in passato l’architettura organizzava la fragilità delle cose che costruiva come una resistenza alla distruzione. Ma noi abbiamo visto che il Carattere distruttivo «riduce l’esistente in macerie, non per amore delle macerie ma per la via che le attraversa». Anche l’arte di Baudelaire, si legge in un frammento del Passagenwerk, è utile perché distruttiva. La sua rabbia distruttiva si rivolge non da ultimo contro il concetto feticistico dell’arte, mettendosi così al servizio dell’arte «pura» nel senso di un’arte purificata (J 49,1).

Derrida, fattosi forza con una distorsione di Benjamin, chiama Eisenman a rispondere anche di quanto Libeskind afferma in una sua intervista, in cui si parla di un vuoto che si materializza, di frammentazione, di «invisibilità che – dice Libeskind – ho cercato di portare a visibilità. La nuova estensione è concepita come un emblema in cui l’invisibile, il vuoto, si manifesta come tale»20. Dunque «ancora il vuoto, l’assenza, la negatività, in Libeskind come in voi – scrive Derrida –. Ve la lascio sbrogliare da solo con queste parole caro Peter, caro Hillis21, un’altra volta vi dirò cosa ne penso, ma l’ho suggerito cominciando». La lettera termina con due post-scriptum. Il primo è una rabbiosa confutazione di un’intervista in cui Eisenman prendeva le distanze dalla decostruzione, affermando che essa è un termine letterario e non architettonico. «La decostruzione tratta l’architettura come una metafora e noi trattiamo l’architettura come una realtà», aveva dichiarato Eisenman suscitando il risentimento di Derrida. 10. Libeskind non è Eisenman. Il vuoto di Libeskind non è il vuoto di Eisenman, come egli stesso ribadirà (AA, p. 274) nella sua replica al testo di Derrida, Replica a Daniel Libeskind, contenuta in radix-matrix pubblicato nel 1997, l’anno in cui è realizzato il Museo di Berlino. Credo soprattutto che la lettera a Peter Eisenman sia una presa di distanza di Derrida dal periodo in cui aveva pensato a un intervento diretto nelle questioni architettoniche. Credo anche che in quel momento ci sia stato un vol96

La forma del vuoto

gersi altrove degli architetti alla ricerca nel migliore dei casi di una filosofia (le «Eterotopie» di Michel Foucault, i «Non-luoghi» di Marc Augé), o, nel peggiore dei casi, della scorta di un filosofo. Al centro della sua replica a Libeskind, scritta quando ormai il distacco era avvenuto, è ancora la questione del vuoto. Un vuoto storicamente determinato, scrive Derrida, e «non è, per esempio il luogo indeterminato in cui tutto ha luogo», vale a dire nella chora. «È un vuoto che corrisponde a un’esperienza che da qualche parte tu hai chiamato la fine della storia – l’Olocausto come fine della storia». La fine è un bordo. Il vuoto che Libeskind ha realizzato «è stato determinato da un evento – l’Olocausto che è anche la fine della storia». La mia «ansiosa domanda – prosegue Derrida – avrebbe a che fare con la relazione tra questo vuoto determinato, totalmente investito dalla storia, dalla pienezza di significato, dall’esperienza, e il luogo stesso, il luogo come una non-antropologica, non-teologica possibilità per questo vuoto di avere luogo. La logica della Chora, allora. È una sfida alla logica dell’esemplarità» (AA, pp. 270-272). Come si vede per Derrida tutto torna a ruotare intorno a chora, il vuoto senza fratture, senza frammenti, una sorta di vuoto pieno, contrapposto al vuoto determinato e investito dalla storia, dalla pienezza di significato. Un vuoto che non è un vuoto dunque per Derrida, in quanto non è un vuoto neutro, o neutrale celebrato anche da Blanchot. È chiaro che il disseminatore non può sopportare né un vuoto in cui il pulviscolo del senso si disperde, né una pienezza di significato che costringerebbe ad arrestare il differimento infinito. Ciò che sembra sfuggire completamente a Derrida è che l’Olocausto è, sì, una pienezza di senso, ma di un senso irrappresentabile. È l’indicibile assoluto. Un pensiero che a questo punto non muova contro se stesso, che non si porti verso l’estremo è, come ha detto Adorno, complice «di quella musica d’intrattenimento con la quale le SS amavano coprire gli urli delle loro vittime»22. Il vuoto del Museo di Libeskind allude, a mio giudizio, proprio a questo vuoto, a questo irrappresentabile. È per questo che, come ho detto, avrei trovato ancora più forte un museo che invece che accogliere respingesse le cose che vengono ad abitarlo e a riempirlo. Mi rendo conto che qui siamo in una contraddizione difficilmente sanabile. Paradossalmente per arrivare alla parola muta che testimoni l’Olocausto sarebbe necessario rimuoverne le testimonianze. Dentro questa contraddizione dobbiamo muoverci, appunto come nell’aforisma kafkiano, sempre sul punto di inciampare.

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L’arte e il tempo 1

G. Benn, L’io moderno, in Lo smalto sul nulla, a cura di L. Zagari, Adelphi, Milano 1992, p. 25. Nachgelassene Schriften und Fragmente ii, a cura di J. Schillermeit, in F. Kafka, Kritische Ausgabe, a cura di J. Born, G. Neumannn, M. Pasley e J. Schillermeit, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main 2002, tr. it. in Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi, a cura di A. Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1994, p. 83. 3 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., menzionato nel testo con il rinvio alla pagina. Il saggio su Goethe in W. Benjamin, Opere complete, ed. it. a cura di E. Ganni, vol. i, Einaudi, Torino 2008. 4 In Opere complete, cit., vol. iv, Einaudi, Torino 2002. 5 Le riflessioni di Libeskind e il dibattito relativo sono presi da D. Libeskind, radix-matrix, Prestel, Munich-New-York 1997, che sarà citato in forma abbreviata (R-M); Trauma, in Image and Remembrance: Representation and the Holocaust, Indiana University Press, Bloomington 2003. Mi soffermerò sul dibattito con Derrida: alcuni dei testi di Derrida ma anche di Eisenman e di Libeskind sono in J. Derrida, Adesso l’architettura, a cura di F. Vitale, Libri Scheiwiller, Milano 2001, che sarà citato in forma abbreviata come AA. 6 F. Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, a cura di A. Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1991; Aforismi di Zürau, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 2004, aforismi 1 e 25. 7 S. Freud, Das Unheimliche (1919), cit., tr. it. di S. Daniele, cit. Ne abbiamo parlato diffusamente più sopra, nel secondo capitolo di questo libro. 8 A. Vidler, Warped Space: Art, Architecture and Anxiety in Modern Culture, mit Press, Cambridge ma 2000, p. 238. 9 R-M, p. 34. Strada a senso unico si trova in W. Benjamin, Opere complete, cit., vol. ii (2002). A pagina 26 Libeskind ricorda anche, tra le figure che sono presenti nel suo progetto, Franz Kafka, Walter Benjamin, Primo Levi, Osip Mandel’štam, Paul Celan… 10 W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., più volte richiamato. 11 G. Bataille, Préface à Madame Edwarda, cit., p. 12. 12 F. Kafka, Il castello, tr. it. di P. Capriolo, Einaudi, Torino 2002, p. 347. 13 Parte di questo dibattito, per quanto qui ci interessa, è contenuto in J. Derrida, Adesso l’architettura, cit., che sarà, come si è detto, abbreviato in AA. Altri testi di Derrida che saranno richiamati sono Chora, tr. it. di F. Garritano, in Il segreto del nome, a cura di G. Dalmasso e F. Garritano, Jaca Book, Milano 2005; Point de folies - maintenant l’architecture (1986), in Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987, pp. 477-493; Pourquoi Peter Eisenman écrit de si bon livres (1986), in Psyché, cit., pp. 107-120; Cinquante-deux aphorismes pour un avant-propos (1986), in Psyché, cit., pp. 121-130. 14 J. Derrida, L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1972; La dissémination, Seuil, Paris 1972, tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Jaca Book, Milano 1989. 15 J. Derrida – P. Eisenman, Choral L Works, a cura di J. Kipnis e T. Leser, Monacelli, New York 1997. 16 Frammenti di una conversazione con Jacques Derrida, in AA., pp. 108-109. La conversazione ha avuto luogo nel 1987. 17 R. Musil, L’uomo senza qualità, cit. 18 Postmodernism and Beyond: Architecture as the Critical Art of the Contemporary Culture, University of California, Irvine, 26-28 ottobre 1989, in AA, pp. 201-217. 2

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La forma del vuoto 19 In

Opere complete, cit., vol. vi, Einaudi, Torino 2004. with Daniel Libeskind. Winner: the Berlin Museum Competition, pubblicata su «Newsline», la rivista della scuola di Architettura della Columbia. 21 Daniel Hillis, tra gli organizzatori del convegno. 22 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit. p. 328. Cfr. anche S. Friedlander (ed.), Probing the limits of representation. Nazism and the “Final solution”, Harvard University Press, Cambridge ma 1992 e P. Ricœur, «Quelques réflexion sur l’intitulé du séminaire», in AA.VV., Travail de mémoire 1914-1998. Une nécessité dans un siècle de violence, Autrement, Collection Mémoires, Paris 1999. 20 Interview

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VII. Specchi e clessidre

Veniet dies quo in speculo te non agnoscat. Francesco Petrarca E, alla fine, eccola nell’ingresso. Si fermò accanto al tavolo perfettamente immobile. Subito lo specchio cominciò a riversarle addosso una luce che sembrò bloccarla. Sembrava un acido che corrodesse il superfluo e il superficiale lasciando unicamente la verità (…). Ed ecco affiorare il muso sottostante. Ecco la donna in sé. Nuda in quella luce impietosa. E non c’era niente. Isabella era vuota. (…). Non si dovrebbero mai lasciare specchi appesi nelle proprie stanze. Virginia Woolf

1. Nello specchio Albrecht Dürer1 è nato a Norimberga nel 1471. Il suo primo grande autoritratto (Vienna, Albertina) è un disegno del 1484. Più tardi Dürer appunterà sul margine alto a sinistra del foglio: «Ho fatto questo ritratto di me stesso davanti a uno specchio nel 1484, quando ero ancora un fanciullo». I suoi occhi sono chiari, fissi, forse attoniti. La mano destra, quella che dovrebbe tenere la penna, si perde contro il corpo, nascosta dalle pieghe delle maniche. La mano sinistra è levata, e l’indice punta verso l’immagine, per noi invisibile, dello specchio. Ma è una mano esitante: il braccio non si tende, e la mano è appoggiata al polso dell’altro braccio, come dovesse sostenersi in questo incerto indicare. Cosa ha visto Dürer nello specchio? Sappiamo che egli ha visto soprattutto se stesso. Ha visto nello specchio quasi la profe101


L’arte e il tempo

zia dell’uomo del dolore e dell’uomo nudo che esce da una buia caverna nel disegno del 1505. Ha visto appunto se stesso. 2. Mostrarsi «Ho fame di farmi conoscere, e non m’importa a quanti, purché sia veridicamente», ha scritto Montaigne2 (iii, v). Chi ci ha mostrati e descritti idealmente, per esempio nell’amore, come Marsilio Ficino, ha detto il falso. C’è chi si arresta di fronte a quelle parti che sono dette vergognose, anche se «è un mostruoso animale quello che fa orrore a se stesso». Montaigne detesta vedere il suo pene agitarsi e stizzirsi «per un pollice di meschino vigore che l’accende tre volte alla settimana», ma ciononostante noi siamo il nostro corpo, l’insieme del nostro pensiero e delle nostra membra, «e nessun altro membro mi fa uomo più propriamente di questo. E io devo al pubblico il mio ritratto completo». «Il mio specchio non mi spaventa» (iii, xiii), scrive ancora Montaigne, forse preso dall’ansia di rappresentare il suo capolavoro: vivere bene. Ma lo specchio ha spaventato Dürer. Cosa ha veduto in esso, che aveva forse presentito negli autoritratti del 1491 e del 1505, e che lo aveva costretto a guardarsi, a mostrarsi in quel modo, più che nudo. A esibirsi nella terribile ostensione di una vita nuda? È possibile andare oltre, dal momento che, come dice Simone Weil (Q. iii, 259), «i momenti in cui si è costretti a guardare la semplice esistenza come unico fine, sono l’orrore totale, allo stato puro»3? Dürer ha tentato di far emergere quanto aveva veduto in una serie di tre incisioni: Il cavaliere, la morte e il diavolo del 1513, il San Girolamo nello studio e Melencolia i del 1514 (Vienna, Albertina). Nella prima, il cavaliere procede fiero, apparentemente indomito, ma al suo fianco lo guarda fisso il ghigno della morte, che leva verso di lui, perché possa vederla, la clessidra che segna il suo tempo, e dietro di lui cammina mostruoso il diavolo. I mostri lo hanno seguito fuori da quella caverna che egli aveva raffigurato nel 1505, camminano con il suo stesso passo, lo accompagnano, e il magnifico destriero che egli cavalca non potrà portarlo lontano da essi. Ritroviamo la clessidra sopra il capo di san Girolamo, affondato nei suoi studi, mentre gli animali domestici e feroci sono acquietati sul pavimento davanti a lui. Il cavaliere e il santo: due forme per esorcizzare la morte e l’angoscia della morte. La terza incisione riguarda direttamente lui, Albrecht Dürer. Nel 1923 Panofsky e Saxl hanno dedicato un grande saggio a Melencolia i di Dürer, che è diventato, con il contributo di Klibansky, il libro fondamentale sulla malinconia, 102

Specchi e clessidre

da Aristotele all’età di Dürer. Ma non seguirò la loro via. Mi limiterò a guardare l’incisione di Dürer. A dire ciò che vedo in essa. Un angelo muto e melanconico è al centro dell’incisione. La mano sinistra chiusa a pugno sostiene la testa coronata dell’alloro da artista; i suoi occhi guardano davanti a sé, nel vuoto. La mano destra tiene un compasso aperto, immobile, puntato forse su un foglio appoggiato tra le sue ginocchia aperte, che dunque non lo sostengono, che dunque non permetteranno che nessun cerchio vi sia tracciato. Ai suoi piedi c’è un cane accovacciato, simile al cane che correva sotto le zampe del cavallo ne Il cavaliere, la morte e il diavolo e, sparsi qua e là, ci sono altri oggetti della poiesis, della fabbrilità e della creatività umane: una squadra, una pialla, chiodi, un martello, una sfera... Alle sue spalle, sulla parete, il quadrato dei numeri pitagorici, la tavola delle proporzioni che Dürer aveva studiato e su cui aveva fondato la sua teoria della rappresentazione. Sopra di essa una campanella immota, e sulla sinistra una bilancia, anch’essa immota. In mezzo, ancora una volta, la clessidra: l’unica cosa che si muove nell’incisione è proprio la sabbia che cresce nel bulbo inferiore, che ha già formato una piccola collina, che continuerà a crescere fino alla fine, finché non ci sarà più tempo alcuno. Un piccolo angelo è al fianco del grande angelo. Anch’esso immobile e accasciato. Fuori, sopra un’acqua immota, illuminato dalla luce che viene da destra e dal raggio del sole al crepuscolo che è alle sue spalle, si libra una nottola, l’uccello che si muove appunto al crepuscolo nella doppia luce che sta tra il giorno e la notte. Le sue ali distese sostengono un cartiglio, e sul cartiglio sta scritto: melencolia i. L’eroe cristiano non può esorcizzare la morte. Nemmeno il santo può farlo. Forse l’artista si era illuso di poter contenere l’orrore del tempo e della morte nella forma, ma i suoi strumenti giacciono ora ai suoi piedi come i frammenti di qualcosa che si è definitivamente infranto, come i resti di una catastrofe che si è consumata silenziosamente lasciando dietro di sé piccole tracce, ma che pesano più di montagne di macerie. Benjamin, nella nona delle sue tesi Sul concetto di storia, parla anch’egli di un angelo muto, attonito, disperato che vede crescere davanti ai suoi occhi macerie e distruzione4. Il suo riferimento era all’Angelus Novus di Paul Klee. Ma leggendo le sue parole non è possibile non pensare all’angelo di Dürer, che ha «cercato di salvare l’infranto» ma che viene pietrificato o portato via (come nel testo di Benjamin) dalla tempesta del tempo. Dopo questo cosa può ancora Dürer? 103


L’arte e il tempo

3. L’uomo del dolore «L’essenza dell’ultimo periodo di Dürer», scrive Panofsky (p. 313), «è sintetizzata in un disegno del 1522», che è stato intitolato appunto L’uomo del dolore. Questo disegno, che pure avrebbe dovuto servire per un quadro di rappresentazione religiosa, rompe di fatto non tanto, come dice Panofsky, la distinzione tra la rappresentazione religiosa e la ritrattistica, ma la stabilisce in modo ultimo e definitivo. Un uomo nudo seduto, accasciato, come l’angelo di Melencolia i. I muscoli sono rilassati, cadenti e sotto le spalle scarnite il ventre si ripiega su se stesso. Nelle mani l’uomo nudo tiene il flagello e la sferza della Passione di Cristo. Ma il suo volto non è quello del Cristo, come invece nell’autoritratto di Monaco del 1500. Un vento rapinoso viene da sinistra scomponendogli i capelli e i peli sottili della barba, mentre i suoi occhi rimangono torti e fissi nella direzione da cui viene il vento. Nel 1500 Dürer aveva cercato di rendere rappresentabile il suo dolore singolo, soggettivo, personale, nella maschera del Cristo. Ora, nel 1522, il dolore, la decadenza del corpo, il presagio della morte, sono sottolineati dagli strumenti della passione e del dolore del Cristo, ma nessuno, nemmeno per un istante, può dubitare che questi non siano i dolori, la decadenza, l’imminenza della morte di Albrecht Dürer. Egli era uscito nudo da una buia caverna per giungere fin qui, fino all’ultimo irrevocabile messaggio. Forse solo nella Pietà di Tiziano si giunge a tanto, quando il pittore sull’orlo estremo della vita dipinge il Cristo morto che dovrà stare sulla sua stessa tomba. I contorni del volto di Cristo si sfarinano, si slabbrano fino a mostrare in trasparenza i lineamenti del novantenne Tiziano in attesa di morire. 4. L’io e il mondo C’è il rischio, sottolineato da Hannah Arendt e da Simone Weil, che la sporgenza del soggetto e della sua intimità siano un modo per ripiegare su se stessi e sfuggire «l’incontro con il reale». Simone Weil ha più volte affermato il valore della sventura che penetra anche nell’intimità e che apre nell’uomo la via attraverso cui il mondo entra in lui ed egli si affaccia al mondo. Come possiamo porci in questo campo, dell’improgrammabile e dell’attesa, se non come soggetti? Il reale si de-realizza in una congerie di stati di fatto se non è colto in un faccia a faccia, che implica la messa in gioco di sé, del proprio essere e del proprio sapere, a costo di dover concludere con Euripide che proprio il nostro sapere non può tutto, e quindi si arresta da un lato sulla ver104

Specchi e clessidre

tigine di un reale che non ha, oltre un certo confine, parola alcuna, e dall’altro lato sull’abisso di una soggettività che oltre un certo confine sembra non avere più limiti né forma riconoscibile. È a questo punto che in un’angosciosa oscillazione possiamo perdere il contatto con il reale. Il sapere non può tutto e dunque, concludeva Euripide, di fatto non può nulla. Euripide ci ha messo così sulla porta, o meglio su una frontiera su cui si affaccia il mistero. È a questo punto che la clessidra inizia a mormorare la sua storia. Parla del manto grigio della malinconia, dello spleen, del paese piovoso in cui acre avvertiamo il sapore del nulla. Pascal anticipa l’angoscia che Baudelaire ha analizzato, dandone una straziata rappresentazione nelle bellissime e terribili poesie di Spleen et idéal e nello Spleen di Parigi. Baudelaire dà un nome davvero pascaliano all’innominata sensazione che prende alla gola soffocandoci. «In ogni minuto siamo schiacciati dall’idea e dalla sensazione del tempo», e dunque, «per non sentire l’orribile fardello del tempo che vi spezza e vi piega verso terra, dovete ubriacarvi senza tregua»5. Non importa come, vino poesia virtù. Tutto questo è ebbrezza e dunque una diversione, che è la traduzione esatta del divertissement pascaliano. Pascal sa quanto terribile sia la condizione umana. L’uomo è di fronte alla morte, alla miseria, all’ignoranza e ha dunque, come afferma ancora Baudelaire, «escogitato di non pensarci». È un vuoto di pensiero, una lacuna nel tempo e nella nostra coscienza. È l’ennui, è la noia, è lo spleen o la vuota eccitazione del gioco e dell’ebbrezza. O è, infine, Melencolia i. È qui che abbiamo l’esperienza del vuoto nell’irrimediabile sensazione del tempo, dell’inesorabile e paradossale immota ed eterna fissità del suo scorrere, del passare, del trapassare in un insensato movimento intorno a un centro vuoto. Immobile è dunque lo scorrere del tempo. Inesorabile è lo scorrere del tempo. È qui che incontriamo gli orologi, le piazze e le Arianne di de Chirico. I suoi orologi sono fermi, segnano sempre la stessa ora. Ma forse quella torre che s’impone al nostro sguardo non è altro che una clessidra appena mascherata.

1

Su Albrecht Dürer cfr. almeno E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, tr. it. di C. Basso, Feltrinelli, Milano 1979; R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, tr. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1983. 2 M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1966. 3 S. Weil, Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982-1994. 4 Le tesi Sul concetto della storia più volte citate: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. 105


L’arte e il tempo Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta». Come ben sapeva l’«antico marinaio» di Coleridge, come ben sappiamo, la bonaccia, quando anche il mare marcisce, è peggio di qualsiasi tempesta. 5 C. Baudelaire, La stanza doppia, in Lo spleen di Parigi, cit.

VIII. Courbet e Baudelaire. La questione del realismo

Ciò che conferisce alla parola fiore (…) la sua unica legittimità e la sua forza vitale è, come afferma Mallarmé, «l’absence de tous bouquets». Se non erro, ci troviamo qui alla fonte esatta della modernità filosofica ed estetica, al punto di rottura con l’ordine del Logos. George Steiner Fino a quel momento avevo conosciuto soltanto l’arte realistica (…). Il catalogo diceva che si trattava di un pagliaio, ma non riuscivo a riconoscerlo. Questa incapacità di riconoscere il soggetto mi turbò (…). Sentii oscuramente che in questo quadro mancava l’oggetto. Senza che me ne rendessi conto era screditato davanti ai miei occhi l’oggetto come elemento indispensabile del quadro. Vasilij Kandinskij

1. Nel 1854 Courbet dipinge il quadro Le Bord de mer à Palavas e scrive a Jules Vallès: «O mare! La tua voce è formidabile, ma non riuscirà a coprire quella della fama che griderà il mio nome al mondo intero»1. È un momento decisivo della sua vita artistica. Ha già vinto la medaglia d’oro alle esposizioni, la sua fama cresce e aumentano anche le vendite dei suoi quadri, e gli fanno cerchio alcuni degli intellettuali di punta, come Champfleury e il filosofo Proudhon. Si sta preparando al Salon dell’Esposizione Universale del 1855 che avrebbe dovuto celebrare l’apoteosi di Ingres e Delacroix. Courbet pensa che entrambi appartengano al passato, che un’epoca si è chiusa e che il presente sia ormai suo. In effetti Courbet chiude definitivamente sia la stagione che si rifà alla pittura classica accademica, sia la stagione romantica. Si situa di fatto tra l’epoca dominata da Ingres e da Delacroix e l’epoca di Manet, che scaglierà, secondo 106

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L’arte e il tempo

Pierre Bourdieu, «una bomba simbolica» nel campo dell’arte e della cultura, aprendo a un nuovo ordine, inaugurando, come scrive appunto Bourdieu, un nuovo territorio simbolico2. Manet è, secondo Michel Foucault, alla base dello sviluppo della pittura moderna fin nelle sue articolazioni che appartengono ormai al xx secolo3. Dunque Courbet è considerato come colui che chiude un’epoca a cui di fatto in qualche modo ancora appartiene, il terzo grande artista, con Ingres e Delacroix, della prima metà del xix secolo. A mio giudizio è più giusto considerarlo come l’abitante di uno spazio intermedio, che egli occupa come un grande sovrano con esiti pittorici straordinari, talvolta stupefacenti. Verrebbe da dire che nessuno ha dipinto il mare come Courbet, nessuno ha capito quante tonalità di verde si nascondano in un bosco, nessuno è stato così vicino alla carne come l’occhio e il pennello che hanno raffigurato le sue magnifiche fanciulle sul bordo della Senna. 2. Ma torniamo al 1855. Al Salon, aperto in occasione dell’Esposizione Universale, Courbet è presente con 11 quadri, ma oltre a questi ben 40 sono esposti in un padiglione che, con l’aiuto di un suo grande collezionista, fa costruire in avenue Montaigne. È «Le Pavillon du Réalisme», aperto con un catalogo presentato come il Manifeste du réalisme. Courbet si propone dunque esplicitamente come il fondatore di un movimento che deve sostituirsi al romanticismo. Dentro questo Pavillon Courbet presenta anche il suo quadro immenso, 598 × 361 cm, L’atelier du peintre. Allégorie réelle déterminant une phase de sept années de ma vie artistique et morale4. La vita artistica e morale di Courbet diventa così l’allegoria di un’epoca, l’allegoria del mondo. Nel quadro, al centro, sta l’artista, come Velázquez nelle Meninas. Il pittore, Courbet, sotto lo sguardo di un bambino e con a fianco una splendida modella nuda, sta dipingendo uno dei suoi tipici paesaggi. A sinistra nel quadro è il mondo della gente e del popolo, della povertà e della ricchezza, a destra stanno gli intellettuali, tra cui i suoi sostenitori come Champfleury e Proudhon e in un angolo, assorto in un libro, Baudelaire, che era stato suo amico e che a questo punto è già il suo più grande avversario. L’apoteosi di questa allegoria è di fatto un’ideologia, una sorta di fede: il realismo. Un’intossicazione dovuta a Champfleury, afferma Baudelaire in un frammento che è stato intitolato Puisque réalisme il y a5. Il frammento baudelairiano è intitolato proprio riprendendo un’affermazione di Courbet in una lettera a Champfleury del dicembre 1854: «Non sono morto come non è morto il realismo, dal momento che c’è realismo» (Écrits, p. 52).

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Courbet e Baudelaire. La questione del realismo

3. Baudelaire nel suo saggio sul Salon 1855 accomuna Ingres e Courbet, che si era proposto proprio come colui che era destinato a superarlo. Li accomuna come artisti che hanno fatto scomparire l’immaginazione che è, invece, «la regina delle facoltà». Ingres ha rinunciato all’immaginazione per rispetto a una tradizione che egli in fondo con grande maestria riproponeva. Courbet si presenta invece come una vera e propria insurrezione, e manifesta «un’intelligenza di settario, un’energia distruttrice di facoltà. La politica e la letteratura producono anch’esse temperamenti siffatti, oppositori, anti-sovranaturalisti»6. La differenza tra Ingres e Courbet sta nel fatto che «mentre Ingres compie il suo sacrificio eroico in onore della tradizione e dell’idea del bello raffaellesco, Courbet lo vuole a gloria della natura esterna, positiva, immediata. Nella loro guerra contro l’immaginazione, essi obbediscono a moventi diversi e due opposti fanatismi li conducono allo stesso olocausto». In realtà Courbet, anche nel suo estremismo realista, non è estraneo alla bellezza, se non di Raffaello a quella di Tiziano. Qui, in questo passo, Baudelaire avanza una teoria dell’immaginazione che viene riarticolata nel 1856 in una lettera a Toussenel7, poi nel 1857 in Notes nouvelles sur Edgar Poe in cui, come ribadirà anche nel Salon de 1859, egli afferma perentoriamente che «l’immaginazione è la regina delle facoltà». Essa si distingue dalle divagazioni della fantasia, e si propone come un vero e proprio pensiero: come «una facoltà quasi divina che coglie, d’un tratto, al di fuori dei metodi filosofici, i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie»8. Nulla di diverso da quanto Baudelaire aveva detto in uno dei sonetti che aprono I fiori del male, in «Corrispondenze». Di fatto Baudelaire propone una vera e propria noesi dell’immaginazione, che lo lega ad alcune grandi esperienze conoscitive della modernità, da Leopardi a Nietzsche nel xix secolo, e più avanti, nel xx secolo, alle grandi esperienze delle avanguardie storiche. Baudelaire tornerà brevemente su Courbet in un breve saggio del 1862 Peintres et acquafortistes, poi il nome di Courbet comparirà soltanto in alcune delle tragiche e grottesche notazioni raccolte con il titolo Povero Belgio. Il Belgio è l’ultimo esilio di Baudelaire. È il luogo dell’opacità, della stupidità, della torpidità, della bêtise, per dirla con un termine caro a Flaubert. Courbet diventa così un pittore per i belgi9. 4. Baudelaire non parlerà più esplicitamente di Courbet, ma su Baudelaire dovremo riflettere ancora, perché ci permetterà di andare più a fondo nel concetto controverso di realismo, che forse è stato ciò che ha trattenuto Courbet rispetto alle sue enormi e forse non interamente dispiegate potenzialità. D’altronde Baudelaire è andato 109


L’arte e il tempo

così avanti nella ricerca di un’arte «surnaturalista», come egli stesso la definisce, che tutta la pittura del suo tempo successiva al romanticismo gli pare superata, decrepita, come leggiamo in una lettera a Manet dell’11 maggio 186510. Manet gli ha scritto lamentando di essere oggetto non solo di incomprensioni ma anche di irrisioni per i quadri esposti ai vari Salon. Addirittura mitica è infatti l’opposizione generale alla sua Olympia, come a Le Dejeuner sur l’herbe. Baudelaire reagisce alle affermazioni di quello che era comunque un amico scrivendo: (…) Bisogna dunque che vi parli ancora di voi. Che mi applichi a dimostravi quel che valete. Quello che volete è stupido. Ci si prende gioco di voi, le battute di spirito vi snervano; non vi rendono giustizia, ecc., ecc. Credete di essere il primo in una simile situazione? Avete più genio di Chateaubriand e di Wagner? Non ci si è forse presi gioco di loro? Non ne sono morti. E per non ispirarvi troppo orgoglio, vi dirò che questi uomini sono dei modelli, ciascuno nel suo genere, e in un mondo molto ricco, mentre voi, voi non siete altro che il primo nella decrepitezza della vostra arte. Spero che non ve la prendiate per il modo diretto con cui vi tratto.

Manet non è che il primo di un’arte decrepita. Nessuna pittura era all’altezza di ciò che Baudelaire profetizzava: un’arte che avesse rinunciato a ogni pretesa mimetico-rappresentativa, per muoversi alla ricerca di una verità ulteriore che non è nelle cose ma è in ciò che le cose nascondono in sé. Sembra che qui Baudelaire guardi verso l’immaginazione di Kandinskij o di Klee. 5. Courbet si proponeva di rappresentare, come Balzac, gli uomini del suo tempo, in giacca, cravatta e scarpe di vernice. È quanto Baudelaire aveva detto nel capitolo xiii del Salon de 1846, «Dell’eroismo della vita moderna», in cui egli appunto invita gli artisti moderni a dipingere uomini di oggi con i loro vestiti, con le scarpe di vernice, personaggi con «il frac funebre e svolazzante che tutti indossiamo». Come i personaggi di Balzac, o come Balzac stesso, «il più poetico di tutti i suoi personaggi». In effetti, scrive Baudelaire, «gli eroi dell’Iliade non vi arrivano alle caviglie, o Vautrin, Rastignac, Birotteau […] e tu Honoré de Balzac, tu il più eroico, il più singolare, il più romantico, e il più poetico di tutti i personaggi che hai tratto dalla tua carne»11. Proprio nel testo del Salon de 1855 in cui Baudelaire attacca il realismo di Courbet, si chiarisce che cosa sia il realismo per Baudelaire, quello proclamato nel 1846, quello ribadito nel 1855 nel termine «surnaturalismo». Si racconta, scrive Baudelaire, 110

Courbet e Baudelaire. La questione del realismo

che Balzac (…) trovandosi un giorno di fronte a un bel quadro, un paesaggio invernale, malinconico e tutto ghiacciato (…), dopo aver guardato a lungo una casupola da cui saliva un esile fumo, esclamasse: «Che bello! Ma che fanno nella capanna? Che pensano, e quali sono i loro affanni? È stato buono il loro raccolto? Hanno davvero scadenze da pagare?».

Guardare le cose significa guardare a ciò che nelle cose si nasconde. Così in un saggio su Gautier Baudelaire torna su Balzac affermando che Balzac è incompreso e scrive: Molte volte mi sono stupito che la grande gloria di Balzac fosse quella di passare per un osservatore; mi era sempre sembrato che il suo merito principale fosse quello di essere visionario, e visionario appassionato. Tutti i suoi personaggi sono dotati dell’ardore vitale da cui era animato lui stesso. (…) E poiché tutti gli esseri del mondo esteriore si offrivano all’occhio del suo spirito con un rilievo possente e una smorfia impressionante, egli ha reso convulse le sue figure, ha annerito le ombre e illuminato le luci. (…) Da questa stupefacente disposizione naturale sono venute fuori meraviglie12.

Anche Flaubert, nominato in tutte le storie della letteratura francese padre del rea­ lismo ad honorem, ha dichiarato in una lettera a Edma Roger des Genettes del 30 ottobre 1856, «mi si crede catturato dal reale, mentre lo esecro. È in odio del realismo che ho incominciato a scrivere questo romanzo»13, Madame Bovary. E nel v capitolo del suo romanzo Bouvard e Pécuchet Flaubert scrive ancora: L’opera di Balzac li meravigliò, come se fosse al tempo stesso una Babilonia e grani di polvere posti sotto il microscopio. Dalle cose più banali emergevano aspetti sconosciuti. Non avevano mai sospettato che la vita moderna fosse tanto profonda. «Che osservatore!» esclamava Bouvard. «Io lo trovo un visionario» finì per dire Pécuchet.

6. Courbet ha via via sostenuto il realismo con dichiarazioni sempre più precise, addirittura perentorie, come in un’allocuzione del dicembre 1861 rivolta Aux jeunes artistes de Paris14 in cui egli afferma che «l’arte in pittura non potrà consistere che nella rappresentazione di oggetti visibili e tangibili per l’artista». Come si vede l’ansia didattica porta Courbet a esasperare il concetto di realismo fino a un «cosismo» che tradisce la sua stessa arte che sa andare molto più in profondità. E prosegue: 111


L’arte e il tempo

Un oggetto astratto, non visibile, non esistente non appartiene al dominio della pittura. L’immaginazione nell’arte consiste nel saper trovare l’espressione più completa di una cosa esistente, mai a supporre o a creare questa cosa stessa.

E conclude che non si può toccare la natura «se non a rischio di snaturarla e poi di indebolirla. Il bello dato dalla natura è superiore a tutte le convinzioni dell’artista» (Ecrits, 60-61). Proprio nello stesso anno, il 1861, Baudelaire – sembra che il pittore e il poeta siano sempre in una sorta di prossimità conflittuale – scrive Il pittore della vita moderna, in cui nel capitolo xi c’è un elogio dell’artificio, un elogio del maquillage. Nel xviii secolo – e Baudelaire pensa a Rousseau e al russoismo – si aveva una falsa concezione morale che attribuiva alla natura ogni bene e ogni bellezza possibile. La natura invece non insegna nulla. Spinge a mangiare, a bere, a dormire. Anzi proprio la natura spinge l’uomo a uccidere il proprio simile, a mangiarlo, sequestrarlo, a torturarlo; ché non appena si esce dall’ordine della necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, si osserva che la natura non può consigliare altro che il delitto. Così, questa infallibile natura ha creato il parricidio e l’antropofagia e mille altri abomini che il pudore e la delicatezza impediscono di nominare.

Dunque tutto ciò che è nobile è innaturale mentre il delitto, di cui la bestia umana ha appreso il gusto nel ventre della madre, è originariamente naturale. La virtù, al contrario, è artificiale e soprannaturale, giacché sono stati necessari, in tutti i tempi e in tutti i popoli, divinità e profeti per insegnarla all’umanità imbestiata, e l’uomo, da solo, sarebbe stato impotente a scoprirla.

Il capitolo si conclude con straordinario elogio del trucco femminile. La donna è proprio nel suo diritto e anzi compie una sorta di dovere quando si studia di apparire magica e soprannaturale: è necessario che stupisca e incanti con ciò che «il nostro tempo chiama volgarmente trucco». Non vi è chi non veda come l’uso della polvere di riso, così insulsamente messa al bando dai filosofi candidi, abbia come fine e come risultato quello di far scomparire dalla carnagione tutte le macchie che la natura vi ha oltraggiosamente disseminate, e di creare un’unità astratta nella grana e nel colore della pelle, la quale, come quella prodotta 112

Courbet e Baudelaire. La questione del realismo

dalla magia, accosta immediatamente l’essere umano alla statua, cioè a un essere divino e superiore. E quanto al nero artificiale che cerchia l’occhio e al rosso che segna la parte superiore della guancia, benché l’uso derivi dallo stesso principio, che è il bisogno di superare la natura, il risultato vale per soddisfare un bisogno del tutto opposto. Il rosso e il nero rappresentano la vita, vita soprannaturale e smisurata; il bordo nero fa lo sguardo più profondo e singolare, dona all’occhio un’apparenza più risoluta di finestra aperta sull’infinito; il rosso che infiamma i pomelli accresce vieppiù la luminosità della pupilla e insinua in un bel volto femminile la misteriosa passione della sacerdotessa15.

Ugualmente Flaubert in due frammenti elogia l’artificio. In uno elogia il guanto e la polvere di riso come antinatura, e nell’altro celebra l’eroismo di una Madame Dumesnil che sopporta le angherie del marito che però la copre di trine e di vestiti. Così che lei «si corica in un’onda di trine»16. 7. L’età del realismo e del naturalismo è di fatto un’età antirealista, e antinaturalista. Lo è anche nel patrono del naturalismo, in Zola, mentre Courbet prosegue il suo apostolato e nel 1863, in una lettera a Proudhon, afferma che bisogna «bandire il misterioso, il meraviglioso, non cedere all’incomprensibile». La bandiera del realismo diventa via via la bandiera di un impegno sociale che comincia a definirsi dall’inizio degli anni Cinquanta. Mentre nel 1848, durante la rivoluzione, Courbet si era dichiarato estraneo ai movimenti politici, nel 1851 scrive al redattore del «Messager de l’Assemblée»: «Garcin mi definisce un pittore socialista. Accetto volentieri questa definizione; non sono soltanto socialista, ma anche democratico e repubblicano, e in una parola partigiano di ogni rivoluzione, e per di più realista». Il realismo è per Courbet ormai un impegno totale perché «realista significa amico sincero della vera verità». Così Courbet rifiuta la Legion d’Onore, così partecipa alla Comune di Parigi, così sconta il suo impegno con il carcere. 8. Zola, che si è voluto profeta del realismo e del naturalismo, di fatto di fronte al suo pittore prediletto, di fronte a Manet, parla di una pittura fatta macchie. Il soggetto della pittura di Manet, per Zola, è dunque la pittura stessa: le macchie di colore che significano intransitivamente se stesse17. Zola apre così la strada, che porta a definire l’arte moderna come l’arte che non rappresenta altro che se stessa, come diranno critici come Michael Fried, Michel Foucault, Pierre Bourdieu. Nello stesso anno in cui Zola scrive questo per Manet, nel 1866, scrive anche, in polemica con Proudhon, su Courbet in un testo intitolato Mes haines, «i miei odi». Zola non odia Courbet. Odia 113


L’arte e il tempo

Proudhon che ha cercato di trasformare un grande pittore come Courbet in «un maestro di villaggio». Courbet, al contrario, è una personalità, che ha iniziato «imitando i fiamminghi e alcuni maestri del Rinascimento. Ma la sua natura si è ribellata ed è stato trascinato con tutta la sua carne – con tutta la sua carne, capito! – verso il mondo materiale che lo circonda, donne grasse e uomini pesanti, campagne lussureggianti»18. Manet è dunque un pittore quasi astratto mentre Courbet è un pittore sensuale, di una magnifica sensualità. Courbet infatti disprezza l’Olympia di Manet, che gli sembra la donna del mazzo di carte, a cui contrappone la magnifica carnalità della sua La Femme au perroquet, a cui risponde a sua volta Manet con una sua diafana Jeune dame en 1866, anch’essa con il suo pappagallino. 9. Zola si vuole teorico di un realismo e un naturalismo che si fonda su presupposti scientifici che dovrebbero reggere l’immenso affresco di Les Rougon-Macquart. Eppure non si riconosce nel richiamo alla realtà e alla natura di Courbet. Zola è tra Manet e Cézanne, e proprio Cézanne offre una lettura completamente diversa del realismo, che sta alla base di ciò che lui chiama réalisation, che per lui significa rendere reale ciò che si dà a noi come mero oggetto. Significa interrogare la montagna della Sainte-Victoire per scoprire le «migliaia di compiti che essa propone», come scrive Rilke19. Ma il surnaturalismo di Zola si manifesta nel suo grande romanzo L’Œuvre, la storia di Claude Lantier, un pittore che racchiude in sé tutto ciò che Zola vede nella pittura. Claude Lantier, come vedremo anche più avanti, va oltre il visibile, per accedere a ciò che non è visibile, in un’oltranza allucinatoria, che non ha nulla a che vedere con la teoria del naturalismo teorizzata dallo stesso Zola, ma piuttosto con ciò che Baudelaire ha definito surnaturalismo. Ciò che vede Lantier è Parigi, ma egli non si accontenta di ciò che vede. Vuole vedere il segreto di Parigi, che cercherà infine di cogliere dipingendo in modo ossessivo e allucinato un’immane donna nuda20. All’inizio era una chiatta con degli operai all’Île de la Cité, che sono poi sostituiti da tre bagnanti, «la terza ritta, nuda sulla prua, di una nudità così splendente che raggiava come un sole». Un tradimento della teoria del realismo, a cui si erano votati proprio in superamento del romanticismo, così lo rimproverano gli amici. Un tradimento dello spirito di un pittore moderno, «che si piccava di dipingere solo la realtà» e che invece «imbastardiva un’opera introducendovi simili immaginazioni». Alla fine Lantier si uccide. La moglie lo trova impiccato, che oscilla davanti a quella che viene definita «la sua opera mancata». Claude è arrivato all’irrappresentabile? Ha sfiorato l’invisibile, oppure ha fallito, come crede la moglie, come credono i suoi pochi amici che lo accompagnano al cimitero, e come in fondo ha creduto lui stesso? 114

Courbet e Baudelaire. La questione del realismo

Di fatto Zola, anche contro le sue convinzioni, ha prefigurato in quel grande romanzo, che va anche oltre Manet, il senso profondo dell’arte moderna, che ha reciso ogni rapporto con una dimensione mimetico-rappresentativa. La donna dipinta da Lantier non è da nessuna parte. È però di fatto identica a Nuda veritas che Gustav Klimt ha dipinto tre anni dopo, nel 1899. 10. La questione del realismo torna periodicamente a tormentare artisti, scrittori, intellettuali. Nel secondo Dopoguerra diventano dominanti le teorie zdanoviane, sostenute da grandi intellettuali italiani all’interno del partito comunista e della casa editrice Einaudi. Anche un grande filosofo come György Lukács nel suo Saggi sul realismo, uscito in traduzione italiana nel 1950, celebrava la letteratura realista del xix secolo e condannava come decadente quasi tutta la grande letteratura del xx secolo21. È stata una grande battaglia culturale, che si è ripresentata in forme ben più modeste nella proposta di «nuovo realismo» che è stata avanzata in questi ultimi anni da alcuni filosofi, che certamente non hanno l’influenza di Lukács, e che non controllano la vita culturale, ma tuttalpiù qualche concorso universitario. E Courbet? Courbet ha un lato quasi eroico nell’ostinata affermazione di un’angusta teoria del realismo che non rispondeva alla ricchezza lussureggiante della sua opera. Courbet non ha avuto una continuità come Manet e come Cézanne, ma certamente è ricordato come un pittore immenso, che ha realmente chiuso nel passato sia Ingres che Delacroix. La risacca del mare dipinta da Courbet e il fruscio delle foglie dei suoi alberi e dei suoi boschi hanno risuonato forte nella sua epoca, ma continuano a risuonare e cantare anche nei nostri giorni. Al di là delle questioni ideologiche è una musica che continuiamo a sentire. Fa parte di noi. Ogni volta che vado a Parigi c’è un appuntamento con Courbet all’Orsay, nella sua sala così prossima a quella in cui sta l’Olympia di Manet. È un appuntamento fisso, è l’appuntamento con la meraviglia di un artista, ideologicamente limitato, che sembra però possedere tutti i colori del mondo.

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G. Courbet, Écrits, propos, lettres et témoignages, a cura di R. Bruyeron, Hermann, Paris 2012 (abbeviato nel testo in Ecrits), p. 17. Cfr. anche Correspondance, a cura di P. Ten-Doesschate Chu, Flammarion, Paris 1992. Su Courbet cfr. M. Fried, Courbet’s Realism, Chicago University Press, Chicago-London 1990. 2 P. Bourdieu, Manet. Une révolution symbolique, ed. a cura di P. Casanova, P. Champagne, Ch. Charle, F. Poupeau e M.-C. Rivière, Raison d’agir-Seuil, Paris 2013. Su Manet cfr. anche M. Fried, Manet’s Modernism or the Face of Paintings in the 1860s, University of Chicago Press, Chicago 115


L’arte e il tempo 1996, tr. fr. Le modernisme de Manet, Gallimard, Paris 2000 e F. Rella, Il segreto di Manet, Bompiani, Milano 2017. 3 M. Foucault, La pittura di Manet, a cura di M. Saison, con uno scritto di C. Talon-Hugon, tr. it. di S. Paolini, Abscondita, Milano 2005. 4 W. Hoffmann, L’atelier de Courbet, Macula, Paris s.d. 5 C. Baudelaire, Œuvres complètes, cit., vol. ii. 6 C. Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 2012, p. 1171. 7 C. Baudelaire, Correspondance, a cura di C. Pichois e J. Ziegler, vol. ii, Gallimard, Paris 1973. 8 C. Baudelaire, Œuvres complètes, vol. ii, cit., p. 329. 9 C. Baudelaire, Ultimi scritti, a cura di F. Rella, Feltrinelli, Milano 1995. 10 C. Baudelaire, Correspondance, cit. Baudelaire è amico di Manet. Passava serate ascoltando la moglie dell’amico suonare Wagner al pianoforte. Tanto più aspra, come vediamo subito, è la presa di posizione nei confronti di Manet e di tutta l’arte che in Manet si rappresenta. 11 C. Baudelaire, Opere, cit., p. 1099. 12 C. Baudelaire, Opere, cit., pp. 870-871. 13 G. Flaubert, L’opera e il suo doppio. Dalle lettere, a cura di F. Rella, Fazi, Roma 2006. Più sotto, G. Flaubert, Bouvard e Pécuchet, a cura di F. Rella, Feltrinelli, Milano 1998. 14 Pubblicata negli Ecrits, cit. 15 C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in Scritti sull’arte, cit. I corsivi sono miei. Ho già ricordato più sopra questo passo, che è decisivo per la definizione di una teoria del Moderno che già compiutamente si articola in Baudelaire. 16 G. Flaubert, Carnets de travail, a cura di P.M de Biasi, Balland, Paris 1988, p. 234 e p. 385. 17 É. Zola, Mon salon – Manet. Écrits sur l’art, Garnier Flammarion, Paris 1970. 18 É. Zola, Mes haines, a cura di François-Marie Mourad, Flammarion, Paris 2012, pp. 384-386. 19 R.M. Rilke, Verso l’estremo. Lettere su Cézanne e l’arte come destino, a cura di F. Rella, Pendragon, Bologna 2007. 20 É. Zola, L’Œuvre, in Les Rougon-Macquart, vol. iv, Études, notes et variantes, a cura di Henri Mitterand, Gallimard, Paris 1966, su cui tornerò più avanti nel capitolo x. 21 G. Lukács, Saggi sul realismo, tr. it. di M. Brelich e A. Brelich, Einaudi, Torino 1950.

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IX. Freud e Leonardo

Premetto che in fatto d’arte non sono un intenditore, ma un profano. Ho notato spesso che il contenuto di un’opera d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le sue qualità formali e tecniche alle quali l’artista attribuisce invece un valore primario. Per molte manifestazioni e per più di un effetto dell’arte mi manca propriamente l’esatta comprensione. Sigmund Freud Dobbiamo ammettere che anche l’essenza della creazione artistica ci è inaccessibile dal punto di vista della psicoanalisi. Sigmund Freud

1. Ho già ricordato proprio all’inizio di questo libro l’affermazione di Marina Cvetaeva in Indizi terrestri che l’essenza del sorriso della Gioconda è l’inesorabilità dell’interrogativo che questo sorriso propone. È – afferma – l’interrogativo stesso che costituisce «l’assoluto della sua risposta». Qui è dato «il Mistero, il mistero come essenza e l’essenza come mistero. È dato il mistero in sé». Il sorriso della Gioconda è dunque l’enigma che questo stesso sorriso esprime, un enigma che non ha soluzione, e che ogni volta si ripropone in quanto tale. Ma è proprio il mistero che ha attratto e che continua ad attrarre spingendo a interrogare questo sorriso e a proporre diverse e talvolta bizzarre spiegazioni. È giusto ricordarlo nuovamente in quanto a questa fascinazione non è sfuggito nemmeno Freud che si confronta con Leonardo in un saggio del 1910 intitolato Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci. È un faccia a faccia straordinario che forse ci rivela più cose di Freud che di Leonardo1.

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L’arte e il tempo

2. C’è un breve racconto autobiografico di Leonardo, che abbiamo letto anche nelle antologie scolastiche e che propongo qui quasi come un esergo, un motto d’apertura al mio discorso: ... e tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa2.

Leonardo si tende verso l’oscuro. Questa tensione è nello sguardo, ma attraversa anche tutto il suo corpo. Egli si china e, sostenendosi sul ginocchio, si protende verso la buia profondità preso da una inquietante ambivalenza: «Paura di ciò che nell’oscuro poteva nascondersi e desiderio proprio di quel nascosto». Leonardo non dice se poi nella caverna egli sia entrato o no, se sia stata più forte la paura oppure se abbia avuto il sopravvento il desiderio. Ciò che emerge in questo testo è stato nominato da Freud con il termine Wissentrieb, pulsione, spinta al sapere, che probabilmente è stata la spina e la spinta che ha mosso la filosofia lungo tutta la sua storia. È lo stesso Wissentrieb che ha portato anche Freud di fronte a una sorta di buia caverna che affonda nelle profondità del soggetto, tanto che, non a caso, egli pone come motto di apertura della sua Interpretazione dei sogni un verso tratto dall’Eneide di Virgilio, successivo all’esperienza di Enea della Sibilla cumana e dell’oltretomba: Flectere si nequeo superos, acheronta movebo3. La teoria di Freud muove dall’oscuro e dalla notte e dalle figure che emergono dalla notte e dal sogno, che è il Königsweg, la via maestra, la via regia per giungere all’inconscio. L’inconscio parla più di un dialetto, scrive Freud, e dunque con il suo plurilinguismo manda segnali ambigui, come la Sibilla di Cuma che, come scrive Virgilio, «avvolge il vero con l’oscuro». O come la Pizia greca che, come dice Eraclito, «non dice e non nasconde, ma accenna…». È la voce ambigua del sintomo che deve essere interpretato, in un’analisi che Freud non esita a definire, quasi alla fine della sua vita, «interminabile», e che procede via via per progressivi scavi e costruzioni, vale a dire con delle narrazioni – sulle quali torneremo più avanti – attraverso cui l’analista e l’analizzato compongono i frammenti che emergono dalla grotta dell’inconscio4. 118

Freud e Leonardo

3. Leonardo e Freud, due esploratori. Due esempi di quella conversione dell’esplorazione sessuale dell’infanzia in ansia di sapere, in volontà di sapere che può giungere anche ad eccessi o, come dice Robert Musil ne L’uomo senza qualità, a una perversione quando essa diventa una passione: «Un atteggiamento illecito, in fondo, perché come la dipsomania, l’erotismo, la violenza anche la smania di sapere foggia un carattere non equilibrato». Il ricercatore rischia di subire la sua passione, diventando un dipsomane della realtà e questo fa di lui «una creatura piena di contraddizioni, passiva e tuttavia straordinariamente energica»5. Sembra questo il ritratto di Leonardo tracciato da Freud: un uomo passivo e al tempo stesso straordinariamente energico, pieno di attività che tende però a non portare a termine. Persino i suoi straordinari dipinti sono per così dire incompiuti, o almeno da lui considerati tali. 4. Leonardo è un enigma, Leonardo è un mistero. Freud lo ripete continuamente. Ma in una lettera del 17 ottobre 1909 egli scrive a Jung: «Il mistero del carattere di Leonardo da Vinci mi è diventato improvvisamente trasparente». Freud è in attesa di libri e materiali, ma «nel frattempo voglio svelarle il segreto […]. Anche il grande Leonardo nei suoi anni infantili ha trasferito la sua sessualità nella pulsione di sapere (Wissentrieb) ed è rimasto fermo alla esemplarità del fallimento» a cui sembra votata l’esplorazione sessuale infantile6. Il «mistero Leonardo» ora si è aperto. Freud tiene il 1° novembre del 1909 una conferenza alla Società psicoanalitica di Vienna. Il 5 aprile 1910 il saggio è già pronto, ed è stampato nel maggio dello stesso anno. Freud si fissa su un ricordo d’infanzia che Leonardo ha inserito a margine di uno dei suoi protocolli scientifici in cui studia il volo degli uccelli. Un ricordo, che risale ai suoi primi anni di vita: Questo scriver sì distintamente del nibbio par che sia mio destino, perché nella mia prima ricordazione della mia infanzia e’ mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e mi aprissi la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotesse con tal coda dentro alle labbra.

Freud non crede che questo sia davvero un ricordo d’infanzia, ma piuttosto una fantasia che Leonardo retrocede fino all’infanzia. A questo punto Freud, che pure leggeva l’italiano, viene tradito dalla traduzione tedesca sia del testo di Leonardo sia de Il romanzo di Leonardo da Vinci di Merežkovskij, che lo aveva molto colpito7. Nibbio viene tradotto in entrambi i casi con il termine «Geier», vale a dire «avvoltoio». Freud interpreta il testo di Leonardo: la coda dell’uccello è il sesso maschile proietta119


L’arte e il tempo

to fin dentro la bocca in una fellatio, ed è contemporaneamente il seno della madre che allatta. Freud sostiene questa che lui stesso definisce «stranezza», con «una seconda ancora più sorprendente». La dea egizia Mut, la dea della maternità, ha una testa di avvoltoio e per di più è fornita di un fallo. Freud non manca di osservare in un inciso che Mut e Mutter presentano una curiosa assonanza. Comunque nella dea «troviamo la medesima unione di caratteristiche materne e virili che compare nella fantasia di Leonardo». Di qui una serie di azzardate ipotesi che si confermano reciprocamente fino al presunto conto spese per il funerale della madre. Nei diari di Leonardo sono annotate anche le spese sostenute per i suoi allievi. Freud ne trae la conclusione che la notazione delle spese per il funerale e per i vestiti degli allievi abbiano uno stesso fondamento. Ne deduce che «la madre e gli allievi, immagini della sua stessa bellezza di adolescente, sarebbero stati i suoi oggetti sessuali nella misura in cui la rimozione sessuale in lui dominante consente tale caratterizzazione – e la coazione a registrare con puntigliosa meticolosità le spese sostenute per loro sarebbe la sorprendente rivelazione di questi conflitti rudimentali». 5. Sorprendente è il piglio con cui Freud giunge a conclusione facendo in modo che tutti i conti tornino e segnino la stessa cifra. Così nella dominante della figura o del fantasma della madre Freud giunge a confermare il suo sospetto che «il sorriso di Monna Lisa del Giocondo risvegliasse nel Leonardo della maturità il ricordo della madre dei suoi primi anni». Questa conclusione è confermata anche dal dipinto Sant’Anna, la Vergine e il bambino, in cui abbiamo due madri, forse la madre naturale, e la moglie del padre da cui viene accolto in casa quando egli aveva cinque anni. Entrambe le figure, sant’Anna e la Vergine, hanno lo stesso sorriso, ed è il sorriso della Gioconda: è il sorriso della madre che, secondo Freud, si ripeterà d’ora in poi in tutti i suoi dipinti. 6. I conti tornano o vengono fatti tornare. Freud riporta in nota al suo saggio un testo del Pastore Pfister, suo antico e fedele interlocutore, che vede, e cerca di far vedere, nel quadro di Sant’Anna, la Vergine e il bambino, celato nel dipinto, un avvoltoio, con tanto di coda che si spinge verso la bocca del bambino. Freud è cauto su questa ipotesi. Sta di fatto che per quanto fantasiosa e infondata la leggiamo in coda al suo testo8. 7. Eppure il Leonardo di Freud è prezioso. Freud insegna che bisogna andare «dietro i frammenti di ricordi» dove sono celate «inestimabili testimonianze». Infatti per l’analista «nulla è troppo piccolo per manifestare processi mentali nascosti; da lungo 120

Freud e Leonardo

tempo ha imparato che dimenticanze o ripetizioni sono colme di significato»9. Sembra far eco a questa osservazione del Leonardo un passo tratto dal Mosè di Michelangelo10. Il Mosè di Michelangelo, come la Gioconda di Leonardo, sono di una straordinaria bellezza estetica. Già Hölderlin aveva messo in guardia nei suoi saggi su Sofocle sul fatto che la bellezza e la perfezione formale potevano nascondere le verità più profonde ed è partendo di qui che Benjamin nel suo saggio Le “Affinità elettive” di Goethe avverte che la critica deve rompere l’unità dell’opera per confrontarsi con un frammento del mondo vero11. Si tratta di confrontarsi con la pluralità di sensi che l’opera contiene ed esprime che viene occultata da una totalità estetica. E questo significa operare «in base a elementi poco apprezzati o inavvertiti, al rimasuglio – ai rifiuti – dell’osservazione»12. Bisogna discendere «dalle astrazioni sostitutive ai piccoli dettagli», e ciò significa «prima scomporre e poi ricomporre», vale a dire: interpretare e costruire, come scrive al pastore Pfister il 5 giugno 1910 e 9 ottobre 191813. Ma questa attenzione «micrologica», questa «anatomia microscopica», nasce dall’attenzione a ciò che – inevitabilmente – non può essere totalmente risolto nel dominio della rappresentazione. L’analisi dovrà partire da questo spazio – da questi dettagli e rimasugli – per interpretare e quindi farsi carico di tutte le stratificazioni dell’opera in costruzioni successive. Kafka, come abbiamo più volte ricordato, ha dato un nome a questa pratica: zerstörende Aufbau, vale a dire una costruzione che muove attraverso una decostruzione. 8. Nel mio libro La critica freudiana accanto a considerazioni analoghe aggiungevo questa nota: «Un esempio straordinario di questo tipo di analisi e di “costruzione critica” stratificata è costituito dallo stupendo Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, in cui, attraverso l’analisi dei verbali di un processo di eresia a un mugnaio friulano del xvi secolo (una sorta di “rimasuglio” della storia “ufficiale”), viene costruito criticamente il tessuto storico e culturale (e le contraddizioni che lo solcano), anche se in esso il nome di Freud non viene mai fatto»14. Ho poi discusso in un’occasione, nel 1977 o nel 1978, questo aspetto con Ginzburg. In un certo senso, in modo molto marginale, tenevo anch’io a battesimo il termine della «microstoria», in cui il nome di Freud invece compare ampiamente15. È di qui che Freud arriva progressivamente a quel breve straordinario saggio del 1937, Costruzioni nell’analisi, nel quale si teorizza una sorta di dimensione narrativa dell’analisi in cui anche la storia dell’avvoltoio potrebbe avere cittadinanza. Non ci spiegherebbe forse il sorriso della Gioconda, ma aprirebbe – come di fatto ha aperto – prospettive inedite al sapere critico del Moderno. 121


L’arte e il tempo

9. Dunque, come abbiamo visto, l’analisi deve scoprire, o per essere più esatti, costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste. Di qui muove Freud in Costruzioni nell’analisi. «Questo lavoro di costruzione o di ricostruzione è simile a quello dell’archeologo. Entrambi, l’analista e l’archeologo, hanno il diritto di costruire mediante interpretazioni o ricomposizioni il materiale rimasto», ma mentre «per l’archeologia la ricostruzione coincide con la meta e il termine di tutti gli sforzi per l’analisi questo è soltanto un lavoro preliminare». A questo punto in luogo di interpretazione, che rinvia all’analisi di un singolo elemento, Freud propone di usare il termine più preciso di costruzione. L’analista compone gli elementi – i frammenti – che emergono dall’analisi in una storia, in un racconto, che non pretende la verità, anzi si propone come una finzione, anche se, come dice Freud citando Shakespeare, si afferra spesso la carpa della verità con l’esca della menzogna16. L’analizzando può rispondere al racconto che gli è proposto con un «sì» o con un «no», ma «l’unica interpretazione sicura» del sì come del no «rinvia all’incompletezza; certamente la costruzione non ha detto tutto». Certamente nessuna interpretazione, nessuna costruzione dirà mai tutto. Il movimento è «genealogico», ed è il movimento inaugurato da Nietzsche. Se nel sintomo abita un passato irredento che preme sul soggetto, si tratta di riportare gli elementi che emergono nell’analisi al «punto del passato a cui propriamente appartengono» perché si possa aprire tra passato e presente una tensione da cui emerge il senso stesso di un’esistenza che si proietta anche sul futuro. Anche per Freud, che ha affermato che i suoi casi clinici si leggono come romanzi e che ha affermato il diritto a una Bildersprache, un linguaggio di figure, l’analisi è un atto poietico, un fatto «artistico» dietro al quale sta appunto uno sconvolgimento del concetto abituale di temporalità. Per Nietzsche, per Freud, per Proust e per Benjamin non è la prossimità temporale che stabilisce la contemporaneità di due eventi o di due forme, ma è l’atto interpretativo, l’atto poietico e poetico che li accosta, facendo emergere quella tensione che rende entrambi significanti: che fa emergere, in una parola, il senso nello spazio della loro tensione. 10. Freud ha definito il suo Leonardo «un romanzo psicoanalitico» e in una lettera a H. Struck del 7 novembre del 1914 «una composizione romanzesca». Nella prospettiva per così dire narrativa di Costruzioni nell’analisi siamo nel cuore stesso della procedura analitica. Ma a questo punto sorge un sospetto, un interrogativo. Freud si è confrontato con il Wissentrieb di Leonardo, dell’esploratore della buia caverna, costruendo, come abbiamo visto, un’altra caverna più buia, più vasta, più intricata. È 122

Freud e Leonardo

possibile che con il suo romanzo psicoanalitico abbia cercato un confronto anche sul piano artistico? Freud ha chiamato romanzi anche i suoi casi clinici. Leonardo era un grande artista e uno scienziato. Freud era uno scienziato e un grande artista, vincitore del premio Goethe, in cui Thomas Mann riconoscerà un suo simile. Harold Bloom, che tanto spazio ha dato a Freud nelle sue analisi poetiche e letterarie, avrebbe probabilmente ipotizzato una «angoscia dell’influenza»17. L’ansia del confronto con un grande predecessore.

1

S. Freud, Un ricordo d’infazia di Leonardo da Vinci, tr. it. di E. Luserna, in Opere, cit., vol. vi, 1974. Leonardo da Vinci, Scritti letterari, a cura di A. Marinoni, in A. Asor Rosa, Letteratura italiana, Opere, vol. i, Einaudi, Torino 1997, p. 115. 3 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, tr. it. di E. Luserna, Opere, i, 1966. 4 S. Freud, Costruzioni nell’analisi e Analisi terminabile e analisi interminabile, tr. it. di R. Colorni, Opere, vol. ix, 1979. 5 R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 242. 6 Lettere tra Freud e Jung, tr. it. di M. Montinari e S. Daniele, Boringhieri, Torino 1974. 7 D.S. Merežkovskij, La Resurrezione degli dei. Il romanzo di Leonardo da Vinci (1901), tr. it. di M. Visetti, Aldo Martello, Milano 1971. 8 S. Freud, Un ricordo d’infazia di Leonardo da Vinci, cit., pp. 283-284. 9 S. Freud, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, cit., p. 231 e p. 259. 10 S. Freud, Il Mosè di Michelangelo, tr. it. di S. Daniele, Opere, vol. vii, 1975. 11 F. Hölderlin, Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, SE, Milano 1987 e W. Benjamin, “Le Affinità elettive” di Goethe, in Opere complete, cit., vol. i, 2008. 12 S. Freud, Il Mosè di Michelangelo, cit., p. 321. 13 S. Freud, Psicoanalisi e fede. Carteggio col Pastore Pfister 1909-1939, tr. it. di S. Daniele, Boringhieri, Torino 1970. 14 F. Rella, La critica freudiana, Feltrinelli, Milano 1977 e C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 1976. 15 C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in A. Gargani, Crisi della ragione, Einaudi, Toirno 1979. 16 Ho già richiamato nel secondo capitolo questo testo che considero una delle acquisizioni teoriche maggiori di Freud. 17 H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, tr. it. di M. Diacono, Feltrinelli, Milano 2002. 2

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X. Volti e paesaggi

Il nero assoluto non esiste realmente. Ma, come il bianco, è presente quasi in tutti i colori e va a creare la varietà infinita dei grigi (…). Colorista (…) è l’uomo che sa trovare i grigi della natura sulla sua tavolozza. Vincent van Gogh I bordi degli oggetti fuggono verso un centro posto sul nostro orizzonte. Paul Cézanne Ci sono pochi quadri moderni che esprimono modernamente (nel senso più assoluto) il cadere di una foglia. Umberto Boccioni

1. Lo stupore della ragione La filosofia ha inizio dallo stupore. Così avevano detto Platone nel Teeteto e Aristotele all’inizio della Metafisica. Schelling ha affermato la stessa cosa nel 1806, nel primo degli Aphorismen über die Naturphilosophie, ipotizzando uno stato «primordiale» del pensiero, là dove la pura esistenza senza riguardo al modo e alla forma della medesima dovrebbe apparire a chiunque come un miracolo e dovrebbe riempirgli l’animo di stupore: come era innegabilmente l’osservazione della pura esistenza che nelle percezioni primitive sopraffaceva l’animo di spavento e in una sorta di sacro terrore1. 125


L’arte e il tempo

Ma questo «stupore», questo stato primitivo che poteva essere riattivato in un’ipotesi storica sull’origine del pensiero e della filosofia, diventa, nelle lezioni degli anni Quaranta, le lezioni della Filosofia della rivelazione, un autentico e insormontabile terrore verso ciò che è «meramente esistente». Fallito il grande tentativo di un’erotica del sapere della Frühromantik, e respinta la metafisica del progresso per cui «tutto accade affinché possa accadere qualcosa d’altro, che a sua volta, andando verso un altro, trascorre nel passato», il pensiero si trova effettivamente di fronte alla «pura esistenza senza riguardo al modo e alla forma della medesima». Si trova di fronte all’orrore di questa indicibile esistenza2. L’uomo spinge la sua interrogazione fino a quella che pare essere l’ultima domanda: «Perché in generale c’è qualcosa? Perché non c’è il nulla?»3. Quindi si spinge anche oltre questa domanda, a ciò che «è al di là di ogni essere», al di là di ogni rivelazione, «in un completo deserto di ogni essere», ove non «c’è nulla che sia in qualche modo esistente». Eppure, anche in questo deserto, l’uomo incontra ancora la «potenza ad essere», la possibilità, che «è l’unico contenuto immediato del pensare»4. Ma c’è anche un oltre a questo oltre. Un al di là del deserto, un «ultimo che non trapassa più all’essere»: l’ente stesso, l’«ente nella sua verità». Questo maxime conoscendum, l’oggetto primo e ultimo della conoscenza, è in realtà qualcosa che va al di là della ragione, «che perciò essa deve lasciare a un’altra conoscenza e cioè all’esperienza». È qui che la filosofia rovescia paradossalmente il suo tempo e il suo modo, in quanto nell’ente stesso «la potenza è il posterius e l’atto il prius». La potenza è quindi «la potenza di essere rovesciata»5. Questo rovesciamento porta a riconoscere nel meramente esistente l’«essere indipendente da ogni idea, dunque anche dall’ultima idea della filosofia negativa». Infatti «il semplicemente, il soltanto esistente è proprio ciò attraverso cui tutto ciò che scaturisce dal pensiero viene fatto cessare, ciò dinanzi a cui il pensiero ammutolisce, dinanzi al quale la stessa ragione si piega». Qui, ormai, «il pensiero non ha più peso». L’ente che è prima di ogni possibilità, l’inizio del pensiero stesso, «non è esso stesso ancora pensabile». Il meramente esistente è ciò da cui è esclusa ogni idea, ovvero è un’idea rovesciata. La ragione, riconoscendo questo ente come assolutamente fuori di sé, è, «in questo porre, posta fuori di sé, assolutamente estatica». Questo «pensiero inevitabile» è l’abisso in cui tutto può sprofondare, anche l’idea stessa di Dio, in quanto è una contraddizione porre «il semplicemente esistente e poi porlo già come qualcosa, come un concetto», come un’idea. Qui la ragione è incatenata: «non è più nulla, non può più nulla». 126

Volti e paesaggi

Questo essere «immemorabile», unvordenkliche, che non può essere pensato prima, dirà a un certo punto Schelling, «è posto soltanto per allontanarsi da esso». Il punto di partenza «della filosofia è pertanto non il già esistente, ma ciò che sarà, e il nostro primo compito è ora appunto di penetrare nella sua essenza, o di determinarlo più da vicino, secondo questo concetto dell’assolutamente futuro – di ciò che sarà». Sembra quasi che Schelling abbia evocato l’immagine dell’abisso per potervi affondare la filosofia negativa e per poter così procedere sulla via della filosofia positiva che, in una sorta di ripetizione dell’origine del pensiero, passa attraverso questo «terrore sacro» per accedere alla potenza mitica, e quindi alla rivelazione positiva della verità. Ma la «soluzione» di Schelling in realtà non ha risolto nulla. Egli ha descritto realmente una situazione che pare «inevitabile» e «inaggirabile»: una distesa di cose, o una «cosa», di cui non è possibile dire nulla, perché non esiste alcun potere su di essa. È una trascendenza terribile, «una esistenza troppo forte», come dirà Rilke nella prima delle Elegie duinesi6. Questa «troppo forte esistenza» è effettivamente «terribile», in quanto toglie al pensiero anche la possibilità del nulla. Così scrive Levinas: Immaginiamo il ritorno al nulla di ogni cosa, essere e persona. Incontreremo il puro nulla? Resta, dopo questa distruzione immaginaria di tutte le cose, non qualche cosa, ma il fatto che c’è. L’assenza di tutte le cose torna come una presenza: come il luogo in cui tutto è oscurità, come una densità d’atmosfera, come una pienezza del vuoto o come il mormorio del silenzio.

In questa produzione del nulla «esso si afferma: il neutro, il puro “c’è” senza ulteriori possibilità di definizione»7. Le cose si distendono indifferenziate e indifferenti. Troppo forti perché esse siano annientate nel nulla, ma impercorribili, impraticabili, perché non è più dicibile la loro diversità, la differenza che le unisce in una tensione. Il sentimento di questo essere in una «sorta di eternità senza consistenza», in questo «grigio», è il sentimento della noia su cui ha scritto pagine terribili Kierkegaard in Enten-Eller e nei Diari. Questo luogo è stato percorso. Questo indescrivibile è stato presentato. Il suo eroe è «il re del paese piovoso» di Baudelaire, che governa su una realtà pietrificata come in un museo.

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L’arte e il tempo

2. In un paese piovoso Un paese piovoso, grigio, indescrivibile8. «Io sono come il re di un paese piovoso / ricco, ma impotente, giovane e tuttavia vecchissimo». Le cose che stanno accanto a lui, a questo re. Gli hanno comunicato la loro impermeabilità, la loro inafferrabilità, la loro intransitività. Nulla ha più colore, nulla ha più sapore, perfino la primavera ha perduto il suo odore. Egli ha lottato a lungo contro il tempo, che ingoia tutto, e che tutto copre, «come la neve immensa un corpo irrigidito», ma ormai, in questo «cadavere inebetito, scorre non sangue ma la verde acqua del Lete». Il regno di questo re è situato in un’epoca in cui, come in un’immane fantasmagoria, tutte le cose del mondo si affollano davanti all’uomo, nelle grandi esposizioni universali. Ma qui, come d’altronde in ogni luogo della grande città, le cose hanno perduto ogni «saggezza»9. Sono meri oggetti, assoluta determinatezza. Le idee stesse appaiono come «cose», come reliquie, come «le tombe in mezzo alle quali mi conduco», come scrive Flaubert10. Tentare di rianimarle significa «accumulare libri su libri, note su note», come Bouvard e Pécuchet, che si muovono in mezzo a dizionari, enciclopedie, manuali: in mezzo a tutti i libri in cui dovrebbe esserci il sapere che ci garantisce un rapporto con il mondo. Ma proprio perché non c’è alcun criterio, alcun valore, per ciò che essi contengono, che permetta di scegliere Bouvard e Pécuchet mettono in atto ogni cosa e ogni idea. In questo modo polverizzano letteralmente ogni cosa e ogni idea. Nulla resiste alla loro furia combinatoria. Non a caso, il grande libro che ne racconta la storia, termina con il gesto puro – e per questo disperato e folle, al di fuori di ogni ragione – della mera conservazione dell’esistente: anzi, della conservazione delle parole che designano l’esistente. Essi si limitano dunque a trascrivere dai libri ciò che non può prendere più alcuna forma, ciò che rimane un puro «epiteto» senza più alcuna «cosa» a cui unirsi o connettersi. Noia e bêtise sembrano ormai dominare, come ciò che non ha figura, tutto l’orizzonte umano. Le cose, nel momento stesso in cui vengono semplicemente trascritte e collezionate, senza alcun senso e senza scopo, che non sia la loro mera funzionalità, precipitano in un vortice, in una sorta di congelata vertigine, a cui Flaubert cercava di resistere con l’applicazione determinata e feroce a una perfezione formale, che egli stesso pensava come una rete tesa sull’abisso. Valéry ha avvertito forse più di ogni altro il senso di questo reale che si presenta allo stato puro; di questa condizione che egli ha paragonato a un forno spinto fino all’incandescenza, in cui tutto è «portato all’invisibilità e all’uguaglianza insensibile», che non è che «il disordine allo stato perfetto»11. Lo stesso disordine che troviamo nel museo 128

Volti e paesaggi

dove le cose, le opere, per il fatto di essere «situate», per il fatto di essere private della loro forza atopica, dovrebbero acquistare un valore assoluto. Ma il museo non è che il prolungamento della strada, e la strada non è che un immenso museo, in cui perfino l’uomo, il cervello, il suo pensiero «non è che un’esposizione universale di pensieri»12. De Chirico è il pittore emblematico di questa esistenza. Pittore dei «silenzi abissali» delle città, egli ha cercato di sfuggire al loro «tempo» ribollente e febbrile. Ha cercato di scavare sotto la loro superficie per trovare quella verità che forse le cose nascondono e che fuggono il «prestissimo» della vita moderna. Ha scoperto invece immagini che non sono che la copia delle figure del tempo metropolitano: manichini che sono senza storia, non perché affondino nelle profondità del passato, ma perché sono privi di passato, come i replicanti di Blade Runner nel film di Ridley Scott, e dunque sono privi di memoria e di esperienza. Nulla, né ricordo né speranza, può incidersi sul loro corpo, vera proiezione del corpo-macchina che l’arte voleva esorcizzare. Siamo oltre la stagione dei primi anni Dieci, delle piazze, degli orologi e delle Arianne. De Chirico è impegnato con i suoi manichini, con gli eroi del mito trasformati in manichini, che comunicano un angoscioso vuoto d’anima che è in realtà profondamente confitto nel cuore del tempo di quella città che sta già avviandosi a essere cosmopolis, come una sua ferita, una piaga. Dopo questa esperienza, de Chirico è passato coerentemente a dipingere per il museo, scoprendo e svelando una vocazione segreta, che scorre sotterranea e spesso misconosciuta all’interno di tutto il moderno: afferrare l’inafferrabile, arrestare l’impermanenza. Ma c’è stato anche chi ha cercato di affrontare e di vincere la sfida della «più forte esistenza». Chi ha cercato, in una parola, di rappresentare l’irrappresentabile. 3. Il paesaggio e il volto Il mondo si è trasformato in un grigio e autunnale paese piovoso. Ma nel grigio esiste un’infinita varietà, che è possibile delineare all’interno di figure, di immagini, che ripropongono l’immane molteplicità come infinita varietà13. Nutrito del sapere della sofferenza, da una volontà di amore e di disegno, van Gogh riesce a scorgere la straordinaria armonia che abita in «Paris tout gris», che egli ha imparato a vedere attraverso le pagine di Zola, là dove basta l’«effetto di una figura in nero e il cavallo bianco» per trasformare l’assoluto mormorio del silenzio in un quadro superbamente dipinto o disegnato14. La vita, la realtà, la natura è un mistero, e l’amore, che portiamo verso le cose o gli esseri, è «un mistero dentro un mistero» perché tutto cambia, tutto è flusso, come una 129


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marea «che lascia il mare inalterato». Ci vuole una capacità straordinaria, quella per esempio di Balzac o di Zola, che hanno saputo spingere le parole al calor bianco, fino al punto in cui esse hanno rivelato la passione nascosta, per illuminare questo immutabile mutamento, che sembra non avere senso15. È necessaria una fede, per poter affermare che anche «se non sarà mai, avrebbe potuto essere» (Lettera del 6 luglio 1882), e il possibile, creando una fessura nel reale, apre una strada anche all’inafferrabile, anche in ciò che pare indescrivibile. Van Gogh ha questa capacità straordinaria, questo «amore per la cosa» che gli fa sentire «la realtà esterna come un oggetto di desiderio», e che trasforma tutto in un paesaggio, il «dappertutto» nella sua casa. Così, quando viaggia nella notte, alle tre di mattino di novembre, verso Zweelo, su un carretto aperto, egli sente, al di là dei cigolii delle ruote del carro, in mezzo al canto dei galli che si leva ovunque nella brughiera, «cadere le foglie gialle» dai pioppi esili al di là della strada16. Van Gogh non sa nulla, o quasi nulla degli impressionisti17. Solo quello che il fratello gli ha comunicato nelle sue lettere. Non sa nulla del loro grande tentativo di descrivere le cose come si presentano agli occhi di un osservatore moderno, che non guarda più ad esse cadenzando la visione con il ritmo dei suoi passi, o con l’oscillare di una carrozza, ma con lo sguardo educato dalla velocità degli spostamenti, dalla repentinità dei mutamenti prospettici. Non conosce la loro apoteosi nel quotidiano: la sontuosità dei giardini borghesi e degli intérieurs vegetali di Monet, o dell’esplosione di movimento e di luce di Renoir. Egli si accanisce nell’osservazione della «cosa» finché riesce a dipingere una «oscurità che malgrado ciò ha la sua luce»18. È il grande quadro de I mangiatori di patate del 1885 (Museo Van Gogh di Amsterdam), in cui van Gogh sente di essere giunto a un risultato assoluto; sente di aver strappato le cose dalla grigia indifferenza, avendo scoperto la luce che è dentro di esse, quella luce che vince il buio. È a questo punto che egli scrive a Theo una lettera che è la dichiarazione di una straordinaria poetica, e una lucida riflessione sulla raffigurabilità del mondo19. Una testa virile o femminile è divinamente bella. «Ebbene, si perde l’armonia generale dei toni della natura con un’imitazione penosamente esatta, mentre la si mantiene ricreando una gamma cromatica parallela che non può essere precisamente quella del modello o addirittura ben diversa». È la via obliqua alla verità: l’accesso alla verità stessa che è proprio dell’arte. Questa via, che Schlegel e Novalis nella straordinaria tensione della Frühromantik avevano teorizzato come «necessaria finzione», può essere accusata come «una tendenza pericolosa verso il romanticismo, una mancanza di fedeltà al “realismo”». Ma «il romanticismo fa parte del nostro tempo e i pittori devono avere pure immaginazione e sentimento». Quando, per esempio, il pittore vuo130

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le dipingere le foglie di un paesaggio autunnale, dal momento che egli l’ha concepito come «una sinfonia di giallo», questa è la verità che egli deve rappresentare, a prescindere «se il giallo è lo stesso di quello delle foglie o meno». Zola, colui che è assunto come il manifesto del realismo e del naturalismo, «non pone uno specchio davanti alle cose, crea magnificamente, ma crea, infonde poesia, ed è per questo che è tanto bello. Questo è quanto ti dico del naturalismo o del realismo, che restano legati al romanticismo». Van Gogh, nella stessa lettera, annuncia l’invio di un quadro, una natura morta dipinta «d’impeto in una sola giornata», che è evidentemente l’illustrazione di questa poetica. Una natura morta: una Bibbia aperta – quindi in un tono spezzato di bianco – rilegata in cuoio, su uno sfondo nero, con «un primo piano giallo-marrone, e un tocco di giallo limone». È il quadro La Bibbia, conservato al Museo Van Gogh di Amsterdam. La Bibbia è indubbiamente «il libro del mondo», secondo una lunga tradizione studiata da Hans Blumenberg20. La macchia di giallo è un libro di Zola, La Joie de vivre, ed è quindi un mondo parallelo, la creazione dell’artista, l’unico modo per poter rappresentare la realtà che sfugge a ogni specchio possibile. Ecco dunque le due creazioni, e i due mondi: quello istoriato, bianco spezzato della creazione divina della natura, e la sinfonia di giallo, giallo marrone, e un tocco di limone, che esprimono la «gioia di vivere» dell’artista, che ha trovato finalmente il suo accesso alle cose, che sembravano per sempre perdute nel loro sempre uguale fluire. Da questo momento in poi van Gogh dipingerà soprattutto paesaggi. Anche i trentacinque autoritratti (venti nei pochi mesi che vanno dall’estate all’autunno del 1887) sono infatti paesaggi, e non, come ha creduto Tournier, confessioni e accuse21. Sono anzi i paesaggi più difficili, perché nessuna superficie è mutevole come quella del volto. Nessun luogo porta in sé, così profondamente inciso, il fluire del tempo, che sembra affondare negli avvallamenti e nelle pieghe della pelle, in attesa di riemergere. Artaud in un saggio straordinario, Le visage humain22, afferma che il volto umano non ha ancora la sua faccia «e spetta al pittore dargliela». Una responsabilità grande e inequivocabile per l’artista, che è chiamato ad assumersi questo compito di fronte al vuoto che incombe sul volto umano. È questo che, secondo Artaud, affiora di continuo dal volto e dai volti degli autoritratti di van Gogh23. È come se sul volto umano spirasse l’aura di una catastrofe imminente. È il pittore che deve salvarlo rendendo a quel volto i suoi propri tratti. Facendo di quel volto una faccia. Come abbiamo visto van Gogh pensa di essere ormai arrivato a questo. La pittura è la prosecuzione della sua attività missionaria nel Borinage. La joie de vivre sta accanto alla Bibbia. Ma breve è la gioia di vivere di van Gogh. Breve è la sua certezza di aver 131


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colto il «segreto» che trasforma una grigia distesa in un paesaggio pieno di luce e di movimento e di cose. Già nel 1888 egli pensa al pittore futuro, della prossima generazione, che saprà raffigurare quello che oggi sfugge. Inutile mettersi sulla via di Cézanne o di Zola24, perché, come vedremo, proprio Zola e Cézanne denunceranno la sparizione del paesaggio, che già van Gogh ora intuiva. In quello che dipinge c’è ormai come l’attesa di un «disastro», come nel Caffè di notte, in cui, in una «lievità giapponese e in una bonomia» apparente, «alla Tartarin», c’è l’incombere della rovina: «di una potenza tenebrosa quasi da mattatoio» (a Theo, 10 settembre 1888). O come nel dipinto della sua stanza ad Arles, in cui «non c’è altro – nient’altro in questa stanza con le persiane chiuse», ma in cui noi possiamo scorgere per esempio i suoi quadri, l’autoritratto sulla parete di destra, scivolare su di un piano inclinato, come fossero prossimi a un’infinita caduta (a Theo, metà ottobre 1888). Non è la malattia che determina il crollo. È l’incombenza del crollo, dell’inabissamento delle cose in una loro possibile irrappresentabilità, che muta il segno della sua malattia25. Il 24 aprile del 1890, l’anno della sua morte, egli esprime a Theo l’intenzione di rifare «il quadro dei contadini a tavola; effetti della luce della lampada». Egli teme che la tela sia ormai nera, forse di quel nero opaco in cui, egli aveva detto un giorno, non si doveva cadere. Non solo le cose, ma anche il mondo parallelo – che l’artista aveva creato per scoprire il segreto della loro luce interiore – stavano precipitando nel buio, nell’invisibilità. In luglio, pochi giorni prima della sua fine, van Gogh dipinge due quadri, Il municipio di Auvers e Campo di grano con volo di corvi. Quest’ultimo è a mio giudizio una delle opere più drammatiche della storia delle arti figurative. La tela, scrive Schapiro, «è singolare già per il formato largo e basso». Il suo campo «è più largo di quello dell’occhio». In esso ci sono tre sentieri che non conducono da nessuna parte. L’osservatore dunque «non ritrova l’orizzonte e tantomeno può raggiungerlo grazie ai sentieri che gli si offrono»26. Nel quadro dunque i «centri si sono dissolti. Le linee convergenti sono diventate sentieri divergenti, che rendono impossibile focalizzare il movimento verso l’orizzonte: il grande sole splendente è precipitato in una oscura massa indistinta e destituita di centralità»27. C’è un’unica cosa che tiene insieme il quadro, e che ci permette di leggerlo ancora come un paesaggio. È lo stormo di corvi. Ma i corvi volano verso di noi che guardiamo. Volano per uscire dallo spazio del quadro. Quando ne saranno usciti il paesaggio si inabisserà. Al suo posto regnerà una massa gialla, magmatica, in cui si aprono le tre ferite dei tre sentieri: lacerazioni inutili, che non scoprono nulla, e che a nulla conducono. 132

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Il magma del giallo allora si contrapporrà, in un conflitto catastrofico, con il buio incombente, che ha già inghiottito, come possiamo indovinare da due chiazze più chiare nell’oscuro, due soli che avevano perduto la luce e il calore. Anche la loro memoria è destinata a svanire, e la scomparsa della luce – la morte del sole – rimarrà come unico segno inequivocabile della fragilità che li ha annientati in un tutto indistinto. Solo il nero dei corvi trattiene il quadro dentro la nostra visibilità prima del conflitto catastrofico fra due masse che non hanno più senso. Tutto si muove perché l’amore della cosa è finito. Il quadro, il pittore, chi guarda il dipinto, tutti sono presi nella condanna che Goethe aveva espresso nelle Affinità elettive: «È compito terribile rappresentare l’irrappresentabile». In questo compito van Gogh aveva trovato la joie de vivre nel mondo parallelo dell’arte. Più in là, egli ha trovato l’oscurità accecante della tragedia. Forse era necessario andare ancora più oltre, ma su questa soglia van Gogh si era arrestato28. 4. I vapori di Parigi Nel 1885, l’anno in cui van Gogh dipinge I mangiatori di patate, e concentra nella natura morta con la Bibbia e la macchia gialla la sua poetica, Zola inizia la stesura di un romanzo, L’Œuvre29, che annuncia profeticamente il destino di van Gogh, e quello di Cézanne, che si è riconosciuto nel personaggio del libro fino al punto da interrompere ogni rapporto con lo scrittore, che era stato il grande amico della giovinezza, quello che lo aveva spinto al di là di ogni esitazione a intraprendere il suo destino di pittore. Il piano del romanzo risale almeno al 1869. Doveva essere, sulla via aperta dal Capolavoro sconosciuto di Balzac, un’opera sull’«eretismo dell’intelligenza», sulla «febbre moderna dell’artista»30. Nei piani più prossimi alla stesura definitiva de L’Œuvre, il problema diventa quello di cogliere «l’anima delle cose» e di rappresentare, in questo sforzo, la tensione di un’intera generazione. «Con Claude Lantier», l’artista, il pittore protagonista del romanzo, «voglio dipingere la lotta dell’artista contro la natura, lo sforzo della creazione dell’opera d’arte, sforzo di sangue e lacrime, per dare la propria carne, per fare della vita: sempre in lotta con il vero, e sempre vinto, la lotta contro l’angelo». In un altro appunto, questa lotta contro l’angelo, la lotta dell’artista con la sua creazione, si specifica: «Poi gli darò il sogno di pagine di immensa decorazione moderna, di affresco che riassuma tutta l’epoca; ed è lì che egli si spezzerà» (iv, 1353). Il pittore, impegnato in questo «affresco» che è riassunto di un’epoca, e dell’aspirazione di un’intera generazione di artisti di giungere a un’autentica rappresentazio133


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ne dell’epoca stessa, è «un Manet, un Cézanne drammatizzato; un po’ più vicino a Cézanne». Ma il libro non è la storia di Cézanne, né Claudie Lantier è assimilabile unicamente alla figura e alla poetica di Cézanne o di Manet. Come dice Mitterand, mezza dozzina di pittori ha contribuito a costruire questa figura, ma più di tutti vi ha contribuito lo stesso Zola. «Se io mi metto in scena, vorrei completare Claude o essergli opposto». Zola si è messo in scena con il nome di Sandoz, ma anche con il nome di Claude (tra l’altro suo pseudonimo in alcune opere giovanili). I problemi di Claude sono i problemi di Zola, anche se, in quanto Sandoz, Zola sfugge al «dramma terribile di un’intelligenza che divora se stessa». O sembra sfuggire, dal momento che il giudizio sul fallimento dell’opera, come vedremo, accumuna in questo caso l’Io e l’Altro, l’autore e il suo personaggio31. L’Œuvre esce a puntate sul «Gil Blas» dal 23 dicembre 1885 al 27 marzo 1886, e subito dopo in volume. Nel gennaio 1886 van Gogh scrive al fratello: «Ho visto per la prima volta un frammento del nuovo libro di Zola, L’Œuvre, il quale, come sai, esce a puntate sul “Gil Blas”. Penso che questo racconto, se avrà una certa popolarità, potrà fare del bene. Il frammento che ho letto è notevole». In effetti il problema che L’Œuvre solleva riguarda in primo luogo proprio van Gogh, che l’ha appunto salutata come un evento notevole, che «potrà fare del bene», e Cézanne che invece non ne ha affatto parlato e che ha sacrificato ad essa il suo rapporto con Zola. Li riguardava in primo luogo come i pittori che più radicalmente si erano assunti il compito terribile di rappresentare l’irrappresentabile. Claude è ossessionato dal desiderio di un’opera in cui tentare di mettere le cose, gli animali, gli uomini, l’arca immensa! E non nell’ordine dei manuali di filosofia, secondo la gerarchia imbecille in cui si culla il nostro orgoglio, ma nella piena colata della vita universale, il grande tutto, senza né alto né basso, né sporco né pulito.

La scienza sembra essere, come lo era stata per Balzac, e come lo sarà per Franz Marc, la via per giungere a questo. Ma, non appena Claude si volge a cercare una congruenza fra il suo proposito e il sapere scientifico, sente di annaspare. Non riesce cioè a vedere la via che lo porti «a vedere tutto, a dipingere tutto», per esempio sui lunghi muri delle stazioni, dei mercati, dei municipi: su tutto ciò che si costruirà «quando gli architetti non saranno più cretini»32. Questa sorta di «oltranza», questo desiderio di totalità, lo porta a uccidere la splendida armonia che riusciva a sprigionare sulle sue tele, «e nulla di chiaro e di vivo ve134

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niva più dalle sue dita»33. Persino la stupenda donna nuda che egli ha dipinto in una sorta di Déjeneur sur l’herbe che ricorda Manet, gli appare, come le donne raffigurate da Porbus a Frenhofer nel Capolavoro sconosciuto di Balzac, una «macchia vaga di cadavere, carne di sogno evaporata e morta» (P. iv, pp. 53 e 57). Parte per la campagna. Ma non era la pittura en plein air quella che Claude cercava. Non poteva essere soddisfatto dai grandi templi vegetali di Monet. Era Parigi, che egli voleva, il suo selciato, dove si è presi dalla febbre del suo rumore (p. 168). E una sera, dopo essersi ristabilito a Parigi, mentre sta tornando a casa con la sua donna, Christine, dopo una serata di accese discussioni con gli amici e i colleghi, rimane abbacinato dall’Île de la Cité, «quella culla e cuore di Parigi, dove da secoli viene a battere tutto il sangue delle sue arterie, nella perpetua spinta dei Faubourgs che invadono la spianata». Il ponte è un merletto di ferro scuro, carrozze, pedoni lo animano come una catena infinita di vita, e sullo sfondo un’immensa affiche azzurra «le cui lettere gigantesche […] erano come l’efflorescenza della febbre moderna sulla fronte della città» (pp. 212-213). Ma ciò che lo colpiva di più, nel nitore delle ombre, nella trasparenza dell’aria, era la «vita del fiume, quell’umanità il cui flusso debordava dalle strade, circolava sui ponti, veniva da tutti i bordi di quell’immenso crogiuolo, fumava là in un’onda visibile» (p. 214). È la bellezza stessa, che Claude intravede in questi vapori visibili, ma inafferrabili, come un brivido inarrestabile che sembra prendere tutte le cose, lo sguardo stesso che si fissa su di esse. Da quel giorno Claude non visse più che per il suo quadro (p. 230). Viene al ponte in tutte le ore, per mesi, e cerca di decifrare in mille schizzi le venti città differenti che sembrano apparire e scomparire nella nebbia della febbre della città. Finalmente giunge il momento della «tela immensa», «l’abbozzo magistrale, uno di quegli abbozzi in cui fiammeggia il genio nel caos non ancora disbrogliato dei toni» (p. 235). Ma questo non è il caos che sta per essere toccato dall’amore per dispiegarsi, come diceva per esempio Schlegel, in un mondo armonico. L’amore di Claude è l’amore perverso per il caos stesso, per la verità che vi è contenuta, ma che egli non riesce a far emergere in tutta la sua nudità. O almeno così crede Claude. Così crede certamente Zola. 5. Nuda veritas Un giorno Sandoz giunge nello studio di Claude. L’abbozzo è mutato. Non rappresenta più la chiatta con gli operai al lavoro, ma tre bagnanti, «la terza ritta, nuda 135


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sulla prua, di una nudità così splendente che raggiava come un sole». Sandoz non capisce il senso di questa rappresentazione, ma Claude non sa rispondere, se non che egli «ha bisogno di questo» (p. 235). Sandoz, nei giorni seguenti, cerca di convincere l’amico che questa «strana composizione» è l’«oltraggio alla logica», allo spirito di un pittore moderno, «che si piccava di dipingere solo la realtà» e che invece «imbastardiva un’opera introducendovi simili immaginazioni». Claude si ostina, non riesce a confessare il tormento di un simbolismo segreto, questo vecchio rigurgito di romanticismo, che gli faceva incarnare in questa nudità la carne stessa di Parigi.

È, lo ricordiamo, lo stesso motivo che van Gogh aveva affermato nella lettera a Theo citata sopra. In più, in Claude, c’è la sua passione, «il suo amore per i bei ventri», per le cosce, i seni, come il «segno della generazione continua nella sua arte» (p. 236). Ed egli, come un eroe di Balzac alla ricerca dell’assoluto, continua la sua opera, il suo «compito impossibile di contenere tutta la natura in una tela» (p. 245). La sua figura, di mese in mese, di anno in anno, attraverso mille ripensamenti e rifacimenti, cresceva. La grande figura nuda (…) aveva uno splendore, una crescita allucinatoria di una strana e sconcertante falsità nel mezzo delle realtà vicine (p. 259).

E finalmente, dopo che anche il quadro del Figlio morto aveva segnato un’altra tappa nel suo insuccesso in un Salon dove pullulavano gli imitatori delle sue prime opere, una sera sembrava che anche l’Île de la Cité fosse «caduta nel nulla», nel buio in cui «tutto sprofondava», che egli fissava come se «per un miracolo di potenza i suoi occhi potessero far luce e evocarla» (p. 340). Più tardi Christine lo vede dipingere ancora, come se la accarezzasse, con un sorriso fisso sulle labbra, la sua «donna nuda», con una candela in mano, incurante di tutto, mentre sul muro si stagliano membra mescolate, «come in un accoppiamento brutale». Egli dipingeva il ventre e le cosce, come un visionario in delirio, gettato dal tormento del vero nell’esaltazione dell’irreale; e quelle cosce si doravano in colonne di tabernacolo, quel ventre diventava un astro splendente di giallo e di rosso puri, splendido e al di fuori della vita. Una nudità strana da ostensorio, che sembrava rilucere di gemme per una qualche adorazione religiosa. 136

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Claude non risponde all’appello di Christine. Si abbassa e intinge il pennello per far «fiammeggiare gli inguini, che sottolineò con due tratti di vivo vermiglio» (p. 343). Christine allora lo assale. Quello che lui ha fatto è brutto, laido, imbecille. È un vinto, ma gli resta ancora la vita «lontano da questa maledetta Parigi». Claude sembra risvegliarsi stupito: «Chi aveva dipinto quell’idolo di una religione sconosciuta (…), la rosa mistica del suo sesso tra le colonne preziose delle cosce, sotto la volta sacra del ventre», quell’immagine che diventava sempre più preziosa «nello sforzo vano di farne della vita». Christine argomenta «platonicamente» nel suo furore34. Nessuna copia del corpo equivale al corpo stesso, al suo corpo, che lei gli offre in cambio di quelle figure «rigide e fredde come cadaveri», e costringe Claude all’abiura, a ripetere che la pittura è imbecille (pp. 344-350). Ma quando l’alba macchia i vetri del suo fango liquido, Christine vede Claude impiccato di fronte «alla sua opera mancata», il viso girato verso la Donna «dal sesso fiorito di una rosa mistica», come se egli «la guardasse ancora con le pupille fisse» (p. 352). Il feretro si muove verso il cimitero aperto sulla grande città, che sembrava ingigantita in quella nebbia e riempire minacciosa l’orizzonte con la sua ondata. Il povero morto che aveva voluto conquistarla, e ne era rimasto stroncato, passò di fronte a lei inchiodato sotto il coperchio di quercia (p. 354).

A seguirlo ci sono solo Sandoz e il vecchio Bongrand. Sono ormai nel cimitero, un cimitero già metropolitano «che egli, Claude, avrebbe apprezzato nel suo amore per la modernità». Lui, e tutta la nostra generazione, dice Sandoz, è stata impregnata di romanticismo, e nessun bagno di realtà, anche violento, può toglierne l’odore. Bongrand35 si sente preso da un sentimento della fine. «Crepo di tristezza», dice, e sento che tutto crepa… Sì, l’aria dell’epoca è cattiva, questa fine di secolo ingombra di demolizioni, dai monumenti sventrati, con i terreni rivoltati cento volte, che esalano tutti un odore di morte.

Mai, prosegue Bongrand, «ci si è tanto lamentati e mai si è veduto meno chiaro come il giorno in cui si è preteso di vedere tutto». Sandoz risponde a bassa voce, come tra sé: «Non siamo alla fine, ma siamo all’inizio di un’altra cosa», a meno che «la follia non ci spinga nel buio». La preghiera funebre che saluta la sparizione del corpo di Claude è confusa, come assorbita nel rumore di una locomotiva che passa a fianco del cimitero. Il grande pit137


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tore del moderno è salutato dalla musica del moderno, il treno. Manet e Monet hanno dipinto entrambi una Gare Saint-Lazare. Il treno compare nelle opere di van Gogh e di de Chirico. Ma veniamo al senso de L’Œuvre. Claude è convinto di aver fallito la sua opera. Ne sono convinti i suoi amici, e ne è convinto lo stesso Zola. Ma quest’opera è davvero un vecchio e fallito «rigurgito del romanticismo», o non è piuttosto quella bellezza che, come diceva Rilke in apertura delle Elegie duinesi, è sempre terribile all’inizio? Non è come l’Afrodite, di cui parla Serres, che si presenta dapprima come una schiuma nauseabonda36? La strana e sconcertante falsità di quest’opera, quel ventre divenuto splendente come un astro nell’esplosione del giallo e del rosso, quei seni fiammeggianti, quel sesso vermiglio che si effonde come una mistica rosa d’oro e di diamanti, l’hanno spinto davvero «fuori della vita», nell’«irreale», o non segnano piuttosto il superamento di una dimensione meramente rappresentativa del reale, e l’accesso a una dimensione più profonda: l’esperienza di una visibilità del reale attraverso l’incandescenza del simbolo? Zola sembra, alla fine, essere ripreso dalla forza dei codici che hanno discriminato, lungo tutta la storia del pensiero occidentale, la verità della finzione, rivendicando appunto alla filosofia l’unico accesso alla verità, e precipitando la finzione in quella che Platone aveva definito «la vera menzogna», e che Vico aveva convertito provocatoriamente in «la menzogna vera»37. La battaglia contro l’angelo in realtà è stata la battaglia per un accesso peculiare alla verità, a quella «strana e sconcertante falsità», contro il potere della ragione ragionante: contro il potere che sancisce un unico rapporto vero fra immagine e referente, rapporto che non poteva non saltare di fronte «alle nebbie di Parigi», di fronte alle «venti città in una». Curioso è che Claude (e Zola) abbiano vinto la battaglia pensando di averla perduta. Curioso che Cézanne abbia pensato la stessa cosa, identificandosi con un fallimento e non con una vittoria. Van Gogh, in una lettera a Theo del 5 maggio 1888, aveva profetizzato un pittore della prossima generazione in grado di produrre le figure che fossero all’altezza dei problemi che il pittore incontrava di fronte ai paesaggi. E in effetti la generazione successiva ci darà il quadro della strana Donna nuda de L’Œuvre di Zola, che non può essere identificata con nessun quadro della sua epoca, nemmeno nelle immense e inquietanti Bagnanti dell’ultimo periodo di Cézanne. Il quadro descritto da Zola ne L’Œuvre è di fatto Nuda veritas che Klimt ha dipinto nel 189938, un olio su tela alto 252 cm e largo 56,2 cm. Su uno sfondo mobile d’acque si staglia la Donna nuda, con i fianchi larghi, il sesso fiorito, fulvo, i lunghi capelli fiammeggianti cosparsi di fiori o 138

Volti e paesaggi

di gemme. I suoi occhi sono fissi, la bocca vermiglia e dischiusa come in un occulto sorriso o nell’atto di pronunciare una parola mai prima udita, mentre ai suoi piedi si attorciglia un serpente che fende con le sue spire le lettere del grande titolo nuda veritas. La verità nuda è la verità della finzione, dello specchio che, come la dea di Sais, la donna tiene nel braccio destro levato. Il quadro di Klimt è gravato da un motto esoterico di Schiller: «Se non puoi piacere a molti con la tua azione e la tua arte – fallo per pochi. Piacere a molti è male». Dalle opere successive, già dal Fregio di Beethoven, Klimt non cercherà più di giustificare in modo così scopertamente allegorico le sue grandi figure femminili, le sue «strane sconcertanti finzioni». Sembrerà allora che la figura si sia definitivamente distolta dal paesaggio o disciolta in esso. E questo è ancora il fronte su cui invece resiste Cézanne. 6. L’uomo e la montagna Van Gogh aveva salutato come un evento importante e benefico la pubblicazione dei primi frammenti de L’Œuvre di Zola, probabilmente perché in questa volontà «di vedere tutto e dipingere tutto» egli riconosceva la sua fede. Cézanne reagisce al libro con una lettera di fredda cortesia, che sancisce la fine del suo rapporto pluridecennale con Zola39. Eppure Cézanne si era identificato con il Frenhofer de Il capolavoro sconosciuto di Balzac, fin dagli anni Sessanta, quando aveva dichiarato che quello era il personaggio letterario a cui più si era ispirato. E, secondo varie testimonianze, la lettura del romanzo di Balzac continuò a commuoverlo fino alle lacrime per tutta la vita. Perché, allora, il dubbio di essere raffigurato nel «doppio» di Frenhofer, il Claude Lantier di Zola, lo ha spinto a questa reazione di fredda chiusura40? La mia ipotesi è che in Lantier Cézanne riconosce colui che ha ucciso la possibilità stessa del paesaggio, ed egli ritiene di essere, o meglio vuole essere, la coscienza stessa del paesaggio. Il capolavoro della natura è la sua diversità, ma questa diversità è irraffigurabile senza un pensiero e una coscienza, e dunque, afferma Cézanne, «un paesaggio si pensa in me e io sono la sua coscienza»41. Cézanne è pittore di cose e di paesaggi. Non credo, come ha affermato Schapiro sulla scorta di metodologie iconologiche e psicoanalitiche, che le sue mele siano un simbolo sessuale42. Credo che le sue mele siano solo mele, che le sue cose siano solo cose, che Il grande pino sia solo il grande pino, e che Le rocce presso le grotte al di sopra di Château-Noir siano precisamente quelle rocce, che si vedono lì in quel punto, «al di sopra del Château-Noir». Ma il problema è proprio questo. 139


L’arte e il tempo

Le sue lettere degli ultimi anni sono, da questo punto di vista, angoscianti e terribili, forse più ancora della malattia e del furore di van Gogh. A Émile Bernard, il 12 maggio 1904, Cézanne scrive: «Procedo molto lentamente, la natura mi si presenta molto complessa». Il 25 luglio, sempre a Bernard, scrive: L’occhio (…) si fa concentrico a forza di guardare e lavorare. Voglio dire che in un’arancia, in una mela, in una palla, c’è un punto culminante; e questo punto è sempre – malgrado il terribile effetto di luce e ombra, sensazioni di colore – il più vicino al nostro occhio; i bordi degli oggetti fuggono verso un centro posto sul nostro orizzonte.

Si osservi, per esempio, la Natura morta con tenda, fruttiera, caraffa e frutta (18951900; Venturi 732). Il quadro non ha più un orizzonte. Il piano del tavolo non è più un piano, ma una linea di scivolamento obliqua, che s’incrocia con un’altra linea, quella contenuta all’interno di un triangolo, il cui vertice si proietta verso l’alto togliendo alla superficie ogni profondità. Le mele sono sul punto di scivolare verso di noi, verso il centro posto sul nostro orizzonte, e non sul loro orizzonte che è ormai scomparso. Sono trattenute miracolosamente solo dal loro peso, unico elemento che le arresti, prima che escano definitivamente dal quadro – come i corvi sul campo di grano di van Gogh – e diventino pure immagini, fantasmi mentali, che hanno perduto definitivamente il loro statuto di cosa. Il pittore non ha che uno strumento per pensare le cose e il paesaggio, per esserne la coscienza, per salvarli dal loro inesorabile essere effimeri: il colore. «La luce non esiste per il pittore», scrive Cézanne a Bernard il 23 dicembre 1904. Si procede così per astrazioni, dal nero al bianco, ma così «annaspiamo senza riuscire a imporci e a dominarci». Il senso del tempo si fa sempre più stringente. La comprensione si accompagna «alla vecchiaia e all’indebolimento» (a Bernard, 1905). Il colore che sembrava poter restituire le vibrazioni di luce, aria, spazio diventa «causa di astrazioni che mi impediscono di raggiungere i limiti degli oggetti» (a É. Bernard, 23 ottobre 1905). Cézanne comunica a Gasquet, nello stesso periodo, l’impressione terribile che «tutto si dilegua», che «bisogna far presto se si vuole vedere ancora qualcosa». Nelle ultime lettere al figlio l’impressione di vuoto si fa vertiginosa. Cézanne sembra vivere in un’«atmosfera polverosa», «come in un vuoto», mentre tutto passa «con una rapidità terribile». Unica possibilità è mettersi di fronte a un soggetto, per mesi, «senza cambiare posto, solo inchinandomi un po’ più a destra o un po’ più a sinistra», nella speranza di cogliere qualcosa di questo terribile mutamento che sembra trascinare le cose nel nulla43. 140

Volti e paesaggi

Certo si può mettere una diga di corpi davanti al grande vuoto, come nelle Grandi bagnanti (1898-1905, Venturi, 719), ma nulla può garantirci di fronte al dileguare di una montagna. Cézanne ha dipinto decine di volte la montagna Saint-Victoire, e ha dipinto decine di quadri del paesaggio circostante, fino a scorgere forse il momento in cui questa diventa evanescente come una nuvola (La montagna Sainte-Victoire vista dalla cava di Bibemus, 1898-1900, Venturi, 766), fino al punto in cui essa si confonde con le cose (Piana con alberi e case, 1905, Venturi, 803), nemmeno più «salvata» da quell’impressione di nero, forse il volo di un uccello, che la teneva ancorata a sé e alla sua immagine, come in La montagna Sainte-Victoire da sud-ovest (1890-94, Venturi, 661). Fino allo stupendo quadro, conservato a Zurigo nel Kunsthaus (Venturi, 801), che Cézanne ha concluso l’anno stesso della sua morte. La montagna è tenuta insieme da un contorno slabbrato, che ancora la fa emergere, come per l’ultima volta, prima che essa sia definitivamente presa nel movimento del verde che via via invade la piana e viene ad occupare l’azzurro del cielo. Quando questo movimento si fosse concluso, la montagna si sarebbe inabissata insieme al paesaggio. E Cézanne ne avrebbe registrato l’evento, rimanendo come Claude, senza nemmeno un idolo, una strana nudità a cui appellarsi. Questa è la tragedia centrale dell’arte del moderno, che ha investito e travolto anche il più nitido paesaggista del xix secolo, Claude Monet nelle Ninfee dell’ultimo periodo, in una sorta di liquefazione generale del visibile. Alcuni artisti, e basta pensare a Franz Marc o a Paul Klee, si sono posti su questa nuova linea del visibile, hanno esplorato questi territori atopici, questa assenza di luogo, e hanno rappresentato in modo addirittura profetico le figure e le possibilità che emergevano al di là di questo limite. Ma altri artisti – e questa è la linea e la tradizione che è divenuta dominante – hanno testimoniato un vero e proprio inabissamento del paesaggio. Mondrian, nei suoi quadri americani (per es. Broadway Boogie Woogie), e Pollock sono storicamente in primo luogo questa testimonianza: la rappresentazione dell’impraticabilità di ogni spazio. La pittura degli anni Settanta del xx secolo ha raccontato quasi soltanto questa storia. 7. Progettare nel tempo della fine Per Bongrand ne L’Œuvre il progresso è il tempo della fine. In realtà ciò che si stava preparando era piuttosto la crisi del tempo progressivo che era stato posto come l’unico tempo pensabile. Era la grande traiettoria che permetteva di ordinare tutti gli 141


L’arte e il tempo

eventi nella Weltgeschichte, quella storia universale che di fatto altro non era che la storia europea, la storia del dominio dell’Occidente. Benjamin si impegnerà per tutta la vita a combattere questo tempo, cercando di creare al suo interno falle, cesure, interruzioni da cui potesse emergere l’idea di una possibile salvezza del «tempo oppresso», schiacciato nel tempo e nella storia dei vincitori. Per questo i più significativi teorici del postcolonialismo hanno sentito prossimo il suo pensiero44 non solo alle loro teorie ma anche alle loro lotte. In realtà negli ultimi decenni del secolo scorso si è guardato a Heidegger. L’ente, una cosa, un essere, viene schiacciato e annientato nell’attesa dell’apertura (la Lichtung) «sull’essere che non è un essere»45, che non è qualcuno o qualcosa. La relazione fondamentale fra l’io e il tu, e il confronto fra l’uomo e la cosa vengono oltrepassati nella tensione al Neutro: a ciò che non è né io né tu, né l’uno né l’altro, ma che supera entrambi, cancellando così ogni valore. La cronofilia che aveva animato i cantori del tempo progressivo diventa cronofobia. Ci si muove in quella che Blanchot ha definito l’assenza di tempo, in cui nulla può accadere, forse nemmeno la fine. Le cose vivono invece nel mutamento. Non vediamo mai un oggetto, o un volto, o un’immagine su uno sfondo statico di cose, ma lo vediamo soltanto all’interno della loro genesi, del loro mutamento, della loro trasformazione, che costituisce paradossalmente la reale unità del volto o dell’oggetto o dell’immagine. L’amore che custodisce la cosa nella sua immobilità è la morte della cosa. Noi possiamo far vivere le cose solo mutandole, solo facendoci noi stessi soggetti di questo mutamento. Le cose, prigioniere della rigida oggettualità funzionale, o nella stupefazione del neutro, sono liberate da questa fissità mortale, solo quando osiamo la massima trasformazione, quando osiamo, nella messa in gioco delle loro immagini e della nostra immagine, una vera e propria trasfigurazione, e dunque non solo il mutamento dell’oggetto, ma dell’intero contesto figurale in cui esso è chiuso e attraverso cui esso ci appare. Si tratta, dunque, di progettare la differenza, o meglio il luogo – lo spazio atopico – in cui le differenze non solo possano manifestarsi, ma anche prodursi. In questa nozione di progetto è implicito un pensiero della tecnica opposto a quello che i profeti del progresso e i profeti della fine hanno proposto con puntuale convergenza: un pensiero come decisione svincolata da ogni valore, da ogni amore per la cosa, che solo come reliquia e come monumento dovrebbe essere conservata e custodita. La tecnica può essere vista e considerata invece come l’infinita moltiplicazione dei possibili, in cui si affollano immagini e figure di cui tracciamo il profilo, lungo la traiettoria degli eventi che costituiscono la nostra storia. Sono le cose, gli enti, in questa prospettiva che rovescia Heidegger, che aprono la strada dell’essere e che costruiscono lo spazio della sua possibilità. 142

Volti e paesaggi

Percorrere la strada del possibile, essere nel proprio tempo, nelle contraddizioni laceranti che lo attraversano, mettere in gioco in questo tentativo le immagini e la propria immagine, la propria identità, è una scelta drammatica. Al di fuori della certezza – e anche della certezza della fine – ogni percorso è avventuroso. Il nostos, il viaggio che riconduce al «dappertutto» della dimora propria dell’uomo, è un viaggio pericoloso, è l’attraversata di un deserto, di un mare pieno di mostri. Ma è solo in questo viaggio che si può giungere in quello spazio in cui le idee e le immagini confluiscono con il mondo delle cose sensibili, e in cui, come dice Henry Corbin, «diventa vivo tutto ciò che nel nostro mondo appare inanimato»46.

1

F.W.J. Schelling, Aphorismen über die Naturphilosophie, in Ausgewählte Schriften, a cura di M. Frank, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985, iii, p. 689 (i, 7, 198). 2 F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, tr. it. di A. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972, pp. 102-103. Su questi temi cfr. L. Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in AA.VV., Romanticismo Esistenzialismo Ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979. 3 F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, cit., p. 103. 4 Filosofia della rivelazione, cit., pp. 166-167. 5 Questa, e le citazioni successive, senza ulteriori indicazioni di pagina, sono dall’viii lezione della Filosofia della rivelazione, cit. 6 R.M. Rilke Elegie duinesi, cit.: «Ich verginge von seinem / stärkeren Dasein» («Soccomberei per la sua troppo forte esistenza»). 7 E. Levinas, Le Temps et l’Autre, puf, Paris 1983, pp. 25-26, 28. 8 Il riferimento è ai testi lxxvii e lxxx di Spleen et idéal da Les fleurs du mal di Baudelaire. 9 Il sapere che Baudelaire intravvedeva nella «corrispondenza fra le cose» è colmo di inquietudine, di mistero, di echi che «si confondono lontano in una tenebrosa e profonda unità / vasta come la notte». 10 G. Flaubert, Lettera del 16 gennaio 1859. Cfr. G. Flaubert, L’opera e il suo doppio. Dalle lettere, cit. L’immagine della «necropoli» torna più volte nella sua corrispondenza. Più sotto, Lettera del 5 agosto 1857 e Bouvard e Pécuchet, cit. 11 P. Valéry, Œuvres i, Gallimard, Paris 1965, pp. 991-992. 12 P. Valéry, Le problème des Musées, cit. Proust aveva paragonato, giustamente, come vedremo più avanti, il museo a una stazione, cosa che non è stata colta appieno da T.W. Adorno, in Valéry, Proust e il museo, in Prismi, tr. it. di A. Cori, Einaudi, Torino 1972. 13 Scrive van Gogh, in una lettera a Theo del 31 luglio 1882: «Il nero assoluto non esiste veramente. Ma, come il bianco, è presente in quasi tutti i colori e va a creare la varietà infinita dei grigi». I grigi sono luce, è necessario però «fare attenzione a non cadere nel nero opaco», che è il male, l’unico male pensabile (a Theo, luglio 1883). Utilizziamo l’edizione Tutte le lettere di Vincent van Gogh, a cura di M. Donvito e B. Casavecchia, Silvana, Milano 1959. Cfr. anche l’antologia V. van Gogh, Lettere a Theo, a cura di M. Cescon, Guanda, Milano 1984. Cfr. anche J. 143


L’arte e il tempo Hulsker, Van Gogh. L’opera completa, Silvana, Milano 1979 e A.M. e R. Hammacher, Van Gogh. Attraverso la vita, Jaca Book, Milano 1982. 14 Il sapere della sofferenza è di Eschilo, nel coro dell’Agamennone. Cfr. Lettera a Theo del 12 novembre 1881: «Anch’io caddi, e fu un miracolo se riuscii a rialzarmi. Per riacquistare il mio equilibrio, trovai un grande aiuto nella lettura di libri che trattano delle malattie fisiche e morali. (…) Aimer encore, infatti, è anche il miglior rimedio per dessiner encore». Il riferimento a Paris tout gris a Zola è in una lettera a Theo del 6 luglio 1882. 15 Lettera a Theo dell’8 febbraio 1883. 16 Cfr. la straordinaria lettera a Theo del novembre 1883. 17 «Esiste una scuola – ritengo – di impressionisti. Ma ne so pochissimo» (a Theo, aprile 1885). 18 Sempre nella lettera dell’aprile 1885. 19 Lettera di fine ottobre 1885, da cui sono tratte le citazioni che seguono nel testo. 20 H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981; tr. it. di E. Argenton, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora del mondo, il Mulino, Bologna 1984. 21 «L’autoritratto può prendere la forma di una confessione e di una accusa dell’artista di fronte alla società del suo tempo: quel giorno là, ero così solo, così abbandonato da tutti, che avevo da dipingere un solo volto umano, il mio (…). Così sono gli autoritratti della vecchiaia di Rembrandt e tutti quelli di Vincent van Gogh» (M. Tournier, Petites proses, Gallimard, Paris 1986, p. 144). I ritratti e gli autoritratti sono paesaggi, ma è vero anche l’inverso: il paesaggio – per esempio Campo di grano con volo di corvi è di fatto un autoritratto (cfr. F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, Feltrinelli, Milano 1998). 22 A. Artaud, Le visage humain, in Œuvres, a cura di É. Grossman, Gallimard, Paris 2004, pp. 1534-1536. Testo del catalogo dell’esposizione «Ritratti e disegni di Antonin Artaud», Galerie Pierre 4-20 luglio 1947. 23 A. Artaud, Van Gogh. Il suicidato della società, tr. it. di J.P. Manganaro, E. Marchi e C. Dumoulié, Adelphi, Milano 1988. 24 Lettere a Theo del 5 maggio 1888 e di metà giugno dello stesso anno. 25 Malattia che, come abbiamo visto più sopra, van Gogh era riuscito a vivere come una sorta di sapienza. 26 M. Schapiro, Su un dipinto di van Gogh (1946), in L’arte moderna, tr. it. di R. Pedio, Einaudi, Torino 1986, p. 91. 27 M. Schapiro, Su un dipinto di Van Gogh, cit., pp. 93-94. 28 Sono andato a fondo in questa lettura del quadro di van Gogh in F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, cit. 29 É. Zola, L’Œuvre, in Les Rougon-Macquart a cura di H. Mitterand, cit. Nel corso del testo ci si riferirà a questa edizione con l’indicazione di pagina fra parentesi. Le notizie sui rapporti fra Zola e Cézanne sono riportate nel ricchissimo apparato dell’edizione citata a cui ci si riferirà con l’indicazione del volume dell’edizione «Pléiade» e il numero di pagina. I temi affrontati da Zola in questo grande romanzo già ampiamente richiamato sopra sono tornati e tornano più volte nelle mie riflessioni intorno allo spirito del moderno. 30 iv, 1338; 1347-1348. 31 iv, 1354; 1373-1374; 1364-1365; 1358; 1356-1357. 144

Volti e paesaggi 32 L’Œuvre,

cit., p. 46. Questo proposito di dipingere il moderno sulle superfici della città moderna è quello espresso da Manet in una lettera al prefetto di polizia nell’autunno del 1877, riportata in P. iv, 1419. È importante sottolineare che l’intento di Manet, espresso nella lettera, è quello di «dipingere una serie di composizioni che rappresentino (…) Il ventre di Parigi». 33 Zola aveva già analizzato questa sensazione in un altro pittore, protagonista di Thérèse Raquin (tr. it. di G. Pallavicini, Einaudi, Torino 2006). 34 Infatti ripropone le argomentazioni espresse da Platone nella Repubblica: l’arte è copia di una copia. L’artista tende all’idea che sta dietro il modello, e rimane sempre al di qua anche del modello empirico stesso. 35 Secondo Mitterand, il personaggio di Bongrand è «un prudente e abile amalgama» di Delacroix, di Millet, di Manet, e forse anche di Courbet. Per certe cose, si può pensare anche a Daubigny e Flaubert «per il suo aspetto fisico e per il suo ruolo presso i giovani» (iv, 1370; cfr. anche P. Brady, Les clefs de “L’œuvre” de Zola, «Australian Journal of French Studies», 1964, pp. 257-271). Sono convinto invece che si tratti di Flaubert. Il tono è il suo. Non mi stupirei se si scoprisse un giorno che si tratta di una testimonianza diretta di Flaubert, o di una conversazione o addirittura di una lettera personale a Zola. 36 «Perché il bello non è che l’inizio del tremendo» (Rilke, Elegie duinesi, cit., i, vv. 4-5); M. Serres, Genèse, Grasset, Paris 1982. 37 F. Rella, La battaglia della verità, Feltrinelli, Milano 1986, capp. ii e iii. 38 Klimt aveva fatto l’anno prima un disegno, con lo stesso soggetto per il primo numero di «Ver Sacrum»: manca il serpente, il sesso è glabro, e la scritta è diversa. Cfr. C.E. Schorske, Vienna fin de siècle, tr. it. di R. Mainardi, Bompiani, Milano 1981, cap. v. 39 Lettera del 4 aprile 1886, in P. Cézanne, Lettere, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1985. Per le opere di Cézanne, si darà notizia della loro collocazione all’interno del classico catalogo di L. Venturi, Cézanne. Son art et son œuvre, Rosenberg, Paris 1936. Si è tenuto conto anche delle notizie sulla vita e sulle opinioni di Cézanne contenute in E. Bernard, Souvenir sur Paul Cézanne, «Mercure de France», ottobre 1907 e di J. Gasquet, Paul Cézanne, Paris 1921. Cézanne è stato quasi una «ossessione» per Merleau-Ponty, per cui cfr. M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, in Senso e non senso, tr. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1962; Le visible et l’invisible (incompiuto), a cura di C. Lefort, Gallimard, Paris 1964, e l’ultimo saggio scritto da Merleau-Ponty, L’Oeil et l’Esprit, Gallimard, Paris 1964; R.M. Rilke, Verso l’estremo. Lettere su Cézanne, a cura di F. Rella, Pendragon, Bologna 1999. 40 Cfr. D. Ashton, La leggenda dell’arte moderna, tr. it. di M. Vitta, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 46 e ss. «La favola di Frenhofer esercitò sulla vita di Cézanne un influsso rimasto inalterato nel tempo. Mentre era ancora incerto fra le diverse maniere, fra i ventisette e i trent’anni (1866-69) l’artista si era divertito a rispondere alle domande contenute in un libretto di otto pagine Le mie confidenze (…). Alla domanda circa il personaggio della letteratura o del teatro al quale ci si fosse più ispirati, Cézanne aveva risposto: Frenhofer. Più o meno nello stesso periodo Cézanne aveva eseguito due schizzi raffiguranti un artista del xvii secolo (…). Cézanne aveva in mente Le chefd’œuvre inconnu. Nella vecchiaia, la favola di Frenhofer lo attirò con forza ancora maggiore». 41 Cfr. D. Ashton, La leggenda, cit., p. 71. 42 M. Schapiro, Le mele di Cézanne (1968), in L’arte moderna, cit. Per un’interpretazione oppo145


L’arte e il tempo sta cfr. P. Handke, Die Lehre der Sainte-Victoire, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1980, tr. it. di C. Groff, Nei colori del giorno, Garzanti, Milano 1985. 43 Lettere del 20 luglio 1906; del 26 agosto 1906; dell’8 settembre 1906, e del 15 ottobre 1906. 44 Cfr. F. Rella, Immagini del tempo. Da metropoli a cosmopolis, Bompiani, Milano 2016. 45 E. Levinas, Totalità e infinito, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980. 46 H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste, tr. it. di G. Bemporad, Adelphi, Milano 1986.

XI. Elogio dell’ombra

L’arte non è qualcosa di dato una volta per sempre: la sua esistenza si nutre dell’irriducibile opposizione a tutte le devastazioni della vita quotidiana (…). È il fattore estetico a opporre resistenza ai miei personali sforzi di comprensione, chiarimento e delucidazione, e a sfuggire alla pressione livellante dell’esperienza quotidiana dalla quale, a ogni modo, l’arte, paradossalmente, trae origine. Edward Wadie Said

1. Walter Benjamin in Di alcuni motivi in Baudelaire1 caratterizza il «moderno», l’età della metropoli, come il tempo in cui l’uomo si trova più povero di esperienza comunicabile, preso e affondato in una vera e propria «atrofia dell’esperienza». L’opera immensa di Marcel Proust, la Ricerca del tempo perduto, nasce appunto da questa immane difficoltà di rapportarsi alla propria esperienza, e quindi, tanto più dal fatto di trovarsi nella condizione di non poterla comunicare ad altri se non per frammenti. Benjamin, nel suo saggio, prende le mosse anche dalle osservazioni di Sigmund Freud in Al di là del principio di piacere, contemporaneo agli ultimi tomi dell’opera proustiana. Come è noto, il saggio di Freud mette in luce come i reduci dalla grande guerra, che hanno vissuto esperienze prima di allora inimmaginabili, sembrano di queste non ricordare quasi più nulla. O almeno sembrano non riuscire a raccontarle. La loro esperienza si è fatta paludosa, ai limiti dell’inesprimibile. La parola si è spezzata. È precipitata nell’afasia. Qualche decennio dopo Theodor W. Adorno, dal canto suo, ne La dialettica negativa2, afferma che ciò che è accaduto, l’orrore di Auschwitz, ha spezzato al pensiero metafisico speculativo «la base della sua compatibilità con l’esperienza». L’esperienza non è solo indicibile, ma è anche impensabile. Impensabile diventa il senso di ciò 146

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L’arte e il tempo

che c’è e che attraversa le nostre esistenze. Forse il senso delle cose e del mondo potrebbe risorgere nuovamente se venisse «realizzato ciò che è pensato nel suo segno». L’arte, continua Adorno, «ne anticipa qualcosa». Egli pensa qui al filosofo artista, a Friedrich Nietzsche, «l’artista pensante [che] comprendeva l’arte impensata». È vero che il pensiero che non si arrende all’insensato, vale a dire alla dominante assenza di senso di ciò che è puramente esistente, sembra destinato alla follia. Eppure di questa follia non è possibile fare a meno perché non trionfi appunto l’insensato. La follia diventa allora «la verità nella forma in cui gli uomini ne vengono colpiti». È la verità dell’arte che è comunque apparenza, ma che «riceve la sua irresistibilità da ciò che non ha apparenza», da ciò che ora è nascosto, da ciò che è ora impensabile. Adorno a questo punto si volge a Samuel Beckett e a quella particolare forma gnostica che Beckett mette in atto nella sua opera, in cui «affiora l’immaginario del nulla come un qualcosa che la sua poesia trattiene». La sua negazione del mondo creato apre alla «possibilità di un altro non ancora esistente». L’arte ha questa capacità in quanto rifiuta la conciliazione tra oggetto e rappresentazione, tra parola ed esperienza, spingendosi all’estremo, oltre il limite. «La dignità dell’arte», scrive Adorno a proposito di Beckett in Note per la letteratura3, «oggi non si misura sul fatto che sfugga felicemente o con abilità a quelle antinomie, ma sul fatto che le sappia portare a compimento». In una parola che sappia far diventare senso anche l’assenza di senso. Le opere di Lucio Fontana, di Mark Rothko, di Samuel Beckett testimoniano di una responsabilità dell’artista anche di fronte alla crisi delle parole e delle immagini. Anche l’afasia va testimoniata, anche il silenzio deve trovare la forma in cui esprimersi recuperando la tensione con le parole ormai usurate, ma soprattutto con le parole che ora sembrano solo possibili. Così, per esempio, Rauschenberg cancella un disegno di de Kooning e lo espone con il titolo Erased de Kooning Drawing. È la volontà di dare forma e visibilità anche al vuoto, anche alla cancellazione, all’annientamento, come a qualcosa che è, qualcosa con cui possiamo confrontarci, con cui è necessario confrontarsi. L’arte si dà infatti come compito di mostrare che accanto al mondo che c’è, al mondo precipitato nell’indicibile di Auschwitz, è immaginabile un mondo possibile anche attraverso la negazione di ciò che c’è e che appare inesorabilmente nella sua evidenza. Se il taglio di Fontana, l’impenetrabile cortina di Rothko, il balbettio di Beckett o di Celan negano il mondo e le parole usuali che lo dicono, nell’apparenza delle loro opere affiora appunto l’ipotesi di un altro mondo, di una realtà che cerca di riarticolarsi e di dirsi. Una nuova responsabilità per l’arte, dunque, che può mettersi in tensione con il pensiero speculativo aprendo lo spazio in cui anche questo possa nuovamente muo148

Elogio dell'ombra

versi, ritrovare un suo rapporto con l’esperienza, assumersi una nuova responsabilità nei confronti del senso del mondo, nei confronti del presente. 2. Nel 1979 esce Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Il «cuore di tenebra» ora non è il Congo ma il Vietnam, ma questo, paradossalmente, non è importante. Sembra che Coppola e Michael Herr e John Milius, che hanno collaborato alla sceneggiatura, abbiano davvero esplorato la tenebra, e abbiano capito che, dopo Auschwitz e dopo Hiroshima, il conflitto si spinge ormai al sacrificio totale, all’annientamento dell’uomo stesso. «Sterminate i bruti», aveva scritto il Kurtz di Joseph Conrad, «sterminateli tutti», scrive il Kurtz di Coppola nell’annotazione che il capitano Willard legge in Apocalypse Now. L’apocalisse non è futura, forse non è nemmeno ora, forse è già avvenuta, e il sacrificio di Kurtz, che è proposto appunto come un atto sacrificale in contemporanea con l’arcaico sacrificio di un animale, non risolve il conflitto. Willard diventa Kurtz. Non sarà più come prima: nulla sarà più come prima avendo ormai preso coscienza di una volontà di annientamento che abita il mondo, di cui abbiamo ogni giorno nuovi esempi. Una sequenza di olocausti che hanno fatto seguito all’Olocausto di Auschwitz, in una catena infinita, ininterrotta, ancora attuale. 3. Ne abbiamo già fatto cenno nella parte conclusiva del capitolo precedente. Questo movimento, che cercava di confrontarsi con le lacerazioni della nostra realtà, senza suturarle ma, come dice Adorno, portandole alla massima tensione, sembra concludersi con una svolta negli anni Ottanta del secolo scorso. La drammatica tensione attraverso le cose spinte alla loro oltranza che porta Fontana a cercare oltre la superficie del quadro; il gesto con cui Rothko cala sulla finestra del quadro una inattraversabile cortina opaca, segnando una sorta di tragico «non oltre», sembrano essersi dissolti nell’intransitività del neutro. Assistiamo oggi a una sovradeterminazione estetica, o al terribile e all’orrendo presentati però senza alcun pathos, o ancora a un ricorso a una forma semplificata di allegoria che è di fatto la fine del potere simbolico dell’arte. Il senso di queste operazioni non sta nelle opere stesse, ma nel luogo che le accoglie e che le consacra come arte. Sappiamo tutti che se il direttore del Beaubourg apre le porte ai giocolieri che stazionano nel cortile antistante al museo, questi diventano immediatamente performer. Sappiamo che qualsiasi cosa varchi quella porta è arte. Sappiamo che questo è il potere incontestato del «sistema dell’arte», che prescinde da bellezza e conoscenza. E ancor più del museo la casa d’aste, il mercato. L’incremento del valore economico di un’opera è un’attestazione del valore estetico dell’artista. 149


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Il mondo, aveva detto Nietzsche in Così parlò Zarathustra, è frammento e orrida casualità. Lo è ancora oggi, anzi ancora di più. Ancora, e ancora più grande, è dunque la responsabilità di dare forma e senso a questi frammenti e a questa casualità, di produrre una tensione al senso, e persino alla verità. Almeno a una verità. A una verità possibile. Ma è proprio questo che è oggi in questione. 4. Negli anni Ottanta diventa dominante la filosofia che predica con Maurice Blanchot il disastro del senso in cui ci si adagia in una vera e propria apatia4. Diventa dominante la filosofia di Michel Foucault che predica la fine dell’uomo e il dominio di poteri anonimi che generano e dissolvono i loro antagonismi. La filosofia di Gilles Deleuze che mette tutto in carico ai flussi anonimi e de-soggettivati di un desiderio che si spinge verso il divenire animale per poi distendersi in un’immanenza pura, senza più articolazioni né increspature. Accanto a questa la filosofia anglosassone di fronte alla quale, come scrive Edward W. Said, si è indotti a pensare che la filosofia appartenga a «menti assolutamente libere da ogni esperienza diretta degli sconvolgimenti» che lacerano il mondo, e che il fine condiviso da queste menti sia «una conversazione con altri filosofi in cui la verifica di una affermazione si possa trovare soltanto in un’altra affermazione»5. È la filosofia della fine del senso. «Vegliare sul senso assente», ha scritto Blanchot. Siamo condannati al senso e al significato, ha scritto invece Said. La questione del senso è davvero radicale. Il senso è infatti, scrive Jean-Luc Nancy, «il nostro destino, senza riserve né scappatoie possibili»6. Il pensiero attuale, prosegue Nancy, non si è occupato d’altro. La filosofia degli ultimi decenni, quella di Michel Foucault o di Gilles Deleuze, o quella disseminativa di Jacques Derrida, o quella «debolista», è stata la filosofia che ha celebrato la fine del senso. Questo, scrive Nancy, è «tutto il lavoro di un’epoca – quello di una filosofia che scava in profondità la propria fine, decostruendo il suo proprio senso». Questo sgretolamento del senso non riguarda soltanto la filosofia, o per meglio dire quella che è stata chiamata la «filosofia continentale». Foucault ha visto bene quando in Le parole e le cose ha tracciato la profonda parentela esistente tra una filosofia che è giunta a muoversi tra enunciati che dicono solo se stessi, ovvero «l’essere del linguaggio», e i processi di formalizzazione della filosofia analitica anglosassone7. Si tratta, in una parola, di un pensiero che, liquidata la questione del senso, si propone come una nuova compiuta versione del nichilismo, all’altezza della nostra epoca, l’epoca del dominio delle tecnoscienze, che non vengono interrogate, ma a cui, piuttosto, si spiana il cammino destrutturando ogni tentazione e ogni tensione critica. 150

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Fëdor Dostoevskij ha detto che se non c’è Dio tutto è permesso. È il nichilismo del secolo. Oggi si afferma che, se non esiste senso, non esiste una responsabilità nei confronti del senso, del mondo e degli uomini che lo esprimono. È il nichilismo della nostra epoca. xix

5. L’immagine che ci viene proposta da queste filosofie sembra corrispondere a ciò che pensiamo essere l’epoca della globalizzazione. Una dimensione di pura immanenza, come dice Deleuze in L’immanenza: una vita…, «di una vita impersonale», affrancata «dagli accidenti della vita esteriore e interiore, della soggettività e dell’oggettività di ciò che accade»8. L’uomo, in essa, è pura immanenza a sé, «neutra, al di là del bene e del male». Pura vita che non ha più nemmeno tempo o tempi: si distende nel presente, nell’immensità inerte di un presente in cui nulla si inscrive. L’immanenza è da sempre immanente. Non c’è un prima o un dopo. Non ha relazione con il tempo o con ciò che accade nel tempo, ma è il fondamento metafisico di ogni tempo e di ogni accadere in cui ci illudiamo si articoli la storia, perché ormai siamo oltre la storia, come aveva predicato il maestro di questa generazione di filosofi, Alexandre Kojève9. E qui, forse, ancora una volta, può soccorrere l’arte. 6. Emerge oggi, al di là di queste filosofie che hanno celebrato la fine del soggetto e del significato, un pensiero che si fa nuovamente carico della responsabilità nei confronti delle lacerazioni del mondo e dei soggetti che abitano il mondo. È un pensiero che si muove precisamente nello spazio estetico, mettendo in tensione concetto e immagine, logos e narrazione, essere e temporalità. È sempre più chiaro, inoltre, il movimento che, nella grande narrativa e nella poesia, muove dal gioco linguistico verso l’esperienza di ciò che oggi è radicale all’interno del nostro spazio esistenziale. Più problematico è far emergere ciò che oggi si muove all’interno dello spazio che ci ostiniamo a definire delle arti visive. C’è molto gioco nelle manifestazioni dell’arte odierna e sono molto incerto se l’esibizione dei corpi nella body art presenti davvero corpi. Se la costellazione di immagini che talvolta si rovesciano nella città in occasione della Biennale di Venezia non sia altro che un’estetizzazione in senso tradizionale dello spazio. Se Maurizio Cattelan o Damien Hirst si avvicinino al sublime, o al barocco oppure a una sorta di arrogante dichiarazione sull’insignificanza del mondo e dei linguaggi che con il mondo si confrontano. Se il coinvolgimento dei passanti nella costruzione di un’opera sia qualcosa di più che un gioco di società. Eppure, anche oggi, l’ossessione temporale è straziante, fino al tragico appunto. Il soggetto è in gioco in questa ossessione di un tempo che si sfarina tra le 151


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mani. Un tempo che si consuma è anche nelle pratiche artistiche. Il gesto artistico sembra riflettere lo sfarinamento del tempo, è anch’esso sempre più un atto che si consuma: il suo tempo è sempre un tempo che finisce, che finisce subito. Per esempio, delle performance di cui si possono registrare solo le tracce, un’eco attraverso segni – video, fotografia – che non appartengono più alla performance stessa: sono un altro linguaggio, un’altra cosa. Un linguaggio dunque che già nel suo apparire invita alla metamorfosi, o al suo nulla. Se uno dei performer, come è successo, proibisce di fotografare e filmare le sue performance, allora di queste non ne sopravvive nemmeno la traccia, se non quelle soggettive della memoria dello spettatore. Una memoria che le scompone e dunque l’oblio. Sullo sfondo di questi linguaggi sembra quindi riapparire la manifestazione di qualcosa che vibra su un confine e che spingendosi contro e oltre il confine manifesta la precarietà, la caducità delle cose del mondo, trascinate in una vorticosa e inarrestabile corsa del tempo. Una corsa che tende drammaticamente al nulla. 7. Il tempo dell’assoluta immanenza della globalizzazione, il tempo liquido, o forse paludoso, della nostra vita e delle nostre incertezze viene portato quasi gnosticamente al suo nulla. Questo deve portarci a ulteriori considerazioni. Sia Walter Benjamin sia Ernst Bloch, già negli anni Trenta del secolo scorso, come abbiamo visto nel secondo capitolo, avevano ipotizzato una pluralità di tempi che si intrecciano nelle costellazioni della modernità metropolitana. Avevano individuato nell’idea di un tempo lineare e omogeneo l’ideologia dei dominatori. Il tempo omogeneo della globalizzazione alla fine della storia è questo tempo omogeneo: è ancora il tempo dei dominatori. I vari organismi di comando economici e politici non possono risolvere l’eterogeneità e le discronie dei tempi del mondo, oggi rese ancora più evidenti dalla crisi che ha investito anche questi luoghi in cui si vuole decidere la direzione del mondo. Said mette in luce come sia la critica al logocentrismo di Derrida sia l’enfasi assegnata da Foucault alla dimensione indifferenziata del potere moderno siano totalmente etnocentriche, oscurando le dinamiche del postcolonialismo, come d’altronde anche «le effettive capacità di resistenza» e i tentativi «di arginare se non proprio di arrestare l’avanzata di un potere tirannico e totalizzante»10. 8. Francis Ford Coppola aveva portato Willard nel cuore di tenebra. Paul Haggis in Nella valle di Elah (2007) ha portato la tenebra nel cuore dell’America, nel cuore dell’Occidente. Un orrendo delitto ha avuto luogo sul suolo americano tra giovani reduci dall’Iraq. Il padre della vittima, fedele ai valori fondativi del suo Paese, alla bandiera e all’esercito, parte nella sua indagine da un frammento di una comunicazione te152

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lefonica, da frammenti incomprensibili di immagini della guerra irachena salvati su un videotelefonino. Perché è questo che riceviamo dall’altro mondo, vale a dire da un mondo che vorremmo salvare con la nostra democrazia e i nostri valori: schegge, parole mozzate, brandelli di immagini così simili alle forme dell’espressionismo astratto degli anni Cinquanta. Il protagonista, come Willard, salirà lungo il fiume verso la verità nascosta. La verità in Apocalypse Now (1979), quella di un sacrificio che non poteva rinsaldare un senso di giustizia e di comunità in un’epoca in cui il sacrificio non è più possibile, non è più nemmeno pensabile. La verità in Nella valle di Elah è un’altra. Es ist kein warum, non c’è un perché, dicevano gli aguzzini dei campi di sterminio. L’ho fatto perché potevo farlo. E questa avrebbe potuto essere la risposta del figlio e dei suoi giovani commilitoni. Hanno commesso orrende atrocità in Iraq senza un perché, ovvero unicamente perché avevano il potere di farlo. Ma l’ulteriore delitto non ha nemmeno questa risposta. È semplicemente accaduto. Il gruppo si è accanito su uno di loro, come avrebbe potuto accanirsi su qualsiasi altro. Un evento qualsiasi, un’ecceità direbbe Deleuze, indifferente, in un tempo vuoto, in una bolla di niente. 9. Il pensiero trova la sua consistenza – e questo già da Platone – sullo sfondo della polis, sullo sfondo della comunità politica, ovvero di quel Zwischen-den-Menschen su cui tanto ha insistito Hannah Arendt11. Il pensiero trova dunque le sue ragioni di fronte alla politica, alla democrazia, ai soggetti e alle persone. Perché, allora, Adorno ha indicato Beckett come l’autore più significativo dell’epoca dopo Auschwitz? E qui, forse, ci avviciniamo a uno dei nodi sul significato dell’arte. Accanto all’arte del disimpegno vediamo oggi giovani impegnati in tesi di laurea in cui prescrivono all’arte compiti direttamente politici: ambiente, emarginazione, coinvolgimento. A me pare che questo sia un equivoco che ci riporta ai dibattiti sull’arte impegnata. L’arte si muove al di là dei vincoli che frenano la speculazione filosofica. Già Aristotele riconosceva all’arte il diritto dell’alogon, dell’illogico12. Infatti l’arte si muove in un territorio che sta tra le istanze soggettive e quelle propriamente concettuali. Non esiste un’arte senza pensiero, così come non esiste un’arte che si riduca a una dimensione concettuale. Qual è allora il compito dell’arte? Potremmo dire che il suo compito – e questo è già in Benjamin – è di dare figura a ciò che non ha espressione. Più ancora, con Georges Bataille13, potremmo dire che suo compito è rendere visibile l’invisibile, pensabile l’impensabile. Più ancora – e qui è il luogo di Beckett – di testimoniare il mondo, ma anche la distruzione delle parole che parlano il mondo, di testimoniare dunque anche l’afasia. 153


L’arte e il tempo

L’arte non salverà il mondo. Questo lo aveva capito già Dmitrij Karamazov. Non rende buono il malvagio e giusto l’ingiusto. Non convincerà il tiranno alla democrazia. Il suo punto di resistenza contro le forze distruttive sta nella responsabilità dell’artista nei confronti della sua opera, del senso che la sua opera esprime. 10. Il senso dell’opera, lo abbiamo visto, può essere anche l’assenza di senso, la negazione gnostica del mondo rispetto a un mondo possibile. Il topo bianco d’avorio di Dora Markus o la cipria in Piccolo testamento di Eugenio Montale esprimono un senso e un valore che nessun proclama dell’arte impegnata è in grado di raggiungere. Paul Celan in una grande poesia contenuta nella raccolta Di soglia in soglia14 scrive: Parla anche tu, parla per ultimo, di’ la tua parola. Parla – Ma non dividere il No da Sì. Da’ alla tua parola anche il senso: Dalle l’ombra.

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W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Opere, cit., vol. viii, 2006. T.W. Adorno, La dialettica negativa, cit. Tutte le citazioni sono dalla Terza Parte, Le meditazioni sulla metafisica. Non do numero di pagina dei singoli riferimenti in quanto accompagnano e s’intrecciano con il mio discorso. 3 T.W. Adorno, Tentativo di capire “Finale di partita”, tr. it. di G. Manzoni, in Note per la letteratura, cit., p. 277. 4 M. Blanchot, L’Écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980. Di Blanchot e delle posizioni che presento brevemente in questo paragrafo ho parlato diffusamente in F. Rella, La responsabilità del pensiero, Garzanti, Milano 2009. 5 E.W. Said, Nel segno dell’esilio, tr. it. di M. Guareschi e F. Rahola, Feltrinelli, Milano 2008, p. 286. 6 J.-L. Nancy, Un pensiero finito, tr. it. di L. Bonesio, Marcos y Marcos, Milano 1992, p. 7 e ss. 7 M. Foucault, Le parole e le cose, tr. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967, pp. 323-324. 8 G. Deleuze, L’immanenza: una vita…, cit. 9 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, ed. it. a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996. I seminari tenuti da Kojève dal 1933 al 1939 sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel hanno segnato in profondità la cultura e il pensiero francese degli ultimi decenni del secolo scorso. 10 E.W. Said, Nel segno dell’esilio, cit., p. 286. 11 H. Arendt, Quaderni e diari 1950-1973, tr. it. a cura di Ch. Marazìa, Neri Pozza, Vicenza 2007. 12 Aristotele, Dell’arte poetica, a cura di C. Gavallotti, Valla-Mondadori, Milano 1982. 13 G. Bataille, Madame Edwarda, in Œuvres complètes, cit., vol. iii. 14 P. Celan, Di soglia in soglia, in Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998. 2

Dalle ombra abbastanza, dagliene tanta, quanta tu sai ripartita intorno a te tra mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte. Guarda attorno: vedi come essa diventa viva in giro – Presso la morte! Viva! Dice verità chi dice ombra.

Ecco, la poesia e l’arte hanno l’ombra ed è in questa ombra che è possibile far fiorire anche la rosa del nulla, dare senso anche al Nulla in cui talvolta ci sentiamo confitti.

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XII. Verso l’estremo. Il mondo come destino a Piero Pizzi Cannella

Le idee cominciano a vivere solo quando gli estremi si raccolgono intorno ad esse. Walter Benjamin [Cézanne] mi ha penetrato come una freccia (…) fiammeggiante che, trafiggendo il mio cuore, lo lasciava in un incendio di chiaroveggenza. Ci sono pochi artisti al giorno d’oggi che hanno una simile ostinazione, questo violento incaponirsi, ma credo che senza di esso si resti sempre alla periferia dell’arte. Rainer Maria Rilke

1. Le lettere che Rilke ha scritto alla moglie Clara nell’ottobre 1907 in occasione della retrospettiva di Cézanne, che era morto l’anno precedente, al Salon d’Automne presso il Grand Palais a Parigi1, sono una delle cose più significative che mai siano state scritte su Cézanne e la sua opera. È già stato detto, ma non basta. Queste lettere devono essere liberate dai limiti cronologici imposti da Clara Sieber Rilke, accettati da tutti i curatori delle successive edizioni, che aveva voluto fare di essi, come dice Petzet, un’opera «Aus dem Besitz von Clara Rilke», così come le Elegie duinesi erano «Aus dem Besitz der Fürstin Marie von Thurn und Taxis-Hohenlohe». Lette in un contesto più ampio, procedendo anche oltre l’occasione che le ha generate, rivelano molto di più, sono molto di più. Cézanne non solo è entrato in Rilke «come una freccia fiammeggiante» accendendo in lui «un incendio di chiaroveggenza» (a Baladine Klossowska, 16.12.1920)2 che lo accompagnerà per tutta la vita, ma Cézanne gli ha anche scoperto il senso stesso dell’opera d’arte: il compito dell’artista di fronte a se stesso e al mondo. Senza questo incontro Rilke non sarebbe diventato Rilke. Senza l’«insegnamento» di Cézanne3 il 157


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nostro secolo non avrebbe conosciuto la poesia e il pensiero che hanno preso forma nelle Elegie duinesi e nei Sonetti a Orfeo. 2. Rilke è a Parigi. È alle prese con il suo romanzo incompiuto, I quaderni di Malte Laurids Brigge4, e con Rodin, a cui sta nuovamente lavorando anche in prospettiva di una serie di conferenze. È insoddisfatto. Sa che cos’è l’arte, ma sa di non esserne ancora all’altezza, e non osa andare nella direzione che pure intravede. Infatti, scrive, «gli oggetti d’arte sono sempre esistiti dell’essere-stati-in-pericolo, dell’essere-andatifino al limite ultimo di una esperienza là dove nessuno può procedere oltre» (24 giugno 1907). L’artista è chiamato a una prova terribile: è chiamato a misurarsi «con l’estremo». Rilke sa di essersi mosso fino a questo momento al di qua di quel limite, che lui stesso individua chiaramente come il luogo stesso dell’arte. Sa che i suoi «modelli» sono inadeguati: «Io non posso ancora usare modelli umani (prova: non l’ho ancora fatto) e mi sono occupato per anni ancora di fiori, animali, paesaggi», da cui però egli aggiunge, «la natura è assente» (13 ottobre 1907). Il paesaggio è infatti una forma entro la quale percepiamo la natura, ma non è la natura stessa, non è la sua verità. Ma anziché andare al fondo di questa sua inquietudine, Rilke preferisce «trattenersi», e rinviare questo incontro, a un altro tempo. Deve finire il lavoro su Rodin, e questa nuova coscienza, questi «spostamenti di punti di vista» non possono giocare, in quello che ha fatto finora, «alcun ruolo». Finirebbero per distruggere invece l’ordine che ha già raggiunto. E dunque Rilke, per ora, proprio come Rodin, «rimane all’interno di ciò che è raggiungibile» (28 giugno 1907), pur sapendo che ciò che è semplicemente raggiungibile è ben distante dalla meta a cui tendere, a cui deve tendere l’artista. In fondo, nell’arte, si può stare anche soltanto «in ciò che si è potuto», e né Rilke né Rodin hanno per ora potuto di più. Ma come si può stare, rimanere in questa inquietudine? Come si può sostare là dove sappiamo che quello non è più il nostro luogo? «Sempre così incompiuti, inadeguati, di fronte a tutto frammentari» (13 settembre 1907). 3. Un caso lo mette di fronte a una serie di opere di van Gogh. È già una scoperta importante. Van Gogh dipinge cose, esseri e cose. Ma andare a fondo di una cosa o di un essere, per esempio un cavallo, un semplice cavallo qualsiasi, su una via, significa entrare nell’enigma della cosa, nel mistero che essa racchiude e che essa riverbera sul mondo, rendendo così anche il mondo enigmatico e misterioso (2 ottobre 1907). Questo lo possiamo capire anche dal fatto che van Gogh ha spinto il suo amore «verso ciò che non ha nome». Ma c’è qualcosa di più che affascina Rilke in van Gogh. È il fatto 158

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che egli ha saputo dipingere «nei giorni di terrore oggetti terrorizzati». Sono gli stessi «oggetti» che occupano le pagine del Malte, sono le cose sull’orlo della morte nelle prime Elegie duinesi. È per questa prossimità che Rilke vuole capire di più di quanto possa vedere nei dipinti. Vuole capire che cosa della vita dell’artista lo abbia portato alla sfida: al pericolo, all’estremo. Cosa lo abbia portato a rischiare se stesso per dare forma a tutto, anche al terrore. Per questo indaga sulla vita di van Gogh (4 ottobre 1907), come tra poco si occuperà anche della vita di Cézanne attraverso le note di Bernard5, che Rilke critica per la loro pochezza, ma di cui non può fare a meno. Conosciamo le opere di van Gogh, conosciamo le opere di Cézanne (così come tra poco Rilke le conoscerà). Ma sappiamo cosa ha fatto sì che essi sacrificassero tutto alla loro opera, che è diventata per loro un compito e un destino? 4. Il 6 ottobre Rilke si avvia lungo il Faubourg Saint-Germain, dove si elevano i palazzi dell’antica nobiltà parigina che egli, poeta alla moda, ben conosceva. Egli vede, dentro uno di questi palazzi, gli ambienti crepuscolari, il nitido vasellame d’argento e gli scuri arredi, e in mezzo a tutto questo una grande vecchia dama. La sua immagine lo accompagna lungo le strade di Parigi fin dentro il Salon, in mezzo alla «variopinta fiera dei quadri». La dama è fuori tempo, eppure «persiste» in mezzo ai dipinti di Berthe Morisot o di Eva Gonzalès. Solo «Cézanne non è più per la vecchia dama» (6 ottobre 1907). Di fronte a Cézanne non c’è spazio per la vecchia dama, così come non c’è spazio per fantasie déco, per sentimenti come quelli dell’amato Jacobsen, per nostalgie «a ritroso», alla Huysmans, perché lì, dalla sua parte, dalla parte di Cézanne, c’è «tutta la realtà» (7 ottobre 1907) e quando questa si raccoglie in un punto in una vertiginosa concentrazione non c’è più luogo per alcuna diversione. Non è più luogo per il semplice amore del bello, per la dimensione puramente estetica che avrebbe potuto appagare. Malte comincia, all’inizio del romanzo, il suo apprendistato a vedere. Rilke inizia anch’egli il suo proprio apprendistato di fronte alle figure di Cézanne che interrogano il reale con un’accanita ostinazione che giunge fino all’eroismo. Che non hanno tempo per altro. Infatti il reale le occupa interamente, come occupa l’artista che si sforza e si tende verso la forma che lo comprenda nella sua incomprensibile, nella sua inafferrabile pluralità e complessità. Rilke sembra aver bisogno di riprendere fiato. Dopo i primi due giorni del Salon riattraversa il Louvre. Trova il colore, da Tiziano e Tintoretto fino a Manet. Poi Rosalba Carriera e poi Chardin, che in qualche modo gli ricorda Cézanne, e che pure ha spogliato i frutti di ogni pretenziosità tanto che «stanno sparsi sul tavolo da cucina e non si preoccupano di essere mangiati belli». Ma Rilke deve aggiungere subito che 159


L’arte e il tempo

Cézanne è andato oltre, molto oltre. «In Cézanne cessa del tutto la loro mangiabilità tanto essi sono diventati davvero cose, semplicemente indistruttibili nella loro ostinata presenza» (8 ottobre 1907). È questa cosalità, questa ostinata presenza che deve essere interrogata. Dunque, di fronte a questo compito, la diversione del Louvre è stata una gita, nient’altro che una gita, che paradossalmente lo ha ricondotto proprio là, nel luogo da cui, almeno per un momento, aveva voluto allontanarsi.

Verso l'estremo. Il mondo come destino

5. Allora si ritorna a Cézanne: al mistero della sua opera, ma anche al mistero della sua vita, di quei suoi ultimi trent’anni passati di fronte a «cose» con l’ossessione della réalisation, che non va intesa come la «realizzazione» performativa dell’opera, quanto piuttosto come l’ossessione di rendere reale nella forma ciò che ci si dà in modo così frammentario, confuso, evanescente, tanto da non poter essere considerato davvero come «il reale». La réalisation è l’esperienza del mero oggetto che si spinge fino alla verità della cosa. Il vecchio Cézanne si esaltava ancora, fino all’ultimo, di fronte al folle tentativo di Frenhofer ne Il capolavoro sconosciuto di Balzac di cogliere nella fissità della tela la pulsazione della vita, ed era rimasto ferito e lacerato da quello che aveva ritenuto essere un suo ritratto, il ritratto del suo fallimento, ne L’Œuvre di Zola6. Perché non si può né si deve fallire di fronte al compito di rappresentare, o meglio di rendere reale nella tela, la vita inafferrabile. Ma Cézanne tornava sempre comunque al lavoro. Aveva capito, come Balzac, che «nella pittura si può giungere improvvisamente davanti a qualcosa di così immenso a cui nessuno può bastare». Ma proprio per questo «il giorno dopo ciò non di meno egli si trovava di fronte al suo compito» (9 ottobre 1907). Andava nel suo studio, poi attraversava la valle che lo portava davanti alla montagna della Sainte-Victoire «indescrivibile con tutte le sue migliaia di compiti», e lì si sedeva e dipingeva. Come egli stesso scrive in una sua lettera: con l’ansia di far presto, «prima che questa sparisca». Perché tutto muta, cambia, si trasforma, svanisce. Solo il lavoro resta: il lavoro che deve cogliere anche il mutamento e l’evanescenza. Così dispone bottiglie e frutta sul copriletto di Madame Bremond, e «costringe» queste cose «a essere belle», a essere forma, quella forma destinata «a significare tutto il mondo e tutta la gloria». Fuori piove. Ma Rilke sa che Clara deve aver capito «quanto io abbia fatto anche oggi».

Cézanne, ora comincia a vedere in se stesso. Mathilde Volmoeller (12 ottobre 1907) gli spiega come Cézanne abbia dipinto solo ciò che sapeva: niente di più. Fin lì è arrivato, e di lì in avanti non ha dipinto nulla perché ancora non sapeva. Perché l’arte è sapere. L’invenzione, la trama, il ritmo in poesia, la tavolozza in pittura non sostituiscono il sapere: aprono ad esso, alla struttura dell’opera e al suo fine. È questo sapere che, sulla soglia delle due sale che contengono i dipinti di Cézanne, dà l’impressione di «una colossale realtà». Questo supera anche l’amore idealizzato da Rilke per le cose di cui si era fatto sacerdote e predicatore. È invece «necessario andare ancora al di là dell’amore», perché, se è vero che si amano le cose del mondo, se vogliamo mostrare questo amore si finisce per giudicare le cose «invece di dirle. Si cessa di essere imparziali» e così, paradossalmente, «l’amore non entra nel lavoro». Cézanne non dipinge: amo questa cosa. Dipinge: qui essa è, «e in essa ognuno deve ben vedere se io l’ho amata». Così l’amore è totalmente «investito nell’atto del fare», in «un lavoro anonimo in cui si generano cose tanto pure». Nessuno è riuscito a tanto come invece è riuscito al vecchio Cézanne (13 ottobre 1907). Rivedere ora (15 ottobre 1907) i disegni, pur stupendi, di Rodin fa una strana impressione: «Quello che ne ho scritto due mesi fa è retrocesso fino ai limiti della validità». Il senso della realtà che Rilke sta via via scoprendo in Cézanne comincia davvero a rivoluzionare tutto il suo modo di sentire. Rilke sta trovando se stesso. Quello che intuiva vagamente si sta ora realizzando in lui attraverso «l’immenso progresso che c’è nei dipinti di Cézanne» (18 ottobre 1907). Non è tanto l’aspetto estetico che lo interessa. Rilke confessa che a fatica saprebbe riconoscere un quadro meno buono da uno più riuscito. Ciò che lo interessa «è la svolta in questa pittura, ciò che vi ho riconosciuto, perché è quella che ho raggiunto o in qualche modo avvicinato nel mio lavoro, da tanto tempo preparato probabilmente a questa unica cosa, da cui così tanto dipende» (18 ottobre 1907). Rilke non sa se potrà scrivere su Cézanne, cosa che lo tenta e che continuerà a tentarlo fino al tempo delle Elegie duinesi. Non sa cioè se è legittimato a scrivere su un pittore chi «lo comprende da un punto di vista così personale», chi ha trovato in esso «conferma e rapporti». D’altronde è possibile scrivere di «una cosalità illimitata» come quella che si trova nella pittura di Cézanne attraverso un commento? Non è necessario invece raggiungerla con i propri mezzi, e dunque, nel caso di Rilke, attraverso la poesia?

6. Rilke conosceva Cézanne. L’artista Paula Becker ne aveva parlato a Clara e a Rilke stesso, e Rilke aveva visto anche a giugno suoi acquarelli. Eppure non era successo nulla, «e improvvisamente ecco gli occhi giusti» (10 ottobre 1907). Rilke ora vede in

7. Il 19 ottobre c’è la scoperta di un’ulteriore affinità. Rilke ha citato nel Malte una terribile poesia di Baudelaire, La carogna, poesia che Cézanne pure amava e citava a memoria (19 ottobre 1907). Rilke ha ragione. Senza «questa poesia tutto lo sviluppo

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verso il linguaggio di cose che crediamo di riconoscere in Cézanne non avrebbe potuto avere avvio. Prima doveva esserci questa inesorabilità». Lo sguardo artistico si è spinto al di là di se stesso, fin nell’orribile, che però «vale insieme a tutto ciò che è». Rimuovere l’orrore de La carogna sarebbe affondare nel nulla tutto il mondo: renderebbe l’artista colpevole di questa catastrofe delle forme e del pensiero. Dunque bisogna abbracciare anche l’orribile, il ripugnante, il tremendo, così come il Saint Julien l’Hospitalier di Flaubert ha abbracciato il lebbroso. Se il Malte sarà scritto, continua Rilke, lo sarà in virtù di questa intuizione7. Ma in questo «amore» che abbraccia anche l’orrore e lo riscatta insieme a tutte le cose del mondo, non c’è l’equivoco che proprio Rilke ha appena condannato? Non ha detto Rilke che non dobbiamo dire: ho amato questa cosa, ma semplicemente dirla, perché in essa si veda, nella sua presenza, nella forma che ha preso per rendersi visibile e conoscibile, se io l’ho amato o meno? E in effetti la poesia di Baudelaire va oltre l’abbraccio, così come oltre procede la pittura di Cézanne, così come le Elegie duinesi andranno anch’esse oltre. Infatti l’orrore è tale perché non ha figura. Non amarlo o abbracciarlo, ma dare ad esso figura, questo è il compito: questo è «il disegno che tarda a venire», come dice Baudelaire. È un tema cruciale, su cui Rilke si arenerà e che alimenterà la crisi di un decennio, quando egli si troverà di fronte all’infigurabile assoluto: all’orrore contenuto nel sentimento della morte. 8. La morte. Cézanne l’ha conosciuta. Ha scritto: «Mi sono giurato di morire dipingendo». E «come in un’antica danza macabra, la morte ha afferrato il pennello da dietro la sua mano, dipingendo lei stessa l’ultimo tratto, con un brivido di piacere; la sua ombra si era allungata già da tempo sulla tavolozza, ha avuto tempo di scegliersi nella cerchia aperta dei colori quello che più le piaceva» (21 ottobre 1907). La morte, anche la morte, è entrata dunque prima come un’ombra sulla tavolozza, poi con un tratto direttamente nel quadro di Cézanne. Rilke può già tanto? Questa osservazione è del penultimo giorno prima della chiusura del Salon. Poi l’ultimo giorno, l’ultima visita. Rilke parla di pittura, di colore. Anche i giorni successivi alla chiusura Rilke parlerà di colori e di pittura. Poi parte e il 1° novembre 1907 a Praga, di fronte al mistero della sua infanzia, torna l’immagine di Cézanne come maestro di vita. Perché la sua «infanzia, reale accanto a ogni realtà, da vedere e da esprimere oggettivamente come una cosa di Cézanne, inafferrabile da parte mia, ma tangibile» gli si mostra come uno dei suoi compiti. Uno dei tanti compiti che inassolti trasformano l’esistenza nel lago stagnante della tristezza e della malinconia, in cui tutto 162

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sembra sfuggire tanto che, a un certo punto, anche Malte sembra farsi evanescente, così che Rilke teme di non riuscire nemmeno «a dargli la pienezza della sua morte» (8 settembre 1908). 9. Il Malte viene terminato e pubblicato nel 1910. All’inizio del 1912 Rilke scrive a Duino le prime due Elegie, i primi 15 versi della decima Elegia (più vari altri frammenti della stessa non più ripresi), quindi la iii, che sarà terminata a Parigi nel 1913, alcuni versi della ix, della vi e, nel 1915, la iv. Poi più nulla fino al febbraio 1922 quando, in pochi giorni, scrive la prima parte dei Sonetti a Orfeo e poi di getto tutte le Elegie, terminate l’11 febbraio con la stesura della v, a cui fa seguito, come in un turbine, la ii parte dei Sonetti a Orfeo. Perché Rilke non ha potuto scrivere per quasi un decennio rimanendo come congelato di fronte alla sfera di questo immenso ineffabile che tuttavia egli sa essere il suo compito: ciò che giustifica addirittura la sua esistenza (A Baladine Klossowska, 20 febbraio 1921)? Cézanne è sempre presente, ma è presente appunto contro l’incompiutezza, l’inadeguatezza, la frammentarietà che sembra essere propria di Rilke e di tutta la sua epoca, che si manifesta, per esempio, nell’orrore della pittura espressionista, che, come van Gogh, sa dipingere cose terrorizzate nei giorni del terrore, ma che secondo Rilke non sa procedere oltre di esso. È presente come il segno di qualcosa che egli avverte come forse non più raggiungibile. Che cosa è capitato? Che cosa ha reso Rilke muto e così inadeguato al compito che lui stesso si è assegnato? Non riuscirà più a emergere dagli «aspri pensieri» che lo tormentano e da cui si augura di uscire nei primi versi della decima Elegia, scritti appunto nel 1912? Eppure Rilke sembra avere chiaro il progetto, l’intero progetto delle Elegie. Accanto alle immagini di morte e di evanescenza che campeggiano nelle Elegie scritte a Duino e nei frammenti scritti nei mesi immediatamente successivi, Rilke scrive anche i versi che concluderanno la ix Elegia: «Vedi, io vivo? Di che. Né infanzia né futuro / vengono meno… Innumerevole esistenza / mi si sprigiona nel cuore». Questi versi, che concludono la nona Elegia, che costituisce il vero e proprio punto di svolta, il raggiungimento e il compimento del progetto complessivo, restano lì come relitti, tracce di fango abbandonate sulla riva dall’onda sciabordante di una vita che si perde o forse della morte. Facciamo un’ipotesi. L’artista, ci ha detto Rilke, deve spingersi fino al limite estremo. Ma una volta che siamo giunti a questo limite, a questo confine, che cosa troviamo se non l’infigurabile della morte? Facile rappresentarla, ci dice Rilke (Elegie, iv), nella malvagità. Ma come dirla, rappresentarla al di fuori dell’orrore che ci rende muti? 163


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10. La prima Elegia scritta a Duino all’inizio del 1912 non solo denuncia l’impossibilità del linguaggio a dire le cose, che nominiamo dunque solo in virtù di una «abitudine che in noi / si è intanata», ma anche la corrosione dell’identità individuale dentro un mondo nel quale «siamo inadeguati», un luogo percorso dal «vento di cosmici spazi» che «ci corrode il volto». La seconda Elegia, come la prima, ci confronta all’esistenza tremenda dell’angelo: specchio in cui ci risolviamo senza residui, senza che lo specchio nemmeno si accorga di noi. Esaliamo, scrive Rilke. È un’illusione che l’amore possa difenderci da questo venir meno. Gli amanti si afferrano, si toccano. «Certo: è un poco di sensazione. / Ma chi per questo potrebbe affermare di essere?». Gli amanti si illudono e si promettono eternità, ma, passati i primi istanti dell’amore, si è ancora davvero amanti? Oppure, mentre ci si leva l’uno verso l’altro e ci si attacca alla bocca nel bacio, come a una vitale bevanda, non c’è forse già una fuga? Un essere altrove? Nemmeno la philia, il puro amore della madre o della vergine, della terza Elegia, iniziata a Duino e completata a Parigi nel 1913, può nulla contro il mormorio come di cupe acque remote: il mormorio del sangue che quasi mostruosamente si agita in fondo a noi in un intrico oscuro di liane e di mostruose vegetazioni. L’amato non è redento: s’inabissa in questo sangue più antico, «nelle gole dove giaceva il temibile». Là l’orrore sorride di un sorriso più forte di quello della madre e della vergine. È un fermento che lo abitava già nel grembo della madre, che lo abitava prima del volto della fanciulla. La quarta Elegia, terminata a Parigi nel 1915, interrompe il tentativo di Rilke di portare a fondo del suo progetto proprio mentre in essa si riafferma il destino del poeta, il suo destino: «il primo torbido infuso del mio Dovere». Questo destino, infatti, si coniuga con l’angoscia del padre, la derelizione delle amate «da cui sempre andai via», perché lo spazio che si apriva sul loro volto per lui diventava spazio di mondo in cui esse non erano più. Rilke sembra non poter andare oltre il sentimento luttuoso della perdita. Si è trovato in Cézanne e poi si è perduto. Certo, avrebbe potuto scrivere in modo terrorizzato di cose terrorizzate, come gli espressionisti di cui parla in molte lettere. Questo avrebbe potuto farlo. Non avrebbe più potuto scrivere della vecchia dama lasciata sulla soglia del Salon. Non avrebbe più potuto scrivere di fiori di animali e di paesaggi da cui la natura fosse assente. Avrebbe potuto rappresentare il terrore. Ma questo, egli lo sa, non basta. Cézanne ha fatto altro. Perché a lui sembra non essere possibile sporgersi verso questo altro, verso questo altrove? 11. Avanziamo un’ipotesi. L’artista, ha detto Rilke, deve giungere al limite estremo: all’ultimo confine. E cosa si trova quando si giunge su questa soglia se non, come ab164

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biamo già detto, la perdita, il nulla, in una parola: la morte? La vita stessa allora sembra spaventarsi di fronte a questa immagine o a questo pensiero. Lo stato d’animo che prevale è allora quello del lutto per cui, come scrive Benjamin, «si rianima il mondo gettandovi una maschera» che ci dà «un piacere enigmatico alla sua vista»8. È il piacere del malinconico che, per questa via, come dice ancora Benjamin, può giungere a una distanza dal mondo che si spinge fino «all’estraneazione dal proprio stesso corpo» (p. 116). La fedeltà agli oggetti, che Rilke ha imparato da Cézanne, non salva, ma diventa un ulteriore motivo d’arresto, di paralisi. Diventa un amore per gli oggetti, ma in quanto destinati a venir meno, in quanto votati alla morte: irredimibili nella loro greve, pesante, irriducibile caducità. La natura stessa si presenta in effetti, come Rilke la rappresenta nelle prime Elegie, come «eterna caducità», sopra la quale si eleva l’inattingibile esistenza dell’angelo, ma all’interno della quale l’agire dell’uomo, dell’amante, dell’eroe, dell’artista, non definisce che le stazioni di una via crucis del decadere, del venir meno9. 12. Lutto e malinconia. Il pensiero della morte pensa la morte. È la tristitia in cui si affonda. Leopardi la nomina come noia, che «è la più sterile delle passioni umane. Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla». Nella noia, infatti, l’uomo «sente il nulla ogni momento»10. Il nulla si insinua in ogni interstizio della vita, e di lì dilaga e annienta tutto. Che cosa ha liberato Rilke dalla prigione della tristitia in cui forse era già entrato nel Requiem scritto nel 1908, alcuni mesi dopo l’esperienza Cézanne, Requiem in morte di Paula Becker che proprio a Cézanne l’aveva introdotto? Poi un’altra morte, un altro Requiem: il monumento sepolcrale a Wera Ouckama Knoop. Wera (1900-1919) era morta giovanissima di leucemia alla fine del 1919. Rilke ricevette dalla madre di Wera una lunga relazione sulla malattia e la morte della figlia all’inizio del 1922, poche settimane prima dell’inizio dei Sonetti, che le sono dedicati come appunto un «monumento funebre». Wera è infatti una figura orfica, e Orfeo ha cantato il mutamento, ha cantato la morte ma anche la rinascita come Dioniso Zagreus. Attraverso Wera Rilke non ha solo raggiunto la dimensione orfica, e quindi non solo l’accettazione, ma anche l’esaltazione della metamorfosi e del mutamento. Wera gli ha portato però qualcosa di più. Rilke, come abbiamo già visto, aveva detto che la morte ha afferrato da dietro la mano di Cézanne, dipingendo lei stessa l’ultimo tratto sulla tela. La morte, che prima aleggiava come un’ombra intorno all’opera di Cézanne, è a un certo punto entrata dentro la sua opera. Con Wera e con I sonetti a Orfeo, che in parte precedono, lo ricordiamo, la ripresa delle Elegie, la morte che aveva aleggiato intorno a Rilke trattenendolo sulla soglia dell’opera è entrata 165


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dentro l’opera: ha segnato i suoi tratti, ma, anziché portare terrore, ha portato con sé addirittura la possibilità della salvezza.

quello che aveva annunciato nel 1912: «Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro / vengono meno… Innumerevole esistenza / mi si sprigiona nel cuore».

13. Quando Cézanne diceva di fronte alla montagna della Sainte-Victoire che bisognava far presto prima che questa svanisse, non era forse preso come Rilke dall’ansia della caducità e della precarietà delle cose e dalla volontà di salvarle? Ma come si possono salvare le cose dal loro essere effimere se noi stessi siamo, come scrive Rilke nella nona Elegia, «i più effimeri»? Siamo a Muzot nel febbraio 1922. Rilke ha scritto in pochi giorni la prima parte dei Sonetti a Orfeo. Ora procede con la «grande vela delle Elegie»11. «Essere qui è stupendo», ha scritto nella vii. «Essere qui è molto», ribadisce nella ix. È molto perché «tutto ciò che è qui», e che è così fugace, sembra «abbia bisogno di noi», di noi «i più fugaci». Tutto ciò che abita il mondo è solo per una volta, e anche noi siamo solo per una volta. «Ma questo / essere stati una volta, anche solo una volta, / essere stati terreni, sembra irrevocabile». Cosa portiamo alle cose fugaci perché esse siano redente da noi, perché in noi esse riconoscano ein Rettendes, un salvatore? Noi portiamo il segno, il segno di Cézanne. Noi portiamo la parola, la parola di Rilke. Il viandante non porta dal monte un pugno di terra, ma la parola che la nomina: una parola conquistata. «Noi siamo qui per dire», per nominare. Dire casa, ponte, fontana, brocca, albero da frutto, finestra. Dire e nominare le cose, ma per dirle, «capisci, / per dire così, come mai le cose stesse / intimamente sapevano di essere». Le cose contengono la morte. Noi conteniamo la morte. Dire la morte dentro la vita è dire il loro segreto a loro indicibile. Esse non sanno, ma noi invece sappiamo, sappiamo quando nel segno e nella parola impediamo che tutto affondi in «un fare senza figure», quando riusciamo a dare a tutto, anche alla «carogna» di Baudelaire, la sua forma. Ma non solo le cose non sanno la morte che è in esse insieme alla vita come la loro più intima e profonda verità, ma nemmeno l’angelo, l’immortale, sa la morte. A lui, dunque, mostra «la semplice cosa», con la vita e la morte che essa contiene: «Digli le cose. Ne sarà stupefatto». «Mostragli come può essere felice una cosa, innocente, nostra, / e come anche il dolore […] si schiude alla forma /e serve da cosa, o si estingue facendosi cosa». Cézanne dipingeva: ecco la cosa, e la cosa sapeva di essere amata da lui. Se le cose vivono nel trapassare capiscono che dicendole semplicemente tu le lodi. Vogliono «che nell’invisibile cuore noi le si debba trasfigurare / oh, all’infinito, dentro di noi! Chiunque noi siamo alla fine». La terra stessa risorge allora come invisibile dentro di noi: questa è la metamorfosi autentica, il compimento di Orfeo. E qui Rilke compie

14. Sono passati due anni dalla conclusione delle Elegie e dei Sonetti a Orfeo. Il 26 febbraio 1924, rispondendo a una lettera-questionario di A. Schaer, Rilke scrive: «Come il più forte dei modelli si pose davanti a me dal 190612 l’opera di Paul Cézanne che io, poi, dopo la morte del maestro, ho seguito su tutte le sue tracce». Rilke ha capito davvero Cézanne nelle Duinesi e nei Sonetti. Ha capito Cézanne nella poesia. Questo è il commento che allora non si era sentito di fare. Questo è anche l’espressione di un’incancellabile gratitudine. Rilke sembra a questo punto aver superato la frattura tra parole e cose che aveva, come abbiamo visto, angosciato Hoffmansthal, e che continuerà ad angosciare poeti e scrittori, come per esempio Thomas S. Eliot, che afferma in uno dei Quattro quartetti: «Le parole si sforzano/ si fendono e talvolta si spezzano, sotto il peso, / per la tensione incespicano, scivolano, si guastano, /marciscono per imprecisione»13. O come Jean-Paul Sartre, in cui la realtà si dà come l’indicibile sensazione di nausea. O come Samuel Beckett… Ci sono grandi esempi della tensione che si è creata tra opere e linguaggi diversi. Édouard Manet e Georges Bataille, o Michel Leiris. Jean Genet e Alberto Giacometti, o quello drammatico di Antonin Artaud con van Gogh. Ma credo che sia unico il caso in cui dall’opera di un pittore si sia generata nel tempo un’immensa opera poetica, come nel caso del rapporto fra Rilke e Cézanne. Forse potremmo pensare alla folgorazione di Francis Bacon per l’Innocenzo x di Diego Velázquez. Ma forse nemmeno questo esempio è paragonabile a quello in cui un’opera figurativa si riarticola nelle parole di un poeta, che da queste parole genera altre immagini e altre parole che assumono un timbro unico e inconfondibile nella poesia mondiale della Modernità.

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R.M. Rilke, Verso l’estremo. Lettere su Cézanne e sull’arte come destino, a cura di F. Rella, Pendragon, Bologna 2007. Si veda anche Paul Cézanne – Rainer Maria Rilke, Quadri da un’esposizione, Parigi 1907, a cura di B. Kaufmann, traduzione dei Briefe über Cézanne e postfazione a cura di F. Rella, Jaca Book, Milano 2018, in cui è ricostruita la mostra del 1907. Per l’edizione tedesca cfr. R.M. Rilke, Briefe über Cézanne, a cura di Clara Rilke e H.W. Peztet, Insel, Frankfurt am Main 1983. Per le altre lettere cfr. R.M. Rilke, Briefe, edizione del Rilke-Archiv in Weimar, a cura di K. Altheim con la collaborazione di R. Sieber-Rilke, Insel, Frankfurt am Main 1987. 167


L’arte e il tempo 2

Tra parentesi do la data della lettera e il destinatario se diverso da Clara Rilke. In un testo molto «rilkiano» Peter Handke ha parlato di «Lehre der Sainte-Victoire» (la dottrina della Sainte-Victoire), del soggetto più famoso su cui Cézanne si è accanito negli ultimi anni della sua vita. Il libro di Handke è stato tradotto da C. Groff con il titolo Nei colori del giorno, tr. it. di C. Groff, Garzanti, Milano 1985. 4 Che sarebbe stato ultimato e pubblicato nel 1910. Cfr. I quaderni di Malte Laurids Brigge, tr. it. di C. Groff, Mondadori, Milano 1988. 5 É. Bernard, Sur Paul Cézanne, «Mercure de France», ottobre 1907 (il fascicolo della rivista era distribuito insieme al catalogo al Salon del 1907). 6 Lettera del 9 ottobre. Abbiamo già parlato più sopra del rapporto di Cézanne e Zola. 7 C. Baudelaire, Œuvres complètes, a cura di C. Pichois, vol. i, Gallimard, Paris 1975 e G. Flaubert, La leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere – La légende de Saint-Julien l’Hospitalier, cura di S. Agosti, bur, Milano 1983. 8 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 115. 9 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 141. 10 G. Leopardi, Zibaldone, a cura di C. Pacella, Garzanti, Milano 1991, p. 1815 e p. 2222. 11 A W. von Hulewicz, timbro postale Sierre, 13-11-1925. Cfr. R.M. Rilke, Lettere da Muzot, a cura di M. Doriguzzi e L. Traverso, Cederna, Milano 1947. 12 In realtà dal 1907. Cfr. Lettere da Muzot, cit. 13 T.S. Eliot, I quattro quartetti, a cura di F. Donini, Garzanti, Milano 1982, i, 5. 3

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Seconda parte MICROLOGIE


Non considero «saggi» nel senso tradizionale del termine gli scritti che seguono; parlerei piuttosto di «approssimazioni», anche se naturalmente questo genere letterario non esiste. Da una parte vorrei sottolineare il fatto che nessuno di questi lavori esaurisce il proprio soggetto, ma riesce al massimo ad approssimarsi ad esso; dall’altro vorrei evidenziare che essi affrontano, sebbene da un altro punto di vista, lo stesso argomento delle mie opere narrative: l’inavvicinabile. Pertanto si troveranno qua e là ripetizioni, citazioni da precedenti lavori che hanno l’effetto di leitmotiv e rimandano alla coerenza – talvolta misteriosa anche per me – di un’unità e di un modo di pensare e di esprimersi e addirittura di esistere (…). Imre Kertész

Spesso i miei libri terminano con una serie di «microsaggi», di «approssimazioni», come li definisce Imre Kertész. Pensieri, elaborazioni, che vengono presentati senza note o riferimenti, muovendosi accanto ai saggi che li precedono, talvolta riprendendoli, talvolta cercando di andare oltre. Adorno ha parlato nella Dialettica negativa di uno sguardo micrologico che va al di là della scorza del concetto. Rifrazioni, micrologie sono una sequenza di domande che vengono poste al pensiero e che vengono via via ribadite accanitamente, scontando anche l’effetto di un’ossessiva ripetizione avvertibile talvolta o perfino troppo spesso anche in queste pagine.

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1. Arte e violenza a Giacomo Marramao

Platone ha contestato l’arte, la presenza e il peso dell’arte nella polis. È stata una preoccupazione costante di tutti i regimi, salvo in quest’ultimo lembo temporale della democrazia in una società polverizzata come la nostra, in cui tutto entra nello stesso gioco, fa parte della stessa rappresentazione. Ma basta sporgersi appena fuori da questo confine, guardando appena al di là del nostro confine, per vedere come l’attenzione nei confronti dell’arte sia vigile, sia anzi ossessiva, talvolta armata. Nei confronti dell’arte e del peso politico dell’arte. Come recuperare questo peso anche all’interno della nostra società e al contempo difendere l’arte da ogni censura e da ogni strumentalizzazione? Come passare dalla dimensione estetica alla dimensione politica? O meglio: come mettere in rapporto e in tensione estetica e politica? L’opera d’arte incorpora violenza nella sua stessa organizzazione, che forza l’atto creativo all’interno di una struttura metodicamente elaborata. Si pensi alla preoccupazione di Marcel Proust – alla Matinée della Principessa de Guermantes ne Il tempo ritrovato – di trasformare l’esperienza dell’irruzione degli indicibili istanti «extra-temportali» (che sono già essi una violenza rispetto alla nostra vita abituale) in un linguaggio comunicabile, che trasformi la pienezza dell’esperienza in una proporzione di pieni e di vuoti, di memoria e di oblio, di presenze e omissioni. Anche l’atto critico, la lettura come atto critico, è violenza. Riscompone l’organizzazione dell’opera, il «metodo» con cui è stata strutturata e attraverso cui si è data. Gran parte del pathos nel nostro rapporto con l’arte è legato a questa violenza, che nell’atto di lettura-interpretazione, ci fa autori e sovrani del destino dell’opera. 173


L’arte e il tempo

L’opera disgrega e riorganizza la vita e la lettura critica disgrega l’opera e la ricompone nel suo universo di senso attraversato però da altri possibili universi di senso. Picasso, ha scritto Gottfried Benn, ha scomposto la vita e il mondo e li ha ricomposti nella forma di un violino. È possibile tornare al mondo come era prima del gesto di Picasso? Possiamo pensare a come erano i papaveri prima che Claude Monet li dipingesse? Questa violenza, questa disorganizzazione e riorganizzazione di forme, si proietta – al di fuori delle forme proprie del linguaggio artistico – nello spazio della polis? Non sono solo io lettore o io spettatore che percepisco attraverso lo spettro dell’arte il mondo in un’altra forma, ma l’intera comunità? Questa forse è una domanda implicita nell’atto creativo e anche nell’atto interpretativo. L’opera propone un piano di possibilità che entra in conflitto con quel piano, con quel possibile che abbiamo concordato di chiamare il «reale». Qui è un altro nodo, forse decisivo, della violenza artistica. Franz Kafka va ancora oltre. Pone l’impossibile stesso come una possibilità. Qui è l’effetto sconvolgente di ogni sua opera, di ogni suo scritto, anche di un suo frammento diaristico. In lui anche l’ossessione annientatrice, malata, della scrittura agisce sul piano sociale: sul nomos della famiglia, delle relazioni, della comunità (si veda il racconto Indagini di un cane). Oltre tutto, essendo la scrittura un’attività intransitiva, essa si pone eo ipso come attività anomala, anomica. A-politica, a-sociale. Estetica e politica. L’arte dilata e restringe i confini del mondo, stringe in rete l’esperienza che noi abbiamo del mondo. L’arte a-politica è politica per definizione, come aveva capito Platone. Come hanno capito tutti i poteri che hanno cercato da sempre di limitarne gli effetti. Oggi non più, almeno in Occidente. Perché viviamo in una società frantumata e anestetizzata o perché anche l’arte si è allontanata dai suoi compiti? Nella folla, nella follia delle immagini si confondono anche le immagini estreme, oppure non si danno più immagini estreme? Forse anche perché manca al suo compito non solo l’arte ma anche la filosofia, quella filosofia critica che potremmo definire anche filosofia estetica. Questa dovrebbe attraversare l’organizzazione dell’opera e misurarne le forme e tutte le espressioni concettuali attraverso cui l’uomo, ma anche la società si pensa. Anche questo è un confronto violento che si misura da un lato con la violenza implicita nell’opera e dall’altro con la violenza che è propria del concetto, dell’astrazione concettuale. E sullo sfondo la violenza politica anch’essa implicita nelle forme del pensiero collettivo. 174

Micrologie

È forse un atto violento cercare l’universalità nella singolarità: costringere il singolare all’universale e l’universale nel singolare. Alla necessità di questo atto non dovrebbe esserci scampo. Bene e male, la dimensione morale e la dimensione etico-sociale, il giusto e l’ingiusto. L’arte qui sta nel mezzo – né morale né immorale, né buona né malvagia. Sta nella tensione dialettica tra questi due poli. Tensione in sospeso, in Stillstand, la figura di «dialettica in stato d’arresto» che essa contribuisce a realizzare. Si sporge da una parte e dall’altra confrontandosi con la violenza implicita in entrambi i campi. I paradossi. L’arte ha messo in discussione ogni principio di organizzazione del senso e si è dovuta dotare di un principio di organizzazione. Ha messo in discussione l’io e non ha mai potuto prescinderne neanche nelle sue manifestazioni più estreme – Samuel Beckett, Paul Celan, Franz Kline. Ha messo in discussione tutti i valori e si è posta essa stessa come un valore intransitivo, assoluto, come ha sottolineato Broch, degradando a Kitsch l’arte pronta a servire ad altro che a se stessa, al suo senso interno, vale a dire alla sua ombra e al suo legame con la morte. Ha messo in discussione concetto e filosofia e pone se stessa come una costellazione di forme concettuali, come una filosofia. Credo che Hegel abbia colto una sostanziale verità. L’arte era ed è destinata a trapassare ad altro da sé. L’arte che si distacca da ogni funzione cultuale e pretende la propria autonomia sempre più diventa arte della riflessione e dell’intelletto. Diventa un’arte filosofica che nel Moderno è stata destinata a interagire con la filosofia, o addirittura, a un certo punto, quando la filosofia è sembrata entrare in uno stato di afasia, a sostituirsi ad essa. Se la filosofia dominante anziché assumere le questioni radicali le dissolve, allora siamo portati a cercare queste domande nello spazio artistico. Questa sorta di «dislocazione» del pensiero la possiamo trovare certamente in tutti i grandi poeti narratori e artisti soprattutto dalla fine dell’Ottocento a oggi. Fëdor Dostoevskij, Franz Kafka, Marcel Proust, Thomas Mann, Thomas S. Eliot, Eugenio Montale, ma anche, oggi, Don DeLillo e Philip Roth e Cormac McCarthy e Yehoshua Kenaz. L’arte e la poesia si danno soltanto in una forma, nella materialità della forma. Siamo dunque ben lontani dal «mondo sopra il mondo» delle metafisiche classiche. Ma siamo comunque dentro una metafisica: la ricerca di un senso che non si dà squadernato immediatamente, per così dire sciorinato sul piano del tavolo. 175


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Un paradosso, dunque. Ma questo è il suo paradosso, addirittura la sua forma di esistenza. L’arte ha proprio in questa sua ambiguità il suo valore, o come ho appena detto, la sua portata metafisica. Ma è paradossale anche il fatto che non può dichiarare essa stessa la sua portata metafisica. L’affermazione le viene dall’esterno, un esterno complice, ma comunque di una complicità che rifiuta l’identità. Le viene dall’incrocio con la riflessione critico-estetica. Questa non definisce il valore dell’opera. Ne indica, appunto, la portata metafisica, ovvero il suo orizzonte di senso. La violenza, si dice abitualmente, deve attenersi ai mezzi e non ai fini. In questo caso – per quanto riguarda l’arte – la violenza attiene ai mezzi e ai fini: la rottura del linguaggio (mezzo), l’effetto contestativo dei linguaggi che abitualmente organizzano l’esperienza del mondo (fini: la violenza che scardina codici di percezione e di ordinamenti del mondo).

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Joyce ha forzato il romanzo riempendolo fino a farlo scoppiare, e Beckett svuotandolo fino sull’orlo dell’afasia. Pier Paolo Pasolini in Petrolio si pone sull’orlo del romanzo. Al suo interno tutto viene sbriciolato e sconnesso e riconnesso. Al centro non l’Eni e il petrolio, ma la forma. Il potere è anche il potere di dare forma, una forma che scompagini le forme date. Sia in Artaud che in Pasolini nel caso di Petrolio c’è una pressione estrema sul linguaggio: sul corpo del linguaggio. Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto afferma che Petrolio, esercita «sul corpo della lingua una pressione che non è solo mentale, solo culturale. Iniziare a vivere una forma è come dire che a partire di lì (…) un individuo inizia a prendere possesso della realtà. In modo, osserva Pasolini, che non può che essere violento e brutale, come accade in ogni presa di possesso». La tensione critica. Il saggio.

La violenza pone una legge. La legge dell’opera che agisce contro la violenza – il terrorismo – del codice intrinseco alla legge. Trasgressione. Arte tragica o arte pharmakos. Pharmakos: cura e veleno. La violenza estrema nell’arte. Antonin Artaud Succubi e supplizi, la lingua che si fa corpo e si disgrega e si riaggrega in suoni agglutinati per «fare un essere dai detriti del morto». Perché non lo è mai anche fuori dai bordi è il centro che non è e non dice niente, non essendo. yomart te i no te i o stat i p e cel chioz i zi vivi zian vientse i e i niotsel e vivi 176

Theodor W. Adorno – Filosofia della musica moderna – assegna all’arte un compito impossibile. Eppure questo è proprio il suo compito. Walter Benjamin, Strada a senso unico: «Le citazioni, nel mio lavoro, sono come i briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante». Le citazioni compaiono come elemento disgregante la totalità anche nella «Premessa gnoseologica» a Il dramma barocco tedesco di Benjamin, forse la più limpida teo­rizzazione di che cosa sia il saggio, vale a dire una filosofia che abbia agito la violenza della forma contro l’imperialismo del concetto. «Il contenuto di verità di una teoria si lascia cogliere solo nella più precisa penetrazione dei singoli dettagli». Il saggio è arte: «arte di interrompersi contro il fluire della catena deduttiva». Nelle idee «non giunge a coincidenza l’omogeneo ma gli estremi pervengono alla sintesi». La filosofia «è la forma che, dagli estremi più remoti […], fa emergere la configurazione dell’idea in quanto totalità contrassegnata dalla coesistenza degli opposti. La rappresentazione di un’idea non può in nessun caso considerarsi riuscita finché non si è passato virtualmente in rassegna il cerchio degli estremi in essa possibili». Gli estremi e il possibile. Gli estremi e i possibili. 177


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Filosofia dell’arte, estetica: «Per la filosofia dell’arte sono gli estremi ad apparire necessari».

2. Intermezzo in Paradiso. Thomas Mann

Il saggista si cala in un’opera, come si cala nelle figure che via via egli affronta, per arrivare al loro contenuto di verità, che spesso si dà nelle fratture dell’opera stessa, nella dissonanza che abita la figura, nel loro essere non solo inconciliabili all’esistente, ma in se stesse inconciliate. Il saggista è il filosofo che ha scelto di non degradare la filosofia a una scienza particolare, che si occupa per professione di politica, o di arte, o di etica, o della sua stessa storia.

Giuseppe il Nutritore si apre, come il Faust di Goethe, da sempre modello e antagonista per Thomas Mann, con un prologo in cielo, ovvero con un «Preludio tra le gerarchie celesti». Qui scopriamo che «la Somma saggezza si impelagò in faccende non sagge, creò un essere palesemente precario e imbarazzante» ed Egli rimase «con solenne ostinazione» attaccato a questa «creazione malriuscita». Ma tra le sfere celesti si sussurrava che questa non era stata un’iniziativa del tutto autonoma del Creatore, ma che su di lui aveva pesato in modo decisivo il suggerimento «del grande Samaele che prima della folgorante caduta era stato molto vicino al Trono». E vicino è rimasto, sia nel prologo alla vicenda di Giobbe nella Bibbia, sia nel Faust di Goethe, sia, appunto, in Thomas Mann. Samaele aveva interesse «a concretizzare e a introdurre nel mondo il Male». Samaele insinua in Dio l’immagine delle cose e delle possibilità che ne sarebbero sortite, il giudizio, la grazia, la misericordia, ma soprattutto il fatto che il Bene sarebbe stato destinato a rimanere nel grembo dei possibili finché non si fosse concretizzato il suo opposto, il Male, appunto. È così che l’uomo, la creatura più simile al suo creatore, portò con sé il Male, lo introdusse nel mondo. In fondo Dio, in questa ambigua creatura, nell’uomo, trova il mezzo per riconoscere se stesso, sia il bene realizzato che il male che giaceva in potenza nelle sue profondità e che l’uomo fa emergere nel mondo. «L’uomo era dunque il prodotto della curiosità di Dio», come fosse Dio stesso un qualsiasi Hans Castorp a cui placet experiri. Curiosità accortamente presupposta da Samaele. L’esperimento di Dio diventa l’esperimento del mondo. L’anima si spinge verso la materia, l’informe, per suscitare forme da cui «trarre piaceri corporei». Dio, a causa di questo desiderio dell’anima di muo178

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versi nella materia e nelle forme, «creò per lei l’avventuroso mondo dell’accadere, il mondo delle forme e della morte». Samaele, il Maligno, è così colui che ha la più seria «concezione del mondo morale». Il mondo etico è infatti una conseguenza diretta dell’irruzione, attraverso l’uomo, del male nel mondo. Pavel Florenskij dirà che è inconcepibile il bene senza il male. Simone Weil che bisogna amare il male in quanto male, perché solo esso ci permette di cogliere il bene. Michail Bulgakov dirà che il mondo da cui sia stato tolto il male è un mondo scorticato e privo di ombra. Thomas Mann si muove sull’inaggirabilità del male nel mondo senza alcuna spinta religiosa o mistica. Il male è legato allo spirito come alla natura, alla materia come alla forma, all’arte come al sapere e, con Savonarola di Fiorenza e con Samaele, alla religione. Thomas Mann è disincantato e, apparentemente impassibile, porta i suoi personaggi alla farsa come alla tragedia.

3. La figura lunare dell’arte. Ancora Thomas Mann

Thomas Mann non risolve, come aveva fatto Nietzsche, l’apollineo nel dionisiaco per fondare una metafisica artistica. Mann introduce tra Dioniso e Apollo un terzo polo, Hermes, la dimensione ermetica. Tutta la sua opera si gioca in questo spazio mediano in cui stanno le alte realizzazioni dello spirito di Aschenbach di Morte a Venezia, ma anche il fondo scuro da cui queste provengono. Hermes è una figura complessa. È una figura di mediazione in primo luogo tra la vita e la morte, e all’interno sia della vita che della morte Hermes presiede all’infinito scorrere e intrecciarsi delle metamorfosi. Per questo non Apollo e non Dioniso, bensì Hermes è, per Mann, la figura centrale dell’arte. Tra il mondo platonico delle idee e il mondo sensibile, Mann individua nella «mobile e variopinta fantasmagoria di immagini» il trasparire dell’essenza ideale all’interno dell’arte. «Qui si rivela la missione mediatrice dell’artista, il suo compito magico, ermetico, di intermediario tra il mondo superiore e inferiore, tra idea e fenomeno, tra spirito e sensualità. Questa è la posizione cosmica, per così dire, dell’arte, la dignità del gioco che non si possono spiegare né determinare altrimenti». Figura lunare quella dell’arte, essendo anch’essa, la luna, corpo intermedio: «il più impuro dei corpi celesti, ma il più puro di quelli terrestri». Thomas Mann ci ha presentato una delle sue figure più ambigue e al contempo più «artistiche», il giovane Giuseppe, seminudo alla luce della luna, anzi in una sorta di adorazione della luna. Giuseppe è figura biblica, che Thomas Mann carica di elementi ermetici, costantemente oscillante tra purezza e sensualità, e comunque incline alla parola e alla scrittura, quasi un cultore del dio Theuth, l’Hermes egizio. Una parola che è strumento di seduzione e di salvezza. 180

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L’arte e l’artista non possono che oscillare tra questi due mondi. L’ermetico sa trovare i nessi profondi che legano Aschenbach e Felix Krull, l’artista e il criminale, sullo sfondo mai veramente negato della dimensione tragica nietzscheana. Nietzsche è nelle immagini che ossessionano Gustav Aschenbach nella sua ascesa al monte Citerone e nel suo sprofondamento dionisiaco. Nietzsche è dietro Adrian Leverkühn non tanto per le coincidenze biografiche, ma per l’esito tragico a cui la sua arte conduce. Thomas Mann, a differenza di Nietzsche, gioca. Ma il suo gioco non ha nulla da spartire con «il gioco delle perle di vetro», per esempio, di Hermann Hesse. In Mann emerge sempre il pessimismo che è la sua cifra più profonda, su cui egli ha costruito la sua tradizione. Malgrado l’impegno politico progressista degli ultimi decenni della sua vita, Mann non guarda al futuro. Per lui pare non darsi futuro sull’orlo, come siamo, di «una lunga notte e di un profondo oblio». Hermes è appunto il dio che sta sulle soglie di questa notte. Thomas Mann racconta proprio questa soglia, questo limitare, nella spettrale luminosità della luna.

4. Inapparenze

A cosa tende la poesia? Dove guarda la grande narrazione? E la grande arte figurativa? Dove muove una filosofia che si è scoperta sempre più nomade, nel senso che sempre più tende a dislocarsi, magari per frammenti, in territori attraversati da confini in cui si scorgono, di qua e di là dalle loro linee che si intersecano, cose contraddittorie, apparentemente incomponibili, e che pure solcano le nostre esistenze? Su questi confini il saggio continua il suo movimento. Non conclude, non finisce. Assomiglia al cacciatore Gracco di Kafka, destinato a percorrere lo spazio che sta tra la vita e la morte, instancabilmente. Di questo territorio viene tracciata una mappa, che cerca di rendere percorribili i sentieri della vita e quelli che dentro la vita lambiscono la morte. Il 22 giugno 1555 Michelangelo scrive a Giorgio Vasari: «Non nasce in me pensiero che non vi sia dentro sculpita la morte». Quella morte che è in noi e l’artista vive appunto nell’anticipazione della morte, scrive Proust. O nella speranza della sua negazione, come Elias Canetti. Ci torneremo, intanto cerchiamo di procedere. Di proseguire nella nostra interrogazione. Platone è un filosofo nomade, che sconta nel corso della sua opera tensioni e contraddizioni. È anche un filosofo artista, capace dunque di dar forma anche a ciò che alla forma si oppone – addirittura all’informe. Eppure il filosofo poeta ha parlato, sia nella Repubblica che nelle Leggi, di un’«antica inimicizia tra poesia e filosofia». Qui entriamo in un nodo fondamentale del suo pensiero. Per Platone, andando al fondo, esiste l’idea ed esiste l’apparenza dell’idea nel mondo. Esiste la verità dell’idea e l’apparenza ingannevole che la nasconde e che, in qualche modo, la manifesta. L’idea di

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Bellezza se si presentasse direttamente e non velata «susciterebbe terribili amori», come egli scrive nel Fedro, in quanto, come afferma nel Simposio, essa non può essere colta né dal logos né da episteme. Sfugge al pensiero, alla parola e alla conoscenza, in un certo senso travolgendoli e aprendo la strada – unico esito – a una sorta di estasi mistica. E qui, per Platone, non c’è spazio per la poesia. Walter Benjamin nel saggio sulle Affinità elettive di Goethe, come d’altronde ne Il dramma barocco tedesco, si pone sulla frontiera di questo platonismo. La bellezza è misteriosa (geheimnisvoll) e si dà sempre in un velo. La bellezza è velata e nel suo darsi velata manifesta la verità che sta oltre la parola e che la parola può presentare soltanto nella sua velatezza, soltanto nell’evidenza del suo mistero. Dunque soltanto nel suo apparire. Quello che Benjamin dice della bellezza egli lo ripete per la verità ne Il dramma barocco tedesco. La verità, e la bellezza che la fa apparire nel mondo, rifuggono dallo svelamento, dallo scoprimento di cui parla Heidegger, quando vuole spingersi verso l’abisso indifferenziato della sua ontologia. Ma qui dobbiamo avanzare un’ulteriore considerazione. Dunque per Platone esistono nel mondo soltanto apparenze. Anche la verità, come abbiamo visto, si dà come apparenza. Eppure, contraddittoriamente, Platone e tutta la filosofia che, come ha detto Whithead altro non è che una serie di note a piè di pagina del suo testo, dichiarano l’inessenzialità dell’apparenza. A questa si contrappone l’essere, che non solo destituisce l’apparire di ogni legittimità, ma finisce per affondare insieme all’apparire il pathos dell’esistenza. Su questo aveva già detto tutto Parmenide, che ha chiuso il mondo, per dirla con Nietzsche, in una tela di ragno. Nello splendore dell’essere, recita Parmenide, «la nascita si spegne e la morte rimane ignorata (…). Nascita e morte sono state cacciate lontano e le respinse una vera certezza». E ancora: di fronte all’essere «saranno nomi tutte / quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: /nascere e perire, essere e non essere, /cambiare luogo e mutare luminoso colore». L’essere, per Parmenide, rotondo e inattaccabile affonda tutto l’esistere. Perché, come vedremo subito con Nietzsche, apparenza è di fatto esistenza. Nietzsche ha detto che tutto ciò che è appare, e che oltre il tutto non c’è niente. Il filosofo, o l’uomo teoretico, ha cercato di distruggere il velo dell’apparenza, ed egli «gode e si appaga nel togliere il velo». L’artista, al contrario, come Nietzsche afferma già nella Nascita della tragedia, rimane legato a ciò che nel disvelamento rimane velo. Dunque un conoscere attraverso l’arte. Nella prefazione a La gaia scienza Nietzsche afferma, come 184

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farà anche Benjamin, «non crediamo più che verità resti verità, se le si tolgono i veli di dosso». La verità a ogni costo è, per Nietzsche, «una farneticazione da adolescenti». La verità spogliata di ciò che di essa, secondo Platone, appare nella bellezza precipita, o letteralmente si dissolve non lasciando dietro di sé nulla, nemmeno la sua ombra. Nietzsche oppone alla verità l’arte, il gesto di colui che conosce tragicamente. Ma cosa conosce l’arte, ovvero «la metafisica artistica»? Nietzsche dice che l’arte conosce, o meglio vede, «il carattere terribile e problematico dell’esistenza». Ma perché Nietzsche parla dell’arte come di una «attività metafisica», come egli afferma nei grandi testi del 1888? Non è la metafisica per definizione proprio l’insieme di ciò che sta oltre il mondo e che lo fonda da fuori, da lontano, nella sua verità? Oppure l’arte è ciò che «ha la verità essendo l’arte stessa apparenza di ciò che non ha apparenza», come dice Theodor W. Adorno? Nietzsche, sempre nella prefazione a La gaia scienza, si rifà ai Greci: «Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; […] arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano superficiali per profondità!». Ma se tutto è apparenza, se tutto è forma e colore, se tutto sta sulla superficie, se la vita stessa scorre in superficie, per così dire sulla scorza del mondo, qual è la profondità a cui i Greci aspiravano proprio nel loro amore per ciò che appare? Qual è l’inapparente che sta nel profondo dell’apparenza? Come descrivere questo «profondo» a cui la prossimità della superficie rinvia animosamente? Parliamo dell’apparenza di ciò che è inapparente. Benjamin, rifacendosi alle osservazioni di Hölderlin sulla cesura del verso tragico, avanza l’ipotesi che nel testo poetico si apra un varco, una cesura, in cui si manifesta ciò che non ha espressione (das Ausdrucklose). Questa cesura è anche un compito della critica per arrivare a spezzare «quello che resta in ogni bella apparenza come eredità del caos: la totalità falsa e aberrante – la totalità assoluta». Dunque ciò che non ha espressione e che occupa uno spazio vuoto nel testo poetico, ovvero le sue cesure, compie paradossalmente l’opera – la porta dunque al suo fine e alla sua perfezione, «riducendola a un “pezzo”, a un frammento del vero mondo, al torso di un simbolo». Bataille affermerà che è un compito ineludibile pensare l’impensabile, rappresentare l’irrappresentabile. La filosofia critica ha il compito non di chiarire, di svelare, ma quello di complicare, rendendo, in questo suo processo, visibile la dimensione irrevocabilmente enigma185


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tica del destino a cui ci affacciamo nella forma dell’opera letteraria o artistica. La critica in definitiva, lavorando sul velo della bellezza, ci rende coscienti che l’apparenza non è, come dice ancora Benjamin, «l’involucro superfluo di cose in se stesse, ma quello necessario di cose per noi». In fondo, come ha detto Goethe, «la bellezza non può mai venire in chiaro di se stessa».

5. Natura morta con bottiglie

Ho ricordato più sopra Proust che mette il suo romanzo sulle soglie dell’Ade, come Ulisse di fronte al regno delle ombre. Hermann Broch ha detto che solo la letteratura può conoscere quello che forse sta nella profondità delle cose, quella profondità che i Greci cercano percorrendo la superficie delle cose stesse. Oltre l’apparenza la morte? Oppure la morte è sempre in ciò che appare? Nell’opera d’arte, dice Benjamin ne Il dramma barocco tedesco, affiora la verità della morte. È l’esposizione profana «della storia come via crucis mondana» che «ha significato solo nelle stazioni del suo decadere». Il significato corrisponde all’abbandono alla morte, «perché è proprio la morte a scavare più profondamente la linea di demarcazione tra physis e significato». La via crucis del decadere non si dispiega soltanto nella storia, ma ugualmente nella natura, che è sempre esposta alla morte e che, in quanto così esposta, «è allegoria da sempre». Benjamin, in un testo giovanile intitolato dai suoi editori Frammento teologico-politico, aveva parlato dell’«eternità del tramonto», di una «mondanità che eternamente trapassa, e trapassa nella sua totalità, non solo spaziale, ma anche temporale». Questo non è nichilismo. L’«eterna e totale caducità» viene illuminata dalla tensione messianica. Il mondo che muove lungo l’asse della caducità, in una sorta di via crucis, viene visto come esso si presenterebbe dal punto di vista della redenzione, come dice Adorno a conclusione dei Minima moralia, che sembra far eco e commento a questo passo benjaminiano. Non sappiamo se il mondo troverà qualche forma di redenzione. L’importanza è che questa prospettiva ci permetta di penetrare le lacerazioni del mondo e le nostre lacerazioni, dando al nostro pensiero e alla nostra parola il compito e il coraggio di guardare dentro di noi, dentro le cose del mondo. Di guardare dentro l’incompiuto. Nel suo apparire in quanto incompiuto.

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Il mito romantico dell’artista, genio solitario sfiorato dal vento dell’ala della veggenza o della follia, aveva fatto tramontare il mito dell’artista artigiano. D’altronde già Aristotele aveva riconosciuto, nel iv secolo a.C. come Adorno nel Novecento, la capacità filosofica e conoscitiva dell’arte, di cui sono stati ben coscienti artisti e poeti con un’autocoscienza addirittura ipertrofica, come Dante o come Velázquez. Nietzsche dal canto suo aveva liquidato l’idea wagneriana dell’artista totale. L’artista, per Nietzsche, è colui che è in grado di dare una forma ai «frammenti di uomini» e all’«orrida casualità», a cui l’uomo del moderno è condannato. Questo è stato il compito a cui si sono sentiti chiamati i grandi artisti, i grandi poeti, i grandi narratori, nella prima metà del xx secolo e per alcuni decenni del secondo dopoguerra. Se dovessi pensare a una periodizzazione relativa all’arte del moderno, partirei dagli anni Ottanta del xix secolo per arrivare agli anni Ottanta del xx secolo, quando cambia la figura dell’artista e cambia anche il suo ruolo sociale. Walter Benjamin aveva legato la perdita dell’aura agli strumenti della riproducibilità tecnica. Paul Valéry l’aveva intravista già nell’idea di Museo, là dove opere di vario genere, di varia provenienza, di diverso valore si dispiegano davanti ai nostri occhi perdendo via via la loro individualità per assumere un’unica qualità, quell’«artisticità» che oggi viene smerciata nelle innumerevoli mostre in cui le opere vengono esposte come in un outlet, e in cui ci si affolla come ai supermercati in tempo di saldi. Questa è, per così dire, l’efflorescenza del mercato che domina il mondo dell’arte, quello che è stato definito «il sistema dell’arte». Il sistema è fatto da alcuni musei influenti, dalle aste, da alcune gallerie, dai collezionisti e dai loro consulenti, dalle biennali e da altre manifestazioni del genere che si 187


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vogliono, come ha detto Giulio Paolini in un’intervista a «la Repubblica» (16 luglio 2012), testimoni dei valori imposti «dalla stringente attualità». In realtà l’arte che risponde alla stringente attualità è un’arte che si piega alla logica del tempo, alla logica dominante del nostro tempo. È in questo sistema che si muove l’artista, che oggi si fa imprenditore di se stesso all’interno delle leggi di un mercato che non viene messo in questione. La sua opera perde in singolarità, in quanto diventa strumento di autopromozione, ma anche di promozione del sistema stesso. Le dissacrazioni di Jeff Koons o anche di Maurizio Cattelan non sono la messa in questione della sacralità dell’arte, ma la riduzione dell’arte stessa al suo nudo statuto di merce. Quello che mi chiedo è se in questo contesto abbia ancora senso l’invito di Nietzsche, che si prolunga fino alle ricerche di Francis Bacon o di Mark Rothko. Nel romanzo di Don DeLillo, L’uomo che cade, su una parete, in un appartamento di Manhattan dopo l’11 settembre, stanno due nature morte di Giorgio Morandi. Bottiglie, brocche, scatole di metallo, che invitano a qualcosa senza nome, a «un’introspezione umana, oscura e inquietante». Uno dei personaggi vede in queste bottiglie le torri. Il silenzio dei quadri di Morandi diventa un tramite all’orrore delle torri gemelle, un accesso all’indicibile. Lo rappresenta. E se la donna, che abita questo appartamento, non vede in quelle bottiglie – che hanno elementi architettonici di un’altra epoca, di un altro secolo – grattacieli con uffici, e quindi le torri gemelle, è perché vede più in là, oltre l’orrore e il dolore delle torri. Questi dipinti spingono infatti «verso qualcosa di più profondo delle cose e delle forme». In fin dei conti, conclude, «si parla di mortalità». In fin dei conti si parla «della condizione umana». Dunque Giorgio Morandi e Paul Celan, che scrive: «Ma non dividere il No da Sì. / Da’ alla tua parola anche il senso: / Dalle l’ombra». Più vicino a noi, per esempio, Anselm Kiefer, con le opere Die Orden der Nacht (L’ordine della notte), o Schwarze Flocken (Fiocchi neri) del 2006, che richiama un verso di Celan, che rinvia appunto a quanto della «condizione umana» può emergere da una poesia, da un’opera d’arte.

6. La storia e le storie a Maurizio Gargano

Antoine Roquentin nella Nausea di Jean-Paul Sartre è uno storico. Da tre anni è nella cittadina di Bouville per guardare in quello che Thomas Mann, introducendo il ciclo dedicato alla figura biblica di Giuseppe, ha definito il pozzo del passato, e così «completare le sue ricerche sul marchese di Rollebon». Egli è però uno storico che ha perso ogni fiducia nella Storia. A sfogliare il passato, scrive, «non ne ricavo altro che briciole di immagini e non so bene cosa rappresentino». D’altra parte ormai «sono sparite anche le briciole». Sono rimaste solo delle parole incapaci di dire il passato ma anche il presente. «Le persone cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto. Non vi è mai un inizio. I giorni si aggiungono ai giorni, senza né capo né coda, è un’addizione interminabile e monotona». Dunque lungo il corso del tempo, come relitti abbandonati restano solo parole, parole vuote. Roquentin sa che le cose si sono ormai disfatte dei loro nomi. Le parole non dicono nulla, non si posano sulle cose, non riescono più ad afferrarle. Tra le parole e le cose si è infatti aperta una crepa insanabile, una frattura, dovuta al fatto che il senso è precipitato agglutinandosi in quella paludosa lacuna temporale fatta di giorni che si susseguono uguali, senza né capo né coda. Ma se la Storia non riesce a dare un senso al tempo, a dare ad esso un senso e una misura, forse possono farlo le storie, la narrazione. Roquentin si sente abbandonato nel presente, impossibilitato a raggiungere il passato, impossibilitato a guardare nel futuro. Qui e ora «non posso sfuggire a me stesso». È a questo punto che irrompe l’idea della morte e con essa l’idea, la percezione di un tempo umano. L’idea della morte, proprio della mia morte, è ciò che dà senso al tempo che sto vivendo, trasformandolo in un’avventura. Ma cosa può dunque trasformare un episodio, un segmento del

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mio tempo, in un’avventura? «Ecco cosa ho pensato», dice Roquentin. «Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo». Un uomo è sempre «un narratore di storie», vive circondato dalle sue storie e dalle storie degli altri e «tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse». Vede e capisce attraverso le storie. Vive la sua vita come se la raccontasse. Le storie, la narrazione, sono intrigo, trama. Un intrigo che non solo, come aveva visto Aristotele nella Poetica, collega, connette e intrama fatti ed eventi, ma che propone uno sconvolgimento nell’ordine cumulativo del tempo. Systasis ton pragmaton. La storia in quanto narrazione ha un inizio, e l’inizio contiene già la sua fine. Sembra, scrive Sartre nella Nausea, che si cominci dal principio: «Era una sera dell’autunno 1922…». In realtà, «la fine è lì, invisibile e presente, ed è essa che dà a queste parole l’enfasi e il valore di un inizio […]. La fine è lì presente e trasforma tutto». Gli istanti, quelli che nella Storia erano diventati briciole di nulla, qui nella narrazione, nelle storie, «sono ghermiti dalla fine che li attira, e ciascuno di essi a sua volta dall’istante che lo precede». Ma quando parliamo di storia non riusciamo a pensare alla fine che incombe invece sulla narrazione delle storie. Vuol dire che il discorso di Sartre è inutile, e che l’idea di Aristotele del racconto, in questo caso del racconto tragico, come la connessione degli eventi ci è inutile? Eppure Paul Ricœur, che ha dedicato un’opera di mille pagine al rapporto tra tempo e racconto, giunge alla conclusione che proprio solo la narrazione riesce a dare una misura del tempo, che sfugge alla concettualizzazione filosofica, come, secondo lui, all’epistemologia della storia, vale a dire alla riflessione storiografica. Improbus labor è, scrive Maurizio Gargano in Origini e storia. Roma, architettura, città. Frammenti di Rinascimento (Roma 2016), fare storia. Forse la frase è di Leon Battista Alberti, come avverte Gargano, ed era destinata a definire il lavoro dell’architetto. La systasis, la composizione, degli elementi molteplici che costituiscono il fare architettonico, come la systasis di elementi eterogenei che si compongono nella narrazione? C’è qualcosa di più, qualcosa che avvicina ancor più il fare architettura con la storia e con le storie. Il concetto stesso di fare storia. Dunque non si studia semplicemente la storia, ma la si fa, la si costruisce. L’insieme degli elementi che chiamiamo storia dell’architettura, o storia dell’arte, o storia politica, o storia tout court non sono dei corpi stesi su un tavolo anatomico, da sezionare e studiare. La storia dell’architettura, 190

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o dell’arte, o politica, o storia tout court non sono la relazione dell’anatomopatologo, che descrive le ferite inferte su quei corpi prima che essi soccombessero alla morte. Ma che cos’è dunque fare storia? Una costruzione, non c’è dubbio. Ma, come hanno capito sia Friedrich Nietzsche che Walter Benjamin, la costruzione presuppone la distruzione. Scovare i frammenti che devono essere composti, o meglio costruiti, come dice ancora Gargano, presuppone l’atto di decomporre l’immagine illusoria o consolatoria di una Storia, che taluni mosaici sono soliti rappresentare, ovvero che alcune costruzioni rassicuranti ci hanno consegnato. Fare storia è di fatto costruire un’avventura, come ha detto Sartre, ma non mettendo in campo l’idea della fine, ma piuttosto dell’idea dell’origine. Interrogare l’origine significa iniziare un percorso genealogico, un’avventura, un’esplorazione. Qual è il luogo da cui muove questa esplorazione genealogica? Credo sia, come direbbe Walter Benjamin, la Jetztzeit, il tempo-ora: l’adesso. È ciò che emerge in questo spazio, nel nostro spazio ora, che attrae come una calamita frammenti del passato, schegge di quella genealogia che abbiamo iniziato a interrogare. Frammenti, schegge. Mi riporto ancora per un attimo al libro di Maurizio Gargano. Frammenti di Rinascimento, egli scrive. Un’affermazione eretica. Dobbiamo pensare che il Rinascimento sia dunque un luogo che presenta interruzioni, lacune, sopravvivenze, anticipazioni e profezie? Ma non è il nostro stesso tempo, la nostra Jetztzeit, fatta di tempi diversi? Non è la stessa città che abitiamo, la stessa città che qui ci accoglie, fatta di tempi e di eventi diversi, in cui storie diverse e diversi destini si intrecciano? Nel secolo scorso un filosofo tedesco, Ernst Bloch, aveva parlato di una «contemporaneità non sincrona», di una contemporaneità fatta appunto di discronie temporali. È per questo che Benjamin ha detto che bisogna affrontare la città come un’avventura e smarrirsi in essa, ma per fare questo, egli dice, si richiede scuola. Sono necessari studio e ricerca. Ma cosa facciamo dei frammenti del Rinascimento? Li lasciamo ammucchiarsi come una massa di detriti in cui intravedere quasi a caso una gemma che luccica prima di abbuiarsi nel mucchio? Di questi frammenti dobbiamo fare una costellazione o, come mi capitava di dire in un libro di moltissimi anni fa per non ripetere Benjamin, fare una figura, vale a dire un insieme di immagini e di cose. La systasis di Aristotele che abbiamo già incontrato. Dobbiamo agire la Storia come una storia. Dobbiamo costruirne il racconto. 191


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Ma se la storia è una costruzione, dove sta la sua verità, chi ci garantisce della sua verità? La storia è sempre stata una costruzione. È spesso stata un’invenzione. Non esisteva la storia dell’India o dell’Africa o dell’Oriente, ma la storia europea dell’India, dell’Africa e dell’Oriente. Quella che era chiamata Weltgeschichte, la storia universale, o meglio la leggenda della storia universale, era di fatto la narrazione dettata dall’ideologia dominante. La costruzione storica, la scoperta dei «frammenti del Rinascimento», di fatto dunque destrutturando il Rinascimento della Weltgeschichte, scopre una miriade di fatti che prima erano invisibili. Dopo la Rivoluzione copernicana in pochi anni si scoprono eventi celesti in numero molto maggiore di quelli che erano stati notati lungo i secoli resi incapaci di vedere dalla teoria tolemaica dello spazio. La rivoluzione copernicana della costellazione storica permette di notare fatti ed eventi che prima erano nascosti nel magma della Weltgeschichte. Più verità, dunque. Ma la verità? Non possiamo trovare la verità nella corrispondenza puntuale tra le nostre affermazioni e quel frammento del passato che è emerso davanti ai nostri occhi. La verità di quel frammento è data dalla coerenza della nostra costruzione, dal rigore della costellazione che abbiamo proposto. Ciò significa che nuovi eventi, ora, nella Jetztzeit, e nell’allora, vale a dire eventi che emergono dal nostro Rinascimento – per esempio documenti che ora siamo in grado di scoprire –, possono portare a un riassetto della costellazione stessa. Quindi, certo: più verità e non la verità definitiva. Non avremo mai il vero Rinascimento, come non avremo mai la nostra vera contemporaneità, come non avremo mai nemmeno la verità ultima e definitiva di una qualsiasi epoca della nostra vita. Un nostro rapporto si è interrotto? Avendo messo insieme eventi, elementi, ne abbiamo tratto una storia, e a questa storia abbiamo creduto e crediamo, fino al momento in cui un evento nuovo, prima ignorato o sconosciuto, non ci porta a riconsiderare tutto, e ci metta di fronte a quella che nuovamente affermiamo come la verità.

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Ma c’è tra le trame di questa storia comunque qualcosa che possiamo chiamare verità. È la natura stessa del tempo. Sant’Agostino aveva detto io so cos’è il tempo, ma se qualcuno mi chiede cosa sia non so rispondere. Ricœur, che abbiamo già ricordato, pensa che il tempo sfugga, come abbiamo detto, alla filosofia ma persino anche all’epistemologia scientifica. Solo il racconto lo cattura, e al di là del racconto forse una sorta di elegia, di pensiero poetante. Io non credo sia necessario ricorrere all’elegia. Credo che nelle maglie della narrazione delle storie, come della narrazione della storia, il tempo si affacci, faccia attrito, per essere notato. Oppure addirittura possiamo pensare che il tempo riempia la narrazione delle storie e della storia fino a tenderle, mettendo in luce, in questa tensione, la trama con cui i frammenti sono stati strutturati, costruiti, sono diventati costellazione. È forse per una sorta di esitazione di fronte al tempo, forse un’angoscia di fronte alla verità del tempo, a quella via crucis dell’accadere di cui ha parlato Benjamin, che molti si sono industriati a ipotizzare la fine della storia: hanno raccontato la storia della fine della storia. Si sono illusi di essere usciti da quello che Stephen Dedalus nell’Ulisse di Joyce chiama l’incubo della storia. Avrebbe desiderato svegliarsi e uscirne. Di fatto dalla storia non si esce. La si racconta, la si intrama. La si trasforma.

Joseph Conrad, come mi è capitato di ricordare più volte, all’inizio di quello straordinario, di quell’immenso racconto che è Cuore di tenebra, dice che il racconto è come la luce della luna che ci permette di scoprire gli aloni scuri che la circondano. Anche la narrazione storica ci permette di vedere delle cose e ci permette di vedere anche aloni scuri, lacune, che forse un giorno ci costringeranno a mettere di nuovo mano a questa storia, a riraccontarla. 192

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7. Committenze

Nel Quattrocento e Cinquecento non si compravano i quadri. Si compravano o si affittavano gli artisti, che si muovevano contesi tra le varie corti, come ci mostra in modo emblematico la vicenda di Tiziano. Il mercato cambia quando il potere economico passa alla borghesia. Nel 1855 Gustave Courbet, come abbiamo già visto più sopra, con l’aiuto del suo collezionista Alfred Bruyas apre, accanto al Salon nell’Esposizione Universale in cui esponeva 11 opere, un «Pavillon du Réalisme», che rappresenta non solo la sua poetica ma il suo marchio di mercato. All’interno 40 tele tra cui, enorme, L’atelier du peintre, in cui egli rappresenta se stesso e la società del suo tempo, e soprattutto, come a garanzia, i suoi sostenitori. Nel 1867 Édouard Manet nei pressi del Pont de l’Alma presenta un suo padiglione, rassicurando così anche i compratori, presentandosi come colui che «non ha avuto la pretesa di rovesciare la pittura del passato». Tra i suoi sostenitori Émile Zola e Stéphane Mallarmé. Courbet e Manet colgono, come anche Charles Baudelaire in campo letterario, un cambiamento irreversibile. L’arte diventava una merce che si espone sul libero mercato accettandone le regole. Iniziava così un nuovo capitolo nella storia dell’arte, che vede protagonisti, accanto agli artisti, i galleristi e i collezionisti. Ambroise Vollard, Auguste Pellerin, Paul Cassirer, e negli anni Sessanta del secolo scorso, a New York, Leo Castelli, che hanno sostenuto, facendosene talvolta complici, anche le esperienze artistiche più estreme. Oggi qualcosa è cambiato. Non dico tanto negli artisti. Ce ne sono di straordinari e di mediocri, più meno come sempre, e le grandi esposizioni come la Biennale di Venezia registrano come sismografi ogni movimento. È cambiato però il mercato ed è cambiata la nostra percezione, addirittura la nostra esperienza dell’opera d’arte. 194

Il Novecento è stato un secolo terribile. Auschwitz e la guerra hanno segnato una frattura che ha sconvolto il rapporto stesso dell’uomo con se stesso e con il mondo. «Es war kein warum». Non c’era un perché, hanno detto i nazisti. Non c’era un perché, hanno patito le vittime. Il poeta Paul Celan reagisce a questa insensatezza e a questa illeggibilità del mondo con l’illeggibilità della sua poesia, con l’oscurità che la sua poesia cerca proprio di progettare. Franz Kline cancella a grandi tratti neri la superficie dei suoi quadri, e Lucio Fontana taglia una tela bianca. Ci si interroga sul senso del senso assente. Questa è la scoperta filosofica di Maurice Blanchot. Ma oggi non è più così. Il mercato, quello delle aste, e ormai anche quello delle gallerie che su quella spinta si muovono, determina il valore dell’opera. Viene bandito il senso. Ho insegnato in una Facoltà di Design e Arti, e la parola «senso» era la parola bandita. Le opere potevano avere anche un vago significato ecologico, o umanitario, ma nessun senso. Un giovane artista già molto affermato lo predicava insegnando in un laboratorio d’arte. Ciò che determina il valore di un’opera e di un artista altro non è, diceva, che il mercato. Bisogna lasciar cadere ogni assurda velleità di dire o affermare alcunché. Credo che possano muoversi in controtendenza musei e gallerie pubbliche. Penso che possano far interagire opere diverse creando costellazioni di senso. L’opera nuovissima può interrogare l’opera del passato, così come l’opera del passato, che può anche essere il passato prossimo di Anselm Kiefer o di Gerhard Richter, può costringere l’opera di oggi a un confronto in cui scoprire che ogni segno che viene proiettato nel mondo ha senso. Che anche il senso assente, come dicevo, ha un senso su cui è necessario riflettere.

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8. En attendant Raffaello

Kafka ha scritto a un amico che bisogna leggere i libri che mordono. Un libro «deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi». Un libro, ma anche un’opera d’arte figurativa, una musica, un film che magari non ci spingerebbero, come dice Kafka, «nei boschi via da tutti gli uomini», ma che potrebbero segnare in profondità la nostra esistenza. Le opere di Raffaello possono costituire questo incontro: vedere uno accanto all’altro i due papi di Raffaello, Leone x e Giulio ii, insieme al ritratto di Baldassare Castiglione. Il mio Raffaello non è quello delle Madonne, che ammiro, ma è quello dei ritratti o della Scuola di Atene. Il Raffaello di Dostoevskij è invece proprio quello delle Madonne, e tra queste la Madonna Sistina, che agì su di lui come una rivelazione. Nel 1867 egli è a Dresda con la moglie Anna e ogni giorno è al museo, e ogni giorno è davanti alla Madonna Sistina. Quando il Principe Myškin ne L’idiota parla di una bellezza che salverà il mondo, certamente pensava a questa Madonna, e certamente pensava a Raffaello, che entra come «una freccia fiammeggiante» nella cultura russa che ha, in quel periodo, un’incandescente intensità. Vasilij Rozanov, figura che sembra uscita dal sottosuolo dostoevskiano, afferma che se Cristo ha scarnificato il mondo opponendo lo spirito alla carne, Raffaello è colui che aiuta a scoprire che «il corpo è l’origine dello spirito». Il mistero della sua pittura sta «nell’umidore del grembo» delle sue Madonne non ancora prosciugatosi sui visi infantili. Ma a un certo punto, nei Demoni, Dostoevskij dichiara che la Madonna Sistina «non serve più a nulla». «Nessuno ci trova più nulla». Lasciamo da parte Dostoevskij e chiediamoci che cosa può oggi depotenziare un dispositivo tanto potente come un quadro di Raffaello, o come i quadri che affollano le pareti delle decine e decine di mostre che si susseguono e si affollano in tutte le città d’Italia, d’Europa, del mondo. 196

Forse i visitatori delle innumerevoli mostre non guardano più i quadri, in parte credo perché ci arrivano impreparati e in parte perché sviati dai curatori stessi, che infittiscono lo spazio dell’esposizione di materiali cosiddetti di contesto, che diventano un’opaca intercapedine tra il visitatore e le opere. Oppure presentano le opere con un’illuminazione che le trasforma in diapositive o in immagini computerizzate, come falsi più veri del vero. Oppure blandiscono il visitatore invitandolo a non guardare il quadro ma se stesso nel salotto di Edward Hopper, con l’amico che lo fotografa mentre sosta in quel living room. Ho letto da qualche parte che in una mostra si può accedere al letto di van Gogh, e ricordo di essere entrato in un’esposizione di Artemisia Gentileschi accolto dal letto sfatto dello stupro che l’artista aveva subito. Un pubblico, dunque, talvolta impreparato, talvolta sviato dal tipo di presentazione che vorrebbe blandirlo, ma che lo trasporta attaccato alla sua cuffietta direttamente al bookshop per l’acquisto di cataloghi e di gadgets. Poi c’è l’abitudine, la grande forza uguagliatrice dell’abitudine, di mostra in mostra, da evento a evento. Credo sia una grande impresa per i curatori di mostre importanti, come certamente vorrebbe e dovrebbe essere questa di Raffaello, spingere o forse iniziare a insegnare che la prima cosa da fare di fronte a un quadro è guardarlo. Una grande impresa anche per i direttori dei musei spezzare la crosta dell’abitudine. Lo straordinario faccia a faccia tra Giovanni Bellini e Andrea Mantegna alla Pinacoteca di Brera è stata per me un’esperienza. Anche il tentativo di scoordinare il tempo proponendo un fascio di tempi diversi operato dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ha proposto un’inedita avventura intellettuale. L’impegno dovrebbe essere restituire il miracolo di un’opera che è stata resa muta su una parete di un museo, affondata nella sua storia e nella sua aura estetica, divenuta oggetto di mera ammirazione, quando questa, interrogata, ricomincia a parlare, ricomincia a parlarci: a porre domande, a mettersi e a metterci in questione. Aura estetica. Qui si presenta una nuova difficoltà. Secondo Hermann Broch un’opera chiusa nella sua bellezza non soltanto cessa di significare, ma si propone come «il male assoluto nel regno dell’arte», perché tradisce il suo compito che è legato strettamente a un impegno stringente verso la verità. Dunque una bellezza imperfetta, aperta. Per dirla con Walter Benjamin: «Il bello deve rendere conto di se stesso, ma proprio in questo rendere conto, esso appare come interrotto, e riceve l’eternità del suo valore in virtù di quell’interruzione». Esso spezza la bella apparenza che si propone come una falsa totalità, e compie l’opera portandola a essere frammento del mondo vero.

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9. Uno sguardo all’indietro

«Il faut être absolument moderne», così scriveva Arthur Rimbaud nel 1871, affermando che per questo è necessario «un lungo e ragionato sregolamento di tutti i sensi». Rimbaud partiva dunque dalla sua modernità per profetizzare la nostra modernità, in quanto l’affermazione così perentoria prescinde da un tempo e da una durata. La modernità. Ricordiamo che Charles Baudelaire concludeva la sua analisi dell’arte esposta al Salon 1846 esaltando «l’eroismo della vita moderna», i suoi personaggi portatori di una bellezza «nuova e particolare», che girano con i vestiti di tutti i giorni, e anche il nudo da sempre dominante nella pittura si dà ora sulla scena della vita quotidiana. «Questa è la bellezza moderna». Qui e ne Il pittore della vita moderna del 1861 Baudelaire elabora il concetto di moderno, ripreso come abbiamo visto da Rimbaud, non come una categoria di classificazione storica, ma come una modalità di analisi, una vera e propria ermeneutica del presente. Già il romanticismo aveva messo sulla scena artistica individui, soggetti, portatori di una propria sensibilità, di un proprio sentimento, che apriva un nuovo accesso alla natura e al mondo. È una rivoluzione. Hegel infatti a questo reagisce aprendo nella Fenomenologia dello spirito una vera e propria battaglia contro «l’incomposto fermentare» della soggettività romantica. Il singolo soggetto non ha alcuna pertinenza conoscitiva, che spetta soltanto a ciò che può essere ricondotto all’interno del concetto, dentro l’astrazione delle sue maglie. Ma intanto nell’arte figurativa abitavano donne, uomini, cose. Non si rompe soltanto ogni rapporto con l’Accademia, ma si giunge a denunciare il «patto mimetico», che ha retto da Platone in poi ogni teoria e pratica artistica. Michel Foucault analizza in questo senso il quadro di René Magritte La Trahison des images, che rappresenta una pipa con la legenda: «Ceci n’est pas une 198

pipe». Il quadro di Magritte è del 1928-29, ma la scoperta che i fiori dipinti in un quadro non entreranno mai in un vaso di fiori, che non hanno profumo, che «non sono fiori», è una scoperta rivoluzionaria dell’Ottocento. Georges Steiner data questa «rivoluzione» che secondo lui definisce il moderno in quanto tale agli anni Settanta del xix secolo. Sono gli anni in cui esplode il pensiero di Nietzsche, che rovescia il tavolo della filosofia, affermando che accanto alla ragione ragionante c’è la ragione del corpo. L’io, come avevano già intuito i romantici, è complesso: è un ich e un es contemporaneamente, un «io» e un «esso», come dirà in modo definitivo Sigmund Freud. Il più grande critico del xx secolo, Walter Benjamin, ha abitato a lungo nell’Ottocento. Pensava che soltanto stabilendo un rapporto tra il nostro presente e il passato si sarebbe aperta una chance per salvare il «tempo perduto». Questo ci avrebbe messo nella condizione di tendere verso un nostro futuro. Questo è anche un compito: «A noi, come a ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto». Non è facile attivare questa debole forza messianica, compiere questo atto di liberazione, come scrive Benjamin nelle tesi Sul concetto di storia. Certo non è possibile se scriviamo la storia in un’omogenea teoria del prima e del dopo. Bisogna passare a contrappelo la storia per scoprire e far interagire con il presente in cui siamo, in cui stiamo, tutti i presenti passati. Friedrich Schlegel, un romantico, aveva detto che il vero storico è «un profeta che guarda all’indietro»: guarda all’indietro per dire il futuro.

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10. Street Art. La città museo

Nel 1879 Manet scrive al Préfet de Police di Parigi proponendo di decorare la sala delle sedute consiliari del nuovo Hotel de la Ville con «una serie di composizioni rappresentanti, per servirmi di un’espressione ormai consacrata, e che ben rappresenta il mio pensiero, “il Ventre di Parigi”». Qualche anno dopo, nel 1886, Zola, l’autore proprio del romanzo Il ventre di Parigi, propone ne L’opera, attraverso un suo personaggio, il pittore Claude Lantier, di portare queste immagini dalle sale consiliari alla strada. È necessario dipingere sui lunghi muri delle stazioni, dei mercati, dei municipi: su tutto ciò che si costruirà «quando gli architetti non saranno più dei cretini». Nel 1918 esce All’ombra delle fanciulle in fiore di Proust in cui la stazione si presenta come uno di quei luoghi che Foucault definirà eterotopie, luoghi, scrive Proust, che non fanno corpo con la città, ma che ne «contengono l’essenza». La Gare Saint-Lazare è la città stessa, la sua verità, in cui Proust vede «un cielo immenso e crudo, gravido di accatastate minacce di dramma simile a certi cieli, d’una modernità quasi parigina, del Mantegna o del Veronese». La stazione è la modernità assoluta, ed è il Museo in cui spira un’aura drammatica. Il Museo per Proust è quello spazio in cui, come dirà Benjamin, il presente e il passato entrano nella tensione di una dialettica sospesa, in cui gli opposti non si risolvono ma significano proprio in questa irriducibile tensione. Molto meno drammatica è l’idea di museo di Valéry ne Le problème des musées del 1923. Il museo è un caos di forme e di immagini e questo caos, scrive, «mi segue e si combina al vivo movimento della strada». È il trionfo di una «vertigine della mescolanza» che accomuna la varietà del museo alla varietà della strada. Sembra di essere ormai prossimi a quella che diventerà Street Art. La strada, la città museo. 200

Le statue nei parchi e negli incroci, le pubblicità e i neon, che Zola definiva «l’effervescenza della febbre sulla fronte della città», non sono ancora Street Art. Manca la tensione che abita la strada e che abita il museo. Sono già arte di strada invece il graffitismo, e poi le immagini, e poi i colori. Alcune sue espressioni sono già dei classici, come Banksy, Keith Haring o Jean-Michel Basquiat. Queste forme da un lato esprimono una contestazione politica e sociale, dall’altro contestano anche forme oggi dominanti nell’arte contemporanea. Rispetto alla banana attaccata al muro di Cattelan o al Balloon Dog o al Rabbit di Koons sono come i Veronese o i Mantegna visti allucinatoriamente da Proust nella Gare Saint-Lazare. Pennelli, bombolette spray, vernici, ma comunque figure, che condividono però con l’opera di Cattelan o dei performer, la precarietà, o addirittura la fragilità rispetto al tempo. Nel 2016 viene inaugurato a Roma il grande murale di William Kentridge, Trionfi e lamenti, un fregio lungo 550 metri. Street Art costruita utilizzando anche la patina che il tempo ha depositato sui muri di quel tratto di strada, dentro la città. L’opera è però destinata a rapidamente sbiadire e scomparire. «Sta scomparendo più velocemente di quanto avessi immaginato», scrive Kentridge. «Pensavo fosse visibile per almeno sette anni. E invece il processo è in anticipo di almeno un anno, se non due. Pian piano le immagini si trasformeranno in ombre che emergono dalla pietra. Molto dipende dalla manutenzione. Ma ormai ha una vita autonoma da me. Presto rimarrà solo nel ricordo di chi l’ha visto. O nelle migliaia di foto e video in circolazione. Ma mi piace che sia così». Molti anni fa muovendomi per la prima volta verso l’iuav di Venezia, vicino a Tolentini, sulla cornice di pietra che dava accesso a una calle, c’era scritto in rosso All Things Must Pass, il titolo di un album di George Harrison. Ho visto quella scritta lentamente corrodersi e un giorno non l’ho vista più. Più rapida ancora la corruzione della banana di Cattelan, o l’evanescenza dei gesti dei performer. Un secolo e mezzo da Manet a Kentridge o Cattelan in cui possiamo leggere la cifra comune dell’arte del moderno, quella che Proust aveva scorto nelle stazioni, quei luoghi meravigliosi che «sono anche dei luoghi tragici».

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Avvertenza

Non sono un critico o uno storico d’arte, ma l’arte è entrata spesso nel mio lavoro. Lo ha attraversato manifestando la sua urgenza, la sua necessità. In un mio libro recente, Territori dell’umano (Jaca Book, Milano 2019), una sequenza di opere d’arte, una sequenza di pittura, entra e proietta la sua luce su aspetti dell’umano che la parola ha solo sfiorato, e che si è messa così al servizio di quelle immagini raccontandole, perché potessero dispiegare interamente la loro capacità conoscitiva. Mi sono ora deciso a raccogliere in un libro alcuni testi in cui mi sono più decisamente confrontato con l’arte, e in questo caso soprattutto in rapporto a uno dei suoi aspetti più problematici: l’esperienza del tempo. Il tempo del museo, il tempo delle avanguardie, il tempo, o meglio il fascio di tempi, della metropoli e della tecnica. E dunque il tempo della memoria, se è vero, come ha detto Friedrich Schlegel, che lo storico è un profeta che guarda all’indietro, che guarda all’indietro per dire e progettare il futuro. I saggi che qui presento sono capitoli di un libro sostanzialmente unitario, che disegna un lungo arco temporale fatto anche di rinvii, riprese, scoperte e riscoperte. Li vedo come una storia che si è dipanata in diverse tappe. Alcune cose sono ripetute, forse è meglio dire ribadite. Non ho cercato di cancellare questi segni che indicano anche nel tempo la costanza di temi, di concetti, di immagini che costituiscono di fatto il mio sguardo. Do comunque qui di seguito i luoghi in cui questi testi sono comparsi per la prima volta.

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L’arte e il tempo

Prima parte Il primo capitolo compariva con il titolo Rifrazioni. L’arte e l’esperienza del tempo, in Time is out of joint, catalogo-mostra della Galleria Nazionale di Roma, a cura di C. Collu, La Galleria Nazionale, Roma 2018. Il secondo capitolo compariva con il titolo Figure del tempo come Introduzione a Enciclopedia delle arti contemporanee, vol. ii, Il Tempo interiore, a cura di A. Bonito Oliva, Electa, Milano 2013. Il terzo capitolo compariva con il titolo La vertigine del moderno come Introduzione a L. Aragon, Il paesano di Parigi, Il Saggiatore, Milano 1982. Il quarto capitolo, con lo stesso titolo, nei «Seminari Walter Benjamin», Roma 2015, poi in Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte, a cura di M. Montanelli e M. Palma, Quodlibet, Macerata 2016. Il quinto capitolo, con lo stesso titolo, al Festival di Francavilla al Mare 2016, poi in Quale bellezza?, Orthotes, Napoli-Salerno 2017. Il sesto capitolo, con lo stesso titolo, La forma del vuoto, in «Estetica. Studi e ricerche», vol. iv, 2/14. Il settimo capitolo riprende testi da F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, Feltrinelli, Milano 1998. L’ottavo capitolo, Conferenza Palazzo dei Diamanti, Ferrara 2017. Inedito. Il nono capitolo, con lo stesso titolo in «Estetica. Studi e ricerche», vol. ix, 2/2019. Il decimo capitolo, testi ripresi e rielaborati da F. Rella, Limina. Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano 1986. L’undicesimo capitolo compariva con il titolo Esperienza e verità, in F. Rella, Interstizi. Tra arte e filosofia, Garzanti, Milano 2011. Il dodicesimo capitolo è la rielaborazione della mia Introduzione a R.M. Rilke, Verso l’estremo. Lettere su Cézanne e l’arte come destino, a cura di F. Rella, Pendragon, Bologna 2007.

Seconda parte. MICROLOGIE I primi tre testi qui rinviano a F. Rella, Forme del sapere. L’eros la morte la violenza, Bompiani, Milano 2014. Il quarto a «Anterem», 96, 2018. Il quinto a «la Repubblica», 11 gennaio 2015. Il sesto inedito. Il settimo a «la Repubblica/Robinson», 12 maggio 2019. L’ottavo a «la Repubblica», 29 febbraio 2020. Il nono è stato scritto per l’esposizione «Ragione e sentimento», La Galleria Nazionale, Roma 2019. Il decimo con il titolo Se l’arte si riprende la strada, a «la Repubblica», 11 novembre 2020. 204

Tavole


Nota

Qui di seguito mostro una sequenza, una galleria di immagini, e credo sia necessario darne ragione. Dico subito che non esiste un rapporto diretto tra queste e il testo. Entrambi, testo e immagini, hanno una loro relazione con il tempo e penso che si possa creare tra loro una significativa tensione. Sono due discorsi, uno per parole, l’altro – come direbbe Proust – “per figure”, che si muovono paralleli cercando di rendere evidente la loro peculiare verità. Per questo propongo anche opere e artisti di cui non si parla nel testo. Mi pare che tra loro si creano rapporti inattesi, carichi di senso che il lettore di questo libro dovrà egli stesso cercare, stabilire, forse creare. La sequenza si apre con l’Inverno di Benedetto Antelami, in cui leggiamo il tempo della fine. Fine dell’anno, ma, osservando gli occhi spalancati nel vuoto del vecchio, anche fine della vita e forse fine del mondo. E si chiude con la Lupa capitolina di William Kentridge, un frammento del grande Murales del Lungo Tevere di Roma, che è impresso nei sedimenti e nella sporcizia che il tempo ha lasciato sui muri, destinato quindi a sparire presto, sommerso da altri sedimenti. C’è Joseph Cornell che cerca di ingabbiare una bellezza classica ma anche, in un’altra opera, il tempo come per trattenere entrambi sull’orlo di una possibile fuga. C’è il tempo greve e gravato della Melencolia i di Albrecht Dürer, e di contro l’attimo tremendo in cui erompe l’urlo dell’Innocenzo x di Francis Bacon che apre una buia voragine che sembra poter inghiottire tutto, anche il tempo. Potrei continuare ma, come ho detto, non sono io che devo dar ragione di queste opere d’arte, ma sono le opere stesse che devono farlo. A me resta da dire che queste immagini mi si sono presentate rileggendo il mio libro. Mi sono piaciute. Sono qui, ora. 207


TAV. 1 Benedetto Antelami, Ciclo dei mesi, Inverno, 1180-1196 ca., altorilievo in pietra, Battistero di Parma. 208

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TAV. 2 Leonardo da Vinci, Gioconda, 1503-1506 ca., olio su tavola di pioppo, 77 × 53 cm, Musée du Louvre, Parigi. 210

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TAV. 3 Joseph Cornell, Untitled (Medici princess), 1952 ca., scatola in legno con collage di carta stampata, smalto, legno e vetro colorato e specchiato, 40 × 30,5 × 9,8 cm, collezione privata. 212

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TAV. 4 Leonardo da Vinci, Sant’Anna, la Vergine e il Bambino e l’agnello, 1503-1519 ca., olio su tavola di legno di pioppo, 168 × 130 cm, Musée du Louvre, Parigi. 214

215


TAV. 5 Giorgio De Chirico, Arianna, 1913, olio e grafite su tela, 135,3 × 180,3 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 216

217


TAV. 6 Giorgio De Chirico, Il viaggio angoscioso, 1913, olio su tela, 74,3 × 106,7 cm, Museum of Modern Art, moma, New York. 218

219


TAV. 7 Giorgio Morandi, Natura morta, 1957, olio su tela, 30 × 35 cm, Musée Jenisch, Vevey. 220

221


TAV. 8 Georges Seurat, Une baignade à Asnières – Bagnanti ad Asnières, 1884, olio su tela, 201 × 301,5 cm, National Gallery, Londra. 222

223


TAV. 9 Gustave Courbet, Bonjour Monsieur Courbet – Buongiorno signor Courbet, 1854, olio su tela, 129 × 149 cm, Musée Fabre, Montpellier. TAV. 10 Alle pagine seguenti: Gustave Courbet, L’Atelier du peintre – L’atelier del pittore, olio su tela, 361 × 598 cm, Musée d’Orsay, Parigi. 224

225


226

227


TAV. 11 Gustave Courbet, La Femme au perroquet – Donna con pappagallo, 1866, olio su tela, 129,5 × 195,6 cm, Metropolitan Museum of Art, moma, New York. 228

229


TAV. 12 Gustave Courbet, L’origine du monde – L’origine del mondo, 1866, olio su tela, 55 × 46 cm, Musée d’Orsay, Parigi. TAV. 13 Alle pagine seguenti: Édouard Manet, Olympia, 1863, olio su tela, 130,5 × 190 cm, Musée d’Orsay, Parigi. 230

231


232

233


TAV. 14 Édouard Manet, La Femme au perroquet – Donna con pappagallo, 1866, olio su tela, 185,1 × 128,6 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 234

235


TAV. 15 Édouard Manet, Le Chemin de fer – La ferrovia, 1872-1873, olio su tela, 93,3 × 111,5 cm, National Gallery of Art, Washington.

237


TAV. 16 Franz Kline, Andes, 1957, olio su tela, 204,8 × 261,1 cm, Kunstmuseum, Basilea. 238

239


TAV. 17 Banksy, Girl with Balloon – Pallone scappato, 2002, spray acrilico e stencil, Shoreditch, Londra. 240

241


TAV. 18 Banksy, Valentine’s gift – Palloncino scoppiato o San Valentino, 2020, spray acrilico e stencil, Marsh Lane, Bristol. 242

243


TAV. 19

Claude Monet, La Gare Saint-Lazare – La stazione di Saint-Lazare, 1877, olio su tela, 75,5 × 104 cm, Musée d’Orsay, Parigi.

245


TAV. 20 Diego Velázquez, Las Meninas – Le damigelle d’onore, particolare, 1656, olio su tela, 318 × 276 cm, Museo del Prado, Madrid.

247


TAV. 21 Diego Velázquez, Retrato del Papa Inocencio x – Ritratto di papa Innocenzo x Pamphilj, 1650, olio su tela, 141 × 119 cm, Galleria Doria Pamphilj, Roma. 248

249


TAV. 22 Francis Bacon, Study after Velázquez’s Portrait of Pope Innocent x – Studio dal ritratto di Innocenzo x, 1953, olio su tela, 153 × 118 cm, Des Moines Art Center, Des Moines, Iowa. 250

251


TAV. 23 Vincent van Gogh, Korenveld met kraaien – Campo di grano con volo di corvi, 1890, olio su tela, 50,5 × 103 cm, Van Gogh Museum, Amsterdam. 252

253


TAV. 24 Francis Bacon, Study for Portrait of van Gogh v – Studio per un ritratto di van Gogh v, 1957, olio e sabbia su tela, 198,7 × 137,5 cm, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Washington dc. 254

255


TAV. 25 Vincent van Gogh, Stilleven met bijbel – Natura morta con Bibbia, 1885, olio su tela, 65 × 78 cm, Van Gogh Museum, Amsterdam.

257


TAV. 26 Paul Cézanne, Mont Sainte-Victoire – La montagna Sainte-Victoire, 1885 ca., acquerello, grafite, gouache bianca su carta velina, 35,4 × 53,7 cm, The Art Institute of Chicago, Chicago. 258

259


TAV. 27 Paul Cézanne, Nature morte – Natura morta, 1892-1894, olio su tela, 73,3 × 92 cm, The Barnes Foundation, Philadelphia, Pennsylvania. 260

261


TAV. 28 Albrecht Dürer, Selbstbildnis als Schmerzensmann – Autoritratto come uomo del dolore, 1522, disegno su carta primerizzata blu-verde, intensificata con il bianco, 41,8 × 29 cm, Kunsthalle Bremen, Brema. 262

263


TAV. 29 Albrecht Dürer, Melancholia i, 1514, incisione, 31 cm × 26 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 264

265


TAV. 30 Albrecht Dürer, Selbstbildnis als Akt – Autoritratto nudo, 1506 ca., inchiostro nero con biacca su carta verde, 29 × 15 cm, Klassik Stiftung, Weimar. 266

267


TAV. 31 Paul Klee, Angelus novus, 1920, monostampa, olio e acquerello su carta, 31,8 × 24,2 cm, The Israel Museum, Gerusalemme. 268

269


TAV. 32 Menashe Kadishman, Shalechet –Foglie cadute, 1997, installazione, dischi di ferro, Museo Ebraico, Berlino.

270

271


TAV. 33 Francis Ford Coppola, Apocalypse Now, 1979, nella scena Marlon Brando interpreta il colonnello Walter E. Kurtz. 272

273


TAV. 34 Francis Ford Coppola, Apocalypse Now, 1979, nella scena Martin Sheen interpreta il capitano Benjamin Willard. 274

275


TAV. 35 Anselm Kiefer, Die Ungeborenen – Non nato, 1988-2010, rami, olio e tessuto su fotografia con cornice in acciaio e vetro, 118 × 159 × 10 cm, Thaddaeus Ropac, Seul. 276

277


TAV. 36 Edward Hopper, Morning Sun – Sole mattutino, 1952, olio su tela, 71,4 × 101,9 cm, Columbus Museum of Art, Columbus, Ohio. 278

279


TAV. 37 Edward Hopper, Room by the sea – Stanza sul mare, 1951, olio su tela, 73,7 × 101,9 cm Yale University Art Gallery, New Haven, Connecticut.

281


TAV. 38 Alberto Giacometti, Annette de face, 1955, acquaforte, su carta, 30,5 × 12,7 cm, collezione privata. 282

283


TAV. 39 Alberto Giacometti, Uomo che cammina i, 1960, bronzo, 180,5 × 27 × 97 cm, Fondation Giacometti, Parigi. 284

285


TAV. 40 Joseph Cornell, Aviary (Cockatoo and Watches) – Voliera (Cacatua e Orologi), 1948 ca., legno, pittura, vetro, metallo e carta stampata, con carillon, 41,2 × 43,4 × 11,4 cm, collezione privata. 286

287


TAV. 41 William Kentridge, Lupa capitolina, 2016, particolare del murales Triumphs and Laments, 550 m, Lungotevere, Roma. 288

289


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Crediti iconografici Tavv. 3, 7, 16, 40: © 2021 by siae, Roma Tavv. 5 e 6: © 2021 Artists Rights Society (ars), New York / by siae, Roma Tavv. 22 e 24: © 2021 Artists Rights Society (ars), New York / by siae, Roma Tav. 31: © The Israel Museum, Jerusalem Tav. 36: © Columbus Museum of Art, Ohio, Howald Fund Purchase 1954.031 / 2021 by siae, Roma Tav. 37: © Yale University Art Gallery, lascito di Stephen Carlton Clark, b. a. 1903 / 2021 by siae, Roma Tavv. 38 e 39: Fondation Giacometti © 2021 by siae, Roma Per le altre tavole: Archivio Jaca Book

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© 2021 Editoriale Jaca Book Srl, Milano tutti i diritti riservati Prima edizione italiana ottobre 2020 Nuova edizione settembre 2021 Per le opere di Francis Bacon, Joseph Cornell, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti, Edward Hopper, Giorgio Morandi, Franz Kline, © 2021 by siae, Roma Redazione Elisabetta Gioanola / Jaca Book

Stampa e confezione Dedalo litostampa Srl viale Luigi Jacobini n° 5, Bari (BA) settembre 2021

ISBN 978-88-16-41691-8

Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 – 342 5084046 libreria@jacabook.it www.jacabook.it ebook: www.jacabook.org foreign rights: www.jacabook.com Seguici su



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