ATLANTE STORICO DELLA LITURGIA
Keith F. Pecklers, S.J.
ATLANTE STORICO DELLA LITURGIA A Rowan, arcivescovo di Canterbury, la cui guida e il cui ministero di forza, di amore e di saggezza sono un dono per tutte le Chiese
Postfazione di Inos Biffi
LIBRERIA EDITRICE VATICANA
INDICE
Copyright © 2012 Editoriale Jaca Book SpA, Milano Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana Settembre 2012 Traduzione dall’inglese Carlo Dezzuto Copertina e grafica Ufficio grafico Jaca Book
1. CHE COS’È LA LITURGIA?
6
30. PAPA PIO XII E IL RINNOVAMENTO LITURGICO
170
2. LE ORIGINI DEL CULTO CRISTIANO
12
31. IL CONGRESSO LITURGICO DI ASSISI DEL 1956
172
3. LA LITURGIA IN ETÀ APOSTOLICA
18
32. LA COMMISSIONE PREPARATORIA CONCILIARE
174
4. ADATTAMENTO CULTURALE NEL MONDO In copertina: Evangeliario di Bernward (960-1022), vescovo di Hildesheim, 1011. Dom- und Diözesanmuseum, Hildesheim. Retro di copertina: Le Corbusier, convento di La Tourette a Éveux-sur-l’Arbresle, interno della cappella ipogea, 1957. CREDITI FOTOGRAFICI (il numero fuori parentesi indica la pagina, quelli tra parentesi le illustrazioni) Andre Held: 35 (3), 40 (6); Angelo Stabin: 182 (1), 183 (2), 233 (2), 242 (8); Archivio Centro Studi per la Cultura Popolare, Bologna: 209 (4-7), 212 (13-16), 214 (20-22), 215 (25-27), 216 (29, 30), 217 (31); Archivio Fotografico dei Musei Vaticani © Musei Vaticani: 7 (4-6), 48 (12), 123 (4); Archivio Nigrizia: 189 (6, 7), 249 (8); BAMS photo Rodella: 14 (7), 15 (9), 21 (7), 26 (10), 27 (12), 51 (4, 5), 54 (10), 69 (6), 72 (12), 163 (16-18), 192 (10), 194 (9), 195 (11), 204 (16-18), 205 (19), 211 (11), 232 (1), 252 (4); Eric Davanzo: 195 (12); Didier Boy de La Tour: 185 (3); Matteo Di Michele: 193 (7, 8); Les Éditions du Cerf: 196 (13-16), 197 (17); Jon Erikson: 248 (6); Luca Mozzati: 73 (15); Periodici San Paolo, Alessia Giuliani: 171 (4), 253 (7, 8); Periodici San Paolo, Barontini/Giuliani: 175 (2); Periodici San Paolo, Enrico Belluschi: 225 (12); Periodici San Paolo, Giancarlo Giuliani: 186 (1), 187 (2), 188 (4), 189 (5), 220 (5), 221 (7, 8), 222 (9), 250 (1), 251 (2, 3), 252 (5), 253 (6), 177 (1), 178 (2); Periodici San Paolo, Nino Leto: 243 (11, 12); Mahmoud Zibawi: 231 (7); Maria Cabrera Vergara: 192 (4-6); Westminster Abbey: 223 (10, 11). Tra le immagini dell’Archivio Jaca Book segnaliamo: Arnaldo Vescovo/Jaca Book: 29 (3, 4), 30 (7, 8), 31 (10, 11), 33 (15), 34 (2), 36-37 (4), 46-47 (7), 47 (11), 80 (9), 82 (2, 3), 83 (4), 100 (5); BAMS photo Rodella/Jaca Book: 20 (4), 53 (9), 110 (1-3), 111 (4-7), 120 (1), 133 (5), 138 (1), 139 (3, 6), 142 (12, 13), 143 (15), 206 (1), 210 (9), 211 (12). Le altre immagini non menzionate appartengono all’Archivio Jaca Book. © Le Corbusier by SIAE 2012 © Succession H. Matisse by SIAE 2012 Stampa e confezione Grafiche Flaminia, Foligno (Pg) Selezione delle immagini e composizione Graphic srl, Milano ISBN 978-88-16-60464-3 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book SpA, Servizio Lettori via Frua 11, 20126 Milano Tel. 02.48561520/29 – Fax. 02.48193361 Email: serviziolettori@jacabook.it Internet: www.jacabook.it
GRECO-ROMANO
33. SACROSANCTUM CONCILIUM: LA COSTITUZIONE 22
5. DOMUS ECCLESIAE: UNA CASA PER LA CHIESA
28
6. FONTI LITURGICHE DELL’EPOCA PATRISTICA
34
7. LA PREGHIERA QUOTIDIANA NELLA CHIESA PRIMITIVA
38
8. LA LEGALIZZAZIONE DEL CRISTIANESIMO E IL CULTO PUBBLICO
9. LA LITURGIA NELLA GERUSALEMME DEL IV SECOLO
11. ORIGINI DELL’ANNO LITURGICO CHIESE ORIENTALI ANTICHE
180
DELLE RIFORME LITURGICHE
35. L’ASSEMBLEA LITURGICA NELLA CHIESA 182 184
50
37. L’INCULTURAZIONE LITURGICA
186
38. ARTE, ARCHITETTURA E MUSICA LITURGICHE 56 60
DOPO IL
CONCILIO VATICANO II
39. VESTI E OGGETTI LITURGICI
190 198
40. LITURGIA E PIETÀ POPOLARE IN UNA CHIESA 66 76
14. IL «GENIO» DEL RITO ROMANO
82
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE
86
16. L’EVOLUZIONE DEI LIBRI LITURGICI
98
17. LA CENTRALIZZAZIONE LITURGICA MEDIEVALE
104
18. ARCHITETTURA LITURGICA ROMANICA E GOTICA
110
19. IL RITO ROMANO IBRIDO E LE RIFORME DI PAPA 116
20. LA PIETÀ POPOLARE MEDIEVALE E LO SVILUPPO DELLA DEVOZIONE EUCARISTICA
34. IL CONSILIUM INTERNAZIONALE E L’ATTUAZIONE
36. LA RIFORMA DELL’ANNO LITURGICO
13. LA LITURGIA STAZIONALE
GREGORIO VII
176
44
12. VARIETÀ LITURGICA NELLE
SACRA LITURGIA DEL CONCILIO VATICANO II
POSTCONCILIARE
10. L’EVOLUZIONE DEL CATECUMENATO E DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA
SULLA
206
MULTICULTURALE
41. LA COOPERAZIONE LITURGICA ECUMENICA: 218
UNO SCAMBIO DI DONI
42. EDUCAZIONE ALLA LITURGIA E FORMAZIONE 224
DEI MINISTRI LITURGICI
43. LA PREDICAZIONE LITURGICA: LA SACRAMENTALITÀ DELLA
PAROLA
228
44. DOCUMENTI POSTCONCILIARI SULLA SACRA LITURGIA
232
45. LA TRADUZIONE DEI TESTI LITURGICI
234
46. IL RECUPERO DEL TRASCENDENTE 120
NEL CULTO CATTOLICO
21. LA RIFORMA DEL XVI SECOLO
126
47. LA FORMA STRAORDINARIA DEL RITO ROMANO
22. IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563)
132
48. IL CULTO CRISTIANO E LE SFIDE DELLA
23. LITURGIA, ARTE E ARCHITETTURA
GLOBALIZZAZIONE E DELLA POSTMODERNITÀ
236 238 240
138
49. LITURGIA E MISSIONE
244
24. IL CULTO CATTOLICO NELL’ILLUMINISMO
146
50. LA LITURGIA E IL FUTURO DEL CRISTIANESIMO
250
25. IL XIX SECOLO
150
26. FONDAMENTI TEOLOGICI DEL MOVIMENTO LITURGICO
154
ESTETICA LITURGICA, di Inos Biffi
254
27. IL MOVIMENTO LITURGICO DEL XX SECOLO
156 BIBLIOGRAFIA
256
INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI
257
NELL’EPOCA BAROCCA
28. IL MOVIMENTO LITURGICO NELLE CHIESE ANGLICANA E PROTESTANTE
29. IL MOVIMENTO A FAVORE DELLA LINGUA CORRENTE
164 166
5
1. CHE
1. CHE
COS’È LA LITURGIA?
COS’È LA LITURGIA? 4
1. Scena di sacrificio che si svolge lungo la base di una delle colonne del monumento in onore dei Tetrarchi, inizio del IV secolo. Foro Romano, Roma. 2. Il Tempio di Salomone, affresco della sinagoga di Dura Europos, Siria, III secolo. Museo Nazionale di Damasco. 3. Il sacrificio dell’incenso, pittura murale del tempio degli dei palmireni di Dura Europos, I secolo. Museo Nazionale di Damasco. 4-6. Particolari della tavola del Giudizio Universale, Pinacoteca Vaticana, Musei Vaticani. Verso Cristo, raffigurato con le braccia alzate e verso l’altare (4) con gli strumenti della passione, convergono con lo sguardo la Madonna, santo Stefano con la palma del martirio, e i santi innocenti (5), mentre alcuni chierici si prodigano nelle opere di misericordia: dar da bere agli assetati, visitare i carcerati, vestire gli ignudi (6).
1 5 2
6
3
La parola greca antica leitourgia ci dà già alcune indicazioni sul perché la Chiesa delle origini scelse questa espressione come mezzo adatto a indicare che cosa fanno i cristiani quando si radunano per offrire preghiere e ringraziamenti a Dio. Letteralmente, essa significa «lavoro», oppure «servizio» (ergon) e contiene un riferimento al popolo (leitos). Nel mondo secolare greco-romano, la liturgia era identificata sia con progetti comuni e pubblici, fatti per il bene della comunità, sia con il particolare ufficio pubblico in cui si poteva essere coinvolti. Gradualmente, nella società greca, il termine venne collegato con vari tipi di servizio: atti di gentilezza verso un amico o un vicino, o anche doveri compiuti dagli schiavi per i padroni. Ma solo nel II secolo il termine venne associato al culto cristiano. Questo termine secolare, che possiamo paragonare a un servizio pubblico, era usato anche nell’ebraismo antico, ma in un senso più ristretto. 6
Tuttavia, il termine appare 170 volte nei Settanta (la versione greca delle Scritture ebraiche), come un modo per descrivere i rituali religiosi offerti dai sacerdoti. Forse fu impiegato perché sembrava il modo più appropriato per descrivere una funzione ufficiale o un atto compiuto dai capi religiosi a nome del popolo. «Liturgia» appare molto meno di frequente nel Nuovo Testamento, appena 15 volte e con un uso più vario: in Rm 13,6, per esempio, per descrivere una funzione civica o i servitori pubblici, mentre due capitoli oltre, in Rm 15,6, per parlare dei cristiani che offrono se stessi come vittime spirituali. In Eb 8,2 si riferisce all’offerta sacrificale di Cristo sulla croce; in At 13,2 alle celebrazioni rituali della comunità cristiana di Antiochia. Questa terminologia varia potrebbe sorprenderci in special modo dal momento che il culto cristiano derivò da strutture rituali preesistenti. Che abbiano adottato pratiche ebraiche o quelle delle antiche religioni mediterranee (come il
culto di Mitra), i cristiani diedero un’interpretazione nuova a quei rituali e atti, secondo i loro scopi. L’uso della parola «liturgia» nei testi cristiani offre in verità un esempio antichissimo di quella che in seguito sarà chiamata «inculturazione liturgica»: la presa in prestito di un termine, di un concetto o di un simbolo esterno al contesto cristiano, per reinterpretarlo. Gradualmente, «liturgia» venne a significare sia il servizio a Dio, sia il servizio della comunità, offrendo così un indizio antico per comprendere la relazione integrale fra liturgia e carità cristiana, ossia quello che diventerà più avanti la relazione fra liturgia e missione: il servizio della Parola di Dio. Dal IV secolo, i cristiani orientali usarono il termine esclusivamente in riferimento all’Eucaristia («la divina liturgia»), come si continua a fare oggi. Lo possiamo vedere, per esempio, nelle liturgie di san Basilio Magno, di san Giovanni Crisostomo e di san Marco. In Occidente, termini come opus 7
1. CHE
COS’È LA LITURGIA?
1. CHE
7. Liturgia di Basilio il Grande, Patmos, manoscritto della seconda metà del XII secolo. Intestazione recante la rappresentazione di una chiesa con le figure della Vergine, di Basilio il Grande e di due diaconi.
COS’È LA LITURGIA?
10
8. Orante, decorazione pittorica sulle pareti dell’oratorio sotto la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, Roma. 9. Vendemmiatore, particolare del mosaico pavimentale del IV secolo della chiesa inferiore di Kaianos, ‘Uyum Musa, Monte Nebo, Giordania. 10. Consacrazione del cero, Exultet del 1136 ca., Fondi. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
9 7
11. La Samaritana al pozzo e Miracolo del cieco nato, scene legate al simbolo dell’acqua dall’Exultet del 10591071, Capua. Museo dell’Opera del Duomo, Pisa.
8 11
Dei o «ufficio divino» vennero usati al posto di «liturgia» fino al XVI secolo, quando quest’ultimo fu introdotto nel vocabolario della Chiesa occidentale grazie all’influenza degli umanisti. Esso fu adottato da alcune chiese della Riforma nel XVII secolo e introdotto nella letteratura cattolica occidentale nel XVIII dalla prima generazione di studiosi della liturgia, che usarono il termine per parlare dei sacramenti cristiani. Tuttavia, fu solo sotto il pontificato di Gregorio XVI († 1846) che il termine fu usato ufficialmente nei documenti della Chiesa romana. In seguito, esso apparve nel Codice di Diritto Canonico del 1917, dove si affermava che la Santa Sede era responsabile sia dell’ordinamento della liturgia della Chiesa, sia dell’approvazione dei suoi libri liturgici (can. 1257). Nel XX secolo, grazie all’uso del termine nel movimento liturgico, «liturgia» divenne un termine più normativo nel vocabolario ecclesiale occidentale. Nel 1947, con la promulgazione della Mediator Dei di Pio XII (la prima enciclica papale sulla liturgia), il termine venne definito come «il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre, come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all’Eterno Padre: è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra». Al Concilio Vaticano II (1962-1965) la definizione di «liturgia» divenne più sistematica: «il culto pubblico integrale è 8
esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra» (Sacrosanctum Concilium, n. 7). Viene inoltre descritto lo scopo della liturgia, come glorificazione perfetta di Dio e santificazione dell’assemblea liturgica. Questa santificazione ha luogo ed è significata da segni che i sensi umani possono percepire. Segni e simboli includono gesti familiari, come il segno di croce, l’antico gesto dell’orans che prega con le braccia distese, o l’imposizione delle mani da parte del ministro liturgico nelle ordinazioni, nelle unzioni e nelle celebrazioni del sacramento della Riconciliazione (Penitenza). Sono inclusi anche i simboli della terra: pane e vino, olio, acqua e fuoco. In tutti questi segni e simboli si incontra la presenza di Cristo. Perciò, anche prima di giungere a incontrarla nella Sacra Scrittura o nel pane e nel vino che verranno offerti nella preghiera eucaristica, la presenza di Cristo è riconoscibile nell’assemblea liturgica, considerata il simbolo liturgico primario, il corpo mistico di Cristo riunito nella lode e per il culto a Dio. Il Codice di Diritto Canonico del 1983 afferma che la liturgia è sia l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo, che santifica tutto il popolo, sia il culto pubblico che viene svolto dal corpo mistico di Cristo (can. 834). Tutto ciò ci invita a riflettere sulle funzioni rituali, sul ruolo del non-verbale, sull’uso del silenzio e sui modi in cui usiamo il corpo durante il culto. In questo, la Chiesa è stata grandemente aiutata dalle scoperte del XX secolo nelle scienze sociali – ciò che la disciplina liturgica può appren-
dere dall’antropologia, dalla psicologia, dalla semiotica e dalla sociologia. Gli sviluppi di fine XX secolo, nell’area di quelli che ora vengono chiamati «studi rituali», diedero un ulteriore contributo nell’aiutare gli studiosi a comprendere come funziona la liturgia e come essa porti i credenti all’incontro con il trascendente. Bisogna dire qui che i cristiani d’Oriente sono ben più avanti degli occidentali nell’uso del corpo, con le loro numerose processioni e prostrazioni, così come in un uso più pieno dei simboli che aprono i fedeli al mistico e al trascendente. Le tradizioni liturgiche orientali sono spesso state descritte in realtà come un’esperienza di «cielo in terra». Per contro, i cristiani occidentali lungo i secoli hanno spesso accostato il culto cristiano in modo più cerebrale e meno corporale, il che può facilmente indebolire il potere simbolico della liturgia e impedire la possibilità dell’assemblea liturgica di incontrare il Dio trino e uno in spirito e verità. Ciò è stato particolarmente evidente nella liturgia romana postconciliare della fine del XX secolo, con un uso eccessivo lungo la liturgia di commenti che spiegano i vari aspetti del rito. Sebbene l’intento fosse quello di una maggiore intelligibilità – aiutare il popolo a comprendere e a capire meglio –, ciò è d’altro canto avvenuto a detrimento della funzionalità rituale liturgica. Infine, la liturgia è a nostro favore: essa è anzitutto e soprattutto un dono di Dio alla Chiesa, avendo come soggetto
1. CHE
COS’È LA LITURGIA?
1. CHE
12
agente della liturgia Cristo stesso – l’unico competente a portare a Dio il nostro lavoro, cosicché il popolo possa essere santificato. In quanto membri dell’assemblea liturgica, noi rispondiamo al dono con la nostra partecipazione all’azione liturgica, ma l’iniziativa è puramente di Dio, che primo ci raduna in santa assemblea. L’iniziativa di Dio e la nostra risposta formano la natura dialogica di ogni liturgia cristiana, che si estende oltre i nostri luoghi di culto e anche oltre la Chiesa, per abbracciare il mondo intero. In tal modo, il culto cristiano imita il percorso della nostra salvezza, che è cominciato con l’iniziativa di Dio e ha generato la nostra risposta, sia individuale, sia comunitaria. E la liturgia cristiana è anche dossologica nel suo essere dialogica, perché la Chiesa prega il Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo. Al loro fondamento, liturgia e dottrina sono sostanzialmente intrecciate, tramite la mediazione del dogma della Chiesa. «Gesù è il Signore» è un’acclamazione, ma anche un asserto di fede. In quanto culto pubblico della Chiesa, la liturgia cristiana per sua propria natura è sia evangelica – indirizzata alla missione –, sia escatologica – guarda al regno di Dio che viene. Questo morire e risorgere è portato a Cristo nella liturgia, e Cristo lo porta a Dio, mentre la comunità cristiana viene guarita e trasformata. Il Concilio Vaticano II afferma chiaramente che la liturgia è culmine e fonte della vita della Chiesa (Sacrosanctum Concilium, n. 10), offrendo una chiara indicazione della relazione intrinseca fra liturgia e vita. Prima del Concilio Vaticano II era sentire comune che bisognasse lasciare il mondo per un’ora ogni settimana ed entrare nella tranquillità di una chiesa per il culto domenicale, e poi tornare alle fatiche della vita quotidiana. Ma il Concilio ci ha ricordato che, quando la comunità cristiana 10
COS’È LA LITURGIA? 13
14
12-13. La liturgia degli Angeli, particolare degli affreschi del XVI secolo del monastero di Philanthropinon, nell’isola di Giannina: Cristo vi appare in veste di vescovo e di Eucaristia, di celebrante e di sacrificio.
14. Affresco del monastero di Gra/anica, 1318 ca.: Cristo con Luca e Cleofa, la mensa di Emmaus e il racconto agli apostoli dell’incontro con Cristo, riconosciuto allo spezzare del pane.
si riunisce ogni settimana, porta con sé tutto ciò che è accaduto nella settimana che è trascorsa: il bene e il male, i nostri successi e i nostri fallimenti. Nello stesso tempo, però, il culto cristiano è infinitamente più grande dei nostri tormenti e gioie personali, per quanto importanti essi siano. Il Concilio ce lo chiarisce abbondantemente quando afferma: «Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa [...]. Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa» (Sacrosanctum Concilium, n. 26). Quando ci raduniamo per celebrare la liturgia, in Oriente o in Occidente, anglicani o ortodossi, luterani, metodisti, riformati, cattolici o qualunque altra comunità ecclesiale che si possa menzionare, in realtà lo facciamo in unione con la totalità del mondo di Dio. E perciò facciamo speciale memoria di quei luoghi che hanno maggiore necessità di guarigione e redenzione, e di quegli individui che vivono senza speranza e nell’ombra della morte. Così, quando ci raduniamo per celebrare il mistero pasquale di Cristo, giorno dopo giorno o settimana dopo settimana, siamo consapevoli che ciò che facciamo nella liturgia riguarda fondamentalmente il regno di Dio su questa terra e la missione di Dio nel mondo. E, in quanto partecipanti a questi sacri riti, ci carichiamo anche del compito di dare corpo al regno non solo nella liturgia, ma anche – in modo più importante – nei luoghi della nostra vita quotidiana o di lavoro, dove siamo chiamati a diventare il corpo e il sangue di Cristo, nei luoghi dove ci troviamo. La liturgia cristiana, allora, ultimamente è un lodare e ringraziare Dio facendo memoria della sua azione potente e giungendo a riscoprire la nostra appartenenza al corpo mistico di Cristo nel mondo, abilitandoci a guardare il mondo di Dio con gli occhi di Dio. 11
2. LE
ORIGINI DEL CULTO CRISTIANO 3
4
1. La tenda del convegno nella città di Silo, particolare di una miniatura dell’Ottateuco di Costantinopoli, XII secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana.
5-6. Pianta di Gerusalemme con indicazione dei luoghi biblici principali (5) e ricostruzione della pianta del Tempio (6).
2. Carta della Palestina con i luoghi di culto e i santuari eretti lungo la strada delle rotte dei patriarchi.
Dio in mezzo al popolo. Il tempio di Salomone fu il primo di tre: il secondo fu quello di Zorobabele, dopo l’esilio a Babilonia, e l’ultimo (benché sia noto come «secondo tempio») venne costruito da Erode il Grande. La struttura di base di ognuno dei templi successivi rimase costante. C’erano sempre uno o più cortili nel complesso del tempio per favorire le riunioni assembleari di vari gruppi e vie di accesso; davanti all’edificio del tempio v’era un cortile con l’altare del sacrificio e il «mare di bronzo» – un immenso contenitore d’acqua. Il tempio vero e proprio costituiva il cuore di questo complesso di cortili. Comprendeva un portico che conduceva al Luogo Santo, stanza che accoglieva l’altare d’oro dell’incenso e la tavola dei pani dell’offerta (dodici pagnotte che rappresentavano le dodici tribù di Israele e che venivano cambiate ogni sabato). Ancora oltre, c’era la parte più sacra del tempio: il Sancta sanctorum, che custodiva l’Arca dell’Alleanza. Il servizio del tempio era affidato al sommo sacerdote, ai sacerdoti e ai leviti, e comportava un complesso turno di preghiere e sacrifici. Benché in alcune parti del recinto del tempio venisse svolto l’insegnamento, il tempio di Gerusalemme aveva a che fare principalmente con i sacrifici; il suo
M e d i t e r r a n e o
2
L. di Genesaret
M
a r
Sichem
3. Sacrificio di Saul a Galgala, miniatura dal Libro dei Re, XI secolo, Costantinopoli. Biblioteca Apostolica Vaticana.
Silo
4. Betile (pietra sacra) eretto nei pressi della montagna di Har Karkom, in Palestina.
Bethel
5
Porta di Efraim
Secondo muro
Fortezza Antonia
Piscina di Israele
Monte del Tempio
Collina del Golgota
Piscina di Israele
Porta dorata
Città Nuova
Torre M Mariamne Torre Fas Fasael
Getsemani
ale later Valle
Monumenti funerari
Negheb Beersheba
Porta di Gennath Agorá mercato
Pretorio
Val le d el T y
Città Bassa
Sorgente di Gihon
Porta dorata
Cortile dei sacerdoti Il Tempio Altare
Riserva di legna
Riserva di olio
Cisterne Porte di Culda
otto
Città Alta
Mar Morto
Camera della pietra tagliata sede del Sinedrio
Cortile fuori dal mikweh per i lebbrosi appena guariti
Sull’insegna: “divieto di entrata per i non giudei”
ued
rope ion
Pal Palazzo di E Erode
Mar Mediterraneo
Entrata sotto i colonnati verso il Tempio
Fortezza Antonia
Ponte che collegava la città alta al complesso del Tempio Val le d el C edro n Mo nte Oli vet o
Torre Hip Hippikos
Colonnati incompiuti ben al di sotto del livello del Tempio
Salomone
Mercati Torre di guardia s Tombe scavate roc nella roccia
Colonnati
Mamre
Mar M orto
Gerusalemme
6 Piscina di Bethesda
di
Gilgal
Acq
12
Giordano
Ciò che gli studi liturgici degli ultimi quarant’anni hanno rivelato è che abbiamo a che fare con più domande che risposte nel nostro tentativo di scoprire le origini del culto cristiano. Naturalmente, poiché il cristianesimo è derivato dall’ebraismo, ne consegue logicamente che le origini del culto cristiano debbano reperirsi nell’antico culto ebraico. Ma la relazione dev’essere sfumata, perché è chiaro che, seppure i primi cristiani proseguirono alcune pratiche rituali ebraiche, non lo fecero acriticamente. Gesù stesso costituì l’ago della bilancia fra l’antico e il nuovo: era un fedele ebreo che partecipava liturgicamente alle feste dell’anno liturgico ebraico (Pasqua, Pentecoste, Festa dei Tabernacoli, Dedicazione del Tempio). Ma, d’altro canto, Gesù non fu schiavo della Legge e della tradizione ebraica. Piuttosto, il vero culto di Dio «in spirito e verità» doveva includere un servizio al di fuori del sabato, giorno in cui gli Ebrei dovevano astenersi da ogni attività. In principio, Israele non ebbe un tempio. Il Dio dei patriarchi si rivelò loro in luoghi lungo il tragitto del viaggio verso la loro nuova terra. Le rotte dei viaggi dei patriarchi erano costellate di luoghi di culto o santuari lungo la strada, la cui fondazione era attribuita dagli Israeliti ai patriarchi (per esempio Sichem, Bethel, Mamre, Beersheba, Gilgal, Silo). Poi, quando Israele fu condotto fuori dall’Egitto, il popolo fu radunato davanti alla santa montagna del Sinai per ricevere la teofania, la rivelazione della volontà di Dio nella Torah. Le tavole di pietra su cui furono scritti i comandamenti vennero così custodite in un contenitore portatile, chiamato «Arca dell’Alleanza». Nei quarant’anni nel deserto, l’arca rimase in uno spazio sacro temporaneo, un santuario nel deserto (chiamato «Tenda del Convegno») per un popolo in movimento. Una volta che Israele fu insediato nella terra promessa, il re Davide ne centralizzò il culto a Gerusalemme. Suo figlio Salomone vi costruì il primo tempio, che divenne il centro del culto sacrificale e il supremo simbolo della presenza di
Colonnato
1
L. di Hule
Corte di Israele
2. LE
ORIGINI DEL CULTO CRISTIANO
Gli offerenti si radunavano qui Cortile detto “delle donne”, ma dove ci si riuniva anche in famiglia Sull’insegna: “divieto di entrata per i non giudei”
Città di Davide
Sinai Porta degli Esseni
M. Sinai
Piscina di Siloe
Monte dello Scandalo
Torre di guardia Porta di accesso al complesso del Tempio Scale e direzione di ascesa
Piazza
Entrata sotto la Stoa
La Stoá, aggiunta erodiana di un magnifico portico
13
2. LE
2. LE
ORIGINI DEL CULTO CRISTIANO
ORIGINI DEL CULTO CRISTIANO
9. Resti della sinagoga di Cafarnao. 10. Pianta della zona archeologica di Cafarnao: 1) domus ecclesiae; 2) sinagoga. 11. Il tempio di Gerusalemme, particolare del mosaico pavimentale della sinagoga di Hammath, presso il lago di Tiberiade, fine del III secolo. 12. Pianta di Dura Europos, Siria: 1) domus ecclesiae; 2) casa degli scribi; 3) sinagoga.
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9
7
altare era il luogo del sacrificio e il sacrificio era il principale atto del culto di Israele. I sacrifici nel tempio di Gerusalemme erano vari. Gli olocausti (offerte interamente bruciate) erano una forma di sacrificio in cui l’intera vittima era bruciata e nulla era restituito all’offerente o al sacerdote. Nei sacrifici di comunione, la vittima veniva condivisa fra Dio, il sacerdote e la persona che offriva il sacrificio. Il fine dei sacrifici di espiazione era quello di ristabilire l’alleanza con Dio quando essa fosse stata rotta dal peccato di un individuo. C’erano anche sacrifici non cruenti che riguardavano farina, olio, grano, pane e incenso. Con speciale riguardo al culto del tempio e al suo primario ruolo sacrificale, molti testi delle Scritture ebraiche rivelano lo sviluppo della nozione dell’importanza di una forma più spiritualizzata di culto, cioè il fatto che l’anima del culto vero e genuino è mostrata nella fedeltà all’alleanza: dunque non tanto nelle azioni rituali o – più precisamente – in un formalismo rituale (cioè nell’aderenza stretta o eccessiva alle forme rituali prescritte). Per mezzo della fedeltà alla Legge dell’alleanza, Israele prova che il suo culto è genuino e che non vi è altro dio all’infuori di YHWH. Il Dio dell’Esodo, che salva e dà i dieci comandamenti, è santo e chiede che il popolo che deve diventare una nazione sacerdotale sia anch’esso santo. Un momento cruciale per il culto ebraico fu la distruzione 14
12
8
7. Veduta di Gerusalemme oggi. 8. Il carro del Sole, particolare del mosaico pavimentale della sinagoga di Hammath, presso il lago di Tiberiade, fine del III secolo.
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2. LE
2. LE
ORIGINI DEL CULTO CRISTIANO
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ORIGINI DEL CULTO CRISTIANO
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13. La processione delle palme durante la festa di Sukkot all’interno della sinagoga portoghese di Amsterdam, incisione di Bernard Picart da Cerimonie e usanze religiose di tutto il mondo, 1723-1737.
del terzo tempio di Gerusalemme (quello costruito da Erode il Grande) nell’anno 70 d.C. La distruzione portò con sé la fine del culto sacrificale dell’antica alleanza. Il tempio era stato un importante punto di riferimento, ma di fatto la sinagoga ebbe maggiore influenza, sia sul culto ebraico sia su quello cristiano, anche se non aveva una forma liturgica standardizzata e il servizio vi poteva essere svolto da ogni suo membro maschio. Il contesto liturgico in questo primo periodo offre una differenza similare di pratica e informalità con qualche preziosa informazione, per esempio sull’esatta relazione fra il servizio sinagogale e il culto cristiano. La realtà della distruzione del tempio, insieme alla crescente consapevolezza che il ritorno di Gesù non fosse imminente come si pensava, portò alla necessità pastorale di strutture più organizzate nella Chiesa cristiana, ivi compreso lo svolgimento del culto. La sinagoga era il luogo dell’assemblea per la preghiera e l’istruzione. Nacque probabilmente come risultato della distruzione del tempio di Gerusalemme nel 587 a.C. e della diaspora degli Ebrei a Babilonia. Lì, un culto centrato sul rituale del tempio era impossibile e la sinagoga venne organizzata come un sostituto per mantenere l’unità di fede e di culto degli Ebrei. Le prime sinagoghe erano senza dubbio semplici riunioni in abitazioni private. Ai tempi del Nuovo Testamento, però, la sinagoga era una parte ben stabilita ed essenziale della vita e del culto giudaici. Essa divenne un edificio distinto, eretto per uno scopo ben preciso; si trovava in ogni città grande o piccola della Palestina e fuori di Palestina, dove vi fosse una comunità ebraica. La struttura consisteva generalmente in una sala rettangolare che prevedeva la separazione tra uomini e donne. C’era un posto speciale per ospitare i rotoli della Legge e una tribuna dove lettori e predicatori esercitavano il proprio ministero. Al contrario del tempio, la sinagoga non era una casa dove la divinità risiedesse, ma un luogo di incontro per la preghiera e lo studio della Legge. Era anche il posto dell’istruzione e dell’iniziazione dei convertiti all’ebraismo. Il governo della sinagoga era affidato a un gruppo di anziani, e la sua conduzione, la manutenzione e il corretto svolgimento del servizio erano responsabilità particolare di un archisynagogus o «capo della sinagoga». Più di ogni altro singolo fattore, la sinagoga fu responsabile della sopravvivenza dell’ebraismo come religione e degli Ebrei come popolo distinto, contro il potere delle forze assimilatrici dell’ellenismo. Essa non era solo un luogo dove la Legge e le tradizioni venivano preservate e spiegate; era anche una casa di incontro della comunità ebraica, in cui preservare la propria identità e custodire i propri valori. La sinagoga mantenne la sua importanza vitale alle origini e nello sviluppo del cristianesimo. Gesù andava regolar16
mente in sinagoga e ne fece uno dei luoghi del proprio insegnamento. Anche Paolo iniziò la sua predicazione nella sinagoga di Damasco e nei suoi viaggi andava prima di tutto nella sinagoga della città, dove veniva invitato a fare un discorso, che spesso terminava in un acceso dibattito e talvolta in violenze. Le sinagoghe furono abbandonate dai cristiani solo quando gli Ebrei li ripudiarono e li espulsero. Tutto questo retroterra chiarisce abbondantemente che le comunità cristiane dei primi anni erano strettamente legate prima di tutto e soprattutto alle comunità ebraiche di Gerusalemme e della Palestina, dell’Asia e altrove, nonostante le crescenti differenze. Anche quando il cristianesimo prese la sua strada, l’influenza ebraica fu innegabilmente presente. Non andò diversamente in merito alla liturgia, perché alla base di quella cristiana c’è la liturgia ebraica. Il culto cristiano ereditò gli elementi classici di lode, ringraziamento e intercessione dalla tradizione ebraica, oltre che il percorso di preghiera quotidiana in tempi determinati, la liturgia della Parola e il sermone, la settimana di sette giorni, il concetto di anno liturgico, specialmente a proposito di certe feste come Pasqua e Pentecoste. Anche il culto cristiano dei martiri trova origine nell’ebraismo. Altre tradizioni rituali come il protendere le mani, inviti come «Preghiamo» e le dossologie per concludere le preghiere furono presi in prestito dall’ebraismo. Anche oggi, questi stessi elementi si possono riscontrare nel culto ebraico contemporaneo. Nello stesso tempo, dobbiamo evitare attentamente di tracciare una linea troppo esclusiva fra le origini liturgiche ebraiche e la prassi rituale del primo cristianesimo. Il sacramento del Battesimo offre un esempio interessante. Molti studiosi del XX secolo hanno tentato di dimostrare un legame diretto fra le abluzioni rituali ebraiche di Qumran e il
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14. Insegnamento e battesimo di Gesù, particolare del Codex aureus, Echternach, 1020-1030. Germanisches Nationalmuseum, Norimberga. 15. Qumran, vasca per i lavaggi rituali.
Battesimo cristiano, per esempio. Ma il problema fondamentale nel tracciare tale legame fra Qumran e il bagno battesimale cristiano consisteva nel fatto che quelli di Qumran erano lavaggi ripetuti, non un’azione irripetibile, quale è il Battesimo cristiano. In ogni modo, se l’adozione cristiana del Battesimo iniziò con Gesù stesso o solo nella Chiesa dopo la resurrezione, è un problema che non si può risolvere facilmente. I Vangeli di Matteo, Marco e Luca riportano il Battesimo di Gesù da parte di Giovanni, ma non dicono nulla sul fatto che Gesù abbia o meno battez-
zato i suoi discepoli, mentre il Vangelo di Giovanni menziona soltanto il fatto che Gesù battezzava altri, e non fa menzione del fatto che egli fu battezzato. Sia come sia, appare che fin dai primi tempi c’era l’abitudine di iniziare i neoconvertiti alla Chiesa attraverso un processo che comprendeva il Battesimo – forse in un fiume, in una vasca, o in una stanza da bagno domestica. Vi sono altre questioni a proposito delle origini delle unzioni e dell’imposizione delle mani e sul fatto che gli infanti fossero battezzati con gli adulti. Ci può anche essere stato un periodo preliminare di istruzione, un antenato del catecumenato. E si presume che ci fosse una sorta di confessione di fede in Gesù Cristo. Il Nuovo Testamento rivela una varietà di interpretazioni su che cosa il Battesimo simboleggiasse: il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo; la nascita alla vita nuova; l’illuminazione; l’unione con Cristo tramite la partecipazione alla sua morte e resurrezione. Così, tutto ciò ci lascia con più domande che risposte, il che significa che non possiamo rivolgerci al Nuovo Testamento per trovare soluzioni rapide al nostro desiderio di giungere alle origini della prassi liturgica cristiana. Le descrizioni dell’Eucaristia e della sua comprensione riflettono una simile diversità di prassi e di teologia. In realtà, se prendiamo in considerazione i cristiani non ebrei di origine greca, non possiamo presumere che abbiano automaticamente voluto accettare le forme e le strutture di preghiera della tradizione ebraica. Basterebbe considerare At 6, che racconta una prima crisi nella comunità cristiana fra cristiani ebrei ed ellenisti a proposito del trattamento delle vedove; o le tensioni al Concilio di Gerusalemme, ricordate in At 15, a proposito della circoncisione dei maschi e delle leggi alimentari ebraiche. 17
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Coerentemente con il culto sinagogale, il cristianesimo del I secolo non emerse come quella che oggi chiameremmo una «religione formale». Non c’erano santuari o templi; non sacrifici né culto pubblico; non celebrazioni di feste pubbliche. Inoltre, coerentemente con l’antica prassi sinagogale, nel I secolo non c’è evidenza esplicita del canto dei salmi nelle comunità cristiane, benché essi siano frequentemente citati. Al tempo di Tertulliano (circa 200 d.C.) si stabilì l’usanza di introdurre antifone e ritornelli nei salmi da cantare da parte dell’assemblea liturgica. Poiché il rituale centrale cristiano ebbe origine nel contesto domestico di un pasto, esso continuò a essere celebrato nelle case e nelle residenze per alcuni secoli, e tali eventi erano chiusi al pubblico. Naturalmente c’erano persecuzioni e ovvi rischi per la sicurezza. Ma, anche prescindendo da ciò, alcuni cristiani difesero la loro mancanza di altari e di santuari argomentando che l’altare di Dio è il mondo intero e difficilmente lo si potrebbe contenere entro un edificio fatto da mani d’uomo. Il culto cristiano, perciò, in quei primi anni era abbastanza informale. Le distinzioni operate oggi fra pasti sacramentali e pasti ordinari della comunità sarebbero in verità apparse strane. Possiamo pensare alla letteratura devota anteriore al Concilio Vaticano II, che parlava del Giovedì Santo come di «quando Gesù celebrò la sua prima Messa», o dei quadretti artistici di Gesù che distribuisce la comunione durante l’Ultima Cena ai discepoli, i quali la ricevono sulla lingua e inginocchiati! Sembra abbastanza certo che il pasto fraterno (o agape) della comunità cristiana fosse il contesto della Cena del Signore sino alla fine del I secolo o all’inizio del II. Questo risulta evidente nel racconto paolino dell’Eucaristia in 1 Cor 11. Le Scritture cristiane offrono quattro narrazioni dell’istituzione dell’Eucaristia (Mc 14,22-24; Mt 26,26-29; Lc 22,17ss.; 1 Cor 11,23-25). Abbiamo già visto le varianti culturali in questi quattro differenti racconti, poiché i testi furono composti per uditori differenti. Il racconto di Paolo è significativo, perché si riferisce alla tradizione che egli aveva portato ai Corinzi: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane...» (1 Cor 11,23). Luca e Paolo includono il comando: «Fate questo in memoria di me», che non è incluso né in Marco, né in Matteo. L’istituzione dell’Eucaristia, chiaramente, ha luogo nel contesto di un pasto domestico, senza indicare se si trattasse o meno del pasto della cena pasquale. In quei primi anni del periodo apostolico, quando la vita e la missione della Chiesa prendevano forma, abbiamo poche informazioni particolareggiate su come i seguaci di Gesù praticassero il culto o su che cosa facessero quando si radunavano insieme per la preghiera comune. A proposito della celebrazione dell’Eucaristia nel I secolo, vi sono molte più 18
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1. Bassorilievo con i santi Pietro e Paolo. Museo Paleocristiano, Aquileia. 2-3. Dieric Bouts, Trittico dell’Ultima Cena, 1464-1468, chiesa di San Pietro, Lovanio: La Pasqua ebraica (2) e la Pasqua cristiana (3). Nella rappresentazione dell’Ultima Cena è Cristo stesso che celebra la liturgia della consacrazione.
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domande che risposte, a causa della scarsità di evidenze. Ciò che possiamo dire è che la più antica forma di fractio panis, la frazione del pane (cfr. At 2,46), prese la forma di un pasto, lasciandoci però con il problema di determinare come la nuova azione sacramentale fosse collegata con il pasto strettamente ebraico. L’assunto che gli apostoli ripetessero semplicemente il rito del pasto pasquale ogni settimana, secondo il modo in cui Luca descrive l’Ultima Cena, non è sostenibile. Quel rito era troppo complicato per una ripetizione frequente e, secondo la Legge ebraica, non era permesso se non durante le celebrazioni vere e proprie della festa annuale di Pasqua. Immagini eucaristiche si possono trovare in numerosi riferimenti delle Scritture cristiane, come nel racconto della cena a Emmaus (Lc 24,13-35), dove i discepoli stessi raccontano che il Signore risorto spiegò loro le Scritture e spezzò il pane. La raffigurazione è particolarmente chiara nel versetto 30, che inizia così: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò». È più probabile che il rito della frazione del pane avesse luogo nel pasto del sabato, che aveva la sua propria solennità religiosa e il suo significato simbolico. Il rituale del
pasto di shabbath era abbastanza adatto a combinarsi con il rito cristiano. La frazione del pane all’inizio del pasto e il calice della benedizione alla fine facevano parte sia del pasto pasquale annuale, sia di quello settimanale del sabato. Gli apostoli possono quindi aver ricordato il Signore e la sua morte nell’azione al principio del pasto (benedizione, frazione e distribuzione del pane) e nell’azione alla fine del pasto (benedizione e distribuzione del calice del ringraziamento). Nondimeno, in certe altre comunità cristiane primitive, quelle inclini a seguire le tradizioni di Marco e Matteo, le due azioni principali non erano separate tra loro dal pasto. Piuttosto, esse furono unite e poste insieme prima o dopo il pasto. Le benedizioni sul pane e sul calice furono forse combinate in un’unica solenne preghiera di ringraziamento, espansa rispetto alla forma originaria impiegata solo sul calice. Nella prassi cristiana, il pasto stesso sarebbe decaduto del tutto. Come i loro antenati ebrei, i primi cristiani continuarono la prassi ebraica di pregare tre volte al giorno: si riunirono all’ora terza (le nove del mattino) il giorno di Pentecoste, secondo At 2; leggiamo della preghiera di Pietro sul terrazzo all’ora sesta (mezzogiorno) in At 10; e della salita di
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Pietro e Giovanni al tempio all’ora nona (le tre del pomeriggio) in At 3. Ulteriore testimonianza di queste tre ore è data nell’ottavo capitolo della Didache, che suggerisce che la preghiera del Signore debba essere recitata tre volte al giorno. Altra importante dimensione della prassi liturgica del I secolo è la sua diversità. Non ci sono forme fisse di azione liturgica nel Nuovo Testamento. Sappiamo, però, che due importanti forme di preghiera per i primi cristiani rimasero la dossologia e la benedizione. Tale diversità si rifletteva anche altrove. Il semplice fatto che abbiamo quattro Vangeli, anziché uno solo, induce a pensarlo: e abbiamo quattro narrazioni del racconto dell’istituzione! Perché? Perché destinatari culturalmente differenti richiedevano approcci differenti. In quei primi anni, abbiamo poche informazioni dettagliate su come i discepoli di Gesù praticassero il culto e su che cosa facessero quando si riunivano. At 2 parla di «frazione del pane». Immagini eucaristiche si possono trovare in numerosi riferimenti del Nuovo Testamento, come nel racconto della cena a Emmaus narrato in Lc 24. Il Battesimo ha riferimenti liturgici propri, a significare il lavacro dell’acqua accompagnato dalla Parola di Dio (Ef 19
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5,26); e veniva praticato nel nome di Cristo per il perdono dei peccati. Dei molti riferimenti battesimali del Nuovo Testamento, però, solo il racconto della conversione dell’etiope in At 8 ne descrive il rito. In At 6, leggiamo che gli apostoli imponevano le mani su quelli a cui la comunità aveva affidato alcune forme di servizio o di guida. E in Gc 5 leggiamo della preghiera su quanti erano ammalati e della loro unzione con olio santo. Un documento primitivo che offre una qualche importante informazione liturgica è la Didache, o «Dottrina dei Dodici Apostoli». Fu scoperta solo nel 1873 e si pone come uno dei più importanti rinvenimenti di manoscritti del cristianesimo primitivo. Redatto verso la fine del I secolo o all’inizio del II, è stato considerato come forse il più antico documento cristiano non canonico. È un’importante fonte liturgica, perché contiene uno dei più antichi esempi di un primitivo ordo ecclesiale (un libro che contiene regole per la vita cristiana, la disciplina ecclesiale e formule liturgiche). Il testo è un ordo ecclesiale di una comunità giudeocristiana, perché è pieno di influenze ebraiche e fa un uso sostanziale del Vangelo di Matteo. La Didache fu composta probabilmente ad Antiochia di Siria, destinata all’istruzione dei convertiti dal paganesimo, benché vi sia anche qualche indizio a suggerire una provenienza da Alessandria: sia Clemente Alessandrino, sia Atanasio fanno un uso notevole del testo. I primi sei capitoli, che formano la prima parte, offrono un manuale catechetico e danno direttive per impartire istru20
zioni ai catecumeni. A coloro che si preparano al Battesimo vengono insegnate le «due vie»: la via della vita e la via della morte. Il dispositivo delle due vie, che qui diviene un metodo di base per addestrare i catecumeni, era usato nelle sinagoghe ellenistiche per istruire i proseliti. La seconda parte, consistente nei capitoli da 7 a 16, è il vero e proprio «manuale di Chiesa». Si apre con istruzioni che riguardano l’amministrazione vera e propria del Battesimo, idealmente svolta in acqua viva (cioè corrente); descrive la realtà battesimale come una vita di preghiera e di digiuno, attuata in giorni diversi da quelli in cui era praticata dagli Ebrei; e tratta del ringraziamento eucaristico. L’opera rivolge poi l’attenzione ai ministri nella comunità, iniziando con gli apostoli e i profeti, seguiti dai vescovi e dai diaconi. Stranamente, posto fra questi, vi è il breve riferimento all’Eucaristia domenicale. La Didache termina con commenti relativi agli ultimi giorni e al Vangelo, avvertendo: «Sorvegliate la vostra vita; le vostre lampade non si spengano e non si sciolgano i vostri fianchi, ma siate pronti». La Didache rappresenta un primo tentativo di separarsi dall’ebraismo; i testi di preghiera sono profondamente debitori della tradizione ebraica, ma ora sono incentrati su Cristo. Le pratiche ebraiche dei digiuni e della preghiera non sono respinte, ma differiscono in termini di tempo e di forma. Il rito del bagno battesimale è scevro da influenze non ebraiche, e viene brevemente descritto nel modo in cui gli esseni di Qumran potrebbero aver praticato i loro lavacri rituali. Diversamente da Qumran, però, il Battesimo cristiano non
4. La Cena in Emmaus, architrave del portale sinistro della chiesa de La Madeleine, Vézelay. 5. Monastero di De/ani, affresco con le storie di Paolo: l’apostolo Filippo istruisce per poi battezzare l’eunuco etiope secondo quanto è scritto negli Atti degli apostoli (8,26-39). 6. Pagina della Didache da un codice bizantino dell’XI secolo. 7. Etiopia, benedizione dell’acqua durante la festa di Timkat, che ricorda il Battesimo-epifania di Gesù. 6
è mai autoamministrato, e deve essere dato nel nome della Trinità. Non c’è ancora alcuna traccia di riti come l’unzione o la rinuncia al peccato. Così, in questo primo periodo, vediamo una Chiesa giovane che cerca la sua via, stabilendo la propria autonomia pur rimanendo ancora legata alla tradizione. Possiamo osservare una pluralità e una certa informalità liturgiche, largamente condizionate dalla cultura locale particolare in cui la celebrazione si svolgeva. 21
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1. Particolare dell’affresco del Lararium della Casa del Centenario, Pompei. 2. Particolare del Mitraeum Barberini, Roma.
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Emergendo dal contesto ebraico, la Chiesa in Occidente si trovò di fronte alle sfide dell’evangelizzazione presentate dalla cultura e dalle religioni dei Greci e dei Romani. La Chiesa missionaria aveva bisogno di adattarsi alla nuova situazione che, inevitabilmente, toccava il suo culto. Una sfida di grande importanza proveniva dalla ricerca di un miglior calcolo del tempo, anch’esso culturalmente condizionato. Il calcolo ebraico del tempo avveniva – come tuttora – da tramonto a tramonto. Così, lo shabbath iniziava al tramonto del venerdì e si concludeva al tramonto del sabato. Prevedibilmente, le comunità cristiane che si costituivano in contesto ebraico osservavano il giorno del Signore (la domenica) dal tramonto del sabato fino al tramonto della domenica. Il calcolo greco del tempo era però piuttosto differente, dato che calcolava ogni giorno da alba ad alba. Così, per i cristiani in contesto greco-romano, l’osservanza del giorno del Signore iniziava all’alba della domenica e si concludeva con l’alba del lunedì. Il calcolo romano poi prevedeva ciò che continuiamo a usare oggi nella vita secolare: il tempo si calcolava da mezzanotte a mezzanotte. Naturalmente, il nostro orario liturgico continua a seguire il modello ebraico: Primi Vespri il sabato pomeriggio per la domenica, e
anche la Messa vigiliare alla vigilia delle domeniche e delle feste. Questa diversità culturale era ancor più evidente nella pratica religiosa dell’Impero romano, che offriva una straordinaria mescolanza di culti e annoverava anche varie superstizioni. Questo succedeva specialmente a Roma, che accoglieva numerosi immigrati e visitatori, alcuni dei quali – come Montano di Frigia e il suo movimento apocalittico della fine del II secolo – portavano verso nozioni erronee. Queste religioni mediterranee primitive erano affascinate da segni e presagi, fantasmi, divinazione, astrologia. Cicerone, per esempio, si riferì ai riti romani di iniziazione come a «quei misteri dalla cui assenza di disciplina siamo trascinati lontano dalle vie dell’umanità». «Quei misteri» includevano azioni simboliche o sacramentali: pasti e matrimoni sacri; riti della fertilità e della nascita; battesimi; investiture con indumenti sacri; riti di morte e resurrezione che prendevano la forma di viaggi simbolici. I riti e i sacerdoti romani stavano sotto la presidenza di sacerdoti e mistagoghi il cui insegnamento veniva indicato come «mistagogia». Vi si trovava una grande varietà di culti religiosi, corrispondenti alla grande quantità di popoli dell’Impero. Finché la tranquillità dello Stato non veniva
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3. Mithra tauroktonos, pittura murale, 225-250 ca. Mitreo, Santa Maria Capua Vetere. Il culto di Mitra prevedeva il battesimo dei suoi seguaci in un bagno di sangue caldo di toro anziché in acqua.
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disturbata, a queste religioni era permesso di continuare a svilupparsi. Il cristianesimo non fu un’eccezione nel primo periodo. La sua crescita fu aiutata almeno in parte dal fatto che alcuni lo vedevano come un’appendice dell’ebraismo, già ampiamente diffuso nell’Impero, con sinagoghe in ogni città. In questo primo periodo, ci fu una significativa quantità di contatti fra il cristianesimo romano e la presenza di culti misterici come quello di Mitra, il dio persiano della luce e della sapienza. Il mitraismo si diffuse gradualmente nell’Impero romano nel I secolo e raggiunse il picco nel III secolo, finché gradatamente venne meno nel IV secolo, con la legalizzazione del cristianesimo. Diversamente da altre antiche religioni mediterranee, il mitraismo ebbe una speciale relazione con il cristianesimo: le due religioni si svilupparono nello stesso periodo e crebbero nelle stesse regioni geografiche, incarnando due distinte risposte alle medesime sfide e questioni culturali. In alcuni casi, apologisti cristiani come Giustino e Tertulliano criticarono o anche derisero le pratiche rituali di questi culti non cristiani. Tertulliano irrise ai bagni iniziatici di Iside e Mitra, che non producevano alcunché – argomentava – nonostante la loro costosa eleganza. Al contrario, i riti dell’iniziazione cristiana portavano purificazione e salvezza con poche parole e senza spesa.
C’erano anche alcune distinzioni rituali. Per esempio, il culto di Mitra battezzava i suoi seguaci in un bagno di sangue caldo di toro, anziché in acqua. Tuttavia, malgrado anche le critiche degli apologisti e le chiare distinzioni nelle pratiche rituali, i riti cristiani gradualmente incorporarono in sé elementi culturali in parte ripresi dagli stessi culti misterici, reinterpretati per un uso cristiano. Riti di unzione entrarono nella liturgia battesimale romana dopo che la pratica era stata a lungo nota nel mondo greco-romano. La lavanda dei piedi dei neobattezzati, con il bacio dei piedi, fu importata da riti non cristiani e poi incorporata nei riti dell’iniziazione cristiana. Atti di rinuncia e acclamazione furono puntualmente introdotti nel rituale battesimale cristiano e riferiti a gesti corporei similari nel culto di Mitra e in altre religioni romane: rivolgersi a ovest – la regione del buio – per rinunciare a Satana; rivolgersi a est – la regione della luce – per acclamare Cristo. Anche adorare rivolti a est – ad orientem – era una pratica comune nel culto di Mitra, poiché i suoi seguaci pregavano rivolti verso il sole nascente. Possiamo trovare altri esempi di influssi culturali e religiosi in questo primo periodo, specialmente a riguardo dello sviluppo rituale del Battesimo cristiano, che per esempio fece uso del termine «illuminazione», il medesimo impiega23
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4. Culto di Iside, pittura murale a Ercolano. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.
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to anche per descrivere l’iniziazione nei culti di Iside e Mitra. Possiamo notare un vocabolario comune anche in termini come lavacro e iniziazione. Gli stessi riti di iniziazione mostrano una simile condivisione terminologica e di componenti rituali: gli scrutini; l’apprendimento di formule sacre; il digiuno; lo spogliarsi per immergersi nel fonte; il Battesimo per immersione; l’indossare abiti bianchi; il pasto iniziatico; il periodo mistagogico postbattesimale. Similmente, agiva un influsso proveniente dalla cultura secolare, o che la adattava. La miscela di latte e miele che veniva data al neobattezzato era un derivato di un’abitudine dell’antica Roma, quando il pater familias – ossia il capo della casa – dava il benvenuto in famiglia al bimbo appena nato. Il rito, tuttavia, aveva anche una dimensione superstiziosa, come protezione contro gli spiriti malvagi. Nelle famiglie nobili romane, il neonato era posto davanti al pater familias per essere giudicato: se il bambino era deforme, o talora anche solo se si trattava di una femmina mentre i genitori avrebbero voluto un maschio, il neonato poteva essere respinto e quindi dato da allevare ai servi. Se invece il bambino era accettato, veniva offerta la miscela di latte e miele. Tertulliano menziona questa pratica nel rito dell’iniziazione cristiana in Nord Africa, usando i vocaboli latini susceptio o munus susceptionis, termini giuridici che significavano (fra l’altro) l’accettazione legale del padre o il riconoscimento come proprio del neonato che gli era presentato. Secondo Tertulliano, dopo il Battesimo il neonato veniva accettato (susceptus) dalla Chiesa come suo proprio. La bevanda miscelata veniva offerta come segno di benvenuto 24
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9. Cattedra di Pietro, dono di Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII nell’875 per la sua incoronazione, simbolo del primato del vescovo di Roma.
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5. Maran, divinità hatrena, con la testa coronata da raggi solari. Museo Archeologico, Mosul, Iraq. 6. Ara dedicata al Sol Invictus, metà del I secolo. Museo Gregoriano Profano, Città del Vaticano. 7. Il Pantheon di Roma: eretto nel I secolo, fu dedicato nel VII secolo alla Beata Vergine Maria e ai martiri romani. La chiesa ancora oggi è chiamata basilica di Santa Maria ad Martyres.
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e di riconoscimento. Alcuni secoli dopo, la Traditio apostolica riferirà ancora di questa miscela di latte e miele offerta al neofita. In modo non sorprendente, questa componente
8. Icona della Vergine Odigitria, Pantheon, Roma. La datazione di questa icona è legata alla trasformazione del Pantheon in chiesa cristiana avvenuta nel 609. 8
rituale si prestò facilmente al riferimento biblico della terra promessa «in cui scorrono latte e miele», una terra in cui il neofita era entrato attraverso le acque del Battesimo.
Anche il pasto rituale dei mitraiti presenta una stretta rassomiglianza con la primitiva Eucaristia cristiana. Come l’Eucaristia era preceduta da una funzione della Parola, con letture scritturistiche e un’omelia tenuta dal vescovo, il pasto mitraico era preceduto da un tempo di istruzione in cui ai seguaci veniva ricordata la storia di come il mondo era stato salvato da Mitra. Come il pane e il vino sono oggetti della consacrazione eucaristica, così nel pasto rituale mitraico il pane e l’acqua venivano presentati per essere consacrati. Alcuni studiosi suggeriscono che sia stato incluso probabilmente anche il vino, poiché sappiamo con certezza che i mitraiti lo bevevano. Come i primi Padri della Chiesa furono critici verso le pratiche iniziatiche dei culti primitivi mediterranei, così essi criticarono i pasti rituali di quegli stessi culti. Giustino, per esempio, nel capitolo 66 dell’Apologia prima, accusò i seguaci di Mitra di contraffare l’Eucaristia cristiana nel loro pasto iniziatico di pane e acqua. Tertulliano, il cui padre era probabilmente un seguace di Mitra, usa il termine oblatio per denunciare l’offerta di pane nel pasto rituale mitraico: lo stesso vocabolo che usa per descrivere l’Eucaristia cristiana. C’era anche una certa somiglianza nella terminologia eucaristica. Sulle pareti del tempio di Mitra, a Roma, erano iscritte le parole: «O Mitra, tu ci hai salvati con il tuo preziosissimo sangue». Cambiando la parola «Mitra» con «Cristo», non ci vuole molto per trasformare adeguatamente l’espressione in un contesto cristiano. Nella basilica sotterranea pagana di Roma vicino a Porta Maggiore, si trova un affresco interessante. Vi è dipinto un altare, su cui sono 25
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10. Stucco con la raffigurazione della dea Spes, ipogeo di Porta Maggiore, Roma. 11. Papa Vittore I, San Paolo fuori le Mura, Roma. 12. Tavola imbandita con i doni per i vincitori dei concorsi ellenici, ipogeo di Porta Maggiore, Roma.
posti pane e pesce. Dietro all’altare sta in piedi un celebrante con le braccia distese in preghiera, nella stessa classica posizione dell’orante usata dai primi cristiani nei loro rituali; egli indossa lo stesso tipo di abito liturgico che avrebbe potuto vestire un cristiano incaricato dell’ufficio di presidenza liturgica. A lato dell’altare, sono iscritte le parole «cibo per il viaggio»: una scorta rituale di cibo per il morente, per garantirgli un passaggio sicuro nell’aldilà, non differente da quello che i cristiani chiameranno viaticum, la santa comunione per il moribondo. Chiaramente, questi elementi linguistici e rituali significano cose diverse in quelle diverse religioni mediterranee; tuttavia, la somiglianza di espressione e di stile è molto affascinante. Ci si chiede come si sia originato questo influsso liturgico e simbolico e chi abbia iniziato lo scambio. Equinozi e solstizi erano particolarmente sacri alla tradizione mitraica e il cristianesimo romano svilupperà presto le sue feste in contrapposizione a quelle dei vicini non cristiani. Fu soprattutto il caso del IV secolo, con il declino dei riti elisi, dei riti egizi di Osiride e Iside, dei riti frigi di Attis e dei riti persiani di Mitra. Per esempio, la scelta, risalente al IV secolo, del 25 dicembre come data per la festa annuale del Natale non fu casuale. In quanto discepoli del dio-sole, i seguaci di Mitra celebravano la festa del Sol invictus, il «Sole invincibile», nel solstizio d’inverno, il giorno più corto dell’anno. Acclamando Cristo come «sole che non tramonta», i cristiani scelsero accuratamente di celebrare la nascita di Cristo nella stessa data. La festa cristiano-orientale dell’Epifania, il 6 gennaio, fu similmente la sostituzione della festa pagana della nascita verginale di Dioniso, e si riferiva a leggende di varie epifanie di dei pagani ricordate in quel giorno. Alcuni anni dopo, verso la fine del IV secolo, fu anche collocata la festa della nascita di Giovanni il Battista il 24 giugno, intorno al solstizio d’estate. Data la relazione fra Giovanni il precursore e Cristo, è probabile che le due feste fossero scelte in armonia. Abbiamo anche un altro esempio di cristianizzazione di feste pagane nella festa di febbraio della Cattedra di san Pietro, che celebra il primato del vescovo di Roma. Il 22 di quel mese era posta tradizionalmente una festa pagana che ricordava gli antenati romani. Ogni anno, durante il mese di febbraio, i Romani celebravano una festa di otto giorni chiamata Parentalia, in cui gli antenati erano ricordati con omaggi offerti ai membri deceduti della famiglia e ai parenti. Durante la festa dei Parentalia veniva celebrato un pasto rituale chiamato Charistia o Cara cognatio, in cui veniva messa a tavola una sedia vuota, per ricordare simbolicamente gli antenati, come individui e come collettività. Per contrastare tale festa, la Chiesa romana introdusse la festa della Cattedra di san Pietro, il nostro antenato nella fede. Esempi posteriori di reinterpretazione di elementi pagani includono la cristianizzazione, nel VII secolo, del Pantheon 26
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di Roma. Costruito nel I secolo come tempio per tutti gli dei, la Chiesa nel VII secolo lo dedicò come basilica cristiana alla Beata Vergine Maria e ai martiri romani; la festa cristiana di Ognissanti il 1° novembre ebbe origine lì, a memoria della cristianizzazione. Ancora oggi, il nome cristiano del Pantheon è basilica di Santa Maria ad Martyres. La questione del linguaggio liturgico offrì ancora un’altra sfida per la comunità cristiana nel mondo greco-romano. La koine greca era parlata da gran parte dell’Impero romano, compresa la stessa città di Roma. Saggiamente, la Chie-
sa romana adottò la koine greca come linguaggio liturgico proprio, essendo la lingua più accessibile ai membri della Chiesa. Nei primi due secoli, non a caso, dieci dei quattordici vescovi di Roma furono di lingua greca. L’impiego del latino nella liturgia ebbe origine con papa Vittore († 203). Il risultato fu una liturgia mista, che includeva l’uso del latino per le letture dalla Scrittura e la continuità nell’uso del greco per le preghiere (la prima versione latina delle Scritture apparve intorno al 250). Il vocabolario liturgico in latino conobbe grande sviluppo grazie a scrittori come Cipriano, Tertulliano e Agostino. Tertulliano, per esempio, introdusse termini militari come sacramenti testatio e signaculum fidei, o promessa di lealtà all’imperatore romano, per parlare della professione di fede battesimale. Come sempre, alla loro adozione, questi elementi culturali ricevettero una nuova interpretazione cristologica, e i vescovi di Roma usarono le loro catechesi mistagogiche dopo l’amministrazione del Battesimo pasquale per spiegare il nuovo simbolismo. Ad ogni modo, i cristiani di Roma continuarono a usare il greco per le celebrazioni liturgiche fino a metà del IV secolo, sotto il pontificato di Damaso I, quando la maggioranza dei Romani non comprendeva più il greco. È interessante notare che la Chiesa romana ricorse al latino per la liturgia come concessione culturale – ciò che, più
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tardi, sarebbe stato chiamato «inculturazione liturgica» –, così che i partecipanti potessero capire ciò che stavano celebrando. Questo elemento storico è abbastanza istruttivo per i nostri giorni, in cui certuni nella Chiesa invocano un ritorno al latino in quanto linguaggio «più sacrale». Al Concilio di Trento, un vescovo arrivò addirittura a difendere la continuazione dell’uso del latino nella liturgia perché «era il linguaggio che Gesù usò nell’Ultima Cena con i suoi discepoli»! Naturalmente, non c’è nulla di più lontano dalla verità. Gesù, come sappiamo, parlava il dialetto dei suoi tempi, altrimenti i suoi discepoli non l’avrebbero capito. In sé, il latino non è più «sacrale» del greco o del giapponese. Ciò che alla fin fine diede forse al latino quest’aura di sacralità fu il fatto che esso era usato solo nella liturgia e che era inintelligibile a molti partecipanti alla funzione. Oggi il latino rimane la lingua ufficiale della Chiesa cattolica romana e del suo culto, anche se con il Concilio Vaticano II sono state effettuate concessioni alle principali lingue parlate. Nel VII secolo ci fu un breve ritorno all’uso del greco nel culto liturgico, probabilmente dovuto a un cresciuto numero di immigrati a Roma provenienti dall’Oriente. Lo spostamento, però, ebbe vita corta. Ben presto la liturgia romana tornò all’uso esclusivo del latino e i fedeli si sarebbero sempre più allontanati dai rituali della Chiesa a causa dell’incapacità di comprenderlo. 27
5. DOMUS
ECCLESIAE: UNA CASA PER LA
CHIESA
1. Il Tempio abbandonato, particolare di un affresco della sinagoga di Dura Europos, Siria. Museo Nazionale, Damasco. 2. Edicola, probabilmente di un battistero cristiano, da Dura Europos, 250 ca. Yale University Art Gallery, New Haven, Connecticut.
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3. Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (titulus Pammachii), Roma, fianco meridionale verso il clivus Scauri: in basso la navata laterale, edificata sulle domus romane. 4. Affresco della domus romana sotto l’attuale chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, Roma.
Il culto al tempo degli apostoli e della Chiesa primitiva aveva luogo in siti differenti: il tempio ebraico, la sinagoga e le case cristiane. La prassi di incontrarsi in qualche casa cristiana continuò nei secoli successivi. Lo spazio cultuale reso disponibile nelle case più grandi dei membri più agiati della comunità cominciò a essere designato come domus ecclesiae: la «casa della Chiesa», o la «casa-chiesa». In quel tempo le proprietà della Chiesa non erano riconosciute legalmente e gli edifici ad uso delle comunità cristiane, pertanto, rimanevano di proprietà di privati. Famiglie ricche offrivano le loro case ad uso della ekklesia, la comunità radunata per il culto. A motivo della loro pianta, queste case si prestavano facilmente alle necessità liturgiche della comunità. Con pochi aggiustamenti, le case furono trasformate in spazi adatti al culto. Adottando la disposizione della casa romana con le sue più nobili tradizioni di famiglia, la Chiesa divenne capace di celebrare il suo culto in un’atmosfera personale e intima. Un buon esempio di domus ecclesiae è stato trovato a Dura Europos, in Mesopotamia, città già antica colonia militare romana sulla riva destra dell’Eufrate, che venne distrutta da un incendio nel 265 d.C. e non fu mai più ricostruita. È una casa ellenistica, costruita attorno al 232 d.C. e trasformata in una domus ecclesiae per le riunioni cristiane intorno al 240, distrutta quando la città bruciò. Vi sono stanze disposte secondo le differenti necessità del culto, decorate con esempi della prima arte cristiana. Una stanza al piano terreno fu creata da altre due, rimuovendo il muro divisorio; essa poteva ospitare un gruppo di circa sessanta persone. Sul lato orientale, c’era una piattaforma elevata, forse per l’altare. Un’altra stanza era usata per l’istruzione catechetica e una terza stanza fu ridisegnata come battistero, colma di immagini del Battesimo di Gesù da parte di Giovanni nel fiume Giordano. Fatto interessante, sulla 28
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5. Ricostruzione del fronte dei locali d’abitazione e dei magazzini di età imperiale sul clivus Scauri, inglobati nelle fondamenta della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (da Gismondi). 6. Pianta dei locali d’abitazione e dei magazzini di età imperiale sui quali fu edificata la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (da Krautheimer/Astolfi).
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stessa strada della domus ecclesiae è stata trovata una sinagoga che risale al medesimo periodo. La semplice presenza della domus ecclesiae e della sinagoga collocate fianco a fianco a metà del III secolo sembrerebbe indicare concordia tra le due fedi. I luoghi romani per la regolare assemblea liturgica cristiana erano situati in città. Venivano anche chiamati tituli, per
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il fatto che erano residenze private, ognuna chiamata col nome di chi possedeva la proprietà: nome che era iscritto su una placca (titulus) attaccata alla casa, per esempio titulus Byzantis, titulus Sabinae. Ogni titulus era posto in un distretto popoloso della città, o accanto ad esso, ma nessuno aveva un impatto particolarmente visibile, perché erano residenze ordinarie dotate di modesti adattamenti per il
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5. DOMUS
ECCLESIAE: UNA CASA PER LA
CHIESA
5. DOMUS 9. San Clemente, Roma, pianta del battistero del VI-VII secolo addossato al fianco settentrionale della chiesa (da Guidobaldi).
7. Chiesa di Santa Cecilia (titulus Caeciliae Transtiberim), Roma, pitture murali di età paleocristiana nel battistero della chiesa.
ECCLESIAE: UNA CASA PER LA
CHIESA
11. Chiesa di Santa Pudenziana (titulus Pudentis), Roma, parete settentrionale della basilica con la muratura antica e l’ampliamento realizzato da papa Adriano (772-795).
10. Chiesa inferiore di San Clemente, Roma, Madonna e santi, affresco del VII-VIII secolo.
8. Chiesa di Santa Cecilia, Roma, l’atrio attuale con l’antico cantharus del II secolo, proveniente dall’atrio della chiesa paleocristiana.
12. Pianta della chiesa di Santa Pudenziana (da Krautheimer). 10
sto che scrisse in occasione della dedicazione della nuova basilica costruita a Tiro. L’allargamento dei siti assembleari portò alla regolazione della loro disposizione, come possiamo leggere nella Didascalia apostolorum del III secolo. Le parole «chiesa» e «casa» sono entrambe usate, come in Eusebio. Il documento specifica più precisamente come dovesse essere la disposizione, con attenzione ai differenti gruppi di persone nella comunità, con riguardo alla posizione del vescovo con i suoi presbiteri e poi a quella dei laici. I consigli continuano riferendosi ai giovani, ai bambini, ai laici forestieri, ai vescovi e ai presbiteri forestieri e ai poveri. Si tratta di una fra le prime indicazioni di un ordinamento liturgico. Molti esempi di arte cristiana primitiva emergono in questo periodo; gran parte di essi è stata trovata nelle domus ecclesiae e alcuni sopravvivono ancora nelle catacombe romane. Si ritrova un insieme comune di motivi dipinti che raffigurano scene dalle Scritture ebraiche e cristiane. L’intenzione primaria è quella di mostrare come eventi e personaggi delle Scritture ebraiche trovino compimento nella persona e nell’opera di Cristo. In altri termini, i cristiani volevano che la loro arte presentasse in modo semplice e simbolico ciò che il culto celebrava sacramentalmente nei segni, cioè il mistero della salvezza. 7
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culto. Tali case a Roma comprendevano quelle rinvenute sotto le attuali strutture delle chiese dei Santi Giovanni e Paolo, di Santa Cecilia, di San Clemente e di Santa Pudenziana, per nominarne alcune. Queste case dovettero moltiplicarsi continuamente per tutto il III secolo, poiché si stima che i cristiani in città ammontassero a un numero fra 10.000 e 30.000 a metà del III secolo, e forse a 200.000 in tutto il mondo. Eusebio di Cesarea descrisse lo sviluppo delle comunità e la costruzione di edifici nel periodo della pace religiosa che seguì l’editto di Tolleranza dell’imperatore Gallieno, nel 260, e poi la loro distruzione come risultato della persecuzione di Diocleziano a partire dal 303-304. L’ultima persecuzione di Diocleziano testimonia la distruzione di domus ecclesiae in tre città nordafricane. Ma il fatto che esse furono distrutte così facilmente dà l’idea in qualche modo delle loro dimensioni modeste. Ancora Eusebio usa il termine «case di preghiera», ma parla anche di «chiese spaziose». Nel libro X della sua Historia ecclesiastica, egli include il te30
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5. DOMUS
ECCLESIAE: UNA CASA PER LA
CHIESA
5.DOMUS
13. Particolare degli affreschi della cupola dell’Esodo, Baghawat, oasi di Kharga, Egitto: gli Egizi inseguono gli Ebrei; Giona gettato in mare; storie di Eleazano e Rebecca; martirio di Isaia; i tre giovani nella fornace.
14. Lato destro della lipsanoteca di Brescia: medaglioni con apostoli; vocazione di Mosè; i tre giovani nella fornace; guarigione del cieco e resurrezione di Lazzaro; ciclo di Giacobbe. Civici Musei d’Arte e di Storia, Brescia.
ECCLESIAE: UNA CASA PER LA
CHIESA
15. Veduta da est del mausoleo e basilica con deambulatorio di Tor de’ Schiavi, Roma, luogo destinato genericamente al culto dei martiri e dei defunti del vicino sepolcreto.
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I temi biblici includevano le raffigurazioni di Adamo ed Eva, di Davide e Golia, il sacrificio di Isacco, Mosè che percuote la roccia, Giona, i tre giovani nella fornace, Daniele fra i leoni, Maria con il Bambino e un profeta, l’adorazione dei Magi, il Battesimo di Gesù, la moltiplicazione dei pani, il salvataggio di Pietro dalle acque in tempesta, la Samaritana, il Buon Pastore, le cinque vergini sagge, la resurrezione di Lazzaro e così via. La decisione della Chiesa primitiva di adottare la forma basilicale fu significativa. I templi tradizionali erano costruiti come santuario per ospitare l’oggetto del culto: un luogo in cui solo i sacerdoti potevano entrare. In quanto «casa per la Chiesa», gli spazi del culto cristiano dovevano impiegare un modello differente, poiché dovevano accogliere gruppi di praticanti, laici e clero insieme. Così, per le ragioni appena illustrate, in contesto giudeo-cristiano gli antichi luoghi del culto cristiano si collegarono più facilmente con le strutture della sinagoga che con il tempio. Nel mondo greco-romano si sarebbe invece imposto infine il modello basilicale. In quanto ampio edificio pubblico, la 32
basilica era originariamente intesa come luogo dove trattare gli affari pubblici – come corte giudiziale, come sala per le udienze imperiali, come mercato o per altre riunioni pubbliche. I cristiani trasformarono dunque lo stile basilicale disponendo l’edificio lungo l’asse longitudinale, come evidenziato nel modello del V secolo di Santa Sabina, sull’Aventino a Roma. Questo stile aperto si prestava facilmente ad accogliere un gran numero di persone e ai movimenti durante la liturgia (processioni). La navata maggiore era affiancata da due o quattro corsie laterali e numerose aperture consentivano ulteriormente il movimento. Al centro dell’abside stava la cattedra del vescovo, circondato dai suoi presbiteri che occupavano panche su ambo i lati. Il nartece serviva come spazio liminale per i catecumeni e per quanti non erano ammessi alla comunione. C’era anche quello che si cominciò a chiamare martyrium, ovvero una basilica costruita sulla tomba dei martiri, di Cristo stesso nel caso della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Nel martyrium c’era il santuario, o memoria, co-
me nella basilica vaticana di San Pietro. In alcuni casi, la memoria era collocata accanto alla basilica, come nel caso di San Lorenzo fuori le Mura. Questi santuari di solito si trovavano nei cimiteri e perciò fuori delle mura urbane. L’esempio di Dura Europos mostra chiaramente l’importanza dei battisteri in relazione all’edificio della chiesa. Il fatto che i candidati fossero battezzati nudi – togliendosi i vestiti come rifiuto dell’antica forma di vita – richiedeva uno spazio battesimale separato. Questi edifici erano spesso di forma ottagonale – a simboleggiare l’ottavo giorno –, superando il numero perfetto di sette. I battisteri normalmente includevano spogliatoi più piccoli, con camere separate per uomini e donne. La vasca battesimale era collocata nel centro della stanza, permettendo l’immersione totale del candidato e includendo spesso un posto esterno al fonte, dove il vescovo stava in piedi e pronunciava la formula trinitaria. Come accadeva a Dura Europos, i battisteri presentavano una ricca iconografia sulle pareti e sulla cupola della sala. 33
6. FONTI
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LITURGICHE DELL’EPOCA PATRISTICA
LITURGICHE DELL’EPOCA PATRISTICA
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1. Antonino Pio, a capo velato, celebra i venti anni del regno con una libagione, medaglione in bronzo, 158-159. Staatliche Museum, Münzkabinett, Berlino. 2. Il sacrificio di Melchisedek, che offre una cesta di pani e una coppa di vino, mosaico della navata maggiore della basilica di Santa Maria Maggiore, Roma. 3. Banchetto celeste, affresco della catacomba dei Santi Pietro e Marcellino, Roma.
L’Apologia di Giustino martire A Roma, la proibizione di incontri serali di circoli e organizzazioni può aver condotto i cristiani a celebrare il pasto eucaristico la domenica mattina, senza includere più l’intero pasto rituale, come descritto da Paolo in 1 Cor 11, ma limitato all’offerta del pane e del vino mescolato con acqua. Intorno al 150 d.C., Giustino martire, nella sua Apologia prima, riferisce all’imperatore Antonino Pio e al Senato di Roma a proposito di questi incontri mattutini. Nato a Samaria, in Palestina, Giustino si convertì al cristianesimo a Efeso verso il 130 e divenne un filosofo itinerante. Giunse a Roma durante il regno di Antonino Pio e aprì una scuola per aiutare i pagani convertiti ad apprezzare meglio la fede cristiana in un linguaggio semplice e familiare, con cui essi avevano dimestichezza. È lo stesso approccio che egli usa per cercar di spiegare all’imperatore che cosa facciano i cristiani la domenica mattina, quando si riuniscono per il culto, e il significato simbolico e religioso di ciò che si svolge. Giustino fu il primo a usare la parola greca eucharistia in riferimento a ciò che prima si chiamava «Cena del Signore» e «frazione del pane». Nel suo Dialogo con Trifone, egli si riferisce anche all’Eucaristia come a un sacrificio. Nell’Apologia Giustino di fatto offre due descrizioni dell’Eucaristia cristiana. Non è chiaro se stia narrando la spe34
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cifica prassi liturgica della Chiesa romana o semplicemente offrendo una descrizione più universale del culto cristiano. Al capitolo 65 offre la prima descrizione dell’Eucaristia connessa con la celebrazione del Battesimo. Qui, l’Eucaristia è chiaramente vista come il culmine dell’iniziazione cristiana, quando il neobattezzato viene condotto nell’assemblea dei credenti, condivide il bacio di pace per la prima volta con gli altri membri della Chiesa, partecipa alle orazioni e alla grande preghiera di ringraziamento, quindi alla comunione con l’assistenza dei diaconi che gliela amministrano. La descrizione del capitolo 67 fornisce un resoconto di una tipica funzione della domenica mattina, che comprende ciò che noi oggi chiamiamo liturgia della Parola e la liturgia eucaristica. La classica azione eucaristica di prendere, benedire (rendendo grazie), spezzare e distribuire costituisce evidentemente un’unica preghiera di benedizione e l’«Amen!» dell’assemblea è importante assenso a ciò che il celebrante ha proclamato. C’è anche una descrizione molto primitiva dei differenti ruoli liturgici che furono standardizzati nella tradizione: lettore, presidente (con probabilità il vescovo), assemblea e diaconi. Questa diversità di ministeri incoraggiò la comprensione del senso della liturgia come azione del popolo. Nel descrivere l’Eucaristia domenicale, egli informa l’imperatore sia del fatto che, in città o nelle campagne, i cristia-
ni si radunano «nel giorno del Sole», sia che essi leggono gli Atti degli apostoli o i profeti «per quanto lo permette il tempo». Non c’era ancora un lezionario fisso e così le letture venivano probabilmente fatte con una modalità di lectio continua (lettura continuata). Curiosamente, non si fa menzione della lettura dei Vangeli. Sappiamo che, nel II secolo, i Vangeli furono sempre più accettati come Sacra Scrittura e furono gradualmente letti nelle assemblee liturgiche, benché Giustino non ne faccia qui menzione. Un’omelia o «esortazione» segue la proclamazione della Parola; in essa il presidente ammonisce l’assemblea a imitare i santi esempi che hanno appena sentito descrivere nelle letture. Dopo l’omelia, Giustino nota che l’assemblea sta in piedi e che si offrono preghiere. Pane, vino e acqua vengono quindi portati dai membri dell’assemblea (presumibilmente già da casa) e il presidente prega e rende grazie «secondo le sue capacità». Quest’ultimo accenno si riferisce al fatto che, senza alcun testo liturgico fissato, il presidente doveva improvvisare una preghiera estemporanea, che si conclude con il forte «Amen!» del popolo. I doni vengono quindi distribuiti e Giustino nota che ognuno vi prende parte, senza eccezioni. Dopo, i diaconi portano i doni ai membri assenti della comunità, probabilmente gli ammalati e i più anziani, benché potessero esserne compresi altri che, per un motivo o per un altro, non potevano essere presenti al culto mattutino.
Alla conclusione della funzione, c’è un’offerta per i bisognosi e si compila una lista di quanti hanno necessità di assistenza economica: orfani e vedove, i bisognosi per malattia o per qualche altra ragione, i prigionieri, i forestieri e i visitatori. In modo significativo, la raccolta viene lasciata al presidente, il cui compito è di vigilare non solo sulla vita spirituale della comunità, ma anche su quella materiale, specialmente sulla sua diakonia (l’attenzione sociale agli emarginati). I diaconi quindi aiutano nella distribuzione di questi beni. Nonostante la narrazione primitiva dell’Eucaristia domenicale, possiamo già percepire qualcosa dell’intimo legame fra Eucaristia e giustizia, fra liturgia e vita, fra partecipazione liturgica e attenzione sociale. Dai membri dell’assemblea liturgica che sono economicamente stabili ci si attende che sostengano i meno fortunati e il presidente dell’assemblea liturgica incoraggia e sostiene questo legame intimo fra le due realtà. Giustino offre poi all’imperatore una motivazione per la scelta della domenica come giorno del culto cristiano, descrivendola come il primo giorno in cui Dio trasformò l’oscurità e la materia e creò il mondo, e il giorno in cui Cristo è risorto da morte. La Traditio apostolica Questo antico ordo della Chiesa è ricco nelle informazioni 35
6. FONTI
6. FONTI
LITURGICHE DELL’EPOCA PATRISTICA
LITURGICHE DELL’EPOCA PATRISTICA
4. Mosaico del VI secolo dell’arco trionfale della basilica di San Lorenzo fuori le Mura raffigurante Cristo in maestà tra san Pietro e san Paolo; fanno loro corona, a sinistra, un vescovo (papa Pelagio II) e un diacono (san Lorenzo), e a destra un altro diacono (santo Stefano) e il presbitero Ippolito.
liturgiche che offre, ma abbastanza complicato se cerchiamo di discernere l’autore o la provenienza del testo. Fino a poco tempo fa il testo si credeva composto da Ippolito Romano all’inizio del III secolo e si riteneva che l’opera riflettesse ampiamente la prassi liturgica romana. Grazie al lavoro degli studiosi di liturgia di tutte le denominazioni, è diventato oggi abbastanza chiaro che non possiamo più essere così sicuri nello stabilire autore, provenienza e datazione del testo. In verità, il documento è più simile a una redazione di diversi testi che a una singola composizione e può ben riflettere la prassi di varie regioni o aree geografiche, più che quella di una singola comunità cristiana. Parti della Traditio apostolica si possono trovare in altri ordines di Chiese del IV o del V secolo, come le Costituzioni apostoliche. Il testo, che era originariamente composto in greco, sopravvive ora solo in una traduzione latina trovata in un manoscritto del V secolo e in copto, arabo, etiopico e altre lingue dei secoli successivi. Nonostante le complicate origini del documento, esso ebbe un’influenza significativa sulle riforme liturgiche del Concilio Vaticano II, particolarmente nella restaurazione del catecumenato degli adulti e nella celebrazione dell’iniziazione cristiana (il rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, o RICA) e nella riforma della Messa cattolica. Le importanti informazioni che il documento offre sul tema verranno trattate nel capitolo 10. La Traditio apostolica presenta anche il rito dell’ordinazione di vescovi, presbiteri e diaconi. Qui vediamo l’ordinazione come un processo che comporta determinati passi: elezione, imposizione delle mani e preghiera, bacio di pace, Eucaristia. È anche importante notare come la comunità locale sia presente in tutte le sue componenti; anzi, i membri della comunità sono attivamente impegnati nella scelta della propria guida, nel processo di preparazione dell’ordinando e nel rito stesso. Il testo presenta anche l’indicazione di altri ministeri: vedove, lettori, vergini, suddiaconi e guaritori. Qui viene fatta una chiara distinzione fra ordinazione e istituzione. Questi ultimi membri della comunità non sono ordinati, ma piuttosto istituiti, perché con l’ordinazione viene donato uno speciale carisma tramite l’imposizione delle mani, che non è fatta su vedove, lettori, vergini e suddiaconi. Viene offerta un’importante informazione sulla preghiera quotidiana in tempi fissati e sulla interpretazione religiosa della preghiera in quelle ore determinate. Sono qui descritte anche alcune osservanze della vita cristiana: il pasto di agape, una preghiera per la benedizione della luce della sera (lucernarium o lucenarium) e una varietà di altre benedizioni. Nel rito di ordinazione di un vescovo si trova una preghiera eucaristica che servì come testo-base per la seconda pre36
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ce eucaristica che si trova oggi nel corrente Messale romano. Ha carattere cristologico e si riferisce direttamente alla azione di Dio in Cristo, anche se la preghiera in sé è diretta a Dio Padre. Non c’è il Sanctus, né vi sono intercessioni o commemorazioni dei santi. È la prima traccia di una narrazione dell’istituzione («Prendete e mangiate... Prendete e bevete») inclusa in una preghiera eucaristica e comprende anche un’anamnesi (memoriale), l’epiclesi (invocazione dello Spirito Santo) e una dossologia finale. L’epiclesi è interessante, perché ricorre dopo la narrazione dell’istituzione anziché prima, e combina l’invocazione sul pane e sul vino con quella sull’assemblea stessa. La birhat ha mazon ebraica (la preghiera di ringraziamento alla fine del pasto) fornisce chiaramente il modello di questa preghiera eucaristica. Ma la preghiera eucaristica cristiana, diversamente dalle preghiere ebraiche di benedizione da cui si origina, celebra il memoriale della morte e resurrezione di Cristo, mentre considera anche i temi della creazione e della storia della salvezza iniziata da Dio nell’Antico Testamento e portata a compimento in Cristo. Conseguentemente, la preghiera eucaristica cristiana trasforma il materiale ebraico sia nei termini di un contenuto nuovo, sia secondo uno stile che riflette maggiormente la prosa religiosa innica della cultura ellenistica. Non è un testo obbligatorio, ma semplicemente un modello suggerito che lascia intatto il diritto del presidente di improvvisare liberamente, pregando più a lungo e offrendo una preghiera solenne o pronunciando una preghiera più
breve e più semplice, purché solida e ortodossa. Nello stesso tempo, l’autore di questa parte specifica della Traditio apostolica riporta la preghiera come tradizionale, addirittura «apostolica», e perciò da prendersi come normativa. Si può immaginare che questa preghiera eucaristica abbia avuto un generale riscontro, per il fatto che l’età dei carismatici stava volgendo al termine. Vi sono alcuni altri interessanti insiemi di informazioni che riguardano questo documento e che sono degni di menzione. I capitoli 5 e 6 parlano dell’eventuale offerta di olio, formaggio e olive, che sembra aver avuto luogo nella celebrazione eucaristica stessa, anche se non è chiaro l’uso esatto, né l’intendimento. I capitoli 37 e 38 testimoniano la prassi dei fedeli di portarsi a casa un pezzetto di pane consacrato per prenderne un po’ ogni giorno, su indicazione del vescovo, prima di mangiare ogni altro cibo. Ovviamente, il concetto di Eucaristia quotidiana non era ancora diventato normativo nella Chiesa occidentale, ma il riferimento sembrerebbe suggerire un certo desiderio da parte dei fedeli di nutrirsi di Eucaristia in vari momenti della settimana, oltre alla celebrazione domenicale regolare. La Didascalia apostolorum La Didascalia apostolorum, o – secondo la sua traduzione siriaca – Insegnamento cattolico dei dodici apostoli e santi discepoli del nostro Redentore, fu originariamente scritta in greco; in quella lingua ne sopravvivono solo alcuni fram-
menti. L’intero testo è disponibile in una traduzione siriaca, forse redatta nel IV secolo. Inoltre, due quinti dell’opera esistono in latino e sono contenuti in una raccolta della fine del IV secolo o dell’inizio del V rinvenuta a Verona. Il documento esiste anche in traduzione araba, etiopica e copta. La Didascalia molto probabilmente risale al III secolo ed è opera di un autore sconosciuto – certamente un vescovo e forse anche uno studioso di fisica. Il luogo di composizione è ritenuto generalmente la Siria settentrionale, forse nelle vicinanze di Antiochia. Essa tratta di vari membri della Chiesa (vescovi, diaconi, diaconesse, eccetera) e di alcune pratiche liturgiche (Battesimo, Penitenza, digiuno). Inoltre, la Didascalia descrive un sistema penitenziale ben sviluppato, ma con pochi segni del rigorismo caratteristico di molte Chiese occidentali del tempo. Non parla solo del ruolo del vescovo e della comunità nella conversione e nella riconciliazione del penitente, ma indica anche che il catecumenato era il modello seguito per l’organizzazione dei riti di riconciliazione. La descrizione delle fasi della Penitenza e delle responsabilità del vescovo sottolinea la natura pubblica del rituale e il ruolo intercedente della comunità riunita. Una sottolineatura particolare è data anche all’aspetto di guarigione del sistema penitenziale. Il testo offre anche la più antica descrizione della celebrazione della Pasqua, una testimonianza preziosa di come essa veniva celebrata liturgicamente. Il testo non è teologico, ma piuttosto pratico e manca di buona organicità. Ciononostante, è particolarmente apprezzabile perché descrive l’ordinamento dell’assemblea liturgica e il tema dell’ospitalità liturgica. Esso sottolinea l’importanza del vescovo che presiede l’Eucaristia domenicale nel proprio distretto, e il dovere che egli ha di estendere l’ospitalità ai vescovi in visita, invitando l’ospite a condividere la preghiera eucaristica. Il tema dell’ospitalità si estende all’assemblea liturgica stessa. I membri dell’assemblea dovrebbero farsi posto gli uni agli altri. I giovani, per esempio, dovrebbero lasciare le loro sedie agli anziani, se necessario. I diaconi dovrebbero accogliere i membri della Chiesa alle porte e mostrare loro il proprio posto, specialmente se arrivano in ritardo. Ma il modello dell’ospitalità per eccellenza deve essere il vescovo, specialmente verso ospiti, stranieri, anziani, vedove, orfani e malati. Inoltre, il vescovo presidente deve dare un’accoglienza speciale al povero. Quando un povero arriva in ritardo all’Eucaristia domenicale, il vescovo (e non il diacono) deve accogliere e salutare l’ultimo venuto. Nel mostrare a quella persona il suo posto, se per caso non ne avanzino nell’assemblea, il vescovo deve cedere il proprio seggio al povero visitatore e quindi sedersi sul pavimento! 37
7. LA
7. LA
PREGHIERA QUOTIDIANA NELLA CHIESA PRIMITIVA
1. Veduta del paesaggio e delle grotte scavate a Qumran, Palestina, dove, a partire dalla metà del II secolo a.C., si insediò una comunità di esseni.
PREGHIERA QUOTIDIANA NELLA
CHIESA
PRIMITIVA
2. Parole dei Luminari, frammento del manoscritto ritrovato a Qumran, contenente una raccolta di inni, ognuno per un giorno della settimana a partire dalla domenica.
4. Filatteri ritrovati a Qumran. I filatteri sono pezzetti di pergamena con passi della Legge che ancor oggi gli Ebrei si legano al braccio o sulla fronte durante le preghiere del mattino.
3. Rotolo dei Salmi, da Qumran.
5. Il tempio di Gerusalemme con l’altare dei sacrifici e la tavola delle offerte, particolare del mosaico della cappella della Theotokos nel Memoriale di Mosè sul monte Nebo, primo decennio del VII secolo.
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anche all’interno dell’ebraismo. Per esempio, a Qumran c’era una traccia di preghiera quotidiana legata al sacrificio del tempio (tardi nella mattinata e nuovamente all’ora nona nel pomeriggio) e un’altra traccia di preghiera collegata con il sorgere e il tramontare del sole. Questi due percorsi della preghiera ebraica sembra fossero connessi nella tradizione rabbinica di pregare tre volte al giorno. Questa realtà indica un utile correttivo alla visione più semplicistica di una preghiera del mattino e della sera nella Chiesa primitiva come se fossero in diretta continuità con la tradizione sinagogale, e di una preghiera addizionale alle ore terza, sesta e nona come preghiere minori intese più per un uso privato. Tutto ciò suggerisce che, una volta di più, qui ci sono più questioni che risposte e che tutto quello che possiamo affermare è il fatto che ebrei e cristiani avevano una tradizione di preghiera in tempi fissati, benché il percorso fissato differisse da luogo a luogo. Così, mentre le riforme liturgiche del Concilio Vaticano II sono corrette
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Il Nuovo Testamento offre numerosi comandi di «pregare sempre» (1 Ts 5,17), di cantare «salmi, inni e cantici spirituali a Dio» (Col 3,17), eccetera. La Didache (cap. 8) stabilisce che i cristiani debbono pregare il Padre nostro tre volte al giorno, ma manca l’indicazione del momento preciso di tale preghiera. Nel III secolo, Clemente Alessandrino nota che era già comune per i cristiani pregare alle ore terza, sesta e nona. Egli menziona anche la preghiera al mattino, prima di andare a dormire e prima, durante e dopo i pasti. Clemente offre anche la prima testimonianza patristica della natura escatologica della preghiera notturna. Origene parlava della preghiera al mattino, a mezzogiorno, alla sera e di notte. Nel Nord Africa, Tertulliano attesta una preghiera obbligatoria all’inizio e alla fine di ogni giorno e una preghiera almeno raccomandata alle ore terza, sesta e nona e di notte. Inoltre, i cristiani debbono pregare prima dei pasti, quando si recano al bagno, quando sono con ospiti: in verità, durante le loro più svariate attività lungo la giornata. Cipriano di Cartagine manifesta una forte sottolineatura dei temi della luce e dell’oscurità 38
nella celebrazione della preghiera del mattino e della sera. Come già ricordato, la Traditio apostolica offre una buona quantità di informazioni sui percorsi di preghiera quotidiana, citandone l’importanza: all’alba e poi alle ore terza, sesta e nona; nell’agape serale; prima di ritirarsi; intorno a mezzanotte; al canto del gallo. Vi è un interessante riferimento alla preghiera notturna per una coppia unita da matrimonio misto, in cui la moglie non sia ancora battezzata. In tal caso, allora, il credente deve alzarsi dal letto e andare in una camera separata per pregare. Dopo aver completato la preghiera, egli può tornare nel letto matrimoniale. Se questi vari esempi danno una chiara indicazione della preghiera quotidiana nella Chiesa primitiva, essi dicono anche molto chiaramente che non possiamo distinguere percorsi fissati in modo normativo in questo periodo più antico. Mentre è chiaro che il concetto cristiano di preghiera quotidiana deriva dalla tradizione ebraica, dobbiamo attentamente evitare una connessione troppo stretta, poiché troviamo analoghe variazioni di stile e di prassi
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quando affermano che le preghiere del mattino e della sera sono «i due cardini su cui ruota l’ufficio quotidiano» come esso si esprime ai nostri giorni, non dobbiamo essere frettolosi nell’affermare che sia sempre stato così. Certamente questa era la prassi in alcuni luoghi, ma possiamo trovare esempi ugualmente validi di preghiera comune alle ore terza, sesta e nona che funzionavano non come due, ma come tre cardini per offrire un centro spirituale alla giornata. La stessa diversità di prassi si rifletteva nelle diverse forme di preghiera quali svolte negli uffici cattedrali, monastici e monastici urbani, secondo la loro evoluzione in Oriente e in Occidente, specialmente nel IV secolo. Ciò che rimaneva comune in questi tempi fissi di preghiera era il desiderio di cercare la volontà di Dio nei vari momenti della giornata e il fatto che la preghiera stessa era offerta come «sacrificio spirituale» o «sacrificio di lode e di ringraziamento». Abbiamo poche, preziose informazioni sul contenuto di questi primi tre secoli, benché si possa presumere che l’uso di salmi, inni e letture fosse da tempo standardizzato. Si dovrebbe anche notare che i cristiani nella Chiesa primitiva facevano poca distinzione fra la preghiera liturgica e quella privata, dato che molto dipendeva dal tempo, dal luogo, dal contesto, eccetera. Così, la rubrica di pregare rivolti a est, con le braccia alzate, o in ginocchio, era usata sia che uno pregasse privatamente in casa, sia che pregasse in un’assemblea liturgica più ampia. Nei tempi di persecuzione o nei giorni lavorativi, questo significava spesso che si pregava da soli. Ai nostri giorni, siamo abitua40
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6. Orante detta «Donna velata», cubiculum della Velatio, catacomba di Priscilla, Roma. 7. Orante, affresco della cappella cristiana nell’area del complesso ospedaliero di San Giovanni, Roma, V secolo. 8. Oranti, cassetta di Samagher, presso Pola, V secolo. Museo Archeologico, Venezia. La scena è inserita in un ambiente che conserva la memoria dell’assetto presbiteriale della basilica vaticana.
9. Figure di oranti. Museo di Arte Copta, Il Cairo Vecchio. 10. Due santi oranti, affresco da Saqqara, VII-VIII secolo, particolare. Presumibilmente si tratta di sant’Apollo e di san Fib.
ti a pensare alla liturgia delle ore come a un percorso di preghiera quotidiana normalmente riservato alle comunità monastiche o religiose e al clero, anche se i laici sono fortemente incoraggiati a parteciparvi. Ciò che è abbastanza evidente nella Chiesa primitiva, però, è il fatto che la preghiera quotidiana iniziò come movimento laicale, che venne gradatamente monasticizzato, e clericalizzato solo molto più tardi, nel Medioevo. È probabile che l’antico inno serale Phos hilaron (Luce gentile), che era comunemente usato nel lucernarium dell’ufficio cattedrale del IV secolo, fosse già impiegato nella preghiera serale dei primi secoli, almeno in certi luoghi. Similmente, il classico salmo dei Vespri «Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 140), che era costitutivo della preghiera serale nell’ufficio cattedrale, può anch’esso essere stato usato nei primi secoli, data la sua tematica legata a quella particolare ora. È inoltre probabile che i salmi Laudate (147-150) siano diventati un elemento standard nella preghiera del mattino, al punto che la parola «Lodi» derivò proprio da questi salmi. Fu il grande studioso tedesco di liturgia Anton Baumstark a scoprire, nel 1948, la ricca distinzione fra ufficio cattedrale e ufficio monastico nel IV secolo. Baumstark sottolinea il termine «cattedrale», anziché «parrocchiale», perché la chiesa del vescovo era il centro della vita liturgica della chiesa locale e il vescovo era normalmente presente a questi uffici. L’ufficio cattedrale era di stile popolare, con uso di simboli e di cerimonie (incenso, luce – vedi il lucerna41
7. LA
PREGHIERA QUOTIDIANA NELLA
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7. LA
PRIMITIVA
PREGHIERA QUOTIDIANA NELLA
CHIESA
PRIMITIVA
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11. Carta dei luoghi. Milano
12. Esterno di una chiesa monastica rupestre della Cappadocia con aperture delle celle lungo le pareti rocciose.
Mar Nero
Marsiglia
Danubio
Roma Costantinopoli
rium – e processioni). La pellegrina galiziana Egeria fornisce un racconto dettagliato di ogni simbolo e cerimonia inerenti l’ufficio cattedrale, come ricorda di aver osservato a Gerusalemme durante il suo soggiorno triennale colà, verso la fine del IV secolo. L’ufficio cattedrale usava il modo responsoriale di cantare i salmi e gli inni, per permettere una maggiore partecipazione a livello di popolo; l’assemblea doveva semplicemente ripetere l’antifona o il ritornello che veniva prima cantato da un cantore o da un coro. Inoltre i salmi venivano normalmente scelti per motivi tematici (il salmo 62 per il mattino, il 140 per la sera), più che cantati in sequenza o secondo un ordine, come invece succedeva nella tradizione monastica. La ripetizione di un numero limitato di salmi permetteva la massima familiarità sia con il testo, sia con il tono del canto. Era anche presente una varietà di ministri: vescovo, presbiteri e diaconi; lettori; coro, ognuno con la propria veste liturgica. Erano uffici di lode e di intercessione, non una liturgia della Parola. Di fatto era normale che non si leggesse la Scrittura nell’ufficio cattedrale, eccetto che in Egitto e in Cappadocia. Al principio del IV secolo, il vescovo e storico della Chiesa Eusebio di Cesarea, in Palestina, fu il primo a dare testimonianza dell’ufficio cattedrale. Egli parla della preghiera del mattino e della sera celebrata in questa tradizione, degli inni e delle lodi che sono «veramente delizie divine» e sottolinea il salmo 140 come il salmo classico della preghiera della sera. In Egitto, la prima testimonianza dell’ufficio cattedrale viene da Atanasio di Alessandria, che parla della veglia notturna della cattedrale, frequentata da monaci e da laici e composta di letture, salmi responsoriali e preghiere. Qualche tempo dopo, Giovanni Cassiano, che fu in Egitto dal 380 al 390 d.C., nelle sue conferenze menziona che l’abate dovrebbe esortare i suoi monaci a partecipare alla preghiera del mattino in cattedrale. In Cappadocia, le testimonianze dell’ufficio cattedrale vengono da un’intera famiglia: Basilio Magno, vescovo di Cesarea in Cappadocia, sua sorella santa Macrina, i loro fratelli Gregorio di Nissa e Pietro di Sebaste (anch’egli vescovo), la madre e la nonna. Essi affermano che la preghiera della sera iniziava con l’accensione delle lampade al canto del Phos hilaron; poi si cantava il salmo 140; c’erano letture seguite da un’omelia e intercessioni. Anche Giovanni Crisostomo attesta il canto quotidiano del salmo 140, insieme al salmo 62 come salmo classico della preghiera del mattino. Basilio parla dei Vespri, che hanno a che fare con il perdono di Dio per qualunque peccato sia stato commesso lungo il giorno. Se l’Oriente fu ampiamente noto per l’ufficio cattedrale, esisteva anche l’ufficio monastico egiziano del IV secolo, che conteneva due uffici quotidiani: non la preghiera del 42
Tagaste
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Cesarea di Cappadocia
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13. Santo monaco affrescato nella chiesa di San Mercurio, Il Cairo Vecchio. 14. San Benedetto tra san Sebastiano e san Zosimo, affresco, XI secolo, San Sebastianello, Roma.
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mattino e della sera, ma piuttosto quella a metà della notte, al canto del gallo, e un secondo ufficio di primo mattino. Dal lunedì al venerdì, i monaci pregavano questi uffici privatamente nelle loro celle o con chiunque capitasse in visita, mentre il sabato e la domenica gli uffici venivano prega-
ti insieme in chiesa. Il nucleo di questi uffici conteneva dodici salmi con preghiere private, prostrazioni e una preghiera di colletta dopo ogni salmo. C’era anche l’ufficio ibrido monastico-urbano, che combinava la semplicità dell’ufficio cattedrale con i testi dell’ufficio monastico. Ci
furono diverse espressioni di questa forma in Palestina, ad Antiochia e in Cappadocia. In Occidente la situazione era un po’ differente. Se pure Ambrogio accenna alla presenza dell’ufficio cattedrale di Milano, citando l’uso standardizzato del salmo 140 nella preghiera della sera, questo ufficio non sembra fosse di ampia diffusione quanto lo era in Oriente. Non abbiamo notizia della sua esistenza in Roma, per esempio. Abbiamo informazioni significativamente maggiori sulla crescita dell’ufficio monastico, iniziando dall’Ordo monasterii nordafricano dell’anno 395 d.C. a Tagaste, che fu poi incorporato nella Regola di sant’Agostino. In questo ufficio, i salmi 62, 5 e 89 erano usati comunemente per le Lodi. A metà del VI secolo, la Regula Magistri (530-560 d.C.) fornì il fondamento per la Regola di san Benedetto; a noi offre molte informazioni sulla liturgia delle ore. La più antica fondazione monastica di Roma fu il monastero di San Sebastiano sulla via Appia Antica, del V secolo, e l’ufficio romano antico che da lì si sviluppò influenzò a sua volta san Benedetto. Qui possiamo vedere un certo influsso dell’ufficio cattedrale nello sviluppo della preghiera del mattino, mentre l’influenza sulla preghiera della sera è praticamente inesistente. 43
8. LA LEGALIZZAZIONE DEL CRISTIANESIMO E IL CULTO PUBBLICO
8. LA LEGALIZZAZIONE DEL CRISTIANESIMO
4. Pianta del battistero lateranense: in evidenza le terme e le fondamenta del battistero costantiniano al di sotto dell’intervento sistino (da Brandt).
E IL CULTO PUBBLICO 1. Moneta dell’imperatore Valentiniano II (371-392), Aquileia. L’imperatore, nimbato, tiene con la sinistra il labarum col monogramma di Cristo.
Costantino I il Grande è entrato nella storia come il liberatore della Chiesa cristiana dall’oppressione dei secoli precedenti, quando i cristiani erano senza alcun diritto legale. Con la vittoria di Costantino sul suo rivale Massenzio nella battaglia del ponte Milvio (312 d.C.), in cui, come dice la leggenda, l’esercito di Costantino espose un segno cristiano sui propri scudi, e col cosiddetto editto di Milano (313 d.C.), la situazione cambiò. L’editto, firmato da Licinio, augusto d’Oriente, e da Costantino, augusto d’Occidente, era composto in termini particolarmente amichevoli, che garantivano ai cristiani una libertà completa e totale di culto e l’immediata restituzione di tutti i beni confiscati. Costantino continuò a mostrare un’attiva simpatia per il cristianesimo durante il resto del suo regno. Favorì il clero della «vera santa Chiesa cattolica» con esenzioni dalle tasse e i privilegi precedentemente goduti dai sacerdoti pagani. Gradualmente, il clero acquisì titoli e insegne di cui si fregiavano un tempo i dignitari dello Stato. Le rappresentazioni pagane sulle monete vennero sostituite con simboli cristiani, pronto strumento di propaganda. Ai capi della Chiesa venne attribuito il diritto di emettere giudizi anche in casi di controversie civili e le loro decisioni furono riconosciute come valide. Anzi, nel 318 Costantino attribuì alla giurisdizione civile dei vescovi le liti in tribunale che riguardavano i cristiani. Le chiese videro garantito il diritto di succedere nella proprietà, misura che permise loro di accrescere il patrimonio; gli schiavi cristiani furono liberati in forza della legge. I cristiani per la prima volta accedettero alle cariche civili più elevate. Costantino promulgò anche
2. Pianta e alzato del complesso del Santo Sepolcro nella prima età costantiniana, IV secolo: a sinistra la rotonda dell’Anastasis con il Sepolcro di Cristo; a destra, collegata da un cortile porticato, la basilica per le celebrazioni liturgiche.
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3, 5-6. Ricostruzione delle basiliche di San Giovanni in Laterano (3), di San Pietro (5) e di San Paolo fuori le Mura (6) (elab. H. Brandenburg; dis. K. Brandenburg).
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una legge che ordinava che «tutti i giudici, le popolazioni cittadine e le associazioni commerciali smettessero di lavorare nel venerabile giorno del Sole. Tuttavia, i contadini si dedichino liberamente e senza alcun timore alla coltivazione dei campi...». La domenica fu così riconosciuta come una festa pubblica. Gradatamente, apparvero leggi successive e misure restrittive contro le pratiche pagane, che vietavano i sacrifici agli idoli, la magia e la divinazione. Costantino fu nondimeno limitato nel suo servizio alla Chiesa. Di fatto, il Foro romano rimase un territorio pagano, anche dopo la pace di Costantino. La Via sacra vide l’erezione fra il 337 e il 341 di una serie di statue pagane, fra cui si possono trovare alcune vecchie divinità. Situazioni simili si possono trovare anche a Ostia antica. Il paganesimo fu definitivamente soppresso a Roma solo con l’imperatore
cristiano Teodosio, nel 395. Allora, gli ultimi membri delle grandi famiglie che non erano ancora diventate cristiane furono obbligati a farlo, anche se poi rimasero cripto-pagani. Se Costantino non abolì i culti pagani, estese maggiori privilegi ai vescovi e al clero; non distrusse gli edifici pagani, ma ne costruì di impressionanti per il culto cristiano. Alcuni di questi edifici furono finanziati privatamente, mentre altri – come la basilica del Golgotha, a Gerusalemme – furono eretti a pubbliche spese. L’interesse di Costantino a questo progetto fu testimoniato dalla sua richiesta che gli venisse fatto personalmente un rapporto progressivo sulla costruzione. Così, i luoghi di culto si moltiplicarono e in questo periodo lo stile architettonico basilicale entrò nell’uso comune per il culto. La generosità dell’imperatore e della sua famiglia 45
8. LA LEGALIZZAZIONE DEL CRISTIANESIMO E IL CULTO PUBBLICO
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11. Sant’Agnese fuori le Mura, veduta dell’interno verso est della basilica a matronei di Onorio I (625-638).
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9. Ricostruzione della basilica a matronei di Sant’Agnese fuori le Mura a Roma, VII secolo (elab. H. Brandenburg; dis. M. Bordicchia). 10. Ricostruzione dell’assetto intorno al 600 dell’altare e del podio absidale di San Pietro (da Ward-Perkins, Toynbee).
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8. Pianta e direzione assiale delle chiese di Roma dal 312 al 400: 2 Santa Croce in Gerusalemme; 3 San Giovanni in Laterano; 8 San Pietro in Vaticano; 10 San Pietro in Lucina; 16 San Clemente; 17 Santi Quattro Coronati; 20 San Sisto Vecchio; 22 Santa Balbina; 25 San Crisogono; 26 San Lorenzo in Damaso; 30 Santa Pudenziana; 35 San Marco; 39 Santa Anastasia.
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7. Santo Stefano Rotondo, Roma, veduta panoramica dell’interno. In primo piano a sinistra, sedile in marmo della prima età imperiale riutilizzato come cattedra vescovile.
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(l’imperatrice madre Elena e le sorelle di Costantino, tutte cristiane) permisero la costruzione e l’ornamento di edifici magnifici. A Roma, questi edifici includevano la basilica del Laterano, dove il palazzo contiguo, in seguito residenza del papa, sembra fosse posto a disposizione di questi già nel 314; la basilica di San Pietro sul colle Vaticano; quella di San Paolo sulla via Ostiense; e quella degli Apostoli (oggi San Sebastiano) sulla via Appia. Edifici per il culto e santuari in luoghi tradizionalmente associati alla vita di Cristo cominciarono a essere costruiti in Terra Santa, rendendo così in particolare Gerusalemme un centro di pellegrinaggi e un tributo al nuovo ordine imperiale. Costantino la dotò di un magnifico gruppo di edifici eretti sul supposto sito del Calvario e del Santo Sepolcro. La nuova capitale imperiale, Costantinopoli (ufficialmente fondata e dedicata nel 330 d.C.), poteva vantare anche alcune chiese cristiane, compresa la «gran chiesa» (in seguito ricostruita come Santa Sapienza o Hagia Sophia), la basilica nota come Hagia Eirene (Santa Pace) e la chiesa dei Santi Apostoli, sotto la cui volta dorata – afferma Eusebio – furono posti dodici sepolcri, con quello di Costantino al centro. In questa chiesa, Eusebio descrive il funerale e la sepoltura di Costantino. La storia del cristianesimo entrava così in una fase totalmente nuova, perché la Chiesa trovava infine un certo pe47
8. LA LEGALIZZAZIONE DEL CRISTIANESIMO E IL CULTO PUBBLICO
riodo di pace in cui vivere e prosperare. Tutte le barriere, giuridiche e materiali, che prima impedivano la diffusione del Vangelo erano ora eliminate e poteva attuarsi un progresso libero e di più solida efficacia. In tutte le parti dell’Impero, le conversioni si moltiplicarono e il cristianesimo raggiunse le masse e i circoli che prima gli erano ostili. Ovunque furono fondate nuove sedi vescovili, con i ritratti dei vescovi appesi nelle pubbliche piazze, là dove un tempo c’era il ritratto dell’imperatore o di un altro ufficiale di governo. Intensa fu l’attività teologica e, naturalmente, anche la vita liturgica della Chiesa si sviluppò. Tuttavia, questo periodo non fu totalmente favorevole al cristianesimo; raramente le comunità cristiane vissero in una pace genuinamente duratura, per due motivi. In primo luogo, ci fu una serie infinita di scismi ed eresie (per esempio l’arianesimo, il docetismo, l’apollinarismo, il nestorianesimo, il monofisismo). Il problema dell’unità e trinità di Dio fu al centro della controversia nel IV secolo e al Concilio di Nicea (325 d.C.) ne risultò l’elaborazione della dottrina trinitaria della Chiesa con la solenne proclamazione – contro gli ariani – dell’uguaglianza del Figlio con il Padre, e conseguentemente della sua divinità. Il primo Concilio di Costantinopoli (381 d.C.) tentò – fra l’altro – di professare la fede nell’uguaglianza di onore e gloria dello Spirito Santo con il Padre e il Figlio. Ma rimaneva la domanda: «Chi è Gesù Cristo?». La Chiesa, nel V secolo e anche in parte nel VI, cercò di provare la questione in modo più approfondito, gettandosi in una serie di dibattiti cristologici su questioni quali la divinità del Verbo, l’umanità completa e integrale di Gesù e la relazione fra la natura divina e la natura umana di Cristo. In secondo luogo, la pace dell’Occidente fu anche danneggiata dalla tempesta delle successive invasioni barbariche, di popolazioni (Goti, Visigoti, Vandali...) che cercavano terre e fuggivano dagli Unni, nelle steppe dell’Asia centrale. Queste invasioni decimarono le popolazioni, eliminarono le loro strutture politiche, culturali e religiose, annullando quasi del tutto gli effetti della prima evangelizzazione. Le comunità cristiane sentirono con viva pena la rovina e percepirono come un oltraggio la caduta e il sacco di Roma nel 410 da parte del capo vandalo Alarico. I pagani incolpavano i cristiani, accusandoli di aver bandito gli dei, protettori della città, e di averne abbandonato il culto. In verità, la popolazione di Roma era di soli 800.000 abitanti al tempo di Costantino, mentre aveva raggiunto il milione (o anche il milione e mezzo) in altre epoche. In aggiunta alle invasioni barbariche, il V secolo vide anche l’arrivo di malaria, colera e peste bubbonica. Nel 452 d.C., la popolazione di Roma era diminuita fino a 500.000 abitanti e poi fino a soli 100.000 nell’anno 500. Dopo l’invasione dei Goti, la popolazione scese a 30.000 o forse anche meno. Nonostante questi ostacoli, comunque, la Chiesa sopravvisse e la sua crescita continuò. I cambiamenti che ebbero luogo come risultato dell’editto di Milano e della simpatia di Costantino per il cristianesimo, la conseguente crescita della predicazione e della teologia patristica, l’inserimento della Chiesa nei flussi culturali e socio-politici dell’antica civiltà furono tutti elementi 48
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12. Figura di orante, particolare del retro del sarcofago di Publius Caesilius Victorinus, fine del III secolo. Necropoli vaticana di Santa Rosa. 13. Figura femminile di orante, mosaico della fine del VI secolo. Collezione Federico Zeri, Roma. 14. Schola degli juvenes, riutilizzata come basilica dalla comunità cristiana di Maktar in Tunisia.
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15. Altare della chiesa di Saint-Marcel de Crussol, Francia, IV secolo. Nella mensa (in alto), sono visibili due serie di colombe che convergono verso un monogramma di Cristo inserito tra un a e un w; nel lato corto (in basso), due serie di uccelli convergono verso una corona. Musée d’Archéologie Nationale, Saint-Germain-en-Laye. 16. Cristo nuovo Orfeo e Buon Pastore nel mosaico pavimentale del battistero di Aquileia.
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che influirono sullo sviluppo della liturgia e sulla sua forma futura. Da celebrazione liturgica intima e casalinga nella domus ecclesiae, il culto cristiano si sviluppò in una realtà solenne e regale nello splendore delle basiliche costantiniane. Il vescovo ora, circondato dai presbiteri, sedeva in cattedra al centro dell’abside luogo che in un contesto differente sarebbe stato quello del trono riservato all’imperatore. Non solo il rito romano, ma anche i riti orientali iniziarono a fiorire e raggiunsero le loro forme specifiche nel VII secolo. Creatività e adattamento caratterizzano questo periodo. La Chiesa usò due metodi di adattamento. Uno fu la sostituzione; l’altro l’assimilazione. La sostituzione fu perseguita
rimpiazzando elementi cultuali pagani con quelli cristiani, in modo tale che questi praticamente abolirono i primi. Col metodo dell’assimilazione, la Chiesa adottava quegli elementi dei rituali e della gestualità pagani, come abbiamo già detto, nei quali poteva infondere un significato cristiano. Ma le Scritture rimasero la fonte principale di ispirazione per l’istruzione catechetica e la composizione dei testi liturgici. La storia della salvezza fu il contesto per le preghiere eucaristiche di questo periodo: lode a Dio per l’opera della creazione, per la promessa di salvezza e per il suo compimento in Cristo. L’attaccamento alle forme tradizionali, comunque, era facilmente riconoscibile, nonostante la freschezza di creazioni originali e adattamenti. 49
9. LA LITURGIA NELLA GERUSALEMME DEL IV SECOLO
9. LA LITURGIA NELLA GERUSALEMME DEL IV SECOLO
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3. Itinerario del viaggio di Egeria in Terra Santa. 4. Facciata della basilica del Santo Sepolcro, Gerusalemme.
1. L’evangelista Matteo e san Giovanni Crisostomo, manoscritto delle Omelie di san Giovanni Crisostomo. Monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto.
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5. Cappella del Calvario, basilica del Santo Sepolcro, Gerusalemme.
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6. Pianta del Santo Sepolcro disegnata nel 680 da Arculfo. Badische Landesbibliothek, Karlsruhe.
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2. L’Oriente cristiano ai tempi di Egeria.
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La città santa di Gerusalemme assurse a nuova importanza al tempo di Costantino e divenne un importante centro di pellegrinaggio. Gradatamente, la liturgia di Gerusalemme cominciò a influenzare gli sviluppi liturgici nel IV e nel V secolo, in Oriente e in Occidente. I suoi caratteri principali divennero in realtà modelli per il culto cristiano: la struttura e l’organizzazione delle ore quotidiane della preghiera, le celebrazioni di feste durante l’anno liturgico e i riti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Confermazione ed Eucaristia). Le omelie battesimali di Cirillo di Gerusalemme, Ambrogio di Milano, Giovanni Crisostomo e Teodoro di Mopsuestia ci permettono di dare uno sguardo alle liturgie locali delle Chiese dove officiarono, poiché essi spesso vi commentarono quei riti e quei testi liturgici. Le omelie catechetiche di Cirillo di Gerusalemme, della metà del IV secolo,
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sono particolarmente importanti, per l’influenza delle liturgie gerosolimitane su quelle di altre Chiese in questo periodo e nel secolo successivo. Vescovi come Cirillo si avvantaggiarono del gran numero di pellegrini che cominciarono a visitare Gerusalemme in quell’epoca, offrendo loro modelli liturgici, specialmente nei giorni festivi, che poi i pellegrini riportarono a casa cercando di imitarli. Una di questi pellegrini fu la già menzionata Egeria, che visitò Gerusalemme forse dal 381 al 384 e scrisse un diario di viaggio per le sue sorelle rimaste a casa, nel quale registra con una straordinaria abbondanza di particolari la prassi liturgica e i costumi a cui assistette laggiù. Egeria inizia con una descrizione delle liturgie che venivano celebrate quotidianamente, seguite dalle domeniche e poi dalle grandi feste dell’anno ecclesiale. Riferisce di una Quaresima di otto settimane osservata a Gerusalemme, e di particolare inte51
9. LA LITURGIA NELLA GERUSALEMME DEL IV SECOLO 7. Pianta della basilica del Santo Sepolcro con l’itinerario liturgico del lunedì, mercoledì, venerdì e sabato della Settimana Santa. A: Anastasis; B: edicola del Santo Sepolcro; C: rotonda del Santo Sepolcro; D: atrio a tre portici; E: roccia del Golgota; F: Martyrium; G: atrio orientale; H: luogo del battistero (da Corbo, 1980, ridis. Krüger, 2000).
9. LA LITURGIA NELLA GERUSALEMME DEL IV SECOLO
9. Anastasis o rotonda del Santo Sepolcro, Gerusalemme.
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8. Pianta di Gerusalemme con gli itinerari liturgici del sabato e della Domenica delle Palme, del martedì e giovedì della Settimana Santa e della domenica di Pasqua.
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Itinerari della liturgia della Settimana Santa a Gerusalemme, secondo Egeria
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venerdì
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Martyrium
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sabato
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Anastasis
domenica
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resse è il suo resoconto della Settimana Santa, che chiama «Grande Settimana». Qui la pellegrina offre preziose informazioni sui riti dell’iniziazione cristiana come là si svolgevano. Il suo racconto è in accordo con quanto leggiamo nelle catechesi battesimali di Cirillo. Troviamo una concordanza simile nelle loro analoghe descrizioni della disposizione dell’anno liturgico, degli edifici usati nei vari giorni per i vari riti e delle letture che venivano proclamate in queste liturgie. L’attenzione di Egeria al dettaglio è così straordinaria che si può ricostruire con buona approssimazione la pianta della basilica del Santo Sepolcro dai suoi molti riferimenti a come la liturgia vi veniva celebrata. Muovendosi da ovest verso est, si trovano l’Anastasis (il santuario della Resurrezione), una chiesa rotonda con la roccia del Santo Sepolcro posta al centro. L’ufficio cattedrale vi veniva celebrato quotidianamente. Poi c’era l’atrio di Santa Croce – un cortile interno chiuso su tre lati da portici e sul lato orientale dal martyrium –, la chiesa principale del complesso, dove la domenica si celebrava normalmente l’Eucaristia con folle 52
Verso Betfage e Betania (Lazarium)
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Torre di David
Chiesa dell’Agonia Spianata del Tempio
Imbomon Anastasis Eleona Eleona
Imbomon
Getsemani
Martyrium
numerose come a Pasqua, prima di una seconda Eucaristia celebrata durante la giornata all’Anastasis. Nell’angolo sudoccidentale del cortile c’era l’ante crucem, con una croce sul luogo presunto della crocifissione. Vicino c’era la chiesa stazionale chiamata ad crucem, per certi riti durante l’anno liturgico e per il rito quotidiano del congedo alla conclusione dell’ufficio serale. Oltre la croce v’era la cappella del post crucem, dove veniva celebrata l’Eucaristia il Giovedì Santo e il Venerdì Santo veniva venerato il legno della croce. Di particolare interesse è la sua descrizione di un ufficio cattedrale, una speciale veglia di resurrezione che aveva luogo la domenica mattina al canto del gallo nella basilica del Santo Sepolcro. Dopo l’ingresso, il vescovo si reca nella grotta dell’Anastasis; allora tutte le porte vengono aperte ed entra anche l’assemblea liturgica. Una volta dentro, uno dei presbiteri canta un salmo, seguito dalla risposta di tutta l’assemblea. Seguono un altro salmo e una preghiera cantata dal diacono, quindi un terzo salmo da parte di un altro membro del clero. Il vescovo prende poi l’evangeliario e
Sion
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9. LA LITURGIA NELLA GERUSALEMME DEL IV SECOLO
9. LA LITURGIA NELLA GERUSALEMME DEL IV SECOLO
10. Veduta aerea del centro di Gerusalemme che ingloba la basilica del Santo Sepolcro. 11. Resurrezione di Lazzaro, particolare dell’architrave del portale destro della facciata del Santo Sepolcro. Museo Rockefeller, Gerusalemme. 12. Edicola ottagonale costruita dai crociati a Gerusalemme sul luogo detto Imbomon, conosciuta anche come tempietto dell’Ascensione. 13. Resti della basilica detta Eleona (oliveto) a Gerusalemme, e sullo sfondo la moderna basilica del Pater Noster. 10
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sta in piedi alle porte dell’Anastasis, dove legge un racconto della resurrezione del Signore. Appena inizia a leggere il testo, i membri dell’assemblea gemono e si lamentano a voce alta per «tutto ciò a cui il Signore si è sottoposto per noi». Concluso il Vangelo, il vescovo esce e «viene condotto cantando alla croce». L’assemblea va con lui e viene intonato un salmo finale con una preghiera. Quindi, egli benedice il popolo e lo congeda. Al commiato, ognuno gli si avvicina per baciargli la mano. Stando alle descrizioni di Egeria delle celebrazioni eucaristiche, la forma liturgica di base era chiaramente evidente. Quello che possiamo osservare, però, è l’accresciuto uso dei movimenti (processioni in vari momenti della liturgia) e il canto accompagnatorio di salmodie responsoriali e litanie. Se si considera la processione di ingresso del vescovo e del clero, la processione al Vangelo o la processione offertoriale, per non menzionare la processione al momento della comunione, si può immaginare il gran numero di persone presenti in quelle chiese e l’ovvio desiderio pastorale di coprire con la musica quei movimenti. Lo stile responso-
riale del canto permetteva ai membri dell’assemblea di ricordare facilmente l’antifona, che potevano ripetere numerose volte durante la processione. Sei chiese ebbero il ruolo più significativo nella liturgia, secondo il racconto di Egeria: la basilica del Santo Sepolcro e la chiesa di Sion, entrambe entro le mura della città; le due chiese sul monte degli Ulivi: l’Imbonon e l’Eleona; la basilica della Natività a Betlemme; e la chiesa di Lazzaro (Lazarium) a Betania. Egeria non menziona mai la basilica della Natività per nome, ma riferisce delle funzioni tenute nella chiesa di Betlemme «dove è sita la grotta in cui nacque il Signore». Il Lazarium serviva come chiesa stazionale in particolare per la solenne liturgia del sabato prima della Domenica delle Palme, chiamato «il sabato di Lazzaro». Oltre alle informazioni specifiche che Egeria offre sullo svolgimento dei riti liturgici eucaristici e non eucaristici e su come le varie chiese erano usate per facilitare le processioni e impegnare l’assemblea, la sua testimonianza presenta alcuni princìpi di base che caratterizzavano la vita liturgica della Chiesa nella Gerusalemme del IV secolo. In pri-
mo luogo, pur mantenendo uno stile gerarchico, la liturgia era molto più comunionale. Chiaramente il vescovo ricopre un ruolo preminente e viene trattato con grande rispetto quando entra nello spazio cultuale con i presbiteri e i diaconi. Ma questi ministri rimangono anche in mezzo all’assemblea con il loro ruolo di risposta al momento del canto delle varie litanie. Il resoconto di Egeria testimonia anche la crescita della presenza monastica nella città e non più solo come vita eremitica nelle campagne. Ella menziona presenti ai vari uffici monaci e monache che acquisiscono gradatamente il loro ruolo liturgico, rimanendo in chiesa dopo la preghiera del mattino per altre preghiere comuni, fino alla celebrazione eucaristica. Inoltre, la sua descrizione rivela chiaramente una continuità liturgica con quanto la precedeva anteriormente alla pace di Costantino, sia nei termini dello stile dell’ufficio cattedrale, sia nei modi con cui la Chiesa di Gerusalemme osservava l’anno liturgico nella celebrazione delle differenti feste e nell’osservanza dei digiuni. 55
10. L’EVOLUZIONE DEL CATECUMENATO E DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA
10. L’EVOLUZIONE DEL CATECUMENATO E DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA
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1. Battesimo, III secolo. Museo Nazionale delle Terme, Roma. 2. Particolare della decorazione pittorica della cappella Cristiana nell’area del complesso ospedaliero di San Giovanni. Il gesto dell’imposizione della mano in atteggiamento di protezione è interpretato anche come gesto di unzione.
Come abbiamo visto, già nella Didache e nell’Apologia di Giustino martire abbiamo le prime testimonianze del desiderio della Chiesa di catechizzare adeguatamente coloro che si preparavano a essere iniziati nella comunità cristiana. Ignazio di Antiochia afferma che i battesimi debbono avere luogo solo con l’approvazione del vescovo, il che sembra suggerire un certo qual primitivo processo di discernimento su colui che viene accettato. Già alla fine del II secolo e all’inizio del III, sappiamo che c’era una scuola privata di educazione cristiana in Alessandria, condotta da Clemente e Origene. Se da un lato l’educazione cristiana di Alessandria sembra fosse profondamente diversificata, entrambi i Padri della Chiesa si impegnarono nell’istruzione di catecumeni adulti. All’incirca nello stesso tempo, il nordafricano Tertulliano di Cartagine, nel suo trattato Il Battesimo, sottolineava le tre parti dell’unico rito di iniziazione: il Battesimo in sé, che comprendeva la purificazione con acqua; l’unzione, che comportava l’ordinazione al sacerdozio del battezzato; e l’imposizione delle mani, che conferiva il dono dello Spirito Santo. Col tempo giungiamo alla Traditio apostolica, quando risulta chiaro che il Battesimo degli adulti è combinato con un esteso periodo di istruzione, più lungo di quello che potremmo dedurre dai due testi menzionati sopra. È necessario uno sguardo più da vicino alla struttura dei riti di iniziazione. Vi possiamo discernere che il processo preparatorio al Battesimo cristiano appare chiaramente come un viaggio di fede, con una liturgia sviluppata che comprende la selezione dei candidati, la catechesi, i riti preparatori o iniziatori, compresa la prima menzione di una unzione speciale (confirmatio). Il processo di iniziazione culmina nell’Eucaristia, celebrata in una veglia il sabato notte, fino al mattino della domenica, presumibilmente dal Sabato Santo fino al mattino di Pasqua. Questo esteso periodo di istruzione era necessario per diverse ragioni. In primo luogo, con la diffusione del cristianesimo in ambiente pagano, c’era il desiderio di assicurare la serietà delle conversioni e allontanare i convertiti dai loro precedenti modi di idolatria. In secondo luogo, la severità nella scelta dei candidati può essere vista come una protezione contro le spie o i nemici della Chiesa, che potevano cercare di infiltrarsi nel sistema fingendosi catecumeni. La questione fondamentale in gioco era: «Quanti desiderano far parte del catecumenato sono capaci di ascoltare la Parola?». Si faceva quindi una indagine sulle attività e sulle professioni di coloro che venivano portati all’istruzione. I catecumeni dovevano lasciare ogni professione che avesse a che fare con l’idolatria (attori, costruttori di idoli, maghi o stregoni, per esempio), con l’uccisione (gladiatori e soldati) o con l’immoralità (si pensi alla prostituzione). Una volta accettati, essi dovevano «ascoltare la Parola» per circa tre anni, ma il periodo era negoziabile, secondo i singoli casi. 56
Una volta che il catecumenato era entrato nella fase finale della preparazione, c’era un’imposizione quotidiana delle mani accompagnata da una preghiera di esorcismo. Il Giovedì Santo i battezzandi dovevano fare un bagno e poi digiunare il Venerdì Santo. Il Sabato Santo, al mattino, il vescovo li incontrava tutti in un unico luogo per una intensa preghiera. Quindi dovevano inginocchiarsi per un’altra imposizione delle mani da parte del vescovo, che «ordinava agli spiriti maligni di andarsene». Poi egli faceva il segno della croce sulle loro orecchie e sul naso, prima di invitarli ad alzarsi. Essi passavano allora tutta la notte vegliando in preghiera, accompagnati da letture e istruzioni. I battezzandi non dovevano portare nulla con sé, «eccetto ciò che ognuno porta per l’Eucaristia». Il momento del Battesimo arrivava al canto del gallo (cioè alle tre del mattino). Veniva pronunciata una benedizione sull’acqua e i candidati erano invitati a togliersi i vestiti. Gli uomini venivano battezzati per primi, seguiti dalle donne, che dovevano anche togliersi tutti i gioielli prima di scendere nella vasca battesimale. Il vescovo allora pronunciava la preghiera sull’olio del ringraziamento e poi sull’olio dell’esorcismo. Quindi i diaconi portavano i due oli e stavano alla sinistra e alla destra del presbitero che guidava i candidati in disparte, rivolti a ovest per rinunciare a Satana e al male, dopodiché venivano unti con l’olio dell’esorcismo. Poi si giravano verso est, per acclamare il Cristo risorto. Mentre il diacono discendeva nella vasca con il candidato, il vescovo rimaneva accanto al fonte, mentre il diacono vi discendeva con il candidato, pronunciando il triplice Battesimo nel nome della Santa Trinità. Poi il vescovo confermava il neobattezzato, uscito dal fonte e rivestito di un abito bianco: imponeva le mani sulla sua testa, pronunciava l’invocazione e gli versava sul capo l’olio del ringraziamento. Quindi lo segnava sulla fronte e gli offriva il bacio di pace. I neofiti a loro volta offrivano la pace agli altri membri della comunità di fede. Seguiva poi l’Eucaristia, con i diaconi che presentavano le offerte al vescovo, il quale rendeva grazie per il pane, per il calice, per latte e miele mescolati, e infine per l’acqua. Seguiva la «frazione del pane» e la distribuzione; non si fa ancora menzione della comunione. Se non c’erano abbastanza presbiteri presenti, i diaconi aiutavano distribuendo tre calici. Il primo calice, di acqua, era offerto per la purificazione; il secondo, di latte e miele, simboleggiava il nutrimento per il neonato e la «terra dove sgorgano latte e miele»; il terzo calice era di vino. Per l’amministrazione dei tre calici veniva usata la formula trinitaria: «In Dio, Padre onnipotente: Amen! E nel Signore Gesù: Amen! E nello Spirito Santo e nella Santa Chiesa: Amen!». Il IV secolo è spesso chiamato «l’epoca d’oro del catecumenato», e a ragione. Con la pace di Costantino e la legalizzazione del cristianesimo, la Chiesa crebbe significativamente
3. Gregorio Nazianzeno, Omelie. Biblioteca Ambrosiana, Milano. 2
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per numero di credenti. I cristiani smisero di essere una minoranza vulnerabile alle persecuzioni e, anzi, iniziarono a godere di un nuovo statuto privilegiato. Ma questo fu anche il periodo delle grandi catechesi battesimali e dei grandi mistagoghi: Cirillo, vescovo di Gerusalemme; Giovanni Crisostomo; Teodoro di Mopsuestia; e, in Occidente, Ambrogio di Milano. Queste predicazioni e catechesi avvenivano abitualmente lungo un periodo di tre anni di istruzione. I catecumeni avevano un posto speciale riservato in chiesa ed erano dimessi dall’assemblea prima della preghiera dei fedeli. Per questo motivo, la prima parte della Messa è stata chiamata «Messa dei catecumeni», perché essi vi erano presenti. A Gerusalemme, a giudicare dalle diciotto catechesi tenute da Cirillo, l’insegnamento offerto ai catecumeni era abbastanza semplice, anche se era completato da un ricco insegnamento mistagogico postbattesimale sui sacramenti. Le letture seguivano la traccia fornita dal Credo e terminavano la Domenica delle Palme. Non possiamo presumere, però, che in tutte le Chiese i catecumeni fossero ugualmente benvoluti. Gregorio di Nazianzo mette fortemente in guardia i convertiti contro il loro piano ambizioso di venire battezzati a Gerusalemme, di57
10. L’EVOLUZIONE DEL CATECUMENATO E DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA
10. L’EVOLUZIONE DEL CATECUMENATO E DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA
4. Piscina battesimale circolare, IV secolo, Tipasa, Algeria.
6. Battesimo di Ambrogio, faccia posteriore dell’Altare d’oro, metà del IX secolo, basilica di Sant’Ambrogio, Milano.
5. Diffusione della tipologia de battistero ambrosiano: A: Milano; B: Nevers; C: Fréjus; D: Marsiglia.
cendo che la grazia non dipende dai luoghi o dai capi di Chiese importanti (per esempio il vescovo di Gerusalemme) che amministrano il Battesimo, ma piuttosto dallo Spirito di Dio. Ad ogni modo, le preparazioni al Battesimo a Gerusalemme erano davvero elaborate. Alla vigilia della prima domenica di Quaresima, i candidati al Battesimo si separavano dal resto dei catecumeni e presentavano i loro nomi al vescovo per l’iscrizione alla fase finale della preparazione. Questi poi procedeva a indagare sui candidati, chiedendo del loro stato di vita e della condotta morale; se qualcosa veniva trovato in difetto, allora la candidatura veniva rimandata. Ogni mattina di Quaresima, dall’ora prima all’ora terza, il vescovo personalmente teneva le catechesi, un’esegesi «di tutte le Scritture», impartendo anche un insegnamento sulla resurrezione e sulla fede cristiana in generale. Ad Alessandria, coerentemente con la prima scuola catechetica diretta da Clemente e Origene, la preparazione catecumenale del IV secolo tendeva a svilupparsi su un livello più sofisticato di educazione teologica, sotto l’autorità di Gregorio di Nissa, grande ammiratore di Origene. Così, Gregorio era interessato a rivolgersi tanto ai catechisti, quanto ai catecumeni stessi. Gli insegnanti – egli credeva – avevano bisogno di un teologia più sistematica, basata sulla metafisica e non solo sulle Scritture. Pertanto, nella sua Oratio catechetica magna, egli dedicò quattro capitoli alla dottrina della Trinità, ventotto capitoli alla storia della salvezza in Cristo e quattro capitoli ai sacramenti e alla loro relazione alla fede. Naturalmente, una prosa teologica così densa sarebbe stata di scarso giovamento per i catecumeni, ma molto aiutava nella formazione dei catechisti. Come Gregorio di Nissa diede il suo apporto a una teologia dell’iniziazione cristiana più sistematica, predicatori battesimali come Teodoro di Mopsuestia e Ambrogio diedero i loro significativi contributi fornendo un’istruzione accessibile ai catecumeni delle rispettive Chiese fondata su una ricca teologia. Ciò è evidente nel Liber ad baptizandos di Teodoro, con dieci omelie sul Credo per un uso precedente al Battesimo, e sei omelie mistagogiche sul Padre nostro, il Battesimo e l’Eucaristia per l’uso nel tempo pasquale postbattesimale. Dal De mysteriis di Ambrogio, apprendiamo che durante la Quaresima il vescovo di Milano teneva istruzioni quotidiane sulla morale cristiana e sugli elementi del cristianesimo. Osservando l’evoluzione del catecumenato e dei riti dell’iniziazione cristiana in questi primi secoli della vita della Chiesa, possiamo notare un certo grado di flessibilità e di cambiamento, determinato specialmente dalle differenti condizioni sociali delle Chiese locali. Questo è particolar58
7. Battesimo dei bambini, particolare dell’Exultet beneventano, 969 ca. Biblioteca Casanatense, Roma.
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mente evidente nel rito chiamato «scrutinio», che si è evoluto nel IV secolo in contemporanea con il Battesimo. A Roma e in Nord Africa, per esempio, lo scrutinio era un rito che comprendeva la rinuncia al diavolo, condotto con esorcismi e preghiere di intercessione. Alla fine del V secolo, a Roma, Giovanni Diacono affermava però che il fine dello scrutinio era di esaminare il candidato al Battesimo con attenzione alla Scrittura, alla salvezza e alla fede in Dio Padre. Il rito era preceduto da un periodo di istruzione che, chiaramente, aveva il suo significato teologico specifico. Naturalmente, il catecumenato e i riti dell’iniziazione cristiana avevano un ruolo cruciale nella formazione di una nuova generazione di cristiani la cui relazione con la vita secolare e con l’autorità civile doveva essere inevitabilmente più stretta e, conseguentemente, sarebbe stata esposta al pericolo di compromissione con il mondo secolare. In questo periodo, i bambini piccoli di genitori cristiani venivano coinvolti nel catecumenato e potevano essere battezzati, confermati e ricevere l’Eucaristia, pur essendo ancora nell’infanzia. Ma il Battesimo era il perdono di tutti i peccati, senza alcuna penitenza, così che la paura di perdita della fede da parte dei bambini senza avere un’altra possibilità portò molti genitori a differire il Battesimo fino a quando i loro figli fossero cresciuti e diventati maturi. I peccati dopo il Battesimo erano anche peggiori di quelli commessi prima! Questo fu il caso di sant’Agostino, che aspettò fino ai 30 anni per venire battezzato. E il suo stesso battezzatore, Ambrogio, venne battezzato solo quando fu eletto vescovo
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di Milano! Giovanni Crisostomo aspettò fino a 25 anni, Basilio di Cesarea fino ai 26 e Gregorio di Nazianzo fino ai 28. Soltanto quando Agostino sottolineò la dottrina del peccato originale e il pericolo per i bambini che morivano senza Battesimo, la situazione cominciò a cambiare. Con la conseguente alluvione di battesimi di bambini nel V secolo, il catecumenato degli adulti diventò inutile, perché non rispondeva più a una necessità: la maggioranza degli adulti era già stata battezzata da bambino. In Occidente, i presbiteri vennero delegati ad amministrare il Battesimo, poiché non era più possibile materialmente per il vescovo battezzare il grande numero di quanti desideravano il sacramento; questi si riservò solo il sacramento della Confermazione, per completare il processo di iniziazione e mantenervi un qualche ruolo. Gradatamente, la Confermazione fu sempre più allontanata dal Battesimo, differita a quando il vescovo poteva essere presente per conferirla, e l’antica struttura di Battesimo e Confermazione culminanti nell’Eucaristia andò perduta. La struttura classica venne conservata solo nell’Oriente cristiano. Anche oggi, i bambini nell’Oriente cristiano ricevono tutti i sacramenti dell’iniziazione cristiana nello stesso momento. In Occidente, quale sacramento impartito per suo conto (con l’eccezione degli adulti che vengono iniziati nella grande veglia pasquale), la Confermazione ha largamente perduto la sua importanza teologica e viene spiegata come sacramento della maturità cristiana e della missione, una specie di rito di passaggio nell’età cristiana adulta. 59
11. ORIGINI DELL’ANNO LITURGICO
11. ORIGINI DELL’ANNO LITURGICO Indipendentemente dalla tradizione religiosa, molte culture nel mondo antico celebravano feste di primavera che si incentravano sulla rinascita della campagna e sulla partenza delle greggi per i pascoli, e feste del raccolto d’autunno per celebrare il ritorno delle greggi e ringraziare per i frutti dell’anno agricolo. Fin dal principio, in verità, la vita dell’uomo è sempre stata in un modo o nell’altro connessa con la dimensione cosmica: la maniera in cui veniva calcolato il tempo, la celebrazione delle stagioni intorno ai solstizi d’estate e d’inverno e agli equinozi di primavera e d’autunno e, conseguentemente, la fissazione delle feste. L’alternanza di luce e buio, caldo e freddo, collegata con il gioco fra il sole e la luna: tutto rientra in questa equazione. Antropologi del XX secolo come Victor Turner, Mary Turner e altri ci hanno reso noto il ruolo speciale rivestito dai «riti di passaggio» in queste antiche civiltà. Nei momenti chiave del ciclo della vita (nascita, pubertà, matrimonio e morte) rituali festivi scandivano questi punti di svolta e le feste relative venivano celebrate pubblicamente con la partecipazione dell’intera tribù o comunità. Altri rituali segnavano eventi storici, catastrofi naturali, vittorie e sconfitte, nascite, elezioni e incoronazioni, e portarono alla fissazione di feste e commemorazioni, celebrate localmente, a livello nazionale o universale. Ogni trattazione dell’anno liturgico cristiano deve essere vista in questo più ampio contesto antropologico. La settimana cristiana di sette giorni fu ereditata dall’ebraismo, ma la tradizione ebraica di ritenere il sabato il settimo giorno della settimana condusse ben presto alla scelta della domenica – il giorno della resurrezione – come giorno preferito in cui i cristiani si riunivano per la celebrazione del culto comunitario. Come si può osservare nell’antico manoscritto siriaco della Didachê, che risale alla fine del I secolo o all’inizio del II, fu una prassi comune della Chiesa antica mantenere tradizioni particolari ereditate dall’ebraismo, ma anche adattare la tradizione a ciò che distingueva in modo specifico il cristianesimo. Per esempio i cristiani continuarono la prassi ebraica del digiuno, ma scelsero di farlo in giorni differenti: il mercoledì e il venerdì, in opposizione ai giorni dei digiuno ebraico (lunedì e giovedì). In Occidente, il mercoledì cominciò a perdere di importanza nei secoli successivi, lasciando solo il venerdì come giorno settimanale di digiuno. In modo simile, la domenica cominciò a essere osservata come giorno settimanale di riposo e di culto, a motivo della sua associazione con la resurrezione di Cristo. Così, la domenica iniziò a celebrarsi come «giorno della resurrezione». Domenica e Pasqua La domenica è stata sovente descritta come «piccola Pasqua», ma in verità sarebbe meglio descrivere la Pasqua come una «grande domenica». Questo perché la festa più antica e più classica della Chiesa è la domenica, il giorno della resurrezione del Signore, il primo giorno della settimana, il giorno del Sole, il giorno della luce, l’ottavo giorno, il giorno della nuova creazione. Insieme al mercoledì e al ve60
nerdì, giorni di digiuno già noti alla Didache, la dies dominica (domenica) sembra aver fondato la settimana cristiana originaria. Il digiuno e l’inginocchiarsi per pregare di domenica furono presto dimenticati, in quanto incompatibili con ciò che la domenica celebrava: la commemorazione settimanale della festa di Pasqua. L’abbiamo visto nella descrizione del IV secolo (presentata sopra) da parte di Egeria della veglia di resurrezione a Gerusalemme, la domenica mattina presto. La domenica, così, non era tanto la commemorazione di un singolo evento passato (la resurrezione di Cristo), ma piuttosto un’icona, un simbolo di una comunione attuale e presente con il Signore risorto. Simile al passaggio dal sabato ebraico alla domenica cristiana fu il passaggio dalla Pasqua ebraica alla celebrazione annuale della Pasqua cristiana, ma lo spostamento fu più graduale e variato nella sua evoluzione, né scevro da un certo grado di tensione sul momento dell’anno nel quale dovesse essere celebrata. Gli studiosi si sono trovati in difficoltà nel determinare se la festa annuale avesse luogo di domenica o in una data fissa, come sarebbe accaduto per il caso del Natale. Gli studiosi antichi tendevano a favorire una celebrazione antica e pressoché universale della Pasqua, ma studi recenti hanno dimostrato il contrario. Un numero sempre più crescente di studiosi di liturgia concorda nell’affermare che la forma più antica della Pasqua (possibilmente anche riflessa dallo stesso Nuovo Testamento) non fosse in connessione con una domenica, ma che in Asia Minore (e altrove) fosse presente una veglia lungo tutta la notte che si svolgeva il 14 di Nisan, la data della Pasqua del calendario ebraico e la data di calendario della morte di Gesù, secondo la cronologia del Vangelo di Giovanni. Questo equivaleva o al 25 marzo o al 6 aprile, secondo le varie versioni del calendario giuliano, e culminava nella celebrazione dell’Eucaristia al canto del gallo, con la conclusione della Pasqua ebraica. Di orientazione fortemente escatologica, in quanto veglia che aspettava il ritorno del Signore, l’accento complessivo di questa Pasqua cristianizzata divenne la morte di Cristo, vero agnello pasquale. Conseguentemente, non si ha memoria di battesimi che abbiano fatto parte della celebrazione. Il nome cristiano più antico della Pasqua (pascha) è lo stesso che indica in greco la Pasqua ebraica, e le teologie più antiche della Pasqua, nel II secolo, dipendono dalla teologia giudaica della Pasqua. Benché il calcolo preciso della pascha annuale non sia stato completamente determinato fino al Concilio di Nicea, nel 325 d.C., la celebrazione domenicale della Pasqua preceduta da uno, due o sei giorni di digiuno divenne una prassi normativa alla fine del II secolo, intorno al 185, fino a crescere in qualche luogo a un’intera settimana nel III secolo. Egeria si riferiva a quella settimana come alla «Grande Settimana», che in Occidente iniziò a essere chiamata «Settimana Santa». La festa veniva celebrata con una veglia notturna che risaliva alle fonti liturgiche della veglia settimanale della resurrezione, iniziante con il lucernarium o funzione della luce. Con la legalizzazione del cristianesimo mediante l’editto di Milano nel 313 e la conseguente ondata di adulti convertiti
1. Angelo davanti al sepolcro, particolare dell’affresco del katholikon, inizio del XII secolo, chiesa dell’Ascensione del monastero di Mileševa, Serbia. 2. Pentecoste, miniatura di un Vangelo dall’Egitto, 1249. Institut Catholique, Parigi.
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che entravano nella Chiesa, quei giorni di preparazione assunsero un significato più grande, come tempo di preparazione immediata al Battesimo, che si svolgeva durante la grande veglia di Pasqua nella notte del Sabato Santo. Questo si sviluppò in un periodo di quaranta giorni di preghiera e penitenza, che diede origine al tempo di Quaresima, osservato non solo dai catecumeni che si preparavano al Battesimo, ma da tutta la Chiesa. Leone Magno sembra offrire la testimonianza del conteggio del periodo di quaranta giorni a partire dal primo sabato di Quaresima e fino al Giovedì Santo, che inizia il triduo culminante nella veglia pasquale. La Pasqua fu seguita da un periodo di cinquanta giorni di esultanza, noto come Pentecoste. In questa prospettiva, una celebrazione domenicale annuale con la sua naturale associazione alla resurrezione di Gesù cominciò a intendere la Pasqua come un transitus, un passaggio. Questo avrebbe di fatto suggerito che la celebrazione della Pasqua non riguardava solo il passaggio di Cristo dalla morte alla vita, ma anche la partecipazione del cristiano a questo passaggio tramite il Battesimo e l’Eucaristia. Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, interpreta ciò come un cambio di visuale: non più Cristo come unico protagonista della festa, ma anche la comunità riunita in assemblea. In alcuni luoghi, specialmente in Nord Africa e a Roma, la veglia pasquale divenne quindi l’occasione preferita per l’iniziazione cristiana. Nel IV secolo la veglia durava tutta la notte, come si è visto già nella te-
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stimonianza di Egeria. Nel VI secolo terminava prima di mezzanotte e il giorno di Pasqua aveva la sua Messa propria. A partire dall’VIII secolo, la veglia cominciò sempre più presto e con il IX secolo iniziò alle tre del pomeriggio! In questo periodo è anche riconoscibile un nascente – ma aliturgico – triduo pasquale. Esso includeva: il digiuno dal venerdì sino alla fine della veglia; lo sviluppo della Settimana Santa con l’associazione di giorni specifici agli eventi dell’ultima settimana di Gesù; la Quaresima (almeno a Roma, e forse di sole tre settimane di durata). Il concetto di un’ottava di Pasqua si sviluppò come periodo iniziale di mistagogia per i neobattezzati. Essa avveniva durante l’Eucaristia quotidiana negli otto giorni seguenti la celebrazione pasquale ed era nota anche come «settimana bianca», perché i neofiti indossavano i loro abiti battesimali bianchi lungo la settimana, fino alla domenica seguente (dominica in albis). Ma, con il VII secolo, i neobattezzati deponevano già i loro abiti bianchi il sabato di Pasqua, indicando un legame simbolico con il Sabato Santo. In questo medesimo secolo si introdusse anche la prassi di celebrare l’anniversario del proprio Battesimo, ma essa scomparve intorno all’anno 1000. La Pentecoste cominciò a essere celebrata come un periodo di cinquanta giorni (pentekoste, letteralmente «cinquanta») durante il quale, come di domenica, il digiuno e la genuflessione erano vietati e veniva cantato l’Alleluia. Comunque, queste prassi non furono ancora totalmente liturgiciz61
11. ORIGINI DELL’ANNO LITURGICO
zate secondo uno schema particolare. Così, oggi parliamo di «domeniche di Pasqua», più che di «domeniche dopo Pasqua». Questo è quello che venne conosciuto come tempo pasquale – i grandi cinquanta giorni – dopo la festa ebraica delle Settimane, un tempo di ringraziamento. Nel IV secolo, Egeria riferisce ancora di una festa unificata di Ascensione/Pentecoste, mentre altre Chiese avevano già introdotto una festa separata per l’Ascensione il quarantesimo giorno. Agostino, per esempio, afferma che l’Ascensione «è celebrata in tutto il mondo». Tecnicamente parlando, Pentecoste sarebbe l’ottava domenica di Pasqua. Il fatto che oggi si indossino paramenti rossi durante questa festa è un residuo di quando la Pentecoste veniva considerata come festa a sé stante. Innocenzo III († 1216), per esempio, parlava di queste vesti rosse come di raffigurazioni di lingue di fuoco. Avvento e Natale La parola adventus è di origine pagana. I pagani celebravano la manifestazione della divinità che veniva ad abitare nel tempio in un certo periodo dell’anno. La festa in onore della divinità era chiamata adventus. In quei giorni, il tempio (che era normalmente chiuso) veniva aperto; talvolta, una statua della divinità veniva spostata in uno spazio molto più ampio rispetto al piccolo santuario in cui era normalmente collocata. L’adventus, così, era un ritornare ogni anno, un anniversario. Nel contesto imperiale, l’adventus celebrava il ritorno dell’imperatore. La parola venne dunque usata dai cristiani per descrivere la venuta del Figlio di Dio nel tempio della sua carne, il suo ritorno, la sua visita. L’uso della parola cominciò poi a essere limitato a ciò che era ritenuta la sola vera venuta, l’adventus del Signore. Le origini di questo tempo liturgico sono occidentali, centrate soprattutto su Spagna e Gallia. La seconda metà di dicembre era la conclusione dell’anno agricolo a Roma, e il tema del ringraziamento pervadeva i giorni dei Saturnalia romani, dal 17 al 23 dicembre. Nei canoni del Sinodo di Saragozza (380 d.C.), si ricorda ai laici di trovarsi in chiesa dal 17 dicembre fino al 6 gennaio. L’osservanza funzionerebbe come un’interpretazione cristiana o anche come un contraltare della festa pagana dei Saturnalia. Nella Gallia del V secolo, sappiamo di una festa ascetica di tre giorni alla settimana, che iniziava in prossimità del nostro giorno di San Martino (11 novembre). Quella che venne chiamata «Quaresima di San Martino» andava dall’11 novembre fino a Natale. Il lunedì venne aggiunto come giorno di digiuno ai giorni tradizionali del digiuno cristiano, il mercoledì e il venerdì. Nulla di tutto ciò corrobora la teoria che l’Avvento servisse come una specie di periodo catecumenale per il Battesimo dell’Epifania. Il Battesimo, benché celebrato in Spagna all’Epifania, era anche celebrato il giorno di Natale negli anni Ottanta del IV secolo, con grande sgomento del vescovo di Roma. Ad ogni modo, il digiuno prima dell’Epifania o prima del Natale risale al VI secolo, come risulta dal Sinodo di Tours (567 d.C.) e da quello di Mâcon (581 d.C.), estendendosi dal giorno di San Martino fino a Natale. Nel sacramentario gelasiano, trovia62
11. ORIGINI DELL’ANNO LITURGICO
mo preghiere per le cinque domeniche prima di Natale e anche per i mercoledì e i venerdì (giorni appunto di digiuno per i cristiani) di quelle cinque settimane. Questo tempo liturgico assunse la natura di un tempo penitenziale parallelo alla Quaresima, usando paramenti viola, togliendo il Gloria e l’Alleluia dall’Eucaristia e il Te Deum dalla liturgia delle ore. Le pratiche penitenziali celtiche e una crescente accentuazione del tema del giudizio influenzarono la forma dell’Avvento, insieme al Dies irae, inno che fu composto per il principio dell’Avvento. Inizialmente, l’Avvento era legato esclusivamente alla venuta finale di Cristo, con un forte tema escatologico. Gradatamente, esso venne visto più come un tempo penitenziale di preparazione al Natale. Papa Leone I (440-461 d.C.), per esempio, introdusse temi escatologici nelle sue omelie per questo tempo dell’anno, mettendo in guardia i cristiani contro gli eccessi delle festività romane, senza mai riferirsi all’imminente festa del Natale. Le origini dell’Avvento a Roma si collocano successivamente e appaiono come una combinazione di influenze gallicane e tradizioni locali. C’era già evidenza di un digiuno prenatalizio alla fine del IV secolo. Alla fine del VI, Gregorio Magno ridusse la prassi di un Avvento di sei settimane a quattro settimane, sottolineando la commemorazione della nascita di Cristo piuttosto che i temi del giudizio delle liturgie gallicane. La riduzione da sei settimane a quattro serviva forse a mettere in evidenza la differenza fra Quaresima e Avvento. Ma dal XII secolo anche Roma venne influenzata dagli aspetti penitenziali dell’Avvento gallicano e tolse il Gloria dalla Messa, mantenendo l’Alleluia come traccia di una più antica visione non penitenziale di questo tempo. Le poetiche antifone «O» dei sette giorni precedenti il Natale furono introdotte nel VII secolo per esemplificare la preparazione alla solennità, e nell’VIII e IX secolo i sacramentari attestano l’Avvento, piuttosto che il Natale, come inizio dell’anno liturgico. Nel IV secolo, attorno all’anno 336, i cristiani di Roma e del Nord Africa iniziarono a osservare una festa dell’Incarnazione di Cristo il 25 dicembre, mentre i cristiani orientali osservavano il 6 gennaio come festa dell’Epifania (o manifestazione) di Cristo. In quei primi secoli, lo abbiamo visto, il cristianesimo a Roma crebbe parallelamente al culto di Mitra, la cui festa annuale del «Sole invincibile» (Sol invictus) veniva celebrata al solstizio d’inverno, il giorno più corto dell’anno nell’emisfero settentrionale. Non sorprende, quindi, che i cristiani di Roma abbiano osservato la festa annuale dell’Incarnazione di Cristo, vero Sole invitto, nello stesso periodo, come una specie di antidoto alla festa mitraica. Alla fine del IV secolo, le Chiese iniziarono ad adottare entrambe le feste (25 dicembre e 6 gennaio) nei loro calendari locali. Gradualmente vennero aggiunte al ciclo altre feste, in corrispondenza con la celebrazione della nascita di Cristo il 25 dicembre: l’Annunciazione, il 25 marzo, esattamente nove mesi prima del 25 dicembre; il ricordo della presentazione di Gesù al tempio, quaranta giorni dopo il Natale, il 2 febbraio; la nascita di Giovanni il Battista al solstizio d’estate. In Oriente, d’altro canto, la festa del Natale continuò a essere collegata all’Epifania e, di fatto, la Chiesa di Gerusa-
3. Affresco della cappella del Presepio a Greccio, eretta nel 1228. Nell’affresco è raccontato sia il presepe di san Francesco del 1223 con la celebrazione eucaristica, sia la Natività nella grotta di Betlemme.
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4. Battesimo di Gesù, pittura murale della fine del III secolo, catacomba dei Santi Pietro e Marcellino, Roma.
5. Doni dei Magi, altare detto di Rachi, VIII secolo. Sala capitolare della chiesa di San Martino, Cividale del Friuli. 5
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lemme attese fino all’anno 549 per cambiare dal 6 gennaio al 25 dicembre. L’Epifania è una festa molto più antica del Natale e fu osservata come celebrazione del Battesimo di Gesù. In Egitto, per esempio, Clemente Alessandrino attesta la festa già nel II secolo, riferendo anche che il 6 gennaio era conosciuto laggiù come la festa della nascita di Gesù. Quando la festa dell’Epifania venne finalmente introdotta nel IV secolo, essa perse il suo carattere battesimale e tese a sottolineare maggiormente i Magi e la manifestazione di Cristo. Dalla seconda metà del IV secolo, i cristiani d’Occidente collocarono anche la nascita di Giovanni il Battista il 63
6. Ingresso di Gesù a Gerusalemme, evangeliario di Ottone III, Reichenau, intorno all’anno Mille. Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera.
8. Dormizione della Vergine, affresco della chiesa della Dormizione di Ži/a, 1309-1316. Papa Sergio I (687-701), palermitano ma di cultura antiochena, introdusse nel calendario romano la festa dell’Assunzione.
7. Lavanda dei piedi, evangeliario di Trebisonda, X secolo. San Pietroburgo.
9. Theotokos, Santa Maria in Trastevere, Roma. L’icona è di grande formato in quanto aveva una dimensione pubblica. 10. Salvatore in trono, tavola dipinta, cappella del Sancta Sanctorum, Roma, del V-VI secolo. Durante la processione di Ferragosto Cristo in effigie rendeva visita alla Madre a Santa Maria Maggiore. 11. Gli itinerari dei riti stazionali dell’Assunta a Roma. ta n
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cuni sostengono il valore del digiuno eucaristico in questo giorno, come era nella tradizione più antica. Le feste dei santi Molto presto nella storia della Chiesa abbiamo evidenza delle feste dei martiri, celebrate nell’anniversario della morte, conosciuto come natale, ossia nascita al cielo. Di carattere fortemente locale, queste feste erano collegate inseparabilmente con il possesso della tomba di un martire, delle sue spoglie, delle sue reliquie, intorno a cui la comunità si riuniva in assemblea. Solo più tardi, quando le reliquie vennero trasferite in altre chiese, il culto dei martiri si diffuse. I martiri divennero incarnazioni concrete della stessa passione e morte di Cristo, per cui la loro venerazione in quanto intercessori si diffuse velocemente. Insieme allo sviluppo del culto dei martiri, in questo periodo fiorì anche una devozione crescente per la Vergine Ma-
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La Quaresima venne inizialmente vista come un tempo di preparazione immediata al Battesimo pasquale. Con il Concilio di Nicea (325), la Quaresima faceva già parte del calendario liturgico, benché la sua durata esatta differisse di luogo in luogo (tre, quattro, sei o otto settimane), come abbiamo già visto a Gerusalemme. Gradatamente, tutta la Chiesa prese a radunare i catecumeni in questo periodo di penitenza e digiuno, come un mezzo di isolamento e di sostegno mentre riconoscevano il loro crescente bisogno di purificazione. Il periodo divenne anche il tempo di un’intensa preparazione per i peccatori pubblici che venivano poi riaccolti nella Chiesa il Giovedì Santo, dopo un periodo probabilmente di sette anni nell’Ordine dei Penitenti. Il programma aveva una certa rassomiglianza con quello del catecumenato, salvo per il fatto che quanti vi prendevano parte erano già battezzati. La processione della Domenica delle Palme era già nota nell’VIII secolo, ma non fu universalmente conosciuta fino
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Quaresima e Settimana Santa
al XII. L’osservanza del Giovedì Santo con la lavanda dei piedi esisteva già nel IV secolo, eccetto che a Roma, dove si attese fino al V secolo per adottare questa consuetudine. La prassi della lavanda dei piedi gradatamente si affievolì in Occidente con il dilagare del rituale romano, infine recuperata nei monasteri. La Regola di san Benedetto stabilisce infatti che, quando un ospite giunge al monastero, si debba chiamare l’abate perché egli possa dare il benvenuto all’ospite e lavargli i piedi come gesto di ospitalità. Il Concilio di Toledo (694 d.C.) richiedeva che il Giovedì Santo in Spagna e in Gallia la lavanda dei piedi venisse compiuta da vescovi e preti. A Roma, la prassi divenne normativa solo nel XII secolo. Il Messale di Pio V del 1570 colloca la lavanda dei piedi alla fine della Messa; l’ordo riveduto della Settimana Santa del 1955 la collocava dopo l’omelia, con un accento sul servizio ai bisognosi e non sull’ordinazione. Oggi in certi luoghi ci può essere una tendenza a riferire questo giorno al ricordo dell’istituzione del sacerdozio. Ma è importante ricordare che questo concetto risale solo al Concilio Vaticano I e alla fine del XIX secolo. La tradizione più antica indica la lavanda dei piedi (con il servizio ai bisognosi che essa implica) e l’istituzione della santa Eucaristia come i due pilastri su cui si fonda il Giovedì Santo. La testimonianza più antica del digiuno del Venerdì Santo e del Sabato Santo viene da Ireneo di Lione, nel II secolo, ma senza una liturgia speciale. Alla fine del IV secolo, Egeria riferisce che i cristiani di Gerusalemme in quel giorno si riunivano al mattino per venerare la croce e poi di nuovo al pomeriggio per ascoltare la Parola. Troviamo informazioni più sostanziali nel VII secolo. Il papa, scalzo, portava la reliquia della croce in processione. La reliquia veniva poi venerata da tutti. La prassi del ministro che venera la croce scalzo è stata ora restaurata ed è inclusa come un’opzione nella terza edizione del Messale romano (2002). Ancora oggi, al-
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24 giugno, per contrastare la festa greco-romana del solstizio d’estate. Grazie ai Francescani e alla loro promozione della pietà popolare incentrata sul presepio natalizio, l’Avvento e il Natale cominciarono a essere visti per lo più dal punto di vista storico. Oggi, le letture bibliche e i testi liturgici continuano a mantenere la dimensione escatologica del tempo, benché pastoralmente ciò venga purtroppo sovente trascurato. Inoltre, c’è uno sforzo crescente per mantenere il carattere spirituale del tempo di Avvento, dato che, nel mondo secolare, il tempo di Natale inizia ai primi di novembre con pubblicità, decorazioni delle vetrine e musiche natalizie trasmesse alla radio e negli edifici pubblici.
Santa Maria Maggiore
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ria. Il termine Theotokos, forse usato per la prima volta da Origene di Alessandria, appare già in un inno liturgico dell’inizio del III secolo. La festa mariana della Dormizione (15 agosto) appare nel lezionario armeno del V secolo; gli studiosi ritengono che in ciò rifletta la prassi di Gerusalemme, forse risalente al I o al II secolo. Alcuni studiosi pensano che la festa mariana del 15 agosto fosse in realtà collegata con la data della concezione di Isacco, in un calendario di una setta ebraica noto dal Libro dei giubilei e dai documenti di Qumran. L’evoluzione dell’anno liturgico offre un chiaro esempio di come le varie feste e i tempi liturgici fossero condizionati culturalmente. Continua a essere così oggi, se si considerano le distinte tradizioni di preparazione al Natale delle Filippine o del Messico, per esempio, o le famose processioni della Settimana Santa di Siviglia e di altre città dell’Andalusia, piuttosto distinte da quelle della Corsica o dell’Italia meridionale. 65
siro-occidentale Armeno dal IV secolo
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1. Raffigurazione delle dee poliadi di Roma e Costantinopoli, dittico in avorio che si presume provenga da Costantinopoli, 500 ca. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
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siro-orientale Malabarese dal IV al XIV secolo
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differenziazioni. La famiglia siro-antiochena includeva un gruppo siro-orientale, con il rito nestoriano (Iran), il rito caldeo (Iraq) e il rito malabarese (India); e un gruppo sirooccidentale, che costituiva l’eredità principale della tradizione gerosolimitana e comprendeva i riti siriaco, maronita, bizantino e armeno. La famiglia alessandrina includeva i riti copto ed etiopico. Le liturgie orientali odierne, quindi, discendono da quei riti, che si svilupparono nelle principali città dell’Oriente. Oggi, le famiglie liturgiche d’Oriente (i riti alessandrino, armeno, bizantino, siro-orientale e siro-occidentale) corrispondono all’organizzazione territoriale delle Chiese orientali del V secolo. Non è sopravvissuto un rito gerosolimitano distinto.
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Nel periodo dal IV al VI secolo, nella Chiesa nacquero i patriarcati. Essi avrebbero ricoperto un ruolo di estrema importanza nello sviluppo della liturgia, al punto che un rito divenne la caratteristica (e, anzi, un sinonimo) di ogni unione di Chiese, o patriarcato. «Rito» si riferisce a tutta l’esperienza vissuta (liturgica, teologica e culturale) di una Chiesa specifica e pertanto non deve essere inteso in senso troppo stretto. In altri termini, deve essere compreso come l’intera eredità spirituale di una Chiesa particolare: la sua liturgia, la pietà popolare, la spiritualità, la disciplina e la teologia. I patriarcati si svilupparono nel contesto di centri urbani maggiori. Il vescovo di una città più importante acquistò presto una preminenza che si formò come risultato delle relazioni di reciproca dipendenza che si sviluppavano naturalmente nel corso del tempo fra la città e la regione circostante. Se la Chiesa in questione possedeva di fatto o affermava di avere come fondatore un apostolo o il discepolo di un apostolo, veniva vista come preservatrice e custode dell’autentica tradizione apostolica. Così, i vescovi di quelle sedi godevano di uno speciale prestigio e primato da tempi molto antichi. Essi presiedevano i sinodi regionali, ordinavano e anche deponevano i vescovi della loro provincia e arbitravano le contese. Le nuove sedi patriarcali naturalmente si dimostrarono quali centri liturgici, oltre che amministrativi, e le varie sedi vescovili affiliate a ogni patriarca ne seguivano la guida. Il risultato fu l’emergere di varie famiglie liturgiche, in ognuna delle quali si potevano trovare solo differenze locali di scarsa importanza. L’origine di tutte le liturgie cristiano-orientali è perciò strettamente legata allo sviluppo delle sedi patriarcali orientali, primariamente Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli, che cercarono di far emergere il proprio prestigio fra le altre, come si può evidenziare dai canoni dei differenti Concili ecumenici del IV e V secolo. Il primo Concilio Costantinopolitano (381 d.C.), per esempio, stabilì che il patriarca di Costantinopoli dovesse avere la prerogativa onorifica immediatamente successiva a quella del vescovo di Roma, perché «Costantinopoli è la nuova Roma», visto che Costantino l’aveva resa la nuova capitale imperiale nell’anno 330 d.C. Diversamente dall’Occidente, le cui varietà liturgiche gradatamente svanirono per una serie di fattori politici, sociologici e religiosi, l’Oriente cristiano ebbe maggiore successo nel mantenere la sua ricca diversità di famiglie liturgiche, insieme alle strutture sinodali di guida nelle Chiese locali. Nello sviluppo delle differenti famiglie liturgiche orientali, possiamo parlare di due fasi principali: un primo periodo di fondazione e un periodo successivo di consolidamento. Nel primo periodo, al principio del IV secolo, in Oriente erano già abbastanza distinte due grandi famiglie liturgiche: quella siro-antiochena e quella alessandrina. Queste due principali famiglie orientali diedero origine a ulteriori
siro-orientale Nestoriano dal IV al VII secolo
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12. VARIETÀ LITURGICA NELLE CHIESE ORIENTALI
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2. Diffusione e varietà liturgica nelle Chiese orientali.
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3. San Cirillo d’Alessandria, affresco, monastero di San Mosè l’Etiope, Nabak, Siria.
La famiglia alessandrina Nella famiglia alessandrina, il fondamento del rito copto (cioè egiziano) è l’antica tradizione liturgica di Alessandria. Mentre questa liturgia era celebrata in greco nelle città ellenizzate, le aree rurali cominciarono a usare il copto all’inizio del IV secolo. Nel VI secolo, la liturgia alessandrina subì una riforma con chiare influenze antiochene, quando venne riorganizzata nei monasteri di Sceti con l’aiuto di monaci siriani. Seguì un periodo di rinnovamento liturgico nei secoli XI e XII, quando alcuni elementi bizantini vennero introdotti nei sacramenti. Venne quindi gradatamente introdotto l’arabo e nel XIV secolo era ormai solidamente stabilito. Il numero di anafore (preghiere eucaristiche) fu limitato a tre nel XII secolo. Oggi, mentre l’antica anafora alessandrina di san Marco è ancora utilizzata in una redazione detta di Cirillo di Alessandria, l’anafora più comunemente usata è quella di san Basilio. L’anafora di Gregorio di Nazianzo è riservata alle feste solenni del Signore.
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12. VARIETÀ LITURGICA NELLE CHIESE ORIENTALI ANTICHE 4. Cristo in gloria, oittura murale proveniente da Bauit, VII secolo. Museo di Arte Copta, Il Cairo Vecchio.
12. VARIETÀ LITURGICA NELLE CHIESE ORIENTALI ANTICHE 5. Nozze di Cana, miniatura del tetravangelo copto del 1179-1180. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 6. Ingresso di Gesù a Gerusalemme, dipinto parietale della chiesa di San Michele a Debre Selam, presso Atsbi, Etiopia.
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Il rito eucaristico copto usa quattro letture dal Nuovo Testamento: Paolo, le epistole cattoliche, gli Atti, il Vangelo; e usa una forma di intercessione generale simile allo stile usato nel rito romano il Venerdì Santo. Nella liturgia ci sono due riti di riconciliazione, con la formula solenne di assoluzione indirizzata al Figlio e al Padre. Un’altra forma di riconciliazione si trova nell’ufficio cattedrale, già presentato, in cui l’offerta dell’incenso diventa un rito proprio di riconciliazione con assoluzione, durante la preghiera del mattino e della sera. Il rito etiopico è l’altra liturgia della famiglia alessandrina e si sviluppò notevolmente nei monasteri all’inizio del VI secolo. È interessante notare che la Chiesa etiopica rimase dipendente dalla Chiesa copta fino al 1951. Lungo i secoli, i libri liturgici portati dall’Egitto furono tradotti dal greco, quindi dal copto e dall’arabo in lingua ge’ez, e poi arricchiti di elementi liturgici derivati da altre fonti. Poiché i vescovi laggiù erano per lo più forestieri che raramente parlavano la lingua locale, l’evoluzione del rito etiopico non ebbe la fortuna di avere la guida necessaria a creare una prassi litur68
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7. Nelle cerimonie religiose di rito etiopico vengono suonati grandi tamburi. Qui a Mdhane Alem, Sokota, nel 1991. 8. Anche il sistrum è uno strumento agitato durante le cerimonie religiose di rito etiopico.
gica unificata. Il rito subì varie forme di rinnovamento nei secoli XV e XVI, con una revisione del calendario liturgico e una liturgia delle ore composta di bel nuovo. La struttura della liturgia eucaristica assomiglia strettamente a quella del rito copto, ma il Credo ha una forma propria della Chiesa etiopica. Inoltre, l’uso di tamburi, sistri e musica indigena dà alla liturgia un carattere particolarmente inculturato. 69
12. VARIETÀ LITURGICA NELLE CHIESE ORIENTALI ANTICHE 9. San Pietro apre le porte del paradiso mentre si brucia incenso, particolare del Giudizio finale, monastero di San Mosè l’Etiope, Nabak, Siria. 10. Vergine Odigitria, 1318, rimaneggiata nel XVIII secolo, monastero di Nostra Signora di Balamand, Libano.
La famiglia siro-orientale Nella famiglia siro-orientale, il rito caldeo si sviluppò in Persia tra il IV e il VII secolo. Anche oggi, la liturgia caldea è in grande misura quella codificata nel VII secolo dopo la conquista araba. Le riforme del rituale in quel periodo includono l’approvazione della sola anafora standard di Addai e Mari, o quelle di mar (san) Teodoro e mar Nestorio; l’adattamento dei riti dell’iniziazione cristiana per il Battesimo dei bambini; la riorganizzazione del calendario liturgico; la definizione delle norme per l’ordinamento del lezionario, nonché delle varie ore di preghiera nell’ufficio cattedrale. Le preghiere con i salmi per veglie e mattutini vennero aggiunte più tardi con un libro liturgico di inni poetici e antifone. Diversamente dagli altri riti orientali, la liturgia caldea è caratterizzata da una certa semplicità nelle celebrazioni dell’Eucaristia e degli altri sacramenti, avendo mantenuto un certo numero di caratteri arcaici dalla forma più antica del rito. Oggi, mentre il siriaco rimane la lingua liturgica ufficiale, si può usare anche l’arabo nella liturgia della Parola, per le preghiere e per le quattro letture da Legge, profeti, apostoli e Vangelo. Il rito malabarese si sviluppò nel Kerala, nell’India sudoccidentale. La tradizione afferma che l’India meridionale fu evangelizzata da san Tommaso, donde è derivato il nome di «cristiani tommasiani». Sia come sia, sappiamo che, dal IV secolo, le Chiese dell’India meridionale furono collegate alla Chiesa persiana, fino all’arrivo dei missionari portoghesi nel XVI secolo. La liturgia che vi trovarono i missionari europei era una forma di rito siro-orientale combinata ad alcune pratiche induiste reinterpretate ad uso cristiano. Con l’aiuto dei Gesuiti, la liturgia latina venne imposta nell’India meridionale alla fine del XVI secolo, lasciando solo tracce della tradizione liturgica originaria: la lingua siriaca, la liturgia delle ore e la forma essenziale della liturgia eucaristica, cui furono aggiunti numerosi elementi liturgici occidentali. Soltanto l’anafora di Addai e Mari venne approvata per l’uso, ma con l’aggiunta delle parole dell’istituzione, non previste nel testo originale. Era ora richiesto pane azzimo per l’Eucaristia, né il calice veniva più offerto. A proposito dell’anafora di Addai e Mari, è importante notare che la Santa Sede recentemente ha emesso una straordinaria affermazione dell’autenticità e ortodossia di quella preghiera, nonostante l’assenza delle parole dell’istituzione. Per la celebrazione degli altri sacramenti, un rituale portoghese del XVI secolo venne tradotto in siriaco, così come il pontificale romano. Per prevenirne l’uso, i vecchi libri liturgici furono distrutti. Il lavoro per la restaurazione del carattere orientale del rito malabarese iniziò sotto il pontificato di Pio XI nel 1934 e la qurbana (offerta eucaristica) siriaca venne di nuovo approvata per l’uso da Pio XII nel 1957 e introdotta nel 1962. Il 70
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rito malabarese ha continuato a subire revisioni liturgiche, nonostante certe resistenze da parte di alcune frazioni della Chiesa malabarese. Oggi il malayalam ha sostituito il siriaco come lingua liturgica. La famiglia siro-occidentale La famiglia siro-occidentale include i riti siriaco, maronita e malankarese. Il rito siriaco è usato dalle Chiese siro-ortodosse così come da quelle siro-cattoliche ed è basato sull’antica liturgia di Antiochia. Le celebrazioni liturgiche erano in greco nelle città, ma in siriaco nelle campagne, dove la liturgia venne gradatamente influenzata dalla cultura siriana, raggiungendo la sua forma classica nel XII secolo. La liturgia siriaca aveva almeno otto anafore, comprese quella dei Dodici apostoli, collegata all’anafora bizantina di san Giovanni Crisostomo, e quella di san Giacomo, che viene dalla tradizione gerosolimitana. La liturgia della Parola comprende sei letture, dalla Legge, dai libri sapienziali, dai profeti, dagli Atti o dalle lettere cattoliche, da Paolo e dai Vangeli. La liturgia siriaca primitiva include un rito dell’incenso e una preghiera presbiterale che segue l’introduzione. L’incenso viene quindi bruciato al canto di un inno, seguito dalla preghiera di accettazione dell’incenso. Il rito maronita si sviluppò sotto l’influenza del monastero siriano di San Marone. I seguaci di questa tradizione alla fine emigrarono in Libano nell’VIII secolo, dove formarono una Chiesa autonoma. La liturgia maronita continuò a usare molti antichi elementi siriaci, sia della tradizione siroorientale, sia di quella siro-occidentale. Con le crociate, i maroniti caddero sotto l’influenza latina ed entrarono nella
piena comunione con Roma alla fine del XII secolo, il che condusse a una graduale latinizzazione della liturgia nel XIII secolo e anche oltre, fino al XVI. Un’edizione riveduta del Messale maronita nel XVIII secolo di fatto incluse una forma rivisitata del canone romano, che servì come anafora normativa della liturgia maronita fino ad epoca recente. Oggi la liturgia eucaristica è ampiamente celebrata in arabo, benché la consacrazione e alcune altre parti siano rimaste in siriaco. Vengono proclamate solo due letture (un testo di Paolo e il Vangelo) e nell’ultima edizione del Messale sono comprese sei anafore. Il rito malankarese è usato dalle Chiese ortodosse e cattoliche malankaresi dell’India meridionale. I cristiani tommasiani che rifiutarono di sottomettersi all’intervento occidentale alla fine presero contatto con il patriarca della Chiesa siro-ortodossa, che fu d’accordo nel dotarli di un vescovo, con l’intesa che essi avrebbero aderito ai princìpi teologici e liturgici della sua Chiesa. Così, il rito siro-malankarese fu introdotto nell’India meridionale nei secoli XVII e XVIII, grazie ai vescovi siro-ortodossi colà inviati. La liturgia malankarese è basata sul rito siriaco, con alcuni adattamenti locali, come abbiamo visto anche nel caso del rito malabarese. Come per quest’ultimo, anche nel rito malankarese oggi il malayalam serve come lingua liturgica.
11. San Gregorio l’Illuminatore, sinassario del 1658, Cattolicato armeno di Cilicia, Antlias, Libano. 11
La famiglia armena La liturgia armena si basava originariamente su una forma siriaca della liturgia di Antiochia, portata in Armenia nel II e nel III secolo dai missionari provenienti dalla Mesopotamia settentrionale. Fu Gregorio l’Illuminatore († 325) a col71
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legarsi con la Chiesa di Cesarea; egli portò la liturgia cappadoce in Armenia ed essa si propagò con la conversione del re Tiridate III e dell’intera nazione armena nel 301. La liturgia armena si sviluppò ulteriormente nel V e nel VI secolo con l’incorporazione di materiale liturgico gerosolimitano, che fu tradotto e adattato per l’uso armeno. Seguì l’influenza bizantina, dal secolo VII fino all’XI. La mescolanza di varie tradizioni liturgiche portò a una certa duplicazione di rituali e alla moltiplicazione delle preghiere. Dato che vi fu un’influenza latina nei secoli XII-XIV, il rito armeno cominciò a includere anche alcuni elementi latini (per esempio la mitra vescovile e l’uso del Confiteor all’inizio dell’Eucaristia). Il rito armeno contiene otto anafore, tra le quali quelle di san Basilio, chiamata anafora di san Gregorio l’Illuminatore, è la più antica. Gli armeni ortodossi non mescolano l’acqua con il vino e la comunione è data sotto una sola specie, a differenza delle altre tradizioni orientali. Dopo l’anamnesi, nella preghiera eucaristica c’è un inno a Dio Padre, insieme a un inno allo Spirito Santo dopo l’epiclesi. Il Natale e l’Epifania sono celebrati come un’unica festa il 6 gennaio, secondo l’antica prassi liturgica orientale. Il rito bizantino Il rito bizantino si sviluppò nel patriarcato di Costantinopoli e venne gradualmente accolto nel periodo medievale dai patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Questa liturgia è conosciuta per il suo cerimoniale elegante 72
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12. Il monastero di Khor Virab, «Fossa profonda», costruito sul luogo dove, secondo la tradizione, fu imprigionato san Gregorio l’Illuminatore, evangelizzatore dell’Armenia. Sullo sfondo, il monte Ararat. 13. Battesimo di Cristo, evangeliario di Edjmiazin, VII secolo, Matenadaran, Erevan, Armenia. 14. Esterno della chiesa di Santa Sofia, Costantinopoli. 15. Spazio monumentale della navata maggiore di Santa Sofia, Costantinopoli. 16. Mosaico della porta meridionale di Santa Sofia, Costantinopoli, 989 o 1019. Nella rievocazione simbolica alla Theotokos viene offerta da Costantino la città e da Giustiniano la chiesa. 73
12. VARIETÀ LITURGICA NELLE CHIESE ORIENTALI ANTICHE
12. VARIETÀ LITURGICA NELLE CHIESE ORIENTALI ANTICHE
17. Nell’affresco di San Naum a Ocrida, del 1806, sono rappresentati i santi Cirillo e Metodio con cinque discepoli, tra cui san Clemente e san Naum.
21. Interno e iconostasi della cattedrale della Trinità di San Sergio a Mosca.
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22. Pagina miniata di un evangeliario moscovita del 1392. Biblioteca Statale, San Pietroburgo.
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18. Interno della chiesa del monastero di Gra/anica, Serbia.
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19. Chiesa della Dormizione della Vergine, Mosca. l
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20. Diffusione e direttrici dell’espansione della cultura bizantina.
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e complesso, che deriva ampiamente dal cerimoniale della corte imperiale di Bisanzio e giunse anche a includere una sintesi di riti palestinesi e costantinopolitani. Nel VI secolo, e specialmente con la costruzione della grande Hagia Sophia (Santa Sofia), il rito bizantino divenne imperiale e divenne ancor più elaborato nel cerimoniale e nello stile, specialmente nel suo frequente uso dell’incenso e nelle numerose processioni accompagnate da canti come il Trisagion e il Cherubikon. Di fatto, il rito contiene due processioni di ingresso. Nel IX secolo, con l’aiuto degli «apostoli degli Slavi» Cirillo († 869) e Metodio († 885), il rito bizantino si diffuse nella penisola balcanica e quindi in Romania, e infine in Russia alla fine del X secolo. Il simbolismo e la dimensione cosmica del rito è presente nei numerosi mosaici che adornano la chiesa, ma anche nell’iconostasi, anch’essa adorna di belle icone che separano il presbiterio dalla navata. Dall’XI secolo, la liturgia di san Giovanni Crisostomo sostituì la più elaborata liturgia di san Basilio, peraltro tuttora in uso nelle domeniche di Quaresima e in alcune feste. È usata anche la liturgia greca di san Giacomo, da parte di alcune comunità nella festa del santo (23 ottobre). Tutte le anafore della tradizione bizantina prestano una speciale attenzione all’epiclesi (l’invocazione della discesa dello Spirito Santo sui doni e sull’assemblea liturgica). 74
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3. Le chiese stazionali di Roma secondo la secolare tradizione, con l’indicazione del calendario delle celebrazioni quaresimali.
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13. LA LITURGIA STAZIONALE is hal
a indicare una speciale liturgia vescovile o patriarcale. Le liturgie stazionali consistevano in incontri della Chiesa locale attorno al proprio vescovo in giorni di festa e, specialmente, durante il tempo di Quaresima. In queste occasioni, Roma, Costantinopoli e Gerusalemme, ma anche città come Ippona e Arles, venivano interamente trasformate in spazi sacri, perché processioni di fedeli cristiani con i loro vescovi o patriarchi riempivano le strade. A Costantinopoli la liturgia stazionale comprendeva un forte elemento di supplica e intercessione, e i cristiani occupavano le strade invocando la misericordia di Dio a motivo dei numerosi terremoti subìti, insieme alle siccità e ad altri disastri naturali. Le eresie offrirono un altro motivo ancora per svolgere processioni stazionali, a contrastare le popolari funzioni degli ariani. Giovanni Crisostomo promosse con vigore l’inclusione di eleganti croci d’argento illuminate da nastri brillanti. Lo sviluppo del calendario liturgico era chiaramente collegato con l’evoluzione della liturgia stazionale, così come il lezionario. Nei giorni di festa, la lectio continua veniva in-
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Il termine statio risale al II secolo e fu usato originariamente in modo più generale per descrivere i digiuni pubblici, come si vede nella coeva opera Il pastore di Erma. In seguito, esso indicò l’assemblea convocata in giorni specifici per fini specifici in luoghi predeterminati. Tertulliano si riferiva ai digiuni settimanali del mercoledì e del venerdì come a giorni stazionali, cioè giorni di digiuno e di preghiera. A Roma e a Cartagine, questi giorni prevedevano anche l’Eucaristia, ma altrove solo preghiere e letture. Era opinione di Tertulliano che il significato di statio derivasse dall’uso militare, a significare «stare di guardia» o «al proprio posto». Anche Isidoro di Siviglia si riferisce al digiuno come a una statio. Gradualmente, tuttavia, il termine statio venne a significare un luogo dove uno si ferma e si trattiene per un incontro liturgico e si riferì quindi semplicemente all’incontro liturgico stesso. Sia Cipriano di Cartagine, sia Cornelio vescovo di Roma parlavano per esempio di una statio come di un incontro tra vescovo e popolo, ma non necessariamente di un incontro liturgico. Tuttavia, con il V secolo, il termine iniziò
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1. Croce in argento dorato ornata di pietre preziose, dono dell’imperatore Giustino II (565-578) e dell’imperatrice Sofia a Roma. Tesoro di San Pietro, Città del Vaticano. 2. Espansione di Costantinopoli in età teodosiana, con la collocazione dei principali edifici religiosi e civili. 76
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Mercoledì delle Ceneri Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica Lunedì
Santa Sabina all’Aventino San Giorgio al Velabro Santi Giovanni e Paolo al Celio Sant’Agostino in Campo Marzio San Giovanni in Laterano San Pietro in Vincoli al Colle Oppio Sant’Anastasia (San Teodoro) al Palatino Santa Maria Maggiore San Lorenzo in Panisperna Santi XII Apostoli al Foro Traiano San Pietro in Vaticano Santa Maria in Domnica alla Navicella San Clemente presso il Colosseo Santa Balbina all’Aventino Santa Cecilia in Trastevere Santa Maria in Trastevere San Vitale in Fovea (via Nazionale) Santi Marcellino e Pietro al Laterano (via Merulana) San Lorenzo fuori le Mura San Marco al Campidoglio Santa Pudenziana al Viminale San Sisto (Santi Nereo e Achilleo) Santi Cosma e Damiano in Via Sacra (Fori Imperiali) San Lorenzo in Lucina Santa Susanna alle Terme di Diocleziano Santa Croce in Gerusalemme Santi Quattro Coronati al Celio
Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica V di Quaresima Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica delle Palme Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica di Pasqua Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì Sabato Domenica in Albis
San Lorenzo in Damaso San Paolo fuori le Mura Santi Silvestro e Martino ai Monti Sant’Eusebio all’Esquilino San Nicola in Carcere San Pietro in Vaticano San Crisogono in Trastevere San Ciriaco (Santa Maria in Via Lata al Corso) San Marcello al Corso Sant’Apollinare in Campo Marzio Santo Stefano al Celio San Giovanni a Porta Latina San Giovanni in Laterano Santa Prassede all’Esquilino Santa Prisca all’Aventino Santa Maria Maggiore San Giovanni in Laterano Santa Croce in Gerusalemme San Giovanni in Laterano Santa Maria Maggiore San Pietro in Vaticano San Paolo fuori le Mura San Lorenzo fuori le Mura Santi XII Apostoli al Foro Traiano Santa Maria ad Martyres in Campo Marzio (Pantheon) San Giovanni in Laterano San Pancrazio
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13. LA LITURGIA STAZIONALE
13. LA LITURGIA STAZIONALE 4
4. Edifici romani sottostanti alla chiesa di Santa Anastasia, Roma (da P. Pietri, 1960). 5. Cleristorio del V secolo e transetto probabilmente altomedievale della chiesa di Santa Anastasia, Roma.
terrotta, così che potessero essere scelte letture tematiche più corrispondenti a feste particolari. In aggiunta ai suoi numerosi altri contributi alla comprensione dello svolgimento della liturgia nella Gerusalemme del IV secolo, Egeria offre anche informazioni preziose sul sistema stazionale del luogo. Qui possiamo vedere la liturgia di Gerusalemme celebrata interamente come una festa mobile, in cui l’intero corpo – individuale e collettivo – era usato per esprimere lode a Dio. Era presente uno spiegamento totale di ministri e paramenti liturgici, uso di luci e incenso, insieme a numerose processioni accompagnate dal canto di litanie e inni. La liturgia stazionale romana che si sviluppò dal V all’VIII secolo era in tutto una liturgia cittadina, una liturgia celebrata dal vescovo di Roma con i suoi presbiteri, diaconi e fedeli, che aveva luogo la domenica e in altri giorni speciali in una selezione di chiese specifiche (stazioni) in città. Era organizzata in libertà e faceva uso dello spazio pubblico, per quanto era permesso. A causa delle leggi che non permettevano che i cimiteri fossero entro le mura cittadine, c’era una liturgia celebrata in urbe e una extra muros, dentro e fuori le mura. La liturgia era profondamente coreografica, con grandi movimenti che nei giorni di festa trasformavano l’intera città in uno spazio sacro. Roma era la sola città del tempo in Occidente con una simile, grandiosa liturgia imperiale, sicché non sorprende che divenne fonte di imitazione per gli altri. I luoghi chiamati stationes erano scelti per i vari giorni di festa, secondo le basiliche che contenevano le reliquie dei santi. Quando le celebrazioni liturgiche non erano memoriali di santi – per esempio durante la Quaresima – venivano cercate altre connessioni tematiche fra il giorno liturgico e la basilica. I cristiani di Roma si incontravano nella statio per le principali solennità (Natale, con la sua triplice celebrazione; Epifania; Pasqua e Pentecoste), per il ciclo pasquale (dall’inizio della Quaresima al sabato dopo Pasqua), per la settimana dopo Pentecoste e per i digiuni del settimo e del decimo mese. Non c’era una basilica che occupasse una posizione centrale in città, neppure quella del Laterano, nonostante la sua ovvia importanza. Piuttosto, nel vasto spazio urbano costituito dalla Roma del V secolo, questa forma cultuale mobile era organizzata nei circa trenta luoghi di culto, spesso lontani dal centro città. Così, il concetto di San Giovanni in Laterano come cattedrale di Roma sarebbe suonato davvero strano in quel periodo. Quando il papa si riferiva al Laterano, preferiva infatti parlare di nostra ecclesia, la nostra chiesa. Per esempio, fuori delle mura, il papa poteva radunare la Chiesa di Roma per la celebrazione dei natalicia (il giorno natale), vale a dire il giorno della morte dei santi, nei luoghi dove essi erano sepolti. Presieduti sempre dal papa o da un suo delegato, erano i ri78
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7. Maria Regina col Bambino, affresco, transetto sinistro di Santa Anastasia a Roma, XII secolo. Il Mercoledì delle Ceneri la colletta per recarsi a Santa Sabina era a Santa Anastasia.
6. Pianta della chiesa di Santa Anastasia, Roma (da Todini-Krautheimer).
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ti più solenni che si celebrassero in città. A ogni celebrazione, rappresentanti delle chiese della città, dei tituli (chiese chiamate secondo il titolo del proprietario della casa che aveva dedicato la sua proprietà per l’uso a mo’ di chiesa) e delle grandi basiliche si univano al papa per la liturgia. Accompagnato dal suo seguito, egli andava in processione, portato su una sedia o a cavallo, dalla prima stazione (per esempio il palazzo del Laterano, dove il vescovo di Roma risiedeva) alla basilica designata (la seconda stazione) per l’Eucaristia di quel giorno. Un ulteriore sviluppo della liturgia stazionale mostra che, in certi giorni dell’anno, quando il vescovo di Roma partiva dalla sua residenza con gli assistenti, l’assemblea si radunava in un’altra chiesa, da cui partiva una processione solenne o una «litania» fino alla chiesa stazionale. Nella liturgia romana, questa assemblea preliminare era chiamata collecta. Nella sua forma sviluppata, l’assemblea preliminare consisteva di una preghiera ad collectam, quindi la processione muoveva verso la chiesa stazionale designata. Così, le sette regioni geografiche principali della città avevano le loro
8. Particolare della porta in legno di cipresso di Santa Sabina a Roma, risalente al V secolo, con storie dell’Antico e del Nuovo Testamento.
processioni, destinate ad arrivare nella basilica più o meno nello stesso momento. Queste sette processioni erano guidate ognuna da una croce processionale – la croce stazionale di quella regione – portata dal diacono che sovrintendeva alla diakonia (centro di servizi) per i bisognosi dei dintorni. Durante la processione, venivano cantati salmi e litanie e la parola «litania» venne spesso applicata alla processione stessa. Quando il papa o il suo delegato arrivava alla chiesa stazionale con il suo seguito, veniva salutato alle porte della basilica dal clero di quella chiesa, insieme a un coro di vergini. Dopo che ognuno aveva prestato il suo omaggio baciandogli i piedi, egli veniva accompagnato in sacrestia per essere vestito con i paramenti liturgici. Quella era l’Eucaristia principale del giorno. Era abitudine annunciare alla Messa stazionale quelli che sarebbero stati la data e il luogo della liturgia stazionale successiva e, se prevista, della collecta. L’arcidiacono svolgeva questa funzione immediatamente dopo la comunione del papa alla sua cathedra. Nonostante la solennità, comun79
13. LA LITURGIA STAZIONALE
13. LA LITURGIA STAZIONALE
que, la liturgia stazionale papale manteneva la nobile semplicità tipica del rito romano classico. L’unità della Chiesa locale con il proprio vescovo era particolarmente evidente nella liturgia stazionale, e specialmente nell’antica pratica chiamata fermentum, ossia «lievito», caratteristica di Roma. Benché non possiamo dire con certezza quanto antica fosse, questa prassi ebbe una certa fioritura all’inizio del V secolo e scomparve soltanto in un’epoca successiva al VII. In seguito venne mantenuta solo nella liturgia della veglia pasquale. Quando il papa presiedeva una liturgia stazionale, inviava a tutto il clero che officiava nei tituli periferici della città una particella del pane che aveva consacrato nella solenne Eucaristia: la particella era chiamata fermentum. Essa veniva portata dagli accoliti in borse di lino e la teoria più antica suggerisce che, quando i presbiteri delle differenti chiese dei tituli la ricevevano, la mettevano nel calice prima della distribuzione della comunione. Così, le diverse liturgie cittadine venivano unite a quella del vescovo. Lo stesso Innocenzo I testimonia la pra-
9. L’atrio medievale della chiesa di San Clemente, Roma. 10. San Martino di Tours e palma, decorazione medievale dell’abside della chiesa paleocristiana di San Marcello, Roma. 11. Portico medievale della chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, Roma.
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tica nella sua Lettera a Decenzio, vescovo di Gubbio, nel 415. Una teoria più recente suggerisce che i presbiteri romani potevano rimanere nei tituli per l’istruzione religiosa dei catecumeni al mattino della liturgia stazionale papale, e il fermentum veniva portato loro perché lo consumassero, così che, pur non presenti, potessero in qualche modo partecipare alla liturgia. Sia come sia, nonostante le interpretazioni allegoriche popolari che sono continuate fino ad oggi, il fermentum non ha mai simboleggiato la commistione del corpo e del sangue di Cristo, come alcuni hanno suggerito. L’Eucaristia celebrata dai presbiteri nelle loro chiese costituiva un secondo tipo di liturgia romana del tempo, ovviamente meno solenne di quella papale, con i suoi libri corrispettivi. Si noti che l’intenzione originaria dei tituli stava nella catechesi e nelle funzioni penitenziali (così dice la teoria più recente sulle origini del fermentum), mentre le basiliche erano luoghi normativi per le celebrazioni del Battesimo e dell’Eucaristia. Questo cambiò per motivi pratici in concomitanza con la continua crescita della Chiesa. Sappiamo dell’esistenza di nove tituli prima del IV secolo (i titoli di Clemente, Anastasia, Sabina, per esempio) e di tre che esistevano già prima della pace di Costantino (Callisto, Cecilia e Marcello). Generalmente, queste chiese-tituli si trovavano nelle zone più abitate o nelle vicinanze. Il numero dei tituli crebbe fino a venti nel IV secolo e a venticinque al tempo di Leone Magno (440-461). Nell’anno 499, sappiamo di ventinove chiese-tituli. Nel VI secolo, i tituli ricevettero il nome di un santo, in luogo di quello del possessore o del proprietario della casa. Naturalmente, in certi casi il nome del titulus rimase, come nel caso di Santa Cecilia e di Santa Sabina. In altri casi la chiesa-titulus prese un nome differente, come per il titulus di Bisante, rinominato chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Queste comunità minori non erano intese come parrocchie in senso moderno. La vera parrocchia era la diocesi e il pastore era il vescovo. Così, nella sua accezione classica, il fer-
mentum significava l’unità di una parrocchia con il suo pastore, il vescovo. Quando la Chiesa crebbe e si allargò oltre le mura della città, vennero fondate chiese più piccole in campagna. Queste comunità vennero chiamate «parrocchie» e i loro preti furono chiamati «pastori». La lettera di Innocenzo a Decenzio nota che il fermentum non viene portato alle comunità fuori dalle mura, ma solo ai tituli: chiaramente, vi è qui una relazione differente. Così, in questa liturgia celebrata fuori le mura, abbiamo un terzo tipo di liturgia romana. Poiché queste comunità erano collocate in campagna, erano prive dell’assistenza dei diaconi, dei cori e di altri ministeri liturgici, e così la forma che si sviluppò in esse tendeva a essere più semplice, con uso minore di cerimoniale e di musica. In seguito, l’Eucaristia celebrata in gruppi speciali (celebrazioni durante i pellegrinaggi alle tombe dei martiri, Messe votive, Messe private celebrate nella cappella privata del papa con l’insieme dei collaboratori domestici) avrebbe trovato origine in questo terzo gruppo. In esso possiamo porre anche le fondamenta dell’ordo della Messa feriale o infrasettimanale e delle celebrazioni private senza un’assemblea (eccetto un ministrante), offerte a nome dei vivi o dei defunti. In questo periodo classico, la Chiesa di Roma sviluppò la propria liturgia, che rifletteva lo spirito del popolo romano. Questa liturgia, questa romanità, avevano i loro limiti e confini: il contesto culturale romano tra il V e l’VIII secolo. A Costantinopoli e a Gerusalemme la liturgia romana sarebbe ovviamente apparsa molto fuori luogo. Ciononostante, la liturgia romana classica di quel periodo rimane un modello per le altre Chiese dell’Occidente, per il fatto che dimostra i mezzi di un adattamento liturgico e di una inculturazione che sarebbero stati proposti secoli dopo dal Concilio Vaticano II: una liturgia locale per una Chiesa locale, che nondimeno rimane sempre in comunione con il vescovo di Roma e, per ciò stesso, con la più grande Chiesa di Dio sparsa nel mondo. 81
14. IL «GENIO» DEL RITO ROMANO
14. IL «GENIO» DEL RITO ROMANO 1. Parte destra del Discorso ai Romani nel Foro, arco di Costantino, Roma. Esempio di cerimonia pubblica. 2. L’ospitalità di Abramo, particolare del mosaico della navata maggiore di Santa Maria Maggiore, Roma. Abramo appare vestito con gli abiti di un console. 1
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L’8 maggio 1899, lo storico inglese Edmund Bishop tenne una conferenza per la Historical Research Society nell’arcivescovado di Westminster, a Londra, dal titolo The Genius of the Roman Rite. L’articolo venne pubblicato più avanti, nel 1918, nel suo classico volume Liturgica Storica. Papers on the Liturgy and Religious Life of the Western Church, che ha cambiato per sempre la maniera con cui gli storici della liturgia comprendono e descrivono le caratteristiche uniche del rito romano. Bishop concludeva che il «genio», lo spirito del rito romano si poteva riassumere in due parole: «sobrietà» e «senso». L’antichissima composizione di testi liturgici a Roma mostrava un dinamismo non dissimile da quanto accadeva in altri riti, come abbiamo visto all’opera nella varietà liturgica nelle Chiese orientali antiche e come vedremo anche per le famiglie liturgiche non romane dell’Occidente. A Roma emerse un nuovo tipo di improvvisazione liturgica, basato sulla fedele osservanza di certi canoni, linee guida o princìpi che erano tramandati in quella Chiesa locale da una generazione all’altra. Tale improvvisazione e la conseguente formulazione di quei testi liturgici furono ampiamente influenzate dallo spirito culturale romano, piuttosto differente da quello che abbiamo visto nella Gerusalemme del IV secolo o nel cerimoniale di corte imperiale e solenne della liturgia bizantina celebrata in Hagia Sophia, a Costantino-
poli. Diversamente dall’Oriente cristiano, lo spirito classico romano era noto per la semplicità delle forme, la brevità, la sobrietà e la praticità, così che si spiega la descrizione di Bishop della liturgia romana come caratteristicamente sobria e sensibile. Papi come Damaso († 384), Innocenzo († 417), Celestino († 432), Leone Magno († 461), Gelasio († 496), Vigilio († 555) e Gregorio Magno († 604) diedero tutti significativi contributi alla formazione del rito romano, nonché alla prima composizione di testi liturgici. Per esempio, alla fine del V secolo, papa Gelasio introdusse nel rito romano la litania greca del Kyrie eleison, che sostituiva le solenni preghiere di intercessione. Il testo fu ulteriormente emendato e semplificato da Gregorio Magno alla fine del VI secolo, offrendone una forma litanica più breve. Gregorio pose anche il Padre nostro immediatamente dopo la preghiera eucaristica e prima della fractio panis, la frazione del pane, anziché tra quest’ultima e la comunione. Ciò permetteva al vescovo di Roma di pronunciare le preghiere sui doni consacrati all’altare, invece che alla cattedra papale, dove si metteva per il rito della frazione del pane e riceveva la comunione durante le liturgie stazionali papali. Il Gloria in excelsis apparve per la prima volta nel rito romano durante il pontificato di Simmaco († 514), nelle domeniche e nelle feste, nelle Messe presiedute dal vescovo. La consuetudine
fu infine estesa alle liturgie presiedute dai presbiteri. Il papa di origine siriana Sergio († 701) introdusse nella liturgia romana la litania orientale dell’Agnus Dei, secondo l’uso abituale del suo contesto culturale di provenienza. La liturgia romana di questo periodo non era solo classica nel senso che incarnava l’inclinazione romana per «sobrietà e senso»; era anche pura, indicando con ciò il fatto che non era ancora venuta a contatto con gli elementi gallicani o franco-gallicani, che sarebbero giunti solo nell’VIII secolo. Con il prender forma del rito romano, la «nobile semplicità» della cultura romana (secondo la definizione del Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 34) si ampliò. Lo si è notato, per esempio, negli inni cantati all’introito, all’offertorio e alla comunione, anche durante le solenni liturgie stazionali papali celebrate a Roma in quel periodo. Solo il papa si avvicinava all’altare per proferire la preghiera eucaristica, mentre i presbiteri rimanevano al loro posto. L’apparato pastorale del vescovo usato in processione consisteva principalmente in un bastone o un’asta lignea, un supporto fisico per il vescovo di Roma, che spesso ne aveva bisogno per la sua età. La lavanda delle mani all’offertorio sembra fosse semplicemente un fattore igienico in quest’epoca, senza alcun riferimento simbolico alla purificazione. A mano a mano che il rito romano continuava ad evolvere,
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3-5. Navatella sinistra (3), navata maggiore (4) e pianta (5) della chiesa di Santa Sabina. Eretta sotto papa Celestino I (422-432), Santa Sabina è forse la chiesa paleocristiana meglio conservata di Roma.
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14. IL «GENIO» DEL RITO ROMANO
6-7. Papa Damaso (366-384) e papa Innocenzo I (401-417) nei dipinti dei papi voluti da Leone Magno (440-461) nella navata maggiore della basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma. 8. Dittico consolare del VI secolo, modificato in epoca carolingia con l’aggiunta delle scritte «David rex, scs Gregor». Tesoro della Cattedrale, Monza. 9. Ordines Romani, metà del IX secolo. Dombibliothek, Colonia. 9
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10. Direzione assiale delle chiese di Roma dal 400 al 500: 1 San Lorenzo fuori le Mura; 13 Santa Maria Maggiore; 18 Santo Stefano Rotondo; 19 San Giovanni a Porta Latina; 23 Santa Sabina; 29 San Vitale; 32 Santi Giovanni e Paolo; 37 Sant’Agata dei Goti; 38 San Pietro in Vincoli.
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l’influenza della corte imperiale romana spingeva a produrre preghiere più verbose ed elaborate, con l’impiego di un linguaggio aulico. Il canone romano (che ora è la prece eucaristica I del corrente Messale romano) offre un esempio perfetto di tale linguaggio elegante e formale, che racchiude i gesti aulici di battersi il petto, inchinarsi e genuflettere. Anche la lunghezza di questa preghiera, in confronto con le altre preci eucaristiche del corrente Messale, suggerisce qualcosa dell’influenza imperiale costitutivamente presente nello sviluppo della liturgia romana dal V all’VIII secolo. L’Ordo Romanus primus (parte della raccolta di quelli che saranno chiamati Ordines Romani) è un importante documento per gli storici della liturgia che cercano di ricostruire i modi in cui la Chiesa di Roma celebrava il culto alla fine del VII e nell’VIII secolo e i modi precisi con cui il cerimoniale di corte romano si fece qui gradualmente strada nella liturgia. Con gli ordines e i cerimoniali medievali, gli Ordi84
nes Romani offrono i fondamenti per quella che ora chiamiamo l’Istruzione generale del Messale romano. L’Ordo Romanus primus è il più vecchio degli ordines, come dice il nome, e il primo rimasto di una Messa papale solenne e, perciò, dell’Eucaristia come veniva celebrata a Roma in quel periodo. Fra l’altro, esso fornisce una descrizione dettagliata della Messa stazionale papale a Santa Maria Maggiore la mattina di Pasqua. Ci fornisce anche una descrizione dell’ordine della processione papale a cavallo dalla residenza papale in Laterano, lungo la via Merulana, fino alla chiesa designata per la celebrazione. Durante la processione, gli assistenti del papa portavano ceri; egli era accompagnato anche dai suoi consiglieri, forse presbiteri romani. A un certo punto della processione, il notaio di distretto salutava il papa e lo informava di quante persone erano state battezzate la sera prima, durante la veglia pasquale: «Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, la
notte scorsa sono stati battezzati nella chiesa di Santa Maria Theotokos n° bambini e n° bambine», al che il papa rispondeva: «Rendiamo grazie a Dio». Quando il corteo papale arrivava a Santa Maria Maggiore, i capi di quella chiesa erano lì in attesa di salutare il papa, insieme con il coro e altri rappresentanti ecclesiali che gli baciavano le mani e i piedi. Come abbiamo detto, l’originale semplicità e sobrietà del rito romano classico sarebbe stata lentamente influenzata dal cerimoniale della corte imperiale di Roma. E se pure questo non era un cerimoniale elaborato come quello che abbiamo descritto sopra per la liturgia bizantina celebrata alla presenza dell’imperatore in Hagia Sophia, nondimeno tendeva a preghiere più elaborate che impiegavano un linguaggio imperiale. Possiamo notare una certa semplicità e sobrietà a riguardo del linguaggio eucaristico usato in quel periodo, più indi-
retto che diretto. In altri termini, non troviamo per esempio molti riferimenti diretti al corpo e al sangue di Cristo. Troviamo invece parole come cibus et potus (cibo e bevanda), sacramentum (sacramento), eccetera. La famosa descrizione di sant’Agostino dell’Eucaristia («doni di Dio per il popolo di Dio, doni santi per un popolo santo») esplicita questo. Allo stesso modo, c’è scarsa evidenza di quella che sarà in seguito chiamata «adorazione eucaristica», incensando il Sacramento, eccetera. È vero, l’Ordo Romanus primus, della fine del VII o dell’inizio dell’VIII secolo, richiede l’uso dell’incenso durante la processione di introito, ma, diversamente dall’uso esteso che ne fa il rito bizantino, per esempio, l’incenso nel rito romano è usato abbastanza parcamente in questo periodo e questo stesso ordo non fa menzione di alcuna incensazione delle specie eucaristiche, come avverrà con l’avvento della filosofia e della teologia scolastiche dell’alto Medioevo. 85
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE 2 Bangor
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liturgia ambrosiana dal V secolo
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1. Paesaggio e cronologia prima del IX secolo dei riti africano, ambrosiano, romano, mozarabico, gallicano e celtico.
Sardegna
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Ippona Cartagine
liturgia afric a na III-VI secolo
2. Vasca battesimale del VI secolo da Sefetula (oggi Sheitla). Museo del Bardo, Tunisi.
Sicilia
M a r
M e d i t e r r a n e o
3. Ruderi del battistero con piscina cruciforme della grande basilica del quartiere cristiano di Hippo Regius (Ippona), Algeria. 4. Ricostruzione del quartiere cristiano di Ippona, attorno alla grande basilica.
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1
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quella celtica, per esempio – sono state tutte soppresse. Ai nostri giorni, il rito romano è celebrato in tutto l’Occidente e in Africa, in America Latina e in Estremo Oriente, benché dopo il Concilio Vaticano II vi siano stati vari tentativi di inculturare il rito romano in usi locali, che riflettano più adeguatamente lo spirito culturale della comunità celebrante. Il Rito romano per le diocesi dello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo), approvato dalla Santa Sede nel 1988, offre un bell’esempio di forma inculturata del rito romano. Parallelamente all’evolversi di queste liturgie occidentali non romane, si svilupparono anche alcuni altri riti o liturgie locali, fortemente marcati dallo spirito culturale di aree particolari. Ci fu, per esempio, la liturgia africana, che si sviluppò ampiamente nel Nord Africa, così come alcuni riti locali noti in Italia: quelli di Benevento e di Capua, o quelli di Ravenna e di Aquileia. In Portogallo si sviluppò un rito unico nella città di Braga. Oggi queste liturgie non esistono più e in alcuni casi le informazioni sono scarse o inesistenti, come accade per la liturgia africana, e in quei luoghi si celebra ora il rito romano. Questi riti oscuri saranno brevemente
4
La liturgia africana Casa di Giuliano
È probabile che i riti gallicano e ispanico abbiano il loro fondamento nella liturgia dell’Africa nordoccidentale e appare pertanto appropriato iniziare da qui. Diversamente da Roma, che mantenne l’uso del greco come lingua liturgica fino ai tempi di papa Damaso († 384), la liturgia in Africa usava già il latino dai tempi di Cipriano († 258). In generale, la liturgia africana è divisa in due periodi: anteniceno, cioè prima del Concilio di Nicea del 325, e postniceno. Nel periodo anteniceno abbiamo la testimonianza di Tertulliano († dopo il 220) e di Cipriano di Cartagine. Che la liturgia sia stata riordinata dopo Nicea è evidente dalla testimonianza di Agostino, vescovo di Ippona, i cui scritti vanno dal 380 al 430. Ci sono anche gli scritti di Ottato di Milevi († circa 390), di Vittore di Vita († dopo il 484) e di Ferrando, diacono di Cartagine († circa 523). Sappiamo anche che i Concili africani nel IV e nel V secolo parlano di testi liturgici (libelli). Sfortunatamente, questi testi liturgici oggi non
Sale del battistero
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Ca rd o
Come abbiamo visto nell’ampio resoconto della diversità liturgica presente nelle Chiese antiche d’Oriente, così anche l’Occidente cristiano mostra una diversità di famiglie liturgiche. Lungo i secoli, però, e in gran parte per influenze politiche ed ecclesiastiche, l’Occidente non godette dello stesso grado di strutture sinodali di guida e della concomitante libertà e varietà liturgica; il rito romano alla fine diventò la liturgia dominante dell’Occidente lungo il Medioevo, per essere poi fermamente stabilito nel XVI secolo al Concilio di Trento (1545-1563). Se oggi il rito ambrosiano è vivo e vegeto e continua a essere celebrato con il suo calendario, i propri libri liturgici e la sua struttura specifica per la celebrazione dell’Eucaristia e la liturgia delle ore, esso è tuttavia limitato all’arcidiocesi di Milano. È sopravvissuto anche il rito ispanico (più tardi chiamato anche visigotico e mozarabico), ma in misura molto minore: esso è celebrato normalmente solo nella cappella del Santissimo Sacramento nella cattedrale di Toledo, e occasionalmente in alcune parrocchie in città e nel circondario. Le altre liturgie occidentali non romane – quella gallicana e
trattati più avanti; ma ora bisogna dire qualcosa in ordine alle principali liturgie occidentali non romane menzionate.
Cardo Minor
Decumanus
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15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE 5. Mosaico che illustra la vita e le attività stagionali svolte all’interno di una ricca azienda rurale del IV secolo tra otium e negotium. Museo del Bardo, Tunisi.
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE 6. Mosaico del rivestimento di una tomba del V secolo. Il personaggio maschile vestito con eleganza, la posizione orante di Victoria, il cero, le rose, i galli e le colombe della Numidia danno serenità all’intera scena. Museo del Bardo, Tunisi.
7. Ambrogio celebra la Messa nella basilica Porziana (San Lorenzo), particolare del mosaico absidale di Sant’Ambrogio, Milano. 5
esistono più, così che tutto quello che possiamo fare è ricostruire la liturgia africana secondo la testimonianza degli autori menzionati sopra. Come sempre, per capire l’evoluzione della liturgia bisogna considerare un più ampio contesto socio-religioso, ed è certamente il caso anche qui. Il fatto che il cristianesimo nell’Africa romana fosse ristretto ai Romani o agli Afroromani, senza raggiungere i livelli più bassi della società (i livelli indigeni africani), spiega la sparizione della Chiesa in Africa. In altri termini, una volta scomparso l’Impero romano, scomparve anche la Chiesa. La liturgia africana si sviluppò a partire dal tempo in cui il cristianesimo arrivò in quella zona, fino alle invasioni di Vandali e musulmani. Oltre a una ben sviluppata liturgia eucaristica nell’Africa nordoccidentale, ci fu chiaramente anche una celebrazione liturgica strutturata per gli altri sacramenti, un anno liturgico e una liturgia delle ore. La più antica forma di liturgia africana iniziava con il saluto, segui88
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to dalla liturgia della Parola, che comprendeva letture dall’Antico Testamento, un’epistola del Nuovo Testamento e un salmo responsoriale, il Vangelo, seguito e non preceduto da un Alleluia cantato solo alla domenica e durante il tempo pasquale, l’omelia e il congedo dei catecumeni. C’erano poi i riti di passaggio all’azione sacramentale, i quali comprendevano la preghiera dei fedeli e il rito della pace, a conclusione della liturgia della Parola. Seguiva la preghiera eucaristica, con l’anamnesi e l’epiclesi successiva alla narrazione dell’istituzione. La frazione del pane precedeva il Padre nostro e la benedizione dell’assemblea precedeva la recezione della comunione, anziché essere alla fine della celebrazione dove è posta normalmente. Ai tempi di sant’Agostino, il canone romano preleoniano era normativo nella liturgia eucaristica e il saluto di pace era già stato spostato dalla liturgia della Parola ai riti di comunione, come si trovava nel rito romano, fra il Padre nostro e la benedizione dell’assemblea.
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La liturgia ambrosiana Nonostante il suo nome, il rito ambrosiano non indica che sant’Ambrogio ne sia stato l’iniziatore, né il principale artefice, benché sia probabile che abbia avuto una qualche influenza sul suo sviluppo. Data la sua importanza come uno dei vescovi più autorevoli di Milano, il rito ne adottò il nome, ma, in sostanza, questo rito è quello della Chiesa di Milano. Rimangono aperte alcune questioni sulle sue origini. Alcuni studiosi fanno risalire la più antica raccolta di formule liturgiche milanesi alla metà del V secolo, durante l’episcopato di Eusebio, che fu vescovo di Milano dal 449 al 462 e contemporaneo di Leone Magno. Altri replicano che il periodo più antico di testi milanesi distinti risalirebbe a non prima dell’inizio del VI secolo e perciò coinciderebbe con l’episcopato di Lorenzo I, che durò dal 468 al 508. Rimane anche la questione se il rito ambrosiano fu più in-
fluenzato dalla prassi orientale o da quella romana. Da un lato, non è un segreto che per secoli i vescovi di Roma tentarono di convincere la Chiesa milanese ad abbandonare la propria prassi liturgica a favore della tradizione romana, e perciò fu inevitabile una certa influenza romana sulla forma del rito. Ambrogio attesta in realtà una preghiera eucaristica che presenta una stretta somiglianza con il canone romano, e che portò alcuni studiosi ad affermare che le origini del canone romano non erano di fatto romane, ma milanesi. Tentativi di interferenza romana sul rito ambrosiano furono evidenti specialmente durante il regno di Carlo Magno, che cercò disperatamente di romanizzare la Chiesa milanese, così come stava facendo in tutto l’Impero franco-germanico. Tuttavia, nonostante vari incrementi romani, non si può certo negare che nel rito ambrosiano siano chiaramente presenti alcuni elementi orientali. E non si può negare la probabilità di un certo contatto con Chiese transalpine e perciò di influenze gallicane. Per esempio, 89
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE
come nel rito battesimale gallicano, l’iniziazione cristiana a Milano comprendeva una lavanda dei piedi del neobattezzato durante la veglia pasquale. Il rito ambrosiano ha anche una relazione con la liturgia di altre città dell’Italia settentrionale, come Aquileia, Brescia e Torino. La struttura medievale della Messa ambrosiana iniziava con una processione alla chiesa stazionale, ma nel IX e X secolo essa fu sostituita con le preghiere apologetiche del celebrante ai piedi dell’altare, seguite dal salmo di introito, come nel rito romano; seguiva il Gloria, sostituito in Quaresima da una litania di intercessione. I riti introduttivi si concludevano con una oratio super populum (preghiera sul popolo), che corrispondeva alla preghiera di colletta del rito romano. La liturgia della Parola comprendeva letture dai profeti e dagli apostoli, quindi un salmo graduale e l’Alleluia, il Vangelo e l’omelia, il congedo dei catecumeni; inoltre un triplice canto del Kyrie eleison e, dopo il XII secolo, un’antifona dopo il Vangelo. Seguivano lo scambio della pace e le intercessioni generali (o preghiera dei fedeli) con una preghiera conclusiva, poi l’offertorio. A partire dal IX secolo fu introdotto il Credo (un secolo prima della sua introduzione nel rito romano) tra l’offertorio e la preghiera sui doni, seguita dalla preghiera eucaristica, contenente una dossologia più elaborata di quella che si trovava nel canone romano. Come nella liturgia africana, la frazione del pane era posta prima del Padre nostro, con l’embolismo; quindi la preghiera per la pace, la comunione, la benedizione finale e il congedo.
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La liturgia ispanica
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8. Le chiese di Milano e la loro direzione assiale prima del 500.
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Basilica Salvatoris Teatro Basilica Nova
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10. Finestrone absidale del duomo di Milano.
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San Lorenzo Anfiteatro
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9. Miniatura che illustra la liturgia eucaristica dal messale del XV secolo di Gian Galeazzo Visconti per Sant’Ambrogio. Archivio Capitolare della basilica di Sant’Ambrogio, Milano.
Chiamata anche rito visigotico o mozarabico, la liturgia ispanica fu creata e sviluppata nella penisola iberica dall’arrivo del cristianesimo fino alla sua soppressione definitiva da parte di papa Gregorio VII nel 1080, il quale, proprio assumendo il nome da Gregorio I Magno, intese anch’egli rinnovare la liturgia romana e restaurare lo spirito romano classico per il culto in tutta la Chiesa. Con tali preferenze per la romanità, non fu una sorpresa che volesse sopprimere gli altri riti a favore della prassi liturgica romana universale. Nonostante i suoi intensi sforzi, riuscì nel suo intento solo in parte. Mentre il rito mozarabico venne soppresso (eccezion fatta per le poche chiese dove esso continua a essere celebrato oggi), i vescovi di Milano mantennero tenacemente le loro peculiarità ecclesiali e liturgiche malgrado l’interferenza romana. Tre nomi distinti, dunque, per la liturgia ispanica, corrispondenti a un’evoluzione unica. Se il termine più comune e forse più preciso per questa liturgia è «visigotica», il termine «liturgia ispanica» è il più antico e corrisponde al periodo di sviluppo della liturgia romana. La definizione «visigotica» risale appunto al tempo del regno dei Visigoti, e «mozarabica» al periodo della dominazione musulmana. Come per il rito ambrosiano, non c’è comune accordo fra
11. La chiesa di San Juan Bautista de Baños, Palencia, è forse una delle prime espressioni dell’arte visigotica in quanto conserva un’iscrizione dedicatoria del 669 di re Recesvindo.
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12-13. Brocca liturgica in bronzo (12) e turibolo in bronzo (13) di epoca visigotica provenienti dalla basilica di El Bovalar, Serós.
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15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE
14. Interno della chiesa mozarabica di San Baudelio di Berlanga, Soria, Castiglia.
15. Frontespizio del Vangelo di Matteo della Bibbia di Juan de Albares, 921. Archivio della Cattedrale, León. 16
16. Recinto del presbiterio di Saint-Pierre-aux-Nonnains a Metz. Musée d’Art et d’Histoire, Metz. 17. Patena d’oro dell’inizio del VI secolo. Cabinet des Medailles, Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
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gli studiosi a proposito delle origini precise e della data di questo rito distinto. È probabile, però, che – come il rito gallicano – la liturgia ispanica sia stata creata da un patrimonio liturgico condiviso proveniente dal Nord Africa. La stretta prossimità geografica della penisola iberica all’Africa settentrionale rende tale teoria certamente plausibile. Ciò che si sa è che le scuole eucologiche di Tarragona, Siviglia e Toledo e le grandi guide di tali Chiese (Leandro, Isidoro, Eugenio, Ildefonso e Giuliano) ebbero un’influenza significativa sulla formazione della liturgia ispanica. È possibile che anche le scuole di Cartagena e Mérida rivestissero un certo ruolo nella formazione e nella strutturazione del rito ispanico. La struttura della liturgia ispanica è simile a quella che vedremo nel rito gallicano, con alcune differenze. Nei riti di introduzione troviamo il Gloria, come nel rito romano; diversamente, il rito gallicano pone un Benedictus al suo po-
sto. Nelle grandi solennità, si inseriva il Trisagion («Dio Santo, Santo e Potente, Santo e Immortale, abbi pietà di noi») dopo il Gloria e prima della colletta. Nella liturgia della Parola, il celebrante bacia l’altare e saluta l’assemblea prima della proclamazione della Parola dall’Antico Testamento e dal Nuovo; l’Alleluia viene dopo il Vangelo; l’assemblea liturgica risponde «Amen!» dopo le parole della consacrazione, come in varie tradizioni orientali; l’assemblea risponde ancora «Amen!» dopo ogni richiesta nel Padre nostro. La liturgia ispanica fu la prima a introdurre la recita del Credo durante l’Eucaristia – quotidianamente, prima del Padre nostro. In maniera interessante, il testo recitava «Credimus» («crediamo»), anziché «Credo» («io credo»). Altrettanto tipico della liturgia ispanica era il canto dell’acclamazione Sancta sanctis al momento di mostrare il calice e la patena all’assemblea.
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La liturgia gallicana
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La liturgia gallicana dell’Impero franco-germanico si formò nella metà meridionale della Francia medievale (Gallia), ed è particolarmente importante per le sue relazioni e per un’influenza finale sul rito romano, come vedremo. Il regno franco si creò dopo l’arrivo dei Franchi, che penetrarono da nord e continuarono a muovere verso sud nelle città e negli insediamenti lungo le grandi strade imperiali romane. Ne risultò l’incontro fra l’antica cultura romana e la cultura barbara, un incontro fra Romani barbarizzati e Germani cristianizzati, che fu il vero seme della civiltà occidentale; la Chiesa ebbe un ruolo importante nell’intero processo. L’assimilazione venne avviata dalla conversione al cristianesimo del re merovingio Clodoveo nel 496. Questi promosse lo sviluppo del territorio e l’influenza culturale della Chiesa. Con i Merovingi, che regnarono principalmente nell’area di Parigi e dintorni, iniziò il processo di sta-
bilizzazione e unificazione che sarebbe stato completato sotto i Carolingi. Il rito gallicano nacque in questo contesto storico-culturale; il tempo di massima creatività fu il VI secolo, con il vescovo Cesario di Arles († 546), ma venne gradatamente vanificato con l’adozione del rito romano durante le riforme carolingie. Mentre il rito gallicano contiene chiaramente elementi orientali identificabili, meno chiaro è come essi vi siano giunti. Sembra che vi abbiano contribuito alcuni fattori concomitanti: vescovi orientali che governarono importanti Chiese occidentali; pellegrini gallicani in Terra Santa che riportarono a casa varie tradizioni orientali; la dominazione in Occidente degli Ostrogoti, molti dei quali erano ariani; l’influenza di Giovanni Cassiano († 435), discepolo di Giovanni Crisostomo, che giunse a Marsiglia negli anni 415-416 portando con sé le tradizioni liturgiche e monastiche dell’Oriente, le quali si diffusero gradualmente grazie agli sforzi del monastero di Lérins, prospiciente l’odierna Cannes, sino ad Arles. Se la liturgia romana era precisa, semplice, pratica e sobria, la liturgia gallicana era l’opposto. Tracciata sotto l’influenza orientale e in coerenza con quanto abbiamo visto per le antiche liturgie orientali, il rito gallicano era poetico e drammatizzato, con un uso dell’incenso molto maggiore rispetto al rito romano classico. Mentre la liturgia stazionale romana usava l’incenso solo all’ingresso del clero e alla processione al Vangelo, il rito gallicano gradatamente incluse l’incensazione dell’assemblea una quantità di volte durante la liturgia, così come dell’evangeliario e dell’altare. C’era anche assai maggiore varietà nella scelta dei testi liturgici di quanto accadesse nel rito romano. Questo era specialmente evidente nella preghiera eucaristica, che comprendeva molte variazioni con singole parti che cambiavano ogni giorno. Solo le parti fisse della preghiera, come il Sanctus e il racconto dell’istituzione («Prendete e mangiate... Prendete e bevete») rimanevano invariate. Le orazioni liturgiche nel rito gallicano erano spesso indirizzate a Cristo, perché l’eresia ariana ne negava la divinità: un problema più acutamente presente a nord delle Alpi di quanto fosse a Roma. E poiché tali preghiere erano più poetiche e drammatizzate, tendevano anche a essere più lunghe. Dopo le riforme liturgiche di Gregorio Magno, il rito romano vide pochissime aggiunte, con l’eccezione dell’introduzione dell’Agnus Dei da parte di papa Sergio I († 701), come abbiamo già visto, nonché dell’introduzione nell’XI secolo del Credo niceno la domenica e nelle feste, su richiesta dell’imperatore Enrico II, che aveva domandato che il Credo venisse cantato nella Messa della sua incoronazione com’era consuetudine nella tradizione gallicana, cui apparteneva. Al contrario del rito romano, però, quello gallicano testimoniava la moltiplicazione di preghiere e nume93
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE 20. Itinerario di san Colombano, da Bangor a Bobbio, attraverso l’Europa.
Itinerario di san Colombano
Bangor
21. Calice in argento dell’VIII secolo, Ardach, Irlanda. National Museum of Ireland, Dublino.
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22. Libro di Durrow, pagina di apertura del Vangelo di Marco. Trinity College Library, Dublino.
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rose altre aggiunte. Anche le processioni erano più scenografiche. L’evangeliario non era semplicemente portato all’ambone, ma in processione trionfale in mezzo all’assemblea liturgica. Il suo annuncio era salutato con acclamazioni entusiastiche: Laus tibi, Domine! e Laus tibi, Christe!. L’ambone era riservato alla lettura del solo Vangelo; le altre letture bibliche erano fatte dai gradini dell’altare, chiamati gradus. Il graduale e la sequenza si svilupparono perciò come testi salmodici e poetici fra l’epistola e il Vangelo, per accompagnare l’elaborata processione al Vangelo. Come nei riti africano e ispanico, anche quello gallicano pone il rito della pace come un ponte fra la liturgia della Parola e quella eucaristica, prima dell’offertorio. Mentre nel rito romano c’era solo una preghiera di colletta durante i riti di introduzione, la liturgia gallicana ne contava fino a sette. Preghiere di carattere personale e devozionale (chiamate «preghiere apologetiche») vennero aggiunte nel rito gallicano per essere recitate privatamente da parte del celebrante. Furono anche introdotte preghiere per il sacerdote o il vescovo mentre si vestiva in sacrestia per la Messa, così come per quando si avvicinava all’altare all’inizio della Messa, all’offertorio, durante il canto del Sanctus e prima della comunione. Queste preghiere alla comunione furono poi ratificate e accettate per l’intera Chiesa occidentale nel Messale di Pio V del 1570. Ricordando gli elementi chiave romani di semplicità, brevità, sobrietà e praticità, 94
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18. Tamburo e cupola parzialmente ricostruiti del battistero di Fréjus. Iniziato nel V secolo, dopo quello di Poitiers, è forse il più bello e il meglio conservato della Gallia cristiana. 19. Pagina iniziale del sacramentario di Gellone, secolo. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. Sacramentari di questo tipo furono in uso in Gallia per tutto l’VIII e parte del IX secolo, poi sostituiti dal sacramentario gregoriano.
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VIII
possiamo constatare come la liturgia gallicana si esprimesse in modo molto differente. La distinzione fra elementi gallicani e romani ci aiuta anche a capire meglio il rito romano contemporaneo, per discernere meglio quali componenti siano autenticamente romane e quali chiaramente aggiunte o implementi da fonti gallicane. Nonostante la sua creatività e l’insistenza sull’importanza della diversità e dell’espressione culturale, va notato che il rito gallicano rimase saldo nel mantenere il latino come lingua liturgica, benché le lingue romanze cominciassero a svilupparsi. Lo stesso non accadde nelle terre slave, dove Cirillo e Metodio, arrivando in Moravia intorno all’864 d.C., si assunsero come primo compito la traduzione della Bibbia e della liturgia bizantina in paleoslavo, precisamente per la credibilità della liturgia e per la loro stessa missione evangelizzatrice.
La liturgia celtica Come il nome suggerisce, questo rito ebbe origine nelle terre celtiche dell’Irlanda, della Gran Bretagna, della Scozia e della Bretagna, sulla costa occidentale della Francia. Grazie all’opera di san Colombano e alla fondazione di monasteri irlandesi a Luxeuil in Francia, a Ratisbona in Germania, a San Gallo in Svizzera e a Bobbio in Italia, la liturgia celtica si diffuse anche là. Alcuni studiosi, di fatto, parlano di «liturgie celtiche», anziché di «liturgia», perché il rito assunse una varietà di forme a mano a mano che veniva trapiantato da un luogo all’altro. La diffusione del cristianesimo nel V secolo in Irlanda fu rapida, anche a motivo della costituzione sociale irlandese, basata sul clan. Così, la conversione del capotribù significava che tutti i membri del suo clan l’avrebbero seguito. La mancanza di grandi città e l’effetto del regime clanico resero praticamente impossibile la dipendenza da una gerarchia territoriale con la chiesa cattedrale al centro. Così, furono soprattutto gli abati e i loro monasteri che aprirono un varco e tale influenza si fece 95
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE
15. VARIETÀ LITURGICA IN OCCIDENTE
23. Miniatura di un manoscritto portato da monaci irlandesi al monastero di San Gallo. Stiftsbibliothek, San Gallo.
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24. Miniatura del Libro di Kells, uno dei maggiori manoscritti irlandesi. È la più antica raffigurazione a noi nota della Vergine col Bambino in un manoscritto occidentale. Trinity College Library, Dublino.
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sentire anche sul piano della liturgia. Questi monaci vivevano una vita monastica di stretta osservanza, con frequenti digiuni, e dunque la loro influenza liturgica conteneva una forte dimensione penitenziale. Ciò fu specialmente evidente nella liturgia celtica delle ore, laddove, in alcuni casi, l’intero salterio di 150 salmi era cantato ogni giorno. I testi liturgici celtici erano anche incentrati più sull’individuo che sulla comunità, rivelando maggiore attenzione a una devozione più privatizzata piuttosto che a una spiritualità liturgica. Quando Agostino di Canterbury arrivò sulle coste britanniche del Kent nel 597, dopo un viaggio missionario dal suo monastero di San Gregorio al Celio, trovò prassi liturgiche abbastanza differenti da quelle che aveva conosciuto a Roma. Ci sono rimaste alcune fonti di questo rito, che risalgono al VII-IX secolo. L’antifonario di Bangor, una raccolta di dodici inni inseriti fra cantici scritturistici, preghiere di colletta, antifone e altri brani liturgici collegati con l’ufficio divino, fu copiato alla fine del VII secolo (tra il 680 e il 691). Il testo fu composto nel monastero irlandese di Bangor, nell’Ulster, fondato nel 599. La struttura dell’ufficio monastico presentata dal testo è praticamente identica a quella 96
26. Vittoria eucaristica, mosaico pavimentale dell’aula teodoriana sud della basilica di Aquileia.
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25. Patena in argento del VII secolo proveniente da Derrynafflan, contea di Tipperary, Irlanda. National Museum of Ireland, Dublino.
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dell’ufficio ambrosiano e, come è nel caso della tradizione gallicana, le preghiere di colletta sono generalmente indirizzate a Cristo. Il messale di Stowe è un manoscritto che risale alla fine dell’VIII secolo e prende nome dal castello del duca di Birmingham che possedeva il testo. Esso contiene una liturgia romana precedente a Gregorio Magno, con l’ordinario della Messa comprendente il canone, ma senza i testi variabili. Le tre Messe che seguono l’ordinario riflettono uno schema differente: quello dei riti gallicano e ispanico. Si trattava probabilmente di un testo itinerante per missionari. È interessante notare che il nome di san Patrizio vi appare almeno quattro volte. Alcuni studiosi aggiungono anche il messale di Bobbio, dell’VIII secolo, come una delle fonti del rito celtico. Esso contiene testi liturgici chiaramente di stile gallicano, ma mostra anche una certa influenza irlandese. Ciononostante, il rito celtico non ha mai raggiunto il suo pieno sviluppo, come avvenne per gli altri riti trattati sopra. In generale, i testi celtici furono composti in un latino povero, con una debole struttura grammaticale e un vocabolario assai difettoso.
27. Sacrificio di Abele e di Melchisedek, mosaico della basilica di San Vitale, Ravenna.
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Altri riti occidentali Dei vari riti dell’Italia cui abbiamo fatto cenno sopra, il più importante fu quello di Aquileia, anche se gli studiosi non sono concordi nell’indicarne l’esatta origine. Alcuni affermano che esso venne da Roma, mentre altri argomentano a favore di Alessandria o di Costantinopoli. Sia come sia, è probabile che il rito risalga alla fine del VII secolo o al principio dell’VIII. Sappiamo che Paolino di Aquileia († 802) scrisse inni liturgici usati in quella liturgia. Secoli dopo, nel Cinquecento, i Sinodi di Aquileia e Como attestano l’esistenza del messale e del breviario aquileiano nel periodo summenzionato. Data l’importanza di Ravenna (sia politicamente, sia ecclesiasticamente) quale capitale imperiale nel V secolo e quale capitale provinciale bizantina nel VI e nel VII secolo, è logico che avesse la sua distinta liturgia, ma mancano le fonti per conoscere esattamente come questa si articolasse. La migliore fonte liturgica che abbiamo a Ravenna è quella dell’architettura (chiese e battisteri), il cui stile e la ricca iconografia offrono molti modi per comprendere la liturgia quale veniva lì celebrata a quel tempo. 97
16. L’EVOLUZIONE DEI LIBRI LITURGICI
16. L’EVOLUZIONE DEI LIBRI LITURGICI 1. Calendario della fine dell’VIII secolo con indicazione della celebrazione in onore di san Liborio. Biblioteca Ambrosiana, Milano.
3. Sacramentario gelasiano della metà del VII secolo, Chelles. Biblioteca Apostolica Vaticana.
2. Diacono sull’ambone, Exultet del 1059-1071, Capua. Museo dell’Opera del Duomo, Pisa.
Uno degli strumenti essenziali per tracciare la storia della liturgia e della tradizione è l’esame dei libri liturgici. I primi libri liturgici veri e propri furono creati durante il periodo contrassegnato dal governo dei Carolingi e degli Ottoni. Fra questi, troviamo i libri liturgici usati per l’Eucaristia, la liturgia delle ore, il buon ordinamento della liturgia, i sacramenti e gli altri riti. Inizialmente, i vari libri usati per l’Eucaristia esistevano separatamente. C’era un sacramentario per il vescovo o per il presbitero celebrante, che forse includeva anche il canone; un lezionario per il lettore; l’evangeliario per il diacono; un antifonario per il cantore; e un calendario liturgico come riferimento. Ovviamente, tale varietà di testi nasceva dalla differenziazione dei ministeri liturgici. Solo nel XIII secolo questi libri furono riuniti in un unico volume: il Missale plenum. Similmente, c’erano vari libri collegati alla liturgia delle ore. C’erano libri per le preghiere; per le letture, che includevano testi scritturistici e patristici come pure dalle vite dei santi; alla fine, vennero tutti combinati in un singolo libro, il breviario. Era importante anche avere testi liturgici che indicassero l’insieme dei movimenti propri secondo cui il culto doveva essere svolto. Questa raccolta di testi descrive in dettaglio le celebrazioni liturgiche della Chiesa, includendo gli ordines, gli ordinali e le cerimonie. Infine, c’era un gruppo di libri ad uso dei vescovi e dei presbiteri che celebravano i sacramenti e gli altri riti: il pontificale per i primi e il rituale per i secondi. Lo studio dei libri liturgici è ricco e complesso, perché i testi sono molti e vari, ciascuno con una storia e una provenienza uniche. Man mano che la Chiesa romana continuava a dare forma alla sua vita liturgica, questa diveniva più tracciata e strutturata. Un insieme di testi liturgici per una celebrazione particolare veniva predisposto, e conservato negli archivi delle Chiese locali come documentazione e modello per la celebrazione. Chi presiedeva raccoglieva i testi in libretti conosciuti come libelli (missarum). Un libellus conteneva i testi della preghiera del presidente per una particolare celebrazione eucaristica, o una piccola raccolta di formulari per più di una Messa. Essi erano in origine composti da singoli chierici, per uso personale nelle chiese dove servivano. Nacquero così le raccolte di materiale liturgico scritto, inizialmente intese a servire come modello per altri vescovi e presbiteri nel momento in cui avessero necessità di comporne di propri. Gradualmente, questi libri liturgici privati si diffusero man mano che venivano copiati e adattati e, più era autorevole l’autore originario, più i testi avevano circolazione. Come abbiamo visto nell’Oriente cristiano, il IV e il V secolo testimoniano un periodo di straordinaria creatività liturgica anche nella Chiesa romana con la produzione di numerosi te98
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4. Sacramentario gelasiano misto con indicazione di diverse festività. Universitäts- und Landesbibliothek, Münster.
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sti. C’erano testi variabili per l’Eucaristia, testi per l’amministrazione dei sacramenti e per l’uso nella liturgia delle ore. Tutti ovviamente riflettevano lo spirito e lo stile culturale romano. Il sacramentario gelasiano Il sacramentario gelasiano (o Gelasianum vetus) fu copiato intorno al 750 nel monastero di Chelles, vicino a Parigi, ma la data dell’originale deve situarsi un po’ dopo il pontificato di Gregorio Magno († 604), poiché il canone romano che esso racchiude contiene aggiunte da questi operate. Lo si deve datare anche a dopo la scoperta delle reliquie della Santa Croce da parte dell’imperatore Eraclio nel 628, poiché esso contiene testi per la festa della Esaltazione della Santa Croce. Nello stesso tempo, sappiamo che il testo deve essere stato composto prima del pontificato di Gregorio II (715-731), poiché esso non contiene le formule eucaristiche per i giovedì di Quaresima, pratica introdotta da quel
papa. Il sacramentario gelasiano è inteso per l’uso presbiterale, con due caratteristiche distintive. In primo luogo, esso è diviso in tre parti: l’anno liturgico o ciclo temporale; il ciclo santorale, che comprende un comune dei martiri e le Messe di Avvento; e le domeniche oggi dette per annum, che comprendono il canone, Messe per varie occasioni (Messe votive) e altre varia liturgica. In secondo luogo, c’è frequentemente un’orazione aggiunta dopo la preghiera di colletta e prima della preghiera sulle offerte. Sembra trattarsi di un libro misto. Chiaramente, è un testo romano con elementi gallicani aggiunti, così che non è un sacramentario romano puro. Inoltre, la stessa base romana è mescolata: è una combinazione di elementi papali e presbiterali. È importante notare che c’erano due tradizioni liturgiche che si stavano sviluppando nello stesso momento a Roma: una papale (gregoriana), e l’altra presbiterale (gelasiana). Il sacramentario gelasiano si può definire presbiterale, perché contiene tutto ciò che serviva a un presbitero in carica in una chiesa titolare, e null’altro. 99
16. L’EVOLUZIONE DEI LIBRI LITURGICI
16. L’EVOLUZIONE DEI LIBRI LITURGICI 6. Ultima Cena e Lavanda dei piedi, miniature dal Libro della pericope di Enrico II, 1007-1012. Bayerische Staatsibliothek, Monaco.
5. Sant’Agnese tra il donatore papa Onorio I (625-638) e papa Gregorio Magno (590-604), mosaico absidale di Sant’Agnese, Roma.
7. Disegno della Lettera a Tito, epistolario di san Paolo, pergamena del IX secolo. Universitäts- und Landesbibliothek, Düsseldorf.
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Come abbiamo visto, la struttura della liturgia della Parola è chiaramente attestata almeno già nel II secolo, nella Apologia prima (67,3) di san Giustino, ma egli afferma che il lettore legge «per quanto lo permette il tempo», poiché non c’era ancora un lezionario fisso o un ordo di che cosa dovesse essere letto durante l’Eucaristia. Nella Chiesa primitiva, c’erano due modi fondamentali di leggere le Scritture: una semplice lettura continua di un libro biblico e di una lettera del Nuovo Testamento, chiamata lectio continua, oppure la scelta tematica di passi biblici secondo le particolari feste o i tempi. Nel primissimo periodo, il vescovo o il presbitero godeva di una considerevole libertà nella selezione di tali brani biblici, ma con lo sviluppo graduale dell’anno liturgico e delle liturgie stazionali ci fu il parallelo sviluppo di un sistema di letture fisse. La prima esistenza di un sistema simile, precedentemente alla compilazione dei sacramentari, la si può dedurre dalle omelie dei Padri e da altre evidenze storiche. C’erano tre metodi differenti per indicare le letture liturgiche: note marginali, capitularia e lezionari. Nel primo sistema, le note venivano fatte a margine di un codice della Bibbia. Il sistema presupponeva che la Bibbia stessa fosse un libro liturgico usato direttamente nella liturgia stessa. Nel secondo, le selezioni dalla Scrittura venivano elencate se-
condo le parole iniziale e finale del brano. Tale lista di pericopi poteva essere aggiunta a un altro libro liturgico, oppure poteva esistere separatamente come una specie di libretto di accompagnamento. In quanto libro liturgico, riceveva tutto l’onore che gli era dovuto; l’evangeliario, in particolare, non era solo riverito nella celebrazione liturgica, ma veniva anche frequentemente miniato e riccamente rilegato; il libro delle letture non evangeliche raramente riceveva la stessa copiosa attenzione. Il terzo metodo era il lezionario vero e proprio, in cui tutte le letture bibliche richieste erano scritte per intero, con i passi adattati secondo l’ordine stabilito dal corso delle letture. Il sistema aveva l’ovvio vantaggio della praticità e della facilità d’uso, ma, con la normale crescita e lo sviluppo dei cicli temporale e santorale, un simile lezionario poteva facilmente diventare sorpassato. I tre metodi non si susseguirono nell’ordine, ma piuttosto esistettero fianco a fianco per molti secoli, finché predominò il lezionario. I testi romani più antichi che forniscono un sistema organizzato di letture liturgiche sono i capitolari del VII e VIII secolo. Quando la liturgia romana prese la strada d’Oltralpe nell’VIII secolo, il capitolare fece anch’esso il suo viaggio, ma in due libri separati: l’epistolario e l’evangeliario; essi vennero poi combinati. Esistono due famiglie principali: una è il fondamento romano, che risale più o meno all’inizio dell’VIII secolo, e l’altra è la sintesi franco-romana leggermente posteriore, fra il 700 e il 740.
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Il sacramentario gelasiano era in uso a Roma nel VII secolo e nella prima parte dell’VIII. Prima del papato di Gregorio II, che iniziò nel 715, anzi probabilmente prima della fine del VII secolo, esso fu portato in Gallia da alcuni pii pellegrini o chierici in visita, che si innamorarono della liturgia di Roma. In Gallia il sacramentario esercitò un’ampia influenza e gli vennero aggiunti vari elementi gallicani, per poterne facilitare la funzionalità in quel particolare ambiente culturale. Più notevole fu l’inserzione di cinque sezioni di origine gallicana, che riguardano i rituali dell’ordinazione, della consacrazione delle vergini, della dedicazione di una chiesa, della benedizione dell’acqua e delle esequie. Sembrerebbe che questo sacramentario fosse strumentale alla romanizzazione della liturgia gallicana, ancor prima delle riforme dell’VIII secolo di Pipino il Breve ma più quale iniziativa privata. È perciò un’importante testimonianza del rito franco-romano che si andava gradualmente sviluppando a nord delle Alpi. Il sacramentario gregoriano Nel corso del VII secolo, la basilica del Laterano sviluppò la sua raccolta propria di libelli e produsse un sacramentario ad uso esclusivo del papa, non solo in Laterano, ma in tutta la città, quando egli celebrava la liturgia stazionale nelle chiese designate lungo l’anno. Non più attribuibile a Gre100
gorio Magno, anche se molte sono le orazioni che gli vengono ascritte, questo libro fu redatto probabilmente nella prima metà del VII secolo, durante il pontificato di Onorio I (625-628) e gradualmente accresciuto, mano a mano che nuove feste e liturgie stazionali venivano aggiunte nei secoli VII e VIII. Nella seconda metà del VII secolo, il sacramentario papale si sviluppò in differenti, distinte direzioni, ciascuna delle quali portò a un tipo diverso di sacramentario gregoriano. I sacramentari della famiglia gregoriana si possono distinguere da quelli della tradizione gelasiana per due caratteristiche principali: primo, la fusione dei cicli temporale e santorale in un unico anno liturgico; secondo, essi hanno normalmente solo tre preghiere per ogni Messa: la colletta, o preghiera di apertura, la preghiera sulle offerte e la preghiera conclusiva, o preghiera dopo la comunione, come nel caso del corrente Messale romano. Al contrario, i libri gelasiani includevano un numero maggiore di preghiere, come abbiamo visto. Inoltre, il numero dei prefazi nei libri gregoriani era grandemente ridotto. Le chiese stazionali erano chiaramente indicate ed era inclusa una colletta speciale per la riunione iniziale quando era prevista una processione. Nel prossimo capitolo discuteremo il tipo I di sacramentario gregoriano, o Hadrianum, che fu inviato da papa Adriano I a Carlo Magno alla fine dell’VIII secolo, e il suo supplemento finale, l’Hucusque.
Il lezionario
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16. L’EVOLUZIONE DEI LIBRI LITURGICI
16. L’EVOLUZIONE DEI LIBRI LITURGICI
8. Liber Pontificalis. Universiteits Bibliotheek, Leida. 9. Evangeliario di Bernward (960-1022), vescovo di Hildesheim, 1011. Dom- und Diözesanmuseum, Hildesheim.
Gli Ordines Romani Abbiamo già trattato dell’Ordo Romanus primus e della sua importanza per la ricostruzione della liturgia stazionale romana. Questi ordines furono essenziali come volumi di accompagnamento al sacramentario, perché contenevano l’insieme dei movimenti propri per l’esecuzione corretta della liturgia. Essi riferivano anche le orazioni di una determinata azione liturgica in vari modi: sia con un’annotazione generale, come «è contenuta nel sacramentario», sia con l’incipit della preghiera, sia ancora con l’intera preghiera scritta. Come gli altri libri liturgici, gli ordines gradualmente attraversarono le Alpi verso l’Impero franco-germanico, dove vennero uniti in raccolte che risalgono all’VIII e al IX secolo. Questi testi si possono ora distinguere fra testi originali romani e quelli che contengono adattamenti gallicanizzati. Essi trattano una gran quantità di riti liturgici: Eucaristia papale, episcopale e presbiterale; battesimi; ordinazioni; esequie; incoronazione dell’imperatore; dedicazione della chiesa; anno liturgico; liturgia delle ore; feste particolari; rituali del refettorio monastico; abiti liturgici, eccetera. Con un attento studio degli ordines, si può distinguere fra usi romani e usi franco-germanici, e notare una graduale codificazione di orazioni, letture e canti. Essi forniscono tracce (introvabili altrove) su come le varie azioni liturgiche venivano eseguite in quel periodo storico tra VIII e IX secolo. Il pontificale romano-germanico del X secolo 8
Inizialmente, i testi liturgici di cui un vescovo aveva bisogno per la celebrazione dei sacramenti e degli altri riti non eucaristici si trovavano nel sacramentario, con le direttive rubricali per un’appropriata celebrazione contenute negli ordines. Col tempo, però, il vescovo cercò una fonte più adatta, che contenesse sia le orazioni episcopali sia le rubriche unite in un solo volume. Il pontificale venne incontro a questa necessità, mettendo insieme preghiere dal sacramentario e rubriche dall’ordo. Il primo tentativo di creare un pontificale risale al IX secolo. In pratica, però, il pontificale non apparve in una forma pienamente sviluppata tutto in una volta, ma in una varietà di differenti tentativi ed esperimenti condotti lungo un considerevole periodo di tempo. Tra i pontificali antichi il più importante è quello romanogermanico del X secolo, compilato nel monastero di Sankt Alban a Magonza. Proprio come la liturgia eucaristica arrivò a un punto di sintesi nel sacramentario gregorianoadrianeo con il suo supplemento gallicano, come vedremo, così anche la liturgia non eucaristica raggiunse una nuova sintesi con il pontificale romano-germanico. 102
Come la preminenza del sacramentario gregoriano fu il risultato del desiderio di Carlo Magno di unificare il suo regno politicamente e religiosamente, così, un secolo più tardi, anche il pontificale intese servire a un proposito simile. Esso è datato tra il 950 e il 962 ed è attribuito a una squadra di redattori del monastero di Magonza sotto la guida dell’arcivescovo, che era anche arcicancelliere dell’imperatore; chiaramente, la sua rapida diffusione e influenza fu dovuta in non piccola parte all’autorità dell’imperatore e del suo cancelliere (l’arcivescovo) a suo proposito. La migrazione del pontificale di Magonza dalla valle del Reno alle rive del Tevere, in occasione di uno dei numerosi viaggi in Italia di Ottone I con la sua corte vescovile e monastica, inaugurò il secondo grande momento dello sviluppo liturgico nella Chiesa occidentale. Con il 1150, l’ordinale della basilica lateranense cita il pontificale, dandogli il nome di Ordo Romanus. Da quel periodo, il pontificale romano-germanico fu considerato romano e diventò la base per tutti i pontificali successivi.
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17. LA CENTRALIZZAZIONE LITURGICA MEDIEVALE
17. LA CENTRALIZZAZIONE LITURGICA MEDIEVALE 1. San Bonifacio battezza un fedele, particolare di una miniatura del sacramentario di Fulda, dell’anno Mille. Staatsbibliothek, Bamberga.
4. Vescovo davanti alla cattedra durante il Gloria, particolare della legatura in avorio del sacramentario carolingio di Drogone (823-855), vescovo di Metz, 850 ca. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
2. Foglio del salterio di Carlo Magno, tra il 795 e l’800. Nel salterio sono nominati papa Leone III e Carlo Magno. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
5. Rabano Mauro, condotto da Alcuino, consegna la sua opera al vescovo di Magonza, Fulda, 840. Õsterreichische Nationalbibliothek, Vienna.
3. Foglio del Liber officialis di Amalario di Metz, Tours, 825. Bibliothèque Municipale Ancienne Abbaye de Saint-Martin, Laon.
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I Carolingi, che venivano dall’area fra la Mosa e il Reno, fondarono un regno forte attirando e meritando la lealtà della loro nobiltà. In tal modo, essi riuscirono passo dopo passo a prendere e consolidare il potere in più ampie zone del territorio, e diedero così inizio alla fioritura del regno franco e alla rinascita carolingia, che combinò riforma e restaurazione. La successione di Pipino il Breve, che fu unto re da san Bonifacio con la benedizione di papa Zaccaria († 752) e regnò dal 751 al 768, fu il primo segno della rinascita. Ma il punto più alto di essa fu toccato nell’anno 800, quando papa Leone III († 816) incoronò il figlio di Pipino, Carlo Magno, come primo imperatore del Sacro Romano Impero; egli regnò per i successivi ventotto anni. L’idea di Carlo Magno era quella di una cultura cristiana entro uno Stato-Chiesa, stimolata da vescovi e monaci competenti, sotto la sua personale autorità. L’Europa occidentale divenne una realtà e, con essa, nacque una vera e propria liturgia occidentale. Data la sua inclinazione per l’uniformità e per un governo centrale forte, insieme all’unificazione delle leggi e all’incoraggiamento della riforma ecclesiastica non sorprende il fatto che Carlo Magno operasse anche per sopprimere il rito gallicano a favore di una liturgia latinizzata, che lo assistesse nell’unificazione dell’Impero, politicamente ed ecclesiasticamente. A questo scopo, prati104
che e libri romani vennero introdotti a corte e nelle chiese carolingie, pur se infine adattati e inculturati così da poter più facilmente essere ricevuti entro l’Impero franco-germanico. Sotto molti aspetti, la rinascita carolingia si potrebbe anche descrivere come una rinascita liturgica, poiché il rinnovamento della liturgia cristiana fu proprio al centro di quelle riforme: la professione dell’unica fede era l’obiettivo ultimo per tenere insieme l’Impero. Prima delle riforme carolingie, nell’Impero franco-germanico vigeva quella che alcuni studiosi chiamarono «l’anarchia liturgica». In altre parole, le liturgie variavano in modo significativo da diocesi a diocesi, nella misura in cui i vescovi erano in grado di controllare la forma del culto della rispettiva Chiesa locale. Come risultato, queste liturgie gallicane non furono mai imposte uniformemente nell’Impero, perché erano troppo diverse e non v’era un’autorità centrale. Il sogno di Pipino, naturalmente, era meno realistico di quanto egli immaginasse. Si dimostrò impossibile dare a ogni Chiesa locale nell’Impero una copia ufficiale del rito romano, perché quei testi non erano disponibili, o almeno non in così gran numero. Ciononostante, Pipino preparò la strada incoraggiando il sostegno dei libri liturgici romani nei limiti in cui erano disponibili e imponendo il rito roma-
no nell’Impero, ma con una gran quantità di adattamenti locali. In effetti, i sacramentari gelasiani dell’VIII secolo testimoniano questo fatto. Carlo Magno, nella sua Admonitio generalis del 789, scrisse che il padre Pipino aveva abolito il gallicano a favore del romano – ossia la recitazione delle orazioni romane – per rendere maggiormente visibile l’unità con la Santa Sede. Un secolo dopo, l’ultimo imperatore carolingio, Carlo il Calvo († 877), ricordava che, prima del tempo di Pipino, le Chiese di Gallia e Spagna celebravano la liturgia differentemente dalla Chiesa romana. Tali riforme, naturalmente, sarebbero state impossibili senza il supporto anche di vescovi significativamente impegnati nel processo di romanizzazione a nord delle Alpi. Il vescovo Crodegango di Metz, per esempio, visitò Roma nel 753 e, conseguentemente, al suo ritorno, introdusse il canto romano e l’ordo romano della Messa nella sua diocesi. In quello stesso periodo, il concetto di liturgia stazionale romana venne introdotto a Metz, adattato per l’uso locale. Le riforme liturgiche iniziate da Pipino furono continuate dal figlio Carlo Magno. Questi ebbe un rispetto limitato per i vescovi di Roma e intese come un proprio compito il dirigere le autorità ecclesiastiche nel suo regno. L’area renana divenne il caposaldo della sua amministrazione, con 105
17. LA CENTRALIZZAZIONE LITURGICA MEDIEVALE
17. LA CENTRALIZZAZIONE LITURGICA MEDIEVALE 9
11. Incipit del Vangelo di Marco, Vangeli dell’Incoronazione, 800 ca. Weltliche Schatzkammer, Kunsthistorisches Museum, Vienna.
6. Miniatura dell’evangeliario del Tesoro di Aquisgrana, inizio del IX secolo. Domkapitel, Aquisgana.
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città come Aquisgrana, Treviri, Colonia e Magonza quali centri principali. La parte occidentale dell’Impero (Francia) necessitò di vari decenni prima che l’unità potesse essere raggiunta. Così, in una riforma iniziata da Pipino e continuata da Carlo Magno, la graduale soppressione della vecchia liturgia gallicana indigena avrebbe portato alla sostituzione con la liturgia romana pura. In poche parole, vediamo qui un movimento – una specie di movimento liturgico, anche –, ma in ordine rovesciato: non dall’unità alla diversità, bensì dalla diversità all’unità. Avendo deciso che una copia del sacramentario romano doveva servire come strumento chiave per la sua riforma, nel 783 Carlo Magno inviò Paolo Diacono a chiedere a papa Adriano († 795) un libro romano puro, senza aggiunte estranee, con l’intenzione di sostituire i sacramentari gela106
7. Volta dell’ottagono della cappella Palatina, Aquisgrana. 8. Ricostruzione del complesso carolingio di Aquisgrana. Un lungo porticato univa il palazzo all’atrio della cappella Palatina. A metà, la porta monumentale che dava accesso al palazzo.
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9. Interno della chiesa carolingia di San Michele a Fulda.
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10. Tre piante di chiese monastiche benedettine di epoca carolingia: a) chiesa del Salvatore di Aniane (A: prima fase; B: prima fase ricostruttiva; C: rifacimenti e aggiunte dopo il 1656); b) fase carolingia di Kornelimünster; c) basilica di Ratgario a Fulda.
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siani misti esistenti nell’Impero. Due anni dopo, nel 785, il papa mandò un sacramentario gregoriano «in forma pura». Sfortunatamente, nel far ciò, il papa di fatto inviò un testo fatto ad uso delle liturgie stazionali pontificie; il libro sarebbe stato di scarso aiuto a Carlo Magno, non solo perché era un testo limitato all’uso papale, ma anche perché gli mancava un significativo numero di testi: le domeniche dopo l’Epifania, le ottave di Pasqua e Pentecoste, le Messe esequiali, le Messe votive. C’era bisogno di un supplemento. Noto come Hucusque (Fino a questo punto), esso fu probabilmente compilato da Benedetto di Aniane († 821), che fece un’attenta distinzione fra i testi originali e quelli che erano stati aggiunti nel supplemento. Fra l’altro, troviamo incluse le Messe votive, le benedizioni, preghiere diverse, esorcismi, Lodi e Vespri. Il sacramentario gelasiano dell’VIII secolo era forse la fonte del supplemento, ma c’è anche altro materiale trovato nei libri gallicani per le domeniche, che non era stato incluso nel libro romano. Così, grazie all’Hucusque, elementi dei sacramentari gelasiani misti entrarono una volta di più nel 107
17. LA CENTRALIZZAZIONE LITURGICA MEDIEVALE
17. LA CENTRALIZZAZIONE LITURGICA MEDIEVALE
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Neustadt Fulda Holzkirchen Gorze Kitzingen Ansbach St-Pierre Mettlach St-Etienne Solnhofen St-Mihiel Neustadt Salonne Berg Ratisbona St Emmeram St-Calais Ebersmünster Ellwangen Angers Feuchtwangen Niederaltaich St-Aubin Cormery Flavigny Murbach Gunzenhaufen Buchau Herrieden Tours Charroux Pfäfers Kempten Chiemsee St-Martin Coira Chalon-sur-Saône REGNO D EGLI A Müstair St-Marcel VARI Disentis SLAVI Milano Sesto TRIBUTARI S. Ambrogio Brescia REGNO DEI FRANCHI S. Salvatore Caunes DEI Bobbio Aniane Gellone BULGARI Nonantola Montoli Prüm Lorsch
Lagresse
EMIRATO OMAYYADE DI CORDOVA
13. Fontana della Vita, evangeliario di Godescalco, scuola di corte di Carlo Magno, 781-783. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
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Chevremont
MARCA BRETONE
REGNO DELLE ASTURIE Oviedo E DI LEÓN
12. L’Impero di Carlo Magno con indicati i monasteri che ricevettero donazioni imperiali.
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St-Maur-des-Fossés
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Mare del Nord
REGNI ANGO-SASSONI
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MARCA ISPANICA
Marsiglia St-Victor
Corsica
Firenze
SLAVI TRIBUTARI DEI BIZANTINI
Farfa Roma
S. Vincenzo Montecassino
Cordova
14-16. Fontana della Vita (14), l’evangelista Giovanni (17) e l’evangelista Marco (16), miniature dall’evangeliario di Saint-Médard di Soissons, 820 ca. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
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libro romano: il materiale romano e gallicano divenne ufficiale nella Chiesa franca e fu preservato nel materiale medievale occidentale. Così, ironicamente, il programma di romanizzazione si mutò in una gallicanizzazione della liturgia romana. Carlo Magno fu figura interessante: non imparò mai a scrivere, e ciononostante si vide come uno strumento di Dio per il rinnovamento dell’Impero. La sua insistenza sull’educazione e la proliferazione dei manoscritti grazie ai monaci portarono alla diffusione della liturgia romana, come anche di tutta la legislazione che egli produsse. Per parte sua, la stessa liturgia romana fu sottoposta a un cambiamento, con una graduale scomparsa della partecipazione liturgica dei laici. Già nell’VIII secolo, le preghiere presidenziali (compresa la preghiera eucaristica) cominciarono a essere proferite sottovoce dal celebrante poiché, entrando nel presbiterio, egli era entrato nel Sancta sanctorum. Nel IX e nel X secolo ci fu un aumento di preghiere penitenziali durante la Messa (il rito penitenziale stesso, così come le preghiere apologetiche), ampiamente dovuto all’influenza gallicana. Parimenti, possiamo osservare i pri108
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mi passi della devozione alla passione di Cristo e anche verso la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, ciò che diventerà l’adorazione eucaristica. Così, dall’VIII secolo in poi, possiamo notare uno spostamento definitivo da una visione simbolica della liturgia a una più strumentale visione del mondo: da una comprensione del «siamo corpo di Cristo» al «c’è il corpo di Cristo e siamo indegni di consumarlo, a causa dei nostri peccati». In questo periodo, poi, possiamo osservare una sempre crescente distanza di Dio nel contesto liturgico, simboleggiata da una distanza sempre maggiore fra clero e laici, e fra la navata e il presbiterio. Dal punto di vista della prassi, tutto ciò venne ad esprimersi in un attenuarsi della partecipazione liturgica del fedele laico. All’inizio del XII secolo, per esempio, i laici non furono più invitati a bere al calice della comunione e, un secolo dopo, la processione offertoriale, in cui membri del laicato portavano i doni del pane e del vino per la consacrazione, cadde anch’essa in disuso. La devozione eucaristica fuori della Messa ebbe grande impulso in questo periodo, al punto che la festa del Corpus Domini venne vista dal popolo come più importante della Pasqua. 109
18. ARCHITETTURA
LITURGICA ROMANICA E GOTICA 4. Presbiterio (rimaneggiato fra XII e XIII secolo) e conca absidale affrescata della basilica di San Vincenzo a Galliano. 1. Veduta aerea del complesso di Civate: San Pietro e l’oratorio di San Benedetto/San Giovanni.
5. Pianta della basilica di San Vincenzo a Galliano dopo la ricostruzione aribertiana intorno all’anno Mille. 6. Scene della vita di Cristo, presbiterio della chiesa di Saint-Martin, Nohant-Vic.
2. Saint-Benoît-sur-Loire, veduta settentrionale della torre-portico della chiesa abbaziale. 3. Fianco e navata collaterale nord della basilica di San Vincenzo a Galliano.
7. Maiestas Domini, lastra scolpita nel deambulatorio della chiesa di Saint-Sernin, Tolosa.
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Il termine «architettura romanica», per lo stile che fiorì nei secoli X e XI, fu scelto in riferimento alla basilica romana, sviluppatasi in origine sotto il patronato dell’imperatore Costantino. Con un’ampia navata maggiore affiancata da navate laterali, questo stile architettonico ben rispondeva alle necessità della liturgia stazionale romana, con le sue numerose processioni. In Oriente, benché la pianta basilicale non fosse sconosciuta, era più comune la chiesa a pianta centrale, nella forma di croce inscritta in un quadrato, di solito coperta da una cupola. Anche oggi questo modello è abbondantemente presente in molti edifici della Grecia e della Turchia e altrove nell’Oriente cristiano. Il modello romanico adottò l’arco romano in pietra, come già aveva fatto l’architettura bizantina. Prima dell’emergere dell’architettura romanica, la rinascita carolingia del IX secolo aveva dato il proprio significativo contributo. Poiché Carlo Magno era interessato a promuovere il rito romano nell’Impero franco-germanico, non deve sorprendere il fatto che egli cercò di promuovere parimenti lo stile architettonico romano. Ordinò ai suoi architetti di studiare le chiese e i palazzi di Roma e di Ravenna, che fu l’ultima capitale imperiale in Occidente. Così, la
Pagine seguenti: 8. Centri dell’arte romanica. 9. Centri dell’arte gotica. 10. Vergine in maestà, particolare del rosone del transetto nord della cattedrale di Chartres.
18. ARCHITETTURA
18. ARCHITETTURA
LITURGICA ROMANICA E GOTICA
LITURGICA ROMANICA E GOTICA
8 Trondheim
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Bergen
Kirkwall
Borgund
Urnes Torpo
Vaga Durham
Uvdal Heddal Stavanger
Edimburgo Kelso Jedburgh
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11. Adorazione dei Magi, particolare della decorazione scolpita del portale sud della chiesa di Anzy-le-Duc.
12. Navata maggiore della chiesa romanica di Anzy-le-Duc.
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nuova cappella palatina di Aquisgrana copiò questi modelli romani. Le piante delle prime chiese medievali richiamavano le antiche basiliche romane, con una navata maggiore che conduceva a un’abside o a un coro, affiancata da navate laterali. Una delle differenze più consistenti nel romanico medievale stava nell’innalzamento ulteriore dell’altare nell’abside, talora addossato alla parete orientale. Questo avvenne per fornire spazio al coro dei monaci e dei canonici, che prendevano posto davanti all’abside per cantare l’ufficio divino. Questo stile architettonico apparve per la prima volta nell’Italia settentrionale, ma gradualmente si diffuse in tutta l’Europa. L’architettura romanica normalmente ha scarsa decorazione e finestre molto piccole, che, da un lato in consonanza con la tradizione monastica di semplicità, dall’altro davano tuttavia l’impressione di una fortezza medievale, con i suoi possenti sostegni e gli archi a tutto sesto in pietra. Coperture voltate in pietra o laterizio sostituirono quelle lignee, così da proteggere le chiese dal fuoco e aumentarne la grandiosità. In Francia, le chiese romaniche includevano sculture in pietra e quelle più povere erano decorate con pitture che raffiguravano varie scene bibliche. L’architettura romanica, però, venne ben presto rimpiazzata dallo stile gotico, grazie alla chiesa abbaziale di Saint-
Denis, di recente eretta nella Francia settentrionale, dove questo stile architettonico nacque nel XII secolo, allorché si decise di ricostruire la facciata della chiesa abbaziale così da renderla più imponente; allo stesso modo, l’esperimento architettonico ben presto continuò all’interno della chiesa. La sperimentazione portò a interessanti risultati: per costruire grandi edifici non furono più necessari muri spessi e finestre minuscole; a motivo del giusto equilibrio dei pesi garantito dalle arcate, si poté infatti costruire il resto dell’edificio in piccoli conci e con più ampie, preziose vetrate. Tramite archi a sesto acuto, anziché a tutto sesto, si poterono raggiungere altezze maggiori. Archi rampanti all’esterno dell’edificio permisero un ulteriore sostegno, che rese inutili i pesanti pilastri in pietra. Collocando vetrate nelle ampie finestre, potevano essere narrate scene bibliche in misura maggiore di quanto facessero le pitture parietali romaniche. Così nacque l’epoca gotica dell’architettura ecclesiastica, che con le facciate a guglie gemelle proiettava gli spiriti verso altezze celesti. La cattedrale di Salisbury, in Inghilterra, iniziata nel XIII secolo, offre un esempio classico di questa architettura. Mentre il gotico continuò a svilupparsi nell’Europa settentrionale fino al XVI secolo, alla fine del XV l’Italia vide la nascita di un nuovo stile architettonico, che avrebbe aperto gradualmente la strada al barocco, nei secoli XVI e XVII.
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13. Navata maggiore della chiesa abbaziale gotica di Saint-Denis. 14. Veduta della facciata della cattedrale di Chartres. 15. Pianta della cattedrale gotica di Chartres. 115
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RITO ROMANO IBRIDO E LE RIFORME DI PAPA GREGORIO VII
1. Papa Giovanni XII viene messo alla porta da Ottone I davanti a papa Leone VIII che ha prevalso sul rivale, particolare di una miniatura dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani, XIV secolo. 2. Annuncio ai pastori, evangeliario di Enrico II (1014-1024), Reichenau, 1022. Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera. 3. Navata maggiore della chiesa di Sankt Georg a Oberzell, Reichenau. 4-5. Enrico II incoronato (4) e Enrico II in trono (5), sacramentario di Enrico II, Ratisbona, 1002-1014. Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera.
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La liturgia romano-franco-germanica trovò la sua strada verso Roma al principio del X secolo, grazie alla macchinazione politica dell’imperatore Ottone I e a una successione di imperatori ottoniani e di papi tedeschi. Senza troppo pensarci, questi papi celebravano la liturgia romana gallicanizzata che avevano conosciuto nelle proprie diocesi. Anche prima del loro arrivo, la liturgia franco-germanica veniva regolarmente celebrata nella basilica del Laterano, grazie al dono di libri liturgici gallicani fatto dai monaci di Reichenau. Così, l’influenza liturgica romana sull’Impero franco-germanico iniziò a invertirsi e il rito romano «puro e classico» divenne il rito romano «ibrido». Il canto del Credo niceno alla domenica e nelle feste, per esempio, non era mai stato una tradizione romana. Ma quando, nel 1013, l’imperatore Enrico II discese a Roma per la propria incoronazione, chiese il permesso di averlo durante la Messa di incoronazione, come si usava nella sua terra natale. Il permesso fu accordato e il Credo divenne parte del rito romano nel 1014, anche se non come elemento fisso. Carlo Magno lo aveva già introdotto nel rito gallicano nel 794. La Chiesa di Milano, che seguiva il rito ambrosiano (come tuttora), nel IX secolo adottò l’uso orientale di collocare il Credo immediatamente prima della preghiera eucaristica. 116
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19. IL
RITO ROMANO IBRIDO E LE RIFORME DI PAPA
GREGORIO VII
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6. Veduta settentrionale del campanile superstite della chiesa abbaziale di Cluny.
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Le preghiere apologetiche (come «O Signore, non sono degno di partecipare...») sono anch’esse tipiche del rito gallicano, ma esse pure entrarono nel Messale romano in grande abbondanza. Così, quello che ora chiamiamo «rito romano» è, di fatto, un amalgama di vari riti in forma ibrida, anche se il Concilio Vaticano II ha cercato di restaurare la liturgia romana nella sua forma classica e originaria. I secoli X e XI furono particolarmente impegnativi per la Chiesa e per il suo culto, a partire da un serio declino della qualità dei pontefici eletti in quel periodo e dalla loro perdita di credibilità morale, a causa del loro stile di vita e dell’esercizio del potere politico. Questo facilitò l’ingresso di elementi gallicani nella liturgia romana. Un segno di speranza in quel periodo fu il contributo dato da monasteri come Cluny, che guidarono un’importante riforma monastica comprendente il ritorno a una vita liturgica più semplificata e sobria. Ma solo con l’elezione di papa Gregorio VII, nel 1073, l’autorità morale della Chiesa venne restaurata. Scegliendo deliberatamente il proprio nome ispirandosi a Gregorio I Magno, come abbiamo detto, il nuovo papa voleva imitarne l’esempio di servizio esercitato nell’umiltà. Il suo accesso al soglio pontificio ebbe profonde conseguenze per la liturgia di Roma. Egli prese di mira gli abusi nella Chiesa, come l’acquisto e la vendita degli ordini sacri e delle cariche ecclesiastiche, nonché il concubinato del clero. Vietò ai laici di prendere parte a una Messa celebrata da un prete sposato. Per contrastare il controllo civile degli uffici ecclesiastici, rimise in piedi e consolidò l’immagine e l’autorità del papa. Le feste dei papi cominciarono a essere celebrate in ogni Chiesa locale e vennero inserite nel calendario liturgico; i vescovi dovevano fare un giuramento di fedeltà al papa prima della consacrazione episcopale; dire il nome del papa nel canone romano divenne un’osservanza universale. Parte della strategia di Gregorio nell’ambito della riforma del clero consisteva nel ristabilire gli usi liturgici tradizionali della Chiesa di Roma risalenti a prima che i Tedeschi ne prendessero il governo. Gregorio diede inizio alla tradizione per cui gli arcivescovi metropoliti dovevano recarsi a Roma per ricevere il pallio come segno di unità con la sede di Roma e con il successore di san Pietro. Grazie alle varie iniziative di Gregorio, i papi presero di nuovo la guida delle riforme liturgiche per i successivi tre secoli. Questo fu particolarmente evidente con i pontificati di Innocenzo III (1198-1216) e di Onorio III (1216-1227), che testimoniano un ulteriore sviluppo formale della liturgia romana. Dal tempo di Gregorio VII in poi, i papi si attribuirono di fatto una competenza liturgica per tutte le Chiese. Sotto la guida di Innocenzo III, nel 1215 si radunò il Concilio Lateranense IV, che richiese al clero di studiare teologia, di pregare la liturgia delle ore ogni giorno e di
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essere responsabile della manutenzione delle chiese. Il Concilio impose anche l’obbligo della confessione annuale e della comunione pasquale e fece il primo uso ufficiale della parola «transustanziazione», per indicare il cambiamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Ma Innocenzo venne associato soprattutto a una particolare novità liturgica: un tipo di liturgia che rispondeva alla particolare situazione della curia romana, che in quel tempo funzionava come corpo amministrativo itinerante. Per i loro viaggi, il papa e gli altri membri della curia avevano bisogno di libri liturgici portatili in formato semplificato. Per tale proposito, vennero composti un messale, un pontificale e un breviario. Chiaramente, l’intenzione di Innocenzo III non era la codificazione o l’unificazione di usi liturgici. Ad ogni modo, per un seguito di circostanze, questo tipo di liturgia venne adottato dai Frati Minori, i quali, oltre a essere strettamente collegati con la curia romana, spesso si trovavano anche in situazione itinerante. Pur avendo legami con la curia, i Francescani erano anche operatori pastorali e, di conseguenza, furono responsabili dell’adattamento dei libri liturgici curiali alle necessità delle parrocchie. Così, la liturgia della curia romana si estese oltre il piccolo gruppo di ecclesiastici per i quali Innocenzo III l’aveva originariamente intesa.
7. Incontro tra san Benedetto e Totila, particolare del Codex Benedictus, Vat. Lat. 1202, eseguito nel 1070 sotto l’abate Desiderio a Montecassino. Il racconto dell’incontro fa esplicito riferimento, soprattutto nella corona imperiale, a quello del 1077 tra Enrico IV e Gregorio VII a Canossa. Montecassino fu uno dei principali cenacoli della riforma gregoriana. 8. Giotto, Sogno di Innocenzo III (1295-1300), corpo longitudinale della basilica superiore, Assisi. 9. Carta politica dell’Europa alla fine del XIII secolo. 119
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PIETÀ POPOLARE MEDIEVALE E LO SVILUPPO DELLA DEVOZIONE EUCARISTICA
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Nonostante le varie riforme liturgiche papali, come quelle appena presentate, la realtà pastorale a livello locale era abbastanza differente, e vi fu un ampliamento della distanza fra la liturgia e la vita. La liturgia divenne sempre più clericalizzata, celebrata quasi esclusivamente come proprietà del clero, a cui il laicato assisteva come osservatore puramente passivo. La processione offertoriale, in cui i laici portavano il pane e il vino, veniva abbandonata; il calice non era più offerto al popolo al momento della comunione; e i vari ministeri liturgici, prima esercitati da differenti membri dell’assemblea, ora venivano svolti unicamente dal prete celebrante. Anche quando c’era un coro che cantava
le varie parti della Messa, il sacerdote era obbligato a recitare tutte le parole dei testi liturgici sottovoce, mentre il coro li cantava. Non deve sorprendere, dunque, che il Missale plenum della curia romana, in cui tutti i testi liturgici erano raccolti in un unico volume per l’uso itinerante, divenne normativo per l’intera Chiesa. Ciò accadde perché non era più necessario avere libri distinti per i vari ministeri liturgici, poiché il prete celebrante li aveva tutti sussunti in sé. Il presbiterio divenne il sancta sanctorum riservato al clero e la Messa cominciò a essere detta sottovoce, mentre il sacerdote celebrava rivolto a est, con la schiena verso il popolo, offrendo il divin sacrificio.
1. Lato sinistro (rispetto all’entrata) del recinto del coro di Notre-Dame a Parigi. Da un lato, il coro viene schermato rispetto al popolo dei fedeli a causa dell’ormai invalsa tendenza a separare lo spazio del clero da quello del popolo; dall’altro, il suo perimetro viene impreziosito al punto di essere una nuova vera costruzione dentro la cattedrale.
2. Rogier van der Weyden, Trittico dei sette sacramenti, 1440-1445. Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Anversa. I sacramenti vengono descritti come un fatto privato che coinvolge unicamente chi li amministra e chi li riceve, nelle tante cappelle del gotico. Non si distacca da questa rappresentazione neppure l’Eucaristia vissuta esclusivamente dal celebrante e da un sacrista.
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Fu in tale contesto che si sviluppò l’adorazione eucaristica, insieme ai miracoli collegati con l’Eucaristia, alle Messe private e a una spiritualità complessivamente privata e individualizzata. In certi casi, alcune cappelle nelle cattedrali europee e nei monasteri venivano dedicate alla celebrazione perpetua di Messe, i cui frutti venivano applicati ai defunti con offerte in denaro versate per ogni celebrazione liturgica. A queste cappelle, note come «cantorie», venivano assegnati dei sacerdoti, per celebrare Messe in continuità lungo la giornata, forse venti o trenta volte al giorno. Alcuni di questi (chiamati «altaristi») non avevano altro compito che la celebrazione delle Messe. Di essi vi era grande bisogno, perché per un solo defunto erano richieste oltre mille Messe. Questo fatto rese necessario vietare ai sacerdoti di celebrare più di trenta Messe al giorno. Naturalmente, i membri più agiati della Chiesa avevano un certo vantaggio in questo campo, perché si potevano permettere di avere un maggior numero di Messe celebrate a beneficio dei membri defunti della famiglia. Il povero e chi non aveva privilegi non potevano far ricorso che alla misericordia di Dio, poiché la celebrazione di tali Messe in memoria dei loro cari era impossibile. Come vedremo, Martin Lutero criticò aspramente questa sorta di realtà pastorale, all’inizio della Riforma del XVI secolo. Anche se le Messe venivano celebrate praticamente a ogni ora del giorno, il fedele non riceveva più la comunione. Varie pratiche ascetiche (come digiuni e astinenze) e l’indegnità dei comunicandi (che richiedeva la confessione e l’assoluzione) scoraggiarono il fedele dal comunicarsi a tal punto che il Concilio Lateranense IV (1215) dovette insistere sulla comunione annuale almeno a Pasqua, come abbiamo visto. Il Concilio di Trento (1545-1563) non fece molto per migliorare la situazione. Anzi, le rubriche nel Messale di Pio V del 1570 implicano che la comunione del fedele laico sia più un’eccezione che la norma; lo testimoniano frasi come: «Se vi sono alcuni membri del laicato che vogliono ricevere la comunione, allora...». Non sorprende quindi che la devozione eucaristica sia cresciuta alla fine del Medioevo e nel Rinascimento, offrendo almeno la possibilità della «comunione spirituale». Con l’introduzione dell’elevazione del pane e del vino nella preghiera eucaristica all’inizio del XIII secolo, il popolo veniva ora invitato a fissare le specie al momento della loro consacrazione come corpo e sangue di Cristo. Ciò divenne abbastanza frequente e le autorità ecclesiastiche spesso lamentavano il fatto che il popolo se ne andasse da una chiesa all’altra solo per vedere l’elevazione delle specie, nel desiderio di sperimentare il miracolo della transustanziazione parecchie volte al giorno. Naturalmente, non era solo colpa del popolo, perché i sacerdoti ricevevano cospicue mance per tenere in alto l’ostia più a lungo. Talvolta, il fedele poteva anche fare il tifo per il proprio clero, come nell’Inghilterra del XIII secolo: «Più in alto, Sir John! Più in alto!». A Colonia, all’incirca dal XIII secolo, venne suonata una campanella per richiamare l’attenzione del popolo al fatto che la consacrazione stesse avendo luogo; la pratica gra122
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dualmente si diffuse nel resto dell’Europa. Così si preparava il passo per un’ulteriore esposizione del Santissimo. La festa del Corpus Domini si sviluppò in un simile contesto, insieme alle rispettive processioni, in cui il Santissimo Sacramento veniva portato in un ostensorio. Ben presto il Corpus Domini sorpassò anche la Pasqua, diventando la festa più popolare e, di fatto, la più importante dell’anno liturgico. L’adorazione eucaristica e la benedizione con il Santissimo Sacramento si svilupparono nello stesso tempo, insieme ad alcune pie pratiche come la devozione delle Quarantore, in cui membri del laicato vegliavano giorno e notte nelle chiese parrocchiali e nelle cappelle durante l’esposizione eucaristica. Questo periodo testimoniò anche una crescita significativa della pietà popolare, aiutata dai Francescani e dalla diffusione da parte loro di pratiche come il presepio, in cui l’umanità di Cristo veniva sottolineata e venerata. Crebbe parimenti la devozione alla Beata Vergine Maria e ai santi, e preghiere come il rosario, le novene e altre devozioni iniziarono a essere pregate in lingua corrente durante la Messa. Tali devozioni servirono come una specie di sostituto della partecipazione liturgica per quanti non vi avevano più accesso, poiché la Messa veniva ora celebrata esclusiva-
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3. Ciborio di Sankt Mang, metà del XIV secolo, castello di Harburg, Donauwörth. 4. Raffaello, Miracolo della Messa di Bolsena, stanza di Eliodoro, Palazzi Vaticani. 5. Attavante degli Attavanti (1452-1517), Processione del Corpus Domini, Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze. 6. Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino, San Tommaso compone l’ufficio del Corpus Domini, basilica di San Domenico, Bologna. 123
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7. I Francescani contribuirono alla diffusione di pratiche di pietà popolare come il presepe, qui in un affresco del XIV secolo nella sala capitolare del convento di San Francesco a Pistoia. 8. Confraternita dei Banchi, in Giovanni Sercambi, Croniche, inizio del XV secolo. Archivio di Stato, Lucca.
9. Attività dell’Arciconfraternita dell’Ospedale del Santo Spirito di Roma, in Liber Hospitalis S. Spiritus, metà del XIV secolo. Archivio di Stato, Roma. 10-11. Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, 1445-1460, e particolare. Museo Civico, Sansepolcro.
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mente in latino e per lo più sottovoce. Questo fu anche il tempo in cui si svilupparono in Europa le confraternite laicali con i loro incontri regolari, le processioni e le pratiche penitenziali, insieme a un servizio diretto ai poveri e ai diseredati in città come Siviglia, Firenze, Roma, Napoli – per citarne solo alcune. Movimenti spirituali come la pietà mistica di Meister Eckhart († 1327) e il movimento della Devotio Moderna di Tommaso da Kempis († 1471) diedero origine a una spiritualità privata, più che comunitaria, aprendo ulteriori sfide al tipo di pietà e partecipazione liturgica costitutive dell’identità comunitaria della Chiesa quale corpo mistico di Cristo, capo e membra. Invece della pietà liturgica che regolava la giornata, ci si preoccupava di guadagnare i frutti della Messa, con una certa competizione tra i fedeli laici per ottenerne il più possibile. Così, la pietà medievale offriva alcuni interessanti contrasti: crescita del fervore religioso, della devozione e dell’incarnazione della fede cattolica, ma senza la celebrazione eucaristica e la recezione della santa comunione come fonte indispensabile – «fonte e culmine della vita cristiana», come avrebbe affermato il Concilio Vaticano II (Sacrosanctum Concilium, n. 10). 124
21. LA RIFORMA
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DEL XVI SECOLO
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1. La città ideale. Galleria Nazionale delle Marche, Urbino. Nell’opera, attribuita a Francesco di Giorgio Martini (14391501), come ha scritto Rosario Assunto ne La città di Anfione e la città di Prometeo (Jaca Book, Milano 1997), si condensa «lo spirante XV secolo». 2. Messa dei defunti, miniatura da Jan van Eyck (1390 ca.-1441), Ore di Torino-Milano, manoscritto del XV secolo. Museo Civico d’Arte Antica, Torino. 1
All’inizio del XVI secolo, il desiderio di riformare la Chiesa e la società era già presente. Quasi tutti volevano un certo tipo di riforma, ma la domanda era: «Che tipo di riforma?». Gli uomini erano profondamente disillusi nei confronti di entrambe le sfere istituzionali. Guardavano indietro, a tempi migliori e più puri: alla bellezza e semplicità primitive della Chiesa delle origini, che offriva un modello ma era venuta meno al rimanere intatta: santità, purezza, povertà e robusta fede dei primi secoli erano scomparse. Gli umanisti giudicavano il periodo medievale negativamente, in quanto barbaro. L’Umanesimo – soprattutto nel Rinascimento italiano – aveva in realtà scarso interesse per la religione e preferiva la filosofia e la letteratura, con l’eccezione del nord, che tendeva a guardarla con maggiore simpatia. In generale, ad ogni modo, gli umanisti credevano che la Chiesa costituisse uno scandalo creato dal papa e dalla sua corte, dai vescovi e dai frati francescani e domenicani. Essi sostenevano che mancassero la fede e la conoscenza: troppi pontefici, vescovi e preti erano disonesti. Troppo spesso il clero viveva agiatamente, mentre i laici soffrivano, sovente in miseria. Papi, cardinali e vescovi erano predicatori e insegnanti ignoranti – dicevano. Di fatto, capitava spesso che il clero ricevesse una formazione teologica scarsa o nulla prima dell’ordinazione. Inoltre, il potere papale aveva perso buona parte della sua influenza. Per esempio, in Spagna, lo Stato aveva preso il controllo della Chiesa attraverso la sua famigerata inquisizione; anche in Inghilterra la Chiesa era controllata dal governo. In Francia, il papa acconsentì a un trattato che dava allo Stato il potere di nominare i vescovi («trattato di Bologna»), mentre in Germania i principi agivano autonomamente. La teologia aveva perduto il suo posto privilegiato nel mondo accademico e veniva ora sostituita dalla filosofia. La situazione non era migliore sotto il profilo liturgico. La liturgia era diventata sempre più distante dalla gente, e fis126
3. Hartmann Schedel, Veduta prospettica di Roma, da De Temporibus Mundi, Norimberga, 1493. 4. Ritratto di Martin Lutero, bottega di Lucas Cranach il Vecchio, 1529. Galleria Nazionale degli Uffizi, Firenze. 5. Ulrico Zwingli in un ritratto dell’epoca. 2
sare l’ostia, di fatto, era diventato più importante che mangiare e bere il corpo e il sangue del Signore. Non era più possibile per i laici toccare l’ostia e prendere la comunione in mano. Il popolo ora veniva in chiesa per «sentir Messa» e non deve sorprendere se ci si cominciò a chiedere quando occorresse arrivare alla Messa, così da non perdere o mancare i «frutti» che in essa venivano offerti. Il nuovo linguaggio dei «frutti della Messa» emerse lentamente, dapprima con l’affermazione che tre frutti spirituali potevano venir colti da quanti la «ascoltavano» (cioè vi erano presenti). Il numero crebbe in fretta a otto e poi a dieci, con la
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citazione di uno dei Padri della Chiesa per ogni frutto trasmesso dal santo sacrificio dell’altare. In tal modo, il popolo era incoraggiato ad andare a Messa, ma veniva anche incoraggiato a credere in una falsa sicurezza, cioè che potesse salvare l’anima – quasi matematicamente – con la presenza alla Messa e la recezione dei frutti assegnati. In questo periodo si moltiplicarono anche le Messe, soprattutto per i defunti: più Messe, più frutti. Era diventato comune farne celebrare addirittura più di mille per un defunto, per aiutare la sua anima a passare dal purgatorio al paradiso. In tale atmosfera nacque la Riforma.
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Benché si possano menzionare molti riformatori, Martin Lutero († 1546), Ulrico Zwingli († 1531) e Giovanni Calvino († 1564) sono certamente tre fra i più importanti; Lutero e Zwingli rappresentano la prima generazione di riformatori, Calvino una seconda. La riforma di Lutero era molto più conservatrice, se paragonata alle altre, e perciò più vicina al pensiero e alla prassi sacramentale cattolici. Egli, dopo tutto, era un agostiniano e le sue riforme liturgiche seguono strettamente molto di ciò che sant’Agostino aveva raccomandato per esempio a proposito dell’Eucaristia in relazione alla comunità, e a proposito dello sfociare della 127
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partecipazione eucaristica nel servizio evangelico del povero e del bisognoso. Lutero criticava la pratica eccessiva delle indulgenze, il culto esagerato dei santi, la preoccupazione per le forme pompose di culto, le Messe private con le relative prebende. Benché Lutero abbia introdotto le sue riforme liturgiche nel 1523, egli aveva varato la sua riforma generale già nel 1520, con il testo, divenuto un classico, La cattività babilonese della Chiesa, nel quale esponeva ciò che chiamava «le tre schiavitù della Chiesa cattolica»: il rifiuto di dare il calice ai laici; la dottrina della transustanziazione; la dottrina della Messa come sacrificio. A proposito della consacrazione delle specie eucaristiche, Lutero preferiva un’idea più vicina a quella che spesso viene chiamata «consustanziazione», in cui le specie sono trasformate nel corpo e nel sangue di Cristo pur rimanendo pane e vino. Questo era in acuto contrasto con la dottrina cattolica, la quale afferma che, una volta che le specie siano consacrate come corpo e sangue del Signore, esse cessano di essere pane e vino. A proposito del carattere sacrificale della Messa, a Lutero piaceva accettare la Messa quale sacrificio nel significato agostiniano e patristico del termine (un sacrificio di lode e ringraziamento), ma non nel senso medievale e scolastico della Messa come «sacrificio incruento del Calvario». Egli accettava il primato di soli due sacramenti: il Battesimo e l’Eucaristia, perché sono gli unici direttamente fondati nelle Scritture cristiane. Tuttavia, egli mantenne strutture rituali per il Matrimonio, l’Ordine, la Confermazione, la Penitenza e anche l’Unzione degli infermi. La riforma di Lutero aveva uno scopo fondamentalmente pastorale. Egli tentò di recuperare la centralità della domenica come giorno del Signore e raccomandò la comunione settimanale, anziché annuale, che doveva essere ricevuta sulla mano, insieme all’offerta del calice. L’Eucaristia doveva essere celebrata in lingua vernacolare, anziché in latino, con una seria attenzione all’importanza della predicazione. Incoraggiò anche la preghiera della liturgia delle ore nelle parrocchie. Come accadeva in Germania, anche Ulrico Zwingli iniziò le sue riforme liturgiche nello stesso anno, il 1523. Mentre Lutero era un agostiniano, Zwingli era un prete diocesano svizzero che era rimasto scandalizzato dagli abusi che aveva osservato sulla via del pellegrinaggio al grande monastero benedettino di Einsiedeln. Mentre le riforme liturgiche di Lutero lasciarono ampiamente intatta molta della liturgia cattolica, Zwingli scelse un rinnovamento molto più radicale del culto: cambiò le forme della liturgia; abolì i giorni santi e buona parte dell’anno liturgico; abbandonò il sistema del lezionario, che spesso corrispondeva tematicamente alle varie feste e ai tempi dell’anno liturgico, a favore di una lettura continua di un intero libro della Bibbia. In ge128
21. LA RIFORMA
DEL XVI SECOLO
nerale, Zwingli conservò il minor numero possibile di cerimonie. Come Lutero, avviò la sua riforma con una specie di trattato, che specificava l’uso di leggere la Scrittura in lingua corrente e forniva un canone eucaristico consistente in quattro preghiere: un ringraziamento; un’epiclesi o invocazione dello Spirito Santo come richiesta dei benefici della comunione; un memoriale o anamnesi; e una preghiera per ricevere degnamente la comunione quando veniva ricevuta. Due anni dopo, nel 1525, sostituì la liturgia in latino con una totalmente in tedesco, che specificava che l’Eucaristia dovesse essere celebrata solo quattro volte all’anno. I ministri non dovevano indossare abiti liturgici, solo una toga, o abito accademico. L’altare venne sostituito con una tavola per la comunione, da cui il pane e il vino venivano amministrati al popolo seduto usando vassoi di legno e piccolissimi calici per ogni comunicando. Così, il culto domenicale normativo nelle Chiese zwingliane divenne una liturgia della Parola con sermone. Giovanni Calvino era francese; dal 1523 al 1528, era stato studente di teologia all’Università di Parigi, dove incontrò fra gli altri Ignazio di Loyola. Ancora seminarista, iniziò a dubitare della sua vocazione al sacerdozio e la abbandonò; nel 1533 lasciò la Chiesa cattolica, completamente convinto di avere la missione di restaurare la Chiesa nella sua purezza originaria. Al cuore della teologia calvinista dell’Eucaristia c’è lo Spirito Santo, che ci eleva a mangiare e bere con Cristo. Calvino offre invero uno dei pochi esempi nell’Occidente cristiano di un’elevatissima teologia epicletica, o teologia dello Spirito Santo in relazione con l’Eucaristia: cosa che è molto più abbondantemente presente nell’Oriente cristiano. Calvino affermava la dottrina della presenza reale, ma sollevava questioni precisamente in merito a quale tipo di presenza si intendesse, notando che l’Ultima Cena non fu un’adorazione dell’ostia. Sotto il profilo dell’ecclesiologia, manifestò problemi con la definizione del papa come capo della Chiesa, argomentando che è Cristo il capo della Chiesa e che l’Eucaristia è sempre un atto della Chiesa. Essenzialmente Calvino cercò di realizzare una via media fra Lutero e la teologia svizzera più protestante di Zwingli. Calvino ammirava grandemente le opere di Lutero e le lesse quasi tutte. Tuttavia, sviluppò una teologia eucaristica piuttosto differente rispetto a quella di Lutero, e di fatto scrisse copiosamente contro la dottrina luterana dell’Eucaristia, più di quanto non fece contro la Chiesa di Roma! La Riforma inglese, diversamente dal suo corrispettivo continentale, non manifestò mai l’aspetto di una protesta dottrinale quale si vede negli scritti dei riformatori tedeschi, francesi e svizzeri. Fu invece l’esito del divorzio di Enrico VIII, che portò alla formazione della Chiesa d’Inghilterra, la quale rimase fondamentalmente cattolica nella teologia e
DEL XVI SECOLO
6. Giovanni Calvino in un ritratto anonimo del XVI secolo. Bibliothèque Publique et Universitaire, Ginevra. 6
8 9
7
7. Pulpito dell’«auditorio di Calvino» a Ginevra, dove Calvino era solito insegnare. L’auditorio ospitò esuli protestanti da tutta l’Europa. 8. Veduta della cattedrale di Ginevra, dove predicò Calvino. 9. Riunione della comunità calvinista di Lione nel tempio detto Paradiso, intorno al 1565. 129
Confessione d’Augusta Impero asburgico
1536-1607
Novgorod
Impero ottomano Domini veneziani
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Confessione boema 1575
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DI CRIMEA
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TRANSILVANIA
REGNO DI Lisbona
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Confessione pentapolitana 1545
REGNO POLONIA
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REGNO DI BOEMIA
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REGNO DI FRANCIA
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Confessione elvetica 1536-62 Rod an o
Confessione gallicana 1559
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Riformati (calvinisti, zwingliani) Misti Forte presenza di battisti, unitariani e altri
DI
GERMANICO
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Consensus polacco 1570-95
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Confessione d’Augusta 1530
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GRANDUCATO DI RUSSIA
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1527
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10. La situazione religiosa dell’Europa nel XIV secolo.
nella prassi. Il suo cuore era il Book of Common Prayer, composto originariamente dall’arcivescovo Thomas Cranmer († 1556) nel 1552. Diversamente da altri libri della Riforma, questo testo anglicano si collega fortemente con i libri liturgici cattolici – pontificali, messali e breviari, per esempio. Il rito ispanico o mozarabico servì come fonte per il rituale battesimale che si trova nel Book of Common Prayer, il quale conteneva anche uffici quotidiani per la celebrazione comunitaria della preghiera del mattino e della sera nelle chiese e nelle cappelle inglesi. In gran parte, questo avvenne a causa della forte influenza benedettina in Inghilterra, che l’anglicanesimo ereditò e cercò di mantenere. Anche oggi, le Chiese cattoliche romane dovrebbero sentirsi sfidate dalla bellezza della preghiera serale anglicana cantata ogni giorno nell’abbazia di Westminster e nella cattedrale di St. Paul a Londra, come pure nei collegi di Cambridge e di Oxford. 130
11. Hans Holbein il Giovane (1498-1543), Enrico VIII, 1541. Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma. 12. La situazione politica dell’Europa nella prima metà del XIV secolo. 13. Gerlach Flicke, Thomas Cranmer (1489-1556), 1545. National Portrait Gallery, London. 14. Coro dei monaci dell’abbazia di Westminster. 13
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22. IL CONCILIO
DI
TRENTO (1545-1563) 5. Torre campanaria e facciata della cattedrale di Santa Maria, Anagni.
1. Il Concilio Lateranense IV, disegno da La Ballade de la croisade albigeoise di Guillaume de Todèle e di un anonimo continuatore, 1215-1230. 2. Veduta dell’angolo nordoccidentale del cortile del Palazzo dei Papi ad Avignone, con parti del Palazzo Vecchio di Benedetto XII (1334-1342). 3. Giovanni di Paolo, Santa Caterina davanti al papa, 1461 ca. Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid. Il papa potrebbe essere Gregorio XI (1370-1378) – e in tal caso la supplica è per un ritorno dei papi a Roma da Avignone – o Urbano VI, invitato a confidare nella divina provvidenza per superare avversità quali lo scisma di Anagni. 4. Santa Brigida di Svezia, miniatura dalle Heures du maréchal Boucicaut, 1408-1411. Musée Jacquemart-André, Parigi. 1
3 2
Le riforme di papa Gregorio VII alla fine dell’XI secolo misero in moto una serie di cambiamenti nella cultura occidentale che posero le basi – in certa misura – per il Concilio di Trento nel XVI secolo. Le riforme gregoriane stabilirono un sistema ecclesiastico in cui il diritto canonico otteneva un rango, all’interno della Chiesa, di cui non aveva goduto prima di quel periodo. Inoltre, il concetto di riforma venne intrinsecamente connesso con una restaurazione delle antiche discipline e tradizioni della Chiesa, ottimamente articolata nei canoni stessi. Mentre il Concilio Lateranense IV del 1215 aveva dato il suo significativo contributo dichiarando la transustanziazione come articolo di fede e con la richiesta di una confessione e comunione annuale, il riconoscimento della necessità di una riforma per la Chiesa era cresciuto sempre più nei secoli XIV e XV, data l’urgenza avanzata dal grande scisma d’Occidente. Finché il papato rimase in Avignone, dal 1309 al 1377, tutti i papi furono francesi e la maggior parte dei cardinali occupava sedi episcopali francesi. Molti di questi pontefici furono uomini di buon carattere, e fecero del loro meglio per espletare i propri compiti amministrativi senza abusare del sistema, benché nessuno sia stato capace di rompere con il «sistema dei benefici», che trattava gli uffici ecclesiastici (beneficia) come elementi di proprietà da vendere o comprare, scambiare, offrire in ricompensa e, soprattutto, tassare. Il sistema era essenzialmente un modo per fare denaro, che aveva poco a che fare con la vita pastorale o la 132
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missione della Chiesa. Inoltre, la centralizzazione papale colpì in modo crescente l’autorità dei vescovi locali e, perciò, prese di mira l’antica tradizione del governo locale della Chiesa e le strutture sinodali di guida, rimaste invece intatte nell’Oriente cristiano. Ben presto, la Chiesa avrebbe sofferto sfide anche maggiori con tre papati in competizione, in cui tre uomini affermavano simultaneamente di essere il papa. Su pressione di Caterina da Siena († 1380) e di Brigida di Svezia († 1377), papa Gregorio XI († 1378) trasferì il papato da Avignone a Roma, nel gennaio 1377, appena un anno prima di morire. Così, quando morì, nel marzo 1378, molti cardinali erano già a Roma e la numerosa fazione francese avrebbe volentieri fatto tornare il papato ad Avignone, ma il clero e il popolo di Roma intervennero e chiesero un papa italiano. Fra notevoli conflitti, i cardinali scelsero Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, che prese il nome di Urbano VI († 1389). Questi non era un fine diplomatico e pensò di far terminare il dominio francese sul papato una volta per tutte introducendo varie riforme nella corte papale, con grande disappunto del collegio cardinalizio, in gran parte francese. Quattro mesi dopo la sua elezione, dodici dei sedici cardinali riuniti ad Anagni, a sud di Roma, dichiararono invalida la loro precedente scelta, perché affermavano che era stata dettata dalla violenza del popolo, ed elessero il cardinale Roberto di Ginevra quale papa Clemente VII (1378-1394), inaugurando così il grande 133
22. IL CONCILIO
DI
TRENTO (1545-1563)
22. IL CONCILIO
Liegi, 1202/1203 Magonza, 1233 Treviri, 1231 Metz, 1199/1200 Toul, 1192
6
Schwäbisch Hall, 1248
Regensburg, 1262 ca
6. L’imponente pulpito ligneo del tempio valdese ottocentesco di Pramollo (Torino).
Montcuq Agen
Parisot Najac
Clermont, 1182/1183 presso Montbrison
Coira Lione, 1177 Vienne, 1198
Dongo Legnano Seregno
Nimes, Bagnols Valence, Bergamo, Torino, 1235 ca St-Antonin 1204 ca Uzès Pinerolo, Gruaro Corbarieu Milano 1218 1210 Alès 1220 Montélimar Pavia Auch, Tolosa, Albi AiguesVives, Verona, 1199 Bollène Ronco 1198 Embrun, 1198 1225 ca Orange 1204 Lavaur Piacenza, Sisteron Cerea, 1203 ca Avignonet Beziers, 1192-1197 ca Avignone Carpentras Hautpoul 1194 ca Genova Modena Arles, 1198 Montpèllier , Huesca 1194 Limoux 1199 ca Narbonne, Aix, 1198 Aragona Faenza, 1206 1190 ca Antibes Marsiglia Larnat Saint-Paul Ramatuelles Firenze, 1206 Lerida Catalogna
7. Diffusione dei valdesi in Europa dal 1117 alla metà del XIII secolo. 8. John Wyclif (1330-1384) dona all’Università di Oxford la nuova interpretazione delle Scritture, incisione popolare del XV secolo.
Drosendorf
Pupping Lengelfeld
Luogo d’origine dei Valdesi Luogo abitato da Valdesi Luogo con presenza nza di “schola” valdese se 1206 Prima attestazionee di presenza valdese anteriore al 1218 1237 Prima attestazionee di presenza valdese posterioree al 1218 Sede arcivescovilee Sede episcopale
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10. Antonio Baldana, De Magno Scismate, 1420 ca. Biblioteca Palatina, Parma. La miniatura raffigura il Concilio di Costanza (1414-1418) e la fuga di papa Giovanni XXIII (1410-1415). 11. Esecuzione di Girolamo Savonarola e di due suoi confratelli domenicani sulla piazza della Signoria a Firenze il 2 maggio 1498, dipinto anonimo dell’epoca. Museo Nazionale di San Marco, Firenze. 10
9. Davanti alla famiglia principesca di Sassonia, protettrice della Riforma, Jan Hus (1372-1415) e Martin Lutero amministrano la comunione sotto le due specie, xilografia da Lucas Cranach.
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Tarragona, 1192
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Langelois S. Oswald Kammer Ybbs hristophen S. Peter S. Christophen
Besançon, 1248 Gourdon, 1240 ca
TRENTO (1545-1563)
Leuhofen Ansfelden Lengelfeld ngelfeld Weißkirchen S. Florian Sindelburg Langenlois Buchkirchen Enns Stratzing Ollersbach Pupping S. Valentin Böheimkirchen hen Anzbach S.Marienkirchen Naarn S. Oswald Grieskirchen Neustadt Gunskirchen Ybbs S. Cristophen Steyr Schwanenstadt S. Georgen gen Wels Amstetten ten Kammer Winklarn arn Kempten Haag Aschbach bach Sierning Wolfsbach sbach S. Peter Haidershofen Weistrach Seitenstetten tetten
Strasburgo, 1211/1212
Jonvelle, 1218 ca
DI
scisma d’Occidente di cui Clemente fu il primo antipapa. Con un simile scisma, portato avanti dallo stesso papato, la riforma si fece più urgente che mai e ora si estendeva ben oltre la prassi della Chiesa in relazione al diritto canonico, fino a includere l’ambito della fede stessa alla luce della più antica tradizione della Chiesa. All’inizio del XV secolo, i due grandi movimenti di riforma che avevano operato nella Chiesa medievale – il catarismo e il movimento valdese – erano stati contenuti piuttosto bene. Il catarismo era stato praticamente smantellato, mentre i valdesi erano stati isolati e costretti al segreto. Però, proprio nel periodo fra il 1375 e il 1425, si svilupparono due nuovi movimenti di proporzioni significative: uno in Inghilterra, guidato da John Wyclif, e l’altro in Boemia, guidato da Jan Hus. Nel 1380, Wyclif pubblicò il suo trattato L’Eucaristia, in cui respingeva il dogma della transustanziazione come illogico, non scritturistico e non fedele all’insegnamento della Chiesa primitiva. Da parte sua, Hus divenne uno zelante avvocato della riforma del clero e nel 1402 venne nominato predicatore della cappella di Betlemme, a Praga, centro del movimento ceco di riforma della Chiesa, dove conquistò ben presto un largo seguito. Wyclif e Hus sono sovente stati visti come precursori della Riforma protestante, cosa parzialmente vera in riferimento alla loro protesta contro gli abusi ecclesiastici e per il richiamo insistente sulla riforma della Chiesa. Le dottrine fondamentali dei riformatori protestanti debbono tuttavia poco della loro sostanza ai
temi dominanti di Wyclif e Hus. Al Concilio di Costanza (1414-1418) emerse il motto che sarebbe stato la magna charta della Chiesa per il secolo successivo: «Riforma nella fede e nella prassi, nel capo e nelle membra». Anche dopo la ricomposizione del grande scisma, la chiamata a un rinnovamento nella Chiesa rimase forte, soprattutto a proposito della riforma degli abusi nella curia papale stessa. Questo sarebbe durato fino al Concilio di Trento: metà dei decreti tridentini erano di riforma (de reformatione). Al Concilio di Costanza, come pure al Concilio di Basilea (1431-1449), un certo grado di antipapismo era sempre stato presente, ma al principio del XVI secolo divenne dilagante un anticlericalismo ad ampio raggio a un grado sino allora inusitato. Il riformatore domenicano Girolamo Savonarola († 1498), per esempio, guidò il popolo di Firenze a una rivolta contro il papa e il suo entourage (i membri della curia romana e addirittura la stessa famiglia del papa). Era un predicatore appassionato, che denunciò l’immoralità dei Fiorentini e del clero contemporaneo e profetizzò a proposito del futuro della Chiesa, fino alla scomunica da parte di papa Alessandro VI nel 1497. Il 23 maggio 1498 fu infine impiccato e poi arso sulla piazza del mercato di Firenze come scismatico ed eretico. È importante notare che, fin da principio, il Concilio di Trento non fu interessato soltanto a rispondere alla critica dei riformatori, ma anche a riconoscere che la Chiesa cattolica era in sé bisognosa di riforma, e che c’era almeno un
po’ di verità in quello che i riformatori avevano lamentato in precedenza. Alla fine il Concilio non ebbe successo nella riunificazione delle Chiese in Occidente, come aveva sperato, e però rinforzò il cattolicesimo, soprattutto a riguardo dell’uniformità liturgica. Avendo studiato gli elementi fondamentali della Riforma protestante nel precedente capitolo, questo retroterra storico ricco di sviluppi piuttosto complicati all’interno della Chiesa cattolica stessa e i vari richiami alla riforma nei secoli precedenti sono importanti per collocare adeguatamente il Concilio di Trento e comprendere i tipi di obiettivi che si proponeva alla sua apertura il 13 dicembre 1545. All’inizio si trattò di un’assemblea abbastanza piccola, composta da appena tre legati, un cardinale, quattro arcivescovi, ventuno vescovi e cinque superiori generali di ordini religiosi. Possiamo distinguere tre caratteristiche fondamentali delle riforme liturgiche tridentine. La prima fu la centralizzazione dell’autorità liturgica, organizzata sotto il papa e la curia romana. La centralizzazione era una risposta ai riformatori, che eliminava così ogni innovazione introdotta dai singoli e, inoltre, correggeva gli abusi liturgici che dilagavano in quel periodo. A questo scopo, nel 1588, venticinque anni dopo la fine del Concilio, venne fondata la Sacra Congregazione dei Riti. Una seconda caratteristica, che deriva dalla prima, fu una forte accentuazione delle rubriche, così da mantenere l’uniformità liturgica nella Chiesa universale. Questo, però, portava a una nuova mentalità: il rubricismo 135
22. IL CONCILIO
DI
TRENTO (1545-1563)
22. IL CONCILIO
14. Mario Cartaro, Vero disegno deli stupendi edifitii giardini boschi fontane et cose meravigliose del Belvedere in Roma, incisione, 1574. In alto, al centro del giardino, la Casina di Pio IV.
13. Frontespizio della raccolta dei canoni e dei decreti delle sessioni del Concilio di Trento tenutesi sotto i papi Paolo III (1534-1559), Giulio III (1550-1555) e Pio IV (1559-1565).
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TRENTO (1545-1563)
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12. Tiziano (?), Sessione del Concilio di Trento. Musée du Louvre, Parigi.
ebbe conseguenze morali e giuridiche a proposito di ambiti come la validità della Messa. Le rubriche, che un tempo erano mere linee guida descrittive, divennero norme obbligatorie. In terzo luogo, ci fu la dimensione pastorale del Concilio, evidenziata da una significativa discussione su argomenti come la comunione sotto le due specie per i laici e un maggiore uso della lingua parlata nella Messa. Pochissimi sanno che questi due argomenti non furono categoricamente respinti a Trento. Di fatto, non pochi vescovi parlarono positivamente a proposito di entrambi i temi. Alla fine, però, i vescovi optarono per la prudenza, giudicando che fosse inopportuno operare tali cambiamenti in quel tempo, poiché ci sarebbe voluta una maggiore istruzione catechetica. Ad ogni modo, Trento incoraggiò a predicare in lingua corrente la domenica e nelle feste, e, come già si faceva in Baviera, dopo il Concilio si sviluppò significativamente un’innodia in lingua corrente durante le Messe basse (cioè quando non c’era il coro). Vennero anche fatte alcune concessioni sul porgere il calice ai laici al momento della santa comunione: Pio IV diede il permesso della comunione sotto le due specie in Germania nel 1564, appena un anno dopo la chiusura del Concilio. L’arcivescovo di Praga fece una concessione simile per la sua arcidiocesi nel 1573, in risposta a una richiesta che veniva dal locale collegio dei Gesuiti. Al cuore della riforma liturgica tridentina vi fu il desiderio di tornare al rito romano classico, per mostrarne il grande valore ai protestanti. Il progetto di una riforma classica, però, alla fine si dimostrò impossibile. Da un lato era troppo difficile definire e distinguere le norme originali, dall’altro i vescovi avvertirono anche la necessità di evitare un’archeologia liturgica. Così, i testi liturgici non vennero cambiati, e la liturgia medievale (anziché quella patristica) venne scelta come base per la riforma conciliare. La sessione XXII, nel 1562, fu particolarmente importante per la riforma liturgica, in quanto essa trattò il diffuso problema degli abusi liturgici: la Messa doveva essere celebrata solo in luoghi consacrati; il trattamento magico dell’ostia doveva cessare; la musica irrispettosa e inappropriata doveva essere bandita; i vescovi dovevano controllare i loro sacerdoti in merito alle offerte per la Messa; la superstizione relativa al numero delle Messe fissate doveva fermarsi. Positivamente, la medesima sessione espresse il desiderio che i membri dell’assemblea liturgica dovessero ricevere la comunione a ogni Messa; la predicazione in lingua corrente veniva incoraggiata; e la natura sacrificale della Messa veniva sostenuta e proclamata priva di errori. Venne ricordato al clero che bisognava aggiungere l’acqua al vino per l’offerta, cosa che i riformatori avevano considerato quale priva di importanza. Tuttavia, solo la sessione XXV del Concilio, quella finale, nel 1563, ebbe a che fare con la riforma della Messa e del-
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15. Frontespizio del Messale di Pio V (1566-1572), Roma, 1571. Bibliothèque du Saulchoir, Parigi.
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l’ufficio divino (liturgia delle ore), ma il tempo era scaduto e le desiderate riforme liturgiche non si poterono compiere lì, in quel momento. Così, i padri conciliari lasciarono a papa Pio IV il compito di riformare i libri liturgici – compito che egli si assunse immediatamente, incaricando
una commissione liturgica di dare seguito agli auspici del Concilio. Il progetto venne continuato dal successore, Pio V, e portò alla promulgazione del Breviario Romano Tridentino nel 1568, e due anni dopo, nel 1570, del Messale romano. Il breviario era un ritorno all’ufficio romano tra-
dizionale, abbastanza abbreviato e semplificato. Vennero reintrodotti gli elementi corali per pregare l’ufficio divino in comune e venne semplificato il ciclo santorale, dando la preferenza ai martiri romani. Dall’800 al 1568, quando Pio V pubblicò il calendario romano, erano stati aggiunti al calendario più di trecento santi. Così, la riduzione del numero dei santi da celebrare portò a 157 i giorni feriali liberi, specialmente in Quaresima, per meglio rispettarne il carattere penitenziale. Il Messale si basava principalmente su quello primitivo della curia romana, cui vennero aggiunte rubriche prese dall’Ordo Missae del 1502 di Giovanni Burcardo di Strasburgo, maestro papale delle cerimonie. Ma, dato che le rubriche di Burcardo erano state intese per una Messa con il popolo, esse dovevano essere variate per il Messale tridentino, poiché ora era diventata normativa la Messa privata, anche quando fosse presente un gruppo di laici. Dopo la pubblicazione del nuovo breviario e del messale c’erano ancora altri libri liturgici da riformare. Una volta che la Sacra Congregazione dei Riti si fu solidamente insediata, il compito divenne molto più facile. In meno di cinquant’anni tutti i libri liturgici furono riveduti e promulgati. Il calendario liturgico venne riveduto nel 1582, durante il pontificato di papa Gregorio XII; il martirologio romano nel 1586 e, nuovamente, nel 1589. L’uso dei libri liturgici tridentini fu reso obbligatorio per tutta la Chiesa occidentale, eccetto nelle province o nelle diocesi che potevano dimostrare un mantenimento ininterrotto da due secoli dei propri usi. Le eccezioni alla regola di Roma, perciò, includevano certi ordini religiosi medievali (per esempio il rito domenicano) e le diocesi di Milano (rito ambrosiano), Toledo (rito mozarabico), Treviri, Colonia, Liegi, Braga e Lione. Tuttavia, non dobbiamo essere ingenui nel credere che la diffusione dei libri liturgici tridentini sia stata realizzata uniformemente. La Francia, per esempio, rifiutò di accettare le norme liturgiche tridentine di centralizzazione romana fino al XIX secolo. E nella confinante Germania la diocesi di Münster aspettò fino al 1890 per accettare il Messale di Pio V, 320 anni dopo la sua promulgazione! Ad ogni modo, la liturgia romana stabilita a Trento durò per i successivi quattro secoli, fino al Concilio Vaticano II; si mantenne anche quando gli elementi esterni che la circondavano cambiarono, nel campo dell’architettura, della musica e della pietà popolare. Perciò, non possiamo parlare di una liturgia «barocca», al modo in cui parliamo di una liturgia «medievale», nonostante il fatto che possiamo facilmente identificare elementi barocchi nel rito romano, come vedremo nel prossimo capitolo. Questi cambiamenti, però, furono per lo più estetici o superficiali, anziché organici, in termini dell’effetto che ebbero sullo svolgimento e sulla celebrazione della liturgia romana in sé. 137
23. LITURGIA, ARTE
23. LITURGIA, ARTE E ARCHITETTURA NELL’EPOCA BAROCCA 1. San Pietro in Vaticano, l’incrocio del transetto con la cupola e il baldacchino di Gian Lorenzo Bernini.
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E ARCHITETTURA NELL’EPOCA BAROCCA
2. La tela di Andrea Sacchi (1599-1661) rappresenta la chiesa del Gesù prima degli interventi pittorici decorativi. Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma.
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3. Il Gesù, Roma, facciata (1573-1577) del Vignola (1507-1573).
Con la fondazione di nuovi ordini religiosi nel XVI secolo, come i Gesuiti e i Teatini, si rese necessaria una nuova architettura religiosa, poiché quegli ordini non erano obbligati a pregare l’ufficio divino in comune; di conseguenza il «coro», con i suoi stalli, che spesso divideva la navata dall’altare nelle chiese medievali, non era più necessario. Questi nuovi ordini erano indirizzati al servizio apostolico e riconoscevano che passare una buona parte del tempo ogni giorno in chiesa cantando la liturgia delle ore significava minor tempo per il servizio dei poveri e dei bisognosi; così, nacque un nuovo stile architettonico. Nell’architet138
tura barocca, il progetto della chiesa si apriva a creare un singolo spazio unificato che permettesse di vedere l’altare secondo chiare linee guida, con un’accentuazione speciale della visibilità e dell’acustica. Tale stile era fastoso e pensato come una festa per gli occhi. Ciò è specialmente riconoscibile nel baldacchino di Gian Lorenzo Bernini († 1680) nella basilica di San Pietro. I nuovi ordini religiosi nacquero sull’onda della Controriforma, riscoprirono l’importanza della predicazione e della catechesi, così che l’ambone o pulpito divenne preminente e posto al centro della chiesa per una migliore udi-
4. Sezione longitudinale del Gesù di Roma (da D. de Rossi). 5. Pianta del Gesù di Roma. 6. Facciata della chiesa di Sant’Andrea della Valle (1655-1665), Roma, opera di Carlo Rainaldi (1611-1691). 7. Sezione longitudinale di Sant’Andrea della Valle, Roma (da D. de Rossi). 5
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9. Interno della chiesa di San Michele a Monaco di Baviera.
8. Andrea Commodi (1560-1648), Il pellegrino Ignazio vede il Bambino Gesù nell’ostia consacrata, inizio del XVII secolo, cappella Farnesiana, chiesa del Gesù, Roma. La scena, ambientata nel presbiterio del Gesù, mostra elementi legati alla liturgia del tempo, dalla presenza dei musici alla sopraelevazione dell’altare.
10. Interno della chiesa ad aula del Gesù di Roma.
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bilità. Ciò portò all’accusa che i Gesuiti fossero davvero dei «protestanti travestiti», poiché prestavano molta attenzione alla predicazione biblica. Senza timori, essi continuarono il loro «ministero della Parola» e insistettero affinché i giovani gesuiti praticassero le loro abilità predicatorie pubblicamente nelle chiese e nelle piazze di Roma e venissero criticati con valutazioni regolari. Questa nuova spinta apostolica, che manifesta anche una nuova mentalità liturgica, è ben visibile nella chiesa del Gesù, nel centro storico di Roma, la chiesa-madre dei Gesuiti, costruita fra il 1568 e il 1575 e considerata il prototipo di tutta l’architettura barocca. Grazie all’opera missionaria dei Gesuiti, lo stile della chiesa del Gesù fu copiato incessantemente in tutto il mondo. Quando i Gesuiti in missione scrivevano a Roma chiedendo ai superiori il permesso di costruire una chiesa, venivano mandate loro proprio le piante architettoniche della chiesa del Gesù. Le sue linee ricercate non erano certo ciò che i Gesuiti avevano in mente. Essi avrebbero preferito un soffitto ligneo voltato a botte, che avrebbe aiutato a proiettare il suono fuori dalla chiesa, specialmente al momento dell’omelia. Ma il cardinale protettore (Farnese), che finanziava l’operazione, non volle saperne e insistette per un soffitto molto più adorno, con dorature, esattamente quello che ebbe la chiesa del Gesù. Nello stesso periodo, Carlo Borromeo diede il proprio contributo all’architettura liturgica barocca come arcive140
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11. Daniele Crespi (1598-1630), Digiuno di san Carlo Borromeo, particolare, chiesa di Santa Maria della Passione a Milano. 12. Ciborio del duomo di Milano. Gli elementi messi in evidenza dalle immagini che seguono si rifanno tutti alle Istruzioni per l’architettura e l’arredo delle chiese di san Carlo Borromeo. 13. Il tramezzo di San Maurizio a Milano, con le aperture per l’elevazione, a sinistra, e a destra per la comunione delle monache, che partecipavano alla Messa dal coro retrostante. 14. Navata maggiore del duomo di Milano con la sopraelevazione dell’altare e il suo avanzamento reso necessario anche dalla costruzione del sotterraneo scurolo di San Carlo. 15. Scurolo del duomo di Milano, adibito a coro invernale per i canonici e a cripta per le reliquie.
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scovo di Milano. Nel 1576, un Sinodo arcidiocesano a Milano prescrisse l’installazione di balaustre per la comunione, così da aiutare i fedeli a inginocchiarsi per ricevere il Sacramento, creando in tal modo una nuova barriera fra la navata e il presbiterio. Questa consuetudine gradatamente si diffuse in tutto il mondo. Nell’anno seguente, il 1577, l’arcivescovo pubblicò le Istruzioni per l’architettura e l’arredo delle chiese, con una attenzione straordinariamente scrupolosa al particolare. Per esempio, egli raccomandò che un tramezzo ligneo corresse lungo la linea mediana delle chiese nella sua arcidiocesi, per separare gli uomini dalle donne ed evitare ogni potenziale occasione di tentazione durante le Messe e le altre funzioni. Similmente, richiese nello stesso documento la costruzione di confessionali in legno, insistendo che vi fossero confessionali distinti per uomini e donne, posti in parti separate della chiesa, per paura che ci si potesse distrarre. Egli insisteva sul fatto che il tabernacolo venisse posto sull’altare principale, dove veniva celebrata la Messa – contro lo spiacevole sviluppo, che aveva preso piede a motivo della Riforma, di una loro separazione. In tale disposizione architettonica, la celebrazione della 142
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Messa iniziò ad assomigliare alla grande creazione culturale dell’epoca barocca, che fu anche la più popolare: l’opera. La prima opera venne composta nel 1600 e influenzò gradatamente la liturgia cattolica in senso non partecipativo. Vennero composte Messe per orchestra da grandi maestri, quali Mozart e Beethoven. Il fedele laico, in questo periodo, cominciò ad aspettarsi nella liturgia un equivalente religioso dell’opera, con tutta la sua pompa sfarzosa. Così vi fu l’aggiunta di vari elementi barocchi (per esempio musica, drammi, processioni), ma questi elementi rimasero alla periferia della liturgia stessa. L’assemblea liturgica stava seduta per ascoltare e godersi il coro e l’orchestra che eseguivano il Gloria, per esempio, ma era più un ornamento che una connessione intima con la preghiera della comunità. Per certi aspetti, questo tipo di barocco diede l’impressione che la liturgia fosse di fatto un concerto musicale accompagnato dalla Messa. In questo periodo, poi, il coro venne spostato dalla zona anteriore della chiesa nel recinto presbiteriale per essere posto in alto, in una balconata spesso prossima al fondo della navata, dove ora era collocato un organo a canne. Nel 1657, papa Alessandro VII decretò che i musicisti di chiesa dovessero prestare giuramento di cantare soltanto quanto prescritto dal breviario o dal messale e stabilì che la musica che imitava la danza o elementi profani dovesse essere abolita. Ogni tanto, a Messa venivano cantati inni da tutta l’assemblea. Già nel 1592, per esempio, il Sinodo di Breslavia decretò che si dovessero inserire al graduale (canto prima del 144
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16-17. Andrea Pozzo (1642-1709), Angeli musicanti, galleria della chiesa del Gesù, Roma. 18. Manoscritto autografo dell’inno eucaristico Ave verum corpus, composto da Mozart nel giugno 1791. Nationalbibliothek, Vienna. 19. Confucio e Laozi proteggono Vakyamuni bambino, rotolo dipinto, inchiostro e colori su seta, dinastia Ming (1368-1644). British Museum, Londra. Il dipinto racconta l’incontro fra le tre grandi religioni cinesi: il taoismo, il confucianesimo e il buddhismo, rappresentato dal Buddha storico. 18
Vangelo) inni in lingua corrente, come pure dopo la consacrazione, dovunque non vi fosse l’abitudine di cantare in latino. Il Cantorino di Magonza (1605) incoraggiava l’introduzione di inni in tedesco nella Messa, anche durante quelle cantate in latino (con l’opzione di sostituire i canti in latino del graduale, dell’offertorio e della comunione con un inno in tedesco). Nella Messa bassa, comunque, il canto semplicemente continuava lungo la Messa, salvo il fatto che il Cantorino stabiliva che esso dovesse fermarsi durante la lettura del Vangelo, la consacrazione e la benedizione finale. Nel 1623, i Gesuiti che operavano a Colonia pubblicarono per l’uso locale il loro Salterio spirituale, pieno di inni in lingua corrente e salmi destinati al canto comune. Queste pra-
20. Padre Matteo Ricci (1552-1610) insieme al convertito dottor Sun (Paolo), incisione da Athanasius Kircher, China Monumentis qua sacris qua profanis, Amsterdam 1667. Bibliothèque Les Fontaines, Chantilly.
tiche continuarono lungo il periodo barocco, un’epoca storica denotata da fanfare e pietà cattolica, da teatro e feste. Mentre l’inclinazione barocca per il dramma e il fasto si diffondeva in Europa, altrove nel mondo, nella fattispecie in Asia, prendeva piede un dinamismo molto differente: una disputa che venne conosciuta come «controversia sui riti cinesi» e che dimostrò la tensione fra la cultura classica e cattolica dell’Europa e il suo incontro con le culture non cristiane dell’Asia tramite l’esperienza dei missionari cattolici. Costoro mostrarono una pluralità di stili e di strategie evangeliche; alcuni furono più aperti e inventivi di altri. Gesuiti come Matteo Ricci, che giunse a Pechino nel 1601, assunsero abiti e costumi dei mandarini cinesi, guadagnan-
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done accettazione e rispetto. Ricci e i suoi colleghi argomentavano che ai cristiani neobattezzati si dovesse permettere di continuare l’antica prassi di venerare la memoria dei loro antenati defunti, oltre ad altri rituali associati con la tradizione confuciana. Queste pratiche simboliche furono ammesse perché non vi erano divinità venerate in quegli atti, peraltro culturalmente così radicati. Soprattutto, il culto confuciano era strettamente connesso con il governo e la vita civile, e con l’ambiente dei letterati. Includeva posture corporali, come il koutou, e l’offerta di incenso, denaro, cibo e vino ai reliquiari domestici. Tutto andò ragionevolmente bene per un buon periodo, finché nei successivi anni Trenta giunsero i missionari domenicani e francescani. Una volta che ebbero stabilito i loro centri missionari, essi rimproverarono aspramente i Gesuiti per aver miscelato impropriamente le tradizioni religiose e si appellarono al Sant’Uffizio, a Roma. Nel 1645, dopo un acceso e significativo dibattito, papa Innocenzo X emanò un decreto che vietava ai cattolici cinesi di continuare la pratica della venerazione degli antenati e il culto di Confucio. La controversia divampò per oltre un secolo, fino a che, nel 1742, papa Benedetto XIV decretò che tutti i missionari cristiani fossero obbligati a prestare giuramento contro i riti cinesi e i riti non cristiani vennero definitivamente aboliti. Due secoli più tardi, nel 1939, il giuramento venne rescisso, ma era troppo tardi. Il cristianesimo, ormai, aveva dato a lungo prova di essere un’impresa forestiera, incapace di adattarsi alla vita e alla cultura cinesi. 145
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CULTO CATTOLICO NELL’ILLUMINISMO
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3. La situazione politica dell’Europa alla metà del XVIII secolo. 4. Scipione Ricci († 1638). REGNO DI
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1. Cornelius Jansen (Giansenio, † 1638) in una incisione dell’epoca.
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2. Confusione del giansenismo, incisione pubblicata in Francia dai Gesuiti nel 1653.
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L’Illuminismo fu un movimento filosofico del XVIII secolo, caratterizzato dalla fede nel potere della ragione umana e da innovazioni nella dottrina politica, religiosa ed educativa. Come molti altri aspetti della vita della Chiesa, anche la liturgia non fu immune dai suoi effetti. Ma per capire come il culto cattolico si sia evoluto durante l’Illuminismo dobbiamo brevemente guardare indietro, al XVII secolo e all’avvento del movimento giansenista, così chiamato dal nome dello studioso agostiniano Giansenio (Cornelius Jansen, † 1638), professore all’Università di Lovanio e vescovo di Ypres alla sua morte. Il movimento rappresentò una reazione alla religiosità esteriore del cattolicesimo barocco a metà del XVII secolo, ma continuò a essere vissuto anche durante il XVIII e, ancora, nel XIX secolo. In quanto movimento di riforma di profonda devozione e serietà etica, il giansenismo affascinava soprattutto la nascente classe media, gli intellettuali, i Domenicani e gli Agostiniani. I giansenisti condividevano con i luterani un’avversione per l’esteriorità e il desiderio di una maggiore partecipazione al culto da parte dei laici. A tale scopo, i giansenisti pressavano la Chiesa affinché limitasse il culto del Santissimo Sacramento, a favore di una maggiore attenzione alla 146
celebrazione eucaristica in sé. In Francia, l’influenza giansenistica portò alla produzione dei cosiddetti «riti neogallicani», in cui varie diocesi francesi svilupparono libri liturgici propri come modo di rispondere all’accentuazione tridentina della centralizzazione liturgica e alla rigida uniformità. Questi testi francesi contenevano rubriche in lingua corrente e mostravano una notevole varietà da una diocesi all’altra. Nel XVIII secolo, 90 delle 139 diocesi francesi avevano infatti la propria distinta liturgia. Un esempio liturgico ancor più interessante di giansenismo venne non già dalla Francia, ma dalla Toscana, verso la fine del XVIII secolo. Nel 1786, Scipione Ricci († 1810), vescovo di Pistoia e Prato, convocò un Sinodo in cui invitò alla restaurazione della liturgia pura della Chiesa primitiva. Come succedeva nell’epoca patristica, il Sinodo riconobbe l’autorità e la guida dei vescovi diocesani nel governo delle loro diocesi, sempre consultando il concilio del clero diocesano e con la sua approvazione. Il Sinodo di Pistoia promosse l’attiva partecipazione dei laici all’azione liturgica e criticò la devozione al Sacro Cuore, insieme alle processioni che portavano le reliquie dei santi e ad altre devozioni popolari. Questi pii esercizi rischiavano soltanto di distrarre dalla centralità di Cristo nella celebrazione liturgica.
Doveva essere introdotto il culto in lingua corrente; le Messe dovevano combinarsi e quelle non necessarie andavano eliminate, così da evidenziare la dimensione comunitaria dell’Eucaristia. Le Messe celebrate contemporaneamente agli altari laterali dovevano essere abolite. La centralità della domenica doveva essere restaurata e le parrocchie dovevano avere un’Eucaristia principale, presieduta dal parroco. Chi celebrava doveva pronunciare la preghiera eucaristica e le altre orazioni presidenziali con voce forte e chiara. La comunione distribuita all’assemblea doveva essere consacrata in quell’Eucaristia particolare e non presa dal tabernacolo, quasi una dispensa degli avanzi delle precedenti Eucaristie. Il tempo normativo per la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Confermazione, Eucaristia) era la veglia pasquale, nella notte del Sabato Santo. L’insistenza giansenistica su una seria preparazione ai sacramenti si rivela qui nel fatto che il Sinodo insistette sulla preparazione battesimale per i genitori e i padrini, insieme alla preparazione delle coppie che si apprestavano al Matrimonio. È interessante notare che le riforme liturgiche apportate dal Concilio Vaticano II non si discostano di molto da quelle del Sinodo di Pistoia. Diversamente da quanto emerse a 147
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5. Marie Ellenrieder (1791-1863), Ignaz Heinrich von Wessenberg (1774-1860), 1819. Wessenberggalerie, Costanza.
7. Incisione anonima dell’epoca con sermone in parco pubblico. L’incontro con la gente è una delle caratteristiche del rinnovamento metodista.
6. William Hamilton (1751-1801), John Wesley, 1788. National Portrait Gallery, Londra. John Wesley (1703-1791) è il maggiore esponente del rinnovamento metodista.
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9. Credulità, superstizione e fanatismo, incisione di William Hogarth (1697-1764) pubblicata nel 1762. L’artista si accanisce contro certi eccessi del fanatismo dei predicatori metodisti, che finisce per creare mostri che intrappolano i fedeli. Sul lampadario-mappamondo, globo dell’inferno, si legge il riferimento a Romaine, con Wesley e Whitefield tra le personalità di spicco del movimento riformatore.
8. Frontespizio del primo innario anglicano del 1741 a cura di John Wesley.
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Pistoia, il lavoro alla base delle decisioni del Concilio Vaticano II fu però svolto in oltre cinquant’anni di preparazione, come testimoniano i movimenti biblico, ecclesiologico, ecumenico, liturgico e patristico, che ispirarono una vita nuova nella Chiesa e fornirono i necessari fondamenti teologici per le riforme. Il Sinodo di Pistoia non godette di tale preparazione e venne svolto in maniera ampiamente non consultiva, condotto essenzialmente dal vescovo locale, che alla fine venne deposto nel 1790 e morì in esilio nel 1810. Il Sinodo fu condannato nel 1794 da papa Pio VI. La Chiesa in Germania tenne il suo Congresso nello stesso anno del Sinodo di Pistoia, il 1786. Diversamente da quello, però, il Congresso di Ems ebbe successo nel produrre una riforma liturgica che godette di maggiore longevità nell’incoraggiare il culto in lingua corrente, una Messa principale ogni domenica e la predicazione durante la Messa, anziché, com’era diventato uso, prima di essa, a mo’ di preludio all’azione liturgica. Ciò avvenne benché la convoca148
zione dei vescovi fosse rivolta alla delicata questione del primato papale e dell’indipendenza tedesca da Roma; questo obiettivo era l’interesse principale di alcuni dei più eminenti vescovi che parteciparono alla riunione. La diocesi di Costanza divenne il centro delle riforme tedesche, che sottolineavano la partecipazione liturgica, il canto dell’assemblea e la predicazione liturgica. Sotto la guida del vicario generale della diocesi, Ignaz Heinrich von Wessenberg, venne emanato nel 1803 un decreto che richiedeva che tutte le Messe delle domeniche e dei giorni di festa venissero celebrate prima di mezzogiorno e che vi venisse predicata un’omelia. Sei anni dopo, nel 1809, un ulteriore decreto stabilì che ogni parrocchia doveva avere una Messa principale la domenica mattina e che vi fosse il canto di inni in lingua corrente e la predicazione durante la Messa. Ulteriori tentativi di far crescere la partecipazione liturgica continuarono per diversi anni, ma Roma era poco consenziente e alla fine, nel 1855, le innovazioni liturgiche tedesche vennero fatte cessare.
La situazione liturgica del tempo al di fuori del cattolicesimo romano faceva meglio sperare. Nel XVIII secolo, John Wesley inaugurò il rinnovamento metodista nella Chiesa d’Inghilterra, con l’obiettivo di una predicazione più personalizzata in lingua corrente e la centralità del Battesimo e dell’Eucaristia. Suo fratello Charles offrì il proprio contributo con la ricca composizione di inni in inglese, insieme poetici e di profonda teologia. Il primo innario anglicano, Collection of Psalms and Hymns, fu pubblicato nel 1737. Gli inni di Wesley continuano a essere cantati oggi nella cristianità, comprese le Chiese cattoliche anglofone. I primi metodisti svilupparono quello che fu chiamato il «servizio della predicazione», che comprendeva una serie di intercessioni generali che seguivano il sermone, insieme a preghiere estemporanee e al canto di inni. John Wesley produsse la sua versione semplificata del Book of Common Prayer nel 1784, solo due anni prima del Sinodo di Pistoia e del Congresso di Ems.
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XIX SECOLO
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3. Disegno popolare del 1840 che illustra la ripresa del fervore religioso nella prima metà del XIX secolo presso tutte le classi sociali: Gesuiti e altre congregazioni religiose organizzano missioni per ricristianizzare la Francia.
1. Incisione conservata al Musée Carnavalet di Parigi che illustra il massacro dei sacerdoti che nel settembre 1792 diede l’avvio al Terrore antireligioso in Francia. 2. Jean-Auguste Dominique Ingres (1780-1867), Napoleone sul trono imperiale, 1806. Musée de l’Armée, Parigi.
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La Rivoluzione francese generò un caos notevole nella vita ecclesiale dell’intera Europa e la Chiesa del XIX secolo si arroccò decisamente sulle difensive, soprattutto negli anni dal 1815 al 1880. Una simile posizione non è certamente ideale per fornire un buon clima di rinnovamento, e la cultura liberale borghese e il Romanticismo, frutti di questo periodo, poco contribuirono allo sviluppo della liturgia cattolica. Così, nel XIX secolo, la Chiesa apparve come un’istituzione in difensiva, sempre pronta a produrre la condanna di ogni novità. Questo secolo fu ancora prevalentemente contrassegnato dal barocco. Con la restaurazione della Chiesa dopo Napoleone e la Rivoluzione francese, ci fu il tentativo di ricostruire ciò che era stato distrutto. In opposizione all’Illuminismo, i primi decenni del XIX secolo manifestarono un’accentuazione del sentimento. La religiosità romantica non era interessata alla liturgia: la vedeva come un frammento storico di valore estetico, ma non molto di più. Gradatamente emerse un certo apprezzamento della tradizione cristiana e, così, della liturgia, con una reviviscenza del canto gregoriano e la riscoperta di antichi testi liturgici, messali e pontificali. Lentamente, la situazione migliorò. Vescovi, ordini religiosi e clero si dedicarono a un’azione di rinnovamento spirituale mirante alla formazione e all’educazione del popolo, con l’obiettivo di elevare la qualità della devozione. La ri150
4. Eugène Delacroix (1798-1863), La libertà guida il popolo, 1830. Musée du Louvre, Parigi. Il pittore lavorava sopratutto su temi mitici o patriottici.
5. Eugène Delacroix, Pietà, 1844. Musée du Louvre, Parigi. L’opera fu realizzata su commissione per una cappella dedicata alla Vergine. 151
6. Dom Prosper Guéranger (1805-1875), restauratore dell’Ordine benedettino in Francia con la rifondazione del monastero di Solesmes nel 1833, in una incisione di Ferdinand Gaillard. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
9. Peter Lenz, Pietà, schizzo per un affresco, 1865, abbazia di Beuron. Beuron fu uno dei centri del rinnovamento artistico benedettino e sede di una scuola d’arte. A seguito del Kulturkampf, i suoi monaci si trasferirono in Cecoslovacchia e in Austria.
7. L’imponente abbazia di Saint-Pierre di Solesmes, fatta costruire nel 1896 dal successore di Guéranger, Paul Delatte. 8. La cappella (1868-1870) di San Mauro a Beuron, nel Württemberg, progetto di Peter Lenz (1832-1928).
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fondazione del monastero benedettino di Solesmes offre un chiaro esempio di questi sforzi di restaurazione e rinnovamento. Nel 1833, dom Prosper Guéranger († 1875) rifondò l’abbazia, dopo che era stata soppressa durante la Rivoluzione francese, e ne divenne l’abate. Il suo desiderio era che la nuova Solesmes rispondesse alle necessità della Chiesa contemporanea permanendo fedele alla Regola monastica e all’insegnamento evangelico. Si adoperò essenzialmente e con vigore nel ricondurre la Francia verso Roma, sostenendo l’unità e l’uniformità ecclesiali anziché le innovazioni liturgiche locali, che egli considerava troppo protestanti o gianseniste. Così, a differenza del resto della Francia, l’Eucaristia e la liturgia delle ore vennero celebrate in stretta consonanza con il rito romano. A tale scopo, dom Guéranger sostenne un ritorno al canto gregoriano quale musica ufficiale del culto della Chiesa. Negli anni Settanta del XIX secolo i monaci di Solesmes avviarono uno studio dei manoscritti di canto, ritornando alle fonti medievali e purificando i testi dalle aggiunte, come si poteva vedere nella forma del canto usata a Ratisbona che si era diffusa in Europa. Riscoprendo la purezza del canto gregoriano, i monaci diedero un apprezzabile contributo. Di fatto, la ricerca del canto fatta a Solesmes attirò a tal punto l’attenzione che, quando papa Pio X emanò nel 1903 il suo primo motu proprio (Tra le sollecitu152
dini) in fatto di musica sacra, egli indicò come unico canto ufficiale della Chiesa proprio quello di Solesmes. Benché Guéranger abbia dato un contributo davvero significativo al rinnovamento della Chiesa cattolica in Francia, va anche detto che egli fu più un restauratore che un riformatore. Fatto interessante, alcune delle liturgie francesi locali a cui si oppose vennero poi accettate dal Concilio Vaticano II e incorporate nel Messale di Paolo VI. Guéranger credeva che ogni cambiamento – specialmente nella liturgia celebrata nella lingua locale di un popolo – dovesse ritenersi un attacco contro la Chiesa e una perdita dello spirito cattolico. Nella sua ricerca di fonti e testi liturgici, esitata nella poderosa, capitale opera L’Année liturgique, risalì solo fino al periodo medievale, la qual cosa ne spiega anche i risultati differenti rispetto ai giansenisti, più incentrati sui Padri. Per Guéranger, la liturgia non era una «piena, attiva e consapevole partecipazione», come venne definita dal Concilio Vaticano II, ma piuttosto una contemplazione; la liturgia era avvolta nel mistero. Nell’Inghilterra del XIX secolo emersero due importanti movimenti che rivestirono un serio ruolo nel rinnovamento liturgico anglicano: l’Anglo-Catholic Oxford Movement, fondato nel 1833, e la Camden Society (poi Ecclesiological Society), fondata a Cambridge nel 1839. Questi due movimenti verranno trattati con maggior dettaglio più avanti nel libro. 153
26. FONDAMENTI TEOLOGICI DEL MOVIMENTO LITURGICO
Alla fine del XIX secolo, alcuni teologi collegati con l’Università tedesca di Tubinga recuperarono la comprensione ecclesiologica della Chiesa come corpo mistico di Cristo, che avrebbe avuto significative implicazioni nel rinnovamento del culto della Chiesa nel XX secolo. Johann Adam Möhler nacque nel 1796 nel Württemberg, figlio di un panettiere locale. Nel 1815, a 19 anni, iniziò gli studi teologici nel seminario di Ellwangen, da poco attivo. Ma il seminario si trovava troppo distante dai centri intellettuali e, due anni dopo, fu spostato a Tubinga e incorporato alla Università. Il fatto fu abbastanza stupefacente, perché Tubinga aveva già una facoltà di teologia protestante ben avviata e difficilmente avrebbe avuto bisogno di una seconda scuola di teologia. Tuttavia, la facoltà di teologia cattolica prese piede e segnò un crescente interesse per le nuove tendenze del Romanticismo tedesco e della filosofia idealistica. Questo portò lo studio della teologia cattolica a Tubinga lontano dal genere della scolastica classica e razionalistica, verso una consapevole ottica di maggiore integrazione storica e scientifica che avrebbe grandemente influenzato la ricerca teologica di Möhler. Al centro del Romanticismo tedesco – e, conseguentemente, al centro del piano di studi teologici di Tubinga – c’era la riscoperta del modello organico della Chiesa e del ruolo dello Spirito Santo nella comunità cristiana e nel suo culto. Dati questi interessi, non deve sorprendere che dovesse essere riscoperto colà il modello paolino e patristico della Chiesa come corpo mistico di Cristo. Möhler fu ordinato prete nel 1819 e, tre anni dopo, cominciò il suo impiego come professore di storia della Chiesa a Tubinga. Per prepararsi al nuovo incarico, prese sette mesi sabbatici visitando le facoltà teologiche cattoliche e protestanti della Germania, incontrando professori e studenti e assistendo a varie lezioni. A Berlino ascoltò le lezioni di Schleiermacher e fu profondamente impressionato dalla visione e dall’approccio dello storico della Chiesa ebreo luterano Johann August Wilhelm Neander. Questi incontri ebbero un profondo impatto sul suo insegnamento e sui suoi scritti. Da professore a Tubinga, Möhler inizialmente concentrò i suoi interessi sulla patristica, che offriva una nuova visione della Chiesa in relazione alla società tedesca del XIX secolo. Questo portò presto alla pubblicazione del suo primo libro nel 1825: Die Einheit in der Kirche (L’unità nella Chiesa), che fondava gran parte della sua ricerca sui lavori di Schleiermacher e Neander. Il libro, tuttavia, presentava varie aporie e Möhler cercò successivamente di riformulare alcune delle proposizioni e convinzioni ivi espresse. Il libro fu anche discusso: ispirò numerosi giovani intellettuali cattolici e, nello stesso tempo, allarmò parecchie perso154
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nalità ecclesiastiche, perché sembrava mettere in discussione la stessa natura gerarchica della Chiesa. Il suo secondo libro, Symbolik, la sua opera magistrale, pubblicato nel 1832, esplorava le posizioni dottrinali protestanti in relazione alla tradizione cattolica. Grazie all’apertura e alla curiosità scientifica di Möhler, insieme a quelle dei suoi colleghi, si sviluppò quella che divenne nota come «scuola di Tubinga», che si pose in aperto contrasto con il tipo di teologia cattolica che veniva svolto nel resto del continente nel XIX secolo. Non deve sorprendere che i teologi di Tubinga siano stati considerati sospetti: la teologia cattolica dell’epoca tendeva a essere astorica e non guardava con simpatia alla filosofia moderna. Ancora all’alba del XX secolo, alcuni critici conservatori accusavano la scuola di Tubinga per lo sviluppo del modernismo. Ad ogni modo, la teologia del corpo mistico fornì i necessari fondamenti teologici per il movimento liturgico. Möhler e i suoi colleghi di Tubinga sostenevano che il culto avesse la responsabilità dell’intima assimilazione della dottrina e della teologia che la Chiesa esemplificava o testimoniava internamente. Möhler scelse l’immagine della Chiesa come comunità, la quale offriva una visione del battezzato abbastanza differente dalla visione della Chiesa come istituzione, in cui il laicato rimaneva passivamente sullo sfondo. La vita divina fu comunicata dagli apostoli non agli individui, ma a una comunità di sorelle e fratelli che venivano incorporati nel medesimo corpo di Cristo. Nell’immagine della Chiesa di Möhler, era importante che la comunità parlasse a Dio nel linguaggio che le era dato – la lingua corrente –, per il fatto che usava la stessa lingua
1. Torre campanaria della collegiata di San Giorgio a Tubinga, sede dell’Università fondata nel 1477 e divenuta una delle principali della Germania, tanto da identificare l’Università stessa con Tubinga. 2. Gustave Coubert, Funerale a Ornans, 1849. Musée du Louvre, Parigi. In questo dipinto l’avvenimento religioso è messo in risalto sotto il profilo sociale e la dimensione comunitaria. 3. Jean-Francois Millet, L’Angelus, 1858, particolare. Musée du Louvre, Parigi. Anche qui emerge chiaramente l’aspetto comunitario del fatto religioso: i due contadini si fermano e si raccolgono insieme.
nella ordinaria vita quotidiana. Così, Dio sarebbe stato onorato nel fatto di rivolgersi a lui nella propria lingua madre, essa stessa dono divino. Altri teologi del XIX secolo si unirono a Möhler nel promuovere una simile ecclesiologia. La loro ricerca pose i fondamenti della Costituzione dogmatica sulla Chiesa di Cristo del Concilio Vaticano I (1869-1870), in cui lo schema proposto iniziava così: «La
Chiesa è il corpo mistico di Cristo». Se il Concilio non fosse stato interrotto, è abbastanza probabile che questa dottrina sarebbe pervenuta nel vocabolario regolare della Chiesa ben prima di quanto sarebbe avvenuto con l’enciclica papale Mystici Corporis Christi, promulgata da Pio XII nel 1943. Tuttavia, l’opera svolta a Tubinga fornì i fondamenti teologici per il movimento liturgico del XX secolo. 155
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1. Papa Leone XIII. 2. Papa Pio X. 3. Emil Nolde affronta, all’inizio del secolo scorso, tematiche religiose e cristiane con una forte impronta impressionistica, come nell’Ultima Cena, del 1909, in cui è messa in risalto la consapevolezza di essere tutti intorno alla tavola e al calice. Statens Museum for Kunst, Copenhagen. 4. Navata maggiore della chiesa abbaziale di Maria Laach in Renania. 1
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Grazie all’ispirazione fornita dalla scuola di Tubinga, il Concilio Vaticano I (1869-1870) aveva già avanzato qualche proposta di riforma dell’ufficio divino (eliminando le leggende agiografiche, gli inni di oscura provenienza, i santi sconosciuti, eccetera), tuttavia non ebbe il tempo di affrontare la questione della riforma liturgica. Intanto divenne chiaro per le guide della Chiesa che la liturgia non influenzava la vita dei fedeli, perché essi non la comprendevano e perciò non vi partecipavano attivamente. Alla svolta del XX secolo, però, la situazione cominciò a cambiare. Nel 1902, proprio alla fine del suo pontificato, Leone XIII emanò un’enciclica sulla santa Eucaristia, la Mirae Caritatis, in cui offriva una ricca visione della liturgia, intrinsecamente collegata con la vita della Chiesa. Il papa parlava dell’Eucaristia come dell’antidoto a un mondo in cui gli individui si occupavano egoisticamente dei propri guadagni e di fare carriera, indotti alla competizione in una «corsa alla ricchezza, verso una lotta per il possesso di comodità che servono l’amore del lusso e dell’ostentazione». Ma questi individui, come il resto della società umana, «ricevono il loro essere da Dio, così che non possono fare nulla di buono se non in Dio, tramite Gesù Cristo, attraverso il quale è derivato e sempre deriva ogni dono ottimo e sceltissimo». Papa Leone continuava: «Ma la fonte e il principio di tutti questi doni è la venerabile Eucaristia, che non solo nutre e sostiene quella vita, il cui desiderio richiede i nostri più intensi sforzi, ma anche fornisce oltre misura quella dignità del156
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l’uomo di cui in questi tempi sentiamo così tanto parlare». L’interesse sociale di Leone XIII era stato bene espresso nella sua enciclica del 1891, la Rerum novarum; perciò, non destò sorpresa che egli dedicasse una parte significativa della Mirae Caritatis (1902) alla relazione fra Eucaristia e carità. Leggiamo: «Gli uomini hanno dimenticato che sono figli di Dio e fratelli in Gesù Cristo; non si preoccupano di altro che dei loro interessi individuali; gli interessi e i diritti degli altri non solo non li illuminano, ma anzi li attaccano e li invadono. Di qui i frequenti tumulti e le tensioni fra classe e classe: arroganza, oppressione, frode da parte dei più potenti; miseria, invidia e turbolenze fra i poveri [...]. La nostra cura principale e il nostro sforzo dovrebbe essere [...] di assicurare l’unione delle classi in un mutuo scambio [...] che, avendo la sua unione in Dio, porti a fatti che riflettono il vero spirito di Gesù Cristo e una genuina carità [...]. Questo, dunque, è ciò che Cristo intendeva, quando istituì il venerabile sacramento, cioè risvegliando la carità verso Dio per promuovere la reciproca carità fra gli uomini». Dopo la sua elezione nel 1903, il nuovo papa Pio X proseguì la visione della liturgia del predecessore, intendendola come fonte della vita e della missione della Chiesa, come ben evidenziato nel suo già menzionato Tra le sollecitudini, motu proprio emesso nel primo anno di pontificato. Benché il suo principale oggetto fosse la musica sacra, esso incoraggiava anche la partecipazione attiva alla liturgia, descri-
vendola come la più importante e indispensabile fonte della Chiesa: «Poiché abbiamo moltissimo a cuore che il vero spirito cristiano possa rivivere in ogni possibile modo e venga mantenuto fra i fedeli, è soprattutto necessario guardare alla santità e dignità dei luoghi sacri, precisamente dove il fedele partecipa per attingere a questo spirito come a sua fonte primaria e indispensabile, cioè all’attiva partecipazione ai sacri misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa». Nel 1905 seguì il decreto Sacra Tridentina, che incoraggiava la comunione frequente, stabilendo che «la comunione frequente e quotidiana [...] deve essere accessibile a tutti i fedeli di qualunque classe o condizione». Cinque anni dopo, nel 1910, la prima comunione dei bambini venne abbassata all’età di sette anni. Qualche anno dopo, nel 1928, papa Pio XI emise una bolla papale, la Divini cultus, in cui proclamava: «È molto importante che, quando il fedele assiste alle sacre cerimonie [...] non sia soltanto uno spettatore distaccato e silente». Il movimento liturgico europeo iniziò in Belgio nel 1909 a una conferenza di lavoro cattolica tenuta a Malines. Un monaco benedettino dell’abbazia di Mont-César, Lambert Beauduin, fu invitato a tenere una conferenza sul tema La vraie prière de l’Église (La vera preghiera della Chiesa). Nella sua lezione sosteneva la piena e attiva partecipazione del laicato, non solo nel campo della liturgia, ma anche in tutti gli aspetti della vita e del ministero della Chiesa. In quell’incontro, Beauduin trovò uno storico laico, Godfried
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Kurth, e i due cominciarono a progettare come trasformare nella realtà belga il loro sogno di un culto più partecipato. Beauduin usò il motu proprio di Pio X come base per il suo discorso e per l’eventuale fondazione del movimento liturgico in Belgio, chiamando quel testo papale «la magna charta» del movimento. Solo due mesi dopo, i monaci di Mont-César iniziarono una pubblicazione mensile, chiamata «La Vie liturgique», con un numero di abbonamenti che ben presto superò le 70.000 copie. La prima conferenza liturgica fu tenuta nel monastero nel 1910, un congresso di un solo giorno che vide più di 250 partecipanti. Due anni dopo, nel 1912, Mont-César cominciò a ospitare le settimane liturgiche annuali, che diffusero ulteriormente il messaggio del movimento – per di più sostenuto dalle numerose pubblicazioni di Beauduin. Mentre il movimento liturgico prendeva forza in Belgio, ben presto sorse anche in Germania, con un taglio più scientifico, grazie al contributo erudito dei monaci di Maria Laach, in Renania. Il movimento tedesco nacque dai contatti del 1913 fra il benedettino Ildefons Herwegen († 1946) e alcuni studenti universitari che avevano espresso l’interesse di vivere più in profondità la liturgia nella vita quotidiana. Herwegen invitò gli studenti a raggiungere la comunità monastica durante la Settimana Santa del 1914, dove poterono partecipare agli uffici liturgici e unirsi ai monaci nella loro vita e nel lavoro quotidiani. Durante la visita, Herwegen e i suoi ospiti esplorarono varie possibili157
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tà di promuovere il rinnovamento liturgico in Germania e i modi in cui quegli studenti potessero diventare protagonisti del rinnovamento fra i loro compagni di università. Divenuto abate del monastero, Herwegen dispose di una tribuna ancor più vasta per promuovere il rinnovamento del culto nella Chiesa tedesca e fu zelante nell’incoraggiare i monaci più giovani ad affrontare gli studi e la ricerca in ambito liturgico. Uno di tali monaci fu Odo Casel († 1948), già discepolo di Herwegen all’Università di Bonn, dove Casel era studente e Herwegen serviva da cappellano. Casel fiorì nella disciplina della scienza liturgica e divenne uno scrittore prolifico nell’ambito della teologia liturgica, scrivendo centinaia di articoli e di libri che ebbero un’eco significativa anche fuori dai confini della Germania. Il più famoso fu il libro Das christliche Kultmysterium (Il mistero del culto cristiano), in cui sosteneva che i sacramenti cristiani avessero il loro fondamento nelle religioni primitive mediterranee, come il culto di Mitra. Nonostante i limiti della ricerca di Casel, la sua interpretazione rivelò la ricchezza della vita liturgica, in quanto essa manifesta simbolicamente l’autocoscienza della Chiesa come corpo mistico di Cristo. In aggiunta a Casel, altri protagonisti del movimento liturgico tedesco furono il benedettino Cunibert Mohlberg e il sacerdote diocesano Romano Guardini († 1968), Franz Doelger e Anton Baumstark. Nel 1923 Guardini pubblicò il suo Vom Geist der Liturgie (Lo spirito della liturgia), che divenne ben presto un classico nella spiritualità liturgica. Le Benedettine di Herstelle diedero il loro significativo contributo alla ricerca liturgica. Casel era vissuto per un certo periodo a Herstelle; qui si era impegnato a trasmettere la sua passione per la liturgia alle monache, per le quali fungeva da cappellano e anche da maestro. Aemiliana Loehr († 1972), per esempio, che Casel indicò come la propria migliore studentessa, scrisse più di 300 articoli, inni liturgici e libri durante la sua vita. Benché il movimento liturgico tedesco sia ampiamente conosciuto per il suo contributo scientifico nell’ambito della ricerca e delle pubblicazioni, non si sviluppò senza una dimensione pastorale. A Maria Laach, per esempio, la prima Missa recitata con il celebrante rivolto verso l’assemblea liturgica anziché verso Oriente venne celebrata nella cripta della chiesa monastica il 6 agosto 1921. L’abate Herwegen diede il permesso per la celebrazione della Messa ad experimentum, ma scelse di non essere presente. Delegò invece a presiederla il priore, Albert Hammenstede, e decise che venisse celebrata alle sei del mattino. La Messa comprendeva la preghiera delle parti ordinarie in lingua corrente, anziché in latino, e la partecipazione dell’assemblea alla processione offertoriale di presentazione dei doni all’altare, con le particole che ciascuno dei partecipanti aveva collocato sulla patena entrando nella cripta. Fra il clero della diocesi di Treviri sorse ben presto la diceria che i monaci «erano diventati protestanti» e l’esperimento monastico fu riferito al vescovo. Quando il vescovo fece la propria discreta visita per osservare gli abusi litur158
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5. Veduta del monastero di Finalpia, Savona, dove l’abate Bonifacio Bolognini fondò nel 1914 la «Rivista Liturgica». 6. Il monastero e la basilica di Nostra Signora di Montserrat, in Catalogna. 7. Facciata della chiesa di Saint John’s Abbey a Collegeville, Minnesota.
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gici riferiti, fu commosso fino alle lacrime e celebrò la Messa rivolto al popolo l’anno successivo, al Congresso Eucaristico diocesano, usando un altare portatile, fra la grande costernazione degli oppositori del monastero. Altrove in Germania, Johannes Pinsk († 1957), cappellano all’Università di Berlino, e un altro prete diocesano, Hans Anscar Reinhold, furono strenui difensori di un attivismo sociale i cui fondamenti si ponevano nella sacra liturgia. Entrambi si esposero molto contro il Terzo Reich nella loro predicazione e, di conseguenza, Reinhold fu costretto a lasciare la Germania, emigrando negli Stati Uniti, dove continuò a promuovere un visione socialmente consapevole del culto, che prese di mira il razzismo e l’ingiustizia in tutte le sue forme. Sotto la guida di Romano Guardini, si sviluppò una stretta relazione fra teologi e architetti tedeschi, che portò alla pubblicazione di un imponente documento sull’architettura liturgica, emanato dai vescovi tedeschi nel 1938. In altre parti del mondo, dove mancò una simile relazione – per esempio negli Stati Uniti –, l’architettura liturgica non
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riuscì ad avanzare e rimase preponderante la preferenza per lo stile architettonico neogotico. Al contrario, il documento tedesco rifletteva chiaramente una mutua fiducia fra architetti e clero e fece da apripista nel suggerire l’uso di colate di calcestruzzo e modelli innovativi, con altari quadrangolari indipendenti di fronte al popolo: modelli che corrispondevano più adeguatamente ai progetti del movimento liturgico. Meno di dieci anni dopo, nel 1946-1947, Johannes Wagner fondò l’Istituto Liturgico dell’Università di Treviri e il suo collega Balthasar Fischer occupò la prima cattedra di studi liturgici stabilita all’interno della locale facoltà teologica. Nella vicina Francia, il Centre de Pastorale Liturgique venne istituito a Parigi nel 1943 da due Domenicani, Aimon-Marie Roguet e Pie Duployé, con il notissimo periodico «La Maison-Dieu», fondato nel 1945. L’Institut Supérieur de Liturgie aprì i battenti l’anno successivo, nel 1946, con il grande domenicano francese PierreMarie Gy fra le sue pietre angolari. In Austria, i pionieri del movimento liturgico furono gli Agostiniani (anziché i Benedettini o i Domenicani), che
facevano capo al monastero di Klosterneuburg, vicino a Vienna. Il protagonista principale fu il canonico agostiniano Pius Parsch († 1945), che usò la sua vicina parrocchia, Santa Geltrude, come una specie di laboratorio per la sperimentazione liturgica. Parsch mirò a combinare i propri interessi accademici con la pastorale, in un obiettivo comune di rinnovamento biblico e liturgico. Fece ciò principalmente tramite due importanti pubblicazioni: Das Jahr des Heiles (L’anno della grazia), dato alle stampe nel 1923 quale commentario pastorale dell’anno liturgico; e «Bibel und Liturgie» (Bibbia e liturgia), periodico fondato tre anni dopo, nel 1926, per incoraggiare la relazione integrale fra le Sacre Scritture e la liturgia, nella speranza di recuperare il ricco tesoro della Bibbia per i cattolici, disabituati a leggerla. Alcuni anni dopo, e sotto una prospettiva più scientifica, lo storico della liturgia gesuita Josef Andreas Jungmann († 1975) diede un contributo straordinario alla disciplina con la sua monumentale opera in due volumi Missarum sollemnia. Jungmann, professore universitario a Innsbruck, impiegò un gran numero di anni lavorando al testo, finalmente pubblicato nel 1948. Il movimento liturgico francese prese ispirazione dai contatti con gli ortodossi dell’emigrazione russa, che avevano trovato rifugio in Francia in seguito alla Rivoluzione bolscevica del 1917. A differenza che in Occidente, lo spirito liturgico ortodosso era rimasto fedele ai suoi fondamenti patristici e alla tradizione in generale, offrendo un solido stile rituale con andamento ripetitivo. I pionieri francesi notarono i grandi meriti dell’approccio liturgico orientale e si rifecero al suo esempio nel continuare a formulare il loro progetto di riforma. Si possono trovare sviluppi simili anche altrove in Europa: in Olanda, dove la prima settimana liturgica fu tenuta a Breda nel 1911; in Catalogna, presso il monastero benedettino di Montserrat; in Cecoslovacchia, presso il monastero benedettino di Emmaus, a Praga; e inoltre in Croazia e in Polonia. Il movimento liturgico nell’Italia settentrionale si incentrò attorno al monastero benedettino di Finalpia a Savona, e a Milano e Bergamo, con figure come l’abate benedettino Emanuele Caronti e l’abate Ildefonso Schuster, che divenne poi cardinale arcivescovo di Milano, così come il vescovo di Bergamo, Adriano Bernareggi († 1953), che fondò il Centro di Azione Liturgica (CAL). Dall’Europa, il movimento raggiunse le Americhe: gli Stati Uniti e il Brasile. Nel 1925 il monaco tedesco-americano Virgil Michel († 1938) fondò il movimento statunitense nel suo monastero di Saint John’s Abbey, a Collegeville, nel Minnesota, mentre il movimento brasiliano fu fondato dal benedettino Martinho Michler a Rio de Janeiro, nel 1933. Sia in Brasile, sia negli Stati Uniti, il movimento ebbe una forte carica pastorale, con particolare attenzione alla dimensione sociale del culto. Nel 1925, Virgil Michel fondò una casa editrice (la Liturgical Press) e un periodico mensile, «Orate Fratres» (poi «Worship»), quali strumenti primari di comunicazione del messaggio del rinnovamento liturgico nel Nord America. 159
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8-10. Le Corbusier, esterno (8), assonometria (9) e cappella laterale (10) della chiesa di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp, 1954.
11. Le Corbusier, convento di La Tourette a Éveux-sur-l’Arbresle, interno della cappella ipogea, 1957. 12. Le Corbusier, Notre-Dame-du-Haut, Ronchamp, aperture della parete laterale. 160
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13. Cappella delle Suore Cappuccine di Tlapan, Messico: altare e retablo.
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14-15. Eero Saarinen, esterno e interno absidale della cappella Kresge per il Massachusetts Institute of Technology (MIT), Cambridge, Massachusetts, 1950-1955. 16-17. Henri Matisse, interno ed esterno della cappella del Rosario, convento delle Domenicane di Vence, Provenza, 1951. L’altare è disposto obliquamente verso gli scranni delle suore e l’aula per i fedeli. 18. Henri Matisse, Madonna col Bambino, a sinistra, e sullo sfondo Via crucis, cappella del Rosario, Vence. 14
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28. IL MOVIMENTO LITURGICO NELLE CHIESE ANGLICANA E PROTESTANTE 1. Il cardinale John Henry Newman in uno schizzo del 1873 di Lady Coleridge.
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of Eucharistic Worship (L’offerta della Chiesa: breve studio sul culto eucaristico) e The Sacraments and the Church: A Study of the Corporate Nature of the Church (I sacramenti e la Chiesa: studio della natura comunitaria della Chiesa). L’anno successivo pubblicò un libricino, The Parish Communion (La comunione parrocchiale), in cui affermava che l’Eucaristia deve essere il rito liturgico principale della Chiesa d’Inghilterra e deve essere celebrata come un atto comunitario con il coinvolgimento dell’intera comunità parrocchiale. Contribuì anche a fondare il gruppo Parish and People, che cercò di comunicare le idee del movimento liturgico cattolico quali si sviluppavano nell’Europa continentale. Nello stesso anno delle due pubblicazioni di de Candole, il 1935, Gabriel Hebert pubblicò un importante libro, Liturgy and Society (Liturgia e società), sulla relazione fra liturgia ed esigenze di giustizia. Il libro era il suo tentativo di diffondere i principali temi del movimento liturgico europeo fra gli anglicani nel Regno Unito. Degno di interesse è il fatto che Hebert attribuisse la propria visione liturgica al suo collegamento con i monaci benedettini di Maria Laach. Un altro protagonista del movimento liturgico britannico fu Gregory Dix († 1951), benedettino anglicano dell’abbazia di Nashdom la cui opera fondamentale, The Shape of the Liturgy (La forma della liturgia), del 1945, rimane un classico ancor oggi. In questo testo Dix delineava nell’Eucaristia la quadruplice azione di prendere, benedire, spezzare e dare, a imitazione delle azioni di Gesù nell’Ultima Cena. Tutti
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E PROTESTANTE
4. Una funzione nella cattedrale episcopale di Saint John the Divine a New York.
2. Disegno del Trinity College di Oxford, sede di un profondo rinnovamento religioso in seno all’anglicanesimo.
Il Regno Unito ebbe la propria parte di pionieri liturgici, specialmente fra gli anglicani. L’Oxford Movement (fondato nel XIX secolo sotto la guida di figure come E.B. Pusey, John Henry Newman e John Keble) e il Tractarian Movement (così chiamato a motivo della serie di tractus che produsse nel richiamare la Chiesa d’Inghilterra alle sue tradizioni cattoliche e ai cerimoniali del passato) ebbero un impatto rivoluzionario. L’anglo-cattolicesimo crebbe fuori del trattarianismo, con l’adattamento delle rubriche liturgiche romane per l’uso anglicano, illuminate anche dal collegamento con le fonti liturgiche romane. Il Christian Socialist Movement del XIX secolo fu il germe di quello che sarebbe diventato il Parish Communion Movement all’inizio del XX secolo, il quale incoraggiava una maggiore frequenza ai sacramenti e insisteva sulla valenza sociale del culto. Bisogna riconoscere, però, che nell’anglicanesimo c’era e rimane una certa varietà di stili e di prassi. L’ala evangelica della Chiesa d’Inghilterra, per esempio, mostrò un maggiore interesse per stili più informali di culto, con una particolare missione verso quanti erano esterni alla Chiesa. L’anglicanesimo evangelico generalmente apparve più protestante delle Chiese anglo-cattoliche, con Eucaristie celebrate meno frequentemente e un cerimoniale minore. I pionieri liturgici anglicani Henry de Candole († 1897) e A. Gabriel Hebert († 1963) furono profondamente influenzati da liturgisti cattolici come Lambert Beauduin, Ildefons Herwegen e Odo Casel. De Candole pubblicò due importanti opere nel 1935: The Church’s Offering: A Brief Study 164
3. Dom Gregory Dix, benedettino anglicano di Nashdom.
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questi sforzi vennero ratificati nel 1955, con la fondazione della Commissione Liturgica della Chiesa d’Inghilterra. Tre anni dopo, alla Conferenza di Lambeth del 1958, la commissione fece due significative relazioni: una sul ruolo fondamentale del Book of Common Prayer nella comunione anglicana, l’altra sul ruolo dei santi nell’ambito dell’anglicanesimo. La Chiesa presbiteriana di Scozia registrò i suoi fondamenti di un rinnovamento liturgico nel XIX secolo. Già nel 1849, l’assemblea generale della Chiesa aveva nominato un comitato per preparare forme di funzioni parrocchiali e individuali senza ministri. Nel 1856, l’assemblea generale della Chiesa di Scozia richiedeva che il clero leggesse due brani scritturistici alla domenica, tratti dall’Antico Testamento e dal Nuovo, e lo ammoniva a essere più diligente nell’osservare le rubriche liturgiche che si trovavano nel Directory of Worship (Direttorio per il culto). Due anni dopo, nel 1858, la Chiesa pubblicò un libro intitolato Prayers for Social and Family Worship (Preghiere per il culto sociale e famigliare) e nel 1863 fondò la Church Service Society, che fu intesa per fissare le regole base del culto e per incoraggiare un’adeguata formazione liturgica per i suoi ministri. Nei primi anni del XX secolo, la Chiesa di Scozia ha recuperato molta della sua eredità liturgica, che si era persa a motivo dello scarso interesse dei puritani per il cerimoniale liturgico. Il rinnovamento liturgico presbiteriano scozzese diede frutto nella pubblicazione del Book of Common Order (Libro dell’ordinamento comune) nel 1940, che
combinava il meglio della tradizione liturgica cattolica con una genuina fedeltà alla Riforma protestante. Sei anni più tardi, la Chiesa presbiteriana negli Stati Uniti pubblicò il Book of Common Order, che si basava ampiamente sul testo liturgico scozzese. Nel complesso, per i protestanti in Europa e nel Nord America la collaborazione nel grande compito del rinnovamento liturgico offrì l’opportunità di rivendicare i fondamenti teologici e liturgici della Chiesa primitiva, che costituivano il patrimonio di tutti i cristiani, e così di riaffermare la dimensione cattolica delle radici della loro Riforma. Nel 1946 fu fondata la Methodist Church’s Brotherhood of Saint Luke (rinominata Order of Saint Luke nel 1948), per promuovere il rinnovamento del culto. Nello stesso anno, i pionieri liturgici della Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti fondarono le Associated Parishes for Liturgy and Mission come strumento per incoraggiare un ritorno alla centralità dell’Eucaristia nel culto anglicano e per promuovere una maggiore consapevolezza ecclesiale e sociale, necessariamente connessa con l’autentica partecipazione liturgica. I vari progetti di un rinnovamento nelle singole Chiese anglicane e protestanti fu infine affermato internazionalmente nel 1951, quando la Commissione sulla Fede e l’Ordine del Consiglio Mondiale delle Chiese emanò un rapporto che affermava: «C’è una crescente percezione per cui il culto non deve essere pensato come una partecipazione di singoli cristiani devoti, ma come un’azione comunitaria in diretta relazione con il Signore della Chiesa».
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3. Frontespizio del Catechismo in tedesco di Martin Lutero pubblicato nel 1529, xilografia, bottega di Lucas Cranach il Vecchio.
4. Thomas Müntzer, incisione.
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5. Martin Bucero, acquaforte.
1-2. I santi Cirillo e Metodio raffigurati in un’icona moderna (1), collezione privata. I due santi usavano la lingua della gente e tradussero la Bibbia e la liturgia per le popolazione slave. Particolare (2) del salterio di Kiev, in lingua slava. Biblioteca Statale, San Pietroburgo.
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Uno dei caratteri della Riforma del XVI secolo fu la sua insistenza sulla lingua corrente. Anche prescindendo dall’uso della lingua vernacolare nella preghiera liturgica, Martin Lutero pubblicò i suoi principali trattati in tedesco, proprio per assicurare un maggior numero di lettori fra le folle. Ulrico Zwingli, suo contemporaneo, insisteva perché ne venissero pubblicate le opere in svizzero tedesco, mentre gli scritti del riformatore di seconda generazione Giovanni Calvino vennero pubblicati nel suo francese nativo. I risultati di questo spostamento paradigmatico verso la lingua corrente ebbero rilevanti effetti anche molto al di fuori dei confini della Riforma tedesca, svizzera o francese. Uno spostamento significativo avvenne nel 1520, quando Lutero prese la decisione di scendere dalla sua tribuna di accademico che argomentava in latino con l’élite accademica, a favore di un nuovo ruolo di riformatore pastorale, che argomentava e sosteneva la propria causa in tedesco per un pubblico molto più ampio. Il vantaggio dell’uso della lin166
gua corrente si vide ancor più chiaramente in Svizzera, dove a pubblici dibattiti in volgare fra riformatori e cattolici seguiva immediatamente una votazione plenaria in cui i cittadini riuniti in assemblea decidevano se accettare o no la Riforma. Senza che sorprenda, l’uso della lingua corrente diventò non negoziabile quando si applicò alla predicazione e alle riforme liturgiche. Lutero viene spesso visto come il leader della riforma della lingua corrente nel XVI secolo, forse perché le sue riforme liturgiche sono le meglio conosciute. Ma non fu certo il primo. Anzi, nel tempo in cui Lutero era impegnato nelle sue revisioni del rito romano, c’era già una sperimentazione in lingua corrente che aveva luogo qua e là in Germania e in Svizzera. Nel 1522, Wolfgang Wissenburger introdusse liturgie in tedesco a Basilea, seguito da Johann Schwebel, che produsse una traduzione in lingua corrente simile a Pforzheim. Kaspar Kantz preparò la sua Messa in tedesco nello stesso anno a Nördlingen, perché fosse usata dalla comunità carmelitana di cui era priore. Nel 1523, Thomas Müntzer arrivò ad Allstedt come pastore della chiesa principale di San Giovanni nella città nuova e quasi subito pubblicò la sua Messa evangelica, le Lodi e i Vespri in tedesco disposti per il canto piano, completandoli l’anno successivo. Benché riconoscesse le buone intenzioni di Müntzer, Lutero criticò gli sforzi in lingua corrente del pastore, perché erano stati fatti troppo frettolosamente, come manifestava il prodotto finale. Nonostante gli avvertimenti di Lutero a non muoversi con eccessiva premura nel diffondere improvvisate traduzioni in volgare, continuarono a essere prodotti testi liturgici in tedesco. Nel 1524, Diobald Schwartz preparò la Messa tedesca di Strasburgo, una revisione conservatrice del rito romano, e Martin Bucero produsse il suo rito liturgico in
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lingua vernacolare, chiamato Grund und Ursach. Bucero divenne la guida della revisione della liturgia di Strasburgo nel 1525, e giunse a diciotto revisioni in un periodo di quattordici anni, fino al 1539, quando venne pubblicata la definitiva Messa tedesca di Strasburgo. E mentre la liturgia di Strasburgo continuava a essere riveduta, continuarono a emergere altri culti in lingua corrente. Nel 1534 una Messa tedesca che comprendeva una revisione del canone romano venne preparata a Worms, mentre liturgie in lingua corrente vennero introdotte a Reutlingen, Wertheim e Königsberg. È plausibile che la struttura liturgica di Bucero avesse una qualche influenza sulle stesse riforme luterane. Lutero fu meno lesto di altri nel rispondere con un culto in lingua corrente composto frettolosamente; ponderò invece attentamente la situazione pastorale prima di operare cambiamenti. Anzitutto si dedicò alla promozione della «libertà evangelica» e un elemento chiave in tale «libertà» fu il linguaggio, con speciale attenzione ai laici comuni e senza istruzione. Così, nelle riforme liturgiche di Lutero, vediamo un’attitudine fondamentalmente pastorale. Ben inserito nel suo tempo, egli comprese anche che produrre testi liturgici di qualità richiedeva più che una traduzione letterale dal latino al tedesco. Alcuni dei suoi colleghi riformati si limitarono a quello, e Lutero riconobbe i limiti di tale approccio. Infine, nel 1526, pubblicò la sua versione in lingua corrente della Messa – la Deutsche Messe –, che conservava struttura e forma del rito romano, benché egli continuasse a permettere la celebrazione della Messa latina nelle scuole in cui i membri dell’assemblea fossero in grado di capire ciò che veniva detto. La promozione della lingua corrente ebbe un ruolo importante anche nella Riforma inglese. L’architetto del Book of
Common Prayer anglicano, l’arcivescovo Thomas Cranmer, dotò la Chiesa d’Inghilterra di un libro liturgico fondamentalmente cattolico. Nella sua composizione si basò su antiche fonti liturgiche come messali, pontificali e uffici ecclesiali secondo solidi princìpi liturgici quali il culto in lingua corrente e la partecipazione attiva del fedele. A Norimberga, nella Quaresima del 1532, Cranmer fece la sua prima esperienza di un culto luterano in lingua corrente. Benché non sia chiaro se abbia da subito pensato alla creazione di un simile libro liturgico in inglese, è chiaro che questa sua esperienza luterana durante il soggiorno di Norimberga ebbe un effetto significativo sui suoi desideri di un culto in lingua corrente in Inghilterra. Due anni prima, George Joye aveva già pubblicato un’edizione in volgare del salterio dalla versione latina di Martin Bucero del 1529. Lo stesso anno della pubblicazione in lingua corrente, il 1530, Joye pubblicò un secondo testo, l’Hortulus Animae (Il piccolo giardino dell’anima), che recava un titolo comunemente usato nei libretti devozionali dell’epoca. La differenza con altri libretti del tempo era che il testo di Joye includeva versioni in volgare delle ore liturgiche, dei salmi penitenziali e di alcune preghiere prese dal Piccolo Catechismo di Lutero, pubblicato nel 1529. I due libri di Joye vennero ben presto condannati in Inghilterra, ma rimase un certo fascino per le cose luterane, largamente favorito dalla decisa rottura di Enrico VIII con il cattolicesimo romano negli anni 1532-1534. Non deve sorprendere, pertanto, che il Concilio di Trento (1545-1563) avesse bisogno di sollevare la questione della lingua corrente, come abbiamo visto in precedenza, precisamente perché era un tema già ampiamente dibattuto fra i riformatori protestanti. Né deve sorprendere che, nella Chiesa cattolica, un certo numero di concessioni alla lingua 167
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6. Un mandarino e un gesuita reggono una carta della Cina. Frontespizio di Athanasius Kircher, China Monumentis qua sacris qua profanis, Amsterdam 1667. 7. Incisione anonima che illustra l’arrivo dei missionari gesuiti nel Nord America.
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corrente sia stato fatto nei quattro secoli fra il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano II. Per esempio, papa Paolo V concesse alla missione dei Gesuiti di Pechino di usare il cinese mandarino nella celebrazione della Messa e dell’ufficio divino. Nel 1631 ai missionari in Georgia furono dati privilegi di piena facoltà di uso della lingua corrente per la celebrazione della Messa in georgiano e in armeno. Dall’altra parte dell’Atlantico, nella regione attorno all’attuale Montreal, i Gesuiti ricevettero il permesso dalla Santa Sede di usare la lingua irochese nella liturgia. Nel primo Sinodo diocesano di Baltimora, tenuto nel novembre 1791 sotto il vescovo John Carroll († 1815), fu permesso un certo uso dell’inglese nelle celebrazioni liturgiche: il Vangelo doveva essere letto in lingua corrente la domenica e nei giorni festivi, seguito da un’omelia in inglese, e venivano pure raccomandati inni e preghiere in lingua corrente. Nel 1822, il vescovo John England di Charleston, nella Carolina del Sud, pubblicò la prima edizione americana del Messale romano in inglese. Nel 1850, la stampa cattolica d’Inghilterra diede conto dei dibattiti sulla lingua corrente. Ciò viene ben indicato in una Letter to the Editor, pubblicata da «The Tablet», in cui il beato John Henry Newman difendeva l’uso della lingua parlata nelle celebrazioni liturgiche all’oratorio di Brompton a Londra, in risposta a un altro lettore che aveva fortemente criticato la pratica. Ancora nel 1851, e di nuovo nel 1857, la Santa Sede rifiutò di concedere traduzioni liturgiche di questo tipo, sia pure come strumento per aiutare i laici a meglio apprezzare la 168
8. John Carroll, primo vescovo di Baltimora. 9. Messale in tedesco curato da Anselm Schott, monaco di Beuron, alla fine del XIX secolo.
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Messa. Tutto questo cambiò esattamente vent’anni dopo, nel 1877, quando lo stesso papa Pio IX (1846-1878), che aveva vietato le traduzioni in lingua corrente, rovesciò completamente la sua decisione, permettendo a qualsiasi vescovo di autorizzare una traduzione e l’uso di messali in lingua corrente da parte dei laici. Papa Leone XIII († 1903) successivamente dotò tali messali dell’imprimatur ordinario, secondo il giudizio di ogni vescovo. All’alba del XX secolo, si registrarono ulteriori passi avanti in tutto il mondo. Nel 1906, papa Pio X concesse a certe regioni jugoslave l’uso del paleoslavo nelle celebrazioni liturgiche. Quattordici anni dopo, nel 1920, Benedetto XV accordò analogo permesso all’uso di croato e sloveno e al canto in lingua corrente dell’epistola e del Vangelo nelle Messe solenni; concesse anche di usare il ceco in quelle parti della Boemia dove era stato in uso dal XV secolo. Pio XI fu eletto papa nel 1922 e il suo interesse e appoggio alle missioni ben si riflettevano nella sua apertura a un maggiore uso della lingua corrente, soprattutto in terra di missione. Poco dopo la sua elezione, Pio XI rimarcò che quella era una questione grave, ma non poteva esservi obiezione al fatto che la si discutesse. Gli anni seguenti videro una serie di permessi accordati a libri liturgici bilingui. Un rituale bilingue fu approvato per la Baviera nel 1929 e un’edizione viennese del 1935 venne adottata in Austria. Nel 1945, venne fondata la International Vernacular Society, per promuovere il culto nelle lingue locali, sul fondamento che l’uso continuo del latino nella liturgia ostacolava l’intelligibilità e, ultimamente, impediva l’evangelizza-
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zione. L’organizzazione raccolse oltre 10.000 membri nel mondo, con un’ampia partecipazione dal Regno Unito e dal Nord America, comprendendo un certo numero di vescovi. Il progetto della lingua corrente fu ulteriormente promosso dal giornale della società, «Amen». Alcuni dei pionieri del più ampio movimento liturgico, però, manifestarono serie riserve a proposito del modo di porsi abbastanza aggressivo dei sostenitori della lingua corrente e, preoccupati del fatto che i loro sforzi per promuovere il rinnovamento liturgico potessero essere screditati da un’associazione troppo stretta con la Vernacular Society, presero le distanze da essa. Molti protagonisti del movimento liturgico erano invero scettici sul fatto che il latino venisse abbandonato a favore delle lingue nazionali, e dunque giudicarono controproducente sciupare energie per combattere una battaglia che non sarebbe mai stata vinta. I sostenitori del volgare riportarono alcune vittorie. Tra il 1941 e il 1942 venne accordato il permesso di tradurre il rituale romano e di creare edizioni bilingui in Africa, Cina, India, Indocina, Indonesia, Giappone e Nuova Guinea. Tali traduzioni erano ovviamente di grande aiuto al compito dell’evangelizzazione in quegli angoli abbastanza sperduti del globo. Nel 1948 fu approvato un rituale bilingue per la Francia, per le celebrazioni del Battesimo, del Matrimonio e dell’Unzione degli infermi. L’anno successivo, nel 1949, fu approvata una traduzione del Messale di Pio V in mandarino, con eccezione del canone romano, che rimase in latino. In quelle parti dell’India dove si parlava l’hindi,
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nel 1950 venne accordato il permesso di usare quella lingua nella celebrazione dei sacramenti. Nel 1951 venne pubblicata un’edizione tedesco-latina della Collectio Rituum I, contenente testi in lingua corrente in quantità anche maggiore rispetto alla versione francese. Nondimeno, il dibattito sulla lingua corrente fra i vescovi al Concilio Vaticano II fu piuttosto animato. Tuttavia, dopo lunghissime e talora tese discussioni, favorito dall’opera di pressione e di persuasione di alcuni vescovi favorevoli alle lingue correnti presenti al Concilio, si raggiunse finalmente il consenso il 7 dicembre 1962, durante la trentaseiesima congregazione generale, quando i vescovi approvarono il primo capitolo dello schema sulla liturgia, il documento che alla fine sarebbe diventato la Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia. Questo primo capitolo includeva l’approvazione dell’uso delle lingue nazionali nel culto cattolico. Fra i 2.118 vescovi presenti, 1.922 votarono a favore, 180 votarono a favore ma con riserve, 11 furono contrari e 5 voti furono nulli. Ci furono ancora alcune difficoltà da superare, per esempio a proposito del differente uso del castigliano in Spagna e nell’America Latina, e sui modi in cui i testi liturgici latini dovessero essere tradotti: se letteralmente o in modo più interpretativo, così da presentare il significato delle parole o delle frasi in maniera dinamica. Tali tensioni dovettero essere affrontate in modo risolutivo alla fine del Concilio e vennero di fatto trattate dal Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, incaricato del compito di attuare le riforme liturgiche nel mondo. 169
30. PAPA PIO
30. PAPA PIO
XII E IL RINNOVAMENTO LITURGICO
1. Pieter Paul Rubens, Gesù consacra il pane e il vino, particolare dell’Ultima Cena, 1632. Pinacoteca di Brera, Milano. La Chiesa, all’indomani del Concilio di Trento, sollecitò il contributo degli artisti per favorire la devozione eucaristica.
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2. Miniatura dallo Scivias di Ildegarda di Bingen: la Chiesa, corpo mistico, è irradiata dallo Spirito Santo. 3. Papa Pio XII. 4. Il cardinale Joseph Ratzinger presiede la veglia di Pasqua in San Pietro, il 26 marzo 2005. (foto Alessia Giuliani) 170
XII E IL RINNOVAMENTO LITURGICO
Abbiamo già presentato il motu proprio di papa Pio X del 1903 Tra le sollecitudini, che parlava della liturgia come della «vera e indispensabile fonte per la vita cristiana», un principio che divenne la magna charta del movimento liturgico. Il tema venne ulteriormente sviluppato nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII, del 1947, la prima enciclica papale sulla sacra liturgia. La Mediator Dei, naturalmente, non si risolse esattamente nel dare carta bianca ai progetti del movimento liturgico. Al contrario, anche se il papa permise certi adattamenti e concessioni (per esempio l’uso della lingua corrente in certi riti), fu anche abbastanza critico nei confronti di alcuni aspetti del movimento liturgico e suggerì cautela nel modo di procedere. Tuttavia, l’enciclica riconosceva ufficialmente il movimento liturgico e inaugurò su questo piano una serie di cambiamenti che avrebbero portato alle riforme del Concilio Vaticano II. Per esempio, lo stesso anno il Belgio ricevette il permesso di celebrare la Messa vespertina alla domenica e nelle feste. Da parte loro, i pionieri del movimento liturgico interpretarono la Mediator Dei positivamente, come una sorta di ratifica dei loro sforzi, e continuarono a promuovere la sacra liturgia come la «vera e indispensabile fonte» per la vita cristiana, concetto che sarebbe rimasto
fondante per la Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Sacra Liturgia. Il fondatore del movimento liturgico europeo, Lambert Beauduin, acclamò infatti il documento affermando che l’enciclica di Pio XII aveva riabilitato la liturgia e l’aveva fatta tornare in posizione preminente nella vita e nella missione della Chiesa. Per molti aspetti, l’enciclica Mystici Corporis che Pio XII aveva promulgato quattro anni prima, nel 1943, aveva fornito il necessario fondamento teologico per la comprensione del culto della Chiesa e per la necessità di un suo rinnovamento. Parlando della Chiesa come corpo mistico di Cristo e della liturgia quale «vera e indispensabile fonte» della Chiesa, essa implicava e in verità richiedeva un legame intimo fra culto e impegno sociale. Della teologia del corpo mistico, riscoperta a Tubinga nella seconda metà del XIX secolo, abbiamo già parlato. Nel dare forma al loro progetto di rinnovamento, i pionieri liturgici del XX secolo adottarono saggiamente quella teologia. Lette assieme, le due encicliche di Pio XII del 1943 e del 1947 affermano la fondamentale verità di Cristo, capo della Chiesa e capo liturgo, quale centro dell’azione liturgica e dei membri della Chiesa gerarchicamente ordinati come partecipanti all’interno della medesima azione liturgica. Chiaramente, fu soprattutto la pubblicazione della Mediator Dei a far rivivere l’interesse per la liturgia nella Chiesa. Nel solco di questa enciclica, il 28 maggio 1948 Pio XII sta-
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bilì una commissione segreta per la riforma liturgica, presieduta dal prefetto della Sacra Congregazione dei Riti, il cardinale Clemente Micara, che continuò il suo lavoro per dodici anni finché fu sciolta nel 1960. Conosciuta come «Commissione Piana», il suo contributo fu significativo e d’intento pastorale. Ben presto, i suoi sforzi portarono frutti in risultati molto concreti. La Santa Sede, ad esempio, diede il permesso di accorciare il digiuno eucaristico, che era richiesto dalla mezzanotte precedente, soltanto a un’ora prima di ricevere la comunione. Questo portò anche alla possibilità di celebrare la Messa al pomeriggio, cosa assai difficile prima della riduzione del tempo di digiuno. La commissione fu inoltre l’artefice della ripresa della veglia pasquale nel 1951, seguita dalla riforma delle liturgie della Settimana Santa nel 1955. Benché il lavoro della Commissione Piana sia ampiamente sconosciuto, esso offre una pedina storica importante per la comprensione delle riforme liturgiche del Concilio Vaticano II: esisteva una commissione liturgica stabilita da papa Pio XII già nel 1948, più di quattordici anni prima che avesse luogo la prima sessione conciliare. 171
31. IL CONGRESSO LITURGICO
DI
ASSISI
DEL
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31. IL CONGRESSO LITURGICO DI ASSISI DEL 1956 1. Veduta della città di Assisi e del convento di San Francesco.
2. William Congdon, Basilica di San Francesco, olio su tavola. Quest’opera fu realizzata alla fine degli anni Cinquanta ad Assisi, centro di grande spiritualità anche in epoca attuale, dal pittore americano che aveva scelto di vivere nella cittadina umbra.
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Un significativo evento preconciliare fu il Congresso Liturgico Internazionale, che si tenne ad Assisi nel settembre 1956. Se anzi volessimo trovare un ponte fra il movimento liturgico stesso e il Concilio Vaticano II, esso fu senza dubbio il Congresso di Assisi. Questo perché il Concilio avrebbe riecheggiato molti concetti proposti ad Assisi, allorché venne finalmente promulgata la Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia. Riconoscendo gli sviluppi liturgici nel mondo, la Sacra Congregazione dei Riti convocò un Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale nel settembre 1956. L’evento, solo per inviti, vide l’adesione di oltre 1.400 partecipanti da ogni parte del globo, fra cui ottanta vescovi e sei cardinali. L’ospite fu il cardinale Gaetano Cicognani, prefetto della Congregazione, il quale chiarì subito che, benché l’argomento dovesse essere la liturgia pastorale, il solo tema che non si sarebbe discusso sarebbe stato il culto in lingua corrente. Fra le conferenze di Assisi, due vennero considerate le più significative, entrambe tenute da Gesuiti: Josef Jungmann trattò «L’idea pastorale nella storia della liturgia», seguito dallo studioso biblico Agostino Bea (poi cardinale), che parlò del «Valore pastorale della Parola di Dio nella sacra liturgia». L’indirizzo del cardinale Cicognani fu coerente con la recente enciclica papale Mediator Dei, promulgata nel 1947, 172
che, lo ricordiamo, esprimeva lode per i risultati del movimento liturgico, ma anche cautela contro un’azione errata o troppo frettolosa. Dunque, non vi sarebbero stati dibattiti durante il Congresso di Assisi, benché «discussioni private e non ufficiali sarebbero potute sfociare in [...] conclusioni da sottoporre all’autorità ecclesiastica». Prevedibilmente, Cicognani sosteneva la continuazione della liturgia in latino, non solo come «splendido segno di unità e di universalità», ma anche per «rivestire le verità sacre nella loro magnificenza [...] salvaguardandole efficacemente dalla corruzione della vera dottrina». Egli proseguiva dicendo che, anche se i membri dell’assemblea normalmente non capiscono il latino, non v’era motivo di sostituirlo con la lingua corrente, perché essi non partecipavano al sacerdozio ordinato: «I fedeli non sono il sacerdozio gerarchico, la classe scelta che sola offre il sacrificio in senso vero e proprio e che, per questa ragione, deve capire pienamente le formule e le espressioni sacre. Nel loro sacerdozio regale, i fedeli prendono parte aequo modo, secondo la loro posizione, al sacrificio e ai misteri divini». La decisa riaffermazione dell’uso assoluto del latino nella liturgia produsse uno shock e i traduttori a questo punto fecero silenzio. Cicognani era ben consapevole del sostegno di fondo di cui
godevano le lingue correnti in ogni parte del mondo e fece del suo meglio per far capire che l’argomento sarebbe stato accuratamente evitato nel corso dell’incontro; ma non ci riuscì. Potevano non esserci dibattiti «ufficiali» al Congresso, ma le discussioni non ufficiali abbondarono, con il prefetto stesso. E l’argomento, senza sorpresa, era la lingua corrente. In realtà, nonostante le direttive del cardinale prefetto affinché il tema non venisse discusso, ogni oratore richiamò, direttamente o indirettamente, la questione della lingua corrente, incominciando dalle importanti relazioni tenute da Jungmann e Bea. Quando Jungmann ne tracciò la storia, venne interrotto varie volte da applausi sostenuti, con grande dispetto del cardinale Cicognani. Di fatto, ai traduttori era stato vietato di tradurre tutto ciò che riguardava la lingua corrente durante le conferenze pubbliche e le discussioni. Così, quando l’argomento venne accostato, i traduttori si fermarono imbarazzati, non sapendo che cosa fare. A un certo punto del Congresso, il cardinale Cicognani lasciò improvvisamente Assisi e tornò in Vaticano. Il cardinale Giacomo Lercaro, di Bologna, subentrò allora come presidente. Si diffuse presto la voce che Cicognani fosse furibondo per tutte le discussioni a favore della lingua corrente e che fosse tornato a informare papa Pio XII della disobbedienza del gruppo, così che venissero debitamente
ammoniti e ripresi durante l’udienza papale, prevista per il venerdì di quella settimana. La ragione della partenza di Cicognani era ben più pedestre: egli era infatti alloggiato nell’appartamento cardinalizio dell’episcopio, che non era stato usato da parecchio tempo; il letto era stato infestato dalle pulci, che provarono simpatia per il cardinale, sicché egli tornò a casa per trovare una cura. Quando il gruppo si dispose al viaggio per Roma, alla fine della settimana, per l’udienza con Pio XII, più di qualcuno coltivava la speranza che il papa non solo non li rimproverasse, ma che anzi approfittasse dell’occasione per annunciare certe concessioni all’uso della lingua corrente. Con generale disappunto, egli ribadì proprio il contrario, vale a dire l’«obbligo incondizionato» di usare il latino per chi celebrava in rito latino; il papa insistette anche affinché il canto gregoriano non venisse tradotto in lingua volgare. Ad ogni buon conto, Pio XII affermò che il movimento liturgico era «un segno della provvidenza divina e dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa, portando il popolo più vicino al mistero della fede e della grazia che viene attraverso la partecipazione liturgica». La Commissione Preparatoria per la Liturgia del Concilio venne tracciata attingendo alla lista dei partecipanti di Assisi, e fu la visione pastorale espressa ad Assisi quella che modellò l’agenda dei lavori liturgici conciliari. 173
32. LA COMMISSIONE PREPARATORIA
32. LA COMMISSIONE PREPARATORIA 1. Veduta dall’alto del sagrato di San Pietro in Vaticano.
CONCILIARE
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2. 25 gennaio 1959: papa Giovanni XXIII durante la settimana per l’unità dei cristiani annuncia il Concilio che si compirà nel segno ecumenico (foto Barontini/Giuliani).
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Il 25 gennaio 1959, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, papa Giovanni XXIII annunciò il Concilio Vaticano II. Il 17 maggio dello stesso anno fu dato l’annuncio che il papa, dopo aver ascoltato i suggerimenti dell’episcopato, della curia romana e delle facoltà teologiche e canonistiche delle università pontificie, aveva istituito una Commissione Antipreparatoria che doveva «tracciare le linee generali degli argomenti da discutere al Concilio». Le risposte vennero classificate e pubblicate nel 1960-1961 in sedici volumi, intitolati Acta et Documenta Concilio oecumenico Vaticano II apparando. Series Praeparatoria. I richiami sull’argomento della liturgia furono numerosi e vari, comprendendo commenti sulla semplificazione dei riti, l’introduzione delle lingue correnti, gli adattamenti allo spirito culturale dei vari popoli, la partecipazione dei fedeli come elemento augurabile per incoraggiare un’intima comprensione del mistero cristiano da parte dell’assemblea liturgica stessa. Il 5 giugno 1960, solo poche settimane dopo il suo annuncio della formazione della Commissione Antipreparatoria, papa Giovanni istituì alcune commissioni che dovevano 174
preparare gli schemi dei documenti da presentare per la discussione in Concilio. Il cardinale Gaetano Cicognani venne nominato presidente della Commissione Preparatoria per la Liturgia. La nomina a segretario del padre vincenziano Annibale Bugnini avvenne un mese dopo e i due iniziarono il loro lavoro immediatamente. Bugnini era ben qualificato per quel ruolo, essendo stato segretario della Commissione per la Riforma generale della Liturgia di papa Pio XII. L’intera Commissione Preparatoria consisteva di sessantacinque membri e consultori, con trenta consulenti. Fra loro, venne nominato un certo numero di vescovi e studiosi di liturgia, a rappresentare venticinque Paesi di tutti i continenti. Il primo incontro si tenne a Roma alcuni mesi dopo, il 12 novembre 1960. Lo schema preparato dalla Commissione includeva le aree che necessitavano di un ripensamento teologico e di una revisione rituale e portò alla formulazione di tredici sottocommissioni: 1) il mistero della liturgia in relazione alla Chiesa; 2) la Messa; 3) la concelebrazione eucaristica; 4) l’ufficio divino; 5) sacramenti e sacramentali; 6) la riforma del calendario liturgico; 7) l’uso del latino; 8) la formazione liturgica; 9) la parteci-
pazione liturgica del laicato; 10) l’adattamento culturale e linguistico; 11) la semplificazione degli abiti liturgici; 12) la musica sacra; 13) l’arte liturgica. Una delle sottocommissioni più difficili fu il gruppo di lavoro sul latino (De lingua latina), che portò il dibattito a un livello significativo anche nella più ampia Commissione Preparatoria. Alcuni, almeno, vedevano che l’argomento della lingua sollevava la questione della relazione fra dottrina (l’uso del latino nella liturgia scandiva l’identità cattolica) e pastorale (la lingua corrente era il simbolo principale di che cosa venisse inteso da un simile Concilio pastorale per comunicare con il mondo moderno). Uno sguardo attento all’elenco delle tredici sottocommissioni rivela anche un ordinamento gerarchico, che inizia con il più importante (il mistero della liturgia in relazione alla Chiesa) e si conclude con l’argomento più ancillare da trattare (la musica e l’arte nella liturgia). Quando venne il momento di nominare i membri per le singole sottocommissioni, si trovarono molti nomi familiari di Assisi. L’ultima sessione plenaria della Commissione si tenne tra l’11 e il 13 gennaio 1962. Il testo finale dello schema venne
letto il 22 gennaio e sottoposto alla segreteria generale del Concilio subito dopo. Significativamente, furono richiesti pochissimi cambiamenti nel testo. Soltanto quattro giorni dopo che il testo era stato sottoposto alla segreteria, il cardinale Cicognani morì, presto rimpiazzato dal cardinale Arcadio Larraona, CMF, sia come prefetto della Sacra Congregazione dei Riti, sia come presidente della Commissione Preparatoria. Una volta che fu fissata la data di apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962, e terminato il periodo preparatorio, le commissioni preparatorie vennero sostituite da quelle conciliari. Il 4 settembre 1962 papa Giovanni nominò il cardinale Larraona alla presidenza della Commissione Conciliare della Sacra Liturgia. Poco dopo l’apertura dei lavori conciliari, i padri ne elessero i sedici membri, i quali iniziarono immediatamente la loro opera coadiuvati da due vicepresidenti nominati dal cardinale Larraona. Con sorpresa, però, il cardinale bolognese Giacomo Lercaro non venne scelto come vicepresidente, benché fosse stato eletto membro della Commissione Preparatoria per la Liturgia da una schiacciante maggioranza proprio per la sua competenza in campo liturgico. 175
33. SACROSANCTUM CONCILIUM:
33. SACROSANCTUM CONCILIUM: LA COSTITUZIONE SULLA SACRA LITURGIA DEL CONCILIO VATICANO II La bozza proposta di costituzione liturgica fu il primo argomento in agenda, poiché era considerata un soggetto tutto sommato poco problematico, che si poteva trattare speditamente. Ma non fu così. Oltre alle tensioni sul contenuto del documento in sé, ci furono anche alcuni conflitti interni: non solo Lercaro non era stato scelto come vicepresidente della Commissione Conciliare, ma Annibale Bugnini, che aveva funto da segretario della Commissione Preparatoria, venne degradato a perito anziché essere confermato segretario del neonato organismo. Sia Lercaro, sia Bugnini non sarebbero stati riabilitati fino all’elezione di Paolo VI, quando vennero scelti per guidare l’organismo internazionale postconciliare Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, incaricato dell’attuazione delle riforme. Bugnini venne anche rimosso dall’incarico di professore di liturgia alla Pontificia Università Lateranense per le sue idee liturgiche, considerate eccessivamente progressiste. Il presidente appena nominato della Commissione Conciliare, il cardinale Larraona, canonista molto conservatore, riteneva Bugnini il principale artefice dell’avversione della Commissione Preparatoria nei confronti del latino nella liturgia. Bugnini venne sostituito con un membro interno della Congregazione, padre Ferdinando Antonelli, OFM. Fra il 22 ottobre e il 13 novembre 1962, i vescovi del Concilio occuparono quindici congregazioni generali discutendo il documento-bozza e la riforma liturgica in generale. Le discussioni durarono circa cinquanta ore, con 328 interventi orali e 297 proposte scritte. Conservatori e progressisti continuarono a fare cricca pro o contro il documentobozza; ognuno dei due campi cercava con tutte le sue forze di smuovere quei vescovi ancora indecisi. Fino alla fine della seconda sessione non fu presentata nella sua forma finale la Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, che passò le votazioni generali con un ampio margine di 2.147 voti a 4 e, quindi, venne promulgata dal nuovo papa, Paolo VI, il 4 dicembre 1963. Fu il primo documento a essere promulgato. La Sacrosanctum Concilium stabiliva chiaramente i princìpi generali e le norme che si dovevano osservare nella riforma della liturgia romana: «I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (n. 34). Come abbiamo visto, era proprio la «nobile semplicità» che caratterizzava il rito romano, quale si era sviluppato fra il V e l’VIII secolo, prima di entrare in contatto con il rito gallicano, più drammatico, poetico e verboso. Il documento contiene sette capitoli, che trattano: i princìpi fondamentali della riforma liturgica; il mistero eucaristi176
co; i sacramenti e i sacramentali; la liturgia delle ore; l’anno liturgico; la musica sacra; infine, l’arte sacra. È interessante notare che le riforme liturgiche approvate dal Concilio Vaticano II erano proprio alcune delle cose a cui Martin Lutero e gli altri riformatori avevano chiesto già nel XVI secolo di ritornare, come poi anche il Sinodo giansenista di Pistoia nel XVIII secolo. Era passato tempo a sufficienza dalla Riforma per rivisitare alcune di quelle delicate questioni trattate al Concilio di Trento, e la sapienza collettiva determinata dai movimenti biblico, ecumenico, liturgico e patristico permise ai vescovi cattolici del XX secolo di emettere giudizi più appropriati sulle materie in questione. La Costituzione sulla Sacra Liturgia è un documento attentamente dosato nei termini e ha bisogno di essere letto conseguentemente. Per esempio, mentre permette un maggiore uso della lingua corrente, continua a sostenere il latino come lingua ufficiale della Chiesa e perciò del suo culto (nn. 36, 54). Così, a dispetto dell’erronea opinione diffusa, la Chiesa cattolica non ha completamente abolito il latino. In realtà, le traduzioni dei testi liturgici postconciliari (preghiere, letture e benedizioni) fanno capo al testo originale latino (chiamato editio typica) e da lì il testo è attentamente tradotto in lingua corrente. Essenzialmente, il documento ha di mira un attento equilibrio tra fondamenti storici e teologici, fra «sana tradizione e legittimo progresso» (n. 23). Per molti aspetti, è una via intermedia, un documento di compromesso che ha tentato di rappacificare gli schieramenti conservatori e progressisti. In altri termini, esso riflette le opinioni miste degli artefici della Costituzione – alcuni più tradizionalisti, altri più progressisti – e cerca di trovare un terreno medio soddisfacente per entrambi. Nello stesso tempo, però, la Sacrosanctum Concilium è molto di più che una via intermedia. In certi casi, essa richiama a una revisione completa dei libri liturgici e non solo a una superficiale riedizione di quanto già presente nella liturgia tridentina. E benché la Costituzione non usi la parola «inculturazione», riconosce la necessità che si «lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle missioni» (n. 38). Il principio conciliare di collegialità fra i vescovi fu chiaramente in opera nella Costituzione: le materie liturgiche che riguardano le Chiese locali furono trattate meglio dalle conferenze episcopali o anche dagli stessi vescovi diocesani. La Costituzione ha scopi pastorali e giuridici, fu promulgata dal papa in persona e riflette una combinazione di princìpi generali e di riforme liturgiche concrete. La Sacrosanctum Concilium rivela tre basi fondamentali nella sua riforma del rito romano. Anzitutto una consapevolezza storica e il desiderio di tornare alle fonti della Chiesa
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1. Paolo VI presiede una cerimonia in San Pietro durante il Concilio Vaticano II (foto Giuliani).
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primitiva. Il movimento liturgico, grazie alla contiguità con i movimenti biblico, ecclesiologico, ecumenico e patristico, recuperò i documenti fondanti della liturgia della Chiesa, che abbiamo già esaminato in precedenza. La consapevolezza storica ebbe in verità un effetto enorme sull’agenda del Concilio nella riforma del rito romano. In secondo luogo, vi fu un recupero della teologia e della spiritualità liturgiche, cioè del fatto che il cuore della liturgia cristiana è sempre il mistero pasquale di Cristo. Al n. 7 leggiamo: «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro [...], sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la
sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda [...]. Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa [...] il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra». Come l’intera Costituzione, la ricca affermazione teologica del ruolo di Cristo nella liturgia e del ruolo liturgico dell’assemblea come membra viventi e attive del corpo di Cristo non fu inventata dal Concilio ex nihilo. Fu piuttosto il frutto della solida fondazione condotta dalle opere dei teologi tedeschi di Tubinga nel XIX secolo e dagli studiosi associati al movimento liturgico nel XX. Ugualmente importante fu, qui, il recupero della dimensione escatologica della liturgia (il «già e non ancora»): la liturgia terrestre è celebrata in via, mentre la Chiesa continua il suo pellegrinaggio verso il banchetto celeste, che verrà celebrato nella nuova ed eterna Gerusalemme. Il recupero della teologia liturgica è notevolmente superiore a quello che si può trovare nell’enciclica di Pio XII Mediator Dei. Questa riscoperta conciliare comprendeva una rinnovata comprensione dell’ecclesiologia (l’autocoscienza della Chiesa) come fondante per il culto cristiano. Questo perché, nella liturgia e attraverso di essa, la comunità cristiana è in comunione più piena con il mistero di Cristo e della Chiesa ed è più chiaramente abilitata a rendere manifesta tale connessione nel mondo tramite l’esercizio del culto della vita quotidiana. Prima del Concilio Vaticano II, la liturgia veniva spesso vista come un oggetto, una res. Ma il Concilio mise in questione tale prospettiva, riferendosi alla liturgia come a un evento, un’azione che riguarda necessariamente la Chiesa intera nell’esercizio del sacerdozio di Cristo, da essa condiviso tramite il Battesimo. Nella sua azione liturgica, Cristo unisce a sé la Chiesa, associandola a sé nel culto che egli rende a Dio. Facendo ciò, la Chiesa come corpo mistico di Cristo partecipa all’azione sacerdotale di Cristo. È chiaramente una prospettiva molto diversa dalla teologia medievale o tridentina, che riponeva l’attività sacerdotale di Cristo unicamente nella persona del prete. In terzo luogo, c’era un forte desiderio pastorale di promuovere una «piena, consapevole e attiva partecipazione», portando il fedele dall’essere spettatore passivo alla celebrazione compartecipe del rito romano. La nozione di «partecipazione piena, attiva e consapevole» si basava sulla teologia paolina del sacerdozio comune battesimale in Gesù Cristo, una dottrina che sarebbe stata articolata nella Costituzione dogmatica conciliare Lumen gentium. La partecipazione liturgica non era un’opzione fra altre, ma «diritto e dovere» del popolo cristiano «in forza del Battesimo». 177
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2. Paolo VI nell’aula conciliare durante un momento di preghiera (foto Giuliani).
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6. Katharina Kraus, La Santa Eucaristia. Per via delle sue limitate possibilità linguistiche, suor Karin Kraus, veterinaria e missionaria, ha disegnato la Bibbia masai, spinta dalla necessità di farsi meglio capire dai Masai presso cui esercitava la sua missione.
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3-5. Jan van Eyck, L’Agnello mistico, 1425-1433, cattedrale di San Bavone, Gand. Il polittico (3) viene considerato una sintesi della dottrina cristiana della salvezza incentrata sulla celebrazione dell’Eucaristia. Nella parte bassa, al centro, c’è l’altare con l’Agnello, verso cui convergono personaggi dell’Antico Testamento, i soldati di Cristo, santi, martiri e pellegrini. Tutti partecipano a questa liturgia, chi pregando, chi cantando (4), chi seguendo sui testi (5).
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Così, il Concilio argomentò che, per facilitare tale partecipazione, i riti dovevano essere accessibili e semplici, a portata della comprensione del popolo; l’uso della lingua corrente venne incoraggiato, con un maggior riconoscimento del ruolo del laicato nell’esercitare i differenti ministeri liturgici. Si decise che in ogni Messa si sarebbe dovuto distribuire le ostie consacrate nella medesima Messa piuttosto che ricorrere alla cosiddetta riserva eucaristica dal tabernacolo. Inoltre, nel medesimo paragrafo (n. 55), si cominciò a concedere, seppure solo in speciali occasioni e con il permesso dell’ordinario del luogo, la comunione sotto le due specie. Anche se notiamo il recupero della natura attiva e partecipativa del culto cristiano, e anche se riconosciamo reciprocamente la presenza di Cristo e in modo comunitario nell’assemblea liturgica in sé, la Sacrosanctum Concilium ci ricorda nondimeno che la liturgia cristiana non appartiene a 178
un individuo o a un gruppo: appartiene a Cristo. In altri termini, la liturgia è sempre un’azione di Dio per noi, un dono di Dio alla Chiesa dato per la nostra edificazione spirituale e per il nostro nutrimento. Così, se il sacerdote pensa di essere lui il centro della celebrazione, anziché Cristo – sforzandosi di diventare il centro dell’attenzione nella sua guida liturgica e nella predicazione –, questo atteggiamento non corrisponde alla visione cristocentrica del Concilio, come espressa nella Costituzione sulla Sacra Liturgia. La Sacrosanctum Concilium porta anche l’attenzione sull’importanza delle Scritture, frutto del movimento biblico del XX secolo, la cui influenza si fece sentire nel movimento liturgico. Vennero incoraggiate più numerose letture scritturistiche durante la liturgia, e si raccomandò vivamente la predicazione come parte dell’azione liturgica affermando che essa non debba omettersi la domenica e nelle feste, «se non per grave motivo». Nelle domeniche e nei giorni di
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festa venne anche reintrodotta la preghiera dei fedeli, con la quale l’assemblea prega per le necessità della Chiesa e del mondo. L’ufficio divino, ridotto lungo i secoli a preghiera riservata a sacerdoti e religiosi, venne totalmente riveduto e la sua celebrazione estesa anche ai fedeli laici (nn. 83-101). In tutto ciò vediamo il desiderio conciliare di recuperare l’unità fra la Parola e il Sacramento, fra la mensa della Parola di Dio e la mensa della santa Eucaristia, le due mense da cui sono nutriti i cristiani. 179
34. IL CONSILIUM
34. IL CONSILIUM INTERNAZIONALE E L’ATTUAZIONE DELLE RIFORME LITURGICHE
INTERNAZIONALE E L’ATTUAZIONE DELLE RIFORME LITURGICHE
1. Oscar Niemeyer, schizzo preparatorio per la cattedrale di Brasilia, 1970.
Se i membri della Commissione Preparatoria e i padri conciliari stessi trovarono arduo il loro compito, il lavoro più grande doveva ancora venire. Le riforme avevano bisogno di essere realizzate e la Chiesa universale doveva essere formata e catechizzata a un nuovo stile e linguaggio cultuale. Il 29 gennaio 1964, papa Paolo VI stabilì una speciale commissione per lavorare all’attuazione universale delle riforme liturgiche appena approvate nelle diocesi e nelle regioni del mondo. La commissione, chiamata Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, fu separata dalla Sacra Congregazione dei Riti e infine nel 1969 la soppresse e divenne la Sacra Congregazione per il Culto Divino. Sua prima guida fu l’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Lercaro, dalla solida formazione liturgica; gli succedette poi il prefetto della Congregazione per il Culto Divino, cardinale Benno Gut; ne fu segretario il sacerdote vincenziano Annibale Bugnini, che di fatto sarebbe stato l’artefice principale delle riforme liturgiche conciliari. La commissione era composta da 60 cardinali e vescovi e da oltre 200 consultori da tutto il mondo. Il compito impartito al Consilium, e poi alla Congregazione per il Culto Divino, fu l’elaborazione e attuazione delle riforme liturgiche, che venne segnata da quattro passi vitali: 1) il passaggio dal latino alle lingue correnti, negli anni 1965-1966; 2) la riforma dei libri liturgici, iniziata nel 1964; 3) la formulazione di nuovi libri liturgici per tutti i gruppi linguistici del mondo; infine, 4) il delicato lavoro di adattamento (poi chiamato «inculturazione») del rito romano agli usi e alle mentalità dei differenti popoli e culture. Il 26 settembre 1964 venne emanata la prima Istruzione, Inter oecumenici, sulla esecuzione della Costituzione sulla Sacra Liturgia; essa venne portata ad effetto il 7 marzo 1965. In aggiunta al mandato di rivedere tutti i libri liturgici per armonizzarli con le direttive conciliari, i testi latini dovevano essere tradotti nelle lingue correnti da commissioni regionali. Il Consilium lavorò anche alla composizione di nuovi testi liturgici, come le tre nuove preghiere eucaristiche nel 1968. Lo stesso documento del 1964 affidò anche al Consilium il compito di istruire i vescovi e le diocesi ovunque nel mondo in merito alla liturgia rinnovata nonché a ciò che si dovesse intendere per «piena, consapevole e attiva partecipazione». Seguì la nuova revisione dei libri liturgici. Nel 1968 venne riveduto e pubblicato il rito della Ordinazione; nel 1969 il rito del Matrimonio; nel 1970 il Messale romano, il lezionario e il rito del Battesimo dei bambini; nel 1971 i quattro volumi della liturgia delle ore e il rito della Confermazione; nel 1972 il rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, così come il rito dell’Unzione e la cura pastorale degli infermi; nel 1973 il rito della Penitenza e nel 1984 il libro delle benedizioni. Nella sua opera postuma La riforma liturgica. 1948-1975 180
(Roma 1997), Annibale Bugnini trattava dell’opposizione alle riforme liturgiche conciliari, nominando alcuni gruppi che furono particolarmente eloquenti e influenti. Uno di essi fu l’organizzazione internazionale Una Voce, che agiva principalmente per la difesa del latino e del canto gregoriano contro lo spostamento verso il culto in lingua corrente e contro forme più contemporanee di musica liturgica. I secondi a venire menzionati erano certi gruppi divergenti di «controriforma», che osteggiavano i decreti dei vescovi e la Santa Sede. Fra essi, Bugnini fa riferimento al Catholic Traditionalist Movement americano e ad alcune figure come l’italiano Tito Casini, che difese con aggressività l’uso continuo del latino nel suo libro La tunica stracciata. Vengono anche citati da Bugnini i cardinali Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci, per il loro sostegno agli oppositori del nuovo Messale a motivo dei suoi elementi «eretici», «psicologicamente distruttivi» e «protestanti», insieme al chierico francese Georges de Nantes, che reclamava la deposizione di Paolo VI accusandolo di eresia, scisma e scandalo. In vari gradi, l’opposizione alle riforme venne registrata anche nella stessa Congregazione per il Culto Divino, e si manifestarono crescenti tensioni fra quest’ultima e il Consilium. La Congregazione, ampiamente conservatrice, vedeva il Consilium come troppo progressista, in grado alla fine di limitare progressivamente la sua autorità, e impedì anche l’autorità liturgica delle conferenze episcopali. Per esempio, il Concilio in origine stabiliva che le traduzioni liturgiche e altri testi dovessero essere approvati a livello di conferenze episcopali, senza il bisogno di mandare i testi alla Santa Sede per l’approvazione finale. La Congregazione cambiò la norma, richiedendo che tutti i testi liturgici proposti le venissero inviati per ricevere la recognitio (approvazione finale), dopo essere stati approvati dalla conferenza episcopale particolare. Tali tensioni si possono in parte comprendere come il risultato di due sistemi confliggenti che non si integrarono facilmente l’un con l’altro. La curia romana è quella creata dopo il Concilio di Trento. L’antenato della nostra Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, nella fattispecie, era la Sacra Congregazione dei Riti, fondata nel 1588 per dare attuazione ai decreti liturgici tridentini. Il fatto che quel Concilio non avesse prodotto una costituzione liturgica come la Sacrosanctum Concilium fece sì che fosse compito della Sacra Congregazione dei Riti imprimere il necessario orientamento liturgico. Queste congregazioni romane non esistevano prima del Concilio di Trento, ma dicasteri come la Sacra Congregazione dei Riti vennero fondati proprio per realizzare gli obiettivi di ordine e uniformità nella Chiesa post-tridentina. In nessuna parte del Messale tridentino di Pio V si fa cenno al popolo
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di Dio. Il problema all’ordine del giorno era l’unità, liturgica e della Chiesa, soprattutto alla luce della Riforma protestante. Perciò, non deve sorprendere che l’accento venisse posto su un linguaggio comune, su rubriche fisse, su norme da osservare da parte di tutti e che non vi fosse praticamente alcuno spazio per l’adattamento. La liturgia, come le congregazioni romane stesse, assunse forma dalle medesime circostanze. La ragion d’essere sia del Consilium sia della Congregazione per il Culto Divino era l’attuazione delle riforme liturgiche del Concilio Vaticano II a livello internazionale, ma la sfida maggiore era costituita dall’esecuzione a livello locale e regionale. Per esempio, la Santa Sede inizialmente trovò difficile capire perché le Chiese di lingua spagnola dell’America Latina non usassero gli stessi libri liturgici in lingua corrente della Chiesa di Spagna. Gli aspetti linguistici (per non menzionare quelli storici e culturali) resero ben presto chiaro che c’erano troppe varianti per sostenere un’unica traduzione in castigliano dall’edizione tipica in latino. I cambiamenti avvennero in fretta, non solo per la lingua corrente, ma anche in altri ambiti. I complessi testi liturgici latini vennero tradotti celermente in lingua corrente. Benché gli esperti fossero abbastanza familiari con la tradizione liturgica e con le fonti, non potevano immaginare in anticipo l’estensione del cambiamento che l’uso della lingua corrente avrebbe comportato. Oggi, sono regolarmente in uso nella liturgia più di 350 lingue o idiomi. Pochi anni dopo il Concilio, l’intera celebrazione liturgica sareb-
be stata in lingua corrente. Come risultato, la direttiva conciliare per cui il latino avrebbe dovuto continuare a essere usato nell’ufficio divino divenne ben presto lettera morta. Già nel 1971, infatti, le conferenze episcopali vennero autorizzate a permettere l’uso della lingua corrente nell’ufficio divino e nella Messa. Come risultato della sua introduzione, divenne augurabile avere un gran numero di preghiere e di canti, soprattutto nella celebrazione dell’Eucaristia, disponibili anch’essi in lingua corrente. I risultati furono ampiamente disomogenei, con alcuni testi migliori di altri. In varie parti del mondo, la Chiesa respirò a pieni polmoni l’aria della sperimentazione liturgica con Messe celebrate nelle case, con nuove composizioni non autorizzate di preghiere eucaristiche e altri testi liturgici improvvisati. Molte delle critiche contro la sperimentazione liturgica degli anni Sessanta e Settanta non furono ingiustificate e vennero commessi errori. Ad ogni modo, per tornare al lavoro del Consilium internazionale e all’attuazione delle riforme liturgiche a livello locale, questa fu condotta nel miglior modo possibile per quel tempo, e sotto il profilo liturgico oggi viviamo una condizione certamente migliore di quella in cui eravamo nel 1963, quando la Sacrosanctum Concilium venne promulgata. Dobbiamo ricordare che il rinnovamento liturgico non ha ancora cinquant’anni. In verità, quattro decenni sono un periodo cortissimo nella nostra tradizione, se si pensa che la precedente introduzione della lingua corrente ha oltre un millennio e mezzo, quando il latino venne introdotto nel rito romano alla fine del IV secolo. 181
35. L’ASSEMBLEA
35. L’ASSEMBLEA
LITURGICA NELLA
LITURGICA NELLA
CHIESA
POSTCONCILIARE
CHIESA
POSTCONCILIARE 1. Cerimonia religiosa nella chiesa dell’unico villaggio dell’isola di Pasqua, dove, come in altre parti del mondo, il cristianesimo è stato accolto sposando tradizioni locali, come testimonia la statua lignea della Madonna.
Il Concilio Vaticano II recuperò la comprensione dell’assemblea come simbolo primario della liturgia, soggetto anziché oggetto dell’azione liturgica, che fornisce il contesto proprio di ogni ministero liturgico. Presidenti e musicisti, lettori, ministranti, delegati all’accoglienza, diaconi e ministri dell’Eucaristia sono prima di tutto membri dell’assemblea e il loro ruolo di servizio trova senso solo in relazione con l’assemblea. Nella lettera apostolica del 1998 Dies Domini, papa Giovanni Paolo II parlava della dimensione ecclesiale dell’assemblea liturgica come «luogo privilegiato di unità» (n. 36) e sottolineava nuovamente la comprensione conciliare della partecipazione liturgica piena e attiva. Nella Chiesa postconciliare, l’assemblea liturgica esercita il suo sacerdozio regale nell’unico sacrificio di lode, celebrando il sacramento del corpo e sangue di Cristo: il corpo mistico di Cristo convocato in santa assemblea per ricevere «i doni di Dio per il popolo di Dio», come diceva sant’Agostino. Dedicarsi all’azione di Cristo nella liturgia implica la necessità del rispetto nel trattare i simboli liturgici e nel prestare attenzione là dove la presenza di Cristo si rivela (ambone e altare; lezionario ed evangeliario; pane e vino); nel rapportarsi reciprocamente; nel formare la processione alla comunione tesi a muoversi tutti insieme come un unico corpo, il corpo mistico di Cristo. La presenza e l’azione di Cristo nell’assemblea liturgica, inoltre, si incontrano quando i membri dell’assemblea esercitano i loro vari ministeri con cura e preparazione; quando la Parola viene proclamata con spirito di preghiera e con rispetto; quando l’omelia viene predicata in modo consono al suo scopo catechetico; quando i membri dell’assemblea (compreso il sacerdote) cantano gli inni e le acclamazioni e recitano le preghiere e le risposte ad alta voce e con convinzione. La precisa attenzione ai gesti, ai movimenti, alle posizioni incoraggia la «concentrazione», sicché ciò che i membri dell’assemblea liturgica fanno non è fatto in fretta, ma piuttosto in maniera intenzionale e deliberata. Questi elementi non verbali convogliano un loro significato e una loro verità, al punto che vanno considerati come uno dei linguaggi di base della liturgia. In verità, la precisa attenzione a come usiamo il corpo nel culto e l’intenzionalità dei nostri movimenti (per esempio, il modo in cui formiamo le processioni), insieme alle altre componenti non verbali, ci portano da un culto individuale a un culto comunitario in quanto ed entro il corpo di Cristo. Questi gesti del corpo, di fatto, hanno la possibilità di diventare «porte del trascendente». Alcuni anni prima del Concilio, ne I sacri segni, il grande studioso tedesco di liturgia Romano Guardini scrisse a proposito dell’importanza di reimparare il modo dimenticato di fare le cose. Uno degli esempi che faceva riguardava l’importanza di prestare attenzione nel farsi il segno 182
2. Preparazione della festa dell’Assunta del 1998 nella chiesa di Tonantzintla, sull’Altopiano del Messico.
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della croce: «Quando fai il segno di croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce che cosa debba significare. No, un segno della croce giusto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all’altra. Senti come esso ti abbraccia tutto? Raccogliti dunque bene; raccogli in questo segno tutti i pensieri e tutto l’animo tuo, mentre esso si dispiega dalla fronte al petto, da una spalla all’altra. Allora tu lo senti: ti avvolge tutto, ti consacra, ti santifica. Perché? Perché è il segno della totalità e il segno della redenzione. Sulla croce nostro Signore ci ha redenti tutti. Mediante la croce egli santifica l’uomo nella sua totalità, fin nelle ultime fibre del suo essere. Perciò lo facciamo prima della preghiera, affinché esso ci raccolga e ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato». L’Istruzione generale del Messale romano parla dei gesti e dell’atteggiamento del corpo del popolo e dei ministri liturgici, raccomandando che tendano «a far sì che tutta la celebrazione risplenda per decoro e per nobile semplicità, che si colga il vero e pieno significato delle sue diverse parti e si favorisca la partecipazione di tutti» (n. 42). Detto questo, però, dobbiamo onestamente ammettere che stiamo ancora cercando la direzione, non solo a proposito dell’attenta realizzazione dei gesti liturgici, ma anche in generale come Chiese locali, che faticano per scoprire che cosa significhi di fatto la partecipazione liturgica dell’assemblea e che cosa tale partecipazione richieda a quanti la prendono sul serio. Spesso abbiamo più domande che risposte.
Qual è l’esatto equilibrio fra l’universalità della tradizione e la località della comunità cultuale? Quale la relazione fra parrocchia e vescovo locale, fra Chiesa locale e vescovo di Roma? Oggi possiamo avere una liturgia partecipata in molti luoghi, ma la sfida rimane quella di scoprire il pieno significato del ruolo centrale dell’assemblea liturgica nella liturgia e la sua relazione con la più estesa Chiesa universale. Anche a dispetto dei nostri sforzi, l’individualismo e il narcisismo nelle culture del mondo sviluppato possono fin troppo facilmente farsi strada, anche dentro le nostre assemblee liturgiche. Come nota papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est (nn. 1 e 14), l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono una sola realtà inseparabile. Occorre che l’assemblea guardi non solo al «prossimo» nell’assemblea stessa, ma oltre i confini della chiesa-edificio ai poveri e ai bisognosi, al grido di aiuto del prossimo migrante e senza casa. Anche se l’agenda conciliare non è cambiata, ci troviamo oggi in una posizione molto diversa rispetto al tempo del Concilio Vaticano II, cinquant’anni fa. Naturalmente, il corpo di Cristo è lo stesso – la stessa «Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» –, ma i volti sono cambiati e hanno pertanto obiettivi e necessità, problemi e tensioni che i suoi componenti portano con sé ogni volta che si riuniscono per il culto. In buona parte del mondo sviluppato, un numero crescente di cattolici si trova in quelle che la Chiesa chiama «situazioni irregolari»: per esempio, cattolici divorziati e risposati. Mentre alcuni di quelli in «situazione irregolare» hanno lasciato la Chiesa o quanto meno non
partecipano più alla Messa domenicale, molti di loro sono presenti nelle nostre assemblee liturgiche della domenica. Anzi, molte di queste persone vivono generose vite di servizio nella Chiesa, in numerosi modi. La domanda fondamentale per il clero e per gli altri operatori pastorali è come raggiungere più efficacemente questi individui e gruppi di persone. Come possiamo predicare parole di speranza a quanti si trovano ad affrontare queste ardue sfide? Come possono riconoscersi nelle nostre parole? Vi è poi un numero crescente di matrimoni interconfessionali e interreligiosi ed è sempre più comune trovare famiglie di plurime appartenenze che professano insieme il culto la domenica. Naturalmente tali matrimoni sono sempre esistiti, ma la loro presenza oggi è più diffusa e richiede una maggiore sensibilità pastorale nell’assemblea domenicale. Se abbiamo imparato qualcosa in questi anni postconciliari, siamo giunti a capire l’importanza dell’ospitalità nell’assemblea liturgica, facendoci spazio reciprocamente, e soprattutto nei confronti di chi giunge da noi per la prima volta. Ogni ministero specifico partecipa invero a questo comune ministero dell’accoglienza, in cui l’assemblea liturgica è impegnata ogni volta che viene radunata. Ma è la Chiesa nella sua totalità il ministro principale e fondamentale dell’accoglienza, così come della liturgia in generale. L’accoglienza liturgica sarà di cruciale importanza, se guardiamo al futuro, e gli errori che stiamo facendo ci siano di avvertimento. Nell’America Latina, oltre centomila persone all’anno lasciano la Chiesa in cerca di comunità di fede più intime, che spesso trovano nelle Chiese fondamentaliste; queste persone lamentano l’anonimato e il disinteresse che sperimentano nelle grandi parrocchie urbane. Chiaramente, se per una qualsiasi ragione non si fa loro sentire un clima di benvenuto, essi continueranno a cercare accoglienza e attenzione in altre comunità ecclesiali e la nostra Chiesa sarà più povera per la loro assenza. Un numero crescente di parrocchie nelle grandi città del mondo – anche in Italia – si trova in situazioni multiculturali, in cui una quantità di differenti gruppi culturali condivide l’appartenenza alla stessa parrocchia. Mentre ciò presenta enormi opportunità per un ricco scambio e una splendida manifestazione della diversità di doni nell’unico corpo di Cristo, presenta anche sfide concrete. Inoltre, in quanto microcosmo di una società secolare, tutte le realtà e le sfide che si affrontano nella vita quotidiana saranno presenti, in grado più o meno elevato, nella Chiesa stessa. Queste situazioni pastorali non si potevano immaginare cinquant’anni fa, ma si prospettano come una sfida sempre crescente per chi guida la Chiesa. Il Concilio Vaticano II invitò la Chiesa ad ascoltare i segni dei tempi. Benché la fondamentale visione di una «partecipazione piena ed attiva» rimanga un obiettivo oggi come già lo era cinquant’anni fa, al tempo del Concilio, tale obiettivo dovrà essere reinterpretato continuamente, perché il volto del corpo mistico di Cristo continua a cambiare. Bisognerà usare nuovi modelli, per rispondere efficacemente alle mutevoli necessità pastorali della Chiesa del XXI secolo. 183
36. LA
36. LA
RIFORMA DELL’ANNO LITURGICO
RIFORMA DELL’ANNO LITURGICO
1. Questa icona della Vergine col Bambino, sotto una pittura duecentesca, conserva nei due volti la pittura originale databile al VI secolo. Santa Maria Nova, Roma.
2. Presentazione di Gesù al Tempio, miniatura dell’evangeliario della badessa Hitda, Colonia, 1000-1020. Hessiche Landesbibliothek, Darmstadt. 3. Clara Halter, Jean-Michel Wilmotte, Muro della Pace, 2000, veduta generale notturna, Champ de Mars, Parigi.
I giorni santi, le feste e i tempi dell’anno liturgico sono uno dei modi principali con cui molti cristiani celebrano la loro fede e segnano le settimane e i mesi dell’anno, iniziando con la prima domenica di Avvento (quattro domeniche prima del Natale) e terminando con la trentaquattresima domenica dell’anno liturgico, che cade verso la fine di novembre. L’anno è composto da due cicli che si sovrappongono: il «temporale» (dalla parola latina tempora, che significa «tempi») e il «santorale», che si riferisce alle feste dei singoli santi. Dapprima, furono commemorati dalle comunità cristiane solo i martiri locali, solitamente sul luogo della loro sepoltura e nella data della loro morte. Ma nei secoli successivi, dopo che furono cessate le grandi persecuzioni, il concetto di santità venne a inglobare altri cristiani che si riteneva avessero vissuto vite eccezionali e virtuose al servizio del Vangelo, insieme a numerose figure bibliche, così che la devozione ai santi smise di essere semplicemente locale. Alla fine del Medioevo, la maggior parte dei giorni dell’anno prevedeva la commemorazione di almeno un santo. Il ciclo temporale non coincide con l’anno civile, ma è invece una combinazione di due archi di tempo: uno basato sulla festa primaverile di Pasqua, la cui data è mobile ogni anno, e l’altro basato sul Natale e sull’Epifania, le cui date sono fisse. Sovrapponendosi, i due cicli si influenzano l’un l’altro e influiscono anche sulla celebrazione settimanale domenicale della resurrezione del Signore, sicché le Chiese hanno stabilito chiare regole per determinare il da farsi quando le feste coincidono. Nonostante queste regole, però, vi possono essere sovente tensioni fra la liturgia ufficiale della Chiesa e le espressioni della pietà popolare. In Italia, per esempio, quando la solennità di San Giuseppe (19 marzo) cade di domenica, essendo sempre una delle domeniche di Quaresima, può essere difficile convincere i pastori o i parrocchiani che la festa debba essere trasferita al lunedì per mantenere l’osservanza della domenica di Quaresima. Il ciclo temporale ha anche due tempi «intermedi» che la Chiesa cattolica romana chiama «tempo ordinario»: uno più breve, dalla fine del tempo di Natale fino all’inizio della Quaresima, e uno, molto più lungo, dalla solennità di Pentecoste (celebrata in maggio o in giugno) all’inizio dell’Avvento, a fine novembre o inizio dicembre. Vi sono casi in cui il calendario liturgico si intreccia con il calendario civile, presentando sfide per gli operatori pastorali e soprattutto per i predicatori: il 1° gennaio è una di queste feste. Pochi giorni festivi del calendario cristiano hanno in realtà subìto il tipo di metamorfosi che ha avuto questo giorno: Maria Madre di Dio, festa della Circoncisione, festa del Santo Nome di Gesù, ottava di Natale. E, naturalmente, l’inizio del nuovo anno civile. L’evoluzione storica del modo di festeggiare l’inizio del nuovo anno da 184
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parte della Chiesa è interessante. Come tentativo di contrastare la prassi pagana, la Chiesa primitiva sostenne una celebrazione più penitenziale di digiuno e astinenza per dare il benvenuto al nuovo anno, sviluppando uno speciale formulario per la Messa «in protezione contro l’idolatria». Nei secoli VI e VII, la Chiesa in Francia e in Spagna testimoniò vari tentativi in questa direzione, come antidoto all’eccesso di feste che si tenevano abitualmente nella società secolare per il nuovo anno. L’osservanza del nuovo anno da parte della Chiesa romana registrò un approccio differente rispetto a quello che si era sviluppato in Francia e in Spagna. Invece di scegliere temi liturgici penitenziali, Roma scelse di celebrare l’anniversario della Madre di Dio. Così, dalla seconda metà del VI secolo, la Roma cristiana cominciò a celebrare il 1° gennaio la festa del Natale sanctae Mariae, per chiudere l’ottava di Natale ed entrare in modo appropriato nel nuovo anno. La prassi romana rappresenta la più antica festa mariana in Occidente e fu forse influenzata dalla liturgia di Costantinopoli, dove le feste dedicate alla Vergine Madre esistevano già da qualche tempo. Con il VII secolo, arrivò a Roma una nuova ondata di immigrati cristiano-orientali, che portarono con sé le feste bizantine dell’Annunciazione e dell’Assunzione (o Dormizione) di Maria. Queste nuove feste gradualmente
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soppiantarono il Natale sanctae Mariae e il 1° gennaio rimase solo una celebrazione dell’ottava di Natale. A questo punto, si fece strada nella liturgia romana la festa della circoncisione del Signore. Già nel VI secolo, in Spagna e in Francia, vi fu un’osservanza crescente di questa festa, insieme alla menzionata natura penitenziale della liturgia del nuovo anno. Con l’arrivo a Roma di pellegrini francoispanici nel VII secolo, la festa gallicana della Circoncisione del Signore cominciò a essere osservata a Roma, benché alcuni studiosi suggeriscano che vi abbia effettivamente preso piede soltanto nei secoli XIII e XIV. A complicare ulteriormente la situazione, cominciò a essere festeggiata in quel giorno anche la festa del Santo Nome di Gesù, dapprima celebrata localmente verso la fine del Medioevo, soprattutto in Inghilterra, ma anche altrove in Europa. La festa crebbe di popolarità, grazie all’impegno dei monaci cisterciensi nel XII secolo, di Francescani e Domenicani nel XV secolo e dei Gesuiti nel XVI. La festa del Santo Nome venne soppressa con la riforma conciliare del calendario nel 1969. Con la revisione del Messale romano del 2002, venne restaurata come memoria facoltativa il 3 gennaio. Se guardiamo alla storia liturgica del Capodanno, possiamo vedere una significativa sovrapposizione di temi relativi all’incarnazione e mariani.
Nel dicembre 1967, papa Paolo VI introdusse la Giornata Mondiale della Pace, da osservarsi per la prima volta il 1° gennaio 1968 e ripetuta ogni anno come segno di speranza e come promessa di un mondo guarito dalle divisioni e rinnovato dall’amore. Due millenni dopo le celebrazioni pagane del Capodanno e vari tentativi cristiani di rispondere liturgicamente a tale rivalità, fatichiamo ancora a trovare il giusto equilibrio per una celebrazione appropriata di questo giorno e le tensioni fra le tradizioni culturali e religiose permangono. Lo stridente contrasto fra i calendari civile e liturgico è in verità forse più evidente in questo che in ogni altro giorno dell’anno liturgico. Sotto il profilo secolare, il 1° gennaio è giorno usato da molte culture per inaugurazioni politiche e celebrazioni civili. Per molti è un giorno di lavoro casalingo dopo le vacanze natalizie o i festeggiamenti dell’ultimo dell’anno, o semplicemente per riposare dopo una notte di baldoria con la famiglia o gli amici. In questo sfondo mondano, nel calendario della Chiesa si celebra in esso la solennità di Maria Madre di Dio e la Giornata Mondiale della Pace. Benché l’anno liturgico sia stato talvolta visto come nulla più che una successione di commemorazioni storiche che fornisce un utile strumento per insegnare la fede cristiana, in realtà esso è molto di più. Invita infatti i credenti a un pellegrinaggio in cui viene celebrato il mistero pasquale di Cristo vissuto sacramentalmente meditando sulle varie dimensioni della vita di Gesù, della Beata Vergine Maria e dei santi.
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1. Giovanni Paolo II durante la cerimonia in San Pietro in occasione del Sinodo straordinario dei vescovi del 1985 (foto Giancarlo Giuliani).
2. Il gruppo dei padri sinodali al Sinodo straordinario dei vescovi del 1985 (foto Giancarlo Giuliani). 3. Danza eseguita nel monastero di Mututum, Mindanao, Filippine.
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La Costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II fa una significativa affermazione a proposito del ruolo rivestito dalla cultura nella vita e nella missione della Chiesa. Al n. 58, essa dichiara: «Parimenti la Chiesa, che ha conosciuto nel corso dei secoli condizioni d’esistenza diverse, si è servita delle differenti culture per diffondere e spiegare nella sua predicazione il messaggio di Cristo a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli». Su un arco di duemila anni, la Chiesa ha integrato le risorse culturali delle regioni e dei popoli man mano che li evangelizzava, per insegnare e celebrare il mistero pasquale di Cristo nella liturgia. 186
Senza dubbio, una delle realizzazioni più significative delle riforme liturgiche del Concilio Vaticano II è stata una nuova consapevolezza dell’importante relazione fra liturgia e cultura, quel che sarebbe stato chiamato «inculturazione liturgica». Ciò fu dovuto in gran parte all’importante opera convergente svolta da antropologi culturali, sociologi e teologi prima del Concilio Vaticano II e, soprattutto, dopo. Prima del XX secolo, quando si faceva riferimento alla cultura, si pensava di norma a grandi maestri come Caravaggio, El Greco, Rubens, Michelangelo, Bernini, o alla musica composta da Bach, Beethoven, Mozart, oppure agli scritti di Shakespeare. Così, si poteva parlare di quanti erano «acculturati», termine usato spesso come sinonimo di
«istruiti», in opposizione ai «non acculturati», incapaci di apprezzare la bellezza dell’arte, dell’architettura, della filosofia classica, della letteratura e della musica. Questo paradigma incoraggiava la convinzione che ci fosse una sola cultura a cui gli uomini erano iniziati: la cultura delle arti e delle lettere, o della musica classica e della poesia. Con l’avvento delle scienze sociali nel XX secolo, e specialmente grazie all’antropologia culturale, abbiamo cominciato a capire che la realtà culturale è molto più complessa di quanto si credesse. Anziché un modello monoculturale, oggi riconosciamo la molteplicità delle culture, ognuna con le sue caratteristiche uniche e i suoi riti di iniziazione. In realtà, il modello monoculturale ci può aiutare a capire l’occa-
sionale incapacità della Chiesa a incarnare o inculturare il Vangelo in particolari culture lungo i secoli, precisamente perché l’unico valido modello culturale presentato era di fatto quello dell’Occidente europeo. Un buon esempio di questa incapacità si può trovare nella controversia sui riti cinesi, che si protrasse per circa 150 anni dall’inizio del XVII secolo al 1742. Matteo Ricci e i suoi compagni si dedicarono a incoraggiare e sostenere gli elementi positivi della cultura cinese, come importante strategia nel processo di evangelizzazione, al fine di rendere il Vangelo cristiano più credibile e accessibile ai Cinesi. L’approccio dei missionari non gesuiti, sostenuto dalle autorità civili ed ecclesiastiche, insisteva a impiegare il modello classico, ampiamente «bianco», dell’Europa occidentale come l’unico valido: l’esito fu il fallimento della missione della Chiesa in Cina. Anche in tempi più recenti, il rito preconciliare o tridentino della Chiesa cattolica romana rifletteva in ampia misura il modello classico citato sopra. Essere cattolici significava celebrare la Messa in latino. Grazie agli scritti preconciliari di studiosi di liturgia come Edmund Bishop, Anton Baumstark, Gregory Dix e Joseph Jungmann, per citarne solo alcuni, l’attenzione fu spostata sui diversi contesti culturali in cui il culto cristiano cresceva. Grazie al loro insegnamento, veniva abbondantemente chiarito che la liturgia cristiana non può essere studiata (e ancor meno celebrata), se non nel suo contesto culturale. Questa coscienza nel campo dello studio della liturgia contribuì significativamente al risveglio culturale del Concilio Vaticano II in relazione al culto e alla conseguente necessità di adattare la liturgia ai vari contesti particolari. Contra187
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riamente al termine «cultura», il termine «inculturazione» è relativamente nuovo nei documenti della Chiesa cattolica e non appare neppure una volta nei documenti del Concilio Vaticano II. Il Concilio parla dell’importanza della cultura e, anche, della necessità di adattare il Vangelo e il culto della Chiesa alle singole tradizioni (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 37-40), ma il termine scelto è «adattamento», e non «inculturazione». Quest’ultimo fu introdotto nel 1962, in un articolo pubblicato sulla «Nouvelle Revue Théologique» dal gesuita Joseph Masson, della Pontificia Università Gregoriana, intitolato L’Église ouverte sur le monde. Il termine venne ripreso nel 1973 da un missionario protestante di New York, George Barney, che suggeriva prudenza nella prassi dell’inculturazione per paura che l’essenziale del messaggio evangelico andasse perduto. Due anni dopo, nel 1975, i Gesuiti lo usarono durante la loro XXXII Congregazione Generale tenutasi a Roma, con una lettera sul tema scritta tre anni dopo dal loro padre generale, Pedro Arrupe. L’anno ancora seguente, nel 1979, Giovanni Paolo II usò il termine nella sua allocuzione alla Pontificia Commissione Biblica; fu la prima volta in cui la parola «inculturazione» apparve in un documento pontificio. Il papa sviluppò ulteriormente il concetto al n. 53 dell’esortazione apostolica Catechesi tradendae, sulla relazione fra catechesi e cultura, promulgata lo stesso anno. Ancora nel 1979, Crispino Valenziano, del Pontificio Istituto Liturgico, parlò della relazione fra devozioni popolari e liturgia e suggerì che l’inculturazione fosse il modo migliore per incoraggiare la reciprocità fra le due realtà. Il Sinodo straordinario dei vescovi tenuto nel 1985 offrì il proprio utile contributo, suggerendo che l’inculturazione è differente da un mero adattamento esteriore, e significa invece una trasformazione interiore di valori culturali autentici, tramite la loro integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo in differenti culture. Nel 1994, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti pubblicò un documento, La liturgia romana e l’inculturazione, sottolineando la propria preferenza per il termine «inculturazione» rispetto ad «adattamento». Il testo descriveva l’inculturazione come uno sviluppo più organico, nel quale la Chiesa cerca di incarnare il Vangelo nelle culture particolari, ma venendo al contempo arricchita dai contributi culturali di popoli differenti. Questo duplice movimento è significativo, in quanto suggerisce che ogni entità ha qualcosa da imparare dall’altra; esso implica una certa reciprocità. Detto ciò, però, è essenziale il discernimento per un giudizio equilibrato su quali elementi culturali debbano o non debbano essere accolti nei riti liturgici o nella disciplina del discorso teologico. Benché il Concilio Vaticano II non abbia usato il termine «inculturazione», esso permise (e, anzi, incoraggiò) un adattamento del rito romano ai contesti culturali particolari in cui veniva celebrato, affermando con vigore che la pluralità culturale è intrinsecamente cattolica. Molti definirono a ragione i nn. 37-40 della Sacrosanctum Concilium come la magna charta dell’inculturazione liturgica. Al n. 37 si afferma che la Chiesa non vuole imporre una «rigida uni188
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formità» in materia liturgica, ma invece rispetta e incoraggia «le qualità e le doti di animo delle varie etnie e dei vari popoli», posto che queste componenti culturali non siano collegate con superstizioni o errori, e posto che possano «armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico». Il documento, poi, prevede che «si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi, regioni, popoli», salvo la «sostanziale unità del rito romano» (n. 38). La prospettiva più avanzata è espressa al n. 40, dove si afferma che «in alcuni luoghi e particolari circostanze si rende urgente un più profondo adattamento della liturgia». Un buon esempio di questo adattamento radicale può rinvenirsi nell’approvazione data nel 1988 ai vescovi dello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo) da parte della Santa Sede alla pubblicazione della Messa romana per le loro diocesi, popolarmente chiamata «rito zairese», che contiene caratteristici elementi africani e in specifico congolesi. Tutto ciò, naturalmente, era uno stacco radicale dal precedente periodo tridentino, caratterizzato dalla ricerca del mantenimento a tutti i costi di una rigida uniformità liturgica. Oggi, ormai giunti al cinquantesimo anniversario del Concilio, la nostra comprensione dell’inculturazione liturgica e di come essa funzioni continua a svilupparsi. La situazione è ulteriormente complicata dalla già menzionata crescente realtà multiculturale nelle parrocchie urbane e nelle diocesi del mondo. In verità, proprio la nostra dedizione all’approfondimento del rapporto fra liturgia e cultura renderà i cristiani capaci di diventare interlocutori più competenti nel dialogo della Chiesa nel mondo.
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4. Un momento della cerimonia d’apertura del Sinodo per l’Africa, svoltasi in San Pietro domenica 10 aprile 1994 (foto Giancarlo Giuliani).
6-7. Riti pasquali in una missione di Comboniani in Africa (Archivio Nigrizia).
5. I vescovi all’apertura del Sinodo africano nella basilica di San Pietro in Vaticano (foto Giancarlo Giuliani). 189
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La Costituzione Dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II Lumen gentium descrive la comunità dei discepoli di Gesù come «un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (n. 4). La nostra vita di credenti è fondata sulla vita che la Trinità condivide con noi e che dà energia e scopo alla nostra vita di fede. La Chiesa è il sacramento visibile della nostra comunione con Dio e dell’unità gli uni con gli altri. È anche un segno e uno strumento di comunicazione che opera in verticale fra Dio e gli esseri umani, e in orizzontale fra gli uomini. Il recupero da parte del Concilio Vaticano II della centralità del mistero pasquale di Cristo nella liturgia e della partecipazione dell’assemblea liturgica al sacerdozio comune dei fedeli, esercitato nella sua pubblica professione di fede tramite la liturgia, aveva bisogno di trovare espressioni appropriate e corrispondenti nell’ambito dell’arte, dell’architettura e della musica. Diversamente dall’attitudine monoculturale della Chiesa preconciliare, le riforme liturgiche del Concilio Vaticano II incoraggiarono forme di arte e realizzazioni architettoniche inculturate, con una musica ora cantata in lingua corrente e spesso manifestazione di forme culturali distinte. L’architettura liturgica ha un ruolo fondamentale nel promuovere la partecipazione piena, consapevole e attiva al culto della Chiesa. Il documento dei vescovi degli Stati Uniti su arte, architettura e culto, Built of Living Stones, lo esprime benissimo: «Poiché per loro natura le azioni liturgiche sono celebrazioni comunitarie, sono celebrate con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli cristiani ogni volta che ciò sia possibile. Tale partecipazione, interiore ed esterna, è ‘dovere e diritto’ del fedele ‘in ragione del suo Battesimo’. L’edificio stesso può promuovere o ostacolare la ‘piena, consapevole e attiva partecipazione’ dei fedeli. Le parrocchie che sono chiamate a decidere riguardo al progetto di una chiesa debbono considerare che i vari aspetti e le varie scelte fatte influenzeranno la capacità di tutti i membri di partecipare pienamente alle celebrazioni liturgiche» (n. 31). Negli anni immediatamente successivi al Concilio, vennero presto introdotte proposte di recupero di un ideale più domestico per le comunità parrocchiali cattoliche contemporanee. Il concetto portò a disposizioni meno formali, con l’accento sulla funzionalità. L’Eucaristia da sacrificio divenne banchetto; l’altare del sacrificio diventò la mensa. Nel ridisegnare le chiese con l’assemblea come soggetto primario della liturgia, banchi e panche vennero sostituiti da sedie (non sempre con inginocchiatoio), spesso disposte attorno ai simboli liturgici principali dell’altare, dell’ambone, della sede del presidente e del fonte battesimale, per permettere un migliore accesso al centro liturgico. Si deve ammettere che gli anni immediatamente successivi al Con190
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LITURGICHE 1. Pier Luigi Nervi (con Pietro Belluschi), cattedrale di Saint Mary, San Francisco, 1976-1971.
2-3. Veduta dell’aula e del presbiterio della chiesa della Madonna della Vena, Cesenatico.
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cilio Vaticano II non conseguirono un buon risultato in termini di gusto artistico e di buon senso. Fu un tempo di grande sperimentazione: le chiese neogotiche, per esempio, vennero rinnovate per corrispondere alla visione liturgica conciliare. In alcuni casi le innovazioni furono minori: ad esempio si spostò l’altare dalla parete orientale rendendolo autonomo, così che il celebrante potesse rivolgersi frontalmente all’assemblea, oltre che camminarvi liberamente attorno. Questo richiese spesso la costruzione di una base per collocarvi il nuovo altare. Le balaustre furono rimosse per sottolineare ulteriormente la dimensione comunitaria e domestica della liturgia postconciliare. In altri casi, però, i rinnovamenti furono di più ampia portata: l’accesso alla chiesa neogotica venne cambiato e l’altare fu posto al centro della chiesa (lungo la parete laterale), con sedie che lo circondavano sui tre lati. Le chiese di nuova costruzione avevano una maggiore flessibilità nel mostrare forme minimalistiche moderne o postmoderne, talvolta quasi puritane nel loro progetto. L’assemblea liturgica, ora soggetto dell’azione rituale, avrebbe portato il colore e l’orditura necessari al luogo di culto, così che le pareti erano spesso tinteggiate di bianco, con pochi oggetti di devozione in evidenza. I membri dell’assemblea dovevano abbandonare le devozioni personali, a favore di una ricca partecipazione liturgica desiderata dalla Chiesa. Il problema, però, era che molta gente, soprattutto i parrocchiani anziani, non erano abituati ai cambiamenti.
Essi perdettero le proprie devozioni, gli inginocchiatoi, e furono assai poco convinti che lo spazio liturgico non avesse più bisogno del calore e delle strutture a cui erano stati abituati. Ci volle un certo numero di anni per riscoprire un equilibrio fra liturgia e pratiche devozionali, a maggior ragione in quanto tale equilibrio riposa nella relazione fra la liturgia e le arti. L’enfasi sulla dimensione domestica dello spazio liturgico si rifletté anche sul piano dell’arte e della musica liturgica, con risultati vari. Negli Stati Uniti, la musica folk e pop di compositori come Bob Dylan cominciò a essere usata nella liturgia, pur con un testo più appropriato. Apparvero sulla scena nuovi autori che sperimentarono proprie composizioni di musica liturgica folk. Ma spesso capitava che tale musica impallidisse a confronto con la precedente, se si considera la lunga tradizione del canto gregoriano o, per esempio, dell’innodia riccamente teologica di Charles e John Wesley. Quasi cinquant’anni dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa continua a cercare la sua strada nell’aspirazione alla bellezza nella liturgia. In anni recenti, sono apparsi sulla scena mondiale compositori di musica liturgica e alcuni di loro stanno producendo musica in lingue differenti, di qualità superiore a quella emersa immediatamente dopo il Concilio. Molto, nondimeno, rimane ancora da fare. In questi anni postconciliari, la Chiesa arriva a riconoscere che, come le altre arti, la musica è condizionata dalla cul191
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4-6. Interni con organo ed esterno della cattedrale di Our Lady of Angels (Nostra Signora degli Angeli) a Los Angeles. 7-8. Vedute esterne della chiesa del Giubileo di Tor Tre Teste, disegnata dall’architetto ebreo Richard Meier alla periferia di Roma.
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anglicano hanno continuato entrambi a essere cantati dall’assemblea liturgica per anni. Chiaramente, vi sono situazioni in cui il latino costituisce un ostacolo per molte persone e il canto gregoriano stesso richiede un certo livello di preparazione per essere ben eseguito. Ma l’abbandono completo del canto gregoriano a causa della sua difficoltà sarebbe un grave errore, poiché esso rimane la forma musicale della Chiesa per eccellenza. Artisti, architetti e musicisti liturgici sono stati grandemente aiutati in questi anni postconciliari da corsi, istituti e programmi di formazione che li hanno posti in grado di comprendere il modo in cui le arti debbono essere intese per servire utilmente la liturgia nella sua ricerca del bello. Questo ha condotto a un aumento significativo della qualità e del gusto. Tale progresso è particolarmente evidente nell’ambito dell’architettura liturgica. Vengono in mente due recenti progetti di chiese. Entrambi riflettono la ricerca dei migliori architetti, designer e artisti al mondo per coniugare architettura e arte moderne in un luogo di grande potenza spirituale. Una è la chiesa del Giubileo, nella periferia di Roma, disegnata dall’architetto ebreo americano Richard Meier e commissionata per celebrare il venticinquesimo anniversario dell’elezione al soglio pontificio di papa Giovanni Paolo II. La chiesa è definita da tre imponenti blocchi in cemento armato, sorta di vele che spingono in alto. Le coperture e le pareti tra le vele sono interamente in vetro, il che permette alla luce di riempire lo spazio interno. Per Meier, i raggi della luce del sole che penetra dai lucernari danzano nell’interno come una metafora della presenza di Dio e conducono l’assemblea al
numinoso e al santo. Il secondo edificio è la cattedrale di Our Lady of the Angels a Los Angeles, in California, iniziata nel 1999 e dedicata nel 2002. Disegnata dall’architetto spagnolo Rafael Moneo, nella tradizione delle grandi cattedrali medievali presenta possenti porte in bronzo, dell’artista di origini messicane Robert Graham, che accolgono all’interno dell’edificio. L’interno è illuminato dalla luce delicata di finestre in alabastro. Il luogo di culto è ulteriormente riscaldato e colorato da ventisette grandi arazzi allineati sulle pareti dell’aula, opera di John Nava, che rappresentano la comunione dei santi. Cinque arazzi raffigurano il Battesimo di Cristo presso il fonte battesimale e altri sette contornano l’altare. Questo gruppo rappresenta le strade di Los Angeles che convergono al centro per creare un’immagine della nuova Gerusalemme. Se ripercorriamo i vari esperimenti artistici, architettonici e musicali degli anni Sessanta e Settanta, ci accorgiamo dei limiti di tale approccio con una chiarezza che all’epoca non potevamo avere. Oggi capiamo che il clima della liturgia è pervaso di timore reverenziale, mistero, meraviglia, ringraziamento e lode. Così, non lo si può raggiungere se non con la bellezza creata dall’arte, dall’architettura e dalla musica. Il bello è infatti connesso con il senso del numinoso, del sacro e del santo. In un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnologia, la ricerca del bello da parte della liturgia è più urgente che mai. Le arti figurative integrate alla liturgia (per esempio pittura, scultura e arte tessile) sono strumenti potenti per accrescere nell’assemblea l’esperienza della bellezza nel culto e potenziali «porte del sacro» che conducono i fedeli al trascendente e al numinoso.
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tura e difficilmente può essere un «linguaggio universale» quale la si intendeva nel passato. Ogni cultura ha le proprie variazioni e il proprio stile, ritmi e forme piuttosto distinti. Così, la partecipazione musicale può essere una sfida, soprattutto nelle parrocchie multiculturali, dove i parrocchiani devono fare lo sforzo di imparare le tradizioni musicali gli uni degli altri. Questo è essenziale per incoraggiare il reciproco arricchimento, soprattutto da parte di persone di tradizioni culturali differenti che compongono il tessuto parrocchiale. Questa realtà multiculturale è particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove la conferenza episcopale cattolica ha espresso il proprio bisogno di una «interculturalità» musicale nel documento del 2007 Sing to the Lord. Music in Divine Worship, nel quale si legge (n. 59): «Se preparate a un atteggiamento di mutua reciprocità, le comunità locali potranno infine passare da celebrazioni che sottolineano semplicemente le loro differenze multiculturali a celebrazioni che riflettono meglio le relazioni interculturali dell’assemblea e l’unità condivisa in Cristo. In altri termini, i validi doni musicali delle diverse comunità culturali ed etniche debbono arricchire l’intera Chiesa [...] contribuendo al repertorio del canto liturgico e alla crescente ricchezza della fede cristiana». Le parrocchie hanno bisogno di trovare anche un equilibrio fra il canto della musica liturgica contemporanea e l’uso del ricco patrimonio musicale dell’antica tradizione della Chiesa, durata per secoli. Oggi riconosciamo che la partecipazione cantata dell’assemblea non è più un’opzione o un qualcosa di estrinseco alla liturgia, ma piuttosto 192
una parte intrinseca della celebrazione. Come il latino rimane la lingua ufficiale della Chiesa e della liturgia, il canto gregoriano ne rimane la forma musicale ufficiale. Oggi, in varie parti del mondo, emerge un rinnovato interesse per il canto gregoriano, non solo nei monasteri e in varie comunità religiose, ma anche in certe parrocchie e in altre chiese. Si noti che la tradizione non è mai andata perduta nelle Chiese anglo-cattoliche, dove il canto gregoriano e quello
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9. Josep Lluis Sert, cappella della Pace presso il convento delle Carmelitane a Mazille, Borgogna, costruito tra il 1977 e il 1981. 10-11. Chiostro e lucernaio della cappella della Pace presso il convento delle Carmelitane a Mazille, Borgogna. 12. Campana con riferimenti ecumenici disegnata da Paolo Soleri.
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13-14. La basilica di Saint-Julien a Brioude, sulla via del pellegrinaggio a Santiago de Compostela, tra Le Puy e ClermontFerrand, è stata costruita tra i secoli XI e XIV sul luogo di quella del V secolo, a memoria del martirio di san Giuliano di Briuode, cui è dedicata. In questo luogo ricco di storia e di stratificazioni è intervenuto il domenicano Kim En Joong, che vediamo al lavoro durante la realizzazione delle vetrate.
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15. Vetrata di san Giuliano: il rosso del martirio e il blu dell’acqua nella quale è stata lavata la testa mozzata del santo. 16. Funzione religiosa all’interno della basilica. 17. Vetrata di santo Stefano, esaltazione del primo martire. 196
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E OGGETTI LITURGICI
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1. Scene di vendemmia, mosaico del soffitto del deambulatorio del mausoleo di Santa Costanza, Roma. Gli operai indossano corte tuniche.
2. Corteo della famiglia imperiale, Ara Pacis, Roma.
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3. Mosaico absidale di Sant’Agnese: particolare con la santa e papa Gregorio Magno. 4. Messa di san Clemente, particolare dell’affresco, 10781084, San Clemente, Roma. Il santo ha in mano il corporale e sul camice indossa una casula nera e al collo il pallio. Sull’altare un calice, una patena e un messale aperto.
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Nei primi sei secoli del cristianesimo, molte vesti liturgiche delle Chiese orientali e occidentali hanno origine negli abiti cerimoniali secolari dell’Impero romano. Dopo la legalizzazione del culto cristiano all’inizio del IV secolo, i componenti del clero ebbero importanti ruoli nel governo come amministratori civili, e questo si rifletté anche nel loro abbigliamento. Nello stesso tempo, i membri più agiati della Chiesa offrivano in dono stoffe e abiti ornati per l’uso rituale in occasioni speciali, aggiungendo un certo grado di splendore alla celebrazione liturgica e, contemporaneamente, distinguendo l’unico che indossava l’ornamento (il presidente) dagli altri membri dell’assemblea. Per contro, nelle più antiche rappresentazioni artistiche dell’Eucaristia non si rinviene alcuna distinzione negli abiti indossati dal presidente e dagli altri presenti. Il più antico capo di abbigliamento a ricevere speciale significato nella Chiesa primitiva fu l’abito bianco battesimale o tunica, con cui i neobattezzati venivano rivestiti quando emergevano dalla vasca battesimale. In Occidente, le forme essenziali dell’abbigliamento liturgico storico furono tre: la tunica bianca (alba), l’abito esterno (casula o piviale) e la stola, che serviva a denotare l’ufficio o il rango. La tunica è la veste comune a tutti i ministri liturgici, il cui modello venne preso dal lungo abito con maniche indossato da Greci e Romani. Nel mondo mediterraneo antico era essenzialmente un abbigliamento secolare in forme lunghe e corte. La forma più corta, fino alle ginocchia (chiamata «chitone»), era indossata dai maschi, soprattutto soldati e lavoratori, ed era con o senza maniche. 198
La forma più lunga era chiamata «talare», perché arrivava ai piedi, o «tunica», per il colore bianco. Normalmente, aveva maniche di foggia stretta ed era indossata dalle donne, dagli anziani e dagli ufficiali, e stretta in vita con una cintura. I cittadini più facoltosi e quelli di maggiore importanza nella comunità indossavano una seconda tunica con maniche più ampie, spesso fatta con lana della Dalmazia, sopra la tunica dalle maniche strette. La «dalmatica», come si cominciò a chiamarla, era spesso decorata con strisce di stoffa purpurea, inizialmente ideate per coprire le cuciture di finitura, poi gradualmente più stilizzate. La tunica rimase la veste di base del clero fino all’XI secolo, quando un capo più ampio, la «cotta», venne introdotto a nord delle Alpi, indossato sopra gli abiti imbottiti di pelliccia portati dal clero in inverno durante il canto dell’ufficio, numerose volte al giorno, nelle chiese gelide. La cotta nacque come abito lungo e intero, che gradatamente si ridusse lungo i secoli. Grazie alla collaborazione ecumenica entro il movimento liturgico del XX secolo, la tunica è ora diventata la veste ecumenica usuale, indossata dal clero e dagli altri ministri liturgici delle varie denominazioni, a sostituire l’abito accademico portato dalle Chiese della Riforma del XVI secolo. Oggi la tunica tende a essere di materiale più pesante che in passato, con maniche ampie, e spesso portata senza cintura. L’amitto (dal latino amicio, «avvolgere»), le cui origini risalgono all’VIII secolo, è stato indossato tradizionalmente sotto la tunica come una specie di sciarpa, per proteggere le vesti più preziose dal sudore. Il suo uso non è comune come in passato, benché sia ancora portato da alcuni ministri liturgici.
La casula e il piviale sono vesti le cui origini risalgono all’abbigliamento esterno, o mantello, comunemente indossato alla fine dell’Impero romano, senza distinzione di livello sociale o di sesso. Esso era fatto da un pezzo di stoffa ampio e semicircolare, abitualmente di lana. Poteva essere cucito in un unico pezzo, che pendeva come una campana o una tenda, con un foro tagliato per la testa, oppure era lasciato aperto, come una cappa, e tenuto insieme da una fibbia. Per la sua forma conica venne chiamato casula, ossia «casetta»; la cappa è l’antenato di quello che verrà chiamato «piviale». La casula fu disegnata specialmente per i viaggiatori, poiché la sua forma di corto poncho, spesso con cappuccio, forniva anche calore e protezione a quanti avevano necessità di dormire all’esterno. La testimonianza più antica del suo uso nella liturgia cristiana si può trovare in una lettera di Germano di Parigi († 576) e poi nel ventottesimo Concilio di Toledo (633). Ben presto la sua ampiezza venne a simboleggiare l’abito della carità, giustamente indossato dal presidente dell’assemblea. Anche quando la casula si diffuse nell’uso liturgico, continuò a essere indossata come modello tipico di veste clericale, anche fuori della liturgia. Solo nell’XI secolo, quando il piviale venne fissato come veste liturgica, la casula cominciò a essere riservata alla celebrazione della Messa. Il XIII secolo segnò una svolta significativa nella forma e nel disegno della casula. In concomitanza con altri cambiamenti liturgici del periodo (per esempio la combinazione dei libri liturgici nel Missale plenum o il declino della processione offertoriale), la casula divenne una veste più ristretta per usare meno materiale e anche per essere di mi199
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5. Piviale di Pio II, particolare, manifattura inglese, 1300 ca. Museo della Cattedrale, Pienza.
nore ingombro per il celebrante. Lo stile e la misura della veste furono ulteriormente ridotti nel periodo post-tridentino, e in particolare nel XVIII secolo, tagliandone i lati e creando quella che sarebbe stata chiamata «pianeta». Così, gradatamente, la preferenza gotica per la casula di forma ovale cedette il passo alle più minimalistiche vesti barocche, senza maniche, che tendevano a usare broccati più pesanti e rigidi. Anche le vesti episcopali hanno la loro storia. Il pallio era inizialmente conferito agli arcivescovi senza un significato particolare di autorità papale o un legame con il seggio di Pietro. Solo nel IX secolo diventò ufficiale e obbligatorio per ogni arcivescovo metropolita. Oggi è simbolo della pienezza dell’ufficio pontificale e della partecipazione episcopale del metropolita a tale ufficio. La sua forma è deliberatamente a croce. Nel primo millennio, in Oriente e in Occidente, la sua foggia era allungata e veniva indossato sopra la casula. Oggi continua a presentarsi lungo in Oriente, mentre in Occidente la lunghezza è stata drasticamente ridotta. Subito dopo la sua elezione papale, Benedetto XVI ha ripreso la forma più antica del pallio, ma poi è ritornato alla meno ingombrante forma ridotta. 200
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10. Pianeta, stoffa rossa con grappoli d’uva e spighe di broccato d’oro. Tesoro dell’abbazia di San Pietro, Salisburgo.
6. Miniatura della Scuola degli Angeli che illustra la lettera capitale T di un graduale del 1370. Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze. 7. Cappuccio o capino di piviale (particolare), manifattura fiorentina su disegno di Botticelli, ultimo quarto del XV secolo. Museo Poldi Pezzoli, Milano.
8. Guido Reni, Visione di san Filippo Neri, Chiesa Nuova, Roma. 9. Capino di piviale, manifattura milanese, 1610. Tesoro del Duomo, Milano.
Il cappello vescovile, o camelaucum, cominciò a essere usato nelle processioni dai vescovi più anziani come modo per tenere la testa al caldo, a partire dall’VIII secolo in una forma semplificata. Ma questo stile venne ulteriormente formalizzato nel IX secolo, con l’introduzione della tiara. Con il secolo successivo venne stabilita la mitra per tutti i vescovi dell’Occidente. Uno sviluppo storico similare si può notare in Oriente. L’anello d’oro era originariamente indossato da tutti i cristiani, come mezzo per segnare o sigillare un documento con il nome o con un simbolo del possessore. Con il VII secolo, divenne tradizione consegnare ai vescovi un anello durante la loro consacrazione episcopale, come simbolo della loro unione sponsale con la Chiesa locale, per la quale il vescovo veniva ordinato. La croce vescovile fu dapprima un ornamento privato portato sotto i vestiti. Nel IV secolo, la tradizione di portare una croce venne estesa anche ai laici, dapprima in Oriente e poi in Occidente. Solo nel XIV secolo la Chiesa cominciò a parlare della croce vescovile come di un ornamento ufficiale per i vescovi. La storia di altri oggetti liturgici è parimenti interessante, con l’evoluzione del calice e della patena lungo i secoli in 201
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13. Reliquiario del Preziosissimo Sangue, XII secolo, forse proveniente dall’Italia meridionale. Tesoro di San Marco, Venezia. 11. Calice di Tassilo, rame cesellato e dorato, VIII secolo, chiesa abbaziale di Kremsmünster. 12. Patena con incisioni e pietre preziose, XI secolo, abbazia di Santo Domingo, Silos.
anche il desiderio di visitare il Sacramento e la riserva eucaristica venne perciò spostata in prossimità dell’altare maggiore. Nel 1577, l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo decretò che nella sua arcidiocesi il tabernacolo fosse posto direttamente sull’altare, ora addossato alla parete orientale. Alla fine del XIV secolo si sviluppò l’ostensorio, ricco e adorno contenitore che poteva ospitare l’ostia consacrata perché fosse adorata dai fedeli. Esso si sviluppò in risposta a un complesso di tendenze liturgiche e devozionali che compresero il declino della recezione della comunione da parte dei fedeli laici e la crescita della pietà eucaristica. La teca, piccolo vaso per il trasporto dell’Eucaristia ai malati e ai moribondi, è l’antecedente del ciborio o pisside, in cui erano contenute le ostie per la consacrazione, poste poi sull’altare durante la Messa. Esso si sviluppò per una necessità pastorale, a causa della dimensione ridotta della patena, che poteva accogliere solo l’ostia del celebrante.
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corrispondenza dei differenti modi di celebrare l’Eucaristia. Nella Chiesa primitiva, fino al periodo medievale, si può notare un calice più grande e ampio e un piatto largo, poiché il fedele laico riceveva la comunione sotto le due specie, bevendo dal calice e ricevendo l’ostia consacrata. Quando, alla fine del Medioevo e fino al periodo tridentino e post-tridentino, la recezione della comunione da parte dei fedeli laici fu abbandonata, il calice e la patena si ridussero a forme molto più piccole, poiché normalmente solo il celebrante riceveva il Sacramento durante la Messa, che spesso era celebrata in privato alla sola presenza di un ministrante. L’idea di conservare l’Eucaristia consacrata per la comunione degli ammalati o dei moribondi risale al II o al III secolo. In quel primo periodo, il posto per la conservazione (che verrà più tardi chiamato «tabernacolo») doveva essere 202
nelle case private, come testimoniato nel III secolo dal nordafricano Tertulliano. Quando, dopo la pace di Costantino nel 313, si cominciò a erigere basiliche pubbliche per il culto cristiano, fu predisposta una stanza speciale («sacrestia») per riporre il vasellame e le vesti sacre, consentendo così di avere un luogo per conservare il Santissimo in una specie di edicola o armadietto fissato nel muro della sacrestia. Nel periodo medievale, il Sacramento venne poi spostato nel muro del presbiterio o santuario, e talvolta sospeso a un gancio sopra l’altare in una custodia a forma di colomba che rappresentava lo Spirito Santo. In altri casi, l’Eucaristia era conservata in una teca autonoma, chiamata «dimora del Sacramento». Era anche comune in quel periodo che l’Eucaristia e il sacro crisma usato per l’unzione in vari sacramenti e riti fossero conservati vicini. Nel XIII secolo, con la crescita della devozione eucaristica, crebbe
14. Reliquiario del Sacro Sangue, inizio del XIV secolo. Tesoro della Cattedrale, Boulogne-sur-Mer. 15. Cofanetto eucaristico, metà del XIV secolo. Morgan Library & Museum, New York. 203
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16-17. Casule disegnate da Henri Matisse. Cappella del Rosario, convento delle Domenicane di Vence, Provenza.
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18. Henri Matisse, altare della cappella del Rosario, Vence. 19. Henri Matisse, particolare degli arredi, crocefisso, tabernacolo e candelabri posti sull’altare della cappella del Rosario, Vence.
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La pietà popolare e le devozioni religiose hanno una tradizione antica nella Chiesa e si possono rintracciare già nel II secolo. In quel periodo, per esempio, era già un’abitudine che i cristiani a Roma facessero una «passeggiata» la domenica pomeriggio lungo la via Appia Antica per visitare le tombe dei martiri. Dopo la pace di Costantino e in accordo con la tradizione che sua madre, Elena, avesse scoperto la vera croce a Gerusalemme, i pellegrinaggi in Terra Santa diventarono sempre più frequenti fra i cristiani più agiati. Una dei più famosi tra loro fu la pellegrina ispanica galiziana Egeria, che fece il suo pellegrinaggio a Gerusalemme verso la fine del IV secolo e vi rimase per tre anni. Come si è visto in precedenza (cap. 9), il suo diario, pubblicato, contiene preziose informazioni sulla vita liturgica e devozionale della Chiesa di Gerusalemme in quel periodo. La pietà popolare crebbe in epoca medievale, con pellegri206
naggi e altre devozioni che spesso servivano come sostituto spirituale della partecipazione liturgica, allorché il fedele laico non fu più in grado di prendere pienamente parte alla celebrazione della Messa. I Francescani diedero un importante contributo alla crescita della pietà popolare nel XIII secolo, promuovendo la devozione all’umanità di Gesù oltre che alla sua divinità. Le origini del presepio introdotto dai Francescani si possono collocare in questo contesto. Similmente, l’introduzione della preghiera dell’Angelus a mezzogiorno offrì ai laici un mezzo per unirsi alle comunità monastiche dei dintorni. Sentendo la campana suonare a mezzodì, per richiamare monaci e monache in coro per l’ufficio di mezzogiorno, essi si fermavano nei loro luoghi di lavoro per unirsi spiritualmente alla preghiera liturgica che si svolgeva oltre i campi, nei cori monastici. Il contributo domenicano con la preghiera del rosario, il cui nume-
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1. Architrave del portale centrale della facciata della cattedrale di Autun con scene di pellegrinaggio.
2. La tavoletta di Taddeo Gaddi (1327-1366) riproduce fedelmente la Messa di Greccio seguendo i testi francescani: a sinistra, Francesco, indossando la dalmatica diaconale, spiega il prologo del Vangelo di Giovanni; al centro e a sinistra, in veste sacerdotale, consacra il calice e abbraccia il Bambino. Galleria dell’Accademia, Firenze. 207
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ro di grani (150) corrisponde volutamente al numero dei 150 salmi cantati da monaci e monache e dagli altri ordini religiosi, offre un esempio ulteriore di queste devozioni. Le varie forme della religiosità popolare, comprese le novene, esercitarono un particolare richiamo perché venivano pregate in lingua corrente, mentre la Messa era in latino, sicché la gente semplice e non istruita aveva qualche difficoltà nel prendervi parte. La Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Sacra Liturgia disse assai poco a proposito della pietà popolare, dedicandole un solo articolo. Il n. 13 della Sacrosanctum Concilium afferma: «I ‘pii esercizi’ del popolo cristiano, purché siano conformi alle leggi e alle norme della Chiesa, sono vivamente raccomandati, soprattutto quando si compiono per mandato della Sede apostolica. [...] Bisogna però che tali esercizi siano regolati tenendo conto dei tempi liturgici e in modo da armonizzarsi con la liturgia; derivino in qualche modo da essa e ad essa introducano il popolo, dal momento che la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi». Nella sua enciclica del 1975 Evangelii nuntiandi, papa Paolo VI notava che questa forma di religiosità è chiamata «popolare» perché è del popolo, e «pietà» perché è differente dai mezzi e dalle strutture più formalizzate dell’espressione religiosa. Il papa continuava dicendo che la pietà popolare «manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere», e così soddisfa una necessità che la religiosità formale non può incontrare. Questa fede semplice offre la possibilità di apprezzare la compassione e la bontà di Dio. La pietà popolare viene chiaramente vista qui in una luce positiva e presentata come strumento di evangelizzazione. I vescovi dell’America Latina diedero un importante contributo all’argomento, dapprima nella loro Conferenza di Medellín, in Colombia, nel 1968, e poi nuovamente undici anni dopo, nel 1979, a Puebla, in Messico. A Medellín venne raccomandato uno studio serio e sistematico della pietà popolare, insieme alla realizzazione di un corrispondente programma liturgico-catechetico; a una reintepretazione della devozione ai santi, non solo come intercessori, ma anche come modelli da imitare; alla formazione di comunità ecclesiali di base nelle parrocchie, costituite intorno alle famiglie e con forti legami con la Bibbia, i sacramenti e l’autorità dei vescovi. Il documento pubblicato dalla Conferenza di Puebla fornì un’ulteriore riflessione sul tema, affermando che la pietà popolare offre la forma culturale e contestualizzata al cattolicesimo di un determinato popolo. Venne anche suggerito che essa contiene pure una dimensione sociale, offrendo ai poveri i mezzi per comprendere la propria oppressione e le proprie sofferenze. Nessun altro documento della Chiesa ha offerto una simile precisa analisi della pietà popolare come il testo di Puebla. Benché esso critichi alcune forme della religiosità popolare, ne so208
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stiene la pratica con vigore, pur senza darne una chiara definizione. In generale, quando si parla di pietà popolare, possiamo notare alcune caratteristiche generali. Essa è collegata con alcuni dei più profondi problemi della persona umana ed esprime alcuni dei sentimenti umani di base; ha anche una dimensione spontanea e creativa. A volte ha la tendenza a distanziarsi dall’insegnamento ufficiale della Chiesa e segue un percorso separato, con o senza l’approvazione della Chiesa stessa. Un esempio di ciò possono essere i siti di supposte apparizioni mariane (si pensi alla Madonna piangente di Civitavecchia di alcuni anni fa); anche il popolare sito devozionale mariano di Meùugorije non è mai stato riconosciuto ufficialmente dalla Santa Sede, eppure il suo richiamo non si può negare. La pietà popolare tende anche a essere tradizionalistica nel suo stile, spesso attaccata a particolari luoghi e culture, valga per tutti Nostra Signora di Guadalupe, in Messico. I suoi praticanti tendono a essere umili e semplici.
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3. Ubaldo Gandolfi, San Domenico di Guzmán e san Vincenzo Ferrer ai piedi della Vergine col Bambino, 1773. La Vergine consegna il rosario a san Domenico. Museo della Basilica di San Domenico, Bologna. 4. Arrivo sul piazzale del santuario della Vergine di Guadalupe di un gruppo di fedeli appartenenti a un’associazione sportiva. 5. In primo piano le forme barocche del vecchio santuario e, dietro, il nuovo santuario della Vergine di Guadalupe in Messico. 6. Torri della chiesa di Meùugorije, consacrata nel 1969. 7. Pellegrino sulla collina delle Croci a Meùugorije: l’usanza di porre croci su alture con nastri e ornamenti è tipica dei Paesi slavi. 209
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Grazie all’iniziativa dei vescovi dell’America Latina e ai significativi studi fatti negli anni Settanta e Ottanta soprattutto dai teologi dell’America centro-meridionale, la pietà popolare è di nuovo tornata nel vocabolario della Chiesa e viene ora riconosciuta come un importante fattore nella vita dei fedeli. Come abbiamo detto, in quanto preghiera ufficiale della Chiesa nella sua struttura formalizzata e ieratica, la liturgia non sempre intercetta e soddisfa tutte le necessità spirituali del fedele laico. Il calore trovato nelle devozioni popolari risponde più efficacemente alle necessità sentimentali ed emozionali del popolo, che possono mancare in una liturgia appropriatamente celebrata. Vescovi e teologi latinoamericani hanno aiutato la Chiesa universale a comprendere più profondamente questa verità. La sfida fondamentale da affrontare, però, rimane nei nostri tentativi di comprendere come la liturgia e la pietà popolare interagiscano. Come notava la Sacrosanctum Concilium, le varie forme della devozione del popolo dovrebbero portare idealmente i loro praticanti a una partecipazione più ricca ai sacri misteri (all’azione liturgica stessa), ma questo spesso è più un ideale che la norma. In verità, a volte può sembrare che la liturgia e la pietà popolare siano in competizione l’una con l’altra. Vista l’assai poco chiara comprensione di come le due distinte realtà dovessero interagire, e a maggior ragione poiché espressioni varie della pietà popolare avevano continuato a crescere negli anni 210
Ottanta e Novanta, nel 2002 la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti pubblicò il Direttorio sulla pietà popolare e la liturgia. Pubblicato come mezzo per offrire chiarezza e linee guida sulla relazione fra liturgia e pietà popolare, il Direttorio stabiliva in primo luogo il contesto storico e teologico e presentava l’argomento alla luce della relazione tra pietà popolare e magistero della Chiesa. In particolare, il testo aveva tre obiettivi principali. Primo, la Congregazione intendeva affermare e rinforzare la preminenza della liturgia nelle sue relazioni con tutte le altre forme della pietà e della devozione ecclesiali. Secondo, si preoccupava di valorizzare e rinnovare la pietà popolare alla luce della ricerca e degli sviluppi biblici, liturgici, ecumenici e antropologici. Terzo, collocava la pietà popolare come forma distinta dalla liturgia e, allo stesso tempo, in adeguata armonia con essa. Il testo è diviso in due parti. La prima contiene tre capitoli incentrati sui fondamenti storico-teologici dell’argomento, mentre i cinque capitoli della seconda parte trattano principalmente vari aspetti della pietà popolare. Di questi, il capitolo 1 si intitola Liturgia e pietà popolare attraverso le lenti della storia; il capitolo 2 tratta l’argomento in relazione con il magistero della Chiesa; il capitolo 3 offre i princìpi teologici per la valutazione e il rinnovamento della pietà popolare; il capitolo 4 esamina la complessa relazione fa l’anno liturgico e la pietà popolare. Possono sorgere tensioni pastorali, per esempio, quando feste culturali popola-
8. Particolare dell’affresco di Andrea Bonaiuti, Trionfo della Chiesa militante, cappellone degli Spagnoli, Santa Maria Novella, Firenze. La conchiglia e l’immagine della Veronica sul cappello del pellegrino sono simboli del pellegrinaggio a Santiago de Compostela e a Roma. 9. Transetto sud della cattedrale di Chartres, particolare della lunetta del portale destro con scene della pietà di san Martino. Il pellegrinaggio a Tours, come gli altri delle illustrazioni che seguono, sono tra quelli nominati nel Direttorio sulla pietà popolare e la liturgia del 2002. 10. San Michele, lamina in rame dorato, VIII-IX secolo. Monte Sant’Angelo, Foggia. 11. Veduta dall’alto della Sacra di San Michele, in Piemonte. 12. Veduta complessiva del santuario di Mont Saint-Michel.
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ri come San Giuseppe (19 marzo) o San Patrizio (17 marzo) cadono di domenica, come già si è ricordato. Come risultato, le norme liturgiche in questi casi non sono sempre adeguatamente osservate come si dovrebbe, e questo capitolo tenta di chiarirne le motivazioni. Una sfida più recente in proposito è stata la titolazione aggiuntiva di domenica della Divina Misericordia alla seconda domenica di Pasqua (domenica in albis), che spesso è preceduta da una novena che inizia il Venerdì Santo. Con il Concilio Vaticano II, è stata recuperata l’integrità del triduo pasquale (Giovedì Santo, Venerdì Santo e Sabato Santo) e la Chiesa celebra i tre giorni come un evento unitario, un memoriale della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Iniziare una novena il Venerdì Santo mette in discussione l’unitaria celebrazione del mistero pasquale. Analogamente, il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano II cercarono di tenere i tempi più importanti (come la Quaresima e il tempo pasquale) liberi da troppi giorni di festa, per rispettare l’integrità del tempo santo. In realtà, le riforme 212
liturgiche del Concilio Vaticano II recuperarono i grandi cinquanta giorni di Pasqua come una ininterrotta festa pasquale estesa sino a Pentecoste. L’introduzione di una festa nell’ottava di Pasqua rappresenta una viva sfida per vescovi e pastori. Il capitolo 5 del Direttorio tratta della venerazione della santa Madre di Dio, mentre il capitolo 6 spiega la venerazione dei santi e dei beati nella Chiesa. Il capitolo 7 esamina la prassi delle preghiere per i defunti e il capitolo finale affronta il tema dei santuari e dei pellegrinaggi. Dieci anni dopo, la ricerca di un equilibrio adeguato fra pietà popolare e liturgia rimane una sfida pastorale aperta. In particolare, è il caso del crescente numero di parrocchie multiculturali nel mondo, in cui ogni gruppo culturale particolare ha la sua manifestazione specifica di pietà popolare. Queste varie espressioni rappresentano tradizioni ben distinte, che non sempre si integrano bene con quelle di altri gruppi culturali che condividono l’appartenenza alla medesima parrocchia.
13. Folla di fedeli davanti al santuario della Santa Casa, Loreto. 14. Processione notturna sul sagrato del santuario di Nostra Signora di Fatima. 15. Veduta del santuario della Madonna di Lourdes. 16. Processione eucaristica a Lourdes. 17. Caulonia, Reggio Calabria, processione del Venerdì Santo del 1970. 18. Celebrazione di nozze a Iruya, Argentina. 19. Processione del Corpus Domini a Cusco, Perù, 1984. 213
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20-21. Esterno e interno della grande basilica dedicata a Nostra Signora Aparecida a 160 km da San Paolo, Brasile, inaugurata nel 1980 da papa Giovanni Paolo II. 22. Veduta esterna del complesso del Saint Joseph’s Oratory a Montreal, Canada, visitato ogni anno da due milioni di pellegrini. 23-24. Veduta di Le Puy-en-Velay, Francia, e strada di accesso al santuario di Notre-Dame. 22
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25. Facciata barocca, illuminata da una fiaccolata notturna dei pellegrini, del santuario di Einsiedeln, Svizzera, dedicato alla Madonna degli Eremiti.
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27. Veduta dalla pianura del santuario di Pannonhalma, Ungheria, dedicato a San Martino di Tours, di origini ungheresi e simbolo dell’identità nazionale del popolo magiaro.
26. Teca in cristallo contenente l’arca con le reliquie dei Magi trasportate a Colonia da Milano e lì conservate nel duomo, per questo divenuto meta di pellegrinaggio fin dal Medioevo. 214
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28. Veduta d’insieme della cattedrale di San Vito a Praga, meta di pellegrinaggi. Nella cattedrale sono venerati il santo re Venceslao († 983) e san Giovanni Nepomuceno (1340-1393). 216
29. Altra meta di pellegrinaggio a Praga è la basilica di Santa Maria della Vittoria, dove è venerata una piccola statua di Gesù Bambino. 30. Il portale di accesso al santuario della Madonna di Jasna Góra a Cze˛ stochowa, Polonia, dedicato a Giovanni Paolo II, in cui è venerata la Vergine in una immagine del 1430.
31. Velehrad, Repubblica Ceca: complesso basilicale nel monastero della Vergine Assunta in cui si venerano i santi Cirillo e Metodio, apostoli degli Slavi. In questa basilica papa Giovanni Paolo II, qui pellegrino nel 1990, ha nominato i due santi copatroni d’Europa.
32. Complesso del santuario di Altötting, Germania, con al centro la piccola chiesa di Nostra Signora delle Grazie. 217
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COOPERAZIONE LITURGICA ECUMENICA: UNO SCAMBIO DI DONI
41. LA
COOPERAZIONE LITURGICA ECUMENICA: UNO SCAMBIO DI DONI 1. Il benedettino Kilian McDonnell, fondatore dell’Institute for Ecumenical and Cultural Research di Collegeville, Minnesota.
Per capire la cooperazione liturgica ecumenica di questi anni postconciliari, dobbiamo ritornare agli anni del movimento liturgico del secolo scorso che precedettero il Concilio Vaticano II. Mentre il movimento cresceva nei monasteri cattolici e in altri centri dell’Europa e delle Americhe, altre Chiese cristiane si impegnavano nei propri movimenti di rinnovamento liturgico, spesso condividendo e prestandosi a vicenda informazioni. Per esempio, come già ricordato, il movimento liturgico della Chiesa episcopaliana anglicana degli Stati Uniti venne fondato nel 1946. Denominato The Associated Parishes for Liturgy and Mission, il movimento collaborò strettamente con il suo corrispettivo cattolico e oratori cattolici vennero spesso invitati a tenere conferenze annuali. Si possono notare sviluppi simili presso anglicani, luterani, metodisti e riformati su entrambe le coste dell’Atlantico. La rivista liturgica ecumenica «Studia Liturgica» fu significativamente fondata nel 1962, appena dopo l’apertura del Concilio. Cinque anni più tardi, nel 1967, venne fondata la Societas Liturgica, un insieme ecumenico e internazionale di studiosi di liturgia. Oggi l’organizzazione è composta da oltre cinquecento studiosi e la rivista continua a essere pubblicata. Dopo il Concilio Vaticano II, la cooperazione liturgica ecumenica ebbe un ruolo ampiamente crescente, soprattutto nella necessità di rivisitare i libri liturgici, una revisione che non si limitò alla Chiesa cattolica. Le singole Chiese erano ben consapevoli di quello che avveniva nelle altre e spesso attinsero reciprocamente materiale liturgico dai rispettivi risultati. Tutto ciò condusse allo stabilirsi di legami formali fra molte di esse. Alcune commissioni liturgiche invitarono le altre Chiese a mandare osservatori ufficiali ai loro incontri e organizzazioni regionali composte da rappresentanti di molte Chiese si istituirono in varie parti del mondo. Nel 1963, per esempio, fu fondato in Gran Bretagna il Joint Liturgical Group, il quale negli anni a seguire produsse un gran numero di testi che finirono per essere incorporati nelle liturgie di altre Chiese. Nel Nord America, la Consultation on Common Texts fu responsabile della creazione, nel 1983, del Common Lectionary, un adattamento ecumenico del lezionario domenicale romano; il testo venne poi modificato e pubblicato come Revised Common Lectionary, ora ampiamente usato nel mondo anglofono. Il principio operativo del progetto era semplice: solo per il fatto che rimaniamo tristemente divisi alla mensa del Signore quando andiamo a celebrare la santa Eucaristia, non dobbiamo rimanere divisi riguardo alla Parola di Dio, che condividiamo, proclamiamo e insieme professiamo. Così oggi, come nella Chiesa cattolica, anche presso gli anglicani, i luterani e altre Chiese la domenica vengono lette, dal ciclo triennale del lezionario, le tre medesime letture. Dove siano ben fondati gruppi ecume218
2. Scorcio della corte centrale della comunità monastica di Bose, fondata da Enzo Bianchi.
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3. L’assemblea generale del Consiglio Mondiale (o Ecumenico) delle Chiese a Canberra, Australia, nel 1991. 4. Un momento del Dialogo Monastico Interreligioso, Dzongsar Institute di Bir, India.
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nici nell’ambito del clero, questo ha anche portato alla preparazione ecumenica dell’omelia domenicale. La cooperazione liturgica ecumenica continua oggi in organizzazioni internazionali ad ampia base, come la Societas Liturgica già citata e la North American Academy of Liturgy, fondata nel 1973; oggi, quest’ultima organizzazione include membri ebrei e studiosi cristiani che rappresentano un’ampia varietà di confessioni. Dal 1969 al 1974, la International Consultation on English Texts diede un importante contributo alla revisione dei testi comuni, come il Credo niceno e il Padre nostro. Nel 1983, la International Consultation on English Texts (ICET) è stata sostituita dalla English Language Liturgical Commission (ELLC), tuttora esistente e attiva. Detto questo, però, vi sono state alcune sfide recenti alla cooperazione liturgica ecumenica che debbono essere menzionate. Quando la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti emanò nel 2001 il decreto 219
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COOPERAZIONE LITURGICA ECUMENICA: UNO SCAMBIO DI DONI
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5, 7-8. Anno Santo 2000. Roma, 7 maggio. Diversi momenti della solenne cerimonia al Colosseo durante la quale Giovanni Paolo II ha ricordato i martiri del XX secolo in tutto il mondo. Erano presenti luterani, ortodossi, anglicani, protestanti, metodisti, pentecostali, ecc., in tutto ben 19 Chiese e comunioni cristiane, compresa l’Alleanza Riformata Mondiale (foto Giancarlo Giuliani).
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COOPERAZIONE LITURGICA ECUMENICA: UNO SCAMBIO DI DONI
8
6 memoria
24 gennaio
S. Francesco di Sales, vescovo e Dottore della Chiesa (+CW)
memoria
31 gennaio
S. Giovanni Bosco, sacerdote (+CW) John e Charles Wesley (ELCA) Óscar Romero (CW+ELCA)
memoria
26 maggio
S. Filippo Neri, sacerdote (+CW)
memoria
31 luglio
S. Ignazio di Loyola, sacerdote (+CW)
4 agosto
S. Giovanni Maria Vianney, sacerdote (+CW)
11 agosto
John Henry Newman (+CW)
memoria
14 agosto
S. Massimiliano Kolbe, sacerdote e martire (+CW+ELCA)
memoria
15 ottobre
S. Teresa d’Avila, vergine e dottore della Chiesa (+CW+ELCA)
31 ottobre
Martin Lutero (CW)
memoria facoltativa
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Martiri del Giappone (ELCA)
2 marzo 24 marzo
memoria
6. Prospetto con le ricorrenze dei testimoni cristiani presenti nel calendario liturgico romano comuni al Common Worship della Chiesa d’Inghilterra e alla Chiesa evangelica luterana d’America.
5 febbraio
3 novembre
S. Martino de Porres, religioso (+CW+ELCA)
1 dicembre
Charles de Foucauld (CW)
memoria
3 dicembre
S. Francesco Saverio, sacerdote (+ELCA)
memoria
14 dicembre
CW: Common Worship della Chiesa di Inghilterra ELCA: Chiesa evangelica luterana d’America
S. Giovanni della Croce, sacerdote e Dottore della Chiesa (+ELCA)
Liturgiam authenticam, venne pubblicato un nuovo insieme di direttive per le traduzioni liturgiche, che posero nuove restrizioni al processo traduttivo, insistendo ad ogni costo su una traduzione più fedele e solida dottrinalmente. Il testo presentava anche nuove sfide sull’esito della traduzione liturgica nel campo più ampio dell’ecumenismo. A causa della traduzione più stringente e più letterale ora richiesta, la Chiesa cattolica avrà presto nuove versioni del Gloria, del Credo e del Sanctus, per esempio, che non combaciano più con quelle delle altre Chiese. Naturalmente, il linguaggio è in sé simbolico, e avere testi liturgici in comune esprime qualcosa di piuttosto profondo circa ciò che crediamo a riguardo del comune Battesimo. In altri termini, quel che possiamo condividere dobbiamo farlo insieme, come comanda il Vangelo di Cristo, e questo comprende la Parola proclamata e i testi che preghiamo in comune. Così, i nostri interlocutori ecumenici trovano spiacevole che la Chiesa cattolica abbandoni ben presto i testi liturgici comuni, soprattutto perché questi testi sono diventati comuni proprio perché le altre Chiese hanno generosamente adottato le traduzioni romane nelle revisioni dei rispettivi libri liturgici. Essi ritengono che, a quarantacinque anni dalla promulgazione della Sacrosanctum 221
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COOPERAZIONE LITURGICA ECUMENICA: UNO SCAMBIO DI DONI
41. LA
9-10. Anno Santo 2000. Roma, 7 maggio. Altri momenti della solenne cerimonia ecumenica di commemorazione al Colosseo (foto Giancarlo Giuliani).
Concilium, sia difficile vedere tutto ciò come un progresso. Anche se potremmo scoraggiarci per tale impasse ecumenica, tuttavia ultimamente vi sono stati alcuni sviluppi abbastanza positivi nel campo della cooperazione liturgica ecumenica, che merita menzionare. In anni recenti, allorché la Commissione Liturgica della Chiesa d’Inghilterra ha proceduto alla revisione dei suoi riti di Ordinazione, alcuni studiosi di liturgia cattolici di Roma vennero coinvolti nella valutazione di tale revisione. Nel novembre 2006, quando l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, concluse una visita ufficiale a Sua Santità papa Benedetto XVI, presiedette una solenne Eucaristia anglicana nella basilica di Santa Sabina, sull’Aventino. Lo fece proprio all’altare su cui il papa fin dal V secolo celebra tradizionalmente la Messa il Mercoledì delle Ceneri, e alla presenza di alcuni rappresentanti del Vaticano. Quarantacinque anni fa, la sola idea che si svolgesse un’Eucaristia anglicana in un’antica basilica romana sarebbe stata impensabile, ma è indicativa di quanto oggi siamo andati lontano. Nell’autunno del 2008, il Consiglio Mondiale delle Chiese e il monastero ecumenico di Bose organizzarono in comune un simposio ecumenico internazionale. Intitolato «Una nube di testimoni», il simposio, che ospitava nel monastero piemontese oltre duecento rappresentanti da differenti Chiese del mondo, esplorò le opportunità per la commemorazione ecumenica dei santi e delle sante nelle diverse Chiese. Un semplice sguardo al Common Worship della Chiesa d’Inghilterra, pubblicato nel 2000, mostra che questa commemorazione ecumenica dei testimoni cristiani è già avvenuta in alcune Chiese. In quel calendario liturgico si possono trovare i nomi di Francesco di Sales, Giovanni Bosco, Martin Lutero, Charles de Foucauld, Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. Similmente, nel Worship della Chiesa evangelica luterana d’America, pubblicato nel 2006, si trovano i nomi di Martin Luther King, dei martiri giapponesi e ugandesi, di John e Charles Wesley, di Óscar Romero, Martino de Porres, Francesco Saverio, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. Data la lunga tradizione di santità della Chiesa cattolica, con i suoi complessi processi di beatificazione e di canonizzazione, essa ovviamente non può offrire il suo pieno supporto a tale iniziativa, ma possibilità simili esistono a livello locale anche nelle parrocchie cattoliche, per celebrazioni non eucaristiche di commemorazione ecumenica con altre confessioni cristiane. Di queste commemorazioni esiste già un precedente, organizzato dalla Chiesa cattolica anche a livello internazionale. Papa Giovanni Paolo II in persona insistette perché una commemorazione ecumenica dei testimoni della fede nel XX secolo avesse luogo durante il grande anno del Giubileo, e l’evento si svolse al Colosseo il 7 maggio 2000. Il 222
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COOPERAZIONE LITURGICA ECUMENICA: UNO SCAMBIO DI DONI
11-12. Papa Benedetto XVI e l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, davanti all’altare maggiore dell’abbazia di Westminster (11) e in preghiera davanti alla tomba di sant’Edoardo il Confessore (12), il 17 settembre 2010.
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papa affermò con entusiasmo un ecumenismo vissuto nel dare la vita in sacrificio per Cristo, a prescindere dall’appartenenza ecclesiale della persona. Inoltre, la commemorazione ecumenica al Colosseo venne intesa come un invito a tutte le comunità cristiane a discernere l’efficace presenza di Cristo e dello Spirito Santo anche in mezzo alla persecuzione e alla violenza. Fu intesa pure come un forte richiamo alle generazioni presenti e future a imparare dall’esempio dei loro antenati, che diedero testimonianza al Vangelo di Cristo perdonando i loro persecutori nel momento stesso in cui ne erano vittime. Questa commemorazione iniziata dalla Chiesa cattolica offre un eloquente esempio di cooperazione liturgica ecumenica e ha tracciato un cammino da cui non possiamo e non vogliamo tornare indietro. Essa offre in verità un modello per ciò che osiamo auspicare nel futuro, anche a dispetto delle differenze canoniche e dottrinali. 223
42. EDUCAZIONE ALLA
42. EDUCAZIONE ALLA
LITURGIA E FORMAZIONE
DEI MINISTRI LITURGICI
Se si considera la formazione liturgica del clero o del laicato, il concetto è relativamente recente nella storia della Chiesa. Il campo degli studi liturgici emerse solo alla fine del XX secolo. Ciò si dovette all’impeto del movimento che precedette il Concilio Vaticano II, nel quale lo studio della teologia della liturgia ebbe il suo spazio a fianco della storia, come seconda branca degli studi liturgici. Entrambe queste discipline, la storia e la teologia della liturgia, già ben fondate, sostanziarono in verità le riforme liturgiche del Concilio. Prima del XX secolo, la formazione liturgica era popolarmente paragonata alla conoscenza delle rubriche. Così, i preti pensionati nei seminari e nelle altre case di formazione venivano usati per tenere corsi ai seminaristi su come celebrare la Messa. Non era richiesta una formazione specifica agli insegnanti di quel corso e poco veniva offerto, oltre all’apprendimento delle rubriche di base. Tale modo di vedere, naturalmente, lasciò abbondantemente nella condizione di spettatori estranei i fedeli laici, per il fatto che essi non avevano bisogno di imparare le rubriche. Il movimento liturgico gradatamente trasformò questo approccio limitato alla formazione liturgica, non solo stabilendo i fondamenti delle discipline della storia e della teologia della liturgia, ma anche promuovendo catechesi che dopo il Concilio Vaticano II vennero chiamate «studi di pastorale liturgica». Le settimane liturgiche iniziate da Lambert Beauduin a Mont-César in Belgio e quelle annuali cominciate negli Stati Uniti nel 1940, che videro centinaia di partecipanti, fecero molto per rinforzare le sorti dell’alfabetizzazione liturgica, sostenuta infine dal Concilio Vaticano II. La formazione liturgica portò alla restaurazione del ruolo dell’assemblea liturgica e al recupero dell’importanza dell’intero complesso di parole e di gesti simbolici. I pionieri che aprirono la strada al rinnovamento conciliare riconoscevano che il miglior modo di incoraggiare la partecipazione piena e attiva alla liturgia era precisamente la catechesi liturgica del popolo a riguardo del proprio ruolo di membri battezzati della Chiesa e della propria responsabilità sociale come membra del corpo mistico di Cristo. In verità, si può dire che l’obiettivo ultimo del movimento liturgico era l’educazione al culto di Dio, che avrebbe portato al cambiamento della comprensione liturgica del popolo e, conseguentemente, delle sue abitudini e della sua partecipazione. Il fascino esercitato dalla liturgia sui sensi e sulle emozioni era proprio la sua ricchezza, per il fatto che era in grado di raggiungere le profondità dell’esperienza umana ben più radicalmente di un approccio fondato sul catechismo, con il suo limitato richiamo al solo intelletto. I pionieri liturgici erano consci del sospetto con cui sentimenti ed emozioni erano sovente guardati, ma giudicavano tale sospetto dovuto spesso alla confusione fra il sentimen224
LITURGIA E FORMAZIONE DEI MINISTRI LITURGICI
1. Benozzo Gozzoli, Sant’Ambrogio battezza sant’Agostino, 1464, chiesa di Sant’Agostino, San Gimignano.
2. Celebrazione del rito per il catecumenato nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano, febbraio 2004. Il cardinale Dionigi Tettamanzi stringe la mano a una donna di colore al termine della funzione (foto Enrico Belluschi).
essere spiegati previamente, ma sono in grado di comunicare in maniera profonda da sé. Dopo la loro messa in atto o la loro esecuzione – dopo la liturgia stessa – è il tempo migliore per riflettere su tali simboli, sull’esperienza dell’assemblea liturgica. Attingendo al linguaggio della Chiesa primitiva, oggi definiamo tutto ciò come «mistagogia», come riflessione postliturgica sui riti in sé. L’alternativa è una spiegazione più occidentale, analitica e intellettuale, o una interpretazione che preceda i riti, che può facilmente intralciare la capacità del simbolo liturgico di funzionare efficacemente. Il recupero di questa attitudine mistagogica è stato particolarmente efficace nella restaurazione postconciliare del catecumenato degli adulti (il rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, RICA). Nella Chiesa primitiva, il catecumenato era un esteso periodo di allenamento a vivere la vita cristiana. I suoi grandi maestri, come Tertulliano, Ambrogio, Agostino, Cirillo di Gerusalemme e Teodoro di Mopsuestia, si impegnarono in una efficace pedagogia, che integrò con successo un serio esercizio intellettuale nella fede e nell’intensa sfida a vivere quella fede nella vita quotidiana. Il modello catecumenale, quindi, incoraggia un tipo di apprendimento e una liturgia che portano frutto in un Vangelo vivente (nella «liturgia del mondo»). Oggi, con sguardo retrospettivo alle riforme liturgiche lanciate dal Concilio Vaticano II, c’è davvero molto di cui ringraziare. È stato fatto un grande progresso nel recupero del ruolo dell’assemblea nell’azione liturgica, con l’assemblea che ora è un soggetto, anziché un oggetto. Detto questo,
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talismo e un’esperienza religiosa genuinamente affettiva. Così, insegnare la liturgia unicamente come un insieme di domande da memorizzare e ben presto dimenticare non era la risposta giusta. Questi pionieri erano consapevoli del fatto che, se celebrata in modo appropriato, la liturgia in sé era la miglior maestra, non solo nelle parole e nel modo di pronunciarle, o nel contenuto dell’omelia e nel suo svolgimento, ma nel rito in sé. In altri termini, era inerente all’uso dei simboli e della comunicazione non verbale, alle vesti, alla musica, alla maniera in cui l’assemblea veniva riverita con l’incenso e con gli inchini, alla recezione della santa comunione. Per primi al loro tempo, i pionieri erano consapevoli che, se adeguatamente messi in opera, i simboli non hanno bisogno di
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tuttavia, una delle sfide maggiori che rimangono si trova nell’ambito della formazione liturgica. A ormai cinquant’anni dal Concilio, i presenti alla domenica mattina debbono ancora pienamente capire che cosa di fatto la partecipazione liturgica richiede loro, quando venga presa sul serio: il servizio ai poveri e agli emarginati, che stanno ai limiti della Chiesa e della società. Nei Paesi sviluppati dell’Europa occidentale, del Nord America e dell’Oceania, la frequenza alla Messa domenicale è declinata abbastanza drasticamente e, fra quelli che sono presenti, i ragazzi e i giovani spesso lamentano la noia o si sentono poco coinvolti. Indirettamente, i progressi tecnologici di internet, ipod, ipad, DVD e simili hanno introdotto nuove sfide per liturgisti e pastori. La gente è abituata a essere intrattenuta dai vari mezzi sopra citati e spesso si attende dalla liturgia lo stesso livello di fascino che trova nel mondo postmoderno, che se ne accorga o no. È abbastanza comune sentire i giovani che si lamentano: «Non vado a Messa perché non ne ricavo nulla». Da un lato, vi può essere una certa critica nei confronti degli organizzatori della liturgia, dei presidenti o dei predicatori, perché non esercitano con efficacia il ministero di cui sono incaricati. Dall’altro, la liturgia non è un intrattenimento, ma piuttosto l’enorme privilegio di lodare Dio l’onnipotente e prestargli culto con il cuore e l’anima, con la mente e con tutte le forze. Ancora una volta, il ruolo critico interpretato dall’adeguata formazione liturgica per questi individui e componenti non deve essere sottovalutato. La sfida della formazione liturgica non si limita al laicato, naturalmente, ma deve riguardare anche il clero. Nel 1979, la Congregazione per l’Educazione Cattolica emise una Istruzione sulla formazione liturgica nei seminari, un documento che fornisce lo sfondo e i princìpi per la preparazione dei candidati a presiedere pubblicamente i sacri riti della Chiesa. L’Istruzione era una spiegazione di ciò che si trova al n. 16 della Sacrosanctum Concilium, dove si afferma: «Nei seminari e negli studentati religiosi la sacra liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti e, nelle facoltà teologiche, tra le materie principali». Formando adeguatamente i seminaristi sui modi di una prassi liturgica corretta e creativa, la facoltà che crede in questa formazione liturgica alla fine contribuirà al rinnovamento dell’intera Chiesa in questo campo. Ma, come sempre, c’è sovente una distanza fra l’ideale e la realtà vissuta, e negli anni postconciliari si sono viste molte testimonianze di sperimentazioni non autorizzate da parte del clero che presiede la liturgia. Questo è specialmente evidente quando alcuni preti cambiano le parti fisse della Messa con sostituti di loro invenzione, normalmente senza capire esattamente che cosa stanno cambiando. Questa sperimentazione disinformata si può per esempio 225
42. EDUCAZIONE ALLA
trovare in preti che hanno scelto di improvvisare il testo dell’embolismo successivo al Padre nostro, dicendo (anziché «vivremo liberi da ogni peccato e sicuri da ogni turbamento») «sicuri da ogni paura», senza capire che la categoria «turbamento» è più comprensiva della categoria «paura», e, soprattutto, che essa si riferisce all’ambito della fede – e non a un generico timore che si possa sperimentare nel vivere. Oppure, anziché elevare e presentare al popolo il solo pane, prima della comunione, dicendo: «Ecco l’Agnello di Dio», gesto che affonda le sue radici nella celebrazione pasquale ebraica, per attrazione con quanto si fa nella dossologia «Per Cristo, con Cristo e in Cristo» innalzano il calice e il pane, contravvenendo alla precisa indicazione del messale e alla natura teologica del gesto. O, ancora, spezzano il pane mentre pronunciano le parole dell’istituzione: «Prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli», ignorando che quello è un momento narrativo e non mimetico. A tale fine, l’Istruzione generale che apre il Messale romano, con fondamenti che risalgono a prima del Concilio di Trento, offre un utile correttivo a queste idiosincrasie liturgiche. Essa offre, in verità, una coreografia teologicamente fondata, ossia una guida, un insieme di princìpi per una celebrazione appropriata della liturgia, non solo perché venga condotta con dignitosa riverenza, ma anche per facilitare al meglio l’unità del corpo di Cristo, manifestata nell’unità dell’azione liturgica. Qui il fine non è di incoraggiare una rigidità rubricistica da parte del presidente o degli altri ministri liturgici, bensì di credere alla sapienza di ciò che quei testi prescrivono: testi costruiti e sperimentati nei secoli, che continuano a essere riveduti e adattati ai giorni nostri per rispondere alle mutevoli necessità pastorali. Fidarsi di questa sapienza eviterà il riprodursi delle summenzionate idiosincrasie, a favore di un presidente e di altri ministri liturgici che non richiamano l’attenzione su di sé, ma servono il culto della Chiesa di Cristo in tutta umiltà. Connessa alla formazione e all’educazione alla liturgia è l’importante questione del rapporto fra questa e la catechesi. Benché possa sembrare che le due realtà si accompagnino senza difficoltà, la relazione non è sempre stata facile. Negli anni che immediatamente seguirono il Concilio Vaticano II, nacquero tensioni fra la liturgia e la catechesi a proposito del ruolo preciso che il culto dovesse svolgere nella formazione religiosa di bambini, ragazzi e adulti: vi furono risposte molto diverse ad alcune identiche domande. A rischio di un eccesso di semplificazione, i liturgisti argomentavano a favore di una vita basata esclusivamente sulla fonte della liturgia e sul suo ricco sistema simbolico, mentre i catechisti sostenevano un approccio più didattico. In alcune parti del mondo, per esempio, i catechisti propendevano per brevi introduzioni a ciascuna delle letture 226
42. EDUCAZIONE ALLA
LITURGIA E FORMAZIONE DEI MINISTRI LITURGICI
della Messa domenicale, che avrebbero aiutato i membri dell’assemblea liturgica a cogliere ciò che sarebbe stato proclamato. I liturgisti, da parte loro, si opponevano a tale pratica, giudicando che queste introduzioni avrebbero appesantito una liturgia già eccessivamente verbosa. Essi sostenevano che l’omelia fosse il momento appropriato per spiegare le letture e che la maniera di aiutare il popolo a farle proprie era un’adeguata formazione dei lettori, e non l’aggiunta di spiegazioni addizionali. Sarebbe stato meglio lasciare che il popolo ascoltasse e sperimentasse la lettura, per poi illustrargliela. La medesima tensione fra liturgia e catechesi si presentava spesso nei programmi di preparazione ai sacramenti e nella celebrazione dei riti sacramentali stessi. La Confermazione offre un esempio interessante. In alcune parti del mondo, i catechisti difendevano la prassi di spostare la Confermazione all’adolescenza, come una specie di rito cristiano di passaggio all’età adulta, così che il candidato potesse più coscientemente impegnarsi in un effetivo discepolato e nella testimonianza. D’altro canto, i liturgisti lamentavano la separazione della Confermazione dall’antica struttura dell’iniziazione cristiana: Battesimo, Confermazione ed Eucaristia, come si era mantenuta nelle Chiese orientali anche nell’iniziazione ecclesiale degli infanti. Un terzo esempio della tensione postconciliare fra liturgia e catechesi viene dalla relazione fra liturgia e pietà popolare. Immediatamente dopo il Concilio Vaticano II, i puristi della liturgia cominciarono a invocare una piena, consapevole e attiva partecipazione alla celebrazione liturgica che non concedesse spazio alcuno alle devozioni popolari nel suo contesto. I liturgisti sostenevano che il Concilio Vaticano II aveva chiamato tutta la Chiesa a vivere la sorgività del proprio culto, sicché la religiosità popolare doveva essere limitata alle case o, in chiesa, a prima o dopo la Messa, ma le due realtà dovevano rimanere distinte. Questo si fece particolarmente evidente nelle chiese di nuova costruzione o negli edifici che, come abbiamo visto, furono rinnovati. Molte delle nuove chiese eliminarono inginocchiatoi, statue, stazioni della Via crucis, creando luoghi di culto che i critici conservatori accusavano di assomigliare più a chiese protestanti che a chiese cattoliche. Ma una simile visione venne ben presto presa di mira. Catechisti e operatori pastorali sostenevano con convinzione che la liturgia, di fatto, avesse bisogno del calore della pietà popolare per il proprio benessere. Inoltre, affermavano che le devozioni avevano la grande funzione di «Vangelo dei poveri», formando il popolo e insegnando alla gente più semplice e marginalizzata in un modo precluso alla liturgia. Fortunatamente, la Chiesa ha fatto grandi passi rispetto agli anni dell’immediato postconcilio, recuperando l’importante relazione fra liturgia e catechesi, aiutata in manie-
LITURGIA E FORMAZIONE DEI MINISTRI LITURGICI
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3. La chiesa del collegio Sant’Anselmo a Roma, sede del Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo.
ra significativa dalla già menzionata restaurazione del RICA, con le sue forti componenti liturgiche e formative, specialmente a proposito dell’importante aspetto mistagogico. Il Catechismo della Chiesa cattolica offre una ricca catechesi liturgica nella sua seconda parte: La celebrazione del mistero cristiano. Il Catechismo afferma chiaramente che la liturgia è opus Trinitatis, opera dello Spirito Santo, a cui il corpo mistico di Cristo prende parte, e sottolinea anche l’importante ruolo dello Spirito Santo in tutte le celebrazioni liturgiche: l’epiclesi, o invocazione dello Spirito non solo sui doni del pane e del vino, ma anche sull’assemblea liturgica, per la sua santificazione. Pur con la ricca presentazione che si trova nel Catechismo, rimane tuttavia molto da fare. Alcuni anni fa, il «Canadian Liturgy Bulletin» pubblicò una interessante osservazione sulla catechesi per il RICA: «C’è ancora l’accento sulla conoscenza, anziché sulla conversione; sul programma, anziché sul percorso; sull’informazione, anziché sulla formazione e sulla trasformazione». Definire un «programma» unicamente per dare al popolo «informazione» che lo porti a una maggiore conoscenza può essere l’affronto sbagliato, se consideriamo il ruolo che la liturgia riveste nel formare il comportamento morale, o nel compito della missione e dell’evangelizzazione. Dobbiamo piuttosto cercare quella fonte più profonda che sottende la vera formazione liturgica: quella che riconosciamo nello spezzare il pane e nell’ardore dei cuori.
Un grande progresso è stato compiuto a livello nazionale, diocesano e parrocchiale in termini di programmi riconosciuti di pastorale liturgica, sotto forma di educazione degli adulti. Per molti anni, il Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo ha ospitato un programma triennale accreditato di liturgia per laici cattolici del vicariato di Roma, molti dei quali lavorano come catechisti e operatori pastorali nelle parrocchie. Il fatto che oltre 170 laici romani abbiano partecipato ogni anno al programma dà una grande speranza per il futuro liturgico del vicariato di Roma. Programmi simili si possono riscontrare nelle varie parti del mondo. Con lo sviluppo di programmi formativi per adulti, c’è stata anche la crescita concomitante di programmi accademici di studi liturgici. Essi non si trovano più solo nei grandi centri liturgici di Roma, Parigi e Treviri (già ben fondati ai tempi del Concilio Vaticano II), ma ora anche nel Nord America, in Australia e nel Regno Unito, così come nelle Filippine e altrove. Tali programmi di dottorato, licenza e magistero in liturgia hanno spesso valenze ecumeniche, in termini di studenti e di facoltà che costituiscono le singole istituzioni, ma anche per la maniera di trattare e insegnare la materia. Il movimento liturgico del XX secolo, che ha cooperato strettamente con il movimento ecumenico, ha portato a una collaborazione scientifica senza precedenti oltre i confini confessionali, come testimoniano organizzazioni quali la Societas Liturgica internazionale. 227
43. LA
PREDICAZIONE LITURGICA: LA SACRAMENTALITÀ DELLA
PAROLA
43. LA
PREDICAZIONE LITURGICA: LA SACRAMENTALITÀ DELLA PAROLA
1. Beato Angelico, Predica di san Pietro alla presenza di san Marco, predella del tabernacolo dei Linaioli, 1434-1435. Museo di San Marco, Firenze. 2. André Reinoso, San Francesco Saverio a Goa, XVII secolo, chiesa di São Roque, Lisbona. 3. Lucas Cranach il Vecchio, Predica di Lutero, 1547, particolare della pala d’altare della chiesa parrocchiale di Santa Maria (Stadtkirche) di Wittenberg. 4. Sano di Pietro (1406-1481), San Bernardino predica nel Campo, metà del XV secolo, duomo di Siena.
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La parola «predicare», come usata nel Nuovo Testamento, significa annunciare la venuta della salvezza, proclamare solennemente che Gesù Cristo è il Signore e il Salvatore. La predicazione cristiana è sempre una proclamazione della Parola e il modo ordinario di condurre alla fede. Gli studiosi hanno generalmente suddiviso la predicazione in tre aree: 1. l’evangelizzazione, cioè l’annuncio del messaggio cristiano per suscitare la fede; 2. la catechesi, cioè un insegnamento più sistematico, diretto ai credenti, per rendere la loro fede più attiva e consapevole; 3. l’omelia, cioè una catechesi speciale nel contesto dell’azione liturgica, strettamente connessa con la Parola e con i riti, che ora chiamiamo «predicazione liturgica». La predicazione liturgica si sviluppò significativamente durante la Riforma del XVI secolo. Martin Lutero, per esempio, insisteva sul fatto che la predicazione in lingua corrente fosse una parte costitutiva del culto luterano, non solo la domenica e nei giorni festivi, ma anche nei matrimoni e negli altri riti. E la predicazione doveva essere biblica, fondata sulle letture prescritte per quel giorno, anziché un sermone su argomenti devoti, che potevano avere poco o nulla a che fare con la festa liturgica particolare o con le letture bibliche assegnate a quel giorno. Lutero era noto per essere un predicatore abbastanza potente, che spesso seguiva la classica linea agostiniana dell’Eucaristia che porta alla missione; e la sua predicazione era efficace, perché usava un immaginario concreto, che i membri dell’assemblea liturgi228
ca potevano afferrare. In risposta ai riformatori, il Concilio di Trento sentì il bisogno di trattare l’argomento della predicazione. È interessante il fatto che le sue affermazioni in proposito non siano poi così lontane da quelle dei riformatori protestanti. La predicazione doveva farsi almeno la domenica e nei giorni festivi e si doveva tenere in lingua corrente, così che il popolo fosse in grado di capire la portata del suo significato ed essere guidato più in profondità nella ricchezza dei sacri misteri che venivano celebrati. Il Concilio di Trento stabilì che, laddove l’omelia non poteva essere predicata durante la Messa dopo il Vangelo, allora doveva essere tenuta prima o dopo la Messa. Il gesuita Pietro Canisio, teologo consultore al Concilio di Trento, spesso incoraggiò il canto previo di un inno in tedesco per disporre adeguatamente l’assemblea all’ascolto della sua predica. Al Concilio Vaticano II, la Sacrosanctum Concilium e la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum offrono una ricca teologia della Parola. Questi documenti illustrano che il servizio della Parola di Dio è storia della salvezza; Dio è presente nella Parola e nella predicazione; davvero la Parola di Dio ha il potere di comunicare la salvezza. Così, come leggiamo in Sacrosanctum Concilium, n. 9, predicare è una chiamata alla fede e alla conversione. L’omelia è «parte dell’azione liturgica», e non qualcosa di estraneo ad essa (cfr. nn. 35, 52). Per tale ragione, le riforme conciliari eliminarono il segno della croce che,
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tradizionalmente, veniva fatto all’inizio e alla fine dell’omelia, con l’intento di integrarla più pienamente nella liturgia della Parola quale suo elemento costitutivo. L’omelia viene descritta come «l’annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo, mistero che è in mezzo a noi sempre presente e operante, soprattutto nelle celebrazioni liturgiche» (n. 35). Fondata sui testi scritturistici e liturgici, essa è parte essenziale della celebrazione sacramentale e, «se vuole avere più efficaci risultati sulle menti di coloro che ascoltano», dovrà «applicare la perenne verità del Vangelo alle circostanze concrete della vita» (Presbyterorum Ordinis, n. 4). È significativo che ogni rito liturgico riveduto dopo il Concilio Vaticano II contenga una liturgia della Parola e vi venga abitualmente richiesta una omelia. In realtà, la nuova esperienza della Chiesa negli anni postconciliari ha portato pastori e fedeli laici a riconsiderare l’omelia in tutti i riti cri229
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6. Disegno dal ritratto della cantante di gospel Bessie Griffin, impegnata nel canto religioso. 7. Catechesi nella cattedrale copta ortodossa di San Marco, Il Cairo.
nutrimento del popolo di Dio nel suo impegno a essere il corpo di Cristo nella vita quotidiana. Se la predicazione liturgica deve essere autentica, avrà dunque bisogno di rivolgersi alle situazioni e ai problemi concreti della vita della gente, parlando delle loro gioie e delle loro preoccupazioni. Una predicazione è efficace quando parla con verità, sicché la gente possa riconoscere la propria vita nelle parole del predicatore. Questa predicazione veritiera e sacramentale, infine, radunerà l’assemblea liturgica in una santa comunione e la guiderà dalla mensa della Parola di Dio alla mensa dell’Eucaristia senza soluzione di continuità. Uno dei grandi doni di questi anni postconciliari è stato il lezionario comune riveduto, già menzionato. E, con un significativo numero di grandi Chiese cristiane che ora leggono le stesse letture scritturistiche la domenica mattina, c’è la possibilità di una preparazione omiletica comune in un contesto ecumenico. È infatti diventato sempre più frequente che gruppi ecumenici di clero locale si incontrino settimanalmente per pregare sulle letture della domenica, scambiando pensieri e riflessioni in vista della preparazione dell’omelia, con reciproco beneficio. Durante il Sinodo del 2008 sulla Parola, l’argomento dell’omelia figurava abbondantemente, al punto che un vescovo suggerì che l’anno successivo venisse dedicato quale «anno dell’omelia». Numerosi vescovi sottolinearono l’importanza della predica nell’azione liturgica, notando che essa è sovente l’unica opportunità che i pastori hanno ogni settimana di raggiungere i parrocchiani e suggerendo di tenere a mente tre domande nella preparazione omiletica: 1. Che cosa dicono le Scritture che si proclamano? 2. Che cosa dicono a me personalmente? 3. Che cosa dovrò dire alla comunità, alla luce della sua situazione concreta? L’assemblea sinodale era certo ben consapevole che, a più di quarantacinque anni dal Concilio Vaticano II, quelle tre domande non hanno ancora ricevuto sufficiente risposta e che c’è ancora molto lavoro da fare nel campo dell’omiletica. Papa Benedetto XVI lo ha chiarito nella sua esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, al n. 59, richiamando a un maggiore impegno nella preparazione e nello svolgimento delle omelie: «Si devono evitare omelie generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio, come pure inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico. Deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare Cristo, che deve essere al centro di ogni omelia». A questo scopo, il Santo Padre ha richiamato alla preparazione di un Direttorio omiletico come testo pratico «cosicché i predicatori possano trovare in esso un aiuto utile per prepararsi nell’esercizio del ministero» (cfr. n. 60).
5. Giusto de’ Menabuoi, affresco del Giudizio Universale, particolare con sant’Agostino in cattedra, ultima campata della navata maggiore della chiesa abbaziale di Viboldone, nei pressi di Milano. 5
stiani, soprattutto nella celebrazione eucaristica, dove è collegata alle due mense, della Parola di Dio e del Corpo di Cristo, e dove indica la via della trasformazione morale che comporta l’Eucaristia vissuta nella missione cristiana. La predicazione non è più limitata alle domeniche, ma è sempre più normativa anche nelle Eucaristie feriali, soprattutto in tempi come l’Avvento e la Quaresima. Il movimento liturgico richiamò a una rinnovata attenzione al significato originario e alla pratica dell’omelia, grazie alla sua collaborazione con i movimenti biblico e patristico. Un esempio classico al riguardo si trova nel monastero agostiniano di Klosterneuburg, in Austria, e nell’opera del canonico agostiniano Pius Parsch († 1954). Parsch si prefisse lo scopo di combinare l’attività accademica con quella pastorale, in un comune obiettivo di rinnovamento biblico e liturgico. Nel 1926 Parsch fondò la rivista «Bibel und Liturgie», per promuovere una relazione più integrale fra la Bibbia e il culto e per incoraggiare una maggiore conoscenza delle Scritture fra i cattolici. Tutto ciò costituì un significativo contributo al recupero di una predicazione biblicamente fondata, radicalmente differente da quanto si faceva in precedenza. Coerentemente con quanto era stato decretato al Concilio di Trento, il canone 1345 del Codice di Diritto Canonico del 1917 stabiliva che la domenica e nei giorni festivi ci dovesse essere «una spiegazione del Vangelo o di qualche parte della dottrina cattolica». Questo causò in 230
numerose diocesi del mondo la produzione di «sillabi di predicazione», studiati per offrirle una maggiore coerenza e organizzazione, ma spesso senza riferimento alla liturgia in sé. Il recupero dell’omelia come parte costitutiva dell’azione liturgica non sarebbe arrivato se non al Concilio Vaticano II. L’introduzione alla seconda edizione tipica del Messale romano di Paolo VI del 1975, a sottolineare ulteriormente la relazione fra predicazione e liturgia, al n. 65 afferma: «L’omelia di solito sia tenuta personalmente dal sacerdote celebrante». Oggi, nella Chiesa cattolica del XXI secolo, rimane molto lavoro da fare nel campo della predicazione liturgica. Con poche notevoli eccezioni, è infatti molto chiaro che, al riguardo, i nostri corrispettivi liturgici non cattolici sono molto più avanti di noi nel contenuto e nello stile. Alcuni studiosi hanno recentemente descritto l’omelia come un momento per «invocare la Grazia», richiamare alla mente i modi in cui Dio è all’opera nella vita quotidiana, ciò che Dio fa per noi, qui e ora, in questa comunità e nella più ampia comunità del popolo di Dio. Questa è la «buona novella» che i predicatori debbono proclamare e che permette alla predicazione liturgica di essere un mezzo di grazia dato a noi per trasformarci e santificarci. In questo senso possiamo parlare della Parola come «sacramento» e della predicazione dalla mensa della Parola di Dio come 7
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44. DOCUMENTI
44. DOCUMENTI
POSTCONCILIARI SULLA SACRA LITURGIA
POSTCONCILIARI SULLA SACRA
LITURGIA
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pure la terza Istruzione della Congregazione per il Culto Divino, la Liturgicae instaurationes, del 1970, sull’ordinato avanzamento della Costituzione. Molti di questi documenti, specialmente le prime due Istruzioni, produssero cambiamenti concreti nella liturgia nel senso della riforma prevista dalla Costituzione. Alcuni, in particolare la terza Istruzione, furono una risposta agli abusi commessi da singoli nell’applicazione della Costituzione, alla luce dei cinque anni di esperienza. Nel 1988, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti emanò una lettera circolare, la Paschale Solemnitatis, sulla preparazione e la celebrazione del-
le feste pasquali. Sei anni dopo, nel 1994, la stessa Congregazione emanò il documento Inculturazione e liturgia romana. Quarta Istruzione sulla corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla Liturgia – nn. 37-40. Nel 1998, Giovanni Paolo II emanò la lettera apostolica Dies Domini, sulla santificazione del giorno del Signore. Nel 2001, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti emanò una nuova Istruzione sulla traduzione liturgica, la Liturgiam authenticam, che sostituiva l’Istruzione del 1969 Comme le prévoit; i due documenti verranno trattati nel prossimo capitolo. L’anno seguente, nel 2002, la medesima Congregazione emanò il Direttorio sulla pietà popolare e la liturgia, per favorire ulteriormente la relazione propria fra le espressioni della religiosità popolare e la celebrazione liturgica. Oltre ai documenti collegati direttamente con la liturgia e gli altri sacramenti, la Santa Sede ha pubblicato almeno otto documenti sull’Eucaristia: l’enciclica Mysterium Fidei del 1965, di Paolo VI; l’Istruzione generale del Messale romano, del 2003; l’enciclica Ecclesia de Eucharistia, del 2003, di Giovanni Paolo II; l’Istruzione del 2004 Redemptionis Sacramentum, della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; la lettera apostolica Mane nobiscum, Domine, del 2004, di Giovanni Paolo II; l’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, del 2007; la lettera apostolica motu proprio data del 2007 Summorum Pontificum; e la lettera papale di accompagnamento della Summorum Pontificum, sempre del 2007, di Benedetto XVI.
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Liturgia
Nonostante i numerosi documenti pubblicati sulla liturgia dopo il Concilio Vaticano II, la Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium mantiene senza alcun dubbio la più alta autorità ecclesiale e magisteriale. Così, i documenti liturgici successivi debbono essere letti e interpretati alla luce di essa. Si deve anche notare che non tutti i documenti romani hanno la stessa importanza teologica: lettere apostoliche, costituzioni apostoliche, istruzioni, encicliche, esortazioni postsinodali debbono essere tutte interpretate e comprese entro il particolare genere letterario in cui vengono prodotte. È anche importante richiamare il fatto che alcuni documenti sono scritti per la Chiesa intera, altri per una particolare sua porzione. Negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, diversi documenti furono pubblicati per aiutare la diffusione universale delle riforme liturgiche. Nel 1965 venne emanata la lettera Le renouveau liturgique per promuovere la riforma liturgica, seguendo l’Istruzione Inter oecumenici 232
dell’anno precedente. Il 1967 vide la pubblicazione di alcuni documenti di specifica importanza per il futuro della riforma. Particolarmente degne di nota sono l’Istruzione sulla musica sacra nella liturgia Musicam sacram; una seconda Istruzione sull’ordinato avanzamento della Costituzione sulla Sacra Liturgia, la Tres abhinc annos, che aprì anche all’uso della lingua corrente per il canone della Messa; e un’Istruzione sul culto eucaristico, la Eucharisticum Mysterium, che costituì un punto di riferimento per la riforma. Due anni dopo, nel 1969, videro la luce altri documenti, in corrispondenza con la pubblicazione di un significativo numero di nuovi libri liturgici usciti in quello stesso anno, che comprendevano anche l’Ordo Missae, l’ordinamento per la celebrazione della Messa. Fra le istruzioni pubblicate figurano la Actio pastoralis, sulle celebrazioni per gruppi speciali, e l’Istruzione Memoriale Domini, sul modo di distribuire la comunione. Di quell’anno anche l’Istruzione Comme le prévoit, sulla traduzione liturgica. Bisogna citare
1963 1965 1967 1967 1967 1967 1969 1969 1969 1970 1988 1994 1998 2001 2002 2003 2003 2004 2004 2007 2007
Sacrosanctum Concilium Le renouveau liturgique Inter oecumenici Musicam sacram Tres abhinc annos Eucharisticum Mysterium Actio pastoralis Memoriale Domini Comme le prévoit Liturgicae instaurationes Paschale Solemnitatis Inculturazione e liturgia romana Dies Domini Liturgiam authenticam (Comme le prévoit) Direttorio sulla pietà popolare e la liturgia
1. Organo della cappella della Pace presso il convento delle Carmelitane a Mazille, Borgogna.
Eucaristia
Mysterium Fidei
2. L’organo costruito durante i lavori di restauro della Stiftskirche di Stoccarda. 3. Cronologia dei documenti postconciliari sulla liturgia è l’Eucaristia.
Istruzione generale del Messale romano Ecclesia de Eucharistia Redemptionis Sacramentum Mane nobiscum, Domine Sacramentum caritatis Summorum Pontificum 3
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45. LA TRADUZIONE
45. LA TRADUZIONE
DEI TESTI LITURGICI
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1. Antonello da Messina, San Gerolamo nello studio, 1474-1475 ca. National Gallery, Londra.
«Se traduco parola per parola, sembra senza senso; se sono costretto a cambiare qualcosa nell’ordine delle parole o nello stile, mi sembra di aver smesso di essere un traduttore». Queste parole di san Girolamo esprimono molto bene il dilemma in cui si trovano i traduttori quando si accostano al processo di traduzione dei testi liturgici al servizio della comunità orante. Da un lato, la traduzione letterale offre spesso il risultato di testi che difettano nel trasmettere un significato o appaiono zoppicanti; dall’altro, traducendo più liberamente o «dinamicamente», si può facilmente incappare nell’errore opposto, tradendo il significato originario. Il compito della traduzione dei testi liturgici è estremamente delicato ed è stato ben documentato dai numerosi problemi che i vari gruppi linguistici e le conferenze episcopali hanno incontrato negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II, quando lavorarono per preparare le traduzioni in lingua corrente delle edizioni tipiche in latino dei libri liturgici. Durante il Concilio, il movimento verso le lingue correnti non fu facile e le discussioni sul tema furono spesso pesanti. Anche fra i pionieri preconciliari, molti del movimento liturgico credettero bene di distanziarsi rispetto a quanti 234
DEI TESTI LITURGICI
premevano per la riforma in lingua corrente, poiché erano convinti che sarebbe stata una battaglia persa in partenza. Tuttavia, dopo molte, lunghe e spesso tese discussioni, aiutato dalla persuasione coordinata e gentile di alcuni vescovi favorevoli alla lingua corrente presenti al Concilio, il consenso venne finalmente raggiunto il 7 dicembre 1962, durante la trentaseiesima congregazione generale, quando i vescovi approvarono il primo capitolo dello schema sulla liturgia, che sarebbe poi diventato il primo capitolo della Sacrosanctum Concilium e che comprendeva l’uso delle lingue nazionali nel culto cattolico. Fra i 2.118 vescovi presenti, 1.922 votarono a favore; 180 votarono a favore, ma con riserva; 11 si opposero e 5 voti andarono dispersi. Tuttavia, rimasero alcuni problemi da risolvere. In primo luogo, c’era la questione del numero di lingue in cui tradurre i testi liturgici dal latino. Per esempio, la Santa Sede originariamente voleva solo un’edizione spagnola dei libri liturgici per tutto il mondo ispanico, ma fu ben presto evidente che il castigliano parlato in Spagna era in certa misura diverso da quello parlato in gran parte dell’America Latina. Una questione simile sorse a proposito delle traduzioni in inglese e sulla effettiva possibilità di avere un’u-
nica traduzione inglese internazionale, che comprendesse l’inglese britannico e quello americano. Un secondo problema riguardava i criteri della traduzione: i testi dovevano essere tradotti letteralmente o più interpretativamente, così da cogliere il significato delle parole e delle frasi in modo più dinamico? I primi tentativi di traduzione produssero risultati disparati e, retrospettivamente, possiamo notare molte imperfezioni nei primi progetti di Messale romano in lingua corrente pubblicati nell’immediato postconcilio. Nel pubblicare l’Istruzione Comme le prévoit, ricordata nel precedente capitolo, il Consilium internazionale aveva privilegiato un tono pastorale, richiedendo testi che servissero alla preghiera del popolo di Dio. L’Istruzione affermava che una traduzione fedele non la si può giudicare sulla base delle singole parole, ma, piuttosto, che i traduttori dovevano tenere a mente il contesto più ampio e il genere letterario. E che cosa comportava il contesto più ampio? Secondo l’Istruzione, esso includeva necessariamente il messaggio in sé, il pubblico per cui il testo veniva inteso e il modo di esprimerlo. Questo implicava ben di più che la semplice traduzione letterale di una parola o di una frase dal latino in lingua corrente. L’Istruzione Comme le prévoit diede il via al riconoscimento che la liturgia in sé è un simbolo, più che semplici parole; la liturgia in sé ha a che fare con la metafora e la retorica. Nel XX secolo, grazie soprattutto al contributo delle scienze sociali, il linguaggio umano ha cominciato a essere visto anche sotto il profilo estetico e come un’entità vivente in costante cambiamento. Così, la traduzione liturgica cominciò a essere compresa come una forma d’arte, che necessariamente deve coinvolgere nel processo di traduzione poeti e linguisti, antropologi e compositori. Abbiamo cominciato a capire le differenze significative fra il linguaggio parlato e ascoltato, cantato e pregato in pubblico, e il linguaggio funzionale alla lettura privata ovvero al rigore dello studio accademico. Inoltre, i testi liturgici sono intesi per essere performativi e non semplicemente come una comunicazione o una trasmissione della dottrina della Chiesa. Per loro stessa natura, sono intesi per la proclamazione in un’assemblea viva. Paolo VI desiderava che essi fossero accessibili e comprensibili anche ai bambini e agli incolti, pur senza essere prosaici nell’uso di una forma linguistica troppo ordinaria o banale. Mettendo in pratica questi desideri e prendendo spunto dalla Comme le prévoit, differenti gruppi linguistici cominciarono a usare nella traduzione il principio della «equivalenza dinamica», traducendo un testo più dinamicamente, affinché comunicasse un significato all’umanità del proprio tempo e venisse contestualizzato in una particolare comunità celebrante. Così, la Conferenza Episcopale Brasiliana, per esempio, scelse di tradurre la frase latina «Et cum spiritu tuo» (letteralmente: «E con il tuo spirito») con
«Egli è in mezzo a noi», e le conferenze episcopali anglofone con «E anche con te». Il 2001 vide la pubblicazione dell’Istruzione della Congregazione per il Culto Divino Liturgiam authenticam. Come già ricordato, il nuovo documento sopprimeva la precedente Istruzione Comme le prévoit e presentava toni più restrittivi. Veniva ora richiesta a tutti i costi una traduzione letterale dal latino in lingua corrente. Come molti vescovi e studiosi di liturgia hanno notato negli ultimi dieci anni, la nuova Istruzione comporta alcune difficoltà. Le lingue vive, ovviamente, cambiano. Se pure vi sia stata una età dell’oro in cui il latino liturgico influenzava profondamente le lingue locali a contatto con esso, ora siamo in una posizione molto differente. Oggi non potremmo tornare a quell’età, neanche se lo volessimo, così come il rito romano del XXI secolo non potrebbe tornare all’epoca classica della sua evoluzione, tra il V e l’VIII secolo. Quando consideriamo il nostro futuro liturgico, ci troviamo di fronte a una domanda fondamentale: che genere di traduzione, che genere di testi liturgici servono al popolo di Dio in un secolo nuovo, in un millennio nuovo e in comunità liturgiche urbane sparse per il mondo, sempre di più multirazziali e multiculturali? In altri termini, abbiamo bisogno di traduzioni liturgiche che siano cattoliche, ma anche contemporanee. Perché siano «cattolici» occorre che i testi liturgici siano solidi teologicamente e dottrinalmente, fermamente fondati sulla tradizione universale della Chiesa. E inoltre che conducano il popolo al fondo del mistero di Dio e del corpo mistico che è la Chiesa. Poiché questo è il cuore di ciò che significa essere «una, santa, cattolica e apostolica». Va da sé che i testi liturgici cattolici in una Chiesa postconciliare debbano manifestare una sensibilità ecumenica, avendo il Concilio Vaticano II abbondantemente chiarito che la ricerca dell’unità dei cristiani non è per la Chiesa cattolica un’opzione fra molte. Le nuove traduzioni liturgiche debbono essere rispettose anche di ebrei, musulmani e di quanti altri non sono cristiani. Le traduzioni liturgiche debbono inoltre essere «contemporanee», non in un senso banale o prosaico, ma in modo tale da essere contestualizzate e capaci di comunicare significato ai nostri giorni. Perciò, pur mantenendo «la sostanziale unità del rito romano» (per quelli di rito romano, ovviamente!), le traduzioni liturgiche debbono essere inculturate, così da incoraggiare la «piena, consapevole e attiva partecipazione» desiderata dal Concilio. La vitalità della liturgia romana ai nostri giorni è connessa strettamente con la nostra capacità di produrre testi liturgici che comunichino il loro significato e la loro intenzione a un uditorio contemporaneo. Questo deve coinvolgere l’esperienza non solo dei latinisti, ma anche di antropologi culturali e compositori, linguisti e poeti, che comprendano la natura e il genere del linguaggio e come esso funziona – metro, ritmo e cadenza – insieme ai teologi e agli esperti di liturgia. 235
46. IL
RECUPERO DEL TRASCENDENTE NEL CULTO CATTOLICO
46. IL
RECUPERO DEL TRASCENDENTE NEL CULTO CATTOLICO
Non è un segreto che, dopo il Concilio Vaticano II, nella seconda metà degli anni Sessanta e negli anni Settanta, la Chiesa universale testimoniò un significativo aumento della sperimentazione liturgica, molta della quale non era autorizzata e molta della quale prestò attenzione più all’orizzontale che al verticale, più all’immanente che al trascendente. È stato sostenuto che, in quel volgere d’anni, troppe cose sono accadute troppo rapidamente. I vescovi tornarono a casa dal Concilio Vaticano II entusiasti di mettere in pratica le nuove norme e i nuovi princìpi liturgici, ma pochi erano sufficientemente preparati per guidare le loro diocesi nel compimento delle riforme. I complessi testi liturgici latini vennero tradotti in lingua corrente con eccessiva fretta. Il canto gregoriano venne abbandonato, a favore di musica contemporanea di nuova composizione, per chitarra anziché per organo; l’incenso venne abolito come qualcosa di non più appropriato al rito riformato del culto cattolico; le chiese neogotiche e altre tradizionalmente orientate vennero rapidamente rinnovate per riflettere le riforme e per un accesso più immediato al sacro nell’assemblea liturgica in sé. Molte critiche contro la sperimentazione liturgica degli anni Sessanta e Settanta non sono prive di giustificazione e infatti furono commessi errori. Gli studiosi più conservatori si riferirono a quel periodo come a un tempo di «completa anarchia liturgica». Benché altri studiosi di liturgia possano avere un po’ cambiato i propri giudizi sugli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, pochi sosterrebbero che quel periodo fu senza problemi. Ma, come notava il beato John Henry Newman dopo il Concilio Vaticano I, verso la fine del XIX secolo, ogni concilio della Chiesa è stato seguito da un periodo di tumulti e fermenti. Basterebbe pensare a Nicea e a Calcedonia, ma anche il Concilio di Trento non ebbe successo nel conquistare un’adesione unanime ai suoi decreti. La storia è sempre istruttiva. Benché vi siano molte cose raccomandabili nel compimento postconciliare delle riforme liturgiche, c’è ancora un significativo livello di riforma – o di piena realizzazione di quello che il Concilio Vaticano II desiderava – non ancora introdotto, per esempio nel campo della formazione liturgica e della catechesi, come già ricordato. E rimane inoltre molto da fare per riequilibrare il rapporto fra trascendenza e immanenza; per recuperare il senso del mistero e del sacro; per la cura delle parole, con una maggiore attenzione al silenzio e al non detto. In questo campo gli anglicani hanno svolto un lavoro complessivamente migliore rispetto ai cattolici, mantenendo un senso di dignità e rispetto nelle celebrazioni liturgiche, una maggiore attenzione al mistero e al numinoso, senza perdere la dimensione partecipativa del culto, così caratteristica dei desideri del Con236
cilio Vaticano II. A circa cinquant’anni dal Concilio, dobbiamo onestamente riconoscere che l’attenzione al trascendente nel culto e i princìpi conciliari di una «partecipazione liturgica piena, attiva e consapevole» non si escludono a vicenda. Anzi, una maggiore attenzione a recuperare il senso del mistero nella liturgia potrebbe di fatto servire come ponte verso quanti rimangono critici nei confronti della liturgia del Concilio Vaticano II, ossia del novus ordo. Quasi subito dopo il Concilio, un’opposizione organizzata guidata dall’arcivescovo Marcel Lefebvre accusò il Messale di Paolo VI di essere apertamente protestante e il prelato francese guidò la richiesta di un ritorno al rito tridentino preconciliare di Pio V. Naturalmente, non dobbiamo limitare le critiche di Lefebvre unicamente alla liturgia, poiché la sua campagna di proteste si indirizzava agli esiti più ampi della riforma della Chiesa, in quanto egli giudicava un errore l’ottica conciliare progressista che apriva la Chiesa al mondo moderno. Nel campo della liturgia, nondimeno, molte critiche si concentrarono sulla perdita del sacro e, in particolare, del senso del mistero e del trascendente nel culto cattolico. Lefebvre e i suoi seguaci alla fine vennero scomunicati dalla Chiesa cattolica, ma le loro critiche delle riforme liturgiche conciliari trovarono eco in alcuni studiosi conservatori. Ne risultò una non trascurabile quantità di libri e articoli critici riguardo alle riforme conciliari, pubblicati soprattutto in inglese, francese e tedesco. Questi testi richiamavano a una «riforma della riforma» e a una «ricattolicizzazione della riforma». Molte di quelle critiche erano incentrate sulla questione dell’«ermeneutica della continuità», in riferimento al grado in cui le riforme liturgiche del Concilio Vaticano II andavano intese in linea con ciò che le precedeva, suggerendo così un legame organico fra i riti preconciliari e quelli postconciliari. O piuttosto le riforme avrebbero dovuto indicare una forte rottura con ciò che le precedeva, laddove gli elementi tridentini venivano assorbiti nel nuovo rito o sostituiti dal rito riformato del Concilio Vaticano II? Non sorprende che gli studiosi conservatori argomentino a favore dell’«ermeneutica della continuità», mentre i difensori delle riforme conciliari optino per il secondo modo di vedere. In ogni caso, ciò che fu ampiamente al centro delle critiche indirizzate al Concilio è proprio la perdita del sacro, del trascendente, e questo – credo – è un punto di lavoro comune che da entrambi i versanti deve ancora essere realizzato. Non è un gran segreto che gli studiosi di liturgia di differenti tendenze siano essenzialmente d’accordo nel criticare un culto divenuto talvolta eccessivamente verboso, fino al punto di essere banale, che ha dimenticato il silenzio e l’attenzione al ricco sistema simbolico della Chiesa, e in cui il presidente è diventato troppo centrale nell’azione liturgica. Questi stessi studiosi di liturgia sono d’accordo anche nel
1. Comunione degli apostoli (1043-1046), particolare del registro intermedio del mosaico absidale della chiesa di Santa Sofia, Kiev.
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criticare preti e vescovi che si prendono libertà di improvvisazione sui testi liturgici, per esempio nei riti di introduzione, scegliendo di iniziare la Messa dicendo: «Buongiorno a tutti!», invece di iniziare con il saluto paolino: «La grazia e la pace di Dio nostro Padre...», come prescritto dal Messale romano. Gli studiosi di liturgia che difendono le riforme conciliari trovano parimenti lamentabile che alcuni celebranti ora trovino di moda invitare l’intera assemblea liturgica a recitare tutti insieme la preghiera apologetica prima della comunione («Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi
apostoli: ‘Vi lascio la pace...’»), proprio come i loro colleghi che criticano le riforme conciliari e sostengono il rito tridentino. Così di fatto c’è un grande consenso sui problemi liturgici postconciliari, che segna l’incontro fra critici centristi e conservatori, ma anche idealisti o reazionari. Ciò che unisce studiosi di entrambi i versanti è precisamente il desiderio di recuperare il trascendente, il numinoso, il senso del mistero, cosa che avviene custodendo fedelmente le parole della liturgia e attraverso una cura scrupolosa del non verbale, con speciale attenzione, quando è richiesto, all’importante ruolo del silenzio. 237
47. LA
47. LA
FORMA STRAORDINARIA DEL RITO ROMANO
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Come abbiamo visto nell’ultimo capitolo, negli anni successivi al Concilio Vaticano II si costituì un gruppo piccolo (ma eloquente e influente) di critici del novus ordo, che reclamava il ritorno all’uso del Missale Romanum preconciliare del 1962. Di fatto, solo sette anni dopo la promulgazione della Sacrosanctum Concilium, papa Paolo VI nel 1970 concesse l’indulto ad alcuni preti anziani che preferivano continuare a celebrare il rito preconciliare in privato. 238
FORMA STRAORDINARIA DEL RITO ROMANO
1. Eustache Le Sueur (16161655), Messa di san Martino, 1654. Musée du Louvre, Parigi.
Lo scisma provocato dall’arcivescovo Marcel Lefebvre e dal suo movimento tradizionalista condusse papa Giovanni Paolo II a fare alcune aperture in vista della riconciliazione. Durante il suo pontificato, vennero concessi invero due indulti per un uso limitato del rito tridentino: il primo nel 1984, con il documento Quattuor abhinc annos, emanato dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Quattro anni dopo, nel 1988, il papa emanò la
lettera apostolica Ecclesia Dei, che fondava la Commissione Ecclesia Dei, con lo scopo di facilitare «la piena comunione ecclesiale» di coloro fra i seguaci di Lefebvre che desideravano rimanere nella Chiesa cattolica. Ma con il motu proprio del 2007 Summorum Pontificum di Benedetto XVI il rito preconciliare ricevette un nuovo statuto. Non più ristretto a un uso limitato, il rito del 1962 poteva essere ora celebrato liberamente nella Chiesa universale. Nella lettera che accompagnava il motu proprio, il papa suggeriva anzi che le due forme dell’uso del rito romano possano essere «reciprocamente arricchenti». Quale vescovo di Roma e quale pastore universale, il Santo Padre concedeva il permesso universale di un maggiore uso del rito tridentino nel proprio amore paterno per la Chiesa e con attenzione a quelle piccole minoranze di cattolici disadattati che si sentivano esclusi dal novus ordo. Detto questo, però, il motu proprio è stato letto come una vittoria dell’ala conservatrice della Chiesa e come un gradino positivo nel correggere (o addirittura negare) il progetto liturgico conciliare, sebbene il papa affermi il contrario. Alcuni hanno finanche suggerito che il motu proprio, di fatto, costituisca un passo avanti per la Chiesa, una parte di ciò che viene chiamato «nuovo movimento liturgico». Sia come sia, mentre alcune organizzazioni conservatrici e certi seminari celebrano oggi il rito del 1962 con una certa regolarità e i luoghi in cui viene officiato attirano folle di giovani, sovente per la curiosità di sperimentare ciò che non hanno mai conosciuto, molti vescovi e studiosi di liturgia non credono che la «forma straordinaria del rito romano» costituisca una significativa minaccia alla liturgia conciliare o al suo costante rinnovamento. Fra l’altro, pochi preti sono capaci di celebrare il rito preconciliare, nonostante vari tentativi di addestrare i seminaristi e i giovani preti a farlo in brevi corsi estivi o con DVD. Aspetto più importante, le statistiche mostrano che un piccolissimo numero di cristiani manifesta di fatto il desiderio del rito straordinario; nei quattro anni trascorsi dalla promulgazione del motu proprio del 2007, non c’è stata in realtà una crescita significativa di quanti chiedono di disporre del rito preconciliare nelle loro parrocchie. Le statistiche concordano con i risultati che derivano dalla costituzione apostolica del 2009 Anglicanorum coetibus, che apriva le porte all’ingresso dei tradizionalisti anglicani, fossero essi singoli, parrocchie o diocesi. Nonostante il documento, non c’è stato un grande afflusso di anglicani «che hanno varcato il Tevere» per diventare cattolici e il gruppetto che si è congiunto alla Chiesa cattolica tende a essere allineato con la specie di cattolici di rito tridentino descritta sopra, più che con la maggior parte dei cattolici, che ha ampiamente accettato gli insegnamenti del Concilio Vaticano II.
La lettera accompagnatoria di papa Benedetto XVI ai vescovi fu un tentativo di placare alcuni di loro piuttosto preoccupati, poiché il Santo Padre sapeva bene che la liberalizzazione dell’uso del rito preconciliare non sarebbe avvenuta senza difficoltà. Anche al di là del contenzioso sui due riti e su quale sia preferibile, vi sono problemi pastorali a livello diocesano e parrocchiale. Per esempio, le parrocchie che vogliono celebrare il rito romano in entrambe le forme, ordinaria e straordinaria, si troveranno in difficoltà nello stabilire un calendario liturgico, poiché i due calendari, il tridentino e l’attuale, non combaciano. Questo è particolarmente evidente nel tempo di Avvento. Il Messale romano del 1962 prevede le tempora d’inverno il mercoledì, giovedì e venerdì della terza settimana, con letture, preghiere e canti propri. Negli altri giorni feriali, però, si debbono usare i testi delle Messe domenicali, tranne che nelle feste dei santi. Invece, il Messale di Paolo VI non ha le tempora, ma contiene testi propri per tutte le ferie d’Avvento, così come testi speciali per la Messa nei giorni delle antifone «O», dal 17 al 24 dicembre. Mentre il Messale del 1962 non contiene un prefazio d’Avvento e prescrive il prefazio della Santa Trinità per le domeniche e uno comune per le ferie, il Messale di Paolo VI contiene due nuovi prefazi composti per l’Avvento. Inoltre, il Messale del 1962 permette il canto dell’Alleluia nelle domeniche d’Avvento, ma non nelle ferie, mentre il rito del Concilio Vaticano II lo permette per tutto il tempo d’Avvento. C’è anche un problema nell’ambito della preparazione e della celebrazione dei sacramenti, per esempio nel sacramento della Confermazione, dove la formula sacramentale differisce fra il vecchio rito e quello nuovo. Alcuni vescovi hanno manifestato la preoccupazione che la liberalizzazione del rito tridentino possa essere interpretata come un aprire le porte a un pluralismo di riti o di stili liturgici nella Chiesa, facendo appello all’inclinazione postmoderna per l’esperienza e la varietà, così fortemente costitutiva della cultura di oggi. Gli stessi vescovi temono che, anziché unificare la Chiesa, l’esistenza di due forme del rito romano in competizione l’una con l’altra di fatto la dividerà ulteriormente. Di fatto, ecclesiologicamente e canonicamente, ci può essere solo un rito romano, come c’è un solo rito bizantino o un solo rito ambrosiano. Mentre quanti desiderano la forma straordinaria ora hanno libero accesso a questo rito per il loro nutrimento spirituale, rimane il compito per il resto della Chiesa cattolica occidentale di studiare la situazione della visione liturgica del Concilio Vaticano II, diffondendo appropriatamente tale visione nell’accurata preparazione e nella celebrazione del rito romano, come discusso nel capitolo precedente. 239
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CULTO CRISTIANO E LE SFIDE DELLA GLOBALIZZAZIONE E DELLA POSTMODERNITÀ 1. Centro commerciale Eaton, Toronto, Canada.
Dagli anni Trenta del XX secolo, il nostro mondo ha subìto cambiamenti culturali radicali grazie al processo di globalizzazione. Cambiamenti si sono visti nell’arte, nell’architettura e nella musica, come nella letteratura, nella filosofia e nella teologia. Definiamo questa epoca «postmoderna». Dal punto di vista architettonico, mentre il movimento moderno accentuava l’integrità organica e la funzionalità, l’architettura postmoderna punta sulla «multivalenza», miscelando varie forme e stili diversi, sottolineando la diversità e la pluriformità con un ibrido di disegni architettonici. Similmente, l’arte postmoderna rifiuta l’unità organica tipica della modernità e sostiene una miscela più eterogenea di forme, con preferenza per la giustapposizione di stili differenti e contraddittori. Indirettamente, tale giustapposizione mette in questione la tradizione e la validità di un singolo direttore artistico, sostenendo un mix eclettico di stili ed elementi disarmonici. Il mondo della postmodernità può essere caratterizzato (così almeno fanno alcuni studiosi) come pessimistico, olistico, comunitario e pluralistico. Il pessimismo diventa la nota distintiva dell’epoca, in quanto sottolinea la fragilità umana e nega l’enfasi illuministica sull’ineluttabile progresso. L’olismo viene citato in questa descrizione come una negazione della razionalità e come un accogliere le emozioni e l’intuizione. La dimensione comunitaria nella postmodernità serve come correttivo dell’individualismo, così tipico della modernità, e sostiene una ricerca della verità fondata sulla comunità. Il pluralismo esprime la diversità delle tradizioni culturali e la corrispondente necessità di differenti verità, rappresentative di comunità differenti, benché ugualmente valide. Così, nel mondo postmoderno, non c’è un’unica verità, non c’è un’unica realtà oggettiva, un unico modo di negoziare la vita nel mondo reale. Piuttosto, il mondo è un sistema simbolico complesso che si fonda più sull’interpretazione soggettiva che su una verità assoluta e dimostrabile. La Chiesa non è immune dagli effetti della postmodernità. Non è in effetti difficile applicare i princìpi postmoderni alla valutazione della liturgia cristiana e a come essa viene celebrata, e sicuramente se ne avranno interessanti risultati. I critici delle riforme conciliari hanno evidenziato che l’architettura ecclesiale postconciliare è in consonanza con gli obiettivi minimalistici del pensiero postmoderno. Altri si scagliano contro la combinazione eclettica di elementi liturgici e non nella liturgia postconciliare, che sarebbe in aperto contrasto con la struttura predittiva e tradizionale del rito preconciliare. Avendo come princìpi guida della postmodernità la mobilità e il cambiamento, la transizione è di per sé indicativa del costrutto culturale postmoderno. Quando un cambiamento viene introdotto, è la tradizione in sé che viene messa in dubbio dal fatto stesso di cambia240
2, 4. Hard Rock Cafe, Orlando, Florida.
3. Ingresso principale agli spazi pubblici dell’edificio «New England» dell’architetto Robert Stern, Boston.
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re, si tratti di ristrutturare una casa, di ammodernare un ufficio o magari di abbandonare responsabilità e impegni di relazione umana a favore di altri. Sistemi perfettamente funzionanti sono sostituiti, siano o no necessarie tali sostituzioni, perché la transizione è un bene in sé e per sé. Tutti questi fattori culturali hanno un influsso significativo sulla liturgia della Chiesa, e non necessariamente in meglio. Nei primi capitoli di questo libro abbiamo visto come fosse impossibile per la Chiesa celebrare il culto al di fuori o a fianco del proprio contesto culturale, e la Chiesa postmoderna non fa eccezione rispetto alla cultura contemporanea che avanza nella propria evoluzione. La globalizzazione stessa sta cambiando la faccia del pianeta, e le nostre chiese e la vita liturgica con essa. Oggi dobbiamo prenderne atto e rispondere adeguatamente. Non è facile, perché, se pure sono rintracciabili effetti positivi del fenomeno, non ne mancano di fortemente negativi. La globalizzazione è essenzialmente un processo di estensione a
tutto il mondo degli ideali di modernità e di avanzamento tecnologico. Tale processo è grandemente aiutato dal particolare sistema economico del capitalismo neoliberistico e dagli avanzamenti a rapida espansione delle tecnologie della comunicazione. Questo porta al collasso dei confini geografici, che un tempo definivano le identità culturali. In concreto, pensiamo per esempio al rischio di ricreare la teoria del melting pot, comune durante gli anni della grande depressione economica degli Stati Uniti negli anni Trenta del secolo scorso, quando tutte le diversità culturali venivano confuse in unica identità nel momento in cui gli immigrati raggiungevano le coste americane. Questa rimane una minaccia universale, anche ai nostri giorni. Oggi, in posti lontanissimi come Kyoto e Manila, si possono trovare le caffetterie americane Starbucks, disegnate tutte con la medesima, identica decorazione degli Starbucks di New York o di Londra. Viene suonata in sottofondo anche la stessa musica jazz di Miles Davis! Viene così creata una cul241
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5. Banalismo quotidiano è il titolo di questa foto dell’architetto Corrado Gavinelli.
7. Murales a San Diego, California. I Chicanos (Messicani) rivendicano il loro posto nella società americana, nella quale non sono più minoranza.
6. Progetto di autocostruzione dello studio degli architetti messicani Carlos González Lobo e María Eugenia Hurtado, particolare della chiesa del quartiere.
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9-10. Donare il tempo: volontari aiutano un disabile, un medico presta la sua opera in un Paese africano.
11-12. Immigrati africani partecipano alla Messa celebrata nella chiesa di Maria Santissima a Rosarno, in Calabria (foto Nino Leto).
8. Famiglia asiatica a Boston. 6
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tura omogeneizzata, a partire da una coesione ampiamente basata sul consumismo. La globalizzazione ha anche l’effetto di rinforzare il sistema della «sopravvivenza del più adatto», in cui il più forte prevale sul debole. A Roma, per esempio, come altrove, i ne242
gozietti di alimentari si trovano in crescente difficoltà di sopravvivenza, a fronte del proliferare di grandi supermercati che offrono prezzi inferiori e un orario di apertura più ampio, domeniche incluse. Allo stesso modo, a Shanghai, il nuovo, elegante quartiere
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degli affari chiamato Pudong, costruito pochi anni fa in posizione opposta rispetto al centro, ha avuto l’effetto negativo di scacciare i residenti poveri, che vivevano in case improvvisate nelle vicinanze. Ci si può chiedere dove ci si aspettava che andasse quella povera gente, senza le necessarie risorse economiche. Una dinamica simile si può osservare in altre città del mondo, soprattutto dove sono in corso progetti di trasformazione di quartieri popolari in aree residenziali o di rinnovamento urbano. Così, la globalizzazione ha effetti positivi e negativi. Se la liturgia deve essere intimamente legata alla vita del corpo di Cristo nel mondo e in una cultura particolare, all’essere solidali con le sofferenze dei poveri e degli affamati, dei rifugiati e dei migranti a cui si nega un giusto salario, allora i liturgisti e gli operatori pastorali avranno biso-
gno di affrontare apertamente il problema. Avranno bisogno di considerare attentamente le sfide offerte dalla globalizzazione nell’età postmoderna, così che le nostre comunità liturgiche rinforzino l’identità culturale e modellino relazioni umane autentiche, fondate sull’uguaglianza e sul rispetto, che si levino profeticamente contro le pretese della cultura contemporanea, che promuove la mentalità della «sopravvivenza del più adatto» o del più forte. In tal senso, possiamo comprendere la liturgia anche come «controculturale», se sta con quelli che la società respinge: i senza potere e quanti stanno ai margini. La liturgia e la cultura debbono sempre essere in dialogo, ma il Vangelo di Cristo proclamato nel culto cristiano deve anche parlare con forza, criticando e giudicando la cultura contemporanea. 243
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E MISSIONE 2. Masaccio, Pietro distribuisce l’elemosina, particolare dell’affresco della cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze, 1425-1427.
1. Jacopo Robusti, detto Tintoretto, Lavanda dei piedi, 1547. Museo del Prado, Madrid.
3. Theodor Rombouts, Sant’Agostino lava i piedi a Cristo pellegrino, 1636. Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Anversa.
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Uno dei più grandi doni del Concilio Vaticano II è stato il recupero del legame intrinseco fra liturgia e missione, fra liturgia e testimonianza cristiana nel mondo. Naturalmente, la relazione è sempre esistita, in una forma o nell’altra, ma molto spesso esse furono viste come due realtà separate, non destinate a incrociarsi. Entrare in chiesa per la Messa domenicale o per le proprie devozioni significava lasciare fuori il mondo per un’oretta. Le vetrate aiutavano il fedele a tenere all’esterno le distrazioni prosaiche. I credenti venivano evangelizzati e istruiti nella fede cristiana con l’aiuto dei catechismi e di altro materiale istruttivo. Quando c’era, l’omelia domenicale offriva i suoi ammonimenti a osservare i comandamenti e a vivere la vita cristiana, ma, come abbiamo visto, più come un’esortazione spirituale che come parte dell’azione liturgica. La dicotomia preconciliare fra liturgia e missione e, in verità, fra liturgia e vita affondava le radici nell’epoca dell’Illuminismo e della Rivoluzione industriale, con un forte accento sulla razionalità e sulla ragione. Anche oggi, nella Chiesa postconciliare, il clero e gli altri ministri della liturgia debbono resistere alla tentazione di offrire spiegazioni prima e durante la celebrazione, fornendo prolisse introduzioni e spiegazioni. La Chiesa primitiva offre qualche indizio di come la relazione intrinseca fra liturgia e missione venisse vissuta in 244
concreto nei primi secoli del cristianesimo. Nell’Ultima Cena non vediamo Gesù mentre dà una lunga lezione ai suoi discepoli sull’importanza di amare il proprio prossimo. Gesù, invece, si inginocchia, versa acqua in un bacile e, con un telo legato in vita, inizia a lavare i piedi dei suoi discepoli, con loro grande confusione e stupore. Solo dopo averlo fatto, egli spiega questa sua condotta rituale e poi conclude con il comando: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15). Così, a partire dal Nuovo Testamento e continuando con la predicazione e gli scritti dei Padri della Chiesa (come Ambrogio di Milano, Agostino di Ippona, Cirillo di Gerusalemme, Giovanni Crisostomo e altri), la relazione della liturgia con la missione e la testimonianza cristiane nel mondo fecero parte di una medesima realtà. Nel V secolo, Prospero d’Aquitania († 463) espresse benissimo il concetto con le parole lex orandi, lex credendi: la legge del culto fonda la legge della fede. In altri termini, il culto cristiano esprime i fondamenti di ciò che la Chiesa osserva e insegna; la catechesi e l’evangelizzazione promanano dal culto, non il contrario. L’importante legame fra liturgia e caritas o diakonia viene anch’esso compreso in questa stessa realtà teologica della lex orandi, lex credendi. E, come sant’Agostino ricordava alla Chiesa nordafricana
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nei suoi sermoni sull’Eucaristia, il comandamento «Prendete e mangiate, prendete e bevete» implica una relazione obbligata a diventare quel cibo e quella bevanda santi, «il pane della sincerità e della verità» per gli altri, poiché la Chiesa lavava i piedi dei poveri e dei bisognosi nella vita quotidiana. Così, l’assioma teologico lex orandi, lex credendi era semplicemente un’articolazione di ciò che la tradizione della Chiesa era stata fin dal principio e di ciò che l’appartenenza alla Chiesa richiedeva. La testimonianza alla missione di Gesù Cristo nel culto comune implicava sempre una responsabilità sociale nella vita quotidiana. Anzi, la credibilità del culto della Chiesa dipendeva dalla fedeltà alla sua missione nello svolgersi ordinario della vita quotidiana, in casa, al lavoro o al mercato. Agostino ricordava all’assemblea liturgica l’indivisibile unità di fede, speranza e carità da condividere gli uni con gli altri e il richiamo che ne derivava a riconoscersi nei doni eucaristici sull’altare. Nel settembre 1959, si tenne a Nimega e a Uden, nei Paesi Bassi, una settimana internazionale di studi sul tema «Missione e liturgia». L’incontro era un seguito del famoso Congresso Liturgico di Assisi del 1956, che radunò oltre 1.400 vescovi ed esperti di liturgia. Al Congresso di Assisi, i missionari presenti si riunirono tra loro per discutere il tema
del movimento liturgico nei loro particolari contesti missionari e il tema delle sfide che affrontavano nel cercare di adattare il culto cattolico alle differenti culture in cui vivevano e operavano. La commissione organizzatrice del Congresso olandese era d’accordo che l’obiettivo principale dovesse essere «il particolare valore missionario di un culto ben configurato». Si riconosceva che troppo spesso le persone impegnate nell’attività missionaria avevano mancato di adempiere la portata piena del culto cristiano: il suo potere di trasformare le comunità di fede. L’incontro di Nimega intendeva promuovere un culto in terra di missione come strumento pastorale di evangelizzazione e catechesi, capace di portare a una più efficace testimonianza nel mondo. Saggiamente, i partecipanti riconobbero l’intrinseco legame fra liturgia e missione evangelica e l’enorme potenziale del culto cristiano nel trasformare le condotte morali. Se si considera che i 37 vescovi missionari e gli altri che si riunirono a Nimega lo fecero nel 1959, cioè tre anni prima dell’inizio del Concilio Vaticano II, essi precorrevano i tempi nel richiamare a un culto più integrato nella missione della Chiesa nel mondo. Studiando i documenti del Concilio Vaticano II, si può distinguere una chiara convergenza degli obiettivi missionari e liturgici. Questo è evidente nella Costituzione sulla 245
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4. Andrej Rublëv, Trinità, inizio del XV secolo. Galleria Tret’jakov, Mosca. 5. La Pentecoste, innario del 1591. Musée Armenien de France, Parigi. Lo Spirito Santo scende sul pane e sul vino.
liturgia Sacrosanctum Concilium, ma anche nel decreto conciliare sulla missione Ad gentes. Il Concilio riconosceva che la Chiesa era ora diventata quel che il teologo gesuita Karl Rahner chiamava una «Chiesa-mondo», contrassegnata dal pluralismo e dalla diversità culturale. I padri conciliari posero l’attività missionaria al centro della vita della Chiesa, la cui fonte naturale di energia e nutrimento era la celebrazione eucaristica. Subito dopo il Concilio, nel 1966, John Gordon Davies pubblicò a Londra un interessante libro, Worship and Mission (Culto e missione), in cui trattava la questione di un parallelismo nella Chiesa tra liturgia e missione. Egli criticava quella liturgia che rimanga isolata, lontana dal resto della vita e, perciò, anche dal compito della missione e dell’evangelizzazione. Nello stesso tempo, criticava anche quella testimonianza del Vangelo di Cristo che sembrava mancare del necessario fondamento nella vita cultuale della Chiesa. Davies sosteneva un ripensamento di fondo della teologia della liturgia e della missiologia, che avrebbe portato a una sostanziale trasformazione di entrambe. Quarantacinque anni dopo l’importante lavoro di Davies, mi azzarderei a dire che la tensione fra liturgia e missione deve ancora essere pienamente risolta. Oggi, i ministri della Chiesa che vivono nel complesso mondo postmoderno farebbero bene a riprendere le parole del professor Davies, perché l’integrazione tra la liturgia e la missione di Dio nel mondo è inderogabile, se si vuole che la diffusione del messaggio del Vangelo nei diversi contesti culturali abbia un futuro. Sarebbe in verità ingenuo dare semplicemente per scontato tale futuro. Papa Benedetto XVI ha esplicitato questo punto nella sua enciclica Deus caritas est, e ancor più nella sua esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, dove scrive della inseparabile relazione fra amore di Dio e amore del prossimo: «In definitiva, nel ‘culto’ stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata» (n. 82). La nostra maniera di comprendere il culto, cioè la liturgia, determinerà dunque la nostra comprensione della missione. Nella parte della preghiera eucaristica che si chiama epiclesi, siamo abituati a prestare attenzione al ruolo dello Spirito Santo nel trasformare i doni del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Ma altrettanto importante è il ruolo dello Spirito nel trasformarci e nel farci diventare ciò che riceviamo: il corpo spezzato e il sangue sparso di Cristo. I cristiani orientali sono molto più familiari a questa realtà e l’Occidente ha molto da imparare dall’Oriente a questo proposito. In verità, la nostra riscoperta dell’importanza dell’epiclesi, cioè del ruolo dello Spirito Santo nel 246
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trasformare i doni, ma anche noi, è stata un significativo ponte ecumenico fra cattolici e ortodossi. Infatti, solo la potenza dello Spirito ci trasforma tramite l’Eucaristia che riceviamo, così da renderci capaci di offrire un testimonianza efficace al Vangelo e così da vivere come corpo di Cristo nel mondo. Come alcuni teologi hanno sottolineato, noi stessi dobbiamo essere «transustanziati», cioè consacrati, insieme al pane e al vino. Di fatto, il documento conciliare Lumen gentium parla del nostro essere «offerti con il pane e il vino». Prendendoli a prestito dalla dichiarazione di Nairobi della Federazione Mondiale Luterana del 1996, vorrei sottolineare quattro temi di fondamentale importanza, se la relazione fra liturgia e missione deve diventare una realtà vissuta nella Chiesa del XXI secolo. La liturgia deve in primo luogo e soprattutto essere transculturale o universale, indicativa della comunione (koinonia) della Chiesa. Questo era il cuore della teologia paolina dell’Eucaristia e rimane cruciale per la nostra stessa autocomprensione come Chiesa eucaristica. Nella nostra tradizione liturgica, come abbiamo visto, parliamo di «sostanziale unità del rito romano», anche se questo offre la possibilità di diversità culturali ed 247
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6. Dorothy Day recita i Vespri alla Saint Joseph’s House, sede del Catholic Worker Movement. Il Movimento degli Operai Cattolici venne fondato nel 1933 dall’agricoltore e intellettuale cattolico Peter Maurin e da Dorothy Day, una giornalista e scrittrice di sinistra convertita al cattolicesimo. Il Primo Maggio di quell’anno, Dorothy e alcuni giovani che la sostenevano si recarono a Union Square, a New York, e si misero a vendere al prezzo di un centesimo il primo numero del settimanale «The Catholic Worker» (cortesia Jon Erikson).
7. Una suora filippina al fianco della popolazione durante la manifestazione pacifica contro il regime del generale Ferdinand Marcos. 8. Gesto di accoglienza di una missionaria durante una liturgia pasquale (Archivio Nigrizia).
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espressioni regionali, che però non ne mettono in causa l’unità. Parliamo dell’unità della Chiesa e del suo culto: l’integrità fra come viviamo la comunione fuori dell’Eucaristia e come la «liturgia del mondo» viene restituita a Dio quando innalziamo i nostri cuori nel ringraziamento e nella lode durante l’Eucaristia. Al Concilio Vaticano II, la Chiesa aveva recuperato l’antica verità: «L’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia». Qui, Chiesa ed Eucaristia coincidono: la Chiesa costituisce l’Eucaristia e ne viene costituita. Questo esprime in profondità l’unità organica fra il nostro culto e la vita della Chiesa. Ma questa organicità non avviene automaticamente: se la comunità in qualche maniera è divisa fuori della celebrazione liturgica, non verrà miracolosamente guarita e non si riconoscerà come corpo di Cristo unito nella liturgia. Ci riferiamo qui alla potenziale dicotomia fra liturgia e vita. Per esempio, è sbalorditivo pensare che in Germania, negli anni dell’Olocausto, numerosi ufficiali delle SS andassero a Messa ogni mattina prima di recarsi a compiere il loro quotidiano sterminio di migliaia e migliaia di ebrei e cristiani. Qualcosa di analogo accadeva negli anni della dittatura di Pinochet in Cile, dove era palese l’attrito fra la partecipazione eucaristica e l’adesione alle direttive di oppressione del dittatore. In India, ci vollero oltre tre secoli alla Chiesa
per dichiarare che il sistema delle caste era «peccaminoso e non cristiano», e tuttavia ancora oggi vi sono villaggi e comunità religiose divisi dalle caste e da altri conflitti, dove si continua a celebrare l’Eucaristia in mezzo alle divisioni sociali. Similmente, la Chiesa cattolica negli Stati Uniti fu abbastanza lenta nel rispondere alla schiavitù. Oggi, nelle comunità cristiane nel mondo, vi sono esempi, sia pure meno drammatici, di questa sconnessione laddove la comunità resta divisa fuori della celebrazione eucaristica e ciononostante continua a radunarsi per l’Eucaristia augurando educatamente la pace di Cristo al proprio vicino di banco. In secondo luogo, la liturgia è sempre contestualizzata. Grazie all’evoluzione delle scienze sociali nel XX secolo, abbiamo cominciato a capire come le realtà culturali e materiali del nostro mondo diano forma alla nostra vita liturgica e influenzino la nostra comprensione della missione. Per questa ragione, il Messale romano offre una grande varietà di scelta dei testi liturgici, che si possono scegliere secondo il particolare contesto o la comunità celebrante. Le preghiere eucaristiche per i fanciulli che si trovano nel Messale offrono un esempio perfetto al riguardo. Con un linguaggio più accessibile, grazie al quale i piccoli possono più facilmente entrare nell’azione della preghiera eucaristica, queste orazioni esistono proprio per essere usate in conte-
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sti come le Messe domenicali con i bambini, le Messe delle scuole e così via. Le due preghiere eucaristiche della Riconciliazione svolgono una funzione simile per situazioni particolari in cui tali preghiere rispondono più efficacemente ai bisogni pastorali di una data comunità. Anche il modo in cui si predica deve essere contestualizzato. In altre parole, bisogna preparare l’omelia in maniera differente a seconda che si predichi nel contesto di una comunità universitaria, in una casa per anziani, in un convento di suore, in un gruppo di giovani o in parrocchia la domenica mattina. E anche nelle Messe parrocchiali domenicali bisogna tener conto della comunità: una Messa piana per parrocchiani anziani alla domenica mattina presto avrà un tono e uno stile differenti dalla Messa principale del giorno, a sua volta ancora differente da quella vespertina, che può radunare un più ampio numero di giovani con diverse necessità pastorali. Tutto ciò ha effetto sul modo in cui la missione sarà vissuta nella liturgia e sull’influenza potenziale che la liturgia avrà concretamente nelle vite di quanti partecipano al culto. In terzo luogo, la liturgia non segue la mentalità del mondo. Fin dai primissimi secoli del cristianesimo, la Chiesa si è impegnata in un attento discernimento di quali elementi culturali potessero essere ammessi nel culto cristiano e di
quali aspetti della cultura secolare potessero affermarsi nell’assemblea liturgica. La sfida oggi non è cambiata. Il culto e la cultura sono sempre in dialogo, ma il Vangelo di Cristo deve parlare con forza e profeticamente a difesa dei poveri e degli indifesi, dei deboli e degli oppressi: di tutti quegli individui che la società secolare ha rifiutato. Dove, se non nell’assemblea liturgica, i poveri vengono trattati come fossero ricchi e i ricchi non meglio dei poveri, tutti riveriti con l’incenso e nutriti con il corpo e sangue del Signore, senza posti riservati e senza trattamenti speciali, tranne che per gli anziani e per coloro le cui condizioni fisiche richiedano un’assistenza speciale? Qui, di nuovo, la missione e la volontà di Cristo sono vissute e messe in atto nella liturgia. La Chiesa deve rimanere vigilante affinché le sue assemblee liturgiche siano luoghi dell’ospitalità di Dio, in particolare per quelli che la nostra cultura moderna ha rifiutato. In quarto e ultimo luogo, le riforme del Concilio Vaticano II ci hanno aperto gli occhi sulle molte maniere in cui la nostra liturgia è transculturale. Anche questo offre moltissimi spunti per la nostra discussione sulla relazione fra liturgia e missione, e questo quarto tema ha a che fare con il fatto che la nostra è una «Chiesa-mondo» ricca di diversità culturali. Per fortuna non siamo tutti uguali, anzi siamo culturalmente ed etnicamente diversi, e questa diversità compone il mosaico culturale ricco e colorato della Chiesa universale. Prendere seriamente la missione di Dio nel nostro culto, quindi, vuol dire imparare gli uni dagli altri le rispettive tradizioni culturali come vengono espresse nella liturgia. Ciò significa anche permettere che riceviamo insegnamenti da coloro le cui tradizioni non sono le nostre e apprezzare il fatto che il nostro particolare modo di vedere culturale non è l’unico e non è necessariamente il migliore. Poiché questo mosaico culturale continua a evolversi e ad espandere i nostri orizzonti, la nostra Chiesa e la sua liturgia hanno bisogno di cercare come rispondere al meglio a questo dono di identità transculturale. Così, siamo nutriti dall’Eucaristia e inviati per il mondo a servire quanti sono nel bisogno. Possiamo solo dare quello che abbiamo ricevuto a nostra volta: il pane della Parola e dell’Eucaristia. Nel Vangelo, Gesù dice ai suoi discepoli: «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16). Di qui parte la missione: «Ite, Missa est: la Messa è finita, andate». Quello che vi è stato dato datelo in dono. Ma la dimensione missionaria della liturgia non si può limitare al momento dell’invio. È piuttosto una parte costituiva dell’azione liturgica, dall’inizio alla fine: non solo nella Parola proclamata e nella predicazione, ma anche nel modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nell’assemblea liturgica, nei gesti e nell’uso dei simboli, nelle preghiere che proclamiamo e nei testi che cantiamo. Con le parole del teologo Johannes Metz, di fronte alla «pericolosa memoria» di Gesù che spezza il pane con il «popolo spezzato» e con gli esuli della sua cultura e della sua società, riceviamo il compito di condividere il nostro pane con gli «spezzati dei nostri giorni». In questo memoriale di Gesù Cristo e del suo mistero pasquale, veniamo formati come popolo di Dio dalla potenza dello Spirito Santo e rafforzati per essere inviati in missione. 249
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LITURGIA E IL FUTURO DEL CRISTIANESIMO 1. Giovanni Paolo II durante la Messa celebrata al «Campo de Feria» di Siviglia per la chiusura del 45º Congresso Eucaristico Internazionale, 12-17 giugno 1993. Accanto al papa il cerimoniere pontificio, Piero Marini (foto Giancarlo Giuliani).
Il Concilio Vaticano II riaffermò che la metanarrazione del mistero pasquale di Cristo deve essere fondante per ogni azione etica. Tuttavia, per un crescente numero di persone nel mondo sviluppato, le questioni etiche e il discorso morale hanno luogo senza riferimento a pratiche religiose quali la preghiera devozionale o il culto pubblico. Molte prospettive etiche in competizione richiedono attenzione. In tale contesto culturale, la fatica di vivere fedelmente alla luce di quanto il culto di Dio implica e di interpretare liturgicamente la vita dell’uomo diventa sempre più impegnativa. Oggi, siamo sfidati a discernere i mezzi migliori per inculcare questa visione negli altri fin dai primissimi anni della formazione religiosa, così che le nostre pratiche religiose (in particolare il nostro culto) possano incidere in profondità sul comportamento etico e sulla vita morale, nonostante gli ostacoli. Le domande circa le condizioni che generano e alimentano la nostra consapevolezza morale ci rimandano sempre di più alle domande sulla relazione fra culto di Dio nella Messa domenicale e vita comunitaria al di fuori di essa. Come soleva dire lo studioso metodista di liturgia Don Saliers: «La liturgia è una prova generale del modo in cui dobbiamo relazionarci gli uni gli altri e con il mondo». In altre parole, le giuste relazioni mostrate nella liturgia offrono un modello per il tipo di giusta relazione in cui dobbiamo impegnarci sul luogo di lavoro, a scuola, ovunque. Se guardiamo al futuro, siamo ancor più consapevoli della dimensione ecclesiologica del culto, cioè della relazione della liturgia con la Chiesa, e questo è un dinamismo importante, se consideriamo il futuro del cristianesimo. Alcuni anni orsono, in una conferenza tenuta a Londra, l’arcivescovo Piero Marini, già maestro delle cerimonie pontificie, affermò che «il futuro della liturgia è il futuro della Chiesa». Egli continuava: «Celebrare la liturgia è in sé la fonte primordiale del rinnovamento nella Chiesa. Impariamo la liturgia celebrandola. Più celebreremo bene la liturgia, più vivremo la vita cristiana in pienezza e riusciremo a trasformare la Chiesa. [...] I grandi ideali della Chiesa oggi sono in crisi, in parte perché c’è una crisi nella liturgia. I grandi ideali dell’ecumenismo, della riforma interna della Chiesa, sono tutti connessi. La crisi della liturgia mette in crisi questi altri grandi valori, perché il Concilio volle affrontare le sfide della missione della Chiesa, della riforma, del dialogo con il mondo, iniziando dalla liturgia. Se la liturgia è fonte e culmine, allora sosteniamo nella liturgia il genere di vita di cui abbiamo bisogno per raggiungere questi obiettivi. Se questi grandi movimenti della Chiesa sono oggi in difficoltà, dobbiamo guardare alle difficoltà nella liturgia». Queste parole dell’arcivescovo Marini sono ancora attuali, se consideriamo il nostro corrente contesto ecclesiale e 250
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liturgico e guardiamo al futuro. Come egli nota, l’intimo legame della liturgia con l’ecclesiologia è essenziale per capire il ruolo della liturgia nel più ampio ambito della Chiesa e come catalizzatore e fonte di energia nel nostro servizio al mondo di Dio. Ma, se guardiamo al futuro, dobbiamo anche fare i conti con il presente. Il volto della Chiesa è radicalmente differente dai tempi del Concilio Vaticano II quanto ai luoghi di sua crescita esponenziale, e questo comporta serie implicazioni per il nostro futuro liturgico e, in realtà, per la futura vitalità della Chiesa stessa. All’inizio del XX secolo, l’80% dei cristiani nel mondo era bianco e viveva nell’emisfero settentrionale. Nel 2020, si dice che l’80% di tutti i cristiani sarà gente di colore, che vive nell’emisfero meridionale. Il cristiano medio nel mondo di oggi è una persona poverissima e nei Paesi d’Africa e d’Asia spesso appartiene a una minoranza che vive in una nazione dominata da altre religioni o da ideologie secolari. E se il cristianesimo è in crescita nel Sud del globo, vi è una crescente secolarizzazione in Occidente, dove è in rapido declino. Continuano a condursi studi sociologici per comprendere le ragioni dell’affievolirsi della pratica religiosa e della partecipazione liturgica in Europa occidentale, Nord America e Oceania. Un’altra realtà sociologica non lontana è il crescente fenomeno delle «parrocchie senza sacerdote», anche in luoghi come la cattolica Italia. Con la scarsità di clero e la crisi delle vocazioni nel mondo sviluppato, un crescente numero di parrocchie si trova senza clero residente e solo occasionalmente ha la possibilità della celebrazione eucaristica. Vi sono preti in Australia, per esempio, che guidano otto
2. Giovanni Paolo II distribuisce l’Eucaristia a un gruppo di giovani durante la Messa al «Campo de Feria» di Siviglia (foto Giancarlo Giuliani).
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differenti parrocchie, sovente dislocate molto distanti fra loro. Queste parrocchie abitualmente hanno una suora o un operatore pastorale laico che funge da amministratore della parrocchia. Ogni domenica, e occasionalmente durante la settimana, questi amministratori guidano una funzione (Communion service) che assomiglia da vicino alla Messa. Essa comprende un rito di introduzione, la liturgia della Parola (compresa una breve omelia), la preghiera di ringraziamento (che ha una vaga somiglianza con il prefazio della preghiera eucaristica), il Padre nostro, l’invito alla comunione («Ecco l’Agnello di Dio...»), la distribuzione della comunione dal tabernacolo, la preghiera conclusiva e il congedo. Ma la struttura è talmente similare, che le distinzioni fra la Messa e questa funzione possono essere facilmente confuse. Inoltre, queste funzioni sono un surrogato della celebrazione dell’Eucaristia, che è la linfa vitale della Chiesa, sua «fonte e culmine». Alla fine delle vacanze estive del 2005, papa Benedetto XVI espresse il suo parere a proposito di questa crescente realtà, affermando che tali funzioni non possono essere viste come una soluzione a lungo termine o, addirittura, come una sostituzione della Messa in sé. San Tommaso d’Aquino ricorda che la Messa è e deve essere il centro della vita cristiana e le nostre strutture ecclesiali e gli altri sacramenti sono del tutto intrinsecamente riferiti ad essa. San Tommaso, naturalmente, non affermava nulla di nuovo, ma semplicemente esprimeva quello che la Chiesa aveva riconosciuto come propria tradizione per secoli. Così, se guardiamo al futuro, la Chiesa cattolica avrà bisogno di fare i conti con ciò che questa centralità significa
realmente e con il modo di risolvere efficacemente questo crescente problema, così che la celebrazione eucaristica continui a ricevere assoluta priorità nella vita e nella missione della Chiesa. Cinquant’anni dopo il Concilio Vaticano II, siamo più consapevoli che mai del fatto che il culto cristiano ci unisce necessariamente nella solidarietà con coloro che soffrono. Dobbiamo costantemente resistere alla tentazione di pensare che le nostre celebrazioni liturgiche e la predicazione siano solo per noi e per i nostri interessi. Per loro natura propria, sono celebrazioni della «Chiesa-mondo», dell’intero corpo di Cristo, e questo le rende cattoliche. Le riflessioni teologiche di Karl Rahner sulla «liturgia del mondo» sono qui illuminanti. Rahner sviluppava la sua teologia della liturgia intorno a una comprensione del culto che fluisce dalle porte della chiesa alla cura dei poveri e dei bisognosi nel mondo di Dio. Illuminati dalle intuizioni di Rahner, insieme alla sfida della liturgia contestualizzata e inculturata, necessariamente siamo condotti ad affrontare apertamente il compito della testimonianza cristiana nel XXI secolo e il ruolo che la liturgia riveste in tale processo. Tale compito assume un’urgenza sempre crescente se si considera la società postmoderna per quello che è. Come già ricordato, il nostro mondo è sempre più secolarizzato e, in gran parte dell’Occidente, ahimè, anche postcristiano. Così, le nostre parole e i gesti liturgici debbono far presa sulla carne e sul sangue nella vita quotidiana, se vogliamo che la testimonianza profetica del Vangelo di Gesù Cristo porti frutto in futuro. In concreto, questo significherà prendere spunto dalla liturgia stessa, dove il regno della giustizia e della pace di Dio viene celebrato ogni volta che l’assemblea liturgica si raduna per il culto. Se desideriamo veramente che il regno di Dio venga a esistere nel mondo, questo comporterà un impegno consapevole e intenzionale per un più vivo dialogo ecumenico e interreligioso da parte di coloro che amano la Chiesa e cercano di dare una fedele testimonianza al comandamento di Cristo: «Che siano una cosa sola». Il dialogo ecumenico è, in primo luogo e soprattutto, un appuntamento essenziale di questa agenda, perché, abbastanza semplicemente, non possiamo più permetterci di vivere e agire separati. Una efficace proclamazione del messaggio evangelico dipende dalla nostra unità nel testimoniare tale messaggio. La disunione in questa proclamazione indebolirà soltanto le nostre comuni testimonianze. Così, rispettando i limiti particolari stabiliti dalle nostre Chiese e nonostante le nostre tristi divisioni sull’altare della santa Eucaristia, quello che possiamo fare insieme dobbiamo farlo insieme, stando uniti come unico corpo di Cristo spezzato di fronte alla croce. L’imperativo più forte che sentiamo è proprio la chiamata all’unità dei cristiani nella testimonian251
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3. Messa di beatificazione di madre Teresa di Calcutta, piazza San Pietro in Vaticano, 19 ottobre 2003: donne in costume tipico indiano durante l’offertorio (foto Giancarlo Giuliani).
4. Fuoco rituale indiano: la fiamma viene affidata alla corrente del fiume.
6. Messa celebrata da Giovanni Paolo II all’interno del carcere romano di Regina Coeli per il Giubileo delle carceri, luglio 2000 (foto Giancarlo Giuliani).
5. Città del Vaticano, basilica di San Pietro, Giovedì Santo, 17 aprile 2003. Primo piano di papa Giovanni Paolo II durante l’elevazione dell’Eucaristia (foto Giancarlo Giuliani).
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7. IV Convegno Ecclesiale Nazionale, ottobre 2006. Papa Benedetto XVI celebra la Messa. Al suo fianco monsignor Piero Marini (foto Alessia Giuliani). 8. Istanbul, 1 dicembre 2006. Primo piano di Benedetto XVI in preghiera con in mano il pastorale (foto Alessia Giuliani).
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za evangelica, a maggior ragione di fronte alla crescita dell’islam in tante parti del mondo. La nostra comune testimonianza ecumenica ci deve necessariamente portare dal culto a seri sforzi di dialogo interreligioso. I conflitti politici e bellici in Iraq e in Afghanistan non hanno fatto che irrigidire ulteriormente le relazioni fra il mondo cristiano e quello musulmano, generando un grande allarme, considerando noi il nostro futuro religioso ad un tempo come religioni distinte, ma anche accomunate, come genti di fede che cercano il volto dell’unico Dio. La nostra comune testimonianza di Gesù Cristo ci spinge a seguire il cammino del dialogo, ancor più deliberatamente e intenzionalmente. È significativo che in Indonesia, lo Stato a più alta percentuale di musulmani al mondo, il Messale romano lì in uso contenga ora l’opzione di una Messa votiva adottabile duante il periodo del Ramadan, tempo di purificazione, preghiera e digiuno per la comunità islamica, non dissimile dalla Quaresima cristiana. Questa Messa dà la possibilità ai cattolici indonesiani di essere uniti ai con252
nazionali musulmani durante il loro tempo sacro, pregando per il loro benessere e la loro salute. Similmente, in India, si trovano nel Messale testi di preghiera per Messe da celebrare durante la festa induista delle luci (Dwahili), come modo per i cattolici indiani di essere in solidarietà spirituale con gli indù. Non manca chi crede che gli sforzi per una comune testimonianza ecumenica vengano solo dal nostro culto e che la pervicace ricerca di una maggiore armonia interreligiosa sia parte di una storia passata, che non promette più nulla. E in verità, in un mondo profondamente cambiato dagli atti terroristici, la virtù della speranza cristiana non nasce con facilità. Tuttavia, prendere sul serio la nostra pratica liturgica richiede il tipo di testimonianza cristiana nell’opera di giustizia e di pace che rimane aperto all’abbraccio dell’intero mondo di Dio. Se consideriamo i vari problemi del mondo nel XXI secolo, abbiamo chiara coscienza di un mondo in frantumi, che ha disperatamente bisogno di persone che si offrano come
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strumenti di guarigione e di ricostruzione. Ma, per i cristiani, la dedizione a questi progetti inizia sempre nella celebrazione eucaristica, «fonte e culmine della vita cristiana». E proprio la liturgia eucaristica offre la frazione del pane come segno di trasformazione redentiva di un mondo spezzato. Ecco ciò che sta al fondamento dell’Eucaristia cristiana e che resta come nostra vocazione, se il culto cristiano deve essere autentico nel terzo millennio, come lo fu nel primo e nel secondo. La chiamata al culto autentico, infine, è chiamata a una maggiore santità, comunitariamente come corpo di Cristo nel mondo, ma anche individualmente: riceviamo il corpo e sangue di Cristo per la nostra santificazione, perché possiamo essere resi santi. Ma anche qui, riflettendo sulla nostra tradizione cattolica a mezzo secolo dal Concilio Vaticano II, siamo condotti a chiederci che cosa questa chiamata significhi nei nostri giorni e che cosa essa ci richieda di fronte al futuro. Nella lettera apostolica di Giovanni Paolo II Spiritus et Sponsa, uscita nel 2003 in occasione del quarantesimo anni-
versario della Sacrosanctum Concilium, egli scriveva: «Nel Signore Gesù e nel suo Spirito, tutta l’esistenza cristiana diventa ‘sacrificio vivente, santo e gradito a Dio’, autentico ‘culto spirituale’ (Rm 12,1). Davvero grande è il mistero che si realizza nella Liturgia. In esso si apre sulla terra uno squarcio di Cielo e dalla comunità dei credenti si eleva, in sintonia con il canto della Gerusalemme celeste, il perenne inno di lode [...]. Si sviluppi, in questo inizio di millennio, una ‘spiritualità liturgica’, che faccia prendere coscienza di Cristo come primo ‘liturgo’, che non cessa di agire nella Chiesa e nel mondo in forza del Mistero pasquale continuamente celebrato, e associa a sé la Chiesa, a lode del Padre, nell’unità dello Spirito Santo». Se consideriamo il futuro della Chiesa e del suo culto nel XXI secolo, questa spiritualità liturgica è disperatamente necessaria. Infine, dunque, il nostro obiettivo è che il linguaggio dell’Eucaristia diventi il linguaggio e il cammino delle nostre vite, perché partecipiamo alla missione di Dio nel mondo come Cristo vuole che facciamo. 253
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di Inos Biffi
Lo stesso “istinto religioso” dell’uomo avverte che le celebrazioni liturgiche debbano differenziarsi rispetto alle azioni feriali che egli abitualmente compie, e presentare dei segni evidenti di distinzione e di proprietà. D’altronde, il “sacro” è una categoria “antropologica”, come si dice, di immediata percezione. Lo mostra la storia della ritualità, dove appare che i gesti cultuali, intesi a manifestare il rapporto di dedizione a Dio e di adorazione, sono giudicati e sentiti chiaramente dissimili da quelli “ordinari”. La relazione con la divinità crea abitualmente atteggiamenti suscitati dalla “devozione” che, pur variamente tradotti nelle diverse esperienze religiose, si distinguono anche per accuratezza estetica e precisazioni rubricali che non ricorrono nelle altre relazioni umane, come a voler riversare e far brillare nei segni religiosi la gloria divina, contro qualsiasi forma di sciatteria e trasandatezza. Indubbiamente, la sorgente del culto divino e il suo contenuto “principale” e qualificante sono, come scrive Tommaso d’Aquino, «gli atti interiori». E, tuttavia, «la mente umana, per essere condotta a Dio, ha bisogno di realtà sensibili», cioè di «segni che eccitano la mente umana agli atti spirituali, che uniscono a lui» (Summa Theologiae, II-II, 81, 7, c). Ora, perché possano promuovere la dedizione dello spirito, queste realtà sensibili vengono sottratte dalla loro condizione naturale e convertite in simboli, destinate, per un verso, a richiamare il mondo divino, “separato” e trascendente che si propongono quasi di racchiudere e di manifestare; e per l’altro verso a favorire e alimentare l’intima comunione con Dio, che resta sempre infinitamente oltre. Esattamente a motivo del carattere simbolico-teologico di tali segni liturgici si parla di “sacro” – una categoria oggi non raramente contestata, soprattutto dai credenti coltivati e dai teologi che si ritengono profetici e progressisti e sono in realtà piuttosto vecchi –, e si differenzia il “sacro” dal “profano”. Nasce, così, lo stile “liturgico”, segnato dall’accuratezza, in
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una parola, dalla bellezza. Da sempre, la liturgia accoglie dentro di sé, pur nelle forme più semplici ed elementari, l’arte, l’ordine, la luce, intese non a disperdere la mente o a dissipare l’attenzione, ma a raccoglierla e ad elevarla. Vale per gli arredi e le suppellettili, per le vesti e gli apparati, per gli spazi e gli edifici, per la musica e per il canto: tutto quanto concerne la celebrazione richiede di essere in certo modo “trasfigurato”, secondo la varia sensibilità e il gusto delle epoche. Si potrebbe parlare, come ideale, di sobria bellezza. Questa, infatti, non va confusa con lo sfoggio e con lo sfarzo, che, invece di fare trasparire Dio, discostano e rimuovono da lui, e invece di aiutare la preghiera la ostacolano. In tal caso non svolgono più la funzione del simbolo, per sua natura attivamente aperto e allusivo, ma dell’antisimbolo, che chiude e riduce a sé. Senza dire che il fasto, oltre ad appesantire sotto il profilo religioso, potrebbe suscitare scandalo nel popolo di Dio, che spesso vive in condizioni di povertà e di miseria. D’altra parte, può essere il caso di osservare che proprio lo stesso popolo, nella sua indigenza, concorre a che la «casa di Dio» non manchi di decoro e presenti una sua eleganza, che accenna e rimanda al mondo divino, senza minimamente sminuire o compromettere il valore del Vangelo, che si riassume soprattutto nella carità. Al riguardo conosciamo il comportamento dei pastori più illuminati, per esempio di sant’Ambrogio, al quale, a sua volta, si richiamerà sant’Agostino. Il vescovo di Milano aveva spezzato anche dei «vasi sacri» per riscattare i prigionieri, attirandosi critiche per quell’iniziativa. Ora, trattandone con il suo clero, non esitava ad affermare: «La Chiesa possiede l’oro non per custodirlo, ma per distribuirlo, per recare soccorso nelle necessità. Non è meglio che i vescovi facciano fondere vasi sacri, per nutrire i poveri, se mancano altri mezzi?». E, se è vero che tali vasi sono «l’ornamento dei sacramenti», la schiera dei prigionieri affrancati «è più bella della bellezza dei calici», senza che questo pregiudichi
in quel pastore d’anime, cui era innata la raffinatezza, la persuasione che il mondo liturgico deve avere la sua grazia. E infatti basta sentire i suoi inni, che restano un insuperato capolavoro di poesia cristiana, o pensare all’antipatia che suscitava in lui un inserviente che nelle celebrazioni si muoveva sgraziatamente e indecorosamente. È sempre prudente diffidare dei predicatori e degli ideologi della Chiesa dei poveri, per lo più inclini anzitutto a impoverire gli altri e pronti a immiserire il culto divino. Ma, sempre nella linea di quanto siamo venuti dicendo, vorremmo qui riservare una considerazione particolare al linguaggio liturgico. Anche questo deve presentarsi con una sua eleganza letteraria, contrariamente a quanti invece ritengono che debba somigliare al modo di esprimersi immediato e popolare, o giornalistico. Ispirare il dettato della liturgia al gergo del momento significherebbe destinarlo a un rapido invecchiamento, come avviene per l’idioma alla moda, e renderlo in breve spazio di tempo insopportabile. È indiscutibile che le orazioni, i prefazi e in generale l’espressione rituale debbano essere limpidi e lineari. Questo però non vuol dire che sia da estromettere la terminologia tipicamente cristiana, con la sua “tecnicità”, non sempre di istantanea comprensione, quale si ritrova del resto nella stessa Scrittura. Ma, come esiste un’esegesi biblica che spiega le pagine sacre, così deve esistere una catechesi liturgica, che inizi al senso dei testi. Tutta la liturgia coi suoi simboli e il suo svolgimento richiede di essere introdotta e commentata, così da diventare sempre più trasparente ed essere assimilata e gustata, appunto contro la pretesa che tutto sia subito, da tutti, e senza alcuno sforzo intelligibile. Il che non significa affatto far coincidere il mistero cristiano con l’oscurità enigmatica delle formule celebrative. Il mistero cristiano non va confuso con l’oscurità: non equivale a complicazione e lontananza, ma dice luce, vicinanza e presenza, nella consapevolezza
che nessun segno lo potrà contenere e nessuna voce lo potrà predicare con adeguata proprietà. Al riguardo è chiarissimo l’insegnamento che ritroviamo nelle antiche raccolte delle orazioni liturgiche. Citiamo il caso del Sacramentarium Veronense, dove non mancano testi risalenti a Leone Magno, «il Cicerone dei tempi cristiani»: in esso si rivela al meglio – come scrive uno specialista di prim’ordine in materia, Francesco di Capua – «il connubio tra l’effusione lirica e l’esortazione eloquente». Quelle raccolte sono redatte mirando all’architettonica disposizione delle parole e delle frasi, ossia della concinnitas – come veniva chiamata – o del cursus, fondato sulla quantità o sull’accento, in modo da rendere belle e armoniche le cadenze e da far piacevolmente sentire nel discorso la «melodia latente (cantus obscurior)» (Cicerone, Orator, 57). In questo sacramentario, per rifarci ancora al di Capua, «pensiero, ritmo e canto si fondono in un tutto omogeneo e armonico». Indubbiamente ogni lingua ha la sua indole, così com’è vario il gusto letterario a seconda dei tempi e delle persone. La versione perfetta e ineccepibile non c’è. A tanto forse non è arrivato neppure il Messale Ambrosiano, che ebbe la provvida ventura dei tocchi felici di un cultore della parola, il cardinale Giovanni Colombo, e che risalta per il nitore linguistico. Non era superfluo, tuttavia, nel contesto dell’estetica liturgica, accennare alla grazia che la ritualità deve portare impressa in questo stesso suo settore, senza peraltro indulgere a vana ricercatezza. Un parlare scialbo e trascurato sarebbe, in fondo, irrispettoso di Dio e sgradevole allo stesso popolo cristiano, sensibile alla forma più di quel che si possa pensare, pur se alla fine quello che soprattutto importa, quando la Chiesa prega, è che adori il Padre «in spirito e verità». D’altronde confidiamo che il suo misericordioso ascolto accolga anche i gemiti più inarticolati e le lodi letterariamente più sconnesse.
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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI Le occorrenze in tondo si riferiscono al testo, quelle in corsivo alle didascalie. Abele 97 Abramo 82 Adamo 32 Addai 70 Adriano I, papa 31, 100, 106 Afghanistan 252 Africa 86-88, 169, 189, 250 Africa del Nord 24, 38, 59, 61, 62, 86, 92 Sinodo straordinario per l’Africa (Roma) 186, 187, 188, 189 Afroromani 88 Agnese, santa 100 Agostiniani 146, 159 Agostino di Canterbury, santo 96 Agostino d’Ippona, santo 27, 43, 59, 62, 85, 87, 88, 127, 182, 224, 225, 230, 244, 244, 245, 254 Alarico I 48 Albares Juan de 92 Alcuino di York 105 Alessandria d’Egitto 20, 56, 58, 66, 67, 72, 97 Alessandro VI, papa 135 Alessandro VII, papa 144 Algeria 58, 87 Allstedt 166 Altötting 217 Amalario di Metz 104 Ambrogio di Milano, santo 43, 50, 5759, 59, 88, 89, 89, 224, 225, 244, 254 America del Nord 159, 165, 168, 169, 218, 225, 227, 250 America Latina 86, 169, 181, 183, 208, 210, 234 Amsterdam 16, 145, 168 Anagni 132, 133 Andalusia 65 Anfione 127 Aniane, chiesa del Salvatore 106 Antiochia 7, 20, 37, 43, 66, 70-72 Antlias 71 Antonelli Ferdinando 176 Antonello da Messina 234 Antonino Pio, imperatore 34, 34 Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten 121, 244 Anzy-le-Duc 114 Apollo, santo 41 Appia Antica (via), 43, 47 Aquileia 44, 49, 86, 90, 97, 97 Museo Paleocristiano 18 Sinodo 97 Aquisgrana 106, 106, 114 Ararat, monte 73 Arculfo 51 Ardach 95 Argentina 213 Arles 76, 93 Armenia 71, 72, 73
Arrupe Pedro 188 Asia 16, 145, 250 Assisi 119, 172, 172, 173, 175, 245 San Francesco 172 Assunto Rosario 127 Atanasio di Alessandria 20, 42 Atsbi 68 Attavante degli Attavanti 123 Attis 26 Australia 219, 227, 250 Austria 152, 159, 168, 230 Autun 207 Avignone 132, 132, 133 Babilonia 13, 16 Bach Johann Sebastian 186 Bacci Antonio 180 Baghawat 32 Balamand 70 Baldana Antonio 135 Baltimora 169 Sinodo 168 Bamberga, Staatsbibliothek 104 Bangor 95, 96 Barbieri Giovan Francesco, v. Guercino Bari 133 Barney George 188 Basilea 166 Concilio 135 Basilio Magno (o il Grande) di Cesarea, santo 7, 9, 42. 59, 67, 72, 74 Bauit 68 Baumstark Anton 41, 158, 187 Baviera 136, 168 Bea Agostino 172, 173 Beato Angelico (Giovanni da Fiesole, detto) 228 Beauduin Lambert 157, 164, 171, 224 Beersheba (Bersabea) 12 Beethoven Ludwig van 144, 186 Belgio 157, 170, 224 Belluschi Enrico 225 Belluschi Pietro 191 Benedettini 159 Benedetto da Norcia, santo 43, 43, 64, 119 Benedetto di Aniane (Witiza), santo 107 Benedetto XII, papa 132 Benedetto XIV, papa 145 Benedetto XV, papa 168 Benedetto XVI, papa 183, 200, 222, 223, 231, 233, 239, 246, 251, 253; v. anche Ratzinger Joseph Benevento 86 Bergamo 159 Berlino 154, 158 Staatliche Museum, Münzkabinett 34 Bernareggi Adriano 159
Bernardino, santo 228 Bernini Gianlorenzo 138, 138, 186 Bernward 102 Bersabea, v. Beersheba Betania 55 Bethel (Betel) 12 Betlemme 55, 63, 134 basilica della Natività 55 Beuron 152, 169 Bianchi Enzo 219 Bir 219 Birmingham 97 Bisanzio/Bizantini 74; v. anche Costantinopoli e Istanbul Bishop Edmund 82, 187 Bobbio 95, 95, 97 Boemia 134, 168 Bologna 126, 173, 180 Museo della Basilica di San Domenico 209 San Domenico 123 Bonaiuti Andrea 211 Bonifacio, santo 104, 104 Bonn 158 Borgogna 193, 233 Borromeo Carlo, santo 140, 142, 203 Bosco Giovanni, santo 220, 222 Bose 219, 222 Boston 241, 242 Boulogne-sur-Mer 203 Bouts Dieric 18 Botticelli Sandro 200 Braga 86, 137 Brasile 159, 214 Brasilia 181 Breda 159 Brescia 32, 90 Civici Musei d’Arte e di Storia 32 Breslavia, Sinodo 144, 147 Bretagna 95 Brigida di Svezia, santa 132, 133 Brioude, Saint-Julien 196 Bucero Martin 166, 167, 167 Buddha 145 Bugnini Annibale 174, 176 Bugnini Gaetano 174, 180 Buonarroti Michelangelo 186 Burcardo Giovanni (Johannes Burckard) 137 Cafarnao 15 Calabria 243 Calcedonia 236 California 193, 242 Calvino Giovanni 127, 128, 129, 166 Cambridge 130, 152, 162 Cana 68 Canada 214, 240 Canberra 219 Candole Henry de 164
Canisio Pietro 228 Cannes 93 Canossa 119 Cantalamessa Raniero 61 Canterbury 222, 223 Cappadocia 42, 42, 43 Capua 86, 98 Caravaggio (Michelangelo Merisi, detto il) 186 Carlo il Calvo, imperatore 25, 105 Carlo Magno, imperatore 89, 100, 102, 104, 104, 105, 105, 106-108, 108, 110, 116 Carolina del Sud 168 Carolingi 93, 98, 104 Caronti Emanuele 159 Carroll John 168, 169 Cartagena 92 Cartagine 76, 87 Cartaro Mario 137 Casel Odo 158, 164 Casini Tito 180 Cassiano Giovanni 42, 93 Catalogna 159 Caterina da Siena, santa 132, 133 Cecoslovacchia 152, 159 Celestino I, papa e santo 82 Cesarea di Cappadocia 42, 72 Cesario di Arles 93 Cesenatico 191 Chantilly, Bibliothèque Les Fontaines 145 Charleston 168 Chartres 111, 115, 211 Chelles 98 Cicerone 22, 255 Cicognani Gaetano 172-175 Cile 248 Cilicia 71 Cina 169, 168, 187 Cipriano di Cartagine, santo 27, 38, 76, 87 Cirillo d’Alessandria, santo 67, 67 Cirillo di Gerusalemme, santo 50-52, 57, 225, 244 Cirillo, santo 74, 94, 166, 217 Civate 110 San Benedetto/San Giovanni 110 San Pietro 110 Cividale del Friuli 63 Civitavecchia 208 Clemente I, papa e santo 199 Clemente VII, papa 133, 134 Clemente Alessandrino 20, 38, 56, 58, 62 Cleofa, discepolo e santo 11 Clermont Ferrand 196 Cluny 118, 118 Coleridge Georgina 164 Collegeville 218
257
INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI Saint John’s Abbey 159 Colombano, santo 95, 95 Colombia 208 Colombo Giovanni 255 Colonia 106, 122, 137, 144, 185, 215 Dombibliothek 85 Como, Sinodo 97 Commodi Andrea 140 Confucio 145, 145 Congdon William 172 Connecticut 28 Copenaghen, Statens Museum for Kunst 156 Cornelio, papa e santo 76 Costantino I il Grande, imperatore 44, 45, 47, 48, 55, 56, 66, 73, 81, 110, 202, 206 Costantinopoli 12, 13, 47, 66, 66, 72, 73, 76, 81, 82, 97, 184; v. anche Bisanzio e Istanbul Concilio 48, 66 Hagia Eirene (Santa Pace) 47 Santa Sapienza (Hagia Sophia) 47, 73, 74, 82, 85 Santi Apostoli 47 Costanza Concilio 135, 135, 148 Wessenberggalerie 148 Coubert Gustave 155 Cranach Lucas il Vecchio 127, 134, 167, 228 Cranmer Thomas 130, 131, 167 Crespi Daniele 142 Croazia 159 Crodegango 105 Cusco 213 Cze˛ stochowa 216 Dalmazia 199 Damasco Museo Nazionale 6, 28 sinagoga 16 Damaso I, papa e santo 27, 82, 85, 87 Daniele, santo 32 Darmstadt, Hessische Landesbibliothek 185 Davide, re 12, 32 Davies John Gordon 246 Davis, Miles 241 Day Dorothy 248 Debre Selam, San Michele 68 De ani, monastero 21 Decenzio, vescovo di Gubbio 81 Delacroix Eugène 151 Delatte Paul 152 Derrynafflan 96 Desiderio di Montecassino (Vittore III, papa e santo) 119 Diocleziano Gaio Aurelio Valerio, imperatore 30 Dioniso 26 Dix Gregory 164, 165, 187 Doelger Franz 158 Domenico di Guzmán, santo 209 Domenicani 146, 159, 162, 185, 204 Donauwörth 123 Drogone 105 Dublino College Library 95 National Museum of Ireland 95, 96 Trinity College Library 96 Duployé, Pie 159 Dura Europos 6, 15, 28, 28, 33 Düsseldorf Universitäts- und Landesbibliothek 100 Dylan, Bob 191 Ebrei 12, 16, 20, 32, 39 Echternach 17 Edoardo il Confessore, santo 223 Egeria 42, 50, 51, 51, 52, 54, 55, 60, 61, 62, 64, 78, 206 Egitto 12, 42, 50, 61, 68 Kharga 32 Egizi 32
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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI Einsiedeln 128, 215 Eleazano 32 Elena, santa e imperatrice 47, 206 El Greco (Dominikos Theotokopoulos, detto) 186 Ellenrieder Marie 148 Ellwangen 154 Emmaus 11, 18, 19, 21 Ems 148, 149 England John 168 En Joong Kim 196 Enrico II, imperatore 93, 100, 116, 116 Enrico IV, imperatore 119 Enrico VIII, re 128, 131, 167 Eraclio I, imperatore 98 Ercolano 24 Erevan 73 Erikson, Jon 248 Erode il Grande 13, 16 Estremo Oriente 86 Etiopia 21, 68 Eufrate 28 Eugenio 92 Europa 95, 104, 114, 119, 122, 125, 129, 131, 134, 145, 147, 150, 152, 159, 164, 165, 185, 187, 217, 218, 225, 250 Eusebio di Cesarea 30, 31, 42, 47, 88 Eva 32 Éveux-sur-l’Arbresle 161 Eyck, Jan van 127, 179 Fatima 213 Ferrando di Cartagine 87 Fib, santo 41 Filippine 65, 187, 227 Filippo, apostolo e santo 21 Firenze 125, 135, 135 Biblioteca Medicea Laurenziana 123, 200 Galleria dell’Accademia 207 Galleria Nazionale degli Uffizi 127 Museo Nazionale di San Marco 135, 228 Santa Maria del Carmine 244 Santa Maria Novella 211 Fischer Balthasar 159 Flicke Gerlach 131 Florida 241 Foucauld Charles de 220, 222 Francescani 64, 118, 122, 124, 185, 206 Francesco d’Assisi, santo 63, 207 Francesco di Capua 255 Francesco di Sales, santo 220, 222 Francesco Saverio, santo 220, 222, 228 Franchi 93; v. anche Impero franco-germanico e Sacro Romano Impero Francia 49, 95, 106, 114, 126, 137, 146, 146, 150, 151, 152, 152, 159, 169, 184, 185, 214; v. anche Gallia Frati Minori 118 Fréjus 58, 94 Fulda 104 San Michele 106 Füssen, Sank Mang 123 Gaddi Taddeo 207 Gaillard Ferdinand 152 Galgala, v. Gilgal Gallia 62, 64, 94, 100, 105; v. anche Francia Galliano, San Vincenzo 110, 111 Gallieno, imperatore 30 Gand, San Bavone 179 Gandolfi Ubaldo 209 Gavinelli Corrado 242 Gelasio I, papa e santo 82 Gellone 94 Georges de Nantes 180 Georgia 168 Germani 93 Germania 95, 126, 128, 136, 137, 148, 154, 155, 157, 158, 166, 217, 248; v. anche Impero franco-germanico e Sacro Romano Impero Germano di Parigi 199
Gerusalemme 12, 13, 13, 14, 14, 16, 17, 42, 45, 47, 50, 51, 51, 52, 54, 55, 57, 58, 60, 62, 63, 64, 64, 65, 66, 68, 72, 76, 78, 81, 82, 177, 193, 206 basilica del Pater Noster 54 basilica detta Eleona 54, 55 chiesa di Sion 55 Concilio 17 Golgotha, basilica 45 Imbonon 55 Monte degli Ulivi 55 Museo Rockefeller 54 Santo Sepolcro 33, 44, 47, 51, 52, 52, 54, 55 tempio di Salomone 13, 14, 15, 16, 39 Gesuiti 70, 136, 138, 140, 145, 146, 151, 168, 172, 185, 188 Giacobbe 32 Giacomo, apostolo e santo 70, 74 Giannina, isola 10 Giansenio, v. Jansen Cornelius Giappone 169 Gilgal (Galgala) 12 Ginevra, Bibliothèque Publique et Universitaire 129 Giona 32, 32 Giordania 9 Giordano, fiume 28 Giotto 119 Giovanni, apostolo, evangelista e santo 17, 19, 60, 108, 207 Giovanni Battista, santo 17, 26, 28, 62, 63 Giovanni Bosco, santo, v. Bosco Giovanni Giovanni Crisostomo, santo 7, 42, 50, 50, 56, 59, 70, 74, 76, 93, 244 Giovanni da Fiesole, v. Beato Angelico Giovanni della Croce, santo 220, 222 Giovanni Diacono 59 Giovanni di Paolo 132 Giovanni Nepomuceno, santo 216 Giovanni Paolo II, papa e beato 182, 186, 188, 193, 214, 216, 217, 221, 222, 233, 238, 250, 251, 253, 253 Giovanni VIII, papa 25 Giovanni XII, papa 116 Giovanni XXIII, papa e beato 135, 174, 174, 175 Girolamo, santo 234, 235 Giuliano di Brioude, santo 196 Giuliano di Toledo, santo 92 Giuliani Alessia 253 Giuliani Giancarlo 177, 178, 186, 187, 189, 221, 222, 250-253 Giulio III, papa 136 Giuseppe, santo 184, 212 Giustino II, imperatore 76 Giustino di Nablus, martire e santo 23, 34, 34, 35, 56, 100 Giustiniano I, imperatore 73 Giusto de’ Menabuoi 230 Goa 228 Godescalco 108 Golia 32 Goti 48, 85 Gozzoli Benozzo 224 Gra anica, monastero 11, 74 Graham Robert 193 Gran Bretagna 95, 218 Greccio 63, 207 Greci 22, 198 Grecia 110 Gregorio I Magno, papa e santo 62, 82, 91, 93, 97, 98, 100, 100, 118, 199 Gregorio II, papa e santo 98, 100 Gregorio VII, papa e santo 91, 116, 118, 119, 132 Gregorio XI, papa 132, 133 Gregorio XII, papa 137 Gregorio XVI, papa 8 Gregorio di Nazianzo, santo 57, 57, 59, 67 Gregorio di Nissa, santo 42, 58 Gregorio l’Illuminatore, santo 71, 71, 72, 73
Griffin Bestie 231 Guardini Romano 158, 182 Gubbio 81 Guéranger Prosper 152, 152 Guercino (Giovan Francesco Barbieri, detto il) 123 Guillame de Todèle 131 Gut Benno 180 Gy Pierre-Marie 159 Halter Clara 185 Hamilton William 148 Hammat 14, 15 Hammenstede Albert 158 Hans Holbein il Giovane 131 Harburg, castello 123 Har Karkom 13 Hebert Arthur Gabriel 164 Hermel, San Marone 70 Herstelle 158 Herwegen Ildefons 157, 158, 164 Hildesheim, Dom- und Diözesanmuseum 102 Hitda 185 Hogart William 149 Hurtado Maria Eugenia 242 Hus Jan 134, 134, 135 Il Cairo Museo di Arte Copta 41, 68 San Marco 231 San Mercurio 43 Ignazio di Antiochia 56 Ignazio di Loyola, santo 128, 140, 220, 222 Ildefonso di Toledo 92 Ildegarda di Bingen 170 Impero franco-germanico 89, 102, 105107, 110, 116; v. anche Sacro Romano Impero India 66, 70, 169, 219, 248, 252 Indocina 169 Indonesia 169, 252 Inghilterra 114, 122, 126, 128, 130, 134, 149, 152, 164, 165, 167, 168, 185, 220, 222 Ingres Jean-Auguste Dominique 150 Innocenzo I, papa e santo 80, 81, 82, 85 Innocenzo III, papa 62, 118, 119 Innocenzo X, papa 145 Innsbruck 159 Ippolito Romano, martire e santo 36, 37 Ippona 76, 87 Iran 66 Iraq 25, 66, 252 Ireneo di Lione, santo 64 Irlanda 95, 95, 96 Iruya 213 Isacco 32, 65 Isaia 32 Iside 23, 24, 24, 26 Isidoro di Siviglia 76, 92 Israele 12, 13, 14 Istanbul 253; v. anche Bisanzio e Costantinopoli Italia 65, 86, 90, 95, 97, 102, 114, 159, 183, 184, 250 Jansen Cornelius (Giansenio) 146, 146 Joye George 167 Jungmann Josef Andreas 159, 172, 173, 187 Kaianos 9 Kantz Kaspar 166 Karlsruhe, Badische Landesbibliothek 51 Keble John 164 Kent 96 Kerala 70 Khor Virab, monastero 73 Kiev 166 Santa Sofia 237 Kircher. Athanasius 145, 168 Klosterneuburg, monastero 159, 230
Santa Geltrude 159 Kolbe Massimiliano, santo 220 Königsberg 167 Kornelimünster 106 Kraus Karin 179 Kraus Katharina 179 Kurth Godfried 157 Kyoto 241 Lambeth 165 Laon, Bibliothèque Municipale Ancienne Abbaye de Saint-Martin 104 Laozi 145 Larraona Arcadio 175, 176 Lazzaro, santo 32, 32, 54 La Madelaine, chiesa de 21 Leandro 92 Le Corbusier 161 Lefebvre Marcel 236, 238, 239 Leida, Universiteits Bibliotheek 102 Lenz Peter 152 León 92 Leone I Magno, papa e santo 61, 62, 81, 82, 85, 88, 255 Leone III, papa e santo 104, 104 Leone IV, papa e santo 65 Leone VIII, papa 116 Leone XIII, papa 156, 156, 168 Le Puy-en-Velay 196, 214 Lercaro Giacomo 173, 175, 176, 180 Lérins, monastero 93 Le Sueur Eustache 238 Le Thoronet 112 Leto Nino 243 Libano 70, 70, 71 Liborio, santo 98 Licinio Valerio Liciniano, imperatore 44 Liegi 137 Lione 129, 137 Lisbona, São Roque 228 Loehr Aemiliana 158 Londra 82, 168, 241, 246, 250 British Museum 145 Brompton 168 National Gallery 235 National Portrait Gallery 131, 148 Saint Paul 130 Westminster 82, 130, 131, 223 Lorenzo I, santo 37, 89 Loreto, Santa Casa 213 Loro Carlos González 242 Los Angeles 193 Nostra Signora degli Angeli 192, 193 Lourdes 213 Lovanio 146 San Pietro 18 Luca, evangelista e santo 11, 17, 18 Lucca 123 Lutero Martino 122, 127, 127, 128, 133, 166, 167, 167, 176, 220, 222, 228, 228 Luther King Martin 222 Luxeuil 95 Mâcon, Sinodo 62 Macrina, santa 42 Madrid Museo del Prado 244 Museo Thyssen-Bornemisza 132 Magonza 102, 106, 105, 144 Sankt Alban 102 Maktar 49 Malines 157 Mamre 12 Manila 241 Maran 25 Marco, evangelista e santo 7, 17, 18, 19, 67, 95, 107, 108, 228 Marcos Ferdinand 249 Mari 70 Maria Laach 156, 157, 158, 164 Marini Piero 250, 250, 253 Marsiglia 58, 93 Martini Francesco di Giorgio 127
Martino de Porres, santo 220, 222 Martino di Tours, santo 80, 211, 215, 238 Masaccio (Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai, detto) 244 Massachusetts 162 Massenzio Marco Aurelio Valerio, imperatore 44 Masson Joseph 188 Matenadaran 73 Matisse Henri 162, 204 Matteo, apostolo, evangelista e santo 17, 18, 19, 20, 50, 92 Maurin Peter 248 Mazille 193, 233 McDonnell Kilian 218 Mdhane Alem 69 Medellín 208 Me ugorije 208, 209 Meier Richard 192, 193 Meister Eckhart 125 Melchisedek 34, 97 Mérida 92 Merisi Michelangelo, v. Caravaggio Merovingi 93 Mesopotamia 28, 71 Messico 65, 162, 182, 208 Nostra Signora di Guadalupe 208, 209 Metodio, santo 74, 94, 166, 217 Metz Johannes 249 Metz 105, 105 Saint-Pierre-aux-Nonnains 93 Musée d’Art e d’Histoire 93 Micara Clemente 171 Michel Virgil 159 Michele, santo 211 Michler Martinho 159 Milano 43, 44, 48, 57, 58, 58, 59, 60, 86, 88, 90, 90, 91, 116, 127, 137, 142, 159, 202, 215, 230, 254 Biblioteca Ambrosiana 57, 98 Duomo 142, 201 Museo Poldi Pezzoli 200 Pinacoteca di Brera 170 San Lorenzo (Basilica Porziana) 89 San Maurizio 142 Santa Maria della Passione 142 Sant’Ambrogio 59, 89, 90, 225 Sinodo 142 Mileševa, chiesa dell’Ascensione del monastero 61 Millet Jean-Francois 155 Mindanao, monastero di Mututum 187 Minnesota 159, 218 Mitra 7, 23, 23, 24, 25, 26, 62, 158 Mohlberg Cunibert 158 Möhler Johann Adam 154, 155 Monaco di Baviera Bayerische Staatsbibliothek 64, 100, 114 San Michele 140 Moneo Rafael 193 Montano di Frigia 22 Mont-César, abbazia 157, 224 Montecassino 119 Monte Sant’Angelo 211 Montreal 168, 214 Montserrat, monastero 159 Mont Saint-Michel 211 Monza 85 Moravia 94 Mosa 104 Mosca cattedrale della Trinità di San Sergio 75 chiesa della Dormizione della Vergine 74 Galleria Tret’jakov 246 Mosè 32, 32, 39 Mosul, Museo Archeologico 25 Mozart, Wolfgang Amadeus 144, 145, 186 Münster 137 Universitäts- und Landesbibliothek 99
Müntzer, Thomas 166, 167 Nabak, monastero di San Mosè l’Etiope 67, 70 Nairobi 246 Napoleone Bonaparte 150, 150 Napoli 125 Museo Archeologico Nazionale 24 Nashdom 164, 165 Naum, santo 74 Nava John 193 Neander Johann August Wilhelm 154 Nebo, monte 9, 39 Neri Filippo, santo 201, 220 Nervi Pier Luigi 191 Nestorio, santo 70 Nevers 58 New Haven, Yale University Art Gallery 28 Newman John Henry, beato 164, 164, 168, 220, 236 New York 188, 241, 248 Morgan Library & Museum 203 Saint John the Divine 165 Saint Joseph’s House 248 Nicea 87, 236 Concilio 48, 60, 64, 87 Niemeyer Oscar 181 Nimega 245 Nohant-Vic, Saint-Martin 111 Nolde Emil 156 Nördlingen 166 Norimberga 127, 167 Germanisches Nationalmuseum 17 Numidia 87 Nuova Guinea 169 Oceania 225, 250 Ocrida (Ohrid), San Naum 74 Olanda 159 Onorio I, papa 47, 100, 100 Onorio III, papa 118 Origene di Alessandria 38, 56, 58, 65 Orlando 241 Ornans 155 Osiride 26 Ostia 45 Ostrogoti 93 Ottato di Milevi 87 Ottaviani Alfredo 180 Ottone I, imperatore 102, 116, 116 Ottone III, imperatore 64 Ottoni 98 Oxford 130, 134, 164 Paesi Bassi 245 Palencia, San Juan Bautista de Baños 91 Palestina 12, 13, 16, 34, 38, 42, 43; v. anche Terra Santa Pannonhalma 215 Paolo Diacono 106 Paolo III, papa 136 Paolo, apostolo e santo 16, 18, 18, 21, 34, 37, 68, 70, 71, 100 Paolo VI, papa 152, 176, 177, 178, 180, 185, 208, 230, 233, 235, 236, 238, 239 Paolino di Aquileia, santo 97 Parigi 98, 128, 159, 227 Bibliothèque du Saulchoir 137 Bibliothèque Nationale de France 9, 68, 93, 94, 104, 105, 108, 152 Champ de Mars 185 Institut Catholique 61 Musée Armenien de France 246 Musée Carnavalet 150 Musée de l’Armée 150 Musée du Louvre 136, 151, 155, 238 Musée Jacquemart-André 132 Notre-Dame 121, 214 Parma, Biblioteca Palatina 135 Parsch Pius 159, 230 Pasqua, isola 182 Patrizio, santo 97, 212
Pechino 145, 168 Pelagio II, papa 37 Perù 213 Pforzheim 166 Philanthropinon 10 Picart Bernard 16 Piemonte 211 Pienza, Museo della Cattedrale 200 Piero della Francesca 125 Pietro di Sebaste, santo 42 Pietro, santo 18, 19, 25, 26, 32, 37, 70, 118, 200, 228 Pinsk Johannes 158 Pinochet Ugarte Augusto José Ramón 248 Pio II, papa 200 Pio IV, papa 136, 136, 137 Pio V, papa e santo 64, 94, 122, 137, 137, 169, 180, 236 Pio VI, papa 148 Pio IX, papa e beato 168 Pio X, papa e santo 152, 156, 156, 157, 168, 170 Pio XI, papa e santo 70, 157, 168 Pio XII, papa 8, 70, 155, 170, 170, 171, 173, 174, 177 Pipino il Breve 100, 104, 105 Pisa, Museo dell’Opera del Duomo 98 Pistoia 146, 149 San Francesco 125 Sinodo 146, 147, 148, 176 Poitiers 94 Pola 40 Polonia 159, 216 Pompei 23 Pozzo Andrea 145 Praga 134, 136 Emmaus, monastero 159 Santa Maria della Vittoria 216 San Vito 216 Pramollo 134 Prato 146 Prignano Bartolomeo 133 Prometeo 127 Prospero d’Aquitania 244 Provenza 162, 204 Pudong (Shanghai) 242 Puebla 208 Pusey Edward Bouverie 164 Qumran 16, 17, 17, 20, 38, 39, 39, 65 Rabano Mauro 105 Rachi (Rachis o Ratchis), re longobardo 63 Raffaello Sanzio 123 Rahner Karl 246, 251 Rainaldo Carlo 139 Ratgario 106 Ratisbona (Regensburg) 95, 116, 152 Ratzinger Joseph 170; v. anche Benedetto XVI, papa Ravenna 86, 97, 110 San Vitale 97 Rebecca 32 Recesvindo, re 91 Reggio Calabria 213 Regno Unito 164, 169, 227 Reichenau 64, 116, 116 Sankt Georg 116 Reinhold Hans Anscar 158 Reinoso André 228 Renania 156, 157 Reni Guido 201 Reno 102, 104 Repubblica Ceca 217 Repubblica Democratica del Congo 86, 188 Reutlingen 167 Ricci Matteo 145, 145, 187 Ricci Scipione 146, 147 Rio de Janeiro 159 Roberto di Ginevra 133 Robusti Jacopo v. Tintoretto Roguet Aimon-Marie 159
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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI Roma 22, 23, 24, 25, 25, 26, 27, 30, 34, 43, 45, 47, 48, 57, 59, 61, 62, 64, 65, 66, 66, 71, 76, 76, 78-83, 83, 84, 85, 85, 87, 89, 93, 96, 97, 99, 100, 105, 110, 116, 118, 125, 125, 127, 132, 133, 137, 137, 140, 145, 148, 152, 173, 174, 180, 184, 185, 188, 193, 206, 211, 221, 222, 222, 227, 239, 242 Ara Pacis 198 Aventino 33 Biblioteca Casanatense 59 catacomba dei Santi Pietro e Marcellino 63 catacomba di Priscilla 40 chiesa del Giubileo di Tor Tre Teste 192, 193 Chiesa Nuova 201 Collezione Federico Zeri 49 Concilio Lateranense IV 118, 122, 132 Costantino, arco 82 Foro Romano 6 Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini 131, 138 Gesù, chiesa del 138, 139, 140, 140, 145 Impero romano 22, 23, 26, 88, 198, 199 Mitra, tempio 25 Museo Nazionale delle Terme 57 Pantheon (Santa Maria ad Martyres) 25, 26, 77 Ponte Milvio 44 Porta Maggiore 25, 26 San Callisto 81 San Ciriaco (Santa Maria in via Lata al Corso) 77 San Clemente presso il Colosseo 30, 30, 31, 46, 80, 81, 199 San Crisogono in Trastevere 46, 77 San Giorgio al Velabro 77 San Giovanni a Porta Latina 77, 85 San Giovanni, complesso ospedaliero 40, 57 San Giovanni in Laterano 45, 46, 47, 65, 77, 78, 100, 116 San Gregorio al Celio 96 San Lorenzo fuori le Mura 33, 37, 77, 85 San Lorenzo in Damaso 46, 77 San Lorenzo in Lucina 77 San Lorenzo in Panisperna 77 San Marcello al Corso 77, 80, 81 San Marco al Campidoglio 46, 77 San Nicola in Carcere 77 San Pancrazio 77 San Paolo fuori le Mura 26, 45, 47, 77, 85, 174 San Pietro in Lucina 46 San Pietro in Vincoli al Colle Oppio 77, 85 San Sebastianello 43 San Sebastiano (già Santi Apostoli) 43, 47 San Sisto Vecchio (Santi Nereo e Achilleo) 46, 77 San Vitale in Fovea 77, 85 Sant’Adriano 65 Sant’Agata dei Goti 85 Sant’Agnese fuori le Mura 46, 47, 100, 199 Sant’Agostino in Campo Marzio 77 Sant’Anastasia (San Teodoro) al Palatino 46, 77, 78, 79, 81 Sant’Andrea della Valle 139 Sant’Anselmo 227, 227 Sant’Apollinare in Campo Marzio 77 Sant’Eusebio all’Esquilino 77 Santa Balbina all’Aventino 46, 77 Santa Cecilia in Trastevere 30, 30, 77, 80, 81 Santa Costanza, mausoleo 198 Santa Croce in Gerusalemme 46, 77 Santa Maria ad Martyres in Campo
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Marzio, v. Pantheon Santa Maria in Domnica alla Navicella 77 Santa Maria in Trastevere 65, 77 Santa Maria Maggiore 34, 65, 77, 82, 84, 85 Santa Maria Nova 184 Santa Prassede all’Esquilino 77 Santa Prisca all’Aventino 77 Santa Pudenziana al Viminale 30, 31, 46, 77 Santa Sabina all’Aventino 33, 77, 79, 81, 83, 85, 222 Santa Susanna alle Terme di Diocleziano 77 Santi Cosma e Damiano in Via Sacra 77 Santi Giovanni e Paolo al Celio 9, 28, 29, 30, 77, 81, 85 Santi Quattro Coronati al Celio 46, 77 Santi Pietro e Marcellino 34, 77 Santi Silvestro e Martino ai Monti 77 Santi XII Apostoli al Foro Traiano 77 Santo Spirito, ospedale del 125 Santo Stefano al Celio 77 Santo Stefano Rotondo 46, 85 Sinodo straordinario per l’Africa 186, 187, 188, 189 Sinodo sulla Parola 231 Tor de’ Schiavi 33 Romaine William 149 Romani 22, 26, 27, 82, 88, 93, 198 Romania 74 Rombouts Theodor 244 Romero Óscar Arnulfo 220, 222 Ronchamp, Notre-Dame-du-Haut 161 Rosarno 243 Rubens Pieter Paul 170, 186 Rublëv Andrej 246 Russia (Rus’) 74 Saarinen Eero 162 Sacchi Andrea 137 Sacra di San Michele 211 Sacro Romano Impero 104, 108, 108; v. anche Impero franco-germanico Saint-Benoît-sur-Loire 110 Saint-Denis 114, 115 Saint-Germain-en-Laye 49 Saint Luke 165 Saint.Marcel de Crussol 49 Saint-Maur-des-Fossés 108 kyamuni, v. Buddha Saliers 250 Salisburgo 201 Salisbury 114 Salomone 12, 13 Samaria 34 San Diego 242 San Francisco, Saint Mary 191 San Gallo 95, 96 Stiftsbibliothek 96 San Gimignano, Sant’Agostino 224 Sano di Pietro 228 San Paolo 214 San Pietroburgo 64 Biblioteca Statale 75, 166 Sansepolcro, Museo Civico 125 Santa Caterina del Sinai 50 Santa Maria Capua Vetere 23 Santiago de Compostela 196, 211 Saqqara 41 Saragozza, Sinodo 62 Sassonia 134 Saul 13 Savona 159 Savonarola Girolamo 135, 135 Sceti 67 Schedel Hartmann 127 Schleiermacher Friedrich 154 Schott Anselm 169 Schuster Ildefonso 159 Schwartz Diobald 166 Schwebel Johann 166
Scozia 95, 165 Sebastiano, santo 43 Serbia 61, 74 Sercambi Giovanni 125 Sergio I, papa e santo 65, 83, 93 Serós 91 Sert Josep Lluis 195 Shakespeare William 186 Shanghai 242 Sheitla (già Sefetula) 87 Sichem 12 Siena 228 Silo 12, 12 Simmaco, papa e santo 82 Sinai, monte 12 Siria 6, 15, 20, 28, 37, 67, 70 Siviglia 65, 92, 125, 250, 251 Sofia, imperatrice 76 Soissons, Saint-Médard 108 Sokota 69 Soleri, Paolo 193 Solesmes 152, 152 Soria, San Baudelio di Berlanga 92 Spagna 62, 64, 105, 126, 169, 181, 184, 185, 234 Stati Uniti 158, 159, 165, 190, 191, 192, 218, 224, 241, 248 Stefano II, papa 65 Stefano, santo 6, 37, 196 Stern Robert 241 Stoccarda 233 Strasburgo 166, 167 Sun 145 Svizzera 95, 166, 215 Tagaste 43 Tarragona 92 Teatini 138 Tedeschi 118 Teodoro di Mopsuestia 50, 57, 58, 225 Teodoro, santo 70 Teodosio I, imperatore 45 Teresa d’Avila, santa 220, 222 Teresa di Calcutta, beata 252 Terra Santa 47, 51, 93, 206; v. anche Palestina Tertulliano 18, 23, 24, 27, 38, 56, 76, 87, 202, 225 Tettamanzi Dionigi 225 Tevere 102 Theotokopoulos Dominikos, v. El Greco Tiberiade, lago 14, 15 Tintoretto (Robusti Jacopo, detto il) 244 Tipasa 58 Tipperary, contea 96 Tiridate III, re 72 Tiro 31 Tiziano 136 Tlapan 162 Toledo 64, 86, 92, 137 Concilio 64, 199 Tolosa, Saint-Sernin 111 Tommaso da Kempis 125 Tommaso, apostolo e santo 70 Tommaso d’Aquino, santo 123, 251, 254 Tonantzintla 182 Torino 90, 127, 134 Museo Civico d’Arte Antica 127 Toronto 240 Toscana 146 Totila, re 119 Tours 104 Sinodo 62 Trebisonda 64 Trento 136, 137 Concilio 27, 86, 122, 132, 135, 137, 167, 168, 170, 176, 180, 212, 226, 228, 230, 236 Treviri 106, 137, 158, 159, 227 Tubinga 154, 155, 155, 171, 177 San Giorgio 155 Tunisi, Museo del Bardo 87, 88 Tunisia 49 Turchia 110
Turner Mary 60 Turner Victor 60 Uden 245 Ulster 96 Ungheria 215 Unni 48 Urbano VI, papa 132, 133 Urbino, Galleria Nazionale delle Marche 127 ‘Uyum Musa 9 Vandali 48, 88 Valentiniano II, imperatore 44 Valenziano Crispino 188 Vandali 48, 88 Vaticano 173 Biblioteca Apostolica Vaticana 12, 13 Concilio Vaticano I 64, 156, 236 Concilio Vaticano II 8, 10, 11, 18, 27, 36, 39, 81, 83, 86, 118, 124, 136, 137, 147, 148, 152, 155, 168-177, 177, 178, 180-182, 186-188, 190, 191, 208, 212, 218, 224-232, 234236, 238, 239, 244-246, 249, 250, 253 Musei Vaticani 6 Museo Gregoriano Profano 25 Palazzi Vaticani 123 Pinacoteca Vaticana 6 San Pietro 33, 45, 46, 47, 76, 77, 138, 138, 170, 174, 177, 186, 189, 252 Santa Rosa, necropoli 49 Velehrad 217 Vence 162 convento delle Domenicane 204 Venceslao, re e santo 216 Venezia Museo Archeologico 40 San Marco 203 Verona 37 Vézelay 21 Vianney Giovanni Maria (curato d’Ars), santo 220 Viboldone 230 Victoria 87 Vienna 159 Kunsthistorisches Museum 66, 107 Nationalbibliothek 145 Õsterreichische Nationalbibliothek 105 Vignola 139 Villani Giovanni 116 Vincenzo Ferrer, santo 209 Visconti Gian Galeazzo 90 Visigoti 48, 91 Vittore I, papa e santo 27 Vittore III, papa e santo, v. Desiderio di Montecassino Vittore di Vita 87 Wagner Johannes 159 Weyden Roger van der 121 Wertheim 167 Wesley Charles 149, 191, 220, 222 Wesley John 148, 149, 149, 191, 220, 222 Wessenberg Ignaz Heinrich von 148, 148 Whitefield George 149 Williams Rowan 222, 223 Wilmotte Jean-Michel 185 Wissenburger Wolfgang 166 Wittenberg, Santa Maria 228 Worms 167 Württemberg 152, 154 Wyclif, John 134, 134, 135 Ypres 146 Zaccaria, papa e santo 104 Ži/a, chiesa della Dormizione 65 Zorobabele 13 Zosimo, santo 43 Zwingli Ulrico 127, 127, 128, 166