CHAGALL. THE HUMAN SCENE

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CHAGALL LA SCENA UMANA


Sylvie Forestier

Chagall la scena umana


Titolo originale Chagall et la vie

Sommario

© 2020 Editoriale Jaca Book Srl, Milano Per tutte le opere di Marc Chagall riprodotte in questo volume © Marc Chagall, © by Siae 2020

Traduzione dal francese di Daniela Boni

Copertina e grafica Paola Forini / Jaca Book

Fotolito Target Color, Milano

PRIMA PARTE: I VOLTI DI CHAGALL pag. 9 Introduzione pag. 11 Autoritratti negli anni della formazione p. 13 Autoritratti nel Trittico: Resistenza, Resurrezione, Liberazione pag. 33 Autoritratti nel Messaggio biblico pag. 45 Il giorno della morte pag. 65

Stampa e legatura Grafiche Stella San Pietro di Legnago (VR) ottobre 2020

SECONDA PARTE: IL TRITTICO. RESISTENZA, RESURREZIONE, LIBERAZIONE pag. 69 TERZA PARTE: LA SCENA pag. 131 Gli anni della formazione e il teatro ebraico a Mosca pag. 157 New York, Città del Messico, Parigi pag. 197

ISBN 978-88-16-60597-8

PERCORSO BIOGRAFICO pag. 227 NOTE pag. 241 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

INDICE DELLE TAVOLE pag. 243


OMAGGIO A SYLVIE FORESTIER Questo volume è a un tempo una “lettura” dell’opera di Chagall e un omaggio a una sua profonda interprete, Sylvie Forestier, per molti anni curatrice del museo “Messaggio Biblico/Marc Chagall” di Nizza. Nel 1988/89 Sylvie lavorava contemporaneamente su tre testi: I Volti di Chagall, il Trittico Resistenza, Resurrezione, Liberazione e Chagall e la Scena. Mentre portava avanti la redazione di grandi volumi sui vari generi dell’arte chagalliana, Forestier teneva in modo tutto particolare a questi tre fronti del lavoro di Chagall. Pur legatissimo alle sue radici ebraiche, iniziando la sua vita di pittore, Chagall compie con gli autoritratti un gesto eretico per la tradizione iconoclasta della sua comunità. Forestier, anche in dissenso con altri storici e critici d’arte, vede in Chagall un filosofo e non solo uno straordinario artista dell’immaginazione e del colore. Il realizzare degli autoritratti e palesarli, durante tutto l’arco della sua vita, all’interno delle grandi tele, è una radicale affermazione di pensiero. Qui il testo lasciato da Sylvie si ferma al primo giovanile allontanamento dalla città natale, ma l’autrice aveva già indicato tutti gli autoritratti che voleva fossero rappresentati, anche i più imprevisti per lo spettatore all’interno del Trittico e delle tele del Messaggio biblico. Accanto al “Sé” degli autoritratti abbiamo la “Storia”, della Russia e dell’umanità. È il cuore del secondo testo, che riguarda il Trittico Resistenza, Risurrezione, Liberazione, radicale e complessa rielaborazione di un’opera dal titolo Rivoluzione. Chagall ci ricorda la lettura filosofica della storia operata da grandi figure del pensiero russo, come Berdiaev, all’inizio del xx secolo. Il terzo testo, La scena – tema che Sylvie riprenderà in seguito – vede Chagall scoprirsi artista pubblico. La breve, ma intensissima esperienza con il teatro ebraico nella Mosca rivoluzionaria è fondamentale per la maturazione di Chagall. Infine, durante la seconda guerra mondiale, nel nuovo esilio americano, Chagall ritrova la musica e il teatro. Ritrova il mito senza cui la storia si appiattisce. Le scene del teatro, da lui dipinte in dimensioni monumentali, sono la metafora della scena umana. Con questi tre piccoli testi indissociabili, Sylvie Forestier ci restituisce Chagall nel suo profondo.

Chagall la scena umana


PRIMA PARTE

I VOLTI DI CHAGALL

Ringraziamenti Un particolare ringraziamento va a Hubert Forestier che ha sempre accompagnato e sostenuto il lavoro di Sylvie. Si ringraziano sentitamente Meret Meyer e il Comitato Marc Chagall per aver sempre aiutato le pubblicazioni su Chagall da parte di Jaca Book con occhio vigile e consiglio puntuale. Siamo riconoscenti anche a Giorgio Dettori che ha realizzato varie campagne fotografiche in piena intesa con Sylvie Forestier e ha messo a disposizione il suo archivio per questa pubblicazione. Accanto alla comprovata professionalitĂ , una straordinaria passione ha sempre caratterizzato il suo lavoro intorno alle opere di Chagall.


Introduzione

P

er chi desideri interrogarsi non soltanto sull’«enigma dell’artista», ma più in generale sull’avventura stessa della pittura – sul suo status, sulle sue funzioni, sulla sua natura specifica – il tema dell’autoritratto può offrire alla riflessione gli elementi organizzativi di una problematica che, pur non essendo nuova, ci sembra tuttavia applicabile all’insieme delle opere di Marc Chagall qui raccolte. Non si tratta, beninteso, di una raccolta esaustiva. Riallacciandosi qui a una lunga tradizione della storia pittorica, Marc Chagall ha spesso usato se stesso come oggetto da dipingere, come modello della pittura. Le variazioni formali di questa rappresentazione di sé non sono prive di importanza – ed è proprio questa, infatti, la nostra ipotesi di lavoro. Si è voluto qui operare una selezione pertinente, di cui tenteremo di giustificare l’analisi. Dei volti si offrono allo guardo. Dei volti che sono altrettante opere pittoriche, altrettanti «frammenti» o «pezzi» di pittura, come si soleva dire nei saloni o nelle accademie settecenteschi. Di fronte o di profilo, essi restituiscono le sembianze reali di quello che fu l’artista in un momento specifico della sua vicenda personale. Presenti, occupano l’intero spazio della tela o del foglio. Allusivi, si celano in un angolo del dipinto. Androgini, sembrano ricreare l’unità perduta della coppia originale. Motivi pittorici, finiscono per perdersi nell’infinito della materia della pittura. È alla decifrazione di un discorso che questo percorso ci invita. L’esplorazione del tema del «ritratto» nella pittura di Chagall rivela infatti la specificità di un linguaggio e di un sistema in cui si evidenzia il segno di una contraddizione culturale.

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Autoritratti negli anni della formazione

Ritraendo se stesso come pittore, Chagall colloca in una prospettiva plastica gli elementi del suo stesso interrogarsi sulla pittura. Si inserisce così nella lunga tradizione occidentale in cui la pittura, come modalità di rappresentazione e come modalità di conoscenza, si incarna nella figura del pittore. Un processo di mitizzazione che fa dell’artista il successore degli dei e degli eroi. Ma per l’iconoclastia ebraica, «farsi vedere» costituisce una trasgressione. Situato nel punto di incontro tra due culture – quella di cui è erede, il mondo orientale in cui si mescolano intimamente le correnti ebraiche e slave, e quella di cui va alla ricerca in Occidente, portatrice di valori di libertà che la pittura fa allegoricamente propri – Chagall vivrà un costante conflitto. L’esplorazione del tema dell’autoritratto, privilegiato nella sua opera, ne è la suggestiva testimonianza. La figura del pittore che succede a quella della persona dà conto di questo importante passaggio: di fronte alla pittura, Chagall si inventa una nuova identità. Tutte le variazioni sul tema, nelle loro ultime rappresentazioni, lasciano il posto a un processo di sublimazione della pittura. La dignità della pittura, esplicitamente incarnata dalla serie di dipinti con il pittore dinanzi al cavalletto, si erge progressivamente come ipostasi della creazione. Dagli autoritratti alle figure del pittore, e dalle figure del pittore a questo volto visionario che la pittura racchiude come una matrice, la pittura accompagna il pittore nelle sue metamorfosi. Ma la finalità ultima e segreta dell’artista non è forse quella di divenire a sua volta pittura?

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I

l testo autobiografico La mia vita redatto da Chagall sino al 1922, anno in cui lascia la Russia – a quanto pare per non farvi mai più ritorno – si iscrive nella lunga tradizione di Vite di artisti la cui lettura è potenzialmente in grado di fare luce sull’enigma della creazione. L’aneddoto, l’analisi psicologica e la narrazione sempre suggestiva dei primi balbettii di una vocazione possono fornire indicazioni utili a decifrarne il significato segreto. Sotto questo aspetto, La mia vita rappresenta per lo storico un punto di riferimento ineludibile per inquadrare l’opera di Marc Chagall in una prospettiva critica. Il diario, scrupolosamente redatto dall’artista e la cui seconda parte rimarrà inedita, rivela la quotidianità di una vicenda personale carica di poesia, umorismo, tenerezza. Rivela inoltre la presenza, tra il vissuto e l’opera nascente, di una rete sottile di apparentamenti o corrispondenze che meritano attenzione. Testo e dipinti nel loro insieme operano così di concerto come per tracciare l’evoluzione di un tema – quello della rappresentazione del pittore – organizzandone la tipologia. La mia vita colloca sin dal primo istante Chagall sotto il segno della predestinazione. «Quando facevo la quinta» narra «ecco arrivare la lezione di disegno. Un veterano del primo banco, quello che mi pizzicava più spesso, mi mostrò all’improvviso un disegno su carta velina, copiato da Niwa: Il Fumatore. Caos totale! Lasciami. Non ricordo bene, ma quel disegno, fatto non da me ma da quello sciocco, mi mandò subito su tutte le furie. Dentro di me si risvegliò uno sciacallo». Il seguito è ben noto: come colto da un sacro furore, Chagall si precipita a consultare l’edizione di Niwa e copia febbrilmente le illustrazioni che vi trova, al punto che un giorno, entrando nella sua stanza e veden-

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do i suoi disegni sulla parete, uno dei suoi amici esclama: «Senti, ma allora sei un vero artista?». Questo termine, nella sua estraneità tutta nuova, produce in Chagall la consapevolezza della sua vocazione, e il racconto si prolunga nella scena successiva: «Un bel giorno (ma tutti i giorni sono belli), mentre mia madre infornava il pane, mi avvicinai a lei che reggeva la pala e, afferrandola per il gomito infarinato, le dissi: “Mamma... voglio fare il pittore”». Il testo de La mia vita colloca così sin da subito la narrazione biografica nella categoria del leggendario – non perché gli episodi narrati siano fittizi, ma in quanto essi implicano un’interpretazione secondaria e tuttavia fondamentale nella quale si trasformano in presagi di un destino particolare. Questa particolarità si impone all’insaputa dell’individuo stesso – in questo caso, il giovane Chagall: lo «sciacallo» che si risveglia in lui non è forse quella forza misteriosa che lo spinge furiosamente a disegnare? E il termine «artista» pronunciato dal suo amico non è forse il segno di un’alterità assoluta, che si impone all’improvviso per manifestarsi nella frase «voglio fare il pittore»? È la presa di coscienza di una vocazione – si sarebbe tentati di dire di una «predestinazione» – che si definisce da subito nella differenza. La vocazione di Chagall, quella di diventare pittore, di essere pittore, si elabora in primo luogo in funzione di una rottura. Se il giovane riesce a persuadere la madre – dea tutelare che dominerà il centro dei suoi futuri dipinti – e se egli entra nella «scuola di pittura e di disegno del pittore Pen», la cui insegna di un blu «come quello del cielo» gli sembra l’ingresso di un altro mondo – la pulsione interiore alla quale obbedisce finirà per strapparlo al suo ambiente originario. Nulla infatti, nell’educazione ricevuta da Chagall, lo predispone alla carriera di artista. Nato in una famiglia ebrea rigorosamente osservante, di tradizione chassidica, sino a quel momento non ha conosciuto altro che le difficoltà e la dolcezza di una vita comunitaria scandita dai tempi rituali della pratica religiosa. Marc ha otto fratelli e sorelle: David, che muore giovanissimo, Aniouta, Zina, le gemelle Lisa e Mania, Rosa, Maroussia e la piccola Rachel, di cui Chagall descrive la nascita ma che non sopravviverà. Il padre Zahar è commesso in un negozio di aringhe. Silenzioso, misterioso e fragile, incarna la storica miseria di un intero popolo perseguitato. «Tutto, in mio padre, era ai miei occhi enigma e tristezza», dice Chagall, che ne La mia vita annota con un tocco pittorico: «Avete mai visto, nei dipinti dei fiorentini, uno di quei personaggi dalla barba mai rasata, dagli occhi a un tempo bruni e cinerei, dalla carnagione ocra bruciata e coperti di rughe e grinze? Quello è mio padre».

Al contrario la madre, Feige-Ite, primogenita del macellaio di Lëzna, un borgo rurale presso Vitebsk, trabocca di raggiante energia. «La vedo governare tutta la casa, dare ordini a mio padre, costruire senza sosta casette, aprire una drogheria, accumulandovi tutta una serie di mercanzie, senza denaro – a credito? Con quali parole, in quale modo rappresentarla sorridente dinanzi alla porta, o a tavola... ». Questa antitesi tra personalità è percepita con forza da Chagall. Il testo de La mia vita conferma qui l’analisi plastica. La duplice figura del padre e della madre, insieme a quella della coppia, dà forma al contesto della tipologia chagalliana. La figura del padre, uno dei temi costanti della sua opera, si presenta come l’archetipo di quelle figure di vegliardi o di rabbini solitari da cui vengono ricavate le rappresentazioni dei profeti. La madre, dal canto suo, ritorna a più riprese in numerosi dipinti. La sua presenza è spesso percepibile al centro della tela; se la sua persona è talora riconoscibile grazie a particolari fisici specifici – per esempio lo chignon – i gesti o i movimenti che compie ne fanno un personaggio eterno. Si impongono qui alcune osservazioni di carattere più generale: Feige-Ite non ha mai spezzato la relazione primordiale che la legava al figlio. L’attenzione che Chagall si sforza assai presto di ottenere dagli altri, il suo riconoscersi come fondamentalmente diverso – tutto questo egli lo ritrova immediatamente nella madre. È lei ad accompagnare il ragazzo – risoluto, certo, ma timido e tremante: d’altronde, Chagall è balbuziente – nella bottega del pittore Pen; è lei ad aiutarlo a superare i divieti di un’educazione che rifiuta l’immagine; è lei, in un certo senso, ad aprirgli le porte del mondo dell’arte, dopo avergli aperto quelle della vita. La formazione simbolica di questa esperienza affettiva si ravvisa nella figura femminile sulla soglia del suo negozio che, nel dipinto Le nozze, ne indica l’interno con un solenne gesto d’invito. Nel 1908, dopo essersi trattenuto presso il pittore Pen – una breve permanenza di soli due mesi, alla quale fa seguito un periodo come apprendista di fotoritocco presso un fotografo locale – Chagall lascia Vitebsk insieme all’amico Viktor Mekler alla volta di San Pietroburgo. Abbandona così un universo conosciuto e rassicurante, la regolarità delle giornate in famiglia, la visione quotidiana di tetti, strade, case, cupole della città natale, Vitebsk, le cui immagini popoleranno per sempre i suoi ricordi. Il giovane provinciale, di cui un primo ritratto realizzato nel 1907 ritrae lo sguardo grave e ansioso, si reca nella capitale intellettuale e artistica della Russia imperiale alla ricerca del nutrimento formale che gli è sino ad allora mancato.

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chagall la scena umana

autoritratti negli anni della formazione

1. Autoritratto, 1910, inchiostro su carta color crema, 16,1 Ă— 17,3 cm.


chagall la scena umana

autoritratti negli anni della formazione

2. Me, 1911, inchiostro e acquerello su carta, 13,3 Ă— 20,9 cm.

3. Schizzo per autoritratto a sette dita, 1911, guazzo e matita su carta, 23 Ă— 20 cm.


chagall la scena umana

autoritratti negli anni della formazione

4. L’atelier dell’artista, 1910, olio su tela, 60,4 × 73 cm. Dettaglio con il volto di Chagall.


chagall la scena umana

5. Autoritratto in verde, 1914, olio su cartone montato su tela, 50,7 Ă— 38 cm.

autoritratti negli anni della formazione


chagall la scena umana

autoritratti negli anni della formazione

6. Autoritratto scrivente, 1926-30.


chagall la scena umana

7. Autoritratto con smorfia, 1917, grafite su carta color crema appoggiata su un quadro, 37,5 Ă— 27,9 cm.

autoritratti negli anni della formazione

8. Mio padre, mia madre e io, 1911, inchiostro su carta, 19,5 Ă— 11,8 cm.


chagall la scena umana

9. L’apparizione della famiglia dell’artista, 1935-47, olio su tela, 123,3 × 112,2 cm.

autoritratti negli anni della formazione


chagall la scena umana

10. Autoritratto, 1922-23, acquaforte e punta asciutta su carta posata su quadro.

autoritratti negli anni della formazione


Autoritratti nel Trittico Resistenza, Resurrezione, Liberazione


chagall la scena umana

autoritratti nel trittico

11. Resistenza, 1937-48, olio su tela di lino, 168 Ă— 103 cm; 12. Resurrezione, 1937-48, olio su tela di lino, 168,3 Ă— 107,7 cm; 13. Liberazione, 1937-52, olio su tela di lino, 168 Ă— 88 cm.


chagall la scena umana

autoritratti nel trittico

14. Resistenza.

ÂŤ[...] il pittore, a sua volta crocifisso, aggrappato alla tavolozza, riverso a terra sotto il peso delle sue visioni.Âť


chagall la scena umana

autoritratti nel trittico

15. Resurrezione.

Ancora una volta il pittore è capovolto di fronte alla sua stessa opera.


chagall la scena umana

autoritratti nel trittico

16. Liberazione.

Nella festa, nel matrimonio, Chagall mostra a Bella il suo lavoro.


chagall la scena umana

autoritratti nel trittico

17. Liberazione.

L’amore e la meditazione.


Autoritratti nel Messaggio biblico


chagall la scena umana

Nel 1969 Marc Chagall fa dono alla Francia di una imponente serie di opere denominate “Messaggio biblico”. André Malraux, ministro della Cultura, decide allora di costruire a Nizza un museo intitolato “Museo nazionale Messaggio biblico, Marc Chagall”. 18. A fronte: l’ingresso del Museo.

autoritratti nel messaggio biblico


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19. Messaggio biblico, La creazione dell’uomo, 1956-58, olio su tela, 299 × 200 cm.

autoritratti nel messaggio biblico

Autoritratto con l’amata.


chagall la scena umana

20. Adamo ed Eva cacciati dal paradiso, 1961, olio su tela, 190,5 Ă— 283,5 cm.

autoritratti nel messaggio biblico

L’artista ancora riverso come nei primi due quadri del Trittico.


chagall la scena umana

autoritratti nel messaggio biblico

21. Noè e l’Arcobaleno, 1961-66, olio su tela, 205 × 292,5 cm.

L’artista dietro il cavalletto.


chagall la scena umana

22. Il sacrificio di Isacco, 1960-66, olio su tela, 230 Ă— 235 cm.

autoritratti nel messaggio biblico

L’artista nascosto nella natura.


chagall la scena umana

23. Il Cantico dei Cantici ii, 1957, olio su carta incollata su tela, 139 Ă— 164 cm.

autoritratti nel messaggio biblico

L’artista contempla la scena e ne diviene protagonista.


chagall la scena umana

24. Il Cantico dei Cantici iii, 1960, olio su carta incollata su tela, 149 Ă— 210 cm.

autoritratti nel messaggio biblico

L’artista riprende la scena sulla tela.


chagall la scena umana

25. Il Cantico dei Cantici iv, 1958, olio su carta incollata su tela, 144,5 × 210,5 cm.

autoritratti nel messaggio biblico

Dall’alto l’artista con l’amata e sotto mentre si confonde tra il paesaggio e la gente.


chagall la scena umana

26. Il Cantico dei Cantici v, 1965-66, olio su carta incollata su tela, 150 Ă— 226 cm.

autoritratti nel messaggio biblico

L’artista al centro del Cantico.


Il giorno della morte


il giorno della morte

chagall la scena umana

27. Verso l’altra luce, ultima litografia di Chagall, eseguita da suo litografo Charles Sorlier e presentata da quest’ultimo al maestro il giorno stesso della sua morte, 28 marzo 1985.

28. L’addio, ultima opera di Chagall, eseguita il giorno stesso della sua morte. La litografia è stata realizzata da Charles Sorlier.


SECONDA PARTE

IL TRITTICO RESISTENZA, RESURREZIONE, LIBERAZIONE


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gni opera d’arte, nel momento stesso in cui si presenta al nostro sguardo, coinvolge anche la nostra ragione. Se, come dice il poeta, «l’occhio ascolta», l’opera, invece, parla. Parla prima di tutto di se stessa, della sua natura, della sua struttura, della sua storia. Parla dell’artista che l’ha generata, al quale la lega un contrastato rapporto di discendenza. Opera figlia di un padre creatore, che spesso non vuole lasciarsela sfuggire, opera che avanza verso il nostro sguardo, si dona tutta intera come puro oggetto di godimento e di conoscenza. La pittura è là, in questo totale abbandono di se stessa, che ci invita a vedere. Ma noi spesso non vediamo. Il nostro sguardo sfiora il quadro, lo sorvola con un’occhiata, e passa oltre. Per entrare nella nostra memoria, perché il visibile si trasformi in veduto, perché la nostra percezione diventi azione, ci basta a volte solo l’emozione di un incontro imprevisto. Il quadro allora ci «sconvolge». Diventa fonte di piacere o di dolore nella singolarità assoluta dell’esperienza personale. Così alcuni di noi hanno potuto sperimentare con Proust e Vermeer l’indicibile emozione della scoperta di quel «breve tratto di muro giallo» che riempie gli occhi di Bergotte1. La stessa storia della pittura è fatta di questi incontri casuali che spesso determinano una vocazione o un destino. Allora la pittura abita l’anima, può diventare compagna di vita pur continuando a esaltare, secondo l’espressione di Merleau Ponty, «l’enigma della visione». Il più intellettuale dei cinque sensi apre infatti alla verità il cammino di qualsiasi processo conoscitivo. Tutta la cultura occidentale si è venuta costruendo su una

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teorizzazione dell’occhio e dei suoi poteri. Emblema anatomico della dea Atena (occhiglauca, occhicerulea), «finestra dell’anima» secondo Platone, l’occhio è il vettore di una coscienza vigile e l’atto del vedere reca in sé le premesse di quello del conoscere. In greco vedere e sapere sono uniti dall’identità del termine e del significato. Capire un’opera significa allora vederne tutti gli aspetti, stabilire fra lei e il piacere – o il fastidio – istintivo della prima percezione, la distanza di uno sguardo intelligente. Pur rischiando di mutilarne la realtà unitaria e organica, l’analisi di un dipinto fa parte di un processo di smembramento necessario. Ma dall’incoerenza di quelle membra disiecta che sono gli schemi pittorici, i ritmi, le linee, le forme, i motivi o anche i semplici particolari figurativi, nasce un ordine più sottile che ne guida il concatenarsi segreto. Il sensibile si organizza e si compone, l’apparenza acquista significato ed emerge la razionalità specifica dell’opera d’arte. È ben vero allora che si tratta di smembrare un dipinto, ma come uno dei modi per arrivare a una ricomposizione della pittura. Solo così il discorso critico si può giustificare: radicandosi nella pittura stessa. La scelta inaugurale di una collana – che vuole essere aperta all’amatore e allo studioso – si è indirizzata a tre opere di Marc Chagall. Si rende così omaggio a un pittore il cui messaggio attinge ormai al livello dell’universale. Queste tre opere si intitolano: Resistenza, Resurrezione, Liberazione. In quanto una e molteplici a un tempo – e del resto non possono forse essere considerate come un trittico? – esse saranno qui sottoposte a un’osservazione attenta il cui strumento fondamentale è l’ingrandimento fotografico. L’analisi accompagnerà in un certo senso l’esplorazione visiva, ma procederà – almeno lo speriamo – per gradi, allo scopo di mettere progressivamente in luce i diversi significati dell’insieme. Il senso ultimo dell’opera, immanente a essa, dovrebbe allora guidarne la lettura unificatrice, senza tuttavia alterarne il mistero che, teniamo a sottolinearlo, rimane intatto. Se infatti è legittimo tentare una riflessione su un’opera i cui intendimenti si riconoscono con chiarezza, è un’illusione credere di poterne dare un’interpretazione univoca. Il carattere irrimediabilmente unico di ogni creazione estetica resta intatto, e il commentatore che osa tentare l’avventura di un discorso critico ha bisogno di molta modestia. È pur vero tuttavia che l’esercizio del guardare si fonda su un processo di apprendimento definito dalla dialettica che si instaura fra il dipingere e il vedere, il vedere e il descrivere. Così, anche noi potremmo dire con Bachelard: «Capisco più chiaramente perché vedo con maggiore chiarezza, perché Chagall, il veggente, disegna la voce che parla».2

Resistenza, 1937-1948 (tav. 32); Resurrezione, 1937-1948 (tav. 33); Liberazione, 1937-1952 (tav. 34) occupano, nell’opera di Marc Chagall, un posto particolare che dipende dalla natura stessa di questi tre quadri e dalla loro storia. La loro genealogia è infatti singolare e finirà per segnarne l’identità fisica. Tutte e tre infatti hanno un’origine comune, il quadro che Chagall terminò nel 1937 dopo un viaggio in Polonia e che egli intitolò Rivoluzione (tav. 30). Questa vasta composizione monumentale seguì il pittore nel suo esilio negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale e nel 1943 fu divisa in tre parti ciascuna delle quali, frammento del dipinto iniziale, venne rielaborata. Da questo smembramento nascono le tre «opere figlie», Resistenza, Resurrezione, Liberazione. La loro origine comune, la loro materialità, vera e propria filiazione, spiegano perché esse possano essere analizzate contemporaneamente sia come insieme, trittico o triade, sia come unità. I titoli dati ai tre quadri dall’artista stesso, Resistenza, Resurrezione, Liberazione (tav. 3), sottolineano questa nuova identità e rivelano, ne riparleremo più avanti, il processo evolutivo da cui sono nate. Dell’opera iniziale Rivoluzione, scomparsa e presente a un tempo, distrutta e resuscitata, resta attualmente solo un certo numero di studi preparatori, disegni e olii. Uno di questi (tav. 29) fu conservato da Chagall fino alla morte e appartiene ormai alle collezioni del Museo Nazionale d’Arte Moderna di Parigi. Sarà per noi il punto di riferimento obbligato per ritrovare le intenzioni originarie dell’artista e i loro mutamenti nel corso del tempo. Lo schizzo, di piccole dimensioni (50 × 100 cm), è un olio su tela in cui risaltano subito tre caratteristiche principali: – il formato rettangolare, inconsueto in Chagall – una composizione che ha il centro nella zona mediana – una semplicità cromatica che sembra organizzare la superficie della tela in due zone opposte e complementari dominate dal rosso e dal bianco.

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Nota di lettura I numeri che si trovano lungo il testo che segue si riferiscono alle tavole a colori di Resistenza, Resurrezione, Liberazione, mentre le opere di Chagall citate in riferimento al trittico si trovano sotto gli anni corrispondenti nel percorso biografico finale

GENESI DELL’OPERA


Formato, composizione centrata e bicromia si armonizzano, o meglio, composizione e bicromia si sottomettono al formato. La forma rettangolare del quadro determina infatti l’organizzazione interna della superficie, inoltre condiziona il percorso dell’occhio e della percezione. Lo sguardo infatti è naturalmente condotto da sinistra a destra, in modo che la lettura degli elementi costitutivi dell’opera obbedisca a questa successione organica. Qualsiasi spettatore di cultura occidentale segue tale percorso involontario che però Chagall non rispetta sempre. Anzi, molto spesso l’opera obbliga a una visione simultanea, che esplode, oppure inversa, da destra a sinistra, come nella scrittura ebraica. C’è stata dunque, da parte dell’artista, una scelta che ha un preciso significato. La stessa struttura formale dello studio, pur restando una copia di dimensioni ridotte rispetto al dipinto originario Rivoluzione, ne fa risaltare il carattere narrativo. Il quadro è racconto e s’inserisce nella storia culturale e événementielle dell’Occidente. Dalla sinistra del dipinto avanza dunque una folla in armi nella quale si vedono uomini e donne che si assiepano sotto le bandiere rosse spiegate. In massa compatta, sembrano combattere o chiamare a combattere. Vi sono dei corpi distesi a terra. Un uomo stringe il figlio fra le braccia. In primo piano, sul candore della neve, vicino ad alcune pietre tombali, un cadavere. Qui si percepisce immediatamente l’impressione di una folla in rivolta: l’addensarsi dei personaggi è tale che essi occupano tutto lo spazio della parte sinistra della tela. La dominante rossa accentua il carattere febbrile e violento dell’insieme e contrasta tanto più con il candore della zona centrale. Quest’ultima offre allo sguardo una pausa di silenzio prodotta dal bianco della neve, qua e là macchiato di rosso. Al centro, un tavolo sul quale è posato un libro aperto. Il gomito appoggiato al tavolo, un rabbino, riconoscibile per i rotoli della Torah che stringe al petto e per il piccolo cubo nero che è l’astuccio di pelle contenente i filatteri3. Sulla tavola sta ritto, con l’intero corpo appoggiato su una mano, la testa verso il basso, e dunque a gambe per aria, un personaggio che il berretto e la corta barba consentono di identificare: Lenin. Fra le sue gambe, volte verso l’alto del quadro, sventola una bandiera mentre il suo braccio sinistro è in posizione orizzontale. Non lontano, un caprone, o un asino, seduto su una sedia con un secchio davanti, completa, con un samovar, la scena. Il fatto che la composizione si sviluppi attorno al gruppo formato dal tavolo, dal rabbino e da Lenin, indica in maniera evidente che questi ultimi sono i personaggi principali. Tanto la collocazione quanto la posa di ognuno di loro sono suggerimenti visivi che permettono di azzardare

una prima interpretazione. Infatti il tavolo, con la sua centralità, delimita le porzioni di spazio assegnate alle due figure: a destra il rabbino, a sinistra Lenin. Proprio da questo loro essere respinti alle due estremità nasce la complementarietà dei personaggi, sottolineata anche dall’atteggiamento di ciascuno di loro. A destra il rabbino, immobile, è chiuso in una silenziosa meditazione. Ci guarda e si presenta non come un’immagine allegorica della preghiera, ma come una presenza viva e quasi fraterna. Dalla parte opposta, a sinistra, Lenin fa la sua rivoluzione. Compie un giro su se stesso riportando il tempo al centro dello spazio. Perciò le due figure, quella dell’anonimo rabbino e quella di Lenin, esprimono una situazione di alternativa; un unico punto di sostegno in realtà le riunisce. Infatti entrambe si appoggiano al tavolo che sembra ridotto alla pura struttura geometrica: una superficie orizzontale che poggia su quattro elementi verticali. Questa schematizzazione del tavolo, che crediamo voluta da Chagall, ne sottolinea ancor più la specifica funzione: la stabilità. Oggetto familiare e quotidiano dell’universo domestico, esso riporta nel mondo sconvolto dalle tempeste della storia, che l’artista ci mostra nella parte sinistra del quadro, il tempo immobile della permanenza e della durata. Il rabbino ne è l’incarnazione così come Lenin, figura legata agli avvenimenti, lo è della turbolenza della storia. I due personaggi si offrono al nostro sguardo simultaneamente, in una sorta di immagine bloccata, come due figure antagoniste e complementari. Il custode della Legge religiosa e il profeta della rivoluzione sociale sono due testimoni della vita personale del pittore, della sua doppia appartenenza al tempo della tradizione e a quello della storia. La parte destra del quadro è introdotta da una bandiera rossa che apre davanti a noi uno spazio circolare sulla sommità del quale il pittore, davanti al cavalletto, guarda, come se uscissero dalla sua memoria, i musici, gli acrobati e i danzatori che si appresta a immortalare sulla tela. Nella zona inferiore del dipinto passa un viaggiatore, mentre sul tetto di una casa di legno riposa una coppia di innamorati. Il racconto termina con una visione di felicità in cui ogni oggetto, come ogni personaggio, sembra portatore di un proprio significato e contribuisce alla ricchezza simbolica dell’insieme. E questo che dà a Rivoluzione, prima e unica opera storica di Chagall, il suo profondo significato, quello cioè di una lezione, di un messaggio, di un appello a quei valori di pace e d’amore che sono, forse, più rivoluzionari della rivoluzione stessa. Il pittore ha guidato il nostro sguardo, ha diretto la nostra attenzione, e noi abbiamo percorso la superficie del dipinto con un movimento laterale come le pagine di un libro.

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Il fatto che Chagall, nel 1937, abbia sentito la necessità interiore di dipingere Rivoluzione, non ha nulla di strano. L’artista, ricordiamolo, ha partecipato con tutta la sua convinzione, con tutta la sua fede nel progresso, al movimento che scosse l’impero russo e le strutture tradizionali di una società rimasta per molti versi feudale. Nel 1911, durante il primo soggiorno parigino, Chagall, che conosceva il piccolo gruppo di emigrati politici russi, aveva stretto amicizia con Luna/arskij che in quell’anno teneva dei corsi alla scuola del Partito di Longjumeau organizzata da Lenin. Anatolij Vassilievi/ Luna/arskij (1875-1933) fu una personalità brillante e complessa a un tempo. Fu filosofo, pubblicista e critico d’arte pur mantenendo sempre un forte impegno politico. Arrestato più volte per propaganda rivoluzionaria fu deportato per tre anni a Vologoda, poi nel Nord della Russia, a Totma, infine costretto a emigrare. A partire dal 1904 a Parigi, poi a Ginevra, collabora alla redazione dei giornali bolscevichi Vperiod e Proletari pur continuando a coltivare una riflessione di ordine estetico e filosofico. Nel 1910 è a Parigi dove incontra Romain Rolland che egli contribuisce a far conoscere in Russia. Visita gli studi degli artisti, fra cui quello di Chagall a La Ruche4. Questo primo incontro è riferito dal pittore in Ma vie5: «L’ho incontrato una volta a Parigi, poco prima della guerra. Faceva il giornalista ed era venuto nel mio studio a La Ruche... Ho sentito dire che era marxista, ma la mia conoscenza del marxismo si limitava a sapere che Marx era ebreo e aveva una lunga barba bianca. Ma mi rendevo conto che la mia arte non andava certo d’accordo con lui». Nulla infatti sembra accostare la concezione dell’arte di Chagall a quella di Luna/arskij. Quest’ultimo, in un articolo fondamentale, La Rivoluzione e l’arte, si chiedeva: «Per uno Stato rivoluzionario come il potere dei soviet il problema dell’arte si pone in questi termini: può la rivoluzione dare qualcosa all’arte e che cosa questa le può dare in cambio?». Tuttavia Chagall avrebbe potuto far sua questa domanda quando, su richiesta dello stesso Luna/arskij, accettò il Commissariato alle Belle Arti della regione di Vitebsk. Luna/arskij era allora «Narkom», cioè Commissario del popolo per l’Educazione e la Cultura del primo governo sovietico. Il 12 settembre del 1918 il pittore riceve l’incarico di organizzare nella sua città natale «scuole d’arte, musei, esposizioni, conferenze e ogni altro tipo di manifestazione artistica...». Perciò Chagall s’impegnerà con totale generosità nell’adempimento di questo compito. La sua attività dal 1918 al 1920 è infaticabile: si tra-

sforma in pedagogo, amministratore, direttore di scuola, fondatore di un museo. Crea la «Scuola popolare di Belle Arti», la «Scuola di Arti e Mestieri», degli atelier comunitari. Chiama presso di sé i suoi vecchi maestri Pen e Dubujinskij, il pittore Ivan Puni e sua moglie Xenia Boguslaskia, tutti quelli in cui ha fiducia, Romm, Tilberg e Malevi/. L’impegno rivoluzionario di Chagall è dunque assolutamente sincero, e il suo entusiasmo è proporzionato alla sua riconoscenza. Non è forse vero infatti che il nuovo regime bolscevico ha abolito le discriminazioni di cui erano vittime gli ebrei? L’artista diventa cittadino a pieno diritto, libero nei suoi movimenti, libero di servire con tutto se stesso l’ideologia che ha scosso in modo così violento il «vecchio» mondo. Perciò si dedica, a Vitebsk, ai preparativi per le cerimonie celebrative del primo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Fu un evento straordinario, che si ricollegava al significato collettivo e popolare della festa. Momento sovversivo della storia che, nel giro di qualche anno, avrebbe fatto coincidere le finalità utopiche di una società in via di trasformazione con alcune forme artistiche di avanguardia. La metamorfosi della città attraverso gli addobbi, prefigurava il cambiamento della società stessa. La città del presente si cancellava per far posto alla società del futuro. E a questo proposito Vitebsk, come Mosca e Pietroburgo, vivrà una trasformazione memorabile. Archi di trionfo, stendardi, manifesti, bandiere, staccionate e tram dipinti a colori squillanti fra cui domina il rosso, simbolo della rivoluzione e della bellezza6, trasfigurano la borgata provinciale in città ideale. Le immagini metaforiche e simboliche, capaci di esaltare, come voleva Luna/arskij, «la gioia, il movimento, la lotta», si moltiplicano in una grandiosa messa in scena. Immagini sconvolgenti ma effimere, come le scenografie ideate da Alexandra Exter, Altman o Chagall. Del lavoro del pittore, vero orchestratore dell’insieme, non restano che pochi schizzi fra cui un disegno, intitolato Guerra al palazzo, che, in una scena di assoluta immediatezza, ci mostra un contadino russo che solleva, a braccia tese, una casa a colonnati. La metafora di una liberazione sociale vissuta nella rivolta è espressa chiaramente. Il gesto creatore è in pieno accordo con la convinzione ideologica che presuppone una finalità pedagogica, non basta che l’arte mostri, essa deve anche insegnare. Del resto Chagall è stato sempre pervaso dalla consapevolezza che l’arte, e la pittura in particolare, sia una missione, e le responsabilità sociali gli offrono l’occasione per mettere in pratica concretamente questa sua convinzione. Sotto la sua direzione, la Scuola di Belle Arti diventa un’importante istituzione artistica che consente il formarsi di atelier specializzati sotto

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la guida dei migliori professori. La concezione comunitaria di tali atelier non esclude assolutamente la specificità dell’insegnamento, impartito secondo le varie discipline (pittura, disegno, architettura, arti applicate, arti grafiche), e sembra prefigurare la futura organizzazione del Bauhaus. Ma l’arrivo a Vitebsk di El Lissitskij avrebbe fatto esplodere un grave conflitto. Egli aveva seguito dei corsi di architettura al Politecnico di Darmstadt, in Germania. Illustratore, come Chagall, di novelle in yiddish e di libri per bambini, si interessava soprattutto di ricerche grafiche. Membro del Dipartimento di Belle Arti (izo) diretto da David Yterenberg e fondato da Luna/arskij, aveva lavorato con Tatlin all’abbellimento delle vie di Mosca. La sua formazione di architetto lo impegnava in una riflessione sulle condizioni per realizzare una dinamica spaziale. Ammirava Malevi/ e persuase Chagall a invitarlo a Vitebsk. Nel 1919, al suo arrivo a Vitebsk, Malevi/ è una delle personalità di spicco del movimento rivoluzionario e la sua opera potrebbe incarnare da sola la storia della modernità in Russia. La traiettoria dell’artista è folgorante: se nel 1912 la sua pittura rappresenta il «nuovo stile russo» vicino al neoprimitivismo di un Larionov e di una Gon/arova, a partire dal 1913 essa si orienta verso le ricerche futuriste per meglio liberarsene. Nessun pittore si è mai spinto tanto lontano sulla via della sperimentazione plastica che approdò, nel 1916, all’elaborazione della teoria suprematista. L’opera Quadrato nero esprime questo radicalismo dell’immagine svuotata di qualsiasi contenuto iconografico, «a-logica», di cui Alessandro Benois diceva: «Non abbiamo più davanti a noi il futurismo, ma la nuova icona del quadrato. Tutto ciò che avevamo di sacro e consacrato, tutto ciò che amavamo e che era la nostra ragione di vita è scomparso». Nello stesso tempo Malevi/ fa opera di teorico: l’opuscolo Dal Cubismo e dal Futurismo al Suprematismo. Il nuovo Realismo pittorico accompagna, nel 1915, l’esposizione di Quadrato nero, e nel 1919 egli lavora al testo Nuovi sistemi nell’arte che segna l’inizio della radicalizzazione del suo pensiero. Il Suprematismo si presenterà ormai come la teorizzazione globale dell’attività umana e come modello per la costruzione di un nuovo mondo. La forte personalità di Malevi/ getta lo scompiglio in seno alla scuola e fa esplodere violente polemiche fra i suoi allievi e i sostenitori di Chagall. Alla naturale antipatia fra due uomini diversi per temperamento, cultura, religione7, si aggiunge il conflitto di ordine estetico che si nasconde dietro alla lotta per il potere. Per Chagall, che a Parigi non aveva ceduto al fascino delle illusioni cubiste («mangino pure le loro pere quadrate

sulle loro tavole triangolari!»), il Suprematismo non era altro che un realismo incapace di dar forma a quello spazio psichico che cercava di trascrivere mediante il colore. Malgrado l’impegno sociale che si esprime nella sua azione a Vitebsk, la pittura rimane uno stato d’animo, un’avventura straordinaria, e l’impegno sociale un dono di sé. Perciò si sente tradito quando, essendosi allontanato per andare a chieder fondi al ministero, al suo ritorno a Vitebsk trova sul frontone della sua scuola la scritta – al posto delle parole «Accademia Libera» – «Accademia Suprematista» che proclama la vittoria di Malevi/. Profondamente ferito, Chagall dà le dimissioni da direttore della scuola e parte per Mosca. Da questo momento prenderà le distanze dal movimento rivoluzionario. Del resto la storia si sarebbe ben presto incaricata di togliergli le ultime illusioni: l’antisemitismo infatti rinasce subdolamente mentre ricominciano le estorsioni contro gli ebrei a opera della Ceka. Il totalitarismo staliniano si annuncia e, pian piano, si afferma. L’avvio della n.e.p. (Nuova Politica Economica) attribuisce ormai all’arte dei fini politici. Il messaggio estetico perde la sua autonomia per mettersi al servizio dell’ideologia dominante. Nella storia personale di Chagall l’esperienza rivoluzionaria ha avuto dunque un’importanza fondamentale ed egli vi si impegnò sia come protagonista sul piano sociale sia come creatore. Ma nel suo intimo deve aver capito che l’arte resta un’avventura straordinaria e che la sua verità consiste, in fin dei conti, in una ribellione a tutto ciò che è diverso da lei. Rivoluzione politica e rivoluzione artistica non fanno parte dello stesso ordine. Il quadro appare allora come la risposta di Chagall al confuso balbettìo della storia che si ripresenta in questi avvenimenti. Mai l’espressione «periodo fra le due guerre» fu usato così a proposito. L’ascesa del partito nazista, la vittoria del Fronte Popolare, la guerra civile spagnola pesano sulla coscienza morale dell’avanguardia intellettuale e artistica del tempo. Lo scontro ideologico spinge persino alcuni – per esempio Malraux – a prendere parte alla lotta repubblicana. L’assillo del presente chiama di fatto all’impegno politico più totale. Si prepara un tempo di inquietudini, di orrori, e Chagall se ne è reso conto in Polonia da dove rientra. Il pittore ne ha il presentimento e, malgrado il sollievo interiore che gli viene dalla cittadinanza francese appena ottenuta, l’inquietudine risorge in lui. Gli basta ricordare. A questo punto è possibile proporre una prima interpretazione.

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Nel 1937, Rivoluzione è prima di tutto una testimonianza. Chagall rende testimonianza di un momento storico, a cui ha preso parte personalmente, di fronte a tutti quelli che non l’hanno vissuto in prima persona. La folla che avanza, i fucili puntati, le bandiere al vento, gli oggetti dell’intimità quotidiana – samovar, orologio – buttati per terra sono altrettante cose viste. Il pittore usa il pennello come una macchina fotografica e ci mostra la realtà di scene violente colte dal vivo. La pittura diventa «pittura di storia» e Lenin è l’attore principale. Ma questo attore è un funambolo che si tiene in equilibrio instabile su una mano. Se non proprio grottesca, la posa è ironica. La testimonianza non diventa allora ammonimento, forse anche messa in guardia? A questo punto essa ha lo stesso valore esemplare di una dimostrazione. Tutto ciò porterà Chagall, nel 1943, a tagliare Rivoluzione. Resistenza, Resurrezione, Liberazione, nate dal quadro originario, esprimeranno i sentimenti più profondi dell’artista di fronte all’evento della Rivoluzione e costruiranno un nuovo discorso pittorico.

Chagall modificherà Rivoluzione durante il soggiorno negli Stati Uniti. L’opera, di fatto, sembra accompagnare la storia. La guerra, la disfatta francese che Chagall vive con profondo dolore, l’occupazione tedesca, le danno una nuova dimensione. Nel 1940, in occasione dell’apertura della Galleria Mai, Yvonne Zervos la espone ma col titolo anodino di Composizione, cambiamento che rivela le minacce che cominciano a pesare sull’autore. L’artista è costretto a lasciare Parigi dapprima per Saint Dyé sur Loire, poi per Gordes, un paesino del Lubéron in cui resterà per un anno lavorando senza sosta a una serie di opere intrise della luce della Provenza. Egli infatti si sente protetto dalla cittadinanza francese ottenuta nel 1937, al sicuro dalla minaccia nazista che, invece, si ripresenta. Come se il destino del pittore lo spingesse a realizzarsi in esilio, ancora una volta è costretto a partire. Si arrende alle ragioni della moglie Bella, della figlia Ida e del Console degli Stati Uniti a Marsiglia e, il 23 giugno 1941, Chagall e Bella arrivano a New York. Tutto quanto è nel suo atelier, quadri, disegni, incisioni, schizzi, lo segue. A New York l’artista ritrova l’atmosfera fervida che aveva già conosciuto a Berlino nel 1922, in un ambiente artistico e intellettuale in cui si me-

scolano pittori come Fernand Léger, Max Ernst, Yves Tanguy, scultori come Lipchitz, Archipenko, Zadkine, scrittori e poeti come André Breton. Gli amici Jacques e Raissa Maritain, Lionello Venturi, leniscono la ferita dell’esilio. Pierre Matisse, il figlio del pittore, organizza le prime mostre nella sua galleria e in breve i collezionisti americani sono conquistati. Il periodo americano, dal 1941 al 1948, costituisce una nuova tappa della vita di Chagall, che sarà segnata dolorosamente dall’esilio e dalla morte di Bella, nel 1944. Tuttavia l’opera, nutrita delle speranze e dei dolori del pittore, diverrà ancora più feconda. A partire dal 1942, Chagall ritrova l’emozione del lavoro collettivo. Accetta infatti di realizzare le scene e i costumi del balletto Aleko che il «Ballet Theater» di New York ha intenzione di mettere in scena. Il soggetto deriva da una novella di Puykin, Gli zingari. La musica è di \iaikovskij e la coreografia è affidata a Léonide Massine. Il pittore lavora con entusiasmo; Aleko gli permette di riallacciare i legami con la patria perduta. Il testo di Puykin, la musica di \iaikovskij, la coreografia di Massine, sono un’evocazione della terra natia. Chagall ritrova la Russia. Il lavoro creativo, condotto in stretta collaborazione con Massine, lo fa rinascere e il suo colore sposa la musica e il movimento fluido della danza. «Pittura e coreografia furono concepite come un tutto unico», ricorda Franz Meyer. Aleko fu rappresentato a Città del Messico il 2 settembre 1942 ed ebbe un’accoglienza trionfale. Lo splendore luminoso delle scene e dei costumi rinnovava quello di alcune opere dipinte a Gordes. Ma la felicità di una patria ritrovata nella fantasia e nell’arte non nasconde affatto la realtà presente. La guerra sconvolge la Russia. Chagall ha presenti alla memoria, come altrettante stigmate, le immagini di incendi devastanti e di villaggi distrutti; ma il ricordo si fa attualità nei resoconti dei giornali e, soprattutto, in quelli di Michoels. L’attore ebreo, legato al pittore da una lunga amicizia che risaliva ai tempi della collaborazione al Teatro Ebraico di Mosca nel 1920, è infatti a New York inviato dal governo sovietico per una missione informativa. L’artista ritrova il vecchio amico che morirà in circostanze misteriose al suo rientro in Russia. Lunghe conversazioni riuniscono i due uomini e, attraverso Michoels e la sua testimonianza diretta, Chagall vive le sventure della sua terra natale, le sventure del suo popolo. Queste sofferenze, questo martirio subito ingiustamente, si manifestano come un grido di ribellione nella violenza dei rossi e dei gialli di Ossessione e Guerra, o nelle ombre di Villaggio in fiamme. I tre quadri sono realizzati nel 1943, nello stesso anno in cui il pittore riprende Rivoluzione.

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IL TRITTICO: STORIA DELL’OPERA


Come era già successo per La caduta dell’Angelo, una prima versione della quale, eseguita nel 1923, era stata rimaneggiata nel 1933 e aveva raggiunto il suo aspetto definitivo nel 1947, il pittore si appresta a modificare la grande composizione. Nuove emozioni, nate da prove personali e collettive, lo spingono verso un diverso discorso pittorico. Il quadro è latore di significati reconditi, che in un certo senso erano impliciti nel suo stesso divenire. Una duplice dimensione temporale, quella della storia personale dell’autore e quella della storia del quadro, si inserisce a questo punto nella vita del dipinto e del pittore. Chagall usa un linguaggio figurativo che si sviluppa partendo da modifiche della struttura. Così taglia gli Arlecchini, la cui primitiva ispirazione è da ricercare nell’Introduzione al Teatro Ebraico. Da quest’opera, realizzata nel 1933, avranno origine, nel 1945, A mia moglie e Intorno a Lei, opere dedicate alla memoria di Bella, morta nel 1944. Così taglia anche Rivoluzione e, da questo momento, i tre pannelli saranno realizzati separatamente. Quello sinistro e quello centrale, Resistenza e Resurrezione, saranno terminati entrambi nel 1948, quello destro, Liberazione, sarà invece portato a termine nel 1952, dopo il ritorno in Francia.

Consideriamo Resistenza, Resurrezione, Liberazione, come un tutto unico. La comune origine, l’abbiamo visto, ne autorizza l’analisi nell’ordine di successione che abbiamo indicato. La constatazione che subito balza agli occhi è che lo smembramento in tre parti del quadro originario Rivoluzione ha prima di tutto modificato la struttura dell’insieme. Del resto, le linee di cesura seguite dal pittore sono facilmente riconoscibili. Così la parte sinistra di Rivoluzione è diventata Resistenza, quella centrale in cui il rabbino e Lenin erano i personaggi principali è diventata Resurrezione, e la destra, in cui al centro della superficie si trova la forma circolare, è diventata Liberazione. Ma la modifica di struttura ha avuto come conseguenza una modifica di formato in cui si troverà coinvolta ciascuna unità pittorica. Il quadro originario, infatti, si sviluppava secondo un andamento orizzontale, mentre i tre pannelli sono costruiti all’interno di un formato verticale. Perciò si è indotti a una duplice lettura: la prima, in successione, recupera il percorso primitivo da sinistra a destra; la seconda, simultanea, considera ogni opera dall’alto in basso e dal basso in alto.

Le due letture sono chiamate a combinarsi soprattutto per quanto riguarda i primi due quadri, Resistenza e Resurrezione. La composizione originaria si percepisce infatti chiaramente: si riconosce la curva ascendente che, in Rivoluzione, delimitava la zona bianca che si apriva nella parte centrale, e che ora segue la sommità delle casette di contadini che si trovano nella zona inferiore di Resistenza; e questa curva, sottolineata di scuro, continua in Resurrezione. I due pannelli ricalcano la costruzione in diagonale che organizzava le parti sinistra e centrale di Rivoluzione secondo due triangoli complementari. Ma lo schema della rappresentazione è sconvolto. Compare una nuova figura, che andrà assumendo importanza sempre maggiore, la quale collega i primi due pannelli mentre lascia libero l’ultimo. Tanto in Resistenza quanto in Resurrezione il suo ruolo è fondamentale. È, questa, la figura di Cristo (tav. 36 e tav. 41), che Chagall utilizza come asse mediano in entrambi i dipinti. La composizione generale, disposta in ciascun quadro secondo la diagonale, acquista perciò una verticalità che attenua la dinamica spaziale introdotta dalla diagonale stessa. Quest’ultima determina la struttura dello sfondo mentre l’immagine di Cristo, che polarizza l’attenzione in Resistenza e invade completamente la tela in Resurrezione, ne rivela il significato. La crescente importanza che questa figura assume nei due quadri non si limita alla sua evidente monumentalità in Resurrezione: infatti fra i due pannelli si stabilisce un gioco sottile di linee di fuga che lega le immagini separate del Cristo di Resistenza e del rabbino e del Cristo in Resurrezione. L’occhio dello spettatore si porta istintivamente sulla prima che si colloca pressappoco al centro della composizione e vede, come se apparisse in primissimo piano, il volto del Crocifisso (tav. 36). Chagall ce lo presenta di profilo, col capo leggermente reclinato e gli occhi chiusi. Se, a partire da questi ultimi, tracciassimo un asse immaginario, saremmo condotti al gruppo che sta in basso a destra nel quadro successivo. Qui una donna stringe al seno un bambino e alza il braccio destro in un gesto di supplica (tav. 38). La dominante cromatica, un blu notte reso quasi violento dal rosso fiammeggiante della capigliatura, mette in evidenza un atteggiamento il cui patetismo ci colpisce profondamente. Sembra che questa donna, questa madre, invochi sia il rabbino che il suo sguardo incontra sia il Cristo immenso ai piedi del quale ella si trova. La figura del rabbino si lega allora a quella del Cristo e noi la riconosciamo: in Rivoluzione si appoggiava al tavolo centrale, simbolo di una

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UN QUADRO, TRE SCOMPARTI


stabilità della quale partecipava. Qui, si chiude ancor più sulla Torah come se l’artista volesse sottolineare con forza la sacralità di quest’ultima (tav. 37). È noto come l’universo personale di Chagall sia popolato di vegliardi in preghiera che la figura del rabbino innalza alla dimensione del tipo. Tutta una filiazione figurativa prende forma dal periodo russo fino al 1933. L’Ebreo in rosso (1914), L’Ebreo in verde (1914), L’Ebreo in preghiera (1914), Giorno di festa (1914), i disegni destinati a illustrare i versi di Lessin Abrahm Walt (1931) e Solitudine (1933), preannunciano le figure di rabbini di Rivoluzione e Resurrezione e incarnano in modo evidente la pienezza e la continuità della Legge d’Israele. Ma in Resurrezione Chagall ne rinnova il significato. Anche qui, come in Solitudine e in Rivoluzione, il rabbino è immerso in una profonda meditazione, ma la figura, non più con gli occhi chiusi bensì grandi e spalancati, interroga lo spettatore. La bocca sembra lasciarsi sfuggire un grido, un gemito, e invita a un esame globale dei due quadri. Il rabbino solitario infatti trova quasi un’eco che lo preannuncia in Resistenza. Lo sfondo del primo quadro è popolato da una folla in cui la maggior parte dei personaggi in rivolta di Rivoluzione ha lasciato il posto alle immagini patetiche di un popolo in fuga: uomini e donne, vecchi, coppie, madri, tutti sono degli erranti. Ma da che cosa fuggono? Quale cieco destino perseguita questi volti che, illuminati da un bagliore giallo e rosso, emergono dalla materia pittorica stessa? Resurrezione ci dà gli elementi per rispondere. I primi due scomparti del «trittico», Resistenza e Resurrezione, sono concepiti secondo un unico schema spaziale in diagonale derivato da Rivoluzione. Tuttavia l’insieme dei tre quadri, compreso Liberazione, irradia una pienezza intrinseca nonostante quest’ultimo non sembri in rapporto diretto con gli altri. C’è una figura, infatti, che sul piano formale unisce le tre diverse opere: quella di Cristo. In Resistenza essa è al centro del quadro. In Resurrezione occupa lo spazio con la sua monumentalità verticale. In Liberazione la si avverte, quasi un riferimento discreto ma carico di significato, inscritta nell’angolo in alto a sinistra del quadro (tav. 19). In virtù di quest’immagine l’opera forma un tutto unico di cui, ormai, è più facile decifrare il messaggio. Il Cristo ha preso il posto di Lenin e la sostituzione, voluta, sottolineata da Chagall con le trasformazioni figurative e formali messe in atto su Rivoluzione, testimonia il cammino interiore percorso dall’artista e come egli prenda le distanze di fronte alla rivoluzione sovietica.

La figura di Cristo non è estranea all’opera del pittore ma, fin dai primi anni parigini, Golgota (1912) mette in evidenza la caratteristica del processo creativo di Chagall che attinge alla tradizione religiosa giudaico-cristiana per elaborare un linguaggio personale il cui simbolismo vuole essere universale. Il Cristo assilla il pittore ogni volta che la Storia gli ricorda il destino singolare del popolo ebraico. Nel 1938, la Crocifissione bianca esprime tutta la tragicità di una condizione segnata dalla sofferenza e dal martirio. Intorno al Crocifisso che indossa il talèd rituale, un villaggio devastato, una sinagoga profanata e incendiata, i libri sacri gettati a terra, uomini che fuggono, una donna che protegge il suo bambino. Una banda armata, bandiera in testa, avanza a sinistra. Ai piedi della croce splende la Menorah, il candelabro a sette bracci. Queste immagini che si susseguono, questi schemi pittorici, circondano la figura centrale e le danno quella pienezza di significato che troverà piena espressione, nel 1943, nella Crocifissione gialla. Così ritroviamo in Resistenza e in Resurrezione i segni visivi che si riconoscono nella Crocifissione bianca, il villaggio in fiamme (tav. 16), sul quale sembra vegliare l’asino, questo animale simbolo di innocenza; i pii vegliardi che fuggono; gli uomini in armi che avanzano tra i bagliori di un incendio; spettacolo di tumulto e di violenza alcuni particolari del quale potrebbero sembrare ambigui: la torcia brandita dallo sconosciuto col berretto (tav. 42) rappresenta un barlume di speranza o il fuoco del pogrom? Ma a un attento esame l’ambiguità d’interpretazione scompare. La presenza solenne e dolente di questo Cristo dal volto semita è messa in evidenza dalla lampada (tav. 43), la cui rotondità corrisponde a quella del ventre del Crocifisso. Qui troviamo espressa tutta la simbologia della circolarità, immagine primordiale che evoca il cuore stesso della vita, e il centro del mondo. Come l’orologio gettato a terra in Resurrezione, come il tavolo di Rivoluzione, la lampada racchiude in sé l’universo dell’intimità della persona poiché, per ogni ebreo, è legata al tempo della preghiera che riunisce ogni sera i membri della comunità familiare. Immagine-ricordo, ma al tempo stesso immagine straordinaria di cui Chagall sottolinea la dolce sacralità con un alone giallo. A questo punto i primi due scomparti del trittico acquistano una sconvolgente unità: il tragico destino degli ebrei si esprime nella sua attualità e, insieme, nella sua atemporalità e Cristo, vestito del talèd e dei filatteri rituali, ne è veramente l’incarnazione. È l’essenza stessa della persecuzione che si manifesta in quest’immagine: Cristo, in quanto ebreo, è martire da tutta l’eternità. La pittura si è trasformata in

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discorso, ma la volontà di dimostrare utilizza essenzialmente dei mezzi d’espressione di carattere figurativo. Abbiamo visto come la costruzione spaziale dei primi due quadri, Resistenza e Resurrezione li legasse in una lettura comune; anche le scelte formali e cromatiche sottolineano questa intenzione. I rossi e i gialli delle zone superiori dei due pannelli contrastano coi colori freddi – blu e verde – di quelle inferiori. Al tumulto e al clamore degli avvenimenti della storia si contrappone il tempo immobile della meditazione e della preghiera. L’ingrandimento eccessivo, deformante, della figura di Cristo in Resurrezione, lo indica come immagine princeps. È l’archetipo emblematico, mentre quello di Resistenza, inserito nella trama pittorica, nella scena rappresentata nel dipinto, vi partecipa come attore. Si mette dunque in moto un meccanismo di esaltazione scenografica ulteriormente accentuato dall’invenzione figurativa dell’animale che, in alto a sinistra di Resistenza, vola portando una torcia (tav. 35). Identificarlo è difficile dal momento che il «bestiario» di Chagall rifiuta la rappresentazione realistica e l’animale, pur fondamentale, resta sempre un ibrido in quanto acquista una funzione simbolica dalla quale deriva di volta in volta la sua fisionomia all’interno dell’opera. Qui, sembra che voli sopra Resistenza verso Resurrezione. L’aggiunta di questa figura nella composizione del quadro può meravigliare, tanto più che esso pullula di personaggi e un motivo supplementare potrebbe sembrare inutile, se non conoscessimo la tendenza del pittore a riempire lo spazio della tela. Tuttavia il motivo ha qui una sua logica precisa: essendo luminoso, rischiara e rivela, volando, attraversa lo spazio e annuncia.

A questo punto della nostra analisi ci possiamo chiedere: è legittimo chiamare trittico questa serie di tre quadri, nati da un’unica composizione originaria? È giustificato l’impiego, per ragioni di analogia, di un termine specifico del linguaggio dell’arredo religioso medievale per definire un insieme tripartito realizzato nel xx secolo? Tanto più che l’esame condotto fin qui prova che la sequenza di dipinti che ci viene proposta si sviluppa invece in due momenti d’intensità espressiva uguale e complementare. Sembra che il «trittico» si comporti come un «dittico» e il terzo scomparto come un’unità

autonoma. Fin dalla prima occhiata infatti Liberazione si differenzia da Resistenza e da Resurrezione tanto per la composizione quanto per i motivi iconografici, la loro organizzazione spaziale e la tonalità cromatica generale. L’opera, che ha lo stesso formato verticale delle precedenti, segue uno schema figurativo completamente diverso che, però, era già in Rivoluzione. Ma vi si notano subito alcune sottili differenze, così che le varianti formali introdotte da Chagall in questa seconda versione ne modificheranno notevolmente il significato. La parte centrale del quadro è sempre dominata dalla forma circolare già presente in Rivoluzione, e questa circolarità è ulteriormente sottolineata dal punto centrale messo in evidenza da un rosso violento. Al bordo della circonferenza si riconoscono i saltimbanchi cari a Chagall: musici, danzatori, acrobati, che seguono come un fregio danzante il cerchio esterno. Dal punto centrale si drizza la figura di un violinista chino sul suo strumento e, nella zona inferiore, ritroviamo la casetta di legno sul tetto della quale sta distesa una coppia di giovani sposi. Nell’insieme, i personaggi sono rimasti identici alla situazione iniziale, però sono cambiati i loro atteggiamenti: lo sposo si volge verso la sposa, il violinista si è alzato in piedi. Ci sono stati dei cambiamenti anche nell’abbigliamento (la sposa indossa l’abito col velo bianco), o in qualche elemento accessorio (il violino ha preso il posto di una specie di clarinetto). Compaiono delle bandiere rosse mentre la luce familiare si è spostata nel pannello precedente. Gli effetti plastici sono più sicuri: il movimento rotatorio provocato dalla forma circolare che domina la composizione acquista maggior forza dalla nuova verticalità assunta dal personaggio del violinista che Chagall usa come l’asse di una trottola e, di conseguenza, crea un effetto ottico che suggerisce la rotazione. La suprema disinvoltura con cui l’artista riprende uno dei temi principali della sua pittura, basta da sola a fare di Liberazione un’opera sfolgorante e compiuta. Del resto, Chagall porterà a termine il quadro al suo rientro in Francia, proprio nello stesso periodo in cui lavora ad altri vecchi dipinti. L’ampiezza compositiva di Liberazione sembra rinnovare con una maggiore ricchezza figurativa quella di Sole rosso, realizzato nel 1949, che svolgeva anch’esso il tema della coppia secondo ritmi concentrici. Se, infatti, la forma per Chagall si fonda essenzialmente sul colore, essa trova qui una profondità nuova che si nutre del moltiplicarsi dei

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UN TRITTICO?


motivi inseriti all’interno dello spazio dipinto. L’ordine che apparentemente lega l’una all’altra le figure nasce da un «profondo» della pittura che l’ingrandimento del particolare fa emergere con chiarezza. Allora nuove immagini diventano improvvisamente visibili. Il dipinto si lascia lentamente penetrare da un movimento introspettivo che conduce lo sguardo al cuore del suo stesso essere, che svela al vedere la trama segreta dell’invisibile. I rapporti che all’inizio avevano legato fra loro i diversi schemi figurativi lasciano il posto a combinazioni più complesse e una nuova interpretazione viene a sostituirsi a quel significato immediato che si credeva definitivamente acquisito. Così il tema del candeliere il più delle volte si collega a quello della coppia ed evoca l’idea del matrimonio (tav. 44). Qui è per di più associato a quello dell’occhio. Occhio impercettibile, nascosto nella materia pittorica, occhio che guarda lo spettatore e il dipinto, occhio che rivela la dimensione mitica del tema stesso. Del resto quest’occhio non è forse quello stesso che il pittore posa sul mondo – mondo da dipingere – da imprigionare nella trama serrata del rappresentato? Esso è l’elemento attraverso cui la pittura prende coscienza di se stessa, tema figurativo di cui si può seguire la straordinaria fortuna lungo tutta la storia di un’arte che si è giustamente fondata sui princìpi fisici della visione. Perciò sorprende meno che, dal cuore stesso della pittura, l’occhio dell’artista, nella sua onniveggenza e onnipotenza, chiami alla realtà del dipinto le figure primordiali della sua arte: quella della madre; della città natale in cui passa l’ombra di un ebreo col berretto (tav. 40); quella del pittore a sua volta crocifisso, aggrappato alla tavolozza, riverso a terra sotto il peso delle sue visioni. Fantasmi della pittura o pittura di fantasmi, queste figure sono, in realtà, quelle su cui si basa l’opera di Chagall: come immagini subliminali la assillano perché ne sono il fondamento. E il pittore, anch’egli ombra nella pittura, nascosto dietro il fluire delle sue visioni, ma padrone delle sue stesse immagini, ne è l’araldo medianico. Il progressivo evolversi delle tre opere fa emergere allora una tensione fra il livello del tempo della storia e quello dell’atemporalità. In questa prospettiva Liberazione, malgrado una certa autonomia figurativa, può essere considerato come il terzo scomparto del trittico. Bisogna però notare che gli effetti narrativi, ancora presenti in Resistenza e Resurrezione, sono scomparsi del tutto in Liberazione. La progressione del racconto termina allora in una visione sovratemporale che conclude un discorso figurativo sul valore dell’eternità.

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UN SECONDO SIGNIFICATO... Il trittico dunque potrebbe benissimo essere considerato in quanto tale ed essere paragonato per analogia a quelle opere medievali che si propongono la rappresentazione del sacro. Come queste infatti svolge il racconto di un dramma umano per suggerire poi ciò che ne costituisce il fondamento nella verità. Il contrasto che nasce fra l’ordine del tempo – e della storia – e quello dell’atemporalità, ne è il significato profondo. L’uso di sfondi monocromi, in particolare il fondo giallo di Liberazione, rende l’immagine irreale creando uno spazio particolare che dà sacralità alle figure. E così per il Cristo e il rabbino di Resurrezione come pure per i saltimbanchi e gli innamorati di Liberazione. Il rapporto che si stabilisce a questo punto fra lo spettatore e il trittico è un rapporto di contemplazione e, al tempo stesso, un percorso. Se l’occhio deve assoggettarsi allo svolgersi del racconto e seguire il succedersi dei tre momenti dell’opera, si rende conto anche dell’unità dell’insieme. Si realizza così un sottile capovolgimento di valore che riporta una dimensione religiosa nel cuore stesso di un dipinto profano. Il trittico, realizzato nel xx secolo, perde la sua caratteristica di oggetto da esposizione per ritrovare quel valore cultuale che aveva in origine. Invece di portare a una riduzione del significato dell’opera, la suddivisione in tre parti ne produce un rafforzamento sottraendola alla pittura di storia per farla entrare nella storia della pittura. Rifacendosi espressamente alla tradizione degli arredi medievali, le tre opere, Resistenza, Resurrezione, Liberazione, invitano a una nuova interpretazione che potrebbe essere giustificata dallo stesso interrogarsi circa la funzione dell’insieme. Come i suoi modelli medievali, il trittico ha un valore esemplare: è dunque possibile utilizzarlo come un’immagine sacra che invita alla meditazione. La realtà storica rappresentata rivela allora quest’altro livello di comprensione che le conferisce valore eterno. Mobile, lo sguardo si arresta per inoltrarsi ormai nel tempo immobile della preghiera.

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LA RIVOLUZIONE

29. Bozzetto per l’opera La rivoluzione, 1936-37, inchiostro, grafite e sfocatura su carta vergata filigranata, 27,7 × 42,2 cm.


resistenza, resurrezione, liberazione

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30. Schizzo per l’opera La rivoluzione, 1937, olio su tela, 49,7 × 100,2 cm.

31. Resistenza, 1937-48, olio su tela di lino, 168 × 103 cm (tavola a destra); Resurrezione, 1937-48, olio su tela di lino, 168,3 × 107,7 cm; Liberazione, 1937-52, olio su tela di lino, 168 × 88 cm.


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32. Resistenza, 1937-48, olio su tela di lino, 168 Ă— 103 cm (tavola a destra).


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33. Resurrezione, 1937-48, olio su tela di lino, 168,3 Ă— 107,7 cm.


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34. Liberazione, 1937-52, olio su tela di lino, 168 Ă— 88 cm.


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35. Resistenza: «[...] l’invenzione figurativa dell’animale che vola portando una torcia... Il motivo ha qui una sua logica precisa: essendo luminoso, rischiara e rivela volando, attraversa lo spazio e annuncia».

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36. Resistenza: ÂŤIl volto del Crocifisso, Chagall lo presenta di profilo, col capo leggermente reclinato e gli occhi chiusi; se, a partire da questi utlimi, tracciassimo un asse immaginario, saremmo condotti al gruppo che sta in basso a destra del quadro successivo, Resurrezione, dove la donna stringe al seno il bambino e alza il braccio destro in segno supplicaÂť.

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37. Resurrezione: «La figura del rabbino si lega allora a quella del Cristo e noi la riconosciamo: in Rivoluzione si appoggia al tavolo, simbolo di una stabilità della quale partecipava. Il rabbino è immerso in una profonda meditazione, ma la figura non ha più gli occhi chiusi, bensì grandi e spalancati e interroga lo spettatore».


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38. Resurrezione: ÂŤQui la donna che stringe al seno il bambino e alza il braccio destro in segno supplicaÂť.

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39. Resistenza, memoria sponsale illuminante in tempi drammatici.

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40. Resistenza: «I vegliardi fuggono». «Quale cieco destino perseguita questi volti, che illuminati da un bagliore giallo e rosso emergono dalla materia pittorica stessa?»

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41. Resurrezione: La presenza dolente di questo Cristo dal volto semita è messa in evidenza dalla lampada.

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42. Resurrezione: ÂŤLa torcia brandita dallo sconosciuto col berretto rappresenta il barlume di speranza o il fuoco del pogromÂť.

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43. Resurrezione: la lampada, ÂŤla cui rotonditĂ corrisponde al quella del ventre di CristoÂť.

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44. Liberazione: il candelabro, ÂŤil tema si collega il piĂš delle volte a quello della coppia ed evoca il matrimonioÂť.

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45. Liberazione: «la liberazione si avverte, quasi un riferimento discreto, ma carico di sginificato, inscritto nell’angolo in alto a sinistra del quadro. In virtù di questa immagine un tutt’uno di cui ormai è più facile decifrare il messaggio».

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46. Liberazione, la coppa festosa legata al matrimonio.

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47. Resistenza, la città natale dell’artista.

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48. Resurrezione: il villaggio in fiamme sul quale sembra vegliare l’asino, simbolo di innocenza.

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49. Liberazione: «l’occhio dell’artista chiama qui alla realtà del dipinto la figura della propria madre, quale elemento primordiale della propria arte».

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TERZA PARTE

LA SCENA


T

ra gli aspetti ancora poco conosciuti dell’arte di Marc Chagall vi sono i suoi lavori per la scena. La mostra Chagall et le théâtre organizzata a Tolosa nel 19671 fu senza dubbio pionieristica in questo campo, mettendo in evidenza in modo assai pertinente un’intera concezione dello spazio scenico elaborata dal pittore e riconoscibile attraverso le opere presentate. Il libro di Jacques Lassaigne Marc Chagall le Ballet2 e quello di Emily Genauer Chagall at the Met3 hanno successivamente integrato l’opera di Frantz Meyer4, che dedicò un importante capitolo alle opere per la scena. Infine, la ripresa degli studi russi, il lavoro di Aleksandr Kamensky5 e la recente scoperta dei grandi pannelli dell’Introduzione al Teatro Ebraico, hanno fornito ulteriori elementi per una riflessione su questo tema. Felici sono inoltre le scelte operate per questa mostra, che propongono al pubblico messicano una selezione tanto brillante quanto significativa. Per la prima volta infatti si trovano riuniti gli schizzi per il teatro ebraico, i bozzetti per le scenografie de L’Ispettore generale di Gogol’ e del Furfantello dell’Ovest di Synge, quelli per Il flauto magico di Mozart, nonché gli acquerelli e i costumi dell’Uccello di fuoco, di Dafni e Cloe e soprattutto di Aleko. Una simile selezione di opere, collocate nella loro prospettiva cronologica, mette immediatamente in luce il ruolo del lavoro scenico condotto da Chagall nel contesto della sua opera. Evidente appare altresì la varietà, o piuttosto la complessità di tale lavoro: quali rapporti intrattiene con l’opera pittorica in sé, quali opzioni plastiche percorre, quale concezione dello spazio rivela? Ci sforzeremo qui, se non di rispondere a questi interrogativi sollevati dalla riflessione, almeno di tracciarne sommariamente lo sviluppo. Tale analisi è inevi-

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tabilmente destinata a rimanere parziale: un lavoro più approfondito richiederebbe infatti come premessa la determinazione del corpus completo e del catalogo ragionato delle opere, quale integrazione all’indispensabile documentazione d’archivio. La ricerca su Chagall deve inoltre scontare l’impossibilità di accedere alle fonti russe, agli appunti e alla corrispondenza intrattenuta dall’artista nel momento in cui si lanciò in un’avventura creativa in parte collettiva. L’irriducibilità di questo pittore ribelle a qualsiasi forma di categorizzazione rischierebbe altresì di scoraggiare l’indagine, se la biografia e La mia vita6 non intervenissero a fornire alcuni punti di riferimento e snodi essenziali. La narrazione autobiografica La mia vita, redatta in russo, fu pubblicata per la prima volta nella traduzione francese di Bella Chagall a Parigi nel 1931. Testimonianza preziosissima, questo testo – tenero, buffo, vivace – rivela, al di là dell’aneddoto, i temi fondamentali dell’opera e soprattutto la sua problematica. La mia vita mette infatti in luce non soltanto le circostanze storiche che accompagnarono il percorso creativo di Chagall, ma anche il percorso stesso – quella necessità impellente di dipingere che anima l’artista ponendolo sotto il segno di una manifesta predestinazione.

Chagall – è il caso di ricordarlo subito in questa sede – nasce in una famiglia ebraica di stretta osservanza, per la quale il divieto di riprodurre la figura umana ha la forza di un dogma. È arduo tentare di immaginare la carica trasgressiva, febbrile e implacabile che sospinge il giovane Chagall quando si avventa sulla rivista Niwa per copiarne il ritratto del compositore Rubinstein, se non si tiene conto del carattere dell’educazione ebraica tradizionale. Essenzialmente religiosa e soggetta alla legge storica del «popolo eletto», tale educazione riguarda esclusivamente la sfera della religione. La sua trasmissione, nell’ambito stesso della famiglia ebraica, è caratterizzata essenzialmente dall’oralità. Ogni preghiera, ogni racconto tratto dalla Torah o dal Talmud imposto al fedele è in forma salmodiata. Gli esercizi di lettura sono condotti a voce alta; la vita quotidiana scandita dal ritmo ripetitivo della pratica rituale risuona di canti, e il giorno dello shabbat di benedizioni solenni. Ogni casa ebraica è un luogo santificato da una liturgia della parola. Questa atmosfera familiare tende a soffocare l’immaginazione. Per di più, la famiglia di Chagall è di tradizione chassidica. Questa forma di pietà – hassid significa «pio» – privilegia il rapporto diretto tra l’in-

dividuo e Dio. Il dialogo che si instaura in tal modo tra il fedele e Yahweh ha luogo senza la mediazione dell’apparato rabbinico. Nasce direttamente dal rituale quotidiano e si sviluppa nell’esercizio della libertà individuale. Il chassidismo si sottrae quindi alla cultura dotta, al commento istituzionale della sinagoga. Storicamente è caratteristico delle comunità rurali russe e polacche, modellate sull’esempio di quel gruppo originale fondamentale per la società ebraica che è la famiglia. Ma per quanto ci riguarda, ciò che è più importante sottolineare nello specifico è che la manifestazione della pietà chassidica è mediata da una complessa gestualità – lungi dall’irrigidirsi in un codice di comportamento, la preghiera fiorisce nel canto, nel movimento e nella danza. «Mi ero offerto come aiuto del cantore e nei giorni delle grandi festività, la sinagoga intera e io stesso udivamo distintamente fluttuare la mia sonora voce da soprano. Sui volti dei fedeli coglievo sorrisi, attenzione, e sognavo: “Sarò cantante, cantore. Entrerò al Conservatorio”. Nel nostro cortile abitava anche un violinista. Non sapevo da dove venisse. Di giorno commesso in un negozio di ferramenta, la sera dava lezioni di violino. Anch’io strimpellavo qualcosa. E qualunque cosa suonassi, in qualunque modo, lui diceva sempre, battendo il ritmo con lo stivale: “Eccellente!” E io pensavo: “Sarò violinista, entrerò al Conservatorio”. A Lëzna, in tutte le case, parenti e vicini mi invitavano a danzare insieme a mia sorella. Ero carino, con la mia chioma riccioluta. Pensavo: “Sarò danzatore, entrerò...” – e non sapevo dire dove.7» Questo brano de La mia vita rievoca quell’emozione meravigliata che potrebbe aver costituito la prima esperienza estetica del giovane Chagall. Da queste esperienze d’infanzia sorgeranno, com’è noto, gli schemi pittorici del vocabolario plastico di Chagall. Ma come non cogliervi anche l’incontro con l’universo poetico della musica e della danza? Come non leggervi, quasi in filigrana, un intero patrimonio di fantasticherie e immagini destinate ad alimentare lo slancio dell’immaginazione di Chagall? Lo sguardo acuto del giovane artista si sofferma peraltro – nel 1907, durante i primi anni di apprendistato presso Pen – su un Ballo di matrimonio o su alcuni Musicanti di villaggio: il Ballo, un vivace schizzo tracciato a matita, ritrae il turbine della musica in cui si allacciano le coppie di ballerini. La distribuzione dei personaggi ha già un carattere teatrale. La scena è introdotta dai punti di fuga delle tavole del pavimento, che guidano lo sguardo verso i protagonisti riuniti sullo sfondo. I Musicanti, per contro, sono raggruppati in primo piano. L’acquerello si sviluppa intorno a loro, attraverso masse scure e chiare, e

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L’INFANZIA E L’APPRENDISTATO


pone l’enfasi sul movimento del violinista che sembra accompagnare la torsione del corpo del suo compagno. Questa prima esperienza di «teatralità» della pittura si completa a San Pietroburgo allorquando Chagall, non avendo più nulla da imparare da Pen, prende lezioni da Roerich e quindi da Bakst. La partenza per San Pietroburgo nel 1907, in compagnia dell’amico Viktor Mekler, assume significati particolari. Pur senza saperlo, Chagall si inserisce in una tradizione sorta nel Rinascimento, che ravvisa nel viaggio uno degli aspetti più importanti di qualunque apprendistato. Se dipingere è anche un mestiere – con buona pace delle rivolte romantiche, ancora agli albori del Novecento lo status dell’artista mantiene il peculiare carattere artigianale che lo caratterizzava nel Quattrocento – il riconoscimento sociale di questo status passa inevitabilmente attraverso la formazione accademica. San Pietroburgo è oltretutto la capitale intellettuale e artistica della Russia imperiale. Più della «continentale» Mosca, è una città la cui storia stessa è caratterizzata da una costante apertura all’Europa occidentale. Attraverso la sua architettura, il suo urbanesimo, le sue scuole e i suoi salotti, San Pietroburgo dispensa un alimento formale e intellettuale destinato ad arricchire il giovane provinciale. Nei suoi palazzi e nei suoi canali, nella luce trasparente del nord di cui osserva ogni minimo riflesso, Chagall scopre la magnificenza di una città che è scenario di se stessa. Come Venezia, San Pietroburgo è teatralità, universo di meraviglie e di illusioni. È presso Nikolaj Roerich (1874-1947), direttore della Società imperiale per la tutela delle Belle Arti, che Chagall va a cercare in primo luogo l’eccellenza pietroburghese. Roerich era allora un artista celebre e prestigioso. Collabora sin dagli esordi alla rivista Mir Iskusstva («Il mondo dell’arte») fondata nel 1898 da Aleksandr Benois e animata sino al 1904 da Sergej Djagilev. Il periodico e il gruppo di artisti che vi collaborano – Igor Grabar, Eugène Lanceray, Anna Ostroumova-Lebedeva, Ivan Bilibin, Mstislav Dobužinskij, Léon Bakst – svolgeranno un ruolo decisivo nel dibattito estetico generale che coinvolge la Russia durante il primo decennio del Novecento. Il simbolo della rivista, un’aquila del Nord disegnata da Bakst, sintetizza sul piano formale i suoi scopi: creare un’arte nuova, originale in quanto ispirata al patrimonio russo, ma aperta alle influenze dell’Occidente, e dunque in grado di far sorgere un vero e proprio Rinascimento in un paese che storicamente non lo ha conosciuto. «Il mondo dell’arte» prefigura un’estetica totalizzante. Erede in qualche misura delle teorie di Ruskin (che la rivista contribuisce a far conoscere), inserisce il simbolismo nel suo progetto e svolge indubbiamente

un’azione feconda. Roerich è tra i suoi principali artefici. La sua opera multiforme ha un ruolo tutt’altro che secondario nel rinnovamento delle arti decorative promosso da Mir Iskusstva. Nel 1908 Roerich è inoltre autore di numerose decorazioni per teatri e balletti – l’estetica de «Il mondo dell’arte» ha ormai pervaso gli ambienti teatrali imperiali. Nel 1909, su iniziativa di Djagilev con cui collaborerà sino al 1920, Roerich disegna le scene e i costumi delle Danses polovtsiennes – balletto che verrà eseguito a Parigi il 18 maggio 1909 con musiche di Borodin e coreografia di Michel Fokine. Il balletto riscuote un successo trionfale a Parigi. Scene e costumi attestano un’esplicita presa di posizione a favore del primitivismo che manifesta le preoccupazioni di Roerich. Questi, convinto slavofilo, si dedica come Kandinsky all’indagine etnografica, e nell’ambito del gruppo de «Il mondo dell’arte» si contrappone ai sostenitori dell’Occidente. Il dibattito più importante che caratterizza la storia intellettuale della Russia rimane infatti ai primi del Novecento quello che contrappone occidentalisti e slavofili. Nel 1909 la controversia assume un’ulteriore dimensione nella permanente e simbolica rivalità tra San Pietroburgo e Mosca. Un’altra rivista, fondata dal commerciante moscovita Nikolaj Rjabušinskij, prende il posto di Mir Iskusstva, i cui principali animatori hanno seguito Djagilev lasciando la Russia alla volta dell’Europa occidentale. Insieme ad Apollon, «Il vello d’oro» mantiene viva l’influenza del simbolismo russo e quella ricerca di un’arte sincretistica, totale che anima la maggior parte dei creativi dell’epoca. Rivendica innanzitutto la libertà di espressione artistica in nome di uno degli antichi miti fondativi della Russia ancestrale, incarnazione della Scizia favolosa che Blok canterà in una celebre poesia. Senza alcun dubbio, Chagall fu raggiunto a San Pietroburgo dagli echi delle numerose controversie che agitavano allora l’ambiente della pittura. Nondimeno, l’insegnamento di Roerich non si differenzia molto da quello di Pen. Si fonda infatti sul tedioso esercizio della copia, e delude profondamente Chagall. «Due anni sprecati in questa scuola», scrive con amarezza. Due anni che gli permettono tuttavia di incontrare il suo primo mecenate e collezionista, l’avvocato Goldberg di cui ritrarrà Il salotto e L’ufficio (1908), e soprattutto il suo futuro protettore, l’influente deputato alla Duma Max Vinaver. Grazie a Goldberg e a Vinaver, Chagall frequenta gli ambienti intellettuali ebraici che, con lo scrittore Pozner, il critico Sirkine e Leopold Sew, cognato di Vinaver, animano la rivista ebraica edita in lingua russa Voschod, «Risveglio». La presenza dell’intellighenzia ebraica nel dibattito critico dell’epoca è indiscutibile. La presa di coscienza di un’identità culturale specificamente ebraica, in gestazione in quel periodo, non esclude – tutt’altro – la

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volontà di muoversi in una nuova dimensione di universalità nazionale e internazionale. Voschod è lo strumento di questa azione, che fornisce un contributo ebraico alla decisiva riflessione condotta allora sul concetto di modernità. Oltre a fargli conoscere una cultura ebraica in via di laicizzazione, Vinaver e Sew apriranno a Chagall le porte della celebre scuola Zvanceva. L’istituto, privato, era stato fondato da una donna facoltosa, a sua volta pittrice, Elizaveta Nikolaevna Zvanceva, che dopo un soggiorno a Parigi aveva deciso di dare vita a una nuova forma di insegnamento in grado di fornire ai giovani pittori russi i mezzi tecnici di un’espressione risolutamente contemporanea, di cui erano privi. A San Pietroburgo Elizaveta si rivolge a coloro che sono considerati i migliori artisti dell’epoca – Mstislav Dobužinskij e soprattutto Léon (Lev) Bakst. Bakst si era fatto una reputazione a livello internazionale in particolare con la sua collaborazione con Djagilev. Ritrattista prestigioso, è anche illustratore e soprattutto brillante creatore di costumi e scenografie per il teatro e il balletto. Membro del gruppo di Mir Iskusstva, lavora per Djagilev e per le sue stelle – Fokine, la Pavlova, la Karsavina e Nižinskij. La sua fama è grande; Chagall la conosce e ne è profondamente colpito, sebbene l’«europeo» Bakst, come lo stesso Chagall, sia ebreo. L’ingresso alla scuola Zvanceva e l’incontro con Bakst sono vissuti da Chagall come un eccezionale privilegio. In un individuo a lui affine, l’artista si appresta ad andare in cerca di quella realtà ulteriore che intuisce, reca in sé e tenta di concretizzare con i soli strumenti della pittura. Nella libertà dell’insegnamento impartito da Bakst, Chagall elabora poco a poco il suo linguaggio, acquisisce la padronanza spaziale del colore, trova progressivamente uno stile. L’estetica simbolista e il suo manierismo decorativo non lo influenzano. Per contro, fa ben presto sua una delle esigenze del pittore, cioè «l’arte di giustapporre colori contrastanti equilibrandone l’influenza reciproca...»8. Le petit salon, risalente al 1908 e realizzato nel primo periodo del soggiorno presso Bakst, ne costituisce una dimostrazione. Su uno sfondo ricoperto da ampi tratti di un rosa delicato si staglia bruno l’arabesco degli oggetti – sedie, una mensola, un vaso di fiori. Le forme, leggere, danzano all’interno di uno spazio aereo che rigetta l’illusionismo della prospettiva. Benché non esplicitata, la profondità è suggerita dall’impiego di un verde chiaro che scava lo sfondo. In primo piano, la duplice curva dello schienale di una sedia e la porzione angolare di un tavolo creano, alla maniera di certi pastelli di Degas, un movimento che coinvolge l’intero spazio.

Il dipinto mostra una padronanza da esperto nell’uso dei colori. L’audacia virtuosa della composizione manifesta una disinvoltura che agisce sovrana all’interno del motivo stesso, benché il dipinto sia stato realizzato a Lëzna durante una permanenza a casa del nonno dell’artista. Malgrado il formato ridotto (22,5 × 29 cm), lo spazio interno della tela, quasi pulsando, trasporta lo sguardo al di là dei limiti del quadro. Le petit salon racchiude già, in embrione, i dipinti più importanti degli anni 1911-1914. Con una lungimiranza che può ancora oggi lasciare sorpresi, Chagall si pone nel 1909 l’interrogativo fondamentale che la pratica pittorica suscita in lui. Modalità di rappresentazione del visibile, la pittura non è dunque che una duplicazione di natura illusionistica della materialità del mondo? O non costituisce invece la modalità privilegiata di uno sguardo che va al di là delle apparenze, che ne stempera la realtà percettibile? Non è forse, come la poesia, una delle modalità con cui si rivela l’essere? Antico dibattito filosofico risalente a Platone, questo interrogativo è presente lungo tutta la storia della pittura. In Russia assumerà una dimensione fondamentalista che caratterizzerà le ricerche delle avanguardie russe, dalla Gon/arova a Malevi/. Ma Chagall si mantiene estraneo a qualsiasi teorizzazione dell’arte. Ha davvero incontrato, presso Bakst, Larionov e la Gon/arova – già lanciatisi nel 1909-1910 nell’avventura futurista? Non esistono testimonianze esplicite dell’epoca che lo confermino. Il pittore emergente, benché verosimilmente consapevole della vastità e dell’effervescente vitalità del giovane movimento artistico russo, opera in solitario. I temi del suo simbolismo personale nascono dalla sola esperienza interiore, dalla fantasticheria creatrice di immagini che accomuna pittura e poesia. È dalla pratica stessa della pittura, del lavoro condotto in un certo senso al centro della pittura, che nasceranno anche le opere destinate al palcoscenico. L’influenza di Bakst risulta quindi determinante nella misura in cui dà a Chagall la certezza rinnovata della sua vocazione profonda. Quando nella primavera del 1910 Bakst si appresta a raggiungere Djagilev a Parigi per la preparazione della seconda stagione dei Balletti Russi, Chagall sa di dover partire a sua volta.

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GLI ANNI PARIGINI Le circostanze storiche della partenza di Chagall per Parigi sono oggi ben note. L’avvocato Vinaver, suo protettore e mecenate, gli fornisce un contributo in cambio di una tela, Le nozze, e di un disegno. La somma fornita, 125 franchi, consentirà al giovane di trattenersi all’estero per


quattro anni. Vinaver, uomo di cultura classica, vorrebbe che Chagall partisse alla volta di Roma – ma Chagall opta per Parigi. L’attrazione artistica della capitale francese, veicolata da Mir Iskusstva, è indiscutibile e Chagall coglie nel segno: Parigi diverrà la sua «seconda Vitebsk». Inizialmente isolato nella sua stanzetta dell’impasse du Maine, Chagall incontra ben presto alla Ruche numerosi compatrioti attirati a loro volta dal prestigio di Parigi: Lipchitz, Zadkine, Archipenko, Soutine ricreano intorno al giovane pittore il profumo della terra d’origine. Sin dal suo arrivo, Chagall vuole «scoprire tutto». Ai suoi occhi meravigliati, la pittura si rivela così come uno spettacolo. Innanzitutto, la pittura dei musei. Al Louvre scopre Chardin, Fouquet, Rembrandt. «Era come se delle divinità si fossero fermate dinanzi a me», esclama9. Una pittura soltanto sognata a Vitebsk o a San Pietroburgo – pittura d’eternità in cui si legge l’eternità della pittura. E poi quella di un Courbet, di un Manet, di un Monet, i primi rivoluzionari dello sguardo. Il raffronto è decisivo per Chagall: «Il miglior realista russo offusca il realismo di Courbet. L’impressionismo russo più autentico lascia perplessi se lo si confronta con Monet o Pissaro»10. A Chagall si rivela tutta la dimensione storica, tutta la dimensione estetica e culturale della storia stessa della pittura. Questo decisivo apprendistato dello sguardo trova un’ulteriore dimensione in alcuni esercizi condotti alla Grande Chaumière e alla Palette, dove tiene banco Le Fauconnier, sposato con una russa. Nondimeno, è Parigi stessa, con la sua straordinaria «luce-libertà», a fornire a Chagall un vero e proprio nutrimento formale. L’artista, di fronte allo spettacolo della vita, è pervaso da una frenesia pittorica. Più tardi – con una di quelle formidabili intuizioni che gli sono proprie – André Breton la descriverà in questi termini: «La totale esplosione lirica risale al 1911. È da quel momento che la metafora, tramite lui soltanto, fa il suo ingresso trionfale nella pittura moderna»11. Da questo primo periodo parigino nascono infatti alcuni grandi capolavori: Alla Russia, agli asini e agli altri (1911-1912), Io e il villaggio (1911), Il Santo vetturino (1911-1912), Omaggio ad Apollinaire (19111912), Autoritratto con sette dita (1911-1912). Come non rimanere stupefatti, esaminando questa sequenza di opere, di fronte al miracolo della pittura di Chagall tra il 1911 e il 1914? Come non meravigliarsi dell’ostinata coerenza di un progetto creativo che, nell’incontro con il fauvismo e il cubismo, ne assimila la lezione allo scopo di rendersene ancor più autonomo? Che il colore e i suoi eccessi siano portatori di valori legati al sensibile, Chagall già lo intuisce. Ciò che ancora gli manca è la capacità di portare

il colore alle sue estreme conseguenze logiche, di utilizzarlo come una sonorità ricercata. Il pittore deve ai fauves, a Van Gogh, a Gauguin, a Matisse – che scopre presso Bernheim – l’incontro con l’assoluto del colore. A Cézanne e ai cubisti deve l’ossatura dei quadri da lui dipinti tra il 1911 e il 1914 e gli elementi costitutivi della sua grammatica plastica. Ma la sua peculiarità si sottrae a qualunque gabbia teorica. «Che si mangino pure le loro pere quadrate sulle loro tavole triangolari!»12, scrive con veemenza a proposito dei pittori cubisti. Creatore autentico, Chagall prende infatti in prestito dal cubismo – e da Delaunay – soltanto ciò che è utile alla sua visione personale. La pittura, per questo ribelle dell’arte, è innanzitutto lo slancio dell’immaginario. A tale riguardo, ci sembra opportuno analizzare un piccolo disegno che potrebbe simbolicamente introdurre il nostro tema – i rapporti tra l’opera pittorica e l’opera scenica in Chagall. È un ritratto di Nižinskij che risale al 1911. Chagall conosceva già il celebre ballerino dei Balletti Russi: non l’aveva forse incontrato presso lo stesso Bakst – figura attenta e goffa che si stava accostando alla pittura? La lettura de La mia vita non lascia spazio a dubbi sul fatto che Chagall abbia rivisto Bakst e Nižinskij nel 1911, quando Djagilev presenta la sua terza stagione parigina. L’incontro ha luogo proprio al Théâtre du Châtelet. «Arrivato a Parigi, sono andato al balletto di Djagilev per vedere Bakst e Nižinskij... Attraverso la porta aperta delle quinte, scorgo da lontano Bakst. Qualcosa di rosa e fulvo mi sorride con benevolenza. Arriva Nižinskij, che mi strattona prendendomi per le spalle. Ma subito si lancia verso il palcoscenico, dove lo attende la Karsavina: va in scena Le spectre de la rose.»13 Chagall assiste al debutto del balletto a Parigi, il 6 giugno 1911, al Théâtre du Châtelet, oppure a una replica? Una certa ambiguità del testo de La mia vita non consente di dare una risposta. Il disegno, per contro, è esplicito. Nižinskij è ritratto di spalle, con la testa leggermente ruotata verso destra e il braccio in posizione. È colto in movimento, come se si apprestasse a entrare in scena. L’intera posizione del corpo richiama una figura specifica del balletto, quella che precede il volo finale dello spettro dalla finestra. Le spectre de la rose, infatti, se da un lato rompe con il fulgore orientaleggiante che aveva fatto il successo di Djagilev nel 1909 (con Les danses polovtsiennes, Cléopâtre e soprattutto Schéhérazade e L’uccello di fuoco)14 per riallacciarsi alla tradizione romantica, consacra dall’altro la personalità fuori del comune di Nižinskij. Il balletto di Jean-Louis Vauvoyer, ispirato a una poesia di Théophile Gauthier, narra la vicenda di una

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fanciulla che, di ritorno dal ballo, si addormenta su una poltrona con le finestre aperte. Ha in mano una rosa e sogna. Il fiore si tramuta in uno spirito innamorato che danza per lei per tutta la notte, per scomparire all’alba spiccando un balzo. I critici dell’epoca evidenziano l’efficacia della scenografia di Bakst (un salotto dalle alte volte a quadretti bianchi di ispirazione settecentesca), il fascino dei due protagonisti (la Karsavina e Nižinskij) e il lirismo della coreografia di Fokine, che, sulle musiche del celebre Invito alla danza di Carl Maria von Weber, orchestrate da Berlioz, valorizza magistralmente le doti dei danzatori. Ma sarà la straordinaria elevazione di Nižinskij, il suo eccezionale slancio – sembra sospeso nell’aria, raccontano i testimoni – a conferire al balletto la sua fama leggendaria. Il disegno di Chagall consente di ipotizzare che il pittore abbia effettivamente assistito al balletto. Nižinskij indossa il costume disegnato da Bakst – una calzamaglia cosparsa di petali di rosa, che fanno risaltare la stupefacente muscolatura del ballerino. Lo schizzo, rapido ma preciso, è circondato da un’incorniciatura ovale. Che si tratti di una rappresentazione del fascio di luce che segue sul palco gli attori e i danzatori? A nostro avviso, ciò confermerebbe la presenza effettiva di Chagall tra il pubblico de Le spectre de la rose, nonché la sua visione appassionata della danza come espressione compiuta del movimento nello spazio. L’opera inaugura tra l’altro una serie di disegni dedicati all’anatomia umana. Tra il 1911 e il 1914, infatti, Chagall realizza un’intera serie di Nudi. Eseguiti a matita, a penna e soprattutto a guazzo, i disegni riprendono dalla grammatica cubista una struttura interna che conferisce loro una dimensione monumentale e dà ai colori la loro energia barbarica. E sono soprattutto accomunati dalla ricerca di una messa in scena grafica del movimento. Il corpo, femminile o maschile, è colto nella sua torsione; le braccia, solitamente sollevate, sembrano trascinare il corpo in una rotazione su se stesso. È possibile che l’artista abbia trasposto nello spazio delimitato del foglio di carta il ricordo di alcune figure coreografiche? Se il Nudo con ventaglio, per esempio, è colto in una posizione allungata, nondimeno esso crea l’impressione che l’artista lo abbia colto nella fase finale di una piroetta, quando il ballerino o la ballerina si immobilizzano crollando al suolo, di fronte al pubblico, con il braccio levato, curvo al disopra della testa. Una figura successiva – un Nudo maschile risalente al 1913 – riprende, accentuandola, questa notazione gestuale che si ritrova anche nel Nudo del 1911. L’obiettivo plastico di Chagall in questa fase sembra dunque essere quello di fissare il corpo in movimento come se il movimento stesso alienasse la forma corporea.

Il Nudo con fiori del 1911 ne offre un’ulteriore conferma. Il corpo femminile, inquadrato da due alberi stilizzati alla maniera delle miniature medievali, è pura torsione. La figura, che poggia sulle punte dei piedi, sembra sospinta verso l’alto, in un’estensione che si prepara a dispiegarsi. Il movimento è colto nella sua origine – è pura energia. Questa cura appassionata per la trasposizione del movimento troverà il suo compimento monumentale nell’Omaggio ad Apollinaire. Sovente sono state sottolineati la grandezza misteriosa dell’opera, i suoi molteplici significati che ne fanno una sorta di summa mistica. Ci limiteremo qui a ritornare sui disegni preparatori, che nei Nudi successivi rivestono qualche interesse per quanto ci riguarda. Il soggetto del dipinto è la coppia originaria, Adamo ed Eva, che Chagall ritrae con un’immagine folgorante uniti in un unico corpo, l’androgino primordiale. La figura, unica e duplice, si iscrive in cerchi concentrici il cui centro è il ventre comune della coppia. Intorno a questo asse nel quale si piegano le braccia si dispongono aree tratteggiate a chiaroscuro, che guidano lo sguardo creando l’illusione di un movimento rotatorio. In tal modo Chagall struttura lo spazio conferendo alla figura il suo dinamismo. Pregna di molteplici significati, la coppia originale è anche sintesi espressiva di una sorta di pas de deux. Il tema della danza – che compare anche in un primo dipinto a guazzo del 1913, La danzatrice, e in quelli del 1918 – costituisce dunque tra il 1911 e il 1914 un elemento che dà modo a Chagall di esplorare le sue possibilità di espressione grafica. L’artista si esercita, e questo esercizio mirante ad animare lo spazio bidimensionale del foglio di carta o della tela sarà decisivo per le prime opere destinate alla scena. Contrariamente a Picasso, che alimenterà la sua pittura e i suoi esperimenti teatrali, Chagall trae dalla sua pratica pittorica le soluzioni plastiche necessarie al confronto con lo spazio tridimensionale della scena.

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GLI ANNI RUSSI, L’INCONTRO CON IL TEATRO EBRAICO È un artista pienamente padrone dei suoi mezzi espressivi quello che nel 1914, al momento della dichiarazione di guerra, fa ritorno in Russia. Qui ritrova Vitebsk, il paese natale e la famiglia, e sposa Bella. Presto nasce una figlia, Ida. La pienezza di questa felicità personale si accresce, così come la promessa di una felicità collettiva e del conseguimento della cittadinanza nell’accezione più completa del termine. La Rivoluzione susciterà infatti nel pittore la speranza di una nuova dignità e della possibilità di completarsi come artista.


Chagall crede con fervore alla Rivoluzione. A Parigi ha conosciuto Anatolij Vasil’evi/ Luna/arskij, che diviene Commissario per gli Affari Culturali nel primo governo sovietico del 1917 e si appresta a dare compimento al vasto progetto culturale elaborato da Lenin per la Russia, al quale non è estranea l’ideologia degli Ambulanti di fine Ottocento15. Luna/arskij propone a Chagall la carica di commissario alle Belle Arti per la regione di Vitebsk, proposta che l’artista accetta con entusiasmo. L’arte come principio di fioritura dell’individuo e modalità di promozione sociale trova in lui il suo fautore più attivo. Instancabile, il pittore allestisce le strutture didattiche – museo, scuola d’arte, laboratorio rivoluzionario – necessarie a questa rivoluzione dello spirito che cerca di realizzare in ciascuno dei suoi compatrioti. Generosamente, si rivolge a Dobužinskij, il suo antico maestro della scuola Zvanceva, allo stesso Pen, a Ivan Pougny, a El Lissitzky. Il primo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre gli offre l’occasione di presentare la sua prima rappresentazione scenica. È davvero deplorevole che non sia sopravvissuta alcuna testimonianza di questa celebrazione dello sguardo. Alcune riprese cinematografiche sembrano tuttavia dare conto – in modo imperfetto, dato lo stato di conservazione dei filmati sovietici dell’epoca – di quella che fu la concezione di Chagall16. I testimoni parlano infatti della trasformazione vissuta allora da Vitebsk. L’intero spazio urbano è trasfigurato dai colori degli steccati di legno, delle banderuole, degli striscioni e dei drappi che invadono la città. Due giganteschi manifesti proclamano la nuova speranza, e la folla stessa diviene protagonista di questo teatro rivoluzionario che è l’intera Vitebsk. Di questa realtà che si inserisce nel movimento di promozione di festival e spettacoli di massa voluto dal potere sovietico e dal Proletkul’t, destinato ad ampliarsi sempre più, non rimangono che pochi schizzi: Guerra ai palazzi, il più celebre, Il cavaliere che suona la tromba e Avanti. Se Guerra ai palazzi e Il cavaliere che suona la tromba, immagini simboliche semplici e forti, si caratterizzano per l’universalità del linguaggio del manifesto, Avanti (o Il viaggiatore) si inserisce nel solco degli studi sul movimento. Il personaggio che percorre l’intera diagonale del foglio, come spiccando il volo, è una pura figura dinamica – e una notevole trasposizione dell’immagine interiorizzata dall’artista del celebre balzo di Nižinskij nel finale dello Spettro, con le gambe aperte in orizzontale. Il disegno esemplifica in modo spettacolare la padronanza con cui Chagall sa esprimere, mediante la semplice linea, il movimento e la sua dinamica interna. I lavori realizzati per Vitebsk vengono peraltro ultimati nel contesto di un conflitto che contrappone Chagall al nuovo arrivato in città, Malevi/.

Non sono molte le testimonianze relative a questo scontro. Chagall vi fa riferimento in modo ellittico ne La mia vita. Ma a un esame del percorso estetico dei due, l’antagonismo appare inevitabile. Quando viene invitato dagli allievi della scuola d’arte di Vitebsk – e d’altronde Chagall specifica che si tratta di una sua iniziativa – Malevi/ è infatti un artista di fama, che ha già formulato nelle linee essenziali la sua dottrina suprematista. L’inizio del 1919 è segnato dall’organizzazione della x Mostra di Stato, «Creazione non oggettiva e suprematismo», in cui Malevi/ espone il Quadrato bianco. La manifestazione evidenzia peraltro le tensioni esistenti all’interno del gruppo russo degli artisti non oggettivi, e di conseguenza la virulenta attualità di un dibattito estetico che coinvolge atteggiamenti di tipo ideologico. La diffidenza di Chagall nei riguardi di qualsiasi presa di posizione collettiva in materia d’arte è più forte che mai. Né viene meno la sua convinzione che la pittura non possa che essere un’avventura individuale. Per lui è evidente che se l’artista è investito di una missione, tale missione rimane soggettiva. La storia della pittura è una storia dei pittori. Malevi/ attacca violentemente Chagall in relazione ai suoi principi didattici e alla natura della sua arte, che bolla sprezzantemente come naturalista. Il temperamento di Malevi/, eccessivo e talora violento, si contrappone a quello di Chagall, aperto e tollerante. Vi è forse in Malevi/ anche l’istintiva diffidenza del polacco cattolico nei riguardi dell’ebreo slavo? I due non si intendono; lo scontro diviene insopportabile e Chagall, alla fine del 1919, è costretto a lasciare Vitebsk mentre Malevi/ crea in città il gruppo unovis. L’avanguardia espelle dunque Chagall dalla città natale, in nome di una concezione radicale dell’arte. «Ho sconfitto la fodera blu del cielo, l’ho strappata, ho posto il colore all’interno della tasca così formata e vi ho fatto un nodo», proclama orgogliosamente Malevi/17. È una delusione che apre una profonda ferita nel cuore di Chagall. Riaffiora forse in quell’occasione la sensazione ancestrale, radicata in ogni ebreo, di essere incompreso, di essere esule nel mondo. «Non mi sorprenderebbe se dopo un’assenza così lunga la mia città cancellasse ogni mia traccia e perdesse ogni memoria di colui che, abbandonando i suoi pennelli, si è tormentato, ha sofferto e si è preso il disturbo di impiantarvi l’Arte – che ha sognato di trasformare le semplici case in musei e il semplice abitante in creativo. E allora ho capito che nessuno è profeta in patria. Sono partito per Mosca», commenta Chagall con amarezza. Il percorso di ritorno al mondo delle origini che si compie in Chagall appare così più comprensibile. A Mosca, il pittore riprende i contatti con il circolo degli intellettuali ebrei e riscopre, attraverso il teatro, la cultura ebraica.

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Negli anni di effervescenza creativa che fanno seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, il teatro assume un ruolo di particolare importanza. Un editorialista russo sottolinea nel 1919: «Ovunque nella Repubblica si manifesta una sete insaziabile di teatro e di quelle impressioni sorprendenti che esso procura, e questa sete, lungi dal diminuire, non fa che aumentare. Il teatro è divenuto una necessità per tutti»18. Il fatto è che il teatro si iscrive nel progetto culturale globale che aspira a educare una massa popolare analfabeta. Luna/arskij realizza tale progetto forte della convinzione che «Lo Stato ha il compito permanente, nella sua attività culturale, di diffondere le idee, i sentimenti e le modalità d’azione rivoluzionari in tutto il Paese»19. Il ruolo svolto dal teatro come modalità di diffusione dell’ideologia rivoluzionaria è stato spesso sottolineato. Il Teatro di massa, il Festival di massa costituirono una forma militante di attività teatrale sin dal 1919. Essa è caratterizzata dalla tematica di propaganda e dalla partecipazione attiva di migliaia di interpreti sociali – operai, contadini, soldati, marinai. Un esempio particolarmente eclatante è offerto dalla Presa del Palazzo d’Inverno realizzata nel 1920 da Nikolaj Evreinov. Quasi diecimila attori, tra soldati e marinai, mettono in scena il combattimento svoltosi nell’ottobre 1917 a Pietrogrado, in cui si scontrano i «bianchi» e i «rossi». Questo tipo di spettacoli è determinante per la costruzione del nuovo regime. D’altronde, esso si inserisce nella ricerca più specifica di un rinnovamento dell’espressione teatrale che è in corso sin dai primi del secolo. In Russia tale ricerca è incarnata da poeti e filosofi – Ivanov, Majakovskij, Klebnikov – nonché da professionisti del teatro quali Aleksandr Tairov, Stanislavskij e Meyerhold. Quest’ultimo esorta a una riflessione sul teatro come spettacolo totale. Meyerhold riconosce l’importanza degli elementi estranei alla pura rappresentazione teatrale – costumi, musica – ridotta alla sola recitazione degli attori (la concezione di Stanislavskij). In tal modo solleva un problema fondamentale, quello del rapporto tra la scena e la sala, introducendo così una riflessione sullo spazio scenico – la medesima che verrà condotta da Chagall. I primi lavori del pittore per il teatro sono costituiti da uno scenario commissionato da Nikolaj Evreinov nel 1915 per uno spettacolo intitolato La gaia morte. Di questa prima opera non rimangono tracce; la scena era occupata da un monumentale ingrandimento del dipinto del 1911, il Saul. Nel 1919, per la prima del Théâtre d’Essai dell’Ermitage a Pietrogrado, Chagall viene probabilmente incaricato da Meyerhold di realizzare la scenografia e i costumi per I giocatori e Il matrimonio di Gogol’. Omaggio a Gogol’ è lo schizzo per il sipario.

L’opera si inserisce nel solco delle ricerche sul dinamismo plastico degli anni 1911-1912. Al centro della composizione, un personaggio maschile – il pittore – regge una corona d’alloro. L’intero corpo appare piegato, quasi spezzato in una lunga curva acrobatica, che circonda le lettere che rendono omaggio a Gogol’. Lettere e personaggio formano una sorta di arabesco che li pone in una condizione di deliberato disequilibrio. Questo schizzo, così come quello realizzato per la scena de I giocatori, è stato ricondotto al Santo vetturino del 1911-1912 alla luce delle analogie negli atteggiamenti. Oltre a questa capacità tipica di Chagall di esprimere con la linea il movimento e il volo, i due schizzi – e in special modo l’Omaggio a Gogol’ – attestano una prima concezione dello spazio scenico come spazio irreale, mobile, consegnato all’immaginario. L’ispettore generale sviluppa appieno questa concezione. L’opera, la più celebre di Gogol’, è oggetto di numerose rappresentazioni. Nel 1908 viene inserita nel repertorio dei teatri imperiali. Stanislavskij la rappresenta nel 1921 al Teatro dell’Arte di Mosca, e nel 1926 Meyerhold ne proporrà una versione caratterizzata da una singolare ferocia. Il mondo descritto da Gogol’ è infatti quello della vecchia Russia appena spazzata via dal turbine rivoluzionario. La critica sociale è ben presente nell’Ispettore generale, come può percepire qualunque spettatore. Ma il pubblico può riconoscersi anche in ognuno dei personaggi, data la spietata crudeltà dell’analisi psicologica. Il testo poteva quindi autorizzare varie interpretazioni: ritratto sociale e satira politica di un mondo in via di disfacimento, o ritratto dell’eternità di una natura umana mossa dalle sue passioni. Chagall tende a unificare queste due interpretazioni. I bozzetti per la scena proposti al direttore del teatro satirico rivoluzionario Aleksandr Razumnyj creano uno spazio irreale che mette in movimento – a rovescio – gli oggetti. Un tentativo di rappresentare metaforicamente quel mondo a rovescio che era la vecchia Russia? I costumi, per contro, accentuano il carattere grottesco dei personaggi, conferendo loro l’autenticità universale di «tipi». Forse la realizzazione di questa scenografia fu ritenuta troppo complicata; fatto sta che oggi non sappiamo con certezza se L’ispettore generale fu effettivamente rappresentato. Chagall dovrà incassare un ulteriore rifiuto: nel 1921 propone al direttore del teatro di Stanislavskij bozzetti per la scena e i costumi de Il furfantello dell’Ovest, opera teatrale dell’irlandese Synge. La concezione di Chagall contraddice completamente i principi naturalisti o veristi di Stanislavskij. Il bozzetto di scenografia dà vita a uno spazio onirico, in movimento; tutto induce a ritenere che Chagall lo abbia concepito in

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funzione di quell’elemento fondamentale dello spazio scenico che è la luce. Sotto questo aspetto sembra essere più vicino all’estetica teatrale di un Jaques-Dalcroze o di un Appia. Ma è soprattutto per il teatro d’arte ebraico che Chagall realizza i suoi progetti più importanti. Lasciando Vitebsk per Mosca, l’artista ritorna alle origini della sua cultura. A Mosca, nel 1920, ritrova Alexis Granovski, allora direttore del goset, giovane compagnia impegnata a far conoscere le opere di autori ebrei quali Mendele Mocher Sforim, Isaac Leibusch-Peretz e soprattutto Sholem Aleichem. La compagnia è stata da poco riconosciuta come Teatro Ebraico di Stato. Granovski ne è l’animatore, e ha riunito intorno a sé talenti quali Mstislav Dobužinskij, David Sterenberg e Nathan Altman. I membri del gruppo sono uniti da un proposito comune: raggiungere un pubblico quanto più ampio possibile, e fargli scoprire un’arte ebraica viva e risolutamente contemporanea. Per questo le opere messe in scena sono recitate in yiddish – la lingua della comunità – e non in ebraico, utilizzato dalla compagnia rivale Habimah. Granovski ha appena ottenuto una piccola sala da novanta posti. Chagall, su raccomandazione di Efross, viene incaricato di realizzare le decorazioni della sala, nonché le scene per le tre pièce rappresentate nel corso del primo spettacolo – Gli agenti, La menzogna e Mazeltov, riunite sotto il titolo di Le miniature. La sala offre a Chagall l’opportunità di sviluppare un’arte monumentale che è già presente nella sua pittura. Vi applicherà una concezione dello spazio scenico che, pur mancando di una formulazione teorica, ne possiede tuttavia l’innegabile coerenza. Per la sala – piccola e rettangolare, una vera e propria camera ottica – il pittore crea grandi tele da tendere sulle pareti. Entrando nel teatro, lo spettatore può vedere a sinistra Introduzione al teatro ebraico, e a destra, tra le finestre, le quattro allegorie – La musica, La danza, Il teatro, La letteratura; sopra queste quattro figure spicca il fregio con La tavola del matrimonio e dietro, in fondo alla sala, Amore sulla scena. Il soffitto stesso è decorato, così come il sipario. Queste due ultime composizioni sono andate perdute. Sopravvive lo schizzo per il sipario, con due teste di capra speculari al centro di una composizione geometrica. I temi scelti dal pittore rappresentano uno straordinario omaggio alla cultura ebraica. L’Introduzione al teatro ebraico mescola personaggi dell’immaginario sociale o della vita tradizionale ebraica – come il Klezmer, violinista che accompagna matrimoni o funerali – e attori contemporanei. Il critico Efross, riconoscibile dal pizzetto e dai pince-nez, porta in braccio lo stesso Chagall verso Alexis Granovski. Il comico Solomon Michoels sembra danzare al suono degli strumenti musicali

del teatro della fiera, mentre i rabbini appaiono capovolti, in equilibrio sulle mani, come travolti da un turbine. L’intera composizione, infatti, è in movimento: le figure, umane e animali, sono trascinate in modo irresistibile da una sorta di balletto cosmico. Sul lato opposto, La musica e La danza presentano lo stesso dinamismo. La musica è incarnata dalla figura pensosa del violinista, mentre La danza è una robusta contadina che batte le mani e i piedi, come in un matrimonio. La letteratura, un copista della Torah, e Il teatro, l’attore contemporaneo appollaiato su una sedia, formano figure più statiche. La tavola del matrimonio fa scorrere sopra le quattro allegorie gli oggetti e i piatti rituali della cerimonia nuziale. Infine, Amore in scena presenta una composizione misteriosa ed eterea in cui si indovina l’abbraccio di una coppia, che la magia dell’amore pare avvincere in un lento pas de deux. Non è difficile immaginare la sala così decorata. L’opera si caratterizza per la straordinaria luminosità; i colori – rosa tenui, verdi vivaci, blu delicati – risplendono intensamente; i ritmi plastici di una sapiente composizione trascinano i personaggi e gli oggetti in una sorta di turbolenta libertà. Soprattutto, però, Chagall dà vita a uno spazio scenico totale, senza alcuna frattura tra la sala e la scena. Il teatro rappresenta per lui un mondo – il mondo di Chagall nel quale lo spettatore, divenuto a sua volta attore, può prendere posto. In modo simile, con la sua concezione dello spazio teatrale, Chagall si riallaccia alla concezione dell’attore secondo Meyerhold. «È l’attore, con la sua arte del movimento e del gesto, a trasportare lo spettatore nel regno delle fiabe dove si libra l’uccellino azzurro, o gli animali parlano, o quella canaglia fannullona di Arlecchino, mosso da potenze sotterranee, si trasforma in buffone capace di compiere straordinarie imprese... L’attore è un danzatore consumato»20.

Per il teatro d’arte ebraico, Chagall aveva dato prova della sua affascinante capacità di creare uno spazio scenico specifico e scenografie e costumi in cui la libertà della sua creatività espressiva era posta magistralmente al servizio tanto dell’attore quanto del testo. L’esperienza vissuta a Mosca termina con la sua partenza definitiva dalla Russia. La pittura, l’incisione e i primi progetti per un vasto ciclo biblico occupano interamente l’attività del pittore nel corso di questi anni segnati dal suo ritorno a Parigi. Nel 1932, tuttavia, Chagall riprende i contatti con Bronislava Nižinskaja, sorella del grande Nižinskij: la

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VERSO LO SPETTACOLO TOTALE, BALLETTO E OPERA


ballerina e coreografa chiede al pittore di allestire le scene del balletto in tre parti su musiche di Beethoven che sta preparando. Il balletto non verrà mai messo in scena, ma sopravvivono gli schizzi dei costumi dei ballerini. È soltanto nel 1942, a New York – dove Chagall si rifugia durante la seconda guerra mondiale – che il pittore ha nuovamente modo di occuparsi di scenografie. A New York, infatti, Chagall trova una colonia di artisti russi emigrati come lui, tra cui i coreografi Georges Balanchine e Léonide Massine. Quest’ultimo aveva partecipato ai balletti russi di Sergej Djagilev. Fa parte di una giovane compagnia destinata a un grande futuro, il Ballet Théâtre fondato da Michail Mordkin (già collaboratore della Pavlova) e finanziato dalla giovane americana Lucia Chase. La compagnia ha debuttato l’11 gennaio 1940 al Center Theatre di New York. Vengono scritturati i migliori ballerini e coreografi, e Massine è incaricato di allestire Aleko. Alla fine del 1941, Massine e Lucia Chase commissionano a Chagall la scenografia e i costumi del balletto. Il tema è tratto dal poema Gli zingari di Puškin; la musica è il Trio in la minore per pianoforte, violino e violoncello di \ajkovskij. La trama ha la semplicità del melodramma o della tragedia antica. Aleko è un giovane aristocratico russo che, annoiato dalla vita, si unisce a un gruppo di zingari. Si innamora di Zemfira, figlia del capotribù. Quest’ultima, civettuola, si invaghisce di un giovane zingaro, e Aleko li sorprende abbracciati. Folle di gelosia cade in preda al delirio, e una volta tornato in sé uccide la traditrice e il suo amante. Distrutto dal dolore per la morte della figlia, il capo degli zingari caccia per sempre Aleko dalla comunità. Il tema, tratto da uno dei più celebri poemi di Puškin, colpisce profondamente Chagall, che vi ritrova il motivo dell’errare, dell’esilio e il profumo perduto della Russia. Vi lavora per mesi, insieme a Massine, immergendosi – come riferisce Jacques Lassaigne21 – nella musica di \ajkovskij e nei versi di Puškin. Scenografia e costumi vengono elaborati febbrilmente – calchi con i primi abbozzi di composizione, schizzi a matita o a penna, bozzetti ad acquerello, a inchiostro e a guazzo. Coreografo e pittore intrattengono una stretta collaborazione. Chagall impone perfino a Massine specifici suggerimenti relativi alla coreografia, annotando a più riprese i movimenti dei ballerini e la loro collocazione nell’economia della scena, e sforzandosi di integrare la coreografia stessa nella scena. La prima rappresentazione del balletto sarà tenuta a Città del Messico. Ben presto Chagall, la moglie Bella e Massine si trasferiscono nella capitale messicana per portare a termine il lavoro e dare inizio alle prove al Teatro de Bellas Artes.

Qui Chagall realizza i quattro sipari che formano il fondale della scena, composizioni monumentali destinate a definire la tonalità poetica di ciascuno dei quadri principali e a fissarne la nota cromatica dominante. Così, il blu simboleggia l’incontro amoroso tra Aleko e Zemfira del primo atto, Aleko e Zemfira al chiaro di luna. È questo il colore che accompagna l’ouverture musicale, notturna e tenera, che si trasforma progressivamente in dramma. Nel secondo atto, Il carnevale, Chagall evoca un mondo fiabesco, vorticoso come un sogno, in cui un orso suona il violino e una scimmia cade da un mazzo di fiori. Il terzo atto, Pomeriggio d’estate in un campo di grano, presenta da un lato un paesaggio luminoso sotto un sole splendente, mentre dall’altro gli amanti scivolano sulle acque a bordo di una barca nel chiaro di luna. Il finale, Fantasia a San Pietroburgo, ha accenti tragici. Sullo sfondo nero e porpora, sul quale si staglia il profilo dei palazzi della città imperiale e aleggia l’ombra di Puškin, un fiabesco destriero bianco si lancia in un’ultima corsa. I costumi sono oggetto di uno studio particolarmente accurato. Senza ostacolare i gesti e i movimenti dei danzatori, devono infatti armonizzarsi con i sipari caratterizzati dalla tonalità dominante degli episodi, evocare la personalità dei protagonisti – ma soprattutto fondersi intimamente con la musica del poema di Puškin e con quella di \ajkovskij. La loro freschezza, la loro varietà, la vivacità e la bellezza dei colori vanno annoverati tra i più grandi successi di Chagall. La prima, che va in scena a Città del Messico l’8 settembre 1942 – e viene replicata a New York il 6 ottobre – è un trionfo. Alicia Markova, brillante Zemfira, e George Skibine, commovente Aleko, riscuotono certo l’applauso degli spettatori. Ma per il pubblico è lui, Chagall, il vero eroe della serata. Lo spettacolo realizza infatti l’unione intima tra musica e movimento, e con la sua concezione della scenografia e dei costumi dà vita a uno spazio scenico che è a un tempo aperto alla coreografia e allude a essa – spazio di cui Chagall è l’artefice. Il successo di Aleko rende inevitabile un seguito. Quando il Ballet Théâtre si trasforma in New York City Ballet sotto la direzione di Balanchine, Chagall viene nuovamente contattato affinché si occupi delle scene e dei costumi dell’Uccello di fuoco. Questo balletto è già leggendario. Djagilev ne aveva realizzato una prima versione nel 1910 per la seconda stagione dei Balletti Russi. All’epoca scenografia e costumi erano stati curati da Aleksandr Golovin e Léon Bakst, con coreografia di Michel Fokine e musiche di Igor Stravinskij. Nel 1926 ne viene rappresentata una seconda versione a Londra per la scenografia della Gon/arova.

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Il tema è ispirato alle leggende russe, e si accorda con la musica innovativa che Stravinskij compone già a ventisei anni – oltre a riallacciarsi al mondo fantastico dell’immaginario di Chagall. La vicenda è quella dello zarevi/ Ivan, che riesce a catturare l’Uccello di fuoco per poi liberarlo in cambio di una delle sue penne. Il principe si invaghisce di Zarevna, tenuta prigioniera insieme ad altre dodici principesse dal mago malvagio Kašej. Questi sguinzaglia i suoi demoni contro il principe. Protetto dalla penna d’oro dell’Uccello di fuoco, Ivan lo chiama in suo soccorso e l’Uccello fa addormentare Kašej e i demoni. Il principe è salvo. Quindi, l’Uccello di fuoco indica a Ivan l’uovo che racchiude la vita di Kašej, nascosto all’interno di un albero. Lo zarevi/ lo distrugge, liberando il mondo dai sortilegi del mago. Ritrova quindi la principessa Zarevna e la sposa in un’atmosfera di felicità generale. Il balletto, eseguito da Maria Tallchief (l’Uccello di fuoco) e da Francisco Monción (il Principe Ivan), viene rappresentato a New York il 24 ottobre 1950 per la coreografia di Balanchine. Un’ulteriore versione verrà realizzata nel 1970 con una nuova coreografia di Balanchine e Jerome Robbins e scenografie di Chagall. L’Uccello di fuoco segna una nuova fase nella concezione artistica del pittore, che troverà un seguito nel 1959 con Dafni e Cloe. Nel 1945 Chagall ha appena vissuto lo strazio della morte dell’amata Bella. Per diversi mesi il pittore non riesce a sfuggire alla disperazione e rinuncia a dipingere – rinunciando così a vivere. Sarà necessaria quella sorta di furia creativa suscitata in lui dal progetto dell’Uccello di fuoco per fargli ritrovare, nella pittura, i luoghi di un paradiso perduto. L’Uccello di fuoco permette a Chagall di rinascere nella pittura, in quanto gli consente di perpetuare attraverso le forme e i colori quella speranza in cui crede profondamente – la forza della vita che è l’Amore. Non è forse questo il messaggio dell’Uccello di fuoco, trasmesso dall’antica fiaba russa? La morte di Bella fa scoprire a Chagall il mistero stesso della vita. Il balletto propone uno schema generale identico a quello di Aleko. I sipari di scena, dipinti ingranditi sino ad assumere dimensioni monumentali, hanno il compito di esprimere il senso di ciascun episodio, illustrandone i temi essenziali e ritualizzando così la narrazione. Così, durante l’ouverture, l’Uccello di fuoco spiega le ali sull’immensità blu di un cielo notturno e sembra unirsi, in una strana metamorfosi, con una donna dalla testa capovolta in cui si riconoscono le sembianze di Bella. Ouverture scenica che si armonizza con quella musicale, il sipario simboleggia altresì la fiaba e l’intero balletto: il mondo si risveglia nel chiarore dell’alba nascente, compare un cavaliere, un angelo sorvola i tetti e le

cupole di un villaggio assopito. Sotto una luna nera, le ombre celano mostri pronti a risvegliarsi. Ma il volo trionfale dell’Uccello annuncia la vittoria della vita. La foresta incantata, teatro del primo atto, è evocata dal fondale della scena. Le tonalità di verde, dominanti, fanno risaltare il bagliore dorato di una macchia d’alberi. L’intera composizione invita lo spettatore a fondersi con l’eroe in questo universo magico che lo circonda. Non vi è più alcun riferimento spaziale che permetta allo sguardo di prendere le distanze. Mediante un effetto di rovesciamento del motivo dell’albero, Chagall crea uno spazio onirico, suggestivo, che è anche quello del sipario del secondo atto, Il palazzo incantato. Come nella foresta incantata, le figure appaiono vaghe ed eteree. Si distinguono appena tra i riflessi cangianti e astratti dei colori trasparenti. Al centro, una sorta di incavo consente l’inserimento di un grande mazzo di fiori e della scala a pioli che conduce al palazzo. Una volta di più, Chagall crea un vuoto ottico che tende ad assorbire lo sguardo. L’ultimo sipario è strutturato su tonalità dominanti di rosso. La tela è puro movimento: si fonda su una composizione di forme circolari che Chagall riprenderà nuovamente per il Cantico dei cantici – così come si riallaccerà alla Foresta incantata per Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso. Il sipario costituisce l’accordo finale che celebra il rinnovamento della vita e il trionfo dell’amore. La ricchezza creativa del pittore è inoltre attestata da più di ottanta costumi, in particolare quelli degli animali fantastici che popolano la fiaba e il balletto. Ma ciò che appare più notevole nell’Uccello di fuoco è l’uso del colore, che segna un’evoluzione dell’opera stessa di Chagall – più denso, più ricco, si assume il compito di tradurre lo spazio, segnalandolo al tempo stesso. Il colore dà vita così a una fusione intima tra costumi, scenografie e danzatori, tra scena e sala. Se nel teatro d’arte ebraico il colore circondava lo spettatore, ora tende invece ad assorbirlo. Unito alle ricercate sonorità della musica di Stravinskij, crea la viva impressione dello spettacolo totale. Sotto questo aspetto, Dafni e Cloe rappresenta un prolungamento dell’Uccello di fuoco. Nulla tuttavia potrebbe risultare all’apparenza tanto distante come l’universo di Longo e della Grecia antica e la musica così «francese» di Ravel. D’altro canto, Chagall aveva già scoperto con gioia La Fontaine e le sue favole... Il balletto, nel 1959, si colloca inoltre nel contesto della scoperta della luce mediterranea e della Grecia da parte di Tériade. Per questa vicenda di innocenza e desiderio, Chagall crea un universo di luminose vibrazioni, che integra intimamente i danzatori nella scena. Come in Aleko

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e nell’Uccello di fuoco, i sipari di scena restituiscono il tono di ciascun episodio; diversamente dai balletti precedenti, tuttavia, Dafni e Cloe non presenta alcun carattere drammatico. Chagall crea così un universo gioioso, in cui la natura è un verdeggiante paradiso di amori infantili. Dafni e Cloe viene rappresentato nel maggio 1959 all’Opéra di Parigi, con la coreografia di George Skibine. La ballerina Claude Bessy interpreta Cloe. La prima versione del balletto era stata messa in scena dai Balletti Russi nel 1912 al Théâtre du Châtelet. Scenografia e costumi erano stati realizzati da Léon Bakst e la coreografia da Michel Fokine. La critica dell’epoca è particolarmente entusiasta delle scenografie di Bakst; ma il balletto si fonda anzitutto sulla partitura di Maurice Ravel, caratterizzata da raffinatezza formale e ritmi sensuali. Chagall si fa compenetrare in profondità da questa musica, pure così lontana dalla sua cultura. Una segreta affinità con il musicista conduce il pittore ad analogie elettive. Le scenografie e i costumi di Chagall rispondono a Ravel; il colore risponde al suono. Come al solito, Chagall lavora a stretto contatto con il coreografo e con i danzatori. La sua capacità di cogliere il movimento del corpo, il gesto, si fa sempre più acuta. Il primato che attribuisce ormai alla pittura lo porta a dipingere direttamente sulle calzamaglie dei ballerini. In tal modo realizza quella stretta integrazione tra pittura e movimento già abbozzata a partire dal 1911. Il danzatore, cosparso di tocchi di colore, diviene frammento di pittura in movimento. I movimenti coreografici si uniscono così – talvolta replicandole – alle figure in volo dei fondali. L’esperienza teatrale si conclude con Il flauto magico. L’idea di questo spettacolo nasce da un incontro, avvenuto a Parigi nel 1964, tra Rudolf Bing, direttore della Metropolitan Opera di New York, il regista Gunther Rennert e Chagall. «Adoro Mozart», confessa Chagall alla rivista Newsweek, «non ho potuto rifiutare». Rudolf Bing, la cui moglie Nina è russa, desidera infatti inaugurare la nuova «Met» – l’attuale Lincoln Center – con una riedizione del Flauto magico. La bellezza della musica di Mozart gli sembra trovare riscontro nella magia della pittura di Chagall – il quale accetta con entusiasmo. Per Mozart, Chagall prova la stessa fervida passione che lo lega a Rembrandt. Il flauto magico, capolavoro musicale, è anche summa filosofica, che si suole paragonare alla Bibbia. Per quanto poco sensibile ai riferimenti massonici della partitura e del libretto di Schikaneder, il pittore vi ravvisa tuttavia una forma di rituale religioso. Più di qualsiasi altra opera lirica, Il flauto magico evoca le forze contrapposte che, nell’ambito della creazione, si contendono il potere sull’anima umana.

Chagall impiega tre anni per ideare scenografie e costumi. Il gran numero di bozzetti è la prova della febbre creativa da cui è pervaso. Lo spettacolo pone problemi complessi legati a cambi di scena e macchinari. Occorre inoltre tenere conto dei cantanti e dei movimenti del coro; la concezione scenica è quindi distante da quella del balletto. Ancora una volta, il pittore supera le difficoltà specifiche dell’opera. A tale proposito sono significativi i bozzetti per le scene: attraverso il collage, Chagall va alla ricerca degli effetti volumetrici destinati a creare lo spazio scenico, mentre i contrasti cromatici restituiscono il significato simbolico dell’opera. Il flauto magico viene rappresentato il 19 febbraio 1967 alla nuova Metropolitan Opera di New York, interpretato da Nicolai Gedda (Tamino), Jerome Hines (Sarastro), Herman Prey (Papageno), Pilar Lorengar (Pamina) e Lucia Popp (la Regina della Notte). L’orchestra è diretta da Joseph Krips. Si conclude così un’esperienza straordinaria, un percorso che ha condotto il pittore, attraverso la fusione intima tra colore e suono, verso la realizzazione di uno spettacolo totale. Spettacolo che rimane suo: ciò che Chagall mostra, in ultima analisi, è la realtà invisibile che affiora nella pittura, il mondo imponderabile che ci strappa alla nostra materialità, e ci trascina con sé verso l’azzurro del cielo.

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Vivere è sempre denaro rubato Ritto sul suo cavallo alato Duplice viso d’ombra e di luce Il colore è uno scudiero Louis Aragon, Chagall v


Gli anni della formazione e il teatro ebraico a Mosca


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50. Chagall insegnante nella colonia per orfani Malakhovka vicino a Mosca, 1921.

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51. Le Bal, 1907, grafite su carta beige, 28,8 Ă— 22 cm.


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52. Il matrimonio, 1910, olio su tela di lino, 99,5 Ă— 188,5 cm.


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53. Dettaglio de Le petit salon, 1908-09, olio su carta di cotone, 22,5 Ă— 29 cm.


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54. Alla Russia, agli asini e agli altri, 1911, olio su tela, 157 Ă— 122 cm.


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55. Io e il villaggio, 1911, olio su tela, 192 Ă— 151 cm.


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56. Studio per Adamo ed Eva, omaggio ad Apollinaire, 1912, matita, penna, inchiostro, acquerello su carta, 24,8 Ă— 20,3 cm.


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57. Vaslaw Nijinsky, 1911, acquerello su carta, 21,3 Ă— 13,2 cm.


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58. Nudo rosso sollevato, 1909, olio su tela.

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59. Nudo con pettine, 1911-12, penna e inchiostro nero, guazzo su carta, 33,5 Ă— 23,5 cm.


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60. Nudo, 1913, guazzo su carta, 34 Ă— 24 cm.


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61. Omaggio a Gogol, progetto di sipario (non realizzato) per il Festival di Gogol al Teatro dell’Ermitage, San Pietroburgo, 1917, acquerello su carta, 39,4 × 50,2 cm.

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62. Maquette per Le Baladin du monde occidental di Synge, 1921, guazzo, acquerello, lamina d’oro, carboncino e matita su carta, 25,6 × 17,2 cm.

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LEGENDA: 1 - Introduzione al Teatro Ebraico (tav. 16) 2 - Ingresso-finestra: La Musica, La danza, Il Teatro, La Letteratura (tavv. 17-18) 3 - Fregio: Il matrimonio (tav. 2) 4 - Parete d’ingresso: Amore sulla scena (tav. 15) 5 - Soffitto 6 - Sipario

63. Piantina del Teatro Ebraico.

64. Il teatro ebraico: L’amore sulla scena, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 283 × 248 cm.


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65. Il teatro ebraico: Introduzione al teatro ebraico, 1920, tempera, guazzo su tela, 212,5 Ă— 103,2 cm.


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66. 67. Il teatro ebraico: La musica, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 213 × 104 cm; La danza, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 213,3 × 107,8 cm.

gli anni della formazione e il teatro ebraico a mosca

68. 69. Il teatro ebraico: Il teatro, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 212,6 × 107,2 cm; La letteratura, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 216 × 813 cm.


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70. Maquette per Les Agents di Cholem Aleikhem 1919, inchiostro di china, guazzo e matita su carta gialla stropicciata, 25,4 Ă— 34,6 cm.


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71. Maquette per Le Mensonge di Cholem Aleikhem, 1920, matita e guazzo su carta, 22,5 Ă— 30 cm.


chagall la scena umana

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72. Maquette per il gran decoro di Mazeltov di Cholem Aleikhem, 1919, olio e matita su carta, 47,5 Ă— 63,5 cm.


New York, CittĂ del Messico, Parigi


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73. Marc Chagall nell’atelier di New York lavora al fondale de L’uccello di fuoco di Igor Stravinsky per il New York City Ballet, 1945.

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| aleko

74. Maquette per lo scenario del iii atto di Aleko, 1942, guazzo, acquerello e matita su carta, 38,7 Ă— 57,2 cm.

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| aleko

75. Schizzo per la coreografia di Aleko, 1942, guazzo, acquerello, matita, penna e inchiostro su carta, 21 Ă— 26 cm.

new york, cittĂ del messico, parigi


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| l’uccello di fuoco

76. Bozzetto per il i atto de L’Uccello di fuoco, La foresta incantata.

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| l’uccello di fuoco

77. Bozzetto per il i atto de L’Uccello di fuoco, La foresta incantata.

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| l’uccello di fuoco

78. Maquette per i costumi de L’uccello di fuoco, acquerello e matita.

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| l’uccello di fuoco

79. Maquette per i costumi de L’uccello di fuoco, 1945, guazzo, inchiostro di china e matita su carta, 51,1 × 32 cm.

new york, città del messico, parigi


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| dafni e cloe

80. Maquette per lo scenario del ii atto di Dafni e Cloe, 1958, guazzo, inchiostro e matita su carta, 56,3 Ă— 80 cm.

new york, cittĂ del messico, parigi


chagall la scena umana

| dafni e cloe

81. Maquette per i costumi di Dafni e Cloe, 1958, guazzo, acquerello e matita su carta, 34 Ă— 23,8 cm.

new york, cittĂ del messico, parigi


chagall la scena umana

| dafni e cloe

82. Maquette per i costumi di Dafni e Cloe, 1958.

new york, cittĂ del messico, parigi


chagall la scena umana

| il flauto magico

83. Progetto di fondale per Il flauto magico (Le piramidi, atto ii, scena i), 1966-67, matita e guazzo su tessuto e carta incollate su carta velina, 56 Ă— 74,4 cm.

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84. Souvenir per Il flauto magico, 1976.

| il flauto magico

new york, cittĂ del messico, parigi


chagall la scena umana

| il flauto magico

85. Studio preparatorio per Il flauto magico (Papageno), 1966-67, guazzo, acquerello, inchiostro di china e matita su carta, 56 Ă— 29,8 cm.

new york, cittĂ del messico, parigi


chagall la scena umana

| il flauto magico

86. L’affresco dellla cupola de L’Opéra Garnier di Parigi, realizzato da Chagall tra il 1963 e 1964, su incarico del ministro della Cultura francese, André Malraux.

new york, città del messico, parigi


PERCORSO BIOGRAFICO


1887 Il 7 luglio a Vitebsk (Russia bianca) nasce Marc Chagall, primogenito di nove figli.

1911-1912 Chagall si stabilisce in uno degli atelier di La Ruche dove abitano già molti pittori. Qui incontra Delaunay, Max Jacob, André Salmon e stringe amicizia col poeta Blaise Cendrars. Primi capolavori salutati con entusiasmo da Guillaume Apollinaire: Alla Russia, agli asini e agli altri, Il santo vetturale, Omaggio ad Apollinaire (figura 4), Io e il villaggio (figura 5), Il mercante di bestiame (figura 6). Chagall ha venticinque anni. Apollinaire gli dedica il poema Rodsoge.

1906 Entra nell’atelier del pittore Pen a Vitebsk. Inizia così il suo apprendistato come pittore.

1907-1909 Soggiorno a San Pietroburgo. Lavora soprattutto nell’atelier di Léon Bakst, che dirigeva la scuola Zvantseva. Tra le opere maggiori di questo periodo vi sono: Il morto (figura 1) e La Coppia o La Sacra Famiglia (figura 2).

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1911 Il mecenate Vinaver gli concede una borsa di studio per recarsi a Parigi dove frequenta l’Accademia de «Le Grande Chaumiére». A questo primo anno trascorso a Parigi appartengono Il Sabato, La festa di nozze (figura 3), L’atelier dell’artista.

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1914 In luglio tiene la prima mostra personale a Berlino, alla galleria «Der Sturm», organizzata dal mercante Herwarth Walden.

1919 All’Accademia di Belle Arti di Vitebsk la diversità delle concezioni figurative oppone Chagall a Malevi/. Nel maggio 1920 Chagall lascia definitivamente Vitebsk per Mosca.

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1920-1923 Progetto e bozzetto per il teatro ebraico Kamerny. Realizza i grandi dipinti murali: Introduzione al Teatro ebraico (figura 20), La Letteratura, Il Teatro, La Danza, La Musica, La Tavola del Matrimonio. Insegna disegno nelle colonie per orfani di guerra. Lascia definitivamente la Russia per Berlino.

1914-1915 Scoppia la Prima guerra mondiale. Chagall rientra a Vitebsk e sposa Bella Rosenfeld. Dipinge Il venditore di giornali (figura 12) e L’Ebreo in preghiera. Espone al salone di Mosca.

18 1923 A Berlino, prime incisioni per Paul Cassirer con le quali illustra la sua autobiografia Ma vie. Partenza per Parigi.

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12 1916-1918 Nascita della figlia Ida. L’artista realizza alcune opere importanti: Bella col colletto bianco (figura 14), Autoritratto in verde (figura 15), La passeggiata (figura 16), L’apparizione (figura 17). Risiede Mosca ed espone «Au Valet de Carreau». È nominato da Luna/arskij direttore di una scuola di belle arti a Vitebsk e commissario alle belle arti.

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1924-1925 Si stabilisce al n. 101 di avenue d’Orleans a Parigi. Ritrova Sonia e Robert Delaunay e incontra per la prima volta André Malraux. Ambroise Vollard gli commissiona l’illustrazione delle Anime morte di Gogol’. Capolavoro di questo periodo è Il violinista in verde (figura 19).

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1926 Sempre su richiesta di Vollard, comincia a illustrare le Favole di La Fontaine. Prima esposizione a New York.

1932-1936 Numerosi viaggi in Olanda, Italia, Inghilterra. Prima grande retrospettiva al Museo di Basilea. Viaggia in Spagna e in Polonia. A Mannheim i nazisti ordinano un autodafé di opere di Chagall. Dipinge La famiglia dell’artista (figura 23), ripresa e terminata nel 1947.

1927-1930 Soggiorna a più riprese nella campagna francese. Vollard gli commissiona le illustrazioni per la Bibbia. Dipinge II cesto di frutta (figura 20).

23 1937 Chagall chiede la cittadinanza francese. 1938 Espone al Palazzo delle Belle Arti a Bruxelles. Inizia, per poi completare l’anno successivo, Gli sposi della Torre Eiffel (figura 24), opera che sta all’origine di una serie in cui il paesaggio parigino è sempre presente e che avrà molte varianti. 20

1931 Soggiorno in Palestina. Guazzi preparatori alle incisioni per la Bibbia; tra questi L’Arcobaleno segno di alleanza tra cielo e terra (figura 21).

24 1939 Riceve il premio della Fondazione Carnegie Institute di Pittsburgh. Prima che sia dichiarata la guerra, Chagall, fiducioso, decide di restare in Francia e si ritira a Gordes, in Provenza. 22

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1941 La persecuzione nazista contro gli ebrei lo costringe a lasciare l’Europa. A New York ritrova scrittori e artisti rifugiati: Léger, Bernanos, Masson, Maritain, Mondrian e André Breton.

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1942-1944 Soggiorno negli Stati Uniti. Scene e costumi per il balletto Aleko di \iaikovskij. Serie di quadri ispirati alla guerra: Ossessione, Crocifissione in giallo (figura 26), La guerra. Morte della moglie Bella.

1948 Ritorno definitivo in Francia. Primo premio d’incisione alla Biennale di Venezia.

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26 1945-1946 Dopo una lunga interruzione, Chagall ricomincia a dipingere. Crea scene e costumi per L’Uccello di Fuoco di Stravinsky, per la compagnia di balletto del Theatre Ballet di New York. Prime litografie a colori per Le Mille e una Notte. Prima grande retrospettiva al Museum of Modern Art di New York.

1949-1952 Si stabilisce definitivamente in Provenza inizialmente a Vence. È di questo. periodo La Danza (figura 32). Incontra Valentina (Vava) Brodskij che sposa 12 luglio 1952. Il matrimonio darà Chagall la felicità e l’equilibrio che sono necessari. Si apre una nuova feconda stagione creativa. Aimé Mae diventa il suo mercante in Francia. 32 1953-1957 Numerosi viaggi ed esposizioni: a Torino, a Basilea. Comincia la serie di dipinti del Messaggio Biblico. Esegue il ritratto della seconda moglie: Ritratto di Vava (figura 33).

1947 In Europa si organizza una serie di mostre retrospettive: a Parigi, Amsterdam, Londra, Zurigo, Berna.

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1958 Incontro con Charles Marq, maestro vetraio. Da tale incontro avrà origine l’importante opera su vetro di Marc Chagall. Scene e costumi per Dafne e Cloe. Tra i dipinti spicca I tetti rossi (figura 34).

30

34

234

235


1959-1966 Chagall sviluppa la sua opera d’ispirazione biblica, come, ad esempio, Il Cantico dei Cantici iii (figura 35). Quadri e vetrate per la Cattedrale di Metz, per Gerusalemme e per la sede dell’onu a New York. Malraux, allora ministro della cultura, è un sostenitore della sua opera e gli commissiona le decorazioni del soffitto dell’Opera di Parigi. Chagall esegue anche i grandi dipinti murali del Metropolitan Opera di New York. L’opera litografica, realizzata con il suo compagno di lavoro e amico, il litografo Charles Sorlier, diventa sempre più importante e feconda.

1969-1970 Retrospettiva «Omaggio a Chagall» al Grand Palais di Parigi. Retrospettiva delle incisioni alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Vetrate per la chiesa del Fraümunster di Zurigo. Per iniziativa di André Malraux si decide di costruire a Nizza un museo nazionale per la donazione del Messaggio Biblico (figura 38). Sarà il primo museo nazionale dedicato in Francia a un artista vivente.

35

38

1971-1973 Numerose esposizioni, la più importante delle quali è quella della galleria Tret’iakov a Mosca. Realizza l’Arazzo per l’atrio del Message Biblique.

1966 Marc e Valentina Chagall lasciano Vence per stabilirsi a Saint-Paul (Alpi Marittime).

1973 Il giorno del compleanno dell’artista, il 7 luglio, viene inaugurato il Musée Message Biblique Marc Chagall a Nizza, alla presenza di André Malraux.

1967-1969 Pubblicazione di Le Cirque edito da Tériade. Marc e Valentina Chagall donano allo Stato francese i diciassette grandi quadri del Messaggio Biblico. Chagall continua l’opera monumentale. Realizzazione di vetrate, tappezzerie e mosaici, in particolare per la Facoltà di Diritto e Scienze Economiche di Nizza. La produzione propriamente pittorica include La tavola davanti al villaggio (figura 36) e Il Profeta Geremia (figura 37).

37

1974-1977 Il maestro continua a dar prova della sua straordinaria vitalità artistica. Per Chicago esegue un mosaico monumentale: Le Quattro Stagioni. Realizza inoltre le vetrate di Sarrebourg e di Mayence, il mosaico della Chappelle Sainte-Roseline aux Arcs (Var) e, tra i dipinti, La finestra dell’atelier (figura 39).

36 39

236

237


1978-1981 Esposizione a Palazzo Pitti a Firenze. Inaugurazione della vetrata nella Cattedrale di Chichester (Gran Bretagna). Inaugurazione delle vetrate per l’Art Institute di Chicago. Su richiesta di Aimé Maeght, l’artista realizza quattordici litografie, formato cm. 120x80, veri capolavori. Importante dipinto di questo periodo è il Doppio ritratto di Vava e Marc.

Didascalie

1984 Tre grandi mostre celebrano il 97° compleanno dell’artista, rispettivamente a Parigi al Centro Georges Pompidou, a Saint-Paul alla Fondazione Maeght e, a Nizza, al Musée National Message Biblique Marc Chagall.

1985 La salute di questo artista straordinario declina. Tuttavia continua a lavorare, soprattutto con Charles Sorlier. Ma dopo un ultimo incontro di lavoro con l’amico litografo, che gli porta la prova litografica di Verso l’altra luce (figura 40), si spegne nella sua casa di Saint Paul il 28 marzo. Il 1° aprile hanno luogo i commoventi funerali di Marc Chagall a Saint-Paul-de-Vence, la sua seconda patria. Il maestro riposa nel piccolo cimitero del paese immerso in quella luce mediterranea che egli ha tanto amato.

40

238

1. Il morto, 1908, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 2. La Coppia o la Sacra Famiglia, 1909, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 3. La festa di nozze, 1910, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 4. Omaggio ad Apollinaire, 1911, olio su tela, Eindhoven, Stedelijk Van Abbe Museum 5. Io e il villaggio, 1911, olio su tela, New York, Museum of Modern Art 6. Il mercante di bestiame, 1912-23, olio su tela, Basilea, Offentliche Kunstsammlung Kunstmuseum (i versione), Parigi, Musée National d’Art Moderne, (ii versione) 7. Donna incinta, o Maternità, 1912-13, olio su tela, Amsterdam, Stedelijk Museum 8. Giorno di festa, 1914, Düsseldorf, Nordrhein Westfallen Collection 9. L’Ebreo in rosso, 1914, olio su tela, Leningrado, Museo Russo 10. L’Ebreo in verde, 1914, olio su tela, Ginevra, Collezione privata 11. L’Ebreo in preghiera, 1914, olio su tela, Venezia, Museo d’Arte Moderna Ca’ Pesaro 12. Il venditore di giornali, 1914, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne, donazione Ida Chagall 13. Malevic, Quadrato Nero, 1915, olio su tela, Mosca, Galleria Tret’jakov 14. Bella col colletto bianco, 1917, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 15. Autoritratto in verde, 1917, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 16. La passeggiata, 1917, olio su tela, Leningrado, Museo Nazionale Russo

239


17. L’Apparizione, 1917-18, olio su tela, Leningrado, collezione privata 18. Introduzione al Teatro ebraico, 1920, olio su tela, Mosca, Galleria Tret’iakov 19. Il violinista in verde, 1923-24, olio su tela, New York, The Salomon R. Guggenheim Museum 20. Il cesto di frutta, 1927, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 21. L’Arcobaleno, segno di alleanza tra Cielo e Terra, 1931, olio e guazzo su carta, Musée National Marc Chagall, Nizza 22. Solitudine, 1933, olio su tela, Tel Aviv, Museo 23. La famiglia dell’artista, 1935-47, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 24. Gli sposi della Torre Eiffel, 1938-39, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 25. Crocifissione bianca, 1938, olio su tela, Chicago, The Art Institute 26. Crocifissione gialla, 1942, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 27. Aleko, 1942, sipario atto iii, tempera su tela, Campo di grano, un pomeriggio d’estate, Philadelphia, Museum of Art 28. A mia moglie, 1933-44, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 29. Ossessione, 1943, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 30. Intorno a lei, 1945, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 31. La caduta dell’Angelo, 1923-33-47, olio su tela, Basilea, Kunstmuseum 32. La danza, 1950, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 33. Ritratto di Vava, 1953-56, olio su tela, collezione privata 34. I tetti rossi, 1958, olio su carta incollata su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 35. Il Cantico dei Cantici iii, 1960, olio su carta incollata su tela, Musée National Marc Chagall, Nizza 36. La tavola davanti al villaggio, 1968, olio su tela, collezione privata 37. Il profeta Geremia, 1968, olio su tela, Parigi, Musée National d’Art Moderne 38. La facciata del Musée National Message Biblique Marc Chagall 39. La finestra dell’atelier, 1976, olio su tela, collezione privata 40. Verso l’altra luce, 1985, litografia, Musée National Marc Chagall, Nizza

240

NOTE

un obbligo rituale a cui non ci si può sottrarre:

IL TRITTICO: RESISTENZA,

infatti, oltre ad avere funzione di protezione, i

RESURREZIONE, LIBERAZIONE

filatteri indicano, in modo esplicito, l’alleanza tra Dio e il suo popolo; dal momento che il con-

Marcel Proust, A la Recherche du temps

tenitore sulla fronte reca la lettera Shin, il nodo

perdu, La Prisonnière, La Pléiade, Gallimard,

che lo trattiene deve formare un daleth, e quello

1988 T III, p. 692. L’ammirazione di Proust per

che trattiene il filatterio del braccio la lettera Yod,

Vermeer è nota. «Da quando ho visto al museo

formando così la parola Chaddai che significa

dell’Aia una Veduta di Delft, mi sono reso conto

Onnipotente.

1

di aver visto il più bel quadro del mondo», scrive nel 1921 a Jean-Louis Vandoyer.

La Ruche, che si trovava al Passage Dantzig

4

n. 2, nel

xv

arrondissement, era la rotonda del

«Il breve tratto di muro giallo» si riferisce

vecchio Padiglione dei vini dell’Esposizione Uni-

proprio a questa Veduta di Delft che, in La Pri-

versale del 1900: fu acquistata da uno scultore

sonnière, ossessiona a tal punto il romanziere

filantropo, amico di Rodin, Alfred Boucher, che

Bergotte da provocarne la morte: «Fissava lo

la ricostruì su un terreno di sua proprietà a Vau-

sguardo sul prezioso breve tratto di muro come

girard. La rotonda fu divisa in ateliers e la forma

un bambino su una farfalla gialla che vuole pren-

circolare dell’edificio è all’origine della denomi-

dere. E così che avrei dovuto scrivere, diceva. I

nazione La Ruche (L’alveare). Gli ateliers erano

miei ultimi libri sono troppo asciutti, avrei dovu-

disposti su due piani attorno a una scala centrale.

to passare diversi strati di colore, rendere la mia

Ben presto se ne contarono 140, la cui mancanza

frase preziosa in sé, come questo breve tratto di

di comfort era assoluta. Tuttavia La Ruche di-

muro giallo».

venne un vero falansterio in cui si ritrovarono,

Gaston Bachelard, «Introduction à la Bible

oltre a Chagall, Modigliani, Soutine, Krémègne,

de Chagall», in Marc Chagall. Dessins pour la

Zadkine e la maggior parte degli artisti che da-

Bible, Edition de la revue Verve, 1960 (Verve, vol.

ranno vita alla «Scuola di Parigi».

2

x,

n° 37-38).

Ma vie, traduzione dal russo di Bella Cha-

5

Queste scatole cubiche hanno dei lacci di

gall con prefazione di André Salmon, Paris

cuoio e contengono, scritti su pergamena, quat-

Stock, 1931, ried. 1983, p. 194. Anatolij Luna/

tro testi della Torah e precisamente: Es xii, 1-10;

arskij fu spesso in Francia dove, in particolare,

Es

13-21. Ogni ebreo devoto

incontrò Jean Jaurès. Nel 1905 pubblica l’artico-

deve portarli al braccio e sulla fronte durante la

lo Dialogue sur l’Art ma, nel 1907, le sue attività

preghiera del mattino e alla sinagoga. La parola

di agitatore rivoluzionario lo costringono anco-

ebraica tefillàah (il cui plurale – tefillin – significa

ra una volta all’esilio. Durante la sua seconda

filatteri) vuol dire preghiera. Indossare i filatteri è

emigrazione Luna/arskij soggiorna in Italia, in

3

xiii,

11- 16; Dt

xi,

241


Svizzera e in Francia. È a Parigi nel 1910 e nel

San Pietroburgo. Gli artisti si organizzano come

1911; nel 1912 ritorna in Svizzera dove incontra

corporazione (artel’) sul modello del falanste-

Romain Rolland e nel 1914 rientra in Russia.

rio di Fourier. Il gruppo si amplia nel 1870 con

6

In russo, gli aggettivi «rosso» e «bello» si

l’ingresso di alcuni pittori moscoviti e assume il nome di «Società delle Esposizioni Ambulanti».

traducono con la stessa parola, Krasnoi. Malevi/ è infatti di origine polacca e catto-

La concezione dell’arte degli Ambulanti deriva

lico. La sua famiglia fece parte dell’importante

dalle tesi di \ernyševskij, per il quale l’arte deve

colonia polacca stabilitasi in Ucraina in seguito

essere al servizio del popolo ed esaltare i carat-

alle divisioni della Polonia avvenute alla fine del

teri nazionali del genio russo. Gli Ambulanti vi

secolo. Il padre dell’artista, patriota polacco

aggiungeranno i valori mistici sempre presenti

e fervente cattolico, era un uomo colto, direttore

nell’anima russa. Tale concezione troverà una

di uno zuccherificio vicino a Kiev. Malevi/ parla-

forma laicizzata nel realismo socialista sovietico.

7

xviii

va e leggeva il polacco.

16

Konstantin Rudnitski, Théâtre russe et so-

viétique, Parigi 1988. 17

LA SCENA

Kazimir Malevi/, Le Suprématisme, in Écrits,

presentazione di Andrei Nakov, Parigi 1986, p. 227 [ed. italiana Il suprematismo come modello

Chagall et le théâtre, Tolosa, musée des Au-

della non rappresentazione, 1920, in M. De Mi-

gustins, 15 giugno-15 settembre 1967, catalogo

cheli, Le avanguardie artistiche del Novecento,

di Denis Milhan.

Feltrinelli, Milano 1966, e in Myriam Cristallo,

1

2

Jacques Lassaigne, Marc Chagall et le Ballet,

Parigi 1969. 3

Il Novecento, storia scienza arte della società industriale avanzata, Paravia, Torino 1979].

Emily Genauer, Chagall at the Met, New

York 1971. 4

Frantz Meyer, Marc Chagall, Colonia 1961,

Parigi 1964. 5

Anatolij Luna/arskij, La Révolution et l’art,

20

Vsévolod Meyerhold, La Baraque de foire, in

L’annee 1913, Les formes esthétiques de l’Œuvre

Marc Chagall, Ma vie, 1ª edizione, Parigi

d’art à la veille de la première guerre mondiale, 3 voll., Parigi 1973.

Parigi 1983 [ed. italiana La mia vita, trad. di M. Mauri, se, Milano 1998]. 7

Ibidem, 1983, pp. 56-57.

8

J. L. Obolenskaja, À l’école Zvantseva sous

la direction de L. Bakst et M. Doboujinski, 19061910, ms., Galleria Tret’jakov, Mosca. Ma vie, 1983, p. 143.

10

Ma vie, 1983, p. 142.

11

André Breton, Le Surréalisme et la peintu-

re, 1928-1965, nuova edizione, Parigi 1979 [ed. italiana Il surrealismo e la pittura, trad. di Ettore Capriolo, De Marchi, Firenze 1966]. 12

Ma vie, 1963, p. 154.

13

Ma vie, 1963, p. 147.

14

Nel 1909, la prima stagione dei Balletti Rus-

si mette in scena, oltre a Les danses polovtsiennes e a Cléopâtre, anche Le pavillon d’Armide e Les Sylphides; nel 1910 è la volta di Carnaval, Giselle, L’uccello di fuoco e Schéhérazade. 15

Rudnitski, op. cit., p. 41.

19

in Les destinées de la littérature russe, Parigi 1979,

Aleksandr Kamensky, Chagall, période russe

1931; 2ª edizione, Parigi 1957; nuova edizione

9

18

p. 43.

et soviétique 1907-1922, Parigi 1988. 6

INDICE DELLE TAVOLE

Fondata nel 1863, la Società degli Ambu-

lanti comprende tredici membri, giovani pittori provenienti dall’Accademia delle Belle Arti di

242

21

Lassaigne, op. cit., p. 25.

1. Autoritratto, 1910, inchiostro su carta color crema, 16,1 × 17,3 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book).

Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988, Musée National Marc Chagall, Nizza. (Giorgio Dettori/Archivio Jaca Book).

2. Me, 1911, inchiostro e acquerello su carta, 13,3 × 20,9 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book).

13. Liberazione, 1937-52, olio su tela di lino, 168 × 88 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988, Musée National Marc Chagall, Nizza. (Giorgio Dettori/Archivio Jaca Book).

3. Schizzo per autoritratto a sette dita, 1911, guazzo e matita su carta, 23 × 20 cm. Collezione privata. (Archivio Jaca Book). 4. L’atelier dell’artista, 1910, olio su tela, 60,4 × 73 cm. Musée National d’Art ModerneCentre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book). 5. Autoritratto in verde, 1914, olio su cartone montato su tela, 50,7 × 38 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Giorgio Dettori/ Archivio Jaca Book). 6. Autoritratto scrivente, 1926-30. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book). 7. Autoritratto con smorfia, 1917, grafite su carta color crema appoggiata su un quadro, 37,5 × 27,9 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book). 8. Mio padre, mia madre e io, 1911, inchiostro su carta, 19,5 × 11,8 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book). 9. L’apparizione della famiglia dell’artista, 1935-47, olio su tela, 123,3 × 112,2 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988, in deposito presso Musée des Beaux-Arts, Lilla. (Archivio Jaca Book). 10. Autoritratto, 1922-23, acquaforte e punta asciutta su carta posata su quadro. Collezione Geneviéve e Pierre Hebey, Parigi. (Archivio Jaca Book). 11. Resistenza, 1937-48, olio su tela di lino, 168 × 103 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988, Musée National Marc Chagall, Nizza. (Giorgio Dettori/Archivio Jaca Book). 12. Resurrezione, 1937-48, olio su tela di lino, 168,3 × 107,7 cm. Musée National d’Art

14. Resistenza, cfr. supra 15. Resurrezione, cfr. supra 16. Liberazione, cfr. supra 17. Liberazione, ibid. 18. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Archivio Jaca Book). 19. Messaggio biblico, La creazione dell’uomo, 1956-58, olio su tela, 299 × 200 cm. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Elio Ciol/Archivio Jaca Book). 20. Adamo ed Eva cacciati dal paradiso, 1961, olio su tela, 190,5 × 283,5 cm. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Elio Ciol/Archivio Jaca Book). 21. Noè e l’Arcobaleno, 1961-66, olio su tela, 205 × 292,5 cm. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Elio Ciol/Archivio Jaca Book). 22. Il sacrificio di Isacco, 1960-66, olio su tela, 230 × 235 cm. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Elio Ciol/Archivio Jaca Book). 23. Il Cantico dei Cantici ii, 1957, olio su carta incollata su tela, 139 × 164 cm. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Elio Ciol/Archivio Jaca Book). 24. Il Cantico dei Cantici iii, 1960, olio su carta incollata su tela, 149 × 210 cm. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Elio Ciol/Archivio Jaca Book). 25. Il Cantico dei Cantici iv, 1958, olio su carta incollata su tela, 144,5 × 210,5 cm. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Elio Ciol/ Archivio Jaca Book). 26. Il Cantico dei Cantici v, 1965-66, olio su carta incollata su tela, 150 × 226 cm. Musée National Marc Chagall, Nizza. (Elio Ciol/Archivio Jaca Book). 27. Verso l’altra luce, ultima litografia di

243


Chagall, da Gli Chagall di Chagall, 1988 Jaca Book. (Archivio Jaca Book). 28. L’addio. Ultima opera di Chagall, eseguita il giorno stesso della sua morte, da Gli Chagall di Chagall, 1988 Jaca Book. (Archivio Jaca Book). 29. Bozzetto per l’opera La rivoluzione, 193637, inchiostro, grafite e sfocatura su carta vergata filigranata, 27,7 × 42,2 cm. Dation Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi. (Archivio Jaca Book). 30. Schizzo per l’opera La rivoluzione, 1937, olio su tela, 49,7 × 100,2 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988, in deposito presso il Musée National Marc Chagall, Nizza. (Archivio Jaca Book). 31. Resistenza, Resurrezione, Liberazione, 1937-52. Musée National d’Art ModerneCentre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988, Musée National Marc Chagall, Nizza. (Giorgio Dettori/Archivio Jaca Book). 32. Resistenza, crf. supra. 33. Resurrezione, crf. supra. 34. Liberazione, crf. supra. 35. Resistenza, crf. supra. 36. Resistenza, crf. supra. 37. Resurrezione, crf. supra. 38. Resurrezione, crf. supra. 39. Resistenza, crf. supra. 40. Resistenza, crf. supra. 41. Resurrezione, crf. supra. 42. Resurrezione, crf. supra. 43. Resurrezione, crf. supra. 44 Liberazione, crf. supra. 45. Liberazione, crf. supra. 46. Liberazione, crf. supra. 47. Resistenza, crf. supra. 48. Resurrezione:, crf. supra. 49. Liberazione, crf. supra. 50. Chagall insegnante nella colonia per orfani Malakhovka vicino a Mosca, 1921. Da Gli Chagall di Chagall, 1988 Jaca Book. (Archivio Jaca Book).

51. Le Bal, 1907, grafite su carta beige, 28,8 × 22 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book). 52. Il matrimonio, 1910, olio su tela di lino, 99,5 × 188,5 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book). 53. Dettaglio de Le petit salon, 1908-09, olio su carta di cotone, 22,5 × 29 cm. Collezione privata. (Giorgio Dettori/Archivio Jaca Book). 54. Alla Russia, agli asini e agli altri, 1911, olio su tela, 157 × 122 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Pompidou, Parigi. (Giorgio Dettori/Archivio Jaca Book). 55. Io e il villaggio, 1911, olio su tela, 192 × 151 cm. MoMA, New York. (Scala, Firenze). 56. Studio per Adamo ed Eva, omaggio ad Apollinaire, 1912, matita, penna, inchiostro, acquerello su carta, 24,8 × 20,3 cm. Collezione Madame Donald Ogden Stewart, Londra. 57. Vaslaw Nijinsky, 1911, acquerello su carta, 21,3 × 13,2 cm. MoMA, New York. (Scala, Firenze). 58. Nudo rosso sollevato, 1909, olio su tela. Collezione privata. (Archivio Jaca Book). 59. Nudo con pettine, 1911-12, penna e inchiostro nero, guazzo su carta, 33,5 × 23,5 cm. Collezione privata. (Archivio Jaca Book). 60. Nudo, 1913, guazzo su carta, 34 × 24 cm. Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid. (Archivio Jaca Book). 61. Omaggio a Gogol, progetto di sipario (non realizzato) per il Festival di Gogol al Teatro dell’Ermitage, S. Pietroburgo, 1917, acquerello su carta, 39,4 × 50,2 cm. MoMA, New York. (Scala, Firenze). 62. Maquette per Le Baladin du monde occidental di Synge, 1921, guazzo, acquerello, lamina d’oro, carboncino e matita su carta, 25,6 × 17,2 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi, dation 1988. (Archivio Jaca Book). 63. Piantina del Teatro Ebraico. (Archivio Jaca Book). 64. L’amore sulla scena, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 283 × 248 cm. Galleria Tret’jakov, Mosca. (Archivio Jaca Book). 65. Introduzione al teatro ebraico, 1920, tempera, guazzo su tela, 212,5 × 103,2 cm.

Galleria Tret’jakov, Mosca. (Archivio Jaca Book). 66. La musica, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 213 × 104 cm. Galleria Tret’jakov, Mosca. (Archivio Jaca Book). 67. La danza, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 213,3 × 107,8 cm. Galleria Tret’jakov, Mosca. (Archivio Jaca Book). 68. 69. Il teatro, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 212,6 × 107,2 cm. Galleria Tret’jakov, Mosca. (Archivio Jaca Book).

76. Bozzetto per il i atto de L’Uccello di fuoco, La foresta incantata. (Archivio Jaca Book). 77. Bozzetto per il i atto de L’Uccello di fuoco, La foresta incantata. (Archivio Jaca Book). 78. Maquette per i costumi de L’uccello di fuoco, acquerello e matita. Collezione privata. (Archivio Jaca Book). 79. Maquette per i costumi de L’uccello di fuoco, 1945, guazzo, inchiostro di china e matita su carta, 51,1 × 32 cm. Collezione privata. (Archivio Jaca Book).

69. La letteratura, 1920, tempera, guazzo, argilla bianca su tela, 216 × 813 cm. Galleria Tret’jakov, Mosca. (Archivio Jaca Book).

80. Maquette per lo scenario del ii atto di Dafni e Cloe, 1958, guazzo, inchiostro e matita su carta, 56,3 × 80 cm. Collezione privata (Archivio Jaca Book).

70. Maquette per Les Agents di Cholem Aleikhem 1919, inchiostro di china, guazzo e matita su carta gialla stropicciata, 25,4 × 34,6 cm. Collezione privata. (Archivio Jaca Book).

81. Maquette per i costumi di Dafni e Cloe, 1958, guazzo, acquerello e matita su carta, 34 × 23,8 cm. Collezione privata. (Archivio Jaca Book).

71. Maquette per Le Mensonge di Cholem Aleikhem, 1920, matita e guazzo su carta, 22,5 × 30 cm. Collezione privata. (Archivio Jaca Book).

82. Maquette per i costumi di Dafni e Cloe, 1958. Archivio Jaca Book. (Archivio Jaca Book).

72. Maquette per il gran decoro di Mazeltov di Cholem Aleikhem, 1919, olio e matita su carta, 47,5 × 63,5 cm. Collezione privata. (Archivio Jaca Book). 73. Marc Chagall nell’atelier di New York lavora al fondale de L’uccello di fuoco di Igor Stravinsky per il New York City Ballet, 1945. Da Gli Chagall di Chagall, 1988 Jaca Book. (Archivio Jaca Book). 74. Maquette per lo scenario del iii atto di Aleko, 1942, guazzo, acquerello e matita su carta, 38,7 × 57,2 cm. MoMA, New York. (Scala, Firenze). 75. Schizzo per la coreografia di Aleko, 1942, guazzo, acquerello, matita, penna e inchiostro su carta, 21 × 26 cm. MoMA, New York. (Scala, Firenze).

83. Progetto di fondale per Il flauto magico (Le piramidi, atto ii, scena i), 1966-67, matita e guazzo su tessuto e carta incollate su carta velina, 56 × 74,4 cm. Musée National d’Art Moderne-Centre Georges Pompidou, Parigi. (Archivio Jaca Book). 84. Souvenir per Il flauto magico, 1976. Collezione privata. (Archivio Jaca Book). 85. Studio preparatorio per Il flauto magico (Papageno), 1966-67, guazzo, acquerello, inchiostro di china e matita su carta, 56 × 29,8 cm. Collezione privata. (Archivio Jaca Book). 86. L’affresco dellla cupola de L’Opéra Garnier di Parigi, realizzato da Chagall tra il 1963 e 1964, su incarico del ministro della Cultura francese, André Malraux. (Joao Paulo Tinoco/Alamy Foto Stock).




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