THE ART OF SYMBOL

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L’ARTE

Panikkar DEL

SIMBOLO

a cura di Milena

Carrara Pavan

Fundació Vivarium Raimon Panikkar


© 2020 Editoriale Jaca Book Srl, Milano tutti i diritti riservati

Indice

International copyright handled by Editoriale Jaca Book Srl, Milano per i testi ® Fundació Vivarium Raimon Panikkar Prima edizione ottobre 2020

Copertina e impaginazione Paola Forini / Jaca Book

Prefazione di Milena Carrara Pavan

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1. Simbolo e simbolizzazione

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2. L’esperienza artistica

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3. Quaternitas Perfecta. La quadruplice natura dell’uomo: terra, acqua, fuoco, aria

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terra

4. Kailasa

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Acqua

Stampa e legatura Grafiche Stella San Pietro di Legnago (VR) settembre 2020

ISBN 978-88-16-60624-1 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

5. Trisangam: Giordano, Tevere, Gange 6. La goccia d’acqua

97 125

Fuoco 7. Bhakti, Karuna, Agape 8. Il mistero di Maria

149 169

Aria 9. Ekklesia e Mandiram: due simboli della spiritualità Umana 10. Spazio sacro. Non c’è spazio esteriore senza spazio interiore 11. Gaudí. Lo spazio sacro è lo spazio reale

221 229 267

12. Filosofia e musica (conversazione con Jordi Savall)

275

13. Il silenzio

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Note 286

Prefazione

Bibliografia 290

di Milena Carrara Pavan

Quando gli editori della casa editrice Jaca Book mi hanno comunicato l’intenzione di pubblicare un elegante libro illustrato in omaggio a Raimon Panikkar per il decimo anniversario della sua scomparsa, avvenuta il 26 agosto del 2010, suggerendo come titolo L’arte del simbolo, non potei che accettare, e con entusiasmo, di curarne il testo. L’argomento infatti sarebbe piaciuto al nostro autore. Quante volte gli ho sentito dire frasi del tipo: «Ciò di cui l’uomo ha bisogno oggi è la coscienza simbolica». «Il grande compito per il presente è integrare il pensiero razionale con quello simbolico». «Esiste una consapevolezza simbolica che non può essere ridotta a consapevolezza riflessiva razionale». «L’impensabile non è pensabile, però si può essere consapevoli della sua presenza». Finalità del presente volume è quella di ravvivare la memoria di Panikkar attingendo dalla vasta sua produzione letteraria e dalla ricchezza del suo pensiero, sempre illuminante, una chiara lettura della realtà e una fiduciosa apertura al futuro. 7


A me dunque il compito di scegliere scritti attinenti all’argomento dai 18 volumi della sua Opera Omnia, la cui pubblicazione è ormai prossima a completarsi. Il criterio che ha guidato la selezione dei testi non è consistito nel produrre un’antologia, una raccolta, pur significativa, di argomenti relativi alla tematica simbolica in senso stretto; la scelta piuttosto avrebbe la pretesa di mostrare l’ampio raggio degli interessi di Panikkar e in special modo la sua vocazione a raccogliere in una visione finalmente armonica e integrata tutti i fragmenta in cui è stata scomposta la realtà in cui viviamo. Panikkar ha sempre insistito sulla necessità di un profondo mutamento di prospettiva, di uno scuotimento dal torpore mentale che caratterizza il nostro modo abituale di considerare le cose, ovvero sul bisogno di una metanoia, di una “conversione” radicale di mentalità, capace di andare “oltre” la mente stessa, di “trapassare” la logica dualistica ad essa sottesa. Per non “scindere” la realtà in pezzi poi impossibili da ricomporre, Panikkar ha parlato così dell’importante funzione del “simbolo”, termine che già in origine significava il “mettere assieme” (sym-bállein), il “ricongiungimento” delle due tessere in cui un oggetto era stato inizialmente diviso. A differenza del “segno”, che è un modo convenzionale e dunque arbitrario di riferirsi a qualcosa, di nominarlo, di intenderlo, il simbolo non risolve completamente dentro di sé la cosa cui si riferisce (non è pura “soggettività”), né rimanda soltanto a essa come un mero strumento (non è pura “oggettività”), e non è nemmeno il mastice che incolla le due parti preformate. Simbolico è piuttosto il modo spontaneo e originario di presentarsi delle cose, l’aspetto, il volto da cui non possono prescindere per essere quel che sono, ma con cui non coincidono del tutto, con cui non si identificano totalmente. Il simbolo è precisamente questa relazione originaria, questa “differenza” che viene “prima” della costituzione dei suoi poli, che non 8

lascia nel “due”, che non lascia cioè la cosa simboleggiata a sé stante, separata e divisa, come fosse tutt’altro da quello che sembra; ma che, al tempo stesso, non chiude la cosa simboleggiata nell’ “uno”, in un’apparenza senza scampo, assoluta e idolatrica, dove la cosa si perde e si dissolve. Così intesi, per il fatto cioè di dar vita a una relazione a-duale secondo la quale né la verità della cosa si cela dietro il velo dell’apparenza né quella stessa verità si disvela in quanto tale solo in quel modo una volta per tutte, i simboli – come i miti ai quali sono apparentati sono «i mattoni ultimi – scrive Panikkar – con i quali è costruito l’edificio della realtà». Per “intenderli” non occorre dunque fare appello al pensiero, spiegarli o interpretarli, perché essi ci coinvolgono in un movimento ritmico, in una danza di velamento e disvelamento irriducibile, dove dunque si rimane sempre nel velame delle cose , che Panikkar chiama anche “coscienza simbolica”: una coscienza non riflessiva di cui partecipa tanto l’umanità quanto la realtà, un’attitudine che impedisce al nostro sguardo di chiudersi in se stesso e di osservare la realtà da un punto di vista distaccato e neutrale. In virtù delle sue caratteristiche, il simbolo (e la coscienza simbolica) mi è parso così la chiave di volta e la guida di questa celebrazione di Panikkar, al punto da fare proprio di uno scritto panikkariano a riguardo, Simbolo e simbolizzazione, la vera e propria ouverture dell’intero volume. Infatti, dato che il simbolo è il modo originario di presentarsi e di ricomporsi della realtà, dato che esso è la veste integrata, armonica con cui la realtà appare, allora tale realtà si presenta cosmicamente – nella coscienza dell’uomo cosmico. Sempre come introduzione, ma centrato più sull’Esperienza artistica, viene proposta la lettura di uno scritto inedito trovato fra le carte di Panikkar, argomento cui intendeva probabilmente dedicare un nuovo testo, con l’intento di offrirci la sua visione dell’arte come esperienza del reale. 9


*** Il filo conduttore del libro è tratto da La quaternitas perfecta: la quadruplice natura dell’uomo: uomo come microcosmo, specchio dell’intera realtà, costituito dai quattro elementi – terra, acqua, fuoco e aria –, non un abbassamento dell’uomo a semplice “natura”, ma piuttosto un innalzamento dei quattro elementi a ciò che effettivamente sono: le originarie sostanze viventi e spirituali dell’universo. «L’uomo è effettivamente il tutto», recita il Rg-veda x, 90,2. Per l’elemento terra (simbolo della materia, del corpo) si è pensato alla montagna, a lui cara. Ricordo come Raimon dedicasse ogni martedì a una lunga passeggiata in montagna, e non c’erano impegni di alcun genere o scadenze editoriali che lo potessero trattenere. Negli ultimi anni le camminate si svolgevano sugli altopiani dei pre-pirenei nell’area in cui viveva e, se aveva ospiti, l’unico modo che offriva loro per stare con lui era di accompagnarlo: un paio di comode scarpe, una borraccia d’acqua, una manciata di noci e via fino al tramonto. Homo viator, si definiva, simbolo dell’umanità in cammino verso l’Assoluto. Lo scritto scelto non poteva che essere il racconto del suo “ultimo” (in ogni senso) Pellegrinaggio al Kailasa, il monte sacro per eccellenza per molte tradizioni religiose orientali, nel lontano Tibet. L’ho accompagnato io stessa, così che posso testimoniare quale profondo significato avesse assunto per lui quel pellegrinaggio compiuto in età avanzata, che avrebbe potuto comportare anche un non ritorno per il forte rischio cui sottoponeva il suo cuore: eventualità che gli era ben presente tanto che si diceva pronto a lasciare il corpo nel raggiungimento della meta, la sorgente della vita. Per l’elemento acqua (simbolo di vita, ma anche di fede)) abbiamo scelto due scritti, il primo, Trisangam: 10

Giordano, Tevere, Gange, a testimonianza del suo pellegrinaggio terrestre dedicato al dialogo interreligioso, o meglio intrareligioso, come Panikkar preferiva considerarlo. Per lui, sacerdote cattolico, rappresentava infatti il percorso della “sua” religione: dall’ebraismo (il fiume Giordano, in cui Gesù fu battezzato e si riconobbe, non solo figlio dell’Uomo ma anche figlio di Dio) al cristianesimo (il Tevere, fiume di Roma, dove avvenne la cristallizzazione della cristianità) per sfociare auspicabilmente nel fiume Gange (Ma Ganga, che tutto accoglie nel suo grembo e trasforma in pura spiritualità). Il Gange è per Panikkar la scoperta della profondità dei testi sacri hindu e il tuffo nel misticismo della religione di suo padre, rimanendo pienamente cristiano e dedicando in seguito i suoi scritti alla visione cristofanica, l’esperienza di Cristo. E nel Gange ebbi il compito di spargere le sue ceneri. In riferimento al simbolo dell’acqua mi è parso opportuno aggiungere anche lo scritto La goccia d’acqua, metafora della vita di cui l’acqua è simbolo: scoprirsi acqua mentre ancora si è goccia è il traguardo del percorso umano. Per il terzo elemento, fuoco – agni della tradizione vedica, ignis nella tradizione latina –, mi sono avvalsa del breve scritto Bhakti, karuna e agape, tre generi d’amore nelle religioni che l’autore ha approfondito nella sua vita: induismo buddhismo e cristianesimo. È stato aggiunto anche uno scritto dedicato alla devozione a Maria che risale al 1962. Grande e profonda è sempre stata la devozione di Panikkar alla Madonna, madre di Dio, simbolo della generazione divina cui l’uomo è chiamato. Ricordo quando nel nostro pellegrinaggio al Kailasa, provato dalle lunghe notti insonni trascorse in tenda a 5-6.000 metri, egli mi raccontò di aver vissuto di notte un’esperienza terribile di morte sentendo la solitudine estrema e come il suo pensiero fosse andato alla Vergine nera di Montserrat, la Moreneta, cui era molto 11


devoto. Sempre celebrò gli anniversari di sacerdozio in questa famosa basilica; ricordo il 50° e il 60° anniversario celebrati alla presenza di tanti amici accorsi da ogni parte del mondo per festeggiare il suo sacerdozio, sacramento che visse profondamente fino alla morte. Giustamente qui, sotto lo sguardo sorridente della Vergine nera, ebbe luogo anche la funzione solenne di commiato, accompagnata dalla musica d’organo e dal violoncello dell’amico Jordi Savall, in un’atmosfera gioiosa che celebrava la sua lunga intensa vita sulla terra. Per l’ultimo elemento, aria, spirito, spazio, è stato riportato Ekklesia e Mandiram, due simboli della casa di Dio costruiti affinché il popolo incontri Dio e gli Dèi incontrino il popolo: un unico popolo, la famiglia umana, e un’unica divinità, la sfera divina. Completa la scelta Lo spazio sacro è lo spazio reale. In questo lungo scritto che sarà pubblicato nell’ultimo volume dell’Opera Omnia, Panikkar si avvale della dottrina advaita per sostenere che non c’è spazio esteriore senza spazio interiore, ma la loro relazione a-duale, senza che l’uno o l’altro perdano la loro realtà relativa, superando così sia la visione monista che quella dualista. La tensione ultima non è tra spirito e materia ma tra libertà e prigionia. A completamento, come esempio di rappresentazione artistica dello spazio sacro, non poteva mancare un riferimento a Antoni Gaudí le cui colonne della Sagrada Familia simboleggiano l’armonia dell’universo, quell’armonia che l’uomo è chiamato a creare e a scoprire in se stesso. Appare a volte sorprendente in che misura si sia ridotta l’esperienza della realtà da parte degli uomini condizionati dal complesso tecnocratico cui fanno eccezione per Panikkar gli artisti e i mistici. L’immagine dell’uomo non è divisa dal resto della realtà. L’uomo non è né dominatore della natura né una sua manifestazione separata. Dio, uomo e cosmo sono tre parole attraverso le quali è rappresentato il tutto. Ciascuno 12

dei tre poli è definitivo e non riducibile all’altro o a un presunto centro. Ciononostante ciascuno di questi poli presuppone gli altri e li contiene. L’essere umano è una dimensione, una relazione costitutiva di tutta la realtà: ogni uomo è centro dell’universo o, più precisamente, in ogni uomo si concentra l’intera realtà, ma egli non è tuttavia l’unico centro. La realtà è centrata su sé stessa, il suo centro però non si trova in alcun luogo, come dice Il libro dei 24 filosofi, cui Panikkar ha spesso fatto riferimento. Le tre dimensioni della realtà si compenetrano reciprocamente. Cielo, terra e il “tra” i due, passato, presente e futuro sono formulazioni cosmologiche. Sat, cit, ananda, il trikaya, la trinità cristiana, sono formulazioni religiose. Le concezioni non sono uguali ma omeomorfiche. Per Panikkar: l’intera realtà è costituita da una specie di trinità che si tiene assieme attraverso reciproche relazioni. La rivelazione cristiana della divinità è valida ab intra e anche ad extra, la struttura trinitaria del tutto corrisponde a un’origine, a una realtà e a una dinamica: Padre, Figlio e Spirito santo. Cristo sarebbe il simbolo cosmoteandrico, egli è tutto in uno, indiviso e senza mescolanza tra divino, umano e cosmico. In linguaggio vedico: «Ciò che è al di sopra del cielo e ciò che è al di sotto della terra, ciò che è fra questo cielo e questa terra, ciò che si chiama passato, presente e futuro, tutto ciò è tramato e ordito su akava, lo spazio etereo». – lo spazio sacro. Brhadarapyaka-upanisad iii, 8,3 cui fa eco quello cristiano: «Allorché di due farete uno, allorché farete la parte interna come l’esterna, 13


la parte esterna come l’interna e la parte superiore come l’inferiore... allora entrerete (nel Regno)». Vangelo copto di Tommaso, 22

1. Simbolo e simbolizzazione

Ho aggiunto infine come appendice non uno scritto ma una conversazione spontanea e vivace su filosofia e musica che Panikkar ebbe con l’amico catalano Jordi Savall. *** Una “presentazione”, che si dipana attraverso le maglie del simbolo, rappresenta già di per sé un testo illustrato - con le sue figure magnetiche, i suoi luoghi sacri, le sue ipostasi millenarie e le sue invisibili connessioni geografiche. È stato così quasi naturale estendere l’illustrazione con l’aggiunta di un vero e proprio materiale iconografico che documentasse ulteriormente il testo e lo dotasse di quella potente carica visiva che solo le immagini, com’è ormai noto, sanno offrire. Ne è emerso, alla fine, un ritratto che crediamo alquanto eloquente delle meraviglie del mondo panikkariano, dove culture distanti nel tempo e nello spazio si collegano tra loro, dove lingue remote e zone geografiche periferiche balzano di colpo in primo piano, dove da ogni angolo traspare la bellezza della natura e la “vivenza” della spiritualità. L’auspicio è che, meditando su questo ritratto, il lettore conosca meglio Panikkar e ne riceva lo stesso tocco elettrizzante che è talvolta capitato di ricevere a chi lo ha frequentato da vicino. Milena Carrara Pavan

L’ambito del simbolo: la pura relazione Vorrei proporre alcune considerazioni sul simbolo perché se il simbolo (nel senso che a questa parola desidero attribuire) è qualcosa, è proprio quello che non è in se stesso, che non è a sé – che non ha aseità. Il simbolo non è ciò che mette in relazione: è la relazione stessa (anteriore ai termini della relazione). Il simbolo non è un segno ma non è neanche qualcosa di meramente oggettivo. Il simbolo non ha in sé oggettività. Alcuni mesi fa ebbi l’occasione di partecipare a una celebrazione tradizionale hindu in cui prima si adorano immagini considerate divinità poi le si buttano nel fiume. Queste immagini sono un simbolo. Per fare un altro esempio, più consono alle nostre latitudini, citerò san Tommaso d’Aquino dicendo (e questa è dottrina accettata) che, se un cane mangia l’ostia consacrata, evidentemente non si comunica, vale a dire non riceve il corpo di Cristo. Del pari, se si spezza l’ostia, non per questo si spezza il corpo di Cristo. L’eucaristia è un simbolo. * Versione ridotta di Símbolo y simbolización. La diferencia simbólica. Para una lectura intercultural del símbolo, in Círculo Eranos I. Arquetipos y símbolos colectivos (Kerényi, Neumann, Scholem, Hillman), Anthropos, Barcelona 1994. In Opera omnia, Vol. ix, Tomo 1, Jaca Book, Milano 2008.

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Non dimentichiamo che l’ex opere operato dei sacramenti cristiani è tale grazie all’ex opere operantis Christi. Non è l’oggettività che costituisce il simbolo. Il simbolo, però, non è nemmeno pura soggettività: non è formato da ciò che io vivo interiormente. Pensiamo, per esempio, alle icone sacre che rappresentano la visione della gloria divina: non possiamo conferire loro una forma arbitraria; sono semplicemente ció che sono perché non sono lì unicamente come aiuto psicologico. Neanche la pura soggettività è ciò che costituisce un simbolo. Io non sono padrone del simbolo: il simbolo non è esclusivamente soggettivo; non dipende dalla mia volontà né da ciò che vorrei farne. L’eucarestia non è il capriccio di alcuni. Il simbolo non è indipendente dalla fede che si ripone in esso perché non è oggettivo, ma non possiede neanche in se stesso un’indipendenza perché non è neanche soggettivo. E non è nemmeno insieme soggettivo/oggettivo: trascende questa dicotomia1. È, questo, un punto che dobbiamo approfondire perché la relazione non è solo una relazione di inter-soggettività o di oggettività storicizzata; che, cioè, la storia ha oggettivizzato nel senso di una sociologia della conoscenza: in un determinato momento percepiamo una certa cosa come oggettiva e la accettiamo. In fondo, però, questo non è altro che una specie di soggettività oggettivata dalla storia, in virtù di una oggettività più o meno relativa. Il simbolo, in quanto pura relazione, in quanto polarità tra il soggettivo e l’oggettivo, non si lascia comprendere dalla dialettica. Il mio presupposto differisce qui dalla maggior parte dei presupposti occidentali contemporanei (siano cristiani, giudaici, agnostici o marxisti) e cioè che la struttura ultima della realtà sia dialettica. Mi pare, questa, una concezione molto interessante ma molto riduzionista. Al momento mi limito ad affermare che la struttura ultima della realtà non ha «perché» essere dialettica, senza sostenere che la realtà «non è dialettica», dal momento che questa 16

1. Comunione di Abramo, Abside dipinta, chiesa della Vergine Maria, monastero di Baramus, Egitto.

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affermazione mi farebbe ricadere nella dialettica stessa. La dialettica presuppone un sic et non, un oggetto e un soggetto previi alla loro relazione. La differenza simbolica Chiariremo ora alcune parole. Nella letteratura filosofica contemporanea si parla di alcune differenze ultime. Chi ha letto Heidegger, per esempio, sa che cosa si intende per differenza ontologica, differenza teologica e differenza trascendentale: sono le differenze ultime tra diverse sfere della realtà che appaiono alla nostra coscienza. La differenza logica tra soggetto e predicato; la differenza epistemologica tra il soggetto che conosce (la cosa) e il soggetto che io conosco, che è il soggetto conoscente; la differenza riflessiva tra l’oggetto della mia coscienza e la riflessione, della quale io sono cosciente, che riflette sull’oggetto e così via. Vorrei ora qui introdurre un’altra differenza ultima che potremmo definire differenza simbolica o forse polarità simbolica. Prenderemo ora le mosse da questo nuovo punto per proseguire, poi, con altre considerazioni. La funzione del simbolo Cosa fa il simbolo? Il simbolo rappresenta quello che, per me, non ha bisogno di nessuna interpretazione. In breve: il simbolo – in quanto simbolo – non è oggetto di ermeneutica. Non si può interpretare un simbolo: con che cosa lo si interpreterebbe? In realtà, nel simbolo non c’è distanza interpretativa. Per questo il simbolo non è ermeneutizzabile. Diamo un esempio. Se diciamo a un bambino: «Il corpo, figlio mio, rappresenta lo strumento vitale attraverso cui si manifesta l’anima, la materia unificata in te e che forma il tuo essere...», il povero bambino che, prima, capiva un po’ che cosa fosse il suo corpo, ora si sentirà perso perché ciò 18

2 a e b: Due manufatti di epoca neolitica con alto valore: il primo a forma di disco con foro circolare interno e il secondo a forma di tubo troncato con l’esterno quadrangolare e l’interno circolare. All’inizio dell’era imperiale, il disco forato diviene associato al culto del Cielo e il tubo cong alla Terra. Questi oggetti, trovati in alcune tombe, sono stati interpretati in vario modo. Decisamente non si sapeva che significato dessero loro gli artigiani e i committenti originali, ma l’interpretazione che la Cina stessa ne dà negli ultimi secoli prima della nostra era, cioè nei testi di inizio Impero, può far pensare che da tempo la preoccupazione di simboleggiare Cielo e Terra avesse influenzato queste forme, che per la loro purezza implicavano un alto investimento simbolico. Gli oggetti di giada qui riprodotti appartengono alla cultura di Liangzhu, periodo Neolitico, fra il 3000 e il 2000 a.C. Entrambi sono stati rinvenuti durante gli scavi condotti nel 1986 a Fanshan, provincia dello Zhejiang, e si trovano all’Institute of Archaeology and Cultural Relics Bureau dello Zhejiang. I nomi bi e cong li troviamo nei testi rituali del 300 a.C.

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che pensava di poter afferrare con le sue mani è diventato problematico ed elusivo e dipende da termini come «anima», «essere», «materia» e altro. Il bambino ha perso così ogni contatto con il suo corpo. Per capire il mio discorso, il bambino deve entrare prima nel mondo dei concetti di una determinata civiltà. Ciò con cui spiego il significato di «simbolo» è, evidentemente, qualcosa di precedente al simbolo e che accetto senza che siano necessarie ulteriori spiegazioni. Se ho bisogno che me lo si spieghi, avrò bisogno anche di qualcosa che possa servire da fondamento alla spiegazione. I simboli sono i mattoni ultimi con i quali è costruito l’edificio della realtà. Quando il simbolo ha bisogno di una spiegazione è perché è finito: ha cessato di essere simbolo. Il simbolo o lo si capisce o non lo si capisce; o stiamo in lui o non vi stiamo. Se abbiamo bisogno di una spiegazione, vuol dire che ci appoggiamo su qualcosa di ancora più fondamentale del proprio simbolo. Quando cominciamo a cercare prove dell’esistenza di Dio, Dio si trasforma in un concetto, forse probabile o provato, ma cessa di essere un simbolo vivo. San Tommaso, detto tra parentesi, non volle provare l’esistenza di Dio, ma la razionalità di quella credenza. Il simbolo, dunque, non è oggetto di ermeneutica, non si lascia interpretare. Il simbolo è tale per definizione o, se si preferisce una descrizione fenomenologica: ciò (quello) mediante cui cerchiamo di interpretare il simbolo è precisamente simbolo per noi; è ciò su cui, in realtà, ci appoggiamo senza necessità di cercare più oltre o di chiedere «perché?». Voglio dire che l’apertura al simbolo appartiene a una coscienza simbolica sui generis; non può essere frutto di un ragionamento, deve essere qualcosa al cui cospetto si cade in estasi, qualcosa che «sta lì»; che sta lì ma anche qui. Proprio per il fatto che non sono cosciente né della sua oggettività né della sua soggettività, non mi serve altra spiegazione. Quando provo un dolore, credo sia oggettivo e quindi vado dal dottore. 20

Il simbolo non spacca la realtà, non la divide in un simbolizzato e un simboleggiante. Questa referenzialità estrinseca è ciò che costituisce il segno: la freccia e la bandiera, per esempio, sono per così dire, i significanti («simboleggianti»); la guerra e la patria sono i significati («simboleggiati»). Supponiamo però che io identifichi il significante con il significato e che dia fuoco alla bandiera per fare un affronto alla patria. Questa azione mi manderà in carcere, ma la patria non sarà certo in fiamme perché io ho dato fuoco solo a un segno. Non è questo il caso del simbolo: non appartiene a un ordine epistemico. Il simbolo è il simbolizzato nel simbolizzante Quale è dunque la relazione tra simbolizzante e simbolizzato? Il simbolizzato non è la cosa in sé (come dice Kant) nascosta nelle apparenze del simbolo; non è qualcosa che sta nel simbolo; non esiste nessun’altra realtà alla quale io possa arrivare attraverso il simbolizzante. Ciononostante esiste una polarità tra il simbolizzante e il simbolizzato. Il simbolo è quello che mantiene tale polarità. Faccio un esempio: «il mio corpo è il simbolo del mio essere, è il mio simbolo». In questo caso il mio viso, i miei occhi, i miei abiti, i miei gesti, sono il simbolizzante e gli altri conoscono me, il simbolizzato, tramite questo simbolo. Se però identifichiamo il simbolizzante con il simbolizzato e pensiamo che io sono solo ciò che vedono gli altri, sbagliamo perché io sono stato bambino, poi giovane e sarò altro ancora e perciò non mi si può identificare con ciò che si vede ora, con ciò che il mio simbolo rivela ora. Se però, d’altro canto, pensiamo che ciò che stiamo vedendo è una specie di burattino che ospita la mia anima o il mio vero io, sbagliamo ancora una volta: se mi tagliano la testa, simbolizzante e simbolizzato vanno in pezzi. Non è, dunque, che io stia nel mio corpo in 21


modo più o meno indipendente e che sia separabile da esso. Non vi è dualità: io non sono altro (alius) che il mio corpo, non me ne posso separare; se lo abbandonassi cesserei di esistere. Ciononostante, non sono nemmeno solo il mio corpo; il mio corpo è il mio simbolo. La coscienza simbolica è quella che, nel riconoscermi come simbolo, riconosce che io sono il mio simbolo. Il che vuol dire che io sono al contempo meno, più, diverso, altro, di un simbolizzante contenuto da un simbolizzato dal quale non può separarsi e con il quale non può identificarsi. È la coscienza intuitiva (che tutti i bambini posseggono) che fa dire «questo è il mio simbolo» senza identificarmi con il simbolo stesso. Si arriva però al simbolizzato nel e tramite il simbolo e questo simbolizzato non è indipendente, né separato né separabile dal simbolo, senza per questo essergli identico. Io, infatti, sono il «mio» simbolo e simbolizzante e simbolizzato sono due astrazioni della realtà la quale, a sua volta, è previamente simbolica. l simbolo è quello che ci permette di spiegare l’idolatria: idolatria è quando penso che il simbolizzante (che può essere l’eucarestia, per esempio, o una pietra) è il simbolizzato. Da qui l’idolatria che porta poi al dogmatismo, al fanatismo e ad altri «ismi». Il simbolo è tale solo per coloro per i quali è simbolo. Alcuni princìpi Che fa dunque il simbolo e quale è il suo veicolo? Propongo qui uno schema: lo strumento del logos è il concetto; lo strumento del mito è il simbolo; il veicolo del logos è la ragione; il veicolo del mito è la fede; l’espressione del logos è la scienza (nel senso più ampio della gnosis); l’espressione del mito è il rito. Non sono però, queste, tesi delle quali possiamo parlare ora perché svilupparle ci porterebbe ad andare oltre i limiti di questo testo. 22

Gradi epistemici A questo punto sarà però opportuno precisare che, oltre a non essere segno, il simbolo non è nemmeno esempio, né similitudine, né metafora, né parabola. Tutto questo richiede una serie di distinzioni che dobbiamo chiarire per non cadere in confusione. Dobbiamo stabilire una distinzione precisa – nell’ordine di una univocità decrescente o di una polisemia crescente – tra il concetto (che tende ad essere univoco perché, se incontriamo qualcosa di simile facciamo una distinzione e creiamo un altro concetto per evitare equivoci), l’esempio, la similitudine, la metafora (che distinguo in metafora esterna e metafora interna), la parabola (che non dev’essere confusa con la metafora) e, infine, il simbolo. Da un punto di vista antropologico sarebbe un movimento dal logos al mythos. Solo il simbolo appartiene all’ordine ontologico; gli altri appartengono a quello epistemologico. Per non allontanarci dal nostro tema ci soffermeremo solo sul simbolo. La comunicazione simbolica Detto ciò, come parlare del simbolo? Come si può comunicarne la vivenza? Ci troviamo di fronte ad una difficoltà reale perché ogni linguaggio è già condizionato da una visione particolare e perché tutte le parole portano seco un magma mitico che è quello che le combina in modo che abbiano un significato (nelle diverse eccezioni di questo vocabolo). Potremmo ricorrere alla parola «intuizione»: intuizione del simbolo? Nemmeno, se per intuizione s’intende qualcosa che viene dal di fuori. Forse «esperienza»: esperienza del simbolo? No, se per esperienza si intende soggettività. Come esprimerlo? Mi viene in mente la parola vivenza (Erlebnis in tedesco) che, in francese, si suole tradurre con «expérience vécue» (esperienza vissuta), ma 23


questa traduzione non rende tutto il senso della parola perché il «vissuto» è già passato, mentre vivenza sta a significare una partecipazione alla vita di cui io non sono il proprietario... Ed ecco qualcosa di molto importante: superare il principio di proprietà che è il principio sacrosanto di tutta la tradizione giudeo-cristiana. Tutto il decalogo, per esempio, altro non è che una esegesi del principio di proprietà: ci sono molti Dei, nessuno lo mette in dubbio, nemmeno la Torah, tuttavia «io sono il tuo Dio»; ci sono molte belle donne, ma «la tua donna è la tua donna»; ci sono dappertutto tante vacche, ma «la vacca del vicino non è tua». Ci sono tanti popoli, ma «tu sarai il mio popolo!» È unilaterale e ristretto, anche se geniale. Si crea un ordine. Mio/tuo: è l’esegesi più perfetta del principio di proprietà. Ciò che conta è il mio e il tuo, il suumcuique (lo conoscevano anche i latini!). Chiudiamo però questa parentesi e torniamo al nostro discorso. Queste riflessioni sui termini intuizione, esperienza e vivenza sono dovute al tentativo di rispondere alla domanda formulata: «come comunicare un approccio al simbolo?». In realtà, però, la parola «approccio» forse non è adeguata. Chi si avvicina a chi? Sono io che mi avvicino al simbolo o è il simbolo che si avvicina a me? Non si darà magari il caso che ci scopriamo parte del dinamismo dello stesso universo simbolico? Il simbolo non è oggetto di pensiero In Paul Ricoeur ricorre una frase a mio avviso significativa ma ambigua: le symbole donne à penser (il simbolo dà da pensare). Se questo significa che il simbolo ci fa pensare nel senso di «pensare a qualcosa», a qualcosa che «si deve pensare», non sono d’accordo. Quando io penso il simbolo ne sono già fuori. Il pensare corrode e distrugge il simbolo trasformandolo in oggetto (pensato). Il simbolo si trasforma in oggetto del mio pensiero. Se, al contrario, 24

significa che è il simbolo che ci fa pensare, che scatena la nostra attività pensante, posso, almeno in certa misura, essere d’accordo. Il simbolo ci fa pensare ma è anche, proprio, quello che ci libera dal pensiero e che fa sì che esso, a questo livello, non sia più necessario. Il pensare è, senza alcun dubbio, necessario. Ma il simbolo ci libera da questo costante pensare. Di fatto proprio Ricoeur, forse per evitare malintesi, dice anche che il simbolo d’abord donne à parler (primo, dà da parlare). Può darsi che il simbolo liberi il pensare ma, come si diceva al principio, in direzione esattamente opposta: non è che io vada al simbolo, è il simbolo che mi libera, che mi ispira e mi assorbe, quello che mi libera dalla mia riflessività e, nella misura stessa in cui mi lascio portare dal simbolo, il simbolo si fa reale. Se il simbolo ci desse la materia per pensare, ci porterebbe alla schizofrenia perché il simbolo, per sua propria costituzione è polisemico, e non possiamo pensare contemporaneamente pensieri diversi senza cadere nella schizofrenia. Ogni simbolo, poi, ha innumerevoli significati. Non si può interpretare il simbolo perché esso è per sua natura polisemico (anche se il termine «polisemico» è troppo distributivo dal momento che vuol dire che ci sono molti significati e che io posso «calcolarne» il denominatore comune per affermare poi che il simbolo significa, più o meno, questo stesso insieme di significati). Il simbolo non significa nulla. O, per meglio dire, il significato del simbolo deriva dalla nostra partecipazione al simbolo. Se mi avvicino al simbolo lo distruggo. Ciò che posso fare è ascoltare il simbolo, lasciare che parli. Il simbolo libera il mio pensiero perché lo libera. Certo, in tal senso, il simbolo dà da pensare, ma non mi fa pensare alla cosa in sé. Possiamo discutere la nozione di simbolo o discutere sul simbolo, ma non possiamo discutere il (un) simbolo. Se il simbolo è vivo, ovvero se il simbolo è tale per noi, può essere una data cosa per me e un’altra cosa per un altro e quanto è più ricco e vivo, più cose consente di pensare. 25


Quando il simbolo è vero simbolo, e non mero segno o il rivestimento esterno di un concetto, vuol dire molte cose; l’errore però sta nella direzione dalla quale ci si avvicina al simbolo, perché non sono io che debbo avvicinarmi al simbolo: è piuttosto il simbolo che deve avvicinarsi a me. Se lo lascio avvicinare, il simbolo scatenerà la mia vita, il mio amore e anche il mio pensiero. Ho parlato altrove della nuova innocenza2. Si comprenderà forse meglio, ora, perché ho parlato del mito quale strumento del simbolo: il mito, come si sa, non è oggetto di pensiero. La coscienza simbolica Voglio chiudere questa prima parte con una domanda: che cosa è o come potremmo descrivere quella che abbiamo chiamata coscienza simbolica? Anche in questo caso dobbiamo prima riflettere sulle parole. In inglese esistono due termini: awareness e consciousness che non corrispondono a coscienza e conoscenza. Non si tratta di una conoscenza simbolica ma di rendersi conto della presenza che abbraccia la realtà simbolica di cui noi stessi siamo parte. La definirei esperienza simbolica. Questa esperienza simbolica non può trasformarsi in riflessiva senza perdere la sua stessa natura, mentre la coscienza può essere coscienza riflessa senza per questo mutare natura: la coscienza riflessa continua ad essere coscienza, mentre l’esperienza simbolica riflessa cessa di essere esperienza simbolica. Basta ricordare che, fin da Aristotele, la coscienza pura è stata definita noesis noeseos, vale a dire coscienza della coscienza. La coscienza simbolica, però, non è di questo tipo e, ancora una volta, ci mancano le parole per esprimerla perché ci manca anche la cristallizzazione di una esperienza culturale sufficientemente forte da ispirare queste parole. È qui che si fonda il lavoro e anche la creatività di un vero incontro interculturale. Tornando alla nostra esperienza sim26

bolica, potremmo dire che si tratta di un rendersi conto intellettuale senza conoscenza di se stesso. Si potrebbe forse far ricorso al linguaggio mistico e chiamarla avvertenza spirituale simbolica o, semplicemente, avvertenza simbolica. Dicevo che la coscienza che conosce se stessa e la coscienza senza conoscenza di se stessa appartengono ambedue allo stesso genere, anche se in grado diverso; è la mia stessa coscienza che, a un dato momento, può aver conoscenza di se stessa e la riflessione è questa conoscenza della coscienza. Dunque, noi non parliamo qui di questa coscienza, ma di qualcosa che si suole chiamare coscienza. Dobbiamo fare un distinguo. In effetti si chiama coscienza anche la coscienza morale, anche se la coscienza morale (Gewissen o conscience) è qualcosa di diverso dalla conoscenza (Bewusstsein o consciousness). Stiamo parlando ora di una coscienza che è un risvegliarsi di ciò che la tradizione orientale indica col precetto: «siate svegli e non pensate a nulla». Debbo precisare che non si tratta nemmeno del concetto dell’attesa della grazia dato che, se aspettiamo qualcosa, vuol dire che ne siamo fuori. La coscienza alla quale mi riferisco non aspetta nulla, non pensa a nulla, non chiede nulla. Si tratta, se vogliamo, di una coscienza pura. È un avvertire diretto, quasi un «rendersi conto» che possiamo forse chiamare esperienza. Ma non è un pensare. Può forse essere speranza ma non è attesa, perché non riguarda il futuro. Come ho appena detto, è un risvegliarsi che forse era in linea con ciò che Kant, nel campo dell’estetica, chiama «riflessione», cioè quella adesione non categorizzante, che tuttavia dà significato a ciò che si vive. Sarebbe qualcosa simile all’estetica trascendentale kantiana che non si riduce comunque a un problema di estetica, ma è piuttosto un modo di essere della vita cosciente. In tal senso, possiamo ricorrere all’esempio kantiano del cielo stellato che sta sopra il mio capo e dire che non esiste differenza tra il cielo e me: io sono qui e, per ciò stesso, mi entusiasmo, provo una specie di 27


estasi serena perché non ho bisogno di uscire da me stesso, dal momento che la cosa non sta fuori di me. Questa esperienza è sia ens-tasis sia ex-tasis, interna ed esterna. Questa esperienza è la visione del simbolo, una visione che non ti consente di stare né fuori né dentro, che non consente né la conoscenza soggettiva né quella oggettiva. Per questo, un simbolo senza amore, senza simpatia o, per dirla in termini più sociologici, senza partecipazione, non è un simbolo. Se toccando il simbolo non tocco me stesso, non è un simbolo. C’è un simbolo solo quando stiamo e non stiamo in esso, perché c’è ancora dell’altro. L’esperienza simbolica Nell’esperienza cui facciamo riferimento non c’è un ritorno alla polisemia ovvero ai «molti significati» che si suppone costituiscano la ricchezza del simbolo perché, in realtà, benché i significati siano molti, in certo qual senso il simbolo è singolo, proprio nella pluralità dei suoi significati e se dividiamo il simbolo, ne perdiamo il centro e il simbolo scompare. Se si pretende di avere il monopolio di un simbolo, affermando che un particolare simbolo (come potrebbe essere Dio, l’Eucarestia, il corpo, e così via) significa ciò che io credo significhi, il simbolo muore. Cessa di essere simbolo anche se può essere un concetto personale perfettamente valido o una posizione filosofica esplicita, ma non è più simbolo perché, se veramente è un simbolo, io non posso esserne il proprietario. Inoltre, quanto più grande è un simbolo, tante più probabilità presenta di avere non solo una molteplicità di oggetti (semi: polisemia), ma anche di soggetti che reclamano il diritto di valersene. Un simbolo, dunque, può essere vivo in alcune epoche e morto in altre. Quando si fanno nel nome di Dio (anche se contro di lui) la guerra e la pace, il bene e il male, Dio è un simbolo. Quando Dio sta solo con quelli di destra o con quelli di sinistra, con quelli che fanno il 28

bene e non con quelli che fanno il male, Dio cessa di essere un simbolo per ciascuno di loro: diventa un concetto, perfettamente valido nel suo ordine, ma non è più simbolo. Il «Gott mit uns» («Dio con noi») è simbolicamente contraddittorio nel momento in cui con questo vogliamo dire che «Dio non sta con noi». Quando pensiamo il simbolo, esso svanisce e quando cerchiamo di sapere ciò che significa il simbolo, esso comincia a dissolversi. La lingua parlata è più saggia. Si chiede che cosa voglia dire un simbolo. O meglio, che il simbolo dice, parla, e che io posso ascoltarne la parola se penetro in ciò che la parola vuol dir(mi). A questo proposito ricordiamo il ben noto aforisma: «quando ti chiedi perché mi ami, hai già smesso di amarmi»: l’ultimità dell’amore è stata sostituita dalla ragione espressa nel «perché?». Il valore del simbolo è questo: esso ci permette di sapere che non abbiamo perduto del tutto l’innocenza. L’esperienza simbolica è, inoltre, un segno che non è egocentrica (e intendo questa parola non in senso morale ma nel suo significato letterale). Il centro dell’esperienza simbolica non sono io; il suo centro di gravità non è il mio ego psicologico. L’esperienza simbolica non dice «io capisco, io non capisco»; questo modo di esprimersi vale per il pensiero. L’esperienza simbolica è piuttosto una coscienza che si rende conto che «io sono in lui, io non sono in lui». Il centro di gravità del simbolo non sta nella mia interpretazione anche se so che la mia interpretazione è unilaterale. Da ciò deriva l’importante conseguenza che possiamo entrare in comunicazione con il simbolo senza che le nostre interpretazioni debbano necessariamente essere le stesse. Questa diversità delle interpretazioni di uno stesso simbolo non è una povertà del simbolo (come, in fondo, fosse meglio che tutte le interpretazioni concordassero), ma ne costituisce invece la ricchezza. Il simbolo non consente quindi una metodologia univoca: non consente altro che la relazione personale per29


ché io (psicanalista, guida spirituale o altro) dirò A al primo interlocutore e B al secondo, pur facendo riferimento a un problema che sembrava identico in tutte e due i casi. E se non sono capace di dire A, B, C e così via, nei confronti di uno stesso problema, altro, non sono che una macchina, un computer. Questa ambivalenza, questa polisemia, costituisce la ricchezza stessa del simbolo. Io non posso dire A, B, C e così via, se non entro in relazione simbolica con l’altro in modo tale che le mie risposte siano assolutamente imprevedibili: se ho un minimo di coscienza simbolica non posso sapere ora ciò che dirò poi o quale sarà la mia reazione. La relazione personale si stabilisce quando ambedue gli interlocutori obbediscono al simbolo che li unisce. Può essere pertinente un esempio dell’estetica. La parte più ampia e importante dei concerti classici, in India, di solito è quella che introduce la parte centrale. Questa introduzione è un dialogo tra le «vibrazioni» del pubblico e quelle dell’artista e può durare molto più a lungo del concerto formale. La difficoltà maggiore consiste nello stabilire tale relazione. Il centro di gravità non può essere in me (maestro, paziente o che altro) o nella cosa (nella statua, nella patria, e via di seguito). Il centro di gravità sta nella partecipazione alla stessa coscienza simbolica. Questa coscienza simbolica, però, non è una coscienza di tipo logico e, quindi, non è necessario essere tutti d’accordo, non è necessario dire: «ci comprendiamo». Al contrario, quando comincia a verificarsi unanimità concettuale proprio allora il simbolo comincia a scemare. Credo che tutte queste affermazioni possano tradursi in prassi. Proprio per questo ho detto che i simboli sono dei mattoni che costituiscono il mito nel quale viviamo e il cui veicolo è la fede3. L’esperienza simbolica, sempre per lo stesso motivo, per il fatto, cioè, di non essere di tipo logico – non è riflessiva: non si può riflettere su di sé. Conosciamo tutti, per nostra esperienza, la forza corrosiva del pensiero. Quando co30

minciamo a pensare cose (non pensieri), esse si ritraggono e finiscono con lo scomparire: diventano concetti. Se non penso a Dio, Dio può essere reale; se non penso all’anima, se non penso a mia moglie, se non penso al mio gioco, e così via..., le cose funzionano da sole! Il pensiero è necessario, ma bisogna contenerlo nei suoi limiti. Il ruolo della riflessione L’esperienza simbolica non è riflessivamente cosciente: sarebbe una contradictio in terminis. Abbiamo già detto però che ci sono varie coscienze e che ancora ci manca la parola in grado di definire l’avvertenza alla quale mi riferisco qui. Si tratta di un altro tipo di apertura al reale che, fondamentalmente, si distingue perché ha superato il principio di proprietà privata, del mio, e così via. Il mio pensiero è mio e potrei arrivare a dare la mia vita per lui e, anche se qualcuno mi convincerà di qualcos’altro e mi farà cambiare opinione, resterà sempre il mio pensiero. Al contrario, il simbolo non è il mio simbolo, la coscienza simbolica non è la mia coscienza simbolica. Io sono nella coscienza simbolica, ne partecipo; nella coscienza simbolica il responsabile, per così dire, non è la mia interpretazione della coscienza simbolica, ma è ciò che si impadronisce di noi e ci avvolge. Sto cercando di descrivere questa coscienza simbolica a spese del logos, della ragione. Ma qui non si tratta di una concorrenza tra i due. Si tratta di aprire l’uomo non solo alla dimensione gnoseologica o epistemologica, ma anche a questa dimensione di coscienza che è tale in quanto appartiene all’ordine della coscienza, senza però appartenere alla conoscenza epistemica. Tutto ciò risulterebbe forse più facile se invece di addentrarmi in queste disquisizioni parlassi della luna non per fare della poesia, ma per far sorgere dal simbolo-luna l’esperienza di tutto ciò che stiamo dicendo. Per 31


l’astronomo la luna è un corpo celeste più o meno opaco; per i cani pare avere una considerevole importanza (come possiamo constatare tutti durante il plenilunio o le eclissi); e così pure la luna esercita una indiscutibile influenza sui poeti, sull’agricoltura e sulle donne. In questo caso non si tratta del concetto «luna», del corpo astronomico, ma bensì del simbolo «luna». Accade che, avendo separato le funzioni della luna, abbiamo perso la ricchezza del simbolo. Abbiamo molti concetti di «luna» ma a scapito del simbolo luna. La relatività del simbolo

3. Rilievo di un graffito rupestre situato nel Capitol Reef National Park dello Utah, usa. Si tratta di un graffito della cultura Fremont (950-1200), dunque prima del contatto con gli Europei. Due figure umane osservano degli astri, due mezze lune e due cerchi concentrici.

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Potremmo forse attribuire al simbolo il nome di «relazione», sempre e quando teniamo presente che l’importante della relazione non sono i poli della relazione ma la relazione stessa. Che, cioè, la stessa relazione è centrale, prima dei «relati», ovvero che i poli della relazione sono frutti della relazione stessa. Ciò che è fondamentale, è che la relazione sia idonea in quanto relazione. Or dunque, in generale, l’espressione «relazione tra te e me», vuol dire: «io sto qui, tu stai là, e tra di noi esiste una relazione più o meno profonda». Nel caso di cui ci occupiamo, si tratta, invece, del contrario: la relazione è primaria ed è quella che ci costituisce in un tu e in un io. In questa relazione ci sei tu e ci sono io. Il simbolo è questo: una relazione vissuta. Arrivati a questo punto, dobbiamo parlare di un problema centrale e desidero farlo non solo con molta cautela, ma anche con molta umiltà e con un carattere di «provvisorietà». Abbiamo detto che tra il difendere il soggetto assoluto (kantiano, hegeliano, vedantico) della coscienza e l’optare per le monadi leibniziane della «coscienza mia, tua..., di ciascuno di noi», esiste una via di mezzo che è proprio quella che rende possibile la coscienza simbolica. 33


Credo che si possa parlare, da una parte, di una coscienza che mi coinvolge e della quale non sono padrone e, dall’altra, di un io pensante che è come un lampo della coscienza. Ciò che fa sì che io mi veda come un io e non come un frammento del tutto, è il fatto che, in questa esperienza, io mi sento creatore. Se fossi solo un frammento del tutto accetterei la mia impotenza di fronte alla realtà così come mi si presenta. Al contrario, nella prospettiva alla quale mi riferisco qui, la realtà è simbolica e io ne sono partecipe al contempo come attore e come spettatore. Ciò vuol dire che la relazione interpersonale è molto più che una mera «relazione tra sostanze». È, piuttosto, la propria relazione quella che crea questo ambito di libertà nella quale si origina la relazione e del quale non siamo padroni né io né l’altra persona. In tal senso la coscienza simbolica è una coscienza che non ha soggetto: io non sono il soggetto perché l’altro non è l’oggetto. Lo schema soggetto/oggetto è qui superato. Per un certo pensiero logico o dialettico (lo chiameremo così anche se questi termini possono assumere diversi significati) o per il pensiero della ragione questo superamento manca di senso: deve esserci un soggetto, un predicato, un oggetto. Questo superamento ha senso solo per il tipo di conoscenza al quale ci riferiamo. Per dirlo in altro modo: i pensieri sono anteriori a colui che pensa. O, per meglio dire: coloro che pensano fanno parte del pensiero. Colui che pensa occupa un posto importante perché è parte del pensiero che in lui fluisce. Poniamoci, dunque, in modo tale che possa sorgere un pensiero che non appartenga solo a me e che, quindi, non sia il mio pensiero esclusivo. Precisiamo questa osservazione: pensiamo i pensieri che già sono lì, in statu nascendi che non abbiamo creato noi ma che abbiamo contribuito a creare. Dobbiamo adottare un atteggiamento ricettivo, femminile, non so se dire passivo, per consentire che l’essere si esprima, che la realtà parli in e tramite me, in e tramite gli altri (dato che io non sono l’unico portavoce). 34

Noi stessi, in quanto pensiamo i pensieri, siamo parte del pensiero e, quindi, questo pensiero va formandosi così come noi l’andiamo pensando. Io non solo debbo ascoltare questo pensiero che, più o meno, sta già lì, non solo debbo essere in armonia con lui, ma debbo anche creare e fare, debbo essere il latore della mia iniziativa, del mio punto di vista, pur conscio che questo mio punto di vista ha valore in quanto esiste un altro che a sua volta ha il proprio punto di vista. Consentire che la verità salti fuori, parli, non ha nulla a che vedere col desiderio di catturare o «agguantare» ciò che ancora non abbiamo formulato, ciò che sta lì e ha bisogno del nostro intervento per una più adeguata, più precisa e concreta formulazione; è quasi il contrario: consentire che «scaturiscano le acque» quasi in una specie di espansione della realtà. Non è il pensiero che va all’essere, è l’essere che parla e noi, nel recepire, nell’ascoltare questo «parla», lo pensiamo. L’artista conosce (sa) tutto questo, i pensatori invece l’hanno dimenticato. Hanno dimenticato che l’ispirazione è opera dello Spirito e che lo Spirito non si lascia ridurre a logos. Mentre, perciò, il pensiero logico ha le sue leggi (se non le avesse, sarebbe la confusione totale), l’atteggiamento cui noi ci riferiamo non ha legge e, quindi, è pura libertà e sorpresa radicale; al contempo, è tremendamente vulnerabile perché non ha nessun custode, non offre nessuna garanzia, non c’è alcun criterio che le stia al di sopra e che possa dirci: «questo è ciò che bisogna fare...». Non c’è una guida! La realtà è simbolica Abbiamo detto più sopra che «la realtà è simbolica» e che è tale perché anche noi, in quanto esseri consapevoli, siamo in lei. Ma non siamo in lei in quanto «realtà cosificata», ma in quanto res nel senso etimologico (res, oltre che cosa, significa parola). La realtà non è unicamente ogget35


tiva: in questo senso, la realtà è simbolica. In quanto essere intelligente, io sono reale proprio perché capisco. Ciò che consente un ambito di tolleranza è il fatto che io sono il mio simbolo e che, al contempo, non mi identifico con lui. Questa relazione, questa polarità è costitutiva. Per questo non possiamo manipolare il simbolo e, se cercassimo di farlo, ci scotteremmo le mani. Per questo ho scritto in altra occasione che il vero parlare è un cantare. Parlare della realtà è un cantare, un essere in armonia. L’armonia è fondamentale: la salute, anche la salute del corpo, è «essere in armonia» con se stessi, con l’ambiente che ci circonda, con il cosmo, e anche con il divino. Per questo è un «cantare». Questo essere in sintonia, però, non può essere riflessivamente cosciente né voluto. Se vogliamo ballare, dobbiamo far sì che la musica si impossessi di noi e arrivi fino ai nostri piedi e poi, senza pensarvi, i piedi balleranno e noi con loro. Vuol dire, questo, tornare a un primitivismo, a una pura spontaneità? Non credo. Significa piuttosto superare il riduzionismo sia della conoscenza puramente razionale (e riflessiva), sia di un’antropologia separatista, quasi che l’uomo sia tale senza una relazione costitutiva col mondo e con Dio. E, da Aristotele, in Occidente si parla di microcosmi e del fatto che tutto è racchiuso nel microcosmo; i latini parlavano del carattere speculare dell’essere umanano (speculum di tutta la realtà). Si è detto che, così come i dinosauri raggiunsero dimensioni eccessive, anche noi abbiamo sviluppato esageratamente il pensiero. È certo che esiste un cancro del pensiero e tuttavia il suo sviluppo continua ad essere qualcosa di importante e necessario. L’alcolizzato sa molto bene che non dovrebbe bere, che bere gli reca danno: il suo pensiero è perfetto (almeno prima che cominci a bere). Dire che «il pensiero è chiaro, ma la volontà è fiacca e debole», è un discorso moraleggiante e poco profondo. Asserendo questo, non pretendo di disprezzare il pensiero, ma scoprirne i limiti all’interno dell’ordine esistenziale. Non si tratta, inol36

tre, di tornare indietro o frenare la crescita (anche se siamo d’accordo che lo sviluppo del pensiero è eccessivo come quello dei dinosauri). Si tratta piuttosto di aver conoscenza dei princìpi che sono già nostri, si tratta di una visione-metafora, si tratta di uno stare nella realtà, secondo una forma di conoscenza che non faccia violenza a questa stessa realtà. La temporalità Tornando alla coscienza simbolica, va aggiunto che essa è partecipativa, forma aperta e «costruzione di forme» e, anche, coscienza temporale, coscienza della temporalità, di una temporalità che è qualcosa più del passare dal passato/al presente/al futuro: non intendo però sviluppare ora questo tema. Voglio dire che non esiste coscienza simbolica senza coscienza spazio-temporale. La coscienza simbolica è sia diacronica sia sincronica ed è una coscienza del tempo che non è quella dell’«oggi, domani, dopodomani». Dobbiamo sottolineare anche che il pensare e il parlare non possono essere separati. Non si tratta di escludere l’uno o privilegiare l’altro perché, in realtà, il pensare e il parlare «convivono» nella persona e nella relazione. Detto in altro modo: quando l’essere si proietta verso il futuro e crea, parla; quando l’essere si volge al passato e riflette, pensa. Vale a dire che il parlare e il pensare, sono, assieme, questa manifestazione dell’essere sia sincronica che diacronica. La trasparenza Abbiamo detto che non esiste interpretazione possibile del simbolo perché è il simbolo stesso che interpreta. Va aggiunta ancora qualche considerazione sull’interpretazione. L’interpretazione, evidentemente, non esaurisce nulla. Questo mi riporta al primo passo dell’analisi della coscienza simbolica. Possiamo far riferimento a una nozione del Medio Evo occidentale, quella del vestigium che è stata 37


recuperata da Lévinas con il concetto della traccia (trace). L’uomo scopre tracce che gli consentono di andare avanti. L’interpretazione è interpretazione delle tracce «da detective». Queste tracce però non raggiungono la realtà, non mostrano chiaramente ciò che stanno a indicare. Sono vestigia di qualcos’altro che non si è visto. La vestigia può essere l’orma dell’animale che ha lasciato le sue impronte, ma può essere anche il simbolo di qualcosa d’altro di cui si conosce solo l’impronta che ha lasciato, «passando velocemente». Il simbolo è simbolo del mistero. Ne consegue che nessuna interpretazione esaurisce la realtà. Ancor meglio: se esiste una coscienza simbolica deve essere qualcosa più dell’immagine. Cosa può essere? Mi permetto di ricorrere ad un’altra metafora: la trasparenza. La trasparenza è non vedere una cosa perché stiamo al suo interno. Il simbolo è trasparente: stiamo nel simbolo e perciò non lo vediamo. È come il mito. Il simbolo, però, è anche opaco ma questa opacità è secondaria. La trasparenza è la nuova innocenza; può anche essere ciò che ci guida in un determinato momento: la mappa del territorio è molto importante ma un amico che ti prende per mano e te lo fa percorrere ti è più di aiuto di qualunque conoscenza teorica. Che cosa è questa trasparenza? È questo il problema della coscienza simbolica in cui non c’è né interno né esterno. La trasparenza ci interpreta. La a-dualità 4. L’albero è uno dei simboli più diffusi in molte culture, riproduzione semplificata di un affresco dell’ipogeo di Thutmes iii a Tebe, in Egitto, fine del xiv secolo a.C. L’albero, che ha un braccio a cui il faraone si sostiene, porge al faraone stesso una mammella perché possa nutrirsi di una linfa che solo il divino può dare. (Julien Ries) 5 a: Dal Nord-Est brasiliano, una pittura rupestre che si ritiene rappresenti una scena rituale attorno a un albero (area di Sao Raimundo Nonato, dove le rocce dipinte possono essere datate a partire da 12.000 anni fa). (Emmanuel Anati) 5 b: Albero con tronco antropomorfo. Pittura rupestre sita a Pahi, in Tanzania, opera di gruppi che vivevano prevalentemente della raccolta di frutti spontanei (12-10.000 anni fa). (Emmanuel Anati)

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Torniamo all’esempio del corpo. È stato detto che la mentalità «primitiva» è monista perché in lei tutto è simbolico, tutto è corpo, tutto è Dio, natura, vita e così via. La mentalità «moderna» pare essere piuttosto dualista: ci sono il corpo e l’anima, l’apparenza e la realtà, ciò che si dice e ciò che si vuol dire, il segno e ciò che il segno significa, e così via. Ma il simbolo non è un segno. La differenza simbolica non identifica nel simbolo il simbolizzato con il sim39


bolizzante (per esempio, il mio corpo e io) ma nemmeno li differenzia. Stabilisce una differenza sui generis. Questa differenza non può essere pensata senza entrare in contraddizione. L’ipotesi potrebbe essere questa: c’è un’apertura che chiamiamo simbolo che non è né monista né dualista. Detto altrimenti: io non posso stare fuori dal simbolo e nemmeno dentro, perché, in tal caso, non potrei riconoscere la differenza simbolica. Questa nuova esperienza del reale non è una teoria nuova nel senso tecnico della parola, all’interno di una certa concezione del mondo chiamato occidentale; è, piuttosto, un nuovo cammino. In questa visione non esiste né interno/ esterno, né mio/tuo, né vero/falso, né soggetto/oggetto e così via. Nell’ambito della coscienza simbolica tali coppie di opposti non esistono. Ma allora, che cosa c’è? C’è yin/yang, più/meno (ma non in termini quantitativi). C’è una polarità (penso a un’ellisse, non a un cerchio); c’è relazione o relatività radicale (formula con la quale ho tradotto l’intuizione fondamentale della cultura buddhista). Questa «relatività» non ha nulla a che vedere con il «relativismo» che è l’atteggiamento epistemologico secondo il quale «una cosa o l’altra è lo stesso», atteggiamento molto prossimo a un certo scetticismo o agnosticismo. La «relatività radicale» sta a significare, al contrario, che possiamo avere un giudizio per ogni cosa, ma che esso resta all’interno di quella relatività radicale che non ammette assolutismi. Vale a dire che non c’è nulla in sé, che non c’è nulla che sia isolato. La coscienza simbolica ci fa penetrare proprio in questa esperienza del non-isolamento. È per questo che esistono un «più» e un «meno», uno yin e uno yang; esiste relazione, polarità (e dicendo polarità non voglio dire che vi siano poli). Per ciò stesso, quando parlo di «dialogo dialogico» mi riferisco a qualcosa di diverso dal «dialogo dialettico»: non si tratta di chiarire due punti di vista diversi e che vinca quello che impiega una dialettica più efficace. Nel «dialogo dialogico» si penetra (e mi riferisco all’etimologia della parola: 40

6. Marc Chagall, Abramo e i tre angeli, olio su tela, 190 × 292 cm, 1966, Francia, Nizza, Musée national Marc Chagall.

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dia-ton-logon), nel logos; non si tratta di un duologo, ma di qualcosa di più primordiale, di qualcosa che è un’origine. Nel parlare, il paradosso è che non esiste un parlare individuale: chi ha parlato per primo? Come però dicono i testi sacri dell’Oriente e dell’Occidente: «al principio era la parola» vuol dire che Dio non è solo. Non esiste monoteismo assoluto: esiste la trinità o, come preferisco dire, la realtà cosmoteandrica.

2. L’esperienza artistica

Che cos’è ciò che sta al termine della mia esperienza artistica? Qual è l’oggetto proprio che mi svela l’arte? C’è una sfera dell’essere, c’è una realtà, che resta velata alla fredda considerazione della mia ragione e che mi si apre quando mi avvicino ad essa con l’arte? Cos’è allora questa Realtà e che rapporto ha con la Realtà che mi testimonia la mia intelligenza? O l’arte è il mondo della chimera che ci aiuta ad alleggerirci del peso del nostro vivere ed esistere quotidiano, ma alla fin fine, irreale, sogno, chimera, illusione, un paradiso che ci siamo forgiati stanchi di gravitare sul pianeta? Che non risulti alla fine che abbiamo reso la vita più dura di quello che è o che la mutiliamo per mancanza di audacia intellettuale e di fiducia in Dio che ci ha creato tanto complessi! Che mutiliamo il nostro essere uccidendo l’immaginazione e i sentimenti! Il problema Triplice impostazione e maniera di avvicinarci a esso: storico-culturale, artistico-personale, sistematico-filosofico.

*Scritto inedito trovato fra le carte di Panikkar, argomento cui intendeva probabilmente dedicare un nuovo testo. Si è preferito lasciare la forma immediata della prima stesura.

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– Storico-culturale Esiste una miopia intellettuale, propria degli uomini semicolti, che consiste nell’assolutizzare la cultura del loro tempo e del loro ambiente. Ma il mondo è molto più ampio nello spazio e nel tempo. Esistono molte altre visioni del mondo di quelle che vede – o vive – un uomo medio che è nato in un appartamento, in mezzo a una città. Visione allegorica, mitica, mistica, religiosa, scientifica, filosofica… E tutte danno ragione di aspetti diversi del mondo. L’errore sta nell’esclusivismo, nell’estrapolazione. Il primitivo conferisce realtà – e vita – a quello che per noi è ente di ragione e cosa inanimata. Possedere il nome o l’immagine è possedere la cosa (Nome di Dio – Immagini – Amuleti – Magia). Il bambino colpisce il tavolo sul quale si è dato un colpo, e lo chiama cattivo e brutto. Gli passa il dolore di una caduta nelle braccia di sua madre. Questa foto è mio papà. Non tutto è incosciente illusione: gioca sulla spiaggia facendo castelli. Se glieli distruggono, piange; ma poi li disfa lui e tornano ad essere sabbia. Noi. Cade accidentalmente un’immaginetta e la baciamo. Abbiamo paura, irrazionale e ingiustificata, di andare da soli in determinati luoghi. Passa questa tappa, il bosco parla, il cielo piange o ride, e i colori esprimono sentimenti e tutte le cose sentono e vivono. Non si concepisce una liturgia di Pasqua con ornamenti neri, né un ufficio dei defunti con colore rosa. Il mondo della scienza è l’opposto. Solo il misurabile… Il cielo è una cappa d’aria. I corpi elettroni, pacchi d’onda… lo scientismo. Quello che non si può misurare, non è. Il mondo filosofico – nemmeno forse può essere completo. Quello che non parla alla ragione non ha accoglienza in esso. Tutto può essere contenuto nella ragione? In quanto essere – analogicamente e imperfettamente, sì – in quani

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7. La grande volta dei Bisonti Policromi di Altamira, Santillana del Mar, Spagna, capolavoro del Maddaleniano cantabrico. Si tratta della più complessa sala di pittura delle grotte cantabriche; il tema evidenziato da Leroi-Gourhan prende in considerazione gli animali: i bisonti stanno al centro, mentre i cinghiali e i cavalli sono nei contorni.

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to tale essere, no. L’infra-razionale (individuale), il soprarazionale (la sfera soprannaturale), il trans-razionale (le realtà emotive e sentimentali), le sfuggono. L’arte parla di un mondo sui generis… – Artistico personale Tutti abbiamo un po’ la sensibilità dell’artista. Anche l’uomo più prosaico. (I due finanzieri del treno di ieri che si emozionarono nel sentire una vecchia musica che un ragazzo suonava). Ricordiamo – riviviamo – l’impazienza focosa dell’artista nel plasmare in qualche materia (L’arte è vincolata al sensibile) gli assalti della sua intuizione, del suo sentimento… Questo qualcosa che l’artista ha dentro e che lotta per incarnare, per dare alla luce, è la realtà artistica. ii

Triplice momento nella sua evoluzione: a) Il momento creatore. Nei primi fervori, l’artista sente la realtà che produce, che crea. Il suo mondo è per lui la realtà. Quando il musicista cerca le note ascolta la sua sinfonia interna. Quando Beethoven è gravido della sua nona sinfonia non fa nemmeno caso a Goethe, che gli sarebbe tanto piaciuto conoscere. Quando S. Giovanni della Croce dice per esempio: «Il mio Amato le montagne, le boscose solitarie valli, le isole lontane, i torrenti sonanti il sibilo dei venti amorosi: al suo Amato nelle montagne. Queste valli è il mio Amato per me». – dice nel suo stesso commento. b) Lo scontro tra questo mondo e la realtà dura del vivere quotidiano è la crisi dell’artista. In questo scontro interviene tutto il suo essere. E sarà più grave, quanto più 46

sincero, quanto meno la sua arte sia una secrezione epidermica. Le due realtà appaiono come incompatibili. E l’anima artista dell’idalgo della Mancha si lanciò contro quei mulini che agitavano le loro lance minacciose, contro l’altra realtà che gli annunciava gridando il suo fedele scudiero. Non tutti gli artisti lo hanno superato. Nietsche, Kleist, Hölderlin, romantici. È l’innamorato che va alla festa. Lei non c’è. Al ballo non c’era nessuno, gli sfugge. Lei era per lui tutta la realtà. Di questa stessa crisi partecipano i filosofi, quando vanno penetrando nel nucleo essenziale e recondito delle cose. E tragicamente, gli idealisti. Nel “contemplatore” estetico, questa lotta non è tanto tragica, ma porta alla separazione di 2 mondi: è un peccato contro l’unità. c) Il superamento positivo della crisi. L’integrazione della realtà che l’arte ci svela nell’unica e autentica realtà. La realtà è più complessa di quello che il senso volgare ci dice (ha un fattore immaginario, come ogni grandezza complessa…). Sì, il mondo dell’arte è reale. E per questo c’è errore nell’arte, se non si adegua al reale. Per questo c’è inautenticità, falsità, malvagità, perché non è una pura chimera. Come lo scienziato e il filosofo, l’artista può errare, non per essere in disaccordo con loro, ma con la Realtà, con se stesso, in ultima istanza. Certamente qualcosa è quello che il sentimento e l’immaginazione – principali veicoli dell’arte – ci rendono patente. Così come quello che i sensi ci testimoniano esiste in qualche modo, ugualmente avviene con la nostra ragione. Quello che il sentimento sente esiste anche fuori di esso, anche se non nella maniera come lo sente. Qual è questa forma peculiare di esistenza, questo aspetto della realtà? 47


– Impostazione sistematica (filosofica) Non abbiamo altro rimedio che ricorrere ad essa. Primo, c’è solo una realtà. Per definizione, in virtù del principio di contraddizione, dell’assioma cosmologico… Ma questa realtà è complessa. Più ancora, non è che la realtà si presenta ai nostri occhi come spettatori estranei e disinteressati. Siamo immersi in essa. Siamo parte di essa. E questo porta come conseguenza che non siamo il modello di questa realtà. Secondo, questa realtà è l’essere, quello che è. Dio è colui che è; ma anche la sua opera, la sua creazione, è. E noi siamo una particella di questa realtà, che possediamo – a differenza degli animali e dei corpi – la facoltà di riflettere, di conoscere questa realtà totale. Ma non la afferiamo: che ci sia un po’ grande? Non possiamo captarla in maniera totale, non l’afferriamo con un colpo d’occhio (come un assioma geometrico). Non possediamo intuizione, visione intellettuale perfetta. Ne deriva che l’uomo ricorre a tutti i suoi strumenti per captarla. Essendo immerso tra gli esseri, l’uomo partecipa di una doppia corrente cosmica, centrifuga e centripeta: di tutti gli esseri verso Dio, verso la sua perfezione, e di ricapitolazione di tutti gli esseri in ciascuno di essi, d’influenza eterna di ogni essere sugli altri. Attività e impressionabilità. Il primo movimento è quello della nostra tendenza, inclinazione, volontà. Il secondo è la conoscenza. Nel primo siamo trascinati – sebbene liberamente a volte – dalla corrente cosmica degli esseri. Nel secondo conosciamo e valutiamo il resto dell’universo. Non possiamo prescindere da nessuna forma. L’intellezione pura l’abbiamo poche volte. Le cose non si aprono a volte alla ragione. Non possiamo disprezzare il sentimento. Il sentimento e l’immaginazione sono i veicoli dell’arte; ma non dimentichiamo che sono conoscitivi in quanto possiedono nel loro seno un’idea, o un’immagine – qualcosa di intellettuale o sensibile. iii

8. Georges Braque, Atelier iii, 1949, olio su tela, 144,8 × 174,6 cm. Collezione privata. Nell’Atelier entra l’universo, anzi l’Atelier diviene universo. (Jean Leimarie)

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L’uomo che ha sviluppato il senso artistico capta insieme all’idea centrale ed essenziale, una serie di relazioni accidentali, che arricchiscono, che perfezionano, che completano la conoscenza di quella realtà. L’errore sta nel sostantivare questi aspetti. Nel fatto che una madre accolga il figlio nelle sue braccia, un fisico vedrà il complemento di una serie di leggi, un filosofo la realizzazione di una legge morale e naturale come espressione di un amore interno, un artista completerà il quadro ponendosi al posto del bambino o della madre e vivendo – concretamente e individualmente – e dunque con emozione personale l’affetto materno o filiale, di cui ogni uomo è capace. Scoprirà una recondita dimensione di bellezza che soggiace a ogni essere. Bellezza che è un trascendentale umano, come punto di confluenza tra il nostro appetito che tende al Bene e la nostra conoscenza che aspira alla Verità. Lì dove Verità e Bene si abbracciano. Racconta Edgar Poe, in uno dei suoi racconti, che un uomo uccise alla fine lo zio che gli era diventato odioso per un occhio cattivo che glielo rendeva insopportabile. Lo seppellisce sotto casa, nella sala da pranzo. Viene la polizia. Invita sarcasticamente i poliziotti a bere e si siede proprio sopra il posto dove aveva seppellito il cadavere. Si sentono sempre più forti i battiti del cuore del morto; egli cerca di dominarsi finché non può più trattenersi e si scopre. L’artista è colui che capta queste pulsazioni, questi battiti della materia, che scopre in quello che per gli altri è un cadavere, un soffio vitale, un caldo alito di vita. Per questo il profeta è un artista, come pure il santo che scopre una nuova dimensione cosmica, divina nelle cose. Dice un proverbio cinese che il Profeta ha il cuore di tutto il suo popolo. Il mondo è carico di presagi. Non tutto è di color rosa, ma nemmeno tutto è di un grigio monotono e uniforme. 50

La ragione umana ci dà lo scheletro anatomico delle cose, la loro sostanzialità, ma i sentimenti lo riempiono di carne e di vita. Può essere tutto accidentale, ma non per questo è meno reale. Al fisico basta anche un solo occhio per i colori.; il guercio daltonico potrebbe fare fisica, ma non potrebbe fare poesia né darci una concezione completa del mondo. A volte la ragione può arrivare con giri e lunghi passi a porci di fronte a quello che l’arte raggiunge in un momento. Posso lodare la magnanimità, il rendere bene per male, il perdono generoso, il donare disinteressato per quanto mantenga il proprio pregiudizio. Un poeta dice semplicemente: “L’ascia del legnaiolo chiese all’albero il suo mango. E l’albero glielo diede” (Tagore). Con uno sguardo si dice a volte più che con un lungo discorso, un gesto può essere più significativo che una testimonianza dettagliata. Il mondo sensibile, oltre a stare lì, oltre ad essere materia, è simbolo, simbolizza. Il suo essere non si esaurisce in quel che presenta ai sensi, né in quello che la ragione può ricavare. Il suo essere è pieno di significato e di simbolismo. Per questo c’è un conoscere più profondo delle cose, quando si riconoscono come simboli. Non per niente Gesù ci ha dato le sue più profonde lezioni in forma di parabole, come l’espressione più universale e perfetta di una realtà integrale. Per me tutte le pecore hanno lo stesso volto. Non è così per il pastore. Lo sguardo del padre, dell’amico, del direttore di anime, arriva molto più a fondo di quello della semplice persona conosciuta. Questa conosce la persona, i primi riconoscono il suo interiore nell’esterno. Il fumo può riconoscersi come fumo o riconoscersi come un segno del fuoco, di una catastrofe, o anche come un simbolo della guerra di una tribù contro un’altra. Chi abbia atteso con 51


emozione l’uscita di un fumo bianco, quando la Cristianità intera è senza Capo visibile, comprenderà questo esempio. Attraverso questo recondito significato il sensibile influisce sull’anima dell’uomo, e anche dei popoli. In questo senso un paesaggio influisce su un popolo. Si comprende come l’uomo basco non può essere come quello della meseta castigliana. Non è questione solo di geografia fisica, ma umana. Con l’esperienza artistica l’uomo acquista un maggiore contatto con le cose, gli si apre una nuova dimensione della stessa realtà, si affratella di più con il mondo intero. Per questo l’arte umanizza, e la musica tranquillizza gli animali. Questo sentimento cosmico è possibile perché l’uomo, sebbene anima individuale e persona, è una parte del cosmo. È immagine divina, ma è fatto solo del fango della terra. Per questo è sensibile alle vibrazioni e palpitazioni cosmiche del mondo intero. È la base corporale e sensibile del dogma della Comunione dei Santi. Siamo diversi dal mondo ma siamo vincolati, legati ad esso, nell’unità delle creature; come siamo legati a Dio, nell’unità – sebbene analogica – dell’essere. Non siamo, né viviamo insensibili alla policromia della realtà. Tutte le cose sono vestigia di Dio. Dio le abita nel suo seno. Le cose presentano aspetti e profondità alle quali non possiamo arrivare con il nostro raziocinio. Non disprezziamo il dono di Dio. Certo, è per la vita carismatica della mistica che ci si aprono le porte della più autentica realtà soprannaturale; ma sicuramente nell’intuire lo spirituale nel sensibile, funzione propria dell’arte, abbiamo la migliore preparazione e allo stesso tempo è il compito più urgente dell’arte attuale scoprire Dio stesso nelle cose più banali del nostro vivere quotidiano. 9. Paul Cézanne, Nature morte, 1877, olio su tela, 65 × 83 cm, fwn726/r302, prestito di Auguste Pellerin. «Le cose presentano aspetti e profondità alle quali non possiamo arrivare con il nostro raziocinio». Musée d'Orsay, Parigi.

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3. L’uomo cosmico: la quadruplice natura dell’uomo «Questa è la sua magnificenza [delle sfere immortali], ma ancora più grande è l’Uomo: un quarto di lui sono tutti gli esseri viventi, tre quarti sono gli immortali nel cielo.» rv x,90,3.

Come possiamo creare una lingua che non sia esclusiva di una sola tradizione e sia al tempo stesso concreta, comprensibile e insieme profonda? In altro contesto ho provato ad affrontare la questione dall’angolatura delle antropologie tradizionali e ho sviluppato il concetto di una quaternitas perfecta, una quadruplice immagine dell’essere umano che si ritrova in diverse tradizioni occidentali, orientali e meridionali. Potrei ricordare qui i Versi d’oro di Pitagora: «Lo giuro per l’Uno che scolpì nei nostri cuori la sacra Tetrade, simbolo immenso e puro origine della Natura e modello degli Dei»4. Esse usano a volte un gruppo di simboli e concetti, per esempio: voma, psyche, polis e aion nell’antica Grecia; varira, aham, atman e brahman in India; terra, acqua, fuoco, aria in molte tradizioni arcaiche (come ci ricorda anche l’esoterismo occidentale). La quaternitas, come totalità, presenta una struttura omeomorfica, cioè un sistema

*Ed. or. Der Weisheit eine Wohnung hereiten, Kösel, München 1991. In Opera Omnia, Vol. i, 2 Jaca Book, Milano 2011.

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globale, che ha una funzione e un significato rispettivi in ognuna delle tradizioni contemplate. L’uomo è un microcosmo, un’immagine della totalità, una scintilla del fuoco infinito. Questa immagine interculturale dell’uomo ci potrebbe permettere di superare la scissione della realtà che oggi tanto ci tormenta e ci minaccia. Potrebbe convertire in polarità creative le diverse dualità sorte da una lotta distruttiva tra uomo e terra, soggetto e oggetto, conoscenza e amore, arte e scienza, maschile e femminile. Questo vale anche per l’ultima scissione della realtà, cioè quella tra uomo e Dio, tempo ed eternità, creatore e creatura. La quaternitas perfecta deve offrirci la possibilità di scoprire una spiritualità autenticamente umana, che sia la base di un nuovo atteggiamento spirituale della persona verso se stessa, verso gli altri, verso il mondo che le sta attorno e anche verso la realtà onnicomprensiva, che in tante tradizioni viene chiamata Dio. Se vogliamo risolvere il problema dobbiamo affrontarlo in modo diverso. C’è un atteggiamento che chiamo la nuova innocenza (non la seconda) situata in uno strato originario che rende inutile ogni ulteriore domanda5. La quaternitas rappresenta la totalità di cui abbiamo parlato. Il saggio è colui che sperimenta e vive i quattro centri concentricamente. I cerchi non sono identici; il corpo non è l’anima e nemmeno tutta la realtà, ma sono concentrici, così che il centro del mondo attraversa tanto la mia anima quanto anche il mio corpo. Ci interessa indicare la sede della saggezza, il luogo di Maria secondo la tradizione cristiana, il simbolo della purezza della natura. La vocazione di Maria è lo stesso destino dell’uomo – altrimenti non sarebbe avvenuta una rivoluzione tra gli angeli nel cielo. Ma l’essere umano, che anche svolge un ruolo, dev’essere pienamente umano, Adam, Purusa. Ci riferiamo all’umanità completa, 56

cioè divina e cosmica al pari che umana, e non della sua particolarità specifica. L’essenza di una cosa non è la sua differenza specifica, dice la filosofia indiana. Primo centro: Terra e corpo La prima dimensione è rappresentata da vari simboli: terra, soma (corpo), varira (corpo, individualità), karman (azione), bonum (il bene), il risveglio e l’ambito morale. Soma e varira: noi non solo abbiamo un corpo, ma siamo corpo; non solo abbiamo una individualità, ma siamo individui; noi siamo esseri attivi e non ci limitiamo a esercitare alcune attività; noi siamo terra e non posiamo soltanto i piedi su un pianeta, non abitiamo solamente in un paese, non poggiamo sulla terra come se fosse soltanto una piattaforma. Finché non superiamo la nostra separazione dalla materia, non saniamo la rottura, finché facciamo esercizio fisico o yoga soltanto come una tecnica e consideriamo il nostro corpo da un lato come nemico e dall’altro come sovrano, non ci possiamo realizzare come esseri umani. La scissione resta e un giorno si manifesterà, non soltanto sulla salute o sull’attività, ma anche tramite l’insoddisfazione e l’inquietudine interna. Terra: vale a dire materia; può essere un sasso, un albero, una montagna. Finché non considero ogni zolla di terra come mio corpo, non solo io disprezzo la terra ma misconosco anche il mio corpo. È qui che inizia la conoscenza! Tutte le scoperte (e immaginazioni) scientifiche e antropologiche sull’essere umano – proteine, cromosomi, onde alfa – sono giunte solo più tardi. Per migliaia di anni gli uomini non sono stati schizofrenici, possedevano una piena coscienza della loro personalità, senza conoscere nulla di fisiologia, biologia e chimica. Tutto questo sarà oggigiorno necessario, bello e utile, ma da un punto di vista antropologico si tratta solamente di questioni marginali, 57


10. Alla ricerca della Via sulla montagna in autunno, rotolo verticale, inchiostro e colore su seta, 156,2 × 77,2 cm. Attribuito a Juran (attivo nel x secolo), periodo delle Cinque Dinastie e dei Dieci Regni. Taipei, National Palace Museum. Probabilmente grazie al fatto di essere monaco buddista, Juran seppe tradurre il gusto placido e la dolce luce dei paesaggi a sud del Lungo Fiume attraverso il loro carattere evanescente. Il titolo della pittura, «Alla ricerca della Via», che non è certamente di sua mano ma dei suoi successori immediati o più tardi, riflette le sue preoccupazioni spirituali; vi si vede un sentiero che conduce a un minuscolo eremo, nascosto sul fondo di una valle, in cui due uomini discorrono; sentiero che sembra proseguire nel cuore della montagna per suggerire anche la Via dell’assoluto, raggiunta nella comunione con lo spirito della natura. (Christine Kontler)

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11. Giotto, Predica agli uccelli, basilica superiore, Assisi.

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aspetti non significativi per la realizzazione personale. Le scienze moderne col tempo possono persino rappresentare un ostacolo a questa realizzazione; sicuramente non sono indispensabili per conseguire e godere della pienezza umana. Per quel che concerne la natura umana, il fatto di essere europei, passeggeri di prima classe su questo pianeta, non ci rende in alcun modo eccezionali. La tecnologia può essere utile, ma non è un valore assoluto. Corpo: coscienza normale, senso della nostra individualità. Tutto questo è essenzialmente umano. Siamo realmente soltanto quando siamo tutto questo. Quando devo imparare la rotazione del mio corpo o l’arte del movimento con un corso di ballo, oppure quando leggo in un libro che gli alberi qui sono belli e poi guardo fuori e dico che è vero, vuol dire che manca qualcosa al mio essere umano. Non ho niente contro i libri e i corsi di ballo; dipende dall’uso che facciamo di essi e del nostro corpo. Dobbiamo cambiare rotta e sviluppare un atteggiamento che renda possibile la spontaneità umana (non soltanto quella animale), che ci restituisca la capacità di apprendere, parlare, osservare, godere dal di dentro. Supponiamo che i fiori non pensino né immaginino di essere belli. E noi siamo più dei fiori, come dice il Vangelo6. Per realizzare la bellezza umana, dobbiamo imparare da come il bocciolo produce il fiore: senza fatica, senza sforzo, col giusto ritmo, al momento opportuno. Il Vangelo dice che dobbiamo osservare i gigli del campo e gli uccelli del cielo, non riflettere su di loro e neanche portarli a casa per contemplarli meglio. La nostra cultura dovrebbe essere almeno tanto naturale quanto lo è la natura di un fiore. La violenza esiste soltanto là dove le nostre culture sono innaturali. La contesa è naturale, non la guerra però. Cacciare può appartenere alla cultura umana, ma non la prassi delle società moderne di ammucchiare artificialmente cibo facendo di questo accumulo un’arma. Non ci dovrebbe essere davvero 60

bisogno di nessuna legge che ci dica che la produzione di armamenti è contraria all’umanità. Soltanto la nostra immagine dell’uomo e l’ethos non ancora così contrario alle armi come al cannibalismo impediscono alla nostra sensibilità di percepirla come aggressione contro la condizione umana. Secondo centro: Acqua7 e Io Questa seconda dimensione della nostra esistenza, che la rende possibile, e senza la quale la nostra vita avvizzirebbe, si vale di diversi simboli descritti in vario modo secondo le tradizioni. Ognuno di questi simboli illumina uno dei suoi aspetti: acqua, psyche (anima), aham (io), jñana (sapere, conoscenza, ragione), verum (verità), sognare, lo psicologico nel senso profondo della parola. L’importanza dell’acqua risulta già dal fatto che essa costituisce il 70% del nostro corpo. La forza simbolica dell’acqua consiste nel fatto che essa fluisce, rinfresca, che rende possibile la vita e che si può anche esaurire. C’è da aggiungere ancora dell’altro, che a volte dimentichiamo mentre è molto importante in alcune tradizioni africane. L’acqua non è soltanto la fonte della vita, ma è la vita stessa. L’acqua è vita. Per questo motivo formulazioni come «acqua di vita» oppure «acqua di vita eterna» non sono da intendere soltanto in senso figurato. Si tratta di qualcosa di più dell’evidenza razionale che non possiamo esistere senz’acqua. Anche il contrasto tra il dinamismo e il fluire dell’acqua, da una parte, e la sua quiete, dall’altra, non esaurisce del tutto questo simbolo. (In alcune tradizioni l’acqua simboleggia il cammino spirituale: l’acqua che fluisce zampillante significa vita, mentre l’acqua calma come uno specchio diventa il simbolo dell’autocoscienza). L’acqua è vita e, per tanto, le sue caratteristiche sono quelle della vita stessa. 61


12. Claude Monet, Ninfee blu, 1916-1919, olio su tela 200 × 200 cm, Musée d’Orsay, Parigi.

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13. Annuncio della primavera, rotolo verticale, inchiostro su seta, 158,3 × 108,1 cm. Opera di Guo Xi (attivo tra il 1067 e il 1085), datata al 1072, dinastia dei Song del Nord. Taipei, National Palace Museum. Debitamente intitolato, datato e firmato, il grande rotolo di Guo Xi è l’opera più conosciuta del maestro, pittore accreditato dall’imperatore Shenzong (r. 1068-1085). Destinato a un pannello del Padiglione di Giada, da poco costruito in seno al collegio Hanlin, esso vuole trasmettere al sovrano e agli eruditi della corte una visione idealizzata della natura e delle sue virtù vivificanti all’annuncio della primavera. Di eccelsa maestria, la composizione si articola intorno a una montagna altissima le cui cime toccano il cielo, mentre le sue acque, sorgive e tranquille, affiorano e sgorgano dalla terra; ora evanescenti, ora più opache, brume e vapori animano l’insieme di uno spazio aperto all’uomo, nella diversità e vitalità delle sue forme e nella loro unità ricreata in spirito. (Christine Kontler)

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14. Epifania, miniatura che esprime pienamente la tradizione orientale e bizantina delle icone della festa del Battesimo di Cristo che mettono in immagine quanto espresso nel passo evangelico: «Ecco si aprirono i cieli e Giovanni vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dai cieli dire “questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto”» (Mt 3,1 3-17). Miniatura dell’Epifania. Menologio di Basilio ii, 985. Codice Vaticano Greco 1613, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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«Egli li ha impregnati con l’acqua della sapienza», si cantava nella liturgia latina del martedì di Pasqua. «Perché non finiscono mai di fluire le acque che scorrono verso la verità?» canta l’Atharva-veda. Secondo molte tradizioni, inclusa quella ebraica, le acque primordiali sono increate. L’acqua è «l’elisir dell’immortalità» e il grembo di Dio. È la fonte dell’uomo. La parola cinese ch’üan consiste dei segni «puro» e «acqua», come anche in latino fons (fonte) significa origine. Aham: l’Io L’io e il tu sono intimamente relazionati. non esiste da noi una forma grammaticale per esprimere l’io-e-tu. Il duale ha una forza enorme; non è plurale anche se presuppone un tu; forma tra loro un’unità più complessa. Ferdinand Ebner, Martin Buber e altri hanno espresso questo concetto in modo molto suggestivo. Il tu è la capacità della persona di essere interpellata, dice Ebner. L’«interpersona» (Zwischenmensch) è la vera persona, sostiene Buber. «Se non esiste un altro (persona o cosa) non c’è un io», ha insegnato Zhuangzi8. Il duale è l’interpersonalità, che supera la «mancanza di tu» (Ebner) dell’io. Il duale riflette la scoperta che l’io richiede un tu, il quale è essenzialmente diverso da un terzo, il pronome della terza persona. Il duale è un’esperienza e la sua perdita è un esempio eloquente del cambiamento del comportamento umano. Per concentrarsi su se stesso, per essere se stesso, aham, è necessario il tu, senza il quale non è possibile essere un io. Terzo centro: Fuoco, bhakti (devozione)

15. Vaso-Tlaloc, Teotihuacan (Stato del Messico), giadeite, h. 25 cm, Museo nazionale di Antropologia di Città del Messico. Tlaloc è dio dell’acqua e il vaso simbolizza l’acqua nelle fattezze, nella trasparenza e nel colore.

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L ’uomo non può realizzare la sua vita, la sua natura, se non si cura anche di qualcos’altro al di là del proprio ed esclusivo io, se si preoccupa soltanto del controllo del corpo e dell’ornamento della propria anima e di essere 67


in buoni rapporti con l’altro. La ricchezza dell’uomo va molto oltre. Non sono solo un individuo. Questo è il significato della parola atman che in realtà è intraducibile. Il suo equivalente abituale, «se stesso», è tanto illuminante quanto fuorviante. La scoperta della terza dimensione dell’essere avviene quando mi rendo conto che io sono atman, o meglio, che sono anche l’ atman. Ma non può essere una scoperta della ragione. L’åtman conosce tutto. Fuoco e bhakti: a questo punto il simbolismo del fuoco è fondamentale, come hanno visto numerose tradizioni dell’umanità. Il fuoco consuma, infuria, distrugge. Converte le cose in cenere che il vento poi disperde. Il fuoco può essere fuoco soltanto finché c’è qualcosa da ardere. Come si trasforma in fuoco, smette di esistere ciò che lo rende possibile. Il fuoco si nutre di ciò stesso che gli dà vita. Non è come la terra. Agni indica nell’induismo la forza autodistruttiva, quella forza che si dà la vita da sé, che si realizza come fuoco attraverso la propria immolazione. E nel buddhismo, nirvana significa, letteralmente, estinzione (del fuoco). Quando non è rimasto più niente della candela, la fiamma si estingue da sola, perché non è più che cera non ancora trasformata in fuoco. La tradizione cristiana parla di due libri, il libro della vita (cioè la Sacra Scrittura, che leggono gli eruditi e per la quale c’è bisogno di una certa preparazione) e il libro della natura, che tutti possono leggere. Agostino afferma che il libro della Sacra Scrittura è elitario, destinato solo a pochi, mentre il libro della natura è per tutti, addirittura – se si traduce letteralmente – per gli «idioti» (idiota significa l’uomo comune, l’ignorante). Il primo lo leggono solo i colti, il secondo possono leggerlo anche gli incolti. Ma come posso comprendere qualcosa se cerco di conoscere (in senso quantitativo) tutto? Posso conoscere qualcosa di più che aspetti particolari? Comincio a riconoscere che, pur nell’ipotesi che possa conoscere tutto, questo sapere non mi darebbe la vera conoscenza. 68

16. Agni, dio del fuoco, frammento di stele, xi secolo ca.

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Questa era l’accusa di Eraclito ai pitagorici. E anche la tradizione indiana lo sa: «Dove c’è dualità, là uno vede l’altro, uno sente l’altro, uno parla con l’altro, uno ascolta l’altro, uno pensa all’altro, uno tocca l’altro, uno conosce l’altro. Se però tutto si converte in atman, tramite che cosa e chi si dovrebbe allora vedere? Tramite che cosa e chi si dovrebbe allora sentire? parlare? ascoltare? pensare? toccare? conoscere? Come si può conoscere quello tramite il quale si conosce tutta la realtà? Non è così né così (neti, neti). È incomprensibile perché non può essere compreso, indistruttibile perché non può essere distrutto, indipendente perché non si lascia legare, è libero, imperturbabile, invulnerabile. Come si può conoscere il conoscitore stesso?» (bu iv,5,15). La domanda giusta allora è: «Come posso conoscere quello tramite il quale tutto viene conosciuto?» (bu ii,4,14). «Che la pagina divina [cioè la Scrittura Sacra] sia per te un libro, affinché tu lo possa ascoltare [un libro “si ascolta”!]; che il mondo intero sia per te un libro per vedere.» Agostino sa che, in accordo con Paolo, la fede nasce dall’ascolto, mentre la conoscenza dal vedere. Il libro si può «ascoltare» e forse vi si può trovare un senso; il mondo invece si può vedere. I codici sono per gli eruditi, l’ignorante invece ha tutto il mondo da leggere. Bonaventura insegna che dopo il peccato originale «il libro del mondo era morto, distrutto»9. Ma per mezzo della grazia le cose del mondo furono nuovamente «come un libro nel quale la Trinità creatrice [fabricatrix] risplende, si manifesta e si lascia leggere»10. 70

17. Vispu venerato dal poeta Jayadeva. Tempera su carta. Pahari, 1730. Michel Delahoutre spiegò che la venerazione del poeta mostra l’esperienza della bhakti vissuta letterariamente ed esistenzialmente.

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Questa è la sapienza umana scaturita dalle tradizioni. Ci libera dai successi del nostro mondo post-illuministico, permettendoci forse di vivere un’esperienza umana più universale, senza restar bloccati nel contesto ermeneutico degli ultimi tre o quattro secoli. Come possiamo disporci a essere in comunione con gli uomini – per non parlare della comunione con la terra – se siamo gli unici illuminati del mondo? Non la raggiungeremo mai in questo modo. Dobbiamo imparare a leggere di nuovo: questa volta non i libri stampati, ma il libro della natura, che non contiene solo boschi e fiumi, ma una visione diretta del mondo nel quale ci troviamo. Ognuno può vedere – non solo nel senso in cui lo fanno gli «ascoltatori» elitari di un libro (il quale in passato veniva letto ad alta voce), ma mediante la contemplazione diretta della realtà. La caratteristica essenziale di questo vedere consiste nel non essere un riflesso del visto, ma puro sguardo, visione che si lascia contagiare da ciò che è contemplato. Non è come sfogliare un album di fotografie, le cui immagini possono risvegliare molti ricordi. Per vedere, devo dimenticarmi che sto vedendo; altrimenti penso soltanto di vedere, m’immagino solo di vedere un bel paesaggio. Ma l’autentico vedere è immediato. E questa è un’analogia universale. Non è un fenomeno ottico; non si tratta di pensare che vedo, nemmeno di godere di ciò che vedo, ma semplicemente di vedere. Quello che si vede è qualcosa di mai visto, inesplorato: atman, polis, fuoco, bhakti. Bhakti qui significa «amore», e denota la forza centrifuga di uscire da se stessi e di consumarsi come il fuoco. Quarto centro: Aria e Spirito La quarta dimensione è aria (respiro, spirito, akava, etere, lo spazio vuoto, brahman, il silenzio, nihil, il nulla, il vuoto). Alcune culture hanno ridotto l’immagine dell’uomo e il concetto di realtà a due dimensioni. Questo è il pericolo di ogni civiltà tecnocratica. Uomini di tutti i tempi, anche 72

in quelle culture dal pensiero profondamente dualistico, ci ricordano l’esistenza di un terzo occhio che ci apre a una terza dimensione della realtà. Con Platone si potrebbe chiamare la prima dimensione ta aistheta, la seconda ta noeta e la terza ta mystika: la dimensione mistica. Abbiamo un terzo «organo» che ci mette, come gli altri, in contatto con la realtà. La dimensione materiale e spazio-temporale della realtà corrisponde ai sensi. La dimensione intellettuale della realtà, che è altrettanto reale della dimensione fisica, corrisponde all’intelletto, al nous. Ma esiste anche un terzo organo di percezione di una dimensione della realtà altrimenti invisibile: è l’occhio mistico che coglie l’indicibile, l’ineffabile, chiamato a volte anche «il nulla». La libertà è una dimensione profonda dell’essere, un’indeterminazione radicale alla base di tutto ciò che faccio e sono. La libertà, in questo senso, non è una questione di cromosomi dei miei genitori e dei miei nonni, della cultura e della lingua, dei rapporti sociali e di altri condizionamenti. La sua sfera si trova là dove, metafisicamente parlando, io percepisco il nulla (un’esperienza senza contenuto, un’esperienza di nulla). Questa esperienza non la si può descrivere, la si può soltanto irradiare. Senza questa esperienza la vita non è ancora vissuta. Il viverla non dipende né da autostrade né da affari né da qualsiasi altra esteriorità, ma dal nulla. La libertà è l’esperienza dell’infinitudine per la quale mi rendo conto che quello che sono nessuno prima lo è stato. All’inizio è l’esperienza della mia unicità (comincio a rendermi conto di essa). C’è qualche cosa dentro che mi rende capace di superare ciò che in me talvolta brama cose, valori e persone, vuole godere, possedere; qualche cosa che si trova dentro di me, che io solitamente copro con tutta questa bramosia. E questo qualcosa è unico e insostituibile e, per dirla con un paradosso, mi è stato «affidato». Io sono questo nucleo della realtà che non è condizionato da nient’altro, un nucleo divino. L’esperienza di questa libertà giace 73


nella convinzione che questo qualcosa mi è stato affidato è insostituibile ed è il mio vero io. Esiste l’universo, ma anche esisto io con la possibilità costante di non-essere. Solo quando raggiungiamo questo livello di profondità nel quale siamo completamente aperti, nel quale il centro della realtà si apre a noi nella forma dell’esperienza della grazia o del carattere centrale della nostra realtà interiore, nel quale l’io non è che questo ricevere, solo allora possiamo, paradossalmente, sperimentare la libertà che ci libera da ogni paura e da ogni sentimento di autosufficienza: allora sperimentiamo la singolarità della nostra vita che rispecchia l’universo intero. 74

18. Caos primordiale (Hunlun), rotolo orizzontale, inchiostro su carta, 29,7 × 86,2 cm. Opera di Zhu Derun, datata al 1349, dinastia Yuan. Shanghai Museum. Come molti dei suoi pari al tempo de­gli Yuan, il letterato Zhu Derun (1294- 1365) conosce un riposo forzato, diviso tra studio e insegnamento. In un rotolo che egli intitola Hunlun, consegna alla lettura e allo sguardo la visione taoista del modo, servendosi di una scena naturalistica e di un diagramma, un grande cerchio tracciato al centro che raffigura il co­smo nel suo stato originario. Come nato dalla roccia, con un trattamento in cui il vegetale non si distingue dal minerale, un pino, sulla sinistra, presenta una curva netta e proietta il suo tronco e i suoi rami quasi in orizzontale, in un movimento che associa i ciuffi d’erba sparsi e le liane gemelle dal grafismo puro e morbido che lo circondano, si intrecciano, si annodano e si svolgono nel vuoto. Con la nascita comune delle forme, con il loro slancio e il loro sviluppo proprio, l’artista rende perce­pibili i soffi invisibili, ma attivi, che le animano e che tendono a riassorbirsi nella pienezza della matrice originaria. (Christine Kontler)

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19. I tre ridenti al torrente della Tigre, foglio d’album (dettaglio), inchiostro e colori su seta; 24,6 × 47,6 cm, anonimo, xiii secolo, dinastia dei Song del Sud. Taipei, National Palace Museum. Al torrente della Tzgre, tre uomini sono riuniti, tre risa e le loro conversazioni: sullo stagno dei loto un fiore si è aperto. Un fiore che è il Buddha. Come riassunto in questa iscrizione popolare, il foglio d’album illustra un incantevole aneddoto che mette in scena tre personaggi emblematici: il monaco buddista Huiyuan (334-416), il poeta Tao Yuanming (Tao Qian 365-427), cantore della vita campestre, e l’eminente maestro taoista Lu Xiujing (ca. 406477). Dopo aver bevuto insieme ai suoi amici, il monaco li riaccompagna e passa inavvertitamente il torrente della Tigre, animale che si ritiene ruggisse per richiamarlo al rispetto della sua regola. I tre uomini, che scoppiano a ridere, si rendono in tal modo conto del carattere fallace dei limiti imposti da tutti i sistemi di vita e, al tempo stesso, dell’innata corrispondenza delle vie buddiste, poetiche e taoiste nella ricerca dell’assoluto. (Christine Kontler)

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terra

4. Kailasa

Il pellegrinaggio di venticinque giorni, svoltosi nel settembre del 1994, mi rivelò un triplice potere simbolico della sacra montagna e del santo lago che da millenni stanno lì immobili, attirando popoli e sfidando le religioni a superare le loro pesantezze dottrinali. Trasferirò al Kailasa il potere simbolico di una invariante umano. Potrebbe essere un altro pellegrinaggio qualunque, fisico o semplicemente interiore, oppure un’altra esperienza ultima. Kailasa è l’occasione, ma anche il simbolo. 1. Trascendendo la storia Il Kailasa è un tempio dell’Assoluto. A differenza di qualsiasi moschea, cattedrale o tempio, non è fatto dall’uomo. Il Kailasa semplicemente è, è lì. È stato scoperto come simbolo sacro dalla maggior parte delle religioni del Sud dell’Asia (bon-po, hindu, jaina, buddhisti, sikh, ecc.). Ma era già lì. Nessuno può avanzare un diritto sul Kailasa. *Ed. or. Pellegrinaggio al Kailasa, Raimon Panikkar e Milena Carrara, Servitium Editrice, 2006; pubblicato successivamente in versione ampliata in Pellegrinaggio e ritorno alla Sorgente, Servitium Editrice e Jaca Book, Milano 2011.

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Non è proprietà privata; non è solo una massa di materia coperta di neve, non una protuberanza geografica né tanto meno un fenomeno storico circoscritto. È un simbolo sacro per tutti coloro che lo riconoscono e, riconoscendolo, investono la montagna di un nuovo grado di realtà. Molti pellegrinaggi sono rischiosi, ma questo lo è particolarmente. Metti la vita a rischio, vai per un sentiero di non ritorno. Non sono disponibili né i moderni servizi di soccorso né quelli tradizionali, poiché la lunga via del pellegrinaggio da Kathmandu, Kodari, Nyalam, ecc. non ha praticamente pellegrini. Si è soli e non c’è possibilità alcuna di sfuggire alla morte se il cuore viene meno. Si deve essere pronti ad abbandonare la storia e ad accomiatarsi dal tempo. L’aspetto soggettivo di questa esperienza è che si deve essere pronti a rischiare la propria vita – specialmente se non si è giovani e allenati a camminare a notevoli altitudini. Si sfiorano diverse volte i 6.000 metri. Si può essere pronti e preparati in teoria, ma quando sopraggiunge l’esperienza reale, la sicurezza scompare e il coraggio prolettico serve ben poco. La morte non è un concetto astratto. Parole e pensieri non sono d’aiuto, ogni riflessione svanisce. Si è semplicemente tra essere e non-essere: asti, nasti (Katha-upanisad). A nulla serve, di notte, uscire dal sacco a pelo per respirare un po’ d’aria fresca. La morte è tutta attorno. È l’atmosfera avviluppante che sembra cingerti da ogni parte con le braccia della morte. Non è una minaccia. È un abbraccio che uccide dolcemente – sebbene questa volta mi abbia risparmiato. Ma se durante la notte prevale la consapevolezza soggettiva, durante il giorno predomina la consapevolezza oggettiva. Per ore e giorni lo scenario è senza tempo e il paesaggio è fuori dalla storia. Tutte le preoccupazioni umane legate alla temporalità svaniscono. La storia umana, sia personale che collettiva, sprofonda nell’irrilevanza. Le immense vallate, i picchi lontani, la mancanza di alberi, 80

20. La cima del monte Kailash, appartenente alla catena dell’Himalaya, in Tibet. È considerata sacra dall’Induismo, in quanto ritenuta la residenza di Shiva, dal Bön e dal Buddhismo tibetano come centro dell’universo, e dal Giainismo, come luogo in cui raggiunse la liberazione il primo dei loro santi. Perfino gli zoroastriani venerano questa montagna e la identificano col mitologico Monte Meru. Tibetani e indiani ritengono di dover compiere un pellegrinaggio presso il Kailash almeno una volta nella vita.

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le rocce e i fiumi, i vasti altipiani, tutto esiste senza storia. Non provengono da un’origine e non vanno verso una fine, un éschaton. Sono semplicemente presenti. Nei tempi moderni la maggior parte dell’esistenza umana è vissuta sulla sponda della storia. La maggior parte delle nostre azioni umane sono orientate verso un fine e le nostre vite condizionate escatologicamente. Sembra che viviamo per il domani, che lavoriamo per il futuro e che agiamo in vista di un qualche fine da raggiungere nel tempo. La morte spaventa perché frustra tutti i nostri progetti e interrompe i nostri sogni. Viviamo progettando, credendo di andare in qualche posto nella storia. Tutto questo scompare sugli altipiani del Tibet. Non è che la storia si fermi. Semplicemente la storia non è lì. La vita è nel presente. Se si deve vivere la vita appieno, la si deve vivere oggi, senza attendere il domani, senza riservare energia per il futuro. È la presenza della Terra che sovrasta. È lì con la luna, il sole, e ci sono le stelle che si muovono attorno, dolcemente e senza fretta. Ma non è nemmeno un paesaggio lunare. È un ambiente senza storia, ma non senza uomo. Non è uno scenario inumano: l’uomo è presente. È stato lì, noi vi apparteniamo con gli yak, le pecore e gli altri animali. È la rivelazione che l’uomo non è solo storia; è anche terra, così come è anche divino. Il pellegrino va “lassù” solo per andarvi, per “nessun altro scopo” – e se qualcuno nutre il desiderio segreto di acquistare “meriti” (punya), ne è subito frustrato. Il vero pellegrino interrompe tutti gli impegni e le attività che ritiene “importanti” nella propria vita, e non è nemmeno sicuro di essere in grado di riprenderli dopo il viaggio. Ma quando l’esperienza che questo pellegrinaggio è una via di non ritorno irrompe su di te, scopri che tutte le tue conquiste storiche sono insignificanti. La coscienza storica è uno dei principali fattori della crisi umana del giorno 82

21. Il monte Kailash dalla piana di Barkha.

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d’oggi. Solo una piccola minoranza della nostra società competitiva “ce la fa”. Solo alcuni diventano direttori generali, top manager, artisti rinomati, lavoratori, sposi felici, liberi da preoccupazioni economiche, o persino santi o persone spiritualmente realizzate. Ci si deve accontentare di svolgere un ruolo secondario o nessun ruolo affatto o anche si può cercare consolazione in un paradiso futuro, in un karman o in cose simili – il che va a prolungare il mito della storia come canovaccio della realtà. Il senso della Vita non si esaurisce nella storia. Quando ci si rende conto che ogni passo potrebbe essere l’ultimo, si diventa consapevoli che ogni passo è definitivo. Non lo si percepisce come ultimo, perché il passo successivo è più difficile o più pericoloso. Il passo seguente è praticamente uguale a quello precedente. La vita umana è un passo dopo l’altro e nessuno di questi è una falcata di Vispu, ma un passo ordinario, almeno fino all’ultimo passo cosciente. Ogni momento “normale”, “insignificante” potrebbe essere il nostro ultimo. E la nostra vita allora?

22. Il lago Mansarovar (4.556 metri) alimentato dai ghiacciai del vicino Monte Kailash, tappa del pellegrinaggio.

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È forse frustrazione, perché non siamo arrivati? Tristezza, perché abbiamo sprecato il passato? O è proprio l’esperienza che, in qualunque momento del cammino, l’intera nostra vita è presente? Paradossalmente, il pellegrinaggio ci aiuta a renderci conto che il cammino è verso “nessun luogo”: è ora e qui che ogni passo è il compimento dello yatra. È il primo passo che conta. E ogni passo è il primo – e l’ultimo. Talvolta tendiamo a immaginare che sia più facile sentire la novità del primo passo che l’“ultimità” di ogni passo. Mi azzarderei a dire che non c’è veramente un primo passo se esso non è ugualmente l’ultimo. Altrimenti ogni passo è solo la continuazione di quello precedente e non realmente il primo. Si diventa consapevoli che è primo quando appare chiaro alla nostra coscienza che potrebbe essere, e in un certo modo lo è, l’ultimo. 2. Sacralità dello spazio Vi sono molti posti sacri nel mondo, molti luoghi sacri di pellegrinaggio. La sacralità del Kailasa e del Manasarovar ci aiuta a divenire consapevoli che qualunque spazio sacro è unico. Ma il loro carattere sacro non è un luogo delimitato. È lo spazio vuoto che manifesta la sua sacralità, ossia la sua realtà ultima. L’aspetto meraviglioso del pellegrinaggio è che lo spazio vuoto diventa visibile o meglio trasparente: il vuoto si ricolma di pura luce, lo spazio è pieno di vacuità. Il Kailasa non è il limite, ma il centro. Questo spazio vuoto è però ricolmo di un’altra realtà. È colmo d’uomo. “Il purusa riempie tutto”. Il pellegrino riempie quello spazio. È uno spazio umano, lo spazio che permette all’uomo di essere libero, di muoversi fuori dalla camicia di forza della storia. Uomo e natura si appartengono; lo spazio è il loro legame. L’uomo non è dentro lo spazio come in una scatola. Non c’è questa scatola. Ci sono pianure, montagne, val85


late, passi, fiumi, prati, rocce, alberi, animali e uomini… tutti si appartengono e lo spazio li unisce tutti. L’uomo è un essere storico, ma non esclusivamente storico. L’uomo è anche un essere cosmico. Il nostro destino è anche il destino della Terra. Il Kailasa è simbolo della natura cosmica dell’uomo. Il Kailasa è imponente ma non minaccioso. La sua cima è come una cupola o come un seno femminile: rotondo, soffice, bianco come la neve, allettante, invitante, seducente. Aperto alla vista ma non al tocco. “Bellezza” potrebbe essere la parola che riassume tutto questo. Suscita ammirazione, rispetto e reverenza. Essere “altro” oltre alla storia non significa essere sradicato dalla Terra. Significa non identificarsi con un destino storico, non perché siamo angeli, ma proprio perché siamo uomini, esseri che partecipano all’avventura cosmica dell’intero universo. “Una lotta grande e ultima si presenta alle anime [umane]” disse Plotino. È una lotta cosmica. La casa della psyché è l’universo, il campo cosmoteandrico – non solo uno scenario storico o un luogo newtoniano-einsteniano. Noi svolgiamo il nostro ruolo nel daivasuram, nella lotta fra Dei e Demoni. La prima azione di Gesù Cristo all’inizio della sua vita pubblica fu, nello stesso modo, di affrontare il “principe di questo mondo” nella guerra cosmica, e tutta la sua vita fu una lotta contro le “forze delle tenebre”. I demoni sono sempre presenti nei racconti del Vangelo – così come si trovano nelle tradizioni hindu, buddhiste e altre. Lo spazio sacro è una grandezza cosmica. Anche la Scrittura cristiana parla dei “cieli nuovi e terra nuova”, e non solo dell’“uomo nuovo”. “Cielo e terra sono sorretti dallo Skambha”, dice l’Atharva-veda. La Terra, la devi, è la “Madre primeva”, canta il Bumi-sukta dello stesso Veda. Il pellegrino al Kailasa avverte che tutto il cosmo è uno, senza confusione panteistica. Siamo epifenomeni nell’av86

23. Colonna votiva tibetana di bandiere di preghiera e di ex voto.

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ventura cosmica del nostro destino – e nel profondo del nostro essere c’è la consapevolezza di una immortalità che non è proprietà privata del nostro corpo o della nostra anima, ma dono dello Spirito, il vero atman non solo dentro di noi, ma anche nel cuore di ogni essere. Si dice spesso che non possiamo godere dell’amicizia divina se non amiamo i nostri simili. Altrettanto spesso, però, si dimentica che è necessaria anche la koinonía cosmica per la nostra unione con il divino, per essere in definitiva veramente noi stessi. L’estraniamento dalla Terra porta come conseguenza l’alienazione umana e l’ostracismo divino. 3. Un pellegrinaggio “ultimo” Andare al Kailasa è un pellegrinaggio definitivo, ultimo, il pellegrinaggio supremo, la parama yatra. Non si raggiunge il Kailasa, non si scala la vetta: gli si gira attorno, si compie la circumvallazione, il parikrama, si fa la pradaksipa. Come ogni cosa ultima, questo pellegrinaggio è ineffabile. Non è al di là di ogni descrizione perché a noi mancano le parole. È inesprimibile perché questa esperienza trascende il logos in quanto tale. Il pellegrinaggio ultimo appartiene allo Spirito, all’altra sponda della ragione. Siamo in un regno libero dalla necessità logica (ananke in greco), non perché è superiore alla mente, ma perché è al di là di essa. Ultimo significa che è un pellegrinaggio di non ritorno. Se mai si fa ritorno, è per pura grazia: si è un nuovo essere. Poiché un pellegrinaggio “ultimo” non è descrivibile, non cercherò di descriverlo. Mi sforzerò semplicemente di lasciare trapelare il ricordo dell’esperienza. Non nutrivo particolari intenzioni prima del pellegrinaggio. Sono sempre stato più incline al pellegrinaggio spirituale. Eppure il ricordo del padre hindu, che raccontava con entusiasmo al figlio adolescente del Kailasa e del Manasarovar, 88

riecheggiò in me quando mi si presentò l’occasione di unirmi all’ultimo gruppo di sadhu a cui i cinesi avrebbero permesso di varcare il confine nel 1959. Tuttavia, dovetti allora rinunciare in virtù della “santa” (cristiana) obbedienza e, più tardi, per altri motivi, non ultimo un incidente che rivelò come il mio cuore non fosse in grado di sopportare elevate altitudini. Per un’inesplicabile sincronicità di eventi, mi trovai questa volta quasi condotto a intraprendere il pellegrinaggio, che probabilmente per me poteva essere non solo ultimo, ma definitivo. Una triplice azione trasformante sottolineò il mio pellegrinaggio, ben consapevole che, se questa metamorfosi avesse potuto avvenire nel microcosmo della mia persona, avrebbe avuto ripercussioni nel macrocosmo stesso. Non siamo monadi isolate. La nostra responsabilità è anche

24. Raimon Panikkar durante la celebrazione eucaristica ai piedi del Kailasa.

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cosmica. L’umanità non è un agglomerato di individui, ma il Corpo mistico di quel Mistero che molte religioni chiamano Dio. Pace fra gli Uomini, ossia fra le religioni, perché non si può negare che le religioni siano state le cause principali dei conflitti umani. Il mio pellegrinaggio fu solo un gesto ecumenico: superare tutti gli esclusivismi (di ogni tradizione o religione: il Kailasa non è solo per gli hindu); sconfiggere tutti gli inclusivismi (e tutte le “teologie del compimento”: il Kailasa è anche per i cristiani, ma non per un diritto superiore ad assorbire tutte le altre tradizioni); resistere a tutti i solipsismi (“noi ci occupiamo delle nostre cose e voi delle vostre”: il Kailasa è per tutti); superare anche ogni eccletismo (il pellegrinaggio al Kailasa richiede che lo si intraprenda personalmente, privi di ogni pesantezza superflua, anche ideologica). Pace con la Terra fu la seconda trasformazione ecosofica. Dire che si va là per morire sembra orribile – e sarebbe sbagliato. Spiegare che si va nel luogo cui si appartiene, e che non ci crea problemi accettare un possibile requiescat in pace nel grembo della Madre Terra, è ben altra cosa. Comporta una trasformazione che ho chiamato ecosofica: una partecipazione alla saggezza della terra di cui l’uomo è il frutto intelligente e il portavoce. Non fu un viaggio nell’abisso: fu un pellegrinaggio, un itinerarium verso il luogo cui anche noi apparteniamo. È certo che siamo pellegrini su questa terra, ma allora siamo veri pellegrini e non turisti curiosi, e nemmeno i suoi padroni con il diritto di sfruttarla per i nostri interessi egoistici. Gaia eleison (Terra, abbi pietà di noi) dovrebbe essere una preghiera umana universale. Pace fra gli Dei, intesi come spiriti superiori, fu la terza trasformazione e anche la più ambiziosa. Se differenti gruppi di quello che ancora chiamiamo Homo sapiens litigano fra loro, può senz’altro essere perché non c’è pace nemmeno nel pantheôn delle più alte sfere, nel devaloka. Gli Dei 90

non sono sempre stati Dei di pace. Il sacrificio non serve solo per placare l’ira degli Dei nei nostri confronti. È compiuto anche per stabilire la pace pure nel loro regno, secondo l’interpretazione che di esso hanno le varie religioni. In questo senso, come avevo fatto ad Arupacala e a Gangotri con Swami Abhisiktananda, celebrai il sacrificio cosmico della croce nello spirito dei Veda, di Melchisedek e di tutti gli altri “scambi” fra cielo e terra, che per me erano simbolizzati nell’eucaristia. Furono pronunciate nella liturgia tre brevi frasi tratte dalla Chandogya-upanisad, dal prologo di Giovanni e da Nagarjuna, ricordando Prajapati, Abele e Abramo, rivivendo l’azione di Gesù il Cristo, il quale ci ricordò che né sul Garizim, né in Gerusalemme, né al Kailasa… né esclusivamente fra ebrei, hindu, cristiani, animisti… dimorano lo Spirito e la Verità. Questa azione non può essere compiuta spiritualmente da soli. Sotto il cielo (simbolo del divino) con Milena (che molto coscientemente rappresentava l’umanità) e sulla terra (che incorporava l’intera creazione) abbiamo celebrato (con il pane e il vino) quell’uno e unico sacrificio, come canta esplicitamente il Rg-veda, e ribadisce la liturgia cristiana: la sacra azione primordiale. Sono conscio dell’ambiziosità di quest’utopia di una ortoprassi religiosa. Se l’ecletticismo è il pericolo del primo punto e l’antropomorfismo quello del secondo, la sostanzializzazione del divino sarebbe la trappola del terzo. Siamo tutti impegnati in un’avventura cosmoteandrica. Come potrei io, piccolo individuo, anche solo accarezzare tali aspirazioni, letteralmente sublimi? Posso forse dire che fui mosso dallo Spirito che soffia dove, quando e come vuole? Il pellegrinaggio al Kailasa apre un terzo occhio, il tertium cognitionis genus, l’esperienza (anubhava) di un’altra dimensione della realtà. Nell’esperienza cosmoteandrica la Materia è paradossalmente in correlazione con lo Spirito. Il Kailasa appare come una gigantesca roccia soffusa di 91


Spirito, così come è rivestita di neve. Qui ho udito di nuovo il “sermone della montagna”. Era più del sermone sulla montagna, e anche più del sermone lungo il cammino. Più di ciò che disse il poeta: «Grandi cose, non inferiori, sono fatte quando gli uomini e le montagne si incontrano» (A.K. Coomaraswamy). Queste grandi cose non si fanno urtandosi per strada. Il “sermone della montagna” è il sermone della montagna. Non è il sermone che sento su un pendio montagnoso, non il sermone in una ridente vallata. Può darsi che in questi nostri giorni di umanesimo antropomorfico non sia facile cogliere il linguaggio della montagna. Ma potrei non essere immerso nel silenzio totale. Echi risuonano ancora nelle mie orecchie. Udivo soltanto: «Benedetti sono questi, benedetti sono tutti, benedetti; asirvad ananda, vubhe, xara…», tutte parole troppo umane alle orecchie non ancora silenti. Non sarei tuttavia sincero con me stesso se nascondessi che, lungo tutto il percorso, il “sermone della montagna” incominciò a superare il genitivo oggettivo della frase, e divenne un misto dei due genitivi, oggettivo e soggettivo (lo dico interpretando ora ciò che non richiedeva di essere interpretato allora). Non fu più un sermone che udivo sulla montagna, e nemmeno il sermone della montagna stessa. La montagna non parlò. Era il sermone della montagna al vocativo, all’inizio, e al nominativo, alla fine. La montagna stessa divenne il sermone e il sermone era la montagna. Sarebbe un’interpretazione molto limitata dire che sperimentai che “il logos si fece montagna”, facendo sollevare un sopracciglio a chi teme il panteismo, o suscitando l’entusiasmo di chi crede nell’incarnazione divina. Ma può essere un modo di suggerirlo, a condizione di dimenticarne il significato letterale. Il sermone della montagna è la montagna. Il sermone della montagna è il sermone: Kailasa. 92

Raramente ho scritto poesie, ma forse questi versi esprimono un po’ meglio ciò che rimane comunque inesprimibile: «Al Kailasa non ti puoi recare? Triste alternativa per te l’interiore percorso! Al Mansarovar sei andato? Inutile fatica il tuo cammino! Cammino è solo verso il Sé, Sé e viaggio uno essendo, come videro Buddha e Cristo. Quindi: “va’, come se non andassi; come se non rinunciassi, rinuncia. Senza pellegrinare sii pellegrino, pellegrino verso il Non-luogo: ora - qui!” Eppure: da migliaia d’anni e da differenti tradizioni di fede il Kailasa attrae i pellegrini. “Dio ti ha posto fra i minerali” disse alla Ka’ba un grande maestro. È pura superstizione? Può una montagna non essere sacra? O un corpo non essere santo? È Verità solo un concetto? E Bellezza solo un sentimento? Solo dottrina è la religione? E la fede solo ideologia? Ancora una volta noi udiamo: “Alzati e cammina!”».

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25 a e b. Il monumento più celebre di Ellora è il Kailasa, la montagna o il paradiso di Viva. Un blocco di roccia è stato svuotato e scolpito. Il pellegrino, una volta varcata la soglia accede al santuario quadrato di Nandi, il toto, cavalcatura di Viva. Poi egli sale in una sala quadrata a sedici pilastri, il cui tetto, è occupato da un loto sbocciato e da quattro leoni. Infine, egli arriva al santuario principale, la cui sommità si trova esattamente in linea e al di sopra della cella interna, occupata dall’emblema di Viva: il lipga. Così, di salita in salita, il pellegrino accede al Kailasa, la montagna di Viva. (M. Delahoutre)

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acqua

5. Trisangam: Giordano, Tevere e Gange «Occorre essere spiritualmente semiti e intellettualmente occidentali per essere cristiani?»

In questo capitolo vorrei sintetizzare quanto ho fatto e detto nell’arco di quasi mezzo secolo sulla questione dell’essere cristiani oggi. Le mie esperienze e i miei incontri a questo riguardo sono troppo numerosi per elencarli qui, e voglio inoltre omettere i problemi teologici in senso stretto, per limitarmi a una descrizione filosofica generale della situazione cristiana attuale e, nello stesso tempo, caratterizzare più concretamente i «luoghi» della saggezza. Si intende quindi offrire un contributo al cristianesimo odierno nella sua apertura verso il pluralismo religioso, pur mantenendosi fedeli alla propria tradizione. Si tratta della possibilità di rimanere fedeli a una tradizione, preservandola tanto dall’assolutismo quanto dal rischio che si esaurisca. Una questione da affrontare necessariamente, altrimenti si incorre nel pericolo che tutte le tradizioni – non soltanto quella cristiana – finiscano diluite in una monocultura generale. *In The Myth of Christian Uniqueness. ‘Toward a Pluralistic Theology of Religions’, (a cura di) J. Hick and P. F. Knitter, Orbis, Maryknoll 1987, pp. 89-116. Apparso in italiano in Saggezza, stile di vita, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1993. In Opera Omnia, Vol. iii, 2, Cristianesimo. Una cristofania

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Il dilemma L’umanità si trova oggi in una fase di trasformazione, di fronte alla quale la riflessione teologica non può più continuare imperterrita a pensare con le sue categorie abituali. I problemi sono cambiati; le questioni fondamentali vanno riesaminate. Questa è la ragione per cui mi batto per un nuovo Concilio, non un Vaticano iii, ma un Concilio di Gerusalemme ii11. Per poterlo realizzare avremmo bisogno di una certa visuale della situazione mondiale come si presenta oggi, e di una corrispondente prospettiva intra-cristiana. Mi limiterò qui a quest’ultima. Si potrebbe sintetizzare la storia della tradizione cristiana nel suo rapporto con le altre religioni con il simbolo dei tre fiumi sacri citati nel titolo. Gesù è stato battezzato nel Giordano, il Ha Yarden, il Nahr al-Urdunn12. Non si può asciugare l’acqua del Giordano dal corpo di Cristo, e quindi nemmeno da quello dei cristiani13. La tradizione cristiana ha una indelebile matrice ebraica. Gesù, gli apostoli e gli evangelisti erano tutti ebrei. Non si possono capire i Vangeli a prescindere da una determinata spiritualità ebraica. Intendo con «spiritualità», in questo contesto, una serie di atteggiamenti fondamentali, prima che vengano espressi in teorie e sviluppati nella prassi. Oggi ci si pone la domanda: può esistere una unica spiritualità universale, cioè un atteggiamento spirituale umano fondamentale che sia tanto universale quanto concreto? Una spiritualità basata sull’ebraismo porta in sé una tale possibilità? Il Giordano è il fiume, nel senso in cui gli egizi chiamavano «il Fiume» il loro Nilo? Queste questioni teoriche vanno pensate alla luce di venti secoli di storia cristiana, i quali sono altrettanto segnati dall’acqua di un altro fiume sacro, Tíber, il Tevere. Pietro e Paolo morirono presso le sue rive, e di là conti98

26. Il Giordano, che sta per sfociare nel Mar Morto, e la sua valle, Mappa di Madaba (particolare), mosaico pavimentale, chiesa nord di Madaba, Giordania. La carta, che nelle intenzioni del mosaicista doveva raffigurare la Terra Promessa vista da Mosè prima di morire sul Monte Nebo, è stata via via attualizzata alla realtà topografica fino al vi secolo. (Michele Piccirillo)

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nuano a vivere nella storia. Senza Roma il cristianesimo è incomprensibile, perfino nei suoi aspetti anti-romani. Il Mediterraneo è il mare cristiano, il mare nostrum, il «nostro mare». Il cristianesimo odierno è una miscela più o meno armonica dell’eredità ebraica e di elementi greci, romani, gotici e occidentali. Vorrei evidenziare che non dovremmo né ignorare né assolutizzare questo fatto. Il cristianesimo è la religione di questi due fiumi, e non possiamo farne a meno. Ma è giunto il momento di chiederci se la situazione debba restare sempre così. Come il cristianesimo non si può staccare spiritualmente dal Giordano, così si sfascerebbe intellettualmente senza la sua relazione con il Tevere, del quale mi servo come simbolo per indicare la mentalità dell’Occidente, per quanto ampia e variegata sia. Oggi ci si pone la domanda se le frontiere teologiche cristiane siano stabilite definitivamente tra quei due fiumi, o se non dovremmo oltrepassare un nuovo Rubicone; questa volta non per sconfiggere Pompeo, ma per raggiungere pacificamente il Gange. La domanda è duplice: i cristiani devono ammettere che non possono conquistare il mondo – né dovrebbero farlo, dato che rappresentano soltanto un phylum nella storia religiosa - ma potrebbero ancora pretendere per sé l’universalità, e affermare di essere l’unica vera comunità religiosa? Oppure c’è qualcosa nel «fatto» cristiano che è specificamente universale; in questo caso, Cristo può essere compreso come un simbolo universale? Nella ricerca che scaturisce da questa duplice domanda utilizzerò come simbolo il fiume Gange (Ganga), perché mi sembra idoneo: il Gange ha molte sorgenti, tra cui una invisibile; va a perdersi in un delta di innumerevoli corsi d’acqua; e ha visto nascere sulle sue sponde numerose religioni. Quello che mi attrae della Ma Ganga (a parte le mie vicende personali) è questa origine multiforme, la unicità della sua foce e soprattutto la segreta 100

27. Panoramica del Ponte Milvio, che permetteva alla via Flaminia di superare il Tevere. Parte dei piloni in tufo risale ancora all’età romana, il resto è stato più volte ricostruito. L’aspetto attuale gli è stato attribuito dal restauro di Giuseppe Valadier (1805). La fama del ponte è legata alla battaglia del 312 con cui Costantino sconfisse e uccise il rivale Massenzio, impossessandosi di Roma.

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sorgente celeste. A Illahabad (Allahabad), antica città dal nome islamico, non sfociano nel Prayaga soltanto le acque dello Jamuna e della Ganga, ma anche quelle della invisibile e divina Sarasvati che è, al tempo stesso, una sorgente e la dea della saggezza. Lo attestano da millenni infinità di persone con il celebre Kumbh-Mela, pellegrinaggio che si compie ogni dodici anni secondo un calcolo astrologico e astronomico. La metafora della Ganga non deve in nessun caso alimentare pregiudizi di tipo «ariano» (indo-germanico) perché ogni nazione ha i suoi fiumi che, per la maggior parte, sono sacri. La Ma Ganga, il fiume madre Gange, qui non funge da simbolo soltanto per l’induismo, il buddhismo, il jainismo, il sikhismo e le altre religioni origina-

28 a: Kumbha Mela. L’Acqua rende possibile la vita sotto tutte le forme. Il pellegrinaggio hindu di massa nel quale i fedeli si ritrovano ogni tre anni per immergersi in un fiume sacro. (Disegno di Michel Delahoutre)

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rie dell’India, ma anche per tutte le tradizioni di Eurasia, Africa, America e Oceania, che incarnano forme completamente diverse sia nella spiritualità sia nella mentalità14. Per chi è radicato in quelle mentalità, con i loro caratteri tipici, la teologia cristiana standard ha poco senso. Non soltanto i contenuti della Bibbia, ma anche la maggior parte delle premesse e dei concetti cristiani risultano estranee, se non grottesche, alle tradizioni non-abramitiche. È un punto che ribadisco: malgrado appena il 10% della popolazione mondiale parli correttamente l’inglese (e molto meno qualsiasi altra lingua europea), e malgrado i cristiani siano una minoranza su questo pianeta, i cittadini del «primo mondo» tendono a supporre che ciò che pensano corrisponda a un modello universale. Varie

28 b: Il saluto al dio Sole e le offerte principali agli dei, ai saggi rishi e agli antenati. Da Pierre Amado Le bain dans le Gange. Sa signification. (Disegno di Michel Delahoutre)

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culture si sono lasciate irretire dalla sindrome dell’universalità. Abbiamo quindi due possibili risposte, ed entrambe legittime. Optare per una o per l’altra non dipende solo da una decisione religiosa individuale. La risposta che infine l’orbe cristiano darà sarà una decisione politica dalla immensa portata storica. La Realtà non è data una volta per tutte. Il futuro delle religioni dipende, tra l’altro, da come le diverse tradizioni comprendono se stesse e dal tipo di decisioni che prendono. Il cristianesimo è anche ciò che i cristiani ne fanno – e ne faranno. Bisogna distinguere politica e religione, ma non si possono separare completamente. La prima risposta sostiene che i cristiani dovrebbero abbandonare la pretesa di universalità; dovrebbero lasciar fluire pacificamente i fiumi, senza riversarvi dentro l’acqua cristiana o deviare i loro corsi dentro il Mar Morto o il Mediterraneo; i cristiani non dovrebbero passare di nuovo il Rubicone e inondare tutti i Paesi del mondo. Il cristianesimo sarebbe allora una religione tra le tante e Gesù, in ultima analisi, soltanto il salvatore dei cristiani. I suoi rapporti con le altre religioni dovrebbero essere affrontati come un problema interreligioso, come la politica estera tra Stati sovrani. In questo caso, il cristianesimo tutela la propria identità per differenziazione: basa la sua unicità sul fatto che è diverso da altre tradizioni. Una diversità che dovrebbe essere mantenuta15. Qui non si mettono in discussione tolleranza, rispetto reciproco e buon vicinato; è in questione soltanto la pretesa di universalità di una certa tradizione cristiana. In base a questa prima risposta, i cristiani dovrebbero riconoscere le altre tradizioni nel loro proprio buon diritto. I fiumi dovrebbero conservare la propria identità distinta, come pure le religioni. Le acque della Ganga, del Huanghe o del Nahr an Nil (Nilo) – sottolinea la prima risposta – contengono troppo sale (o inquinamento, 104

29. Offerta di fiori nelle acque sacre del Gange.

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se si vuole) e sono troppo distanti (filosoficamente, teologicamente, umanamente) per poterle mischiare con quella dei fiumi cristiani, senza provocare ingenti cambiamenti chimici e fisici. Per questo motivo è meglio tenerle separate. La seconda risposta probabilmente è la più diffusa, anche se spesso secolarizzata e ridotta alla sua forma più debole. E dice che la pretesa di universalità è essenziale al cristianesimo, perché un cristianesimo senza universalità sarebbe una contraddizione in termini. In questa ottica, il cristianesimo appare come un phylum privilegiato, chiamato a riunire il mondo, a «convertire» gli altri corsi d’acqua culturali e religiosi in un Rio delle Amazzoni cristiano che irrigherebbe tutto il pianeta; un processo in cui, ovviamente, il cristianesimo stesso dovrà trasformarsi in una religione ancora più universale. Con quale diritto – argomenta la seconda risposta – dovremmo frenare gli sviluppi di questo dinamismo cristiano? Non è la tentazione di ogni movimento rivoluzionario, quella di soffocare ogni altro sviluppo, appena i suoi leader hanno preso il potere? Il cristianesimo è al riparo da tale tentazione? Finora i cristiani hanno assorbito sincretisticamente il «buono» delle religioni mediterranee: perché non possono procedere allo stesso modo con altre religioni? Il dilemma è il seguente: molti cristiani avranno la sensazione di tradire le loro verità di fede più profonde se abbandoneranno la convinzione di dover pensare il cristianesimo in una prospettiva universale. D’altra parte, sono in aumento i cristiani che diventano magari oscuramente, ma dolorosamente coscienti che la pretesa di universalità è un residuo imperialistico, che ha ormai fatto il suo tempo. Anche perché la maggior parte dei seguaci delle altre religioni avvertono questa pretesa come una minaccia, e un insulto, alle proprie credenze. 106

La presente riflessione vuole essere un passo coraggioso verso la soluzione di questo dilemma, mostrando che i fiumi della Terra in realtà né si incontrano (neanche negli oceani) né hanno bisogno di tale incontro per essere fiumi veramente vivificanti. I fiumi non si incontrano, nemmeno nel mare. Eppure «essi» si incontrano: in cielo. Si incontrano nelle nubi dopo aver subìto la trasformazione in vapore, che poi cade sotto forma di pioggia nelle valli della Terra per rialimentare i fiumi. Le religioni non crescono insieme, sicuramente non come istituzioni organizzate. Si incontrano dopo essere state trasformate in vapore, dopo aver subìto la metamorfosi in Spirito, che poi viene riversato in lingue innumerevoli16. I fiumi della Terra vengono alimentati dall’alto dalle nuvole, come pure dalle sorgenti terrestri e sotterranee, dopo un’altra mutazione, quella della neve e del ghiaccio in acqua. Il vero serbatoio delle religioni non consiste soltanto nell’acqua dottrinale della teologia, ma anche nella caligine delle nuvole divine (rivelazione), nella neve e nel ghiaccio immanenti dei ghiacciai e nei picchi coperti di neve dei santi (ispirazione). La mia tesi è che il principio cristico non è un avvenimento particolare né una religione universale. È piuttosto il centro della Realtà visto dal punto di osservazione della tradizione cristiana. Per proseguire con la nostra metafora, cercherò di mostrare come nessuna tradizione religiosa abbia il monopolio sull’acqua viva dei fiumi (la salvezza), e che tuttavia non dobbiamo diluire le dottrine di alcuna religione autentica per raggiungere la concordia religiosa17. Ho approfondito altrove18 l’«effetto pars pro toto» inerente a questa problematica. La metafora non vuole indicare l’unità trascendente di tutte le religioni in modo indifferenziato. Va in quella direzione, ma non voglio confondere i fiumi veri con l’acqua distillata. Come ogni acqua è diversa dalle altre, così ogni religione; ogni fiume contiene la sua specifica quantità di sali 107


e microrganismi. Non dovremmo nemmeno dimenticare che l’acqua subisce una trasformazione (di morte e risurrezione: vapore, pioggia, di nuovo acqua), la quale soltanto le consente poi di rendere fertile la terra. Le religioni non sono costruzioni statiche. Per questo nessuna religione dovrebbe aver paura di lasciar evaporare la propria acqua, quando il clima diventa insopportabilmente caldo. Le nuvole la riporteranno giù appena il calore della polemica sarà passato e i flutti si saranno calmati. In altre parole: non soltanto ogni acqua è unica, ma anche ogni fiume offre al mondo religioso il contributo del proprio tracciato, del proprio sapore, della propria bellezza. E questo non riguarda solo qualche ambito particolare, ma tutto il mondo nel suo destino ultimo. Appartengono al fenomeno religioso anche i meandri, i ghat, i porti, i luoghi balneari, gli stagni quieti, le rapide cascate, le acque movimentate e turbolente. Qualunque sia l’«essenza» della religione, le religioni vive e vere non sono essenze, ma esistenze concrete, forti e pericolose. I fiumi religiosi sono molto di più che la H2O della chimica. I tre momenti geo-teologici Il fatto cristiano è stato sostanzialmente compreso finora in termini storici, però è anche e propriamente un fenomeno trans-storico. L’evento cristiano non si inscrive soltanto nel passato né esclusivamente nel futuro, poiché appartiene anche all’ordine del cuore, della vita personale del credente. Ha una contemporaneità sui generis che trascende, in un certo modo, tempo e spazio, senza però eliminare la cornice spazio-temporale. È un fatto teologico. Stimola la riflessione sul «dato» di fede sia alla luce della propria tradizione, sia nel cono di luce di altri fari - anche se il tutto viene sempre filtrato dai nostri apparecchi ottici. Anche i tre momenti geo-teologici sono intrecciati tra loro e ognuno è presente nell’altro. Tuttavia i rispettivi caratteri tipici 108

emergono con particolare evidenza in punti ben determinati della manifestazione temporale della consapevolezza cristica. Storia e tradizione sono loci theologici (fonti dell’attività teologica). Ogni riflessione teologica contemporanea che ignorasse il nuovo contesto sarebbe metodologicamente difettosa. Né il dogma né l’auto-comprensione cristiana sono un fatto a-storico o a-geografico. La geografia, così come la storia, è una categoria tanto umana quanto religiosa. Se è vero che il modo di manifestarsi del cristianesimo è diverso nel iii secolo e nel xx, esiste anche una differenza tra l’esperienza cristiana sulle sponde del Tevere e quella sulle rive del Gange. La metafora del fiume è più che una sofisticheria geografica, è una categoria teologica. Che il cristianesimo sia universale o meno, l’interpretazione cristiana della vita elaborata in un deserto africano sarà diversa da quella elaborata in una città scandinava. Finora siamo stati molto più sensibili alla storia che alla geografia. Dovremmo renderci conto che la geografia del cristianesimo non può essere ridotta al Giordano in Palestina, al Tevere in Italia o al Gange in India. Non soltanto flora e fauna sono diverse sulle sponde dei vari fiumi del mondo, ma cambiano anche le società umane e le religiosità. Le coordinate geo-teologiche non sono parametri geometrici cartesiani e neutrali; influiscono sulla natura dell’Uomo e sulle sue credenze. La «geografia religiosa» è una disciplina ancora quasi inesplorata. Senza infine dimenticare che la geografia e la storia si intrecciano. Il Tevere, ad esempio, non è soltanto il fiume di Roma. Anche Bisanzio è una Roma, e per secoli Mosca è stata considerata la terza Roma. Inoltre la Capitale italiana racchiude in sé, per così dire, una triplice Roma: la Roma dei Cesari (quelli cristiani e quelli non-cristiani), quella dei Papi (con o senza potere temporale) e quella del popolo. Nonostante questo, considererò il Tevere come rappresentativo del secondo ambito della geografia cristiana. 109


Quella che segue ora è necessariamente soltanto una breve panoramica. Il Giordano: acqua, fede, evento, religiosità, tensione verso l’alto, esclusivismo «Gesù è il Cristo» è la più breve formula della credenza cristiana. Sebbene la parola «Cristo» sia polisemica, le origini di questa formula sono strettamente collegate all’idea ebraica del Messia, malgrado le riserve che Gesù stesso aveva nei confronti di quel titolo. Nei termini pur grammaticalmente sinonimi: «Unto» (cioè consacrato), «Messia», «Christos», «Christus» e «Gesù Cristo», si ha nell’uso effettivo un graduale spostamento di significato. L’autocomprensione cristiana è collegata in modo intrinseco, sia in continuità sia in polemica, con la Bibbia ebraica. Viene abolita la circoncisione, cosa che provoca una rottura con l’ebraismo. Essa viene però «rimpiazzata» dal battesimo nell’acqua – e, naturalmente, in origine era l’acqua del Giordano. Quelle acque battezzarono Gesù, figlio di Maria, Figlio dell’Uomo. Sono acque sante, perché lo Spirito di Dio vi aleggiava sopra19. L’acqua è il simbolo dell’iniziazione: purifica, fluisce, si colloca in polarità con il fuoco, viene da sorgenti e fiumi, ma anche da molto in alto e da grande profondità nella terra, e porta sia morte che resurrezione. Esiste un solo Giordano, però. Non tutti vengono iniziati. Sta qui la radice dell’esclusivismo, sebbene ogni acqua – ci verrà insegnato più tardi – sia acqua del Giordano. Il cristiano è l’uomo di fede. Questa fede è centrata sulla persona di Gesù. Perciò le discussioni teologiche dovranno delucidare chi sia questo Gesù. Il punto essenziale tuttavia è meno la sua natura individuale che la realtà del suo avvento/evento stesso, in particolare la risurrezione. Questo avvenimento è anzitutto un fatto storico nella vita di Gesù, giovane rabbi ebreo che fu condannato dalle autorità giuridiche, religiose e politiche del tempo. Noi siamo saldamente radicati 110

30. Epifania, icona, xviii secolo, Venerabile Arciconfraternita della Purificazione, Livorno.

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31. Masaccio, San Pietro battezza i neofiti, particolare, chiesa del Carmine, cappella Brancacci, Firenze.

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32. Ascensione, icona, xv secolo, Galleria Tret’jakov, Mosca.

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nella Storia, e specialmente nella storia personale di Gesù: per questo motivo la fedeltà alla sua persona rimane al centro. L’insegnamento di questo giovane rabbi è affascinante, nonostante il fatto che la maggior parte delle sue parole le possiamo già trovare in fonti più antiche; il suo esempio esercita una attrattiva irresistibile.I cristiani continuano a guardare verso il cielo, malgrado l’ammonimento degli angeli al momento dell’Ascensione20. A permeare la loro vita è un atteggiamento «religioso», una particolare religiosità - non religione. Guardano in alto verso il Cristo innalzato. Tra loro vigono forti speranze escatologiche. La risurrezione di Cristo rivelerà e provocherà anche la nostra. È un privilegio trovarsi sotto l’influsso, il fascino e la grazia di Gesù. È un dono particolare e conferisce una dignità particolare; è una sorgente di gioia, ma anche un compito che comporta responsabilità. Il Giordano, per continuare con la metafora dei fiumi, possiede una potenza unica al mondo, come sottolineano le Scritture ebraiche. «Forse l’Abanà e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per purificarmi?» esclamava Naaman, capo dell’esercito arameo, a Eliseo, profeta di Israele21. In altre parole, in un mondo gerarchico la singolarità, il privilegio e addirittura l’esclusività non rappresentano un problema insuperabile. «Esistono pochi cristiani, e ancora meno sono quelli che si salvano». In un contesto gerarchico, non si trova nulla di ripugnante in un certo esclusivismo. Ciò spiega anche perché, nell’ottica del «Giordano», le problematiche teologiche centrali si ricolleghino al tema dell’identità di Gesù Cristo e si sviluppino sul piano cristologico e trinitario. Il Tevere: fuoco, credenza, istituzione, religione, introversione, inclusivismo Ma il Giordano è l’unico fiume sacro? Non si viene battezzati anche con il fuoco? II fuoco brucia ciò che è sec114

co e si espande tutt’intorno. Purifica, ma anche distrugge. L’identità cristiana non può essere limitata all’esperienza delle prime generazioni, sdegnando le realizzazioni culturali e religiose prodotte in venti secoli di storia cristiana. Ci troviamo qui nella seconda, terza e quarta epoca secondo la descrizione fatta sopra: conversione, crociata e missione, che si estendono per ben millecinquecento anni di storia cristiana. Il cristiano è vincolato a una determinata visione del mondo, che viene espressa da una serie di credenze. Essere cristiani non significa solo professare fedeltà a Cristo, richiede anche l’appartenenza alla comunità cristiana, la si chiami Chiesa o complesso di credenze. Scissioni e scismi, una volta consolidatisi, sviluppano le proprie ortodossie. Il cristianesimo diventa una istituzione. La comune appartenenza viene in larga misura istituzionalizzata. L’ideale ora è la Cristianità, l’Impero cristiano, la civiltà cristiana. Quando, all’incirca nel xvi secolo, questo ideale inizia a disgregarsi, viene sostituito gradualmente dal cristianesimo come religione. Il Giordano è un fiume geografico e mistico; le sue acque sono acque battesimali. Il Tevere è un fiume storico e politico; le sue acque simboleggiano quelle che scorrono nel Tamigi, nella Senna, nel Paraná, nel Potomac. Il Tevere porta con sé una teologia, una visione del mondo ben strutturata, anche se ampia e flessibile. È l’acqua della civiltà cristiana, passata e presente. La cristianità e il suo successore, il cristianesimo, non sono soltanto affari privati. Le acque cristiane scorrono dappertutto; irrigano tutti i campi di una civiltà che pretende di abbracciare il mondo intero. Si potrebbe citare un gran numero di personaggi contemporanei: Giovanni Paolo ii, il presidente Reagan, la regina Elisabetta, il generale Pinochet, i filosofi Maritain e Gilson, i teologi Barth e Lonergan, gli storici Toynbee e Heer. Tutte persone che condividono la fede nella superiorità del cristianesimo. Questa credenza non impedisce loro di ammet115


tere la grandezza altrui e le carenze dei cristiani; anzi queste ammissioni – si argomenta – sono in armonia con i valori del cristianesimo e stanno sotto l’autorità di Cristo. Il cristianesimo è diventato così potente e universale, così convinto della propria missione, da non avvertire la necessità di guardare fuori, se non per imparare qualcosa e perfezionarsi. Uno dei suoi tratti fondamentali è la introspezione, che sia mistica, religiosa o politica. All’interno della rivelazione, della dottrina, della prassi e dello stile di vita cristiani si trova – secondo questa opinione – tutto il necessario per una vita umana in pienezza, nonché per la valutazione delle altre religioni e culture. Questo è il tipo di introversione che intendo: in noi stessi troviamo l’intera verità. La teologia è rivolta verso l’interno. Vogliamo trovare la risposta a tutte le questioni teologiche dentro di noi, dentro la nostra propria tradizione o rivelazione. Possiamo anche parlare degli altri, onorarli, integrarli nel nostro sistema, ma siamo sempre noi a farlo. Ecco un esempio: quando, per la prima volta nella storia della Chiesa, un Concilio ecumenico, il Vaticano ii, non solo ha riconosciuto il diritto all’esistenza delle altre religioni, ma nella dichiarazione Nostra aetate le ha addirittura lodate, non si è comunque ritenuto necessario invitare i rappresentanti di quelle religioni per farli esprimere da sé. Gli esperti cattolici erano sicuri di poter parlare a nome degli altri. Il Tevere bastava e avanzava. Esiste un discorso teologico ad hoc per difendere un certo tipo di inclusivismo cristiano. La religione cristiana rappresenta, secondo questa opinione, l’apice dello sviluppo religioso; difende valori dalla portata universale e reclama per sé una sorta di universalità. In breve, il cristianesimo non necessariamente disprezza gli altri, ma senz’altro si ritiene loro superiore. Anima naturaliter christiana, «cristiani anonimi», «teologia del compimento», «a servizio dell’umanità», «re116

gno della natura e della grazia»; oppure, in forma più secolarizzata: «democrazia», «civiltà globale», «governance mondiale», «mercato unico mondiale», «diritti umani universali», una scienza naturale ovunque valida, con relativa tecnologia... sono tutte espressioni della medesima sindrome. Tutti i fiumi portano la stessa acqua, ma alla fin fine è la nostra acqua, anche se le canoe che la percorrono da una parte all’altra non lo sanno. Naturalmente esistono molte istituzioni, Chiese e teologie cristiane. Spesso lottano tra di loro per il potere, per una migliore comprensione delle proprie tesi teologiche (sia a livello interno che ecumenico), o anche per trovare metodi migliori di trattare con le altre religioni del mondo. Malgrado tutte queste differenze, scopriamo però sempre lo stesso tipo di linguaggio. Potremmo chiamarlo il logos occidentale. I cristiani reagiscono irritati di fronte a questo aggettivo, in quanto affermano che il logos è universale (anche se può ridursi al «nostro» logos). Se il Tevere in sé non è ovunque, la sua acqua però lo è. Per questo abbiamo bisogno del fuoco, e di rivolgerci verso l’interno. Gli sforzi per una maggiore apertura di questa posizione inclusivista sono lodevoli. Abbiamo così il discorso sul cristianesimo invisibile, sul Cristo cosmico, sulla Chiesa spirituale universale, su un Dio che ha senso anche per i buddhisti, e su una legge che non esclude il nomos, il dharma, il karman o il li. L’ideale è quello di una «teologia universale della religione» oppure, in linguaggio più scientifico, una Teoria del campo unificato22. Questo Tevere risulta più lungo del Mississippi. Fin quando tale cristianesimo rimarrà invisibile, e Cristo ignoto, la Chiesa spirituale, Dio ineffabile, la legge non scritta e la teologia muta, non ci saranno problemi. Homo loquens tamen (ma l’uomo è un essere parlante), e non possiamo parlare la «lingua in sé», così come non possiamo praticare la religione in sé. Dobbiamo invece 117


parlare una certa lingua e praticare una certa religione. Allora l’universalità cristiana diventa sospetta, e implode – a meno che... A meno che non si ritenga che il phylum cristiano possiede il privilegio esclusivo di assorbire tutti gli altri e diventare un unico Rio delle Amazzoni per il mondo intero. Come sta avvenendo nelle molte nuove forme dei movimenti «di risveglio» e fondamentalisti. In tutti questi fenomeni è centrale la preoccupazione per la propria identità. E altrettanto ovvio che le principali formulazioni delle questioni teologiche dipendono dal dibattito su chi siano i cristiani e quale sia il loro destino: questioni relative alla ecclesiologia, grazia, redenzione, rapporti con le altre religioni e, in generale, l’ortodossia. Il Gange: terra, fiducia, religiosità, dimensione, tensione verso l’esterno, pluralismo Ci troviamo oggi di fronte alla sfida di una «teologia» per l’era post-coloniale. Corrisponde all’atteggiamento del dialogo esposto sopra al quinto punto. Una teologia dialogica stabilisce il proprio tema di discussione solo dopo che esso – e ovviamente anche il linguaggio – è stato deciso in comune o è stato creato nel dialogo stesso. Lo stesso ordine del giorno del dialogo dovrebbe essere elaborato all’interno del dialogo stesso. In altre parole, Gangotri è solo una delle sorgenti del Gange, e il delta non è più un fiume, non è nemmeno in territorio «indiano». Le sorgenti del nostro Gange sono le nevi dei monti e le nubi del cielo, le quali, a rigore, non sono acqua. Il simbolo qui è la terra, ossia la secolarità (saeculum), il regno della giustizia qui in terra, che comporta la disponibilità alla collaborazione con tutti, pur non condividendone le idee. Non esiste alcuna coscienza planetaria, però esiste una particolare percezione dell’altro e degli altri, e una particolare disponibilità ad accoglierli senza soffocar118

li, cioè ad accettarli anche se non li capiamo. Ci fidiamo. Abbiamo una fiducia nel nostro destino che è maggiore della certezza (sicurezza) basata sul logos. L’identità cristiana comincia ad apparire non più come la difesa di una determinata cultura, né come l’appartenenza a una religione istituzionalizzata, ma come religiosità personale vissuta, vale a dire un tipo di atteggiamento religioso che costituisce una dimensione dell’Uomo, un fattore dell’humanum, un aspetto del Divino. I cristiani non si preoccupano più solo di se stessi, ma sono anche aperti agli altri e al mondo intero: tensione verso l’esterno. Questo momento è tipicamente estro-verso, non allo scopo di uscire a conquistare, ma per instaurare un rapporto. È una mentalità per cui si vede se stessi in relazione agli altri, e gli altri in relazione a sé. Non la definisco però «apertura» per non turbare l’equilibrio con gli altri due momenti. La teologia cristiana del secondo momento tendeva ad accentuare la novità del messaggio cristiano e a difendere la propria identità per differenza, sostenendo quindi che l’amore del prossimo, e le dottrine della Trinità, della grazia, ecc., sono contributi specifici e unici della rivelazione cristiana23. Senza addentrarci in casi particolari, basti dire che il terzo atteggiamento si troverà maggiormente a proprio agio se scoprirà che tutte quelle dottrine e insegnamenti costituiscono un bene comune dell’umanità, e che il cristianesimo non fa altro che incarnare le tradizioni primordiali, originarie, dell’umanità. Con questo voglio dire che né l’esclusivismo né l’inclusivismo rappresentano l’atteggiamento qualificante di questo terzo momento. Parlo qui di pluralismo. Prima di sviluppare gli aspetti positivi di questo nuovo momento, che chiamo Cristianìa, passo a descriverne alcuni tratti negativi (il che ci porterà, come Mosè, alle soglie della Terra promessa). Si tratta della possibile incommensurabilità tra le visioni ultime del mondo. 119


Ho più volte ribadito che, a rigore, la Filosofia comparata non è possibile perché il punto di vista da cui dovrebbe essere fatto il paragone appartiene già a un determinato orizzonte filosofico24. Si può dire lo stesso sulla Religione comparata25. Non possiamo partire dal presupposto che tutte le tradizioni religiose possano essere appropriatamente e autenticamente misurate con lo stesso metron (misura); a meno che non postuliamo che la ragione (che in fin dei conti è soltanto la nostra idea di ragione) sia un criterio neutrale, universale e sufficiente per giudicare le religioni. Ogni tradizione religiosa, come sistema relativamente completo di autocomprensione, racchiude in sé i propri parametri. Un dialogo fruttuoso deve anzitutto concordare sui parametri che andranno usati nel confronto, altrimenti ognuno parla per secondi fini. Detto semplicemente: che cosa intendiamo con le parole che usiamo? Il colloquio sul significato delle parole precede il dialogo, lo condiziona, e lo costituisce. La conseguenza è che le tradizioni religiose possono benissimo essere incomparabili: possono non avere alcuna unità di misura in comune, con la quale essere valutate adeguatamente. Di fatto, risultano reciprocamente irriducibili finché non sia stato raggiunto o stabilito un accordo. Una valutazione realistica della fase attuale deve prendere atto che le religioni, e anche le teologie, si ritengono spesso incompatibili tra loro. Non abbiamo alcun bisogno di risolvere le nostre frustrazioni intellettuali postulando l’esistenza di un Intelletto per il quale tutto, assolutamente tutto, sia intelligibile. Questa ipotesi si limita a porsi la domanda ultima. Pretende di rispondere al perché dell’Essere e, così facendo, sottomette l’Essere al perché, al logos, alla consapevolezza. Possiamo dire, in modo logicamente conseguente, che tutto ciò che viene abbracciato da un Intelletto infinito o supremo è intelligibile. Non esistono limiti per una Intelligenza infinita: per essa, tutto è intelli120

gibile. Tuttavia non possiamo dimostrare in modo logico (a meno di identificare l’Essere con la Consapevolezza) la inesistenza di un Essere inconoscibile. Si può obiettare che, se tale Intelligenza infinita non può sapere tutto, allora non è infinita. Noi ribattiamo che una Intelligenza infinita è infinita in quanto intelligenza, ma non necessariamente in quanto Essere, salvo presupporre che, in definitiva, Essere e Intelletto coincidano – e questo è il punto. Il che implica, semplicemente, che potrebbero esistere aspetti della Realtà impenetrabili alla luce dell’intelletto. Mentre i problemi dei due momenti precedenti erano cristologico-trinitari ed ecclesiologico-soteriologici, qui le questioni teologiche si concentreranno sui problemi dell’umanità e sul modo in cui i cristiani possono contribuire a risolverli. Ciò non significa che tali problemi siano solo di tipo politico o economico, o solo una questione di giustizia. Sono anche di natura antropologica, in quanto l’Uomo ha raggiunto un peculiare livello di autocomprensione. E sono anche di carattere cosmologico, cioè riguardano la visione del mondo e della storia. Soltanto su questo sfondo storico e geo-teologico possiamo affrontare la sfida specifica e i problemi di una auto-comprensione pluralistica e cristiana per il nostro tempo. Se la spiritualità del Giordano appartiene strettamente al cristianesimo, e quella del Tevere alla cristianità, il Gange rappresenta il simbolo della Cristianìa26 benché tutte queste immagini vadano intese con un esprit de finesse alla Pascal (non de géométrie). Da tempi immemorabili il Gange è il simbolo non del potere politico o intellettuale (cristianità e cristianesimo), ma dell’esperienza personale, e l’esperienza è fondamentale nella Cristianìa (esperienza del Cristo). A eccezione di alcuni punti sulle montagne, il Gange non è un fiume spetta121


colare. Scaturito dall’Himalaya, fluisce tranquillo, poiché scorre per più di mille chilometri quasi a livello del mare. I peccati saranno perdonati se si muore con fede nelle sue braccia. Non detiene alcun potere, ma è rivestito di un’autorità immensa, al punto di purificare dai peccati coloro che in esso credono. Alle origini il Gange era il cielo, e si riversò sulla terra attraverso i capelli di Âiva per non danneggiare nessuno; e prosegue ancora per il mondo sotterraneo, proprio alla foce presso l’isola di Sagar. L’esperienza dei tre regni è essenziale per la Cristianìa. Come abbiamo già detto, però, Ma Ganga sta per qualsiasi altro fiume che porti acque che finora si consideravano non cristiane. Questi tre atteggiamenti mentali simbolizzano, presi insieme, il complesso fenomeno cristiano del presente. Oltre a ciò, la crescente consapevolezza della Cristianìa offre una piattaforma dalla quale il dilemma tra esclusivismo e inclusivismo potrebbe essere risolto a favore di un salutare pluralismo delle religioni – che però non diluisca in nessun modo il contributo unico di ciascuna tradizione umana.

33. Gli aspetti benefici del Kumbha Mela: la pioggia che cade dal cielo sull’Himalaya. (Disegno di Michel Delahoutre)

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acqua

6. La goccia d’acqua «Come i fiumi che scorrono al mare si riversano in esso, perdendo nome e forma, così il Saggio, libero da nome e forma, raggiunge la suprema, divina Persona.» MundU III,2,8 «Se una goccia d’acquagettata in un oceano d’acqua viva potesse parlare e dire il suo stato non griderebbe con grande gioia: “O mortali, io vivo veramente, ma non vivo io, questo oceano vive in me e la mia vita è nascosta in questo abisso?”» san Francesco di Sales Traité de l’Amour de Dieu

Secondo i Veda, la Bibbia e altri testi sacri, l’acqua (elemento primordiale per eccellenza) precede la creazione27. I miti di Babilonia, della Persia e dell’India descrivono le acque primordiali, e possiamo trovare paralleli in proposito nelle più differenti culture, dalla Grecia all’Africa. Come la vita stessa, l’acqua sta alla base di tutto. «Acqua viva», «una sorgente d’acqua che zampilla», «fiumi di acqua viva» sono espressioni che ritroviamo facilmente in quasi tutte le tradizioni del mondo28. L’acqua simbolizza la vita. A differenza degli individui, piante o animali o esseri umani, l’acqua non muore. L’acqua è una; si muove e si trasforma come un’unica acqua. Il mare ha la stasis di un luogo fisso e la dynamis del movimento costante e a prima vista immanente, contemporaneamente sempre lo stesso e sempre mutevole. L’acqua è viva, è la sorgente stessa della vita29. «Un tempo», ci dice Plutarco, «l’uomo era senza fuoco, ma non è mai stato senza acqua». Nei luoghi in cui l’acqua scarseg* Ed. or. The Drop of Water. An Intercultural Metaphor, in S. Das, E. Fürlinger (a cura di), Samarasya. Studies in Indian Arts, Philosophy and Interreligious Dialogue, D.K. Printworld, Delhi 2005. Rielaborazione di un testo assai precedente apparso in italiano: Che accade all’uomo quando muore? Una riflessione interculturale su una metafora, «Bozze», Roma, 5/6, pp. 117-136. Ora in Opera Omnia. Vol. ix, Tomo i, Mito, simbolo e culto.

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34 a: Interno della grande moschea (Ulu Cami) di Bursa (1396-1400) con la vasca/fontana entro l’edificio.

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34 b: La corte della moschea di Bayazid ii a Instanbul (1501-1506). Con il grande gazebo per le abluzioni.

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35. Arrigo fiammingo (Hendrick van den Broeck) su progetto di Giulio Mazzoni, Allegoria dell’acqua, olio su muro. Roma, palazzo Capodiferro ­Spada, sala delle Stagioni, ca. 1550-1552.

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gia o proprio non c’è, la sua assenza fa del circondario una terra sterile, una «terra di morte». Molte tradizioni attribuiscono all’acqua il potere di purificazione e di rigenerazione: si rinasce a una nuova e più alta vita tramite le acque del battesimo o di abhiseka. L’acqua è necessaria per purificare se stessi – prima di entrare nel tempio, nella moschea, ecc. L’acqua, però, ha anche il potere di sommergere, dissolvere e distruggere. Basti menzionare il quasi universale mito del diluvio, o ricordare le esperienze comuni ai contadini e ai naviganti attraverso i tempi, per illustrare questo aspetto più pericoloso dell’acqua. Non dovremmo però etichettare frettolosamente questo fatto come un paradosso e asserire semplicisticamente che la sorgente stessa della vita è la causa della morte. La vita che è mortale non è «pura» vita, ma semmai è la vita di esseri la cui capacità di vita è limitata. La morte deriva dall’essere frammentati. La nostra riflessione sull’acqua e sulla morte è imperniata sul seguente punto centrale: la morte è un elemento costituente della vita, dato che si trova negli e fra gli esser viventi, ma non è un attributo costitutivo della vita30. «La vita è mortale in quanto vita? Vi sono due risposte logiche. Se la vita non è primordiale (se, per esempio, è il risultato di uno sviluppo chimico e di un’evoluzione biologica), allora non è inerentemente immortale. La vita potrebbe dunque o essere un puro caso, o un conseguimento che deve essere conquistato ripetutamente. Questa idea non necessita di essere collegata esclusivamente alla teoria dell’evoluzione: è anche, per esempio, la funzione del sacrificio nei Veda. Se, d’altra parte, la vita è primordiale (se cioè la vita è il principio stesso della realtà), allora è immortale per natura. È questo un punto di profondo disaccordo fra coloro che credono in una teoria assoluta dell’evoluzione e coloro che credono in un Dio vivente. Nel primo caso la vita è il prodotto o il sottoprodotto della realtà, mentre nel secondo è il centro stesso della realtà. Riecheggiando Aristotele, san 130

Tommaso dice vita viventibus est esse (la vita per i viventi è l’essere). Ora, questo essere non è statico, è piuttosto un divenire, un «non-essere-ancora», siccome è sulla via dell’essere – di essere. Quindi, questo essere è in cammino per la vita, che è un processo rischioso che può anche fallire. Alla fine, il problema è se «in principio» c’era vita ed essere o se c’era morte e non-essere31. La vita è un epifenomeno o forma il cuore più profondo della realtà? Può l’uomo osare di asserire un’immortalità di ordine più alto di quella del sole, che ha ormai «vissuto» la maggior parte della sua vita, o di quella delle stelle, che sono corpi «mortali» roteanti nello spazio siderale? Si rende un cattivo servizio al femminismo se ci si arrende al modo di pensare prevalentemente dialettico dei maschi. Come dobbiamo comprendere espressioni di molte tradizioni che parlano di «Signore della vita» «Sorgente dell’Essere» il Padre suo che è Vita?33 Significano che la vita è il più importante prodotto della realtà, il suo «primogenito», la sua manifestazione primaria, ma non, forse, il suo mistero ultimo? Lasciando da parte queste questioni, cerchiamo di capire come l’acqua, simbolo di vita, possa anche portare la morte. Supponiamo che a un essere umano venga data «più» vita di quella che gli compete, questo «eccesso di vita» soffocherebbe, per così dire, la vita stessa di quella creatura. Una nuova vita implica un nuovo essere34. In questa stessa prospettiva le tradizioni abramitiche asseriscono che nessuno può vedere Dio – che è, per definizione, pura vita. Altrettanto, la sapienza indiana enfatizza che la pura vita richiede il puro essere. La luce del sole illumina, ma il riverbero del sole acceca per eccesso di luce, proprio come il buio per mancanza di luce. L’acqua, simbolo di vita, può anche essere simbolo di morte, ma in modo differente. In sé e per sé l’acqua è viva ed è la sorgente della vita, ma può anche portare la morte. C’è qui un filo sottile che lega vita e morte – benché strettamente parlando questo legame non sia quello della necessità. 131


36. Il diluvio, “Genesi di Vienna”, da Costantinopoli. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Cod. Theol. Gr. 31, ill. 3.

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Molte tradizioni non considerano la morte un accadimento naturale. Per di più, è precisamente la pura vita, quella che non ha relazione con la morte, che più di una religione chiama Dio. Da questo punto di vista, il teismo affermerebbe l’esistenza di vita senza morte. Ma non intendiamo analizzare qui l’immortalità di Dio o degli Dei. Semmai ci concentriamo solo sulla possibile immortalità dell’uomo. Non abbiamo fatto di necessità virtù, e dedotto che la vita umana deve essere mortale dal fatto che la morte è inseparabile dalla vita? Le religioni tradizionali (tranne che forse nelle loro espressioni mistiche) sono state frettolose nel relegare la vera vita in un’altra vita, una vita oltre la morte? Non ha forse l’uomo moderno, all’Est come all’Ovest, continuato questo processo demitologizzando il mito di una cosmologia teologica, in cui l’intero universo è sacro, solo per sostituirlo col nuovo mito della storia, in cui la vita vera è proiettata nel futuro? La storia non è stata forse trasformata in cosmologia in modo da potervi inserire il marchio occidentale della antropologia moderna? L’uomo non raggiunge più l’immortalità in uno sfondo cosmologico (una diversa esistenza, in questo o in un altro mondo) ma grazie al suo destino antropologico (tramite la fama e l’influenza permanente di una persona sulla propria società). Queste considerazioni ad ampio raggio possono servire come introduzione alle nostre riflessioni sulla metafora della goccia d’acqua, perché ci mettono in guardia dal pericolo di fare assunzioni monoculturali quando ci si interroga sul destino umano. Non possiamo semplicemente aggirarci da una cosmologia a un’altra, prendendo ciò che vogliamo da una per mischiarla all’altra, ignorando nel contempo gli aspetti meno affascinanti o persino contraddittori di entrambe. Questo vale sia nei confronti di diverse culture che della medesima cultura a differenti stadi del suo sviluppo. Dobbiamo tener conto, per esempio, che 133


paradiso e inferno non esistono più per una parte dell’umanità, e che mentre lo spazio newtoniano ha perso il proprio peso metafisico, il tempo storico mantiene ancora il proprio potere cosmologico. *** Torniamo alla nostra goccia d’acqua. Cosa succede quando cade nel mare? Cosa accade all’uomo quando muore? Trattiene qualcosa di se stesso o è completamente assorbito dall’Oceano dell’Essere (o Dio, o Nulla)? Il non-essere non è. Non possiamo dire lo stesso della morte? La morte senz’altro è, ma qual è la sua condizione ontologica? La tradizione vedica, così come molte altre, direbbe che la morte uccide solo ciò che può essere ucciso. Se è così, allora la morte non può uccidere «ciò» che noi veramente siamo. Al contrario, la morte rivela il nostro vero stato. Per questo motivo la «morte» di un individuo che non ha bruciato tutto il proprio karman, è solo uno stadio intermedio, perché la reale morte di una persona la libera completamente dal samsara (il ciclo delle esistenze). Similmente noi distinguiamo fra la morte come caduta della goccia umana nell’oceano «piena della propria durata vitale» (dirgha-ayur) e una morte accidentale, prematura (akala-mrtyu), che impedisce la crescita e la maturazione . La prima implica la sparizione della membrana che circonda la goccia, mentre la seconda evoca una più o meno completa e inattesa evaporazione dell’acqua. La morte come dirgha-ayur rivela il Brahman o nirva…a che «siamo», preserva tutto ciò che l’Uomo fondamentalmente «è», che sia Anima, Nulla, Dio, Essere... Questo non muore: tat tvam asi35. Tu sei quello che la morte ha rivelato. Vediamo cosa accade quando una goccia umana di acqua muore, quando «si perde» nel mare. La nostra risposta dipende da ciò che siamo: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia. Cosa rappresenta un essere 134

umano: la goccia o l’acqua? Cosa costituisce l’uomo: la sua «goccia» o la sua «acqua»? L’uomo è la differenza quantitativa fra le gocce o la differenza qualitativa fra le acque? Quando la goccia cade nell’oceano, la tensione superficiale che la separa da ogni altra goccia, la barriera che previene una totale, profonda comunicazione e una genuina comunione certamente sparisce. La goccia non esiste più come goccia. Dopo la caduta nell’oceano, questa piccola goccia d’acqua separata, insieme al tempo e allo spazio che la individualizzavano, non è più. Altrettanto alla morte l’individualità dell’uomo è assorbita in Brahman o ritorna alla sua matrice cosmica o si scioglie in Dio o è unita a Lui. L’individuo è annichilito, cessa di esistere, è trasformato in ciò che era (o era detto essere) e via dicendo. Se l’uomo è la goccia, e se questa goccia cade nel mare, allora questo individuo è veramente morto. La morte è ontologica (ovviamente nei termini dell’essere della goccia). L’acqua della goccia, però, non subisce lo stesso destino. Continua a essere, non ha perso nulla, non ha smesso di essere ciò che era. L’acqua di questa goccia è ora in comunione con l’acqua dell’intero oceano senza aver perso nulla. Certo, può aver subìto alcuni mutamenti, ma nessuno di essi ha spogliato la goccia del suo essere in quanto acqua. Lo stesso vale per l’uomo, che realizza se stesso pienamente nella morte, che diviene ciò che in realtà è sempre stato, benché prima della morte non sia (o non sembri essere) questo reale essere dal momento che ha identificato il proprio essere con il suo passato temporale o con i suoi parametri spaziali. La morte sfonda le barriere dello spazio e del tempo, e forse anche quelle della limitata coscienza dell’uomo. Questo cambiamento, tuttavia, non può essere così sostanziale o fondamentale da poter parlare di una mutazione o di una differente vita. L’acqua trova se stessa. L’uomo realizza se stesso. Vita mutatur, non tollitur!36 La morte è fenomenica (ovviamente nei termini dell’acqua della goccia). 135


La nostra domanda non ha ancora una risposta: l’uomo è la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? 1. Se l’uomo è considerato come goccia... Se l’uomo è considerato come goccia, cioè come la tensione superficiale che la separa da ogni altra cosa, come un individuo, una monade, allora l’essere umano sparisce davvero con la morte individuale, e la morte diviene una grande tragedia contro la quale l’uomo deve combattere con tutte le proprie forze. Possiamo descrivere due modi in cui l’uomo ha affrontato questa lotta: il primo, ciò che è stato tradizionalmente la preoccupazione della religione, il secondo ciò che è oggi chiamato secolarità. La lotta religiosa postula una vita più autentica e definitiva dopo la morte: la goccia sparisce per nascere di nuovo vuoi come una goccia cristallizzata e definitiva in una delle tante versioni della vita eterna, vuoi come una nuova goccia, in una vita temporale completamente nuova. Dentro la categoria delle religioni tradizionali, possiamo ancora distinguere due tipologie: una che accetta l’unità spazio-temporale sulla terra, e fa risorgere la goccia in seguito in qualche specie di stato eterno; l’altra che parla nei termini di un ciclo cosmico di esistenza. La prima presuppone un tipo di mutazione a un livello che è assolutamente più alto di quello dell’umana esistenza. La seconda crede in una legge di reincarnazioni successive, la legge del karman. Questo secondo tipo crede anche che a un certo momento, che è il risultato di un processo più o meno determinato, possiamo sfuggire al ciclo di nascite e rinascite raggiungendo una trascendenza pura simile a quella che è cercata dal primo tipo di religiosità, ma con una differenza fondamentale: in genere, le religioni del primo tipo vogliono mantenere la «goccia» (individualità) sull’«altra riva», mentre il secondo considera, nella maggior parte dei casi, l’individualità come una caratteristica del saqsara, l’ordine temporale. 136

Di conseguenza, da questa prospettiva, l’uomo è considerato essere una goccia solo per il lasso della sua esistenza nell’universo temporale. Di fatto questo tipo di religione ha molto in comune con l’atteggiamento, sopra descritto, che considera l’uomo come l’acqua della goccia. Le differenze in questi credo mostrano con chiarezza l’ambivalenza di ogni posizione religiosa: tutto dipende dalla credenza del credente. Per esempio, il credo nella vita dopo la morte può essere consolante, positivo ed efficace per coloro che lo professano perché, mentre arrancano in questa «valle di lacrime», prendono su di sé la responsabilità dell’intero universo, avendo in mente una vita migliore a venire. Al contrario, per coloro che non ci credono, l’idea di un altro mondo può essere un’ideologia distruttiva che paralizza ogni iniziativa umana. O ancora, se l’«altra» vita è separata da «questa» in modo che la prima è indipendente dalle «opere» di questo mondo, il mondo è abbandonato al suo destino o, peggio, lasciato a coloro che lo sfrutteranno. In questo caso la religione sarebbe davvero un oppiaceo che può forse alleviare la sofferenza individuale ma che alla lunga perpetua l’ingiustizia. A differenza di queste risposte, il responso cosiddetto secolare proclama che non c’è nessun «altra» vita. La sola speranza per un individuo risiede nel migliorare la condizione umana il più possibile qui e ora. La morte viene considerata un grande scandalo perché la sua esistenza sta a testimoniare il fatto che il progetto «uomo» non è stato ancora realizzato. È l’unico fatto inevitabile che l’uomo vorrebbe negare e contro cui deve lottare per portare il progetto umano un passo più vicino al suo compimento. In effetti, questa lotta secolare è motivata da qualcosa che potremmo propriamente chiamare un impulso religioso, senza il quale l’uomo sarebbe impotente, drogato dagli oppiacei dell’egotismo e della non-azione. In questo senso la lotta della secolarità contro la morte può essere genuinamente religiosa quanto quella delle religioni «formali»37. 137


Sia che noi etichettiamo questa lotta come «religiosa» o come «secolare», nondimeno il suo scopo principale è di salvare la goccia d’acqua, tenendo conto che «goccia» può qui significare un clan o una tribù o un popolo scelto, piuttosto che un singolo individuo. L’atteggiamento di base è chiaro: il destino dell’uomo risiede vuoi in un altro modo, dove le «gocce» umane sono cristallizzate in un’immortalità paradisiaca, vuoi in questo stesso mondo, chiamato a trasformarsi in paradiso, anche se le generazioni che costruiscono questa «società perfetta» devono essere a tal fine sacrificate: «I lavoratori periranno, ma la città sarà edificata!»38. Questa risposta alla morte è tipica delle culture abramiche, o più semplicemente della civiltà occidentale. L’uomo è la goccia. 2. Se l’uomo è considerato l’acqua della goccia... Se l’uomo è considerato l’acqua della goccia, allora la persona umana può mantenere il proprio carattere unico dopo la morte. In un certo senso, la persona è ancora più unica che se fosse la goccia, perché ogni goccia è se stessa non in virtù di differenze accidentali o della tensione superficiale, non a causa delle limitazioni spazio-temporali, ma perché ogni porzione di acqua è altra – unica. La distinzione è ontica, non epistemica. In altre parole, ciò che distingue la goccia è l’acqua stessa, non la sua membrana o la sua situazione nel tempo o il suo posto. L’acqua di ciascuna goccia è identificata dalla sua identità con se stessa (identificazione tramite identità), mentre nel primo caso la goccia è identificata differenziandola da tutte le altre gocce (identificazione tramite differenza)39. Dire che un essere umano è l’acqua, tuttavia, non significa che il suo essere racchiude tutta l’acqua, ma solo che è (reale) dal momento che è acqua. 138

Questa fede ha dato origine a una grande tentazione, simile all’effetto drogante della religione sopra menzionato. Consiste in una specie di monolitico monismo che menoma l’umana creatività: se la mia «goccia» è reale solo come acqua e non altrettanto come acqua della mia goccia, che cosa può mai significare «coltivate con diligenza la vostra salvezza?»40. Senza dubbio, dobbiamo fare attenzione a non confondere monismo con a-dualismo. Il monismo è il risultato del pensiero che soffoca la realtà, riduce il reale a un concetto o a un’idea. L’a-dualismo, viceversa, mantiene i due (Essere e Pensiero) in una polarità creativa: ritiene che l’acqua di ogni goccia non può essere identificata con nessun concetto di «acqua». La distinzione è importante dal momento che l’acqua di ogni goccia è precisamente l’acqua di ogni goccia, e non l’acqua di un concetto astratto di acqua. Se parliamo in termini concettuali, allora l’acqua della mia goccia deve equivalere al concetto di «acqua» della goccia di chiunque altro. Ma questa interpretazione concettuale non significa che queste gocce sono identiche come acqua reale, ma si riferisce semmai a un certo tipo di concetto univoco di acqua. La formula quantitativa H2O si applica certo all’acqua nei termini della sua composizione chimica, ma la realtà è anche qualitativa. L’acqua è calda o fredda, dolce o salata, metallica o solforosa. Non solo ogni acqua ha un sapore differente, l’acqua di ogni goccia in realtà differisce da tutta l’altra acqua come acqua (e non solo come goccia). Infine, dicendo acqua si implicano tutte le acque, perché in effetti l’acqua non può essere etichettata come singolare o plurale, Una o Molte. Il mondo non è riducibile a quantità, né a questo riguardo è riducibile a sostanza. La tentazione sta nell’abbandonare la nostra comprensione immediata del simbolo per sostituirla con il concetto di acqua e quindi dichiarare che le differenze fra le varie gocce d’acqua sono solo accidentali o pura illusione. Siccome l’Essere si suppone uno, gli esseri sono definiti 139


reali nei termini di un concetto d’acqua non ambiguo, cosicché ogni differenza va ascritta alla semplice apparenza, priva di ogni fondamento nella realtà: le gocce non sarebbero assolutamente reali, ma solo l’oceano. La materia differenzia le gocce, afferma la Scolastica, ma questa «materia» non è «l’acqua». Stiamo cercando di scoprire cosa succede all’uomo quando muore, e cosa succede all’acqua della goccia quando è unita (o riunita) all’oceano. Senz’altro, molte cose cambiano o spariscono. Il punto è se qualcosa di ogni goccia perdura o, ancor meglio, persiste dopo la morte. Qualunque cosa persista avrebbe il marchio di realtà, in quanto persistenza implica più del semplice perdurare. Esistenza è la diastole degli esseri in moto centrifugo, è l’universo in espansione. L’esistenza costituisce il tempo. L’essere può perdurare solo attraverso l’inerzia dell’esistenza. La persistenza, d’altra parte, è la sistole degli esseri in moto centripeto, è l’universo in concentrazione, il ritorno al centro, la sua «(sus)sistenza» oltre la barriera della morte. Che cosa persiste? Che cosa cambia? Un’elucubrazione filosofica può rispondere parlando di qualità primarie e secondarie, o di accidenti e sostanza, o di esseri e dei loro attributi. Il nostro interesse, però, è la natura della realtà che si rivela alla soglia della morte. Qui stiamo usando morte nel suo senso più ampio e generale, come cessazione di ogni cosa che può cessare di essere, come l’eliminazione della goccia e di ogni cosa che le impedisce di essere e agire come acqua. Tutto ciò che supera questa soglia è essere, o perlomeno possiede l’immortalità. Come potremmo caratterizzare questo «qualcosa»? Che cos’è l’«immortalità»? Come abbiamo già detto, non possiamo parlare un singolo linguaggio che sia valido per ogni cultura nello stesso tempo. Il buddhismo, per esempio, non riconosce un «qualcosa» sostanziale che persiste o muta. Ma anche in questo caso la nostra metafora è utile: le gocce d’acqua sarebbero parte di una pioggia torrenziale 140

in cui l’acqua che cade è in equilibrio con l’acqua che si va continuamente formando nelle gocce. Quando esse cadono come pioggia, spariscono come gocce e così via... Nulla perdura: solo i cambiamenti perpetui di una momentaneità senza fine. La relatività radicale (pratityasamutpada) della realtà persiste. Una prospettiva atmavadica offre un differente approccio. Distingue fra l’Io definitivo, aham, la sorgente finale dell’azione che alcune tradizioni chiamano il divino o Dio o Brahman, e l’ego psicologico (ahamkara), l’origine conscia o inconscia dell’azione individuale, l’anima individuale (jiva). Semplificando un po’, potremmo dire che l’Io è immortale e l’ego è mortale. L’immortalità si raggiunge purificando l’ego, poiché è precisamente questa purificazione che ci rende capaci di realizzare il «nostro» Io. O, tornando alla nostra metafora, raggiungiamo l’immortalità divenendo consapevoli che noi siamo acqua piuttosto che goccia, scegliendo di non rinforzare il muro che ci separa, ottenendo una vittoria sull’egotismo, realizzando che la nostra vera «personalità» o «vera natura» risiede nell’acqua che siamo. Chiaramente, l’immortalità è una sorta di conquista. All’inizio, così dice Brahman, anche gli Dei erano mortali41. Poi divennero immortali e invincibili come risultato della loro fervente concentrazione e sacrificio42. «Nella morte c’è l’immortalità». Un altro testo dice «La Vita non muore»43 vittoria sulla morte consiste nello scoprire, nel doppio senso di gnôsis e realizzazione del «nostro» Io, il vero Io che è unico per ognuno di noi perché è Uno senza secondo (ekam evadvitiyam)44. Nello stesso tempo, significa la morte del nostro ego, che ci dà la falsa impressione di possedere come proprietà privata qualcosa che non possediamo e invero non possiamo possedere. Al contrario, è «questo» solo che può possedere noi. Ora, un buddhista non parlerebbe certo in questi termini. Potrebbe però sottoscrivere ciò che stiamo dicendo interpretando la natura dell’acqua e l’«Io» in senso non so141


stantivista: sia acqua che «Io» sarebbero allora simboli del dinamismo naturale non sostenuto da alcuna sostanza permanente. La nostra metafora permette ancora un’ulteriore considerazione. Anche se realizziamo che siamo acqua, dobbiamo continuare a diventare acqua, sempre e di nuovo, perché siamo sì acqua, ma un’acqua che non è del tutto liberata, un’acqua che può svanire perché manca di «peso» o di «gravità» o, potremmo dire, di maturità. La goccia può non riuscire a crescere e non cadere nel mare. Può semplicemente sparire prima di aver avuto il tempo di raggiungere l’oceano. Il risultato è ciò che qualcuno chiamerebbe inferno: un aborto, uno strappo nel tessuto della realtà, una goccia d’acqua evaporata. Come scrive san Tommaso, portando alla sua logica conclusione l’idea agostiniana del male come privatio: Peccatores in quantum peccatores non sunt45. Questo fallimento nel crescere o maturare ha preso anche il nome di trasmigrazione. L’acqua che è ancora legata alle proprie idiosincrasie da goccia resta nell’atmosfera, nel mondo temporale. Questa goccia non raggiunge la liberazione, non «perde» se stessa in Brahman. Deve anzi continuare le proprie peregrinazioni in guise differenti: la sua acqua diviene parte di altre gocce fino a quando queste gocce non realizzano di essere acqua. La goccia «muore» ma la sua acqua, che in una vita «secca» a motivo delle vanità umane di un’esistenza inautentica, non è del tutto perduta ma si sublima e continua il proprio cammino verso la realizzazione. Invero, secondo Sapkara, è l’acqua che effettivamente «trasmigra»: «In realtà non vi è nessun’altra anima che trasmigra se non il Signore». Cos’è la morte? La perdita dell’ego, che può sparire per cadere nel nulla o per trasmigrare in altre gocce. In alternativa, l’ego può morire per realizzare un passaggio all’«Io». In questo caso la morte è la scoperta dell’acqua viva. La goccia cresce finché la sua membrana si apre come i petali di un fiore, e la goccia cade nell’oceano infinito, senza perdere se 142

stessa come acqua. In una parola, l’ego muore cosicché l’Io viva in noi46, il che spiega come mai molte discipline spirituali insegnino l’azione disinteressata47, la rinuncia ai frutti dell’azione48, la «santa indifferenza» (alle cose e agli eventi) e la liberazione dalle catene che ci legano all’inautentico. Altrettanto, se una persona quando agisce non è purificata, anche le sue azioni saranno impure. Siamo così abituati a identificare la seconda prospettiva (l’uomo come acqua della goccia) con le spiritualità indiane, che può valer la pena di dirigere la nostra attenzione su un testo sorprendente di san Francesco di Sales. Notiamo che Francesco usa l’acqua come simbolo per esprimere la realtà della creatura quanto quella del creatore. In un capitolo intitolato «De l’écoulement ou liquéfaction de l’âme de Dieu» (Circa lo scorrimento o liquefazione dell’anima di Dio) troviamo scritto: «... si une goutte d’eau élémentaire jetée dans un océan d’eau naffe, était vivante et qu’elle pût parler et dire l’état auquel elle serait, ne crierait-elle pas de grande joie: O mortels, je vis vraiment mais je ne vis pas moi-même, ainsi cet océan vit en moi et ma vie est caché en cet abîme» (... se una goccia d’acqua elementare gettata in un oceano d’acqua fosse viva e se potesse parlare e dire in che stato si trova, non griderebbe forse di gioia: O mortali, io vivo realmente, ma non son io che vivo, è l’oceano che vive in me e la mia vita è nascosta in questo abisso). Il capitolo inizia con le parole: «Les choses humides et liquides reçoi- vent aisément les figures et limites qu’on leur veut donner» (Le cose umide e liquide ricevono facilmente le forme e i limiti che si vogliono dare loro) [reminiscenze taoiste?]. Per questa ragione noi possiamo avere un coeur fondu et liquide (un cuore fuso e liquido). E dunque per questo Dio dice «Leverò dalla tua carne il cuore di pietra» e Davide confessa che il suo cuore era come cera, sciolto nel suo petto. San Francesco continua nello stesso tenore, usando immagini bibliche dell’acqua49 per parlare dell’anima che «sort par cet écoulement sacré et fluidité sainte, et se 143


quitte soi-même, non seulement pour s’unir au Bien-aimé, mais pour se mêler toute et se détremper avec lui» (esce da questo sacro scorrere e santa fluidità e si smarrisce non solo per essere unita all’Amato, ma per assorbirsi completamente e dissolversi in Lui) – engloutie en son Dieu (assorbita nel suo Dio). Concludendo il capitolo, egli cita la metafora della goccia. Il testo è chiaro: la goccia d’acqua è ed esiste come acqua, la sua vita è la vita dell’oceano. Qui san Francesco si riferisce ai testi di san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me»50, e «la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio»51. Per timore che permanga qualche dubbio interpretativo, Francesco, vescovo di Ginevra, termina affermando: «L’âme écoulée en Dieu ne meurt pas; car, comme elle pourrait-elle mourir d’être abîmée en la vie? Mais elle vit sans vivre elle-même, parce que, comme les étoiles sans perdre leur lumière ne luissent plus en présence du soleil, aussi l’âme, sans perdre sa vie, ne vit plus étant mêlée avec Dieu, ainsi Dieu vit en elle» (L’anima che è fluita in Dio non muore, come infatti potrebbe morire dopo essersi immersi nella vita? Ma essa vive senza vivere in sé perché, come le stelle smettono di brillare in presenza del sole senza però perdere la propria lucentezza, così l’anima, senza perdere la propria vita, non vive più essendo immersa in Dio ma piuttosto è Dio che in tal modo vive in lei). Il nostro interesse in questi estratti non risiede tanto nel discorso dell’assorbimento dell’uomo in Dio, un tema classico del misticismo sia orientale che occidentale, quanto nel loro utilizzo della metafora dell’acqua, e anche della goccia. Entrambi i simboli sono chiaramente interculturali. Abbiamo visto la goccia di acqua trasformata in immortalità, e abbiamo visto l’acqua della goccia crescere fino al punto in cui la goccia scoppia e cade, come un frutto maturo, nel mare. Concludiamo ora con alcune ulteriori riflessioni sulla metafora. 144

Primo, la necessità di un’ermeneutica che renda giustizia dei problemi interculturali. Se noi ci accostiamo a un sistema filosofico diverso dal nostro usando però le nostre categorie, non possiamo che fraintendere quel sistema. Se, per di più, le nostre categorie sono estranee al sistema che stiamo esaminando, il fraintendimento persisterà. Trovare categorie omeomorfiche è un imperativo filosofico dei nostri tempi. In questo studio, ho cercato di mostrare che queste categorie non possono essere concetti ma devono essere simboli e inoltre che la metafora può giocare un ruolo importante52. Il nostro esempio evidenzia che lungi dall’esprimere solo un concetto monistico della realtà, la metafora della goccia ha più di un significato persino all’interno di una singola cultura. Il che è come dev’essere, perché noi non stiamo cercando l’uniformità di una singola melodia ma un’armonia sinfonica. Secondo, la morte è sempre sub specie individualitatis: solo un essere individuale muore. Inoltre, la coscienza della morte è legata alla coscienza della propria individualità. Un’intera specie non può sperimentare la morte simultaneamente (benché noi sappiamo che le specie in quanto tali sono mortali e infatti si estinguono). Ciò è vero a ogni livello: morte significa la morte di un individuo, ma questo «individuo» può essere un virus monocellulare nel nostro corpo, o la specie dei mammut, o persino la nostra stessa specie. L’individuo può essere anche la goccia d’acqua o l’acqua della goccia. Noi sperimentiamo la morte come morte di una parte di noi che è più piccola della totalità del nostro essere: la morte di un dito, di un braccio, di un ideale, di un amore, di un credo. Non possiamo far esperienza della morte di tutto il nostro essere53. È solo quando aham come atman emerge e l’ego è ridotto a essere solo una parte di noi stessi che l’ego può morire. Senza la realizzazione dell’atman, la morte dell’ego equivarrebbe al suicidio, dal momento che la morte significherebbe la morte assoluta dell’individuo umano54. 145


Per esprimerlo in termini psicologici, cerchiamo di prendere in esame la moderna preoccupazione nei confronti della morte. I numerosi studi a riguardo provano abbondantemente questa ossessione da parte dell’uomo occidentale, e degli intellettuali in particolare. Con la rara eccezione di ben pochi studi monografici sulla cultura non occidentale, tuttavia, l’uomo è trattato in tutti questi studi come la goccia, non come l’acqua; come un individuo in sé, e non come portatore di vita. L’uomo pensa a se stesso come al proprietario della vita piuttosto che come al suo rappresentante e, in un certo senso, al suo amministratore. L’uomo è trattato soprattutto come individuo, e morte significa la sua morte (individuale). In questa cornice, la riflessione filosofica sulla morte non può andare oltre la psicologia, dal momento che il soggetto finale è la psyche umana. Forse l’antica distinzione greca fra bios e zoe, cioè fra vita individuale (biologica) e vita essenziale (zoologica) potrebbe essere qui di aiuto. due «tipi» di vita? Quando la bios individuale scopre la zoe della totalità, non perde forse la sua personalità?55 Terzo, ci troviamo oggi in un mondo interculturale. Non dobbiamo più esaminare un qualsiasi problema da una sola prospettiva né essere soddisfatti di una risposta data da una sola cultura. È chiaro che le persone nel mondo non comprendono o «vivono» la morte tutte nello stesso modo. Inoltre, il duplice fatto che migliaia di esseri umani muoiono ogni giorno di morti innaturali e che l’umanità nella sua interezza si trovi di fronte alla possibilità assai realistica della propria morte collettiva rende il problema ancora più acuto. Come abbiamo detto, lo studio della morte è diventato oggigiorno quasi di moda; tuttavia le radici della nostra sollecitudine si trovano più in profondità del corrente interesse filosofico, che per la maggior parte deve la sua esistenza alla repressione della coscienza della morte nell’Occidente moderno. 146

Può darsi che la nostra acuta consapevolezza abbia anche qualcosa a che fare con l’istinto inconscio di un’umanità sulla via dell’estinzione. Un problema interculturale già menzionato può servire da esempio di quanto vado qui dicendo. La morte storica dell’uomo su questo pianeta, equivale alla fine assoluta della vita cosciente? È senz’altro così per coloro che «vivono» nel mito della storia; ma non per coloro che «vivono» nel mito di un’altra cosmologia. Non è facile comprendere un mito se non possiamo trascendere il nostro stesso mito. Possiamo però concordare sul fatto che gran parte del mondo contemporaneo è preoccupata dalla possibilità di un tale cataclisma, mentre altri, a malapena consapevoli del declino della razza umana, sono molto meno colpiti da questa possibilità. Se la vita umana è un fenomeno esclusivamente antropologico, allora una grande catastrofe nucleare significherebbe la fine della vita. Se invece la vita umana è parte di un fenomeno cosmico, allora un disastro nucleare su larga scala sul nostro pianeta sarebbe solo una delle tante esplosioni interstellari. La vita di cui siamo i portatori continuerà sotto altre forme in qualche altro «mondo». Riflettendo su questo è forse possibile istillare una goccia di speranza cosmica nel primo gruppo e incoraggiare un po’ di responsabilità storica nel secondo. Forse la metafora della goccia ha qui un contributo da dare anche se non crediamo nel mito dell’altro. Non possiamo trasmitizzarlo in un simbolo più familiare?56 Una quarta lezione è che il valore di questa metafora è molto limitato nel nostro mondo moderno. Certo, l’idea dell’immortalità individuale in qualche «altro mondo» è oggigiorno problematica per molti, ma il fatto che ci stiamo dirigendo verso un paradiso in terra è ancor più dubbio. D’altra parte, la fede nell’immortalità non è solo una sorgente di consolazione per alcuni, ispira anche virtù eroiche. Per di più, l’alternativa secolare può essere in se 147


stessa un nobile ideale e sostenere una totale devozione. In entrambi i casi, l’io è vinto e la persona si realizza senza che ciò richieda l’immortalità dell’individuo. Parimenti, se si presuppone un’immortalità che va oltre l’individuo, tanto su di un piano verticale che su un piano orizzontale, sorgono difficoltà consimili per l’uomo moderno. Non di meno, la fede nell’immortalità o persino nella divinità del proprio centro più intimo può condurre alla realizzazione della persona. Questi due approcci sono reciprocamente esclusivi o possono essere complementari? Qualcuno potrebbe dire che siamo gocce mortali d’acqua immortale. Altri chiederà se non è possibile raggiungere una reciproca fecondazione in modo da non aspirare solo all’immortalità come acqua, ma da ottenerla come goccia; e non solo come una goccia metamorfizzata in un altro mondo, ma mantenendo la membrana vivente di una goccia di questa terra. Forse che bios e zoe non possono coesistere? Siamo tornati al punto di partenza... Quinto e ultimo, una lezione di umiltà, avendo in mente la sua connotazione etimologica di armonia e unione con la natura. Nella nostra metafora, la vita dell’uomo è omologa sia alla goccia sia all’acqua, cioè ai fenomeni naturali. Il destino umano è stato paragonato ad almeno una fase del ciclo naturale. Non volendo abusare della metafora, non abbiamo suggerito ulteriori comparazioni, evocando l’ascesa dell’acqua dell’oceano al cielo e la discesa delle nuvole sulla terra sotto forma di gocce d’acqua, che nutrono campi e fiumi... Voglio dire solo questo: il destino della vita umana è legato al destino della vita naturale. Una volta che raggiungiamo il nostro «oceano», chi può dire che non siamo l’essenza o la vita di questo oceano? Più semplicemente: noi partecipiamo al destino dell’acqua dell’intero universo. L’uomo, il Mondo e il Divino condividono un destino comune e sono legati da una religio fondamentale, il dharma costitutivo dell’universo. 148

F uoco

7. Bhakti, Karuna, Agape

Le tre parole sono irriducibili l’una all’altra; in un certo senso, sono incommensurabili. C’è la tentazione, in cui cado sovente anch’io, di usare la parola «amore» come sinonimo di tutte e tre. Così facendo, tuttavia, impoveriamo l’esperienza umana. Questo infatti riduce a una singola nozione i tre universi che vivono e traspaiono da quei tre termini. Servono due occhi per avere una visione bifocale degli oggetti fisici. Servono tre occhi per mantenersi in contatto effettivo con la realtà. Il «terzo occhio» non è solo un’invenzione dei Lama tibetani. Il terzo occhio, come alcuni di voi sapranno già, era un concetto perfettamente ovvio ai teologi vittorini del xii secolo, che già parlavano di un terzo occhio in assenza del quale la realtà diventa piatta, monocolore, senza vita. Allo scopo di conservare queste tre dimensioni nella loro molteplicità, ho sviluppato il concetto di «equivalenza omeomorfica», una sorta di analogia di terzo grado. In questo caso, agape, bhakti e karuna sono equivalenti omeomorfici. I tre non sono identici per significato e per forza

*In Global Publications, Binghampton University, New York 2002, pp. 31-44. In Opera Omnia, Vol. vi,2 , Dialogo interculturale e interreligioso.

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espressiva. D’altro canto, elencare «karuna, bhakti, agape» non è la stessa cosa che dire «elefante, psiche, ufficio postale». C’è qualcosa in comune tra esse, eppure non sono la stessa cosa, e neppure «simili» come in una analogia di terzo grado. Nei rispettivi universi, svolgono un ruolo equivalente. Un solo esempio, prima di affrontare direttamente il tema, è quello di Brahman e di Dio. Quando leggete «Brahman», lo traducete con «Dio»? Sarebbe una traduzione goffa e fuorviante. D’altro canto, neppure tradurreste Brahman con «pezzo di carta» o Dio come «signor capitano». In ogni caso, i due non coincidono. Brahman è un termine neutro; Dio è maschile. Dio si preoccupa per le sorti del mondo; a Brahman non potrebbe interessare di meno. Il primo è creatore, il secondo non ha bisogno di creare alcunché. Perciò, non sono concetti simili. Non hanno neppure la stessa funzione. Svolgono però una funzione equivalente nell’ambito dei rispettivi universi, ognuno dei quali è percepito come unificato grazie ai rispettivi tipi di religiosità, o come preferite chiamarla. Agape, bhakti, karuna sono equivalenti omeomorfici. Non sono semplicemente tre diversi aspetti della stessa cosa. In campo filosofico, possiamo affermare che sullo sfondo del pensiero occidentale resta sempre Platone. Potremmo anche definire la mentalità moderna come «cripto-kantiana». Il cripto-kantismo concepisce l’esistenza di una «cosa in sé», e allo stesso tempo la ritiene puramente nominale. Diciamo una cosa, e insieme ne diciamo un’altra: io penso che la cosa stessa sia qui, poi la traslo e dico che, in se stessa, non esiste. Se credete semplicemente che tutti i sentieri portino alla montagna, la montagna crollerà. Il sentiero che si percorre è parte integrante della realtà, non ne rappresenta solo un aspetto astraibile. Magari lo chiamate karuna e spiegate di intendere l’amore. Poi lo chiamate bhakti, e io dico: «Ah sì, ho capito»… No. Occorre un terzo occhio per rispettare le singole cose, permettendo loro di essere ciò che sono. 150

Non si tratta di tre diverse nozioni, ma di tre diversi simboli appartenenti a tre universi distinti. Una prospettiva difficile da ripristinare oggi, dato che da quattro o cinque secoli la cultura dominante mondiale è quella cripto-kantiana. Essa ci fa credere di poter abbracciare tutto l’ampio spettro delle spiritualità umane a partire da un singolo punto di vista. Un atteggiamento frivolo, a voler essere cortesi, e che, sul piano fenomenologico, costringe a introdurre un termine politicamente pesante: colonialismo. Il colonialismo non è una «brutta cosa». I popoli colonialisti erano rispettabilissimi, avevano le migliori intenzioni, il migliore… tutto! Il colonialismo rappresenta una credenza nel monoculturalismo, ossia l’idea che una sola cultura sia più che sufficiente. E i simboli hanno una «forza collante» superiore ai semplici concetti. Se io dico: «Un Re, Un Impero, Un Dio», la frase suona obsoleta. Adesso si dice: «Una Governance Mondiale, Una Banca Mondiale, Un Mercato Globale, Una Organizzazione delle Nazioni Unite», e si cade nella stessa trappola. Non sto promuovendo l’anarchia. Il discorso vorrebbe invece significare più libertà e rispetto per l’unicità di ogni singolo essere. Se il singolo essere è unico, allora è incommensurabile. Se è incommensurabile, proprio in questa unicità risiede il suo valore. Ricapitolando, esistono tre diversi universi. L’agape è principalmente un’idea monoteista. Consiste, in sostanza, nel fare esperienza che Dio ci ama. L’iniziativa parte dal Divino. Si ha la percezione di essere amati, e di essere in grado di rispondere, di ri-creare quell’amore, di abbracciare il mistico Sposo. Dio ti ama. È Lui a prendere l’iniziativa con te, e tu acconsenti a essere amato. Questa apertura ti purifica. Tu quindi corrispondi nella maniera più passionale al Suo amore, che può avere o meno delle figure e incarnazioni umane, ma in ogni caso guida il singolo sul piano affettivo. Dio ci ama per primo, e solo così 151


37. Banchetto eucaristico, iii secolo, cappella dei sacramenti, catacomba di San Callisto, Roma.

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possiamo capire come «amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze», senza soffermarci ora sul significato di cuore, anima e forze. Al di fuori di questo orizzonte monoteista, che sia esplicito o implicito, l’agape non è del tutto comprensibile. La bhakti appartiene a un altro universo. Per dirla in termini occidentali, tramite essa noi amiamo Dio in quanto siamo Sue parti, Sue scintille. Siamo scintille in un gioco divino a cui prendiamo parte come attori comprimari. Non è necessario stabilire chi sia ad amare per primo. Si entra nella danza amorosa. Tu appartieni a uno dei movimenti di Nataraja, e rispondi di conseguenza. Noi amiamo Dio perché Lui ama noi, ma ci troviamo tutti allo stesso livello. Solo gli ignoranti affermano che amore e Dio non sono identici, perché non sanno che i due coincidono. Ma, appena scoprono che amore e Dio combaciano, corrono anch’essi verso il Dio-amore. Karuna è un atteggiamento di tipo più cosmico. Implica una simpatia universale. Non è qualcosa di individualizzabile né di personificabile. Karuna è – mi sia concesso tradurlo così – la rivelazione dell’amabilità di ogni cosa. Spetta a te scoprire i disegni radiosi e nascosti che, forse perché andavi troppo di fretta o eri troppo egoista o pieno di desideri, finora non eri in grado di individuare, di scoprire, e perciò non riuscivi a «porti in-simpatia» con il tutto. Resistendo alla tentazione di addentrarmi in analisi dettagliate, mettendo in mezzo un sacco di termini greci e sanscriti, fornendo un lungo elenco e facendo classificazioni che non classificherebbero granché, preferisco introdurmi direttamente nel mistero veicolato da queste tre sacre parole. Così eviterò la tentazione di fare troppe analisi, proseguendo invece nella presentazione generale dell’amore come concetto formale che racchiude le esperienze fondamentali alla base delle ricchezze di queste tre religioni. Si tratta di tre universi al cui interno è comun154

38. Particolare della facciata: coppia a carattere benefico. Sulle colline del Maharashtra, a cinquanta chilometri da Poona, nel primo secolo della nostra era, furono create quattro grotte artificiali. La grotta n°1 è una cappella buddhista (caitya). Sulla facciata, un Buddha riceve la corona che gli offrono due personaggi celesti raffigurati in volo. Due coppie umane incorniciano la scena. Talvolta sono state interpretate come figure di donatori, ma si tratta piuttosto di figure la cui presenza è intesa come benefica: rotondità delle membra, vita sottile nella donna, spalle larghe nell’uomo, ombelico profondo. Tutto il corpo è come dinamizzato dal flusso interiore della vita. Queste sono figure che espirmono l’ideale della vita, figure mentali, che rappresentano la sintesi delle osservazioni quotidiane della bellezza. (Michel Delahoutre)

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que necessario porre una serie di distinzioni. Bhakti non è prema, philìa non è agape, ecc. Esistono distinzioni all’interno di ciascun universo. La bhakti di una determinata tradizione dell’India non coincide con quella di un’altra tradizione. Userò quindi la parola «amore» in via formale, ossia come tentativo approssimativo di indicare la triplice e quasi infinita suddivisione posta dai nostri antenati quando usavano questi termini. Vi troviamo un certo aspetto generale che vorrei mettere in evidenza, allorché parlo di «mutua fecondazione (cross-fertilization) interculturale», che non è il multiculturalismo. «Multiculturalismo» è un termine adottato ufficialmente in Canada. Ma, con tutto il rispetto, vorrei lanciare una sfida a questa nozione. Lo Stato del Quebec è fiero di presentarsi come una società multiculturale. Bene, non credo che una società possa esserlo. «Io sono multiculturale e tu hai una cultura sola, poveraccio. Sono io a detenere il potere qui. Noi, il popolo multiculturale, siamo superiori a tutti i popoli anti-culturali. Noi siamo multiculturali perché ci innalziamo al di sopra di tutto. Abbiamo trasformato la multi-cultura in una forma di cultura che è forse ancora più empirica e pericolosa di quei nanerottoli che si accontentano della loro mono-cultura». Ciò che abbiamo oggi, però, è la interculturalità, il che significa che nessuna cultura oggi sta in piedi da sola. «Nessun uomo è un’isola». Non possiamo accontentarci di uno splendido isolamento, di una squallida solitudine. Abbiamo bisogno di una fecondazione trans-culturale. Dobbiamo imparare gli uni dagli altri. Dobbiamo essere aperti alle lezioni che ci arrivano dagli altri. È ben possibile che un’altra cultura non sia in grado di insegnarci nulla, ma proprio allora diventa imperativo per noi imparare da essa. L’onere ricade sul discente, la responsabilità non ricade sul docente. È il discepolo a rendere maestro il guru, non è il guru a scegliere il discepolo. 156

39. Bodhisattva Guanyin, dettaglio di una predicazione del Buddha Amitabha, pittura murale. Inizio della dinastia Tang (618-712). Santuario di Mogao, grotta 57, porzione centrale del muro sud, in situ. Spiccando in un gruppo che presenta i caratteri della Terra Pura di Amitabha, la figura di Guanyin mostra un raro equilibrio tra bellezza e spiritualità, il suo corpo dalle forme delicate e dai gesti eleganti resta come diafano sotto le ricche parure impreziosite d’oro, le vesti preziose e le sciarpe leggere che evocano i tessuti di seta dell’epoca. Questa visione idealizzata di una figura principesca abolisce tuttavia ogni segno di mondanità; l’alone traduce la sua vocazione di saggezza; la leggera inclinazione della testa volta verso il basso, in direzione del fedele, e il movimento verso il Buddha, illustrano la natura dell’Essere di Risveglio che guida gli uomini verso la perfezione del Beato.

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L’interculturalità acquista significato e vita grazie alla mutua fecondazione tra culture, che diventa obbligatoria in tempi difficili. Permettetemi però di dire che, a mio avviso, ci sono troppi preservativi culturali a impedire questa mutua fecondazione. Li si può riassumere nel seguente atteggiamento: «Beh, io sono migliore di te. Ho un accesso maggiore alla verità. Sono molto più sviluppato». È un chiaro segno dell’arroganza occidentale in campo politico, pensare che tre quarti della popolazione mondiale siano sottosviluppati. Viene da chiedersi con che coraggio questa gente definisca «sottosviluppati» gli altri. E quando abbiamo voluto correggere questa espressione, abbiamo inventato la formula «in via di sviluppo». Sulla strada per. Oh, fortunati, siete «in via di sviluppo»! Siete pieni di computer e di intelligenza artificiale, ma rischiate la bancarotta perché il debito degli Stati Uniti è il triplo del debito di tutte le altre nazioni messe insieme. E però, in nome dei crediti bancari e degli arsenali nucleari, noi continuiamo a giocare… «sulla via dello sviluppo». Se tutto il mondo diventasse come i paesi «sviluppati», in sette anni l’intero pianeta si trasformerebbe in un deserto. Se tutto il mondo consumasse la quantità di carta utilizzata dai paesi sviluppati, in due anni non resterebbe un albero sulla Terra. Ma pensiamo all’amore. L’amore non è solo l’accettazione transeunte di una famiglia. L’amore è passione. E la passione può lanciare sfide definitive. La mutua fecondazione è il veicolo dell’apprendimento. Tenteremo ora di descrivere, in breve e in forma elementare, alcune caratteristiche che si presentano nei tre tipi di amore, senza tuttavia addentrarci in singole analisi approfondite. Anzitutto, ritengo che tutte e tre le tradizioni – o gruppi di tradizioni –, così come vengono sintetizzate dalle nostre tre parole, vedono l’amore come centrale e fondamentale. Non a caso le sorti dell’agape vanno di pari passo con quelle del cristianesimo. Private il buddhismo del karuna, 158

e il buddhismo crolla. Eliminate la bhakti, e magari l’induismo riesce a cavarsela, ma riducendosi a una versione raffazzonata. Perciò, questi tre generi di amore sono essenziali; non hanno carattere accidentale, non sono un optional. Non esistono solo perché tu ami questa o quella persona, o perché ti favoriscono la digestione. No! Questo centrale, fondamentale amore, simpatia, o qualunque cosa sia per le tre tradizioni (gruppi di tradizioni), spalanca tre universi di fronte a noi. Ancora di più. L’amore è una realtà ultima, e proprio qui sta la sfida. Una sfida intellettuale – sebbene non sia questo il termine che preferirei usare – è molto più di questo. Se non ha valore ultimo, l’amore non ha vita, non ha senso. In quel caso, infatti, il significato risiederebbe in qualcosa che sta oltre l’amore, e quel significato sarebbe più ultimativo dell’amore stesso. Se qualcuno ti chiede: «Perché mi ami?», e tu non sai trovare una risposta, il tuo amore è spacciato. Se io dico: «Ti amo per la tua giovinezza», quell’amore non è destinato a durare. Se dico: «Ti amo per la tua ricchezza», allora significa che il resto di te non è altrettanto prezioso. Se dico: «Ti amo per la tua bontà», che succede se perdo la pazienza? «Ti amo perché…» – non ci deve essere un perché. «Lasciati pure attrarre dalla bontà, dalla salute, dall’intelligenza, dalla buona volontà… ma amami». Non c’è un perché. È l’amore il senso ultimativo. La domanda sul significato dell’amore è una domanda senza amore. Distrugge l’amore per il fatto stesso di chiedere qualcosa che stia oltre l’ultimo. A volte manchiamo di umiltà intellettuale. Sarebbe come pretendere qualsiasi cosa dalla propria moglie. Come continuare a mandare roba in dono al Buddha perché ci faccia un favore, anche se potrebbe non essere per il nostro bene, e magari lui avrebbe di meglio in serbo per noi: «Fratello, non puoi esigere questo, perché non sai cosa chiedi. Non ti rendi conto dei limiti della tua richiesta. Se non sai che cosa do159


mandare, è meglio che tu taccia». L’amore non ha perché. Non è nulla all’infuori di se stesso. Non è riducibile ad altri valori. È irriducibile all’umiltà. È assenza di significato, ma a volte questo ci scandalizza perché aggrediamo la realtà con un freddo razionalismo, con un intelletto senza vita. Spesso i giovani o i romantici chiedono: «Perché?». Ma l’amore non ha un perché – ecco perché non può essere basato su qualcos’altro. Ecco perché è libero. Non esiste un motivo dell’amore, perché la realtà non deve essere per forza teleologica. L’amore è fondato solo su se stesso. Non esiste un motivo a monte. È esso la forza ultima. E ci voleva un poeta per scrivere: «L’Amor che move il sole e l’altre stelle». Terza caratteristica. L’amore è una forza centrifuga sia nell’universo che nell’essere umano. È un aspetto dinamico della realtà. L’amore è centrifugo: va, salta, abbraccia, bacia, esce, non ti permette di ridurti a te stesso. Ma l’amore non si ferma a te, non si muove con te, scopre sempre qualcosa oltre – magari il tuo Sé autentico. L’amore ti spinge, ti trascina, ti tira. Forse proprio per questo Aristotele affermò che il Primo Motore è l’eromenon. In quanto «eroticamente amato», esso attira tutto. L’eros è ciò che ama e che attrae. Vi è la grande tentazione, a Oriente come a Occidente, di mettere l’amore al secondo livello, dato che non si lascia ridurre all’Essere monolitico. Per amare, hai bisogno… non dico di spaccarti in due, ma comunque hai bisogno della complessità del reale. Hai bisogno dell’altro come altro, e come non-altro. Un esempio filosofico servirà, spero, a chiarire il concetto. Fiche, Schelling, così come Hegel e tutti gli idealisti, hanno scoperto la potenza dell’Io. Ma di lì a Marx c’è solo un passo. Marx mette il «non» davanti all’Io. Essi pongono l’Io, lui pone il non-Io. Tutti però dimenticano qualcosa che ogni filologo dovrebbe sapere. A mio parere, è un segno dei tempi il fatto che la maggioranza delle lingue 160

abbiano perso per strada una ricchezza straordinaria della saggezza umana. Ed è il duale. Il duale non è singolare né plurale. Il duale è l’esperienza grammaticale del tao. Il tao non è il non-Io, e non è l’Io. Il tao non è il non-Io (la cosa o l’esse, come si dice), ma è parte integrante dell’Io stesso quando l’Io è completo. Il soggetto può davvero dire «io» solo quando scopre il proprio Io immerso nelle parole, nell’amore del tao, e viceversa. Posso esprimere questa intuizione con parole diverse. L’amore non è inferiore alla conoscenza. La dicotomia tra amore e conoscenza è stata fatale a più di una tradizione. Fatale, perché ha ridotto l’amore a sentimentalismo, a passione, a impulso a un certo tipo di istinto e di «mi piace, non mi piace»; riducendo al contempo l’intelletto a un bisturi. Solo che, come scrive Tagore: «Un uomo che abbia solo intelligenza è come un coltello senza manico, che ferisce la mano di chi lo usa». Amore e conoscenza si co-implicano, cosicché, se non c’è conoscenza non c’è amore, e senza amore non c’è conoscenza. Il che non significa che siano l’uno un ingrediente dell’altro. Costitutivamente, intrinsecamente, sono la stessa esperienza umana fondamentale. Tu sei solo nella misura in cui ricevi, e sei in grado di ricevere nella misura in cui sei disposto a essere. Se l’amore è centrifugo, la conoscenza è centripeta. I due si co-implicano. Non puoi consumarti nell’amore, se il tuo amore non è colmo di intelletto. E non puoi consumarti nel ricevere, se allo stesso tempo non trasmetti ciò che hai, ciò che hai ricevuto. L’amore più elevato è la conoscenza più elevata, in tutte e tre queste visioni del mondo. e la suprema conoscenza è il supremo amore. Non esiste l’uno senza l’altro. E questo, non solo sul piano psicologico: è molto di più, è una realtà fondamentale e radicale. Non è possibile sperimentare realmente l’uno senza l’altro. Se si vanno a vedere le Upanisad, o qualsiasi altro testo, si scopre che conoscere 161


coincide con il diventare ciò che si conosce. Si tratta di parti integranti dello stesso, basilare atto umano con cui l’Uomo si rinnova, e ogni cosa si costituisce. L’amore è una potenza che salva, qualunque cosa si intenda con la parola «salvezza». Esso conduce a mukti, a mokra, al nirvapa. Conduce in paradiso, alla visione beatifica, alla realizzazione della propria vita. L’amore ha intrinsecamente un potere di salvezza e di liberazione. Distrugge ogni timore e ansietà. Anche qui, tutte e tre le tradizioni (nei rispettivi e corrispondenti modi) ci rivelano questa potenza salvifica. Un insegnamento in controtendenza rispetto alla civiltà contemporanea. L’amore è indipendente dalle nostre vie. Riteniamo di poter amare con uno sforzo di buona volontà, o di convinzione, e così diventiamo un peso a noi stessi e agli altri. Se l’amore non è spontaneo, non è amore. Se non mira al bene dell’altro, non è amore. Spontaneità, non forza di volontà. Non è qualcosa che avviene grazie all’io. Qui la mentalità capitalista non ha nulla a che fare. Se dovessi indicare questo dono con una terminologia più accademica, direi «grazia, prasada, ruach», e così via. L’amore deve essere dono. Deve esserti donato. Quando ricevi tale dono, allora ti rendi conto di quanto sia importante amare. Non è qualcosa che obbedisce ai tuoi ordini. O arriva, o non arriva. Se il tuo cuore è puro, traboccherà senza chiedere perché, senza specificare «per amore di Gesù, per amor di Dio, per amore di chicchessia». A volte capita che, se faccio qualcosa di buono, ma in vista della mia carriera, del mio prestigio, della mia ambizione, alla fine mi sento triste. A meno che la mia mano sinistra non ignori che cosa fa la mia mano destra, la mia era solo propaganda. Quando l’amore esige questo e quello, non è amore. Vita, conoscenza, amore vanno a braccetto. Sono auto-motivanti. Non hanno perché. Non hanno una ragion-per-cui. Non sono sottomessi alla forza di volontà, alla nostra forza e alla nostra volontà. 162

Oggi, nel mondo moderno, i tre universi si trasfondono l’uno nell’altro. Vorrei citare un testo del Dalai Lama. Nel 1993, dopo quegli interminabili, orrendi fatti di Bombay57, il Dalai Lama lanciò un appello che venne ripreso dai giornali. Invocò una «compassione indiscriminata, spontanea e illimitata verso tutti gli esseri senzienti. Non si tratta, evidentemente, del consueto amore che nutriamo per gli amici o i familiari, che vive di desiderio, attaccamento e ignoranza. Il genere di amore che dovremmo patrocinare è questo amore più ampio, che si può nutrire perfino nei confronti di chi ci ha fatto del male, il nemico». Se non avessi indicato l’autore di queste parole, molti avrebbero probabilmente pensato a un detto sapienziale cristiano, o un brano del Vangelo, o avrebbero pensato: «Questa è bhakti allo stato puro». «Perfino verso i nemici». Un amore – dice il Dalai Lama – che non vive di desiderio, attaccamento e ignoranza; riprendendo così la classica distinzione tra le due specie di amore. Gli autori latini medievali avevano una bellissima espressione: «L’amore si espande» non procede in linea retta. Se io sono fiero di te, questo è egoismo. «Avere caro»: questa formula (credo intraducibile in altre lingue, se non con lunghe perifrasi) è facilmente travisabile. La esplicitiamo riferendoci a santa Caterina da Siena, che scrisse: «In te, io penso a te. Ma pensare a te significa che ti ho caro». Questo è amore, e implica che l’amore è inseparabile dalla percezione di essere amati. Altrimenti non si dà amore. Non funziona come una strada a senso unico: l’amore è apertura di cuore in entrambe le direzioni. Ora, questo mi riporta alla sfida dell’oggi. Si è detto che l’agape suppone la priorità del Divino, mentre bhakti e karuna sono, in pratica, atteggiamenti cosmici. Nell’epoca contemporanea si è radicata in noi una auto-comprensione come individui separati. L’individualismo: ecco perché l’amore è stato degradato a gratificazione, o modello psicanalitico, o opzione sessuale, o elemento di secondo gra163


do per la nostra realizzazione, tra le varie cose che ci fanno sentire meglio. Questo non è karuna né agape né bhakti. Può essere semmai egoismo, desiderio di auto-realizzazione, o semplicemente individualismo. Di contro, il Dalai Lama afferma che amare in maniera «discriminante», con attaccamento, desiderio e ignoranza, non è il genere di amore di cui abbiamo bisogno per vivere in pace e in pienezza. Non si tratta dell’amore individualistico, che genera rancore. Questo di certo non è agape, bhakti, karuna. Non è forse vero che oggi opponiamo una innata resistenza all’amore universale? Ma come si può amare in maniera indiscriminata? Non sarei disumano se non sentissi che mio figlio è diverso da ogni altro bambino del mondo, anche se quell’altro bambino soffre la fame? Qui occorre seguire la «via media». Se sono incapace di amore universale, il mio amore per mio figlio sarà solo un attaccamento egoistico, che mi darà qualche minima soddisfazione ma anche, con il tempo, tanti attriti e mal di testa. Ne sorgeranno tanti feroci contrasti, dal momento che mio figlio non intenderà vivere secondo i miei standard o le mie aspettative. Coniugare l’amore totale, universale, con l’amore concreto: questa è la saggezza. La saggezza è quella visione della realtà che mi consente di scoprire nel concreto, nel mio bambino, tutti i bambini del mondo; in mia moglie/mio marito, l’intera parte femminile/maschile del mondo; in quel fiore, l’infinita bellezza dell’intero creato; in quella conversazione, tutto il gusto della vita. Se non perverremo a questo livello di intuizione e di esperienza, allora ogni nuovo passo sarà semplicemente identico al precedente. Allora tutto diventa telos, finale, definitivo. Se ogni cosa non è irriducibile e incommensurabile ad altro, avremo perso l’amore nelle nostre vite, riducendoci a macchine pensanti. Uno dei nostri compiti più urgenti, in filosofia, è quello di reintrodurre l’amore nel cosiddetto mondo esterno. Adesso non intendo avventurarmi nell’epistemologia; 164

40. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, affresco nell’abside della cappella di Gioachino e Anna, l’incontro di Maria ed Elisabetta.

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penso che l’epistemologia sia un approccio sbagliato, ma questo sarebbe un tema a parte. Quando l’amore è visto come un elemento intrinseco alla conoscenza, allora la conoscenza viene rimessa al posto che le spetta, perché percepiamo che l’unione con il conosciuto non è mai terminata, mai compiuta. Di fatto, la natura stessa della realtà è polarità, è amore, è lo stesso momento presente. Se reintegreremo l’amore nella conoscenza, supereremo lo iato epistemologico tra soggetto e oggetto; iato che altrimenti rimane impossibile da superare. L’amore è trinitario: né uno né due. È fare esperienza dell’ordito stesso che costituisce la natura della realtà. Questa è per me la grande sfida culturale, che ci permetterà di superare l’individualismo. Allora potremo scoprire per esperienza il modo in cui l’amore ci pervade. Scopriremo che tale amore e conoscenza – per citare la Bhagavad-gita – sono appunto i due lati fondamentali di questa complessa, fantastica, magnifica realtà.

41. Andrej Rublëv, L’Ospitalità di Abramo, o Trinità, Galleria Tret’jakov, Mosca.

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F uoco

8. Il mistero di Maria

A un lettore amico Scusami se ti do del tu: non tanto per seguire la moda, ma come segno di confidenza, poiché credo che queste cose si possono dire solo nell’intimità. Tutto è importante: teologia, scienza, cultura, progresso, tutto è molto importante, ma, senza Maria, la nostra vita cristiana è monca e qualsiasi concezione che si tenti di dare del cristianesimo fallisce. Dal peccato originale in poi, l’uomo ha acquisito la tragica prerogativa (per la scienza del bene e del male) di poter possedere in un certo modo la verità, senza essere posseduto da essa, di potersi avvicinare alla realtà e anche di poter riconoscere il bene, senza essere per questo vero, verace, buono. L’unica eccezione è Maria. Quando noi uomini ci mettiamo in contatto con Maria, l’Immacolata, sembra che il suo privilegio originale si trasmetta anche a noi. Ecce mater tua! Gv 19,27 *Ed. or. Dimensioni mariane della vita, La locusta, Vicenza 1972; raggruppato poi in La gioia pasquale, La presenza di Dio e Maria, Jaca Book, Milano 2007. Ora in Opera omnia, Vol. i, tomo 2, Spiritualità, il cammino della vita.

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Si può aver fede in Cristo e non amarlo, si può essere teologo e non essere in grazia, si può possedere la verità ed essere nell’errore, si può, infine, essere ortodosso e andare fuori strada. Con Maria avviene qualcosa di speciale, che non si può esprimere a fondo; è certo però che non si può aver fede in lei senza amarla, che non si può pensare a lei senza che ella eserciti una forza irresistibile su di noi. Quando gyro vallabat abyssos, aderam! («Quando recingeva gli abissi tutt’intorno, io c’ero!»). Perciò tutta la tradizione della Chiesa considera la devozione a Maria come la migliore garanzia di perseveranza. Capirai, dunque, amico lettore, come io non ti possa offrire freddamente una meditazione sulla Vergine, senza riversare in essa tutto me stesso. Ma, per non uscire troppo dai limiti di una semplice meditazione, mi sforzerò di dirti brevemente ciò che da tempo desideravo. Vorrei che tu mi capissi bene, e che leggessi anche fra le righe: Legas et intus legas.

42. L’immagine della Vergine venerata a Monserrat. Scultura lignea romanica policroma, sec. xii-xiii. La statua nel monastero di Monserrat, sulle montagne vicino a Barcellona, era un’immagine a cui Panikkar fin da giovane fu particolarmente devoto. Durante la guerra civile che straziava la Spagna è alla Moreneta che Panikkar si rivolge per implorare la pace.

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Per prima cosa voglio rivolgermi a te come a una persona immersa nel frastuono della vita attuale, con preoccupazioni economiche, problemi professionali, situazioni e affari familiari, responsabilità politiche, in una parola, con poco tempo da «perdere» in semplici elucubrazioni che non siano subito redditizie o direttamente utili. Il tuo intelletto può ancora essere attratto da un tema così esclusivamente devoto com’è quello della Vergine, e la prova è che mi stai leggendo! Sei immerso nella vita, vale a dire sei una persona attiva, eppure vi è in te una tendenza contemplativa che ti fa «perdere il tempo» (che è una forma di dare e guadagnare la vita) su di un tema che non ha niente a che fare con i tuoi interessi quotidiani. Tuttavia ti potrai rendere conto che nella Vergine si risolvono molti problemi che in altri modi difficilmente incontrerebbero la loro esatta prospettiva. Anni fa, a un mio amico, uomo attivo e immerso in affari importanti e urgenti, raccomandai, come rimedio alla 171


dispersione, secondo lui inevitabile, non soltanto di avere una devozione filiale a Maria, ma anche di studiarne la figura intellettualmente e teologicamente. Quando, dopo una certa titubanza e resistenza, si decise a farlo, comprese il senso del consiglio e ne sperimentò i frutti: la teologia mariana gli offriva un clima di serenità e di contemplazione, ma soprattutto gli procurava un distacco di fronte alle sue preoccupazioni immediate, tanto che gli permise di superarle. L’unione vitale con la Madonna gli fece inoltre scoprire l’inganno trascendentale della nostra intelligenza, lo immunizzò contro la tentazione costitutiva cui è sottoposto il nostro intelletto: da una parte partecipazione e immagine di Dio con proiezione illimitata, e dall’altra partecipazione limitata, tributaria della materia e del tempo, che assolutizza istintivamente tutto quello che tocca, dimenticandosi che in questo mondo sublunare solo una cosa è necessaria. Senza un contatto con la Vergine, la nostra intelligenza facilmente perde il rapporto e il senso di relatività e di serenità intellettuale che mancano abitualmente agli uomini. Dio ci liberi dal furor theologicus fuori del suo campo, dalla estrapolazione dogmatica con cui alle volte si cerca di giustificare azioni terrene. Non è questa l’occasione per spiegare come un’autentica teologia mariana possieda questa funzione catartica della nostra mente, questa azione riposante del nostro spirito, questa influenza femminile sul nostro intelletto. Per ultimo dobbiamo rivolgerci all’antica sintesi integrale e perfetta che realizza nella creazione la gratia plena, pulchra ut luna, electa ut sol («piena di grazia, bella come la luna, eccelsa come il sole»). Soltanto nella sedes sapientiae incontriamo il criterio per una retta valorizzazione integrale, intellettuale, affettiva e assiologica dell’essere creato. Maria, creatura perfetta nella sua natura umana e divina, è la guida nascosta che attira naturalmente coloro che cercano una sia pur minima perfezione integralmente umana. Ab aeterno ordinata sum («Sono ordinata dall’eternità»). 172

43. Vergine Eleousa, o della Tenerezza, di Zarzma, argento dorato, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi. L’icona reca nel contorno storie di Maria e di Cristo. Nelle tipologie delle icone dedicate a Maria la vergine desta tenerezza attraverso i secoli e i paesi.

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Tu sei un membro del popolo fedele e hai il diritto e anche il dovere di far sentire la tua voce nella Chiesa, non tanto per esercitare un magistero, ma per contribuire al suo orientamento. Il timoniere conduce la nave, ma sono i fari che stanno a terra a illuminare la costa e gli scogli. Anche i laici sono Chiesa, e ogni cristiano ha una missione personale e non trasferibile da compiere nel Corpo mistico di Cristo. Vorrei qui ricordarti che non è necessario appartenere al magistero ufficiale della Chiesa per essere un vero teologo. Dobbiamo una volta per tutte vincere quel falso e farisaico rispetto che la nostra epoca, in questo ancora postcartesiana, riserva ai teologi, intesi come i portatori autorevoli della dottrina di una confessione religiosa. La teologia non è una materia di confessione o di scuola, ma di fede e ogni cristiano deve essere sufficientemente sincero da non lasciare la propria fede al margine del suo pensiero o per utilizzarla solo come correttivo estrinseco, quasi che la sua ragione stessa non sia illuminata da questa forma superiore di conoscenza che ci dà la vera sapienza. La teologia, la teologia itinerante (e i teologi lo sanno bene, però a volte conviene ricordarlo), non è una medicina già preparata che ci è stata data per curare automaticamente i nostri mali. La vera teologia accompagna l’uomo nel suo pellegrinare sulla terra, e non è altro che il culto che l’uomo, che la sua mente, il suo logos, se così si può dire, rende a Dio, ascoltando il suo messaggio, il suo Verbo e cercando di chiarirlo. Questo non è un privilegio degli ecclesiastici, ma una esigenza della mente cristiana e, come tale, patrimonio di tutti i cristiani nonché scopo universale della Chiesa. La teologia non è soltanto un logos rivolto a Dio, come l’esplicitazione, la rivelazione umana del logos di Dio. Ipsum audite! («Ascoltatelo!»). Non si dimentichi che la teologia, secondo lo stesso san Tommaso, non è che una espansione normale della vita della fede. Fides quaerens intellectum («La fede in cerca di conoscenza»). Occorre riprendere quella pratica cristiana, 174

44. Paolo Uccello, Presentazione di Maria al tempio, Prato, Duomo. Straordinario esempio di Maria bambina.

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mai perduta del tutto, di far funzionare integralmente, cioè teologicamente, la nostra intelligenza. Desidererei ora inoltrarmi per un momento un po’ più direttamente nel mistero di Maria. Nella letteratura mariana troviamo che, da un lato, i libri cosiddetti narrativi sono quasi vangeli apocrifi sulla Vergine, molto pii e poetici, che fanno dire a Maria ciò che ella non disse e le fanno sentire ciò che l’autore personalmente sente; o sono interessanti narrazioni archeologiche e storiche, più o meno adeguate, che girano come una spirale attorno alla Vergine, ma che non sanno darci quello che in questi libri cerchiamo; mentre, d’altro canto, i libri sistematici, che lasciano l’involucro storico, poiché suppongono che la parte storica sia un semplice rivestimento, pretendono di penetrare nel nucleo di Maria perdendosi o in belle considerazioni personali o in un’astratta speculazione mariologica. Tutto questo non è che una scusa, perché anch’io vorrei parlarti di Maria, di Myriam, di quella ebrea mora, umile e femminile, che non sapeva di essere piena di grazia fino a che l’angelo non glielo rivelò, turbandola con il suo saluto. Questo piccolo saggio contiene molti anni di speranza e di vita. Quello che ne rimane ora è un denso liquore decantato dall’esperienza e filtrato dalla prudenza. Sarò pertanto breve e anche schematico. Solo le passioni che hanno superato la fase focosa concentrandosi sono quelle che veramente meritano di chiamarsi passioni. Le altre sono un effimero fuoco di artificio. Lo stesso soffio che spegne un fiammifero accende una brace. Sta scritto che, se non diventeremo bambini, non entreremo nel Regno dei Cieli. Però, può uno, quando è già vecchio, entrare un’altra volta nel seno di sua madre per nascere di nuovo ed essere così un nuovo nato? Questo è l’interrogativo che Nicodemo, dottore della Legge, pose a Gesù. 176

Non indugerò a teorizzare sopra l’evangelica infanzia spirituale, né a citare san Paolo che si affanna a formulare la dottrina, né sant’Agostino che la commenta, e nemmeno santa Teresa del Bambino Gesù che la vive, ma mi fermerò semplicemente a dire che siamo (e saremo) bambini nella misura in cui abbiamo una madre. Per le nostre madri secondo il sangue – e non dico terrene, perché terrena e corporea è anche la Vergine – saremo sempre bambini. Potremo essere i personaggi più famosi del mondo, però esse ci considereranno sempre come bambini e non ci prenderanno mai, e con ragione, troppo sul serio. Fin tanto che si ama la propria madre, fin tanto che si risponde all’amore materno, si conserva un cuore di bimbo. L’amore a Maria quindi è necessario per entrare nel Regno dei Cieli, perché solo i bambini hanno la porta aperta. Ciò non significa che l’amore per Maria sia un obbligo stretto. Stretto nel senso che sia l’oggetto diretto di un precetto formale. Questo tipo di amore non può essere comandato. Questo però non vuol dire che tale amore non sia già implicito nel nostro stato infantile. In tutti i momenti della nostra vita, dai più importanti ai più ordinari: quando amava il Signore, quando lavorava compiendo il suo dovere, quando esercitava la carità e le opere di misericordia, quando stava sotto il fico, quando infine viveva nell’amicizia divina, ella stava con te, fin dall’inizio, senza che tu lo sapessi, come una donna discreta, mettendo a posto tutto, intravedendo tutto, affinando tante asprezze, addolcendo tante cose... Non è vero? Pensa a tua madre quando eri molto piccolo e non sapevi nulla! Esiste un’altra vita in te, che non è nata dalla carne, né dal sangue, né per opera d’uomo, ma per volontà di Donna... Fiat! L’amore del bambino mi porta a parlare dell’amore umano. Il cristianesimo è una religione divina, e per conseguenza a noi uomini pare abissale, cosmica, insondabile, misteriosa. Però è anche una religione umana e in quanto 177


tale possiede, fra le altre cose, una dimensione amorosa che non può esserci meglio trasmessa che da una donna, la benedetta fra tutte le donne. Il cuore umano ha i suoi diritti e il cristiano non lo ignora. Cristo è venuto sulla terra per farci più che uomini, ma questa elevazione non significa che dobbiamo cessare di essere umani; al contrario, proprio il cristiano ha bisogno più degli altri di poter rivolgere su Maria tale dimensione umana, ma che è anche più che umana, che integra la nostra vita sulla terra. Per questo Cristo ci dette sua madre. La vita cristiana non è, inoltre, priva di questa dimensione del cuore, che è altrettanto importante di quella cerebrale. La stessa fede è qualcosa più che l’affermazione di un enunciato che si considera come certo, è anche ed essenzialmente un atto libero, vale a dire dell’amore. La pienezza cristiana non viola i diritti del volere umano, è il medesimo massimo e unico precetto della «Nuova Legge» (per così dire), che deve essere compiuto da tutta l’estensione e intensità del nostro essere. Devo amare Dio, e con tutta la mia mente, con tutta la mia anima, con tutte le mie forze, anche fisiche, con tutto il mio essere. Questo significa che fuori di tale amore per Dio non può esserci in me alcuna capacità di amare. Ma io, per amare Dio, non possiedo un organo speciale, diverso da quelli che la mia natura mi offre, per essere elevato all’ordine stesso della Divinità. Io debbo amare Dio con quello che sono e come sono. In altre parole, dobbiamo amarlo come amiamo gli uomini, creature di Dio, con il nostro cuore di carne e di sangue; questo cuore rimane anche se lo invade la grazia o, per meglio dire, Cristo. Più ancora, è con il nostro amore, vero e reale, concreto e umano, che amiamo il nostro Dio, che si è fatto uomo e amiamo anche sua madre, che ci è stata lasciata in eredità. A causa di una certa irreligiosità entrata a poco a poco nella nostra cultura occidentale, abbiamo perso l’innocenza dello spirito e, di conseguenza, il vigore spirituale del 178

45. Vergine in maestà, detta “Vergine delle Forze”, Francia orientale, secondo quarto o metà del xii secolo, legno (noce) e resti di policromia, Parigi, Museo del Louvre. Esempio di scultura romanica lignea che ama mettere in luce la maestà della Vergine.

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linguaggio. E così noi oggi abbiamo pudore di parlare con naturalezza e cerchiamo palliativi che sterilizzano la nostra vita. La grande caratteristica della meravigliosa devozione mariana della Chiesa medievale consiste nel fatto che il suo amore alla Madonna, alla Vergine Madre, non è un amore spiritualizzato, un affetto disincarnato, ma un amore preminentemente umano. È lo stesso amore degli uomini quando veramente amano. La sublimazione cristiana non è una sterilizzazione giansenista, né una calcificazione manichea. E il popolo cristiano fedele si è preoccupato fin dall’antichità di difendere come un tesoro la purezza perfino corporale della Vergine Immacolata, che concepì per opera dello Spirito Santo e dette alla luce senza violazione verginale. La Chiesa continua a cantare, solenne e devota, l’integrità di Maria. La tradizione cristiana ha sempre distinto nel culto di iperdulia dovuto alla Vergine un qualcosa di essenzialmente diverso dal culto dei santi, senza che per questo sia culto di latria, di adorazione. Dio lo si adora; i santi li si venera; la Vergine... la Vergine la si ama. Ci si intenda bene. Il nostro linguaggio è povero, ci mancano le parole. L’adorazione e la venerazione implicano un certo amore, un voler bene, una volontaria donazione o il riconoscimento di una superiorità. Senza questa sicurezza d’amore non si può adorare Dio, né venerare i santi. Il culto a Maria, d’altra parte, richiede un amore diverso, una relazione nuova, che è quella che più assomiglia all’amore umano sulla terra, è ciò che nel mondo chiamiamo «essere innamorati». Questa dimensione della nostra religiosità, che mi azzarderei a chiamare femminile, non esclude certo gli altri aspetti della vita cristiana. Il mistero poi dell’Assunzione in cielo di Maria, in anima e corpo, ci permette una relazione con lei pienamente umana. Infatti, in cielo, vale a dire in Dio, in sinu Patris, esiste almeno un corpo di Uomo e un corpo di Donna; e in terra il cristiano ama il Cristo, ma anche sua madre (la madre di entrambi), Maria. 180

46. Kiev, cattedrale di Santa Sofia, mosaico dell’abside centrale (1043-1046), la Madre di Dio Orante.

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Non vorrei parlarti di Gesù in quest’occasione, ma solo della Benedetta fra tutte le generazioni. Questa benedizione non è una formula. La Chiesa ci rivela un amore realista e umano, che si esprime nelle sincere e semplici espressioni della liturgia, insegnandoci ad amare con naturalezza soprannaturale, a chiamare le cose con il loro nome, a non disprezzare la materia e il corpo. Di amore ce n’è soltanto uno. Qualche volta abbiamo bisogno di aprire il nostro cuore, abbiamo bisogno di poter piangere e ridere; abbiamo bisogno di sfogarci ed essere veramente noi stessi smettendo finalmente di nasconderci dietro una maschera o un ruolo; abbiamo bisogno, in una parola, di poter essere bambini. E se la nostra vita cristiana è vera, autentica, e non degenera nel freddo riconoscimento ufficiale di un mucchio più o meno connesso di affermazioni, come sostituto della vera fede, allora abbiamo necessità di Maria, che è donna e madre. Era necessario (benché la nostra ragione non lo veda) che Maria avesse un corpo, che lo abbia tuttora, se deve compiere la pienezza della sua missione nella Chiesa di Dio. La Madonna sta nei cieli in corpo e anima per poter continuare a essere persona, per poter essere madre, perché noi possiamo trovare in lei il calore del corpo e l’abbraccio corporale (l’amore della sola anima non basta), per poter stabilire con noi una comunicazione di sentimenti pienamente umani, sentimenti che esigono la collaborazione di quest’ultima emanazione di Dio che è la realtà corporale – sono parole di san Tommaso. Infatti, i sentimenti, questa caratteristica specifica dell’essere umano, che né gli angeli né gli animali posseggono, sorgono dall’incontro o dallo scontro fra l’anima e il corpo. Quello che noi chiamiamo sentire, e che non sono pure sensazioni né semplici conoscenze ma è un complesso conoscere e volere con tutto il nostro essere, anima e corpo, questi profondi sentimenti e presentimenti dell’es182

47. Sopocani, chiesa della Santa Trinità, parete occidentale del naos, Dormizione della Vergine, circa 1265. L’Assunzione della Vergine che va in cielo con animo e corpo, nel mondo bizantino assumeva la forma di una “dormizione”, in cui si vede il corpo in tutta la sua pesantezza circondato dagli apostoli, mentre Cristo appare già con in braccio l’anima della madre, che precede l’Assunzione.

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48. Tiziano Vecellio, Maria assunta, pala di 6,68 × 3,44 m, dedicata all’Assunzione di Maria, 1518, chiesa dei Frari, Venezia.

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sere umano, che prevede e intravede, trema e vibra, gode e desidera, confida e teme, la Vergine non li potrebbe avere se non avesse in sé l’integrità di tutto il suo essere, il suo corpo medesimo. Se la Madonna deve continuare a essere madre, allora deve percepire i nostri sentimenti, deve sentirli insieme a noi, deve entrare in relazione con il nostro essere. Maria è «la madre del dolce amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza». Però, nello stesso tempo, insieme a Dio, è terribilis sicut castrorum acies ordinata («terribile come esercito ordinato nell’accampamento»), è la guerriera che schiaccia la testa del drago, che regna sulle stelle, che domina e governa, fin dall’inizio, i destini della creazione. Per questo il nostro contatto con la «Piena di grazia» deve avere una dolce intimità personale e un’abissale profondità cosmica. Tutti i testi della Chiesa che parlano della dolce e terribile «Speranza nostra» possiedono una doppia polarità, familiare e insolita, materna e oggettiva, tellurica e celeste, inintelligibile per chi non crede e scandalizzante per chi non l’ama. Non è solo la liturgia, in un eccesso lirico, che attribuisce alla Vergine le frasi più tremende e audaci: tutta la tradizione unanime della Chiesa attribuisce a Maria un insieme di funzioni, nell’economia della grazia e anche della natura stessa, che fanno della Madonna veramente la regina dell’intera creazione. La Vergine ci genera in una maniera reale, è madre nostra e anche madre della Chiesa, è la Dei genitrix, la genitrice di Dio, modello e compendio della Chiesa, mediatrice di grazie, corredentrice, e tante altre cose. Oggi ci sono alcuni validi testi su ciò che la Chiesa e la tradizione dicono della madre del Signore e della sua relazione con Dio, con Cristo, con il cosmo e con noi. Cerchiamo di leggerli con vera e solida mentalità cristiana. L’anima che si converte a Cristo e si battezza, afferma un pensiero patristico comune, si chiama Maria, poiché an185


49. Una delle visioni più complesse, ricche e famose dell’Apocalisse, che ha ricevuto pertanto le più spettacolari soluzioni plastiche nella storia della miniatura ispanica. La donna fantastica in seguito diventerà l’immagine dell’Immacolata Concezione di Maria, e dunque sarà la Vergine, anche se ora predomina l’idea che si tratti della Chiesa. Certo qualcuno doveva fornire anche allora l’altra interpretazione, poiché, meno di un secolo dopo, san Bernardo, il quale credeva anch’egli che si trattasse della Chiesa, scredita come scorretta e inappropriata l’opzione di coloro che supponevano già allora trattarsi di Maria, nonostante l’interesse che mostrò sempre per la figura della Vergine. Per Beato la donna è l’«antica Chiesa dei padri, dei profeti e degli apostoli» che attende la seconda venuta di Cristo. Il sole è la speranza della resurrezione, e la luna «i pericoli che corrono i santi, i quali patiscono nelle tenebre di questo secolo». La corona di dodici stelle rappresenta il coro dei dodici Padri, le dodici tribù di Israele e anche la Chiesa. Il figlio della donna è Cristo. (Joaquín Yarza Luaces)

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ch’essa genera Cristo. Di qui la vecchia, bella tradizione cristiana di aggiungere nel battesimo il nome di Maria a quello del santo patrono. La Vergine è corredentrice. Se la maternità divina è stata una grazia, la sua maternità nei nostri confronti fu una conseguenza della sua corredenzione. Maria offre quello

50. Icona bifronte con la Crocifissione, Galleria delle icone di San Clemente, o chiesa della Peribleptos, Ohrid. Il dolore estremo di Maria è espresso in questa crocifissione, che ci riporta alla profezia che Maria ascoltò presentando Gesù al tempio e che l’accompagnerà per tutta la vita: “Una spada distruggerà l’animo”.

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che ha: il suo cuore. Si prenda sul serio ciò che la Chiesa dice nella festa della Vergine Addolorata. La vera corredenzione, anche per noi sulla terra e sotto tutti gli aspetti, è la redenzione attraverso il cuore. Per questo motivo appunto ci fu data come madre sotto la croce, ci genera veramente alla vita di suo Figlio, e collabora come sposa, in questo senso, all’opera dello Spirito Santo. Tuttavia non capiremo niente di tutto questo finché non avremo battezzato anche la nostra mente e superato il paganesimo razionale, finché non impareremo a pensare da cristiani e a lasciarci penetrare, vale a dire vivificare, dalla fede. Le prime parole del Precursore e quelle di Cristo stesso, all’inizio della missione pubblica, furono di proclamare la necessità di una vera metanoia, cioè di un radicale cambiamento di mente e di cuore. Mi si permetta qui un breve excursus teologico. Non vorrei rompere con la tradizione cristiana, ma, al contrario, unirmi più autenticamente e profondamente con essa, e in ultima istanza con Cristo, con colui che con la sua persona è anche Verità oltre che Via e Vita. Finché non superiamo i modelli razionalisti del nostro pensare, diversi dall’«obbligo razionale» di piegare «tutto l’intelletto all’obbedienza di Cristo»; finché non vinciamo l’idealismo implicitamente camuffato da alcuni determinati universali, scoloriti, disincarnati e inesistenti in sé; finché attribuiamo più realtà ad alcune idee, che per poterle accettare si è dovuto ipostatizzare in Dio ma che in sé non esistono (le idee cioè di Dio sulle cose in lui sono Dio – Creatura in Deo est creatrix essentia, dice san Tommaso, In Joan. i,2 – e fuori di lui sono le cose stesse – quando Dio, nel processo intratrinitario, pensa il logos, pensa in lui e con lui la creazione intera); finché attribuiamo più realtà ad alcune nostre idee che alle esistenze concrete; finché non redimiamo le categorie formali di un pensare pure essenze per farle capaci di aprirsi all’assoluta singolarità e palpitante realtà del Cristo stesso; finché, in una parola, non impregniamo di 189


51. Il Compianto di Cristo, 1164, affresco della Chiesa di San Panteleimon in Nerezi vicino a Skopje, Macedonia del Nord. È considerato un superbo esempio di arte Comneni del xii secolo. Forse il “compianto” più famoso dell’arte bizantino-slava.

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fede la nostra intelligenza, non capteremo mai con il nostro intelletto il messaggio cristiano (che non è tanto una dottrina, quanto una vita, una persona), né il suo senso profondo. Così, per esempio, Cristo non è il mio modello perché egli realizza un’idea che deve essere quella esemplare per me. Cristo non «realizza» niente; ma le varie cose si realizzano in lui e in lui riposano. Tutto è stato fatto da lui e per lui; prima che nulla fosse fatto egli esisteva, alfa e omega di tutta la creazione e ricapitolatore di tutto l’universo. Inoltre, Cristo non è per me un semplice esempio, né il più grande di tutti, come può esserlo un santo, non ha una mera funzione di esemplarità affinché io realizzi pienamente e a mio modo l’idea di uomo, ma egli è il mio modello perché mi forgia a sua immagine e somiglianza. Non mi spinge a essere «uomo», ma ad arrivare a essere «Cristo». La mimesis ontologica, che costituisce il dovere fondamentale della mia esistenza cristiana, è una vera omoiosis, e consiste nel fatto che, senza perdere il mio io (e il «mio io» non è altro che il «tu» creato da Dio), mi identifichi con Cristo, che sia egli che viva in me e mi renda «una sola cosa» con lui, e attraverso di lui tutta la Trinità dimori in me. Il cristiano non è un alter Christus, ma l’ipse Christus, lo stesso Cristo che sta arrivando, «nell’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio», all’uomo perfetto, finché, essendo egli tutto sottomesso a Cristo, questi possa a sua volta sottometterlo tutto al Padre, perché, alla fine, «sia Dio tutto in tutti». Cristo, che è vero uomo, non è da una parte Dio e dall’altra un uomo, un esemplare di più della specie; non è l’esempio più perfetto della natura umana. Cristo non è un caso particolare, una realizzazione concreta di un’idea universale e immutabile, e dipendente, di conseguenza, da essa. La priorità appartiene a Cristo e non alla «natura». Anche qui si deve parlare della supremazia della persona. Cristo, perfectus homo non è un uomo, ma è l’uomo – ecce homo! – e noi tutti lo siamo, in quanto veniamo da lui e a lui tendiamo... 192

52. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, mosaico della cupola centrale, Cristo Pantocratore. L’arte russa inizia a Kiev, capitolae della Rus’ e la sua maggiore cattedrale è Santa Sofia, che rende Kiev una nuova Costantinopoli e una nuova Roma. Nell’abside il Cristo è posto in gloria a compimento del mistero dell’incarnazione che si è svolto tramite Maria.

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Ma tutto questo ci porterebbe molto lontano, ci porterebbe a riconoscere l’urgente necessità di pensare seriamente con categorie cristiane... Accontentiamoci, per il momento, di pensare all’atteggiamento di Maria e alla sua relazione personale, viva, diretta con noi. Myriam non è un’idea, è lei, la madre di Dio e madre mia, che nel suo corpo definitivo rimane accanto a suo Figlio alla destra di Dio Padre, secondo la metafora tradizionale. Desidererei sottolineare inoltre una duplice funzione della madre di Dio in noi. Maria è modello di vita interiore, si dice spesso, ed è infatti vero, ma la parola modello suggerisce, di nuovo, una semplice idea di esempio che io

53. Piero della Francesca, Flagellazione, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

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54. Georges Rouault, Ecce Homo, 1950, Collezione di arte religiosa contemporanea del Vaticano. Molto sensibile alle miserie umana, Georges Rouault, a partire dalla sua conversione alla fede, ha affrontato spesso il tema della Passione di Cristo. Incompresa ai suoi esordi, la sua pittura religiosa è stata in seguito accettata.

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debbo imitare. La Vergine è maestra di vita interiore, dice più esattamente una terminologia cristiana. Insegna con il suo esempio e la sua azione. Maria non ha una dottrina. Vive e agisce. Spinge e sostiene. Attira e convince. Possiamo vederlo con due esempi. Mi avventurerei a chiamare il primo il principio passivo della vita interiore. Esiste, diffusamente esteso negli ambienti pietistici, un pernicioso egoismo spirituale e una egolatrica avarizia pseudocristiana che sterilizza più di una vita interiore. Sembra che Cristo ci abbia predicato un mero eudemonismo soprannaturale e si sia accontentato di darci una semplice ricetta per riuscire nell’altro mondo a essere eternamente felici. Questo è l’incosciente egocentrismo di quelle anime che fanno la comunione per acquistare la purezza, di quelle persone che pregano per ottenere fortuna, di cristiani che sono buoni perché vadano loro bene le cose, non è in fondo che pura egolatria. Deus non debet aliquid alicui nisi sibi («Dio non deve nulla a nessuno se non a se stesso»), dice san Tommaso (Sum. Theol. i, q. 25, a. 5, a. 2). La comunione è certamente alimento, però con una funzione precisamente inversa a quella della metafora materiale: non è che l’alimento si trasformi nella mia sostanza, ma la mia nella sua. Nec tu me mutabis in te, sicut cibum carnis tuae, sed tu mutaberis in me («E tu non mi trasformerai in te, come cibo della tua carne, ma tu ti trasformerai in me»), dice sant’Agostino (Conf. vii,10). «Cercate il Regno di Dio e la sua giustizia» è quello che ci ha comandato: che non preghiamo come i gentili e che non abbiamo preoccupazione di noi stessi perché il nostro Padre celeste, che si prende cura degli uccelli del cielo e dei fiori del campo, sa già di che cosa abbiamo bisogno. Molte volte ci lasciamo sopraffare da un sacco di pseudo problemi personali e anche oggettivi, tanto da non vedere le cose teocentricamente o più ancora cristocentricamente. Questa è, in ultima istanza, la missione della fede: visione soprannaturale, ontologica, e non soltanto moralmente cristocentrica, della realtà delle cose. 196

Il fine della nostra vita non siamo noi stessi e, di conseguenza, non è né il nostro perfezionamento, né la nostra santificazione. Tutto questo viene e ci è dato in sovrappiù. Il fine ultimo della nostra vita non è neppure quello di dare gloria a Dio. La creatura non possiede infatti una categoria tale da poter dare a Dio una vera gloria. Gli dà, se si vuole, una specie di gloria accidentale, che non si riesce a comprendere bene che cosa sia, in un Dio che non ha accidenti. Il fine della nostra vita è semplicemente Dio, l’unione con lui, la comunione con la Divinità. Dio creò tutte le creature non per la sua felicità o per loro stesse, ma ad manifestandam perfectionem suam («per manifestare la sua perfezione»), dice il Concilio Vaticano i. Voglio dire che il fine della mia vita non è dare gloria a Dio, ma semplicemente Dio. La sua gloria, non però quella che gli posso dare io, che non esiste, ma la sua. Il fine della mia vita è, perciò, la sua gloria, se si vuole o, meglio ancora, la sua comunicazione con me, la sua unione in me. Omnia propter semetipsum operatus est Dominus! («Dio ha operato tutte le cose per se stesso!»). Questo è ciò che hanno creduto, sentito e presentito tutte le anime che hanno seguito e seguono la strada della vita interiore, i cammini di amore, i sentieri diritti che portano tutti al fine stesso della loro esistenza. Dunque, in quest’avventura della vita, l’uomo si rende conto che il suo compito è predominantemente passivo, con una passività non sempre facile da accettare, ma che può essere anche gioiosa. L’essere umano che cammina verso il suo Dio è cosciente di essere piuttosto spinto, attratto, portato. Non si deve certamente cadere in un quietismo orgoglioso, ma nemmeno in un attivismo ingenuo. Detto in maniera diversa, Dio ha più interesse di me che io raggiunga il mio ultimo fine, se potessi esprimermi così. Più ancora, egli è la causa principale e prima, il fattore decisivo nel mio cammino di santificazione verso di lui. La mia perfezione è più cosa sua che mia. Il mio lavoro si riduce a non porgli 197


ostacoli, a non disturbarlo, a lasciarlo fare, a dirgli di sì – come Maria. È in questo che la Vergine possiede una funzione particolare. Da sempre, in tutta la mistica, benché si parli di amore, di sposalizio, di matrimonio spirituale o semplicemente di unione, fusione, comunicazione, la creatura è sempre la parte passiva, il principio negativo. In altre parole, solo la Vergine, fecondata dallo Spirito Santo, potrà insegnarmi come debbo comportarmi. Nell’unione di Dio con me, nel fine della mia vita, egli è il principio attivo e io il passivo. A me spetta dire soltanto: Fiat!, meglio: Ecce ancilla! «Il Creatore si è appassionato della bellezza della sua creatura», dice santa Caterina da Siena; la Divinità ha incontrato alcuni riflessi ad extra e vuole quanto prima riassorbirli tutti. «Odi, figlia, inclina la tua testa e ascolta, il Re è stato preso dalla tua bellezza». Egli mi persegue e mi sorveglia, egli non si stanca, e mi sollecita, mi adula, mi appare e mi si nasconde... E chi non mi crede legga il Cantico dei Cantici, e non si scandalizzi... E chi insegnerà a me, «che sono un bimbo e non so parlare», né scrivere, né amare? Questa è la missione della madre… Non ti dimenticare, amico, di questo principio femminile della vita interiore... Anche in un secondo senso Maria è maestra di vita interiore, benché questa denominazione, consacrata dall’uso, sia un po’ equivoca. Di vita ce n’è una sola, che non è né esclusivamente interiore, né esclusivamente esteriore. Una vita esteriore non è propriamente vita, e l’autentica vita cristiana, come quella di Maria, non è nemmeno unicamente interiore. La madre di Gesù, come tutte le donne della sua classe e del suo tempo, lavorava e realizzava le funzioni proprie del suo stato di madre, di sposa, di vicina in un paese ebreo. A questa vita intera, autentica e piena 198

di soprannaturale naturalezza, è stato applicato a volte il brutto nome di «vita mista». La vita cristiana è prima di tutto una: se si rompe l’unità non è autentica vita di Cristo nel nostro essere. L’insegnamento vitale di Maria, vergine e madre, sposa e consacrata a Dio, attiva e contemplativa, nel mondo e al di sopra di esso, è unico e singolare. Lei, nel realizzare la sintesi perfetta della vita umana, ci insegna che l’azione non è che il frutto materiale della contemplazione e la sua espressione. Non è un circolo vizioso, ma un circolo vitale. La contemplazione spinge all’attività nel mondo e di quest’attività si nutrono la nostra mente e il nostro cuore per conoscere e amare Dio nelle creature, finché non siamo arrivati ancora alla visione faccia a faccia. La vita non ci è stata data né per dare né per ricevere, ossia né per attuare, fare (che cosa?), né per vedere, contemplare, giudicare (come?); ci è stata regalata perché possiamo viverla, bruciarla in olocausto di lode, sacrificium laudis, al Creatore. Io non mi giustifico per quello che faccio, ma per quello che sono. La vita – è Cristo che lo dice – non sta in quello che uno possiede (Lc 12,15). La priorità appartiene alla Vita, alla maggiore approssimazione possibile alla Vita, luce degli uomini, a Colui in cui la Vita era. L’autentica vita cristiana è la sintesi fra Marta e Maria. Certamente, Maria, la sorella di Lazzaro, scelse la parte migliore; la supremazia appartiene alla contemplazione; però non per questo cessa di essere la parte di un tutto, e il tutto è la Vita. La vera contemplazione è quella che vede Dio nelle cose, ma per arrivare a questo punto bisogna vedere le cose, conoscerle, sapere come sono, sperimentarle, vale a dire che bisogna agire, fallire, vincere, soffrire, in una parola, vivere. Esiste, alle volte, un’idea poco chiara sulla vita cristiana nel mondo, e i laici cristiani hanno vissuto per lungo tempo con un certo complesso di inferiorità. 199


La Vergine è ancora l’esempio luminoso che realizza pienamente questa vita perfetta, naturale e soprannaturale. Per l’espressione di questo spirito vorrei rifarmi a un mistico, a un frate, non moderno ma antico. Quantunque la citazione sia lunga e il tedesco arcaico sia difficile da tradurre, credo che valga la pena di tentare. Ascoltiamo quindi Meister Eckhart in Reden der Unterweisung. Una volta mi domandarono: parecchia gente si apparta rigorosamente dagli uomini e rimane felice da sola e se ne sta in chiesa e in questo trova la sua pace. È questo il meglio? Allora io dico: No. Ed eccone il perché. Chi è in pace, certo sta bene in ogni luogo e con tutto il mondo. Però colui che non sta bene con se stesso, non sta bene in nessun luogo e con nessun uomo. Colui che sta bene con se stesso, costui ha in verità Dio con sé. Ma chi ha Dio veramente lo ha in tutti i luoghi, nella strada e con tutto il mondo così come in chiesa, nell’eremo o nella cella. Niente può ingannare né sviare l’uomo che possiede Dio e tiene veramente a Lui solo. Perché? Perché ha soltanto Dio. Ma colui che ha in tutte le cose l’intenzione pura soltanto in Dio, costui porta Dio con sé in tutti i suoi lavori e dappertutto. E tutta l’attività di un tale uomo la realizza direttamente Dio. Infatti l’opera è più di colui che ne è la causa che non di colui che la realizza. Se poi la nostra intenzione in verità è pura e soltanto in Dio, Egli deve allora realizzare la nostra attività; ma a tutte le sue opere niente può essere di ostacolo, né luogo, né sentimento. Così pertanto niente può indurre un tale uomo all’errore, poiché egli vuole e cerca solo Dio, e non si lascia soddisfare da nulla se non da Dio, il quale si unisce a tale uomo per sua intenzione. E così, come Dio non è disperso da alcuna molteplicità, ugualmente nulla può dissipare né moltiplicare quest’uomo, poiché egli è unito con quell’Uno nel quale tutta la pluralità è unità e non-molteplicità. L’uomo deve vivere Dio in tutte le cose e deve abituare il suo spirito a tenere Dio sempre presente nel suo sentire, nella sua intenzione e nel suo amore intimo. È lo stesso se ti affaccendi per il tuo Dio quando stai in chiesa o nella cella. Cerca di conservare questo stesso spirito fra la gente, nel tumulto e nel mondo esterno. Ma come ho 200

detto spesso, quando si parla di rimanere uguale in tutto, non vuol dire che qualsiasi attività debba essere considerata sullo stesso piano, o che debbano considerarsi uguali tutti i luoghi e tutti gli uomini. Questo sarebbe molto ingiusto: infatti è meglio pregare che filare, e la chiesa è un luogo più nobile della strada. Ciononostante, devi avere nel tuo lavoro lo stesso spirito, la stessa lealtà e la stessa serietà che hai di fronte al tuo Dio. Credimi, se tu rimani in questa uguaglianza, nulla ti impedirà di avere il tuo Dio presente. Però, chi non ha il suo Dio veramente così, nel suo interno, ma lontano, sì che debba sempre andarlo a cercare fuori, di qua o di là, chi lo cerca in un modo diverso in un’attività o in un’altra, nei vari uomini o luoghi, costui non ha Dio. Allora può facilmente accadere che qualsiasi cosa sia un ostacolo per quell’uomo; poiché non h a Dio intimamente, né cerca solo Lui, né mantiene sempre la sua intenzione esclusivamente in Lui. Per questo, non solo lo disturba la cattiva compagnia, ma lo danna anche la buona, non solo gli è di ostacolo la strada, o una parola o un’opera cattiva, ma certamente gli è di ostacolo anche la parola o l’opera buona. Quindi, l’ostacolo sta in lui, giacché in lui tutte le cose non sono diventate Dio. Se per lui tutto fosse Dio, tutto sarebbe retto e buono, dappertutto e con tutti, perché egli avrebbe Dio nella sua intimità e nessuno glielo potrebbe togliere e anche nessuno potrebbe impedirgli alcunché nel suo agire. Ma dove si colloca quindi questo vero possesso di Dio, in modo che lo si abbia realmente? Questo vero possesso di Dio è nello spirito e in un intimo e cosciente rivolgersi e affrettarsi verso Dio; non però in un uguale e costante pensare a Dio, dato che per natura sarebbe impossibile aspirare a questo e inoltre sarebbe molto difficile e neppure la cosa migliore. L’uomo non deve avere esclusivamente un Dio pensato e accontentarsi di questo. Quando il pensiero se ne andasse, allora sparirebbe anche questo Dio. Al contrario, occorre avere un Dio essenziale, il quale sia molto al di là dei pensieri degli uomini e di tutte le creature. Questo Dio non se ne va, né si dissolve, purché non sia l’uomo che volontariamente si allontani da Lui. Chi possiede Dio così intimamente nella sua essenza, costui lo capisce in forma divina, e per lui Dio risplende in tutte le cose, dato che tutte le cose gli appaiono divina mente, e inoltre a partire da tutto egli si forma l’immagine di Dio. In lui Dio ha costantemente gli occhi spalancati, in lui si realizza una riposante separazione dall’esterno e una penetrazione del Dio sempre presente nella sua intenzione. 201


Appunto per questo occorre avere passione, attenzione profonda alla nostra intimità, coscienza sveglia, chiara e ben sicura su come il nostro spirito deve orientarsi di fronte alle cose e agli uomini. Ma questo l’uomo non lo può imparare fuggendo dalle cose e ritirandosi in solitudine, lontano dall’esterno; deve imparare a rimanere solo, intimo, dovunque o con chiunque. L’uomo deve imparare ad andare dentro le cose, ad afferrare lì il suo Dio, e deve riuscire a formarselo dentro di sé efficacemente come uno che vuole imparare a scrivere. Per possedere quest’arte occorre provare molto e spesso, per amaro e difficile che sia, e anche se può sembrare impossibile. Se uno si esercita con applicazione e frequenza, allora impara e domina quest’arte. Certamente uno deve pensare prima ogni lettera separatamente e rappresentarsela con decisione; ma subito, quando ha assimilato quest’arte, allora si libera dalla rappresentazione delle lettere e dal pensare ad esse. Allora scrive liberamente e facilmente anche se le sue sono opere piccole o audaci. Gli basta sapere che a un dato momento deve esercitare la sua arte; e allora, benché non pensi continuamente ad essa ma pensi invece a ciò che vuole, crea ciononostante la sua opera con il suo scrivere. Nello stesso modo l’uomo deve irradiare la presenza di Dio senza sforzo speciale. Più ancora, uno deve vedere le cose nella loro vera forma e rimanere totalmente libero da esse. Per questo occorre, soprattutto, pensare ad esse come l’alunno pensa alla sua arte di scrivere. Così, se l’uomo deve essere penetrato dalla presenza di Dio, deve essere impregnato e modellato sulla forma del suo amatissimo Dio, deve essere essenzializzato in Lui in tal modo che la sua presenza brilli senza il minimo sforzo.

Chi realizza questa vita piena? Non hai visto, non t’accorgi ancora di Maria, che la realizzò e che la vuole completare anche in te? Non ti rendi conto della sua stessa essenza, presente e discreta in tutte le righe vergini e feconde del mistico domenicano? Maria è maestra di vita cristiana. Donna normale e senza complicazioni, ci insegna a semplificare. Non c’è azione da una parte e contemplazione dall’altra; propositi di qua e regole e cautele di là. Tutto è più semplice e più facile. C’è semplicemente vita, vale a dire 202

55. Annunciazione, monastero di Santa Caterina del Sinai. Siamo all’origine dell’arte orientale, anzi prima della separazione tra Oriente e Occidente. Questa icona è rappresentazione della Trinità: il Padre (nei cieli), lo Spirito Santo (nei raggi) e il Figlio (nel seno di Maria). Maria che è viatico alla Trinità.

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fiat, il fiat luminoso, doppia eco del creante e del verginale, che ripetiamo con le nostre vite: un sì secondo il suo logos: Ecce ancilla Domini! Dimensioni mariane della vita Vorrei ora parlare di quelle che si potrebbero chiamare le dimensioni mariane della nostra esistenza umana, della nostra vita. Vorrei brevemente richiamarti, perché divengano meditazione personale, tre dimensioni, aventi, credo, un loro valore, e capaci di dare un certo senso alla devozione mariana. A poco serve la devozione superficiale, che svanisce nell’impatto con i problemi dell’esistenza. Si avvantaggia solo quell’anima che, con visione più profonda, e cioè contemplativa delle cose, sa vedere la realtà e sa capire il messaggio privo di parole, il messaggio di una semplice esistenza che è molto più di una predica o di un darsi da fare. Infatti Maria non ha praticamente detto niente e ha fatto molto poco. E nonostante tutto ciò, il suo «essere», la sua esistenza, la fa chiamare con ragione «benedetta fra tutte le donne». 1 - La dimensione umana La prima dimensione che una simile contemplazione di Maria ci rivela è quella che sì potrebbe chiamare la dimensione umana della religione, della nostra fede, e quindi della nostra vita. Maria non è l’assoluto, il Dio inaccessibile, invisibile, che nessuno ha visto, l’ineffabile Creatore, quello che è infinitamente distante da noi e che l’uomo non potrà mai raggiungere nel mistero del suo abisso. Maria non è neppure il Cristo, che è Mediatore, che è uomo e Dio, che è Redentore e col quale possiamo avere certamente un contatto profondo, ma che non è un contatto meramen204

te umano: la nostra relazione con Cristo è una relazione sui generis, teandrica, che non si può definire con i nostri termini di uso comune e di contatto meramente umano. Maria è qualche cosa di diverso. La prima dimensione della vita e la prima dimensione mariana della vita è quella umana. Maria è una semplice creatura, associata a tutto: alla redenzione come all’amore. Fu essa la prima credente. È precisamente questa dimensione umana della religione che viene come simbolizzata – incarnata, direi – in Maria. Una religiosità che non sia umana, che non sia concreta, che non sia terrena, che si perda in un misticismo più o meno vago, che si dissolva in uno slancio più o meno disincarnato, che abbia magari capito il senso profondamente abissale e misterico di tutta la religione, ma che smarrisca il senso di naturalezza, di umanità e di concretezza, non è più e non può essere una religiosità concreta, umana, terrena e cioè piena. È qui che i pericoli diventano visibilissimi: il pericolo infatti di una religione troppo sentimentale o troppo debole esiste. Se si paragona la religiosità cristiana ispirata da questa dimensione mariana con la religiosità di alcune religioni cui manca a volte un po’ questo elemento umano, allora si vedrà l’enorme differenza tra un cristianesimo incarnato, umano (e che pecca tante volte per essere troppo incarnato e troppo umano) e una religiosità o una trascendenza pura, di mistero affascinante ma che sta al di là e che fa che gli uomini vivano sempre con la paura o con l’ossessione di un destino che li sovrasta. La religione appare allora una cosa che non può essere di ogni giorno perché è troppo sublime, perché è assolutamente inaccessibile: ha perso proprio questa sua prima dimensione di umanità e naturalezza. A tutta la più grande teologia, che verte sui grandi temi della redenzione, della creazione, dell’amore, della distribuzione delle grazie, della divinizzazione dell’uomo, è 205


stata associata una povera contadina in virtù del fiat, di un’annunciazione. Il mistero dell’Annunciazione è proprio in questa dimensione umana, terribilmente umana, per cui la religiosità del cristianesimo rischia di sembrare a volte troppo banale. Ma un estremo non giustifica l’altro e un abuso non si elimina con un abuso contrario. Chi ha un rapporto un poco personale con Maria automaticamente e spontaneamente acquista un senso di naturalezza, una dimensione di umanità per tutta la sua religione. Difficilmente chi abbia stabilito un contatto personale con Maria può avere una religione o una religiosità negativa, fatta di ascetismo inumano o dotato di una forza di volontà che sembra lo separi dagli altri uomini. 2 - La dimensione femminile Una seconda dimensione della Madonna e della vita cristiana è centrata sul mistero dell’Immacolata, sull’Ecce ancilla. È la dimensione femminile della vita spirituale, della vita interiore. Maria è donna da una parte e madre dall’altra. È donna e cioè incarna quell’eterno femminino di cui parlano i poeti. Ella incarna l’amore umano, incarna tutta la polarità che sta nel sesso, tutta la necessità che ha l’uomo di un complemento e di un polo uguale ma del tutto diverso, a volte quasi contraddittorio. Chi non scopre questo lato, e non lo integra nella sua vita personale, rischia gravi errori: è falso pensare che il corpo sia soltanto maschile o femminile. L’uomo, nella sua complessità, ha questa polarità, questa tensione che comincia nel suo interno e che si estende poi al suo rapporto con gli altri. Il cristiano che non ha un rapporto vitale con Maria tende facilmente a ridurre la sua religione a uno di quei fattori 206

che costituiscono uno dei pericoli più gravi dei nostri tempi: il distacco dalla vita. Allora la religione serve a chi è molto buono o a chi è molto peccatore, ma non serve per tutta la nostra vita umana, e quindi non potrà essere una religione completa che afferra tutta la vita dell’uomo. Maria è una donna: ogni epoca la potrà simboleggiare nella forma che meglio le si addice, ma nel fondo sarà sempre la stessa cosa e rappresenterà la necessità dell’eterno femminino, la necessità di una vita complementare, la necessità che ci sia sulla terra e in cielo un solo, unico amore. Chi pensa di poter amare Dio in modo diverso da come ama la sua ragazza, sua madre o un amico o un’amica comincia già a staccarsi dalla vita e comincia a fare della sua religione una cosa così pura, così sterilizzata e asettica che poi non gli serve per essere uomo e per essere con gli altri uomini. Forse può vivere la prima parte del massimo comandamento; ma dire che io devo amare il prossimo come me stesso e pensare che questo amore non abbia lo stesso senso dell’amore umano sulla terra, questo non è amore. L’uomo ha un solo cuore, che è fatto in un solo modo. Chi ama Dio, e chi ama gli uomini per Dio, non ama in una forma diversa da come può amare con l’amore più appassionato e più sessuale che possa esistere sulla terra. C’è un unico amore, e questo si realizza quasi automaticamente e armonicamente quando si ha una relazione di fede e di amore con la Madonna. Questa dimensione femminile della vita e dell’esistenza, questa necessità del femminile esiste dentro di noi perché in fondo ogni essere umano è androgino, ed esiste anche accanto a noi. Maria è madre di Cristo e madre nostra, e anzi, secondo la forma sbalorditiva e dogmatica di Efeso, è madre di Dio. 207


56 a: Kiev, cattedrale della Santa Sofia, mosaico dell’Annunciazione, l’arcangelo Gabriele. 56 b: Kiev, cattedrale della Santa Sofia, mosaico dell’Annunciazione, la Madre di Dio.

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57. Piero della Francesca, Annunciazione, cimasa del polittico di Sant’Antonio, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

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Forse la dimensione umana manca in alcune religioni, o almeno in alcune manifestazioni di religioni, ma la dimensione della dea-madre, della maternità divina, non manca in quasi nessuna religione. È curioso! Non che noi dobbiamo pensare che Maria sia la dea-madre o il sostituto della dea madre delle altre religioni, ma la formula Mater Dei, in tutta la sua forza, resta e resterà sempre una formula dogmatica, che non si accontenta di dire che Maria è madre di Cristo, ma che dice e ripete che Maria è madre di Dio. Secondo una mia interpretazione, Maria è «madre temporale di Dio e madre del Dio temporale». La definizione latina Mater Dei temporalis può significare «Madre del Dio fatto tempo, del Dio temporalizzato» e «Madre temporale del Dio eterno». Non la dea madre, ma la madre di Dio, il che dà una dimensione di concretezza alla nostra religione. Esiste, ripeto, il grande pericolo di staccare la religione dalla vita, di fare della religione una cosa bella, sublime, superiore, che si mantiene al di fuori affinché non si sporchi nella vita quotidiana, con il pericolo di un’atrofia dell’essere. Soltanto quando scopriamo che il nostro cuore è fatto per amare non ci vergogniamo dei nostri sentimenti e della nostra dimensione umana. Un certo rapporto e un minimo di devozione a Maria aiutano a umanizzare il nostro essere e la nostra religione. Dovrei forse fare un’esegesi del Cantico dei Cantici per spiegare bene ogni cosa, ma mi limiterò a consigliarne una lettura attenta. 3 - La dimensione corporale C’è però anche una terza dimensione che la devozione a Maria ci mostra e ci rivela. Se il primo mistero è quello dell’Incarnazione e il secondo quello dell’Immacolata, il terzo è quello dell’Assunzione. 210

La devozione a Maria ci aiuta a scoprire che la religione è per la nostra vita nella sua complessità, nella sua dimensione umana, e quindi anche corporale. La religione non è per gli spiriti, né per gli spiriti puri né per gli spiriti impuri. Riguarda l’uomo nella sua unità indistruttibile e consustanziale tra anima e corpo. Una religione che non sia corporale non è religione umana e quindi non serve all’uomo. Una religione che voglia presentarsi soltanto come purezza spirituale sarà stoica, sarà gnostica, sarà platonica, ma non sarà pienamente cristiana. A questo proposito io sostengo che la fede nell’immortalità dell’anima è dogma platonico e non dogma cristiano. Non esiste passo né biblico né dogmatico dove si parli dell’immortalità dell’anima. È l’uomo che è immortale. È l’uomo che è unità. È l’uomo che ha una religione. E uomo vuol dire anche questa carne, questo corpo, queste ossa. La resurrezione della carne non è una specie di appendice aggiunta all’ultima ora, ma è una realtà che sta all’inizio di tutta la vita, di tutta la vita cristiana. La religione deve essere dunque corporale. Il dogma dell’Assunzione: Maria assunta è una creatura, è un essere umano, è corpo e anima. Non esistono corpi da soli – un cadavere non è un corpo – e non esistono anime da sole. Le persone sarebbero allora solo delle astrazioni. Così come non c’è una volontà sola, un’intelligenza sola: posso parlare di intelligenza, corpo, anima, ecc., ma è solo un modo di parlare. Posso dire: dito, unghia, ecc., ma non posso ipostatizzare e far camminare l’unghia sola o il corpo solo o le anime sole, come in quei bei quadri delle vecchie chiese dove si vede soltanto la metà superiore delle anime del purgatorio, che spingono il bambino a chiedere alla mamma se le anime del purgatorio finiscono a punta... 211


Il valore del corpo è in quanto corpo e non in quanto serve ad altro. Il corpo non è uno strumento, ma un costituente dell’uomo. Il valore del corpo comprende il valore dei sentimenti umani, della purezza umana, di tutti i sensi, della civiltà, di tutto l’insieme dei valori corporali, del concreto e del tempo. Tutto questo va divinizzato, tutto questo va trasformato, tutto questo va «assunto». Questa terza dimensione corporale deve essere una dimensione della vita cristiana, della vita mistica, vincendo, se necessario, l’influsso gnostico, stoico, neoplatonico e spiritualista. San Paolo, culturalmente parlando, non poteva certo avere il grado di conoscenza riflessiva che abbiamo noi, eppure, quando ebbe l’estasi più alta, non si azzardò a dire di aver abbandonato il corpo. «Con il corpo o senza il corpo, Dio lo sa». Rapito al terzo cielo, ripete: «Se col corpo o senza il corpo, Dio lo sa». Evidentemente col corpo. In Cristo la Divinità abita in tutta la sua pienezza corporalmente. Perché si dice che Dio è spirito e non che Dio è corpo? Quando si dice che Dio è spirito, non si intende che egli sia spirito sul modello del nostro spirito: è evidente! Ma perché deve valere solo la metà del mio essere, magari purificato, sublimato? E l’altra metà? O forse dirò che il corpo è peggiore dell’anima con Plotino, con gli gnostici, con gli stoici e con tanti altri? La dimensione corporale della vita interiore, della vita cristiana! Il valore divino e soprannaturale del corpo! Dio non è un essere corporale. E sia! Ma Dio non è nemmeno un essere spirituale! E se si dice che Dio è un essere spirituale, purificando il concetto di spirito, allora io dico che Dio è corporale, purificando anche il concetto di corpo! Si purifica, si applica in senso analogico e quindi tutto è risolto! 212

In Maria, con il dogma dell’Assunzione, abbiamo una creatura associata alla redenzione dell’umanità e unita in corpo e anima a Dio, secondo la terminologia tradizionale. Corpo e anima: io non sono uno spirito, né sono spirito da una parte e corpo dall’altra. Quindi la mia religione, la mia fede, se sono autentiche, saranno ugualmente corporali e piene dei valori del corpo e della gravitazione, così come sono piene dei valori dello spirito. Di qui, un’altra volta, la religiosità che integra e che penetra pienamente nella vita umana, nella vita del corpo. Di qui l’importanza, e non per ragioni moralistiche più o meno buone e che poi si vogliono giustificare quasi igienicamente, del rispetto del corpo altrui come del proprio corpo. Di qui la funzione del digiuno e del mangiare, dell’atto della procreazione e della danza, di un correttivo del corpo e dell’igiene e della bellezza fisica: tutti questi valori non possono essere al di fuori, indipendenti, ed esistere soltanto con una relazione negativa. Non si tratta di salvare l’anima; si tratta di salvare l’uomo! Non è soltanto l’anima tempio dello Spirito Santo, ma anche il corpo! Nell’Eucaristia l’uomo sta, con questo metabolismo soprannaturale, lentamente trasformando tutto il suo corpo in corpo glorioso. Tutto il suo corpo. Il quale non sarà meno corpo perché più spiritualizzato. Sarà più unito, per cui la volontà sarà sempre più intelligente, e l’intelligenza avrà una potenza di libertà e di decisione sempre più forte. Per cui lo spirito sarà più incarnato, più fatto ossa e la proteina sarà più spiritualizzata, più fatta spirito. Ci sarà quindi più unità di vita, più unione tra corpo e anima, tra volontà e intelligenza, tra sentimenti e desideri: 213


58. La Trasfigurazione di Cristo, mosaico absidale e dell’arco trionfale, chiesa del monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, metà del vi secolo.

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59. Beato Angelico, affresco, 1437-1445. Convento di San Marco, cella 31, Firenze. La Risurrezione, per le chiese orientali, qui imitate dal Beato Angelico, è la discesa di Cristo agli Inferi, per portare con sé nella gloria il genere umano a partire da Adamo.

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l’uomo raggiungerà un’unità ogni volta più profonda, ogni volta più semplice. Tutte queste considerazioni sono variazioni sull’unico tema dell’Assunzione: «Perciò tutte le generazioni mi chiameranno beata». La dimensione del valore del corpo umano! L’importanza dei nostri sentimenti! Siamo abituati a considerare che l’essenza del peccato e dell’atto umano sia la volontà, sovrana e decisiva, che fa e disfa. Povera volontà, che balla la musica che le fanno sentire! Fondamentali, almeno come la volontà, sono i sentimenti! Almeno così fondamentali, come la decisione che noi crediamo libera, e che sotto un certo aspetto lo è, sono l’insieme di cause e di concause e di fattori concomitanti che influiscono sulla realizzazione di un atto. Dimensione corporale quindi della vita interiore. Una religione distaccata dal corpo non è una religione umana. A una religione che considera questo corpo solo come uno strumento a servizio dell’anima si potrebbe ribattere che anche l’anima aiuta e sta al servizio del corpo. Esattamente uguale! Né l’uno in funzione dell’altra, né l’altra in funzione dell’uno: essi sono un’unica cosa in una duplice manifestazione. È certo che chi entra in relazione personale con Maria trova immediatamente e istintivamente questo recupero del valore della santità per tutto quello che è corpo e che è corporale, e dà un valore di trascendenza, cioè di religione, a tutta la vita umana. Dicevo che una formazione eccessivamente volontaristica ci aveva fatto pensare che noi siamo responsabili soltanto di quello che la nostra volontà decide. Ma noi siamo molto di più: siamo responsabili di quello che il nostro cuore sente. Quando Pietro rimprovera con dure parole Anania del suo peccato, della sua bugia, quando a Simone Mago gli 216

60. Cristo e Maria al centro del mosaico dell’abside della basilica di Santa Maria in Trastevere, Roma.

apostoli rivolgono lo stesso rimprovero, non parlano della volontà, non gli dicono che ha deciso, ha acconsentito o non ha acconsentito, ma che il cuore è stato macchiato per lo stesso fatto che un pensiero o un desiderio o un’idea ha trovato posto dentro il cuore. Guai a credere che la nostra pulizia interiore consista solo nel lavarci le mani, per poi pensare a questo o a quell’altro, e concludere con un «siccome non acconsento a niente...» o con un «non faccio nulla...». È qui dove è necessaria una formazione molto più profonda, che ci faccia sentire responsabili e che permetta a chi abbia un minimo di fede e di carità la catarsi e la purificazione dei propri sentimenti e del corpo, delle tendenze e dei desideri, di tutto quell’insieme di valori più profondi di tutta la nostra esistenza umana. È qui dove anche la fede trasforma, purifica e cambia. 217


Epilogo Abbiamo descritto le tre dimensioni della vita interiore dal punto di vista mariano. Maria è simbolo vivo di una religione umana e di una religione che ha un aspetto femminile: noi siamo il principio femminile che Dio feconda e tutta la relazione dell’uomo con Dio non è altro che una relazione di femminilità creata, rispetto al Creatore. Il tema «sposalizio» è uno dei Leitmotiv di tutto l’Antico Testamento. Maria è poi anche il simbolo della terza dimensione, quella corporale della vita, della vita spirituale e della vita di fede e della vita cristiana. I tre dogmi mariani: il dogma dell’Annunciazione che ci rivela questo senso umano; il dogma dell’Immacolata con la sua dimensione femminile di ancilla Domini; il dogma dell’Assunzione, infine, che la rende consapevole che tutte le generazioni la chiameranno beata perché in lei Dio ha fatto grandi cose, cioè tutto l’essere di Maria che verrà poi assunto in corpo e in anima al cielo. Come commiato adesso, amico lettore, vorrei ripetere quell’unica frase di Maria agli uomini, che i Vangeli ci hanno consegnato come un testamento: «Fate quello che egli vi dice». Anche se dovesse dirci di riempire di acqua gli otri destinati al buon vino, non esitiamo... e riempiamoli completamente, usque ad summum!

61. Le nozze di Cana, Napoli, battistero di San Giovanni in Fonte. Maria ha spinto Gesù al suo primo miracolo per un motivo tutto umano e festoso.

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A ria

9. Ekklesia e Mandiram due simboli della spiritualità umana

Due templi e un solo popolo Una delle parole sanscrite per indicare il tempio hind¥ è mandiram, che significa dimora, casa, palazzo... fino a città, da una parte, e stalla (mandura, in greco mandra, che poteva anche significare monastero; cf. archimandrita), dall’altra. Il tempio è la casa del Dio, la dimora del Divino, il recinto divino, come indica la parola greca temenos. Il Divino è ovunque: ivavasyam idaq sarvam, «questo intero (universo) è avviluppato da Dio» (IsU 1). Ma noi mortali possiamo ricavare grande beneficio da un luogo tangibile in cui il Divino sia più facilmente accessibile. La religione che insiste tanto sull’immanenza divina universale ha costruito i più splendidi templi per ospitare gli Dèi all’interno di gopuram e garbha-grha! Una delle parole greche per il tempio cristiano è ekklesia, che significa convocazione, assemblea radunata dall’esterno. Il verbo kaleo significa “chiamare, nominare”, e kle[i]o “rendere noti, famosi” (cfr. in latino clamor, clarus). *Estratto da Ekklesia e mandiram, due simboli della spiritualità umana: ed. or. Ekklesia and Mandiram. Two Symbols of Human Spirituality [Foreword], in «Studies in Formative Spirituality», XI, 3 (novembre 1990), pp. 277-284. In Opera Omnia, Vol. vii, Induismo e cristianesimo, pp. 455-461.

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Il tempio è l’assemblea, le persone debitamente raccolte dalla chiamata divina. Così come in inglese si dice Church (Chiesa), dal greco kyriakos, appartenente al Kyrios, al Signore che convoca il popolo. Il Signore dimora in una luce inaccessibile58: θεον ουδεις εωρακεν πωποτε, «Dio, nessuno lo ha mai visto» (Gv 1,18). La religione che tanto insiste sulla trascendenza divina ha costruito le più splendide cattedrali per accogliere il popolo. Abbiamo qui due atteggiamenti complementari. Primo: all’interno delle rispettive tradizioni, il tempio hindu è una casa di Dio, il tempio cristiano è una casa dell’Uomo. La divinità hindu, prevalentemente immanente, esige una sede per gli Dèi. La divinità cristiana, prevalentemente trascendente, esige una sede per il popolo. Secondo: i due atteggiamenti sono complementari l’uno all’altro. E così da ambo le parti sentiamo che i veri templi del Divino sono i nostri corpi, perché, in ultima analisi, il tempio materiale è solo un simbolo. Questa non è un invito a radere al suolo tutti i templi. È l’auspicio di una comprensione più profonda del fatto che ekklesia e mandiram sono costruiti affinché il popolo incontri Dio, e gli Dèi incontrino il popolo, e che c’è un unico popolo, la famiglia umana, e un’unica divinità, la sfera divina. Non possiamo scomunicare né noi stessi né il Divino dalla realtà. Siamo intrinsecamente correlati gli uni agli altri e al cosmo, in quanto terza “dimensione” dell’universo - questa è l’intuizione cosmoteandrica. Ciò non equivale né a sostenere che dovremmo tutti fonderci in un’unica religione, né a promuovere un solipsismo religioso o spirituale. Ribadisco che l’autentica comunicazione umana deve sempre essere una communicatio in sacris, una fratellanza religiosa, una condivisione più o meno esplicita delle nostre esperienze del mistero ultimo della Vita e della Realtà. Propongo una mutua fecondazione tra tradizioni religiose nei recessi più profondi dell’essere umano. Sostengo che, senza amore, tale fecon222

62. Immagine di basilica con l’iscrizione Ecclesia Mater, «la Madre Chiesa», dal mosaico di una tomba cristiana di Tabarka, Tunisia. L’edificio rappresentato è il simbolo della chiesa, corpo mistico e popolo di Dio.

dazione sarebbe mostruosa; e che, con l’amore, si corre il “rischio” che nasca un nuovo bambino, il prosieguo della vita religiosa in forme finora impreviste. I cristiani “illuminati” dicono che la Chiesa non è l’edificio, e analogamente i “colti” hindu ripetono che il culto al tempio è la forma più bassa di religione. Comunque sia, i simboli dovrebbero parlare da soli, e qui mi limito a sottolineare il simbolismo dell’edificio in entrambi i casi. In breve, le spiritualità viventi sono sempre concrete, incarnate, vive nelle case degli Dèi e degli uomini. Questi due simboli della ekklesia e del mandiram esprimono inoltre il fatto che le spiritualità non devono essere confuse con semplici dottrine o riti. Né il cristianesimo né l’induismo sono solo “templi”, templi materiali. Ma senza la realtà di questo simbolo possono ridursi a semplici ideo223


logie. Il tempio è materiale, il tempio delimita uno spazio e circoscrive un tempo, riunisce il popolo fatto di corpi, e ospita anche, in certo modo, il Divino. Un tempio è un luogo di incontro. Può facilmente essere scoperto, e distrutto. Il tempio condivide tutta la vulnerabilità umana. Quando Paolo parla di noi come di «templi dello Spirito santo», si riferisce esplicitamente ai nostri corpi, non solo alle nostre menti (1Cor 6,19). Il lipgam è nel grha garbha; e anche se ci dovesse essere il vuoto assoluto, dovrebbe essere comunque “collocato” lì. L’invisibile prakrti è sempre accompagnata dalla vikrti visibile con cui il supremo Spirito pervade l’universo, dice la Vispudharmottara (iii, 46,3). Ma c’è dell’altro. Spiritualità è coinvolgimento, azione, prassi. Il tempio è li per fare qualcosa, fosse anche solo per attrarci o respingerci. Non è neutrale. Trimarga e Homo viator

63. Il Lingaraja, il tempio più importante, più grande e più bello del Bhubanesvar, è decorato all’esterno con animali fantastici: leoni stilizzati con le fauci spalancate e la zampa destra sollevata. Il jaganmohana, la sala delle udienze o anticamera del santuario, accoglie i pellegrini che vogliono arrivare fino al cuore del tempio. Dalla base quadrata alla sommità del tempio, si opera un passaggio progressivo verso l’unità, simbolizzata dall’amalaka, un cuscino tondo sormontato da un vaso in un solo pezzo e da una punta.

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Quali che siano le differenze tra questi due ricchi fasci di spiritualità e religioni, che raggruppiamo sotto il nome di induismo e cristianesimo, entrambi parlano di un pellegrinaggio, di seguire una via, il sentiero verso la perfezione, la realizzazione, la salvezza, la liberazione, il compimento, la divinizzazione - per non usare termini sanscriti. Tutte le vie possono condurre alla vetta, sebbene noi possiamo discordare circa l’altezza, la natura e perfino l’esistenza reale della vetta. Un unico metodo (hodos, via), una unica sadhana (disciplina) non servirebbe. Così come sarebbe inutile discutere per via sotto falso pretesto, o magari passare superficialmente da un sentiero all’altro, perché è più facile rinunciare a scalare i rispettivi percorsi e lasciarsi allettare dalle proposte dei propagandisti religiosi, che si presentino in veste di guru o di missionari. Chiunque sia addentro alla spiritualità cristiana conosce la convinzione di base delle tradizioni abramitiche, 225


che dipingono l’uomo (come fa anche Sapkaracarya, del resto) come un pellegrino verso la Terra promessa. Non ha molto senso limitarsi a discutere sulla natura dei vari cammini. O meglio, la via è tale soltanto se noi la percorriamo davvero, così come una canzone è tale soltanto quando viene cantata. Se siamo attenti alla nostra sadhana, possiamo scambiarci le esperienze, ma difficilmente ci impegneremo in discussioni prettamente dottrinali, per importanti che siano nelle sedi appropriate. «Caminante, no hay camino – dice Antonio Machado –, se hace camino al andar» (Pellegrino, non c›è il cammino: il cammino lo si fa camminando). Siamo tutti pellegrini in cammino, anche il jiivan-mukta (l’anima realizzata), finché sussiste il corpo. Ciò che ci riunisce non è il fatto di essere d’accordo o che tutti procediamo lungo la stessa high-way, ma che andiamo avanti, che non ci areniamo nemmeno nelle nostre idee, che rimaniamo cercatori, viatores, anche se non sappiamo esattamente verso quali tirtha (templi) e su quali ksetra (suoli sacri) andiamo. In poche parole, una spiritualità autentica è sempre dinamica, è marga (cammino), sådhana (disciplina), prassi con annessa teoria che la rende aperta al cambiamento, alla metanoia (trasformazione). Upayanupaya: «Ya por aquì no [h]ay camino» Questo non è luogo per uno volo mistico, per quanto io possa essere tentato di farlo. È solo una occasione per sottolineare che, quando parliamo delle nostre esperienze personali, raggiungiamo un livello più profondo e proficuo di quando ci riferiamo a semplici esposizioni dottrinali – per quanto necessarie poiché, senza sforzo intellettuale e seri studi, il resto rimane superficiale. L’intuizione mistica non è tutto, ma senza di essa l’incontro tra spiritualità è incompleto e spesso deformato. L’incontro tra spiritualità non è un confronto di dottrine, né scambio di esperienze. Comprende entrambe, ma non può essere ridotto all’una 226

o all’altra. Solo se ho esperienza personale sarò in grado di trattare dogmi e dottrine con la libertà del vero credente. Solo se ho le necessarie conoscenze dottrinali sarò in grado di afferrare il significato della mia esperienza, e le somiglianze e le divergenze con quelle altrui. Ma sono spinto a fare un rilievo di altro tipo, sulla scorta di Abhinavagupta e san Giovanni della Croce. Entrambi ci dicono, per usare le parole di Giovanni della Croce: «… y en el Monte nada»: sulla vetta, nulla; sulla montagna, il nulla. Non c›è cammino; upaya, il mezzo, è anupaya, assenza di mezzi. Il cammino, in ultima analisi, può diventare l’ostacolo. Non vi può essere intermediario. Dobbiamo diventare noi stessi i mediatori, gli esseri integrati, le persone realizzate, i jivanmukta, i comprehensores, avendo realizzato noi stessi lo aham-brahman, l’atman-brahman. Ciò che volevo dire è più semplice: oggi, e non solo sulle vette della vita spirituale, ma anche sulle pianure dell’esistenza religiosa non vi sono più sentieri tracciati. Le inondazioni tecnocratiche e le frane modernistiche hanno coperto molti dei cammini tradizionali. Per dirla in altro modo, la spiritualità per il nostro tempo non è una semplice replica di vecchi schemi, per importanti che siano, e per quanto necessario sia conoscere in profondità le rispettive tradizioni. È sì la tradizione che ha forgiato le nostre ali, ma per volare dobbiamo aprirle e muoverle noi stessi, seguendo i venti dello Spirito (ancora la ridondanza). Dico insomma che la nostra situazione è nuova, e che spiritualità non è soltanto archeologia o – se è per quello – soltanto religione comparata. La sintesi deve essere personale e pertanto umile, ma non individuale. Deve essere spontanea, come manifestazione del nostro intero essere, e non come risultato della nostra sola volontà. Deve essere rivelazione del mistero di libertà, non un collage di elementi esotici, seppure ben intenzionati, e perfino variopinti a volte. Deve essere reale e, pertanto, adatta alla nostra situazione odierna, lasciando spazio anche ai fattori dia227


cronici presenti nelle diverse culture. Chiunque viva nel contesto tecnocratico della nostra epoca sa quante inondazioni siano avvenute nelle vallate tradizionali. Le dighe non serviranno. Dobbiamo lasciare che i fiumi scorrano. Non ci sono sentieri sulle vette della vita spirituale, ma non ci sono nemmeno sentieri che oggi ci conducano a un autentico incontro tra spiritualità. Non ci sono modelli. Qui non si richiede uno spostamento di paradigma, perché non possiamo partire dal presupposto che ciò che crediamo che lo Spirito ci ispiri a fare e a essere sia un paradigma per noi, né tanto meno per gli altri. La vita veramente spirituale è un rischio. Non c’è modello da seguire. Non vi è alcun profeta da ascoltare, perché, se anche ce ne fosse uno, la prima cosa che un autentico acarya direbbe è: «Non chiamarmi buono», «Non imitarmi», «Segui te stesso» (o meglio, il tuo Sé). In breve, il compito di contribuire a una spiritualità per i nostri tempi è un compito formidabile, in tutti i sensi. Sappiamo solo questo. Dobbiamo fedeltà alle nostre tradizioni; e proprio questa fedeltà ci obbliga ad andare oltre le tradizioni che ci hanno nutrito, come suggerisce la stessa parola “tradizione”: dobbiamo passarla di mano in mano, e quindi trasformarla. Entriamo in una No-Man’s Land, in una “terra di nessuno”, e per questo stesso motivo dobbiamo deporre tutte le armi intellettuali e spirituali, per incontrare l’altro che entra dal lato opposto in questa terra di nessuno. Cosicché essa diventa veramente una Land of Man, Terra dell’Uomo.

A ria

10. Spazio sacro. Non c’è spazio esteriore senza spazio interiore

Lo spazio è il tessuto ultimo della realtà. Noi siamo anche spazio. Questo spazio si espande in nove direzioni, che cercherò di descrivere con il simbolo divino della porta (janua, da Dio Giano, e porta, dal Dio Portunus). Una porta aperta: simbolo di potenzialità, ricettacolo universale La nostra esperienza dello spazio comincia probabilmente con la consapevolezza delle distanze esterne. Noi vediamo attraverso una porta aperta. La consapevolezza della distanza, nei bambini, è tutt’uno con la distinzione che essi pongono tra sé e gli altri. Per la coscienza indivisa del bambino, la separazione (spaziale) significa anche distinzione (intellettuale): le distanze costituiscono lo spazio esterno e le distinzioni formano lo spazio interiore. Due entità, inseparabili spazialmente, sono indistinguibili. Lo spazio interiore e lo spazio esteriore sono due facce della medesima realtà. Lo spazio interiore non è una me-

*In Concepts of Space, Ancient and Modern, a cura di Kapila Vatsyayan, Abhinav Publications, New Delhi 1991. In Opera Omnia, Vol. xii, Spazio, tempo e scienza.

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tafora tratta dallo spazio esteriore. Il primato che alcune culture conferiscono alla esteriorità opera – se non è bilanciata dalla interiorità – una dicotomia all’interno della coscienza umana. L’esperienza primordiale e universale dello spazio, ben lungi dall’essere limitata allo spazio esteriore, è olistica: l’interiore e l’esteriore si completano a vicenda. Il fatto che una sola parola simbolizzi una realtà sia spirituale che materiale non è eccezionale. Nel buddhismo cinese, ad esempio, la parola agha, che proviene dal sanscrito akava (spazio etereo), sta a significare sia la materia visibile che il vuoto invisibile. In italiano esiste una parola di origine greca che corrisponde a questa intuizione: “etere”, caduta in disuso perché cancellata dalla scienza moderna come ipotesi superflua. La concezione più tradizionale dell’universo è sacramentale e vede ogni realtà materiale come imbevuta di una componente spirituale, come portatrice di forze fisiche e

64. Schema di villaggio dogon, Mali. Lo spazio è organizzato antropomorficamente: l’insediamento si estende da nord a sud, «come un uomo che giaccia supino»; la testa è la casa del consiglio e si trova sulla piazza principale, che rappresenta il “campo primordiale” (Ogotemmeli); a nord sta la fucina, nel luogo in cui si riteneva fosse posta, appunto, la fucina del fabbro civilizzatore; a est e ovest, al posto delle mani, sono collocate le case delle donne mestruate (con la forma tonda di uteri) e al centro, nella posizione del petto e del ventre, le dimore delle famiglie; a sud, al posto dei piedi, sono gli altari.

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65 a: Pianta dello tsuklakhang di Cyantse, 1418-1425. Un portico colossale decora la facciata e all’interno, su una grande sala ipostila illuminata da un lucernario, si affacciano tre cappelle. La maggiore, in asse con la porta d’ingresso, è consacrata a Sakyamuni, seduto tra due bodhisattva, Padmapa.Qi e Maiijusr”i; un deambulatorio, alto quanto la cappella maggiore, permette di farne il giro. La cappella a sinistra è consacrata a Vairocana, quella a destra a Maitreya. Quest’ultima ospita il celebre gruppo dei tre re tibetani protettori del buddhismo. (Gilles Beguin) 65 b: Alzato-sezione e pianta del kumbum di Cyantse, (1427-7474).

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66. Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna, interno, mosaico il cielo stellato della volta.

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67. Scultura in bronzo dell’Angelo dell’Annunciazione (1978) realizzata per Apel-les Fenosa ( 1899-1988) e collocata nel Camino del Ave María, nella Basílica de Montserrat. Il vuoto al posto del cuore dell’Angelo era per Panikkar l’osmosi tra interno ed esterno.

psichiche. Cabod in ebraico indica il peso o la preziosità o la gloria (di Dio). Pneuma in greco sta per vento, respiro e spirito, e in molti testi di san Paolo non si riesce addirittura a distinguere se il termine si riferisca allo spirito umano o allo Spirito divino. Atman in sanscrito significa corpo, anima e il sé. Salus in latino sta per salute e per salvezza. Quando la maggior parte delle antiche tradizioni fanno riferimento agli elementi primordiali, intendono indicare una realtà che è al contempo materiale, spirituale, e anche divina. La stessa cosa si potrebbe dire degli elementi dei Presocratici. L’acqua di Talete, ad esempio, non è certamente H2O. In breve, la separazione tra spazio interiore e esteriore, identificati rispettivamente con lo spirituale e il materiale, è una concezione piuttosto moderna. Lo spazio può essere concepito come il contenitore che rende possibile ogni contenuto, perché è tanto contenente che contenuto. Lo spazio è ciò entro cui le cose accadono e sono, perché lo spazio è parimenti dentro le cose. Lo spazio è una realtà primordiale che non rientra nella nostra categorizzazione di interno ed esterno, soggettivo e oggettivo, materiale e spirituale, creato e divino. «Tutto ciò che è, l’esterno e l’interno, è dentro lo spazio», dice una Upanisad; «fin dove è akava , là è anche akava nel cuore… In esso sono contenuti sia il cielo che la terra, sia il fuoco che che il vento, sia il sole che la luna, il lampo e le stelle, ciò che si possiede qui e ciò che non si possiede; ogni cosa vi è contenuta». La tradizione upanisadica identifica akava con atman. Platone dice che lo spazio (chora) «offre un habitat a tutte le cose create». Posso partire da un truismo: lo spazio è ovunque, esso è tanto il luogo (ubi) che il sito (situs) delle cose. Ogni cosa è in un qualche posto perché vi è situata, in relazione con tutto. Essere è essere-con (co-esse) ma anche essere-in (in-esse). È come dire che lo spazio è ogni cosa, ma non il tutto di ogni cosa. Lo spazio coesiste con ogni cosa. 233


Parafrasando Aristotele, potremmo dire che non c’è niente che possa circondare lo spazio: sarebbe ancora spazio. Ma come potrebbe essere altrimenti, senza privare lo spazio di ogni intelligibilità? Il nostro primo approccio è quello di una porta aperta. Propriamente parlando, una porta aperta non è affatto una porta. Siamo già dentro – e al contempo fuori. Giano, il Dio della porta, aveva un doppio volto, simbolo di ambivalenza. Ciò significa che, nonostante tutti i nostri metodi olistici e intuitivi, abbiamo bisogno del rigore e dello sforzo degli approcci parziali, cioè di aprire le porte attraverso la specializzazione: una porta o un’altra. I problemi sorgono quando ci dimentichiamo che la nostra entrata era solo un varco che abbiamo creato nell’intero edificio – o quando abbiamo perso di vista il fatto che il nostro buco non solo ci introduce nell’edificio ma anche ci porta fuori, poiché il tempio di tutta la realtà che stiamo considerando non si trova “lassù”, ma ci avvolge. Noi ne facciamo parte. Una porta chiusa: la moderna frammentazione della conoscenza La crescita della persona, così come la maturità culturale, avviene tramite le distinzioni. Il bambino cresce “discriminando” sempre di più. La cultura distingue e approfondisce le conoscenze attraverso la specializzazione. Cominciamo così a distinguere tra gli spazi: destra e sinistra, sopra e sotto, Est e Ovest, fisico e psichico, terrestre e astronomico, interiore ed esteriore. Le distinzioni non dovrebbero però portare a una separazione. In alcune culture lo spazio è diventato soprattutto una nozione fisica e, solo per estensione, una nozione spirituale. Lo spazio è, tuttavia, una categoria onni-avvolgente, come ci ricordano ancora le culture africane. Ma noi moderni siamo riusciti a frammentare la conoscenza, 234

68. Cranio rimodellato in stucco proveniente da Tell es-Sultan, cioè Gerico, nella valle del Giordano in Palestina, testimonianza della consuetudine riscontrata di inumare a parte gruppi di teste che venivano lavorate con pitture o incrostazioni di conchiglie per mettere in rilievo gli occhi. (Julien Ries)

ignorando il fatto che la frammentazione della conoscenza comporta la frammentazione del soggetto conoscente. Le specializzazioni in se stesse non sono un male; il problema è che la conoscenza autentica non può essere frammentata senza coinvolgere colui che conosce. Lo spazio – convertito in una nozione oggettivabile o specializzata – si è ridotto a una specie di estensione newtoniana, una scatola vuota in cui si muovono i corpi. Quando lo spazio è concepito solamente come esteriorità, si può parlare solo metaforicamente di spazio interiore. Non esiste “luogo” per lo spazio interiore, nemmeno per le distinzioni tra spazio e spazio in differenti luoghi. Ogni spazio fisico è omogeneo e generalmente isomorfo. Si usa lo stesso metro sia per le distanze stellari che per quelle intramolecolari. Ecco dunque che ci si presenta inevitabilmente un problema politico. Dobbiamo pagare un tributo a una certa 235


modernità scientifica e chiamare “spazio” solo lo spazio esterno dei corpi fisici? O dobbiamo attenerci a un uso più tradizionale e olistico della parola? È certamente un problema semantico. Ma i nostri linguaggi sono linguaggi parlati dall’Uomo, animale politico, e foggiano il mondo in cui viviamo. Io penso che sia un inutile tributo alla modernità limitare l’uso della parola “spazio” al senso fisico, in quanto rappresenterebbe un’altra sconfitta delle culture tradizionali a opera del complesso tecnologico dilagante. Un solo esempio può bastare. La maggior parte delle religioni classiche vivono in contemporaneità e in coesistenza con gli antenati che sono attorno a noi. È ovvio che essi non possono coesistere in uno spazio newtoniano: in esso non c’è posto per i morti. Lo svargaloka (cielo) della tradizione hindu è strettamente correlato alla cosmologia hindu. Lo stesso vale per le nozioni cristiane corrispondenti. Il cielo e l’inferno devono essere spaziali se sono reali, ma sarebbe assurdo ascrivere loro una localizzazione

69. I tre disegni di Mary E. Goodman per l’opera di James M. Goodman The Navajo Atlas, (Oklahoma Press 1982). Lo Hogan è la Casa dell’incontro tra gli uomini e lo spirito. (Laurence Sullivan).

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fisica nel senso della scienza moderna; essi non si possono concepire come localizzati in uno spazio astronomico esteriore, né in uno spazio interiore puramente soggettivo - o metaforico. O il cielo e l’inferno non esistono, o abbiamo bisogno di un’altra nozione di spazio, di un altro dove, un’altra concezione dell’esistenza. Non vi è teologia senza cosmologia, non vi è cosmologia senza teologia. In breve, anche la nozione di spazio è stata frammentata. Lo spazio moderno è chiuso: per penetrarvi dovremo entrare attraverso la porta filosofica che si trova alla nostra destra, la direzione che solitamente indica il luogo della tradizione. La porta sulla destra: tre diverse visioni filosofiche Se lo spazio interiore è “spazio” solo per analogia con lo spazio esteriore, che cosa è allora il primum analogatum? La realtà si rivela a noi attraverso i nostri organi di percezione. Questi organi sono connessi l’uno all’altro, anche se è possibile che uno predomini o un altro sia perfino negato. La nostra nozione di Realtà varia di conseguenza. Distinguiamo tre dimensioni del Reale perché i nostri mezzi di conoscenza in ultima analisi sono tre. Il filosofo greco Platone, che rappresenta l’Occidente, li chiama il sensibile, l’intelligibile e il mistico. Il filosofo indiano Madhva, che riassume gran parte della speculazione filosofica ìndica, li chiama i cinque sensi che percepiscono (indriya), la mente che deduce (manas) e lo spirito che intuisce (saksin). a) Se il nostro punto di vista comincia e finisce con i dati sensoriali, lo spazio sarà considerato fondamentalmente come distanza fisica tra corpi. Per estrapolazione e metaforicamente, lo spazio si riferirà anche allo spazio spirituale come “luogo” che consente la manifestazione umana della vita. 237


b) Se sottolineiamo la realtà intelligibile, lo spazio si riferirà principalmente a ciò che rende possibile le distinzioni. Lo spazio sarà simbolo della base comune sottesa a ogni molteplicità. c) Se la nostra vista è rivolta all’esperienza dell’ineffabile, ciò che “giace” al di sopra e al di là (ancora una metafora spaziale) del sensibile e dell’intelligibile, lo spazio sarà il “contenitore” invisibile, la potenzialità, il vuoto in cui è possibile la diversità degli esseri, il grembo che include ogni cosa. Lo spazio sarà allora direttamente relazionato a kenon, Vunyata, asat, vuoto, non-essere. Una filosofia dello spazio dovrebbe prendere in considerazione queste tre differenti visioni e quindi renderci consapevoli che il tempio del Reale ha molte dimensioni. Possiamo allora entrare dal lato sinistro, considerato – nel nostro tempo – come il simbolo della novità e di un certo anticonformismo. La porta sulla sinistra: uno sforzo verso l’integrazione La nostra tesi sostiene la relazionalità advaita o a-dualista tra lo spazio interiore e quello esteriore. Ciò significa che non si identifica lo spazio interiore con quello esteriore, né li si differenzia al punto da considerare uno come lo spazio reale e l’altro come una nozione subordinata. Ciò implica che ci è dato di percepire uno spazio che è fondamento sia dell’interiore sia dell’esteriore. La dicotomia tra spazio interiore ed esteriore corrisponde all’opposizione tra soggetto e oggetto. Lo spazio esterno è considerato “oggettivo”, anche se tutta l’oggettività potrebbe essere una proiezione della mente (monismo materialista). Lo spazio interiore, al contrario, si suppone essere dentro di noi; è “soggettivo”, anche se la soggettività totale potrebbe costituire la totalità del Reale (monismo idealista). 238

70. Il chiostro del complesso abbaziale cisterciense di Staffarda, Cuneo.

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Lo spazio esteriore sta a indicare principalmente le distanze “fisiche”. Lo spazio interiore sembra riferirsi fondamentalmente alla consapevolezza delle distinzioni. La psicologia, l’epistemologia e la filosofia rivolgono il loro interesse agli spazi interiori, mentre le scienze naturali si interessano degli spazi esteriori, anche se si direbbe che i “gemelli” non si parlino da molto tempo. La comune nozione di tempo fa da ponte tra le scienze e le discipline umanistiche. Entrambi gli spazi infatti non possono prescindere dal tempo. Lo spazio fisico è inconcepibile senza tempo. Né lo spazio interiore ha alcun significato se si esclude l’esperienza temporale. Lo schema spazio-tempo sembra essere comune a tutte le discipline umane, ma questo schema spazio-tempo è ancora lungi dall’essere l’esperienza olistica dello spazio che stiamo cercando. Dovremo uscire nuovamente dal nostro tempio ed entrare attraverso il retro – il modo più umile di entrare in qualunque edificio. La porta posteriore: la scienza architettonica

71. Granaio della grangia Vaulerent di Chaâlis. Le grange sono i luoghi del lavoro agricolo costruiti come fossero chiese. Il lavoro come “secolarità sacra”, stando a una fondamentale intuizione di Raimon Panikkar.

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Focalizzeremo ora l’attenzione su una antica e fondamentale disciplina che è tanto una scienza quanto un’arte, e che nelle lingue occidentali porta il nome ambizioso di architettura. Archi-tektonia: l’arte dei princìpi, il primo dei mestieri, la techné più importante, l’opera del costruttore primordiale. Nell’Europa del xviii secolo, la scientia architectonica equivale ancora alla philosophia prima o ontologia. Leibniz vede Dio come l’architetto dell’universo. Anche per Kant l’architettura ha la connotazione della totalità. Fino a Schleiermacher, l’architettura suggerisce l’unione sistematica di una molteplicità nell’ambito di una totalità. L’architetto non è l’ingegnere, l’uomo di ingegno, ma il capo degli artisti, l’imitatore del Creatore. Gaudí era un 241


72. La capanna di Olduvai: Tanzania, 1,8 milioni di anni fa. Piccoli massi di basalto, con un diametro medio di 10-15 cm, ma a volte di 25 cm e più, sono raggruppati in mucchietti alti 30 cm, separati da intervalli fra i 60 e i 75 cm. Questi mucchietti disegnano un cerchio di circa 4 metri di diametro e quindi un’area centrale piatta quasi sprovvista di oggetti, mentre pietre tagliate e resti di cucina (ossa) sono disseminati per terra all’esterno. (Yves Coppens) La capanna è simbolo della volta celeste. (Julien Ries)

architetto. Il fatto che egli abbia costruito templi, case e giardini è molto significativo. L’architetto tradizionale divenne il “costruttore di case” (oiko-domos) per Dio e per gli uomini. Una casa non è una scatola, né tanto meno un garage. La casa per l’uomo era il simbolo principale dello stare nel mondo, lo spazio per vivere e maneggiare le cose. L’agricoltura era la coltura dei campi nello spazio esteriore, mentre l’architettura serviva a rendere possibile la coltura dell’anima nello spazio umano: l’habitat. La casa rappresenta il mondo culturale; l’architettura è l’arte e la scienza di costruire un sistema culturale, ossia la vita umana. Per l’antica tradizione sapienziale ebraica, la casa non è una costruzione casuale originata dai capricci dell’uomo. «La casa è costruita dalla sapienza» (Prov 24,3) e la 242

73, 74. Dalla città neolitica di Çatal Hüyük, Konya Anatoli (Turchia): scorcio di una delle costruzioni ipotizzate come santuari per via dell’abbondante decorazione musiva, benché la struttura non si discosti da altri edifici. Un enorme toro rosso, dipinto poco dopo il 5800 a.C., occupava gran parte della parete di un santuario a Çatal Hüyük. La piccola taglia degli uomini attorno evidenzia, secondo l’archeologo James Mellaart, la posizione occupata dal toro nella tradizione di Çatal Hüyük.

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75. Per Frank Lloyd Wright la casa-studio è un luogo particolare e universale. Ancora una volta siamo alla “secolarità sacra” di Panikkar.

Sapienza è la primogenita di Dio, il modello di tutte le opere di yhwh. La casa è la continuazione del potere creativo di Dio con la collaborazione dell’uomo. Nella tradizione cristiana, san Paolo usa questa duplice metafora: «voi siete l’agricoltura di Dio, voi siete l’edificio di Dio» (1Cor 3,9). Tre le correnti di pensiero che emergono dalla saggezza dell’etimologia: 1. La casa (domus, oikos) è il focolare, la famiglia, il gruppo umano di base (il marito è legato alla casa, la sposa è “accasata”), vale a dire l’elemento umano; 2. La casa è l’edificio, la costruzione, lo spazio modellato, il materiale usato per realizzarla, vale a dire l’elemento naturale; 3. La casa è il cerchio circoscritto dove si è incentrati e anche protetti (cfr. il sanscrito damayati, il greco damazo e 244

76. Per Le Corbusier le “gioie essenziali” sono ormai entrate nell’alloggio. La natura è compresa nell’affitto. Si è sottoscritto un patto con la natura. Gli alberi sono entrati nell’alloggio.

il latino domare: addomesticare e anche vincolare), vale a dire l’elemento culturale. L’architettura è raccordo tra ordine umano e ordine cosmico, rta e dharma combinati. Qualunque autentico architetto, anche oggi, sosterrà che la vera architettura è più di una semplice manipolazione dello spazio esterno con mezzi tecnologici; che l’architettura è intimamente collegata all’antropologia e non è indipendente dalla cosmologia. L’architetto non costruisce un covo per l’individuo, ma modella piuttosto lo spazio come manifestazione della vita umana nel cosmo. La funzione dell’architetto non è quella di creare esclusivamente uno spazio esterno, né compito dell’artista quello di modellare semplicemente uno spazio interiore. Le due cose vanno insieme. 245


Questo è il motivo per cui il bravo architetto è un artista, proprio come il poeta autentico è molto più di uno che compone versi. Le loro azioni non sono produzioni individuali. Costruire case esclusivamente per amore del denaro, comporre versi, dipingere o fare vasi solo per vendere è un’aberrazione umana e cosmica. L’architetto è modellatore di uno spazio in cui la gente possa respirare, vivere e gioire. Questo spazio è una espressione del genio di una persona, di una generazione o di una cultura; non implica conformismo o semplice ripetizione, ma richiede creatività. La vera tradizione non ripete mai il vecchio. L’architetto “sente” lo spazio del suo tempo, mentre il poeta rima i tempi del suo spazio. L’architetto dà “espressione” a ciò che “parla” alla mentalità in una particolare periodo culturale. L’architetto creativo lascia emergere lo spazio da un non-luogo, da una utopia. Il genio creativo permette a ciò che non ha (ancora) trovato il suo topos di incarnarsi nello spazio, di divenire spazio. Quando le tradizioni classiche affermano che l’artista, prima di operare, deve passare attraverso la purificazione, la contemplazione e/o compiere alcuni riti, affermano che non c’è vero spazio esterno senza uno spazio interiore, che la freccia non colpirà il bersaglio se il bersaglio non è nel nostro cuore. Parimenti, gli aspetti esteriori che qualcun altro crea condizioneranno anche la nostra interiorità. Mi riferisco a qualcosa di molto più originario dell’influsso psicologico esercitato da un edificio su chi lo abita; ho in mente qualcosa di molto più profondo del gusto estetico con cui l’architetto sceglie luoghi e forme in modo da compiacere gli occhi o i sensi di chi guarda o ne fa uso. Il vero architetto non solo crea le forme ma, in un certo senso, anche lo spazio. Mi riferisco al legame intrinseco tra l’interiore e l’esteriore, lo spirituale e il materiale, il cosmico e l’umano - e anche il divino. È il mio “spazio interiore”, il mio senso di distinzione, di discernimento (viveka), che mi dischiuderà il senso del 246

luogo, della distanza e dell’orientamento, ossia lo “spazio esterno”. Noi viviamo in uno spazio che noi stessi contribuiamo a creare. Al contempo, è lo spazio in cui ci troviamo a vivere che plasmerà la nostra vita, il nostro gusto, i nostri sentimenti. L’artista è la persona che rompe questo circolo vizioso. La tradizionale ars architectonica ci fa respirare subito in uno spazio che non può essere “localizzato” esattamente al di dentro o al di fuori. Il corpo e l’anima non sono separabili. Per “artistica” si intende l’attività poetica di forgiare un nuovo mondo a partire dall’ambiente stesso in cui stiamo già vivendo. Noi creiamo il nostro spazio nella stessa misura in cui lo spazio crea noi. La spazialità è un “esistenziale umano”. Questa spazialità, tuttavia, non è un mondo esclusivamente interiore in cui viviamo con i nostri pensieri, sogni e azioni, né tanto meno è identificabile con i luoghi, gli edifici, le città in cui abitiamo. I due mondi si compenetrano, cosicché l’uno è impossibile senza l’altro. L’architetto non è un sarto; la spazialità è ben più di una veste da indossare e anche più di un “luogo” amorfo o vuoto in cui ci muoviamo: la spazialità è parte di noi stessi. L’architetto è il primo tecnico, il co-autore di quello spazio che siamo o che diventeremo. Vivere a lungo in un ambiente trasforma sia l’ambiente che noi stessi. Le scarpe prendono la forma dei nostri piedi; nelle coppie anziane, i coniugi arrivano a rassomigliarsi. Allo stesso modo, lo spazio è una configurazione antropologica sia attiva che passiva. Tutto ciò ha effetti molto pratici. Vivere in una casa in affitto è come indossare gli abiti di qualcun altro o addirittura prendere in prestito un corpo estraneo; è come avere un arto artificiale. Aver perso questa sensibilità è uno degli effetti della civiltà tecnocratica. Una casa prefabbricata è come un rene prefabbricato (trapiantato): una soluzione di emergenza. La maggior parte degli appartamenti moderni in una grande città non 247


77. Scena di vita quotidiana dal Neolitico in cui si celebra una festa. Al centro, il villaggio con abitazione su palafitte. Pitture di Cangyuan, Yunnan (da C. Zaho Fu, 1988).

sono più habitat naturali o luoghi culturali, ma protesi prefabbricate. Il tempo e lo spazio non sono valori neutrali, oggettivi e commerciali. Va contro la dignità umana vendere il proprio tempo e il proprio spazio - così come vendere il proprio corpo. L’esterno non può esistere senza l’interno, e viceversa. Abitare in un luogo non consiste nell’occupare un certo numero di metri quadrati di un terreno neutrale. La tragica espropriazione di Papua e della Nuova Guinea, il conflitto non meno tragico tra Israele e Palestina, l’espulsione degli zingari e dei poveri dai sobborghi in cui hanno vissuto per generazioni... sono esempi drammatici di questo conflitto di cosmologie. Lo spazio è parte di coloro che vi dimorano, del loro essere. Fin qui siamo entrati nel nostro edificio per una via indiretta, ora lo affronteremo dalla porta frontale – vale a dire dal punto di vista antropologico. 248

78. Rilievo rupestre non distante dall’area natufiana. Rujum Hani, Giordania. Si tratta della straordinaria descrizione di un allevamento: i tre pastori con le braccia alzate e disposti con simmetria sembrano svolgere un rito. Non ci troviamo davanti a una semplice illustrazione cronachistica. La sedentarizzazione si fa rinnovando la ritualità del vivere. (Julien Ries)

La porta frontale: lo spazio come paesaggio umano La parola francese contrée (da cui deriva l’inglese country), l’italiano e lo spagnolo contrada, il portoghese e il catalano encontrada ci ricordano vagamente il latino contra. Anche il tedesco Gegend ha lo stesso significato e la stessa origine. L’etimologia accettata può non essere corretta, ma storicamente il termine ha suggerito territorio, luogo situato “davanti” a noi, il contra latino. Gli oggetti sono tali in quanto sono situati davanti a noi, in un territorio. Noi siamo in relazione dialettica con gli oggetti che sono stati “gettati davanti a noi” (ob-iecta) a formare il nostro territorio. Il territorio è qualcosa di oggettivo che si estende davanti a noi. I popoli fanno le guerre per conquistare un altro territorio. I conquistadores, come ora gli astronauti, mossero alla scoperta di nuove frontiere, alla conquista dell’altro, l’aliud, e la storia ci 249


80. “Kiva”, sito 16, Ruins Road, parco nazionale Mesa Verde, Colorado. Periodo Pueblo ii, sec. xi. Attorno al perimetro corre una stretta panca su cui poggiano dei pilastri in pietra. L’architettura delle Kiva era elaborata, stilizzata e varia, adeguata a ospitare circa una dozzina di persone come centro fisico e spiritruale del villaggi. (James Brody)

79. Dall’alto l’abitato di Mont-Saint-Jean, dipartimento della Côte d’Or, Borgogna, Francia, e sotto il piccolo centro di Montréal, dipartimento della Yonne, Borgogna, Francia. Santino Langé, nel libro L’eredità romanica, spiega come la parte occidentale e mediterranea dell’Europa nell’abitare rurale per secoli prosegua a costruire come in epoca romanica, arricchendo di simboli in pietra le case e l’ambiente.

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insegna quale pericolo di alienazione ciò abbia comportato e comporti. Il paesaggio è qualcosa di molto diverso. Non è semplice oggettività, è parte di noi. Noi non siamo senza il paesaggio. Il paesaggio non è senza di noi. Il paesaggio non è davanti a noi come un dato oggettivo. Tuttavia esso non è solo paesaggio interiore, uno stato d’animo puramente soggettivo. Il paesaggio è la nostra regione nativa o naturale, ossia ciò che ci “regge” o ci guida, non un mero dintorno, esterno al nostro essere. Non è nemmeno esclusivamente interiore né semplicemente attorno a noi. È la nostra spazialità. Noi abitiamo in un territorio, ma non siamo in un paesaggio. Noi siamo paesaggio, ma non solo paesaggio. Il paesaggio è parte della nostra spazialità, che non può essere 251


paragonata né al topos o locus di Aristotele, né alla chora o all’habitat generale di tutte le cose nel senso platonico. Questa spazialità è inseparabile dal paesaggio concreto che noi siamo e che ci permette di muoverci. Noi siamo paesaggio e ci muoviamo dentro di esso, non come turisti che vanno in una località straniera, ma come pellegrini che raggiungono il loro vero centro. Noi non siamo limitati ai nostri corpi fisiologici, e il paesaggio non è né come un corpo più grande o più sottile né come un abito da indossare. Lo spazio sarebbe allora il nome astratto generale per spazialità, un “esistenziale” proprio degli esseri umani. Gli animali sono in stretta simbiosi con il luogo che occupano. Essi vivono in un territorio e questo territorio è vitale per loro. L’uomo è spazialità non tanto perché ha bisogno di un territorio ma perché, sapendo di essere spaziale e corporeo, sa allo stesso tempo che lo spazio gli appartiene. Questo suo spazio è il paesaggio. La spazialità non è ciò che rende possibile la distanza, ma la vicinanza. La spazialità consente agli uomini di innescare tra loro una polarità, vale a dire li rende prossimi. Noi condividiamo lo spazio perché condividiamo la parola. L’homo loquens è l’homo spatialis; vi è una profonda relazione tra questi due aspetti. L’esperienza del linguaggio ci può aiutare a capire che siamo spazio. Noi abbiamo due modi di parlare: uno è formato da chiacchiere, ripetizioni di cose apprese e opinioni preconcette; l’altro prende vita quando “abitiamo” le parole che diciamo, quando il linguaggio è la “casa” stessa del nostro essere, quando viviamo nelle parole stesse che pronunciamo, quando ogni frase deriva da un’esperienza concreta nel tempo e nello spazio – un’esperienza alla quale permettiamo che si cristallizzi, in un certo senso, nelle parole stesse che fluiscono spontaneamente da tutto il nostro essere. Queste parole non le pensiamo in anticipo, non le calcoliamo né le manipoliamo nel tentativo di fare impressione 252

81. Paolo Soleri, complesso di Arcosanti, Arizona, cavità racchiusa della Ceramics Apse (1971-1973). Ad Arcosanti, oggi sede di un’importante fondazione, Paolo Soleri ha creato una “città ecologica”.

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sui nostri ascoltatori o di riflettere sul significato di ciò che veicoliamo. Semplicemente le pronunciamo; semplicemente dimoriamo in quelle parole, che sono una rivelazione di ciò che siamo realmente e non il risultato di ciò che “vogliamo” dire. Quelle parole sono veri e propri sacramenti; creano lo spazio ideale in cui attirano gli ascoltatori come un mulinello inghiotte ciò che gli sta vicino. La loro autenticità dà vita a uno spazio che avvolge sia chi parla che chi ascolta. È stato scritto che dovremo rendere conto di ogni parola infondata (Mt 12,36) – di ogni parola, cioè, che non effettua ciò che dice, perché è priva di energia interiore. Il paesaggio è lo spazio che noi siamo e non un semplice spazio esterno, un dintorno. Così come la casa non è soltanto un posto comodo o un riparo utile, il paesaggio non è solo uno spazio interiore o un prodotto dell’immaginazione. Il paesaggio trascende la nostra individualità, e tuttavia è parte integrante della nostra persona. L’individualismo moderno è il grande ostacolo che impedisce di essere consapevoli della nostra spazialità, la quale non può essere individualizzata e privatizzata, in quanto appartiene alla persona e non all’ego. Le conseguenze sono di vasta portata. Gli uomini non sono stranieri su questo pianeta: gli appartengono. Meno noto dello “sfasamento temporale” (il disagio che si avverte dopo un lungo viaggio aereo, che ha stravolto in noi i ritmi temporali della natura) è lo “sfasamento spaziale”, dovuto allo stesso fenomeno, ma generalmente meno avvertito perché gli habitat moderni (dagli aeroporti agli alberghi) sono artificialmente omogenei. In breve, l’Uomo non è solo anima, e neppure soltanto anima e corpo: è anche società e cosmo. Gli animali, le piante e la terra non sono solo creature utili o dannose. Esse sono legate a noi profondamente, come lo stesso spazio. Ogni persona è un microcosmo. La corri254

spondenza tra interiore ed esteriore, il qui e il là, sono la trama e l’ordito della Realtà, come dicono le Upanivad. La nostra spazialità è una caratteristica umana. “Fuori” dal paesaggio non potremmo essere. Il volo in uno spazio astronomico rivela forse il desiderio dell’uomo moderno di fuggire fuori da se stesso. Tuttavia non possiamo fuggire “nudi” nei nostri voli interplanetari; quando decidiamo di farlo, dobbiamo portare con noi il nostro spazio terrestre, la nostra atmosfera e la nostra navicella spaziale. Le conseguenze ecologiche sono ovvie. Noi siamo spazio; non dimoriamo semplicemente in esso, e quindi non possiamo ignorare di avere un paesaggio: senza di esso soffocheremmo. L’Uomo non è solo un essere corporeo, è anche paesaggio, dentro e fuori. Il paesaggio non solo forma, ma anche “in-forma” l’essere umano. Una persona senza un proprio paesaggio perde la propria umanità, come si può vedere negli agglomerati urbani super-affollati e negli slum di molte metropoli. La disumanizzazione è collegata alla mancanza dello spazio vitale che costituisce parte della vita dell’uomo. Molti dei problemi degli immigrati sono legati all’ambiente. La ragione è più profonda della estraneità, è legata al paesaggio interiore di ogni individuo che è, a sua volta, correlato al paesaggio esteriore. Questo vale anche per l’urbanizzazione. La megalopoli tecnologica moderna costringe la gente in camicie di forza, che ne cambiano la costituzione stessa. L’uomo però non è tutta la realtà, né lo spazio è tutto l’uomo, il quale è qualcosa più della spazialità, così come lo spazio è più di un semplice aspetto umano: questo è il motivo per cui la nostra analisi frontale non è sufficiente. Dovremo allora salire in cima al tempio e tentare di gettare uno sguardo dall’alto. Dovremo rompere il tetto della casa per poter scoprire la dimensione divina. 255


82. Il disegno che descrive l’agnihotra, il sacrificio svolto al mattino dal capofamiglia. A destra, il Sacrificio del cavallo, il rito più solenne svolto dal re con i sacerdoti. I famosi grandi santuari indu non sono per Michel Delahoutre e Jean Varenne che la concessione all’esigenza popolare di bellezza e maestosità, ma il quadrato del sacrificio resta il luogo sacro per eccellenza, fulcro del rapporto tra gli uomini e il divino.

La porta superiore: lo spazio sacro, il vero spazio Lo spazio sacro è semplicemente spazio reale, non un’astrazione geometrica. Lo spazio sacro è lo spazio reale che abbraccia distanze, distinzioni e diversità. Lo spazio profano è spazio parziale, ossia spazio specializzato. Lo spazio fisico è spazio profano, così come sarebbe ugualmente profano uno spazio esclusivamente interiore. C’è spazio quando la nostra esistenza è aperta (spaziosa). Noi soffochiamo quando ci chiudiamo narcisisticamente dentro le nostre monadi. Il paesaggio che ci consente di essere in tutta pienezza è creato da una azione sacra. Molte liturgie, da quella amerindia a quella cristiana, cominciano creando un proprio spazio, in cui si possa manifestare amicizia gli uni con gli altri e con il Divino. La musica dell’India fa lo stesso: incomincia creando uno 256

83. Particolare di una superficie istoriata in una grotta chiamata Giant Horse a Laura, nella penisola di York, Australia, dove una delle ultime istoriazioni è un cavallo bianco. Sono distinguibili più di 10 strati di pitture precedenti in sovrapposizione: una storia millenaria emerge attraverso le espressioni grafiche di generazioni.

spazio in cui possano aver luogo il canto, la recita e l’adorazione. Questo spazio non è né esclusivamente esteriore né esclusivamente interiore; è l’una cosa e l’altra, come noi stessi, che abbiamo al contempo un interno e un esterno. Ricordiamo che la parola “spazio”, dal latino spatium (dal verbo patere), significa giacere aperti, manifesti (cfr. lo spagnolo patio, un cortile aperto). Questo senso di apertura e di libertà sembra essere comune ai vocaboli indoeuropei. Chora è la parola usata da Platone, che significa vuoto, spazio libero, terra aperta, ma anche regione finita, una terra abitata ma non circoscritta. In sanscrito, akava significa spazio libero o aperto, vuoto. La parola suggerisce “ciò che lascia vedere le cose” e quindi consente di vedere, di conoscere: ciò che permette alle cose di manifestarsi. È il luogo della rivelazione, per così dire. Le cose sono nella misura in cui sono spaziali. 257


Lo spazio sacro come spazio reale non è né soggettivo né oggettivo; sta a monte di queste categorie. Il vastupurusamapfala dell’architettura ìndica ne è un esempio: i diagrammi rituali (ma… pfala) descrivono la discesa concreta di Purusa, la Realtà primordiale, in un essere particolare, vastu. Lo spazio è ciò che rende possibile alla Realtà di manifestarsi. Essa, in quanto è manifesta, è spaziale, anche se lo spazio non è l’intera realtà. In ebraico lo spazio, inteso come maqom e merchab, è uno dei nomi di Dio. Più propriamente, maqom è l’habitat degli animali selvaggi, quindi l’habitat nel senso di casa; più specificatamente la casa di Dio, cioè il tempio, il riparo dello stesso yhwh. Come in molte altre antiche tradizioni, è difficile separare il tempio sulla terra dal tempio in cielo. Nello spazio sacro si incontrano entrambi. San Paolo dirà che il cielo è lo spazio proprio dell’uomo, la sua casa genuina ed eterna, non una dimora esterna, non una scatola vuota in cui ci si muove (cfr. 2 Cor 5,1-2).

84. “Giardino Zen”. Il giardino secco, composto unicamente di pietre, sabbia e rocce, è uno dei simboli più caratteristici della semplicità Zen. Il monaco ripete un disegno infinito adatto alla meditazione. (Laurence Sullivan)

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85. Il Tempio di Salomone, affresco della sinagoga di Dura Europos (Siria), iii secolo, Museo Nazionale di Damasco. La costruzione del Tempio di Gerusalemme è legata all’idea che la delimitazione dello spazio sacro abbia un valore cosmico: «Costruì il suo tempio alto come il cielo e come la terra stabile per sempre» (Sal 78,69). Si tratta di una nozione che ha alcuni nessi con quella – diffusa nell’antichità – della costruzione di un edificio come ripetizione della cosmogonia. In età tardoantica, questo concetto è ripreso esplicitamente. Giuseppe Flavio ritiene che i tre settori del Tempio corrispondano alle tre parti del mondo: mare (atrio), terra (il «Santo»), cielo (il «Santo dei Santi»). In uno scritto del v secolo, il versetto dei Proverbi «La sapienza si è edificata una casa» (9,1) è interpretato da quattro maestri con l’identificazione della casa con la creazione del mondo, la costruzione del Tempio, la Torah e l’Arca dell’Alleanza.

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Una volta che perdiamo il nostro spazio, perdiamo il nostro cielo. Noi siamo spazio, che è il “luogo” divino in cui veramente siamo. Tutto questo non ha significato nella cosmologia di Galileo, di Newton e di Einstein. È altrettanto ovvio che non ha più senso, oggi, l’idea di “cielo” come un sublime parcheggio per anime decedute. Anche l’astrologia studia le connessioni spaziali tra corpi astrali ed esseri umani, e cerca il “focolare” dell’uomo. Questo spazio interiore è anche lo spazio astrologico. Le connessioni astrologiche non sono connessioni causali (come se l’essere nati sotto una costellazione de-

86. Ricostruzione di una casa privata rinvenuta a Cafarnao, adibita al culto cristiano nel i secolo e ritenuta la casa di Pietro. Anche nella grande metropoli di Roma i cristiani si troveranno in case-chiese prima di costruire le grandi chiese, dopo l’editto di libertà religiosa.

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terminasse il nostro carattere), ma rapporti spaziali - di uno spazio che è sia interiore che esteriore. Le stelle si nutrono del respiro della terra, dice Eraclito. Le stelle del firmamento – dice Origene – sono i corpi di quegli angeli che hanno accondisceso a rimanere nell’universo fisico, per servire il cosmo e collaborare alla restaurazione di tutti gli esseri. Lo spazio interiore/esteriore è lo spazio che ci costituisce. Esso richiede un senso di orientamento che è radicato nella nostra stessa esistenza. Noi non siamo entità solipsiste, ma umani-nel-mondo; siamo il nostro mondo, e non tanto con il nostro mondo o in esso. Le preposizioni qui sono superflue: diciamo solo che noi siamo il nostro mondo, anche se l’essere-mondo non ci esaurisce. Forse la musica è l’esempio più appropriato per l’esperienza dello spazio. La musica è ritmo, numero, movimento, suono. La parola “musica” viene dal greco mousike, qualcosa che, attraverso il ritmo, unisce lingua, verso, musica e danza. Non senza motivo due dei sistemi filosofici classici dell’India – nyaya e vaivesika – considerano il suono (vabda) la qualità specifica (gupa) dello spazio (akava). L’esperienza della musica è l’accesso principale all’esperienza dello spazio, che è allo stesso tempo interiore ed esteriore. Senza lo spazio esteriore, non c’è musica. Senza spazio interiore, la musica è solo rumore psicologico. Il ritmo è al contempo il movimento dello spazio interiore ed esteriore. È possibile che la musica sia la vera misurazione del tempo nello spazio? Si unificherebbero allora le due definizioni classiche della musica: la scienza dei numeri e l’arte della melodia. «Il cielo e la terra non esistono senza la musica», si presume abbia detto Pitagora. Essendoci librati fino alla “musica delle sfere”, dovremo ora discendere alle profondità dell’essere umano ed entrare dalla porta inferiore, che ci conduce all’analisi dell’esistenza umana. 261


La porta inferiore: lo spazio come estensione dell’esistenza Se Agostino descrisse il tempo come una certa distensione della nostra esistenza, noi potremmo ricuperare il termine e definire lo spazio come la corrispondente estensione (dilatatio, Ausdehnung) del nostro essere. Noi siamo, esistiamo distesi nel tempo ed estesi nello spazio. L’esistenza è sia distensione (temporale) che estensione (spaziale). C’è un tempo prettamente umano che possiamo chiamare temporalità. C’è, parimenti, uno spazio prettamente umano che possiamo chiamare spazialità. Lo spazio, ho suggerito altrove, presenta un carattere cosmoteandrico, cioè materiale, divino e umano. L’estensione spaziale dell’esistenza umana, come intesa qui, ha poco a che fare con il dualismo cartesiano della materia come res extensa e lo spirito come res cogitans. È la nostra intera esistenza che è estesa e anche intellettuale. Anzi, la nostra estensione spaziale è correlata alla distensione temporale del nostro essere, anche se non riducibile a essa. Il fatto che i nostri esseri siano distesi nel tempo ed estesi nello spazio significa che esistono non tutto a un tratto o come un tutto, ma estesi e distesi lungo lo spazio e il tempo. Viceversa, il tempo e lo spazio sono entrambi costitutivi dell’esistenza e non estrinseci a essa. Questa estensione è sia interiore che esteriore; essa permette distanze, distinzioni e diversità. C’è una tensione in ogni essere, che si manifesta nella distensione temporale e nella estensione spaziale. Gli esseri umani manifestano una tensione che si diffonde nello spazio (simile alla loro tensione che si dispiega nel tempo); mostrano una faccia interiore e una esteriore e, per così dire, non hanno colmato tutto lo spazio. Questa estensione permette la crescita, il movimento e il cambiamento - nello spazio. Lo spazio è quell’aspetto dell’esistenza, e in ultima analisi dell’Essere, che “fa po262

87. Baldassarre, uno dei tre re magi, segue la stella che indica il cammino. Dettaglio del paliotto di Mosoll. Museo Nacional d’Art de Catalunya, Barcellona.

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sto” al movimento. Il movimento è inerente all’Essere perché è movimento nello spazio e appartiene all’Essere. Le cose non si muovono in uno spazio vuoto: le cose stesse sono spaziali, essendo lo spazio della stessa essenza della Realtà. La tensione ultima non è tra spirito e materia, ma tra libertà e prigionia. Lo spazio non è né materiale né immateriale, ma può essere il locus della libertà o il “luogo” della restrizione. L’esperienza advaita dello spazio L’esperienza advaita dello spazio non va fraintesa immaginandola come una sintesi tra lo spazio interiore e quello esteriore. Essa è invece proprio l’opposto, sebbene per ragioni culturali sia sembrato conveniente procedere analiticamente così da reintegrare i “due” spazi nello spazio. L’esperienza advaita coglie immediatamente i “due” come “non-due”, ed è cosciente del “loro” mutuo dinamismo costitutivo: uno spazio non è senza l’altro, perché la natura stessa dello spazio è costituita dalla relazione originaria tra i “due”. Diciamo “relazione originaria” perché non si può dire che i “due” spazi formino l’“unico” spazio; né l’opposto, cioè che l’“unico” spazio si manifesti nei “due”. Si dovrebbe piuttosto parlare della a-dualità radicale dei “due”, senza che l’uno o l’altro perdano la loro realtà relativa. La relazione non è una, sono necessari i poli; non è nemmeno due, la relazione non sono i poli. Non c’è né uno né due. L’advaita non è monismo né dualismo. Vi è un rapporto dinamico e costitutivo, così che ciascuno dei poli della relazione è il tutto, perché non si possono assolutamente separare i due poli senza distruggerli, in quanto cesserebbero di essere poli. Se ne dovessimo sopprimere uno, l’altro scomparirebbe automaticamente. La polarità stessa è la realtà primordiale. Dov’è il vento quando non soffia? Dove è l’uomo quando non vive? Non c’è vento senza soffio, non 264

c’è uomo senza vita, non esiste esteriore senza interiore, non c’è interiore senza esteriore. L’esperienza advaita presenta una difficoltà formidabile, specialmente per i nostri tempi. Suscita timore, anzi il terrore di perdere il controllo, il che disorienta la nostra ossessione di sicurezza. L’esperienza advaita implica l’abbandono della guida sovrana del logos, pur senza cadere nell’irrazionale. Il dilemma razionale/irrazionale è un dilemma ultimo dal punto di vista razionalistico. “A-razionale”, tuttavia, non deve essere necessariamente irrazionale; non si tratta di trasgredire il rigore del pensiero. La realtà non è riducibile a intelligibilità. Noi balbettiamo, supponiamo, simboleggiamo, parliamo per approssimazioni, allusioni, dhvani, usiamo parabole e metafore come deboli strumenti. Il rsi, il saggio dei Veda, canta, ma il canto è solo nel cantare e non nella sua annotazione né nel pensare o nel parlarne. L’esperienza advaita dello spazio non è quindi né quella dello spazio interiore né quella dello spazio esteriore, ma, per così dire, quella dell’uno e dell’altro. Nell’interiore scopriamo l’esteriore e nell’esteriore l’interiore. Dovremo allora dire che il vero architetto è colui che dà forma al Silenzio? «E i fratelli rimasero in silenzio dopo che il Signore aveva parlato», dice un sacro testo buddhista. «Brahman è Silenzio», dice una Upanisad. Dal Silenzio venne la Parola, ripete la tradizione cristiana. Wu wei, mormora il saggio cinese. Disse il saggio Jajñavalkya alla moglie Gargi: «Ciò che è al di sopra del cielo e ciò che è al di sotto della terra, ciò che è fra questo cielo e questa terra, ciò che si chiama passato, presente e futuro, tutto ciò è tramato e ordito su akava, lo spazio etereo» – lo spazio sacro. (Brhadarapyaka-upanisad iii, 8,3)

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A ria

11. Gaudí. Lo spazio sacro è lo spazio reale Gesù allora disse ai suoi discepoli: «Allorché di due farete uno, allorché farete la parte interna come l’esterna, la parte esterna come l’interna e la parte superiore come l’inferiore, allora entrerete nel Regno». Vangelo copto di Tommaso 22

Antoni Gaudí era un uomo completo. Egli non era semplicemente un artista. La sua arte usciva da tutta la sua personalità. Gaudí configurò plasticamente lo spazio che sperimentava – e lo spazio che egli “vedeva” era lo spazio pienamente realizzato, cioé lo spazio sacro. In Principio era la Parola, dicono le sacre scritture dell’India (i Veda), del cristianesimo (i Vangeli), come pure le tradizioni africane. La Parola ha bisogno del tempo. La Parola si riempie del tempo. Non c’è Parola senza tempo; perciò si dice che era all’Inizio. All’inizio, senza la Parola, era solo il Silenzio. Ma alla Parola manca qualcosa: lo spazio. Lo spazio si riempie dello Spirito, altrimenti è il Vuoto. Lo spazio abitato dallo Spirito è lo spazio sacro. Antoni Gaudí, aperto a questa saggezza plurisecolare, ha lasciato che il Vuoto si riempisse dello Spirito e ha ri-creato lo spazio sacro dell’architettura contemporanea. Gaudí non si è limitato al campo strettamente religioso, a costruire edifici di culto, per Dio, poiché lo Spirito penetra ogni attività 267


umana. Gaudí ha creato spazi sacri anche per gli uomini, per i «Figli di Dio». La sue case non soso tane per la privacy e il confort, ma hábitat per gli abitanti della città divina sulla terra, chiamati a divenire divini, come le sue colonne che, rettilinee o circolari alla base, diventano curve parabolidi aperte all’infinito, simboli della trasformazione dell’uomo. Gaudí mostra che la sacralità dello spazio può manifestarsi nel secolare, in questo nostro saeculum. Chiunque varchi la soglia di uno dei suoi spazi, sia tempio, casa o giardino, sente il richiamo dello Spirito. Gaudí non ha parlato né scritto molto, ma ha lasciato il suo spazio che ci parla. Il tempo non contava troppo per lui. Sapeva anche che non avrebbe potuto finire molte delle sue opere, ma, come diceva sorridendo, il suo “cliente” non aveva fretta, e così anch’egli non si sentiva incalzato dal tempo. Il suo compito consisteva nel creare lo spazio – quello spazio che ci trasforma quando ce ne lasciamo penetrare. In questo scritto che tratta dell’opera di Antoni Gaudí sono felice di offrire, come omaggio all’artista dello spazio sacro, una riflessione più generale sul mistero di questo elemento della realtà. Non considero il sacro come proprietà privata di nessuno, neppure delle religioni ufficiali. Non soltanto le costruzioni religiose in senso stretto, ma tutta la produzione dell’architetto catalano è impregnata di sacralità. È in questo contesto, ampio e profondo, che Gaudí potè scrivere che «l’uomo senza religione è un uomo senza spirito, un uomo mutilato». Il sacro è lo spirito della realtà e quindi non limitato, a meno che, come in alcune spiritualità, non si consideri tutta la vita una liturgia. Esiste una secolarità sacra: anche il secolare può essere sacro; l’opposto del sacro non è il secolare, ma il profano. Abbiamo detto all’inizio che tutta l’opera di Gaudí è frutto di una pienezza di vita, cioè di una vita sacra; perciò lo spazio da lui creato è spazio sacro. 268

88. Parco Güell, Barcellona, dettaglio del movimento a spirale delle colonne inclinate, che delimitano uno dei porticati coperti ricavati da Gaudí. Sia le colonne sia le pareti del porticato sono rivestite in blocchetti di pietra dalle forme irregolari, che simulano la superficie delle caverne naturali. (Marc Llimargas)

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Stiamo toccando un punto capitale (quasi dimenticato nei tempi moderni, ossessionati dall’oggettitvità), in cui risplende il carattere veramente profetico del nostro artista che scaturisce dalla sua convinzione che «senza Verità non c’è arte»: mi riferisco all’importanza della soggettività in qualisasi opera cosiddetta oggettiva. Non si può ignorare l’uomo in nessuna delle opere che egli realizza, poiché l’intenzionalità con cui fa le opere condiziona non soltanto le sue azioni, rendendole morali o meno, ma anche tutte le sue produzioni. Così come da un cuore cattivo scaturiscono azioni cattive, anche una mente distorta influisce negativamente sugli oggetti fatti, sebbene in forma non calcolabile con i metodi della scienza moderna. Gaudí ha sentito questa responsabilità nel proprio mesitere di architetto. Le sue opere riflettevano lo Spirito che lo animava: «La creazione continua e il Creatore si avvale delle sue creature; che cerca le leggi della natura per confermare a esse opere nuove collabora con il Creatore». Così come la Creazione porta l’impronta del Creatore, le creazioni umane conservano nel loro interno l’intenzione di chi le ha fatte. Non c’è da stupirsi che gli spazi di Gaudí traspirino questa atmosfera che non può che essere chiamata sacra – senza superstizione di alcun genere. La materia è portatrice di anima, ma anche impregnata di Spirito. La realtà non può essere spaccata in due parti, res extensa e res cogitans (Descartes), ma anche se questo fosse vero le produzioni dell’uomo sono frutto del suo pensiero, che impregna tutto quello che egli fa. Questo riporta a qualcosa che abbiamo già affrontato e che trova in Gaudí conferma concreta: lo spazio stesso riflette lo spirito dell’uomo, perché anche noi siamo spazio. Detto con altre parole, la sacralità dello spazio non sta solo nell’uso che si fa di quello spazio o degli oggetti che vi si collocano; il contenente stesso ha una qualità sacra 270

89. Interni della Sagrada Familia, Barcellona: le coperture della navata centrale, realizzate sotto la direzione dell’architetto che ha diretto il cantiere del Tempio, Jordi Bonet. (Marc Llimargas)

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indipendente dal contenuto o, più esattamente, esiste una interdipendenza tra contenente e contenuto, in quanto tutto è correlato con tutto, anche se non necessariamente in forma causale o meccanicistica. E tutte le opere di Gaudí sono un richiamo a vivere questa relazione, non soltanto dello spazio con il suo ambiente, ma anche dello spazio contenente con il suo contenuto. Lo spazio reale non è neutrale, non è un’astrazione che può esser riempita da qualsiasi cosa. Ogni spazio richiede una spazialità specifica delle cose che lo abitano. Si pensi alla meticolosità con la quale Gaudí progettò le sedie della cripta della Colonia Güell: sono sedili per la concentrazione religiosa, non semplici panche sulle quali sedersi o anche inginocchiarsi. «Affinché un’opera architettonica sia bella, è necessario che tutti i suoi elementi abbiano l’ubicazione, la dimensione, la forma e il colore giusti» scrive lo stesso Gaudí. Sta a noi scoprire il simbolismo dello spazio, e delle cose nel loro proprio spazio; ma è una scoperta e non un’invenzione. Le colonne, per esempio, non sono solo un elemento di stabilità («Architettura non è [non coincide con la] stabilità. Questa è una parte di quella»), e nemmeno di sola decorazione. Le colonne creano un contenente e sono un contenuto specifico di certi spazi. Le colonne delle costruzioni di Gaudí racchiudono un simbolismo straordinari: esse si radicano nella terra, ma devono raggiungere il cielo; al contempo discendono dal cielo sulla terra come viene rappresentato nel loro duplice movimiento elicoidale, di andata e di ritorno. Nelle sue colonne troivamo, senza soluzione di continuità, il mondo minerale, vegetale, umano, angélico e divino. Non a caso, descrivendo le colonne della Sagrada Familia, Gaudí ci parla delle stelle che «seguono l’orbita che è la traiettoria del loro equilibrio girando su se stesse in un movimento elicoidale… vanno e vengono… come la colonna va e viene», simboleggiando l’armonia dell’u272

90. I rosoni della pareti laterali della Sagrada Familia. (Marc Llimargas)

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niverso; quell’armonia che l’uomo è chiamato a creare e scoprire in se stesso mentre la crea: «La qualità essenziale dell’opera d’arte è l’armonia». Il turista affrettato non la vede, il credente la sente, il contemplativo ne gioisce. «Al mondo non è stato inventato nulla. La fortuna di un’invenzione consiste nel vedere ciò che Dio ha posto davanti agli occhi di tutta l’umanità». Gaudí ha saputo guardare, come ci dimostra la sua arte. È significativo che, a differenza di tanti altri personaggi importanti della storia sia dell’arte sia della politica, della scienza o della filosofía, in Antoni Gaudí non si possa separare la vita dall’opera. Leggiamo dalle biografie che egli era autodidatta. Certamente non era un uomo sepolto sotto i libri, ma ha superato il proprio autos, il proprio ego, imparando tutto da tutti, in quanto il suo ispiratore è lo Spirito; lo Spiritio non insegna, ispira. «Nelle arti non ci sono maestri». Perciò gli spazi di Gaudí sono sacri, le mura delle sue costruzioni non imprigionano, i suoi tetti non soffocano, le sue forme lasciano ampia libertà anche all’immaginazione. «Questo albero è prossimo al mio Creatore: è lui il mio maestro!». La frase è squisitamente ambigua, anzi advaita. Chi è il maestro: l’albero o il creatore? Certamente sono inseparabili. La sacralità non è frutto né dell’intelligenza, né della volontà, né della genialità, perché il sacro non può essere manipolato e nessuno nasce genio. Occorre un altro elemento che insorge solo quando la persona è integra, unificata, quando lo Spirito si incarna e la realtà non gli pone ostacoli. La libertà delle forme, dei colori, dei simboli dell’opera di Gaudí, la sua «sintesi della gravità con la luce» non possono che essere frutto dello Spirito. Il suo stile non voleva essere originale, ma “orginario”. Forse queste mie considerazioni incontrerebbero la sua approvazione. 274

12. Filosofia e musica

Jordi Savall: Lei ha una straordinaria visione della funzione della musica. Mi ricordo dell’incontro nella chiesa di Santa Maria del Mar, l’anno scorso. Lei cominciò citando Platone, i filosofi, la Musica e la Parola, situando la musica nel cuore stesso della realtà, e stabilendo dei legami con gli Antichi. Mi piacerebbe che ne parlasse nuovamente. Io credo che spesso noialtri musicisti e coloro che amano la musica non abbiamo sufficiente consapevolezza della sua dimensione straordinaria, e non ne vediamo che l’aspetto estetico, brillante, ludico, correndo il rischio di dimenticarne la dimensione spirituale ed i suoi legami con la storia dell’umanità. Raimon Panikkar: Potrei cominciare dal versante negativo, parlando della barbarie della specializzazione, un virus che risale al Nominalismo o è addirittura precedente; è una credenza secondo la quale per conoscere il tutto è sufficiente conoscerne le singole parti, e secondo la quale per conoscere dobbiamo necessariamente specializzarci in qualche ambito. Così comincia la frammentazione della 275


conoscenza che conduce alla schizofrenia del conoscente. Al giorno d’oggi, abbiamo smarrito il metodo stesso, ovvero, il cammino della conoscenza della realtà. La realtà è un tutto, e noi vogliamo dividerlo. Noi cadiamo negli errori della specializzazione e diciamo: “questo è l’ambito della scienza, questo dell’arte, questo della filosofia, ecc.” Noi siamo esperti in una sola materia, e non sappiamo parlare d’altro... Quando vogliamo conoscere il tutto, noi estrapoliamo e ci inganniamo. Poi ci disperiamo di saperne oggi giorno di più sul sempre meno. L’integrale delle conoscenze parziali non corrisponde alla realtà. La realtà non è uguale alla somma delle sue parti. All’inizio la musica era una rivelazione del Tutto. Presso i greci, l’educazione consisteva nella ginnastica e nella musica. La ginnastica era la cultura del corpo e la musica quella dello spirito. In seguito, esse s’unirono a formare la danza. La danza coinvolge il corpo, anzi di più: la danza è la sintesi del corpo e dell’anima, cioè lo spirito. Noi dobbiamo superare la nostra antropologia dualista: anima e corpo. Dagli ebrei ai cristiani (che però in seguito l’hanno dimenticato), dagli inizi della Grecia preplatonica, l’antropologia è tripartita: corpo, anima e spirito... E la musica è ciò che unisce tutte e tre le parti, e perciò essa è Musa; essa ci mette in comunicazione con la realtà tutta, e la realtà è divina. Noi, in Occidente, abbiamo una tale paura del panteismo, che abbiamo paura di pensare che la realtà sia divina. Ma, per tornare alla musica, Boezio ci parla di tre musiche: la musica del mondo, la musica umana e la musica strumentale. La musica del mondo è la musica cosmica, è la musica della realtà tutta, è la sonorità della sistole e diastole dell’universo, il respiro della realtà. Non la si può ascoltare se non partecipandovi. La musica non è una tecnica dei suoni, se si intende il suono come qualcosa di più che una vibrazione. Vorrei farvi parte d’una intuizione difficile da spiegare, ma che posso tradurre così: la musica, ancorché temporale, trascende il tempo. 276

La musica ha a che fare con il tempo, ma la suddivisione non appartiene alla musica, la melodia non è musica se non quando la si suona... la musica esiste quando la si fa, essa vive quando la si suona, la si canta, la si danza, e tutto ciò coinvolge il tempo. La musica si dipana nel tempo. S.: Essa esiste e smette di esistere... P.: ...e nello stesso tempo si ferma. Nella musica il tempo si ferma, ma non smette di essere tempo. S.: Perché la memoria ne resta impregnata. P.: Più che la memoria, perché essa impregna tutto il nostro essere, che è ritmo. La musica ci fa vivere la tempiternità, che non appartiene né al tempo, da un lato, né all’eternità, dall’altro. L’eternità non può venire dopo il tempo. L’eternità è l’altra faccia del tempo e la musica ci apre all’esperienza di questa a-dualità tra tempo ed eternità. La musica non serve a niente, perché essa è al di sopra di ogni servitù. Essa è fatta per essere vissuta, perché se ne partecipi in maniera attiva, la si comprenda tramite l’ascolto, e più ancora tramite l’esecuzione. Attraverso la musica noi partecipiamo del ritmo della realtà stessa, e di conseguenza realizziamo noi stessi. Parlando della specializzazione, volevo dire che noi dividiamo, racchiudendo le cose in compartimenti stagni, e poi ci domandiamo a cosa serva tutto ciò. In realtà, se non la viviamo in tutta la sua integrità in pura estasi incosciente, la musica ci sfugge. Ed aggiungerei che siamo tutti musicisti. S.: La musica si trova nell’espressione stessa dell’essere umano... P.: ...in tutte! S.: Il senso della parola, a seconda di come la si canta, sarà positivo o negativo, e tutta l’affezione che le si potrà trasmettere dipenderà dal modo di cantarla. 277


P.: Certamente. Ciascuna lingua ha la sua musica, e ciascuna parola ha la sua musicalità... come nel bell’esempio delle madri africane, che insegnano ai loro bambini a cantare ancor prima d’aver insegnato loro a parlare... Inoltre, il bambino comprende la musica prima di comprendere il senso delle parole. Ho detto “insegnare” nel senso etimologico della parola: le madri semplicemente cantano ai loro bambini. S.: Si tratta di un punto essenziale, un tema fondamentale: è il modo di cantare che ci definisce. P.: È il tono, è la musica che fa nascere la parola ed essa non avrà senso finché non ne avremo scoperta l’armonia. La radice della parola “armonia” significa: “ciò che ricongiunge le cose nel loro ordine”, in modo armonioso, appunto. La parola inglese e tedesca “arm” proviene dalla stessa radice. S.: Si potrebbe dire che l’essere diviene umano in primo luogo attraverso la musica. P.: Pienamente umano, sì. S.: Perché la musica è la prima cosa ad essere compresa, prima del senso delle parole. P.: Sì, ma che significa “comprendere”? Si tratta di partecipare intenzionalmente (la parola stessa lo dice) nella forma piena del vivere. La musica non è una specialità, essa non è patrimonio dei musicisti. La grande musica, la si ascolta. La musica delle sfere di cui ci parla Pitagora, è la musica che conduce a scoprire l’armonia delle cose. Si è attribuita a Pitagora la scoperta del fatto che si poteva esprimere e tradurre la musica in numeri, ma la musica è precedente alla struttura matematica, alla sua formulazione numerica, ed anche alle proporzioni. È il cuore che scopre la proporzione, anche se in seguito lo spirito (mens) la calcola. Se si comincia a contare, si è già perduti. Non si tratta di contare, ma di lasciarsi trasportare. 278

S.: Ma i numeri scaturiscono dal fatto che vi è un’armonia, un equilibrio... P.: L’equilibrio è là, lo sento, e non ho bisogno d’alcun numero. Ma è vero, io scopro che vi è un rapporto numerico e che esso permette di comprendere e di scrivere meglio la musica. Come la dimensione di una cattedrale, che racchiude una pace, un equilibrio all’interno delle sue forme, l’altezza e la luce... È il grande segreto delle piramidi. Ma ritorniamo al simbolismo della musica delle sfere: in fondo la musica è fatta per essere ascoltata. La musica non si fa, si ascolta, anche da parte di colui che la suona e la fa. È nell’ascolto che la si può vivere. S.: Lei si ritrova così a quel punto della filosofia zen, del tiro con l’arco, nel quale il gesto tanto armonioso ed allenato fa sì che senza sforzo la freccia raggiunga il bersaglio, semplicemente lasciandola andare... È quello l’obiettivo ultimo dell’atto artistico. P.: Certamente, l’atto libero è spontaneo. Io credo che da parecchi secoli noi siamo schiavi della volontà. Sembra paradossale. Schiavi della volontà! E noi crediamo di poter fare tutto tramite la volontà, ma le cose non si fanno affrontandole. Spesso ci manca la dimensione femminile, più passiva, che consiste nel ricevere, nell’ascoltare; in latino, ascoltare ed obbedire vanno insieme. Ascoltare e ricevere il dono che ci viene dato. Io, che non so usare altro strumento che la penna, dico: “lo Spirito Santo è colui che mi ispira, ma se non mi trova con la penna in mano, non ne verrà fuori niente... e perché la penna sia nella mano, servono la disciplina, la penna, la mano e la carta davanti a sé”. S.: Ciò implica anche una fiducia, un’apertura e parecchia pazienza. P.: “Tramite la vostra pazienza possiederete le vostre anime” dice il Vangelo. Quando parlo del carattere diabolico della scienza moderna, mi riferisco all’interpretazione 279


falsa (diabolein) della nostra esperienza della realtà. Non è stato invano che la prima grande invenzione di uno dei suoi fondatori sia stata l’accelerazione; e noi viviamo in un mondo accelerato, che è il mondo meccanico. Io posso accelerare le macchine, posso andare in qualche ora a New York, ma non posso accelerare né la vita né la realtà. Noi abbiamo perduto i ritmi cosmici, ed il ritmo cosmico è la musica. Essere sensibili al ritmo cosmico è ciò che ci permette di gioire della vita, e di vivere ogni momento in tutta la sua pienezza. S.: La perfezione può essere un mezzo, ma non è indispensabile. Il bambino che si addormenta al canto di sua madre non chiede la perfezione. P.: Pienezza non vuol dire perfezione. Un disco perfetto può non contenere né risvegliare alcuna emozione. Noi viviamo talmente in un modo d’oggettività che vogliamo rendere oggettiva anche la musica! S: Il canto della madre è un atto d’amore, un atto educativo, un atto medico... P.: È tutto ciò allo stesso tempo! L’intenzione con cui son fatte le cose influenza le cose e modifica la cosa stessa che viene fatta. C’è un esempio, che voglio proporre con prudenza, perché potrebbe essere interpretato in termini di fanatismo o esclusivismo, ma ciò che mi interessa è ciò che vi è sottinteso. Un saggio ebreo, il grande rabbino Akiba, vietò ai fedeli e agli ebrei di leggere la Torah o il Pentateuco copiato da un infedele. Colui che scrive fa parte dello scritto. Se una cosa è fatta con amore, essa sarà diversa dalla medesima cosa fatta con rabbia o per soldi. E ciò riguarda tutti gli ambiti, poiché oggi noi facciamo meccanicamente migliaia di cose senza importanza. S.: Può esistere un’opera che sia buona per noi nonostante il suo autore sia un assassino? La musica e il nazismo, i campi di concentramento, il caso di Gesualdo... 280

P.: Credo che si tratti di un problema molto importante e delicato. Vorrei fare qualche distinzione. Ho già parlato della deformazione generale della nostra epoca, l’oggettivazione; ma un’altra sarebbe la soggettivazione. Aggiungerei ancora che noi siamo troppo abituati al pensiero causale. Il pensiero causale frantuma la libertà e riduce tutto ad una struttura deterministica della realtà – malgrado i “gradi di libertà” della fisica contemporanea. La relazione, per contro, non è necessariamente causale. È una correlazione che può essere armonica o disarmonica, ma non è affatto necessario che sia di causa-effetto. In questa correlazione, l’ascoltatore gioca un ruolo molto attivo. La musica può essere criminale, ma qui siamo in due: te che la fai e me che l’ascolto. Ed io posso essere in grado di assorbire questa forza malvagia e di trasformarla. Allora si comprende che non vi è relazione di causa-effetto, ma che si può trasformare la cattiveria della gente, delle cose e degli eventi. S.: È vero che esiste della musica che genera una gran pace, per se stessa! P.: Se la si è... voglio dire: se essa risuona in noi. La musica è relazione, come tutto nella realtà... S.: …e dell’altra che induce uno stato d’animo negativo, inquieto, sgradevole. P.: Talvolta, ho provato a trasformare una musica che non mi piaceva... cercandone il suo lato buono, avendo compassione per il suo autore, e là ho potuto dominare il male che mi faceva, nonostante essa non mi piacesse. Dunque io non oso parlare di musica buona o cattiva; soltanto in modo oggettivo. S.: Trovare questa connessione da parte del musicista, tra colui che è un artista che accetta il suo dono e ne è cosciente, e nello stesso tempo è l’artista della sua vita... che fa un’arte della sua vita, come Lei dice. 281


P.: Ciascuno di noi deve costruire una filigrana d’opera d’arte, a partire da quel dono che abbiamo ricevuto e che è il nostro essere... Se l’ego è presente, allora vi è dell’egoismo. Se per me fare della musica non è una manifestazione spontanea e libera del mio essere, è artificiale, è qualcosa di tecnologico. Ciò non è arte. Se esiste di già un disco con la sinfonia perfetta, perché rifarla? Ma allorché la mia azione non è altro che l’espressione del mio essere, allora non vi è ripetizione, ma creazione. Posso io essere un buon artista ed un cattivo cittadino, una cattiva persona? Al di là di certe sfumature che sono qui fuori luogo, tendo a dire di no. Si tratta di due cose che non possono essere separate. Un gong, se ben forgiato, rende sempre un tono armonico, e risponde armonicamente ad ogni colpo che riceve, sia esso dato con rabbia o con delicatezza. Allo stesso modo, se il gong che noi siamo non risponde armonicamente ai colpi della vita, dubito che alla lunga possiamo essere dei veri musicisti nel senso integrale di cui stiamo parlando. È molto bello parlare di musica e di spiritualità, ma se io non la vivo in maniera tale che la musica sia una parte di questa spiritualità e la spiritualità una parte di questa vita, allora c’è qualcosa che non va in me... forse ne verrà fuori una musica oggettivamente migliore, ma senz’anima non vi è opera d’arte. Perciò la musica è una così grande disciplina, e la vita è il gran maestro, è lei che ci insegna il senso profondo delle cose. Se noi non vogliamo essere altro che dei grandi musicisti, non comunicheremo mai la vita.

P.: Ma esso non sostituisce il vissuto, perché il vissuto è unico, è l’atto di comunione che richiede la presenza fisica, che implica una partecipazione reale, e questo noi l’abbiamo perduto... Il grande male è l’egoismo! Se noi eliminiamo l’ego, siamo liberi...

S.: La musica coinvolge una vita interiore. Senza questa vita interiore, non si può immaginare una dimensione, un suono. P.: Ogni concerto, come ogni atto liturgico, deve essere un fine a se stesso, è un’esperienza sempiterna. S.: Il concerto non è uno spettacolo, è un vissuto, e il disco ne è il ricordo. 282

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13. Il silenzio

91. La sillaba OM considerata tra i simboli piÚ antichi conosciuti al mondo. Il suono richiama l’origine della vita, l’espressione del sacro nella meditazione.

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Note

Cfr. R. Panikkar, The Threefold Linguistic Intrasubjectivity, in M.M. Olivetti (a cura di), Intersoggettività, Socialità, Religione, «Archivio di Filosofia» (Roma), liv, 1/3 (1986), pp. 593-606. 2 Cfr. R. Panikkar, La nuova innocenza, Servitium, Sotto il Monte (Bg) 1994. 3 Cfr. R. Panikkar, La foi dimension costitutive de l’homme, in E. Castelli (a cura di), Mythe et foi, Aubier, Paris 1966, pp. 17-63. In Opera Omnia, Vol. ix, Tomo 2; Jaca Book, Milano 2008. 4 Questa quaternitas era ben nota agli scolastici cristiani. Vedi, per esempio, Ugo di San Vittore nel suo Didascalicon i,11. 5 Cfr. R. Panikkar, La nuova innocenza, Servitium, Sotto il Monte-Bergamo 2003, nuova ed. 2005, parzialmente ripubblicata in Mistica, pienezza di Vita, vol. i/1 dell’Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2008, pp. 17-91. 6 Mt 6,30. 7 Sulla simbologia dell’acqua si veda il capitolo riportato più avanti, La goccia d’acqua: una metafora interculturale. 8 Zhuangzi ii,2. Richard Wilhelm traduce: Ohne jenes Etwas gibt es kein ich («Senza quel qualcosa non c’è alcun Io»). 9 Iste liber, scilicet mundus, quasi emortuus et deletus erat (Bonaventura, Hexaemeron, col. 13, n. 12 [O.o. v,390a]). 10 Id., Breviloquium, q. 2, c. 12 (O.o. v,230a). 11 Cfr. At 15. 12 Cfr. Mt 31,13; Mc 1,9. 13 Non dovremmo dimenticare che l’espressione «Corpo di Cristo» nella tradizione ha indicato prima il popolo cristiano e soltanto più tardi l’eucarestia. Cfr. F. Holböck, Der eucharistische und der mys1

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tische Leib Christi, Roma 1941, e H. De Lubac, Corpus Mysticum, Aubier, Paris 1949, nonché Méditation sur l’Eglise, Aubier, Paris 1954. 14 Cfr. p.es. Hajime Nakamura, Ways of Thinking of Eastern People, University of Hawaii Press, Honolulu 1985. 15 Cfr. R. Panikkar, Le mystère du culte dans l’hindouisme et le christianisme, Cerf, Paris 1970, pp. 37 ss. In Induismo e cristianesimo, vol. vii dell’Opera omnia, Jaca Book, Milano. 16 Cfr. At 2,3. 17 I versi conclusivi del Rg-veda (x, 191,4) sono un inno alla concordia religiosa. 18 “The Invisible Harmony: A Universal Theory of Religion or a Cosmic Confidence in Reality?” in Leonard Swidler (cur.), Toward a Universal Theology of Religion, Orbis, Maryknoll, N.Y. 1987. 19 Cfr. Gen 1,2; Mt 3,16 e paralleli. 20 At 1,10-11. 21 2Re 5,12. 22 Cfr. come voce rappresentativa per l’attuale dibattito in Nord America: Wilfred Cantwell Smith, Toward a World Theology, Westminster, Philadelphia 1981. 23 Il titolo di un libro, peraltro ottimo, di Karl Prümm esemplifica bene ciò che voglio dire: Christentum als Neuheitserlebnis (Cristianesimo come esperienza di novità), Herder, Freiburg 1939. 24 Cfr. R. Panikkar, Religious Pluralism: The Metaphysical Challenge, a cura di Leroy S. Rouner, Notre Dame Press, Paris 1984, pp. 97-115. Ora nel vol. vi, tomo 1, dell’Opera omnia, Jaca Book, Milano 2009. 25 R. Panikkar, Aporias in the Comparative Philosophy of Religion in «Man and

World», 13 (1980), pp. 357-383; ora nel vol. ii dell’Opera omnia; e What is Comparative Philosophy Comparing? in G. I. Larson, E. Deutsch (cur.), «Interpretating Across Boundaries», University Press, Princetown, N. J. 1988, pp. 116- 136. In vol. x. Tomo 2 dell’Opera omnia, Jaca Book, Milano 2009. 26 Per Cristianìa si intende la religiosità che si basa sull’esperienza di Cristo, mentre per Cristianità si intende il periodo storico politico-religioso e per Cristianesimo la religione cristiana. 27 Cfr. Gen 1,2; SB ix,1,6,1 (apo ha va’idam agre). 28 Cfr. Gen 4,10-11; 7,37; sb iv,4,3,15 (l’acqua come elisir d’immortalità); ecc. 29 Nella Grecia classica i cadaveri erano detti alibantes, coloro che sono «asciugati», che hanno perso la propria acqua, la linfa. Cfr. Platone, La Repubblica, 3 (387c), pur se l’etimologia moderna mette in discussione l’accuratezza della interpretazione classica di alibos. Cfr. H. Frisk, Griechisches etymologisches Wörterbuch, K. Winter, Heidelberg 1954, sub voce. Altri hanno pensato invece a oligos con le sue connotazioni di fragilità e impotenza. 30 «Piuttosto di affermare che gli esseri organici muoiono essenzialmente e necessariamente, è meglio sostenere che si costituiscono come esseri mortali. La mortalità insomma, non è una loro proprietà costitutiva ma costituente». J. Ferrater Mora, El ser y la muerte. Bosquejo de una filosofía integracionista, Aguilar, Madrid 1962, p. 154. 31 Cfr. i testi vedici: «All’inizio non c’era né essere né non essere» (RV x,129,1); «In principio non vi era nulla qui di alcun genere. Tutto questo era avvolto nella Morte – nella fame, perché la fame è in verità morte» (BU i,2,1); ecc. 32 Cfr. AV x,7,7 e anche la conclusione in x,7,41. 33 Cfr. le affermazioni di Cristo come Vita (Gv 6,35-40; 10,28; 11,25-26; 14,6) e di Dio

come suo Padre (Gv 5,18; 10,30; 16,28). Da questo punto di vista si potrebbe affermare che la risurrezione cristiana presuppone che l’uomo partecipi già di una vita più alta (divina); altrimenti il risorto non potrebbe essere la stessa persona. Similmente, il karman hindü implica una continuità di vita più profonda di quella normalmente sperimentata da un individuo. 35 CU vi,8-14; 16, che permette la seguente estrapolazione, perché ciò che la Upanisad veramente rivela è che noi siamo un «tu», «Questo sei tu». 36 Come canta la liturgia latina per i morti: «La vita cambia, non scompare». 37 Questo solleva un problema semantico. Il termine «religione» è limitato a un particolare atteggiamento umano o non è piuttosto una etichetta «generica» che ammette molte differenze specifiche all’interno di una posizione complessiva verso la realtà? Cfr. la nota di R. Panikkar Have Religions the Monopoly on «Religion», in «Journal of Ecumenical Studies», xi, 3 (1974), pp. 515-517. 38 Facciamo notare che questo slogan si può applicare a ogni ramo della religiosità abramica: ebraismo, cristianesimo, islam, marxismo, umanesimo. 39 Cfr. R. Panikkar, Kultmysterium in Hinduism und Christentum, Alber, Freiburg 1964, passim. 40 Queste sono, secondo la tradizione, le ultime parole del Buddha. 41 Cfr. SB ii,2,2,8. 42 Cfr. SB ii,2,2,9-14; ii,4,2,1. 43 CU vi,11,3. 44 CU vi,2,1. 45 Summa Theol., i, q. 20, a. 2, a. 4. 46 Cfr. KaivU ii, che afferma la possibilità di raggiungere la vita eterna solo tramite la rinuncia; cfr. anche bu iii,5; MaitU vi,28; così come Mt 19,21 e 29; Mc 10,29-30; Lc 18, 28-30; Gv 12,24-25. 47 Cfr. BG v,2-3; Lc 6,35; 14,13-14; Mt 6,3. 34

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Cfr. BG vi,1; Lc 17,7-10. Num 20,8; Ct 1,3; 5,6; 8,6. 50 Gal 2,20. 51 Gal 3,3. 52 Per uno studio generale sulla metafora vedi P. Ricoeur, La Métaphore vive, Seuil, Paris 1978 (tr. it. La metafora viva, Jaca Book, Milano 1981). 53 Di qui l’importanza del simbolismo del cuore in così tante culture e religioni. Come centro della persona, il cuore non può morire senza che tutta la realtà sparisca. 54 Invero un novum dei nostri tempi è la consapevolezza che l’estinzione della specie umana appartiene al regno del possibile, o forse addirittura del probabile. 55 Cfr. K. Kerényi nella sua Introduzione a Dionysos, Bollingen Series, New Haven 1977. 56 Cfr. R. Panikkar, La demitologizzazione nell’incontro tra Cristianesimo e Induismo, ne Il problema della demitizzazione, a cura di E. Castelli, Cedam, Padova 1961. In Opera Omnia, Vol. vii. 57 Una serie di 13 attentati dinamitardi terroristici, che fecero 250 vittime. 58 1Tim 6,16. 59 Cfr. Lc 18,19. 60 Come di frequente, Panikkar gioca sull’inglese yourself = your Self [ndt]. 61 Questo è il problema matematico e filosofico della identitas indiscernibilium. Cfr. R. Panikkar Singularity and Individuality: The Double Principle of Individuation. in «Revue internationale de philosophie, », 111-112 (1975), pp. 141-165. In Pensiero filosofico e teologico, Vol. x,2. dell’Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2019. 62 Cfr. CU, viii, 1, 3. 63 BU, ii, 10. Per la tradizione cristiana cfr. 1 Pietro 3,4, soprattutto nella interpretazione dei mistici. 64 Platone, Timeo, 52 A. 65 Cfr. Fisica, iii, 6 (206 a 8 ss). 66 Cfr. R. Panikkar, «Colligite Fragmenta: For an Integration of Reality», in F.A. 48 49

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Eigo (cur.), From Alienation to At-oneness, Villanova University Press, 1977. 67 Cfr. Prov 8,1.22, ecc. 68 La mia critica alla società moderna non è diretta contro la emulazione a livello qualitativo ma contro la competizione a livello quantitativo. Vedi R. Panikkar, Alternatives to Modern Culture in «InterCulture», 77 (1982), pp. 2-68. In Vol. xi dell’Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2020. 69 Espressione ridondante, se con “esistenziale” si intende ciò che appartiene costitutivamente alla struttura ontologica dell’Uomo, l’essere-che-esiste. Heidegger chiama Existenzialen i “Seinscharaktere des Daseins” (i caratteri “di essere” - essenziali - dell’Esserci / Dasein). 70 Cfr. R. Panikkar, Der Mensch, ein trin tarisches Mysterium (L’Uomo, un mistero trinitario), in R-W. Strolz (cur.), Die Verantwortung des Menschen für eine bewohnbare Welt im Christentum, Hinduismus und Buddhismus, Herder Freiburg 1985, pp. 147-190, In Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo, Vol. viii, dell’Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2010. 71 Cfr. Mc 2,4. 72 Timeo, 52 A ss. 73 Riportato da Aezio, ii, 17, 4. 74 La nota formula di J. Ortega y Gasset, «yo soy yo y mi circumstancia», potrebbe essere integrata dicendo che tale “circostanza” è parte della nostra “in-stanza” ed “ek-sistenza”. 75 Cfr. il quid autem metimur nisi tempus in aliquo spatio di Agostino, Confessioni, xi, 21,27: che cosa misuriamo, se non il tempo in un qualche spazio? 76 Citato da Cassiodoro, Istituzioni, ii, 5,2. 77 Confessioni, xi, 23,30. 78 Cfr. R. Panikkar, L’intuizione cosmoteandrica. Le tre dimensioni della realtà, Jaca Book, Milano 2004; edizione originale The Cosmotheandric Experience, Orbis, New York 1993 and Motilal Banarsidass, Delhi 1998; nel volume viii di questa Opera omnia.

Mahaparanibbana-sutta, vi, 7. Opera perduta; citata da Vapkara nel Brahma-sutra-basya, iii, 2,17. 81 Cfr. Ignazio di Antiochia, Epist. ad Magnesios, viii, 1 (PG 5, 669). 82 Laotzu, passim. P. es., «La via del Cielo (T’ien Tao) è una via di non-attività (wu wei)». 83 Chiesa gotica di Barcellona, nel quartiere della Ribera. 79 80

Panikkar usa la parola tempiternità per esprimere l’intuizione dell’esperienza della realtà come temporale e come eterna, non separata diacronicamente o ontologicamente. Tempo ed eternità sono le due facce della stessa medaglia». Cf. La realtà cosmoteandrica, Jaca Book, Milano, 2004, p. 153. In Opera Omnia, Vol. viii. 84

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Crediti iconografici

P. 17: Archivio Jaca Book; p. 19: Archivio Jaca Book; p. 32: Archivio Jaca Book; p. 38: Archivio Jaca Book; p. 41: © Marc Chagall, by Siae 2020, Giorgio Dettori/ Jaca Book; p. 45: Archivio Jaca Book; p. 48: © Georges Braque, by Siae 2020; p. 53: Musée d’Orsay, Parigi; p. 58-59: Archivio Jaca Book; p. 62: Musée d’Orsay, Parigi; p. 63: Archivio Jaca Book; pp. 64-65: Archivio Jaca Book; p. 66: Archivio Jaca Book; p. 69: Archivio Jaca Book; p. 71: Archivio Jaca Book; pp. 74-75: Archivio Jaca Book; pp. 7677: Archivio Jaca Book; pp. 81, 83-84, 87, 89: Archivio Jaca Book; pp. 94-95: Archivio Jaca Book; p. 99: Archivio Jaca Book; p. 101: Archivio Jaca Book; pp. 102-102: Archivio Jaca Book; p. 105: Archivio Jaca Book; pp. 111-113: Archivio Jaca Book; p. 123: Archivio Jaca Book; pp. 126-127: Archivio Jaca Book; pp. 128-129: Archivio Jaca Book; p. 132: Archivio Jaca Book; pp. 152-153, 155, 157: Archivio Jaca Book; p. 165: Archivio Jaca Book; p. 167: Archivio Jaca Book; p.

170: Archivio Jaca Book; p. 173: Archivio Jaca Book; p. 175: Archivio Jaca Book; p. 179: Archivio Jaca Book; p. 181: Archivio Jaca Book; pp. 183-184: Archivio Jaca Book; pp. 186-187: Archivio Jaca Book; p. 188: Archivio Jaca Book; pp. 188-189: Archivio Jaca Book; p. 193-194: Archivio Jaca Book; p. 195: © Georges Rouault, by Siae 2020; p. 203: Archivio Jaca Book; pp. 208-209: Archivio Jaca Book; pp. 214-215, 217, 219: Archivio Jaca Book; p. 223-224: Archivio Jaca Book; pp. 230232; p. 233: Courtesy Milena Carrara Pavan; pp. 235-236: Archivio Jaca Book; pp. 239-240: Archivio Jaca Book; pp. 242-243: Archivio Jaca Book; p. 244: © Frank Lloyd Wright; p. 245: Archivio Jaca Book; pp. 248-249: Archivio Jaca Book; pp. 250-251: Archivio Jaca Book; p. 253: Archivio Jaca Book; pp. 256257: Archivio Jaca Book; pp. 258-259: Archivio Jaca Book; p. 260: Archivio Jaca Book; p. 263: Museo Nacional d’Art de Catalunya, Barcellona; pp. 269, 271, 273: © Marc Llimargas/Jaca Book.


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