Wole Soyinka, drammaturgo, poeta, saggista e attivista per i diritti umani, ha intrapreso una nuova carriera ritirandosi dalla vita pubblica. Ăˆ stato insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1986.
AL DI LÀ DELL’ESTETICA
AL DI LÀ DELL’ESTETICA Uso, abuso e dissonanze nelle tradizioni artistiche africane
wole soyinka
Dedicato alla memoria di Baajiki F. Adedeji Akintilo (Fabio Romani) Omo Sango-re-wopo di Ile-Ife, La Sorgente.
International Copyright © Wole Soyinka 2019
Sommario
© 2020 Editoriale Jaca Book Srl, Milano per l’edizione italiana Prima edizione italiana giugno 2020 Traduzione dall’inglese di Cristiano Screm Copertina e grafica Paola Forini / Jaca Book Stampa e legatura Grafiche Stella Srl, San Pietro di Legnago (VR) agosto 2020 ISBN 978-88-16-606111
Prefazione
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Un falso originale – giuro!
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2. Divinità procreative: la marcia trionfale degli Orisa 3. Dall’aso-ebi a N****wood
Pag. 73 Pag. 117
4.
Cahier di immagini
Pag. 143
Indice dei nomi e dei luoghi
Pag. 197
Crediti iconografici
Pag. 203
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it seguici su
Prefazione
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ue storie potranno servire a introdurre questi saggi e ad accompagnarci nei territori delle muse creative africane. La prima inizia con una visita a Dakar, Senegal, quasi un anno dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 che seminò il terrore a Haiti. Durante una conferenza all’Università di Lagos, nel maggio 2012, ritenni opportuno fare riferimento a quella visita e allo storico gesto del presidente senegalese Abdoulaye Wade, che aveva offerto terre e aiuti agli haitiani colpiti dal sisma e intenzionati a iniziare una nuova vita nella loro patria originaria. Alcuni lo fecero, e fu loro tributata un’accoglienza pubblica a Dakar. In quella conferenza, intitolata Monumenti arrugginiti e Rinascimento africano, dichiarai: Che altro, se non quella stessa sensibilità storica, ha indotto [il presidente Wade] a scegliere un punto del promontorio del Senegal, l’estremità occidentale del continente, come luogo simbolico in cui accogliere questi antichi dispersi? «Questo fu l’ultimo luogo che i vostri antenati videro mentre venivano trasportati via sulle navi schiaviste» ha dichiarato Wade. «È perfettamente appropriato che vi accogliamo qui al vostro ritorno.»
Consentitemi di sovrapporre ulteriormente la geografia alla storia ricordando che la cerimonia di benvenuto ebbe luogo all’ombra della gigantesca statua che Abdoulaye Wade aveva eret11
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to in quel tragico «Punto di Partenza», in una località nota come Collines des Mamelles. L’aveva battezzata Monumento del Rinascimento Africano. Vi consiglio di visitarla, se capitate da quelle parti – è una mole sbalorditiva di marmo e terriccio. Per farvi un’idea delle sue dimensioni, pensate che un ascensore in grado di trasportare tre persone adulte sale attraverso il collo della figura maschile del gruppo statuario – una triade composta da Madre, Padre e Figlio. Permettetemi una deviazione – non una digressione, ma soltanto una breve deviazione di pochi istanti, atta a descrivere l’impatto e l’importanza di questa statua. Si tratta di una struttura decisamente colossale – l’apogeo, il non plus ultra della monumentalità. Notevole è anche il fatto che non un solo aspetto della sua configurazione scultorea presenti la benché minima somiglianza con qualcosa di africano – di sicuro non la concezione, lo stile, le forme e nemmeno la gestualità. Le reazioni estetiche, va riconosciuto, sono perlopiù soggettive, ma anche la soggettività presuppone un bagaglio di incontri pregressi, o un’immersione nella tradizione, che stimola confronti istantanei. Mentre mi confrontavo con quel monumento – e anzi penetravo al suo interno, grazie al privilegio accordatomi di una visita personale guidata – la mia mente è corsa subito alle opere della scultrice shona Colleen Madamombe, e mi sono domandato chi diavolo fossero i consulenti del presidente in materia artistica, e se avessero condotto una ricerca anche soltanto superficiale all’interno del continente africano, prima di commissionare e/o adottare l’estetica dell’arte pubblica neofascista mascherata da realismo proletario. L’arte è parte integrante del contesto sociale. Laddove il tema coinvolge un soggetto storicamente sensibile come il Rinascimento, il «Rinascimento africano» e via dicendo, un leader che comprenda lo spirito della rinascita umanista e dichiari di esserne permeato, ma che sia rimasto indietro nella conoscenza del proprio retaggio figurativo e dei più recenti sviluppi contemporanei, dovrebbe se non altro cominciare sondando il contesto locale. Le sue buone intenzioni non giustificano l’imposizione di escrescenze palesemente straniere sul suo paesaggio nazionale, men che meno in un luogo segnato da un simile pathos storico. In realtà, come ho appreso in seguito, il
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Monumento del Rinascimento Africano, Dakar (Senegal).
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monumento era stato costruito da un consorzio nordcoreano. Ma d’altronde, vi è davvero motivo di lagnarsi? Anche il quartier generale del nuovo volto dell’Africa – l’Unione Africana – è stato edificato da partner stranieri, e inaugurato dal capo di Stato cinese! Nemmeno un concorso aperto agli architetti africani locali, o agli esponenti della diaspora? Nemmeno un gruppo scelto di professionisti selezionati dall’Unione Africana per affidare il progetto a uno scultore africano? Facciamo ora un rapido salto in avanti di sei anni e mezzo, sino al 22 dicembre 2018. Capitato nuovamente nel Senegal, ho soddisfatto il desiderio a lungo accarezzato di visitare lo studiogalleria dello scultore Ousmane Sow, oggi scomparso – un artista del quale indicherei con sicurezza in Auguste Rodin lo spirito europeo più affine. Mentre il curatore e il suo staff mi facevano da guida all’interno dello studio, il mio sguardo si è imbattuto in un gruppo di tre figure – si trattava chiaramente di uno studio, le cui dimensioni erano minuscole rispetto a quelle delle opere più familiari di Ousmane Sow, in grande formato. Involontariamente mi sono lasciato sfuggire un’esclamazione che non ripeterò. Una volta riavutomi, ho chiesto: «Ma dov’era nascosto? Dov’era, quando è stato eretto quel “coso” sulle Mamelles?». È seguito un balbettio di voci concitate, accompagnato da espressioni facciali angosciate. Alla fine è stato il curatore ad assumersi il compito di lasciare agli atti la seguente dichiarazione: «Signor Soyinka, questo era il progetto originale. In realtà, Ousmane Sow era stato scelto per presentare una proposta, e l’ha fatto – il modello è questo. Tuttavia, il Presidente lo ha rifiutato. Ha preferito quello nordcoreano che oggi sorge alle Mamelles». La vicenda è stata ripresa da altri, che perlopiù hanno dichiarato che la questione era tutt’altro che chiusa. Nessuno sembrava volere quel «coso», e il nuovo governo è tuttora soggetto a pressioni affinché se ne sbarazzi. Se ne continuava a parlare. Tutti erano convinti che, alla fine, quel pugno nell’occhio sarebbe stato tolto di mezzo. Fu proprio quell’incontro a farmi desiderare di ritornare nel Senegal e di visitare lo studio di Ousmane Sow, prima di tenere le Richard D. Cohen Lectures su cui si basano i saggi raccolti in questo volume. Questa serie di conferenze si era svolta l’anno
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Ousmane Sow, modello per il Monumento del Rinascimento Africano.
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Da sinistra: Colleen Madamombe, "Il mio fiore", "Quella via", "Il vestito" e "Nascondi!", verdite, African Contemporary Gallery, Lisbona, Portogallo.
precedente nel contesto di una mostra di arte africana ospitata dalla Cooper Gallery – si trattava perlopiù di sculture tradizionali yoruba tratte dalla mia collezione privata. La selezione era stata integrata con alcuni pezzi «significativi» di carattere contemporaneo realizzate da artisti africani, che rientravano tutte nel tema generale delle «Trasfigurazioni». Dopo l’illuminazione delle Mamelles, non ho potuto fare a meno di aggiungervi idealmente un ulteriore gruppo di materiali «significativi», da collocare in un angolino allo scopo di dare conto di un ambito diverso del gusto artistico – quello del potere e della politica, anche benintenzionati. Ma forse andava bene così. Date le innumerevoli ramificazioni di quella selezione – il potere dell’arte e l’arte del potere – sia la mostra sia le conferenze avrebbero subìto continue procrastinazioni. E dunque, ci limiteremo a giustapporre delle fotografie di questo scomodo connubio, nella speranza di stimolare ulteriori indagini nel campo dell’abuso, in particolare quello patrocinato dal potere. Ma se non altro, il curatore presidenziale del monumento al Rinascimento – e coloro che lo avevano progettato – avevano inteso ritrarre nient’altro che un concetto normativo, per quanto universalistico nei suoi propositi e aperto all’appropriazione da parte di culture diverse. Per quanto l’impulso tematico – il Rinascimento – possa essere collegato a vicende storiche specifiche e al recupero della creatività di specifiche stirpi o nazio-
ni, esso rimane nondimeno aperto all’espressione culturale di qualunque latitudine. Per contro, è quando ci si trova all’interno di espressioni artistiche provenienti dall’antichità, o anche concepite come entità atemporali – natura, procreazione, sacerdoti, preghiere, altari, avatar, oggetti votivi, archetipi, riti e perfino divinità –, che le norme della rappresentazione divengono, paradossalmente, maggiormente legate a specifiche culture. Alcune culture operano perfino in una direzione totalmente intesa all’annullamento – verso i territori della proibizione, come quelle tradizioni islamiche (non tutte, sia lode ad Allah!), in cui la rappresentazione della figura umana è considerata sacrilega. Il collezionista, inteso come mitologo compulsivo (e in questi saggi mi riconosco come tale), non può che imbattersi, all’interno di queste culture, in restrizioni intollerabili imposte alla propria passione. Il Monumento del Rinascimento è pur sempre meglio di qualsiasi forma di censura dell’«Anti-nascimento». Le opere d’arte esposte alla Cooper Gallery, raccolte a pochi isolati di distanza dalla sala conferenze, affondavano in gran parte le
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Il complesso architettonico dell’Unione Africana ad Addis Abeba, Etiopia.
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Il festival artistico in questione, intitolato Africa 95, riunì in Gran Bretagna artisti, opere e performance provenienti da tutto il continente africano per un dialogo straordinariamente articolato in una varietà di mezzi espressivi. Si trattò di un evento all’insegna della complementarità e dell’apprezzamento culturale e, al tempo stesso, di una mutua affermazione di «alterità» – attrazione e repulsione in dosi quasi identiche. Può essere utile ricordare che si era allora al culmine della «febbre da installazioni» – Damien Hirst esponeva squali-tigre sotto formaldeide, Christo e Jean-Claude mummificavano edifici e spazi pubblici e il movimento Young British Artists stava emergendo come presunta tendenza artistica dominante. Si può immaginare lo sconcerto degli artisti non europei, e in particolare africani, che si confrontavano per la prima volta con queste singolari proposte. Nel corso della mostra, durante la quale ebbi modo di interagire con artisti, spettatori e critici, diedi il seguente contributo all’evento:
loro radici nella mitologia yoruba. La speranza è che la loro presenza fisica riesca almeno in parte a trasparire anche dal freddo formato a stampa, ma è essenziale sottolineare che questo aspetto non è, tutto sommato, essenziale. Se vi faccio riferimento è soltanto perché si dà il caso che condivida l’idea che la natura di alcune delle opere in questione sconfini dal campo delle mere qualità estetiche, per penetrare nei territori dell’ineffabile, che si sottraggono a ogni definizione puramente critica o analitica. Idealmente, quindi, le fonti di ispirazione di questo tipo di opere – mortali, avatar e divinità – divengono parte integrante del discorso critico, implicano la comprensione del fatto che le loro rappresentazioni fisiche trascendano la mera dimensione oggettiva, e possiedono implicazioni culturali e anche spirituali. Incontreremo qualche esempio di ciò lungo il nostro cammino. Esistono effettivamente opere d’arte che offrono questo tipo di allusioni, e non mi riferisco qui alle sublimi rarità dell’arte escatologica – martirio, estasi, annunciazione, trasfigurazione – che si riscontrano soprattutto nell’iconografia cristiana, buddhista e indù. È questa dimensione liminale – fatta di presenze che aleggiano, non viste – a differenziare, ritengo, la maggior parte dei collezionisti (o almeno, una varietà specifica di questa specie) da tutti gli altri cacciatori d’arte, compresi i più appassionati patroni delle gallerie pubbliche, tra le quali annovero anche le gallerie all’aria aperta che nei fine-settimana affollano strade e parchi di molte città di tutto il mondo. I primi convivono con i tesori da loro accumulati, e sviluppano così nel tempo una relazione anomala con questi oggetti. Questo sentimento è particolarmente pronunciato nel caso dell’arte tradizionale, e si riscontra soprattutto nel campo dell’antiquariato, ma si estende anche al suo dubbio epìgono, quello che amo definire «artiquariato». In questi casi, la relazione produce eccessi di quello che non saprei definire in altro modo che «antropomorfismo artistico». La spiegazione forse più chiara di questa espressione si troverà nella seconda storia che avevo promesso, che trae origine da un evento artistico leggermente anteriore rispetto all’epoca del Monumento del Rinascimento di Dakar, ma inequivocabilmente imbevuto del medesimo spirito di fervore rinascimentale.
Come potranno confermare coloro i quali hanno familiarità con le mie occasionali incursioni nel mondo delle arti visive,
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La Whitechapel Gallery ospita una mostra intitolata Sette storie sull’arte moderna in Africa, la cui proposta è sotto vari aspetti unica. Ciò che il pubblico avrà modo di osservare è di fatto il frutto di un viaggio creativo – o meglio, di diversi viaggi, che hanno avuto inizio nel continente africano durante la preparazione del Festival. Se vi ho preso parte sin dall’inizio, è stato semplicemente in quanto gli organizzatori di questa componente del Festival non soltanto sono venuti in Nigeria per discutere con me le loro idee, ma hanno cercato di coinvolgermi a vari livelli. Dal momento che ero troppo occupato da alcune questioni alquanto urgenti per poter rispondere positivamente all’invito, spero che il ruolo che ho ora scelto di svolgere – quello di mediatore, o di medium sotto un certo aspetto – serva almeno in parte a titolo di compensazione... Non intendo certo affermare che gli artisti in trasferta si troveranno calati in un ambiente del tutto estraneo – sono perlopiù viaggiatori navigati, che hanno presentato le loro creazioni in gallerie europee e americane. No – sono le loro opere che potrebbero richiedere una mediazione, tenuto conto dell’ambiente e delle tendenze creative in cui queste creazioni africane sono state proiettate.
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ho una tendenza alquanto compulsiva all’antropomorfismo artistico, al punto di essere divenuto avvezzo a inventare una sorta di proto-dialogo tra le opere d’arte. Che cosa si dicono tra loro le opere, dopo che i visitatori se ne sono andati? E quali osservazioni si scambiano riguardo agli spettatori, ai loro creatori, e perfino ai più lontani antenati dei loro creatori? Devono per forza avere un’opinione in merito. Difficilmente scorrere le pagine delle recensioni – o le reazioni individuali degli spettatori comuni come voi e me, pubblicate sulle pagine delle lettere al direttore nelle riviste specializzate – può essere più illuminante che visitare fisicamente la galleria d’arte; ma in ogni caso, è fuor di dubbio quale delle due attività risulti più divertente. Ciò che mi preoccupa è che nessuno di questi commenti – o almeno, nessuno di quelli che ho letto – sembri considerare ciò che le opere d’arte stesse, spesso accorpate a forza per quanto provenienti dalle matrici culturali più incompatibili, si dicono tra loro – ammesso che si dicano qualcosa. Dopotutto rappresentano qualcosa, trasmettono una cultura, una sensibilità, una tradizione o una rottura deliberata con la tradizione stessa – e tutto questo ne fa l’esatto opposto di oggetti di contemplazione passivi o inerti. Non mi convince fino in fondo la semplicistica affermazione della rubrica «Focus» del Sunday Times, secondo la quale «durante lo scorso anno il pubblico ha imparato che una pecora morta può essere arte». È proprio qui che sta il problema. Se l’articolo si fosse limitato a dichiarare, per esempio, che una pecora morta può rivestire un’importanza rituale, o perfino essere oggetto di adorazione, non ci sarebbe nulla da eccepire. Tuttavia, quel commento in quel contesto implica un’appropriazione universalistica – e la mia reazione immediata è stata quella di domandarmi: «Quale pubblico?». Forse il pubblico di un artista del Mali o del Senegal, paesi dove la popolazione, in massima parte musulmana, macella un montone per la festa del Ramadan? È più verosimile che uno spettatore di questo genere mormori: «Che spreco di ottimo shish kebab!» Consideriamo ora il seguente commento alquanto familiare di uno spettatore: «I colori, le forme, le figure prendono vita!». Quadri che prendono vita, insomma.
Benché gli spettatori di questo tipo – critici, studenti, profani e specialisti – non esprimano propriamente l’antropomorfismo dell’arte nel suo senso più letterale, quale quello che troviamo nel Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, nella fantascienza o nel cinema del soprannaturale (un genere nel quale la produzione cinematografica pulp-surrealista della mia nativa Nigeria sta rapidamente prendendo piede), la metafora del «prendere vita» utilizzata da questi commenti critici offre abbondante materia di riflessione. Supponiamo, supponiamo solamente, che quei colori, quelle forme e quelle figure prendano realmente vita – d’altronde, chissà che cosa avviene veramente di notte alla Tate Gallery, dopo che le porte sono state chiuse... Immaginiamo gli habitué dei locali notturni di Malangatana scatenarsi insieme alle raffigurazioni del purgatorio di Bruegel, o alle immagini visionarie post-atomiche; o gli abitanti del regno di William Blake proiettarsi improvvisamente all’interno delle variazioni fetali di Skunder Boghossian. Chi può dire quali mitologie rituali trovino compimento quando la pecora impagliata prende vita e incontra la gabbia di vetro con la figura reclinata dell’installazione Sleeping Beauty? L’installazione Sleeping Beauty, preciso, fu “rappresentata” per diversi giorni da un noto artista e fu con ogni probabilità l’evento più discusso del Festival; il commento forse più pronunciato in quell’occasione – con toni quasi estatici – la definiva «senza tempo». Badate: non mancarono gli scettici e perfino i miscredenti, come quel giapponese, uno dei molti visitatori intervistati dal Sunday Times, che ammise di essere rimasto in agguato per ore intorno all’evento, armato di macchina fotografica, deciso a non lasciarsi sfuggire uno scatto memorabile qualora l’attrice avesse avuto un sussulto, avesse battuto le palpebre, avesse avuto necessità di grattarsi o fosse stata colta da un crampo. E l’attrice non trascorreva ventiquattro ore al giorno nella gabbia, ma tornava a casa a dormire nel suo letto la sera – perciò, il degenerato della pecora impagliata avrebbe sprecato il suo tempo se avesse sperato di sorprenderla mentre schiacciava un pisolino. In ogni caso, riflettei a lungo su quel commento, nel tentativo di riconciliare quell’«assenza di tempo» con l’aura delle antichità
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L’esposizione "Sette Storie dall’Arte Moderna in Africa", realizzata dalla Whitechapel Gallery di Londra nell’autunno del 1995, entro la più ampia cornice del festival d’arte "Africa 95". 22
Una delle sale dell’esposizione "Africa: Art of a Continent", tenuta presso la Royal Academy of Arts di Londra nel 1995, parte dell’evento d’arte intercontinentale "Africa 95". 23
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appartenenti a una diversa matrice culturale: antichi riti legati al risveglio della terra dopo il lungo sonno invernale trasposti nel moderno linguaggio dell’installazione? La natura senza tempo o «perenne» è forse ciò che contraddistingue il mondo delle antichità, e rimane un valore intrinseco assai ricercato, sia da parte dell’artista sia da parte del consumatore. La capacità di esprimerlo con successo definisce in buona parte il territorio dell’estetica, e questo è un tratto che condivide con il mito. Non sorprende che la «Bella Addormentata» riaffiori di anno in anno nelle pantomime natalizie e sia stata riproposta praticamente fino alla nausea in musical e cartoni animati – e forse, per quanto ne so, potrebbe aver già invaso anche il territorio dei videogiochi. Si tratta di affinità nella trasposizione del tempo che incontriamo in culture estremamente lontane tra loro, e all’interno di una varietà di stili e forme all’interno di una singola società – ed è proprio la natura estremamente transitoria dell’arte, forse, a costituirne il tratto più distintivo. L’aspetto complementare è che l’arte si manifesta anche – e può essere fatta risalire a tale origine – come prodotto di culture e tradizioni specifiche, un prodotto che mantiene una congruenza con le sue origini ancestrali, a prescindere dalle sue trasfigurazioni. «Contaminazione musicale» è oggi un’espressione corrente, utilizzata con sussiego perfino da individui che talvolta sospetto essere irrimediabilmente privi di orecchio musicale. La mia idea è che la contaminazione nel campo delle forme artistiche abbia preceduto quella nel campo musicale – la loro somma logica, in varia misura, ci presenta una serie di culture «contaminate». Il movimento espressionista europeo, che trasse ispirazione dal contatto tra gli europei e la scultura africana (in particolare le maschere), è la manifestazione più vivace di questa innata capacità della mano dell’artista, e non ha senso ritenere che non possa mai avere luogo un movimento in direzione opposta tra due generi identificati – una restituzione del favore, per così dire. Il dinamismo che caratterizza lo sforzo innato delle arti – consapevole o meno – di conservare da un lato un’identità originaria e dall'altro di indulgere al carattere volontaristico, che costituisce la natura transitoria della creati-
vità, illustra un’ulteriore dimensione della resa contemporanea delle forme tradizionali, che oggi si estende anche al cinema e alle composizioni elettroniche. Una bella fatica in meno per critici d’arte e analisti culturali! Quanto ai collezionisti, concluderò affermando che, all’interno di quella miniera così ricca di gusto e bellezza, di fascino, soggettività, tradizione, tendenza e sperimentazione che sovente guida le scelte artistiche, essi rimangono – per utilizzare un termine poliziesco – «individui oggetto di attenzione»; e, in alcuni casi particolarmente seri, anche della propria. Parte di questi saggi fornisce annotazioni comparative che si concentrano su altri individui dediti a questo tipo di attività introspettiva. La bellezza è davvero «nell’occhio di chi guarda»? Prendendo spunto dal festival Africa 95, un evento artistico intercontinentale organizzato per smentire l’affermazione reciprocamente esclusivista secondo cui «l’Oriente è Oriente e l’Occidente è Occidente», abbiamo evocato due gruppi di «individui che guardano», appartenenti alle due estremità di questo asse, per intraprendere questa ricerca creativa che sembra irretire l’umanità, dai nostri antenati abitatori delle caverne sino al giorno d’oggi. Comune a ogni epoca e cultura, dobbiamo riconoscerlo, è quel narcisismo specista che si manifesta oggi nella famigerata e pervasiva mania dei selfie – una fascinazione per la nostra specie come soggetto principale. In effetti, pur riservando sempre un’esistenza minoritaria alle culture che predicano il contrario, il mondo brulica di incisive testimonianze senza tempo che dimostrano come lo studio (o la raffigurazione) della figura umana costituisca l’esordio della conoscenza artistica. È da questo punto di osservazione che abbiamo tratto, in tutta innocenza, i nostri «individui che guardano», affinché ci guidino in questa versione abbreviata di un viaggio che ci porterà tuttavia da un capo all’altro dell’Atlantico, dal continente africano alle Americhe. La speranza è che al termine del viaggio la nostra prospettiva risulti almeno un poco più ampia. Per conseguire la saggezza estetica impiegheremo forse un tantino di più.
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a bellezza è nell’occhio di chi guarda. Questa affermazione ci offre senz’altro un possibile cammino verso la pace della saggezza estetica. La mia proposta, tuttavia, è di utilizzare questa prospettiva alquanto consolatoria soltanto come pratico punto di partenza per un’impresa più modesta: quella di un viaggio estetico. Esordirò quindi evocando brevemente due di queste «persone che guardano», nel ruolo di incarnazioni di ambiti contrastanti del gusto culturale. A designare il primo sarà un celebre poeta, in compagnia di un altro. Malgrado i loro passatempi poetici, i due sono pervasi – fortunatamente – dallo spirito malizioso di Esu, la divinità yoruba che presiede al caso nelle vicende umane. Esu non sarà forse uno dei sette dèi principali del pantheon yoruba, ma è comunque una divinità con cui né i mortali né gli immortali osano scherzare. Presiede ai crocevia, i luoghi delle scelte che disorientano, dove perfino la razionalità può tradire i sapienti. Con il volto che guarda sia in avanti sia all’indietro, veglia sui cancelli stessi della sapienza, la cui divinità, Orunmila, è tra le più venerate tra i sette numi principali. Sulla questione della bellezza, Esu approverebbe le malefatte di Puck del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare – e anzi, gli darebbe manforte! Non stupisce che sia un’entità assai poco compresa. Ha scarso rispetto per «il più bel piano, sia topesco o umano»1. Eterno iconoclasta, prende di mira gli aspetti farseschi della pompa e delle cerimonie, deplora gli eccessi di solennità nelle 27
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chiaramente onorata di poterne coltivare la frequentazione. In ogni caso, il giovane si immerse interamente nelle opere d’arte generosamente esposte nel giardino e nelle sale del palazzo della Guggenheim, che quest’ultima apriva al pubblico in determinati giorni della settimana. Ecco dunque un brevissimo racconto del giovane, tratto dalle sue memorie, Sul far del giorno:
vicende umane e biasima perfino l’afflato divino, al quale contrappone un appropriato «deflato». L’individuo pomposo e il dogmatico – in particolare il secondo – suscitano le sue ire. E con questo, abbiamo offerto con destrezza il primo boccone riservato a quel maestro di dialettica che è Esu. Tra le divinità yoruba, è lui, tradizionalmente, il primo che occorre propiziarsi, per evitare che mandi a gambe all’aria la tavola della festa proprio quando la letizia è al culmine. A un livello più specifico, tuttavia, i nostri protagonisti mi permettono di introdurre una serie di temi che spero manterremo al centro della nostra attenzione durante questa conversazione. Dunque, senza ulteriori indugi, diamo inizio al nostro viaggio. Saliremo a bordo di una gondola nella città riconosciuta dal mondo intero come il cuore della bellezza più sublime, sia per il suo paesaggio sia per la sua eleganza strutturale – la città dei cento canali, Venezia. Al nostro primo protagonista il compito di dare inizio al nostro viaggio, sollevando le familiari questioni di natura e cultura, inculturazione e acculturazione, familiarità ed esotismo, storia e contemporaneità, originalità e tradizione – tutte le complicazioni, insomma, che caratterizzano qualunque discorso che riguardi l’estetica. Sarebbe pressoché impossibile immaginare una coppia più incongrua di protagonisti, intesi sia come esponenti delle rispettive formazioni culturali sia anche come individui peculiari all’interno dei loro stessi ambienti culturali. Ho voluto scegliere deliberatamente due estremi. Il nostro primo gruppo comprende un’ereditiera veneziano-americana, protagonista dell’alta società e patrona delle arti, di nome Peggy Guggenheim, e due celebri poeti: il britannico Stephen Spender e l’anglo-americano W.H. Auden, a cui cederemo la parola per l’introduzione. L’anatomia femminile è un’ossessione artistica che ci accompagna costantemente, sin da tempi immemorabili e in tutte le culture – benché quella maschile occupi un posto dominante pressoché eccezionale nella statuaria greca e romana. Ed ecco Auden rivolgersi al presente scrittore, all’epoca giovane uomo in procinto di avventurarsi non soltanto in un ambiente estraneo – sul piano culturale e fisico – ma anche in una classe sociale sospetta. Ciò non gli impedì – tutt’altro – di fare baldoria in compagnia di due stelle del firmamento letterario britannico e di un’aristocrazia che appariva
Prevedibilmente, il menu comprendeva anche l’opera, da seguire dal palco personale riservato all’ereditiera. Una volta rientrati a palazzo, tuttavia, «W.H. Auden continuava a distrarmi, impedendomi di deliziarmi gli occhi con la collezione di palazzo: “Quando ti volti, ragazzo mio, non dimenticarti di guardarle il posteriore. Se n’è fatto tagliare via un pezzo dal chirurgo, se l’è fatto smussare un po’ per mettersi i suoi amati abiti anni Venti in stile Charleston”». Tanto basti per quanto concerne Venezia e l’allettante collezione artistica completa di cronaca in diretta a cura dei due poeti. Passiamo ora a un celebre «ospite fisso» del panorama nigeriano, un personaggio che ha governato il mio Paese per due volte – una in veste di dittatore militare, l’altra come presidente civile eletto: Olusegun Obasanjo. Se si trattasse di scegliere un portavoce dell’estetica africana nella sua forma più elementare, tanto i suoi ammiratori quanto i suoi detrattori concorderebbero sull’impossibilità di scovare un promotore più impenitente dell’estetica d’Africa. Vi prego di scusarmi se non lo cito alla lettera – occorrerebbe troppo tempo per spulciare per l’ennesima volta i tre volumi delle sue tediose memorie semi-fittizie e scovare la citazione esatta; ma vi assicuro che non gli farò torto. Per prima cosa, però, permettetemi di citare un commento dei media nigeriani a proposito dei recenti festeggiamenti per il quarantennale del secondo World Black and African Festival of Arts and Culture (festac) del 1977, tanto per illustrare le credenziali culturali del personaggio. Al nostro protagonista numero due viene attribuita la seguente dichiarazione: «Abbiamo celebrato il festac
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I due poeti [cioè Auden e Spender] mi presero in consegna e mi svelarono le sorprese della cultura locale, compresa la fabbrica del vetro dove comprai una fine bottiglia decorata a spirali, sopravvissuta per miracolo a tutti i miei spostamenti.
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per mostrare al mondo che i popoli neri e africani possiedono una cultura... E che cos’è la cultura? È la totalità degli usi della nostra gente, il suo cibo, le sue danze, le sue canzoni, i modi in cui si sposa, i modi in cui seppellisce i suoi morti. La cultura è la totalità dello stile di vita di un popolo». Non c’è partita... Ed ecco le sue opinioni sulla bellezza, tratte dalle sue memorie. Il nostro scurissimo indigeno del regno yoruba di Owu, vicino alla mia nativa Abeokuta, narra di come, durante un corso di addestramento militare in Gran Bretagna, lui e i suoi compagni valutassero le donne con le quali entravano in contatto. Un giorno, uno dei suoi compagni di stanza iniziò a decantare uno di questi incontri femminili, descrivendo con toni lirici le gambe della fanciulla in questione. Il nostro trovò la cosa singolare, e finì per perdere la calma. Non poté fare a meno di sbottare – ed ecco più o meno come racconta l’episodio: «Lo guardai in faccia e mi dissi: “È impazzito? Che c’entrano con la bellezza le gambe di una donna? A chi interessa guardare le gambe di una donna?”». Non sono le sue parole esatte, lo ammetto, ma rendono l’idea dei suoi sentimenti. E lasciate che ammetta un’altra cosa, giusto per rassicurare tutti – e in particolare i miei compatrioti nigeriani – che non vi è alcun intento maligno nella mia scelta dell’ex-generale Olusegun Obasanjo come punto di riferimento: devo confessare che anch’io, da studente nello stesso Paese, mi stupii notando come i miei compagni di classe britannici andassero in estasi di fronte alle gambe femminili. Mi sembrava una sorta di feticismo volontario. La cosa mi irretì a tal punto che talvolta mi perdevo parte dei seminari – ero troppo intento a esaminare la struttura delle gambe delle nostre compagne che si accavallavano e si raddrizzavano, mentre avrei dovuto esaminare la struttura della mente di Goneril attraverso gli occhi di re Lear. In seguito, naturalmente, imparai ad apprezzare le gambe realmente eleganti, ma l’idea di considerarle separatamente, come punto focale della bellezza, mi rimase estranea ancora a lungo. Tanto per precisare che questo quadro non riguarda soltanto la Gran Bretagna e le vittime del suo indottrinamento coloniale, possiamo aggiungerci una pennellata di Giappone. I giapponesi – e in misura minore i cinesi – erano soliti infliggere alle loro don-
ne orribili sofferenze in nome del concetto secondo cui «piccolo è bello». Le procedure impiegate per fasciare i piedi delle bambine fin quasi dalla nascita, per poi costringerle ad adottare un passo impettito considerato assai ammirevole, e le sofferenze causate da queste procedure... Tutto ciò renderebbe queste culture passibili di essere processate retroattivamente all’Aia per sevizie contro le bambine. Rivolgiamoci ora all’artista tradizionale yoruba, per un parere in più. Per lui sono altre parti anatomiche – le natiche e il seno – a rivestire il massimo valore; e questo artista vi assicurerà che è la fertilità, ancor più delle parti anatomiche vere e proprie, a determinare in modo fondamentale il concetto di bellezza femminile. Braccia e gambe possono essere appena sbozzate o perfino eliminate del tutto, la testa e la mascella possono essere allungate in modo irreale, dando vita alla famigerata conformazione «prognata», e i piedi possono assumere proporzioni esagerate (ciò che in patria eravamo soliti deridere con l’espressione «fuori-misura londinese»), venendo solitamente ridotti a una rozza indicazione delle cinque dita. Ma quelle due componenti, seno e natiche – associati alla nascita e all’allevamento dei figli, e che nel secondo caso fungono anche da sella confortevole e sicura per il bambino, sorretto secondo la tradizione all’interno di una fascia disposta lateralmente o posteriormente –, sono oggetto di un’attenzione tutta speciale. In generale, le figure che incarnano la fertilità e gli oggetti a esse associati occupano un ruolo dominante in gran parte della statuaria yoruba e di altre tradizioni africane. L’industria africana dei video musicali non ha fatto che proseguire – e sviluppare – un motivo presente in numerose danze di tutto il continente africano, una risorsa che è stata portata alla ribalta nella scena pop internazionale dal rivoluzionario musicista Fela Anikulapo Kuti. Per lui e per le sue «regine», le danze si aprivano e si chiudevano con l’esortazione «Scuotete quello yansh!». La danza ghanese Tora è un tributo al dominio delle natiche femminili, che ha trovato in seguito un’espressione unisex negli Stati Uniti nella musica e nel ballo Bump. Ma torniamo al nostro artista tradizionale, e lasciamogli l’ultima parola: per lui, l’elemento decisivo era la procreazione, ed erano i simboli che la rappresentavano a
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Mi sforzo di immaginare un intagliatore tradizionale africano a una sfilata di moda a Parigi, Londra, Tokyo o New York, di fronte a modelle emaciate dalle gambe scarne e dalle ossa in rilievo, sfoggiate come ideale della bellezza e incarnazione dell’eleganza femminile. Il povero diavolo, scandalizzato, ritornerebbe in tutta fretta nel suo villaggio per dare inizio a riti di purificazione contro l’epidemia piombata sull’Europa. E si troverebbe in buona compagnia. Una volta mi trovavo negli studi di un’emittente televisiva parigina, in attesa di essere intervistato. Mentre venivo accompagnato lungo il corridoio in direzione dello studio, attraverso la porta aperta della green room, scorsi un gruppo di giovani donne che venivano truccate prima di andare in onda. Senza la minima esitazione, e a dispetto dei miei contatti pluridecennali con il mondo delle modelle, pensai istintivamente che si trattasse di persone affette da Hiv-Aids, invitate perché contribuissero alla campagna contro la stigmatizzazione dei malati – campagna alla quale si dà il caso che avessi preso parte anch’io in Nigeria. Non fui nemmeno sfiorato dal pensiero che si trattasse di modelle africane in procinto di «percorrere la passerella» per sfoggiare le mode africane del momento!
L’atto della procreazione concepito come significato centrale dell’anatomia umana, che sostiene e promuove l’esistenza, pervade anche l’arte della miniatura, in particolare per quanto riguarda gli ibeji, le raffigurazioni del prodigio/benedizione incarnato dai gemelli, tipiche della cultura yoruba e amatissime dai collezionisti. Gli ibeji si contendono il primato con le sculture intagliate legate a Ifa, lo spirito della divinazione, soggetto a Orunmila, dio della saggezza. Ifa è la prima e l’ultima destinazione degli yoruba, alla quale il supplice ricorre per ottenere un’indicazione e/o un intervento riguardo agli obiettivi e alle sorti dell’esistenza quotidiana, in cui la continuità viene considerata il valore principale. Ciò spiega la cura con cui si cerca di non spezzare la catena che forma l’universo collettivo degli yoruba – l’universo dei morti, dei vivi e dei non nati. È per questo che, come possiamo vedere, un fardello enorme – perfino esagerato, forse – grava sulla donna in veste di pilastro di questa visione del mondo e di giustificazione dell’esistenza umana. Al centro dell’iconografia yoruba vi è la proliferazione di questi tre motivi: la Madre (o la Madre con il Bambino), l’ibeji e Ifa. L’iroke, la bacchetta simbolica – solitamente di legno, d’osso o d’avorio – che bussa alla porta di Ifa per dare inizio alla comunicazione, ed è abitualmente decorata da raffigurazioni della donna, idealmente con un bambino sulle ginocchia o sorretto sulla schiena. L’iroke stimola Ifa all’ascolto, senza il quale naturalmente nessuna invocazione può andare a buon fine. Spesso questi motivi mi sembrano racchiudere la trilogia tematica dell’arte dell’intagliatore. Se dovessi tracciare una correlazione tra questa trilogia rappresentativa e l’altra – cioè la trilogia della visione del mondo yoruba nella sua totalità – suggerirei che la Madre rappresenti i vivi (o più semplicemente la vita), il bambino i non nati e Ifa gli antenati; naturalmente sto semplicemente applicando i miei schemi di correlazione personali, e non intendo affatto suggerire che sia questo il manifesto dell’artista. Ci si potrebbe perfino spingere sino a sostenere, esagerando solo lievemente, che gli altri motivi artistici non siano che semplici varianti di questa trilogia – varianti parziali o ricombinate. Di sicuro, lo studio dell’arte delle figure votive, delle cariatidi, dei pilastri delle case e perfino delle rappresentazioni delle divinità suggerisce sovente la presenza di
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dare vita a una vasta gamma di espressioni artistiche vivacemente celebrative. A conferma di quanto ho detto citerò una curatrice nigeriana, Umebe Onyejekwe. Nelle sue note redatte per la prima mostra pubblica di opere tratte dalla mia collezione – ne riparleremo più avanti – si legge: Un altro elemento fortemente valorizzato dagli africani è la nascita. La nascita di un bambino costituisce un’occasione importante che coinvolge tanto i vivi quanto i defunti. L’impossibilità di avere un figlio è una preoccupazione assai grave non soltanto per la coppia, ma anche per la famiglia, il clan, il villaggio e i defunti. È una questione che preoccupa i morti ancor più dei vivi. Per garantire la fertilità – tanto degli esseri umani quanto delle colture alimentari – gli artisti si sforzavano in ogni modo di rendere giustizia a questo aspetto della loro religione e della loro esistenza, creando oggetti legati alla fertilità. Si offrono preghiere e libagioni, e per garantirne l’efficacia si utilizzano opere d’arte di ogni sorta.
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Tenete a mente questo misterioso bambino chiamato Abiku. Lo incontreremo ancora durante la nostra esplorazione delle tormentose bizzarrie dell’attività artistica. Per ora, per quanto bizzarro e tormentoso possa apparire talora il processo artistico, possiamo affermare di avere in mano un qualcosa di tangibile che ne costituisce il prodotto – e questo «qualcosa» è
appannaggio della controparte fondamentale dell’attività artistica nel suo insieme: il collezionista. Chi è costui, o costei? Qual è la sua motivazione? Come sappiamo, esistono collezionisti di varie forme e dimensioni, che spesso sono legati a specifiche culture e vicende storiche tanto quanto gli artisti stessi. Il sottoscritto riconosce di essere colto da spasmi quando si sottopone occasionalmente a un esame quale portatore del virus dell’acquisizione compulsiva – e credo sia il momento adatto per avviarmi verso il confessionale. Prima di tutto, chiariamo subito che, per quanto questa affermazione possa suonare inverosimile, non amo particolarmente esporre le opere della mia collezione. Malgrado questa ammissione, d’altro canto, ho acconsentito a organizzare in tutto tre mostre – anzi, diciamo tre e mezza... Questa sarebbe la quarta. Probabilmente è proprio questo il genere di contraddizioni che le opere d’arte suscitano nel collezionista. Il contesto tematico nascosto – ma fondamentale – è, in fin dei conti, il collezionista stesso, e malgrado entri in gioco un curatore con inclinazioni tematiche proprie, gli elementi caratterizzanti fondamentali rimangono pur sempre «prodotti» del collezionista – le sue avventure, le sue motivazioni, il risultato dei suoi giudizi, i suoi capricci, gli incontri casuali e occasionalmente i doni. Non mi riferisco naturalmente alla genìa tutta particolare dei collezionisti monotematici, fissati con un unico genere, per i quali il fattore estetico svolge un ruolo del tutto secondario o inesistente – collezionisti di scatole di fiammiferi, collezionisti di figurine di baseball e altri fanatici di specie rare, in via di estinzione o estinte. In definitiva, il punto è che non si collezionano opere d’arte per gli altri, ma per sé stessi. Inoltre, le motivazioni di ognuno sono diverse tra loro quanto le opere di una collezione. Per alcuni si limitano al calcolo commerciale, specie laddove le opere d’arte possono raggiungere prezzi astronomici. In Gran Bretagna, per esempio, si sa che le imposte di successione stimolano l’avidità dei collezionisti. Il tipo di collezionismo a cui ho dovuto infine ammettere di dedicarmi è in fin dei conti un’estensione privata del sé – e come sappiamo esistono individui che detestano invitare estranei nella propria casa. Perciò, era semplicemente inconcepibile che nascesse in me l’idea di prelevare frammenti di questa «casa» interiore – perenne-
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un costante opportunismo – «quale che sia il tema, inserisci quei simboli»! Sottolineiamo, inoltre, che capita di rado di imbattersi in una scultura intagliata che rappresenti un bambino isolato – è un soggetto estremamente raro. L’ibeji – a dispetto della sua proliferazione – è una sorta di abbreviazione artistica che sostituisce questa invocazione alla fertilità. Sovente esprime simultaneamente una supplica, la soddisfazione di un desiderio e una celebrazione. Diversamente da quanto avviene in altre culture, per esempio quella igbo, in cui i gemelli erano temuti come esseri anomali e malvagi, per gli yoruba i gemelli sono motivo di particolare letizia. Tuttavia sono anche motivo di ansia, poiché la mortalità infantile si manifesta in modo più marcato nel caso dei gemelli, dove rimane un’immagine identica a mantenere vivo nella famiglia il ricordo del neonato perduto. Da qui il legame tra gli ibeji (gemelli) e l’Abiku, «colui che nasce per morire». La felicità della nascita va di pari passo con il timore sotterraneo di una possibile perdita. Nell’introduzione a una precedente mostra intitolata La forza della miniatura nell’arte africana, un piccolo evento organizzato a Freedom Park di Lagos, scrivevo: L’arte degli ibeji, che costituisce il nucleo di questa selezione, è autogena; intendo dire che costituisce un genere indipendente, a sé stante, governato da norme formali proprie, sebbene caratterizzato da innumerevoli variazioni nella relativa importanza delle parti anatomiche e dei loro ornamenti. Nel connubio tra forme e dimensioni è integrata ed evocata anche la mitografia dell’abiku – il bambino che muore, rinasce, muore e rinasce nuovamente. Da qui il paradossale bagaglio di età – o assenza di età – che contraddistingue questi neonati problematici ed è condivisa dalla loro rappresentazione artistica – quasi spuntassero già formati da un grembo gravido di sofferenze, più saggi di quanto giustificherebbe la loro età anagrafica.
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mente in costruzione e oggetto di costanti ristrutturazioni, riconoscimenti e riconciliazioni. Le circostanze che hanno fatto crollare questa barriera hanno a che vedere con la storia stessa dell’arte e della vita africane. Tutto fu dovuto alla tenacia della succitata curatrice, Umebe Onyejekwe – una non-yoruba (dato interessante) da poco inviata nel mio Stato natale, l’Ogun, nel 1984. Era una piccola ed energica signora di origini igbo che mostrava chiaramente di conoscere e di amare il proprio mestiere, e che non poté resistere alla tentazione di intromettersi con la sua rinnovata consapevolezza nella vita culturale pubblica della sua nuova comunità, che si dà il caso fosse la mia. Mise a segno il suo colpo vincente quando si offrì di identificare, catalogare ed etichettare tutti gli oggetti della mia casa, in modo che fosse possibile denunciarne più facilmente la scomparsa qualora avessi subito altri furti – ne avevo già dovuti sopportare diversi, alcuni dei quali avevano avuto effetti alquanto devastanti sulla mia psiche. Forse troverò il tempo per raccontarne qualcuno, prima di terminare. Dopotutto, ci siamo imbarcati in un viaggio all’interno della lussuria artistica – non la si può definire in altro modo –, una lussuria da gratificare in tutte le sue ramificazioni, comprese quelle di natura criminale. Come sempre accade, ulteriori elementi giocarono in suo favore, tra cui il suo incontro casuale con uno dei miei giovani protégé informali che stava muovendo i primi passi nel mondo degli affari. La tempistica fu decisamente fortunata, poiché proprio in quel periodo la mia pulsione acquisitiva aveva preso di mira un santuario di famiglia della mia città universitaria, Ile-Ife, nota anche come la culla della razza nera e anzi dell’umanità stessa – ma possiamo stare certi che gli europei contesteranno la seconda affermazione, citando qualche altra località... Sembrava quasi un piano divino preordinato: il giovane imprenditore, infatti, mi aveva comunicato che la sacerdotessa del santuario agognato era sua nonna. Così, avevo iniziato a elaborare in segreto i miei subdoli piani per un regolare saccheggio del santuario in questione. La coincidenza tra i due incontri, naturalmente, contribuì a smussare gli spigoli più taglienti del mio istintivo protezionismo familiare – una collezione, ricordiamolo, altro non è che una parte
Yoruba, una suggestiva coppia di figure Esu con degli uccelli in rilievo sul capo in legno, stoffa, perline e conchiglie, appartenenti all’iconografia degli Ibeji/Abiku, 54 × 10 cm, datazione sconosciuta. Queste figure sono note anche come servitori delle emissarie della Madre Terra (le streghe).
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della famiglia allargata. Il protégé era destinato a sponsorizzare la prima uscita pubblica della mia collezione privata. Tra un istante citerò le parole del giovane imprenditore. Il suo racconto servirà a ricordarci che i culti tradizionali africani, e i loro sedimenti simbolici che definiamo opere d’arte sacra, accompagnavano l’esistenza quotidiana degli yoruba come abitanti della casa, simili in tutto al resto dei familiari. Inoltre, dato che il tema del collezionista come specie umana a sé stante costituirà un filo conduttore di tutta la nostra conversazione, questo episodio ci servirà ad anticipare quella che io stesso riconosco essere, almeno talvolta, una sorta di possessione – in senso letterale. Ma ciò che mi interessa davvero qui è il contesto che descriverò tra un istante. Esso riproduce sin nei minimi particolari quello della casa di mio nonno a Isara, e di diverse altre case che mio nonno era solito trascinare tutti noi (e me in particolare) a visitare, come prigionieri stranieri condotti in processione dall’ostile atmosfera cristiana della chiesa di St. Peter ad Ake, presso Abeokuta. La mia sensibilità di bambino oscillava tra questi due poli – Abeokuta, vistosamente cristianizzata, e Isara, cocciutamente tradizionale benché generosamente cosparsa di affermazioni cristiane. Scrive il nostro giovane sponsor: Mia nonna Sango-re-wopo, oggi scomparsa, era la Somma Sacerdotessa del santuario di Sango che sorgeva nel cortile di mio nonno, anch’egli scomparso, costruito simbolicamente accanto al pozzo, unica fonte di acqua potabile per l’intera famiglia e principale ambito di autorità del suo capo. Mi riferisco alla famiglia del grande cacciatore in persona, Baba Atani Iwara, nella cui giurisdizione sorge il complesso di Ogbingbin, nell’antica città di Ile-Ife, La Sorgente.
Deji Akintilo – questo il suo nome – prosegue descrivendo le reazioni della sua giovane mente a questa atmosfera intrisa di spiritualità yoruba: La sola cosa che colpiva una mente giovane e impressionabile era l’aura collettiva mitica racchiusa negli oggetti collocati nel santuario – i manufatti, gli idoli realizzati in ferro in forme rudimentali e naturali, che suggerivano
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Yoruba, "Madre superiore", Ijebu, Ogun, Nigeria.
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con forza l’effervescente presenza di Ogun stesso – distruttore e genio creativo a un tempo...
E così via... sino a quando, molto più tardi, nei primi anni Settanta... In anni successivi, fu in occasione della mia prima visita alla casa del professor Soyinka presso l’Università di Ife che mi avvicinai al santuario di Sango così come aveva fatto Baba Atani Iwara... I timori, i miti che avvolgevano i poteri di queste divinità, sempre presenti nei miei sogni come idoli viventi, erano ormai svaniti, ma ancora oggi mi meraviglio dinanzi alla capacità del coinquilino di questo santuario – il professor Soyinka – di convivere con questi oggetti. La mia conclusione fu [e chiunque avrebbe pensato lo stesso] che doveva trattarsi di un abami eda [un essere bizzarro].
Tutto molto simpatico, sin qui. Ma ciò che seguì lo fu assai meno. Akintilo mi invitò a visitare il santuario, a valutarlo e a prelevarne liberamente qualsiasi oggetto ritenessi adatto al mio «santuario» personale. Lascio a lui il compito di proseguire il racconto: Saremmo dovuti ritornare nel santuario di mia nonna dopo la sua dipartita per recuperare alcuni di questi oggetti, quando – due settimane prima della data stabilita – ricevetti un messaggio: alcuni curatori arrivati da chissà dove erano venuti a svuotare interamente il santuario. Naturalmente, ricevuta la notizia, chiamai il professor Soyinka. Prevedibilmente, i suoi commenti furono impubblicabili – e lo sono tuttora.
Impubblicabili? Akintilo non ne sentì nemmeno la metà. E – almeno sino a oggi! – non ha mai saputo con quanti sforzi diedi la caccia a quei misteriosi curatori, che si erano come dissolti nell’aria. Per come la vedevo io, il santuario era già di mia proprietà! Si trattava di un intero, autentico santuario domestico, la cui custodia era stata affidata a me. Progettavo già di trasferirlo nella mia residenza. Ero disposto a scavare un pozzo identico a quello del complesso di Ogbinigbo, e perfino a scovare un iniziato di Sango che si occupasse dell’entità in questione. Potevo già assaporare l’atmosfera di quel santuario!
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Yoruba, "Iroke Ifa", bacchetta divinatoria raffigurante una donna supplice.
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Ebbi la sensazione che la mia fosse una punizione ancestrale per aver lasciato che trascorressero due intere settimane – durante le quali la mia eccitazione era andata crescendo giorno dopo giorno – prima della visita, invece di caricare Akintilo sulla mia jeep e correre direttamente al suo santuario di famiglia. Come prevedevo, al Museo Nazionale non vi era alcuna documentazione relativa all’acquisizione del santuario e degli oggetti scomparsi, Akintilo non era stato informato ufficialmente (né lo è stato in seguito) riguardo ad alcuna acquisizione formale del contenuto del santuario da parte delle autorità statali, e nemmeno un frammento di tale contenuto è mai apparso nel museo locale di Ife. Ancora oggi, nonostante fosse ormai troppo tardi, penso che avrei dovuto riunire la mia schiera di cacciatori e cani da fiuto Ogun, partire immediatamente all’inseguimento dei razziatori, individuarli, assicurarmi di catturarne almeno uno, colpirlo al cranio con un’ascia di Sango, impalarlo su un’asta di Orisa-oko, smembrarlo con un machete Ogun e quindi collocare i suoi resti in una ciotola Ifa, offrendoli a Esu in un crocevia! Esu – ah sì, Esu! – la divinità del giusto castigo dei mortali, il precoce specialista del sovvertimento dei piani troppo fiduciosi degli umani – forse avrei fatto bene ad accoglierlo nel mio pantheon personale molto tempo fa! Di sicuro, ha tratto un piacere particolare dal mandare a monte i miei piani nel corso della mia altalenante carriera di collezionista. Tuttavia, evidentemente non avevo tratto alcun insegnamento da una precedente lezione, che forse aveva segnalato il risveglio della mia segreta lussuria di collezionista – sebbene all’epoca, naturalmente, non fossi consapevole di questo morbo. Ne avevo colto qualche sentore, sì, ma non certo quell’ossessione quasi pervasiva in cui era destinata a trasformarsi. Vi era stato un avvertimento a cui non avevo prestato attenzione – nel 1962, se vogliamo prestare fede ai presagi – e forse quel rovescio si può considerare alla stregua di uno stimolo, inconsapevole e indiretto, verso la resa finale alla malattia dell’acquisizione. A chi fosse interessato ai particolari di quell’episodio decisivo, consiglio di consultare la sola fonte disponibile: Harmattan Haze on an African Spring, naturalmente opera del sottoscritto. Si tratta dell’edizione africana ampliata del volume originariamente uscito con il titolo Africa.
Il capitolo da consultare è quello conclusivo – l’Epilogo – intitolato «Civiltà – Viva o morta!»2. In esso racconto brevemente la vicenda di una mia collaborazione alquanto triste con uno storico autodidatta nonché archeologo dilettante. Uscii da quell’episodio incolume, e in verità senza aver mai corso alcun pericolo, ma in preda alla frustrazione. Invece, il mio collega più anziano, che avrebbe dovuto farmi da guida in un sito archeologico, scomparve travolto da un’alluvione che spazzò via la sua casa presso il fiume Ogunpa a Ibadan, molto lontano dagli scavi che mi interessavano. Il mio premio di consolazione fu un braccialetto metallico finemente cesellato con un motivo a reticolo che l’uomo aveva riportato alla luce nella sua fattoria. La località sarebbe stata in seguito identificata con l’Eredo di Sungbo, non lontano dalla mia casa paterna – entrambi si trovano nell’Ijebu. Malgrado il pensiero irritante di non essere riuscito per un pelo ad avere accesso a quel potenziale tesoro prima del nostro Dipartimento Nazionale delle Antichità, era comunque confortante sapere che Ogun, il dio dei metalli nonché mia divinità protettrice d’elezione, fosse riuscito a strappare letteralmente dalle fauci della morte quel souvenir metallico. Il braccialetto e alcuni altri oggetti riportati alla luce dallo storico avevano costituito la base della sua personale ricostruzione della storia di re Salomone e della regina di Saba, ed era morto convinto che il loro leggendario incontro con condimento amoroso avesse avuto luogo nell’Ijebu, in terra yoruba.
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Braccialetto ritrovato in una fattoria nell’Eredo di Sungbo – scoperta casuale di un antiquario dilettante.
Il sito archeologico Eredo di Sungbo, Yoruba, Ogun, Nigeria sud-occidentale.
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Anche l’improbabile emana un’aura esotica. Allarga i confini della realtà – o semplicemente della consuetudine – in particolare nel campo dell’immaginazione artistica, un territorio che non può che divenire più vasto e profondo a ogni viaggio, perfino in forma stampata o, come oggi avviene, elettronica. In alcuni stimola simultaneamente un’accresciuta curiosità e un atteggiamento ancor più possessivo nei riguardi del proprio retaggio – un desiderio di convivialità con esso. Nel caso specifico del sottoscritto si era già sviluppata una sensibilità ecumenica, grazie agli stessi principi costitutivi degli Orisa, che si manifestano abitualmente all’interno di una cultura che è nota per essere pervasa dalla mitologia quanto quelle greco-romana e indù. L’esperienza mi ha insegnato che l’immersione culturale nel proprio contesto tende a divenire più profonda per effetto degli incontri con l’esotico – forse in virtù di una modalità di percezione innata che stimola i raffronti. Senza alcun dubbio, questa disponibilità all’ampliamento culturale del sé mi accompagnò nelle mie prime visite di cui ho memoria in Asia - in Giappone e nella Corea del Sud, per cominciare. Nel 1972 la mia immagine mentale del Giappone aveva ormai superato quella del Paese dei piloti kamikaze, grazie a incontri casuali avvenuti sugli scaffali dei libri ai tempi in cui studiavo a Leeds, quando la mia propensione alle esplorazioni extra-curricolari in biblioteca mi aveva fatto scoprire per la prima volta l’arte e la letteratura giapponesi. La Corea, per contro, continuava a costituire una lacuna a livello culturale – un territorio devastato dalle guerre che avevano lasciato la penisola precariamente divisa in due, con due blocchi di potenze rivali a contendersene le spoglie. I reportage e le immagini della Corea, perfino dopo la seconda guerra mondiale, erano così stereotipati che all’epoca non mi ero reso nemmeno conto che il Paese si fosse meritato il diritto di essere annoverato tra le culture colonizzate e brutalmente represse – e a opera nientemeno che di un’altra nazione asiatica: il Giappone! Concediamoci dunque una breve deviazione narrativa in questo continente, l’Asia, e per la precisione in Corea del Sud, dove – per un’ennesima coincidenza – mi è capitato di trovarmi recentemente, questa volta nella città di Gwangju, per l’inaugurazione del Festival Letterario Asiatico.
Non cesserà mai di stupirmi il modo in cui la «Musa Estetica» agisce in modi misteriosi per compiere i suoi miracoli! I cristiani mi perdoneranno per questa appropriazione indebita, nella quale – ve l’assicuro – non vi è alcun intento offensivo. È stato a Seoul, la capitale sudcoreana, durante il pen, Congresso Internazionale degli Scrittori, che ho vissuto quella che considero a buon diritto la mia prima autentica rivelazione estetica – da me descritta nel testo intitolato Una lanterna magica. Avevo avuto il privilegio di essere invitato a visitare privatamente una mostra allora in progetto, non ancora aperta al pubblico. La raccolta comprendeva nuovi reperti archeologici risalenti alla dinastia Silla – perlopiù gioielli e oggetti ornamentali – che erano allora in corso di catalogazione. L’illuminazione estetica che diede vita a quel testo, Una lanterna magica, fu forse l’esito dell’interazione tra due fattori, entrambi frutto di scavi archeologici – il «braccialetto della regina di Saba» e la visione di quei tesori appena riportati alla luce, le pietre, le trame, i colori e le strutture della collezione di oggetti Silla. Tutt’a un tratto, nella mia mente balenò un’esperienza infantile, un momento di consapevolezza formativa che era rimasto sepolto nel subconscio... per quasi sette decenni! Avremo modo di ritornare, nel corso del nostro cammino, su questo decimale ricorrente delle intrusioni geografiche – alcune proficue sul piano dell’acquisizione, altre rilevanti soltanto a un livello meramente tematico. Nella misura in cui è possibile dare conto con precisione del trascorrere del tempo e dell’infinita varietà degli incontri estetici, anche nell’ambito di una stessa famiglia di impressioni sensoriali, ritengo tutto sommato di aver reso giustizia a quella prima rivelazione estetica, descrivendola in un flusso pressoché spontaneo. Il passo in questione ci servirà da interludio, e ritengo di non violare il mio stesso copyright citandolo per esteso:
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Il mio primo e più intimo incontro con le forme e i colori intesi come entità a sé stanti dell’assorbimento della realtà da parte dell’essere umano fu dovuto a uno strumento chiamato caleidoscopio. Di fronte alla straordinaria evoluzione dei dispositivi moderni, utilizzati sia per il divertimento sia come strumenti funzionali, è possibile che molti di noi abbiano dimenticato com’era fatto questo oggetto – se pure ne hanno mai visto uno. In ogni caso, questi
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Dentro quel caleidoscopio, la mente era libera di scoprire torri, piramidi, cattedrali, tetti, moschee... volti, perfino. La fantasia si scatenava, sebbene guidata da quelle strisce di vetro colorato che sembravano magicamente incorporate nel tubo. Naturalmente scoprivate soltanto molto più tardi che era proprio così che aveva luogo la magia – nient’altro che frammenti di vetro che ruotavano quando si azionava il meccanismo. Anni dopo, un artista itinerante capitò nella nostra scuola portando con sé l’oggetto vero e proprio, la Lanterna Magica. Si chiamava proprio così, Lanterna Magica. Per assistere allo spettacolo, che in questo caso richiedeva un’altra persona oltre allo spettatore (un pubblico non limitato a un solo individuo), dovemmo chiudere le imposte delle finestre dell’aula. Ebbe inizio la proiezione. In questo caso non era necessario ricostruire delle immagini dalle forme – le immagini erano già pronte. Montagne. Rapide. Esploratori. E apposta per noi, vi erano anche simboli coloniali – Buckingham Palace, l’Abbazia di Westminster, il Big Ben, la Torre di Londra. Tutti territori stranieri – ma ad abbreviare la distanza coloniale c’erano volti. E simboli. Monumenti. La proiezione, tuttavia, non fu limitata alle presenze coloniali – fu concesso spazio anche a immagini esotiche provenienti da terre lontane. Non ricordo con esattezza, ma se non sbaglio lo spettacolo comprendeva anche le Sette Meraviglie del Mondo. Di sicuro c’era il Taj Mahal, così come la Cupola della Roccia di Gerusalemme. Perché cito specificamente il Taj Mahal – o anche il Big Ben? Perché li riconobbi. Li avevo già visti – o meglio, ne avevo visto delle variazioni indefinite – nel mio primo, rudimentale caleidoscopio. Queste nuove realtà mi parvero integrarsi in quelle forme
precedenti ancora in fieri. Perfino i volti. L’esperienza fu alquanto sorprendente, ma anche in questo caso non particolarmente difficile da interpretare. Nella chiesa anglicana in cui venivamo condotti a passo di marcia ogni domenica vi erano vetrate colorate che ritraevano i primi missionari e i santi. Tra questi ultimi il posto d’onore spettava a san Pietro, al quale era intitolata la nostra chiesa. Il caleidoscopio aveva svolto la funzione di incubatrice per tutte queste versioni successive e più raffinate della magica visione. E fu così che quel primo strumento divenne – e rimase – per me la vera Lanterna Magica. Il secondo, la cosiddetta «lanterna magica» – con le iniziali minuscole – non mi ha mai suscitato la stessa sensazione di meraviglia, di pienezza di fronte alle potenzialità della bellezza, creata da quel primo ricettacolo tubolare di forme e colori dinamici che si trasfiguravano a piacere, e sul quale potevo imprimere la mia personale realtà – sì, includendovi perfino volti umani, espressioni, gesti e posture. La «lanterna magica» meccanica era qualcosa di programmato, sigillato e consegnato già pronto. Era prevedibile. Vi venivano inserite delle immagini ed essa le rigurgitava, per quanto modificate. Per questo, paradossalmente, aveva poco o nulla di magico. Un dispositivo del genere meritava pienamente, a mio avviso, la denominazione meccanicistica che gli fu attribuita quando divenne più efficiente, più semplice e più tecnologicamente avanzato, e divenne noto come «proiettore». Questa descrizione, ovviamente, non fu scritta all’epoca del mio incontro con il caleidoscopio, bensì molti decenni più tardi. E non fu scritta ad Ake, ad Abeokuta, il luogo della mia illuminazione infantile. In realtà, il ricordo e la sua descrizione si imposero alla mia consapevolezza – in una sorta di ricordo totale e improvviso – nella remota Seoul. Comprensibilmente, dopo quel «lampo» di illuminazione, tentai di scovare un eventuale modello di caleidoscopio coreano nei negozi e nei mercatini di Seoul. Non ci riuscii, sconfitto soprattutto dalla tenacia dei possessori della sua sorella multifunzionale dell’era spaziale, oggi onnipresente – la macchina fotografica, il cui emergere con piglio talora aggressivo dalle mani, dalle tasche e dalle borse dei coreani maniaci della fotografia (una caratteristica condivisa anche dai giapponesi e dai brasiliani!) mi fece sentire parte di quel mondo bizzarro che intendevo a mia vol-
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aggeggi avevano sicuramente forme diverse nelle varie parti del mondo, perciò consentitemi di descrivere il mio. Aveva esattamente la forma di un telescopio. Vi accostavate un occhio e ne ruotavate la struttura tubolare verso sinistra o vesto destra. Questo movimento rotatorio faceva sì che vari vetri colorati si ricombinassero in modi diversi, interagendo nelle loro molteplici forme – triangoli, rettangoli, coni, romboidi e ovoidi che si sovrapponevano e si avvicendavano, in un reciproco interscambio fatto di infinite variazioni e combinazioni, in un tripudio senza fine di tonalità marcate o sfumate.
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ta esplorare. Senza dubbio, la colpa va attribuita al mio aspetto da foresta semovente sormontata da chiome ormai grigio-bianche... La conseguenza fu che la città vecchia, le stradine laterali e le bancarelle incassate tra i muri – i miei territori di esplorazione preferiti – divennero del tutto inospitali. (Nella mia repubblica ideale, tutte le macchine fotografiche private sarebbero proibite, e i loro proprietari verrebbero condannati a vivere in capanne di legno e paglia del tutto prive di specchi e altre superfici riflettenti). Non mi rimase altra scelta che rifugiarmi nella mia camera d’albergo, tormentato dal vivido ricordo di un oggetto di cui mi ero appropriato durante la mia precedente visita nel Paese, e rivivere, riassaporandole con gusto, le circostanze che mi avevano fruttato l’oggetto in questione – una ciotola di terracotta risalente alla medesima dinastia Silla. A questo episodio spetta l’onore di dare il titolo a questo capitolo. Se avete la sensazione che ci stiamo muovendo a ritroso nel tempo a ogni passo, la mia proposta è di trovare consolazione nella natura stessa degli incontri con le antichità, che producono esattamente questo effetto: arrestano il tempo, facendolo procedere costantemente all’indietro. Per aiutarci, tuttavia, permettetemi di ripercorrere il calendario delle mie visite in Corea – le prime tre, almeno – con tutta la precisione concessami dalla memoria, e in ordine cronologico. Questo mi offrirà tra l’altro l’opportunità di presentare adeguatamente la divinità yoruba alla quale sono più strettamente legato: Ogun. La prima visita è quella che ricordo meglio, in virtù del tema intrigante – il «pensiero laterale» – della conferenza che ne costituì l’occasione, che aveva riunito a Seoul rappresentanti di varie culture e discipline. In quel frangente non si parlò affatto della dinastia Silla; i coreani erano impazienti di sfoggiare la loro fiorente industria siderurgica, allora in procinto di divenire una delle più importanti del mondo intero. Malgrado ciò, nemmeno la mia affinità con Ogun, il dio yoruba della metallurgia – e quindi demiurgo tutelare di quell’attività industriale –, mi suscitò alcuna riflessione estetica durante la visita, né mi invogliò ad acquistare oggetti artistici o antichità. La più memorabile, tuttavia, fu la mia seconda visita, in occasione dell’annuale Congresso Mondiale dell’International Theatre Institute; fu in quell’occasione che ebbi il mio primo
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Yoruba, Ogun, dio della lirica, della guerra e della metallurgia e custode dei giuramenti sacri.
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contatto formale con una cultura singolare, quella della dinastia Silla – contatto che si tradusse nell’acquisizione della succitata ciotola in terracotta. Vale forse la pena di precisare che quella visita, pur costituendo il mio primo contatto con una cultura antica e con i suoi manufatti, non risvegliò in me il ricordo dell’esperienza vissuta con il caleidoscopio durante l’infanzia – quell’episodio rimase sepolto nell’immensità del mio subconscio. Fu necessaria la terza visita, in occasione della conferenza letteraria del pen, anni dopo, per riportare alla luce un’esperienza estetica che era rimasta intrappolata dentro di me per oltre sessant’anni. Naturalmente, il suo recupero fu innescato da una cascata di colori – quelli delle pietre preziose e degli oggetti ornamentali, strappati alla terra proprio come il braccialetto dell’Eredo di Sungbo nell’Ijebu. Vi sono state altre visite, tra cui quella più recente a Gwangju, ma evidentemente la Musa Estetica dev’essersene andata ed essere rimasta intrappolata nella lugubre metà settentrionale della penisola, poiché queste visite non hanno prodotto alcuna osservazione artistica degna di nota – e nemmeno una maliziosa macchinazione di Esu che meriti di essere ricordata. Ho visitato questo o quel tempio, ma non possiedo nemmeno una suggestiva pergamena di preghiere per dimostrarlo. Sia come sia, le tre visite sopra menzionate sono più che sufficienti a ricordarci che, quando parliamo di «associazioni di idee», faremmo bene a renderci conto che questa espressione va ben oltre i semplici concetti e nozioni astratte, e comprende anche il territorio dei colori, delle forme e delle immagini, che sovente sono ancor più potenti delle astrazioni stesse. Chissà, forse anche quella conferenza transculturale sul pensiero laterale ha contribuito ad affinare la mia propensione all’approccio «laterale» agli incontri culturali, che si traduce in evocazioni, percezioni e reazioni spontanee, per quanto mediate dalla distanza – elementi che sono al centro dell’avventura estetica. Veniamo ora all’acquisizione del suddetto oggetto: la ciotola Silla. Si è trattato del quarto bottino antiquario-estetico realmente significativo fruttatomi dalle mie incursioni all’estero. Il primo era stato la bottiglia veneziana citata più sopra – tutt’altro che antica, e anzi appena uscita dalle fauci e dai polmoni del soffiatore di vetro quando la acquistai nei primi anni Sessanta. Il secondo è un antico
oggetto precolombiano ritrovato in Messico, da me acquistato in un negozio di antichità nel Village, a New York; la vicenda della sua acquisizione non riveste particolare interesse – avvistamento, desiderio, nuova visita, trattativa, simulazione, ritorno, riapertura della trattativa... e acquisto. La sorte incontrata ad Abeokuta dal terzo oggetto avrebbe lasciato interdetto il suo venditore. Si trattava di una spada da samurai in acciaio inossidabile, infilata in un fodero ricoperto di cuoio usurato dal tempo e sormontata da un’elsa dentellata. La acquistai con tanto di certificato di autenticità in un lussuoso negozio di antichità durante la mia primissima visita in Giappone, nei tardi anni Sessanta. Quando me ne stavo rintanato nella mia casa tra le foreste di Abeokuta, uno dei rituali improvvisati con cui mi abbandonavo alla beatitudine del Nirvana consisteva nel recarmi nei boschi circostanti e camminare a piedi nudi in un basso ruscello in cui un ceppo di legno – il tronco di un albero caduto – si era opportunamente posizionato. Qualche istante di assoluta immobilità, una silenziosa e intensa invocazione a Ogun affinché mi accompagnasse fedelmente guidando il mio occhio e i miei muscoli, e poi un lento fendente portato a due mani con un movimento intorno alla spalla sinistra e alla testa, accompagnato da un agghiacciante urlo da «samurai», che si levava in un crescendo mentre la spada calava su un sigaro cheroot (preventivamente ribattezzato con il nome di un malfattore politico particolarmente funesto) decapitandolo di netto. Chi non ha sperimentato questa esperienza non è in grado di apprezzare la squisita sensazione di unità formale prodotta dalla curvatura lucente di una lama in acciaio giapponese trasfigurata nelle mani di un novizio yoruba. Nemmeno l’Akira Kurosawa dei primi classici cinematografici sui samurai, o i suoi attori, credo, hanno mai raggiunto il satori estetico regalatomi da quell’arma divinamente bilanciata mentre dispensavo la giustizia nella magnifica impotenza della mia foresta privata. Dopo di che, assaporavo le lente esalazioni di incenso provenienti dal cheroot acceso – a quei tempi avevo ancora un intenso rapporto con il tabacco, dopotutto – standomene seduto sul ceppo, con i piedi immersi nel ruscelletto dal fondale argilloso, e mi rilassavo definitivamente tracannando una cascata di birra gelata.
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A confronto, la ciotola Silla era qualcosa di decisamente più sobrio, senza pretese – perfino ordinario, forse. Una semplice, banale ciotola grigia salvata dall’estinzione – apparentemente priva di qualunque potere di seduzione o possibilità di riconversione per fini utilitaristici. Non mi è mai passato per la mente di usarla per bere, e non l’ho trasformata nemmeno in un boccale sacro da utilizzare nel suddetto rituale liberatorio nippo-yoruba, o per offrire libagioni agli antenati yoruba. E il mistero sta proprio qui. La ciotola non emanava alcun attributo di bellezza o di utilità. E non suscitava nemmeno – come ho già accennato – alcuna rimembranza legata alla scoperta infantile della bellezza a cui ho fatto riferimento. Eppure attirava istantaneamente l’attenzione, quasi alla prima occhiata. Forse il motivo era la consapevolezza di ciò che rappresentava? Qualcosa di simile alla facoltà mentale del bambino che decifra istantaneamente una miriade di immagini non appena ruota un meccanismo tubolare al cui interno sono montati frammenti di vetro rotanti? L’unica cosa che posso affermare con certezza è che quella ciotola continua ad alimentare in me la vexata quaestio del rapporto tra la bellezza e l’oggetto antico in sé (o della bellezza come componente innata dell’oggetto stesso). E per essere più precisi, dal momento che ci troviamo nel territorio delle associazioni di idee e del pensiero laterale: forse il suo potere di attrazione traeva origine dal mio incontro con il braccialetto dell’Eredo di Sungbo, il reperto metallico lasciatomi in eredità dal mio scomparso collega, la capsula temporale dello storico flirt tra re Salomone e la regina di Saba – al di là dei dubbi che circondano questa ricostruzione? Si tratta dello stesso impulso di associazione estetica o semi-estetica che spinge un principe saudita a sborsare 600 milioni di dollari per un dipinto – ma soltanto dopo che esso è stato dichiarato dagli «esperti», dopo anni di dubbi e controversie, un autentico Leonardo da Vinci? Come può divenire così, tutt’a un tratto, un oggetto di inestimabile valore? Che cos’era un’ora, un minuto, un secondo prima di essere autenticato? E che cosa diviene dopo l’autenticazione? Forse il prodotto di un calcolo estetico matematico, del genere «bellezza × antichità × attribuzione = sublimità»? O più semplicemente «pozzi petroliferi × prodigalità all’ennesima potenza = assoluto estetico»?
Di sicuro simili considerazioni devono aver attraversato le menti dei collezionisti più avidi, compresi gli eredi di Creso, provvisti di portafogli senza fondo. Che cosa, in un oggetto antico, fa perdere il controllo al collezionista, portandolo perfino alla disperazione? A dispetto delle innumerevoli disquisizioni sul tema, la questione non può essere risolta in modo soddisfacente, e ci troviamo costretti a limitarci a considerazioni di natura soggettiva ed episodica – accettando, per esempio, che l’oggetto antico sia semplicemente un precipitato fisico della storia, di un’immagine e talvolta di suggestioni spirituali. Questa fusione trasporta l’osservatore lontano dal presente, conducendolo in epoche e luoghi lontani, in un territorio di puro e sublime escapismo. Ma in questo caso, non è forse vero che una falsificazione ben fatta può inquinare queste categorie, anche semplicemente per effetto della mera conoscenza della sua esistenza, e della confusione da essa ingenerata? Come reagisce l’osservatore – giusto per concederci una deviazione «laterale» – alle meticolose riproduzioni delle antichità del Mediterraneo ospitate dal Carlos Museum della Emory University di Atlanta, un’istituzione che un imperativo morale non comune ha indotto a restituire i suoi pezzi originali, sostituendoli con riproduzioni in fibra di vetro complete di patina «antica»? Quale beneficio ne traggono i fugaci osservatori? In tal modo i pezzi non vengono forse ridotti a semplice oggetto di studio clinico e catalogazione? I pezzi della collezione della dinastia Silla – autenticamente strabiliante: si trattava perlopiù di oggetti in oro e in pietra – producevano di per sé un impatto estetico. Acquistavano maggior valore soltanto perché erano – come si riteneva, si percepiva con certezza – antichi di secoli? Che cosa, nelle antiche pietre e negli ornamenti d’argento dalle strane fogge, sbiaditi e talvolta anneriti, ci fa arrestare all’esterno della vetrina di un negozio di antichità, anche quando sappiamo perfettamente che buona parte di questi «cimeli» sono fasulli? La ciotola di terracotta da me acquistata non era lucidata, il materiale era ruvido e la forma stessa mancava di eleganza – diversamente da una teiera cinese color cioccolato bruciato che ricevetti in seguito da alcuni colleghi cinesi a Pechino –, eppure mi era stata consegnata con maestosità e riverenza, suscitando l’evidente ammirazione e invidia di tutti i presenti.
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Ciotola di terracotta, dinastia Silla (Corea) e teiera in argilla rara, opera di un maestro cinese.
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La teiera era opera di un moderno maestro, accreditato come autentica icona. Era stata realizzata con una creta dalla tonalità rossiccia insolitamente profonda che – per la cronaca – proviene da un giacimento di argilla rara presente in un’unica località cinese, mi fu detto. Faceva parte di un servizio, con un prezzo in dollari a cinque cifre, originariamente destinato a un funzionario di primo piano del Politburo che era poi caduto in disgrazia. Dopo aver perduto in questo modo il suo destinatario originario, rimase nel limbo fino a quando non si presentò il sottoscritto, suo attuale proprietario. Non dimenticherò mai gli «aah» e gli «ooh» di incredulità e approvazione che accolsero la teiera quando fu sollevato il velo che la copriva. Percependo senza dubbio una reazione interiore ambivalente nel ritrovarmi beneficiario della caduta di un Humpty Dumpty iscritto negli annali della politica post-Banda dei Quattro, non mi feci troppi scrupoli e accettai prontamente il dono, sentendomi perfino assai lusingato. In ogni caso, il geloso proprietario di un altro pezzo del servizio in questione era una prestigiosissima e popolare icona della letteratura cinese, un poeta. Si portava dietro ovunque la teiera, all’interno di una speciale borsa imbottita, insieme a foglie di tè verde scelte una per una, che a quanto pare non perdevano mai il loro potere di infondere gusto e aroma. Quando si presentava a un ricevimento in cui si serviva del tè, si limitava a chiedere un poco di acqua calda, a cui aggiungeva le sue foglie «sempreverdi», condividendo talvolta una tazza con gli amici più intimi. Per quanto riguarda la mia teiera, è fuor di dubbio che il suo motivo decorativo e la delicatezza delle dita del vasaio ne facevano un autentico oggetto da collezione. Quanto alla sua utilità, pur non essendo un consumatore di tè, ne rispettavo nondimeno le finalità del tutto pacifiche – diversamente da quelle della spada da samurai – e mi sono limitato a trasformarne la funzione in quella di recipiente per il saké. Il punto, tuttavia, è che trovavo – e continuo a trovare – più attraente quella ciotola semplice e disadorna, e non la scambierei con tutti i gioielli e gli oggetti ornamentali della medesima collezione Silla. Non avrebbe senso. Comunque, un’alternativa ci sarebbe: prendere i gioielli, venderli e comprarmi altre antiche ciotole Silla.
Qual è il senso di tutto ciò, dunque? È possibile che giochi un ruolo anche la saturazione? I gioielli li vediamo tutti i giorni – o almeno di tanto in tanto, in incontri sociali e casuali, compresi quelli con le vetrine dei negozi. Ero stato a Lima, in Perù, nella terra del leggendario El Dorado e delle sanguinose incursioni dei conquistadores spagnoli, che alterarono la storia di quella che conosciamo oggi come America Latina a un livello mai sperimentato nemmeno dallo stesso continente africano. Lì, turista pagante tra tanti altri, avevo visitato i musei dell’oro. Era la metà degli anni Sessanta, e potei vedere lastre di vetro infrangibile e innumerevoli sbarre in acciaio inossidabile in veste di formidabili guardiani di alcuni tra i più preziosi oggetti in oro della storia mondiale. Non voglio spingermi sino ad affermare di aver visto tracce di sangue su quell’oro – no, ammirai quegli oggetti esattamente come gli altri membri dei piccoli gruppi di visitatori che venivano fatti entrare a turno, mentre le pesanti porte delle sale dell’esposizione scattavano dolcemente richiudendosi alle spalle di un gruppo prima che venisse ammesso il successivo. Sgranai gli occhi e spalancai inavvertitamente la bocca mentre passavamo da una sala illuminata dal bagliore dell’oro alla successiva, quasi accecato dall’intricata e spettacolare lavorazione che caratterizzava molti dei pezzi. Tuttavia – e questo è indicativo – non percepii minimamente quell’impulso a trangugiare anche un solo grammo di quell’aureo banchetto. E così, quando un paio di decenni più tardi mi imbattei nel suo parente povero Silla – povero almeno in termini di volume e quantità – ero forse già immunizzato. La mia mente corse invece a quella ciotola dall’aspetto assai ordinario che avevo acquistato anni prima – un apparente scarto di un’antica quotidianità coreana. Ma veniamo appunto alla vicenda di quell’acquisizione, e al fardello del collezionista! Facciamo un ulteriore salto all’indietro nel tempo. Mi limiterò a riconoscere che, durante la mia seconda visita, provai l’impulso irrefrenabile di portarmi a casa anche soltanto un frammento di quell’epoca appena scoperta. Mi era stato offerto un souvenir – la solita riproduzione in plastilina o in gesso di questo o quel manufatto – e forse era stato proprio questo a stimolare in me il desiderio della cosa vera. Il mio anfitrione, un collega che avevo conosciuto tempo prima in occasione di un laboratorio internaziona-
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le di teatro, decise di accompagnarmi da un venditore, che estrasse da una borsa alcuni oggetti non esposti nella mostra. Dopo aver mercanteggiato per un po’ – un esercizio a cui stavo rapidamente diventando avvezzo grazie alle mie esperienze domestiche – feci la mia scelta e ci accordammo sul prezzo. Mentre il denaro stava per passare di mano, fui colto da un’improvvisa apprensione. Così mi rivolsi al mio accompagnatore, in cerca di rassicurazioni: «So che questo è un pezzo autentico; sei sicuro che non avrò dei problemi tentando di portarlo fuori dalla Corea? Ho sentito dire che sono in discussione nuove norme sulle esportazioni». Il mio interlocutore parve sorpreso, e mi indicò il documento che il venditore stava sventolando dinanzi a me, un certificato dall’aria ufficiale che non soltanto autenticava il pezzo, ma confermava altresì l’atto di vendita e il permesso di esportazione. L’articolo (la ciotola) era effettivamente autentico – lo percepivo già dentro di me; ma a quel punto avevo un nuovo motivo di preoccupazione, il certificato stesso. Anche in questo caso, si trattò di puro intuito – dopotutto, non sapevo leggere il coreano. Così tornai alla carica: il certificato era autentico? Il mio accompagnatore ridacchiò: «Oh, non preoccuparti di questo». Mi diede una pacca sulla spalla. «Non avere quell’aria preoccupata; in ogni caso, verrò con te all’aeroporto. Vedi, quello che hai acquistato è... è difficile tradurlo in inglese, ma qui lo chiamiamo un “falso autentico”». (O in realtà disse «falso originale»? Non lo ricordo con certezza). Quella definizione, comunque, creò istantaneamente un legame di complicità tra due «linguaggi dell’autenticità» separati da un’enorme distanza. Salvo minime differenze lessicali, era la stessa che avevo sovente sentito pronunciare da uno dei miei fornitori più assidui, il senegalese monsieur Toure, pronto a servirsene in riferimento a un documento o a un oggetto falsificato che intendeva rifilarmi facendolo passare per un’antichità autentica. Scrollava le spalle ossute, strascicava i piedi e dopo di che si affrettava a rassicurarmi: «Prof, questo me lo sono portato giù da Bamako apposta per lei. Giuro, prof: è un falso originale». Esperienze del genere sono il pane quotidiano del collezionista – non la sua «missione», notate bene, giacché non ne ha alcuna.
Prova semplicemente amore per questi oggetti, oppure è affetto da un disturbo psicologico che si manifesta nell’accumulazione compulsiva. Il curatore, invece – è evidente – nella sua veste di mediatore, ha bisogno di obiettivi precisi. Voglio sottolineare questo punto, perché ci stiamo avvicinando alla fase della mia traiettoria personale in cui sarebbe facile per me dichiarare – e perfino dimostrare – che il motivo per cui colleziono oggetti d’arte è procurarmi materiale per la mia attività principale, l’insegnamento. Nulla di più lontano dalla verità. D’altro canto, una rivendicazione del genere sarebbe valida per un altro collezionista, il mio compatriota Yemisi Shyllon, la cui enorme collezione fa impallidire la mia – è multimiliardario... almeno in naira3, voglio precisare. Quale che sia stata la sua motivazione iniziale, ha finito per impegnarsi deliberatamente ad acquisire oggetti allo scopo di ampliare il materiale di ricerca destinato a studenti provenienti da ogni parte del mondo, ma soprattutto dagli Stati Uniti. È solito commissionare sia opere di artisti contemporanei sia copie di opere tradizionali – in breve, incarna un esempio di uso legittimo di «falsi originali» per favorire la ricerca sugli stili dell’arte tradizionale e sulle relative modalità di produzione creativa. Di questi oggetti fanno parte perfino diversi costumi da egungun, che illustrano i molteplici generi di queste maschere tradizionali che ritraggono perlopiù delle divinità, e molto altro. Interi piani e sale della sua vasta residenza sono dedicati a esempi di singole tipologie e stili micro-regionali, con suddivisioni che si spingono sino all’interno dei singoli gruppi etnici. Vi è poi il Sommo Sacerdote Ebohon di Benin – la cui residenza comprende anch’essa numerose splendide sale ricolme di oggetti preziosi e non. Il sommo sacerdote si reca ogni anno in un’università del sud degli Stati Uniti – Fort Lauderdale – anch’egli a scopo di insegnamento. È scrittore prolifico, versato in molteplici aspetti della storia, della tradizione e delle pratiche religiose di Benin. Talvolta si sposta accompagnato da una troupe di artisti – ed è egli stesso un artista ammaliante, del tutto consapevole dell’effetto che sa produrre. Il sommo sacerdote mi richiama alla mente uno dei nostri artisti espatriati, oggi residente nei Caraibi. Dubito che Chris Ofili e il sacerdote abbiano mai avuto occasione di interagire tra loro, ma sono
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uniti da un legame significativo, che richiama la nostra attenzione su una delle questioni che riguardano la materia di cui si compone l’arte e, come accennavo più sopra, l’impulso dell’artista a esplorare in modi innovativi gli stessi risvolti materiali della creatività. Il frutto di questo sforzo è rappresentato dal rinnovamento della forma stessa, oltre che dalle affascinanti rivelazioni originate dalla stessa realtà materiale che circonda l’esistenza quotidiana. Chi avrebbe mai immaginato che dello sterco di elefante potesse fare furore in una compassata galleria d’arte di New York? Dobbiamo forse ritornare su quella mostra vecchia ormai di un decennio, che coinvolse non soltanto i critici, ma anche istituti donatori e perfino l’arcidiocesi di New York? Empietà, blasfemia, indecenza, sono espressioni che abbiamo imparato ad attenderci in occasione degli incontri con le forme più innovative di espressione artistica. L’evento in questione, ad ogni modo – la mostra Sensation: yba (Young British Artists) from the Saatchi Collection – sollevò effettivamente alcuni scottanti interrogativi sulle complessità di ciò che definiamo «tradizione» e «modernità». Vi era dunque un artista nato e cresciuto in Gran Bretagna, ma di stirpe nigeriana – era di origine igbo e, alquanto opportunamente, il prodotto di molteplici tradizioni artistiche. Non aveva mai visitato il continente africano sino a quando, grazie a una borsa di studio dell’Arts Council, poté recarsi nello Zimbabwe e mettere piede per la prima volta, ormai maturo, in terra africana. Conobbe così gli scenari, gli odori e i suoni della savana. Data la varietà degli stili che avevano contribuito al suo periodo formativo, è difficile ricondurre i suoi lavori a una tradizione specifica – alcune delle sue prime opere mi richiamano alla memoria la mia esperienza con il caleidoscopio. In ogni caso, durante la sua prima visita in Africa si imbatté per la prima volta nello sterco di elefante. Si trovava infatti sulle tracce degli elefanti e della fauna selvatica in generale. Gli elefanti se n’erano andati, ma si erano lasciati dietro lo sterco. Quella traccia del loro passaggio catturò la sua attenzione, evidenziando inedite possibilità pittoriche. «Modernità», sia detto per inciso, è uno di quei termini di cui sarei ben lieto di sbarazzarmi, pur ammettendo che è pressoché insostituibile. Il punto, qui, è trovare un compromesso e dichiarare quali
siano a mio avviso i limiti tollerabili per l’uso di questo termine. Non intendo certo attribuire alla modernità un senso negativo, contrapponendola alla tradizione – ma questo diverrà più chiaro via via che procederemo. In primo luogo, io considero la modernità un’espressione della condizione della società umana in un dato momento, a prescindere dai dati culturali o geografici. Sarebbe uno spreco di energia contrapporsi, mossi da percezioni negative, a quella che è di fatto la realtà della progressione umana. Ho detto «progressione», si noti, non «progresso». La modernità definisce la percezione immediata del tempo e delle sue modalità produttive, e nessuno intende mettere in discussione questa consapevolezza, nemmeno all’interno di quelle culture in cui – come pure in alcune teorie scientifiche – il tempo viene concepito come ciclico e non lineare. Sappiamo tutti come perfino all’interno di nazioni che si suole considerare avanzate esistano comunità neo-luddiste, come gli Amish degli Stati Uniti, per i quali la forma più moderna di mezzo di locomozione tollerata per gli spostamenti quotidiani è il calesse trainato da cavalli. Per questo genere di comunità, il tempo si è fermato con l’invenzione della ruota, del telaio manuale e della falce. La radio e la televisione sono e restano opera del demonio, e l’elettricità non è che un’anticipazione delle fiamme infernali che attendono chiunque indulga a una qualsiasi di queste forme di corruzione dell’anima umana, tentando di contaminare un idillio primordiale e incorrotto – solitamente sancito da questa o quella sacra scrittura. I talebani ci offrono un altro esempio estremo – benché ciò non abbia mai impedito loro di servirsi delle armi più moderne nella loro guerra contro gli «infedeli». Nella loro guerra contro le innovazioni sataniche – il cinema, i video, i jeans o i rasoi elettrici – hanno dato prova di una sconcertante selettività. Tuttavia, malgrado tutto il rigore con cui queste comunità possono riaffermare la loro «negazione», esse sanno bene di vivere in un mondo moderno – sanno, cioè, che da qualche parte là fuori esiste una realtà fisica che hanno scelto di rigettare, e che talvolta scoprono di non poter evitare del tutto. Lo studio sociologico di queste società evidenzia infatti con grande chiarezza come di tanto in tanto esse scendano a patti con la modernità; possono anche rimanere indietro di un secolo o due rispetto al resto del mondo, ma la loro
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esistenza quotidiana non è mai perfettamente identica a quella che si conduceva quando furono vergate le loro sacre scritture. Perfino i mormoni hanno scoperto che non è necessario essere poligami per entrare nel regno dei cieli. Altri possono avere bisogno di un po’ più di tempo – tra loro figurano i tradizionalisti africani, i fondamentalisti musulmani e Hollywood. Non intendo nemmeno impelagarmi nella palude del dibattito che circonda espressioni quali «post-modernismo». Nessuno sembra sapere esattamente che cosa sia il «post-modernismo» – ed è proprio questa, forse, la sua caratteristica più nota. Anzi, l’unica costante che si può ravvisare nel dibattuto sul post-modernismo è proprio la confusione generale riguardo a che cosa sia, a come agisca e come influisca sul nostro pensiero, sull’ambiente in cui viviamo, sulle nostre abitudini percettive – e anche sulla politica. In ogni caso, «postmodernismo» rimane un’espressione utile per designare determinate tendenze – artistiche, architettoniche, sociali, progettuali in senso lato – che non trovano interamente posto negli sviluppi concettuali del secolo scorso. Con concetti quali «modernismo», «modernità» o il programma sociale che va sotto il nome di «modernizzazione», ritengo che ci muoviamo su un terreno più solido – un terreno certamente meno suscettibile di mistificazione, specie quando questi concetti vengono associati a quello di «tradizione». Sono trascorsi ormai due decenni da quando il nostro artista residente a Londra, Chris Ofili, suscitò un vespaio con un dipinto esposto al Brooklyn Museum nell’ambito della mostra d’arte Sensation. Il dipinto di Ofili, The Holy Virgin Mary (1996, oggi parte della collezione del Museum of Modern Art di New York), sarebbe stato probabilmente ammirato per ciò che era, e magari classificato sotto categorie quali «neo-naïf» o «post-modernismo», se non fosse stato per un elemento: il materiale di cui era in parte composto. La «pittura» non era affatto pittura, bensì – come ricorderà chi di voi ebbe modo di seguire la vicenda – sterco di elefante. Si trattò di una svolta artistica decisiva? Una svolta sicuramente decisiva fu, per l’elefante in questione, lo svuotamento del proprio apparato digerente – e siamo indotti a interrogarci su quale illuminazione critica l’elefante avrebbe potuto offrire, se fosse stato possibile invi-
Chris Ofili, "Santa Vergine Maria", 1996, acrilico, olio, resina, collage di carta e sterco di elefante su tela, 243,8 × 182,8 cm. MoMA, ala David Geffen, New York.
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tarlo a esaminare la trasfigurazione artistica delle sue deiezioni e a esprimere la sua opinione. Ma tale compito spetta a noi, spettatori umani, e può essere opportuno iniziare dal seguente interrogativo: era davvero rilevante conoscere il materiale utilizzato per farsi un’opinione sul valore artistico dell’opera? Il mezzo espressivo ha preso il sopravvento sulla forma? Sull’esecuzione? Sulle tonalità? Sulla composizione figurativa in sé? Pensiamo a tutte le sottigliezze monocromatiche che le deiezioni di un elefante – o di qualsiasi altro animale, se è per questo – sono in grado di offrire! Forse il mezzo espressivo ha compromesso definitivamente le nostre percezioni, ma, in ultima analisi, era possibile considerare quell’opera un’affermazione di post-modernismo in ambito pittorico? Perché mai quel dipinto ha suscitato tante controversie, e sfida ancora oggi qualunque classificazione? Vi era, naturalmente, l’aspetto religioso. Non furono poche le accuse di blasfemia mosse contro l’opera: semplicemente, non si può ritrarre un personaggio divino con lo sterco di elefante. Non intendo naturalmente spezzare una lancia a favore di chi si è sentito offeso – non più di quanto intenda schierarmi dalla parte dell’artista. Pensiamo a una religione come il buddhismo. È più che probabile che un vero buddhista, profondo conoscitore delle contraddizioni e sempre alla ricerca della rivelazione all’interno di realtà apparentemente insignificanti o banali, troverebbe quanto mai appropriato il gesto di un artista che ritraesse un bodhisattva servendosi di sterco animale. Chiunque abbia familiarità con le narrazioni che ruotano intorno a Ifa – l’insieme di tradizioni divinatorie yoruba in cui le avventure degli Orisa, le divinità yoruba, costituiscono sovente indicazioni relative alla divinazione – giungerà alla conclusione che le divinità non ritengono affatto offensivo il fatto di essere plasmate e modellate con sterco animale. Il problema, quindi, sembra riguardare il contesto – una rappresentazione ricavata da qualcosa che in altre società sarebbe stato considerato del tutto appropriato e all’interno dei parametri della tradizione, ma che in questo caso è stato proiettato in un ambiente definito da concezioni proprie relative alle qualità artistiche. La cittadina in cui sono cresciuto per alcuni anni, Isara, era un tipico insediamento antico di medie dimensioni. Cinquanta o set-
tant’anni fa si sarebbe potuto affermare che Isara stava aggrappata, ritraendosene al tempo stesso, ai margini della modernità così come veniva concepita e vissuta nella capitale Lagos e perfino, in qualche misura, ad Abeokuta, l’altra città d’origine dei miei, in cui frequentai la scuola e in cui ebbe luogo buona parte della mia formazione. Forse qualcuno di voi si è imbattuto nella biografia che composi su mio padre, dal cui luogo di nascita trassi il titolo dell’opera – Isara: A Voyage around Essay. «Essay» era il soprannome che affibbiai a mio padre da bambino: le sue iniziali, «S. A.», si erano fuse nella mia immaginazione infantile in un’unica parola, «Essay» appunto4. Ebbene, diversamente che ad Abeokuta, che pure dista soltanto sessanta chilometri da Isara – dove nessun edificio sarebbe stato considerato civile o moderno senza pavimenti in cemento rivestiti di linoleum, un’altezza superiore a un piano e lamiere ondulate a incoronarlo –, il materiale utilizzato a Isara e nei villaggi simili per quella che si potrebbe definire la finitura dei pavimenti era l’eleboto: sterco di vacca. Lo sterco veniva ridotto in poltiglia e mescolato con alcune erbe speciali. L’impasto veniva quindi spalmato – solitamente con movimenti spiraliformi – sul pavimento di fango essiccato. L’operazione di spalmatura, di solito effettuata dalle donne, veniva eseguita non soltanto all’atto della costruzione della casa, ma anche in seguito, periodicamente. Talvolta anche le pareti venivano sottoposte al medesimo trattamento, e rivestite almeno sino a metà altezza. Quel rivestimento emanava un odore pungente e dolciastro, e nei suoi riguardi ho sempre nutrito sentimenti ambivalenti. L’odore, prevedibilmente, aveva una sfumatura come di torba, che non era in sé sgradevole, ma forse l’associazione alle deiezioni animali tendeva a renderlo meno piacevole. La grande scoperta che feci molto più tardi era che quell’impasto era – dato scientificamente provato – un efficace germicida. Disinfettava la casa e allontanava numerosi batteri conosciuti, che diversamente si sarebbero sentiti perfettamente a loro agio nel pavimento di fango. Tuttavia, per gli indigeni, lo sterco di vacca, il suo condimento erbaceo o la loro combinazione serviva anche a tenere lontani dalla casa gli spiriti maligni – e gli spiriti, credetemi, non erano considerati un parto dell’immaginazione. Anche il fatto che il rivestimento venisse applicato dalle donne non è privo di impor-
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tanza, poiché le donne sono da sempre associate al potere della stregoneria – potere che, in tal modo, veniva messo al servizio della protezione della casa attraverso l’atto stesso con cui le donne spalmavano il pavimento a mani nude. Per coincidenza – o forse è stato proprio quell’incontro a farmi ritornare in mente il dipinto di Chris Ofili e le sue infinite ramificazioni – mi è capitato di trovarmi nell’antica città di Benin, intento a girare un documentario per un programma dell’emittente televisiva britannica Channel 4. Il nostro tema ci aveva condotto nell’ambiente di Ebohon, che si potrebbe a buon diritto definire una riserva naturale di gallerie d’arte e santuari religiosi, ritagliata nei recessi più interni di quell’antica città del popolo edo. Gli edo, si noti, sono considerati fratelli degli yoruba – gli intrecci che legano i due popoli sono tanto indiscutibili sul piano della realtà storica quanto solidamente attestati dalla mitologia. Il santuario – o per meglio dire, residenza divina – di Ebohon è stato creato e viene tuttora curato da quest’unico personaggio, che esercitava un dominio fisico e, chissà, forse anche psichico sul suo ambiente. È noto inoltre come divinatore, artista, imprenditore, addetto stampa, produttore teatrale e commentatore estemporaneo – tutte queste cose insieme. Quel ricettacolo d’arte è un autentico labirinto naturale-artificiale che riserva una sorpresa a ogni svolta: un santuario, una raffigurazione di una divinità, sculture intagliate che ritraggono figure leggendarie della storia di Benin e raffigurazioni scenografiche delle loro avventure in bronzo, in avorio, in legno e in pietra, il tutto sparso tra un fitto fogliame, alberi sacri, formicai e caverne ricoperte di boschi – in breve, una delle più eclettiche raccolte di classicismo, naturalismo, modernismo e kitsch in cui si possa sperare di imbattersi in un ambiente delimitato dall’uomo. Se doveste capitare a Benin, non mancate di visitare questo spazio veramente straordinario noto come Ebohon Cultural Centre – e se ci riuscite, cercate di incontrare il suo proprietario, il capo Osemwegie Ebohon. Pochi anni fa è stato invitato nuovamente negli Stati Uniti, dove ha organizzato una mostra d’arte, ha diretto il suo corpo di danzatori e ha trovato modo, tra un’esibizione e l’altra, di intervenire in un dibattito pubblico sulle tradizioni edo. Non era la prima volta che metteva piede negli Stati Uniti, in partico-
lare in Florida, dove aveva presenziato alla solenne inaugurazione dell’African-American Research Library and Cultural Centre di Fort Lauderdale nell’ottobre 2002. Il Sommo Sacerdote Ebohon – questo il suo titolo tradizionale completo – doveva aver fatto sensazione, a giudicare dal fatto che oggi viene invitato regolarmente a ritornare. Bene. Come mai il dipinto di Chris Ofili e il suo ultra-modernismo mi hanno fatto venire in mente il Sommo Sacerdote Ebohon? La risposta è alquanto semplice: anche il sommo sacerdote era piuttosto ossessionato dagli elefanti – le loro zanne erano dappertutto, oltre alle sculture e ad altre opere in avorio, sia imponenti sia minuscole. Ma il culmine di quella visita, e senza dubbio il suo momento più memorabile e istruttivo – almeno per i cameramen e il produttore che mi accompagnavano – giunse quando il sacerdote illustrò appassionatamente la sua tesi sulle virtù curative e profilattiche di un’altra sostanza emessa dagli elefanti – no, purtroppo non quella prelevata da Chris Ofili dal posteriore del pachiderma, bensì un’altra, scaturita dall’estremità opposta dell’animale. «Se avete la fortuna di imbattervi nel punto della foresta in cui un elefante ha vomitato» esclamò il sommo sacerdote rivolto a noi, suoi estemporanei allievi, «raccogliete il vomito, ingoiatene un poco e portatevi a casa il resto per la famiglia». Il produttore – britannico e di sesso femminile
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Veduta del Centro culturale Ebohon a Benin City, Nigeria.
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– divenne verdognolo al solo pensiero. Per quanto ami considerarmi un ricercatore curioso e intraprendente, sempre pronto a sperimentare nuove esperienze culinarie o profilattiche, temo in questo caso di dover passare la mano. Non importa – se doveste visitare il centro culturale, e se siete non soltanto interessati alla medicina alternativa, ma anche pronti a dimostrare di avere più stomaco del sottoscritto, chiedetegliene una cucchiaiata. Sono certo che ne tiene sempre un poco a portata di mano per le emergenze. Lo scopo di questo piccolo aneddoto è suscitare un sommovimento non nel nostro stomaco, ma nella nostra mente. Fatta salva la natura piuttosto disgustosa di questo specifico rimedio contro malattie conosciute e non, esso dovrebbe servire a ricordarci che perfino il settore della medicina non va esente dalla costante contaminazione della cosiddetta «modernità» da parte della tradizione – una contaminazione che si manifesta in un incessante revisionismo perfino nel campo delle scienze, in particolare quelle curative. Resisterò alla tentazione di interrogarmi su che cosa costituisca la medicina moderna e che cosa la medicina tradizionale – oggi conosciuta, naturalmente, come medicina alternativa – se non per osservare come la tradizione sia stata talora utilizzata con una certa arroganza, attraverso quel termine, «alternativo», per consolidare il ruolo della medicina occidentale come norma in base alla quale misurare qualunque conoscenza scientifica del corpo e delle sue affezioni. Sappiamo bene a che cosa è alternativa la «medicina alternativa». Al di là delle definizioni, la realtà incontrovertibile è che metodi diagnostici e farmaci tradizionali fanno ora bella mostra di sé sugli scaffali di tutta Europa e in particolare degli Stati Uniti, non soltanto nei negozietti specializzati in articoli esoterici, ma anche da Wallgreen’s, da Walmart e in Wall Street – rappresentano cioè un’industria da milioni di dollari in continua espansione. La medicina tradizionale si è accreditata in una misura tale da costringerci a interrogarci sul concetto stesso di modernità, in particolare nel campo della scienza medica. Si potrebbe dire molto altro al riguardo, specie approcciando il concetto di cura in modo composito, in modo da comprendervi le pratiche di prevenzione, come quelle che potrebbero rendere superflua un’operazione chirurgica e via dicendo. Ma abbandoniamo a
questo punto la fascinazione per Asclepio, Ippocrate e i loro omologhi antichi di tutto il mondo – sciamani, babalawo, medium, guaritori – e ritorniamo al campo di cui abbiamo scelto di occuparci, quello culturale e artistico, con tutti i relativi risvolti religiosi e spirituali. Spostiamoci dunque dall’ambito domestico a quello spirituale dell’eleboto, lo sterco di vacca. Vale la pena di richiamare l’attenzione sul suo impiego in numerosi santuari tradizionali, dove non è insolito imbattersi in tamburi sacri – decorati con immagini sia umane sia animali – o in statue di divinità o di entità di culto spalmati di questo controverso materiale, oltre che di gesso, olio di palma, legno di sandalo, resina e altre tinture naturali. Chris Ofili non è yoruba, ma nessuno può negare che sia nigeriano e africano. Devo ammettere di non aver mai visto alcuna statua realizzata interamente con lo sterco; ma il punto da sottolineare, qui, è che lo sterco di vacca non era considerato una presenza empia nei santuari delle divinità di numerose società tradizionali. Forse Chris Ofili ha attinto a risorse tradizionali in cerca di una modalità di espressione moderna? Oppure questo artista ha puntato al semplice sensazionalismo, mosso dal desiderio di scioccare? In altre parole, è possibile che, dopo aver soppesato le tendenze artistiche della società in cui viveva e aver colto, con una certa precisione, la fascinazione esercitata dal «bizzarro» sui moderni consumatori dell’arte – in Europa e in America in particolare – il nostro artista abbia deciso di batterli nel loro stesso gioco? Vorrei richiamare la vostra attenzione sul fatto che, tra le opere che accompagnarono questo dipinto nel suo debutto alla Tate Gallery di Londra, vi era una serie di fotografie che ritraevano la versione umana del medesimo materiale – stronzi umani, insomma. Questo materiale, in forma galleggiante, era stato fotografato per simboleggiare – interpretazione mia! – misteriosi oggetti spaziali intrappolati nell’assenza di peso. No, né Chris Ofili con la sua trasfigurazione dello sterco di elefante, né il Sommo Sacerdote Ebohon con la sua dimensione profilattica dei materiali corporali destinati alla conversione artistica possono essere ritenuti responsabili della fascinazione per le antichità che sorge nell’individuo. Si limitano a proporre dei paradigmi di continuità nella relazione che lega la mente artistica a quello scopo che abbiamo interpretato come rivelazione. I gusti differi-
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scono, e ciò che viene rivelato può risultare indigesto. L’insegnamento impartito da ciò che è inatteso, la sconcertante interruzione delle reazioni abituali di fronte alla trasformazione della realtà materiale – è questo uno dei prodotti della mente creativa, e della mano dell’esecutore. E dove questa trasformazione dà vita a forme nuove, è lì che si chiude il cerchio tra antico e moderno e che la missione dell’arte può dirsi compiuta. Il dato antropologico diviene irrilevante, perfino fuori luogo. Il collezionista di antiche scatole di fiammiferi percepisce un’affinità con Andy Warhol. Non che questo fornisca una risposta del tutto soddisfacente all’interrogativo che, ritengo, molti individui colpiti da questa affezione pongono a sé stessi quando, entrati nella loro camera, chiudono bene la porta, rompono il salvadanaio e contano le monetine per scoprire se il contenuto è almeno in parte sufficiente a coprire la somma che prevedono di spendere nel mese in corso presso colui che attende di vendere loro dubbie antichità. L’interrogativo che il collezionista pone a sé stesso quando ha la sfortuna di sorprendere la propria immagine nello specchio mentre è intento a soppesare desiderio e valore economico, è il seguente: «Ma perché? Perché collezioni oggetti?». Forse la nostra curiosità dovrà accontentarsi della massima dell’alpinista. La conoscete, no? «Perché scali le montagne?». Risposta: «Perché le montagne sono lì». Ritengo che la possessione che pervade gli alpinisti sia decisamente pericolosa – sono dei matti, per come la vedo io. Scalare montagne è un’attività che non consente errori – tutt’altra cosa rispetto ai «falsi originali»! Mentre riflettiamo sulla salute mentale di costoro, ci permetteremo di prendere in prestito la loro formula, adattandola ai nostri scopi: «Colleziono oggetti perché Sango-re-wopo è lì, perché l’Eredo di Sungbo è lì. Colleziono oggetti perché la considero un’attività di gran lunga più entusiasmante – e meno pericolosa – dell’alpinismo». Inoltre, è opportuno riconoscere quella che è un’ovvietà, e cioè che la storia dell’oggetto della contemplazione è altra cosa rispetto all’aura che circonda l’oggetto recuperato – e sovente esercita su di essa un controllo, perlopiù surrettizio. Nel caso delle culture scomparse – scomparse per qualunque ragione o circostanza storica – è evidente come l’atto stesso del re-
cupero costituisca un’aggiunta esterna. Sospetto che in ogni essere umano si celi un essere che ama rovistare tra i rifiuti, che semplicemente si manifesta in alcuni individui – e in alcune storie – più che in altri. Fatto salvo tutto ciò, ribadisco che gli oggetti antichi possiedono una bellezza innata, un pacato ma pervasivo distillato di materiali, forme e storie, che ci sforziamo invano di isolare e definire ma che continua a sfuggirci, celandosi sotto la comoda categoria dell’«estetica». Dovremmo forse coniare una nuova espressione per rendere giustizia a questa misteriosa compenetrazione tra il bello e l’antico? Ho una proposta: «artiquariato». E su questa nota scherzosa, passiamo ora a occuparci di un altro impulso, al quale ho sinora soltanto accennato – un caso particolare che costituisce un’indiscutibile peculiarità dell’esperienza post-coloniale, legato alle complesse pulsioni che si celano sotto la superficie della missione di recupero delle culture denigrate.
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na delle perdite maggiori e più demoralizzanti subite dalla mia collezione risale all’epoca in cui ero di stanza all’Università di Ife, intorno al 1980. Si trattava di una «coppia di pezzi indipendenti», che tuttavia erano stati abbinati nella loro destinazione – come se i rispettivi antichi autori, in absentia, si fossero incontrati e avessero cospirato per trasmettere un qualche messaggio infine raccolto dal proprietario finale delle due opere. I due pezzi montavano la guardia ai due lati dell’ingresso di casa mia. Li avevo acquistati molto tempo prima che mi venissero rubati, quando mi trovavo ancora all’Università di Ibadan, dove avevano analogamente vegliato sul mio studio – un semplice garage riattato, dall’aria ben poco «studiosa». Una era una scimmia, l’altra una cariatide femminile seduta. La scimmia era provvista del fallo eretto più sproporzionato in cui ci si potesse immaginare di imbattersi in un catalogo scimmiesco. E sembrava oltretutto mostrare una dolorosa consapevolezza di quell’organo, poiché era ritratta con una mano sulla bocca e una smorfia di autocommiserazione che pareva dire: «Guardate che cosa mi tocca portarmi addosso!». Ora, vi è un dipinto che ha suscitato molto clamore quando è stato esposto in un’importante galleria sudafricana: a quanto pare, ritraeva il presidente del Paese, Jacob Zuma, provvisto di un analogo membro eretto; io non l’ho mai visto, ma ho il forte sospetto che l’artista sudafricano in questione, dopo aver rubato 73
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la mia scimmia o averla acquistata dagli autori del furto, l’abbia adattata alla sua versione di un personaggio pubblico nazionale a lui particolarmente inviso. Non essendo né pittore né fotografo, continuo a preferire il mio metodo personale di auto-liberazione politica: decapitare un sigaro cheroot con una spada da samurai mentre recito i nomi dei leader politici più criminali. Sul lato opposto rispetto alla scimmia stava la figura femminile assisa, una suggestiva e tradizionale cariatide. Si dava il caso che la figura fosse spaccata a metà dalla vita in giù – semplicemente per effetto dell’usura – e che la fenditura ne biforcasse nettamente la vulva. Chiunque venisse a trovarmi era costretto a passare tra quelle due figure, rivolte l’una verso l’altra ai due lati dell’ingresso. Chiamavo il fatidico spazio che le divideva «il Campo di Forza». In chiunque transitasse tra le due figure, penetrando così in quell’area carica di forza, venivano immancabilmente infuse ogni sorta di inaspettate energie – purché fosse in grado di percepirle. Per alcuni, lo spettacolo era offensivo in sé, e trasmetteva un messaggio provocatorio e perverso; altri lo attribuivano semplicemente al bizzarro senso dell’umorismo del sottoscritto; altri ancora fingevano semplicemente di non vedere. Il mio scopo immediato, naturalmente, era ribadire che non si deve avere un atteggiamento di solennità nei riguardi delle antichità o dei loro sostituti – diversamente, non si fa che perpetuare un approccio distorto e lezioso alla tradizione artistica africana. Questo punto di vista è risolutamente fatto proprio anche dalle arti performative tradizionali, tra cui il mimo, la recitazione epica e la musica. Vi erano anche altri aspetti, tuttavia, ed è qui che entriamo in un contatto ancor più stretto con la sociologia dell’habitat del collezionista. Nel caso specifico, una cultura improntata al fondamentalismo religioso e al conformismo puritano aveva iniziato a diffondersi da un’istituzione scolastica superiore all’altra, in modo del tutto incontrollato. Ben presto si trasformò in una devastante epidemia, nel periodo in cui mi trasferii a Ife nel 1975. Il cosiddetto fenomeno dei «Rinati» stava mietendo le sue vittime sia tra i docenti sia tra gli studenti, trasformando i campus del Paese in un unico campo di battaglia per evangelisti, in
un proliferare di sette il cui modo di esprimersi avrebbe potuto comprensibilmente indurre un visitatore occasionale a concludere che, evidentemente, nelle università nigeriane si insegnavano ormai soltanto lingue morte. Islam e Cristianesimo si balzavano vicendevolmente alla gola, peraltro uniti nell’inveire con le loro litanie contro i comuni mortali, prima e dopo l’ora della preghiera. Ancora maggiore era il fervore con cui propugnavano le loro idee riguardo a che cosa fosse o meno dignitoso e legittimo, specie quando i comportamenti indegni traevano origine da credenze e/o manifestazioni «pagane». È superfluo specificare che il sottoscritto costituiva agli occhi di molti di costoro il Diavolo Incarnato per eccellenza, l’Anticristo da lungo tempo predetto che, invece di parcheggiare la sua auto nello spazio appositamente designato, preferiva esporre quello status symbol alle intemperie, in modo tale da poter contaminare il suo garage con i feticci pagani tra i quali viveva, lavorava e compiva la sua opera diabolica con il favore della notte... Così, il fatto di «scioccare» quel genere di atteggiamenti implicava tangenzialmente anche una sorta di vendicativa soddisfazione. Mi riferisco qui agli aspetti sociologici – tuttora validi – che caratterizzavano quel condizionamento post-coloniale con contorno di cristianizzazione/islamizzazione che era responsabile di distorsioni valoriali e confusioni di identità in molte delle nostre università – e non soltanto in quelle! L’élite extra-accademica che elaborava le linee politiche, ivi compresi i burocrati che talora si accaparravano posizioni di spicco attraverso decisioni di natura culturale, aveva iniziato a infestare l’apparato amministrativo con i suoi uomini e la sua intolleranza. Spesso ci si ritrovava a domandarsi sconcertati come mai un determinato progetto fosse stato improvvisamente sospeso, o venisse astutamente lasciato morire d’inedia per mancanza di risorse. Incistato da qualche parte all’interno della presunta neutralità operativa della pubblica amministrazione vi era un meccanismo subdolo ma implacabile, determinato a prevenire qualunque attività «anti-cristiana» o «anti-islamica», o quantomeno a insistere affinché venisse espunta, allo scopo di non «recare offesa» alla tracotante sensibilità delle due religioni straniere gemelle.
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All’epoca, queste manipolazioni non si traducevano forse in scontri aperti, ma erano costantemente all’opera, erodendo perfino le fondamenta laiche della costituzione nazionale, con un’efficacia che si estendeva dal livello più alto, quello dei presunti esponenti più illuminati delle élite, sino a quello più basso dei lavoratori urbani, qualunque occupazione svolgessero. Qualunque tentativo di garantire parità di tempo e spazio alle religioni tradizionali veniva costantemente sabotato. A chi fosse seriamente interessato a questo fenomeno, consiglio di informarsi presso l’Università di Ife – oggi Obafemi Awolowo University – riguardo alla sorte incontrata da Orule Orisa (Il Tetto degli Dei), un’iniziativa organizzata proprio dal qui presente Anticristo. Il progetto in questione raggiunse lo stadio dell’acquisto del terreno e della progettazione architettonica. Ed ebbero effettivamente inizio le attività del culto tradizionale, amministrate dall’Araba – il principe di Ifa – di Ile-Ife. Dopo di che, all’improvviso, la concessione del terreno – un terreno che era stato debitamente consacrato agli Orisa – venne revocata. C’è un aspetto che voglio sottolineare: i due guardiani intagliati non erano miniature. Erano oggetti voluminosi, che arrivavano più o meno all’altezza della vita, e con proporzioni realistiche. Mi ero illuso che, trattandosi di oggetti così vistosi e unici, e quindi non facili da nascondere, nessun membro del consorzio dei ladri di oggetti d’arte minimamente in grado di soppesare costi e profitti si sarebbe mai sognato di rubarli. Erano sopravvissuti a un soggiorno quinquennale a Ibadan, e mi ero limitato a riassegnarli, nelle rispettive posizioni, alla mia casa di Ife. Mi sbagliavo, e di grosso. Benché abbia distribuito le loro fotografie ai miei fornitori, non ho avuto notizia di alcun loro avvistamento, e nemmeno il personale dei musei a cui mi sono rivolto mi ha mai riferito di averne trovato traccia. Quella coppia di poderosi dispensatori di energia sessuale è semplicemente svanita nel nulla. A distanza di cinquant’anni, si trovano ancora in questo stesso stato gassoso – o forse dovrei dire di «atomizzato», magari in seguito a un autodafé celebrato nel cortile di qualche fanatico? Semplicemente non lo sappiamo, così come non siamo mai riusciti ad acciuffare gli infiltrati «piovuti dallo spazio» di Akintilo che si dileguarono con le opere d’arte sacra di Sango-re-wopo... Centinaia di santuari hanno subito lo stesso destino di
scomparsa definitiva, per mano della progenie dei due evangelismi stranieri e gemelli – musulmano e cristiano – ancora oggi intenti a rivaleggiare tra loro nel compimento della missione piromane dei primi missionari. Oggi rischiamo facilmente di dimenticare che la principale consapevolezza che accomunava la maggior parte dei giovani intellettuali e artisti della mia generazione era la decolonizzazione della mente. Per molti, certo, non era altro che mera retorica da caffè del centro o da circolo accademico. Per altri, tuttavia, si trattava di una profonda impresa sociopolitica, il che spiega forse come mai concetti quali quello di «negritudine», nello stesso contesto coloniale della mia generazione, divennero paradossalmente sospetti ad alcuni di noi – i quali, a torto o a ragione, pensarono: «La dama promette troppo, mi sembra»1. Meno retorica, prego, e più fatti. La negritudine fu ineccepibile nel suo ruolo di fede che esaltava l’essere nero. Alla sua nascita contribuirono nei primi anni Venti i poeti senegalesi Léopold Sédar Senghor e Birago Diop, Aimé Césaire della Martinica e altri intellettuali francofoni africani e della diaspora africana. Predicava il recupero dei valori africani precoloniali e la loro riaffermazione in contrapposizione alle presunte certezze culturali di matrice europea. Aspirava a liberare la mente nera dai valori coloniali, recuperando tutto ciò che veniva progressivamente perduto, degradato o distorto in qualsivoglia modo. Occorreva recuperare quei valori e reinterpretarli sul piano dell’azione sia individuale sia collettiva, ricorrendo a qualsiasi mezzo espressivo: musica, arti figurative, scultura, narrativa, filosofia, danza, architettura – non importava. Tuttavia, una corrente di pensiero ritenne che la negritudine fosse tanto prodiga di voli pindarici quanto limitata in materia di trasformazioni sociali, e questo creò una spaccatura. La divisione fu resa più profonda dall’intrusione di politici opportunisti, per i quali la negritudine e le concezioni a essa correlate divennero semplici slogan utili per atteggiarsi a nazionalisti, da invocare quali giustificazioni per la repressione del dissenso interno nei rispettivi Paesi, in nome di una tradizione africana del «consenso» che dipingeva l’opposizione come un atteggiamento mentale imposto di matrice «europea» e via dicendo. Ciò diede origine a prese di posizione critiche qua.
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li la memorabile risposta del romanziere e cineasta senegalese Sembène Ousmane: «La négritude ne nourrit pas» (La negritudine non dà da mangiare). Malgrado queste riserve interne, tuttavia, la negritudine contribuì indubbiamente al fiorire dell’arte africana praticamente in ogni ambito, e a una maggiore consapevolezza e notorietà delle tradizioni culturali e delle modalità di espressione artistica del continente, anche nei loro adattamenti modernisti e sperimentali. Nei Paesi d’origine dei principali artisti – e nel Senegal in misura particolare – si assistette a una proliferazione di festival artistici e nuove gallerie d’arte dedicati sia alla creatività contemporanea, sia alla preservazione del retaggio tradizionale. Gli «anti-negritudinisti» trovarono dal canto loro un alleato quanto mai paradossale e indesiderato: l’asse culturale cristianoislamico! Quest’ultimo non assunse una posizione esplicitamente ostile a questa rinnovata coscienza dell’esistenza precoloniale; la sua ostilità, dichiarata o meno, trovava espressione nelle politiche sociali che venivano poste in essere. In breve: ogni tentativo di rivitalizzare il passato africano veniva considerato culturalmente sospetto, o più semplicemente diabolico. Una processione in maschera che sfilasse per le strade rievocando un antico rito tradizionale di stagione, per esempio, poteva costituire la scintilla per uno scontro fisico. Nella migliore delle ipotesi, poteva fornire l’argomento per il successivo sermone del venerdì o della domenica, o perfino dare la stura ad apposite veglie di preghiera e a rituali ispirati dal desiderio di pulizia spirituale, destinati a protrarsi per intere notti: «Attenti, o fedeli: il nemico è alle porte!». È opportuno sottolineare che queste contrapposizioni, nelle loro molteplici varianti, non ebbero inizio con la lotta per l’indipendenza politica, né con l’elaborazione della «negritudine» come strumento di lotta. La loro era stata una presenza costante sin dagli esordi dell’era dei pamphlet nazionalisti africani, tra l’inizio e la metà dell’Ottocento, e si era andata strutturando maggiormente negli scritti di George Padmore, W.E.B. Du Bois, Jean-Pierre Mars e altri. La negritudine non fece che renderle più manifeste. Quando nel Novecento fu conquistata l’indipendenza, e ogni nazione diede inizio di fatto alla lotta per la conquista della propria anima, l’«opera del nemico» non si fece attendere a lungo.
Gli autocrati della cultura sia islamica sia cristiana si accorsero che le religioni che avevano importato nel continente, soprattutto allo scopo di aprirsi la strada attraverso le sue vene commerciali (e in seguito coloniali) sino al cuore stesso dell’Africa, non avrebbero avuto vita facile. Le loro pratiche religiose avrebbero dovuto accantonare qualunque idea di sostituzione formale e complessiva, e adattarsi strategicamente. In breve, le religioni degli invasori non avrebbero potuto prendere piede negli agognati territori «afro-pagani» senza intraprendere qualche sforzo di adattamento, tanta era la silenziosa resilienza di alcune (non di tutte) delle costruzioni spirituali indigene da esse incontrate in terra africana – e l’esempio più incisivo è indubbiamente rappresentato dalla religione yoruba, designata dal termine «Orisa». Gli intrusi non si arresero senza combattere. Vi furono roghi, simili agli autodafé dell’Inquisizione spagnola. La differenza fu che i roghi divennero ben presto volontari ed entusiastici. Gli africani convertiti erano adepti quanto mai ferventi. Accorrevano nei giorni prescritti, predicando e praticando la dottrina del fuoco eterno e proiettando immagini infernali che sovente erano sufficienti a scuotere attraverso il terrore i loro «fratelli e sorelle» neri dalla propria indifferenza o titubanza. Non bastava che la gente accettasse il battesimo, o si spingesse oltre sottoponendosi al rito cresimale. Non bastava che, in alcuni casi, i poligami ripudiassero o allontanassero senza troppo chiasso le loro spose in soprannumero, o si sforzassero in ogni modo di tenere celato il loro regime familiare. Nella totale indifferenza per le difficoltà sociali ed economiche implicate da un conformismo esplicito, veniva loro imposto anche di dare prova della loro rinuncia al male attraverso veri e propri autodafé, trascinando all’aperto i loro «idoli», rappresentazioni simboliche della loro esistenza spirituale, e dando loro fuoco nei mercati o davanti alle chiese. L’alternativa – la trasformazione creativa delle pratiche precedenti – passò inosservata agli occhi di convertiti. Dove si imboccò questa strada, lo si fece senza la minima ironia: ciò che contava erano i risultati, e divenne più che accettabile convertire gli aborriti sedimenti culturali ponendoli al servizio della nuova divinità. Eliminare le opere d’arte fisiche era alquanto semplice – erano in
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gran parte realizzate con materiali combustibili. La musica, per contro, si rivelò più tenace e meno vulnerabile. Il mio pro-prozio, il reverendo J.J. Ransome-Kuti – musicologo e nonno del musicista afro-beat Fela Anikulapo Kuti – fu tra i più riusciti compositori dell’epoca dei missionari. Questo prelato anglicano prendeva le antiche melodie dei canti liturgici yoruba, ne gettava i testi nella salanga (latrina da cortile) più vicina e li sostituiva con parole di lode o di supplica rivolte a santi e divinità cristiane. Nell’ambito del mio lavoro teatrale ho potuto assaporare – senza averne avuto l’intenzione – il piacere un po’ piccante di riappropriarmi della musica che i miei antenati avevano tanto allegramente regalato alla Church Missionary Society, senza nemmeno pretendere dai beneficiari il pagamento dei diritti d’autore. Quando mi imbatto in una campagna per il risarcimento alle vittime della schiavitù, talvolta mi viene voglia di pavoneggiarmi dichiarando a gran voce di essermi dedicato a questa missione sin da quando iniziai a occuparmi seriamente di teatro; e non – voglio sottolinearlo – in un atto di vendetta deliberata, ma semplicemente come inevitabile sottoprodotto di un temperamento incline al recupero. In quelle opere teatrali – perfino in quelle satiriche – mi occorreva sovente una risorsa musicale, e le melodie tradizionali risuonavano ancora vivacemente intorno a me, e le percepivo sia moralmente sia storicamente mie. Forzando un po’ i termini, anzi, si potrebbe affermare che erano un affare di famiglia! La musica, lo sappiamo bene, è una forma di espressione creativa fortemente suscettibile di abusi. I missionari ne abusarono. I parlanti yoruba ammetteranno, una volta ripulitisi le orecchie, che essi stessi continuano ad abusarne a ogni funzione religiosa. Numerosi musicisti contemporanei – perfino i compositori e gli interpreti che si occupano di musica sociale – perpetuano assiduamente questo abuso auricolare. I toni sono un elemento essenziale della lingua yoruba: non si può semplicemente appiccicare una musica a un qualsiasi testo così com’è, o il risultato sarà del tutto privo di senso, ed è proprio così che suonano molti inni cristiani che sono stati tradotti in yoruba senza far corrispondere almeno approssimativamente la linea melodica ai toni di base della lingua yoruba – ascendente, medio e discendente. Molti gruppi
corali africani che riscuotono premi in Europa vanno fieri di avere nel proprio repertorio canti originari di aree diverse dell’Africa. Ottengono riconoscimenti importanti, ma vi assicuro che se tra i giurati vi fosse uno yoruba poco incline al compromesso, li squalificherebbe senza dare loro il tempo di balbettare due sillabe. Sotto questo aspetto, J.J. Ransome-Kuti era diverso. Intonava letteralmente la melodia alle parole – da qui la sua efficacia come agente della sovversione della spiritualità yoruba a beneficio della conquista cristiana. Si potrebbe dire che suo nipote Fela si sia sforzato di porre rimedio ai peccati dei suoi antenati, così come ha cercato di fare, nel suo piccolo, il qui presente bisnipote. E anzi, è stato proprio questo impulso a dare origine alla mia commedia più recente, Alapata Apata (Il Macellaio della Rupe), il cui intreccio si fonda esclusivamente sulla confusione creata dall’uso scorretto dei toni – un Soyinka al culmine della sua incarnazione da maestrino, se vogliamo! La scultura tende a mettere in ombra la musica in virtù del suo imponente volume tangibile, perciò quando parliamo di tradizioni artistiche africane dovremmo sempre riservare un poco di spazio nella nostra mente ai mezzi espressivi più variegati, dalla gastronomia ai costumi sociali sino all’architettura, passando per la cultura dell’abbigliamento. Di recente, a Lagos è sorta una controversia riguardo a un monumento pubblico eretto a una delle maggiori figure politiche mai prodotte dall’Africa, Obafemi Awolowo – statista e saggio, proprio così, al punto di essere riconosciuto come tale perfino dai più equilibrati tra coloro che sono stati suoi avversari politici per una vita intera. Il suo nome è stato dato a un’università, e a buon diritto, dal momento che l’istituto in questione nacque grazie alla sua pionieristica determinazione. A parte la postura della statua, che secondo alcuni avrebbe dovuto ritrarlo in piedi, nell’atto di esibire il suo celebre segno della vittoria, uno dei principali motivi di lagnanza ha riguardato... le sue scarpe. Nessuno yoruba consapevole della propria cultura, e di certo non un individuo come lui, sempre meticoloso nelle scelte relative all’abbigliamento – hanno obiettato i detrattori – si sarebbe mai fatto vedere in pubblico con quelle scarpe ad accompagnare
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La statua in bronzo di Nelson Mandela a Johannesburg, nella piazza intitolata all’ex presidente sudafricano, è stata realizzata tra il 2002 e il 2004 da Kobus Hatting e Giacobbe Maponyane, per celebrare il 10° anniversario dalle prime elezioni democratiche in Sudafrica.
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una tenuta yoruba completa. Il monumento ha suscitato più controversie perfino della statua di Nelson Mandela eretta a Sandton presso Johannesburg, che pure è stata oggetto di non pochi strali. Ho partecipato brevemente alla diatriba, trovandomi per caso in Sud Africa poco dopo l’inaugurazione dell’effigie. Il dibattito era talmente fazioso e unilaterale da indurre a ritenere che non sarebbe durato più di ventiquattr’ore dopo la presentazione pubblica del monumento. Ma ecco là torreggiare Mandela, ritratto come figura gigantesca dalla testolina minuscola – sì, queste le proporzioni attribuite a un simbolo riconosciuto a livello mondiale, e giustificate da alcuni in nome di una non meglio definita «licenza poetica». Mi bastò un’occhiata al monumento per sentirmi istantaneamente pervaso da una bruciante pulsione iconoclastica, alquanto simile a quella che mi travolgeva di continuo durante la mia permanenza come Fellow presso il Churchill College. Ma in quel caso la provocazione aveva una natura diversa. A Cambridge, il carico di risentimento che provavo nel vedere il busto di quel fautore dell’imperialismo perennemente in posa in cima alle scale aveva un carattere squisitamente politico, e non riguardava l’attrazione o la repulsione sul piano estetico. Il Mandela di Sandton era pressoché interamente estetico, ma con inquietanti implicazioni politiche, e perfino potenzialmente razziste. Un individuo non può che avere solide motivazioni creative per raffigurare il ricettacolo dell’intelletto di un qualsiasi personaggio in proporzioni così svantaggiate rispetto a quelle del resto del corpo – non per nulla gli yoruba riconoscono alla testa, ori, lo status di divinità, oggetto di specifiche prescrizioni rituali, rappresentazioni scultoree e perfino offerte quotidiane. L’effigie di Sandton implicava un qualche genere di presa di posizione, per quanto si debba riconoscere che l’interpretazione più inquietante di tale presa di posizione non sia confermata da prova alcuna. Diversa è la natura dell’affermazione contenuta nel succitato ritratto del presidente Zuma, il cui «scettro del comando» presidenziale può certamente candidarsi al ruolo di simbolo di riferimento per l’utilizzo dei motivi tradizionali africani e per il loro adattamento alla realtà contemporanea. Non è possibile rendere giustizia al repertorio sociopolitico dei simboli artistici senza
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chiamare in causa, nell’interpretazione della visione artistica, la sua cornice contestuale. Qui, il contesto era la saga dello stupro presidenziale. Una signora aveva accusato Zuma di stupro. Zuma insisteva che si era trattato di sesso consensuale. La presentazione dell’accusa, tuttavia, coincise con il culmine dell’epidemia di Aids, e la querelante, aggiungendo un ulteriore risvolto drammatico alla presunta violenza sessuale, rivelò di aver messo in guardia l’aggressore informandolo di essere risultata positiva all’Hiv. Ciò fu confermato dallo stesso Zuma. Domanda scontata: «Ha usato un preservativo?». Risposta: no. Inevitabile altra domanda, retorica: «Lei ha fatto consapevolmente sesso con una donna sieropositiva senza prendere alcuna precauzione?». «Niente paura» replicò il nostro dongiovanni «ho fatto la doccia, dopo». Così, un artista decise di prendere esempio da Robert Mapplethorpe – in netto contrasto, per inciso, con la tradizione puritana europea delle foglie di fico e dei panneggi. Procedette così alla realizzazione di un dipinto – The Spear, «La Lancia» (2012) – che ritraeva il presidente Zuma preceduto dalla sua Lancia Fiammeggiante. I più tra noi ricorderanno certamente le fotografie di Mapplethorpe che ritraevano «emblematicamente» lo stereotipo dell’attributo dell’uomo di colore, che emergeva attraverso la cerniera dei pantaloni di un completo immacolato, in un rovesciamento artistico alquanto arguto, dal sapore “omoerotico” (ma anche “omeopatico”) – oh, le classiche connotazioni a un tempo deliberate e non volute! – di un tipico stereotipo che popola la fantasia dei bianchi. Tale è la natura della professione artistica: ogni esperienza ne simboleggia un’altra al di là del tempo, dello spazio e delle tradizioni stesse, ed è sempre suscettibile di mille interpretazioni. A prescindere dal fatto che il secondo abbia preceduto cronologicamente la prima, la scappatella del presidente Zuma e questo commento artistico proveniente da oltreoceano non possono che suscitare reazioni caustiche in merito sia agli atteggiamenti razziali, sia agli archetipi artistici. Il che non fa che mettere ulteriormente in evidenza il ruolo che siamo costretti a riconoscere come svolto dell’artista, talvolta inconsapevolmente, nell’ambito della tradizione connotativa.
Per questo è inevitabile che gli aspetti sociologici del singolo collezionista, mecenate o utilizzo del prodotto – così come quelli ambientali e sociali – costituiscano talora parte integrante della narrazione nascosta o futura dell’oggetto artistico. La fortuna di queste opere può rivelarsi foriera di sconvolgimenti assai più letali di quelli suscitati dai meri furti notturni o dalle lance simboliche. Com’è possibile, per esempio, che la società abbia consentito a un pernicioso aspirante al dominio più assoluto come Boko Haram di insediarsi in un Paese come la Nigeria? Dietro un episodio di furto ispirato da motivazioni religiose – d’accordo, la mia è solo una speculazione – dietro a una o più presunte incursioni con pretesti religiosi o aggressioni vere e proprie, come i famigerati roghi di santuari a Ilorin nel Kwara o nello Stato di Imo in Nigeria, o l’agguato perpetrato contro un furgone che trasportava birra a Kaduna, dato alle fiamme insieme al conducente assassinato con il supplizio della «collana» –, dietro a tutto ciò, si cela una vicenda di perversa auto-legittimazione anti-laica e anti-altro da parte di un singolo settore della cittadinanza; la rivendicazione di un diritto di vita e di morte su tutti i componenti di una comunità religiosa arbitrariamente definita; il saccheggio di una capitale nazionale, Abuja; e la strage di centinaia di persone sulle strade, nei mercati e negli uffici motivata da un concorso di bellezza che una singola, aggressiva entità religiosa – quella islamica – considerava offensivo agli occhi della sua divinità onnicomprensiva. Ecco così la proclamazione diretta di un’orgia di iconoclastia religiosa ispirata da Dio – o presentata come tale – che fortunatamente trova ampio spazio nei media nigeriani. Il che richiama opportunamente la nostra attenzione su un processo tuttora in atto, e perfino sistematico: quello dell’attrito culturale – non stiamo parlando infatti dei secoli passati, con le loro aggressioni sin troppo documentate, bensì di un fenomeno contemporaneo, che induce alcuni a vantarsi apertamente dei rigurgiti di ferocia fondamentalista che hanno luogo nel loro Paese e finisce per incitare a ulteriori stragi. Tutto ciò si è verificato nel corso del primo decennio del xxi secolo, e gli esempi da me citati sono tratti dai media locali. Non si tratta di episodi
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eccezionali. Questo scenario si ripete in ogni momento, in qualche angolo della nazione, nelle chiese e nelle moschee, attraverso sermoni e preghiere, nelle scuole, negli istituti superiori, in spazi di preghiera all’aperto che talvolta occupano ettari interi, specie durante le festività religiose annotate sul calendario, con maratone «revivaliste» che si protraggono a volte incessantemente per giorni e notti, paralizzando il traffico in entrata e in uscita dalla capitale Lagos. Il seguente raccapricciante titolo giornalistico non è affatto esagerato: «GLI MBAISE DISTRUGGONO 100 SANTUARI PER PURIFICARE IL PAESE» Ed ecco qualche stralcio dell’articolo in questione, tanto per stuzzicarci l’appetito e stimolare la nostra voglia di emulazione. Gli mbaise, una comunità dello Stato di Imo, hanno concluso lo scorso fine-settimana una Crociata della Restaurazione della durata di tre giorni organizzata dallo United Congress of Mbaise Christians (ucmc), che ha causato la distruzione di non meno di cento santuari in tutta la regione. La crociata, che ha attirato una folla senza precedenti stimata in oltre un milione e mezzo di persone in ciascuna nottata, è stata caratterizzata da innumerevoli prodigi e miracoli, con la guarigione di numerose persone dalle malattie più diverse, dai disturbi dell’orecchio ai dolori al torace; molti altri hanno espulso veleni con il vomito. Il loro leader avrebbe dichiarato che il movimento aspira a conseguire «la totale emancipazione della nazione mbaise sul piano spirituale, economico e politico... gli mbaise stanno all’Igboland come l’Igboland sta alla Nigeria, e così come l’Igboland attendeva l’emancipazione degli mbaise, l’intera nazione attende indirettamente l’emancipazione e la restaurazione dello Mbaiseland».
La seguente giustificazione di questa devastazione si serve tuttavia di argomenti assai diversi, e la prudenza impone di riservarle la debita attenzione: Con la distruzione di non meno di 100 santuari che sino a questo momento rappresentavano un ostacolo allo sviluppo del paese, è ormai manifesto che la sorte del popolo mbaise è destinata ben presto a migliorare. [Corsivo mio]
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Apprendiamo infine che il movimento intende proseguire la sua marcia, al grido di «avanti, soldati cristiani»: «Molto presto» ci viene detto «gli oltre mille santuari del territorio mbaise saranno completamente distrutti». Mille! Roba tosta, eh? E se ancora nel secolo attuale ci imbattiamo in un simile fervore evangelico da parte dei prodotti di un’efficiente attività missionaria di conversione, figuriamoci che cosa può essere avvenuto nei due o tre secoli precedenti. Forse era a simili movimenti che andava ascritta la responsabilità dello stato pietoso delle opere tradizionali, compreso quanto restava dell’architettura, che notai nel 1960 al mio ritorno dagli studi compiuti in Gran Bretagna – ma molto probabilmente no, o almeno non senza un aiuto. Vi avevano contribuito anche altri agenti di attrito: i puri e semplici ladri d’arte, sia interni sia esterni. L’unica cosa che conta davvero sono i risultati, il loro effetto sulla psiche e sulla visione del mondo di un popolo, e quindi le strategie correttive a cui le vittime ricorrono quando divengono consapevoli di una grave perdita, dell’interruzione o dell’erosione subite dal loro senso di identità collettiva. Vi sono stati anche momenti confortanti, caratterizzati da bagliori di illuminazione, benché talora limitati a meri gesti simbolici. Ricordo per esempio che papa Giovanni Paolo ii, in un’occasione, ricevette in Vaticano rappresentanti yoruba della religione degli Orisa, un culto condannato per secoli dai pontefici e additato come principale bersaglio a tutti gli autentici missionari cristiani. Quest’antica religione, ahimè, rimane tuttora tra i più gettonati oggetti di denuncia nelle chiese e nelle moschee. Agli occhi di molti ecclesiastici, la venerazione degli Orisa e le sue celebrazioni non sono altro che l’orma lasciata dagli zoccoli di Satana sul suolo cristiano o musulmano. L’indottrinamento xenofobo tracima abitualmente dai pulpiti, rovesciandosi a cascata fuori dai portali della chiesa e della moschea con un fervore distruttivo così incessante che – almeno per alcuni di noi, che provengono dalla fonte originaria di queste credenze, lo Yorubaland, pur non annoverandosi tra i loro fedeli praticanti – sarebbe più che giustificato, e perfino vendicativamente gratificante, ravvisare nei frequenti sanguinosi scontri tra Islam e Cristianesimo una manifestazione di giustizia
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poetica, un castigo inflitto dalla storia nel nome di quelle che ho definito altrove le «religioni invisibili» del mondo, una vendetta contro due delle religioni più colpevoli e sanguinarie della storia umana: Islam e Cristianesimo. Vi è tuttavia un proverbio africano che senz’altro trova riscontro in quasi tutte – se non tutte – le altre culture: «quando due elefanti lottano, è l’erba a soffrirne». Abbiamo trovato conferma di questo detto nelle incessanti stragi di innocenti, in molti casi del tutto privi di interesse per le ragioni dei due pachidermi rivali. Voglio parafrasare questo proverbio in un linguaggio ancor più pertinente: quando due elefanti lottano, anche i territori non contesi si restringono. Gli umili animali della foresta, i semplici ruminanti non imperialisti, non aggressivi, non predatori, ma autosufficienti, vedono contrarsi i loro modesti spazi di libertà. E dunque, per riprendere la domanda con cui ho esordito: è possibile che siamo oggetto di una brutale manipolazione che ci costringe ad accettare una limitazione dei territori imposta da questi due pachidermi che si sbracciano per richiamare l’attenzione? Non è sufficiente stabilire quale dei due si sia reso colpevole per primo di aggressione ai danni dell’altro, alzare le spalle e tirare avanti; la realtà concreta della designazione delle vittime continua a perseguitare, oggi più che mai, le forme di spiritualità alternativa. Ci sono, naturalmente, fondamentalisti e fondamentalisti. Se devo esaminare il mio retaggio personale, non posso che considerarmi tra i capostipiti impenitenti di una particolare forma di feroce fondamentalismo, sebbene di natura compensatoria, in massima parte reattiva: una reazione a provocazioni protrattesi per secoli. Oltretutto, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che è stata la mancata attenzione, o per meglio dire il disdegno e il disprezzo riservati ai valori di quel passato culturale a causare la guerra civile pluridecennale solo recentemente conclusasi nel Sud Sudan. L’estensione di questo conflitto è rappresentata da un’intensificazione del programma di annientamento dei popoli e delle culture africani verso il quale il mondo si è mostrato indifferente o impotente per interi decenni del secolo scorso – come nel caso della campagna di pulizia etnica messa in atto dal governo sudanese e dai suoi agenti, i Janjaweed arabisti, nella regione del Darfur.
È assai indicativo che questa campagna sia durata così a lungo nonostante i Fur siano musulmani praticanti, esattamente come i loro aguzzini inviati da Khartoum. La cultura, tuttavia, ha un modo tutto suo di «addomesticare» la religione, benché entrambe condividano il medesimo terreno spirituale – e talvolta perfino una cornice teocratica. Ora, è proprio questa la differenza. Uno dei due schieramenti comprende questo concetto – o si limita a manifestarlo – nelle sue stesse scelte quotidiane; l’altro lo ripudia in quanto tale. In questo processo entra in gioco anche la storia, così come la politica e, naturalmente, i fattori economici. Alla base, tuttavia, c’è l’identità, ed è la cultura a creare l’identità. Questa negazione culturale si trasforma nell’ancella del disprezzo razziale, e della correlata e non infrequente politica di sradicamento della comunità umana oggetto di disprezzo, perpetrata gradualmente o in massa. Fortunatamente è troppo tardi perché un programma del genere possa essere messo in atto in un contesto nazionale complicato come quello nigeriano, ma ciò non ha impedito agli epigoni dei missionari cristiani e musulmani, che invasero secoli fa quello che è oggi tale contesto nazionale, di scatenarsi periodicamente nella missione di distruzione di opere d’arte dal valore inestimabile, considerate «infedeli». Tale, per esempio, è stata la sorte delle costruzioni Mbari erette dal popolo igbo per ospitare sculture religiose dedicate alla dea terrestre Ala. Molti saranno sorpresi nell’apprendere di questa riattivazione di una sentenza di morte comminata secoli fa dai missionari contro il retaggio della tradizione. Agli occhi di questi sanguigni missionari cristiani neri del xxi secolo, il retaggio artistico del popolo igbo della Nigeria orientale continua a rappresentare un oltraggio alla verità incarnata dal loro catechismo cristiano. Per loro non significa nulla il fatto che le gemme letterarie di un Chinua Achebe, di un Gabriel Okara o di un Christopher Okigbo, le tele e le sculture di artisti contemporanei quali Uche Okeke, Agnes Nyanhongo dello Zimbabwe o Bruce Onobrakpeya e la celebre scuola artistica Uli – solo per citare alcuni esempi – sarebbero state sottratte all’ammirazione del mondo, se il loro ambiente fosse stato «spiritualmente purificato» con successo dai loro antesignani missionari dei secoli precedenti, vissuti molto prima della loro nascita.
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Divinità yoruba presso il lago del Dique de Tororó (Brasile). 90
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Spostandosi a ovest di Enugu, Owerri, sino alla cittadina di Offa, si può incontrare un consesso di menti iconoclastiche – che di norma si salterebbero vicendevolmente alla gola, ascia alla mano – che hanno trovato un terreno comune nell’assalto all’arte tradizionale. A Offa, poco a nord del cuore delle terre yoruba, predicatori musulmani mossi da un fondamentalismo altrettanto feroce si scatenano in un’orgia di pulizia religiosa ugualmente frenetica, demolendo gli storici santuari eretti alle divinità yoruba locali, e perfino ai loro stessi eroi ed eroine come Moremi. Questa «Giovanna d’Arco» yoruba – di cui ho dato il nome a una delle mie figlie! – fu una leggendaria principessa che ha ispirato innumerevoli composizioni musicali e drammi epici. Per i nostri atavisti religiosi perfino queste presenze simboliche, a prescindere dalle vicende dei personaggi in questione, storici o mitologici che siano, rappresentano un affronto al rispettivo onnipotente cristiano o musulmano. Ogni qual volta entro in un museo, dove le opere d’arte ricoperte da una patina antica – dinamiche raffigurazioni mitologiche di sublimi superstizioni ispirate al cosiddetto paganesimo greco-romano, al Cristianesimo e all’Islam – non soltanto convivono armonicamente, ma sono oggetto di meraviglia e vengono perfino sfruttate economicamente in virtù dei milioni di visitatori che accorrono ogni anno ad ammirarle da ogni parte del mondo, torno a domandarmi se i curatori e i proprietari di questi patrimoni artistici colgano l’ironia della situazione. Furono infatti le truppe d’assalto religiose delle loro stesse nazioni a gettare il seme dello spirito di distruzione in altre terre, distruggendo e dando in pasto alle fiamme quegli stessi tesori il cui spirito stimola i loro impulsi estetici e alimenta la loro sete di acquisizione. Questo è lo sfondo sul quale siamo costretti a inquadrare alcune delle minacce poste dal filisteismo contemporaneo nel mondo in generale. Un mondo che, è forse il caso di rammentarlo, sembra restringersi ora dopo ora con una velocità sconcertante, il che dovrebbe stimolarci a spingerci oltre il risentimento fazioso verso le tendenze xenofobe altrui, in Oriente come in Occidente. Diversamente da quanto avviene con lo spirito accogliente della famiglia religiosa africana, che assorbe gli impatti invece di reagire incendiando il mondo intero, sappiamo bene come oggi sia sufficiente
un singolo individuo mosso da fervore o da semplice opportunismo per postare su Internet le parole pronunciate o scritte da un «nemico della fede», o a lui attribuite, aggiungervi la sua interpretazione personale e bollarle come azione nemica. Il mondo non-cristiano e non-musulmano in cui abbiamo collocato gli Orisa in veste di portabandiera di un imperativo ecumenico è il guardiano di quel territorio conteso, il «custode» che sorveglia la porta d’ingresso alla spiritualità africana, il cui ambito eccede di molto i confini delle terre africane. La religione degli Orisa non si è mai abbandonata alla demonizzazione dell’altro, eppure è sopravvissuta all’assalto dei secoli, ed è destinata a sopravvivere all’interno di quella stessa eternità che altre religioni considerano proprio appannaggio esclusivo. È la saga familiare della perdita e del guadagno, dell’oblio e dell’affermazione, della denigrazione e della valorizzazione, della degradazione e del recupero – un ruscello che svanisce in superficie per riaffiorare da un lontano picco montano, sotto forma di sorgente forte di nuove energie. L’Orisa costituisce in sé l’archetipo, oltre che il genitore e il protettore, di quel bambino problematico che gli yoruba designano con il nome di Abiku. Per i non iniziati, l’Abiku è il bambino recalcitrante che muore prematuramente, o sembra di continuo sul punto di morire, e che muore, rinasce e muore nuovamente per poi risorgere – magari non all’interno della stessa famiglia, e con ogni probabilità mutato in termini di temperamento e aspetto, in seguito ai viaggi da lui compiuti in altri territori della coscienza e agli incontri con gli abitanti di un altro universo. Questa entità ricorrente può essere riconosciuta dall’occhio del babalawo, il divinatore. Egli rivolge uno sguardo al neonato e dichiara: questo è lo stesso bambino che ha lasciato la famiglia tale un anno fa. Collegata a questo ciclo vitale ricorrente è quella che potremmo definire l’accettazione pratica del «bambino adulto», nato poco dopo la morte di un adulto, di solito un anziano. Sin dall’infanzia, questo bambino o bambina si segnala come diverso, saggio e più sapiente di quanto giustificherebbe la sua età, incline a pronunciare affermazioni enigmatiche o semplicemente autorevoli riguardo a questioni che sembrano eccedere il suo presunto livello di maturità. In virtù del rispetto che suscita, il bambino è autorizzato a sedere in compa-
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gnia degli adulti, che gli si rivolgono con l’appellativo di «Baba» o «Iya». Avendo assaporato la vita in un’esistenza precedente, può attingere nella successiva a un intero tesoro di saggezza. Come ho già accennato, noi siamo gli eredi di una storia di denigrazione – un fatto che non può essere passato sotto silenzio. A chi non ne è convinto, o è riluttante ad affrontarne le conseguenze, consiglio di vedere il film Ceddo (1977) di Ousmane Sembène. La pellicola rappresenta la risposta di un musulmano al passato di violenze religiose perpetrate dalla sua religione d’adozione, l’Islam, ai danni dei suoi antenati. Sul versante cristiano la letteratura è alquanto ampia, ma considero il romanzo Mister Johnson (1939) di Joyce Cary – anch’esso trasposto in un film – una testimonianza particolarmente penetrante, trattandosi dell’opera di un ex-funzionario coloniale che servì proprio nella mia nativa Nigeria. Non vi è molto da aggiungere a questa descrizione articolata, tracciata da uno dei protagonisti, delle attività svolte dalle missioni cristiane con il medesimo fine. Laddove un individuo ha la sensazione che le lezioni di questa storia così brutale trovino una continuazione in ulteriori brutalità perpetrate nel corso della sua stessa generazione, è inevitabile che egli sviluppi un atteggiamento protettivo, e perfino combattivo, nei confronti di questi simboli sotto attacco. Sappiamo tuttavia di non essere eredi soltanto di una memoria negativa. Malgrado tutto, e malgrado la profonda ostilità dei fanatici che vestono panni presi in prestito dall’esterno, le maschere ancestrali riaffiorano in occasione delle festività – e anche al di fuori di esse – sfilando per le strade a passo di danza, mosse da qualche misterioso impulso. Il gelade, culto della terra che è appannaggio specifico delle donne, regna supremo in località come Badagry. L’agbegijo, una mascherata laica di natura prevalentemente teatrale, che comprende maschere raffiguranti animali e ne mette in scena gli scherzi, reali o immaginari, fa da antidoto allo stress o alla noia dell’esistenza moderna. Maschere, cariatidi e immagini votive che fanno da intermediarie con potenze e divinità invisibili trovano tuttora una rinnovata esistenza rituale, caratterizzata da un’abilità e da una carica innovativa sempre più marcate, e vengono ritualmente consacrate, con l’aggiunta di motivi tratti dall’e-
sperienza contemporanea, a ogni nuova stagione. E presenze ancestrali raffigurate in legno o in tessuto, apparentemente distanti ma animate da un’appassionante dinamicità interna o gestuale, vengono tuttora rispolverate e portate in processione in alcune località – sin dall’infanzia, per citare le mie esperienze formative personali, imparammo a temerle e/o ad ammirarle in luoghi quali la corte di Ake del re supremo, l’Alake di Abeokuta. È vero: purtroppo, oggi la galleria a cielo aperto di questo sovrano non è che un’ombra delle sue glorie passate. Come potrebbe essere altrimenti, mi domando, dopo aver visto i musei di altri Paesi, ornati da eleganti festoni e stipati sino al soffitto di tesori strappati alla mia terra? Per non parlare dei musei privati da giardino di ereditiere dal fondoschiena affettato i cui antenati – nonché contemporanei – avevano spogliato i cortili delle residenze reali del mio Paese. Durante gli anni critici che precedettero l’indipendenza, le norme sulla tutela del patrimonio nazionale rimasero troppo deboli, o permissive al limite della collusione. Inevitabilmente, l’atteggiamento indifferente dell’individuo nei riguardi di queste opere mutava, trasformandosi in combattività. Nel mio caso, sono pronto ad ammettere di aver imparato a valorizzare concretamente questi oggetti fisici, e ad apprezzarli come opere d’arte a pieno titolo e a sé stanti, soprattutto grazie alle conoscenze ricavate dai miei incontri con l’esterno. La storia era motivo di lagnanze specifiche, e suscitava incredulità il fatto che i secoli di rapine perpetrate in situazioni di forza maggiore avessero lasciato il posto alla legge delle maggiori disponibilità di contante. Si trattava di un’ulteriore provocazione. Tuttavia, la poetica del lamento e la polemica dell’orgoglio di razza possono giungere solo sino a un dato punto, e differiscono soltanto esteriormente dagli squallidi sostituti che usurpano gli spazi un tempo dominati da pilastri e cariatidi dalle forme sublimi e dalle deliziose proporzioni, stilizzate o naturalistiche. Sull’esempio della novità costituita dalle esposizioni internazionali dell’Inghilterra edoardiana, successivamente fatte proprie dalle città industrializzate in tutta Europa e in America, anche le città più piccole si dotarono di collezioni private, mosse dalla rivalità delle «esposizioni». Fu necessario un po’ di tempo per
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creare il collegamento destinato a dare significato alla continuità storica: l’interpretazione della ricchezza artistica del mondo esterno come rovescio della medaglia delle rozze sculture intagliate visibili nei palazzi del proprio sovrano. Ma basta con le geremiadi. Scoprii che nell’anno del mio rimpatrio – il 1960, che fu anche l’anno dell’indipendenza, non soltanto per la Nigeria, ma per gran parte dell’Africa coloniale – questo patrimonio rimpatriato non si trovava rinchiuso soltanto nelle casseforti europee, e non appariva esclusivamente nelle sue forme originali. In altre fiorenti comunità, questo retaggio appariva vivo, vegeto e attivo sulle strade, nei mercati e nelle case. Mi riferisco qui a movimenti perlopiù intangibili, a retaggi vissuti trasferitisi al di là degli oceani per stabilirsi in terre straniere – le Americhe e i Caraibi – e non semplicemente nei centri urbani turistici, ma perfino in remoti villaggi, talvolta in recessi montani inaccessibili; là, i discendenti dei dispersi riaffermavano le proprie origini sfidando l’ostilità degli Stati – quello che Abdias do Nascimento denunciò come un genocidio razziale – ma anche, paradossalmente, altri movimenti ribelli che tentavano di sradicare il concetto di identità multipla sostituendovi, almeno in linea teorica, una società senza classi, e privata anche dell’ulteriore complicazione costituita dall’identità razziale. Ho avuto modo di assistere all’applicazione di questo programma a Cuba nei primi anni Sessanta – ben presto Cuba invertì la rotta, e a dire il vero non ritengo che avesse mai annoverato questo progetto tra gli obiettivi della Rivoluzione. Esso si percepiva nondimeno a livello ufficioso, malgrado l’esistenza di un vivace ensemble di danze popolari, promosse in tandem con il balletto classico e dichiaratamente ispirate alla mitologia yoruba. La sua danza di Ogun offriva uno spettacolo formidabile, in cui questa divinità compariva ora come rivale, ora come alleata di Sango dispensatore di tuoni. Prosperavano i bembés, l’equivalente della Santería brasiliana, ma solo marginalmente durante quella fervida stagione rivoluzionaria, e traspariva qua e là una sensazione di «tolleranza a malincuore». Ma la volontà di annacquare le identità risiedeva più che altro nelle elucubrazioni degli ideologi da apparato, con il loro approccio da libro di testo all’eliminazione delle contrad-
dizioni sociali, nel cui contesto era agevole identificare l’emarginazione economica con specifici gruppi razziali. Bastava ridurre al minimo la coscienza razziale per far svanire il problema – così, almeno, teorizzavano questi ferventi evangelizzatori. In breve, l’ideologia progressista veniva contrapposta a una coscienza razziale reazionaria. Oggi, d’altro canto, un intero edificio dell’Avana è espressamente dedicato agli Orisa, e adorno di sculture di divinità in forme realistiche, anche se in formato gigante. Devo dire che emana un’atmosfera un tantino alienante, simile a quella di un museo, per quanto l’opera meriti un dieci e lode per la portata del riconoscimento pubblico che rappresenta. Per chi desideri assaporare un autentico afflato di aura spirituale, tuttavia, i bembés rimangono tuttora l’incarnazione più autentica della presenza delle divinità yoruba a Cuba. È stato alquanto strano imbattermi, assai più di recente, in narrazioni che rientrano nella medesima tendenza in luoghi quali la Colombia. Nel 2014 ho visitato un villaggio di ripopolamento situato non lontano da Cartagena, pittoresca micro-città in formato cartolina, che fortunatamente non può essere oggetto di collezione – la città, intendo. In quell’insediamento ho incontrato leader della comunità che mi hanno raccontato con orgoglio di aver dovuto resistere dapprima alle pressioni di indottrinamento degli ideologi delle micidiali farc, e alla loro brutale intolleranza. Dopodiché, una volta reinsediati nel nuovo villaggio protetto, questi leader avevano evocato i valori sociali e l’organizzazione comunitaria delle tradizioni africane di cui erano eredi allo scopo di resistere ai baroni della droga e ad altri cartelli criminali che avevano iniziato a impossessarsi delle loro esistenze, perfino nei villaggi protetti dal governo. I risultati naturalmente sono stati eterogenei, ma per i nostri scopi questo episodio può servire a trasmettere un messaggio confortante: e cioè che la cultura, anche laddove i suoi simboli spirituali sono da lungo tempo venuti meno, rimane una fonte vissuta, una riserva di possibilità sociali, anche quando è in corso una lotta per la sopravvivenza. Oh, quasi dimenticavo: le loro canzoni, le loro danze e perfino alcuni nomi da loro conservati erano tutti yoruba. Avevano aggiunto al repertorio alcune danze senegalesi, ma poi si è scoperto che le avevano imparate da filmati di
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importazione. La cultura preservata attraverso le generazioni era, in misura dominante, yoruba. La letteratura, naturalmente, aveva costituito una presenza costante – Nicolás Guillén, Pepe Carril (Shango de Ima), Abdias do Nascimento, René Depestre e altri ancora. Non avevo ancora conosciuto personalmente nessuno di loro, ma fu proprio in quell’anno, il 1960, che interagii fisicamente per la prima volta con i miei emissari letterari del regno yoruba, tra i quali un inviato ufficiale: Antônio Olinto, accreditato come tale sia in Nigeria sia nella confinante Repubblica del Benin (allora conosciuto come Dahomey). Romanziere e storico (La casa dell’acqua, Il re di Keto), aveva ricostruito e narrato le fortune di una celebre famiglia brasiliana di origine yoruba poi rimpatriata. Sua moglie Zora Seljan era drammaturga e la sua fonte di ispirazione era la mitologia yoruba. La sua prima opera teatrale, História de Oxalá, era un dramma incentrato sulle divinità yoruba e in Oxalá era agevole riconoscere la principale divinità del pantheon yoruba, Orisa-nla. Perdita e guadagno, guadagno e perdita – il figliol prodigo aveva fatto ritorno nella casa perduta, per scoprire su quel medesimo suolo i germogli rigogliosi sbocciati dagli antichi semi della diaspora. Forse, dunque, il ruscello di cui parlavo scorreva anche allo scopo di ingrossare la corrente subcosciente della riaffermazione per mezzo del recupero delle opere d’arte. Ciò che emerge da questa miriade di impulsi è che l’atteggiamento dell’individuo nei riguardi di queste opere, anche qualora esse non abbiano mai lasciato la patria d’origine, ha sempre avuto un carattere tutt’altro che antropologico. Storia sì, antropologia no! Non mi limitavo a trovarle sempre più accattivanti: come opere compiute a sé stanti, emanavano un’aura che eccedeva l’ambito meramente fisico. Immagino che, da bambini, un’ulteriore componente delle nostre reazioni personali fosse legata al fascino esercitato dal frutto proibito – ricordate? Si trattava di oggetti legati a un culto demoniaco, e noi, bambini allevati in una sana educazione cristiana, non avremmo dovuto nemmeno avvicinarci a loro, e men che meno toccarli. Erano proibiti, e proprio per questo finivano per esercitare una forza di attrazione. Ogni qual volta mi veniva affidata una commissione che mi portava nei pressi del palazzo dell’Alake, sulla cui facciata
si aprivano allora le basse nicchie degli Ogboni, mi ci infilavo per toccare quella sfilata immobile di sculture. Talvolta facevo perfino una deviazione apposta per recarmi lì. Non dopo il mio rientro nel 1960, però – soltanto quando il dovere mi chiamava. Non sorprenderà quindi il profondo, sospiro di euforia e di rivincita che proruppe dalla mia gola – «Finalmente!» – quando visitai il Musée du quai Branly, dopo che quella prodigiosa istituzione aveva inaugurato la sua nuova politica intesa a sottrarre l’arte africana al dominio dell’antropologia. Al vecchio Musée de l’Homme, l’abitudine era stata quella di ammassare l’arte di un intero continente costringendola a una coabitazione che non rispecchiava minimamente il valore della creatività africana, una negazione estetica del tutto funzionale a un programma deliberato di esclusione e degradazione di quell’arte. L’istituto di cui sopra, invece, ha perfino rinnovato uno spazio dedicato all’espressione della sua nuova linea, e in occasione della mia ultima visita sono stato testimone di un vero e proprio sconvolgimento in relazione al materiale in esposizione, rispetto a quello che avevo potuto vedere nel 2000. Prima di allora, l’ultima visita che ricordo aveva avuto luogo poco dopo la fine della guerra di secessione del Biafra, nel 1969, quando ero stato rilasciato dal carcere. Mi ero sottoposto a una terapia basata su un auto-imposto esilio post-traumatico. Musei e gallerie d’arte divennero parte integrante della terapia, forse nell’ambito di un’istintiva esplorazione del miracolo stesso dell’umanità che con tanta facilità ricorreva all’eliminazione di centinaia di migliaia di vite in nome di concetti sentimentali e/o sciovinisti quali l’«unità nazionale». In realtà non si trattava di un’abitudine del tutto nuova, ma soltanto di un’abitudine che sembrava aver assunto una dimensione compulsiva. Il che non mancava in sé di un risvolto ironico. Per natura, tendo inesorabilmente a provare fastidio per musei e gallerie in quanto spazi di contraddizione e alienazione. Sono luoghi che «delimitano» – anche quando non vi sono barriere fisiche o ripartizioni esplicite – e quindi allontanano le opere d’arte, allontanando in tal modo anche la presenza ideale delle mani e della fantasia creativa dei loro creatori. «Male necessario» sarebbe una definizione eccessiva, iperbolica di questo risentimento – in ogni caso,
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occorre sempre un po’ di tempo perché quel fastidio inizi a fare effetto; vale tuttavia la pena di notare che alcune gallerie innovative sembrano aver preso consapevolezza del problema, e adottano oggi la politica del prestito temporaneo delle opere d’arte, proprio come fanno le biblioteche con i libri. Non è certo difficile indovinarlo, ma la mia preferenza va alle passeggiate attraverso le gallerie estemporanee all’aria aperta – come i mercatini di Hyde Park, Bayswater Road e Portobello a Londra, e i loro equivalenti romani nei dintorni di Piazza di Spagna – durante la loro rituale apertura quotidiana o nel fine-settimana; senza dimenticare le rive della Senna a Parigi, un guazzabuglio di artigianato, kitsch, cianfrusaglie, antiquariato sospetto, stampe, manifesti e prime edizioni illustrate che sembrano sgomitare in mezzo al traffico di esseri umani e veicoli e alle esalazioni delle Gauloises. Lì il visitatore viene assalito di volta in volta da dipinti eccezionali, sculture e ceramiche di fattura ora modesta ora squisita, provando un senso di scoperta partecipe del processo creativo che nessuna galleria d’arte formale potrebbe anche solo fingere di offrire. È questa, forse, la ragione per cui la prima destinazione a cui si indirizza il sottoscritto in qualunque città è il quartiere degli artisti e dei negozi di antiquariato. Mi dirigo invariabilmente in quella direzione, spesso senza avere nemmeno bisogno di chiedere indicazioni. Il mutare dello stile architettonico, della struttura delle strade (di solito pavimentate con lastre di pietra invece che rivestite d’asfalto), i motivi decorativi e un’indefinibile profumo – tutto ciò contribuisce a confermarmi che mi sto avvicinando a quel recesso, finché tutt’a un tratto mi ritrovo in mezzo agli antenati locali. Antenati che si lasciano dietro un’aura inconfondibile, a dispetto dell’intrusione dei falsi che tentano di riprodurre la patina senza tempo dell’argento annerito, dell’oro invecchiato, delle armi d’altri tempi, delle pietre preziose, dei cimeli in legno e in tessuto e degli oggetti esotici appartenenti a terre lontane, ad altre mitologie e ad altri antenati. Le gallerie non sono in grado di soddisfare questa sete personale, viscerale. Ciò che occorre è la vicinanza a queste ancestrali presenze, costantemente disponibili, tattili, comunicative, o semplicemente silenziose, indifferenti, imperturbabili. Non
Yoruba, "Vecchio Uomo dall’Enigmatica Serenità".
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avrò forse mai potuto permettermi nulla che soddisfacesse sino in fondo i miei desideri, ma almeno sono riuscito a sfornare qualche riga che può costituire una sorta di premio di consolazione – Samarcanda e altri mercati che ho conosciuto! Le opere degli epigoni moderni creano una continuità, revisionista e innovatrice nello spirito, che tuttavia rappresenta sempre anche un omaggio alle fonti della propria identità razziale. Quando, nella protezione del proprio rifugio privato, l’occhio saltella dalla pennellata modernista alle linee classiche della perizia primigenia, perfezionate e affinate dal tocco della mano, cariche di spiritualità, allora si crea un dialogo nell’ambito del ciclo creativo che cede la parola alla comprensione intuitiva, senza tempo, un’armonia residuale che sopperisce alla cacofonia stridente dell’esistenza quotidiana. Questo è un momento adatto per citare un pezzo specifico quale esempio misterioso di questa funzione; non vorrei mai recargli offesa trascurando di menzionarlo, giacché il Vecchio Uomo ha svolto fedelmente per decenni il ruolo di compiacente punto focale della mia contemplazione, specie nei periodi di crisi – periodi di cui un’esistenza nel contesto nigeriano è particolarmente prodiga. «Portare il fucile a passeggio» nella foresta più vicina non è sempre una terapia praticabile, e così è stato a questa figura sempre disponibile che mi sono sovente rivolto nei momenti di stanchezza, per trascorrere un paio d’ore in silenzio. La figura in questione ha sempre emanato un’essenza arcana, una vitalità paradossale e imperturbabile venata da un sorriso di ultraterrena e misteriosa comprensione. Se fosse possibile fissare nella mente interrogativi non detti da rivolgere a questa figura, essi ricadrebbero probabilmente in categorie quali le seguenti: «Di’ un po’, cos’è quel sorriso sornione?», «Stai cercando di passare per il mio nonno sapiente?», «Di chi è l’arroganza che stai scimmiottando? La mia? Quella dei cristiani? Dei musulmani? O semplicemente quella dell’esistenza?». La comunicazione, tuttavia, è perlopiù mediata dal linguaggio del silenzio. Un dato interessante: questo è l’unico oggetto di casa che ha sempre terrorizzato uno dei miei figli, ma anche un paio di collaboratrici familiari nonché qualche visitatore occasionale. Nessuno sfor-
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Colin Garland, raffigurazione del bambino Abiku (dipinto datato al 1958 dall’autore).
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zo di persuasione bastava a indurli ad avvicinarsi al Vecchio Uomo dall’Enigmatica Serenità – questo il suo titolo più recente (cambia di continuo). Le mie memorie, Sul far del giorno, e in particolare la rocambolesca avventura di recupero narrata nel capitolo «Un olori-kunkun e l’Ori Olokun», hanno naturalmente reso manifesta la mia disponibilità a partecipare attivamente al recupero del patrimonio tradizionale, anche con metodi non ortodossi. Perciò, la condizione del qui presente collezionista non può essere attribuita in via esclusiva a una motivazione specifica – nemmeno alle provocazioni dei ladruncoli dal piglio storico, schematico e perfino scientifico quali Frobenius e compagnia. In quel racconto ho potuto affermare di essermi limitato a proseguire, con mezzi pratici, la denuncia romanzata rivolta da Yambo Ouologuem – Dovere di violenza – a Frobenius, non soltanto per aver razziato manufatti storici africani, ma anche per aver spensieratamente ascritto un retaggio che non gli apparteneva a civiltà mitiche quali quella di Atlantide. Le provocazioni sono molteplici. La compulsione del collezionista dà talvolta l’impressione di essere congenita, forse assorbita insieme al latte materno. Per esempio, in un altro racconto contenuto nelle stesse memorie, ho confessato come, ancora studente presso il Royal Court Theatre di Londra, scialacquai la folle somma di venticinque sterline per acquistare un dipinto. Ora, il mio livello di conoscenza dell’arte all’epoca non avrebbe mai giustificato un simile sperpero: cerchiamo dunque di capire che cosa fu, esattamente, a spingermi a questo eccesso. Il quadro era opera di un giovane artista britannico – con qualche traccia di sangue australiano – di nome Colin Garland, che per inciso alcuni anni dopo si trasferì in Giamaica dove, per quanto ne so, risiede tuttora. Nel capitolo in questione racconto come lo incontrai per caso mentre apportava gli ultimi ritocchi a un’opera curiosa, che mi irretì istantaneamente. Era il 1959, un anno prima del mio rimpatrio – e sì, senza alcun dubbio la mia mente era già carica di aspettative e perciò propensa a cogliere tratti, odori, sapori... tutte le molteplici associazioni che in precedenza avevo represso per evitare il crollo emotivo talvolta causato dalla nostalgia. Ciononostante, rimasi interdetto quando, nell’istante stesso in cui posai lo
sguardo sulla tela, la parola che mi affiorò involontariamente sulle labbra fu «Abiku»! Sì, fu un momento molto strano, per quanto il dipinto fosse inquietante in sé – angosciante, quasi. Naturalmente Colin si limitò a guardarmi, perplesso. Gli spiegai il significato di quella parola, e come essa designasse una sorta di enfant terrible. Dentro di me avevo già deciso che dovevo avere quel quadro. Non entrò in gioco nessun’altra riflessione, nessun senso di responsabilità o dovere. Dovevo portarmi a casa il quadro. Rimaneva un unico problema: come raggranellare il denaro in tempo per la mia partenza? Non mi presi nemmeno il disturbo di chiedergli il prezzo: sapevo di non potermelo permettere, ma lo avrei pagato, qualunque fosse, a rate. In quell’occasione era all’opera qualcosa che andava oltre la carica estetica. Colin Garland, per me un perfetto sconosciuto, aveva fatto scattare qualcosa – chiamatela identificazione, chiamatela trasmissione primordiale di un’immagine tratta dal subconscio collettivo; in ogni caso lui, britannico bianco, aveva colto un’essenza che aveva risvegliato in quello studente esule e squattrinato un’immagine sino ad allora in ombra. In quell’incontro estemporaneo lessi la presenza dell’Abiku, il ciclo senza fine del bambino che nasce per morire e muore per rinascere, reinterpretata in un linguaggio nuovo, uno dei miti più radicati nella concezione yoruba del ciclo della nascita e della morte. Fu un ineffabile momento di comunione interculturale. Allora non potevo certo immaginarlo, ma quel quadro aveva già iniziato a dimostrarsi all’altezza del suo nome. Iniziai a risparmiare per l’acquisto, domandandomi a che cosa avrei potuto rinunciare durante i mesi che mi rimanevano per non rimanere indietro con i pagamenti. Alla mia visita successiva nel suo appartamento, Colin Garland era già al lavoro su una nuova tela – non ricordo di che cosa si trattasse, soprattutto poiché non la registrai: la mia retina era ancora incollata all’immagine del fugace bambino. Senza dare importanza alla cosa, commentai che lavorava rapidamente, dopo di che mi spostai nell’angolo in cui conservava le opere finite per dare un’altra occhiata a quell’apparente messaggio trasmessomi attraverso un etere a lungo represso. Non c’era. Gli chiesi dove tenesse la tela originale. E Colin
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Garland, pittore squattrinato, continuando a intingere il pennello nella tavolozza e ad applicare pennellate alla tela, mi informò con disinvoltura che – ci crediate o no! – aveva cancellato il dipinto. L’Abiku – capriccioso frutto della procreazione – era decisamente all’altezza del suo nome. A quel tempo non nutrivo interesse per la mitologia dell’Abiku, e non mi passò nemmeno per la testa di rammaricarmi per non essermi propiziato Esu, il dio che manda a monte i piani. Tutto ciò che sapevo era che la levatrice dell’Abiku, un imbrattatele da solaio dal viso pallido a nome Colin Garland, avendo bisogno di una tela per una nuova opera e non potendosene comprare una nuova, aveva cancellato il mio Abiku, e stava ora utilizzandone le fasce, dopo averle risistemate e lisciate, per qualche nuovo rito procreativo. È il momento di concludere questo racconto. Sgomentato – così mi piace pensare – dalla repentina trasformazione della mia chioma in una ciminiera da cui scaturivano fiamme e fumo nero come la pece, Colin batté in ritirata, sollevò la mano in un gesto di pace, afferrò il suo straccetto e iniziò a cancellare i tratti che iniziavano a prendere forma sulla nuova tela. Dando inizio all’esercizio non molto difficile – ma ingannevole – del recupero della memoria, cominciò a ritornare sui suoi passi di infanticida. Qualche ora dopo si sentì abbastanza fiducioso da invitarmi a dare un’occhiata. La composizione era lievemente diversa; vi erano alcune differenze percettibili in termini di solennità e gradazioni di colori, ma nondimeno ai miei occhi l’impresa aveva del miracoloso. Nel corso dei due giorni successivi, l’Abiku iniziò a riaffiorare. Poco dopo era pronto. Potei tirare un sospiro di sollievo e rivolgere la mente a problemi più concreti (come pagare, per esempio): in ogni caso, sì, era decisamente l’Abiku. Oggi è appeso a una parete della mia casa di Upland in California, rivolto verso l’esterno in direzione del monte Baldy, che a sua volta fa da sostituto della roccia di Olumo della mia nativa Abeokuta, la terra delle Rocce Sospese bagnata dal fiume Ogun. L’Abiku resta una metafora calzante della vicenda della diaspora africana, e yoruba in particolare. Ho aperto questa conversazione accennando ad altri parametri, che esemplificano il ciclo umano di perdita e guadagno, negazione e affermazione. L’Abiku è un elemento centrale di questa esperienza, e forse spiega perché il feno-
meno della diaspora abbia creato, negli schiavi yoruba trasportati oltremare, una così marcata resilienza culturale: l’Abiku poteva anche morire nel continente nero, ma quel bambino possedeva una volontà di rinascita, era nato per sopravvivere, ovunque decidesse di ricomparire. Tanto basti per quanto riguarda i risvolti personali. Quanto alle vicende storiche, sono – o dovrebbero essere – di pubblico dominio. Ma la questione che non abbiamo ancora affrontato in profondità è la seguente: perché questa eccezione? Che cosa ha reso questa cultura non soltanto resiliente, ma resiliente in modo dinamico, e perfino capace di aggrapparsi a simboli e mitologie altrui – la fede cattolica ne è l’esempio più celebre –, così da potersi trapiantare in modo duraturo? Statistiche recenti sembrano indicare che gli schiavi rapiti dal Congo furono di gran lunga più numerosi di quelli strappati alle terre yoruba, eppure questi altri trapianti africani, in generale, si sono atrofizzati sino ad appassire e morire. Gli yoruba no. Può essere utile, tuttavia – se non altro per metterci sulla pista giusta – ricordare che nemmeno il Cristianesimo e l’Islam, anche nei territori originari, hanno mantenuto una forma identica a quella che avevano al momento della loro intrusione mirante a soppiantare, anzi a sradicare le forme culturali africane. Sono stati entrambi «addomesticati»: un’esperienza che hanno vissuto con disappunto, ma che talvolta ha risvegliato in loro pulsioni violente volte al recupero di una purezza immaginaria, caratterizzate da un livello di brutalità diverso a seconda dei casi, particolarmente pronunciato in occasione dei periodici spasmi di «pulizia religiosa» – quali quelli che riscontriamo nelle attività di Boko Haram e di altre versioni omicide di qualunque fede. Gli yoruba accolsero di buon grado sia il Cristianesimo sia l’Islam. Si convertirono a milioni, ma pochissimi ripudiarono del tutto l’intero spettro dell’acculturazione precedente che li compenetrava. Si potrebbe affermare che «si può strappare uno yoruba dalle terre yoruba, ma non si può strappare lo yoruba da lui». No, non intendo minimamente sostenere che si tratti di una caratteristica esclusiva degli yoruba; si tratta però di un elemento che in loro può essere agevolmente riscontrato, e dimostrato.
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Ovunque gli Orisa abbiano messo piede, le loro sopravvivenze culturali sono sempre fortemente percettibili anche a distanza di secoli – nella gastronomia come nelle arti visive e performative, nonché nella letteratura e in particolare nel teatro; ma è nell’ecumenismo della loro spiritualità che questa conservazione appare più ispirata. Studiosi di livello mondiale come Pierre Verger hanno ampiamente documentato queste sopravvivenze. Scrittori e artisti come Antônio Olinto hanno arricchito questo patrimonio di conoscenza, mentre altri, come il mio scomparso fratello maggiore Abdias do Nascimento, sono ricorsi a una varietà di strategie creative e polemiche per sbattere l’autentica cultura nera, africana – e yoruba in particolare – in faccia a una società brasiliana recalcitrante, costringendo governi rozzi e razzisti, trincerati nella negazione, a prendere atto dei molteplici contributi che hanno concorso a creare quella cultura che viene oggi riconosciuta come specificamente brasiliana. Si può ritenere che tutti questi aspetti formino lo sfondo dinamico della narrazione specifica degli Orisa. Quelli da tenere d’occhio sono i bulli spirituali. Presto o tardi, in loro l’atteggiamento bigotto lascia il posto all’aggressione fisica. E che cosa viene dopo l’autodafé contro i precipitati creativi dell’immaginazione umana? Le procedure, naturalmente. I segnali sono sempre presenti, per quanto variamente dissimulati. Il mondo tende a sottovalutare la portata di atti di resa apparentemente piccoli e insignificanti, che tuttavia costituiscono un tradimento dell’umanità. La resistenza assume molte forme, alcune delle quali innocue e francamente irrilevanti, che tuttavia costituiscono comunque armi in mano allo spirito umano. Come reagisce il collezionista di sculture religiose africane alla distruzione delle insostituibili vestigia di un’antica civiltà come quella di Nimrud, perpetrata in un’orgia di pulizia religiosa? La risposta è semplice: accetta l’offerta del prossimo venditore di oggetti appartenenti alla spiritualità africana – o a qualsiasi altra spiritualità minacciata – se può permettersi di acquistare la sua mercanzia. Si tratta di una reazione individuale, certo; ma come abbiamo accennato più volte, una collezione rappresenta un’affermazione individuale di consapevolezza e risposta – una «presa di posizione attiva» che
opera a livello sia conscio sia subconscio, per quanto personale e limitata. Dietro ad alcune reazioni emotivamente cariche alla censura pubblica in campo artistico si celano origini terrificanti e/o conseguenze ancor peggiori. Badate: dietro alla facciata sociale, dietro al sorriso implorante del cripto-fanatico, si nasconde un’intimazione non detta: «Sottomettetevi, o peggio per voi!». Un’imposizione di portata limitata, apparentemente «benevola», attuata in un angolo del mondo, può diffondersi in lungo in largo, contribuendo ad alimentare in aree anche molto lontane tendenze represse, sovente tenute a bada soltanto dalle leggi di altri Paesi, o dal timore di rappresaglie, che sono sempre in attesa del benché minimo incoraggiamento, da qualunque direzione provenga, per sfidare e travolgere le forme di controllo tradizionali. Ecco un caso inequivocabile, un monito destinato ai remissivi. Di recente, un presidente iraniano in visita in Italia ha insistito affinché al banchetto ufficiale offerto in suo onore non venissero serviti né vino né altre bevande alcoliche. Una richiesta insignificante? Un atto di flagrante impudenza? O un «pericolo reale e imminente»? Un episodio avvenuto in terre lontane, che non riguarda affatto un seguace di Ogun? Ora, si dà il caso – purtroppo, ma è così – che alcuni anni or sono un dittatore africano di nome Gheddafi avesse creato un precedente in occasione di una sua visita in Nigeria – la nazione non teocratica per costituzione, potremmo aggiungere, in cui recentemente il conducente di un furgone che consegnava birra è stato trascinato fuori dal suo veicolo nella città di Ilorin e linciato a causa del mestiere che svolgeva. In ogni caso (per tornare a forme di etichetta presumibilmente più raffinate), il capo di Stato nigeriano si piegò, bandendo l’alcol in tutte le sue forme – compreso il vino di palma, bevanda preferita di Ogun – dal banchetto ufficiale. Sono soltanto i fondamentalisti degli Orisa della terra di Ogun – al quale si offrono libagioni rituali di vino di palma – a trovare tutto ciò non soltanto insultante, ma perfino blasfemo? Non si tratta, ahimè, di una domanda retorica; la risposta investe le radici stesse della volontà di tirannia religiosa, e le conseguenze di quella sottomissione che molti preferiscono non riconoscere come origine profonda di Boko Haram, Isis/Da’esh e delle altre piaghe che oggi minacciano di consumare il mondo.
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Nemmeno il governo italiano, ahimè, si è soffermato su queste considerazioni – e ha capitolato. Naturalmente, la hybris ayatollesca non si è fermata qui. L’imperatore teocratico ha preteso che le sculture classiche esposte nella galleria nazionale del Paese, che egli stesso aveva espresso il desiderio di visitare, venissero isolate e coperte, in modo che il suo sguardo sempre rivolto verso il Cielo non venisse turbato nemmeno dalle timide versioni greco-romane degli spettacolari attributi della mia scimmia rubata. Di nuovo: insignificante? Oppure insolente? Ancora una volta il governo italiano ha capitolato, esibendosi in una delle più pavide concessioni mai tributate da una nazione, in tempo di pace, a un ospite aggressivo e screanzato. È stata la Francia ad assumersi il compito di correre al salvataggio della tacita alleanza mondiale degli enofili – sia produttori sia consumatori – informando il bacchettone che avrebbe fatto meglio a tornarsene nella sua tana di ipocrita astemio, invece di offendere la sensibilità di una nazione orgogliosa della sua cultura vinicola e del suo patrimonio scultoreo, e per di più sul suo stesso suolo. Certo, in seguito mi è stato detto che non era stato l’ospite a presentare la seconda richiesta – erano stati gli stessi curatori italiani a ritenere di sapere che cosa avrebbe rischiato di offendere il loro augusto visitatore. Se ciò corrisponde a verità, la vicenda appare ancor più vergognosa: il cagnolino che si mette a gambe all’aria da solo, senza nemmeno la minaccia di un calcio! Tutti i tentativi di imporre un controllo spirituale sono fatti della stessa materia: l’intolleranza. Gli uni sfruttano il ricatto del petrolio e altri lucrosi contratti; gli altri si limitano ad attendere che il signor Soyinka schiacci un sonnellino per penetrare in casa sua e portarsi via due simbolici generatori di campi di forza «pagani». La mia collezione ha subito perdite sia prima sia dopo quell’episodio, ma almeno gli altri ladri hanno avuto la decenza di agire mossi da motivazioni venali e criminali, diversamente da questi strumenti dell’intolleranza ispirata da Dio che violano uno dei «Non» più importanti dei Dieci Comandamenti, «Non rubare», per preservarne un altro, «Non ti farai scultura né immagine eccetera eccetera». Il collezionismo d’arte – permettetemi di ribadirlo – non è qualcosa di astratto: è un’attività personale, intima, ma talvolta sti-
molata da impulsi sociologici e ideologici. Il collezionismo d’arte non è dunque, devo riconoscerlo, un fatto interamente neutrale, un’attività che si dipana soltanto nell’ambito dell’estetica. Naturalmente il collezionista può esordire con una certa innocenza, ma in un mondo popolato da ideologie aggressive, intrusive, ostili e perfino assassine, questa attività assume una dimensione nuova e ulteriore. Di sicuro, io ho iniziato a collezionare oggetti prima di quella che ho indicato come la corruzione dall’esterno della spiritualità tradizionale di un continente – ma non sarò certo io a negare l’esistenza di questo stimolo aggiuntivo. Com’era il celebre aforisma del sardonico comico americano W.C. Fields? «Non offrite mai un buon accordo a un babbeo». Be’, consiglierei vivamente di riadattarlo a beneficio del genere umano odierno, nella seguente forma: «Non offrite mai un accordo a un fanatico!» Gli zeloti sono in grado di distruggere e inibire – lo dimostrano ogni giorno – ma non di sradicare realmente la funzione dell’immaginazione. Il loro eterno tormento consiste nell’intima consapevolezza dell’impossibilità di costruire un mondo privo di attività artistica. A quel punto, l’omicidio diviene una reazione calcolata a un perdurante senso di frustrazione. Le antiche pitture rupestri, stilizzate, realistiche, devote, le incisioni totemiche che inducono a continui ripensamenti sull’origine e sull’evoluzione delle specie creative, rendono puramente retorico qualunque interrogativo sull’inevitabilità dell’arte. Riflettendo sul fatto che i primati, così come le specie provviste di ali, mostrano di possedere un senso di strutturazione materiale caratterizzato da un’estetica specifica, si può comprendere il livello di disprezzo suscitato dai talebani e da altri dementi iconoclasti, la cui prima missione allorquando penetrano in un ricettacolo di cultura e di civiltà è la distruzione. Giacché non possiamo mettere le mani su questi distruttori, o invocare Sango affinché li colpisca con il suo tuono ovunque si trovino, finiamo per sviluppare una forte empatia verso quelle opere d’arte con cui condividiamo già un retaggio spirituale, arrivando magari ad attribuire loro potenzialità superiori a quelle di cui sia possibile dimostrare l’esistenza. Certo non infondiamo in loro una parvenza di vita, come hanno fatto i loro creatori originari, immersi com’erano in quel «campo di forza» universale che unisce
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tutti gli esseri viventi e non viventi; tuttavia sviluppiamo un’empatia con loro, e diveniamo perfino partecipi di quella misteriosa, implicita comunione dello spirito che ha dato vita a queste opere. Non sono soltanto gli yoruba, o gli africani in generale, a risentire negativamente di una carenza di analisi e di piena valorizzazione dei contributi offerti da una qualsiasi cultura alla civiltà umana nel suo insieme. È assolutamente folle considerare una data cultura alla stregua di fenomeno umano isolato; ma distorcerla o emarginarla significa rendere all’umanità un disservizio ancor più grave. Il fenomeno della resilienza culturale yoruba rientra a mio avviso tra gli insegnamenti che ruotano intorno al mistero stesso della creatività umana. Questo è l’insegnamento simbolico del curioso episodio del quadro dell’Abiku. Una delle componenti innegabili, intrinseche di ogni forma di creatività è la rivelazione. Sin dai tempi antichi, rivelare è la funzione dei griot, dei cantori e narratori epici tradizionali, degli intagliatori e degli autori di pitture murali. Lo scultore è tra i cultori più importanti di questa attività, che svolge in modo quasi letterale – in quel pezzo di legno, colui che brandisce l’ascia ha già visto ciò che non appare, così come il vasaio ha visto le forme insite nell’ammasso informe che le sue mani impastano compiendo la magia della trasformazione, e allo stesso modo la gola del cantore estatico rincorre cadenze mai udite prima perfino all’interno della stessa melodia; come pure fa il direttore d’orchestra madido di sudore... e via discorrendo. E anche laddove l’occhio non vede, l’immaginazione si abbandona all’intuito, permettendo alle mani di reagire a impulsi la cui fonte l’individuo può soltanto tentare di indovinare. Le sculture di Agnes Nyanhongo rappresentano forse l’espressione più trionfale di questo processo di rivelazione quasi mistico. Può darsi che sia qui che entra in gioco l’invidia professionale – ciò che divide l’arte dai chierici del divieto. Costoro sono consumati da una smania di dominio sempiterno del regno della rivelazione, una rivelazione di natura diversa, che trattiene e limita, invece di liberare. Concepiscono la rivelazione come ancella del potere, e non come liberazione della mente umana. È una lotta per il controllo del territorio che ha assunto dimensioni apocalittiche in
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Sculture in bronzo dell’artista Agnes Nyanhongo.
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molte parti del mondo, intrappolando nei suoi imprevedibili rigurgiti tanto i prudenti quanto gli ignari. Ma il potere inibitorio dei tabù rimane sempre inefficace di fronte alle grandi opere dello spirito umano. Anche dove sembra trionfare, si scopre che l’essenza delle opere oggetto di repressione ha semplicemente mutato la forma e/o l’ambito geografico in cui si manifesta, come un ruscello che scompare sottoterra soltanto per riaffiorare, talvolta a grande distanza e dopo lungo tempo, rinvigorito da sotterranei riti di passaggio e alimentato da un’innata resilienza. Questo è ciò che è accaduto agli yoruba. Possiamo crucciarci dei tombaroli, degli iconoclasti, dei revisionisti della negazione, dei convertiti prigionieri dell’illusione, arruolati a forza in una carriera di auto-immolazione o suicidio culturale per la supremazia di norme straniere. Ma sino a quando sussistono una santería, un bembé o un candomblé, messi al servizio della loro comunità di adozione – anche soltanto come punto di riferimento, o come dedalo di possibilità – l’umanità diviene più grande, e ne trae beneficio nella sua totalità. La parola chiave di questo processo è «rivelazione», una rivelazione talvolta comunicata soltanto mediante segni, immagini e simboli, che stimolano le capacità ricettive insite nello spettatore o nell’ascoltatore. È questo, in sostanza, il risarcimento inatteso e non ancora interamente riscosso che ha compensato la diaspora di questa stirpe di Abiku resilienti – gli yoruba. Quando i talebani ammassano barili di tritolo per polverizzare la statua del Buddha, o Ansar Dine nel Mali accatasta fascine per un rogo di antiche statue e preziosi manoscritti africani, noi recitiamo silenziosamente nella nostra mente i versi di un Birago Diop o di altri spiriti affini:
sono nell’ombra che si ispessisce. I morti non sono sottoterra. Sono nell’albero che freme, sono nel bosco che geme, sono nell’acqua che scorre, sono nell’acqua che dorme, sono nella capanna, sono tra la folla: i morti non sono morti.
E poi riassumiamo il tutto nel quieto precetto di un membro del popolo yoruba: «Va’ dagli Orisa, impara dagli Orisa, e sii saggio». Ma alla fine, e su un piano più pragmatico, telefoniamo al nostro mercante d’arte e gli chiediamo: «Che cos’hai di bello nella tua borsa itinerante? Trovami subito un bell’Orisa – pagano, africano, idolatra, miscredente, oltraggioso, infedele, iconoclasta e strambo. Voglio ripopolare il mio spazio – a mia immagine e somiglianza!».
Ascolta più spesso le cose che gli esseri, la voce del fuoco s’intende, ascolta la voce dell’acqua. Ascolta nel vento il cespuglio in singhiozzi: è il respiro degli antenati. Quelli che sono morti non sono mai partiti:
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La «famiglia allargata» dell’autore.
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3 Dall’aso-ebi a N****wood
U
na volta credetti di avere un’allucinazione in un albergo dell’aeroporto di Heathrow – il Sofitel – dove alloggiai in seguito alla cancellazione di un volo che mi costrinse a una sosta imprevista di ventiquattr’ore. Non mi rimaneva che maledire la sorte per il ritardo e sottomettermi al mio padrone, comunemente noto come computer portatile. Non intendevo rimanerci davanti a lungo – qualche ora soltanto, pensavo – ma finii per ritrovarmi prigioniero di una sessione ipnotica che si protrasse per quasi tutto il giorno. Quando ne riemersi mi sentivo alquanto esausto. Era il momento ideale per una passeggiata ristoratrice, per bere qualcosa o magari prendere il treno per Londra – qualsiasi cosa, insomma. Uscii dalla mia stanza percorrendo i soliti lunghi corridoi con la loro architettura geometrica, funzionale e rarefatta, svoltai un angolo... e fui investito da un’esplosione di colori! Istintivamente mi ritrassi e ritornai di corsa nella mia stanza, giusto per ritrovare l’orientamento, dato che non riuscivo più a capire dove mi trovavo, che giorno era e perfino chi ero io. Per un breve istante presi seriamente in considerazione la possibilità di essere morto, e francamente la sensazione non fu del tutto spiacevole. Ed ecco che cosa aveva travolto il mio sguardo quando avevo messo piede in quel corridoio ad angolo retto: un gruppo di dee in abiti vaporosi e multicolori si erano impadronite del pianerottolo, incrociandosi e fluttuando qua e là nel corridoio che sembrava sospeso a mezz’aria. Alcune si affollavano intorno agli ascensori, en117
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trando, uscendo e volteggiando in direzione delle scale attigue. L’aria era pervasa da un aroma insolito. Le mie narici furono aggredite da nubi di incenso e profumi variegati. Mi guardai intorno – c’erano la mia valigetta, i resti rappresi della mia tazza di Nespresso, il portatile da cui mi ero appena staccato. Guardai dalla finestra – la visuale era del tutto familiare. Così, presi il coraggio a due mani, mi preparai e uscii di nuovo. Se le dee avevano preso il sopravvento, l’uomo di Ogun era pronto ad affrontarle! Raggiunsi l’angolo fatidico e – meraviglia – erano svanite. Dal primo avvistamento erano trascorsi non più di dieci minuti: dov’erano finite? Mi incamminai lentamente verso l’area in cui le avevo avvistate – quella circostante gli ascensori e le scale. Allora udii dei suoni – chiaramente, si erano radunate per poi scendere. E infatti, quando raggiunsi gli ascensori e sbirciai al piano di sotto oltre la ringhiera, eccole tutte lì, fluttuanti nei loro sari, intente a chiacchierare a voce bassa. Il pianerottolo sottostante e una delle sale erano stati trasformati in una reception – un matrimonio, certo! La scena al piano inferiore creava l’impressione che un arcobaleno fosse andato in frantumi, e che questi frantumi fossero atterrati dolcemente sul terreno. Seduto a un’estremità della stanza, a presiedere alla cerimonia, vi era un dio indù che riconobbi subito: Ganesha dalla testa di elefante. Finalmente ripresi a respirare normalmente. I clienti ordinari dell’albergo si tenevano discretamente a distanza, seduti al bar, come in trance – era chiaro che avevano completamente dimenticato la noia e la stanchezza del viaggio. Era proprio il genere di pausa di cui avevo bisogno, un’occasione imprevista per ricaricare le mie energie in diminuzione. Rimasi sul corridoio soprastante e mi godetti una vista panoramica a volo d’uccello della cerimonia per circa mezz’ora; dopo di che, opportunamente ricaricato, ritornai alla mia stanza e al mio capomastro digitale. Non sarebbe nemmeno il caso di specificarlo, ma forse sarà bene farlo comunque, giusto per assicurarci che non passi inosservato. Il fatto che un individuo abbracci o rigetti la mitologia da cui una data pratica culturale ha avuto origine è del tutto irrilevante. Se così non fosse, non vedremmo milioni di persone appartenenti alle religioni e ai popoli più diversi accorrere ad ammirare i santuari delle divinità shintoiste giapponesi, le colossali statue del Buddha e i suoi tem-
pli, Notre Dame o l’orizzonte disegnato dai minareti che incorona i paesaggi musulmani da Marrakesh alla Cecenia sino alla stessa Italia, sede del cattolico Vaticano. Non è necessario essere fautori della bizzarra geografia dell’amore per ammirare il Taj Mahal, così come non è necessario diventare irlandesi per immergersi nella festa di san Patrizio che tinge di verde perfino le fontane negli Stati Uniti. A quel punto mi feci una risata – anzi due – pensando alla mia reazione. La prima, naturalmente, per aver creduto di avere le traveggole; ma questo era comprensibile. La seconda risata aveva una storia. Naturalmente avevo già assistito a scene del genere – anzi, vi avevo perfino partecipato! Nel mio Paese, un matrimonio senza l’aso-ebi – l’abbigliamento festivo prescritto – è semplicemente inconcepibile. Ma quelle occasioni mi erano sempre parse oltremodo irritanti. Tendo a cogliere un’ostentazione eccessiva sia nell’evento sia nell’abbigliamento, perciò la mia indole si ritrae istintivamente da quel tipo di occasioni, specie quando si caratterizzano per un dispendio esagerato. Molti – paradossalmente – le utilizzano come strumento di esclusione. Si assicurano di scegliere materiali il cui prezzo eccede quelli che ritengono essere i mezzi o le condizioni di classe degli ospiti indesiderati, e via dicendo. Oggigiorno per i matrimoni si ricorre perfino a specialisti del make-up, che talvolta vengono fatti arrivare in aereo quando l’evento ha luogo fuori dei confini nazionali. Nulla da eccepire riguardo alla loro abilità – sono autentici professionisti; ma al termine del loro lavoro, tutti i volti appaiono virtualmente identici, e il modello più gettonato sembra essere quello delle maschere giapponesi. Che cosa ciò significhi non sono in grado di dirlo, ma forse è lecito trovarlo seccante. Se l’aspetto prescritto è quello della geisha, allora mia moglie può scordarsi di partecipare a un’altra festa di matrimonio! Parlando seriamente, vi è una problematica sottile che si sta inserendo nel contesto degli ornamenti personali nella scena nigeriana, che è veramente affascinante e complessa. Il risvolto positivo è che evidentemente le donne si stanno ponendo interrogativi seri riguardo a che cosa significhi essere femminili – o a come essere tali senza soccombere ai diktat maschili. Iya mi osoronga va benissimo, sembrano affermare; il signor Soyinka può pontificare quanto vuole
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sul potere femminile esercitato attraverso il gelede, la processione in maschera della Terra Madre degli yoruba; i movimenti di pressione all’estero possono pretendere di dettare la linea riguardo a ciò che considerano l’assoluto femminile: l’essere femministe. Ma ciò che è innegabile è che la donna yoruba ha scelto le modalità con cui esercitare il proprio potere, selezionandole e creandole sulla base di opzioni interne, nell’ambito della sua comunità di donne consapevoli. Ciò trova giustificazione nella spettacolare ascesa delle donne in tutti gli ambiti della società: l’imprenditoria, le arti (comprese quelle performative), la politica (compresi importanti incarichi di governo) e perfino quella disciplina specialistica ma dominante nota come corruzione! Si tratta di uno straordinario balzo in avanti, se si considera quante professioniste di prima grandezza vivano, tra le mura di casa, una condizione simile a quella carceraria. Sospetto che a dare la stura a queste riflessioni sia stato il boom dell’aso-ebi, e in particolare del copricapo noto come gele. Prima di mettere da parte questo tema, teniamo bene a mente che l’aso-ebi – che significa letteralmente «abbigliamento familiare o di parentela» – è in realtà un meccanismo vincolante costruito intorno a un perno sociale estetico. Il messaggio che trasmette è che non soltanto la famiglia o la «famiglia allargata», ma l’intera comunità, dichiara in quella giornata – e nei preparativi che precedono la giornata stessa – di appartenere a un’unica famiglia, la famiglia del festeggiato. E per questo motivo, le donne – e sempre più spesso anche gli uomini – ordinano in anticipo le rispettive versioni dei capi che verranno indossati dai festeggiati. Contribuiscono a una cassa comune, in modo da ridurre i costi, e si presentano nel giorno prestabilito indossando la tenuta prescritta. L’aso-ebi è una peculiarità yoruba, che tuttavia viene sempre più imitata da altri gruppi etnici. Queste forme di abbigliamento per un’occasione speciale mostrano evidenti contrasti tra una cultura e l’altra, specie per quanto riguarda le donne. I film europei e americani pullulano di situazioni ridicole o violente in cui, all’incontro tra due donne in occasione di un evento sociale, l’una, l’altra o entrambe scoppiano in lacrime – o girano sui tacchi e ritornano precipitosamente a casa – solo perché scoprono di indossare abiti identici. Devo ammettere di non essere in grado di dire se il ricevimento matrimoniale al Sofitel si caratte-
rizzava più per varietà o per omogeneità – ai miei occhi tutti i sari si fondevano tra loro, variopinti e variegati nelle trame, ma unificati dalla forma caratteristica del sari e della trasformazione da esso impressa al corpo. Tra gli yoruba, il principio fondamentale consiste nel ridurre al minimo le differenze e le individualità, un minimo che si manifesta nel modo più vistoso nello stile del copricapo, della fascia o dell’iborun, lo scialle adagiato sulle spalle. Stessi materiali, stili diversi. Il che, incredibilmente, ha dato vita a una delle più sensazionali innovazioni comparse negli ultimi anni sulla scena della moda nigeriana, lanciata dall’artista multimediale e creatrice di batik Nike Okundaye. La mia impressione è che inventi un nuovo stile al giorno – e senza dubbio ha creato un’estetica completamente nuova. Ho avuto occasione di dare qualche sbirciata al suo laboratorio, e ho presenziato anche ad alcune delle sue sfilate di copricapi – che intimamente ho battezzato «Gele Galà». È semplicemente incredibile ciò che è possibile fare con un pezzo di tessuto: le complessità degli intrecci costituiscono un vero e proprio caso di studio sulle possibilità di contorsione dei tessuti e sul controllo delle dita. Nike ha tenuto alcune dimostrazioni in Europa e nei Caraibi. Questo è uno di quei casi innegabili in cui dalla tradizione si sviluppa un organismo praticamente nuovo, che come sempre avviene può tradursi in un rafforzamento degli usi tradizionali positivi oppure nell’esatto opposto: in ostentazione e pacchianeria. Perfino le tendenze negative costituirebbero comunque una forma di estetica – ma un’estetica squisitamente nigeriana, esibizionista, perfino ostentatamente classista e pretenziosa. È in questa seconda direzione che l’industria cinematografica di N****wood si è in gran parte indirizzata, sebbene naturalmente vi siano anche confortanti eccezioni. Una generazione del tutto nuova, infatti, sta rapidamente accantonando quella che negli Stati Uniti, per esempio, era nota come «Blaxploitation». La tradizione, per molti dei suoi entusiastici fautori, ha finito per coincidere praticamente con la paccottiglia che Hollywood spacciava per l’immagine dei guaritori tradizionali africani, vestiti di piume e strisce di cuoio, intenti a far sbatacchiare sonagli ricavati da zucche, in un tripudio di effetti speciali pacchiani e spesso senza capo né coda – un guazzabuglio che ho definito demonismo cultuale, che
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mette in scena presunti rituali solenni del tutto privi di qualunque sacralità. Ma d’altronde, come si dice in yoruba: Won ni amukun, eru ori re wo. O ni, at’isale ni (Dicono all’uomo con le gambe storte: «Il carico che porti sulla testa è sbilanciato». E lui risponde: «No, lo squilibrio parte dalla base»). Vale a dire: non aspettatevi che il ramo cresca diritto, se la radice è stata interrata storta. Il fenomeno della parola con la «N» dovrebbe servirci da lezione riguardo a cosa avviene quando si trascurano alcuni principi tradizionali di base legati al processo creativo. Nel dichiararsi dislessico, lo scrittore americano Richard Ford spiega come in realtà veda le parole come immagini. No, non intendo rivendicare altrettanto per quanto riguarda me. Condivido tuttavia l’idea che le parole abbiano delle forme, che a loro volta evocano qualcosa di più del mero suono o significato letterale. Si può anzi affermare che alcune immagini finiscono per legarsi così strettamente a delle parole da non poter più essere considerate separatamente da loro – mmh, a quanto pare mi sto avvicinando sempre più alla posizione di Richard Ford... D’accordo, proviamo semplicemente a riassumerla così: il potere della suggestione va oltre la semplice suggestione. Una parola può distorcere la realtà tangibile che i sensi dell’individuo hanno già determinato. Laddove una parola del genere viene utilizzata per definire del tutto o in parte dei valori, come categoria fenomenologica, o anche soltanto come termine generico per designare una famiglia di prodotti o di oggetti, essa può distorcere completamente altre realtà comprese all’interno della categoria in questione, deviandone in direzioni inattese la percezione da parte della nostra mente. Nell’ambito dell’attività creativa, la parola può restringere il campo d’azione o abbassare la qualità dell’impresa creativa stessa. In breve, una semplice scelta verbale è in grado di inibire o di espandere l’immaginazione. Può precludere lo spirito di avventura che procede per associazioni, restringere la nostra gamma di scelte creative, anche quando non siamo affatto consapevoli di alcuna manipolazione restrittiva. Lo stesso vale per i nomi che assegniamo – agli esseri umani, agli oggetti o alle relazioni. Allarghiamo la nostra prospettiva al di là del contesto yoruba: si dà il caso che di recente sia stato invitato a partecipare alle celebrazioni per il 450° anniversario della nascita di William Shakespeare.
«Gele Galà»: Mangiati il cappello, Ascot. «...a giudicare dallo spirito avventuroso della Casa di Nike (Okundaye), il "gele" potrebbe ben presto trasformarsi nell’ultimo grido della moda femminile mondiale, annunciato dallo slogan “Grosso è Bello”!».
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Senza dubbio, avendo ben presente il fenomeno N****wood, ho deciso di dedicare il mio intervento proprio alla questione dell’attribuzione del nome. Riassumerò di seguito le mie osservazioni sulla cultura yoruba dell’assegnazione del nome, con l’aggiunta di qualche parallelismo shakespeariano. La cultura yoruba è una di quelle in cui l’attribuzione del nome al bambino va ben oltre la semplice applicazione di un pratico strumento di designazione e di identificazione a un’entità nuova ma amorfa. Forse è per questo che in società di questo tipo tale procedura è preceduta da abbondanti riflessioni, e forse per la stessa ragione queste società indulgono a rituali particolarmente elaborati nell’assegnare un nome ai bambini – con tanto di festeggiamenti, danze e perfino processioni con maschere ancestrali. L’evento coinvolge non soltanto i genitori, ma la famiglia allargata e talvolta l’intera comunità, e i parenti più stretti possono talvolta indicare le loro preferenze. Tali scelte continuano quindi a essere applicate – direttamente o indirettamente – nei rapporti con la prole. Infine, possiamo rilevare anche come nell’atto dell’assegnazione del nome si riflettano sia la storia della famiglia sia quella della comunità, e come esso implichi allusioni e/o aspettative legate agli influssi futuri delle scelte compiute. Un nome che implichi aspettative esagerate può segnalare che la comunità in questione ama l’ostentazione, in particolare nello sfoggiare i propri ascendenti, mentre una scelta più modesta può indicare un atteggiamento più umile, perfino timido, o magari la preghiera di un futuro tranquillo per il bambino, e via discorrendo. L’assegnazione del nome, in qualche misura, rivela la natura e le ambizioni di coloro che lo assegnano ancor più di quanto dica a proposito delle preghiere o delle predizioni relative alla docile nuova creatura, e si può considerare alla stregua di un programma sociale integrato in quell’individuo. «Ricorda il nome che porti» è una delle più comuni ammonizioni che si ricevono da genitori, parenti o perfetti sconosciuti. Per contro, chiunque si azzardi a rivendicare un nome, un’ascendenza o un titolo per i quali non può vantare titoli – scusate il gioco di parole – è destinato a essere braccato dalla società, spogliato dei pennacchi di cui si è indebitamente adornato e ostracizzato per furto di identità.
In terra yoruba è prevedibile che vengano sfruttati i toni, ma un’analoga sensibilità nella scelta dei nomi si riscontra anche nelle lingue non tonali. Concentriamoci brevemente, per esempio, sulle scelte del maestro in persona, William Shakespeare, lasciandoci opportunamente irretire dal suo idillio tropicale fatto di magia, intrighi di potere, perdita e recupero. Ne La tempesta, Trinculo non ha quello che potremmo considerare un nome «serio», e il suo ruolo nel dramma è perfettamente consono al suo nome. Per contro, in un contesto completamente diverso e in una variazione sul medesimo tema del potere, Coriolano – Caio Marcio Coriolano, per esteso – porta un nome dal suono marziale e autorevole. Per tornare in Africa, in Antonio e Cleopatra il nome Enobarbo rappresenta un caso curioso – ma d’altro canto le reazioni hanno indubbiamente un carattere soggettivo. A me, per esempio, il nome Enobarbo richiama alla mente l’immagine di un guerriero irsuto e insuperabile nelle gozzoviglie, mentre Shakespeare lo ritrae come la voce della ragione con un cuore poetico. Hotspur, «Sperone Ardente» (Enrico iv, parte i) è privo di ambiguità – un tipo con il quale è consigliabile non litigare! Scorrendo il catalogo dei cattivi, incontriamo Malvolio, che non richiede ulteriori commenti. L’implacabile Goneril, Re Lear, è un caso a sé, che compensa la semi-anonima Lady Macbeth, summa shakespeariana dell’assolutismo unisex delle ambizioni malvagie. Quello di Calibano è indubbiamente uno dei nomi più taglienti, specie per coloro tra noi che provengono da un continente designato dalla tradizione europea come patria dei lugubri bestiari medievali e delle abitudini alimentari più innaturali! Ma che dire di N****wood?! Chiarisco subito che non intendo necessariamente presentare l’originalità – quella dei nomi o quella delle opere partorite (o abortite) – come qualcosa di desiderabile in sé, anche soltanto tangenzialmente. Mi è capitato di leggere critiche di opere artistiche che sembravano ravvisare nell’originalità il solo criterio di valutazione della creatività, e liquidavano senza mezzi termini questa o quella produzione in quanto non «originale». In ogni ambito artistico esistono capolavori basati su un deliberato sforzo di imitazione. O anche sul plagio vero e proprio. Vi sono diversi tipi di plagio; alcuni possono configurarsi a buon diritto come prodotti nuovi all’interno di
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Questa modalità di assegnazione del nome ha influito o no sulla prima ondata di film prodotti in Nigeria? Il mio pensiero corre direttamente ai contrasti, specie in quanto la Nigeria non può rivendicare un ruolo pionieristico nella nascita del movimento cinematografico continentale. Tale onore spetta indubbiamente ai cineasti senegalesi. Ricordo ancora il World Festival of Negro Arts di Dakar, che segnò il debutto ufficiale del cinema africano contemporaneo, anche solo come esplorazione rudimentale di questo genere artistico. Alcune produzioni erano dilettantesche, è vero, ma mostravano già l’impronta di
genuine menti esploratrici intente a misurarsi con il nuovo mezzo espressivo. Perfino i cineasti più maldestri mostravano una certa freschezza – e i più abili, naturalmente, apparivano autenticamente ispirati. Se i miei ricordi non fossero così ingarbugliati sarei in grado di sciorinare qualche titolo. Ricordo comunque il giovane Djibril Diop Mambéty, e se non erro anche il maliano Cheick Oumar Sissoko. Ciò che si conserva vivacemente nella mia memoria sono brandelli di sequenze, come l’utilizzo satirico del tro-tro, il minibus, per ridicolizzare la pretenziosità del nero sofisticato ed europeizzato, quello che in Nigeria è conosciuto come «Johnny Just Come» o Ajebota (allevato a burro). Questo ridicolo personaggio considerava una sciagura trovarsi costretto a condividere il veicolo con contadini, operai e altri esseri «incolti». Si trattava di un film semplice ma esilarante, ricordo, che accompagna lo spettatore nel mondo posticcio della vita semiurbanizzata; un’opera picaresca ricca di colpi di scena, un viaggio attraverso l’intero spettro della sopravvivenza e delle difficoltà di tutti i giorni, che conduceva i passeggeri del tro-tro attraverso una comunità cangiante. Il nostro protagonista, interpretato dal medesimo giovane Diop, si riduceva alla fine a spingere il tro-tro in panne, avvolto nella sua giacca elegante nel calore soffocante del Sahel. Non chiedetemi perché ricordi così vividamente quella scena dopo tanti decenni, ma mi piacerebbe moltissimo che i giovani aspiranti al mestiere del cinema avessero la possibilità di vedere questo genere di pellicole, anche solo come lezioni elementari su come si possa fare un film praticamente con niente, con quello che doveva essere un budget ridotto all’osso, mettendo in scena la realtà senza ricorrere a massicce iniezioni di artificiosità. Gli esordi possono essere assai istruttivi, specie gli esordi apparentemente ingenui. Sono in grado di evidenziare verità riconoscibili senza sovraccaricarle di soluzioni tecniche esageratamente elaborate. Forse quella pellicola mi richiamò surrettiziamente alla memoria uno dei miei film preferiti di ogni tempo, La strada di Fellini, con un’indimenticabile Giulietta Masina nel ruolo archetipico del clown tragico. Non intendo certo mettere i due film sullo stesso piano – ci mancherebbe. Si tratta di variazioni su un medesimo tema, i molteplici volti de La strada, che ammetto essere il mio territorio immaginario preferito, ma le analogie terminano qui.
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un dato genere, provocazioni creative, o commenti sull’originale, che talvolta giocano magistralmente sulle aspettative o sui caratteri – ciò che talvolta, specie nel dibattito letterario americano, viene definito il «senso». Non stiamo quindi parlando di originalità nella scelta dei nomi, sebbene anche questa, naturalmente, meriti un plauso. Ciò che ci interessa in questa sede è semplicemente il ruolo dell’attribuzione del nome come elemento centrale della cultura delle società africane, la forte importanza che viene attribuita, per esempio, alla scelta del nome per un bambino. Se William Wordsworth fosse stato yoruba, per esempio, non si sarebbe accontentato di dichiarare l’ovvio affermando che «il bambino è il padre dell’uomo». Avrebbe aggiunto qualcosa come: «Per noi yoruba, e anche per le culture africane sorelle, “il nome è il padre del bambino”, tali sono le riflessioni attente, il senso della storia, le speranze e le aspettative racchiuse nel nome che decidiamo di assegnare al nuovo essere umano che abbiamo dato alla luce». L’attribuzione del nome al bambino, in questo continente, è un atto creativo in sé. Il 22 febbraio 2017 il giornale nigeriano The Nation ha riportato il seguente commento nella rubrica settimanale «Commenti e dibattiti» – un contributo sul nostro tema dalla tempistica provvidenziale: In Africa, e in particolare nello Yorubaland, l’assegnazione del nome è un dono speciale concesso agli anziani dagli antenati, in veste di progenitori della nazione. Il nome possiede un significato, e stando a quanto ci viene detto, spinge chi lo porta a realizzare quel significato nascosto. (Oruko a maa ro omo) [letteralmente: «Il nome può plasmare il bambino»]. Per questo nessun genitore yoruba dà ai suoi figli nomi che racchiudono significati maligni.
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Quel tocco di innocenza creativa, tuttavia... forse è questo ciò che si è fissato nella mia memoria in una forma così affascinante. E poi, naturalmente, vi era la mano di Ousmane Sembène, già caratterizzato da intenti sociali, che divenne sempre più sicuro di sé misurandosi con tematiche storiche e contemporanee sempre più impegnative – a Dakar c’erano tutti, traboccanti di fiducia nelle discipline più diverse, nel magma ribollente delle energie artistiche della generazione post-indipendenza. È evidente come oggi sia troppo tardi per rivolgere un appello a coloro che hanno fatto propria la parola con la «N» – eccola di nuovo, e cerco di preparare la mia lingua a pronunciarla; mi riferisco a quei connazionali che hanno deciso di accontentarsi di una trita versione semplificata delle loro cerimonie di assegnazione del nome. Se è ingrato predicare ai convertiti, predicare contro i convertiti lo è ancor di più. Dopo che è trascorso tanto tempo, e che un’abitudine si è così profondamente radicata, a quali energie di persuasione si può mai ricorrere per cancellare questo atteggiamento mentale? Come diciamo in yoruba, t’ewe ba pe l’ara ose, oun na a d’ose («se la foglia che avvolge il sapone vi rimane attaccata troppo a lungo, anch’essa comincia a fare schiuma»). Sia pace dunque a tutti coloro di cui ho senza dubbio urtato la sensibilità. Questo prolisso discorso non è propriamente rivolto a loro; si tratta piuttosto di una semplice preghiera indirizzata a coloro i quali non hanno ancora ceduto al fascino del sapone e della foglia. A loro, a voi, rivolgo dunque la mia supplica. Provate a immaginare se a quell’industria cinematografica esordiente che fece il suo debutto ufficiale a Dakar nel 1966 fosse stata appioppata la denominazione di «Dollywood». Qualunque produzione successiva sarebbe stata automaticamente gravata nella mente del pubblico dalla zavorra di infantilismo insita in quella designazione, prima ancora di vedere la luce. Immaginate l’annuncio di un festival del cinema di Dollywood, o magari «Sellywood», da «Senegal». Nulla di più insulso. Una semplice questione di repulsione personale? Magari fosse così. Ma vi sono interrogativi più provocatori, come il seguente: il marchio influisce o no sul prodotto? Se si attribuisce a un prodotto un nome deteriore, quest’ultimo influisce negativamente e in anticipo sulla consapevolezza dei futuri produttori? E se al contrario si sceglie un nome carico di energia, provocatorio, in grado perfino
di lasciar presagire più di quanto non sia attualmente in grado di offrire, ciò può stimolare nell’artista una tendenza al rischio, alla sperimentazione e all’originalità? Oppure ci stiamo semplicemente abbandonando a un’inutile auto-flagellazione? Se i pionieri del cinema del 1966 si fossero raccolti sotto la denominazione di Dollywood, oggi avremmo avuto un Souleymane Cissé, un Ola Balogun, un Kunle Afolayan, un Mahood Ali-Balogun e la generazione dei nuovi cineasti? Riflettete su questo: applicando la mentalità che sta alla base di queste denominazioni così insulse, il fespaco, avendo avuto origine nel Burkina, dovrebbe chiamarsi Bullywood. O magari Bellywood, tanto per non assomigliare troppo a Bollywood. E provate a immaginare – è l’ultima volta, promesso! – qualcosa di più raccapricciante, di più grottesco dell’orrore che il Ghana ha inflitto a sé stesso: Ghollywood! Perché non chiamarlo direttamente Gollywog1, allora? Be’, sappiamo tutti com’è cominciata. E tuttavia: la generazione emergente dei cineasti nigeriani merita ancora di essere associata a quest’etichetta da abbigliamento di seconda mano, oppure dovrebbe essere collegata a produzioni di livello sempre più professionale, che rispondono non soltanto al minimo comune denominatore del gusto, ma anche alle sensibilità di un pubblico più raffinato, elevandone – e superandone – nel loro piccolo le aspettative? Una sommaria analisi della cinematografia odierna è sufficiente a evidenziare come il cinema nigeriano stia rapidamente superando il suo ritardo sul piano dell’immaginazione. Perché, allora, i film di questi artisti devono continuare a essere annoverati in questa categoria designata da un’espressione grossolana e sgradevole come – eccola, finalmente! – Nollywood? Come distinguere – sia all’interno sia all’esterno, anche in funzione di potenziali mercati e consumatori – il grano dal loglio, il baco da seta dal coagulo delle crisalidi? Guardate che cos’ha sfornato in modo così prodigioso l’industria cinematografica indiana, da quando ha accettato di essere bollata con l’infame denominazione di Bollywood – un termine che oltretutto fa pensare alle «balle»: nessuno laggiù se n’è reso conto? Sono usciti film a migliaia, tutti rimasti prigionieri del medesimo pantano bollywoodiano. Ci è voluto un Satyajit Ray per aprire un guado attraverso l’acquitrino con il suo magistrale Pather Panchali, primo episodio di una trilogia di esistenze
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ordinarie che ha aperto gli occhi del pubblico su un vasto universo di ritmi, suoni e immagini della vita quotidiana, a prima vista esotici, ma che si rivelavano poi essere specchio dell’esistenza degli spettatori stessi. E guardate l’effetto che ciò ha avuto nell’indirizzare i gusti del pubblico, compreso quello dell’Africa meridionale e occidentale. Va tuttavia sottolineato che potrebbe esistere una correlazione tra un prodotto e l’ambiente in cui esso è venuto alla luce in prima istanza. Ogni fenomeno di denominazione non è privo di rapporti con l’ambito sociale in cui si manifesta. L’ambiente sociale, politico, imprenditoriale, religioso... Per farla corta, l’intero ambiente in cui si svolgono le interazioni in Nigeria, patria di Nollywood – così imprevedibile, turbolento, egocentrico, insensibile, sdolcinato (basta ascoltare una di quelle canzoni «social-moraliste»!), irrazionale e bellicoso a un tempo – insomma, le manifestazioni che vanno a formare la realtà nigeriana sono così grossolanamente improbabili che talvolta si ha l’impressione che basterebbe piazzare una telecamera in un ufficio, in un mercato, in un’officina o in un qualunque angolo di strada, andarsene a pranzo, ritornare qualche ora più tardi... Et voilà, ecco già pronto un film, magari da ritoccare qua e là in fase di montaggio, ma praticamente pronto per essere presentato al pubblico come specchio fedele della vita nigeriana. Per inciso, non si tratta di una soluzione interamente ipotetica: alcune produzioni di Nollywood sono state realizzate proprio in questo modo. Il caos e l’improbabilità che caratterizzano la vita nigeriana creano anzi una tendenza a strafare nella categoria dell’improbabile. La realtà sociale nigeriana ha una natura tale che la mente creativa del cineasta si sente indotta a indulgere all’eccesso allo scopo di soddisfare la domanda di originalità. In altre parole, la vita che circonda il cineasta contemporaneo, in cui ogni giorno hanno luogo gli eccessi più clamorosi che tuttavia vengono considerati normali, costringe l’immaginazione a spingersi oltre e al di là della realtà stessa per convincersi di essere effettivamente all’opera, e non impegnata semplicemente a imitare la realtà. Nella patria di Nollywood, tutto quanto è esagerato – esagerati i consumi, esagerate le differenze di classe, esagerato l’esibizionismo, esagerato l’ego, esagerata la superstizione, esagerata la disumanizzazione, esagera-
ta la corruzione, esagerata l’inflazione (sia umana sia economica), esagerato il mercato immobiliare, esagerata la litigiosità, esagerati gli immondezzai, esagerato il marciume, esagerati i media, esagerati gli investimenti stranieri, esagerate le chiese e le moschee, esagerato il consumismo di un’élite esagerata, esagerate le menzogne, esagerate perfino le First Lady nella loro esagerata volgarità, esagerati l’ingordigia, l’avidità e l’«esagerazionismo». Non troverete quest’ultimo termine in alcun dizionario, ma si dà il caso che io provenga proprio dalla terra di Nollywood, dove quando un’espressione non compare nel vostro inesistente vocabolario, siete autorizzati a inventarvela. Come drammaturgo, ritengo di poter comprendere le rappresentazioni artistiche che vanno alla ricerca degli aspetti più clamorosi dell’ambiente, privilegiando la quantità della produzione a scapito della qualità. Dopotutto io stesso, quando ho voluto ritrarre la brutalità dell’esistenza sotto uno dei nostri più famigerati dittatori, non sono forse ricorso al Teatro dell’Assurdo, riprendendo Ubu Re di Alfred Jarry? In modo alquanto deliberato, nell’adattare l’opera di Jarry nel mio King Baabu, ho cercato di accentuarne ulteriormente gli eccessi, già di per sé grotteschi. La realtà non era più sufficiente. Lo stesso processo creativo ha probabilmente influito su questi pionieri della pellicola. Il creativo nigeriano apre il suo giornale ogni mattina, e quali sono le ultime notizie che lo assalgono, annunciate da titoli clamorosi?
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«OCCULTISTA SCOPERTO CON TESTE UMANE MOZZATE!» – «TROVATO CADAVERE DI BAMBINO DI UN MESE PRIVO DI ORGANI VITALI: MADRE IN ARRESTO!» – «IRROMPONO IN UNA CHIESA E RAPISCONO IL SACERDOTE DURANTE LA FUNZIONE!» – «BOKO HARAM UCCIDE SETTE OPERATORI SANITARI!» – «BOKO HARAM RAPISCE SETTE LAVORATORI EDILI!» – «VENTISETTE CORPI GETTATI A RIVA DAL FIUME BENUE!» – «PROFETA ARRESTATO CON CINQUE TESCHI UMANI E UN FETO!: “LI HO RAPITI E UCCISI – BEVO IL LORO SANGUE!”»... E avanti così. Non si tratta di titoli inventati. C’è forse da meravigliarsi se il cineasta si dedica al cinema dell’orrore, quando la
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notizia del giorno è che il capo locale mette in pentola le carni dei suoi sudditi, banchettando con le loro interiora – e invita alla sua tavola altre persone, ignare del menu, allo scopo di fare milioni o di vincere un’elezione amministrativa locale? A ciò fa seguito una tendenza a far propri modelli di sensazionalismo stranieri, allo scopo di sfruttare questa colossale miniera di realtà sociali che attendono soltanto di essere rappresentate: e dove trovare tali modelli, se non nelle ricette prefabbricate da quattro soldi di Hollywood? Ciò che è deprezzato tende a deprezzarsi ulteriormente. Dove a quelle che generalmente sono valorizzate come risorse sociali – ivi compresa la stessa vita umana – viene attribuito un valore così basso, l’artista può ritenere superfluo investire più del minimo indispensabile in termini di modalità di rappresentazione. I precedenti non mancano. I primi registi afroamericani contemporanei, per chi lo avesse dimenticato, hanno conquistato il prestigio in campo cinematografico facendosi forti di quello che è divenuto ufficialmente noto come cinema della «Blaxploitation». Film che sfruttavano la realtà afroamericana, in forme stereotipate e imitative, rimpiazzando gli attori bianchi di serie b con attori neri e gli ambienti dei bianchi con quelli dei neri, ma pur sempre strizzando l’occhio a quello che veniva considerato cattivo gusto: penso al Richard Roundtree dei film di Shaft, o anche a Blacula come variazione all’interno del genere horror classico dei film di Dracula che offrivano infinite possibilità di sfruttamento, in una profusione di schizzi di sangue – sangue di neri, in questo caso, benché altrettanto rosso. Quale differenza c’è tra le zanne di Blacula piantate nella giugulare di una vittima nera in ginocchio e quelle del folle potentato piantate nella gola di una generazione in ginocchio? Premesso tutto ciò, gli obiettivi dell’arte non escludono tuttavia la trasformazione – e con questo termine non intendo riferirmi semplicemente alla trasformazione della società. Anzi, avrete forse notato che non affermo affatto che lo scopo dell’arte sia trasformare la società. No: non condivido per nulla questa pretesa avanzata nei riguardi dell’arte, tanto familiare e ideologica quanto dittatoriale. Lo scopo dell’arte è – tra gli altri – la rivelazione. Che poi la rivelazione conduca o meno alla trasformazione è tutt’altro discorso. L’obiettivo principale dell’arte è reinventare costantemente sé stes-
sa, le sue modalità di espressione e di rappresentazione. L’obiettivo dell’arte è anche essere camaleontica e proteiforme, ovvero cambiare forma e colore a piacimento, sostituendosi tanto alla realtà quanto alle aspettative. Proprio così: la trasformazione non è soltanto un obiettivo desiderabile, ma un elemento costitutivo dell’azione svolta dall’arte. Teniamoci alla larga dal trito dibattito – ispirato a una relazione univoca e riduttiva tra l’arte e la società – riguardo a quale sia il dovere dell’artista e via dicendo. Molti scrittori si sono sottoposti a queste forche caudine, specie durante quelle fasi di auto-flagellazione ideologica a cui tutte le società vanno soggette, in particolare le società che sono state vittima dell’imperialismo e del colonialismo – compresa la degradazione culturale a opera di forze esterne. Invito i cineasti a prendere nota del fatto che questo dibattito viene reso quotidianamente obsoleto dagli eventi, e che oggi dovremmo concentrare il nostro interesse principalmente sulle modalità con cui il cineasta, in quanto artista, trasforma il materiale che ha a disposizione. Ciò che vale per lo scrittore, il pittore, il musicista, lo scultore e perfino l’architetto si applica in modo altrettanto pertinente anche al cineasta. Si deve nondimeno riconoscere l’esistenza di una forma di immediatezza dell’immagine che si applica più al cinema che ad altri mezzi espressivi, compreso perfino il teatro. Il cinema, non c’è dubbio, è un potente strumento di trasformazione. Tuttavia, proprio come la letteratura, il cinema può facilmente trasformarsi in uno strumento di rozza propaganda totalmente privo di qualunque valore artistico, strombazzando una linea ideologica che dovrebbe sostituire la seduzione creativa. L’arte è severa verso sé stessa: pone delle richieste, e il compito principale dell’artista è soddisfare tali richieste. È proprio questo, per esempio, a fare di Ousmane Sembène un cineasta di grande versatilità, tra i più coerenti che il nostro continente abbia prodotto, con la sua spiccata capacità di inserire nell’opera un messaggio sociale senza sacrificarne la visione artistica. Ho citato specificamente Ousmane Sembène perché la medesima integrità artistica è evidente tanto nei suoi libri – Les bouts de bois de Dieu, per esempio – quanto nei suoi film come Ceddo o Xala. I film devono comunicare un messaggio? Permettetemi di rispondere con un’altra domanda: Harry Potter comunica un messaggio?
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Tutto ciò che sappiamo è che i film di Potter – così come i romanzi stessi – fanno soldi a palate, suscitando invidia nella mente della maggior parte dei cineasti. Nulla di male nell’invidia, per inciso. L’invidia può perfino costituire un eccellente stimolo. Nemmeno il Vaticano ne va esente. Diversi anni or sono, il Vaticano pronunciò una condanna della serie di Harry Potter, ravvisandovi un pericoloso endorsement al satanismo. La mia reazione fu: oh-oh, il «mostro dagli occhi verdi» ha adocchiato i verdoni che si riversano nel botteghino. Dopotutto la Chiesa, dopo lo strepitoso successo ottenuto con la Bibbia, non ha mai più sfornato un best-seller letterario paragonabile a Harry Potter... E a spargere sale nelle ferite interviene il fatto che, ogni qual volta viene realizzato un kolossal multimiliardario ispirato alle Scritture – come I dieci comandamenti, con il muscoloso Charlton Heston a farla da padrone – la Chiesa non percepisce alcuna forma di royalty. Direi quindi che le encicliche demonizzatrici della Chiesa lasciano il tempo che trovano. Fantasticare è un’altra cosa – e può rivelarsi produttivo. Ogni qual volta ho appreso la notizia di code chilometriche davanti a una sala in cui veniva presentato un nuovo libro di Harry Potter, e di code altrettanto interminabili – nonni, genitori e ragazzi di ogni età – al momento del debutto del nuovo film della serie, ho fantasticato di incontrare Madama Multimiliardaria Rowling in un vicolo buio, senza testimoni. Quando questa eventualità si è fatta sempre più improbabile, ho pensato seriamente di sfidarla al suo stesso gioco, attingendo però alle nostre risorse mitologiche africane. Inutile specificare che il primo passo dell’idea creativa – quello che consiste nel pensare «Mmh, sembra un’idea interessante» – è sempre quello più facile. Poi viene il secondo passo: «Mmh-mmh, è un’ottima idea». E quindi il terzo, che inevitabilmente è: «Un momento: è un’idea veramente brillante, creativa!». Dopo di che subentra la familiare tirannide degli impegni, e l’idea si avvia a infilarsi in un vicolo cieco. So bene che non riuscirò mai a buttare giù nulla che eguagli anche solo lontanamente il successo di un film di Harry Potter. Altri, tuttavia, potrebbero e dovrebbero provarci. Perché un equivalente bambara o xhosa della serie di Potter non dovrebbe riuscire a conquistare il mondo? Se qualcuno qui ha un’idea originale al riguardo – purché priva del marchio Nollywood – vi comunico ufficialmente che sono aperto ai suggerimenti.
Un’altra caratteristica fondamentale delle tradizioni creative africane è la continuità – non necessariamente in forme identiche, che si tradurrebbero in mera ripetizione e sterilità, bensì una continuità che segnala l’opera d’arte come prodotto di un ambiente e di una cultura specifici. La continuità è responsabilità tradizionale dei griot, dei cantori tradizionali, dei narratori epici, degli intagliatori e degli autori di pitture murali, ed è al centro dell’estetica africana. Ancora una volta, è bene specificare che non si tratta di una peculiarità degli yoruba o dei bambara. È un marchio che contraddistingue le grandi opere dello spirito umano, le grandi distese scolpite di Angkor Wat come le piramidi del Nilo, le file interminabili di figure in terracotta riportate alla luce in Cina anni or sono – tributo funerario unico nel suo genere a un imperatore del passato –, i sublimi bronzi di Benin e di Ife in Nigeria o i templi degli Incas e degli Aztechi. Le arti concepiscono il fenomeno stesso dell’esistenza mortale come prodotto della continuità, e rispondono all’inconscia sensazione di essere in debito nei confronti della storia – una risposta che
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L’accademia sbarca a Nollywood: il docente e scrittore Akinwumi Isola nei panni del babalawo in "Saworoide" di Tunde Kelani.
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assume forme grafiche negli adattamenti più contemporanei realizzati dagli epigoni di quelle antiche tradizioni artistiche: i murales di José Clemente Orozco e Diego Rivera, le tele di Romare Bearden o le silografie dell’afroamericano Jacob Lawrence, così come le raffigurazioni cristiane con motivi decorativi ispirati agli Orisa dello yoruba Lamidi Fakeye, che mostrano un legame diretto di continuità con il suo totemico Oduduwa – il progenitore degli yoruba – di Ile-Ife. Tutto ciò travalica i confini generazionali, come dimostrano l’incisiva riproduzione in forma pittorica dell’Ogbon realizzata da Demas Nwoko e le opere di Tola Wewe, Nike Davies-Okundaye, Muraina Oyelami, Uche Okeke, Bruce Onobrakpeya, tutti nigeriani; o El Anatsui, nativo del Ghana ma animato da uno spirito creativo affine che lo ha condotto nella Nigeria orientale, dove ha fatto parte del movimento artistico Uli sbocciato dalla tragedia del Biafra; e, spostandoci dalla Nigeria verso est, Skunder Boghossian in Etiopia, Malangatana Ngwenya del Mozambico, Agnes Nyanhongo dello Zimbabwe e altri cento, nei cui contenuti, ora audaci ora raffinati e discreti, ciò che si coglie è la continuità, l’arte di testimoniare una tradizione – ma escogitando e sfruttando nuovi linguaggi espressivi. Anche la musica rientra in questo modello, che si tratti degli inquietanti blues di Billie Holiday o della pulsante cantilena del cantore wolof che suscita sovente quella medesima solenne e intensa nostalgia che ritroviamo nel fado portoghese. Sarà forse questa la ragione che spinse i portoghesi a legarsi in modo ancor più negativo alla «patria» africana, e a sviluppare quella politica dell’assimilado che offuscò le loro facoltà di discernimento politico, rendendoli incapaci di comprendere la realtà politica della dominazione e il richiamo della liberazione? La loro identificazione con una cultura straniera e vittima di occupazione era stupefacente, più radicata perfino di quella che caratterizzò il colonialismo di insediamento francese, alle origini del fenomeno sociopolitico rappresentato dalle signares senegalesi. In questo ginepraio di sensibilità, l’artista contemporaneo si scopre erede di retaggi contraddittori, adattabili e perfino complementari. Il patrimonio creativo e intellettuale del mondo costituisce una biblioteca immortale contro la quale i filistei – e in particolare i fanatici religiosi locali – possono soltanto inveire lasciandosi dietro meschine
tracce di distruzione, inconsapevoli della tara fondamentale che li accomuna agli imperialisti del passato: una concezione delle relazioni fondata su una mancanza di rispetto egualitario per le norme culturali. Malgrado questi esordi meschini, le testimonianze rimangono sacre, comprese quelle più negative, quali i fortini degli schiavi del Ghana, l’isola di Gorée, le case d’asta della costa swahili, o quei monumenti che, pur ergendosi con orgogliosa magnificenza, commemorano in realtà atti di crudeltà umana, lavoro forzato, la megalomania dei governanti. Talvolta, perfino le splendide ed elaborate decorazioni interne degli ambienti comunicano in modo esplicito vicende di tortura e sacrifici umani – sono gli archivi dei trionfi e delle crudeltà dell’uomo, che recano tutti la stessa, incancellabile titolatura: Verità. Verità che non sono suscettibili di revisione, men che meno nel presente. Possiamo dare mille e una interpretazioni diverse dei dati archeologici, ma il processo stesso di elaborazione di teorie alternative, che aspira a restituire la parola a questa iconografia muta, presuppone un’esplorazione sincera atta a riportare alla luce le verità che si celano sotto le rovine. Dunque l’obiettivo dell’arte è – tra gli altri – la rivelazione. Rivelazione anche di ciò che non è! Altra questione è se tale rivelazione conduca o meno alla trasformazione della società. L’obiettivo principale dell’arte è, inoltre, quello di trasformare incessantemente sé stessa e le sue modalità di espressione e di rappresentazione. Ciò che affascina nella natura dell’arte è il suo carattere camaleontico e proteiforme. Per molti giovani cineasti, ahimè, il cinema non è che un giocattolo nuovo, una scintillante passerella verso la fama e la notorietà. Dovremmo far loro comprendere che il cinema obbedisce alle stesse leggi a cui sono soggetti lo scrittore, il pittore, il musicista, lo scultore e perfino l’architetto. Il caleidoscopio sarà anche un giocattolo, d’accordo: ma può anche essere una fonte di rivelazione. Queste leggi si applicano egualmente anche all’arte degli ornamenti personali – riguardo alla quale abbiamo citato il copricapo detto «gele» – così come alla danza o all’arte del paesaggio. Tutte queste forme d’arte hanno la possibilità di attingere alla tradizione e di trasformarne gli elementi creando nuove forme e nuove modalità di organizzazione – stili, linguaggi, perfino materiali – allo scopo di
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dare vita a nuovi organismi. Per quanto riguarda le mitologie, le divinità africane sono accondiscendenti e saggiamente versatili nei confronti della creatività; e sebbene rappresentino incarnazioni di fenomeni ed esperienze umane specifici, non reagiscono con roboanti rappresaglie contro i loro sudditi quando vengono «ritoccate» in funzione delle aspirazioni e dei progetti umani. Abbiamo citato Esu, per esempio, e la reazione degli africani sradicati del Brasile alla sua demonizzazione perpetrata dai missionari cristiani nei territori d’origine di questa divinità. In Brasile come a Cuba, Esu ha dato risposta a un’esigenza di liberazione, di sfida all’imposizione dei valori degli schiavisti alle loro vittime. E anzi, alcuni discendenti di africani in Brasile si sono spinti all’estremo opposto, trasformando Esu in una divinità di prima grandezza: per esempio, nel Parco delle Divinità di Brasilia viene rappresentato come divinità principale – posizione che la tradizione yoruba riserva a Obatala o a Olodumare. A Bahia, perfino gli dei del cielo, della terra e dell’acqua – senza peraltro perdere le loro specifiche identità – si sono trasformati nelle Divinità Galleggianti del lago Dique de Tororó, una delle più variopinte e affascinanti installazioni in cui possiate sperare di imbattervi su un qualunque specchio d’acqua: Ogun, Oya (Iasan), Sango, Osun, Obatala, Yemoja, Nana, Ososi, trasfigurati in forma quasi eterea dalla mano dell’artista Tatti Moreno. Le parole che sembrano provenire attraverso le acque da questa «processione statica» di divinità sono: siamo venuti insieme a voi attraverso l’acqua, e continuiamo a vegliare su di voi. Gli elementi africani – aria, fuoco e acqua – si uniscono in questo lago artificiale, simili alla visione fugace delle dee indiane in quella momentanea allucinazione vissuta all’albergo Sofitel lungo il corridoio sospeso nell’aria, spiritualmente unite sotto lo sguardo vigile di Ganesh. No, gli «afro-africani» appena giunti dal continente d’origine non riconoscerebbero quelle divinità africane dal loro abbigliamento tradizionale. Esse non viaggiano portandosi dietro il guardaroba: si adattano semplicemente all’offerta locale. Quasi androgini nella loro raffigurazione, questi dei hanno cambiato aso-ebi in segno di solidarietà verso la loro famiglia, da poco stabilitasi nella diaspora brasiliana.
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Il backstage del film "Dazzling Mirage" del regista Tunde Kelani. 139
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«Trasformazione», per l’appunto, un termine che non incontriamo soltanto nell’arte e che non viene pronunciato soltanto dai pulpiti, ma sgorga con sussiego ancor maggiore dalle labbra di politici e burocrati. La trasformazione di un ambiente è facile da cogliere – possiamo quasi misurarla fisicamente, specie dopo che il giardiniere o l’architetto urbano hanno terminato il loro lavoro. Perfino per quanto riguarda gli esseri umani, possiamo citare la trasformazione di Saulo in Paolo, o il figliol prodigo che diviene un pilastro della famiglia, o ancora il manovale che si tramuta in un grigio borghese modello. Vi è tuttavia anche la trasformazione della percezione, ed è quella che riguarda l’arte. I personaggi convenzionali compaiono tanto nella letteratura quanto in qualunque altra forma d’arte; ma osserviamo che cosa hanno fatto i cineasti africani con uno di questi personaggi, particolarmente caro ai fumettisti nell’ambito di una non dichiarata guerra tra i sessi. L’artista di N****wood ha pescato questo personaggio femminile nel repertorio dei film comici, lo ha riadattato e restituito alla sua dignità di individuo – e senza alcun risvolto comico. Siamo tornati al punto di partenza, a W.H. Auden e alla signora dalle natiche affettate – in breve: è davvero possibile ignorare l’apparente coincidenza tra la raffigurazione della bellezza femminile da parte dello scultore tradizionale e le scelte dei cineasti africani contemporanei in materia di immagine femminile? L’attrice-tipo della N****wood di oggi non si ispira certo a Naomi Campbell, o all’ultimo dono del Kenya al cinema mondiale Lupita Nyong’o, e di certo nemmeno a Femme noire di Léopold Sédar Senghor. E men che meno a quel pionieristico studio sociologico che è La nera di... di Ousmane Sembène, incentrato sulla dissociazione culturale della «ragazza alla pari» trapiantata dall’Africa francofona nella Francia metropolitana. No, il cineasta medio di oggi prende a modello la corpulenta mama dei mercati di Ita Faji, Gbagi o Idunganran a Lagos e lo stile scultoreo di Lamidi Fakeye e compagnia. In passato, la corpulenta donna del mercato costituiva una macchietta: la matriarca domestica, temibile nelle liti tra condomini o davanti a una bancarella. Oggi questo modello della scultura tradizionale viene raffigurato come una creatura dalla delicata sensibilità che si mette in ghingheri, ama, ride, provoca,
lascia e viene lasciata, sempre in preda alle pene d’amore come un’adolescente. È attenta alle mode, al punto di indossare jeans firmati, artificialmente stinti e/o usurati, e perfino shorts sgambatissimi. Le sue ciglia finte sbattono più rapidamente delle ali di una farfalla, e come una farfalla lei svolazza «di fiore in fiore» ogni qual volta la sceneggiatura glielo consente. Fa bella mostra di sé in società e sculetta come un’invasata – non sottovalutate la sua abilità nel perpetrare a ogni istante un «crimine passionale»! La «delicatezza dei sentimenti», in altre parole, non è più monopolio delle studentesse di college anoressiche o anche di taglia media, come vorrebbe farci credere la tradizione originale di H****wood. Le «ciccione» hanno perfino iniziato a portarsi a casa gli equivalenti locali degli Oscar nella categoria Migliore Attrice, e non soltanto in veste di comprimarie, spalle comiche o stereotipi. Il cerchio si è chiuso: lo scultore tradizionale riceve finalmente giustizia, in veste di moderno visionario. Chissà? Forse siamo giunti al punto in cui la parola con la n prenderà atto di essere obsoleta, e finirà per fare propria una trasformazione che sta già avendo luogo nei fatti. Forse la moda europea non è ancora pronta ad accogliere la stellina di N****wood nel ruolo di modella per il prossimo costume da bagno di Gaultier; ma il boubou senegalese che fascia di eleganza la ciccia è già pronto a conquistare il mondo, e a giudicare dallo spirito avventuroso della Casa di Nike (Okundaye), il gele potrebbe ben presto trasformarsi nell’ultimo grido della moda femminile mondiale, annunciato dallo slogan «Grosso è Bello»! Un possibile beneficio aggiuntivo è che i nostri cineasti si aprano alla possibilità di organizzare una cerimonia di cambiamento del nome che elabori una denominazione alternativa tollerabile – una necessità sempre più urgente per un’industria cinematografica irrequieta e sempre più attenta alla qualità, che ha ormai superato il suo predecessore (l’India) in termini puramente quantitativi. Non possiamo che attendere con trepidazione il fatidico giorno del cambio di identità in cui alcuni di noi, inguaribili brontoloni, non dovranno più provare imbarazzo nel venire associati alla brigata del «cinema con la n». Potrei perfino iniziare a pren-
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dere seriamente in considerazione gli inviti – ne ho ricevuti non pochi – ad apparire in una di queste produzioni, anche solo nel ruolo di comparsa o di cammeo. Così, finalmente, potrò replicare a quei fanatici delle star del cinema che mi avvicinano, talvolta negli angoli più sperduti del mondo, assillandomi con le loro richieste di fotografie e autografi, fermamente convinti che io sia Morgan Freeman: «Morgan chi? Spiacente, noi del cinema di “xx” non lo conosciamo!». Possiamo sostituire «xx» con qualunque cosa... ma per favore, in nome di tutti gli Orisa, non con «Afrowood»! A-a-se!
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l contesto tematico nascosto – ma fondamentale – è, in fin dei conti, il collezionista stesso, e malgrado entri in gioco un curatore con inclinazioni tematiche proprie, gli elementi caratterizzanti fondamentali rimangono pur sempre «prodotti» del collezionista – le sue avventure, le sue motivazioni, il risultato dei suoi giudizi, i suoi capricci, gli incontri casuali e occasionalmente i doni... In definitiva, il punto è che non si collezionano opere d’arte per gli altri, ma per sé stessi. Inoltre, le motivazioni di ognuno sono diverse tra loro quanto le opere di una collezione. Per alcuni si limitano al calcolo commerciale, specie laddove le opere d’arte possono raggiungere prezzi astronomici... Per questo è inevitabile che gli aspetti sociologici del singolo collezionista, mecenate o l'utilizzo del prodotto – così come quelli ambientali e sociali – costituiscano talora parte integrante della narrazione nascosta o futura dell’oggetto artistico. La fortuna di queste opere può rivelarsi foriera di sconvolgimenti assai più letali di quelli suscitati dai meri furti notturni o dalle lance simboliche.
Le immagini che seguono provengono in gran parte dalla collezione personale dell'autore e, insieme alle opere di artisti contemporanei, sono state esposte nella mostra Wole Soyinka: Antiquities Across Times and Place, presso la Ethelbert Cooper Gallery of African & African American Art di Boston nel 2017. L'esposizione è stata riproposta l'anno successivo a Palermo, presso lo spazio ZAC (Zona Arti Contemporanee), all'interno del Castello della Zisa. A curare entrambe le mostre Awam Amkpa, docente di Teatro presso la New York University. 142
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Igbo; Maschera-elmo con striature, legno e pigmenti, 53 × 23,5 cm, 2,7 kg, databile al xx secolo.
Yoruba; Ori Egungun, testa in legno con due mani alzate, 32 × 36,5 cm, 4,5 kg, databile al xx secolo.
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Yoruba; Maschera per la danza con le corna unite, legno, 69,2 Ă— 18,41 cm, databile al xx secolo. 146
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Kuba (Repubblica democratica del Congo); Maschera Bwoom ("a casco") con occhi sporgenti, mento lungo e piume sulla testa, legno e piume, 69 Ă— 82 cm, 1,9 kg, databile al xx secolo. 148
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Yoruba; Testa Ife (Ori Olokun) con striature sul volto, bronzo, 36 × 12 cm, senza data. Le prime teste di bronzo risalgono al xii secolo e sono originarie di Ife, centro spirituale del popolo yoruba, e rappresentano la figura del re. Ori Olokun è il divino re fondatore della dinastia. 150
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Yoruba; Testa Ife (Ori Olokun), vista di lato. 152
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Yoruba; Spada Ogboni con un bracciale come impugnatura, ferro e bronzo, con perforazioni sulla lama, 71 Ă— 9,5 cm, 1,4 kg, databile al xx secolo. La confraternita Ogboni, chiamata anche "assemblea degli anziani", costituisce una aristocrazia yoruba. 154
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Yoruba; Coppia di figure Ere Ibeji che tengono dei recipienti, la figura a sinistra porta un bambino sulla schiena, legno e pigmenti, 30 × 7,9 cm e 29 × 10 cm, 0,3 kg, databile al xx secolo. 156
Yoruba; Figura in piedi con le mani giunte, bronzo, 20 × 7 cm, 0,9 kg Figura Ere Ibeji (una di una coppia) con copricapo tondo, legno, 22,5 × 7,5 cm, 0,3 kg. 157
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Yoruba; Recipiente Tiko con decorazioni, collo a imbuto, bronzo, 23 Ă— 38 cm, 1 kg, databile al xx secolo. 158
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Da sinistra: Provenienza sconosciuta; Applauditore con impugnatura a forma di donna, legno e crine di cavallo, 62 × 10 cm, 0,4 kg, databile al xx secolo. Benin; Campana con figura umana come impugnatura, bronzo, 41 × 12 cm, 1,6 kg, databile al xx secolo. Yoruba; Ose Sango, Bacchetta per la danza con due figure sovrapposte, quella maschile sopra alla femminile, legno, 87,5 × 21 cm, 2,6 kg, databile al xx secolo. 160
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Yoruba; Edan Ogboni, coppia di uomo e donna con le catene che ne simboleggiano l'unione, bronzo, 30 Ă— 7 cm, 1 kg, databili al xx secolo. 162
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Yoruba; Corona con figura di uccello, legno, perline e stoffa, 40 Ă— 66,5 cm, 1,4 kg, databile al xx secolo. 164
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Yoruba; Grande recipiente Ifa a forma di tamburo con figure Ere Ibeji sul coperchio, legno, perline e pigmenti, corpo centrale 55,5 Ă— 40,4 cm, 30,5 kg, databile al xx secolo. 166
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Dettaglio del coperchio della figura precedente. Coppie Ere Ibeji con perline al collo e in vita, anelli ai polsi e al collo, teste color indaco, legno, pigmenti, perline e metallo, 29 Ă— 7,5 cm, 0,3 kg. 168
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Yoruba; Maschera Egungun con fronte sporgente, legno, stoffa, specchi, semi e conchiglie, 32 x 16 cm, 0.9 kg, databile al xx secolo. 170
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Moyo Okediji (1956-), "Inrunmole V", 2006-2017, acrilico su tela su supporti misti, 160 × 121,9 cm. Le "Inrunmole" sono divinità yoruba scese nel mondo. 172
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Peju Alatise (1975-), "Abracadabra - Government magic", 2016, fusione di pietra di granito, ferro battuto, tessuto, 26 Ă— 186 Ă— 125 cm. L'opera simboleggia l'oppressione di un governo corrotto: il telo nero svela il popolo prigioniero dell'oppressione del proprio governo. 175
Osaretin Ighile (1965-) "Oba Ovonramwen", 2007-2011, plastica, metallo e legno recuperati, 213,3 x 167,6 x 167,6 cm. Oba Ovonramwen, morto nel 1914, è stato l'ultimo re indipendente del regno cinquecentenario del Benin, oggi Nigeria. 177
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Yoruba; Figura femminile con recipiente, due uccelli ai lati. Legno e pigmenti, 57 Ă— 39,3 cm, 4,8 kg, databile al xx secolo. 178
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Yoruba; Coppia Ife, figure del re (Oni) e della regina unite fra loro, bronzo, 32,5 x 16 cm, 4.3 kg, databile al xx secolo. 180
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Igbo; Maschera dello spirito femminile (Agboghommuo), col volto dipinto di bianco, legno e pigmenti, 46 cm, databile al xx secolo. 182
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Yoruba; Recipiente Ifa con uomini a cavallo sul coperchio, legno, 95,5 Ă— 31,9 cm, 12,4 kg, databile al xx secolo. 184
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Yoruba; Recipiente Ifa con una figura inginocchiata che porta il recipiente. legno e pigmenti, 95.5 Ă— 31.9 cm, 12.4 kg, databile al xx secolo. 186
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Moyo Okediji (1956-), "Il cavaliere del re", 2012, acrilico su tela su supporto misto, 304,8 Ă— 248,9 cm. 189
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Moyo Okediji, (1956-), "Irunmole II", 2006-2017, acrilico su tela su supporto misto, 210,8 cm. 190
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Olu Amoda (1959-), "La morte e il cavaliere del re: la signora Pilkings e Olunde", 2009, legno riciclato, acciaio e perspex. Signora Pilkings: 132 × 91,4 × 60,9 cm, Olunde: 109,2 × 76.2 × 60,9 cm. 193
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Bruce Onobrakpeya, (1932-), "Altare di Ogun III", 2007-2011, installazione su supporti misti, 311 × 2543,8 × 93,9 cm. 194
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Apparati
Indice dei nomi e dei luoghi
Abeokuta 30, 38, 47, 51, 65, 95, 106, Abiku 34, 37, 93, 103, 105, 106, 114 Abiku, quadro dell’ 112 Abuja 85 Achebe, Chinua 89 Afolayan, Kunle 129 Africa 95, festival 19, 22, 23, 25 African-American Research Library and Cultural Center 67 Africana, Unione 14, 17 Africano, Rinascimento Monumento del 11, 12, 13, 15, 16, 17, 18 Afrowood 142 Agbegijo 94, Aia, L’ 31 AIDS, epidemia di 32, 84, Ajebota 127 Akintilo, Deji 38, 40, 42, 76 Ala (dea terrestre) 89 Alake di Abeokuta 95, 99 Ali-Balogun, Mahood 129 America Latina 57 Amish 61 Anatsui, El 136 Angkor Wat 135 Anikulapo-Kuti, Fela 31, 80 Ansar Dine 114
Antonio e Cleopatra 125 Araba 76 Asclepio 69 Aso-ebi 117, 119, 120, 138 Atlantide 104 Auden, W. H. 28, 29, 140, Awolowo, Obafemi 76, 81 Aztechi 135 Baba Atani Iwara 38, 40 Babalawo, v. Divinatore, il 69, 93, 135 Badagry 94 Bahia 138 Baldy, monte 106 Balogun, Ola 129 Bambara bambina, la 134, 135 Bearden, Romare 136 Bellywood 129 Bembés 96, 97 Benin City 67 Benin 66, 98, 136 Big Ben 46 Blacula 132 Blake, William 21 Blaxploitation 121, 132 Boghossian, Skunder 21, 136 Boko Haram 85, 107, 109, 131 Bollywood 129 Brasile 91, 138 Brasilia, Parco delle
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Divinità di 138, Brooklyn Museum 62 Buckingham Palace 46 Buddha 114, 118 Bullywood 129 Burkina 129 California 106 Campbell, Naomi 140 Candomblé 114 Carlos Museum 53 Carril, Pepe (Shango de Ima) 98 Cartagena 97 Cary, Joyce 94 Mister Johnson 94 Césaire, Aimé 77 Channel 4, emittente britannica 66 Churchill College 82 Church Missionary Society 80 Cissé, Souleymane 129 Collines des Mamelles 12 Colombia 97 Cooper Gallery 16, 17, 203 Corea del Sud 44 Cuba 96, 97, 138 Cupola della Roccia di Gerusalemme 46 Da’esh 109 Dahomey 98 Dakar 11, 13, 18, 126, 128,
Darfur 88 Davies-Okundaye, Nike 136 Depestre, René 98 Diop, Birago 77, 114, 127, Dique del Tororó, lago 91, 138 Divinità Galleggianti 138 Dollywood 128, 129 Dovere di violenza 104 Dracula 132 Du Bois, W. E. B. 78 Ebohon, capo Osemwegie 59, 67, 69 Ebohon Cultural Centre 66 Ebohon, santuario di 66 Edo, l’ 66 Egungun 59 Eleboto 65, 69 Emory University 53 Enugu 92 Esu 27, 28, 37, 42, 50, 106 138 Etiopia 17, 136 Fakeye, Lamidi 136, 140 Farc 97 Fespaco 129 Festac, v. World Black and African Festival of Arts and Culture 29, 30 San Patrizio, festa di 129 Fields, W. C. 111 Florida 67 Ford, Richard 122 Francia 110, 140 Freedom Park, Lagos 34 Freeman, Morgan 142 Frobenius 104 Fur, popolazione 89 Ganesh 118, 138 Garland, Colin 103, 104, 105, 106 Gaultier, casa di moda 141 Gele (copricapo) 120, 123, 137, 141 Gele Galà 121, 123
Gelede 120 Giamaica 104 Giappone 30, 44, 51 Ghana 129, 136, 137 Gheddafi 109 Ghollywood 129 Gran Bretagna 19, 30, 35, 60, 87 Guggenheim, Peggy 28, 29 Guillén, Nicolás 98 H****wood, v. Hollywood 141 Haiti 11 Harmattan Haze on an 42 African Spring 42 Harry Potter 133, 134 Heathrow, aeroporto di 117 Heston, Charlton 134 História de Oxalá 98 Holiday, Billie 136 Hollywood 62, 121, 132 Ibadan 43, 73 ibeji (gemelli) 33, 34, 154, 155, 176 Ifa 41, 42, 64, 76, 162, 182, 184 Igbo, popolazione 34, 36, 60, 89, 144 Igboland 86 Ijebu, Eredo di Sungbo, 43, 50 Ile-Ife 36, 38, 76, 136 Ilorin 85, 109 Incas 135 India 141 Christo e Jean-Claude 19 Damien Hirst 19 Sleeping Beauty 21 International Theatre 48 Ippocrate 69 Iroke ifa 41 Isara 38, 65 Essay, nome di mio padre 65 Isis 109 Islam 65, 87, 88, 92, 94, 107
200
Italia 119 Iya mi osoronga 94, 119 Janjaweed 88 Jarry, Alfred 131 Johannesburg 82, 83 Kaduna, Stato di 85 Khartoum 89 Kwara, Stato di 85 Lagos, Stato di 11, 34, 65, 81, 86, 140 Lagos, università di 34 L’Avana 97 Lawrence, Jacob 136 Londra 22, 23, 32, 46, 62, 69, 100, 104, 117 Madamombe, Colleen 12, 16, Mali 20, Mambéty, Djibril Diop 127 Mandela, Nelson 82, 83 Mapplethorpe Robert 84 Mars, Jean-Pierre 78 Martinica 77 Masina, Giulietta 127 Mbaise 86, 87 Mbari 89 Moremi 92 Moreno, Tatti 138 Mormoni 62 Mozambico 136 Musée de l’Homme 99 Musée du quai Branly 99 Museum of Modern Art di New York 62 N****wood, v. 117, 121, 124, 125, 140, 141 Nascimento, Abdias do 96 New York 32, 60, 62, 63 Ngwenya, Malangatana 136 Nike (Okundaye), Casa di 121, 136, 141 Nigeria 19, 21, 32, 43, 85, 86, 89, 94, 98, 109, 126, 127, 130, 136,
Nimrud 108 Nollywood, industria cinematografica di 129, 130, 131, 134 Notre Dame 119 Nwoko, Demas 136 Nyanhongo, Agnes 89, 136 Nyong’o, Lupita 140 Obafemi Awolowo 76, 81 Oduduwa 136 Offa 92 Ofili, Chris 59, 62, 66, 67, 69 Ogboni 99, 150, 158 Ogun, fiume 43, 106 Ogun 40, 42, 43, 48, 51, 96, 109, 118, 138 Ogunpa, fiume 43 Okara, Gabriel 89 Okeke, Uche 136 Okigbo, Christopher 89 Olinto, Antônio 98, 108 Olodumare 138 Olumo, roccia di 106 Olusegun Obasanjo 29, 30 Onobrakpeya, Bruce 89, 136 Onyejekwe, Umebe 32, 36 Orisa 42, 44, 64, 73, 76, 79, 87, 93, 97, 98, 108, 109, 115, 136, 142 Orisa-nla 98 Orozco, José Clemente 136 Orule Orisa 76 Ososi 138 Ouologuem, Yambo 104 Ousmane, Sembène 128, 133, 140 Owerri 92 Oyelami, Muraina 136 Padmore, George 78 Papa Giovanni Paolo II 87 Parigi 32, 100 Pechino 53 Perù 57 Piazza di Spagna 100
Ransome-Kuti, reverendo J. J. 80, 81 Ray, Satyajit 129 Richard D. Cohen 14 Rivera, Diego 136 Rodin, Auguste 14 Roundtree, Richard 132 Royal Court Theatre 104
Walmart 68 Warhol, Andy 70 Westminster, abbazia di 46 Wewe, Tola 136 Whitechapel Gallery 19 Wilde, Oscar 21 Wordsworth, William 126
Sango-re-wopo 38, 70, 76 Sédar Senghor, Léopold 77, 140 Seljan, Zora 98 “Sellywood” 128 Senegal 11, 13, 14, 20, 76, 78, 128 Shakespeare, William 122, 124, Shyllon, Yemisi 59 Silla, dinastia 45, 48, 50, 52, 53, 54 Sissoko, Cheick Oumar 127 Skunder Boghossian 136 Sofitel, albergo 138 Sow, Ousmane 14 Spender, Stephen 28, 29 St. Peter’s, chiesa di, Ake 38 Sud Africa 82 Sud Sudan 88 Sunday Times 20, 21 Sungbo, Eredo di 43 50, 52, 70
Xhosa 134
Taj Mahal 46 Tate Gallery 69 Tokyo 32 Tora (danza del Ghana) 31 Uli, movimento artistico 89 Uli, scuola artistica 136 Università di Ibadan 73 Università di Ife 73, 76 Vaticano 87, 119 Venezia 28, 29 Verger, Pierre 108 Wade, Abdoulaye 11 Wall Street 68
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Yemoja, Nana 138 Yorubaland 87, 126 Young British Artists 19 Zimbabwe 60, 89, 136 Zuma, Jacob 73, 82, 84
Crediti fotografici
P. 13: MJ Photography/Alamy Stock Photo; p. 15: courtesy Ousmane Sow; p. 16: courtesy African Contemporary Art Gallery; p. 17: Flickr/Hiroo Yamagata; pp. 2223: courtesy Whitechapel Gallery archive; p. 37: courtesy Cooper Gallery of African & African American Art, Harvard University/Photo Melissa Blackall; pp. 37, 39, 41, 43, 49, 54, 103, 115: courtesy Wole Soyinka Collection p. 63: MoMA, New York/ Donazione di Steven e Alexandra Cohen; p. 113: Agnes Nyanghongo; p. 123: Courtesy Nike Okundaye; p. 135: dal film Saworoide di Tunde Kelani; p. 139: dal set di Dazzling Mirage di Tunde Kelani; pp. 144-145, 147, 149, 151, 153,155, 156-157, 159, 161, 163, 165, 167, 169, 171, 173, 179, 181, 185, 187: courtesy Wole Soyinka Collection/Photo Melissa Blackall; pp. 174-175: courtesy Peju Alatise; pp. 176-177: courtesy Galleria Skoto e Osaretin Ighile; pp. 188-189: courtesy Moyo Okediji; pp. 190-191: courtesy Olu Amoda; pp. 194-195: courtesy Skoto Gallery e Bruce Onobrakpeya.
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