LE RELIGIONI E L’ARTE
LE RELIGIONI E L’ARTE
Esperienza estetica ed esperienza religiosa di JULIEN RIES, MICHEL DELAHOUTRE, JEAN VARENNE, JACQUELINE LAFONTAINE-DOSOGNE, OLIVIER CLEMENT
Sommario © 2019 Editoriale Jaca Book Srl Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana novembre 2019
Traduzione dal francese Emanuela Fogliadini
Julien Ries Alle origini dell’esperienza estetica e dell’esperienza religiosa Religione e Cultura, Arte e Sacro pag. 9 Michel Delahoutre L’estetica e l’immagine del Buddha pag. 47 Jean Varenne L’esperienza religiosa ed estetica nel culto hindu pag. 89 Jacqueline Lafontaine-Dosogne Senso religioso e qualità estetica dei decori absidali bizantini pag. 125
Copertina e impaginazione Break Point / Jaca Book
Fotolito Target Color, Milano Stampa e legatura Tiskarna Vek, Koper novembre 2019
ISBN 978-88-16-60603-6
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
Olivier Clement La bellezza e l’icona nella tradizione della Chiesa ortodossa pag. 177 Note pag. 212
ALLE ORIGINI DELL’ESPERIENZA ESTETICA E DELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
In un Colloquio internazionale organizzato a Louvain la Neuve nel marzo del 1990, Julien Ries, direttore del Centro di Storia delle Religioni, aveva raccolto autorevoli studiosi di vari paesi sul tema “Esperienza religiosa – Esperienza estetica”. Il Colloquio faceva parte di una serie di incontri, divenuti famosi, dal titolo “Homo religiosus”. Ries sperimentava in quei Colloqui un campo di ricerca che andava al di là della Storia delle Religioni e iniziava a edificare l’ambito dell’Antropologia religiosa fondamentale, che trovò la sua prima espressione nel Trattato di antropologia del sacro (Jaca Book 1989-2009). Le scoperte archeologiche degli anni ’50-’60 del secolo scorso, lungo la Rift Valley nell’Africa orientale, di cui Ries, da studioso di preistoria, si era interessato, estendevano la presenza dell’uomo sul pianeta di due milioni di anni. L’Homo habilis, così chiamato dai paleontologi, fu considerato Homo simbolicus, in specie per le testimonianze del paleoantropologo Yves Coppens, con cui Ries ebbe scambi estremamente fertili, al pari degli scambi tra Ries ed Emmanuel Anati sull’arte preistorica rupestre, vera miniera di simboli. L’Homo simbolicus era il ponte tra Homo religiosus e Homo aestheticus. Il Colloquio di Louvain aveva per Ries lo scopo di verificare l’importanza dell’esperienza estetica nel palesare l’Homo religiosus, presente nelle varie culture e stagioni della storia umana. Più volte, con Ries e Delahoutre, che aveva partecipato al Colloquio, si era ipotizzata la possibilità di illustrare alcuni dei contributi (Papers). Questa edizione illustrata si focalizza su cinque di essi: la scelta è caduta sulla Preistoria, su due grandi religioni asiatiche, Buddhismo e Induismo, e sull’arte cristiana delle origini e delle radici bizantine. Un quinto intervento riguarda la bellezza e parte dall’Icona per arrivare a Paul Cézanne.
Alle origini dell’esperienza estetica e dell’esperienza religiosa Religione e Cultura, Arte e Sacro Julien Ries
L’articolo introduttivo agli Atti del nostro colloquio si propone di affrontare il tema dell’esperienza estetica e dell’esperienza religiosa nell’ottica di una moderna disciplina, ossia l’antropologia religiosa, che ha per obiettivo lo studio dell’uomo in quanto creatore e utilizzatore dell’insieme simbolico del sacro e in quanto vettore di credenze religiose che guidano la sua vita e il suo comportamento. Iniziamo soffermandoci sulle recenti scoperte africane che sono state conseguite negli ultimi tre decenni nella Rift Valley. Queste ci hanno permesso di conoscere la cultura olduvaiana e il suo creatore, l’Homo habilis, limitando in modo spettacolare gli orizzonti della paleantropologia. In seguito affronteremo le nuove prospettive inaugurate dalle scoperte relative all’Homo erectus e all’Homo sapiens: tombe e arte nelle caverne. In questi due ambiti, i recenti apporti offrono un nuovo sguardo per la storia umana. Infine, sottolineeremo il punto di svolta decisivo che hanno adottato gli studi del Neolitico e dei millenni di gestazioni di questa cultura e di questa religione: la civilizzazione natufiana, la sedentarizzazione, la creazione delle prime divinità, l’invenzione dell’agricoltura, la costruzione dei primi santuari, le tombe neolitiche. Da questa abbondante documentazione archeologica e paleoantropologica, quali conclusioni possono essere tratte per un’ermeneutica dell’esperienza religiosa e dell’esperienza estetica?
Esperienza
umana ed esperienza religiosa
L’esperienza umana
Ogni esperienza umana è un dato e/o un risultato di un avvenimento vissuto in modo cosciente dall’essere umano. La ripetizione di tale vissuto cosciente dona all’uomo una conoscenza pratica, frutto della reiterazione. All’inizio di ogni esperienza vi è una presa di coscienza e questo ci porta a concludere che l’esperienza è una caratteristica dell’Homo sapiens. Registrazione dei fatti vissuti e memoria di accadimenti, l’esperienza è anche una memoria che conduce alla facoltà del ricordo e di evocazione del passato. 9
Frutto della ripetizione, memoria della vita e dell’azione, l’esperienza porta a un arricchimento delle attitudini dell’uomo e del suo sapere. È conoscenza, scienza, sapere. L’esperienza diventa dinamismo, principio d’azione e di vitalità nella vita dell’Homo sapiens. Frutto di un passato vissuto, è orientata verso il presente e verso il futuro, e questo suppone una riflessione e una scelta cosciente degli avvenimenti del passato. L’esperienza si apre a una selezione operata nel vissuto interiore e orientata verso nuove azioni. L’esperienza religiosa
L’esperienza religiosa è l’esperienza di una relazione dell’uomo con un’alterità, con un Altro, con una Trascendenza, con il Totalmente Altro, con Dio. Questa esperienza suppone la coscienza di tale relazione con l’Altro. D’ora in avanti, è l’esperienza specifica dell’homo religiosus, l’esperienza del sacro. Le ricerche degli storici delle religioni, da Rudolf Otto e Mircea Eliade fino alla nostra epoca, hanno permesso di identificare il vasto ambito del sacro e di specificarne orientamenti e connessioni1. È attraverso la manifestazione del sacro che l’uomo li scopre. Ogni manifestazione è una ierofania. Queste sono numerose ed eterogenee poiché comprendono tutta la gamma che va dal betilo alle teofanie bibliche, dalla contemplazione della volta celeste alla Trasfigurazione di Gesù2. Nella sua vita, tutto l’homo religiosus ha occasione di fare una serie di esperienze del sacro: iniziazione degli adolescenti nelle tribù della di religioni tradizionali; partecipazione ai riti funerari dei diversi culti; celebrazioni dei sacrifici nei templi; preghiere; feste pasquali giudaiche e cristiane; pellegrinaggi nei luoghi sacri; bagni rituali nel Gange; eucaristie cristiane, eccetera. Nel corso di queste manifestazioni l’esperienza religiosa è il frutto di incontri dell’uomo con il sacro. Si tratta di esperienze puntuali e personali. Queste esperienze religiose sono individuali ma sono anche regolarmente legate a manifestazioni collettive. Così l’iniziazione degli adolescenti nelle tribù ha un carattere fortemente sociale; le celebrazioni nei templi sono l’espressione di una comunità. Membro di un gruppo l’homo religiosus vive un’esperienza personale, ma nel quadro della comunità e sotto l’influenza dell’organizzazione del gruppo al quale appartiene. Questo mostra che tutta l’esperienza religiosa può avere una dimensione personale e una dimensione sociale. Sovente le due sono inseparabili.
L’esperienza
religiosa nell’uomo arcaico
L’Homo habilis
Le recenti scoperte fatte nella Rift Valley africana, che va dall’Etiopia alla Tanzania, fanno ridimensionare in modo spettacolare le frontiere della paleoantropologia3. Dal 1959, nei giacimenti d’Olduvia in Tanzania e a est del lago Turkana in Kenya, degli archeologi e dei paleoantropologi hanno scoperto vestigia umane, provenienti da crani e da scheletri che hanno più di due milioni di anni. A questi fossili sono legati dei ciottoli tagliati su un lato e altri su entrambi, che dimostrano una grande abilità. Nel 1964, L. 10
Leakey, Ph. Tobias e J. Napier hanno dato a questo uomo la denominazione di Homo habilis, successore dell’australopiteco4. In tale uomo i paleoantropologi hanno individuato il nucleo delle caratteristiche fisiche, culturali e sociali che furono più tardi la base dello sviluppo dell’Homo sapiens. Nell’Homo habilis troviamo la prima cultura umana chiamata olduvaiana: industria, tecnologia, struttura costruttiva, economia della caccia e dell’agricoltura, oggetti e strumenti. La creazione di strumenti, la dimensione bifacciale della selce, la scelta dei materiali e dei colori indicano che l’Homo habilis ha una coscienza della simmetria e della simbolica, indizio di un’esperienza estetica legata a un’esperienza rudimentale del sacro. In piedi, lo sguardo volto verso l’orizzonte e verso la volta celeste diurna e notturna, l’Homo habilis che fu anche homo symbolicus scoprì un simbolo primordiale: la volta celeste. Forse ha percepito in un modo velato la trascendenza. Questa esperienza rudimentale del sacro sembra essere l’esperienza fondatrice della coscienza religiosa dell’uomo. Dall’Homo erectus all’Homo sapiens
Circa 1.600.000 anni fa all’Homo habilis succedette l’Homo erectus le cui tracce – allo stato attuale si tratta delle più antiche – sono state ritrovate a est del lago Turkana in Kenya. Fu questo uomo che si diffuse in tutto l’antico mondo prima di scomparire 150.000 anni fa. La denominazione Homo erectus risale alla fine del xix secolo e non ha nulla a che vedere con il fatto di tenersi in piedi, perché questa era già la caratteristica dell’Homo habilis, come è stato recentemente scoperto. L’Homo erectus visse di caccia e agricoltura, organizzò degli accampamenti a cielo aperto e riservò grande importanza all’industria litica. Ha inventato il fuoco e ha verosimilmente praticato riti funerari. In tal modo i segni di un’esperienza del sacro si sono moltiplicati5. Lentamente l’Homo erectus si è trasformato in Homo sapiens. Quest’ultimo ha lasciato tracce interessanti sulla propria esperienza del sacro: le tombe di Qafzeh in Palestina (90.000 a.C.) e quelle di Neanderthal in Europa (tra l’80.000 e il 50.000 a.C.), al pari di svariati strumenti sempre più precisi. A. Leroy-Gourhan attribuì una grande importanza alla simbolica degli strumenti mentre M. Eliade pensa a un’articolata mitologia attorno alle lance che si fiondano nella volta celeste e permettono l’ascensione al cielo. Sulla base della documentazione – riti funerari, tombe, strumenti – possiamo affermare che l’Homo sapiens visse un’esperienza di sacro6.
L’esperienza
estetica
In un eccellente articolo sul “sacro e l’esperienza estetica”, M. Delahoutre constata che ovunque l’uomo ha potuto esprimere serenamente la propria religiosità, e l’ha fatto attraverso forme che sono state allo stesso tempo benefiche, rispettabili e belle, degne d’essere contemplate in sé. Esiste dunque un’arte sacra sotto forma di poesia sacra, un’eloquenza sacra, una musica sacra, un’architettura sacra, un’iconografia sacra e questo presso tutti i popoli nei quali la storia fu sufficientemente lunga, abbastanza tranquilla e relativamente aperta all’estetica per permettere la nascita di un’arte sacra7. 11
Il verbo greco aisthanesthai, percepito attraverso il senso e il sostantivo verbale aisthèsis, due vocaboli che datano solo dell’epoca classica, esprime una nozione di percezione che sottolinea una certa armonia tra l’oggetto e il soggetto e quindi mostra presso quest’ultimo un sentimento di piacere, di bellezza. La parola Aesthetica fu utilizzata in Occidente per la prima volta da Alexander Baumgarten nel 1750 per indicare la bellezza di alcuni oggetti e allo stesso tempo il piacere che procura la loro vista. Questo piacere si fonda su un’educazione, su una cultura, sul buon gusto. In tal modo Baumgarten mise in luce l’esperienza estetica8. L’oggetto proprio dell’estetica è il bello, un’idea messa in luce del platonismo. Bello è un predicativo che qualifica gli oggetti che si presentano alla percezione. Questi oggetti si trovano in natura ma anche nell’arte. Poiché l’oggetto si trova nell’arte, l’estetica è legata sia al soggetto sia alla sua cultura e alla storia nella quale il soggetto è impegnato. L’oggetto si propone all’uomo in modo da mettere in movimento le sue facoltà di percezione. È nella percezione dell’oggetto in quanto bello, portatore e fonte di bellezza che si fonda l’esperienza estetica. Questa è duplice perché è innanzitutto esperienza di colui che ha prodotto l’oggetto che produce e risveglia bellezza prima ancora di essere l’esperienza di colui che ne percepisce le dimensioni estetiche. Così l’esperienza estetica si situa a due livelli, quello del creatore e quello del recettore. Deve la religione, che per definizione è esperienza vissuta del sacro, aprirsi all’esperienza estetica? La risposta a questa domanda deve analizzare le relazioni tra religione e sacro. Qui ancora rinviamo alla lettura dell’articolo di M. Delahoutre già citato e al suo articolo “arte e religione” nel quale delimita i rispettivi ambiti dell’arte e della religione, pur insistendo sul legame che esiste tra i due9. Infatti l’alleanza di sacro ed estetica, di arte e religione, fu sovente ignorata, se non addirittura combattuta. Invece il sacro si incarna nell’insieme di manifestazioni dell’homo religiosus: liturgia, lingua, riti, preghiera, gesti, abitudini, santuari. In tutte queste manifestazioni del sacro vissuto, il simbolo e la simbolica giocano un ruolo essenziale. In definitiva lo storico si pone la questione dei legami che esistono tra l’homo religiosus e l’homo symbolicus. Questa tematica attraversa in filigrana tutti gli atti di questo colloquio.
L’esperienza
dell’Homo
Symbolicus
e dell’Homo
Religiosus
Symbolicus e religiosus alle origini?
La scoperta dal 1959 dell’Homo habilis è uno dei grandi avvenimenti archeologici e paleoantropologici della fine del xx secolo10. Questa scoperta ci ha permesso di avanzare a grandi passi nella conoscenza dell’uomo arcaico, che fu creatore di culture più di 2 milioni di anni fa: industria, tecnologia, strutture abitative, economia di caccia e agricoltura, oggetti e strumenti. Quest’uomo costruisce il collegamento che si cercava tra l’australopiteco ancora senza cultura e l’Homo erectus conosciuto a partire dal xix secolo. Questo Uomo creatore di una prima cultura si mostrò capace di elaborare dei progetti di creazione di strumenti e di organizzazione del lavoro. Ha provato anche la sua esperienza estetica con le scelte dei materiali da intagliare e in seguito con i colori. Il suo modo di 12
tagliare gli strumenti su entrambi i lati è la prova del suo spirito di simmetria. I lavori di A. Leroy-Gourhan hanno messo in luce il ruolo dello strumento nello sviluppo dell’uomo, della sua intelligenza e della sua immaginazione: tecnica, innovazione, immagine simbolica11. L’Homo habilis era dotato di tecniche di fabbricazione e di consumazione che suppongono una coscienza sia simbolica sia creatrice. Secondo Y. Coppens, “l’Uomo per la prima volta nella storia della vita ampliò il territorio del sapere”12. Da tutto questo se ne trae una conclusione: l’Homo habilis di culto visse delle esperienze estetiche. Resta dunque una domanda da porre: ha vissuto anche delle esperienze religiose? Se la risposta alla questione circa l’esistenza dell’homo symbolicus è semplice, quella dell’esistenza dell’homo religiosus esige delle spiegazioni perché l’Homo habilis non lasciò tracce visibili della propria religiosità, mentre noi disponiamo di tracce numerose della sua cultura. È quindi attraverso la digressione del simbolo che procederemo. Y. Coppens e A. Leroy-Gourhan hanno messo in evidenza la coscienza di creatore dell’Homo habilis. Y. Coppens ha insistito sul fatto che, a partire dalle prime realizzazioni, l’Uomo non ha più smesso di creare perché la riflessione su ogni scoperta ha alimentato una nuova creazione. Questo Uomo creatore, spettatore del suo ambiente, alla ricerca del suo destino, si scoprì in relazione con i cinque grandi simboli primordiali: la volta celeste diurna e notturna, i simboli solari, i simboli lunari e i movimenti degli astri, i simboli della terra, i simboli dell’ambiente (acqua, montagna, albero)13. Tutta questa simbolica ha conosciuto un prodigioso sviluppo nei culti e nelle religioni, in particolare dal Neolitico e ancora di più nelle grandi religioni dell’Antico Vicino-Oriente e dell’Egitto a partire dal iii millennio. Il ruolo religioso della volta celeste è veramente primordiale. Le ricerche di Georges Dumézil e Mircea Eliade hanno dato alla comparazione genetica una nuova svolta e un grande sviluppo14. In questo preciso caso, partendo dalla documentazione conosciuta sui culti del cielo e della volta celeste, noi risaliamo attraverso la storia e, grazie al doppio chiarimento che proviene da una parte dai fatti religiosi della preistoria e dall’altra dalle recenti ricerche sul simbolo e sulle sue funzioni, proviamo a comprendere il comportamento dell’Homo sapiens. Quest’ultimo, senza alcun dubbio, ebbe numerose esperienze religiose, delle quali sono prova le tombe e i rituali del fuoco. Restano dunque da affrontare i millenni che conducono dalla fine dell’Homo erectus (150.000 a.C.) all’apparizione dell’Homo habilis: si tratta di due milioni di anni anteriori alla nostra epoca. Qui raggiungiamo i tempora ignota dell’ambito religioso, durante i quali abbiamo però tracce multiple dell’esperienza religiosa dell’homo symbolicus. Nel corso di questi lunghi millenni mentre si perfezionava il modo di tagliare il silicio grazie alla sua facoltà di simbolizzazione, questo uomo contemplava il mondo dell’Uranio, la volta celeste, la sua forma, i suoi colori, la corsa del sole, l’alba, il tramonto, la crescita e la decrescita della luna, il movimento degli astri. La cultura prodotta dall’Homo habilis e dall’Homo erectus, per quest’ultimo più che per il primo, mostrano delle tracce di rituali del fuoco e di rituali funerari che si rivelano indizi dell’esperienza del sacro. Una tale esperienza postula la scoperta della Trascendenza. Con Eliade noi pensiamo che sia la contemplazione della volta celeste ad aver portato l’Homo habilis e l’Homo erectus a fare tale scoperta. Secondo Eliade, “il Cielo rivela diret13
tamente la sua trascendenza, la sua forza e la sua sacralità. La semplice contemplazione della volta celeste provoca nella coscienza primitiva un’esperienza religiosa” (Traité, p. 47). La prova dell’esperienza religiosa si trova nel fatto stesso dell’esistenza incontestabile dell’homo symbolicus, attestata dalla cultura olduvaiana. Alle origini l’Homo habilis è symbolicus e religiosus. Dalle prime sepolture all’arte delle caverne
Le più antiche sepolture conosciute al momento attuale sono quelle di Qafzeh in Israele. Portate alla luce dagli scavi diretti da R. Neuville e B. Vandermeersch e da altri specialisti, sono datate al 90.000 a.C. Più recenti, quelle dell’Uomo di Neanderthal, che sono numerose e costituiscono la prova di un’esperienza sia religiosa che estetica. Non solo i vivi si occupavano della sopravvivenza dei propri defunti, ma circondavano i cadaveri di cure e di un decoro scelto: fiori gialli i fiori blu a Shanidar in Iraq, oggetti di decoro nelle numerose tombe, collane di perle e di conchiglie, ocra rossa, oggetti diversi, ciottoli sferici. tutti questi documenti si situano prima del 40.000 a.C.15. Il Paleolitico superiore iniziò attorno al 35.000 a.C. e terminò verso il 9000 a.C. È l’apparizione dell’Homo sapiens sapiens che perfeziona l’industria litica, lavora anche l’osso, le corna, l’avorio e crea l’arte parietale e l’arte mobile. Questa arte preistorica della quale qui trattiamo è opera della civilizzazione dei cacciatori. L’arte rupestre è soprattutto frutto della civilizzazione detta magdaleniana (tra 25.000 e 10.000 anni a.C.), che fiorì soprattutto nel sud-ovest della Francia, nei Pirenei, in Spagna e nelle Asturie (Monti Cantabrici) e un po’ anche sulle coste europee del Mediterraneo. Per tale ragione si parla d’arte franco-cantabrica – inviamo il lettore, su tale punto, agli studi specialistici – che è fiorita soprattutto nel sud-ovest della Francia, nei Pirenei, in Spagna e nelle Asturie monti cantabili e in qualche costa europea del Mediterraneo. E ci uniamo a letture degli studi specialistici sulla questione16. Gli artisti paleolitici raffigurarono numerose figure animali e alcune figure umane. Si è pensato si trattasse della magia della caccia. Questa fu l’ipotesi dell’abate Breuil. Altri hanno visto un segno di sciamanesimo, per esempio Lascaux. A. Lamaing-Emperaire fu stupita dall’associazione che ritorna frequente del bisonte e del cavallo17. A. Leroi-Gourhan ha conteggiato le specie rappresentate e i differenti segni. È giunto a una chiave di lettura simbolica: un avvicinamento sessuale degli animali che non è mai un accoppiamento. Vi è quindi un tentativo di concettualizzazione, un tentativo di una struttura di pensiero comune, segno di un alro livello culturale e simbolico. E. Anati ha continuato la ricerca sulla concettualizzazione e ha mostrato come l’arte abbia contribuito alla formazione dello spirito umano18. L’arte della caverna è una prova notevole dell’esperienza estetica dell’uomo magdaleniano. D’altra parte il semplice turista che abbia l’occasione di ammirare le realizzazioni nelle grotte di Lascaux, Rouffignac o di Pech-Merle, non dubita affatto dell’esperienza estetica degli artisti magdaleniani, come non ne dubitarono i contemporanei ammessi a visitare tali grotte in vista dell’iniziazione ai misteri dell’Universo e dell’Uomo. Queste ultime riflessioni pongono la questione dell’esperienza religiosa dell’uomo magdaleniano. Dobbiamo innanzitutto fare una premessa. Nel Paleolitico superiore, paral14
lelamente all’arte magdaleniana, vi fu un ventaglio impressionante di pratiche funerarie, segni di una credenza nell’aldilà: manipolazioni di ossa senza carne, crani posti su pietre piatte arricchite di conchiglie, crani con delle piastrine nelle orbite oculari, che danno al defunto “degli occhi d’eternità”. Tutto questo non avvenne per caso né in modo accidentale ma è un chiaro segno dell’homo religiosus. Porre alimenti, gioielli, oggetti costituisce un gesto che ha un senso estetico e religioso perché guarda all’esistenza post-mortem. L’uomo magdaleniano, che aveva una cura particolare dei suoi defunti, era un homo religiosus. Possiamo fare un passo ulteriore e dire che la sua esperienza estetica espressa nell’arte delle caverne era anche un’esperienza religiosa. In effetti le grotte di Lascaux e Rouffignac ci hanno consegnato tracce numerose di passi di adolescenti ammessi all’interno delle grotte stesse, chiaramente in vista delle cerimonie d’iniziazione19. Gli animali e le scene rappresentati sui soffitti e sulle pareti delle caverne chiamate cattedrali della preistoria, costituiscono dei mitogrammi, ossia delle figure che non sono delle rappresentazioni aneddotiche ma piuttosto radici dei miti. A. Leroi-Gourhan ha dimostrato che la chiave di queste figurazioni risiede nella recita di un mito che ispirava il segno e la lettura20. I disegni sul soffitto o sulla parete suppongono una spiegazione orale. I segni e le immagini avevano bisogno di un racconto e della parola. L’arte delle caverne è un’arte legata a una cultura orale: si tratta in effetti di un’arte sia simbolica che sacra. Non si tratta dunque né di una semplice magia della caccia né di totemismo o sciamanesimo. Si tratta chiaramente di un messaggio destinato all’Uomo del clan per offrirgli una certa concezione della vita, del cosmo e del suo posto nell’Universo. L’arte delle caverne, fatta di mitogrammi, era in qualche modo il supporto di un’arte viva nella quale la parola iniziatrice costituiva il messaggio religioso che animava le figurazioni.
Sedentarizzazione,
estetica e religione
L’arte delle caverne ci fornisce la prova della nascita di un uomo nuovo, chiamato l’Homo sapiens sapiens. Constatiamo che questi fece una doppia esperienza: estetica e religiosa. Si ritrova nell’arte e nel rituale, specialmente nel rituale funerario, ma anche nell’iniziazione, della quale abbiamo le vestigia nei mitogrammi dell’arte delle caverne. Una profonda mutazione mentale
Nel ix millennio a.C., nel Vicino Oriente accade un avvenimento decisivo per l’avvenire: l’Uomo esce dalle grotte e costruisce villaggi all’aria aperta. È l’inizio della civilizzazione natufiana che cominciò intorno al 10.000 a.C. e si concluse nell’8.300 a.C.21. Questa civilizzazione apparve in Siria, Libano, a Mureybet nel Medio Eufrate e in una località molto importante in Palestina (Monte Carmelo). La sorpresa fu grande quando degli archeologi come J. Perrot e J. Cauvin constatarono che la creazione dei villaggi precedette l’agricoltura22. Ain Mallaha in Israele come i villaggi natoufiani del Medio Eufrate praticarono la sedentarizzazione della popolazione che iniziò a vivere di risorse naturali: la pesca, la caccia, cereali selvatici. Queste scoperte hanno provato che la sedentarizzazione fu in15
nanzitutto un avvenimento culturale. Cauvin ha ribaltato l’ipotesi di Gordon Childe, per il quale la sedentarizzazione fu un avvenimento economico consecutivo all’invenzione dell’agricoltura. La scoperta di J. Perrot e J. Cauvin è importante: mostra che la crescita dell’Umanità, il ruolo dello spirito e della coscienza umana giocarono un ruolo preponderante. La sedentarizzazione fu piuttosto un avvenimento culturale e sociale. E precedette l’invenzione dell’agricoltura. Jacques Cauvin continuò lo studio dei villaggi e della società preneolitica cercando le motivazioni della creazione dell’agricoltura, dell’addomesticamento degli animali selvaggi e dell’invenzione di nuove tecnologie. In altre parole, studiò le motivazioni degli elementi che fecero nascere il Neolitico e la cultura moderna. E realizzò che il passaggio non avvenne per necessità alimentari, perché l’uomo aveva a disposizione delle ampie risorse. Cercò quindi nell’ambito della psicologia sociale e notò una progressione demografica rapida comprovata dalla progressiva crescita dei villaggi. Quindi l’apparizione dell’agricoltura, con il lavoro dei campi, rispose piuttosto a un bisogno di equilibrio all’interno della società. E i lavori agricoli rappresentavano questo equilibrio. J. Cauvin trovò conferme alla sua ipotesi nella lisciatura della pietra, nella ceramica, nella nuova tecnologia e nei nuovi strumenti. Si concentrò sullo studio della pietra piallata e della ceramica e trovò che “si tratta di una scoperta veramente importante perché è il frutto del modellare un nuovo materiale… Questi prodotti erano impregnati di un tale prestigio che dovevano esser riservati ad ambiti di maggior valore rispetto alla soddisfazione dei semplici bisogni biologici” (Les premiers villages, p. 103). In modo simile, sostiene l’autore, ogni invenzione attraversa inizialmente un momento simbolico. All’origine “siamo nel dominio dell’estetica, o della magia, o del religioso, ossia della cultura” (ibidem). Un’analisi minuziosa dei documenti mostra l’importanza dei meccanismi psichici dell’Uomo di questi tre millenni decisivi (op. cit., pp. 103-142)23. La nascita degli dei
La figurazione umana era già conosciuta nell’arte delle caverne e grazie a rappresentazioni femminili chiamate Venere aurignaziana, che sembrerebbe inscriversi in un arco di tempo che va dal 36.000 al 20.000 a.C. Ma gli archeologi si mostrarono relativamente prudenti in relazione alle scoperte effettuate senza criteri scientifici. La civilizzazione natufiana ha lasciato poche figure antropomorfe. Queste iniziarono a trovarsi nell’viii millennio nella regione dell’Eufrate. Jacques Cauvin ha dedicato uno studio particolarmente dettagliato alla figura della grande dea che scoprì a Mureybet, un villaggio del Medio Eufrate nel quale viveva una popolazione già sedentarizzata, ma precedentemente all’invenzione dell’agricoltura24. La nascita della nozione di divinità fu secondo Cauvin uno dei tratti principali della neolitizzazione. In altre parole, la neolitizzazione non fu all’inizio un’esperienza socio-economica fondata sull’agricoltura e supportata dalla sedentarizzazione, come sostenevano Gordon Childe e la sua scuola. Studiando, documenti alla mano, come l’Uomo dell’viii millennio nel Vicino Oriente abbia imparato a conoscere la Natura, quale registro simbolico abbia dato agli animali e alle piante e come abbia percepito il suo posto all’interno dell’Universo, Cauvin ha scoperto l’homo religiosus. 16
L’arte natufiana che si prolunga fino all’8000 a.C. resta un’arte orizzontale con delle rappresentazioni animali paleolitiche. Verso l’8000 a.C. appaiono a Mureybet delle figure femminili che rompono gli schemi precedenti. In modo simile questo accade per la figura animale, e in particolare quella del toro. Queste due figure sono evidenti altrove, in Palestina e in Siria. Secondo Cauvin, questa doppia nascita è il segno di una modificazione ideologica che fu il motore della neolitizzazione. “Si constata infatti – dice il nostro autore – che a partire dall’8000 a.C., ossia prima degli inizi degli esperimenti agricoli, apparve a Mureybet, sotto forma di figurine, un’arte di ispirazione molto differente dell’arte natufiana”. È l’emergenza di una doppia figura “dea e toro” che, nel vi millennio, si diffuse in tutto il Vicino Oriente. Fu dunque a Mureybet verso l’8000 a.C. che si scoprono questi due simboli-chiave della divinità. Non si tratta di espressioni della fecondità, che si sarebbero diffuse per l’apparizione dell’agricoltura perché questa non era ancora diffusa. Nacque più tardi. Fu a Çatal Hüyük, in Anatolia, una città occupata dal 6200 al 5500 a.C., che gli archeologi ritrovarono una grande quantità di santuari domestici con degli affreschi dipinti e dei rilievi, con statue e un’abbondante documentazione sulla religione neolitica25. Ritroviamo qui i due simboli – la donna feconda e il toro – che precedettero di poco la fertilità agricola ma che subirono una modifica estetica: allungamento della zona occipitale, retro dietro e verso l’alto; occhi indicati da pastiglie d’argilla incise. Queste forme degli occhi si generalizzarono durante il vi millennio: a Byblos, Munhata in Palestina, Hassuna in Mesopotamia e in diversi siti in Iran. Chiaramente gli artisti tentanavano di evocare un fisico femminile26. Anche le recenti scoperte nel Vicino Oriente hanno sensibilmente modificato la nostra conoscenza dei due primi millenni della religione neolitica, che si diffuse nella regione del Vicino Oriente con il sorgere delle prime divinità, ossia con le loro rappresentazioni simboliche della donna feconda e del toro, un simbolo umano e un simbolo animale. Tali fatti accaddero verso l’8000 a.C. a Mureybet e conobbero il loro apogeo a Çatal Hüyük in Anatolia nel vi millennio. Secondo Cauvin, “siamo passati, grazie all’arte anatolica, dalla nozione restrittiva di due simboli dominanti, la Donna e il Toro, a quella di due vere e proprie divinità”. Queste parole si riferiscono alle prime figure oranti trovate a Çatal Hüyük. Nel ix millennio si operò una profonda modifica nel comportamento dell’Uomo del Vicino Oriente. Uscito dalle grotte, si istalla all’aria aperta, in un ambiente privilegiato, creando i primi villaggi e grazie a una profonda mutazione della sua psiche, evoca i primi simboli divini, inventa l’arte e diventa il “giardiniere del mondo”. L’Homo religiosus e l’homo symbolicus, vivono un’esperienza religiosa e un’esperienza estetica della quale sono testimonianza i primi grandi documenti artistici e religiosi raccolti negli antichi villaggi di Siria e Palestina.
Dal Neolitico alle grandi religioni Nei villaggi natufiani, nell’viii millennio, sorse l’agricoltura: a Gerico sul Giordano, a Mureybet sull’Eufrate e a Tell Aswad nell’oasi di Damasco27. Questi cambiamenti implicano una rivoluzione mentale e una vera e propria mutazione religiosa dalla quale scaturirà 17
la “nascita degli dei”. Nel vi millennio assistiamo a un’esplosione neolitica all’esterno dei primi siti d’implantazione dei villaggi: la fondazione d’Ugarit sul litorale siriano, di Çatal Hüyük in Anatolia centrale e la fondazione del Neolitico europeo, danubiano e balcanico. Insisteremo sull’aspetto culturale e religioso del Neolitico nella crescita dell’Umanità. Il messaggio delle vestigia funerarie neolitiche
A Gerico sono stati trovati dei crani separati dai corpi: alcuni erano disposti in cerchio, lo sguardo rivolto verso l’interno, altri erano raggruppati e tutti rivolti verso la medesima direzione. Questi crani si ritrovano anche altrove, in Siria-Palestina, all’inizio del Neolitico, nel periodo pre-ceramica. Nel vi e v millennio, sulle coste di Siria-Palestina si nota una grande omogeneità nei riti di inumazione (Ras Shamra, Byblos). A Byblos, fu scoperta anche una “casa dei morti”: una grande sala formata grazie allo spostamento di terra rossa nella quale furono fissati una trentina di scheletri. In una cella adiacente, gli archeologi hanno rinvenuto un deposito di crani28. A Çatal Hüyük in Anatolia, vari affreschi dei santuari fanno riferimento alla morte: corpi senza testa esposti agli avvoltoi, crani assemblati su una piattaforma cultuale all’interno di un santuario, che corrispondono al rito dei crani disposti sul suolo vicino alla casa nel sito contemporaneo di Hacilar. Questo trattamento speciale di crani nel vicino Oriente all’inizio del Neolitico, rivela un’ideologia comune. Per quanto riguarda i vasi d’offerta nelle tombe, si insiste sull’influenza della Siria del Nord (Tell Halaf). Sulle rive del Danubio, vicino alle Porte di ferro della Serbia orientale, D. Srejovic ha scavato un villaggio del vi millennio, Lepenski Vir, risalente all’inizio del Neolitico europeo29. Come a Çatal Hüyük, i riti funerari sembrano legati a delle case sacralizzate: dietro un grande spazio rettangolare si trova o un altare o un ciottolo scolpito. Le inumazioni erano collocate sotto la casa o in prossimità di questa. La parte posteriore delle case era riservata alla sepoltura dei bambini. Un’abbondante documentazione archeologica mostra l’importanza delle credenze nell’aldilà nell’homo religiosus neolitico: offerte alimentari accanto al defunto; centralità della tomba per la vita dell’aldilà; relazione con la divinità la cui presenza è sottolineata nei santuari; prossimità dei vivi con i propri defunti. In Occidente, l’inumazione del defunto in una tomba singola era una pratica abituale. Tale pratica fu mantenuta fino alla fine del Neolitico, sostituita già durante tale epoca, da sepolture collettive che riflettono una nuova organizzazione sociale. I grandi dolmen raggruppano i defunti del clan; aree specifiche sono organizzate davanti a essi, in vista del culto funerario; i corpi vi sono introdotti con oggetti di abbellimento e offerte alimentari nelle ceramiche. Nel iii millennio appare l’immagine protettrice della dea dei morti – un viso senza bocca posto sopra dei seni. Ampia parte della documentazione resta da studiare. Tombe, ceramiche, figurine, la disposizione delle sepolture, il mobilio, le raffigurazioni funerarie neolitiche mostrano che dall’Eufrate al Giordano, dell’Anatolia all’Egitto, dalla Siria-Palestina ai Balcani, dal Mediterraneo orientale alle coste atlantiche, gli uomini del Neolitico vissero un’esperienza religiosa ed estetica grazie ai loro riti funerari. 18
I primi simboli della divinità
Le scoperte archeologiche e paleoantropologiche degli ultimi decenni hanno messo in luce l’impatto del simbolo nella creazione della cultura e il ruolo fondamentale dell’immaginario nell’esperienza umana e nella crescita dell’Umanità. L’Homo erectus aveva già lasciato delle tracce di religiosità che si moltiplicarono con l’Homo sapiens e abbondarono con l’Homo sapiens sapiens: questa religiosità è legata all’esperienza estetica e ciò ci permette di porre la questione della religiosità dell’Homo habilis del quale attualmente conosciamo l’esperienza estetica grazie alla sua cultura. È nel simbolismo primordiale della volta celeste che situiamo, sulla scia di Eliade, l’elemento centrale della prima esperienza religiosa: la “semplice contemplazione della volta celeste” ha rivelato all’uomo la Trascendenza. Anche dall’Homo habilis all’Homo sapiens percepiamo questa esperienza, espressa in modo spettacolare nell’arte franco-cantabrica a firma dell’Homo sapiens sapiens. Quest’ultimo visse un’autentica esperienza estetica, tracciata sui soffitti e le pareti delle grotte, ma anche un’esperienza religiosa vissuta nell’iniziazione delle credenze (mitogrammi). L’essenziale di questa religiosità ci sfugge poiché non abbiamo tracce scritte. Un passo importante e decisivo fu raggiunto all’inizio dell’viii millennio: due simboli chiave, identificati da J. Cauvin, apparvero e furono rappresentati nell’arte. Nel vi millennio in Anatolia e in Siria-Palestina, questi due simboli divennero una coppia divina: la dea e il toro, due figure divine che ebbero un successo straordinario in tutto il vicino Oriente e nel mondo mediterraneo. L’uomo neolitico ebbe una nuova esperienza di sacro: quest’esperienza riflette una credenza dell’uomo nelle divinità che trascendono il mondo nel quale vive. Grazie all’analisi interna di svariati documenti artistici, J. Cauvin ha offerto un nuovo sguardo alla simbolica religiosa neolitica, e questo ci ha permesso di dire che all’epoca neolitica esisteva già una vera e propria religione30. Il culto della dea si diffuse in Anatolia, in Fenicia, a Cipro, in Iran ma anche nel mondo della vecchia Europa: Grecia, Italia, Bulgaria, Romania, Jugoslavia fino all’Austria e all’Ungheria. Le recenti scoperte di Marija Giubutas hanno fatto conoscere migliaia di figurine della dea rappresentata con l’animale, che divenne il suo attributo culturale: leopardo, bovino, cane, riccio, serpente, volatile ecc. Si scopre quindi come l’homo religiosus abbia sviluppato la simbolica del rituale e l’estetica cultuale nel corso dei secoli31. Anche la simbolica del toro ha conosciuto una grande diffusione anzitutto nel vicino Oriente e nel Mediterraneo: Çatal Hüyük, valle dell’Eufrate, Creta, Egitto. La ritroviamo nel culto degli Ittiti e degli Urriti ma anche nella valle dell’Indù dove apparve accanto alla dea del culto pre-vedico. La documentazione più importante proviene dagli scavi di Cnossos a Creta e costituisce una testimonianza di un culto taurino ufficiale nella civilizzazione minoica del 3000 a.C. Case sacralizzate e santuari
La sedentarizzazione spinge l’uomo a costruire delle case. A Çatal Hüyük, su 139 case, 40 hanno degli altari posti su delle piattaforme. Queste case ci appaiono come sacralizzate e costituiscono i primi santuari conosciuti allo stato attuale: affreschi dipinti, bassorilie19
vi, statuette e figurine donano a questo quartiere un aspetto religioso. La scoperta della cultura e della religione di Lepenski Vir ha aperto la finestra sulla simbolica neolitica delle regioni del Danubio nel v millennio: sei agglomerazioni successive; tutte le case hanno la stessa orientazione a forma di settore circolare smussato, case rettangolari, con un grande ciottolo contro il quale si poneva una scultura monumentale. D. Srejovic ha scoperto che l’immagine alla base di ogni casa ha una relazione con la struttura del corpo umano, e ciò significa che l’uomo nella propria casa era armoniosamente unito al cosmo. Lo studio sistematico dell’architettura e dei materiali mostra che l’uomo di Lepenski Vir ha provato a comprendere la cosmogonia e l’antropogonia e a rappresentarle nel proprio habitat32. Con il megalitico sorse a Malta una cultura nella quale i templi sono i luoghi di culto di diverse comunità dell’arcipelago: queste costruzioni originali hanno delle facciate curve, delle piante tripartite, delle colonne spesse e vanno dal 3500 al 3000 a.C. Non è nota la natura dei culti, ma la scoperta di numerose statuette di forma ben definita fa pensare ai culti della fertilità del mondo mediterraneo.
precede il nome della divinità è sempre quello di una stella: il Divino e celeste, brillante e luminoso. Dio è luce. Nella stessa epoca, nell’altra estremità della Mezzaluna fertile, nel Delta e nella valle del Nilo, l’uomo egiziano viveva esperienze estetiche e religiose analoghe. Un millennio più tardi, sempre in Mesopotamia un altro accadimento fu decisivo nel mutare definitivamente l’esperienza religiosa: Dio si rivelò ad Abramo e gli annunciò che sarebbe divenuto il padre di un grande popolo.
I primi oranti
Nel corso dei millenni del neolitico le rappresentazioni dell’uomo di fronte alla divinità sono una prova di una profonda mutazione nella coscienza dell’uomo religioso. J. Cauvin ha fatto allusioni agli affreschi del Sahara nei rifugi delle grotte di Hoggar o a un Grande Dio che “distrugge con la sua massa… gli umani che lo circondano braccia sollevate in posizione orante. Nel sud d’Oran è ‘l’Ariete con la sfera’ che precede gli umani sempre con le braccia levate”33. Nel corso del neolitico l’arte rupestre adotta il gesto dell’orante che alza le braccia e le mani verso il cielo, verso il sole, verso la volta celeste, verso l’idolo, per invocare la divinità. Sulle rocce della Val Camonica, una stretta valle della Lombardia a nord di Brescia, numerose figure antropomorfe, le braccia levate verso il cielo e verso i simboli celesti, costituiscono delle vere proprie assemblee di preghiera. Gruppi d’oranti sono incisi sulle piattaforme rocciose situate di fronte al sole che si leva, altri sulle rocce sulle quali sono incisi degli idoli dei quali alcuni sono alti due metri. Nel iv millennio apparvero le più antiche statue-steli della Lunigiana, in Italia, della Aveyron e del Tarn a sud della Francia34. Innegabilmente l’uomo è alla ricerca della divinità che rappresenta attraverso diversi simboli: figure umane, sole, astri, volta celeste, figure animali. Nella sua relazione con la divinità vive un’esperienza di preghiera, di offerta e di culto. Tutto è pronto per l’inizio di una nuova era. A Mureybet sull’Eufrate, nell’viii millenario, l’uomo creò i primi simboli della divinità e raffigurò come il divino come Personale e Trascendente. Fu in Mesopotamia, nel iv millennio, che i Sumeri e gli Accadi ebbero la prima grande religione. Attorno al 3000 a.C., in Bassa Mesopotamia, i Sumeri inventarono la scrittura cuneiforme, aprendo a una serie di esperimenti di pittografia: fu l’esplosione culturale e l’origine di un’esperienza estetica e religiosa inedite35. Si moltiplicarono le figure divine. In sumerico l’essere divino è designato tramite il vocabolo dingir, in accadico ilu; l’ideogramma che 20
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1. Caverna dipinta presso Laura, penisola di York, Australia. Grande istoriazione riguardante ciò che gli archeologi hanno tradotto come l’Epoca dei Sogni, che indica il periodo delle origini e la pittura fa memoria del mito. Autore dei dipinti è una popolazione di cacciatori-raccoglitori.
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2. Riparo sotto la roccia presso Río Pinturas, Santa Cruz, Argentina, con pitture di impronte di mani in negativo, ottenenute soffiando attorno il colore. Si tratta, secondo Juan Schobinger e Carlos J. Gardin delle più antiche impronte in negativo, ix millennio a.C. La roccia prescelta è considerata luogo sacro sul quale si ritorna generazioni dopo generazioni e l’impressione sulla roccia è un segno rituale.
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3. Graffiti rupestri sulla roccia di Naquane, Valcamonica. Serie di “oranti” del periodo Neolitico della civiltà camuna, immagine di una vera assemblea in preghiera. La roccia di Naquane non solo raffigura questa e altre scene ma è essa stessa luogo sacro sul quale intervenivano i Camuni.
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4. Conchiglie sul cranio fossile di circa 20.000 anni fa, interpretato come copricapo sonoro per il defunto e trovato in una grotta del Caviglione nel complesso dei Balzi Rossi (Grimaldi) che si estendono per centinaia di metri tra Ventimiglia e Mentone. Musée de Préhistoire des Gorges du Verdun, Quinson, Provenza. 5. Da sinistra: Chopper proveniente dall’Est Turkana, Koobi Fora, Kenya; blocchetto di roccia proveniente da Koobi Fora; grande chopper del periodo Olduviano rinvenuto sulla riva destra del fiume Awash, nella zona di Gomboré, lo strato più antico del sito di Melka Kunturé, Etiopia; chopper raccolto negli strati più antichi di Olduvai, Tanzania.
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6. Ricostruzione di capanna disegnata da Sacha Gepner, sotto la guida di Yves Coppens. 7. In basso, da sinistra: due punte dell’Uomo di Lantian, nella provincia dello Shaanxi, Cina; bifacciale dell’Acheleuano finale trovato a Ozzano dell’Emilia, Bologna.
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8. La grande volta dei Bisonti Policromi di Altamira, Santillana del Mar, Spagna, capolavoro del Maddaleniano cantabrico.
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9. Particolare di uno dei bisonti della grande volta: l’animale misura 146 cm di lunghezza.
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10. In alto, toro in terracotta proveniente da Tello (antica Girsu, Iraq), in Mesopotamia, cultura Ubaid, v millennio a.C. 11. Figura femminile della cultura mesopotamica di Halaf, vi millennio a.C. Museo del Louvre, Parigi.
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12. A Shanidar, in Iraq, sono state scoperte nove sepolture neandhertaliane risalenti a 60.000 anni fa. In una delle sepolture si trova una persona che era sopravvissuta all’atrofia di un braccio e a una gamba lesa; era anche priva di un occhio e non poteva cacciare, ma la comunità le aveva riservato una sepoltura che non era da tutti. Un’altra sepoltura, grazie all’analisi dei pollini, mostra che vi erano stati messi fiori in quantità.
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13. In alto, ricostruzione di uno dei santuari presenti fra le case di Çatal Hüyük. La Dea è schematizzata da un grande bassorilievo; sotto, le teste di toro sembrano emanare da lei. 14. Niaux, Ariège, Francia. Nel pannello: grandi bisonti (2, 11, 12, 13), grandi cavalli (4, 5), e grande stambecco (7), piccoli bisonti (6, 8), piccoli cavalli (1, 9, 10) e piccolo stambecco (3).
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15. In alto, grotta di Les Combarelles, Dordogna, Francia. Mappa schematica e rappresentazione dei diversi insiemi. 16. Mappa di Lascaux. Gli insiemi di figure sono stati convenzionalmente numerati da 1 a 12.
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17. La statuetta in alto e quella a destra provengono da Kostienki, presso VoroneĹž, Russia, mentre quella in basso proviene da Gagarino, presso Lipetsk, sempre in Russia. Tutte e tre sono oggi al museo di Antropologia ed Etnografia di San Pietroburgo.
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18. EstremitĂ di manico in osso a forma di gazzella della cultura del Natufiano, circa 10.000 a.C. Un oggetto che viene dal sito di El-Wad sul Monte Carmelo, Israele. Rockefeller Museum, Gerusalemme.
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19. Rilievo di un graffito rupestre situato nel Capitol Reef National Park dello Utah, Usa. Un graffito della cultura “Freemont” (950-1200), prima del contatto con gli europei. Due esseri umani osservano gli astri, due mezze lune e due cerchi concentrici.
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20. I pozzi di al-Ain, Arabia centrale. Una figura femminile dello stile “Long Haired”, rislente all’età del Ferro. Una figura presente in tutto il Neolitico e in civiltà complesse come quella egizia.
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21. Dall’alto: disegno di uno dei santuari degli Avvoltoi, concretizzazione della morte a Çatal Hüyük; un santuario a Çatal Hüyük con una fila di teste taurine e un grande toro.
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22. Un enorme toro rosso dipinto poco dopo il 5800 a.C. occpuava gran parte della parete di una santuario a Çatal Hüyük, Turchia.
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23. Serie di grandi sculture di Lepenski Vir, Serbia. Dragoslav Srejovi0, lo scopritore, interpreta queste prime sculture monumentali della preistoria, in cui si combinano figure antropomorfe con figure ed elementi pisciformi, come un riconoscimento che l'acqua sarebbe all'origine del mondo della vita e delle creature primordiali.
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24. Un santuario con due sculture scoperto nel 1965 a Lepenski Vir, in Serbia, che testimonia come una popolazione di cacciatori e raccoglitori abbia deciso di fermarsi costruendo abitazioni stabili e templi all’aperto.
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25. Capolavoro dell’arte all’epoca del grande Megalitico dell’isola di Malta. Statua di terracotta del 3000 a.C. Le caratteristiche delle dee madri, segno di prolificità, sono mantenute in una posizione che ci fa immaginare i generosi lombi sotto la veste, che copre il sesso ma lascia libero il seno, testimonianza di pace e serenità. Museo Nazionale di Archeologia, La Valletta, Malta.
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26. Le tombe a tumulo costituiscono il più antico esempio di sepolture megalitiche in Irlanda, risalenti a un periodo compreso tra il 30.000 e il 2.500 a.C. Il corpo centrale è rappresentato dalla tomba, che consiste in una lunga stanza divisa in vari compartimenti destinati alle sepolture. Di fronte alla tomba veniva creato uno spazio semicircolare delimitato da pietre fitte (menhir). Creevykeel, Contea di Sligo.
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L’ESTETICA E L’IMMAGINE DEL BUDDHA
L’estetica e l’immagine del Buddha Michel Delahoutre
L’arte buddista fu inizialmente legata alla venerazione degli stupa, tumuli funerari innalzati in ricordo del Buddha come di un re sulle proprie reliquie. Fu per secoli un’arte aniconica, senza raffigurazioni fisiche del Maestro, tranne la traccia dei piedi segnalata da una Ruota nel luogo nel quale si sedette per meditare, sotto l’Albero del Risveglio. Quest’arte non era comunque esente da rappresentazioni mentali. Si può supporre che i fedeli in pellegrinaggio nei luoghi consacrati al ricordo del Buddha non potessero impedirsi di rappresentarlo come era descritto nei testi: un mahapurusa, un uomo segnato da grandi cose e un cakravartin, un re universale la cui esistenza si era trasformata in quella di un religioso alla ricerca del Risveglio. Nei racconti biografici è riportato che sul bambino appena nato, esaminato degli indovini, furono riconosciuti trentadue segni caratteristici di un mahapurusa o di un cakravartin. Per esempio i piedi ben piantati al suolo, i piedi segnati da una Ruota, le dita affusolate, le braccia che arrivano fino alle ginocchia, un colorito dorato, una mascella di leone (bisogna comprendere questa espressione come riferita a un viso che si sviluppa nelle quattro direzioni) ecc. La lista completa dei trentadue segni è già presente nei testi canonici più antichi1. È spesso ripresa dai testi successivi nei quali è completata da un’altra lista di ventiquattro segni caratteristici complementari. Per esempio ha unghie color rame e le vene che non appaiono, al pari di un’ossatura che si nota, ha un alone ampio una bracciata, capelli blu scuro, ecc.2. Talvolta anche i suoi tratti secondari si mescolano a quelli principali, prova che i primi completano i secondi3. Non sono i tratti fisici caratteristici di un bambino piccolo, ma piuttosto di un adulto. Alcuni di questi tratti hanno un intenso sapore estetico, come il colore dell’oro. E sono carichi anche di un calore iconografico, poiché influenzeranno il modo di strutturarne l’immagine4. Si tratta, infatti, come aveva già notato Alfred Foucher, di liste tecniche bramaniche5. Ed è proprio nei testi canonici, ossia le sutta, c’è un bramano che si recò per verificare in situ, potremmo dire, e sulla persona del Buddha, l’esistenza di questi famosi segni6. 47
È dunque assolutamente normale che quando si passò dalla rappresentazione mentale all’immagine propriamente detta, ossia a partire dall’era Saka, sei secoli dopo la nascita del Buddha, questa fu eseguita tenendo conto della descrizione che di lui si fece come un mahapurusa o un cakravartin, aggiungendo i tratti caratteristici di un monaco mendicante e di un insegnante. Un’immagine di Buddha, come dice un’iscrizione cinese, è la testimonianza visuale dei “preziosi quattro volte otto”, ossia delle trentadue caratteristiche definitive. È la prova che nel mondo terreno, a seguito delle numerose esistenze, un uomo è giunto alla perfezione del suo essere e ha ottenuto il Risveglio. Si può capire che gli artisti furono ispirati da queste notizie biografiche e furono capaci di mettere davanti ai nostri occhi un’immagine di Buddha che ancora oggi parla alla nostra sensibilità. Le relazioni tra l’estetica e il religioso nel buddhismo si pongono in termini particolari: non furono i dottori dell’Hinayana a favorire la nascita dell’iconografia buddista. Quando si leggono i loro testi fino al v o vi secolo della nostra era, si percepisce la loro stupefacente discrezione sull’immagine. Come riporta monsignore Et. Lamotte, “A lungo dopo la creazione della statua di Sakyamuni, il culto dell’immagine fu completamente ignorato”7. Al contrario, le terre attraversate dal Grande Veicolo e dalla letteratura mahayana furono molto più aperte alla poesia e all’estetica. Di questa immensa letteratura, noi prendiamo come riferimento un testo sanscrito: la Rastrapalapariprccha (abbreviato rp), risposte alle “Questioni poste dal (reverendo) Rastrapala”8, un testo riconosciuto tra i sutra. Quanto alle referenze all’immagine, le scegliamo sulla Via della Seta, nelle iscrizioni di Longmen che furono studiate e tradotte da Eduardo Chavannes nella sua opera: Mission Archéologique dans la Chine Septentrionale9. Completeremo questo studio con una riflessione sull’impatto di questa iconografia sulla poesia persiana iraniana. Le relazioni tra l’estetica e il religioso saranno qui evocate attraverso tre angolature. 1. L’importanza del linguaggio della Forma. Affinché vi fosse una profusione di immagini era necessario riconoscere la necessità di una presenza di Buddha tramite un’immagine che giocasse il ruolo di sostituto della persona e che fosse anche percepita tanto necessaria quanto la sua dottrina. 2. Il gusto estetico dei tratti caratteristici di Buddha, con un’insistenza particolare di alcuni che sono tra i più “poetici”. 3. Un esempio dell’influenza dell’iconografia buddista sulla poesia persiana iraniana.
Il linguaggio delle forme Nella letteratura buddica mahayana, la descrizione di Buddha è ricorrente: in presenza del suo interlocutore, Buddha è descritto al pari dell’assemblea nella quale si trova. Questo sottolinea che l’insegnamento deve essere completato o preceduto da un’evocazione del Maestro. Nella rp, il reverendo Rastrapala, di fronte a Buddha, lo descrive e ne fa l’elogio: egli constata che questi è proprio “colui che, dopo aver attraversato lui stesso l’inondazione delle esistenze, le fa attraversare a milioni di esseri. Liberato lui stesso, libera il mondo (intero) dai suoi legami”10. 48
Questa presenza così benefica come la si può ottenere adesso? “Così dunque, Sakya apparve nel passato… Maitreya discenderà in seguito nell’avvenire. Il fatto che noi ci troviamo troppo in anticipo o troppo in ritardo può rappresentare un ostacolo: sia che avanziamo sia che torniamo indietro, noi non incontriamo nessuno. Le nostre parole e i nostri pensieri erano immersi nella tristezza e noi sospiriamo gemendo. Allora dunque… aspirando che le vie scure siano illuminate, che gli esseri che si sono impegnati in queste vie pervengano all’altra riva e si elevino verso la purezza, noi abbiamo fatto con rispetto su questa montagna una nicchia con la statua di Maitreya”11. A queste considerazioni dei tempi, si aggiungono quelle che riguardano la sublimità della Dottrina. “La realtà soprannaturale è profonda e vasta; meravigliosa e sublime, è insondabile. Se non si può ricorrere alle immagini, niente può esporre il senso, se non si può ricorrere alle immagini, niente può mostrare la forma; le parole diffonderanno l’insegnamento delle due volte sei (si tratta della teoria delle dodici cause o dei dodici termini nella catena di produzione del dolore), le immagini doneranno una testimonianza dei preziosi quattro volte otto (ossia delle trentadue caratteristiche definitive), non c’è qualcosa di profondo, di sottile e vasto, un sublime d’elevazione suprema”12. “Se i resti divini non si manifesteranno, non sapremo dove cercare un Maestro al quale potremo aggrapparci; se l’immagine del viso (di Buddha) non si mostrerà, l’adorazione che gli testimoniamo non mancherà di farsi ascoltare; per questo motivo la vera figura di Buddha fu rivelata agli anziani che ci hanno preceduto e la sua forma trasmessa alle generazioni future”13. “L’intensità e la profondità del principio supremo sono tali che se non avessimo queste meravigliose immagini non potremmo rilevarne l’origine; l’oscurità e la sottigliezza della Dottrina perfetta sono tali, che se non avessimo delle (eccellenti) spiegazioni nessuno potrebbe cogliere il fondamento”14. Ma come sapere che la figura rappresentata è proprio quella del Maestro? Il “Vero Viso” o la “Vera Figura”15 si possono ottenere in due modi. Innanzitutto grazie alla fedeltà alle immagini eseguite ai tempi di Buddha, delle quali una si trova al Tempio di Mahabodhi a Bodh Gaya. Secondo le iscrizioni questa fu fatta dal reverendo Maudgalyayana per mitigare l’assenza momentanea di Buddha partito al cielo Tusita per insegnare a sua madre Maya. “Miou-lien (Maudgalyayana), in ammirazione della virtù, la scolpì nel legno di sandalo con il fine di raffigurare la santa immagine”16. Ogni immagine fatta secondo questo prototipo è dunque valida. Una tradizione vicina ritiene che sia stato il re Yéou-t’ien (Ydyana) che, nella medesima occasione della partenza di Sakyamuni al cielo, fece realizzare una statua in oro: “Impegnato con afflizione alla ricerca della saggezza, fece fondere dell’oro per rappresentarne il viso meraviglioso”17. Un secondo modo di assicurarsi il “Vero Viso” consiste nel verificare che un’immagine abbia i trentadue segni principali e i ventiquattro segni secondari. “Conformandoci agli autentici segni distintivi, abbiamo scolpito la roccia in un angolo della montagna…”18. “Quando si contemplano da vicino le caratteristiche distintive è maestoso, come se tutta la persona del Buddha fosse presente”19. È importante che queste caratteristiche siano tutti presenti, distinte e brillanti20. Secondo le iscrizioni non è passato molto tempo tra il momento nel quale Buddha raggiunse il proprio nirvana e la raffigurazione della sua imma49
gine. “Dopo che il legno della gru nascose la bella forma e che la santa montagna del gallo (Kukkutapadagiri) rese invisibili le tracce del passo, abbiamo modellato l’immagine saggia in vero oro, abbiamo scolpito il prezioso avviso nella pietra dal prezzo profumato. Se l’influenza e il modello non spariranno, è proprio grazie a questo”21. Di conseguenza, il rapporto del fedele buddista all’immagine è molto differente da quello dell’induista di fronte all’immagine di una divinità. Secondo un trattato indù, Visnudharmottara, “gli dei erano visibili nella prima era del ciclo cosmico. Nella seconda e nella terza si aveva talvolta una visione diretta dell’immagine. Nella quarta, che è la nostra era, non vi sono più delle immagini”22. Possiamo dunque dire che le immagini degli dei si riferiscono a un tempo mitico, che è praticamente fuori dal tempo storico. L’immagine di Buddha si riferisce al contrario a un tempo storico che il nostro. È un’immagine “storicizzata”. Si confrontò con la realtà degli avvenimenti. Fuori dal circolo della pura immaginazione. Rinvia a un tempo non così lontano dal nostro, non mitico, dove era possibile vedere Buddha direttamente. Il processo di riconoscimento dell’immagine è un processo di identificazione analizzato nei trattati di logica indiana sotto il nome di upamana23. Questo suppone che si conoscano in anticipo quali sono i segni di riconoscimento grazie ai quali lo si può identificare. Nel caso di Buddha sono i segni distintivi di un mahapurusa o un cakravartin ai quali si aggiungono i tratti particolari legati al modo di vita di Buddha e agli avvenimenti della sua vita. Per esempio Buddha è vestito e mai nudo. Questo è ben precisato nella lista delle caratteristiche secondarie per distinguerlo in particolare da Mahavira, il fondatore del Jainismo che è sempre rappresentato nudo come un asceta. D’altra parte l’identificazione una volta fatta deve essere ultimata da un insegnamento. L’immagine richiede un insegnamento. Questo è detto in maniera esplicita nelle iscrizioni che ho citato sopra, ma anche in modo più ingenuo: “Le labbra simili a un frutto sembrano parlare”24; “Le sue labbra si aprono come un frutto in estate e pronunciano suoni (puri come) la giada che noi colpiamo”25.
Valore estetico e religioso dell’immagine Realizzata secondo i criteri di veridicità della sua epoca, un’immagine di Buddha non ha solo un valore didattico che ha come supporto esteriore la parola e l’insegnamento del Maestro, ma ha anche un valore estetico e religioso poiché stimola tra gli esseri umani i sentimenti che l’aiutano a liberarsi dalla sofferenza. Alcuni di questi sentimenti sono: l’ammirazione per Buddha; la devozione e l’attaccamento alla sua persona. Uno dei criteri di questa ammirazione è il lirismo poetico innescato dalla vista dell’immagine, suscitato in particolare da due tratti caratteristici della persona raffigurata: il suo viso di luna e il suo splendore d’oro. Siamo al cuore dell’estetica come la compresero gli indiani, che la basano sullo studio dei rasa o sentimenti estetici e sullo studio di dhvani o potere di risonanza o suggestione delle parole e delle forme. 50
L’ammirazione
Il sentimento di ammirazione si trova sovente nella rp, condensato in una semplice frase: “Gli uomini non si saziano di contemplare”26. Non dimentichiamo che questo sentimento non era semplicemente di ordine estetico: era ciò che riempiva il fedele nel constatare de visu che il corpo di Buddha era un corpo perfetto, ottenuto al termine delle numerose esistenze grazie ai perfezionamenti compiuti. Questa ammirazione sollecitava nei fedeli la pratica della virtù e il desiderio di liberarsene. Dopo la scomparsa di Buddha, si fecero delle statue. “Tutti allora concepirono il desiderio di rifugiarsi nel Compassionevole, e a questo si mostravano sentimenti di venerazione. Speravamo nel vuoto immediato, di ottenere nel nirvana l’assenza della nascita. Questo ci fece uscire dall’insudiciamento dei legami, poiché non è in questo che si trova” (ossia: non sono le statue che permettono all’uomo di salvarsi, nonostante l’assenza fisica del Maestro)27. “Quando vi saranno delle persone che renderanno omaggio ai suoi piedi e che leveranno gli occhi con ammirazione sul suo viso venerabile, questi sentiranno i propri peli alzarsi con rispettosa paura e il loro cuore si aprirà in una larga compassione”28. “Tu guardi il mondo con compassione (krpa). Ti saluto tu che hai degli occhi così puri, tu che sei il Vittorioso”29. Il lirismo poetico può essere ispirato da tratti fisici più particolari: “I tuoi occhi, che sono belli come dei fiori di loto blu, con i quali tu guardi il mondo, sono case di compassione (krpa)”30. Il viso della luna
È uno dei tratti fisici più poetici: “Il tuo viso, o Guida degli uomini, brilla come la luna piena in un cielo senza nuvole”31. “Il re di Wei… scolpisce la pietra al di là dell’Inondazione d’oro… e il viso di Dio si eleva come la luna”32. Secondo il commento di Ed. Chavannes, l’Inondazione d’oro è una metafora che designa lo splendore della luna; le statue scolpite sull’ordine del re Wei erano posizionate a un’altezza che superava quella della luna. Di conseguenza brillavano come la luna piena. “Abbiamo sciolto negli stampi il viso d’oro rotondo come la luna piena”33. “Il suo viso maestoso è senza pari. Pieno di compassione, Buddha assomiglia alla luna e assomiglia al sole”34. Lo splendore dell’oro
Si tratta di uno dei trentadue tratti caratteristici principali di un mahapurusa o un cakravartin: “Egli ha lo splendore dell’oro”. Applicato alle statue di Buddha, l’oro conferisce uno splendore eccezionale come ne testimonia Hiuan T’sang che viaggiò nell’attuale Afghanistan tra il 629 e il 645, ossia alla vigilia dell’arrivo dei musulmani. Egli nota a proposito: “Sul fianco della montagna situata a nord est della città regale (la capitale), c’è una statua in pietra di Buddha in piedi: è alta tra i 100 e 150 piedi (è l’altezza di un Buddha gigante di 53 metri), è tutta splendente d’oro e di ornamenti preziosi” o ancora: “è di un colore d’oro che splende in ogni direzione e l’occhio è abbagliato dai suoi preziosi ornamenti”35. 51
“Il corpo di questo Essere Vittorioso ha il colore dell’oro purificato”36. “Salutiamo colui il cui colore è somigliante all’oro”37. “Il tuo corpo è ricco in tratti caratteristici (laksana), o Beato, il tuo colorito è delicato e ha il colore dell’oro. Il mondo non si stanca di guardarti”38. A proposito di questo splendore possiamo notare con interesse che ci sono immagini come il corpo umano ispezionato dagli indovini: i tratti caratteristici (laksana) sono esaminati da vicino, mentre lo splendore (prabha) al contrario si vede da lontano. “Quando si contemplano da vicino i preziosi tratti distintivi (laksana) sono maestosi come se la persona del Buddha fosse presente; quando si guarda da lontano lo splendore divino, è di una chiarezza che assomiglia a quella dell’immagine che è stata lasciata”. (Allusione all’immagine del Buddha in una caverna vicino a Nagarakara, dove apparve a Hiuan T’sang, al centro di una luminosità meravigliosa)… Brillantissime, queste (di queste opere) prevalgono sul disco del sole che illumina il firmamento”39.
L’impatto dell’iconografia sulla poesia iraniana Non stupisce che dopo tutto quello che si è detto sul “viso rotondo come la luna” e sullo “splendore dell’oro” una tale immagine di Buddha abbia avuto un impatto sui poeti iraniani. L’arte buddista è, infatti, rappresentata nell’area iraniana da cinque grandi siti o scuole: l’arte rupestre di Bamiyân, l’arte di Gandhâra (in particolare Hadda), la scultura di Fondûqestân, le testimonianze di Termez alla frontiera dell’Afghanistan e dell’Unione Sovietica e di Marv nel Khorâsân. L’influenza di questa scultura sulla poesia iraniana fu studiata da A.S. Melikian-Chirvani che, in particolare, rivelò la menzione nei monumenti pubblici, il vocabolario, le parole e le immagini che provengono dall’ambito estetico buddista40. “Queste immagini sono soprattutto quelle che celebrano il Buddha dal “viso di luna”, cliché che ritorna senza sosta nella poesia persiana, il bot-e-Farxâr e il bot-e-Qandahâr, il “Buddha di Farxâr” e il “Buddha di Qandahâr”, il bot-e-ârâste, il “Buddha adornato”, il bahâr che è il santuario buddista (in sanscrito, vihâra) pieno di dibâj (broccato) e di negâr (pittura) e più raramente il šaman (in sanscrito, vramana o monaco buddista) o bonzo che è mostrato mentre si prostra davanti al bot (buddha). Tutti questi stereotipi sono confrontati con la bontà ideale dell’essere senza sesso che è il bot”41. Indubbiamente, nella transizione dal mondo buddista al mondo iraniano, queste parole cambiarono in modo significativo di senso poiché, nella poesia iraniana – se è corretto quanto afferma A.S. Melikian-Chirvani – bot divenne sinonimo di idolo e si usa anche per designare il dio, la dea, l’eroe, l’eroina, l’amante, l’amata. In ogni caso è certo che, nella poesia iraniana, il bot è un essere di grande bellezza, con il viso di luna, lo splendore dell’oro e senza sesso, caratteristiche che corrispondono all’iconografia tardiva di area buddista citata più in alto e in maniera più generale a quella della Via della Seta. Uno dei laksana (tratti caratteristici) di Buddha è così espresso: “Egli ha gli organi genitali nascosti”. D’altra parte, le sue membra sono arrotondate (come in un adolescente al momento della pubertà). Questi tratti, come l’assenza di muscoli e ossatura apparenti, forniscono 52
un’immagine d’allure femminile e allo stesso tempo maschile. Il viso arrotondato, gli occhi a mandorla, lo sguardo compassionevole situano Buddha sia dal lato femminile che maschile. È dunque facile seguire l’autore quando afferma: “L’archetipo del bot, ossia di Buddha, risponde tratto dopo tratto all’archetipo plastico del Buddha iraniano occidentale”42 o ancora: “Niente corrisponde meglio all’immagine poetica del viso di luna che le figure scolpite nello stucco trovate diffusamente negli scavi di Gandhâra e in particolare nel sito di Hadda”43. Infine: “È al buddismo dell’Iran occidentale che la letteratura iraniana deve dunque le sue metamorfosi. Da questa derivano le espressioni come “Buddha (idolo) brillante” bot-e-deraxšân, che si spiegano in riferimento ai Buddha di bronzo dorato”44. A. S. Melikian-Chirvani spiega questo archetipo attraverso un’interpretazione interessante. Suggerisce, infatti, che questo tipo idealizzato senza rapporto con alcuna realtà etnica – si tratta di un viso molto arrotondato, un viso splendente, con gli occhi a mandorla, le sopracciglia molto alte, la pupilla che lascia apparire il bianco degli occhi, di un viso rotondo e rilassato, tipo quello di Buddha che prega o medita nel cerchio di luce – è la rappresentazione convenzionale dell’uomo che comunica con la conoscenza mistica. È un viso in estasi”45. Perché questo tipo idealizzato non dovrebbe essere percepito dal poeta come quello di un dio o di una dea, eventualmente come quello dell’amante ideale? Qui si verifica uno slittamento dell’estetica religiosa verso il profano che non manca di interesse.
conclusione
Lo studio delle relazioni dell’estetica e dell’immagine di Buddha nelle iscrizioni di Longmen sulla Via della Seta ci mostra che la produzione dell’immagine non aveva come solo scopo quello di fornire al fedele un oggetto da venerare; di conseguenza non corrisponde soltanto al bisogno della bhakti ma a quello di fornire anche un oggetto da ammirare. Questa ammirazione ha suscitato svariati slanci poetici, ai quali abbiamo fatto eco nella Rastrapalapariprccha. Ma abbiamo anche visto che l’ammirazione dei fedeli buddisti suscitò in altri, per esempio nei poeti iraniani, un’ammirazione e un lirismo poetico che furono trasferiti sui loro personaggi immaginari. Questo ci permette di notare, in conclusione, che l’affermazione di una trascendenza, come quella che si trova nel mondo cinese mahayana o in quello iraniano, lungi dal bloccare gli slanci artistici e poetici, li favorisce come se l’uomo, dopo aver affermato questa trascendenza, si rallegrasse di potervi partecipare già qui e ora attraverso una gioia estetica della bellezza delle forme e delle parole46.
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1. Sarnath, Dhamekh, nello Stato di Uttar Pradesh, India: veduta d’insieme dello stupa.
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2. Stupa di Sanchi, nello stato di Madhya Pradesh, India, 100 a.C.
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3. Portico dello stupa di Sanchi visto da sud.
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4. Portico dello stupa di Sanchi visto da sud.
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5. Portico dello stupa di Sanchi visto da ovest.
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6. Stupa di Mihintale, il luogo dove si sarebbe svolto piÚ di 2200 anni fa l’incontro tra il religioso Mahinda e il re Devanampiya Tissa, determinante per l’introduzione del buddismo in Sri Lanka.
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7. Thuparama Dagoba, Anuradhapura, Sri Lanka. Edificato nel iii secolo a.C. per ospitare una reliquia proveniente dall’India, il Thuparama è oggi uno dei più antichi stupa del mondo buddista.
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8. Kiri Vihara, Polonnaruwa, Sri Lanka, xii secolo. Il termine vihara designa nel vocabolario buddhista l’edificio monastico, e il Kiri Vihara è uno dei due grandi stupa di un complesso più vasto, l’Alahana Parivena, fondato nel xii secolo.
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9. A sinistra, Stupa marmoreo della fine del ii secolo, proveniente da Amaravati, Anhra Pradesh, India. 10. A destra, rivestimento raffigurante uno stupa, marmo bianco, ii secolo. Chennai, Government Museum, provenienza Amaravati, India.
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11. A sinistra, Buddha, scisto, ii-iii secolo, Lahore Museum, provenienza Gandhara, Pakistan. 12. A destra, Buddha, arte Gandhara, iii-iv secolo d.C. Nel basamento si vedono altri sei Buddha nella stessa posizione meditativa, con le mani appoggiate l’una sull’altra sul grembo, nella posa mudra.
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13. A sinistra, Buddha in predicazione, 475-485 circa, Sarnath, India, Sarnath site Museum. 14. Sulla destra, Buddha in pietra, 435-450 circa, Sanchi, India, stupa n° 1.
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15. Buddha proveniente da Mathura, India, periodo Gupta, v secolo d.C. Museo nazionale di New Delhi.
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16. Ajanta, India, caityagrha n° 19, v secolo, interni.
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17. Ajanta, India, caityagrha n° 26, fine v secolo, interni.
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18. Pitture murarie del complesso di Ajanta, India: immagine del Buddha. Il re Prasenajit, regnante su Kosala, fu testimone di un miracolo a Sravasti: il Buddha moltiplicò la propria immagine.
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19. Pitture murarie del complesso di Ajanta, India: immagine del Buddha. Sono qui visibili i tratti di bellezza acquisiti nel tempo dal Buddha, ad esempio i riccioli dei capelli, le pieghe del collo e l’urna tra le sopracciglia.
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20. Gal Vihara, Polonnaruwa, Sri Lanka. Il complesso realizzato durante il regno di Parakramabahu, comprende un’impressionante massa rocciosa e tre immagini del Buddha, seduto, in piedi e sdraiato.
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21.Ajanta, India: il parinirvana, la completa estinzione del Buddha, è qui rappresentata da una scultura monumentale di 7 metri distesa con la testa appoggiata su una mano.
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23. Buddha in piedi in bronzo dorato, metà secolo. Anuradhapura, Sri lanka, Archeological Museum, provenienza Veragala Sirisangabovihara, Allavava. viii-metà ix
22. Buduruwagala, Sri Lanka: Buddha in piedi di 15 metri di altezza, x secolo. L’iconografia delle sette figure monumentali, scolpite sul crinale roccioso di Buduruwagala, si ricollega al buddhismo detto del “Grande Veicolo”.
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24. In alto, visione d’insieme del Borobudur, Indonesia, ix secolo. 25. Sotto, veduta aerea del Borobudur, Indonesia, ix secolo.
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26. Giava, Borobudur: ognuna delle quattro terrazze quadrate del Borobudur presenta una serie di nicchie rivolte verso l’esterno, che ospitano effigi del Buddha, la cui gestualità varia a seconda dell’orientamento.
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27. Giava, Indonesia. Il Borobudur innalza il suo profilo, singolare e a nessun altro simile, nel cuore della fertile pianura di Kedu, al centro di Giava. Edificato in varie fasi alla fine dell’viii secolo e all’inizio del ix, combina quattro terrazze a pianta quadrata e tre terrazze a pianta approssimativamente circolare.
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28. Yangoon/Rangoon, Birmania. Pagoda Shwedagon. L’immagine del Buddha, pura avendo acquisito un’identità propriamente birmana che si differenzia dagli altri stili resta fedele a certi dettami venuti dall’India, come l’incommensurabile bagliore che con la doratura uniforme emana dal corpo del Beato.
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29. Sukhothai, Thailandia. Wat Mahathat. Fondato in una data imprecisata dal primo re di Sukhothai, il Wat Mahathat, monastero della Grande Reliquia, fungeva da centro spirituale del regno. Al centro del complesso c’è uno stupa dallo slanciato profilo a forma di loto e l’immagine del Buddha seduto si trovava nella sala delle ordinazioni, oggi in rovina.
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30. Buddha in gres, risalente a dopo il 460, Yungang, Shannxi, Cina, grotta n°18.
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31. Buddha in gres, risalente a dopo il 460, Yungang, Shannxi, Cina, grotta n°20.
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32. Buddha in piedi, in bronzo dorato, 539, regno di Koguryo, Seul, Corea.
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33. Ono Goroenmon, Amida, Buddha bornzeo, 1252-1255. Kamakura, Kotokuin, Giappone.
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L’ESPERIENZA RELIGIOSA E L’ESPERIENZA ESTETICA NEL CULTO HINDU
L’esperienza religiosa e l’esperienza estetica nel culto hindu Jean Varenne
Con più di quaranta secoli di storia nell’India contemporanea, l’Induismo, con circa seicento milioni di fedeli, è una delle religioni maggiori dell’umanità. E lo è a giusto titolo perché racchiude gli elementi costitutivi di ogni religione. Un culto organizzato in riti che si adattano alle circostanze (situazioni diverse che ritmano la vita) e alle divinità dedicatorie; un insieme di miti fondatori che giustificano le pratiche liturgiche e l’organizzazione sociale; infine delle riflessioni che riguardano sia il culto sia i misteri, con tutte le caratteristiche di una teologia di tipo scolastico. L’insieme costituisce una struttura complessa nella quale si integrano necessariamente tutti gli elementi costitutivi della società e che organizzano la vita dell’individuo dalla sua nascita alla sua morte1. Tuttavia è bene ricordare che l’induismo è una religione senza Fondatore e senza Chiesa, come lo sono, si potrebbe dire per definizione, tutti i politeismi. Paragonabile in questo (e per una buona ragione!)2 ai popoli dell’Italia antica, della Grecia, dell’Europa del nord, prima dell’avvento del Cristianesimo, gli indù percepiscono la loro religione come una tradizione immortale (nata con l’umanità), normale (ossia esemplare perché proviene dagli stessi dei), atemporale (la si qualifica eterna: sanâtana) e quindi ne varietur, poiché non sarebbero pensabili modifiche a qualsiasi punto, perché questa nasce con il mondo ed esisterà fino alla sua ineluttabile di sparizione. Al limite, è proprio per il suo comportamento in quanto homo religiosus che l’indù si definisce, in contrasto, per esempio, ai musulmani e ai cristiani che abitano con lui in terra d’India. Quindi si potrebbe dire che l’Induismo è più una orto prassi che una ortodossia. Si tratta di una definizione particolarmente felice perché se il rituale funerario è ovunque lo stesso e fedele alle raccomandazioni dei manuali (shâstra) vedici (primo millennio a.C.), le credenze possono essere variare nel tempo e nello spazio, e ancor più gli insegnamenti teologici sui quali si fondano. L’assenza di ogni organizzazione di tipo ecclesiale impedisce che siano definiti dei dogmi o imposte delle regole che influenzano il calendario liturgico o la pratica quotidiana. Ne risulta una sorta di fluidità nella quale coesistono delle contraddizioni e favorisce, di conseguenza, lo sviluppo di sette che sono delle piccole chiese che raggruppano alcuni fedeli sull’autorità di un maestro spirituale (guru). Alcune di queste sette, peraltro 89
poco numerose, sopravvissero alla scomparsa del maestro, con il rischio di “uscire dall’induismo”, come accadde ai discepoli di Nânak (1469-1539), che divennero agli occhi degli indù e dei musulmani dei “sikhs”, addetti di una nuova religione3. Al contrario, altre sette come quelle fondate da Chaïtanya (1486-1533) o Râmalrishna (1836-1886) sono accettate senza difficoltà, poiché i rispettivi adepti si comportano pubblicamente come gli indù. Quindi, in questo ambito come negli altri, è la pratica quotidiana che costituisce il criterio determinante, non le sfumature del pensiero teologico che possono essere molto varie. Queste considerazioni preliminari sono necessarie poiché spiegano perché l’induismo non abbia mai elaborato delle “regole della celebrazione liturgica” e non abbia mai conosciuto nessuna disputa teologica sulle immagini. Questo significa che i teologi brahmanici non si interessarono direttamente ai problemi che avrebbe potuto eventualmente suscitare la valorizzazione (o l’esclusione) dell’estetica nell’esperienza religiosa. Ogni indù è dunque, teoricamente, libero di introdurre le manifestazioni religiose che preferisce nella sua pratica culturale o di vietarle assolutamente. Nessuno avrebbe un’autorità tale da impedirglielo, a patto che l’insieme del suo comportamento testimoni l’integrazione alla comunità indù. Conviene ancora insistere sul fatto che l’induismo è innanzitutto una religione dinastica: la famiglia, il clan conservano e trasmettono le tradizioni religiose: “così hanno fatti i nostri padri così dobbiamo fare noi”. E la casta, che raggruppa i clan dello stesso status sociale, è ulteriore garante di questa orto prassi fondamentale. Esiste anche, è vero, un insegnamento considerato “rivelato” (ossia, emanato direttamente dagli dei), che si ritiene contenga ciò che bisognerebbe sapere nel dominio della religione e che si designa come “il Sapere, la Scienza” (in sanscrito: Véda). Abbondante compilazione di testi liturgici, di racconti mitici e di speculazioni metafisiche, i Véda4 sono l’autorità, almeno in teoria, per quanto riguarda le norme del culto. Questi contengono una sezione propriamente rituale dove sono presentate in modo dettagliato le cerimonie obbligatorie: sacramenti (dono del nome alla nascita, matrimoni, funerali, ecc.), sacrifici sia pubblici sia privati. Ora questi manuali non si riferiscono a quello che si potrebbe chiamare il “decoro” di tali cerimonie: abiti sacerdotali, simbolismo dei colori, musica, architettura sacra, pittura, scultura, assenti nonostante la minuzia con la quale sono descritti i gesti da fare e le parole da pronunciare. Al massimo si trova una sezione particolare (e quantitativamente molto ridotta) dei Véda che offre una lista di formule sacrificali che devono essere “cantate”. Si tratta in effetti di incantazioni (sâman) più prossime alla salmodia che al canto propriamente detto e nelle quali la voce non è accompagnata da nessun strumento musicale. Ne risulta che le cerimonie “vediche” osservate in India fino i nostri giorni non hanno alcun spirito estetico. Si svolgono all’aria aperta; l’altare o le casette dove si brucia il fuoco sacro sono semplicemente scavati, o edificati con mattoni che si distruggono dopo l’uso; gli officianti sono vestiti come nella vita quotidiana; non ci sono musicisti né statue né icone di alcun tipo; i gesti sono ridotti al minimo. Solo le preghiere, recitate in un tono uniforme, sono abbondanti. Ma, tratte dai Véda, restano incomprensibili praticamente alla maggior parte dei fedeli perché il sanscrito vedico è una lingua morta da circa venticinque secoli: questo esclude evidentemente ogni emozione che potrebbe nascere dalla bellezza poetica dei testi che sono recitati. 90
L’insieme è quindi allo stesso tempo di grande austerità e di una monotonia che scoraggia, bisogna dirlo, ogni desiderio di curiosità di assistere a una “celebrazione” di questo tipo. Ci si chiede se un tale una tale spogliazione non sia la conseguenza dell’arcaismo della religione vedica. È una posizione di fatto non giustificabile poiché le civilizzazioni definite “primitive” sono, al contrario, caratterizzate dalla ricchezza e la diversità degli “ornamenti”: fronzoli corporali, gioielli, abiti sontuosi e scintillanti; e allo stesso modo lo sono le cerimonie a causa della loro complessità e del loro fasto: musica, canti, danze, ecc. Grazie alle scoperte archeologiche fatte in India e nelle regioni dove vivevano dei popoli imparentati con gli indiani vedici (Iraniani, Sciti, ecc.) sappiamo che le cerimonie attuali non furono meno brillanti durante i millenni nei quali i clan âryas5 regnarono sulle alte valli del Gange e dell’Indo (dal 1800 fino all’800 a.C.). Senza dubbio i liturgisti che redassero i Shâstras rituali furono più interessati all’oggetto del sacrificio e alle regole da osservare piuttosto che al decoro che doveva accompagnarlo e che poteva variare considerabilmente da un clan all’altro. Così, attualmente, pretendere di restituire il culto vedico alla sua purezza originale è un falso mito: ci conserva l’ossatura del cerimoniale ma lo si priva, senza volerlo, della sua carne. È sufficiente, sotto questo punto di vista, considerare l’attuale pratica della religione “popolare” (ossia maggioritaria) nell’India moderna per comprendere che l’induismo è lontano dal disprezzare l’apporto estetico, anche se nessun teologo bramanico scrisse un trattato sui rapporti tra questo e l’esperienza religiosa. Le arti plastiche: architettura, scultura, pittura sono tutte presenti nei culti pubblici, come lo sono anche la musica e la danza. Per culto pubblico si intende quello celebrato nei santuari costruiti per questo scopo. I grandi templi del Sud ne sono un esempio rilevante. Costruiti verso il x secolo della nostra era (Tanjore, Chidambaran) o un po’ più tardi (Kumbakonam, xii sec; Ramèshvaram, xiv sec., ecc.), sono attorniati da vaste mura dove si si trovano delle immense sale (mandapa)6, capaci di accogliere un pubblico numeroso, piscine destinate alle abluzioni purificatrici e infine il santuario propriamente detto (mandira). I muri esterni sono intervallati da porte che sormontano delle torri monumentali (gopura) riccamente ornate. Qui in effetti il decoro si impone: le pareti degli edifici (torri, colonne di mandapas, muri di mandira, ecc.) sono talmente invasi da bassorilievi molto abbondanti che rappresentano gli innumerevoli del pantheon hindu con le rispettive compagne, le loro file di servitore, i loro animali emblematici ecc. Queste sculture sono normalmente dipinte di colori vivi, dove domina il rosso, il blu e in misura minore il giallo e il verde. Costantemente lambiti dalle piogge monsoniche, sono ridipinti grazie alle donazioni dei mecenati (ricchi mercanti, corporazioni, società devote ecc.). Inoltre alcuni di questi templi sono decorati all’interno di affreschi di uno stile paragonabile a quello delle sculture. Purtroppo, a causa della fragilità dei supporti e della mancanza di manutenzione, la maggior parte di queste pitture sono scomparse7. Notiamo rapidamente che questo tipo di santuario è l’eredità una tradizione che risale all’inizio della nostra era: in tutto il nord dell’India si trovano, di epoca precedente l’arrivo dei conquistatori musulmani (ix secolo), templi costruiti in legno, paragonabili a quelli che si possono vedere ancora oggi in Nepal; riccamente scolpiti, decorati di affreschi, questi edifici furono distrutti dagli invasori e cedettero il posto in India centrale (Khajuraho) e meridionale ai templi costruiti in pietra, eredi dei santuari scavati nella roccia nei primi secoli della nostra era, in particolare nell’ovest del paese (Ellora, Ajantâ). Queste grotte artificiali erano anch’esse 91
e decorate di sculture e pitture. Così l’aspetto di “libro di immagini” che caratterizza le nostre cattedrali medievali si trova anche in India nei templi del Sud che non hanno niente da invidiare quanto a dimensioni e a capacità di accoglienza di folle di fedeli. Bisogna aggiungere la musica, i canti e le danze che svolgono un ruolo importante durante le feste religiosi e ritmano lo svolgimento dell’anno. Si tratta di concerti offerti nelle sale (mandapa) adiacenti al santuario e che non si integrano alla liturgia (o a quella che è tale nell’induismo). Tuttavia, i temi dei balletti, le parole delle canzoni ecc., conservano ancora oggi un carattere devozionale. La maggior parte sono molto popolari e il popolo viene per vedere e ascoltare delle storie (quelle di Rama, Krishna, Durga, ecc.) che conosce bene. Sono numerosi anche coloro che conoscono gli inni e possono eventualmente cantarli in coro. Quest’ultima forma di partecipazione è frequente nelle riunioni che si chiamano in hindi, Kirtâns o bhâjans. Si tratta di predicazioni tenute da un maestro, intervallate da canti di “salmi”8 ripresi da tutta l’assemblea. Sovente l’oratore ha una grande forza di persuasione e le sue prediche, ritmate dai cori, sostenute da tamburi e da cembali, assomigliano a quelle dei ministri delle chiese battiste nel sud degli Stati Uniti. È certo che in tali casi, l’emozione estetica suscitata dalla musica e dai canti si mescola intimamente (e probabilmente si confonde) con le emozioni propriamente religiose: devozione a Krishna o alla Dea o a ogni altra divinità del pantheon. In modo simile lo spettacolo dei balletti nei quali sono adattati alcuni episodi della epopea sacra (Mahâbhârata, Râmâyana) contribuiscono a suscitare nei fedeli una emozione che è difficile decidere se sia più estetica che religiosa (o il contrario). Si devono anche considerare alcune feste maggiori o grandi concorsi nei quali il popolo è coinvolto. Per esempio verso metà settembre si celebra, in particolare a Mahârâshtra e a Gujerât, l’anniversario della nascita del dio con la testa di elefante, Ganesh. È l’occasione per i fedeli di costruire con le loro mani dei piccoli santuari mobili che, dopo la festa saranno portati processionalmente al fiume e gettati nell’acqua, seguendo delle regole rituali precise. Questi piccoli altari, decorati di statue del dio, fiori e lumini, giocano un ruolo paragonabile a quello dei nostri presepi a Natale. Come questi possono essere umili o ricchi e sontuosi, a seconda che siano l’opera di semplici fedeli o di corporazioni e di associazioni. Per quindici giorni questi santuari sono esposti davanti alle case, i tempi, agli incroci ecc. La folla li visita ed è chiaro che l’emozione estetica si mescola intimamente alla devozione della quale fanno prova i fedeli. L’incenso brucia, si canta, si suona della musica: l’atmosfera è allo stesso tempo quella di una grande kermesse popolare e quella di un grande pellegrinaggio. Tilâk (18651920) aveva ben compreso che, per promuovere una “rinascita” dell’induismo di fronte al progredire dell’Islam e del Cristianesimo, era necessario usare il suo prestigio di intellettuale coinvolto nella battaglia per l’indipendenza dell’India, per ridare lustro allo splendore di queste festività arcaiche, cadute in un certo senso nell’oblio dopo l’arrivo degli Inglesi. Tutto ciò che abbiamo evocato, costruzioni di templi, decoro (sculture, affreschi), concerti e balli, processioni e riposi, è importante ricordare che resta ai margini del culto vero e proprio. Tale affermazione può sembrare paradossale, in particolare per quanto riguarda i templi. Noi, che abbiamo l’abitudine di culto comunitario che rende ai nostri occhi l’essere cattolici con per esempio “l’andare in chiesa la domenica”, siamo inclinati a pensare che essere indù significhi andare al tempio, almeno in date fisse che sarebbero obbligatorie. Non è il caso. L’induismo è, infatti, una religione privata o più esattamente domestica: è in 92
casa, nel focolare familiare, che si celebrano le cerimonie religiose imposte (dalla tradizione e non da un’autorità qualunque poiché non esiste la Chiesa). Bisogna intendere la parola “foyer” in senso letterale, di luogo dove brucia il fuoco. Quest’ultimo è più che sacro: è il dio Agni, “angelo guardiano” della comunità familiare, garantisce che tutto quello che si fa nella casa ne assicura la perpetuità. È grazie a lui che le ricchezze affluiscono: in modo abbondante se il capo famiglia e i suoi sono attenti ai loro doveri, in modo scarso se sono peccatori. È ad Agni che si presenta il nuovo nato; a lui sia porta la giovane sposa venuta da un’altra famiglia o da un altro fuoco affinché la si “adotti”; è infine lui che fornisce la branda sulla quale si infiammerà la salma funebre. È attraverso di lui che si compie sacrificio quotidiano celebrato due volte al giorno, all’alba e al tramonto. Il maestro di casa, il solo abilitato a ufficiare, si mette davanti al foyer, il viso rivolto a est. Ravviva la fiamma e vi getta un po’ di latte, di burro, o qualche grano, mormorando delle formule che indicano che questi alimenti sono offerti a una divinità o un’altra. Agni, il Dio-Fuoco, nel consumare tali offerte è chiamato a trasmetterle ai rispettivi destinatari. D’altro canto, il cibo che sarà consumato durante la giornata dei membri della famiglia, dai quali sono estratti dei beni, sono anch’essi “consacrati” nel senso forte del termine. È la parte che gli dei hanno lasciato agli uomini dopo essersi saziati. Queste caratteristiche del pasto divino sono portatrici di grazia (le si chiama in effetti “la Grazia”, in sanscrito: prasâda) e la loro consumazione in famiglia diventa anch’essa una “comunione”. Si tratta indubbiamente di un’esperienza religiosa di alto livello che, grazie alla sua forza, fu e resta il cemento dell’Induismo. Ma notiamo che in essa l’elemento estetico è totalmente assente. Celebrato nella cucina, in un ambiente che non ha nulla di solenne, non richiede né immagini né luci, né un canto, e prevede una recita delle preghiere, ridotta il più spesso al minimo necessario, che si fa a bassa voce, senza alcuna raffinatezza. Sembra dunque difficile immaginare una cerimonia religiosa più spoglia di questa. Resta chiaro che ogni credente può arricchirla a proprio gusto. E sono numerosi gli esempi di case nelle quali sono installate delle immagini di divinità familiari. Si tratta per la maggior parte di statue in terracotta o in bronzo; talvolta anche di immagini dipinte o oggetti simbolici (conchiglie, ciottoli, ecc.). Ma anche in questo caso è difficile parlare di esperienza estetica perché questi oggetti sono quasi invisibili nella penombra della cucina e la tendenza è di collocarli in una piccola nicchia scavata a tale proposito. Si possono anche costruire dietro la casa una sorta di santuario dove figurano, in primo piano, un insieme di sante immagini che rappresentano le divinità maggiori: Vishnou, Shiva, Lakshmi ecc. o le “divinità d’elezione”, ossia quelle del capo famiglia: Ganesch, Krishna, Rama e altre. Il culto sacrificale (l’unico obbligatorio) si raddoppia in un cerimoniale di venerazione (in sanscrito pûjâ). La divinità scelta è adorata nell’icona che la rappresenta. Si tratta sovente di una statuetta che ogni mattina è lavata, poi vestita e coronata di fiori. Il Dio che raffigura è invitato, al momento delle formule rituali appropriate, ad abitarla. Divenuta sacra, l’immagine è quindi adorata: si brucia dell’incenso davanti a essa, la si illumina con lampade a olio, che si muovono cantando, poi si depone ai suoi piedi un piatto di cibo. Dopo qualche canto la divinità è congedata e l’immagine è di fatto desacralizzata. Dunque è nella pûjâ che per un indù le esperienze estetica e religiosa si armonizzano nel migliore dei modi, poiché qui si coniugano sia esercizi classici della devozione attiva – pre93
ghiere, canti, ecc. – sia manifestazioni artistiche che mettono in opera quasi tutte le arti: la musica (tamburi, cembali), la pittura o la scultura, il teatro: bilanciamento delle luci, gioco drammatico (invito al dio, recezione di questo, pranzo, congedo). In più i fronzoli dell’icona (stoffe, gioielli, fiori) contribuiscono in modo importante a suscitare l’emozione estetica. Qui la libertà dell’indù e completa e, considerando il gusto che gli uomini hanno oggi di donare un senso festivo alle cerimonie religiose, il rituale della pûjâ si arricchisce senza problemi di forme sontuose. Esiste in India da circa quindici secoli una corporazione di liturgisti specializzati in questo tipo di culto. Questi pûjâkâras (coloro che fanno la pûjâ) sono retribuiti a ogni atto e si comprende quindi il loro sforzo di moltiplicare le occasioni di celebrare; sostenuti da fioristi, pittori, scultori, gioiellieri, tessitori, profumatori, musicisti e cantori, questi incitano le persone singole e le associazioni ad arricchire al massimo il decoro del rituale. I grandi tempi accolgono volentieri questo tipo di manifestazioni religiose ed è per tale motivo che i pûjâkâras e i loro accoliti, che svolgono le professioni appena citate, eleggono domicilio nelle dipendenze del santuario. Guardandoli avidi di guadagno, disprezzanti i poveri, si comprende che cosa fossero i mercanti del Tempio di Gerusalemme e si capisce che Gesù abbia voluto che cacciarli. Tutto è occasione per celebrare le grandi pûjâs pubbliche: feste di un dio o di un altro, azioni di grazia offerte per una richiesta particolare, celebrazioni del santo patrono del villaggio o di una corporazione, ecc. Ma questa moltiplicazione quasi infinita di cerimonie di tal tipo non deve fare dimenticare che esse sono quelle che il Cattolicesimo chiamerebbe para-liturgie: ciò significa che un indù può essere veramente tale senza mai parteciparvi. Questo si vede, salvo eccezioni, nel fatto che i divieti legati allo statuto della casta, alla quale appartiene colui che assiste al cerimoniale, sono tolti nella pûjâ, mentre sono strettamente applicati quando si tratta di culto domestico: è praticamente impossibile per un occidentale essere invitato al sacrificio del mattino celebrato in cucina, mentre è molto più facile per lui partecipare a una pûjâ, in particolare nei templi. Bisogna notare anche che l’oggetto della pûjâ può essere non soltanto un’immagine divina (caso normale), ma anche: strumenti di lavoro (feste corporative), vegetali (alberi, erbe medicinali, ecc.), rocce, punti da acqua ecc. Può essere anche un uomo: il marito è talvolta venerato dalla sua sposa, il fratello da sua sorella, l’antenato dalla sua discendenza. E in questo campo non vi sono limiti: alcuni attori cinematografici possono essere oggetto di pûjâ grazie al fatto che hanno svolto il ruolo di un dio in un film “mitologico” di successo... E ovviamente ogni maestro spirituale (guru), nel momento in cui è riconosciuto come tale, può essere adorato nello stesso modo. Nelle comunità i discepoli fanno ogni giorno la pûjâ per il proprio maestro, perché lo considerano come abitato dalla divinità. Possiamo dire in conclusione che l’Induismo è capace, come tutte le religioni salvo quelle che lo impediscono espressamente, di utilizzare l’emozione estetica per suscitare, o esaltare, l’emozione religiosa, in particolare nel suo caso, quella che si riferisce alla devozione a un Dio personale. Ma non si sottolineerà mai abbastanza che si tratta di un fenomeno marginale, che può essere considerato una sorta di concessione fatta alla debolezza umana. È centrale ricordare che i teologi, dall’epoca vedica (Brâhmanas e Unanishads) fino a quella della costituzione dei grandi sistemi metafisici (darshanas) come il Sâmkhya o il Védânta, citando solo i più celebri, non hanno mai elaborato una iconologia. 94
L’immagine è totalmente assente dalle loro preoccupazioni come lo sono tutte le arti. Esistono certo dei Trattati della pittura o dell’architettura, dei Manuali utilizzati dagli scultori o dai gioiellieri, delle opere nelle quali si analizza la nozione di gusto a proposito della poesia e del bel linguaggio, ma si tratta sempre di ricerche profane, i cui risultati possono essere contestati (o accettati da non-indù). In effetti, l’Induismo “ufficiale”, ossia normativo (la norma di referenza sono i Véda), senza vietare formalmente le immagini, non se ne interessa. Si tratta di un caso, forse unico, di una grande religione che si limita esclusivamente alla Parola (Vâch o Shabda) o al Gesto (karman), operando come se le arti plastiche non esistessero, salvo poi chiaramente tollerarle nella presenza sotto la pressione dei fedeli. Festivo nelle sue manifestazioni popolari e allo stesso tempo profondamente spoglio nel “normale” esercizio (vedico), l’Induismo in questo ambito, come in molti altri, è profondamente ambiguo.
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1. In alto, Agni, dio del fuoco, frammento di stele, xi secolo ca. 2. In basso, a sinistra, il disegno che descrive l’agnihotra, il sacrificio svolto al mattino dal capofamiglia. 3. A destra, il Sacrificio del cavallo, il rito piÚ solenne svolto dal re con i sacerdoti.
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4. Nel grande santuario rupestre dedicato a Shiva nell’isola di Elephanta, presso Mumbay, India, c’è una stanza in cui i visitatori si recano in pellegrinaggio e lasciano fiori. Vi si giunge da quattro porte, come i quattro punti dell’orizzonte, e al centro si trova il linga di Shiva, che in sanscrito significa segno o fallo.
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5. Shiva Nataraja (re della danza), statua in bronzo, cm 80x96, epoca Cola, proveniente dal Tamil Nadu, India. La danza riassume le cinque attività fondamentali del dio: creazione, conservazione, distruzione, illusione e grazia. Col piede destro respinge Apasmarapurusa, il demone che incarna il male e l’ignoranza, tiene nelle mani la fiamma che simboleggia la distruzione e il tamburo clessidra a bocce sbattenti che ritma la creazione dell’universo. Musée Guimet, Parigi.
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6. Il monumento più celebre di Ellora, nello stato indiano del Maharashtra, è il Kailasa, la montagna o il paradiso di Shiva. Il pellegrino, una volta varcata la soglia, accede al santuario di Nandi, il toro, cavalcatura di Shiva, del quale è visibile il tetto. Infine, si arriva al santuario principale (al centro), la cui sommintà si trova in linea, e al di sopra della cella interna al linga. Di salita in salita, il pellegrino arriva al Kailasa, la montagna di Shiva.
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7. Il monumento più celebre tra tutte le grotte di Ellora, nel Maharashtra, è il Kailasa, che raffigura la montagna, paradiso di Shiva. 8. In basso, da sinistra, lo spaccato e la pianta del Kailasa indicano dove si trova la cella.
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9. Ricostruzione a volo d’uccello del Tempio Tyagaraja a Tiruvalur. Il tempio con il suo grande serbatoio e il santuario in mezzo alle acque è tra i più grandi monumenti religiosi dell’India meridionale. L’edificio originale comprendeva cinque grandi recinti, ognuno dotato di torri, e due esterni abitati dalla popolazione legata all’istituzione.
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10. Tempio di Laksamapa, lato est a Khajuraho, antica capitale religiosa della dinastia Chandela (930-1300), nel Madhya Pradesh, a sud di Agra, India. Il tempio di Lakshmapa fu costruito nel 954 e dedicato a Visnu. Eretto su una terrazza quadrata, agli angoli della quale si trovano dei templi, è famoso per un fregio scolpito che corre lungo tutta la terrazza e che raffigura guerrieri con cavalli ed elefanti.
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11. Ricostruzione a volo d’uccello del Tempio di Lingaraja a Bhubanesvar, nell’Orissa, India. Costruito intorno all’anno mille in arenaria rosa. Le linee verticali e orizzontali sono splendidamente armonizzate tra loro. La forma perfetta della torre-santuario è il risultato delle ricerche architettoniche, le cui direttrici miravano a valorizzare il passaggio dalla molteplicità all’unità.
12. Il tempio di Brahmevvara a Bhuvanevvara, India. Meno alto e più tozzo del Lingaraja, ne conserva la struttura: le torri hanno muri spessi e sono costruite secondo il procedimento che consiste nell’ammassare le pietre tagliate le une sulle altre e scalarle progressivamente per riunirle alla sommità. Il santuario si trova sotto questa torre: una cella quadrata destinata ad accogliere il linga.
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13. Il Lingaraja, il tempio più importante, più grande e più bello del Bhubanesvar, è decorato all’esterno con animali fantastici: leoni stilizzati con le fauci spalancate e la zampa destra sollavata. Il jaganmohana, la sala delle udienze o anticamera del santuario, accoglie i pellegrini che vogliono arrivare fino al cuore del tempio. Dalla base quadrata alla sommità del tempio, si opera un passaggio progressivo verso l’unità, simbolizzata dall’amalaka, un cuscino tondo sormontato da un vaso in un solo pezzo e da una punta.
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14. Konarak, stato di Orissa, India. Numerose statue monumentali sono inserite nelle nicchie del Tempio del Sole fatto edificare dal re Narasimha. Qui è riprodotta l’immagine di Visnu-Surya, che porta sul capo una sorta di tiara e sulla fronte il segno visnuita.
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15. Del grande complesso di costruzioni di Konarak, fatto edificare dal re Marasimha alla metà del xiii secolo per glorificare Surya, il dio-sole, non restano che il basamento della sala della danza (a destra), la sala delle udienze (al centro) e il basamento della torre-santuario. L’insieme raffigura il “carro del sole”.
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16. Circondato da un impressionante fossato, il tempio di Angkor Wat, prima metà del xii secolo, all’interno del sito archeologico di Angkor, in Cambogia, rappresenta l’esito perfetto del tempio-montagna, consacrato a Visnu e orientato eccezionalmente verso ovest. Celebre tanto per la perfezione della concezione e l’equilibrio armonioso delle forme, che per la qualità delle decorazioni architettoniche.
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17. Angkor Wat, pianta generale
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18. Angkor Wat, piantina della parte centrale.
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19. Mebon orientale, Angkor, Cambogia, gopura est.
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20. Angkor, Mebon orientale. Edificato alla metà del x secolo sotto Rajendravarman, che spostò la sede del regno ad Angkor. Il tempio, la cui pianta si ricollega allo schema tradizionale dei templi-montagna, sorge su un’isola artificiale anticmente circondata dalle acque del Baray orientale. Costruito in laterite e mattoni, mostra qua e là un rivestimento in arenaria, ma la maggior parte della decorazione è a stucco.
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21. Banteay Srei, Angkor, Cambogia.
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22. Angkor, Banteay Srei. Le torri santuario del gruppo centrale. Consacrato nel 967, il tempio è ubicato poco più di 20 km a nord di Angkor. Fondato da Yajnavaraha, un alto dignitario di corte, forse in memoria dei suoi parenti defunti. Erede di un’antica dinastia di personaggi, costui svolse un ruolo essenziale al momento della successione de re Rajendravarman, di cui era stato educatore.
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23. Mingoun, nord-ovest del Myanmar. Sorgere del sole sulla Pagoda Hsinbyume. Un’impressionante stupa con sette terrazze concentriche evocatrici delle sette catene montuose che nella cosmografia indiana circondavano il monte Meru. Danneggiato nel 1838 durante un terremoto, fu restaurato dal re Mindon.
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24. Sagaing. Stupa distante 8 km dalla città scelta a più riprese come capitale del Myanmar. Distrutta da un incendio nel 1968, la città è stata totalmente ricostruita, ma i suoi dintorni ospitano ancora le vestigia di antichi edifici.
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25. Capdi Shiva, il più grande e bello dei templi indù della regione di Prambanan, isola di Giava, circondato da diversi altri templi, è un complesso di 237 templi di differenti dimensioni.
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26. Giava, Prambanan, Candi Loro Jongrang. Ambizioso complesso datato alla metà del ix secolo. Il gruppo centrale si compone di tre santuari dedicati a Shiva, Visnu e Brahma, le figure principali dell’induismo. La parete interna del muro che li racchiude è adorna di rilievi narrativi ispirati al Ramauyana.
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27. Giava, Prambanan, Candi Loro Jongrang. La parte interna del muro che cinge il gruppo centrale di questo complesso è scolpita con rilievi narrativi basati su una delle maggiori epopee dell’induismo, il Ramayapa, che ha per eroe il principe ideale Rama, manifestazione del dio Visnu, riconoscibile nell’arco che maneggia con destrezza.
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28. Giava, Prambanan, Candi Loro Jongrang. Dei tre recinti che in origine racchiudevano il complesso, rimangono oggi quello interno, in cui si trova il gruppo centrale dei santuari dedicati a Shiva, Visnu e Brahma, e un secondo dentro il quale un tempo erano distribuiti 224 templi secondari, dei quali 52 ricostruiti con una certa verosomiglianza.
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SENSO RELIGIOSO E QUALITÀ ESTETICA DEI DECORI ABSIDALI BIZANTINI
Senso religioso e qualità estetica dei decori absidali bizantini Jacqueline Lafontaine-Dosogne
All’epoca paleocristiana e proto bizantina, il coro, zona la più sacra della chiesa, era sovente l’unico a essere decorato. Dai documenti conservati e dalle fonti, sappiamo che era Cristo a essere generalmente raffigurato nelle conche absidali, o talvolta vi erano anche delle croci1. Il più antico decoro absidale conservato in una chiesa paleocristiana, il mosaico di Santa Pudenziana a Roma, che può essere datato attorno al 400, esemplifica tale assunto. La figura centrale è un imponente Cristo barbuto, che tiene il libro e benedice, regnante tra gli apostoli in presenza della Chiesa degli ebrei e della Chiesa dei Gentili. Il tema deriva da quello di Cristo che insegna tra gli apostoli, già conosciuto nel iv secolo nelle catacombe o a San Lorenzo a Milano2. In questo mosaico, che ha subito rimaneggiamenti durante il Rinascimento, vi è anche la croce gemmata del Golgota. Della croce absidale ne scrisse profeticamente San Nilo nella sua lettera all’eparca Olimpiodoro; sappiamo anche che la croce con i santi Pietro e Paolo si elevava nell’abside dei Santi Apostoli a Costantinopoli3. Il più antico esempio bizantino chi è pervenuto è quello di Hosios David a Tessalonica, generalmente datato al 5004. Il mosaico, che si è conservato in uno stato molto prossimo all’autenticità, stupisce per la bellezza dell’esecuzione e per l’alta ispirazione. Si tratta di una teofania: Cristo, giovane e imberbe, con un nimbo ormai crucifero, indossa gli abiti dai colori imperiali, pur senza alcuno degli attributi dell’imperatore, seduto su un arcobaleno, in una mandorla che evoca l’essenza immateriale della luce; alza la mano destra e tiene nella sinistra un rotolo disteso, sul quale vi è un’adattamento delle parole di Isaia 25,9-10; sotto i suoi piedi una montagnetta dalla quale partono i quattro fiumi del Paradiso che si sviluppano in un corso d’acqua pieno di pesci; la gloria è contornata dei quattro viventi della visione di Ezechiele, che già simboleggiano gli evangelisti poiché questi tengono il libro dei Vangeli. Sulla sinistra un profeta in piedi manifesta il sacro timore che gli ispira la visione divina (il thompos); a destra un altro profeta seduto sta scrivendo la sua visione. L’identità dei profeti non è sicura, possiamo vedervi Ezechiele e Isaia o Abacuc5. In ogni caso, la presenza dei profeti garantisce la realtà della loro visione teofanica e una tale immagine appare ben legata al dogma dell’incarnazione di Cristo. 125
Il mosaico absidale della chiesa della Theotokos del monastero sul Sinai, edificata da Giustiniano poco dopo il 5506, è anch’essa una teofania ma di ispirazione diversa: si tratta della Trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor. In piedi in posizione frontale, barbuto, appare con un’aureola di luce azzurrognola, tra Elia e Mosè, che rappresentano i Profeti e la Legge, a Giovanni, Pietro, e Giacomo che l’accompagnano; questi sono gettati a terra per lo spavento della manifestazione sacra. Dal punto di vista artistico, questa composizione è certamente opera di maestri della capitale, segnati dalla ricerca di uno stile puramente bizantino, figurativo ma stilizzato, su un fondo d’oro astratto. Più in alto sono raffigurati due angeli che rendono omaggio all’Agnello, due medaglioni con i busti della Vergine e del Battista che, con l’Agnello, costituiscono una bozza di Deesis; vi sono anche due scene di Mosè, davanti al Roveto ardente e mentre riceve le tavole della Legge, che fanno allusioni a degli episodi locali. La composizione della conca dell’abside di San Vitale a Ravenna7, appena anteriore (la chiesa fu consacrata nel 547 o 548), in confronto, è ben tradizionale, con il Cristo giovane seduto sul globo tra due angeli, il santo patrono a sinistra e a destra il vescovo Ecclesio che offre il modello dell’edificio; la composizione si staglia su fondo d’oro con elementi del paesaggio tipicamente ravennati. Più in basso, sui lati del muro cilindrico, si trovano i celebri pannelli di Giustiniano e di Teodora, espressione della pittura imperiale e storica. A Sant’Apollinare in Classe, fondata dal banchiere bizantino Giuliano Argentario e consacrata nel 5498, vi è una Trasfigurazione quasi aniconica che occupa la parte superiore della conca dell’abside: un grande medaglione blu stellato contiene una croce gemmata al centro della quale appare il viso di Cristo; è attorniata dei busti di Mosè e Elia e dagli agnelli che raffigurano i tre apostoli. Nel registro inferiore, Sant’Apollinare si tiene in posizione orante tra le pecore. Questa iconografia restrittiva e tradizionale s’accompagna all’uso, abituale a Ravenna, di un fondo campestre, roccioso e fiorito. Sul muro cilindrico, vescovi locali occupano lo spazio tra le finestre, una formula che annuncia l’istallazione posteriore in questo luogo dei vescovi e dei Padri della Chiesa. Ricordiamo ancora a Roma, nella stessa epoca, il potente Cristo barbuto in piedi tra i santi, tra i quali i bizantini Cosma e Damiano, nell’abside della chiesa che prende il loro nome9. Alla fine del v secolo anche la Vergine era presente nelle conche dell’abside. Sappiamo dalle fonti che la Madre di Dio figurava nell’abside centrale della chiesa di Costantinopoli tra due angeli e diversi personaggi e il retore Coricio descrive anch’egli una Vergine con il Bambino sempre tra alcuni personaggi nella chiesa di San Sergio a Gaza prima del 53610. Queste composizioni annunciano quella della cattedrale di Parenzo-Porec, della metà del vi secolo11, il cui stile è ravennate ma la cui ispirazione è certamente costantinopolitana. La Vergine in trono con il Bambino, sotto la mano di Dio che tiene una corona, è incorniciata da angeli, santi ed ecclesiastici, in particolare il vescovo Eufrasio che tiene il modello della basilica. Il senso dell’Incarnazione che lei porta in se stessa è esplicitamente rinforzato dalle due scene raffigurate più in basso: l’Annunciazione e la Visitazione, nella quale Maria ed Elisabetta sono visibilmente incinte. Queste rappresentazioni della Vergine, strumento dell’Incarnazione, sono una chiara conseguenza del concilio di Efeso (431), nel corso del quale ella fu proclamata Theotokos, Madre di Dio, e una reazione all’eresia monofisita secondo la quale Gesù non avrebbe che una natura divina. 126
Sempre nel vi secolo a Lythrankomi a Cipro, la Vergine seduta tiene il Bambino nel grembo, in una gloria che la contorna completamente, che è piuttosto rara a Bisanzio, tra gli arcangeli Michele e Gabriele12. Il trono ha una spalliera a forma di lira, attestata nel trono imperiale dall’epoca di Leone i. La Vergine di Angeloktistos ancora a Cipro (vii secolo) è del tipo Odigitria in piedi, tiene il bambino ben dritto sul braccio sinistro13; ella è accompagnata dall’iscrizione Hagia Maria, che si incontra qualche volta in altre epoche. La Vergine è vestita di porpora, ma non ha mai alcun attributo imperiale. Sono gli arcangeli a esserne dotati, mentre tengono il globo e il bastone; le loro ali hanno degli occhi come la coda di un pavone, caratteristica che si vede anche sul Sinai ma non si troverà più successivamente. Vi furono dei tentativi di raggruppare nelle absidi la figura di Cristo della conca e quella della Vergine sulla parete, come testimoniano svariati decori di cappelle monastiche nell’Egitto copto (vi-vii secolo)14. Il Cristo trona in una gloria tra temi tratti dalle visioni profetiche e due angeli, mentre la Vergine a volte si siede con il Bambino e a volte è in piedi in posizione orante, tra gli apostoli: alcune di queste scene evocano un’Ascensione. Un’associazione analoga, su supporti diversi, si trova sul grande panneggio del museo di Cleveland15, che ha l’aspetto di un’icona monumentale: al di sotto di Cristo in trono in gloria tra due angeli, la Vergine molto più grande siede con il Bambino sempre tra due angeli; i busti degli apostoli figurano nei medaglioni ai lati. Non è escluso che i modelli di queste composizioni fossero presenti in chiese importanti delle quali non sono state conservate delle testimonianze. La nostra documentazione infatti è molto frammentaria. La crisi iconoclasta che divampò nel 726-730 e terminò definitivamente solo nell’84316 favorì la distruzione di numerose figure sacre in particolare i luoghi pubblici, tra i quali le chiese. Il mosaico absidale di Hosios David era all’epoca fortunatamente ricoperto e quanto a quelli del Sinai e di Cipro si sono conservati grazie al fatto che queste regioni erano all’epoca sotto la dominazione araba e che i decreti degli imperatori bizantini iconoclasti qui non furono applicati17. Una Vergine si trovava anche nell’abside della chiesa della Dormizione a Nicea, del 700 circa, ma fu distrutta e sostituita da una croce dagli iconoclasti e in seguito ricostruita18. I quattro angeli che la circondavano sulla volta del bema sono stati risparmiati. Vestono abiti imperiali da cerimonia con il loros gemmato e ricamato, le iscrizioni li designano come i cori intermediari degli angeli: Dominazione, Potenza, Sovranità e Forza, temi che sono raramente raffigurati. Tra loro al vertice dell’arco, il trono dell’Etimasia simbolizza la Trinità. Gli iconoclasti collocarono nella conca dell’abside una croce, la sola rappresentazione sacra tollerata. Pochi esempi ne sono conservati, in particolare a mosaico: è semplice ma trabocca di grandezza quella della chiesa di Santa Irene a Costantinopoli, dove il decoro del muro cilindrico è purtroppo perduto19. È noto dalle fonti e dai rari i documenti che i cori erano ornati di croci, volatili e motivi vegetali. La piccola chiesa di Hagia Kyriaki a Naxos ne conserva una testimonianza interessante, in particolare volatili con il collo ornato da un fiocco, che ricordano il tema antico della gallina con i suoi pulcini20. Non sembra che i decori siano stati sostituiti nelle chiese nel periodo intermedio del ritorno delle immagini tra il 787 e l’815. I mosaici realizzati nell’abside di Santa Sofia a Tessalonica da Irene e Costantino vi sono aniconici, il decoro ornamentale che accompagnava la croce fu mantenuto dopo la crisi sulla volta del coro: una bandiera dove si alternano delle croci e dei monogrammi dei sovrani, una croce raggiante occupa il centro21. 127
La restaurazione delle immagini fu proclamata nel concilio dell’843. La prima Vergine a essere rifatta fu quella di Santa Sofia a Costantinopoli verso l’86622. È in trono con il Bambino, sola sullo sfondo d’oro della conca, mentre i due arcangeli sono nella parte finale dell’arco (quello di sinistra è andato perduto). Qui la Theotokos è nel senso pieno del termine la “Sede della saggezza”, perché la chiesa è consacrata alla Santa Sofia, una delle ipostasi di Cristo. Imponente e bella, con un viso carnale, è seduta su uno sgabello arricchito da due cuscini – elemento imperiale –, i piedi riposano su un gradino ornato; il Bambino seduto diritto nel suo grembo tiene un rotolo. Sul bordo inferiore corre un’iscrizione incompleta ma che può essere ricostruita come segue: “Le immagini che gli impostori gettarono a terra, pii imperatori le hanno rimesse al loro posto”23. L’angelo di destra è superbo, con la sua clamide imperiale bianca e oro su una tunica purpurea e le ali sontuose. La qualità magnifica di queste sante immagini corrisponde a un ideale di bellezza, indubbiamente eredità dell’antichità ma trasceso dal pensiero religioso cristiano, che non fu mai negato nella capitale bizantina. Un aspetto complementare si ritrova nella Vergine in piedi che tiene il Bambino davanti a sé, del tipo Kiriotissa, che sostituisce la croce dell’abside nella chiesa della Dormizione a Nicea, della quale la leggenda dice “Tu l’hai progettata prima dei tempi”24. Al contrario la Vergine con il Bambino nella Santa Sofia a Tessalonica, come l’Ascensione posta nella cupola, sono di uno stile più pesante, dovuto senza dubbio al lavoro di équipe locali25. Le sante immagini furono anche ristabilite nelle province ma, in particolare nelle regioni orientali, è spesso Cristo che figura nell’abside. La piccola chiesa delle Tre Croci a Güllü Dere in Cappadocia26 mostra un interessante teofania-visione che racchiude in una composizione sintetica i racconti dei profeti Isaia e Ezechiele: Cristo in una mandorla iridescente è attorniato dai quattro simboli, sotto la mano di Dio che indica tra i medaglioni del Sole e della Luna; in basso, le tracce del mare di cristallo e due paia di ruote; da ogni lato un tetramorfo, un cherubino e un serafino a sei ali: quello di sinistra si avvicina al carbone ardente di Isaia, prosternato, mentre quello di destra tende a Ezechiele il libro da divorare; completano il quadro due arcangeli. L’importanza della testimonianza dei profeti fu spesso sottolineata dagli iconoduli e non è quindi sorprendente trovare degli elementi della loro visione in quest’epoca di restaurazione delle immagini27. Nella parte inferiore dell’abside vi sono apostoli, padri e vescovi e forse vi erano anche la Vergine e il Battista. Nella maggior parte delle absidi del x secolo in Cappadocia e in particolare in quelle della Piccionaia di Cavus e di Tokali Kilise, i cui bei decori s’ispirano all’arte della capitale28, è Cristo che troneggia. Più tardi si rappresenterà il tema della Deesis o preghiera, con Cristo tra la Vergine e Giovanni Battista, che intercedono per l’umanità29. La crisi iconoclasta sollecitò l’elaborazione di dottrina in difesa delle immagini sul piano sia teologico che dei programmi iconografici nelle chiese. L’immagine fu definita come un simbolo, l’intermediario tra la realtà tangibile di Dio e dei santi e la loro realtà intelligibile e invisibile. L’accento fu posto anche sul loro valore di insegnamento30. La forma stessa delle chiese, ormai a croce greca iscritta nella cupola, traduce la visione del mondo divino: il Cristo Pantocratore (Maestro del mondo) domina dalla cupola, attorniato da una milizia angelica; nell’abside, zona intermediaria tra il cielo e la terra, regna la Theotokos, simbolo dell’Incarnazione; la navata raffigura il mondo terrestre. Le fonti ci attestano questa disposizione31, per la quale non abbiamo conservato delle testimonianze prima dell’inizio dell’xi secolo nella tradizione costantinopolitana. Ma a partire da quell’epoca apparvero degli autentici capolavori. 128
Nelle chiese lussuose, ornate di mosaici, questi soggetti sono raffigurati nelle parti a volta al di sopra delle cornici, mentre le pareti sono rivestite di marmo, come si vede a Hosios Lucas, la più bella chiesa della Grecia, del primo terzo dell’xi secolo32. Qui la barriera del coro basso (il templon) si è felicemente conservata e permette di contemplare il decoro absidale (questo decoro è purtroppo nascosto in numerose chiese a causa di enormi iconostasi moderne, mentre la Vergine dell’abside dovrebbe essere naturalmente vista dai fedeli). Qui, ella trona con il Bambino su un fondo d’oro mentre gli arcangeli si trovano distanti sull’arco, davanti alla calotta che contiene la Pentecoste. Il fondo d’oro è così vivo che è la sua luminosità sarebbe sufficiente e dall’altra parte i Bizantini non sperimentarono l’horrorem vacui. La Vergine così isolata mi sembra procedere sia da un’intenzione intellettuale che da una ripresa estetica per rapporto alla tecnica del mosaico. Le eccezioni sono rare, come la Kiriotissa tra i due angeli nel monastero di Gelati in Georgia (1125-30)33: nonostante la qualità dell’opera si nota un indubbio tratto provinciale. Al contrario, nell’affresco della Panagia Chalkeon a Tessalonica (1028)34, gli arcangeli che si avvicinano alla Vergine sono dipinti in tinta unita, anche se il bellissimo blu dei lapislazzuli ha poco valore in sé. Un’eccezione notevole si incontra a Santa Sofia d’Ohrid (metà xi secolo), dove la Vergine è in trono da sola nella conca (tiene il Bambino in una piccola gloria, motivo raro ma già presente in epoca preiconoclasta)35. Questi due affreschi absidali rivelano nuove tendenze, entrambi prevedono la Comunione degli Apostoli, un tema eucaristico ben accetto nel coro, e una schiera di santi vescovi legati alla celebrazione terrestre dell’Eucarestia, che definirei volentieri i “custodi del dogma”. Le due idee cardine dell’Incarnazione e del Sacrificio sono qui riunite. A Ohrid, inoltre, Cristo officia nella Comunione e sui lati sono raffigurati episodi della vita di due grandi liturgisti, Basilio di Cesarea e Giovanni Crisostomo. Tutto il programma rivela l’influenza marcata della liturgia e le possibilità più ampie che offre la tecnica dell’affresco. A Nea Moni a Chios, metà xi secolo, è la Vergine orante (purtroppo acefala) che si staglia nella conca sul mosaico dorato, mentre i busti dei due arcangeli sono confinati nelle piccole conche laterali36. Le fonti ci confermano che la situazione era simile in svariate chiese del Gran Palazzo a Costantinopoli. In una descrizione che fece di una di queste chiese, Fozio disse che la Vergine in piedi nell’abside prega per la salvezza dell’imperatore e il trionfo di questi sui nemici37. Nea Moni fu una fondazione dell’imperatore Costantino ix Monomaco e questo giustificherebbe la scelta del tema. La Vergine orante simbolizza quindi l’intercessione e la protezione: questo è particolarmente evidente a Santa Sofia a Kiev, la chiesa palatina di Jaroslav il Grande38. Questa Vergine colossale, di più di cinque metri di altezza, è una delle figure più impressionanti dell’arte bizantina (1043-46); localmente è chiamata Nerusimaja stena (“Bastione indistruttibile”, espressione mutuata dalla stanza 23 dell’Inno Acatisto). L’abside di Santa Sofia a Kiev mostra una disposizione divenuta ormai classica, con la Comunione degli Apostoli nel registro medio, all’altezza delle finestre con la fila dei padri e dei vescovi e, sui pilastri a sinistra e a destra, l’angelo e la Vergine dell’Annunciazione. Nella basilica della Natività di Betlemme39, nei mosaici eseguiti nel 1169 dopo il matrimonio di Amalric con Maria, nipote dell’imperatore Manuele Comneno, vi è nell’abside una Blachernitissa – una Vergine orante con il Bambino sul petto – un tipo costantinopolitano il cui successo crebbe quando i Comneni stabilirono la loro residenza nel Palazzo della 129
Blacherne. La Blachernitissa tra due angeli orna anche la conca dell’abside della chiesa della Vergine a Studenica (1208-09), sopra la Comunione degli Apostoli40. Aggiungiamo qui, senza soffermarci, che i mosaici bizantini italiani, a Venezia e in Sicilia, mostrano caratteri legati a condizioni locali: in assenza della cupola, a Monreale e Cefalù, Cristo occupa la conca dell’abside mentre la Vergine è raffigurata sul muro cilindrico tra apostoli e vescovi; a Torcello, la Vergine con il Bambino in piedi è sopra gli apostoli, caratteristica superata41. Nella seconda metà del xii secolo, il tema tipico della conca è la Vergine con il Bambino, su un trono con schienale tra due arcangeli. All’epoca si svilupparono svariate tendenze espressive e, per la prima volta negli affreschi bizantini della chiesa di Nerezi (1164), apparve un nuovo tema absidale. Si tratta della Hagia Trapeza, la Santa Tavola, che evoca il sacrificio di Cristo, posta proprio sopra il vero altare42. I vescovi sono rivolti al trono-altare che è posto al centro, a Nerezi occupato dal libro e dalla colomba, e più tardi da oggetti liturgici e circondato da angeli-diaconi: l’immagine dell’Etimasia è scesa al livello reale dell’atto liturgico. Questo tema, che non è conservato a Costantinopoli ma da cui sicuramente proveniva, conobbe un’espansione rapida. Un ulteriore passo fu realizzato a San Giorgio a Kurbinovo (1191)43 quando il corpo di Cristo steso sull’altare, l’Amnos, concretizzerà il sacrificio: si tratta della trasposizione plastica del Verbo che si fa carne, corrispondente alla cerimonia del Mélismos (frazione del pane consacrato). Più tardi, Gesù sarà talvolta posto nella patena. (Cristo non era più raffigurato sotto forma di Agnello a Bisanzio dopo il divieto proclamato dal concilio Quinisesto nel 692). La Santa Tavola farà parte dei decori absidali nelle numerose chiese fino alla Georgia, protraendosi fino all’epoca dei Paleologhi. In quest’epoca le regole erano meno vincolanti e i temi si svilupparono, ma è la Vergine che, salvo rare eccezioni provinciali, continuò a regnare nella conca. Non abbiamo esempi a Costantinopoli (il decoro absidale di Kariye Djami fu distrutto). Tuttavia altri sono conservati, in particolare nelle chiese di Mistra dove i decori sono vari, con tre formule44: la Vergine con il Bambino in trono o in piedi e Cristo in trono (a Santa Sofia probabilmente per ragioni legate al contesto funerario). La Comunione degli Apostoli è presente sulla parete ma fu divisa in due parti ai lati a Peribleptos (metà xiv secolo) e a Pantanassa (1428), dove lo spazio centrale è lasciato al Sacrificio; più in basso i vescovi; nella seconda chiesa si aggiungono Anna e Gioacchino, i genitori della Vergine (un motivo già riscontrato occasionalmente nelle epoche precedenti) così come il Cristo-vescovo che presiede la liturgia celeste45. Una certa complessità iconografica non impedisce, in particolare a Peribleptos, una bella armonia compositiva, di disegno e di colori. In Macedonia si trovano anche altri tipi, con una certa predilezione per la Vergine orante (senza il Bambino), che sembra aver però perduto il suo carattere sontuoso. Lo si vede anche in due monumenti dell’epoca del re serbo Milutin, segnati dalla predominanza dell’arte tessalonicese, a Peribleptos d’Ohrid (1295) dove la Vergine isolata è sopra la Comunione degli Apostoli e a San Nicola Orfano (1320 circa) dove la Vergine è circondata da due angeli chinati, sopra i vescovi officianti46. Lontano da Costantinopoli, ai piedi del Caucaso, la chiesa di Calendzicha conserva un decoro eseguito, o almeno diretto, dal pittore Manuel Eugenikos, inviato dalla capitale bizantina dal governatore Dadian alla fine del xiv secolo. Nella conca si staglia un’alta Vergine orante che indossa l’omophorion purpureo su una tunica blu cielo; è eccezionalmente circondata dagli apostoli Pietro e Paolo, un tema raro, che si trova tuttavia anche a Perachorio a 130
Cipro (metà xii secolo) e dagli arcangeli47. Ella è collocata sopra la processione degli angeli, l’Amnos adorato dagli angeli-diaconi e dai vescovi; la Comunione degli apostoli fu collocata sulle mura laterali. Le pitture eleganti, dai toni freddi e raffinati, sono tipiche dell’estetica costantinopolitana dei tempi dell’Esicasmo, corrente mistico-ascetica di tendenza contemplativa e tradizionale. Terminiamo con due decori absidali della capitale bizantina, di qualità elevata, che non appartengono propriamente a una chiesa. Il primo, a mosaico, orna la cappella funeraria di Michele Glabas, accanto alla chiesa della Pammakaristos (1310-15)48. Il Cristo dolce e biondo, che l’iscrizione designa come hyperagathos (“l’ultra buono”, l’epiteto inusuale era legato al carattere funerario del luogo) trona nella conca absidale mentre la Vergine, posta nella nicchia di sinistra, e il Battista, in quella di destra, formano una Deesis, un tema che è normale trovare in contesto funerario. Nell’affresco del parecclesion (navata laterale a uso funerario) di Kariye Djami, si trova invece un altro tema49. Una grande composizione dell’Anastasis (la Resurrezione è raffigurata a Bisanzio tramite la Discesa di Cristo agli Inferi) che qui mostra un’iconografia rinnovata. Mentre era consuetudine che Cristo tirasse fuori dalle loro tombe Adamo ed Eva, posti sul medesimo alto, qui l’uno è a destra e l’altra alla sua sinistra, e questo conferisce al gesto di Cristo una forza particolarmente decisa. In piedi, avvolto da abiti luminosi, raffigurato con proporzioni grandi, Egli è al centro di numerosi personaggi e motivi che lo circondano; ai suoi piedi è sdraiato Satana ormai vinto. Questo saggio non è un corpus dei decori absidali bizantini e non pretende di fornire un repertorio di tutti i tipi iconografici prodotti nei secoli e nel vasto ambito geografico del mondo bizantino e para-bizantino. Ho privilegiato la tradizione costantinopolitana, pur senza limitarmi a essa, perché le direttive d’iconografia religiosa erano dettate da Costantinopoli dove lavoravano i migliori artisti. In tal senso credo di aver risposto al tema del colloquio. Nell’insieme del decoro ecclesiale, i punti essenziali sono la cupola e l’abside centrale dove si esprimono i dogmi fondamentali. Se la cupola è il luogo privilegiato dove regna il Pantocratore, l’abside è quello che mostra il concetto dell’Incarnazione, idea chiave della religione ortodossa, che giustifica tali immagini. Questo concetto già implicito in antiche raffigurazioni di Cristo di carattere teofanico, si afferma con le immagini della Theotokos. Benché tale concetto sia immutabile, nel corso di un’evoluzione secolare i tipi della Vergine si diversificano – in particolare con connotazioni imperiali – e il programma iconografico dell’abside si arricchisce con temi legati al Sacrificio e alla liturgia. I mosaici o gli affreschi che ornano queste parti saranno affidati all’artista più importante dell’equipe, poiché la qualità estetica – al pari dello splendore del mosaico nelle chiese importanti – contribuiscono a impressionare e a rallegrare i fedeli, elevandone l’anima.
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1. Il mosaico absidale di Santa Pudenziana a Roma, con Cristo docente in trono, circondato dagli apostoli; al di sopra la croce gemmata accompagnata dagli esseri dell’Apocalisse.
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2. Gesù in trono ammaestra gli apostoli, Traditio Legis, mosaico paleocristiano del iv secolo della cappella di Sant’Aquilino, all’interno della basilica di San Lorenzo Maggiore a Milano.
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3. Ascensione con il Cristo giovane, mosaico dell’abside della chiesa del Salvatore del monastero di Latomou (Hosios David), Salonicco, Grecia. Cristo, la mano destra levata come i trionfatori romani, è seduto su un arcobaleno al centro di una gloria con i simboli dei quattro evangelisti. Ai suoi piedi sgorgano i quattro fiumi del Paradiso che confluiscono nel Giordano.
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4. Particolare della Trasfigurazione del mosaico absidale del katholikon, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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5. Presbiterio della chiesa di San Vitale a Ravenna.
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6. Dettaglio dell’abside di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna: al centro della Trasfigurazione appare un grande medaglione blu stellato con una croce gemmata entro la quale appare il viso di Cristo.
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7. L’abisde di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna: il mosaico della Trasfigurazione con i busti di Mosè ed Elia e gli agnelli che raffigurano i tre apostoli; nel registro inferiore, Sant’Apollinare si tiene in posizione orante tra le pecore.
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8. Mosaico absidale della basilica dei santi Cosma e Damiano a Roma, con Cristo, i due santi, il papa donatore Felice iii e san Teodoro.
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9. Mosaico absidale della cattedrale Eufrasiana di Parenzo-Porec, Croazia, metĂ del vi secolo: la Vergine in trono con il Bambino, incorniciata da angeli, santi ed ecclesiastici, tra i quali il vescovo Eufrasio che porta il modello della basilica.
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10. Monastero copto della Santa Vergine Maria o dei Siriani a Wadi El-Natrun, Egitto: affresco dell’Annunciazione con Maria circondata dai profeti.
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11. Chiesa di Santa Irene a Costantinopoli: la conca dell’abside con la croce, la sola rappresentazione sacra tollerata.
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12. I cori ornati di croci, volatili e motivi vegetali della piccola chiesa di Hagia Kyriaki a Naxos, Grecia.
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13. Il mosaico della galleria meridionale di Santa Sofia a Istanbul, Turchia: l’imperatore Giovanni ii Comneno, l’imperatrice Irene e al centro la Vergine Maria con il Bambino.
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14. Interni della basilica di Santa Sofia a Istanbul, Turchia: la Vergine in trono con il Bambino con ai lati gli imperatori Costantino, nell’atto di donarle la città , e Giustiniano, che le offre il modellino della chiesa.
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15. Mosaico dell’abside di Santa Sofia a Istanbul: Madonna in trono con Bambino, theotokos.
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16. Affreschi degli interni della chiesa di Tokali Kilise del x secolo, a Göreme, Cappadocia.
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17. Interni della chiesa di Hosios Lucas, primo terzo dell’xi secolo, Grecia: Madonna in trono con il Bambino su un fondo d’oro mentre gli arcangeli si trovano distanti sull’arco, davanti alla calotta che contiene la Pentecoste.
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18. Raffigurazione della Kiriotissa tra due angeli, nel monastero di Gelati, in Georgia.
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19. Santa Sofia d’Ohrid, Macedonia, metà del xi secolo: affresco della Vergine in trono, che, sola nella conca absidale, tiene il Bambino in una piccola gloria.
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20. Particolare di un mosaico nella chiesa Nea Moni di Chios, Grecia, xi secolo.
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21. Particolare della Vergine orante della chiesa Santa Sofia a Kiev, Ucraina.
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22. Mosaici della basilica della NativitĂ di Betlemme, Palestina.
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23. Mosaici della basilica della NativitĂ di Betlemme, Palestina.
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24. Dettaglio dell’affresco della parete ovest del monastero della Vergine a Studenica, Serbia, xii secolo.
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25. Dettaglio degli affreschi del monastero della Vergine a Studenica, Serbia, xii secolo.
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26. Mosaico absidale del Duomo di Monreale a Palermo, xiii secolo: il grande Pantocrator (l’Onnipotente) circonfuso di splendore.
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27. Cristo nel mosaico della lunetta, cappella di San Prisco, presso Santa Maria Capua Vetere, Caserta.
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28. La parte inferiore dell’abside della cattedrale di Monreale: il mosaico della Vergine con Bambino affiancata da angeli e apostoli.
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29. Dettaglio degli affreschi bizantini della chiesa di Nerezi (1164), Macedonia: il tema ritratto è quello della Hagia Trapeza, la Santa Tavola che evoca il sacrificio di Cristo, posta proprio sopra il vero altare.
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30. Affresco absidale della chiesa di San Giorgio a Kurbinovo (1191), Macedonia.
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31. Gli affreschi che decorano gli interni del monastero della Pantanassa (1428), Grecia.
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32. Decoro absidale della chiesa di Santa Sofia a Mistra, Grecia (1350): la Vergine in trono con il Bambino.
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33. Gli affreschi della parete centrale del monastero della Pantanassa (1428) a Mistra, Grecia, che raffigurano il tema del Sacrificio.
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34. Decoro absidale della chiesa di San Clemente d’Ohrid (1295), Macedonia: la Vergine Orante.
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35. Chiesa di San Clemente di Ohrid, Macedonia, 1295: la Vergine isolata sopra la Comunione degli apostoli.
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36. La chiesa della Beata Madre di Dio, Theotókos Pammakaristos, (1310-15), Istanbul. Il mosaico della conca absidale che raffigura il Cristo dolce e biondo, con l’iscrizione hyperagathos “l’ultra buono”.
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37. Nella navata laterale della chiesa di San Salvatore in Chora, a Istanbul, è raffigurato il tema dell’Anastasis, la Risurrezione di Cristo, mentre solleva dalle loro tombe Adamo ed Eva.
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LA BELLEZZA E L’ICONA NELLA TRADIZIONE DELLA CHIESA ORTODOSSA
La bellezza e l’icona nella tradizione della Chiesa ortodossa Olivier Clement
Nella tradizione del cristianesimo orientale, Dio appare come l’inaccessibile ma l’inaccessibile che trascende la propria trascendenza per donarsi, per incarnarsi, per rendersi partecipabile: si hanno qui molti dei nomi che riassumono la figura di Gesù. Ora, uno dei nomi più amati da questa tradizione è la “bellezza”. La bellezza è un nome di Dio. Dionigi Aeropagita, nel suo trattato I nomi divini, celebra “la bellezza che produce ogni comunione”1. Dio è lui stesso pienezza di bellezza, Bellezza della bellezza si potrebbe dire in un senso inseparabilmente ontologico e personale. In lui l’essere indica la profondità dell’amore, dono reciproco delle Persone che simultaneamente si contengono e si donano l’unità. La celebre icona della trinità di Andrej Rublev simbolizza questo “immobile movimento d’amore”. È la bellezza che produce ogni comunione perché nasce anch’essa dalla comunione. In questa icona il cerchio, nel quale si inscrivono i tre angeli, ha il suo centro nella coppa del sacrificio. Il ritmo delle linee incurvate, che disegnano le ali e le braccia, suggerisce un mistero nel quale l’uno non è pensabile senza l’altro, come una musica del silenzio. Dio vive e regna nella gloria. La luce che sgorga dalla fonte inaccessibile che si manifesta e si cela allo stesso tempo costituisce la manifestazione eterna di Dio. La gloria scorga come un fiume di bellezza del Padre, attraverso il Verbo, nello Spirito che è il silenzio al cuore della parola. L’unità plurale che designa il nome biblico Elohim segnala bene questa espansione ad extra della plenitudine trinitaria, una sorte di estasi di Dio nella bellezza. Dio creò il mondo come luogo della sua incarnazione: il mondo, scrive Massimo il Confessore, è chiamato a diventare questo abbraccio divino, roveto ardente. Roveto ardente nello spazio, liturgia nei tempi… Dio compose la sua sinfonia in sei giorni simbolici e alla fine di ogni movimento, Egli benedisse: “Tob” disse, che significa buono e bello (la Settanta traduce kalon e non agathon). La più umile delle creature ha dunque delle radici celesti, in tutte le cose Dio ci parla, in ogni cosa risuona una parola; un logos del Logos, che è il suo modo di partecipare alla luce, in modo che ogni creatura esprima a proprio modo, con la sua stessa esistenza, la bellezza divina. Ogni cosa, in ciò che ha di più segreto e di più manifesto (il segreto è nella 177
manifestazione), nasconde un punto di trasparenza per la luce. I “sofiologi” russi sottolinearono che la “sofianità” del creato, questa misteriosa femminilità verginale e feconda, è il ricettacolo predestinato della saggezza divina. “Le cose visibili sono approfondite attraverso quelle invisibili”, scrisse Massimo il Confessore nella sua Mistagogia2. Il Logos, il Verbo, si manifesta in questa visione delle cose visibili attraverso le invisibili perché il grande gioco di Dio integra il creato in strutture intelligibili sempre più complesse. Lo Spirito è il soffio vivificante che porta tutte le cose verso la loro pienezza nella Bellezza. “Lo Spirito fa tendere le diverse forme verso la loro pienezza e la loro bellezza”, disse per esempio San Ireneo di Lione3. Più la creazione è densa, viva e ricca nel proprio ordine, più diviene trasparente, più diviene “Cantico delle Creature”, potremmo dire riprendendo l’espressione di San Francesco d’Assisi. Il mistero si rivela tutto restando sempre tale. È il segreto essenziale nell’apparizione stessa, nella “trans-apparizione” degli esseri e delle cose, nella contemplazione della bellezza non come gioia chiusa ma piuttosto come apertura alla grazia. Allora il mondo non mi è più estraneo, non è più una tomba, non è semplicemente un’energia da utilizzare, una serie causale, la meccanica di causa-effetto o il caos da dimostrare e da dominare. È un dono e un linguaggio nel quale Dio mi chiama e al quale devo rispondere “donando un nome ai viventi” secondo il comandamento della Genesi, ossia rivelando la loro essenza spirituale. Gli asceti dell’Oriente cristiano praticarono anche la theoria physike, la contemplazione della natura che esclude le illusioni e rivela i simboli. Penso a questa giovane figlia greca che, leggendo la Filocalia (“Filocalia” significa amore della Bellezza), affascinata da alcune espressioni quali “contemplazione della natura”, “conoscenza degli esseri”, si mise alla ricerca di un saggio che potesse spiegargliele. Incontrò finalmente in montagna un eremita che le disse: “Ascolta, potrebbe essere questo: era l’inizio dell’inverno, pregavo con tutto il mio cuore, quando improvvisamente levai gli occhi e vidi, attraverso la piccola finestra, che stavano cadendo i primi fiocchi di neve: fu allora che compresi la neve”. Tutto ciò che nel mondo si presenta come parola e immagine dell’originale, e l’originale richiede la nostra attenzione amante e cosciente che libera la preghiera muta delle cose. La nepsis, il risveglio, la vigilanza, è la riapertura in Cristo del paradiso perduto, l’anticipazione del Regno. Vi è tutta una simbolica e quindi un’angelologia sulla quale qui non posso prolungarmi. L’uomo desidera la bellezza grazie a uno slancio che gli è profondamente “naturale”. Nella sua natura, dicono i Padri della Chiesa, è iscritto un logos poetico nascosto, poiché è il Soffio stesso di Dio che suscita la sua vita, che suscita il suo proprio soffio. L’uomo è chiamato a diventare realmente bello e creatore – o liberatore – della bellezza e a rendersi somigliante l’immagine di Dio che lo costituisce, che lo fonda e lo chiama. Tutta la nostra vita è un cammino dall’immagine alla somiglianza e la somiglianza è una partecipazione. La bellezza ultima non è lo splendore del biologico, che tanto attira i nostri giovani; la bellezza ultima nasce dal cuore ferito, del cuore consolato dal Consolatore. Il santo libera slanci di santità, le scintille che le cose nascondono e svelano nel medesimo momento. Se le cose sono condotte ciascuna da un raggio del Logos divino, l’uomo riflette questo Logos con una centralità totale, come soggetto cosciente ed è dunque suo compito dare coscienza e parola alla silenziosa dossologia del mondo. Il patriarca di Costantinopoli Atenagora mi disse: “Quando arriva il mese di febbraio, aspetto che fiorisca il mandorlo 178
nella corte del Patriarcato, allora scendo per unirmi alla dossologia, al canto di gloria del mandorlo”. Allo stesso modo che il mondo è chiamato, attraverso l’uomo, a diventare l’immagine dell’immagine. In questa prospettiva la bellezza non è uno statuto isolato. Nicolas Berdaiev scriveva: “La bellezza è la caratteristica suprema dell’esistenza e non un aspetto isolato, la bellezza ultima non è una categoria metafisica”4. In questa tradizione si colloca l’affermazione che Cristo, in quanto “uomo maximum” racchiude il sé l’umanità intera, tutte le culture, tutte le religioni. “Uomo maximum”, egli ha realizzato il compimento della bellezza ultima, una bellezza al di là della morte, e ce la rende umilmente, pur parzialmente, attraverso il suo corpo ecclesiale; il parziale tende verso l’ultimo, poiché si ripete senza sosta non solo il mistero della bellezza paradisiaca, ma il mistero anteriore alla nostra scelta che è quella del male e della caduta. L’uomo vorrebbe senza sosta riferire tutto a se stesso, bloccare a suo profitto la circolazione della gloria in modo che al posto di esprimere le potenzialità sacramentali della creazione, le nasconde. La luce allora gli diventa esteriore, denaturata a causa di una magia notturna; l’uomo per liberarsi della sua ansia tratta gli esseri come puri mezzi, ignorandone il mistero, cancellandone l’essere, ossia l’amore e attraverso questo procedimento denatura e distrugge tutto. Nel mondo è ormai instaurata una forza di opposizione, di negazione, di distruzione – è proprio il senso della parola Satana in ebraico –, la creazione è come vampirizzata da una rete di passioni idolatriche che, è questo mondo per impiegare il linguaggio del Nuovo Testamento che ci permette di distinguere questo mondo come una rete di illusioni e di ipnosi dal mondo come creazione di Dio. Questo mondo del quale noi siamo allo stesso tempo gli autori e le vittime. La bellezza della creazione si rende ambigua, non rivela più la bontà divina, seduce per se stessa in modo narcisistico: “Come sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio bellissimo dell’aurora”5 dice Isaia e Ezechiele “Il tuo cuore si è inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si è corrotta a causa del tuo splendore”6. Il vero, il bello e il buono si separano, la bontà non è più, come lo dicevano gli Antichi, lo splendore del vero. L’arte umana nel disprezzo dell’essere e della persona può far nascere le immagini le più cannibale. Al momento della prova, come indica il testo altamente simbolico della Genesi: “La donna vide che l’albero era buono, gradito agli occhi e desiderabile”7. La bontà diviene quindi un valore autonomo, in una cultura spezzettata, un valore esteriore alla relazione personale che unisce la prima coppia a Dio e uomo e donna tra loro. L’attrazione estetica può provocare un culto idolatra, la bellezza è ormai un enigma perché, come osserva Dostoevskij, può allo stesso tempo essere quella della Madonna e di Sodoma. Ma l’amore divino che ha creato il mondo va fino al fondo dell’Inferno per trasformarlo in Chiesa e nella Chiesa Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito, l’uomo ritrova una via più forte della morte e la possibilità di comunicarla al mondo. L’eucaristia rimette in movimento, al cuore del mondo, l’immensa circolazione della gloria, Cristo è trasfigurato sul Monte Tabor e fa risplendere la bellezza originale e già ultima. In tal modo è rivivificato “il viso comune dell’umanità”8, dice San Cirillo d’Alessandria, ma questa luce per essere veramente la luce ultima quando assume tutta la sofferenza e tutta la disperazione degli uomini deve splendere non solo in cima alla montagna, nell’evidenza dello splendore, ma soprattutto negli abissi della morte, dell’inferno, del nulla che riceve la propria sostanza dalla libertà pervertita. Al Tabor seguono il Getsemani e il Golgota, il viso di Dio incarnato non è più il viso di uno schiavo, 179
aorosopos, dicono gli anziani, ossia “colui che non si vede”. Il Servitore sofferente “non ha più né splendore né bellezza per attirare i nostri sguardi, né apparenza per sedurci”9 dice Isaia. Ma tutto è assorbito dalla vita, nel momento nel quale le tenebre sembrano vincere; per un momento sembra che il Principio e il suo Verbo siano separati perché quest’ultimo partecipa ontologicamente di ogni nostro dubbio, ogni rivolta e ogni sofferenza: “Eli, Eli lema sabachthani” (Marco 15,34: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”) Tutto allora si trasforma perché niente può separare il Padre e il Figlio, il suo Verbo, quando tutto è assorbito dalla vita, allora appare attraverso. La morte una bellezza che non è più estetica in un senso culturalmente chiuso, una bellezza che non è più ambigua ma che è identica all’amore. Attraverso il viso il più degradato, il più corrotto, il più brutto si può presentire la possibilità dell’icona, di un’altra bellezza, inalienabile, quella de “l’uomo nascosto al fondo del cuore” dice l’apostolo Pietro (1 Pietro 3,4). “La bellezza salverà il mondo” – la celebre parola di Dostoevskij che denunciò tuttavia l’ambiguità della bellezza, trova il suo senso in una lettera dello scrittore dove definisce il suo proprio credo: “Non c’è e non ci può essere niente di più bello che Cristo, questa bellezza attira e illumina l’eros umano, libera la nostra libertà. Ciò che guida l’uomo è ormai – dice ancora lo scrittore – questo ideale eterno di bellezza. Nel cuore di Cristo brilla il sole dell’amore, dai suoi occhi sgorgano raggi di luce, di saggezza e forza, che si dirigono verso gli uomini, facendo scaturire nel loro cuore la risposta dell’amore. Coloro che lo riconoscono nella libertà sovrana della fede partecipano alla luce della Trasfigurazione; aprono la storia all’Ottavo giorno. Nel loro cuore pacificato, unito allo spirito si imprime la verità degli esseri e delle cose nella rivelazione della loro bontà ultima. “La parola regno” dice Massimo il Confessore “significa la perfetta bellezza”10. Noi crediamo che un essere umano ha già attraversato definitivamente la porta della bellezza per passare tutto intero, anima e corpo, nella luce della vita: è la Madre di Dio, trono della Saggezza, nella quale non solo si risolve la tragedia della libertà umana ma si esprime pienamente la trasparenza delle cose che nasconde il peccato. San Gregorio Palamas diceva che ella sintetizza tutta la bontà della creazione”11, che Ella libera dall’ambiguità. Questa bellezza come rivelazione è scritta nell’icona; uso qui il termine icona nel senso dell’immagine liturgica sia che si tratti di un’icona in senso stretto ossia dipinta su una tavola di legno o un affresco o un mosaico o l’intero spazio della Chiesa. La “Domenica dell’Ortodossia”, che la prima domenica di Quaresima, celebra la vittoria definitiva sul l’iconoclastia e canta: “Il Verbo non descrivibile del Padre, si è fatto descrivibile e si incarna in te, Madre di Dio. Avendo ristabilito nella sua dignità originale l’immagine contaminata, l’ha unita alla bellezza divina”. Il grande argomento dei difensori dell’icona nel momento della crisi iconoclasta, e che Cristo, il viso di Cristo, il Santo Volto, costituisce il visibile dell’invisibile, ciò che è invisibile si è fatto vedere. Così riprende forza la grande affermazione del Nuovo Testamento: “Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita”12. Possiamo notare la predominanza dei verbi della visione: vedere, contemplare... “Nessuno ha mai visto il Padre” dice ancora Giovanni “l’unico Figlio che è nel seno del Padre, l’ha fatto conoscere. Il Verbo si è fatto carne e abita tra noi”13. Perché Dio, e cito San Paolo, “Il Dio che disse: «Splenda la luce fra le tenebre», è lo stesso che ha fat180
to brillare il suo splendore nei nostri cuori per illuminarci nella conoscenza della gloria di Dio, che rifulge sul volto di Gesù Cristo”14. Appare così un viso che è totalmente trasparente alla luce: “Chi ha visto me ha visto il Padre” dice Gesù15. E per tale motivo che nell’arte dell’icona il Padre non deve essere rappresentato in se stesso, anche se vi sono delle icone della Paternità divina, che sono piuttosto delle visioni de l’“Anziano dei giorni”, il cui viso è quello di Cristo. Il settimo concilio ecumenico in effetti, che ha formulato la dottrina dell’immagine, e il grande concilio di Mosca del 1666-67, hanno vietarono di rappresentare il Principio, l’abisso del Padre. Non si raffigura il Padre o piuttosto lo si rappresenta attraverso il Figlio, nella luce dello Spirito. Il Verbo è anche l’Immagine, l’Immagine consustanziale del Padre. Si è fatto carne e per tale motivo lo dobbiamo rappresentare scrivevano i difensori dell’immagine: “Poiché l’invisibile si è rivestito della carne è diventato visibile e necessario rappresentare la somiglianza di colui che si mostra”16. La prima e fondamentale icona è dunque il viso stesso di Cristo. È l’immagine per eccellenza “non fatta da mano d’uomo”: acheripoiete, vi è tutta una tradizione, ripresa dalla liturgia, secondo la quale Cristo impresse su un fazzoletto il suo Santo Volto per inviarlo al re di Edessa, Abgar. È una leggenda ma, della tradizione occidentale, vi è la storia del velo della Veronica che esprime un concetto simile: sia il velo della Veronica che il Mandylion inviato al re Abgar contengono un ricordo storico del volto di Gesù e una presenza meta-storica, visionaria, che contemplano i grandi spirituali concentrando la contemplazione nuziale della Chiesa. A lungo ho pensato che il Mandylion e il velo della Veronica non fossero che la Sindone di Torino: adesso abbiamo conoscenze più approfondite sulla questione. Tutti gli aspetti del viso di Cristo sono sia marcati dalla passione sia inscritti nello splendore solare della Trasfigurazione. Quando qualcuno vuole entrare nel servizio, il vero ministero del pittore di icone, il prete recita su di lui il test dell’ufficio della trasfigurazione. I padri bizantini non hanno smesso di commentare nelle loro o meglio gli evangeli della trasfigurazione: “Ciò che è formidabile è che questo viso” – dice per esempio Anastasio il Sinaita – “è la casa di Dio e la porta del cielo”. “Non c’è nulla di più sconvolgente di vedere Dio nella forma di un uomo, il viso splendente più del sole”17. “Guardate questo sole come brilla e splende”, scrive san Giovanni Damasceno18. “Attraverso la bellezza del Figlio, gli uomini sono come condotti mano nella mano verso la bellezza eterna di colui che li genera”, dice Cirillo d’Alessandria19. E attraverso la croce che questa bellezza ha la sua parola ultima. La rosa fiorisce sulla croce come il viso trasfigurato nel suo nimbo crucifero. Sulla croce dice la tradizione armena, erede dell’antica tradizione siriana, troviamo la rosa splendente. L’icona di Cristo, cristologia, permettono la piena venuta dello Spirito Santo. Poiché Dio si è rivelato in un viso umano, noi possiamo ormai vedere in Dio il viso di ogni uomo. Il divieto dell’Antico Testamento è tolto attraverso e a favore di Cristo, e per sua Madre, per i suoi “amici” come dice San Giovanni Damasceno, per le membra del suo corpo che, secondo lo Spirito, divengono coscienti della loro partecipazione alla sua umanità deificata e deificante. In questo contesto che cosa vuole rappresentare l’icona? Bisogna qui citare la definizione del secondo concilio di Nicea: “Quanto più frequentemente essi sono visti tramite la rappresentazione iconica, tanto più coloro che li contempleranno saranno condotti al ricordo e al desiderio del prototipo. Stabiliamo anche che si può attribuire alle immagini un bacio 181
e una prosternazione onorifica, non l’autentica adorazione della nostra fede, riservata alla sola natura divina, ma una venerazione simile a quella offerta all’immagine dell’onorata e vivificante croce, ai santi Vangeli e a altri oggetti di culto sacro; che si può offrire loro incenso e luci secondo il pio costume degli antichi. Infatti, “l’onore reso all’immagine passa al prototipo” e “chi si prostra davanti all’immagine si prostra davanti all’ipostasi (la persona) di colui che è rappresentato in essa” (citazione di san Basilio). L’immagine, l’icona non è consustanziale al suo modello. Non c’è alcuna confusione da questo punto di vista tra icona e eucaristia. Qui interviene il concetto di energia divina, concetto già nato dai padri ma precisato nel xiv secolo a Costantinopoli da San Gregorio Palamas. Dio è totalmente inaccessibile e si rende totalmente partecipabile. In quanto totalmente inaccessibile noi lo invochiamo come essenza o “sur-essenza”. In quanto si rende partecipe abili con, come energia o le energie. Dio resta un dio nascosto, il “Segreto sopra-essenziale”, nella sua stessa rivelazione. Questa distinzione, questa antinomia fai in modo che la realtà rappresentata non è un idolo. Non essendo l’immagine consustanziale al modello, ella si avvicina alla somiglianza, ciò che implica quanto più possibile un elemento di ritratto trasfigurato ma fedele. Non so se vi è noto questo episodio. Bernardette Soubirous, alla quale fu mostrato un album dove si trovavano tutta una serie di rappresentazioni della Vergine, non la riconobbe fino a quando giunse alla riproduzione di un’icona della Theotokos e fu allora che gridò: “È lei!” Ciò che dà vita a un’icona non è una natura, una sostanza, ma una persona. Un altro difensore dell’icone, il patriarca di Costantinopoli Niceforo, insistette molto su questo punto per evitare ogni confusione in magica: “La pittura, disse, si confronta con la somiglianza, ella procede secondo il modello”20. I santi sulle icone sono quasi sempre raffigurati frontali. Gli imperatori si fanno rappresentare di profilo! I santi sono rappresentati frontali, poiché sono aperti sia a colui che li guarda sia interiormente a Dio. L’icona che noi guardiamo ci guarda. Essa è essenzialmente un viso, il corpo tutto intero diventa come un gambo che fiorisce nel viso. E il viso si esprime interamente in questo nel luogo più trasparente del mistero della persona, ossia allo sguardo. E lo sguardo si concentra pienamente nella pupilla, punto inafferrabile, vero e proprio luogo di trascendenza. Per la mistica ebraica, nelle “tuniche di pelle” sussistono due vuoti, i vuoti degli occhi. Così gli occhi, quando sono fiduciosi e luminosi, ci mostrano che cos’è la corporeità paradisiaca, pura luminescenza. Il nimbo è semplicemente un taglio luminoso del viso. In questa luce quindi, tanto più possibile, vi è una somiglianza fedele. Penso che oggi, se volessimo fare l’icona di qualcuno che visse nel secolo scorso o alla nostra era, noi utilizzeremo delle foto trasformandole un po’. Ogni viso in effetti ha necessariamente delle cicatrici, una certa pesantezza. Ma affinché il viso diventi veramente una finestra aperta sul Regno, bisogna che il pittore intervenga, porti a termine l’“immagine” facendola diventare “somigliante”. Tuttavia una foto può essere una testimonianza sorprendente: quando ero un adolescente in ricerca, in un ambiente totalmente de cristianizzato, di fronte a chi mi poneva la questione “Cosa c’è dopo la morte?... Dopo la morte non c’è nulla”, trovai in un libro delle foto di Padre Foucauld, ritratto in diversi momenti della sua vita: prima “carne e sangue”, poi tormentato in ricerca, infine il suo viso si scava e scavandosi appare la luce, e infine il viso si illumina totalmente, al punto da essere quasi un’icona. La rappresentazione iconografica del viso è fondata ovviamente sull’esperienza dell’ascesi. “Il viso diventa totalmente occhio, come dice 182
un’omelia macariana21, sotto la cupola della fronte e dilatata e luminosa… Gli occhi sono immensi, penetrati dalla dolorosa gioia, quando le lacrime della “memoria della morte” sono divenute lacrime di gratitudine per il Dio vincitore della morte”. “Colui che si riveste di lacrime come di un abito nuziale, ha trovato il vero sorriso dell’anima” scrive san Giovanni Climaco22. Le orecchie sono ridotte, come interiorizzate, è l’ascolto della Parola e, attraverso di essa, del Silenzio. Il naso è esile, puro come una freccia, dall’arco delle sopracciglia alla bocca, lei stessa orlata, senza spessore, liberata dal peso, una bocca dal sorriso segreto. Gli occhi sono spazi di silenzio, di un coloro bruno molto dolce, che accenna al giallo ma non dona l’aspetto malato al viso dei grandi asceti, colore della terra che attraversa il cielo. In questo le icone non hanno razza, non hanno “colore”. Non sono bianche e rosee. E spesso le persone ne domandano il motivo. Ho a lungo esitato e la risposta più convincente, mi sembra, si spieghi con il fatto che si tratta di una bellezza che ha attraversato la morte. Una bellezza non al di qua della morte ma al di là. L’arte dell’icona mi sembra superare l’opposizione stabilita da Malraux tra le arti degli Orienti non cristiani, testimoni di una eternità impersonale, e quella dell’Occidente moderno, caratterizzata da preoccupazioni, ricerche, tormenti, in sintesi dalla soggettività dell’individuo. In effetti, è nell’infinito della persona che l’icona manifesta un’eternità che non è fusione ma comunione. Sul piano che oppone facilmente arte figurativa a arte non figurativa, l’icona può essere definita come un’arte trans-figurativa. Qualcosa di astratto, ma per estrarre dalla “carne per la morte,” intesa in senso paolino, la “corporeità spirituale”. L’astrazione nell’icona esprime la messa a morte del nostro sguardo carnale, si dirige non aldilà ma all’interno della figurazione. Il viso diventa quindi, in qualche modo, simbolo di se stesso, come dice del viso di Cristo Massimo il Confessore23. C’è una sorta di integrazione del simbolo del viso, che è una delle caratteristiche principali dell’icona. Nell’arte delle catacombe, che la prima arte cristiana, la santità fu indicata attraverso un linguaggio convenzionale, piuttosto che dall’espressione artistica stessa. Ne restano svariati “segni”, per esempio le tre stelle che figurano sul velo della Madre di Dio. Ma a partire dal iii-iv secolo, il contenuto fu incorporato alla forma e questa integrazione del simbolo al viso definisce l’arte propriamente iconografica. Il simbolo è al servizio del viso umano per esprimere l’epifania della persona. Dunque la persona, in questa tradizione, non è l’individuo, la persona non esiste che in una unità totale con tutta l’umanità. Un santo porta in sé l’umanità tutta intera, nell’ultimo Adamo. Noi siamo tutti membra del corpo di Cristo, membri gli uni degli altri, ed è proprio questo che rende ciascuno unico. La luce dell’icona simboleggia la luce increata, la luce divina. È per tale motivo che nell’icona non proviene da una casa cosmica, intra-mondana, perché la nuova Gerusalemme spiega l’Apocalisse non ha bisogno di sole né di luna, la gloria di Dio la illuminerà. È ovunque, in tutto, poiché nel Regno, Dio si è fatto nostra luce. Non proietta delle ombre poiché viene da tutte le parti e allo stesso tempo non c’è nulla in essa che opaco. È il fondo stesso dell’icona che gli iconografi chiamano “luce”. Abbiamo quindi una sorta di estetica dell’onnipresenza solare. Tutto è interiormente illuminato. L’oro del sole al suo zenit simboleggia la luce e tutti gli altri colori si definiscono in rapporto all’oro solare, si ordinano attorno al sole che non tramonterà mai, il sole del giorno senza declino, del Giorno del Regno al quale partecipandovi fin da ora, il santo lo anticipa, diventando un uomo della luce. L’oro solare costituisce il 183
centro e tutti gli altri colori, vi ruotano attorno. Questo colore porta, nell’iconografia russa, un nome specifico è l’“aiuto”. L’“aiuto” non è mai un aspetto massivo, omogeneo. Assomiglia piuttosto a una tela aerea di raggi dorati, molto leggera. L’“aiuto” riempie le vesti della Madre di Dio, le ali degli angeli, gli abiti di Cristo glorificato. Molto spesso infine, lo spazio dell’icona utilizza, ovviamente non in modo esclusivo, la prospettiva rovesciata, le linee non convergono verso un punto di fuga intra-mondano, segno dello spazio caduto che separa e imprigiona… Le linee si dilatano, si aprono alla luce, di “gloria in gloria”. Partono dal nostro sguardo, partono dall’occhio del cuore. Colui che contempla l’icona si trova quindi trasportato in un altro spazio, o piuttosto in uno spazio libero, metamorfizzato, lo spazio del Regno. Allo stesso tempo, il personaggio raffigurato sull’icona sembra venire verso di noi, partecipa alla nostra preghiera o alla celebrazione liturgica. Concludo. Credo che noi siamo chiamati in effetti a re-mitologizzare il cristianesimo, a integrare nel cristianesimo tutti i simboli delle tradizioni umane. Ma come una poetica della comunione, all’interno e al servizio della comunione delle persone. Mi sembra che oggi grazie all’avvicinamento tra Occidente e Oriente cristiani, si precisa un cristianesimo della divino-umanità, che può diventare un cristianesimo della trasfigurazione e della bellezza, nel quale dovremmo poter prendere posto tutte le esplorazioni del divino, di tutte le culture tutte le religioni, tutte le ispirazioni dell’umano realizzate dall’umanità moderna. Un cristianesimo umile, come un fermento, un cristianesimo aperto. La Vergine di Vladimir, una delle più belle “Vergini della tenerezza”, il Cristo di Cimabue, quello di Chora a Costantinopoli, quello di Roualt, una musica di Monteverdi o di Mozart, una natura morta di Cézanne, dei muri, un battello, dipinti da Nicolas di Staël, un poema di Baudelaire, Rimbaud, Mandelstam, il romanzo policromo inaugurato da Dostoevskij, sono tutte pietre miliari verso una civilizzazione della bellezza, nel rispetto della terra e dei visi. Vorrei finire con una citazione di Dostoevskij ne L’Idiota: “È vero Principe (il tono è ironico) che avete detto che un giorno il mondo sarà salvato dalla bellezza? Signori – si mise a ridere – il Principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza, ma io dico che ha tali idee così allegre perché è innamorato. Quale bellezza salverà il mondo? Lei è un cristiano fervente? Il Principe lo guardò con attenzione ma non rispose”. Non è necessario rispondere. La bellezza che “suscita ogni comunione”, la bellezza che salverà il mondo non ha bisogno di una risposta, ed è la stessa la risposta.
1. Andrej Rublëv, Ospitalità di Abramo o Trinità, Galleria Tret’jakov, Mosca, Russia.
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2. Particolare della Trasfigurazione di Cristo del mosaico absidale del katholikon del monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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3a-b. Cristo Pantocratore, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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4a. Dittico del Sinai, pittura su tavola: anta sinistra, l’apostolo Taddeo, san Paolo di Tebe e sant’Antonio; anta destra, il re Agbar, san Basilio e sant’Efrem, secolo x, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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4b. Dittico del Sinai, particolare del re Agbar con il Mandylion, secolo x, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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5. Mandylion o Volto Santo, recto dell’icona bifronte, Galleria Tret’jakov, Mosca, Russia.
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6. Mandylion o Volto Santo, icona con rivestimento d’argento dorato con smalti, monastero di san Bartolomeo degli Armenti, Genova.
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7. Mandylion, dalla Russia settentrionale, collezione privata, Bamberga, Germania.
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8. Salvatore non fatto da mano d’uomo, prima metà del secolo xiv, Galleria Tret’jakov, Mosca, Russia.
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9. Mandylion, lunetta del portale della navata della chiesa della Dormizione, 1535, monastero di Humor, Moldavia.
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10. Mandylion con i santi Zosimo e Maria Egiziaca sulla strombatura della porta, lunetta del portale della navata, epoca stefaniana, chiesa di San Giorgio di Voronetz, Russia.
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11. Cristo “Antico dei Giorni�, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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12. La Madre di Dio tra i santi Teodoro Stratilate e Giorgio, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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13. I santi Giacomo di Gerusalemme, Nicola di Mira e Ignazio di Antiochia, da Novgorod, Museo Russo, San Pietroburgo, Russia.
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14. Menologion del mese di marzo, pannello di grandi dimensioni, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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15. Madre di Dio Odigitria, oro e argento dorato, smalti e pietre preziose. Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi, Georgia.
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16. Crocifissione con medaglioni di santi e angeli nella cornice, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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17. Deesis: Cristo in maestà entro un’aureola di cherubini, la Madre di Dio e san Giovanni Battista, gli apostoli Pietro e Paolo, cattedrale della Dormizione di Vladimir, Galleria Tret’jakov, Mosca, Russia.
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18. Vergine di Vladimir, Galleria Tret’jakov, Mosca, Russia.
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19. Madre di Dio della Tenerezza, Sergiev Posad, monastero della TrinitĂ di San Sergio, Mosca, Russia.
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20. Cristo Pantocratore, sezione della genealogia di Cristo, 1315-1320, monastero di Chora, Istanbul, Turchia.
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21. Crocifisso di Cimabue, 1268-71 circa, tempera e oro su tavola, 336Ă—267 cm. Chiesa di San Domenico, Arezzo.
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NOTE
22. Natura morta con mele, di Paul CÊzanne, olio su tela del 1890. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, Russia.
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Note
Alle origini dell’esperienza estetica e dell’esperienza religiosa Religione e Cultura, Arte e Sacro
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Julien Ries * In questo articolo, secondo l’uso, scriviamo con una lettera maiuscola la parola Homo quando si tratta di filogenesi (formazione della specie), ad es. Homo habilis, Homo erectus, ma usiamo la minuscola ogni volta che si tratta di un concetto come homo religiosus, homo symbolicus. 1
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E. ANATI, Valcamonica. 10.000 anni di storia, «Studi Camuni» 8, Edizioni del Centro, Capo di Ponte (Bs) 1982. 35 J. BOTTERO, Naissance de Dieu, Gallimard, Paris 1986, tr. it. Nascita di Dio, a cura di A. Salomoni, Ponte alle Grazie, Firenze 1990. ID., Mésopotamie. L’ecriture, la raison, les dieux, Gallimard, Paris 1987, tr. it. Mesopotamia. La scrittura, la mentalità e gli dei, a cura di C. Matthiae, Einaudi, Torino 1991.
L’estetica
e l’immagine del
Buddha
Michel Delahoutre 1
A. BAREAU, La jeunesse du Buddha dans les Vinayapiçaka anciens, in Oriens Extremus, IX annale, Wiesbaden, 1962, fasc. 1. C- Gli indovini pp. 13 à 16. La giovinezza del Buddha nella Sutrapitaka e nell’antica Vinayapitaka B.E.F.E.O. LXI, 1974. Gli indovini, pp. 208 à 213. Digha Nikaya sutta XIV Mahapadanasutta, sutta XXX Lakkhapasutta. Majhima Nikaya sutta XCI Brahmayusutta. 2 The Mahavastu, trad. J.J. JONES, vol. II, pp. 40-41, Lancaster, Pali Text Society, 2006. Trad. P.H. FOUCAUX, Histoire du Bouddha Sakya Mouni, Paris, 1884, pp. 96-99. 3 Et. LAMOTTE, trad. Le traité de la grande vertu de sagesse de Nagarjuna, Université de Louvain, Institut orientaliste, 1970-81, pp. 271-279. 4 M. DELAHOUTRE, Recherches sur la valeur iconographique des laksapa. Tesi del III Ciclo, Paris Sorbonne, 1977. 5 Le liste dei più antichi sono probabilmente quelli del Gargasaqhita, o Gargisaqhita che risale probabilmente al II secolo a.C. e che fu trovato nei manoscritti del XIX secolo in varie biblioteche di tutto il mondo, inclusa la Biblioteca nazionale a Parigi. 6 Brahmayu nel Brahmayusutta sopra citato. 7 Et. LAMOTTE, Histoire du Bouddhisme Indien, des origines à l’ère Saka, Louvainla-Neuve, Inst. Orientaliste, 1988, p. 482. 8 Rastrapalapariprccha, (abbreviato RP), Questions (du Vénérable) Rastrapala, ed. L. FINOT, St. Petersburg, 1901 (Vol. II, Bibl. lnd.), ristampa. Gravenhage, 1957 (È da questa edizione che noteremo la pagina e le linee). Trad. J. EINSIK, The question of Rastrapala, 1952. Va notato che il PR ha avuto una traduzione tibetana (un testo diverso dal sanscrito) e una traduzione cinese. 9 Ed. CHANNANNES, Mission Archéologique dans la Chine Septentrionale, Volume
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I, Scultura buddista, Leroux, Parigi, 1915 (abbreviazione: Mission ... I). Oltre alla pagina del libro, noteremo il numero della stampa o della figura. Cfr. anche J.P. DREGE, La Route de la Soie, Biblioteca delle arti, Parigi: “La strada che porta ai territori occidentali sale prima nella valle del Wei. Lungo tutta la strada per l’Asia centrale e verso l’India, ci sono tracce di devozione buddista, che si esprimono in particolare con la pianificazione di grotte-santuari. Le più note, a est di Chan’an sono quelle di Longmen, vicino a Luoyang, l’altra capitale, e Yungang, vicino a Datong, l’antica capitale della dinastia Wei del Nord. In entrambi i casi, queste grotte furono scavate e scolpite proprio nello stesso periodo della dinastia Wei nel V secolo” (p. 38). RP 7. 15-16. Mission I, p. 346, fig. 742 et 1284. Mission I, p. 578, fig. 423 (una stele). Mission I, p. 475 est. 376. Mission I, p. 504 est. 432. Mission I, p.293. Mission I, p. 422 est. 255. Mission I, p.422 est. 255. Mission I, p. 345 est. 14. Mission I, p.340 est. 2. Mission I, p. 449 est. 331. Mission I, p. 362 est. 68. Citato da Ch. MALAMOUD, in “Briques et mots. Observations sur le corps des dieux dans l’Inde védique”, in Corps des dieux. Le Temps de la réflexion, Paris, Gallimard, 1986, p. 77, n.4. Le compendium des topiques (tarka sarpgraha) d’Annambhatta, Testo, trad. e commento di A. FOUCHER, Paris, Ad. Maisonneuve, 1949. Le processus d’identification, pp.148 à 151. Mission I, p. 347 est. 14 Mission I, p. 438 est. 308. RP 7. 4. Mission I, p. 438 est. 308. Mission I, p. 347 est. 14. RP 50.14. RP 7.2. RP 7.3. Mission I, p. 340 Mission I, p. 437 Mission I, 340 Citato da A. S MELIKIAN-CHIRIVANI dalla traduzione dalle Mémoires sur les Contrées Occidentales, Stanislas JULIEN. RP 47.10 RP 7.8 RP 51.5 Mission I, p. 340 est. 2 A.S. MELIKIAN-CHIRVANI, L’évocation littéraire du bouddhisme dans l’Iran musulman, in «Le monde iranien et l’Is-
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lam», t. II, 1974, pp. 1-72 (abbreviazione: L’évocation...). ID., Le Roman de Varqa et Golsâh. Essai sur les rapports entre l’esthétique littéraire et l’esthétique plastique de l’Iran pré-mongol, suivi d’une traduction du poème, in Arts Asiatiques XXII, 1970, numero speciale (Abbreviazione: AA XXII). L’évocation…, p. 35. L’évocation…, p. 37. AA XXII, p. 45; cfr. anche J.J. BARTHOUX, Les fouilles de Hadda, Paris 1930. AA XXII, p. 46. AA XXII, p. 94. La trascendenza della quale parliamo è sia quella di una Pienezza che quella di un Vuoto. Nel caso delle iscrizioni sopra menzionate, dobbiamo interpretare la Trascendenza nel senso di un Vuoto, ma questa non ci impedisce di riconoscere, forse paradossalmente, l’importanza di un corpo attualizzato in una persona o in un’immagine. Vedi B. FRANCK, Vacuité et corps actualisé, «Le problème de la présence des Personnages Vénérés dans leurs images selon la tradition du bouddisme japonais», in Corps des dieux, op. cit., pp. 141-170; pubblicato anche in «The Journal of the lnternational Association of Buddhist Studies», vol. 11, n° 2, 1988, pp. 51-86.
L’esperienza religiosa e l’esperienza estetica nel culto hindu
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Per una valida introduzione all’Induismo, si veda L. RENOU, VII edizione rivista da Louis Renou, Paris, 1979, Puf, Presses Universitaires de France, n° 475. Cfr. J . HAUDRY, Les lndo-Européens, Paris, 1981, Presses Universitaires de France, n° 1965. Su Nanak e i Sikhs, si veda: M. DELAHOUTRE, Les Sikhs, Paris, 1989, Brépols. Cfr. Jean VARENNE, Le Véda, antologia di testi tradotti e commentati, Paris, 1967, ried. 1984. Nome che si dava agli Indiani vedici. La parola è strettamente correlata a quella che designa gli Iraniani della stessa epoca: aïryo. In effetti, vaste piattaforme riparate da un tetto sorretto da colonne permettono all’aria di circolare liberamente. Cfr. J. VARENNE, L’art de l’lnde, Paris, 1983, Flammarion.
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Come esempio di questi salmi, leggere quello di Tukârâm (XVII sec. trad. G. Deleury, Parigi, 1956), di Kabîr (XV sec. trad. C. Vaudeville, Parigi, 1959) o di Mîrâbâî (XVI sec. trad. N. Balbir, Parigi, 1979).
Senso religioso e qualità estetica dei decori bizantini absidali
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Cfr. Christa IHM, Die Progrum der Christlichen Apsismolerei vom vierten Johrhunderts bis zur Mitte des achten Johrhunderts, Wiesbaden, 1960, Forschungen zur Kunstgeschichte und Christliche Archaologie, 4. In generale, cfr. Histoire de l’art byzantin et chrétien d’Orient, Louvain-la-Neuve, 1987, pubblicazioni dell’Istituto di Studi medievali dell’Università cattolica di Lovanio, dove le chiese menzionate sono considerate nel proprio contesto. Cfr. J. BECWITH, Early Christian and byzantine art, Harmondsworth, 1970, The Pelican History of Art, pp. 14-15 e fig. 15, 16, 18. Cfr. E. MANGO, The Art of The Byzantine Empire, 372-1453. Sources and Documents, Englewood Cliffs, N.J., 1972, pp. 32-33; IHM, APSISMOLEREI, p. 76 ss. Cfr. W.F. VOLBAHC - J. LAFONTAINE-DOSOGNE, Byzanz der christliche osten, Berlin 1968, Propylaen. Per la storia della scoperta di quest’opera e della leggenda che la circonda, vedi V. GRUMEL, Lo mosaique du “Dieu Sauveur” au monastère du “Latome” à Salonique, in Echos d’Orient, 33° annale, n° 158, aprile-giugno, 1930, pp. 157-175. Cfr. anche MANGO, Sources, p. 155 ss. Il tema ispirò l’icona bilaterale offerta nel 1395 al monastero di Poganovo da Elena Paleologa; i profeti sono identificati dalle iscrizioni come Ezechiele e Abacuc. Si trovano buone foto di dettagli nel recente album di Kostadinka PASKALEVA, The Cones of Bulgorie, Sofia, s. d., pp. 28-37. Cfr. G.H. FORSYTH - K. WEITZMANN, The Monastery of Saint Catherineat Mount Sinai. The Church and Frotress of Justinian. Plates, Ann Arbor, 1973, p. 11 e tavv. CIII, CXXII-CXXIII, CXXVI-CXXVII, CLXXIV. Cfr. E.A. GRABAR, L’âge d’or de Justinien. De la mort de Théodose à l’Islam, Paris, 1966, L’Univers des Formes, p. 157, fig. 147 e 149. L’età d’oro di Giustiniano. Dalla morte di Teodosio all’Islam, Feltrinelli, 1966
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Cfr. VOLBACH - LAFONTAINE-DOSOGNE, Byzanz, pl. 7 e note; dettagli da GRABAR, Justinien, fig. 148 e 151-154. 9 Cfr. BECKWITH, Early Christian and Byz. Art, pp. 56-57 e fig. 103. 10 Cfr. MANGO, Sources, p. 35 (si compone di un’immagine dedicata a Galbio e Candido) e 62 (per Coricio) 11 Cfr. J. MAKSIMOVI\, Ikonografija i program mosaika u pore/u, (in serbo con riassunto in inglese), in Sbornik Radova, VIII, 2 Belgrado, 1962, pp. 247-262, vedere la figura 2 ss. 12 Cfr. A.H.S. MEGAW -E.J.W. HAWKINS, The church of the Panagia Kanakirià at Lythrankomi in Cyprus, Its Mosaics and Frescos, Washington, 1977, Dumbarton Oaks studies, 14, p. 61 ss. Et 76 ss., tavv. 39-40, 78, 134-137. 13 Cfr. VOLBACH - LAFONTAINE-DOSOGNE, Byzonz, tav. 9 e note; il motivo delle ali ocellate si trova anche a Faras, ibid., tav. 414; può apparire in alcuni primitivi fiamminghi. 14 Cfr. GRABAR, Justinien, pp.172-180 e fig. 186, 189; la Vergine può anche occupare la conchiglia, fig. 193. 15 Cfr. K. WEITZMANN, Ed., Age of Spirituality. Late Antique and Early Christian Art, Third to Seventh Century. Cotologue, The Metropolitan Museum of Art, New York, 1979, tav. XIV e nota n°477. 16 Cfr. A. GRABAR, L’iconoclasme byzontin. Dossier archéologique, Paris, 1984 (2a ed.); MANGO, Sources, p. 149 ss.; J. LAFONTAINE-DOSOGNE, Pour une problématique de la peinture d’église à J’époque iconoclaste, in Dumborton Oaks Popers, 41, 1987, pp. 321-337. 17 Cfr. LAFONTAINE-DOSOGNE, Histoire, p.94 ss. L’editto del califfo Yazid II (722-723) sovente è citato come contrario alle immagini (cristiane e islamiche), ma in verità era molto limitato e anteriore alla crisi iconoclasta, cfr. GRABAR, lconoclasme, p. 122 ss.; MANGO, Sources, p. 151. 18 La chiesa fu demolita nel 1922 durante la guerra greco-turca, ma ne furono fatte delle fotografie, cfr. Th. SCHMIT, Die Koimesiskirche van Nikoio. Dos Bauwerk e Die Mosaiken, Berlino-Lipsia, 1927, pp. 21-42, tavv. XII-XV, XX; BECKWITH, Early Chr. e Byz. Art, pp. 90-91 e fig. 160-161. 19 Cfr. W.S. GEORGE, The Church of Saint Eirene at Constontinople, Londres, 1913, cap. V; LAFONTAINE-DOSOGNE, Histoire, p. 99 e fig. 12; EAD, Problématique, p. 323. 20 Cfr. A. VASILAKI, lkonomochikes ekklisies sti Naxo, in Deltion tis archeol. Heterias, 4,3, 1962-63, pp. 49-74; LAFONTAI-
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NE-DOSOGNE, Problématique, p.329, 333 ss. e fig. 2,6-7 (vedi anche questo articolo per i set iconoclastici in Cappadocia). Cfr. GRABAR, lconoclasme, p. 193 ss. e fig. 88. Cfr. C. MANGO, Moterials for the Study of the Mosaics of St.Sophia at Istanbul, Washington, 1962, Dumbarton Oaks Studies, 8, p. 80 e tavv.106-107; BECKWITH, Early Chr. and Byz. Art, pp. 86-87 e fig. 154-155. L’iscrizione è nota per L’Anthologie palatine, cfr. MANGO, Materials, p. 82. Cfr. supra, n. 18; anche GRABAR, lconoclasme, p. 263. La linea della croce era chiaramente distinta attorno alla sagoma della Vergine. Cfr. GRABAR, lconoclasme, fig. 122. Cfr. J. LAFONTAINE-DOSOGNE, L’église aux Trois Croix de Güllü Dere en Cappadoce et le problème du passage du décor “iconoclast” au décor figuré, in Byzantion, XXXV, 1, 1965, pp.175-207. Ibid., Théophanies-visions auxquelles participent les prophètes dans l’art byzantin après la restauration des images, in Synthronon, Bibl. des Cahiers Archéologiques, II, Parigi, 1968, pp. 135-143, cfr. fig. 1. È commovente incontrare in un’altra modesta chiesa della Cappadocia, San Teodoro, la seguente iscrizione: “Piccola è l’immagine che hai davanti ai tuoi occhi, immensa è quella che porta in sé l’immagine dell’Infinito; venera il prototipo di cui qui hai solo l’immagine”. È la dottrina dei saggi concilii, in particolare quella di Nicea II nel 787 e quella della restaurazione dell’Ortodossia. Cfr. G. de JERPHANION, Une nouvelle province de l’art byzantin. Les églises rupestres de Cappadoce, 4 voll. testo, 3 voll. tav., Parigi, 1925-42, in particolare II, 1, p. 23 ss. L’iscrizione è dipinta in fondo nell’abside, sotto Cristo in trono (fine IX secolo). Cfr. JERPHANION, Cappadoce, I, p. 322 e tav. 84, 1, p.522. Cfr. JERPHANION, Cappadoce, passim; questo è anche il caso delle chiese “colonnate” di Göreme, che sono tuttavia dotate di una cupola in cui appare Cristo, ibidem, I, p. 30, tav. 98.1, 114, 126.Su questo tema assiduo, cfr. Tania VELMANS, L’image de la Déisis dans les églises de Géorgie et dans celles d’autres régions du monde byzantin, I. La Déisis dans l’abside, in Cahiers Archéologiques, 29, 1980-81, pp. 47-102. Cfr. J. GOUILLARD, Le Synodikon de l’Orthodoxe. Edition et commentaire, Paris, 1967, Travaux et mémoires, II; MANGO, Sources, p.169 ss.; GRABAR, Iconoclasme, p. 299 per i rapporti tra la Chiesa e gli artisti.
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Cfr. MANGO, Sources, p. 202 ss.; A. FROLOW, Deux églises byzantines d’après des sermons Peu connus de Léon VI le Sage, in Revue des Etudes byzantines, 3, 1945, pp. 43-91. 32 I principi del decoro classico sono ben definiti da O. DEMUS, Byzantine Mosaic Decoration, Londres, 1948. Cfr. anche J. LAFONTAINE-DOSOGNE, L’évolution du programme décoratif des églises de 7071 à 1261, in Actes del XV Congresso degli Studi Bizantini d’Atene, 1976, I. Art et archéologie. Rapports, Athènes, 1979, pp. 287-329, vedi p. 287 ss. Per l’abside di Hosios Loukas, cfr. DEMUS, Decoration, tav. 1 et 10a. 33 Cfr. A. ALPAGO-NOVELLO - W. BERIDZE - J. LAFONTAINE-DOSOGNE e. a., Art and Architecture in medieval Georgia, Louvain-la-Neuve, 1980, Pubbl. di storia dell’arte e archeologia dell’Università Cattolica di Lovanio, XXI, pp. 92-93 e fig. 106-108. 34 Cfr. Karoline PAPADOPOULOS, Die Wandmalereien des XI. Jahrhunderts in der Kirche Panagia ton Chalkeon in Thessaloniki, Graz-Koln, 1966. 35 Cfr. A. GRABAR, Les peintures mura/es dans le choeur de Sainte-Sophie d’Ohrid, in Cahiers Archéologiques, 15, 1965, pp. 257-265. 36 Cf. Doula MOURIKI, The Mosaics of Neo Mani on Chios, 2 voll., Athènes, 1985, The Commercial Bank of Greece, I, pp.107-110, II, tav. 1, 2, 4. L’importante decoro musivo della chiesa della Dormizione a Daphni, del 1100 circa, ha conservato solo frammenti di una Vergine in trono con il Bambino e due arcangeli nelle nicchie laterali. 37 Cfr. MANGO, Sources, p. 188 38 Cfr. V .N. LAZAREV, Mozaiki Sofii Kievskoi, Moscou, 1960, Ed. Iskusstvo, p. 28 ss., fig. 1-2, 27 ss.; ID., Old Russian Murals and Mosaics from the XI to the XVI Century, Londres, 1966, Phaidon, p. 36 ss. e 226-227, fig. 20-25; LAFONTAINE-DOSOGNE, Histoire, p. 125 e fig. 3 (a colori). 39 Cfr. V. LAZAREV, Storia della Pittura Bizantina, Torino, 1967, Ejnaudi, pp. 215-16. 40 Cfr. S. CIRCOVIC - V. KORAC - G. BABIC, Le monastère de Studenica, Belgrade,
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1986, pp. 64-65 e fig. 49-50. Il tema tardivo della deriva Platytera. Cfr. O. DEMUS, Byzantine Art and the West, New York Univ. Press, 1970, p.125 e fig. 127-128; LAZAREV, Storia, pp. 23133, 241-42; LAFONTAINE-DOSOGNE, Evolution, pp. 301-303; per Torcello, BECKWITH, Early Chr. and Byz. Art, fig. 242. Cfr. Gordana BABIC, Les discussions théologiques du XI le siècle et l’apparition de nouvelles scènes dans le décor absidal des égfises byzantines, in serbo con riassunto in francese, in Recherches sur l’art, Belgrade, 2, 1966, pp. 11-31, vedi p. 18 ss. e fig. 1-2, 2a. Ibidem, p. 29, e fig. 11-12. Vedi anche LAFONTAINE-DOSOGNE, Evolution, p. 307 ss. Cfr. Suzy DUFRENNE, Les programmes iconographiques des églises byzantines de Mistra, Paris, 1960, Bibliothèque des Cahiers Archéologiques, IV, p. 23 ss. Per una descrizione dettagliata, cfr.Ibidem, pp. 24-25. Cfr. VOLBACH - LAFONTAINE-DOSOGNE, Byzanz, tav. 241; A. XYNGOPOULOS, Les fresques de Saint-Nicolas-Orphanos à Thessalonique, in greco con riassunto in francese, Athènes, 1964, p. 15 e tavv. 63, 66-67. Cfr. ALPAGO-NOVELLO - BERIDZE - LAFONTAINE-DOSOGNE, Medieval Georgia, pp. 100-101 e fig.14, a colori; Tania VELMANS, Le décor du sanctuaire de l’église de Galendiicha. Quelques schémas rares: la Vierge entre Pierre et Pouf, la Procession des anges et le Christ de Pitié, in Cahiers Archéologiques, 36, 1988, pp. 137-159, cfr. fig. 5, 22. Cfr. H. BELTING - C. MANGO - Doula MOURIKI, The Mosaics and Frescoes of St. Maria Pammakaristos (Fetiye Camii} at Istanbul, Washington, 1978, Dumbarton Oaks Studies, 15, p. 54 ss. et fig. 12-13. Cf. P.A. UNDERWOOD, The Kariye Diami, New York, 1966, Bollingen Series LXX, 1. Historical Introduction and Description of the Mosaics and Frescoes, p. 192 ss., 3. The Frescoes. Plates, tavv. 341e
343; VOLBACH LAFONTAINE-DOSOGNE, Byzanz, tav. X.
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Referenze iconografiche
Alle
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L’estetica
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142, 147, 159, 162-163, 164, 168, 169 Archivio Jaca Book; pag. 137: Jipen/Shutterstock; pagg. 138-139 Izzard/Shutterstock; pag. 141: Pecold/ Shutterstock; pagg. 143, 144 Volda/Shutterstock; pag. 145 Mountainpix/Shutterstock; pag. 146 Serg Zavstavin/Shutterstock; pag. 148 Firde Saylan/Shutterstock; pag. 149 Anastasios/Shutterstock; pag. 150 Iwciagr/Shutterstock; pag. 151 M. Varro/Shutterstock; pag. 152 P. Isogod/ Shutterstock; pag. 153 N. Bratslawski/Shutterstock; pag. 154 Shirlee Klasson/Alamy Stock Photo; pag. 155 DBA Images/Alamy Stock Photo; pagg. 156-157 Madra/Shutterstock; pag. 158 V. Kiev/Shutterstock; pagg. 160-161 Pieruschka/Shutterstock; pag. 165 Pit Stock/Shutterstock; pag. 166 K.A. Lugmayer/Shutterstock; pag. 167 J.O. Castillo/Shutterstock; pagg. 170-171 Epi Images/Shutterstock; pagg. 172-173 T. Bakul/Shutterstock.
La bellezza e l’icona nella Tradizione della Chiesa ortodossa: pagg. 186-187 Ekdotike Athenon S. A. Atene; pagg. 184-185, 190191, 185 186, 188-189, 198, 199, 201, 202, 203, 204-205, 241 Archivio Jaca Book; pag. 185, 192 Iskusstvo, Mosca/Archivio Jaca Book; pag. 195, 207 Iskusstvo, Mo-sca/Archivio Jaca Book pag. 200 Russia Cristiana, Seriate; pag. 208 T. Nastya/Shtterstock; pag. 209 Art Collection/Alamy Foto Stock.
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