Giacomo Baroffio, Frédéric Billiet, Christopher Bonfield, Susan Boynton, Anna Maria Busse Berger, Mauro Casadei Turroni Monti, Christelle Cazaux-Kowalski, Ettore Cirillo, Martine Clouzot, Paola Dessì, Margot E. Fassler, Riccardo Fedriga, Elena Ferrari Barassi, Manuel Pedro Ferreira, Alessandra Fiori, Jean-Marie Fritz, F. Alberto Gallo, Paweł Gancarczyk, Emmanouil Giannopoulos, Paolo Gozza, Nicoletta Guidobaldi, David Hiley, Sofia Lannutti, Elizabeth Eva Leach, Silvia Lusuardi Siena, Pieter Mannaerts, Sandra Martani, Francesco Martellotta, Vera Minazzi, Neil Moran, Alan V. Murray, Elisabetta Neri, Massimo Parodi, Nils Holger Petersen, Alejandro Planchart, Susan Rankin, Donatella Restani, Stefania Roncroffi, Cesarino Ruini, Tilman Seebass, Dorit Tanay, Christian Troelsgård, Anne Walters Robertson, Vasco Zara, Sławomira Zeranska-Kominek
ATLANTE STORICO DELLA MUSICA NEL MEDIOEVO Progetto editoriale di VERA MINAZZI A cura di VERA MINAZZI e CESARINO RUINI Introduzione e conclusioni di F. ALBERTO GALLO
INDICE
EDITORIALE, Vera Minazzi
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INTRODUZIONE, F. Alberto Gallo
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I. IL MEDITERRANEO TARDOANTICO I,1. I PRIMI SIMBOLI MUSICALI CRISTIANI, Donatella Restani I,2. PRIME FORME DI CANTO CRISTIANO, Giacomo Baroffio
10 12 20
I,3. LA BASILICA PALEOCRISTIANA E LA TRANSIZIONE DALLA LITURGIA «PARLATA» ALLA LITURGIA «CANTATA»,
Ettore Cirillo e Francesco Martellotta I,4. L’EREDITÀ GRECO-LATINA NEL PENSIERO MUSICALE MEDIEVALE, Paolo Gozza I,5. PER VOCE SOLA. LO IUBILUS E IL CANTO SENZA PAROLE, Riccardo Fedriga
II. TRA ORIENTE E OCCIDENTE: DUE TRADIZIONI SI FORMANO II,1. IMMAGINE E REALTÀ, Tilman Seebass II,2. I «DIALETTI» DEL CANTO GREGORIANO, Christelle Cazaux-Kowalski II,3. IL CONCETTO DI MUSICOLOGIA: BOEZIO, Paolo Gozza II,4. AGOSTINO. LA MUSICA, I NUMERI E LA RELAZIONE, Massimo Parodi II,5. CANTO LITURGICO E POLITICA IMPERIALE CAROLINGIA, Cesarino Ruini II,6. LA NASCITA DELLA SCRITTURA MUSICALE, Mauro Casadei Turroni Monti II 7. ICONOGRAFIA MUSICALE BIZANTINA, Tilman Seebass II,8. CANTARE LA PAROLA: LA CANTILLAZIONE DELLE SACRE SCRITTURE, Sandra Martani II,9. CANTORI BIZANTINI: L’ARCHETIPO DEL CORO DI ANGELI, Neil Moran II,10. BISANZIO ALLE PORTE DI ROMA, Sandra Martani II,11. LA PAROLA E L’INEFFABILE: L’ARTE PSALTICA, Sandra Martani II,12. IL SIMANDRO, UNO «STRUMENTO» DEI MONASTERI BIZANTINI, Emmanouil Giannopoulos II,13. I TRATTATI BIZANTINI DI TEORIA MUSICALE, Christian Troelsgård
III. L’EUROPA DEL ROMANICO, DEL GOTICO E DEL GREGORIANO III,1. A SCUOLA DI MUSICA: UNA TEORIA PER LA PRATICA, Cesarino Ruini III,2. MEMORIZZAZIONE DEL CANTO GREGORIANO, Anna Maria Busse Berger III,3. IL RUOLO DEI BENEDETTINI, Giacomo Baroffio III,4. LE CHIESE ROMANICHE, «CULLE» DEL CANTO GREGORIANO, Ettore Cirillo e Francesco Martellotta III,5. MUSICA, LITURGIA E SPAZIO ARCHITETTONICO: L’ESEMPIO DELLA CATTEDRALE DI CHARTRES, Margot E. Fassler III,6. ARCHITETTURA E MUSICA: IL LINGUAGGIO SIMBOLICO, Vasco Zara III,7. VOCES: VOCE DELL’UOMO, VOCE DELLA NATURA, Jean-Marie Fritz III,8. GIOVANI CANTORI NEI MONASTERI E NELLE CATTEDRALI, Susan Boynton III,9. MUSICA E LITURGIA NEI MONASTERI FEMMINILI, Stefania Roncroffi III,10. LA MUSICA NELLE ILLUSTRAZIONI DEI MANOSCRITTI, Tilman Seebass III,11. «CANTATE, EXULTATE, JUBILATE, PSALLITE»: TROPI E SEQUENZE, David Hiley III,12. CANTO GREGORIANO E CULTO DEI SANTI, Stefania Roncroffi III,13. LE HISTORIAE NEI PAESI BASSI, Pieter Mannaerts III,14. SCULTURA, AFFRESCHI, ARTI MINORI, Tilman Seebass
22 28 30
32 34 38 42 44 46 50 54 58 62 64 66 70 72
76 78 82 84 88 92 96 102 104 106 110 116 120 122 126
INDICE
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III,15. LA SCOLASTICA E LA MUSICA, Paolo Gozza III,17. LE «ARMONIE CELESTI» DELLE CATTEDRALI GOTICHE, Ettore Cirillo e Francesco Martellotta
130 132 136
IV. LUOGHI E FIGURE DELLA MUSICA MEDIEVALE
140
III,16. ARCHITETTURA E MUSICA: ORDO, PONDUS ET MENSURA, Vasco Zara
IV,1. CONCEZIONE E RAPPRESENTAZIONE DEL SUONO NEL MEDIOEVO: DALL’UDITO AL PAESAGGIO SONORO, Jean-Marie Fritz IV,2. LITURGIA NELLA CITTÀ. MUSICA NELLA CITTÀ, Nils Holger Petersen IV,3. LA MUSICA COME STRUMENTO DRAMMATICO: IL DRAMMA LITURGICO, Susan Rankin IV,4. MUSICA PER LA «FESTA DEI FOLLI»: MUSICA E DIVERTIMENTO, Frédéric Billiet IV,5. IL GIULLARE: UN OGGETTO CULTURALE DEL MEDIOEVO, Martine Clouzot IV,6. I TROVATORI: LA MUSICA NEL REPERTORIO LIRICO ROMANZO, Sofia Lannutti IV,7. LE CANTIGAS DE SANTA MARÍA, Manuel Pedro Ferreira IV,8. L’ORDINE TEUTONICO E LA MUSICA, Paweł Gancarczyk IV,9. MUSICA E GUERRA, Alan V. Murray IV,10. IL GIARDINO D’AMORE, Sławomira Zeranska-Kominek IV,11. MUSICOTERAPIA E MEDICINA MEDIEVALE, Christopher Bonfield IV,12. IL SUONO DELLA SALUTE? MUSICA LITURGICA E OSPEDALI, Christopher Bonfield IV,13. MALATTIA E SALUTE IN ILDEGARDA DI BINGEN, Margot E. Fassler IV,14. LE IMMAGINI DEI MUSICISTI, Martine Clouzot IV,15. LA MATERIA PRIMA SONORA: GLI STRUMENTI MUSICALI, Elena Ferrari Barassi IV,16. INTERMEZZO: LE MUSICHE SENZA NOTE, F. Alberto Gallo IV,17. IL SACRO E IL PROFANO NELLA PRODUZIONE DI CAMPANE, Silvia Lusuardi Siena ed Elisabetta Neri IV,18. IL SUONO DELLE CAMPANE NELLO SPAZIO MEDIEVALE, Vera Minazzi
V. L’EUROPA POLIFONICA V,1. LE POLIFONIE SEMPLICI, Paola Dessì V,2. LA RICOSTRUZIONE DELL’ABBAZIA DI SAINT-DENIS: ASPETTI MUSICALI, RITUALI E POLITICI, Anne Walters Robertson V,3. EVOLUZIONE DELLA SCRITTURA MUSICALE, Mauro Casadei Turroni Monti V,4. L’ORGANUM A NOTRE-DAME-DE-PARIS E NEGLI ALTRI PAESI, Alejandro Planchart
142 146 150 154 160 164 168 170 174 178 182 186 190 194 198 208 210 214
218 220 224 228 232
V,5. TRA ORALITÀ E SCRITTURA: IL PROCESSO COMPOSITIVO DELLA POLIFONIA A NOTRE-DAME,
Anna Maria Busse Berger
V,12. L’ITALIA DELL’ARS NOVA, Alessandra Fiori
236 240 242 244 246 248 250 254
RISCOPERTA E «INVENZIONE» DELL’ANTICHITÀ NELL’IMMAGINARIO MUSICALE UMANISTICO, Nicoletta Guidobaldi
260
L’EREDITÀ DELLA MUSICA MEDIEVALE. CONCLUSIONI, F. Alberto Gallo
267
NOTE E BIBLIO-DISCOGRAFIA
268
INDICE DEI NOMI DI LUOGO E DI PERSONA
279
V,6. L’ARS NOVA FRANCESE, Elizabeth Eva Leach V,7. GUILLAUME DE MACHAUT A REIMS, Anne Walters Robertson V,8. ARCHITETTURA E MUSICA: ANALOGIE FRA PROCESSI COMPOSITIVI E ARCHITETTURA, Vasco Zara V,9. IL CONTESTO INTELLETTUALE DELLA NOTAZIONE RITMICA, Dorit Tanay V,10. MUSICA, CANTO DEGLI UCCELLI, NATURA, Elizabeth Eva Leach V,11. VERSO EST, LA POLIFONIA IN POLONIA, Paweł Gancarczyk
6 INDICE
EDITORIALE Vera Minazzi
La musica è profondamente radicata nelle matrici dell’occidente. Malgrado ciò essa trova ancora a fatica una adeguata collocazione nella storia dell’arte, dell’architettura, della società e della cultura medievali. Sul versante musicologico, gli specialisti integrano con difficoltà il fenomeno sonoro con le altre espressioni artistiche e con la vita medievale in generale. L’assenza della musica dalle abituali pubblicazioni storiche e di storia dell’arte medievale è peraltro ben comprensibile se si pensa alla rarità delle fonti ed alla difficoltà di ricostruire realmente il «suono» medievale. Vi sono tuttavia le premesse per una migliore integrazione. Una ricchissima ricerca storico-musicologica si è sviluppata infatti negli ultimi decenni, anche se spesso confinata all’interno di uno stretto ambito specialistico di addetti ai lavori. Contemporaneamente, nella storia dell’arte medievale, l’interesse al contesto ha superato da tempo il mero storicismo degli stili per interrogarsi sulle «funzioni» sacre e profane delle diverse pratiche artistiche. Esemplari, tra gli altri, i lavori sul tardoantico di Sible de Blaauw. Questa opera si pone l’obiettivo ambizioso di contrastare l’impoverimento paradossale conseguente alla dispersione delle discipline. La conoscenza del fenomeno musicale è indispensabile alla storia dell’arte e della cultura medievale e viceversa. Per far solo un esempio: cosa fossero le cattedrali, persino nella loro organizzazione spaziale, non può essere compreso prescindendo dal suono che le riempiva, dall’acustica e dai percorsi pellegrinali che vi avvenivano e che le plasmavano. Viceversa, dal punto di vista della storia della musica, la considerazione dello sviluppo dei repertori, sia sacro che profano, non è sufficiente a rendere ragione della complessità e varietà del fenomeno musicale nel contesto
della vita medievale, e dell’enorme quantità di musica praticata e non scritta, di cui pure abbiamo documentata traccia indiretta. Lo scopo di questo atlante, dunque, è quello di fornire al lettore, anche non specialista in musicologia, una immagine articolata, piana, godibile, e tuttavia scientificamente rigorosa, della musica nel contesto della vita medievale. Per realizzarla, sono stati coinvolti in un’ottica multidisciplinare molti dei più importanti musicologi, noti internazionalmente, insieme con archeologi, studiosi dell’acustica e dell’architettura, filosofi e storici del pensiero medievale. L’arco cronologico delle cinque sezioni dell’atlante va dalle origini tardoantiche, agli sviluppi altomedievali, sino alla fine del XIV secolo. Ogni sezione è aperta da una doppia pagina cartografica di contestualizzazione geopolitica e storico-culturale per i capitoli che seguono, ogni volta con una angolatura diversa. L’indice è organizzato sia cronologicamente che per ambiti. Largo spazio è dedicato ai materiali iconografici. In vari capitoli sono presenti box storico-tematici che suggeriscono un percorso collaterale ai testi. Il corredo di immagini non è solo ornamentale (speriamo che anche lo sia...) ma costituisce una dimensione fondamentale dei capitoli. Un articolato sistema di carte, molte delle quali inedite (si veda la cartina delle polifonie semplici nel capitolo V,1), accompagna nella ricognizione del reticolo di luoghi, influenze culturali, diffusione di temi e di pratiche. Il lettore può così procedere in modo lineare nella lettura dei capitoli o seguire i percorsi suggeriti dai cross-reference che li collegano, utilizzando i rimandi fra testi, immagini e didascalie, box e cartine. Milano, giugno 2011 GUIDA ALLA LETTURA DEI CROSS-REFERENCE
I cross-reference sono rimandi fra un capitolo e un altro; essi portano sempre il numero del capitolo in cui si trova il rimando (numero romano, seguito dal numero arabo in tondo; es. IV,11). All’indicazione del capitolo può seguire un numero arabo in corsivo che indica l’immagine (illustrazione, box, cartina) a cui è diretto il riferimento (es. IV,11.4 indica un rimando all’immagine numero 4 nel capitolo IV,11). Quando il rimando è al testo, e non a una immagine con relativa didascalia, per trovare il punto a cui ci si sta riferendo occorre cercare a margine del testo l’indicazione del capitolo da cui si è partiti (es. sto leggendo il capitolo III,8 e trovo un cross-reference con l’indicazione IV,4; mi porto al capitolo IV,4 e cerco il riferimento a margine del testo con l’indicazione III,8, ossia il capitolo da cui sono partito). In mancanza del riferimento a margine del testo, il riferimento è all’intero capitolo. I riferimenti all’ultimo capitolo (prima delle conclusioni), che non è numerato, riportano la sigla dell’autore ossia N.G. (l’autore è Nicoletta Guidobaldi; es. N.G.,11 indica un rimando all’immagine numero 11). Infine, i cross-reference alle doppie pagine cartografiche che dividono le cinque sezioni dell’atlante sono indicati con il numero romano della sezione, seguito da un punto e dal numero arabo in corsivo che indica la cartina a cui ci si riferisce (es. IV.4 indica un rimando alla cartina numero 4 della doppia pagina cartografica). I rimandi dei cross-reference hanno la funzione di mettere in evidenza termini, concetti, opere, temi che in capitoli diversi, spesso distanti nell’indice, sono presenti con angolature differenti (il passaggio da un testo a una rappresentazione, da una lettura iconografica a una organologica, ecc.). Può essere l’Orfeo che «collega» il primo e l’ultimo capitolo, il modello della basilica paleocristiana e l’evoluzione delle cappelle a raggiera, nell’analisi esemplare di Chartres, il canone Sumer is icumen in, citato in un capitolo e presente in un altro con l’immagine del suo manoscritto, o ancora il Tacuinum sanitatis e il capitolo sulle «musiche senza note» (IV,16). Solo alcuni cross-reference hanno una funzione simile a quella dei lemmi di un glossario, ossia spiegare un termine usato in un capitolo e definito in un altro; è il caso ad esempio dei modi ritmici o della riverberazione. Non sono stati inclusi i riferimenti ovvi che si trovano leggendo i capitoli contigui nelle sezioni e i rimandi puntuali a nomi e luoghi che si trovano consultando l’indice finale, in cui è stata mappata anche l’intera cartografia. V.M.
EDITORIALE
7
1
1. Vetrata del rosone della facciata sud nella cattedrale di Laon in Francia. I rosoni di facciate e transetti romanici, caratterizzati spesso da anelli successivi di figurazioni, erano luoghi deputati per accogliere visioni complesse di significato cosmologico. Sovente, nonostante lo schema centrico, in tali vetrate venivano adattate tematiche caratteristiche dei grandi portali esterni. Nel presente caso, l’ultimo cerchio del rosone, al cui centro campeggia la figura della Madonna in trono con Bambino, è dedicato ai 24 vegliardi dell’Apocalisse. Essi recano in mano uno strumento musicale e un’ampolla, secondo una iconografia romanica diffusa.
8 INTRODUZIONE
2. Parte alta della miniatura di un manoscritto francese del XIV secolo dell’Etica di Aristotele. Da sinistra sono raffigurate tre forme di amicizia: Amicizia per utilità, Amicizia per diletto, Amicizia secondo virtù. L’Amicizia per diletto è espressa dal far musica assieme. Ms.10 D I, f. 150, Rijksmuseum, Meermanno-Westreenianum, L’Aia.
INTRODUZIONE F. Alberto Gallo
Tra le denominazioni che la storiografia ha creato per designare i diversi periodi in cui suddividere il corso della storia, quella di Medioevo è relativamente neutra, non pretendendo di riassumere le caratteristiche di un’epoca, ma limitandosi a precisarne la collocazione cronologica, come età di mezzo tra un’antichità classica e un Rinascimento della medesima. Questa impostazione può essere applicabile anche al particolare settore della storia musicale a patto che si accetti l’idea di una sostanziale distinzione tra il piano dei testi e delle immagini riferentisi alla musica e il piano della effettiva pratica musicale. Sul primo piano è senz’altro vero che si parte dalla cultura greca e ad essa si ritornerà non appena le sue fonti saranno di nuovo disponibili: la raffigurazione di Achille che suona è diffusissima in età tardoantica e l’episodio ricomparirà nel XV secolo in tutti i testi umanistici che esaltano la figura del principe musicista. Sul piano della musica vera e propria niente di tutto questo: la monodia liturgica ha le sue premesse nella pratica liturgica ebraica e la polifonia misurata è una invenzione assolutamente originale della cultura medievale. La distinzione consente di inquadrare agevolmente scritti e raffigurazioni musicali entro la cultura generale dell’epoca medievale, mentre consente d’altra parte di apprezzare la straordinaria autonomia e indipendenza della creazione musicale rispetto ad ogni altra esperienza artistica coeva. Ma non si può affrontare adeguatamente la musica medievale senza introdurre un’altra distinzione fondamentale, tra componente sacra e componente profana. La componente sacra, il cosiddetto canto gregoriano, è rimasto in uso nelle chiese cattoliche ininterrottamente dall’epoca medievale sin oltre la metà del XX secolo. Conservato interamente in centinaia di codici, ha fatto parte per secoli della cultura musicale, delle consuetudini quotidiane di larga parte della popolazione europea e mondiale. Tutt’altro discorso vale per la componente profana e in particolare per la polifonia misurata. Le composizioni erano destinate all’intrattenimento delle corti e avevano vita breve, soppiantate com’erano da sempre nuove composizioni meglio rispondenti ai mutevoli gusti di un pubblico elitario. Di conseguenza l’interesse per la loro conservazione fu sempre minimo, molti codici andarono smembrati già in epoca medievale, i pochi superstiti finirono ben presto sepolti nelle biblioteche pubbliche o private. A questo punto occorre introdurre una terza distinzione basilare: tra i due repertori sopra menzionati (quello sacro e quello profano) dei quali resta documentazione scritta e dei quali sol-
tanto parlano i manuali di storia della musica, e tutta l’enorme quantità di musica che si faceva nelle città e nelle campagne, affidata esclusivamente alla tradizione orale e della quale nessuno parla. Della composizione e dell’esecuzione di queste musiche è possibile avere qualche notizia cercandone pazientemente traccia, come per ogni altro fatto storico, nelle cronache coeve. Erano musiche composte per celebrare le imprese gloriose o le malefatte di personaggi noti, come la cantio intonata «tam a majoribus quam a pueris» su Adalberto di Ivrea di cui parla Liutprando. Oppure erano creazioni estemporanee come quella veramente singolare per modalità e ambientazione della quale riferisce Salimbene de Adam: illam litteram fecit et cantum [compose parole e musica di] Christe Deus, Christe Christe rex et domine ad vocem cuiusdam pedisseque que per maiorem ecclesiam Pisanam ibat cantando [ascoltando una serva che andava cantando per il duomo di Pisa] Et s’tu no cure de me e’ no curarò de te.
Come si vede, ciò che è andato perduto erano proprio forme e modi di fare musica tra i più caratteristici del mondo medievale. C’è comunque un valore di tutta la musica medievale che ancora oggi possiamo recuperare se la pensiamo come l’uomo medievale la pensava, capace cioè di estendersi al di là del suono in una molteplicità di significati. Allora si può, come Sicardo da Cremona, ascoltare il canto della messa come una grande battaglia: «sacerdos [...] sacris vestibus quasi induitur armis [...] Cantor est tubicen, praecentores, qui chorum regunt, duces qui exercitum ad pugnam instruunt [...] Cantus sequentiae, plausus est victoriae [...] Cantus offertorii, triumphus qui exhibetur imperatori» [il sacerdote indossa i paramenti sacri come fossero armi. Il cantore è il trombettiere, coloro che dirigono il coro sono i capi che preparano l’esercito alla battaglia. Il canto della sequenza è l’applauso per la vittoria. Il canto dell’offertorio è il trionfo decretato al comandante]. Oppure, illustrando l’Etica di Aristotele, si possono immaginare due giovani che fanno musica insieme come la migliore rappresentazione del sentimento di amicizia. Musica è ogni aspetto della realtà, esteriore o interiore, ciò che veniva espresso con la mirabile formula «musica per se quasi ad omnia se extendit».
2
INTRODUZIONE
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I. IL MEDITERRANEO TARDOANTICO
2 r Ga
Rod ano
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Tolosa
1
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Marsiglia
L’IMPERO ROMANO Alalia
LA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO NEL III, IV, V SECOLO LA DENSITÀ DEL COLORE CORRISPONDE ALLA DENSITÀ DELLE COMUNITÀ
Corsica
ANGLO-SASSONI dalla metà del VI sec.
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DATE DI ARRIVO E INSEDIAMENTO DEI NUOVI POPOLI NELL’AREA
Sardegna
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ANGLO-SASSONI dalla metà del V sec. Se
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BURGUNDI 443-534
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Narbona
Pavia Genova Pisa
OSTROGOTI 488-553
Tarragona
Siviglia Malaga
Corsica
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VANDALI attraversano lo Stretto di Gibilterra 429
VANDALI 439-534
Belgrado
Salona LONGOBARDI
576-1053
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Centri ellenistici Centri ebraici Comunità cristiane Patriarcati Primati (in Occidente) e Esarcati (in Oriente)
AVARI E SLAVI dal 582
Sirmium
Siscia
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Sagunto
Granada
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Verona Ravenna Rimini Ancona Perugia
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Pannonia
Aquileia
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AVARI E SLAVI dal 568
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LONGOBARDI attraversano le Alpi Giulie 568
Siracusa
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Strasburgo Augusta
VANDALI, SVEVI, ALANI attraversano i Pirenei 409
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LONGOBARDI 568-774
Worms
VISIGOTI 418-507
VISIGOTI 568-711 espansione iniziata nel 473
RUGI V secolo-488
BURGUNDI 413-436
Treviri
Parigi Tours Orléans
Loira
SVEVI 419-575
Cartagine
VANDALI, SVEVI, ALANI attraversano il Reno 406
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CENTRI ELLENISTICI NEL I E II SECOLO
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Menfi
Sinai
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Ossirinco Ermopoli
Mar Rosso
Seleucia del Tigri Babilonia
1. La tarda antichità che noi poniamo dal III al VII secolo è caratterizzata sul piano politico da un apice dell’Impero romano con Costantino e dall’erosione dell’Impero stesso nella sua parte occidentale, Nord Africa compreso, per opera delle popolazioni eurasiatiche che abbiamo correntemente chiamato barbari. Alcune di queste, assolutamente affascinate da Roma, vorranno in modi diversi imitarla assorbendo molto della sua cultura (Ostrogoti, Visigoti, Franchi, Anglo-Sassoni, ecc.). La cartina mostra gli interventi dei diversi popoli in varie regioni dell’antico Impero romano. I nuovi popoli fanno pressione anche sull’Impero d’Oriente che però li ingloberà via via allargandosi nei Balcani. Il fenomeno di lunga durata che caratterizza la tarda antichità è precipuamente l’affermarsi del cristianesimo a cui gli stessi nuovi popoli, pur con riti diversi, si convertiranno. La carta mette in luce la densità delle comunità cristiane e i maggiori centri cristianizzati con le rispettive sedi ecclesiastiche. In Occidente è proprio la Chiesa a garantire un tessuto civile nello sfaldarsi dell’Impero e nei vuoti lasciati dai governi delle nuove popolazioni. La carta indica, nel contempo, il permanere di due altre componenti culturali importanti del mondo tardoantico. La prima è la presenza di centri ebraici, dovuti anche alla diaspora degli ebrei dopo la caduta del Tempio nel 70 d.C. Tali centri avranno ulteriore diffusione in Europa nei secoli successivi. La componente ebraica, con il suo senso della storia e la ricchezza della tradizione biblica e della legge, sarà sempre un polo culturale attivo. A causa della tenuta delle sue comunità, anche in periodi successivi, dal Cairo a Toledo, dal Sud della Francia all’area renana e alle Russie, la diaspora ebraica sarà di una tale coesione da saper conservare l’identità in modo inusuale per altre culture religiose. In momenti diversi tale cultura riuscirà a trasmettersi e a innervare l’Europa. La seconda componente che la carta mostra è il persistere di centri di grande tradizione ellenistica, che vanno messi in relazione con la cartina più piccola in alto a destra (2) che mostra i centri di cultura ellenistica nel I-II secolo della nostra era. Senza quella che possiamo chiamare la koiné ellenistica non si potrebbe nemmeno affrontare il tema del tardoantico. Siamo soliti oggi riconoscere all’ellenismo un tempo lungo (sei secoli) e due momenti propulsori. Il primo fu un cosmopolitismo grecizzante promosso da Alessandro, ma con enorme funzione osmotica nell’Oriente e nel Mediterraneo, basti pensare all’Egitto tolemaico. Il secondo fattore sarà Roma che, assorbito l’ellenismo, ne faciliterà la permanenza in tutta la macroarea imperiale. È l’ellenismo che da un lato conserva la tradizione classica e il suo pensiero e dall’altro mette in crisi la religione pubblica romana e permette lo sviluppo dei culti misterici e salvifici (mitraismo, osirismo, misteri eleusini, isidismo, ecc.) ed anche dello stesso cristianesimo. 2. La cartina mostra i centri ellenistici all’alba della nostra era. 11
I,1. I PRIMI SIMBOLI MUSICALI CRISTIANI Donatella Restani
I simboli a contenuto musicale presenti nei documenti verbali e figurativi nel mondo mediterraneo dal II al VI secolo documentano le funzioni sociali, culturali e politiche svolte dalla musica all’interno delle diverse comunità. La loro quantità e varietà testimonia come le principali componenti culturali di matrice ellenistica, romana, giudaica e cristiana abbiano interagito attraverso processi di persistenza e contaminazione, ma talora anche di contrapposizione e rottura. Alcuni aspetti di tale vasto panorama sono ancora poco esplorati, tuttavia una visione più completa e ricognizioni sistematiche potranno derivare da nuove esegesi testuali, riletture dei reperti e recenti scavi in Europa ma soprattutto nei territori palestinesi, mediorientali e nordafricani. Sin dagli inizi, le comunità cristiane si sono confrontate con i preesistenti significati delle esperienze sonore e delle loro rappresentazioni nella cultura giudaica, greca e romana. Se nelle comunità ebraiche il canto era un elemento obbligatorio per la comprensione e la fruizione del testo della Torah in tutti i suoi aspetti, anche nel Nuovo Testamento si riferisce di canti eseguiti in occasioni diverse, quali per esempio la lode a Dio degli angeli di fronte ai pastori: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e sulla
terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,13-14); il saluto trionfale all’ingresso di Gerusalemme: «Osanna al Figlio di Davide! / Benedetto colui che viene nel nome del Signore! / Osanna nel più alto dei cieli!» (Mt 21,9) e l’inno di lode dopo la cena pasquale (Mt 26,30; Mc 14,26). Il sapere musicale dei Greci era ritenuto una componente essenziale nella formazione dell’uomo colto e del buon governante sia per la città degli uomini, sia in vista della città di Dio (da Clemente di Alessandria ad Agostino). Inoltre, dal II secolo, la predilezione per le immagini degli strumenti musicali e dei racconti mitologici a contenuto musicale, in particolare relative a Orfeo, Dioniso e Pan, Odisseo e le Sirene, assai diffuse presso la committenza colta pagaIII,7. na, portò a riprodurle con innumerevoli varianti negli spazi privati 1 e pubblici, su arredi e oggetti di uso quotidiano, e persino nelle pitture catacombali e sui sarcofagi: strumenti a corde compaiono su lucerne, avori e piatti d’argento; Orfei con la lira o la cetra e talora con il seguito di animali affollano mosaici, sculture, gemme, recipienti di vetro o di terracotta, lucerne, monete, tessuti, affreschi e lastre tombali; scene dionisiache con attributi musicali quali la syrinx ornano bottiglie di vetro soffiato, altari e sarcofagi; Eroti
1, 1a, 1b. I simboli dionisiaci, tra cui la syrinx, strumento a fiato policalamo (a più canne), sono disseminati su oggetti d’uso o di prestigio, come le preziose coppe d’argento della metà del I secolo d.C. provenienti dall’Asia Minore oppure le bottiglie di vetro soffiato siro-palestinese di cui vediamo qui riprodotto un esemplare. (1) Bricco esagonale con simboli dionisiaci, realizzato probabilmente nel secondo quarto del I secolo. Recipienti di questo tipo sono stati trovati in tutta l’area est del Mediterraneo: l’Armenia, l’area siro-palestinese, la costa nord del Mar Nero e la Grecia. La funzione di questi bricchi non è stata ancora stabilita con certezza, ma il contesto archeologico di tipo funerario di un ritrovamento greco ci indica un tipo di associazione: il bricco con i simboli dionisiaci è un oggetto per la sepoltura di un giovane uomo, morto per avere bevuto «troppo vino puro» (da E.M. Stern). Il vetro soffiato, da traslucido a trasparente, è di colore verde oliva pallido; il corpo e il collo del bricco sono suddivisi in sei riquadri con simboli dionisiaci in rilievo.
(1a) Riquadri del collo, da sinistra a destra: il tirso incrociato; un recipiente da vino con becco e manico; un altro recipiente da vino con due manici; una syrinx a canne pari, ossia canne di lunghezza uguale; probabilmente una phiale con decorazione a cerchi concentrici, ossia una coppa larga e schiacciata, quasi come un piatto, dalla quale il vino veniva offerto agli dei nelle cerimonie sacre spargendolo al suolo o versandolo sul fuoco dell’altare; un altro recipiente da vino con due manici. (1b) Riquadri del corpo. La sequenza e la tipologia degli oggetti è uguale a quella dei riquadri del collo. Qui la syrinx è a canne di diversa lunghezza, è rappresentata appesa ed è evidente la legatura centrale delle canne stesse. Tali oggetti riflettono l’attrazione esercitata dalla cultura greca sui gusti dei committenti pagani, giudei e cristiani per i medesimi tipi di oggetti e di mobilio. (Disegno di D. Blandino da E.M. Stern, Roman Mold-blown Glass. The first through sixth centuries, The Toledo Museum of Art, Toledo 1995).
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2. Una delle presenze più diffuse e di lunga durata è quella delle immagini dei suoni del corteggio dionisiaco: Pan suona la syrinx, universalmente nota come «flauto di Pan». Tessuto di provenienza egiziana del VI secolo. Abegg-Stiftung Museum, Riggisberg, Svizzera. 3, 4, 5, 6. Anche in tempi recenti si sono susseguite scoperte di mosaici, in Giordania, in Palestina e nel Mediterraneo, che riprendono tematiche mitologiche della classicità. Si tratta di edifici in centri popolati da giudei, come Sepphoris, o da cristiani, come Madaba. Questi ritrovamenti da un lato confermano la continuità nella scelta dei temi iconografici della mitologia classica, dall’altro esprimono una caratterizzazione culturale e regionale. Alcuni esempi: (3, 4) Eracle e Dioniso si fronteggiano nel tradizionale episodio della gara di bevute, accompagnati da suonatore di doppia tibia nel pavimento mosaicato, probabilmente del III secolo, di una villa di Sepphoris, Giordania. 2 3
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(5) Le Amazzoni sembrano accennare passi di danza. Dall’edificio cosiddetto del «Festival del Nilo» a Sepphoris. (6) Ai piedi di un vittorioso Apollo con kithara giace lo sconfitto Marsia con il suo aulos (strumento a fiato a canna singola). Da una villa di Paphos a Cipro.
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7. Eroti con strumenti a fiato monocalami volano tra frutta, fiori, animali, uccelli fantastici e scene di vendemmia nel medaglione della volta anulare mosaicata del mausoleo di Santa Costanza a Roma. 8. Parte di un tappeto musivo (pavimento a mosaico) del VI secolo che occupa la navata centrale della chiesa dedicata ai Santi Martiri Lot e Procopio a Khirbat-al-Mukhayyat, attuale Giordania. La grande tradizione di mosaicisti dell’antica provincia Arabia di Roma ha qui realizzato una allegoria cristiana della vigna in cui si svolgono diversi lavori, ma in cui appare anche un suonatore di uno strumento a fiato monocalamo. 7
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14 I,1. I PRIMI SIMBOLI MUSICALI CRISTIANI
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9, 9a. Pavimento musivo del VI secolo della cosiddetta sala dell’Achille, ritrovato in un’abitazione civile nel quartiere meridionale di Madaba, importante città dell’antica provincia Arabia dei Romani, oggi nota per la qualità dei suoi mosaici paleocristiani. «Più che a residui del paganesimo, secondo l’archeologo e storico Michele Piccirillo, i motivi di ispirazione classica sono indici della cultura che l’imperatore Giustiniano aveva diffuso nell’Impero».
anche la danza circolare di quattro figure identificate come i Geni delle Stagioni, accompagnata da un suonatore di syrinx, realizzata con tessere in oro: l’emblema faceva parte del mosaico pavimentale al centro di una grande stanza di un palazzetto bizantino del VI secolo rinvenuto a Ravenna nel quartiere adiacente alla cattedrale e al battistero cattolici. Da sinistra, in senso antiorario: Primavera incoronata di rose, Autunno con ghirlande violacee, Estate di cui resta parte della corona di spighe, e Inverno con un copricapo di canne e completamente ammantato.
(9) Particolare dell’Achille che suona uno strumento a corde. (9a) Disegno di silhouette che mostra quanto ci resta del mosaico incentrato sull’Achille. Achille suona il suo strumento tra l’amico Patroclo – entrambi sono identificati dalle iscrizioni – e una giovane donna coronata da due eroti. I particolari di tale scena sono ritenuti da Glen W. Bowersock probabilmente collegati alle rappresentazioni di mimi e pantomimi, gli spettacoli più diffusi nella tarda antichità. 10. A tale repertorio di immagini mitologiche, condivise da committenti di cultura raffinata di ogni parte del Mediterraneo, potrebbe appartenere
volanti con strumentini a fiato popolano i medaglioni della volta anulare mosaicata del mausoleo romano di Santa Costanza. Sino all’età di Giustiniano l’apprezzamento per la cultura classica si espresse anche attraverso le immagini. Quando le immagini della mitologia classica migrano dai contesti ellenizzati o romani a quelli multiculturali o cristiani, è per lo più difficile e talora impossibile determinare se esse esprimano il senso di appartenenza alla cultura degli antichi dei loro committenti e fruitori, oppure se trasmettano nuovi significati simbolici. Se si continuarono a condividere i modelli figurativi mitologici e i valori morali e filosofici della cultura musicale greca, al contrario emerse un forte contrasto nei confronti delle esperienze sonore del mondo antico: dal II secolo affiorò il quesito su quali musiche fossero adatte alla vita dei cristiani e da quel momento alcune polemiche della tradizione letteraria (da Platone a Plutarco) confluirono, decontestualizzate, negli scritti degli apologeti cristiani (da Clemente di Alessandria ad Agostino). II,11 Le argomentazioni negative riguardarono sia i testi dei canti greci o latini tradizionali delle comunità pagane e le musiche strumentali in uso nei simposi, nelle rappresentazioni teatrali e nelle feste, nuziali in particolare, ritenuti causa di comporta-
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10a. Mappa schematica del complesso urbanistico di Ravenna e del porto di Classe nel VI secolo: A. Palazzo di Teodorico il Grande, chiesa di Sant’Apollinare Nuovo B. Cattedrale cattolica e battistero C. Cattedrale ariana e battistero D. Mausoleo di Teodorico E. Mausoleo di Galla Placidia e chiesa di San Vitale F. Porto di Classe G. Basilica di Sant’Apollinare in Classe H. Resti della basilica di San Severo
menti non equilibrati e violenti, sia i cantori e gli strumentisti, in particolare se donne, e i comportamenti degli ascoltatori. I gruppi cristiani furono ben presto riconoscibili proprio sulla base delle loro sobrie espressioni sonore (sobrie psallere, Ambrogio). Dall’esterno, erano identificabili sia per il canto all’alba: «quod essent soliti stato die ante lucem convenire carmenque Cristo quasi Deo canere» (Plinio il Giovane, Epistulae, X 96, 7), pratica raccomandata, tra l’altro, da Paolo alle comunità di Efeso (Ef 5,18-19) e di Colossi (Col 3,16); sia per il sigillo dell’anello a forma di lira musicale, oltre che di colomba, pesce, nave spinta dal vento e àncora (Clemente Alessandrino, Pedagogo, III 59, 2). La terminologia musicale della koiné ellenistica e romana, che permeava ogni ambito della quotidianità, fu adottata sin dai primi diffusori del messaggio cristiano e risemantizzata per esprimere nuove idee. La Prima Lettera di Paolo agli abitanti di Corinto non è solo il testo neotestamentario più ricco di riferimenti musicali (1 Cor 14,15; 14,26-27; 15,51-52), ma anche il primo in cui alcune espressioni musicali particolarmente pregnanti usate nelle similitudini rinviano a concetti teologici (1 Cor 13,1): «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma
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Ravenna
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Classe
Zone limitrofe alle due città spesso adibite a cimiteri Edifici
Mosaico Affresco Sarcofago Recipiente in terra sigillata Monete Gemme Pasta di vetro Sculture di pietra Rilievi funerari Sarcofago a strigile Terracotta Lucerna Piatto in ceramica Statuette in avorio Sigillo Tessuto Pissidi d’avorio
Horkstow inizio IV sec. Welton IV sec. Withington inizio IV sec. Winterton IV sec. Corinium Woodchester (Cirencester) inizio IV sec. inizio IV sec. Newton St. Loe Littlecote inizio IV sec. 360 Isola di Wight Brading fine III o IV sec.
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Forêt de Brotonne I-III sec. Se nn
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Blanzy-lès-Fismes inizio IV sec.
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16 I,1. I PRIMI SIMBOLI MUSICALI CRISTIANI
non per mezzo delle parole, ma per mezzo delle opere» (Exp. in Ps., 143, 4; PG 55, 462-463). In tale prospettiva, Dio, che discende dal cielo per far comprendere agli uomini le cose divine e celesti, è come un plettro che le rivela agli uomini, ed essi risuonano come strumenti della conoscenza, al pari di una kithara o di una lyra, capaci di comunicare tra loro in un rapporto ordinato e reciproco (symphonos), come se si esprimessero con una sola
Ste-Colombe ultimo quarto II sec.
on na
Arnal ro Eb
non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba (chalchos echon) o come cimbalo che strepita (kymbalon alalazon)». In altri casi, l’ascolto abituale degli strumenti musicali consentì di esemplificare il discorso sulla necessità di usare un linguaggio chiaro e preciso all’interno della comunità (1 Cor 14,7-8): «se gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il flauto (aulos) o la cetra (kithara), non producono i suoni distintamente, in che modo si potrà distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra? E se la tromba (salpinx) emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia?». Non diversamente, il vescovo Ignazio (70-107 d.C.) si rivolgeva ai suoi fedeli della diocesi di Antiochia con un linguaggio ricco di simbolismi riferiti alla voce e agli strumenti musicali. Esortava i cristiani a essere tutt’uno con il pensiero del loro vescovo e con il collegio presbiteriale che «è unito (synermosthai) al vescovo come le corde alla cetra», perché soltanto dalla loro unità e amore «si innalza un canto a Gesù Cristo». Anche i laici erano invitati a formare «un solo coro, prendendo tutti la nota da Dio (chroma Theou) e concertando nella più stretta armonia, per inneggiare a una voce al Padre per mezzo di Gesù Cristo»: da tale modo di agire Dio li avrebbe riconosciuti come «il canto del suo Figlio» (Ef 4,1-2; cfr. 8). Tuttavia nel riconoscere pure che «è meglio essere cristiano senza dirlo, che dirlo senza esserlo», Ignazio valorizzava anche il silenzio: sia quello di Dio, in cui si compirono i tre misteri straordinari della verginità di Maria, del suo parto e della morte di Cristo (Efesini, XIX), il Verbo «uscito dal silenzio» (Magnesii, VIII), sia quello del vescovo, il cui silenzio «è in armonia con i precetti, come le corde alla cetra» (Filadelfesi, I), sino al proprio, di prigioniero destinato alle belve: «Se voi tacete» – scriveva ai cristiani di Roma – «io diventerò parola di Dio; ma se voi avrete pietà della mia carne, di nuovo non sarò che un suono vuoto»; aggiungendo che soltanto dopo il suo martirio, «uniti dall’amore in un solo coro (symphonos)» avrebbero inneggiato al Padre (Romani, II). Successivamente, negli scritti dei Padri della Chiesa, e in particolare nei testi rivolti a un pubblico ellenizzato, la terminologia dell’ascolto e dell’esecuzione, degli strumenti musicali e della voce si arricchì di significati simbolici riguardanti Dio, Cristo e gli uomini, corpo e anima. Contrapposti agli strumenti musicali inanimati, gli uomini sono descritti come strumenti musicali dotati di anima e in quanto tali capaci di intonare un canto nuovo in onore di Dio. Per Clemente di Alessandria, Cristo è il «Canto Nuovo», che ordinò armoniosamente con lo Spirito Santo il cosmo e il microcosmo dell’uomo nella sua unione di anima e di corpo: «‘perché tu sei una cetra, tu sei un flauto, tu sei un tempio per me’: una cetra a causa della tua armonia, un flauto a causa del tuo spirito, un tempio a causa della tua ragione: affinché la prima risuoni, il secondo soffi, e la terza comprenda il Signore» (Clemente di Alessandria, Protrettico, I 5-7). Anche per Giovanni Crisostomo il nuovo simbolo della comunicazione sonora tra gli uomini e Dio è rappresentato dal corpo dell’uomo: è possibile «usare il corpo al posto degli strumenti musicali, cantando non solo con la lingua, ma anche con gli occhi, con le mani, coi piedi, con l’udito. Quando ciascuno di questi compie azioni che rendono gloria e lode a Dio […] le membra del corpo divengono salterio e cetra, e cantano una nuova canzone,
La Alberca IV sec.
Lisbona metà IV sec. Tago
Badajoz seconda metà IV sec.
Mérida III e IV sec. Santa Marta IV sec.
Saragozza seconda metà IV sec.
Vienne III sec. Trinquetaille III sec.? Aix-enProvence seconda metà II sec.
Bale
ari
Cherchell Volubilis ultimo quarto III sec. 300-400
Henchir Rouga fine III sec.
bocca e una sola lingua (Pseudo-Giustino, Esortazione ai Greci, 8; PG VI, 256-257). In questa nuova antropologia sonora a Orfeo è subentrato Cristo: è Lui il vero musico, «il solo che abbia mai domato i più nocivi animali – gli umani» (Clem. Al., Protr., I). Il primo tentativo cristiano di integrare Orfeo e il suo incanto sonoro nel cosmo cristiano porta con sé uno scopo nuovo attribuito all’azione della
Mare del Nord
B Mar
alt
musica: la liberazione dell’umanità. Anche lo strumento musicale quindi è diverso: dalla lira o dalla cetra si passa al Vangelo, la «Tromba (salpinx) di Cristo», capace di intonare un canto di pace che si estende fino ai confini della terra e che raccoglie intorno a sé soltanto soldati pacifici (Clem. Al., Protr., XI 116,2-3; cfr. Origene, in librum Jesu Naue homilia VII). Tuttavia anche gli altri strumenti musicali assumono nuovi significati, soprattutto nelle II,1 11. Diffusione dell’immagine di Orfeo tra il II e il VI secolo. L’area coperta riguarda tutto il Mediterraneo, dove il culto orfico III,6 si è particolarmente diffuso durante l’ellenismo romano: di fronte alla difficile fruibilità della religione pubblica romana, le religioni misteriche corrispondevano all’esigenza di gran parte della popolazione. N.G., La carta rimarca anche la presenza dell’immagine di Orfeo nelle Gallie, 11 in Britannia, nella Germania e nell’Est Europa. Mentre nel Mediterraneo all’uso ellenistico pagano si sovrappone progressivamente la metafora cristiana del Cristo-Orfeo sino a diventare il Cristo Buon Pastore, nel Nord Europa è col cristianesimo stesso che si ha una larga diffusione dell’immagine di Orfeo. La carta mette in luce come tale immagine sia stata riprodotta sia in opere di arti maggiori, come mosaici (i più diffusi), affreschi e sarcofagi, sia nella più ampia varietà delle arti minori e di oggetti d’uso, non sempre localizzati.
ico
11 Colonia, Köln seconda metà III-IV sec.
Re no
Treviri Zugmantel 140-180
Arae Flaviae fine II sec. Pérouse seconda metà II sec. Avenches 200-250 Yvonand fine II sec. Yverdon fine II sec.
Da
nu b i o
Carnuntum III sec.
Lauriacum (Enns) età romana
va Sa
Rimini fine II sec.
Corsica
Santa Marinella
Tivoli II sec.
Porto Torres
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Intercisa età romana
Ptuj età romana
Trento II sec. Aquileia
Sirmium
Salona II-III sec.
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Ad
ria
Panik ultimo quarto III sec.
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Philippopolis 209-212
o
Roma Ostia seconda metà II sec. (mosaico) fine III- fine III-inizio IV sec. (sarcofago a strigile) fine IIIinizio IV sec. prima metà III-IV sec. (affreschi) inizio IV sec. Tessalonica Sardegna secondo quarto III sec. Mar Tirreno Cagliari
Istanbul
Traianopolis 193-211
Ki
zil
Irmak
Tigri
Mitilene intorno al 300
metà III sec.
Palermo metà III sec.
Oudna fine IIIinizio IV sec.
Nero
Mar
Edessa 228 Corinto
Piazza Armerina III sec. Sicilia El Amrouni prima metà III sec. Hadrumetum metà III sec. Thysdrus fine II sec. La Chebba inizio III sec. M a r Thina Sakiet Ezzit inizio IV sec. III-inizio IV sec.
Atene III sec. Egina
Tarso prima metà III sec.
Mileto II sec.
Rodi
Kissamos
Paphos fine IIinizio III sec.
Creta
M e d i t e r r a n e Ptolemais (Tolmeita) verso il 400 Leptis Magna fine II sec.
o
Tobruk
Cipro
Jenah fine V sec.
Gerusalemme seconda metà IV-inizio V sec. VI sec. Alessandria 138-161
inizio IV sec.
Gaza inizio IV sec. o Nil
V-VI sec. V-VII sec. V-VI sec.
Eu
Seleucia fine II sec.
Kos
Sparta
Adana 250-315
Sinai
frate
Byblos metà III sec.
Philippopolis (Chahba) prima metà IV sec.
Mar Mo rt o
interpretazioni allegoriche della tradizione patristica di commenti ai salmi, che Agostino ha accolto e amplificato. Se il salterio a dieci corde, lo strumento attribuito al re Davide, era paragonato III,10. da Origene e Atanasio al corpo umano, poiché ha cinque sensi 2-6 nel corpo e cinque fonti di energia nell’anima, oppure ai Dieci Comandamenti, Agostino insisteva sulle affinità e le differenze tra i due strumenti a corde più comuni, il salterio e la cetra (cithara, lyra): entrambi sono tenuti e suonati con le mani, entrambi sono «l’immagine di qualche nostra opera corporale». La differenza consiste invece nel fatto che la cassa di risonanza del primo risuona tenendo la parte concava verso l’alto e quella della seconda verso il basso: di qui, le associazioni simboliche rispettivamente tra il salterio e le opere che si compiono senza difficoltà in funzione del volere divino; tra la cetra e la dimensione mortale del dolore (Enarrationes in Psalmos, 42). L’applicazione più significativa è però quella che riguarda Cristo: in lui il salterio è simbolo della sua natura divina e del trionfo nella Resurrezione; la cetra, della sua natura umana e della sofferenza nella Passione (Enarr. in Ps., 56). Alle radici della nuova antropologia sonora cristiana si trova pertanto l’uomo, unico strumento (gr. organon, lat. organum) completo, se obbediente al volere di Dio, la cui vera musica si esprime sia al livello dei suoni udibili e gioiosi della lode a Dio, sia al livello dei suoni inudibili e interiori che tengono uniti in una coaptatio (gr. harmonia) il corpo e l’anima, e le loro rispettive parti (Agostino, De civitate Dei, 22, 24, 4). Se la metafora del corpo umano come strumento musicale attraversa per circa dieci secoli la tradizione colta dei pensatori, da Platone ad Agostino, la sua sistematizzazione nella musica humana di Boezio è segno della persistenza, ma anche della vitalità e della capacità di trasformazione dei concetti musicali, simboli compresi, tra l’Antichità e il Medioevo.
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12. Orfeo che suona la cetra abbigliato alla trace, come mostra il copricapo. Particolare di un sarcofago paleocristiano, denominato «il sarcofago dell’Orfeo», sito nella basilica di San Gavino a Porto Torres, in Sardegna. 13. Orfeo con il suo strumento a corde, abbigliato alla trace e seduto in posizione frontale, o nella posa imperiale dell’arte bizantina, circondato da vari animali, occupa la scena principale del pavimento, probabilmente del VI secolo, che gli studiosi attribuiscono concordemente a una sepoltura che ritrae anche due figure femminili, Teodosia e Georgia, forse le committenti. Il mosaico, a più riquadri con altri miti separati e dalla complessa interpretazione, raffigura anche Pan che regge la syrinx sotto la lira di Orfeo. Ritrovato nel 1901 presso la Porta di Damasco, a Gerusalemme, ora è al Museo Archeologico di Istanbul.
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18 I,1. I PRIMI SIMBOLI MUSICALI CRISTIANI
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14, 15. Nel passaggio agli ambienti cristiani del IV secolo lo schema figurativo di Orfeo subisce una serie di trasformazioni: dalle pitture murali delle catacombe di Domitilla a Roma (14) ai mosaici del battistero di Aquileia (15). Cristo è il «nuovo Orfeo» e il Buon Pastore: abbigliato con vesti romane, circondato da agnelli e pecore mansuete, seduto o stante, regge (non suona) lo strumento del mondo pastorale, la syrinx (e non la kithara o la lyra), con un gesto della mano che indica la via e custodisce il gregge (dei fedeli). 16. Una syrinx pende da un ramo nel sarcofago detto «del Buon Pastore», che infatti campeggia nella scena. Cristo trasporta la pecorella smarrita, ma la presenza dello strumento musicale, pur a lato, mantiene il nesso con Orfeo o almeno con il mondo pastorale. Il sarcofago è attualmente conservato nei Musei Vaticani. 16 17
17. Buon Pastore e suonatrice che impugna un raffinato strumento a corde. Si tratta del particolare di un sarcofago paleocristiano del IV secolo, sarcofago Laterano 128, sito oggi nei Musei Vaticani. Il sarcofago, di stampo bucolico, è caratterizzato ai lati estremi del suo pannello frontale da due citarede. La figura della citareda è stata rispettivamente interpretata come simbolo evocatore dell’armonia delle sfere nel caso di un sarcofago ravennate o della sopravvivenza dell’anima, come nel caso del sarcofago lateranense.
I,1. I PRIMI SIMBOLI MUSICALI CRISTIANI
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I,2. PRIME FORME DI CANTO CRISTIANO Giacomo Baroffio
Nel primo periodo di sviluppo della Chiesa e della liturgia cristiana, si assiste ad un fenomeno che incide fortemente sulla storia della musica nel culto. Da un lato, la Chiesa nasce nella prima Pentecoste. D’altro lato, la primitiva comunità è formata da ebrei che portano nella nuova istituzione la propria esperienza liturgica e musicale. Un’esperienza vissuta da secoli e che reca in dono alla nascente comunità cristiana sia alcune categorie teologiche (ad esempio, memoriale e benedizione) sia strutture e modalità esecutive musicali. Il centro dell’edificio liturgico è la Parola. Essa è cantata secondo i canoni della cantillazione (che sono all’origine dei toni di lettura in ambito cristiano): il testo è cantato ripetendo un’unica nota; da questa «corda di recita» (repercussio) ci si discosta inserendo formule che evidenziano le sezioni e le relative cesure del testo delimitate, nell’uso moderno, dai segni d’interpunzione (punto e virgola, punto fermo, ecc.). La cantillazione biblica è il punto di partenza del repertorio musicale cristiano: essa in seguito sarà estesa anche alle letture di altri testi, quelli agiografici (vite di santi) e omiletici (prediche e trattati dottrinali) nella liturgia delle ore e nella messa. La Chiesa, inoltre, accoglie dagli usi ebraici il canto dei salmi; dopo alcuni momenti di rifiuto e di perplessità, a partire dal II secolo essi diventano il nucleo fondante della preghiera cristiana nei vari momenti degli incontri comunitari. Cantillazione e salmodia sono strutture musicali caratterizzate dalla ripetizione ciclica di una formula melodica che si estende su un periodo intero di testo (cantillazione) o su una porzione di lunghezza variabile, scandita da regole poetiche (come accade nei salmi e nei cantici articolati in versetti). La familiarità con la cantillazione e la salmodia creano l’abitudine mentale di costruire melodie cicliche, brani musicali in cui un’unica frase musicale è ripetuta tante volte quanto l’esige la lunghezza del testo (si veda l’esempio del canto di comunione ambrosiano, il transitorio Te laudamus). I repertori musicali delle liturgie latine ricevono quindi l’impulII,2.2 so iniziale dalle tradizioni ebraiche, ma sono plasmati e si sviluppano successivamente all’interno di una antica cultura mediterranea che ha lasciato una forte impronta soprattutto nelle tradizioni vocali milanese e romana. In particolare si può ricordare la tecnica compositiva della «variazione della struttura» che interessa centinaia di brani presenti negli antichi repertori romano, milanese e gregoriano. Tali canti sono costituiti da una serie variabile di linee melodiche, in ciascuna delle quali sono presenti alcune note o nuclei melodici che costituiscono l’ossatura della melodia. Si tratta quindi di una tecnica mediterranea praticata in ambito semitico (maqam) e anche in India (raga). Alcune modalità vocali coagulano differenti tradizioni espressive (dalla salmodia ebraica all’arte oratoria romana alle tradizioni melodiche arcaiche del Mediterraneo) e si ritrovano nella proclamazione in canto dei salmi. Si conoscono al riguardo alcune forme
20 I,2. PRIME FORME DI CANTO CRISTIANO
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1. Esempio di melodia ciclica. Trascrizione del Te laudamus, canto di comunione della messa ambrosiana, il transitorium corrispondente al communio romano. La melodia ciclica è formata da una frase musicale che viene ripetuta sei volte. La presenza nel brano sillabico di un vocalizzo (melisma) al centro della frase musicale, in corrispondenza della sillaba finale del penultimo inciso testuale, è una caratteristica arcaica mediterranea. 2. Esempio di «variazione della struttura». Amen dico vobis, antifona di comunione gregoriana trascritta in notazione moderna. Qui il perno melodico, che costituisce l’ossatura della melodia stessa, è il gruppo di note Sol-La (Sol La Sol Fa) con preparazione Fa-Mi. 3. Tra il II e il IV secolo aveva già preso forma un’arte ebraica successiva alla caduta del Tempio (70 d.C.) che, descrivendo episodi biblici, influenzò l’arte cristiana come avvenne anche per l’esperienza liturgicomusicale. Gli scavi in Siria della città ellenistica di Dura Europos, dove erano presenti comunità di varie confessioni, ci hanno restituito importanti affreschi. Nell’affresco qui riprodotto, appartenente in origine alla parete di una sinagoga, oggi conservato al Museo Nazionale Siriano di Damasco, è rappresentato il santuario di Dagon devastato dall’Arca dell’Alleanza; sul pavimento anche uno strumento musicale insieme a vari arredi sacri. La parte inferiore dell’affresco è dedicata all’infanzia di Mosè.
antiche e l’esito dell’evoluzione posteriore nei canti interlezionali della messa (i canti, cioè, tra la prima lettura e il Vangelo). Tre esempi: 1) la salmodia direttanea prevede il canto integrale di un salmo da parte di un solista senza nessun intervento estraneo; da tale pratica deriveranno i cantici della veglia pasquale e i tratti; 2) la salmodia alleluiatica al termine di ogni versetto solistico introduce l’acclamazione «alleluia» da parte dell’assemblea; da questa pratica avrà origine l’Alleluia e il versetto alleluiatico; 3) all’antica salmodia responsoriale corrisponde oggi il salmo responsoriale; nel Medioevo si aveva una contrazione del testo e uno sviluppo melodico nel cosiddetto responsorio graduale costituito da un responso e da un verso, seguito dalla ripetizione del responso (ABBA). A parte le differenti forme strutturali, queste tre tipologie mostrano nella forma antica uno stile sillabico (una o un paio di note su ogni sillaba); nelle successive rielaborazioni i canti sono tutti melismatici, ricchi di vocalizzi («melismi» da una decina a una cinquantina di note su qualche sillaba del brano, per non parlare di melismi di alcune centinaia di note nei repertori ispanico e milanese).
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Dal mondo mediorientale (Siria, Gerusalemme) e da quello bizantino i riti latini importano singoli brani e modelli che condizioneranno la successiva evoluzione musicale. Il fatto più rilevante è la griglia delle scale musicali, anteriori allo schema delle tonalità, utilizzate nel comporre le melodie liturgiche: sono di fatto varie decine che i teorici, per ragioni simboliche, ridurranIII,1 no a solo otto modi ecclesiastici (Oktoechos). Oltre a categorie compositive quali l’antifonia (il canto a cori alterni) e l’innodia (l’uso di particolari brani poetici), alcuni gruppi di canti (antifone dell’ottava dell’Epifania, le antifone Pueri Hebraeorum della Domenica delle Palme, alcuni canti per l’Adorazione della Croce il Venerdì Santo) e singoli brani (ad esempio, O quando in cruce del patriarca Sofronio di Gerusalemme, † 638 ca.) sono la traccia di forti legami con i mondi orientali, ebraico e cristiano, che per vari secoli (IV-IX) hanno arricchito e stimolato la produzione vocale dell’Europa latina e posto le premesse culturali per la definizione del repertorio gregoriano.
I,2. PRIME FORME DI CANTO CRISTIANO
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I,3. LA BASILICA PALEOCRISTIANA E LA TRANSIZIONE DALLA LITURGIA «PARLATA» ALLA LITURGIA «CANTATA» Ettore Cirillo e Francesco Martellotta 1
1, 3. San Paolo fuori le Mura a Roma. (1) Interno della basilica. La ricostruzione della metà del XIX secolo consente comunque di valutare le dimensioni e la struttura originaria della basilica paleocristiana risalente alla fine del IV secolo. È possibile osservare la ripartizione fra l’ampia navata maggiore e le navate laterali, poco profonde, disposte su due livelli e sormontate dal claristorio, ossia la parte alta della navata centrale ricca di finestre attraverso le quali la luce poteva entrare nella navata stessa.
Riverberazione
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Il tempo di riverberazione è definito come il tempo necessario affinché il livello sonoro prodotto da una certa sorgente si riduca di 60 decibel (dB) dopo che la sorgente ha cessato di funzionare.
La legalizzazione della religione cristiana, avvenuta nel 313 d.C. con l’editto di Costantino, segnò un importante punto di svolta nell’evoluzione dell’architettura religiosa e, con essa, della liturgia. Prima la Chiesa era vissuta in clandestinità, usando come luoghi di ritrovo case private, in cui si era sviluppata una forma di culto derivata fondamentalmente da quella ebraica, basata sulla lettura intonata (cantillazione) dei sacri testi e sul canto, antifonale o responsoriale, dei salmi. Su questa struttura liturgica si innestò il rito della celebrazione eucaristica così come Gesù l’aveva istituita nell’Ultima Cena, nella cui forma si riscontrano elementi propri dell’Agape ebraica. Gradualmente, man mano che la religione cristiana si diffondeva nelle aree ad influenza greca, la liturgia aveva integrato elementi linguistici e musicali propri di queste regioni, che divennero spesso prevalenti. Con la legalizzazione si giunse all’unificazione delle diverse «anime» mediante l’utilizzo della lingua latina nella celebrazione del rito e mediante la costituzione di un repertorio musicale rinnovato sotto la comune denominazione di «musica bizantina». Sul piano architettonico l’editto di Costantino pose il problema della definizione dello spazio da dedicare al culto. Le soluzioni furono molteplici e, in certa misura, dipendenti dal luogo. Infatti, a Roma, e più in generale in Italia, la forma più ricorren-
22 I,3. LA BASILICA PALEOCRISTIANA
te fu quella basilicale, così chiamata in quanto derivata direttaIII,4 mente dalla basilica romana, edificio civile caratterizzato da un’ampia navata centrale separata mediante colonne dalle navate laterali poco profonde e conclusa sui lati corti da absidi semicircolari. La scelta fu molto probabilmente dettata da motivi di carattere pratico, legati alla necessità di ospitare grandi masse di fedeli, nonché dalla facilità di costruzione, resa ancora più semplice dalla sostituzione delle volte di copertura delle navate con tetti a capriate, più economici e veloci da realizzare. Se si osserva che anche gli spazi dedicati al culto all’interno delle ville e delle residenze private, nonché alcuni templi dedicati al culto mitraico, avevano la stessa organizzazione planimetrica, si può concludere che il passaggio dalle case private alla basilica sia stato più che altro un naturale salto di scala dettato dalla necessità di ospitare masse di fedeli sempre più numerose. Con l’editto di Costantino ai vescovi vennero riconosciuti il rango di giudici imperiali e la possibilità di essere preceduti in processione da torce, incensi e cantori. Ciò introdusse un nuovo aspetto nella liturgia che ben si sposava con l’impianto longitudinale della basilica: la processione di ingresso del vescovo e del libro del Vangelo. Tale processione verso l’altare, simbolo que- IV,12. st’ultimo del sacrificio di Cristo e quindi della salvezza, mirabil- 4
(3) Ricostruzione della struttura paleocristiana di San Paolo fuori le Mura. (Elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg).
4. Ricostruzione della basilica paleocristiana di San Pietro a Roma. Nel transetto, in tratteggio, la supposta tomba di Pietro con il baldacchino e il battistero di papa Damaso (366-384). (Elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg). 5. Schema tipo di una basilica paleocristiana, con indicazione del ruolo acustico svolto dalle diverse parti architettoniche. Il presbiterio elevato assicura un adeguato apporto di suono diretto (D) e, in alcuni punti, intense riflessioni provenienti dal pavimento (P). La posizione dell’altare in prossimità del centro di curvatura dell’abside favorisce la focalizzazione del suono (A) verso l’assemblea dei fedeli, evitando che esso si disperda verso zone non occupate. Il soffitto piano o a capriate contribuisce in parte ad assorbire il suono (prevalentemente alle basse frequenze), favorendo soprattutto le riflessioni del suono verso l’assemblea (S). Le colonne interagiscono in maniera differenziata a seconda della lunghezza d’onda del suono incidente. Alle basse frequenze (lunghezza d’onda grande rispetto alla dimensione della colonna) esse risultano «trasparenti», non alterando il percorso del suono (M). Alle alte frequenze (lunghezza d’onda piccola rispetto alla dimensione della colonna) esse riflettono il suono verso la navata maggiore. (Disegno di F. Martellotta).
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mente rappresentata anche nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, costituisce il tema architettonico principale di ogni impianto basilicale, enfatizzato dalla lunga teoria di colonne che separano la navata principale da quelle laterali. Tuttavia la via salutis (la via della salvezza) è solo uno dei numerosi riferimenti simbolici che vennero associati alla basilica cristiana e che contribuirono a giustificarne l’adozione per usi religiosi. Ad esso si affiancarono la scelta dell’orientamento est-ovest, con l’abside rivolta ad Oriente, simbolo del sole nascente ovvero del nuovo ritorno di Cristo sulla terra, e la forma circolare dell’abside che simboleggia la perfezione del regno dei cieli, il punto di arrivo del percorso salvifico che inizia dal portale d’ingresso. Sul piano strettamente liturgico, la partecipazione al rito di persone non ancora battezzate (i cosiddetti catecumeni) pose il problema non solo di rendere comprensibile la celebrazione, ma anche di trasmettere loro il senso di riverenza e gratitudine che animava i fedeli. Venne, quindi, enfatizzato il ruolo missionario della celebrazione liturgica passando anche attraverso una magIII,5.4 giore «drammatizzazione» del rito. L’impiego di vestimenti per il clero, un maggiore ricorso ai canti e agli inni sacri, l’enfatizzazione degli aspetti rituali, come le già citate processioni e l’uso V,2.8 degli incensi, facevano parte di questa graduale evoluzione.
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Tutte queste novità e soprattutto quelle legate all’uso dei canti e alla maggiore formalizzazione e spettacolarizzazione delle celebrazioni liturgiche, trovarono una interessante corrispondenza nelle mutate condizioni acustiche dei luoghi di culto. Sul piano acustico la basilica rappresentò una significativa novità rispetto agli spazi precedentemente impiegati per la celebrazione dei riti sacri. In particolare, le maggiori dimensioni produssero nelle basiliche un allungamento dei tempi di riverberazione che, insieme all’aumento della distanza media fra sorgente sonora e ascoltatori, determinò un certo peggioramento nelle condizioni di intelligibilità della parola. Tuttavia il ricorso ad aree presbiterali, fortemente rialzate rispetto al piano dell’assemblea, contribuì a migliorare le condizioni di visibilità e, quindi, anche di ascolto del suono diretto. Inoltre la posizione dell’altare prossima al centro di curvatura dell’abside contribuiva anch’essa a convogliare il suono verso l’assemblea. Similmente il soffitto piano, realizzato con tavolati più o meno decorati, o le nude capriate dei tetti lignei permettevano di ottenere una migliore diffusione del suono dall’alto, per cui si realizzarono condizioni di ascolto più uniformi all’interno della navata. La parte acusticamente più debole degli edifici basilicali era senz’altro costituita dalle navate laterali che, separate dalla navata principale da fitte colonne (sebbene
I,3. LA BASILICA PALEOCRISTIANA
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6, 7. Basilica di Santa Sabina all’Aventino a Roma. (6) L’interno della chiesa è rifinito ad intonaco che assicura intense riflessioni sonore. La copertura, realizzata in legno, presenta un cassettonato poco profondo, assorbendo perciò il suono di bassa frequenza e riflettendo quello di frequenza medio-alta. È interessante osservare la presenza del recinto per il coro (databile intorno al IX secolo) di fronte al presbiterio e l’utilizzo degli archi al di sopra delle colonne, in contrasto all’uso romano di avere solo gli architravi. (7) Ricostruzione della struttura della chiesa nel V secolo. (Elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg). 7
24 I,3. LA BASILICA PALEOCRISTIANA
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8, 9, 10. Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. L’interno della chiesa è il risultato di continue aggiunte e modificazioni che si sono succedute nel tempo. La struttura e i mosaici dell’arco trionfale risalgono al V secolo, i mosaici dell’abside e il pavimento cosmatesco al XII secolo, il soffitto cassettonato fu disegnato da Giuliano da Sangallo nel 1450. L’insieme di tali interventi, unitamente alla ricchezza degli apparati decorativi aggiunti nei secoli, conferisce alla basilica condizioni acustiche ottimali malgrado le notevoli dimensioni dell’edificio.
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(8) Ricostruzione della struttura di Santa Maria Maggiore nel V secolo. (Elaborazione di H. Brandenburg, disegno di K. Brandenburg). (9) Ricostruzione dell’interno della basilica nel V secolo in un disegno del 1824 in cui il quattrocentesco soffitto a cassettoni sostituisce le capriate a vista originali. (Disegno di J.G. Gutensohn). (10) Arco absidale con storie dell’infanzia di Cristo.
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piuttosto esili), erano in larga parte precluse dalla ricezione del suono diretto (e di conseguenza anche della vista di quanto accadeva presso l’altare). La basilica di Santa Sabina all’Aventino a Roma, edificata fra il 422 e il 423, rappresenta un interessante esempio di tali realizzazioni. Lunga 55 m e larga 26 (navata centrale larga 13 m), con una altezza massima di 19 m, sviluppa un volume di circa 17.500 m3, cui corrisponde a chiesa vuota un tempo di riverberazione1 di 4,3 s alle medie frequenze. In presenza di occupazione è possibile stimare che il tempo di riverberazione possa ridursi a circa 3 s per effetto dell’assorbimento delle persone. La basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, eretta fra il 432 e il 440, pur avendo dimensioni maggiori (il suo volume è di 38.000 m3), è caratterizzata da un soffitto cassettonato (realizzato in epoca successiva) e da una maggiore ricchezza decorativa per cui ha un tempo di riverberazione a vuoto2 di 4,2 s, che si riduce ancora una volta a circa 3 s in piena occupazione.
I,3. LA BASILICA PALEOCRISTIANA
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11. La carta mostra la diffusione dell’arte e dell’architettura cristiana dalle origini a Bisanzio. Sono differenziate le domus ecclesiae, ossia le abitazioni private usate dai cristiani come primi luoghi di culto, dai luoghi di culto appositamente costruiti come le basiliche, i martyria, ossia chiese dedicate ad un martire, e i battisteri. 12. Basilica di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna. L’interno della chiesa è rifinito in parte con mattoni lasciati a vista e in parte con mosaici, il pavimento è in terracotta e il soffitto è coperto con capriate lignee che sostengono il tetto anch’esso in legno. In virtù dell’utilizzo di questi materiali, in grado di assorbire leggermente meglio il suono, si può spiegare il tempo di riverberazione più basso rispetto a Santa Sabina, malgrado le dimensioni maggiori. (Foto di F. Martellotta).
26 I,3. LA BASILICA PALEOCRISTIANA
San Ursicino
Santi Gervasio e Protasio
San Vitale
Santi Nazario e Celso
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13, 14. Basilica di San Vitale a Ravenna. (13) Pianta della basilica di San Vitale. (14) Interno. La chiesa è rifinita internamente con mosaici e affreschi ed è caratterizzata da una concezione spaziale completamente diversa rispetto allo sviluppo longitudinale tipico della pianta basilicale. La forma centralizzata, enfatizzata dalla cupola impostata sul tamburo che poggia sulle otto aperture absidate, fa sì che il volume complessivo della chiesa rapportato alla sua capienza sia più grande rispetto alle chiese a pianta basilicale dello stesso periodo, determinando così tempi di riverberazione più lunghi. Per contro, la maggiore vicinanza fra sacerdote e ascoltatori può comportare un certo miglioramento dell’intelligibilità che compensa la maggiore riverberazione.
La basilica di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, realizzata fra il 533 e il 536, misura 55 m di lunghezza per 29 di larghezza (14 m in navata), per una altezza media in navata di 21 m, cui corrisponde un volume di circa 22.500 m3. Il tempo di riverberazione a chiesa vuota3 è di 3,9 s e si riduce a circa 3 s in condizioni di piena occupazione. Una tipologia di chiesa completamente diversa è quella a pianta centrale, sviluppata principalmente in Oriente, mentre in Occidente fu più spesso utilizzata solo come edificio commemorativo di luoghi di martirio. In Italia un’interessante esempio di chiesa a pianta centrale è la basilica di San Vitale a Ravenna, costruita fra il 525 e il 547, realizzata su una pianta ottagonale, con uno spazio centrale coperto a cupola e una galleria perimetrale delimitata da archi impostati su absidi curve. Uno degli otto lati ospita il coro con l’altare e l’abside. Complessivamente il volume è di 25.800 m3 e il tempo di riverberazione alle medie frequenze è di 5,5 s a chiesa vuota4, mentre a chiesa piena è stimabile in 4,2 s. Tali valori appaiono più elevati dei precedenti lasciando supporre un possibile peggioramento delle condizioni di intelligibilità
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in questo tipo di chiese. Tuttavia, la maggiore vicinanza fra il sacerdote e l’assemblea (dovuta alla compattezza della pianta) non solo compensa tali effetti, ma porta a condizioni di ascolto migliorate. Questi esempi mostrano che pur variando in modo notevole le dimensioni, le condizioni acustiche degli edifici esaminati sono assai simili. In tutti i casi i tempi di riverberazione a chiesa piena evidenziano condizioni acustiche molto diverse rispetto a quelle che è possibile ipotizzare vi fossero all’interno delle case-chiese. Queste ultime avevano infatti volumi nettamente inferiori e tempi di riverberazione prossimi o inferiori a un secondo, offrendo pertanto condizioni ottimali per la comprensione della parola. Tuttavia, le profonde modifiche che la celebrazione liturgica subì, con una maggiore enfasi sulle parti cantate e sul coinvolgimento «sensoriale» del fedele, trovarono nelle nuove basiliche condizioni acustiche ideali dal momento che la riverberazione più lunga favoriva l’amalgamarsi dei suoni e l’unione di tutte le voci in trascendente preghiera.
LA BASILICA PALEOCRISTIANA
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I,4. L’EREDITÀ GRECO-LATINA
NEL PENSIERO MUSICALE MEDIEVALE
Paolo Gozza
L’eredità culturale, il più spirituale dei beni, si trasmette attraverso fonti diverse che il pensiero assume come propria divisa corporea: principalmente testi scritti, ma anche immagini, sculture, edifici, reperti artigianali, monete, e così via. L’eredità culturale comprende idealmente sia la totalità di una cultura nella prospettiva indagata, qui la cultura greco-romana sub specie musicae, sia i propri eredi. Questi sono possibilmente più sfuggenti: il millennio medievale è un sincretismo di culture, e nel suo decorso storico l’eredità musicale greco-latina incrocia tradizioni diverse e conosce molte rinascite. Le dinamiche dell’eredità convergono infine nella sintesi dello storico, che ieri come oggi interviene sul palinsesto dei beni culturali e ne àltera a ragion veduta statuto, significati e beneficiari. L’eredità musicale classica nel Medioevo comprende le fonti accessibili nelle diverse età (dalla tarda latinità alla Scolastica), le culture attive nell’età medievale (cristiana, araba, bizantina, ebraica) e, infine, la storiografia. La storiografia medievale ha generalmente privilegiato l’approccio teoretico, assumendo come fonti gli scritti dei teorici musicali e dei filosofi. Solo di recente l’eredità musicale greco-latina è stata studiata alla luce di testimonianze idonee non a illustrare un sistema di concetti, ma a definire un’antropologia storica tardoantica e medievale nutrita dalle rappresentazioni musicali del potere politico o dalla rappresentanza del potere imperiale e teologico testimoniata dalla storia dello strumento musicale. La conoscenza delle fonti musicali greche nell’Occidente medievale fu in massima parte possibile attraverso le traduzioni, le sintesi e i commenti di scrittori latini dal III al VII secolo. Nell’Occidente, esclusi Arabi e Bizantini, la lingua greca fu infatti dimenticata dal V al XIV secolo dell’era cristiana. Boezio (480-524) è il principale testimone dell’eredità musicale classica. La sua sintesi manualistica della teoria musicale tardoantica, il De institutione musica, è argomentata attraverso i trattati musicali di Nicomaco di Gerasa e di Claudio Tolemeo (entrambi del I-II secolo d.C.), e teorizza il primato della concezione matematica pitagorica sulla dottrina armonica di Aristosseno, fondata sulla percezione uditiva. Prima di Boezio, nel De musica dello Pseudo-Plutarco e nel De die natali di Censorino (appartenenti al III secolo), nel Commentarium in Somnium Scipionis di Macrobio (IV secolo) e in Marziano Capella (inizio V secolo), l’autore del De Nuptiis Philologiae et Mercurii, sono riportate numerose informazioni riferibili agli scritti di teorici musicali greci, come Aristosseno, Aristide Quintiliano e Tolemeo. Infine, nel secolo di Boezio, Cassiodoro (490-580 ca.) cita nelle
28 I,4. L’EREDITÀ GRECO-LATINA NEL PENSIERO MUSICALE MEDIEVALE
Institutiones molti teorici greci e latini: Euclide, Alipio, Tolemeo, Gaudenzio, Varrone e Agostino. L’eredità della teoria musicale greco-latina che gli scrittori e le opere ricordate tramandano al pensiero medievale consiste principalmente nella concezione della musica come disciplina matematica, nella collocazione della musica nell’enciclopedia del sapere, come parte costitutiva del progetto complessivo di perfezionamento della mente, e, con Boezio, nella sistemazione del sapere musicologico. Alla tradizione culturale bizantina dal X al XIV secolo, i cui dotti II,13 avevano accesso diretto al greco, risalgono tutti i manoscritti oggi noti dei teorici musicali greci: la Sectio canonis di Euclide, gli Harmonica di Aristosseno, il De musica di Aristide Quintiliano, nonché i trattati e gli scritti musicali di Gaudenzio e Cleonide, di Tolemeo e di Porfirio, di Alipio, Bacchio e Dionisio, compresi i testi anonimi poi raccolti col nome di Anonymi Bellermanniani. Nella tradizione colta bizantina, centrale è la figura di Michele Psello (XI-XII secolo), responsabile del primo studio sistematico della tradizione dell’antica teoria musicale greca nel Medioevo. Insieme agli scritti dei teorici, le fonti della cultura musicale antica trasmesse al pensiero medievale sono le opere degli antichi filosofi greci e latini. Già nel IV secolo, Calcidio aveva in parte tradotto e commentato il Timeo di Platone; insieme al Commentarium in Somnium Scipionis di Macrobio, che argomenta la sezione finale del De republica di Cicerone dall’identico titolo, il testo di Calcidio venne ampiamente discusso nel corso dei secoli successivi. I due testi sono le principali fonti di informazione sul tema pitagorico-platonico dell’armonia delle sfere e delle connesse dottrine cosmologiche e astronomiche. Alla fortuna del dialogo di Platone e dei suoi commentatori latini va affiancata la fortuna delle traduzioni e dei commenti dei Problemi attribuiti ad Aristotele: da Bartolomeo da Messina, che redasse la prima traduzione latina (tra il 1258 e il 1266) a Pietro d’Abano (1310), il cui commento latino alla XIX sezione dei Problemi discute temi musicali classici come la divisione della musica (ripresa da Isidoro di Siviglia), il potere etico della musica, il rapporto tra musica e medicina, l’esperienza del piacere, l’abitudine all’ascolto, e così via. Attraverso gli scritti musicali citati il pensiero medievale eredita dall’età classica una più ampia idea della musica che, dalla sfera della teoria matematica, si amplia alla concezione dell’universo e dell’uomo, secondo la divisione tripartita nel De institutione musica di Boezio.
Roma, con la perdita quasi totale di potere, ridotta demograficamente in modo rilevante, si è a sua volta staccata dalla cultura greca, ma resta la sede del papato e resta pur sempre, tramite la rete di diocesi che disegna via via l’Europa barbarica, il grande veicolo del cristianesimo, e della cultura latina, e con essa del diritto. Occorre però notare che Roma, come nessun’altra città europea, mantiene nell’arte un peculiare legame con la maestranza bizantina: le absidi di Roma, dalle prime chiese paleocristiane a quelle della tarda antichità e del periodo barbarico, Santa Pudenziana, Santa Maria Antiqua, Santa Prassede, sono absidi che perpetuano il modo bizantino e tale modo resterà anche nella Roma romanica. Ancora una volta una disputa politica e dottrinale fra Roma e Costantinopoli non ostacolerà una osmosi artistica. Ma Roma è complessa: artisticamente guarda ad Oriente, ma politicamente ed ecclesialmente guarda ad Occidente e a Nord; Roma è influenzata e vuole influenzare i grandi eventi dell’Europa occidentale, ne sarà l’apice la riforma gregoriana (seconda metà del IX secolo). Parimenti Carlo Magno guarda a Roma perché solo con Roma potrà essere imperatore di un Impero che non può che chiamarsi Sacro Romano Impero. Carlo Magno si farà strumento per diffondere la regula mixta del monachesimo in tutta l’Europa e per unificare la liturgia rispetto alle differenze regionali di culto. Così la latinità cristiana e con essa la latinità romana informano l’Occidente medievale europeo dei Carolingi (IX secolo) e degli Ottoni (intorno al Mille), prima che si riscopra il pensiero greco nel XII e XIII secolo.
I percorsi dell’eredità greco-latina Dopo il grande impegno di Agostino, Boezio e Cassiodoro per armonizzare la cultura e la filosofia greco-latina al mondo cristiano e cristianobarbarico, l’Occidente tardoantico entrò in una crisi che lo distaccò dalla tradizione classica. L’interruzione dei contatti con la cultura greca va di pari passo con l’implosione delle infrastrutture culturali e scolastiche, di quello che era stato l’Impero in Occidente nel VI e VII secolo. La cultura greca sarà conservata da Costantinopoli, divenuta poi Bisanzio: è là che gli umanisti come Bessarione andranno a prelevare testimonianze d’arte e cultura alla fine del Medioevo. Ma in precedenza, a cavallo tra X e XI secolo, Bisanzio aveva influenzato sul piano artistico la stessa corte ottoniana e i suoi centri di studio. Parallelamente il mondo arabo, a partire dal X-XI secolo, si farà tramite per diffondere il pensiero filosofico. Aristotele raggiungerà così nuovamente l’Europa anche attraverso la mediazione delle traduzioni arabe, specie dopo l’XI secolo. Nel Mediterraneo medievale, Arabi ed Europei si scontrano a più riprese. Spagna e luoghi santi sono i poli principali del contendere, ma lo stato di belligeranza non interrompe lo scambio artistico e culturale, uno scambio reciproco: da un lato constatiamo quanto l’Europa ha assunto in scienze e filosofia dagli Arabi, dall’altro lato le espressioni artistiche del Vicino Oriente arabo, del Nord Africa e della Spagna islamizzata mostrano di avere assunto forme e canoni dall’Occidente e dagli Orienti cristiani. È nel tardo Medioevo (XII-XIV secolo) che il pensiero greco raggiunge i centri di studio europei a partire dalle maggiori scuole cattedrali come Chartres, ma soprattutto tramite la nascita delle università. Il ruolo di Roma durante tutto il periodo è particolarmente complesso.
1a. La cartina riassume in modo estremamente schematico i flussi di influenza sia dell’eredità greca che di quella latina. I secoli (con numero romano) che accompagnano le frecce rimarcano periodi di particolare incidenza per entrambe le tradizioni.
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I,5. PER VOCE SOLA. LO IUBILUS E IL CANTO SENZA PAROLE Riccardo Fedriga
Agostino fu tra i pochi a permettere le parti cantate durante la lettura dei salmi, portando a un’evoluzione del rapporto tra canto e parole. Significative tracce di questo mutamento si trovano nelle Enarrationes in Psalmos nelle quali spicca il tema dello iubilus, un vocalizzo che accompagnava il canto dei salmi (e al quale i salmi stessi rimandavano in un continuo movimento di rinvio crescente e circolare)1. Nella cultura cristiana il canto è da intendersi come lo specchio della lode al Creatore, cioè una eterna e armonica lode a Dio dei cori angelici come dell’intero creato2. Nel legame tra questa concezione teorica e la prassi del canto è imprescindibile la dimensione liturgica; in essa, lo iubilus non doveva essere disgiunto dalla lettura della Sacra Pagina: anche nel canto i fedeli dovevano ritrovarsi nelle parole delle Scritture, celebrando con la loro lode il creato. Del resto, in tutta la tradizione agostiniana (si pensi ad esempio all’incipit della Regula di san Benedetto, «aIII,3.1 scolta o discepolo la parola del Maestro») l’ascolto della Parola, e in particolare di quella della Sacra Pagina attraverso la lettura ad alta voce, costituisce uno dei modi privilegiati attraverso i quali l’uomo entra in contatto con l’ordine del mondo3. In Agostino lo iubilus acquista un valore particolare; esso acquisisce maggiore indipendenza e va oltre la portata referenziale delle parole delimitando lo spazio per l’espressione puramente emotiva del canto per voce sola. «Dio ha tratto perfetta lode dalla bocca dei bambini e dei lattanti, affinché coloro che desiderano pervenire alla conoscenza della gloria inizino dalla fede nelle Scritture, ma la gloria si innalza sopra le Scritture stesse, in quanto trascende e supera le espressioni di ogni parola e di ogni linguaggio»4. Il canto deve essere gioia ineffabile, e per descriverlo Agostino si serve di un verbo, iubilare, che significa comprendere, afferrare il senso della gioia massima nella lode, ma non poter esprimere a parole tale gioia (Enarratio XXVI)5. Per questo è necessario «il canto senza parole», che rinvia all’ambito dello spazio mentale, quello del verbum cordis, in cui si raccolgono i pensieri ritornando sul loro contenuto e cogliendone il senso profondo – nei termini trinitari della teoria della conoscenza agostiniana – di cui si trova traccia nella Enarratio CL a proposito della relazione analogica tra gli strumenti e le funzioni conoscitive – si direbbe il piano della mens rispetto al livello della notitia, mentre la volontà intenzionale di esprimere la gioia della lode costituisce l’amor. Il canto del cuore, concepito al livello della mens ed espresso vocalmente nello iubilus, è ineffabile; ma non perché si sia condannati al silenzio dei pensieri, quanto perché la portata significativa delle parole non è sufficiente per esprimere la gioia di aver colto il senso del creato. Né, del resto, le parole esteriori sono all’altezza di esprimere il piacere di Dio nell’ascoltare la gioia delle creature. In questo senso il livello del canto del cuore, espressione estatica del cantare Dio, è indicibile ma non per
30 I,5. PER VOCE SOLA. LO IUBILUS E IL CANTO SENZA PAROLE
questo inesprimibile. Dall’analisi dello iubilus in Agostino emerge con grande forza come tale apertura estatica al divino sia di natura essenzialmente estetica e rigorosamente sensibile, perché si tratta di un canto e perché esso rientra nell’ordine rigoroso di una regola musicale. Lo iubilus esprime un canto di gioia apollinea e non smodata che trascende il linguaggio pur senza prescinderne6. Le semplici parole non sono sufficienti per esprimere la grandezza di quanto si prova e così le sillabe «esplodono» aprendosi all’espressione della voce sola, «concepita» nella mente e «partorita» nelle misurate proporzioni armoniche del canto per voce sola (Enarratio LV, 2). Le regole e le armonie del canto senza parole aprono e marcano lo spazio per esprimere la gioia assoluta che il fedele prova quando realizza di essere unito a Dio. Si tratta di una gioia incontenibile, che per comunicarsi non può fare a meno di sfociare nell’enigma dell’assenza di quelle parole su cui, pure, si è accettato di riflettere nella meditazione sul testo sacro e di cui, ora, si restituisce il senso profondo nell’armonia del vocalizzo. Il canto senza parole segna il limite umano del fedele e al contempo apre all’espressione del divino. Nella sua armonia, infatti, risiede l’ineffabile ma consapevole gioia di essere, forse più che di avere, una parte nel perfetto piano della creazione divina; ed esplode allora la gioia di rientrare nell’ordine di un significato trascendente del mondo che, una volta colto, non ci si può più esimere dal cercare7. L’analisi dello iubilus è la fenomenologia della pura gioia (Enarratio XCIV, 1) che trova il suo ordine nella necessità di esprimere secondo rapporti musicali per la sola voce ciò che non può essere detto. In questo, Agostino fa propria la tradizione neoplatonica per cui la gioia per la presenza dell’essere supremo avviene nel si-
1
lenzio della contemplazione e la musica, espressione di armonie matematiche, è una delle vie per giungere all’unione con l’Uno (Plotino, Enneadi, I, 3, 1)8. Plotino parla d’impercettibili armonie musicali emblema del Bello che rimandano alla trascendenza immateriale della forma (Enneadi, VI, 3, 19). Ma si tratta di un piano, quello sensibile, che va abbandonato e non è, come in Agostino, punto di partenza e modo di espressione principe e di condivisione emotiva e non verbale della relazione sacra. In questo senso la concezione musicale di Agostino è innegabilmente affine a una sensibilità estetica moderna9. Agostino entra nello spazio del sacro proprio attraverso i sensi e il canto senza parole esprime la voce interiore e la felicità di vivere nella verità della Parola di Dio. Il senso di tale esperienza non va allora cercato nelle concezioni musicali della tradizione neoplatonica, ma proprio nel concetto di sovrabbondanza emotiva che costituisce il legame con Dio10. Lo iubilus è gioia per la consapevolezza del legame, è il legame stesso, la sacralità che non si può dire a parole e tuttavia si esprime nel canto senza parole, una delle più pure manifestazioni di natura estetica del sacro. Per questo il livello del corpo e della sensibilità non deve essere abbandonato ma costituisce punto di accesso al divino da parte dell’umano e, viceversa, espressione dell’umanizzazione del divino. Grazie al canto la gioia si condivide e si trasmette agli altri fedeli; essa è beatitudine. Beato è infatti chi sa giubilare perché riesce a condividere la propria felicità anche senza le parole; così come beato è chi comprende l’origine della gioia che prova; e infine beato è chi capisce il senso del giubilo perché sa rinunciare alle parole stesse per poter godere del divino che è in lui (Enarratio LXXXVIII, I, 16-17)11. 1. Agostino, Enarrationes in Psalmos, pergamena della fine del IX secolo. Stadtarchiv, Paderborn. Agostino è nato a Tagaste, non distante da Cartagine, nell’attuale Tunisia. Parte della élite «romana» del Nord Africa viene inviato a Madaura per studi di grammatica; la madre Monica è cristiana e si preoccupa costantemente perché Agostino incontri il cristianesimo, ma, come era costume, rimanda il battesimo all’età matura. Agostino alterna una vita disordinata alla scoperta della filosofia. Nel 382 è a Roma e da lì va a Milano: l’incontro con Ambrogio è determinante e Agostino chiede il battesimo. La sua conversione diverrà un topos nella storia cristiana: la conversione come dimensione di vita e di pensiero. La sua opera trasmetterà tutto questo nelle Confessioni e nel De civitate Dei. La produzione filosofica di Agostino è la prima grande sintesi fra tradizione classica e cultura cristiana; oggi interpella con il suo metodo lo stesso pensiero fenomenologico. Il trattato De musica, scritto poco dopo la conversione, concerne i problemi del metodo e della versificazione; le Enarrationes (392-420) contengono plurimi riferimenti alla liturgia e alla musica.
2. Figura di orante, particolare del retro del sarcofago di Publius Caesilius Victorinus, della fine del III secolo, sito nella Necropoli Vaticana di Santa Rosa. L’orante è inquadrato tra due alberelli, su quello alla sua sinistra è posato un volatile, forse una colomba, secondo uno schema figurativo già in uso nel mondo pagano. Il defunto era un giovane eques Romanus. Il simbolo dell’orante pesca nel profondo Neolitico, quando l’uomo si pone in adorazione estatica del sole che riscalda le terre e procura le messi. Durante l’ellenismo romano c’è una forte ripresa del simbolo: i culti di origine orientale, i culti salvifici, e non certo i culti politici e imperiali, ripongono l’uomo in rapporto con ciò che realmente lo può salvare. Il meraviglioso, il tremendo, il numinoso sono ciò di fronte a cui l’orante alza le braccia per trovare il legame, non così verso l’imperatore. Simbolo per eccellenza perché espressione del legame radicale fra natura e sovranatura, i cristiani non esitano ad utilizzarlo: è anche per loro espressione della religiosità. Dio si è fatto uomo, l’incarnazione è un legame indissolubile per tutta l’umanità. L’uomo si rivolge ad un «cielo» che significa «nel profondo di sé», l’uomo giubila, ringrazia il Padre perché Cristo si è accompagnato al suo profondo. L’orante sul sarcofago ci reca una preghiera senza parole; di fronte alla morte il cristianesimo enuncia il suo paradosso: l’ineffabilità e indicibilità di una distanza, di un separato, e la certezza di una eternità che lega i vivi e i morti. 2
II. TRA ORIENTE E OCCIDENTE: DUE TRADIZIONI SI FORMANO 1
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1, 2, 3. Convenzionalmente vediamo l’Europa occidentale caratterizzata da tre periodi tra il 500 e il Mille: barbarico, carolingio, ottoniano. Massima espansione Impero carolingio
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(3) La terza cartina ci mostra il secondo tentativo di unificazione imperiale: quello intorno al Mille ad opera degli Ottoni. Di fatto i territori direttamente interessati furono il mondo tedesco, l’Europa centrale e il Nord Italia. Di nuovo l’aspetto artisticoculturale prevale sulla continuità politica. Nasce la grande arte medievale, dalle architetture delle basiliche imperiali all’oreficeria. Sul piano politico c’è anche il riconoscimento di regni europei che ormai ci proiettano verso la fine del Medioevo e l’età moderna. In Spagna inizia la Reconquista dei re cattolici rispetto all’emirato arabo-islamico di Cordova che l’aveva occupata quasi per intero.
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(2) La seconda cartina mostra il primo e forse più riuscito tentativo di riunificazione imperiale in Occidente: quello di Carlo Magno. Vi si vedono anche i territori longobardi in Italia, che i Carolingi incorporeranno. Se l’aspetto politico dell’avventura carolingia non fu duraturo, le conseguenze culturali furono importanti non solo a livello ecclesiale-liturgico, ma anche artistico, si pensi agli scriptoria. Possiamo parlare di una «Europa carolingia».
Efeso Atene
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(1) Il primo periodo vede la nascita di realtà in parte provvisorie, ma molto importanti: dalla affascinante meteora del regno visigoto in Italia con Teodorico al più stabile e ricco di conseguenze regno dei Visigoti in Spagna. Più fuggevole, ma dirompente, fu la presenza vandala in Nord Africa. I Franchi invece danno inizio a una continuità di cui i Merovingi sono la premessa. Anche Angli e Sassoni hanno queste caratteristiche di permanenza.
Palermo
32 II. TRA ORIENTE E OCCIDENTE: DUE TRADIZIONI SI FORMANO
REGNO DI CASTIGLIA
REGNO DI FRANCIA
REGNO DI POLONIA DUCATO DI BOEMIA
REGNO REGNO D’UNGHERIA DI BORGOGNA LOMBARDIA REGNO REGNO DI LEON D’ITALIA CROAZIA NAVARRA ESARCATO CONTEA SERBIA DI BARCELLONA SPOLETO STATO EMIRATO PONTIFICIO DI CORDOVA BENEVENTO BULGARIA M a r
M e d i t e r r a n e o
4. Bisanzio era una città di origine greca che, posizionata in sito ritenuto strategico sul Bosforo, fu prescelta da Costantino come capitale d’Oriente e divenne sotto Giustiniano il centro di un Impero che aveva occupato tutti i siti della romanità nel Mediterraneo sudorientale e nell’Adriatico orientale, riscendendo in Occidente fino a Ravenna e a parte dell’Italia. Il cuore del mondo bizantino restavano la Grecia, la Turchia e le isole e penisole cosparse di monasteri. Culturalmente parlando, però, l’Impero vive una grave divisione. Tutto il mondo nel Sud del Mediterraneo, dall’Egitto alla Siria, fino alla Mesopotamia, dopo il concilio di Calcedonia (451) è in rotta con la Chiesa di Costantinopoli. L’arrivo dell’islam nel VII secolo porrà gli Orienti cristiani sotto il dominio arabo, ma le chiese cristiane orientali perdureranno e in un primo tempo il governo arabo apparve loro meno pressante di quanto fosse quello di Costantinopoli. Nel Mediterraneo e nell’Anatolia gli Arabi prima e i Turchi poi eroderan-
no via via l’Impero bizantino, che si svilupperà invece sempre più a Nord, nei Balcani. Bisanzio coopera alla nascita, a partire da Cirillo e Metodio, del mondo slavo cristiano, evento epocale per i Balcani e la Russia. L’Impero bizantino arresta la sua espansione nei Balcani, ma l’Impero bulgaro, il regno di Serbia e la Rus’ di Kiev (prima culla della Russia) saranno di cultura peculiarmente bizantina. Kiev, convertitasi al cristianesimo intorno al Mille, si vorrà considerare nel XII secolo la terza Roma, essendo la seconda Costantinopoli. L’invasione mongola porterà il temporaneo tramonto di Kiev e la cultura russo-bizantina rifiorirà nel Nord della Russia a Novgorod e Pskov nel XIII secolo, per trovare poi in Mosca una nuova capitale, nel XIV e nel XV secolo, sino alla fase finale di un Medioevo che avrà in Russia una più lunga durata a cui porrà fine Pietro il Grande. I Balcani del XV secolo cadranno sotto gli Ottomani ma la cultura bizantina e la religione ortodossa perdureranno. 4
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XIV-XV secolo
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II,1. IMMAGINE E REALTÀ Tilman Seebass
Nel nostro tempo dominato ossessivamente dalle immagini, queste hanno perduto gran parte della valenza magica che avevano posseduto in epoche precedenti l’invenzione della stampa (xilografia, incisione, litografia) e poi della fotografia, sia essa analogica o digitale. È necessario comprendere che nel Medioevo le immagini non si presentavano con carattere di quotidianità, ma avevano un impatto notevole sull’osservatore. Il loro obiettivo non era copiare la natura, bensì trasmettere messaggi. Il potere delle immagini e i pericoli insiti in esse erano noti particolarmente a certi movimenti improntati a grande zelo religioso; nell’VIII secolo l’Oriente bizantino attraversò una fase iconoclasta, e nell’Oriente islamico l’iconoclastia era parte dell’ortodossia del dogma. Per molti secoli, l’immagine non si presentò come esperienza comune nella vita di tutti i giorni, ma rese invece visibile ciò che promana dal mondo dei simboli e dello spirito e che, avendo in sé qualcosa di iconico, sotto forma di icona poteva essere compreso direttamente. A questo è finalizzata anche l’allegoria, cioè la rappresentazione di un’idea attraverso una personificazione. Le origini si trovano nell’animismo e in Occidente anzitutto nella mitologia greca, dove, ad esempio, Venere e Marte generano la figlia Armonia, o dove figure femminili o maschili di dei e semidei rappresentano determinati poteri e facoltà, si pensi alle nove Muse. 1
1. Aritmetica di Boezio. Class. 5, f. 9v, Staatsbibliothek, Bamberga. Personificazione degli studi del Quadrivio (da sinistra a destra: Musica, Matematica, Geometria, Astronomia). La miniatura, dell’840 ca., è opera della scuola di Tours, uno degli scriptoria più importanti per la miniatura carolingia.
Il greco e poi il latino, che fu la lingua colta del Medioevo, utilizzarono per la maggior parte dei concetti il genere femminile. Così Boezio, nell’alto Medioevo, nel suo celebre De consolatione philosophiae, descrive se stesso a colloquio con la Filosofia, rappresentata quale figura femminile. Analogamente, le sette arti liberali si presentano in sembianze femminili, ammantate in lunghe e raffinate vesti e fornite degli IV,11. 4-5 attributi legati alle specifiche facoltà di ciascuna. Ecco che, ad esempio, in una miniatura del De consolatione philosophiae, l’Astronomia è una donna che tiene in mano una fiaccola e ha il cielo notturno come aureola; la Geometria ha come attributi una riga e uno scrittoio con figure geometriche, l’Aritmetica una cordicella per contare, la Musica uno strumento musicale simile al liuto, che a quei tempi non esisteva nella realtà. Questa forma di allegorizzazione è stata comune fino a tempi piuttosto recenti. Quanto fosse diffusa nell’alto Medioevo l’immagine della Musica personificata da una donna lo si rileva da un disegno risalente al periodo intorno all’anno Mille, che illustra il trattato di Marziano Capella (inizio del V secolo). L’illustratore sembra aver voluto evitare una correlazione diretta con la realtà del tempo: egli mette in mano alla donna uno strumento a corda, derivato da un’antica lira, con un braccio inutilmente allungato verso l’alto, che parte al di sopra della spalla e poggia su un sostegno. La 2
2. Nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze si conserva un manoscritto che riprende il trattato di Marziano Capella (San Marco, 190, f. 108v), databile intorno al Mille, con un disegno che ritrae la personificazione della Musica. 3. Personificazione della Musica con in grembo un organo portativo. Si tratta della parte centrale di una miniatura del XIV secolo in un manoscritto del De institutione musica di Boezio (Ms. VA 14, f. 47r) conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. La Musica è attorniata da altre figure che suonano differenti strumenti. 3
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4a, 4b. Due capolettera con Davide musicante. Una «B» del Beatus vir ed una «E» dell’Exultate deo. In entrambi i capolettera Davide siede su una panchetta e mantiene l’attributo regale della corona. Bibbia (1200-1250), Ms. Typ. 0414, ff. 1, 12. Houghton Library, Harvard University, Cambridge, Mass.
4b
IV,15.
13
rappresentazione di uno strumento a sette corde ha in primo luogo un significato numerico teologico, e si rifà al tempo stesso all’autorevole forma tradizionale della cetra a sette corde dell’antichità classica greca. Quanto più si avvicina la fine del Medioevo, tanto più rilevanti sono i mutamenti nella funzione iconica della rappresentazione. Come patrona della musica, la figura femminile ha in grembo un monocordo, come richiesto nell’insegnamento musicale delle proporzioni, fino a quando non verrà rappresentata per mezzo di una leggiadra fanciulla che suona l’arpa o l’organo portativo. Questo accade in un tempo in cui suonare l’arpa e l’organo era nella realtà un’occupazione delle donne a corte o in convento, e in cui la pratica della musica strumentale aveva conquistato consenso sociale. Un altro dato di fatto da tenere presente per comprendere il ruolo delle arti visive nel Medioevo è che soltanto una piccola parte della popolazione era in grado di leggere e scrivere. La visualizzazione della parola per mezzo della scrittura sconfinava quasi nella magia. Come dappertutto nel mondo, il gruppo ristretto di coloro che sapevano leggere e scrivere si riteneva detentore assoluto delle proprie conoscenze; in questo modo coloro che non possedevano tali abilità potevano essere guidati o addirittura dominati. Perfino le lettere dell’alfabeto, così come i numeri, potevano assumere qualità magiche o numinose. Alpha e Omega venivano al
primo posto, in quanto simboli dell’inizio e della fine del mondo; seguivano gli altri caratteri, adottati dall’alfabeto greco o latino. Anche gli anagrammi avevano tale valore simbolico, così come certe combinazioni di lettere; ad esempio, la combinazione delle lettere della parola greca «pesce»: IChThYS [‘Iesoûs (Gesù) Christòs (Cristo) Theoû (di Dio) Uiòs (Figlio) Soter (Salvatore)]. A questa pratica risale anche la consuetudine di dotare le iniziali dei testi e dei capoversi di ricche ornamentazioni. È interessante notare come l’enfatizzazione delle lettere dell’alfabeto, che venivano trasformate in figurae, si rifletté anche sulla rappresentazione degli strumenti musicali. Una citazione del tutto casuale di Isidoro di Siviglia, secondo cui nella tarda antichità vi sarebbe stata una cithara (egli intendeva l’arpa greca che si chiamava psalterion) con la forma della lettera greca delta (Δ), spinse miniaturisti e illustratori a cercare zelantemente di produrre immagini di strumenti a forma di Δ oppure di d/D, da cui si voleva emanasse una forma di sacralità, in quanto figura dello strumento musicale di Davide, destinato a contrastare la follia di re Saul. Soltanto nel basso e tardo Medioevo questa tendenza venne ab- IV,11 bandonata in favore di una versione coeva dell’arpa, quella usata da salmisti, penitenti, re o terapeuti. Fino al tardo Medioevo, la Chiesa ufficiale ebbe un atteggiamento negativo nei confronti della musica strumentale del tem-
II,1. IMMAGINE E REALTÀ
35
po, in netto contrasto con l’atteggiamento positivo dell’Antico Testamento. Si ricorreva alla musica strumentale nei luoghi sacri per poter raggiungere l’estasi, e in occasioni private e pubbliche per ottenere benefici di vario genere. L’estrema distanza dalla realtà è ben evidenziata in un trattato illustrato del IX secolo che, con le sue indicazioni relative agli strumenti musicali, veniva utilizzato come introduzione al salterio. Si tratta della cosid-
5
detta Epistola a Dardano dello Pseudo-Gerolamo; in essa, tutti gli strumenti presenti nel salterio sono considerati e rappresentati con figurae molto schematiche, che non hanno molto in comune né con gli strumenti antichi né con quelli coevi. Per molti secoli questo trattato fu tramandato senza sostanziali modifiche nelle illustrazioni. Il breve trattato di Isidoro di Siviglia, più antico, ebbe invece un destino migliore. Gli strumenti vi sono de-
5. Raffigurazione degli strumenti musicali dalla cosiddetta Epistola a Dardano dello Pseudo-Gerolamo. Manoscritto dell’XI-XII secolo, E24, f. 26r, Biblioteca Vallicelliana, Roma. 6a, 6b. In un manoscritto delle Cantigas de Santa María (b.I. 2, f. 29r, f. 110v) conservato alla Real Biblioteca de El Escorial in Spagna e risalente al 1280-1283, re Alfonso X il Saggio partecipa a una scena collettiva ricca di strumenti e appare come nuovo Davide; nella seconda miniatura (6b), che apre la Cantiga 100, suona a sua volta come il re biblico.
36 II,1. IMMAGINE E REALTÀ
IV,7.1
6a
6b
scritti in modo piuttosto sintetico, e quindi l’illustratore disponeva di maggiore libertà. Soltanto in un singolo manoscritto gli strumenti sono rappresentati come figurae. Più tardi, per le illustrazioni, si presero come modello strumenti reali.
Solo lentamente, nell’Occidente d’Europa si adottarono forme di strumenti tratte da esperienze culturali diverse, come quelle francese, spagnola, saracena e inglese, presenti presso le classi sociali più elevate. Il punto più significativo fu raggiunto nel XV secolo, quando strumentisti improvvisatori ottennero pietre tombali o medaglioni e furono paragonati a Orfeo in poesie celebrative. I,1. Questo sviluppo andò di pari passo con la crescente disponibilità 11-17 di tempo libero presso le classi benestanti, cioè nelle corti e nel ceto cittadino più alto, cui era riservato il privilegio di praticare la musica a beneficio della mente e dell’anima. Lo strumento serviva principalmente ai chierici nei conventi come aiuto nell’apprendimento della teoria dei numeri nell’accostarsi alle discipline del Quadrivio, appartenenti alla sfera delle scienze numeriche. Le rappresentazioni nell’arte pittorica sono in ritardo rispetto all’evoluzione della realtà, ma attraverso di esse è possibile seguire fedelmente la storia della musica strumentale. In base alla terza categoria del sistema di Boezio, la cosiddetta musica instrumentalis, come egli la chiama, nella quale diviene udibile in uno strumento la natura numerica della musica, gli strumenti inizialmente sono raffigurati per lo più come attributi di singole persone o nel quadro della loro enumerazione; in seguito si affermano riproduzioni di ensemble musicali. Ma anche in questi casi l’elemento realistico deve essere bilanciato in rapporto a un messaggio astratto dell’immagine. La piccola scena affollata che rappresenta re Alfonso X il Saggio non intende semplicemente ritrarre il monarca, bensì vuole esaltarlo come nuovo Davide che si circonda di amanuensi e musici, e suona egli stesso seduto su un trono.
II,1. IMMAGINE E REALTÀ
37
II,2. I «DIALETTI» DEL CANTO GREGORIANO Christelle Cazaux-Kowalski
1
1. La carta mostra le grandi aree delle diverse liturgie che in determinati periodi hanno caratterizzato il cristianesimo medievale. In corsivo troviamo le denominazioni ed i secoli in cui le liturgie erano praticate:
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• Liturgia africana, III-VI secolo
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• Liturgia ambrosiana, dal V
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secolo, attualmente ancora praticata
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• Liturgia romana, dalle origini
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al tempo presente Esistono poi città ed aree che hanno avuto liturgie peculiari, come Aquileia e Ravenna. La carta espone dei numeri che identificano i cinque principali «dialetti» del canto liturgico. La sovrapposizione di questi con le varie forme di liturgia è pressoché completa. Il box a destra della carta traccia una breve storia delle liturgie del cristianesimo occidentale prima dell’unificazione operata sotto Carlo Magno.
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(con una persistenza in alcune chiese di Toledo) • Liturgia celtica, V-IX secolo
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• Liturgia gallicana, V-IX secolo
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• Liturgia mozarabico-visigota,
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Nel corso dei primi secoli del Medioevo, in un’Europa occidentale segnata dalle invasioni e dalla frammentazione politica, la liturgia cristiana adotta forme differenziate nelle varie regioni, si tratti di scegliere le letture, i testi di preghiera, oppure le parole e le melodie dei canti. In seno alla cristianità latina esistono cinque riti principali associati a specifici repertori di canto: il rito milanese o ambrosiano (Milano e la sua regione), il rito beneventano (nell’Italia meridionale), il rito ispanico, chiamato anche visigoto o mozarabico (penisola iberica), il rito gallicano (Gallia francese) e infine il rito veteroromano (paleoromano), nella città di Roma. Sono esistite anche altre liturgie locali, in Inghilterra e in Irlanda, così come nella penisola italiana (Aquileia, Ravenna, Italia centrale), ma non hanno lasciato che deboli tracce musicali. Al di là delle differenze che li separano, i cinque principali «dialetti» del canto liturgico dell’Occidente latino si fondano su un substrato comune e presentano innegabili somiglianze. Il canto ambrosiano Il termine «ambrosiano» è usato in riferimento a sant’Ambrogio,
38 II,2. I «DIALETTI» DEL CANTO GREGORIANO
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vescovo di Milano dal 374 al 397. Nulla prova, tuttavia, l’autorità di quest’ultimo sul canto che porta il suo nome. I manoscritti più antichi di canto milanese pervenutici sono tardivi, appartenendo al XII secolo. Il repertorio ambrosiano, lungi dal risalire al IV secolo della nostra era, verosimilmente si è definito intorno al X-XI secolo, epoca in cui le regioni limitrofe della Gallia, dell’Italia settentrionale e delle regioni alpine hanno già adottato il canto romano-franco. Il canto ambrosiano presenta alcuni tratti che lo distinguono nettamente dagli altri repertori di canto non gregoriani: la lunghezza e l’esuberanza di certi melismi, l’ambito sovente assai esteso delle melodie, infine l’esistenza di una classificazione modale delle melodie a seconda che finiscano in Re, Mi, Fa o Sol. Tali tratti potrebbero indicare che l’influenza bizantina sia stata più forte a Milano che in altre regioni della cristianità latina. Ma il canto ambrosiano presenta anche sensibili somiglianze con gli antichi repertori della Gallia e dell’Italia. Ad esempio, diverse centinaia di composizioni ambrosiane sembrano essere state improntate al canto veteroromano e adattate allo stile musicale milanese.
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Le liturgie del cristianesimo in Occidente Lo sviluppo della liturgia occidentale, ossia cristiano-latina, si è svolto in forma decisamente autonoma rispetto alla liturgia promossa da Costantinopoli, salvo casi particolari. L’Occidente liturgico si caratterizza nei primi secoli per forte creatività e differenze regionali. Il polo africano, legato al mondo romano che là si era insediato, fu molto importante nei primi secoli sino al V-VI secolo; esso influenzò l’Europa dell’Ovest restando legato nel contempo all’élite dei Romani, non si innervò nelle popolazioni libiche e berbere contrarie alla romanizzazione e scomparve all’arrivo dei musulmani. Polo importante fu il mondo celtico, che dal VII all’XI secolo riconvertì l’Europa centrale: Francia, Germania sino al Nord Italia. I missionari celtici, preoccupati della fedeltà a Roma, non tesero a creare una liturgia propria, a differenza di quelli ispanici e gallici. Roma, infine, promosse una liturgia che la differenziò da tutti per la sua sobrietà, mentre nella stessa Italia si formarono diverse liturgie in vari centri, spesso con influsso orientale. Fu con Carlo Magno che la liturgia romana, pur con una certa crasi, anche se limitata, della liturgia gallicana, fu imposta nell’Impero. Papa Gregorio VII, a metà dell’XI secolo, portò a termine l’uniformazione. Liturgia africana È probabile che dall’Africa del Nord-Ovest derivino i riti gallicano e ispanico. La storia liturgica è legata a importanti figure come Tertulliano († 220), Cipriano di Cartagine e alla grande testimonianza di Agostino di Ippona tra il 380 e il 430. I concili africani nel IV e V secolo ci avevano lasciato i libelli sulla liturgia che non ci sono però pervenuti e noi oggi sappiamo ormai poco di questa liturgia. Liturgia ambrosiana Non fu inventata da Ambrogio, ma nacque e proseguì a Milano; secondo alcuni, grande fu l’impulso del vescovo Eusebio (449-462), mentre altri considerano l’inizio del rito ambrosiano nel VI secolo. Il rito ambrosiano conservò elementi del rito orientale, anche se l’influenza di Roma non fu indifferente; ma quando, all’inizio del IX secolo, Carlo Magno volle unificare il rito in Europa sotto il suo Impero, non scalfì la Chiesa ambrosiana. Certo il rito ambrosiano non solo conservò accenti orientali, ma ricevette apporti dai riti praticati ad Aquileia e in altri luoghi del Nord Italia e della vicina Gallia. Liturgia ispanica (mozarabico-visigota) Fu il mondo visigoto, specie con Isidoro di Siviglia, a dare origine alla liturgia ispanica sotto l’influenza della Chiesa africana. Culla della nuova liturgia furono le città di Tarragona, Siviglia e Toledo. Fu la prima a introdurre il Credo nella celebrazione della messa, ma secondo Keith Pecklers tipico di tale liturgia fu il canto dell’acclamazione, il Sancta sanctis, con l’ostensione all’assemblea del calice e della patena (piattello di metallo prezioso e istoriato, in uso per coprire il calice e contenere l’ostia, prima e dopo la consacrazione). Il rito mozarabico, a differenza di quello ambrosiano, fu soppresso nel 1080 con papa Gregorio VII desideroso di unificare le liturgie. Fanno eccezione alcune chiese di Toledo in cui il rito è tutt’oggi praticato.
3. Esempio di canto ambrosiano. Melisma sulla parola «alleluia» nell’Alleluia Venite. Trascrizione in notazione moderna. Ripreso da K. Levy, Latin chant outside the Roman tradition, in The Early Middle Ages to 1300, a cura di R. Crocker e D. Hiley (New Oxford History of Music, vol. II, Oxford University Press, Oxford-New York 1990). 3
Liturgia gallicana Con la conversione del re merovingio Clodoveo (Clovis) nel 496, possiamo parlare di una Chiesa delle Gallie in cui si incontrano romanità cristiana e un mondo germanico convertito. Grande creatività liturgica fu dovuta al vescovo Cesario di Arles († 546). I pellegrini galli portarono dalla Terra Santa tradizioni di quei luoghi. Cassiano († 435), discepolo del grande Padre della Chiesa orientale Giovanni Crisostomo, arrivò a Marsiglia nel 415-416, portando la sua tradizione liturgica e monastica e fondando il famoso monastero di Lérins sulle isole costiere. Si sviluppò una liturgia molto diversa dalla sobrietà romana, con cerimoniali complessi ed abbondante uso di incenso. Si rivolgevano direttamente invocazioni e preghiere a Cristo per differenziarsi dall’eresia ariana, che aveva offuscato la divinità del Figlio di Dio. Il grande uso della preghiera comune, propria delle Gallie, fu ratificato solo molto più tardi, nel 1570, dal cristianesimo occidentale. Carlo Magno riportò l’unità liturgica con Roma nel IX secolo. Liturgia celtica Il mondo celtico riguardò l’Irlanda, la Gran Bretagna, la Scozia e la Bretagna (nell’Est della Francia). I monaci celti, a partire da Colombano, riconvertirono gran parte della Francia, della Germania, della Svizzera (San Gallo) e arrivarono a Bobbio, presso Milano, nel 614 portando la propria liturgia. Enorme importanza monastica fu data alla salmodia delle ore. Alla fine del VI secolo, le differenze della liturgia nelle isole britanniche rispetto a Roma erano date da una maggiore prossimità al mondo gallicano e anche a quello ambrosiano. I monaci delle isole britanniche avevano dato molto al resto d’Europa, ma non raggiunsero mai un’identità liturgica armoniosamente sviluppata. Altre liturgie In Italia c’era un’ampia varietà di liturgie: fra tutte spicca quella di Aquileia, che fu influenzata probabilmente da Roma, Alessandria e Costantinopoli. Paolino di Aquileia († 802) scrisse inni per la liturgia. Non va dimenticata Ravenna, già capitale imperiale: la miglior fonte per comprendere la sua liturgia è nella straordinaria architettura e nell’iconografia di chiese e battisteri. Liturgia romana Il rito romano si è formato tramite l’opera di vari papi, da Damaso († 384) a Gregorio Magno († 604). Di fronte alla ritualità ricca e complessa di Costantinopoli, spesso intesa come ritualità imperiale, Roma, ormai non più capitale di un Impero, ma conservatrice del deposito religioso cristiano, crea e pratica, via via con modifiche, una liturgia che Keith Pecklers, sulla scia dello storico Edmund Bishop, definisce «sobria e sensibile». Si introducono così in tempi diversi il Kyrie, il Gloria, il Padre Nostro, ecc. Solamente nell’VIII secolo Roma entra in contatto col mondo gallicano e franco-germanico; nei primi secoli resta perciò scevra da altre intromissioni. Tale semplicità si notava in particolare negli inni dell’Ingressa, nella preparazione delle offerte e della comunione. Traiamo molte notizie dall’Ordo Romanus Primus, che ci testimonia la liturgia del tardo VII secolo e dell’VIII. Nell’Occidente cristiano, dopo il concilio di Trento, la liturgia romana è divenuta definitivamente internazionale. Oggi solo il rito ambrosiano sopravvive nella popolosissima diocesi di Milano.
Benevento La liturgia e il canto beneventani scaturiscono dalla cultura sviluppatasi sotto l’egida dei longobardi dell’Italia del Sud. Il canto beneventano fu in uso in un buon terzo dell’Italia meridionale, con propaggini sulla costa adriatica settentrionale (Dalmazia), dalla fine del VII secolo sino alla metà dell’XI. Ma il suo declino iniziò a partire dalla fine dell’VIII secolo con la sottomissione dei duchi di Benevento agli imperatori carolingi, seguita poco tempo dopo dalla comparsa nella regione del canto gregoriano. Tuttavia gli antichi usi non furono abbandonati nella loro totalità: i libri gregoriani beneventani riportano fino all’XI secolo, e forse oltre, alcune composizioni in stile locale che rispondono a bisogni specifici del calendario, come la festa dei Dodici Fratelli Martiri, ed
II,2. I «DIALETTI» DEL CANTO GREGORIANO
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4. Esempio di canto beneventano. Ingressa (canto d’ingresso) per la messa del Giovedì Santo. I brani beneventani che ci sono pervenuti si caratterizzano per l’uso di intervalli congiunti (di seconda), di un registro limitato entro cui si sviluppa la melodia, e di un piccolo numero di frasi melodiche ricorrenti (A e B nell’esempio). Alcuni brani sono molto semplici, altri al contrario, come l’Ingressa dell’esempio qui riportato, presentano melismi piuttosto sviluppati. Trascrizione in notazione moderna. Ripreso da K. Levy, Latin chant outside the Roman tradition, in The Early Middle Ages to 1300, a cura di R. Crocker e D. Hiley (New Oxford History of Music, vol. II, Oxford University Press, Oxford-New York 1990).
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a particolari cerimoniali della Settimana Santa (antifone in greco e in latino, canto dell’Exultet, ecc.). Canto ispanico La liturgia ispanica è nota attraverso numerose fonti antiche, fra cui gli scritti di Isidoro di Siviglia (Dei libri e degli uffici ecclesiastici, Etimologie). Questo rito, definitosi a partire dal VII secolo, è perdurato almeno fino all’XI, in un territorio dominato dai musulmani e rimasto ai margini della riforma carolingia. Oltre 800 canti in uso nelle regioni di León, Silos e Toledo ci sono pervenuti attraverso un gran numero di fonti, la più antica delle quali, senza notazione musicale, risale all’inizio dell’VIII secolo. Purtroppo, le melodie ispaniche, notate quasi esclusivamente sotto forma di neumi in campo aperto, non possono essere ritrascritte. Il repertorio musicale dell’antica liturgia ispanica resta dunque un gran mistero per i musicologi. Probabilmente è apparentato con i repertori della Gallia meridionale, con la quale condivide alcuni generi liturgici molto specifici, come le preces, una sorta di litanie. La soppressione ufficiale del rito ispanico nel concilio di Burgos del 1080 incontrò numerose resistenze nella penisola iberica. Alla fine del XV secolo, un tentativo di «restaurazione» di questo antico repertorio promosso dal cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, arcivescovo di Toledo, fu in realtà quasi una nuova creazione, essendo le melodie originali ormai indecifrabili.
40 II,2. I «DIALETTI» DEL CANTO GREGORIANO
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Il canto veteroromano Si definisce «veteroromano» il repertorio musicale romano precedente la sua importazione in territorio franco e il suo rimaneggiamento in canto «romano-franco», ossia quello che oggi chiamiamo canto «gregoriano», o talvolta canto «romano». Con la riforma carolingia il canto gregoriano si impose, contemporaneamente alla liturgia romana, all’insieme della cristianità latina, con l’eccezione di Milano. A Roma, la situazione si presentava diversa, poiché la liturgia non aveva la necessità di essere riformata. Il canto antico, ossia il «veteroromano», si è mantenuto fino al XIII secolo. L’arrivo di papi d’origine germanica legati alla dinastia ottoniana ha di certo contribuito, a partire dall’XI secolo, alla sua progressiva sostituzione con il repertorio gregoriano. È difficile stabilire con precisione che cosa fosse il canto veteroromano in rapporto a quello gregoriano. Le cinque fonti principali del canto veteroromano, copiate fra il 1071 e il XIII secolo, non possono essere considerate come lo stato della tradizione romana prima del costituirsi del repertorio gregoriano. In effetti, esse denotano una certa forma di «contaminazione» posteriore fra i due repertori. Il paragone fra questi ultimi mostra che la maggioranza dei testi cantati della messa e, anche se in grado minore, dell’ufficio sono gli stessi, a meno di qualche variante. Le melodie romane e gregoriane possono essere considerate come due realizzazioni musicali stilisticamente diverse di un materiale musicale comune: il modo di trattare il testo è simile (inizio e fine delle frasi), si ritrovano frequentemente le stesse figure d’intonazione, le corde di recitazione e le cadenze sono collocate negli stessi punti. In rapporto al gregoriano, lo stile romano si caratterizza per un ambito melodico ridotto, una linea di canto che procede per movimenti congiunti e un maggior numero di note per sillaba.
7. Melodia dell’Agios nelle liturgie latine e bizantine. Alcuni brani di origine gallicana permettono di confrontare le liturgie latine e bizantine. È il caso del Trisagion (Agios o Theos/ Sanctus Deus) un canto bilingue latino/greco che è rimasto nella tradizione romano-franca dell’Adorazione della Croce del Venerdì Santo. Nell’esempio si può notare come la melodia latina sia molto simile alla melodia bizantina.
Il canto gallicano Abbiamo testimonianze assai scarse sulla liturgia gallicana e le sue varianti regionali: sacramentari e lezionari, fonti canoniche, lettere un tempo attribuite a san Germano di Parigi (PseudoGermano) autorizzano comunque una ricostruzione approssimativa di quella che doveva essere la messa nella Gallia precarolingia. Dal punto di vista musicale, non si è conservata alcuna fonte «puramente gallicana», ma il repertorio chiamato «gregoriano» è
cosparso di permanenze franche, essendo esso stesso, in qualche modo, il frutto di un’ibridazione delle tradizioni romane con quelle dell’antica Gallia. L’identificazione di melodie propriamente «gallicane» nei manoscritti gregoriani resta problematica, anche se alcune caratteristiche testuali e musicali permettono di identificare uno «stile gallicano» diverso dallo «stile romano»: l’impiego di testi dell’Antico Testamento, di testi apocrifi o non biblici a volte piuttosto esuberanti, certi disegni melodici che si ritrovano in modo particolare nei brani del II modo (graduali, tratti, antifone dell’ufficio feriale), l’inno Te Deum, il Gloria XV, alcuni offertori non salmici e un gran numero di antifone processionali. Dell’antica messa gallicana rimangono inoltre brani assai specifici, come le antifone di frazione (la frazione del pane prima della comunione, ndt) nelle feste di Pasqua e di Natale, e il canto del Trisagion per le cerimonie del Venerdì Santo. L’eterogeneità delle pratiche liturgiche, degli stili e dei repertori musicali che caratterizzano i primi secoli del Medioevo occidentale esiste ancora ai nostri giorni nelle Chiese cristiane orientali (riti siriano, copto, armeno, ecc.). La Chiesa latina, imponendo a partire dall’VIII secolo un’unificazione in favore del repertorio romano-franco, non ha totalmente sradicato gli antichi dialetti del canto liturgico, che hanno continuato a «contaminare» il repertorio gregoriano ufficiale con particolarismi più o meno marcati, a seconda delle regioni.
5. Presentazione al Tempio. Antifonario mozarabico redatto nel X secolo su un esemplare attribuibile ai secoli VI-VII. Il codice è una delle fonti più importanti del canto mozarabico. Ms. 8 degli Archivi della cattedrale di León, f. 79. 6. Codex Aemilianiensis, conservato nella Real Biblioteca de El Escorial. Famosa immagine della città di Toledo con, dall’alto in basso: le mura, due chiese e una scena di concilio. A Toledo si svolsero i più importanti concili mozarabici. Il IV concilio di Toledo che si svolse nel 633, sotto la presidenza di Isidoro di Siviglia, regolò il funzionamento delle assemblee generali della Chiesa ispanovisigota ed evidenziò i caratteri distintivi della sua liturgia. Tramite prescrizioni, il concilio ribadì l’unicità dell’ordo orandi et psallendi nella messa e nell’ufficio delle ore.
Trascrizione in notazione moderna. Ripreso da K. Levy, Latin chant outside the Roman tradition, in The Early Middle Ages to 1300, a cura di R. Crocker e D. Hiley (New Oxford History of Music, vol. II, Oxford University Press, Oxford-New York 1990). 7
II,2. I «DIALETTI» DEL CANTO GREGORIANO
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II,3. IL CONCETTO DI MUSICOLOGIA: BOEZIO Paolo Gozza
Musicologia (fr. musicologie, ingl. musicology, spag. musicología) è la versione italiana del tedesco Musikwissenschaft («scienza della musica»). Il termine fu introdotto da Guido Adler (1885), che definì l’oggetto (le opere d’arte), il metodo (quello della scienza positiva) e la divisione (storica e sistematica) della musicologia. Adler intendeva delimitare ambito, natura e articolazioni della «scienza della musica» nel quadro della concezione positivistica del sapere universitario, finalizzandone lo studio alla vita musicale, all’arte vivente. È dunque legittimo chiedersi cosa abbia a che fare con questo concetto di musicologia e con la sua eredità attuale l’opera di un nobile romano del VI secolo d.C., formatosi nella tradizione culturale greca classica e tardoantica, traduttore e commentatore di Aristotele, Porfirio e Nicomaco di Gerasa. Cos’è musicologia per Boezio? Boezio concepisce la musica come una scienza matematica, un sapere positivo ben strutturato nell’enciclopedia del sapere. Tuttavia l’interesse di Boezio alla «scienza della musica» non è l’attitudine classificatoria e naturalistica di Adler. La posizione storica di Boezio è alimentata dalla coscienza della propria epoca, dall’imperativo di salvaguardare l’eredità culturale classica rinnovandone il significato. Il fine della musicologia di Boezio è l’uomo. Il Proemio al primo dei cinque libri del De institutione IV,15. 13 musica (l’opera si interrompe all’altezza del capitolo 19 del V libro) si intitola «La musica è per natura legata a noi, ed eleva o distrugge i costumi». Boezio afferma che, delle quattro discipline matematiche (aritmetica e musica, geometria e astronomia) che hanno in comune la ricerca della verità, solo la musica è connessa alla moralità e ai costumi: «Nulla è infatti così strettamente umano quanto l’abbandonarsi a dolci armonie e il sentirsi contratti dalle discordanti: ciò non si limita a gusti singoli o a singole età, ma abbraccia le tendenze di tutti; e così i bambini, i giovani e pur anco i vecchi sono rivolti alle armonie musicali in virtù di naturale e per così dire spontanea disposizione, in modo che non esiste un’età che si sottragga al fascino di una dolce melodia». L’udito è per Boezio il più potente dei sensi, perché ha accesso diretto alla mente: «In ogni campo non c’è via più diretta dell’udito per raggiungere la mente. E quando, per questo tramite, i ritmi e i modi sono penetrati nell’anima, non v’è dubbio che essi, conformemente alla loro natura, influenzino e regolino la mente». «Se è verisimile il poter essere condotti da uno stato d’animo tranquillo ad uno stato di furore e d’ira, non v’è dubbio che un’armonia più controllata possa limitare l’ira o l’eccessiva smania di una mente sconvolta». Nel cuore della «scienza della musica» di Boezio c’è dunque l’uomo, c’è la convinzione che «la musica è congiunta a noi sul piano naturale in modo che, anche se vogliamo, non possiamo farne a meno».
42 II,3. IL CONCETTO DI MUSICOLOGIA: BOEZIO
Boezio non abbandona l’uomo, non lo consegna ai ritmi discordi cui è soggetto. Fa appello al sapere ed erige attorno all’uomo un tempio musicale capace di contenerlo e di accordarlo. Il tempio musicale eretto attorno all’uomo è la tripartizione in musica mundana, humana e instrumentalis, che Boezio conseIII,10. gna al capitolo che segue immediatamente il Proemio. Il con- 13 cetto di musica humana riguarda l’eutimìa, la concordia nell’uomo tra la mente e il proprio corpo, tra le parti razionali e le parti irrazionali dell’anima. Ha esperienza di questa musica del cuore e delle sue dissonanze «chiunque discenda in se stesso». Il cosmo, musica mundana, è strutturato musicalmente dalla Mente divina per offrire all’uomo che vi è contenuto un modello immutabile di ordine e di bellezza, di armonia e di concordia pur nei discordanti movimenti della macchina del cielo, nella varietà e diversità degli elementi del mondo naturale, nella coesione e nell’accordatura delle parti dell’anima del mondo che tutto vivifica con ordine e misura. L’armonia, in senso metafisico e antropologico, è la formula musicale dell’essere e ha la sua cifra razionale nella potenza del numero che ordina il tutto nei tempi e nei luoghi dovuti. La musica delle voci e degli strumenti, musica instrumentalis, la musica prodotta dall’uomo su questa terra, applica ai corpi sonori mondani le stesse leggi, regole, misure, proporzioni che valgono per le altre musiche intellegibili. Nella trattazione di Boezio l’analisi della musica instrumentalis precede lo studio delle altre musiche (i cui capitoli non ci sono pervenuti), perché le proporzioni matematiche applicate ai suoni degli strumenti e alle voci introducono la mente alla scienza più alta e astratta dei moti concordi dell’anima e delle rivoluzioni insensibili dei corpi astrali. Custode di questo tempio musicale tripartito è il musicus, che per Boezio non è chi pratica lo strumento (attività meccanica) o chi compone musica (basandosi sull’istinto), ma chi ne ha scienza, ossia ha la conoscenza razionale di tutte le parti della musica e può giudicarle correttamente. Forse l’immagine che meglio d’ogni altra condensa la struttura tripartita della musicologia boeziana, incentrata sull’accordatura tra uomo mondo musica, è la santa patrona della musica occidentale: Cecilia. Nella pala d’altare realizzata da Raffaello nel 1514-16 e conservata nella Pinacoteca di Bologna, le tre diverse musiche sono visibili, a un estremo, nei cori celesti in alto (musica mundana), all’estremo opposto, negli strumenti musicali abbandonati a terra, in basso nella tela (musica instrumentalis), e le due musiche, celeste e terrena, sono accordate dalla santa che, lasciati gli strumenti, dirige lo sguardo e l’orecchio verso l’alto, ospitando le armonie celestiali nel proprio cuore: per cui la musica humana è l’Estasi di santa Cecilia.
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L’Italia di Teodorico e di Boezio
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1. Raffaello Sanzio, Estasi di santa Cecilia, pala d’altare del 1514-1516 per la chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna (oggi l’originale è alla Pinacoteca di Bologna e in situ c’è la copia). Dietro santa Cecilia, sulla destra, c’è sant’Agostino con il pastorale; davanti a destra la Maddalena; sulla sinistra, dietro, san Giovanni e davanti san Paolo. L’attributo agiografico principale dell’iconografia di santa Cecilia è il tenere in mano uno strumento musicale.
I Goti orientali, Ostrogoti, si erano stanziati nelle steppe dell’attuale Russia, per spostarsi poi nel V secolo nelle attuali Croazia ed Ungheria. Gli imperatori bizantini se li fecero alleati: fu così che il nobile ostrogoto Teodorico passò sette anni alla corte di Costantinopoli. Nel 476 l’imperatore Zenone, insignito Teodorico del patriziato bizantino, gli diede la missione di riconquistare l’Italia caduta sotto gli Eruli. Bisanzio voleva ricostruire un unico Impero tra Oriente ed Occidente. Teodorico, affascinato dalla tradizione romana, voleva un mondo dove coesistessero Goti e Romani, ma lo volle per i Goti. Nel 490 Ravenna divenne capitale del regno ostrogoto che comprendeva anche il Sud della Francia, sino ad Arles, mentre a Roma persisteva un senato romano che, di fatto, si occupava solo dell’Urbe. Ravenna con Teodorico, già bizantina prima degli Eruli, non solo fu capitale, ma divenne durante un trentennio uno straordinario luogo di cultura e arte. A testimoniarcelo sono i monumenti rimasti dell’età teodoriciana: Sant’Apollinare Nuovo, il battistero degli Ariani, il mausoleo di Teodorico e i resti del palazzo. Se architetture e mosaici si sono conservati, la memoria dell’attività culturale, letteraria, musicale e filosofica ha meno reperti, ma una figura spicca tra tutti nell’età di Teodorico: Severino Boezio. Nato nel 476, da nobile famiglia romana, grande pensatore, votato anche all’impegno politico (vocazione dovuta al suo senso di responsabilità per ricostruire un’Italia nella tradizione romana e cristiana) troverà nell’incontro con Teodorico l’occasione per realizzare il suo progetto. Nel 500 Boezio doveva già essere un giovane senatore romano e Cassiodoro ci tramanda che fu lui a pronunciare il discorso di benvenuto a Teodorico in visita alla città. Fu il primo incontro e da quel momento le loro vite si intrecciarono. Boezio ricoperse cariche importanti: nel 510 è consul sine collega, carica imperiale accordata da Teodorico. Boezio presiedette il senato romano e nel 522 Teodorico lo nomina magister officiorum. Grande fu la soddisfazione di Boezio, che fu obbligato però a risiedere alla corte itinerante di Teodorico e lì trovò un’ostilità inattesa. A Boezio si devono le prime traduzioni di Aristotele nell’Occidente latino e l’innervare il pensiero greco nella latinità cristiana tardoantica; tutto il pensiero medievale erediterà da Boezio, come da Agostino, le basi per la propria costruzione culturale. Come espresso da Inos Biffi e Costante Marabelli in Figure del pensiero medievale, Boezio ed Agostino, con Gregorio e Dionigi l’Areopagita, ed anche Isidoro, si possono considerare i «mattoni» che, diversamente ricombinati, la filosofia medievale continuerà ad usare sino a tutta la Scolastica. La tradizione vuole che le ambizioni di Teodorico e le speranze di Boezio, assunto dal re per ricoprire le massime cariche del regno ostrogoto, si alimentassero in passeggiate anche tra i monumenti di Ravenna. Questa intesa lungimirante doveva scontrarsi con la diffidenza del senato romano (Boezio sosteneva per Teodorico il patriziato di Roma), con la diffidenza dei Goti stessi nei confronti di Boezio (incrementata dal loro arianesimo) e con Bisanzio che vedeva in Teodorico non più uno strumento della riconquista dell’Occidente, ma un avversario. Boezio, divenuto ingombrante, fu imprigionato e giustiziato dai Goti nel 524. Ci lascia traduzioni ed opere fondamentali come il De consolatione philosophiae, ma il suo fu realmente un percorso interrotto. Due anni dopo Teodorico morì e i Bizantini, con Giustiniano imperatore, riprenderanno l’Italia; Ravenna diverrà la Ravenna di Giustiniano. La stagione teodoriciana fu breve, il sogno di un matrimonio tra Goti e romanità fu ancora più breve, ma il lascito culturale grandissimo e le opere di Boezio imprescindibili per il Medioevo.
II,3. IL CONCETTO DI MUSICOLOGIA: BOEZIO
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II,4. AGOSTINO. LA MUSICA, I NUMERI
E LA RELAZIONE Massimo Parodi
[...] riusciremo a liberarcene usandoli bene [...] come si usa bene una tavola tra le onde, senza gettarli via come troppo pesanti, né abbracciarci a essi come se non affondassero1.
Nell’ultimo libro del De musica, Agostino riflette sulla bellezza sensibile, e in particolare sulle consonanze, sulle armonie, sui rapporti e sui numeri che si possono cogliere con i sensi, e li considera tracce di una bellezza sovrasensibile che può essere ricercata proprio partendo dai sensi, ma solo essendo capaci di superare la sensibilità per risalire ai suoi fondamenti ultimi. Nel naufragio della vita gli aspetti sensibili della bellezza servono per farsi portare in salvo, ma non devono essere confusi con un punto di arrivo stabile perché altrimenti l’uomo che a essi si afferra sarebbe inevitabilmente trascinato a fondo. Come spesso succede in Agostino, sembra che questo passo riassuma molta parte del suo pensiero, almeno per quanto riguarda il tema della bellezza e della musica. Poche righe prima aveva chiarito che cosa si intende per bellezza, nel caso del suono, ma non solo del suono: «Dunque queste cose belle piacciono a causa del numero in cui, come abbiamo già mostrato, si ricerca l’uguaglianza. D’altra parte questo non si trova soltanto nella bellezza pertinente all’udito e che si fonda sul movimento dei corpi, ma anche nelle stesse forme visibili, a proposito delle quali si parla più comunemente di bellezza»2. Agostino trova una regola della bellezza sensibile nella presenza di relazioni proporzionali tra le parti dei dati sensibili che colpiscono l’udito o la vista, perché è proprio nella proporzione che si coglie la dialettica che governa le cose del mondo, tese per un verso all’unità, al principio, al fondamento e, per l’altro, destinate a disperdersi e frantumarsi nella molteplicità delle relazioni sensibili. Per questo la musica è tanto importante nella riflessione agostiniana e soprattutto lo studio della ritmica, delle relazioni numeriche, che occupa i quattro libri centrali del De musica. Non è la musica eseguita, non la sonorità fisica che si percepisce con le orecchie del corpo a svolgere la funzione descritta, ma la teoria della musica, l’arte liberale musica, quella che insegna a trovare i criteri con i quali valutare intellettualmente anche la stessa musica sonora, certamente tenendo presente tutta la complessità dell’esperienza dell’udito che viene ricostruita in modo minuzioso, attraverso l’analisi dei modi diversi in cui i rapporti numerici entrano in relazione con chi emette un suono, con il mezzo attraverso cui si trasmette, con gli organi della sensibilità, per essere conservati nella memoria ed essere sottoposti al giudizio. Agostino non è insensibile al suono fisico e spesso lo ricorda nelle sue opere, ma è importante non lasciarsi dominare dalla curiosità inquieta, che pure è componente essenziale della con-
44 II,4. AGOSTINO. LA MUSICA, I NUMERI E LA RELAZIONE
1. Vittore Carpaccio, Sant’Agostino nello studio (1503), San Giorgio degli Schiavoni, Venezia. Per lungo tempo il dipinto è stato chiamato San Gerolamo nello studio, in considerazione del suo essere l’ultimo telero del ciclo dedicato da Carpaccio alle storie di San Gerolamo. Nel 1959, Helen Roberts, nel saggio St. Augustine in ‘St. Jerome’s Study’, chiarisce come il personaggio effigiato sia Agostino. In basso, a destra, sono raffigurati due libri di musica, aperti e leggibili: uno con musica polifonica sacra (il foglio in primo piano), e l’altro con musica polifonica profana. L’individuazione del tipo di musica ad opera di Edward Lowinsky – The Music in Carpaccio’s ‘St. Jerome’s Study’ (1959) – ha permesso a Helen Roberts di collegare il quadro ad Agostino. Agostino è ritratto in uno studio «ecclesiatico-umanistico» che presenta elementi in comune con studioli coevi di nobili veneziani e con studioli di corte, a cavallo fra Quattro e Cinquecento, come lo studiolo di Isabella d’Este a Mantova. N.G.,13 e 15
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dizione dell’uomo. Altrettanto importante è non lasciarsi guidare dalla superbia che può suggerire all’anima di dominare su altre anime proprio attraverso la capacità di influenzarle attraverso segni, parole, che suggeriscono o impongono di cogliere determinate relazioni nel mondo3. Nelle pagine conclusive del suo trattato sulla musica, Agostino osserva che, se si ammette che pur nella dispersione delle proprie esperienze, «non c’è nessuna natura che, per essere ciò che è, non tenda all’unità, non cerchi di rimanere simile a se stessa per quanto può e non mantenga il proprio ordine nei luoghi o nei tempi o la propria salute con un certo equilibrio incorporeo»4, allora si è portati a comprendere «che da un solo Principio, per mezzo di una Forma a Lui uguale e simile, con la ricchezza della sua bontà, in virtù della quale l’Uno e l’Uno dall’Uno si congiungono tra loro, per dir così, con un Amore amorevolissimo, sono state create e fondate tutte le cose che sono, quali che siano e in qualunque misura siano»5.
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Secoli VIII-XI Centro di studio monastico attestato nei secoli VIII-XI Scuole cattedrali attestate nei secoli VIII-XI
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Secoli VIII-IX Centro di studio monastico Scuole cattedrali
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Secoli X-XI Centro di studio monastico Scuole cattedrali
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Secoli VI-VII Centri di studio monastici e scuole cattedrali
A
2. Centri di studio e grandi scuole fra il VI e l’XI secolo.
M a r M ed i t er r a ne o
Rossano Vivarium
Cartagine
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Dal «sogno» di Agostino agli studi medievali
È questa relazione originaria ad avviare il processo entro il quale è possibile si realizzi la disposizione ordinata delle creature, i numeri spaziali – per usare l’espressione agostiniana – solamente III,16 «se li precedono, nel silenzio e nell’interiorità, i numeri temporali che sono nel movimento»6, perché il tempo è la condizione esistenziale dell’uomo, esattamente come la musica esiste solo nella forma del trascorrere temporale. Se il divenire è condizione metafisica delle creature, lo sfondo necessario al loro esserci è proprio il ritmo del tempo. Al culmine della riflessione sulla musica compare dunque la V,9 concezione trinitaria di Dio. Può suonare strano alla nostra sensibilità, segnata da secoli di riflessione teologica e metafisica, ma qui la Trinità è ciò che dà senso alla stessa riflessione sulla musica, è quel punto di arrivo che riassume in sé unità e molteplicità per mezzo della relazione, è il modello delle proporzioni riscontrabili nel mondo e riconducibili, per analogia (proporzione), al loro principio primo. La Trinità è davvero la musica del mondo.
Agostino, dopo aver studiato e insegnato a Madaura, a Tagaste, a Cartagine, a Roma e a Milano, in De doctrina cristiana (396-428) si fa teorico della conciliazione tra pensiero antico e cristianesimo. I Padri furono spesso polemici con le credenze pagane, ma vari di essi mostrarono grande attenzione verso il portato della filosofia greca. Il progetto, sogno, di Agostino era arrivare ad un sistema scolastico unito in tutto il mondo cristianizzato per educare alla «grande sintesi». Boezio e Cassiodoro possono aver avuto un sogno analogo, ma, alla fine del V secolo, in Occidente, la decadenza della vita urbana, la ruralizzazione delle élite nelle loro case di campagna, la povertà crescente, la decadenza di molte istituzioni pubbliche, lo sfilacciamento dei rapporti con l’Oriente, la diminuzione dei viaggi di uomini e di merci, portò la fine di quelle scuole imperiali e municipali ancora vive nel V secolo. Fu l’implosione dell’Occidente nell’incultura? Innanzitutto va detto che gli stessi barbari non operarono contro la cultura, al contrario ne erano attratti; la crisi avvenne per le condizioni sopra riportate, ma le grandi famiglie ruralizzate conservavano comunque biblioteche e la Chiesa, sulla scorta di Agostino e dei Padri, iniziò a prendere l’iniziativa. Nel 529 il concilio di Vaison, in Francia, invita i vescovi a organizzare scuole presso le loro cattedrali; il sistema scolastico laico era imploso ed i nuovi sovrani barbari non potevano ricostruirlo. La conseguenza di questa sostituzione della Chiesa all’autorità civile fu però molto caratterizzante perché, anche se in principio i laici potevano aderire alle scuole presso le cattedrali, di fatto tutto l’insegnamento e la discenza divennero un affare di chierici e questa frattura sarà una durissima eredità per tutto il Medioevo. È così che le discipline religiose e bibliche si sostituiscono alla filosofia degli antichi. Pierre Riché e Jacques Verger in un recente lavoro, Nani sulle spalle di giganti, considerano che siamo di fronte ad una clericalizzazione dell’insegnamento e della trasmissione del sapere. Il latino, lingua ecclesiastica, diviene in Occidente per quasi un millennio, la lingua della scuola, quando già da allora nella vita quotidiana era sostituito da idiomi vernacolari. Parallelamente alle scuole promosse dai vescovi ci furono le scuole monastiche, che certo, però, non sanarono la frattura. Quanto descritto ci dà un quadro che perdurerà dal VI all’XI secolo. I grandi centri di studio irlandesi, prima di Carlo Magno, saranno sempre monastici e così la loro influenza sull’Europa. Carlo Magno, a partire da Aquisgrana, quasi un advanced study dell’epoca, unificò le forme di trasmissione del sapere in tutto l’Impero, ma le caratteristiche elitarie non muteranno. Lo stesso varrà per i prestigiosi scriptoria, sostenuti dagli Ottoni alla fine del X secolo e all’inizio dell’XI secolo. Possiamo invece parlare di un «rinascimento del XII secolo». Ci troviamo, infatti, di fronte al moltiplicarsi delle scuole cattedrali e ad un effettivo aumento e allargamento degli allievi.
II,5. CANTO LITURGICO E POLITICA
IMPERIALE CAROLINGIA Cesarino Ruini
L’incoronazione di Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero, celebrata la notte di Natale dell’anno 800 in San Pietro a Roma, non solo ha segnato una svolta epocale nelle vicende dell’Europa, ma può essere assunta anche come avvenimento di altissimo valore emblematico per la storia della musica. In ragione del legame assai stretto che univa le due sfere compresenti nel ruolo imperiale, quella politica e quella sacrale, uno dei tratti distintivi dell’azione dei regnanti carolingi fu sempre l’esercizio di un vigile controllo sulla liturgia, affiancato da un’efficace regolamentazione normativa: l’impegno profuso nell’organizzazione della vita ecclesiastica e nella riforma del culto aveva come corrispettivo la possibilità che l’una e l’altro venissero utilizzati come potenti mezzi per il controllo dell’Impero. La trasformazione in senso romano degli usi rituali gallicani, imposta da Pipino il Breve divenuto re dei Franchi (751-768), ha le sue ragioni nell’obiettivo di stabilire un rapporto privilegiato col papato, il cui storico legame con la dinastia bizantina era in crisi a causa dell’eresia iconoclasta. Erano in gioco sia il ruolo di defensor del papato sia la rinnovata guida di un sovrano occidentale sulla cristianità; senza contare il vantaggio derivante da questa alleanza alla nuova casa regnante, che agli occhi dei Franchi doveva giustificare quella specie di «colpo di stato» con cui era stato deposto il legittimo re merovingio Childerico III. L’occasione venne quando papa Stefano II si rivolse al re franco chiedendo aiuto contro la minacciosa espansione dei Longobardi verso Roma. La discesa in Italia di Pipino (754-756), consacrato re con l’avallo pontificio, si concluse con la sconfitta dei Longobardi e la restituzione al papa dell’Esarcato e della Pentapoli, ma innescò anche un processo di trasferimento verso la Francia di usi e consuetudini rituali romani che il re franco aveva forse avuto modo di apprezzare di persona nell’Urbe. Come si può cogliere dalla corrispondenza tra le due corti, al canto spetta in quest’attività di scambio liturgico un ruolo straordinario. Nel 758 papa Paolo II scrive a Pipino: «Abbiamo inviato a Vostra Maestà tutti i libri che abbiamo potuto trovare, cioè un Antifonario e un Responsoriale e così pure l’ars grammatica di Aristotele e i libri scritti da Dionigi l’Areopagita [...]». Il risalto maggiore è conferito a due libri, l’antifonario e il responsoriale, che contenevano i testi dei canti della messa e dell’ufficio, ma non le melodie. Queste, non esistendo all’epoca un sistema di scrittura musicale, si potevano tramandare solo oralmente: perciò il papa, insieme ai libri, aveva inviato da Roma anche il cantore Simeone al fratellastro di Pipino e vescovo di Rouen, Remigio, perché insegnasse le melodie. A lui fa cenno una lettera successiva (dopo il 760) con cui lo stesso papa in un certo senso si giustifica per avere dovuto richiamare Simeone presso di sé e nel contempo assicura che a Roma i cantori franchi potranno ricevere un’adeguata formazione: «Abbiamo letto che Noi dobbiamo affidare a Simeone, priore della Schola cantorum, i monaci di Vostro fratello, affinché
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1, 2. Come ci ricordano Jerrilyn D. Dodds e Jenny H. Shaffer (La renovatio carolingia, in Da Maometto a Carlo Magno, Jaca Book, Milano 2001): «Non c’è monumento più strettamente legato a Carlo Magno del suo ormai perduto palazzo di Aquisgrana. Situata strategicamente nel cuore della Austrasia franca, oggi ai confini della Germania con l’Olanda, la capitale palatina costruita a partire dal 792-805 ca., mise fine alla lunga tradizione dei regni itineranti fornendo un centro all’Impero carolingio in continua espansione, nonché una facciata di grande effetto alla neonata dinastia. Il complesso comprendeva fastosi spazi pubblici con l’ampio salone delle udienze, sebbene il cuore del palazzo fosse la celebrata cappella di Carlo Magno». Aquisgrana e la sua cappella ancora oggi conservata non sono solo il centro amministrativo di un Impero e di un progetto ecclesiastico-liturgico unitario, ma pure un luogo di invenzione e produzione culturale propria. Aquisgrana non crea un’università, non è ancora il tempo, ma attorno ad Alcuino, che Carlo Magno ha fatto venire dalla prestigiosa biblioteca di York in Inghilterra, nasce una vera «commissione culturale», per dirla in termini contemporanei, che consiglia la politica imperiale e organizza la trasmissione del sapere nei territori. Gli scriptoria carolingi porteranno la miniatura ad un livello artistico altissimo e saranno determinanti per indicare la strada anche all’arte monumentale; da Aquisgrana tutte le arti dell’Impero sono governate. (1) Carlo Magno e Alcuino, miniatura di un manoscritto della fine del XII secolo proveniente da Hamersleben. Manoscritto Inn. 3927, f. IV, Kestner Museum, Hannover. (2) Alzato e planimetria della Cappella Palatina. Vari studiosi vogliono vedere in queste forme la ripresa di un modello fondamentale per la cristianità, il Santo Sepolcro che Costantino aveva fatto costruire a Gerusalemme. 3. L’introduzione del canto romano a Treviri, dittico in avorio dell’inizio del X secolo, scuola di Treviri. Inv. 2788/89, Staatliche Museen, Berlino (il dittico è stato distrutto durante l’ultima guerra mondiale). Per via della scritta SCS MARTINUS EPS, il dittico era ritenuto opera della scuola di Tours, città di cui san Martino vescovo era protettore; in effetti è relativo all’abbazia di San Martino di Treviri, dove Reginone di Prüm, abate colà tra l’899 e il 915, aveva avuto l’incarico dall’arcivescovo Ratbodo di riordinare la vita culturale e liturgica della comunità. Infatti in questo monastero Reginone compilò l’Epistola de harmonica institutione con annesso un tonario. Le tavolette narrano figurativamente la riforma della musica liturgica attuata dall’abate, la cui opera viene in qualche modo paragonata a quella di san Gregorio Magno papa. Nel pannello di destra, sotto l’immagine della città di Roma, alla figura di un pontefice in atto di estrarre un ponderoso volume da una biblioteca sono affiancati due personaggi più piccoli (un uomo in atto di suonare un flauto sorretto da una donna) che il monogramma MUSICA indica chiaramente come simboli dell’ars musica. Questi, essendo posti emblematicamente in capo ad un maestro in atto di insegnare ad un gruppo di allievi, sembrano alludere alla celebre Schola cantorum romana. Non tutti gli alunni sono particolarmente interessati alla lezione, per cui la scena si chiude con la punizione a scudisciate di uno di essi. Nel pannello di sinistra, sotto la raffigurazione della città di Treviri e l’esplicita indicazione dell’abbazia di San Martino, è raffigurato Reginone in atto di consegnare ai propri monaci la nuova versione del canto romano (rotolo aperto tenuto da un lato da un cantore in atteggiamento di stupore) in sostituzione del vecchio canto locale (rotolo chiuso). Sotto di lui un amanuense è intento a ricopiare i canti del nuovo repertorio su una pergamena, che i monaci del registro inferiore stanno preparando attraverso le fasi del taglio, della stiratura e della confezione in rotoli.
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insegni loro la salmodia, che essi non hanno potuto apprendere da lui quando si trovava nel Vostro regno. Affermate che Vostro fratello è profondamente dispiaciuto del fatto che Simeone non abbia potuto formare i suoi monaci alla perfezione. Certo avremmo volentieri soddisfatto la Vostra Cristiana Maestà: se Giorgio, che dirigeva questa Schola, non fosse morto, non avremmo tolto Simeone dal servizio di Vostro fratello [...]. Abbiamo comunque affidato i suddetti monaci di Vostro fratello al menzionato Simeone e, dopo averli ben sistemati, gli abbiamo ordinato di insegnare loro la salmodia con giusto zelo e assiduità nella Schola cantorum [...]». Il nuovo corso liturgico è solennemente ribadito da Carlo Magno nell’Admonitio generalis del 789: «A tutti i membri del clero: dovranno apprendere alla perfezione il canto di Roma e celebrare l’ufficio secondo la regola con l’ausilio di un Antifonario e di un Graduale, conformemente a ciò che aveva ordinato di fare nostro padre, il re Pipino, di felice memoria, quando soppresse il rito gallicano per conformarsi alla Sede apostolica e ottenere che la santa Chiesa di Dio viva in pacifica concordia». Ma l’interesse per il canto non è che un aspetto complementare della spiccata attenzione dell’imperatore per la liturgia, nella cui uniformità vedeva una
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4. Graduale di Einsiedeln. Ms. 121, ff. 30-31, Stiftsbibliothek, Einsiedeln. Copiato alla fine del X secolo, questo libro contiene i canti del Proprio della messa per tutto l’anno liturgico forniti della raffinatissima notazione neumatica in campo aperto elaborata nel monastero di San Gallo, dal quale Einsiedeln dipendeva. I segni (neumi) posti sopra le sillabe del testo forniscono al cantore, che conosceva a memoria la melodia, indicazioni riguardanti sfumature espressive del brano, come accenti, accelerazioni o rallentamenti ritmici, stacchi e legati, e, in modo più generico, sulla direzione (verso l’alto o verso il basso) del profilo
melodico. La loro configurazione era modellata vagamente sul movimento della mano di chi dirige il coro (notazione chironomica) ed era arricchita dall’aggiunta di lettere «significative», come c per celeriter (accelerando) o t per tenete (rallentando), s per sursum (più in alto), j per jusum (più in basso), che specificavano ulteriormente le caratteristiche espressive di alcuni passaggi. Si pensa che il libro fosse destinato al maestro del coro, il quale vi faceva ricorso per rinfrescare la memoria (rammemoratio) prima delle celebrazioni.
garanzia per l’unità dell’Impero. Nel 786 si era fatto inviare da papa Adriano I una copia del Sacramentario gregoriano (il libro principe dell’organizzazione rituale, contenente le preghiere destinate al celebrante), il cui testo venne poi integrato con un’appendice di usi gallicani ad opera del monaco Alcuino di York (735804), «maestro» del sacro palazzo per il culto e la cultura. Collocato nella Biblioteca Palatina di Aquisgrana, questo Sacramentario divenne il modello dal quale i vescovi avevano l’obbligo di far trarre le copie ad uso delle singole diocesi dell’Impero. Un prototipo dell’organizzazione didattica istituita per garantire la corretta diffusione del canto romano è offerta dalla biografia di Crodegango, vescovo di Metz (742-766), stilata da Paolo Diacono nei Gesta episcoporum Mettensium: «A Metz radunò i membri del clero e li fece vivere in un chiostro, come in un cenobio [...]. Avendo inculcato loro senza parsimonia la legge divina e il canto romano, prescrisse loro di seguire rito e usanze della chiesa di Roma». L’eccellenza di tale scuola è confermata nell’813 in una lettera che Leidrado, vescovo di Lione (779 o 798-816), indirizza a Carlo Magno: «Dopo aver preso su Vostro ordine la direzione della chiesa di Lione, ho agito con tutta la forza che mi consente la mia gracile persona al fine di ottenere un clero che reciti bene l’ufficio, come mi sembra che oggi, per
grazia di Dio, avvenga in gran parte. A questo scopo piacque alla Maestà Vostra di accordarmi un chierico della chiesa di Metz, per mezzo del quale la chiesa di Lione ha adottato un modo di cantare in tutto simile a ciò che richiede l’ordinamento dell’ufficio divino, conformemente al rito in uso presso il palazzo imperiale». Oggi possiamo solo immaginare lo sconcerto causato nei cantori franchi dall’introduzione forzata della romana cantilena nelle loro consuetudini rituali. È convinzione degli studiosi che nell’operazione di trapianto del canto romano in Francia si sia consumato una specie di scontro tra culture musicali profondamente diverse, caratterizzate da grammatiche e da sistemi di relazione tra i suoni scarsamente compatibili. Si possono facilmente comprendere le difficoltà che questo stato di cose dovette suscitare nelle persone professionalmente deputate all’esecuzione e trasmissione dei canti necessari alla celebrazione quotidiana della messa e dell’ufficio in un regime di tradizione orale (è stato calcolato che i circa 3.000 brani necessari per coprire l’intero anno liturgico comportavano pressappoco 75-80 ore di materiale memorizzato). L’invenzione della scrittura musicale neumatica, che ebbe luogo nella rete di monasteri tra la Senna e il Reno dove veniva coltivato questo nuovo repertorio liturgico-musicale, rappresentò la soluzione per poterlo preservare dalle
5. La cartina mostra i grandi centri di riferimento culturale del periodo. 6. Antifonario di Hartker. Cod. Sang. 390, f. 13, Stiftsbibliothek, San Gallo. Compilato tra la fine del X secolo e l’inizio del successivo dal monaco Hartker per il monastero di San Gallo, il libro contiene i canti del Proprio della liturgia delle ore per tutto l’anno, forniti della notazione neumatica adiastematica sangallese con l’aggiunta di lettere «significative».
L’immagine, che apre solennemente il Proprio del tempo (I domenica d’Avvento), illustra il mito della creazione del canto gregoriano da parte di Gregorio Magno: il papa, in abito pontificale, intona le melodie dei canti liturgici ispirato dallo Spirito Santo sotto forma di colomba appoggiata sulla sua spalla, mentre un chierico trascrive le melodie sulla pergamena. Era una chiara allusione al fatto che le melodie e i testi contenuti nel libro, essendo ritenuti di ispirazione divina, non potevano essere mutati o stravolti arbitrariamente dai singoli cantori.
inevitabili corruzioni dell’oralità e trasmettere in forma più stabile sia alle plaghe più remote dell’Impero sia alle generazioni future. I neumi, sistema di segni che descrivono solo approssimativamente il movimento ascendente o discendente della melodia ma abbondano di sfumature espressive (e come tali non sostituiscono la memoria, però le forniscono un valido ausilio), nacquero come prodotto della politica carolingia di promozione della scrittura a detrimento della tradizione orale; di fatto, innescarono una specie di rivoluzione culturale. La loro introduzione, che diede avvio a un’immane opera di copiatura libraria, con tutto l’onere economico-organizzativo che ne consegue, gettò le basi per un mutamento radicale nel sistema di produzione musicale europeo, che nei secoli successivi si svilupperà privilegiando sempre più la composizione scritta a scapito dell’improvvisazione estemporanea. Dopo un lungo periodo di gestazione, che dovette iniziare intorno all’anno 800, la notazione neumatica, perfezionata in scriptoria monastici di grande prestigio, ha lasciato i frutti più maturi delle sue potenzialità espressive nei manoscritti della scuola di Metz (Graduale Ms. 239 della Bibliothèque municipale di Laon, dopo il 930) e di San Gallo (Graduali: Ms. lit. 6 della Staatsbibliothek di Bamberga; Mss. 339, 359, 376 della Biblioteca del monastero di San Gallo; Ms. 121 della Biblioteca del monastero di Einsiedeln; Antifonario di Hartker, Mss. 390-391 della Biblioteca
del monastero di San Gallo, tutti compilati tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo); essi recano, trascritte su pergamena, le melodie della tradizione liturgica cristiana nella versione più antica a noi nota. Il prodotto dell’innesto della romana cantilena sulle consuetudini gallicane venne chiamato «canto gregoriano», nella convinzione che suo compositore fosse stato san Gregorio Magno papa III,11 (590-604). In effetti, non esiste alcuna prova storica circa gli interessi e le competenze musicali di questo papa; e l’attribuzione di questo merito è un mito creato in età carolingia per conferire un sigillo di sacralità – a sua volta garanzia di inviolabilità – al nuovo repertorio. All’inizio dei manoscritti di canto liturgico di quest’epoca comincia infatti a comparire un testo poetico, Gregorius presul, che esalta l’opera musicale del santo papa, accompagnato da una celebre immagine che lo raffigura nell’atto di comporre i canti che lo Spirito Santo, in forma di colomba appollaiata sulla spalla, gli insuffla nell’orecchio, mentre accanto a lui uno scriba trascrive le melodie su pergamena. Questo canto gregoriano, che non era più il canto romano e aveva soppiantato il gallicano, divenne il linguaggio musicale comune a tutta l’Europa: esso costituisce così il patrimonio genetico originario dei capolavori musicali che la civiltà occidentale ha prodotto nei dodici secoli trascorsi da allora.
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II,6. LA NASCITA DELLA SCRITTURA MUSICALE Mauro Casadei Turroni Monti
La tradizione orale, referente unico della musica vocale sacro-liturgica fin dal primo cristianesimo, in Occidente troverà varianti a partire dai secoli VIII-IX, periodo di formazione del canto gregoriano. Siamo in epoca carolingia, dove nell’accordo fra Chiesa e Impero diverrà obiettivo saliente quello di contrastare l’eterogeneità fra le tante popolazioni attraverso modelli di condivisione, sia politico-culturali che educativi, di legislazione o anche liturgico-rituali. In quest’ultimo settore, ancora con grande influenza del monachesimo, il repertorio musicale subì forti sollecitazioni a smantellare nel possibile le precedenti difformità locali (in Italia, ad esempio, i vari riti aquileiese, ravennate, beneventano, ecc., con eccezione della parte ambrosiana) in vista di un corpus di canti «unificato», che fosse valido per tutte le diocesi. L’esito di tale elaborazione sarebbe stato appunto, nel IX secolo, il canto gregoriano, risultato dell’incontro e contaminazione fra le tradizioni vetero-romana e gallicana. A suggello dell’assoluta sacralità ed intoccabilità di tali canti fu richiamata la figura di san Gregorio Magno, considerato il creatore sotto ispirazione divina di tali melodie, le quali, non va dimenticato, erano generalmente intonate su testi di diretta provenienza biblica. Unica funzione del canto era di adornare con arte impenetrabile ed emozione quelle sacre parole, favorendone la meditazione da parte dell’assemblea nel corso dell’atto liturgico. Senza entrare nei meandri del rapporto memoria-scrittura entro l’elaborazione compositiva, si può affermare che mentre un coro, fino ad allora, aveva adottato le aperte abitudini anche improvvisative dell’oralità (per le varie occorrenze che andavano dall’apprendimento alla trasmissione musicale), d’ora in avanti avrebbe continuato ad intonare a memoria ma nel rispetto dell’invariabilità dei canti, che anzi saranno riscritti sulla pergamena vuoi per meglio studiarli o ripassarli, vuoi allo scopo di preservare l’intero repertorio. In epoca gregoriana immaginiamo pertanto un esteso cantiere di lavori dovuto alla ricerca di espedienti pratico-conservativi in aiuto alla memoria, tra i quali avrebbe giocato un ruolo primario l’ideazione dei diversi sistemi di scrittura musicale amensurale. Naturalmente, va sottolineato che la scrittura non sostituisce la memoria: se nelle scholae cantorum il ripasso e lo studio del repertorio richiese a un certo punto di prolungare sulla carta successioni problematiche agli schemi di memorizzazione, questi ultimi a loro volta trovarono nuove modalità applicative proprio attraverso il ricorso scritto: dunque, scrittura musicale che fa da sostegno alla memoria e ne è anche modalità di aggiornamento. La notazione neumatica Le varie grafie musicali in campo nel IX e X secolo sono grossomodo riassumibili in due tipologie di notazione: da una parte quelle alfabetiche e affini (come la dasiana), che nella loro sem-
50 II,6. LA NASCITA DELLA SCRITTURA MUSICALE
plice e schematica esattezza (ad ogni lettera dell’alfabeto corrisponde un dato suono) risultavano più utili per esemplificazioni musicali in ambito teorico, laddove un trattato se ne fosse servito per fini speculativi (i lavori di marca boeziana) o didattici (come per la dasiana in Musica enchiriadis); dall’altra la notazione V,4.1 neumatica, idonea invece per la traduzione scritta della musica eseguita. I neumi assomigliano ad una sorta di stenografia, che diciamo adiastematica «in campo aperto» perché erano vergati nello spazio libero tra una riga del testo e l’altra quasi senza raffigurare l’altezza (diastemazia) dei suoni entro un sistema di righe e spazi (salvo l’eccezione dei neumi di area aquitana, anteprima delle trasformazioni su rigo poi sistematizzate nel tetragramma). A questa imprecisione diastematica dei neumi, sopperiva la loro stupefacente duttilità nel «rendere leggibili» le inflessioni ritmico-agogiche, fonetiche ed espressive dell’interpretazione, a sua volta legata anche al movimento della mano del magister (chironomia). Nel X secolo appaiono i primi manoscritti interamente notati, suddivisi principalmente in libri per messa e per la liturgia delle ore. Tra i centri monastici d’Europa dotati di uno scriptorium, molti dispongono di copisti in grado di provvedere più o meno autorevolmente alla compilazione di tali manufatti gregoriani. È ancor oggi mirabile osservare come ciò che differenzia un liber cantus dall’altro non sia la linea melodica, che come sappiamo doveva rispondere ad un archetipo comune, tanto da far «pensare che una ‘copia visiva’ sia stata praticata non soltanto tra i
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1. San Gregorio nello studio. Pannello in avorio della fine del X secolo, proveniente dall’abbazia imperiale di Reichenau. Ci troviamo di fronte ad un classico esempio di arte ottoniana. L’iconografia, più che rifarsi ad un immaginario studio di Gregorio, ripropone uno scriptorium all’interno di una costruzione monasticoimperiale. Reichenau ospitò infatti uno dei massimi tra gli scriptoria dell’epoca sotto la diretta protezione degli Ottoni. Nella tavoletta, tre scriba copiano le ispirazioni di Gregorio, mentre Gregorio, a sua volta, fissa immediatamente in scrittura quanto lo Spirito Santo in guisa di colomba gli trasmette. L’avorio è conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
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La cartina riporta gli scriptoria istituiti tra il VII secolo e l’inizio del X dalla rinascenza celtica prima, dalla riforma carolingia poi e infine dagli Ottoni. Sono indicati anche l’antica Vivarium di Cassiodoro (VI secolo) e la più tarda rinascita di Montecassino sotto Desiderio (fine X secolo). Il quadratino indica il monastero irlandese di Bangor, partenza della missione celtica di Colombano di cui è indicato il percorso attraverso l’Europa fino a Bobbio, località non distante da Milano. La ricostruzione del tessuto di trasmissione del sapere, attuato anzitutto dalla missione celtica e poi dalla riforma carolingia, ha permesso alla tradizione orale della musica di trovare un veicolo per condividere repertori in forma scritta e arrivare ad un corpus di canti internazionalmente riconosciuto. Le campiture e i numeri grandi indicano ciò che possiamo chiamare le «famiglie» di notazioni musicali. I numeri piccoli indicano l’influenza di una famiglia in altre aree rispetto a quella di origine.
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Lo scriptorium La crisi della trasmissione del sapere Roma nel IV secolo aveva ancora 28 biblioteche pubbliche, ma la crisi dell’Impero in Occidente fu irreversibile e il patrimonio librario da conservare, come la trasmissione del sapere, necessitò della supplenza della Chiesa, in particolare dei papi e dei vescovi, anche se questi promossero la distruzione di molte memorie del mondo pagano. Lo scriptorium della tarda latinità è Vivarium, creato nel Sud Italia da Cassiodoro, fattosi monaco dopo essere stato ministro di Teodorico alla corte di Ravenna. Ma in Europa l’implosione economico-istituzionale è generale e, nell’VIII secolo, l’attività degli scriptoria è interrotta nella sua parte continentale. Dall’Irlanda partirà quella che potremmo chiamare la riacculturazione dell’Europa. La rinascita irlandese Dal V secolo il monachesimo celtico irlandese aveva fatto proprie la lingua e la cultura latina: lo testimonia il capolavoro di scrittura e miniatura che è il Libro di Kells. Abbiamo precisa conoscenza di importanti scriptoria delle isole britanniche nei monasteri di Iona, Lindisfarne e Malmesbury, cui si aggiungeranno nel VII secolo Wearmouth e Jarrow. Alla fine del VI secolo, dal monastero irlandese di Bangor, Colombano con altri dodici monaci inizia a percorrere l’Europa. Dalla loro missione nasceranno, tra molti altri, i centri monastici di Luxeuil in Francia, San Gallo nell’attuale Svizzera, sino a Bobbio in Lombardia. Seguiranno le spedizioni degli anglo-sassoni Willibrordo e Bonifacio. Magonza, Würzburg, Fulda e Hersfeld non solo videro ricostruito il tessuto eccle-
siastico, ma divennero a loro volta sedi di scriptoria e di trasmissione del sapere. Gli scriptoria carolingi e ottoniani Gli stessi monaci spagnoli, emigrando da una Spagna occupata dagli Arabi, fonderanno in Germania gli scriptoria di Reichenau e Murbach. Carlo Magno, mentre il suo Impero è ancora in costruzione, affida ad Alcuino di York, dove c’era uno dei maggiori depositi librari dell’epoca, la riorganizzazione dell’insegnamento e la direzione della Schola Palatina ad Aquisgrana, che, oltre ad essere sede della corte, diviene il centro di diffusione culturale dell’Impero. I principali scriptoria carolingi furono: Tours, Fleury, Ferrières, Auxerre, Lorsch, Reichenau, San Gallo e Fulda; i testi non venivano solo copiati, ma riletti ed emendati filologicamente. La crisi del mondo carolingio, con la susseguente divisione dell’Impero nel IX secolo, vide ben presto una ripresa di comunicazioni con l’affermarsi degli Ottoni e la ricostruzione di un Impero unitario tra i secoli X e XI. Le grandi risorse ottoniane profuse ai principali monasteri portarono gli scriptoria ad un nuovo apice. Parallelamente nasce il centro monastico che determinerà una nuova ripresa del movimento benedettino in Europa: l’abbazia di Cluny divenne il punto di propulsione e riferimento di una rete internazionale di relazioni intermonastiche senza precedenti. La cultura libraria e artistica ha trovato la nuova via di circolazione. A conclusione di questo arco di ricomposizione dei luoghi di produzione e comunicazione culturale (gli scriptoria, le loro sedi e le scuole monastiche) e prima delle stesse scuole cattedrali, vediamo la rinascita di Montecassino come centro culturale ed artistico, detentore di uno straordinario patrimonio librario, sotto l’abate Desiderio (1058-1087).
IV,3.1
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Nomi di Grafie neumi semplici
modifica
aggiunta di lettere
manoscritti di uno stesso scriptorium, ma anche tra i prototipi delle diverse scuole» (E. Cardine); le difformità stavano semmai nelle calligrafie e nel grado di funzionalità del segno neumatico rispetto alla viva interpretazione. La qualità di una notazione neumatica si gioca proprio sulla sua capacità di rappresentare le inflessioni performative, fino a quei prodotti eccellenti, soprattutto degli scriptoria di area sangallese e metense, dalla cui grafia abbiamo oggi la possibilità di ricostruire puntualmente la straordinaria qualità estetico-interpretativa di quelle scuole. Notissimi al riguardo sono alcuni codici pergamenacei del X secolo quali il Cantatorium San Gallo 359 e i Graduali Einsiedeln 129 e Laon 239; purtroppo, rispetto a questi primi testimoni sopravvissuti, in cui le grafie adiastematiche sono già perfezionate, si può solo presumere quanto sia accaduto a partire dall’VIII secolo nelle fasi di gestazione (di cui restano alcuni libri liturgici con i testi dei canti senza notazione) e sviluppo intermedio (non si va oltre gli interrogativi che permangono su eventuali prototipi come i neumi paleofranchi). Giusto per intuire la raffinatezza del canto gregoriano in base a quanto i segni neumatici ci tramandano, si veda la tavola sinottica cardiniana dei neumi di San Gallo: essa mostra segno per segno, da sinistra a destra, la metamorfosi grafica (angolazioni/arrotondamenti, allungamenti) e gli elementi aggiunti (lette-
52 II,6. LA NASCITA DELLA SCRITTURA MUSICALE
a 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12
Virga punctum et tractulus clivia pes porrectus torculus climacus scandicus porrectus flexus pes subbipunctis scandicus flexus torculus resupinus
13 apostropha 14 distropha 15 tristropha 16 17 18 19 20 21 22 23 24
tigon bivirga et trivirga pressus virga strata oriscus salicus pes quassus quilisma pes stratus
Grafie indicanti una particolarita d’ordine
Grafie differenziate per
b
di episemi
c
del disegno
di raggruppam. (stacco)
d
e
melodico
fonetico Liquescenza aument. diminut.
f
g
h
5
3, 4, 5. San Gallo, nata dalla missione dei monaci celti in Europa, divenne nel IX secolo una vera città monastica. La sua stessa topografia fu idealizzata come attuazione della regula mixta, quella cioè III,16. che con varie fusioni rinnovava lo spirito di Benedetto. 4 L’abbazia può essere considerata uno degli alti luoghi di trasmissione del sapere nel Medioevo, delle arti liberali, della teologia e delle scienze: scriptorium, biblioteca, scuole, ospedale, luoghi di ricerche mediche e botaniche. In un’epoca in cui le città erano poco sviluppate, solo nelle fondazioni monastiche era possibile una istruzione complessa e San Gallo, con le sue scuole rivolte sia all’interno che all’esterno del monastero, fu fondamentale nel mondo carolingio, ottoniano e seguente. (3) Il monaco Luitherus, intorno al 1135, dedica a san Gallo l’antifonario che ha terminato di redigere e miniare. Cod. Sang. 375, f. 235, Stiftsbibliothek, San Gallo. (4) Cantatorium realizzato sotto l’abate sangallese Hartmanno (922-925). Cod. Sang. 359, ff. 24, 25, Stiftsbibliothek, San Gallo. (5) Tavola dei neumi di San Gallo secondo la classificazione di Eugène Cardine. Si tratta di una classificazione esemplare, che dà conto della varietà e della ricchezza espressiva della notazione sangallese.
6. Notazione quadrata su tetragramma. Antifonario di Beaupré, 1290 ca. W 759, f. 3v, Walters Art Gallery, Baltimora. L’iniziale A è decorata con la scena della Resurrezione di Cristo e delle tre Marie dopo la Resurrezione.
rine ed episemi) che intervengono sul segno di base, dai più semplici posti in alto alle fogge più intricate, e sempre per aiutare a ricordare i vari punti della libera flessibilità ritmica della melodia e, secondariamente, per fornire accenni sulle altezze dei suoni. L’approdo alla notazione quadrata Già nella prima metà dell’XI secolo sono a buon punto le trasformazioni della prima notazione neumatica, che va assumendo forme grafiche sempre più adatte ad un sistema di righe e spazi. Vi sono aree come la sangallese in cui perdureranno gli usi adiastematici, mentre in generale i centri scrittori sperimenteranno «in ordine sparso» le nuove modalità di transizione, le quali troveranno criteri applicativi più uniformi mediante ingegnose sintesi attribuibili soprattutto a Guido d’Arezzo: diminuisce il numero delle linee musicali, tirate a secco e/o tracciate ad inchioV,3. stro, evidenziandosi con diversi colori quelle della nota d’arrivo 4-5 semitonale, punto critico per l’intonazione (la «corda» di Fa in rosso e quella di Do in giallo o talora in verde). Nel XII secolo questa metamorfosi si preciserà definitivamente nella cosiddetta notazione quadrata su tetragramma, grazie alla quale l’altezza dei suoni sarà leggibile inequivocabilmente. Abbiamo a che fare con una notazione standardizzata, che «traslittera» i neu-
6
mi antichi in forme quadrate con o senza coda e romboidali, poste su rigo musicale tetrastico dotato di chiave (Do e Fa non in posizione fissa). La perfezione diastematica di questa grafia geometrizzante fu un traguardo formidabile, soprattutto in prospettiva di quella polifonia complessa che sarebbe divenuta vessillo della musica colta europea e che sulla base della quadrata avrebbe svolto i primi tentativi di mensuralizzazione. Quanto al patrimonio gregoriano, è la quadrata che lo ha reso decifrabile, facendolo arrivare ai nostri giorni. Tuttavia, in quella stessa quadrata non rimaneva nessuna delle tracce interpretative contenute nei neumi precedenti, sintomo di un cedimento anche estetico-spirituale, dovuto soprattutto all’impervio confronto con le progressive fortune polifoniche. Dal XIII-XIV secolo, l’antica monodia sacra, custodita in quei neumi che nessuno era più in grado di riconoscere, sarebbe stata via via «rivestita» secondo i criteri di ricezione-rielaborazione delle varie epoche, portando alle marcate divergenze postridentine (si veda l’Editio medicea, 1614) o alle notazioni proporzionali del canto fratto. Furono le ricerche paleografiche dei monaci di Solesmes da metà del XIX secolo a decrittare e far rivivere le grafie in campo aperto, fino alle «visioni» della Semiologia gregoriana (1968) di Eugène Cardine, ultima e insuperata chiave di lettura, la più preziosa, della segreta spiritualità vocale carolingia così ancora pulsante all’inizio del terzo millennio.
II,6. LA NASCITA DELLA SCRITTURA MUSICALE
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II,7. ICONOGRAFIA MUSICALE BIZANTINA Tilman Seebass
L’iconografia musicale bizantina ha un grande significato per il Medioevo europeo, perché in Oriente le idee e le forme di vita della tarda antichità sopravvissero più a lungo che in Occidente. Bisanzio, dopo la Spagna, fu il crocevia da cui passarono le acquisizioni orientali in campo musicale. La musica di corte a Costantinopoli raggiunse uno splendore con cui, fino al tardo Medioevo, l’Occidente non poté assolutamente competere. Tra i documenti e le fonti più significativi ci sono i rilievi scultorei a contenuto musicale sull’obelisco dell’ippodromo costruito nell’anno 390 per volere dell’imperatore Teodosio. Le raffigurazioni musicali formano un unico fregio al di sotto del bassorilievo in cui appaiono l’imperatore con la sua corte e gli spettatori. Nella scena d’insieme risalta la presenza dell’imperatore nel circo-ippodromo, dove non si svolgevano soltanto gare, ma anche cerimonie di vario genere; sul piano simbolico si esalta l’onnipotenza del sovrano, nella cui persona il potere temporale e quello religioso si uniscono (cesaropapismo). Possiamo vedere come organi pneumatici, cim-
bali montati su bacchette (una forcella di canna sulle cui estremità sono montati piccoli piatti metallici che, quando la forcella viene scossa, tintinnano), nonché flauti di Pan, auloi doppi e trombe, si confacessero alle esecuzioni musicali nei cerimoniali di corte. Occasioni per il coinvolgimento di tali strumenti erano le corse coi carri, le esibizioni acrobatiche e la distribuzione delle corone per la premiazione dei vincitori. Gli strumenti erano impiegati anche per i segnali e per accompagnare gli intermezzi di danza. Secondo i testi del tempo, a corte si potevano ascoltare organi pneumaticoidraulici e strumenti a corda. Il nostro fregio, anche se non ha pretese di completezza, raggruppa insieme una selezione di strumenti particolarmente sonori: due organi, tre danzatrici e suonatrici di cimbali, e gli altri strumenti ciascuno in un solo esemplare. Per lo scultore il principio guida era la varietà, non la riproduzione di un gruppo musicale concreto. Un po’ più tardi, ossia verso il 500, fu realizzato un dittico d’avorio per l’imperatore Anastasio I; anch’esso è dedicato all’iconografia 1
1a
1, 1a. Basamento dell’obelisco dell’ippodromo di Costantinopoli (390 d.C.). Nel fregio, sotto la corte dell’imperatore Teodosio che presenzia ad una manifestazione, scena di musica e danza.
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(1a) Disegno della fascia inferiore del fregio teodosiano. (Disegno di D. Blandino). 2. Cattedrale di Santa Sofia a Kiev, attuale Ucraina. La prima cattedrale della Russia originaria, la Rus’, fu affrescata tra il XII e il XIII secolo. Nell’immagine, la partenza della scala della torre sud; l’affresco della parte bassa mostra dei musicisti appartenenti alla corte reale. 3. Corona imperiale di Costantino Monomaco, XI secolo. Museo Archeologico di Budapest.
dell’imperatore e, nella parte inferiore, racchiude cavalli per la corsa coi carri, un organo idraulico, un acrobata con le palline, quattro ragazzi e due adulti (forse in coro), e un suonatore di flauto di Pan. Si hanno poche prove del fatto che il cerimoniale di corte con giochi circensi sia rimasto invariato fino al XII secolo (per ben 800 anni!). Appare davvero straordinaria la somiglianza delle scene dell’ippodromo con quelle degli affreschi di Santa Sofia a Kiev, sulla scalinata della torre sud, datati fra il 1113 e il 1225. Il ciclo comincia con la rappresentazione della corte reale, poi vi sono cavalli che galoppano verso la scala trascinando un carro, seguono i musicisti: i due che azionano l’organo pneumatico (gli schiacciamantici) e il suonatore dello stesso; quindi, in due file sovrapposte, un suonatore di flauto traverso e due di tromba e, sotto, un suonatore di uno strumento a corda simile al liuto e alla cetra. Altri due musicisti 2
suonano forse piatti e piccoli timpani, ma restauri e danni precedenti rendono l’identificazione delle figure solo ipotetica. All’estremità destra si può vedere un acrobata con i trampoli, sui quali si arrampica un secondo acrobata. In altri punti si vede un suonatore di viella e danzatori. Le scale erano accessibili solo dall’esterIV,15. no, in modo da permettere alla famiglia reale di accedere non vista 5 alle tribune, da cui poteva presenziare alle funzioni religiose. Possiamo riscontrare che, per quanto riguarda la loro tipologia, parecchi strumenti sono rimasti uguali o simili. A quel tempo non esistevano certamente più da molto tempo i cimbali montati su bacchette, sostituiti ad esempio dai cimbali a percussione reciproca utilizzati nelle corti persiane e arabe; anche l’aulos è scomparso, ma sopravvive nel nome, che viene utilizzato per il flauto traverso importato dall’Oriente. L’Oriente ha una vasta cultura in fatto di percussioni, con il tamburo a cornice, i doppi tamburi cilindrici, i tamburi a clessidra e i piccoli timpani. Sono nuovi invece diversi strumenti a corda, a pizzico e ad arco, che sostituiscono la lyra e la kithara. L’arco si diffonde verso la fine del primo millennio dall’Asia centrale lungo la Via della Seta verso est e verso ovest. L’antico nome lyra sarà utilizzato per indicare il liuto ad arco. Non soltanto in pubblico, ma anche negli intrattenimenti privati a corte, la musica doveva occupare un ruolo molto rilevante. Su una corona imperiale di Costantino Monomaco del secolo XI, formata da sette lamine d’oro con inserti in smalto, sono raffigurati l’imperatore e due imperatrici, due splendide danzatrici e due allegorie in figura di donna. Per il periodo più tardo abbiamo come documentazione una coppa d’avorio tornito e intagliato (Washington DC, Dumbarton Oaks). Vi si trovano due famiglie reali, e musicisti con tamburi, aerofoni, trombe, forse delle arpe e uno strumento non identificabile, oltre a due danzatrici. Si può supporre che la pratica del far musica alla corte bizantina sia durata tanto a lungo perché era in fruttuosa competizione con le corti persiane e arabe. Queste ultime costituivano un modello sia in Oriente che in
II,7. ICONOGRAFIA MUSICALE BIZANTINA
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Occidente per la loro favolosa ricchezza di strumenti a corda e la leggiadria delle danze. Le danza effettuata da donne con lunghe maniche e veli era una delle forme d’arte sviluppate in comune a Bisanzio e in Medio Oriente, perché danze di corte simili si ritrovano raffigurate lungo la Via della Seta, da Bisanzio alla Cina! Un po’ diversamente si svolge la storia delle rappresentazioni a contenuto musicale nelle illustrazioni dei manoscritti. Queste appartengono per lo più all’iconografia religiosa dei salteri e delle raccolte di sermoni di Gregorio Nazianzeno. Per quel che riguarda IV,15. il nostro tema, nulla è rimasto del periodo in cui le immagini erano 4 proibite. Fortunatamente, per il periodo seguente, dal IX secolo, è invece rimasto molto. Gli storici dell’arte distinguono fra miniature che accompagnano alcuni passaggi del testo e sono messe a margine della pagina (miniature di fattura monastica), e immagini che occupano l’intera pagina, che riassumono e interpretano gli avvenimenti più importanti (miniature di esecuzione aristocratica). 4
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Come è facile aspettarsi, in entrambi i casi i due temi più usati sono quello di Davide nella veste di musico che crea la liturgia struIII,10. mentale nel Tempio, e quello di Miriam, la sacerdotessa e profetes- 5 sa che canta un inno acclamatorio con le donne israelite, e danza e suona cimbali e tamburo. Tamburelli senza sonagli e cimbali a percussione reciproca si trovano anche in altri punti della Bibbia: l’entrata di Davide a Gerusalemme, il benvenuto dato dalla figlia di Jephta al ritorno del padre, ecc. Tali strumenti sono rimasti fino ai nostri giorni fra quelli suonati dalle donne in area giudeo-araba. I Bizantini, invece, sembrano aver introdotto il tamburo a clessidra e, al posto dei cimbali, le campanelle a mano, come dimostrano due famosi salteri monastici dei secoli IX-X. La pratica musicale si emancipa ancora di più dai modelli biblici nell’XI secolo. Questo è evidenziato nel modo più chiaro nell’illustrazione a piena pagina inserita tra la fine del Libro dei Salmi e il Libro delle Odi nel Salterio Roma 752. Il miniaturista deve aver preso come modello i cerimoniali che si svolgevano alla corte dell’imperatore e raffigura in cerchio esterno una danza di dame, vestite con abiti e copricapi sfarzosi, che intonano il secondo cantico, quello che nel Libro dell’Esodo cantano Miriam e le sue compagne dopo l’attraversamento del Mar Rosso. Il cerchio racchiude una immagine di otto musicisti che rappresentano l’insieme degli otto modi ecclesiastici (Oktoechos) e sono stati stabiliti da Davide come musici del Tempio. Essi suonano, o tengono in mano, una viella, grandi cimbali a percussione reciproca, forse un rotolo scritto, un salterio triangolare, uno strumento a fiato, un tamburo, un flauto e in mezzo forse un salterio quadrato. Non è facile riconoscere la cassa del salterio, per cui anche l’ipotesi che possa trattarsi di un’arpa potrebbe non essere scorretta. Simbolicamente, l’immagine rappresenta il corpus di 13 canti e 150 salmi, il cui tema principale è la lode di Dio. Lo chiariscono le scritte tutt’attorno. A causa dei colori sbiaditi, dobbiamo cercare di identificare gli strumenti osservando altre miniature sullo stesso soggetto presenti nella prefazione e in altri salmi. Per mezzo delle immagini di questo salterio la nostra conoscenza della musica presso la corte di Costantinopoli si amplia notevolmente. La viella e il salterio (cetra a cassa), triangolare e quadrato, furono influenzati dall’Oriente. Al contrario, mancano le arpe e i liuti, che compaiono in altri manoscritti. L’organo e la tromba non sono presenti perché questi strumenti erano impiegati per le acclamazioni o per segnalare momenti particolari, e non insieme agli altri strumenti. A causa della continua perdita di potere e del definitivo declino dell’Impero bizantino, si estingue anche la produzione di manoscritti greci; sopravvive ancora un po’ più a lungo soltanto nel ramo bizantino-slavo. Al contrario, l’arte pittorica nelle chiese si sviluppa in tutta la zona ortodossa dei Balcani fino alla Romania. E qui si può osservare come la musica di corte si provincializzi e venga influenzata dalla musica popolare. Compare anche un nuovo motivo pittorico nel quale questo sviluppo si fa chiaro: il «Cristo deriso» durante la Passione. Lo strumentario diventa più semplice e assorbe la musica ottomana, includendo i nuovi strumenti: il davul (tamburo turco) e la zurna (oboe turco). L’influenza che la Bisanzio imperiale aveva avuto sull’Occidente sta ormai declinando. I nuovi sviluppi della cultura popolare ottomana non interessano l’Occidente e si espandono solamente nelle regioni dei Balcani, che si trovano sotto il controllo ottomano.
III,10.6
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4. Particolare di una miniatura da un salterio monastico del X secolo in cui si notano i tamburi a clessidra. Ms. Pantokratoros 61, f. 85, Monte Athos. 5. Re Davide guida la liturgia nel Tempio. Miniatura del Salterio di Chloudov, XIII secolo, Novgorod. Ms. Chloudov 3, GIM, Mosca. 6. Danza di Miriam. Particolare dal Salterio Barberini, XI secolo. Miriam accompagna la sua danza con due campanelle a mano, invece dei cimbali montati su bacchette come hanno le danzatrici nel fregio dell’ippodromo. Ms. Barb. gr. 372, f. 249, Biblioteca Apostolica Vaticana. 7. Miniatura a piena pagina dal Salterio Roma 752, del 1059 ca. Ms. Vat. gr. 752, f. 449v, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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II,7. ICONOGRAFIA MUSICALE BIZANTINA
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III,1
II,8. CANTARE LA PAROLA: LA CANTILLAZIONE DELLE SACRE SCRITTURE Sandra Martani
1
1. L’edificio sacro, con la sua architettura, non è un semplice contenitore della liturgia, ma ogni elemento (spazio, pittura, arredi) è funzionale alla celebrazione stessa. La verticalità orienta dal cielo alla terra. I cicli iconografici, già nella loro disposizione spaziale, guidano nella comprensione della storia della salvezza. La Parola, il Verbo, si è fatta carne e le immagini sono anzitutto l’espressione del mistero incarnato. La cupola, nel suo punto più alto, è dedicata a Cristo, i pennacchi agli evangelisti che hanno trasmesso la Parola. In questa immagine si nota, in basso sull’arco posteriore che sostiene la cupola, quello visibile dai fedeli, il Mandylion, ossia l’immagine acheropita (non fatta da mano d’uomo) su cui Cristo avrebbe impresso il suo volto. La tradizione bizantina vuole che Cristo lo inviò al re di Edessa che lo aveva implorato di recarsi da lui per guarirlo. Questa è la prima icona, modello per tutte le altre. Il Verbo, incarnandosi, si mostra quale amico degli uomini, che possono pregustare la visione volto nel volto. Monastero serbo di Morača. 1251-1252.
Una delle caratteristiche del rito bizantino è l’intima compenetrazione tra simbolismo liturgico (la celebrazione rituale), contesto liturgico (architettura e iconografia) e interpretazione liturgica (mistagogia); la Chiesa crea un’arte che si serve di immagini e forme prese dal mondo materiale per trasmettere la rivelazione del mondo divino. Architettura, pittura, musica, poesia cessano di essere forme d’arte indipendenti e diventano strumenti della conoscenza di Dio, funzionali all’unità della celebrazione liturgica, esprimendo, ciascuna nel proprio ambito, una sola e medesima realtà. L’ascolto della Parola di Dio costituisce uno degli elementi centrali della liturgia anche se, nel corso dell’evoluzione del rito bizantino, il ruolo delle Sacre Scritture è stato ridotto a vantaggio di nuovi testi poetici come troparia, kontakia, kanones. La Parola però non è mai semplicemente letta, le pericopi bibliche, come anche le preghiere, sono cantillate secondo le regole
58 II,8. CANTARE LA PAROLA
della lectio solemnis. Attraverso il canto il testo acquisisce una diversa forza e profondità non soltanto per trasmettere una conoscenza intellettuale, ma per risvegliare l’anima all’amore delle realtà celesti, mettendo in movimento colui che ascolta e facendolo partecipare alla vita spirituale per mezzo della melodia e del ritmo. Per questo la proclamazione solenne della Parola all’interno del contesto liturgico produce effetti differenti da quelli della lettura privata, provocando un totale coinvolgimento dei fedeli; già gli scritti di Giovanni Crisostomo1 (340/350-407) ed Egeria2 (ca. 400 d.C.) testimoniano di reazioni con gesti, esclamazioni e gemiti. La liturgia infatti è sempre stata concepita come un’azione di tutti i fedeli, dove non esistono spettatori ma tutti sono partecipanti attivi, come scrivono fra gli altri Giovanni Crisostomo e Nicola Cabasilas (1322/3-dopo il 1391).