ORIENTI CRISTIANI VISIONI CULTURALI
TANIA VELMANS
ORIENTI CRISTIANI VISIONI CULTURALI
Libreria Editrice Vaticana
International copyright © 2017 by Editoriale Jaca Book SpA, Milano Éditions A. et J. Picard, Paris All rights reserved
INDICE
International copyright handled by Editoriale Jaca Book SpA, Milano
Fo ravviso al lettore pag. 7
Per l’edizione italiana copyright © 2017 Editoriale Jaca Book SpA, Milano Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano All rights reserved
Prima edizione italiana novembre 2017
Prima parte Capitolo primo
GLI INIZI DEL CRISTIANESIMO IN ORIENTE pag. 11 Capitolo secondo
IL QUADRO GEOPOLITICO E I PRINCIPALI SITI pag. 21 Capitolo terzo
SOGGETTI E SCHEMI TIPICI DEI PRIMI SECOLI pag. 63 Seconda parte Capitolo quarto
LA RIVELAZIONE DIVINA NELL’ABSIDE pag. 101 Redazione Jaca Book Traduzione dal francese Emanuela Fogliadini Copertina, grafica e impaginazione Jaca Book/Break Point
Fotolito Target Color, Milano
Capitolo quinto LA DEESIS, IMMAGINE DELL’INTERCESSIONE, DEL PERDONO E DELLA CLEMENZA DIVINA pag. 127 Capitolo sesto
LA CROCE E LE FIGURE CHE LA CIRCONDANO. IL DECORO DELLE CUPOLE E DELLE VOLTE pag. 155 Capitolo settimo
IL GIUDIZIO, IL PECCATO, LA REDENZIONE pag. 171 Capitolo ottavo
I SANTI CAVALIERI TRIONFANTI pag. 191 Capitolo nono
Stampa e legatura Stamperia s.c.r.l., Parma novembre 2017
ISBN 978-88-16-60512-1
Per informazioni: Editoriale Jaca Book – Servizio Lettori via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48.56.15.20; fax 02 48.19.33.61 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
I MIRACOLI DEI SANTI CAVALIERI E UN’IMMAGINE DI SALVEZZA: LA CACCIA DI EUSTACHIO pag. 217 Conclusione pag. 227 Apparati Note pag. 230 Fonti e bibliografia pag. 237 Indice dei nomi di persone pag. 243 Indice dei nomi di luoghi pag. 245
AVVISO AL LETTORE
corrente di ricerche che s’iscrivono anche le missioni del cnrs in Caucaso che mi sono state affidate e mi hanno permesso di studiare i decori di una quarantina di chiese, di cui molte ancora inedite. Confrontandoli con le opere già note, ho rilevato immediatamente due caratteristiche generali: da un lato, le differenze di questi decori rispetto ai modelli stabiliti dalla capitale dell’impero e, dall’altro, lo stretto rapporto iconografico che lega le immagini religiose delle diverse regioni orientali tra di loro. Il periodo cronologico qui considerato corrisponde grosso modo all’esistenza dell’impero bizantino (iv-xv sec.). L’inizio di questo periodo è anche quello dei primi monumenti cristiani e la sua fine coincide con la presa di Costantinopoli nel 1453 e l’arrivo dei Turchi, non solo a Bisanzio ma anche in Oriente. È per tale motivo che l’arte del periodo successivo (xv-xviii sec.), in questi territori, è giustamente chiamata post-bizantina, poiché simile all’arte bizantina ma allo stesso tempo differente. Alcuni dei paesi cristiani d’Oriente furono province bizantine fino all’viii secolo, altri invece non furono che i vicini di Bisanzio. Pur appartenendo alla grande famiglia ortodossa, quasi tutte si distinguevano per rispettive specificità religiose. Fu, infatti, proprio in Oriente che venne posta la maggior parte delle domande nel corso dei primi secoli, questioni che diedero luogo a diverse dottrine devianti e che suscitarono vivaci discussioni. Se si vuole comprendere le radici di alcuni fenomeni artistici in Oriente, è necessario fare attenzione alle correnti di pensiero dei primi secoli: per questo motivo, ho deciso di consacrare a tale periodo un capitolo. Ai fini di una maggiore comprensione del lavoro, il volume è stato diviso in due parti ineguali. La prima parte è corredata da numerosi dati – storici, sociali, teologici, archeologici e iconografici – per fornire al lettore una visione d’insieme di ciò che fu l’Oriente cristiano e la sua creazione artistica nei primi secoli presi in esame. Si tratta di una panoramica sintetica più che di un’analisi dettagliata. Quest’ultima analisi si trova invece nella seconda parte, la più voluminosa, che presenta uno studio dei principali soggetti del decoro delle chiese. Tali soggetti sono i più originali e i più caratteristici. Il linguaggio plastico è stato trattato molto brevemente perché, a differenza dell’iconografia, è diverso in ciascuna regione. La sua analisi ci avrebbe allontanato considerevolmente dal nostro soggetto, aumentando il volume del libro oltre quanto previsto. Per le medesime ragioni le note che accompagnano il testo sono state ridotte al minimo indispensabile. Infine, la trascrizione dei nomi propri, secondo l’uso della nostra disciplina, ha creato dei problemi poiché si tratta di una dozzina di lingue e ortografie diverse che avrebbero reso la lettura difficile, mentre il nostro intento è di renderla fluida e piacevole. Con l’editore abbiamo quindi deciso di utilizzare un’unica trascrizione, quella dell’italiano corrente che si trova nei dizionari.
L’arte dell’Oriente cristiano fiorisce in un ambito più ampio di quanto si possa immaginare. Questo si estende, da nord a sud, dalla Georgia, all’Armenia, Siria, Cappadocia, Libano, Israele (l’antica Palestina), Egitto copto, Nubia fino all’Etiopia, stati attualmente ben distinti, ma che formavano un tempo regioni dalle frontiere instabili, in costante comunicazione tra loro. Tutte hanno beneficiato della civilizzazione bizantina e appartengono a quello che si definisce mondo bizantino, ma si caratterizzano anche come entità specifiche dal punto di vista dell’arte e in particolare dell’iconografia. Questi territori, in cui la cristianità è nata, beneficiarono di una rete di chiese e di monasteri che fu eccezionalmente densa e precoce, di cui i nove decimi se non di più sono scomparsi, ma ciò che resta è così rilevante che un suo studio permetterebbe di riempire svariati volumi. È stato dunque necessario fare delle scelte. La nostra è stata quella di studiare solo ciò che è poco conosciuto, particolare, originale e significativo nell’arte bizantina d’Oriente e che costituisce quasi uno scarto rispetto alla koinè (regola) costantinopolitana. Inoltre, l’intento è di identificare se vi siano delle caratteristiche generali, presenti in tutti i paesi in oggetto, che renderebbero questa periferia dell’impero un secondo o un terzo polo di creazione e invenzione dell’arte cristiana, rispetto a quello che ruota attorno a Costantinopoli e all’Occidente. Ovviamente, anche se qui non è direttamente oggetto di studio, lo splendore di Bisanzio non è negato né minimizzato, e dall’analisi risulta ben chiaro che l’Oriente cristiano ne ha ampiamente beneficiato. Anzi esso è parte di quello che si definisce «mondo bizantino», nonostante le sue numerose peculiarità. L’originalità di alcuni schemi iconografici è già stata segnalata sia dai primi pionieri che li scoprirono circa un secolo fa sia dai ricercatori che hanno in seguito lavorato sui documenti, ma i rimandi che uniscono le rispettive creazioni artistiche tra loro dal punto di vista iconografico e che rendono l’Oriente cristiano un ambito peculiare non sono mai stati chiaramente percepiti né dagli uni né dagli altri. Guillaume de Jerphanion considerava la Cappadocia come «un’isola» e il territorio con le sue chiese come «una provincia dell’arte bizantina». Da parte sua, André Grabar sosteneva che l’arte bizantina non conosceva che una regola, quella della koiné costantinopolitana1. Nella sua monumentale Recherche sur l’iconographie de l’évangile, Gabriel Millet ha sottolineato le differenze delle opere orientali rispetto a quelle costantinopolitane e occidentali, soprattutto quelle in ambito italiano, ma la sua inchiesta si è limitata sostanzialmente all’illustrazione del Vangelo, ambito in cui l’Oriente bizantino è meno creativo. Naturalmente molti altri archeologi e storici dell’arte contemporanei hanno contribuito notevolmente alla conoscenza dei monumenti cristiani orientali, senza però che tali studi abbiano risolto il problema di cui ci occupiamo. Dalla seconda metà del xx secolo, alle scoperte del passato se ne aggiunsero di nuove, in numero considerevole. È in tale 6
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PRIMA PARTE
Capitolo primo
GLI INIZI DEL CRISTIANESIMO IN ORIENTE
ma la Chiesa bizantina ne ha riconosciuti solo alcuni, come il Vangelo di Nicodemo, nominato inizialmente Atti di Pilato e citato da Tertulliano5, o ancora il Protovangelo di Giacomo (150 ca.) che narra l’infanzia e le sofferenze della Vergine6. Successive fonti del iii e iv secolo, tra cui le Catechesi di Cirillo di Gerusalemme e il celebre Diario di viaggio della pia Egeria, che descrisse il suo pellegrinaggio nei luoghi santi7, forniscono informazioni preziose sul rituale praticato a Gerusalemme a quell’epoca. Dopo la Palestina, il cristianesimo primitivo, che era ancora una setta giudaica eterodossa, nel corso del i secolo raggiunse prima la Siria orientale, dove Edessa divenne un centro importante, e in seguito Antiochia (Siria occidentale): questa presenza permise alla città di entrare in contatto con la cultura greca e aramaica. L’espansione della nuova fede proseguì a Cipro e in Asia Minore, in particolare nelle regioni di Pergamo ed Efeso, luminosi focolari dove l’imminenza della Parusia (la seconda venuta di Cristo sulla terra) fu messa particolarmente in risalto, elemento che più tardi farà la sua comparsa sulle decorazioni murali. Nel ii secolo, il messaggio cristiano raggiunse le classi elevate egiziane e un po’ più tardi la Cirenaica (l’Africa proconsolare). Grazie ai missionari che partirono da Antiochia e da Cesarea alla volta del Caucaso, esso fu conosciuto in Armenia e in Georgia (iii sec.). Giunse infine al regno di Axum, la futura Etiopia (iv sec.). I missionari avanzarono in modo straordinario anche più a est. La leggenda attribuisce a san Tommaso il merito di aver portato la rivelazione evangelica fino in Cina o almeno fino all’India occidentale. In realtà, la cristianizzazione della costa del Malabar e della provincia del Kerala fu opera della Chiesa nestoriana della Persia8. Infine, secondo la tradizione, a Roma si recarono e vi furono martirizzati prima Pietro e poi Paolo9. La designazione di «cristiani» attribuita agli adepti della nuova religione fu formulata ad Antiochia attorno all’anno 80: inizialmente fu usata in modo ironico e fu solo grazie a Ignazio
Il fermento religioso dei primi secoli
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1. Veduta del Teatro Grande di Efeso (Anatolia), i secolo a.C.
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Il cristianesimo dei primi secoli fu una dottrina in fieri, non codificata e sulla quale pesarono la minaccia rappresentata dal giudaismo e dalle interpretazioni divergenti di quelle che in seguito furono definite le sette cristiane. Le correnti ebraiche anteriori al Gesù storico sono testimoni dell’atmosfera nella quale era avvolto il pensiero cristiano. Lo storico Flavio Giuseppe (37-100) ne cita tre: quella dei sadducei che lasciano all’uomo la libertà di scegliere la propria via, quella dei farisei, preoccupati della giustizia e proiettati, a causa di questa, sul Giudizio universale annunciato da Daniele (Dn 12,2) e dal secondo Libro dei Maccabei, e infine quella degli esseni, che oggi conosciamo meglio grazie alla scoperta dei manoscritti nelle grotte di Qumran (i sec. a.C-iii sec. d.C.) nel deserto di Giuda, correntemente chiamati «i manoscritti del mar Morto»1. Filone di Alessandria (20 a.C-50 d.C.) evoca questo movimento2; è noto, dal momento in cui i rotoli di Qumran sono stati decifrati, che la dottrina era nata probabilmente dal rigetto degli esseni per i farisei, maestri della Sinagoga. Marginalizzati, gli esseni contestarono a loro volta il sacerdozio del Tempio. Essi vivevano come asceti, credendo all’avvento in tempi brevi di un Messia rinnovatore della Legge e che sarebbe stato messo a morte dai sommi sacerdoti, alla Risurrezione, agli angeli e ai demoni, al Giudizio universale e a una catastrofe universale alla fine dei tempi. Formulata in questi termini la loro dottrina si avvicinava in modo sorprendente alla futura dottrina cristiana3. Le prime comunità che aderirono al messaggio di Cristo erano già attestate verso il 30 a Antiochia e a Gerusalemme (Atti 1-5) e attorno al 60-70 altrove. Il fatto più importante risalente a quegli anni fu la separazione in gruppi dei primi cristiani: uno era costituito dagli Ebrei che si esprimevano in aramaico o in ebraico e di cui il capo fu, dopo Pietro, Giacomo il fratello del Signore, vescovo di Gerusalemme; l’altro comprendeva gli Ebrei di lingua greca, generati dalla diaspora, alla cui testa vi era Stefano. Possiamo considerare Paolo di Tarso il fondatore della Chiesa universale, a seguito della sua conversione sul cammino di Damasco, e durante in suoi viaggi ad Antiochia, a Efeso, in Anatolia, Grecia e Macedonia. Paolo capì rapidamente che i pagani, che lui chiamava gentili, erano più ricettivi al suo messaggio rispetto agli Ebrei (Atti 13,46-47), radicalmente ancorati alle proprie tradizioni4. Da questi ultimi dunque decise di allontanarsi. La distinzione tra le correnti fu definitiva nel 70, all’epoca della distruzione di Gerusalemme e del tempio da parte dei Romani. Tra le fonti conservate, la più antica è la corrispondenza di Paolo (50-58) che è quasi contemporanea al Vangelo di Marco (65 ca.). Questa è seguita dal Vangelo di Matteo e di Luca (70-80 ca.) e infine da quello di Giovanni (90-95 ca.). I vangeli apocrifi (nascosti) sono stati redatti dal ii secolo,
2. Veduta della regione delle grotte di Qumran (Cisgiordania).
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di Antiochia che il vocabolo «cristianesimo» divenne corrente e utilizzato con rispetto. Tuttavia il cristianesimo nascente subì la concorrenza di sistemi di pensiero deviati, come la gnosi (gnosis o conoscenza), i cui principali centri furono Alessandria, Antiochia e Roma. Tra i suoi maestri si annoverano Tolomeo, Basilide d’Egitto e anche Saturnino di Antiochia. Lo gnosticismo ebbe numerosi adepti tra il ii e il v secolo e altri, meno numerosi, nel Medioevo. Le sue radici risalgono a Platone e a Plotino, che consideravano, al pari degli gnostici, l’anima come imprigionata nel corpo. Gesù era percepito come un’emanazione (éon) di Dio e come un rivestimento temporaneo di Cristo. Gli gnostici raccomandavano anche una separazione radicale tra un Dio perfetto e un altro, inferiore e creatore del mondo degli uomini che è dominato dal male. Credendosi eletti di Dio, si attribuivano una sorta di scintilla divina, nascosta nella parte più intima del loro essere, che si supponeva avrebbero scoperto grazie all’introspezione e a una determinata ascesi. La Chiesa e la relativa gerarchia erano rigettate. Questo pensiero è oggi compreso in modo più preciso grazie alla scoperta dei manoscritti di Nag Hammadi (Alto Egitto) che formano una biblioteca gnostica di 53 trattati redatti in 13 codici in papiro10. Si tratta di traduzioni copte del iv secolo, sulla base di manoscritti greci anteriori. Tra questi manoscritti figura il famoso Vangelo di Giuda, che accredita la tesi secondo la quale Giuda fu in realtà un apostolo fedele che aveva eseguito gli ordini di Gesù affinché si potesse compiere la sua missione sulla terra11. Due altri vangeli gnostici, quello di Fi-
lippo e di Maria, attribuiscono a Maria Maddalena il ruolo di «compagna» di Gesù. Una concezione ugualmente dualista caratterizza il manicheismo, creato da Mani (216-276) a Seleucia-Ctesifonte e sostenuto dall’imperatore persiano Shapur i. Diffuso in tutto l’Oriente, ma specialmente in Iran, il manicheismo afferma che due principi coeterni si combattono nell’universo e nell’uomo, il Bene e il Male, la luce e le tenebre. La salvezza consiste nel far prevalere la luce in ogni uomo grazie all’aiuto dell’ascesi e di una dieta vegetariana. Mani riconosceva la piena incarnazione di Cristo, la sua morte e Risurrezione. Il manicheismo rappresentava un pericolo reale per la dottrina cristiana perché Mani si proclamava l’apostolo del Gesù celeste e pretendeva di essere l’ultimo degli apostoli chiamato a perfezionare l’opera di Cristo. Egli inoltre prendeva in prestito le dottrine del Buddha e di Zaratustra. I manoscritti copti trovati a Medinet Madi (Fayyum, iv sec.) e gli scavi archeologici di Dahlan (1982) hanno completato le nostre conoscenze su questa dottrina12. Nel ii e iii secolo il cristianesimo che si diffuse in Oriente era ancora eterogeneo: in esso diverse correnti si confrontarono e allo stesso tempo si compenetrarono. Tale fermento intellettuale non poteva che inquietare le autorità romane, tanto più che numerose rivolte ebbero luogo nelle province orientali. Furono dunque prese misure radicali e, a partire dal 115, i cristiani furono perseguitati, secondo la testimonianza di Tacito. Tali provvedimenti si basavano in parte su un malinteso, poiché i Romani non comprendevano il senso delle tendenze egualitarie del cristianesimo, contrari alla severa gerarchia in vigore nelle loro società, e di conseguenza vedevano in essi delle tendenze sovversive. A questo si aggiunse il rifiuto degli dei pagani da parte dei cristiani, rifiuto punito con la pena di morte, conformemente alle leggi in vigore a Roma. Queste drastiche misure si basavano sulla convinzione che un tale rifiuto irritasse gli dei e nuocesse all’armonia e alla pace regnante tra cielo e terra. Del resto le catastrofi che colpirono Roma nel ii e iii secolo, tra cui la peste, furono attribuite a quel disprezzo degli dei e alla loro giusta collera. Fu per tale motivo che vennero redatti molto presto degli scritti apologetici per dissipare questi malintesi e per spiegare in cosa consistesse veramente la nuova religione. Tra gli apologeti più importanti si annovera la figura di Giustino, nato in Samaria (100-165), filosofo cristiano e martire, che scrisse tra le altre opere Il Dialogo con il giudeo Trifone, contro il giudaismo13. Egli definì inoltre il termine eresia come una dottrina menzognera di origine demoniaca, proclamata da falsi profeti. In seguito, Taziano il Siro, creatore di una setta denominata degli encratiti (astinenti), redige il Discorso ai Greci, critica della cultura ellenista e attacco in piena regola al paganesimo. Egli tradusse anche il Diatessaron, una combinazione armonica dei vangeli adottata dalla Chiesa siriana14. Tali autori, e altri ancora che qui non possiamo tutti
3. Manoscritti di Nag Hammadi (Alto Egitto), iv secolo.
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erano ormai inseparabili. Egli fu santificato dalla Chiesa che gli conferì il titolo di isapostolo, ossia pari agli apostoli e fissò la sua memoria il 21 maggio. Il ruolo politico di Bisanzio si affermò dopo la separazione definitiva dell’antica Roma in Impero d’Oriente e Impero d’Occidente (395). L’Oriente cristiano non sfuggirà all’influenza di Costantinopoli, tuttavia al suo interno esisteva fin dalle origini una spaccatura, che in seguito si accentuerà, tra il mondo greco-romano, assimilato alla capitale bizantina e sottomesso alle esigenze della nuova spiritualità, e la doppia eredità spirituale, semitica ed egizio-faraonica, dell’Oriente. Quest’ultimo non fu che superficialmente ellenista al di fuori delle città stato, come Gerusalemme, Alessandria, Efeso, Antiochia. Tuttavia le due sfere a volte si intersecarono in alcuni ambiti, come nel caso dell’elaborazione della dottrina cristiana o della liturgia, e questo avvenne nonostante i conflitti del iv e v secolo. Verso la fine del ii secolo, Bardesane di Edessa compose 150 inni di contenuto eterodosso facendo così partecipare all’opera liturgica anche la Siria orientale, poco ellenizzata e che parlava ancora in aramaico o ebraico. Un testo siriaco, la Didascalia degli Apostoli, ci permette di conoscere la vita liturgica del iii secolo in una comunità siriana di lingua greca. La liturgia siro-palestinese fu la prima a essere costituita ed è anche la più arcaica e la più rigida. Questa è segnata da influenze giudaiche e dall’attesa della Parusia20, attesa che si ritrova nel programma decorativo ecclesiale, di cui Efrem il Siro deve adottare il ritmo e la melodia. Fu composta inizialmente nei monasteri palestinesi, su iniziativa di Saba Archimandrita e dei suoi monaci venuti dalla Siria a Gerusalemme. Nel 478, il discepolo prediletto di Saba fondò tra le gole del Cedron la celebre laura che porta il suo nome21. Questa liturgia influenzerà il culto copto, i cui tratti principali sono la particolare lunghezza e le gravi melopee. La sua forma definitiva fu fissata nel monastero costantinopolitano di Studion in cui furono separati i diversi rituali utilizzati la domenica (Typikon), in Quaresima (Triodion) e nel tempo pasquale (Pentakostarion)22. Le due liturgie domenicali devono molto a san Giovanni Crisostomo e a san Basilio Magno. Tuttavia la regola dell’ufficio non si fissò definitivamente se non dopo il ristabilimento del culto delle icone nell’843, quando fu consacrata la superiorità culturale greca sullo spirito asiatico incarnato dall’iconoclasmo23. Altre grandi figure della teologia bizantina del primo periodo furono originarie dell’Oriente e, tra queste, Efrem il Siro. Nato a Nisibi (306 ca.-373) e proveniente dalla stessa scuola teologica di Bardesane, adottò il ritmo e le melodie di questi. Efrem non fu però solo un innografo geniale le cui composizioni serviranno da modello alle generazioni future, ma anche un grande teologo che gettò le basi della Chiesa siriana e che sviluppò la prima idea di Giudizio universale, basandosi su alcuni passaggi dell’Antico e del Nuovo Testa-
citare, indirizzarono i loro scritti agli imperatori romani con lo scopo di convincerli del valore del cristianesimo e alcuni tra loro contribuirono anche all’elaborazione della dottrina cristiana e alla futura definizione dei dogmi. Tra questi spiccarono Tertulliano (160 ca.-225), Melitone vescovo di Sardi († 190 ca.), Teofilo vescovo di Antiochia († 183-185 ca.) e, nel iii secolo, Clemente Alessandrino (150 ca.-215 ca.), affascinato dallo gnosticismo di cui utilizzerà alcuni elementi (Il Pedagogo), e infine il brillante esegeta Origene, nato ad Alessandria attorno al 185. La sua opera fu notevole e comprende, tra gli altri, cinque libri contro la setta dei marcioniti, un atto di accusa Contro i giudei15 e il Contra Celso (248 ca.), in cui azzera la critica di questo filosofo al cristianesimo, intrapresa nel suo Discorso sulla verità contro i cristiani16. Pur influenzando i cristiani e gli ebrei, quelle grandi menti non raggiunsero il loro obiettivo: le autorità romane. Così le persecuzioni, cominciate sotto Nerone, continueranno nel iii secolo, soprattutto sotto Diocleziano che decretò nel 303 la distruzione delle chiese e l’obbligo al sacrificio agli dei. Le persecuzioni romane lasciarono delle tracce in Oriente. Esse furono effettivamente all’origine di schemi iconografici specifici che non si trovano nell’arte costantinopolitana, come l’immagine del santo a cavallo che uccide l’imperatore Diocleziano e più raramente gli imperatori Decio o Giuliano l’Apostata. Queste immagini apparvero nel vi e vii secolo ed ebbero un notevole successo nel Medioevo. Ci ritorneremo. Nel frattempo l’Impero romano, che stava finendo, fu scisso in due parti, occidentale e orientale, con il suo centro di potere politico spostato da Roma verso l’Oriente. La separazione divenne ufficiale sotto Costantino i che trionfò sul suo rivale Massenzio nella battaglia di ponte Milvio (312) grazie alla visione della croce17. La sua conversione al cristianesimo è stata attribuita a tale miracolo, ma indubbiamente vi furono anche delle ragioni politiche accanto alla volontà di integrare le differenti popolazioni del suo immenso impero. Egli proclamò rapidamente la libertà religiosa e mise fine anche alle rappresaglie contro i cristiani con l’editto di Milano nel 31318. Dopo la vittoria contro Licinio (324), fondò la sua capitale sul Bosforo nel luogo dell’antica Byzantion (330): Costantinopoli divenne il centro di tutti i poteri del nuovo Impero romano-bizantino19. Collocata al confine fra i due continenti, con un accesso a tre mari e una rete stradale che la collegava sia all’Oriente sia ai paesi balcanici, ai principati russi e all’Occidente, Costantinopoli ebbe un’importanza storica, comparabile a quella di Roma, su cui non vi sono più dubbi. La città, fin dall’origine, grazie all’attività di costruttore di Costantino il Grande, fu anche un centro artistico e culturale splendente. Eletto da Dio a simbolo vivente del nuovo impero cristiano, l’imperatore era anche il protettore della Chiesa, ciò significava che ne era il vero capo e che l’ambito imperiale ed ecclesiale 13
4. Monastero Rosso, Sohag (Egitto), fondato nel v secolo.
mento24. Gli iconografi tennero in considerazione questi testi – scritti in siriaco ma tradotti rapidamente in greco – per immaginare, qualche secolo più tardi, la rappresentazione plastica del Giudizio universale. Un altro grande innografo e poeta, Romano il Melode (490-556), fu anch’egli d’origine siriana. Nato a Emesa (Homs), terminò la sua carriera come diacono a Costantinopoli, compito che non gli impedì di creare un’opera colossale. I suoi inni liturgici hanno la forma di un’omelia e sono chiamati «kontakia»; essi si ispirano all’eredità di Efrem, ma lasciano anche trasparire la grande sensibilità del loro autore, si potrebbe quasi dire il suo sentimentalismo25. Fu così che, quando nel xii secolo elementi di natura emotiva s’infiltrarono nell’arte bizantina e modificarono l’iconografia del ciclo della Passione, pittori e iconografi si ispirarono a questi poemi per dare forma alle loro innovazioni. Un soggetto nuovo, apparso in quel momento, il Thrène o Compianto sul Cristo morto, deve molto ai canti di Romano e a quelli più tardivi di Cosma di Maiuma († 760 ca.). Questi passò la vita in Palestina nel monastero di S. Saba, poi fu vescovo a Mayuma, vicino a Gaza. Infine l’inno Acatisto, composto da Romano, fu illustrato con ventiquattro immagini all’epoca dei Paleologi26. La scuola antiochena fu formata da altrettanti eminenti teologi, tra cui Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia (iv sec.) e il famosissimo Giovanni Crisostomo, Padre della Chiesa, nato ad Antiochia (344) e morto in esilio in Cappadocia (407). La sua opera è immensa e i suoi commentari alla Bibbia particolarmente apprezzati. Egli occupò il seggio patriarcale di Costantinopoli prima di essere deposto dall’imperatore Arcadio (404). A lui si deve la liturgia, tuttora celebrata nelle chiese ortodosse, che si presenta come una sintesi tra l’antico ufficio antiocheno e alcune innovazioni da questi apportate27. Alessandria, che in verità fu più greca che orientale, non mancò di formare grandi spiriti, tra cui Clemente Alessandrino. Tra i palestinesi, Epifanio (315 ca.) è conosciuto specialmente per la sua critica a Origene, i suoi scritti contro Ario e contro le eresie in generale, ed Eusebio, vescovo di Cesarea (nato nel 265), per la sua Storia ecclesiastica e la sua Vita dell’imperatore Costantino. Essi furono seguiti da Cirillo di Gerusalemme († 386) e Basilio di Cesarea (330-379), che trattò grandi questioni, tra cui la fede, la morale, i rapporti tra Bisanzio e il mondo antico e persino l’immagine del divino. Gregorio Nazianzeno (330 ca.-390), anch’egli della Cappadocia, fu suo amico per tutta la vita e lasciò anch’egli delle opere fondamentali. Giovanni Damasceno (viii sec.) fu il personaggio più rilevante nell’ambito della pittura: i suoi Tre discorsi in difesa delle immagini28 costituirono la pietra angolare sulla quale i futuri difensori delle immagini basarono la loro dottrina durante la controversia iconoclasta. I suoi Canoni rappresenta-
rono una parte importante della liturgia del Natale, dell’Epifania e della Pentecoste, e le sue omelie, così come il Canone per la festa della Dormizione della Vergine29, influenzarono sia i teologi posteriori che gli iconografi. Questi ultimi produssero l’immagine della Dormizione e ne realizzarono un ciclo nel xiii secolo. Il suo pensiero riflette l’ottimismo orientale e il rigore greco, ereditato dagli antichi. Così, egli vede l’uomo come un microcosmo in cui si riuniscono tutte le forze dinamiche del mondo. Anche se si tratta di individui, sono tutti insieme nel corpo di Cristo e nella Chiesa. Lontano dal fustigare i corpi, come accadde in Occidente, egli descrive la natura umana come fatta di «vero corpo e vero spirito»30. Notiamo tuttavia che gli autori «orientali» che abbiamo menzionato in modo esemplificativo – nella realtà sono ovviamente più numerosi – erano di cultura greca. Tale dato è particolarmente rilevante presso i Padri greci, il cui pensiero tradisce la loro adesione alle categorie logiche dei filosofi dell’Antichità. Presso gli innografi nati in Oriente si manifesta tuttavia una sensibilità più vibrante e più indipendente dalla ragione, che non sembra essere stata la medesima dei Greci 14
collettive, lavoro manuale, digiuno, ascesi, separazione dal mondo, astinenza)32. Il monachesimo si sviluppò rapidamente in Egitto, incoraggiato anche dalla miseria delle campagne e da un’ostilità popolare verso l’ellenismo delle classi elevate, la maggior parte delle quali bizantine. I monasteri coprirono il paese e furono popolati da migliaia di monaci di origine rurale. Dall’Egitto il movimento conquistò tutto l’Oriente cristiano, distinguendosi per le differenti pratiche, secondo i luoghi, come quelle degli stiliti in Siria e degli eremiti in Egitto o ancora il rigore estremo di alcune comunità cristiane in Asia Minore. Gli stiliti siriani non si limitano ai più celebri tra loro come Simeone il Vecchio, che passò quarant’anni in cima alla sua colonna, e Simeone il Giovane, la cui fama fu immensa, come testimoniano numerosi testi e icone. Non si trattò, infatti, di manifestazioni isolate, ma di una corrente di spiritualità caratterizzata da tale forma di ascesi. Così le colline della regione d’Antiochia furono popolate da stiliti che gli antiocheni visitavano regolarmente e il monte Mirabile, presso Aleppo, dove visse Simeone il Vecchio, fu dotato di
della stessa epoca. Così Cosma di Maiuma mette in bocca a Maria che contempla suo figlio morto delle parole tipiche di una madre che implora: «Ora, Dio mio, che ti vedo qui morto, senza soffio, la spada del dolore mi lacera terribilmente»31. Gli iconografi non osarono ispirarsene prima dell’xi-xii secolo, quando i sentimenti penetrarono nell’arte bizantina. La grande epoca dei martiri si concluse nel iv secolo e vide la luce allora un’altra forma d’imitazione della vita di Cristo. Quel nuovo ideale corrispondeva anche al desiderio di condurre una vita contemplativa votata alla preghiera, all’ascesi e alla fuga dal mondo. È in tal modo che in Oriente apparve il monachesimo. Alcune comunità cristiane di questo tipo si erano già formate nel iii secolo a Gerusalemme e in Siria, ma fu solamente alla fine del secolo che apparve il monachesimo istituzionale fondato all’incirca nello stesso momento da Pacomio (287-347) e da Antonio d’Egitto (312-356). Entrambi divennero dei modelli e passarono la loro vita nel deserto del mar Rosso a pregare e a lottare contro i demoni. Essi furono ben presto seguiti da alcuni discepoli (321 ca.). Furono dunque definite delle regole di vita comunitaria (preghiere 15
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5. Resti della chiesa di Bakirka (Siria).
aveva chiuso i templi e perseguitato i pagani prima di dichiarare il cristianesimo religione di stato. Le lotte dottrinali, i cui principali protagonisti si trovavano in Oriente, continuarono nel v secolo e riguardarono sia la Chiesa sia l’Impero. Vi era un’altra questione da risolvere: il ruolo di Maria, che è minimo nei vangeli, e il grado di santità che era conveniente attribuirle. La consustanzialità del Cristo con il Padre era stata definita e le discussioni si spostarono sul rapporto tra la sua natura divina e la sua natura umana. All’origine c’era in questo rapporto un elemento di sfida alla ragione. La scuola teologica di Antiochia, presieduta dal vescovo Nestorio, provò a risolvere il problema attribuendo a Gesù due nature separate, divina e umana; ma quella divina aveva scelto di abitare l’uomo-Cristo, nato da Maria, la quale gli aveva trasmesso solo la sua natura umana. Ella doveva dunque essere definita Madre di Cristo (Christotokos) e non Madre di Dio (Theotokos)38. Quando Nestorio divenne patriarca di Costantinopoli (428), proclamò tale dottrina dall’alto della sua cattedra con una maggiore consapevolezza rispetto all’imperatore, ma si trovò a fronteggiare una diversa concezione cristologica difesa con altrettanto zelo. Il patriarca di Alessandria, Cirillo, attaccò infatti la dottrina nestoriana, contestando in particolare la tesi delle due nature separate di Cristo e opponendovi la propria teoria: una sola persona possiede due nature unite e indivisibili, di cui si accentua soprattutto la natura divina. Egli attribuì a Maria il titolo di Theotokos. Sostenuto da migliaia di monaci copti, trionfò al terzo concilio ecumenico a Efeso (431), che condannò Nestorio e proclamò Maria Madre di Dio (Theotokos)39. Da quel momento, la Theotokos non smise di guadagnare importanza: molte delle sue icone furono dichiarate taumaturgiche e il suo culto, diventato molto popolare, si sviluppò nel corso dei secoli. I seguaci di Nestorio si rifugiarono in Persia e fondarono una Chiesa indipendente dal patriarcato di Antiochia a Seleucia-Ctesifonte, chiamata «Chiesa di Persia». Nonostante queste gravi discordanze, la prova più dura per la Chiesa «ufficiale» doveva ancora arrivare, poiché la vittoria di Efeso non calmò gli spiriti della parte alessandrina. Il successore di Cirillo, Eutiche, archimandrita a Costantinopoli, la cui influenza a corte era notevole, trasse delle conclusioni errate rispetto al pensiero di Cirillo minimizzando la natura umana di Gesù. Egli riteneva, infatti, che dopo l’incarnazione le sue due nature fossero state fuse in una sola natura divina. Questa dottrina, chiamata monofisismo, conobbe un successo immediato in Oriente e soprattutto in Egitto, ma fu condannata a Costantinopoli. Conobbe un breve trionfo grazie a un altro discepolo di Cirillo, Dioscoro, patriarca di Alessandria, ma la morte di Teodosio ii coincise con la sua fine. Il suo successore, Marciano, convocò con il consenso di Roma il quarto concilio ecumenico di Calcedonia (451) che si sforzò
una chiesa mentre questi era ancora in vita, nonostante ciò fosse contrario agli usi33. Teodoreto di Cirro ci svela che la gloria dei due Simeone era giunta nel iv secolo fino a Roma dove, nelle case e nelle botteghe, si esponevano immagini con il loro ritratto per assicurarsi la loro protezione34. Accanto a queste forme d’eremitismo estremo e a monasteri riservati agli uomini, iniziarono a sorgere conventi femminili. Tutte queste formazioni erano sottomesse al vescovo della Chiesa locale. L’ideale monastico fu esportato in Occidente nella seconda metà del iv secolo, ma non vi si radicò che molto più tardi. Le dispute cristologiche sulla natura di Cristo
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La domanda sulla natura di Cristo divenne cruciale nel iv secolo. Le dottrine elaborate nei secoli precedenti non sembrarono convincenti e i vangeli non rispondevano chiaramente a tale questione: Gesù, infatti, si definì nella maggior parte dei casi «Figlio dell’uomo», ma allo stesso tempo lui stesso si riferiva al Padre suo celeste, e l’Annunciazione sottintendeva l’Incarnazione del Verbo di Dio. Un prete alessandrino, Ario, considerò il Figlio come subordinato al Padre in quanto creato da lui, negandone in tal modo la divinità. Con l’intento di mantenere l’unità dell’Impero, Costantino convocò il primo concilio ecumenico a Nicea nel 325 e impose le sue decisioni. La dottrina di Ario fu condannata e il Figlio definito come consustanziale al Padre35. Una sorta di professione di fede, nota come il Simbolo di Nicea, fu redatta con questo spirito e il mistero della Trinità fu confermato. Per la prima volta furono opposte l’orthodoxia e l’eresia36. Ario lasciò una traccia nella pittura, non in Oriente ma nei programmi iconografici costantinopolitani del xiii-xiv secolo, in cui il prete alessandrino rappresentò la sintesi dell’eresia. Si tratta della visione di san Pietro d’Alessandria che mostra questo vescovo in ginocchio davanti a Gesù adolescente, che indossa una tunica strappata, simbolo della sua divinità insultata. Ai suoi piedi è inginocchiato Ario disperato. L’iscrizione fa dire a Gesù che è stato Ario a strappare la sua veste37. I successori di Ario apportarono delle modifiche alla sua dottrina formando due gruppi. I semi-ariani attribuirono una similitudine d’essenza tra il Padre e il Figlio, facendo alcune concessioni al credo ufficiale; i radicali capeggiati da Eunomio non condivisero tale interpretazione e proclamarono una differenza assoluta d’essenza per le due persone. L’imperatore Costanzo aderì alle interpretazioni del secondo gruppo, rendendole la posizione ufficiale dell’Impero nel doppio sinodo di Seleucia e Rimini (359). Infine, al secondo concilio ecumenico di Costantinopoli (381), la divinità di Cristo e la sua perfetta identità d’essenza con il Padre furono definitivamente proclamate dogma. Il concilio era stato convocato dall’imperatore Teodosio i (379-395), cristiano fervente, che 17
6. Monastero di Gracanica (Serbia), parete meridionale, affresco raffigurante la visione di san Pietro d’Alessandria.
di adottare una posizione intermedia tra il nestorianesimo e il monofisismo. Fu in quell’occasione che fu definito il dogma delle due nature di Cristo perfette, inseparabili e inconfuse. In modo accessorio, questo concilio affermò l’uguaglianza tra la Nuova e l’Antica Roma, riconoscendo però al tempo stesso al papa un primato d’onore. Nonostante questo, il canone 28 del concilio precisò che vi è una piena parità tra i vescovi della Nuova e dell’Antica Roma40. Le dottrine che si opposero al dogma di Calcedonia furono dichiarate eretiche, ma questo non impedì l’adesione di una buona parte dei cristiani orientali al monofisismo. Nonostante l’apparenza dogmatica di tale rottura, si fecero più evidenti le incompatibilità reali, in seno al cristianesimo, tra cultura greca e cultura siriaca. D’altronde, nelle province orientali andava crescendo sempre più un’aspirazione all’autonomia che l’Impero non era però pronto a concedere loro. Dopo una certa esitazione, due dottrine dissidenti furono adottate in Siria-Mesopotamia, la nestoriana e la monofisita, e ciò permise a due Chiese di costituirsi sulle due rive dell’Eufrate, la Chiesa siriana orientale e la Chiesa siriana occidentale, che coesistevano tra l’altro con una terza, la Chiesa calcedonese, detta melchita, fedele a Bisanzio e all’imperatore, e con quella dei maroniti di cui parleremo più avanti. All’inizio del vi secolo, Giacomo Baradeo, ordinato vescovo di Edessa, organizzò la struttura della Chiesa a tendenza monofisita, chiamata anche giacobita dai calcedonesi41. Dal canto suo, il patriarca Severo di Antiochia affinò la formulazione della dottrina monofisita (512) accettando «la persistenza dell’umanità di Cristo nella sua integrità individuale». In tal modo i monofisiti si avvicinarono quasi al dogma di Calcedonia e la dimensione religiosa dello scisma si ridusse praticamente a quella di una «diatriba linguistica»42. Questo spiega l’impatto modesto del monofisismo sull’iconografia, anche se se ne hanno delle tracce nei decori ecclesiali. Dopo l’Egitto e la Siria, toccò alla Chiesa d’Etiopia, figlia della Chiesa egiziana, rifiutare di sottomettersi alle decisioni di Calcedonia per restare monofisita. Questo popolo, dal ii secolo, aveva la sua scrittura e la sua lingua (il geez) e fu evangelizzato verso la metà del iv secolo. In Armenia l’adesione al monofisismo nacque in parte da un fraintendimento. I rappresentanti armeni non avevano potuto partecipare al concilio di Calcedonia e ricevettero dai rappresentanti siriani una versione deformata delle decisioni che furono adottate43. I prelati armeni si dichiararono dunque favorevoli al monofisismo già nel primo concilio di Dvin (506). Tale dottrina divenne obbligatoria dopo il secondo concilio di Dvin (552554) e un catholicos fu posto al vertice della Chiesa. Il pane lievitato, utilizzato per l’Eucaristia nel mondo ortodosso, fu sostituito dal pane azzimo44. I georgiani, che parteciparono al secondo concilio di Dvin, restarono fedeli al dogma di Calcedonia45. La situazione fu
meno netta in Palestina, dove il cristianesimo si era impiantato all’interno di un ambiente ebraico. Tre Chiese coesistevano: la bizantina calcedoniana o melchita, con a capo un proprio patriarca e che fu la più importante, la giacobita (monofisita) e la maronita, con altrettanti adepti. Questa situazione, indubbiamente eccezionale, non rappresentò in realtà un caso così isolato poiché delle minoranze calcedonesi piuttosto importanti si conservarono in pratica in tutti i paesi dissidenti fino a tutto il Medioevo. Neanche i nestoriani scomparvero. Furono legalizzati in Persia nel 468 e si diffusero in Mesopotamia e in tutto l’attuale Iraq. Una pratica religiosa più tardiva concerne soprattutto il Libano. Si tratta della corrente maronita, che prende il nome dal monastero di S. Marone (dal nome del suo fondatore). Le credenze dei maroniti erano inizialmente simili a quelle dei calcedonesi (591) e in seguito a quelle dei monoteliti (vii sec.), che attribuivano a Cristo due nature, ma una sola volontà. Perseguitati sia da Bisanzio (681) sia dai monofisiti siriani, essi si rifugiarono sulle montagne del Libano e a Cipro, costituendo la propria Chiesa solo tra l’viii e il ix secolo. Durante le crociate stabilirono stretti rapporti con Roma e adottarono, dal xiii secolo, le insegne episcopali latine46. Questi differenti orientamenti religiosi, così come le persecuzioni bizantine degli eretici nel vi secolo, furono la causa di
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Pagina successiva: 7. Dettaglio di un trittico, pannello destro (diviso in quattro scomparti): la parte superiore mostra l’apostolo Taddeo e il re Abgar con il Mandylion, x secolo, monastero di S. Caterina del Sinai (Egitto).
elementi della Cappadocia e chiese in prestito altri elementi alla liturgia di san Giacomo di Gerusalemme. Il rito copto fu costituito soprattutto da apporti antiocheni, almeno fino al xii secolo, e caratterizzato da interminabili litanie, un culto specifico degli angeli e dei quattro animali apocalittici48. Infine, la liturgia etiope integrò sia degli elementi copti che siriaci. Questa breve evocazione permette di comprendere il ruolo preponderante della Siria nell’organizzazione delle Chiese orientali e del loro culto. Tutte queste liturgie appartengono alla grande famiglia del culto ortodosso ma, mentre l’ufficio bizantino sottolinea maggiormente l’aspetto astratto della trascendenza divina, le liturgie orientali stupiscono per la loro capacità di toccare il cuore dei fedeli. La celebrazione bizantina si distingue per la ricchezza dogmatica e i numerosi elementi patristici in essa integrati, quella orientale è impregnata da un lirismo che la avvicina agli uomini. Quanto alla parentela tra il culto bizantino e quello orientale, questa deriva dal fatto che si sono costantemente interpenetrati e influenzati a vicenda.
una politicizzazione della fede al punto che le appartenenze nazionali e confessionali divennero un tutt’uno. L’inimicizia tra Bisanzio e l’Oriente ebbe come conseguenza il consolidamento della tesi monofisita e la volontà di distinguersi da Costantinopoli. Si spiega in tal senso anche la debole resistenza degli autoctoni alle conquiste arabe. Tali dissomiglianze segnarono anche le corrispondenti liturgie, pur restando prossime a quella bizantina. La liturgia siro-antiochena, che influenzò quella della maggior parte delle altre chiese orientali, fu il risultato di un’osmosi tra il rito greco e quello siro-antiocheno più antico, che si distingueva per l’enfatizzazione dell’attesa della Parusia, anticipata dai sacramenti. L’autorità di questo rituale antiocheno primitivo riposava in parte sulla credenza che fosse stato redatto dagli apostoli, da cui il nome Didascalia degli apostoli, mentre in realtà fu l’opera di siriani anonimi e risale al iii secolo47. La lingua liturgica era il greco. Il rito siro-mesopotamico, creato a Edessa, si irradiò in Persia e fino alle Indie. Agì in misura minore sul rito armeno, che integrò degli
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Capitolo secondo
IL QUADRO GEOPOLITICO E I PRINCIPALI SITI
pena lo toccò. Immediatamente divenne un oggetto sacro, il Mandylion (asciugamano in arabo), e fu onorato con una festa e una liturgia, celebrata dal vi secolo a Edessa. In seguito (x sec.), questo fu trasportato in pompa magna a Costantinopoli3 e riprodotto in affresco e in forma di icona. Per quel che riguarda il ritratto della Vergine, esso era stato dipinto da san Luca, mentre quelli dei santi derivavano da sogni di uomini «degni di fede». Secondo Teodoro il Lettore (530 ca.), l’immagine della Theotokos si trovava a Gerusalemme ed era stata inviata nel 450 dall’imperatrice Eudocia a Pulcheria, figlia dell’imperatore Arcadio4. L’esigenza di autenticità condusse a definire la teoria del prototipo5 che fu determinante per la permanenza dell’iconografia e dello stile bizantino. Forti di tali principi e di queste convinzioni, i Bizantini furono capaci di una vera e propria impresa, ossia integrare l’eredità antica – volta risolutamente verso un approccio realistico – tendendo al tempo stesso anche verso l’astrazione, al fine di creare equivalenti plastici della trascendenza. Le proporzioni armoniose e l’organicità dei corpi umani furono conservati, ma sottomessi a una stretta simmetria che non esiste in natura; riducendo i modelli e accentuando i contorni, gli artisti crearono delle figure appiattite e dunque dematerializzate. I volti classici dell’arte greco-romana
L’influenza di Bisanzio in ambito culturale e religioso
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La cultura bizantina splendette su tutto l’Impero fino alla conquista araba e anche in seguito, e i cristiani di queste province perdute continuarono a esprimere le loro credenze religiose in lingua «bizantina», pur aderendo talvolta a dottrine che si distinsero in parte dall’ortodossia. Grazie alla sua situazione geografica, alla sua straordinaria rete stradale e all’accesso a tre mari, Costantinopoli era destinata, fin dall’inizio, a collegare l’Europa e l’Asia e a operare la sintesi tra le rispettive culture. Essa fu considerata fino al tardo Medioevo come una sorta di miracolo, una «città senza eguali» secondo i crociati, oggetto di tutte le brame e di ogni sogno. Nell’immaginario collettivo, essa era anche, dopo Gerusalemme, il centro della cristianità, il luogo in cui si trovava l’emblematica S. Sofia e le più prestigiose reliquie. La magnificenza che circondava l’imperatore, la corte e i palazzi, lo splendore delle chiese tappezzate di mosaici e di pietre dure e la bellezza ammaliante delle liturgie in esse celebrate, le sue piazze pubbliche pavimentate di marmo, i suoi portici, gli edifici pubblici, le cisterne e le statue antiche, tra cui quelle di Fidia e di Prassitele, apparivano a tutti gli stranieri e anche agli stessi orientali come un prodigio. La città concentrava tra l’altro le forze intellettuali, politiche, amministrative e artistiche del paese, la sua università dispensava il sapere dell’epoca, mentre patriarchi e vescovi approfondivano qui i dogmi della fede. Anche le classi elevate delle province orientali erano spesso formate a Costantinopoli, vi tornavano regolarmente e creavano propri centri, come accadde per i monasteri georgiani e armeni. Prima di affrontare l’originalità delle opere orientali è necessario ricordare le principali caratteristiche dell’estetica bizantina e le idee a essa sottintese. Queste furono riprese altrove, alcune con numerose varianti, dagli artisti cristiani d’Oriente. Lo scopo della pittura bizantina era trascendere non solo la realtà appresa tramite i sensi ma anche il pensiero razionale per donare ai fedeli un’anticipazione del Paradiso e per condurli, con l’aiuto della liturgia e dei suoi avvolgenti canti, verso l’estasi mistica. Poche estetiche sono state così ambiziose come quella bizantina: la rappresentazione, infatti, era considerata in rapporto diretto con i soggetti raffigurati. Le immagini di Cristo, della Vergine e dei santi ricevevano delle «energie» da coloro che erano ritratti sul legno o sul muro1 e questo spiega la loro sacralizzazione. Le icone partecipavano tra l’altro alla liturgia ed erano per i cristiani una via capace di condurre alla conoscenza del divino2. Per tale motivo dovevano essere autentiche (o far credere di essere tali). Alcune leggende ne garantivano l’autenticità. I tratti di Cristo erano stati riprodotti miracolosamente su un tessuto nel momento in cui egli lo aveva posto sul suo viso. Inviato al re di Osroene, affetto da una malattia incurabile, il panno lo guarì ap-
8. Icona con il volto di Cristo, xii secolo (Mosca, Galleria Tretyakov).
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Pagine precedenti: 9. Basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, iv-vi secolo.
11. Mosaico di un pilastro della chiesa di S. Demetrio, Tessalonica (Grecia), raffigurante il santo tra i fondatori, vi-vii secolo.
10. Cisterna sotterranea di Costantinopoli, vi secolo.
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12. Icona della Vergine con il Bambino tra i santi Teodoro e Giorgio, monastero di S.Caterina del Sinai (Egitto), vi-vii secolo.
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13. Ricostruzione e pianta del monastero di Qal’at Sim’an (Siria).
14. Monastero di Qal’at Sim’an (San Simeone) in Siria, veduta dell’ottagono centrale, dove la tradizione vuole sia stata posta la pietra di san Simeone lo Stilita.
furono rimaneggiati in modo da renderli un ovale allungato, con guance incavate, un naso lungo e affilato e labbra sottili. I personaggi isolati divennero figure frontali e immobili. Furono proiettati su un fondo d’oro vuoto, figura della luce divina6, che annullava d’emblée tutti i riferimenti spaziali e temporali. Fu in tal modo creato un Aldilà splendente e la lucentezza dei mosaici, così come i sottili accordi cromatici delle icone, non faceva che renderlo ancora più attraente. Alla volontà dei Bizantini di spiritualizzare i personaggi sacri grazie al ricorso all’astrazione e all’idealizzazione, e al loro bisogno d’autenticità, si aggiunse l’esigenza della bellezza. Questa non aveva nulla di soggettivo come si potrebbe credere. Era stata definita dal pensiero dell’Antichità, in particolare dall’identità tra Bello e Bene in Platone7, e dai teologi bizantini che la vollero come l’ordine armonioso delle sfere celesti, opposta alla bruttezza del caos, assimilato al male. Lo
Pseudo-Dionigi l’Areopagita affermava che «Dio è Bellezza, poiché egli conferisce a ogni essere, in modo proporzionato, ciò che è principio di armonia e di splendore del rivestimento di tutta la creazione»8. Le composizioni, perfettamente equilibrate, erano animate dalla linea ritmica che aggiungeva loro una dimensione musicale, in accordo con quella liturgica. Ovviamente la lingua plastica di Bisanzio variò a seconda dei periodi, ma restò sempre più o meno fedele ai principi originari. Nonostante qualche reminiscenza antica, ancora troppo evidente, che scomparve rapidamente, lo stile era perfettamente costituito nel vi secolo, come si può vedere a Ravenna, Tessalonica e anche a Cipro. L’Oriente ha altrettanto contribuito alla sua formazione, con la sua preferenza per i colori vivi e le materie preziose, certi tipi facciali, fra cui quello di Cristo, e anche alcuni schemi iconografici che apparvero prima in Egitto e in Siria, come si potrà notare in seguito.
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parlato nelle campagne. Il paese si estendeva dall’Anatolia estremo-orientale alla valle del Tigri (Iraq), a cui apparteneva l’altopiano di Tur Abdin. Questo territorio fu annesso a Roma e fu oggetto di brame da parte dei Parti e dei vicini Persiani che i Romani dovettero fronteggiare. Fu naturalmente inglobato nell’Impero bizantino nel 395. Centro d’evangelizzazione a partire dal iii secolo, caratterizzata da tendenze ascetiche estreme, la Siria costituì la sua Chiesa primitiva nel iv secolo e il primo edificio di culto fu costruito prima che l’editto di Milano (313) ponesse fine alle persecuzioni dei cristiani. Antiochia (Antakya) divenne sede di un patriarcato e, accanto a Nisibi ed Edessa, fu uno tra i centri culturali più importanti. Tuttavia, fu nei monasteri, veri centri pensanti del paese, che si elaborarono le dottrine, gli inni, i commentari alle Scritture e le traduzioni dal
Precisiamo ancora che le prime icone furono realizzate a Costantinopoli. L’imperatore Costantino sembra aver inventato il genere applicando alla colonna di porfido a lui intitolata nel foro cittadino i ritratti su legno dei primi tre vescovi della città. Da parte loro, Eusebio di Cesarea (267-340) ed Epifanio di Cipro (367-440) testimoniano l’esistenza di icone di Cristo, della Vergine e dei santi9. Alcune icone del v-vii secolo sono conservate a Roma, Kiev e sul Sinai. Siria Popolata soprattutto da Aramei a partire dal xiii secolo a.C., la Siria fu una satrapia persiana (332) fino a quando venne conquistata da Alessandro Magno. Il greco fu a lungo la lingua delle città, mentre l’aramaico si evolse nel siriaco,
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15. Chiesa del monastero di Mar Yacub, Salah, regione di Tur Abdin, nella Mesopotamia siriana. 16. Il Martyrium di Al-Adra, Tur Abdin (attuale Turchia).
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tecnica fu ampiamente utilizzata in Oriente. La sintesi definitiva tra pianta centrale e cupola fu realizzata a S. Sofia a Costantinopoli (532-537). Antiochia fu una città opulenta e un centro culturale importante. Una società raffinata vi occupava sontuose ville circondate da giardini e decorate con mosaici che sono ancora in parte conservati. Nel nord del paese le basiliche del iv e v secolo, che sono in rovina o abbandonate, testimoniano del fervore religioso del passato. Al posto dell’atrium bizantino a ovest, esse sono precedute da una corte a sud, presa in prestito dalle antiche case della Siria, mentre l’insieme dell’edificio si inscrisse, con la sua abside tripartita, in una pianta rettangolare. In quell’epoca Edessa, l’attuale Urfa nella Turchia sudorientale, fu in modo simile ad Antiochia un centro religioso molto attivo. Vi sono conservati dei monumenti funerari e i relativi mosaici. Vi si tradussero delle leggende indiane e una vita del Buddha che pervenne rapidamente a Costantinopoli. Infine, numerose sculture e mosaici di Palmira, Apamea, Ugarit, Ebla, Murek e Mari – tutte città fiorenti – sono stati raccolti nei musei siriani. A Edessa, Antiochia e Nisibi, alcune scuole in cui l’insegnamento monastico si mescolava con uno spirito di tipo universitario, formavano dei letterati ellenofoni e altri che si esprimevano in siriaco, pur traducendo il pensiero greco15. Questi due orientamenti culturali si manifestarono anche nei monasteri, diffusisi ovunque nel paese a partire dal vi secolo. C’era chi si nutriva del pensiero di un ellenismo erudito, che accoglieva anche dai Greci, e chi aveva contribuito a creare un ellenismo popolare, tra cui i monaci che si esprimevano solo in siriaco. Alcuni di questi, che accoglievano d’altronde anche dei Greci, professavano un ellenismo erudito, mentre altri, i cui monaci si esprimevano solo in siriaco, contribuirono a creare un ellenismo di tipo popolare. Questa dicotomia culturale è sensibile anche nelle arti plastiche. Nell’Hawran, le basiliche a una navata, come quella detta di Giuliano a Umm al-Jima, così come le basiliche a più navate, tra cui quella di Tafha, esistono tuttora16. Nella Mesopotamia siriana le montagne di Tur Abdin (tra Madrin e il Tigri), di difficile accesso, offrirono un rifugio ai monaci monofisiti perseguitati dalle autorità bizantine, al punto che vi si trovavano 300 monasteri siriani celebranti la liturgia antiochena in aramaico, sua lingua originale, che sono attualmente spariti, salvo rare eccezioni17. Si tratta sovente di chiese a navata unica con absidi semicircolari e un nartece a sud. Questa pianta deriva da antichi templi pagani, tra cui quelli di Dura Europos. In alcuni casi, la volta a botte, comune in Siria-Mesopotamia, è sostituita da coperture adottanti il sistema che congiunge più cupole, inaugurato a S. Sofia. In tal modo si coprì la chiesa di Al-Adra, nella regione Tur Abdin (oggi Turchia), di una cupola centrale
greco in siriaco. Queste ultime si concentrarono principalmente su testi riguardanti la spiritualità e la fede trasmessa da Bisanzio, ma furono tradotti anche altri testi, di carattere scientifico e filosofico, mutuati dall’Antichità. Le classi elevate siriane, in fuga dalle persecuzioni bizantine contro i monofisiti e in seguito dagli invasori arabi, introdussero questo patrimonio antico in Occidente contemporaneamente ai Bizantini. Tale patrimonio fu oggetto anche di traduzioni arabe approssimative e incomplete, dovute alla barriera linguistica, all’assenza di alcuni concetti fondamentali in arabo e al filtro imposto dalla stessa religione musulmana, che rendeva impossibile la comprensione corretta di alcuni ragionamenti10, analogamente a quanto abbiamo già segnalato a proposito della traduzione delle decisioni del concilio di Calcedonia in armeno. La forma della basilica siriana si fissò prima del iv secolo, come testimonia la basilica di Banqousa11. Altre numerose basiliche sono state costruite nel nord della Siria nel v-vi secolo. Queste sono contraddistinte da una corte a sud che sostituisce l’atrium a ovest delle chiese bizantine. Inoltre, a est, hanno un santuario tripartito, ma l’abside centrale e i due compartimenti che la fiancheggiano erano dissimulati all’esterno da un muro rettilineo. Il synthronon (sedile semicircolare sul quale si sedevano i vescovi) occupava il fondo del santuario, come si può vedere oggi nella chiesa di S. Nicola di Mira a Demre in Turchia12. Contrariamente a quanto si vede nelle basiliche bizantine, l’altare era qui collocato non all’interno ma di fronte al santuario. Un mosaico pavimentale di Tabarka, in Tunisia, conservato al Museo del Bardo, riproduce minuziosamente questa disposizione degli elementi architettonici13. L’edificio era coperto da un tetto a due spioventi e ciò presupponeva un’ossatura in legno e tegole, materiali che venivano importati. Le tribune bizantine furono soppresse. Una combinazione grandiosa tra una pianta basilicale e una centrale fu ottenuta nella chiesa di S. Simeone (Qal’at Sim’an) (476-490), edificata dall’imperatore Zenone (474491). Si tratta di quattro basiliche a tre navate che formano i bracci di una croce e circondano un ottagono centrale con la colonna sulla quale l’asceta trascorse quarant’anni e che fu onorata come una reliquia14. L’insieme aveva l’aspetto di una pianta centrale. Esistevano anche edifici a pianta centrale «pura», come quello di S. Giorgio a Esra (515 ca.), che è un ottagono inscritto dentro un quadrato con l’aiuto di quattro nicchie d’angolo e coperto da una cupola. Si tratta di una pianta molto simile a quella che si trova nella chiesa dei Ss. Sergio e Bacco a Bosra (512). Il problema che pone la pianta centrale coperta da una cupola, che deve collegare un quadrato e un cerchio, fu risolto a Costantinopoli grazie all’introduzione di pennacchi o di trombe, il tutto sostenuto da pilastri e archi. Questa 29
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17. Un mosaico della chiesa di S. Giorgio a Madaba (Giordania) che rappresenta una carta della Terra Santa secondo l’uso dei pellegrini del vi secolo.
18. Rappresentazione del concilio provinciale di Antiochia, dettaglio del mosaico della basilica della Natività a Betlemme (Palestina).
e di due semi-cupole. A Gerusalemme una chiesa a pianta ottagonale a cupola fu dedicata alla Vergine nel v secolo. Le chiese che si sono conservate del vi secolo o di poco posteriori sono edifici in pietre assemblate con una navata coperta da una volta a botte in mattoni. Queste nascono in Persia, terra povera di legno e ricca di argilla, che fu impiegata nel i e ii secolo. Altri santuari sono oggi adibiti a magazzini od ovili, fenomeno ricorrente nei paesi musulmani. La basilica di Mushabbak, situata non lontana da Aleppo, ne è un eccellente esempio. La situazione del paese si complicò a partire dall’inizio del vii secolo, quando i Persiani l’occuparono, poiché tra loro vi erano profughi greci e nestoriani. La guerra bizantino-persiana e l’astuzia dell’imperatore Eraclio, che cercò di ingraziarsi i monofisiti, permisero ai Siriani di sbarazzarsi ben presto di tali intrusi (628). Diverse dottrine, che si potrebbero definire «intermedie» tra il monofisismo e le tesi
calcedonesi, furono provvisoriamente accettate da Costantinopoli, tra cui il «mono-energismo» (le due nature di Cristo hanno un’unica facoltà d’azione) e il «monotelismo» (le due nature hanno una sola volontà). La conquista araba (634-638), che non fu senza spargimento di sangue, fu percepita come una liberazione per i monofisiti e per alcuni secoli le relazioni tra conquistatori e vinti furono eccellenti. Il sistema del califfato si costruiva sul modello bizantino e con il concorso dei cristiani siriani. Dal 750, con l’instaurazione del califfato abbaside che simpatizzava con i nestoriani, la situazione cambiò radicalmente e la Chiesa monofisita, come in generale i cristiani, furono nuovamente perseguitati. I Bizantini ripresero la Siria del nord nel x secolo e vi imposero la Chiesa calcedonese, ma solo per poco tempo. I monofisiti ritrovarono la loro libertà grazie ai crociati alla fine dell’xi-xii secolo e alla creazione del principato d’Antiochia e della contea di Edessa a opera dei 30
Latini (xi-xii sec.) e tutto questo ebbe un influsso sull’arte. La sparizione dei possedimenti latini in Oriente fu però fatale per il paese. I Mamelucchi d’Egitto se ne impadronirono nella seconda metà del xiii secolo.
ti del Libano il dovere di proteggerlo. Durante il periodo bizantino l’attuale Beirut (Berytus) fu una città ricca e animata grazie al suo porto e al commercio della seta. Tuttavia essa deve la sua fama specialmente alla scuola di diritto di cui parlano con entusiasmo Libanio e Severo di Antiochia (vi secolo), benché facciano riferimento anche a un aspetto licenzioso della città, col suo teatro, il circo e il bere smodato dei suoi abitanti.
Libano In Libano troviamo un’arte colta e una d’ispirazione popolare dalle tinte vive e tendenze decorative. La prima adottò lo stile «ufficiale» di Costantinopoli, come appare a S. Saba di Eddeh o ancora a Saidnaya e Kaftoun. La seconda soppresse la profondità di campo, il volume e il modellato, già ridotti dai Bizantini, e insistette sui contorni, come si vede a Bahdeidat o Maad Mitri18. Qui i crociati franchi furono accolti come liberatori dai maroniti e a questo seguì un’unione duratura con Roma. Quest’amicizia si protrasse fino al xx secolo al punto che la Francia si assunse nei confron-
Palestina La Palestina fu in guerra per la maggior parte della sua esistenza. Quella contro i Romani terminò con la rivolta di Masada (66-70), dove un migliaio di giudei si suicidarono, con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, oltre che con un massacro perpetrato dagli eserciti di Tito. Dopo la morte di Gesù, la Chiesa cristiana primitiva si diffuse nell’ambito ebrai31
19. Interno della basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme. 20. Pianta della basilica del Santo Sepolcro.
ANASTASIS
TRIPORTICO
PATRIARCHI ROCCIA DEL CALVARIO
MARTYRION
GROTTA DEL RITROVAMENTO DELLA CROCE
ATRIO ORIENTALE
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21. Il Santo Sepolcro con la rotonda vista dall’alto e dal basso. Pagina seguente: 22. Chiesa di Yeghvard (Armenia).
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da cartigli con delle lunghe iscrizioni in greco che riassumono i principali canoni di ogni concilio22. In tal modo, si rispettavano i decori aniconici degli invasori, riuscendo al tempo stesso a proclamare il Credo della Chiesa. Per quanto concerne la riunione degli alti dignitari ecclesiastici che formava lo schema tradizionale dei concili a Bisanzio, quelle di epoca antica sono scomparse, ma sono note grazie a dei testi che le descrivono. I crociati non furono per nulla disturbati dall’adesione del patriarcato di Gerusalemme allo scisma del 1054, come si potrebbe invece credere, e si stabilì una perfetta intesa tra le due comunità. Del resto i Franchi s’installarono in modo stabile in Palestina, sposarono donne orientali, e s’ispirarono alle opere d’arte della tradizione bizantina, un fenomeno questo che si era già prodotto in Siria23. La conquista di Gerusalemme da parte di Saladino nel 1187 non tolse la libertà religiosa ai palestinesi, ma la disfatta dei crociati e la presa di S. Giovanni d’Acri da parte dei musulmani nel 1291 mise fine a tale libertà. Nonostante ciò, i missionari cattolici romani furono presenti nel paese nel xiii e xiv secolo, come accadde anche in Armenia, dove godettero di una certa influenza.
co. La sua fondazione è attribuita a san Giacomo, vescovo di Gerusalemme. La regione fu coperta rapidamente di luoghi commemorativi di martiri e di monasteri, che ricordavano per la maggior parte i luoghi santi, oggetto di continui pellegrinaggi. Bisogna notare che i pellegrini venivano non tanto dal vicino Oriente quanto piuttosto dal lontano Occidente di cui influenzarono l’iconografia dal momento che riportavano poi con sé disegni e oggetti ricordo. La Palestina adottò la decisione del concilio di Calcedonia e ottenne, per il vescovo di Gerusalemme, il titolo di patriarca, anche se altre Chiese furono comunque tollerate. I luoghi santi furono dotati di monumenti prestigiosi da Costantino i e da sua madre Elena che, secondo la leggenda, scoprì la «vera croce» di Cristo. Giustiniano i fece altrettanto nel vi secolo e ciò contribuì a rendere Gerusalemme, e in seguito tutta la Palestina, il centro emblematico della cristianità. Il Santo Sepolcro di Gerusalemme era composto di una prima basilica (312-319), collegata da una corte a una rotonda, un po’ più tarda. L’insieme era anche chiamato chiesa dell’Anastasis o della Risurrezione19. A Betlemme, Costantino fece costruire la basilica a cinque navate della Natività, e un’altra chiesa, a pianta ottagonale, sotto la grotta della Natività. Questo edificio triconco fu in seguito rimaneggiato20. Sul monte degli Ulivi fu costruita nel 380 una chiesa a pianta centrale, quella dell’Ascensione, che l’imperatore Costantino trasformò in basilica individuando in tal modo il luogo della predicazione di Gesù agli apostoli. Le chiese di Gerusalemme erano molto numerose e quelle poste sulle città più alte ne sono un esempio particolarmente rinomato e parzialmente conservato. Gli edifici del primo millennio scomparvero durante la grande persecuzione del califfo Al-Hakim nel 1009-1012, che ordinò la distruzione di tutti i santuari cristiani ed ebraici, così come la conversione forzata della popolazione. Qualche piccola chiesa del v e vi secolo è ancora conservata a Gerasa, l’attuale Jarash, in Giordania21. La conquista persiana (614) di questi territori, seguita da quella degli Arabi, pose un freno a tali attività. Così la basilica della Natività a Betlemme dovette essere condivisa tra cristiani e musulmani (680-787), a cui fu concesso l’abside a sud del transetto, orientato verso La Mecca. I mosaici cristiani (vii sec.), in pessimo stato, si dispiegano sui due muri della navata centrale e rappresentano i primi sette concili ecumenici (parete sud) e i sei concili provinciali del iii e iv secolo (parete nord). I mosaici della parete sud furono rifatti nel xii secolo quando arrivarono i crociati e fu creato il Regno di Gerusalemme, al fine di aggiungervi il secondo concilio di Nicea (787), così importante per la Chiesa e per il culto delle icone. Queste immagini subirono probabilmente l’influsso delle controversie tra cristiani e musulmani sulla giustificazione delle raffigurazioni religiose poiché i personaggi, principalmente dei vescovi, che si vedono nelle immagini costantinopolitane dei concili, sono sostituiti qui da leggere architetture, quasi aeree. Queste sono accompagnate
Armenia La storia di questo paese del Caucaso non manca di pagine gloriose, ma l’Armenia ha anche una storia profondamente tragica, fatta di invasioni, dominazioni straniere, massacri e sanguinose rivolte. Il motivo risiede principalmente nella posizione geografica di questo piccolo paese stretto tra due imperi, Bisanzio e la Persia. Gli artisti però trassero profitto da questi minacciosi vicini e s’ispirarono alla cultura di queste due grandi potenze. A lungo sotto l’occupazione persiana, le popolazioni dell’antico regno di Urartu furono ellenizzate in seguito alla vittoria di Alessandro Magno su Dario iii (331). Sorsero allora quattro piccoli regni armeni prima che, nel 190 a.C., fosse fondata la Grande Armenia, che divenne una provincia romana (69 ca. a.C.), poi bizantina nel iv secolo quando l’Impero fu diviso. Secondo la leggenda il cristianesimo vi fu predicato da san Taddeo a sud e da san Bartolomeo a nord, e i suoi primi martiri furono 230 vergini, tra cui le sante Gaiana e Ripsima. Di fatto la nuova dottrina fu proclamata religione di stato nel 301 dal re Tiridate iii dopo la predicazione di Gregorio l’Illuminatore. Questa però era già presente nel paese nel ii e nel iii secolo, come attestano le prime persecuzioni romane (nel 110, nel 230 e alla fine del iii sec.). Lo storico Agatangelo ricorda che Gregorio l’Illuminatore fu nominato catholicos dal vescovo di Cesarea e, dopo tale nomina, iniziò l’organizzazione della Chiesa armena. La strutturazione amministrativa e l’opera fondatrice furono completate da suo nipote Narses Magno (355-356), ma Gregorio fu senza dubbio il santo più venerato dagli Armeni. La leggenda narra che Gregorio ebbe una 34
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25. Pianta della struttura originale della chiesa di Avan (Armenia).
Pagina precedente: 23. Chiesa di Karmravor ad Ashtarak (Armenia).
26. Chiesa di Hripsime (Armenia).
24. Chiesa di Alaverdi (Armenia).
di Calcedonia e si affidarono al riassunto inesatto che proposero loro i monaci siriani, loro stessi vittime della confusione linguistica tra «natura» e «persona», che abbiamo già avuto modo di spiegare. Il rifiuto degli Armeni di seguire le decisioni di Calcedonia, stabilito al concilio di Dvin (506), era segno anche della volontà di autonomia della Chiesa locale che voleva rendersi indipendente da quella bizantina. Quest’operazione rappresentò un successo a livello nazionale, come fu ben espresso dal catholicos Narses: «I monasteri sono i pilastri del paese, le fortezze di fronte al nemico e delle stelle radiose». Le chiese di questi monasteri adottarono la basilica a volta, semplice o a tre navate, e questa scelta si riprodusse anche in Georgia. A titolo esemplificativo possiamo citare le chiese di Ashtarak e Yeghvard, in Armenia, e quelle di Bolnisi e Urbnisi, in Georgia. Tra il iv (chiesa di Kasagh e scavi di Echmiadzin) e il vii secolo, numerosi edifici di culto furono eretti, tra cui quelli di Odzun, Talitch, Talin Ashtarak (chiesa di Karmravor) o ancora la chiesa di S. Gaiana a Vagharshapat (Echmiadzin).
visione luminosa di Cristo nel luogo stesso dove fu costruita la cattedrale di Echmiadzin e anche che egli predicò in armeno, scelta che avrebbe dovuto assicurare un’autonomia a questa Chiesa. Notiamo anche che, all’interno della camera funeraria della più antica sepoltura regale, rinvenuta grazie agli scavi di Aragaz, fu ritrovata una piastra tombale decorata con una croce (360 ca.)24. Combinando caratteri siriaci, parti e greci, il monaco Mesrop, chiamato anche Mashtots, formatosi a Costantinopoli, compose gli alfabeti armeno e georgiano verso il 350. L’alfabeto armeno divenne ufficiale nel 40625. Furono create scuole di traduzione dal greco e dal siriaco e i testi sacri furono tradotti in armeno. Gli scritti di Efrem il Siro, la lettera di Abgar, le Tavole della concordanza e molti altri commentari teologici e poemi liturgici furono resi accessibili agli ecclesiastici armeni. La Chiesa elaborò una liturgia basata sull’antico rito di Gerusalemme, fece tradurre la Bibbia dal siriaco, così come i libri liturgici e le opere dei Padri greci e siriaci. I suoi rappresentanti non parteciparono al concilio 38
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27. Pianta della struttura originale della chiesa di Odzun (Armenia).
28. Cupola della chiesa di Odzun (Armenia).
Si tratta generalmente di basiliche a una navata in pietre assemblate, coperte da una volta. Questa è sostenuta da archi doppi che supportano i relativi pilastri. Il transetto è soppresso, l’abside è raramente sporgente e i laterali stretti si alzano piuttosto in alto. L’aspetto esteriore di questi edifici è quello di una fortezza, ma nonostante il carattere massiccio, si tratta di strutture perfettamente armoniose. Alcune varianti presentano sale rettangolari, il cui quadrato centrale è coperto da una cupola, rafforzata da volte e da archi che sostengono dei solidi pilastri (Talitch). Le cupole sono generalmente costruite su trombe, che poggiano su alti tamburi ottagonali alti, e coperte da un tetto conico. Altro tratto tipico di queste chiese è la presenza di un portico di dimensioni importanti su uno o più lati. L’Armenia fu invasa dalla Persia nel 451 e in parte liberata dai Bizantini nel 591. Indipendentemente dalle vicissitudini della storia, la costruzione delle grandi chiese in pietra procedette a un ritmo accelerato nel Caucaso a partire dal vi secolo. La loro forma esteriore è generalmente rettangolare con abside integrata o sporgente, ma è utilizzata anche la pianta centrale con una cupola su pianta quadrata che è comune in Iran26. In parallelo apparvero chiese triconche (la Madre di Dio a Verin Talin, vii sec.), quadriconche (la S. Croce a Tordan, 626 ca.), così come le chiese a forma di croce libera quali la cappella della S. Madre di Dio, detta Karmravor, ad Ashtarak27, o a croce inscritta, come la cattedrale di Mren (629-640) dal ricco decoro architetturale. Le chiese a sei conche (quella di Aragats) e a otto conche (la chiesa di Zoravar vicino a Yeghvard), rispettivamente a sei e otto bracci a raggio, sono più rare. Alcune chiese avevano delle appendici dalla parte dell’abside o del lato occidentale. A causa del numero sempre più elevato di cristiani, si cercò di costruire chiese più grandi e quelle definite sale a cupola (Kuppellhalle), capaci di accogliere assemblee importanti. Si tratta di piante a croce inscritta di cui il braccio orientale è leggermente accorciato e i pilastri che sostengono la cupola sono in parte integrati nei muri laterali28. Le cupole erano poste su trombe, come a Odzun, o su pennacchi, più diffusi a Bisanzio. Dei portici in rilievo, sovente a volta e decorati, sormontano le entrate29. La conquista araba (640) fu particolarmente crudele e l’esercito bizantino che scacciava gli occupanti (685-695) non poté nulla perché Giustiniano ii voleva imporre l’unione tra la Chiesa armena (monofisita) e bizantina (calcedonese) e devastò il paese in seguito alla resistenza opposta dal clero. A seguito di nuove prove, Ashot Bagratuni i fu incoronato re d’Armenia nell’885. Ma ben presto l’Armenia dovette vivere un nuovo dramma. Attaccato dall’emiro dell’Azerbaigian, il re Smbat i (890-914) perse la battaglia e fu crocifisso a Dvin. In seguito alla rivolta di Youssouf, la regione di Vaspurakan fu staccata dall’Armenia dei Bagratidi e divenne un principato indipendente, poi un regno con l’incoronazione del re Gagik Ardzuni (908-943).
Liberata in parte dagli arabi, l’Armenia fu un paese florido tra il x e l’xi secolo grazie al notevole sviluppo del commercio. Ani, Kars, Arin, Arzin e Dvin (quest’ultima era rimasta nelle mani dei musulmani) erano città ricche che traevano vantaggio dalla loro situazione geografica all’incrocio dei vari percorsi. La leggenda descrive Ani come la città delle mille e una chiesa. L’attività artistica e culturale era altrettanto intensa nella città che nei monasteri, dove furono tradotti, tra gli altri, Platone e Aristotele. L’apogeo di questa prosperità e della relativa fioritura culturale fu raggiunto nel regno di Gagik i (989-1020). Delle mille e una chiesa ne restano solo due tardive, quella di S. Gregorio d’Abughamrents (1291) e quella fatta costruire dal notabile Tigrane Honentz (1215), entrambe decorate con affreschi all’interno secondo un programma bizantino-georgiano. Vi avevano lavorato infatti dei pittori georgiani, giunti in seguito all’occupazione di questa regione da parte della Georgia in quello stesso periodo. Presto, tuttavia, il re Smbat iii dovette chiedere aiuto a Bisanzio per respingere gli attacchi dei Turchi Selgiuchidi (1020-1041). L’operazione fu un successo ma Bisanzio ne approfittò annettendo il regno di Vaspurakan (1021) e nel 1054 l’Armenia divenne una provincia bizantina. Non per molto tempo. Infatti, nuove invasioni dei Turchi Selgiuchidi, nel 1048 e poi nel 1064, obbligarono la popolazione ad abbandonare le proprie case e, sfidando le montagne del Tauro, a stabilirsi in Cilicia, che divenne il Regno della Cilicia o la Piccola Armenia nel xiv secolo30. Altri si diressero verso l’attuale Iraq e vi costruirono delle chiese31. Una brillante attività artistica si sviluppò in Cilicia, dove sorse una scuola di miniaturisti di grande fama. Khromkla ne fu il centro. Le opere generate da questa scuola testimoniano l’influenza occidentale che si spiega in parte con l’alleanza del regno di Cilicia con i crociati quando questi arrivarono nel paese nel 1097. Il re Baldovino i fu nominato co-reggente d’Edessa dal principe Thoris e sposò, al pari di Baldovino ii di Gerusalemme, una principessa armena. Progetti di unione tra le Chiese furono allora vagliati e nel 1140 Narsete Claiense (detto il Grazioso) cercò una soluzione di compromesso tra Armeni, Greci e Latini. Questo progetto fallì, ma i legami con Roma restarono. Ben presto però l’Armenia caucasica e la Piccola Armenia furono devastate dalle invasioni mongole (1223-1258), turche e mamelucche (1270) che distrussero Ani, le sue chiese e i suoi palazzi. Nel 1206 i Georgiani presero Kars e occuparono una piccola parte dell’Armenia settentrionale. Alla fine del secolo i capi religiosi lasciarono la Cilicia e si installarono a Sis, città ancora libera, fondandovi il patriarcato armeno di Gerusalemme. Come in altre religioni orientali, l’arrivo dei combattenti dell’ultima crociata assicurò per un breve periodo la pace e la libertà religiosa. Guido, poi Leone di Lusignano, divennero 40
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29. Chiesa di Kvemo Bolnisi, Kartlia (Georgia), xiii secolo.
30. Chiesa della S. Croce (Jvari) a Mtskheta (Georgia).
successivamente re di Cilicia tra il 1342 e il 1374. Un anno dopo quest’ultimo regno i guerrieri di Tamerlano irruppero nella maggior parte delle regioni transcaucasiche (1390) e ben presto i Turchi Ottomani e i Persiani se le disputarono. Con il xv secolo, tutti i territori armeni passarono sotto il dominio ottomano. Numerosi edifici religiosi esistevano nel sud del paese, nell’attuale Turchia nord-orientale. Malgrado le distruzioni dei secoli passati, prima del 1914 erano ancora centinaia gli edifici repertoriati. Questi oggi sono andati distrutti o sono in uno stato di rovina32. Georgia
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La Georgia, composta dalla Kartlia e dall’Iberia, è sempre stata tra le regioni più fertili dell’Oriente cristiano e questo spiega le mire espansionistiche dei suoi vicini. La zona occidentale, con il litorale, fu ben presto colonizzata (800 ca. a.C.) dai Greci che la chiamarono Colchide o Lazica, e poi dai Romani. La Kartlia divenne vassalla della Persia nel 384. Il cristianesimo fu introdotto nel paese nel 324 da monaci armeni e dalla figura leggendaria di san Nino, un greco della Cappadocia di cui parla Rufino di Aquileia33, e divenne religione di stato tra il 325 e il 350 sotto il regno del re Mirian. Questo è citato dal vescovo Leonti Mroveli nella sua Vita dei re di Georgia, anche se nessun sovrano con questo nome figura nei documenti storici34. L’evangelizzazione dei Georgiani si completò nel vi secolo grazie a monaci siriani, venuti da Antiochia, che entrarono nella storia con il nome di «Tredici Padri siriani», mentre il re Tatse testimoniò il suo attaccamento a Bisanzio facendo battezzare il figlio a Costantinopoli nel 523. Il padrino fu addirittura l’imperatore Giustino i (518-527)35 e ciò spiega in parte il vassallaggio politico ed ecclesiastico della Georgia nei confronti di Bisanzio e la sua accettazione delle decisioni del concilio di Calcedonia. Le fonti scritte e gli scavi effettuati svelano che le prime chiese furono costruite nel iv secolo, come la basilica di Sveti-Tskhoveli a Mtskheta, attribuita a san Nino. Tra gli edifici senza cupola, un tipo originale si sviluppò in Georgia verso la metà del vi secolo, ossia la basilica a tre navate, soprannominata «asiatica». Questa consiste in tre chiese collegate tra loro da porte, di cui l’edificio di mezzo è sopraelevato. L’insieme è coperto da un unico tetto come accade a Kvemo Bolnisi (478-493). Questa tipologia architettonica si sviluppò nel corso dei secoli successivi, ma non fu più utilizzata dalla metà dell’xi secolo. Le chiese a volta e a cupola esistevano dal v secolo (chiesa di Segani). Alcuni autori hanno proposto la tesi dell’imitazione della volta dalla Siria o dall’Iran, ma ulteriori scavi hanno mostrato che tali coperture esistevano già in epoca precristiana: si trattava dunque di un’antica tradizione locale36. Le cupole georgiane sono tuttora collocate su alti tamburi, come 43
31. Facciata occidentale della chiesa di Samtavisi, Kartlia (Georgia).
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(dopo il 430), che si deve a Pietro Iberico, monaco d’origine principesca, educato a Costantinopoli e futuro vescovo. Il monastero della Croce esiste ancora oggi. I legami stabiliti tra Gerusalemme e la Georgia furono tra i più stretti, come testimonia tra gli altri l’uso del calendario di Gerusalemme da parte dei Georgiani, sostituito solo nel x secolo con quello di Costantinopoli. Altri monasteri furono fondati sul Sinai, in Siria, a Cipro, in Bitinia (Asia minore occidentale), in Bulgaria, il monastero di Petriconi-Ba/kovo (xii secolo), a Costantinopoli e sul monte Athos (monastero di Iviron, 980)41. All’interno della Georgia, tra gli edifici più maestosi, vanno citati quelli del principato di Tao-Klarjeti, nell’attuale Turchia. Questi monasteri furono dotati di biblioteche impressionanti e svilupparono un’intensa attività culturale nei loro scriptoria. Nel v e vi secolo i Persiani Sassanidi occuparono l’Iberia in modo intermittente e diffusero il culto del fuoco del mazdeismo, mentre Bisanzio si appropriava di Lazica. Nel 624 l’imperatore Eraclio riuscì a sconfiggere i Persiani e farsi restituire i territori georgiani occupati. Grandi chiese furono costruite ad Ateni, Martvili Romi, Iykhani e altrove. Appena vent’anni dopo, una parte della Georgia fu conquistata dagli Arabi e Tbilisi divenne un emirato. L’occupazione si estese a poco a poco, al punto che, alla fine del vi secolo, solo le regioni di Cachezia, a est del paese, e del Tao-Klarjeti, a sud-ovest, sfuggirono alla dominazione araba. Gli edifici religiosi furono sistematicamente distrutti, molti principi georgiani martirizzati, la nobiltà fu decimata, ma la Chiesa guadagnò tuttavia la sua autocefalia (680-681) e preservò la cultura e le tradizioni georgiane, tra cui le tendenze classiche e umanistiche provenienti da Bisanzio, che quest’ultima aveva ereditato dall’arte ellenistica. Nel ix secolo il paese conobbe una rinascita politica e culturale sotto la dinastia dei Bagratidi (Bagrat i Curopalate), che coincise con una costruzione accelerata di chiese e monasteri, tra cui quelli del Tao-Klarjeti per mano di Gregorio di Khandzta (790-861), che divenne il centro della rinascita. Alla riunificazione del paese da parte del re Bagrat iii (9751014) corrispose il completamento della cattedrale di Kutaisi, l’apparizione della cattedrale e della facciata decorata con bassorilievi (Samtavisi, Sveti-Tskhoveli a Mtskheta, S. Giorgio di Alaverdi, Oshki, Khakhuli). Le sculture attorno alle entrate e alle finestre esistono dal vi secolo in Georgia come in Armenia, ma in entrambi i paesi si svilupparono in modo significativo solo a partire dal x secolo, quando intere facciate furono decorate con sculture figurative e ornamentali. La stabilità politica fu acquisita nel x secolo e si affermò nell’xi, quando i territori di Tao-Klarjeti, Abcasia, Cachezia e Kartlia formarono un solo regno. La Georgia fu all’epoca terra di rifugio per un rilevante afflusso di popolazioni armene e greche che fuggivano dall’avanzata dei Turchi in Asia
si vede per esempio a Samtavisi (xi sec.). Esse sono collegate al quadrato, che costituisce la loro base, grazie a delle trombe. La pianta più diffusa nel Medioevo apparve tra il vi e il vii secolo. Si tratta di quella centrale, detta «a croce libera», coperta da una cupola, come si osserva molto precocemente nella chiesa d’Idleti (vi sec.) e in quella di S. Giovanni Battista del monastero di Shio-Mgvime presso Mtskheta. L’edificio di culto georgiano, rappresentativo dell’epoca, che si distingue tra l’altro per un’armonia perfetta delle forme e dei volumi, è di altro tipo. In effetti, la chiesa della S. Croce (Jvari), a quattro conche e cupole, è abbarbicata su una roccia presso la città di Mtskheta, quasi fosse un faro della cristianità orientale. Più volte ristrutturata, l’attuale forma risale alla seconda metà del vi secolo (586-606) e fu eretta per ordine del sovrano del regno di Kartlia, Stefano i, con l’accordo della famiglia37. Tutti i donatori sono ricordati in un’iscrizione38. Un mosaico decora l’abside centrale. Tra le numerose chiese di questo tipo vanno annoverate quella di Ateni (vii sec.), di Martvili (vi-vii sec.) e di Dzveli Yuamta (vi-vii sec.)39. Una delle varianti importanti è quella realizzata nel vii secolo a Zromi: si tratta di un edificio in cui il tamburo e la cupola sono sorretti da pilastri liberi40. In Armenia e in Georgia furono create anche delle varianti a pianta centrale con un ottagono inscritto in un quadrato, così come chiese quadriconche costituite da un quadrato affiancato da quattro conche. Questa pianta ebbe un tale successo che furono parimenti realizzate chiese a sei-conche attorno a un quadrato, un ottagono o un cerchio. Queste sono circondate a volte da un vestibolo circolare. Si incontra anche la pianta cruciforme libera, dove la chiesa stessa assume la forma, in pianta, di una croce. Dal x-xi secolo, la pianta dominante è quella a croce inscritta con cupola. La croce, in queste chiese, non è visibile dall’esterno, ma articola lo spazio interno disegnando una croce con l’aiuto di un transetto che forma un braccio trasversale. Contrariamente a quanto si vede in ambito costantinopolitano, queste cupole non sono solo posizionate su alti tamburi, ma sono anche coperte da tetti piramidali con due pendenze, la cui inclinazione è nettamente più accentuata in Georgia che in Armenia. Dall’xi secolo, le facciate sono ritmate da un sistema di archi e di colonnine. Questi edifici sono a volte circondati da importanti fortificazioni. Il templon è generalmente in muratura e non fu seguito nel Medioevo dall’iconostasi bizantina. Solo l’architrave del templon è decorata con soggetti figurativi, o piuttosto con figure di santi che sono stati associati con la rappresentazione dell’abside. I sovrani georgiani e i dignitari ecclesiastici non si accontentarono di riempire il paese di chiese e di monasteri, ma sentirono il bisogno di erigerne altri al di fuori dei propri confini. Fondarono, infatti, una ventina di monasteri solo in Palestina, di cui il primo fu il monastero degli Iberi 44
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32. Mosaico della cupola della chiesa minore di S. Giorgio, complesso monastico di Gelati, Imeretia (Georgia).
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33. Complesso monastico di Gelati, Imeretia (Georgia), xii secolo.
Minore dopo la disfatta bizantina a Manzikert. Sfortunatamente, il Tao-Klarjeti condivise presto la disgrazia dei suoi ospiti poiché i Turchi Selgiuchidi lo devastarono nel 1065. Tuttavia, nelle altre regioni del paese, il x e xi secolo furono un periodo di intensa costruzione durante i quali le piante del passato furono a volte perpetuate, come nella chiesa di Samtavisi a pianta a croce inscritta con cupola, e in alcuni casi sviluppate con quattro conche a nicchia, sei conche (la chiesa di Bo/orma, x sec. e di Nikortsminda, xi sec.) e otto conche, accanto ad altri tipi architettonici (Sveti-Tskhoveli, xi sec.). La quasi totalità delle suddette chiese godeva di un ricco decoro scultoreo all’esterno, di cui si parlerà successivamente, poiché si tratta di una peculiarità, estranea alle chiese dell’Impero e, in seguito, a quelle slave, nonostante qualche chiesa russa vi abbia fatto ricorso. L’età d’oro della Georgia cominciò con Davide iv il Costruttore (1089-1125), che scacciò i Turchi, fondò monasteri e convocò il sinodo nazionale di Ruis-Urbnisi che riformò la Chiesa. Egli perseguì una politica d’espansione e annesse l’Armenia del nord nel 1123. Fondò il monastero di Gelati, e vi aggiunse un’accademia, dove furono invitati sapienti georgiani e stranieri, tra cui molti da Costantinopoli. Lui stesso leggeva il greco e l’arabo e scrisse più opere letterarie. Fondò anche un’altra accademia a Ikalto e la pose sotto la direzione di un monaco erudito formatosi a Costantinopoli. Questo re illuminato, che aveva reso la Georgia lo stato
più potente del Vicino Oriente, fu dichiarato eroe nazionale e santo della Chiesa georgiana. La sua opera fu proseguita dai suoi successori. Sempre nel xii secolo, sorse la chiesa di Ikorta, grazie a dei signori della corte di Giorgio iii, come recita l’iscrizione. Infine, la grande regina Tamara (1184-1213), che aveva sposato il principe dell’Ossezia Davide Soslan, allargò ulteriormente le frontiere del suo regno al punto che si estendevano ormai dal Mar Nero al Mar Caspio. Grazie alla conquista di Kars, furono incrementati i possedimenti georgiani in Armenia; la regina contribuì, in accordo con i Bizantini, alla fondazione dell’impero di Trebisonda dopo la conquista crociata di Costantinopoli nel 1204. Grandi chiese con affreschi, ancora ben conservati, furono erette nei primi due decenni del xiii secolo, come quelle di Kincvisi, Timotesubani, Betania. L’invasione mongola (1220) mise fine all’espansione e il paese ritroverà la sua unità solo con Giorgio v il Brillante (1314-1346). Numerose altre chiese furono erette nel corso del xiv secolo e decorate da pitture ancora relativamente ben conservate che rivelano sovente un’influenza costantinopolitana dovuta a pittori provenienti dalla capitale bizantina che lavorarono nel paese (Zalendgikha). Tuttavia, alla fine del xiv secolo le incursioni mongole ripresero (1384-1415), seguite da quelle dei Persiani e dei Turchi. Vennero distrutte sistematicamente le chiese, incendiati i villaggi e notevoli furono le perdite di vite umane. 46
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34. Facciata sud della chiesa di Nikortsminda, Abrolauri, Raca (Georgia). 35. Particolare dei rilievi che decorano la facciata di Katskhi, Chiatura, Imeretia (Georgia). 36. Facciata occidentale, decorazione scolpita con Cristo benedicente a Nikortsminda, Abrolauri, Raca (Georgia).
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37. Ampolla in terracotta con l’effigie di san Mena, vi-vii secolo (Parigi, Musée du Louvre).
38. Monastero Bianco, Sohag (Egitto).
Il iii secolo fu l’epoca delle persecuzioni più violente42, ma all’alba del iv il paese contava già un centinaio di vescovi e numerosi luoghi di pellegrinaggio. Tra questi la tomba di san Mena nel deserto di Maryut vicino ad Alessandria, dove, in prossimità del sepolcro, vi era una fonte in cui si verificarono guarigioni di malati. Un’ampolla in terracotta del vi-vii secolo, conservata al Museo del Louvre, è decorata con un’immagine di Mena tra due cammelli: l’ampolla probabilmente servì per trasportare l’acqua della fonte miracolosa43. La tradizione attribuisce all’imperatore Costantino i la fondazione di una basilica – Abu Mena – sopra questa tomba. L’edificio fu ampliato dall’imperatore Arcadio i nseguito al grande afflusso di pellegrini ed è attualmente in rovina44. È doveroso precisare che Mena fu uno dei santi più venerati in Egitto. Molti bambini furono chiamati con tale nome e l’abate Mena compare in una delle rare icone copte di qualità del vii secolo. È raffigurato in compagnia di Cristo che lo protegge mettendogli una mano sulle spalle, un gesto famigliare che non si riscontra altrove. Questa pittura su legno, con figure tozze dalle teste troppo grandi, ma modellate con cura, ricorda le più belle pitture dei monasteri di Bawit, da cui l’icona d’altronde proviene45. Queste opere ci permettono di riconoscere la loro eredità antica, che risale probabilmente ai ritratti funerari del Fayyum, dipinti su legno a encausto in epoca romana (ii sec.). L’alto clero egiziano giocò un ruolo importante nella vita religiosa dell’Impero bizantino, poiché il patriarca di Alessandria, Teofilo (385-412), provocò la caduta di Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli, e il suo successore Cirillo fece condannare Nestorio, che occupava la medesima sede episcopale. Il patriarca Dioscoro fece deporre il patriarca di Costantinopoli, Flaviano. Infine, la scelta monofisita provocò delle persecuzioni da parte dei Bizantini e la nomina di due linee parallele di Patriarchi in Egitto, uno designato dalla Chiesa bizantina, l’altro dal clero monofisita locale. L’appellativo «copti» deriva dal greco aigyptoï e si riferisce alla loro nazionalità e alla loro fede cristiana. La loro lingua fu parlata fino al xiii secolo. La maggior parte dei copti fu certamente monofisita, ma vi erano tra loro anche adepti di altre correnti religiose46. Alessandria fu una città esclusivamente greca fino al iii secolo, e contava circa mezzo milione di abitanti, dato eccezionale per l’epoca. La comunità cristiana ivi presente era importante e questo spiega la fondazione, verso il 180, di una scuola d’esegesi biblica, il Didaskaleion, di grande fama, dove si incontrarono e fusero ellenismo e giudaismo. La città disponeva anche della famosa biblioteca con 500.000 rotoli di papiro e pergamena, probabilmente bruciata dagli Arabi al momento della conquista. Parallelamente alla versione colta del cristianesimo, impregnata di filosofia greca, si affermò una tradizione cristiana differente, propria delle campagne,
Egitto Conquistato da Alessandro Magno (332 a.C. ca.), annesso da Roma (31 a.C. ca.), e diventato bizantino nel iv secolo, l’Egitto ebbe una popolazione tra le più eterogenee. Greci, Romani, indigeni d’origine differente che coabitavano, caratterizzati dalla propria lingua, livello di cultura e afferenze a culti e tradizioni diverse. Nonostante il clima intellettuale favorevole, il cristianesimo apparve innanzitutto nell’ambito giudaico e greco-romano d’Alessandria e fu predicato principalmente da missionari d’origine giudaica. La tradizione attribuisce l’evangelizzazione dell’Egitto all’apostolo Marco nell’anno 40, dato confermato dal Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo, ma vi sono delle incertezze. Al contrario, i legami tra Gerusalemme e Alessandria sono incontestabili e il più antico manoscritto del Vangelo, il Papiro 52 (seconda metà del ii sec.) della Biblioteca John Rylans di Manchester, proviene dall’Egitto. Tuttavia a quell’epoca non si può parlare di una dottrina cristiana coerente, al punto che Clemente Alessandrino, impregnato di filosofia greca, descrive Cristo come una divinità solare che conduce il proprio carro in cielo. 50
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39. Fregio che ornava la sala dell’agape nella catacomba di Karmouz, in Egitto (acquerello di C. Wescher).
40. Cupola della cappella n. 25 della necropoli di El-Bagawat (Egitto).
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isolato si trova ancora nelle chiese di S. Scenute (v sec.) e d’El-Moallaqa (iv-v sec.), nella città vecchia del Cairo. La pittura propriamente copta o bizantino-copta si afferma nei monasteri di S. Apollo a Bawit e S. Geremia a Saqqara: alcuni aspetti di questi saranno presi in esame nella seconda parte del lavoro. Lo stesso accadde per le chiese copte medievali e i loro affreschi, che derivano a volte dall’arte copto-araba, come nel caso degli affreschi del monastero di S. Antonio (xiii sec.).
che conservava il ricordo della religione dell’antico Egitto. I primi monumenti cristiani d’Egitto sono quelli di Alessandria, come il cimitero di Karmouz, le cui pitture, oggi scomparse ma di cui ci resta testimonianza in alcuni acquerelli47, furono tipici esempi di arte paleocristiana, nella forma in cui essa fu praticata in tutto il mondo cristiano nel iv secolo. Questo è anche ciò che caratterizza il linguaggio plastico dei dipinti nella necropoli di Wardian. Per quanto riguarda l’iconografia, essa è un mélange di ricordi pagani e soggetti cristiani. In Egitto centrale sorse la tebaide di Antinopoli, i cui dipinti sembrano usciti dalle botteghe di Costantinopoli, in particolare l’affresco che adorna la tomba di Teodosia tra due santi48. Nell’oasi di Kharga si trova la necropoli di El-Bagawat i cui affreschi sono molto deteriorati. Gli affreschi meglio conservati e più interessanti per la nostra indagine sono quelli della cupola della cappella n. 25, dove le aquile, nei pennacchi, sollevano il disco solare che occupa l’intera volta49. Le aquile, ereditate dal repertorio romano, sono sconosciute nelle chiese bizantine, ma si trovano più di una volta in Oriente, per esempio su un rilievo di epoca antica del Museo Copto del Cairo50, e bisogna ricordare anche il magnifico uccello del capitello della cattedrale armena di Zvartnots51. Le pitture murali delle catacombe di Karmouz (iv-v sec.), vicino ad Alessandria, custodiscono dei soggetti dei due testamenti tra cui il ciclo dei Miracoli di Cristo. A seguito di svariati studi, è stato possibile stabilire che queste pitture derivano da un manoscritto alessandrino anteriore al regno di Costantino, per il loro stile molto libero e vicino alla tradizione ellenistica d’Alessandria. Qualche personaggio
Regni della Nubia e dell’Etiopia Nel vi sec. a.C., la Nubia era nota come il regno di Meroe. Gli Egiziani la occuparono dopo il 350 e la chiamarono il «paese di Kush». Quest’ultimo si estendeva sui territori situati all’estremo sud dell’Egitto, nelle regioni delle cateratte del Nilo, e fu evangelizzata nel vi secolo. La sua storia si intreccia sia con quella dell’Egitto sia con quella del regno d’Axum, l’attuale Etiopia. La sua arte è vicina a quella dei due paesi che la occuparono per dei lunghi periodi, ma si distingue per numerosi particolarismi in materia iconografica52. Il caso dell’Etiopia è più particolare. Il paese è menzionato diverse volte nella Bibbia con il nome di Kush (1 Re 10,1-13; Sal 68,31-32) e anche nell’Odissea di Omero che definisce i Kushiti «i visi bruciati alla fine del mondo». Questo territorio montagnoso e arido, irrigato dal Nilo Blu e vicino al Sudan, è sempre stato occupato da una moltitudine di etnie, circa quaranta gruppi che parlavano settanta lingue e duecento dialetti. Dal xii secolo esiste una scrittura, il geez, e anche una lingua liturgica. La conversione al cristianesi53
41. Icona copta raffigurante Cristo e san Mena, vii secolo (Parigi, Musée du Louvre).
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mo avvenne nel 329, grazie a missionari bizantini, ma fu un siriano, sant’Atanasio, che fondò la Chiesa etiope e la pose sotto l’autorità del Patriarcato d’Alessandria. Rapidamente nove monaci siriani arrivarono nel paese e vi fondarono altrettanti monasteri, secondo la leggenda. Essi tradussero il Nuovo Testamento in geez53. Le origini mitiche della prima dinastia affondano nella Bibbia: il re Menelik sarebbe stato, infatti, figlio della regina di Saba e del re Salomone. Il regno d’Axum (viii-ix sec.) conobbe una certa prosperità al punto che conquistò lo Yemen con l’aiuto dell’Impero bizantino. Nel xii secolo la nuova dinastia Zaguè spostò la capitale verso sud e la chiamò Lalibela. Sono conservate una quindicina di chiese anteriori al xv secolo, alcune delle quali sono dei blocchi monolitici tagliati nella roccia a forma di croce, profondamente immersi nel suolo. Esse comprendono una sala quadrata o rettangolare, un’abside non sporgente, e delle entrate a sud e a nord. Numerosi edifici di culto sono stati costruiti nel vi secolo, tra cui la cattedrale d’Axum, ma furono distrutti da incursioni nemiche. Qualche affresco e un certo numero di manoscritti illustrati dell’xi e xii secolo, tra cui quelli conservati nella chiesa della Vergine (Bet Maryam) e in quella di Bet Libanos a Lalibela, così come altri due manoscritti illustrati del monastero d’Abba Garima a Madara, nella regione dei Tigrè, testimoniano al tempo stesso l’influenza bizantina, siriaca e armena. Terminate le devastanti invasioni arabe, il paese conobbe una sorta di rinascita nel xiii secolo, epoca alla quale appartengono gli affreschi di due chiese, S. Michele a Dabra Salam e la chiesa della Vergine o Qorqor Maryam54. Dal xiv secolo, il paese subì le incursioni dei musulmani del sultanato d’Ifat. Malgrado il loro isolamento, i monaci etiopi fondarono delle comunità monastiche a Gerusalemme, Cipro e Roma e intrattennero relazioni con Costantinopoli, l’Egitto copto, la Siria, l’Arabia e l’India, le cui tradizioni artistiche contribuirono a formare il linguaggio plastico etiope. In Etiopia si ebbe anche un’influenza dell’arte islamica e africana. Quanto all’iconografia, essa è vicina a quella dell’Oriente bizantino e in particolare a quella egiziana. Santi copti, come Scenute, Mena, Bishoi e altri, sono raffigurati nella chiesa di Gannata Maryam, mentre immagini di santi etiopi sono ancora rare alla fine del xv secolo. A quell’epoca il paese è devastato dai Somali, poi liberato dai Portoghesi; quest’ultimi portarono con sé le missioni latine. Ci si potrebbe interrogare circa il nostro silenzio per quel che riguarda l’Africa del Nord. Esso è dovuto al fatto che ben poche sono le opere cristiane conservatesi in queste regioni, fatta eccezione per architetture in rovina, mosaici e lastre funerarie romane. Tuttavia, non si può non ricordare che Cartagine fu un centro importante della nuova religione (ii-v sec.) e vide nascere Tertulliano (160 ca.-225) e sant’Agostino (354-430).
Asia Minore Conquistata dai Romani ed evangelizzata nel 45 da Paolo e Barnaba, l’Asia Minore faceva parte dell’Impero bizantino, ma ciò non significa che le sue migliaia di monaci seguissero in tutto le norme stabilite a Costantinopoli. Per quanto concerne l’arte e la spiritualità, i monaci erano in una situazione di scambio e di contatto continuo con tutte le Chiese orientali, in particolare con quelle della Siria e dell’Armenia, pur essendo loro stessi calcedonesi. Essi furono degli appassionati costruttori di chiese, per le quali avevano adottato il piano della basilica a volta (vii-ix sec.), in particolare nella regione montuosa di Karadag (la montagna nera), a sud di Konya. Questa è chiamata in turco Bin bir kilisé (le mille e una chiesa), e tale nome si commenta da solo. Questi edifici avevano una o più navate, separate da pilastri, e un’abside. Due torri si elevavano accanto a ciascun lato del portico centrale del nartece. La volta sembra essere stata conosciuta tramite la Siria, elemento che non sorprende date le strette relazioni tra le due chiese. La quasi totalità di questi edifici di culto, tra cui molti all’inizio del xx secolo, fu distrutta55. La storia dell’Asia Minore è quella dell’Impero bizantino, almeno fino all’xi secolo. Essa conobbe un’importante immigrazione di Armeni nella regione del Tauro e della Cilicia56. In epoca paleocristiana, la Cappadocia era una satrapia persiana, poi dall’anno 17 divenne una provincia romana e infine bizantina nel momento in cui l’Impero fu diviso, con capitale a Cesarea. Particolarmente legato ad Antiochia nei primi quattro secoli, il patriarcato dell’Asia Minore fu annesso a quello di Costantinopoli nel 351, ma il metropolita di Cesarea occupava un posto importante nella gerarchia ecclesiastica. La Cappadocia fu la patria dei grandi teologi, come Basilio Magno, suo fratello Gregorio di Nissa, e il loro amico Gregorio Nazianzeno, tutti provenienti da Cesarea nel iv secolo e tutti Padri della Chiesa. Alcuni cappadoci illustri fondarono dei monasteri altrove, in particolare in Terra Santa, come fecero Teodoro e Saba57. I vescovi dell’Asia Minore furono favorevoli all’iconoclasmo e alcune chiese hanno custodito scene aniconiche, cosa piuttosto rara. Centinaia di monaci si stabilirono ben presto in Cappadocia e fondarono i monasteri rupestri. Questi erano composti di chiese scavate, grazie al tufo vulcanico che era adatto a tale scopo. Le loro pitture sono ancora parzialmente conservate. Dopo le incursioni degli Unni (v sec.) cominciarono quelle degli Arabi (643). Per proteggere i territori orientali, la dinastia degli imperatori Isaurici (717-802) creò lungo la frontiera dei distretti militari posti sotto l’autorità di uno stratega con potere civile e militare. Egli arruolava i soldati per il suo esercito, difendeva le fortificazioni e amministrava città e villaggi. Potenti famiglie di militari, come quella di Foca, s’installarono in Cappadocia nel ix secolo contribuen54
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42. Chiesa di San Giorgio, Lalibela (Etiopia).
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Nonostante il mazdeismo fosse diffuso in tutto il paese, una Chiesa cristiana si costituì comunque dalla fine del iii secolo, quando il vescovo di Seleucia-Ctesifonte volle imporre la sua supremazia sugli altri vescovi del paese. Alcuni documenti attestano la presenza dei cristiani a corte, l’esistenza di eremiti e la fondazione di monasteri. Le ostilità tra Persiani e Romani nel 338 misero fine alla tolleranza religiosa e inaugurarono le persecuzioni che cominciarono sotto Shapur ii e portarono a un «grande massacro» (340-383) poiché i cristiani erano sospettati di connivenza con Roma. Un mutamento ebbe luogo nel v secolo e un concilio nazionale si riunì nel 410 a Seleucia. La Chiesa cristiana fu riconosciuta dallo Stato e posta sotto l’autorità del vescovo di Seleucia. Ma il potere diffidava dei cristiani, sospettati in seguito di essere alleati di Bisanzio, al punto che presto le persecuzioni ripresero. La Chiesa nestoriana di Persia, nonostante le difficili condizioni, resistette fino all’arrivo dei Mongoli di Tamerlano (1393) che però distrussero tutto ciò che si trovava sul loro passaggio61. Il mazdeismo è stato riformato da Zoroastro o Zaratustra (628-551 a.C.), che fu il primo a formulare nell’Avesta, il suo libro sacro, delle tesi escatologiche, e questo avvenne sei secoli prima dell’era cristiana. L’Apocalisse e il Giudizio universale – le cui prime descrizioni dettagliate risalgono a Efrem il Siro – se ne ispirarono. A questo si aggiunse l’idea della Risurrezione e di un Regno di Dio, probabilmente trasmessa agli Ebrei durante il loro esilio a Babilonia. Tali concetti si ritrovano anche tra gli esseni (ii-i sec. a.C.), setta ebraica vicina alla dottrina cristiana, e tra gli gnostici. Zoroastro aveva anche vietato i sacrifici cruenti e il suo dio, AhuraMazda, era al vertice della gerarchia divina, in un certo senso non lontano dalla concezione di un Dio unico. Certo, questi si opponeva comunque a un dio delle tenebre, Ahriman, il Bene e il Male sono impegnati in un combattimento eterno, che non pregiudica però la preminenza di Ahura-Mazda. Il mitraismo e il suo culto del dio solare Mitra si diffuse nel iiiii secolo, più o meno nello stesso momento del manicheismo a Babilonia (dopo il 216), ma quest’ultimo fu combattuto dai Persiani. Una Chiesa cristiana fu tuttavia costituita e si distingueva per una liturgia detta caldea che conservava tutta la sua purezza originaria. Sul piano dogmatico essa restò legata al nestorianesimo del v secolo. Per quanto riguarda l’arte dei cristiani orientali, l’influenza della Persia è duplice. Diretta da un lato, come abbiamo visto nella scultura transcaucasica, e indiretta dall’altro perché veicolata dall’arte islamica. La superiorità e la ricchezza del persiano furono tali che questo fu adottato dagli Arabi per tutte le espressioni politiche o filosofiche e influenzò la stessa struttura dell’idioma, benché l’arabo sia un idioma semitico e il persiano una lingua indoeuropea. Tuttavia la prosodia restò puramente araba. Quanto alla pittura, araba e cristiana, essa subì l’influenza dell’arte iraniana, ma in
do a organizzarne la difesa. Questo sistema divenne particolarmente efficace all’epoca di Basilio ii (976-1025), grazie alle sue vittorie in Oriente che fecero arretrare le frontiere dell’Impero fino alla Palestina. Egli occupò anche dei territori georgiani di Tao-Klarjeti e altre zone armene (1022-1065)58. Delle popolazioni di questi territori, così come dei prelati, immigrarono in Cappadocia e questo rinforzò i rapporti già esistenti tra gli ecclesiastici di questi paesi. Nel frattempo proseguiva l’avanzata inarrestabile dei Turchi Selgiuchidi che attaccarono Bisanzio vicino al lago di Van, un tempo armeno, e vinsero nella battaglia di Manzikert (1070). Dopo questa bruciante sconfitta, le popolazioni greche restarono e coabitarono con i Turchi, che non impedirono loro di costruire o scavare chiese nella roccia. Tuttavia, la maggior parte di queste cappelle rupestri sono state scavate e decorate tra il ix e l’xi secolo. Quest’ultima tecnica fu preferita perché meno costosa, poiché il tufo vulcanico era una materia malleabile. Grazie allo sviluppo del sultanato di Roûm, il xiii secolo fu un periodo di prosperità e di fondazione di luoghi di culto, sia cristiani sia musulmani. Si conservano ancora circa duemila chiese con dipinti. Persia È necessario soffermarsi un po’ sulla Persia, non solo perché dei cristiani vissero in questo vasto territorio, ma anche perché la sua civilizzazione millenaria, con una storia alle spalle di circa cinquanta secoli, ha influenzato l’arte e il pensiero di tutto l’Oriente cristiano e, ben al di là, quello dei Greci, di Bisanzio e perfino dell’Occidente, penso in particolare alla scultura delle cattedrali romane e gotiche59. Vittorioso contro i Persiani, Alessandro Magno si lasciò per così dire iranizzare proclamandosi il successore di Dario e di Serse, affascinato da questa civiltà in cui nell’viii sec. a.C. circa era nata l’arte plastica, come hanno dimostrato le recenti scoperte in Azerbaigian. Tale stato d’animo non evitò comunque le distruzioni cui si dedicò il suo esercito. Ovviamente in Persia penetrò un’influenza ellenistica in modo continuativo per due secoli. Platone e Aristotele vi erano ben conosciuti. I Sassanidi erano dei mazdeisti, ma al pari dei loro predecessori Parti, essi si distinsero per una completa tolleranza verso le religioni differenti dalla propria. Così la Chiesa cristiana nestoriana ebbe la possibilità di svilupparsi e contava un numero non trascurabile di aderenti, dato che questo territorio si estendeva su tutta la Mesopotamia e fino al deserto siriano, avendo come capitale Naqsh-i Rustam. Fu la Mesopotamia che trasmise ai Parti la volta a botte, costruita in mattoni60. Le opinioni degli specialisti al riguardo sono discordi, ma appare evidente che il modello iraniano fu imitato più tardi in Transcaucasia e in Asia Minore. D’altra parte una certa influenza dell’arte iraniana su quella bizantina non è più in discussione.
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43. Una veduta del paesaggio di Cappadocia, con i monasteri rupestri (Turchia).
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44. Veduta dei monasteri rupestri di Cappadocia (Turchia).
45. Il mosaico della facciata della Grande Moschea degli Omayyadi a Damasco (Siria).
modi diversi nelle varie regioni. È nettamente affermata nella scultura transcaucasica, ma anche nelle miniature arabe che illustrano testi laici, in particolare i celebri racconti o Maqamat di al-Hariri62. Lo stile di alcuni artisti cristiani orientali risente egualmente della prossimità con tali opere. La dominazione arabo-musulmana
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Nel corso del vii secolo, la conquista araba si diffonde in tutto il Medio Oriente assicurando in tal modo l’espansione della religione musulmana rivelata a Maometto dall’arcangelo Gabriele nel 613. Il suo libro sacro è il Corano, che attinge dall’Antico e dal Nuovo Testamento63. Nei diversi territori conquistati dai musulmani si continuò a conservare l’apparato amministrativo bizantino. Gli alti funzionari incaricati di questo furono bizantini o iraniani. I letterati, gli intellettuali e gli artisti iraniani, così come gli amministratori, giocarono un ruolo capitale sia presso i califfi arabi sia, più tardi, alla corte dell’imperatore ottomano. Le relazioni tra la popolazione e i conquistatori furono inizialmente piuttosto buone, e persino eccellenti sotto la dinastia degli Omayyadi (661-750), che non esitarono a ingaggiare numerosi funzionari, tecnici e saggi cristiani; essi fecero anche venire degli artisti bizantini per decorare con mosaici aniconici la grande moschea di Damasco. Quando, dal 750, il paese si lacerò tra sciiti (più mistici) e sunniti (più radicali) e Baghdad divenne il centro di una civilizzazione raffinata, le relazioni si fecero tese, addirittura ostili. Dal ix secolo i funzionari cristiani furono congedati e le popolazioni cristiane mantenute in uno stato di subordinazione calcolata, la «dhimmitudine». Tale condizione sottintendeva una certa tolleranza religiosa che ammetteva la costruzione di piccole chiese, ma allo stesso tempo predicava la «jihad» interiore, che imponeva da una parte l’umiliazione dei cristiani per stigmatizzare le loro credenze come false e,
dall’altra parte, la loro emarginazione per non «contaminare» i musulmani. Con le crociate (1096-1270), i cristiani della Siria e della Palestina conobbero periodi alterni di libertà, che ebbero delle ripercussioni sull’arte, e di persecuzione. In Egitto, svariate rivolte furono duramente represse, ma i copti restarono numerosi. Le invasioni mongole (1220), mamelucche (1258) e turche selgiuchide devastarono a turno il Medio Oriente medievale e i Mongoli di Tamerlano aggiunsero alle distruzioni un vero e proprio bagno di sangue. Alla fine, i Turchi divennero in modo duraturo i padroni dell’Oriente. Sostenuti dalla loro fede, i cristiani sopportarono tutte queste prove e continuarono a costruire chiese e monasteri, a copiare e decorare manoscritti, ma dipinsero meno icone che altrove nel mondo bizantino, fatta eccezione per la Georgia. Durante la dominazione musulmana, essi seppero mantenere stretti i rapporti che avevano sempre avuto con Costantinopoli e Gerusalemme.
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Capitolo terzo
SOGGETTI E SCHEMI TIPICI DEI PRIMI SECOLI
la liturgia copta. Efrem il Siro affronta ampiamente il tema della Vergine Madre nel suo Inno alla Natività (Epifania)9 e Giacobbe di Sarug suggerisce che «Maria nutre Gesù allo stesso modo che Gesù nutre lei»10. In Oriente, la diffusione del tipo iconografico della Galaktotrophousa è legato anche ai canti che la Chiesa compose grazie a delle melodie palestinesi dell’viii secolo o un po’ più tardi che celebravano la maternità di Maria. A Bisanzio lo schema apparve solo nel xii secolo, in una raccolta illustrata di scritti apocrifi sulla Vergine del monaco Giacomo Kokkinobaphos11, ma resta un tema raro, indubbiamente giudicato troppo umano per rappresentare degnamente la Theotokos, anche se di fondo esso mira a sottolineare l’Incarnazione. Un altro tipo iconografico della Vergine con il Bambino, denominato della Tenerezza o Eleousa, sembra aver avuto origine anch’esso in Oriente, perché vi è presente fin dal ix secolo, mentre a Bisanzio non apparve che all’inizio del xii. Questo schema mostra Gesù che appoggia teneramente la sua guancia contro quella di sua Madre passando un braccio attorno al suo collo o appoggiandolo sul suo petto, come nel caso di vari affreschi della Cappadocia, tra cui quello di Tokali Kilise (x sec.)12, o ancora di due icone georgiane, quelle di Lagurka e di Adichi (xi-xii sec.)13. Fu solo verso il 1130 che questo schema apparve su un’icona costantinopolitana inviata al principe Vladimir in Russia e chiamata la Vergine di Vladimir14. Possiamo ovviamente sempre supporre che sia esistita un’immagine anteriore a questa attestata a Costantinopoli ma tale ipotesi non sembra verosimile perché la Vergine della Tenerezza non è un fenomeno isolato a Bisanzio. Questo soggetto emerse, nel medesimo periodo, insieme a tutta una serie di schemi e di nuovi temi che testimoniano il desiderio di prestare dei sentimenti umani ai personaggi sacri, operazione questa che non fu autorizzata prima del xii secolo15.
Lo schema della Vergine che allatta, la Vergine della Tenerezza e gli antecedenti dei santi cavalieri (iv-viii sec.)
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Le più antiche creazioni artistiche d’ispirazione cristiana si trovano nel deserto siriano ed egiziano, indubbiamente conservate grazie al clima secco favorevole. Si tratta nella maggior parte dei casi di un’arte piuttosto rozza da un punto vista stilistico, in accordo con quel popolo povero, ignorante e condannato a un lavoro di schiavitù, dal quale provenivano i monaci. Tuttavia l’iconografia dei decori delle chiese testimonia un’erudizione teologica impeccabile e ciò fu dovuto alla partecipazione alla vita religiosa delle classi elevate formatesi ad Alessandria, al Cairo o a Costantinopoli. Altri tipi di immagini specifiche del vi-vii secolo sono di origine palestinese. Tra le sculture cristiane del iv secolo, la stele di Medinet elFayyum, in calcare inciso, è di una incontestabile originalità. Questa mostra Maria seduta su uno sgabello che offre il suo seno a Gesù1. A differenza della maggior parte degli schemi iconografici, questo non fu inventato a Costantinopoli ma in Egitto, dove fu indubbiamente ispirato da rappresentazioni simili di epoca faraonica che mostrano Iside mentre nutre suo figlio Horus, come si vede nella statuetta del Museo del Louvre2. Un affresco egiziano del iii-iv secolo proveniente da Karanis, mostra Iside che allatta Arpocrate e si caratterizza per un realismo sorprendente molto vicino ai modelli antichi3. Notiamo a tal proposito che la donna che allatta nelle catacombe di Priscilla a Roma (stanza della Velata), a volte citata in tale contesto, non offre alcuna indicazione che permetta di pensare che si tratti della Vergine. Il tipo della Galaktotrophousa è rappresentato due volte nel vi-vii secolo nel monastero di San Geremia a Saqqara: in una nicchia della cella 1725 (vi-vii sec.), il cui arco mostra delle personificazioni di virtù sotto forma di teste nimbate4 e nella cappella «A». In tali pitture a tendenza realistica – per quanto ciò sia possibile nell’ambito dell’estetica bizantina – Gesù ha dei capelli finemente arricciati, quasi crespi, e il trono di Maria è ornato da sculture decorative5, come si può vedere sulle cattedre episcopali nelle chiese. La Vergine che allatta è anche presente nel monastero di S. Apollo a Bawit, e in seguito in Siria a Mar Elian (S. Elia) a Qara (xii sec.)6, e in Libano, sul muro orientale della cappella di Kfar Chlaimane a Kaftoun, dove è però ormai scomparsa. Pur tardivamente, la Galaktotrophousa arrivò anche in Etiopia e apparve su un’icona di Fre Seyon del xv secolo7. Questo tema è sovente trattato nella letteratura egiziana8. D’altro canto, gli inni per la Madre di Dio (Theotokos), che non sono datati, evocano la Natività e fanno parte del-
46. Abside del monastero Rosso, Sohag (Egitto).
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49. Affresco da Karanis (Egitto) con Iside che allatta Arpocrate, iii-iv secolo.
Pagina precedente: 47. Affresco della nicchia della cella 1725 raffigurante la Vergine che allatta il Bambino, monastero di San Geremia, Saqqara (Egitto).
50. Madonna del latte, monastero di Mar Elian (S. Elia), Qara (Siria), xii secolo.
48. Iside allatta Horus, statuetta in bronzo, 664-332 a.C., Parigi, MusĂŠe du Louvre.
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51. Madonna del latte, cappella A, monastero di S. Apollo, Bawit (Egitto).
52. Icona di Fre Seyon (Etiopia) con la Vergine che allatta il Bambino tra due angeli, xv secolo. 53. Annunciazione alla Vergine, pannello di legno egiziano intagliato, fine del v secolo (Parigi, Musée du Louvre).
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desta che risale alle antiche tradizioni mesopotamiche, diffusa nei monasteri del deserto, due sono i modi di espressione artistica che caratterizzano anche l’arte della Siria. Quella a dominante greco-romana prosperò nelle regioni costiere, mentre la tradizione d’origine greco-partica si concentrò all’interno del paese. È a quest’ultima corrente che appartengono le sculture di Palmira e le pitture di Dura Europos, evocate a proposito della formazione dello stile bizantino. Tuttavia, la statuaria e i bassorilievi funerari di Palmira sono molto più prossimi alla scultura ellenistica di quanto lo siano le pitture di Dura Europos. D’altra parte, a Palmira si ebbe a che fare con uno stile maturo e una qualità artistica eccezionale, diversamente da quanto accadde a Dura Europos. La loro datazione (prima metà del iii sec.) ci impone di soffermarci. Situata sull’Eufrate, oggi in una regione desertica, Dura Europos fu un tempo una città florida dove la popolazione ebraica fu verosimilmente numerosa. Inglobata dai Parti nel 113 a.C. e riconquistata dai Romani nel 165, nel iii secolo essa fu un crocevia di diverse influenze. Ne restano vari edifici, di cui due ci interessano qui, il battistero e la sinagoga17. Gli affreschi del battistero (232-235), conservati all’Università di Yale, sono le più antiche pitture cristiane: infatti, quelle delle catacombe romane risalgono, al più presto, alla metà del iii secolo. Essi raffigurano episodi evangelici. Si vedono le sante donne alla tomba e svariati miracoli di Gesù, trattati come paradigmi della salvezza. Sotto la volta celeste di un cyborium, la cui forma ricorda quella di un’abside,
Una raffigurazione della Vergine, che faceva parte di un’Annunciazione copta, deve essere ricordata in tale ambito, poiché testimonia un inabituale intenerimento dell’artista. Si tratta di un frammento in legno scolpito (v sec.) conservato al Museo del Louvre16. Maria è raffigurata come un’adolescente con occhi grandi e stupiti. Ella è seduta su una sedia troppo alta, al punto che i suoi piedi non riescono a toccare il suolo, elemento che rende la scena ancora più commovente. Nuovi soggetti e schemi iconografici in Siria Così come è facile distinguere, in Egitto, la pittura ellenistica classicista della scuola di Alessandria da quella più mo66
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55. Cristo cammina sulle acque, battistero di Dura Europos, scena laterale, prima metĂ del iii secolo (Yale University).
54. Cristo guarsice il paralitico, battistero di Dura Europos, scena laterale, prima metĂ del iii secolo (Yale University).
56. Battistero di Dura Europos, scena centrale, Cristo rappresentato come il Buon Pastore con il suo gregge; in basso, Adamo ed Eva, prima metĂ del iii secolo (Yale University).
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57. Placca di reliquiario in argento, raffigurante san Simeone lo Stilita, vi secolo (Parigi, Musée du Louvre).
59. Patena ritrovata a Stuma, presso Antiochia, raffigurante la Comunione degli apostoli, vi secolo (Istanbul, Museo Archeologico).
58. Calice di Antiochia con la raffigurazione di Cristo in trono tra gli apostoli, v secolo, argento dorato (New York, Metropolitan Museum of Art).
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60. Patena ritrovata a Riha, sull’Oronte, raffigurante la Comunione degli apostoli, vi secolo (Washington, Dumbarton Oaks, Byzantine coll.).
colori vivi e con poche sfumature testimoniano un certo gusto popolare, che non si ritrova mai nella parte occidentale del mondo bizantino, la quale si ispirava a Costantinopoli, ma che fu una caratteristica frequente in Oriente. Steli funerarie del iv secolo sono state trovate un po’ ovunque in Oriente e rappresentano generalmente degli oranti tagliati grossolanamente nella pietra, santi in piedi o soggetti biblici come a Odzun, in Armenia. Lo stesso vale per i mosaici funerari, il cui stile è più evoluto e più prossimo ai modelli romani20. L’interesse di queste opere consiste principalmente nella loro datazione che permette di rendersi conto fino a che punto l’Oriente è stato sovente un precursore in ambito artistico, grazie all’impulso che riceveva dai luoghi santi della Palestina. Numerosi mosaici pavimentali, la cui datazione si estende dal i al vi secolo, sono stati scoperti in Siria, Palestina, Giordania, Libano e Libia, così come in Tunisia, ma anche questi riprendono generalmente dei modelli romani, per cui possiamo permetterci di ignorarli in questa sede. Tuttavia esi-
due immagini annunciano le idee che saranno espresse da altre figure in questa parte dell’abside nell’Oriente cristiano. A Dura Europos si tratta di soggetti sovrapposti, quello del Buon Pastore con il suo gregge e, più in basso, quello di Adamo ed Eva con il serpente. Così il Cristo glorioso della Redenzione domina la rappresentazione del peccato originale, che denota una concezione particolarmente felice della dottrina cristiana, con l’accento posto sul perdono, elemento caratteristico dell’ortodossia in generale ma ancora di più dell’Oriente cristiano, come avremo occasione di constatare in seguito18. La sinagoga, costruita non lontano dal battistero verso il 250, ha offerto ai pittori successivi dei modelli per la raffigurazione dei principali episodi veterotestamentari. Lo stile di entrambe le unità rivela l’influenza della Persia, in maniera assai più radicale che a Bisanzio. I personaggi sono raffigurati frontalmente, immobili, rigidi, privi di volume e di rilievo e sovente indossano abiti di fattura partica19; montano dei cavalli robusti, segno che verosimilmente rinvia all’annessione di Dura Europos da parte dei Parti in quell’epoca. I
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61. Capitello della chiesa di Dvin (Armenia), raffigurante una Crocifissione di tipo palestinese e un frammento di un santo cavaliere, vii secolo.
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la presenza solo a partire dall’xi secolo di questo soggetto nelle chiese bizantine. Un altro oggetto molto antico testimonia la notevole abilità dei Siriani nell’arte del metallo. Il calice detto di Antiochia (v sec.) mostra due volte Cristo in trono attorniato da dieci apostoli, in mezzo a un motivo decorativo composto da fogliame di vite, grappoli e animali24. Il tutto è sovraccarico e tipicamente orientale nella sua ricerca di effetti decorativi. Tuttavia il Cristo, giovane e imberbe, corrisponde al tipo ellenistico del giovane efebo.
stono delle eccezioni. Un mosaico della chiesa di S. Giorgio a Madaba, in Giordania, rappresenta una carta della Terra Santa a uso dei pellegrini del vi secolo21. Questa carta, con le relative iscrizioni, mostra al centro la città di Gerusalemme con le sue chiese e i suoi bastioni, e più lontano le città di Betlemme, Gerico, Gaza, Nikopolis, ecc., con tutti i luoghi santi. Tra queste città il fiume Giordano occupa un posto importante. Gli iconografi che hanno composto questa carta sono stati guidati dalla Bibbia e da Eusebio, vescovo di Cesarea, che redasse il famoso Onomastico dei luoghi biblici (320 ca.). Un altro genere di carta, meno realistica, è raffigurata nella chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas (Giordania). Il centro è occupato da un motivo con tralci di vite e la bordura da sedici città della Palestina e della Transgiordania, raffigurate come delle fortezze alte e strette, molto simili alle città della pittura bizantina che si vedono a Ravenna e anche nel corso del Medioevo. Un po’ più lontano si trova il monte Nebo biblico, sulla cui sommità Mosè poté intravedere la terra promessa. Una piccola basilica bizantina onora la sua memoria, ma al suo interno è conservato solo un mosaico pavimentale con scene di caccia. La Siria ha prodotto una brillante oreficeria, oggi quasi interamente perduta, di cui resta qualche vaso e piatti istoriati di notevole qualità, dove gli elementi della mitologia antica e i soggetti cristiani coesistono armoniosamente. Una placca di un reliquiario d’argento (vi sec.), della medesima provenienza, conservata al Museo del Louvre, è un perfetto esempio dell’iconografia cristiana creatasi in Siria. Essa mostra san Simeone lo Stilita il Giovane appollaiato sulla sua colonna, impassibile di fronte alla tentazione che gli si presenta sotto forma di un serpente che abbraccia voluttuosamente la colonna22. È la sua vittoria sul male che viene qui rappresentata. Infatti, la colonna è posta su dei gradini e una conchiglia sormonta la testa del santo, due segni di trionfo ereditati dall’Antichità. Numerose medaglie devozionali scolpite riprendono il soggetto dello Stilita sulla sua colonna. Sempre in Siria furono scoperte due patene in argento che rappresentano, con cinque secoli di anticipo sui decori monumentali di tipo costantinopolitano, i riti della Liturgia. Ritrovate rispettivamente a Riha, sull’Oronte (Dumbarton Oaks Collection), e a Stuma vicino ad Antiochia (Istanbul, Museo Archeologico)23 questi due oggetti sono quasi identici. Si vedono ogni volta due figure di Cristo che distribuiscono la comunione a due gruppi di apostoli, raffigurati ai lati di un altare sormontato da un ciborio. Si tratta di un’interpretazione liturgica della Cena e della convinzione dei Bizantini che Cristo celebri perennemente la liturgia in cielo, modello della liturgia terrestre. L’origine siriana di questi oggetti è stata contestata a causa del loro marchio, costituito dal monogramma e dal busto dell’imperatore Giustino ii (565578), ma se questo fosse vero, non si riuscirebbe a spiegare
il tipo «palestinese» o «orientale». Ai piedi della croce due piccoli personaggi inginocchiati fanno dei gesti come se stessero parlando. Sono stati interpretati da André Grabar30 come dei pellegrini in adorazione, mentre a mio giudizio si tratta probabilmente di soldati, il che starebbe a significare una versione ridotta dell’episodio della divisione delle vesti. La mia interpretazione si basa su quanto mostrano svariate ampolle, dove i personaggi in questione sono seduti a gambe aperte31 o incrociate32, pose rilasciate che sarebbero inammissibili per dei pellegrini. Alcuni tra loro sembrano indossare degli elmetti33. La croce in tronchi di palme significa che essa è stata considerata meno come strumento di supplizio che come simbolo della redenzione, o «Legno della Vita», come la definiscono alcuni testi, riferendosi a Genesi (Gn 2,9; 3,22-23), laddove si parla dell’Albero della Vita, fonte di Vita eterna. Alle due estremità della composizione dell’ampolla n. 15, una stella e una falce di luna indicano il valore universale del trionfo del Signore. In secondo piano appare l’episodio delle sante donne al sepolcro, immagine della Risurrezione, e sul recto l’Ascensione. Lo schema della Crocifissione è per così dire identico su molte di queste fiale e anche su una serie di medaglioni e gioielli, eseguiti tra il iv e il vii secolo. La maggior parte di questi pezzi proviene dall’Armenia, dall’Etiopia e dalla Nubia34. Su alcune di queste ampolle palestinesi, la Vergine e san Giovanni e/o il porta-lancia e il porta-spugna sono sistemati ai rispettivi lati delle figure centrali, non mutando in nulla il significato dell’insieme. In Etiopia, questo schema era ancora ampiamente diffuso nel xiv secolo, come testimoniano numerose miniature, con la sola differenza che il Cristo è sostituito dall’Agnello35 – per esempio nel Vangelo di Parigi (BnF, Eth. 32, f. 7v) –, raffigurazione che era stata vietata dal concilio Trullano. Pre-
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I modelli palestinesi e la loro diffusione in Oriente: Passione e Risurrezione Tre schemi della Crocifissione, di cui due sorprendenti, sono raffigurati su una serie di ampolle utilizzate per l’olio benedetto nel vi-vii secolo, conservate nelle cattedrali di Monza e Bobbio in Italia, e senza dubbio portate da pellegrini che avevano visitato la Terra Santa. L’origine palestinese di queste boccette è stata definita grazie alle loro iscrizioni, di cui alcune si riferiscono ai luoghi santi. Queste immagini sono preziose in sé, ma anche per altre tre ragioni. Fatta eccezione per il bassorilievo della porta di S. Sabina a Roma (vi sec.) che mostra una Crocifissione senza croce, ossia tre uomini nudi con le braccia aperte, le immagini palestinesi sono le prime a raffigurare questo soggetto. Tra l’altro esso resterà raro fino all’viii-ix secolo circa, quando le dottrine in difesa delle icone durante l’iconoclasmo, che insistevano sull’idea dell’Incarnazione, ne fecero un’immagine abituale. La seconda ragione che ci rende particolarmente interessati alle ampolle palestinesi è la diffusione di questi schemi in tutto l’Oriente cristiano e solo eccezionalmente a Bisanzio. Infine, le Crocifissioni in questione testimoniano una mentalità tipicamente orientale. Lo schema più problematico è quello che compare tra gli altri sull’ampolla n. 15 di Monza (vi sec.), il cui centro è occupato da una croce vuota in tronchi di palme, al di sotto della quale appare Cristo a mezzo busto in un medaglione25. André Grabar ha interpretato questo schema come «la visione celeste della reliquia della croce», visione che egli avvicina alla croce in metallo prezioso che Teodosio ii (400-450) aveva fatto erigere sul Golgota26. Questa spiegazione potrebbe essere stata influenzata dall’interesse che il suo autore aveva per le reliquie, ma non è in realtà convincente perché tutti i personaggi che sono sotto la croce sono proprio quelli della Crocifissione storica. Non si tratta dunque della raffigurazione di un monumento riferito al Crocifisso ma dell’avvenimento stesso, che, esso solo, è legato indissolubilmente a un altro evento: la Risurrezione. In effetti, il lasso di tempo tra i due avvenimenti, ossia quello della morte, è cancellato. 72
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Ciò che conta è, al contrario, il trionfo sulla morte raffigurato come se fosse avvenuto al momento stesso della Crocifissione, annullando in tal modo la morte. La morte in croce doveva apparire inaccettabile per un cristiano dell’epoca e ancora di più per un monofisita che negava la natura umana di Gesù. Tuttavia, qui non si tratta di dogmi, ma di sensibilità religiosa. Inoltre alcuni testi apocrifi, come la Storia di Giovanni a Roma, vietavano la rappresentazione della Crocifissione. In questo testo, Cristo riprende Giovanni per aver raffigurato il suo calvario al posto della sua Risurrezione dai morti, aggiungendo che con quel gesto lo aveva in un certo senso crocifisso una seconda volta27. Un altro apocrifo, il Vangelo di Bartolomeo, fa dichiarare all’apostolo testimone del supplizio di aver visto, con il calare della notte, Gesù scomparire lontano dalla croce28. Il manoscritto degli Atti di Giovanni descrive in modo quasi letterale l’immagine dell’ampolla, perché parla di una croce di luce sulla quale Giovanni ha visto «il Signore stesso»29. Questi testi lasciano intravedere tutta la difficoltà di ammettere un dio sottoposto a torture infamanti. Da entrambi i lati della croce, i due ladroni sono veramente crocifissi, con le braccia legate dietro la schiena secondo
62. Martirio del Golgota, rilievo dal mosaico dell’abside della cappella di Adamo, la Croce venerata da due angeli, Gerusalemme.
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63. Vangelo Etiope di Parigi, xiv secolo (BnF, Eth. 32, f. 7v).
64. La croce sormontata da Cristo a mezzo busto, dettaglio dell’abside mosaicata in S. Stefano Rotondo a Roma, vii secolo.
65. Il mosaico absidale della basilica di S. Apollinare in Classe a Ravenna, vii secolo.
sumibilmente gli Etiopi non ignoravano tale concilio, ma si appoggiavano forse sul Commento al Diatessaron di Efrem il Siro, in cui si dice che Cristo si era manifestato, in tale forma dissimulata, nel sacrificio di Abramo per salvare Isacco36. Il fulcro della formula che raffigura Cristo sulla croce si trova anche in un frammento di capitello del vii secolo proveniente dagli scavi di Dvin, in Armenia37. Si vede Cristo a mezzo busto al di sopra di una croce, la cui base affonda in un mucchio di foglie suggerendo in tal modo che si tratta dell’Albero della Vita. Due cherubini (solo uno è visibile) la affiancano. Sul retro del capitello un cavaliere si avvicina alla croce, probabilmente Giorgio o Teodoro. Egli è presente in veste di combattente per il trionfo del Bene e in veste di intercessore. Tutti i santi erano degli intercessori, ma i martiri
avevano un vantaggio sugli altri. Andrea di Cesarea ci dice infatti che la loro preghiera viene immediatamente ascoltata e non differita all’ultimo giorno e al momento del Giudizio, e Gregorio di Nissa conferma questa credenza38. Ciò che collega le varie figure del capitello è l’idea del trionfo del Bene, della Risurrezione e della salvezza. Una versione un po’ modificata occupa un’absidiola a S. Stefano Rotondo a Roma (vii sec.), dove si manifesta un’influenza siro-palestinese, come si può vedere anche altrove in Italia nella stessa epoca. L’immagine della croce, sormontata da Cristo a mezzo busto all’interno di un cerchio, è essa stessa dominata dalla mano divina che tiene una corona del martirio39. La croce è fiancheggiata dai santi martiri Primo e Feliciano. Certo, non si tratta qui di una Crocifissione sim-
bolica, ma solo del suo ricordo che è evocato per indicare come i santi in questione abbiano seguito l’esempio di Cristo morendo a causa della propria fede. Resta il fatto che, per rappresentare la glorificazione di questi due martiri, si ricorra a una formula iconografica palestinese. Le ampolle della Terra Santa presentano anche un secondo schema interessante con Cristo a mezzo busto in un medaglione, posto all’intersezione dei bracci della croce, come nel caso delle ampolle n. 3 e 4 di Bobbio. I due ladroni crocifissi e i due piccoli soldati attorniano Gesù40. Il fondo del medaglione è stellato, collocando in tal modo la scena in cielo. Detto in altro modo, si associa una scena storica – i due ladroni, la croce e i soldati-testimoni – all’immagine del Cristo divino. Una variante semplificata di questo schema occupava l’absi-
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de della cappella di Adamo del martirio del Golgota. Questo mosaico mostra una croce su un podio a gradini, con il busto di Cristo all’intersezione dei bracci. Due angeli in adorazione lo circondavano. L’iscrizione «nika» conferma il messaggio dell’immagine41. Questa formula è ripresa in una curiosa Trasfigurazione a S. Apollinare in Classe (vii sec.) a Ravenna42. Si vede sant’Apollinare in preghiera, circondato da dodici pecore, simbolo degli apostoli, in mezzo a un prato fiorito. Sopra la glorificazione del santo si trova la Trasfigurazione vera e propria. I profeti Mosè ed Elia emergono dalle nuvole e non sono visibili che per metà. In mezzo a loro Cristo è sostituito da un medaglione stellato con una croce gemmata, segno della fine dei tempi e del Regno. All’intersezione dei suoi bracci, 75
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67. Lampada in bronzo da Martvili, vi secolo (Mestia, Museo d’arte della Georgia).
appare Cristo a mezzo busto in un secondo medaglione. È suggerito in tal modo il suo trionfo celeste ottenuto attraverso la croce. Solo la natura divina di Gesù era in grado di rendere il sacrificio una vittoria ed è giustamente nella Trasfigurazione che Cristo rivela la propria natura divina agli apostoli: questo spiega una certa parentela tra i due episodi. Qui il trionfo evangelico si fonde con quello definitivo della seconda Parusia. Questo modello è anche rappresentato, in manoscritti copti e siriani, in alcune Croci di Vita a tendenza decorativa43. Uno schema derivato da quello delle ampolle fu utilizzato fino al xiv-xv secolo in Nubia44, ma con un significato dell’immagine differente, perché furono aggiunti i quattro zodia dell’Apocalisse alla croce con Cristo a mezzo busto, il che lo rende una Teofania della fine dei tempi (cfr. cap. viii). A Tokali Kilise, in Cappadocia (x sec.), la croce gemmata con Cristo a mezzo busto all’intersezione dei bracci è raffigurata due volte, nei timpani (nord e sud) che sono uno di fronte all’altro45. È probabile che l’origine formale del nostro schema sia romana e che sia in rapporto con l’abitudine di appendere un’imago laureata o uno scudo su un trofeo per significare la vittoria, da cui proviene il suo antico nome di Niketerion; ma l’artista potrebbe essersi ispirato anche agli Atti d’Andrea, scritto apocrifo46 già citato. In ogni caso, tali ipotesi non mettono in dubbio il fatto che gli schemi delle ampolle siano
sorti in Palestina e che si siano diffusi in tutto l’Oriente, a volte fino al Medioevo avanzato, cosa che non accade altrove. Un terzo schema delle ampolle palestinesi è più vicino all’avvenimento storico. Sulle ampolle n. 12 e 13 di Monza47, Cristo è vestito con un colobium, una lunga veste senza maniche indossata dai Siriani. Le sue braccia distese suggeriscono la Crocifissione ma la croce non è visibile. Sembra dunque planare tra una grande stella e la luna. Ai suoi lati, i due ladroni hanno le braccia legate dietro la schiena e i due piccoli soldati hanno il loro atteggiamento consueto. Due alberi indicano il Golgota. Il secondo registro è ancora una volta occupato dalle sante donne al sepolcro e il recto dell’ampolla mostra una croce pomata su un arco trionfale, contornata dai dodici apostoli in medaglioni e da un decoro di stelle. È il trionfo universale della croce grazie all’opera missionaria dei discepoli di Gesù. Il piatto in argento detto di Perm, conservato al Museo dell’Ermitage (vii sec.), mostra il medesimo schema48. Il Cristo è raffigurato vivo, con il colobium, con le braccia in croce, ma la croce si intravede solo grazie alla parte inferiore del braccio verticale. Essa è dotata però di un ampio supporto per i piedi, al punto che Cristo sembra riuscire a tenersi diritto. I suoi piedi sono raffigurati secondo la moda persiana con le punte rivolte all’esterno. Il porta-lancia e il porta-spugna sono altrettanto presenti, così come i piccoli soldati che sono in questo caso armati di bastoni, particolare che permette di non dubitare della loro identità. Questo schema fu ripreso in Georgia, ma la croce in questo caso è ben visibile, come si può osservare su una lampada in bronzo del vi secolo al Museo di Mestia49, così come su due incensieri (vi sec.), rispettivamente a Berlino e a Vienna50. Si potrebbe essere tentati di citare qui la famosa miniatura del Vangelo di Rabbula (Firenze, Laur., Plut. i.56, f. 13r, vi sec.), dove il Cristo in colobium ha gli occhi aperti51 ma sarebbe un errore. Si tratta, infatti, di un’altra formula data la moltitudine dei personaggi coinvolti nella scena e il paesaggio quasi realistico (le due montagne del Golgota, Gareb e Agra). Non siamo più di fronte a una rappresentazione simbolica, al contrario, qui ci viene raccontata una storia.
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I modelli palestinesi del Medioevo Se i primi due schemi sulle ampolle scompaiono o diventano rari nel Medioevo, il terzo fu mantenuto. Certamente ormai Gesù è raffigurato morto e la croce è visibile. Anche il colobium tende a scomparire a favore del perizoma, ma in Oriente è ancora presente in una serie di opere, per lo meno fino al xii secolo circa. Questo conservatorismo, così come alcuni dettagli originali aggiunti qua e là agli schemi iniziali, distingue le Crocifissioni medievali dell’Oriente cristiano
66. Piatto d’argento di Perm. Crocifissione senza croce, vii secolo (San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage).
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Giovanni lo circondano. Il monogramma che identifica Maria è un’abbreviazione dell’antica denominazione «Haghia Maria», che non fu più utilizzata a Bisanzio dove fu sostitui ta da «Mitra Theou», Madre di Dio. Per quel che riguarda la comparsa della corona di spine, notiamo, seguendo Kurt Weitzmann, che essa era venerata nella chiesa di Sion a Gerusalemme55 e questo potrebbe aver influenzato il pittore. Un testo di Anastasio Sinaita56 potrebbe parimenti essere all’origine di tale scelta. Ai piedi della croce appaiono i giocatori di dadi, secondo il racconto evangelico. La Vergine e san Giovanni sono testimoni impassibili, come in tutti gli schemi finora menzionati. Un’altra iniziativa merita ancora di essere segnalata, perché diventerà standard in seguito: gli angeli appaiono in forma ridotta, inquadrati dal sole e dalla luna (?). Si tratta di una compensazione: essi indicano che il Cristo, morto come un uomo, appartiene tuttavia al cielo. La seconda Crocifissione medievale di tipo palestinese, presentata precedentemente, è una variante del nostro terzo schema, ma la testa di Gesù è scomparsa, e in questo modo non sappiamo se fosse raffigurato morto, anche se tale ipotesi sembra probabile. Tale immagine decora la parete nord della chiesa rupestre n. 7 (x sec.), nel deserto di Sabereebi, in Georgia57. Vi ritroviamo Gesù vestito con il colobium, come in altre chiese della zona, tra cui quelle di Sabereebi n. 5 e 658, in Armenia e Cappadocia. Sul nostro affresco sembra che Gesù sia raffigurato in piedi con la tavoletta sotto i suoi piedi, il che ricorda la croce di un’ampolla di Monza. Non si tratta di una casualità, ma di un dettaglio realistico. A i suoi lati, troviamo i due ladroni, le cui braccia sono piegate dietro la croce, secondo lo schema palestinese. Ma in quest’immagine due soldati stanno legando i loro piedi con una corda appesa a una carrucola alla sommità delle croci, e questo è un hapax. Essi indossano degli stivali rossi, come era abitudine in Persia; bisognerebbe forse scorgervi un’allusione a questo popolo, poiché all’epoca i Persiani erano considerati come dei nemici del cristianesimo. Le croci dei ladroni sono delle assi, all’eccezione della loro parte inferiore che è tagliata in un tronco d’albero; quella di Cristo è quasi invisibile ma termina con un tronco di palma, come sulle ampolle. Un nuovo elemento appare accanto alla croce: la personificazione della Chiesa. Essa indossa una corona a tre punte tipicamente orientale. La personificazione della Sinagoga, che dovrebbe farle da pendant mostrandosi sconfitta, come accade con le immagini bizantine successive, qui è assente. Questa «dimenticanza» distingue anche la miniatura dell’Evangeliario siriaco del 1220 (Brit. Libr., Add. 1770, f. 151r), in cui si ritrova d’altronde anche la corona orientale. La personificazione della Chiesa, che raccoglie in un calice il sangue e l’acqua che scorre dalla ferita di Cristo dopo essere stato trafitto dalla lancia, rinvia anche ai sacramenti del battesimo e dell’Eucaristia, come ricorda il tono 3 dell’ufficio dei vespri
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dalle innovazioni che ebbero luogo a Costantinopoli dopo la vittoria dell’ortodossia nell’843 e del nuovo umanesimo che si annuncia nel ix secolo. Esso è la conseguenza delle dottrine degli iconofili che avevano tanto valorizzato l’Incarnazione. Questo umanesimo si diffuse anche in Oriente, ma con qualche riserva. Nel Tetravangelo siriaco del British Museum (Addit. 7169, f. 11v), la Crocifissione di Gesù comprende due angeli in volo e il sole e la luna52. In Armenia, l’affresco di Aghtamar (x sec.) mantiene il colobium, caso ricorrente anche in Cappadocia nella medesima epoca, come è stato osservato tra l’altro a Kokar Kilise53. Ma i modelli più significativi, e i più rari, sono quelli che appaiono sul monte Sinai e in Georgia. Il frammento dell’icona del monastero di S. Caterina sul monte Sinai è stato datato da Kurt Weitzmann all’viii secolo54. Gesù è raffigurato con il colobium, gli occhi chiusi e il fianco trapassato da cui fuoriesce il getto d’acqua e sangue di cui parla il Vangelo. Egli porta per la prima volta la corona di spine. I due ladroni con le braccia legate dietro la schiena (solo uno è visibile con la scritta «Gestas»), la Vergine e san 77
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68. Icona della Crocifissione, monastero di S. Caterina del Sinai, secolo.
69. Schema della Crocifissione con i simboli della chiesa dal muro nord della chiesa n. 7 di Sabereebi (Georgia), x secolo.
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70. Vangelo armeno di Parigi con raffigurazione della Crocifissione e della Discesa agli Inferi (BnF, Arm. 333, f. 7), xiv secolo.
71. Vangelo di Matenadaran n. 5523, con rappresentazione della Discesa agli Inferi, Erevan (Armenia).
72. Vangelo di Matenadaran n. 6303, raffigurante la Crocifissione con il cranio di Adamo, Erevan (Armenia).
74. Personificazione del sole sopra le «Figlie di Gerusalemme», chiesa n. 7 del deserto di Sabereebi (Georgia).
73. Vangelo di Matenadaran n. 316, raffigurante la Crocifissione con il cranio di Adamo circondato da una nuvola, Erevan (Armenia).
75. Personificazione della luna sopra il tempio di Gerusalemme, chiesa n. 7 del deserto di Sabereebi (Georgia).
76. Esempi di khatchkars, monumenti funerari armeni in pietra costituiti da uno zoccolo e da una croce istoriata o circondata da motivi decorativi.
posizione si trova invece il suo cranio, per ricordare che la croce fu piantata dove il primo uomo fu sepolto. Questa interpretazione georgiana potrebbe essere in rapporto con la liturgia degli ultimi giorni di Quaresima che evoca la salvezza di Adamo in svariati passaggi, in particolare nel tono 3 dell’ode del Venerdì santo62. Una preghiera che accompagna l’incensazione nella liturgia siro-giacobita (Sedra) ha un contenuto analogo. Cristo cerca Adamo sulla terra e lo trova solo quando scende agli Inferi; là Adamo gli chiede perdono per «le sue colpe»63. Questa preghiera si ispira alla leggenda siriana della Caverna dei tesori (vi sec.)64, tradotta anche in georgiano65. In alcune miniature armene la Crocifissione è sopravvissuta sul medesimo foglio della Discesa agli Inferi, immagine della Risurrezione e Redenzione. È il caso del Vangelo di Parigi (BnF, Arm. 333) del xiv secolo. L’immagine della Discesa è molto semplificata, ma vi si trova l’essenziale, come Cristo che tira verso di sé Adamo, circondato da alcuni personaggi anonimi, mentre il diavolo
di martedì sera59. Nelle rappresentazioni bizantine il getto d’acqua e sangue significano anche la doppia natura di Cristo, al cui dogma i Georgiani aderiranno facendo proprie le decisioni del concilio di Calcedonia. Sant’Efrem commenta a lungo il sangue e l’acqua che sgorgano dal costato di Gesù e li considera come costituenti la Chiesa60. Il porta-lancia e il porta-spugna sono al loro posto abituale. La base della croce è circondata da grossi rami pieni di foglie che simboleggiano l’Albero della Vita. Tre personaggi a mezzo busto sono allineati di fronte al luogo in cui erano collocati i soldati delle ampolle. Si tratta ancora una volta di una rappresentazione unica, forse di Adamo, Eva e del loro figlio Seth61. Secondo Luca (Lc 3,38), Cristo, figlio di Dio, è anche figlio di Adamo e di Seth, il figlio che l’Eterno aveva donato all’uomo decaduto per sostituire Abele ucciso da Caino (Gen 4,25). Sul nostro affresco Adamo (?), al centro, è raffigurato vivente, il che significa risorto e riscattato, mentre nei modelli bizantini, a partire dall’xi secolo, nella stessa 80
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77. Il monastero di Noravank con la chiesa della Santa Madre di Dio e di S. Giovanni Battista, nella valle di Amaghu (Armenia), xiv secolo.
se ne sta rattristato alle sue spalle66. In altre miniature armene della Crocifissione, il cranio di Adamo è sostituito dal suo capo barbuto e pieno di capelli con gli occhi aperti, come si vede nel Vangelo di Matenadaran, a Erevan, n. 630367. Inutile precisare che nessuno di questi modelli o associazione di immagini nei medesimi ambiti figurativi esiste nel repertorio costantinopolitano. La stessa idea è espressa con altri linguaggi nel Vangelo di Matenadaran n. 316, in cui la testa barbuta di Adamo è quella di un morto ma è circondata da un nimbo che santifica il personaggio. Sotto è rappresentata la Risurrezione di Cristo sotto forma di tre teste incomplete delle pie donne al sepolcro68. In questo insieme, il personaggio di Eva non ha bisogno di essere giustificato dai testi. Per quanto riguarda Seth, è stato interpretato dai teologi ebrei, siriaci e gnostici cristiani come il «Figlio di Dio»69. Questi teologi si basano sul libro della Genesi che menziona due genealogie del genere umano, quella che inizia con Caino (Gen 4,17-25), l’altra con Seth (Gen 5,6-32). Sant’Efrem dichiara senza esitazioni che «Seth era come il figlio di Dio»70. Se la nostra ipotesi è corretta, l’immagine georgiana suggerisce sia la futura Risurrezione di Cristo sia quella degli uomini. Per quanto riguarda il testo dei vangeli che il pittore di Sabereebi ha seguito, si tratta di Giovanni (Gv 19,17-30), che menziona i tre crocifissi ma non Maria e il discepolo. Il pittore prende in prestito un elemento da un altro soggetto per evidenziare l’aspetto trionfale della sua Crocifissione. Egli la incornicia tra due colonne che sostengono un arco. Ciò si verifica comunemente intorno alla croce quando essa è rappresentata da sola, tanto sull’ampolla n. 13 di Monza71, che nelle miniature georgiane72, armene73 e copte74. La Crocifissione della chiesa n. 7 di Sabereebi continua sulla volta che è attigua al muro nord. Personificazioni del sole e della luna, di una dimensione inabituale, che tengono non delle fiaccole ma dei corni d’abbondanza riempiti di mazzi di fogliame, sormontano la Crocifissione. Accanto al sole si legge in greco «il sole» e in armeno «si è oscurato» (Lc 23,45); la luna è definita con il medesimo procedimento. Queste immagini sono seguite da quelle di due donne, identificate dalla scritta armena con le «Figlie di Gerusalemme». Si tratta delle donne alle quali si indirizza Cristo sul cammino della croce, dicendo di non piangere su di lui ma sui propri figli (Lc 23,28). Accanto a loro si leva un’architettura, dotata di una grande tenda e la scritta armena «Il tempio e la tenda», allusione al velo del tempio che si lacera dopo la morte di Gesù (Mt 27,51; Mc 15,38; Lc 23,45). Questo episodio del tempio è menzionato nel Vangelo di Matteo appena prima del particolare dei «sepolcri che si aprirono» e dei numerosi santi che resuscitarono (Mt 27,52). Quest’immagine georgiana illustra da sola non solo l’iconografia particolare e comune a tutto l’Oriente cristiano, ma anche la circolazione da 82
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78. Stele funeraria, iv secolo, Odzun (Armenia).
79. Odzun (Armenia), v-vii secolo.
La scultura medievale dei primi secoli nei paesi del Caucaso, influenzata dalla Persia e sconosciuta a Bisanzio L’arte plastica dell’Oriente cristiano non si distingue solo per i suoi programmi e alcuni dei suoi schemi iconografici, o ancora, in misura minore, per le peculiarità architettoniche, ma anche per le tecniche utilizzate, perlomeno in alcuni paesi e in alcuni periodi. A Bisanzio si considerava la scultura figurativa troppo simile agli idoli pagani per essere collocata all’interno di una chiesa. E, laddove fu utilizzata, ci si limitò a modesti elementi decorativi. La statuaria, come i sarcofagi, così fiorente all’epoca paleocristiana, fu condannata. Fu necessario attendere la fine del Medioevo e la Rinascenza Paleo loga (xiii-xv sec.) per vederla riapparire in modo modesto qua e là. Naturalmente, non c’è mai stato alcun problema nell’applicare alle facciate degli edifici di culto un trattamento grafico comprendente modanature, fregi e archi, come si vede nei paesi transcaucasici, o anche nell’aggiungere rilievi figurativi come a Nikortsminda (xi sec.), in Georgia75. La decorazione scolpita di un certo numero di facciate di chiese russe del xii secolo76 non va considerata come bizantina, poiché essa è stata influenzata dalla antica scultura lignea di origine slava precristiana77, da quella su pietra dei popoli caucasici e dai modelli iraniani da cui furono mutuate le maschere umane e gli animali fantastici78. Gli Armeni si distinsero ben presto per la qualità e quantità delle loro steli funerarie scolpite, ereditate dall’Antichità greco-romana. La maggior parte di queste steli sono decorate con una croce o un’iscrizione, ma altre, molto grandi, a forma d’obelisco, sono ricoperte interamente da figure scolpite raffiguranti scene bibliche, molto spesso veterotestamentarie, ma anche Cristo e i santi. Quella di Haridj (vii sec.) ha conservato, tra le altre, una Vergine con il Bambino con Gesù benedicente, mentre Maria alza il braccio destro, in parallelo a quello del Figlio, come per salutare79, il che è assolutamente inabituale. Sulla stele di Odzun si riconosce, tra i santi, il re Tiridate80. I monumenti funerari armeni sono probabilmente esistiti prima del v secolo e, in base gli studi di Sirarpie Der Nersessian, essi avrebbero dei tratti comuni con quelli dei Siriani del ii-iii secolo81, parentela del tutto normale in Oriente. A partire da quell’epoca apparvero anche i khatchkars, monumenti funerari in pietra esclusivamente armeni, composti di uno zoccolo e di una croce, circondata o coperta da motivi decorativi82. Gli ornamenti scolpiti appaiono sia all’interno che all’esterno degli edifici. Si notano fra questi i capitelli denominati «compositi armeni», derivati da quelli di epoca ellenistica con kalathos corinzio e abaco ionico. I kalathos sono a volte sostituiti con figure, come nel caso della chiesa di Zvartnots, dove un capitello con una magnifica aquila (650 ca.)83 ha già attirato la nostra attenzione.
un paese all’altro dei pittori, che non esitavano a esprimersi nella propria lingua. I diversi schemi con Cristo vivo sulla croce, o a mezza figura sulla croce o all’incrocio dei bracci, figuravano probabilmente nei martyria dei luoghi santi e soprattutto a Gerusalemme, e questo spiegherebbe sia la loro creazione sia il fatto che si siano diffusi a lungo in Oriente. Abbiamo dimostrato che la Crocifissione si distingue in Oriente per degli schemi particolari, il cui denominatore comune è una tendenza ad accentuare l’aspetto trionfale della storia salvifica. Questa tendenza, che caratterizza tra l’altro il cristianesimo primitivo, è anche espressa con decisione da altri soggetti nel decoro dell’abside, come avremo modo di mostrare nel prosieguo del volume. Questa tendenza si accentuò nel Medioevo quando l’evoluzione della pittura bizantina, come apparve a Costantinopoli, in Grecia e nel mondo slavo, seguì una diversa direzione, volta a valorizzare l’Incarnazione, il sacrificio di Cristo e dei martiri, l’Eucaristia, la liturgia e, in termini più generali, la Chiesa. 84
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80. Chiesa armena di S. Croce di Aghtamar (Turchia), facciata sud, fregio scolpito raffigurante Giona e il re di Ninive insieme ad animali fantastici, v secolo.
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81. Facciata occidentale della chiesa di S. Croce di Aghtamar decorata da un fregio con animali e motivi vegetali.
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82. Il donatore Demetrio, dettaglio della facciata della chiesa di S. Croce (Jvari) a Mtskheta (Georgia), vi-vii secolo.
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83. Stefano in preghiera davanti a Cristo, chiesa di S. Croce (Jvari) a Mtskheta (Georgia), vi-vii secolo.
84. Adarnase e suo figlio Kobul protetti da un angelo, chiesa di S. Croce (Jvari) a Mtskheta (Georgia), vi-vii secolo.
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85. Un dettaglio della facciata della chiesa di Ateni Sioni, Gori, Kartlia (Georgia), vii secolo.
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leoni alzati e la testa in basso e Daniele che indossa un pantalone iraniano – deriva dall’immagine dell’eroe sumero Gilgamesh tra le bestie selvagge91. Un altro episodio veterotestamentario mostra Giona e il re di Ninive, seduto per terra con le gambe incrociate alla moda araba, che indossa un berretto coronato la cui forma era sconosciuta a Bisanzio92. Questo episodio potrebbe essere stato scelto tra altri per ricordare che l’Armenia divenne indipendente dopo la distruzione di Ninive (612 a.C.). Animali fantastici (grifoni, uccelli) vivono accanto a personaggi biblici e rimangono perfettamente fedeli ai loro modelli iraniani. Altri animali reali – orsi, conigli, pecore, gazzelle – sono inclusi in un fregio di tralci di vite, disposto sotto la cornice, che circonda tutta la Chiesa. Ci sono anche scene di caccia raffiguranti la lotta degli uomini contro le belve. Sulla facciata orientale vi è un’immagine molto rara nei programmi costantinopolitani: Adamo nell’atto di nominare gli animali secondo il versetto della Genesi «E Adamo diede dei nomi a tutti gli animali e le bestie» (Gen 2,20)93. La scultura, che contorna le aperture sulle facciate, è comune anche in Georgia. Lo stesso vale per i personaggi storici che popolano le facciate. Nella chiesa di S. Croce (Jvari) a Mtskheta (586/587-605/606), questi appartengono alla famiglia principesca. Il donatore Demetrio indossa un cappotto iraniano a maniche lunghe che utilizzavano già i Medi e poi i Persiani. Il sovrano sta per inginocchiarsi e pregare, mentre un angelo sopra la testa gli assicura protezione. Il signore Stefano in preghiera, vestito con lo stesso abito, s’inginocchia davanti a Cristo, che lo benedice (la mano è andata distrutta). Il principe Adarnase e il suo giovane figlio Kobul sono rappresentati in ginocchio e in preghiera, protetti da un angelo che sembra indicare loro la via. Infine, Kobul adulto rivolge la propria preghiera a Cristo che tiene il libro e benedice94. Tutti i donatori calzano degli stivali particolari. Il piede è di volta in volta flessibile e stretto come se fosse in un guanto, mentre lo stivale si allarga esageratamente verso l’alto in modo rigido. Qui l’influenza dell’arte persiana è preponderante. Tuttavia, è complesso determinare di quale tipo di scultura persiana si tratti poiché nelle figure georgiane si riconoscono sia la schematizzazione delle forme e lo stile spoglio di epoca achemenide che il drappeggiato marcato e le attitudini fisse dell’epoca sassanide, come a Naqsh-i Rustam95 durante la seconda metà del iii secolo. Sulla facciata della chiesa di Ateni Sioni (vii sec.) si trovano delle effigi di grandi uomini, in una posa rigidamente frontale senza alcuna concessione, vestiti di abiti derivati dai Medi, decorati con motivi geometrici o con maniche pendenti. Queste figure di un principe e di donatori sono ancora più ieratiche e più rigorosamente sottoposte a un processo di astrazione delle precedenti. Le punte dei loro piedi sono orientate in direzioni opposte formando una linea orizzontale96, come tra i dignitari persiani, oppure sono posizionate di profilo,
Gli ornamenti scolpiti delle facciate rivelano in parte un’influenza siriana, per esempio l’arco modanato che scende lungo la finestra come si vede nella chiesa di Tekor (485 ca.)84. Accanto a motivi composti a partire da intrecci e tortiglioni, ne esistono altri di tipo geometrico. Per i capitelli, le cornici e gli architravi è stata utilizzata volentieri la decorazione a foglie d’acanto di origine romana, ma ereditata tramite la Grecia. Tale decoro era stato ripreso sia a Bisanzio sia in Transcaucasia. In quest’ultima regione un posto di estrema importanza era riservato, sulle facciate, alla croce. Questa, quasi sempre grande e posta sulla parte superiore dell’edificio a suggerire il trionfo di Cristo, occupa tutto il frontone della chiesa della Madre di Dio ad Amaghu (1339)85 e lo stesso accade in Georgia86. Le rappresentazioni religiose che includono principi e donatori sono frequenti e varie nel vi-vii secolo. Si tratta più di effigi che di ritratti, i visi obbediscono a una stilizzazione e a una schematizzazione severa, un tratto che caratterizza anche le sculture iraniane. Le più sorprendenti di queste effigi sono quelle scolpite nei pennacchi o nelle trombe della cupola. Quattro busti occupano questo luogo nella chiesa di S. Giovanni a Sisian (670 ca.). Essi sarebbero impensabili a Bisanzio, poiché non si tratta né di evangelisti o dei rispettivi simboli, né di cherubini, ma del principe di Syunik Kohazat, del vescovo di quella provincia, del vescovo Yovsep i, dell’abate Giovanni e di un monaco chiamato Teodoro87. Tutti e quattro appaiono a mezzo busto, il principe con la testa nuda, gli ecclesiastici con la cocolla monastica. In Georgia, una coppia di donatori laici e due angeli sono raffigurati nelle trombe della cupola della chiesa di Kumurdo (viii-x sec.)88. Un’altra originale scultura decora la facciata della chiesa armena del Segno Santo di Akhbat (x sec.) in Tashir. Una falsa finestra scavata nella facciata orientale dell’edificio mostra i donatori, i principi Smbat e Gurgen, figli del re Ashot iii, che offrono il modello della chiesa alla divinità invisibile89. Entrambi hanno lunghe barbe e copricapi islamici: uno ha il turbante e l’altro una sorta di casco decorato con motivi geometrici. Costruita nei pressi del lago di Van dal re Gagik Ardzruni di Vaspurakan, la chiesa palatina di S. Croce di Aghtamar (915-921) è attualmente in Turchia. Questa perla della scultura armena è interamente ricoperta di sculture divise in registri orizzontali che coprono quasi totalmente le facciate. Si tratta indubbiamente di un’eccezione, che però testimonia sia il genio creativo degli Armeni sia le influenze della Persia e dell’arte islamica. Anche in questo caso il re donatore è mostrato mentre offre il modello della chiesa di Cristo. Si distingue per il nimbo intorno alla testa e il vestito ricoperto da un motivo di uccelli posti all’interno di cerchi90, molto vicino ai mantelli dei principi sassanidi. San Gregorio l’Illuminatore non è stato dimenticato. Tra i tanti episodi dell’Antico Testamento, notiamo quello relativo a Daniele nella fossa dei leoni, il cui schema – con i 90
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86. Taq-i Bostan (Iran), sito sassanide del vi-vii secolo: sulla destra dell’immagine è visibile la figura di una Vittoria alata simile a un angelo.
88. Ascensione della croce, dettaglio del timpano del portale sud della chiesa di S. Croce a Mtskheta, Kartlia (Georgia).
87. Glorificazione di Cristo, rilievi del portale sud della chiesa di S. Croce a Mtskheta, Kartlia (Georgia).
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89. San Mamante cavalca il leone, tondo in argento dorato da Gelati, Kartlia (Georgia), xi secolo (Tbilisi, Museo di Arte Georgiana).
90. Icona in argento dorato della Vergine di Chemokhmedi, detta di Zarzma (Georgia).
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91. Presentazione al Tempio, dettaglio dell’icona di Zarzma (Georgia).
92. Ingresso a Gerusalemme, dettaglio dell’icona di Zarzma (Georgia).
anche se il corpo è visto frontalmente. Tra di loro figura un donatore con il modello della chiesa sormontato da un angelo. Lo scultore era un armeno, come testimoniano le iscrizioni. Uno dei primi soggetti religiosi scolpiti in Georgia è stato quello del timpano sopra il portale sud della chiesa di S. Croce in Mtskheta, che rappresenta la croce vivificante in medaglione portata da due angeli in volo97. La formula iconografica, le curve aggraziate dei rami che spuntano dalla croce pomata, le figure perfettamente equilibrate degli angeli rinviano all’arte bizantina, soprattutto a quella dei sarcofagi e dei dittici d’avorio contemporanei. Tuttavia, invece di essere liscia e morbida come le sculture bizantine, la linea è rigida e dura, l’incisione brutale, una fattura che ricorda le sculture di Taq-i Bostan (vi-vii sec.) in Persia e, in particolare, la figura di una dea della vittoria alata che assomiglia a un angelo, già notata da Natela Aladashvili98. Lo schema degli angeli che portano la croce verso il cielo fu ripreso da quello di Cristo a mezzo busto e in medaglione portato da due angeli volanti, che si vede anche a Mtskheta99. Da Costantinopoli tale schema si diffuse in tutto il mondo bizantino, e anche in Armenia, a Ptghnavank e in Egitto, dove il Museo Copto ne custodisce un esempio sull’architrave di una porta. Un altro soggetto, quello dei cervi che si abbeverano all’acqua della Vita, molto diffuso nel mondo bizantino, si trova all’entrata nord della chiesa di Ateni Sioni, di cui si è parlato in precedenza. Si tratta dell’illustrazione del salmo 42: «Come il cervo aspira ai corsi d’acqua, così l’anima mia aspira a te, Signore». Nella cattedrale di Ateni, la fonte è raffigurata come un cerchio, riempito di intrecci e di cabochon100, che imitano modelli dell’oreficeria, una tecnica particolarmente sviluppata in Georgia. La Georgia ha prodotto una brillante cesellatura su metallo, tecnica utilizzata anche per le icone. Le più belle sono in argento, spesso dorato, e molto presto (vii sec.) decorate con dettagli in smalto cloisonné. La lavorazione dei metalli era tipica di questa regione dal terzo millennio a.C. La presenza di metalli nel suolo, in particolare l’oro esportato dai Greci, fu all’origine della leggenda degli Argonauti e del vello d’oro. Il disco in argento dorato del vi-vii secolo raffigurante san Mamante a cavallo di un leone101 richiama sia lo stile ellenistico (per i tratti regolari del volto del santo e il suo corpo armonico) che la tradizione degli animali della Persia. Troviamo il disegno del muso e le pieghe della pelle, così come i grandi artigli, la criniera e la coda in un movi-
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mento ricercato del leone, oltre alle pieghe schematiche della tunica di Mamante, su molte sculture iraniane in pietra e su metallo102. Tutte queste caratteristiche sono comuni nella scultura sassanide e già presenti nei leoni del palazzo di Dario a Susa (v sec. a.C.), come si può vedere su un frammento di muro in mattoni smaltati103. Il leone è stato spesso rappresentato in Persia, indipendentemente dalle immagini della caccia. Espressione di potenza e maestà, fu mutuato anche da Bisanzio e dall’Oriente cristiano. Le icone georgiane medievali si distinguono per il loro numero e la loro qualità, così come per i modelli iconografici a volte in anticipo sui tempi. Non si poteva passare questa specificità georgiana del tutto sotto silenzio, ma un’ampia descrizione, anche se poco dettagliata, sarebbe altrettanto ingiustificata perché si tratta di un singolo paese e non di un’a vasta parte dell’Oriente cristiano. Basterà dunque citare un esempio di buona qualità e particolarmente precoce dal punto di vista iconografico. Le icone bizantine con scene narrative appaiono nel xiii secolo. Esse illustrano i momenti più significativi della vita del personaggio sacro raffigurato al centro dell’immagine. A quell’epoca sono ancora poco numerose e piuttosto laconiche, come si può vedere, tra le altre, nell’icona di santa Caterina sul monte Sinai (xiii sec.)104. L’icona georgiana in argento della Vergine di Chemokhmedi, detta di Zarzma, datata dagli specialisti georgiani tra l’xi e il xii secolo – a mio giudizio invece della fine del xii-xiii secolo105 – è occupata al centro da una Vergine della Tenerezza (Eleousa), eseguita nello stile grafico tipico del xii secolo. Tuttavia, l’iconografia che appare in tali rappresentazioni non può appartenere a quell’epoca. Quattordici scene evangeliche di incredibile complessità vi si susseguono. Così, una legione di angeli è presente nella Natività, un’architettura in stile georgiano è riconoscibile nella Presentazione di Gesù al tempio, e un profeta che ha predetto l’evento sta dritto sulla cima di una montagna nella scena dell’Ingresso a Gerusalemme, tratti che appariranno a Bisanzio all’epoca dei Paleologi. D’altronde, nessuno di questi elementi è menzionato nei vangeli. Anche se questa icona fosse della fine del xii o dell’inizio del xiii secolo, come penso sulla base dello stile dell’immagine centrale, essa sarebbe comunque molto precoce rispetto a quanto si faceva a Bisanzio, per via di questo gusto della narrazione dettagliata, della rappresentazione quasi realistica di una chiesa e dell’introduzione di un personaggio dell’Antico Testamento in un episodio del Nuovo.
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SECONDA PARTE
Capitolo Quarto
LA RIVELAZIONE DIVINA NELL’ABSIDE
rizzavano l’Incarnazione. È grazie al fatto che Cristo si è incarnato che è possibile rappresentarlo, e che il suo sacrificio è stato reale e operante. La liturgia prolunga la sua azione, rivelata dai vangeli, ed è quindi una tappa nella storia della salvezza. Attraverso i sacramenti, essa offre al fedele un contatto diretto con il suo Salvatore. Questa solenne proclamazione è di per sé il frutto di un lungo processo in cui il pensiero religioso dell’Oriente dei primi secoli cristiani svolse un ruolo, attraverso le scuole di Alessandria e Antiochia. La teologia alessandrina considerava la Chiesa come dispensatrice di sacramenti, ma anche più misticamente come «l’immagine delle realtà celesti». Quella di Antiochia poneva l’accento sulla stretta relazione tra gli eventi della vita di Cristo e i sacramenti. Il realismo antiocheno fu ripreso da Giovanni Crisostomo (344-407) e, nel xiv secolo, da Nicola Cabasila quando commentò a sua volta il significato dei riti liturgici10. Per quanto riguarda l’Eucaristia, essa
Il programma iconografico dell’abside secondo la regola costantinopolitana
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A Bisanzio la chiesa è stata considerata come un microcosmo che unisce il cielo e la terra1; ciascuna delle sue parti, e perfino il mobilio, fu dotata di un valore simbolico, ma due forme architettoniche lo furono più di altre: la cupola che corona l’edificio e significa il cielo, e l’abside, luogo della celebrazione liturgica in cui si trova l’altare. Quest’ultimo era considerato come un’allusione tanto alla culla che alla tomba di Cristo2. Massimo il Confessore definisce l’abside, e l’intero santuario (bêma), come «figura della contemplazione dell’anima che abbraccia la verità»3. Inoltre vi si rappresentano i principali dogmi di fede. Il programma iconografico si evolve lungo i secoli conformemente allo sviluppo della teologia, della liturgia e della sensibilità religiosa. Tra il vi e il ix secolo, esso fu ancora un po’ fluttuante. Per esempio, nell’abside appare Cristo, circondato da angeli e santi, come a S. Vitale a Ravenna (vi sec.)4, ma vi si può anche vedere la Vergine col Bambino, in particolare nelle due chiese cipriote del vi secolo, la Panagia Angeloktisti a Kiti e la Panagia Kanakaria a Lithrankomi5, o ancora nella basilica di Parenzo, in Italia6. La visione dei profeti, così frequente nelle absidi dell’Oriente cristiano, appare solo in una chiesa nella parte occidentale dell’Impero, quella di Hosios David (monastero di Latomou) a Tessalonica (v sec.)7. Alla fine della crisi iconoclasta (843), i programmi iconografici destinati allo spazio ecclesiale acquisirono un carattere fisso e vincolante. Quello dell’abside diventa una sorta di manifesto, una professione di fede. Si focalizza sull’Incarnazione e sulla liturgia con particolare attenzione all’Eucaristia, dato che, sotto la Vergine e il Bambino nella conca absidale, appare dal xi secolo la Comunione degli apostoli, la versione liturgica della Cena. Cristo distribuisce la comunione agli apostoli durante l’ufficio che si celebra continuamente in cielo per la salvezza degli uomini8. Più in basso, i santi Vescovi – grandi liturgisti, Padri della Chiesa, teologi illustri – sono dapprima mostrati di fronte, immobili e con dei libri in mano. Essi rappresentavano la Chiesa, corpo di Cristo. Dalla fine dell’xi secolo questi stessi vescovi sono rappresentati di profilo tre quarti e officianti. Portano rotoli aperti con estratti delle loro omelie, e formano due cortei che convergono verso il centro occupato da un altare dipinto. Si tratta di un’immagine della liturgia celebrata sulla terra, di cui quella celeste è il modello. Essa riceve la sua forma completa negli ultimissimi anni del xii secolo, quando appare sull’altare l’Amnos o agnello immolato, figura dell’Eucaristia. Si rappresenta quindi Gesù bambino che giace direttamente sull’altare o in un patena come le oblate. Un calice è posto accanto a lui per la comunione del vino. Questa immagine potrebbe sembrare curiosa e un po’ troppo diretta, ma essa non fa che ricalcare i commenti dei teologi9. L’insieme di questo decoro è ispirato dalle dottrine redatte durante l’iconoclasmo dai difensori delle immagini e che valo-
Pagina a fianco: 93. Abside della cappella della Teofania-Visione, monastero di S. Antonio (Egitto), xiii secolo. 94. Abside della chiesa della Vergine Peribleptos (oggi San Clemente), xiii secolo, Ocrida (Macedonia).
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Queste interpretazioni, caratterizzate dalla capacità di astrazione di menti elette, non parlavano però al popolo dei fedeli. Fu dunque ai pittori che spettò il compito pericoloso di tradurre questi concetti in informazioni accessibili alla vista, vale a dire in immagini. Lo scopo era glorificare l’Altissimo mostrandolo in maestà e con la sua corte celeste. L’immagine diventava, in tal modo, una mediatrice tra il visibile e l’invisibile che il cristiano, entrando in una chiesa, percepiva abbagliato, come se Dio gli si rivelasse e gli venisse incontro. Questo effetto sullo spettatore era qui tanto più efficace perché nelle chiese orientali il bêma non era nascosto da un’iconostasi. Questo muro di icone delle chiese bizantine, sempre più alto a partire dal xii secolo, fu sostituito dal templon basso con ampie aperture che caratterizzava l’edificio di culto bizantino prima del xi secolo. Per realizzare il decoro absidale, gli iconografi si servirono degli scritti di testimoni oculari delle visioni divine, ossia dei profeti. I testi principali appartengono a Ezechiele (Ez 1,4-28) e Isaia (Is 6,1-8) e altri, meno completi, a Daniele (Dn 7,1-14), Zaccaria, Abacuc o Enoch, che sono rappresentati occasionalmente13. Queste descrizioni della gloria divina furono riprese in parte da Matteo quando menziona la seconda Parusia (Mt 24,3031), e in particolare dall’Apocalisse di Giovanni (Ap 4,10; 14). Questa somiglianza di testi influenzò l’immagine della Visione di Dio in Oriente e diventò anche, molto spesso, quella della fine dei tempi. Gli ideatori di queste immagini accedevano ai testi in modo diretto, ma anche e soprattutto tramite l’intermediazione della liturgia che li cita ampiamente14. Il Cristo di tali immagini aveva poco a che fare con il Cristo storico e incarnato, poiché si trattava del Cristo intelligibile dell’Aldilà. Così si percepiva a volte il bisogno di ricordare l’Incarnazione con la presenza della Vergine nel secondo registro. Sul piano formale, ci si ispira ai riti della liturgia imperiale durante i ricevimenti di palazzo. L’imperatore appariva – dopo che si levava la tenda che l’aveva nascosto fino a quel momento – in trono, immobile, scintillante d’oro e di gemme e circondato da luci e simboli del potere, come gli alberi, gli uccelli e i leoni ruggenti, il tutto in oro. A un certo punto, si levava con il suo trono e scompariva in un’apertura nel soffitto per riapparire un attimo dopo sulla strada in basso15, suggerendo l’elevazione di Cristo al cielo durante l’Ascensione e il suo futuro ritorno annunciato in quella concomitanza16. In Oriente, il Cristo di queste composizioni è raffigurato anche in piedi o a mezzo busto, ma soprattutto in trono secondo Isaia (Is 6,1)17, per suggerire che egli è il re dell’universo e il re del cielo18. A volte il trono è posto su un carro, come indicano i vari passi dell’Antico Testamento, tra cui Isaia (Is 16,15). Il signore del mondo tiene il libro sulla sinistra, mentre alza la mano destra alla maniera dei trionfatori romani e a volte benedice. Il libro si deve a Origene, secondo cui il Signore apparve agli angeli con il Vangelo (!) in mano19. In questi decori, Cristo è circondato da una gloria luminosa che lo isola dalle altre figure della Visione,
era prima di tutto il corpo e il sangue di Cristo, attraverso la transustanziazione delle specie, ma anche un’azione di grazia al pari della benedizione ebraica da cui ebbe origine, oltre che il ricordo della morte e Risurrezione del Signore11. Si riteneva infine che essa celasse una realtà divina sotto un’apparenza materiale. Così l’antico Oriente ha partecipato alla formazione delle idee alla base del programma absidale bizantino, ma il decoro di queste absidi fu molto diverso nelle due sfere di influenza. Le immagini della Teofania-Visione in Oriente Per raccontare la storia della Salvezza in immagini, le chiese della periferia orientale di Bisanzio adottarono in gran parte modelli costantinopolitani, ma per gli spazi più importanti e più carichi di significati sacri – cupola e abside –, così come per alcuni episodi biblici, hanno seguito proprie vie. La maggior parte delle absidi orientali è occupata, fin dal vi secolo, dalla Visione di Dio nel catino absidale, secondo i testi dei profeti veterotestamentari e l’Apocalisse di Giovanni, che a essi si ispira. Come già aveva messo in evidenza André Grabar nel suo Martyrion, questi programmi, ora scomparsi, furono indubbiamente creati in Palestina, dove essi adornavano le absidi dei martyria commemoranti i luoghi santi. Ve ne sono delle tracce sulle ampolle per l’olio benedetto di Monza e Bobbio e su qualche oggetto-ricordo che riportavano i pellegrini da Gerusalemme. Questa origine prestigiosa spiega la rapida e uniforme diffusione dei decori in questione in tutto l’Oriente cristiano. Non si verificò la medesima situazione nella parte occidentale dell’Impero. Il programma dell’abside con la Teofania-Visione, come è stato concepito in Oriente, doveva porre inizialmente svariati problemi, anche se seguiva i racconti dei profeti visionari, dato che si trattava di rappresentare l’irrappresentabile: Cristo Logos eterno in tutto lo splendore della sua gloria. Per gli antichi il Logos era la ragione di ogni cosa, la razionalità che governa il mondo. Filone di Alessandria vi vedeva l’immagine di Dio12. Esso era anche l’immagine di quel Cristo che non si può vedere con occhi umani. D’altronde i teologi non pensavano che i profeti avessero visto Dio – eventualità che sarebbe stata, peraltro, contraria ai dogmi –, ma solo che ne avessero percepito dei simboli. Questo dicevano Cirillo di Gerusalemme, Origene, così come i Padri della Cappadocia Gregorio Nazianzeno e Basilio di Cesarea, e Macario d’Egitto, che interpretava il racconto di Ezechiele sulla sua visione come l’azione di Dio nell’anima umana, e le forze spirituali che Cristo aveva dato agli uomini. I teologi siriani si espressero in modo analogo, come Teodoreto che affermava che la visione aveva chiaramente «stancato» Ezechiele, e che dunque il suo racconto evocava delle figure adattate alle possibilità di comprensione degli uomini. 102
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seguendo in tal modo testo di Ezechiele, che descrive la luce che emana dal trono di Dio, simile a una fontana di fuoco, e che circonda il Signore come una nuvola (Ez 1,4; 43,2; 66,1). Questa luce suggerisce anche il carattere immateriale della Visione e del Logos stesso, così come il valore cosmico dell’apparizione20. La Gloria è probabilmente mutuata dall’antico clipeus – uno scudo votivo con il ritratto del sovrano, di forma rotonda od ovale – che aveva una connotazione trionfale, ma forse anche dalle vecchie immagini di Buddha eseguite in India e in Asia centrale, alcune delle quali risalgono al ii secolo. Come notato da Thomas Matthius, in queste immagini buddhiste il personaggio con l’aureola è stato raffigurato a figura intera e di solito seduto, mentre nelle rappresentazioni romane del clipeus si presentava a mezzo busto21. Su entrambi i lati di questo Cristo glorioso, il sole e la luna o le loro personificazioni indicano sia che il tempo si è fermato sia lo spazio infinito del cosmo sul quale regna il Signore. Il cielo, che costituisce lo sfondo di queste rappresentazioni, e la gloria, spesso punteggiata di stelle, hanno lo stesso significato. I corpi celesti sono presi in prestito dall’immaginario principesco dell’Antichità, dove già significavano «l’aeternitas del monarca divinizzato»22, ma ricordano anche Paolo che evoca il «regno» di Cristo su tutte le forze cosmiche23. La gloria è generalmente portata da quattro animali alati (Ez 1,5-11; 10,21)24, chiamati anche zodia, o i Viventi (Ap 4,6-8), spesso coperti di occhi. Hanno l’aspetto del leone, che suggerisce la regalità di Cristo; del toro (chiamato anche bue), che significa il suo sacerdozio; dell’uomo, che ricorda l’arrivo di Gesù nel mondo come uomo; e dell’aquila, figura dello Spirito Santo che scende sulla Chiesa. Hanno un nimbo e tengono un libro. Si tratta ovviamente del Vangelo, che gli apostoli sono tenuti a trasmettere ai quattro angoli dell’universo. Così gli animali che circondano il Signore sono, sul piano simbolico, le immagini dell’azione del Figlio di Dio25. Il numero quattro attribuito agli animali rappresenta, secondo Ireneo di Lione (ii sec.), le quattro direzioni, i quattro venti maggiori, i quattro vangeli. Fu lui che per primo interpretò gli zodia come simboli degli evangelisti, ritenendo che il leone rappresenti Marco, l’uomo Matteo, il bue Luca e l’aquila Giovanni26. Ezechiele paragona gli animali ai cherubini: da questo le loro ali (Ez 9,17). Generalmente non vengono raffigurati per intero, ma solo dalle loro protomi che emergono dalla gloria divina. È soprattutto in Cappadocia che essi pronunciano il grido «Santo, Santo, Santo» (iscrizioni), che è un estratto del più ampio grido: «Santo, Santo, Santo è il Signore Dio onnipotente, che era, che è e che viene», secondo la formula dell’Apocalisse di Giovanni (Ap 4,8), che la prende in prestito da Isaia (Is 6,3-4). Ma i pittori hanno dovuto consultare soprattutto la liturgia poiché si tratta del participio greco attraverso il quale si esprime il canto degli animali nel Commentario liturgico dello Pseudo-Germano27. Questo appare nella preghiera dell’inno trionfale del Sanctus, cantata durante l’anafora28, momento centrale della liturgia eucaristica. Questo
grido allude sia al Cristo del Vangelo sia a quello della seconda Parusia, ma si rivolge soprattutto al Cristo divino e senza tempo. In Egitto gli animali sono considerati a tutti gli effetti come dei santi, al punto che è loro dedicata una festa il 4 novembre con un proprio ufficio liturgico. Essi sono invocati nelle preghiere e nelle formule magiche che i copti hanno conservato29. Questo spiega il fatto che, nei santuari copti, si possono incontrare animali ed evangelisti nella stessa composizione, come nel monastero Bianco (Deir el-Abiad), e che in altre immagini, come la Deesis di S. Antonio (xiii sec.), essi sono rappresentati indipendentemente dalla gloria e quindi a figura intera e in piedi, come dei personaggi, e sono generalmente dotati di sei ali che corrispondono all’Apocalisse di Giovanni (Ap 4,8). D’altronde il loro ordine è immutabile. Da sinistra a destra, vi sono l’uomo e l’aquila in alto, il leone e il bue in basso. Il loro grido figura anche sul labarum tenuto in alcune composizioni dai serafini-cherubini. Intorno a questo nucleo centrale formato da Cristo in gloria circondato dagli zodia prendono posto altri ordini angelici: cherubini a quattro ali, serafini con sei ali (Ez 10,13-14; Is 37,16), tetramorfi (Ez 1,5-6) con quattro teste, due coppie di ruote a volte di fuoco, a volte alate oppure coperte di occhi o tutte e tre le opzioni insieme (Ez 1,15-21); Ezechiele le chiama anche «vortici», lasciando supporre un rapido movimento (Ez 1,16-21; 10,9-14). Queste ruote sono parte della categoria angelica dei troni e formano delle coppie, in genere incastrate l’una nell’altra o collegate da un asse orizzontale. Questo collegamento che Ezechiele cita in modo esplicito è stato interpretato dai teologi come il collegamento tra il Nuovo e l’Antico Testamento, guadagnando in tal modo tutto il suo significato30. Gli occhi che spesso coprono le ali dei vari ordini angelici sono citati da Ezechiele (Ez 10,12) e dall’Apocalisse (Ap 4,8), ma anche da Giovanni Crisostomo che spiega dettagliatamente l’obbligo degli angeli di essere costantemente svegli per cantare le lodi del Signore31. La preghiera del sacerdote effettuata a voce bassa mentre si canta il Cherubicon enumera tutte le categorie angeliche: «perché gli angeli, arcangeli, troni, potestà, dominazioni, il cherubino con più occhi e i serafini a sei ali gridano santo, santo, santo». Infine, Gregorio Magno (iv sec.) ha lasciato 22 omelie di commento a Ezechiele che tengono in considerazione le osservazioni di Origene e, nel v secolo, Dionigi l’Areopagita si ispirò a tutti questi testi per la descrizione degli ordini angelici nella sua Gerarchia celeste. Secondo la Mistagogia di Massimo il Confessore, questi annuncia in anticipo la futura uguaglianza degli uomini con gli angeli32. Il tetramorfo è, come i quattro animali, un essere un po’ misterioso. Esso riunisce le quattro teste degli zodia in una sola figura angelica munita a volte di quattro e talvolta di sei ali, mani e piedi, e spesso coperta di occhi. Tale incertezza deriva dalla confusione di Ezechiele, che parla a volte di quattro animali ciascuno con quattro facce (Ez 1,5-11) e, talvolta, di una sola faccia per ogni animale (Ez 10,14-15). Questa contraddizione 103
95. Carro che porta la Teofania-Visione, cappella n. xxvi del monastero di S. Apollo, Bawit (Egitto), vi secolo. 96. Teofania-Visione, cappella n. xvii del monastero di S. Apollo, Bawit (Egitto).
il suolo (Ez 1,13-14). Queste ruote e gli zodia sono coperti di occhi (Ez 1,18 e 10,12). Cristo alza il braccio destro abbastanza in alto e lontano dal corpo, alla maniera romana, trascurando la regola bizantina secondo cui il Signore benedice con la mano portandola al petto. Sul libro aperto che tiene nella sinistra è scritto il triplo Hagios che Isaia attribuisce ai serafini (Is 6,3) e l’Apocalisse ai quattro animali (Ap 4,8). Nella liturgia queste parole sono pronunciate più volte: prima dai diaconi durante il rito del Grande Ingresso che evoca gli angeli che cantano il Trisagion; poi durante il rito della dell’Anafora quando il coro canta «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti, il cielo e la terra sono pieni della tua gloria»; infine dal sacerdote quando prega davanti ai doni: «Unendoci a queste beate Potenze, anche noi, Maestro amico degli uomini, proclamiamo e diciamo: “Tu sei santo, sei perfettamente santo”»40. Citato per la prima volta nel 451, negli Atti del concilio di Calcedonia, questo versetto è parte della liturgia costantinopolitana dal vi secolo41. Lo sfondo blu del nostro affresco è punteggiato di stelle. Alle due estremità della composizione, un angelo si inclina offrendo una corona al vincitore. Il loro gesto si spiega grazie ai modelli romani di apoteosi imperiale. Così, in un medaglione, l’imperatore Costanzo ii è portato da una quadriga tra due Nike che gli offrono delle corone42. Nel secondo registro, la Vergine orante è designata dal monogramma «Haghia Maria» . Ella si trova al centro di quattordici figure maschili che tengono libri ornati di perle, tra cui i dodici apostoli e, probabilmente, Mattia che sostituì Giuda (Atti 1,26) e Paolo, paragonato agli apostoli (Gal 1,1). Pietro tiene la chiave del Paradiso, alludendo alla Chiesa (Mt 16,19). La Vergine qui è la mediatrice, colei che secondo Teodoro Studita rivolge la preghiera a favore dei fedeli al «Signore del mondo»43. Tuttavia l’insieme dei due registri ricorda anche vagamente l’Ascensione. La presenza della Vergine orante nell’immagine dell’Ascensione è una costante, nonostante essa non abbia partecipato a tale evento secondo i vangeli e gli Atti degli apostoli (Atti 1,12). La sua presenza si spiega nei versetti che seguirono la descrizione dell’Ascensione negli Atti e che evocano la preghiera delle donne in compagnia degli apostoli prima della Pentecoste (Atti 1,13-14). Due teologi siriani, Efrem (iii sec.) e Giacobbe di Sarug, svilupparono il parallelo di lunga data tra la Theotokos e la Chiesa, e interpretarono gli zodia come i simboli dei differenti popoli uniti in Cristo e nella Chiesa44. Tuttavia non è della Chiesa che si tratta nella nostra cappella xvii, poiché una personificazione di questa è raffigurata sopra l’abside con un promemoria dell’ufficio eucaristico; si vede in effetti un busto di donna abbigliato e coronato come un’imperatrice bizantina che tiene un calice. È accompagnata dall’iscrizione «Haghia Ekklesia»45, da un cervo e dai frammenti di tre santi, di cui uno è designato come l’evangelista Marco46. Alcuni autori parlano di questo decoro come di un’Ascensione, ma è inesatto. Molti elementi che lo compongono non
nel racconto del profeta sulle diverse categorie di angeli non è solo nei testi sacri. San Cirillo confonde i cherubini e i serafini33 e ciò si traduce in immagini con iscrizioni che non corrispondono al numero di ali delle figure rappresentate, da cui deriva l’abitudine di parlare qualche volta di cherubini-serafini. Altri elementi sono occasionalmente associati a quelli già citati, tra cui gli angeli e gli arcangeli, uno o più profeti, testimoni oculari della Visione e intermediari tra il mondo intellegibile e gli uomini. Se alcuni decori mostrano tutte queste figure contemporaneamente, come nella chiesa delle Tre croci in Cappadocia, altri ne accolgono solo alcuni, quanto basta per chiarire il significato della composizione. D’altronde i pittori, per ciascuna immagine, non si limitano a seguire un solo testo, ma combinano fra loro i passaggi veterotestamentari, evangelici, apocalittici e liturgici maggiormente funzionali, e si sforzano di rendere la luce immateriale che non possono vedere attraverso la raffigurazione di quella che conoscono, cioè quella che proviene dagli astri, dall’arcobaleno e dal fuoco. Essa emana dal trono di Cristo, dalla sua aureola, dal sole incandescente, dagli astri, ma anche talvolta dalle potenze angeliche rese ardenti dalla vicinanza con il Signore del cielo. Quello che ricercano artisti e iconografi, al di là del significato di ciò che è rappresentato, è la creazione di una immagine abbagliante capace di produrre nel fedele il brivido della trascendenza. La regione del Nilo (Egitto, Nubia, Etiopia)
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Un buon numero di queste immagini di epoca antica (vi-viii sec.) sono conservate in Egitto: in una sola città, nelle absidi delle cappelle del monastero di S. Apollo (Apa Apollo) a Bawit, ce ne sono ben otto. Queste cappelle sono numerate come segue: iiii, xvii, xx, xxvi, xlv, xlvi34. Sei rappresentazioni simili si trovano nel monastero di S. Geremia (Apa Jeremias) a Saqqara, nelle celle 709, 733, 173335. Nel vi secolo, un elemento che in seguito scomparirà è ancora presente nella cella 709 a Saqqara e nella cappella xxvi a Bawit36. Si tratta di un carro su cui è installato il trono con Cristo in gloria. È portato da quattro coppie di ali ocellate e installato su due ruote collegate da un asse. Questo modello è ricalcato su quello delle immagini delle apoteosi imperiali romane che figurano nel corteo trionfale del vincitore37. Sotto il carro di Bawit è sdraiata una forma umana indistinta (il nemico sconfitto nell’iconografia imperiale), che qui non può che essere Ezechiele scomparso o il demone vinto38. La composizione è più completa nella cappella xvii di Bawit (vii sec.)39. Cristo, con il nimbo cruciforme, è seduto su un trono a forma di panca decorata di gemme. È circondato da una gloria costellata, portata dai quattro animali con sei ali che tengono dei libri chiusi. Sono presenti le personificazioni del sole e della luna, insieme a due angeli che offrono corone al vincitore con le mani coperte. Due ruote appaiono sulla banda di fuoco che infiamma 104
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97. Evangeliario siriano di Rabbula (Firenze, Laurent. Plut. I.56, f. 13v).
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da soggetti che non hanno alcun rapporto con l’Ascensione. È il caso della cappella vi a Bawit (vi sec.). La visione della conca assomiglia a quella della cappella xvii, tranne per il fatto che gli animali sono coperti di occhi e che i getti di fuoco scaturiscono da entrambe le estremità della composizione, mentre le ruote sotto il trono sono infiammate, come nella miniatura siriana; gli arcangeli Michele e Gabriele si inchinano profondamente, sovrastati dai medaglioni con le personificazioni del sole e della luna. Il tutto è proiettato su un cielo stellato. Nel secondo registro la Vergine è seduta su un trono ricoperto di gemme e tiene il bambino con entrambe le mani. Quattordici figure, fra cui i dodici apostoli canonici, la circondano. L’arco absidale è decorato con un fregio di teste femminili che sono allegorie di virtù51. Qui si nota la volontà di mettere a confronto le due Parusie di Cristo, quella dell’inizio della storia della salvezza (secondo registro) e quella della fine dei tempi (conca). Nel Medioevo questa giustapposizione di due termini della storia provvidenziale è di nuovo rappresentata in Oriente, ma con un differente vocabolario grafico, mentre non la si ritrova nella parte occidentale del mondo bizantino. Le due immagini in questione sono anch’esse un’allusione alla duplice natura di Cristo, poiché si tratta di Cristo uomo nella prima Parusia e di Cristo celeste nella seconda. Infine, l’introduzione della Vergine con il Bambino nel secondo registro dell’abside è facilitata dall’ordine della successione dei profeti nel libro di Isaia, dove il capitolo in cui è descritta la Visione è seguito dall’invocazione della futura Natività: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emmanuele. Egli mangerà burro e miele...» (Is 7,13-15). Chiaramente l’artista conosceva questo testo. In parallelo, la Vergine col Bambino di questa decorazione è anche un simbolo della Chiesa: la polisemia dei simboli era comune nell’arte cristiana. Dobbiamo riconoscere che la valorizzazione dell’Incarnazione non si accorda con la tesi monofisita, la quale afferma che, subito dopo l’Incarnazione, la natura umana di Gesù ha fatto posto alla sua natura divina. Sicuramente la Visione nella conca, espressione della divinità di Cristo, occupa la posizione più in vista, ma Maria prende un posto quasi altrettanto importante, il che permette di pensare che si potrebbe trattare di un’influenza costantinopolitana. La presenza di numerosi calcedonesi attestata nel paese ha potuto facilitare quest’influenza e incoraggiare i pittori a rappresentare nell’abside, sovrapposti, due programmi diversi: quello con la visione di Dio dei copti e quello dei greci con la Vergine, strumento dell’Incarnazione, come si può vedere per esempio a Parenzo (vi sec.), dove anche gli apostoli sono presenti52. Questi decori confermano, inoltre, che la tesi monofisita era probabilmente più una questione politica che una convinzione profonda. Nelle piccole cappelle del monastero di S. Geremia di Saqqara (vi-viii sec.) gli schemi della Visione sono più laconici e la Vergine con il Bambino figura spesso nel secondo registro, ma è
appartengono all’Ascensione, tra cui i quattro animali, gli angeli porta corone, gli astri e, nel secondo registro, le quattordici figure maschili. Per comprendere correttamente l’insieme di queste figure bisogna tenere conto del fatto che la seconda Venuta è annunciata anche durante l’Ascensione (Atti 1,11) e questo collega i due trionfi. Peraltro, per descrivere questo Ritorno, l’Apocalisse (Ap 4,6-8) utilizza la Visione di Ezechiele, il che suggerisce che il Signore ritornerà circondato dalle stesse forze celesti e dalla stessa luce di quando apparve ai profeti. Tutte le immagini dell’abside, strettamente connesse tra loro, proclamano quindi che ciò che i profeti hanno visto in passato si realizzerà in un futuro escatologico. Lo spettatore è quindi di fronte a una visione di Cristo glorioso alla fine dei tempi, nella gloria della sua seconda Parusia, annunciata durante l’Ascensione. Possiamo chiamare queste immagini Teofanie-Visioni-Ascensioni? Sicuramente, ma rischieremmo anche dei fraintendimenti. Si noti che un approccio opposto a quello che abbiamo proposto esiste anche nel repertorio orientale e che i due soggetti non devono essere confusi. Alcune immagini dell’Ascensione incorporano elementi delle Visioni. Così, troviamo, in un’Ascensione siriana del vi secolo, delle figure tipiche delle Visioni di Bawit. Nella miniatura del f. 13v dell’Evangeliario di Rabbula (Firenze, Laurent., Plut. i.56), il Cristo dell’Ascensione, circondato da una mandorla blu, è in piedi sul carro veterotestamentario, nella postura dei trionfatori romani47. Egli fa il gesto del vincitore con la destra e porta un rotolo aperto, senza iscrizioni, nella sinistra. Due angeli sostengono la sua mandorla nella parte superiore, mentre la parte inferiore riposa su quattro ali ardenti coperte di occhi, che lasciano apparire le teste di quattro animali. Due coppie di ruote di fuoco girano l’una nell’altra, come voleva Ezechiele; sono poste sul pavimento in fiamme da entrambi i lati del nucleo centrale della composizione. Due angeli si dirigono verso Cristo e gli offrono corone, con le mani coperte, gesto preso in prestito dalle cerimonie di palazzo e segno di rispetto. Negli angoli superiori del decoro, le personificazioni del sole e della luna dirigono i loro raggi verso Cristo. Più in basso la Vergine orante e gli apostoli corrispondono all’immagine tradizionale dell’Ascensione. Immagini di Ascensione che integrano elementi della Visione esistono anche nelle decorazioni parietali egiziane, tra cui quelle della chiesa principale del monastero Deir Abu Makar (1000 ca.), della chiesa di S. Michele del monastero di Deir Mar Girgis vicino a Camulia (900-1000), della cappella della Vergine del monastero di Deir Abu Seifein (xii sec.)48, della chiesa di El Hadra del monastero Deir es-Suriani, decorata da siriani49, o ancora del monastero di Wadi el-Natrun50. Le interferenze tra l’Ascensione e alcune Teofanie-Visioni ci hanno allontanato dal nostro soggetto. Le decorazioni egiziane dei primi secoli che rappresentano la Visione nella conca absidale non hanno necessariamente un secondo registro in linea con quello della cappella xvii. Questo spazio è occupato anche 107
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98. Teofania-Visione, cappella n. vi del monastero di S. Apollo, Bawit (Egitto).
99. Teofania-Visione, cappella 1795 del monastero di S. Geremia, Saqqara (Egitto), vi-viii secolo.
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A fronte: 102. Teofania-Visione, chiesa di S. Mercurio, cittĂ vecchia del Cairo (Egitto), xiii secolo.
100. Decoro absidale con Teofania-Visione della chiesa settentrionale del monastero dei Martiri, xiii secolo, deserto di Esna (Egitto).
101. Teofania-Visione con i santi Basilio e Gregorio, chiesa meridionale del monastero dei Martiri, xiii secolo, deserto di Esna (Egitto).
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103. Cappella dei Quattro Viventi, monastero di S. Antonio (Egitto), xiii secolo, schema della zona superiore dell’abside con Cristo in Gloria (disegno di P. Laferrière). 104. Teofania-Visione, dettaglio dell’abside, monastero di S. Antonio (Egitto).
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sione (xiii sec.). Cristo in trono e trionfante è adorato dai due principali arcangeli, Michele e Gabriele, e dai santi Basilio e Gregorio con dei libri, che ricordano che sono gli autori delle anafore utilizzate assai precocemente dai copti. I programmi datati tra il x e il xviii secolo, molto simili a quelli del monastero dei Martiri ma più sviluppati e più prossimi a quelli della cappella xvii di Bawit, si trovano anche nella chiesa principale del monastero Deir Abu Makar o di S. Macario, e nella chiesa di S. Michele del monastero Deir Mar Girgis (S. Giorgio), nei pressi di Camulia. La decorazione dell’abside di Abu Seifen o S. Mercurio (xiii sec.), nella città vecchia del Cairo, riprende grosso modo il programma della prima abside della chiesa nord del monastero dei Martiri, salvo il fatto che nel secondo registro la Vergine con il Bambino è circondata dagli apostoli56, elemento che richiama le absidi di Bawit. I dipinti del monastero di S. Simeone d’Assuan sono andati perduti, ma ci resta una riproduzione ad acquerello e una descrizione. Cristo coronato e vittorioso è stato affiancato da due luminarie, due angeli e un donatore. La descrizione menziona anche due cherubini57. Nel monastero di S. Antonio (xiii sec.), nel deserto Rosso, si nota una fedeltà al modello copto medievale, che è piuttosto semplice. Cristo in trono riempie non solo la mandorla che lo circonda, ma quasi tutta l’abside. Egli benedice con il braccio alzato e nella sinistra tiene un rotolo appoggiato sulle ginocchia. I quattro animali alati e ocellati portano la gloria, mentre da entrambi i lati un angelo adora il Signore. Essi sono sormontati dal sole e dalla luna. Nel secondo registro la Vergine Odigitria è seduta su un trono riccamente ornato ed è circondata da due angeli frontali che tengono lo scettro e il globo. Tutti i personaggi sono vestiti con mantelli color porpora, colore della regalità, ma che richiamano anche il fuoco. In Egitto sono stati registrati diciotto decori di abside con la visione della Teofania58. In Nubia, la visione teofanica ha dato vita a tre versioni molto differenti tra loro. La prima, rappresentata nell’abside, ricorda molto da vicino quello che è stato detto fino ad ora, a cui si può aggiungere spesso un ritratto di un vescovo o di un re che acquista un’importanza insolita e riguarda più il ritratto che la visione e di conseguenza non sarà oggetto della nostra attenzione. La seconda corrisponde allo schema familiare in Oriente e decora anche la conca absidale. La terza variante è costituita da Teofanie che sono organizzate intorno alla Croce della seconda Venuta e la cui posizione varia. Nell’abside della chiesa di Sheikh a Tamit (xi-xii sec.) Cristo in gloria è coronato e circondato da quattro animali59. Il secondo registro è occupato, come già accaduto a Bawit e successivamente in Cappadocia, dagli apostoli, in mezzo ai quali troneggia la Vergine con il Bambino, entrambi coronati. Frammenti di Teofanie simili a quella di Tamit sono conservati in due chiese vicine dal nome sconosciuto, di cui una è del ix-x secolo e l’altra del xii60. Questi tre modelli corrispondono alla seconda variante nubiana.
di solito circondata da angeli e non da apostoli. A volte occupa delle nicchie con funzioni di absidi. Nella conca absidale della cappella 1795, Cristo celeste è rappresentato a mezzo busto con il libro e la destra alzata lontano dal corpo. È circondato da angeli a mezza figura in medaglioni, che portano delle torce. Nel secondo registro, la Vergine in trono con il Bambino è circondata da angeli e da due santi locali, Enoch e Geremia53. Nel Medioevo, il soggetto si sviluppa in Egitto. Nel monastero dei Martiri (Deir el-Chohada), nel deserto di Esna, due chiese hanno conservato degli affreschi. La chiesa settentrionale ha due cappelle (xiii sec.). Nella prima, Cristo sovradimensionato è circondato da una tripla aureola gialla striata di raggi luminosi, in cui sono inclusi sole e luna, mentre il suo bordo esterno è costituito da un fregio di stelle54. L’aureola è portata dai busti di quattro animali dalle ali ocellate. Si accentua qui l’onnipotenza divina del suo regno cosmico, e infine la luce di cui il Signore è la sorgente, luce che deve essere intesa sia in senso letterale sia figurato. Cristo compie un gesto da trionfatore e tiene il libro ornato con una croce sullo sfondo stellato. Due angeli in adorazione o in preghiera occupano le estremità della composizione. Più in basso, due trombe laterali ospitano dei piccoli personaggi a mezzo busto raffigurati in preghiera. Nel secondo registro la Vergine Odigitria troneggia con il Bambino (cancellato) tra due arcangeli frontali, di cui solo Michele è conservato. Nell’intradosso dell’arco absidale Pietro tiene la chiave del Paradiso e l’arcidiacono Stefano un calice, allusione all’Eucaristia. La rappresentazione della Vergine con il Bambino nel secondo registro dell’abside fu anche probabilmente influenzata dall’importanza che ebbero nel periodo antico gli inni alla Theotokos nella liturgia copta. Questi canti non glorificano solo la Natività, ma la mettono in relazione con la visione di Ezechiele paragonando la Theotokos al carro del profeta. I loro autori sono stati grandi teologi, in particolare emergono Efrem il Siro e Giacobbe di Sarug. Il decoro absidale della seconda cappella della chiesa nord è molto simile al precedente, eccetto per la gloria di Cristo che è completamente costellata (xii sec.). La parte superiore del Cristo in trono è andata perduta. Il sole e la luna sono rappresentati all’esterno dell’aureola. Questa è portata dagli animali, ognuno dei quali ha tre paia di ali. Infine, i due arcangeli hanno un ginocchio poggiato a terra. Il tratto originale si trova sotto il gradino di Cristo. Dei pesci nuotano in un rettangolo che funge da gradino a Cristo55. Si tratta del mare cristallino che l’Apocalisse (Ap 4,6) pone davanti al trono e che non è altro che l’acqua della Vita promessa dal Signore a coloro che hanno sete, sottinteso del suo insegnamento. Così il pittore opera una sintesi di vari testi e li esprime in una volta sola, offrendo al fedele la conoscenza simultanea e immediata della loro quintessenza. Nella chiesa sud del monastero dei Martiri, l’abside è sostituita dalla parete orientale, su cui si trova l’immagine della Vi113
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106. Croce gemmata con il ritratto di Cristo in trono, vestibolo nord della cattedrale di Faras (attuale Etiopia), xii secolo.
La terza variante della Teofania in Nubia, che si trova nel vestibolo nord della cattedrale di Faras, è stata ridipinta nel xii secolo66. Cristo in trono è sostituito dalla croce gemmata con il suo ritratto a mezzo busto posto nel medaglione all’incrocio dei bracci. Egli benedice con il braccio vicino al petto e tiene un libro chiuso nella sinistra. Attorno alla croce, piantata su una pedana trionfale, si trovano i quattro animali alati e ocellati. Alcune corde, a cui sono sospese delle campane, sono attorcigliate alla croce. La loro funzione è liturgica. Un’altra curiosità dell’immagine di Faras si trova sotto i gradini della piattaforma: vi distinguiamo una testa che è stata interpretata come quella di Adamo, raffigurata anche in alcuni modelli simili. Un’iscrizione conferma questa interpretazione, in quanto si tratta di una dedica con un’invocazione al perdono dei peccati67. Un donatore è raffigurato accanto alla croce (ix-xi sec.). In un’altra chiesa di Faras, chiamata la chiesa nei pressi del Fiume (xii sec.), un modello simile mostra ancora la testa di Adamo, ma la croce termina con una punta che perfora il cranio di Adamo68. Al posto della redenzione, è accentuata la vittoria di Cristo sul peccato e il male in generale. Sette rappresentazioni di questo tipo sono note in Nubia. La più interessante è quella di Abdallah Nirqi (ix-xi sec.), con il Cristo a mezzo busto nel medaglione all’incrocio dei bracci della croce, circondato dai quattro animali, e un’iscrizione che cita il triplo Haghios. In altri schemi, l’iscrizione nomina la croce, come nelle due immagini della cattedrale di Faras che non sono state sopra menzionate, ossia i n. 7 e 3869. I dipinti di questa cattedrale sono stati staccati dalle pareti e si trovano attualmente nei musei di Varsavia e Khartoum. Le Teofanie etiopi, benché semplificate, sono fedeli al prototipo adottato in Oriente, con l’aggiunta di alcune influenze dell’arte islamica nell’abbigliamento e nell’arredamento. A S. Michele di Dabra Salam (xiii sec.), l’immagine è rappresentata due volte, in luoghi significativi: l’abside, luogo della celebrazione della liturgia, e la parete nord, che spesso si trova di fronte a un secondo ingresso70. Nell’immagine della parete nord, Cristo indossa un abbigliamento locale e siede su un grande cuscino colorato, con le gambe incrociate alla maniera araba. Lo circonda una gloria portata dai quattro animali, così come due croci che sembrano oggetti d’oreficeria. I dodici apostoli seguono nel secondo registro. Nell’abside, il soggetto è raffigurato una seconda volta. Si nota in tal caso che, mentre le rappresentazioni religiose sono vietate nei paesi musulmani, le immagini profane adornano molti manoscritti, in particolare nei secoli xii-xiv, soprattutto in Persia dove si trovano dei personaggi seduti alla maniera araba, come nella Storia universale di Rachid ed-Din71. In Etiopia, i prestiti citati sono probabilmente dovuti a questo tipo di miniatura o ad altre copte, spesso influenzate dall’arte araba. Nella chiesa della Vergine di Qorqor Maryam (xiii sec.), la Teofania appare sulla parete nord, al pari della seconda rappre-
L’immagine della parete orientale dell’ala sud della cattedrale di Faras (974-999)61 è testimonianza di una particolare iconografia. Cristo è in gloria su un trono interamente ricoperto di occhi, fatto del tutto eccezionale. Egli tiene il libro aperto con il versetto di Giovanni: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1-2) nella mano sinistra. Nella destra porta un pastorale episcopale sormontato da una croce. Questo termina con una estremità appuntita e richiama un commentario della liturgia copta che parla del pane eucaristico trafitto dalla lancia62. Si ispira a un antico schema trionfale che mostra Cristo in possesso di una croce con un lungo pennone – strumento della vittoria – come si può vedere nei medaglioni del vi secolo63. Sotto i piedi di Cristo due angeli adorano una croce d’oro ricoperta di gemme che corrisponde a quella che annuncia la seconda Venuta in Matteo (Mt 24,31). Sotto la croce si trova una pittura che è stata probabilmente aggiunta nel xii secolo64, ma che è correlata alle precedenti. Si tratta di una Trinità, abbastanza diffusa in Nubia, ma che non si vede altrove. È rappresentata da tre figure maschili allineate frontalmente, delle quali quella centrale (il Padre) è leggermente più grande rispetto alle altre due. Il Figlio appare alla sua destra e lo Spirito Santo alla sua sinistra. Questo modello è probabilmente ispirato dalla Trinità dell’Ospitalità di Abramo (Gen 18,1-8), che mostra tre angeli. Un modello romano che rappresenta tre imperatori fianco a fianco65 potrebbe anche essere valutato come fonte.
105. Teofania-Visione con i quattro animali, chiesa di S. Michele, Dabra Salam (Etiopia), xiii secolo.
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to con la Teofania e illustra con quest’ultima il duplice trionfo, celeste e terreno. Il collegamento tra i due soggetti caratterizza anche due schemi paleocristiani72, dato significativo, poiché nei primi secoli cristiani fu soprattutto il trionfo di Cristo a essere celebrato a scapito del suo sacrificio. Vedremo alla fine di questo studio che l’Oriente cristiano rimase fedele a tale approccio per tutto il Medioevo. Per quanto riguarda il legame stabilito tra i due trionfi a Qorqor Maryam, lo si ritrova in altre chiese, ma la Deesis vi sostituisce la Visione.
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L’Asia Minore
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Visioni teofaniche dei secoli antichi sono contenute nelle chiese rupestri di monaci ed eremiti a Latmos vicino a Eraclea, in Asia Minore. Il dipinto meglio conservato è nell’abside della grotta del Pantocratore (vii sec.), dove Cristo siede su una panca decorata di gemme al centro di una mandorla luminosa e costellata, portata da due angeli in volo. Sul suo libro aperto leggiamo il versetto di Giovanni: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1), ed egli alza di nuovo la destra in segno di vittoria. Il triplo Hagios è inscritto sul bordo della gloria, da cui emergono gli animali ocellati e nimbati che portano i libri. Questa volta, le iscrizioni li identificano come i simboli degli evangelisti. Le personificazioni del sole e della luna sono presenti. Sotto la Visione, identificabile con difficoltà, una personificazione di Urano (iscrizione). Nel secondo registro, la Vergine in trono allatta il Bambino, mentre la colomba dello Spirito Santo si dirige verso la sua testa. Essa indica che il bambino è stato concepito per opera dello Spirito Santo, sottolineandone la natura divina. Dei santi e delle sante fiancheggiano la Theotokos73. In Cappadocia le Teofanie-Visioni di epoca antica non possono essere datate in modo sicuro a causa del loro cattivo stato di conservazione. Tuttavia, questi decori furono probabilmente numerosi, se li giudichiamo a partire da quelli del ix-xi secolo, particolarmente sviluppati e ricchi di diversi elementi. La frequenza e la complessità di queste composizioni può essere in parte dovuta al fatto che il più antico commentario greco dell’Apocalisse fu quello del vescovo di Cesarea Andrea (563-614), ripreso nel ix secolo da Areta di Cesarea74. Il programma absidale della chiesa n. 3 di Güllü Dere, dedicata a sant’Agatangelo e chiamata anche la chiesa delle Tre Croci (ix-xi sec.), ne è il primo esempio75. Cristo, più grande rispetto alle altre figure, è seduto su un trono gemmato, il cui schienale è a forma di lira, caratteristica arcaica che risale al vi-vii secolo, ma che esiste anche altrove in Cappadocia e in Georgia. Una gloria rotonda e costellata, con il bordo iridescente che ricorda l’arcobaleno dell’Apocalisse (Ap 4,3), lo circonda; essa include le protomi degli zodia alati, nimbati e che tengono i libri, che emergono da dietro il trono, come accade spesso in Cappadocia. Invece di pronunciare il triplo Hagios, come nel vi-vii secolo,
sentazione di questo soggetto a Dabra Salam. Quel muro interpreta il ruolo di un’abside poiché un secondo ingresso era stato ricavato nella parete sud. Le chiese etiopi erano molto piccole e i fedeli restavano all’esterno durante la liturgia. Ora, a Qorqor Maryam è esattamente a sud che vi era abbastanza spazio per una tale assemblea. Ancora una volta, l’immagine si limita a ciò che forma altrove il suo nucleo. Il Cristo imberbe è circondato dalla gloria e dai quattro animali. Nel secondo registro appare un’immagine delle stesse dimensioni, in un certo modo collegata alla prima. È l’Entrata a Gerusalemme, dove Gesù monta non l’asina dei vangeli ma un cavallo. Invece di abbassare la testa in segno di umiltà, come a Bisanzio, questi avanza a testa alta e con le orecchie tese che indicano il trionfo momentaneo del Signore in Gerusalemme, quando tutto il popolo lo acclama. Con lo spirito che lo anima, questo episodio stabilisce un preciso rappor115
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107. Abside della chiesa dei Ss. Apostoli a Sinasos, Mustafa Pacha (Cappadocia), ix-x secolo.
ognuno è nominato con il participio greco con cui il suo canto è espresso nel commentario liturgico dello Pseudo-Germano: Legonta per l’uomo, Adonta per l’aquila, Keragonta per il leone e Boonta per il bue. Questi nomi significano «colui che grida, colui che canta…», e questo canto del Trisagion è introdotto nella liturgia76. Questo modo di nominare gli animali è tipico della Cappadocia e appare nel x secolo. Al di sotto di Cristo, una croce di Malta scolpita e la mano benedicente sono degli elementi eccezionali, che si è cercato di spiegare con il fatto che essi sarebbero anteriori all’affresco77, ma abbiamo ragione di credere che una Visione teofanica fosse già presente in questo luogo in precedenza, dato che era comune nel vi-vii secolo. Se così fosse, la mano divina sarebbe il simbolo del Padre, la croce sarebbe quella del Figlio incarnato, al tempo stesso sacrificato e vincitore della morte, mentre la figura centrale indicherebbe – come ovunque – il trionfatore della fine dei
108. Conca nord e arco absidale della chiesa dei Ss. Apostoli: in secondo piano, genuflessi, i profeti Ezechiele e Isaia (disegno di G. Jerphanion).
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109. Mustafa Pacha, chiesa dei Ss. Apostoli, bordo laterale della conca absidale.
111. La Teofania-Visione, con i due arcangeli abbigliati con vesti imperiali, rappresentata nell’abside della chiesa di Haçli Kilise (Cappadocia), x secolo.
110. Schema dell’abside della chiesa delle Tre Croci di Güllü Dere (Cappadocia) con Teofania-Visione, ix-x secolo (da J. LafontaineDosogne).
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112. La Teofania-Visione della Tokali Kilise (Cappadocia), fine x secolo.
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delle Tre Croci, ossia che questi elementi sono stati raffigurati per essere associati a una Visione teofanica. Sotto il trono, che è completamente ricoperto di gemme, vi è un rettangolo rosa, riempito con linee ondulate, e affiancato da due angeli inginocchiati in preghiera e da due coppie di ruote, di cui solo quella a destra si è conservata. Questa scena è stata interpretata da Guillaume de Jerphanion come il «mare di cristallo» citato dall’Apocalisse (Ap 6,6). Questa identificazione è stata contestata da Catherine Jolivet-Lévy per il colore rosa del rettangolo, che considera come un’immagine del lago di fuoco dell’Apocalisse (Ap 20,15)82. Tuttavia, questo stagno ha lo scopo di punire i peccatori che vi sono gettati durante o dopo il Giudizio universale ed è chiamato «la seconda morte», il che pone un problema. Certamente il Giudizio segue nell’immediato la seconda Parusia, ma non è appropriato evocarlo durante una visione trionfale; anche gli angeli in preghiera o in adorazione contraddicono questa interpretazione. Si noti, inoltre, che l’Apocalisse non menziona il colore del mare cristallino e si limita a dire: «davanti al trono c’è come un mare di vetro, simile a cristallo» (Ap 4,6), e in seguito si legge: «e vidi come un mare di cristallo, misto a fuoco» (Ap 15,2). Questo versetto giustifica perfettamente il colore rosa del nostro rettangolo senza implicare alcun riferimento a una punizione. D’altronde, il mare di vetro con i pesci, esaminato nel monastero dei Martiri in Egitto, è anch’esso di colore rosa. È unicamente nella nostra esperienza terrena che il mare è blu. Ora, gli artisti bizantini e orientali non ritenevano utile l’osservazione della realtà. Dietro l’angelo di destra, due ruote incastrate l’una nell’altra e fiammeggianti illustrano il passo di Ezechiele quasi alla lettera: «il loro aspetto era come se una ruota fosse al centro di un’altra ruota» (Ez 1,16). La loro replica simmetrica a sinistra è scomparsa. Sui bordi laterali della conca, è stato identificato un tetramorfo. I due arcangeli Michele e Gabriele, vestiti all’antica con chitone e himation e in possesso di un lungo bastone cerimoniale, acclamano Cristo. Michele gli porge un disco con un’iscrizione con un triplo Hagios (lato nord) e Gabriele compie il medesimo gesto con un disco che cita il tre volte santo della liturgia. Dietro di lui un terzo arcangelo, il più grande, veste un abbigliamento imperiale. Più in basso, si è potuto restituire un cherubino su ogni lato e un frammento del tetramorfo. Un serafino a sei ali offre un carbone ardente a Isaia inginocchiato e con le mani velate (nord). La scena corrispondente con Ezechiele che mangia il rotolo, a sud, è ormai pressoché cancellata. Frammenti di iscrizioni accompagnano queste scene, tra cui quelli in cui si ordina a Ezechiele di mangiare il rotolo. Accanto vi sono altre due figure inginocchiate, forse dei profeti. Sul retro della volta, personificazioni nimbate del sole e della luna sono rappresentate in medaglioni bordati di perle. Chiaramente il pittore ha voluto dare il massimo splendore alla sua rappresentazione. Nel secondo registro dell’abside, profeti e patriarchi dell’Antico Testamento si mescolano con i santi del Nuovo, tra cui Giovanni Battista.
tempi, che torna nella gloria e annuncia il Regno. Da entrambi i lati della mano divina, le personificazioni del sole e della luna sono racchiuse nei medaglioni. Sotto la gloria sono raffigurate due coppie di ruote ocellate e fiammeggianti, di cui solo una si è conservata. La composizione è completata da due tetramorfi, seguiti da un piccolo cherubino con quattro ali (il secondo è scomparso), da due grandi serafini con sei ali ocellate, due profeti inginocchiati e, alle due estremità, dagli arcangeli Michele e Gabriele in piedi, frontali e con l’abito imperiale bizantino, lo scettro e il globo. I serafini svolgono qui una funzione particolare. Quello di sinistra porge a Isaia, in ginocchio davanti a lui, un carbone ardente, che tiene al fondo di una pinzetta, per purificare le sue labbra (Is 6,5-7). Il serafino di destra offre a Ezechiele, nella stessa posizione di Isaia, il libro da mangiare (Ap 10,8-11), libro che Ezechiele chiama «rotolo» (Ez 2,9-10; 3,1-3). Qual è il significato di queste purificazioni? Nel capitolo vi del suo libro, Isaia si lamenta di aver visto Dio mentre era impuro. Egli aggiunge: «Ma uno dei serafini volò verso di me tenendo in mano un carbone ardente che aveva preso dall’altare con le molle. Egli mi toccò la bocca, e disse: “Questo ti ha toccato le labbra; la tua iniquità è tolta e il tuo peccato è espiato”» (Is 6,7). Accade più o meno la stessa rivelazione a Ezechiele, ma in tal caso è l’Eterno che parla. A un certo momento della Visione, il profeta vede «il rotolo di un libro» che una mano gli tende e ascolta una voce che gli comanda: «Figlio dell’uomo, mangia ciò che trovi, mangia questo rotolo e va, parla alla casa d’Israele» (Ez 3,1). Inoltre il profeta dice: «Io lo mangiai e in bocca esso fu dolce come miele» (Ez 3,3). Questi versetti sono stati interpretati dai teologi come prefigurazione dell’Eucarestia: il pane eucaristico è, infatti, chiamato «carbone spirituale» per analogia con il carbone presentato a Isaia78, e le pinzette rimandano al cucchiaio per servire la comunione utilizzato a partire dall’viii secolo. Ma ben prima di quella data, Giovanni Crisostomo paragonò la purificazione d’Isaia all’Eucaristia79. Inoltre, Teodoro di Mopsuestia e Giovanni Damasceno riprendono questo confronto80. Un nuovo elemento preso in prestito dall’Apocalisse fu aggiunto alla Visione dell’abside della chiesa dei Ss. Apostoli vicino al villaggio di Sinasos (Mustafa Pacha), nell’area di Ürgüp (ix o x sec.)81. Vi è Cristo in trono in una gloria circolare e costellata, contornato di diversi contorni frastagliati multicolori. Dei quattro animali nell’aureola, due si sono conservati con le loro iscrizioni frammentarie di participi. Questa volta Cristo benedice alla maniera bizantina, con la destra stretta davanti al petto e mentre con la sinistra tiene il libro. È sormontato dalla mano divina che esce da un segmento del cielo, mentre una croce è dipinta alla sommità dell’intradosso dell’arco absidale. Tale disposizione conferma la tesi espressa a proposito della croce scolpita e della mano divina della chiesa 121
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113. Cristo in Gloria con la personificazione del sole e della luna, particolare della Visione profetica della chiesa della Vergine, monastero di S. Dodo (Georgia), ix-x secolo.
115. Teofania-Visione, abside della chiesa del Salvatore di Tchvabiani, x-xi secolo (Georgia).
114. Angelo stante e un tetramorfo, dettaglio dell’abside della chiesa della Vergine, monastero di S. Dodo (Georgia).
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guardia alle due estremità della composizione84. Se il soggetto di questo abside è tipicamente orientale, lo stile è francamente costantinopolitano: tratti classici del viso e distribuzione armonica dei personaggi, che pone il Cristo e il suo trono in spazio sufficientemente arioso per conferire loro un aspetto solenne e davvero imperiale.
Essi formano una fila frontale su entrambi i lati di una nicchia occupata da una croce dipinta, sormontata da tracce indicanti forse una testa umana. Anche l’intradosso dell’arco celebra la croce in quanto è sostenuto dalle braccia alzate dell’imperatore Costantino e di sant’Elena che indossano abiti sontuosi. Una Teofania più complessa si trova a Haçli Kilise (x sec.)83. Il Signore è seduto su un trono a forma di lira, di tipo comune a Bisanzio nel vi-vii secolo, in seguito abbandonato. Come il gradino, è interamente ricoperto di gemme. I quattro animali e i loro participi che lo circondano sono inclusi in una grande gloria rotonda. Su entrambi i lati di questo nucleo centrale vi sono un serafino e un tetramorfo con le ali ocellate, seguiti dagli arcangeli Michele e Gabriele in abiti imperiali, che tengono il labarum e il globo crucifero. Nella parte inferiore della composizione due coppie di ruote ocellate sono rappresentate in mezzo alle fiamme. Sopra la testa del Cristo, la mano di Dio, posta in un medaglione, benedice. Nel secondo registro la Vergine orante e san Giovanni, designato come il Precursore, spiccano in mezzo a una fila di santi. L’iscrizione sulla ruota proclama la Redenzione: «Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). Le Teofanie della Cappadocia, su cui ci siamo soffermati, furono allo stesso tempo molto sofisticate e numerose. Tuttavia ci focalizzeremo ancora su una sola per le sue qualità estetiche. Nella nuova chiesa di Tokali (fine x sec.), Cristo troneggia sotto la mano divina, circondato da un serafino a sei ali, da un tetramorfo con quattro ali ocellate e da due coppie di ruote ocellate e alate. Un maestoso arcangelo in abiti imperiali e loros (sciarpa che avvolge il corpo), tempestato di pietre preziose, monta la
L’Armenia e la Georgia Teofanie più rare e più semplici di quelle della Cappadocia si sono conservate nelle absidi armene, in particolare nella chiesa di Lambat (vii sec.), dove solo un frammento ha resistito al tempo. Essa mostra Cristo in trono, circondato da un’aureola cerchiata di tre bordure di colori diversi che ne indicano la luminosità. Il trono e il suo piedistallo sono abbondantemente ornati con gemme. Su entrambi i lati dell’aureola vi è un tetramorfo con le ali ocellate in piedi tra due ruote e un serafino con sei ali verde smeraldo. Il pavimento è in fiamme85. Tracce della Visione sono state identificate in altre parti dell’Armenia, risalenti alla stessa epoca: nelle chiese di Mren, Goch, Talin e Talitch86, ma queste immagini sono scomparse. I quattro animali non sono mai rappresentati nelle Visioni armene. In Georgia, le Visioni teofaniche sono in pessime condizioni, forse perché la maggior parte di esse si trova nelle chiese rupestri della zona di David Gareja. Qui i quattro animali sono rari e di solito sono sostituiti dal tetramorfo. Così nella chiesa della Vergine del monastero di S. Dodo (ix-x sec.), Cristo in trono è investito da un flusso luminoso con la colomba dello Spirito Santo, inviato su di lui dalla mano divina. Questa appare in un 123
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116. Schema della Deesis che si trovava sopra la Teofania-Visione, abside della chiesa del Salvatore di Tchvabiani, x-xi secolo (Georgia).
118. L’arcangelo Michele raffigurato sull’abside della chiesa n. 5 di Sabereebi.
119. Disegno ricostruttivo dell’arcangelo Gabriele, rappresentato sull’abside della chiesa n. 5 di Sabereebi.
Pagina successiva: 120. Parete nord dell’abside della chiesa del monastero di Eski Gümüs (Cappadocia), xi secolo: nel registro superiore è raffigurata la Deesis, in quello mediano i santi apostoli e in quello inferiore i santi vescovi.
117. Disegno di uno dei quattro animali della chiesa n. 5 di Sabereebi nel deserto di David Gareja, ix-x secolo (Georgia).
servata, citano il grido degli animali: «Santo, santo, santo Dio degli eserciti», secondo Isaia (Is 6,3). Solo secondo la versione di Isaia sono i serafini che pronunciano questo grido e non i tetramorfi. L’Apocalisse di Giovanni attribuisce tale grido agli animali (Ap 4,8). Solo l’Apocalisse di Anastasio presta tale canto ai tetramorfi88. Gli arcangeli Michele e Gabriele, vestiti secondo il costume antico, sono alle estremità della composizione il cui fondo è completamente costellato. Hanno il bastone cerimoniale nella destra e il globo nella sinistra. Nella chiesa n. 5 di Sabereebi, a David Gareja (ix-x sec.), Cristo è circondato dai quattro animali di cui ne rimane solo uno. Essi non emergono dalla gloria come in Egitto o dal trono come in Cappadocia, ma direttamente dalla figura del Salvatore. Due serafini ocellati e gli arcangeli Michele e Gabriele montano la guardia molto vicini al Signore. Più in basso e discosto, un piccolo diacono è circondato da una cornice che lo isola dalla Visione, pur collegandolo a essa; punta con un dito una scatola che tiene nella sua sinistra, probabilmente un’allusione all’Eucaristia. Lo sfondo blu è costellato di grandi stelle e il pa-
segmento del cielo, situato nell’arco absidale87. Si tratta ancora una volta di un’allusione trinitaria che si aggiunge alla Visione, come abbiamo visto in Cappadocia, ma con altri mezzi grafici. Potrebbe anche evocare la seconda Venuta e il Credo: «Salì al cielo, siede alla destra del Padre, di là tornerà per giudicare i vivi e i morti». Da entrambi i lati della colata di luce, le personificazioni del sole (che regge una torcia) e della luna incorniciano la testa di Cristo e formano un triangolo con il segmento del cielo suggerendo così che l’intero universo è coinvolto nell’evento. A destra, si trovano un arcangelo e un tetramorfo. Il Signore appare all’interno di una gloria, composta da bande colorate che vanno dal blu al rosso e da un bordo iridescente; è fiancheggiata da due tetramorfi con sei ali ricoperte di occhi (Ap 4,8) e con mani e piedi (Ez 10,12). Sono in piedi su un asse che collega ogni volta due ruote in fiamme (Dn 7,9). Ezechiele accorda il movimento degli animali (e quindi anche dei tetramorfi) e la ruota quando dice: «Quando gli animali camminano, anche le ruote si muovevano accanto a loro» (Ez 10,16-17). Due iscrizioni, di cui solo una è interamente con124
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assiso su un trono ricoperto di gemme e circondato da un’immensa gloria rotonda, realizzata con diverse sfumature di blu. Anche qui i tetramorfi poggiano su due coppie di ruote fiammeggianti collegate da un asse. Gli angeli alle estremità dell’immagine sono simili quelli della chiesa di Dodo, ma portano gli abiti imperiali con il loros gemmato, come a Tokali Kilise. Sopra la testa del Signore vi è un flusso di luce che proviene da un segmento di cielo, il sole, la luna, le stelle e i quattro angeli in volo. Prima che la metà fosse distrutta, era un’immagine grandiosa della Maestà divina91. È nella stessa regione che la chiesa del Salvatore in Nesgun (x-xii sec.) conserva dei frammenti di una Visione laconica nell’abside, che comprende Cristo in trono affiancato da due arcangeli e seguito, nel secondo registro, dalla Vergine raffigurata a mezzo busto e senza nimbo, e dagli apostoli, compresi i due evangelisti non apostolici, per un totale di quattordici figure in totale, come a Bawit. A Oshki o Osk (1036) e Khakhuli, nella Georgia orientale, attuale Turchia, programmi molto simili sono in gran parte scomparsi. Come si è potuto comprendere, i decori absidali con la Teofania-Visione erano divenuti pressoché la regola per la decorazione dell’abside in Oriente. Tale orientamento non fu semplicemente dovuto a possibili modelli palestinesi, ma anche a uno stato d’animo. Alcune figure, come le varie categorie angeliche, non si basano sempre direttamente sulle descrizioni dei profeti, bensì sugli echi di queste storie nella liturgia siriaca, che influenzò sostanzialmente tutte le altre. Queste immagini si svilupparono ulteriormente dal x secolo e alcuni dettagli particolari le distinguono in ciascuna regione orientale. Così, in Cappadocia, gli animali sono raffigurati non al di fuori della gloria del Signore, come ovunque altrove, ma all’interno e emergono direttamente dal trono divino. Durante il Medioevo il triplo Hagios, che era frequente nell’Alto Medioevo, tende a scomparire. In Egitto Cristo nella gloria si distingue per le sue dimensioni che spesso riempiono tutta la conca. In Georgia, questi programmi appaiono per lo più in zone remote, come l’Alto Svaneti o il deserto di David Gareja. Ovunque gli iconografi si esprimono in modo personale, aggiungono delle allusioni, delle metafore o degli elementi esplicativi che traggono dai testi sacri. Ci siamo soffermati a lungo sulla rappresentazione della Teofania nel Medioevo per valutare fino a che punto i programmi absidali orientali siano diversi da quelli fissati a Costantinopoli, di cui ci restano d’altronde molte poche testimonianze. È stato anche importante notare che, nonostante il particolarismo dei paesi interessati, questo divario fu sostanzialmente il medesimo in tutto l’Oriente cristiano. Un destino simile ebbe il soggetto che generalmente sostituì la Visione dal x-xi secolo e che ci apprestiamo a presentare.
vimento è un prato fiorito, quello del Paradiso89. Quest’ultimo tratto è un’interpretazione ingenua che peraltro collima con lo stile rustico della pittura. Frammenti di Visioni si trovano nelle chiese n. 6, 7 e 8 a Sabereebi90. In un’altra regione georgiana, il Tao-Klarjeti, la Visione teofanica si trova nella conca, ma questi programmi sono parte di una categoria che sarà affrontata nel prossimo capitolo. Un’altra regione georgiana isolata, l’Alto Svaneti, che comprende i villaggi situati nelle valli del Caucaso, ha conservato delle Teofanie-Visioni. I dipinti di queste chiese rurali sono di stile popolare, ma la loro iconografia testimonia una buona cultura teologica. Una versione ridotta della Visione è stata adottata nella chiesa dei Ss. Arcangeli ad Ats, nell’Alto Svaneti (ix-xi sec.), in cui Cristo a mezzo busto appare tra un serafino e un tetramorfo. Nella chiesa del Salvatore nella Tchvabiani (x-xi sec.), Cristo è
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Capitolo Quinto
LA DEESIS, IMMAGINE DELL’INTERCESSIONE, DEL PERDONO E DELLA CLEMENZA DIVINA
Nei decori conformi ai programmi costantinopolitani, la Deesis è un’immagine abbastanza semplice che comprende solamente Cristo e i due intercessori, almeno fino all’epoca dei Paleologhi: si tratta di un procedimento abituale perché non si tratta della preghiera di intercessione alla fine dei tempi, come in Oriente – tranne nella scena del Giudizio universale –, ma della preghiera che Giovanni e Maria rivolgono in modo perpetuo a Cristo in cielo. Nel Giudizio universale, che si svolge al termine della storia, uno o due rappresentanti delle forze angeliche (serafini, cherubini, tetramorfi) sono aggiunti ai piedi del trono divino. All’epoca dei Paleologhi, si nota un’influenza dell’iconografia orientale sulle isole greche, soprattutto Creta10 e nella regione di Maima11, in cui il soggetto è a volte raffigurato nell’abside anche se non si tratta di chiese funerarie. Un’influenza orientale è stata spesso osservata nella pittura cretese, dovuta ai molti migranti che in tempi di crisi attraversarono il Mediterraneo e si stabilirono definitivamente a Creta e nel sud Italia. Tuttavia, queste immagini non adottarono i modelli orientali. Lo sviluppo e la diffusione della Deesis si ebbero, in tutto il mondo bizantino, dopo la fine della controversia iconoclasta. Ancora una volta si tratta di conseguenze indirette delle dottrine degli iconofili, che mettono in risalto la Vergine come strumento dell’Incarnazione. Ella era considerata la mediatrice per eccellenza negli scritti di Teodoro Studita, di Andrea di Creta o in quelli dei patriarchi Germano e Niceforo, che la situano «più in alto dei cieli»12. La Vergine è anche celebrata come «più venerata dei cherubini e più gloriosa dei serafini», ella vive con gli angeli13. Giovanni è stato l’ultimo profeta e il primo testimone dell’Incarnazione, poiché riconobbe il Signore durante la Visitazione, quando ancora era nel seno di Elisabetta. Il Vangelo di Giovanni lo designa specificamente come colui che è venuto per rendere testimonianza alla divinità di Cristo (Gv 1,34), per annunciarlo al mondo (Gv 1,15) e per preparargli la via: «Preparate la via del Signore» (Gv 1,23; 3,29). Egli è stato anche testimone del mistero del Battesimo, perché ha visto lo Spirito Santo scendere su Gesù (Gv 1,33-34). Egli fu, in effetti, paragonato agli angeli che l’avevano assistito durante il Battesimo, e secondo Sofronio, egli apparve sulla terra come «un angelo incarnato»14. Per tutte queste ragioni, il Precursore è considerato dalla Chiesa ortodossa come il più grande santo nella gerarchia, tra gli angeli e gli apostoli15. Persino il terzo pezzo tagliato dal pane eucaristico è dedicato a lui, dopo i due dedicati alla Vergine e agli angeli16. La sua presenza nella Deesis è pienamente giustificata dal fatto che egli è il profeta della Redenzione, al quale il Vangelo di Giovanni (Gv 1,29) fa dire, indicando Cristo: «Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo». Dopo l’iconoclasmo, in particolare dal xii secolo, quando valori emozionali furono introdotti nel mondo sacro, l’idea
Significato e prime attestazioni dell’immagine della Deesis a Bisanzio e in Oriente Dall’xi secolo, l’immagine della Deesis non è solo l’immagine più frequente nel catino absidale in Oriente, ma determina anche gran parte del programma iconografico degli edifici cultuali, al pari di altri soggetti e figure collegati, ampliando in tal modo il proprio campo semantico. Queste associazioni saranno affrontate in particolare nel prossimo capitolo, quando parleremo dei programmi degli spazi a volta, ma faremo riferimento ad alcuni esempi anche in questo primo studio sul tema. Lo schema della Deesis e la sua posizione sono particolari in Oriente. Non ci si limita a rappresentare Cristo che riceve la supplica della Vergine e di san Giovanni a favore del genere umano, come avviene di solito a Bisanzio, ad eccezione di quando il soggetto è incluso nel Giudizio universale. In Oriente si opera una fusione tra la Teofania-Visione e la Deesis bizantina. In altre parole, la parte centrale della Visione (Cristo e le potenze angeliche) è mantenuta ma è affiancata, alle estremità della composizione, dalla Theotokos e dal Precursore in atteggiamento orante. Talvolta sono seguiti, nelle volte o sulle pareti, dagli arcangeli, da gruppi di angeli e santi che si associano con la loro supplica, o ancora dalla croce che annuncia la seconda Parusia. D’origine costantinopolitana, il soggetto è attestato a partire dal vi secolo in un testo di Paolo Silenziario1, ma fu comunque estremamente raro in quell’epoca. Tuttavia si trova in forma embrionale nel monastero di S. Caterina sul monte Sinai (vi sec.)2 e in una descrizione del xvii secolo relativa a un’immagine del v3; esso appare nella sua formulazione completa nel vii secolo a S. Maria Antiqua a Roma4. Dal ix secolo, occupa l’architrave dell’iconostasi e appare – in una variante particolare – in un famoso mosaico di S. Sofia a Costantinopoli5 e su alcuni avori. Alcune immagini dei primi secoli considerati sono conservate anche nella camera sud-ovest, che è al piano superiore della basilica di S. Sofia6. Nel ix secolo, la Deesis si impone nella pittura murale che imita l’iconografia della capitale bizantina, ma occupa solo un posto minimo nel decoro ecclesiale in quanto la sua posizione è in cima all’arco absidale7. Inoltre non conservò a lungo tale posizione. La si trova nel Giudizio universale a partire dal ix-xi secolo, e anche sull’iconostasi, ma in questo caso essa non occupa solo l’architrave ma anche l’intercolumnio del recinto del coro, in cui essa è suggerita da due o tre icone. È raffigurata nelle absidi delle chiese sepolcrali8 e conosce, a partire dal xii secolo, un importante sviluppo sui muri e sui pilastri del coro di edifici religiosi, dove lunghe iscrizioni testimoniano di un presunto dialogo tra Cristo e i suoi intercessori9. Tuttavia, è necessario sottolinearlo, a Bisanzio non occupa l’abside negli edifici di culto, zona che peraltro è priva di una particolare destinazione. 126
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122. Cristo in Maestà, abside orientale, chiesa di S. Scenute, monastero Bianco, Sohag (Egitto).
«Preghiamo verso Oriente per trovare il Paradiso, la nostra antica patria, che Dio ha piantato in Eden, a Oriente»21 e la Storia ecclesiastica precisa: «perché aspettiamo l’alba dell’apparizione luminosa della seconda Venuta di Cristo»22.
che i Bizantini avevano della Theotokos si evolse. Da grave e impassibile, isolata dal mondo per la sua purezza, ella divenne la Madre amorevole e misericordiosa di tutti gli esseri umani, l’ultimo rifugio delle anime tormentate, e anche – cosa inaspettata – baluardo contro la morte17. La liturgia celebra allo stesso modo la Vergine e il Battista come mediatori potenti che intercedono a favore degli uomini. Un inno cantato durante la consacrazione delle specie dice: «O, Panaghia, Sovrana Madre di Dio, intercedi per noi peccatori [...] san Giovanni, profeta, Precursore del nostro Signore Gesù Cristo, intercedi per noi peccatori»18. Giovanni è menzionato anche nella liturgia del 5 gennaio, che celebra la festa della Teofania, detta anche della Natività di Gesù19. Sul piano formale, l’iconografia della Deesis sembra essere stata ispirata da una cerimonia di palazzo durante la quale alti funzionari presentavano petizioni all’imperatore20. Nell’atto di domandare, questi tenevano dei rotoli piegati o consegnavano la causa da difendere, come si vede anche in alcune immagini. Nel Levante, la posizione della Deesis nel catino absidale è giustificata dal significato che si dà a tale preghiera posticipandola alla fine dei tempi, al momento della seconda Parusia, che doveva d’altronde realizzarsi in Oriente, il che corrisponde anche all’orientamento dell’abside. San Basilio disse:
Dalla Visione teofanica alla Deesis. Gli schemi della transizione
Nelle chiese orientali lo schema della Deesis è a volte simile al tipo costantinopolitano, ma le composizioni più comuni sono quelli già citate, raffiguranti le Teofanie-Visioni della fine dei tempi, a cui si unirono la Vergine e il Precursore. Due momenti della storia della salvezza sono raggruppati in questi schemi: la seconda Venuta e ciò che ne consegue, ossia la preghiera di intercessione. Il fedele che entra in una chiesa cristiana orientale si trova quindi di fronte a un’immagine di Cristo glorioso ed eterno, del suo trionfo finale sul male e sulla morte nell’orizzonte escatologico, ma non solo. Si sottolinea anche la sua misericordia in quanto è in ascolto di chi chiede il perdono per l’umanità. La costituzione dello schema orientale della Deesis si è probabilmente realizzata passando attraverso l’intermediazione di numerosi programmi provvisori differenti. Nella piccola chiesa di Tchvabiani, nell’Alto Svaneti (x-xi sec.)23, il Cristo in trono della Visione occupa la conca absidale, come è già stato segnalato, ma ciò che qui ci interessa è il fatto che, proprio al di sopra, appaia una Deesis di tipo semplice, che annovera ugualmente Cristo seduto sul suo trono di sovrano del cielo. Le due immagini di Cristo in trono erano identiche e delle stesse dimensioni, e sembrò dunque ragionevole eliminarne una, quella nuova, aggiunta al programma tradizionale. Restano la Vergine e san Giovanni. Essi furono trasferiti alle estremità della rappresentazione della Visione nella conca, là dove rimaneva un po’ di spazio libero. Questo processo, che parte da una sovrapposizione delle due immagini, si può trovare anche in Libano, a Nostra Signora dei Venti a Kfar Chlaimane. La Deesis qui appare sopra l’altare, mentre Cristo in trono, portato dagli zodia e fiancheggiato dal sole e dalla luna, occupa il soffitto adiacente. Un altro schema di transizione mostra la Vergine e san Giovanni, con in mano dei rotoli con preghiere di intercessione, sotto la Visione, nel registro inferiore dell’abside, come si vede in Georgia orientale (antico regno, in seguito regione di Tao-Klarjeti), in particolare a Tbeti (xi sec.). Cristo troneggia nella conca tra i cherubini, i serafini, gli angeli e gli arcangeli, mentre nel secondo registro vi sono Giovanni e Maria con rotoli di intercessione, attualmente quasi scomparsi24. Gli intercessori sollevano una mano verso il Salvatore, come a dire che 121. Rilievo dall’abside di Tbeti (Georgia), xi secolo: Teofania-Visione ciò che è scritto nei loro rotoli si rivolge a lui. Queste figure e, nel secondo registro, Vergine e san Giovanni il Precursore. non resteranno a lungo nel secondo registro e, quando si uni128
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ranno a Cristo nella conca nel gesto della preghiera, allora la Deesis-Visione sarà definitivamente fissata. Un decoro molto simile a quello di Tbeti si trova anche in Cappadocia, a Haçli Kilise di Kizil Çukur. La Teofania-Visione è composta dalle stesse forze celesti come a Tbeti ma vi si aggiungono gli zodia. Sotto, Cristo in trono e, nel secondo registro, la Vergine orante e il Battista sono al centro di una fila di apostoli. Un programma absidale particolarmente ricco di elementi significativi, ma molto deteriorati, si trova in Georgia orientale, attuale Turchia. A Dört Kilise (x sec.), dall’alto in basso
abbiamo: la mano di Dio, il Cristo in gloria, il trono dell’Etimasia, sorretto e contornato da angeli, gli apostoli e, tra questi, la Vergine orante affiancata da due angeli e da san Giovanni che leva la destra in direzione di Cristo. Nella sua sinistra, egli tiene il rotolo, la cui iscrizione è scomparsa. Secondo le immagini simili della Cappadocia e dell’ampolla n. 20 di Bobbio, è ragionevole supporre che questa sia un’allusione ben nota alla Redenzione: «Ecco l’Agnello che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). Il quarto registro di questo decoro è occupato da profeti e santi vescovi. Una finestra è aperta al centro di queste 129
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123. Deesis nell’abside della Chiesa dei Ss. Arcangeli, Iprari, Mestia, Svaneti (Georgia). 124. L’ampolla n. 20 di Bobbio mostra la Vergine in preghiera e san Giovanni Battista che indica Cristo, vi secolo (Palestina).
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due file e mostra nella cima dell’intradosso una figura femminile a mezzo busto con l’iscrizione «SO» (per Sioni) che significa chiesa25. A destra dell’intradosso, Mosè riceve le Tavole della Legge, a sinistra, Melchidesech coronato ha in mano un piatto con pezzi di pane (Gen 14,18-20), prefigurazione della comunione. Sopra di questi, nella parte inferiore della finestra, nel quinto registro di questa enorme abside, sono enumerate le principali tappe della storia della salvezza: Annunciazione, Visitazione, Battesimo, Trasfigurazione, Crocifissione, Discesa agli Inferi. Questo programma non unisce semplicemente Antico e Nuovo Testamento. Combina anche una concezione mistica con quella storica della storia della salvezza. La posizione degli intercessori sotto la Visione non è un’invenzione medievale, dato che era già presente sull’ampolla n. 20 di Bobbio (vi sec.), ma si diffuse in Oriente solo nel x secolo. Sull’ampolla, Cristo, in una gloria costellata, è portato da quattro angeli, sopra due fasci di fuoco, una stella e personificazioni del sole e della luna dotati di torce. Sono seguiti, nel registro inferiore, dalla Vergine orante e da san Giovanni che solleva una mano verso Cristo, come nelle nostre absidi, e tiene nell’altra un rotolo con le parole «Ecco l’agnello...» (Gv 1,29). Di fronte a lui appare suo padre, il sacerdote Zaccaria. Due angeli stanno alle estremità di questa fila26. Un altro schema transitorio è stato utilizzato nel monastero Bianco di Sohag (1124), in Egitto. La Teofania-Visione con gli zodia si trova nella conca, mentre due figure minuscole di intercessori, a mezzo busto e in preghiera, occupano l’arco dell’abside. Questo decoro, dipinto da artisti copti e armeni27, mostra anche la considerazione dei copti nei confronti dei quattro animali. Cristo in trono nella gloria è portato dagli zodia alati, ma ai suoi lati appaiono anche i quattro evangelisti, di dimensioni ridotte e racchiusi in medaglioni. A Bisanzio, questa disposizione sarebbe stata priva di senso, in quanto gli evangelisti e i loro simboli sarebbero stati rappresentati fianco a fianco. Ma questo non è il caso dell’Egitto, dove gli zodia erano considerati come dei santi indipendenti.
la Besirana Kilisesi (xii sec.), o ancora a Djavanar Kilise (xiii sec.)31. Lo schema si ripete in Crimea, a S. Giovanni Battista di Verhoretchie (xiv sec.), e nella chiesa dei Donatori (xiv, xv, xvi sec.)32. Sostanzialmente nella stessa area si trova il secondo tipo semplice della Deesis, con il Cristo in trono e al suo fianco la Vergine e san Giovanni in piedi e in atteggiamento orante. Questo schema è conservato in molte chiese della Cappadocia, tra cui Elmali e Karanlik Kilise (xi sec.), in cui i donatori sono in ginocchio e in preghiera ai piedi del trono divino33, a Trebisonda, in particolare nella grande abside di Hagia Sophia (xiv sec.) e in quella della cappella del campanile (1443)34, così come in molte chiese georgiane35, tra cui la cappella sud del monastero di Gelati36, e nelle chiese armene, come S. Croce di Aghtamar (915-921). Il tipo più semplice della preghiera d’intercessione prevede ancora un’altra variante con tutti e tre i personaggi in piedi. Nell’abside di S. Elia (Mar Elian) a Homs (xii sec., ora distrutto), in Siria, questo schema è leggermente modificato. Una Deesis con i tre protagonisti in piedi ha a fianco una coppia di donatori della stessa dimensione, elemento raro altrove; anche le iscrizioni – in greco, latino e arabo – non sono banali37. I committenti sono certamente latini del milieu dei crociati definitivamente stabilitisi nel paese, cosa che si verificò frequentemente. Probabilmente fecero appello a pittori locali, che si adattarono alle loro esigenze di un soggetto che conoscevano bene. Tuttavia, i modelli occidentali dovevano essere presenti, infatti gli evangelisti nel secondo registro sono estranei alla tradizione bizantina e orientale, ma sono talvolta raffigurati in quella posizione in Occidente, come si vede a
I decori con la Deesis semplice
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I principali tipi iconografici della Deesis e delle immagini connesse nell’abside possono essere suddivisi in diversi gruppi in base al loro grado di complessità. Gli schemi più laconici, con i tre personaggi a mezzo busto, sono diffusi in tutta la periferia orientale del mondo bizantino. Si trovano in Georgia, in particolare nella chiesa dei Ss. Arcangeli a Iprari (1096), o in quella di Ss. Quirico e Giulitta, detta di Lagurka (1112), nell’Alto Svaneti28, ma anche in Asia Minore, a Trebisonda, nella cappella inferiore occidentale della chiesa di S. Saba (xiii sec.)29. Si trovano anche in Cappadocia, a Kushluk di Kilit/lar30 (cappella n. 33 di Göreme, xi sec.), nel131
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128. Abside di S. Elia (Mar Elian) a Homs (Siria), xii secolo.
125. Deesis raffigurata sulla volta della cappella n. 33 di Göreme, chiesa di Kushluk di Kilit/lar (Cappadocia), xi secolo.
129. Deesis, chiesa di Elmali Kilise (Cappadocia), xi secolo.
126. Deesis, chiesa di Carikli Kilise di Göreme (Cappadocia), xi secolo.
130. Deesis, cappella sud del monastero di Gelati (Georgia), xii-xiii secolo.
127. Deesis, chiesa dei Donatori (Crimea), xiv-xvi secolo.
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131. Deesis raffigurata nell’abside, chiesa dei Ss. Arcangeli, Raca, Zemo-Krikhi (Georgia), xi secolo.
S. Jacopo a Termeno (inizio del xiii sec.)38. Questo secondo registro è completato da quattro medaglioni, situati lateralmente, che contenevano i profeti Davide, Salomone, Isaia e Geremia. Angioletti di stile romano circondano questi medaglioni. Altre Deesis di questo tipo sono conservate nei manoscritti siriaci, tra cui un evangeliario del xiv secolo conservato a Qaraqosh, in Iraq39. Vicino a Tripoli (antica contea di Tripoli), una cappella rupestre, chiamata la grotta di S. Marina a causa della leggenda locale, è decorata con una Deesis, due o tre volte più grande delle altre immagini di questa scena; è accompagnata da iscrizioni in greco, mentre altre sono in latino. Essendo l’unica immagine davanti alla quale si poteva celebrare il culto, la Deesis gioca in questo caso il ruolo di una decorazione absidale. Cristo benedice e tiene il libro40. Sopra di lui vi è un’Annunciazione, come si vede anche nella chiesa georgiana dei Ss. Arcangeli a Zemo-Krikhi41. La vicinanza di queste due immagini è volta a rappresentare i due termini della storia della salvezza e si trova anche nella chiesa rupestre del monastero di Udabno (xiii sec.), nel deserto di David Gareja42. Infine, a S. Macario, in Egitto, subito sotto la cupola, a est, Cristo è in piedi, affiancato da figure a mezzo busto, mentre accoglie la preghiera della Vergine e di san Giovanni. Vicino a Maria ci sono quattro braccia, probabilmente legate a un’immagine precedente che fu dipinta sotto quella oggi visibile, e la cui pittura deve poi essere in parte caduta. Questi modelli sono estremamente sintetici e non comprendono gli elementi presi in prestito alle Visioni. Tuttavia essi tradiscono la loro parentela con le rappresentazioni delle Visioni laddove l’immagine di Cristo è sovradimensionata al punto da riempire la conca absidale; ciò accade anche per altri modelli orientali, ma non si verifica mai a Bisanzio. L’origine di questo Cristo di dimensioni enormi è antica e orientale, già visibile nel vi-vii secolo nella cappella n. 1727 a Saqqara43.
angeliche, luminarie, arcangeli. Sono per lo più conservati in Cappadocia46 e in Georgia. Così nella chiesa georgiana della Vergine a Ushguli (xii-xiii sec., Alto Svaneti), Cristo è in trono in una gloria rosso fuoco che riproduce la luce accecante e le fiamme che avevano visto Ezechiele (Ez 1,4; 43,3) e Isaia (Is 66,1; 15-16), che dice: «Poiché ecco il Signore viene in un fuoco, egli convertirà la sua collera in un braciere, e le sue minacce in fiamme di fuoco. È con il fuoco che il Signore farà giustizia». L’Apocalisse mantiene l’effetto della luce, ma trasforma il fuoco in diaspro e corniola (Ap. 4,3). Nel nostro affresco anche il suolo è infuocato. È l’aspetto incandescente della Visione che è stato spesso commentato dai teologi47. Cristo benedice alla greca con il braccio destro ripiegato sul petto mentre tiene il libro aperto nella mano sinistra. Due stelle a otto punte coronano il suo capo, particolare che si ritrova spesso anche in Cappadocia. Il trono è coperto di gioielli e il nimbo dorato del Salvatore, calligrafato in nero, richiama il repertorio ornamentale musulmano. Da entrambi i lati del Signore vi sono due serafini ocellati e gli intercessori.
Gli schemi compositi o la Deesis-Visione Un terzo gruppo di immagini dai tratti piuttosto semplici è tuttavia correlato a quelle della Visione: in questo risiede la loro originalità. Si vede Cristo in trono circondato dagli intercessori e da due angeli. Questo modello è comune in Cappadocia, come evidenziato tra gli altri dai decori absidali delle chiese di Damsa, e di Direkli Kilise a Belisirma (x-xi sec.) 44 e dei Quaranta martiri a Suvex45. In Georgia, lo schema della chiesa di Ougvali conferma la nostra ipotesi sull’origine di queste immagini. Il Cristo in trono è affiancato da due angeli come nelle Visioni. Solo negli angoli stretti alle estremità dell’abside sono introdotte le piccole figure (perché non c’è abbastanza spazio) degli intercessori. Torniamo ora ai programmi più comuni con la Deesis-Visione, che sono arricchiti dalla presenza di diverse categorie 132
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Pagina precedente: 132. Gli arcangeli Michele e Gabriele sull’arco absidale, chiesa dei Ss. Arcangeli a Zemo-Krikhi.
133. La Deesis del monastero di S. Macario (Egitto), x-xiii secolo.
La parentela tra la Deesis e la Visione è ancora più sorprendente laddove accanto al trono divino figurano il tetramorfo, gli zodia, un serafino o un cherubino. Una decorazione particolarmente curata di questo tipo occupa l’abside della chiesa georgiana di S. Saba a Safara (xiv sec.), ma solo tre quarti degli affreschi sono ancora conservati48. Cristo in trono è circondato da due serafini con sei ali e due tetramorfi che tengono il labaro con la tripla scritta Hagios, oltre agli intercessori. Un modello simile decora l’abside della chiesa di Laghami, in Georgia. Lo si ritrova in Armenia, a Kobair e anche a S. Gregorio di Tigran Honenz (215 ca.) di Ani. I quattro animali sono particolarmente comuni nelle absidi della Cappadocia, come accadde anche per le Visioni49.
In Libano, a S. Teodoro (Mar Tadros) di Bahdeidat (1256), i quattro animali partecipano alla Deesis con Cristo in trono. Le iscrizioni siriache li equiparano direttamente agli evangelisti. Due serafini, di cui quello di destra è coperto di occhi, inquadrano il trono e cantano il Trisaghion; gli intercessori occupano i bordi della composizione50. Nel secondo registro vi sono i dodici apostoli, mentre il sole e la luna sono sull’arco dell’abside. Lo schema della cappella dei Quattro animali, a sud della chiesa di S. Antonio (Egitto, xiii sec.), appartiene a questo gruppo, ma si tratta di un ambiente unico nel suo genere. Cristo è seduto su un trono colore arancione che in questo caso sostituisce l’oro troppo costoso. Questo è scolpito o inciso con motivi islamici. Il Signore benedice con il braccio lontano 134
134. Deesis, chiesa di Laghami (Georgia), x-xi secolo.
135. La Deesis tra serafini e tetramorfi della chiesa di S. Saba, Safara (Georgia), xiv secolo.
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136. Deesis, chiesa di Kobair (Armenia), xi-xiii secolo.
A fronte: 141. Ampolla di Monza n. 15 contenente gli oli dei Luoghi Santi, Palestina, fine vi-inizio vii secolo: sopra la croce compare il volto di Cristo in un medaglione.
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volo portano la gloria. Al di sotto di Cristo in una nicchia, si erge una croce trionfale con un velo sul suo braccio orizzontale; è circondata da due abbreviazioni in copto di «Gesù Cristo», inscritte in medaglioni, e da due angeli che la incensano. Un’iscrizione greca dice: «l’Albero della Vita», e un’altra: «la preziosa croce»; e accanto a ciascun angelo è parzialmente conservata la scritta: «angelo del Signore». Infine, i profeti stessi a volte sono inclusi o associati con la Deesis, come accadeva nelle Visioni teofaniche. La decorazione dell’abside di S. Giovanni a Güllü Dere (cappella n. 4), in Cappadocia, è caratteristica in questo senso, poiché si possono vedere, oltre alla gloria, il sole e la luna e due profeti visionari: Ezechiele che mangia il rotolo che gli porge un angelo, e Isaia purificato dal carbone ardente che gli offre un altro messaggero celeste, allusioni all’Eucaristia51. Una scena
dal corpo. I suoi piedi nudi poggiano su un semicerchio con una scritta riferita alle Visioni dei profeti: «Ecco, il cielo è il mio trono (e) la terra lo sgabello dei miei piedi» (Is 66,1). Altre due iscrizioni sono distribuite su entrambi i lati del trono, «Gesù Cristo» e «Emmanuele nostro Dio». Sempre all’interno della gloria, il pittore ha aggiunto: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me». Il bordo di quest’ultima è decorato con un motivo floreale, e quattro angeli in volo la portano. Questa Teofania è affiancata da quattro animali a sei ali ocellate, secondo le parole dell’Apocalisse (Ap 4,8). Ma, a differenza dei soliti schemi, sono mostrati in piedi e a figura intera, come dei veri personaggi e non attraverso le loro protomi. Sono in preghiera e hanno il valore di intercessori. Dietro di loro, Maria e il Battista compiono esattamente il medesimo gesto, mentre il sole e la luna appaiono sopra gli animali. Quattro angeli in
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Dal basso in alto e da sinistra a destra: 137. Schema absidale della chiesa del Salvatore a Cvirmi (Georgia), xii secolo. 138. Schema dell’abside della chiesa dei Ss. Arcangeli, Pkhotreri (Georgia), xi-xiii secolo. 139. Schema dell’abside e arco absidale, chiesa dei Ss. Arcangeli, Zemo-Krikhi (Georgia). 140. Abside della chiesa di S. Giorgio di Nakipari, regione dell’Alto Svaneti (Georgia), xii secolo.
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142. Il decoro absidale nella chiesa n. 4 di San Giovanni a Güllü Dere (Cappadocia), x secolo.
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143. La Vergine con due dei quattro animali, dettaglio della cappella dei Quattro animali, monastero di S. Antonio (Egitto).
simile si trova ai Ss. Apostoli di Mustafa Pacha, con l’eccezione che le potenze celesti sono più numerose. In Georgia il legame tra Visione e profeti è meno diretto. Nella chiesa dei Ss. Arcangeli Michele e Gabriele a Zemo-Krikhi, una Deesis molto simile a quella di Ushguli (a parte il fatto che qui si tratta di un serafino e di un cherubino vicino al trono) è associata al profeta Isaia, raffigurato sull’arco trionfale davanti all’abside e rivolto verso di essa; il profeta srotola un filatterio le cui iscrizioni sono scomparse. Due grandi arcangeli nella volta vegliano sull’insieme. Nella chiesa armeno-georgiana di Tigran Honentz ad Ani, Cristo in trono è circondato da un serafino, da un tetramorfo, da due coppie di ruote e dagli intercessori, mentre due personaggi nella volta dell’abside sembrano essere dei profeti. Invece l’intradosso dell’arco trionfale è occupato da dieci profeti a mezzo busto e dall’altra parte da una croce52. Un’eccezione georgiana: le milizie celesti nella Deesis
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Alcuni modelli e decorazioni absidali, dotati di una Deesis caratterizzata da una profonda ricchezza semantica, si trovano solo in Georgia. Generalmente questo sviluppo della Deesis comprende Cristo in trono che benedice alzando il braccio in trionfo, un serafino, un cherubino e una o due coppie di ruote intorno al trono divino. In Georgia, il tetramorfo può anche appartenere a questa corte celeste, ma non i quattro animali. Dopo le forze angeliche, vi sono gli intercessori e dietro ciascuno di essi si leva un gruppo di angeli in piedi, come a S. Giorgio di Nakipari (xii sec.)53; a volte gli angeli sono armati di lunghe lance – si tratta degli eserciti celesti –, come si osserva nella chiesa del Salvatore a Cvirmi (xii sec.)54 e in quella dei Ss. Arcangeli di Pkhotreri. Lo schema con i due gruppi di angeli è adottato anche in altre chiese georgiane, tra cui la chiesa della Vergine a Jibiani (xii sec., ridipinta nel xiii sec.)55 e quella del Salvatore di Matskhvarichi56. Qual è la giustificazione teologica di questi grandi gruppi di angeli aggiunti alla Deesis-Visione? Ezechiele e Isaia non citano le legioni angeliche, ma Daniele le evoca nella sua visione escatologica: «Mille migliaia lo servivano, e diecimila miriadi lo assistevano» (Dn 7,10). Questa visione grandiosa che utilizza la magia dei numeri per esprimere al tempo stesso l’infinito, l’onnipotenza divina e il regno cosmico del Signore, impressionò indubbiamente Giovanni quando scrisse l’Apocalisse sull’isola di Patmos, poiché egli evoca a sua volta il gran numero di angeli intorno al Signore aumentandolo ulteriormente, dal momento che parla di «miriadi di miriadi e migliaia di migliaia», vale a dire di innumerevoli angeli (Ap 5,11). Matteo si limita a dire che «tutti gli angeli» accompagneranno «il Figlio dell’Uomo» quando tornerà nella gloria (Mt 25,31). Tutti questi testi si riferiscono alla seconda Venuta e hanno ispirato predicatori e liturgisti
nella rispettiva evocazione della Parusia alla fine dei tempi, e furono senza dubbio loro a trasmetterli ai committenti dei programmi iconografici. Efrem il Siro e Andrea di Cesarea ne parlano nei loro sermoni57, e il Canone del Giudizio universale, cantato durante l’ufficio della festa di san Michele Arcangelo, l’8 novembre, si rivolge a Cristo dicendo: «Tu ritornerai in mezzo a decine di migliaia di Potenze» (Ode i). Il Sabato Santo, nella liturgia di san Basilio, il canto evoca il Ritorno del Salvatore: «Egli è preceduto dai cori degli arcangeli con i Principati e le Potestà, i cherubini dagli innumerevoli occhi e i serafini che si coprono il volto e che proclamano questo inno: Alleluia...»58. La preghiera eucaristica opera la sintesi fra tutti questi testi e l’officiante recita: «Rendiamo grazie anche per questa liturgia che vi siete degnato di ricevere dalle nostre mani, anche se siete circondato da migliaia di arcangeli e miriadi di angeli, i cherubini e i serafini con sei ali, con infiniti occhi, che salgono al cielo, alati...»59. L’Incarnazione e l’Eucaristia associate alla Deesis. L’inizio e la fine della storia della salvezza Abbiamo già fatto riferimento alla chiesa dei Ss. Arcangeli a Iprari (1096) e alla sua Deesis di tipo semplice. Di fronte, sul timpano del muro occidentale e alla stessa altezza della Deesis, si trova l’Annunciazione. I due termini della storia della salvezza sono in tal modo collegati e il legame è ancora più suggestivo grazie alla dimensione ridotta della chiesa. 139
144. Abside della chiesa dei Ss. Arcangeli a Tanghil (Georgia), Deesis con il Mandylion nel terzo registro, xii-xiii secolo.
145. Abside della chiesa di S. Caterina a Göreme (Cappadocia): la Deesis con il Mandylion nel secondo registro a destra.
seconda Incarnazione, termine coniato dagli iconofili durante la crisi iconoclasta62. Inoltre il Cristo, Logos divino ed eterno della Deesis, e quello incarnato del Volto Santo suggeriscono le due nature di Cristo. Tra la Deesis e il Mandylion c’è anche un legame di tipo liturgico e storico. Nella liturgia celebrata a Edessa il giorno della festa della sacra reliquia, una preghiera implorava quest’ultima di intercedere in favore degli uomini63. Inserendo questa immagine sotto la Deesis e appena sopra l’altare, si ricordava perciò al tempo stesso l’Incarnazione, l’Eucaristia, e soprattutto l’antico rito siriano che poneva la reliquia sull’altare supplicandola di intercedere per l’umanità. Dal momento che era posta all’altezza degli sguardi dei fedeli, questi ultimi potevano a loro volta indirizzarle direttamente le proprie preghiere. Quattro chiese georgiane rappresentano il Mandylion al centro di uno dei registri inferiori dell’abside, circondato da apostoli o santi vescovi, tutti associati con la Deesis nell’abside. Si tratta delle chiese di S. Giorgio a Zvirmi (xii sec.), di Cristo a Zaldachi (xii-xiii sec.), dei Ss. Arcangeli a Tanghil (xii-xiii sec.) e di S. Barbara a Khe. Tutte queste chiese si trovano nei villaggi della regione dell’Alto Svaneti64. Questo programma è veramente raro, inesistente altrove. Una variante che si trova a S. Caterina di Göreme, in Cappadocia, è meno espressiva perché, invece di essere al centro dell’abside, il Mandylion è posto lateralmente verso la sua estremità meridionale65. A volte, tuttavia, il collegamento tra il Cristo divino della Deesis e quello dell’Incarnazione è espresso con modalità diverse, come si osserva nella cappella superiore occidentale a S. Saba di Trebisonda (xiii sec.) dove Cristo a mezzo busto sopra l’altare sostituisce la sacra impronta66. Abbiamo osservato la medesima affinità nel vi-vii secolo, quando la Teofania-Visione era accompagnata nei registri inferiori dalla Vergine orante o con il Bambino, un programma adattato alla Deesis fino al Tardo Medioevo come si vede nella chiesa dei Ss. Arcangeli a Lashtveri, in Georgia (xiii sec.), dove la Vergine Blachernitissa tra gli apostoli appare nel secondo registro dell’abside sotto una Deesis-Visione dai multipli elementi67. Anche se i pittori bizantini non godevano della libertà dei loro omologhi occidentali, diedero comunque prova della propria creatività in Oriente, scegliendo figure e simboli diversi per esprimere i dogmi, le preghiere e i commenti dei teologi. Così la messa in parallelo del Cristo celeste e di quello terrestre è stata rappresentata da un pittore della Cappadocia in modo inaspettato. A Direkli Kilise, la Deesis (1080 ca.) – con due arcangeli – è completata da due ritratti a mezzo busto e inscritti in medaglioni di Anna e Gioacchino68. Così l’inizio della storia della salvezza è collocato in una prospettiva lontana, che va ben al di là della presenza di Cristo, della sua nascita e addirittura della stessa Annunciazione. Allo stesso tempo, i due termini di tale storia e le due nature di Cristo sono comunque suggerite.
Si potrebbe quasi pensare a una seconda eccezione georgiana in merito al Mandylion (Volto Santo) rappresentato al centro di uno dei registri inferiori che segue la Deesis-Visione nella conca. A S. Barbara di Khe (xiii sec.), in Georgia, la Deesis è costituita da Cristo in trono in una gloria rossa, da cherubini ocellati, dagli intercessori e da due gruppi di angeli. Santi vescovi e apostoli a mezzo busto, racchiusi in cornici, formano il secondo registro. Il terzo è costituito solo da un’immagine posta sopra l’altare: il Mandylion. Infine, sull’architrave del templon, si trova una rappresentazione unica che si riferisce alla Deesis. Si tratta di quattro arcangeli a mezzo busto, i cui nomi si leggono sulle iscrizioni: Michele, Gabriele, Raffaele, Uriel60. Questi quattro arcangeli sono associati alla Deesis anche in Cappadocia, ma disposti in modo diverso in quanto sono integrati nella composizione, come si vede a S. Giorgio di Belisirma (1283-1295)61. Il senso dell’associazione tra la Deesis e il Mandylion è evidente dal momento che si tratta, ancora una volta, dei due termini della storia della salvezza: il Mandylion era considerato una prova materiale dell’Incarnazione e perfino di una
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che sono associati a questa preghiera. Il terzo registro mostra la Vergine orante circondata da santi vescovi dipinti frontalmente, che tengono dei libri69. In altre parole, due Vergini in preghiera appaiono nella stessa scena, ma non sono collocate lì né per errore né in modo casuale. La Theotokos orante deve essere intesa in questo caso come un simbolo della Chiesa. Attraverso la liturgia, ella evoca quotidianamente, con i suoi vescovi e i suoi celebranti, la preghiera di intercessione. Così il fedele impara, attraverso le immagini, che sarà assistito non solo nell’ultimo giorno, come gli viene annunciato nella conca, ma anche durante il suo passaggio sulla terra, dove gli saranno
La preghiera d’intercessione ininterrotta della Vergine e di san Giovanni collegata a quella dell’ultimo giorno. Un esempio in Cappadocia
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Questi programmi sono specificamente cappadoci: si tratta quindi di una minoranza in Oriente, ma non si possono comunque ignorare perché potrebbero essere testimonianza di una influenza constantinopolitana. A Eski Gümüs, una Deesis della fine dei tempi estremamente completa, con i quattro animali, due angeli e gli intercessori, è rappresentata nella conca. Il secondo registro è composto dagli apostoli a mezzo busto 141
146. Disegno ricostruttivo dell’abside nella chiesa dei Ss. Arcangeli a Lashtveri (Georgia), xiii secolo: presenza della Vergine e degli apostoli accanto alla Deesis-Visione.
taria, esso è sostenuto da due cherubini e sul suo scalino è appoggiato il calice dell’Eucaristia. Gli arcangeli Michele e Gabriele in preghiera si trovano ai suoi lati. Questa peculiare iconografia è un compendio di simboli. L’Etimasia è il trono preparato per la seconda Parusia, ma è anche un simbolo della Trinità, poiché il trono significa il Figlio nel seno del Padre, il Vangelo e la croce alludono al Figlio incarnato, e la colomba allo Spirito Santo. Si noti che la croce è investita di un triplice simbolismo. Significa sia il Figlio, che il suo sacrificio e l’attualizzazione di questo sacrificio attraverso la liturgia e il sacramento dell’Eucaristia (il calice). L’immagine richiama alla mente le parole di sant’Efrem: «La Trinità sarà portata a Gerusalemme come su un trono»74. Il secondo registro di questo timpano occidentale non è meno originale. Mostra, infatti, gli apostoli seduti lungo un banco rettilineo, come nel Giudizio universale. Ma guardando con attenzione si intravedono delle macchie rosse sopra le loro teste che devono essere interpretate come delle fiamme, quelle della discesa dello Spirito Santo durante la Pentecoste.
perdonati molti peccati. Un programma simile, ma composto di due registri (gli apostoli sono assenti), occupa l’abside di Direkli Kilise70. I grandi insiemi. Il rapporto tra la Deesis nell’abside, le immagini della volta e quelle del muro occidentale Nelle chiese della Georgia e della Cappadocia, la Deesis nell’abside a volte è intimamente connessa alla decorazione della volta e del muro occidentale. I decori della Cappadocia di questo tipo saranno esaminati nel capitolo sul Giudizio universale. Tra quelli della Georgia, due sono particolarmente significativi. Nella conca di S. Giorgio d’Atchi (fine xiii sec.), Cristo in trono è circondato da un tetramorfo che tiene un labaro, da un serafino e dagli intercessori. Nel secondo registro appaiono due file di angeli inginocchiati che convergono verso il centro dell’abside, occupato da un’iscrizione: «Le schiere degli arcangeli in adorazione, i serafini-cherubini circondano (il Signore)» 71. Quest’iscrizione è tanto inusuale quanto gli angeli inginocchiati. Entrambi potrebbero essersi ispirati all’Apocalisse: «E tutti gli angeli erano attorno al trono... e caddero con la faccia a terra e adorarono Dio, dicendo Amen!» (Ap 7,11-12). Il terzo registro mostra i santi vescovi che ricordano l’attualizzazione tramite la liturgia di queste realtà invisibili. Nella volta, che inizia proprio sopra l’abside e si estende fino al timpano della parete occidentale, appare l’Ascensione che, come ora sappiamo, è un preludio alla seconda Parusia. Ma questa non è solo annunciata, è infatti immaginata dal pittore come imminente, poiché questi aggiunge ai quattro angeli che sollevano l’aureola del Signore altri due angeli che soffiano nelle trombe. Si tratta delle trombe del Giudizio di cui parla Matteo (Mt 24,31): «Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli». Sul lato nord della volta si legge: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?»; e sul lato sud: «Egli tornerà nello stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (Atti 1,11). Questa allusione alla seconda Parusia riguarda ovviamente in primo luogo l’Ascensione ma data la posizione delle immagini, concerne anche la Deesis72. Uno schema iconografico simile dell’Ascensione esiste nella volta di S. Sofia a Trebisonda (dopo il 1250) 73. Questo decoro della volta collega le rappresentazioni dell’abside (Deesis, angeli) a quelle del timpano della parete occidentale, occupata dall’Etimasia, che ricorda Matteo (Mt 25,31): «Quando il Figlio dell’Uomo verrà nella sua gloria, con tutti gli angeli, si siederà sul trono della sua gloria». Lo schema iconografico di questo trono non è banale poiché, oltre alla presenza della croce, del Vangelo e della colomba dello Spirito Santo, che aggiungono una connotazione trini-
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è unica. Essa è occupata dalla Trinità, resa tramite tre medaglioni che si susseguono, di cui il primo raffigura l’Anziano dei giorni secondo la visione di Daniele (Dn 7,9; 13,1): «L’Antico dei giorni si sedette. La sua veste era bianca come la neve e i capelli della sua testa erano come lana pura». Si tratta di Dio Padre, conosciuto attraverso suo Figlio, e rappresentato come un vegliardo con la barba e i capelli bianchi. È circondato da una gloria blu cielo, sorretta da quattro cherubini. Otto raggi rossi emanano dal suo corpo. Il rapporto tra Dio, l’Eterno della Bibbia e i cherubini è menzionato più volte in Ezechiele, che dice anche: «La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio e si fermò sui cherubini. I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra […] mentre la gloria d’Israele era su di loro, in alto» (Ez 10,18-19). Cristo incarnato, seconda persona della Trinità, occupa il secondo medaglione di questa volta. Irradia fasci di luce ed è all’interno di una doppia gloria (una a rombo, l’altra rotonda), da cui emergono le protomi dei quattro animali che portano i libri, allusione esplicita agli evangelisti. Nel terzo medaglione, la mano divina esce da un segmento del cielo e scaglia un fascio di luce alla fine del quale si trova la colomba dello Spirito Santo. Questa però non ha trovato spazio nel terzo medaglione, perché i raggi di luce passano prima attraverso le porte aperte del cielo colmo di angeli, e si dirigono poi verso il Battesimo, raffigurato sulle imposte della volta. È Marco che, nel suo racconto del Battesimo, evoca «le porte del cielo che si aprirono» per lasciare discendere lo Spirito su Gesù come una colomba (Mc 1,10). L’Apocalisse riprende l’idea delle porte del cielo aperte in un altro contesto (Ap 4,1), poco prima di evocare la visione divina (Ap 4,6-8). Come bisogna interpretare il rapporto tra la Deesis della fine dei tempi e la Trinità? Che cosa significa, in questo contesto, la presenza del Mandylion? Teniamo presente quanto è stato segnalato nella prima parte di questo studio. Nel xiv secolo, in particolare nella seconda metà, l’influenza di Costantinopoli sulla pittura georgiana fu notevole. Varie sono le ragioni alla base di tale influenza, ma la più importante risiede nel fatto che gli artisti bizantini sono invitati in Georgia per decorarne le chiese. Ed è noto che i teologi bizantini hanno sottolineato la presenza della Trinità nella seconda Venuta e nel Giudizio universale. Allo stesso modo avevano fatto i teologi orientali delle epoche precedenti, ma questo accadeva soprattutto nella capitale dell’impero. Nel suo sermone siriaco, Efrem il Siro precisa: «Il Figlio non ritornerà senza il Padre, nel tribunale si siederà alla sua destra». San Basilio sviluppa questa idea e precisa che: «anche lo Spirito scenderà per purificare l’iniquità della terra»77. Inoltre, a volte l’Antico dei giorni sostituisce Cristo nella Deesis a Bisanzio dalla fine del xii secolo, ad esempio a S. Nicola Kasnitzis a Kastoria78, ma questi modelli sono rari. Tra il xii e il xiv secolo, le immagini della Trinità conoscono una
Nello schema della Pentecoste, che sia rappresentato in Oriente o altrove nel mondo bizantino, gli apostoli sono seduti a semicerchio, la loro disposizione in una fila orizzontale qui è intenzionale. Essa richiama allo stesso tempo la Pentecoste e le parole di Gesù sul Giudizio universale: «Quando il Figlio dell’uomo, nella nuova creazione, sarà seduto sul trono della sua gloria, anche voi che mi avete seguito siederete su dodici troni a giudicare le tribù d’Israele» (Mt 19,28). Ciò significa che il ritorno del Signore alla fine dei tempi sarà preceduto dalla Pentecoste e seguito dal Giudizio, di cui la preghiera di intercessione fa parte. Queste immagini, correlate in modo significativo, possono essere paragonate a una sinfonia che articola diverse melodie attorno a un tema centrale. Nella nostra chiesa si tratta del trionfo finale di Cristo alla fine dei tempi, che è opera della Trinità ed è stato preparato dalle vittorie temporali del Figlio dell’Uomo (Ascensione). Il suo ritorno non avverrà tra le catastrofi che colpiscono gli uomini, come annuncia l’Apocalisse di Giovanni, ma alla luce della compassione divina cui partecipano Maria, la Misericordiosa, e Giovanni che intuì la Redenzione (Gv 1,29). Nell’attesa di quel giorno glorioso, la Chiesa si assume l’incarico e assiste i fedeli con l’aiuto dei sacramenti. La relazione tra la Deesis-Visione e la Trinità è ancora più evidente in un’altra chiesa georgiana, S. Giorgio di Ubisi (1380 ca.), in Imerezia. Il pittore Damiano ha lasciato la propria firma75. La Deesis nell’abside mostra Cristo in trono circondato da un serafino, da un tetramorfo che porta un labaro, dagli intercessori e da due gruppi di angeli guidati dagli arcangeli Michele e Gabriele. La maggior parte di queste figure sono individuabili grazie alle iscrizioni sia in greco sia in georgiano. In queste si evidenzia un errore del pittore, che pone il nome dell’evangelista corrispondente accanto a ciascuna delle quattro teste del tetramorfo. Si confonde così il tetramorfo con i quattro animali. Un’altra anomalia rispetto alle tradizioni locali è la posizione del Mandylion sopra la testa di Cristo, secondo la regola costantinopolitana76. Il secondo registro è occupato dalla Comunione degli apostoli, immagine ricorrente nei programmi absidali bizantini, ma probabilmente non abbastanza conosciuta nel paese. Si è così arrivati a ritenere utile separare la Comunione del pane da quella del vino tramite l’episodio evangelico dell’Ultima cena, scelta assurda dato che la Comunione degli apostoli è la versione liturgica dell’Ultima cena, la sua trasposizione nella vita eterna. L’intreccio dei due soggetti produce dunque un effetto di ripetizione. D’altra parte la Comunione degli apostoli si rivela senza alcun nesso semantico con la Deesis nella conca. Il terzo registro mostra i santi vescovi. Se i soggetti rappresentati negli ultimi due registri dell’abside non hanno alcun legame diretto con la Deesis e sembrano semplicemente prestati ai decori absidali che seguono la regola costantinopolitana, la volta adiacente alla conca absidale 143
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147. Deesis con il Mandylion, abside della chiesa di S. Giorgio a Ubisi, Raca (Georgia), xiv secolo.
149. Vergine e angeli, dettaglio del registro superiore della conca absidale di S. Giorgio a Ubisi.
148. L’Ultima cena, dettaglio del registro inferiore dell’abside della chiesa di S. Giorgio a Ubisi.
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150. Volta della chiesa di S. Giorgio a Ubisi, Raca (Georgia): la Trinità raffigurata in tre medaglioni. Dal basso verso l’alto: l’Anziano dei giorni, Cristo e lo Spirito Santo.
è evidenziato dall’arte paleocristiana, in seguito dimenticato a Bisanzio nel Medioevo ma mantenuto in Oriente. Nel iv secolo l’immagine di Cristo in trono come Re del cielo o quella in cui è intronizzato come re di Israele nell’Ingresso a Gerusalemme si sovrappongono sul sarcofago di Giunio Basso83. Nella medesima epoca, l’Ingresso a Gerusalemme e l’Ascensione sono giustapposte sull’architrave copto di El-Moallaqa. Una lunga iscrizione testimonia lo spirito del committente e dell’artista: «[...] brilla con una luminosità pura, non essendoci in lui nessuna nuvola, lui nel quale vi è la pienezza della Divinità, come dalla cima di un Sinai celeste [...] Gli angeli non smettono di celebrare con una sola voce il tre volte santo, cantando e dicendo: “Tu sei santo, santo, santo, e il cielo e la terra sono pieni della Tua santa gloria, perché sono pieni della Tua grandezza, o molto misericordioso. Nascosto in cielo tra le varie potenze, Tu hai accettato di venire a vivere in mezzo a noi [...] incarnato e nato dalla Vergine Madre di Dio, Maria”. Sii caritatevole verso l’abate Teodoro Prodromo, e verso Giorgio, diacono e economo, mese di Pachon, 12, indizione del terzo anno di Diocleziano, 51»84. Le tre parti di questo testo, separate da un punto, evocano innanzitutto il Cristo senza tempo nella gloria celeste, poi l’Incarnazione, e infine la preghiera del donatore. Le due immagini trionfali del Cristo celeste e terreno, che ricordano anche le sue due nature, si adattano perfettamente a questo testo. L’Etiopia segue i modelli copti, non senza l’aggiunta di alcuni tratti particolari. Così a Qorqor Maryam (xiv sec.), l’Ingresso a Gerusalemme è posto sotto la visione teofanica, sulla parete nord. Sebbene siano separate da una linea, le due immagini ne formano una sola perché hanno esattamente le stesse dimensioni e sono in un certo senso integrate nel medesimo quadro85. Esse costituiscono dunque un insieme che rimanda a Geremia (Ger 3,17): «In quel tempo chiameranno Gerusalemme trono del Signore». In seconda battuta queste immagini rappresentano quindi un parallelo tra la Gerusalemme celeste e quella terrena. Si noti che qui Gesù monta un cavallo che leva con orgoglio la testa, in accordo con lo spirito trionfale dell’immagine. A Dabra Salam, è il Cristo in gloria della Visione che occupa la conca absidale, mentre l’Ingresso a Gerusalemme appare direttamente sotto ma spostato verso l’angolo nord-est86. Lo stesso concetto è espresso da elementi iconografici leggermente differenti sul piatto della rilegatura in avorio armena di Echmiadzin (vi sec.)87. In alto, due angeli vincitori portano la croce, segno trionfale del Signore. Segue Cristo in trono, ossia in cielo. Appena sotto vi è l’Ingresso a Gerusalemme con Gesù che tiene una croce, trofeo della sua vittoria. Egli monta un asinello, che invece di abbassare la testa, la alza con fierezza. Le parti verticali della superficie sono occupate da miracoli, un altro modo per esprimere la potenza e la vittoria. Nel Medioevo, l’Oriente cristiano conservò questo parallelismo. Esso fu realizzato vis-à-vis nelle chiese dell’Alto Svaneti
certa diffusione a Bisanzio e sono spesso rappresentate nelle volte79. Di solito sono accompagnate da vocaboli iconografici che rimandano alla fine dei tempi, forse perché, nel capitolo 14 del Vangelo di Giovanni, Gesù evoca spesso il Padre e parla del suo Ritorno: «Io e il Padre ritorneremo» (Gv 14,23). In modo simile, a Ubisi, la preghiera di intercessione della fine dei tempi nella conca absidale è accompagnata dal ricordo dell’Incarnazione e del sacrificio attraverso la presenza del Mandylion. Questo rimando è ulteriormente sottolineato dalla Comunione degli apostoli nel registro inferiore. L’insieme di queste immagini merita di essere oggetto di una seconda lettura, più mistica, che integri la prima. Sono rivelate, infatti, le due nature, umana e divina, di Cristo e il loro fondamento, ossia il mistero del Dio uno e trino. I trionfi celesti e terreni di Cristo e la loro connessione con la Deesis Questo gusto particolare per i trionfi di Cristo – garanzia della salvezza dell’umanità e fonte di gioia – si manifesta nell’originale parallelo tra la regalità celeste e terrena di Cristo. Questa si presenta grazie alla relazione instaurata tra la Deesis o la Teofania-Visione e l’Ingresso di Gesù a Gerusalemme. Per inciso, in questo modo viene di nuovo sottolineata la doppia natura di Cristo. La liturgia ci dice che questo parallelismo tra i due trionfi significa soprattutto che il Maestro del mondo è sceso sulla terra per portare agli uomini la Risurrezione e la vita. Un’altra caratteristica distingue alcuni schemi orientali da quelli bizantini: la testa della mula o dell’asinello è sempre abbassata a Bisanzio a partire dall’xi secolo, in segno di umiltà; è invece dritta o sollevata nelle immagini orientali e, occasionalmente, l’asino è sostituito da un cavallo, per accentuare la regalità di Cristo. Si mantengono così i vecchi schemi paleocristiani, in cui questa posizione della testa ricorreva spesso80. Gli Ebrei che accolsero Gesù sono a volte assenti o ridotti a uno o due personaggi. Al contrario, i bambini che raccolgono rami di palma di solito sono presenti. Eliminando tutti gli elementi secondari di questa composizione, si aspira a una semplicità che mira alla maestà. È ciò che vediamo nell’immagine di un pettine liturgico copto del vi secolo, al Museo Copto del Cairo. Gesù, sul suo asino, alza la sinistra molto in alto per indicare il suo trionfo. L’animale e cavaliere sono circondati da una corona di alloro portata da due angeli81. Lo schema dell’ingresso a Gerusalemme è stato creato originariamente a partire da modelli romani che illustrano il trionfo dell’imperatore e le cerimonie dell’Adventus82, mostrando un imperatore trionfante a cavallo entrare in città. Dobbiamo riconoscere che questo modello è perfetto per rappresentare Gesù proclamato Re d’Israele (Gv 12,13-14). Questo parallelismo tra i due regni del Signore, celeste e terreno, 146
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151. Sarcofago di Giunio Basso, scena dell’Ingresso a Gerusalemme nel registro inferiore, iv secolo (Città del Vaticano, Tesoro di S. Pietro).
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152. Architrave della porta d’ingresso della chiesa di El-Moallaqa, viii secolo, raffigurante l’Ingresso a Gerusalemme (Il Cairo Vecchio, Museo Copto).
raggruppati davanti a Gerusalemme, secondo lo schema costantinopolitano. Gli apostoli e i bambini sono delle costanti. Nella chiesa dei Ss. Arcangeli, o Tanghil (xiii sec.), nell’Alto Svaneti, la Deesis-Visione dell’abside è di fronte alla Pentecoste e all’Ingresso a Gerusalemme collocato sulla parete occidentale. Nella parte ovest della volta appare la Trasfigurazione89. Queste tre immagini formano un insieme che evoca le due nature di Cristo e i trionfi che corrispondono a ciascuna. La Trasfigurazione rivela agli apostoli la divinità di Gesù, l’Ingresso a Gerusalemme celebra il Re d’Israele e la Pentecoste è il momento in cui il Cristo vittorioso offre il segnale che la fede cristiana può irradiarsi su tutta la terra. A prima vista, questo Ingresso a Gerusalemme corrisponde allo schema costantinopolitano. Tuttavia, un dettaglio insolito pone dei problemi. Al di sopra di Gesù e degli apostoli si notano, in formato ridotto, due alberi, una montagna, un
(Georgia), reso ancora più significativo dalle dimensioni ridotte degli edifici. Presso la chiesa del Salvatore di Matskhvarichi (xi sec.), il Cristo della Deesis-Visione nella conca si trova di fronte al programma trionfale della parete occidentale in tre registri. Si vede, in alto, l’Ascensione seguita dall’Ingresso a Gerusalemme, e sotto, santi cavalieri vittoriosi su entrambi i lati di un orante nimbato non identificato88. In altre parole, si connette la gloria della seconda Parusia dell’abside al trionfo celeste di Cristo dopo la sua Risurrezione, poi al suo Regno sulla terra, infine, ai combattenti che, nel suo nome, sconfiggono il male. L’ingresso a Gerusalemme è raffigurato secondo lo schema più tradizionale elaborato a Bisanzio, ma con le caratteristiche segnalate in precedenza. Infatti, al posto dell’asinello del Vangelo, Gesù cavalca un grande cavallo rosso. A differenza della maggior parte delle immagini orientali, dove gli Ebrei sono assenti, in particolare in Cappadocia, qui sono 148
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di fronte all’altra. Tuttavia, a Ieli, l’immagine dell’Ingresso è preceduta dalla Risurrezione di Lazzaro (primo registro), miracolo che Gesù compì poco prima del suo solenne ingresso in città e che gli valse l’accoglienza trionfale. Infine, a Lashtveri, Gesù monta un cavallo con delle lunghe orecchie! In Cappadocia, gli Ebrei sono sostanzialmente assenti, come si vede a Pürenli Seki Kilisesi91. Questo tratto è comune anche alle miniature siriache92, copte93 e armene. Nella chiesa di El-Nazar, in Cappadocia, Gesù monta un cavallo che ha le orecchie di un asino e un aspetto decisamente trionfante94. La forma irregolare delle chiese rupestri non permette di mettere in relazione la Deesis con l’Ingresso a Gerusalemme attraverso la significativa collocazione di una scena di fronte all’altra, ma si riesce comunque a raggiungere lo scopo con altri mezzi. A Yilanli Kilise si legge: «...il trono in cielo, l’asino sulla terra, le palme...»95. A Pürenli Seki Kilisesi, ci troviamo ancora di
edificio e una croce trionfale, posta su una piattaforma. Poiché l’Ingresso a Gerusalemme precede immediatamente la Passione, questa croce potrebbe essere quella del Golgota, ma non quella della Crocifissione, a causa podio trionfale e dei quattro chiodi del supplizio piantati nel punto di intersezione dei bracci. Potrebbe invece trattarsi della monumentale croce fatta di materiali preziosi che Teodosio ii aveva fatto erigere nell’atrio interno del Golgota90. Per quanto riguarda l’edificio, può trattarsi solo del Santo Sepolcro, perché non è fornito di una croce. Rappresenta probabilmente, con gli altri elementi di questo paesaggio urbano in miniatura, la futura Gerusalemme cristiana di fronte alla Gerusalemme ebraica che si vede dietro gli apostoli. Nelle chiese georgiane di Ieli (xi-xii sec.) e di Adichi (xii sec.), la Deesis-Visione dell’abside e l’Ingresso a Gerusalemme del muro occidentale sono nuovamente raffigurate una 149
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153. Rilegatura in avorio da Echmiadzin (Armenia), raffigurante l’Ingresso a Gerusalemme, vi secolo.
154. Deesis nella chiesa del Salvatore, Matskhvarichi, Mestia (Georgia), xi secolo.
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155. Ascensione, Ingresso a Gerusalemme e i santi cavalieri Giorgio e Teodoro affrontati (secondo T. Virsaladze) raffigurati sulla parete occidentale nella chiesa del Redentore, Matskhvarichi, Mestia (Georgia).
156. L’Ingresso a Gerusalemme nella chiesa dei Ss. Arcangeli, Tanghil, Lasthveri (Georgia).
157. Disegno ricostruttivo dell’Ingresso a Gerusalemme nella chiesa dei Ss. Arcangeli di Lasthveri (Georgia). 158. Disegno ricostruttivo dell’Ingresso a Gerusalemme nella chiesa di S. Giovanni Teologo, Lasthveri (Georgia).
di alberi e foglie di palma, in segno di vittoria, ha previsto la sua Risurrezione»98. L’iscrizione frammentaria che accompagna l’Ingresso a Gerusalemme a Matskhvarichi si ispira alla liturgia in quanto menziona nella stessa frase l’Ingresso e la Risurrezione, come segue: «Ingresso a Gerusalemme, Risurrezione di nostro Signore». La liturgia riflette un rito gerosolimitano molto antico. La pellegrina Egeria (iv sec.) riferisce che il giorno della celebrazione delle Palme grandi processioni liturgiche prendevano vita a Gerusalemme in ricordo delle persone venute per incontrare Cristo, quando questi si avvicinò alla città. Sovrapponendo l’immagine della Deesis e quella dell’Ingresso a Gerusalemme, o ponendole in altri casi una di fronte all’altra, si mettevano in relazione la Gerusalemme celeste e quella terrena. La prima era il luogo scelto per la seconda Parusia e per il Giudizio finale: «Là furono posti i seggi per il giudizio, i seggi della casa di Davide» (Salmo 122,5). La vittoria di Gesù come Re d’Israele annunciava e prefigurava la sua vittoria finale e conferiva quindi un senso profondo alla giustapposizione dei due soggetti nello spazio ecclesiale. In questa analisi sono emersi svariati elementi presi in prestito da schemi paleocristiani, e questo modello diventerà ancora più frequente nelle pagine seguenti. Non si tratta di conservatorismo ostinato, o di mancanza di informazioni rispetto a quello che si faceva a Costantinopoli, o ancora di mancanza di creatività, ma di una parentela spirituale tra i popoli di questa periferia orientale del mondo bizantino e i cristiani dei primi secoli. Entrambi sono caratterizzati da una sorta di freschezza della fede, da una minore attenzione riservata al dramma della Passione, e da un’esaltazione della gloria divina.
fronte all’asinello, ma questi alza la testa invece che abbassarla; è inoltre dotato di un sontuoso sottosella, elemento piuttosto inusuale, che conferisce a questa cavalcata un aspetto solenne. L’idea di queste corrispondenze viene dalla liturgia, in particolare dall’ufficio della Domenica delle Palme, considerata il momento che apre le solennità della Redenzione. Si ricorda che, alla vigilia del suo Ingresso a Gerusalemme, Gesù resuscitò Lazzaro, offrendo in tal modo un segno della sua futura Risurrezione e di quella degli uomini. Egli è chiamato «Colui che siede sui cherubini ed è eternamente glorificato dai serafini»96 ed è proprio questo che rappresenta la Deesis-Visione. Questo tropario del giorno non manca di associare gli uomini alla vittoria di Cristo e si conclude con un canto di giubilo: «Uniamoci a questi slanci, in questo giorno celebriamo l’inizio del nostro trionfo»97. Durante i vespri della festa, il trionfo di Cristo sulla morte è espresso ancora più chiaramente: «Mentre si avvicinava a Gerusalemme, procedendo verso la sua volontaria passione, il popolo seduto nelle tenebre della morte, prendendo tra le mani rami
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Capitolo sesto
LA CROCE E LE FIGURE CHE LA CIRCONDANO. IL DECORO DELLE CUPOLE E DELLE VOLTE
posta per tutto il Medioevo. Segno di trionfo o della seconda Venuta, la croce era anche destinata a illustrare una manifestazione divina sulla terra. E, infatti, Teodoro Studita scriveva molto semplicemente: «Laddove c’è il segno, lì vi è Cristo». Questo è il motivo per cui la croce potrà essere rappresentata ovunque nelle chiese. Ma cosa avvenne tra i cristiani orientali? Naturalmente il nucleo essenziale resta identico. Nonostante tutte le particolarità che sono state presentate, si tratta comunque di ortodossi, anche se delle differenze esistono. E queste differenze sussistettero in generale per tutto il periodo «bizantino», ossia tra il v-vi e il xv secolo. Così, tra i popoli del Caucaso, la croce copre spesso ampie porzioni di facciate di edifici religiosi, è scolpita nella parte superiore della cupola, come si vede a Mtskheta e Samtavisi
La croce della vittoria
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La croce fu considerata come un un segno trionfale a Bisanzio da quando l’imperatore Costantino i la vide in una visione che gli assicurò la vittoria contro Massenzio sul ponte Milvio, e a seguito della quale si convertì1. Da parte sua, sant’Elena, la madre dell’imperatore, come racconta la leggenda, scoprì la reliquia della vera croce a Gerusalemme. In memoria di questo ritrovamento, l’imperatrice aveva fatto erigere una croce monumentale in materiali preziosi sul Golgota2. L’imperatore Costantino dotò il foro di Costantinopoli di una croce simile che era certamente l’emblema della vittoria imperiale, ma anche un segno di protezione per la città3, prima di diventare il palladium dell’Impero. La sua forma ci è nota a partire dal regno di Teodosio ii (408-450) attraverso le monete4. Si trattava di una croce con bracci svasati alle estremità, ciascuna delle quali rifinita da pomi in rilievo. Era collocata su una base monumentale, che le conferiva un aspetto trionfale e che sarà riprodotta in una specifica categoria di immagini. Alla sua sommità era posta una corona tempestata di pietre preziose5. Nel iv secolo la croce fu sostituita, in alcune composizioni, dal Chrismon, il monogramma di Cristo, al quale fu data la forma della croce6, o dal labarum (uno stendardo con una lunga asta) che Eusebio descrive ancora come una croce7, anche se ciò non corrisponde a quello che si vede sulle immagini. Il labarum è rappresentato come un panno rettangolare fissato su una lunga asta. A volte vi è inscritto l’emblema della vittoria. Esso è portato dagli imperatori, dai soldati e dagli angeli. Presto la croce si impone definitivamente come segno di vittoria, sia che si trattasse di una vittoria divina che imperiale, diventando un motivo ampiamente diffuso. Una croce d’oro, circondata da un’aureola blu costellata, occupava la calotta della cupola della basilica di Casaranello (v sec.)8 e un magnifico Chrismon in una gloria simile (v sec.) appare nella medesima epoca in cima alla cupola del battistero di Soter a Napoli9. Quando è gemmata o accompagnata dagli astri, la croce rappresenta colui che annuncerà la seconda Venuta secondo la versione di Matteo: «Allora in cielo apparirà il segno del Figlio dell’uomo, si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria» (Mt 24,30). Molto più tardi rispetto alla comparsa delle prime immagini che conferiscono alla croce un significato legato alla Parusia, Simeone di Tessalonica (xiv sec.) mise in relazione diretta la croce della visione di Costantino con quella della seconda Venuta10. Anche la croce gemmata o proiettata su un fondo stellato, come nella cupola del presunto mausoleo di Galla Placidia (v sec.) a Ravenna11, è in cima al decoro ecclesiale a Bisanzio fino alla fine della crisi iconoclasta (843), quando fu sostituita dal Pantocratore, mentre in Oriente continuò a essere ripro-
Pagina a fianco: 159. Volta della chiesa rupestre della Dormizione a Vardzia (Georgia), xii secolo. 160. La croce al centro della volta stellata nel mausoleo di Galla Placidia, Ravenna, v secolo.
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163. Schema ricostruttivo dell’abside della chiesa del Salvatore a Matskhvarichi (Georgia), xii secolo: sul secondo registro, gli apostoli in adorazione della croce.
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differenziano ogni volta per un modello diverso, che generalmente include piante e frutti. Sono anche particolarmente numerosi nella chiesa della Vergine di Timotesubani15. La croce appare a volte nei registri più bassi dell’abside con la Deesis-Visione nella conca, in particolare nella chiesa del Salvatore a Matskhvarichi (1140), che mostra la Deesis con coorti angeliche nell’abside e la croce al centro del secondo registro circondata da apostoli e due profeti, tra cui solo Isaia è identificabile16. Si tratta del tema dell’Adorazione della Croce, frequente negli schemi paleocristiani. A S. Giorgio di Pavnisi (1170-1180), la Deesis è seguita, nel secondo registro, dai dodici apostoli a mezzo busto, e nel terzo registro dalla croce in mezzo ai santi vescovi17. Qui si ricorda l’Incarnazione, e soprattutto il sacrificio, poiché la croce circondata dai santi vescovi è un’allusione all’Eucaristia. Questa collocazione della croce si trova anche in Cappadocia. Essa appare sotto la Visione dell’abside, affiancata da personaggi quasi cancellati, nella chiesa dei Ss. Apostoli di Mustafa Pacha18. In Armenia, la croce scolpita appare correntemente nella parte superiore delle cupole, in particolare a Odzun, Mastara o a S. Ripsima. Alcune croci scolpite sono combinate con il
(v-vii sec., Georgia) e altrove in Georgia12. All’interno, è dipinta alla sommità delle cupole dove a volte occupa tutta la calotta. In alcune cupole georgiane medievali, la croce è associata ad altre figure, per esempio a Khakhuli (inizio dell’xi sec.). In questa chiesa è gemmata e circondata da una gloria costellata: questo non impedisce di vedere i chiodi della Crocifissione all’incrocio dei bracci13. Qui si tratta dunque sia del segno della seconda Parusia sia del ricordo del sacrificio. Nella chiesa della Vergine di Ateni (fine xi sec.), una croce enorme scolpita nel vii secolo occupa la calotta della cupola. Alla fine dell’xi secolo fu dipinta in rosso e trasformata in croce pomata, gemmata e contornata di una gloria. I pendenti, molto danneggiati, mostrano dei soggetti unici in questa posizione, le personificazioni dei fiumi del Paradiso, cui si aggiunge quella del Nilo14, probabilmente perché le sue acque erano santificate dal Battesimo. Si tratta quindi della Gerusalemme celeste che sarà instaurata dopo il ritorno di Cristo. La croce vivificante, da cui nascono elementi vegetali o frutti, è spesso dipinta tra gli intradossi delle finestre in Georgia e altrove. Così a S. Nicola di Kincvisi (1207), tutte le finestre sono decorate con una croce di questo tipo e si
161. La croce su un cielo stellato, cupola della chiesa di Khakhuli (Georgia), inizio dell’xi secolo.
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Chrismon, come si vede nella cupola della chiesa di Mren e in quella di S. Ripsima19. Sulla facciata occidentale della chiesa della Madre di Dio di Amaghu (1339), il timpano di una finestra mostra una semplice Deesis sormontata da una grande croce20. Infine, il portico della chiesa di Geghard è decorato con una grande croce scolpita, circondata da varie cornici ornate e da rosette decorative che ne accrescono l’importanza21. Gemmata e fiorita alle estremità, la croce è anche il soggetto principale del reliquiario d’oro eseguito per il principe Eatchi Proshian nel 1300 (tesoro della cattedrale di Echmiadzin, inv. 731), nel quale occupa lo spazio centrale. Due angeli vegliano sulle volte laterali, mentre sopra la croce compare il Cristo in gloria con i quattro animali e due angeli22. Naturalmente la croce è anche il decoro principale delle khatchkhars, le pietre tombali elevate di cui abbiamo già parlato. Nell’area siro-mesopotamica, le croci caratterizzate da segni trionfali sono frequenti nel catino absidale dei primi secoli. Se ne può vedere una nel famoso monastero giacobita di Mar Gabriel (Deir el-Ahmar) a Kartmin (iv-vi sec.), dove è rappresentata in un mosaico. La croce, su fondo oro, è circondata da fogliame23. Esistono schemi simili nelle absidi di
Mar Kyriakos ad Arnas e di Mar Azizael a Kefr Zeh (vi sec.)24. Nel nord della Siria, a Resafa (Sergiopoli), la cappella della cattedrale rivela una composizione dipinta ad affresco del vii-viii secolo, il cui significato legato alla Parusia trionfale è particolarmente evidente. Una croce rosso fuoco e gemmata emette sei raggi. Essa è circondata da una gloria triplice, da ghirlande e volute d’acanto25. A Korkaya l’abside è coperta da lastre di vetro blu, in mezzo alle quali era rappresentata in cavo una croce d’oro26. Secondo le fonti scritte, dal ii secolo i Siriani pregavano volti a est, poiché credevano che la seconda Parusia si sarebbe realizzata in Oriente dato che Gerusalemme si trova a est della Siria. Anche le chiese erano orientate con le loro absidi a est, e la croce, che annuncia tale evento secondo Matteo (Mt 24,30), vi era sempre indicata27. Tuttavia, la croce nell’abside fu conosciuta a Bisanzio solo durante il periodo iconoclasta. È nelle chiese cappadoci che la croce occupa la parte più importante e talvolta è associata con altri simboli. Le croci scolpite erano l’unica decorazione di alcune cappelle e oratori dei primi secoli considerati, come si osserva nel sito di Zelve. Nella chiesa n. 3, la croce circondata da una corona è affiancata da due pesci28 che rappresentano i fedeli, e nella chiesa n. 4 a Zelve, essi vi sono direttamente sospesi, mentre sul suolo sono rappresentati i vortici dell’acqua vivificante che zampilla dalla base della croce29. Presso la chiesa dello stilita Niceta (viii-ix sec.) a Kizil Çukur, la croce gemmata occupa l’intera volta del nartece. Un’altra croce decora la volta della navata e una terza, circondata da una gloria dal bordo tempestato di stelle, decora l’abside. Si tratta ancora una volta dell’annuncio della seconda Parusia. La Vergine con il Bambino troneggia nel secondo registro, affiancata dagli arcangeli Michele e Gabriele, vestiti secondo il costume antico, che offrono a Maria un globo crocifero, dono piuttosto inusuale30. A volte le croci sono identificate da lunghe iscrizioni che fanno riferimento a visioni di santi, come si nota nella croce di S. Eufemia nella chiesa di S. Stefano a Djemil, raffigurata sopra l’abside già provvista a sua volta di una croce votiva31. A S. Barbara, a Soganli, la croce si trova sia nell’abside laterale destro che nelle volte e nella cupola32. Coperta di gemme e circondata da una gloria nella chiesa n. 5 a Güllü Dere, essa annuncia la seconda Venuta33. I soffitti piani di un certo numero di queste chiese ne sono ampiamente provvisti, e talvolta completamente ricoperti come a S. Basilio, a Mustafa Pacha34 e altrove. Croci della Vita e altre molto semplici figurano anche nelle nicchie delle chiese funerarie di Efri Tax Kilisesi, e alcune sono accompagnate da iscrizioni che chiedono il perdono per i defunti35. Anche la volta della chiesa è occupata da una grande croce. La croce gemmata e coperta di ornamenti ritorna nelle prime pagine dei vangeli copti, etiopi, armeni e siriaci. A volte occupa un intero foglio, come nei manoscritti siriaci
162. Grande croce scolpita nel portico della chiesa di Geghard (Armenia), xiii secolo.
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165. Reliquiario d’oro del principe Eatchi Proshian con croce gemmata, 1300, tesoro della cattedrale di Echmiadzin (Georgia).
Pagine seguenti: 166. La croce gemmata circondata da pampini d’uva che richiamano l’Eucaristia, volta del nartece nella chiesa dello stilita Niceta, Kizil Çukur (Cappadocia), viii-ix secolo. 167. La croce gemmata al centro della volta della chiesa di S. Basilio a Mustafa Pacha (Cappadocia), ix secolo.
dell’Antichità, la cui prima versione apparve sulla base della colonna di Arcadio a Costantinopoli (395-408)44. Le croci sormontano le immagini raffiguranti le vittorie di Teodosio e Arcadio, suggerendo il contributo di un aiuto miracoloso al trionfo. Più tardi, Procopio dichiarò che Giustiniano doveva le sue vittorie contro i Persiani alla croce45. Inoltre, una croce precedeva i sovrani nelle processioni e li accompagnava nelle campagne militari46. Nel periodo pre-iconoclasta, gli angeli che portavano la croce della vittoria, circondata da una corona, da una gloria o da un medaglione, erano rappresentati sui sarcofagi (400 ca.)47, i dittici d’avorio48, le copertine dei vangeli e la parte superiore delle cupole di chiese bizantine. Questo soggetto, che era diffuso in epoca pre-iconoclasta, scomparve rapidamente dal decoro ecclesiale d’ispirazione costantinopolitana dopo la vittoria degli iconofili. Se questi primi modelli sono costantinopolitani, il culto della croce ha la sua origine a Gerusalemme. E questo è probabilmente il motivo per cui ebbe particolare importanza in Oriente, dove la festa della S. Croce è oggetto di una solenne celebrazione. Tuttavia restano solo poche immagini della croce portata o adorata da angeli di origine gerosolimitana. Alle già citate ampolle di Monza, possiamo aggiungere quelle n. 1 e 2 di Bobbio. Sull’ampolla n. 1 la croce in tronchi di palma è arricchita con dischi alle estremità. Questa appare in una gloria costellata che simboleggia il cielo. Due angeli la sostengono e altri due l’adorano con un gesto di preghiera49. Sotto la croce vi è un tumulo, ma la croce non vi è fissata – la si pensava, infatti, trasfigurata in cielo. Il tumulo serve per ricordare quanto accadde sul Golgota. Sopra questa trionfale croce, Cristo vittorioso è rappresentato a mezzo busto. È il Logos eterno. Sull’ampolla n. 2, una croce di forma analoga è piantata sul luogo della Crocifissione, da cui scaturiscono sorgenti d’acqua viva difficilmente distinguibili. Due angeli, con le mani coperte, la adorano. Sopra questa composizione, vi è Cristo in trono in una mandorla stellata, sorretta da due angeli in volo50. Si tratta di un’Ascensione semplificata, che si ritrova nell’arte paleocristiana. Dei medaglioni con le teste degli apostoli – probabilmente quelli dell’Ascensione – fanno da cornice all’insieme. L’iscrizione è di natura apotropaica e volta a ottenere la protezione per il proprietario dell’ampolla. In Georgia, alla croce portata dagli angeli è assegnato un nome specifico: «Ascensione o Elevazione» della croce. Questa formula iconografica apparve sul portale sud della chiesa della S. Croce (Jvari) a Mtskheta (v-vi sec.), dove la croce è prolungata da un elemento vegetale. Questa «Ascensione della croce» è di nuovo sul timpano dell’ingresso principale alla stessa chiesa51. Nel vii secolo, il tema divenne propriamente georgiano con quattro angeli che alzano la croce (verso il cielo). Un bell’esempio di questo schema è la croce processionale in pietra di Katchagani (vii sec.), eseguita in uno stile lineare e decorativo influenzato dall’arte iraniana. Questa parentela
della Bibl. Nationale de France (Syr. 41, f. 10)36. Tuttavia, nei manoscritti siriaci, la croce si caratterizza per la grande varietà di modelli. Tra questi ci sono la croce circondata da una gloria (Syr. 30, f. 245)37, piantata su alcuni gradini (Syr. 30, f. 62)38 o su un piedistallo, radicata in racemi vegetali, simboli della vita (Syr. 356, f. 1)39, o che porta Cristo a mezzo busto collocato all’incrocio dei bracci (Homs, Bibl. Patr., inizio del commento di Dionisio bar Salibi)40. In Etiopia, le croci ornate sono generalmente inserite su un fondo coperto di motivi decorativi, come nella chiesa di Bet Maryam a Lalibela (1434-1465)41. Questi ornamenti sono particolarmente sviluppati e complessi laddove si tratta di miniature e di croci processionali di metallo. In quest’ultima categoria di oggetti, i temi figurativi sono spesso mischiati alle decorazioni di origine bizantina, copta e araba, come emerge in modo evidente sulla croce conservata nel monastero di Daga Estifanos, sul lago Tana (1434-1468). Il nucleo della composizione è costituito da una croce che dà luogo a quattro rosoni. All’incrocio dei bracci, Cristo a mezzo busto, benedicente e con il libro in mano, è circondato dagli zodia. Questi dati si iscrivono in un campo ornamentale a forma di rombo42. In Egitto il soggetto è raffigurato su un bassorilievo sulle facciate delle chiese, come in quelle di S. Barbara nella città vecchia del Cairo, e di Hodja Kalesi43, così come in Armenia e in Georgia. La croce portata o circondata dagli angeli Molto presto i Bizantini fecero portare la croce, circondata da una corona o raffigurata in un medaglione, da due angeli in volo. Si tratta di un soggetto paleocristiano realizzato prendendo spunto dalle vittorie e dagli spiriti alati
164. Schema dell’abside della cappella della cattedrale di Resafa (Siria): la croce, circondata da triplice gloria, emana raggi, vii-viii secolo.
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168. Timpano del portale della chiesa di Nikortsminda: la croce è sorretta da due angeli circondati da pigne, simbolo della Risurrezione.
169. Ascensione della croce, dettaglio della cupola della chiesa della Vergine, Bertubani, David Gareja (Georgia), xiii secolo.
appare soprattutto nella semplificazione delle forme, nei copricapi indossati dagli angeli e che ne nascondono i capelli, e nella rappresentazione delle ali, che sono taglienti come lame di coltello. Dei rosoni – simbolo di vita – fioriscono fra i quattro bracci della croce, mentre l’intersezione è occupata da una seconda croce in un medaglione52. Questa versione è comunemente adottata dagli scultori a partire dal x secolo, come mostra il timpano sopra la porta d’ingresso della chiesa di Khakhuli53. Una composizione simile figura sul timpano sopra il portale della chiesa di Nikortsminda (xi sec.), in cui ogni braccio della croce è decorato con una stella e termina in due grandi rosette; gli angeli che la portano sono raffigurati in pieno slancio e circondati da pigne, simboli della Risurrezione54. A Ptghnavank, in Armenia, quattro angeli portano una piccola croce: il tutto è fissato su una croce in ferro armena, detta del re Ashot (914-928), oggi conservata al museo della cattedrale di Echmiadzin.
La diffusione del soggetto in Georgia e Armenia nel x secolo è dovuta alla costruzione di numerose chiese e allo sviluppo della scultura delle facciate. In entrambi i paesi si tratta di un’epoca d’oro: il regno di Armenia si consolida sotto il re Ashot iii e i Georgiani trionfano sull’esercito dell’imperatore bizantino Basilio ii (979). È a partire da quest’epoca che l’Ascensione della croce, associata o meno alla Deesis, è dipinta nelle cupole e nelle volte delle chiese georgiane. Si tratta quasi ovunque di una croce gemmata che annuncia la seconda Parusia. La croce appare in un’aureola rossa all’interno della cupola della chiesa di Kvale Cminda a Dzveli Yuamta (xi-xii sec.), ma degli angeli che la sorreggevano non ne resta che uno. In questo genere di composizione il numero di angeli può raggiungere gli otto, come si vede nella chiesa della Vergine del monastero di Kabeni a Kan \aeti (xii sec.)55, benché generalmente siano quattro gli angeli che sollevano la croce verso il cielo, come si vede 162
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173. Cupola della chiesa di Iyhani (Georgia), con la croce sorretta dagli angeli, x-xi secolo.
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nella volta della chiesa rupestre di Vardzia, e in particolare nella volta del refettorio del monastero rupestre di Bertubani (xiii sec.), dove è associata alla Deesis nell’abside56. L’elevazione della croce ritorna frequentemente tanto nelle chiese più prestigiose – come in quella del monastero di Gelati, dove appare nella volta del nartece (fine xiii sec.)57 – che nelle chiese rupestri più modeste, come quella dei Quaranta martiri a Mocameta (xi-xiii sec.), e quella della Vergine del monastero di Udabno (xiii sec.)58. Questa composizione diventa un’immagine grandiosa laddove dipinta nella calotta delle cupole. A S. Croce (oggi dedicata alla Vergine) di Manglisi (xi sec.), lo strumento della vittoria divina è ricoperto di gemme e circondato da una gloria rosso fuoco. Quattro angeli in volo (di cui due sono
completamente conservati), vestiti all’antica, dotati di una grazia raffinata, portano l’aureola luminosa, abbagliante Visione nella notte stellata di questa volta blu marino. Ma le stelle e la notte non sono sufficienti a rappresentare lo spazio cosmico in cui brillano i segni che annunciano l’avvicinarsi della seconda Parusia. Nella parte sud-ovest della cupola, il sole è rappresentato attraverso un simbolo. Si tratta di san Mamante (iscrizione) che, in accordo alla leggenda che lo vuole amico degli animali59, cavalca un leone. È circondato da una grande aureola rotonda e tiene tra le mani un corno dell’abbondanza poiché annuncia il ritorno della primavera, anche se la legenda che l’accompagna lo identifica più precisamente con il simbolo del sole60. L’attribuzione della rinascita primaverile a Mamante deriva da un’omelia di Gregorio Nazianzeno61.
170. Croce processionale di Katchagani (Georgia), vii secolo.
171. Schema dell’Ascensione della croce nella chiesa della Vergine a Bertubani (Georgia). 172. Schema della cupola della chiesa della Vergine, Manglisi (Georgia), xi secolo: gli angeli portano la croce gemmata.
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174. La croce gemmata risplende in un’aureola fiammeggiante; nel registro inferiore gli angeli attorniano la Deesis, chiesa della Vergine, Timotesubani, Borzomi (Georgia), xiii secolo.
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Il leone, con grandi artigli e con la coda aggraziata, ricorda i modelli persiani di epoca achemenide e sassanide62. Sul lato opposto della volta, una macchia sbiadita indica che vi era un’altra figura, indubbiamente la personificazione della luna, come si vede nella cupola della chiesa d’Iyhani, dove a essere scomparso è invece il sole63. Il tamburo di tale cupola è occupato da una Deesis ampliata, che comprende Cristo in trono, i due intercessori e otto profeti che portano dei rotoli dispiegati con iscrizioni georgiane estratte dalle loro profezie. Anche se incomplete, queste sono state lette e i rispettivi autori identificati64. Cristo compie il gesto del trionfatore e nella sinistra tiene un libro aperto. Resta solo un frammento dell’iscrizione che era contenuta in esso: «...il buon pastore...». Si tratta probabilmente di Giovanni (Gv 10,11): «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore». La cupola della chiesa di Iyhani (958 e 966) ha conservato, nel centro della calotta, una raffigurazione molto simile a quella di Manglisi, ossia una croce gemmata, pomata e aureo lata, portata da quattro magnifici angeli in volo i cui corpi e le ali abbracciano la curvatura del medaglione che supportano. La croce emette quattro raggi e spicca su un cielo scuro e stellato. L’aureola è circondata da una banda iridescente che ricorda l’Apocalisse. Su entrambi i lati di questo nucleo centrale appare una donna, a torso nudo, con una falce di luna sulla sua testa, in atto di cavalcare un bovino. Si tratta di una chiara allegoria della luna; tracce di pittura suggeriscono che accanto figurasse anche un’allegoria del sole. L’estremo lembo della cupola è occupato da un hapax: sono raffigurati quattro carri, ciascuno tirato da numerosi cavalli alati. Essi sono guidati da anziani scapigliati, vestiti di tuniche corte, la testa e una mano levate verso la croce. Le iscrizioni hanno permesso di riconoscere la visione di Zaccaria nell’Antico Testamento (Zac 6,2-8)65. Questi carri si muovono nella direzione dei quattro venti «che si trattenevano davanti al Signore di tutta la terra» (Zac 6,5). Si tratta delle quattro direzioni e dei rispettivi popoli cui era indirizzato il messaggio dell’Eterno riguardante la costruzione del tempio. L’interpretazione cristiana del decoro di questa cupola si riferisce probabilmente al regno universale della croce e al messaggio evangelico che si diffonde su tutta la terra. Il tamburo della cupola è decorato con immagini, gravemente danneggiate, di profeti, angeli e santi a mezzo busto, mentre santi militari a mezzo busto decorano le volte delle finestre66. La croce della seconda Parusia portata dagli angeli raggiunge il suo massimo significato quando è collocata alla sommità della cupola. Questo programma è probabilmente ispirato da un testo di sant’Efrem, dove sono presenti la croce e angeli in gran numero, come in Matteo (Mt 24,30): «La croce apparirà per prima nel cielo con grande gloria e molte milizie angeliche annunceranno l’arrivo del gran Re». 167
175. Disegno del coperchio di un reliquiario trovato ad Ain-Berich (Algeria), v secolo: sulla croce è posato un mantello.
177. Deesis nell’abside meridionale del monastero Bianco a Sohag (Egitto), nella quale Cristo è rappresentato da una croce con mantello.
Pagina successiva: 178. Nartece della chiesa di Yilanli Kilise a Ihlara (Cappadocia), ix-xi secolo: il Giudizio universale alla presenza di quaranta martiri.
re rosso, che non può essere né il velo liturgico né il sudario, copre i bracci orizzontali della croce. Questo è circondato da una mandorla costellata, portata da quattro angeli. Su entrambi i lati di queste figure, la Vergine e san Giovanni sono rappresentati in atteggiamento di preghiera77. Due caratteristiche di questa Deesis la rendono un hapax: la sostituzione di Cristo con il suo segno trionfale e il tipo particolare di tessuti da cui è ornata la croce. La sua origine è da cercare senza dubbio in un modello paleocristiano del tipo del reliquiario del v secolo che si trova a Ain-Berich, in Algeria, dove una croce e una stola simili a quelle del mona-
stero Bianco appaiono sul coperchio78. A sua volta, questo modello è probabilmente tratto da un’immagine di trofeo romano, come quello in rame trovato nel foro di Ippona79. Esso rappresenta un tronco d’albero tagliato, con un ramo orizzontale per supportare la corazza che vi è appesa. Il tessuto posto sull’armatura stava a rappresentare il mantello del nemico sconfitto. Data l’evidente somiglianza tra il supporto del trofeo romano e la forma della croce, il confronto tra i due è giustificato. Il tessuto posto sulla croce del monastero Bianco è il segno della sconfitta di coloro che crocifissero il Signore.
176. Ricostruzione del trofeo romano trovato nel foro di Ippona (Algeria) che rappresenta una corazza con mantello.
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Uriel, Sariel e Gabriele, che si trova dietro la Vergine. Il numero sette non fu scelto casualmente. Numero simbolico tra i Greci e Persiani, è menzionato anche nell’Antico Testamento da Enoch e Tobia che giustamente lo attribuiscono agli angeli71. Il tamburo è occupato da profeti identificabili dalle iscrizioni72 e nel secondo registro vi sono i martiri. Essi sono raramente associati con la Deesis della fine dei tempi, sebbene sia loro riservato un posto. Non solo perché sono citati nell’Apocalisse (Ap 6,9-11), mentre invitano il Maestro a procedere con il Giudizio universale, ma soprattutto a causa del ruolo assegnato loro da Andrea di Cesarea nel commentare questi versetti: «Prima della Risurrezione, essi [i martiri] hanno libero accesso a Dio, intercedono, esaudiscono le loro preghiere, aiutano coloro che li invocano»73. I martiri sono dunque intercessori privilegiati e le loro preghiere sono infinitamente preziose. Gli evangelisti raffigurati nei pendenti di questa cupola in atto di scrivere appartengono alla tradizione bizantina e non devono essere messi in relazione con il resto della decorazione. Altri programmi iconografici georgiani applicati alle cupole rappresentano la croce della seconda Parusia e la Deesis degli ultimi tempi alla maniera di Timotesubani. È questo il caso dei Ss. Arcangeli di Ikorta (1172), dove la croce gemmata e aureolata nella calotta è accompagnata da una scritta che conferma la vittoria del Cristo della seconda Venuta. La Deesis è rappresentata sul bordo della calotta. I tre personaggi che la formano sono mostrati in piedi, elemento raro al di fuori delle miniature. Sono seguiti da nove angeli e arcangeli e, sul tamburo, da due file di personaggi, di cui solo la prima, quella dei profeti, si è conservata74. A S. Nicola di Kincvisi (1207-1210) il decoro della cupola, in cattivo stato, è quasi identico a quello di Ikorta. Tuttavia la Deesis che si intuisce al bordo della calotta è seguita da nove figure di arcangeli. Sul tamburo i nomi della prima fila, composta da profeti, sono stati identificati quando erano ancora leggibili. Si tratta dei profeti Isaia, Geremia, Malachia, Ezechiele, Zaccaria, Sofronia, Abacuc, Gioele e Giona75. La seconda fila di personaggi nel tamburo è quella degli apostoli. Questo tipo di Deesis nelle cupole georgiane offre lo schema più ampio del mondo bizantino, poiché vi sono coinvolti non solo numerosi angeli ma anche due file di santi che occupano i tamburi. Se si prescinde dal decoro delle cupole, l’intima associazione che si trova in Oriente tra la croce, la seconda Parusia e la Deesis è particolarmente sorprendente in una chiesa copta dove la croce sostituisce Cristo. Si è già parlato del decoro dell’abside orientale del monastero Bianco nei pressi di Sohag, risalente al 1124. Ma vi è una seconda decorazione nella parte meridionale della chiesa, che risale al xiii secolo. Sotto le personificazioni del sole e della luna, una croce gemmata è dotata di un grande cabochon all’incrocio dei bracci. I quattro chiodi della Crocifissione, identificati a Khakhuli, vi sono piantati e occupano lo spazio tra i bracci. Un tessuto spesso e di colo-
Questo modello della cupola è a volte leggermente modificato, pur mantenendo il medesimo senso: gli angeli non sono più raffigurati in atto di alzare la croce gemmata; questa, infatti, appare sola al centro della cupola, mentre gli angeli in piedi accanto alla Deesis formano un fregio sul bordo della calotta. Questa variante è rappresentata nella chiesa della Vergine a Timotesubani (1220 ca.), dove la croce gemmata risplende in un’aureola fiammeggiante con svariate sfumature67. Dei cabochon ricoperti di perle formano dei dischi che adornano le estremità della croce; un medaglione verde scuro è attaccato all’incrocio dei bracci. Questa croce a dischi ricorda antichi modelli palestinesi, come vediamo sull’ampolla n. 1 di Bobbio68 o nelle rappresentazioni dei Consigli provinciali nella chiesa della Natività a Betlemme69. I dischi o le sfere menzionati erano originariamente dei melograni, simboli del nutrimento celeste, che evocano le virtù tonificanti della croce, cantate con tanta insistenza nel vii secolo da Cosma di Maiuma nel suo famoso poema liturgico70. Nella calotta costellata appare l’iscrizione trionfale «ic xc nika». Qui si proclama dunque la vittoria definitiva della seconda Venuta di Cristo. Ai margini della calotta, la Deesis è composta da Cristo in trono affiancato da due cherubini, da san Giovanni e da Maria. Egli benedice alzando il braccio in un gesto trionfale. Sul libro aperto che tiene nella sua sinistra, si legge in georgiano: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). Sette arcangeli, con nimbi multicolore, raffigurati frontalmente, sono associati alla Deesis e fanno il giro della cupola. Portano il loros e la sfera e qualcuno indossa il costume imperiale, dato che li avvicina all’iconografia costantinopolitana. Il loro ordine è il seguente a partire da san Giovanni: Raffaele, Rastael, Seastiele, Michele,
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Capitolo settimo
IL GIUDIZIO, IL PECCATO, LA REDENZIONE
pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” […]. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: “Via, lontano da me, maledetti nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli” [...]. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» (Mt 25,31-46). Oltre a tali fonti, i pittori di icone furono sensibili, come spesso accadde a Bisanzio, alle cerimonie di corte. Ciò che contava in queste cerimonie era sottolineare la maestà e l’onnipotenza dell’imperatore in un quadro di armonia, di simmetria e gerarchia. L’immagine del Giudizio riflette gli stessi valori. Si inizia in alto con una fila di guardie angeliche. Segue la Deesis con Cristo in trono, simile a un imperatore del cielo, circondato da forze angeliche ai suoi piedi e dagli apostoli in trono ai suoi lati. Il fiume di fuoco scende dal trono divino (Dn 7,10). Nell’asse della composizione si vede poi l’Etimasia (Sal 9,8-9; 103,19), rappresentata da un trono vuoto, con gli strumenti della Passione a significare la seconda Parusia. Questo schema, di cui si è già ampiamente parlato, riproduce un modello antico, adattandolo. Durante i giochi del circo, i Romani disponevano un seggio d’oro con le insegne del potere imperiale al posto dell’imperatore quando questi era assente, e le monete dell’epoca riproducono questo simbolo4. Nella nostra immagine, Adamo ed Eva, redenti, sono inginocchiati ai lati del trono. Più lontano si vede la pesatura delle anime, gli animali che rendono i morti (Ap 20,13) o le personificazioni della terra e del mare che a volte li sostituiscono e rappresentano la Risurrezione degli uomini. Gli angeli che suonano la tromba annunciando l’inizio delle operazioni e l’angelo che avvolge il cielo (Ap 6,14) per significare la fine dei tempi occupano posizioni variabili. Ai lati, a sinistra, gli eletti sono in posizione speculare rispetto ai dannati a destra. Entrambi formano dei gruppi, ordinati non in base ai loro meriti o alla gravità dei loro peccati, ma in base al loro rango sociale, secondo un’abitudine di corte. Sotto le file degli eletti appaiono le scene del Paradiso: Pietro con le chiavi, le porte custodite da un cherubino e, all’interno di un giardino, il buon ladrone, la Vergine in trono come Regina del cielo, Abramo con il povero Lazzaro (Lc 16,19-31) e, talvolta, i tre patriarchi dell’Antico Testamento con le anime dei giusti nel loro grembo. A destra, sotto i dannati, lo stagno di fuoco dell’Inferno e i castighi sono raffigurati in modo astratto attraverso una superficie rossa e un cumulo di teschi o anche con corpi nudi, di solito donne, morse da serpenti. Dei diavoletti, sotto forma di angeli neri, spingono i condannati verso il fiume di fuoco. In alcuni casi appare Satana, ma la sua presenza non è un elemento fisso. In Occidente, l’Inferno occupa molto spazio nel Giudizio universale, i demoni sono numerosi, brutti, spaventosi, e Satana piuttosto grande e deforme5, soprattutto in Italia.
Il Giudizio universale e la sua origine costantinopolitana Il Giudizio universale, cui appartiene la preghiera di intercessione, seguirà immediatamente la seconda Parusia, annunciata dalla croce. Sono tutti avvenimenti che si realizzeranno alla fine dei tempi. Non si tratta di un’immagine religiosa pari alle altre, perché appare tardivamente nei decori ecclesiali, nell’ix secolo in Occidente, a Münster, nel x secolo a Bisanzio, nel nartece di S. Stefano a Kastoria, ancora in forma incompleta e provvisoria; solo nell’xi secolo il soggetto fu veramente riprodotto nella chiesa della Vergine dei Calderari (Panagia Chalkeon) a Tessalonica, e si diffuse poi realmente nel xii secolo. Benché già le scritture ne parlino, l’immagine apparve però in connessione con le angosce legate all’anno 1000, quando prese piede l’inquietudine circa la fine del mondo e si acuì la sensibilità verso l’idea del peccato. Ma questa composizione di tipo cumulativo fu rara nelle chiese orientali durante il Medioevo e quasi sconosciuta in Egitto, Nubia e Etiopia. Satana spesso è assente, anche in composizioni che coprono una superficie considerevole. In un senso più generale, il Giudizio universale fu percepito in modo molto diverso a Bisanzio, in Occidente e in Oriente. In Occidente, esso rappresenta l’estrema sanzione senza concessioni, il regolamento definitivo dei conti tra gli uomini e Dio. A Bisanzio non fu inteso come un atto giuridico, ma come un momento che segna la trasfigurazione dell’uomo e del mondo. Non si trattava del ristabilimento dell’ordine perturbato dal peccato quanto piuttosto del rinnovamento fondamentale dell’essere, dell’adempimento del mondo che conduce alla deificazione dell’uomo1. Tutto questo è ancora più vero e più chiaramente sottolineato nel cristianesimo orientale, dove l’idea fondamentale sottesa agli eventi della fine dei tempi non è la giustizia di Dio ma il suo amore, come mostreremo nelle pagine seguenti. Per interpretare correttamente i Giudizi orientali e valutare la loro originalità, è necessario conoscere il loro modello di base, come è stato progettato a Costantinopoli e diffuso nei Balcani e in Russia. Naturalmente, questa immagine esiste in numerose varianti, ma il nucleo essenziale è sempre simile, al pari dello spirito che la anima. Essa ha il suo fondamento nel Vangelo, nell’Apocalisse e nelle omelie di Efrem il Siro, in cui sono menzionati quasi tutti gli episodi presenti nella successiva rappresentazione2. Infine, la liturgia fa riferimento al Giudizio laddove la preghiera della Proscomidia sollecita: «un’efficace difesa di fronte al temibile tribunale di Cristo»3. I testi sopra citati si basano in gran parte sul Vangelo di Matteo, anche se l’evangelista non fornisce alcun dettaglio: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della la sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri; e porrà le 170
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179. Mosaico raffigurante il Giudizio universale nella cattedrale di S. Maria Assunta di Torcello, xii secolo.
180. Particolari del Giudizio Universale, cupola della chiesa della Vergine a Timotesubani (Georgia), xiii secolo. Da sinistra: i melograni, simbolo di immortalità; gli animali restituiscono i corpi.
La rappresentazione dei castighi è ampiamente sviluppata. Ci occuperemo delle ragioni di tali differenze più avanti. Senza temere di esagerare, possiamo dire che i Giudizi occidentali sono stati pensati per stupire e spaventare tutti i cristiani, giusti e peccatori; quelli bizantini per stabilire invece un equilibrio tra redenzione e sanzione; quelli orientali per indicare che, nell’ultimo giorno, vi sarà sì il giudizio ma anche il perdono.
In primis, la Deesis con Cristo in trono in gloria, affiancato dagli intercessori e da due apostoli seduti ai lati. Gli apostoli mancanti sono mostrati dietro i primi, ma in formato ridotto. Il centro del secondo registro è occupato dall’Etimasia con la croce e due angeli; gli eletti sono raggruppati sul lato sinistro, mentre i dannati (?), a destra, sono scomparsi. Si ha il medesimo ordine nel terzo registro, dove il centro è occupato da una finestra. Nel quarto registro sono allineati profeti e ritratti di principi. Essi non hanno alcun rapporto diretto con il Giudizio, se non perché i profeti lo avevano annunciato e i personaggi regali auspicavano probabilmente di ottenere l’intercessione della Vergine e del Battista. Pitture frammentarie adornano le pareti laterali, ma mostrano solo scene del Paradiso. Certamente molti di questi dipinti non sono più riconoscibili, ma è ovvio che a interessare l’artista, i fedeli e i committenti fossero soprattutto la seconda Venuta e il perdono. A S. Giorgio di Bo/orma, una chiesa con sei absidi (xi-xii sec.)7, il Giudizio occupa la stessa posizione che ad Ateni, ma restano solo alcuni frammenti, tra cui la Deesis. Questa è particolare, poiché gli intercessori sono rappresentati all’interno della gloria di Cristo. Si riconoscono ancora, nei registri più bassi, qualche eletto, gli angeli con le trombe e le porte del Paradiso. La situazione non è migliore nella chiesa rupestre di Vardzia (1184-1185), in cui il Giudizio sulla parete nord ha soprattutto conservato una grande Deesis, circondata da apostoli e da una moltitudine di angeli, l’Etimasia con Adamo ed Eva, e la Pesatura delle anime.
I Giudizi più numerosi: i paesi del Caucaso
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Il soggetto è raro in Oriente e in genere ci si accontenta di esprimere l’indulgenza divina attraverso la Deesis. Le chiese caucasiche, che lo includono nei loro programmi, sono generalmente quelle che rappresentano la Vergine col Bambino nell’abside, pur non riproducendo esattamente il programma absidale di Costantinopoli. La chiesa della Vergine di Ateni appartiene a questo gruppo6. Si tratta di un edificio con quattro conche, coperto da una cupola, sostenuta da trombe, di cui abbiamo esaminato lo strano decoro. Costruita nel vii secolo e decorata con alcune sculture sulle facciate nella stessa epoca, è stata poi dipinta solo verso la fine dell’xi secolo. Il Giudizio (danneggiato) copre l’abside occidentale, ma contiene solo alcuni episodi. D’altra parte, essi sono tutti collocati sulle pareti laterali dell’abside, cioè in posizioni secondarie. Cosa resta dunque sull’area centrale che è la più visibile?
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182. Disegno ricostruttivo del Giudizio universale rappresentato sulla parete occidentale della chiesa della Vergine a Timotesubani: al centro la Deesis e nel secondo registro il Paradiso, cui è data grande rilevanza; la composizione si estende anche ai muri laterali.
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ni bizantine. Il Paradiso della nostra chiesa a destra mostra la Vergine orante tra due angeli, seguita da Abramo con l’anima del povero Lazzaro, e circondata da bambini piccoli che rappresentano le anime dei giusti. A sinistra, vi è il buon ladrone davanti alle porte del Paradiso custodite da un serafino con ali ocellate, che ha estratto la spada dal fodero, e da due angeli. Lo sfondo di questo registro è altrettanto originale, poiché mostra vari alberi da frutto carichi di foglie e frutti, tra cui i melograni, simboli della Risurrezione. La composizione continua sulle pareti laterali sud e nord e sui pilastri orientali. Troviamo, sulla sinistra, gli abituali gruppi di eletti (solo la parte inferiore di queste figure si è conservata). Sono guidati da Pietro che detiene le chiavi del Paradiso. Anche due angeli che suonano la tromba, secondo il racconto di Matteo (Mt 24,31), sono presenti, così come gli animali che rendono i corpi, in questo caso molto numerosi perché sono undici anziché uno o due. Essi raffigurano la Risurrezione secondo l’Apocalisse, che proclama che la terra e il mare renderanno i morti che hanno ingoiato (Ap 20,13). La moltitudine di animali rappresentati, tra cui un elefante, non sembra essere sufficiente a sottolineare questo momento di risveglio dei morti giudicato capitale: per tale motivo sono stati aggiunti due sarcofagi aperti in cui si distinguono dei risorti. Sulla destra, i dannati sono perseguitati dagli angeli, il ricco malvagio è seduto in disparte. Tuttavia non si vede né l’angelo che avvolge il cielo, né il fiume di fuoco che deve scaturire dal trono del Giudice. Le punizioni delle immagini bizantine sono ridotte, anche se una parte dei dannati è immersa in un lago di fuoco. I piccoli diavoli che tormentano i dannati sono sostituiti da angeli armati di lance. Un drago arrotolato su se stesso costituisce una personificazione dell’Inferno; è cavalcato da una piccola figurina nuda dall’apparenza infantile e piuttosto carina, che è senza dubbio l’Ade, anche se non sembrerebbe. Santi militari occupano l’intradosso degli archi e l’ultimo registro del muro occidentale. La loro massiccia presenza in prossimità del Giudizio può stupire, ma essi occupano tali posizioni in quanto combattenti per la giustizia, la rettitudine e la fede, proteggendo i fedeli dal male nell’attesa della seconda Venuta. Se giudichiamo il soggetto dall’importanza data ai diversi episodi, le idee dominanti di questo Giudizio sono la Risurrezione dei morti, il perdono che si può sperare (rappresentato dall’immensa Deesis) e il Paradiso, promesso ai cristiani, come sottolinea il Vangelo di Giovanni. Troviamo un’accentuazione dei medesimi valori in Armenia sulla parete occidentale della chiesa dedicata alla Vergine di Akhtala, dipinta da georgiani assistiti da armeni, prima della morte del donatore Ivane Zakarian nel 12279. La Deesis con gli angeli occupa ancora una volta tutto il primo e parte del secondo registro della parete occidentale, il che corrisponde a una superficie notevole. Essa comprende, nuovamente, due tetramorfi e due serafini e il fiume di fuoco che scaturisce dal
Finora non abbiamo incontrato alcuna traccia dell’Inferno e delle punizioni. Questo può essere dovuto allo stato frammentario dei dipinti. Alcuni episodi sono presenti nella chiesa della Vergine di Timotesubani (xiii sec.) ma ridotti al minimo, benché si tratti di un Giudizio che occupa tutta la parte occidentale della chiesa. Anche qui vi è una messa in rilievo sorprendente della Deesis e delle scene del Paradiso, che figurano sulla parete occidentale, la sola perfettamente visibile dallo spettatore. La Deesis con Cristo in trono in una aureola, un cherubino, un serafino e gli intercessori è così grande che resta lo spazio solo per due apostoli in trono ai lati, gli altri sono collocati in altezza alle spalle dei primi, come ad Ateni e per il medesimo motivo: una Deesis sovradimensionata8. A Bisanzio gli apostoli formano sempre una fila in primo piano da entrambi i lati della Deesis. Dietro gli apostoli diverse file di angeli formano la guardia celeste del Giudice. L’intero secondo registro è riservato al Paradiso, mentre a questo è dedicato un posto modesto, nell’angolo in basso a sinistra, nelle immagi-
181. Schema del Giudizio universale dell’abside occidentale della chiesa della Vergine ad Ateni (Georgia), xi secolo.
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muro (quarto registro) è riservato a tutte le scene del Paradiso. Le immagini che rappresentano la Risurrezione degli uomini sul pilastro e sul muro sud sono, ancora una volta, molto sviluppate ma gravemente danneggiate. Riconosciamo l’angelo che suona il risveglio per i morti, che si levano in piedi da tre sarcofagi aperti, e una personificazione femminile della Terra. Qui l’Inferno e i dannati non mancano, ma sono stati trasferiti in posizioni secondarie, come si vede a Timotesubani. Nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo del monastero di Tatev (930 ca.), nel Syunik orientale (Armenia), dei pittori occidentali, senza dubbio aiutati da degli armeni, sono stati incaricati dal vescovo Giacomo di occuparsi della decorazione10. È verosimile che il vescovo abbia supervisionato l’iconografia, come era consuetudine nel mondo bizantino. Non restano che alcuni grandi frammenti del Giudizio universale. Tuttavia, questi frammenti mostrano una caratteristica importante che non si
trono divino. Gli apostoli sono nuovamente collocati in secondo piano, ai due lati della volta, e risultano poco visibili, come nelle composizioni precedenti. Bisogna notare qui che questa posizione secondaria attribuita agli apostoli nei Giudizi transcaucasici non è in contraddizione con il Vangelo, in cui il posto degli apostoli non è esattamente fissato. Tuttavia, il testo che evoca il Giudizio suggerisce che essi formano un gruppo solenne, dal momento che Cristo si rivolge ai suoi discepoli con le parole: «Quando il Figlio dell’uomo [...] siederà sul trono della sua gloria [...] voi sarete seduti su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28). Bizantini e Occidentali percepirono la glorificazione degli apostoli insita in questa promessa, ma non gli Orientali. Invece di un singolo angelo, come dice l’Apocalisse (Ap 6,14), ve ne sono due che avvolgono il cielo insieme, scena che si trova soprattutto in Occidente. Il posto d’onore al centro del 175
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183. Frammenti del grande Giudizio universale nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo del monastero di Tatev nel Syunik orientale (Armenia), x secolo.
184. Vangelo georgiano di Djroutchi ii, seconda Parusia (f. 64v), fine del xii secolo (Tbilisi, Istituto dei manoscritti «K. Kekelidze»).
185. Vangelo georgiano di Djroutchi ii, Giudizio universale (f. 66v), fine del xii secolo (Tbilisi, Istituto dei manoscritti «K. Kekelidze»).
186. Vangelo armeno n. 19 della collezione Savedjan conservata al Matenadaran, Giudizio universale, xii-xiv secolo (Erevan, Armenia).
187. Vangelo n. 212 di Matenadaran: i sarcofagi con i resuscitati sono allineati e un vescovo precipita all’Inferno (f. 79v), xiv secolo.
188. Vangelo n. 212 di Matenadaran, Giudizio universale (f. 80v).
189. Vangelo armeno n. 1327, Giudizio universale, la Deesis è sostituita da una croce (f. 25v), xv secolo (Boston Public Library).
due angeli che hanno aperto un libro e srotolano una pergamena. Questi documenti si riferiscono ai dannati, come dice l’Apocalisse (Ap 20,15): «Chi non sarà inscritto nel libro della Vita, verrà gettato nello stagno di fuoco». Una moltitudine di sarcofagi con dei risorti appare a sinistra. La scena non si svolge in Paradiso come alcuni autori hanno scritto, perché i sarcofagi e gli stessi risuscitati non vi avrebbero il loro posto. Le tombe sono sulla terra ed là che avrà luogo la Risurrezione. Inoltre questi numerosi risuscitati rispondono alla tendenza del tutto orientale di sottolineare i valori positivi del Giudizio. Certo, l’affresco di Tatev ricorda anche dei modelli occidentali, da cui trae l’angelo che apre il libro della Vita. Un dato è certo: non c’è traccia né dei dannati né dell’Inferno. Nei manoscritti armeni e georgiani, la visione ottimistica del Giudizio è ancora più chiaramente espressa, e attraverso imma-
vede nell’ambito greco-slavo, ma che si ritrova in Siria, nella chiesa di S. Mosè l’Etiope: l’assenza della Deesis. Tale assenza può essere dovuta alla medesima causa nei due decori: la Deesis è già raffigurata nell’abside di fronte al Giudizio, e questo l’avrebbe fatta apparire due volte se fosse stata rappresentata anche in quest’ultima composizione. Cristo Giudice è dunque raffigurato solo, circondato da un’aureola bordata con diverse bande iridescenti, come precisa l’Apocalisse: «E il trono era circondato da un arcobaleno simile a uno smeraldo» (Ap 4,3). Egli è affiancato dagli apostoli in trono, di cui solo due, che hanno tra le mani dei libri aperti, si sono conservati. Secondo l’Apocalisse sono i libri della Vita che permetteranno di giudicare i morti (Ap 20,12): «E i morti furono giudicati in base alle loro azioni, secondo quanto è stato scritto nei libri». Più in basso, il fiume della Vita è seguito da 176
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Pagine precedenti: 190. Il f. 80v del Vangelo n. 10675 del Matenadaran è corredato dalla scritta «Giudizio universale» sopra la Deesis e i sarcofagi con i resuscitati.
192. Il Giudizio universale sulla parete occidentale della chiesa di S. Mosè l’Etiope, Mar Musa al-Habashi (Siria), xi-xii secolo.
191. Vangelo armeno n. 539, Giudizio universale nel quale la Deesis sta sopra la croce dell’Etimasia, e in basso si trovano Inferno e Paradiso (f. 109v), xiii secolo (Baltimora, Walters Art Museum).
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cosa raffigura? Una bellissima Deesis che copre i nove decimi del foglio, un angelo con la tromba, qualche testa angelica che emerge dall’enorme gloria del Salvatore e, sul bordo inferiore dello sfondo, in formato molto ridotto, tre sarcofagi con dei risorti e una moltitudine di candele accese, allusione alla liturgia. Il Giudizio annunciato dall’iscrizione è rappresentato dalla Deesis e dalla Risurrezione degli uomini, ossia dalle immagini a cui si attribuisce una maggiore importanza nei Giudizi in Oriente e che, raffigurate sole, suggeriscono una sorta di perdono generalizzato. Questa miniatura non è un caso isolato. Il Vangelo conservato un tempo a Tabriz e illustrato nel 1311, mostra, in un primo foglio, una Deesis e due angeli, nel secondo foglio, la Risurrezione dei morti dai loro sarcofagi. Dal punto di vista logico un terzo foglio avrebbe dovuto mostrare un Giudizio, ma non è quello che accade. Esso presenta invece una seconda immagine di intercessione, dal momento che vi si vede la Vergine intercedere presso Cristo in favore del donatore che è anche il pittore15.
gini uniche che non si trovano da nessun’altra parte. È il caso del Vangelo georgiano di Djroutchi ii (fine del xii sec.). Una prima miniatura (f. 64) rappresenta, a suo modo, la seconda Parusia: Cristo in gloria e gli angeli, di cui uno con la tromba, discendono dal cielo; essi si dirigono verso una fortezza – Gerusalemme – che è circondata da soldati, e verso le colline circostanti. La miniatura successiva (f. 66) è una sorta di sintesi del Giudizio (iscrizione). Essa mostra la Deesis, affiancata da due gruppi di angeli, il trono dell’Etimasia con gli strumenti della Passione custodito da due angeli, il Paradiso con le figure tradizionali ma senza Abramo, e a destra la Pesatura delle anime eseguita dall’arcangelo Gabriele e due piccoli demoni raffigurati come angeli neri. Infine, nell’angolo in basso a destra, si trova un gruppo di dannati spinti da un angelo verso uno stagno di fuoco11. Curiosamente, gli apostoli mancano. Un foglio isolato, che apparteneva al Vangelo armeno n. 19 (xii-xiv sec.) della collezione Savedjan conservata al Matenadaran12, riserva un piccolo posto ai rappresentanti del male, ma non alle punizioni. La Deesis con gli zodia alati occupa quasi la metà della pagina. È seguita dagli apostoli a mezzo busto che, invece di tenere libri e giudicare, sono in preghiera, unendosi in tal modo alla supplica degli intercessori. Un’altra particolarità: essi compaiono circondati da contorni bordati di perle come se si trattasse di icone. L’iscrizione conferma: «Gli apostoli giudicano». Più in basso, la Pesatura delle anime è una lotta tra due angeli e tre diavoletti zoomorfi, insolita nel mondo bizantino ma diffusa in Occidente. Una strana sintesi è stata messa in opera tra la seconda Parusia e il Giudizio nel f. 25v del Vangelo armeno n. 1327 della Public Library di Boston (1475). Per raggiungere l’obiettivo, la Deesis è stata sostituita da una croce gemmata che porta un medaglione con Cristo seduto all’intersezione dei bracci. Egli è circondato dal sole e dalla luna, da un angelo con la tromba, e da un altro che avvolge il cielo. Si tratta del Cristo trionfante della seconda Venuta. Nel secondo registro, ci troviamo di fronte al Giudice affiancato dagli apostoli, e nel terzo vi è la Pesatura delle anime, simile alla precedente13. Va notato che nessuno dei personaggi è seduto su un trono, ma per terra. Un’influenza islamica potrebbe evidenziarsi anche nella volta lobata che circonda la scena e negli abiti dei personaggi con larghi pantaloni a sbuffo. Nel Vangelo n. 212 del Matenadaran (1337), illustrato in Iraq dal pittore Avak, il Giudizio è rappresentato da due miniature che si susseguono. Nel f. 79v si vedono dei sarcofagi allineati con dei resuscitati, due angeli, due figure in piedi e un vescovo gettato nell’Inferno a testa in giù e circondato da due diavoletti. Il foglio successivo (80v) mostra la Deesis, gli apostoli seduti e due angeli che avvolgono il cielo14. Un’altra miniatura armena è particolarmente eloquente circa il rifiuto di punire. Occupa il f. 80 v. del Vangelo n. 10675 del Matenadaran ed è corredata dalla scritta «Giudizio universale». Che
Siria e Palestina. Un giudizio senza Giudice In Palestina non ci sono dei Giudizi universali, ma ci sono alcuni gruppi di episodi presi in prestito da questa immagine, che presenta peraltro lo svantaggio di costituire un vasto agglomerato di tempi e luoghi diversi dell’azione. Più che del Giudizio, si tratta, ancora una volta, della Risurrezione, del perdono e della beatitudine celeste delle anime pure. Nella chiesa del Profeta Geremia ad Abu Gosh, vicino a Gerusalemme, costruita nel 1140, i dipinti sono stati eseguiti probabilmente intorno al 1170. Le iscrizioni sono in latino, ma le firme degli artisti – Basilio ed Efrem – corrispondono a nomi greci. I vari esperti hanno attribuito di volta in volta questi dipinti ad artisti greci, latini e locali16. Personalmente credo si tratti di pittori locali o di Costantinopoli (a causa del loro stile classico), che avevano vissuto in Palestina (come emerge dall’iconografia). Questi lavorarono per dei committenti latini, senza dubbio dei crociati dell’ordine degli Ospedalieri, che occuparono la regione dal 1141 e la lasciarono nel 1187. Le tre absidi di questa chiesa sono occupate da nord a sud da un tipo semplice di Deesis, dalla Discesa agli Inferi, e da Abramo, Isacco e Giacobbe con le anime dei giusti in cielo. Nella Deesis con tre personaggi, si nota che il trono di Cristo ha la forma di una lira, un arcaismo che era scomparso a quell’epoca. La Discesa agli Inferi dell’abside centrale non è una scena evangelica, ma l’immagine simbolica della Risurrezione e della redenzione del genere umano. Essa si ispira al Vangelo, al libro di Giobbe (Gb 38,16-17), alle lettere di Paolo (Rm 6,5-11; Ef 4,7-12) e ai vangeli apocrifi, tra cui quello di Nicodemo17. Dopo aver vinto la morte risuscitando, Cristo discese agli Inferi, dove 180
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194. Particolare del Giudizio universale della chiesa di S. Mosè l’Etiope, Mar Musa al-Habashi (Siria), xi-xii secolo: Abramo, Giacobbe e Isacco con le anime dei giusti in grembo; accanto a loro, anche la Vergine porta delle anime. 195. Un altro dettaglio del Giudizio universale della chiesa di S. Mosè l’Etiope: monaci e monache attorniano la Vergine che pesa le anime.
Durante la liturgia del Sabato Santo il coro canta: «Voi siete disceso sulla terra per salvare Adamo e, non trovandolo, Signore, siete andato a cercarlo fino all’Inferno»20. La Discesa agli inferi ha un rapporto diretto con il Giudizio universale, perché sant’Efrem suggerisce che si tratta di una prefigurazione di ciò che accadrà alla fine dei tempi21. La Discesa agli inferi era un’immagine che fu raffigurata sovente nell’abside a Gerusalemme. I crociati, infatti, la apprezzavano molto, pur conferendogli un senso differente: essa avrebbe rappresentato ai loro occhi la riconquista cristiana delle città sante d’Oriente22. Si tratta di un’interpretazione totalmente fantasiosa, ma che ha la sua ragion d’essere. Essa si trova infatti nel modello utilizzato per l’elaborazione dello schema della Discesa agli Inferi, che mostra il trionfo imperiale con il vincitore che
gli uomini erano «prigionieri» prima del suo arrivo. Li libera e li risuscita, salva Adamo ed Eva e attraverso di loro tutta l’umanità. I profeti dell’Antico Testamento appartengono a tali schiere e si uniscono a san Giovanni Battista, ponte tra i due Testamenti. Quanto agli anonimi, essi sono raffigurati in primo piano, in piedi davanti ai rispettivi sarcofagi. Per raggiungere l’Inferno, Cristo ne ha rotto le porte con la croce dalla lunga asta, strumento della sua vittoria. A volte degli angeli incatenano l’Ade, che giace sotto le porte infernali, ma non è il caso di Abu Gosh. In modo più generale, la Discesa agli Inferi è l’immagine della Risurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte. Secondo Efrem il Siro, egli ha «strappato il ventre dell’Inferno con il suo scettro» (la croce astile)18 e «ha rotto le tombe, mostrandoci il modello del grande giorno» (quello del suo Ritorno)19.
193. Deesis di tipo semplice nella chiesa del profeta Geremia, Abu Gosh (Gerusalemme), xii secolo.
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196. Chiesa di S. Giovanni di Güllü Dere (Cappadocia), parte orientale della volta: gli apostoli in trono davanti al Giudizio universale, x secolo.
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197. Chiesa di S. Giovanni di Güllü Dere, parte orientale della volta: la croce annuncia la seconda Parusia, rappresentata dal Cristo che cammina a grandi passi.
tizioni. Il pittore aggiunge alcune allusioni alla società siriana del tempo. Ovviamente i rapporti con i musulmani non erano cordiali, e gli ebrei dovevano essere considerati come pericolosi concorrenti nel mondo degli affari. Le donne dovevano obbedire ai loro mariti e assolvere prima di tutto al loro ruolo di genitrici. Infine, le eresie dovevano essere sufficientemente diffuse perché alcuni vescovi vi aderissero e fossero per tale motivo condannati.
cammina sul nemico steso a terra e trae a sé le personificazioni inginocchiate delle città e delle province da lui liberate23. I tre patriarchi con le anime dei giusti della terza abside sono parte della rappresentazione del Paradiso nel Giudizio universale. Quelli di Abu Gosh non si distinguono più per particolari caratteristiche. I temi delle tre absidi sono collegati e rappresentano, in sintesi, una visione serena della fine dei tempi. Il Giudizio in sé non è presente, ma solo implicito; d’altronde esso non compare mai nelle absidi all’epoca dell’influenza bizantina. L’unico Giudizio universale siriaco è sia molto completo sia originale in numerosi dettagli. Occupa il muro occidentale di S. Mosè l’Etiope (Mar Musa al-Habashi) (1058-1192), vicino a Nebek, sulla strada tra Damasco e Homs24. Il primo registro mostra due figure in piedi, di cui resta solo la parte inferiore. Varie ipotesi sono state fatte – angeli senza ali, gli apostoli Pietro e Paolo – ma non si può confermarle25. Nel secondo registro, cinque apostoli sono seduti su entrambi i lati di un’Etimasia completa che include la croce che porta la corona di spine, gli altri strumenti della Passione, i chiodi della Crocifissione e due tessuti, il velo che protegge l’Eucaristia e la Sindone26. Al centro del terzo registro, Adamo ed Eva pregano rivolti verso il «trono preparato». A sinistra, il Paradiso è rappresentato dai tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe con le anime dei giusti in grembo. Curiosamente, la Vergine accanto a loro porta anch’ella delle piccole anime: si tratta di un hapax. A destra sono raggruppati vescovi eretici avvolti dalle fiamme dell’Inferno. Questo registro corrisponde esattamente al Vangelo di Luca (Lc 13,28-29), secondo il quale Cristo direbbe: «Là vi sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi sarete cacciati fuori». Il quarto registro è occupato, al centro, da un angelo con una tromba, a sinistra dagli eletti, tra cui i profeti e i re dell’Antico Testamento. Riconosciamo Davide, Salomone e Mosè. Essi sono seguiti da vescovi. A destra troviamo ebrei e musulmani immersi nelle fiamme. Il quinto registro mostra, sulla sinistra, la Pesatura delle anime e gli eletti nel cielo, fra cui alcuni monaci e monache,e a destra i dannati all’Inferno, taluni immersi nel buio e altri immersi nelle fiamme. Tra loro delle donne nude, morse da serpenti, sono bollate con le iscrizioni «disobbedienti» e «coloro che rifiutano di nutrire i loro figli». Vi è poi la personificazione dell’Inferno, più grande degli altri personaggi, con la pelle nera e la testa irsuta. Le iscrizioni sono greche, siriache e arabe. Questo Giudizio è eccezionale. Esso comprende due immagini uniche – la Vergine con le anime dei giusti e le due figure in piedi nel primo registro. La Deesis, immagine centrale, manca. Come è stato suggerito a proposito del Giudizio di Tatev, è probabile che l’immagine dell’abside di Mar Musa, oggi perduta, sia stata una Deesis e che si siano volute evitare ripe-
La Cappadocia Il Giudizio non è un tema frequente in Cappadocia, ma è quasi sempre caratterizzato da una certa originalità e associato in un modo particolarmente significativo ad altri soggetti. Come si può vedere nelle piccionaie di S. Giovanni a Güllü Dere (913-920), l’abside della cappella nord è occupato da una Deesis-Visione a cui partecipano i profeti Ezechiele e Isaia raffigurati nell’atto di ingoiare rispettivamente il rotolo e i carboni ardenti che sono offerti loro dai serafini. Dietro gli intercessori in preghiera, figurano, all’interno di medaglioni raggianti, le personificazioni del sole e della luna27. Sopra questa Deesis-Visione dell’abside, lo stesso soggetto è rappresentato una seconda volta secondo un modello diverso in pessime condizioni. Si riconosce un tetramorfo con le ali ocellate e un serafino (ne rimangono delle tracce), e due iscrizioni sui cartigli tenuti dagli intercessori. Questa seconda Deesis riguarda la decorazione della volta con gli eventi della fine dei tempi. Essa è affiancata, sui versanti adiacenti, per due volte da tre angeli che reggono dei filareti srotolati. Sopra di loro un’iscrizione cita l’Apocalisse: «Gli angeli presentano gli scritti degli uomini». Queste parole si ispirano all’Apocalisse: «Furono aperti dei libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della Vita. I morti furono giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere [...] E chi non era scritto nel libro della Vita fu gettato nello stagno di fuoco» (Ap 20,12-14)28. Il racconto continua sulla volta da est a ovest. Nella parte orientale della volta, la croce gemmata della seconda Venuta, circondata da un’aureola e portata da due angeli, è seguita da Cristo che avanza in cielo a grandi passi e che benedice, indicando con la mano un’iscrizione tratta dal racconto evangelico della seconda Parusia: «Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo, e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria» (Mt 24,30; Mc 13,26; Lc 21,27). L’Apocalisse (Ap 1,7) riprende in parte questo passaggio: «Ecco, egli viene sulle nuvole», e fa dire a Cristo che viene: «Io sono l’Alfa e l’Omega. Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8). Su entrambi i lati di queste figure che si inscrivono nell’asse orizzontale della volta, sui versanti, si trovano gli apostoli in trono pronti 184
a giudicare (Lc 13,28-30). Essi sono nominati e tengono dei libri con il nome della regione che hanno evangelizzato. La stessa immagine è ripetuta più lontano, forse per rappresentare la Pentecoste, come accade anche altrove in Cappadocia. Sul timpano occidentale (opposto a quello con la Deesis), era raffigurata la Risurrezione dei morti, oggi cancellata. Anche se gli episodi di Giudizio sono un po’ dispersi, l’insieme riesce comunque a mettere ben in evidenza i temi sui quali si insiste in Oriente. La seconda Parusia è annunciata da una croce in cielo, il Ritorno di Cristo ha luogo, gli apostoli si apprestano a giudicare, i morti risuscitano e gli intercessori formulano la loro preghiera. La Pesatura delle anime è sostituita da angeli che aprono i libri. Non si può dubitare del soggetto rappresentato. Tuttavia non vi è traccia dell’Inferno in questo Giudizio, non vi sono demoni, nessuna punizione, nessun eletto o dannato, né il castigo. Ne irradia solo la gloria della salvezza. Nel nartece di Yilanli Kilise a Ihlara (ix-xi sec.), si può fare una considerazione più approfondita dell’insieme degli avvenimenti che segnano la fine dei tempi. Anche se composto da pochissimi episodi, il Giudizio occupa la parete ovest e gran parte della volta adiacente29. Nella parte superiore del timpano di questo muro, Cristo, in posizione seduta ma senza trono, tiene un libro aperto con un’iscrizione frammentaria: «Pace a voi» (L 24,36). È circondato da una mandorla luminosa e da due angeli adoranti. Il resto del suo corteo è collocato nella
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198. Nartece della chiesa di Yilanli Kilise a Ihlara (Cappadocia): schema del programma iconografico del Giudizio universale alla presenza di quaranta martiri (secondo C. Jolivet-Lévy), ix-xi secolo.
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199. Particolare del mosaico della cupola del Battistero di Firenze: l’Inferno del Giudizio universale, xiii secolo.
che gioca con la bilancia. Questo è seguito da un’immagine sommaria dell’Inferno. Un demone nudo cavalca un mostro a tre teste le cui fauci divorano ciascuna un dannato. Dietro di lui dei peccatori a mezzo busto sono immersi in un lago di pece, lo stagno di fuoco dell’Apocalisse (Ap 20,15), e il Tartaro, ma alcuni sono scomparsi. Seguono le punizioni, sempre le medesime, inflitte preferibilmente alle donne. Le scene paradisiache che erano sui muri adiacenti hanno lasciato solo poche tracce, fra cui i tre patriarchi con le anime dei giusti nel loro grembo (parete sud). Si vede ancora, in diversi punti, il mare che rende i morti, rappresentato da quattro grandi pesci che sputano i corpi dei defunti, mentre la Terra è una figura femminile con piccole teste tra le sue braccia. Entrambi rendono i morti secondo il racconto dell’Apocalisse (Ap. 20,14). Alcune chiese cappadoci si caratterizzano per Giudizi laconici o appena accennati. Nella chiesa di Timios Stavros (ix sec.), Cristo è assiso sull’arcobaleno, circondato da una gloria con un bordo iridescente. Questa è sostenuta da due angeli, mentre altri due suonano la tromba. Gli apostoli in trono formano una fila continua, ma nel secondo registro37. Altri Giudizi frammentari sono rappresentati a Karxi Kilise e a Canavar Kilise. A Kokar Kilise non si tratta veramente di un Giudizio universale, anche se l’idea è suggerita. Al centro della volta appare l’Ascensione, seguita da un’immensa croce gemmata, con la mano di Dio all’incrocio dei bracci38. Questa annuncia la seconda Venuta e proietta verso quanto accadrà immediatamente dopo il Ritorno di Cristo: il Giudizio universale o ciò che lo sostituisce. In effetti il timpano occidentale mostra la Deesis, che non è al solito posto. Questa posizione anomala è giustificata dal fatto che essa è collegata alla croce della Parusia e in un certo senso la prolunga. Inoltre, su entrambi i lati, i versanti della volta mostrano gli apostoli in trono secondo il racconto di Luca (Lc 22,28-30). Certamente, queste immagini non corrispondono che a quelle che dominano il Giudizio secondo i canoni bizantini, ma esse sono anche le più valorizzate in Oriente.
volta adiacente: sono i Ventiquattro anziani dell’Apocalisse. La loro presenza corrisponde al versetto (Ap 4,4): «Attorno al trono vi erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano ventiquattro vegliardi, avvolti in candide vestiti con corone d’oro sul capo». Nel nostro affresco cappadoce, questi indossano dei paramenti sacerdotali, forse presi in prestito dai sacerdoti siriani, dato che sotto la casula è raffigurata la loro stola a due lembi. Essi erano sconosciuti a Bisanzio, ma molto spesso rappresentati in Occidente e in Oriente, soprattutto in Egitto, dove sono stati particolarmente venerati a partire dal vii secolo30. Erano rappresentati in trono a S. Simeone d’Assuan (ix-x sec.), i cui dipinti sono stati distrutti31, e hanno lo stesso atteggiamento nel monastero di S. Antonio (xiii sec.). Sono raffigurati anche nell’abside della chiesa di El-Moallaqa (x sec.), vestiti come sacerdoti, e sono inclusi nella cupola principale della chiesa del monastero di S. Paolo del deserto, ridipinto nel xviii secolo, dove hanno dei turiboli32, altro attributo sacerdotale. A Yilanli Kilise ciascuno porta un cartello con una lettera dell’alfabeto, secondo il commento di Andrea di Cesarea che li assimila alle ventiquattro lettere dell’alfabeto e al sapere in generale, sottolineando che i vegliardi «eccellevano nella conoscenza». Per i copti queste lettere avevano anche un potere magico. Il secondo registro della parete occidentale riporta i Quaranta martiri di Sebaste, o più precisamente una parte di essi. Le loro fila proseguono sui due lati della volta, appena sotto i Ventiquattro anziani. Ognuno porta la croce del martirio. Essi vengono ignorati in questo contesto a Bisanzio. Questo potrebbe derivare dal fatto che il culto dei Quaranta era nato in Cappadocia. In ogni caso, in Oriente il soggetto appare a volte all’interno o molto vicino al Giudizio. L’immagine dei Quaranta martiri è praticamente «incollata» a quella del Giudizio nella chiesa della Vergine di Akhtala (1227), e appare all’interno di questa composizione nella chiesa della Vergine a Vardzia (1184-1186), in Georgia33. Solo che, in questi affreschi, a essere raffigurato è il martirio dei Quaranta sul lago ghiacciato, a differenza di quanto avviene a Yilanli Kilise. Come già notato da Nicole Thierry, il legame creato a Yilanli Kilise tra il Giudizio e i Quaranta si spiega con il versetto dell’Apocalisse34 (Ap 6,9) in cui i Quaranta chiedono a Dio di non tardare a giudicarli. D’altra parte, Andrea di Cesarea precisa che questi hanno libero accesso a Dio prima della Risurrezione, e quindi prima del Giudizio, e che hanno dunque la possibilità di intercedere «aiutando coloro che li invocano»35. Nella leggenda siriaca dei Quaranta, che è leggermente diversa da quella greca, Cristo appare ai martiri dicendo loro che le loro sofferenze effimere saranno ricompensate con la beatitudine eterna36. Tutti questi fattori hanno senza dubbio contribuito a inserire i Quaranta nell’immagine del Giudizio nella chiesa cappadoce. Nel terzo registro di questa composizione appare la Pesatura delle anime con l’arcangelo Michele e un piccolo demone
Ottimismo e misericordia in Oriente Le decorazioni esaminate hanno mostrato notevoli differenze tra i Giudizi universali orientali e quelli sviluppati a Costantinopoli. Il loro messaggio e lo spirito che li anima è così evidente che è quasi inutile riprendere il tema. Nel Levante, il Giudice è rappresentato come misericordioso attraverso l’intermediazione della Deesis, che spesso è di grandi dimensioni. In Georgia e in Armenia una delle conseguenze di questo tratto caratteristico è il fatto che gli apostoli in trono non occupano il posto d’onore a cui hanno diritto a Bisanzio e nel Vangelo, e sono spesso trasferiti in secondo piano. Alla Risurrezione degli uomini è riservato un posto più importante che a Bisanzio. 186
L’Inferno è notevolmente ridotto o assente, i dannati mancano in molti casi. Tutto questo ci porta a interrogarci sulla concezione del peccato e della redenzione tra i Bizantini, e più in particolare tra i cristiani d’Oriente. Per capire meglio lo spirito che anima i Giudizi universali, faremo un breve excursus, tenendo conto delle rappresentazioni di questo soggetto e dei testi che ne determinano la forma in Occidente e a Bisanzio. Durante il Medioevo i teologi occidentali sono stati influenzati dalla visione pessimistica del peccato e della dannazione derivate da sant’Agostino, il quale sosteneva che il peccato originale condanna alla dannazione la maggioranza, senza che i meriti degli uni e degli altri siano presi in considerazione39. Egli faceva d’altronde riferimento all’Antico Testamento, parlando senza esitazioni di un Dio preoccupato di punire. Ne La città di Dio, Agostino si esprime chiaramente su questo punto: «Così è diviso il genere umano: in alcuni di loro appare la grazia misericordiosa, negli altri una giusta vendetta»40. Vincenzo de’ Paoli non disse nulla di diverso: «Credo che la metà del mondo, forse anche i tre quarti, saranno dannati per il peccato di accidia»41. Si tratta di un punto di vista. Ma se il motivo alla base della condanna quasi universale varia secondo gli autori, la dannazione in se
stessa rimane estremamente importante. Grignon de Mont fort arrivò ad affermare che il numero degli eletti era così piccolo che si trattava di una persona per provincia o per regno42. San Bonaventura commentò il Giudizio universale in modo quasi sadico, considerando che quando Dio condanna, opera secondo giustizia; quando destina alla salvezza, lo fa per grazia e misericordia, «perché tutti, appartenendo alla nassa di perdizione, dovremmo essere dannati»43. Molti testi descrivono in dettaglio le torture del Giudizio finale e la paura quasi folle che attraversa i cristiani44. I pittori seguono questi testi e queste paure, soprattutto a partire dal xiii secolo. Così il Giudizio del Battistero di Firenze (xiii sec.) si concentra sui vari tormenti dell’Inferno e Satana, che inghiotte un dannato, è una figura gigantesca45. Per moltiplicare le pene, gli iconografi consultarono non solo l’Apocalisse (Ap 19,20), ma anche gli apocrifi ebraici. Al Campo Santo di Pisa (xiv sec.), il Giudizio universale è rappresentato di fronte alla leggenda macabra dei tre morti e dei tre vivi, di cui è il seguito. L’Inferno occupa metà della composizione. Satana e i demoni che lo accompagnano sono brutti, deformi, mostruosi46. Infine, l’Inferno è talvolta rappresentato simbolicamente, come nel salterio di Enrico 187
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200. Un demone divora i dannati nel Salterio di Enrico di Blois, 1150 circa (Londra, British Library).
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Bisanzio non si parlava del «debito insolvibile verso Dio»49, come in Occidente, perché l’umanità non era ritenuta responsabile per il peccato di Adamo, ormai redento. Teodoreto di Cirro affermava che gli uomini hanno ereditato da Adamo l’essere mortali, non la colpa a causa del suo peccato50. Non si enfatizzava troppo neppure la gravità dei peccati minori, pretendendo che «l’accumulo di difetti minori potrebbe fare schermo alla misericordia divina»51. Il peccato fu considerato a Bisanzio come una sofferenza, una sorta di passione, da qui l’idea che il peccatore fosse più un malato da guarire che un colpevole da punire52. Assai precocemente Giovanni Crisostomo aveva già sostenuto che «il sacerdote è un medico, non un giudice»53. Né era il solo tra i teologi ortodossi a pensarla così54. Da qui l’assenza di qualsiasi tipo di dolorismo e di volontà espiatorie. Al contrario, nell’arte la raffigurazione della sofferenza doveva essere evitata, al pari della bruttezza. Secondo il grande teologo del xiv secolo Gregorio Palamas «non si dovrebbe né inginocchiarsi né piegarsi o inchinarsi, perché tutto questo provoca dolore e introduce il tumulto nell’anima in preghiera»55. Quanto all’Inferno, Palamas affermava che il fuoco dell’Inferno era destinato a Satana e non agli uomini. Laddove essi si trovassero lì, non è Dio che ve li ha precipitati, ma «la loro libera scelta che li ha fatti vivere con i demoni»56. Inizialmente, i teologi orientali facevano parte della famiglia ortodossa, e questo nonostante le loro dottrine deviate. Essi si sono reciprocamente influenzati con i Bizantini. Ma nel corso dei secoli si sono evoluti secondo la loro propria sensibilità religiosa, e di questa evoluzione sono testimonianza, tra gli altri esempi, proprio le immagini del Giudizio universale. Nel loro insieme, esse non esprimono delle minacce, come la maggior parte degli altri schemi iconografici della cristianità, ma piuttosto una speranza nella remissione dei peccati.
di Blois conservato alla British Library (1150 ca.), in cui una testa demoniaca inghiotte i peccatori47, cosa impensabile nell’area di influenza costantinopolitana. La sopravvalutazione del peccato in Occidente ha riempito le chiese di simboli e personificazioni del male. Queste figure zoomorfe attendono al varco il cristiano che visita la casa di Dio e lo tengono in un costante stato di paura. Questo rapido excursus si prefiggeva semplicemente di inquadrare le diverse concezioni del Giudizio universale l’una rispetto all’altra, al fine di mettere in rilievo quelle proprie dei popoli cristiani orientali, che hanno costituito la base delle loro immagini. Andando da ovest a est per osservare i commenti e le rappresentazioni del Tribunale ultimo, si nota una graduale e costante progressione dei valori ottimistici. Il pessimismo eccessivo dell’Occidente è la causa della moltiplicazione delle forze demoniache nelle immagini, così come dell’accentuazione del peccato attribuito agli uomini. Naturalmente, questo richiedeva poi l’espiazione. Non meritava alcuna clemenza ed è per questo che la Deesis non è stata inizialmente coinvolta. Si deve attendere il xiii secolo per prenderla in prestito da Bisanzio, ma solo occasionalmente, al punto che Jacques Le Goff, a proposito di queste rappresentazioni, ha potuto scrivere: «Prima, nulla o quasi evoca la remissione dei peccati»48. La composizione perfettamente simmetrica dei Greci e degli Slavi riflette la ricerca di un equilibrio tra eletti e dannati, tra la punizione e il perdono. Questa simmetria è ignorata o addirittura negata in Oriente, per attribuire invece un posto importante alla Deesis e alla Risurrezione degli uomini ed esprimere quindi, in questo modo, la clemenza divina. Queste diverse interpretazioni grafiche hanno la loro ragione d’essere. Secondo John Meyendorff, la Chiesa ortodossa è concepita più come una «unione libera dei figli di Dio» che come un’istituzione destinata a governare e giudicare. A
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Capitolo ottavo
I SANTI CAVALIERI TRIONFANTI
La lotta del Bene contro il Male ha occupato i pensieri degli uomini fin dai tempi della preistoria. L’Antichità ha consacrato a questa problematica riflessioni filosofiche, leggende e immagini. Per quanto riguarda le religioni e tutte le altre credenze in un mondo migliore, queste ne hanno fatto la loro priorità, la dottrina cristiana in primis, ma è stato solo molto più tardi che si è pensato, a Bisanzio come in Occidente, di tradurre i termini di questa lotta in immagini. I cristiani d’Oriente, quasi costantemente perseguitati e quindi in pericolo, lo hanno fatto per primi, chiedendo ai difensori del Bene di proteggerli. Questi difensori erano dei santi, generalmente martiri, efficacemente armati e a cavallo di forti destrieri: si tratta dei santi cavalieri. I pittori si ispirarono alle leggende redatte tra il iv e il vii secolo dai teologi, ma anche il folklore locale offrì loro parimenti il suo contributo. Questo può spiegare in parte una specie di anomalia: per cinque secoli e più le storie scritte a Costantinopoli non furono tradotte in linguaggio visivo come altrove, alla periferia orientale dell’Impero. I loro schemi iconografici erano inoltre diversi da quelli che si troveranno successivamente nei Balcani e in Russia. Infine, c’è la questione della loro quantità. In Oriente, queste immagini sono presenti in numerosissime chiese e ciascuno di questi edifici mostra tra due e dodici santi cavalieri, il che implica una loro maggiore diversificazione, mentre a Bisanzio non si va oltre le immagini di due o tre cavalieri, generalmente limitati a san Giorgio, Teodoro, e Demetrio o Procopio. In aggiunta a queste caratteristiche bisogna notare un’ultima particolarità: la dimensione. Spesso è davvero notevole, al punto da occupare quasi tutta la parete, come avviene nell’Alto Svaneti (Georgia). La missione di questi valorosi soldati, naturalmente, era quella di lottare contro il Male, prolungando in tal modo l’azione di Cristo, ma essi erano anche venerati come martiri, taumaturghi e intercessori. I santi cavalieri erano protettori dei poveri e dei deboli, e del popolo cristiano in generale. Grazie al modo in cui erano raffigurati nelle chiese, questi cavalieri ispiravano fiducia e sembravano molto più efficaci dei santi guerrieri rappresentati in posa ieratica: questo decretò il successo delle loro immagini in Oriente. Per i Bizantini, l’immagine aveva poteri reali, poteri che furono accresciuti ulteriormente dopo la crisi iconoclasta. Essa poteva muoversi, piangere, guarire, ferire un cuore malvagio e fare tutti i tipi di miracoli. I difensori delle icone avevano confermato a chiare lettere ciò a cui si credeva già prima della controversia iconoclasta, ossia che la rappresentazione riceveva delle «energie» da colui che rappresentava1. Il ruolo che il cavaliere incaricato di un’importante missione ha potuto svolgere nell’immaginario cristiano è già ben definito da Teodoreto di Cirro (393 ca.-466), il quale ha affermato che gli apostoli Giovanni e Filippo erano intervenuti nel corso di una battaglia combattuta da parte dell’imperatore Teodosio; questi erano vestiti di bianco e montavano dei cavalli dello stesso colore2. Da parte sua, Giovanni di Salonicco (prima metà 190
del vii sec.) descrive anche san Demetrio vestito di bianco e in sella a un cavallo bianco durante la sua battaglia contro gli Avari per salvare la città3. Gli autori di questi testi, che mettono in risalto i cavalli bianchi, sono certamente ispirati dall’Apocalisse di Giovanni: «Gli eserciti del cielo, lo [cioè Cristo] seguivano su cavalli bianchi» (Ap 19,14). L’arte di Persia ha influenzato diversi modelli iconografici del nostro soggetto: gli zoroastriani veneravano infatti i cavalli sacri che erano obbligatoriamente bianchi, e li designavano come cavalli del sole. Gli schemi più frequenti mostrano un santo cavaliere che trafigge un drago, simbolo del trionfo sul Male presente nel mondo. Non c’è da stupirsi della scelta, dato che il drago è stato fin dall’Antichità più remota il simbolo del Male, nelle più diverse mitologie. Nella zona influenzata dalla cultura asiatico-egiziana esso fu inizialmente una personificazione delle acque, a volte portatore di bene, altre di male, ma questa interpretazione non ebbe successo. L’Apocalisse, che lo chiama «drago a sette teste» (Ap 12,3) o «il grande drago, il serpente antico, chiamato diavolo e Satana» (Ap 12,7-9), potrebbe aver trasmesso il concetto ai teologi cristiani. Negli Atti apocrifi di san Tommaso (200-250), il drago è l’«animale sottomesso al nemico»4. Secondo Sozomeno (443 ca.-450), il vescovo Donato aveva ucciso un drago e lo stesso aveva fatto Ipazio, vescovo di Gangra (337-361)5. In generale, gli scritti apocrifi mostrano il diavolo sotto forma di un drago che tormenta gli uomini. Il serpente, che spesso sostituisce il drago nelle immagini, è una figura di Satana nella Genesi (Gn 3,1-2) e nell’Apocalisse, in cui l’arcangelo Michele e i suoi angeli lo combattano e «lo legano per mille anni» (Ap 20,1-3). Questi è cacciato anche dalle sfere celesti: «fu precipitato il grande drago, il serpente antico, chiamato diavolo e Satana» (Ap 12,7-9). In questo testo il diavolo, il drago e il serpente sono un tutt’uno. Anche in alcune immagini le forme del drago sono combinate con quelle di un serpente e anche con quelle di un uomo, in modo tale che non sempre è possibile attribuire un nome a questa figura. Anche l’Antico Testamento presenta il drago come un animale malefico. Si chiama Behemoth e Leviatano in Isaia (Is 27,1) e Ippopotamo simile a un drago nel Libro di Giobbe (Gb 40-41). Il drago-serpente era molto presente nelle antiche mitologie orientali, greca e romana. In Egitto, Horus uccide Tifone, mentre Seth, più tardi identificato con Satana, è il nemico di Osiride e Horus6. In Persia, è il serpente a essere considerato un animale malefico, ma serpente e drago sono intercambiabili, come nelle immagini bizantine. La Grecia attribuisce la vittoria sul serpente Pitone ad Apollo di Delfi7 e Perseo trionfa sul drago di Koch8, come Ercole sull’Idra di Lerna, il famoso serpente a sette teste. Questi miti sono stati recepiti dagli esegeti cristiani in modo diverso, ossia come la vittoria del cristianesimo sul paganesimo e del Bene sul Male. Così, la leggenda di un santo che uccide un drago appare dal iv secolo – il tempo delle grandi persecuzioni – nella vita di sant’Antonio scritta da sant’Atanasio9. 191
Pagina precedente: 201. San Giorgio trafigge il drago, chiesa dei Ss. Arcangeli, Lashtveri (Georgia), xiv-xv secolo.
203. Il frammento di grès egiziano raffigura Horus, abbigliato da soldato romano, nell’atto di trafiggere un coccodrillo con una lancia, iv secolo (Parigi, Musée du Louvre).
ripreso in seguito. Sotto il cavallo rampante, una figura distesa al suolo è purtroppo molto danneggiata, ma suggerisce che si tratti di un corpo animale. Un motivo di rosette compone la cornice di questo arazzo. Questa figura è stata definita come il «cavaliere partico» e come un possibile modello dei santi cavalieri, ipotesi che appare ingiustificata. Robert Forrer si è spinto oltre, immaginando un collegamento diretto tra la figura di Horus e il successivo san Giorgio12. Da parte sua Franz Cumont ha attirato l’attenzione su Mitra, raffigurato come cavaliere, e il cui culto era molto diffuso in Oriente. Ha inoltre fatto notare che il culto del cavallo era molto diffuso nella vita quotidiana di queste regioni13. Dobbiamo analizzare un’altra categoria di immagine molto diffusa nell’Antichità. Si tratta della Caccia reale. Questa fu rappresentata in Persia al tempo degli Achemenidi e poi dei Sassanidi14, in Mesopotamia, Egitto15, Grecia e Roma. Esiste un legame tra queste cacce e i santi cavalieri perché la caccia non era solo una distrazione dei principi, ma fu messa in atto anche per proteggere la popolazione dai danni che avrebbero potuto causare gli animali selvatici. In Egitto questo dovere di difesa spettava ad Horus a cavallo, perché Seth, che talvolta è associato alle belve, poteva fare del male16. Egli era anche chiamato a lottare contro la forza distruttiva delle acque17. La caccia reale iraniana penetrò in Grecia nel v secolo a.C.; essa fu rapidamente ellenizzata, investendola delle virtù che Aristotele insegnava ai sovrani nella sua Etica Nicomachea18. I Romani vedevano nella caccia le virtù della concordia, della pietas e della clementia19. Tale concezione fu condivisa dai Bizantini. Giovanni Cinnamo attribuiva il medesimo valore all’azione di guerra e a quella di caccia20. Eustazio di Tessalonica considerava la caccia imperiale come una forma di assicurazione per le future vittorie del sovrano21. Altri autori, come Niceta Coniate e Teodoro Prodromo, si espressero nella medesima direzione22. Tra il principe che caccia e il santo cavaliere vi è ancora un modello intermedio che è quello del sovrano che uccide un animale fantastico, mostro, serpente o drago. Così Cinnamo cita l’immagine dell’imperatore Manuele che uccide una bestia mostruosa, metà pantera e metà leone. Il tema potrebbe venire dalla Persia dove si trovano rappresentazioni simili. Una placchetta partica scolpita del British Museum mostra un cavaliere, con indosso un’armatura che copre tutto il suo corpo, mentre affronta con la lancia un leone dalla testa mostruosa, più grande del proprio cavallo23. A Costantinopoli, un dipinto del palazzo di Costantino i mostrava l’imperatore in atto di uccidere con la sua lancia un serpente che Eusebio chiama Licinio, il nemico del genere umano. Su una moneta del 326, l’imperatore bizantino schiaccia un serpente con il suo labarum, in cui è impresso il monogramma di Cristo, che assomiglia a una croce24. Questo dettaglio è importante perché i santi cavalieri, che sono posteriori a tale immagine, spesso portano lance crucifere, e non solo perché stanno combattendo in nome di
Gli antecedenti figurativi di epoca pagana
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I possibili modelli grafici sono particolarmente importanti quando si tratta dei santi cavalieri, poiché i testi non specificano, o molto raramente, che si tratta di guerrieri a cavallo. Per contro i cavalieri che combattono il male sono presenti nelle opere figurative pagane. Così, in Egitto, le rappresentazioni di Horus che uccide un possente animale sono numerose. Un frammento in grès del iv secolo, conservato al Museo del Louvre, è particolarmente suggestivo in questo senso. Esso rappresenta Horus dalla testa di falco, vestito da guerriero romano, così come lo saranno tutti i santi cavalieri che seguirono nel mondo bizantino. Egli monta un cavallo riccamente bardato e trafigge con la sua lancia un coccodrillo a terra10. Uno schema iconografico analogo e con un identico significato, che si trova in una scultura del Museo Copto del Cairo, è così prossimo ai futuri santi cavalieri che ha fatto proclamare ad Albert Gayet che si trattava di san Giorgio11! Non si tratta di un’opera unica. Un tessuto copto conservato al Louvre (iv sec.) raffigura un cavaliere la cui parte superiore del corpo è raffigurata frontalmente e la parte inferiore di profilo, una caratteristica costante dei santi cavalieri sia bizantini sia orientali. Con la destra compie il gesto del conquistatore romano e lascia fluttuare al vento il suo mantello, un altro luogo comune che sarà costantemente
202. Moneta di Costanzo ii, iv secolo: l’imperatore a cavallo calpesta un serpente.
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serpente-drago in epoca cristiana. Ma in Oriente vi fu un altro schema di santi cavalieri che sostituiva l’animale con un essere umano, di solito l’imperatore Diocleziano, persecutore dei cristiani. Questo schema potrebbe anche essersi rifatto a immagini pagane più antiche. Il sarcofago romano dell’imperatore Caracalla (iii sec.) alla Gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen (n. 786a) mostra un cavaliere che galoppa sui corpi delle sue vittime25. Infatti, quasi tutti gli schemi dei santi cavalieri sono
Cristo, ma anche perché in questo modo è espressa in maniera evidente la vittoria di Cristo e della religione cristiana sul paganesimo. Su una medaglia conservata a Parigi presso il Cabinet des médailles (Bibl. Nationale de France), è rappresentato un imperatore a cavallo che calpesta un serpente, facendo con la destra il segno della vittoria che fu adottato a Roma. Fin qui, i possibili modelli per i nostri cavalieri martiri mostrano un cavaliere che uccide un animale, che diviene poi il 193
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facilmente reperibili nelle opere ellenistiche, motivo per cui il famoso Cavaliere Trace del Museo Archeologico di Sofia (ii sec.) e le corrispondenti varianti26, su cui tanto si è insistito, non è un modello più convincente di altri. Nell’epoca paleocristiana, dei cavalieri appaiono anche nella sinagoga di Dura Europos27 e su dei sarcofagi28. Gli imperatori bizantini si fecero raffigurare in questo modo, prima del vii secolo, sia nelle statue equestri monumentali29 sia sulle monete, in immagini che celebravano le loro vittorie. Su questi oggetti l’imperatore a cavallo a volte trafigge con la lancia un nemico sconfitto e accovacciato davanti al suo cavallo, come su una moneta che raffigura Costantino i30, a volte calpesta ai propri piedi un serpente, modello utilizzato su una moneta di Costanzo ii31. Tutte queste immagini furono senza dubbio utili per sviluppare i modelli dei santi cavalieri, al pari di quelle più antiche di cui si è trattato sopra. L’abbigliamento di questi combattenti è generalmente quello dei soldati romani e comprende: un’armatura per proteggere il petto e un gonnellino detto di protezione, una cintura e una clamide, fissata su un lato da una fibula e lasciata fluttuare dietro la schiena dei cavalieri. Le calzature sono sostituite dagli stivali rossi utilizzati in Persia. In Egitto questo costume consiste a volte in un’armatura che arriva fino alle caviglie del cavaliere, comune nelle sculture sassanidi ma sconosciuta a Bisanzio. I cavalieri orientali sono armati con la sola lancia, tranne Teodoro che porta anche una spada attaccata alla cintura, elemento questo non presente nell’area costantinopolitana. L’arco e lo scudo delle immagini bizantine sono rari. Il tipo facciale dei santi cavalieri non fu stabilito prima del ix-xi secolo, e anche allora si trattò solo di san Giorgio (volto giovane, biondo, capelli ricci), Teodoro (testa d’uomo maturo, bruno e barbuto) e Demetrio, somigliante a Giorgio. Infine, secondo una regola divenuta fissa, Giorgio cavalca obbligatoriamente un cavallo bianco.
che gli consacrò Gregorio di Nissa alla fine del iv secolo33. Questi gli attribuì la funzione di guardiano dei demoni in lotta per proteggere i cristiani, ma anche quella, ben più originale, di combattente contro la ferocia della natura per far fiorire la civiltà. Come tutti i santi, Teodoro fu anche un potente intercessore. L’omelia di Gregorio racconta anche che il santo diede fuoco al tempio di Cibele e che, dopo lunghe torture, fu bruciato vivo in Amasya34. Questo testo non riporta l’episodio di Teodoro che uccide il drago, risalente al 754 circa356. Tale episodio è menzionato anche in un manoscritto della Bibl. Nationale di Parigi, il Gr. 1470 datato all’890, che parla di un drago che affliggeva la città di Eucaita36. Lo sdoppiamento di Teodoro in due personaggi, Teodoro Tirone (il coscritto) e Teodoro Stratilate (il generale), risale al ix secolo, e Niceta Paflagone († 880 ca.) attribuisce ai due combattenti un legame di parentela37. In realtà il secondo Teodoro è stato probabilmente messo in scena a causa della molteplicità delle leggende, feste e santuari dedicati al primo. Un’altra versione racconta che Licinio, persecutore dei cristiani, aveva sentito parlare delle gesta dello Stratilate e aveva voluto conoscerlo. Nel frattempo Teodoro provocò il drago e lo uccise. Nonostante gli avvertimenti della pia Eusebia, si presentò a Licinio, si rifiutò di sacrificare agli idoli e fu martirizzato. Nel Menologio del Metafraste, Eucaita è infestata da rettili ed Eusebia è una matrona romana. Fu lei che seppellì Teodoro dopo la sua morte, gesto che la fece proclamare santa38. Diversi autori collocano la nascita di san Giorgio a Lidda (Diaspolis), sulla strada per Gerusalemme39, ma altri come Simeone il Metafraste evocano la Cappadocia40 o l’Armenia, in particolare Sebastopoli. I primi frammenti conservati della sua leggenda, il Palinsesto di Vienna, risalgono al v secolo. Questo racconto è facilmente riassumibile. Il leggendario re di Persia Daciano minacciava i cristiani di persecuzioni allorché Giorgio di Cappadocia giunse a corte. Egli distribuì i suoi beni ai poveri e si convertì al cristianesimo. Invitato dal re a sacrificare agli idoli, si rifiutò e fu martirizzato41. Questa leggenda fu tradotta in latino nel v secolo e si diffuse rapidamente in Siria e in Egitto42. Nelle varianti apparse dalla fine del v secolo, il mitico re Daciano è sostituito da un imperatore romano reale e ben noto per la sua persecuzione dei cristiani: Diocleziano. Si intravede qui un tentativo di fornire alla leggenda una base storica. È noto che i pittori orientali fecero di Diocleziano l’emblema del male e lo raffigurarono regolarmente come il nemico sconfitto dall’uno o dall’altro dei santi cavalieri. Le traduzioni georgiane di questa variante si collocano tra il ix e il xii secolo43. Una leggenda più ampia riguardante san Giorgio è conservata nel codice Vat. 1660 (ff. 272-288), e afferma che l’imperatore Diocleziano, che intendeva porre fine alla religione cristiana, convocò tutti i magistrati e i governatori, tra cui Giorgio di Cappadocia, che era tribuno nell’esercito imperia-
Le principali leggende, fonti dei pittori Le leggende dei santi cavalieri sono posteriori alle loro immagini, ad eccezione di quella di san Teodoro. Tuttavia, il culto dei martiri era celebrato nei martyria già dal iv secolo. Esso deve aver incoraggiato i cristiani a porsi delle domande sulla vita dei martiri che adoravano, determinando così infine la redazione di adeguati racconti. I santi più frequentemente raffigurati sono Giorgio, Teodoro e Mercurio. Esistono diverse leggende per ciascuno di essi, ma non ne citeremo che alcune, limitandoci inoltre ai passaggi più significativi poiché si tratta di testi noti. Due racconti concordano sulla nascita di Teodoro a Eucaita, in Asia Minore, da dove il culto si diffuse in tutto l’Oriente nel v secolo32. Il testo più antico a lui dedicato è il panegirico 194
sognò la Vergine circondata da schiere celesti. Questa diede l’ordine a Mercurio di uccidere Giuliano che aveva peccato contro Cristo. Il santo subito scomparve. Quando si svegliò, Basilio si recò nella chiesa dove era stato sepolto Mercurio e deposte le sue braccia. Queste erano scomparse (per eseguire l’ordine). Basilio ne informò il popolo e ringraziò Dio54.
le. Appena arrivato, questi distribuì i propri beni, confessò la propria fede in Cristo, rifiutò di sacrificare agli dei pagani e fu martirizzato, ma un angelo lo guarì dalle sue ferite. Seguirono diverse conversioni, tra cui quella di Alessandra, la moglie del sovrano. Giorgio fu nuovamente martirizzato e morì. Il panegirico di Andrea di Creta si basò su questa leggenda. Il codice della Bibl. Nationale de France 1534 la riprende, introducendovi la madre di Giorgio, Policronia, che rianima suo figlio prima che egli muoia44. San Mercurio è per lo più rappresentato in Egitto e la sua leggenda richiede l’immagine di un cavaliere che uccide un uomo. Stéphane Binon ha studiato la lenta elaborazione di questo racconto leggendario di Mercurio45, di cui noi ricordiamo solo l’episodio dell’esecuzione di Giuliano l’Apostata da parte del santo, in relazione diretta con le immagini. Il racconto ha le sue radici in un episodio della guerra persiana condotta dall’imperatore romano Giuliano (360-363). Durante una battaglia, questi fu ucciso da un giavellotto che gli lacerò il fegato, senza che si sapesse da chi era stato lanciato. Nessuno rivendicò la ricompensa promessa dal nemico. Questo strano fatto fece elaborare diverse ipotesi circa l’identità dell’assassino. Gregorio Nazianzeno (iv sec.) pensa sia che l’imperatore cercò lui stesso la morte46 sia che si trattò della vendetta di un soldato scontento47; in ogni caso conclude che fu Dio a mandare Giuliano in Persia e la sua anima all’Inferno. Giovanni Crisostomo immagina un soldato esasperato dalle continue sofferenze48, infine Libanio cerca di dimostrare che l’assassino era un cristiano49. A questo misterioso omicidio si somma il racconto di Fausto di Bisanzio in merito alla morte dell’imperatore Valente, che appare nella Vita greca di Basilio (inizio del v sec.), conservata in traduzione armena. Si tratta del sogno di un sofista nel quale santa Tecla ordina ai santi Sergio e Teodoro di uccidere Valente. In un secondo sogno questo ordine viene eseguito, e ad esso fa seguito la morte reale di Valente, «nemico della verità»50. La Storia ecclesiastica di Sozomeno (439-450) si basa su tale testo, prestando lo stesso sogno a un familiare di Giuliano l’Apostata51. Sorsero altre varianti di questa storia, come la cronaca di Giovanni Malala (vi sec.), in cui è Cristo stesso a ordinare tale atto a Mercurio. La Cronaca Pasquale di Giovanni Nicou (viiviii sec.) riprese tale storia52. Nell’viii secolo, la leggenda fu leggermente cambiata. Nel racconto viene introdotta un’immagine, probabilmente legata alle polemiche sorte durante la crisi iconoclasta. Secondo Giovanni Damasceno, Basilio Magno era davanti a un’icona della Vergine in cui era rappresentato anche Mercurio. Egli pregò la Theotokos di far morire Giuliano. Immediatamente Mercurio scomparve dall’immagine e riapparve con una lancia insanguinata53. Il ruolo della Vergine è accentuato ulteriormente nella Vita di Basilio di Cesarea, opera di Anfilochio, vescovo di Iconio. Questi racconta che quando Basilio si trovava sul monte Didimo con i suoi monaci per sfuggire alle minacce di Giuliano,
La rappresentazione dei santi cavalieri trionfanti in Oriente Le prime immagini dei santi cavalieri che cercano di distruggere un simbolo del Male sono del vi-vii secolo e sono state tutte eseguite in Oriente, prima della redazione delle rispettive leggende greche. Un oggetto d’origine egiziana ci fa supporre che tale precocità fosse legata al culto dei martiri, in piena espansione nel iv secolo. L’oggetto in questione è un pettine liturgico in avorio del Museo Copto del Cairo (vii sec.). Un cavaliere, grossolanamente intagliato, riceve una corona di alloro portata da due angeli55. Il santo è rappresentato in preghiera, atteggiamento che, a priori, non è adatto a un personaggio che combatte, anche se la preghiera può aiutare a sconfiggere le incarnazioni del Male. La corona che circonda il personaggio indica che si tratta di un martire e di un intercessore. Questo schema iconografico è sostanzialmente sconosciuto nella parte occidentale del mondo bizantino. Tuttavia è abbastanza comune in Egitto fin dai primi secoli. San Mena a cavallo, incoronato da due angeli, è anch’esso raffigurato in preghiera su un avorio copto, incorporato nella famosa sedia d’avorio di Aquisgrana (vi sec.). Una rappresentazione analoga del santo decora un’ampolla56. In un affresco del monastero di S. Apollo a Bawit, oggi conservato al Museo Copto del Cairo, tre patriarchi seduti su una panca sono affiancati da due santi cavalieri in preghiera57. Questi, datati dal vi al viii secolo, sono conservati anche in altre cappelle di Bawit, in particolare nella cappella lvi, dove quattro cavalieri che combattono convergono verso una figura centrale: la Santa Madre Ascla. I santi sono nominati da iscrizioni in greco: a sinistra si trova san Horon e Apa Sabine, che corrisponde al san Savino del Sinassario di Costantinopoli e fu martirizzato sotto Diocleziano a Ermopoli58; a destra vanno loro incontro sant’Avonas e Apa Ascla, probabilmente il figlio della figura centrale. Questo schema si ripete nella cappella xxvi, ma il personaggio principale qui è un piccolo orante e due cavalieri portano una patena e una lunga asta crucifera59. Naturalmente, in questa scena i cavalieri sono associati alla liturgia e in particolare all’Eucaristia. È possibile osservare un caso molto particolare nella cappella xvii a Bawit. Quattro santi cavalieri, tra cui Vittore, sono rappresentati nei pennacchi della cupola. Portano la corona degli eletti, abiti sciiti, l’asta crucifera, e sono seguiti ciascuno da un angelo che vola60. I cavalli marciano al passo. Non 195
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204. I patriarchi Apollo, Fib e Anub affiancati da due santi cavalieri, affresco dal monastero di S. Apollo, Bawit (Egitto), vi-viii secolo (Il Cairo Vecchio, Museo Copto).
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205. San Sisinnio, che indossa un costume partico con mantello, trapassa con la lancia il demone Alabasdria, cappella n. xvii del monastero di Bawit (Egitto), vi secolo.
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un coccodrillo, una donna alata a torso nudo e dalla coda di rettile che l’iscrizione indica come la figlia di Alabasdria, un ibis, due serpenti e un ippocentauro, simbolo del diavolo che sant’Antonio aveva incontrato nel deserto. Sono raffigurate anche alcune armi: un pugnale e due asce. Un apocrifo etiope conserva la leggenda perduta, e molto particolare, di san Sisinnio. Alabasdria è chiamata Ouërzëliâ. È la sorella della moglie del santo a cui ha ucciso il figlio. Dopo aver ucciso Alabasdria, Sisinnio indirizza una preghiera di ringraziamento a Dio63. Questa immagine è ancora troppo profondamente radicata nella mitologia pagana per corrispondere al tipo cristiano del santo che uccide una personificazione del Male. Tuttavia ne è prossima nello spirito. Nel Medioevo i santi cavalieri egiziani divennero più combattivi, impegnati a eliminare i nemici del cristianesimo ma anche vari personaggi sconosciuti o rari altrove, come Nabucodonosor o Giuliano l’Apostata. Essi sono spesso accompagnati da rappresentazioni che si riferiscono a leggende locali. Queste
ci sono nemici in vista. Si tratta di proteggere l’edificio e l’assemblea ivi radunata. Sulla parete ovest della stessa cappella, san Fibammone cavalca un cavallo bianco e indossa il diadema; tiene nella sinistra la corona del martirio sormontata da un ornamento, e nella destra una lunga lancia che termina con una croce. Un angelo avanza da sinistra, portando uno scettro e la corona del martirio che tende al santo. Il fondo è cosparso di loto, stilizzato alla maniera della antica pittura egizia61. Alcuni di questi dipinti del vi secolo riflettono ancora le credenze e tradizioni pagane che persistettero parallelamente al cristianesimo. L’influenza iraniana è molto evidente. È il caso di san Sisinnio di fronte a Fibammone, che compone con questi lo schema dei cavalieri che si affrontano. Sisinnio monta un cavallo marrone e porta il costume frigio, lancia e scudo62. Egli trafigge il demone Alabasdria, allungata ai piedi del cavallo e la cui parte superiore del corpo è nuda. Sono circondati da una serie di piccoli simboli presi in prestito dal mito di Horus: una iena, una civetta, 198
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Nel monastero di S. Antonio (1232-1233), tra il santuario e la navata sono stati rappresentati ben undici santi a cavallo, se consideriamo anche i pochi posti lasciati vuoti dai dipinti che sono scomparsi. La differenza rispetto ai modelli bizantini (due o tre) è notevole. Lo stile è arabo-copto. Con i loro occhi a mandorla, la pelle scura e le barbette brune tagliate a punta, anche i cavalieri più popolari non sono riconoscibili senza il supporto delle iscrizioni. Il loro costume è altrettanto particolare. L’armatura è estremamente schematica, il gonnellino non è a pieghe ma attillato alle cosce e la maggior parte di loro indossa dei berretti che aderiscono alla forma del cranio. La loro arma è la lancia, raramente accompagnata dallo scudo, e in un solo caso l’arco. Questi guerrieri sono per lo più presentati a coppie e si affrontano, secondo lo schema persiano o greco-romano. Uccidono vari nemici, designati dalle iscrizioni, che sono a volte nemici di origine locale. San Giorgio figura due volte in questa chiesa. Appare di fronte a un cavaliere anonimo che trafigge con la sua lancia l’occhio di un piccolo personaggio col turbante colto nell’atto di sguainare la spada dal fodero. L’iscrizione lo indica come un «centurione». È rappresentato sotto il ventre del cavallo e si vede anche una chiesa e un gruppo di personaggi che indicano il santo. Di fronte all’anonimo, sulla sinistra dell’immagine, Giorgio è biondo, occhi azzurri e pelle chiara, caratteristica eccezionale per questo decoro. Egli monta un cavallo bianco. Il santo punta la sua lancia verso la testa di un piccolo personaggio che porta un sacco sulla schiena e un candeliere in una mano. Accanto a lui si trova una piccola chiesa. Si tratta del mago che rubò oggetti sacri nel martyrium del santo secondo la leggenda copta69. Il secondo san Giorgio ha la pelle scura come tutti gli altri personaggi di questa raffigurazione, ma monta un cavallo bianco secondo la tradizione costantinopolitana. Il suo scudo è contrassegnato da una croce circondata da una scritta cufica che indica il nome di Allah. Il pittore prese evidentemente in prestito questo dettaglio da un’opera islamica senza comprenderne il significato. Sui tre lati del campo centrale si sovrappongono, come sul pannello di un dittico, piccoli quadri che illustrano la vita e la morte del martire (a destra), e altre tre scene tratte dalla storia di Nabucodonosor (a sinistra) ma che riguardano un’immagine vicina: i giovani ebrei nella fornace ardente. Sotto la pancia del cavallo, il soldato Ezio dà fuoco a una chiesa dedicata al santo, mentre quest’ultimo dirige la sua lancia contro il viso del colpevole70. Questa composizione testimonia dell’indipendenza dei copti in materia d’iconografia e della loro debordante immaginazione. Le stesse qualità distinguono l’immagine di san Mercurio a cavallo, al quale un angelo porge una spada per uccidere Giuliano l’Apostata71. Questo è raffigurato sotto il cavallo nell’atto di difendersi con una spada grande quanto lui, mentre il suo cavallo fugge. Il santo è sul punto di trafiggere
immagini non sono solo numerose, esse includono anche un gran numero di santi diversi, consuetudine che non si ritrova a Bisanzio. Si tratta, tra gli altri, di Mercurio, Tolomeo, Niceta, Mena, Basilide, Giusto, Apoli, Sisinnio, Fibammone, Silvano, Petre, a cui si aggiungono ovviamente Giorgio, Teodoro, Demetrio, Procopio. Nell’Haikal di Beniamino, nel Wadi el-Natrun, vicino al deserto libico (830 ca.), si è conservata un’immagine di due cavalieri che si affrontano ma non sono simmetrici nelle rispettive posture. A sinistra, san Claudio monta un cavallo singolare completamente ricoperto di ornamenti e porta il diadema e la lancia crucifera, la cui posizione indica un nemico a terra, ma questa parte di affresco è andata perduta. A destra, Mena, a cavallo, è in preghiera. Una croce li separa. Sopra la croce due mani divine tendono corone ai due santi da un angolo del cielo64. Mena il Taumaturgo è particolarmente popolare in Egitto. È menzionato per la prima volta a Costantinopoli da Romano il Melode (vi sec.). La versione egiziana della sua leggenda s’ispira all’omelia di Basilio su Gorios e a tradizioni locali. Inviato in Frigia da Diocleziano, il santo è sottoposto a varie prove, dichiara la propria fede e muore decapitato. È sepolto sul posto perché nessun cammello può trasportare le sue reliquie, tanto sono pesanti; ma precedentemente uno scultore aveva inciso l’immagine del santo su una tavola di legno affiancandogli due cammelli65. Non è raffigurata alcuna battaglia nemmeno nelle quattro cappelle del monastero di S. Macario (Deir Abu Makar), nel Qasr. In quella dedicata a san Michele, la pittura che ci interessa copre quasi l’intera parete sud e si estende su circa sei metri di altezza. Si vedono quattro santi cavalieri che si affrontano, più un quinto, più piccolo, al centro. Si tratta di Eusebio, suo padre Basilide, Giusto, Apoli e Macario, figlio di Basilide66. Al di sopra di Macario (al centro) vi è un ornamento in una cornice rettangolare, preso in prestito dai manoscritti etiopici. I santi montano cavalli rossi, bianchi, rosa, colori brillanti che spiccano su uno sfondo giallo e rosso. Di fronte a loro, sulla parete occidentale, si trova la moglie di Giusto, Teoclia, che è anche la madre di Apoli. Secondo le iscrizioni che la accompagnano, questa cavalcata riccamente colorata riunisce due famiglie imparentate tra loro. Svariati santi risalenti al xii secolo si trovano nella chiesa aggiunta a nord del monastero dei Martiri (Deir el-Chohada), nel deserto di Esna, dove abbiamo esaminato in precedenza le Teofanie-Visioni nelle absidi. Tra i cavalieri meglio conservati figura san Claudio in atto di trafiggere con la lancia una figura seduta che alza le braccia verso di lui in un gesto di supplica. Indossa un diadema, l’abbigliamento abituale e gli inevitabili stivali rossi. La mano divina, che emerge da un segmento del cielo stellato, gli porge due torque (collane) come ricompensa67. Tra gli altri santi cavalieri rappresentati nel monastero si trovano anche Teodoro Stratilate68, nativo di Esna secondo la leggenda copta. 199
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207. San Teodoro Stratilate, monastero di S. Antonio (Egitto), xiii secolo.
Trionfo (scolpito) di Shapur i a Bishapur (iii sec.), dove due uomini senza vita sono stesi sotto i due cavalli affrontati. Sulla facciata ovest della chiesa di Martvili (v-vii sec.), un santo cavaliere anonimo monta un cavallo imbizzarrito e pianta la sua lancia nel corpo di un drago74. Un po’ più lontano, due cavalieri affrontati trafiggono contemporaneamente due draghi con i corpi intrecciati75. Non ci sono iscrizioni ma, date le raffigurazioni successive, è ragionevole affermare che si tratti di Giorgio e Teodoro. A ciascun lato dei cavalieri un piccolo angelo offre la testimonianza che tale evento si verifica per volontà divina. Nel Medioevo i santi a cavallo e vittoriosi si moltiplicano in Georgia e appaiono sia nelle sculture delle facciate che nelle pitture murali, dove a volte raggiungono proporzioni gigantesche. Essi sono rappresentati anche su una serie di icone in metallo lavorate a sbalzo76. San Giorgio era considerato il protettore della Georgia, il patrono dell’esercito, e l’intercessore dei Georgiani presso Cristo. Secondo la leggenda, era titolare di 365 chiese, una per ogni giorno dell’anno77. È soprattutto a partire dall’xi-xii secolo che le immagini di santi cavalieri si moltiplicano nell’arte georgiana, probabilmente grazie alle traduzioni delle loro leggende che vennero realizzate nello stesso periodo78. In quell’epoca, la lotta per l’unità nazionale si intensificò. Nel frattempo i Georgiani dovettero affrontare le ripetute incursioni dei Turchi Selgiuchidi venuti dall’Asia centrale, il che richiedeva determinazione e coraggio. Questi attacchi diminuirono con le prime crociate. Fu l’epoca della fioritura dell’arte georgiana e del consolidamento dello Stato grazie a Davide il Costruttore (1089-1125), sovrano illuminato che incoraggiò le arti e le lettere. Tutte queste circostanze favorirono la rappresentazione di santi particolarmente valorosi e vittoriosi, così come erano percepiti i santi cavalieri, in particolare Giorgio e Teodoro. Dal vi secolo le iscrizioni sono in georgiano, con qualche eccezione. Tuttavia, i cavalieri sono raramente nominati perché facilmente riconoscibili grazie ai loro lineamenti e al rispettivo nemico loro associato. La principale novità è la loro associazione con altri soggetti. Una rappresentazione imponente e di grande formato di Giorgio e Teodoro a cavallo figura su entrambi i lati di una Trasfigurazione sulla facciata orientale della chiesa di Nikortsminda (xi sec.)79. Non possiamo individuare un legame specifico tra i due soggetti, tuttavia essi sono collegati e la Trasfigurazione – trionfo celeste di Cristo e rivelazione della sua natura celeste agli apostoli – allude senza dubbio alla rivelazione divina che i santi cavalieri ricevettero nel momento del martirio. Essi devono inoltre essere considerati come i guardiani della luce teofanica, cui san Girolamo associa la Trasfigurazione. I pesanti e statici cavalli con la coda annodata e con la bardatura intarsiata di gemme ricordano la scultura iraniana. La lancia di Giorgio passa dietro
con la sua lancia il nemico del cristianesimo. Vediamo, ancora in formato ridotto, a destra due vescovi, Basilio e Gregorio di Cesarea, e più in basso un uomo con il turbante – il nonno di Mercurio – attaccato da due uomini con una testa di cane, Ronfos e Sorkane, che lo uccisero secondo la leggenda72. I santi cavalieri trionfanti appaiono anche, a partire dal vivii secolo, in Georgia. San Giorgio a cavallo atterra l’imperatore Diocleziano, mentre il drago viene sconfitto da san Teodoro. Questi veri e propri atleti di Cristo sono mostrati il più delle volte affrontati, in composizioni ieratiche. Questo è ciò che vediamo sulla seconda stele di Tsebelda (vi-viii sec.), che comprende diversi soggetti distribuiti in uno spazio diviso in quadri, con la Vergine e il Bambino al centro. La parte superiore è occupata da due cavalieri che si affrontano. Essi non sono armati, ma i loro cavalli calpestano una forma indistinta, senza dubbio un nemico caduto a terra73. Questa formula detta de «i nemici vinti» è nota nell’Antichità, ma nelle opere greco-romane i vinti si trovano piuttosto di fronte ai cavalli che non sotto di questi; il che non accade però in Persia, come si osserva nel
206. San Claudio trafigge con la lancia una figura assisa, monastero dei Martiri (Egitto), xii secolo (disegno di P. Laferrière).
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il Vangelo, che dovrebbe, si suppone, tenere con l’altra mano. Questi particolari creano una distanza tra Cristo e i cavalieri: quel che si vuole significare, probabilmente, è che Cristo non è realmente presente al momento del combattimento, ma che è comunque in suo nome che questo ha luogo. I due rilievi di Nikortsminda sono modelli unici. Dipinti originali sono conservati anche nelle chiese dei villaggi incastonati nelle alte valli del Caucaso e non collegati da strade al resto del mondo, in passato come nel presente. In questa zona, le chiese a una navata e con i tetti a schiena d’asino sono piccole, e i santi cavalieri ricoprono spesso un’ampia porzione di una parete. Il visitatore, ignaro, che entra in questi edifici per la prima volta ha una sorta di choc nel vederseli di fronte. Questo effetto è stato probabilmente ricercato per dare l’impressione all’assemblea dei fedeli, che non poteva con-
il cavallo e tocca Diocleziano in volto, mentre questi, steso a terra, cerca di respingerla con la mano. Giorgio ha un viso giovane e imberbe, Teodoro, che uccide un serpente, è invece raffigurato come un uomo maturo con la barba lunga. Un secondo schema del nostro soggetto figura sulla lunetta del portale della facciata occidentale di questa chiesa. Giorgio sconfigge Diocleziano e Teodoro infila la lancia nelle fauci del drago. Al posto degli abiti bizantini, Teodoro indossa un lungo cotta di maglia e Giorgio un mantello che gli copre le ginocchia. Le code dei cavalli sono legate alla maniera iraniana, come accade quasi regolarmente in Georgia. Tutti questi elementi sono già di per sé particolari, ma ve ne è un terzo che rende questo schema un hapax. Tra i due cavalieri si erge Cristo, in formato ridotto80. Egli è completamente avvolto da un drappeggio che lascia vedere solo una mano benedicente e 201
208. S. Giorgio dai capelli biondi e gli occhi chiari monta un cavallo bianco di fronte a un cavaliere anonimo, chiesa del monastero di S. Antonio (disegno di P. Laferrière).
210. San Mercurio a cavallo, al quale un angelo porge una spada per uccidere Giuliano l’Apostata, chiesa del monastero di S. Antonio (disegno di P. Laferrière).
209. S. Giorgio dalla pelle scura su un cavallo bianco, chiesa del monastero di S. Antonio (disegno di P. Laferrière).
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211. Santi cavalieri Giorgio e Teodoro con Cristo, lunetta scolpita del portale occidentale della chiesa di Nikortsminda, Ambrolauri, Raca (Georgia), xi secolo.
214. Facciata orientale della chiesa di Nikortsminda, i santi Giorgio e Teodoro sono raffigurati ai lati di una Trasfigurazione.
212. Chiesa di S. Giorgio a Nakipari (Georgia), schema dei due cavalieri affrontati, xii secolo.
213. Chiesa dei Ss. Arcangeli a Iprari (Georgia), xi secolo: il disegno mostra i santi cavalieri affrontati, separati dall’arcangelo Michele e da Giosuè inginocchiato ai suoi piedi, e dalla Madonna con Bambino e sant’Anna.
215. Schema dei santi cavalieri affrontati nella chiesa del Salvatore a Cvirmi (Georgia), xii secolo.
216. Cavalieri affrontati trafiggono un drago, particolare della facciata occidentale della chiesa di Martvili (Georgia), vi-viii secolo.
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Lo schema georgiano, con i santi cavalieri affrontati che trionfano su Diocleziano e il drago, appare in molte chiese, sia nell’Alto Svaneti che in altre regioni del paese, con piccole differenze. Esamineremo ancora una sola di queste pitture poiché associata ad altre immagini che ne accentuano il significato. Infatti, nella chiesa del Salvatore a Matskhvarichi (1140), nel Caucaso84, la parete occidentale, già menzionata, è occupata in alto da un’Ascensione semplificata con due angeli che portano l’aureola di Cristo, e nel secondo registro dall’Ingresso a Gerusalemme. Più in basso, i santi Giorgio e Teodoro, a cavallo e lanciati al galoppo, sono rappresentati affrontati secondo la formula abituale. Giorgio uccide Diocleziano e Teodoro il drago. Dietro di loro appaiono edifici insoliti in questo schema, e un personaggio barbuto, nimbato, in atteggiamento di preghiera. Se questo personaggio rimane non identificabile, il programma di tutta la parete è chiaro: si tratta del trionfo celeste e terreno di Cristo durante la sua permanenza nel mondo, vittorie che la Chiesa e i santi continuano in suo nome. Dietro i due santi affrontati, sull’arco occidentale della parete sud, cavalca san Demetrio. I santi cavalieri sono raffigurati anche da soli. In Georgia questo si vede a Sjupi, dove il santo sembra affondare la sua lancia in una forma a terra (scomparsa). Ha un viso conforme al tipo bizantino, ma più simile a quello di una bella ragazza che di un guerriero. La posizione dei santi cavalieri vittoriosi a volte assume un significato particolare. Questo si verifica quando sono rappresentati su entrambi i lati dell’abside, come si vede nella chiesa dei Ss. Arcangeli di Lashtveri (comune di Lenjeri, xiv-xv sec.). Sulla parete a nord, san Giorgio è rivolto verso l’abside e uccide il drago. Di fronte a lui Demetrio e Teodoro, a cavallo, procedono uno dietro l’altro sulla parete sud, avanzando anch’essi verso l’abside. Così i santi cavalieri proteggono il santuario, il centro nevralgico della costruzione. In questo modo, si enfatizza anche il loro potere di intercessione. I nostri coraggiosi soldati risultano meno spesso rappresentati in Armenia che in Georgia per la semplice ragione che ci sono assai meno affreschi e nessuna icona conservati in questo paese. Tuttavia, risalente al vii secolo, abbiamo un santo a cavallo che abbatte un drago su un capitello trovato negli scavi di Dvin, in cui si vede anche una Crocifissione di tipo palestinese di cui si è ragionato prima85. A S. Stefano di Lmbat, i santi Sergio e Teodoro a cavallo, ai lati dell’abside, decorano i pilastri orientali. Portano la croce ad asta lunga, a meno che non si tratti di una lancia cruciforme, poiché l’affresco è molto danneggiato e in parte scomparso86. Tuttavia i frammenti conservati permettono di concludere che questi cavalieri non uccidono niente e nessuno, come accadeva spesso in Egitto. L’abside era considerata dai teologi come la porta per l’Aldilà e questa interpretazione si conferma in particolare per la periferia orientale del mondo
tare su nessun soccorso esterno in caso di pericolo, di essere protetta. D’altronde gli abitanti dei villaggi si sentivano così minacciati che costruirono delle torri di difesa, ancora oggi in piedi, dove rifugiarsi in caso di pericolo. Tra le immagini relativamente ben conservate del nostro soggetto vi è quella della chiesa di S. Giorgio di Nakipari (1130), firmata dal pittore Tevdore. Giorgio e Teodoro, affrontati, montano rispettivamente un cavallo bianco pezzato e uno rosso81. Il loro busto è cinto da una sciarpa legata sopra l’armatura, come si vede anche in Egitto. I loro mantelli gonfiati dal vento assomigliano a delle enormi conchiglie. Teodoro porta una spada assicurata alla cintura, come spesso accade in Georgia, ma essa non figura nel disegno. I cavalli, con le code annodate, sono lanciati a una tale velocità che i loro zoccoli anteriori quasi si toccano, tratto tipico delle rappresentazioni sassanidi. Teodoro affonda la lancia nelle fauci aperte di un serpente-drago, mentre Giorgio, con la sua, tocca la mano alzata di Diocleziano a terra, che indossa una sontuosa corona. Tutti gli elementi elencati non appaiono sul nostro disegno né su quello di S. Giorgio di Cvirmi, quasi identico al precedente. Nella chiesa dei Ss. Arcangeli a Iprari (1096), la composizione è molto simile alla precedente, e tuttavia ancora una volta ci troviamo in presenza di un hapax, perché diversi personaggi in piedi separano i combattenti affrontati e moltiplicano le allusioni e i significati sottintesi. I cavalieri affondano le loro lance nel corpo dei malfattori abituali82. Per quanto riguarda i personaggi che li separano, da sinistra a destra, vediamo l’arcangelo Michele in costume militare che sfodera una spada e, ai suoi piedi, la minuscola figura di Giosuè inginocchiato in preghiera83. Si tratta della raffigurazione del versetto (5,14) della storia di Giosuè, in cui l’arcangelo appare con la spada sguainata davanti a lui definendosi come «il capo dell’esercito del Signore», al che Giosuè, capo militare degli Ebrei, si prosterna davanti a Michele. I santi cavalieri sono in tal modo reputati anch’essi parte delle schiere celesti comandate dall’arcangelo. Accanto a queste figure, ma sulla parete vicina, la Vergine in piedi tiene il Bambino perfettamente in linea con il suo corpo, seguita da sant’Anna. Questo secondo gruppo, apparentemente indipendente, è comunque collegato concettualmente al primo e sta a significare che l’arcangelo lotta contro il Male anche nel Nuovo Testamento. Egli è il capo delle schiere angeliche, si occuperà della Pesatura delle anime a tempo debito e condurrà i giusti in Paradiso dopo il Giudizio universale. L’Apocalisse riporta che un angelo ha sconfitto il drago e, negli apocrifi Atti di San Tommaso, è Michele a combattere direttamente con il drago (20,1-2). Infine, secondo un testo orientale, questi si prende cura dell’anima di san Teodoro dopo la sua esecuzione ad Antiochia. Nella nostra immagine, l’arcangelo combatte il paganesimo con i santi cavalieri assicurando loro la vittoria. 206
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217. S. Giorgio, lanciato al galoppo, uccide Diocleziano, parete occidentale della chiesa del Salvatore, Matskhvarichi, xii secolo. 218. San Teodoro, particolare della parete occidentale della chiesa del Salvatore, Matskhvarichi. 219. San Teodoro trafigge il drago, dettaglio della facciata della chiesa di S. Croce di Aghtamar, x secolo.
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220. Un cavaliere affonda la sua lancia in un corpo a terra (dettaglio scomparso) nella chiesa di Sjupi (Georgia) (acquerello di T. Cheviakov).
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to frequenti nell’arte islamica92. D’altronde, vediamo anche un drago a tre teste o tre draghi intrecciati – la scena è difficile da decifrare – a Sakli Kilise (1070, Göreme). Dei due cavalieri affrontati che lo combattono ne resta solo uno93. Ancora più originale è l’immagine di S. Giorgio di Ortaköy, dove Teodoro affonda la sua lancia in un drago il cui corpo e la testa sono umani. A Bisanzio si evitò sempre accuratamente di associare tratti zoomorfi con tratti umani, e questo per motivi religiosi. Infatti, solo all’uomo è stata promessa la futura deificazione e solo questi è stato creato a immagine di Dio. Per conseguenza non si ha alcun diritto di modificare questa immagine, qualsiasi sia la motivazione. Troviamo la testa irsuta del drago di Ortaköy nella chiesa dei Quaranta Martiri (Suvex)94. La più sorprendente delle immagini di questo tipo è quella di un corteo di cavalieri in movimento da sinistra a destra sullo schienale di una panca che sostituisce il synthronon a Karabakh Kilise (1060-1061). I sedici cavalieri che compongono il fregio sono accompagnati dalla scritta «Saranta»95, che indica che si tratta dei Quaranta Martiri di Sebaste. La Siria, così attiva sul piano religioso e specialmente liturgico, ha probabilmente perso una quantità di decorazioni nelle chiese e ora abbiamo solo qualche esempio eseguito al tempo delle crociate. Il monastero di S. Giacomo (Mar Yakub) a Qara (xii sec.) aderì al dogma di Calcedonia. Nella sua chiesa, dedicata ai Ss. Sergio e Bacco, due santi cavalieri, separati da cornici e dall’immagine della Vergine Galaktotrophousa (cf. cap. iii), si susseguono sulla parete nord. Giovanni Battista, di cui resta solo la testa, chiude la fila a est, nei pressi dell’abside96. La parte inferiore dei cavalieri è scomparsa. San Sergio tiene un gonfalone con una croce rossa su sfondo bianco, l’insegna dei Templari. La mano di Dio benedice alla latina san Teodoro. Questo è vestito in modo particolarmente sontuoso. Indossa il diadema, un vestito completamente cucito di perle e uno scudo coperto di gemme. Quest’armatura era raramente attribuita ai santi cavalieri in Oriente e il pittore ha dovuto ricavarla da immagini bizantine. Alcuni autori hanno pensato a un pittore latino, dal momento che effettivamente i crociati erano nel paese in quel momento. Tuttavia i cavalieri in questione non assomigliano per nulla a quelli rappresentati in Occidente e sono raffigurati in un puro stile bizantino. D’altra parte, ritroviamo l’insegna dei crociati in due (Sergio, con la croce rossa dei Templari, e Bacco, con l’insegna degli Ospedalieri) dei sei santi a cavallo in un monastero giacobita – S. Mosè l’Etiope (Mar Musa al-Habashi) (1058-1192), fondato da monaci siriani nel deserto di Nabek – in cui l’intervento di pittori occidentali sarebbe impensabile. La presenza di insegne crociate sulle bandiere dei santi cavalieri rivela piuttosto la riconoscenza dei cristiani nei confronti di coloro che avevano reso loro la libertà. I cavalieri occidentali non erano i successori dei cavalieri sacri che avevano lavorato per il Bene nelle stesse aree?97.
bizantino, dove i fedeli potevano contemplare la Teofania-Visione. I santi cavalieri dei pilastri di Lmbat custodiscono quindi l’ingresso che porta verso l’inconoscibile e il sublime. Sono indicati come guerrieri ma anche come martiri, perché è proprio vicino all’altare che si deponevano queste sante reliquie. Sulla facciata della chiesa di S. Croce di Agthamar (x sec.), i santi Sergio, Giorgio e Teodoro sono rappresentati separatamente. Ai piedi del cavallo di Giorgio, un uomo è steso al suolo con le membra attorcigliate, particolare che fa pensare a Satana87. Questa composizione particolarmente ieratica rimanda ai rilievi iraniani scavati essi stessi nella roccia; le maschere e gli animali fantastici di queste facciate confermano questo parallelo. La Cappadocia ebbe una storia che favorì la venerazione dei santi e la rappresentazione dei cavalieri. Nel vi secolo le persecuzioni dei cristiani sotto Massimiano (286-305) e Diocleziano (320-324 e 303-3013) furono molto violente in Asia Minore. Esse colpirono anche l’esercito, facendovi molte vittime, il che stimolò, in generale, il culto dei martiri e in particolare quello dei santi militari. La leggenda del santo che trionfa su un drago apparve in Cappadocia verso il 754. Una delle prime rappresentazioni di questa vittoria è quella della cappella n. 6 di Göreme (ix sec.), dove san Giorgio scaglia la sua lancia contro un drago, e quella di S. Barbara di Soghanli (1006-1021), in cui il santo uccide il serpente, con lo sguardo rivolto verso l’ingresso della chiesa88. Giorgio e Teodoro abbattono ciascuno un drago-serpente nel vestibolo d’ingresso a Yilanli Kilise, a Göreme, nella valle d’Ihlara (1070 ca.), in cui l’immagine occupa un’ampia superficie89. I mostri sono separati da una croce, ormai quasi cancellata, che sembra piantata tra di loro. Un’iscrizione riporta le parole del drago ferito: «Croce, chi ti ha fatto brillare? Cristo, lui che è appeso su di me»90. A volte, a essere rappresentato è un singolo cavaliere vittorioso, come mostrano le quattro immagini di questo tipo nella chiesa di S. Giorgio (Kirk Dam Alti Kilise) a Belisirma (1283-1295). Una di queste, in una nicchia all’esterno, raffigura san Giorgio che minaccia con la sua lancia un serpente a due teste, una a ogni estremità del suo corpo. La coda del cavallo è annodata e molto stilizzata, in uno stile quasi decorativo91. Un altro affresco nell’angolo sud-ovest della chiesa mostra due santi cavalieri affrontati. Una delle varianti dei santi cavalieri più creative della Cappadocia si trova a Karxi Kilise, dove due cavalieri affrontati, sormontati da un angelo a mezzo busto, sconfiggono due serpenti-draghi, uno dei quali deve essere immaginato con due teste dal momento che se ne vedono tre in tutto. Un’altra caratteristica distingue questi serpenti: i lunghi denti nelle loro fauci spalancate. Questa rappresentazione dei draghi, così singolare nell’immaginario cristiano, è probabilmente presa in prestito dal folklore turco, come suggerito da Catherine Jolivet-Lévy, la quale ricorda come le immagini mesopotamiche siano mol209
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221. San Teodoro, parete sud, chiesa dei Ss. Arcangeli di Lashtveri (Georgia), xiv-xv secolo.
222. San Demetrio, parete sud, chiesa dei Ss. Arcangeli di Lashtveri (Georgia), xiv-xv secolo.
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226. Due cavalieri affrontati trafiggono due serpenti-dragoni, chiesa di Karxi Kilise (Cappadocia), xiii secolo. 227. San Teodoro è benedetto dalla mano divina, chiesa dei Ss. Sergio e Bacco (Siria), xii secolo.
a S. Antonio, dove il cavallo di san Mercurio ne presenta molte attaccate alle redini. La presenza dell’Ascensione al centro dei santi cavalieri li associa al un trionfo celeste di Cristo, come a Nikortsminda, in Georgia. La Palestina, così strettamente legata sul piano religioso alla Siria, ha perso anche i suoi edifici di culto, che erano numerosi. Presso la chiesa del profeta Geremia ad Abu Gosh (ultimo quarto del x sec.), a Emmaus, vicino a Gerusalemme99, i santi Giorgio e Demetrio100 o Giorgio e Basilio101 a cavallo occupano i pilastri orientali, su entrambi i lati dell’abside centrale, come a Lmbat in Armenia. Nel territorio confinante della Libia moderna, la cappella rupestre di S. Marina nei pressi di Tripoli (xiii sec.) conserva l’immagine di san Demetrio a cavallo che uccide un uomo, identificato dall’iscrizione con Nestorio102. Si tratta probabilmente di colui che fu vescovo di Costantinopoli nel 422, e che era diventato il leader dell’eresia a cui diede il suo nome. Nella chiesa di S. Antonio a Dedde,
Il gruppo di miniature e icone che rappresentano il soggetto in questione è troppo importante per essere trattato in questa sede. Abbiamo dovuto quindi scegliere le opere che coinvolgevano maggiormente la Chiesa e la società, vale a dire le pitture murali che interessavano tutti i fedeli e non uno o due donatori. Tuttavia, un’eccezione si impone. Si tratta di un trittico conservato nel monastero di S. Caterina del monte Sinai. È stato datato sia al ix-x secolo98 sia al xii-xiii e il suo luogo d’origine è ritenuto la Siria. Il pannello centrale di quest’opera rappresenta l’Ascensione, sull’ala sinistra san Teodoro trapassa il serpente, e sull’ala destra san Giorgio affonda la sua lancia nell’occhio di un vegliardo a terra, un gesto che abbiamo già trovato nel monastero di S. Antonio in Egitto. Sull’icona un angelo in volo sovrasta ciascuno dei due cavalieri. I cavalli sono mostrati frontalmente, elemento questo raro, e volgono la testa ciascuno verso il proprio cavaliere. Il cavallo di Teodoro si distingue per una piccola croce appesa al suo collo, che ci riporta
223. Giorgio e Teodoro abbattono un drago-serpente nel vestibolo d’ingresso a Yilanli Kilise, Göreme (Cappadocia), xi secolo (disegno di C. Jolivet-Lévy).
224. San Teodoro trafigge un drago dalle sembianze umane, chiesa di S. Giorgio di Ortaköy (Cappadocia), xiii secolo (disegno di C. Jolivet-Lévy).
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225. San Mercurio trafigge con la sua lancia Giuliano l’Apostata, chiesa di Gannata Maryam (Etiopia), circa 1270.
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verso di lui una mano implorante104. La sua testa è circondata da un disco con motivi ornamentali arabi. Dietro Mercurio, sulla parete adiacente, si trova un cinocefalo. L’iscrizione lo definisce «faccia di cane». Secondo la leggenda locale, il santo aveva convertito il mostro, e per questo l’iscrizione lo chiama «l’intercessore». Sempre a Lalibela, nella chiesa di Bet Maryam (xii sec.), due cavalieri senza nimbo galoppano sulla facciata. Il primo trafigge una forma non identificata a terra. L’immagine è interpretata come quella dei santi cavalieri
due santi cavalieri occupano la parete occidentale e un terzo il muro settentrionale103. In Etiopia, la maggior parte dei dipinti sono di epoca post-bizantina e il loro stile è molto particolare perché è una sintesi di varie influenze: bizantine, naturalmente, cristiane orientali, ma anche indiane, africane e arabe. I santi cavalieri sono qui molto popolari. A Gannata Maryam, vicino a Lalibela (1270 ca.), Mercurio monta un cavallo bianco e uccide con la sua lancia Giuliano l’Apostata, che è seduto a terra e leva 214
228. Santi cavalieri nella navata centrale della chiesa del monastero di San Mosè l’Etiope, Mar Musa al-Habashi (Siria).
229. Cupola dipinta con sei santi disposti intorno alla volta, cappella dei Martiri, monastero di S. Paolo (Egitto). Le iscrizioni indicano Giulio di Aqfas, Apater e sua sorella Herais, Isidoro di Pelusium, Ischyrion di Qallïn e Giacomo l’Interciso.
vittoriosi105, ma l’assenza dell’aureola e la forma indistinta a terra fanno dubitare di tale attribuzione. Si potrebbe infatti trattare anche di una scena di caccia reale. I santi a cavallo sono ugualmente presenti in Nubia dal ix-x secolo e anche prima, dal momento che il frammento di un cavaliere che trafigge un drago è stato trovato su un pilastro della cattedrale di Faras (viii sec.). Si tratta di Mercurio (come recita l’iscrizione) che conficca la sua lancia in una forma indistinta a terra, probabilmente Giuliano l’Apostata106. In epoca post-bizan-
tina il santo cavaliere resta un soggetto venerato nel perimetro dell’Oriente cristiano e si sviluppa in Russia. In Oriente si ricorda il decoro della cupola della cappella dei Martiri del monastero di S. Paolo (xvi sec., con un restauro posteriore) in pieno deserto egiziano, perché una vera e propria corte di santi cavalieri la occupano in pratica interamente107. Essi proteggono la chiesa e si trovano al di sopra degli altri santi e martiri, formando una categoria speciale che potrebbe essere definita «l’esercito del cielo». 215
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Capitolo nono
I MIRACOLI DEI SANTI CAVALIERI E UN’IMMAGINE DI SALVEZZA: LA CACCIA DI EUSTACHIO
I cicli agiografici sono rari in Oriente e i Menologi praticamente inesistenti: è l’opposto di quanto accade a Bisanzio a partire dall’xi secolo. Conseguentemente, in teoria, le immagini dei miracoli dei santi cavalieri dovrebbero essere anch’esse ridotte, ma quello che si verifica è esattamente il contrario. A Bisanzio e tra gli Slavi si ha l’abitudine di raffigurare un solo miracolo, quello di san Giorgio che salva una principessa minacciata da un drago, mentre in Oriente i miracoli sono molteplici. Naturalmente ci si potrebbe chiedere se la separazione che noi proponiamo tra la vittoria dei santi cavalieri sul Male e gli altri miracoli loro attribuiti sia giustificata. Lo è, e per due motivi. Il messaggio dei santi cavalieri vittoriosi è simbolico. Sconfiggendo un particolare nemico del genere umano, essi combattono il Male in generale. È per tale motivo che sono evocati attraverso immagini più grandi rispetto alle altre, ieratiche, severe e simmetriche. Il ciclo dei miracoli è invece narrativo, gradevole: ogni immagine, di medie dimensioni, si concentra su un miracolo, che sottintende anche gli altri. Queste rappresentazioni non compaiono d’altronde se non cinque secoli dopo quelle dei cavalieri trionfanti. Esse trasmettono allo spettatore non la potenza della lotta, ma la grazia di cui sono oggetto. Alcune assomigliano a delle fiabe e mettono in scena il portentoso.
San Giorgio salva un giovane prigioniero Il miracolo di san Giorgio che salva un giovane prigioniero si trova in tutte le regioni dell’Oriente cristiano. È un soggetto totalmente assente tra i Greci e gli Slavi di epoca bizantina, con una sola eccezione. Non si tratta però di una vera eccezione perché in realtà si incontra a Cipro, dove l’influenza dei modelli orientali non è più messa in dubbio1. È probabile in effetti che l’immagine in questione nella chiesa di Panagia Aphendrika (xiii sec.)2, così isolata nell’ambito di influenza costantinopolitana, sia stata importata dall’Oriente. Ma di che cosa si tratta esattamente? La leggenda di san Giorgio che salva un giovane prigioniero è apparsa molto tardi ed è registrata nel codice greco della biblioteca di Mosca, Synodalis 381, del 1023. Ne esistono diverse varianti, ma la storia rimane sostanzialmente identica nei tratti principali. Ecco i punti salienti: in Paflagonia (o altrove in alcune varianti), Leonzio, troppo vecchio per prendere parte alla guerra, lascia partire al suo posto il giovanissimo figlio Giorgio. Questi viene catturato dai Bulgari, dagli Sciti, dai Turchi o dagli Arabi, secondo le differenti versioni, e diviene il servitore del capo dell’esercito vittorioso. Le sue preghiere sono rivolte a san Giorgio, al quale chiede di liberarlo. Mentre sta preparando una bevanda per il suo padrone, il santo gli appare sul suo cavallo bianco, lo afferra e lo porta via in un attimo al di là del mare per restituirlo ai suoi familiari. Questi, giustamente, festeggiano san Giorgio3. Una delle prime rappresentazioni di questo miracolo si trova nella chiesa di S. Giorgio d’Ikvi (xi-inizio xii sec.), in Georgia. Si vede, sulla sinistra, Giorgio sul suo cavallo bianco; il giovane prigioniero, con un boccale in mano, è in groppa al destriero. A destra, la famiglia festeggia san Giorgio intorno a una tavola imbandita verso cui si dirige il
230. Particolare della croce di Tchekhari, in legno rivestito di placche d’argento, con scene dei miracoli di san Giorgio: il santo uccide Diocleziano, salva il giovane prigioniero, uccide un serpente, libera la principessa, xv secolo (Tbilisi, Museo d’Arte della Georgia). 231. Miracolo del giovanetto prigioniero, chiesa di S. Giorgio, Ikvi (Georgia), xi-inizio xii secolo (secondo E. Privalova). 232. San Giorgio e la leggenda del giovane prigioniero nella chiesa di Pavnisi (Georgia), xii secolo.
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233. San Giorgio e il giovane a cavallo, chiesa di S. Teodoro, Bahdeidat (Libano).
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234. San Giorgio e il giovane prigioniero, dal manoscritto degli Atti dei santi martiri conservato a Gannata Maryam, Lalibela (Etiopia).
giovane4. La maggior parte delle chiese che dedicano spazio a tale miracolo sono dedicate a san Giorgio, come è il caso a Bo/orma (xi-xii sec.)5 o a Pavnisi (xii sec.). In quest’ultima chiesa è riproposto lo schema d’Ikvi, con l’aggiunta di un primo piano sulla madre del prigioniero liberato che abbraccia suo figlio6. Nella chiesa di Adichi, i genitori del giovane uomo vanno incontro al figlio e al santo7. Tuttavia, il più delle volte ci si limita a raffigurare i due cavalieri, come per esempio a Zemo-Arcevi (xii sec.)8. Una scena simile si trova nella chiesa di Osaani (xi-xii sec.)9, che non è dedicata a san Giorgio ma all’Ascensione. Il soggetto è anche diffuso nelle icone10 e su oggetti di culto caratteristici di questo paese. Si tratta di croci monumentali alte da uno a due metri, ricoperte di un rivestimento metallico lavorato a sbalzo e collocate davanti all’altare. Quella di Tchekhari (xv sec.) mostra quattro immagini di san Giorgio, ma quella con il giovane prigioniero tradisce un errore, perché sotto il cavallo del santo appare un drago trapassato dalla lancia del cavaliere11. In Siria, a S. Mosè l’Etiope, solo la parte inferiore di questo soggetto è conservata, con le gambe del cavallo e, sotto, il mare pieno di pesci12. Questo schema doveva essere abbastanza diffuso in Siria perché lo si ritrova nella fortezza franca del Krak dei cavalieri, dove è conservato in uno stato frammentario13. I crociati avevano probabilmente assunto un pittore locale, come era loro abitudine. In Libano, Giorgio con il ragazzo sulla groppa del suo cavallo fu raffigurato svariate volte, tra cui nella cappella Saydet el-Rih, Nostra Signora dei venti, e a S. Teodoro di Bahdeidat14. In questa chiesa, la cavalcata dei due cavalieri figura sulla parete sud e il mare popolato di pesci rossi è ben visibile, mentre la parete nord è occupata dalla mano di Dio che benedice san Teodoro a cavallo, armato di lancia e di scudo, e con indosso il diadema. Ai suoi piedi un donatore alza le braccia verso di lui in un gesto di supplica, mentre la mano divina benedice dall’alto dei cieli. I due affreschi sono vicini all’abside e ricordano anche l’intercessione di cui i santi cavalieri sono capaci, qualità applicabile soprattutto a Teodoro, visto il supplicante ai suoi piedi. Questo soggetto è rappresentato anche in Cappadocia e occupa una posizione privilegiata, sotto l’abside, a S. Giorgio d’Ortaköy, con la scritta «O Diasorites», probabile allusione al luogo di nascita presunto del santo, il villaggio di Diasoron, in Cappadocia15. In Egitto, nel monastero di S. Antonio, si trova la versione breve con il giovane prigioniero sulla groppa del cavallo di san Giorgio che abbiamo scelto16. In Etiopia troviamo una versione leggermente diversa. Nel manoscritto degli Atti dei santi, conservato a Gannata Maryam, una miniatura rappresenta Giorgio e il giovane che cavalcano a piedi nudi; un’iscrizione definisce il sopravvissuto «diacono»17: questo si spiega con la versione copta della
leggenda, in cui il prigioniero era un diacono nella chiesa dedicata al suo liberatore. Questa precisione non è banale perché i copti credevano che il ragazzo fosse prigioniero dei musulmani, in questa circostanza sconfitti da un cristiano18. La Crimea era popolata da Armeni nel Medioevo e le chiese di quell’epoca sono decorate con programmi compositi in cui l’iconografia cristiana orientale e quella praticata a Costantinopoli coesistono dando vita a diverse combinazioni. Un grande affresco della chiesa rupestre detta dei Tre guerrieri, alle pendici del monte di Eski Kermen, raffigura tre santi che cavalcano uno dietro l’altro da sinistra a destra. La loro identificazione proposta da O.I. Dombrovski è errata: probabilmente, essendo uno specialista dell’arte russa, il miracolo del giovane prigioniero gli è senza dubbio sconosciuto19. Ora, il primo cavaliere è Giorgio perché porta il giovane prigioniero sulla groppa del suo cavallo, il secondo che uccide il drago è Teodoro e il terzo potrebbe essere Demetrio. 219
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235. Santo cavaliere anonimo, monastero di S. Mosè l’Etiope, deserto di Nabek (Siria), xi-xii secolo.
237. San Giorgio, san Teodoro e san Demetrio (?), disegno dell’affresco della chiesa rupestre detta dei Tre guerrieri, alle pendici del monte di Eski Kermen, in Crimea (disegno di O.I. Dombrovski).
236. San Giorgio cavalca il mare, monastero di S. Mosè l’Etiope, deserto di Nabek (Siria), xi-xii secolo.
fanti. È certamente nefasto, ma inconsapevolmente, come è nella sua natura animale. È per tale motivo che Giorgio prima lo soggioga e lo uccide solo quando vi è costretto. Una lettura più profonda rivela ancora che questo drago è una personificazione della natura selvaggia e istintiva che si oppone alla città, simbolo di ordine, cultura e umanità. Il significato della principessa stessa è stato variamente interpretato: simbolo della città, della Chiesa di Cappadocia, ma anche, senza dubbio, della vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Le prime immagini monumentali ispirate a questa leggenda sono in Georgia, a S. Giorgio di Ikvi (xi-xii sec.), in Kartlia23. Giorgio e il suo cavallo arrivano da sinistra. La principessa che tiene il drago al guinzaglio li precede. Più lontano, il re invita sua figlia a entrare in città. Il drago, con un corpo di serpente, ha un corno sulla fronte e una barbetta sul mento. I denti sono disegnati uno a uno. Un corso d’acqua è abbozzato dietro di lui, allusione al lago o alla palude dove viveva l’animale. Questa immagine è una delle più dettagliate e narrative. Vi sono più di una decina di tali rappresentazioni in Georgia, soprattuttto nelle chiese dedicate a san Giorgio, come ad Adichi (xi-xii sec., nello Svaneti), Bo/orma (xi sec., in Cachezia), Pavnisi (xii sec., in Kartlia) e altrove24. Naturalmente, ovunque Giorgio cavalca un cavallo bianco. A S. Giorgio d’Atchi (xiii sec.), il soggetto è costituito da due immagini. Nella prima Giorgio è in piedi di fronte a un paesaggio. Tiene il drago addomesticato al guinzaglio e fa il gesto di parlare in direzione della principessa. Questa si trova di fronte a una montagna e lo ascolta. Nella seconda immagine, Giorgio è tornato sul suo cavallo ed è la principessa che tiene al guinzaglio il mostro, mentre a destra compare la famiglia della ragazza sul balcone di un edificio-città, il cui portone lascia uscire il popolo riconoscente25.
San Giorgio salva una principessa Secondo Johann B. Aufhauser, la storia leggendaria della principessa liberata non appare nei manoscritti greci prima del xii secolo20. È stata proposta anche una data più tarda. Ma un manoscritto georgiano della Biblioteca Patriarcale di Gerusalemme, n. 221, della fine dell’xi-inizio xii secolo contiene sia la leggenda di san Giorgio trionfante sul drago che tre dei suoi miracoli, tra cui quello della principessa salvata. Questo manoscritto, così come le immagini dell’xi-xii secolo che si trovano a Adichi e Ikvi, permettono di supporre che una leggenda orale abbia preceduto la redazione avvenuta nel xii secolo. Ne conosciamo il contenuto. La città di Lasa era governata da un re empio. Per punirlo, Dio mandò alla periferia della città un terribile drago, al quale gli abitanti pagavano un pesante tributo. Il re aveva cercato più volte di liberarsi di tale calamità, ma non riuscendoci promise sua figlia al drago perché si allontanasse dalla città. Di ritorno dalla Cappadocia, dove aveva combattuto contro l’esercito di Diocleziano, Giorgio incontrò la principessa in armi sulle rive di un lago. Questa supplicò Giorgio di salvarla, quando, ecco, il mostro apparve. Il santo pregò perché il drago diventasse docile e la sua preghiera fu esaudita. Allora egli si tolse la cintura, la avvolse attorno al mostro e porse questo guinzaglio improvvisato alla principessa raccomandandole di portare l’animale in città. Quando questa passò con il drago, la gente impaurita si rinchiuse nelle proprie case. Allora Giorgio si vide costretto a uccidere l’animale, gli abitanti ne gioirono e si convertirono al cristianesimo22. In questo racconto il drago non rappresenta il diavolo come pensano alcuni autori, perché non è la raffigurazione del Male assoluto come nelle immagini dei santi cavalieri trion220
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238. Il miracolo del saraceno, chiesa di S. Giorgio a Panvisi (Georgia), xii secolo.
239. Manoscritto nubiano che raffigura il miracolo di san Mena, Or. 6805, f. 18r (Londra, British Museum).
240. Visione di sant’Eustachio, facciata della chiesa di Martvili (Georgia), vi-viii secolo.
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esse, anche se greche, non trovano un’espressione iconografica se non in Georgia. Ad esempio, il racconto del saraceno punito che appare nell’xi secolo26. Si tratta dell’arrivo dei saraceni (si intendono i musulmani) in una città della Palestina che aveva una chiesa dedicata a san Giorgio con una immagine del santo sulla facciata. I conquistatori commisero numerosi misfatti e furono minacciati da un soldato cristiano che annunciò loro i poteri del santo. Furioso, un guerriero tirò una freccia contro l’immagine di quest’ultimo. La freccia lo raggiunse, ma ritornò miracolosamente contro il soldato che l’aveva scoccata e lo uccise. Colpita da questo miracolo, la truppa si convertì e abbandonò il luogo. Le prime immagini apparvero nelle chiese dedicate a san Giorgio a Ikvi e Pavnisi, dove si vede un’immagine del santo a mezzo busto e più in basso due soldati che tendono i loro archi in direzione del ritratto. Tra loro un terzo crolla27. Egli indica la sorte che attende gli altri due. Un altro miracolo sembra essere stato illustrato solo in Georgia: quello del bue risuscitato che vediamo a S. Giorgio d’Ubisi (fine xiv sec.). L’azione si svolge in Cappadocia. Un abitante del villaggio di nome Teopisto si era addormentato
Questa leggenda è raramente rappresentata in Egitto, dove se ne trovano molte altre, di cui alcune sono state citate a proposito degli affreschi del monastero di S. Antonio. Tuttavia, la storia della principessa salvata appare su un’icona non datata di tipo popolare, conservata nella chiesa di El-Moallaqa nella città vecchia del Cairo. Sui tre quarti del campo figurativo, il santo a cavallo trafigge il drago. Egli è dunque il vincitore, ma è anche il taumaturgo, poiché sull’ultimo quarto dell’immagine la principessa compie un gesto di gratitudine verso il suo salvatore, affacciandosi dalla sommità di una torre con la sua famiglia. Così può accadere che nelle immagini tardive il trionfo sul Male e il miracolo della principessa salvata da san Giorgio si fondano nella stessa immagine. Miracoli che ricorrono solo nell’Oriente cristiano, salvo eccezioni Se il miracolo del giovane prigioniero è rappresentato in tutto l’Oriente, questo non accade con altre leggende. Alcune di 222
nel suo campo accanto ai buoi che aveva portato per i lavori. Gli animali erano riusciti a fuggire. Il contadino pregò san Giorgio perché lo aiutasse a ritrovarli. Dopo lunghe tergiversazioni, il contadino fu costretto a eseguire l’ordine del santo e sacrificò tutti i suoi animali. Immediatamente le loro ossa diedero vita ai buoi scomparsi e a numerosi bambini, perché Teopisto e sua moglie non ne avevano28. Un miracolo di san Mena piuttosto divertente, e che non figura altrove, decora un manoscritto in dialetto nubiano del ix-x secolo, conservato al British Museum (Or. 6805, f. 18r). Si vede Mena che cavalca a piedi nudi. Porta una collana rigida attorno al collo e ha una lancia in mano. In basso, a destra, un piccolo donatore copre la sua nudità con un asciugamano e allo stesso tempo cerca di afferrare lo zoccolo del cavallo. Al di sopra del cavaliere, tre corone scendono dal cielo. Quella centrale porta una croce e potrebbe rappresentare la ricompensa del martirio. La storia parla di un personaggio che aveva rubato un uovo al santo, quando questi apparve sul suo cavallo bianco. Spaventato, il ladro cercò di fermarlo afferrando lo zoccolo del cavallo, ma l’uovo si trasformò in un pulcino e lo denunciò29. Si può notare che i miracoli dei santi cavalieri sono raccordati al santuario alla fine del Medioevo. Tra le grandi croci che venivano collocate davanti all’altare in Georgia, generalmente ricoperte di metallo cesellato, quella di Tchekhari (fine del xv sec.) mostra quattro immagini della vita di san Giorgio. Nella prima, a sinistra, il santo trafigge Diocleziano con la sua lancia. Più lontano, l’incisore ha fatto un errore: egli raffigura nella stessa immagine il miracolo di Giorgio che salva il giovane prigioniero – qui definito come un bulgaro – e la scena di Giorgio che uccide il drago. La terza immagine mostra ancora una volta la lotta del santo con il drago, ma al posto della lancia questi brandisce una spada. Si tratta in questo caso del miracolo della principessa salvata perché, nell’immagine successiva, la ragazza tiene al guinzaglio il drago domato mentre Giorgio lo cavalca pacificamente. Nei quattro episodi, la mano divina benedice il santo e delle iscrizioni illustrano l’azione.
niche e russe. La storia potrebbe avere radici buddhiste. Per quanto riguarda il programma iconografico, esso è influenzato dall’arte iraniana e reca dunque il segno della sua localizzazione geografica, come vedremo in seguito. Si tratta di una caccia al cervo al tempo di Traiano (98-117), durante la quale il generale romano Placidio vede una croce luminosa o, in un’altra versione, il ritratto di Cristo, tra le corna del cervo che aveva sotto tiro e si accingeva a trafiggere con una freccia. In quel momento l’animale gli parlò dicendo: «Placidio, perché mi perseguiti? Io sono quel Gesù che onori senza saperlo». In seguito a questo miracolo, il generale si converte con la sua famiglia, prendendo il nome di Eustachio. Seguono varie sventure e la morte di tutti, bruciati in un toro di bronzo30. La leggenda era nota in Georgia dal vi secolo31. Due racconti buddhisti, uno del iii secolo, tratto dai Jataka (Vite anteriori del Buddha), l’altro del v secolo, raccontano le vite precedenti del Buddha e assomigliano stranamente alla leggenda cristiana. Sono racconti troppo lunghi per poterli riassumere qui, ma ricordiamo che è lo stesso bodhisattva a reincarnarsi in un cervo parlante. Egli porta un messaggio di salvezza al re-cacciatore e gli chiede di sottomettersi ai suoi comandamenti32. Si tratta in realtà di tre racconti sovrapposti: la conversione, le tribolazioni della famiglia e il martirio. Questo è quanto si raffigura in Occidente, nel momento in cui le immagini gli sono trasmesse dall’Oriente nel xii secolo, in seguito alla traslazione di parti delle reliquie di Eustachio a Saint-Denis. Si possono citare gli esempi dei capitelli di Vezelay (xii sec.) e delle vetrate di Auxerre (xiii sec.)33. Lo schema
La caccia miracolosa di sant’Eustachio 238
Sant’Eustachio non appartiene in senso stretto alla truppa dei santi cavalieri e non combatte il male. Non indossa nemmeno l’uniforme militare romana, benché si tratti di un generale e di un cavaliere. Il punto di partenza della sua vicenda è un miracolo e non la battaglia contro le forze oscure. Se evochiamo questo santo, è perché la sua leggenda greca è comunemente raffigurata in decori monumentali in Georgia e in Cappadocia e solo eccezionalmente nelle chiese balca223
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iconografico con Eustachio al galoppo con il suo arco teso in direzione di un cervo che porta una croce o il ritratto di Cristo tra le sue corna è probabilmente nato da una combinazione tra l’immagine della caccia reale persiana, che si sviluppa soprattutto tra il iii e il v secolo34, e quella indiana, che illustra la leggenda del cervo parlante. La leggenda cristiana mutua un particolare direttamente da quest’ultima leggenda, perché essa descrive il cervo come più grande del cavallo del cacciatore. Gli scavi nei pressi del villaggio di Aragvispiri, in Georgia, hanno portato alla luce delle ceramiche con la caccia al cervo datate al iii secolo, la cui somiglianza con le opere iraniane è sorprendente35. Il cervo è costantemente rappresentato a partire da un periodo molto antico sull’altopiano iranico e in Asia centrale, tra gli Sciti, i Sarmati Osseti e in Siberia. La medesima sorte la conobbe il principe che caccia i cervi, immagine particolarmente diffusa in India, ad esempio nella grotta di Ajanta (v sec.)36, o nelle grotte di Dunhuang ai margini del deserto del Gobi, oggi in Cina37. Nel vi-vii secolo, la caccia di Eustachio è rappresentata su una placca georgiana proveniente dall’iconostasi della chiesa di Tzebelda (vi sec.). Eustachio, che ha arrestato il suo cavallo, tende l’arco, mentre il cervo che porta l’immagine di Cristo si gira verso di lui come per parlargli. La presenza di un cane e di un’aquila, così come quella di una rosa dei venti, possono essere spiegate con l’influenza dello zoroastrismo persiano38. La famiglia del cavaliere (alle sue spalle) assiste al prodigio. Un modello simile appare su una stele coeva all’in-
gresso della chiesa Natlismcemeli (S. Giovanni il Precursore), nella regione di David Gareja, ma il soggetto si sviluppa in verticale. Un’iscrizione ricorda il donatore «Mavrouvo» e la sua famiglia39. Il berretto a punta e la cintura a spina di pesce del cacciatore sono di nuovo di origine sassanide. Sulla facciata della chiesa di Martvili (vi-viii sec.) il cervo ha le stesse dimensioni del cavallo di Eustachio (nell’affresco di Zenobani è molto più grande). A Martvili, il cavaliere indossa un lungo mantello come nelle immagini precedenti, ed è preceduto da un tipico grifone iraniano, già segnalato in questo studio40. Più lontano, due santi cavalieri trafiggono due draghi41. La posizione della Visione di Eustachio non è fissa. È raffigurata lungo l’intero secondo registro della parete occidentale della chiesa di Cristo Salvatore a Zenobani (xii sec.)42, e la ritroviamo nella medesima posizione a Khosita Maryam (xii sec.), nel nord dell’Ossezia43. Il soggetto occupa una parte della facciata meridionale della chiesa dei Ss. Arcangeli in Iprari (1096, Svaneti), sotto una Deesis con due arcangeli44, e nella volta della chiesa di Nuzal (xiii sec.), dove il pittore utilizza un modello di caccia reale e rappresenta due cervi invece che uno, dimenticando di inserire tra le corna di uno dei due i segni divini45. Medesima dimenticanza nella chiesa di S. Giorgio a Tskelkari, in Abcasia, dove il cervo è sostituito da un’alce e la scena è raffigurata al di sopra di una coppia di donatori46. Un’immagine senza errori o negligenze rispetto a questo soggetto occupa il secondo registro della chiesa di S. Saba a Safara (xiv sec.)47.
241. Particolare della caccia di sant’Eustachio (in basso), prima stele di Tzebelda (Georgia), vi secolo.
242. Visione di sant’Eustachio, chiesa di Cristo Salvatore a Zenobani (Georgia), xii secolo.
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un modello arcaico che è stato copiato e testimonia le origini formali dell’immagine, vale a dire la caccia reale. Cosa ne pensavano i Greci? Il soggetto non è menzionato nel manuale di pittura di Dionisio da Furnà: questo è un indizio importante. In effetti, l’immagine non appare nelle chiese balcaniche e russe, ma la si trova due volte nelle isole greche, a S. Giorgio Diasoritis a Naxos (xii sec.), dove restano solo le iscrizioni, e a S. Tecla nel villaggio che porta lo stesso nome in Eubea54. Ora, gli stretti rapporti che le isole greche ebbero con l’Oriente cristiano e soprattutto con la Cappadocia sono noti. Il nostro tema è ugualmente presente in due chiese dell’Apulia55, il che, anche in questo caso, non sorprende poiché l’Italia meridionale ha offerto rifugio a molti fuggitivi bizantini, tra cui monaci provenienti dall’Asia Minore che temevano persecuzioni durante la crisi iconoclasta. I salteri greci del ix secolo rappresentano la scena, ma con un retro pensiero: un’iconoclasta riconvertito al culto delle icone si sarebbe potuto riconoscere nella Visione di sant’Eustachio. D’altronde, c’è una differenza che distingue le miniature dei salteri dalle immagini orientali. Invece di tendere il suo arco, il santo prega, come se fosse davanti a un’icona. Addirittura, nel Salterio del Pantocratore (monte Athos, n. 61, f. 138) (ix secolo) e in quello di Hamilton (xiii sec.)56, Eustachio è sceso da cavallo per inginocchiarsi. Qualche raro autentico schema della Caccia figura tuttavia in altri manoscritti greci, come per esempio nel Menologio di Esphigmenou (n. 14, monte Athos) (xi sec.). Vi si vede il santo al galoppo con la lancia puntata verso un cervo che porta tra le sue corna l’immagine di Cristo57. Tuttavia, il fatto che il soggetto sia comune in Cappadocia e in Georgia, e che si trovi eccezionalmente nelle isole greche e nel sud Italia, mentre le chiese balcaniche e russe che osservano la regola costantinopolitana – seppur aggiungendoci qua e là qualche particolarità di origine locale – lo ignorano, dimostra chiaramente che la Visione di Eustachio appartiene al repertorio originale dell’Oriente cristiano.
In Cappadocia la Caccia o Visione di Eustachio è altrettanto diffusa che in Georgia, se non di più. Anche in quel contesto il santo è generalmente vestito con un lungo mantello persiano. Tuttavia, queste immagini si distinguono da quelle georgiane per la croce che appare più spesso tra le corna del cervo rispetto al ritratto di Cristo, come si vede tra altri esempi nella chiesa n. 3 di Mavrucan48. Si preferisce inoltre armare Eustachio con una freccia, mentre i Georgiani lo rappresentano con l’arco. Nella cappella nord della colombaia di Güllü Dere (Ayvali Kilise) (x sec.), il cacciatore porta la lancia e il cervo la croce tra le sue corna, ma in questo caso essa è circondata da un disco rosso che suggerisce probabilmente la luce. Accanto al cervo sono incise le parole rivolte a Eustachio. Vicino a questa scena vi è la moglie del santo e altri santi martiri49. La croce tra le corna dell’animale potrebbe indicare l’influenza del Meno del 20 settembre50. A volte è raffigurata anche la famiglia del santo. A Tavxanli Kilise (912-959), la Visione figura sulla parete orientale, a destra dell’abside, mentre nella parete sud vicino al santuario sono rappresentati la moglie e i due figli del santo e il suo ritratto in una nicchia51. A S. Giorgio d’Ortaköy (xiii sec.), non solo la famiglia di Eustachio è presente accanto alla scena della caccia, con ogni membro nominato dalle iscrizioni, ma le corna del cervo non portano alcun segno52. In Cappadocia sembra esserci una particolare devozione a sant’Eustachio, non solo perché sono numerose le immagini della sua visione (circa trentaquattro), e la sua famiglia è spesso raffigurata, ma anche perché il suo martirio e quello della famiglia nel toro di bronzo sono rappresentati nelle chiese, come avviene a Tokali Kilise53. L’assenza di qualsiasi segno tra le corna del cervo – che esiste invece sia in Georgia, a Nuzal Tskelkari, che in Cappadocia, a Balik Kilise (S. Giorgio di Ortaköy) e Sakli Kilise – significa che si rappresenta la Caccia nella sua fase iniziale, prima della Visione, il che è assurdo perché determina la perdita del messaggio cristiano. Si tratta probabilmente di
243. Visione di sant’Eustachio, chiesa di S. Saba a Safara (Georgia), xiv secolo.
244. Visione di sant’Eustachio, chiesa n. 3 di Mavrucan (Georgia), ix secolo.
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CONCLUSIONE
e Orientali. Ma Gerusalemme rimase, fino all’occupazione araba, la guida indiscussa in Oriente. Tuttavia Costantinopoli sviluppò molto rapidamente le sue capacità creative in tutti i settori e si considerò il centro della cristianità. A questo si aggiunsero le dispute religiose e le controversie cristologiche, condannate dal concilio di Calcedonia (451). La maggior parte degli Orientali non accettarono le decisioni del concilio e trasformarono le rispettive dottrine devianti in religioni ufficiali. Dopo questa fase di divergenze dogmatiche, arrivò la conquista araba del vii secolo a strappare le province orientali all’Impero. Certamente, sopravviveva un legame piuttosto importante, ma esso era assi meno forte che in passato. Quando più tardi scoppiò la controversia iconoclasta, le Chiese orientali non vi parteciparono, eccetto la Cappadocia. Le tesi dei difensori delle immagini restarono perciò semplice teoria a sud e a est di Bisanzio, ma è bene ricordare che furono proprio tali dottrine che determinarono il programma iconografico delle chiese bizantine dopo la vittoria dell’ortodossia nell’843. Al centro di questi trattati teologici vi era il dogma dell’Incarnazione e quello della futura deificazione dell’uomo tramite l’azione della Chiesa e dell’Eucaristia. La Vergine, strumento dell’Incarnazione, occupava dunque la conca absidale, seguita da immagini che rinviavano al sacramento dell’Eucaristia, alla liturgia e all’autorità ecclesiale. La parte superiore della cupola fu occupata dal Pantocratore, Signore del mondo, circondato dalla sua guardia celeste. Dal xii secolo, il ciclo della Passione, molto ridotto in Oriente, diventò sempre più dettagliato e narrativo a Bisanzio, e lo stesso accadde per l’agiografia che diede vita ai cicli che raccontano le vite dei santi. La crescente importanza della Chiesa ortodossa apparve tanto nei nuovi soggetti che decoravano il santuario che nella liturgia ampliata che vi si celebrava. L’Oriente invece ignorò tale evoluzione e rimase più vicino allo spirito dei primi cristiani. Certamente il monofisismo e le altre dottrine che rifiutavano più o meno l’Incarnazione ed esaltavano il Cristo celeste non furono gli unici responsabili. Questi popoli avevano una diversa sensibilità religiosa rispetto a quella bizantina, caratterizzata da una particolare attenzione al miracoloso e da un rapporto con Dio in cui a dominare non era né la paura degli Ebrei e degli Occidentali, né l’ammirazione dei Bizantini, ma una sorta di tenerezza che spiega la tonalità profondamente ottimistica della loro interpretazione della storia della salvezza. Gli iconografi orientali si prefiggevano di porre davanti agli occhi del fedele la gloria divina e la salvezza donata al genere umano dal Figlio, e non il modo attraverso cui tale salvezza era stata acquisita. Anche la Teofania-Visione dell’abside metteva in scena il Logos, o il Cristo eterno e preesistente all’Incarnazione, circondato dagli astri e dalle potenze celesti. Questa immagine fu sostituita un po’
Ciò che è emerso lungo le pagine di questo volume è la consapevolezza che l’arte dei cristiani d’Oriente costituisce certamente un ramo dell’arte bizantina, ma un ramo che afferma la sua peculiarità. Questo è evidente in particolare nei programmi iconografici delle chiese, diversi per molti aspetti da quelli sviluppati a Costantinopoli. All’interno di tali programmi, che definiscono i soggetti e la loro posizione nell’edificio, le decorazioni delle parti più in vista della chiesa (cupola, abside) sono per lo più originali. Inoltre, esse sono anche strettamente correlate tra loro in tutte le regioni che sono state considerate. Tale omogeneità testimonia a favore di un centro di creazione e diffusione nei primi secoli, che non può che essere Gerusalemme. Naturalmente, questo non impedì ai pittori di rispettare alcune regole costantinopolitane, ma il loro grado di adesione a quella koinè non fu uniforme né nel tempo né nei vari luoghi in cui lavorarono. In genere fu più forte che altrove in Cappadocia e in Georgia e meno sensibile nei territori che si affacciano sul Nilo, dato non sorprendente. Anche se a partire dall’xi secolo fu separata da Costantinopoli a causa delle invasioni dei Turchi Selgiuchidi e della loro vittoria a Manzikert (1071), la Cappadocia fu comunque fino a quel momento, e in seguito a fasi alterne, all’interno dell’Impero e legata alla capitale, pur intrattenendo allo stesso tempo strette relazioni con le Chiese orientali. Per quanto riguarda la Georgia, questa fu nel Medioevo un regno quasi indenne da occupazioni straniere, unificato e potente: da questa situazione nacque l’ambizione del suo sovrano di eguagliare la città sul Bosforo, almeno sul piano culturale e confessionale. Le relazioni tra i due paesi furono d’altronde facilitate anche dal fatto che la Chiesa georgiana aveva aderito al dogma di Calcedonia, rifiutando il monofisismo che l’Armenia gli prospettava con una certa insistenza. I prelati georgiani studiavano a Costantinopoli e i greci facevano soggiorni regolari presso l’Accademia di Gelati. Inoltre, i numerosi monasteri georgiani in terra greca assicuravano gli scambi tra i due paesi. La relativa autonomia dell’Oriente cristiano in termini di iconografia si basa in gran parte sui fattori storici già menzionati. Mentre Costantinopoli e la parte occidentale dell’Impero avevano le loro radici nell’Impero romano, la periferia orientale era stata solo superficialmente ellenizzata e aveva un brillante passato precristiano indipendente da Roma, che sopravviveva nell’inconscio dei popoli in questione. Inoltre, questa periferia era situata vicino alla Persia e in contatto con la sua arte, che influenzò i gusti artistici delle élite, la scelta di alcuni modelli, la decorazione delle facciate degli edifici religiosi nell’area transcaucasica e lo stile della scultura che vi si sviluppò. Dal iii-iv secolo fu naturalmente il cristianesimo che determinò in primo luogo il pensiero e la sensibilità di Greci 227
Pagine precedenti: 245. Cristo come l’Antico del giorno, monastero di S. Caterina del Sinai (Egitto), vii secolo.
no a loro erano in gran parte diverse da quelle bizantine e le immagini illustrano anche i loro miracoli. Nel nostro studio non si è fatta menzione di opere minori, ma interessanti, che appaiono solo in Transcaucasia e in Cappadocia. Penso ai programmi absidali che adottano la regola costantinopolitana con la Vergine nel catino, e dove appaiono tuttavia, ogni volta, differenze più o meno importanti. Evidentemente, la volontà di conformarsi a un modello non fu sufficiente a riuscire nell’impresa. Nonostante sia stato ampiamente negato, fino all’epoca attuale, un rapporto tra il monofisismo e l’arte di chi aderì a tale dottrina, oggi non possiamo più impedirci di pensare che questo legame sia stato al contrario una realtà. Anche i popoli e i gruppi etnici che erano rimasti fedeli all’ortodossia dell’Impero subirono questa influenza, perché essa si accordava con la loro mentalità orientale. Quindi è opportuno finalmente ammettere che il mondo bizantino accolse due regole iconografiche, che costituiscono due espressioni artistiche, quella dei Greci e degli Slavi sotto l’autorità di Costantinopoli, e quella dell’Oriente cristiano che ne rappresenta una variante originale.
più tardi dalla Deesis-Visione della fine dei tempi, quando avrà luogo la vittoria finale di Cristo e la seconda Venuta, ma la sua iconografia non cambiò molto, così come il suo messaggio che integrava ora la misericordia di Cristo e dei santi. Questa prospettiva determinò anche l’immagine del Giudizio universale che poteva essere raffigurato senza l’Inferno, o con un Inferno senza punizioni, mentre le scene del Paradiso e della Risurrezione degli uomini occupavano molto spazio. La croce, il cui culto ebbe origine a Gerusalemme, fu spesso raffigurata molto grande (Cappadocia, Georgia, Armenia), in numero rilevante in ogni luogo di culto e con molteplici varianti: su un podio trionfale, come fonte di vita che fa nascere piante, portata dagli angeli al punto da coprire a volte un’intera volta (come a Bertubani), o ancora come il segno nel cielo che annuncia la seconda Parusia. Infine, i santi cavalieri erano considerati eroi solari e protettori, raffigurati come esseri potenti, maestosi e generalmente sovradimensionati. In alcuni casi, membri delle schiere celesti guidati dall’arcangelo Gabriele, al lavoro tra gli uomini, formavano un legame tra i due mondi. I loro nemici e, più in generale, le figure intor-
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APPARATI
NOTE
Avviso al lettore 1 Questo giudizio è contenuto in diverse opere e anche nella prefazione di M. e N. Thierry, Nouvelles églises rupestres de Cappadoce, Klincksieck, Paris 1963. Capitolo I 1 A. Dupont-Sommer, Les écrits esséniens découverts près de la mer Morte, Fayard, Paris 2010, pp. 107ss.; cf. anche E. Puech, La croyance des esséniens et la vie future, immortalité, résurrection, vie éternelle, 2 voll., Lecoffre, Paris 1993. 2 Filone di Alessandria, L’esposizione della Legge; testo greco edito in L. Cohn, P. Wendland (ed.), Philonis Alexandrini opera quae supersunt, Reimer, Berlin 1896-1915 (rist. De Gruyter, Berlin 1962), §§ 75-91. 3 Il R.P. J. Daniélou scrive a tale proposito: «Il cristianesimo è un essenismo che ebbe successo» (Les manuscrits de la mer Morte et les origines du christianisme, Otrante, Paris 1957, p. 123; tr. it. I manoscritti del Mar Morto e le origini del cristianesimo, Archeosofica, Roma 1990). 4 Atti degli Apostoli 13,46-47; S. Breton, San Paolo, puf, Paris 1988 (tr. it. San Paolo: un ritratto filosofico, Morcelliana, Brescia 1990). 5 C. von T ischendorf , Evangelia Apocrypha, H. Mendelsohn, Leipzig 1853 (rist. Georg Olms Verlag, Hildesheim-Zürich-New York 1987); F. Bavon, P. Geoltrain, Écrits apocryphes chrétiens, 2 voll., Gallimard, Paris 1997, vol. i. 6 F. Quéré, Evangiles apocryphes, Seuil, Paris 1979. 7 Egeria, Journal de voyage, a cura di P. Maraval, Cerf, Paris 2002, p. 69 (ed. it. Egeria, Diario di viaggio, a cura di E. Giannarelli, Edizioni Paoline, Milano 1992). 8 J.P. V alognes , Vie et mort des chrétiens d’Orient. Des origines à nos jours, Fayard, Paris 1994, p. 24. 9 San Clemente colloca queste esecuzioni prima del 68 (C. Aziza, Le chemin de Damas dans tous ses états, «Le monde de la Bible», 187bis (janvier-février 2009), pp. 23ss.; J.Ch. Petitfils, Jésus, Fayard, Paris 2011, p. 62, n. 49 (tr. it. Gesù, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013). 10 M. Scopello, Gli avversari del cristianesimo. Gnosi e manicheismo, in A. Corbin (a cura di), Storia del cristianesimo, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 63-68; Id., Gli gnostici, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993. 11 R. Kassar, M. Meyer, G. Wurst (ed.), L’Évangile de Judas, Flammarion, Paris 2006, p. 156. 12 M. Tardieu, Il manicheismo, Giordano, Cosenza 1988.
13 B. Pouderon, In risposta alle critiche: gli apologeti, da Aristide a Tertulliano, in Corbin, op. cit., pp. 42ss. 14 Il Diatessaron è una silloge evangelica che fu la versione ufficiale della Chiesa siriaca fino al v secolo (ibid., p. 53). 15 Ibid., p. 44. 16 Ibid., p. 46. 17 Si tratta di un sogno nel corso del quale Cristo ordina a Costantino di far realizzare una copia della croce apparsa nel cielo che lo avrebbe protetto (P. Maraval, La véritable histoire de Constantin, Les Belles lettres, Paris 2010, p. 55). 18 G. Ostrogorski, Histoire de l’État byzantin, Payot, Paris 1977, pp. 7172 (trad. it. Storia dell’Impero bizantino, Einaudi, Torino 2014). 19 Maraval, Constantin, cit., pp. 94ss. 20 I.H. Dalmais, Les liturgies d’Orient, Fayard, Paris 1959, p. 58 (tr. it. Le liturgie orientali, Edizioni Paoline, Roma 1982). 21 J. Daniélou, H.-I. Marrou (a cura di), Des origines à saint Grégoire le Grand, in Aa.Vv., Nouvelle histoire de l’Église, 5 voll., Seuil, Paris 19631975, vol. i, p. 159; Dalmais, op. cit., p. 39. 22 Dalmais, op. cit., p. 40. 23 Ostrogorski, op. cit., p. 246. 24 Giovanni Damasceno, De imag., i, 15, in pg, vol. xciv, col. 1244-1245; sull’opera di Efrem: S. M ercati (ed.), Sancti Ephraem Syri Opera, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1915; T.J. Lamy (ed.), Sancti Ephraem Syri Hymni et Sermones, 4 voll., H. Dessain, Mechelen 1902, 18821902; R. Khawam, L’Univers culturel des chrétiens d’Orient, Cerf, Paris 1987, pp. 18-19. 25 K. K rumbacher , Geschichte der byzantinischen Liturgie, ii ed., New York 1970, vol. ii, p. 705. 26 Sulla liturgia di san Giovanni Crisostomo: A. Baumstark, Zur Urgeschichte der Chrysostomosliturgie, «Theologie und Glaube», 5 (1913), pp. 299-313; D. Gousseff, La divine liturgie de Jean Chrysostome, Cerf, Paris 1986. 27 Krumbacher, op. cit., p. 705. Sui Padri della Chiesa: H. von Campenhausen, I padri greci, Paideia, Brescia 1967; Id., I padri della Chiesa latina, Sansoni, Firenze 1970. 28 Giovanni Damasceno, De imag., cit. 29 Giovanni Damasceno, Homélies sur la Nativité et la Dormition, Cerf, Paris 1999. 30 Si cita da Khawam, op. cit., p. 107, il quale a sua volta cita da E. Mounier, Le personnalisme, puf, Paris 1949, p. 107 (tr. it. Il personalismo, a.v.e., Roma 1982). 31 Cosma di Maiuma, Canone del sabato santo, ode 9, Triodio di Atene, p. 437 A, Atene 1896.
32 P. Maraval, Alla ricerca della perfezione. Ascetismo e monachesimo, in Corbin, op. cit., pp. 93-96. 33 W. Dalrymple, Dans l’ombre de Byzance, Noir sur blanc, Montricher 2002, pp. 70-71. 34 Teodoreto di Cirro, 25, in pg, vol. lxxxii, col. 147. 35 E. Boularand, L’hérésie d’Arius et la foi de Nicée, Letouzey & Ané, Paris 1972. 36 Ostrogorski, op. cit., pp. 74, 85-86; Valognes, op. cit., p. 35. 37 La Visione di san Pietro d’Alessandria appare nel decoro ecclesiale delle chiese balcaniche dal xiii secolo (R. Hamann-Mac Lean, Grundlegung zu einer Geschichte der mittelalterlichen Monumentalmalerei in Serbien und Makedonien, Schmitz, Giessen 1976, pp. 150ss. 38 Valognes, op. cit., p. 36. 39 Ostrogorski, op. cit., p. 86. 40 Ibid., p. 87. 41 Valognes, op. cit., p. 340. 42 Ibid., p. 339. 43 L’incomprensione in questione nasceva dalla traduzione in siriaco delle decisioni del concilio di Calcedonia. In siriaco non si distingue tra «natura» e «persona» cosicché gli Armeni credettero che si trattasse di due persone in Cristo, tesi nestoriana (ibidem). 44 Dalmais, op. cit., p. 46. 45 Brentjes R., Mnazakanjan S., Stepanjan N., Kunst des Mittelalters in Armenien, Union Verlag, Berlin 1981, pp. 29, 204; G. Dédéyan, Storia degli Armeni, Guerini, Milano 2002. 46 P. Dib, Histoire de l’Église maronite, La sagesse, Beyrouth 1962; R. Janin, Les Églises orientales et les rites orientaux, Bonne Presse, Paris 1922 (tr. it. I riti e le chiese orientali, Libreria salesiana editrice, Genova-Sampierdarena 1942). 47 Didascalia degli apostoli. I primi libri delle Costituzioni apostoliche, in pg, vol. i, coll. 509-1156. 48 G. V iaud , La liturgie des coptes d’Egypte, Maisonneuve, Paris 1978. Capitolo II 1 Giovanni Damasceno evoca le «energie» che discendono sull’icona e che quest’ultima in parte trattiene (Giovanni Damasceno, De imag., cit., ii, 14, col. 961). Dopo di lui, Teodoro Studita considerava che il rappresentato potesse essere inteso come un sigillo e la sua immagine come un’impronta (T eodoro S tudita , Antirretico, iii, in pg, vol. ic, coll. 429-433). 2 Giovanni Damasceno non esita ad affermare: «Vidi l’immagine di Dio
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e la mia anima fu salvata» (De imag., cit., col. 1256a). 3 E. Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen sur christlichen Legende, J.C. Hinrichs’sche Buchhandlung, Leipzig 1899 (tr. it. Immagini di Cristo, Medusa, Milano 2006). 4 T eodoro il L ettore , Storia ecclesiastica, in pg, vol. lxxxvi, col. 165a. Cfr. anche la traduzione in C. Mango, The Art of Byzantine Empire 312-453: Sources and Documents, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (nj) 1972, p. 40. 5 Il prototipo è la prima e autentica immagine del rappresentato e il modello di tutte le immagini posteriori di una serie. 6 Basilio Magno considera l’oro come «una bellezza semplice e indivisibile [...] la più prossima a quella di Dio» (In Hexaemeron, ii, 7, in pg, vol. xxix, col. 45). Altri teologi bizantini si espressero sull’oro, cfr.: W. Beierwaltes, Lux intelligibilis. Untersuchungen zur Lichtmetaphysik der Griechen, Univ., Diss., München 1957; T. Velmans, L’image byzantine ou la Transfiguration du réel, Hazan, Paris 2011 (ii ed.), pp. 36ss. (tr. it. La visione dell’invisibile: l’immagine bizantina o la trasfigurazione del reale, Galleria Montanari-Jaca Book, Vicenza-Milano 2009). 7 Platone, Il simposio; cfr. anche il commentario di J.-J. Wunenburger, Philosophie des images, puf, Paris 1997, p. 270 (tr. it. Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999). 8 Dionigi l’Areopagita, I nomi divini, in pg, vol. c, col. 701c; tr. francese di M. de Gandillac, Paris 1943, p. 100. 9 Ch. Delvoye, L’art byzantin, Arthaud, Paris 1967, p. 102. 10 Così, per esempio, il Logos dei Greci, presente nei vangeli, non esiste nella rivelazione coranica; anche la nozione di persona è differente da quella greca. Inoltre la maggior parte dei filosofi arabi in realtà non avrebbero compreso il greco, secondo la tesi di S. Gouguenheim (Aristote au Mont Saint-Michel, les racines grecques de l’Europe chrétienné, Seuil, Paris 2008, pp. 21-26; tr. it. Aristotele contro Averroè. Come cristianesimo e Islam salvarono il pensiero greco, Rizzoli, Milano 2009). 11 M.A. Crippa, M. Zibawi, L’arte paleocristiana, Jaca Book, Milano 1998, fig. 44. 12 Ibid., fig. 43. 13 Ibid., fig. 101. 14 Delvoye, op. cit., p. 39. 15 Ibid., p. 38. 16 Ibid., p. 39. 17 Dalrymple, op. cit., p. 104. 18 Y. Sader o.a.m., Peintures murales dans les églises médiévales du Liban, Dar Sader, Beyrouth 1987.
19 Delvoye, op. cit., p. 36. 20 A. Grabar, Martyrium. Recherches sur le culte des reliques et l’art chrétien antique, 2 voll., Collège de France, Paris 1946, pp. 282ss. 21 H. Bresc, Affermazione, contestazioni e risposta pastorale, in Corbin, op. cit. 22 A. Grabar, L’iconoclasme byzantin. Dossier archéologique, Collège de France, Paris 1957, p. 50. 23 X. Muratova, Western Chronicles of the First Crusade as Sources for the History of Art in the Holy Land, in J. Folda (a cura di), Crusader Art in the Twelfth Century, British School of Archeology in Jerusalem, Oxford 1982, p. 47. 24 B. von Brentjes, Mnazakanjan S., Stepanjan N. (a cura di), Kunst des Mittelalters in Armenien, Union Verlag, Berlin 1981, pp. 28-29. 25 Ibidem. 26 P. Donabédian, J.-M. Thierry, Les arts arméniens, Mazenod, Paris 1989, pp. 50ss. 27 Ibid., figg. 635-636. 28 Ibid., figg. 429-440. 29 Cfr. anche altri particolari architetturali in S. Der Nersessian, L’Art arménien, Arts et métiers graphiques, Paris 1977, pp. 21-50. 30 Sulla storia dell’Armenia: R. Grousset, Histoire de l’Arménie des origines à 1071, Payot, Paris 1947; Dédéyan, op. cit.. 31 J. Nasrallah, L’église Melkite en Iraq, en Perse et dans l’Asie centrale, poc, 25 (1975), pp. 135-172. 32 Dalrymple, op. cit., pp. 96-97. 33 Rufino di Aquileia, Storia ecclesiastica, lib. x, cap. ii. 34 I. Reissner, Georgien: Geschichte, Kunst, Kultur, Herder, Freiburg im Breisgau 1990, p. 24. 35 Ibid., pp. 60-65. 36 R. Mepisašwili, W. Zinzadze, Die Kunst des alten Georgien, Atlantis-Verlag, Zürich 1977, p. 59. 37 Ibid., p. 63. 38 Sono citati il fratello di Stefano, Demetrio, e il principe ereditario Adarnase. Questi sono raffigurati con altri personaggi su un bassorilievo della facciata est (W. Djobadze, The Sculptures on the Easter Façade of the Holy cross of Mtskheta, oc, 44 (1960), pp. 45ss. 39 T. Virsaladze, Rospisi Atenskogo Siona, Xelovneba, Tbilisi 1984, pp. 13ss. 40 G. \ ubinašvili, Cromi: iz istorii gruzinskoj architektury pervoj treti 7 veka, Moskva. 41 Sulla storia della Georgia e la fondazione del monastero cfr. anche: M.-F. Brosset, Histoire de la Géorgie depuis l’Antiquité jusqu’au xixe siècle, Accademia imperiale delle Scienze di Russia, St. Pétersbourg 1849; A. Manvelišvili, Histoire de la Géorgie, Éds. de la Toison d’or, Paris 1957. 42 Queste sono condotte da Settimio Severo (202), Decio (250), Valeriano (258), Diocleziano (a partire dal 303), Galerio (304) e Massimino Daia (311-313) (P. Du Bourguet, L’art copte, Albin Michel, Paris 1968, p. 19; tr. it. I Copti, Il Saggiatore, Milano 1969). 43 Ibid., p. 81. 44 Ibid., p. 17. 45 M. Zibawi, Images de l’Egypte chré-
tienne, Picard, Paris 2003, tav. 128 (tr. it. L’arte copta: l’Egitto cristiano dalle origini al xviii secolo, Jaca Book, Milano 2003). 46 Valognes, op. cit., pp. 233ss. 47 Zibawi, op. cit., fig. 2. 48 Delvoye, op. cit., pp. 41-42. 49 Zibawi, op. cit., fig. 17. 50 Ibid., fig. 33. 51 Donabédian, Thierry, op. cit., fig. 226. 52 U. Monneret de Villard, La Nubia medioevale, 4 voll., Servizio delle antichità dell’Egitto, Il Cairo 19351957; E. Dinkler (a cura di), Kunst und Geschichte Nubiens in christlicher Zeit, Verlag Aurel Bongers, Recklinghausen 1970; sulla liturgia etiope: K. Stoffregen-Pedersen, Gli etiopi, Interlogos, Schio 1993. 53 W. Raunig (a cura di), Etiopia. Storia, Arte Cristianesimo, Jaca Book, Milano 2005. 54 C. Lepage, Esquisse d’une histoire de l’ancienne peinture éthiopienne du xe au xve siècle, «Abbay. Documents pour servir à l’histoire de la civilisation éthiopienne»», 8 (1977), p. 95. 55 Sull’architettura di questi santuari: M. Restle, Studien zur frühbyzantinischen Architektur Kappadokiens, Verlag d. Österr. Akad. d. Wiss, Wien 1979. 56 Valognes, op. cit., p. 800. 57 Gregorio di Nissa, Lettres, ed. e tr. di P. Maraval, Cerf, Paris 1990, pp. 116-117. 58 Valognes, op. cit., pp. 799ss. 59 Gli animali fantastici sono spesso copiati direttamente da quelli persiani, in particolare i grifoni. 60 Sulle piante di queste chiese a volta: Delvoye, op. cit., p. 43. 61 Daniélou, Marrou, op. cit., pp. 7981, 322-323. 62 R. Ettinghausen, La peinture arabe, Skira, Genève 1962; cfr. anche A. Grabar, Islamic art and Byzantium, dop, 18 (1964), pp. 67-88. 63 Il Corano, a cura di R. Hamza Piccardo, Newton & Compton, Roma 2006. Capitolo III 1 Questa stele, originaria del Fayyum, si trova allo Staatliche Museen di Berlino (Du Bourguet, op. cit., fig. 25). 2 Crippa, Zibawi, op. cit., figg. 321-322. 3 Attualmente al Kelsey Museum of Archaeology (University of Michigan). A. Grabar, L’âge d’or de Justinien, Gallimard, Paris 1966, fig. 190 (tr. it. L’eta dell’oro di Giustiniano, Rizzoli, Milano 1966). 4 Zibawi, op. cit., fig. 100. 5 Ibid., fig. 102. 6 J. Leroy, Découvertes de peintures chrétiennes en Syrie, «Les Annales archéologiques arabes chrétiennes», 25 (1975), pp. 99ss. 7 M. Heldman, The Marian Icons of the Painter Fre Seyon, Harrasowitz, Wiesbaden 1994, tav. i. 8 P. Van Moorsel, Die stillende Gottesmutter und die Monophysiten, in E. Dinkler, Kunst und Geschichte Nubiens in christlicher Zeit, Aurel Bongers, Recklinghausen 1970, pp. 281-290. 9 E. Beck, csco, pp. 187-188. 10 C. Vona, Omelie mariologiche di S.
Giacomo di Sarug, Università del Laterano, Roma 1953, p. 162. 11 C. Stornajolo, Miniature delle Omilie di Giacomo monaco (Cod. Vatic. gr. 1162) e dell’Evangeliario greco Urbinate (Cod. Vatic. Urbin. gr. 2), Danesi Editore, Roma 1910. 12 C. Jolivet-Lévy, La Cappadoce médiévale. Images et spiritualité, Zodiaque, Paris 2001, p. 132, tav. 39 (tr. it. L’arte della Cappadocia, Jaca Book, Milano 2001). 13 K. Weitzmann et al., Ikone sa Balkana, Jugoslavija, Beograd 1972, capitolo sulle icone georgiane (G. Alibegašvili, A. Volskaja), p. 89, tav. 108. 14 T. Velmans, L’art de l’icône, Citadelles et Mazenod, Paris 2012, tav. 100 (tr. it. L’arte dell’icona, Jaca Book, Milano 2013). 15 Ead., Les valeurs affectives dans la peinture murale byzantine au xiiie siècle et la manière de les représenter, in J.V. Djuri\ (a cura di), L’art byzantin du xiiie siècle (Symposium de Sopocani), Univ. di Beograd, Beograd 1967, pp. 47-58; G. Maguire, The Depiction of Sorrow in Middle Byzantine Art, dop, 31 (1977), pp. 123-174. 16 Du Bourguet, op. cit., p. 38. 17 M.I. Rostovtzeff (a cura di), The Excavations at Doura Europos. Preliminary Report of the Fifth Season of Work, Yale University Press, New Haven 1934. 18 Cfr. cap. vii. 19 M.I. Rostovtzeff, Doura Europos and its Art, Oxford University Press, Oxford 1938; Crippa, Zibawi, op. cit., figg. 67-68. 20 Ibid., figg. 189-195. 21 Ibid., p. 45. 22 Ibid., fig. 403. 23 Grabar, L’âge d’or, cit., figg. 362, 365. 24 Ibid., fig. 366. 25 A. Grabar, Les ampoules de Terre Sainte, Klincksieck, Paris 1958, fig. xxviii. 26 Ibid., p. 64. 27 W. Skehan, An illuminated Book in Ethiopic, in D. Miner (a cura di), Studies in Art and Literature for Belle da Costa Green, Princeton University Press, Princeton 1954, pp. 350-357. 28 Ibid., p. 356. 29 J. Doresse, Littérature éthiopienne et littérature occidentale au Moyen Âge, «Bulletin de la Société d’archéologie copte», 16 (1961-1962), pp. 139-159. 30 Grabar, Ampoules, cit., pp. 64-50. 31 Cfr. l’ampolla num. 10 di Monza, la figura di sinistra (ibid., fig. xvi). 32 Cfr. l’ampolla num. 11 di Monza (la figura di sinistra è seduta con le gambe divaricate, quella di destra le ha incrociate) (ibid., fig. xviii). 33 Nelle figure di sinistra delle ampolle num. 3 e 4 di Bobbio (ibid., figg. xxxiv-xxxv). 34 E. Balicka-Witakowska, La Crucifixion sans Crucifié dans l’art éthiopien, Zav Pan, Warszawa 1997, figg. 23-27. 35 Ibid., tavv. ii-xiv; cfr. anche C. Lepage, Les croix éthiopiennes, «Les dossiers de l’archéologie», 8 (1975), pp. 74-79. 36 Efrem il Siro, Commento al Diatessaron, cap. xxi, 9, p. 378; Efrem di Nisibe, Commentaire de l’Evangile concordant ou Diatessaron, a cura di L. Leloir, Cerf, Paris 1966, p. 121.
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37 Der Nersessian, L’Art arménien, cit., fig. 34. 38 Gregorio di Nissa si esprime su questo soggetto, in rapporto ai Quaranta martiri di Sebaste e alla loro sepoltura, nella sua terza omelia (in pg, vol. xlvi, col. 785). 39 M. van Berchem, E. Clouzot, Mosaïques chrétiennes du ive au xe siècle, Genève 1924, pp. 79ss. 40 Grabar, Ampoules, cit., figg. xxxivxxxv. 41 Ch. Ihm, Die Programme der christlichen Apsismalerei vom vierten Jahrhundert bis zur Mitte des achten Jahrhunderts, Steiner, Wiesbaden 1960, p. 90, fig. 24. 42 G. Bovini, Mosaïques de Ravenne, Librairie Plon, Paris 1957, p. 148 (ed. or. Mosaici di Ravenna, Silvana, Milano 1956). 43 J. Leroy, Les manuscrits syriaques à peintures conservés dans les bibliothèques d’Europe et d’Orient, Geuthner, Paris 1965, figg. 5,2; 8,3s; Id., Les manuscrits coptes et coptes-arabes illustrés, Geuthner, Paris 1974, figg. 37ss. 44 K. Michalowski, Faras: Wall Painting in the Collection of the National Museum in Warsaw, Wydawnictwo Artystyczno-Graficzne, Warszawa 1974, p. 54. 45 M. Restle, Die Byzantinische Wandmalerei in Kleinasien, Verlag Aurel Bongers, Recklinghausen 1967, figg. 98-99ss. 46 Acta Andreae, ed. di J.-M. Prieur, 2 voll., Brepols, Turnhout 1983, vol. i, pp. 244-264, vol. ii, pp. 738-740. 47 Grabar, Ampoules, cit., fig. xxi-xxii. 48 Balicka-Witakowska, op. cit., fig. 87. 49 S.J. Amiranayvili, L’art des ciseleurs géorgiens, Gründ, Paris 1971, fig. 21. 50 Balicka-Witakowska, op. cit., figg. 90-91. 51 Leroy, Manuscrits syriaques, cit., fig. 32. 52 Balicka-Witakowska, op. cit., fig. 15. 53 Jolivet-Lévy, La Cappadoce médiévale, cit., fig. 222. 54 K. Weitzmann, Loca Sancta and the Representational Arts of Palestine, in Id. (a cura di), Studies in the Arts at Sinaï: Essays, Princeton University Press, Princeton 1982, p. 19, fig. 40 e 83; Id., The Monastery of Saint Catherine of Mount Sinai. The Icons, vol. i, From the Sixth to the Tenth Century, Princeton University Press, Princeton 1976, p. 38. 55 In dacl, vol. vii, col. 2322, «Jérusalem». 56 H. Belting, Ch. Belting-Ihm, Das Kreuzbild im “Hodegos” des Anastasios Sinaites. Ein Beitrag zur Frage nach der ältesten Darstellung des toten Crucifixus, in W.N. Schumacher (a cura di), Tortulae. Studien zu altchristlichen und byzantinicschen Monumentum, rq 30 Suppl., Roma-Freiburg-Wien 1966, p. 36, in part. figg. 6a-b, 83. 57 T. Velmans, Une variante originale de la crucifixion de type palestinien, in Ead., L’Art de l’Orient chrétien, Recueil d’études, Picard, Sofia-Paris 2002 (ii ed.), pp. 291ss. 58 T.S. Sheviakova, Monumental’naja živopis’ rannégo srednévékov’ia Gruzii, Tbilisi 1983, figg. 31, 32. 59 «L’acqua e il sangue del costato han-
no rinnovato il mondo. Signore, con l’acqua tu lavi i nostri peccati e con il tuo sangue tu ci perdoni, Gesù Cristo, nel nome del tuo amore compassionevole». Si tratta ancora una volta di una concezione molto ottimista della redenzione. 60 R. Murray, Symbols of Church and Kingdom: a Study in Early Syriac Tradition, Cambridge University Press, London 1975, p. 138. 61 Sheviakova, op. cit., n. 58. 62 Questo testo dice che Cristo è venuto a cercare Adamo e, non avendolo trovato, scese all’inferno per cercarlo (E. Mercenier, La prière des Églises de rite byzantin, 3 voll., Monastère de Chevetogne, Chevetogne 1949, vol. ii, Les fêtes, p. 222. 63 Ibid., pp. 331ss. 64 J. Thekeparampil, Adam-Christus in den Passionssedrë und in der Schatzhöhle, in R. Lavenant (a cura di), iii Symposium Syriacum 1980. Les contacts du monde syriaque avec les autres cultures (Goslar 7-11 Septembre 1980), Pontifico Istituto Orientale, Roma 1983. 65 Z. Avaliyvili, Notice sur une version géorgienne de la Caverne des Trésors, apocryphe syriaque attribué à saint Éphrem, «Revue de l’Orient chrétien», 26 (1927-1928), pp. 381405. 66 Velmans, Une variante, cit., fig. 220. 67 L. Zakarian, Iz istorii Vaspurakanskoi miniatury, Erevan 1980, vol. i, fig. 35. 68 Ibid., fig. 36. 69 A.F.J. Klijn, Seth in Jewish, Christian and Gnostic Literature, Brill, Leiden 1977, pp. 55-57. 70 Ibid., p. 77. 71 Grabar, Ampoules, cit., figg. xxv, xli. 72 Per esempio nel Tetravangelo di Alaverdi (1054) (Ch. Amiranayvili, Gruzinskaja miniatjura, Iskusstvo, Moskva 1966, fig. 22. 73 Der Neressian, L’Art arménien, cit., fig. 152. 74 Leroy, Manuscrits coptes, cit., figg. 3-7. 75 N.A. Aladayvili, Monumental’naja skoul’ptura Gruzii, Iskusstvo, Moskva 1977, fig. 145. 76 Per esempio nella cattedrale di S. Demetrio a Vladimir (1194-1197) o in quella di Juriev Polski (12301234) (H. Faensen, Siehe die Stadt, die leuchtet, Koehler & Amelang, Leipzig 1989, rispettivamente: figg. 64-79 e 94-97). 77 Ibid., figg. 90-92. 78 Per esempio sulla facciata della cattedrale di Vladimir (ibid., figg. 69, 73, 74). 79 Der Nersessian, L’Art arménien, cit., fig. 43. 80 Ibid., figg. 40-41. 81 Ibid., p. 67. 82 La katchkhar di Narduz (Siounie, 996) è un bell’esempio (Donabédian, Thierry, op. cit., fig. 67). 83 Ibid., fig. 226. 84 Ibid., pp. 55-56. 85 Der Nersessian, L’Art arménien, cit., fig. 141. 86 Per esempio sulla facciata della chiesa di Samtavisi (1030) (Mepisašvili, Zinzadze, op. cit., fig. a p. 158). 87 Donabédian, Thierry, op. cit., figg. 209-211. 88 Aladayvili, op. cit., figg. 82-85.
89 Donabédian-Thierry, op. cit., figg. 51-52. 90 Ibid., fig. 246. 91 Ibid., fig. 43. 92 Ibid., fig. 252. 93 M.S. Ipsiroglou, Die Kirche von Achtamar. Bauplastik im Leben des Lichtes, Florian Kupferberg, Berlin-Mainz 1963, fig. 49-50; S. Der Nersessian, Aght’amar, Church of the Holy Cross, Harvard University Press, Cambridge (ma) 1965. 94 Aladayvili, op. cit., fig. 19-22. 95 R. Ghirshman, Iran. Parthes et Sassanides, Gallimard, Paris 1962, p. 288 (tr. it. Arte persiana: Parti e Sassanidi, Rizzoli, Milano 1982). 96 Aladayvili, op. cit., fig. 47. 97 Ibid., fig. 32. 98 Ibid., fig. 31. 99 Ibid., fig. 35. 100 Ibid., fig. 40. 101 Amiranayvili, Les ciseleurs, cit., figg. 19-20. 102 R. Ghirshman, Perse. Proto-Iraniens. Mèdes. Achéménides, Gallimard, Paris 1963, fig. 219 (tr. it. Arte persiana: Proto-iranici, Medi e Achemenidi, Rizzoli, Milano 1964). 103 Leone, Musée du Louvre, proveniente da Suse (ibid., fig. 143). 104 Velmans, L’art de l’icône, cit., fig. 153. 105 Ibid., fig. 114. Capitolo IV 1 Massimo il Confessore vedeva nella creazione materiale dell’edificio di culto un riflesso della Chiesa acheropita (non fatta da mano d’uomo), e nella Chiesa mistica l’unità della Chiesa celeste e terrena (Massimo il Confessore, Mistagogia, vol. ix, cap. ii, col. 669). 2 R. Bornert, Les commentaires byzantins de la Divine liturgie du viie au xve siècle, Institut français d’Études byzantins, Paris 1966, pp. 173-175. 3 Ibid., p. 120. 4 van Berchem, Clouzot, op. cit., fig. 184. A proposito degli artisti constanipolitani cfr. V.N. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Einaudi, Torino 1963, pp. 69-70. 5 A. e J. S tylianou , The Painted Churches of Cyprus. Treasures of Byzantine Art, Trigraph Ltd, London 1985, figg. 17, 13. 6 van Berchem, Cluzot, op. cit., fig. 221, pp. 175ss. 7 Delvoye, op. cit., fig. 15. 8 Bornert, op. cit., p. 232. 9 G. Babi\, Les discussions christologiques et le décor des églises byzantines au xiie siècle, «Frühmittelalterliche Studien», 2 (1968), pp. 368-386. 10 Nicola Cabasila, Spiegazione della divina liturgia, 20, in pg, col. cl, col. 412d. Cfr. anche Bornert, op. cit., p. 248. 11 Ibid., pp. 43-48. 12 F. Lenoir, Comment Jésus est devenu Dieu, Fayard, Paris 2010, p. 120. 13 Così i profeti raffigurati nel mosaico della chiesa di Cristo Latome a Tessalonica (v sec.), che rappresenta l’immagine di una Visione di Dio, sono stati interpretati in vario modo. Innanzitutto il monaco Ignazio vi ha visto Ezechiele e Abacuc; André Grabar (Martyrium, cit., pp. 198200) ha pensato a Ezechiele e Zac-
caria; Christa Ihm (op. cit., p. 46), a Isaia ed Ezechiele. Nell’affresco della cappella 1727 di Saqqara, sembra essere rappresentato Enoch (J.E. Quibell, Excavations at Saqqara, 6 voll., Institut français d’archéologie orientale, Il Cairo 1905-1914, vol. iv, tav. xxiv). 14 Non si tratta della traduzione fedele di un passaggio dell’ufficio, ma di più evocazioni tra cui quelle del Trisagion nella liturgia di san Basilio (F.E. Brightman, C.E. Hammond, Liturgies Eastern and Western, Clarendon Press, Oxford 1896, pp. 321-323; G. de Jerphanion, Les noms des Quatre animaux et le commentaire liturgique du Pseudo-Germain, in Id., La voix des monuments. Notes et études d’archéologie chrétienne, Van Oest, Paris 1930, pp. 250-259. 15 O. T reitinger , Die oströmische Kaiser-und-Reichsidee nach ihrer Gestaltung im höfischen Zeremoniell: vom oströmischen Staats-und Reischsgedanken, H. Genter Verlag, Darmstadt 1956, pp. 199ss. 16 Atti degli Apostoli 1,9-11. 17 Si tratta di gran lunga del tipo più diffuso, come per esempio nella cappella di Bawit (J. Clédat, Les monastères de la nécropole de Baouît, Institut français d’archéologie orientale, Le Caire 1904, tav. xl, xc, ecc.), o di Saqqara (Quibell, op. cit., vol. ii, tav. iii, viii, xlvi, lv). Esempi simili si trovano anche altrove in Oriente. 18 H.P. L’Orange, Studies on the Iconography of Cosmic Kingship in the Ancient World, Caratzas Brothers, Oslo 1953; W. Neuss, Das Buch Ezechiels in Theologie und Kunst bis zum Ende des 12. Jhs., Aschendorffsche, Münster 1912, p. 26. 19 Grabar, Martyrium, cit., p. 179, n. 2. 20 Sull’origine della gloria e sul suo significato, cfr. L’Orange, op. cit., pp. 90-102. 21 Th. Matthews, The clash of Gods. A Reinterpretation of Early Christian Art, Princeton University Press, Princeton 1993, p. 117, n. 11 (tr. it. Scontro di dei: una reinterptretazione dell’arte paleocristiana, Jaca Book, Milano 2005). 22 Grabar, Martyrium, cit., p. 179, n. 2-3. 23 Lettera di san Paolo ai Filippesi 2,911. 24 In merito a questi animali cfr. J. Trinquet, «Kerub, Kerubim», in Supplément du Dictionnaire de la Bible, vol. v, col. 183-189; H. Lerclercq, «Séraphins», in dacl, xv, 1, 1305. 25 Neuss, op. cit., pp. 26-27. 26 Ireneo di Lione, Adv. Haereses, iii, 11, 8, in pg, vol. vii, col. 885-888. 27 de Jerphanion, op. cit. 28 F. Van der Meer, Majestas Domini, Théophanies de l’Apocalypse dans l’art chrétien, Pontificio Istituto d’Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1938, pp. 260ss. 29 J. Leroy, Les peintures des couvents du désert d’Esna, Institut français d’archéologie orientale, Il Cairo 1975, p. 44. 30 Neuss, op. cit., pp. 68, 93. 31 Ibid., p. 54. 32 Bornert, op. cit., p. 103. 33 Neuss, op. cit., p. 64, n. 6. 34 Ihm, op. cit., pp. 198-205. 35 Ibid., pp. 205-209. 36 Clédat, Les monastères, cit., tav. xxvi.
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37 A. Grabar, L’Empereur dans l’art byzantin: recherches sur l’art officiel de l’empire d’Orient, Collège de France, Paris 1936, tav. xiv. 38 Clédat, Les monastères, cit., vol. iv, p. 137. 39 Clédat, Mémoires, cit., vol. xii, 2, pp. 75ss., tav. 40; Id., Les monastères, cit., tav. xl. 40 Mercenier, op. cit., vol. i, L’office divin. 41 Bornert, op. cit., p. 106, n. 3. 42 Grabar, L’Empereur, cit., pp. 31, 24, n. 2. 43 È il caso anche della Cappadocia (C. Jolivet-Lévy, Les églises byzantines de Cappadoce. Le programme iconographique de l’abside et de ses abords, cnrs, Paris 1991, p. 10). 44 Neuss, op. cit., p. 80, 156. 45 L’iscrizione in greco è in Ihm, op. cit., p. 201. 46 Clédat, Le monastère, cit., tav. xl. 47 Leroy, Les manuscrits syriaques, cit., pp. 183-187, n. 9. 48 G. Sachsen Herzog zu, Streifzüge durch die Kirchen und Klöster Ägyptens, Berlin 1913, vol. i, fig. 89, 171; vol. ii, fig. 14-16. 49 Decoro conservato al Metropolitan Museum di New-York. 50 E. White The Monastery of Wadi n’Natrûn, iii. The Architecture and Archeology, Hauser, New York 1933, tav. lvii. 51 Al Museo Copto del Cairo (Ihm, op. cit., p. 200, p. xxv, 1). 52 van Berchem, Clouzot, op. cit., fig. 225. 53 Quibell, op. cit., tav. xxiv. 54 Leroy, Les peintures d’Esna, cit., figg. 3, 15, tav. 13. 55 Ibid., tav. 31. 56 Du Bourguet, op. cit., p. 144. 57 W. de Bock, Matériaux pour servir à l’archéologie de l’Egypte chrétienne, E. Tile, Saint-Pétersbourg 1901, tav. xxxi. 58 Leroy, Les peintures d’Esna, cit., p. 48. 59 Monneret de Villard, La Nubia, cit., vol. iii, tav. cxlviii. 60 P. Van Moorsel, Der Kontext der Wandmalereien von Abdallah Nirqi, in P.W. Pestman (a cura di), Acta orientalia neerlandica, Brill, Leiden 1971, pp. 22-27. 61 Michalowski, op. cit., pp. 19, 180. 62 E. Hammerschmidt, Symbolik des orthodoxen und orientalischen Christentums, Hiersemann, Stuttgart 1966, p. 19. 63 Quello di Mersin per esempio (A. Grabar, Un médaillon en or provenant de Mersine, dop, 6 (1951), pp. 37-49). 64 Michalowski, op. cit., pp. 180ss. 65 Ibid., p. 181. 66 Ibid., p. 54ss. 67 Ibid., p. 3295, n. 27; F. Volbach, J. Lafontaine-Dosogne, Byzanz und der christliche Osten, in K. Bittel (a cura di), Propyläen Kunstgeschichte, 23 voll., Propyläen Verlag, 19671980, vol. iii (1968), fig. 413b. 68 Monneret de Villard, La Nubia, cit., vol. iv, tav. cxvii, 4, 5. 69 P. Van Moorsel, Une Théophanie nubienne, «Rivista di Archeologia Cristiana», 42 (1966), pp. 297-316, in part. p. 308. 70 C. Lepage, Le Christ et les Quatre animaux céleste dans les anciens manuscrits éthiopiens, «Abba y. Docu-
ments pour servir à l’histoire de la civilisation éthiopienne», 7 (1976), pp. 70-109, in part. p. 84; U. Monneret de Villard, La Majestas Domini in Abissinia, «Rassegna di studi etiopici», 3 (1935), pp. 36-45; L. Ricci, Qualche osservazione sulla iconografia della Majestas Domini, «Rassegna di studi etiopici», 15 (1959), pp. 106113. 71 B. Gray, La peinture persane, Skira, Genève 1977, p. 25. 72 Lepage, Le Christ, cit., p. 64. 73 Th. Wiegand, Der Latmos, Reimer, Berlin 1913, pp. 191-202, tav. 1. 74 Jolivet-Lévy, La Cappadoce, cit., p. 93. 75 J. Lafontaine-Dosogne, Théophanies-Visions auxquelles participent les prophètes dans l’art byzantin après la restauration des images, in A. Grabar (a cura di), Synthronon. Art et archéologie de la fin de l’antiquité et du Moyen Âge. Recueil d’études, Klincksieck, Paris 1968, pp. 87-125. 76 de Jerphanion, op. cit., pp. 250-252; van Der Meer, op. cit., pp. 260ss. 77 L afontaine -D osogne (op. cit..) propone una datazione verso la fine del ix secolo; è stato proposto anche il x secolo (Jolivet-Levy, Les églises byzantines, cit.). 78 F.-E. Brightman, The Historia mystagogica and other Greek commentaries on the Byzantine liturgy, «Journal of Theological Studies», 9 (1908), pp. 261-394. 79 Giovanni Crisostomo, in pg, vol. xlix, col. 345 e vol. lvii, col. 139. 80 G iovanni D amasceno , De Fide orthodoxa, iv, 3, in pg, vol. 94, col. 1149. 81 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., pp. 180-182, per la data cfr. p. 186. 82 Ibid., p. 180. 83 Ibid., p. 50, tav. 39. 84 Restle, Die Byzantinische, cit., vol. ii, fig. 123. 85 Der Nersessian, L’Art arménien, cit., tav. 46. 86 Ibid., tav. 47-8. 87 Queste pitture molto danneggiate sono state diversamente datate. Noi condividiamo la datazione di S.J. A miranayvili , Istorija gruzinskoj monoumental’noj živopisi, Tbilisi 1957, p. 30. 88 G. Millet, La Dalmatique du Vatican: les élus, images et croyances, puf, Paris 1945, p. 53. 89 A. Alpago-Novello, T. Velmans, Miroir de l’invisible. Peintures murales et architecture de la Géorgie, Zodiaque, Paris 1996, pp. 20-29 (tr. it. L’arte della Georgia: affreschi e architetture, Jaca Book, Milano 1996). 90 T. Velmans, La koinè grecque et les régions périphériques orientales du monde byzantin, ««Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik», 31 (1981), pp. 677-723, ripreso in Ead., L’art médiéval, cit., pp. 1ss. 91 Sheviakova, op. cit., Tbilisi 1983, p. 17. Capitolo V 1 Tradotto da C. Mango, The Art, cit., pp. 87-88. 2 van Berchem, Clouzot, op. cit., tav. 84. 3 Si tratta di una Deesis incompleta del v-vi secolo, attualmente scomparsa, all’interno della basilica di Notre-Dame de la Daurade a Tolosa, che
non poteva essere che bizantina (T. Velmans, L’image de la Déisis dans les églises de Géorgie et dans celles d’autres régions du monde byzantin (première partie), «CahArch», 29 (1981), p. 39, ripreso in Ead., L’art médiéval, cit., pp. 33-76. 4 W. Grüneisen, Studi iconografici in santa Maria Antiqua, Bretschneider, Roma 1911, p. 120. 5 Si tratta del mosaico con l’imperatore Leone vi in atteggiamento di proskynesis davanti a Cristo in trono: A.Z. Gavrilovi1, The Humiliation of Leo vi the Wise, «CahArch», 28 (1979), pp. 87ss.; cfr. anche la bibliografia in Velmans, L’image de la Déisis, cit., p. 41, n. 46. 6 C. Mango, Materials for the Study of the Mosaics of St. Sophia at Istanbul, Dumbarton Oaks Research Library, Washington 1962, pp. 44-45. 7 Per esempio a S. Sofia a Kiev: Lazarev, op. cit. 8 G. Babi\, Les chapelles annexes des églises byzantines, Klincksieck, Paris 1969, p. 170. 9 Qualche esempio in V elmans , L’image de la Déisis, cit. 10 G. Gerola, Monumenti Veneti nell’isola di Creta, 4 voll., Istituto veneto di scienze, lettere e arti, Venezia 1935, vol. ii, p. 339, n. 51; vol. iv, p. 492, n. 6; p. 495, n. 7; p. 496, n. 9ss. 11 Per esempio a S. Nicola di Kampanari (1337-1338) (D. Mouriki, Les fresques de l’église Saint-Nicola à Platsa du Magne, Banca dell’Attica, Atene 1975, tav. 1). 12 S. Der Nersessian, Two images of the Virgin in the Dumbarton Oaks Collection, dop, 14 (1960), pp. 69-86. 13 E. Kantorowicz, Ivories and Litanies, «Journal of the Warbourg and Courtauld Institutes», 5 (1942), p. 71. 14 Sofronio di Gerusalemme, Encomium in S. Joannem Baptistam, c, 19, in pg, vol. lxxxvii, col. 3351-3352; cfr. anche Cirillo di Alessandria, Commentarium in Joannis Evangelium, i, 6, in pg, lxxiii, col. 105-106. 15 Kantorowicz, op. cit., pp. 71-72. 16 Brightman, Hammond, op. cit., pp. 357ss. 17 Questa qualità è attribuita alla Vergine in un’iscrizione opera di un innografo, che composto dei poemi per la glorificazione di Maria nella cappella sud di Kahrié-Djami (monastero del SS. Salvatore in Chora) (P.A. Underwood, The Kariye Djami, 3 voll., Pantheon Books, New York 1966, vol. i, p. 219). 18 C.A. Swainson (ed.), The Greek Liturgies, Cambridge University Press, Cambridge 1884, pp. 83, 92, 252; A. Frolow, La croix dans le ciel, «Revue des Études Slaves», 27 (1951), pp. 104-112. 19 Mercenier, Les fêtes, cit., pp. 252260. 20 J. Beckwith, The Art of Constantinople. An Introduction to Byzantine Art, 330-1453, Phaidon Press, London 1961, p. 82 (tr. it. L’arte di Costantinopoli. Introduzione all’arte bizantina (330-1453), Einaudi, Torino 1967). 21 Basilio di Cesarea, De Spirito Sancto, 66, in pg, vol. xxxii, col. 189. 22 Brightman, Hammond, op. cit., p. 260. 23 Queste due pitture sono sfortunatamente molto deteriorate. In merito
alla loro datazione cfr. V. Silogava, Freskovije nadpisi ktitorov c Verhnei Svanetii (in georgiano con riassunto in francese), Tbilisi, n. 1. 24 N. Thierry, Peintures du xe siècle en Géorgie Méridionale et leurs rapports avec la peinture byzantine d’Asie Mineure, in Id., Peintures d’Asie Mineure et de Transcaucasie au xe et xie siècle, Variorum Reprints, London 1977, pp. 73ss. 25 Ibid., p. 75. Sulla raffigurazione della Chiesa: S. Skhirtladze, The Mother of all Churches: remarks on the iconographic programme of the apse decoration of Dört Kilise, «CahArch», 43 (1995), pp. 110-112. 26 Grabar, Les ampoules, cit., tav. liii. 27 U. Monneret de Villard, Les couvents près de Sohâg, 2 voll., Tipografia pontif. Arciv. S. Giuseppe, Milano 1925-1926, vol. i, tav. 15, p. 41. 28 Il dipinto è segnalato dal pittore Tevdore (A.N. Aladašvili, G. Alibegašvili, A. Volskaja, Rospisi chudoznika Tevdore v Verchnej Svanetii, Tbilisi 1966, pp. 8-31, 32-50). 29 G. Millet, D. Talbot Rice, Byzantine Painting at Trebizond, George Allen-Unwin Ltd, London 1936, pp. 127ss. 30 G. de Jerphanion, Une nouvelle province de l’art byzantin. Les églises rupestres de Cappadoce, 2 voll. di testo e 3 voll. di tavole, Geuthner, Paris 1925-1942, p. 280, tav. 59,1. Questo schema appare davanti e non all’interno dell’abside. 31 J. Lafontaine-Dosogne, Une église inédite de la fin du xiie siècle en Cappadoce: la Bezirana kilisesi dans la vallée de la Belisirma, bz, 61.2 (1968), pp. 291-301; de Jerphanion, Une nouvelle province, cit., vol. i, pp. 492495, tav. 134, 3; vol. ii, pp. 361-368, tavv. 206-208. 32 O.I. Dombrovski, Freski srednevekovogo Kryma, Kiev 1966, p. 52, fig. 25; p. 24, disegno num. 4. 33 de Jerphanion, Une nouvelle province, cit., tav. 114, 1; 125, 1; 98, 1. 34 Millet, Talbot Rice, op. cit., pp. 95ss., 100ss., tav. i, v. 35 La maggior parte delle Deesis georgiane presentano un serafino e un cherubino ai lati del trono, come nella chiesa del Salvatore a Ieli, ma si vedono spesso anche due serafini, come nella chiesa di Chiomgvime. 36 Velmans, L’image de la Déisis, cit., fig. 39. 37 Leroy, Découvertes de peinture, cit., pp. 103ss. 38 O. Demus, Romanische Wandmalerei, Hirmer Verlag, München 1968, tav. xxxiii (tr. it. Pittura murale romanica, Rusconi, Milano 1969). 39 Volbach, Lafontaine-Dosogne, op. cit., fig. 395 b. 40 Ch.-L. Brossé, Les peintures de la grotte de Marina près Tripoli, «Syria», 7 (1926), pp. 29-45; M. Tallon, Peintures byzantines au Liban. Inventaire, «Mélange de l’Université Saint Joseph», 38 (1962), pp. 279-294. 41 Velmans, L’image de la Déisis, cit., fig. 39. 42 A. Volskaja, Rospisi srednevekovikh trapeznih Gruzii, Tbilisi 1974, fig. 12. 43 Quibell, op. cit., vol. iv, tav. 24. 44 Restle, Die Byzantinische, cit., vol. ii, tav. iii, figg. 521-522. 45 de J erphanion , Une nouvelle
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province, cit., tav. 161, 3; C. JolivetLévy, Les églises byzantines, cit., tav. 83, fig. 2. 46 de Jerphanion, Une nouvelle province, cit., vol. ii, pp. 132-133. 47 Policronio di Antiochia vi vede un’emanazione della luce divina e un segno della distanza, dell’impossibilità di avvicinarsi a Dio (Neuss, op. cit., p. 52). 48 Velmans, L’image de la Déisis, cit., p. 18. 49 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., tav. 151, fig. 1. 50 E. C ruikshank -D odd , Medieval Painting in the Lebanon, Reichert Verlag, Wiesbaden 2004, p. 343, tav. lxxviii, fig. 19.2. 51 Anche le Deesis semplici sono spesso accompagnate dai quattro animali in Cappadocia, come si vede a Cemil nella regione d’Ürgüp (ibid., tav. 3233, 35). 52 N. Thierry, La peinture de l’église de Tigrane Honenz à Ani (1215), in J.-M. Thierry (a cura di), iie Symposium international sur l’art géorgien, Metsniereba, Tbilisi 1977, p. 3. 53 Velmans, L’image de la Déisis, cit., fig. 42; Aladašvili, Alibegašvili, Volskaja, op. cit., pp. 51-75. 54 Ibid., pp. 76-87. 55 Sheviakova, Rospisi, cit., pp. 189204. 56 R. Mepisašvili, T. Virsaladze, in Derlemenko E., Gigilašvili E., Gelati: arkhitektura, mozaika, freski, Tbilisi 1982, pp. 169-174. 57 Millet, La Dalmatique, cit., p. 15. 58 Triodio di Atene, 1896, p. 22 e Meneo dell’8 novembre, p. 41; cfr. anche Millet, La Dalmatique, cit. 59 Mercenier, Les fêtes, cit., p. 251. 60 La fede nei quattro grandi arcangeli si basa sul Libro di Enoch, cap. 6-11. Ma il programma absidale di Khé richiama piuttosto la letteratura apocalittica, in cui i quattro arcangeli sono chiamati a risvegliare i morti nel giorno del Giudizio universale (P. Perdrizet, L’archange Ouriel, «Seminarium Kondakorianum», 2 (1928), pp. 241-246). 61 Thierry, Nouvelles églises, cit., p. 212, tav. 96a. 62 Dobschütz, op. cit., vol. ii, p. 1, 1011, 116. 63 Ibid., p. 169. 64 Velmans, L’image de la Déisis, cit., p. 63. 65 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., tavv. 78-79, 2. 66 Millet, Talbot Rice, op. cit., pp. 134-136. 67 Velmans, L’image de la Déisis, cit., fig. 21. 68 Restle, Die Byzantinische, cit., fig. iii, fig. 521. 69 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., tav. 151, 1, 2. 70 Ibid., tav. 180. 71 D. Iosebidze, Einige ikonographische und stilistische Züge in der Wandmalerei der Kirche von Atchi aus dem späten dreizenden Jahrhundert, Atti del Simposio sull’arte georgiana a Tbilisi, 1977. La chiesa si trova nella regione di Gouria, nel sud-ovest della Georgia. 72 Sul rapporto tra la Deesis e la seconda Parusia cfr. Grabar, Martyrium, cit., vol. ii, pp. 179, 208-210. 73 Millet, Talbot Rice, op. cit., p. 104, fig. 70.
74 É.É. Assemani, Dictionnaire Syriaque-Latin, vol. iii, p. 636; Millet, La Dalmatique, cit., p. 24, num. 2. 75 S.J. Amiranayvili, Oubisi, Materiali po istorii Gruzinskoj stennoi givopisi, Tbilisi 1929; Id., Georgian Painter Damiane, Tbilisi 1974. 76 A Bisanzio il Mandylion fu sempre rappresentato nelle parti alte della chiesa, perché la leggenda racconta che la reliquia era stata murata nelle fortificazioni della città di Edessa per proteggerla contro un assedio nemico. Cosa che ella fece prima di essere a lungo dimenticata nel suo nascondiglio, e poi ritrovata miracolosamente. A Ubisi, fu adottata questa collocazione alla sommità dell’abside, mentre in Georgia si osserva più volte sotto l’altare. 77 Basilio di Cesarea, De Spiritu Sancto, cap. 16, 40, in pg, vol. xxxii, col. 141. 78 S.M. Pelekanides, Kastoria, Saloniki 1953, tav. 59a (tr. it. I più antichi affreschi di Kastorià, Stab. Grafico F.lli Lega, Faenza 1964). 79 In particolare in Macedonia nella regione d’Ohrid (G. Suboti1, Sveti Konstantin i Jelena u Ohridu, Beograd 1971, p. 75, fig. 11). 80 Si veda per esempio il dittico a cinque compartimenti di Milano (Crippa, Zibawi, op. cit., fig. 268). 81 Cfr. cap. ix. 82 Grabar, L’Empereur, cit., pp. 234236. 83 A. De Waal, Der Sarkophag des Junius Bassus in den Grotten von St. Peter, Buchdruckerei der Gesellschaft des Göttlichen Heilandes, Roma 1900, tav. xi, pp. 42ss. 84 M. Sakopoulo, Le linteau copte dit d’al Moâllaka, «CahArch», 9 (1957), pp. 98-115. 85 T. Velmans, Observations sur l’emplacement et l’iconographie de l’Entrée à Jérusalem dans les églises de Svanétie (Géorgie), in L. Hadermann -M isguich , G. R aepsaet (a cura di), Rayonnement grec. Hommage à Charles Delvoye, éd. de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1982, pp. 123-134. 86 Lepage, Le Christ, cit., p. 94. 87 F. Volbach, Die Elfenbeinarbeiten der Spätantike und des frühen Mittelalters, Mainz 1952 (ii ed.); Der Nersessian, L’Art arménien, cit., fig. 48. 88 T. Virsaladze, Fragmenti freskovoi rospisi gelatskogo khrama, «Ars Georgika», 5 (1955), pp. 169-231. 89 T. Velmans, Les peintures de l’église dite Tanghil, en Géorgie, «Byzantion», 52 (1982), pp. 389-412, ripreso in Ead., L’art médiévale, cit., pp. 159-173. 90 Grabar, Martyrium, cit., vol. ii, p. 188. 91 de Jerphanion, Une novelle province, cit., vol. i, tav. 64, 1; Thierry, Nouvelles églises, cit., tav. 67b. 92 Leroy, Les manuscrits syriaques, cit., tav. 55, 2. 93 G. Millet, Recherches sur l’iconographie de l’Evangile aux xive, xve et xvie siècles d’après les monuments de Mistra, de la Macédoine et du mont Athos, Fontemoing, Paris 1916, fig. 248. 94 Ibid., fig. 238. 95 N. e M. Thierry, Nouvelles églises, cit., pp. 93, 147. 96 E. M ercenier , La prière, cit., ii , 2a parte, p. 70.
97 Ibid., p. 71. 98 Ibid., pp. 80-81. Capitolo VI 1 Grabar, L’Empereur, cit., pp. 32ss. 2 Ihm, op. cit., p. 79, n. 9. 3 Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, iii, 49, in pg, vol. xx, col. 1109. 4 Grabar, L’Empereur, cit., p. 32, n. 3. 5 Eusebio di Cesarea, op. cit., ii, col. 944ss. 6 Ihm, op. cit., p. 86. 7 H. Grégoire, L’etymologie de «Labarum», «Byzantion», 4 (1927-1928), pp. 477-482; dacl, alla voce «Labarum». 8 van Berchem, Clouzot, op. cit., p. 113. 9 Ibid., p. 106. 10 Simeone di Tessalonica, Contra haereses, 11, in pg, vol. clv, col. 68. 11 Bovini, op. cit., pp. 12, 13. 12 G. \ubinašvili, I monumenti del tipo di Fvari, Politecnico di Milano, Milano 1976, pp. 104ss. 13 N. Thierry, Peintures du xe siècle, cit., p. 90, fig. 17. 14 T. Virsaladze, Nekotorye voprosy obycei kompozicii rospisi Atenskogo Siona, in Alibegayvili G. et al., Srednevekovoe Iskusstvo, Rus’, Gruzija, Moskva 1978, pp. 83-91. 15 E.L. Privalova, Rospis’ Timotesubani: issledovanie po istorii gruzinskoj srednevekovoj monumental’noj živopisi, Tbilisi 1980. 16 Velmans, L’image de la Déisis, cit., p. 39, fig. 19. 17 Ibid., fig. 20. 18 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., tav. 108. 19 J. Strzygowski, Die Baukunst der Armener und Europa, A. Schroll & Company, Wien 1918, pp. 217-218, 221, fig. 82. 20 der Nersessian, L’Art arménien, cit., fig. 146. 21 Ibid., fig. 138, p. 185. 22 Ibid., p. 207. 23 Ihm, op. cit., p. 209. 24 Ibid., p. 210. 25 Ibid., fig. 14, p. 76. 26 J. Lassus, Sanctuaires chrétiens de Syrie, Geuthner, Paris 1947, pp. 299, 301. 27 E. Peterson, La croce e la preghiera verso l’Oriente, «Ephemerides Liturgicae», 59 (1945), p. 61. 28 N. Thierry, Les églises rupestres de Cappadoce, in L. Giovannini (a cura di), Arte della Cappadocia, Nagel, Ginevra 1971, fig. 74. 29 Ibid., fig. 75. 30 N. Thierry, Église de Kizil Tchoukour de Cappadoce, «Monuments Piot», 50 (1959), pp. 565-570; Ead., Les églises rupestres, cit., fig. 73-76, 79. 31 Ibid., fig. 83. 32 Ibid. p. 103-104. 33 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., tav. 46, 1. 34 Ibid., tav. 114. 35 Thierry, Nouvelles églises, cit., tav. 36a-b-c, 37. 36 Leroy, Les manuscrits syriaques, cit., tav. 7, 2. 37 Ibid., tav. 2, 3. 38 Ibid., tav. 41. 39 Ibid., tav. 5, 2. 40 Ibid., tav. 8, 3. 41 Volbach, Lafontaine-Dosogne, op. cit., tav. 436. 42 Ibid., tav. 432.
43 U. Monneret de Villard, La chiesa di Santa Barbara al Vecchio Cairo, Fratelli Alinari, Firenze 1922, cap. 2. 44 Grabar, L’Empereur, cit., p. 34, tav. xiii, xv. 45 Ibid., p. 34, n. 3. 46 Ibid., p. 36, n. 4. 47 Delvoye, op. cit., fig. 49. 48 Volbach, op. cit., p. 64, tav. 39, n. 125; p. 70, tav. 44, n. 142; p. 71, tav. 47, n. 145. 49 G rabar , Les ampoules, cit., tav. xxxii. 50 Ibid., tav. xxxiii. 51 Aladayvili, op. cit., fig. 30, p. 33. 52 Ibid., fig. 36, p. 38. 53 Ibid., fig. 118, p. 104. 54 Ibid., fig. 167, p. 172. 55 Repertorio dell’Istituto di Storia dell’Arte di Tbilisi. 56 Volskaja, op. cit., fig. 47, p. 37. 57 Virsaladze, Fragmenti freskovoi, cit., pp. 166-167, 169. 58 G. \ubinašvili, Peshchernie monastiri David-Garedji, Tbilisi 1948, pp. 50-51, 78-79. 59 Cfr. qualche disegno sintentico in T. Velmans, L’image de la Déisis dans les églises de Géorgie et dans le reste du monde byzantin (deuxième partie), «CahArch», 31 (1983), pp. 129-173, ripreso in Ead., L’art médiévale, cit., fig. 69, 71-72. 60 Questa leggenda deriva probabilmente da quella di Orfeo o di Adone, il cui culto era molto diffuso in Siria e in Asia Minore. Cfr. il testo della leggenda in G. Garitte, Le calendrier Palestino-Georgien du Sinaiticus 34 (xe siècle), Société des Bollandistes, Bruxelles 1968, p. 320. Un riassunto in Velmans, L’image de la Déisis (deuxième), cit. 61 pg, vol. xxxvi, col. 608-621. 62 Si vedano i leoni simili a quelli di Manglisi in Ghirshman, Parthes et Sassanides, cit., figg. 251, 343, 404. 63 Thierry, Peintures du xe siècle, cit., fig. 16, 23a. 64 T.V. Barnaveli, Nadpisi khrama v Manglisi, Tbilisi 1961, pp. 22-23. 65 E. T aqaïšvili , Archeologi/eskaja ekspedicija 1917-go goda v južnye provincii Gruzii, Tbilisi 1952. 66 Thierry, Peintures du xe siècle, cit., pp. 98-99. 67 Privalova, op. cit., p. 113. 68 Grabar, Les ampoules, cit., tav. xxxii. 69 H. S tern , La représentation des conciles dans l’église de la Nativité à Bethléem, «Byzantion», 11 (1936), pp. 101-152. 70 Ibid., p. 148. 71 P. P erdrizet , L’archange Ouriel, «Seminarium Kondakorianum», 2 (1928), pp. 256ss. L’Apocalisse cita a più riprese sette angeli (Ap 8,2; 15,1). 72 Si vedano i nomi di tutti i profeti in Privalova, op. cit., p. 183, n. 38. 73 Andrea di Cesarea, in pg, vol. cvi, col. 265. 74 Si tratta di Mamante, Florio, Laure, Proclo, Ilario, Abbibus, Samonas, Gourius, Trifone, Nikita, Areta (Privalova, op. cit., p. 34). 75 Ibid., p. 183. 7 Monneret de Villard, Les couvents, cit., vol. i, tav. 15. 78 J. Baradez, M. Leglay, La croix-trophée et le reliquaire d’Aïoun-Berich, «CahArch», 9 (1957), pp. 74-98, fig. 1-2. 79 Ibid., p. 78, fig. 3.
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Capitolo VII 1 H.P.G. Skrobucha, Zur Iconographie des Jüngsten Gerichts in der russischen Ikonenmalerei, «Kirche im Osten», 5 (1962), pp. 51-74. 2 Assemani, Dictionnaire, cit., vol. ii, pp. 212ss.; Id. (ed.), Sancti Ephraem Syri Opera omnia quae exstant, Graece, Syria ac Latine, Tip. Vaticana, Città del Vaticano 1740; Le Sermon grec, vol. ii, pp. 193ss.; G. Voss, Das Jüngste Gericht in der bildenden Kunst des frühen Mittelalters, Leipzig 1884, pp. 6ss. 3 Brightman, Hammond, op. cit., vol. i, pp. 339, 382. 4 O. T reitinger , op. cit., p. 32; a proposito dell’iconografia bizantina dell’Etimasia cfr. P.D. Dionysius, A.N. Didron, Manuel d’iconographie chrétienne, grecque-latine, Imprimerie Royale, Paris 1845, pp. 7, 9. 5 Per esempio nel Giudizio universale di Autun (E. Mâle, L’art religieux du xiie siècle en France, A. Colin, Paris 1966, pp. 417ss.; B. Brenk,Die Anfänge der byzantinischen Weltgerichtsdarstellung, bz, 57 (1964), pp. 106-126; Id., Tradition und Neuerung in der christlichen Kunst des ersten Jahrtausends, Wiener byzantinische Studien, Wien 1966). 6 Virsaladze, Rospisi Atenskogo Siona, cit., p. 17, tav. 10.2. 7 G. Alibegašvili, Rospisi sv. Georgija v Botchorme, «Dgeglie Megobari», 9 (1967), pp. 25-29. 8 Privalova, op. cit., disegno num. 7. 9 Per l’iscrizione cfr. M. Brosset, e i due storici armeni Kirakos Gantzas et Oukjhtanès d’Ourba (Deux historiens arméniens: Kirakos Gantzac, xiiie siècle; Oukhtanès d’Ourba, xe siècle, St. Pétersbourg 1870, p. 111, n. 1). A giudizio di A. Lidov (Rospisi monastyrja Achtala: istorija, ikonografija, mastera, Nauka, Moskva 1991, pp. 20-21), che ha studiato le pitture, queste risalgono al 12151216. 10 N. e M. Thierry, Peintures murales de caractère occidental en Arménie: église St-Pierre et Paul de Tatev (début du xe s.), «Byzantion», 38 (1968), pp. 180-242; S.S. Manoukjan, Freski v Tatevskom monastire v Armazii, in Pamjatniki koultoure Novij otkritija, Moscow 1975, pp. 131-137, fig. 4647. 11 S.J. Amiranayvili, Gruzinskaja miniatjura, Moskva 1966, tav. 46; Velmans , L’image de la Déisis (deuxième), cit., fig. 85-86. 12 F. Macler, Documents d’art arménien, Geuthner, Paris 1924, p. 49, tav. xxviii, fig. 61. Tutte le iscrizioni sono citate in extenso. 13 T. Velmans, L’image de la Déisis (deuxième), cit., fig. 89. 14 Ibid., figg. 91-92. 15 S. D er N ersessian , The Chester Beatty Library, a Catalogue of the Armenian Manuscripts with an Introduction on the History of Armenian Art, 2 voll., Hodges, Figgis & Co. Ltd, Dublin 1958, tav. 1ss. 16 L.-H. Vincent, F.-M. Abel, Emaüs, sa basilique et son histoire, Leroux, Paris 1932, pp. 386-393; A. Weyl Carr, The Mural Painting of Abu Gosh and the Patronage of Manuel Comnenus in the Holy Land, in H.W. Hazard (a cura di), The Art and Ar-
chitecture of the Crusader States, 6 voll., University of Wisconsin Press, Madison 1977, vol. iii, pp. 120ss. 17 Evangelium Nicodemi, in C. von Tischendorf (ed.), Evangelia apocrypha, Hermann Mendelssohn, Leipzig 1853, pp. 389-404ss. 18 Grabar, L’Empereur, cit., p. 250. 19 Voss, op. cit., p. 73. 20 Mercenier, Les fêtes, cit., p. 222. 21 Millet, La Dalmatique, cit., p. 15. 22 Weyl Carr, op. cit., pp. 221ss. 23 Grabar, L’Empereur, cit., p. 248. 24 E. Cruikshank Dodd, The Monastery of Mar Musa Al-Habashi, near Nebek, Syria, «Arte Medievale», 2a serie, 6.1 (1992), pp. 57ss. 25 E. Cruikshank-Dodd et al., The Frescoes of Mar Musa al-Habashi, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 2001, p. 79. 26 Sull’Etimasia, T h . von B ogyay , Zur Geschichte der Hetoimasie, in F. Dölger, H.G. Beck (a cura di), Akten des xi. Internationalen Byzantinistenkongresses 1958, Verlag Beck, München 1962, pp. 58-61. 27 J.-M. e N. Thierry, Ayvali kilise ou Pigeonnier de Güllü Dere, église inédite de Cappadoce, «CahArch», 15 (1965), pp. 97-154; in part., per la data, p. 101; per la cappella nord, pp. 130ss., fig. 23-24. 28 Ibid., p. 131. Le iscrizioni che accompagnano queste pitture sono particolarmente numerose. Ne citiamo solo le più importanti. Tutte sono riportae e commentate nell’articolo di Nicole Thierry, alla n. 27. 29 Thierry, Nouvelles églises, cit., p. 93, fig. 22. 30 O. M einardus , The Twenty-four Elders of the Apocalypse in the Icconography of the Coptic Church, «Studia orientalia christiana», 13 (19681969), pp. 141-157. 31 U. Monneret de Villard, Il monasterio di S. Simeone presso Aswân, Libr. Pontificia arciv. S. Giuseppe, Milano 1927, p. 48, figg. 64, 72. Questa pittura è posteriore al x secolo, ma anteriore al xiii secolo. 32 J. Doresse, citato da Thierry, Nouvelles églises, cit., p. 97 n. 19. 33 T. Velmans, Une icône du Musée de Mestia et le thème des Quarante martyrs en Géorgie, «Zograf», 14 (1983), pp. 40-51, e in Ead., L’art médiévale, cit., figg. 226-227. 34 N. Thierry, L’Apocalypse de Jean et l’iconographie byzantine, in L’Apocalypse de Jean. Traditions exégétiques et iconographiques, Droz, Genève 1979, p. 328. 35 Andrea di Cesarea, in pg, vol. cvi, col. 253ss. 36 E. Weik, Die syrische Legende der 40 Märtirer von Sebaste, bz, 21 (1912), pp. 76-96. 37 de Jerphanion, Une nouvelle province, cit., vol. ii, pp. 100-104, alb. tav. 194, 4. 38 Thierry, Nouvelles églises, cit., pp. 115ss., fig. 25, tav. 56, 61-63. 39 «La grazia non è donata a tutti gli uomini, e coloro che la ottengono non è per i loro meriti né per le loro opere né per loro volontà» (Sant’Agostino, Lettera 217,5 (16-17), ed. Pétronne, riprodotta in H.-I. Marrou, Sant’Agostino, Mondadori, Milano 1960). 40 J. Delumeau, Le péché et la peur, Fayard, Paris 1983, p. 317, n. 14 (tr. it. Il peccato e la paura, il Mulino, Bologna 1987).
41 Ibid., p. 276; P. Coste (ed.), Saint Vincent de Paul. Correspondances, Entretiens, Documents, 14 voll., Gabalda, Paris 1920-1925, vol. iii, pp. 318-336, 362-378; vol. iv, p. 633; vol. xiii, p. 650 (tr. it. San Vincenzo de’ Paoli: carteggio, conferenze, documenti, Edizioni liturgiche e missionarie, Roma 1931). 42 Delumeau, op. cit., p. 318, n. 19. 43 San Bonaventura, Breviloquium, 1, ix. 44 Delumeau, op. cit., pp. 416ss. 45 F. Bologna, Les origines de la peinture italienne, Grange-Batelière, Paris 1963, tav. 66 (ed. or. La pittura italiana delle origini, Editori Riuniti, Roma 1962). 46 Delumeau, op. cit., p. 77. 47 M. Durliat, L’art roman, Mazenod, Paris 1982, fig. 464 (tr. it. L’arte romanica, Garzanti, Milano 1994). 48 J. Le Goff, La naissance du purgatoire, Gallimard, Paris 1981, p. 166 (tr. it. La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 1982). 49 Delumeau, op. cit., p. 334. 50 J. M eyendorff , Introduction à l’étude de Grégoire Palamas, Seuil, Paris 1959, p. 183. 51 Delumeau, op. cit., p. 323. 52 J. Meyendorff, Byzantine Theology: historical trends and doctrinal themes, Fordham University Press, New York 1979, p. 196 (tr. it. La teologia bizantina: sviluppi storici e temi dottrinali, Marietti, Casale Monferrato 1984). 53 Giovanni Crisostomo, De Patientia, iii, 1, in pg, vol. ii, col. 292. 54 G iovanni C risostomo , In Rom. Homiliae, 10, in pg, vol. lx, col. 474475; Massimo il Confessore dichiara che il concetto di peccato ereditato è inimmaginabile (S. Epifanovi\, Prepodobnij Maksim Ispovednik i vizantijskoe bogoslovie, Moskva, p. 65). Tra gli Slavi, Teofilatto di Ocrida rigetta categoricamente la trasmissione del peccato originale ai discendenti di Adamo (T eofilatto di Ocrida, In Rom., in pg, vol. cxxiv, col. 404c.). 55 Meyendorff, Introduction, cit., p. 206. 56 Ibid., p. 182. Capitolo VIII 1 Giovanni Damasceno si riferiva alla grazia che scende sull’icona, che ne trattiene una parte (Giovanni Damasceno, ii, 14, in pg, vol. xciv, col. 1300b). 2 Teodoro Studita riprende questa idea e afferma che la grazia, o l’«energia» (divina), si posa sull’icona (Teodoro Studita, Lettere, i, 17, in pg, vol. xc, col. 961). 3 P. Lemerle, Les plus anciens miracles de saint Démétrius, 2 voll., cnrs, Paris 1979-1981, vol. i, p. 157. 4 M. Bonnet, R.A. Lipsius (ed.), Acta Apostolorum apocrypha, 2 voll., Hermann Mendelssohn, Leipzig 18911903, vol. ii, pp. 147-148. 5 von Tischendorf, Evangelia, cit., p. 33. 6 E. Smith, The evolution of the Dragon, Manchester University Press, Manchester 1919; J. Le Goff, Pour un autre Moyen Âge, Gallimard, Paris 1977, p. 153 (tr. it. Tempo della
Chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977). 7 J. Fontenrose, Python. A Study of Delfic Myth and its Origins, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1959. 8 K. Herquet, Der Kern der rhodischen Drachensge, «Wochenblatt des Johanniterordens Balley», 10 (1869), pp. 151ss.; R. Herzog, P. Schazmann (a cura di), Kos. Ergebnisse der deutschen Ausgrabungen und Forschungen, vol. i, Asklepion, Berlin 1932. 9 Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, in pg, vol. xxvi, col. 849. 10 Du Bourguet, op. cit., p. 78. 11 A. Gayet, L’art copte, Leroux, Paris 1902, p. 113. 12 R. Forrer, Die frühchristlichen Altertümer aus dem Gräberfelde von Achmim-Panopolis, Lohbauer, Strassburg-Zurich 1893, tav. 6x, 9b; J.B. Aufhauser, che cita questa ipotesi, si mostra piuttosto critico (Das Drachenwunder des heiligen George in der griechischen und lateinischen Überlieferung, Teubner, Leipzig 1911, pp. 172-173). 13 F. Cumont, Mythra en Asie Mineure, in W.M. Clader, J. Keil (a cura di), Anatolian Studies presented to W.H. Buckler, Manchester University Press, Manchester 1939, pp. 67-76. 14 F.W. von Bissing, Ursprung und Wesen der persischen Kunst, «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Phil. Klasse», 1 (1927). 15 A. Morel, Le Nil et la civilisation égyptienne, La Renaissance du Livre, Paris 1926, pp. 186ss. 16 Ibid., p. 186. 17 Le Goff, Pour un autre, cit., p. 253. 18 Aristotele, Etica Nicomachea, cap. iv (a cura di A. Plebe, Laterza, Bari 1957). 19 Grabar, L’Empereur, cit., p. 139. 20 Giovanni Cinnamo, Histor., pp. 266-267. 21 Eustazio di Tessalonica, Oratio ad Manuelem imperatorem, W.V.E. Regel (ed.), in Fontes rerum Byzantinarum, vol. i, fasc. 1, Petropoli 1892, p. 40. 22 N iceta C oniate , De Andronico Comneno, ii, pp. 432-434; Teodoro Prodromo, Epitapium in honorem Domini Iohannis Comneni, in pg, vol. cxxxiii, col. 1393. 23 Ghirshman, Parthes et Sassanides, cit., fig. 122. 24 Eusebio, Vita Constantini, iii, in pg, vol. xx, col. 3. 25 Grabar, L’Empereur, cit., p. 140. 26 I. Charbonneaux, R. Martin, F. Villard, Grèce hellénistique (330-50 avant J.-C.), Gallimard, Paris 1970, fig. 96, 99-100, 115, 192, 226, 286 (tr. it. La Grecia ellenistica: (330-50 a. C.), Rizzoli, Milano 1971). 27 M.I. Rostovtzeff et al., The Excavations at Doura-Europos, New Haven 1939, pp. 112-116. 28 Crippa, Zibawi, op. cit., fig. 116. 29 Procopio, De aedificiis, i, 2, pp. 181182; Grabar, L’Empereur, cit., pp. 45-46. 30 Ibid., p. 47, n. 3. 31 Ibid., p. 47, n. 4. 32 H. Delehaye, Les légendes grecques des saints militaires, Picard, Paris 1909, p. 11. 33 Gregorio di Nissa, Panegirico, in pg, vol. xlvi, col. 736-748.
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34 Delehaye, op. cit., p. 46. 35 Ibid., p. 35. 36 Ibid., pp. 20-24; W. Hengstenberg, Der Drachenkampf des Heiligen Theodor, oc, 2 (1912), pp. 78-106. 37 Laudatio Nicetas Paphlagonis, Bibliotheca hagiographica graeca, 1753, aass, nov. iv, pp. 83-89. 38 Delehaye, op. cit., pp. 27-28. 39 Ibid., p. 46. 40 V.N. L azarev , Novyi pamjatnik stankovoj živopisi xii v.k obraz Georgija-voina v vizantijskom i drevnerusskom iskusstve, «Vizantijskij Vremennik», 6 (1953), pp. 186ss. 41 K. Krumbacher, Der heilige Georg in der griechischen Überlieferung, Verlag der Königlich Bayerischen Akademie, München 1911, pp. 55, 77. 42 Ibid., p. 287. 43 K.S. Kekelidze, Istoria drevnegruzinskoi pismennosti (in georgiano), Tbilisi 1951, pp. 504ss. 44 Delehaye, op. cit., pp. 56-67. 45 S. Binon, Essai sur le cycle de saint Mercure, Leroux, Paris 1937. 46 Gregorio Nazianzeno, Orationes v. Contra Jul., 14, in pg, vol. xxxv, col. 681. 47 Ibid., col. 680. 48 Binon, op. cit., p. 17. 49 Libanio, Orationes, xviii, in pg, vol. lxvii, col. 1292. 50 Binon, op. cit., p. 16. 51 Sozomeno, Historia ecclesiastica, in pg, vol. xcvii, col. 497. 52 Giovanni Nicou, Chronicon Pascale, in pg, vol. xcii, col. 548. 53 Giovanni Damasceno, cit., in pg, vol. xciv, col. 1277. 54 Binon, op. cit., n. 2. 55 J. M yslivec , Svati Jiři ve Vychodokrstnskem Umeni, «Byzantinoslavica», 5 (1933-1934), p. 309, fig. 2. 56 Ch. Walter, Warrior Saints in Byzantine Art and Tradition, Ashgate, Burlington (usa) 2003, p. 186. 57 Zibawi, op. cit., tav. 93. 58 J. C lédat , Les monastères, et la nécropole de Baouît, cit., fig. 138-140. 59 Ibid., pp. 135ss., tav. lxxxvii. 60 Ibid., pp. 75ss. 61 Ibid., p. 80, tav. liii. 62 Ibid., p. 64, tav. lvi. 63 Questa leggenda è conosciuta grazie a un apocrifo etiope commentato da R. Basset, Les apocryphes éthiopiens, 11 voll., Bibliothèque de la Haute Science, Paris 1893-1899, vol. iv, La légende de saint Tertag et de saint Sousnyos et de Ouëlzëlya avec d’autres légendes, 1894. 64 J. Leroy, Les peintures des couvents du Ouadi-Natroun. Haïkal de Benjamin, mifao, Il Cairo 1982, p. 27, tav. iv e diagramma A, p. 22. 65 Delehaye, op. cit., p. 184. 66 Leroy, Les peintures des couvents du Ouadi-Natroun, cit., tav. 94, p. 46. 67 Id., Les peintures des couvents d’Esna, cit., tav. 41, sch. 6. 68 Ibid., tav. 44, sch. 7. 69 P. Van Moorsel, Les peintures du monastère de Saint-Antoine près de la mer Rouge, mifao, Il Cairo 1997, tav. 90, p. 153. 70 Ibid., tav. 46, pp. 93ss. 71 Ibid., tav. 39-43, pp. 89ss. 72 Ibid., p. 91. 73 A.A. Saltykov, La vision de saint Eustache sur la stèle de Tsebelda, «CahArch», 33 (1985), pp. 5ss., fig. 3-4.
74 Aladayvili, Monumental’naja, cit., fig. 55. 75 Ibid., fig. 56. 76 T. Velmans, L’art de l’icône, Citadelles et Lazenod, Paris 2013, tav. 81-84 (tr. it. L’arte dell’icona, Jaca Book, Milano 2013). 77 A. Džavakhiyvili, Istorija grozinskogo naroda, Tbilisi 1928, vol. i, pp. 4344, 84. 78 Kekelidze, op. cit. 79 Aladayvili, Monumental’naja, cit. fig. 146. 80 Ibid., fig. 156. 81 A.N. Aladayvili et al., Živopisnaja ykola Svanetii, Tbilisi 1983. 82 Ibid., p. 35, fig. 24-27, disegni 13, 14. 83 Bonnet, Lipsius, op. cit., pp. 147148. 84 Virsaladze, Rospisi Atenskogo Siona, cit., pp. 169-231, in part. p. 103, fig. 79. 85 Cfr. cap. iii. 86 Der Nersessian, L’Art arménien, cit., p. 89. 87 Ead., Aght’amar, cit., pp. 19-20. 88 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., p. 345. 89 Restle, Die Byzantinische, cit., vol. ii, fig. 246-247. 90 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., p. 345. 91 Restle, Die Byzantinische, cit., vol. iii, fig. 516. 92 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., p. 346. 93 Restle, Die Byzantinische, cit., vol. ii, fig. 32. 94 Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., p. 346. 95 de Jerphanion, Une nouvelle province, cit., p. 153. 96 Leroy, Découvertes de peintures, cit., p. 19; T. Velmans, Observations sur quelques peintures en Syrie et Palestine et leur composante byzantine, «CahArch», 42 (1994), pp. 123-138, ripreso in Ead., L’art médiéval, cit., pp. 389-407, fig. 137-138. 97 Cruikshank-Dodd, The Frescoes, cit., p. 133. 98 Lexicon der christlichen Ikonographie, vol. vi, pp. 369ss.; G. e M. Sotiriou, Icônes du Mont Sinaï, 2 voll., Institut français d’Athènes, Atene 1958, vol. ii, tav. 39; K. Weitzmann, The Monastery of Saint Catherine, vol. i, cit., tav. 13, 43-44. 99 Questa chiesa si trova nel borgo di Quariet el Enab, che deve il suo nome a uno sceicco del villaggio. J.H. Vincent e F.M. Abel lo chiamano Emmaus (op. cit., pp. 386-393). L’edificio fu costruito verso il 1140 e apparteneva all’ordine degli Ospedalie-
ri. Le pitture all’interno furono probabilmente eseguite nel 1170 circa. 100 Ch. Diehl, Les fresques de l’église d’Abou-Gosch, «Comptes-rendus de l’Académie des inscriptions et belles lettres», Paris 1924, pp. 89-96. 101 Weyl Carr, op. cit., vol. iii, pp. 215244, in part. p. 223. 102 Ch.-L. Brossé, Les peintures de la grotte, cit., p. 35. 103 J. Folda, Crusader Frescoes at Crac des Chevaliers and Magrab Castle, dop, 36 (1982), p. 151; Cruikshank-Dodd, The Monastery, cit., p. 87. 104 Heldman, The Marian Icons, cit., fig. 52. 105 Volbach, Lafontaine-Dosogne, op. cit., fig. 425. 106 Michalowski, Faras, cit., pp. 200202. 107 Monneret de Villard, La Nubia, cit., vol. iv, tav. cvcciv. Capitolo IX 1 T. V e l m a n s , Q u e l q u e s p r o grammes iconographiques de coupoles chypriotes du xiiie au xve siècle, «CahArch», 32 (1984), pp. 137-162, ripreso in Ead., Byzance, les Slaves et l’Occident, Pindat Press, London 2001, pp. 230-275, offre una bibliografia sintetica sul tema. 2 A. e J. S tylianou , The Painted Churches of Cyprus. Treasures of Byzantine Art, Trigraph-Fond. Leventis, London-Atene 1985, p. 467. 3 Ibid. 4 E.L. Privalova, Pavnisi, Metsienereba, Tbilisi 1977, fig. 19 (in russo). 5 Ibid. 6 Ibid., p. 101, fig. 24. 7 Ibid., p. 93, fig. 22. 8 Ibid., p. 106, fig. 25. 9 Ibid., p. 108, fig. 26. 10 Amiranayvili, L’art des ciseleurs, cit., tav. 96. 11 Ibid., pp. 145-146, figg. 95, 97. 12 Cruikshank-Dodd, The Monastery, cit., p. 85. 13 J. Folda, The Art of Crusaders in the Holy Land, 1098-1187, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1995, p. 97. 14 Cruikshank-Dodd, The Monastery, cit., p. 341. 15 de Jerphanion, Une nouvelle province, cit., vol. ii, p. 93, tav. 45-46. 16 Van Moorsel, Les peintures, cit., p. 93, tav. 45-46. 17 Heldman, The Marian Icons, cit., p. 177. 18 E.A. W allis B udge , George of
Lydda, the Patron Saint of England. A Study of the Cultus of St. George in Ethiopia, Luzac & Co., London 1930. 19 O.I. Dombrovski, op. cit., p. 39. 20 Aufhauser, op. cit., p. 4. 21 R.P. Blake, Catalogue des manuscrits géorgiens de la Bibliothèque grecque à Jérusalem. Extraits de la revue «Orient chrétien», Picard, Paris 1934, p. 17. 22 Krumbacher, op. cit., p. 295. 23 A Ikvi l’immagine appare sotto quella di san Giorgio con la giovane prigioniera, sul muro nord. 24 Nelle chiese medioevali di Adichi, Pavnisi e Vani, tutte dedicate a san Giorgio, la principessa salvata porta la corona dei re georgiani. Si vede bene questo dettaglio nel volume di Privalova, Pavnisi, cit., figg. 5, 18, 21. 25 Ibid., fig. 35; esempi interessanti nei manoscritti sono citati a pp. 8-9; Krumbacher, op. cit., pp. 295-296. 26 Aufhauser, op. cit., pp. 8-9; Krumbacher, op. cit., pp. 295-296. 27 Privalova, Pavnisi, cit., fig. 28, p. 116. 28 Ibid. 29 Volbach, Lafontaine-Dosogne, op. cit., fig. 412a. 30 Atti di Sant’Eustachio, in pg, vol. cv, col. 376-417; Giovanni Damasceno, in pg, vol. xciv, col. 1383. Cfr. anche H. Delehaye, La légende de saint Eustache, in Id., Mélanges d’hagiographie grecque et latine, Société des Bollandistes, Bruxelles 1966, pp. 212-239. 31 K.S. Kekelidze, Konspectivni kurs istorii drevne-gruzinskoi literature, Tbilisi (in georgiano). Si può consultare la traduzione tedesca di G. von Dschawachoff, A. von Harnack, Das Martyrium des heiligen Eustatius von Mzcheta, in «Sitzungsberichte des königlich Pruessichen Akademie der Wissenschaften zu Berlin», 38 (1901), pp. 875-902. 32 Delehaye, La légende, cit., p. 237. 33 L. Réau, Iconographie de l’art chrétien, 3 voll., puf, Paris 1955-1959, vol. ii, pp. 468-471, 659- 671. 34 Per esempio la caccia al cervo a Tak-i Bostan (Ghirshman, Parthes et Sassanides, cit., pp. 198-199, fig. 237). 35 R. Ramiyvili, Serebrjannye kuvšin/iki so scenami ochoty iz Aragvskogo uš/ el’j, in iv Meždunarodnyj Simpozium po Gruzinskomu Iskusstvu, Tbilisi 1983, pp. 1-11, in part. pp. 9-10. 36 M. Singh, Ajanta: Ajanta Painting of the Sacred and the Secular, MacMillan, New York 1965, fig. 11; cfr. anche figg. 19 e 37.
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37 Chine. Fresques du désert de Gobi. La route de la soie au jardin des Plantes, Catalogue d’exposition, cnrs, Paris 1983, fig. 4. 38 A.A. Saltykov, La vision de saint Eustache sur la stèle de Tsebelda, «CahArch», 33 (1985), pp. 11-13, fig. 14. 39 G. \ubinašvili, Pechtemje monastiri David-Garedji, cit., p. 32. 40 A.N. Aladašvili, Monumental’naja, cit., fig. 51. 41 Ibid., fig. 56. 42 T. Velmans, L’église de Zenobani et le thème de la Vision de saint Eustache en Géorgie, «CahArch», 33 (1985), figg. 12-13, 19. 43 A. Volskaja, Frammenti di pittura degli affreschi della chiesa di Khozita Mariam nell’Ossezia settentrionale (in russo), «Information de l’Académie des Sciences de la R.S.S. de Géorgie», 15.6 (1954), pp. 393-398. 44 A ladašvili , A libegašvili , V ol skaja, op. cit., pp. 8-31. 45 V. Kouznetsov, Zadchestvo srednevekovoj Alanii, Ordzhonikidze 1977, pp. 129-151. 46 Velmans, L’église de Zenobani, cit., fig. 14. 47 Sulle pitture in generale cf. E. Taqaïšvili, Arkheologitcheskaja ekskousii, raziskanija i zametki, Tbilisi 1905, vol. i, pp. 21, 59. 48 N. Thierry, Art byzantin du Haut Moyen Âge en Cappadoce: l’église n° 3 de Mavroukan, «Journal des Savants», fasc. 4 ott.-dic. 1972, pp. 255-257, figg. 19-20. 49 N. e M. Thierry, Ayvali kilise ou Pigeonnier de Güllü Dere, cit., pp. 97154, in part. pp. 124ss., figg. 18-19. 50 de Jerphanion, Une nouvelle province, cit., vol. ii, p. 84. 51 Ibid., p. 242, tav. 194, 3. 52 Ibid., p. 317. 53 Ibid., p. 256, tav. 176, 3. 54 A. Coumoussi, Une représentation de la vision de saint Eustache dans une église grec que du xiiie siècle, «CahArch», 33 (1985), pp. 51ss. 55 A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, 2 voll., Collezione meridionale editrice, Roma 1939, vol. i, p. 230, fig. 160. 56 Velmans, L’église de Zenobani, cit., fig. 24. 57 S.M. Pelekanides, P.C. Christou, Ch. Tsioumis, S. Kadach, The Treasures of Mount Athos. Illuminated manuscripts. Miniatures, vol. ii, Monasteries of Iveron, St. Panteleimon, Esphigmenou, and Chilandari, Ekdotike, Athens 1975, fol. 52, p. 363, fig. 329.
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INDICE DEI NOMI DI PERSONE (Note e nomi di persone che compaiono come soggetti iconografici non sono inclusi nell’indice)
Adarnase: 90 Agatangelo: 34 Agatangelo (santo): 115 Agostino (santo): 54, 187 Ahriman: 57 Ahura-Mazda: 57 Al-Hakim: 34 Alabasdria: 198 Alessandro Magno: 27, 34, 50, 57 Anastasio il Sinaita: 77 Andrea di Cesarea: 74, 115, 139, 168, 186 Andrea di Creta: 127, 195 Anfilochio (santo): 195 Anna (santa): 140, 206 Antonio d’Egitto (santo): 15, 191, 198, 212 Apa Ascla: 195 Apa Sabine: 195 Apoli (santo): 199 Apollinare (santo): 75 Apollo di Delfi: 191 Arcadio: 14, 21, 50, 158 Areta di Cesarea: 115 Ario: 14, 17 Aristotele: 40, 57, 192 Arpocrate: 63 Ashot i: 40 Ashot ii: 162 Ashot iii: 90, 162 Atanasio (santo): 54, 191 Avak: 180 Avonas (santo): 195 Bagrat i: 44 Bagrat iii: 44 Baldovino i di Gerusalemme: 40 Baldovino ii di Gerusalemme: 40 Bardesane di Edessa: 13 Bartolomeo (santo): 34 Basilide (santo): 199 Basilide d’Egitto: 12 Basilio ii: 57, 162 Basilio di Cesarea (detto Magno, santo): 13-14, 54, 102, 113, 128, 139, 143, 180, 195, 199-200, 212 Bishoi (santo): 54 Bonaventura (santo): 187 Buddha: 12, 29, 103, 223 Caracalla: 193 Caterina (santa): 97 Cirillo di Alessandria (santo): 17, 50 Cirillo di Gerusalemme (santo): 11, 14, 102, 104 Claudio (santo): 199 Clemente Alessandrino: 13-14, 50
242
Cosma di Maiuma: 14-15, 168 Costantino i (detto il Grande) 13, 17, 27, 34, 50, 53, 123, 155, 192, 194 Costanzo ii: 17, 104, 194 Daciano: 194 Dario iii: 34, 57, 97 Davide iv il Costruttore: 46, 200 Davide d’Israele: 133, 152, 184 Davide Soslan: 46 Decio: 13 Demetrio (santo): 191, 194, 199, 206, 212, 219 Diocleziano: 13, 146, 193-195, 199-201, 206, 209, 221, 223 Diodoro di Tarso: 14 Dionigi l’Areopagita: 26, 103 Dionisio bar Salibi: 158 Dionisio da Furnà: 225 Dioscoro: 17, 50 Donato (santo): 191 Eatchi Proshian: 157 Efrem il Siro: 13-14, 38, 57, 63, 74, 81, 83, 104, 113, 139, 142-143, 166, 171, 180, 182 Elena (santa): 34, 123, 155 Enoch: 102, 113, 168 Enrico di Blois: 187-188 Epifanio di Cipro: 27 Epifanio di Salamina: 14 Eraclio i d’Oriente: 30, 44 Eudocia: 21 Eufemia (santa): 157 Eunomio: 17 Eusebia: 194 Eusebio di Cesarea: 14, 27, 72, 155, 192, 199 Eustachio (santo): 217, 223-225 Eustazio di Tessalonica: 192 Eutiche: 17 Ezio: 199 Fausto di Bisanzio: 195 Feliciano (santo): 74 Fibammone (santo): 198-199 Fidia: 21 Filone di Alessandria: 11, 102 Flaviano: 50 Flavio Giuseppe: 11 Fre Seyon: 63
Germano: 127 Giacobbe di Sarug: 63, 104, 113 Giacomo Baradeo: 18 Giacomo di Gerusalemme: 11, 19, 34, 175 Giacomo Kokkinobaphos: 63 Gilgamesh: 90 Giorgio iii: 46 Giorgio v il Brillante: 46 Giorgio di Cappadocia: 74, 146, 191-192, 194-195, 199-201, 206, 209, 212, 217, 219, 221-223 Giovanni Cinnamo: 192 Giovanni (abate): 90 Giovanni Battista (il Precursore): 73, 121, 128-129, 131, 133, 182, 209 Giovanni Crisostomo: 13-14, 50, 101, 103, 121, 188, 195 Giovanni Damasceno: 14, 121, 195 Giovanni Evangelista: 11, 77, 83, 102-103, 114-115, 123-124, 127-128, 139, 143, 146, 166, 168-169, 174, 191 Giovanni Malala: 195 Giovanni Nikiou: 195 Girolamo (santo): 200 Giuliano (santo): 195 Giuliano l’Apostata: 13, 195, 198-199, 214215 Giunio Basso: 146 Giustiniano i: 34, 158 Giustiniano ii: 40 Giustino (santo): 12 Giustino i: 43 Giustino ii: 72 Giusto (santo): 199 Gregorio di Cesarea: 200 Gregorio di Khandzta: 44 Gregorio di Nissa (santo): 54, 74, 194 Gregorio l’Illuminatore (santo): 34, 90, 113 Gregorio Nazianzeno: 14, 54, 102, 164 Gregorio Palamas: 188 Guido di Lusignano: 43 Gurgen: 90 Horus: 63, 191-192, 198 Ignazio di Antiochia: 11-12 Ipazio: 191 Ireneo di Lione: 103 Ivane Zakarian: 174 Kobul: 90
Gagik i: 40 Gagik Ardzruni: 40, 90 Gaiana (santa): 34 Geremia (santo): 113, 133, 146, 168
243
Leone di Lusignano: 40 Leonti Mroveli: 43 Leonzio: 217
Libanio: 31, 195 Licinio: 13, 192, 194 Luca (santo): 11, 21, 81, 103, 184, 186 Macario d’Egitto: 102, 199 Mamante (santo): 96-97, 164 Mani: 12 Manuele: 192 Marciano: 17 Marco (santo): 11, 50, 103-104, 143 Mashtots (Mesrop): 38 Massenzio: 13, 155 Massimiano: 209 Massimo il Confessore: 101, 103 Matteo (santo): 11, 83, 102-103, 114, 139, 142, 155, 157, 166, 171, 174 Melitone: 13 Mena il Taumaturgo: 50, 54, 195, 199, 223 Mercurio (santo): 194-195, 199-200, 212, 214-215 Michele (santo): 107, 113, 121, 123-124, 139140, 142-143, 157, 168, 186, 191, 199, 206 Mirian: 43 Mitra: 57, 192 Nabucodonosor: 198-199 Narsete Claiense (detto il Grazioso): 40 Narses Magno: 34, 38 Nerone: 13 Nestorio: 17, 50, 212 Niceforo: 127 Niceta (santo): 199 Niceta Coniate: 192 Niceta Paflagone: 194 Nicola Cabasila: 102 Nino (santo): 43 Odigitria: 113 Omero: 53 Origene: 13-14, 102-103 Osiride: 191 Pacomio: 15
Paolo (santo): 11, 54, 103-104, 180, 184 Paolo Silenziario: 127 Petre (santo): 199 Pietro d’Alessandria (santo): 11, 17, 104, 113, 171, 174, 184 Pietro Iberico: 44 Placidio: 223 Platone: 12, 26, 40, 57 Plotino: 12 Prassitele: 21 Primo (santo): 74 Procopio (santo): 158, 191, 199 Ripsima: 34 Romano il Melode: 14, 199 Rufino di Aquilea: 43 Saba di Cappadocia (detto Archimandrita, santo): 13, 54 Saladino: 34 Salomone: 54, 133, 184 Saturnino di Antiochia: 12 Savino (santo): 195 Scenute (santo): 54 Sergio (santo): 195, 206, 209 Serse: 57 Severo di Antiochia: 18, 31 Shapur i: 12, 200 Shapur ii: 57 Silvano (santo): 199 Simeone di Tessalonica: 155 Simeone lo Stilita (il Giovane, santo): 15, 17, 72 Simeone lo Stilita (il Vecchio, santo): 15, 17 Simeone Logoteta (detto il Metafraste, santo): 194 Sisinnio (santo): 198-199 Smbat: 90 Smbat i: 40 Smbat iii: 40 Sofronio: 127
244
Sozomeno (Ermia): 191, 195 Stefano i: 44 Tacito: 12 Taddeo (santo): 34 Tamara di Georgia: 46 Tatse: 43 Taziano il Siro: 12 Tecla (santa): 195 Teodoreto di Cirro: 17, 102, 188, 191 Teodoro (monaco): 90 Teodoro (santo): 54, 74, 191, 194-195, 199201, 206, 209, 212, 219 Teodoro di Mopsuestia: 14, 121 Teodoro il Lettore: 21 Teodoro Prodromo: 146, 192 Teodoro Stratilate (santo): 194, 199 Teodoro Studita (santo): 104, 127, 155 Teodoro Tirone (santo): 194 Teodosio i: 17, 158, 191 Teodosio ii: 17, 72, 149, 155 Teofilo di Alessandria: 50 Teofilo di Antiochia: 13 Teopisto: 222-223 Tertulliano: 11, 13, 54 Tevdore: 206 Tiridate i: 84 Tiridate iii: 34 Tito: 31 Tolomeo (santo): 199 Tommaso (santo): 11, 191 Valente: 195 Vittore (santo): 195 Vladimir ii di Kiev: 63 Yovsep i: 90 Zaratustra: 12, 57 Zenone: 29 Zoroastro: 57
INDICE DEI NOMI DI LUOGHI (Note e soggetti iconografici non sono inclusi nell’indice. Gli edifici sono stati indicizzati, per quanto possibile, in riferimento al loro sito)
Abba Garima (Madara): 54 Abcasia: 44, 224 Abdallah Nirqi: 114 Abughamrents (chiesa di S. Gregorio): 40 Abu Gosh (chiesa del profeta Geremia): 180, 182, 184, 212 Adamo (cappella di): 75 Adichi: 63, 149, 219, 221 Aghtamar (chiesa di S. Croce): 77, 85, 87, 90, 131, 207, 209 Agra (montagna del Golgota): 76 Ain-Berich (Algeria): 169 Akhbat (chiesa del Segno Santo): 90 Akhtala: (chiesa della Vergine): 174, 186 Al-Adra (chiesa di): 29 Alaverdi (chiesa di S. Giorgio): 44 Alessandria: 12-14, 50, 53, 63, 66, 101 Amaghu (Madre di Dio): 90, 157 Anatolia: 11, 27 Ani: 40, 134 Antiochia: 11-15, 17, 27, 29-31, 43, 54, 72, 101 Apamea: 29 Apulia: 225 Aquisgrana: 195 Aragats: 40 Aragvispiri: 224 Arin (Arzin): 40 Armenia: 11, 34, 38, 40, 44, 46, 54, 70, 73-74, 77, 90, 96, 123, 134, 156, 158, 162, 174-175, 186, 194, 206, 212, 227-228 Assuan (monastero di S. Simeone): 113, 186 Atchi (chiesa di S. Giorgio): 142, 221 Ateni (chiesa della Vergine): 156, 173-174 Ateni (chiesa Sioni): 44, 90, 96 Athos (monte): 44, 225 Axum: 11, 53-54 Ayvali Kilise (S. Giovanni, Güllü Dere): 225 Azerbaigian: 40, 57
Bisanzio: 13-14, 18-19, 21, 26, 29, 34, 40, 43-44, 57, 63, 70, 72, 77, 84, 90, 97, 101102, 115, 123, 127, 131, 133, 143, 146, 148, 155, 157, 171, 174, 186-188, 191, 194-195, 199, 209, 217, 227 Bitinia: 44 Bo/orma (chiesa di S. Giorgio): 46, 173, 219, 221 Bosforo: 13, 227 Bosra (chiesa dei Ss. Sergio e Bacco): 29 Bulgaria: 44
Babilonia: 57, 61 Baghdad: 61 Bahdeidat: 31, 134, 219 Balcani: 171, 191 Balik Kilise: 225 Banqousa: 29 Battistero di S. Giovanni (Firenze): 187 Bawit: 50, 53, 63, 104, 107, 113, 125, 195 Beirut: 31 Bertubani: 164, 228 Besirana Kilisesi: 131 Bet Libanos: 54 Bet Maryam: 54, 158 Betania: 46 Bishapur: 200
Dabra Salam: 54, 114-115, 146 Daga Estifanos: 158 Dahlan: 12 Damasco: 11, 61, 184 Damsa (chiesa di): 133 David Gareja (deserto): 123-125, 133, 224 Dedde (chiesa di S. Antonio): 212 Deir Abu Makar (monastero di S. Macario): 107, 113, 199 Deir Abu Seifein (monastero): 107, 113 Deir el-Abiad (vedi Monastero Bianco) Deir el-Ahmar (Mar Gabriel, Kartmin): 157 Deir el-Chohada (vedi monastero dei Martiri) Deir es-Suriani: 107
Cachezia: 44, 221 Cairo (Il): 53, 63, 113, 146, 158, 192, 195, 222 Cairo Vecchio (Il, chiesa di Santa Barbara): 158 Campo Santo (Pisa): 187 Canavar Kilise: 186 Cappadocia: 14, 19, 43, 54, 57, 63, 76-77, 103-104, 113, 115, 117, 123-125, 129, 131, 133-134, 140, 142, 148-149, 156, 184-186, 194, 209, 219, 221-223, 225, 227-228 Cartagine: 54 Caucaso: 11, 34, 40, 84, 125, 155, 173, 201, 206 Cedron (gole del): 13 Cesarea: 11, 14, 34, 54, 72, 115 Cilicia: 40, 43, 54 Cipro: 11, 18, 26-27, 44, 54, 217 Cirenaica: 11 Costantinopoli: 13-14, 17, 19, 21, 27, 2931, 38, 43-44, 46, 50, 53-54, 61, 63, 70, 77, 84, 96, 125, 127, 143, 146, 152, 155, 158, 171, 173, 180, 186, 191-192, 195, 199, 212, 219, 227-228 Creta: 127 Crimea: 131, 219 Cvirmi (chiesa del Salvatore): 139, 206
245
Deir Mar Girgis (monastero di S. Giorgio): 107, 113 Demre (chiesa di S. Nicola di Mira): 29 Diasoron: 219 Didimo (monte): 195 Direkli Kilise (Belisirma): 133, 140, 142 Djavanar Kilise: 131 Djemil (chiesa di S. Stefano): 157 Donatori (chiesa dei, Crimea): 131 Dört Kilise: 129 Dunhuang (grotte di): 224 Dura Europos: 29, 66, 70, 194 Dvin: 18, 38, 40, 74, 206 Džveli Šuamta: 44, 162 Ebla: 29 Echmiadzin (cattedrale di): 38, 40, 146, 157, 162 Eddeh (S. Saba): 31 Edessa (Urfa): 11, 13, 18-19, 21, 27, 29-30, 40, 140 Efeso: 11, 13, 17 Egitto: 12, 15, 17-18, 26, 31, 50, 53-54, 61, 63, 66, 96, 103-104, 113, 121, 124-125, 131, 133-134, 158, 171, 186, 191-192, 194195, 199, 206, 212, 219, 222 Efri Tax Kilisesi: 157 El-Bagawat (necropoli di): 53 El-Moallaqa (città vecchia del Cairo): 53, 146, 186, 222 El-Nazar: 149 Elmali Kilise: 131 Emesa (Homs): 14, 131, 158, 184 Emmaus: 212 Eraclea: 115 Ermopoli: 195 Eski Gümüs: 141 Eski Kermen: 219 Esra (chiesa di S. Giorgio): 29 Etiopia: 11, 18, 53-54, 63, 73, 104, 114, 146, 158, 171, 214, 219 Eucaita: 194 Eufrate (fiume): 18, 66 Faras (cattedrale di): 114, 215 Fayyum: 12, 50, 63 Frigia: 199 Galla Placidia: 155 Gannata Maryam: 54, 214, 219 Gareb (montagna del Golgota): 76 Gaza: 14, 72 Geghard (chiesa di): 157 Gelati (monastero di): 46, 131, 164 Georgia: 11, 18, 38, 40, 43-44, 46, 61, 7677, 84, 90, 96, 115, 123, 125, 128-129, 131,
133-134, 139-140, 142-143, 148, 156, 158, 162, 186, 191, 199-201, 206, 212, 217, 221225, 227-228 Gerasa (Jarash): 34 Gerico: 72 Gerusalemme: 11, 13, 15, 21, 30-31, 34, 38, 40, 44, 50, 54, 61, 72, 77, 84, 97, 102, 115, 142, 146, 148-149, 152, 155-158, 180, 182, 194, 206, 212, 221, 227-228 Giordania: 34, 70, 72 Giordano (fiume): 72 Giuliano (Umm al-Jimal): 29 Gobi (deserto): 224 Goch (chiesa di): 123 Golgota: 72, 75-76, 149, 155, 158 Göreme: 131, 209 Göreme (chiesa di S. Caterina): 140 Grecia: 11, 84, 90, 191-192 Güllü Dere: 115, 136, 157, 184, 225 Haçli Kilise: 118, 123, 129 Haridj: 84 Hawran: 29 Hodja Kalesi: 158 Homs (vedi Emesa) Hosios David (monastero di Latomou, Tessalonica): 101 Iberia: 43-44 Iconio: 195 Idleti: 44 Ieli: 152 Ikalto: 46 Ikorta (chiesa dei Ss. Arcangeli): 46, 168 Ikvi (chiesa di S. Giorgio): 217, 219, 221-222 India: 11, 54, 103, 224 Ippona: 169 Iprari (chiesa dei Ss. Arcangeli): 131, 139, 206, 224 Iran: 12, 40, 43 Iraq: 18, 27, 40, 133, 180 Išhani: 44, 166 Jibiani (chiesa della Vergine): 139 Jvari (vedi Mtskheta) Kabeni (Kan/aeti): 162 Kaftoun: 31, 63 Karabakh Kilise: 209 Karadag: 54 Karanis: 63 Karanlik Kilise: 131 Karmouz: 53 Karmravor (chiesa della S. Madre di Dio, Ashtarak): 38, 40 Kars: 40, 46 Karxi Kilise: 186, 209 Kartlia: 43-44, 221 Kasagh: 38 Kastoria: 143, 171 Katchagani: 158 Kerala: 11 Kfar Chlaimane (Nostra Signora
dei Venti): 63,128 Khakhuli: 44, 125, 156, 162, 168 Kharga (oasi): 53 Khe (chiesa di S. Barbara): 140 Khosita Maryam: 224 Khromkla: 40 Kincvisi (chiesa di S. Nicola): 46, 156, 168 Kirk Dam Alti Kilise (chiesa di S. Giorgio): 209 Kizil Çukur (stilita Niceta): 129, 157 Kokar Kilise: 77, 186 Konya: 54 Korkaya: 157 Kumurdo (chiesa di): 90 Kushluk di Kiliçlar: 131 Kutaisi: 44 Kvale Cminda (Džveli Šuamta): 162 Kvemo Bolnisi: 43 Laghami: 134 Lagurka (chiesa dei Ss. Quirico e Giulitta): 63, 131 Lalibela: 54, 158, 214 Lasa: 221 Lasthveri: 140, 149, 206 Latmos: 115 Lazica (Colchide): 43-44 Libano: 18, 31, 63, 70, 128, 134, 219 Libia: 70, 212 Lmbat: 206, 209, 212 Maad Mitri: 31 Macedonia: 11 Madaba (chiesa di S. Giorgio): 72 Maina: 127 Malabar: 11 Manglisi (chiesa della S. Croce): 164, 166 Manzikert: 46, 57, 227 Mar Azizael (Kefr Zeh): 157 Mar Elian (Homs): 131 Mar Elian (Qara): 63 Mar Kyriakos (Arnas): 157 Mar Musa al-Habashi (chiesa di S. Mosè l’Etiope): 184, 209 Mar Tadros (chiesa di S. Teodoro): 134, 219 Mar Yakub (Qara): 209 Mari: 29 Martvili: 44, 200, 224 Maryut (deserto): 50 Masada: 31 Mastara: 156 Matskhvarichi (chiesa del Salvatore): 139, 148, 152, 156, 206 Mavrucan: 225 Mecca (La): 34 Medinet el-Fayyum: 63 Medinet Madi: 12 Mesopotamia: 18, 29, 57, 192 Milvio (ponte, Roma): 13, 155 Mirabile (monte): 15 Mocameta (chiesa dei Quaranta martiri): 164
246
Monastero Bianco (Sohag): 103, 131, 168169 Monastero dei Martiri (Deir-el-Chohada): 113, 121, 199 Mustafa Pacha (chiesa dei Ss. Apostoli): 121, 139, 156-157 Mren (chiesa di): 40, 123, 157 Mtskheta (chiesa della S. Croce, Jvari): 4344, 90, 96, 155, 158 Münster: 171 Murek: 29 Mushabbak: 30 Nabek (deserto): 209 Nag Hammadi: 12 Nakipari (chiesa di S. Giorgio): 139, 206 Naqsh-i Rustam: 57, 90 Natività (basilica, Betlemme): 34, 168 Natlismcemeli (chiesa di S. Giovanni il Precursore): 224 Naxos (S. Giorgio Diasoritis): 225 Nebek: 184 Nebo (monte): 72 Nesgun (chiesa del Salvatore): 125 Nicea: 17, 34 Nikopolis: 72 Nikortsminda: 46, 84, 162, 200-201, 212 Nilo: 53, 104, 156, 227 Ninive: 90 Nisibi: 13, 29 Nubia: 53, 73, 76, 104, 113-114, 171, 215 Nuzal: 224 Odzun: 38, 40, 70, 84, 156 Ortaköy (chiesa di S. Giorgio): 209, 219, 225 Osaani: 219 Oshki (Osk): 44, 125 Ossezia: 46, 224 Paflagonia: 217 Palestina: 11, 14, 18, 31, 34, 44, 57, 61, 70, 72, 76, 102, 180, 212, 222 Palmira: 29, 66 Panagia Angeloktisti (Kiti): 101 Panagia Aphendrika: 217 Panagia Chalkeon (Tessalonica): 171 Panagia Kanakaria (Lythrankomi): 101 Parenzo: 101, 107 Patmos: 139 Pavnisi (chiesa di San Giorgio): 156, 219, 221-222 Pergamo: 11 Persia: 11, 17-19, 27, 30, 34, 40, 43, 57, 70, 77, 84, 90, 96-97, 114, 191-192, 194-195, 200, 227 Petriconi-Ba/kovo: 44 Pkhotreri (chiesa dei Ss. Arcangeli): 139 Ptghnavank: 96, 162 Pürenli Seki Kilisesi: 149
Ravenna: 26, 72, 75, 101, 155 Riha (sull’Oronte): 72 Roma: 11-13, 17-18, 27, 31, 40, 50, 54, 57, 63, 72, 74, 127, 192-193, 227 Ruis-Urbnisi: 46 Resafa (Sergiopoli): 157 Russia: 63, 171, 191, 215 Sabereebi (deserto): 77, 83, 124-125 Safara (chiesa di S. Saba): 134, 224 Saidnaya: 31 Sakli Kilise: 209 Samaria: 12 Samtavisi: 44, 46, 155 San Basilio (Mustafa Pacha): 157 San Dodo (monastero): 123, 125 San Giovanni d’Acri: 34 San Jacopo (Termeno): 133 San Marone (monastero): 18 San Paolo del deserto (monastero): 186 San Saba (monastero): 14 San Simeone (Kalat Siman): 29 San Vitale: 101 Sant’Antonio (monastero): 53, 113, 134, 186, 199, 200, 212, 219, 222 Sant’Apollinare in Classe: 75 Santa Caterina del Sinai (monastero): 77, 97, 127, 212 Santa Maria Antiqua: 127 Santa Marina (cappella): 212 Santa Ripsima: 156-157 Santa Sabina: 72 Santa Sofia (basilica, Costantinopoli): 29, 127 Santo Sepolcro (Gerusalemme): 34, 149 Santo Stefano (Kastoria): 171 Santo Stefano Rotondo: 74 Saqqara (San Geremia, monastero): 53, 63, 104, 107, 133 Saydet el-Rih: 219 Sebastopoli: 194 Segani: 43 Seleucia-Ctesifonte: 12, 17, 57 Sheikh (Tamit): 113
Shio-Mgvime (S. Giovanni Battista, monastero): 44 Siberia: 224 Sinai (monte): 27, 44, 77, 146 Sinasos (vedi Mustafa Pacha) Siria: 11, 13, 15, 18-19, 26-27, 29-30, 34, 43-44, 54, 61, 63, 66, 70, 72, 131, 157, 176, 180, 194, 209, 212, 219 Sis: 40 Sisian (S. Giovanni, chiesa): 90 Sjupi: 206 Soghanli (chiesa di Santa Barbara): 209 Studion: 13 Stuma: 72 Sudan: 53 Susa: 97 Suvex (Quaranta martiri): 133, 209 Sveti-Tskhoveli: 43-44, 46 Tabarka: 29 Tabriz: 180 Tafha: 29 Talitch: 38, 40, 123 Tanghil (chiesa dei Ss. Arcangeli): 140, 148 Tao-Klarjeti: 44, 46, 57, 125, 128 Taq-i Bostan: 96 Tatev (monastero dei Ss. Pietro e Paolo): 175-176, 184 Tauro: 40, 54 Tavxanli Kilise: 225 Tbeti: 128-129 Tbilisi: 44 Tchvabiani (chiesa del Salvatore): 125, 128 Tekor: 90 Tessalonica: 26, 101, 171 Tigran Honentz (chiesa di S. Gregorio): 40, 134, 139 Tigri (fiume): 27, 29 Timios Stavros (chiesa di): 186 Timotesubani (chiesa della Vergine): 46, 156, 168, 174-175 Tokali Kilise: 63, 76, 123, 125, 225 Tordan (chiesa della Santa Croce): 40
Qaraqosh: 133 Qorqor Maryam: 54, 114-115, 146 Qumran: 11
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Transcaucasia: 43, 57, 84, 90, 227-228 Transgiordania: 72 Trebisonda: 46 Trebisonda (chiesa di S. Saba): 131, 140 Trebisonda (chiesa di S. Sofia): 131, 142 Tsebelda: 200, 224 Tskelkari (chiesa di S. Giorgio): 224 Tunisia: 29, 70 Tur Abdin: 27, 29 Turchia: 29, 43-44, 90, 125, 129 Ubisi (chiesa di S. Giorgio): 143, 146, 222 Udabno: 133, 164 Ugarit: 29 Ulivi (monte degli): 34 Umm ar-Rasas (S. Stefano): 72 Urartu: 34 Urbnisi: 38, 46 Ushguli (chiesa della Vergine): 133, 139 Vagharshapat (chiesa di S. Gaiana): 38 Vardzia (chiesa della Vergine): 164, 173, 186 Vaspurakan: 40, 90 Verhoretchie (San Giovanni Battista): 131 Verin Talin (chiesa della Madre di Dio): 40 Vezelay: 223 Wadi el-Natrun: 107, 199 Wardian: 53 Yemen: 54 Yilanli Kilise (Göreme): 209 Yilanli Kilise (Ihlara): 185-186 Zaldachi (chiesa del Cristo): 140 Zelve: 157 Zemo-Arcevi: 219 Zemo-Krikhi (chiesa dei Ss. Arcangeli): 133, 139 Zenobani (chiesa di Cristo Salvatore): 224 Zoravar: 40 Zromi: 44 Zvartnots: 53, 84
FONTI E CREDITI FOTOGRAFICI
A. Alpago Novello / E. Hybsch: 5, 14, 25-28, 32, 34-36, 78, 85, 87-89, 123, 132, 134, 147-150, 154, 156, 159, 168-169, 172, 174, 180, 183, 211; M. Andaloro: 43-44, 107, 109, 111, 142, 145, 166-167, 178; Archivi Jaca Book: 2-3, 4 (Massimo Capuani), 7-8, 9 (Luca Mozzati), 10-13, 15-16 (Massimo Capuani), 20, 29, 38 (Massimo Capuani), 39, 41, 46, 50-51, 53, 57, 64, 68, 76, 86 (G. Curatola/Cingolani), 90, 94-96, 100-101, 103, 105-106, 113-115, 117, 121, 129, 135, 138-140, 143-144, 153, 155, 157-158, 163-164, 171, 179, 181-182, 192, 194-197, 202, 205-206, 209, 213, 226-228, 230-231, 233, 235-236, 241-242, 245 (monastero di S. Caterina del Sinai); Archivi T. Velmans: 6, 61-62, 66-67, 69, 74-75, 91-92, 116, 118-119, 124-128, 130-131, 136-137, 170, 175-176, 184-185, 201, 212, 215-219, 221-222, 232, 238, 243-244; Archivio Zodiac/Claude Savageot: 112, 120, 146; Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze: 97; Bibliothèque nationale de France, Paris: 63, 70; Boston Public Library, Boston: 189; British Library, London: 200; British Museum, London: 239; T. Cheviakov: 220; C. Delgado: 1; N. Deney: 223-224; O.I. Dombrovski: 237; DR: 22-24, 31, 45, 79-84, 162, 193, 199, 214, 240; Dumbarton Oaks Collections, Washington: 60; A. Guler: 165; M.-E. Heldman: 52, 225, 234; Jaca Book / BAMS photo – Rodella: 17-19, 21, 42, 65, 104, 160, 207; C. Jolivet-Lévy: 108, 198; P. Laferrière: 208, 210; J. Lafontaine-Dosogne: 110; Matenadaran (Istituto dei manoscritti), Erevan: 71-73, 186-188, 190; I. Melhem / M. Zibawi: 40, 47, 49, 93, 98-99, 102, 122, 133, 152, 177, 204, 207, 229; Metropolitan Museum of Art, New York: 58; Musée du Louvre, Paris: 37, 48, 203; Musei Archeologici d’Istanbul, Istanbul: 59; © Museo e Tesoro del Duomo di Monza / foto Piero Pozzi: 141; © Shutterstock: 30 (Master1305), 33 (Nsafonov), 77 (Michal Knitl); Tesoro di S. Pietro, Città del Vaticano: 151; N. Thierry: 161, 173; Walters Art Museum, Baltimora: 191; Yale University Collections, New Haven (Connecticut): 54-56.