Michele Piccirillo
ARABIA CRISTIANA DALLA PROVINCIA IMPERIALE AL PRIMO PERIODO ISLAMICO
© 2002 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati
SOMMARIO
Prima edizione italiana ottobre 2002 Nuova edizione ottobre 2018
Introduzione pag. 9
Copertina e grafica Paola Forini/Jaca Book
Fotolito Target Color, Milano
La fondazione della Provincia Arabia pag. 29 La comunità cristiana pag. 57 Santuari e monaci in Arabia pag. 81 Gerasa cristiana pag. 115 Madaba e i suoi mosaici pag. 139
Stampa e legatura Stamperia s.c.r.l., Parma ottobre 2018
Gli arabi cristiani della provincia pag. 191 La fine di una provincia e di una comunità pag. 219 Bibliografia ragionata pag. 254 Indice dei nomi pag. 257
ISBN 978-88-16-60570-1
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
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ARABIA CRISTIANA
INTRODUZIONE
Le grandi vie carovaniere e il loro controllo Il Mar Rosso e il Golfo Persico, a nord e a sud della penisola arabica, propaggini estreme dell’Oceano Indiano, sono sempre state le due vie marittime naturali attraverso le quali i prodotti dell’Oriente raggiungevano i porti del Mediterraneo. La via settentrionale nel Golfo Persico avvantaggiava la regione mesopotamica tra il Tigri e l’Eufrate, quella meridionale il territorio siro-palestinese. Dal Mar Rosso, il commercio confluiva al porto di Elat-Aila nel golfo di Aqaba, o a ClismaSuez nel golfo omonimo, a est o a ovest della penisola sinaitica, immenso cuneo proteso nel mare. Le merci, che giungevano normalmente via mare nei due empori, proseguivano via terra per Damasco nel nord attraversando il territorio transgiordanico, o si dirigevano verso ovest fino ai porti di Alessandria e di Gaza sulla costa mediterranea, attraversando il deserto del Negev palestinese. I prodotti giungevano dalla penisola arabica, in particolare dall’Adramaut e dallo Yemen, ma anche dalla costa africana e dalle Indie, una regione non ben identificata dell’Oceano Indiano dove pochi si erano avventurati. In periodo ellenistico diventarono sempre più di moda i profumi e le spezie, un gusto che continuò e si accentuò in periodo romano e bizantino. Con l’incenso e la mirra dell’Arabia, erano richiesti il pepe, la cassia, la cannella, il cinnamomo, il nardo, la melassa di canna da zucchero detta sacchari, l’avorio, legni pregiati, insieme con gli animali esotici come zebre, giraffe e struzzi. Nel iii e ii secolo a.C. fiorì il commercio degli elefanti utilizzati come carri da guerra nella strategia militare dei Tolomei re d’Egitto. In epoca imperiale romana furono molto richieste le belve per i giochi dell’anfiteatro. Attraverso le stesse vie carovaniere passavano le merci richieste e apprezzate in Oriente, dove era richiesto soprattutto grano con i prodotti lavorati delle stesse materie prime che venivano esportati in Occidente, come gioielli, ambra e corallo, vasi cesellati d’oro e d’argento, stoffe fini, vetri e monete d’oro per rendere più facili le transazioni commerciali. I mercanti interessati in questo commercio furono inizialmente le popolazioni della costa arabica, come i Gerrei e i Minei, e gli Etiopi della costa africana di cui hanno lasciato memoria i geografi greci. Verso il iii sec. a.C. presero il sopravvento le tribù arabe dette nabatee che restarono padroni del commercio d’oriente a seguito dell’indebolimento progressivo dei Tolomei d’Egitto sconfitti dai re Seleucidi di Siria nel 197 a.C. e ricacciati nella valle del Nilo. Fu in questo periodo, a cavallo dei due millenni, che l’emporio di Petra, protetto a oriente dalla lunga e stretta gola del Siq, aperto a occidente sulla valle dell’Araba e sul
Negev palestinese, divenne il centro dei Nabatei, insieme santuario e splendida capitale con monumenti pubblici e privati scavati nella roccia arenaria rosata in uno scenario naturale unico. La prosperità delle popolazioni che abitavano l’interno della regione siro-palestinese tra il Mar Rosso, il Mediterraneo e il fiume Eufrate, dipese in massima parte lungo i secoli dall’attivazione di questo commercio da e per l’Oriente vicino e sempre sconosciuto, attraverso la strada che è la sola ricchezza vera di una regione ponte tra l’Oriente e l’Occidente. Il controllo e l’attivazione della via carovaniera significò potere politico per i potenti di turno, ricchezza e benessere economico per i popoli della regione. Mesha il Dibonita, figlio di Kemoshiatt, re di Moab, ribellatosi nella seconda metà del ix sec. a.C. al re di Israele, in una iscrizione di vittoria incisa su una stele di basalto ritrovata nel 1868 tra le rovine della località di Dhiban, si vanta di aver restaurato «la strada dell’Arnon». La strada è più nota dal nome che leggiamo nella Bibbia. Mosé, nel racconto biblico dell’Esodo, giungendo dal Sinai, invia ambasciatori al re di Edom per dirgli, come leggiamo nel Libro dei Numeri al capitolo 20: «Permettici di attraversare il tuo territorio. Non attraverseremo i campi, né le vigne, non berremo l’acqua dei pozzi. Cammineremo per la Via Regia senza deviare a destra o a sinistra, finché non avremo attraversato i tuoi confini». La Strada del Re, che in semitico sta per la strada pubblica o la strada principale, con la ricchezza che veniva da lontano nutrì per millenni con il suo fascino misterioso e seducente i sogni dei potenti di turno. Dietro tale richiamo troviamo accomunati il re Salomone della tradizione biblica, Pompeo Magno, Cesare Augusto, l’imperatore Ulpio Traiano, e gli imperatori di Bisanzio. Nella Bibbia si racconta del re Salomone visitato dalla regina di Saba, la quale giunse a Gerusalemme «con una scorta importante di cammelli che portavano aromi, oro in gran quantità e pietre preziose». Al massimo della sua potenza, sempre secondo il racconto biblico, il saggio ma anche intraprendente re si cambiò in armatore di una flotta sulle acque del Mar Rosso per raggiungere il mitico Ofir in una sorta di joint-venture con il re Hiram di Tiro, città fenicia della costa mediterranea. «Il re Salomone – si legge nel libro Primo dei Re ai capitoli 9 e 10 – costruì anche una flotta a Ezion Gheber, presso Elat, sulla spiaggia del Mar Rosso, nella regione di Edom. Hiram inviò sulle navi insieme con i servi di Salomone, i suoi servi, che conoscevano il mare. Questi andarono a Ofir dove presero oro, legno di sandalo in gran quantità e pietre preziose... E ogni tre mesi 9
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I. Tabrobana o Sieldiva (Ceylon)
AZANIA
Rhapta
Le principali vie commerciali tra Mediterraneo e oceano Indiano nell’Antichità (da G. F. Hourani, Arab Seafaring).
Wadi Mughara (valle delle miniere) nell’altopiano centrale del Tih, nella penisola sinaitica.
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le navi ritornavano cariche d’oro, d’argento, di avori, di scimmie e di babbuini». In epoca ellenistica, le tribù arabe dei Nabatei, che vivevano nel sud del paese, fondarono la loro fortuna sul controllo di questo commercio redditizio e sempre più ricercato dalla società raffinata del periodo, creando un vero impero politico commerciale con centro a Petra e stazioni nell’interno del deserto arabico e sulla costa del Mar Rosso, nel Negev palestinese, nel Sinai e sulla costa del Mediterraneo. Le merci arrivavano via mare dall’Etiopia, dalla costa somala, dall’India e dall’isola di Ceylon, e proseguivano a dorso di cammello verso Damasco nel nord, e verso Gaza a nord-ovest attraversando l’Araba e il Negev, dove trovavano punti di appoggio nelle stazioni di Mampsis, di Oboda e di Elusa. La prima guerra politico-commerciale contro questo monopolio fu sferrata dal nord dai re greci di Siria. Nel 312, Antigono, generale di Alessandro Magno che aveva ereditato un immenso territorio dalla Mesopotamia al confine con l’Egitto, decise di annettere anche il territorio meridionale controllato dalle tribù nabatee. L’impresa fu affidata a Ateneo, forte di 4.000 fanti e 600 cavalieri, che approfittò dell’elemento sorpresa per occupare Petra, razziare le merci incustodite negli empori e il tesoro che ammontava a 500 talenti di argento. A loro volta, i mercanti nabatei assenti al momento della razzia inseguirono i greci attaccandoli di notte e facendone strage. Lo storico
Diodoro che racconta il fatto, afferma che solo 50 cavalieri si salvarono dalla strage. Recuperato il bottino, si affrettarono a inviare dei messaggeri ad Antigono per raccontare il fatto e dare la colpa di tutto ad Ateneo, così che il re dovette riconoscerne il diritto di legittima difesa. A evitare un altro tranello i capi nabatei misero delle sentinelle su tutte le cime della regione. Antigono infatti ci riprovò, inviando un’altra spedizione che affidò al figlio Demetrio. Avvistato l’esercito greco, i Nabatei misero al sicuro tutti i loro beni sulla Roccia (Sel’a, Rekem, nome semitico di Petra), e diedero ordine alla popolazione di disperdersi nel deserto con i loro greggi. Vano fu l’assedio e il re dovette acconsentire a siglare un patto con gli assediati che riconoscevano l’autorità greca a condizione di restare liberi nei loro commerci. Un ulteriore tentativo di sfruttare il bitume del Mar Morto, provocò la reazione degli Arabi che distrussero la flottiglia greca nelle acque del Mar Rosso. I Tolomei d’Egitto provarono con la concorrenza. Armarono una loro flotta commerciale nel Mar Rosso con una testa di ponte sulla costa dell’Arabia, nel porto di Leuke Kome, all’altezza dell’attuale Medina. Aprirono un canale che univa il golfo di Suez al corso principale del Nilo, e assicurarono agevolazioni fiscali alle merci che transitavano per l’Egitto. Vittima illustre della tensione scatenata da questa concorrenza spietata nelle acque del Mar Rosso, fu la regina Cleopatra braccata dai soldati di Ottaviano dopo la
battaglia di Azio. La regina tentò di abbandonare l’Egitto e di fuggire verso le Indie facendo trasbordare le sue navi dal Mediterraneo al Mar Rosso a dorso di cammello. Fu fermata in questa fuga avventurosa dal pronto intervento del re Malco di Petra che ne fece incendiare le navi.
La conquista romana e l’organizzazione politica dell’Oriente
Wadi Ram, uno dei più tradizionali e frequentati luoghi di passaggio tra il sud della Provincia Arabia e la parte occidentale della penisola Arabica.
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Nella politica espansionistica ed imperialistica della Roma repubblicana è ricordato l’episodio che le aprì le porte dell’Asia e dell’Oriente. Nel 133 Attalo iii, re di Pergamo, lasciò in testamento al senato e al popolo romano il suo regno. Nello stesso anno Mitridate v, re del Ponto, divenne amico e alleato di Roma. L’uccisione del re del Ponto, seguita dalle guerre mitridatiche combattute per contenere a ovest l’espansionismo territoriale di Mitridate vi che allea tosi con Tigrane di Armenia, con i Parti e con gli Iberi, era riuscito a creare lo stato più importante dell’Asia, condussero nella regione orientale i migliori generali di Roma, Silla dall’87 all’84, Lucio Lucullo nel 67, e Gneo Pompeo nel 66, il generale che dopo le campagne di Numidia e di Spagna, l’anno precedente si era brillantemente comportato nella guerra contro i pirati nel Mediterraneo orientale (Lex Gabinia de piratis persequendis). Una legge speciale votata per l’occasione (Lex Manilia) dava a Pompeo poteri eccezionali: fu confermato alto ammiraglio della flotta, governatore della Cilicia e della Bitinia, imperatore contro i re del Ponto e dell’Armenia, con l’incarico di estendere la potenza di Roma in profondità. Al termine della massiccia campagna militare, il Ponto divenne provincia romana, il re dei Parti alleato di Roma fu tenuto sotto controllo, Tigrane, re dell’Armenia, fu incluso tra gli amici di Roma ma dovette cedere i territori da lui annessi in Cappadocia, Cilicia e Siria dove furono inviati i generali Afranio e Aulo Gabinio, seguiti da Marco Scauro e poi dallo stesso Pompeo che cambiando anche la Siria in provincia romana pose fine al lungo protettorato romano sui re seleucidi di Antiochia e di Damasco iniziato con la sconfitta di Antioco iii nel 187 a.C. a Magnesia. In realtà, il territorio dipendente direttamente dal governatore romano con sede ad Antiochia era ristretto alla cosidetta Tetrapoli lungo il corso dell’Oronte comprendente la capitale, il porto di Seleucia, e le città di Laodicea e di Apamea. Il resto del territorio siriano fu lasciato sotto il controllo degli staterelli della Commagene nel nord e della Giudea nel sud, e dei principati sacerdotali di Damasco, di Emesa e della Calcide o Iturea, separati dalle città autonome della costa fenicia e dell’interno siro-palestinese note come ‘città greche’ facenti parte della Regio Decapolitana. A sud, seguiva il regno nabateo di Petra che inizialmente riuscì a fronteggiare le mire di Roma. Nella steppa nord-orientale siriana aveva una propria autonomia la città di Palmira tramite del commercio tra le due zone di influenza romana e persiana sulle sponde dell’Eufrate. La romanizzazione dell’immenso nuovo territorio da una parte continuò l’opera di ellenizzazione iniziata e perseguita dai re seleucidi e tolemaici con la creazione di città 13
L’edificio di Petra conosciuto come el-Deir (monastero) era probabilmente un luogo destinato al culto nabateo in età precristiana.
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sulla costa e nell’entroterra mediterraneo, dall’altra si sforzò di penetrare tra le popolazioni in gran parte arabe delle regioni limitrofe. Strabone dà una descrizione dettagliata delle nozioni etnico geografiche che al tempo di Augusto i Romani avevano delle popolazioni che abitavano i nuovi territori entrati a far parte dell’impero con le nuove conquiste pompeiane. Quello che maggiormente colpiva era la composizione varia della popolazione siriana composta da genti diverse più o meno ellenizzate, con usi e costumi propri tra le quali si distinguevano in modo particolare gli Ebrei della Giudea e gli Arabi. Risaltava soprattutto la presenza di queste popolazioni di origine nomadica che il geografo conosce con i due nomi di Arabi e di Sceniti. Una presenza estesa a tutto il territorio siriano propriamente inteso già colonizzato nei secoli precedenti dall’elemento greco, e al deserto orientale fino all’Eufrate, alla Mesopotamia al di là del fiume, all’Egitto, alla penisola sinaitica, al territorio abitato dagli arabi nabatei sul confine con la Siria, e alle popolazioni dell’Arabia Felice nella Penisola meridionale circondata dal Mar Rosso, dal Golfo Persico e dal Mare Eritreo (Oceano Indiano). Popolazioni civilizzate in proporzione alla loro vicinanza con i Siriani, come scrive introducendo il Libro xvi della sua Geografia interamente dedicato a questa parte dell’impero: «Sul confine della regione di Apamea, a est, si trova la Paropotamia, come è chiamata,
dei capi Arabi, e anche Calcidica...che appartiene per la massima parte agli Sceniti. Questi Sceniti sono simili ai nomadi in Mesopotamia. Ed è sempre il caso che le popolazioni sono più civilizzate in proporzione alla loro vicinanza ai Siriani, e che tra gli Arabi e gli Sceniti che lo sono di meno, i primi hanno governi che sono meglio organizzati, come per esempio quello di Arethusa sotto Sampsiceramus, e quello di Gambaro, e quello di Themellas, e quelli di altri capi come loro» (xvi, 1,11). Nella regione di Damasco le zone montagnose difficili da attraversare sono sotto il controllo degli Iturei e degli Arabi, tutti ladroni che derubano i contadini delle pianure e i mercanti dell’Arabia Felice. Una situazione alla quale ha posto rimedio «il buon governo stabilito dai Romani e la sicurezza assicurata dai soldati romani di stanza in Siria» (xvi, 2, 20). I primi popoli oltre la Siria che abitano nell’Arabia Felix sono i Nabatei e i Sabei. «Essi spesso invasero la Siria prima di diventare soggetti ai Romani; ma al presente entrambi sia loro che i Siriani sono soggetti ai Romani» (xvi, 4, 21). «Oltre la Giudea e la Celesiria, fino a Babilonia e al territorio rivierasco dell’Eufrate verso il sud, si trova tutta l’Arabia, con eccezione degli Sceniti in Mesopotamia.... la parte che si trova vicino al fiume, come pure la Mesopotamia, è occupata dagli Arabi Sceniti che sono divisi in piccoli staterelli sovrani e vivono in regioni che sono desolate per man-
canza di acqua... ma le regioni che si trovano ancora più oltre la loro terra è tenuta da popoli che abitano l’Arabia Felice, come essa è chiamata. La parte nord dell’Arabia Felice è formata dal deserto summenzionato, a est dal Golfo Persico, a ovest dal Golfo arabico, a sud dal grande mare che si trova fuori di entrambi i golfi, che nella sua totalità è chiamato Erytra» (xvi, 3, 1). Una presenza che oggi come allora resta alla base di qualsiasi comprensione di quanto è avvenuto nei secoli e avviene oggi nel Vicino Oriente, spiegato con l’osmosi continua tra la poca terra coltivata e il deserto e la steppa che ne costituiscono la stragrande maggioranza, tra le popolazioni sedentarie degli agricoltori che abitano città e villaggi e i nomadi beduini che abitano le zone periferiche dediti per lo più alla pastorizia e al commercio carovaniero. Una situazione dove le parole greco, romano, arameo, arabo, hanno un proprio senso, diverso da quello che possono avere altrove. Qui greco e romano stanno per ellenizzato o romanizzato più che per la presenza di immigrati greci o romani giunti dall’Europa; arameo per popolazioni prima nomadiche e poi sedentarizzate in contrapposizione all’arabo giunto nella regione in tempi relativamente recenti con una connotazione semantica nomadica che non esclude né la sedentarizzazione né l’origine etnica che lo fa sentire membro della nazione araba. Con alla base la distinzione nella lingua araba tra il termine ‘Arab, chi parla arabo e A’rab, il nomade.
La preoccupazione maggiore dei governanti romani fu il mantenimento dell’ordine nei territori conquistati e soggetti a tributo, e il controllo delle vie carovaniere che attraversavano il territorio. Nella riorganizzazione dell’impero, Augusto fece della Siria una provincia imperiale con tre/quattro legioni alle quali era affidato il compito di fronteggiare la potenza persiana al di là dell’Eufrate. Inoltre incaricò Elio Gallo prefetto dell’Egitto di condurre una spedizione nel Mar Rosso per giungere a impossessarsi del controllo del commercio delle spezie nel punto di partenza individuato nell’Arabia Felice. Una avventura mal organizzata e mal condotta che terminò in un disastro. Ciò che invece riuscì un secolo dopo all’imperatore Ulpio Traiano che estese ulteriormente il territorio dell’impero sia in Mesopotamia con la creazione delle province di Assiria e di Mesopotamia, sia nel sud con l’annessione del regno nabateo e la creazione della Provincia Arabia nel 105/6 d.C.
Antico porto di Khor, sulla costa dell’Oman, aperto ai traffici dell’oceano Indiano.
La Provincia Arabia e la sua comunità cristiana I geografi romani conoscevano tre territori ai quali davano il nome di Arabia: il territorio nel sud della Siria unificato dai re Nabatei che divenne la nuova Provincia romana (Arabia Adquisita), l’Arabia in Egitto con capitale Facusa nel Delta orientale del Nilo, e l’Arabia in Mesopotamia, il territorio a nord e a sud del fiume Khabur con le due città di Hatra e 15
Tombe monumentali scavate nella roccia a Mada’in Salih, ai margini meridionali del regno nabateo, oggi nel nord dell’Arabia Saudita.
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Il siq, la stretta via che dava accesso alla città di Petra e, sullo sfondo, la facciata della tomba detta “Il tesoro” (Al-Khazneh).
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Edessa (Urhai) che vennero a trovarsi la prima in territorio persiano e la seconda in territorio romano nella provincia dell’Osroene. Tutte e tre le Arabie divennero province romane, due soltanto però, perché province di confine, l’Osroene e l’Arabia meridionale, ebbero un ruolo storico importante nei secoli successivi. L’Osroene in Mesopotamia ebbe sempre il ruolo di baluardo a difesa del territorio interno della Provincia di Siria contro la minaccia dell’impero persiano periodicamente intenzionato a invadere le terre fertili e ricche controllate da Roma.
La più nota delle due, forse anche perché la più avvantaggiata dal punto di vista politico e economico, fu la Provincia Arabia che sotto la protezione dei legionari della Legio iii Cyrenaica e degli ausiliari dell’esercito romano raggiunse nel ii-iii secolo uno sviluppo alla pari con le altre province dell’impero. Una delle prime grandi opere pubbliche realizzate nella nuova provincia dal governatore Claudio Severo fu la riattivazione dell’antico tracciato carovaniero che divenne la Via Nova Traiana. La nuova arteria «fu spianata e lastricata», come si legge nei miliari che ancora ne indicano il percorso, dal porto di Aila sul Mar Rosso, dove giungevano le merci d’oriente, fino a Bostra, capitale amministrativa della nuova provincia, seguendo l’antico tracciato della Strada dei Re. La difesa della nuova provincia venne affidata ad una legione di stanza a Bostra (iii Legio Cyrenaica) con distaccamenti di fanteria, cavalleria e cammellieri in fortini posti in punti strategici del deserto a difesa specialmente della Via Nova Traiana, e delle altre carovaniere che attraversavano la regione, punte avanzate di una fitta rete di fortini e di torri costruiti nei pressi dei centri abitati (linea di difesa oramai nota con il nome di Limes Arabicus). I monumenti romani di Gerasa e delle altre città della Provincia, che vissero nell’epoca post-traianea un periodo di prosperità ineguagliato, devono la loro esistenza e il loro splendore alla saggia decisione dell’imperatore di Roma. Superato un periodo di crisi, verso la fine del v secolo, assistiamo ad un rinnovato interesse dell’autorità centrale dell’impero d’Oriente per il territorio della Provincia Arabia oramai fissato a nord del Wadi Mujib-Arnon. Gli imperatori bizantini giocarono la carta della concorrenza commerciale, creando una dogana a Iotabe, forse ubicata sull’isola di Tiran che controlla l’ingresso al golfo di Aqaba, 185 km a sud di Aila, per attirare nelle acque del Mar Rosso il commercio marittimo deviato dai Persiani nel Golfo Persico. Inoltre, misero a disposizione dei mercanti Himiariti (Sabei) ed Etiopi navi imperiali, con le quali fare concorrenza ai mercanti persiani nei porti di origine delle merci, le Indie, Ceylon, la costa africana. Le cronache dell’epoca ricordano anche interventi diretti dell’autorità imperiale a difesa della via commerciale riattivata. Leone i nel 473 accettò il fatto compiuto dell’occupazione della dogana di Iotabe da parte di Amorkesos, un capo tribù arabo cristiano, in cambio del giuramento di fedeltà all’impero. L’imperatore Anastasio nel 498 fece rioccupare militarmente la dogana. Giustino i armò l’esercito etiope cristiano per intervenire all’interno del territorio sabeo controllato da tribù convertite al giudaismo che avevano iniziato una campagna di persecuzione dei cristiani. Giustiniano, dopo aver siglato un’alleanza con la confederazione araba cristiana dei Banu Ghassan e aver eletto re di tutti gli Arabi federati il filarca Areta figlio di Jabala, affidò il territorio meridionale a sud dell’Arabia al filarca Abou Karib fratello di Areta, per difendere la provincia da questo lato. Il commercio riprese regolarmente. Nel vi secolo, la Provincia oramai cristianizzata, grazie al favore degli imperatori cristiani di Costantinopoli raggiunse un nuovo sviluppo economico e un livello di sedentarizzazione urbano mai eguagliato né prima né dopo, grazie ad un benessere generalizzato testimoniato anche dagli edifici sacri costruiti in questo periodo con fondi pubblici e privati deco-
rati con mosaici che certamente sono una ulteriore evidenza della ricchezza degli abitanti. Causa importante se non determinante di tale sviluppo in questo periodo fu la conversione in massa delle popolazioni della Provincia alla religione cristiana. La conversione dei membri delle confederazioni tribali arabe, di antico o di nuovo arrivo nel territorio della Provincia, costituì sul piano militare un fattore di stabilità all’origine del benessere favorendo una reciproca fiducia e collaborazione con le autorità dell’impero. Le iscrizioni, che numerose accompagnano i mosaici e gli edifici, costituiscono una ricchezza documentaria di grande importanza per seguire lo sviluppo dell’arte del mosaico nella regione e l’attività edilizia. Storicamente, tali iscrizioni, nelle quali leggiamo i nomi dei vescovi delle città episcopali, del clero e dei benefattori, formule di fede e anche i nomi dei mosaicisti che tennero a firmare il loro lavoro, integrano in modo sostanziale gli scarni dati storici delle fonti letterarie contemporanee. Grazie ad esse siamo in grado di riscrivere, anche se in modo parziale, la storia della comunità cristiana delle diocesi nelle quali era diviso ecclesiasticamente il territorio della Provincia: l’archidiocesi e metropoli di Bostra e le sue dipendenze immediate nel nord, e le città di Adraa, di Gerasa, di Philadelphia-Amman, di Esbous e di Madaba, nel sud. Arabia haeresium Ferax! scrisse Teodoreto di Ciro nel quinto secolo, riassumendo con una battuta la lunga lista di gruppuscoli di fedeli fuori o al limite dell’ortodossia cristiana ricordati da Epifanio di Salamina, che proliferarono in territorio transgiordanico nei primi secoli dell’era cristiana. Uno slogan di successo che è stato accettato come normativo anche per i secoli successivi e che trova una conferma nella presenza di vescovi, archimandriti, sacerdoti, monaci e fedeli di confessione monofisita nel territorio della Provincia, come testimoniano le fonti letterarie dell’epoca. Una presenza che gli archeologi, sul piano documentario, fanno fatica a confermare, perché dalle iscrizioni che accompagnano i pavimenti mosaicati delle chiese riportate alla luce e normalmente datate dal v all’viii secolo, la comunità transgiordanica risulta impiantata su una robusta fede ortodossa. Per questi cristiani Dio è Trinità santa e consustanziale, come iniziano spesso le iscrizioni, il padrone di tutte le cose, che ha fatto il cielo e la terra, con il cui aiuto e grazia, per la cui volontà e provvidenza si costruiscono le chiese e si portano a termine le buone opere intraprese. Il Signore Gesù Cristo, Figlio Unico dell’Unico Dio, è il nostro Dio, il Salvatore nostro che gode degli stessi attributi divini. Egli è il Re, Creatore e Demiurgo, la Sofia di Dio, il Signore Dio di Santa Maria e di tutti i santi, vanto del popolo cristiano, il Dio con noi. I cristiani della Provincia, a giudicare sempre dalle iscrizioni, nutrono una grande devozione per Santa Maria. Ella è la Vergine Theotokos-Madre di Dio, la Sovrana Santa e Immacolata alla quale bisogna guardare con anima e azioni purificate, come si legge nella chiesa a lei dedicata nel centro di Madaba. Chiese sono dedicate ai Padri nella fede dell’Antico Testamento, ai Patriarchi e ai Profeti, come Lot, Mosè, Aronne, Elia. Particolarmente venerato è Giovanni Battista, seguito dagli Apostoli, e tra essi «i principali discepoli Pietro
e Paolo ai quali fu dato il potere». Molte chiese sono dedicate ai gloriosi martiri a cominciare dal Protomartire Santo Stefano, ai santi medici Cosma e Damiano, e ai santi martiri soldati, Longino, Teodoro, Bacco e Sergio che vengono posti a protezione delle città insieme con i Santi Arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele e Uriele. Particolarmente numerose sono le chiese dedicate a San Sergio, il cui culto era stato propagato dalle popolazioni arabe cristiane dei Banu Ghassan. I luoghi di culto vengono costruiti come voto a Cristo, per il perdono dei peccati e per
Una delle grandi tombe monumentali sul lato orientale della conca di Petra.
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dei villaggi, alle cappelle dei monasteri. Il lavoro nel cortile della ‘Cattedrale’ di Madaba, per l’eccellenza dell’opera, suscita l’ammirazione del popolo della città. «Bellissimo» è il ciborio nel diakonikon del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo. Nel mosaico della chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo a Gerasa, una iscrizione drammatizza il compiacimento per l’opera svolta dal vescovo della città: «Mosaico, chi ti ha offerto? – Colui che ha finanziato l’edificio. E chi è il pastore dipinto? Per chi fa brillare queste opere? – Il suo nome è Anastasio, abitante della Tetrapoli, vanto è il Salvatore».
La diffusione del Cristianesimo in Arabia felix, Mesopotamia, Nejed
Veduta d’insieme del sito di Palmira, la grande città araba carovaniera del iii secolo.
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la memoria e la salvezza dei familiari defunti, con la partecipazione del popolo amante di Cristo, delle autorità civili ed ecclesiastiche, di benefattori pubblici e privati, ma sempre con la cooperazione del santo martire al quale la chiesa è dedicata, e con l’aiuto di Dio e di Cristo che sono i veri costruttori. L’edificio sacro è chiamato con i termini più vari, chiesa, martirio, tempio, oratorio, memoriale, casa, luogo sacro o semplicemente edificio, con l’aggiunta degli annessi per il culto, come il diakonikon e il fotisterion, battistero con il santo fonte della rigenerazione. L’archeologo assiste ad una vera gara per l’abbellimento degli edifici di culto, dalle grandi basiliche urbane, alle chiese
Muovendosi dalla Siria che aveva ricevuto il Vangelo dalla viva voce degli Apostoli Pietro e Paolo, e dalla Mesopotamia il Cristianesimo diffuso progressivamente nelle città e nelle campagne come tra le popolazioni arabe, aveva tentato con i suoi missionari di penetrare anche le popolazioni arabe della Penisola meridionale restata fuori dell’intervento militare romano, che secondo gli scrittori arabi era il luogo di provenienza di tutte le grandi confederazioni tribali emigrate nel nord siriano come i Ghassan, i Tanukh, gli Iyad di Hira, i Tayy, gli Amila, i Bakr, i Taghlib, come i Kinda. I missionari provenienti dal territorio romano si mossero lungo le strade carovaniere del commercio nel Mar Rosso raggiungendo le stazioni della costa meridionale della Penisola e la costa etiopica, quelli provenienti dalla Mesopotamia evangelizzarono i porti della costa settentrionale della Penisola con le isole del Bahrein e dell’Oman, avventurandosi poi nell’Oceano fino alla costa indiana. Lo storico Filostorgio tramanda per il tempo dell’imperatore Costanzo (337-361) la missione di Theophilus Indus alla corte del re di Himyar nell’Arabia Felice. Teofilo era originario dell’isola di Dibus, probabilmente l’isola di Socotra. Giovane diacono fu inviato verso il 340 in Arabia per ottenere dal re la costruzione di una chiesa per i Romani e i sudditi cristiani del regno. Con sé portò doni inviati dall’imperatore Costanzo, 200 cavalli di Cappadocia e altri splendidi doni. Il risultato maggiore della missione fu la costruzione di tre chiese, a Zafar capitale del regno, nel porto di Aden stazione importante del commercio tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, e in una località non identificata sull’ingresso al Golfo Persico. Teofilo dall’Arabia passò nell’isola nativa di Dibus per poi visitare anche alcune località della Grande Arabia dove trovò cristiani molto ortodossi (!) che avevano l’abitudine di stare seduti durante la lettura del Vangelo! Proseguì sulla sponda etiopica latore di una lettera di Costanzo indirizzata ai due fratelli Ezana e Saizana re etiopici di Axum con l’invito a rimandare il siriano Frumenzio missionario e primo vescovo dell’Etiopia già consacrato da sant’Atanasio ad Alessandria per essere riconsacrato da Giorgio di Cappadocia di tendenza ariana. È il re Ezana che in una iscrizione trilingue trovata ad Axum si autodefinisce «re degli Aksumiti e degli Himiariti, di Raidan, degli Etiopi e dei Sabei... », perciò con contatti stretti con la costa meridionale della Penisola.
Secondo le fonti cristiane nestoriane di provenienza mesopotamica, il cristianesimo sarebbe stato introdotto in Himyar da un mercante di Najran di nome Hannan o Hayan convertito durante un soggiorno a Hira in Iraq al tempo del re sassanide Yazdegerd (399-420) contemporaneo del re Abukarib As’ad che aveva esteso il suo dominio sulle popolazioni della Penisola divenendo – come recita la titolatura ufficiale delle sue iscrizioni reali – «re di Saba e dhu-Raydan e Hadramawt e Yamanat e dei suoi Arabi dell’Altopiano e sulla costa». La presenza cristiana di fatto è attestata nelle epigrafi trovate nell’oasi di Najran soltanto verso la fine del v secolo. Ciò concorda con quanto racconta Teodoro il
Lettore che nella sua Storia Ecclesiastica, scrisse che gli Himiariti si sarebbero convertiti dal paganesimo al cristianesimo al tempo dell’imperatore Anastasio (491-518) fino ad avere un vescovo consacrato per il loro servizio, che una fonte chiama Silvano. Fu in questo periodo che un viaggiatore cristiano Cosma Indicopleusta transitò per queste regioni fermandosi nel porto di Adulis sulla sponda etiopica. Nella Topografia Cristiana ricorda di essere stato testimone dei preparativi di una spedizione etiopica contro gli Himiariti: «All’epoca in cui mi trovavo in quei luoghi, più o meno venticinque anni fa, all’inizio del regno di Giustino imperatore dei Romani, il re degli Assomiti del
Il cardo della città di Palmira.
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La parte absidale della basilica di S. Sergio di Rasafa, città carovaniera del deserto siriano chiamata anche Sergiopolis, era un centro di pellegrinaggio degli Arabi cristiani della Provincia.
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tempo, Ellatzbaas, si preparava a muovere guerra contro gli Himiariti al di là del golfo Arabico». Senza dirne però la ragione. La situazione si chiarisce al tempo di Yusuf As’ar Yath’ar detto anche Dhu Nawwas e Masruq che nel 521 era succeduto ad un re cristiano del Himyar imposto dal re di Axum e suo tributario. Di tendenza religiosa giudaica come diversi dei suoi predecessori, Yusuf intenzionato a liberarsi dal protettorato etiopico e dall’alleanza con l’impero bizantino cristiano, intraprese nel 523 a perseguitare i cristiani presenti nel suo territorio evidentemente considerati nemici, iniziando dalla capitale Zafar. Dopo aver promesso un salvacondotto ai cristiani etiopi, 300 di loro con a capo l’arcipresbitero Ababut che si fidarono di lui furono messi a morte durante la notte. La strage fu seguita dall’incendio della chiesa e dei 200 fedeli che vi avevano cercato rifugio. Un editto estese la persecuzione a tutto il regno, pena la morte e la confisca dei beni anche per chi avesse dato rifugio a un cristiano. Le prime vittime illustri furono dei sacerdoti nell’Hadramaut, il prete Mar Elia con sua madre e suo fratello, Mar Toma che precedentemente aveva già subito il taglio della mano sinistra per aver confessato Cristo, Mar Wail e Mar Toma di Najran che si trovava nella regione.
Un esercito inviato alla città di Najran trovò una resistenza armata da parte degli abitanti. Il re stesso allora con un esercito più numeroso venne a porvi l’assedio. Non riuscendo a prenderla con la forza, Yusuf ricorse all’inganno promettendo salva la vita agli abitanti se questi si fossero arresi. «E quando vide che non li avrebbe sottomessi con la guerra – racconta la fonte siriaca – inviò preti (rabbini) Giudei di Tiberiade con la Torah di Mosè e una lettera di giuramenti con il sigillo del re Giudeo; egli giurava sulla Torah, le Tavole di Mosè, l’Arca e per il Dio di Abramo, di Isacco e di Israele, che non sarebbe accaduto loro del male se avessero consegnato la città spontaneamente e fossero venuti fuori da lui. Gli abitanti di Najran si fidarono del giuramento, e circa 300 con i loro capi uscirono per incontrarlo. Egli li ricevette gentilmente e con cordialità, e di nuovo giurò loro di persona gli stessi giuramenti che aveva inviato per lettera, ripetendo che nessun male sarebbe caduto su di loro, che non avrebbe chiesto loro di rinnegare il loro Cristianesimo e che nessuno sarebbe stato oppresso a causa del suo Cristianesimo e spezzò il pane con loro. Ordinò a 1000 uomini di venire fuori il giorno dopo per spezzare il pane con loro. E quando il giorno dopo vennero da lui, egli ordinò di distribuirli tra i suoi capi,
50 per ogni capo. In segreto aveva ordinato che ogni capo doveva prendersi cura degli uomini che venivano da lui, e dopo aver spezzato il pane li dovevano legare mani e piedi e sequestrarne le armi. Quando questo fu fatto e fu sicuro che tutti i loro capi erano stati legati, subito inviarono Giudei e pagani che catturarono i Cristiani della città chiedendo loro di esporre tutte le ossa dei martiri e quelle di Mar Bulos il Vescovo che era stato consacrato primo vescovo di Najran... che aveva vinto la corona del martirio con la lapidazione – come Stefano il primo martire – dalle mani dei Giudei di Tiberiade nella città di Zafar, la città reale degli Himiariti. Bruciarono con il fuoco le sue ossa insieme con Mar Bulos l’altro vescovo che era stato consacrato come secondo vescovo della città di Najran... I Giudei portarono tutte le loro ossa insieme nella chiesa e le accatastarono al centro della chiesa; e poi portarono i preti, i diaconi, i suddiaconi, i lettori, i figli dell’alleanza e le figlie dell’alleanza (monaci e monache), e i laici, uomini e donne; e riempirono tutta la chiesa da una parte all’altra, con circa 2000 cristiani... Poi portarono legna e circondarono la chiesa all’esterno e gettarono fuoco all’interno e la bruciarono insieme con tutto quello che vi stava dentro...
E dopo che la chiesa e tutto quanto c’era dentro fu bruciato, il re portò nello stesso giorno, tutti i capi e gli uomini nati liberi, ed essi stettero legati davanti a lui. Ed egli disse loro: “Perché avete tentato di ribellarvi contro di me e non mi avete consegnato la città, invece avete riposto la vostra fiducia in quel figlio di... in questo vecchio stupido di Harith barKa’ab che avete eletto vostro capo?...”. Allora denudò Harith e gli disse: “Guardati nudo davanti a quelli che ti consideravano il loro capo, così che tu possa essere disonorato nella tua vecchiaia davanti a loro”. Ma Harith gli rispose: “Veramente se il vestito che indosso ti diventasse palese, non mi parleresti così. Ma siccome non lo vedi, pensi che io sono nudo. In verità ti dico che la mia anima in questo momento è diventata grande ai miei occhi e io non mi vergogno della nudità del mio corpo. Perché Cristo sa che sono meglio di te dentro e fuori, che il mio corpo è più forte del tuo e il mio braccio è più potente del tuo braccio. Non ho ferite di freccia di lancia o di spada sulla mia schiena, ma solo sul mio petto; perché mai ho mostrato la mia schiena in guerra come farebbe un codardo. Con l’aiuto di Cristo sono risultato vincitore in molte battaglie e sono stato io ad uccidere in
Il palmeto di un’oasi sulla via carovaniera che va dal Dhofar verso Najran, nello Yemen.
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battaglia il fratello di chi siede alla tua destra che è tuo cugino paterno”. Il re gli disse: “Così, è su questi che ti affidavi per rivoltarti contro di me. Ora ti do un consiglio per salvare la tua vecchiaia. Rinnega Cristo, l’ingannatore, e la sua Croce e vivrai; in caso contrario morirai di una morte atroce, tu e i tuoi compagni e tutti quelli che non rinnegheranno Cristo e la Croce”. E Harith gli disse: “Ricordati dei giuramenti che ci facesti per il Dio di Abramo, di Isacco e di Israele, e per la tua Torah e le Tavole e l’Arca”. Il re gli rispose: “Lascia da parte queste cose e rinnega Cristo e la Croce”. L’anziano gli rispose: “In verità sono addolorato per tutti i miei compagni cristiani che erano con me nella città, perché io li consigliai ma loro non mi ascoltarono. Perché io ero pronto ad uscire contro di te in battaglia e di combattere con te per la salvezza del popolo di Cristo, e o tu avresti ucciso me o io ti avrei ucciso, ed io speravo in Cristo, mio Signore, di vincerti; ma i miei compagni non me lo hanno permesso. Pensai anche di guidare soltanto la mia famiglia e i miei schiavi e di uscire fuori ad incontrarti; ma i miei compagni cristiani chiusero le porte della città e non me lo permisero. Fui io a dir loro di restare in città e di non aprire le porte, perché io avevo fiducia in Cristo, mio Signore, che la città non sarebbe stata presa da te perché non mancava di nulla; ma anche in questo i miei compagni non mi ascoltarono. E quando inviasti la tua parola, i tuoi giuramenti, io consigliai loro di non crederti dicendo loro che tu eri un mentitore, e che non si può avere nessuna fiducia in lui, mai i miei compagni non si fecero persuadere. Ed ora mi dici di rinnegare Cristo, mio Dio, e di diventare giudeo. Forse non vivrò (molto) di più e tu mi vuoi allontanare da Cristo mio Dio, nella mia vecchiaia. Veramente tu non hai mai agito da re perché un re che inganna non è un re, perché ho visto molti re ma mai re bugiardi. Per quanto mi riguarda, io resterò fermo e non sarò un bugiardo rinnegando le promesse da me fatte a Cristo...”. I cristiani andarono fieri del vecchio shaikh e dei suoi concittadini clero e laici, uomini donne e bambini che seppero morire da cristiani con l’orgoglio di arabi. La notizia della strage fu divulgata tra le comunità della Siria e della Mesopotamia con una prima lettera seguita da una seconda più ricca di dettagli scritta, come si legge nel colofone “nel campo di Jabala, re dei Banu Ghassan nella località chiamata al-Jabyah (sul Golan)”. La strage per la sua efferatezza e per il messaggio forte di fede incrollabile fu ricordata anche nel Corano (85,4ss): “Furono massacrate le genti di Ukhdud, bruciate nel fuoco che si alimentava da solo mentre vi si trovavano seduti attorno in circolo testimoni di ciò che subivano i credenti. Non gli rimproveravano se non l’aver creduto nel Dio potente e degno di lode”». In aiuto dei cristiani suoi sudditi si mosse il re Kaleb di Axum con un forte esercito sconfiggendo e uccidendo Yusuf e imponendo un re cristiano hiemarita, Sumyafa’, che ristabilì il cristianesimo e ricostruì le chiese di Zafar e di Najran. Contro di lui si sollevò il generale a capo delle forze etiopiche lasciate dal re Kaleb, Abraha (Abramo), che riuscì a spodestarlo e a prenderne il posto. Il nuovo re scelse come capitale del regno la città di San‘a’ dove, verso il 550, costruì la nuova chiesa cattedrale di cui abbiamo una descrizione scritta da un 24
cronista arabo prima della sua distruzione nell’viii secolo ad opera di un governatore musulmano dello Yemen. Famoso tra gli scrittori arabi con il nome di al-Balqis (la Chiesa), l’edificio di pianta basilicale era costruito anche con materiali di recupero di edifici precedenti. Il tetto era sostenuto da colonne in marmo, con il claristorio e l’abside decorati con pitture e mosaici. La parte inferiore dei muri era intonacata e il pavimento lastricato in marmi policromi. L’iconostasi era fatta di legno di ebano incrostato d’avorio. Le porte erano coperte di placche d’oro fissate con chiodi di argento e con placche di argento fissate con chiodi d’oro. Particolarmente belle erano le porte che conducevano agli altari nel presbiterio. Alla costruzione della chiesa e alla sua decorazione sontuosa avrebbe contribuito l’imperatore bizantino. Gli autori arabi musulmani per i quali al-Balqis è la Ka’aba di San‘a’, si fanno portavoce di una diceria, (ripetuta anche per le moschee di Gerusalemme costruite da Abd al-Malik!), che Abraha avrebbe costruito Balqis con la segreta intenzione di fare concorrenza al santuario pre-islamico della Mecca. Lo storico contemporaneo Procopio di Cesarea nella Guerra Persiana dopo aver ricordato gli avvenimenti, scrive che l’imperatore Giustiniano inviò un certo Giuliano dal re di Etiopia Ellisteo (Kaleb) e dal re Esimifeo per proporre un’alleanza commerciale e militare contro l’impero persiano che però non ebbe seguito. «Ai tempi della guerra persiana, Ellesteo, re degli Etiopi, che era cristiano e molto devoto, venne a sapere che nell’altro continente parecchi Omeriti, alcuni dei quali erano giudei, altri seguaci dell’antica religione che oggi si chiama ellenica (perciò pagani), perseguitavano i Cristiani con un’asprezza intollerabile. Raccolti una flotta e un esercito, marciò contro di loro, li vinse in battaglia, uccise il loro re e ne nominò un altro, di nazionalità omerita, ma cristiano, che si chiamava Esimifeo, imponendogli di pagare ogni anno un tributo agli Etiopi. Ciò fatto se ne tornò in patria. Ma alcuni schiavi... non vollero tornare indietro con lui e l’abbandonarono, preferendo rimanere nel paese degli Omeriti per cupidigia della loro terra che è molto fertile. Questi tali, non molto tempo dopo, insieme con altre persone, si sollevarono contro il re Esimifeo, lo chiusero in una fortezza che si trova in quei luoghi e nominarono un nuovo re per gli Omeriti, di nome Abramo. Ora questo Abramo era cristiano, ma schiavo di un cittadino romano della città etiopica di Aduli, il quale esercitava il commercio marittimo… Mentre in Etiopia regnava ancora Ellisteo e sugli Omeriti Esimifeo, l’imperatore Giustiniano incaricò Giuliano di un’ambasceria presso ambedue i popoli, chiedendo loro che, in nome dell’uguaglianza di religione, volessero portare aiuto ai Romani che erano in guerra con i Persiani. E cioè che gli Etiopi acquistassero seta dagli Indiani, per rivenderla ai Romani: commercio che oltre al resto li avrebbe notevolmente arricchiti, mentre i Romani, facendo così, avrebbero guadagnato solo nel senso che non sarebbero più stati costretti a versare del proprio denaro ai loro nemici... Quanto agli Omeriti si chiedeva loro che mettessero l’esule Caiso a capo dei Maddeni e che poi con un grande esercito di Omeriti stessi e di Saraceni Maddeni, invadessero il territorio persiano... Ciascuno dei due re si impegnò ad eseguire ciò che gli veniva richiesto dall’ambasciatore. Ma poi né l’uno né l’altro riuscì a mantenere la promessa».
Il lungo testo di una stele contemporanea aggiunge dettagli importanti alla storia di Abraha che si autodesigna come vice re del re etiope Ramhis Zubaiman, ma, usando i titoli dei re Hiemeriti, afferma di essere «re di Saba, di dhu-Raidan, di Hadramaut e di Yemenat e dei loro Arabi in alto (altopiano) e nel basso (costa) del paese». L’iscrizione che inizia con una formula trinitaria «Per la potenza, il favore e la misericordia di al-Rahmanan e del suo Messia e del Santo Spirito» racconta che il potere di Abraha fu contestato da un certo Yazid ben Kebshat. La guerra che ne seguì fu interrotta dalla notizia che la diga di Marib dalla quale dipendevano la vita e il benessere delle popolazioni del paese era in parte crollata. Abraha allora diede ordine a tutti gli Arabi del sud di portare materiali e manodopera necessari per le riparazioni. Inoltre fece dedicare una nuova chiesa a Marib servita da un sacerdote. La fine dei lavori fu festeggiata con la riconciliazione generale. Per l’occasione ambasciate straniere giunsero a Marib per felicitarsi con il re Abraha. Erano rappresentati l’imperatore Giustiniano, il re Cosroe di Persia, il negus di Aksum, il re al-Mundhir di Hira, il re Harith ben Jabala dei Banu Ghassan e suo fratello Abukarib ben Jabala, a dimostrazione del prestigio raggiunto dai re di Himiar nell’Arabia Felice. Il nome di Abraha è legato nel Corano alla Sura dell’Elefante (105), così detta dall’animale usato dal re durante la spedizione composta da Hiemariti, Abissini, e Kinditi da lui guidata contro la Mecca come rappresaglia per un gesto sacrilego contro la chiesa di al-Balqis sporcata con immondizie. L’anno dell’Elefante sarebbe stato anche l’anno di nascita del Profeta Maometto. Alla morte di Abraha al quale successero sul trono i suoi due figli, Yaksum e Masruk, un giudeo hiemarita, un certo Saif, per vendicare un’offesa fatta da Abraha alla sua famiglia, chiese l’intervento dei Persiani che occuparono lo Yemen verso il 570 dopo aver ucciso Masruk in battaglia. Ne seguì un periodo di relativa tranquillità per la comunità cristiana. A Najran, fu vescovo secondo la tradizione, il poeta Kuss ben Saida, chiamato l’Arbitro degli Arabi per la sua equità. Sempre in questo periodo la famiglia di Abdelmadan dei Banu al-Harith costruì la chiesa nota come la Qa’aba di Najran. In relazione con la tragedia vissuta dai cristiani di Najran nel sud, abbiamo le prime referenze ad un vangelo/injil in arabo, bruciacchiato durante la persecuzione di Dhu Nawas mostrato al Negus da un arabo cristiano della città. Il cristianesimo si diffuse anche tra gli Arabi della Meso potamia dove troviamo dei vescovadi a Hira e Anbar sull’Eufrate (Peroz-Shapur per i Persiani), una presenza cristiana rigogliosa sopravvissuta fino ai nostri giorni. Vescovadi nestoriani si trovavano sulla costa occidentale del Golfo Persico sulle Isole del Bahrein, a Hagar residenza del governatore, a Hatta, sulla penisola del Qatar, a Darai, a Mashmahij, oltre che nell’Oman. Finora invece lo storico ha poco da dire per quanto riguarda la predicazione del Vangelo nel Nejd, cioè nel cuore della Penisola e nel Hejaz, a parte la presenza avventizia di singole famiglie cristiane, per lo più di mercanti, di schiavi o di artigiani, ricordate dalla tradizione islamica nella Mecca centro importante del commercio carovaniero che legava il sud dell’Arabia con i mercati della Siria. Tra i tanti scegliamo
Waraqa ben Naufal dei Banu Asad cugino di Khadija, prima moglie di Maometto, che lo storico Ya‘quby ricorda come traduttore in arabo del Vangelo. A lui si sarebbe rivolta Khadija per un consiglio prima di dare fede alle rivelazioni del marito.
Il villaggio di Ghul, nell’Oman.
Sotto il governo dell’Islam Quando nella prima metà del vii secolo, le truppe islamiche invasero le province dell’Impero Bizantino e di quello Persiano, gran parte delle popolazioni cristiane nei due territori restarono fedeli alla loro fede accettando di pagare la jizyah (una tassa pro-capite) in cambio della libertà di restare cristiani. Nello Yemen, le famiglie cristiane di Najran scampate alla persecuzione di Yusuf subirono l’affronto di essere espulse dalla loro terra nel 640 per ordine del Califfo Omar, malgrado i patti giurati con Maometto e con il Califfo Abu Bakr. Trovarono accoglienza in Iraq nei pressi di Kufa, dove fondarono una città che ebbe lo stesso nome di quella abbandonata. 25
I resti delle chiuse della diga di Marib, nello Yemen.
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Famosi tra i cristiani restarono i membri della confederazione dei Banu Taghlib, fieri della loro libertà e della loro fede ai quali il Califfo Omar ii non osò imporre la jizyah come agli altri ma solo la sadaqah pagata dai musulmani. Lo scrittore ecclesiastico Dionigi di Tell Mahre ricorda il martirio dello Shaikh Moadh capo dei Banu Taghlib ad opera di Muhammad fratello del Califfo Abd al-Malik e governatore dell’Iraq. Al rifiuto di apostatare, prima fu gettato in una fossa di fango e poi condannato a morte con il divieto di seppellirne il cadavere che restò intatto per diversi giorni. Sulla sua tomba di martire della fede fu costruito un monastero. Del poeta Shamalla anch’egli shaikh Taghlabita messo a morte per ordine del Califfo al-Walid si racconta che il califfo gli fece tagliare un pezzo della coscia e dopo averla fatta arrostire gliela fece mettere in bocca con la forza. Della confederazione cristiana dei Tanukh, che ebbe un ruolo importante nella regione di Qinnasrin/Calcis a sud est di Aleppo dove avevano il loro campo, le fonti storiche siriache e quelle islamiche ricordano l’episodio finale della loro militanza di soldati cristiani (ajnad) al servizio dell’impero bizantino e poi dei califfi omayyadi di Damasco che sostennero nella lotta
per il califfato. Nel secondo secolo dell’Egira, quando verso il 780 il Califfo al-Mahdi (un noto persecutore dei cristiani e distruttore di chiese) si recò nella Siria settentrionale, i membri della tribù gli vennero incontro in numero di 5000 vestiti delle loro vesti migliori, armati e con i turbanti in testa cavalcando i loro cavalli arabi, un piccolo esercito che fece impressione. Lo salutarono presentandosi come parenti da parte di madre. Quando gli fu detto che quei cavalieri erano dei Tanukh cristiani, il Califfo ordinò di decapitare il loro shaikh Layth ibn Mahatta in modo da obbligare gli altri alla conversione forzata.
in mano alle tribù beduine fino alla seconda metà del xix secolo. Alla rinascita di queste regioni parteciparono nel xx secolo diversi gruppi tribali cristiani presenti nel territorio che ancora oggi danno il loro contributo allo sviluppo delle nazioni di Siria e di Giordania eredi del territorio della Provincia Arabia di epoca romano-bizantina. La ricerca archeologica intensificatasi negli ultimi decenni ha reso possibile la ricca documentazione pubblicata in questo volume dedicato alla Provincia Arabia, una delle
province storicamente abitate in grande maggioranza da popolazioni arabe perfettamente integrate nella nuova società cristiana. Ciò che sarebbe stato impossibile con le sole fonti letterarie pervenuteci dall’antichità. Nulla vieta che un giorno la ricerca archeologica possa integrare con nuovi monumenti le notizie riguardanti la presenza cristiana nella Penisola considerata dagli autori musulmani come l’origine della nazione araba di cui andavano coscienti e fieri anche i loro predecessori cristiani.
Veduta del sito archeologico di Rasafa.
Quando nel 750 i califfi abbasidi spostarono la capitale dell’impero musulmano da Damasco a Baghdad, anche il commercio internazionale prese la strada del Golfo Persico. La regione meridionale perse progressivamente importanza. La strada, da cui era dipesa lungo i secoli la prosperità di questa regione, nota in arabo con il nome di Darb al-Hajj (Strada del Pellegrinaggio), fu percorsa soltanto dalle carovane di pellegrini musulmani che annualmente si recavano al santuario della Mecca nel Hijaz. La regione spopolata e abbandonata, con l’eccezione di pochi centri urbani, restò 27
LA FONDAZIONE DELLA PROVINCIA ARABIA
Nella descrizione delle province orientali dell’impero romano, dopo la Siria, la Fenicia e la Palestina, lo storico Ammiano Marcellino sottolinea il carattere militare della provincia creata dall’imperatore Traiano con l’annessione del regno alleato dei Nabatei di Petra: «Confinante con la Palestina è l’Arabia, che è delimitata dall’altro lato dal paese dei Nabatei, regione ricca per varietà di commerci. È piena di ben salde fortezze e castelli costruiti dalla vigile cura degli antichi su montagne adatte e sicure per respingere gli attacchi delle popolazioni vicine. Pure questa regione ha, oltre alle fortezze, alcune grandi città, Bostra, Gerasa e Filadelfia, assai ben protette da salde mura. Questa regione fu ridotta a provincia, con a capo un governatore, da Traiano che l’obbligò ad obbedire alle nostre leggi, dopo aver spesso rintuzzato la superbia dei suoi abitanti, al tempo in cui attaccava gloriosamente la Media ed i Parti» (Historiae, xiv, 8, 13). Al di là dell’accenno ai molti castra e castella che ne fanno una regione di confine da difendere, e all’interesse economico commerciale di una regione ponte tra la costa mediterranea e i mercati dell’Oriente, gli studiosi moderni si soffermano sull’accenno finale dello storico del iv secolo per tentare di precisare cosa avvenne all’inizio del ii secolo d.C., quando l’imperatore Marco Ulpio Traiano decise di annettere all’impero il regno dei Nabatei, un protettorato romano dal tempo di Pompeo Magno, facendone una provincia amministrata direttamente da un governatore. L’attenzione si fissa sull’«obtemperare legibus nostris Traianus compulit imperator». Un atto di forza militare in risposta a turbolenze non accette al potere centrale, o una decisione amministrativa semplicemente monitorata dalla presenza dell’esercito imperiale pronto a intervenire in caso di insurrezione? L’annessione, che alla morte di Rabbel ii, re dei Nabatei, spodestò il figlio Obodas del regno, fu certamente un atto di forza della potenza egemone. L’anno prima dell’annessione, dagli storici fissata al 106 d.C., sappiamo che due coorti (ciascuna di 500 uomini), la Cohors i Hispanorum e la Cohors i Thebaeorum, furono spostate dall’Egitto in Palestina, nella regione confinante a occidente con il territorio nabateo, e successivamente in Arabia. Inoltre la Legio iii Cyrenaica di stanza in Egitto, forte di 5/6.000 uomini, venne inviata nella nuova provincia. L’operazione fu condotta dal governatore della provincia di Siria Cornelio Palma, come sappiamo dallo storico Dione Cassio, con un forte spiegamento di forze: «Circa lo stesso tempo Palma, governatore della Siria, sottomise quella parte dell’Arabia nei dintorni di Petra, e la rese soggetta ai Romani» (Historiae, lxviii, 14, 10). Militarmente ci fu un intervento a tenaglia nel territorio
nabateo. Mentre Cornelio Palma con le sue truppe legionarie di stanza in Siria discese dal nord, i soldati della Legio iii Cyrenaica giunsero dal sud, dall’Egitto, attraversando la penisola sinaitica. Questa massiccia presenza militare, oltre che mezzo di dissuasione, servì a domare qualsiasi accenno di rivolta. Se insurrezione ci fu, questa fu isolata e subito domata, come fa intendere Ammiano Marcellino, quando scrive che Traiano obbligò (la regione) a «obbedire alle nostre leggi, dopo aver spesso rintuzzato la superbia dei suoi abitanti» (incolarum tumore saepe contunso), e come sembrano da intendere alcuni graffiti safaitici, purtroppo non datati, scoperti nella steppa orientale e scritti «l’anno che i Nabatei si rivoltarono contro il popolo di Roma». A favore di questa operazione quasi indolore che segnò il passaggio dall’amministrazione nabatea a quella imperiale romana, ci sono due altri indizi di un certo peso. Prima di tutto, la mancanza nelle titolature dell’imperatore Ulpio Traiano del titolo di Arabicus da aggiungere agli altri ottenuti sul campo di battaglia, Germanicus (nel 97), Dacicus (nel 102), Parthicus (nel 116). Inoltre, sulle monete che nel 111, ad annessione oramai portata a termine, commemorano il fait accompli, con la personificazione della nuova provincia accompagnata da un cammello o da uno struzzo, leggiamo la scritta «Arabia Adquisita» e non la normale «Arabia Capta», che ci saremmo aspettati se si fosse trattato di una operazione militare, come era avvenuto qualche anno prima al tempo di Nerone per la vicina «Judaea Capta». In contemporanea con l’apparizione delle monete coniate nelle zecche imperiali e provinciali, sempre del 111, abbiamo le scritte dei miliari che intervallano il percorso di più di 300 chilometri della Via Nova Traiana, la strada che attraversando il territorio della nuova provincia univa il porto di Aila (oggi Aqaba/Elat) sul Mar Rosso con Bostra (oggi Bosra al-Sham ai piedi del Jabal al-Druz o Jabal al-‘Arab), nuova capitale amministrativa e sede della legione. «Imperator Caesar/divi Nervae filius Nerva Traianus Augustus Germanicus Dacicus Pontifex Maximus Tribunicia Potestate xviii, Imperator vi, Consul v, Pater Patriae, redacta in formam provinciae Arabia viam novam a finibus Syriae usque ad mare Rubrum aperuit et stravit per C. Claudium Severum Legatum Propretorem». («L’imperatore Cesare figlio del divino Nerva, Nerva Traiano, Augusto, Germanico, Dacico, Pontefice Massimo, investito per la xviii volta della potestà tribunicia, per la vi volta acclamato imperatore, console per la v volta, Padre della Patria, dopo aver ridotto l’Arabia in provincia, ha fatto tracciare e costruire la Via Nova dai confini della Siria fino 29
al Mare Rosso, tramite C. Claudio Severo legato di Augusto e propretore della Legione»). L’apertura dell’importante arteria di collegamento tra il nord e il sud fu una delle prime preoccupazioni del nuovo governatore Claudio Severo, insieme comandante della Legio iii Cyrenaica che fu assegnata alla Provincia. Il fatto dell’avvenuta consegna dei poteri già nel marzo del 107, l’anno dopo l’annessione, lo veniamo a sapere da due lettere private scritte su papiro scoperte casualmente a Karanis in Egitto. Un soldato della Legio iii Cyrenaica scrive al padre e alla madre mettendoli al corrente che grazie ad una raccomandazione del suo generale e governatore, mentre gli altri spaccano pietre sotto il sole, lui se la spassa a far niente! «(Julius Apollinarius a Giulio Sabino, suo padre carissimo… le cose mi vanno bene. Dopo che Serapis mi ha condotto fin qui in sicurezza, mentre gli altri…) per tutto il giorno stavano tagliando pietre da costruzione e facendo altre cose, fino ad oggi non ho sofferto nulla di tali fatiche; ma di fatto 30
ho chiesto a Claudio Severo il consularis di prendermi come segretario nel suo staff ed egli mi ha risposto: “Non c’è posto, ma nel frattempo ti farò segretario della legione con speranze di avanzamento”. Con questo compito, perciò, sono passato dal consularis della legione al cornicularius… L’anno decimo di Traiano, nostro Signore, mese di Famenot 30… (26 marzo del 107) …dirai a quelli di Afrodas, figlio del commerciante, che essi mi arruolarono nella coorte a Bostra. Si trova a 8 giorni di viaggio da Petra…» (Papiro Michigan n. 466). La stessa compiaciuta notizia viene data nella lettera alla mamma: «(… ringrazio Serapis e la Buona Fortuna) perché mentre tutti stanno faticando tutto il giorno a spaccare pietre, io, in quanto ufficiale, sto senza far nulla» (Papiro Michigan n. 465). Dalle due lettere sappiamo che il 26 marzo del 107 i legionari della Legio iii Cyrenaica erano già al lavoro nella nuova provincia a spaccare pietre tutto il giorno! Gli storici hanno ipotizzato di vedervi i soldati impegnati nella costru-
zione della Via Nova Traiana e dei necessari campi, fortini e torri di avvistamento della Legione. Una cosa sembra chiara: l’annessione fu condotta nella più completa discrezione, se l’annuncio pubblico fu dato solo cinque anni dopo, nel 111, come risulta concordemente dalle monete e dai miliari. Cornelio Palma, esaurito il suo compito, era tornato nella sua provincia di Siria, ed era stato sostituito dal nuovo governatore Claudio Severo che sappiamo in carica dal 107 (papiri di Karanis) fino al 115 d.C. In quegli anni l’imperatore era impegnato militarmente nella Dacia, perciò l’annessione del regno nabateo, un’operazione complessa, quali ne siano stati gli sviluppi in fase di attuazione, è da vedere come un atto politicamente programmato di riassestamento regionale deciso dallo stesso Traiano che, figlio di un ex governatore della vicina provincia di Siria, certamente conosceva bene il territorio e i suoi problemi strategici. Difficile per lo storico determinarne il motivo in quel preciso momento. La spiegazione più ovvia sembra
essere quella di chiudere il cerchio in un momento giudicato opportuno che, iniziando da Pompeo Magno nel 64 a.C., aveva portato sotto controllo diretto romano la Siria, l’Egitto e la Palestina. Annettendo il territorio nabateo ancora semiautonomo alle spalle della provincia di Judaea, si eliminava un corridoio di possibile infiltrazione incontrollata tra il Mar Rosso e la costa mediterranea. Gli storici hanno voluto vedervi una preparazione dell’ambiziosa campagna militare contro i Parti, un’impresa poi fallita che l’imperatore aveva già messo in programma. Con il controllo delle vie carovaniere del commercio internazionale proveniente dall’Arabia Felice nel sud della penisola arabica e dall’Estremo Oriente, l’imperatore realizzava un sogno accarezzato da tutti i generali romani a cominciare da Pompeo Magno, che per primo era giunto nel 64 a.C. alle porte dell’Arabia. Un cambiamento che portò benessere alle popolazioni della Provincia e alla stessa Petra i cui abitanti nel 114, quan-
Due miliari della Via Nova Traiana eretti lungo il percorso sul versante meridionale del Wadi Mujib/ Arnon tra Charach Mouba e Madaba. Superato il territorio montagnoso di Edom e di Moab, il tratto più difficoltoso del percorso era costituito dal Wadi Mujib-Arnon che immetteva sull’altopiano di Madaba e di Amman.
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do Claudio Severo era ancora governatore, eressero un arco trionfale in onore dell’imperatore sull’ingresso della Via Sacra che conduceva al tempio di Allat (oggi Qasr al-Bint), come si legge nell’iscrizione in greco recuperata nello scavo del 1956. Nell’iscrizione l’ex capitale del regno nabateo riceve il titolo onorifico di «Petra Metropoli di Arabia». La città era perciò restata un centro di primo piano nell’amministrazione della Provincia, e non aveva perso la sua importanza, anche se, a capitale e sede della legione, le era stata preferita la lontana Bostra nel nord. Zenone, figlio di Kayamathos, un soldato di origine orientale, come si può ricavare dal testo in nabateo di una iscrizione bilingue, giunto agli alti gradi fino a diventare tribuno, cheliarchos, pensò bene di esprimere il suo entusiasmo facendolo incidere su una roccia del Hisma a nord di Aila/Aqaba a Hedeib al-Fala: «I Romani vincono sempre. Io Lauricius ho scritto. Salute Zenone (figlio di Kayamathos)».
L’Era della Provincia Arabia e il territorio della Provincia Il passaggio di potere fu subito noto anche agli abitanti della Provincia che abbandonarono gli anni di regno dei loro sovrani nabatei e iniziarono a datare documenti e iscrizioni con la nuova era di Arabia. Significativamente le prime testi-
monianze sono in lingua nabatea. Due linee di scritto furono incise su un blocco squadrato di pietra calcarea ad Avdat, nel centro del Negev palestinese: «Scritto nel secondo anno della Provincia. Salam». «Nell’anno terzo del governatore di Bostra» (in nabateo), «terzo anno della Provincia» (in greco), è datato un epitaffio bilingue in greco e nabateo trovato a Madaba, la cittadina a 30 chilometri a sud di Amman: «Questa è la tomba e il monumento funebre sovrapposto che è stato costruito da Abgar chiamato Isyon, figlio di Mun’at della tribù degli ‘Amirat, per Salaman suo figlio, nell’anno terzo dell’eparchia di Bostra». L’utilizzo della nuova era e la presenza accertata dei suoi funzionari, come dei soldati della Legio iii Cyrenaica, per gli storici diventano le guide per definire il territorio della nuova Provincia. Evidentemente, non si tratta di prove, ma di indizi più o meno probanti quando ci si allontana dal territorio che costituiva il nucleo dell’ex regno nabateo. Purtroppo, nessun testo geografico contemporaneo ci illumina sulla estensione reale del territorio della Provincia, né d’altronde sulla estensione territoriale del regno nabateo, che nel sud e a est si perdono nella steppa desolata abitata dalle tribù seminomadiche. Il geografo Claudio Tolomeo può essere utile, ma solo in parte, perché le città della Provincia sono da lui elencate sotto diversi titoli (CoeleSyria, Arabia Petraea ecc.) che non corrispondono alla divi-
Il versante settentrionale del Wadi Mujib/Arnon all’altezza della fortezza moabita di Aro‘er che sorgeva sul versante settentrionale (al centro, in alto) fatta costruire a protezione della Strada dell’Arnon da Mesha re di Moab nel ix sec. a.C., come si legge nella Stele reale ritrovata a Dhiban nel 1868.
L’uscita del Wadi Mujib/Arnon sulla sponda orientale del Mar Morto.
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La divisione provinciale del territorio orientale dell’Impero dopo la riforma dell’imperatore Diocleziano. Divisa la Palestina (Palaestina Prima, Palaestina Secunda, e Palaestina Salutaris, poi Tertia), il territorio della Provincia Arabia venne ridimensionato a sud con una aggiunta territoriale a nord a spese della Provincia di Siria anch’essa suddivisa.
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Iscrizione imperiale fatta erigere al tempo di Vespasiano, padre di Tito e di Domiziano, da Traiano, governatore della provincia di Siria, padre dell’imperatore Ulpio Traiano (Museo Archeologico di Hama in Siria).
Frammento di iscrizione di un arco trionfale eretto a Petra in onore dell’imperatore Traiano. Iscrizione bilingue in nabateo e in greco trovata a Madaba, scritta nell’anno terzo del governatore di Bostra (in nabateo), nell’anno terzo dell’eparchia o provincia (in greco).
sione provinciale romana. Indicative restano anche le divisioni amministrative delle province in epoca bizantina forniteci da Ierokles e Giorgio Ciprio nel vi secolo che riguardano più la divisione amministrativa ecclesiastica che quella civile militare. La nuova provincia romana incorporò certamente il territorio del regno nabateo che da Petra si estendeva fino ai confini della Siria romana, restando però nella steppa orientale, perciò fuori del territorio delle poleis ellenides che a partire da Pompeo Magno facevano parte della Regio Decapolitana. Due di queste città, Philadelphia-Amman e Gerasa, più la città di Adraa, fecero parte della Provincia fin dalla fondazione, così che la linea di demarcazione territoriale a occidente si spostò verso la Judaea. Solo in un secondo tempo, forse al tempo di Settimio Severo, fu aggiunta anche la città di Canatha. Restavano fuori della provincia le città di Pella e di Gadara della Decapoli, e l’ex territorio della provincia giudaica di Perea con le città di Livias, di Gadara della Perea e di Amathus nella valle del Giordano. Un episodio ricordato da Giuseppe Flavio e un preciso riferimento dell’Onomastikon di Eusebio, ci permettono, almeno in un punto, di fissare il confine di Philadelphia-Amman a est del villaggio di Zia (oggi Zay) che faceva parte della Perea. Più problematico è seguire il confine lungo la sponda orientale del Mar Morto, da supporre come continuazione della Perea, e sull’altopiano dove Esbus e Madaba facevano certamente parte della Provincia. Un problema non risolto anche per l’epoca posteriore. I papiri dell’archivio di Babatha ritrovati in una grotta del deserto di Giuda, contengono precisi riferimenti prima al tribunale del re di Petra, poi, dopo l’annessione, al tribunale del governatore romano, dove la signora era invitata a presentarsi per una sentenza sulla sua vertenza con il figlio. Questo è un dato di fatto per affermare che inizialmente le terre a est della penisola di Lisan e la città di Zoara, sulla sponda orientale del mare, di
cui era originaria Babatha, si trovavano nel territorio prima del regno nabateo, poi della Provincia. A sud-ovest del Mar Morto, il confine entrava nel Negev palestinese. L’uso dell’era di Arabia nei centri urbani sviluppatisi in questa regione, come Mampsis, Oboda, Sobata, Elusa, Netzana, è l’indice spia per inserire il territorio nella Provincia. Lo stesso vale per la penisola sinaitica con i numerosi graffiti lasciati dai viaggiatori nel Wadi Mukattab e nel Wadi Feiran nel sud, e nei pressi del Wadi Khudrah nel nord. Più probante un’iscrizione che attesta la presenza nell’area di Wadi Umm Sidaira di un distaccamento della Legio iii Cyrenaica. Più problematica è la determinazione del confine nel nord della penisola arabica, a sud di Petra e nella steppa orientale, regioni sotto controllo delle tribù arabe. La presenza di iscrizioni riferite a membri della Legio iii Cyrenaica anche in località molto lontane, come i graffiti trovati tra Mada’in Salih e al-‘Ula, sono da ritenere un indice della zona di influenza dell’impero romano. Più che prova dell’annessione di parte del Hejaz nella Provincia, essi mostrerebbero che quest’area così meridionale veniva pattugliata dai soldati romani e che in qualche modo cadeva sotto la responsabilità del governatore dell’Arabia. Ipotesi più che confermata dalla presenza di un tempio dedicato a Marco Aurelio e a Lucio Vero a Ruwwafa, a nord ovest di Mada’in Salih, 75 kilometri a sud dell’oasi di Tabuk. L’iscrizione bilingue in greco e nabateo sulla porta principale attesta come il santuario fosse stato dedicato da membri della confederazione tribale dei Thamud al tempo di Claudio Modesto, governatore dell’Arabia. I dedicanti tengono inoltre a ricordare il suo predecessore, il governatore Antistius Adventus, per quanto aveva fatto per riportare la pace tra fazioni rivali della confederazione. Se per alcuni storici l’iscrizione è la prova della giurisdizione imperiale romana estesa nel Hejaz, per altri diventa la prima attestazione della politica che, a cominciare dal terzo
Il castellum Mobenorum di Qasr al-Bashir eretto nella steppa tra Madaba e Charach Mouba in relazione con il campo legionario di Lejjun.
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La capitale storica della nuova Provincia restò Petra, malgrado la scelta di Bostra nel nord come sede della Legio iii Cyrenaica e del governatore. L’ex-capitale del regno nabateo raggiunse il suo massimo splendore, come fanno fede i monumenti sepolcrali scolpiti nella roccia arenaria e i templi riportati alla luce dagli archeologi negli ultimi anni.
secolo, diventerà norma delle relazioni amichevoli intrattenute dai funzionari romani con le tribù arabe. Una politica che condurrà a stringere rapporti di foedus con le confederazioni tribali, per poi passare all’arruolamento nell’esercito dei membri della tribù. Sempre con il criterio della presenza di iscrizioni, nella steppa a est, la linea di presenza romana è il Wadi Sirhan, la via di comunicazione più diretta tra la penisola arabica e la Siria meridionale, con le importanti oasi di Jauf nel sud e di Azraq nel nord. Nell’oasi di Jauf una iscrizione latina ricorda la dedica di un centurione della Legio iii Cyrenaica, Flavius Dionysius, «per la salute degli Augusti nostri signori agli Dei Giove Ottimo Ammone e Sanctus Sulmus» («Pro salute domm. nn. Augg. I.o. Hammoni et sancto Sulmo Fl. Dionysius ] leg. iii Cyr»).
Le forze militari nella Provincia Nei primi due secoli dopo l’annessione, la difesa della Provincia era assicurata dalla legione di stanza nel campo legionario di Bostra, tramite la rete di castra, castella (forti, fortini) e torri dislocati nel territorio, in particolare lungo il tracciato della Via Nova Traiana. Distaccamenti di fanteria e di cavalleria montata a cavallo o su cammelli dislocati in punti strategici avevano il compito di pattugliare le regioni più remote del territorio sotto giurisdizione e responsabilità del governatore, per garantire la sicurezza delle oasi, la pace tra le tribù del deserto e, nello stesso tempo, della regione interna abitata e coltivata. Dalle fonti letterarie dell’epoca e dalle iscrizioni finora raccolte possiamo quantificare le forze a disposizione del governatore e la loro dislocazione nel territorio. La Legio iii Cyrenaica, la legione di Arabia fin dalla creazione della Provincia, era acquartierata nel campo di 36
Bostra. Alcuni studiosi hanno proposto un secondo campo legionario a Udruh nel sud, a pochi chilometri a est di Petra. Della legione facevano parte le forze ausiliarie composte da 10 o 12 unità, i cui nomi conosciamo dalle iscrizioni: l’ala dromedariorum e l’ala veterana Gaetulorum, note dai graffiti scoperti tra Mada’in Salih e al-‘Ula nel Hejaz; la Cohors i Hispanorum e la Cohors i Thebaeorum; la Cohors vi Hispanorum, attestata a Qasr al-Hallabat; la Cohors i Augusta Thracum equitata e la Cohors i miliaria Thracum, di guarnigione nel Negev; la Cohors i Augusta Canathenorum equitata, attestata in una iscrizione di Imtan. Resterebbero ancora anonime altre quattro coorti di ausiliari con le quali raggiungere il quorum di una legione di stanza in una provincia. Ne facevano parte soldati arruolati fuori della Provincia, almeno all’inizio dell’annessione del regno nabateo. Per un periodo successivo, iscrizioni come quella in greco con il nome di «Mesamaros cavaliere della Legio iii Cyrenaica di nazione nabatea», attestano che la legione reclutò i suoi soldati anche tra gli Arabi Nabatei della Provincia. Nel ii-iii secolo si moltiplicano i «numeri» (una designazione generale come nationes a indicare unità etniche, con soldati provenienti da Palmira, e dalla Siria), equites, alae, sagittarii, di diversa denominazione. «Equites singulares exercitus Arabici item dromedarii» vengono ricordati in una iscrizione di Bostra. «Dromedarii» che erano associati con distaccamenti vari e che troviamo a Namara, a Dura Europos sull’Eufrate, e in Egitto. Dalla Notitia Dignitatum, un documento militare dell’amministrazione imperiale di epoca tetrarchica, sappiamo che i soldati dei diversi auxilia, forze regolari dell’esercito imperiale, venivano reclutati dalle tribù arabe nella Provincia Arabia. Nel documento vengono ricordati gli Equites Saraceni Thamudeni di stanza nella località di Scenas Veteranorum in Egitto (28.17), gli Equites saraceni
Ara eretta in onore di Nettuno da un soldato della Legio iii Cyrenaica a Madaba (Museo Archeologico).
indigenae a Betproclis in Fenicia (32, 27), gli Equites Thamudeni Illyriciani a Birsama in Palestina (34,22). Oltre al ricordo nella Notitia (Graf 17) degli «equites promoti indigenae», equites sagittarii indigenae, e della Cohors iii Felix Arabum in un castellum nella regione del Wadi Mujib/ Arnon, dove troviamo Qasr al-Bashir e il forte di Qatraneh, in relazione con il campo legionario di Lejjun e il forte di Mahattat al-Hajj.
Origine del limes arabicus
La dea buona, il cane, il vinto e la tyché, da Palmira, Museo Nazionale di Damasco.
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La costruzione di nuovi forti (a cominciare dall’epoca degli Antonini e dei Severi, fine ii – inizi iii secolo) in punti strategici della steppa orientale, porta a concludere che le forze a difesa della Provincia dovettero prepararsi a fronteggiare nuove situazioni di pericolo per i suoi abitanti provenienti da est. Le costruzioni sono da mettere in relazione anche con i cambiamenti amministrativi decisi da Settimio Severo. L’imperatore, uscito vincitore dalla lotta con Pescennius Niger governatore della Siria nel 194, divise questa provincia in due unità, la Syria Coele e la Syria Phoenice. Inoltre modificò il confine meridionale di questa in favore dell’Arabia, stando alle iscrizioni datate con l’era della Provincia che
compaiono nella regione al tempo dei Severi, come quella trovata nel villaggio di Ahira nella Laja del 225 d.C. Un forte fu costruito a Namara, 80 kilometri a est di Bostra, dove furono inviati distaccamenti della Legio iii, truppe cammellate (“Dromedarii”) e contingenti di una seconda legione, forse la Legio ii Parthica. Nell’oasi di Azraq, con la costruzione nel 201, di due forti, Qasr al-‘Uweinid e Qasr al-Usaikhin, presidiati da un praesidium severianum composto da una vexillatio della Legio iii, risultava più protetta la via carovaniera proveniente dal Wadi Sirhan. Il «castellum novum severianum» viene ricordato anche in una seconda iscrizione in onore di Settimio Severo e dei suoi figli Geta e Caracalla, iscrizione fatta apporre nel 200-201 dal governatore Marius Perpetuus. Un altro forte fu costruito a Hallabat nel 213. Nei dintorni gli archeologi hanno identificato un muro basso che si sviluppa nella steppa per circa 5 chilometri di lunghezza, interpretato come un muro di difesa contro le incursioni. L’iscrizione, trovata a In‘at nel Hauran meridionale del 208, che ricorda un monumento di un Guththa, figlio di Erminarius, comandante delle truppe tribali (gentiles) di stanza tra i Motani (gli abitanti di Motha/Imtan), è la prima attestazione di Goti nella Provincia. La spiegazione più ovvia è che all’origine dei nuovi forti e del dislocamento di truppe per rafforzare il sistema difensivo della Provincia, ci sia stato un movimento delle tribù beduine che premevano dalla steppa orientale mettendo in pericolo la città di Bostra e le campagne abitate dell’interno. In questa epoca di attenzione per la Provincia meridionale, la Legio iii Cyrenaica venne onorata con il titolo di Severiana, probabilmente per la lealtà dimostrata al nuovo imperatore durante la lotta per il potere; la città di Canatha sul Jabal al-Druz ebbe il titolo di Septimia; le piccole città di Charach Mouba, Rabbath Mouba, di Madaba e di Esbus, ebbero il privilegio di battere moneta; Alessandro Severo diede il titolo di Colonia alla città di Bostra. Nel 244, la Provincia visse un momento particolare, con l’elezione a imperatore di M. Julius Philippus detto l’Arabo. Il piccolo villaggio di Shahba, a nord di Bostra, dove l’imperatore era nato, diventò Philippopolis con mura, strade colonnate, teatro, tempio e terme. Bostra iniziò gli Actia Dusaria, in ricordo della vittoria di Ottaviano su Antonio ad Azio e in onore di Dusares, dio principale del pantheon nabateo, identificato con il giovane Dioniso figlio di Silene. Sono documentati nuovi movimenti militari. L’Ala nova firma catafractaria con contingenti della Legio i Parthica giunse nel territorio di Bostra tra il 244-249. Truppe provenienti dalla Palestina furono trasferite nel forte costruito a Qal‘at al-Zerqa, 10 chilometri a nord di Amman, al tempo del governatore Aurelio Theo (253-59). La città di Adraa fu fortificata tra il 259-75. Per questo periodo, il Chronicon Paschale ricorda un sistema un po’ estemporaneo per tenere a freno i beduini: «L’imperatore Decio fece portare dall’Africa dei leoni spaventosi e delle leonesse, e li lasciò liberi sulla frontiera orientale dall’Arabia e la Palestina fino alla fortezza di Circesio perché si riproducessero, lungo il territorio dei Barbari Saraceni!». È il momento delle turbolenze provocate dalle invasioni sassanidi della Siria e dell’Anatolia al tempo di Shapur nel 39
243, 256, 259, di cui l’Arabia restò immune. Anche l’invasione della Provincia da parte della regina Zenobia di Palmira e di suo figlio Odaenathus, durante la discesa in Egitto nel 269, di cui fu vittima la città di Bostra con la distruzione del tempio di Zeus Ammone protettore della Legione e della città, restò un fatto localizzato senza conseguenze. Tenendo presente un’iscrizione bilingue trovata a Umm al-Jimal, che ricorda un maestro di Jadhimah-Ghadimat re dei Tanukh, gli storici moderni sono ora propensi a dar credito alla notizia conservata da Hamza al-Isfahani e da al-Mas‘udi, storici arabi del x secolo, secondo i quali la confederazione dei Tanukh, prima di passare a Hira sulla sponda orientale dell’Eufrate, in territorio persiano, si trovava nel nord della Provincia. Zenobia avrebbe invitato Jadhimah, loro capo, per poi tagliargli le vene e raccoglierne il sangue in un bacile d’oro. Il successore ‘Amr ibn ‘Adi, nipote del defunto, primo re dei Banu Lakhm, ne vendicò la morte alleandosi con l’imperatore Aureliano nella lotta contro Zenobia. Sarebbe stato lui a conquistare Palmira e a uccidere la regina.
Le città e i villaggi di Arabia Lo storico Ammiano Marcellino ricorda tre città tra le più forificate della Provincia: Bostra, Gerasa e Filadelfia. (Historiae xiv, 8, 13: «Arabia… haec quoque civitates habet inter oppida quaedam ingentes, Bostram et Gerasam atque Philadelphiam, murorum firmitate cautissimas»). In tutte e tre le città i cambiamenti, spesso anche radicali, di rioccupazione degli spazi urbani sopravvenuti in epoca bizantino-omayyade non sono riusciti a far scomparire la profonda traccia monumentale impiantata nei tre secoli di amministrazione romana, come a Petra e negli altri centri urbani che fino al iv secolo fecero parte della Provincia. Petra Nel sud, sotto la spinta innovatrice della cultura ellenistica che era riuscita a permeare anche gli strati più restii del mondo semitico, già i nomadi Nabatei, da cammellieri trasportatori diventati ricchi imprenditori commerciali, avevano trasformato le pareti rocciose di Rekem, rifugio naturale inaccessibile tra le montagne della Sharah irrigato dall’abbondante sorgente di Gaia, nella meraviglia di Petra. Il nodo carovaniero del commercio delle spezie che proveniva dall’India attraverso il Mar Rosso o risalendo via terra la penisola arabica, naturalmente difeso dalla gola profonda del Siq, divenne il centro sacrale e la capitale del regno dei Nabatei. Un impero commerciale invidiato e invano bramato dai re greci di Siria e poi dai generali romani, che si estese all’Arabia e all’entroterra siro-giordanico, alla penisola sinaitica e al Negev palestinese fino a raggiungere il Delta del Nilo e il porto di Gaza sulla costa mediterranea, che divenne il maggiore emporio del Mediterraneo orientale. I re della dinastia, i vari Oboda, Rabbelos, Malichos e Aretas, presto imitati a gara dalle ricche famiglie di commercianti, fecero scolpire le loro tombe, i templi e gli altari dei loro dei nella roccia arenaria rosata dai colori cangianti della montagna. 40
Semplici facciate stilizzate con una doppia scalinata in alto, imitano successivamente articolate facciate di palazzi con colonne, capitelli, architravi, e frontoni finemente decorati, timpani spezzati con tolos centrale sormontato da un acroterio, con soluzioni di gusto scenografico che verranno riprese nell’architettura posteriore romana. I monumenti costruiti in epoca romana, man mano identificati dalla ricerca archeologica, stanno a testimoniare l’interesse dimostrato dai governatori imperiali per la città capitale strategicamente sacrificata alla stazione commerciale di Bostra nel nord, per la sua posizione più centrale nel controllo delle vie provenienti dal deserto orientale. Oltre all’arco di Traiano costruito all’inizio della via sacra colonnata che conduceva al tempio di Qasr al-Bint, una delle testimonianze più significative è l’epitaffio di Tito Aninius Sextius Florentinus, governatore della Provincia dal 126 al 130, morto al massimo della sua carriera. L’epitaffio fu scolpito sulla tomba fattagli costruire in stile “nabateo” nella gola di Petra: «A Tito Aninio Sesto Florentino figlio di
Moneta provinciale coniata a Bostra, capitale della nuova Provincia. Sul verso (sotto) è raffigurata la personificazione dell'Arabia. Monete provinciali di epoca romana coniate nelle città della Decapoli e della Provincia Arabia: Abila, Gadara, Capitolias, Gerasa, Nysa Schythopolis, Gadara, Hippos, Philadelphia, Dium, Pella, Arabia Adquisita, Arabia, Bostra, Petra Metropolis, Bostra, Adra, Gerasa e Philadelphia.
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Lucio, della tribù Papiria, triumviro incaricato della zecca in oro e in argento, tribuno della Legione Prima Minervia, questore della provincia di Acaia, tribuno della plebe, legato della Legio ix Hispanica, proconsole della provincia narbonese, legato imperiale propretore della provincia di Arabia, ad un padre amato, ottemperando alla sua volontà». La città, Metropolis già al tempo di Traiano, diventa Adriane Petra Metropolis al passaggio dell’imperatore Elio Adriano nel 130, e Colonia Antoniana al tempo di Eliogabalo. La zecca locale, erede di quella nabatea, batté moneta dal tempo di Adriano fino a quello di Eliogabalo. I tipi utilizzati in una monetazione che non brilla per l’accuratezza tecnica, iniziano al tempo di Adriano con l’imperatore che con un aratro tirato dai buoi apre il solco di fondazione della nuova città (sulcus primigenius). Contemporaneamente, appare la tipologia con la scritta in corona «Petra Metropolis», seguita dal tipo con la Tyche cittadina in atteggiamenti diversi, e dalla stella al centro di una mezzaluna. La tipologia della Tyche cittadina appare anche su alcuni sigilli trovati a Kurnub-Mampsis. La città restò un centro culturale attivo. Gli storici ricordano il sofista Callinicus di Petra che insegnò la retorica in Atene e dedicò una delle sue opere sulla retorica al governatore di Arabia Virius Lupus. Quando Zenobia di Palmira giunse ad Alessandria in Egitto, le presentò un’opera dedicata alla storia della città. Anche il suo rivale Genethlius, autore di un’opera sulla poesia di Menandro, era originario di Petra. Eusebio di Cesarea, recensendo nell’Onomastikon il toponimo biblico Arcem e Recem, lo identifica con Petra, che egli chiama «civitas Arabiae» (144,7), e «urbem nobilem Palaestinae» (36,13). Bostra La scelta del centro carovaniero e agricolo a capitale amministrativa e sede della legione a cui era stata affidata la difesa della nuova provincia, significò l’inizio di una trasformazione monumentale che continuò ininterrotta fino al terzo secolo. Le strade principali vennero colonnate. Furono costruite le terme, il teatro, l’ippodromo. Dalle iscrizioni sappiamo che collaborarono le autorità civili e militari dell’impero, le quali assicurarono privilegi e mezzi economici, e la ricca popolazione cosmopolita, in gran parte di origine araba, attirata dai lussi e dalle comodità della capitale. La località nabatea sede del governatore di Arabia e campo base della legione, è conosciuta da Tolomeo come Bostra Legion. In onore dell’imperatore che la scelse come capitale della nuova provincia, ebbe il nome di Nea Traiane Bostra. Divenne Colonia al tempo di Alessandro Severo (Traiane Colonia). Filippo l’Arabo, originario di Shahba, un villaggio a nord della città, le diede il titolo di Metropoli di Arabia. Eusebio, vescovo di Cesarea, la identifica nell’Onomastikon con la biblica Bosor (On. 46, 10: «Bosor… haec est metropolis Arabiae»). Coniò moneta dal tempo di Adriano fino agli imperatori Erennio Etrusco e Ostiliano. Tra le tipologie monetarie primeggia il busto di Zeus Ammone protettore della Legio iii Cyrenaica. Il busto del dio nabateo Dusares, che viene rap42
presentato anche in groppa ad un cammello, e la scritta «Actia Dusaria» in corona, ricordano le origini nabatee della città. Sono presenti anche il busto di Serapis, di Atena e della Tyche cittadina. In città furono anche coniate le monete provinciali con il busto dell’Arabia o con un cammello, motivi che si trovano impiegati sulle monete imperiali dell’epoca traianea. La ricerca archeologica tra le case della città moderna ha evidenziato il reticolo ortogonale delle strade colonnate principali lungo le quali furono costruiti gli edifici pubblici di epoca romana all’interno della cinta muraria. Iscrizioni recuperate lungo il tracciato non sempre definito sul terreno, documentano diversi lavori di restauro delle mura a cominciare dalla metà del iii secolo fino all’epoca di Giustiniano. «Il consolare Galloniano ha fatto costruire (questo edificio) sotto la sorveglianza di Agrippa, cavaliere. Rallegrati Bostra!» si legge in una iscrizione del iii secolo. La formula finale trova un parallelo nelle iscrizioni che per lo stesso periodo ricordano il restauro delle mura di Adraa per ordine imperiale. Del campo legionario, dove erano acquartierati i soldati della Legio iii Cyrenaica, si è ritrovata la porta nord nel settore settentrionale dell’abitato. Il centro città fu praticamente ristrutturato con l’aggiunta del quartiere occidentale. La città si caratterizza, rispetto alle altre città della Provincia, per il numero delle strade colonnate con portici, introdotte e interrotte da archi monumentali agli incroci che correggono la non perfetta assialità delle arterie, tre orientate in direzione nord-sud, e tre in direzione est-ovest. Per le colonne fu utilizzato sia il basalto presente nella regione, sia il calcare bianco. Come per Gerasa, l’infilata della strada colonnata che attraversava la città da est a ovest, era introdotta all’interno della porta orientale da una piazza ovale colonnata. Lungo queste strade, gli esploratori del xix secolo furono in grado di identificare alcuni edifici monumentali ancora oggi conosciuti come il Tempio e il Ninfeo. La ricerca epigrafica ha dato modo di aggiungere il tempio di Roma e di Augusto, l’esistenza di un tempio di Zeus Epicarpios, ricordato da un altare dedicato nel 181, e il tempio di Zeus Ammone, dio protettore della Legio iii Cyrenaica, restaurato nel 273-75 dopo avere subito forti danni da parte delle truppe occupanti di Zenobia di Palmira. Dalle tipologie monetarie si può ipotizzare sia il tempio di Dusares, con l’altare raffigurato sulle monete, sia il tempio della Tyche cittadina, di cui era sacerdote Ulpius Pompeius Marcus, come si legge su due epigrafi in greco: «Ulpio Pompeio Marco, sacerdote della Grande Tyche, alla Signora Patria, nell’anno 112 (217-18)». Tra gli edifici non templari, il cosidetto Palazzo di Traiano è stato ipotizzato come il probabile palazzo del governatore, la chiesa di Bahira come una basilica. La città aveva due complessi termali, uno situato tra il teatro e il ninfeo, e il secondo, nel quartiere settentrionale, in comunicazione con il foro chiuso tra il mercato a est e un criptoportico di 100 metri di lunghezza a sud con la presenza di un probabile edificio templare. L’edificio monumentale meglio conservato della città è il teatro nel quartiere meridionale, forse in relazione con le mura. L’area fuori le mura era caratterizzata dall’ippodromo, di cui resta chiara la sagoma, e i grandi serbatoi all’aperto approvvigionati dalla raccolta
La facciata del monumento sepolcrale rupestre fatto erigere a Petra da Titus Aninius Sextius Florentinus, governatore della Provincia Arabia dal 126 al 130.
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Il teatro romano di Bostra conservatosi praticamente intatto perché utilizzato come fortezza in epoca islamica, che raggiunse la sua forma attuale in epoca medievale ayyubida (xiii sec.).
Moneta della città di Bostra con il dio nazionale nabateo Dusares a dorso di un cammello.
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dell’acqua piovana e da acquedotti che vi dirigevano le sorgenti del Jabal al-Druz. Su un epitaffio di epoca romana la città riceve l’attributo di “famosa”: «Basso, cittadino di Bostra la famosa, ha fatto costruire questo sepolcro di una estrema finezza e dalle pietre ben levigate». Certamente, la città, famosa lo era tra gli abitanti del Hijaz nel vi-vii secolo. Il poeta arabo Hotaia, per esemplificare la potenza raggiunta dal califfo Omar ibn al-Khattab, scrisse: «Bostra e Gaza gli obbediscono!». E Baydawy, uno scrittore ugualmente arabo, ricorda, al tempo di Maometto, le reazioni che ebbe tra gli abitanti della Mecca la notizia della presa della città da parte dei Persiani nel 614. Riferisce lo storico: «Si racconta che i Persiani avevano attaccato i Bizantini. Li raggiunsero ad Adraa e a Bosra e li vinsero. Quando la notizia giunse alla Mecca (in un periodo di tensione tra gli adepti di Maometto e gli abitanti pagani), gli associati ne gioirono e si presero gioco dei musulmani: “Voi e i cristiani, sghignazzavano, siete detentori della Scrittura, noi e i Persiani siamo Gentili. I nostri fratelli hanno vinto i vostri fratelli, come faremo noi (con voi)”».
Canatha/Qanawat Canatha, «vicus Arabiae, qui nunc Canatha dicitur» (On. 112, 20), in regione Trachonitide iuxta Bostram (On. 112, 22), fu identificata da Eusebio con la biblica Canath. In onore di Aulo Gabinio governatore della Provincia di Siria nel 56 a.C., i cittadini si autodefinorono Gabiniani. Nella Tabula Peutingeriana una strada unisce Canatha a Damasco e a Bostra passando per Aenos. La città batté moneta dal tempo di Caligola fino ad Elagabalo. Le tipologie sono varie: Busti di Zeus e di Atena, la Tyche in piedi o seduta, Dioniso in piedi, un bue in piedi, mezzaluna e stella.
Particolare del complesso di Qanawat (Canatha), detto il Seraya o Palazzo, sul Jabal al-Druz.
Philippopolis/Shahba Lo storico Sesto Aurelio Vittore, sintetizzando l’ascesa politica di Filippo l’Arabo, lo dice originario di un humillimo loco che divenne città per volontà dell’imperatore: «Igitur Marcus Iulius Philippus Arabs Trachonites, sumto in consortium Philippo filio, rebus in Orientem compositis, conditoque apud Arabum Philippopoli oppido, Romam venit… Is Philippus humillimo ortus loco fuit, patre nobilissimo latronum ductore». La nuova città a pochi chilometri a nord di 45
La dea Artemide, incisa sulla gemma di un anello conservato nel locale Museo, era la Tyche degli abitanti della città di Gerasa, come si legge sulle monete coniate in città. Tratto del cardo della città di Gerasa che attraversava da nord a sud il quartiere monumentale occidentale.
Nelle pagine precedenti: La città di Gerasa era divisa in due quartieri dal corso del ruscello ribattezzato Chrysoroas. Il quartiere occidentale, dominato dal tempio della dea Artemide Tyche dei Geraseni, fu monumentalizzato nel ii-iii secolo dopo che la città della Decapoli era stata inserita nel territorio della nuova Provincia di Arabia raggiungendo il suo massimo splendore.
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Bostra battè moneta soltanto al tempo di Filippo, un Arabo che ebbe l’ambito onore di celebrare i fasti di Roma nel 243. Seduta o in piedi, sulle monete Roma accompagna i ritratti dell’imperatore, di suo padre Marino divinizzato, di suo figlio Filippo e di sua moglie Marcia Otacillia. Il piccolo borgo divenuto una città in miniatura chiusa all’interno di mura squadrate con le strade ortogonali colonnate che la suddividevano in quartieri, ebbe il suo tempio, il teatro, le terme e un acquedotto per l’approviggionamento di acqua. Adraa/Der‘ah Eusebio come città eminente dell’Arabia, la identifica con la biblica Adra‘ah (On. 85, 7: «Edrai…nunc autem est Adra insignis Arabiae civitas in vigesimo quarto lapide a Bostra»). On. 13, 14: «porro Adra a Bostra viginti quinque milibus distat». Tolomeo la inserisce tra Gadara e Scitopoli. Nella Tabula di Peutinger, Adraha è inserita tra Bosra e Capitoliade, 16 miglia da questa, e 24 dalla prima. La città coniò moneta dal tempo di Antonino Pio fino a Gallieno. La tipologia più usuale è l’altare con betilo, la Tyche in un tempio, Erakles seduto su una roccia, il busto di Atena. Su alcune monete compare il nome del fiume Ieromikes, l’attuale Yarmuk, che attraversa la città prima di andare a a terminare nelle acque del fiume Giordano. Il fiume personificato è reso reclinato su un fianco con la mano sinistra poggiata su una roccia e con una canna nella mano destra. Un pesce guizza verso l’alto. Di fronte, in
piedi, è raffigurata una figura femminile identificata con la Tyche cittadina.
Macedone quale supposto fondatore della città della Decapoli. Probabilmente al tempo di Caracalla divenne una colonia romana con il titolo di Colonia Aurelia Antoniana. Dagli scavi condotti nel settore occidentale, sappiamo che nel primo secolo a.C. i Geraseni, diventati Antiocheni, iniziarono a costruire un altare in onore di Zeus su un’altura a meridione dell’abitato primitivo ubicato su una vicina collina. L’architetto Diodoro il Geraseno nel primo secolo d.C. inglobò il santuario in un tempio, che raggiunse la massima estensione monumentale al tempo degli Antonini nel 162-63 d.C., con l’aggiunta di un teatro per le rappresentazioni sacre. Alla distanza di poco più di uno stadio, verso sud, già sorgeva la porta trionfale a tre fornici costruita dalla ricca borghesia imprenditoriale di Gerasa per ricordare la visita dell’imperatore Adriano alla loro città. L’opera di trasformazione monumentale dell’area urbana chiusa all’interno di mura poligonali, fu affidata a un architetto geniale e illuminato restato anonimo. In continuazione della strada che entrava in città dalla porta sud nel quartiere occidentale, fu creata una piazza ovale ai piedi del tempio di Zeus dalla quale partiva il cardo colonnato che attraversava la città da nord a sud. L’infilata di alte colonne corinzie era interrotta da un tetrapilon in relazione con il decumano meridionale che univa il quartiere occidentale al quartiere di abitazione sulla sponda orientale del Chrisoroas. Un altro accesso sul cardo era assicurato da un ponte in relazione con i propylea che introducevano all’ampia terrazza colonnata, o temenos, del tempio dedicato ad Artemide Tyche dei Geraseni, il santuario principale che dominava la città. Un secondo tetrapilon a nord introduceva alle terme e all’odeon addossato alle pendici della terrazza dell’Artemision, prima che il cardo riprendesse con un colonnato di ordine ionico fino a raggiungere la porta nord della città.
Gerasa Delle libere città della Decapoli, territorio cuscinetto tra i Nabatei, gli Iturei e lo stato ebraico, faceva parte Gerasa, polis «degli Antiocheni che sono presso il Chrisoroas una volta detti Geraseni», come si proclamano gli abitanti sulle monete e sui monumenti di epoca romana. Un villaggio nel cuore della Giordania centrale, che divenne, grazie alla sicurezza garantita da Roma, un simbolo di potenza commerciale espressa nei monumenti in un impianto urbano geniale che ne fa l’esempio più impressionante della ricchezza e prosperità raggiunta dalla borghesia imprenditoriale della Provincia. La città si era progressivamente estesa sulle terrazze degradanti da est e da ovest sulle due sponde del ruscello assunto al rango di fiume con il nome di Chrisoroas, il fiume d’oro, emulo dell’Oronte che attraversava Antiochia, capitale di Siria, nome di cui gli abitanti di Gerasa si fregiavano, insieme all’origine macedone. Nelle iscrizioni, la titolatura ufficiale della città è: «Antiochia ad Chrysorhoan quae et Gerasa (hiera, asylo(s), autonomos…)». Inserita nel territorio della Provincia Arabia, fu visitata da Adriano nel 130 durante il suo viaggio in oriente. La città coniò moneta dal tempo di Nerone fino ad Eliogabalo. Tra le tipologie in gran parte centrate sul culto di Artemide Tyche dei Geraseni, si trova anche il busto di Alessandro il
Philadelphia-Amman Amman, ricordata nella Bibbia come Rabbat dei Figli di Ammon, ebbe il nome semitico cambiato in Philadelphia con riferimento a Tolomeo ii Filadelfo. Così scrive Girolamo commentando un testo del profeta Ezechiele 21, 18; 21, 1: «Rabbath, quae hodie a rege Aegypti Ptolomaeo cognomento Philadelpho… Philadelphia noncupata est». Plinio il Vecchio inserisce Philadelphia nella lista delle città della Decapoli. Gli abitanti continuarono a usare l’era pompeiana della Decapoli anche quando entrò a far parte della Provincia Arabia. Eusebio la chiama nobilis: «Amman quae nunc Philadelphia, urbs Arabiae nobilis» (On. 16, 15). Batté moneta dal tempo di Tito fino ad Elagabalo. Le tipologie coloniali fanno riferimento a Eracles e a sua mamma Asteria, ai Dioscuri, a Demetra, oltre che ad Atena e alla Tyche cittadina. Nella titolatura gli abitanti si autodefiniscono di Philadelphia della Celesiria. I monumenti di epoca romana furono costruiti nella città bassa, che si estendeva nella valle sui due lati del fiume creato dall’abbondante sorgente, e sull’acropoli. Dal complesso della città bassa composto dal teatro e dall’odeon con una piazza colonnata, una scalinata monumentale conduceva all’acropoli, sulla quale si innalzava il probabile tempio di Erakles protettore della città. 49
Nella pagina precedente: Della Provincia fece parte anche la città di Philadelphia-Amman, la più meridionale delle città della Decapoli. Gli abitanti veneravano il dio Erakles, figlio di Asteria, al quale era probabilmente dedicato il tempio sulla cittadella.
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Madaba La cittadina nota agli autori biblici e moabiti, ebbe sempre una preminenza territoriale sull’altopiano a sud di Amman, noto come «la terra di Madaba». Il centro urbano e il suo territorio fecero parte del regno nabateo. Stefano di Bisanzio nel vi secolo la dice ancora «città dei Nabatei». Era ancora
Rabbat Mouba/Areopolis Nella Tabula Peutingeriana il nome viene dato come Rababatora che alcuni pensano sia un nome doppio composto da Rabbah e da Betoro, il campo della legione che sorge-
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Una delle prime preoccupazioni del governatore della nuova Provincia fu la costruzione della Via Nova. I miliari ritrovati fino ai nostri giorni sul terreno sono la migliore documentazione del percorso di questa importante arteria che serviva da asse portante di tutta la rete stradale della Provincia. L’antichità romana, tramite una copia di epoca medievale, ci ha lasciato nel Segmentum viii della Tabula Peutingeriana (Vindobonensis 324) anche un documento d’epoca, probabilmente pre-costantiniano, con la rete stradale della Provincia. Nel documento le strade sono indicate con una linea rossa interrotta dalle città o località incontrate nel suo percorso. In numero romano sono indicate le miglia tra due località, senza però l’indicazione del caput viae, cioè l’inizio della numerazione. Altre opere geografiche, come le liste della Geographia di Tolomeo (ii secolo d.C.), dell’Onomastikon di Eusebio di Cesarea (fine iii-inizi iv secolo d.C.), e della Notitia Dignitatum (iv secolo d.C.), integrano e chiariscono i riferimenti della Tabula. Per quanto riguarda la regione di Palestina e di Arabia, prendendo come punto di partenza Aila (Haila), il porto sulla sponda del Mar Rosso, la strada ha un doppio percorso, uno prosegue verso nord, l’altro si dirige verso ovest, parten-
30 km
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Charach Mouba La città coniò moneta al tempo di Elagabalo. La tipologia più comune è la Tyche che accompagna il nome della città. Si trova anche una figura seduta davanti ad una piattaforma rialzata sulla quale sono poggiati dei betili. Nello scavo della città di Mampsis/Kurnub nel Negev palestinese, furono ritrovate alcune impressioni di sigilli che con il nome della città recano il busto dell’Arabia, un soldato in piedi, la Tyche seduta e alcuni segni zodiacali (Sagittario, Acquario, e Capricorno). La vignetta della città con il nome si è conservata nel mosaico della Carta di Madaba (vi sec.), dove è rappresentata come una città con cinta muraria posta su una montagna vista a volo di uccello, e nel mosaico della chiesa di Santo Stefano di epoca omayyade (viii sec.) dove la città è vista frontalmente con la cinta muraria, la porta e un edificio all’interno.
Le strade della Provincia
Sidone
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A R A V A
Esbus/Hesban La cittadina nota agli autori biblici sorgeva sull’altopiano moabita a pochi chilometri a nord di Madaba. Eusebio la dice città importante dell’Arabia e la ricorda spesso come punto di riferimento geografico, a venti miglia dal fiume Giordano (On. 84, 4), ad un miglio da Eleale (On. 84, 10) non lontano dal Nebo (136, 6). Era caput viae della strada romana che la univa a Livias/Bet Ramtha nella valle del Giordano e, passando per Gerico, a Gerusalemme sulla montagna di Giudea, come attestano i miliari del ii e iii secolo in gran parte ritrovati. La cittadina batté moneta al tempo di Elagabalo. Le tipologie recano Zeus seduto, Men, Dioniso e la Tyche entrambi in piedi. La scritta sul verso è in latino con la titolatura di Aurelia. Sul tell di Hesban restano elementi architettonici di epoca romana riutilizzati nelle chiese. Sul versante occidentale si estende la necropoli con tombe di epoca romano-bizantina. La vignetta della città con il nome in greco (Esbounta) si è conservata nei due mosaici dell’viii secolo di Ma‘in e di Santo Stefano a Umm al-Rasas.
va tra Rabbah e Kerak. Eusebio ne ricorda il nuovo nome di Areopolis: «Moab: urbs Arabiae, quae nunc Areopolis dicitur, sic vocata est, cuius et supra meminimus, appellatur autem Moab ex nomine urbis et regio. Porro ipsa civitas quasi proprium vocabulum possidet Rabbath Moab, id est grandis Moab» (On. 124, 17). Sotto la voce Ariel Eusebio tenta di spiegare anche l’origine del termine Areopolis (37,17), desumendolo dall’esistenza in città di un idolo chiamato con lo stesso nome («Ariel: hanc putant esse quidam Areopolim, eo quod ibi nunc usque Ariel idolum colant, vocatur apo tou Areos id est a Marte, unde et civitatem dictam suspicantur»). Girolamo, commentando un testo di Isaia, corregge l’opinione del vescovo e riporta il toponimo alla sua origine semitica: «Civitas Ar, quae hodie ex Hebraeo et Graeco sermone composita Areopolis noncupatur, non ut plerique existimant quod Areos id est Martis civitas sit» (In Isaiam xv, 1). La cittadina batté moneta dal tempo di Settimio Severo ad Elagabalo. Le monete tecnicamente di povera fattura, recano sia il nome Rabbath Mouba che quello di Areopolis. La tipologia più comune mostra il dio Ares in piedi su una base quadrangolare tra due altari con fiamma. Il dio è vestito dell’ornamento militare, elmo in testa, corazza sul petto e stivali ai piedi, con una spada nella mano destra e lo scudo e la lancia nella mano sinistra. Altre tipologie recano Poseidone in piedi, la Tyche, e i due principi Caracalla e Geta in piedi uno di fronte all’altro. Tra le impressioni dei sigilli trovati a Mampsis/Kurnub ci sono anche quattro sigilli della città con simboli dello Zodiaco: la Bilancia (due), lo Scorpione e il Sagittario. Sul punto più alto della collina dove sorge l’attuale Rabbah, restano gli elementi architettonici di una piazza colonnata di epoca romana.
-GHAZA EL RB DA
Frammento di una iscrizione imperiale trovata a Madaba, che ricorda un edificio non identificato eretto dal governatore Iulianos nel 219 nei pressi delle porte della città, al tempo dell’imperatore Caracalla.
fiorente al tempo di Eusebio «usque hodie urbs Arabiae antiquum nomen retinens iuxta Esebon» (On. 128, 19). Batté moneta al tempo di Settimio Severo, di Geta, di Elagabalo e di Alessandro Severo. Le tipologie più comuni sono l’Elios in quadriga e la Tyche dei Medabesi in piedi o seduta con cornucopia e un busto nella mano. Sulle monete compare anche un betilo in un tempio. Di epoca romana resta la strada lastricata e colonnata che attraversava il quartiere settentrionale in direzione est ovest, con il basamento di una esedra colonnata sulla quale fu costruita la chiesa della Vergine in epoca bizantina. Molti elementi architettonici, come fregi, capitelli e colonne furono utilizzate nelle chiese. Un epitaffio bilingue in greco e in nabateo su una lastra di basalto ritrovata nell’area della “cattedrale”, è datata al terzo anno della nuova Provincia (108-109 d.C.), una delle più antiche testimonianze dell’era provinciale. Una epigrafe con damnatio memoriae nella parte superiore ricorda un edificio non identificato costruito nei pressi delle porte della città dal legato imperiale: «(Per la salute e la vittoria e la permanenza eterna) dell’imperatore (Cesare Marco Aurelio Antonino Pio Fortunato nostro signore) fu costruito (un edificio) presso le porte, al tempo (di …Flavius Iu)lianus legato imperiale (propretore, console, essendo) sovrintendenti (un tale figlio di un tale) e di Teodoro (figlio) di Ru(fino, nell’anno) 114 (219 d.C.)». In altre epigrafi, con molti nomi di origine nabatea, leggiamo i nomi di due centurioni della Legio iii Cyrenaica, Caio Domizio Alessandro, che fu onorato dalla città, e Lucio Velina Firmo, che dedicò a Nettuno una piccola ara funeraria. Il testo di questa epigrafe è in latino. In un’altra epigrafe in greco, la quale accompagna sui lati la scultura di una mano che stringe una folgore, si legge il nome di Zaidallas Petrigenous boleuta di Madaba che offre la scultura ad un imperatore il cui nome non si è riusciti a decifrare. La vignetta della città si è conservata nel mosaico della Chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas (viii secolo).
HISMA
Kithara
Sito Città Forte Campo legionario Strada romana Via del deserto
Mar Rosso
do dalla stazione di Presidio, attraversa la valle dell’Arabah, e raggiunge la costa del mare Mediterraneo. Il percorso verso nord dopo xx miglia tocca Praesidio identificato con Khirbat al-Khaldeh, dopo xx miglia Hauarra (Auara in Tolomeo) identificata con Humeima, dopo xx miglia Zadagatta (Zanaatha in Tolomeo, Zodachata nella Notitia Dignitatum), oggi Sadaqa. Segue Petra indicata con la vignetta più semplice disegnata dall’autore della Tabula, due torri a fianco di una porta, simbolo che sta per una stazione del cursus publicus (la posta imperiale) o per una località di una certa importanza. Il simbolo si ritrova nella Carta musiva di Madaba del vi secolo. La strada prosegue per
La Via Nova Traiana, arteria principale della Provincia, era collegata con la rete stradale delle province confinanti di Siria e di Palestina.
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Negla (Nekla in Tolomeo) identificata con ‘Ayn Nejl ai piedi della fortezza crociata di Shobak/Montrealis, per Thornia (Thana in Tolomeo), oggi Thawana, fino a raggiungere Rababatora che sembra la fusione di due parole Rabbat (Moba, nota anche come Areopolis) più Betora o Betoro, il campo legionario di Lejjun non molto distante. Da qui parte una strada che si dirige verso ovest, che è il secondo attraversamento della valle dell’Araba. Sempre sulla direttrice settentrionale, la strada raggiunge la città di PhiladelphiaAmman, poi Gadda, Hatita (identificata con Khirbat al-Samra), Thantia (Umm al-Jimal?), Canatha/Qanawat sul Jabal ad-Druz), Bostris (Bostra), e Aenos, dove prosegue per Damasco. Da Bostris una deviazione si dirige verso Adraha (Adraa) seguendo il corso del fiume Hieromax/Yarmuk, per raggiungere Capitolias, Gadara e Tiberiade nella valle del Giordano. Nella Carta musiva di Madaba, con il nome generico di Erem(os/ia) a sud del Mar Morto, sono indicate, a ovest dell’Arabah, le località di Thamara, di Prasidin e Moa. Risalito l’altopiano del Negev, la prima località indicata è Mampsis, Kurnub, come nella Tabula, lungo il secondo attraversamento della Valle dell’Araba. L’Onomastikon ricorda la strada trasversale che univa la Via Nova Traiana alla valle del Giordano, da Esbus a Livias, tratto di strada percorso dai pellegrini provenienti da Gerusalemme per recarsi al Memoriale di Mosè sul Monte Nebo. Lo studio dei miliari ancora presenti nel territorio ha permesso di chiarire i diversi percorsi della rete stradale nella Provincia di cui la Via Nova era l’asse portante. Provenendo dal sud, dopo la stazione di Humeima, il percorso principale della cosidetta Via Militaris saliva al campo di Udruh e proseguiva al campo legionario di Lejjun, per poi toccare i forti di guardia nella steppa, prima di giungere a Philadelphia-Amman e dirigersi verso Bostra. PhiladelphiaAmman era anche il punto di arrivo della variante (nota come Darb al-Rasif in arabo), che saliva direttamente a Petra per riunirsi a nord con il tratto della Via Nova che, attraversato il Wadi Hasa, giungeva a Charach Mouba, Areopolis e, dopo la gola dell’Arnon-Mujib, a Madaba e a Esbus. Da Philadelphia-Amman, la strada raggiungeva Gerasa e Adraa nel nord.
Diocleziano e il limes arabicus L’attività difensiva ricevette un nuovo impulso a cominciare dal tempo di Diocleziano. Stando alle esplorazioni degli ultimi decenni, i forti della Provincia da quattordici divennero trenta. Datati sono Dayr al-Kahf, costruito nel 306, e Qasr al-Azraq nel 326-33. Nella stessa epoca fu costruito Qasr al-Bashir con il rafforzamento delle difese del bacino del Wadi Mujib (On. 212), i forti di Khirbat al-Samra e Khirbat al-Fityan. Una iscrizione nel Wadi Sirhan sembra alludere a una catena continua di fortificazioni per 500 chilometri, da Bostra all’oasi di Jauf nel sud. Delle guarnigioni facevano parte contingenti di almeno sei legioni. Nella steppa siriana fu costruita la strada militare fortificata che raggiungeva il fiume Eufrate, nota come «Strata Diocletiana». Le strade della Provincia furono riparate, a cominciare dalla Via Nova 52
Traiana. Stando al cronista bizantino Malalas, Diocleziano diede l’ordine di aprire una fabbrica di armi a Damasco per prepararsi all’evenienza di incursioni arabe. Una iscrizione latina trovata a Umm al-Quttein ricorda un serbatoio per l’acqua piovana fatto costruire da un ufficiale romano perché molti agrarienses erano caduti vittime di imboscate da parte dei saraceni mentre si recavano a provvedersi di acqua: «plurimas ex agrariensibus dum aquas sibi in uso transfererent insidiados a Saracenis perisse». Significativamente è in questo periodo che nei testi storici fa la sua apparizione il termine Saraceni a indicare gli Arabi, contro i quali Diocleziano dovette intervenire nel 290, intesi in senso peggiorativo come predoni del deserto che mettevano in pericolo il benessere delle province orientali con le loro incursioni. Per fronteggiare questo pericolo incombente Diocle ziano, nella riforma amministrativa e militare dell’impero da lui intrapresa, divise l’Arabia in due province, staccando tutto il territorio a sud del Wadi Hasa in Transgiordania, il Negev palestinese e la penisola sinaitica, e unendoli alla provincia di Palaestina. Inoltre l’autorità militare affidata a un dux, fu divisa dall’attività civile-amministrativa affidata a un praeses. Se non in epoca severiana (certamente prima del 298), il territorio della Provincia raggiunse la sua massima estensione al tempo di Diocleziano, includendo la Batanea e la Laja, e a ovest raggiungendo il nahr Ruqqad fino al fiume Yarmuk. Malalas scrive: «Diocleziano stabilì forti lungo i limites dall’Egitto fino alla frontiera persiana, con uno spiegamento di soldati nei forti come limitanei e stabilì duces per ogni provincia». Gli studiosi hanno fatto notare che per limites siano da intendere i distretti di frontiera con forti e guarnigioni affidati al comando di diversi duces. Nasce in quest’epoca quello che gli archeologi e storici impegnati nella ricerca chiamano Limes Arabicus. Il termine è stato mutuato all’inizio del secolo ventesimo dalla Storia Ecclesiastica di Rufino di Aquileia. Nell’episodio riferito alla regina Mauvia, datato al tempo dell’imperatore Valente, egli scrive che «la regina dei Saraceni cominciò con una guerra violenta ad assalire fortezze e città del limes di Palestina e di Arabia (Palestini et Arabici limitis oppida atque urbes)». La ricerca moderna è riuscita in gran parte a identificare sul territorio, oltre al campo legionario a Bostra, le località dello schieramento difensivo del limes arabicus ricordate nella Notitia Dignitatum per la Provincia di Arabia. È sempre in questo periodo che gli storici romani iniziano a parlare degli «Arabi Foederati», e nelle iscrizioni riguardanti gli Arabi compaiono i titoli di strategos, ethnarches, sundikos, filarchos e re degli Arabi. Diocleziano, e dopo di lui Costantino, si resero conto della necessità di assicurarsi l’appoggio delle confederazioni tribali nella difesa dell’impero, accanto alle truppe regolari dell’esercito romano. Nascono in questo periodo i re degli Arabi e i filarchi, titoli che l’autorità romana concede ai capi delle confederazioni alleate nell’opera di pattugliamento della steppa: dopo i Tanukh, che gli storici arabi posteriori ricordano al fianco di Aureliano al tempo di Zenobia, compaiono i Banu Salih al tempo dell’imperatore Valente, seguiti dai Banu Ghassan al tempo di Anastasio e di Giustiniano.
Complesso dei bagni
Recinto degli animali
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La difesa della Provincia nel v e vi secolo Sul piano amministrativo, termina in questo periodo l’epoca di oscillazione dei confini amministrativi della Provincia, iniziata al tempo dei Severi con l’annessione di territorio della Siria Phoenice a nord. La riforma dioclezianea separa gran parte del territorio meridionale con Petra come epicentro in favore della provincia di Palestina, di cui l’Arabia doveva assicurare la protezione. Il confine tra le due province venne fissato al Wadi Hasa. Verso la metà del iv secolo, l’ex territorio della Provincia Arabia fu a sua volta staccato dalla Palestina per divenire autonomo come territorio della Palaestina Salutaris, con centro amministrativo a Petra, anche se è attestato un ruolo molto importante di Elusa nel Negev centrale. Verso l’inizio del v secolo, la provincia prese il nome di Palaestina Tertia, senza modificazioni territoriali. È solo verso la metà del secolo che il confine nord della Palaestina in Transgiordania si sposterà fino al Wadi Mujib/Arnon staccando dalla giurisdizione dell’Arabia le città di Charach Mouba e di Rabbat Mouba. Nel nord, la frontiera sembra non aver subito nessun cambiamento rispetto alla riforma di Diocleziano. Verso la metà del v secolo gli archeologi notano una diminuzione delle forze, che si manifesta in un declino nel sistema difensivo. Nello scavo di Lejjun, campo della Legio iv Martia nell’ex territorio della Provincia, risulta che un grosso settore venne abbandonato così da ridurre gli effettivi dai normali 2000 alla metà, anche se nuovi forti furono costruiti nella Provincia a Qasr al-Ba‘iq e a Umm al-Jimal. Gli storici propongono di vederne la causa nella cosiddetta pax aeterna che assicurò un lungo periodo di pace tra l’impero romano e quello persiano, e nella campagna dell’imperatore Leone i contro i Vandali in Africa, che sguarnì le difese orientali. Il grande merito va soprattutto agli Arabi Foederati, che riuscirono ad assicurare un effettivo controllo della steppa fino a rendere superflue le difese di epoca precedente. Nel vi secolo i forti piccoli e grandi furono abbandonati. L’ultima iscrizione datata riguardante un intervento condot-
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to in un campo del limes romano è quella del castellum di Qasr al-Hallabat, datata al 529. Gli storici bizantini danno il merito di aver iniziato un nuovo capitolo delle relazioni con gli Arabi federati all’imperatore Anastasio. Dopo la guerra Kindita, che vide impegnato l’esercito imperiale dal 498 al 502 per la riconquista dell’isola di Iotabe sul Mar Rosso, occupata con un colpo di mano dai Saraceni, l’imperatore strinse alleanza con la confederazione emergente dei Banu Ghassan. Nel 529-30 l’imperatore Giustiniano, per ricompensare un alleato dimostratosi all’altezza delle aspettative, diede il titolo di «Re di tutti gli Arabi» e di «Patricio», ad Aretas, filarca della confederazione dei Banu Ghassan, affidandogli il pattugliamento della steppa dal sud fino all’Eufrate, specialmente per contenere le incursioni nella Provincia da parte della confederazione dei Banu Lakhm, oramai stanziati in territorio persiano al di là del fiume. Un compito svolto con onore anche da suo figlio al-Mundhir, noto come Alamundaros agli scrittori di lingua greca, durante il vi secolo, quando la Provincia raggiunse il suo apogeo sotto l’aspetto civile e religioso. Dissapori tra il re degli Arabi e l’imperatore Maurizio condussero alla fine della fiducia reciproca e alla rottura del foedus, di cui la maggiore conseguenza fu sopportata dalle province meridionali, restate senza sufficiente difesa. Esse dovettero subire l’invasione persiana del 614 proveniente dal nord e, venti anni dopo, l’invasione musulmana proveniente dal sud. Nel 629, le truppe inviate da Maometto, Profeta dell’Islam, penetrarono dal sud fino a Muta, nei pressi di Kerak, prima di essere intercettate dall’esercito imperiale. Lo scontro decisivo del 636, sulle sponde del fiume Yarmuk terminò a favore dell’esercito musulmano, ponendo fine alla presenza imperiale bizantina nella regione. Continuò la presenza della comunità cristiana che resistette ancora per altri due secoli, finché nella Provincia diventata Jund dell’impero musulmano non venne meno quasi totalmente la vita urbana.
Castrum Mefaa, sede degli equites promoti indigenae, ausiliari dell’esercito romano nel territorio di Madaba. Pianta del campo legionario di Lejjun a est di Charach Mouba.
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Il sistema difensivo impostato da Diocleziano aveva assicurato alla Provincia due secoli di pace e di prosperità economica. Con l’aumento considerevole della popolazione e la sedentarizzazione delle tribù, l’urbanizzazione del territorio aveva raggiunto livelli mai eguagliati né prima né dopo il periodo che gli archeologi del Vicino Oriente sono soliti chiamare Bizantino (dal 313 al 636-8 anno dell’invasione musulmana). Alla sicurezza e al benessere economico avevano contribuito in modo rilevante le tribù alle quali si deve la colonizzazione della steppa, con la nascita di nuovi insediamenti per lo più sviluppatisi lungo le strade carovaniere in località precedentemente stazioni nabatee. Con il v secolo, assistiamo a una rinascita monumentale e artistica che ha nelle chiese della comunità oramai cristianizzata della Provincia la sua massima espressione.
Prodotti della Provincia Oltre che dalla volontà imperiale, i monumenti ricordati nelle iscrizioni e quelli incontrati dagli archeologi nelle città e nella campagna della Provincia, sono il risultato di un evergetismo locale frutto a sua volta di un benessere diffuso che proveniva dallo sfruttamento agricolo, dal commercio e dall’artigianato, sia in epoca romana che nei secoli posteriori cristiani e musulmani. Già il Periplo, opera di un mercante o di un impresario navale (capitano) di cui è ancora discussa la datazione, ricorda l’esportazione di prodotti dell’Arabia sulla costa occidentale dell’India: «A sinistra di Berenice, ci vogliono due o tre giorni da Muos Hormos verso oriente, attraversando il golfo che si trova sottobordo (a fianco), c’è un altro porto con un forte, chiamato Leuke Kome, dal quale parte una strada per Petra, per giungere da Malikos re dei Nabatei. Ha una grande fama per le navi, anche se non sono molto grandi, che giungono cariche dall’Arabia. Per questa ragione un collettore della tassa di un quarto sulle merci importate è di posto lì, e per la sicurezza un centurione con una guarnigione. Dopo queste regioni, nella baia più estrema a mano destra di questo mare, c’è Mouza (una città costiera dello Yemen), un noto mercato sul mare, distante da Berenice, per quelli che navigano verso sud, almeno 12.000 stadi. Tutta la località è piena di Arabi, armatori di navi (capitani) e marinai, e fervori di commerci; perché essi usano le loro navi per il commercio con la costa che si trova di fronte e con Barugaza (moderna Broach/Baruch sulla costa occidentale dell’India)» (Periplo, Cap. 9). La ricchezza maggiore veniva dalla campagna, che lavorata produceva in abbondanza cereali anche per l’esportazione. Un crithopolis, piccolo commerciante di orzo proveniente da Bostra è ricordato in un’iscrizione di Tiro, sulla costa fenicia, del ii-iii secolo. La produzione dell’olio e del vino è abbondantemente documentata dai numerosi frantoi e pressoi riscoperti nel territorio della Provincia, presenti anche nella steppa, come a Umm al-Rasas, 30 chilometri a est di Madaba. Il commercio del vino verso il Hijaz e la penisola arabica continuò anche dopo l’occupazione musulmana. È
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attestato sia dal poeta Nabigha in periodo pre-islamico (Diwan 26, 9-10), che dal geografo al-Muqaddasy nel x secolo che scrive «della montagna di Bosra (riferendosi evidentemente al Jabal al-Druz) con le sue vigne indimenticabili». La tradizione islamica ricorda i viaggi annuali dal Hijaz al Hauran per l’importazione dei cereali. Il primo di questi viaggi, in occasione di una carestia, sarebbe stato intrapreso da Hashim, antenato di Maometto. Lo stesso Profeta sarebbe venuto in Arabia in occasione di questo viaggio annuale. Sempre sul piano agricolo, il Talmud ricorda i fichi provenienti dall’Arabia. Nel teatro di Bostra alcuni gradini sono riservati ai Chalkatopoi, i ramaioli o lavoratori del rame, che evidentemente avevano uno statuto considerevole in città. Gioiellieri, come Anastasio, Dusarios e Iobios, «delegati degli orefici patentati», contribuirono al restauro dell’acquedotto e alla costruzione di un edificio pubblico non identificato della città. A Gerasa, le iscrizioni di diversi altari ricordano il collegio dei folloni, che eresse l’altare e circondò la collina dell’Artemisio. Le fonti arabe ricordano gli artigiani di Bosra che producevano le lame damascate (temperate), corazze, campane e campanelli. Un benessere fondato su un lavoro solido, che divenne prosperità per gli abitanti della Provincia nei periodi di pace assicurati dall’autorità romana, bizantina o musulmana.
Ara dedicata dagli artigiani folloni di Gerasa.
Nella pagina a lato: Particolare del mosaico della chiesa del Diacono Tommaso nella valle di ‘Uyun Musa sul Monte Nebo.
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LA COMUNITÀ CRISTIANA
Il Cristianesimo giunse in Arabia da Gerusalemme attraverso la provincia giudaica di Perea, il territorio a ridosso della riva orientale del fiume Giordano all’epoca abitato da comunità ebraiche. Il racconto evangelico della missione pubblica di Gesù si apre con la predicazione di penitenza di Giovanni Battista nella regione del Giordano: «E tutti si facevano battezzare da lui nelle acque del Giordano confessando i loro peccati» scrivono unanimemente gli evangelisti (Mt 3, 1-6; Mc 1, 4-5; Lc 3, 2-3). Tra di loro anche Gesù «venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni» (Mc 1, 9-12). L’evangelista Giovanni più in particolare nomina due località lungo il fiume dove sia Giovanni che Gesù predicarono e battezzarono: Betania al di là del Giordano (Gv 1, 28), ed Enon, presso Salem, localizzata a ovest del fiume nel territorio di Beisan (Gv 3, 22-23; Onomastikon 40, 1). Mentre Giovanni era a Betania, al di là del Giordano, gli venne inviata da Gerusalemme una delegazione dai capi della nazione a chiedergli chi egli fosse, il Messia, Elia, il profeta promesso? Fu lì che Giovanni presentò Gesù come l’agnello di Dio alle folle e ai suoi discepoli, due dei quali diventarono poi discepoli di Gesù. Uno di essi è Andrea – specifica l’Evangelista – che presentò il fratello Simone a Gesù che lo ricevette dandogli il soprannome di Cefa, Pietra (Gv 1). La presenza di Gesù a Betania al di là del Giordano viene ricordata ancora in una discussione tra i discepoli di Gio vanni, che battezzava a Enon, e alcuni giudei. «Andarono da Giovanni e gli dissero: Rabbi, quello che era con te al di là del Giordano e a cui tu hai reso testimonianza, eccolo che battezza e tutti vanno da lui» (Gv 3, 22-23). Inoltre, l’Evangelista racconta che Gesù, per sfuggire al pericolo incombente di essere arrestato durante una sua visita a Gerusalemme, «se ne andò di nuovo al di là del Giordano, nel luogo dove Giovanni stava prima a battezzare e si fermò lì… E molti in quel luogo credettero in lui» (Gv 10, 40-42). Dobbiamo a un preciso riferimento topografico dello storico ebreo Giuseppe Flavio, la possibilità di ambientare nella fortezza di Macheronte, 20 chilometri a sud-ovest di Madaba in Giordania, il luogo della prigione di Giovanni il Battista e della sua tragica fine ordinata dal Tetrarca Erode Antipa, figlio del re Erode il Grande, come narra il Vangelo di Marco al capitolo 6. In un passo delle Antichità Giudaiche Giuseppe commenta la sconfitta subita in Transgiordania dall’esercito giudaico del Tetrarca, a opera dei Nabatei di Petra, riportando il giudizio popolare sull’avvenimento. Il popolo giudeo vide nella dura sconfitta la giusta punizione di Dio contro il Tetrarca che, dopo aver fatto rinchiudere Giovanni il Battista innocente nella fortezza di Macheronte,
lo aveva fatto uccidere. «Molti Giudei – scrive Giuseppe Flavio – pensarono che la disfatta dell’esercito di Erode veniva da Dio e giustamente come punizione di ciò che egli aveva fatto contro Giovanni chiamato il Battista… un uomo giusto… su suo ordine rinchiuso in prigione nella fortezza di Macheronte dove fu messo a morte» (AJ, xviii, 5,1-2). Nella esemplificazione dei popoli presenti a Gerusalemme il giorno di Pentecoste che ascoltano il discorso rivolto loro dall’apostolo Pietro, l’autore degli Atti degli Apostoli inserisce anche il ricordo di pellegrini ebrei o simpatizzanti dell’ebraismo venuti dall’Arabia: «Erano presenti a Gerusalemme tanti Israeliti, persone timorate di Dio di tutte le nazionalità… ognuno li sentiva parlare nella propria lingua… pellegrini da Roma, sia Ebrei che proseliti, e quelli di Creta e dell’Arabia» (Atti 2, 11). In Arabia, secondo il racconto dello stesso apostolo, Saulo diventato Paolo, trascorse diversi anni dopo la sua conversione avvenuta sulla via di Damasco, una volta ricevuto il battesimo nella Via Retta dalle mani di Anania: «Ma quando piacque a colui che, fin dal seno di mia madre, mi prescelse e mi chiamò mediante la sua grazia, di rivelare in me il Figlio suo, affinché lo annunciassi ai pagani – racconta lo stesso Apostolo – immediatamente, senza prendere consiglio dalla carne e dal sangue, e senza salire a Gerusalemme da quelli che prima di me erano apostoli, mi ritirai in Arabia e poi tornai di nuovo a Damasco» (Gal 1, 15-17). Racconto della sua conversione ripetuto davanti ai correligionari ebrei a Gerusalemme dopo il suo arresto (Atti 22, 6-16) e a Cesarea davanti al re Agrippa ii e Berenice (Atti 26, 12-16). A Damasco riuscì a sfuggire alla cattura ordinata dal funzionario del re nabateo facendosi calare in un cesto dall’alto delle mura: «A Damasco, l’etnarca del re Areta, volendosi impadronire di me, faceva sorvegliare la città dei Damasceni, e io, per una finestra, fui calato giù in un cesto lungo il muro, e così sfuggii alle sue mani» (Atti 11, 32-33). Gli studiosi hanno cercato di chiarire storicamente la presenza dell’etnarca nabateo a Damasco mettendola in relazione con la comunità nabatea in città fiorente dal tempo di Areta «filoelleno e amante del suo popolo», come è scritto sulle monete fatte coniare dal re di Petra proprio a Damasco al massimo della sua potenza. Una tradizione cristiana, tramandata da Giustino martire e ripresa da Epifanio di Salamina e da Tertulliano, raccontava che alla nascita di Gesù i Magi che vennero ad adorarlo offrendogli oro, incenso e mirra, provenivano dall’Arabia, dando una precisazione geografica al generico «dall’oriente» del testo evangelico. 57
Secondo una tradizione tramandata da Eusebio, nella Storia Ecclesiastica, allo scoppio della Prima Rivolta giudaica contro il governo di Roma, nel 66 d.C., la comunità di Gerusalemme si dissociò dalla ribellione dei connazionali e cercò rifugio nel territorio di Pella della Decapoli, sulla sponda orientale del fiume Giordano: «Il popolo della chiesa di Gerusalemme, per mezzo di un vaticinio rivelato ad alcune persone ragguardevoli di quella chiesa, aveva ricevuto l’avvertimento di emigrare di là prima che scoppiasse la guerra, e di trasferirsi in un paese della Perea chiamato Pella. E difatti, abbandonata Gerusalemme, i fedeli di Cristo si erano rifugiati nel luogo indicato, e così la capitale regia della Giudea e la regione tutta erano rimaste deserte e prive dei Santi» (HE iii, 5, 3).
Nel iii secolo
La cima di Qal‘at al-Mishnaqa, sulla quale sorgeva la fortezza di Macheronte. La fortezza costruita da Alessandro Janneo, Sommo Sacerdote e re dei Giudei, sul confine tra la Perea giudaica e i Nabatei di Petra fu ricostruita dal Re Erode. Il tetrarca Erode Antipa vi fece imprigionare e decapitare Giovanni il Battista.
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Per avere notizie riguardanti direttamente la presenza della comunità cristiana nel territorio della Provincia, bisogna attendere il terzo secolo. Eusebio di Cesarea, narrando la vita di Origene, ricorda che un governatore dell’Arabia desideroso di approfondire la dottrina cristiana chiese l’aiuto del già affermato maestro della Scuola Catechetica di Alessandria in Egitto: «In questo tempo che Origene insegnava ad Alessandria, un soldato recapitò al vescovo di quella città Demetrio e al prefetto dell’Egitto lettere con cui il governatore dell’Arabia li pregava di mandargli con la massima premura Origene perché lo mettesse a parte della sua dottrina. Origene vi si recò e, assolta in breve la sua missione, ritornò ad Alessandria» (HE vi, 19, 15). Il governatore viene identificato con Furnio Giuliano in carica al tempo di Caracalla. Lo stesso storico ricorda una seconda visita di Origene in Arabia per dirimere una questione dottrinale dibattuta. Al tempo era «vescovo degli Arabi di Bostra Berillo che oltre a lettere ci ha lasciato anche varie opere rivelatrici di nobile ingegno…» (HE vi, 20, 2). Il giudizio lusinghiero di Eusebio, è corroborato da quello di Girolamo, che pone il vescovo di Bostra tra gli uomini illustri della Chiesa tutta: «Berillo, vescovo di Bostra in Arabia, dopo aver retto magnificamente la sua chiesa per diversi anni, da ultimo cadde in quell’eresia che nega la sussistenza di Cristo prima della sua incarnazione. Venne comunque ricondotto alla verità da parte di Origene; vi sono anche delle lettere scritte a lui da Origene. Esiste poi la disputa di Origene con Berillo, dove questi è tacciato di eresia. Berillo fu celebre sotto Alessandro (Severo, 229-235), figlio di Mammea, e poi sotto Massimo e Gordiano, successori di quello» (De viris illustribus, lx). Scrive Eusebio: «Il vescovo di Bostra in Arabia… fuorviando dalla regola ecclesiastica, tentò di introdurre dottrine nuove in dissenso con la fede cattolica… Molti vescovi ebbero con Berillo discussioni e colloqui. Fra gli altri fu chiamato anche Origene, il quale entrò subito in relazione con lui per esaminare le sue idee. Quando conobbe la natura dei suoi asserti, lo dichiarò non ortodosso, ma con le sue argomentazioni seppe persuaderlo della vera dottrina e ricondurlo alle sane credenze di prima» (HE vi, 33, 2). Origene dovette tornare in Arabia per intervenire come esperto a un concilio ecclesiastico: «In quel tempo in Arabia
sorsero altri settari sostenitori di una dottrina che devia dalla verità. Costoro dicevano che nel presente stato di cose l’anima umana per un tempo muore e si corrompe col corpo, e che, un giorno, al momento della resurrezione, rivivrà con esso. Convocato perciò un concilio di non esigua importanza, vi fu chiamato anche Origene, il quale pubblicamente disputò sulla agitata questione e vi mise tanta forza che fece mutare idea a quelli che si erano lasciati traviare» (HE vi, 37). Eretici che sant’Agostino chiama Arabiani, nella sua opera dedicata alle eresie (De Haeresibus, 83). Alcuni studiosi mettono in relazione con le discussioni e colloqui avuti dal maestro alessandrino con i vescovi di Arabia, il Colloquio di Origene con Eraclide e i vescovi suoi colleghi sul Padre, il Figlio e l’anima, un inedito presente in una raccolta di papiri egiziani ritrovato nel 1941 nella cava di pietra di Tura, non lontano dal Cairo, e pubblicato da Jean Scherer. Nel colloquio stenografato, a un certo punto, Dionigi, uno dei partecipanti, si fa portavoce dell’inquietudine generata tra i fedeli da alcuni passi della Sacra Scrittura dove si afferma che l’anima è il sangue, deducendone che l’anima, dopo la morte, restava nella tomba con il corpo, e pone la domanda: «L’anima è il sangue?», esemplificazione dei quesiti che venivano posti a Origene dai vescovi e dai fedeli della comunità cristiana di Arabia, che ebbero sempre una venerazione per lui e per la sua dottrina, difendendone la memoria quando questi venne attaccato e condannato nel concilio di Alessandria del 231. Eusebio afferma inoltre di conoscere una lettera inviata da Origene all’imperatore Filippo l’Arabo, e una alla sua consorte Severa: «Esistono ancora una lettera di lui all’imperatore Filippo e un’altra alla sua consorte Severa…» (scrive nella Storia Ecclesiastica, HE vi, 36, 3), mettendo in diretta relazione il grande maestro della dottrina cristiana e l’imperatore Filippo l’Arabo, che egli dice cristiano, il primo imperatore cristiano, originario di un villaggio della Provincia a nord di Bostra, oggi noto con il nome di Shahba, divenuto Philippopolis in onore dell’imperatore. «A Gordiano che tenne l’impero romano sei anni completi – scrive Eusebio – successe Filippo con il figlio Filippo. Si racconta che questi era cristiano e che un giorno – l’ultima veglia pasquale – volle prendere parte col popolo alle funzioni che si svolgevano in chiesa. Ma il vescovo del luogo non gli permise di entrarvi, prima che si fosse confessato e si fosse aggregato allo stuolo dei peccatori nello spazio dove essi facevano penitenza. Se si rifiutava di fare ciò, non l’avrebbe assolutamente introdotto a causa dei molti peccati che aveva commesso. Si dice che il principe si sottomise generosamente, dimostrando coi fatti il suo sincero e religioso sentimento di timore di Dio» (HE vi, 34). Un’altra eresia con la quale Origene dovette confrontarsi in Arabia fu quella degli Elcasaiti. In un’omelia a commento del Salmo 82, egli stesso ne parla in questi termini: «Presentemente è giunto uno che si vanta di poter difendere una dottrina atea e tutta empietà detta degli Elcasaiti che da poco è pullulata tra le Chiese. Vi esporrò le perverse teorie della setta, perché non ne siate irretiti. Essa rigetta certe parti della Scrittura, abusa dei passi dell’Antico Testamento e del Vangelo, ripudia interamente l’Apostolo Paolo. Insegna che è cosa affatto indifferente rinnegare Cristo e che, se uno è saggio, nella necessità lo rinnegherà con la bocca e non con l’animo. Vantano anche un libro, che dicono caduto dal cielo;
L’Apostolo Paolo (incisione su una gemma di anello ritrovata nello scavo di Umm al-Rasas/ Kastron Mefaa), dopo la sua conversione al cristianesimo nella città di Damasco, si ritirò in una località del territorio della Provincia Arabia prima di ritornare a Gerusalemme e iniziare la sua missione.
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chi li ascolta e presta a loro fede, riceverebbe una remissione dei peccati diversa da quella che dà Gesù Cristo». Con gli anonimi cristiani di Arabia che deviarono dalla retta fede e che la recuperarono per opera di Origene, Epifanio, vescovo di Salamina di Cipro, che dedicò gran parte della sua produzione letteraria alle sette ereticali che movimentavano la vita cristiana delle comunità, ricorda anche i Sampsei: «C’è una setta in Perea dei Sampsei, noti anche come Elkasaiti che io ho già ricordati nelle mie altre sette, nella regione chiamata Perea al di là del Mare Salato o, come è chiamato, Morto. Si trovano anche nella Moabitide vicino al fiume Arnon, e dall’altra parte in Iturea e nella Nabatea, come ho spesso detto di loro… (Haer. 34 e 53, p. 70), o in Arabia, sopra il Mar Morto (Anac.: pg 42, 865-6). Questi veneravano due donne, Marto e Marthana, come apostoli e profeti o come dee… inoltre veneravano l’acqua generatrice della vita…». Della pace ritornata nella comunità cristiana di Arabia si ha un riferimento in una lettera di Dionigi di Alessandria a Papa Stefano, verso il 254, nella quale Dionigi si felicita di rivedere unite le chiese di oriente, tra le quali quella di Arabia, «che voi avete soccorso in tante occasioni e a cui avete scritto recentemente». Al tempo dell’imperatore Aureliano viene ricordato il vescovo «Massimo che governava la chiesa di Bostra con 60
vera lode» (HE vii, 28, 1). Il vescovo teologo partecipò attivamente ai tre concili che si tennero nel 263-64 e nel 268 contro Paolo di Samosata. Tra il vescovo Berillo e Massimo, Papa Gelasio e Michele il Siriano pongono Ippolito «vescovo e martire della metropoli degli Arabi», un’altra grande mente di cui Girolamo confessa di non conoscere la diocesi: «vescovo di una chiesa di cui non ho potuto conoscere l’ubicazione» (De viris illustribus, lxi). L’attestazione di queste personalità attive nella discussione teologica piuttosto accesa tra il clero come tra i fedeli, e nella vita della chiesa in generale, ha suggerito di ipotizzare la diocesi di Bostra come luogo di origine della comunità riflessa nella Didascalia degli Apostoli, un’opera importante della cristianità siriana. La Dottrina cattolica dei xii Apostoli e dei Santi Discepoli del nostro Redentore, che Epifanio chiama Dottrina degli Apostoli, generalmente viene infatti attribuita ad un vescovo della Siria dei primi decenni del iii secolo, severo verso i giudaizzanti, mite con i peccatori, e anche con gli adulteri e gli apostati ai quali permette il rientro nella Chiesa dopo previa penitenza. Le notizie riguardanti i cristiani della Provincia riprendono durante la grande persecuzione scatenata al tempo di Diocleziano contro la Chiesa. Anche la comunità cristiana
La chiesa dei Santi Martiri Sergio, Bacco e Leonzio dedicata nel 512 a Bostra. La città metropoli diocesana della Provincia Arabia, illustrata da vescovi dotti e zelanti, fu sede di una fiorente comunità cristiana a cominciare dal iii secolo d.C.
La valle di Pella (Tabaqat al-Fahl) dove, secondo lo storico giudeo-cristiano Egesippo (ii secolo), trovò rifugio la comunità cristiana di Gerusalemme allo scoppio della Prima Rivolta Giudaica antiromana nel 66 d.C.
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Sarcofago nella cappella funeraria del complesso ecclesiastico del Seraya a Qanawat (Canatha) sul Jabal al-Druz.
La porta centrale della facciata ovest del Seraya, il complesso ecclesiastico di Qanawat (Canatha) costruito su un precedente edificio pubblico di epoca romana.
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di Arabia diede il suo contributo di sangue. Eusebio, che dedica un trattato ai martiri di Palestina per lo più inviati ad metalla nelle miniere di rame di Feno nella valle dell’Araba, ha un accenno generico a «quanti cadevano sotto la scure come accadde in Arabia» (HE viii, 12,1). Perciò Baronio inserì nel Martirologio Romano al 22 febbraio il ricordo di questi martiri anonimi della Provincia: «In Arabia commemoratio plurimorum sanctorum martyrum qui sub Galerio Maximiano imperatore saevissime caesi sunt». Una commemorazione di tutti i martiri già prevista dal Martirologio Geronimiano del v secolo al Primo Agosto: «In Arabiae civitate Philadelphia synodus martyrum celebratur». Ad Eusebio dobbiamo i nomi di due martiri provenienti dall’altopiano siriano che confessarono la loro fede in Cristo a Cesarea durante la stessa persecuzione: «Sulla bocca di tutti era ancora il parlare dell’emozione che essi (Panfilo e compagni) avevano suscitato, quando Adriano ed Eubulo, della contrada chiamata Batanea, giunsero a Cesarea… Adriano fu esposto a un leone e poi finì trafitto dalla spada. Eubulo, dopo due giorni… fu esposto alle belve» (HE x, 11, 29-30). Dal Martirologio si conosce inoltre il nome di san Therenio di Bostra, senza altre specificazioni. Il nome del martire Inos è stato conservato in un epitaffio trovato nel villaggio di Busan: «Choste, moglie di Inos il martire, offrì alla casa della preghiera quaranta aurei».
I martiri della grande persecuzione I sinassari orientali hanno conservato i nomi di alcuni dei martiri di Arabia. I più noti sono l’ufficiale Zenone e il suo servo Zena. La Passio, composta secondo un genere letterario piuttosto comune, narra che l’anno primo di Galerio, Massimo governatore di Arabia fece arrestare alcuni cristiani di Philadelphia Amman. L’8 giugno del 304 furono condotti al suo tribunale, ed egli provò a costringerli a fare atto di sottomissione alle leggi con un atto di adorazione pubblica agli idoli. L’ufficiale Zenone, che si trovava in città, intervenne per contestare l’ordine, e fu perciò arrestato. Alle domande di rito rispose: «Sono greco di origine ma cristiano e soldato di Cristo… Risiedo nei pressi di un villaggio di Palestina chiamato Ziziun e sono un ufficiale dell’esercito». Venne perciò sottoposto a torture per due giorni. Il secondo giorno Zena, un suo giovane servo affrancato, gli si associò volontariamente. Dopo qualche giorno arrivò in città «il capo militare che i Romani chiamano dux di nome Bogos». Zenone e Zena insieme vennero ricondotti davanti al governatore e al dux che avevano posto il tribunale in una piazza pubblica, dove vennero torturati anche con il fuoco. Alla fine Bogos delegò a Massimo il potere di giustiziarli con la spada. L’esecuzione fu eseguita il 23 giugno. Le vergini della Chiesa ne seppellirono i corpi che alla fine della persecuzione furono traslati nella loro patria. 63
favore della storicità di fondo di questo panegirico liturgico in onore di cinque martiri del territorio della Provincia tradotto dai monaci georgiani del monastero di Santa Croce a Gerusalemme. Altri due manoscritti georgiani conservano una terza Passio dedicata al «Martirio di Sant’Eliano in Arabia nella città di Amman della Balqa… Il Santo Martire Eliano morì da buon confessore e andò presso il Cristo con fede integra il 28 del mese di novembre. E dopo avergli costruito un oratorio e deposto il suo corpo, la sua commemorazione fu fissata al 10 agosto». Con il preciso dettaglio toponomastico del nome Balqa, con il quale i geografi arabi conoscono fino a oggi la regione che da Amman si estende fino a Madaba, la Passio dà anche altri dettagli che la rendono particolarmente interessante. Eliano – si precisa – era un tessitore che aveva «la sua bottega presso la porta di Gerasa non lontano dalla chiesa che si eleva colà». Inoltre, dopo l’esecuzione, «i fedeli lo seppellirono in una grotta sulla montagna a est della città nel luogo dove più tardi sorse l’oratorio». Dettagli che hanno reso possibile l’ipotesi di identifiare l’oratorio martiriale con la chiesa di S. Giorgio, scoperta sulle pendici meridionali del Jabal al-Weibdeh ad Amman. Angelo portacroce sul verso di una moneta d’oro coniata a Costantinopoli.
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Il nome del villaggio potrebbe riferirsi a Ziziah, località della steppa a 37 chilometri a sud di Amman, 17 chilometri a est di Madaba. Il nome rimanda ai Castra Zizia presidiati dagli equites Dalmatae Illyriciani della Notitia Dignitatum. A Zizia un’iscrizione in greco riutilizzata nelle murature del fortino moderno della Legione Araba, ricorda il dux della Provincia Flavio Paolo, il governatore Pietro e l’eccellentissimo Crisogono, che contribuì all’edificazione di un edificio pubblico non specificato nell’anno 475 della Provincia (580 d.C.). All’identificazione geografica fa difficoltà il ricordo della Provincia di Palestina nella risposta del martire, una aggiunta anomala, forse da addebitare all’estensore della Passio. Una seconda Passio, conservata in un manoscritto georgiano, strutturata come la precedente, inizia il suo racconto a Petra dove il rifiuto degli abitanti di obbedire al decreto di Diocleziano fa scoppiare la persecuzione nella quale si distinse il prefetto Massimo. Per lo zelo dimostrato venne promosso a governatore della Provincia Arabia. La lettera di nomina gli venne recapitata da Andromaco, originario di Ba‘al Ma‘on, oggi Ma‘in, un villaggio a sud ovest di Madaba. Il nuovo governatore, giunto a Filadelfia-Amman, fece erigere un altare di fronte alla chiesa il giorno di domenica, obbligando i cristiani a sacrificare agli dei. Due soli rifiutarono di obbedire, Mosè e Silvano, che perciò vennero arrestati. Allora, un delatore denunciò i cristiani del suo villaggio. Quando i soldati arrivarono nel villaggio, i pagani del luogo li condussero alla casa di Teodoro che serviva da chiesa alla comunità. Vi sorpresero in preghiera e arrestarono Teodoro, Giuliano, Eobolo, Malkamon, Mokimos e Salaman. Condotti a Filadelfia, comparvero davanti al giudice il 5 agosto. L’interrogatorio iniziò con la domanda: «Di che lingua siete? Greci, Romani o Arabi?». Purtroppo il manoscritto della Passio risulta incompleto. I nomi dei martiri, tipicamente arabi, e il ricordo topografico del villaggio di Ba‘al Ma‘on nel territorio di Madaba, sono un argomento a
La diffusione del Cristianesimo e gli Atti dei Concili Il primo riferimento a un villaggio completamente cristiano nel territorio della Provincia Arabia lo si legge nell’Onomastikon dei Luoghi Biblici scritto da Eusebio nell’ultimo decennio del iii secolo o nei primi anni del iv secolo. Scrivendo di «Cariathaim civitas, che costruirono i figli di Ruben», la identifica con il «villaggio di Coraiatha (abitato) da (una popolazione composta da) tutti cristiani fiorente nei pressi di Madaba città dell’Arabia (ubicato) al decimo miglio dalla predetta città ad occidente, nei pressi del luogo chiamato (le Terme di) Baaru» (On. 112,14). Oggi al-Qurayat è un villaggio sulla strada che conduce alla fortezza di Macheronte e alle terme di Hammamat Ma‘in. Tra le case gli archeologi hanno identificato i resti di alcuni edifici sacri cristiani di epoca bizantina. Per quanto riguarda la diffusione del cristianesimo in Arabia, sempre Eusebio ha altri due riferimenti. Il primo è nel commento al Salmo 60, 9-10 storicamente riferito alle vittorie del re Davide e da Eusebio riferite a Cristo Messia: «Mio è Galaad, mio è Manasse… Giuda è il mio scettro, Moab è il bacino per il mio lavacro, contro Edom getto il mio sandalo…» Commentando il testo con un significato messianico, Eusebio scrisse: «Quelli che passano per la regione araba possono constatare la realizzazione di queste profezie vedendo i Moabiti e gli Ammoniti convertiti in gran numero, al punto da riempire la chiesa di Dio… come lo possono constatare quelli che vanno in Idumea perché vi vedono la moltitudine delle chiese di Dio». Il secondo riferimento che riguarda più propriamente la città di Petra e i suoi abitanti, lo si legge nel Commento al Profeta Isaia, 42,11: «Esulti il deserto con le sue città; esultino i villaggi dove abita Kedar; giubilino gli abitanti di Sela, tripudino dalla cima dei monti». Eusebio commenta: «Kedar si
trova ai margini del deserto nell’Arabia ulteriore, e dicono che l’abita il popolo dei Saraceni. Con questo termine si intendono tutti gli abitanti del deserto e dei confini della terra, così che quella gioia razionale di Dio giungerà fino a noi per grazia di Cristo. Petra infatti è una città di Palestina, piena di uomini superstiziosi, e affogata nel profondo dell’errore diabolico, i cui abitanti, per due volte, si dice diventeranno consorti della grazia. “Si allietano quelli che abitano Petra”. La verità di quanto affermato, lo dimostrò lo stesso evento delle cose, quando le chiese di Cristo sono state fondate ai nostri tempi nella stessa città di Petra, e nel suo territorio. Altrove però Kedar significa le tenebre, a causa di coloro che dalle tenebre sono stati trasferiti alla luce annunziata alle genti. Dice che con pari gioia saranno invasi quelli che abitano Petra: la Pietra infatti era Cristo» (Comm. in Isaiam 42, 11; pg 24, 392). Al di là dell’afflato messianico che sottostà alle affermazioni del vescovo di Cesarea e che le rende un po’ ridondanti, storicamente si può ritenere che all’inizio del iv secolo comunità cristiane erano presenti certamente nelle città della Provincia, e che il cristianesimo aveva iniziato la sua penetrazione nel contado. L’affermazione generale è sostanziata storicamente dai martiri della persecuzione di Diocleziano che abbiamo appena ricordato nelle città come nei villaggi, dalla presenza di un vescovo a Bostra già attestata nel terzo secolo (Berillo, Ippolito e Massimo), dalla partecipazione al Concilio di Nicea nel 325 dei vescovi Nicomaco di Bostra, Sopatro di Ere nella Batanea, Severo di Dionisia, Ciro di Philadelphia-Amman, Gennadio di Esbus, e dall’accenno nell’Onomastikon al villaggio tutto cristiano di Koraiata nel territorio di Madaba. Se gli Atti del Concilio di Nicea forniscono un primo sguardo d’insieme sulla situazione generale, quelli dei concili generali e locali che seguiranno nel iv, v e vi secolo, sono una buona guida per aggiornare lo sviluppo della presenza ecclesiastica nella regione per lo più adeguata alla divisione amministrativa dell’impero la cui riforma iniziata al tempo di
Diocleziano fu continuata da Costantino. Alla stregua dell’impero diviso in prefetture, in diocesi e in province, anche nella Chiesa viene a formarsi un sistema gerarchico costituito alla base dai vescovi, che fanno capo al vescovo della città metropolita della provincia, che a sua volta dipende dal vescovo di una delle antiche sedi episcopali, Roma, Alessandria e Antiochia, alle quali furono aggiunte Costantinopoli e poi Gerusalemme. L’Arabia, ridimensionata nel suo territorio, faceva parte della diocesi di Oriente, e i vescovi con a capo il metropolita o arcivescovo di Bostra, capitale della Provincia, dipendevano dal vescovo di Antiochia. Il Canone vi del Concilio di Nicea del 325, aveva infatti stabilito che come bisognava rispettare i diritti delle antiche sedi episcopali di Alessandria e di Roma, così andavano conservati i diritti delle chiese di Antiochia e delle chiese delle altre eparchie. E il Canone iv dello stesso concilio stabiliva che i nuovi vescovi dovevano essere costituiti dai vescovi della Provincia e sempre confermati, prima dell’ordinazione, dal vescovo metropolita. Per quanto riguarda la dipendenza dei vescovi dal metropolita, il Canone ix del sinodo di Antiochia del 341 stabilì che i vescovi della provincia dipendevano dal vescovo della città metropoli, cioè, per quanto riguarda l’Arabia, dal vescovo di Bostra che perciò nelle iscrizioni riceve il titolo di arcivescovo o di metropolita. Non è chiaro se i vescovi dell’ex territorio meridionale, a sud del Wadi Hasa, passato sotto la giurisdizione del governatore di Palestina, facessero riferimento all’arcivescovo o metropolita di Petra (Palaestina Tertia o Salutaris), di Cesarea (Palaestina Prima) o di Bostra (Arabia). Una situazione che risulta chiarita nel Concilio sinodale di Gerusalemme del 518. Con i vescovi di Palestina, vi partecipa anche Policronio, vescovo di Areopolis. Nel 536, questi partecipa al nuovo concilio sinodale insieme al vescovo Demetrio di Charach Mouba. Gli Atti dei concili generali e dei sinodi locali che aiutano a seguire l’evoluzione dell’amministrazione ecclesiastica nella
Reliquiario in pietra trovato sotto l’altare di una chiesa di Khirbat al-Samra in Giordania. Il culto dei martiri è attestato in tutte le chiese della Provincia con il ritrovamento dei reliquiari in pietra o in marmo per lo più infossati nel pavimento, al centro delle quattro colonnine dell’altare.
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Nell’iscrizione sull’architrave della porta occidentale della chiesa di San Giorgio a Ezra (Zorava) nel Hauran, dedicata nel 515, si fa diretto riferimento al tempio pagano che sorgeva nell’area: «Da dimora dei demoni, è diventata la casa di Dio».
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Provincia Arabia con la presenza dei vescovi delle vecchie e nuove sedi episcopali, sono i concili di Antiochia contro Paolo di Samosata (263-64 e 268), il concilio di Nicea (325), e i concili delle Encenie ad Antiochia (341), di Sardica (343), di Seleucia di Isauria (359), di Alessandria (362), di Antiochia (363), di Costantinopoli (381), ancora di Costantinopoli (394), ancora di Efeso (Latrocinio o Brigantaggio, 430), di Efeso (431), di Antiochia (448), di Calcedonia (451), e i Sinodi di Gerusalemme (518 e 536) e di Costantinopoli (553). Ai cinque vescovi presenti al Concilio di Nicea (325), Bostra, Ere, Dionisia, Filadelfia ed Esbus, si aggiungono al concilio di Seleucia di Isauria (359) i vescovi di Gerasa e di Adra, oltre a Barochio, che riceve il titolo di «vescovo degli Arabi» riferito, secondo gli storici, a un particolare vescovo detto anche «vescovo delle tende» che si prendeva cura della comunità delle tribù arabe cristiane. Al Concilio di Costantinopoli (381) si aggiunsero i vescovi di Costantia e di Neapolis. Al Latrocinio di Efeso (430) è presente anche il vescovo di Canatha. Al Concilio di Efeso (431) il vescovo di Bostra firma gli Atti a nome del vescovo di Neve. Un notevole accrescimento del numero dei vescovi che faceva scrivere a Sozomeno: «Certamente nella provincia di Scizia, malgrado ci siano molte città, c’è un solo vescovo per tutti. In altre province invece, ci sono villaggi che hanno vescovi consacrati, come mi sono reso conto, in Arabia e a Cipro, e presso i Novaziani e i Montanisti che si trovano in Frigia». Al Concilio di Calcedonia (451), con l’arcivescovo di Bostra sono ricordati 17 vescovi dell’Arabia: Adra (Der‘a),
Ainos (Phaena/Mismiyeh), Canatha (Qanawat), Constantine (Bouraq?), Dionisias (Suweidah), Eres (es-Sanamein?), Esbus (Hesban), Eutimia, Gerasa (Jerash), Midaba (Madaba), Maximianopolis (Shaqqa), Neapolis, Neela, Neve (Nawa), Philadelphia (Amman), Philippopolis (Shahba), Zerabene (Ezra). Per l’identificazione geografica di queste sedi episcopali fanno problema Eutimia, Neapolis e Neela. Per la prima, si è suggerito Harran, per la seconda Khirbet en-Nile in Batanea, per la terza Mushennef. Al di fuori degli Atti conciliari, pochi sono gli accenni in altri testi ai vescovi dell’Arabia. A Bostra, nel quarto secolo, una lettera del vescovo Tito citata dall’imperatore Giuliano l’Apostata ci dà uno spaccato di un momento critico vissuto dalla comunità dell’archidiocesi metropolita della Provincia. Nella tradizione dei suoi predecessori, Berillo e Massimo, l’arcivescovo è un altro teologo con una solida formazione culturale, come ricorda anche Girolamo: «Tito, vescovo di Bostra, sotto gli imperatori Giuliano e Gioviano, scrisse dei libri vigorosi contro i Manichei, ed alcune altre opere. Morì sotto Valente» (De viris illustribus, cii).
Reazione pagana e sette ereticali Al tempo dell’imperatore Giuliano, come sappiamo da una lettera del filosofo Libanius (Lettera 114), la popolazione cristiana di Bostra oramai bilanciava quella pagana. Il decre-
to di Costanzo del 356 che proibiva alcune manifestazioni pagane, secondo l’accusa presentata da alcuni cittadini al nuovo governatore di Arabia, Belaios/Belaeus, che Giuliano aveva inviato a Bostra, aveva provocato sorprusi e incidenti, tra cui il saccheggio di templi. L’arrivo del magistrato pagano fu l’occasione per le rivendicazioni della comunità pagana e per l’accusa contro i supposti colpevoli cristiani. Tra gli accusati, Libanio ricorda Orione, un ex magistrato cristiano suo amico che egli discolpa da qualsiasi accusa (Libanius, Lettera 763). Il vescovo Tito, valutata la situazione, era intervenuto scrivendo direttamente all’imperatore per assicurarlo che lui e i suoi chierici vegliavano a mantenere l’ordine, e che proprio per questo la città era rimasta tranquilla, malgrado la forza dei cristiani e il loro desiderio di venire alle mani con i pagani. La lettera non fu accolta nel verso giusto da Giuliano, tanto che l’imperatore scrisse agli abitanti di Bostra il 1° agosto 362 invitandoli a cacciare Tito dalla loro città per eliminare un pericoloso agitatore (Iulianus, Lettera 114). La comunità di Bostra passò un altro momento agitato al tempo dell’arcivescovo Badaghio, successore di Tito, che nel 381 fu deposto e sostituito da Agapio. Della disputa tra i due presuli, che andò avanti per altri dieci anni, dovettero interessarsi i vescovi dei concili di Costantinopoli del 381 e del 394! Per questo periodo abbiamo alcune testimonianze letterarie che riguardano la persistenza del paganesimo nella regione, anche se esse direttamente riguardano l’ex territorio della Provincia passato sotto il governatore di Palestina, e i riferi-
menti del vescovo Epifanio di Salamina alla persistenza nella Provincia di alcune sette ereticali. È lo stesso Epifanio che scrive del culto pagano a Petra verso la metà del iv secolo (Panarion, ii, 51, 22, p. 51). Descrivendo il culto di Core ad Alessandria, aggiunge: «Ad Alessandria, nel Coreum, come lo chiamano, che è un tempio molto vasto, il santuario di Core, vegliano tutta la notte cantando inni all’idolo con accompagnamento di flauto… e portano intorno l’immagine sette volte nella parte più intima del tempio… E quando gli chiedi che significa questo mistero, rispondono che oggi a quest’ora Core – cioè la vergine – diede alla luce Aeo… Questo lo si fa anche nella città di Petra, in un tempio agli idoli che vi si trova (Petra è la città capitale dell’Arabia, l’Edom della Scrittura). Lodano la vergine con inni in lingua araba, e la chiamano Chaamu – cioè, Core, o vergine – in arabo. E il bambino che è nato da lei lo chiamano Dusares, cioè, “l’unico figlio del Signore”. E questo si ripete quella notte anche nella città di Elusa, come in Petra e ad Alessandria». Dalla vita di Barsauma il Siriano risulta infatti che i pagani erano ancora molto numerosi sia a Petra che altrove negli anni 420-23. Barsauma, racconta il biografo, percorreva la regione alla ricerca di templi e di sinagoghe da distruggere: «Si chiudevano le porte delle città davanti a lui; qualche volta passava oltre; altre volte insisteva, forzava la città e vi entrava. Arrivò a una grande città di questa regione chiamata Reqem di Gaia (Petra) che chiuse le porte. Si meravigliò della paura degli abitanti perché non aveva che quaranta uomini con lui; egli
La chiesa di San Giorgio a Ezra (Zorava) ancora in uso da parte della comunità greco-ortodossa della cittadina.
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Interno della chiesa di San Giorgio a Ezra (Zorava).
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minacciò di fare la guerra e di bruciare la città se non l’avessero fatto entrare. Così entrò. Non aveva piovuto da quattro anni, e lui portò loro la pioggia. Scese tanta acqua che il muro della città ne fu spezzato. I sacerdoti degli idoli si convertirono». Sozomeno, scrivendo che i pagani erano ancora attivi e molto attaccati ai loro templi per i quali erano pronti a battersi, al tempo della chiusura del Serapeo di Alessandria nel 383 ricorda che nello stesso modo erano attivi gli abitanti di Gaza e di Rafah in Palestina, e anche gli abitanti di Petra e di Areopolis in Arabia (HE vii, 15). Diverse iscrizioni di epoca posteriore testimoniano una polemica contrapposizione tra la nuova realtà cristiana e il vecchio culto pagano prestato agli idoli. Le più note sono l’iscrizione sulla porta dell’atrio di S. Teodoro a Gerasa nei pressi dell’Artemision, e le iscrizioni provenienti da Zorava/ Ezra. Sull’architrave della chiesa di S. Sergio si leggeva: «Ora, se tu consideri la potenza del Salvatore Signore e Dio, rendi gloria al santo Salvatore che ha fatto perire le opere degli idoli, perché questa dimora, una volta era stata costruita per dei demoni scolpiti, costruita in pietre cattive, che la parola di Cristo ha separato e ha suscitato dalle pietre ben levigate, la dimora del suo servo e buon cavaliere Sergio, per lo zelo e le opere dei figli del nobile Teodoro che hanno voluto avere lo stesso Sergio come santo protettore, egli che sdegnò la potenza terrestre e accettò supplizi crudeli dalla testa ai piedi perché inchiodato ai piedi l’illustre (martire) non mosse la testa, e offrì la sua persona alla morte, donandola al suo Signore Salvatore e per una vita terrestre ricevette in cambio la vita celeste». Su un architrave della chiesa di S. Giorgio costruita nel 515 sulle rovine di un tempio pagano dedicato al dio Theandrites, il benefattore Giovanni figlio di Diomede, fece scrivere: «Da dimora dei demoni, è diventata la casa di Dio; dove le tenebre gettavano il loro velo, ora splende la luce della salvezza; dove i sacrifici agli idoli erano offerti, ora si odono i cori degli angeli; dove la collera di Dio fu evocata, ora tutto è in pace». Per quanto riguarda le sette ereticali che avevano frequentato o frequentavano le comunità di Arabia al suo tempo, Epifanio ne elenca alcune, che egli sapeva presenti nel territorio con le loro idee, come gli Antidicomarianiti («Certi altri problemi sono stati causati, specialmente in Arabia, da questa setta che alcuni chiamano la setta dei Dimeriti o setta che confessa la natura umana di Cristo senza la mente…»; i Colliridiani («Anche questa – setta – fu portata in Arabia dalla Tracia e dalla Scizia superiore…»), e i Valesiani («Io ho sentito spesso dei Valesiani, ma non ho nessuna idea di chi sia Vales, da dove sia venuto, e di quali siano i suoi detti, ammonizioni o dichiarazioni. Il nome che è arabo, mi porta a supporre che lui e la sua setta siano ancora in esistenza, e io anche sospetto – anche se, come ho detto, non ne sono sicuro, che ce ne siano alcuni a Bacata, nella terra di Filadelfia al di là del Giordano. I locali li chiamano Gnostici, ma essi non sono Gnostici; le loro idee sono diverse»). Epifanio si sofferma con malcelata simpatia su «gli Audiani o seguaci del prete Audio che si ritirarono nei monasteri delle montagne del Tauro, in Palestina e in Arabia»… «Gli Audiani, o Odini, sono un gruppo di laici. Si sono ritirati dal mondo e vivono nei deserti e nei sobborghi delle città… Audio divenne il loro fondatore al tempo di Ario,
quando fu radunato contro Ario il concilio… Egli era (originario) della Mesopotamia ed eminente nella sua patria per la purezza della sua vita, per lo zelo divino e per la fede» (Panarion lxx, 15, 5; p. 417). Un contestatore senza peli sulla lingua: «Se vedeva un membro del clero che amava il denaro, – un vescovo, un prete o un altro chierico, di sicuro interveniva rimproverando… E questo dava fastidio a quelli le cui vite non erano a posto». Come Origene, anche il vescovo Epifanio intervenne a riportare alla retta fede gli eretici scrivendo una lettera ai fedeli di Arabia che tiene a ricordare nel corso della sua opera («Su richiesta, ho scritto una lettera ad alcune persone in Arabia…»). Scrive il vescovo: «Saluti nel Signore da Epifanio, l’ultimo dei vescovi, ai miei onoratissimi Signori e figli e fratelli carissimi che sono in Arabia che partecipano alla mia fede ortodossa, clero, laici e catecumeni». Al termine della lettera dedicata in larghissima parte alla dottrina cattolica sulla Vergine Maria, conclude con quanto nella fede gli sta più a cuore: «Quello che io so che sia da venerare e sia di utile alla Chiesa l’ho detto della Santa Vergine in difesa di lei che è in ogni modo piena di grazia. Tutti i fratelli vi inviano i loro saluti. E voi stessi salutate tutti i fratelli fedeli e ortodossi che sono tra voi, che detestano l’orgoglio e odiano la compagnia degli Ariani… e non sono in errore a proposito della salvifica Incarnazione del nostro Salvatore e della sua venuta nella carne, ma credono completamente nell’Incarnazione di Cristo come Dio perfetto e allo stesso tempo perfetto uomo eccetto il peccato, che prese lo stesso suo corpo da Maria, e prese un’anima e una mente, e tutto quello che è umano eccetto il peccato, non un Cristo che è due, ma un solo Signore, un Dio, un re, un sommo sacerdote, Dio e uomo, uomo e Dio, non due ma uno, unito non come una mescolanza o come una cosa non reale, ma come una grande dispensazione reale. Addio». Nella Vita di Sant’Eutimio, vissuto in Palestina nel v secolo, Cirillo di Scitopoli narra che Antipatro metropolita di Bostra, consacrò a vescovo di Madaba Gaiano, un discepolo del santo e fratello di Stefano vescovo di Iamnia in Palestina (Vita Euthimii, p. 52 s.). Eutimio lo aveva inviato a Bostra per sollecitare l’arcivescovo ad intervenire presso il governatore di Arabia in favore di Terebon, figlio di Aspebet-Pietro, filarca della tribù araba da poco convertita al cristianesimo che aveva fissato il campo nei pressi del suo monastero. Cirillo non lesina titoli per l’arcivescovo «tre volte beato e annoverato tra i santi che allora reggeva la Chiesa di Bostra e diffondeva ovunque i raggi della conoscenza di Dio». Antipatro, sulla scia dei suoi predecessori, è un altro arcivescovo di Bostra famoso per la sua dottrina e per le sue opere teologiche tra le quali un’omelia per l’Assunzione della Madre di Dio. Cirillo, nella Vita di san Saba, narra che Gelasio, egumeno della Grande Laura, fece leggere una sua opera ai monaci fuorviati dall’origenismo. Conferma di questi testi è l’iscrizione metrica incisa sull’architrave di una chiesa di Bostra nella quale si loda la dottrina dell’arcivescovo e il suo zelo per il culto della Theotokos: «Guardiano e campione illustre della dottrina ortodossa, un pontefice ispirato da Dio ha costruito (questo edificio) di una bellezza incomparabile; è Antipatro, celebre per la sua saggezza, dopo vittoriose lotte, per onorare magni69
Presbiterio della Chiesa Nord nella città di Esbous (Hesban). Sotto l’altare, al centro del mosaico messo in opera nei primi decenni del vi secolo, resta il contenitore in pietra del reliquiario in marmo trovato ancora al suo posto contenente la teca in argento con la reliquia (un frammento di tallone) di un martire sconosciuto.
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ficamente la Madre di Dio, Vergine pura, Maria, celebrata con inni, senza macchia e ricolma di doni del cielo».
Un contributo dell’archeologia Un contributo notevole alla conoscenza della presenza della comunità cristiana nella Provincia Arabia nel periodo della sua massima prosperità durante il v-vi secolo, proviene dalle iscrizioni raccolte dalla ricerca epigrafica condotta dagli esploratori del xix secolo, e dai risultati degli scavi archeologici del xx secolo, che in qualche caso integrano in modo determinante gli scarni dati delle fonti letterarie. In molti casi le iscrizioni hanno contribuito ad aggiornare le liste episcopali, a chiarirne l’organizzazione interna con i chorepiscopi, gli arcipresbiteri, i presbiteri, i diaconi, i suddiaconi, i lettori, le diaconesse, le comunità monastiche, la fede e la devozione dei fedeli, che spesso ricevono il titolo di
«popolo amante di Cristo». A loro volta, i nomi dei vescovi, aiutano a fissare una data per gli edifici e i pavimenti mosaicati non altrimenti databili nei quali quei nomi compaiono. Nomi che presenti nelle iscrizioni delle chiese dei villaggi e dei monasteri, possono essere una guida sicura per la definizione del territorio diocesano dove si estendeva la loro giurisdizione, e per seguire cronologicamente la storia dello sviluppo edilizio nelle città e nei villaggi della Provincia. Le iscrizioni ci ridanno i nomi dei Santi ai quali le chiese erano dedicate, e i nomi dei benefattori che ne resero possibile l’edificazione, personaggi pubblici e privati, per una storia anche sociale della Provincia. Le iscrizioni documentano la costruzione di chiese nel territorio della Provincia, dalle poche datate del iv secolo, al boom edilizio del vi. Il primo edificio sacro datato sembra essere la chiesa di S. Sergio di Hit nel Hauran, costruita al più tardi verso il 354. Al 392 è datata la chiesa di Kafr, nel 397 un ospizio fu costruito a Harran.
Verso la metà del v secolo, assistiamo ad un’altra ondata di costruzioni. Nel 417 fu costruita la chiesa di Lubbayn, nel 425 un martyrion nel villaggio di Rihab, verso il 460 la chiesa della Theotokos a Bostra, nel 458 furono dedicate la chiesa di Dayr al-Diyuk, e quella di S. Leonzio a Sur, nel 464/65 fu costruita a Gerasa la chiesa dei Profeti, Apostoli e Martiri, e nel 473 fu terminata la chiesa di Amra. L’attività riprende al tempo dell’imperatore Anastasio per raggiungere la massima intensità al tempo dell’imperatore Giustiniano a Gerasa, a Madaba, sul Monte Nebo e a Bostra. Nel Hauran nel 489 fu costruita la chiesa dei SS. Sergio e Bacco a Umm al-Surab, a Gerasa nel 494-95 fu terminata la chiesa di S. Teodoro, la chiesa di Salkhad nel 497. Nel 512-13 fu costruita una grande basilica a Bostra (nota come la “Cattedrale”), come pure la chiesa di S. Elia a Ezra, e nel 515 la chiesa di S. Giorgio, nel 517 le chiese di S. Sergio a Raham, e quella di Busr al-Hariri dedicata allo stesso santo. Dal 526 al 533 a Gerasa furono costruite la Chiesa di Procopio, S. Giorgio, S. Giovanni Battista, SS. Cosma e Damiano, la chiesa sulla sinagoga, nel villaggio di Rihab la chiesa di S. Maria (533), e al Nebo il Diakonikon nel 530 e la chiesa di S. Giorgio nel 536. A Jemarin nel 543 fu costruita la chiesa di S. Stefano, nel 547 la chiesa di S. Elia a Sala, nel 548 la cappella di S. Giobbe e un ospizio per i poveri a Bostra, nel 549 la chiesa di S. Giorgio a Shaqqa, nel 550 una seconda chiesa a Samra, nel 557 la cosidetta «Cattedrale» a Umm al-Jimal, nel 558 la chiesa di S. Giorgio a Ghariyeh al-Gharbiyeh, nel 562 la cappella di S. Teodoro a Madaba, nel 563 la chiesa di S. Elia a Najran, nel 565 la chiesa di S. Leonzio a Dur e una chiesa a Nawa, nel 567 la chiesa di S. Giovanni a Harran, nel 575 la chiesa di Kutaybeh, nel 578 la chiesa dei SS. Apostoli a Madaba, nel 580-90 la chiesa di S. Sergio a Taybeh, tra il 586 e il 597 la chiesa del Vescovo Sergio, quella del Prete Wail, di S. Sergio e dei Leoni a Umm al-Rasas, le chiese di S. Sergio a Jiza e a Chasm, nel villaggio di Rihab, le chiese di S. Basilio (594), di S. Paolo (595), l’Elianeo di Madaba, terminato nel 607-608, la chiesa di S. Sofia a Rihab (605). Negli stessi anni sul Monte Nebo, a completamento della ricostruzione del Memoriale di Mosè, furono aggiunte le cappelle del battistero e quella della Theotokos. Nel 611 a Gerasa fu costruita la chiesa del Vescovo Genesio. Costruzioni che corrispondono a un periodo di grande prosperità frutto di uno slancio di generosità evergetica del governo centrale dell’impero, di funzionari civili e militari dell’amministrazione provinciale, di proprietari terrieri, di artigiani e commercianti, di ufficiali e soldati dell’esercito, di monaci e della popolazione tutta, ai quali si affiancano i filarchi arabi Banu Ghassan. Durante gli anni di occupazione persiana della Provincia, dal 614 al 628, le iscrizioni ricordano la costruzione della chiesa di S. Giovanni Battista (519) e di S. Stefano (520) a Rihab, di S. Giorgio a Nahita (623), di S. Pietro e di S. Costantino Niceforo a Rihab (523), dei SS. Cosma e Damiano a Darbat al-Dariya (623-24), di S. Giorgio a Sama (624). Un altro piccolo gruppo di chiese fu costruito alla vigilia dell’invasione araba a Rihab (S. Mena e la chiesa del Profeta Isaia, 634), e a Khirbat al-Samra-Haditha le chiese di S. Giovanni, di S. Pietro e di S. Giorgio (634-35).
Durante il periodo di occupazione musulmana, troviamo la chiesa di S. Sergio a Rihab costruita nel 686, S. Varo di Khilda ad Amman restaurata nel 687, quelle di Quwaysmah ad Amman (718), di S. Stefano a Umm al-Rasas (718), e la chiesa sull’acropoli di Ma‘in (719). Nella seconda metà dell’viii secolo furono rinnovati il presbiterio della chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas (756), la cappella del monastero della Theotokos (762) nel Wadi ‘Ayn al-Kanisah sul Monte Nebo, e la chiesa della Vergine al centro di Madaba (767).
Le diocesi Ad esemplificazione del metodo seguito dagli storici nell’utilizzare sia gli atti conciliari che le scoperte archeologiche, presentiamo la lista episcopale aggiornata di alcune diocesi meglio conosciute, iniziando da Bostra archidiocesi e metropoli dell’Arabia e scendendo fino a Madaba sul confine meridionale. Bostra – Bosra al-Sham Metropoli della Provincia Arabia Abbiamo già visto lo sviluppo del cristianesimo nella metropoli dell’Arabia a cominciare dal vescovo Berillo ricordato al tempo di Origene nella prima metà del iii secolo. Il vescovo Massimo partecipa ai concili di Antiochia contro Paolo di Samosata del 263-4 e del 268. Dopo di lui è forse da inserire Ippolito accettando la testimonianza di Papa Pelagio e di Michele il Siriano che lo danno per vescovo di Bostra. Il vescovo Nicomaco partecipa al concilio di Nicea (325) e al concilio di Antiochia (341). Segue il vescovo Tito in sede al tempo dell’imperatore Giuliano l’Apostata e che nel 363 partecipa al concilio di Antiochia del 363. I vescovi Agapio e Bagadio si disputano il seggio episcopale di Bostra verso la fine del iv secolo (nei due concili di Costantinopoli del 381 e del 394). Il vescovo Antioco partecipa al concilio di Efeso (431). Dopo di lui il vescovo Costantino si reca nel 448 a Antiochia per discutere il caso di Ibas. È sempre lui a partecipare al Brigantaggio di Efeso del 430 e al concilio di Calcedonia del 451, dove firma per la maggior parte dei vescovi suoi suffraganei. Gli succede il vescovo Antipatro a cui è indirizzata la lettera enciclica dell’imperatore Leone. Del santo e dotto vescovo resta a Bostra una bella testimonianza contemporanea in una epigrafe della chiesa della Theotokos. Il vescovo Giuliano dedica la chiesa dei Santi Martiri Sergio, Bacco e Leonzio nel 512-3. Fu rimosso e sostituito con Cassiano, che, a sua volta, fu rimosso da Giustino nel 518. Quando in città fu costruito il santuario di San Giobbe al tempo dell’imperatrice Teodora ricordata nell’iscrizione, (perciò prima del 548, data della morte dell’Augusta), è vescovo Giordano. L’edificio va posto prima del 539, quando è attestato il vescovo Giovanni. Il vescovo Giovanni partecipa al Concilio di Costantinopoli nel 553 ed è ricordato in alcune iscrizioni della città a cominciare dal 539/40, e in una iscrizione di una chiesa di al-Husn in Giordania datata al 535. È il primo arcivescovo che sicuramente porta il titolo di metropolita. 71
Le iscrizioni che accompagnano i mosaici e gli architravi delle chiese sono una preziosa testimonianza per la ricostruzione storica della vita della comunità cristiana della Provincia. Iscrizione della chiesa di San Teodoro, nel villaggio di Yajuz a nord est di Amman, nella quale si legge il nome del vescovo Teodosio di Philadelphia.
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L’arcivescovo Tommaso è ricordato insieme al vescovo Isaia di Gerasa nell’iscrizione di una chiesa (metà del vi secolo). Il vescovo Simeone è in sede verso il 570 quando Anastasio di Antiochia gli dedica un opuscolo sul Sabato. Restano dubbi i nomi dei vescovi Dositeo e Stefano. L’arcivescovo e metropolita Polieuctos è ricordato nelle chiese di Rihab (San Basilio, 594; San Paolo, 595; Santa Sofia, 605; San Giovanni Battista, 619; Santo Stefano, 620; San Pietro 623; San Costantino 623). L’arcivescovo e metropolita Teodoro è ricordato a Khirbat al-Samra nella chiesa di San Giovanni 634; a Rihab nella Chiesa di San Mena 635 e nella contemporanea chiesa del Profeta Isaia. L’arcivescovo e metropolita Giorgio è ricordato nella chiesa di San Sergio di Rihab datata al 691. I nomi degli arcivescovi di Bostra ritrovati nelle iscrizioni delle chiese dei villaggi di Rihab a 40 chilometri a sud della città, e di Khirbat al-Samra lungo il tracciato della Via Nova Traiana, hanno contribuito notevolmente ad aggiornare la lista episcopale per il periodo di fine vi secolo inizi del vii secolo fino alla seconda metà dello stesso secolo. I nomi degli arcivescovi di Bostra letti nelle chiese dei due villaggi
e di al-Husn presso Irbid, sono un prezioso dato storico per includere i tre villaggi nel territorio della metropoli. L’iscrizione di al-Husn presso Irbid ripropone su nuove basi la divisione amministrativa e ecclesiastica supposta per questo territorio da tutti accettato come facente parte della Palaestina Secunda e perciò dipendente dalla diocesi di Pella nella valle del Giordano oppure dalle altre tre diocesi sull’altopiano (Gadara, Capitolias, Abila). Sul piano storico, con i nomi degli arcivescovi, risalta l’attività edilizia ecclesiastica durante il periodo di occupazione persiana (614628) e nel periodo di passaggio tra il periodo bizantino e quello musulmano (634-636). Adraa/Der‘a Il vescovo Arabion firma gli Atti dei concili di Seleucia (359) e di Antiochia (363). Il vescovo Uranio partecipa al concilio di Costantinopoli (381). Il vescovo Proclo è dalla parte del Patriarca Flaviano a Costantinopoli (448-449), e nel 451 è presente a Calcedonia (451). Il vescovo Agapio è ricordato in una iscrizione di una chiesa del villaggio di Jaber, datata al 531. Il vescovo Dorymenio partecipa al v Concilio di Costantinopoli del 553.
Le diocesi centro-meridionali La ricerca archeologica del xx secolo, a cominciare dagli anni venti, ha privilegiato le città centro meridionali della Provincia Arabia, Gerasa, Filadelfia-Amman, Esbus e Madaba con scoperte che hanno rivoluzionato negli ultimi decenni la storia della comunità cristiana prima della sua definitiva sparizione. Gerasa – Jerash Gran parte dei nomi dei vescovi della città ci sono noti dalle iscrizioni delle chiese scavate negli anni venti e trenta. Le recenti scoperte danno una data al vescovo Mariano già noto da una epigrafe su pietra dallo scavo della Cattedrale, e il nome del vescovo Isaia contemporaneo dell’arcivescovo Tommaso ricordati insieme nell’iscrizione della chiesa nei pressi dell’odeon. Nell’iscrizione della navata centrale di una nuova chiesa, scavata nel 1995 dal Dipartimento delle Antichità a Darbat Dariya sulla strada tra Irbid e a sud-ovest di al-Husn ‘Ajlun si legge il nome del vescovo Axiopistos. La chiesa dedicata ai SS. Cosma e Damiano fu mosaicata nel 623-24, come sembra ricavarsi, utilizzando l’era di Arabia, dalla possibile integrazione dell’iscrizione un po’ danneggiata nell’ultima linea. Resta da
decidere la diocesi di appartenenza del villaggio o del monastero di S. Gellon a cui fa riferimento l’iscrizione, Gerasa o Pella nella valle del Giordano. Se paragonata alla documentazione di Madaba e Philadelphia-Amman, risalta a Jerash la mancanza di iscrizioni per l’epoca omayyade. Philadelphia-Amman I nuovi nomi provengono dalle iscrizioni delle chiese dei villaggi nei dintorni della città oggi inglobati nell’area metropolitana, come Suwayfiyah e Khirbat al-Kursi a ovest, Yajuz a nord est, e Khilda a nord ovest che integrano la lista già nota.
Iscrizione nel mosaico superiore della chiesa di Massuh con il nome del vescovo Teodosio della diocesi di Esbous. (Parco Archeologico di Madaba).
Esbous – Hesban L’unica scoperta epigrafica che può riguardare il territorio della diocesi di Esbous sono le iscrizioni del mosaico superiore della chiesa del villaggio di Massuh con il nome del vescovo Teodosio che va ad aggiungersi ai signatari dei concili. Madaba Dalle fonti letterarie sono noti due vescovi della città con lo stesso nome nella seconda metà del v secolo. Al concilio di 73
La chiesa sull’acropoli di PhiladelphiaAmman costruita nel vi secolo con materiale di riutilizzo di epoca classica romana.
Calcedonia (451) Costantino metropolita di Bostra firma per Gaiano vescovo dei Medabeni. Nella Vita di sant’Eutimio, Cirillo di Scitopoli scrive di Gaiano, discepolo del Santo, che fu consacrato vescovo di Madaba dal metropolita Antipatro successore di Costantino. Tutte le altre informazioni provengono dalle iscrizioni delle chiese di Madaba e del suo territorio, in particolare dalle chiese del Monte Nebo e da quelle di Umm al-Rasas – Kastron Mefaa. Non ripetiamo le ragioni di natura prettamente archeologica che ci hanno condotto a concludere per la precedenza di Fido su Ciro, e della datazione del vescovo Malechios, che abbiamo letto in una chiesa del villaggio di Mekawer. Gli scavi hanno praticamente fornito tutti nomi della lista episcopale di questa cittadina che nel vi secolo era la più meridionale della Provincia. Le scoperte recenti, oltre che apportare nuovi dati alla storia ecclesiastica della Provincia, illuminano in modo considerevole un periodo poco noto come quello omayyade e abbaside con date e nomi di vescovi che attestano la continuità di vita anche dopo che la regione era stata occupata dalle truppe arabe musulmane. Precedentemente, la generalità degli studiosi erano convinti che a seguito della battaglia dello Yarmuk e dei postumi dell’occupazione islamica, progressivamente le diocesi della Provincia Arabia e della Palestina fossero restate senza vescovi. In questo senso veniva letto l’unico testo storico di questo periodo riguardante la situazione delle chiese dell’Arabia e della Palestina dopo il 636, cioè la lettera inviata da
Papa Martino, dopo il concilio del Laterano del 649, ai vescovi Giovanni di Filadelfia e Teodoro di Esbus per l’Arabia, ai vescovi di Bacatha e di Dora per la Palestina. Nella lettera il Papa eleggeva il vescovo Giovanni di Filadelfia suo vicario nel Patriarcato di Antiochia e in quello di Gerusalemme. L’impressione che se ne ricavava era che le diocesi fossero restate senza vescovi, a parte quelle menzionate nella lettera.
Le diocesi del Hauran Per quanto riguarda le liste episcopali delle altre diocesi del Hauran, per mancanza di scavi archeologici, la ricerca è praticamente ferma ai risultati della prospezione di superficie condotta nel xix secolo. Ere/Sanamein (?) Il vescovo Sopatro di Ere della Batanea è presente a Nicea (325). Il metropolita rappresenta a Calcedonia il vescovo Giovanni (451). Il vescovo Blarios è ricordato in una iscrizione della chiesa di San Macario trovata a Sanamein: «Al tempo di Blario vescovo fu costruito l’edificio di san Macario». Neapolis/ Khirbat al-Nile in Batanea Il vescovo Severo è presente a Costantinopoli (381) e il vescovo Chilon a Calcedonia (451). Il vescovo Tommaso è ricordato nella dedica della chiesa di San Michele a Carneas/ Sheikh Meskin.
DATE E VESCOVI DELLE DIOCESI CENTRO-MERIDIONALI Gerasa – Jerash
Lettera del Papa Martino i (649-653) Giovanni 557 Chiesa di Khilda - Amman Exeresius 359 Concilio di Seleucia 562 Plancus 448 Processo di Antiochia contro Ibas 451 Concilio di Calcedonia Esbous – Hesban 565 (Arcivescovo Costantino) 454 Bagni di Placco Gennadio 325 Concilio di Nicea Claudio 464 Chiesa dei SS. Profeti, Apostoli Zosis Concilio di Efeso e Martiri 451 Concilio di Calcedonia 576 Sergio i Enea 496(?) Architrave di San Teodoro (Arcivescovo Costantino) 578 Paolo 526 Chiesa di Procopio Teodosio Chiesa di Massuh 586 529 Chiesa di San Giorgio (mosaico superiore) 531 Chiesa di San Giovanni Teodoro 649 Lettera di papa Martino i 587 533 Chiesa dei Santi Cosma e Damiano (649-653) Isaia Metà del Chiesa del Vescovo Isaia 595 VI sec. (Arcivescovo Tommaso) 597 565 Diakonia della chiesa dei Propilei Madaba Anastasio Chiesa dei SS. Apostoli Pietro Leonzio 603 e Paolo Gaiano 451 Atti di Calcedonia Marianos 570 Cappella del vescovo Marianos (Arcivescovo Costantino) 608 Architrave della “cattedrale” Gaiano Al tempo del metropolita Genesio 611 Chiesa di Genesio Antipatro dopo il 451 Malechios Chiesa centrale del villaggio di Mechaberos Philadelphia – Amman Fidos Fine Cappella inferiore del Sergio ii 718 V sec. Prete Giovanni a Khirbat Ciro 325 Concilio di Nicea (Quirius? 325) al-Mukhayyat Giobbe 756 Eulogio 451 Concilio di Calcedonia (451) Ciro Inizi Mosaico inferiore della Teodosio 502 Chiesa di Yadudeh VI sec. Chiesa di Kaianos alle ‘Uyun Musa; 762 508 Cappella di Yajuz mosaico del battistero inferiore (seconda indizione) della “cattedrale” di Madaba Teofane 767 Polieuctos Chiesa di S. Giorgio Elia 530/31 Diakonikon-battistero (Jebel al-Weibdeh) del Memoriale di Mosè Tommaso Cappella di Suwayfiyah – Amman 536 Chiesa di San Giorgio Cappella di Khirbat al-Kursi
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Giovanni Giorgio
649 687
Chiesa dei SS. Martiri Lot e Procopio, al-Mukhayyat Cappella di San Teodoro – “cattedrale” Madaba Cappella superiore del Prete Giovanni, al-Mukhayyat Cappella della chiesa dei SS. Apostoli a Madaba Cortile della “cattedrale” Madaba Chiesa dei Santi Apostoli, Madaba Chiesa del Prete Wa’il di Kastron Mefaa Chiesa del Vescovo Sergio di Kastron Mefaa Cripta del Profeta Elia di Madaba Battistero nuovo del Memoriale di Mosè Ambiente della “Cattedrale” di Madaba Chiesa superiore del Profeta Elia a Madaba Cappella della Theotokos del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo Chiesa di Santo Stefano a Kastron Mefaa Mosaico superiore chiesa di S. Stefano di Kastron Mefaa Cappella della Theotokos a ‘Ayn al-Kanisah-Monte Nebo Mosaico nuovo della chiesa della Vergine a Madaba
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Resti di una chiesa tra le rovine della città di Feinan/Feno nei pressi delle miniere di rame di Palestina, nella valle dell’Araba a sud del Mar Morto.
Eutimia/ Harran? Il vescovo è presente a Calcedonia (451). Il vescovo Teodoro è ricordato nell’iscrizione di una chiesa a Harran. Neela/al-Mushennef/Nelcomia/ Nilacome (Hierokles) Il vescovo Gautus viene rappresentato dal metropolita a Calcedonia (451). Il vescovo Diocles è ricordato in una iscrizione del 492. Canatha/Qanawat Il vescovo Teodosio partecipa al Brigantaggio di Efeso (430), al Concilio di Calcedonia (451) e al sinodo di Costantinopoli (455 ).
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Maximianopolis/Shaqqa Il vescovo Severo a Calcedonia è rappresentato dal metropolita (451). Il vescovo Tiberinus è ricordato in una iscrizione di una cappella di San Giorgio trovata nel villaggio (354 o 357). Il vescovo Sergio è ricordato in una iscrizione di un’altra cappella. Philippopolis/Shahba Il vescovo Hormisdas è presente a Calcedonia (451) e il vescovo Basilio è ricordato nel 552/3 nella fondazione di una chiesa.
Il vescovo Maras a Calcedonia è rappresentato dal metropolita (451). Il vescovo Pietro è ricordato in una iscrizione.
Il vescovo Varus nel 512 è ricordato nell’iscrizione della chiesa di Sant’Elia.
Constantia/Constantine/Bouraq (?) Il vescovo Chilon è presente a Costantinopoli nel 381, mentre il vescovo Solemus a Calcedonia è rappresentato dal metropolita.
Phaena/ Ainos/Mismiyyeh La cittadina capoluogo del Trachon viene ricordata come Faina in Hierocles e viene ricordata come Fenoutos in Giorgio Ciprio. Malco vescovo di Ainos (Phaena?) a Calcedonia è rappresentato dal metropolita (451).
Zorava/Ezra‘ Il vescovo Nonno partecipa al concilio di Calcedonia (451).
Dionysias/Suweidah Il vescovo Severo partecipa al concilio di Nicea (325) e il vescovo Elpidio è presente nel 381 a Costantinopoli (381). 77
SANTUARI E MONACI IN ARABIA
«E così dopo un po’ di tempo e per volontà di Dio, sentii un altro desiderio, quello di andare fino in Arabia, cioè al Monte Nebo, al luogo in cui Dio ordinò a Mosè di salire, dicendogli: “Sali sul monte Arabot, sul monte Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico e guarda il paese di Canaan che io dò in possesso ai figli d’Israele: muori su quel monte, dove sarai salito”. Così dunque, Gesù nostro Dio, che non abbandona coloro che sperano in lui, si è degnato di esaudire anche questo mio desiderio». Così inizia il racconto del pellegrinaggio scritto da Egeria che era partita nella seconda metà del iv secolo, dal lontano occidente, probabilmente dalla Galizia, per visitare i Luoghi Santi. Dopo tre anni di permanenza nel Vicino Oriente e dopo aver visitato i santuari del Vangelo in Palestina e i luoghi santi dell’Egitto e della penisola sinaitica, usando Gerusalemme come punto di partenza, la pia e intraprendente matrona romana sentì il desiderio di completare il suo pellegrinaggio alle terre bibliche con un viaggio alla tomba di Mosè sul Monte Nebo in Arabia, e, una volta tornata a Gerusalemme, rimettersi in cammino per visitare il santuario di Giobbe nel Hauran anch’esso meta di pellegrinaggi. San Giovanni Crisostomo attesta: «Molti intraprendono il lungo e arduo viaggio muovendosi dai confini della terra fino in Arabia per vedere il mucchio di letame, e quando lo raggiungono baciano la terra che ricevette quel posto di combattimento di quel vincitore» (pg 49, 69a). Per i cristiani della regione, come per i pellegrini che venivano da lontano, le terre bibliche costituivano un luogo ideale per rivivere nel ricordo e nella preghiera gli episodi narrati nell’Antico Testamento a proposito dei Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, dei Profeti iniziando da Mosè, immedesimandosi con il popolo di Dio peregrinante nel deserto, di cui nella fede si sentivano gli eredi. Questa continuità, che non è soltanto teologica ma topografia rivissuta sul terreno e passata nella geografia sacra della Terra Santa, fu tenuta viva dai monaci nella valle del Nilo, come tra le montagne della penisola sinaitica, sulla sponda del fiume Giordano e del Mar Morto e tra le montagne di Petra, abitate da colonie monastiche che vivevano nelle celle da loro costruite e negli anfratti naturali della montagna, sull’altopiano transgiordanico e nella steppa siriana fino in Mesopotamia con il ricordo di Abramo che da Ur, nel sud del paese, si era spostato a Harran nel nord, prima di rimettersi in cammino verso il Canaan.
Terra di pellegrinaggi: memoriale di Mosè sul Monte Nebo Egeria inizia il suo viaggio verso il Monte Nebo in compagnia di santi uomini, cioè di monaci. Dopo aver attraversato il Giordano, raggiunge la città di Livias, da dove, guidata da un prete che conosceva quei luoghi, prende la strada romana che saliva sull’altopiano. «Partendo, dunque da Gerusalemme, e viaggiando in compagnia di santi uomini – un sacerdote e dei diaconi di Gerusalemme, e alcuni fratelli, cioè dei monaci – arrivammo a quel luogo del Giordano dove erano passati i figli di Israele… Per condurre a termine l’impresa iniziata, cominciammo ad affrettarci, per giungere al Monte Nebo. Strada facendo, ci informò un sacerdote del luogo, cioè di Livias, al quale avevamo chiesto di venire con noi dalla tappa, perché conosceva meglio quei luoghi. Questo sacerdote ci dice: “Se volete vedere l’acqua che sgorga dalla roccia, quella che Mosè diede ai figli di Israele quando ebbero sete, la potete vedere, a condizione, tuttavia, che acconsentite a imporvi la fatica di lasciare la strada circa al vi Miglio”. Quando ebbe detto questo, noi, desiderosi decidemmo di andarvi: e subito, lasciando la strada, seguimmo il sacerdote che ci guidava». La pellegrina incontra monaci asceti, come tiene a precisare, nei pressi della fonte di Mosè nella valle raggiunta con una deviazione al vi Miglio dalla strada che proseguiva verso Esbus, la città biblica di Heshbon del racconto biblico dell’Esodo sulla Strada dei Re. «In quel luogo vi è una chiesetta ai piedi del monte, non il Nebo, ma un altro più in qua, che tuttavia non è molto lontano dal Nebo. Vi abitano parecchi monaci, molto santi e che qui chiamano asceti. Quesi santi monaci si degnarono di accoglierci con molta ospitalità, poiché ci permisero di entrare per salutarli. Dopo essere entrati da loro e aver fatto con loro l’orazione, si degnarono di darci le eulogie, come hanno l’abitudine di dare a quelli che essi accolgono con ospitalità. Là dunque, fra la chiesa e gli eremi, in mezzo, sgorga dalla roccia abbondante acqua, molto bella e limpida, di un gusto delizioso. Allora domandammo anche a quei santi monaci che abitavano là che acqua fosse quella, così abbondante e buona. Allora essi ci dissero: “Questa è l’acqua che diede san Mosè ai figli di Israele in questo deserto”. Si fece dunque, come di solito, l’orazione e la lettura dal libro di Mosè, dicemmo anche un salmo e così, con i santi chierici e monaci che erano venuti con noi, proseguimmo verso la montagna».
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La strada del pellegrinaggio La strada percorsa dai pellegrini era già nota a Eusebio di Cesarea, che nell’Onomastikon la usa come punto di riferimento per localizzare i toponimi biblici della montagna e dei dintorni citandone in particolare il vi e il vii Miglio. Il Monte Nebo – egli scrive – «viene mostrato al vi Miglio della città di Esbus». Al vii Miglio sopra il monte di Fogor si trova la località di Dannaba. Nei paraggi sulla montagna si trova Bethfogor. La strada è inoltre ricordata con un generico «per chi va o per chi sale da Livias a Esbus di Arabia» censendo i toponimi Araboth Moab e Abarim. La strada dovette essere percorsa da Pietro l’Ibero che dalle Terme di Mosè nella valle del Giordano ai piedi della montagna si spostò alle Terme di Baaru nei pressi del villaggio di Ma‘in passando per il Memoriale di Mosè e per Madaba (Vita Petri). La scoperta e lo studio dei miliari della strada romana condussero anche alla identificazione delle rovine del santuario di Mosè sulla cima di Siyagha. Due gruppi di miliari, dagli abitanti della regione noti con il nome di Sarabit al-Mushaqqar (Colonne di al Mushaqqar) e di Sarabit al-Mahattah (Colonne della Stazione), a circa un miglio di distanza l’uno dall’altro, furono notati e descritti dagli esploratori del Survey of Eastern Palestine che li visitarono il 19 settembre 1881. Il merito di avere notato tracce di iscrizione sui sarabit e di averli identificati correttamente con i miliari numerati a partire da Esbus del v e vi Miglio della strada romana che univa la valle all’altopiano, è di padre Germer-Durand, che li esaminò in due occasioni nel 1895 e 1896. L’epigrafista riuscì a decifrare le tre linee finali con l’indicazione in greco e latino della località di origine della strada e il numero 80
del miglio. La ricerca moderna ha aggiunto i miliari del ii Miglio, quelli del iv, del vii/viii, e del ix/x Miglio anepigrafi sul ripido pendio che dal vi Miglio scende verso Livias nella valle del Giordano. Il vi Miglio, che rappresentava il punto mediano del tratto di strada che univa Livias con Esbus, era anche un incrocio importante. Da lì infatti partiva la deviazione che scendeva alle Fonti di Mosè nella valle. Bisogna immaginare un monumento (solo la colonna senza il basamento è alta più di 2,50 metri) che sorgeva nei pressi di una fortezza di guardia (nota come al-Mahatta in arabo, la Stazione) che impressionava il viaggiatore, al di là del fatto che il miliario indicava anche la fine della fatica al termine della salita. Era un punto particolarmente emozionante per i pellegrini che rivolti verso sud est vedevano per la prima volta il santuario di Mosè sulla cima di fronte. Le scoperte hanno reso possibile seguire il tracciato della strada e comprendere l’interesse che i funzionari romani del ii-iii secolo dimostrarono per questo difficile tratto di strada che univa la valle del Giordano all’altopiano inerpicandosi con arditi tornanti sulle cresta di al-Mushaqqar di fronte al Monte Nebo. Di conseguenza è stato possibile determinare sul terreno la deviazione che il sacerdote di Livias consigliò al gruppo di pellegrini di cui faceva parte Egeria per visitare le sorgenti nella valle, e poi risalire sulla montagna santa per raggiungere il santuario meta del loro pellegrinaggio. «Anche molti di quei santi monaci, che abitavano là vicino all’acqua, quelli per lo meno che poterono sottoporsi a quella fatica, si degnarono di salire con noi sul Monte Nebo. Così dunque, partendo da quel luogo, giungemmo ai piedi
Paesaggio dalla cima occidentale di Siyagha sul Monte Nebo e il santuario di Mosè, meta preferita del pellegrinaggio cristiano in Arabia. Il santuario è stato riportato alla luce dagli archeologi dello Studium Biblicum Franciscanum che iniziarono i lavori nel 1933.
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del monte Nebo che era molto alto, tuttavia se ne può salire la maggior parte a dorso di asino, ma una piccola parte era più scoscesa ed era necessario salire a piedi, faticosamente, e così infatti facemmo. Giungemmo dunque alla sommità di quel monte: vi è ora una chiesa non grande, su quella cima del monte Nebo».
La presenza monastica Nella sua visita al santuario, Egeria, quando scrive che chiese spiegazioni ai monaci, sembra riferirsi sempre ai monaci che abitavano nella valle presso la sorgente che l’accompagnarono. Dilungandosi a descrivere il panorama che le viene mostrato dalla porta della chiesa da «coloro che conoscevano i luoghi, i sacerdoti e i santi monaci», non fa il minimo accenno alle celle dei suoi ospiti sulla cima della montagna. Informazioni che invece troviamo nella Vita di Pietro l’Ibero vescovo di Maiumas, il porto della città di Gaza. Il biografo, Giovanni Rufo, discepolo del vescovo, ricorda espressamente «i molti monasteri» (le celle dei monaci, nel vocabolario del tempo) costruiti intorno al santuario, e i monaci che vivevano sulla montagna. Furono essi a raccontargli l’origine del santuario. «Una volta il beato Pietro decise di passare in Arabia a causa della sua infermità, per cercare rifugio nelle acque calde di Livias, note con il nome di San Mosè…». Per non avervi trovato sollievo, perché l’acqua non era abbastanza calda, il vescovo aveva deciso di tornare a Maiumas di Gaza. Invitato da alcuni cristiani di Madaba che gli avevano lodato le acque delle terme di Baaru, si decise a continuare il suo viaggio. «Il giorno seguente partì per Madaba. A mezza strada giungemmo alla montagna di San Mosè, il cui nome è Abarim, cioè Fasga (Pisga) dove Dio gli disse: “Sali e muori”. Su di esso c’è un santo ed ampio tempio dedicato al Profeta e molti monasteri costruiti intorno ad esso. Pieni di gioia per
Il miliario fu eretto al termine dei lavori di sistemazione del tratto di strada condotti dai genieri del governatore Furnio Giuliano nel 213 al tempo dell’imperatore Caracalla. L’indicazione stradale del vi Miglio era ripetuta in latino e in greco nelle ultime linee.
essere giunti a questo luogo, noi insieme con l’Anziano (Pietro) offrimmo preghiere e ringraziamenti a Dio che ci onorò con la benedizione e venerazione di un simile Profeta». La permanenza nel perimetro del santuario, fu l’occasione di ricordare l’esperienza vissuta durante la prima visita molti anni prima, quando il vescovo era solo Nabarnugios, un giovane membro della famiglia reale dell’Iberia venuto in pellegrinaggio in Terra Santa. Lì aveva avuto il privilegio, con il permesso del responsabile, di incontrare un asceta egiziano fuggito da Scete, che era vissuto per 40 anni in una cella «senza mai uscire fuori della porta e senza mai oltrepassare la soglia». «Mentre eravamo lì, dopo la preghiera e l’adorazione, l’anziano ci fece entrare in una cella di circa cinque cubiti di lunghezza e larghezza non molto luminosa e raccontò quanto segue: “Mi ricordo che quando ero ancora giovane ed ero da poco giunto dalla residenza reale, venni in questo luogo per una visita e per pregare. Quando seppi che uno dei grandi monaci di Scete viveva qui in pace, dopo aver lasciato Scete con tutti i monaci che vivevano a causa di un’orda di Mazik che aveva attaccato quei monasteri, pregai il custode della chiesa sulla montagna di intercedermi la sua benedizione e poterlo vedere. Eravamo in tre, io, il beato Giovanni e un altro monaco, un cappadoce di nascita che viaggiava con noi. Poiché era schiavo nella sua patria, era scappato per la severità del suo servizio ed era venuto a Gerusalemme dove viveva in pace. Noi, tuttavia, non ci conoscevamo l’un l’altro, né noi né la nostra origine erano noti agli abitanti di quel luogo. Ma quando l’anziano ci ebbe dato il permesso di chiamarlo e vide che eravamo entrati, disse immediatamente: ‘È bene che tu sia venuto Nabarnugios, figlio e nipote di Bosmarios’. Mentre io ero in pieno stupore a queste parole, ed ero sopraffatto da grande timore e tremore, l’anziano di nuovo ci disse: ‘Recitate la preghiera (il Pater Noster)!’. Ma quando noi, come laici, rimanemmo in silenzio, egli continuò
Una iscrizione completa si è conservata su un miliario del recuperato sul posto nel luglio 1996.
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Miglio a forma di colonna
IMP CAESAR M Imp(erator) Caesar M(arcus) AUR ANTONINUS Aur(elius) Antoninus PIUS FELIX AUG PARTHIC Pius Felix Aug(ustus) Parthic(us) MAX BRITANNIC MAX Max(imus) Britannic(us) Max(imus) PONTIFEX MAX TRIB Pontifex Max(imus), trib(unicia) POT XVI IMP II COS IIII Pot(estatis) XVI, imp(erator) II, cos(ul) IIII P P PROC VIAS ET P(ater) P(atriae), proc(osul) vias et PONTES RESTITUIT pontes restituit A HESB – M VI a Hesb(unte) m(illia passuum) VI APO ECB Apo; æEsb(ou§ntoı) MS m(ivlia)ıj
«L’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino, Pio, Felice, Augusto, Partico Massimo, Britannico Massimo, Pontefice Massimo, investito della potestà tribunizia per la sedicesima volta, avendo ricevuto per la seconda volta il saluto imperiale, 4 volte console, Padre della Patria, Proconsole, rifece le strade e i ponti da Esbus vi Miglia». 82
a ripetere la stessa domanda. Allora io, sciocco che ero, mi avventurai a dire: ‘Scusaci, venerabile Padre, noi siamo peccatori e laici’. Ma egli stendendo la sua mano verso il cappadoce disse: ‘Schiavo, recita la preghiera. E non scusarti’. Dopo la recita della preghiera – come uno avrebbe osato rifiutarsi davanti al comando di un tale santo uomo! – egli ci permise di sederci. E dopo che, in conformità con la sua bontà, ci ebbe comunicato molte parole divine e sensate, racconti e consolazioni, egli alla fine, dopo questo pasto spirituale, disse ad uno che viveva con lui nella cella: ‘Prendi i fratelli e dai loro ristoro perché essi sono del mondo’. Il giorno dopo, quando tornammo da lui per ottenere la sua benedizione, e prendere congedo con una benedizione, egli ci ricevette gioiosamente. E dopo averci detto alcune parole a nostra edificazione, ci congedò. Mentre noi uscivamo, afferrò il mio mantello e mi tenne con forza. Rivoltomi verso di lui, mi fece segno con la mano di restare, mentre permise agli altri di uscire. Rimasti soli, mi pregò di sedermi su un piccolo sgabello che si trovava là e disse: ‘Fá attenzione a non estinguere il fuoco del suo amore, di cui Dio ti ha
dotato, – nessuno di questa generazione ne è stato così privilegiato – ma conservalo con cura. E vivi con nessun altro se non con questo fratello che è venuto con te’, intendendo il beato Giovanni l’eunuco… Allora mi congedò dopo avermi abbracciato e baciato in fronte e recitato una preghiera”». Tenendo conto che la prima visita era avvenuta durante la giovinezza di Pietro, e che la permanenza del monaco di Scete recluso volontario in una cella del Nebo durava da diversi decenni, la presenza dei monaci con le loro celle nei pressi del santuario è da spostare almeno alla fine del iv – primi decenni del v secolo. Nella Vita di Pietro, il testo continua con il racconto dell’origine del santuario, come era narrato ai pellegrini «dagli abitanti di quella montagna», evidentemente da riferire ai monaci. La costruzione del santuario è messa in relazione con «un pastore del villaggio di Nebo, che è situato sul fianco meridionale della montagna», il quale, «mentre pascolava il suo gregge, lo condusse fin quassù. Qui giunto egli vide, come in una visione, una grotta molto ampia, piena di luce, splendida e odorosa. Pieno di stupore, perché mai
Le ‘Uyun Musa o Fonti di Mosè nella valle a nord del Monte Nebo, dove i pellegrini sostavano prima di intraprendere la salita al santuario sulla cima della montagna. Egeria, verso la fine del iv secolo, vi incontrò una colonia monastica.
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Teodosio (530 ca) fa riferimento a tre santuari che i pellegrini potevano visitare nella regione di Livias: «La città di Livias si trova al di là del Giordano a 12 miglia da Gerico. Livias è dove Mosè colpì la roccia con il suo bastone e ne scaturì acqua, in quel luogo scorre un abbondante corso d’acqua che irriga tutta Livias. A Livias si trova la grande pianta di datteri noti come Nicolaiti. Lì anche Mosè passò da questo mondo e lì anche ci sono alcuni acque termali nelle quali Mosè si lavò. I lebbrosi vengono curati». L’Anonimo Pellegrino di Piacenza (570 ca), giungendo al luogo del battesimo di Gesù, sulla sponda orientale del fiume Giordano, descrive altri luoghi del territorio di Livias ai piedi del Monte Nebo, prima di indicare il modo di giungere al santuario: «Vicino sorge la città che si chiama Salamiada (Liviada), dove rimasero due mezze tribù di Israele, prima di passare il Giordano, nel quale luogo ci sono terme e soffioni, che si chiamano Terme di Mosè, dove anche i lebbrosi vengono mondati. Lì si trova una fontana che ha un’acqua dolcissima, che si beve come depurativo, e risana molte malattie, non lontano dal Mare del Sale, in cui il Giordano entra sotto Sodoma e Gomorra; sul suo lido si raccoglie zolfo e bitume. In questo mare nel mese di luglio, agosto e fino a metà settembre per tutto il giorno giacciono lebbrosi, al tramonto si lavano nelle Terme di Mosè, e talvolta il Signore monda chi vuole. In genere provano qualche sollievo… Dal Giordano fino al luogo dove Mosè morì, vi sono otto miglia. Da lì si va non molto lontano da Segor, in questi luoghi si trovano molti eremiti. Vedemmo anche il sepolcro di Assalonne, figlio di Davide». 5m
Il programma musivo dei pavimenti della basilica centrale e delle cappelle laterali nel Memoriale di Mosè sul Monte Nebo. Il diaconicon-battistero fu scoperto nel 1976 sotto la lunga cappella settentrionale (Dis. Arch. Giorgio Ortolani).
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Lo scavo di superficie e la rimozione dei mosaici in occasione del restauro in anni recenti hanno permesso di approfondire l’evoluzione del monumento visitato dai pellegrini dal iv all’viii secolo. Il santuario primitivo cristiano fu costruito nel iv secolo sul punto più alto della montagna su un precedente edificio funerario del ii-iii secolo dalla forma non ben definita. La chiesa era di forma quadrangolare all’esterno con tre absidi all’interno (che gli archeologi chiamano cella trichora). Per cause imprecisate il santuario subì una distruzione violenta ma fu subito ricostruito nella forma che con ritocchi minori fu inglobata nella basilica del vi secolo. Del santuario primitivo faceva parte il pavimento mosaicato di cui restano diversi lacerti dai quali si può ricostruire una composizione tetraconca a croce greca chiusa all’interno di un cordone tessuto con tecnica ad arcobaleno, con motivi
lazione cristiana della diocesi di Madaba, come fu narrato a Pietro l’Ibero. Del santuario facevano parte a ovest in facciata il vestibolo e una serie di ambienti funerari che si aprivano su un cortile antistante circondato sui lati da un porticato. Una grande croce a treccia decorava un vano meridionale del vestibolo. Nella basilica del vi secolo che restò in uso fino all’viii secolo, in quest’area che corrispose alla testata orientale della navata meridionale, a sud dell’ambone, i monaci costruirono una piattaforma rettangolare, che agli archeologi ricordò la memoria descritta da Egeria nel santuario primitivo che le fu mostrata come il cenotafio/tomba di Mosè. «In quella chiesa, nel luogo dove vi è il pulpito, vidi uno spiazzo un poco più alto, le cui dimensioni erano quelle che hanno di solito le tombe. Allora chiesi a quei santi che cosa fosse, ed essi mi risposero: “Qui fu deposto dagli Angeli san Mosè poiché, com’è scritto, nessuno ha mai saputo dov’è la sua tomba”. E così è certo che fu sepolto dagli angeli. Poiché la sua tomba, dove egli sia stato deposto non viene mostrata fino ad oggi; come infatti a noi fu mostrato dai nostri vecchi, che abitarono qui, dove fu deposto, così anche noi ve lo mostriamo: e questi vecchi dicevano che era stato loro così tramandato dai loro vecchi». Nei pressi esisteva, a una quota più bassa, una cappella funeraria e, in continuazione a ovest, alcune stanze mosaicasso d
La ricerca archeologica: il complesso basilicale
figurativi inseriti all’interno dei bracci della croce, e motivi del repertorio geometrico all’esterno. Nel braccio orientale del tetraconco, che è il meglio conservato, resta la metà nord di una composizione speculare composta da due aquile affrontate a un’anfora ansata su piedistallo modanato. Dal collo dell’anfora fuoriescono due tralci di vite con foglie sull’estremità a formare quattro girali. In un girale sono raffigurati due uccelli affrontati resi molto schematicamente con tessere rosse. In modo speculare un secondo tralcio forma un girale piccolo nel quale è raffigurato un volatile eseguito con tessere grigie. Un gallo decora un girale nei pressi della base dell’anfora. Le iscrizioni dedicatorie sono inserite nella composizione in modo abbastanza casuale. Di rilievo storico quella che ricorda l’abate Alexios, nome ripetuto in una iscrizione della cappella funeraria del santuario primitivo nell’area del battistero a sud, e una seconda iscrizione con i nomi di benefattori tutti di rango «illustrissimi». Il ritrovamento nello scavo di suppellettili e di marmi pregiati, come la gamba di una tavola a zampa di leone e quattro colonne di marmo di Aquitania provenienti da una cava aperta al tempo di Costantino per le costruzioni imperiali, si somma con l’iscrizione per affermare che sia la costruzione del santuario primitivo che il restauro dall’abate Alexios furono sovvenzionati da funzionari dell’amministrazione imperiale della Provincia, con la collaborazione della popo-
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prima qualcosa di simile era stato visto lassù, egli fortificato dalla potenza divina si avventurò a scendere in quella grotta e vide un vecchio venerabile la cui faccia brillava e sorrideva beatamente deposto su un letto luminoso risplendente di gloria e di grazia. Quando si rese conto che era San Mosè, immediatamente corse via con grande timore e gioia al villaggio e si affrettò a informare gli abitanti della visione… Poiché quelli e tanti santi si convinsero che la visione era autentica, tutti gli abitanti di quella regione si affrettarono a portare materiali da costruzione, e questo tempio fu costruito nel nome del grande Profeta e Legislatore». Purtroppo nel racconto manca qualsiasi accenno cronologico. Il discorso si deve necessariamente spostare sui risultati dell’indagine archeologica condotta in modo continuativo a cominciare dal 1933 dagli archeologi dello Studium Biblicum Franciscanum all’interno del santuario e sulla cima della montagna. Lo storico ha nelle iscrizioni dei mosaici della basilica e del mosaico della cappella nel piccolo monastero della Theotokos nella valle di ‘Ayn al-Kanisah una guida certa riguardante la presenza monastica sulla montagna dai primi decenni del v secolo fino alla seconda metà dell’viii secolo. I monaci furono i primi ad arrivare e gli ultimi ad abbandonare il santuario d’Arabia più noto nell’antichità cristiana. Anche i pellegrini che non salirono sul Monte Nebo tengono a ricordarlo ai loro lettori. L’arcidiacono
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Re de cinto gli ani ma
Dettaglio del mosaico che decorava il santuario primitivo di Mosè nei pressi dell’altare con volatili ai lati di un’anfora (V sec. d.C.).
Le altre testimonianze riguardanti la colonia monastica del Nebo provengono dagli scavi nel monastero maggiore di Siyagha e negli edifici ecclesiastici di Khirbet al-Mukhayyat, di Wadi ‘Uyun Musa e di Wadi ‘Ayn al-Kanisah e, eccezionalmente, dagli scavi condotti a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa nella steppa di Madaba, dove una iscrizione del mosaico della chiesa di S. Stefano, datato all’viii, ancora ricorda la collaborazione di Kaium monaco e presbitero di Phisga, nel quale è da identificare un abate del monastero del Nebo.
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Il diaconicon-battistero con il fonte cruciforme nel santuario di Mosè sul Monte Nebo. La cappella fu mosaicata e abbellita al tempo del vescovo Elia di Madaba e dell’abate Elia dai mosaicisti Soel, Kaium e Elia. L’opera fu terminata nel mese di agosto del 530 al tempo dei consoli Lampadio e Oreste.
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Cacciatore in costume persiano (530 d.C.). Dettaglio del mosaico del diaconicon-battistero nel Memoriale di Mosè sul Monte Nebo.
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Cacciatore con berretto frigio armato di lancia e scudo che trafigge una leonessa.
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te a grandi tessere bianche, probabilmente utilizzate dai monaci che erano al servizio del santuario. Negli anni trenta del vi secolo iniziò una ristrutturazione progressiva del santuario che si concluse nei primi anni del vii secolo. Sulla terrazza settentrionale della montagna, a una quota più bassa di un metro, fu aggiunta una cappella battesimale splendidamente decorata dai mosaicisti Soel, Kaium ed Elia, come si legge nell’iscrizione di due linee nei pressi della scala di ingresso che si raggiungeva tramite un portico mosaicato sul lato nord del cortile antistante la chiesa. Il lavoro di costruzione e di abbellimento del «sacro diaconicon di Dio con il santo fonte della rigenerazione» fu terminato nell’agosto del 530, al tempo dell’abate Elia e del vescovo Elia di Madaba, essendo consoli di Roma Lampadio e Oreste. Benefattori del pregevole lavoro furono i membri di tre famiglie di funzionari (scolastici-avvocati) dell’amministrazione imperiale, come si legge nella lunga iscrizione che accompagna, sul lato di est, la composizione del tappeto centrale. Il mosaico si distingue per la sua eleganza e per la sua novità tra i mosaici contemporanei del territorio di Madaba. La composizione con uno schema tripartito si muove in funzione del «fonte della rigenerazione» costruito sulla testata orientale della cappella. Un pannello rettangolare chiuso in
un riquadro decorato con un reticolo di croci di fiori con i rombi di risulta caricati di diamanti, si sviluppa verso nord in continuazione della scala di discesa nei pressi dell’angolo di sud ovest del vano. Dalla parte opposta, un motivo a squame caricate di fiori inquadra su tre lati il fonte cruciforme. Quattro motivi isolati sono aggiunti negli angoli formati dai bracci della croce: un intreccio di otto con l’aggiunta di un grappolo d’uva; un cerchio annodato a formare all’interno una croce di nodi; due triangoli curvilinei intrecciati; un motivo di fascia disposta a stuoia con nodi quadrati. Motivi geometrici decorano gli spazi tra i pilastri sulle pareti. Son bene conservati i tre pannelli sulla parete meridionale. Gran parte del vano è occupato dal tappeto centrale chiuso in una treccia policroma a calice allentata, con orlo curvo e occhielli su fondo nero bordata da un doppio cordolo di linee policrome. All’interno della treccia, quattro registri sovrapposti di scene di caccia e di pastorizia sono chiusi a est dalle cinque linee dell’iscrizione dedicatoria in greco impaginata in un riquadro semplice di linee policrome. Il pannello centrale figurato è scandito su quattro registri sul fondo bianco ravvivato da alberelli e fiori stilizzati. Nel primo registro sono raffigurate due scene di caccia: un negro che tiene al laccio uno struzzo e un giovane in foggia persia-
na con berretto frigio sul capo che tiene una zebra e un dromedario o giraffa. Nel secondo registro, è raffigurato un pastore seduto su una pietra all’ombra di un albero che guarda il gregge composto da capre e pecore che brucano le foglie dei quattro alberelli. In modo anomalo la chioma del secondo albero di destra perfettamente uguale nel disegno e nell’esecuzione alle altre che seguono è resa rovesciata. Nel terzo registro due cacciatori a cavallo, accompagnati dai cani, trafiggono con la lancia un orso e un cinghiale. Nel quarto registro, un giovane pastore difende uno zebù legato a un albero dall’assalto di un leone e un soldato con berretto frigio armato di lancia e scudo trafigge una leonessa che gli si avventa contro. Le due scene di lotta sono ambientate con l’aggiunta di due alberelli. I motivi floreali aggiunti tra le figure o vicino ai tronchi degli alberi sono caratterizzati da più rametti con foglie terminanti con boccioli chiusi o aperti. Tra la chioma degli alberi densa di fronde e di frutti, si riconoscono melegrane e mele rese con tessere rosse, pere e prugne rese con tessere gialle. Le scene sono eseguite con particolare attenzione ai dettagli. Rifinite sono le vesti indossate dai personaggi, come gli stivaletti, i calzoni, la tunica legata alla vita, il mantello fermato sul petto e il copricapo del giovane in vesti persiane, come pure la decorazione a strisce e le pieghe del perizoma del negro nel
primo registro; nel terzo registro la bardatura dei cavalli con la sella, i finimenti e le briglia; lo scudo e la lancia del soldato nel quarto registro o il sangue che sprizza dalle ferite degli animali colpiti. Nello stesso spirito sono resi gli animali, come la zebra caratterizzata dal manto a strisce e il dromedario o giraffa con il pelo maculato, la gobba e il lungo collo. Particolare rilievo acquistano in quest’opera i visi dei personaggi, tutti ritratti frontalmente in una quasi immobilità iconica, eccetto il pastore seduto su una pietra di cui si sottolinea la barba che è vista di profilo. Sul piano tecnico per la prima volta compare in questi visi la frammentazione delle tessere spesso ridotte a schegge per ottenere sfumature di tipo naturalistico. Una caratteristica tecnica che diventerà una costante dei mosaici di epoca posteriore. L’opera di Soel, Kaium ed Elia è da considerarsi come un’antesignana del gusto che si imporrà tra gli artigiani mosaicisti di Madaba e del suo territorio. Verso la metà del secolo, alla chiesa primitiva diventata il presbiterio del nuovo santuario con la rimozione della facciata, fu aggiunto il corpo basilicale colonnato a tre navate utilizzando il cortile antistante. Nel presbiterio, le due absidi laterali furono cambiate in ambienti di servizio con l’erezione di un muro di chiusura. Della basilica sono ben conservati i capitelli in pietra calcarea con decorazione
Cacciatore a cavallo che trafigge un cinghiale stanato dal cane. Dettagli del mosaico del diaconicon-battistero (530 d.C.) nel Memoriale di Mosè sul Monte Nebo.
Nelle pagine seguenti: Dettagli del mosaico del diaconiconbattistero (530 d.C.) nel Memoriale di Mosè sul Monte Nebo.
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Motivo a otto rami intrecciati con grappolo d’uva sovrapposto. Dettaglio del mosaico nel diaconicon-battistero (530) del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo.
vegetale. Il programma decorativo del corpo basilicale fu immaginato come una composizione unitaria rinchiusa in una doppia fascia composta da un meandro di svastiche, a sua volta circondato da un nastro formato da un tralcio di vite con viticci e foglie d’edera che gira lungo il perimetro interno della chiesa. A giudicare dai pochi lacerti rimasti nei pressi delle colonne verso il centro della basilica, la navata centrale era decorata con una composizione di croci di scuta, con trecce a doppio capo alternate a cordoli eseguiti con la tecnica ad arcobaleno. La composizione era estesa sui lati fino all’allineamento delle colonne. Era interrotta sulla testata orientale da una teoria di animali affiancati a motivi vegetali e alternati con alberelli. La base dell’ambone della basilica, aggiunto in un secondo tempo nell’angolo di sud est della navata centrale, ha salvato dalla distruzione una parte del motivo figurativo composto da una fiera tra alberelli. Gli intercolunni e le due navate laterali erano decorate con motivi del repertorio geometrico interrotti verso il centro della navata meridionale da una iscrizione con i nomi di alcuni benefattori.
Le cappelle Il nuovo edificio basilicale fu affiancato a nord da una lunga cappella rettangolare di servizio (diakonikon) che coprì l’antico battistero portando l’ambiente alla stessa quota della navata. La decorazione a mosaico si adegua ai due ambienti nei quali la cappella era divisa da un gradino per motivi liturgici. L’area orientale sopraelevata era decorata con un pannello quadrangolare chiuso in una treccia a quattro capi policromi su fondo scuro. Il tappeto con una composizione di quadrati polilobati affiancati era decorato con motivi geometrici, frutti, fiori, volatili e pesci inseriti nelle risulte del motivo geometrico. Un motivo omogeneo di quadrati affiancati annodati caricato di foglie a cuore e di corolle di fiori decorava l’ambiente occidentale. Verso la fine del vi secolo, il lavoro fu ripreso dalla parte opposta con la costruzione della cappella battesimale (foti94
sterion, o luogo della illuminazione, come è chiamato nelle iscrizioni) all’esterno del muro meridionale, in sostituzione di un ambiente di servizio finemente decorato a mosaico nella prima metà del secolo, ottenuto coprendo l’ambiente funerario che si trovava in quest’area del santuario primitivo. Dalle iscrizioni del mosaico e da quelle incise sul fonte monolitico in pietra, rotondo all’esterno e cruciforme all’interno, sappiamo che il battistero con il suo mosaico fu terminato nel 597 al tempo dell’abate Martirio e del vescovo Sergio di Madaba, che aveva già previsto di completare la ristrutturazione del santuario con l’aggiunta, in continuazione verso ovest, della cappella della Theotokos. L’opera fu realizzata al tempo del successore abate Teodoro, che nell’iscrizione tiene a ricordare l’impegno del suo predecessore, e del vescovo Leonzio di Madaba, che sappiamo in sede nel 603 e nel 608. La decorazione a mosaico delle due cappelle fu affidata alla stessa équipe di mosaicisti, a giudicare dalla tecnica di messa in opera del mosaico e dallo stile della composizione. Nella cappella del battistero i mosaicisti circondarono, con una fascia di medaglioni di tessere bianche su fondo nero con volatili e motivi vegetali, lo spazio che separava il fonte monolitico dalla conca absidale. Seguivano sui lati due medaglioni speculari con il testo dell’iscrizione dedicatoria accompagnati da due coppie di volatili affrontati. Un pannello rettangolare esteso a tutta la larghezza della cappella, chiuso in una fascia con meandro di svastiche, decorava la zona antistante tra il fonte e il gradino di chiusura. Il campo all’interno del pannello era scandito da cinque alberelli carichi di frutti, intercalati da volatili e gazzelle identificabili malgrado il danno iconofobico subito dal mosaico. L’aula era decorata con un motivo unico di ottagoni affiancati e intrecciati a formare quadrati ed esagoni chiusi all’interno di una fascia di triflidi alternati con cerchi e quadrati posti di punta. L’ingresso al battistero era introdotto da un augurio in greco: «Pace a tutti». Il mosaico della cappella della Theotokos, aggiunta a occidente in continuazione della cappella del battistero, è più articolato. Nel presbiterio absidato e rialzato, il profondo semicerchio della conca absidale dietro l’altare era sottolineato dalla fascia plurima che circondava il campo di fiori centrale, con l’aggiunta di una ulteriore linea di tessere nere poste di punta legata a diamanti. Un pannello rettangolare esteso a tutta la larghezza della cappella, chiuso in una treccia policroma su fondo scuro, decorava l’area antistante la corda absidale. Due tori affrontati ad una rappresentazione architettonica accompagnati dalla citazione del Salmo 51, 21, ricordavano i sacrifici dell’Antico Testamento nel tempio di Gerusalemme: «Allora tori saranno offerti sul tuo altare». L’edificio era reso con una forma schematica che rimandava a un’edicola con timpano. All’interno dell’edicola una fiamma, seguita da un ciborio con cupola sorretto da quattro colonnine con al centro una tavola che, nell’intenzione del mosaicista, doveva ricordare la tavola delle offerte all’interno del tempio. La scena volutamente simbolica era incorniciata sui lati da due cespi di fiori dagli alti steli, e da due gazzelle. Dalla crisi iconofobica si è salvata la gazzella di sinistra esile e slanciata sulle alte zampe con una campanella al collo.
La superficie rettangolare dell’aula piana della cappella, racchiusa in una fascia a nastro, era suddivisa in due pannelli geometrici che inquadravano al centro una scena di caccia: da una città resa schematicamente sulla sinistra uscivano cacciatori a piedi e a cavallo, armati di arco, frecce e lancia, che inseguivano una preda accompagnati dai loro cani. Il pannello orientale era decorato uniformemente con un reticolo di fiori con i rombi caricati di corolle aperte accuratamente eseguite a forma di croce. La lunga iscrizione dedicatoria di due linee è inserita sul lato orientale all’interno della fascia. Molto più elaborato era il pannello occidentale suddiviso in due riquadri da una fascia di meandri di svastiche a doppio ritorno, alternati a quadrati decorati con frutti e animali, motivi che decoravano anche le risulte della doppia composizione geometrica formata da una croce di quattro cerchi allacciati. La ristrutturazione del santuario terminò con il rifacimento del nartece unico in facciata anch’esso mosaicato che un’ampia scala metteva in comunicazione con il cortile antistante. Le tracce iconofobiche nelle figure animali del mosaico testimoniano che la basilica fu in uso almeno fino alla metà dell’viii secolo.
Il monastero della Theotokos A questa epoca tardiva riporta l’iscrizione sulla porta della cappella del piccolo monastero della Theotokos costruito su uno sperone roccioso a ridosso della fonte di ‘Ayn al-Kanisah nella valle omonima, a sud della montagna. I vani del piccolo monastero si sviluppavano a nord e a sud della cappella che occupava il centro dell’ala orientale del complesso e a ovest del cortile mosaicato in facciata a una quota più bassa dove si apriva una cisterna per la raccolta delle acque. Un ingresso si apriva sul lato settentrionale del cortile davanti alla chiesa. Nella fase finale fu forse utilizzata anche una porta che attraversava il vano centrale dell’ala occidentale in relazione all’esterno con i resti di una scala adattata tra gli spuntoni di roccia della cima sulla quale sorge il monastero. Una serie di vani abitativi costruiti sul ciglio della montagna sul lato ovest del cortile mosaicato antistante la cappella costituivano il settore occidentale del complesso. La cappella era in comunicazione diretta con i tre vani del settore settentrionale adattati nell’angolo di nord est del monastero nel punto più alto. Attraverso una scala in parte ricavata nella roccia nei pressi del presbiterio si saliva agli ambienti sistemati alla meglio livellando con terra e cocci i massi di roccia lasciati in loco. Del monastero faceva parte la torre quadrangolare costruita in basso a ridosso della sorgente, da immaginare come un avamposto del monastero, che sorgeva in alto, nei pressi dell’acqua e della strada che attraversava la valle. La cappella era ad aula unica con il presbiterio absidato e sopraelevato e con un ambiente di servizio stretto e lungo nei pressi della facciata a nord. L’altare in muratura sulla corda absidale fu costruito in sostituzione di una mensa sorretta da colonnine inserite in un secondo tempo nel mosaico. Prima dell’abbandono una tomba a fossa fu scavata nel mosaico
del presbiterio a sud dell’altare. Sui gradini del presbiterio, al momento dello scavo, restavano ampie tracce di un intonaco pitturato con un motivo floreale. La cappella costruita e mosaicata nel vi secolo, era stata restaurata nell’viii e il mosaico almeno in parte rifatto, come si legge nell’iscrizione nei pressi della porta. Strutturalmente la zona rifatta del mosaico corrisponde a una tomba ipogea sottostante con botola di ingresso sulla destra della scala di salita alla cappella. Alla tomba si scendeva con tre gradini fino a raggiungere una porticina in pietra con una croce a braccia patenti scolpita sull’architrave. Nella tomba a volta restavano intatte due sepolture in muratura addossate alle pareti di nord e di sud, poveramente costruite e coperte di lastre irregolari con molte inzeppature. Nella cappella, il presbiterio era decorato con un timpano a conchiglia sorretto da due colonnine circondato da un’ampia fascia a semicerchio che segue la curvatura absidale. Tra le due colonnine pendeva una tenda annodata al centro sostenuta con anelli ad un’asta orizzontale. Sui lati del timpano erano raffigurate due pecore addossate ad un alberello carico di frutti. Una fascia di triflidi inversi alternati a cerchi e quadrati circondava il tappeto dell’aula dove i motivi figurativi erano inseriti in uno schema di girali di tralci di vite con grappoli, foglie e viticci che terminavano nei pressi del gradino intorno a un medaglione con l’iscrizione dedicatoria e sulle fronde di due alberelli carichi di frutti raffigurati sui lati. Manca l’origine dei due tralci che è da immaginare nei pressi della porta nell’area soppressa durante il restauro dell’ottavo secolo. I motivi figurativi furono stravolti nel rifacimento che subirono dopo il guasto iconofobico. Stilisticamente la composizione primitiva è ben ambientata tra i mosaici della seconda metà del vi secolo messi in opera nel territorio di Madaba. Nei pressi della porta, in facciata, il manto musivo fu rifatto con un motivo geometrico autonomo che inquadrava un pannello centrale con una iscrizione in cerchio. L’iscrizione data il rifacimento al 762, al tempo del vescovo Giobbe di Madaba, che dall’iscrizione del mosaico superiore della chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa sapevamo in sede nel 756. Le due iscrizioni della cappella al centro del monastero della Theotokos hanno arricchito considerevolmente il vocabolario monastico della comunità che abitò la montagna del Nebo. L’iscrizione che accompagna il mosaico originale del vi secolo come benefattori ricorda alcuni monaci: «In principio a Dio diamo gloria. Amen. Con le preghiere dei Santi dà o Signore la ricompensa al santissimo Ciro (figlio) di Abramo l’egumeno e archimandrita di tutto il deserto e dà la ricompensa all’amatissimo da Dio Abba Longino lo stilita e ad Abba Giovanni». L’egumeno Ciro figlio di Abramo ha anche il titolo di «archimandrita di tutto il deserto», un titolo che fu di san Saba e che finora era attestato per i monaci del deserto di Giuda. Da Cirillo di Scitopoli sappiamo che mentre san Teodosio era stato eletto dal patriarca di Gerusalemme archimandrita di tutta la vita cenobitica, san Saba fu eletto archimandrita di tutta la vita anacoretica. Dalla iscrizione veniamo a sapere che una carica equivalente esisteva anche a est del Mar Morto nel territorio della 95
Il fonte monolito nella cappella battesimale del Memoriale di Mosè terminata nel 597 d.C. al tempo del vescovo Sergio di Madaba e dell’abate Martirio. Gli animali furono sfigurati durante la crisi iconofobica dell’viii sec.
Provincia Arabia, se non si vuole pensare che l’archimandrita del deserto di Giuda sia il benefattore ricordato. Una evenienza non impossibile dati gli stretti contatti che le fonti ricordano tra i monaci che abitavano le due sponde del mare. A lui viene affiancato «Abba Longino lo Stilita», con il quale abbiamo la prima testimonianza epigrafica in Giordania della esistenza anche tra i monaci della regione e probabilmente della montagna del Nebo, del genere spettacolare di ascesi inaugurato nella Siria settentrionale da san Simeone lo Stilita. Abba Longino e Abba Giovanni, con il quale chiude l’iscrizione, vengono menzionati con il titolo di rispetto, Abba, normalmente usato nelle iscrizioni monastiche di Egitto e di Siria a indicare i monaci più anziani o i superiori dei monasteri. Nella seconda iscrizione nei pressi della porta, che fa parte del pannello aggiunto nell’viii secolo al mosaico originale, si legge: «Per la provvidenza di Dio fu ricostruito questo venerabile monastero della Santa Theotokos al tempo di Giobbe vescovo dei Medabesi e di Giorgio il recluso. L’indizione quindicesima dell’anno 6270 (762 d.C.)». L’iscrizione ha conservato il nome del monastero dedicato
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alla Theotokos, alla quale erano dedicate una cappella nella basilica di Mosè sulla cima della montagna e una chiesa al centro di Madaba, e il vescovo Giobbe dei Madabesi. Ai titoli monastici dell’iscrizione precedente aggiunge quello di Einklestos, recluso, detto di Giorgio. Il titolo era attribuito ad un monaco che giunto a una certa età faceva voto di trascorrere il resto della sua vita rinchiuso in cella in stretto isolamento. Nella Vita di Pietro l’Ibero, si racconta come il giovane, durante una sua visita al santuario di Mosè sul Nebo, fece visita a un monaco di Scete che aveva trascorso in una cella del monastero «40 anni, senza mai uscire fuori della porta e senza mai oltrepassare la soglia». Questo genere di ascesi sopravvisse sulla montagna fino alla seconda metà dell’viii secolo.
Gli Egumeni Il ricordo del monaco di Scete fuggito con tutti gli altri monaci dal deserto egiziano e rifugiatosi nei pressi del santuario di Mosè in Arabia, è un prezioso riferimento storico
Dettagli dell’iscrizione dedicatoria e di volatili nei pressi del fonte battesimale del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo.
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alle origini del monachesimo sulla montagna del Nebo, da mettere in relazione con il movimento ascetico egiziano inaugurato e diffuso da Antonio l’Egiziano. Le iscrizioni del santuario e degli ambienti adiacenti sulla cima della montagna hanno conservato i nomi di sei egumeni, ai quali dobbiamo aggiungere quasi sicuramente il nome di Kaium conservato in un’iscrizione della chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas. Nelle iscrizioni ricevono il titolo di Padre Nostro. La lista inizia con il nome dell’igumeno Alessio che si prese cura di rinnovare il santuario, come si legge nell’iscrizione del presbiterio della basilica all’interno della cella trichora. Il nome del probabile successore Teofilo, si legge insieme con quello di Alessio, in un’iscrizione del mosaico pavimentale della cappella funeraria meridionale del santuario primitivo. Mosaico allettato sul suolo vergine della montagna, datato alla fine del iv secolo – inizi del v secolo. Nell’ipotesi che Alessio sia la stessa persona in entrambe le iscrizioni, l’evidenza archeologica riporta a un periodo contemporaneo con la visita di Egeria al santuario. Questa conclusione integrerebbe il silenzio della pellegrina sulla presenza dei monaci intorno al santuario. Nell’agosto del 530, quando fu terminato il mosaico dell’antico diakonikon-battistero del santuario, era egumeno Elia, al tempo del vescovo Elia di Madaba e dei consoli Lampadio e Oreste. Nessun nome è conservato tra Elia e l’egumeno Martirio, contemporaneo del vescovo Sergio di Madaba, che era superiore del monastero quando, nel 597, fu terminato il nuovo battistero sulla parete meridionale della basilica di Mosè. Al tempo del vescovo Leonzio di Madaba, che sappiamo in sede nel 603 e nel 608, quando in basilica fu terminata la costruzione della cappella della Theotokos, era egumeno Teodoro, successore di Martirio, come si legge nell’iscrizione dedicatoria della cappella. Senza data sono i nomi dell’egumeno Procapis ricordato da un’iscrizione in un ambiente esplorato sul versante occidentale della montagna, e quello dell’egumeno Robebos conservato nell’iscrizione dell’ambiente funerario scavato sulla cima della montagna a est del santuario. Ammessa la possibile identificazione con «il padre nostro Rabebos» contemporaneo del vescovo Ciro di Madaba, ricordato nel mosaico inferiore della chiesa di Kaianos nella valle di ‘Uyun Musa, da noi datato ai primi due decenni del vi secolo su basi stilistiche, il problema cronologico riguarda solo la precedenza tra questi e l’egumeno Procapis. Il carattere «primitivo» sia del mosaico dell’ambiente funerario di Rabebos, sia dell’eremitaggio di Procapis riporta i due lavori alla fine del v secolo primi decenni del vi, al tempo dei vescovi di Madaba Fido e Ciro, nel periodo anteriore all’egumeno Elia, in sede nel 530. Un altro nome di un possibile egumeno del Memoriale di Mosè è Kaium «monaco e presbitero di Fisga» letto in un’iscrizione della chiesa di S. Stefano a Kastron Mefaa/Umm al-Rasas, nel mosaico datato all’viii secolo d.C. Nelle iscrizioni del santuario di Mosè, oltre agli egumeni, due volte si ricordano i monaci della comunità con un’espressione piuttosto generica, nella invocazione che li accumuna e li affida al ricordo del Signore: «Signore ricordati dei monaci e degli altri (che qui riposano)». Le due invocazioni 98
si leggono nel mosaico del santuario primitivo e nel mosaico del diakonikon del 530. «La tomba dei Santi Padri che qui riposano» integrata nell’iscrizione dell’ambiente funerario detto di Rabebos a est fuori del santuario, potrebbe essere un altro riferimento ai monaci del monastero. In due mosaici della montagna messi in opera nella seconda metà del vi secolo vengono dati i due termini sinonimi greci usati comunemente per i religiosi. Nel mosaico superiore della chiesa di Robebos nella valle di ‘Uyun Musa con altri benefattori viene ricordato «Casiseo il monazon». Nel mosaico superiore della cappella del Prete Giovanni al-Mukhayyat, sempre alla fine di una lunga lista di benefattori e benefattrici, viene ricordato anche «Giuliano il monaco». Sono termini che leggiamo anche nella ricca e un po’ ricercata terminologia raccolta da Egeria nel suo pellegrinaggio (monachi e monazontes con ascites e fratres).
Dove abitavano i monaci della colonia del Nebo? La testimonianza di Egeria è preziosa per la colonia monastica che abitava la montagna del Nebo nel iv secolo, il periodo presumibilmente degli inizi, parallelamente alle
Il tempio di Gerusalemme con l’altare dei sacrifici e la tavola delle offerte. Dettaglio del mosaico nella cappella della Theotokos nel Memoriale di Mosè sul Monte Nebo (primo decennio del vii sec.).
L’area del presbiterio nella cappella della Theotokos del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo terminata al tempo del vescovo Leonzio di Madaba (in sede nel primo decennio del vii secolo) e dell’abate Teodoro.
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Il monastero del Nebo era ancora attivo e fiorente nell’viii secolo, come attesta l’iscrizione che accompagna il mosaico pavimentale della chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas / Kastron Mefaa. L’abate Kaium di Fisga (Monte Nebo) è ricordato tra i benefattori della chiesa.
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colonie di monaci che abitavano nel deserto di Giuda, nel Sinai o nel deserto egiziano. La pellegrina descrive le loro abitazioni come celle isolate, monasteria nel vocabolario dell’epoca, nei dintorni delle Fonti di Mosè, di cui faceva parte una piccola chiesa. Ricordando la sua visita scrive di aver visto la chiesetta ai piedi della montagna («non quella del Nebo, ma di un’altra più all’interno, anche se non lontana dal Nebo»), e che l’acqua delle sorgenti scorreva tra la chiesetta e le celle dei monaci. Facilmente si riferisce alla sorgente più settentrionale che ancora oggi crea la cascata cadendo dal dirupo roccioso. Alle spalle della sorgente più meridionale (dagli abitanti del villaggio chiamata ‘Ayn al-Wukhyan), gli esploratori hanno sempre notato alcuni ambienti semirupestri scavati nella parete rocciosa e adattati ad abitazione con la chiusura in muratura della parete esterna. Gli archeologi vi hanno identificato possibili resti di abitazioni dei primi monaci che abitarono nella valle. La Vita di Pietro l’Ibero con il ricordo della sua prima visita al santuario «quando era giovane» completa l’informazione per quanto riguarda i monaci che vivevano intorno al santuario di Mosè sulla cima della montagna. Certamente «da quaranta anni» prima di quella data, posta verso il 430,
esisteva nei pressi del santuario la cella del monaco di Scete recluso volontario. Per questo periodo primitivo la ricerca archeologica indica nelle stanze intorno alla chiesa e al cortile occidentale (sul quale si sviluppò successivamente la basilica) i primi ambienti relazionabili con la presenza dei monaci che si prendevano cura del santuario. Inoltre i monaci adattarono ad abitazione le cavità naturali del costolone occidentale della cima di Siyagha, e le cavità ottenute cavando la pietra da costruzione. Ambienti restati anche successivamente fuori del recinto del monastero. L’esplorazione archeologica ha chiarito sufficientemente l’evoluzione che dai monasteria o celle esistenti sulla montagna nel iv secolo ha originato il monastero maggiore sviluppatosi sulla cima di Siyagha intorno al santuario di Mosè. Come per i grandi centri del deserto di Giuda e del deserto egiziano, anche per la montagna del Nebo bisogna supporre una progressiva organizzazione della vita monastica. Il monastero sulla montagna costituiva il momento comunitario da cui i monaci uscivano per dedicarsi a forme di vita più ascetica nelle valli. L’organizzazione interna
monastica e il fatto di dover venire incontro all’accoglienza dei numerosi pellegrini che visitavano il santuario, provenienti dalla valle del Giordano o dall’altipiano transgiordanico, deve essere tenuto presente nel seguirne lo sviluppo edilizio. Nella sua forma cenobitica, il monastero raggiunse il suo massimo sviluppo nella seconda metà del vi secolo parallelamente alla ristrutturazione del santuario, che sorgeva sul punto più alto della montagna, con la costruzione della basilica e delle cappelle laterali. Gli ambienti monastici diversificati ma interdipendenti costruiti intorno ai cortili centrali, si svilupparono sulle terrazze degradanti in modo più o meno ripido in tutte le direzioni, con prevalenza verso ovest, davanti alla facciata della basilica, a sud, e a sud est, nelle aree più pianeggianti, in quanto la cima della montagna
era spostata verso nord est. Verso la fine del vi secolo, perciò con il completamento della ristrutturazione del santuario, si assiste a un ridimensionamento del monastero che viene ricostruito e rinchiuso in un forte muro di cinta quadrangolare, con l’abbandono degli ambienti sviluppatisi all’esterno, riportati alla luce dagli scavi recenti. A sud resta fuori la lunga serie di edifici costruiti su almeno due piani, di cui faceva parte nel primo tratto orientale, una grande cisterna alimentata da un canale proveniente da est. Un’ala di edifici che terminava a ovest con una panetteria a due forni con anticamera lastricata. A sud est restarono fuori gli ambienti costruiti intorno a un cortile lastricato circondato da un portico, che un passaggio divideva a nord da un blocco di ambienti degradanti a terrazze sul ripido pendio settentrionale. In continuazione
Valle di ‘Uyun Musa a nord del Monte Nebo dove abitava la colonia monastica incontrata dalla pellegrina Egeria verso la fine del iv secolo.
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verso est, esisteva un ambiente funerario in muratura con le tombe scavate nella roccia della montagna (ambiente dell’abate Rabebos). In compenso, il settore antistante la facciata della basilica fu esteso artificialmente con la costruzione di una piattaforma sostenuta da una serie di archi, sulla quale sorse un’ala del monastero in posizione privilegiata verso la valle. L’arditezza dell’impresa ne comportò anche la fine pochi anni dopo la costruzione, a causa di uno smottamento della montagna con spinta verso ovest, forse in occasione di un terremoto. Secondo una ricostruzione probabile, l’ingresso dei pellegrini alla basilica avveniva da sud dove troviamo, all’interno della porta sul muro di cinta, la portineria centrale che immetteva al santuario, e un corridoio laterale con porta che immetteva nell’ala meridionale del monastero. La basilica era però raggiungibile anche sul lato opposto secondo uno schema di circolazione, forse privato, che comprendeva un passaggio tra il blocco orientale del monastero e quello settentrionale sul ripido pendio della montagna che raggiungeva l’abside della chiesa. Sul lato nord una porta immetteva in un cortile lastricato che dava la possibilità di raggiungere il cortile antistante la chiesa passando per un vano mosaicato. All’esterno del muro occidentale era stato approntato un pressoio per il vino composto da un vano mosaicato centrale con la base del pressoio circondato a nord e a est da tre vani minori sempre mosaicati a una quota più alta, e da due pozzetti per raccogliere il mosto a una quota più bassa sul lato sud. L’erosione ha distrutto il lato occidentale costruito sul ciglio della scarpata. Di ancora incerta identificazione sono gli ambienti costruiti sul pendio nord orientale della cima, certamente tra i più antichi del complesso, in gran parte coperti dal crollo della cella trichora. Dallo scavo degli ambienti proviene ceramica che riporta la frequentazione della cima di Siyagha all’epoca ellenistico-romana. Nella sua complessa articolazione di ambienti sviluppati intorno a cortili che fanno capo alla chiesa, il monastero rimanda al tipo di vita cenobitica dei grandi monasteri del deserto di Giuda, come il monastero di Martirio alle porte di Gerusalemme, e del monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai.
Cappella del monastero della Theotokos nei pressi della sorgente di Wadi ‘Ayn al-Kanisah a sud del Monte Nebo. Nell’iscrizione nei pressi della porta datata al 762 si legge la testimonianza più recente della presenza di una comunità monastica sulla montagna biblica.
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Accanto al monastero maggiore sulla cima della montagna, altri due piccoli monasteri sorgevano nelle valli del Nebo: il monastero della Theotokos nei pressi della sorgente di ‘Ayn al-Kanisah, e il monastero che gli Arabi chiamano al-Kanisah, di fronte alle rovine di al-Mukhayyat, sul costolone della montagna che chiude a est il Wadi Afrit. Caratteristica di questi piccoli monasteri è la posizione fuori del villaggio nelle vicinanze di appezzamenti di terra coltivabile. I monaci si sostentavano dedicandosi all’agricoltura. Caratteristico è il complesso di al-Kanisah dalla tipologia allungata che si distingue dagli altri edifici ecclesiastici presenti sulla montagna, si sviluppa dall’alto verso il basso del pendio in direzione sud-nord, a cominciare dalla cappella sul punto più alto. Gli ambienti seguono i gradoni rocciosi della montagna sfruttando la roccia naturale come muro, gradino, pavimento, magazzino e tomba nello stile dei monasteri del deserto di Giuda al di là del Mar Morto.
La cappella ad aula unica, pur essendo di modeste proporzioni (12 m x 9 m), costituisce il vano più grande dell’intero complesso. I muri perimetrali, a eccezione dell’abside aggettante, si innestavano direttamente sulla roccia che sostituiva nella parete meridionale gran parte della muratura. La chiesetta ha tre porte, due sulla parete settentrionale, una su quella meridionale. Quest’ultima, murata, dava all’esterno su un cortiletto di pochi metri quadrati dov’era un forno addossato alla roccia, che in questo punto supera in altezza la muratura. A pochi metri di distanza, esisteva un pressoio per la vinificazione a due livelli intercomunicanti. Al livello superiore, interamente scavato nella roccia, il pressoio, un quadrilatero di 4 m di lato con al centro un blocco di roccia, e sui lati due pozzetti di uguale dimensione mosaicati. Canaletti nella roccia portavano il mosto nei due pozzetti sottostanti di 1,50m di lato, rivestiti nella parte inferiore di intonaco impermeabilizzato con il fondo in mosaico. Lo spazio davanti all’altare del presbiterio sopraelevato e mosaicato a grandi tessere bianche, era decorato con un vaso ansato da cui fuoriuscivano due tralci con grappoli d’uva. L’aula della cappella era caratterizzata dalla presenza di una cripta funeraria ipogea. Era un ambiente composto di due vani intercomunicanti, finemente intonacati di calce bianca, che al momento dello scavo custodivano i resti di diversi cadaveri. Sull’intonaco furono notati diversi graffiti con nomi e croci. Attraverso la seconda porta sulla parete settentrionale, una scaletta di quattro gradini immetteva in un vano quadrangolare identificato nell’ambiente di servizio della cappella con un piccolo forno. Il tetto di questo vano, come quello della chiesetta, era sorretto da quattro archi in direzione nord-sud. Il pavimento era ricoperto di lastre in pietra interrotte e sostituite per un buon tratto dalla roccia della montagna. Del terzo vano in continuazione verso nord a una quota di circa due metri di dislivello restano praticamente solo le pareti e la roccia della montagna che come nel vano precedente serviva anche da pavimento. Nel quarto vano restano i pilastri di sostegno della volta, la porta sulla parete occidentale che dava sull’esterno, e una seconda porta e finestra che davano sulla grotta che si estende sotto gli ambienti precedenti. La presenza di un mortaio all’interno di questo vano costruito a ridosso della grotta, serve a precisare la funzionalità pratica di questo ambiente, insieme cucina e forse stalla. La semplicità della struttura ridotta all’essenziale, con la cappella, l’ambiente di servizio e i due vani di abitazione aggiunti alla grotta sottostante, e la posizione fuori dell’abitato ma non lontano dalle case del villaggio, sono gli unici indizi per l’identificazione monastica di questo piccolo complesso. La presenza della cripta funeraria all’interno della cappella può rimandarne l’origine alla generosità di una famiglia benestante del villaggio. La presenza del pressoio lo inserisce in un contesto agricolo, con i monaci che si guadagnavano da vivere lavorando le balze della montagna naturalmente terrazzate. Non a caso uno dei complessi vinicoli meglio conservati della Provincia Arabia è stato trovato nei pressi di una cappella monastica a Khirbat al-Kursi a ovest della città di Filadelfia-Amman. Un pressoio è stato notato subito all’esterno della chiesa di Zay 103
forno S
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Il piccolo monastero di al-Kanisah sulla montagna a est dell’acropoli di Khirbat al-Mukhayyat (villaggio di Nebo) composto dalla cappella e da due vani di abitazione con un pressoio per le uve a sud ovest ricavato nella roccia (ripreso dal disegno di I. Fossi).
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al-Gharby, ubicato sul confine orientale tra il territorio della città e la Perea giudaica, e fuori della facciata della chiesa al centro del villaggio di Mekawer. Le testimonianze monumentali come risultato dello scavo archeologico attestano le diverse forme di vita monastica esistita sulla montagna dal iv-v secolo all’viii-ix secolo, dalla vita cenobitica nel monastero maggiore di Siyagha, alla vita di una ascesi più rigida attestata dalle iscrizioni del piccolo monastero della Theotokos nel Wadi ‘Ayn al-Kanisah. I risultati di questa indagine approfondita sul Monte Nebo, sono da considerare normativi anche per il territorio della Provincia dove, malgrado l’attestazione di una estesa presenza monastica, la ricerca è appena agli inizi. Il primo eremitaggio di Giordania fu identificato nel 1812 dal Burkhardt a Dayr er-Riyashi, alla confluenza del Wadi Wala-Heidan con l’Wadi Mujib-Arnon. Il numero è considerevolmente aumentato con la progressiva esplorazione di tutto il territorio. I complessi più facilmente identificabili sono gli eremitaggi rupestri o semi rupestri degli wadi dove i monaci venivano a cercare la solitudine necessaria per la loro vita di preghiera e di ascesi. La loro presenza è attestata nei grandi wadi della regione, nel Wadi Yarmuk, nel Wadi Yabis, nel Wadi Kufrinja, nel Wadi Shu‘ayb, nel Wadi Mujib-Arnon e nel Wadi Hasa, e nei wadi minori come il Wadi Afra, il Wadi al-Habis, e a Qasr at-Tuba sulla penisola di Lisan sul mar Morto. La toponomastica locale in arabo con i termini ‘Araq er-Ruhban e al-Habis distinti da al-Dayr (il monastero), ha conservato il ricordo della funzionalità monastica di simili grotte.
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Recentemente sono stati scoperti e studiati gli eremitaggi del Wadi Afra e quello di al-Mu‘allaqah nel Wadi Jabara a nord di Iraq al-Amir a ovest di Filadelfia-Amman. Entrambi rupestri, hanno come ambienti caratteristici la cappella e la cisterna per la riserva d’acqua, accompagnati da graffiti con croci e iscrizioni. Nell’eremitaggio di ‘Ayn Qattara, nel Wadi Zerqa Ma‘in, troviamo nei pressi della sorgente un vano rupestre con scala di ingresso fino alla porta, e un letto scavato nella roccia, arieggiato da due finestre a guardia del piccolo monastero all’interno del wadi ancora non esplorato. Per i cristiani che ancora vivono numerosi nei villaggi della montagna di Ajlun e nelle sue propaggini orientali a ovest di Jerash, le rovine di Mar Liyas, Sant’Elia, su una cima coronata da querce secolari, sono legate al ricordo del Profeta Elia che, secondo l’autore biblico, era originario del Galaad, al di là del fiume Giordano, nato nel villaggio di Tisbeh. Lo scavo archeologico ha chiarito l’esistenza sulla cima di Mar Liyas di una grande basilica mosaicata, già parzialmente nota agli esploratori della regione. I cristiani della tribù Rabadiyeh avevano sempre detto che il castello di Qal‘at al-Rabad che domina la città di Ajlun, fatto costruire da Izzidin Usama cugino del Saladino, era stato edificato sul posto di un precedente monastero bizantino. Gli esploratori lo avevano ripetuto basandosi sui resti di architravi con croci riutilizzati nelle murature. Lo scavo in un ambiente alto del castello dove la roccia comincia ad affiorare, ha riportato alla luce la cappella del monastero bizantino ad aula unica con presbiterio rialzato. Sul pavimento in mosaico di tessere bianche con il nome del benefattore, il diacono Ariano, scritto di fronte all’altare in un riquadro tra due volatili, resta una decorazione molto sommaria con cerchi concentrici, croci di
fiori, diamantini e pesci. La scoperta è un’ulteriore prova, se ce ne fosse bisogno, della tenace memoria storica delle popolazioni di queste terre ancora legatissime alle proprie origini cristiane. In questo piccolo paradiso naturale creato dall’abbondanza di sorgenti e dall’intraprendenza operosa degli abitanti, tra lecci, pini, olivi e tanti alberi da frutto piantati nella terra rossa e fertile delle terrazze degradanti delle valli, i monaci trovavano un ambiente ideale. Un altro complesso è stato identificato e scavato nel Wadi Rajib, uno dei canyon del Katef al-Ghor (la Spalla della Depressione) in direzione est-ovest, provocati dall’apocalittico cedimento della crosta terrestre al quale si deve la depressione dove scorre il fiume Giordano. Lecci e querce incorniciano i banchi di rocce messi a nudo dallo sconvolgimento tellurico tra i quali scorre l’acqua delle sorgenti formate dal taglio della falda acquifera. Lo scavo ha riportato alla luce due cappelle di un romitaggio troppo ardito per non subire nei secoli i contrattempi dei cedimenti di questa terra instabile soggetta ai terremoti. Le due cappelle si fronteggiavano ai lati del wadi su due spuntoni rocciosi protesi sulla forra dove scorre l’acqua di una sorgente.
Nella cappella meridionale si entrava da un ingresso sulla parete nord, sicuramente in relazione con i vani di abitazione spariti, che introduceva a un piccolo nartece mosaicato con un reticolo di quadrati tecnicamente molto sommario. Nei pressi della porta che conduceva nell’aula sacra, l’artigiano aveva variato il reticolo con una aquila ad ali spiegate in un riquadro, con l’aggiunta all’esterno delle due lettere apocalittiche Alfa e Omega che in qualche modo ovviano alla fuori assialità del motivo. Superata la soglia in pietra, l’attenzione è attirata da due uccelli affrontati a un fiore, anch’essi fuori asse. Come risultano disassate le due scene sovrapposte, con un cane che rincorre una gazzella e un leone affrontato a un bue, affiancate sulla destra alla botola di una tomba ipogea. Non allineato è il grande tappeto circondato da una treccia dove si legge l’iscrizione dedicatoria in aramaico cristo-palestinese al centro di un intreccio di quadrati intersecati con cerchi: «Questo luogo santo è stato riparato dal signor presbitero Sabino a sue spese, Amen. La cura del signor Asinio considerala un’opera buona per il Signore, perdonagli le sue colpe e fa misericordia a lui, ai suoi abitanti e a tutto il mondo. Amen». Negli angoli del tappeto sono inseriti animali marini con l’aggiunta di pesci.
L’eremitaggio di ‘Ayn Qattara nella valle omonima del Ketef al-Ghawr (Spalla della Depressione) degradante verso il Mar Morto a occidente di Madaba. Nella cella scavata all’interno del masso roccioso aggettante alle spalle della sorgente, il monaco controllava l’ingresso di estranei al monastero costruito all’interno della valle.
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La presenza monastica oltre che dagli edifici caratteristici è documentata dalle iscrizioni che per lo più accompagnano i mosaici dei pavimenti. La documentazione più fornita proviene dagli scavi sul monte Nebo. Nelle iscrizioni del santuario e del monastero di Siyagha, con il generico riferimento «ai chierici, ai monaci e agli altri» delle iscrizioni funerarie, vengono ricordati gli egumeni o abbati del monastero che sono anche preti. A Madaba, un monaco Giovanni si prese cura di fare mosaicare la cappella sullo spigolo di nord ovest della chiesa degli Apostoli. Un probabile egumeno Tommaso è ricordato in una iscrizione del villaggio di Mechaberos (Mukawer). Nel mosaico della chiesa fuori del villaggio di al-Khattabiyah, si legge «Tomba dei santi padri Eustrazio, Magno e degli altri», cioè la chiesa aveva anche uno scopo funerario. I monaci erano sepolti nella grotta sottostante. I monaci Ciriaco, Giovanni e Cosma sono ricordati in una iscrizione della chiesa di S. Sofia nel villaggio di Rihab. Un carattere liturgico monastico hanno le iscrizioni in aramaico cristo-palestinese scoperte nel mosaico inferiore della chiesa di Kaianos alle ‘Uyun Musa, e nella chiesa inferiore di al-Quwaysmah a sud di Amman dove Zobeos, Macedonoius, Habiba, Giovanni, Stefano e Abd Raytu, chiamati fratelli, possono essere i nomi di monaci. Dall’esame sia delle fonti letterarie sia della ricerca archeologica, risulta che il movimento monastico è ben attestato nel territorio della Provincia in tutte le sue forme. La forma cenobitica a Dayr Siyagha e nei piccoli duyur della campagna ai margini dei villaggi, la forma eremitica e semi-eremitica della laura negli eremitaggi dei wadi. Sono anche attestate forme di particolare ascesi, come il recluso di dayr Siyagha che visse in una cella per 40 anni senza uscire mai, e il possibile stilita di Umm al-Rasas.
Ruderi della chiesa del monastero dell’eremitaggio di ‘Ayn Qattara nella valle omonima del Ketef al-Ghawr.
Capitello in pietra decorato con motivi floreali proveniente da una chiesa del villaggio di Ma‘in (Belemunta) a ovest di Madaba.
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Esprimendosi nella lingua aramaica parlata dai monaci e dagli abitanti cristiani della regione a est e a ovest del Giordano, l’estensore ci spiega l’irregolarità del programma decorativo che risulta un restauro di una situazione preesistente. Anche nell’area rialzata del presbiterio chiusa dalla balaustra, il motivo di tre registri di girali di tralci di vite che fuoriescono da un’anfora tra due pavoni risulta spostato verso nord. Una certa assialità viene recuperata con una croce di fiori tra diamantini nei pressi dello sguancio absidale dove, in un secondo momento, fu aggiunta una piattaforma ovale intonacata. L’inserimento nel mosaico del contenitore in pietra delle reliquie sotto l’altare danneggiò i girali del registro superiore. Tutto porta a concludere che anche le murature della cappella furono rifatte riducendone l’area, quando l’edificio cedette e tutto il settore settentrionale franò nel fondovalle. Sul versante opposto, il costolone ha ceduto portandosi dietro l’abside della cappella anch’essa sospesa sul vuoto. Resta l’aula mosaicata con un reticolo di rombi di fiori chiuso da una fascia a nastro policroma e da un’iscrizione di due linee nei pressi del gradino con il nome del benefattore figlio di un illustrissimo. L’eremitaggio, oltre che dall’acqua del ruscello, era approvvigionato da sorgenti minori che ancora sgorgano dal terreno qualche metro più in alto della cappella rendendo il costolone una giungla di rovi, di salici e di oleandri.
Geografia monastica e ricordi biblici Un dato importante che risulta dal confronto della ricerca archeologica con le testimonianze letterarie è la relazione della presenza monastica con la devozione per i personaggi e i luoghi biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il santuario di Mosè e i monasteri abitati dalla comunità di monaci nelle valli della montagna, facevano parte di una catena di santuari che servivano da punti di riferimento ai monaci durante la quaresima. Nella Vita di santa Maria Egiziaca, san Sofronio racconta la pratica dei monaci del monastero di S. Giovanni sulla sponda del fiume Giordano: «Nella domenica che dà il nome alla prima settimana di digiuni, si celebravano come di norma i divini sacramenti e ognuno veniva reso partecipe del vivificante e incontaminato corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo. E dopo aver preso un po’ di cibo si radunavano tutti nell’oratorio e piegate le ginocchia e fatta con suppliche una preghiera, i monaci si scambiavano a vicenda l’abbraccio della pace e ognuno, inginocchiatosi pubblicamente, abbracciava l’abate chiedendo la benedizione, per averlo come cooperatore e compagno all’inizio della lotta. Così facendo spalancavano le porte del monastero e cantando all’unisono: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore? Il Signore è il difensore della mia vita, di chi avrò paura?” uscivano… 107
La cappella meridionale dell’eremitaggio di Wadi Rajib nel Jabal Ajlun con iscrizione aramaica cristo-palestinese al centro dell’aula mosaicata. Una seconda cappella era costruita sul versante settentrionale della forra.
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Ognuno, poi, si nutriva secondo come poteva o voleva. Infatti, uno portava (l’acqua) secondo la misura sufficiente al corpo, un altro fichi, un altro datteri di palma, un altro poi legumi che erano stati immersi nell’acqua, un altro nulla oltre al proprio corpo e al vestito che indossava. Si nutrivano poi – quando lo esigeva la necessità della natura – delle erbe che nascevano nel deserto. Ognuno, inoltre, era regola a se stesso ed era legge da non trasgredire che nessuno sapesse come il suo compagno facesse astinenza o come vivesse. Traversando, infatti, subito il Giordano, si separavano gli uni lontano dagli altri e nessuno si univa al compagno, ritenendo il deserto stesso una città. E se, inoltre, uno di loro vedeva di lontano qualcuno che veniva verso di lui, subito deviava dal cammino e si dirigeva da un’altra parte; viveva, poi, per sé e per Dio, salmodiando di frequente e prendendo cibo al tempo stabilito. Così, dopo aver compiuto tutti i digiuni, ritornavano al monastero prima del vivificante giorno della resurrezione del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo…».
Con riferimento a questa pratica, nella Vita di santo Stefano Sabaita che nell’viii secolo visse nella laura di san Saba nel deserto di Giuda non lontano da Betlemme, il biografo Leonzio di Damasco racconta come il santo monaco «durante il periodo della Quaresima girava intorno al Mar Morto da una estremità all’altra fino a Zoghar e oltre… Egli si era fatto lungo la via dei segni con le pietre per non smarrirsi, e si recava nelle spelonche dei santi Padri a al-Ruba, Cutila, Arnun, Giariba, e in altri luoghi anch’essi frequentati dai santi Padri… Abitava… nelle spelonche di Arnun o di Giariba… o di Mar Lut o di mar Harun o alle spalle del Mar Morto». La ricerca archeologica moderna sta progressivamente chiarendo la geografia monastica sulla sponda orientale del Mar Morto con i santuari e monasteri ricordati dalle fonti. Recentemente una spedizione finanziata dal British Museum ha riportato alla luce il monastero e la chiesa di S. Lot. Il santuario abbarbicato sul ripido pendio della montagna alle spalle della città di Zoara-Ghor es-Safy fu costruito a ridosso di una grotta venerata. La grotta originariamente usata come
sepoltura nel ii millennio a.C., fu inglobata nella chiesa per ricordare il luogo scelto per abitarvi da Lot e dalle sue due figlie scampate dalla distruzione di Sodoma e Gomorra. Una spedizione finlandese sta riportando alla luce sul Jabal Harun, la montagna più alta di Petra, dai Bizantini identificata con il biblico Monte Hor, il monastero del Sommo Sacerdote Aronne costruito sul pianoro esistente a cento metri dalla cima. Un monastero la cui esistenza era nota dalle fonti letterarie del vi e dell’viii secolo. Al Sinodo di Gerusalemme del 536 partecipò anche «Tommaso il Siriano, prete e archimandrita del monastero di Aronne», probabile egumeno del monastero di Petra che era ancora abitato in epoca crociata, quando fu visitato dalla spedizione in Transgiordania di re Baldovino nel 1100: «Inoltre trovammo sulla cima della montagna il Monastero di Sant’Aronne – scrive Fulco di Chartres – dove Mosè e Aronne erano saliti per parlare con Dio. Gioimmo moltissimo di visitare un così sano luogo a noi sconosciuto». Il pellegrino Titmar vi venne nel 1217: «Dopo salii sul Monte Hor, dove Aronne morì, sulla cui cima è costruita una chiesa nella quale abitano due monaci cristiani Greci. Il luogo è conosciuto con il nome di Muscera» (Mosera, Deuteronomio 10,6). Nella letteratura monastica palestinese si fa riferimento ad altri santuari esistenti nell’Oltregiordano. Nel Pratum (inizi del vii secolo) Giovanni Mosco racconta l’origine della laura di Sapsas nel piccolo wadi Kharrar sulla sponda orientale del fiume Giordano al tempo del Patriarca Elia (496-516), raffigurata nella carta di Madaba con il nome di Ainon-Sapsafas. Il Pellegrino di Piacenza (570 ca) ricorda molti eremiti sia nella valle di ‘Ayn Kharrar nel territorio della città di Livias, che nella località creduta la Segor della Bibbia localizzata a nord est del Mar Morto ai piedi del Monte Nebo. Nella regione di Livias doveva trovarsi anche la laura di Coprata ricordata da Giovanni Mosco in uno dei suoi racconti. Diversi episodi della sua opera sono dedicati ai monaci che attraversavano il Giordano o per recarsi al Sinai o per passarvi il periodo penitenziale della Quaresima. In particolare nell’opera vengono ricordate le località di Besinunte, dell’Arnon e dell’Edane, quest’ultimo da identificare con l’Wadi Wala-Heidan a sud di Madaba. Inoltre, nella Vita di santo Stefano Sabaita, Leonzio ricorda l’Abate Cosma superiore del monastero di al-Quwaysmah presso Amman, che andò a visitare il santo monaco nel monastero di san Saba nell’Wadi en-Nar. Nelle fonti arabe, per il periodo pre-profetico di Maometto, con Dayr al-Busra, vengono ricordati Dayr al-Ba‘iqi (Yaqut) e Dayr al-Mayfa‘ah da localizzare probabilmente in territorio giordano nelle località di Qasr al-Ba‘iq e di Mayfa‘ah-Umm al-Rasas, messi in relazione con il monaco Bahira che predisse la missione del Profeta dell’Islam; la tradizione monastica cristiana si salda con la primitiva tradizione musulmana. Un documento dell’antichità cristiana, la Lettera inviata dagli archimandriti della Provincia Arabia ai Vescovi Ortodossi, scritta nel 569-70, conserva una lunga lista di monasteri per lo più localizzati nel territorio settentrionale. Nella polemica tra Monofisiti e Calcedoniani che animò il dibattito teologico e politico dell’Impero, questi archimandriti del nord della Provincia si schierarono a favore del monofisismo, in contrapposizione con le comunità del sud
della Provincia che dalla documentazione letteraria e dall’archeologia risultano di tendenza calcedonese. Gli archeologi hanno cercato di identificare questi monasteri. Un gruppo è localizzato nel nord, a sud ovest, e a sud di Damasco sulle pendici dell’Hermon (Daraya, Hine, Kafr Hawwar, Baytimo, Durbul). Un altro gruppo è situato intorno a Jasim nella regione di Jabyah, dove i filarchi dei Banu Ghassan avevano il loro campo (Jasim, Harta (Harith al-Jawlan, Harra), e Aqraba. Sparsi sul Golan occidentale: Za‘ura, Suramman. Nel Hauran: Musayfire, Ta‘la, Majdal. Restano isolati, Motana, identificato con Imtan, e Capha (Dayr al-Kahf?). Nella Batanea del nord: Alqin, Namar, Zimrin. A nord della Laja: Baruqia (Bouraq).
Iscrizione in aramaico cristo-palestinese scritta nel mosaico della chiesa inferiore di Kaianos nelle ‘Uyun Musa sul Monte Nebo con il nome dell’abate del monastero (primi decenni del vi sec.).
Il Santuario di S. Giobbe nel Hauran Dopo il santuario di Mosè sul Monte Nebo, un luogo di pellegrinaggio molto frequentato nel territorio della Provincia 109
era il santuario di Giobbe nel Hauran. Egeria, l’intraprendente pellegrina del quarto secolo, dopo essere tornata a Gerusalemme dal pellegrinaggio al Memoriale di Mosè sul Monte Nebo in Arabia, subito si rimise in cammino per l’altopiano siriano invogliata dal racconto di alcuni monaci che ella aveva incontrato nella Citta Santa. «Passato un po’ di tempo, volli andare alla regione dell’Ausitide per visitare il sepolcro di San Giobbe per pregarvi. Vedevo infatti molti monaci che da lì venivano in pellegrinaggio a Gerusalemme per visitare i Luoghi Santi e per pregare, i quali raccontando in dettaglio di quei luoghi acuivano il mio desiderio di intraprendere questa fatica, per recarmi fino a quei luoghi, se però si può chiamare fatica, la realizzazione del proprio desiderio. Così partii da Gerusalemme in compagnia di santi (monaci) che si degnarono di associarsi al mio gruppo, anche essi a motivo di devozione». Da Gerusalemme puntarono verso nord, fino a Nablus nel cuore della Samaria, per poi deviare verso la valle del Giordano, attraversare il fiume e risalire l’altopiano fino a raggiungere la città di Carneas nel Hauran occidentale. «Il cammino che va da Gerusalemme fino a Carneas si fa in otto giornate – ricorda Egeria – Carneas è il nome attuale della città di Giobbe, che una volta si chiamava Dannaba nel territorio dell’Ausitide che confinava con l’Idumea e l’Arabia». Secondo la geografia devozionale sviluppatasi tra le comunità dei monaci della Siria-Palestina, la terra di Hus nella quale si svolge il dramma biblico di Giobbe era stata identificata con il Hauran nella Siria meridionale, e più precisamente con il Golan, la regione che si affaccia da est sulla sponda del lago di Galilea. Prima di Egeria, le tradizioni riguardanti Giobbe nel territorio del Hauran sono raccolte da Eusebio nell’Onomastikon. Recensendo la località biblica di Carnaim/Astarot Carnaim, capitale di Og di Bashan, scrive: «Ora è un grande villaggio dell’Arabia, che 110
è chiamato Carnaia, al di là del fiume Giordano, dove dicono ci fosse la casa di Giobbe». San Girolamo, traducendo aggiunge «in un angolo della Batanea» (112, 1). Alla voce Ous, «da cui era Giobbe nella regione Ausitide» (142, 3). Fino ad aggiungere una genealogia un po’ spuria alla voce Dannaba: «città di Balac figlio di Beor re di Edom, dopo il quale regnò Giobbe», che san Girolamo chiosò «anche se a me sembra tutt’altro». Una glossa del testo greco della lxx, a Giobbe 42, 18, spiega la possibile origine dell’equivoco genealogico con la confusione di Iobab con Iob: «Il primo (re di Edom) fu Balak, figlio di Beor, la sua città si chiamava Dannaba. Dopo Balak regnò Iobab chiamato Giobbe». Di conseguenza, in continuazione si dice che «la madre di Giobbe si chiamava Bosorras». Nello stesso contesto geografico, Giuseppe Flavio scrive che Ousos figlio di Aramos era il fondatore della Trachonitide e di Damasco (aj I, 6,4). Una tradizione che poteva essere stata ereditata dagli ebrei che abitavano nella vicina città di Nineue «che è una città dei Giudei in un angolo dell’Arabia, che ora in un modo corrotto chiamano Neneuen» (137, 1). Una tradizione evidentemente locale confluita anche negli atti dei concili ecclesiastici. In un testo di un sinodo tenutosi a Bostra si dice che «l’eponimo di Bostra, è Basoras madre di Giobbe il Povero». Negli Atti del Concilio di Calcedonia, alla firma del vescovo di Nebe (Neve o Naua), si aggiunge «vescovo della città di Giobbe». Egeria racconta che il santuario di Carneas da lei visitato aveva avuto origine grazie a una visione di «un santo monaco, un uomo asceta, che dopo diversi anni che viveva nell’eremitaggio, credette necessario mettersi in viaggio e giungere alla città di Carneas per mettere al corrente il vescovo o i chierici di allora, come gli era stato rivelato, perché scavassero nel luogo che gli era stato mostrato nella visione: e così fu fatto. Scavando nel luogo che era stato indicato, trovarono una grotta, e seguendola per circa cento passi, subito apparve, mentre scavavano un sarcofago, sul quale, dopo
Dettagli del mosaico pavimentale nella cappella della Theotokos di ‘Ayn al-Kanisah sul Monte Nebo (metà del vi sec.).
Particolare del mosaico pavimentale della chiesa inferiore di Kaianos presso ‘Uyun Musa.
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averlo ben ripulito, trovarono sul coperchio una scultura dello stesso Giobbe. Su quel posto fu allora costruita una chiesa in onore di Giobbe, così che il sarcofago non fosse rimosso in un altro luogo, e lì, dove era stato ritrovato, fosse riposto il corpo, che, perciò, venne a trovarsi sotto l’altare. Quella chiesa costruita da un tribuno di cui non conosco il nome, resta non terminata fino ad oggi – continua il racconto della pellegrina –. Il giorno dopo di mattina pregammo il vescovo che facesse una oblazione, ed egli si degnò di farla. E dopo che il vescovo ci benedisse ripartimmo. Dopo esserci comunicati, e aver sempre ringraziato Dio, ritornammo a Gerusalemme, ripercorrendo le stesse stazioni che per le quali eravamo venuti». Purtroppo la perdita di una pagina del manoscritto ci ha privato della prima parte del racconto dell’asceta e della descrizione di quello che Egeria vide arrivando al santuario. Un manoscritto dell’itinerario conservato a Madrid integra in qualche modo la lacuna descrivendo il luogo del letamaio sul quale Giobbe, secondo il testo biblico, al massimo della sua pena ricevette gli amici venuti a consolarlo: «In quel luogo dove Giobbe sedeva sul letamaio, ora c’è un luogo pulito, chiuso da una cancellata di ferro, e lì arde continuamente un grande candeliere di vetro. E l’acqua della fonte dove si grattava le piaghe con il coccio, cambia colore quattro volte all’anno, prima è di colore purulento, poi di sangue, poi di fiele, e una volta è limpida». Del letamaio, come già notato, parla in una omelia alla comunità cristiana di Antiochia anche san Giovanni Crisostomo: «Molti intraprendono il lungo e arduo viaggio muovendosi dai confini della terra fino in Arabia per vedere il mucchio di letame, e quando lo raggiungono baciano la terra che ricevette quel posto di combattimento di quel vincitore». Nella città di Bostra, il metropolita Giordano fece costruire una chiesa in onore di san Giobbe al tempo di Giustiniano e di Teodora. Lo storico Procopio ricorda
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anche un ospizio per i poveri, uno ptocheion, costruito in città per ordine dell’imperatore. La tradizione riguardante Giobbe tenuta viva dai pellegrini cristiani anche in epoca medievale, fu raccolta dagli scrittori musulmani. Nel decimo secolo al-Muqaddasy ancora la ricorda: «Nel Hauran e nella Batanea si trovano i villaggi e i luoghi di Giobbe. Il capo luogo è Nawa paese di grano e di cereali». I ricordi e la devozione «nell’Ausitide, la regione di Giobbe», sono ancora oggi localizzati in un’area abbastanza ristretta del Hauran con al centro il villaggio di Shaikh Sa‘ad con i santuari di Dayr Ayyub di epoca bizantina, la Sakhrat Ayyub (la Pietra di Ayyub, in realtà una stele del Faraone Ramses ii in adorazione davanti ad una divinità) all’interno della moschea, e un Hammam Ayyub (i bagni di Giobbe) a un chilometro di distanza. A 6 chilometri a nord si trova il villaggio di Naua, «la città di Giobbe»; a 12 chilometri a est, il villaggio di Shaikh Meskin che nel nome ricorda la figura di Giobbe il Povero (Lebbroso); a 19 chilometri a nord est è situato il villaggio di Dhouneibeh che potrebbe ricordare la località di Dannaba che Egeria ricorda come la patria di Giobbe; verso sud a 4 chilometri si trova Tell ‘Ashtera, e a 11 Tell al-Ash‘ari identificabili con l’antica Ashtarot. Un Maqam Ayyub viene mostrato nel villaggio di al-Markaz, a nord di Mezayrib. A Qanawat sul Jabal al-Druz nel cuore del Hauran, cristiani, musulmani e Druzi fino a tempi recenti hanno insieme onorato Nabi Ayyub (il Profeta Giobbe). Questo territorio che costituisce le propaggini meridionali della biblica terra degli Aramei con gli staterelli di Maacha e di Geshur, raggiunse la massima prosperità economica e monumentale in epoca romano-bizantina. Sul Golan si sviluppò il campo di Jabyah, dove risiedevano i filarchi della confederazione di tribù cristiane guidate dai Banu Ghassan al tempo di Giustiniano e dei suoi successori. In questo territorio si combatté la battaglia decisiva tra le forze bizantine e gli Arabi musulmani provenienti dal Hijaz.
GERASA CRISTIANA
Nella città romana di Elia Capitolina, che aveva sostituito la città ebraica di Gerusalemme, gli architetti dell’imperatore Costantino costruirono il nuovo complesso cristiano sulla Roccia del Calvario e sulla Tomba di Gesù, al centro della città, sulla strada principale, il cardo colonnato, in sostituzione di un tempio pagano in qualche modo inglobato e riutilizzato nella costruzione del santuario cristiano. Eusebio di Cesarea, contemporaneo e ispiratore della fabbrica, commenta: «Così presso il Testimonio della Salvezza (la Tomba di Cristo) ebbe origine la Nuova Sion di fronte all’altra ben nota dell’antichità (la Gerusalemme ebraica)». La Nuova Sion diventa il modello ideale della città cristiana, esemplificata dall’anonimo Maestro mosaicista della Carta di Madaba che nella seconda metà del vi secolo eseguì la vignetta della Santa Città caratterizzandola con la centralità del complesso costantiniano sul cardo principale della città, e con gli edifici sacri dai tetti rossi che accompagnano gli spazi urbani. Un modello che ritroviamo sempre per Gerusalemme nella vignetta della Santa Città della chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas dell’viii secolo, con la cupola dell’Anastasis rappresentata al centro delle mura turrite, e nelle due città della chiesa di S. Teodoro del villaggio di Khirbat al-Samra nel territorio dell’archidiocesi di Bostra. In queste vignette, che anticipano ideologicamente la città medievale, al centro delle mura turrite si ergono alte le cupole della chiesa sormontate dalla croce. Anche nelle altre città della regione, i cristiani, appena poterono, innalzarono una chiesa in un punto urbanisticamente importante, spesso in sostituzione di un monumento di epoca precedente. In via ordinaria, ciò avviene nella seconda metà del v secolo o nella prima metà del vi secolo. A Petra, al tempo metropoli della Palaestina Tertia, il monumento funerario tra le più grandi e centrali tombe della capitale nabatea, noto come la Tomba all’Urna Corinzia, fu trasformato in chiesa cristiana e dedicato nel 446/7, al tempo del vescovo Giasone e del diacono Giuliano, alla presenza del «numerus dei fortissimi», i soldati della guarnigione di stanza in città, come si legge nell’iscrizione dedicatoria in tabula ansata dipinta sulla parete nei pressi dell’area absidale adattata sulla parete orientale. Sul punto più alto dell’acropoli di Esbus, una chiesa sostituì un tempio o un edificio monumentale preesistente su una piattaforma artificiale che regolarizzava la cima della collina alla quale si accedeva con una scala monumentale. Al centro di Madaba, la rotonda della chiesa della Vergine venne costruita verso la fine del vi secolo sul basamento dell’esedra templare di epoca romana. Ma in nessun’altra città è possibile seguire la progressiva impiantazione della comunità cristiana nello spazio urbano
della precedente città pagana come a Gerasa della Decapoli. La ricerca archeologica moderna ha nelle iscrizioni datate che accompagnano i nuovi edifici della città cristiana costruiti tra le case del quartiere orientale densamente abitato e nei pressi dei monumenti del quartiere occidentale, una guida sicura. Dalla ricerca risulta che tutte le chiese finora scoperte, diciotto, furono costruite in gran parte con materiale di spoglio dei monumenti di epoca precedente, di queste tredici furono costruite nel quartiere monumentale a ovest del ruscello che divide la città.
Nel paese dei Geraseni La probabile distrazione di un copista fece conoscere la città alla comunità cristiana fuori di Palestina. Il testo degli evangelisti Marco e Luca che introduce il racconto della guarigione dell’indemoniato nel territorio della Decapoli, in entrambi gli evangeli inizia con l’affermazione: «E giunsero (Gesù con i suoi discepoli) all’altra riva (del lago di Galilea), nel paese dei Geraseni», al posto di «paese dei Gadareni» (come in Matteo 8, 28), o di «paese dei Gergesei», come nel iii secolo suggerisce di leggere Origene per il ricordo del miracolo commemorato nei pressi del villaggio di Gergesa-Kursi sulla sponda orientale del lago. Il primo accenno letterario alla presenza di una comunità cristiana e di una chiesa nella città, è del iv secolo, e lo leggiamo nel Panarion di Epifanio vescovo di Salamina di Cipro. Discutendo della data del miracolo di Cana, il vescovo di origine palestinese afferma di aver bevuto «a Gerasa in Arabia, nella fonte che si trova nel martyrion», l’acqua che ogni anno si cambiava in vino, nello stesso giorno e nella stessa ora nella quale Gesù aveva comandato ai servi di Cana: «Fate assaggiare al capotavola» (Panarion 41, 30, 1-2). Il curioso episodio, grazie al quale veniamo a sapere che nella seconda metà del iv secolo, la comunità cristiana di Gerasa festeggiava il ricordo del miracolo di Cana con una bevuta altrettanto miracolosa nella fonte del martyrion, cioè nella fontana di una chiesa della città, è contemporaneo con la presenza al concilio semi-ariano tenutosi a Seleucia nel 359 del vescovo Exeresius con il quale inizia la serie pervenuta della lista episcopale. Nel 448 il vescovo Plancus partecipò al processo contro Ibas di Edessa tenutosi ad Antiochia, senza essere presente al Concilio di Calcedonia del 451 dove firmò per lui il metropolita di Bostra. Gli archeologi americani che negli anni trenta del xx secolo scavarono le chiese della città, lessero il nome del vescovo Placco in una iscrizione dedicatoria in greco incisa
Nella pagina seguente: La Città Santa di Gerusalemme. Dettaglio della Carta musiva di Madaba (vi sec.). La Nuova Sion cristiana con al centro il complesso del Santo Sepolcro costruito per ordine dell’imperatore Costantino servì da modello ideale per l’urbanizzazione delle città cristiane dell’impero.
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sull’architrave di un bagno datata al 454/55: «Al tempo di Placco, l’amatissimo di Dio, vescovo, con (l’aiuto di Dio) fu costruito dalle fondamenta questo bagno e decorato nell’anno della città 517 (era della Decapoli)». Il bagno faceva parte di un esteso complesso ecclesiastico di circa 177 metri di lunghezza, composto da due grandi basiliche su due terrazze distinte, che si estendeva da est a ovest parallelo al santuario di Artemide, con propilei sul cardo principale della città, subito a sud del Ninfeo monumentale. La scoperta di una fontana protetta da una balaustra, al centro dell’atrio che separa le due basiliche, alimentata da un canale proveniente da nord, suggerì agli archeologi americani di identificare la fontana con la fonte miracolosa, e di conseguenza, la basilica orientale divenne il martyrion ricordato da Epifanio, all’origine dello sviluppo monumentale del complesso. Dallo scavo in profondità sotto il letto del pavimento, risultò che l’edificio cristiano, battezzato dagli archeologi come la “Cattedrale”, occupava un edificio precedente, forse il tempio di Dioniso, a cui facevano riferimento tre epigrafi scoperte tra le rovine. Si spiegava così l’anomalia per un edificio cristiano costituita dall’ingresso monumentale con la scala di accesso proveniente dal cardo. Originariamente i propilei introducevano al tempio pagano, di cui i cristiani si erano appropriati costruendo la chiesa. La “Cattedrale”, un edificio di 42 metri di lunghezza per 22 metri di larghezza, è una chiesa di pianta basilicale a tre navate con una sola abside affiancata da due piccoli ambienti di servizio. La chiesa mostra evidenti tracce di riutilizzo di elementi architettonici dei monumenti di epoca precedente, con il tetto sorretto da colonne corinzie e le pareti interne coperte da lastre di pietra o di marmo. Oltre alle tre porte in facciata, la chiesa era servita da altre cinque porte laterali, due sulla parete di nord e tre sulla parete di sud che davano su corridoi di scorrimento laterali. La porta nell’angolo di sud ovest metteva in comunicazione con una cappella di servizio absidata aggiunta successivamente. Il presbiterio rialzato è chiuso da una balaustra con ingresso assiale che si sviluppava anche nelle due navatelle laterali davanti agli ambienti di servizio. Nella curva absidale restano tracce dei gradini di un sintronos, e, nella navata centrale la base dell’ambone aggettante dal lato sud del presbiterio. In facciata si sviluppava un atrio colonnato di circa 31 metri di lato con la centro una fontana monumentale che mostra traccia di una copertura. In continuazione verso ovest, due balaustre creavano uno spazio di rispetto che dà alla fontana un carattere liturgico. Aperture sul lato nord del portico permettevano di entrare nel cortile del Vetro e di raggiungere l’esterno attraverso il passaggio detto di Serapione. Il portico occidentale dell’atrio fu distrutto nel 496 quando fu costruita l’abside poligonale della basilica di S. Teodoro che si sviluppava sulla terrazza occidentale. Due scalinate a nord e a sud dell’abside permettevano di superare il dislivello tra l’atrio della “Cattedrale” e la basilica di S. Teodoro. Un’iscrizione utilizzata come lastra del pavimento sul lato orientale del portico di fronte alla porta centrale della “Cattedrale” ricorda i restauri eseguiti al tempo del vescovo Paolo: «Al tempo del piissimo vescovo Paolo fu rinnovato il pronao». 114
La Città Santa di Gerusalemme. Dettaglio del mosaico pavimentale nella chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa (viii sec.). La cupola dell’Anastasis costantiniana è inserita al centro della cinta muraria della città.
Nella pagina seguente: Il complesso della cattedrale di Gerasa con i Propilei d’ingresso a sud del Ninfeo e dell’Artemision. A occidente del complesso furono costruite in epoca giustinianea le tre chiese affiancate di San Giovanni, di San Giorgio e dei Santi Cosma e Damiano.
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Il complesso episcopale e le chiese del v secolo Certamente nella prima metà del v secolo, ma probabilmente prima, la comunità cristiana aveva raggiunto una riconosciuta identità monumentale a fianco della massima espressione della città pagana rappresentata dall’Artemision. Data l’antichità, l’edificio fu proposto come la “Cattedrale” di Gerasa e con tale nome la basilica è conosciuta tra gli studiosi. Termine che continuiamo a usare, senza per ora deciderne la sicura funzionalità. L’esame del monumento dimostra a sufficienza che l’edificio cristiano aveva riutilizzato uno spazio della città pagana, e materiali dell’edificio preesistente, come gli architravi e gli stipiti delle porte, e le lastre di un soffitto a cassettoni riutilizzati nel pavimento dell’atrio. In un secondo tempo (data probabile 496), sulla terrazza più alta fu aggiunto il martyrion di S. Teodoro che con l’atrio colonnato in facciata raggiungeva la strada urbana che univa il decumano meridionale con il lato corrispondente del temenos dell’Artemision. Il complesso cristiano, anche se su scala ridotta, veniva ad affiancarsi polemicamente al tempio pagano. Un’intenzione nemmeno dissimulata che risulta chiaramente nell’iscrizione in greco dell’architrave sull’ingresso occidentale rivolta ai passanti: «Io sono la meraviglia e l’ammirazione dei passanti perché ogni traccia di disordine è sparita. Al posto del sudiciume di una volta, la grazia di Dio mi circonda da ogni parte. Una volta gli animali, torturati dalle sofferenze, erano gettati qui e spargevano un odore infetto. Spesso chi passava si turava il naso, riteneva il respiro e fuggiva il cattivo odore. Ora, quelli che passano per questo luogo profumato, portano la mano destra alla fronte e tracciano il segno degli adoratori della croce. Se volete sapere chi mi ha dato questa amabile bellezza: è Enea il saggissimo e piissimo pontefice». Un’altra iscrizione incisa sull’architrave della porta centrale della basilica all’interno dell’atrio colonnato di forma rettangolare accoglieva i fedeli ricordando la figura del santo martire al quale la basilica era dedicata: «Io sono la dimora brillante del vincitore Teodoro, martire immortale, uomo divino, la cui
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Residenze ecclesiastiche
Secondo atrio
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gloria è volata sulla terra, e nei profondi abissi dell’oceano. Il suo corpo è (restato) alla terra, ma la sua anima nel cielo immenso condivide per sempre la sorte dei cori angelici. È un muro perpetuo, una difesa invincibile per la città e i suoi abitanti presenti e futuri. Questo martyrion fu fondato per grazia di Dio nel mese di Dios, la quinta indizione e l’architrave è stato posto nel mese di Dios dell’anno 559 (496 d.C., secondo una lettura probabile della data)». Il martyrion di S. Teodoro, di pianta basilicale, ripete nelle dimensioni la chiesa più antica preesistente a oriente. Le pareti interne erano coperte di lastre di marmo e di pietra. Restano tracce del pavimento in opus sectile e stralci di mosaico in tessere di pasta vitrea su un arco della navata centrale. Nell’area del presbiterio restavano le basi del ciborio e dell’altare, con la base dell’ambone che aggettava nella navata. Una porta sulla parete nord nei pressi dell’angolo di ovest metteva in comunicazione con una cappella di servizio absidata e, tramite questa, con ambienti che continuavano verso occidente. Sul lato opposto si sviluppava il complesso battesimale in relazione con la basilica e con l’atrio colonnato irregolare di 45 metri di larghezza nord sud per 22 metri in direzione est ovest fino alla porta sulla strada. In continuazione del muro di facciata della basilica, gli architetti costruirono all’interno verso sud un lungo e stretto corridoio che sei porte mettono in comunicazione con la basilica, con l’atrio, con una cappella absidata, che risulta l’ambiente più meridionale, con il battistero e con i due vani che lo affiancano a nord e a sud. Il fonte in muratura di forma cruciforme con gradini di ingresso a sud e a nord è inserito nell’abside del vano quadrangolare centrale decorato con lastre sulle pareti e un pavimento in opus sectile. Due scale mettono il fonte in comunicazione con gli ambienti laterali. L’archeologo francese Lassus così interpreta il percorso battesimale: «Il tragitto che seguivano i catecumeni appare evidente: riuniti nella cappella meridionale, essi entravano nel vano a sud del battistero dove si spogliavano. Entravano poi nella vasca attraverso il piccolo corridoio ed i gradini. Terminata la cerimonia, passa-
Martyrion di San Teodoro
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Cattedrale
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Propilei
“Agape” (Amore) scritto in greco sul fondo di un piatto del vi secolo ritrovato nello scavo di Gerasa, probabilmente di produzione locale.
Il complesso della cattedrale di Gerasa sviluppatosi a partire dal v secolo parallelamente al santuario di Artemide. Partendo dai Propilei a est sul cardo della città, una scalinata conduceva alla prima basilica nota come “Cattedrale” con un atrio in facciata provvisto di una fontana monumentale. Ad una quota più alta fu costruita la chiesa di San Teodoro che con l’atrio colonnato rettangolare raggiungeva la strada urbana che conduceva al tempio di Artemide. La chiesa era provvista di un battistero sull’angolo sud dell’atrio.
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La chiesa con l’abside aggettante rettangolare, di 37 metri di lunghezza, con l’aggiunta del nartece porticato in facciata, per 31 metri di larghezza, all’interno risultava cruciforme con il tetto sostenuto da colonne con capitelli corinzi. In chiesa si accedeva attraverso undici porte aperte su tutte e quattro le pareti, più due porte in facciata che immettevano in due degli ambienti ottenuti nei quattro angoli della chiesa. Il presbiterio delimitato dalla balaustra aggiunta in un secondo tempo tra le colonne, occupava il braccio orientale della croce davanti all’abside dove restavano tracce del sintronos. Probabilmente il mosaico del pavimento è contemporaneo con la costruzione della chiesa. A giudicare dal poco che restava al momento dello scavo, il programma era impostato su motivi geometrici che si ritrovano nel pavimento inferiore del Cortile del Vetro nel Gruppo Episcopale dagli archeologi datato alla stessa epoca. Notevole in questo mosaico lo scudo di cerchi concentrici di triangoli con una croce al centro. m
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Le chiese di epoca giustinianea ali
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A Gerasa, tutta questa intensa attività edilizia ebbe luogo nella prima metà del v secolo, e con buona probabilità già nella seconda metà del iv secolo. Probabilmente, per non urtare la reazione dei pagani ancora presenti in città, gli intraprendenti membri della comunità cristiana dovettero accontentarsi di un monumento minore, ma sempre in una posizione privilegiata al centro del quartiere monumentale a fianco dell’Artemision. Dallo scavo del complesso non risulta nessun elemento certo per accreditare l’ipotesi di identificazione della «fonte di fronte al martyrion» di sant’Epifanio con la fontana nell’atrio tra le due basiliche. A favore di tale ipotesi, resta solo l’evidenza della complessità di percorso di circolazione che ruota nell’atrio intorno alla fontana che ne fa un luogo liturgico di pellegrinaggio. La molteplicità degli edifici sacri, con l’aggiunta di vani di abitazione e del bagno di Placco, accreditano il complesso sacro cristiano come il probabile Gruppo Episcopale di Gerasa, senza decidere se la “Cattedrale” sia l’edificio basilicale a est, che certamente è il più antico delle due chiese, o il martyrion di S. Teodoro con il complesso battesimale che fu aggiunto a ovest. Dieci anni dopo la costruzione del Bagno del Vescovo Placco, perciò prima della costruzione del martyrion di S. Teodoro, fu inaugurato nel 464-65, al tempo del vescovo Claudio, il martyrion dei SS. Profeti, Apostoli e Martiri, come si leggeva nell’iscrizione incisa su un architrave recuperato tra le rovine della chiesa costruita non lontano dalla porta nord della città, nel quartiere orientale a est del ruscello: «Al tempo del piissimo vescovo Claudio fu terminato il martyrion dei Santi Profeti, Apostoli e Martiri, con l’offerta della beata Marina, l’anno 527, la terza indizione (464-65 d.C.)».
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Nelle pagine seguenti: Vedute della chiesa di San Teodoro dal cortile della ‘Cattedrale’ con al centro la fontana sovrastata dall’abside poligonale.
vano nel vano a nord dove rivestivano la tunica bianca, prima di entrare solennemente in chiesa».
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La chiesa dei Santi Profeti, Apostoli e Martiri terminata nel 464/65 al tempo del vescovo Claudio nel quartiere orientale della città.
Al tempo del vescovo Paolo, che viene ricordato in sede tra il 526 e il 534, almeno cinque nuove chiese vennero costruite in città. Sul trono imperiale sedeva Giustino che nel 527 verrà affiancato dal nipote Giustiniano durante il suo lungo regno (527-565), che mostrerà un rinnovato interesse per la Provincia Arabia. Non è un caso che proprio in questo periodo si assiste a un notevole attivismo edilizio cristiano e vengono messi in opera i più bei pavimenti mosaicati delle chiese finora scoperte. Il primo edificio sacro, noto come Chiesa di Procopio, fu costruito nel 526 nel quartiere orientale sull’asse del decumano sud, in un angolo formato dalle mura poligonali della città romana, perciò in una zona che dominava l’abitato che si sviluppava sulle terrazze della montagna degradanti verso il ruscello. Come le case, anche l’edificio sacro era stato adattato al declivio con la zona absidale ricavata nella montagna e la parte occidentale costruita su un terrapieno. L’iscrizione dedicatoria del mosaico ricorda che i lavori furono diretti dall’epistetos Procopio: «Al tempo di Paolo l’amatissimo da Dio e piissimo vescovo, fu terminato il santo martyrion con le offerte di lui e di Saola l’illustrissimo diacono e paramonario, sotto la direzione di Procopio l’epistetos, l’anno 589, il mese di Iperberetaio…(526 d.C.)». Di tipo basilicale, l’edificio di 28 per 18 metri, si caratterizzava per le tre absidi iscritte e per il sintronos nell’abside centrale con una piattaforma aggettante verso il centro della chiesa. La balaustra chiudeva il presbiterio all’altezza della seconda fila di colonne e le due absidi laterali. Una cappella di servizio absidata fu aggiunta sull’angolo di nord ovest. Nello scavo furono recuperati frammenti di plutei con le figure abrase, fenomeno riscontrabile anche nel mosaico pavimentale. Indizi che la chiesa restò in funzione anche dopo la crisi iconofobica della prima metà dell’ottavo secolo. Del mosaico che decorava il pavimento, al momento dello scavo restavano solo tracce nella navata centrale, e la maggior parte dei motivi geometrici a intreccio degli intercolunni e delle navate laterali. 119
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A giudicare dal poco che restava al momento dello scavo, il pavimento mosaicato era una delle composizioni più ricche ed elaborate finora scoperte nelle chiese della regione. Lo spazio quadrangolare movimentato dalle esedre angolari fu suddiviso in tre settori. Un pannello autonomo chiuso in una fascia di meandri e spaziato da girali di tralci di vite decorava lo spazio quadrato formato delle quattro colonne che sorreggevano la cupola centrale. Sul lato orientale, tra i girali e il meandro era inserita la lunga iscrizione dedicatoria. Una larga fascia di girali di foglie di acanto animati con volatili, animali in corsa e figure umane, correva lungo il perimetro della chiesa chiusa tra un nastro a onde opposte verso l’interno e da una linea dentellata e da un campo di tessere bianche con croci verso la parete. Lo spazio ovale delle quattro esedre era decorato con un candelabro fantastico a piani sovrapposti sorretto da tre putti, e terminante con il busto di una figura incappucciata con in mano due maschere, con quattro cicogne con incensieri nel becco aggettanti sui fianchi, su due piani sovrapposti.
Pianta della chiesa costruita sulla sinagoga.
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L’impegno maggiore del complesso era costituito dalla chiesa centrale dedicata al Precursore da un benefattore suo omonimo di cui vengono ricordati i meriti nella lunga iscrizione dedicatoria: «Quanti vedono la decorazione del luogo e la magnificenza del soffitto e del mosaico, lodano giustamente con semplicità lo zelo straordinario del saggio pastore Paolo, e insieme le forniture del fondatore. Questi è Teodoro, allevato da Tommaso, che gli ha fatto da padre, donatore con pronto animo del proprio oro come offerta al Precursore di cui ha avuto in dote lo stesso nome. È lui che ha conferito tutta la bellezza al luogo. Il Signore, dunque, il Padrone di tutte le cose, accetterà il buon proposito di tutti. L’intera opera del santo oratorio fu mosaicata e coperta con l’aiuto di Dio nell’anno 594 nel mese di Apellaio la decima indizione (531 d.C.)». L’edificio a pianta centrale di 24 metri per 29 è composto da una rotonda iscritta in un quadrato con quattro esedre negli angoli, con l’aggiunta del presbiterio absidato poligonale a est. Il tetto era sostenuto da quattro colonne disposte a quadrato al centro della rotonda. Tre ingressi permettevano di accedere al presbiterio da cui aggettava la base dell’ambone. Undici porte mettevano la chiesa in comunicazione con le due chiese laterali, con l’atrio e con i due ambienti di servizio a lato dell’abside. Nell’ambiente nord era stato adattato un battistero in comunicazione con tutte e tre le chiese. Le pareti interne della chiesa erano coperte con lastre di marmo o di pietra.
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La costruzione della chiesa sulla sinagoga può essere messa in relazione con l’insurrezione samaritana del 529 che provocò distruzioni e l’intervento armato dell’esercito imperiale. Nella Vita di san Saba, Cirillo di Scitopoli ricorda che Zaccaria vescovo di Pella nella valle del Giordano, e Antonio vescovo di Ascalon, su intervento del Santo eremita, furono incaricati di valutare i danni subiti dalle città e dai luoghi di culto palestinesi durante l’insurrezione. La presa di possesso della sinagoga, come risultato della reazione imperiale, potrebbe essere un’evidenza per affermare che l’insurrezione interessò anche Gerasa e la comunità giudaica. Non conosciamo i danni provocati dall’insurrezione agli edifici cristiani. Siamo però tentati di mettere in relazione la nuova febbre edilizia con l’arrivo di fondi imperiali. Positivamente un’iscrizione della navata centrale della chiesa dei SS. Martiri Cosma e Damiano ricorda il contributo di un generale dell’esercito imperiale: «Signore, Dio di San Cosma e Damiano, abbi pietà del tribuno Daghisteo e accetta la sua offerta». La chiesa faceva parte del complesso di 55 metri in direzione nord-sud per 34 metri di estensione est-ovest, che comprendeva la chiesa di S. Giovanni, al centro, e quella di S. Giorgio, a sud. Le tre chiese erano unite sulla facciata da un unico portico colonnato comune di 4 metri di larghezza, probabilmente il braccio orientale dell’atrio colonnato mai scavato che prosegue verso occidente. Una serie di aperture rendeva intercomunicabili le tre chiese anche nel settore absidale. Il complesso fu
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presbiterio (593 = 530-31). La navata centrale era decorata con un programma di motivi geometrici.
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Resti della chiesa costruita e mosaicata nel 530 sull’area già occupata dalla sinagoga. Opportuni adattamenti dovettero correggere l’orientamento diverso dei due edifici sacri.
Dal 529 al 533, fervettero i lavori per la costruzione e la decorazione in simultanea di altre quattro chiese. Alle spalle dell’Artemision, una chiesa fu costruita sui resti di una sinagoga che almeno in parte furono inglobati nel nuovo edificio sacro. I lavori furono terminati nel 530. L’edificio sinagogale orientato a ovest era preceduto da un atrio colonnato a est di circa 13 metri di lato. Il vestibolo, come l’aula sinagogale, era pavimentato a mosaico con la scena dell’uscita degli animali dall’arca, scena alla quale assistono i familiari di Noè, di cui restano i visi di Sem e di Iafet con i nomi in greco incorniciati da un ramo sul quale si è posata la colomba con il rametto di olivo nel becco. Gli animali che si muovono verso nord, sono sistemati su tre file sovrapposte, i volatili nella fila superiore, i quadrupedi al centro, seguiti dagli animali più vicini alla terra. Un’iscrizione in greco divisa da un candelabro a sette braccia accompagnato dai simboli giudaici, è inserita a est tra scene di caccia: «Pace al santisssimo luogo. Amen, Selah. Pace all’assemblea». Del mosaico all’interno dell’aula basilicale della sinagoga resta solo una iscrizione in aramaico: «Sia pace su Israele. Amen, Amen, Selah. Pinhas figlio di Baruch, Giosuè figlio di Samuele, e Giuda figlio di Ezechia», evidentemente i benefattori della comunità. La chiesa di 27 per 15 metri, che si sovrappone all’edificio sinagogale, ripete lo schema basilicale ma in senso opposto, con il presbiterio absidato aggettante sul lato occidentale dell’atrio. Nel presbiterio restavano tracce dei gradini del sintronos, le basi dell’altare e la base dell’ambone aggettante nella navata. Del mosaico pavimentale restava lo stralcio dell’iscrizione dedicatoria con la data di fronte al gradino del
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Pianta della sinagoga a ovest dell’Artemision.
Nel 529-30 fu terminata la chiesa di S. Giorgio, che affiancava a sud quella centrale di S. Giovanni, come si poteva leggere nell’iscrizione dedicatoria del mosaico: «Al tempo dell’amatissimo da Dio e piissimo Paolo vescovo, fu coperto, mosaicato ed abbellito il tempio di S. Giorgio con l’offerta di chi tu o Dio conosci il nome, per il perdono dei peccati, l’ottava indizione dell’anno 592 (529/30 d.C.)». La chiesa uniabsidata di pianta basilicale di 29 per 13 metri, è la più piccola del gruppo. Il tetto era sostenuto da una serie di pilastri. Le porte la mettevano in relazione con l’atrio in facciata, con la chiesa di S. Giovanni e con l’esterno attraverso un ingresso sulla parete sud protetto da un portico antistante. Il presbiterio irregolare da cui aggettava l’ambone, oltre all’ingresso assiale, aveva un secondo ingresso sul lato sud. Un’altra caratteristica di questa chiesa è l’ambiente di servizio a nord dell’abside in comunicazione anche con la chiesa di S. Giovanni. Una porta che dava nel presbiterio fu bloccata quando il sintronos della curva absidale fu prolungato. Nel presbiterio fu recuperato un reliquiario. Due nicchie furono ricavate sulla parete nord in comune con la chiesa di S. Giovanni. Quella nord fu decorata con un pavone che fa la ruota. Il resto della chiesa, almeno per quello che ne restava al momento dello scavo, fu decorato a mosaico con motivi geometrici nella navata centrale e in quella settentrionale. Girali di tralci di vite con volatili decoravano la zona occidentale della navata meridionale.
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costruito in un avvallamento naturale esteso a nord con lo scavo nella montagna, in un settore urbano allineato con il Gruppo Episcopale, da far ipotizzare un progressivo estendersi della proprietà della comunità cristiana nella stessa direzione verso l’interno del quartiere con acquisti e lasciti.
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La città di Alessandria. Dettaglio di una scena nilotica che decorava il pavimento della chiesa di San Giovanni terminata nel 531.
Dettagli del mosaico pavimentale della chiesa dei Santi Cosma e Damiano messo in opera nel 533. L’iscrizione ricorda il contributo del Tribuno Daghisteo, uno dei generali dell’imperatore Giustiniano.
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Negli spazi irregolari tra la fascia e il tappeto centrale i mosaicisti inserirono un paesaggio nilotico narrato su due piani sovrapposti: nell’acqua, in basso, pesci, uccelli e fiori acquatici, in alto sulla riva vignette di città intervallate da persone in movimento con gli animali da soma. Le legende permettono di identificare la città di Alessandria con il suo faro sul lato settentrionale, e probabilmente Menfis sul lato meridionale. Gli archeologi che riportarono alla luce il mosaico ipotizzarono nelle altre vignette laterali le città di Canopo e il santurio di Menuthi nei pressi di Alessandria. La chiesa dei SS. Cosma e Damiano fu terminata per ultima nel 533, come ricorda la bella iscrizione ancora conservata lungo il gradino del presbiterio impaginata in una tabula ansata: «L’oratorio di San Cosma e Damiano fu mosaicato l’anno 595 l’indizione undecima il mese di Perizio (533 d.C.). Prega ora, venerando la bella coppia di trionfatori. E infatti sono santi che possiedono l’arte di lenire le sofferenze. D’ora in poi ognuno offrendo gode di eliminare le sventure della vita. A tutti costoro prodiga il suo zelo il pastore Paolo quale saggio pilota, cedendo ai suoi saggi ordini un ottimo uomo, il cui nome imparerai che conserva il soprannome del Precursore». L’edificio basilicale di 30 metri per 18/19 è leggermente rastremato verso est. Pilastri ne sorreggevano il tetto.
Alloggiamenti delle colonnine di supporto dell’ambone furono inserite nel mosaico pavimentale. Lo spazio degli ambienti di servizio che si affiancano alla chiesa sulla parete settentrionale era stato ritagliato nella montagna. Alla chiesa si entrava attraverso un ingresso colonnato chiuso da una balaustra. Diverse porte la mettevano in comunicazione con l’atrio e con la chiesa di S. Giovanni. Una porta sulla testata orientale della navata meridionale dava sul battistero raggiungibile dalle tre chiese e dall’esterno attraverso una scala preceduto da una zona coperta ad archi. Il fonte battesimale occupa l’absidiola ricavata sulla parete est dell’ambiente. Con la balaustra, e la scala di ingresso dall’esterno, la vasca fu inserita in un secondo tempo in parte distruggendo il motivo a opus sectile che decorava tutto il pavimento dell’ambiente originario. Il mosaico, in gran parte conservato senza tracce di manomissioni iconofobiche, inizia nei pressi del gradino del presbiterio con la lunga iscrizione dedicatoria incorniciata dai ritratti del paramonario Teodoro a nord e della moglie Giorgia a sud. I due benefattori della chiesa sono ritratti in piedi tra due alberi, Giorgia come orante con le braccia alzate, Teodoro nell’espletamento delle sue funzioni ecclesiastiche con il turibolo nella mano destra. L’esteso tappeto della navata centrale, chiuso in una fascia di meandri, è suddiviso da serie sovrapposte di quadrati di diverse dimen125
Massimiano riutilizzato come acquasantiera ancora si trovava nei pressi della porta centrale in facciata. La balaustra si estendeva da nord a sud per tutta la larghezza della chiesa con ingresso assiale e con la base aggettante del pulpito sulla destra. Nella curva dell’abside centrale restava traccia del sintronos con una piattaforma aggettante al centro. Insieme con l’iscrizione dedicatoria, il motivo di rilievo del pavimento mosaicato, che soffrì pesantemente il danno iconofobico, è identificabile nel pannello rettangolare del presbiterio nella zona antistante l’altare, decorato con le fronde convergenti verso il centro di quattro alberi con partenza dagli angoli. In posizione frontale, tra le fronde dei primi due alberi, era raffigurato il busto della Terra che teneva con le due mani un velo pieno di frutti, affiancata sui due lati da due giovani carpofori in piedi protesi verso la figura con le mani coperte da un velo nell’atto di ricevere la generosa elargizione. Nel grande tappeto della navata centrale esteso a tutta la chiesa e chiuso da una fascia di foglie di acanto, si ripete lo schema geometrico della chiesa dei SS. Cosma e Damiano. Anche in questa composizione, alcuni quadrati grandi posti di punta recavano il ritratto di benefattori di cui restano solo alcune lettere del nome. Altri benefattori erano raffigurati tra gli alberi nel pannello antistante il gradino del presbiterio. Il centro della composizione era occupato dal ritratto del paramonario della chiesa con un turibolo in mano.
La chiesa del Vescovo Isaia fu costruita a ridosso dell’odeon, noto come Teatro Nord, al tempo del Metropolita Tommaso di Bostra, nel 559. Della ricca decorazione musiva danneggiata durante la crisi iconofobica dell’viii secolo faceva parte la personificazione della Terra tra i due Carpoforoi e diversi ritratti di benefattori accompagnati dai loro nomi. 10
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tempo dei santissimi e beatissimi il metropolita Tommaso e il vescovo Elia fu consacrato questo santo oratorio fu costruito dalle fondamenta e mosaicato e abbellito con le offerte di Beroio e di Olimpia illustrissimi, per la loro salvezza e di tutti i loro figli, per il riposo dei loro genitori, l’anno 621, il mese di Desio...la settima indizione» (559). È uno dei pochi casi in cui il nome del vescovo della città viene associato all’arcivescovo metropolita che dalle iscrizioni trovate a Bostra sappiamo in sede negli anni quaranta del vi secolo. La chiesa di forma basilicale triabsidata si sviluppa per 27 metri di lunghezza e 18 metri di larghezza, con un portico in facciata. Nove porte si aprivano nei muri perimetrali permettendone l’accesso su tre lati. Un altare pagano dedicato a
chiesa. Restava anche traccia dell’ambone fuori del gradino del presbiterio. Del programma musivo, restava, al centro della chiesa, un importante stralcio con la rappresentazione di due vignette di città tra le fronde di alberi e l’iscrizione dedicatoria. Le due città, identificate dalle legende con Alessandria e il suo Faro e con Menfis, ripetono lo schema già visto nel mosaico della chiesa di S. Giovanni, e ripetuto nella chiesa di S. Giovanni a Khirbat al-Samra, a 20 chilometri verso oriente. All’interno della cinta turrita sulla quale si aprono le porte delle due città viste a volo di uccello, risaltano i tetti e le cupole delle chiese di cui, con un artificio artistico, si dà anche l’interno. A circa una quindicina di metri a sud ovest della chiesa, preesisteva la Cappella Mortuaria ad aula unica absidata di 21 metri di lunghezza per 6 di larghezza in parte scavata nella montagna. Vi si entrava da nord scendendo tre scalini. Un’apertura sulla parete meridionale introduceva in una grotta utilizzata per le inumazioni. Con la balaustra di chiusura, restavano nella curva absidale i due gradini del sintronos con una piattaforma al centro, e sulla corda absidale una lastra di pietra con due fori per l’alloggiamento delle colonnine di un altare. In un’iscrizione del mosaico pavimentale davanti al gradino del presbiterio leggiamo il ricordo di un dedicante: «Per la salvezza di mio padre e di mia madre, ho offerto questi doni in rendimento di grazie». Non sappiamo quando una basilica fu adattata a est dei propilei dell’Artemision nell’area di arrivo del tratto colonnato con partenza da un arco eretto al termine di una scalinata che univa il quartiere orientale al tempio dopo l’attraversamento di un ponte. Abbiamo soltanto la data del mosaico
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sioni posti di lato e di punta caricati da motivi geometrici a intreccio nei quadrati di punta e da animali e vegetali nei quadrati di dimensioni minori posti di lato. Nel primo registro orientale due ritratti di benefattori accompagnano sui lati l’iscrizione del tribuno Daghisteo e un cespo di foglie di acanto. Giovanni figlio di Astrikios è ritratto vestito di una corta tunica con i piedi scalzi mentre porta un cesto d’uva tenuto sulla spalla. Kallionistos, vestito della stessa tunica e con i calzari ai piedi, tiene il cesto con la mano destra. Al tempo del vescovo Isaia, contemporaneo del metropolita Tommaso di Bostra, fu costruita e mosaicata la chiesa scoperta recentemente a nord dell’Odeon, come si legge nell’iscrizione dedicatoria nel mosaico del presbiterio: «Al
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Al tempo del vescovo Anastasio, un’altra basilica fu costruita nell’angolo sud occidentale delle mura in una zona cimiteriale che dominava questo settore della città. La chiesa dedicata ai SS. Apostoli Pietro e Paolo sembra aggiunta a una Cappella Mortuaria semirupestre preesistente nei pressi delle mura in un’area disabitata. Un’iscrizione in tabula ansata al centro della navata ricordava i donatori: «Certamente ogni sacerdote reca bellissime meraviglie agli uomini che sono di questa città. Perciò l’inclito Anastasio, insegnante di fedeli pensieri divini, edificò una casa ai principali discepoli Pietro e Paolo, ad essi infatti il Salvatore conferì il potere, con ornamenti di argento e pietre di bel colore». L’interessamento del vescovo per l’erezione di questa nuova chiesa è drammatizzato in un dialogo immaginario in un’altra iscrizione sulla testata orientale della navatella nord: «Mosaico, chi ti ha offerto? Colui che ha finanziato questo edificio. E chi è il pastore dipinto? Per chi fa brillare queste opere? Il suo nome è Anastasio, abitante della Tetrapoli, vanto è il Salvatore». L’edificio basilicale triabsidato di 32 metri per 18,50 è affiancato a nord da una cappella absidata di servizio, e introdotto in facciata da un portico colonnato di 4 metri di larghezza da ipotizzare come il lato est di un atrio. Alla chiesa si accedeva anche da un ingresso laterale che si apriva sulla parete meridionale introdotto da un piccolo portico. Una balaustra continua chiudeva il presbiterio e le due navate laterali che terminano entrambe con una nicchia nella parete absidale. A giudicare dalle tessere in pasta di vetro trovate nello scavo, l’abside centrale con sintronos era mosaicata. Un reliquiario con tre scompartimenti all’interno e coperto di marmo all’esterno, fu trovato a circa 1,2 metri dal sintronos. Un coperchio di reliquiario fu trovato nella
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dell’ambiente liturgico dell’atrio colonnato, che l’iscrizione chiama diakonia, ricavata nell’esedra nord dei propilei nei pressi del cardo: «Santo è il tuo tempio, meraviglioso nella giustizia. Tendi o Signore il tuo orecchio e rispondimi perché io sono misero e povero. Guarda la mia anima perché io sono pio. Salva il tuo servo o Dio che confida in te. Pietà di me o Signore perché a te grido tutto il giorno. Per benevolenza di Dio fu terminata la diaconia nel mese di Artemisio, la tredicesima indizione l’anno 627 (565 d.C.)». Gli architetti bizantini adattarono il nuovo edificio al colonnato preesistente aggiungendo i muri perimetrali, e il presbiterio absidato nella zona dell’arco di ingresso. La facciata della chiesa e l’atrio furono ricavati all’interno delle due valve lobate del cortile trapezoidale che scenograficamente introduceva la facciata dell’Artemision. A questo adattamento in una realtà monumentale preesistente si devono le misure anomale della chiesa, 46 metri di lunghezza per 22 metri di larghezza, e l’irregolarità della facciata. Il presbiterio rettangolare rialzato con un ingresso assiale e uno da nord risulta più stretto della navata centrale e dell’abside. Una struttura in pietra di circa mezzo metro di diametro e di profondità fu trovata al centro del presbiterio, forse da mettere in relazione con il culto delle reliquie. La scoperta di una nuova cappella a 50 metri a nord dell’Arco di Adriano con un’iscrizione nel mosaico pavimentale datata al tempo del vescovo Mariano nell’anno 570, ha dato modo di precisare nella lista episcopale della città il posto del vescovo già noto da una epigrafe incisa su un frammento di architrave scoperto nell’ambito del Gruppo Episcopale: «Al tempo del santissimo e protetto da Dio il nostro vescovo Mariano, dalle fondamenta fu costruita e terminata questa santa casa l’anno 632 nel mese di Xantico la terza indizione (570)». La cappella, costruita in ambito funerario nella zona dell’ippodromo, è ad aula unica absidata di circa 18 metri di lunghezza per 14 metri di larghezza, con un vestibolo in facciata e un ambiente di servizio a nord. Una porta sulla parete meridionale dava sull’esterno. Nel presbiterio rialzato e chiuso dalla balaustra, restano i gradini del sintronos e gli alloggiamenti delle colonnine dell’altare con tracce del reliquiario al centro. Lungo il perimetro interno dell’aula restavano i supporti dei banchi per i fedeli. Una tavola composta da una lastra di marmo poggiata su un rocchio di colonna infisso nel pavimento era addossata alla parete orientale dell’ambiente di servizio. Con la cappella bisogna mettere in relazione almeno tre ambienti mosaicati adattati in epoca bizantina nelle botteghe del lato orientale dell’ippodromo che si aprivano di fronte all’ingresso della cappella stessa. Nelle iscrizioni del mosaico si conservano i nomi di alcuni diaconi. Con questa ulteriore testimonianza della progressiva cristianizzazione della città, dobbiamo ricordare un piccolo ambiente mosaicato riportato alla luce in un complesso più vasto esistente a nord della collina orientale nei pressi di una strada di epoca bizantina che correva parallela al cardo. L’iscrizione in un medaglione che si sovrappone al reticolo di rombi del mosaico pavimentale la identifica come sede di uno dei partiti politici che animavano le città in epoca bizantina, in questo caso quello degli Azzurri, il partito dell’imperatore Giustiniano: «Fu abbellito e mosaicato questo luogo degli onorevoli Azzurri al tempo 128
Dettaglio della decorazione musiva del presbiterio nella chiesa del Vescovo Isaia (559 d.C.) sovrastante l’Odeon. Tra gli alberelli e i tralci d’uva restano le tracce della personificazione della Terra generosa tra i due giovani Carpoforoi sfigurati durante la crisi iconofobica dell’viii secolo.
Il presbiterio della cappella del Vescovo Mariano costruita nel 570 nell’area funeraria a nord dell’Arco di Adriano. Alcuni ambienti mosaicati in relazione con la facciata della chiesa furono ricavati nelle botteghe orientali dello stadio che aprivano sulla strada.
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sulla testata orientale della navata nord, unico elemento salvatosi dalla distruzione: «La decorazione di mosaico fu fatta al tempo del piissimo Genesio nostro vescovo per l’offerta dell’orefice Giovanni e di Saola, l’anno 673 il primo del mese di settembre la quindicesima indizione (611 d.C.)». Per costruire la chiesa, bisognò livellare il terreno accidentato, e in parte scavare nella montagna come si può notare nell’angolo di nord est. All’edificio di forma basilicale con l’abside aggettante, di 37 metri di lunghezza per 20 di larghezza, fu aggiunto un ambiente di servizio sull’angolo di sud ovest. Probabilmente la chiesa era preceduta da un atrio in facciata. La balaustra del presbiterio si estendeva da nord a sud per tutta la larghezza della chiesa all’altezza della prima fila di colonne. Un secondo gradino immetteva nella zona absidale dove restavano i tre gradini del sintronos, e gli alloggiamenti delle colonnine dell’altare con tracce del reliquiario. Dal presbiterio ancora aggettava la base dell’ambone.
Dettagli del mosaico pavimentale della cappella di Elia: una lepre che mangia l’uva; una scena di caccia alla pernice; un trasportatore d’uva a spalla.
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del primo (termine di) comando di Costantino e Stefano logoteti, nell’anno 640 (nel mese) di Audinaio, al tempo dell’undicesima indizione (gennaio del 578)». Nell’epistolario di Papa Gregorio si trova una lettera da lui inviata a Mariano vescovo di Arabia (Mariano episcopo Arabiae) datata al febbraio 601. La lettera tratta di alcune reliquie consegnate all’emissario inviato a Roma dal vescovo. Uno studioso moderno, tenuto conto dell’omonimia e dell’ipotesi che venendo da Roma le reliquie non possano essere se non quelle di Pietro e Paolo, ha proposto di identificare nel corrispondente di Papa Gregorio il vescovo di Gerasa in Arabia. Questi avrebbe appositamente costruito la chiesa dei «principali discepoli Pietro e Paolo», per conservare le preziose reliquie. Una ipotesi seducente che darebbe una data alla basilica di Gerasa e al vescovo Anastasio che diventerebbe il successore di Mariano. La data dell’iscrizione nella cappella (570) dà modo di chiarire che «ai bei tempi di Mariano il santissimo vescovo», come i primi esploratori lessero su due frammenti di architravi ritrovati nella navata della Cattedrale, lavori furono eseguiti nel complesso da loro ritenuto il più antico della città. Probabilmente è in questo tempo che fu aggiunta la cappella absidata sul lato meridionale mosaicata nell’aula con un reticolo di quadrati nei quali erano raffigurati i Mesi dell’anno purtroppo danneggiati durante la crisi iconofobica. Nell’iscrizione del mosaico non datata si legge che il mosaico «spendido» preserva la memoria del riposo degli offerenti. Nel 611, al tempo del vescovo Genesio, un’altra chiesa fu costruita nel quartiere occidentale a ovest del complesso delle tre chiese affiancate, come si legge nell’iscrizione del mosaico
Alla stessa epoca, cioè nei primi decenni del vii secolo, bisogna datare il mosaico della Cappella di Maria Elia e Soreg scoperta nel quartiere orientale nei pressi della chiesa di Procopio. Della cappella resta soltanto la documentazione fotografica del pannello rettangolare che decorava il mosaico del presbiterio e di alcuni motivi della navata, che rimanda a una cappella ad aula unica divisa da un gradino il cui mosaico non era stato toccato dagli iconofobi. Nel pannello di fronte all’altare due tralci con partenza al centro formano tre serie di girali sovrapposti ai lati di una palma tra due pavoni. Nei girali con i motivi singoli di caccia e di pastorizia e di vendemmia, risaltano i ritratti di tre benefattori: Soreg con un ramo di palma nella mano destra, Maria che tiene alta sul petto una croce sostenuta con le mani, entrambe vestite con la lunga tunica orbiculata e il mantello, ed Elia nelle sue funzioni di paramonario con l’incensiere nella mano destra. Nei pannelli quadrati superstiti dell’aula restano alcune personificazioni dei Mesi con il nome dato secondo il calendario macedonico. Figure preziose per la chiarificazione di un motivo iconografico abbastanza frequente nei mosaici della città e della regione, purtroppo sfi-
gurato durante la crisi iconofobica. Una seconda cappella absidata fu costruita sulla terrazza intermedia a sud della scala dei propilei dell’Artemision. L’edificio un po’ enigmatico sembra finora l’unica testimonianza dell’appropriazione cristiana del santuario principale della città.
quadrato. Sul pavimento lastricato restano stralci di mosaico con iscrizioni che quasi sicuramente rimandavano ai defunti seppelliti in chiesa, come testimoniavano alcune tombe del pavimento, e nell’area funeraria circostante.
Scavi recenti hanno riportato alla luce una chiesa a pianta centrale tra i campi che dividono la Porta Nord della città dalla sorgente del Crisoroas. La chiesa, preceduta da un atrio colonnato in facciata, è di forma ottagonale inscritta in un
Altri edifici ecclesiastici Questa ricca e varia documentazione permette di seguire l’occupazione dello spazio urbano del quartiere monumen131
Ritratto della benefattrice Maria con una croce astile nelle mani: dettaglio del mosaico pavimentale della cappella di Elia, Maria e Soreg, scoperta nel quartiere orientale della città, databile alla prima metà del vii secolo.
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tale da parte della comunità cristiana e il conseguente passaggio dalla Colonia dei Geraseni di epoca romana alla città di epoca bizantina. Anche se resta non precisata la data di costruzione della basilica orientale del Gruppo Episcopale, e non sicura la sua identificazione con il martyrion ricordato da sant’Epifanio, certamente la chiesa che aveva sostituito e in parte inglobato elementi di un importante monumento di epoca romana, fosse o meno il tempio di Dioniso, era già costruita prima della fine del v secolo, quando le fu aggiunto, e in parte sovrapposto all’atrio, il martyrion di S. Teodoro al tempo del vescovo Enea (496). In quest’epoca un complesso architettonico considerevole si affianca al complesso pagano dell’Artemision. L’iscrizione sull’architrave dell’ingresso occidentale non è solo un bell’esercizio retorico, ma autoaffermazione di una presenza che si contrappone al vecchio ordine rappresentato dall’incomben-
te e semi deserto tempio pagano che dominava la città. La comunità cristiana aveva raggiunto nel v secolo una riconosciuta identità monumentale al fianco della massima espressione di Gerasa pagana. Su un altro piano, il complesso ecclesiastico scavato dagli archeologi composto da due basiliche e cappelle varie, con cortili e il battistero, con il bagno pubblico e le possibili abitazioni o uffici del clero ipotizzabili nel settore settentrionale del complesso, storicamente nel suo insieme può corrispondere al Gruppo Episcopale di Gerasa, e suggerire alla ricerca archeologica un tipo che ci si potrebbe attendere anche in altri centri della Provincia come sede del vescovo. L’occupazione dello spazio urbano che si afferma negli anni trenta in epoca giustinianea, continua fino ai primi decenni del vii secolo. L’intensa attività edilizia che abbiamo ipotizzato come risultato di finanziamenti dell’autorità imperiale anche a seguito dell’insurrezione samaritana, inizia con l’occupazione
di fatto di un edificio sacro della comunità giudaica alle spalle dell’Artemision. Difficile precisarne storicamente i motivi. Continua con la costruzione del Complesso delle Tre Chiese, un fatto edilizio di grande impegno tecnico ed economico, portato a termine anche nella parte decorativa, per noi rappresentata soltanto dai mosaici pavimentali e da resti dell’intonaco con iscrizioni della chiesa dei SS. Cosma e Damiano, nello spazio di pochi anni, dal 529 al 533. L’affermazione più radicale di questa occupazione di fatto, è testimoniata dalla Chiesa dei Propilei la cui costruzione blocca uno degli assi portanti della città romana pagana, la veduta e l’ingresso all’Artemision dal quartiere abitativo orientale. Un fatto urbanisticamente più rivoluzionario dell’inserimento dell’edificio sacro cristiano nei Propilei stessi. Se non si vuole pensare a un atto di forza, data l’epoca con una cristianizzazione della popolazione oramai avanzata, bisogna supporre che il ponte sul ruscello e la zona circostante fossero abbandonati alla decadenza e alla rovina. Dal punto di vista architettonico, furono bravi gli architetti, a sapere sfruttare al massimo sia il doppio colonnato esistente che le altre strutture del tratto di strada, per farle diventare parte integrante di una basilica cristiana certamente con un grande risparmio di mezzi. La costruzione della chiesa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo con la vicina Cappella Funeraria, come della Cappella
del Vescovo Mariano, e probabilmente della Chiesa Ottagonale a nord, va vista come una normale attività edilizia in area funeraria che dava la possibilità alla comunità cristiana di radunarsi in preghiera per i defunti seppelliti nella chiesa e nelle aree funerarie fuori le mura della città.
Vescovi e città
La Chiesa dei Propilei costruita sul tratto colonnato che metteva in comunicazione il quartiere orientale con il Tempio di Artemide. Uno degli esempi più evidenti di occupazione urbana della città pagana in epoca bizantina.
La pubblicazione di un’iscrizione greca purtroppo ritrovata fuori contesto, aggiunge un dettaglio veramente inedito all’attività frenetica di costruttore di chiese del vescovo Paolo. L’epigrafe è incisa su una lastra di pietra rettangolare: «Paolo nostro beatissimo vescovo per grazia di Dio ha anche fatto costruire questo santo edificio della prigione, ha preso questa decisione in ragione della sua utilità, e l’ha benedetta nel nome del Signore perché sia quella di tutti gli incolpati ad eccezione dei condannati senza che si abbia il diritto di gettarvi un condannato, né di trasferirvi da lì qualcuno alla prigione dei condannati. E ha consegnato colui che trasgredisce queste sante decisioni al Giudizio del Signore. È stata terminata nel mese di Dios, al tempo della terza indizione, l’anno 602 (539-540)». Al contrario delle iscrizioni delle numerose chiese costruite durante il suo
Iscrizione del Vescovo Paolo di Gerasa, nella quale si ricorda l’opera caritativa a favore dei prigionieri in attesa di giudizio con l’erezione del «santo edificio della prigione» nel 539/40.
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Il cardo principale della città di Gerasa costruito nel ii-iii secolo e restato in uso anche nei secoli cristiani costituiva l’asse portante del quartiere monumentale di ovest.
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episcopato, nelle quali il nome del vescovo normalmente viene presentato come un elemento di datazione, qui è detto che è lo stesso Paolo che prese l’iniziativa di costruire una prigione per un particolare tipo di prigionieri prima della loro condanna, noi diremmo indiziati, che l’iscrizione distingue nettamente dalla prigione dei già passati in giudizio e condannati. La prigione perciò come un atto di carità per delle persone in attesa di giudizio. La costruzione rientra in quel genere di opere pubbliche, come gli xenodochia per i pellegrini, gli ospedali e i bagni, di cui uno esisteva nel Gruppo Episcopale costruito al tempo del vescovo Placco,
di cui la Chiesa si era fatta carico, dove l’evergetismo e la carità cristiana si alleano per migliorare le condizioni dei prigionieri. Le iscrizioni scoperte nelle città dell’impero attestano ampiamente il nuovo ruolo del vescovo come homo publicus con prerogative civili direttamente coinvolto nella costruzione di acquedotti, bagni, porti, mura e torri, ponti e strade, e come nel caso estremo di Papa Gregorio a Roma, consul populi Dei, nell’approviggionamento di grano per sfamare la popolazione, nella linea degli editti di Giustiniano che affidano ai vescovi, con la direzione e sorveglianza di lavori pubblici, l’esercizio della giustizia suprema il controllo dell’amministrazione fino alla sorveglianza del governatore stesso. Siccome però il vescovo, secondo la legislazione vigente, poteva far mettere in prigione membri del clero, non è chiaro se il nuovo carcere sia stato costruito anche per questo scopo. Gli archeologi si sono chiesti dove poteva essere ubicata la prigione fatta costruire dal vescovo Paolo a Gerasa e hanno suggerito uno degli edifici del settore settentrionale del Gruppo Episcopale a nord dell’atrio della basilica di S. Teodoro. Più che il gesto umanitario di carità, comune ai monasteri e ai membri più ricchi della comunità che si prendevano cura delle prigioni, impressiona il fatto decisionale del vescovo che si pone in qualche maniera come tutore dell’ordine pubblico e difensore dei suoi cittadini che erano anche membri della sua comunità, e per lo più dei meno abbienti più esposti a un genere di trattamenti che diversi scrittori dell’antichità cristiana lamentano. Libanio, il retore pagano di Antiochia, in un’orazione inviata all’imperatore Teodosio, illustra in modo vivo la situazione alla quale il vescovo Paolo aveva cercato di porre rimedio. Tra gli altri rimedi, Libanio si augura che «evergeti costruiscano delle prigioni». Il Codice Giustinianeo concede ai vescovi facoltà di intervenire contro le prigioni private, dà loro la libertà di visitare le prigioni pubbliche il mercoledì e il venerdì di ogni settimana, di esaminare i prigionieri, investigare sulle cause di detenzione, e denunciare gli errori commessi dalle autorità responsabili. Una legislazione che investe il vescovo di funzioni civili in favore della città che rientra nelle prerogative concesse dagli imperatori cristiani. L’iniziativa dell’arcivescovo Tito, che si pone come garante dell’ordine pubblico a Bostra, al tempo dell’imperatore Giuliano, fu un precedente che si pone in questa linea di difesa della comunità cristiana e, più in generale, dei cittadini. Cirillo di Scitopoli racconta che l’arcivescovo Antipatros intervenne a Bostra presso il governatore dell’Arabia, per far liberare il filarca Terebon. «Terebone il saraceno, filarca dei saraceni – racconta Cirillo nella Vita di Eutimio –, essendosi recato a Bostra per una necessità che era intervenuta, soccombette ad una macchinazione. Caduto in una imboscata che gli aveva teso un sinfilarco, fu preso dal governatore della provincia di Bostra e tenuto qualche tempo in prigione. A questa notizia il grande Eutimio scrisse tre volte al beato Antipatro, che reggeva allora la chiesa di Bostra e diffondeva ovunque i raggi della conoscenza di Dio, perché si affrettasse a far liberare Terebone dai suoi ceppi; egli aveva inviato con questa lettera Gaiano, fratello di Stefano, vescovo di Iamnia. Una volta ricevuta la lettera del grande Eutimio, Antipatro, annoverato tra i santi, liberò Terebone da tutto ciò che si era complottato con-
tro di lui, lo munì di un viatico e lo rimandò al grande padre; quanto a Gaiano invece lo trattenne col desiderio di avere accanto a sé qualche cosa del seme di Eutimio e lo ordinò vescovo della città di Madaba» (Vita di Eutimio, 34). Le uniche testimonianze del periodo omayyade riguardanti la comunità cristiana di Gerasa sono le vistose tracce di iconofobia e i susseguenti restauri presenti nei mosaici delle chiese, che attestano l’uso degli edifici sacri almeno fino all’viii secolo. La presenza della comunità cristiana è anche testimoniata da alcune lucerne fabbricate in città, datate secondo l’era dell’Egira musulmana, come si legge nell’iscrizione in arabo con il nome del vasaio: «Opera di Davide figlio di Mustafà in Jerash l’anno cento venti cinque (737 d.C.)». Sul fondo della lucerna, è aggiunta anche una croce. Restarono inoltre in uso anche le lucerne dette di Jerash, con il manichetto a testa di cavallo, che conservarono nello stampo la croce cosmica, una tipologia entrata in uso in epoca bizantina. Su un esemplare conservato nel Museo Archeologico di Amman, la doppia iscrizione in greco «Dio plasmò tutte le cose», e «Eulogia della Croce», accompagna l’iscrizione cufica: «Nel nome di Allah, questa lucerna è stata fatta da Bashir figlio di Samid a Jerash nell’anno 211 (826 d.C.)», estendendo fino al ix secolo la vita della città ridotta a villaggio.
Bostra metropoli d’Arabia La documentazione finora venuta alla luce a Bostra è ancora insufficiente per seguire l’evoluzione della metropoli dell’Arabia in epoca bizantina, la cui comunità cristiana sappiamo che equilibrava quella pagana già al tempo di Giuliano e del vescovo Tito. Prima dell’elogio del vescovo Antipatro che abbiamo già letto nell’iscrizione della chiesa della Theotokos, in città è stato trovato un epitaffio riferito a un mimo cristiano databile a prima della legge contro i mimi promulgata dal Codice Teodosiano verso il 367 («Un solo Dio. Amen. Bene. Sepolcro di Amazonio, mimo»), e un’epigrafe frammentaria («l’ha abbellita con colonne.… un avveduto figlio di Cristo») probabilmente da riferire ad un edificio sacro. Epigrafi, che attestano un’attività edilizia in città, iniziano nel 440 con il ricordo dell’ingrandimento di una torre per interessamento del «magister utriusque militiae per orientem». Nel 488 fu costruito un sigma, cioè un portico semicircolare con tre esedre. Nel 490 fu edificato il nuovo pretorio
della città. Un edificio sacro non altrimenti specificato fu costruito nel 501-502, seguito nel 512-513, dalla cosidetta Cattedrale dedicata dal vescovo Giuliano ai santi martiri Sergio, Bacco e Leonzio. Un altro edificio non identificato fu costruito nel 524. Data per scontata l’identificazione della cattedrale con la chiesa precedente, gli edifici esistenti a est della stessa, di conseguenza divennero nell’interpretazione dei primi esploratori, il palazzo episcopale ma senza produrre nessuna prova convincente. Di fatto in anni recenti la chiesa cattedrale è stata cercata in un altro edificio con la stessa pianta a quadriconca centralizzata nel quartiere di sud est della città. Il periodo edilizio più documentato epigraficamente è quello al tempo dell’imperatore Giustiniano. Tra il 527 e il 548 (data della morte dell’imperatrice Teodora ricordata nell’iscrizione) fu costruita la chiesa di S. Giobbe. La dedica, oltre che ricordare il personaggio biblico molto popolare e venerato nella regione di Bostra, potrebbe rimandare all’ospizio per i poveri, il ptoxeion, ricordato da Procopio nel De Edificiis, di cui l’imperatore fece dono alla città (v, ix, 22). Tra il 540-541 la cinta muraria fu rinforzata e diversi edifici pubblici costruiti o restaurati, tra i quali specificatamente si ricorda l’acquedotto che portava l’acqua dal Jabal al-Druz a uno dei vasconi di raccolta della città. Il lavoro finanziato dai gioiellieri della città, fu eseguito per interessamento dell’arcivescovo, esecutore, evidentemente, delle direttive dell’amministrazione imperiale. Nelle iscrizioni normalmente si ricorda anche l’imperatore senza specificare però eventuali sussidi imperiali. Dopo questo periodo, nessun’altra iscrizione integra le fonti dell’epoca che ricordano Bostra implicata sia nell’invasione persiana del 614, sia nella nuova invasione musulmana proveniente dal sud che investì la città nel 634-35. I risultati della ricerca archeologica finora svolta in città sono da considerare parziali e interlocutori per una città che fu al centro della vita cristiana della Provincia. Dal confronto con i risultati degli scavi a Gerasa e a Madaba, certamente ci si può aspettare la scoperta di un’ulteriore documentazione monumentale ed epigrafica che integrerà i dati finora disponibili. Un nuovo nome da aggiungere alla lista degli arcivescovi proviene dal villaggio di Rihab. L’iscrizione di una ennesima chiesetta costruita nel 691 e dedicata a S. Sergio ha il nome del metropolita Giorgio, confermando quanto era da attendersi, cioè la persistenza della gerarchia ecclesiastica a Bostra dopo l’occupazione islamica della città.
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MADABA E I SUOI MOSAICI
Il caso più singolare della moderna ricerca archeologica in Giordania è costituito dalla ricerca a Madaba, la città più meridionale della Provincia Arabia dopo le riforme amministrative e territoriali del iv secolo. Dai testi letterari antichi, della città episcopale si conosceva soltanto il nome di un vescovo del v secolo, Gaiano discepolo di sant’Eutimio, consacrato vescovo dei Medabesi dall’arcivescovo Antipatro in occasione di una sua missione umanitaria nella metropoli della Provincia; negli Atti del Concilio di Calcedonia le firme dall’arcivescovo Costantino è fatta anche a nome di Gaiano vescovo dei Medabesi. La ricerca archeologica, proseguita praticamente senza interruzione fino a nostri giorni a cominciare dalla seconda metà del xix secolo, quando le rovine abbandonate della città antica furono rioccupate da una novantina di famiglie cristiane provenienti dalla regione di Kerak, ha ridato, nelle iscrizioni datate che accompagnano i pavimenti mosaicati delle numerose chiese finora riportate alla luce e relativamente ben conservate, i nomi di una lista episcopale da giudicare completa dalla seconda metà del v secolo fino ai primi decenni del vii, più i nomi di alcuni vescovi in sede nella metà dell’viii secolo. Sono questi nomi presenti nelle iscrizioni dei mosaici delle chiese e cappelle, che rendono possibile precisare l’estensione territoriale della diocesi e seguire lo sviluppo edilizio cristiano nella città episcopale e nel territorio diocesano. Per la consistenza numerica e la qualità delle opere finora riscoperte in città e nel territorio diocesano messe in opera dal v all’viii secolo, Madaba assurge a centro importante dell’arte del mosaico nell’ambito dell’attività artistica dei mosaicisti dell’impero, alla quale diedero vita i bravi artigiani della città della Provincia Arabia. Mosaici che decoravano i pavimenti delle chiese e delle abitazioni private costruite nei quartieri della città e quelli delle chiese del territorio diocesano scoperte sul Monte Nebo, nel villaggio di Ma‘in, a Umm al-Rasas/ Kastron Mefaa, a Nitl e a Macheronte.
A. I mosaici della città episcopale La morfologia dell’elevazione naturale che domina la fertile terra dell’altopiano a sud di Amman sulla quale sorse, a cominciare dal iv millennio a.C., l’abitato di Madaba, condizionò anche lo sviluppo della città di epoca romano-bizantina composta dall’acropoli con ripido pendio a ovest e a sud-est, e dalla città bassa che si estese verso nord, nord-est, in un terreno pianeggiante con leggera pendenza verso est. In questo settore, che divenne il quartiere settentrionale della città, gli esploratori del xix secolo e gli archeologi moderni hanno rilevato l’asse portante della planimetria urbana di epoca
romana costituito dalla strada lastricata e colonnata che attraversava il quartiere in direzione est-ovest, caratterizzata sul limite occidentale da una deviazione verso sud in direzione dell’acropoli. A circa metà percorso del tratto rettilineo della strada, sul lato settentrionale, sorgeva un edificio a esedra colonnato impostato su un basamento, forse il tempio della Tyche o dell’Elios dei Medabesi, raffigurati sulle monete battute in città al tempo dei Severi. Nel vi secolo si assiste a un’occupazione progressiva di quest’area monumentale da parte della comunità cristiana con la costruzione di ricche abitazioni private seguite da alcuni edifici sacri nei quali furono largamente riutilizzati gli elementi architettonici scolpiti dalla forma caratteristica arrotondata provenienti dallo spoglio dell’esedra templare pagana. Di epoca romano-bizantina è anche il grande vascone per la raccolta delle acque piovane di 100 metri di lato, ancora visibile a sud del tell che con le cisterne private scavate nelle case e nelle chiese sopperiva alla mancanza di una sorgente. Le testimonianze più antiche della presenza cristiana in città provengono dal quartiere meridionale nell’area della Chiesa nota come la “Cattedrale” dall’interpretazione datane dagli esploratori del xix secolo impressionati dall’estensione dell’edificio sacro da loro intravisto tra le rovine di più di 70 metri di lunghezza est ovest, che in realtà è il risultato della somma di una chiesa seguita a ovest dal nartece e dal cortile con cappelle. Il mosaico pavimentale del piccolo ambiente mosaicato del fotisterion o battistero da noi scoperto nel settore occidentale del complesso datato al tempo del vescovo Ciro, a cavallo tra il v e vi secolo, inaugura il lungo secolo dell’attività edilizia bizantina a Madaba che vide l’affermarsi dei maestri mosaicisti che hanno reso famosa la città.
Le abitazioni d’uso civile Tutti gli edifici mosaicati finora noti appartengono alla città bizantino-omayyade. La novità degli scavi moderni è stata quella di aver identificato, accanto agli edifici ecclesiastici, alcuni palazzi di abitazione, quali il Palazzo Bruciato e il Palazzo dell’Ippolito lungo la strada lastricata romana, la Casa della Croce nel cortile dei Bajjali poco distante, la Sala della Processione Bacchica, la Sala dell’Achille e la Sala delle Stagioni nel quartiere meridionale. I palazzi patrizi e le case meno ricche, come la Casa della Croce, seguono la stessa pianta con i vani di abitazione che si aprono su un cortile centrale lastricato con le cisterne nel sottosuolo. L’edificio meglio conservato risulta il Palazzo Bruciato che si sviluppava sul lato nord della strada lastricata romana nel 137
Dettagli della fascia della Sala delle Stagioni (vi sec.) ritrovata nel quartiere meridionale. I busti delle quattro Stagioni occupavano i girali d’angolo della composizione (Parco Archeologico di Madaba).
punto di deviazione verso l’acropoli. L’ingresso del palazzo si apriva a sud sulla strada lastricata. Sul lato di ovest si sviluppava un’ala composta da due stanze intercomunicanti mosaicate che una porta metteva in relazione con un corridoio mosaicato che, a sua volta, introduceva in due stanze anch’esse mosaicate che si sviluppavano verso nord. L’ala orientale era occupata da una stanza mosaicata che si apriva a sud su un corridoio lastricato che copriva una cisterna a volta. Lo stesso schema è ripetuto nel Palazzo dell’Ippolito costruito a ridosso dell’esedra di epoca romana. Nel settore occidentale un corridoio mosaicato a grandi tessere bianche coperto ad archi in direzione nord sud serviva da svincolo fino a raggiungere una stanza mosaicata, successivamente obliterata da una cisterna, in comunicazione a est con la sala dell’Ippolito. Questa, che doveva essere l’ambiente più importante del palazzo patrizio, si sviluppava in direzione ovest est sul lato sud del cortile lastricato centrale, con il quale comunicava attraverso una porta nell’angolo di nord est, nei pressi del basamento dell’esedra romana preesistente. Nell’ala orientale del cortile, un lungo vano mosaicato si sviluppava sulla volta di due cisterne sottostanti. Resta l’interrogativo di sapere come era stato utilizzato nel palazzo il podio dell’esedra che aggettava sul lato meridionale del cortile in continuazione della Sala dell’Ippolito. Nella Casa della Croce, così detta dalla croce incisa su una lastra del cortile, un edificio che risulta di proporzioni molto più modeste dei due palazzi precedenti, le piccole stanze di abitazione sono costruite intorno al cortiletto centrale lastricato. Stando ai risultati di alcuni sondaggi in
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profondità, tutti e tre gli edifici furono costruiti sulla terra rossa della campagna con tracce sporadiche di occupazione di epoca nabateo-romana. Del Palazzo dell’Achille resta solo una foto d’insieme di una doppia sala scattata nel 1960 al momento della scoperta occasionata dall’apertura della strada di circonvallazione nel quartiere occidentale ai piedi del tell. Su una terrazza del pendio meridionale del tell si trova ancora in situ, all’interno del Museo Archeologico, la Sala della Processione Bacchica, purtroppo isolata nel contesto planimetrico dell’edificio di cui doveva far parte. La Sala delle Stagioni, ritrovata nello stesso settore della città, l’abbiamo ricostituita riassemblando gli stralci del mosaico pavimentale malamente strappato e restaurato conservati nel deposito del museo. Malgrado questi mosaici provenienti da ambienti di abitazione civile e le numerose chiese mosaicate per le quali Madaba è giustamente nota, purtroppo conosciamo molto poco dell’assetto urbano della città in epoca bizantino omayyade. Ne conosciamo sufficientemente i limiti urbani, grazie alla documentazione grafica e fotografica delle rovine, iniziata da G. Schumacher nel 1891, seguita autonomamente nel 1892 da padre Séjourné e successivamente da don Manfredi, parroco della comunità cattolica, e da PaulowskiKluge nel 1902. I palazzi e le chiese restano solo delle isole difficili da relazionare in un reticolo organico di strade, a parte gli edifici sacri e privati costruiti lungo la strada lastricata romana. Nello schema della cinta urbana normalmente accettata, di cui però abbiamo documentate solo le porte monumentali, la chiesa degli Apostoli a sud-est e la chiesa del Mishnaqa a ovest restano fuori dell’abitato, come pure il bir-
keh o grande vascone a sud. La Chiesa Nord, con il mosaico della Carta, resta sul margine settentrionale della città, all’inizio della strada che conduceva al santuario del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo. Nella planimetria interna, ancora tutta da scoprire, la strada romana del quartiere nord, modificata e stravolta con la rimozione del colonnato e la costruzione di case, botteghe e chiese fin sul limite del lastricato, resta anche in epoca bizantino-omayyade l’asse portante del quartiere settentrionale dove con i due palazzi di abitazione civile troviamo quattro basiliche cristiane allineate a nord e a sud della strada. Un altro dato caratteristico è costituito a ovest dalle botteghe mosaicate costruite su terrazze e addossate al muro di cinta della città datato all’epoca del Ferro (ix-vii secolo a.C.) sul ciglio ripido e accidentato del tell.
La ricerca archeologica e le origini cristiane La riscoperta della città è dovuta principalmente alla rioccupazione delle rovine nel 1880 da parte di famiglie cristiane che furono sensibilizzate dai loro sacerdoti a rispettare e conservare il patrimonio che man mano veniva occasionalmente alla luce rimuovendo le antiche rovine per costruirsi una casa in muratura. A questo primo periodo si deve la scoperta del mosaico del Paradiso e della Processione Bacchica oggi nell’ambito del Museo Archeologico, nel quartiere meridionale, e del mosaico della chiesa della Vergine nel quartiere settentrionale. Nel 1897, a seguito della costruzione della nuova chiesa parrocchiale della comunità greco-ortodossa sulle
fondazioni della Chiesa Nord della città, fu scoperta la Carta musiva di Madaba. Alla pubblicazione di questo che resta, a cent’anni di distanza dalla scoperta, il mosaico storicamente più importante della città, Madaba deve la sua fortuna tra gli studiosi. A seguito della pubblicazione della Carta, don Giuseppe Manfredi, parroco della comunità cattolica di rito latino, fece dei sondaggi di scavo nella chiesa del Profeta Elia, nella chiesa del Khadir e nella chiesa della famiglia dei Sunna‘ lungo la strada lastricata, nella chiesa della famiglia dei Salaytha poco distante, e successivamente nella chiesa degli Apostoli nel quartiere meridionale. L’archimandrita greco-ortodosso di Gerusalemme Melezio Metaxakis, durante la sua permanenza a Madaba per scrivere un lungo contributo dedicato alle antichità della città, fece nel 1905 un saggio di scavo nell’area del Palazzo Bruciato e poté per primo studiare il settore occidentale della Sala dell’Ippolito casualmente venuto alla luce nell’abitazione di Suleiman Sunna‘ nei pressi della chiesa della Vergine. Agli scavi moderni ripresi negli anni sessanta del xx secolo, si deve lo scavo e la pubblicazione della chiesa del Khadir definitivamente identificata da un’iscrizione nel nartece con la chiesa dei SS. Martiri, della chiesa dei SS. Apostoli, del complesso della “Cattedrale” con le cappelle di S. Teodoro e del Battistero nel cortile, il ristudio della chiesa della Vergine con la scoperta del settore orientale della Sala dell’Ippolito, il ristudio della chiesa dei Sunna‘ e lo scavo del Palazzo Bruciato. Le iscrizioni dei mosaici con le datazioni e i nomi dei vescovi che vi leggiamo, fanno da guida per seguire lo sviluppo monumentale della città bizantina dai primi decenni del vi secolo alla metà dell’viii secolo. 139
Achille che suona la lira. Dettaglio della Sala dell’Achille. L’eroe omerico è ritratto tra l’amico Patroclo e una giovane coronata da due Eroti (vi sec.). Più che a residui di paganesimo tra la popolazione di Madaba, i motivi di ispirazione classica sono indici della cultura che l’imperatore Giustiniano aveva diffuso nell’impero.
Nella pagina a lato: Dettaglio della Processione Bacchica nel Museo Archeologico (vi sec.). Il volto del satiro è un rifacimento moderno.
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La sala orientale del Palazzo Bruciato (vi sec.) al momento dello scavo lungo la strada lastricata romana.
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Animali in corsa. Dettaglio della sala orientale del Palazzo Bruciato (vi sec.).
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Animali in corsa. Dettaglio della sala orientale del Palazzo Bruciato (vi sec.).
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La Passio di san Teodoro e compagni durante la persecuzione di Diocleziano, e l’accenno di Eusebio di Cesarea nell’Onomastikon al villaggio «tutto cristiano» di Qoraiata a occidente di Madaba, sono le prime attestazioni della presenza cristiana nel territorio della città. La Vita di Sant’Eutimio con il ricordo di Gaiano consacrato dall’arcivescovo Antipatro vescovo dei Medabesi, e gli Atti del Concilio di Calcedonia (451), dove l’arcivescovo di Bostra Costantino firma a nome di Gaiano vescovo dei Medabesi, hanno conservato il primo nome di un vescovo di Madaba. Qualche anno dopo, la comunità cristiana della città andò incontro a Pietro l’Ibero, anziano vescovo di Maiumas di Gaza che, dopo la sua visita al santuario di Mosè sul Monte Nebo, stava scendendo alle Terme di Baaru (Hammamat Ma‘in) per trovare sollievo ai suoi malanni, acclamandolo nuovo Mosè ed Elia, perché al suo arrivo una pioggia torrenziale aveva riempito tutte le cisterne.
Il complesso della “Cattedrale” Le attestazioni della presenza della comunità cristiana nella seconda metà del v secolo, hanno un possibile corrispondente monumentale nel complesso ecclesiastico della “Cattedrale” nel quartiere meridionale della città, dove il primitivo fotisterion può essere datato verso la fine del secolo. Data l’ubicazione del complesso tra le case costruite nel xix secolo dai nuovi arrivati, l’indagine archeologica si è dovuta limitare alla zona orientale in relazione con il presbiterio della basilica, e al cortile occidentale. La più sacrificata in questa ricerca durata diversi anni è risultata la basilica con i suoi annessi settentrionali coperti da abitazioni e da una strada della città moderna. Dal complesso della “Cattedrale” provengono iscrizioni con quattro nomi di vescovi che ne fissano le fasi di sviluppo monumentale. Al tempo del vescovo Ciro, di cui non si conosce la data, fu mosaicato il piccolo fotisterion nel cortile occidentale.
Al tempo dello stesso vescovo fu costruita e mosaicata sul monte Nebo la chiesa inferiore di Robebos tra le vigne della valle di ‘Uyun Musa. Nel villaggio di Nebo, al tempo del vescovo Fido, fu posto in opera il mosaico della cappella inferiore del Prete Giovanni. Dal confronto tra questi due mosaici, facilmente opera della stessa squadra di mosaicisti, con il mosaico del fotisterion di Madaba, si può presumibilmente porre Ciro dopo Fido verso la fine del v secolo, primi decenni del vi secolo, entrambi certamente prima del vescovo Elia che sappiamo in sede nel 530 e nel 536. Nel fotisterion, un piccolo ambiente stretto e allungato di ca 7 metri per 1,80 metri di larghezza, l’iscrizione in greco con il nome del vescovo occupa nei pressi del fonte circolare l’estremità orientale di un pannello dove ai lati di un tralcio di vite si affrontano a coppie due arieti, due gazzelle, uno zebù e un leone. Nello stesso cortile della “Cattedrale” nel 562 al tempo del vescovo Giovanni, fu costruita la cappella
del glorioso martire san Teodoro. Sulla pendenza ripida della collina con un lavoro di sbancamento a nord e la costruzione di un muraglione di sostegno a sud, si ottenne uno spiazzo rettangolare largo una trentina di metri dove si lavorò fino al primo decennio del vii secolo. In fasi successive fu costruita una basilica monoabsidata e mosaicata a est con presbiterio prima mosaicato poi lastricato in opus sectile, seguita da un nartece lastricato in facciata e da un ampio cortile quadrangolare dove la cappella di S. Teodoro occupò il lato meridionale, secondo un progetto chiaramente predefinito. La ristrutturazione dell’area fu infatti completata al tempo del vescovo Sergio nel 576, come si legge in una lunga iscrizione del cortile, con la costruzione sul lato settentrionale della cappella superiore del battistero che coprì il fostisterion preesistente, e di un portico colonnato di raccordo tra le due cappelle sul lato occidentale. Contemporaneamente fu mosaicato il cortile tra le due cappelle con al centro la vera
Dettaglio della Sala della Processione Bacchica nel Museo Archeologico di Madaba (vi sec.).
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L’iscrizione dedicatoria della cappella del martire San Teodoro mosaicata al tempo del vescovo Giovanni nel 562. In un periodo successivo fu aggiunto l’altare di cui restano gli alloggiamenti delle colonnine.
Nella pagina a lato: Due galli affrontati ad un vaso e un pesce. Dettagli del pavimento mosaicato della cappella di San Teodoro (562 d.C.).
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rialzata in muratura che dava modo di attingere acqua dalla cisterna sottostante. Nel mosaico, sul lato ovest della vera, restava traccia di una vasca monolitica in pietra accompagnata da iscrizioni in greco. L’iscrizione di un vano laterale a nord della basilica, ricorda i lavori eseguiti nel 603 al tempo del vescovo Leonzio che completò quanto i suoi predecessori avevano iniziato e programmato. Quattro vescovi e un secolo di attività edilizia, ma anche un secolo di evoluzione dell’arte del mosaico che, se nel fotisterion ha una delle opere più antiche, nella cappella di S. Teodoro ha lasciato uno dei lavori tipici della maturità artistica dei mosaicisti di Madaba. Due galli affrontati a un vaso decorano l’ingresso alla cappella sulla parete settentrionale. Una fascia di girali di foglie di acanto animati con scene di caccia e di pastorizia con aquile ad ali spiegate nei girali d’angolo circonda il tappeto centrale dell’aula spaziato da una composizione ortogonale di croci di scuta. Pesci, volatili e cesti pieni di frutta si alternano nei cerchi delle risulte, con motivi isolati di scene
di caccia e di pastorizia degli ottagoni. I busti dei quattro fiumi del Paradiso (Ghion, Fison, Tigri ed Eufrate) occupano gli ottagoni d’angolo. Nei fiumi, si ripete la personificazione di tipo classico con la figura sdraiata seminuda avvolta da un mantello con una canna in una mano, con l’aggiunta di una brocca che versa acqua. L’iscrizione dedicatoria impaginata in tabula ansata tra due anfore, chiude la composizione nei pressi del gradino del presbiterio dove animali affrontati a un albero decorano la piattaforma quadrangolare. I guasti dovuti alla crisi iconofobica di alcune figure non riescono a sminuire il vivace effetto cromatico d’insieme accentuato dall’uso della tecnica ad arcobaleno nelle fasce del motivo geometrico di base. Gli stessi mosaicisti potrebbero essere responsabili della decorazione della cappella del battistero sul lato opposto del cortile, dove in una fascia di girali di foglie di acanto è inserito un reticolo di linee di fiori con i rombi decorati da serie sovrapposte di volatili, pesci, frutti e cesti alternati con alberelli. Due arieti legati a un alberello erano 147
Due cervi affrontati tra i tralci d’uva. Dettaglio del mosaico che decorava il battistero inferiore messo in opera al tempo del Vescovo Ciro nel primo decennio del vi secolo.
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Nella pagina a lato: Dettaglio del pavimento del battistero superiore messo in opera al tempo del Vescovo Sergio verso la fine del vi secolo.
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Il complesso della chiesa della Vergine e del profeta Elia
Pianta del complesso della “Cattedrale” di Madaba con l’aula basilicale a est che il nartece divide dal cortile a ovest con la cappella di San Teodoro a sud e la cappella del Battistero a nord (Dis. G. Ortolani).
L’iscrizione del Vescovo Leonzio ritrovata in un ambiente a nord dell’aula basilicale datata al 603.
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inseriti sul lato occidentale nei pressi del fonte cruciforme costruito al centro del sintronos che seguiva lo sguancio absidale. Il complesso ecclesiastico della “Cattedrale” nella sua fase finale risultava composto dalla basilica a est di cui conosciamo solo la zona absidale e il nartece in facciata, e dalle due cappelle costruite specularmente nel cortile ad occidente. L’anomalia dell’orientamento della cappella di S. Teodoro, l’insistenza nelle iscrizioni del cortile della meraviglia dei Medabesi per un pozzo nel pozzo («lakkos en lakko»), eseguito dal vescovo Sergio, («goubba bagoubba», come si ripete in semitico nell’iscrizione a ovest della vera), e la doppia citazione biblica aggiuntiva («Questo è il cambiamento della destra dell’Altissimo» (Sal 77, 11); «Ho risanato queste acque dice il Signore» (2Re 2, 19-22), hanno fatto ipotizzare una proposta di lettura in funzione della liturgia battesimale per tutto il complesso, con un percorso dei catecumeni che iniziava nella cappella di S. Teodoro con la rinuncia a Satana voltati verso occidente, proseguiva sotto il portico nei pressi della vera del pozzo con la benedizione dell’acqua, e terminava nel fonte battesimale. La benedizione della destra dell’Altissimo cambiava l’acqua della cisterna nell’acqua generatrice di vita del sacramento della rigenerazione.
Un caso simile di un programma edilizio sacro impostato da un vescovo e terminato dal suo successore è quello del complesso composto dalla chiesa del Profeta Elia e dalla chiesa della Vergine sulla strada lastricata romana all’altezza dell’esedra templare nel quartiere settentrionale. La contemporaneità dei due edifici, giustificata dalla presenza nelle iscrizioni delle due chiese del nome dello stesso benefattore, Mena, e dalla soluzione simile adottata a livello tecnico per ovviare al problema del dislivello creato dalla pendenza del terreno verso oriente, ha fatto ipotizzare un unico complesso che si sviluppava sui due lati della strada. Nella cripta della chiesa del Profeta Elia il lavoro viene datato al tempo del vescovo Sergio nel 595-96. Nella lunga iscrizione dedicatoria della chiesa superiore ritrovata da don Manfredi nel 1897, espressamente si dice che il vescovo Leonzio terminò nel 608 quanto il vescovo Sergio aveva iniziato, con i fondi messi a disposizione da Mena figlio di Panfilo e da Teodosio, fratelli Aigiarii: «Posto al di là della corruzione che raggiunge tutta la natura umana, colui che ha riportato il popolo di Israele verso l’unica verità, il profeta Elia…, con zelo, cooperando con la preghiera, ha anche costruito questo bel tempio… ai tempi di Leonzio, l’umilissimo sacerdote vero amico della pace, che è succeduto ai lavori di Sergio, l’amico di Dio e il curatore che aveva raccolto dei doni. Mena, figlio di Panfilo, e Teodosio, fratelli Aigiarii divenuti soccorso a essi e a questa umile città. Fu terminato l’anno 502, la undicesima indizione (607-8 d.C.)». Il terreno sui due lati della strada fu livellato costruendo delle sottostrutture a volta che nella chiesa del Profeta Elia furono
usate come cripta con doppia scala di discesa laterale, e nella chiesa della Vergine come una doppia botola forse a uso funerario sotto il presbiterio poligonale. Interessante è anche il modo in cui furono utilizzati i resti monumentali di epoca romana nella costruzione dei due edifici bizantini, le cui murature raggiunsero il ciglio della strada fino a occupare l’area dei portici. Nella chiesa del Profeta Elia, le alti basi modanate del colonnato furono raccolte, accostate e poste di lato così da formare il primo ricorso della parete settentrionale della chiesa superiore. Sul lato opposto, due basi, una delle quali ancora con parte del fusto della colonna, furono lasciate al loro posto e inglobate negli spigoli della parete meridionale della rotonda della chiesa della Vergine, costruita in parte sul basamento dell’esedra e in parte sull’area del portico doppiando l’esedra. Dettagli che sono uno dei tanti risultati raggiunti con il riesame archeologico dell’area iniziato nel 1977 e continuato fino al novembre del 1995 quando ci fu l’inagurazione ufficiale del Madaba Archaeological Park creato a protezione dei monumenti riportati alla luce in questo tratto della strada romana. Il lungo iter iniziò con il riesame del mosaico pavimentale della chiesa della Vergine per cercare di precisarne la datazione, chiarendo la lettura del signe bizarre dell’iscrizione dedicatoria, come si espresse uno studioso del xix secolo, partendo dalla scoperta della prima linea restata nascosta sotto il muro orientale della casa costruita nel xix secolo, dove si leggeva il nome del vescovo Teofane, un nuovo nome della lista episcopale che pensavamo completa per il vi secolo. Dall’esame risultò che l’iscrizione dedicatoria, come quella nel medaglione al centro della rotonda della chiesa, fanno parte del riquadro geometrico giustapposto in un secondo tempo al mosaico primitivo ancora visibile lungo il perimetro interno della chiesa. Mosaico da datare alla seconda metà del vi secolo, sia per motivi tecnici della messa in opera, sia per il nome del benefattore Mena, lo stesso della chiesa del
La Sala della Processione Bacchica all’interno del Museo Archeologico, e il mosaico dell’Achille scoperto nel quartiere meridionale (vi sec.).
Battacchio con protome leonina in bronzo, ritrovato nello scavo del Palazzo Bruciato lungo il cardo (vi sec.).
Profeta Elia, che si leggeva nello stralcio superstite del mosaico primitivo sull’ingresso alla rotonda. Lo scavo in profondità sotto il letto del mosaico del vestibolo interno della chiesa, che condusse alla scoperta della Sala dell’Ippolito, confermò la conclusione che il mosaico con il nome del vescovo Teofane doveva essere stato messo in opera in epoca omayyade. La scoperta di alcuni mosaici dove nella data compariva lo stesso segno, a Gerusalemme e sul Monte Nebo, ha permesso di sciogliere definitivamente il mistero. Con l’utilizzo dell’era della Creazione, la data riportava la messa in opera del restauro al 767 d.C. Il mosaico della chiesa della Vergine, il primo dei mosaici datati di Madaba venuto a conoscenza 151
degli studiosi, a distanza di un secolo, risultava anche l’opera datata più recente dei mosaicisti della città. La chiesa edificata nell’area dell’esedra romana con le sue due fasi di costruzione (fine vi secolo) e di restauro (767 d.C.), era stata preceduta da un’abitazione signorile di epoca bizantina, il Palazzo dell’Ippolito. Sotto il vestibolo interno della chiesa, si era conservato uno dei capolavori messi in opera dai mosaicisti di Madaba verso la metà del vi secolo. Il settore occidentale del mosaico era stato riportato alla luce nel 1905 da un abitante della città che ne aveva fatto il parterre della sua abitazione. Nell’agosto del 1982 venne alla luce il settore orientale nel corso del riesame del monumento. La sala meridionale del palazzo di 9,50 metri di lunghezza est-ovest per 7,30 metri di larghezza nord-sud, con doppio ingresso a nord e a sud, risultava leggermente slargata verso est. I mosaicisti cercarono di regolarizzarla con una composizione ortogonale basata su una larga fascia di foglie di acanto, con scene di caccia e di pastorizia e i busti delle Stagioni negli angoli, che inquadrava il tappeto centrale del mosaico suddiviso in tre pannelli rettangolari. Motivi di flora e di fauna mutuati dal repertorio nilotico decoravano il reticolo del primo pannello a occidente. Negli altri due pannelli i mosaicisti raffigurarono i personaggi del dramma euripideo dell’Ippolito, con al centro i personaggi in terra della tragedia, le 152
Ancelle che assistono Fedra, malata d’amore, mentre la Nutrice si rivolge a Ippolito pronto a partire per la caccia accompagnato dai Ministranti e da un Servo che tiene il cavallo per le briglie. Nel terzo pannello, i personaggi in cielo all’origine del dramma: Afrodite, seduta in trono accanto ad Adonis, minaccia con il sandalo un Amorino che le viene teso da una Grazia. La scena continua con le altre due Grazie che rincorrono l’Amorino ed è chiusa da una Contadina che ritorna dalla campagna carica di frutti e con una pernice nella mano destra, che all’artista servì per l’ambientazione. Di fronte alla porta, nello spazio irregolare tra la fascia del tappeto e il muro orientale della sala, con due mostri marini affrontati, sono raffigurate come Tychai sedute in trono con una croce astile nella mano destra e una cornucopia nella sinistra, le città di Roma, Gregoria e Madaba, quest’ultima raffigurata secondo lo schema che si ritrova usato sulle monete coniate in città nell’epoca severiana. Nella rielaborazione del mito molto popolare nel mondo greco-romano, in questo che certamente ne è uno dei capolavori indiscutibili, che abbiamo attribuito al Maestro dell’Ippolito, risaltano pregi e difetti dei mosaicisti che honoris causa, si è soliti chiamare la «Scuola di Madaba», una delle espressioni più unitarie provinciali della rinascita classica di epoca giustinianea.
La Rotonda della chiesa della Vergine costruita verso la fine del vi secolo. Il mosaico della chiesa fu rifatto in epoca omayyade nel 767 (ii secolo dell’Egira).
Nella pagina a lato: Il mosaico della rotonda della chiesa della Vergine. Della composizione geometrica di epoca omayyade fanno parte le due iscrizioni ricche di contenuto teologico nelle quali la comunità cristiana sotto occupazione musulmana riafferma la sua fede in Cristo Figlio Unico dell’Unico Dio e la sua devozione alla Vergine Theotokos, regina e immacolata.
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Alberello carico di frutti tra due tralci d’uva. Il motivo decora il ballatoio meridionale della scala di discesa alla cripta di Sant’Eliano terminata nel 597 d.C.
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Alla ricchezza dell’effetto policromo d’insieme della narrazione ottenuto dal mosaicista oramai padrone del suo mestiere con l’alternanza e il dosaggio sapiente dei diversi campi di tessere sul fondo unitario bianco, contrasta la linea un po’ dura del disegno dei panneggi, come delle facce dei personaggi. Il mosaico, malgrado la posizione solitaria per qualità tecnica e ricchezza figurativa, è ben ambientato stilisticamente tra i lavori dei mosaicisti di Madaba della metà del vi secolo d.C. In questo contesto culturale classico ridiventato popolare tra la popolazione cristiana dell’impero bizantino in epoca giustinianea, vanno inseriti gli altri lavori che decoravano ambienti di abitazioni civili come la Processione Bacchica, la Sala delle Stagioni, il mosaico della sala orientale del Palazzo Bruciato, e la Sala dell’Achille. In quest’ultima composizione mutuata dai poemi omerici la scena si articola su tre piani. In primo
piano le figure in piedi dei due eroi nudi con un mantello sulla spalla, di Achille in atto di suonare la lira e di Patroclo con la lancia nella mano destra, sono accompagnate sulla sinistra da una giovane con un fiore in mano che viene incoronata da due Eroti. Al centro, in alto, restano le estremità delle zampe di una pantera, simbolo di Dioniso, in qualche modo collegata con la processione bacchica che si svolgeva nella parte superiore del tappeto.
Dettaglio della Mappa Musiva di Madaba.
La chiesa dei SS. Apostoli L’attività edilizia in città e nella diocesi attestata nel cortile della «Cattedrale» al tempo del vescovo Giovanni, diventa frenetica al tempo del vescovo Sergio in sede dal 576 agli 155
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Nelle pagine precedenti: La Carta Musiva di Madaba. Il mosaico, originariamente di 16 m x 7 m ca, ancora decora in parte il pavimento della Chiesa Nord della città. In alto a destra è raffigurata la posizione del mosaico sulla pianta della chiesa. In alto a sinistra il profilo del mosaico mostra la posizione dei diversi lacerti. Il mosaicista volle raffigurare la Terra Promessa che Mosè vide al termine della vita dall’alto del Monte Nebo: dal Mare Mediterraneo al deserto orientale, dal Libano al Delta del Nilo. La Carta è attualizzata alla realtà topografica del vi secolo con i santuari dell’Antico e del Nuovo Testamento visitati dai pellegrini.
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La parte centrale della Carta Musiva di Madaba dalla vignetta della Santa Città di Gerusalemme sulla montagna di Giudea alla sponda orientale del Mar Morto e del fiume Giordano con i santuari del Battesimo (vi sec. d.C.).
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Il settore meridionale della Carta con la valle dell’Araba a sud del Mar Morto (in alto), il Negev dalla zona collinosa fino alla città di Gaza sulla costa mediterranea, il Monte Sinai in alto, e il Delta del Nilo (vi sec. d.C.).
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ultimi anni del secolo. Oltre ai lavori nella «Cattedrale, alle chiese del Profeta Elia e della Vergine da lui certamente iniziate, abbiamo il suo nome legato alla costruzione nel 578 della Chiesa degli Apostoli, il cui mosaico con il medaglione del Mare è firmato dal mosaicista Salaman, un artista di grande talento. La decorazione della navata della chiesa, che ruota intorno al medaglione del Mare, è impostata sul reticolo di rombi formati dalla ripetizione di serie sovrapposte di volatili all’interno di una fascia di girali di foglie di acanto animata con motivi di flora e di fauna interrotti al centro da tre bambini intenti a giocare con la girandola o con un carretto trainato da una coppia di volatili dalle lunghe code. Maschere fogliate sono inserite nei girali di angolo. Nel medaglione al centro della composizione, il Mare è rappresentato come una donna che esce dalle onde brandendo un remo come uno stendardo, tra il guizzare dei pesci. Il programma della navata è introdotto sulla porta centrale in facciata da due pappagalli affrontati a un’anfora su un cespo di acanto tra due paia di tori e di arieti nettamente definiti nella robusta volumetria che è una caratteristica di questo artigiano. Qualità che risalta anche nei frutti della navata. Al tempo del vescovo Sergio, nei due ultimi decenni del vi secolo, furono costruite e decorate a mosaico quasi tutte le chiese di Umm al-Rasas finora scavate: la chiesa del Vescovo Sergio, quella del Prete Wail, la chiesa dei Leoni, la chiesa di S. Paolo, e all’interno del castrum la chiesa di S. Sergio. Nel Memoriale di Mosè sul Monte Nebo, fu terminato il mosaico della cappella del battistero.
La Carta musiva delle terre bibliche La Carta di Madaba, il mosaico più noto della città, va inserita in questo ambiente ricco di vitalità artistica e culturalmente vivace imbevuto di classicità che si viveva nella cittadina della Provincia. Nella seconda metà del vi secolo un mosaicista, probabilmente ispirato da un sacerdote colto della città, realizzava la Carta delle terre bibliche nella Chiesa Nord della città, nel cui territorio si trova il santuario di Mosè Monte Nebo, dal quale Mosè, come si narra nel capitolo 34 del Deuteronomio, poté dare uno sguardo di speranza alla Terra Promessa. Nel dicembre 1896, al termine della ricostruzione della nuova chiesa della comunità greco-ortodossa di Madaba, un monaco greco, il diacono Kleopas Kikilides, riconobbe nel mosaico pavimentale della chiesa di epoca bizantina sulla quale il nuovo edificio era stato costruito, un documento unico dell’antichità cristiana per la Bibbia, per la geografia storica della regione in periodo bizantino e per la cartografia in generale. Un frate francescano, padre Girolamo Golubovich, lo aiutò a pubblicare un fascicoletto in greco stampato a Gerusalemme nel marzo 1897 nella tipografia francescana. Contemporaneamente, due padri domenicani, padre Lagrange e Vincent pubblicarono a Parigi un lungo e esauriente studio storico-geografico dei toponimi della Carta. Sempre a Parigi padre Germer Durand dei padri Assunzionisti presente a Gerusalemme pubblicò un album di foto della Carta da lui scattate. Nello stesso anno Clermont-Ganneau 160
orientalista emerito dava comunicazione della scoperta all’Académie des Sciences et Belles Lettres di Parigi. Madaba deve la sua notorietà tra gli studiosi alla pubblicazione della Carta. Di epoca romana, gli studiosi conoscevano le carte di Tolomeo e le Tabulae Peutingerianae, quest’ultima una copia medievale di una descrizione pittorica delle strade dell’impero. Di epoca bizantina si sapeva dell’esistenza della mappa dell’impero ordinata dall’imperatore Teodosio ma finora non ritrovata. La scoperta di Madaba metteva a disposizione degli studiosi un originale geografico del vi secolo, e ridava a milioni di credenti la carta della Terra Santa che proprio a partire da quell’epoca aveva nutrito l’immaginario dell’occidente cristiano. Il mosaico occupa la parte orientale della chiesa tra la prima e la terza fila di colonne diventate pilastri nella ricostruzione moderna dell’edificio bizantino. Del mosaico restano una grande sezione continua nella navata centrale e nella navata meridionale che corrispondono al centro sud del territorio palestinese fino al Delta del Nilo, e due frammenti isolati verso nord che rimandano alla montagna di Galilea e alla costa libanese, sufficienti per immaginarne con buona approssimazione l’estensione originale che non doveva superare di molto le misure attuali dei punti limite del mosaico, che sono di 15,70 metri per 5,60 metri di larghezza e altezza massima. Tenendo presenti i muri perimetrali della chiesa a nord e a sud, e il gradino di chiusura del presbiterio, la Carta si estendeva dall’altezza di Tiro e Sidone a nord fino al Delta egiziano a sud, e dal Mare Mediterraneo a ovest, fino al deserto arabico a est, che corrispondono ai confini biblici della Terra Promessa ad Abramo, come sottolineato anche dalle grandi scritte in rosso che nel mosaico rimandano alle tribù di Efraim, di Dan, di Beniamino, di Giuda e di Simeone. All’ambito geografico biblico dell’Antico e del Nuovo Testamento (Vangeli e Atti degli Apostoli) rimandano le circa 150 legende in greco. Le località sono distinte in importanza dalla grandezza della vignetta che accompagna il nome. Si va dal simbolo più semplice composto da una porta fiancheggiata da due torri, o da una chiesa isolata a indicare un santuario visitato dai pellegrini, alle vignette delle grandi città come Gerusalemme, Neapolis, Charach Mouba, Ascalon, Gaza e Pelusium, date nella Carta su tre registri sovrapposti, sulla costa del mare Mediterraneo, in basso, sulla montagna palestinese, al centro, e sul territorio transgiordanico a oriente. Il riscontro puntuale tra i ricordi dei pellegrini e le annotazioni della Carta, ne ha fatto ipotizzare la fonte utilizzata dal mosaicista in una carta biblica mutuata dall’Onomastikon di Eusebio e aggiornata alla realtà del vi secolo. Una vera mappa al servizio dei pellegrini che come Egeria nel iv secolo, Bibbia alla mano e accompagnati da un monaco o da un sacerdote della regione, visitavano questi luoghi. La montagna di Samaria nella tribù di Efraim con la vignetta di Neapolis, purtroppo resa irriconoscibile dagli effetti del fuoco di un focolare, è caratterizzata dal santuario del pozzo di Giacobbe nella valle tra i monti Ebal e Garizim. La valle del Giordano in area palestinese è ravvivata dall’oasi di Gerico e dai santuari circostanti collegati con l’ingresso delle tribù nella Terra Promessa e con il ricordo di un miracolo del profeta Eliseo che rese potabile e datrice di vita l’acqua salmastra e mortifera della sorgente di Gerico. I santuari sulla sponda del fiume Giordano ricordavano la predicazione di Giovanni il
Battista e l’inizio della missione pubblica di Gesù. Sulla sponda orientale del Mar Morto il mosaicista aveva posto nel giusto rilievo le terme di Baaru e le terme di Calliroe, per cui la regione di Madaba era famosa, insieme terme e santuari di guarigione. Non si sbaglia pensando che la vignetta della città di Madaba era posta in posizione centrale proprio di fronte all’altare, sullo stesso piano e importanza della santa Città di Gerusalemme che domina il settore occidentale della mappa. Sulla montagna della tribù di Giuda le località sono allineate lungo la strada che da Gerusalemme passava per Betlem, identificata dalla basilica della Natività, proseguiva per il santuario del diacono Filippo dove una sorgente sta a ricordare il battesimo del ministro della regina di Etiopia, e raggiungeva Hebron con il santuario della quercia a Mambre e le Tombe dei Patriarchi in città. Nel Negev palestinese un lungo testo sottolinea la località di Bersabea confine meridionale di Israele («da Dan a Bersabea»). Fortini dell’esercito romano-bizantino a protezione delle strade punteggiano la valle dell’Arabah a sud del Mar Morto, dopo l’oasi di Zoara. Particolare rilievo è dato alla costa mediterranea conservata a partire da Jaffa fino a Gaza, che all’altezza del Sinai crea un’ampia strana ansa verso l’entroterra. Qui nei pressi di Rinocorura (moderna al-Arish) viene indicato in lettere rosse il confine tra la Palestina e l’Egitto.
La costa si allarga nel Delta ramificato del Nilo che segue un percorso ortogonale provenendo da est. Un dettaglio geografico anomalo da spiegare nell’ambito delle conoscenze geografiche bibliche di cui la Carta è espressione, in quanto il Nilo, identificato con Ghion, insieme al Fison, Tigri e Eufrate, è uno dei quattro fiumi che irrigano la terra sgorgando dalla sorgente dell’Eden posizionato ad oriente. Della penisola sinaitica resta una montagna a oriente del Delta confinante con il Negev palestinese e con la valle dell’Araba a sud del Mar Morto. Tre testi ricordano altrettanti episodi biblici dell’Antico Testamento: la battaglia di Rafidim contro gli Amaleciti, il miracolo della manna e delle quaglie nel deserto di Sin, e l’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè per ordine di Dio. La Carta raggiunge il suo vertice figurativo nella vignetta della Città Santa di Gerusalemme che in qualche modo è il centro ideale della composizione se non il centro fisico. La vignetta resta essenzialmente un fatto artistico, interpretativo della città vista a volo di uccello, chiusa all’interno delle sue mura turrite, con le porte e gli edifici che si sviluppano lungo le due strade principali colonnate dominate dal complesso del Santo Sepolcro. In questo schema sono identificabili topograficamente alcuni elementi, quali la porta nord caratterizzata dalla colonna votiva e dalla piazza all’interno delle
Nella Sala dell’Ippolito, tre personificazioni di città, Roma, Gregoria e Madaba, decorano la fascia di tessere bianche tra il tappeto centrale e il muro est. Le città raffigurate come tre Tychai con la corona turrita e la cornucopia o un cesto di fiori nella sinistra, reggono una croce nella mano destra al posto del busto dell’imperatore.
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Dettaglio della Sala dell’Ippolito con i personaggi in cielo della tragedia di Euripide: Afrodite seduta vicino ad Adone che sculaccia con un sandalo Eros catturato
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dalle Grazie. Alle scene assiste una contadina che torna dal campo. Un erote ha infilato la testa in un alveare con rimando ad una poesia amorosa di Teocrito.
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mura, con le due strade colonnate che da qui originano, il cardo e la via della Valle, e la porta orientale con la strada che entra in città fino a incrociare la via della Valle. L’importanza data in questa vignetta al complesso costantiniano del Santo Sepolcro posto al centro del cardo colonnato che attraversa la città da nord a sud, dà un chiaro significato teologico cristiano alla composizione geografica. Gerusalemme diventa il centro dell’ecumene, l’ombelico del mondo redento, perché al centro della città si trovano la Roccia del Calvario e la Tomba della Resurrezione.
Altre chiese Sull’estremità meridionale del cardo colonnato possono essere identificate con una certa verosimiglianza anche la basilica della Santa Sion, la Madre di tutte le chiese, e la Nea Theotokos fatta costruire dall’imperatore Giustiniano. La 164
dedicazione di questa basilica sposta l’esecuzione della Carta a dopo il 542 anno della dedicazione. Alla seconda metà del secolo riportano le chiese di pellegrinaggio rappresentate nella Carta e ricordate per la prima volta dall’Anonimo Pellegrino di Piacenza che le visitò verso il 570: la chiesa di Galgala presso Gerico, il santuario dei Martiri Egiziani presso Ascalon, quello di S. Vittore presso Gaza e la tomba di san Zaccaria nella Shefela. Una data al tempo dei vescovi Giovanni e Sergio, a cominciare dagli anni sessanta del vi secolo, mi sembra la più conveniente per questa opera che resta singolare e unica tra i mosaici della regione a est e a ovest del fiume Giordano. Nel quartiere settentrionale, a ovest delle chiese del Profeta Elia e della chiesa della Vergine, sorgeva la chiesa dei Santi Martiri, dagli abitanti conosciuta come la chiesa del Khadir. Nella costruzione furono riutilizzati diversi elementi architettonici di epoca romana, basi, colonne e capitelli, in particolare i conci scolpiti e sagomati della cornice
Ragazzo che gioca con un carretto trainato da due volatili. Dettaglio del lato ovest della fascia nella chiesa dei Santi Apostoli (578 d.C.).
Nella pagina a lato: Volatile. Dettaglio della composizione centrale della cripta di Sant’Eliano (597 d.C.).
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dell’esedra adattati a sedili del sintronos nell’abside del presbiterio rialzato. La lunga navata circondata da una fascia di girali di acanto animata, venne suddivisa in tre pannelli. Il pannello occidentale fu mosaicato con un ricco repertorio di scene di caccia intervallate da alberelli carichi di frutti raffigurate su quattro registri sovrapposti. I danni subiti dalle figure durante la crisi iconofobica non impediscono la lettura della composizione. Nel primo registro un cacciatore con un falco sulla spalla si avvicina con una pertica ad un albero per spaventare gli uccelli che hanno cercato rifugio tra le fronde. Un cane assiste alla scena, mentre nei pressi un secondo cacciatore con due pertiche nella mano, ripone nella gabbia un uccello appena catturato. Segue una bestia esotica, come fanno supporre due tavolette rettangolari, che venivano poste sulle corna degli animali catturati per renderli inoffensivi. Il registro è chiuso sulla destra da due orsi che scuotono una palma carica di datteri. Nel secondo registro un cacciatore armato di tridente a dorso di un elefante insegue una belva. Sulla destra una figura orientaleggiante come la precedente tiene un cammello con una corda. Segue una scena di pastorizia con il pastore in atteggiamento di riposo che guarda il suo gregge. Il quarto registro riprende con un’altra narrazione di caccia grossa composta da una belva in corsa che fa gruppo con una figura armata di frusta, da un cacciatore armato di tridente che trascina un leone con una corda, e da una belva che sbrana un capretto. Una scena di uccellagione era ripetuta nella navata centrale della chiesa dei Sunna‘, che sorge a est della chiesa del Profeta Elia. Come nella chiesa dei SS. Martiri, la navata era chiusa da un’unica fascia continua di girali di tralci di vite, con i quattro fiumi del Paradiso che decoravano i girali d’angolo. Nell’angolo di sud est, resta il busto di un fiume ritratto come un giovane seminudo con il capo coperto da un intreccio vegetale raffigurato semisdraiato, con una una canna nella mano destra. Nell’angolo di nord-ovest, restano la canna, una serie di linee di tessere rosse in basso e due pesci affrontati di colore diverso. Nello stralcio superstite del pannello occidentale della navata, che risulta il più danneggiato di tutta la composizione, si può identificare la sagoma di un cacciatore in atto di spaventare gli uccelli nascosti tra le fronde o in volo verso una rete posta su un altro albero. Della chiesa del Profeta Elia è stato sempre visibile il mosaico della cripta con un alberello carico di frutti nel pianerottolo sud, un intreccio di otto in quello nord, e con la composizione di croci di scuta circondata da un nastro a decorare il piccolo ambiente di fronte al presbiterio rialzato. Il testo dell’iscrizione dedicatoria con la data (595-6) e il ricordo del vescovo Sergio si leggeva negli ottagoni di risulta del registro orientale. Un volatile decorava l’ottagono superstite del registro occidentale. Del mosaico della chiesa superiore si conosceva il testo delle due iscrizioni, la prima in tabula ansata nei pressi del gradino del presbiterio, la seconda, un’invocazione al Profeta da parte della comunità che in una città senza sorgente si attendeva dal cielo l’acqua necessaria alla vita, era impaginata in un cerchio intorno al medaglione centrale: «Tu che alla tua preghiera metti in movimento, come si conviene, le nubi apportatrici di pioggia, 166
e che hai pietà delle moltitudini, Profeta, ricordati anche dei benefattori e di questa umile città». Lo scavo eseguito in occasione dei lavori per l’apertura del Parco Archeologico, oltre che chiarire la pianta della chiesa superiore con l’identificazione della cappella meridionale, ha riportato alla luce un ampio settore del mosaico nel settore occidentale. Come nella chiesa degli Apostoli, la navata era decorata con un reticolo continuo di linee di fiori sul quale si sovrapponeva al centro il medaglione con l’iscrizione decorato con un pavone che faceva la ruota. Il reticolo era circondato da una serie continua di cerchi tangenti, come si può vedere nei pressi della porta in facciata dove restano i motivi di una scena di caccia suddivisa su tre cerchi: un cavallo bardato legato a un albero, un cacciatore pronto a scoccare una freccia contro una fiera di cui restano soltanto le zampe posteriori. I rombi del reticolo furono decorati con serie sovrapposte di motivi vegetali, vassoi e cesti, alternati con volatili e pesci disposti a coppie affrontate. Nel mosaico si fa largo uso di tessere di pasta vitrea normalmente usate per i mosaici parietali. Nel medaglione centrale tessere di pasta vitrea di colore giallo, verde chiaro e verse scuro, vengono utilizzate per l’esecuzione degli occhi sulle penne della ruota del pavone. Nel Museo Archeologico della città, con la Processione Bacchica, si conservano ancora in situ una cappella con un agnello in medaglione al centro del presbiterio, e il cosidetto Paradiso nella casa di Farid al-Masri, il cristiano proprietario dell’ambiente nel xix secolo. Coppie di animali e di volatili affrontati sono inserite tra i tronchi di quattro alberelli con partenza negli angoli le cui fronde raggiungono al centro un cerchio decorato con il viso di un uomo con acconciatura a caschetto. Tenendo presente che una delle coppie rappresenta un leone affrontato a un bue e che la scena nel mosaico della chiesa sull’acropoli del villaggio di Ma‘in viene interpretata dal mosaicista con il testo del Profeta Isaia «Allora il leone mangerà la paglia come il bue», tutta la composizione è stata interpretata fin dalla scoperta come una scena di filia tra gli animali e tra gli animali e l’uomo. Il viso nel medaglione al centro della composizione sostituirebbe la figura dell’Orfeo di epoca classica, o quella di Adamo che si trova nei mosaici di Siria, in scene con lo stesso rimando a un mondo pacificato frutto della venuta dell’Emanuele-Cristo.
B. I mosaici del territorio diocesano Le due composizioni musive della metà del secolo erano state precedute dal lavoro di tre mosaicisti, Kiriakos, Nauma e Toma, che nel 536, al tempo del vescovo Elia, avevano decorato il pavimento della chiesa di S. Giorgio nel complesso costruito sul punto più alto dell’acropoli con riutilizzo di elementi architettonici di un tempio di epoca ellenistica. La chiesa occupava il settore orientale del complesso con ingresso a nord attraverso un cortile lastricato in relazione anche con alcuni ambienti di abitazione. Una porta la metteva in comunicazione con un vano rettangolare a sud. Il mosaico, anche se di modesta esecuzione tecnica, si caratterizza per la ricchezza compositiva dei motivi mutuati
dal repertorio classico che ne fa uno dei primi esempi della nuova tendenza che si imporrà nei mosaici della regone: le scene di caccia e di agricoltura, le personificazioni della Terra e delle Stagioni, la maschera fogliata, e il ritratto del benefattore Giovanni figlio di Ammonio nel pannello della navata settentrionale. Con i nomi dei vescovi di Madaba ricordati nelle iscrizioni dei mosaici, siamo riusciti anche a delimitare e determinare con un certa sicurezza il territorio della diocesi, che si estendeva a sud fino al wadi Mujib-Arnon includendo perciò nella steppa le rovine di Nitl, di Umm al-Rasas/Kastron Mefaa e di Dhiban, risalendo verso sud ovest si possono includere i villaggi di Qurayat, di Macheronte e di Ma‘in con le loro valli, fino a raggiungere a ovest il monte Nebo con le sue valli e propaggini verso la Valle del Giordano, a est perdendosi nella steppa. A nord il confine con la vicina diocesi di Esbous doveva forse includere il villaggio di Khattabiyah.
I mosaici sul Monte Nebo Sul Monte Nebo, oltre alla presenza della colonia monastica retta dal suo igumeno/abate, sviluppatasi in relazione con il Memoriale di Mosè e con la strada che vi conduceva i pellegrini, la ricerca archeologica ha evidenziato diversi edifici sacri al servizio della popolazione che abitava il villaggio di Nebo, che lavorava i giardini irrigati dalle sorgenti nella valle di ‘Uyun Musa o Fonti di Mosè a nord, e quelli nella valle di ‘Ayn al-Jadidah e di ‘Ayn al-Kanisah a sud. Edifici che hanno una tipologia comune che li distingue facilmente dal monastero, composti come sono da una piccola chiesa con un cortile e da un ambiente per abitazione della persona che se ne prendeva cura, con una o due cisterne per la riserva d’acqua. Tre chiese di questo tipo, sono state identificate e scavate a Khirbat al-Mukhayyat, identificato con il villaggio di Nebo, e due nella valle di ‘Uyun Musa. A Khirbat al-Mukhayyat, la chiesa di San Giorgio e la chiesa dei Santi Martiri Lot e Procopio sono costruite sulla parte alta dell’acropoli, la chiesa di Amos e di Casiseos si trova invece tra le rovine delle case dell’abitato sul versante orientale della montagna che degrada verso il Wadi ‘Afrit, la zona più riparata della montagna Eusebio di Cesarea nell’Onomastikon conosce con il nome di Nebo un villaggio in rovina a 8 miglia a sud di Esbus («sed et usque hodie desertus ostenditur locus Naba distans a civitate Esbus milibus octo contra meridianam plagam», On. 137,5). Il secondo riferimento si trova nella Vita Petri del v secolo. Il biografo di Pietro l’Ibero, raccontando l’origine del santuario di Mosè sulla montagna, lo mette in relazione con la visione avuta sul luogo della chiesa da un pastore del villaggio di Nabau abitato da cristiani. Per antichità e per le caratteristiche proprie, il complesso della chiesa di Amos e Casiseos potrebbe essere identificato con la chiesa parrocchiale al servizio delle famiglie del piccolo villaggio. Il complesso di Amos e Casiseos è composto dalla chiesa lastricata con cisterna sottostante, dalla cap-
pella settentrionale detta del Prete Giovanni, con propria cisterna, e da un piccolo vestibolo antistante la facciata, con l’aggiunta di un vano di abitazione a sud. A est del complesso, il livello era stato portato in quota con la costruzione di alcuni ambienti sottostanti con ingresso autonomo, probabilmente utilizzati a scopo funerario. Nel presbiterio absidato e rialzato della chiesa con i due piccoli ambienti di servizio sui lati, si notano gli incassi dell’altare, e quelli della tavola delle offerte nei pressi della balaustra. Nella cappella del Prete Giovanni, la rimozione del mosaico ha permesso di continuare la ricerca in profondità fino alla roccia della montagna chiarendone le diverse fasi costruttive. La cappella era stata costruita nella metà del vi secolo, al tempo del vescovo Giovanni di Madaba che sappiamo in sede nel 562, ingrandendo l’area di una cappella precedente mosaicata, che a sua volta coprì ambienti in relazione con la cisterna. Le prime tracce di uso sono costituite da un pavimento in battuto allettato su una riempitura che continua sotto la chiesa di Amos e Casiseos. L’ingresso era a ovest con gradini ricavati nella roccia della montagna. Nella riempitura risultavano cocci di epoca del Ferro (vii-vi a.C.) mischiati con tipologie ceramiche ellenistico-romane e bizantine che permettono di datare il pavimento in battuto al v secolo. Le fondazioni del muro nord della chiesa furono scavate in questo strato. In una fase successiva, nell’annesso fu ricavato un ambiente funzionale mosaicato a grandi tessere dove restava la vera della cisterna con l’aggiunta di due vasche in muratura. L’iscrizione che accompagna un motivo geometrico riferisce il lavoro al diacono Kaiomo. Un gradino divideva questo vestibolo utilitario dalla cappella per l’uso liturgico, costituita da una piccola aula mosaicata con presbiterio quadrangolare rialzato. Le basi delle 4 colonnine dell’altare fisso, inserite in un secondo tempo nel mosaico del presbiterio, sono l’unica traccia del mobilio liturgico della cappella. Con danni minori, si è invece conservato in tutta la cappella il mosaico policromo del pavimento. Nell’iscrizione dedicatoria si legge che il lavoro fu eseguito al tempo del vescovo Fido di Madaba, probabilmente verso la fine del v secolo, a giudicare dal mosaico che risulta uno dei programmi più antichi finora ritrovati nel territorio della diocesi di Madaba. Nel prebisterio come nell’aula il programma di base è ottenuto con due tralci di vite che fuoriescono da un cantaro ansato tra due animali in posizione araldica. I girali in entrambi i campi sono decorati con scene di caccia e di pastorizia resi con un certo disordine. Si fa notare l’ordine stravolto della lepre in fuga in un girale del presbiterio, e il cane che l’insegue figurato in un girale dell’aula. Sul piano figurativo risaltano nella navata il contadino con un bastone nella mano destra che trasporta l’uva a dorso d’asino, il vendemmiatore in atto di tagliare i grappoli con un ronchetto che depone in un cesto, lo zebù dalle corna lunate e i due capridi che inquadrano l’iscrizione in cerchio. Motivi che diventeranno comuni nei mosaici di epoca seguente. Al tempo del vescovo Giovanni, l’area fu completamente rinnovata con la costruzione della nuova cappella che occupò 167
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Alla stessa squadra di mosaicisti fu affidata la decorazione della chiesa dei Santi Martiri Lot e Procopio nel complesso costruito sull’acropoli al tempo del vescovo Giovanni. La chiesa che occupava il lato meridionale del complesso era preceduta a nord da un cortiletto lastricato e da un vano di abitazione. Il mosaico della chiesa resta ancora oggi uno degli esempi meglio conservati del gusto dei mosaicisti di Madaba nella metà del vi secolo. Sulla piattaforma rialzata del presbiterio, che manca della zona absidale, i mosaicisti avevano definito il riquadro dell’altare, affiancato da due volatili, e decorato lo spazio antistante con due pecore affrontate ad un alberello carico di frutti. La navata centrale, introdotta dall’iscrizione dedicatoria impaginata in una tabula ansata nei pressi del gradino del presbiterio, è pensata come un tappeto unico con le frange sui lati, suddiviso in due riquadri da una linea di triflidi. La decorazione del pannello quadrangolare occidentale è impostata su quattro alberelli carichi di frutti posti in diagonale con partenza dagli angoli. Coppie di animali si affrontano tra i tronchi nodosi: due cervi dalle lunghe corne che si dissetano ad una sorgente, due lepri, e una seconda coppia di cervi in gran parte distrutti. Sul lato di est due tori sono affrontati ad un altarino con fiamma accesa. La scena viene commentata dalla citazione del Salmo 51,21: «allora offri10
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frutti. La Terra, identificata da una iscrizione in greco, è personificata in una signora con la fronte inghirlandata di frutti e una corona sul capo che porge i frutti tenuti in un velo.
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in lunghezza tutto lo spazio disponibile ad una quota più alta di circa un metro. Verso est, la cappella fu estesa fino a raggiungere con il muro terminale dell’abside l’allineamento della parete orientale della chiesa, a nord la parete fu smontata e ricostruita ad un metro di distanza con l’aggiunta di un vano quadrangolare di servizio nell’angolo di nord ovest. La porta della cappella resa completamente autonoma rispetto alla chiesa, fu spostata sulla parete settentrionale. La decorazione del pavimento fu affidata a mosaicisti di Madaba che seguivano le nuove mode rese popolari durante il regno dell’imperatore Giustiniano. Del lavoro si è conservato in parte il mosaico dell’aula circondato da una fascia a meandro di svastica a formare nelle risulte dei quadrati nei quali con volatili furono inseriti i ritratti di alcuni benefattori al centro di ogni lato. Resta il busto di un ecclesiastico al centro del lato nord e il busto di una signora al centro del lato orientale. Il tappeto centrale era suddiviso in tre pannelli disuguali. Nel pannello orientale era inserita la lunga iscrizione dedicatoria con il nome del vescovo seguita da un timpano sorretto da quattro colonnine che inquadrava una seconda iscrizione con i nomi dei benefattori, con l’aggiunta di due candelieri con candela accesa tra le colonnine, una coppia di pavoni e di alberi sui lati, e di galli sugli spigoli del timpano. Nel pannello centrale, quattro serie di girali di acanto fastosamente realizzate con scene agricole, di pastorizia e di caccia inquadravano il busto della Terra generosa tra i due giovani carpoforoi con le braccia tese a reggere i cesti pieni di li
Pianta planimetrica della chiesa di San Giorgio di G. Ortolani.
ranno vitelli sul tuo altare. Signore abbi pietà di Epifania la poverina». Sei registri sovrapposti di girali formati da otto tralci di vite che originano da quattro cespi di foglie di acanto posti negli angoli decorano il secondo pannello. Nei girali sono raffigurate scene di pastorizia, di vendemmia e di caccia. Due pernici affrontate nei girali del lato di est ambientano le scene in campagna. Con la scena di pastorizia sono da mettere in relazione il cane accovacciato, il pastore ritratto in posizione di riposo, il giovane che con una lancia si difende dall’attacco di un orso e due pecore affrontate. Alla scena di vendemmia si riferiscono, il contadino in atto di tagliare un grappolo con la roncola con vicino il cesto di vimini per la raccolta, i due trasportatori d’uva con gerla sulle spalle o a dorso d’asino, la scena di genere della volpe in corsa, e i due giovani nel pressoio che pigiano l’uva accompagnati dal flautista. Seguono due scene di caccia con un giovane signore che ha lanciato il cane con collare dietro una lepre in corsa, e un personaggio armato di spada e arco che saetta una freccia contro un leone. Particolare cura fu riservata ai pannelli rettangolari dei cinque intercolumni superstiti quattro dei quali decorati con dettagli di scene nilotiche: due oche affrontate ad un fiore di loto, due animali marini con la lunga coda annodata affrontati ad un fiore di loto sul quale è posato un uccello, una scena di genere con volatili posati sull’acqua animata da pesci e dalle corolle di ninfee; un pescatore con l’amo seduto su una roccia ed un battelliere intento a remare che trasporta anfore raffigurati ai lati di un edificio nell’intercolumnio settentrionale. Nel vicino villaggio di Ma‘in, antico Ba‘al Ma‘on, che l’Onomastikon con il nome di Beelmaus descrive come un grosso borgo sulla strada che conduceva alle terme di Baaru, sono state identificati e in parte esplorati diversi edifici sacri. La chiesa più nota è quella costruita sulla cima dell’acropoli, con un ampio stralcio del programma musivo datato in epoca omayyade. Sul versante settentrionale della sella che divide le due colline sulle quali si era sviluppato il villaggio, nei pressi di una chiesa, due iscrizioni hanno conservato il ricordo dell’esistenza di uno xenion, un ospizio per i pellegrini, e quello di un pribaton, cioè di un bagno privato a pagamento costruito al tempo del tribuno e topotereta Flavio Martirio, due opere di servizio pubblico particolarmente apprezzate in una località dove transitavano malati che si recavano alle terme di Baaru. Le chiese di Ma‘in hanno conservato notevoli lavori dei lapicidi presenti nel villaggio, dove si cavava e ancora si cava materiale calcareo da costruzione che abbiamo trovato utilizzato negli edifici pubblici e privati di Madaba e nella basilica del Monte Nebo. I capitelli delle chiese di Ma‘in documentano un altro aspetto importante dell’artigianato della diocesi di Madaba. In generale si caratterizzano per un’ampia foglia stilizzata scolpita sugli spigoli, per lo più piana, qualche volta lavorata con l’aggiunta di nervature e di motivi floreali. Sulle facce del capitello il motivo più comune è la croce, resa in cerchio, su un’anfora, su un’asta, ma si trovano anche i motivi più vari, come anfore, dischi, palme, rosette, motivi floreali, motivi a intreccio, e figure animali, isolati o a coppie, come leoni, colombe, agnelli, teste di bue, pesci, serpenti avvinghiati. Nel villaggio di Dhiban, antico Dibon, «grosso borgo presso l’Arnon» come lo descrive l’Onomastikon (On. 76, 17),
gli archeologi hanno riportato alla luce un complesso ecclesiastico composto da una chiesa a nord con diaconicon, e da un battistero a sud uniti da un cortile lastricato. Tracce della presenza cristiana sono risultate dallo scavo di alcune tombe del cimitero. Tre chiese sono state identificate e scavate tra le case del villaggio di Mekawer che conserva il nome della fortezza erodiana di Macheronte, ubicata sulla cima di Qal‘at al-Mishnaqa, dove fu imprigionato e decapitato Giovanni il Battista, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, xviii, 5, 1-2). Con il nome di Mechaberos, che ritorna anche in un episodio della Vita di San Saba scritta nel vi secolo da Cirillo di Scitopoli (Vita Sabae, lxxxi), il villaggio viene ricordato nella lista geografica di Giorgio Ciprio tra le località della Provincia Arabia (Descriptio, n. 1082). Un dettaglio amministrativo estremamente utile per inserire nella lista episcopale di Madaba il nome di un nuovo vescovo che compare per la prima volta in una chiesa del villaggio. Infatti, nello scavo della chiesa centrale tra le rovine del villaggio, con una croce astile in bronzo ritrovata nell’ambiente di servizio a nord dell’abside, fu recuperato anche il frammento dell’iscrizione dedicatoria nei pressi del gradino del presbiterio, con il nome del vescovo Malechios e l’inizio di una invocazione al Signore Gesù Cristo. Lo stile del mosaico piuttosto povero sul piano tecnico, non è un elemento sufficiente di datazione, però potrebbe essere ben ambientato tra i mosaici della prima metà del vi secolo. Il modo di scrivere le lettere delle tre iscrizioni che accompagnano il mosaico è vicino alle iscrizioni del gruppo più antico del Nebo e di Madaba. Malechios di conseguenza andrebbe, almeno temporaneamente, inserito tra il vescovo Elia, in sede nel 530 e nel 536, e il vescovo Giovanni, in sede nel 562. Un elemento interes-
Medaglione con i nomi dei mosaicisti Naum, Kyriakos e Tommaso, che hanno realizzato i mosaici di San Giorgio).
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La chiesa di San Giorgio sulla cima di Khirbat al-Mukhayyat (Città di Nebo). Opera dei mosaicisti Naum, Kiriacos e Tommaso, che la terminarono nel 536.
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sante è il pressoio per la vinificazione che si trova subito all’esterno della facciata della chiesa ad una quota più bassa, un dettaglio comune con altre chiese della diocesi. Recentemente, un esteso pressoio con annessa cantina costruito in epoca omayyade, è stato scoperto a Umm al-Rasas nel cortile della chiesa di San Paolo. Chiese sono state identificate e non ancora scavate nel villaggio di Qurayat, il primo villaggio tutto cristiano della diocesi ricordato nell’Onomastikon di Eusebio, e nel villaggio di Jumeil, identificabile con la località biblica di Beit Gamul menzionata in Geremia (48,23). Nella steppa orientale, un posto a sé nella ricerca lo hanno le località di Nitl e Umm al-Rasas. Le chiese dei due villaggi sono una ulteriore testimonianza per l’intensa attività edilizia che il territorio della diocesi visse nella seconda metà del vi secolo.
A nord di Madaba, gli esploratori ricordano una serie quasi continua di rovine di quattro villaggi di epoca bizantina chiamati in arabo kufeirat, che, data la vicinanza, crediamo da inserire all’interno del territorio. Di essi fa parte Kufeir al-Wkhyan, oggi noto con il nome di Faysaliah, il villaggio sviluppatosi tra Madaba e il Monte Nebo. Tra le case sono stati identificati almeno tre edifici cristiani, una cappella funeraria, un probabile monastero mai scavato sul punto più alto dove fino a qualche anno era ancora in piedi la porta in pietra conosciuta dagli abitanti come l’Abu Badd, e le rovine di Deir Schlih, dove nei pressi di una costruzione, è stato scavato un pressoio per la vinificazione parzialmente ricavato nella roccia della montagna. Il più noto dei Kufeirat è Kufeir Abu Sarbut, da qualche anno noto con il nuovo nome di Khattabiyah. Tra le rovine furono identificati e in parte scava171
Iscrizione dedicatoria e timpano con iscrizione. Dettaglio nel tappeto della cappella superiore del Prete Giovanni a Khirbat al-Mukhayyat eseguito al tempo del Vescovo Giovanni (metĂ del vi sec.).
Volatile. Dettaglio della fascia dello stesso mosaico.
Mosaico del presbiterio e cane in corsa. Dettagli del mosaico inferiore della cappella del Prete Giovanni a Khirbat al-Mukhayyat messo in opera al tempo del Vescovo Fido di Madaba verso la fine del v secolo.
Nella pagina precedente: Il mosaico superiore della cappella del Prete Giovanni a Khirbat al-Mukhayyat messo in opera al tempo del Vescovo Giovanni di Madaba (metĂ del vi sec.).
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ti diversi edifici ecclesiastici. All’ingresso del villaggio, una chiesa del vi secolo, fu cambiata in moschea in epoca mamelucca. Una seconda chiesa con i resti di un doppio pavimento mosaicato fu scavata al centro delle rovine. Un terzo edificio fu scavato subito fuori del villaggio. Nel mosaico decorato con motivi geometrici ad intreccio, restava una iscrizione con un rimando alla tomba dei Santi Padri Eustrazio, Magno e altri, che chiarisce la funzione funeraria e monastica della chiesa costruita sul sepolcro degli abati o dei padri più venerandi del monastero che sorgeva nelle vicinanze. Degli elementi architettonici provenienti dalle chiese del villaggio, notevoli sono alcuni capitelli corinzi in pietra delle cave di Ma‘in nei quali la croce in rilievo sostituisce il motivo del caulicolo normalmente reso con un frutto o con un fiore.
I mosaici nella valle di ‘Uyun Musa Dei due edifici finora scavati nella valle di ‘Uyun Musa, è stato possibile completare la ricerca soltanto nel complesso del Diacono Tommaso, ubicato lungo la strada che collega la strada romana con le sorgenti. Del complesso di Kaianos tra le vigne ci si è dovuti limitare alla sola navata centrale della chiesa. L’edificio quadrangolare che compone il complesso del Diacono Tommaso, si sviluppa su due terrazze: in alto, a nord, la chiesa con un cortile in facciata che una porta sulla parete meridionale metteva in comunicazione, ad una quota inferiore, con un cortile lastricato affiancato da una stanza mosaicata a est. La chiesa, di 16 metri per 12,70 metri, con presbiterio rialzato, fu costruita autonomamente rispetto agli ambienti aggiunti di sud e di ovest. L’aula ha due ingressi, con una porta in facciata e una porta di servizio sulla parete meridionale. Il programma decorativo, uno dei lavori meglio conservati dei mosaicisti di Madaba, è suddiviso in due zone, con motivi del repertorio figurativo nella parte centrale della chiesa messi in risalto dai motivi del repertorio geometrico sui lati, iniziando dagli intercolumni. L’area sopraelevata del presbiterio è decorata con quattro alberelli carichi di frutti, sovrapposti a coppie su due piani con l’aggiunta di un leone affrontato a uno zebù nei pressi della balaustra, e un ariete al centro della composizione sotto l’altare aggiunto in un secondo tempo. Il tappeto unico dell’aula, chiuso nella spessa fascia di girali di foglie di acanto con volatili alternati a frutti e teste fogliate negli angoli, è suddiviso e ritmato da due tralci di vite con fuoriuscita da un cantaro ansato con piedistallo posto al centro del margine occidentale tra due pantere maculate. Le scene di caccia, di pastorizia e di vendemmia si susseguono nelle otto serie sovrapposte di tre girali ciascuna. I tralci terminano tra le fronde cariche di melegrane di tre alberi che chiudono la composizione. Ai piedi degli alberi un soldato, armato di spada e di scudo rotondo decorato con croce, attacca un orso, mentre un giovane contadino in perizoma raccoglie con la mano destra melegrane da riporre in un piccolo cesto che regge con la mano sinistra. Nella navata meridionale, all’altezza della porta che si apre 174
sul cortile sud, sul reticolo di linee di fiori si sovrappone un medaglione in corona con un simbolo cristologico, raffigurato da un’aquila ad ali spiegate resa frontalmente con il capo rivolto verso est affiancato dalle lettere a e w dell’alfabeto greco. Malgrado la vivacità compositiva d’insieme, a un esame più attento, i motivi singoli mostrano una certa rigidità formale, se messi a confronto con le scene di una composizione parallela come quella della chiesa dei SS. Lot e Procopio, la più vicina sintatticamente e iconograficamente. In tutte queste scene, specialmente nella resa del cane del pastore e nei tre leoni, risalta la qualità superiore di resa naturalistica degli stessi motivi nel mosaico dei SS. Lot e Procopio. Nelle facce dei tre leoni del Diacono Tommaso, la ricerca naturalistica forzata li cambia in una maschera grottesca. Rigidità formale e attardamento tecnico-stilistico della composizione mi portano a datare il mosaico della chiesa del Diacono Tommaso nella prima metà del vi secolo. Il mosaico della chiesa della valle si riscatta nella resa dei due capridi del gregge, della volpe che mangia l’uva dal canestro, e del cane in corsa che azzanna la gamba di un cervo, linearmente tra le cose più riuscite dell’opera. La chiesa di Kaianos occupava il lato settentrionale del complesso con ingresso a ovest. Dallo scavo risultò che la chiesa, costruita e mosaicata al tempo del vescovo Ciro su due tombe multiple sottostanti, era stata ricostruita e rimosaicata nella seconda metà del vi secolo a una quota più alta. In entrambi le fasi, la chiesa era a tre navate con il presbiterio quadrangolare. Del mosaico superiore è sufficientemente conservato il pannello della navata nei pressi della porta in facciata con il ritratto di tre benefattori: Fido, Giovanni e un anonimo cammelliere. Nel benefattore anonimo raffigurato come un arabo coperto da un perizoma con un mantello sulla spalla, e armato di spada e d’arco, con la frusta in mano, si può identificare un cristiano fiero delle sue origini, forse uno degli arabi federati al servizio dell’impero che dallo scavo di Nitl sappiamo presenti nel territorio di Madaba. Nel mosaico inferiore, con le iscrizioni in greco e in aramaico, la lingue parlata dalle popolazioni cristiane della regione, si sono conservati alcuni stralci figurativi della composizione che rimandano stilisticamente e tecnicamente al mosaico della cappella inferiore del Prete Giovanni di Khirbat al-Mukhayyat. I due lavori che mostrano caratteristiche comuni, come i visi frontali dai grandi occhi resi senza le sfumature ottenute con schegge di tessere, particolarità tecnica dei mosaici posteriori, furono messi in opera nella regione prima che si affermasse la cosiddetta rinascita giustinianea testimoniata nella diocesi di Madaba a cominciare dal 530 al tempo del vescovo Elia. Rispetto ai mosaici delle chiese di Madaba, nei mosaici di superficie delle chiese di Khirbat al-Mukhayyat e della valle di ‘Uyun Musa, riportati alla luce sotto il crollo dell’edificio, tutti databili al vi secolo, risalta la mancanza del danno iconofobo nei motivi figurativi, che invece è presente nei mosaici della basilica di Mosè sulla cima della montagna e nella cappella della Theotokos nella valle di ‘Ayn
Nella pagina a lato: Il mosaico inferiore della cappella del Prete Giovanni a Khirbat al-Mukhayyat messo in opera al tempo del Vescovo Fido di Madaba verso la fine del v secolo.
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al-Kanisah. Abbiamo tentato di spiegare questa evidenza con il fenomeno dell’abbandono di tali edifici nel primo periodo omayyade. Sul piano storico generale possiamo cioè affermare che la presenza di motivi figurativi nel mosaico di una chiesa può essere usato come evidenza archeologica per affermare che l’edificio era stato abbandonato in epoca omayyade prima della crisi iconofobica. Abbandono da porre in relazione con i postumi dell’invasione arabo-musulmana. Per non aver subito il danno iconofobico, sul Monte Nebo si è conservato un repertorio figurativo di straordinaria importanza per la rilettura e interpretazione iconografica di opere contemporanee meno fortunate scoperte a Madaba e a Umm al-Rasas, gli altri due centri di maggior attività degli artigiani mosaicisti del territorio diocesano.
Nei villaggi di Belemunta e Machaberos Un complesso simile a quelli ritrovati sul Monte Nebo è stato fatto oggetto di indagine nei pressi del villaggio di Ma‘in a sud ovest di Madaba, in località ed-Dayr. L’edificio, isolato ma non lontano dal centro abitato, è composto dalla chiesa a nord in comunicazione con tre ambienti addossati alla parete meridionale, uno dei quali funerario. Una lastra con gancio di ferro, ancora chiudeva la botola di ingresso alla tomba ipogea che spiega l’origine del complesso costruito, come si legge nell’iscrizione dedicatoria della navata centrale, per la salvezza e protezione di Teodoro gloriosissimo e illustrissimo, un funzionario dell’amministrazione imperiale. Complessi di questo tipo, che si ritrovano anche in altri villaggi della Provincia, furono costruiti per scopi per lo più funerari da famiglie benestanti.
La scuola di Madaba Il primo mosaico pavimentale fu scoperto a Madaba verso la metà degli anni ottanta del xix secolo. Dopo un secolo di nuove scoperte, questa particolare espressione d’arte risulta la meglio attestata nel territorio della città, con una continuità di opere che va dal v all’viii secolo d.C., che costituiscono una documentazione unica per la storia della diocesi e per la Provincia in generale. Le opere che abbiamo ricordato mostrano alcune caratteristiche comuni, se poste a confronto con i mosaici contemporanei delle aree vicine. Sul piano formale compositivo, i mosaicisti di Madaba prediligono il frazionamento delle grandi superfici con miniaturizzazioni di composizioni più vaste e articolate. Per cui i motivi delle singole scene sono resi singolarmente in girali di acanto o di tralci di vite. Sul piano tecnico-stilistico, una caratteristica che si nota nei mosaici del vi secolo, è la resa dei visi delle figure, sempre frontali, eseguiti con schegge di tessere per ottenere sfumature quasi pittoriche dell’incarnato. Caratteristica tecnica che manca nei mosaici più antichi, come nelle figure della cappella inferiore del Prete Giovanni al Nebo e del mosaico inferiore della chiesa di Robebos nella valle di ‘Uyun Musa. 176
Sul piano dei contenuti, la preferenza per le rappresentazioni architettoniche, le scene mitologiche che troviamo utilizzate negli edifici civili, contemporanee con le personificazioni classiche che decoravano i mosaici degli edifici sacri, come il Mare, la Terra, le Stagioni, le Tychai delle città, i Fiumi del Paradiso, le Maschere fogliate, testimoniano della rinascita del gusto classicheggiante che raggiunse la sua massima popolarità in epoca giustinianea. A questa corrente di gusto classicheggiante si rifanno le scene di pastorizia, di agricoltura e di caccia, i motivi di genere nilotico, come pure le composizioni sintattiche d’insieme che servono a inquadrare i motivi figurativi. Così il ricco repertorio riguardante la caccia si rifà alle scene di caccia privata dello stile cortese dell’epoca, e alle scene di venationes che rimandano alle rappresentazioni classiche della cattura e del trasporto delle fiere per i giochi dell’anfiteatro. Le scene di soggetto marino, con uomini in barca, pescatori con l’amo, pesci, uccelli e fiori acquatici, rimandano alle composizioni nilotiche di epoca classica. L’opera più completa di questo genere è la fascia nilotica di S. Stefano a Umm al-Rasas. Su uno sfondo paesaggistico marino-fluviale con città, flora e fauna che rimandano al Delta del Nilo, sono raffigurate delle barche a vela con a bordo amorini pescatori nudi con un copricapo a cono, intenti a remare, a tirare la rete, a pescare con la lenza, o fuori della barca, a tenere un palmipede catturato per il collo. Allo stesso contesto culturale letterario ed erudito del periodo sono da riferire i ricchi repertori di animali, uccelli e piante che sono il motivo più comunemente usato dai mosaicisti di Giordania. Dal loro esame si ricava una lunga lista di animali, di greggi e di armenti, di fiere e bestie esotiche dell’Africa e dell’Asia, fino agli elefanti, ai coccodrilli, alle diverse qualità di pesci, ai ricci, alle conchiglie e ai polipi di mare, con l’aggiunta di mostri marini di pura fantasia, di volatili di ogni specie, tra i quali non manca la mitica fenice dalla testa radiata, con una ricca varietà di fiori e di piante con i loro frutti. Una enciclopedia di storia naturale rivisitata e trascritta dai mosaicisti. Il mosaico di S. Stefano, a Umm er-Rasas/Kastron Mefaa, uno degli ultimi lavori datati dei mosaici di Giordania, fortunatamente completo malgrado i guasti iconoclastici, sta a testimoniare alla fine del periodo omayyade, la persistenza delle tematiche che si erano affermate progressivamente nei mosaici della regione. Come nei mosaici e negli affreschi contemporanei dei palazzi omayyadi dove, accanto al virtuosismo degli intrecci geometrici aniconici, troviamo scene figurative di un vivace naturalismo espressionistico e precisi riferimenti mitologici, anche nei mosaici contemporanei della chiesa di Ma‘in e della chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas sono presenti contemporaneamente l’intreccio geometrico aniconico, la composizione geometrica con motivi figurativi e lo schema a girali di foglie di acanto o di tralci di vite decorati con le scene tradizionali, oltre ai pannelli con i ritratti dei benefattori più insigni. Tematiche che non sono da vedere come dei semplici ricordi del passato, ma come continuazione e elaborazione di una tradizione artigianale e culturale mai interrotta dei mosaicisti che operavano nell’area che gli studiosi sono soliti onorare con il titolo di Scuola di Madaba.
Nella pagina a lato: Tappeto musivo nella navata centrale della chiesa dei Santi Martiri Lot e Procopio sulla cima di Khirbat al-Mukhayyat (metà del vi sec.) con scene di pastorizia, vendemmia e caccia.
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Trasportatore di uve. Dettaglio del tappeto della chiesa dei Santi Martiri Lot e Procopio a Khirbat al-Mukhayyat (metà del vi sec.).
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Caccia al leone. Dettaglio del tappeto della chiesa dei Santi Martiri Lot e Procopio a Khirbat al-Mukhayyat (metà del vi sec.).
Nelle pagine seguenti: Maschera fogliata barbuta nel tappeto centrale della chiesa del Diacono Tommaso nella valle di ‘Uyun Musa sul Monte Nebo (metà del vi sec.).
Maschera fogliata imberbe nel tappeto centrale della chiesa del Diacono Tommaso nella valle di ‘Uyun Musa sul Monte Nebo (metà del vi sec.).
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Le acque di Hammamat Ma‘in nel territorio di Madaba, note in epoca romano-bizantina come le Terme di Baaru.
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Nel contesto dei mosaici pavimentali dell’Impero e della Provincia, i mosaici della Scuola di Madaba, in un’area territorialmente limitata, risultano una preziosa testimonianza omogenea e raffinata del gusto classicheggiante provinciale
che si impose durante il lungo regno dell’imperatore Giustiniano. Negli edifici di culto cristiano, le tematiche classiche ricevettero un nuovo significato mutuato dalla visione biblico teologica della realtà.
GLI ARABI CRISTIANI DELLA PROVINCIA
Nella Passio dei martiri della Balqa, il governatore della Provincia Arabia Massimo chiede ai martiri: «Di che lingua siete? Greci, Romani o Arabi?» Nello scavo della Chiesa Occidentale di Tabaqat al-Fahil, identificata con Pella della Decapoli, città diocesi della Palestina Seconda nella valle del Giordano, la spedizione americana riportò alla luce un’epigrafe incisa sull’architrave di una tomba nella quale si leggeva: «Tomba di Giovanni figlio di Teodorico e di un secondo Giovanni, soldati dediti (al loro dovere), provenienti dalla regione della nazione araba. Eseguita al tempo della quindicesima indizione, l’anno 584 (521-22 d.C)». I due soldati entrambi di nome Giovanni «della nazione araba», avevano servito l’esercito imperiale al tempo di Anastasio e di Giustino. I loro parenti tennero a ricordare in una città di popolazione ellenizzata, come Pella, la loro origine etnica. In un mondo dove la cultura greca e romana da secoli aveva provato a unificare e a livellare civilmente e culturalmente popolazioni diverse, l’affermazione acquista un significato preciso di identità di cui andare fieri anche nella comunità cristiana, l’Ecclesia per sua natura universalizzante e lontana da simili preoccupazioni razziali ed etniche. È la stessa fierezza che si può notare nel mosaico superiore della Chiesa di Kaianos da noi scoperta nell’estate del 1983 nella valle di ‘Uyun Musa sul Monte Nebo. Il mosaico stilisticamente è databile alla seconda metà del vi secolo. Nel pannello figurativo della navata centrale, nei pressi della porta in facciata, sono raffigurati tre benefattori della chiesa: Fido, Giovanni e un soldato cammelliere, purtroppo anonimo, essendo andata distrutta parte della testa con il nome che certamente l’accompagnava. Il cammelliere, benefattore come gli altri due, seguito dal cammello bardato con sella, è rappresentato in piedi semi-nudo coperto solo da un largo perizoma, e un mantello gettato sulle spalle, con i calzari ai piedi, un grande arco a tracolla, e una frusta nella mano destra. Con
la mano sinistra tiene l’impugnatura di una grande spada che gli pende dal fianco. Il cammelliere di ‘Uyun Musa ricorda molto da vicino la descrizione dei Saraceni data da Ammiano Marcellino: «I Saraceni… tutti sono egualmente guerrieri, e si aggirano per varie regioni seminudi, coperti sino al pube da corti e variopinti mantelli militari, su veloci cavalli e snelli cammelli sia in pace che in guerra» (Historiae xiv, 4, 3). Descrizione ripresa e drammatizzata letterariamente da Girolamo nella Vita Malchi Monachi, ix (pl 23, 58): «Et ecce subito equorum camelorumque sessores Ismaelitae irruunt, crinitis vitatisque capitibus, ac seminudo corpore, pallia et latas caligas trahentes: pendebant ex humero pharetrae; laxos arsus vibrantes, hastilia longas portabant…» Un altro soldato, purtroppo mutilo, era raffigurato a cavallo con una lancia in mano nella navata settentrionale della stessa chiesa.
Epitaffio di due soldati «provenienti dalla regione della nazione araba», ritrovata nello scavo della Chiesa Occidentale di Pella (Tabaqat al-Fahl) nella valle del Giordano.
I due soldati di Pella e i due benefattori anonimi del Monte Nebo che si erano fatti raffigurare in costume storico nella loro chiesa, facevano parte della popolazione, che diede il nome alla Provincia Arabia, nota anche presso i Greci e i Romani con il nome di Arabi. I componenti delle tribù per lo più sedentarizzate e parte integrante della comunità nelle città e nei villaggi della Provincia, e da tempo dedite all’agricoltura, come all’artigianato e al commercio, conservavano, ciò nonostante, nomi, usi e costumi insieme con il tradizionale autogoverno tribale basato sulle famiglie rette dai loro shaikh, nell’ambito dell’amministrazione provinciale. Tribù che normalmente si riunivano in confederazioni, ciò che accresceva la loro forza e il loro prestigio con il controllo di un territorio che variava proprio in ragione del numero delle famiglie che ne facevano parte.
Le tribù arabe confederate La tradizione conservata dagli scrittori arabi (Hamza al-Isfahani e al-Mas‘udi) afferma che, al tempo dell’imperatore 183
Mosaico nell’aula della Cappella di Suwayfiyah ad Amman con la raffigurazione di un cammelliere arabo trasportatore (metà del vi secolo).
Nella pagina a lato: Tre benefattori ritratti nel mosaico superiore della Chiesa di Kaianos nella valle di ‘Uyun Musa. Con Fido e Giovanni è ritratto anche l’anonimo benefattore arabo raffigurato come un soldato cinto di un perizoma con la spada al fianco e l’arco a tracolla (metà del vi sec.).
Il mosaico superiore della Chiesa di Kaianos nella valle di ‘Uyun Musa sul Monte Nebo (seconda metà del vi sec.).
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L’iscrizione trovata a Namara a est del Jabal al-Druz con l’epitaffio in arabo scritto in caratteri nabatei di Imrualqays re di tutti gli Arabi sepolto nel 328. L’iscrizione è conservata nel Museo del Louvre a Parigi.
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Aureliano, furono le tribù arabe confederate dei Tanukh guidate dal re Gadhima, a opporsi allo strapotere dell’esercito di Zenobia di Palmira dei Banu Odhana, ai quali l’imperatore Aureliano diede il colpo finale liberando Roma da uno dei grandi pericoli corsi dall’Impero d’Oriente dopo Antonio e Cleopatra. L’alleanza di Aureliano con le tribù dei Tanukh non fu un caso isolato, perché aveva avuto dei precedenti ed ebbe un seguito importante nei secoli successivi. L’iscrizione di Ruwwafa nella penisola arabica con il ricordo di un tempio in onore degli imperatori romani Marco Aurelio e Lucio Vero fatto costruire nel terzo secolo dalla confederazione dei Thamud al tempo di Claudio Modesto governatore della Provincia Arabia, costituisce una testimonianza preziosa delle relazioni amichevoli intrattenute dall’autorità romana con le tribù arabe per il controllo del territorio. La fine dell’impero commerciale di Palmira i cui tentacoli giungevano molto lontano dando lavoro, occupazione e benessere alle tribù dalla penisola arabica al deserto siriano, portò uno squilibrio nella regione provocando l’ondata di nuove incursioni in territorio ro-mano delle tribù spinte dal bisogno. Incursioni testimoniate dalla catena di fortini costruiti al tempo di Diocleziano a difesa del territorio (Strata Diocletiana), e dagli scritti degli storici del iv secolo, che danno una immagine negativa delle popolazioni arabe a cominciare dai titoli con valenza negativa se non ingiuriosa. Per gli storici e scrittori civili, come Ammiano Marcellino e Libanio, come pure per la gran parte degli scrittori ecclesiastici, gli Arabi sono barbari, latrones, scenitae o nomadi. Ammiano Marcellino sunteggia lapidariamente: «Saraceni vita est illis semper in fuga. Saraceni tamen nec amici nobis unquam nec hostes optandi». Seguono gli scrittori ecclesiastici come Eusebio, Girolamo ed Epifanio per i quali gli Arabi-Saraceni-Ismaeliti e Agareni, se cristiani, sono anche eretici. «Arabia haeresium ferax», come scrisse Teodoreto di Ciro che pure è da porre tra i simpatizzanti, come Rufino, Socrate e Sozomeno, che vedono gli Arabi oramai cristianizzati come federati difensori dell’impero cristiano.
È l’epitaffio di Mar’alqays o Imrualqays, re di tutti gli Arabi, sepolto nel 328. «Questa è la tomba di Mar’alqays, figlio di ‘Amr, il re di tutti gli Arabi che cinse il diadema, che ha assoggettato i due Asad, Nizar e i loro re, che ha vinto i Madhhig in battaglia aperta – davvero! e senza difficoltà passò l’ingresso di Zarban davanti a Najran, la città di Shammar, che ha assoggettato i Ma‘add, che suddivise i suoi figli alla testa delle tribù, e affidò questi ai Persiani e ai Romani. Nessun re ha ottenuto tanto potere quanto lui – davvero! È morto nell’anno 223 (della Provincia), il 7mo giorno del mese di Kesloul. Bene (discenda) sulla sua discendenza!». Tenendo presente che i due Asad fanno riferimento a tribù della regione di al-Qatif e di Riyad, ricordati nel ii secolo da Tolomeo (Asatenoi e Thanouitai) come presenti nella penisola arabica, che i Nizar sono da mettere in relazione con i Tanukh, che i Ma‘add abitavano nell’Arabia centrale e i Madhhig e Najran si trovavano nell’Arabia meridionale, risulta che il territorio controllato da Mar’alqays re di tutti gli Arabi si estendeva dal golfo arabico fino a Namara nel Hauran, dallo Yemen fino a Hira in territorio persiano. Un potere suddiviso tra i figli posti a capo delle tribù confederate, al di qua e al di là dell’Eufrate, in territorio persiano e in territorio romano, evidentemente con una propria indipendenza e libertà di azione all’interno delle tribù dell’immenso territorio. Un particolare storico conservato dal Al-Kalbi spiegherebbe il perché la tomba del re si trovi a Namara quasi al limite del territorio della provincia romana di Arabia. Lo storico arabo ricorda che i Banu Lakhm, ai quali apparteneva Imrualqays, considerato il fondatore della dinastia regnante di Hira dopo Gadhimah e ‘Amr ibn ‘Adi, si chiamavano Namaru. La località, dove erano nati ‘Amr e Imrualqays, avrebbe preso il nome dalla famiglia dei capi della confederazione Tanukh emergente al tempo di Costantino. Per alcuni storici, Imrualqays e i suoi figli, sono forse da identificare con i soli tre re cristiani dei Tanukh ricordati dalle fonti arabe, cioè an-Nu‘man con i due figli ‘Amr e al-Harawi, ciò che spiegherebbe meglio la presenza della tomba di un re arabo cristiano in territorio romano.
Per il periodo costantiniano, il documento più importante è l’iscrizione in lingua araba ma in caratteri nabatei scoperta da R. Dussaud a Namara, a est del Jabal al-Druz, una località della Provincia Arabia e oggi conservata al Louvre a Parigi.
Al tempo di Giuliano, mentre Ammiano Marcellino scrive della rottura tra gli auxilia e l’imperatore, il retore Libanio di Antiochia si fa portavoce della diceria che fosse stato uno di questi ausiliari arabi a uccidere l’imperatore.
Rufino e gli altri scrittori ecclesiastici che ne scrivono con un certo compiacimento, raccontano l’exploit della regina araba Mawiya (Moavia in greco) insorta contro Valente nel territorio meridionale della Provincia, finché l’imperatore romano non acconsentì a far consacrare come vescovo degli Arabi un santo eremita, Mosè, che viveva in solitudine nelle vicinanze. Vicenda che, secondo Socrate, ebbe anche un seguito familiare nel matrimonio della figlia della regina araba con il magister equitum Victor che precedentemente era stato sconfitto. Quando nel 378, dopo la morte di Valente e la disfatta di Adrianopoli di Valentiniano, i Goti posero l’assedio a Costantinopoli, la regina inviò le sue truppe in aiuto della capitale dell’impero cristiano. Perché – spiegano gli storici – la tribù o confederazione tribale di cui era regina Mawiya, aveva siglato un foedus con i Romani prima che il marito morisse (il testo greco lo chiama spondai, convenzioni). Non è detto il motivo per cui la regina ruppe il patto e permise le incursioni in territorio romano, devastando arabici limites, cioè l’Arabia. La sola clausola che conosciamo del trattato di pace in seguito al rinnovo del patto, è l’elezione a vescovo della tribù di un eremita che viveva nelle vicinanze della sede abituale della regina, al confine tra la Palestina e l’Egitto, come scrive Teodoreto, probabilmente sulla costa settentrionale della penisola sinaitica. Un altro elemento topografico di localizzazione della sede della regina e della sua tribù è il fatto che la regina rifiutò la proposta imperiale di fare consacrare
Mosè dal patriarca Lucio di Alessandria, un ariano, e lo fece consacrare dai vescovi da lui esiliati. Le relazioni si deteriorarono al tempo dell’imperatore Teodosio fino alla rivolta della confederazione domata con le armi. La sconfitta significò la fine della supremazia dei Tanukh. Stando alle fonti arabe, alcune tribù dei Tanukh restate nel territorio dell’impero, furono al fianco dell’imperatore Eraclio nella campagna senza esito da lui intrapresa per la riconquista dell’Oriente dopo la pesante sconfitta subita dall’esercito bizantino nella battaglia dello Yarmuk nel 636. Pur restando cristiane, famiglie Tanukh servirono tra le truppe ajnad al servizio dei califfi omayyadi. Nel 780 furono però costretti ad accettare l’Islam dal califfo abbaside al-Mahdi che decapitò il loro capo Layth ben Mahatta in un incontro drammatico nel nord della Siria. L’episodio più notevole, all’inizio del v secolo al tempo dell’imperatore Arcadio (395-408), è il ricordo conservato da Sozomeno della conversione di un capo saraceno seguito dalla sua tribù dovuto all’intervento miracoloso di un monaco. «Poco prima del regno presente (di Valente, di cui ha parlato prima, o di Teodosio ii, quando Sozomeno scriveva?) i Saraceni cominciarono a diventare cristiani. Condivisero la fede in Cristo grazie alla frequentazione dei preti e dei monaci delle vicinanze che meditavano nei deserti circostanti, menando una vita buona e compiendo dei miracoli. Si dice anche che a questa epoca, tutta una tribù si volse verso il
Lo scavo delle rovine di Umm al-Rasas/ Kastron Mefaa nella steppa di Madaba.
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cristianesimo perché il suo filarco, Zokomos, era stato battezzato. Trovandosi senza figli, attirato dalla fama di un monaco, venne ad incontrarlo e sfogò il suo dispiacere. Infatti è di grande importanza procreare un figlio tra i Saraceni e io so che è lo stesso tra tutti i Barbari. Questi dunque, avendogli raccomandato di avere fiducia, gli fece coraggio e lo rimandò a casa sua dopo avergli promesso che avrebbe avuto un figlio se avesse avuto fede in Cristo. Siccome Dio fece passare la promessa nei fatti e gli fu accordato un figlio, Zokomos fu iniziato e trascinò i suoi sulla stessa strada. Si dice che da quel giorno, questa tribù divenne felice e ricca in uomini, e che essa fece paura ai Persiani e agli altri Saraceni» (Sozomeno, he, vi, 38). Nell’episodio, oltre che all’intervento dei monaci nella conversione degli Arabi, che seguono il loro shaikh nel farsi battezzare in massa, un motivo che ritorna spesso nelle vite degli asceti dell’antichità cristiana, è accennato anche al fatto che Zokomos con la sua tribù passò al servizio dei Romani nella difesa del confine contro i Persiani e le altre tribù. Come se l’alleanza politica con Roma andasse di pari passo con la cristianizzazione della tribù leader del gruppo tribale.
Particolari del mosaico nell’aula della Cappella di Suwayfiyah ad Amman.
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Il nome del capo Zokomos, che rimanda a Du’jum (il Potente), come soprannome di Hamata figlio di Sa’ad e nipote di ‘AmrSalih delle genealogie arabe, è un dato importante riguardante la tribù dei Banu Salih che successe ai Tanukh del iv secolo nella supremazia tra gli Arabi federati di Bisanzio. Di questa dinastia le fonti arabe ricordano i due figli di Du’jum, ‘Amr e ‘Awf e alcuni loro successori. L’assassinio del nipote di ‘Amr, Sabit figlio di Mundhir, presentato come un jabi, cioè un collettore di tasse, ucciso dal filarca Jabala (o Tha‘laba?) nel 502, significò l’inizio della supremazia dei Banu Ghassan al tempo dell’imperatore Anastasio. Della linea di ‘Awf, lo storico Hisham al-Kalbi si sofferma su Dawud (figlio di Habula, figlio di ‘Amr, figlio di ‘Awf), che fu un pio re cristiano: «Era un re aduso a intraprendere spedizioni di razzia. Diventato cristiano, si pentì, aborrì il versamento di sangue e intraprese una vita pia. Costruì un monastero e lo si vide portare sulle sue spalle l’acqua e la calcina dicendo: Non voglio che nessuno mi aiuti, così che i suoi vestiti si bagnarono e fu soprannominato al-Lathiq (l’inzaccherato). Quando aborrì il versamento di sangue e le uccisioni, la sua posizione si indebolì e divenne egli stesso bersaglio di razzie finché non fu ucciso da Tha‘laba ibn ‘Amr al-Akbar (della tribù dei Kalb) e da Mu’awiya ibn Hujayr (della tribù di al-Namir ibn Wabara)». La morte del re fu ricordata in poesia da un’elegia, di cui resta un verso solo, composta dalla figlia di Dawud, e da due versi di Tha‘laba il regicida. Dalle stesse fonti arabe sappiamo che alla corte di re Dawud, visse anche un poeta, ‘Abd al-’As della tribù Iyad. Sempre per gli inizi del v secolo, abbiamo il ricordo personale di Sinesio di Cirene. In una sua lettera del 404 lo storico fa riferimento a truppe di Arabi che viaggiavano in nave con lui verso Cirene. Dall’episodio, che conferma i dati che leggiamo nella Notitia Dignitatum riguardanti gli ausiliari arabi di guarnigione nelle diverse province dell’impero, si può inferire un coinvolgimento di tali truppe, presenti in Egitto, Fenicia, Palestina e Mesopotamia, in azioni militari nella Pentapoli Cirenaica.
Al tempo di Teodosio ii (408-450) si pone l’arrivo nel territorio dell’impero bizantino di un’altra tribù araba proveniente dall’impero persiano al di là dell’Eufrate. Accolta dal magister militum Anatolio che elesse il capo Aspebet filarco di Arabia, la tribù finì con lo stanziarsi nel deserto di Giuda, convertita con il suo capo dall’intervento miracoloso di sant’Eutimio che aveva guarito Terebon figlio dello shaikh. Dobbiamo a Cirillo di Scitopoli i particolari della carriera di Aspebet battezzato con il nome di Pietro, che fu in seguito consacrato «Vescovo delle tende» dal Patriarca Elia di Gerusalemme, anche lui della «nazione araba». Il vescovo Pietro/Aspebet fu un membro attivo e ascoltato del Concilio di Efeso, come risulta dagli Atti dell’assise conciliare. Cirillo, così come gli Atti del Concilio, chiamano il luogo nei pressi della laura di sant’Eutimio, dove si era stabilita la tribù, paramboles, il campo delle tende, di cui Pietro/Aspebet era vescovo. Racconta Cirillo, che conobbe Terebon ii, nipote di Aspebet: «Anatolio li fece entrare nell’alleanza con i Romani e confidò ad Aspebet il filarcato dei Saraceni alleati, in Arabia, di Roma». Un miracolo di sant’Eutimio al quale il filarca si era rivolto per aiuto, fu la causa della conversione in massa della tribù: «Stupefatti… di un miracolo così straordinario, i barbari credettero in Cristo e supplicavano di ricevere il sigillo nel Cristo. Il taumaturgo Eutimio comprese che la loro fede nel Cristo veniva dal fondo dell’anima; ordinò che si scavasse in un angolo della caverna una piccola vasca battesimale, quella che si è conservata fino ad oggi, e dopo averli catechizzati, li battezzò tutti nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo». Negli scritti di Teodoreto di Ciro, che ne fu testimone oculare, leggiamo il racconto del ruolo importante che ebbe san Simeone Stilita nella conversione di quelli che il vescovo teologo chiama Ismaeliti, utilizzando un termine biblico di onore che fu ripreso successivamente dal Corano e dalla tradizione musulmana che fa di Ismaele l’antenato abramitico degli Arabi. Al vescovo di Ciro dobbiamo anche un testo sulla natura degli Arabi non più barbari saraceni ma membri della Chiesa e ausiliari dell’impero cristiano: «Per quanto riguarda i nostri vicini, i nomadi (parlo degli Ismaeliti che vivono nel deserto e che non hanno la pur minima cognizione delle lettere greche), essi sono dotati di una intelligenza viva e penetrante e hanno un giudizio capace di discernere il vero e rifiutare il falso» (nella Graecarum Affectionum Curatio). Degli ultimi anni dell’impero di Leone (457-74), è l’episodio ricordato con disappunto e disapprovazione dallo storico Malco di Filadelfia. Amorkesos (Imrulqays/Mar’alqays), un intraprendente e deciso capo arabo, probabilmente del gruppo emergente dei Banu Ghassan, dal territorio persiano si mosse verso il sud della penisola arabica, facendo razzie in territorio romano. Riuscì anche a impossessarsi con la forza dell’isola di Iotabe nel golfo di Aqaba, cacciandone i funzionari di dogana bizantini per il controllo delle vie commerciali e carovaniere che via mare e via terra portavano i beni dell’oriente in territorio romano. Da questa posizione di forza, Amorkesos inviò nel 473 il vescovo della tribù Pietro presso l’imperatore con proposte di alleanza. La missione ebbe esito positivo, tanto che Amorkesos fu invitato dall’im189
peratore Leone a Costantinopoli dove ricevette il titolo di filarca e fu con grande disappunto perfino fatto sedere con i senatori della nobiltà cittadina. Per il fisco imperiale fu certamente una perdita, in quanto le entrate per 25 anni andarono non all’erario ma a Amorkesos e alla sua tribù. Per il cristianesimo bizantino fu una porta aperta sull’oriente. Dopo la missione di Theophilus Indus nell’Arabia del sud, sua terra di origine, al tempo di Costanzo, come raccontato da Filostorgio, al tempo di Zenone, gli storici ricordano la missione del mercante Sopatros presso il re di Ceylon e, al tempo di Anastasio, la missione del vescovo Silvano in Himyar. In questo contesto di contatti spinti verso il sud, si può leggere il riferimento dello storico arabo Ibn Qutaib (828-889) all’opera riformatrice di Qusayy, antenato di Maometto, portata a termine con successo nel santuario pre-islamico della Mecca: «Allora Qusayy marciò contro la Mecca e fece guerra contro Khuza’a con quelli che lo seguirono e Qaysar (Cesare, l’imperatore bizantino) gli inviò aiuti contro Khuza’a». Lucerna fittile decorata con viticci e un leone di epoca omayyade (viii sec. d.C.) trovata nello scavo della Chiesa Sud del complesso di San Sergio a Nitl.
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Il monachesimo, come viene sottolineato da tutti gli scrittori dell’epoca, ebbe un ruolo importante nella conversione ed educazione cristiana delle tribù arabe. Monachesimo per il quale gli Arabi musulmani dei secoli posteriori ebbero sempre un grande rispetto e venerazione: «Abbiamo dato a Gesù il Vangelo – si legge nel Corano Sura lvii, 27 –. Abbiamo posto nel cuore di coloro che lo seguono la mansuetudine e la misericordia. La vita monastica è stata da loro scelta – perché noi non l’avevamo prescritta – perché erano spinti dal desiderio di compiacere Dio». Abu Bakr, successore di Maometto, avrebbe preso congedo dalle truppe musulmane in partenza per la spedizione di Arabia e di Siria con questo ordine: «Quando entrerete in questa regione, non uccidete nessuno… e non spostate nessuna colonna sacra. Non offendete i monaci perché essi hanno scelto di lodare Dio… Se una provincia o un popolo vi ricevono, fate un patto con loro e rispettateli. Lasciateli governare con le loro leggi e i loro costumi… Lasciateli nella loro religione sulla loro terra». Verso la fine del v secolo, si registra un’insorgenza delle scorrerie delle tribù arabe all’interno del territorio romano che, dalle fonti arabe, sappiamo affidato alla confederazione dei Banu Salih federati dell’impero. Cirillo di Scitopoli ricorda bande armate che nel 491 riuscirono a raggiungere Emesa/ Homs e a metterla a sacco. Per l’anno 498, Teofane ricorda un’incursione dei Kinda in Palestina guidata da Hujr, fronteggiata dal duca Romanos, e un’incursione parallela dei Banu Ghassan guidati da Jabala che dalla Palestina si spinse fino alla penisola sinaitica. Cirillo racconta che per difendersi dagli Arabi nomadi San Saba chiese ad Anastasio di erigere un kastron a difesa della grande laura nel Wadi al-Nar. Inizialmente il duca Romanos riuscì a fronteggiare gli uni e gli altri, e con un atto di forza a togliere l’isola di Iotabe al controllo della tribù di Amorkesos. I proventi delle tasse ritornarono al fisco imperiale. Nel 502, Cirillo ricorda altre razzie di
Madikarib, fratello di Hujr, in Palestina. Gli storici, alla luce anche di quanto raccontato nelle fonti arabe posteriori, vi vedono una lotta tribale per il predominio territoriale, con i due gruppi emergenti dei Banu Ghassan e dei Kinda intenzionati a soppiantare i Banu Salih.
Il regno arabo dei Banu Ghassan (vi secolo) Nel vi secolo, infatti, il gruppo tribale emergente diventa la tribù dei Banu Ghassan del gruppo tribale Azd, provenienti dal sud dell’Arabia, cristiani ma di confessione monofisita. Ai demeriti dei Saraceni, un topos che gli scrittori ecclesiastici di formazione classica non dimenticano facilmente, si aggiunge ora anche la qualifica di eretici. Le testimonianze tendenziose di Procopio di Cesarea, Agazia, Menandro, Teofilatto, Agapio, Malalas, Teofane, Evagrio, Nonnosus e di Giovanni di Epifania – a parere di Irfan Shahid, uno studioso contemporaneo che ha ripreso in esame la documentazione a disposizione – possono però essere corrette nei pregiudizi e integrate nelle vistose lacune attingendo alle fonti contemporanee scritte in siriaco. Tra queste, al primo posto il vescovo Giovanni di Efeso, lo storico della dinastia dei Banu Ghassan, testimone degli avvenimenti narrati. Alla luce della narrazione del vescovo Giovanni, Procopio, lo storico di Giustiniano, risulta un denigratore sistematico sia dei principali alleati dell’impero, da lui spesso presentati come infidi e traditori (Banu Ghassan sul confine orientale, Kinda in Palestina), sia degli Arabi in generale, al di qua e al di là della frontiera, presentati come Saraceni, perciò nomadi incivili, ladroni pronti a razziare, nemici pericolosi. Procopio non spende una parola per il sacrificio a favore dell’impero di Jabala ben Harith, morto nella battaglia di Thannuris nel 528, e tace il ruolo sostenuto dai Banu Ghassan nella difesa del tratto di limes da Palmira ad Aila sul Mar Rosso, quando descrive le fortificazioni ordinate dall’imperatore per la difesa del tratto settentrionale del limes. Lo storico arabo Ya‘quby così narra l’ingresso dei Banu Ghassan nel territorio romano: «Essi vennero nella Balqa e chiesero ai Salih di permettere loro di installarsi nella regione alle stesse condizioni che essi avevano accettato dal loro sovrano, il re dei Romani, e perciò di avere gli stessi doveri e gli stessi privilegi. Il capo dei Salih che allora era Dahman ibn al-‘Imliq, scrisse al re dei Romani che allora era Nusher (Anastasio) che resiedeva a Antiochia. Il re rispose favorevolmente alla loro richiesta ma impose alcune condizioni. In questo modo, essi si stabilirono nel paese». Stando a questa testimonianza di epoca posteriore, i Banu Ghassan si stabilirono nella Balqa di Siria, cioè nel territorio che va dal Wadi Mujib/Arnon a Madaba e alla città di Amman, una delle zone più fertili della Provincia Arabia con il permesso dei Banu Salih e del governatore romano della Provincia, dallo storico confuso con lo stesso imperatore. Lo storico arabo Hamza racconta: «Lì dunque, Salih ben Holvan, sotto la cui clientela essi (i Banu Ghassan) avevano posto la loro residenza, impose un tributo ai Banu Ghassan. Sobeith, che esigeva il tributo, si presentò da Tha‘laba, figlio
di ‘Amr, figlio di ‘Awf, figlio di Dhojon, figlio di Hamata, e quando questi gli chiese di rimandare il giorno del pagamento, rispose: “Porta il tributo se è superiore (alla somma fissata); se è inferiore, ti toglierò la famiglia”». La risposta altezzosa provocò la rivolta dei Banu Ghassan contro i Salih e contro Roma, perché non più disposti a pagare il tributo pattuito. L’episodio è integrato dal racconto di Ya‘quby: «Un disaccordo sopravvenne tra essi (Banu Ghassan) e il re dei Romani a proposito del tributo che egli era solito prelevare. Un membro della tribù dei Ghassan chiamato Jidh‘, colpì un ufficiale del re dei Romani con la sua spada e l’uccise, fatto che diede origine al proverbio: “Accetta da Jidh‘ quello che Jidh‘ sceglie di darti”. Allora scoppiò la guerra tra i Romani e i Banu Ghassan che prima la portarono a Bostra, nella regione di Damasco e più tardi a Muhaffaf. Quando il re dei
Romani vide il loro coraggio e il loro valore in guerra, e la loro resistenza al suo esercito, si augurò di non averli contro. Così che, quando i Banu Ghassan gli domandarono la pace alla sola condizione che uno di essi fosse il loro capo, il re dei Romani accettò». Tra le condizioni di pace, dopo una guerra vittoriosa, i Banu Ghassan praticamente imposero a Roma l’espulsione dei Banu Salih dal territorio imperiale e il foedus con loro come unici alleati dell’impero. Lo storico arabo Hisham ibn Muhammad al-Kalbi precisa: «Questo avvenne durante un periodo di ostilità tra Roma e la Persia. Il re dei Romani temette che essi (i Ghassan) potessero allearsi con la Persia contro di lui. Perciò scrisse loro e cercò di tirarli dalla sua parte. Il loro capo allora era Tha‘laba ibn ‘Amr, il fratello di Jidh‘ ibn ‘Amr. E le due parti stipularono un accordo secon-
Veduta della valle del Monte Nebo.
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do il quale se un pericolo avesse minacciato i Ghassan da parte degli Arabi (Lakhmidi, alleati dei Persiani), il re dei Romani sarebbe intervenuto con quarantamila soldati romani; se invece un pericolo avesse minacciato l’impero, i Ghassan sarebbero intervenuti con ventimila soldati». Probabilmente il foedus fu siglato nel 502/3 alla vigilia della guerra contro i Persiani che durò fino al 506. La cronaca siriaca di Giosuè lo Stilita, ricorda nel 503 una scorreria dei Ghassan contro il campo dei Banu Lakhm di Hira in Mesopotamia alleati dei Persiani: «Anche gli Arabi del territorio greco, chiamati Beit Tha‘laba, si diressero verso la capitale di Na‘man (dei Banu Lakhm)…» Tha‘laba è quasi sicuramente il padre di Jabala, ed è lui che sigla il patto che sancisce la supremazia dei Banu Ghassan, anche se sono i suoi figli che dirigono in battaglia le spedizioni nelle quali la tribù è impegnata. Lo storico arabo Hamza tiene perciò a precisare che fu soltanto dopo la loro stabilizzazione all’interno del territorio siriano nei pressi di una sorgente chiamata Ghassan, che la tribù conosciuta con il nome del suo capo Tha‘laba prese il nome di Ghassan. Lo stesso trattato fu quasi sicuramente siglato con Harith il Kindita, noto nelle fonti greche come Aretas Thalabanes, perché anche lui marciò contro i Banu Lakhm alleati dei Persiani nel 503. In questo nuovo scenario la Palestina viene affidata ai Kinda, e l’Arabia ai Banu Ghassan. Sul piano pratico giurisdizionale, il filarca alleato dei Romani, da una parte, come shaikh tribale, era il capo riconosciuto della confederazione tribale dovunque i suoi membri abitassero, e nello stesso tempo, come filarca riconosciuto dall’autorità romana, era il comandante delle truppe ausiliarie che affiancavano il dux nel controllo militare della frontiera della provincia, con un’autorità limitata territorialmente. Infatti un editto di Giustiniano ricorda con il filarca dell’Arabia, anche un filarca della Phoenicia ad Libanum. Di conseguenza, lo storico Malalas può scrivere che l’imperatore Giustiniano nel 528 scrisse ai duci di Fenicia, di Arabia e di Mesopotamia e ai filarchi delle province rispettive: «Nello stesso tempo, sopravvenne una disputa tra il dux di Palestina, il silentiarius Diomede, e il filarca Areta (Harith ibn ‘Amr il Kindita). Areta, per paura, se ne fuggì verso il limes esteriore, verso la Persia. Appresa la notizia, Alamundaros il Saraceno (alleato) dei Persiani, essendosi gettato sul filarca dei Romani, e avendolo preso, lo uccise: questi aveva con sè 30.000 uomini. Venuto a conoscenza di questi avvenimenti, l’imperatore Giustiniano scrisse ai duci di Fenicia, di Arabia e di Mesopotamia e ai filarchi delle rispettive province di muoversi contro di lui e di inseguirlo, lui e la sua tribù. Subito giunsero Arethas il filarca (cioè Harith ben Jabala dei Banu Ghassan), Gnoufas, Na‘man, il dux di Fenicia Dionisio, quello dell’Eufratensis, Giovanni, il chiliarca Sebastiano con l’esercito di soccorso». A Tha‘laba successe Jabala che, si è voluto riconoscere nel filarca Atfar (da leggere Asfar, giallo, o Azfar, il vittorioso, come soprannome di Jabala) ricordato nella Storia Ecclesiastica di Zaccarias Continuatus, ucciso nel 528 durante la battaglia di Thannuris combattuta a fianco dell’esercito imperiale contro i Persiani: «(I Persiani)… progettarono uno stratagemma e scavarono diverse buche tra le loro trincee e 192
ne nascosero le imboccature esterne con pali triangolari di legno, lascandovi delle aperture. Quando l’esercito (nemico) giunse, non si resero conto in tempo dello stratagemma ingannevole, ma i generali entrarono nell’accampamento persiano a tutta velocità, e caduti nelle buche, furono presi prigionieri… Dell’esercito romano, quelli che erano a cavallo si girarono e fuggirono… ma i fanti che non riuscirono a fuggire furono uccisi o presi prigionieri. Atafar, il re saraceno, durante la fuga morì». Certamente Jabala era ancora vivo nel 519, quando fu scritta la lettera di Simeone di Beth Arsham sui martiri hiemariti a Simeone abbate di Gabbula: «Noi abbiamo scritto questa lettera alla Vostra Carità – si legge nel desinit – dal campo di Jabala, re dei Ghassanidi, nel luogo detto Gbita (Jabiyah sul Golan) nel mese di Tammuz di questo anno 830 di Alessandro (secondo l’era seleucida, luglio 519)». Alla mobilitazione generale contro Alamundaros del 528 voluta da Giustiniano, partecipa Areta figlio di Jabala (Harith ibn Jabala), che era succeduto al padre, come sappiamo anche da una iscrizione in arabo recentemente ritrovata sul Jabal Usays un centinaio di chilometri a sud est di Damasco: «Ibrahim ibn Mughira al-Awsy mi inviò al-Harith il re da Sulayman (nel)la fortezza, l’anno 423 (della Provincia, 528/29 d.C.)». La spedizione fu un successo, stando a quanto scrive Teofane: «Alamundaros fuggì verso una parte della Persia dove nessun romano era mai giunto. Essi (esercito romano e Arabi Federati) si impossessarono delle loro tende, e riportarono una folla di prigionieri saraceni, uomini, donne e bambini, e tutti i prigionieri romani che trovarono, così come cammelli, bestiame minuto, buoi, molta seta grezza e vesti. Bruciarono anche quattro campi persiani e fecero ritorno con una grande vittoria». Nel 529 sia il filarca di Palestina che quello di Arabia collaborano con le forze romane per sedare la rivolta samaritana. La pubblicazione nel 527 di nuove leggi da parte dell’imperatore Giustiniano che restringevano di molto i diritti civili di pagani, di eretici, di manichei, di ebrei e di samaritani, e la loro applicazione pratica, sembrano essere stata all’origine della insurrezione, quando le forze imperiali erano impegnate in Mesopotamia. In Palestina, i rivoltosi guidati da Giuliano ben Sabar eletto loro capo, massacrarono i cristiani e misero a fuoco chiese e monasteri provocando danni ingenti. Scrive Malalas: «Avendo appreso ciò, i capi della Palestina e il duca Teodoro il Camuso denunciarono subito l’audacia del tiranno all’imperatore Giustiniano. E marciando contro di lui con una grande forza, Teodoro prese con sé anche il filarca di Palestina. Nella guerra caddero 20.000 Samaritani. Gli uni si rifugiarono sulla montagna chiamata Argarizim, gli altri in Traconitide, chiamata la Montagna del Ferro. Il filarca saraceno (alleato) dei Romani si impossessò tra di loro, a titolo di bottino, di 20.000 giovani e ragazze. Tutti quelli che fece prigionieri, li vendette nella Persia e in India». Malalas ricorda la partecipazione del filarca di Palestina, senza darne il nome, e senza precisare se fu lo stesso filarca a partecipare ai due momenti della campagna militare in Samaria e nella Trachonitide. In Palestina, al filarca Harith il Kindita, era infatti succeduto Abukarib ben Jabala, un fratel-
lo di Areta, che ricevette il filarcato in cambio di un palmeto ceduto all’impero, che egli possedeva nella penisola arabica sul confine con la Palestina, come scrive Procopio. Tenendo presente che l’autorità del filarca era territoriale, come quella del dux della provincia, gli storici pensano all’intervento di Abukarib in Palestina nella repressione della rivolta, e a quello di Areta in Trachonitide con l’episodio dei prigionieri. Nel 536 Giustiniano emanò una legge (Novella 102) con la quale accresceva l’autorità del governatore civile della Provincia Arabia rispetto al dux o governatore militare dandogli il titolo di moderator con l’incarico di sovrintendere alla riscossione delle tasse. Con la nuova legge, la Provincia veniva ad avere tre autorità: il dux, il filarca e il moderator. Situazione che troviamo confermata, anche per la provincia di Palestina.
Areta il Patrizio e Filarca dei Saraceni Nei successi imperiali delle campagne militari in Mesopotamia contro Alamundaros il Kindita, un giusto merito andò alla partecipazione dei Banu Ghassan a fianco dell’esercito romano. Fu dopo queste due vittorie che l’imperatore Giustiniano innalzò Areta al rango di Re degli Arabi, gratificandolo del titolo di Patricio, il primo degli Arabi a ricevere un simile onore che comportava di essere chiamato dall’imperatore «padre mio». Teofane riporta la titolatura ufficiale: «jArevtaı oJ patrivkioı kai; fuvlarcoı tw`n Sarakhnw`n». Il Patrizio riceveva il titolo di paneufemos, gloriosissimo. Lo storico Procopio dà alla decisione imperiale, certamente inusuale e forse inaspettata nei circoli della capitale, una motivazione di strategia politico-militare: «Alamundaros, detenendo la posizione di re, regnava da solo sui Saraceni in Persia, e in qualsiasi momento era in grado di portare un attacco con tutto il suo esercito dovunque desiderasse in territorio romano. E né i capi delle truppe romane che chiamavano duci, né alcun capo saraceno alleato dei Romani, che chiamavano filarchi, era così potente con le sue truppe per opporsi ad Alamundaros; perché per le truppe stazionate nei diversi distretti non c’erano avversari alla pari dei nemici. Per questa ragione, l’imperatore Giustiniano pose alla testa del più grande numero possibile di tribù Areta figlio di Jabala, che già regnava sui Saraceni d’Arabia, e gli diede la dignità di re, cosa che non era mai stata fatta prima dai Romani». Senza urtare le suscettibilità dei filarchi delle altre province, ai quali restava l’autorità territoriale, e pur mantenendo la sua autorità di filarca di Arabia e di capo della confederazione dei Banu Ghassan, Areta verso il 530 ricevette dall’imperatore un’autorità che lo poneva a capo di tutti gli arabi federati dei Romani, in grado perciò, in caso di necessità, di fronteggiare adeguatamente la potenza dei Banu Lakhm guidati da Alamundaros, al servizio dei Persiani. Per quasi tutto il secolo, i Banu Ghassan costituirono la migliore difesa del confine orientale dell’impero, dal Mar Rosso all’Eufrate, malgrado l’inciso aggiunto da Procopio: «Tuttavia Alamundaros continuò a disturbare lo stato romano non meno di prima, se non più ancora, e Areta o fu estremamente sfortunato in ogni incursione e in ogni scontro, o cominciò subito a tradire». Tradimento o malasorte che egli
esemplifica con il risultato della battaglia di Callinico del 530, persa dall’esercito bizantino a causa di una ritirata degli Arabi federati: «Già erano trascorsi due terzi della giornata, e la battaglia era sempre indecisa. Quand’ecco che, di comune accordo, tutti i più valorosi dell’esercito persiano si lanciarono insieme contro l’ala destra dei nemici, dov’erano schierati Areta e i Saraceni. Questi, allora, rompendo la falange, si divisero in due parti, tanto da dare l’impressione di volere abbandonare il destino dei nostri nelle mani dei Persiani, e, senza opporre resistenza agli assalitori, si diedero tutti alla fuga». Da Malalas sappiamo che Areta aveva partecipato alla battaglia con 5.000 cavalieri, che due capi arabi morirono, e inoltre che «Dopo che i Frigi videro il loro esarca Apscal cadere e il suo stendardo catturato, si diedero alla fuga, e i Saraceni alleati dei Romani fuggirono con loro, ma altri continuarono a combattere insieme con Areta». Affermazione che ridimensiona o mette in discussione l’affermazione perentoria di Procopio. Di fatto Alamundaros nel 531 iniziò delle trattative che portarono alla firma di un trattato di pace (la Pace Perpetua) nel 532. Un’iscrizione sulla diga di Marib ricorda ambasciatori inviati da Areta e da suo fratello Abukarib nello Yemen tra il 539 e il 543. Una spedizione armata del re di Axum, Ella Atsbeha contro l’ebreo Dhou Nowas persecutore della comunità cristiana di Najran nel regno di Saba, aveva portato sul trono Sumayfa. Questi, a sua volta, era stato detronizzato da Abraha, l’estensore dell’iscrizione: «allora arrivarono l’ambasciata del re romano e una delegazione del re di Persia e un inviato di Mundhir, e un inviato di Harith ben Jabala, e un inviato di Abikarib ben Jabala». Anche qui i due filarchi di Arabia e di Palestina sono presentati come alleati e sostenitori dell’impero romano in un intervento diplomatico in difesa della comunità cristiana minacciata. Il confronto con il gruppo dei Banu Lakhm a difesa dell’impero ebbe il suo culmine nella vittoria di Calcide del 554, che gli storici vedono come il brillante risultato della decisione imperiale di concedere la regalità ad Areta. Quella che viene chiamata la Seconda Guerra Persiana (540-45) prese il via da uno scontro di frontiera tra i Banu Lakhm e i Banu Ghassan nel 539. Racconta Procopio: «Non molto tempo dopo, Cosroe, venuto a conoscenza che Belisario aveva cominciato la conquista anche dell’Italia… decise di trovare qualche pretesto per rompere i trattati di pace… Alamundaros, allora, movendo rimostranze ad Areta per avergli fatto dei torti circa i confini del suo paese, venne a conflitto con lui, nonostante i trattati di pace, e con questa scusa cominciò a fare incursioni in territorio romano… Quanto al territorio che veniva allora reclamato dai Saraceni soggetti all’una o all’altra parte, si chiamava Strata e si estendeva a sud della città di Palmira. Era una terra in cui non crescevano assolutamente né alberi né alcun altro prodotto agricolo, perché è eccessivamente riarsa dal sole, ma era da sempre limitata a scarsi pascoli per le greggi. Areta affermava che quel territorio era proprietà dei Romani adducendo come prova il nome stesso con cui da lunga data era da tutti indicato (infatti strata in lingua latina significa strada lastricata) e portava anche la testimonianza di scrittori antichi…». La controffensiva organizzata da Belisario fu guidata da Areta, che invase il territorio persiano a est dell’Eufrate riportando193
Iscrizione bilingue in greco e in arabo trovata a Harran nella Traconitide (Siria meridionale) che ricorda l’erezione del Martyrion di San Giovanni nell’anno 463 (568 d.C.) da parte del filarca Sharahil ibnThalemou... un anno dopo la spedizione di Khaibar.
ne un grosso bottino malgrado Procopio, facendosi voce dell’opinione comune, lo accusi di aver mandato a monte la spedizione con la sua latitanza dopo la razzia. Gli scontri tra i due gruppi tribali continuarono. In una razzia, «Alamundaros riuscì a catturare uno dei figli di Areta, mentre pascolava cavalli, e immediatamente lo sacrificò ad Afrodite. Questo incidente dimostrò chiaramente che Areta non aveva tradito i Romani nell’interesse dei Persiani. Più tardi essi si scontrarono con tutto l’esercito in una battaglia in cui le forze di Areta furono decisamente vittoriose e sterminarono molti nemici dopo averli volti in fuga. Poco mancò che Areta riuscisse a prendere vivi due figli di Alamundaro, ma essi gli sfuggirono». Gli scontri terminarono nel 554 con la battaglia di Chalcis (Qinnasrin) nella Siria settentrionale. Racconta Michele il Siriano: «Nell’anno 27° di Giustiniano, Mondar (Alamundaros figlio) di Saqiqa invase il paese dei Romani e devastò molte regioni. Heret (Areta) figlio di Jabala, lo raggiunse, gli diede battaglia, lo vinse e lo uccise, alla sorgente di Udaye, nella regione di Qinnasrin. Anche il figlio di Heret, chiamato Jabala, morì, essendo stato ucciso in combattimento. Suo padre lo seppellì in un martyrion di questo villaggio». Con la neutralizzazione del pericolo incombente sul confine orientale, la vittoria condusse alla firma della tregua del 557 e alla pace con l’impero persiano del 561 fissata per 50 anni, il successo diplomatico più importante di Giustiniano al termine della sua lunga carriera al servizio dell’impero. Alcune clausole del trattato, conservato da Menandro Protector, riguardano i Saraceni: «I Saraceni alleati dei due stati sono obbligati da questi accordi. Quelli tra i Persiani non devono attaccare i Romani, né quelli tra i Romani (devono attaccare) i Persiani… Si stabilisce che i mercanti saraceni o altri barbari di uno dei due stati non devono viaggiare per strade sconosciute, ma devono passare per Nisibi e Dara, e non devono passare in territorio straniero senza un permesso ufficiale. Se tentano qualcosa di contrario a questo accordo… dovranno essere inseguiti dagli ufficiali di frontiera e consegnati per il castigo insieme con la mercanzia che portano, siano essi Assiri o Romani». Il ruolo attivo di Areta nell’espletamento del suo doppio compito di filarca di Arabia e di re degli Arabi nel mantenimento della pace nella Provincia romana difendendo le popolazioni dell’interno dalle incursioni di altre tribù, viene raccontato dalle fonti dell’epoca. Cirillo di Scitopoli, nella Vita di
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sant’Eutimio ricorda come dopo il 544, Areta dovette scontrarsi con il filarca Asuades (Aswad), probabilmente shaikh di una tribù federata: «i due filarchi dei Saraceni alleati dei Romani, Areta e Asuades, si facevano una guerra implacabile». Non è specificato il motivo di questi scontri. Lo storico arabo Ibn Qutayb, ricorda una campagna militare contro l’oasi giudaica di Khaybar nel Hejaz guidata dal re al-Harith ibn abi Shamir, dei Banu Ghassan. Basandosi sul testo arabo di una iscrizione bilingua trovata a Harran nel Laja, posta dal filarca Sharahil ibn Thalim nel 568, datata «all’anno dopo la spedizione di Khaibar», suggerisce di identificare il re della spedizione con Areta figlio di Jabala. Il testo greco recita: «Asareolos fglio di Talemo il filarca costruì il martirio di San Giovanni nell’indizione prima dell’anno 463. Ricordati (o Signore) di chi ha scritto». Nel testo arabo si legge: «Io Sharahil figlio di Thalim ho costruito questo martirio nell’anno 463 un anno dopo la spedizione di Khaibar». La visita trionfale di Areta a Costantinopoli, raccontata da Teofane, venuto nel mese di novembre del 563 a protestare per gli sconfinamenti dei Banu Lakhm in territorio bizantino, e per assicurare la successione del figlio al-Mundhir, fu il trionfo personale del re arabo che con la sua fermezza aveva messo le condizioni per la pace che resta la premessa storica per capire lo sviluppo economico impressionante al quale si assiste nella Provincia Arabia. La Provincia affidata ad Areta fu la beneficiaria maggiore di questo periodo di interesse imperiale per la regione, e del lungo periodo di pace, malgrado i dissidi teologici che nelle comunità cristiane opponevano Calcedonesi e Monofisiti.
Areta rahem al-Mashiha Una storia parallela è quella religiosa riguardante i rapporti tra l’autorità imperiale bizantina e i Banu Ghassan alleati ma fautori della confessione monofisita, posizione che fu causa di tensioni con il governo centrale che con ogni mezzo aveva tentato di ricondurre gli uni e gli altri nella fede ortodossa, come fece Giustiniano con Areta, come racconta Michele il Siriano, tramite il patriarca Efraim di Antiochia. Il Patriarca tentò di condurre il re arabo ad accettare la confessione ufficiale proposta dall’imperatore per riportare la pace nella chiesa che fu cortesemente e fermamente rifiutata: «Io sono un barbaro e un soldato, non so leggere le Scritture, tuttavia ti propongo un
esempio: quando comando ai miei servitori di preparare un festino per le mie truppe, di riempire le caldaie di pura carne di montone e di bue, e di cuocerla, se si trova un piccolo topo nelle caldaie, per la tua vita, Patriarca!, tutta quella carne pura è infettata da quel topo, sì o no?» Da monofisiti convinti, i filarchi e re degli Arabi protessero e si adoperarono a favore della loro corrente. Il re Areta, dalle fonti siriache presentato con il titolo di rahem al-mashiha, che traduce il filochristos greco (Colui che ama Cristo), intervenne personalmente nel 542 presso l’Augusta Teodora, moglie dell’imperatore Giustiniano e nota monofisita, perché due monaci di fede monofisita fossero ordinati vescovi da Teodosio patriarca di Alessandria in esilio a Costantinopoli: Teodoro a vescovo dei Saraceni, per la Hirta di Na‘man e Giacomo Baradeo a vescovo di Edessa alla cui attività apostolica si rifanno le chiese della Mesopotamia (i cristiani detti Giacobiti): «E, mentre il beato Teodoro esercitò la sua autorità nelle regioni meridionali e occidentali, e in tutto il deserto, in Arabia e Palestina, fino a Gerusalemme, il beato Giacomo estese il suo operato su tutte le regioni non solo di Siria e di tutta l’Armenia e della Cappadocia, ma anche di Cilicia, Isauria… fino alla capitale Costantinopoli» – si legge nella Vita di Giacomo e di Teodoro. Areta intervenne di nuovo nel 563, durante la sua visita a Costantinopoli, nella elezione dell’archimandrita Paolo, segretario di Teodosio, a patriarca monofisita di Antiochia, come racconta il re stesso in una lettera inviata a Giacomo Baradeo. Alla morte di Teodosio, Paolo si recò ad Alessandria, dove tentò inutilmente di succedere al Patriaca defunto. Di ritorno in Siria, dovette rifugiarsi nel campo di Areta: «e questi ordinò che il suo nome fosse proclamato nelle chiese degli Ortodossi (Monofisiti) – scrive Michele il Siriano –. Ora, gli Alessandrini erano scandalizzati non solamente a causa di Paolo, ma anche a causa del venerabile Mar Giacomo che l’aveva ordinato senza il consenso di tutte le province».
Durante la crisi triteistica che animò la vita della Chiesa negli anni Sessanta, e dopo due raduni infruttuosi ai fini della pace nel campo monofisita svoltisi a Costantinopoli e a Callinico, Areta invitò i vescovi Giacomo Baradeo e Teodoro, con il Patriarca Paolo, a recarsi in Arabia. Dal campo del filarca, i tre vescovi scrissero una lettera ai vescovi Eugenio e Conone, i due dissenzienti, per convincerli a ritrattare le loro idee e a firmare l’atto di sottomissione che affidarono al «cristofilo e glorioso patrizio Hareth e a quelli che erano con lui, uomini pii e illustri» perché la consegnasse con le proprie mani e persuadesse i due vescovi. Ma nemmeno Areta e i suoi collaboratori furono ascoltati, conclude una lunga lettera dei vescovi, che fa il punto della situazione, inviata alle chiese della regione e in particolare alle comunità dell’Arabia. Alla lettera risposero 137 archimandriti della Provincia di cui ci sono restate le firme dandoci una preziosa testimonianza per la ricchezza della presenza monastica nel territorio affidato alla protezione di Areta e di suo figlio al-Mundhir. La risposta era indirizzata «al popolo fedele amante di Cristo che abita in Arabia». Ne scegliamo alcuni delle località più note del Horan. Il primo a firmare è Teodoro prete e abate del monastero dell’Abate Marcellino della montagna di Harith, che firmò dopo che la lettera gli fu tradotta. Seguono Iliya, prete e abate del monastero di Beth Mar Stephen di ‘Aqrab (un luogo di residenza dei principi Banu Ghassan); Giorgio, prete e abate del monastero di Beth Hala (Hamza dice che fu costruito dal re ‘Amr ibn-Jafna); Tommaso, prete e abate di Tubnin/Tubna, località della Laja; Giorgio, che firmò per Mar Alos, prete abate di Beth Mar Sargis di Gabitha/Jabiya, dopo aver ricevuto la sua autorizzazione; Giovanni, prete e abate di Nahra d’Qastra, che firmò in greco di propria mano (identificato con Nahr al-Qusayr a nord est di Damasco); Giovanni, prete e abate della Montagna id Mahagga, che firmò di propria mano (una località del Horan nota anche a Yaqut come
Iscrizione araba trovata sul Jabal Usays, un centinaio di km a sud est di Damasco. Vi si legge che «(Io) Ibrahim ibn Mughira al-Awsi. Il re al-Harith mi ha inviato... nell’anno 423 (528 d.C.)».
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Un arabo agricoltore pota la sua vigna nella valle di ‘Uyun Musa sul Monte Nebo.
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luogo di pellegrinaggio); Khulayf, prete e abate del monastero di Kefar Shemesh, che firmò la lettera e si dichiarò seguace dei padri ortodossi che si riunirono a Nicea, a Costantinopoli, e a Efeso; Maron, prete e abate del monastero di Beth Ilana di Darayya, forse la località nella quale gli archimandriti si erano radunati; Elia, prete e abate del monastero di Safrin (un’altra residenza dei principi Banu Ghassan); Giovanni, prete e abate del monastero di Mar Paolo in Sakia (Sakka), che firmò per mano di Mar Stefano del monastero di Mar Salman dei Curdi; Leonzio, diacono e abate del monastero di Mar Sergio di Butsa, firmò per mano di Mar Manes; Halfai, diacono e abate del monastero del villaggio di Kusita (Kiswa), firmò per mano di Elia, prete e abate del monastero dei Curdi; Sergio, prete e abate del monastero di ‘Uqbata, firmò per mano del prete, Mar Eustazio, suo superiore, che è un prete della chiesa del glorioso filocristo il Patrizio Alamundaros (forse il monastero di Jabal al-Aswad). In aggiunta, nella lettera indirizzata dai vescovi radunati in Costantinopoli al clero di Oriente e nella loro risposta, compare anche «Giovanni l’archimandrita del
monastero degli Arabi» (Tayaye, cioè gli Arabi federati con i Romani), da localizzare nel territorio settentrionale della Siria nella regione di Antiochia. Nome del monastero che trova il suo corrispondente con «Antioco archimandrita del monastero degli Arabi», che con gli abati di Oriente, riuniti a Mar Bassos in Bitabo, firma la lettera contro il Triteismo. Al tempo di Giustino ii (565-78), suo figlio al-Mundhir, che, nella linea religiosa del padre Areta, viene ricordato per la prima volta nella lettera inviata dagli archimandriti della Provincia Arabia («Mar Eustazio, suo superiore, che è un prete della chiesa del glorioso filocristo il Patrizio Alamundaros»), divenne il protettore naturale del Patriarca Paolo, quando questi nel 572 fuggì di prigione, dove Giustino lo aveva rinchiuso per aver ritrattato la formula calcedonese che prima aveva accettata: «Poi fuggì e si recò nel territorio di Arabia dove si nascose, con la complicità della corte di Mondir figlio di Harith». Con la mediazione del re, Paolo si riappacificò con Giacomo Baradeo, prima di recarsi in Egitto: «Dopo tre anni, fu ricevuto dall’anziano Giacomo Baradeo su preghiera di Alamundaro, figlio di Jabala». Il re dovette anco-
ra una volta intervenire nella disputa tra le due fazioni, Paulinisti e Giacobiti, che scissero la comunità di Antiochia, dopo che Giacomo Baradeo aveva accettato la decisione di Pietro nuovo Patriarca di Alessandria di deporre Paolo. «Al-Mundhir figlio di Harith re degli Arabi – scrive Giovanni di Efeso – fedele, zelante e appassionato, si diede da fare esortando e pregando le due parti perché, messe da parte l’ira e le contese, si riunissero e dopo aver discusso, facessero pace». Purtroppo la mediazione non ebbe successo. Il re continuò a fare opera di pace, trovando nell’imperatore Tiberio un alleato altrettanto ben disposto, quando nel 580 fu invitato a Costantinopoli. Lì presiedé una conferenza di tutte le fazioni monofisite, convincendoli a trattare e a lavorare per l’unione e la pace. «Il concilio si sciolse in pace e con gioia, con tutti che rendevano grazie a Dio e all’illustre Alamundaros». Inoltre, come abbiamo già detto, Al-Mundhir intervenne direttamente presso Tiberio a favore delle comunità monofisite di Oriente, ottenendone un decreto imperiale con il quale si permetteva a tutti di lodare Dio in libertà e di riunirsi dove volevano. Anche dopo la dissoluzione del foedus, il campo di Jabiya sul Golan, sede della corte dei Banu Ghassan, divenne un luogo di rifugio per gli esuli monofisiti e una sede sicura dove incontrarsi per appianare le differenze dottrinali, come si racconta del filarca Jafna che assistette alla riunione di Damiano, Patriarca di Alessandria che aveva riaperto la controversia dottrinale, con Pietro Patriarca di Antiochia. Pietro racconta in una lettera le discussioni per fissare la località dell’incontro. Dopo che Damiano aveva rifiutato di incontrarsi nel monastero di Gubba Barraya, nel nord, perché distante e nel deserto (un luogo barbarico!), Pietro propone: «Per me, io penso che l’Arabia sia un luogo adatto per incontrarci, a causa del timore di quelli che la governano». Gli altri proposero Antiochia. Molti fecero notare che non era possibile perché in quanto monofisiti non erano ben accetti nella città. Questi allora si impegnarono formalmente (dicendo): “Andremo dal papa (Patriarca di Alessandria) in Arabia”. E (io dissi): “Io andrò dove voi volete”». Dopo altre discussioni: «Pressati da noi e dal glorioso filarca, (gli Alessandrini) si riunirono con noi per la seconda volta nel tempio di Mar Sergios a Gabita (Jabiyah)». L’incontro che si prolungò in discussioni senza fine, terminò con un nulla di fatto: «Il filarca e i suoi non riuscirono a imporgli il silenzio, così che i discorsi si dilungarono… Il filarca, che aveva fretta di tornare (a Manbij/ Hierapolis nel nord, da dove era venuto per partecipare all’incontro) presso i suoi soldati, disse: “Siete d’accordo di rendervi al luogo da noi stabilito? Se no, lasciatemi ripartire”. Allora il papa cercò dei pretesti a proposito delle persone. Il filarca rispose: “Non è conveniente che siate corretti da noialtri laici”. E siccome il papa non si lasciava persuadere, e non accettò il testo che egli aveva scritto a proposito della località, il filarca se ne andò infuriato». Alla luce di questi stretti rapporti tra la famiglia dei filarchi e le comunità monofisite di Siria, Arabia e Palestina, si può capire l’invocazione aggiunta sul margine di un manoscritto siriaco trovato a Nabk, a nord di Damasco, scritto al tempo dei vescovi Giacomo e Teodoro, quando Abu Karib era re:
«Possa il Signore, con le loro preghiere (dei due Vescovi) avere pietà del re Abu Karib e dei suoi fratelli credenti (in Cristo). E possa tu, o Signore, riportare l’errante tra di loro alla conoscenza della verità».
Alamundaros figlio di Areta Alla morte di Areta nel 569 gli successe il figlio al-Mundhir, Alamundaros in greco, che rispose con ardite decisioni personali alle provocazioni dei Banu Lakhm. Giovanni di Efeso ricorda la morte del re Areta nel contesto della iniziativa di guerra decisa da Kabus, il nuovo re dei Banu Lakhm, che invase il territorio romano rompendo il trattato della pace firmata anni prima da Amru: «Quando si venne a sapere che Harith il re degli Arabi (federati dei Romani), che gli Arabi (federati dei Persiani) molto temevano, era morto, disprezzando e disdegnando tutti i suoi figli, i nobili e l’esercito, già pensavano di avere in mano tutti i suoi accampamenti». Lo storico monofisita in tutto il racconto drammatizza gli attacchi e i contrattacchi dei due contendenti, dai quali Alamundaros esce sempre vittorioso come un eroe cristiano che combatte le battaglie della Croce. L’invasione di Kabus si risolse in una sconfitta quando Alamundaros rispose contrattaccando e prendendo di sorpresa l’esercito nemico. Kabus fu costretto a fuggire montando un cavallo, lasciando il campo nelle mani del re dei Banu Ghassan con la sua tenda, tutto il bagaglio, alcuni parenti e mandrie di cammelli. Alamundaros decise di inseguirlo in territorio persiano attraversando l’Eufrate e fissando provocatoriamente la tenta diventata sua nelle vicinanze di uno dei campi principali dei Banu Lakhm, facendo razzia in territorio nemico. Kabus, dopo un certo periodo, secondo Giovanni di Efeso, sfidò di nuovo Alamundaros con un messaggio per una battaglia in campo aperto: «Accetta la battaglia… anche se sei venuto come un brigante contro di noi, e pensi di averci vinti, noi veniamo contro di te in battaglia allo scoperto». Al che Alamundaros avrebbe risposto sprezzante: «Non ti scomodare, perché sto venendo», attaccando di sorpresa l’esercito nemico e sbaragliandolo. Due grosse vittorie, nelle quali gli scrittori cristiani videro l’aiuto di Dio e dei suoi santi, che furono però l’inizio della sua rovina politica, quando il re arabo per proseguire la guerra, chiese un finanziamento supplementare per le sue truppe all’imperatore Giustino. Lo storico Bar Hebreus così racconta gli avvenimenti: «In quel tempo (durante il regno di Giustino ii (565-78), c’erano due campi tra gli Arabi (Tayyaye, in siriaco), quello di Mundar Bar Harath che era cristiano e i cui soldati erano cristiani dalla parte dei Romani, e quello di Kaboz dalla parte dei Persiani. Kaboz essendo venuto contro gli Arabi cristiani, prese tutti i loro greggi, e le mandrie di cammelli e se ne fuggì. Mundar riunì un esercito, marciò contro di lui e lo batté; e ritornò con una grande quantità di ricche spoglie e di cammelli. Kaboz l’attaccò di nuovo, fu battuto e andò a chiedere rinforzi presso i Persiani. Allora Mundar informò Giustino e gli chiese dell’oro per pagare le sue truppe in modo che potessero di nuovo opporsi ai Persiani. Allora Giustino decise di uccide197
L’iscrizione del monastero di Qasr al-Hayr al-Gharby con l’acclamazione di lunghi anni di vita a Flavio Areta Patrizio.
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re Mundar come se egli fosse stato la causa per cui i Persiani invadevano il territorio romano». L’imperatore, non solo rifiutò la richiesta, ma ordinò al magister militum di eliminarlo fisicamente come un pericolo per l’impero. Per una coincidenza, l’ordine imperiale fu intercettato da Mundhir («Così, le mie fatiche e tutto quello che ho fatto per la terra dei Romani, mi si retribuiscono con il taglio della testa? Era questo che meritavo?»). Offeso, il re arabo si ritirò con i suoi uomini nella steppa interna («con tutto il suo esercito se ne partì e se ne stette nel deserto»), lasciando liberi i Persiani e i Banu Lakhm di fare razzie nel territorio romano. Questi nel 573 invasero la Siria fino a raggiungere Antiochia, devastando e rubando. Le città di Eraclea e di Epifania (Hama) furono date al fuoco. Al tempo della reggenza dell’imperatore Tiberio ii (57478) ci fu la riappacificazione con l’impero che non durò a lungo. Nella primavera del 575, al-Mundhir, addolorato per quanto stava succedendo alle popolazioni cristiane di Siria, fece il primo passo scrivendo a Giustiniano, nuovo magister militum per Orientem, che era pronto a incontrarlo nella chiesa di S. Sergio di Rasafa, per rinnovare il foedus di alleanza. L’incontro avvenne nel martyrion davanti al sarcofago di argento con le reliquie del martire, un ufficiale dell’esercito romano messo a morte durante la persecuzione di Diocleziano. Ripreso il suo ruolo nell’impero, al-Mundhir ordinò una campagna contro Hira, la capitale dei Banu Lakhm, con l’intento di liberare i prigionieri cristiani e di punire le malefatte operate in territorio romano durante la sua assenza. Fu un altro successo che terminò con la presa della città e la sua distruzione con il fuoco. Furono risparmiate solo le chiese cristiane. Pose la tenda al centro della città e vi stette per cinque giorni prima di prendere la strada del ritorno carico di bottino e con i prigionieri liberati. «Molte ricchezze furono distribuite ai monasteri e alle chiese degli ortodossi (monofisiti)» conclude Giovanni di Efeso. Tiberio, restato solo imperatore nel 578, a sua volta condusse delle campagne militari contro il territorio persiano. Scrive Michele il Siriano: «Maurizio radunò di nuovo gli eserciti dei Romani con Mondar e gli Arabi loro federati, e invasero le regioni della Persia. Bruciarono, e razziarono, presero numerosi prigionieri e ricchezze, e se ne tornarono». Al-Mundhir raggiunse l’apogeo del suo regno quando nel 580 fu invitato da Tiberio a Costantinopoli. L’imperatore ricevette lui e i suoi due figli che lo avevano accompagnato con i mas-
simi onori, dandogli anche il diadema regale, un fatto inusitato, annota Giovanni di Efeso, perché mai un capo degli Arabi federati ne era stato insignito. Nella capitale, il re arabo, convinto monofisita, fece anche da mediatore per riportare la pace tra i vescovi Giacomo e Paolo, i due capi dei Monofisiti, e usò la sua influenza per chiedere all’imperatore calcedoniano di cessare la persecuzione contro i membri della comunità monofisita. Tornato nella Provincia, al-Mundhir guidò un’altra campagna contro i Banu Lakhm, seguita da una missione congiunta con l’esercito imperiale, con a capo il duca Maurizio, contro Ctesifonte, la capitale dell’impero persiano, programmata per l’autunno del 580. La spedizione guidata da al-Mundhir e spalleggiata da una flotta che scendeva lungo il fiume, iniziò a Circesio e proseguì via terra con l’esercito che marciava sulla sponda occidentale del fiume (la via del deserto di Arabia), con l’intenzione di attraversare l’Eufrate all’altezza di Ctesifonte. Giunti al «grande ponte» previsto per l’attraversamento, lo trovarono distrutto e il generale romano accusò al-Mundhir di aver proditoriamente preavvisato i Persiani che, come contromossa, avevano invaso a nord il territorio romano in Mesopotamia puntando verso Edessa e Callinico, alle spalle dell’esercito bizantino. Maurizio dovette interrompere la spedizione e risalire verso il nord, dopo aver dato ordine di dare fuoco alla flotta, ostacolato nella risalita dall’intervento dei Banu Lakhm. L’unico successo della campagna fu la vittoria in uno scontro nei pressi di Callinico, al quale partecipò anche l’esercito federato di al-Mundhir, che secondo gli storici monofisiti fu determinante. Di ritorno nel suo territorio, dovette fronteggiare un nuovo attacco nemico, dal quale uscì ancora una volta vincitore, utilizzando l’arma tattica della sorpresa che era il suo modo di condurre la guerra. Ma il fallimento della campagna sfortunata contro Ctesifonte, dagli storici greci attribuita al tradimento di al-Mundhir, significò la sua rovina. Al-Mundhir si era scelto come difensore presso l’imperatore contro le accuse mossegli da Maurizio, un amico, Magnus un alto ufficiale dell’impero nato a Hawwarin con cariche importanti ad Antiochia. In realtà cadde in una trappola, perché Magnus a Costantinopoli ricevette ordini dall’imperatore di imprigionare il re arabo. Tornato in Siria, Magnus lo invitò a partecipare a Hawwarin (Evaria) alla dedicazione di una chiesa, che egli vi aveva fatto costruire, presieduta da Gregorio, Patriarca di Antiochia.
Dopo averlo ricevuto con tutti gli onori, Magnus espose al re l’ordine dell’imperatore in un concitato colloquio riportato da Giovanni di Efeso: «Tu sei stato accusato e tu devi andare di persona per parlare in tua difesa e scolparti di queste accuse». Davanti alla resistenza del re, Magnus lo fece arrestare: «Se non vuoi andare di tua volontà, io debbo metterti in catene, farti montare su un asino e inviarti lì». Al-Mundhir si ritrovò «come un leone del deserto chiuso in una gabbia» conclude lo storico. Accompagnato sotto scorta, fu ricevuto con onore dall’imperatore a Costantinopoli, dove abitò agli arresti domiciliari con la moglie, due figli e una figlia a spese del governo. L’arresto di Mundhir provocò nel 581 la reazione irata del figlio Nu‘man che giunse ad assediare il campo di Magnus, che aveva teso il tranello al filarca, e poi si diede ad assalire il territorio della Siria e dell’Arabia. Racconta Giovanni di Efeso: «Le truppe arabe si sparsero e razziarono l’Arabia e la Siria, così come le regioni vicine, e misero insieme una immensa ricchezza e un bottino senza fine. Ritirandosi nel cuore del deserto, lì piantarono le loro tende in gran numero, e si divisero le spoglie, tenendosi sempre in guardia e pronti alla guerra, in allerta da ogni parte». Oltre alla collera per l’offesa fatta al loro filarca, nella rivolta ebbe un grande ruolo il fatto che, essendo venuto meno il filarcato, era venuto a mancare il sussidio che il governo imperiale assicurava alle tribù federate. Giovanni di Efeso fa dire ai filarchi Banu Ghassan: «Voi ci avete anche soppresso le forniture di grano, così che non abbiamo più i mezzi per vivere… Allora – continua lo storico – si mossero contro la città di Bostra e l’assediarono dicendo: “Rendici le insegne di nostro padre e tutti gli altri beni reali che sono depositati presso di voi. In caso contrario, noi stermineremo, bruceremo, massacreremo tutto quello che noi potremo, nella vostra città e nel vostro territorio”. Quando il comandante, che era un uomo di rango, sentì questo, si adirò, radunò le sue truppe e fece una sortita, disprezzando gli Arabi nomadi. Ma questi si misero in ordine di battaglia contro di lui, ebbero la meglio su di lui, e lo uccisero, lui e un gran numero dei suoi uomini. Quando i cittadini videro ciò, furono terrorizzati e inviarono loro degli ambasciatori, implorandoli di non darsi alla razzia, e noi, dicevano, vi renderemo quello che vi appartiene e prendetelo senza danno. Così essi gli portano i beni del loro padre a condizione che
si ritirassero nel loro campo nel deserto. Ma essi continuarono ancora per molto a razziare e a devastare tutto il paese d’intorno». Quando la notizia della rivolta giunse a Costantinopoli, Tiberio decise di inviare Magnus per eleggere a re degli Arabi un fratello di al-Mundhir e per catturare i figli di questi che si erano rivoltati. Venti giorni dopo l’elezione del nuovo re, Magnus morì. Venne a mancare anche Tiberio, e Maurizio divenne il nuovo imperatore. Nu‘man, il figlio di Mundhir, decise allora di recarsi a Costantinopoli per tentare una soluzione al conflitto che portasse alla liberazione del padre. Secondo Giovanni di Efeso, il nuovo imperatore gli prospettò due condizioni: di rinnovare il foedus di alleanza con i Romani riprendendo la lotta contro i Persiani, e di accettare la fede calcedonese. Non potendo accettare la seconda condizione, Nu‘man decise di lasciare Costantinopoli. «Mentre era in cammino, anche lui fu catturato e inviato in esilio con Mondar suo padre». Lo storico Evagrio, un contemporaneo, scrive che padre e figlio furono accusati di tradimento e del crimine di lesa maestà, e che al-Mundhir, poco dopo l’accessione al trono di Maurizio nel 582, fu inviato in esilio in Sicilia, dove lo seguì il figlio. Invano Papa Gregorio scrisse all’imperatore per la sua liberazione. Gli storici antichi e moderni, sono divisi nettamente in due opposte fazioni sul motivo dell’arresto. Evagrio e Procopio sono tra quelli che accreditano la tesi del tradimento dei Banu Ghassan. Giovanni di Efeso e Michele il Siriano ritorcono tutta la colpa su Maurizio. Le sue accuse infondate contro al-Mundhir e poi contro al-Nu‘man suo figlio avrebbero provocato la rivolta degli Arabi con conseguenze funeste per l’impero cristiano. Con questo atto venne meno il foedus dei Banu Ghassan con l’impero e anche la confederazione si sciolse. Diverse tribù preferirono attraversare l’Eufrate e passare in territorio persiano. Scrive Bar Hebreus: «Il regno degli Arabi si divise in 15 capi e la maggior parte di essi si alleò con i Persiani, tuttavia qualcuno di loro con i Calcedonesi. Altri deposero le armi e si stabilirono nelle città e nei villaggi del paese di Sen’ar e di Assiria, in Siria, e prosperarono fino a oggi nell’ortodossia (monofisita), come quelli che sono a Haditha, Hit, Ba‘ Arbaya, Qaryatain nella regione di Emesa, Nabk e in altri luoghi».
L’iscrizione del monastero di Qasr al-Hayr al-Gharby che ricorda la costruzione di una torre a opera del re Areta il filarca gloriosissimo.
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Maurizio tornò sulle sue decisioni, ma oramai il regno di Areta era stato indebolito e la coalizione dissolta, anche se alcune tribù arabe cristiane continuarono a combattere al fianco dell’esercito imperiale fino alla battaglia dello Yarmuk del 636 in difesa della Provincia e dell’impero. Alcuni storici hanno ipotizzato che l’Impero si sia rivolto ai Banu Jodh‘am per rimpiazzare i Banu Ghassan nella difesa del limes. Altri hanno visto nella rottura del foedus con la coalizione ghassanide la causa principale delle conseguenze disastrose per la sicurezza della Provincia di Arabia restata senza lo scudo arabo sul confine. Si spiegherebbe perché a pochi anni di distanza, l’impero subì la doppia sconfitta del 613 da parte dei Persiani che invasero la Siria e la Palestina, e del 636 da parte degli Arabi musulmani, sconfitta che significò la perdita definitiva delle province meridionali. Le fonti arabe e quelle siriache ricordano alcune località della Provincia in relazione con la presenza dei Banu Ghassan. Il campo (hirta in siriaco, badiyah in arabo), di Areta era fissato a Jabyah sull’altopiano del Golan, una località che gli scrittori arabi qualificano come ricca in acqua, dalle acque abbondanti, dalle numerose sorgenti. Michele il siriano ricorda che vi fu costruita una chiesa dedicata a san Sergio. L’egumeno dell’annesso monastero viene menzionato nella Lettera degli archimandriti firmata dal delegato dell’egumeno e sacerdote di Beth Mar Serghis di Gabaitha (Jabyah). Il campo divenne un luogo di rifugio per gli esuli monofisiti e una sede sicura dove incontrarsi per appianare le differenze dottrinali, come si racconta del filarca Jafna che assistette alla riunione di Pietro e di Damiano. Di qui (da Gbita in siriaco) fu scritta la lettera di Simeone di Bet Arsham a Simeone di Gabbula riguardante i martiri di Najran. Sul Golan viene ricordata la tomba di Na‘man figlio di Areta nella località chiamata Harith al-Jawlan. Tra le residenze dei Banu Ghassan, Yaqut ricorda il villaggio di Aqraba, dove si trovavano due monasteri monofisiti: Beith Mar Stephan e quello di Abba Titos. Ya‘quby ricorda Damasco: «Damasco è la residenza dei principi Banu Ghassan e vi si trovano monumenti della famiglia di Jafna». Il nome della città capitale viene usato a indicare il territorio circostante dove, a una ventina di chilometri a sud, si trovava Jilliq, odierna Kisweh, che prese il nuovo nome, secondo l’aneddotica araba, per un episodio che vi era avvenuto: «Al-Kousweh è così chiamata perché i messaggeri dell’imperatore bizantino che vi erano venuti per prelevare l’imposta, i Banu Ghassan li uccisero e si divisero le vesti (kisweh, in arabo)». Nei pressi di Jilliq si radunò l’esercito bizantino e da lì si mosse verso il fiume Giordano e il territorio palestinese, prima della battaglia dello Yarmuk. Un castello dei Banu Ghassan veniva indicato a Harib, sempre sul Golan, come canta il poeta arabo in una elegia per la morte di Na‘man: «Harib sul Golan piange la perdita del suo signore e il Horan è curvo e consumato dalla pena». Vi avrebbe abitato Jabala ii, figlio di Areta, come precisa Hamza: «Jabala, figlio di Areta, figlio di Maria, stabilì la sua residenza a Harib. Fu lui a fondare Jarib, Muharib e Mania». Oltre alla tomba di Na‘man, le fonti arabe ricordano una tomba di famiglia dei principi Banu Ghassan a Jilliq e un’altra a Sayda nei pressi di Harib dove esisteva anche un palazzo. 200
Banu Ghassan e archeologia Il santuario per eccellenza dei Banu Ghassan, dove le tribù si radunavano per la festa annuale, è quello di Sergiopolis a Rasafa nell’interno della steppa a pochi chilometri dall’Eufrate nella Siria settentrionale. Lì al-Mundhir, figlio di Areta, fece costruire una chiesa sul luogo del martirio di san Sergio fuori della porta nord della città, (detta il «Pretorio di Alamundaros»). Screzi e malintesi tra al-Mundhir e l’imperatore Tiberio portarono alla rottura del patto con effetti disastrosi per le popolazioni della Siria. Quando l’imperatore chiese il rinnovo del patto, al-Mundhir pretese e ottenne che fosse siglato nel santuario di S. Sergio a Rasafa. Le iscrizioni ritrovate dagli archeologi integrano i testi letterari, testimoniando la presenza degli Arabi federati nel territorio siriano, in particolare l’attività di patronato che i filarchi svolsero nell’edificazione di chiese e di monasteri. Due iscrizioni trovate a Anasarta (Khanasir vicino a Zebed nella Siria settentrionale), per omonimia, vengono messe in relazione con una possibile discendente della regina Mauia che aveva dato la figlia in moglie al Conte Vittore, al tempo dell’imperatore Valente. Nella prima si legge: «Ammirabile capolavoro del sesso femminile, gloria di saggezza, di pietà e di amore coniugale, Mauia, ha costruito questo martirio di San Tommaso, al tempo della decima indizione, l’anno 737 (425 d.C., secondo l’era seleucide)». In un’altra iscrizione non datata, si ricordano le relazioni amichevoli tra autorità romana e gli Arabi: «L’illustrissimo Silvano, sempre potente tra gli Arabi, ha edificato ai celebri martiri questo santuario da lungo tempo sperato, largo sotto il sole, ben costruito in muri sicuri. Ha agito su consigli di una bambina assente, celebrata per ogni sorte di virtù, Khasidate. A lui solo i principi filarchi l’avevano unita in matrimonio». La maggioranza delle iscrizioni riguarda i filarchi Banu Ghassan del vi secolo, a cominciare dal re Areta che, al massimo della sua potenza, aveva fatto costruire nel 559 una torre del monastero che si trovava a Qasr al-Hayr al-Gharby: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, salvatore del mondo, colui che ha tolto il peccato del mondo, fu eretta questa porta del santo monastero, al tempo dell’amato da Dio l’archimandrita Sergio, del piissimo diacono Anastasio e di Areta il filarca gloriosissimo. Ch’egli combatta affinché quando il Signore verrà, sia posto con quelli che sono alla destra (del Signore)». Il testo mutilo di una seconda iscrizione sullo stesso architrave viene integrato come segue: «A Flavio Areta, Patrizio, lunghi anni e vita! Grande, sei il benvenuto, benvenuto o Areta!» Una iscrizione trovata a al-Burj, due chilometri a sud del campo romano di Dhumayr a nord est di Damasco, attribuisce la costruzione di una torre a Mundhir: «Flavio Alamundaros il glorioso Patrizio e filarca ringraziando il Signore Dio e san Giuliano per la sua salvezza e dei suoi gloriosi figli costruì la torre». Una iscrizione su una placca di bronzo proveniente da Ma‘arrat Nu‘man ricorda «Na‘man il glorioso condottiero e filarca». A al-Hayyat, sulle pendici settentrionali del Horan, su un architrave si legge: «Flavio Seos figlio di Olbanos governatore (epitropos), e il figlio Olbanos, costruirono a proprie spese tutta la navata (aule) dalle fondamenta fino alla sommità, al
tempo del glorioso Alamundaros Patrizio, nell’anno 472 della Provincia, l’indizione 11 (578 d.C.)». Senza poter specificare l’appartenenza alla tribù, il nome di un filarca benefattore di una chiesa al tempo di al-Mundhir, si legge in una iscrizione bilingue in greco e arabo trovata a Harran nella Laja: «Asaraelos figlio di Talemos filarca costruì il martirio di San Giovanni, l’indizione prima dell’anno 463. Sia ricordato colui che ha scritto (568 d.C.)». Il gran numero di monasteri monofisiti ricordati nella Lettera degli Archimandriti, è messo in relazione con i campi dei Banu Ghassan presenti nel Horan occidentale.
La chiesa sepolcrale di Nitl Al loro arrivo in territorio romano, i Banu Ghassan chiesero di abitare il territorio della Balqa nell’attuale Giordania, a sud di Amman, e gli scrittori arabi, come Hamza, ricordano diverse fondazioni ecclesiastiche dei principi ghassanidi nell’area. È in questo contesto storico-geografico che si situa la scoperta del complesso ecclesiastico di S. Sergio nel villaggio di Nitl, a 10 chilometri a est di Madaba. Gli scavi moderni di Umm al-Walid, di Nitl e di Umm al-Rasas, stanno portando nuovi importanti contributi alla storia dell’occupazione della steppa orientale di Madaba in epoca bizantino-araba, territorio oggi abitato dalle famiglie della tribù dei Banu Sakhr. Sulla strada che collega Madaba con Umm al-Rasas, gli esploratori avevano notato le rovine di Hawwara a nord della strada e quelle di Dulaylah a sud, prima di giungere al decimo chilometro al bivio di Nitl da dove la strada prosegue per il Wadi Rumeil e Umm al-Rasas a sud-est, e per Umm al-Walid, Umm al-Quseir e Ziziah a nord-est. Gli esploratori avevano notato, oltre alle rovine romane di Umm al-Walid, di Umm al-Quseir e di Ziziah, una torre di epoca romana a est di Za‘faran con tracce di una possibile strada militare di collegamento, che più o meno doveva seguire il tracciato della strada moderna, i cui primi miliari di epoca tetrarchica sono stati trovati riutilizzati in una chiesa di Umm al-Rasas. Le rovine di Nitl, oggi un villaggio in rapida espansione, sono localizzate su un punto elevato a oriente del letto del piccolo wadi dove corre la strada che collega il villaggio con Dulaylah a sud ovest. Di rilievo tra le rovine, gli esploratori avevano notato una ‘torre’ costruita con pietre squadrate a bozza sporgente, tipica degli edifici di epoca romana presenti nella regione con la porta in pietra ancora in situ, e una seconda torre a volta dalle caratteristiche simili ma con tracce di un rimaneggiamento edilizio. Nei primi anni Ottanta, potemmo schizzare un rilievo provvisorio delle rovine emergenti di un complesso ecclesiastico molto articolato, che a scavo terminato è risultato composto da due grandi chiese affiancate e intercomunicanti, a una sola grande navata coperta ad archi e lastre di pietra (Chiesa Nord-B e Chiesa Sud-A), ognuna in relazione con un ambiente di servizio (diakonikon) costruito all’esterno della parete sud e della parete nord del complesso. Un nartece in facciata metteva le due chiese in comunicazione con una cappella absidata aggiunta sulla parete meridionale. Nel complesso si entrava dalla grande porta esistente sul lato meridionale del cortile lastricato antistante il nartece.
È probabile che una scala al centro del lato orientale del cortile mettesse in comunicazione l’atrio con il nartece sulla facciata delle due chiese. Lo scavo ha anche chiarito l’esistenza di una grande cisterna alla stessa quota delle chiese nell’angolo di nord est del cortile. Tutto il complesso fu costruito in pietra, dalle murature perimetrali al tetto. Nelle murature esterne furono utilizzati i blocchi rettangolari squadrati con bozza provenienti da monumenti di epoca romana esistenti nell’area, probabili spoglie delle torri e dei templi di cui restano le fondazioni e resti di murature nella località di Umm al-Walid e di Dulaylah. Le due chiese parallele erano a navata unica absidata coperte da un tetto di lastre in pietra sostenuto da 9 archi con la luce tra i pilastri di circa due metri, dove in un secondo tempo erano state ottenute delle panche con l’inserimento di una lastra di pietra. Le pareti erano conservate per un’altezza che raggiungeva l’imposta d’arco nella parete meridionale. Inizialmente la Chiesa Sud aveva tre ingressi in facciata. Nella fase finale restava utilizzato solo quello di nord con una pietra rotonda che serviva da porta. Sulla parete dello stipite sud di quest’ingresso monumentale era infissa una lastra di marmo con incisa una croce. Le altre due porte risultavano bloccate. Sulla parete settentrionale, una porta tra il secondo e terzo pilastro metteva in comunicazione con la Chiesa Nord. Sulla parete meridionale si aprivano due ingressi che davano nell’ambiente di servizio orientale (diakonikon) e nella cappella absidata a occidente. Tra il sesto e settimo pilastro della parete settentrionale, iniziando dalla porta, era inserito un elemento in muratura addossato sull’intonaco, a sua volta intonacato, con le spallette aggettanti all’interno della chiesa, una specie di trono, unico nelle chiese della regione. Nella navata centrale, all’altezza del quinto allineamento di pilastri, ma leggermente spostata verso sud, una botola in pietra con due fori e relativi ganci in ferro introduceva alla tomba ipogea sottostante, intorno alla quale fu impostato il programma musivo eseguito dal mosaicista Ammonis, nome che si legge in un’iscrizione in uno dei girali di tralci di vite del mosaico. La lunga sala rettangolare circondata da una fascia continua di girali di acanto animati con scene di caccia e di pastorizia era suddivisa in due pannelli da una derivazione della stessa fascia che attraversa la navata. Lo spazio interno del pannello orientale era caratterizzato da girali di tralci di vite con fuoriuscita da quattro cantari posti negli angoli. Nella stesura della composizione, il mosaicista aveva chiaramente tenuto conto dell’apertura in pietra della tomba ipogea. Un reticolo di fiori decorava il pannello occidentale con la sovrapposizione di un medaglione a scacchiera di triangoli policromi. Nel pannello orientale restano le due anfore biansate negli angoli di nord-est e sud-est dalle quali fuoriescono i girali di tralci di vite che ritmano lo spazio interno, decorati con animali, volatili, frutti, scene di vendemmia, di pastorizia e di caccia, accompagnate da diverse iscrizioni in greco che danno la chiave di lettura del complesso. Tre iscrizioni sono inserite nei girali centrali affiancati del primo registro, la centrale purtroppo risulta comple-
Nelle pagine seguenti: Rasafa, l’antica Sergiopolis: veduta d’insieme della basilica di San Sergio, nel settore sud-orientale del sito. I resti dell’interno della basilica.
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tamente obliterata da un restauro antico. L’iscrizione di sinistra ricorda il nome del presbitero Saola («Al tempo del piissimo presbitero Saola fu costruito e terminato il santo luogo»). In quella di destra, malgrado la manomissione del restauro antico che interessa la parte centrale dell’iscrizione, resta l’inizio del nome arabo del personaggio di alto rango, l’illustrissimo Tha‘laba, (la Volpe) seguito in chiusura dal titolo di filarca, cioè di capo tribù, e da un secondo termine che può essere integrato con il vocabolo latino «laudabilis», tenendo conto della iscrizione nella quale si legge un’altra titolatura latina (adiutor) semplicemente trascritta in greco. «Uper swthrias tou lampr(otatou) Qaal(aba) lauda(bilis) fularcos» Per la salvezza dell’illustrissimo Tha‘laba il filarca laudabilis. La quarta e la quinta iscrizione, entrambe integre, hanno conservato il nome di San Sergio, al quale la chiesa era dedicata, con il nome del mosaicista che mise in opera la decorazione, e il nome di un benefattore funzionario dell’amministrazione imperiale con titolo di Adiutor. 206
«O Q(eo)s tou agiou Sergiou bohqi Ammwnis kai ta tekna autou yefoqeths oti ekamon eis ton topon» O Dio di San Sergio soccorri Ammonis e i suoi figli, il mosaicista che si è affaticato per il santo luogo.
L’ambiente di servizio della Chiesa Sud del complesso di San Sergio a Nitl.
«Agie Sergi prosdexai thn prosforan Petrou Dwrou kai Iwannou adioutw(r)os» San Sergio accetta l’offerta di Pietro (figlio) di Doro e di Giovanni l’adiutor. In una sesta iscrizione integra che accompagna un motivo geometrico di un intercolunnio della parete settentrionale della chiesa, si legge un’acclamazione che fa il paio con quella incisa nell’abside del cosidetto Pretorio fuori le mura della città di Rasafa in Siria (Gloria a Alamundaros!): «W Ereqa Uios Alaretou» O Areta figlio di Al-Areta. Il nome del filarca Tha‘laba, l’invocazione ad Areta figlio di Areta, nomi dinastici della famiglia preminente a capo della
Nella pagina a lato: La Chiesa Sud del complesso di San Sergio a Nitl decorata dal mosaicista Ammonis.
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confederazione dei Banu Ghassan, e la dedicazione a San Sergio, patrono della confederazione il cui culto fu propogato dai membri della tribù, fanno di questo edificio una chiesa patronale dei Banu Ghassan parallela a quella di San Sergio di Jabyah sul Golan nei pressi del campo dove risiedevano Areta e Alamundaros, e alle numerose chiese nel Horan dedicate al martire cavaliere di Rasafa. Per quanto riguarda il nome del filarca Tha‘laba, come nome dinastico della tribù, abbiamo la convergenza di diverse fonti. Lo storico bizantino Eustazio pone i Banu Ghassan tra i signatari del trattato di foedus del 502 tra l’impero bizantino e gli Arabi. Lo storico arabo Ibn al-Kalbi scrive che «Il loro capo allora era Tha‘laba ibn ‘Amr», e Giovanni lo Stilita che, raccontando una scorreria del 503 contro il campo dei Banu Lakhm di Hira in Mesopotamia, precisa: «Anche gli Arabi del territorio greco, chiamati Beit Tha‘lab, si diressero verso la capitale di Na‘man…» Nulla di strano che il nome si sia conservato nella famiglia, e che lo troviamo attestato anche nella chiesa di Nitl. A chi si riferisce l’acclamazione che si legge nell’intercolunnio? Il nome Areta, portato dal più famoso dei filarchi dei Banu Ghassan eletto dall’imperatore Giustiniano Re di tutti gli Arabi e Patrizio, era molto più comune di Tha‘laba. Un frammento di poesia contemporanea araba dedicata ai Banu Ghassan, nella quale vengono menzionati almeno due, se non tre Areta, uno figlio dell’altro, studiato da Nöldeke nel xix secolo, recita: «Questo è un fanciullo con una bella vista al quale il bene è imminente, che raggiunge svelto la meta, da Areta il Vecchio, Areta il Giovane e l’A‘raj, i
migliori degli uomini». Purtroppo, nel mosaico manca la data, ma il lavoro stilisticamente è ben ambientato tra i mosaici della metà del vi secolo. L’acclamazione potrebbe riferirsi sia al Re Areta che ad uno dei suoi successori gratificati del titolo dinastico più che del nome personale. Il nome del Filarca Tha‘laba, e l’acclamazione a Areta figlio di al-Areta permettono di formulare una ipotesi plausibile per quanto riguarda sia la natura del monumento, sia i personaggi inumati nella tomba ipogea i cui resti abbiamo potuto rivedere aprendo la botola in pietra. L’iscrizione del Filarca Tha‘laba inserita in un girale del programma musivo ideato da Ammonis che nella sua formulazione tiene chiaramente presente la botola della tomba ipogea, fa della chiesa un monumento sepolcrale di una delle famiglie dei Banu Ghassan presenti nel territorio di Madaba. La chiesa di San Sergio del complesso ecclesiastico di Nitl, un monumento che nella regione di Madaba trova dei confronti pari per importanza solo nei grandi complessi del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo e del complesso di Santo Stefano a Umm al-Rasas, con la chiara attestazione della presenza di una famiglia dei Banu Ghassan alle porte di Madaba, dà evidenza storica alla tradizione conservata dallo storico arabo Ya‘quby per il quale i Banu Ghassan, quando entrarono in Siria al tempo di Anastasio, si stabilirono nel territorio della Balqa con il permesso di Dahman Ibn al-‘Imliq capo dei Banu Salih previo consenso del governatore romano della Provincia Arabia.
L’iscrizione della navata centrale della Chiesa Sud del complesso di San Sergio a Nitl con il nome del filarca Tha‘laba.
Il presbiterio della Chiesa Sud del complesso di San Sergio a Nitl.
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LA FINE DI UNA PROVINCIA E DI UNA COMUNITÀ
Il vii secolo inizia con due gravi rovesci politico militari per l’impero bizantino nelle province di Siria, di Arabia e di Palestina: l’invasione persiana del 614 con l’occupazione prolungata del territorio dell’impero che durò fino al 628-29, seguita dall’invasione islamica del 636 con le stesse province che passarono definitivamente sotto l’autorità musulmana. Alcuni storici vi vedono una relazione di causa e di effetto con la rottura del foedus tra l’impero bizantino e le tribù arabe confederate cristiane che durante il secolo precedente avevano fatto buona guardia ai confini dell’impero. L’invasione persiana giunse dal nord e continuò fino alla conquista della Città Santa di Gerusalemme con la strage della popolazione, l’incendio della Basilica del Santo Sepolcro e l’esilio del Patriarca Zaccaria. Con lui fu portata in Persia anche la reliquia della Santa Croce gelosamente conservata nella Basilica. La carneficina è raccontata da Strategios, monaco di S. Saba scampato al massacro e fuggito di prigionia, nel Racconto della presa di Gerusalemme da parte dei Persiani nel 614. Strategios racconta dell’arrivo dei Persiani e del saccheggio della città con un resoconto agghiacciante della lista degli uccisi. L’opera registra il numero dei cadaveri raccolti nelle strade, nelle chiese e negli altri edifici della città da un coraggioso gruppo di seppellitori guidati da Tommaso (un notaio!) e da sua moglie, «nuovi Nicodemo e Maria Maddalena». Il totale varia nei manoscritti, ma resta sempre enorme. Si va dai trenta ai sessantacinquemila morti! L’opera ha tanto impressionato gli storici e gli archeologi da indurli a datare al 614 qualsiasi rovina di chiesa riportata alla luce nella regione, trovando una conferma nelle pagine che il Patriarca Eutichio di Alessandria dedica nei suoi Annali alla discesa dell’esercito persiano lungo la costa palestinese: «Allora (Kisra/Kosroe ii) inviò a Gerusalemme un suo generale di nome Harwazayh perché la distruggesse e ne mandò un altro in Egitto e ad Alessandria per dare la caccia ai Rum ed ucciderli. Kosroe stesso mosse contro Costantinopoli… Quanto a Harwazayh, invase la Siria, vi seminò la distruzione e ne depredò la popolazione, marciando poi alla volta di Gerusalemme. Allora i Giudei di Tiberiade, della Galilea, di Nazaret e dei dintorni si unirono a lui e insieme puntarono su Gerusalemme dando man forte ai Persiani nel distruggere le chiese e nell’uccidere i cristiani. Giunto che fu a Gerusalemme, Harwazay fece per prima cosa distruggere la chiesa del Getsemani e la chiesa dell’Eleona che sono ancora oggi un ammasso di rovine, fece poi abbattere la chiesa di Costantino, del Golgota e del Sepolcro, dando fuoco a queste ultime due e seminò la distruzione in gran parte della città. Insieme ai Persiani, i Giudei uccisero
un incalcolabile numero di cristiani che sono poi gli uccisi che si trovano a Gerusalemme nel luogo detto Mamilla…». La realtà documentaria, come risulta dagli scavi, sembra localizzare le stragi e le distruzioni in terra di Palestina e a Gerusalemme, anche se lo storico arabo Baydawy ricorda alcuni scontri tra i Persiani e l’esercito bizantino in Arabia nei pressi di Adraa e di Bostra. L’unica traccia della presenza persiana nel territorio della Provincia Arabia sembra essere un’iscrizione greca trovata a ‘Orman a sud del Jabal al-Druz, nella quale Littmann lesse: «…Daysios figlio di Gulais, l’ha costruito con il prodotto del bottino preso contro i Persiani». Difficile però precisare se il testo si riferisca alla campagna del 614. L’intensa attività archeologica degli ultimi decenni in territorio giordano, tra i molti contributi alla migliore conoscenza storica del periodo bizantino-omayyade (vii-viii secolo), ha prima di tutto sfatato diversi luoghi comuni riguardanti l’epoca di passaggio tra le due due epoche.
L’occupazione persiana (614-628) Il primo luogo comune seriamente messo in dubbio dalle iscrizioni delle numerose chiese scoperte nei villaggi lungo il confine siro-giordano, è che un’ondata di distruzione si sia abbattuta sugli edifici ecclesiastici cristiani della regione siro-palestinese nel 614 durante l’invasione persiana. Distruzione che fu vista dagli storici e archeologi come prova generale di quanto sarebbe successo dopo il 636 in seguito alla battaglia dello Yarmuk. Tra le quattro chiese inizialmente riportate alla luce nel villaggio di Rihab dall’allora Dipartimento delle Antichità di Transgiordania, gli studiosi notarono l’iscrizione del mosaico della chiesa di S. Stefano che risultava costruita e mosaicata nel 620, cioè durante gli anni di occupazione persiana che durò dal 614 al 629. L’iscrizione del mosaico rendeva plausibile la data della chiesa di S. Giorgio di Nahita (623) e quella letta alla fine del secolo scorso dalla spedizione americana di Butler sull’architrave della chiesa del monastero di S. Giorgio a Sama (624-25). Storici avveduti ne conclusero che era meglio non estendere ad altre regioni quello che le fonti contemporanee raccontavano per la città di Gerusalemme e per altre località della costa palestinese. Ora sappiamo che almeno nel villaggio di Rihab e nei dintorni la vita era continuata nella normalità. La scoperta successiva di altre tre chiese, quella di S. Giovanni Battista datata al 619, e quelle di S. Pie-tro e di S. Costantino datate al 623, stavano al contrario a testimoniare un 211
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Pianta della chiesa di S. Maria di Rihab.
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I Bizantini decisero di attaccare in Palestina muovendovi il grosso dell’esercito nella località di Jilliq. Anche l’esercito musulmano fu obbligato a spostarsi a ovest del fiume Giordano. La battaglia fu combattuta a Ajnadayn il 13 luglio del 634, probabilmente in una località tra Beit Gibrin e Lidda, dove l’esercito imperiale subì la prima sconfitta. Le truppe superstiti ripiegarono su Beisan e riattraversarono il fiume Giordano lasciando il territorio palestinese in mano ai musulmani e riprendendo posizione sul Golan. Mentre le truppe comandate da Abu ‘Ubaydah ibn al-Jarrah in una scorreria verso il nord si impadronivano di Emesa (Homs, gennaio 635), nella valle del Giordano, Shurahbil, dopo aver superato Beisan, diede battaglia ai Bizantini nei pressi della città di Fihl (Pella) che si arrese (23 gennaio 635). Risalendo l’altopiano per la strada del Golan, dove si scontrò con l’esercito bizantino a Marj al-Suffar, l’esercito musulmano si diresse verso Damasco. 30
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per mare». Dopo la firma, Maometto ricambiò i doni di Giovanni con un mantello di fabbricazione yemenita. Per restare cristiani e liberi di continuare i loro traffici commerciali, gli abitanti di Aila dovettero pagare il tributo annuo di un denaro d’oro per famiglia (la jizziah). Condizioni che furono imposte anche alle altre città della regione, man mano che vennero conquistate e che confluiranno in quello che dai giuristi musulmani è conosciuto come il Patto di Omar. La vita continuò con qualche restrizione e difficoltà. Nell’autunno del 633, un anno dopo la morte del Profeta avvenuta l’8 giugno 632, il califfo Abu Bakr, comandò una nuova campagna contro la Siria. L’esercito era composto da tre distaccamenti ciascuno di 3000 uomini guidati da ‘Amr ibn al-‘As che prese la strada costiera verso Aila e Gaza, da Yazid ibn abi Sufyan che si diresse verso nord prendendo la Tabukiyah, cioè la strada che passando per l’oasi di Tabuk, raggiungeva Ma‘an e il territorio siriano, e da Shurahbil ibn Hasanah che si mosse a est nella steppa per raggiungere Bostra e Damasco. Per strada i contingenti della spedizione furono aumentati e si tennero in contatto. Il primo scontro con le truppe bizantine avvenne nel Wadi Arabah, dove Yazid sconfisse il patrizio Sergio di Palestina che normalmente risiedeva a Cesarea sul Mare, inseguendolo e uccidendolo in uno scontro successivo. Amr, a sua volta, sconfisse un contingente bizantino a Dathin (4 febbraio 634). Vista la gravità della situazione, l’imperatore Eraclio da Edessa (al-Ruha) inviò un esercito al comando di suo fratello pl
L’invasione musulmana giunse dal sud lungo le direttrici carovaniere che univano la penisola sinaitica con l’Arabia, un anno dopo che l’imperatore Eraclio era uscito vittorioso ma stremato dalla lunga lotta con i Persiani. I musulmani si mossero in un paese sguarnito e indifeso militarmente, con le truppe spostate nel nord della regione. Nel 629, vivente Maometto, ci fu una prima spedizione composta di 3000 uomini al comando di Zayd ibn Haritha, che da Aila sul Mar Rosso risalì verso l’interno, ma fu fermata a Mota nei pressi della città di Kerak nella Moabitide dalla guarnigione romana con l’aiuto di contingenti di Arabi federati (settembre 629). La ritirata dei superstiti della battaglia fu guidata fino a Medina da Khalid ibn al-Walid. Secondo gli storici arabi, la spedizione era stata inviata per vendicare l’uccisione dell’inviato di Maometto presso il principe di Bostra. Lo storico al-Wakidi scrive che Maometto aveva inviato un’ambasciata al «principe di Bostra», per invitarlo a convertirsi. Tabary precisa anche il nome sia dell’inviato che del «principe», che nel suo racconto diventa il «governatore della provincia», in realtà, a giudicare dal nome, un filarca ghassanide: «Shoja‘, figlio di Wahb, (fu inviato) al governato-
Nell’anno 9 dell’Egira (630-31), chiamato l’«anno delle ambasciate» (sanat al-wufud), Maometto riuscì a raggiungere l’oasi di Tabuk, alla testa di un esercito, sul confine del territorio del Wadi al-Qura controllato dagli Arabi federati. Maometto riuscì a siglare un trattato di pace con i cristiani di Aila sul Mar Rosso, porto della Palestina. In cambio della jizziah (tassa pro capite), Maometto assicurava alla popolazione sicurezza e libertà di movimento. Gli storici arabi raccontano che il Profeta inviò una lettera a Giovanni, capo di Aila: «A Giovanni, figlio di Raia e ai capi di Aila. Pace a voi. Prego per voi Dio, fuori del quale non c’è altro Dio. Io non combatterò contro di voi finché non vi ho scritto questa lettera. Credete o pagate il tributo e obbedite a Dio e al suo Profeta e ai messaggeri del suo Profeta… Se desiderate avere sicurezza per terra e per mare, obbedite a Dio e al suo apostolo ed egli vi difenderà da ogni richiesta proveniente da arabi o stranieri. Ma se vi opporrete e dispiacerete loro, io non accetterò più nulla da voi, finché io avrò combattuto contro di voi e avrò fatti prigionieri i giovani e ucciso i capi…». Un vero ultimatum al quale Giovanni decise di arrendersi. Vestito dei suoi ornamenti, con una croce d’oro sulla fronte, si presentò nel campo di Maometto per trattare la resa. In dono gli portò una mula e uno scialle. Risultato dell’incontro fu la stipulazione di un trattato di pace con il quale Maometto assicurava protezione a Giovanni e al popolo di Aila: «Per chi resta a casa o per chi viaggia all’estero, per terra e per mare e per chiunque è con loro, c’è garanzia di Dio e di Maometto… Non sarà onorevole impedire agli abitanti di Aila qualsiasi sorgente d’acqua… o viaggio che desiderano intraprendere per terra o
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La battaglia sul fiume Yarmuk (636)
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Il secondo luogo comune storico è il significato di rottura attribuito alla decisiva battaglia dello Yarmuk del 636 che portò la Siria-Palestina dal controllo politico bizantino a quello arabo islamico.
re della provincia, chiamato Harith figlio di Abu Shimr dei Banu Ghassan». Il messaggero però fu intercettato da un altro filarca e decapitato: «Maometto inviò Harith ‘Umayr al-Azdiji, dei Banu Lihb, con una lettera al re di Bostra; ma lungo il cammino, a Mota, fu invitato da Shurahbil ben ‘Amr al-Ghassani, imprigionato e, come inviato di Maometto, decapitato».
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diffuso benessere nel villaggio durante l’epoca di occupazione persiana. Recentemente, un’altra chiesa dedicata ai SS. Cosma e Damiano e datata al 623-24 è stata riportata alla luce nella località di Darbat al-Dariyah sulla strada Irbid-Ajlun, forse nel territorio della vicina provincia di Palestina. Queste testimonianze portano a concludere che almeno in questi villaggi della Provincia, passato il periodo di scontro, la vita riprese come d’abitudine.
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“O Dio di Santa Maria e di tutti i Santi abbi pietà di tutto il mondo!”. Iscrizione nella chiesa di S. Maria di Rihab.
Teodoro. Come contromisura, il califfo Abu Bakr chiamò anche Khalid ibn al-Walid. Questi, che si trovava in Iraq, con le sue truppe attraversò il Wadi Sirhan, scese verso Damasco dal nord alle spalle dell’esercito bizantino. Dopo uno scontro a Marj Rahit a circa 15 chilometri a est di Damasco (24 aprile 634, il giorno di Pasqua), si riunì agli altri contingenti nei pressi della città di Adra (Der‘ah). Probabilmente, le forze congiunte musulmane attaccarono Bostra, la capitale della Provincia Arabia. Le fonti arabe scrivono che le truppe musulmane poterono prendere Bostra perché il governatore Romanos, che in seguito si convertì all’Islam, tradì la città, malgrado la popolazione fosse decisa a resistere. Molto più semplicemente Romanos accettò le condizioni degli assedianti, come aveva fatto il governatore di Aila e come faranno le altre città della regione, aprendo le porte per evitare il sacco della città rimasta sola e abbandonata. «Nell’anno 946 (dei Greci), 24° anno (di Eraclio) e 13 degli Arabi – scrive Michele il Siriano – morì Abu Bakr dopo aver regnato due anni. Dopo di lui regnò ‘Omar figlio di Khattab. Inviò un esercito in Arabia: si impadronirono di Bostra e distrussero le altre città». La popolazione, secondo Baladhuri, in base all’accordo siglato dal governatore e dai cittadini di Bostra con Abu ‘Ubaydah, doveva pagare un tributo annuo che consisteva in vettovaglie, in olio, e in aceto; solo in un secondo tempo il califfo Omar, di passaggio in città, decise che la popolazione pagasse la jizyah e il kharaj (la tassa fondiaria) sulle terre.
Dopo Bostra, che per alcuni storici fu presa dopo la battaglia di Ajnadayn, anche Damasco dovette capitolare nel settembre del 635, dopo sei mesi di assedio, alle condizioni che diventeranno normative: un dinaro e un jarib (misura di grano) a testa degli abitanti. Nelle trattative per la resa, si distinse Mansur figlio di Sergio, nonno di san Giovanni Damasceno. Successivamente, caddero Ba‘albek, Homs, Hamah. «Il popolo di Shayzar (Larissa) uscì fuori per incontrarlo accompagnato da suonatori con tamburi e cantanti e si inchinarono davanti a lui». Nel frattempo l’imperatore aveva raccolto sul Golan un nuovo esercito nei pressi del campo di Jabyah dei Banu 213
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prima conquista, gli eserciti musulmani si mossero verso l’Egitto e l’Africa a sud, e a nord verso l’Armenia fino alla Georgia. Nel 638 fu la volta di Gerusalemme, che si arrese nelle mani del califfo Omar al tempo del Patriarca Sofronio, e nel 640 anche Cesarea sul Mare fu conquistata.
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Mentre erano in corso questi avvenimenti che sconvolsero e in qualche modo cambiarono l’assetto politico della regione, le iscrizioni di alcune chiese nel territorio di Bostra ci informano che gli abitanti del villaggio di Rihab erano intenti a costruire e mosaicare la chiesa di S. Mena, e probabilmente quella del Profeta Isaia, al tempo dell’arcivescovo e metropolita Teodoro, datata al marzo 634-35. Nel villaggio di Khirbat al-Samra, identificato con il kastron di Haditha lungo la Via Nova Traiana, sempre al tempo dell’arcivescovo Teodoro, sono datate le chiese di S. Giovanni, di S. Pietro, di S. Gior-gio e di S. Teodoro, anche se le date non sono ben precisate. Tenendo presente che la città di Bostra, sede metropolitana della Provincia Arabia, nel cui territorio si trovano i due villaggi di Rihab e di Khirbat al-Samra, fu conquistata nel 634/35, e calcolando il tempo necessario per la messa in opera di tali lavori, bisogna dedurre che la popolazione dei due villaggi continuò la vita di ogni giorno, come se non avesse capito o non fosse interessata a quanto 10
avrebbe lasciato il campo di battaglia perché si era reso conto che Teodoro avrebbe perso. Il giorno dopo, però, gli storici ricordano che combatté a fianco dei Bizantini e venne sconfitto come loro. Ya‘quby narra che Jabala, perché arabo, rifiutò di pagare il kharaj e la jiziah ai vincitori. In cambio offrì la sadaqa, la tassa pagata dai convertiti. Successivamente, a causa di uno screzio, preferì lasciare il territorio oramai occupato dai musulmani, e con 3000 uomini si rifugiò in Asia Minore dove finì i suoi giorni. Dopo la battaglia, e alla vigilia della presa di Gerusalemme, gli storici arabi ricordano la venuta del califfo Omar al campo di Jabyah dove incontrò Abu Ubaydah e furono fissati i principi amministrativi dei nuovi territori conquistati. Il territorio fu diviso in quattro jund (plurale ajnad) o governatorati militari che territorialmente si estendevano dal deserto orientale al mare: Dimashq, Homs, Al-Urdun, e Filastin. Dopo la campagna del nord che vide le città di Antiochia e di Aleppo arrendersi e la città di Qinnasrin (Chalcis) presa dopo una forte resistenza, fu aggiunto il jund di Qinnasrin. Dalla Siria, loro
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Ghassan, al comando di Teodoro. Khalid allora abbandonò Homs e Damasco e con tutte le forze a disposizione ridiscese verso la sponda dello Yarmuk. Qui, dopo un primo scontro a Jabiyah, la battaglia decisiva fu combattuta il 20 agosto 636 in una giornata infuocata. Anche Teodoro cadde combattendo. I superstiti dell’esercito bizantino sconfitto si ritirarono verso il nord. Se gli storici arabi, raccontando gli avvenimenti che precedettero la disfatta, sottolineano che le popolazioni arabe del Horan, di Siria e del Negev palestinese accolsero con gioia i nuovi arrivati, gli storici bizantini notano con disappunto le prime defezioni delle tribù arabe presenti in territorio romano, dandone la colpa, nel caso delle tribù alleate di Palestina, al mancato pagamento da parte del governo bizantino della somma annuale pattuita con le tribù. Il giudizio, sempre di parte bizantina, diventa accusa di tradimento durante la battaglia sulla sponda del fiume Yarmuk. Alla vigilia della battaglia, il 20 agosto, la cavalleria araba guidata da Jabala ben al-Ayyam, un membro della famiglia dei Banu Ghassan,
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Un periodo di continuità Il fiume Yarmuk sulle cui sponde fu combattuta nel 636 la battaglia decisiva tra l’esercito imperiale bizantino e le truppe islamiche provenienti dal Hijaz.
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stava succedendo intorno ad essa alla vigilia del disastro militare del 636. Le chiese dimostrano che la lotta in corso tra le tribù arabe provenienti dal Hijaz e l’impero bizantino non era vissuta nel villaggio nella sua drammaticità, e il rovescio militare fu forse una sorpresa che non cambiò molto la vita di ogni giorno, a parte il pagamento della jizyah e del kharaj ai nuovi padroni. È una conclusione oramai acquisita a livello di ricerca storica e archeologica. Una testimonianza contemporanea è la Vita di Santo Stefano Sabaita, che si svolge tra il 725 e il 794, scritta in greco dal suo discepolo Leonzio di Damasco verso l’807 nella laura di S. Saba. Il racconto assume un valore documentario per il contributo che apporta alla conoscenza della vita «nei territori governati dagli Arabi», come si esprime l’autore. Dalla Vita risulta che il cambiamento politico è vissuto solo di riflesso e marginalmente dai monaci della laura di san Saba che continuano la loro vita con i piccoli o grandi problemi di sempre, dall’ingresso e accettazione alla scuola di un anziano, ai diversi incarichi nella comunità, alla ricerca di una vita ascetica più dura e impegnata, fino alla volontaria reclusione in un eremo o in una cella murata dal di fuori, come si racconta del monaco Amba Martirio di Gerasa» Il nostro Martirio condotto dal suo desiderio (di non vedere la morte prima di incontrare un vero monaco) per 15 anni vagava per tutti i territori che sono sotto la giurisdizione degli Arabi «finché non incontrò santo Stefano e decise di fermarsi presso di lui. Su testimonian-
Chiesa di San Teodoro a Khirbat al-Samra (verso il 640 d.C.), evidenziata in grigio nella planimetria della città.
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Bottiglietta in vetro proveniente dallo scavo della chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa (viii-ix sec. d.C.).
Iscrizione in aramaico cristo-palestinese nel cortiledella chiesa di ed-Deir (Hayyan al-Mushref)
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za di Leonzio, non si è nemmeno arrestato il girovagare continuo dei monaci tra i monasteri del deserto di Giuda con gli eventuali brutti incontri con i cani rabbiosi dei beduini o con gli stessi beduini non sempre ospitali. Leonzio è piuttosto critico della vita monastica che si conduce ai suoi giorni nel deserto di Giuda. Arriva perfino a indicare nel «grande terremoto» che aveva sconvolto la regione, probabilmente quello del 746-47, la data d’inizio dell’affievolimento della disciplina. Malgrado ciò, Leonzio ricorda diverse notevoli eccezioni, come Amba Mariano «appartenente ai notabili cristiani della nobile città di Damasco, adorno della virtù del lavoro e della contemplazione, che possedeva grande scienza e conosceva anche la filosofia». Oppure Amba Cosma «superiore del monastero di al-Quwaysmah che è nei pressi della città di Amman, uomo virtuoso perfetto nella santità, vero servo di Dio, irreprensibile tra i monaci». Una vita, quella dei monaci, che contrasta fortemente con le preoccupazioni della popolazione cristiana nello stesso territorio. «I monaci di questi tempi conducono una vita senza pensieri, riposata e tranquilla – fa dire Leonzio a un ricco medico di Moab invitato da santo Stefano ad abbandonare tutto e a farsi monaco –. Mentre coloro che vivono nel mondo sono oggi soggetti a gran miseria, tristezza, privazioni e continue difficoltà». Le difficoltà maggiori provenivano dalle vessazioni degli esattori delle tasse imposte dai nuovi padroni, in particolare il kharaj, l’imposta sulla proprietà fondiaria dei cristiani, oltre la jizziyah o tassa pro capite annuale. La situazione è lumeggiata dalla zia di Leonzio gravemente ammalata durante il pellegrinaggio a Gerusalemme: «Ho sentito figliolo, che il sovrano di questo paese è dispotico, carpisce con violenza e saccheggia le proprietà della popolazione soprattutto degli infermi e dei pellegrini. Mi è stato riferito che giorni orsono è morto un pellegrino in casa di un cristiano di qui, lasciando molti eredi che purtroppo non erano presenti all’atto della sua morte. Il sovrano ha così colto l’occasione e si è impadronito di tutto ciò che il defunto possedeva». Per sfuggire alle vessazioni «degli esattori che furoreggiavano nella regione di Moab», un ricco cristiano di là si rifugiò a Gerusalemme. Malgrado le difficoltà e le tinte fosche, Leonzio documenta sufficientemente che la vita dei cristiani continuava il suo corso normale. Continuavano i pellegrinaggi verso i
Luoghi Santi dalle regioni circostanti e perfino dall’Europa. La zia di Leonzio, che era solita venire a Gerusalemme per Pasqua, poté continuare il suo pellegrinaggio fino al monte Sinai senza problemi. Nel deserto viveva da trenta anni una nobile romana con le due figlie eredi «di arconti nobili e patrizi», che dopo aver venduto tutte le loro sostanze avevano abbracciato la vita monacale. Leonzio ricorda diversi notabili cristiani di Damasco, di Moab, di Egitto, di Gaza, di Gerico e di Gerusalemme. Tra essi il fratello del monaco Teodoro, medico personale del principe musulmano di Ramlah. Approfittando dell’influenza del fratello, Teodoro fece mandare in esilio il patriarca di Gerusalemme Elia e si fece eleggere al suo posto. Ricchi mercanti come Petrona, fratello di Amba Mariano, «che commerciava in datteri tra Damasco e il Ghor (la Depressione) palestinese», facevano normalmente la spola tra la capitale e Gerico nella valle del Giordano. Di più, in un racconto molto circostanziato troviamo un fanatico musulmano accompagnarsi pacificamente a un cristiano egiziano. «Volle venire a Gerusalemme per pregare nella moschea che i musulmani vi hanno» (la Cupola della Roccia terminata nel 692), fino a scendere con il cristiano al monastero di S. Saba «per fare una passeggiata e ammirare il deserto». Il musulmano finì per convertirsi alla religione cristiana con il rischio della vita dopo aver assistito a un miracolo di santo Stefano. «Persone scelte e affidabili tra i musulmani» vengono chieste dalla zia di Leonzio per fare da testimoni alla sua volontà testamentaria. Viceversa, santo Stefano intervenne presso un sacerdote di servizio alla basilica del santo Sepolcro rimproverandolo di essere stato la causa dell’apostasia di un confratello monaco piuttosto negligente e scorretto collaboratore, «che a causa di questo si dileguò e rinnegò il Cristo» facendosi musulmano. Doppiamente colpevole il sacerdote, perché contro le regole canoniche che proibivano formalmente a un prete di esercitare il mestiere di esattore, riscuoteva il kharaj dai cristiani per conto dell’autorità musulmana. In questa situazione piuttosto complessa e difficile, santo Stefano, scrive Leonzio al termine della sua opera appassionata in ricordo del maestro, «mostrava compassione e pietà non solo per i cristiani ma anche per i musulmani», superan-
Chiesa dei Santi Martiri Cosma e Damiano, Gerasa.
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Crocetta in steatite ritrovata nello scavo della Chiesa Nord di Esbous (Hesban) del vi-vii sec. d.C.
Croce processionale in bronzo trovata nella Chiesa del Vescovo Malechios nel villaggio di Macheronte (vi sec. d. C.).
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do con l’universalismo dell’amore cristiano le difficoltà e differenze imposte dalla contingenza politica.
Un periodo di confronto La convivenza relativamente pacifica è attestata dai ricordi di dibattiti pubblici e privati, anche alla corte del califfo, nei quali venivano discusse questioni teologiche che opponevano le due comunità. Ma anche episodi che finirono tragicamente, come la passione di Pietro di Beit Ras, mostrano lo spirito conciliante e tollerante prevalente nelle autorità musulmane dell’epoca. Un manoscritto georgiano ci ha conservato La Vita e la Passione di Pietro di Beit Ras che si svolge in epoca omayyade al tempo del califfo al-Walid i (705-715). Beit Ras, l’antica Capitolias della Decapoli, faceva parte del Jund al-Urdun (governatorato militare del Giordano). Pietro, padre di tre figli, nel villaggio era prete della chiesa della Vergine. A trent’anni di età Pietro e sua moglie decisero di dedicarsi alla perfetta continenza. Le due bambine vennero affidate a un convento di vergini, la moglie andò a vivere in un eremitaggio, Pietro e il ragazzo di 12 anni si ritirarono in due celle vicine non lontano dall’abitato. Dopo venti anni di questa vita austera, Pietro cadde ammalato. Desideroso di finire martire, architettò uno stratagemma. Inviò un cristiano che si prendeva cura di lui, chiamato Qaiuma, a invitare i notabili musulmani a essere testimoni del suo testamento. Una volta giunti, Pietro al posto del testamento lesse una professione della sua fede cristiana accompagnata da violente accuse contro la religione islamica. Solo la malattia lo salvò dall’ira dei presenti che ebbero pietà di lui. Rimessosi in salute, riprese
pubblicamente la sua predicazione contro l’Islam. I notabili musulmani del villaggio furono costretti a scrivere un rapporto che inviarono a Omar ibn al-Walid, governatore del Jund al-Urdun, figlio del califfo al-Walid i. Omar inviò l’accusa all’Amir Zora, cioè al comandante militare della Trichora, che comprendeva le città di Capitolias, Gadara (attuale Umm Qays) e Abila (attuale tell Abil-Quwaylbah). L’Amir venne a Capitolias e fece redigere il processo verbale scartando l’ipotesi che Pietro fosse impazzito. Nel frattempo il califfo al-Walid cadde malato e anche Omar, come gli altri figli e familiari, si recò a Damasco, dove poté raccontare al padre il caso di Pietro di Beit Ras. Il califfo diede ordine che Pietro fosse condotto a Damasco per essere giudicato al suo tribunale. La popolazione di Beit Ras accompagnò Pietro per due miglia fino al villaggio di Maro (oggi Meru). Il tribunale si tenne nel palazzo di Deir Murran, l’ex convento di S. Teodoro ai piedi del Jabal Qasiun, residenza del califfo. – «Per umanità, io ti offro un pretesto per sfuggire al castigo: riconosci il tuo errore e scegli tu stesso tra la vita e la morte – gli dice il califfo –. Tu sei libero di riconoscere come Dio Gesù che è un uomo e un servo del Creatore. Ma perché bestemmiare la nostra religione e chiamare il nostro pacifico Profeta maestro di errore e padre della menzogna?». Non riuscendo a convincerlo, il califfo dovette emanare la sentenza. Tenuto conto della sua pervicacia, Pietro doveva essere riportato nella sua patria e lì, alla presenza della popolazione, dei figli e dei parenti, il primo giorno gli si doveva strappare la lingua, e il giorno dopo tagliarli una mano e il piede destro. Il quarto giorno, dopo aver riunito con la popolazione tutti i preti e i monaci della Trichora, si doveva continuare con l’amputazione dell’altra mano e dall’altro piede, bruciargli gli occhi, e infine crocifiggerlo. L’ultimo atto avvenne il 13 gennaio del 715 «nei pressi del Monastero delle Vergini, annesso alla chiesa di San Sabiniano, nella località chiamata Turlipara, alla distanza di meno di 5 miglia a sud ovest della città», precisa la Passio. Erano trascorsi 12 giorni dal martedì 1 gennaio, giorno dell’arrivo del messo del califfo a Beit Ras, per condurre Pietro a Damasco. Dopo cinque giorni i resti del martire furono bruciati in un forno per la calce, e le ceneri, raccolte in un sacco, furono gettate dai soldati nelle acque del fiume Yarmuk. Un altro episodio eroico che alla fine del secolo ebbe per protagonista un monaco della regione è raccontato da santo Stefano Mansur, nipote di san Giovanni Damasceno, che aveva trascorso la sua vita nella laura di S. Saba. Tra i venti monaci di S. Saba che il 19 marzo del 797 perirono vittime degli Arabi, santo Stefano ricorda Patricio di Adra, che si era nascosto in una grotta insieme con sei compagni per sfuggire al massacro. Scovati, consigliò agli altri di restare nascosti, mentre lui si consegnò volontariamente alla morte.
La presenza cristiana Tenendo presente questa continuità di vita tra il mondo bizantino e quello islamico testimoniata dalle opere letterarie e dalla ricerca archeologica, uno studioso danese ha intitolato un libretto dedicato a questo problema The Invisible Conquest, la conquista invisibile. Dopo un esame attento
della documentazione archeologica disponibile l’autore conclude affermando che la conquista della Siria-Palestina nel vii secolo da parte delle tribù della penisola arabica, in termini archeologici è totalmente invisibile. L’archeologo che cerca dati per una rottura tra il periodo pre e post conquista musulmana, cerca inutilmente. L’archeologia mostra una continuità ininterrotta tra i due periodi. Questa continuità complica la vita agli archeologi. Solo studi approfonditi recenti stanno tentando di definire, per esempio, tipologie ceramiche tardo bizantine del vii secolo rispetto a tipologie omayyadi e abbasidi dell’viii-ix secolo. Nuove scoperte di monumenti datati nel territorio della Provincia hanno aiutato a distinguere un mosaico di epoca omayyade messo in opera nella seconda metà del vii secolo e nella prima metà dell’viii secolo, da un mosaico del vi secolo e della prima metà del vii secolo.
La fine Chiarito che i monasteri, le chiese, i villaggi e le città della regione non furono distrutti dall’invasione araba musulmana, oggi resta in discussione un altro problema di natura storico-archeologica: Quando e perché avvenne la dissoluzione di questo mondo con l’abbandono di città, di villaggi e di campagne? L’evidenza risultava molto più chiara ai viaggiatori del secolo scorso e della prima metà del xx secolo. Il fenomeno però non sfugge nemmeno al viaggiatore moderno. Nel Negev palestinese si visitano ancora le rovine di città come Shivta, Mampsis, Nessana, Elusa, Avdat; nella Siria settentrionale le città morte del massiccio calcareo; nella Siria meridionale i villaggi del Hauran; in Giordania i villaggi lungo la frontiera settentrionale di Sabha, Umm al-Quttayn, Umm al-Surab, Khirbet al-Samra, Umm al-Jimal. Nella Giordania centrale ricordiamo che le rovine abbandonate di Madaba furono riabitate da famiglie cristiane soltanto nel dicembre del 1880. Fino a oggi, nella steppa a est di Madaba, sono restate fortunatamente disabitate le rovine di Umm al-Rasas, che noi abbiamo iniziato a esplorare nell’estate del 1986 alla ricerca di una risposta al problema storico che ci siamo posti. Il fenomeno è comune a tutte le zone periferiche del Medio Oriente. La spiegazione comunemente accettata dagli storici del secolo scorso ne addebitava la causa all’invasione islamica del vii secolo. Ora noi sappiamo che questa spiegazione è insufficiente se non falsa. La vita continuò certamente per più di cento anni dall’invasione, pur non sottovalutando le mutate condizioni delle popolazioni cristiane sotto governo islamico. È un fatto che nessuno storico ora mette in dubbio e che trova conferma negli scrittori contemporanei sia cristiani che musulmani e, archeologicamente, negli edifici costruiti durante quel periodo, i palazzi dei nuovi padroni come le chiese costruite e mosaicate in epoca omayyade. Gli storici e archeologi del nostro secolo hanno spostato la data dell’abbandono alla metà dell’viii secolo, facendolo coincidere con la fine della dinastia omayyade e lo spostamento della capitale da Damasco a Baghdad, capitale della
nuova dinastia abbaside che prese il potere nel 750 d. C. Per le città della valle del Giordano, tale data coincide con il terremoto disastroso del 747. Su questa premessa, tutta la ceramica post-bizantina di siti che non risultavano più occupati in epoca posteriore ayyubita o mamelucca, era etichettata come omayyade. Gli scavi dell’ultimo decennio a Beit Shean, a Pella, a Umm al-Rasas, sul Monte Nebo e ad Aqaba/Aila, hanno condotto a riconsiderare tale data e a fare più attenzione anche alle fonti storiche. A Beit Shean è risultato che, dopo il terremoto del 747 che aveva distrutto la città bizantino-omayyade e i monumenti superstiti di epoca romana, le nuove case erano state costruite livellando e seppellendo le rovine. A Pella, il nuovo villaggio di epoca post omayyade era sorto un po’ spostato verso nord rispetto al sito della città precedente. Ad Aqaba, gli scavi dell’Oriental Institute hanno riportato alla luce la città costruita in epoca omayyade nei pressi della Aila bizantina che dimostra una vita senza interruzione fino al periodo fatimita, dal vii all’xi secolo. Tali scoperte hanno invitato a rileggere con più attenzione sia le fonti cristiane che quelle arabe musulmane. Gli autori arabi ricordano 5 qurah (distretti amministrativi) del Jund al-Urdun, nella Giordania e Palestina settentrionale: Fihl, Jadar, Abil, Beit Ras e Jarash. Di Aila, Ya‘quby scrive: «La città di Ayla è una grande città sulla riva del Mare Salato. In essa si raccolgono i pellegrini di Siria, Egitto e del Maghreb. Vi sono numerosi mercanti e gente comune…». Shams al-Din Muqaddasy vi si recò da Gerusalemme e così la descrisse: «Ayla è una città di un ramo del mare di Cina. Di grande prosperità con le sue palme e il pesce, è un porto di Palestina, emporio del Hijaz. La città è normalmente chiamata Ayla, ma la vera Ayla è in rovina nelle vicinanze». Per Umm al-Rasas, grazie ai nostri scavi identificata con Mayfa‘ah, abbiamo la testimonianza di al-Bakry che nell’xi secolo la dice una località della Balqa’ di Siria senza specificare oltre. Nella stessa linea di continuità della presenza della comunità cristiana, vanno interpretati i pavimenti mosaicati delle chiese datati al vii-viii secolo finora scoperti in Giordania nel territorio di Philadelphia-Amman e di Madaba, che testimoniano una continuità di vita e una coesistenza pacifica tra la nuova autorità musulmana e la comunità cristiana in grado economicamente di sostenere progetti ambiziosi come la costruzione delle chiese di Khilda (685) e di al-Quwaysmah (718) nel territorio diocesano di Philadelphia-Amman, della chiesa sull’acropoli di Ma‘in (719/20), di S. Stefano (756) a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa, della cappella della Theotokos (762) nella valle di ‘Ayn al-Kanisah sul Monte Nebo, della chiesa della Vergine a Madaba (767), tutte decorate con un pavimento mosaicato. La chiesa di S. Sergio a Rihab ha ridato il nome di un metropolita in sede a Bostra nel 691, 50 anni dopo la battaglia dello Yarmuk. Nel territorio di Madaba, le iscrizioni delle chiese hanno conservato tre nuovi nomi di vescovi per l’viii secolo, secondo secolo dell’Egira musulmana: Giobbe (756 e 762), Sergio ii (viii secolo) e Teofane (767), con i quali entriamo nel periodo abbaside. Insieme ai vescovi vengono ricordati gli arcipreti, i preti, i diaconi, i monaci e il popolo amante di Cristo sempre più fiero della sua fede nel confronto inevitabile con i fedeli della nuova religione. 219
Le chiese del vii-viii secolo Finora sono dieci le chiese nel territorio della Provincia sicuramente datate in periodo omayyade/abbasside che testimoniano della persistenza, della vitalità e prosperità economica della comunità cristiana anche in questo periodo: tre nella seconda metà del vii secolo (Primo Secolo dell’Egira), tre nella prima metà dell’viii secolo e tre nella seconda metà dello stesso secolo (secondo Secolo dell’Egira). La chiesa di S. Varo a Khilda nel territorio di PhiladelphiaAmman fu scoperta casualmente nell’inverno del 1994-95 alla periferia nord-occidentale della città. La chiesa, costruita e mosaicata nel vi secolo, fu ricostruita e rimosaicata nel vii secolo, come la chiesa di S. Sergio a Rihab costruita e mosaicata nel 691 al tempo del metropolita Giorgio di Bostra. Stralci del mosaico della chiesa inferiore sono stati riportati alla luce nello scavo dell’abside sud. L’edificio nella fase finale di epoca omayyade è composto da due aule absidate affiancate e separate da una serie di pilastri. Abbastanza ben conservato risulta il mosaico superiore dell’aula nord, eseguito al tempo del vescovo Giorgio di Philadelphia-Amman nel 750 dell’era pompeiana, cioè nel 687 d.C. in piena epoca di occupazione musulmana. Il presbiterio era decorato con due tralci di vite che creavano una corona intorno all’altare fuoriuscendo da un cantaro posto tra due capridi nei pressi della balaustra. L’aula impaginata in una fascia unica era suddivisa in tre registri sovrapposti, intervallati da due iscrizioni. Nel registro superiore due pavoni affrontati a un cantaro introducevano la scena con la personificazione della Terra inserita in un cerchio tra due alberelli. La Terra rappresentata a tutta figura e vestita di una lunga tunica, tiene le braccia alzate con fiori nelle mani. Segue nel registro inferiore un leone e uno zebù affrontati a una palma, e nel terzo due pecore affrontate a un cespo di fiori, seguite da due paia di volatili affrontati a un fiore. Del mosaico danneggiato dell’aula sud restavano un’iscrizione in medaglione con il nome del martire Varo, al quale l’edificio era dedicato, e due anfore tra due volatili. Tenendo presente che finora abbiamo soltanto due mosaici pavimentali di chiese sicuramente datati nella seconda metà del vii secolo, il mosaico di Khilda per i motivi figurativi della composizione, costituisce un prezioso documento per seguire la transizione stilistica dai mosaici del vi secolo, molto più numerosi, a quelli dell’viii. I paralleli più vicini cronologicamente sono i mosaici delle chiese di Rihab e di Khirbat Samra, datati nel terzo decennio del vii secolo. Nella chiesa di S. Lot, costruita nel vi secolo sul fianco scosceso della montagna alle spalle del villaggio di Ghor al-Safy/Zoara, il mosaico della navata centrale fu rifatto nell’anno 691, al tempo del chorepiscopo Chrestos. Il programma decorativo è impostato semplicemente su alcuni rami con foglie che convergono verso l’iscrizione nei pressi del gradino. Il mosaico del coro sopraelevato, è invece decorato con girali di tralci di vite che fuoriescono da un cantaro affiancato da due pavoni. Agnelli e volatili sono inseriti nei girali, con l’aggiunta di un calice e di una croce con inserita una iscrizione in greco: «Telos kalon» (buona fine). La chiesa di Shunah al-Janubiyah fu scoperta per caso durante i lavori 220
Nella pagina a lato: Le rovine di Umm al-Jimal nel Hauran Meridionale. Dettaglio di una finestra.
La chiesa di San Varo ritrovata a Khilda, Amman, con il mosaico superiore datato al 685 (primo secolo dell’Egira). Il mosaico superiore della chiesa di San Varo a Khilda, Amman (685) con al centro la personificazione della Terra.
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per i quali si è persa la resa naturalistica di epoca precedente nelle risulte del motivo geometrico al centro della navata. Il mosaico presenta tutte le caratteristiche stilistiche dei mosaici di epoca omayyade dell’viii secolo, come risulta dal confronto con i tre pavimenti delle chiese restaurate nella prima metà dell’viii secolo, probabilmente dopo un terremoto che interessò la regione.
Il nuovo mosaico di epoca omayyade sovrapposto al mosaico inferiore nella chiesa di Shunah al-Janubiyah nella valle del Giordano (viii sec. d.C.).
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di allargamento di una strada sul fianco occidentale di Tell Nimrin nella valle del Giordano al centro del villaggio. È l’unico mosaico senza data dei mosaici di quest’epoca. Nel pavimento si trova una giustapposizione di due mosaici che in alcuni punti risultano stranamente sovrapposti, come sulla fascia del lato settentrionale del tappeto della navata centrale. La differenza risalta nella messa a confronto delle caratteristiche stilistiche e tecniche del taglio e della messa in opera delle tessere, come della resa stilistica dei motivi geometrici. Il mosaico primitivo, che per motivi stilistici datiamo al vi secolo, presenta delle tessere tagliate con molta cura, una scelta varia dei colori, e motivi molto lineari con stuccatura finale. Le tessere di epoca successiva risultano tagliate con approssimazione, e conseguentemente messe in opera con un risultato finale d’insieme grossolano che la mancanza di stuccatura mette ulteriormente in rilievo. Nel programma del mosaico della seconda fase, che dal punto di vista archeologico appartiene chiaramente a una fase di restauro del pavimento della chiesa, sono preponderanti i motivi a intreccio geometrico con l’aggiunta di alcuni volatili,
Il mosaico della chiesa inferiore del villaggio di al-Quwaismah, a tre chilometri a sud di Amman, ritrovato per caso in un’abitazione, fu pubblicato nel 1948. Una breve campagna di scavi condotta nel 1982 ci permise di rilevare la pianta anomala della chiesa, ridotta a due aule parallele con un vestibolo comune in facciata utilizzato a scopo sepolcrale. Il mosaico presentava chiare tracce d’iconofobia nei motivi figurativi della navata dell’aula nord, che risultava absidata. L’edificio risultava una ricostruzione modificata nella pianta della chiesa primitiva eretta e mosaicata in epoca bizantina. Nell’iscrizione dedicatoria in greco, situata nei pressi della parete occidentale della navata meridionale, padre Saller lesse correttamente la data del mosaico, resa con l’Era Pompeiana utilizzata nel territorio della Decapoli, di cui faceva parte Philadelphia-Amman, che l’iscrizione testimoniava ancora in uso nell’epoca omayyade. La data indicava l’anno 780 della prima indizione, che corrisponde al 717-18 d.C. (primo secolo dell’Egira, al tempo del califfo Omar ii): «Per Provvidenza di Dio e per lo zelo e cura di Tzobeo il piissimo prete ed economo, fu restaurato dalle fondamenta tutto l’edificio di questa santissima chiesa e fu mosaicato per la salvezza sua e di Macedonio e di Abbiba e di Giovanni suoi fratelli, al tempo della prima indizione dell’anno 780 (dell’era pompeiana, cioè 717 dell’era cristiana)». Da una seconda iscrizione in aramaico cristo-palestinese che accompagna il mosaico sappiamo che probabilmente la chiesa faceva parte di un complesso monastico. In questa iscrizione si legge: «Che il Signore Gesù Cristo benedica questo luogo e tutti quelli di noi che l’amano. Amen. Perché è lui che cantano Stefano e Abd Raitu e Habbiba. Amen». La chiesa sull’acropoli di Ma‘in, un villaggio a sud ovest di Madaba, fu scoperta casualmente nel 1934 e pubblicata nel 1938. La chiesa risultava a navata unica con un ambiente di servizio a nord. Il mosaico pavimentale restava soltanto nel settore occidentale della navata e nell’ambiente di servizio. La fascia del tappeto centrale era suddivisa in due registri. Quello interno era decorato con una serie di girali di acanto animati con scene di caccia e di pastorizia. In quello esterno erano raffigurati degli edifici sacri con il nome in greco che rimandava a città e villaggi di area palestinese e transgiordanica separati da alberelli. Al momento dello scavo si conservavano undici vignette: Nicopolis (Emmaus), Eleutheropolis (Beit Gibrin) e Ascalon sul lato sud; Maiumas, Odroa e Gaza sul lato occidentale; Charach Mouba, Areopolis (Rabbatmouba), Gadoron, Esbounta e Belemounta sul lato nord. Il lavoro era stato terminato, come indicato nell’iscrizione dedicatoria presso la porta, nel terzo anno dell’indizione nell’anno 614 della Provincia Arabia, che corrisponde al 719-20 d.C. (primo anno dell’Egira, al tempo del califfo Omar ii).
Il complesso di S. Stefano a Umm al-Rasas Negli stessi anni, probabilmente nel 718, fu ricostruita e mosaicata la chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas, nella steppa a 30 chilometri a est di Madaba. I risultati degli scavi, da noi iniziati nell’estate del 1986, hanno rivoluzionato le nostre conoscenze della vita urbana e dell’attività dei mosaicisti di Madaba in epoca omayyade. I circa dieci ettari di rovine che occupano un’elevazione dell’altopiano, sono composti da un’area chiusa all’interno di un campo fortificato con alte e forti mura con contrafforti, e dal quartiere sviluppatosi a nord del campo, pressappoco delle stesse dimensioni. Sulla distesa scomposta e irreale di pietre cadute, descritta dagli esploratori del secolo scorso, emergono gli archi ancora in piedi, resti di colonne, brandelli di muri, architravi con croci. Sempre verso nord, a circa 1.300 metri di distanza, altre rovine meno estese sono sovrastate da una torre di circa 15 metri di altezza e da un torrione quadrangolare di due piani nei pressi di cave di pietre da costruzione successivamente riutilizzate come cisterne per la riserva d’acqua. La località di origine militare, come faceva fede il castrum quadrangolare, è uno degli esempi meglio conservati dell’evoluzione alla quale erano andati soggetti i castra di epoca tetrarchica con il venir meno delle guarnigioni dell’esercito romano lungo il limes, fenomeno che gli storici mettono in riferimento con la presenza degli Arabi federati al servizio dell’impero in epoca giustinianea. Come Umm al-Jimal e Khirbat al-Samra nel nord, anche il castrum di Umm al-Rasas aveva progressivamente acquistato un carattere abitativo civile, che si caratterizza per il quartiere sviluppatosi più o meno disordinatamente all’esterno delle mura con il suo intreccio di vicoli e, all’interno delle mura, per le costruzioni di nuove case con l’occupazione degli spazi urbani, piazze e strade che avevano stravolto il reticolo stradale ortogonale di epoca romana, facendone un doppione del quartiere extraurbano. In questa urbanistica casuale, i punti di riferimento erano diventate le chiese e le cappelle costruite dalla comunità cristiana. Iniziammo lo scavo in un’area sul limite settentrionale del quartiere fuori le mura. Il cumulo di pietre e di terra copriva una chiesa che con l’estendersi dello scavo è risultato un complesso ecclesiastico composto da quattro edifici sacri circondato da una serie di cortili e di cappelle minori. I pavimenti delle due chiese più grandi risultavano mosaicati in tempi diversi. Le iscrizioni in greco che abbiamo letto nel mosaico ci hanno guidato a comprendere l’evoluzione degli edifici. A una chiesa costruita e lastricata agli inizi del vi secolo, nota come la Chiesa dell’Edicola, fu aggiunta nella seconda metà dello stesso secolo la chiesa che abbiamo chiamato del Vescovo Sergio, provvista di un battistero e di una cappella funeraria. I mosaicisti terminarono di decorarne il pavimento nell’anno 586, al tempo del vescovo Sergio di Madaba nel cui territorio diocesano si trovava Umm al-Rasas. All’opera collaborarono economicamente le persone più abbienti della comunità a cominciare dai capi della città. Gli stessi benefattori si fecero ritrarre nelle scene agricole o venatorie mutuate dal repertorio di origine classica con le quali i mosaicisti decorarono la navata centrale della chiesa, inserite tra i motivi mitologici classici della Terra e dell’Oceano, con
l’aggiunta nei girali d’angolo della fascia dei quattro busti delle Stagioni. In un girale della navata aggiunsero anche la fenice con la testa radiata, l’uccello mitico che rinasce dalle sue ceneri. Nell’viii secolo, fu costruita la terza chiesa dedicata al Protodiacono e Protomartire santo Stefano in un’area a sudest della precedente già occupata da un edificio sacro utilizzato a scopo funerario. Nella ristrutturazione di tutto il complesso, che interessò la facciata della Chiesa del Vescovo Sergio e il cortile lastricato meridionale, un battistero e una cappella funeraria con due tombe ipogee furono ricavati nell’area sopraelevata antistante la facciata, e una quarta chiesa fu ricavata nel cortile lastricato con l’aggiunta di un’abside sul lato occidentale, addossata al muro poligonale della Chiesa dell’Edicola. La chiesa di Santo Stefano, sopralevata di circa un metro rispetto alla chiesa del Vescovo Sergio, fu dedicata al protomartire S. Stefano dalla «popolazione amante di Cristo di Kastron Mefaa e dal diacono Giovanni arconte capo dei Mefaoniti». Per due volte leggevamo, nell’iscrizione dedica-
Chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas, particolare.
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Charach Muba e Esbounta. Dettagli del mosaico della chiesa sull’acropoli di Ma‘in (719).
Nella pagina a lato: La vignetta della città palestinese di Ascalon. Dettaglio del mosaico nella navata centrale della chiesadi Santo Stefano a Umm al-Rasas Kastron Mefaa (viii sec. d.C.).
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toria scritta nel mosaico sulla testata orientale della navata centrale lungo il gradino del presbiterio, l’antico nome delle rovine di Umm al-Rasas/Kastron Mefaa, un toponimo già noto dalle fonti bibliche, romane e arabe. Nelle fonti romane del terzo e quarto secolo dopo Cristo Kastron Mefaa era un campo dipendente dal dux della provincia di Arabia, nel quale era acquartierato un distaccamento della cavalleria ausiliaria araba, come concordemente testimoniano l’Onomastikon di Eusebio di Cesarea e la Notitia Dignitatum. Nel campo erano acquartierati gli equites promoti indigenae. La località è probabilmente ricordata da Palladio nel Dialogo in cui tratta degli avvenimenti riguardanti l’esilio di san Giovanni Crisostomo, Patriarca di Costantinopoli. Quattro vescovi partigiani di Giovanni furono relegati in un lontano esilio, in regioni barbare. «Il vescovo Eulisios fu relegato a tre giorni di marcia da Bostra, in Arabia, per una strada più interna, in un forte di nome Mefas, nei pressi (della regione) dei Saraceni». Nelle fonti arabe della primitiva tradizione islamica Mayfa‘ah era la località della provincia di Arabia dove Zayd ibn ‘Amr, un animo inquieto contemporaneo e concittadino di Maometto, aveva incontrato il monaco Bahira che gli disse di tornare alla Mecca dove un profeta gli avrebbe indicato la vera religione di Abramo che egli invano aveva cercato nel suo girovagare. «Disse Ibn Ishaq: Un giorno i Quraishiti si riunirono per una festa presso uno dei loro idoli. Essi gli rendevano gloria, gli offrivano sacrifici, si trattenevano presso di lui e compivano il rito della circum-ambulazione… Quattro uomini si appartarono in segreto e si dissero: “Sappiate, che la vostra gente basa la propria credenza su niente… Essi hanno deviato dalla religione del loro padre Abramo! Che cos’è una pietra intorno alla quale giriamo?
Gente, cercate una religione per le vostre anime…” Si separarono quindi per le diverse regioni, cercando la hanifiyah, la religione di Abramo…». Tre di loro, dopo aver chiesto ai magi persiani, ai rabbini e ai monaci cristiani, si fecero battezzare. «Zayd ibn Amr aveva deciso di uscire dalla Mecca per percorrere il paese e andare alla ricerca della hanifiyah, la religione di Abramo… Uscì quindi alla ricerca della religione di Abramo interrogando monaci e rabbini, fino ad attraversare l’intera penisola di Mesopotamia. Poi raggiunse e attraversò tutta la Siria, finché arrivò presso un monaco di Mayfa‘ah nella terra della Balqa. Questi era pervenuto alla conoscenza della scienza dei cristiani nella quale eccellono. Lo interrogò sulla hanifiyah, la religione di Abramo. Rispose: “Tu sei alla ricerca di una religione alla quale, oggi, tu non puoi trovare chi ad essa ti conduca, ma il tempo fa schermo ad un profeta che esce dal tuo paese dal quale sei uscito. Egli sarà mandato con la religione di Abramo, la hanifiyah. La verità è in essa. Egli è inviato ora, questo è il suo tempo”. Zayd aveva appena fiutato il giudaismo e il cristianesimo, ma non fu appagato da nessuno dei due. Allora egli si allontanò in fretta appena quel monaco gli disse ciò che aveva detto, diretto alla Mecca, allorché, trovandosi nel mezzo del paese di Lakhm, lo aggredirono e lo uccisero». Nella tradizione posteriore, è Maometto in persona che aveva incontrato il monaco cristiano che gli aveva predetto la sua futura missione di Profeta dell’Islam. Nella Bibbia Mefaat è una città dell’altopiano moabita conquistata dalla tribù di Ruben e scelta come città di rifugio e di asilo per gli omicidi involontari. Dati storici che finalmente avevano una localizzazione geografica. Nella quarta e quinta linea dell’iscrizione dedicatoria si leggeva anche l’anno della costruzione, specificando che era 225
La vignetta della città egiziana di Kynopolis. Dettaglio del mosaico nella navata centrale della Chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa (viii sec. d.C.).
dato secondo l’era della Provincia Arabia: «Al tempo del santissimo vescovo Sergio, fu terminato il mosaico del santo e illustre protodiacono e protomartire Stefano, a cura di Giovanni (figlio) di Isacco di Lexos, amatissimo da Dio diacono e arconte dei Mefaoniti, economo; e di tutto il popolo amante di Cristo del campo dei Mefaoniti, nel mese di ottobre dell’indizione seconda, dell’anno della Provincia Arabia 680, per il ricordo e il riposo di Fidonos (figlio) di Aeias, amante di Cristo». Purtroppo, le lettere originali dell’iscrizione risultavano restaurate. Restavano integri il nome del mese e la cifra dell’anno di indizione. Il mosaico era stato terminato «nel mese di settembre dell’anno 680 della Provincia Arabia, il secondo anno dell’indizione». Secondo quetso testo, si avrebbe l’anno 785 dell’era cristiana, anno che però non coincide con il secondo anno dell’indizione. Tenendo fermo questo ultimo dato, con un piccolo ritocco, si potrebbero ricostruire le cifre dell’anno 612 della Provincia, che corrisponde al secondo anno dell’indizione, cioè 717-18 dell’era cristiana. La data così ricostruita ha il merito di riportare il mosaico a un periodo durante il quale furono restaurati i mosaici delle chiese di Ma‘in e di al-Quwaysmah, e di ridare una sequenza
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logica alle fasi di intervento nella chiesa: costruzione nel 717-18 con messa in opera del mosaico, rifacimento del mosaico del presbiterio in epoca successiva. In entrambi i casi, il vescovo Sergio ricordato nell’iscrizione precede il vescovo Giobbe ed è un vescovo distinto dal suo omonimo del vi secolo ricordato in molte chiese della diocesi. Il mosaico della chiesa di S. Stefano, anche se purtroppo mutilato nelle parti figurative durante la crisi iconofobica che imperversò con particolare radicalità nei territori governati dai musulmani tanto da non risparmiare né i ritratti di benefattori, né gli animali, resta uno dei capolavori degli artigiani mosaicisti noti con il nome di Scuola di Madaba. In questo lavoro dell’viii secolo si assommano le tematiche affermatesi precedentemente nella regione. Risalta inoltre in modo particolare la predilezione dei mosaicisti locali per le composizioni architettoniche. Infatti il ricco programma decorativo del pavimento della chiesa è impostato in gran parte su 28 vignette di città identificate da una vignetta esplicativa: dieci vignette di località del delta egiziano, a cominciare da Alessandria, che accompagnano i motivi fluviali della fascia che chiude il tappeto della navata centrale e diciotto vignette di città di Palestina e di Transgiordania,
che decorano gli intercolunni della chiesa e le testate orientali delle due navate laterali. Le otto vignette delle città della Palestina che decorano l’intercolunnio nord iniziano con la Santa Città di Gerusalemme e terminano con Gaza, passando per Neapolis/Nablus, Sebastis, Kaisaria, Diospolis Lidda, Eleutheropolis/Beit Jibrin, Askalon, Gaza. Le vignette di Transgiordania, con tipico spirito di campanile, iniziano con la doppia vignetta di Kastron Mefaa, una delle tante sorprese riservataci dallo scavo di questa chiesa. In aggiunta al nome delle rovine di Umm er-Rasas abbiamo anche la pianta della città che il mosaicista ha voluto raffigurare nella sua realtà topografica sdoppiando la vignetta. In alto raffigurando il castrum chiuso nelle alte mura; in basso, nella vignetta aggiuntiva, il quartiere fuori le mura caratterizzato da alcune chiese e da una colonna che si innalza solitaria al centro di una piazza. Se il mosaico della chiesa del vescovo Sergio, datato al 586, pur di alta qualità, va ad aggiungersi agli altri numerosi mosaici contemporanei di Madaba e del suo territorio, il mosaico della chiesa di S. Stefano è uno dei monumenti più importanti finora scoperti in Giordania. Trova un equivalente storico soltanto nella Carta musiva di Palestina scoperta in una chiesa di Madaba nel 1896. Senza dimenticare il mobilio liturgico delle chiese che abbiamo potuto recuperare in frammenti sparsi per le rovine, come lastre di plutei e pilastrini di balaustra, capitelli e colonnine degli altari e del ciborio, reliquiari, lampade e brocchette in vetro, lucerne e oggetti vari di terracotta, che aiuteranno a precisare la cultura materiale e artistica degli abitanti di Kastron Mefaa. In una seconda iscrizione dell’abside della chiesa il cui lungo testo si svolgeva su tre lati dell’altare, si leggeva che la comunità di Kastron Mefaa aveva deciso di rinnovare il mosaico del santuario e che il lavoro era stato portato a termine da una squadra composta dal mosaicista Staurachios di Hesban e dal suo collega Euremios. Da anni ci sembrava ovvio che i mosaici scoperti nella regione fossero opera di maestranze locali arabe. La precisazione sull’origine del mosaicista della chiesa di S. Stefano (Hesban/Esbus è una cittadina sede episcopale a 7 chilometri a nord di Madaba) accreditava la nostra ipotesi. Benefattori erano stati diversi cristiani benestanti della cittadina, membri del clero e laici, di cui si elencavano i nomi. Dietro l’altare, in un semicerchio dal quale iniziava il motivo a scudo di quadrati di tessere rosse con sovrapposizione di uno scudo di rombi di tessere bianche caricati di croci a formare ellissi, che decorava la semilunetta dell’abside, l’iscrizione terminava con un nome di donna, Maria. Tenendo presente che la gran parte dei benefattori porta nomi di origine araba o genericamente semitici, come Abosobeos, Uaias, Alafa, Gomela, Abdallos, Obedou, e che per le relazioni familiari si ricordano solo i padri, i figli e i fratelli, fatto che trova una spiegazione storica nell’origine etnica araba della popolazione di Kastron Mefaa, il rilievo dato nel presbiterio alla benefattrice Maria non può essere casuale, anche se non possiamo dirne di più, se non ricordare il ruolo che alcune donne ebbero nella tradizione delle tribù arabe anche cristiane nel corso della loro storia. Il lavoro era stato terminato al tempo del vescovo Giobbe di Madaba nel mese di marzo dell’anno 670, l’indizione nona,
che corrisponde al 756 d.C. La datazione indiscutibile con l’era della Provincia, di colpo rimetteva in discussione luoghi comuni accettati acriticamente dagli storici riguardanti principalmente la fine della comunità cristiana urbana nella regione. Ora sapevamo che nella seconda metà dell’viii secolo era ancora fiorente nella diocesi di Madaba la comunità cristiana con a capo un vescovo, e che nella steppa la comunità cristiana della cittadina di Kastron Mefaa, economicamente prospera per permettersi lavori di un certo costo, era organizzata civilmente e ecclesiasticamente, con a capo un diacono, nell’ambito dell’amministrazione statale musulmana. Un’evidenza archeologica che sta a testimoniare un’attitudine di relativa tolleranza da parte dell’autorità musulmana almeno durante il primo secolo dell’Islam. Nell’iscrizione avevamo la risposta a tante domande che ci eravamo poste in un lungo decennio di ricerche in Giordania riguardanti la storia della comunità cristiana espressa nei mosaici delle sue chiese. Il rifacimento fu limitato all’area del bema a gamma suddiviso funzionalmente in due spazi, quello della piattaforma absidata in relazione con l’altare coperto dal ciborio, e lo spazio antistante l’ambiente di servizio meridionale, delimitati da una treccia continua. L’area centrale del presbiterio scandita in tre scomparti è circondata da una treccia a doppio capo formata da una catena di quadrati sulla diagonale con nodi rotondi. Lo scomparto centrale è occupato dall’altare e dal doppio testo dell’iscrizione dedicatoria sui lati. Un pannello rettangolare con quadrati e cerchi allacciati e annodati con fiori aggiunti nelle risulte decora la zona davanti all’altare. La semicalotta absidata è decorata con uno scudo di quadrati di tessere rosse sul quale si sovrappone uno scudo di rombi di tessere bianche caricati di croci a formare ellissi con partenza da una lunetta a conchiglia dietro l’altare. Una treccia composta da una coppia di bande incrociate contrapposte e allacciate con ondulazioni oblique delimita l’area del bema antistante l’ambiente di servizio meridionale. Un motivo unico a intreccio multiplo ne decora il quadrato centrale allacciato a un cerchio, al cui interno è inserita una serie di cerchi allacciati e intrecciati con due quadrati lobati che inquadrano a loro volta quadrilobi annodati e intrecciati. Al centro è inserita una croce di fiori. Due anfore con viticci e due cerchi annodati decorano gli angoli di risulta. Non meraviglia trovare il parallelo stilisticamente più vicino a questa composizione nel mosaico della sala grande del bagno nel palazzo omayyade di Khirbat al-Mafjar a Gerico.
La chiesa della Vergine a Madaba Il nome del vescovo Giobbe e la data alta del mosaico di S. Stefano, servirono da chiave di lettura della data dell’iscrizione nella cappella della Theotokos nel Wadi ‘Ayn al-Kanisah sul Monte Nebo, e di conseguenza del mosaico della chiesa della Vergine a Madaba. Nei pressi della porta in facciata della cappella, il manto musivo fu rifatto con un motivo geometrico autonomo di ottagoni intrecciati a formare esagoni e quadrati a nord, e un reticolo di rombi alternati a quadrati a sud che inquadravano un pannello centrale con un’iscrizione in cerchio. Contemporaneamente fu rifatto anche il tratto di
Nelle pagine seguenti: Le rovine di Umm al-Rasas/Kastron Mefaa viste da nord ovest. Una foto generale del mosaico della chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas (viii secolo d.C.)
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Iscrizione dedicatoria della chiesa del Vescovo Sergio nel complesso di Santo Stefano a Umm al-Rasas messo in opera nell’anno 482 della Provincia di Arabia (587 d.C.).
Nella pagina a lato: Stagione. Dettaglio della chiesa del Vescovo Sergio nel complesso di Santo Stefano a Umm al-Rasas, unica figura sfuggita integra alla crisi iconofobica dell’viii secolo (ii secolo dell’Egira).
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cornice corrispondente sui lati. Negli angoli tra il riquadro e il cerchio con l’iscrizione furono aggiunti quattro vasetti da cui sgorgano getti d’acqua accompagnati dai nomi dei quattro fiumi del Paradiso, un motivo ampiamente attestato nei mosaici della regione, qui ridotto all’essenziale: Ghwn, Ghion; Fhswn, Fison; Tivgrh, Tigri; Eujfravth, Eufrate. Con il nome del monastero dedicato alla Madre di Dio, e il vescovo Giobbe, nell’ultima linea dell’iscrizione, la data era resa con il «signe bizarre», come scrisse Clermont-Ganneau dello stesso segno usato per le centinaia nell’iscrizione dedicatoria della chiesa della Vergine a Madaba. Sulla base documentaria di iscrizioni che recano lo stesso segno in due cappelle di Gerusalemme, e tenendo presente il nome del vescovo Giobbe che dalla chiesa di S. Stefano sappiamo in sede nel 756, il segno va letto come un digamma con l’aggiunta di uno stigma per le migliaia, perciò 6.000, secondo l’era bizantina che risultava utilizzata anche nei mosaici e non soltanto nei manoscritti di epoca posteriore. Nell’iscrizione di ‘Ayn al-Kanisah la quindicesima indizione dell’anno 6070 dell’era bizantina corrisponde all’anno 762 d.C. La lettura dell’iscrizione di ‘Ayn al-Kanisah ha permesso di datare il rifacimento del mosaico della chiesa della Vergine di Madaba nel novembre del 767 d.C., al tempo del
vescovo Teofane che per ora è l’ultimo nome attestato della lista episcopale della cittadina della Provincia. Una scoperta che dava nuovo senso alle due iscrizioni della chiesa che già erano state lette nel secolo scorso. Nell’iscrizione nei pressi del gradino del presbiterio si legge: «Al tempo del piissimo nostro padre il vescovo Teofane fu realizzato questo bellissimo lavoro di mosaico della gloriosa e venerabile casa della santa e immacolata regina (la Vergine) Theotokos grazie allo zelo e all’ardore del popolo amante di Cristo di questa città di Madaba, per la salvezza e il soccorso e la remissione dei peccati di quelli che hanno offerto e di quanti offrono a questo santo luogo. Amen, o Signore. Fu terminato per grazia di Dio nel mese di febbraio dell’anno 6274, la quinta indizione (767 d.C.)». Nel contesto storico definito dalla data dell’iscrizione di una popolazione cristiana che convive con la comunità o l’autorità musulmana da più di un secolo nella regione, la formula «popolo amante di Cristo di questa città di Madaba» piuttosto usuale nelle iscrizioni di epoca precedente, acquista una nuova valenza di affermazione di identità. Come lo è certamente la riaffermazione puntigliosa e precisa della terminologia teologica usata per la Vergine Maria Theotokos, detta Santa, Immacolata e Regina! 231
Al centro della chiesa, in un medaglione riccamente decorato l’iscrizione si rivolgeva a chi entrava e si dirigeva verso l’altare: «Se vuoi guardare Maria, Madre verginale di Dio e il Cristo da lei generato, Re universale Figlio Unico dell’Unico Dio, purifica mente, carne e opere! Possa tu purificare con le tue preghiere il popolo di Dio». L’esortazione letterariamente di tono poetico e arcaicizzante (al termine Theotokos-Madre di Dio della precedente iscrizione qui si sostituisce il sinonimo Theometora), inculca la purezza d’animo necessaria per accostarsi a contemplare l’icona della Madre di Dio affrescata o mosaicata nel catino absidale della chiesa. Nella polemica che all’epoca divideva la chiesa anche di Transgiordania tra iconoclasti e iconoduli, l’estensore dell’iscrizione e con lui il popolo di Madaba, si schierano decisamente dalla parte degli ortodossi che accettavano la dottrina della presenza divina nelle icone sacre e di conseguenza della legittimità del culto loro prestato. Tenendo presente che uno degli argomenti principali della polemica teologica che opponeva cristiani e musulmani riguardava l’unicità di Dio riaffermata dai musulmani come opposta alla trinità e alla figliolanza divina di Gesù Cristo 232
creduta dai cristiani, la ricercatezza e precisione delle formule teologiche non è certamente casuale. Per comprendere in tutta la sua forza la dichiarazione di fede dell’iscrizione, bisogna ricordare che a Gerusalemme, nel santuario della Roccia fatto costruire dal califfo ‘Abd al-Malik verso la fine del vii secolo sulla spianata del Tempio giudaico, in una chiara affermazione polemica della nuova fede sull’ebraismo e sul cristianesimo, la lunga iscrizione di ben 240 metri che accompagna la decorazione a mosaico dell’interno del tamburo su cui è impostata la cupola dell’edificio, è rivolta proprio ai cristiani: «O gente del Libro! Non siate stravaganti nella vostra religione e non dite di Dio altro che la verità. Perché il Cristo Gesù figlio di Maria non è che il Messaggero di Dio, il suo Verbo che egli depose in Maria, uno Spirito da Lui esalato… Smettetela di dire tre… Il Dio è uno solo! … Prega per il tuo Profeta e il tuo servo Gesù figlio di Maria». Il popolo amante di Cristo di Madaba, in un’epoca di difficoltà e in uno degli ultimi lavori datati della scuola di bottega di mosaicisti per i quali la città è nota, ribadisce con chiarezza e fermezza la sua fede nella divina maternità della Vergine Maria, riaffermando la regalità universale di Cristo che ella ha generato Figlio Unico del Dio Unico.
Il mosaico superiore nel presbiterio della chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas, datato al 756 d.C.
Nella pagina a lato: Cesto con grappoli d’uva, torchio per il vino e alberello con due uccelli risparmiati dagli iconofobi. Dettagli della chiesa del Vescovo Sergio nel complesso di Santo Stefano a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa.
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in molte di queste opere i motivi figurativi animati furono volontariamente rimossi o sfregiati. Il fenomeno è stato posto in relazione con la crisi iconoclastica che investì il mondo bizantino e specialmente Costantinopoli nell’viii secolo. Giustamente però si è fatto notare il carattere particolare dell’evidenza come si presenta nelle chiese della Provincia Arabia, che porta a distinguere il fenomeno iconoclastico bizantino con un carattere più propriamente teologico che riguardava la venerazione o meno delle icone di Gesù Cristo, della Vergine Maria e dei Santi, dal fenomeno iconofobico come si presenta nei territori delle province bizantine di Palestina e di Arabia, Bilad al-Sham (Paesi del Nord) di epoca arabo-omayyade, dove vengono prese di mira le figurazioni umane e animali. La mancanza di fonti scritte che diano ragione della genesi e della precisazione temporale del fenomeno, obbliga l’archeologo a precisare il problema dandone una documentazione possibilmente completa, prima di tentarne una interpretazione storica.
Fagiani e colombi affrontati da una anfora con piedistallo nell’abside settentrionale della chiesa dei Leoni a Umm al-Rasas/ Kastron Mefaa sfigurati durante la crisi iconofobica dell’viii secolo (ii secolo dell’Egira).
I sette pavimenti mosaicati dell’viii secolo sono legati tecnicamente e stilisticamente. Tutti mostrano una preferenza per i motivi a intreccio del repertorio geometrico che diventerà una delle caratteristiche dell’arte islamica; un certo horror vacui con una sovrabbondanza di elementi decorativi accessori, come fiori e diamanti aggiunti negli spazi di risulta della composizione geometrica. Tecnicamente le tessere sono mal tagliate o di recupero, così da generare nella messa in opera una certa irregolarità nelle linee del disegno. Inoltre la scelta dei colori delle tessere è piuttosto omogeneo con una preferenza per i toni sobri. Un altro dato da tener presente è il fatto che tutti questi mosaici fanno parte di un rifacimento della chiesa. La data e questi elementi tecnici comuni, come pure il modo molto simile di scrivere le lettere delle iscrizioni, possono essere altrettanti indizi per attribuire i tre mosaici della seconda metà dell’viii secolo alla stessa squadra di mosaicisti di cui conosciamo almeno due nomi, Staurachios di Hesban e il suo collega Euremio, conservati nell’iscrizione presso l’altare della chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas. Lo scavo delle chiese di Umm al-Rasas è anche servito a precisare i problemi storico-liturgici riguardanti in particolare l’evoluzione dell’altare nel bema o presbiterio rialzato, quello delle cosidette tavole per le offerte nei pressi della balaustra di recinzione, l’evoluzione dell’ambone e la natura degli ambienti annessi, come il diakonikon e il battistero. Dalle scoperte sensazionali della prima campagna di scavi nell’estate del 1986, il cantiere è diventato un campo di ricerca avanzata delle antichità cristiane nel territorio della Provincia Arabia. È oramai un fatto assodato che l’altare fisso, quello che noi conosciamo con la mensa sorretta da quattro colonnine, compare soltanto
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tardivamente nella regione. Per inserire gli alloggiamenti delle colonnine, i muratori furono obbligati a rompere i mosaici pavimentali del presbiterio che nelle chiese di Giordania non vanno oltre la prima metà del v secolo. In casi particolari, al posto degli alloggiamenti per lo più in pietra, fu poggiata sul mosaico una spessa e larga lastra di pietra nella quale furono inserite le colonnine. Bisogna attendere la fine del vi secolo per avere dei programmi musivi che nell’esecuzione prendono in considerazione la presenza dell’altare. Il primo esempio sicuro lo abbiamo nel mosaico del presbiterio della chiesa dei Leoni datato al tempo del vescovo Sergio di Madaba (574-603). Lo stesso si può dire dell’ambone che risulta un arredo parallelamente tardivo, inizialmente soltanto poggiato sul mosaico. Nella chiesa di S. Stefano, dell’viii secolo, il mosaicista, che aveva preparato il programma decorativo del pavimento, aveva previsto sia la presenza della base dell’ambone, spostando verso nord l’iscrizione dedicatoria, e l’altare al centro dell’abside che era stato costruito in muratura con l’alloggiamento del reliquiario nel lato posteriore. Nello stesso periodo gli altari delle altre chiese erette nel vi secolo furono anch’essi rifatti in muratura, semplicemente inglobando l’altare precedente. In questa fase tardiva, l’altare risulta al centro della corda absidale per le chiese più grandi, o contro la curvatura absidale e la parete orientale nelle cappelle, come nella Cappella dei Pavoni e nella Cappella della Colonna.
Tracce della crisi iconofobica Dall’indagine archeologica e dallo studio dei pavimenti mosaicati che accompagnano le chiese della Provincia, risulta che
Malgrado la preferenza per i motivi del repertorio geometrico a intreccio, i mosaicisti anche in periodo omayyade continuano a utilizzare motivi figurativi. L’esempio più significativo è dato dal mosaico del corpo della chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas, dove si trovano le tradizionali scene pastorali, di caccia e di pesca, i ritratti dei benefattori, le vignette architettoniche di città e una possibile personificazione nel tondo sulla testata orientale della navata nord della chiesa. A eccezione dei mosaici della chiesa di Shunah al-Janubiyah, tutti i motivi figurativi delle chiese mosaicate in epoca omayyade risultano mutilati, dando così un importante terminus post quem per l’inizio della crisi iconofobica che finora resta fissato al 718. Della crisi soffrirono anche i mosaici delle chiese di epoca precedente ancora in uso nell’viii secolo. In molti casi, i danni furono restaurati con cura utilizzando le stesse tessere policrome delle figure distrutte, o con tessere di misura diversa, o con intonaco di calce mescolato con cocci. In qualche caso, i mosaicisti incaricati del lavoro aggiunsero nuovi motivi geometrici o floreali che perciò sono legati cronologicamente ai danni iconofobi e da datare all’viii secolo. Storicamente illuminanti sono la croce e uno schema di edificio in sostituzione di volatili accuratamente sfigurati presenti nel mosaico superiore della navata centrale della chiesa di Massuh, un villaggio della diocesi di Hesban-Esbus, a nord di Madaba. Nella chiesa del vescovo Sergio a Umm al-Rasas (587 d.C.), un motivo geometrico e un motivo floreale a foglie lunghe sostituirono un volatile tra due cespi di fiori nei pressi del gradino del presbiterio; un diamante fu aggiunto nella navata nei pressi della personificazione dell’Abisso, un calice fu eseguito al posto di una scena di vendemmia in un girale del lato nord della fascia del tappeto, e un’anfora biansata fu sovrapposta in un girale del lato sud della stessa fascia. A essi bisogna aggiungere la riscrittura approssimativa di una iscrizione ricopiata dalla navata settentrionale di S. Stefano sulla testata orientale della navata sud. Una delle prove più convincenti del carattere cronologicamente unitario del fenomeno iconofobico da porre nell’viii secolo.
Sempre a Umm al-Rasas, nel mosaico della chiesa dei Leoni, messo in opera al tempo del vescovo Sergio verso la fine del vi secolo, la scena verosimile di caccia con i ritratti dei benefattori che corre nei pressi del gradino del presbiterio, fu sostituita da un reticolo obliquo di rombi ispirato al motivo delle navate laterali. Due foglie a forma di cuore furono aggiunte sulla silhouette vuota del cacciatore nei pressi dell’ambone. Un cespuglio stilizzato senza foglie rimpiazza una figura in un girale di acanto nel terzo registro del tappeto. Le sostituzioni più numerose si trovano nei mosaici di epoca omayyade. Nella chiesa sull’acropoli di Ma‘in, il nodo di Salomone, i cerchi intrecciati e annodati, scudi di fasce policrome concentriche con fiori sostituirono le figure negli ottagoni risultanti dal motivo a croci di scuta. Una lepre riconoscibile dalle lunghe orecchie dritte superstiti fu sostituita da un campo di fiori. Fiori, frutti e foglie polilobate, e in un caso una croce di fiori sostituirono le figure umane e gli animali nei girali di foglie di acanto della fascia interna. Il doppio motivo di una foglia e di un campo di fiori, sostituì solo in parte una fiera trafitta da un colpo di lancia. Il più celebre di questo tipo di sostituzioni si trova nel pannello orientale di un ambiente di servizio a nord della chiesa. Della composizione originale non restano che la lunga coda a pennacchio, gli zoccoli, la gobba e le corna del bue affrontato a un leone, ai quali rimanda la citazione letterale del Profeta Isaia riportata in alto. La scena di filia era stata sostituita da un arbusto e da un cantaro dal quale fuoriescono due tralci con foglie e viticci. Nel mosaico della chiesa di S. Stefano a Umm al-Rasas restano diversi esempi di questi tipi di sostituzione. Il pannello rettangolare che introduce il tappeto nei pressi del gradino del presbiterio era decorato originariamente con il testo della lunga iscrizione dedicatoria e con una teoria di sette donatori alternati ad alberelli carichi di frutti. Il primo donatore, di cui resta il nome, fu sostituito con una foglia, un cerchio di fiori a forma di croce e un diamante. Il secondo, che portava un agnello, di cui resta la testa mimetizzata tra i rami dell’alberello, fu sostituito con un quadrato di fiori e tre cerchi concentrici. Un ramo con foglie larghe lanceolate o rotonde sostituì la quinta figura che era accompagnata da un animale. Lo stesso motivo semplificato, ma con l’aggiunta di un cerchio, di un fiore a forma di croce fu utilizzato al posto della sesta figura, che recava un pavone di cui restano le lunghe piume della coda. Un flautista, riconoscibile dallo strumento salvatosi tra le fronde dell’alberello, fu sostituito da una foglia trilobata tra due fiori. Nei girali del tappeto centrale, una croce di fiori sostituì un animale nel primo registro e un fiore fu aggiunto al posto di due volatili con un ramoscello schematico rifatto sulla parte posteriore dell’animale. Un ovale fu aggiunto su un volatile nella risulta tra due girali. Nel secondo registro quattro diamanti si sostituirono a un cervo, e un ramoscello scheletrico a un bue. Nel terzo registro tre diamantini prendono il posto di un asino. Una foglia a cuore rimpiazza due animali nel quarto registro. Nel settimo registro, due ramoscelli con foglie lanceolate si sovrappongono a una fiera e una foglia a punta sostituisce la testa di un cacciatore. In basso, nella risulta tra i girali, un motivo a croce 235
«E il leone come il bue mangerà la paglia». Pannello nel pavimento della chiesa sull’Acropoli di Ma‘in del 719 d.C. (primo secolo dell’Egira) sfigurato durante la crisi iconofobica dell’viii secolo.
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rimpiazza un uccello. Nell’ottavo registro, un diamante è inserito al centro di un girale sul fondo bianco rifatto. Nel nono registro, ancora una foglia sostituisce una fiera. Un motivo floreale composto da un ramo con sette foglie è aggiunto al centro di un girale nel decimo registro. Nella fascia nilotica che circonda il tappeto, si ritrova il motivo precedente con foglie a raggiera, chiuso in alto da un fiore a forma di croce presso la vignetta di Pelusium. La sostituzione che più colpisce è il pesce bianco su fondo nero che rimpiazza una scena di pesca composta da puttini pescatori, dai pesci e da anitre. Bisogna naturalmente supporre che si tratta di un pesce morto in sostituzione di creature soppresse perché vive. Tra i motivi figurativi doppi della navata nord, viene sfigurato solo uno dei due pesci su vassoio. Si trova una coppa e un ramoscello che si sostituiscono ciascuno a un volatile. Le foglie lanceolate sono identiche a quelle già viste nella chiesa del vescovo Sergio, un indice supplementare a favore del carattere contemporaneo dell’intervento iconofobo, almeno nelle chiese di Umm al-Rasas. Un donatore ritratto nel pannello nei pressi della probabile cappella martiriale di S. Stefano è sostituito da due diamanti e due cerchi. Una croce di fiori è aggiunta al ritratto del donatore raffigurato all’estremità orientale della navata meridionale.
A parte l’edificio nella chiesa di Massuh e il pesce nella fascia nilotica di S. Stefano, i motivi sostitutivi sono presi dal repertorio geometrico e vegetale normalmente già presenti in chiesa. Il reticolo nella chiesa dei Leoni, l’iscrizione della chiesa del Vescovo Sergio copiata dal mosaico di S. Stefano, le foglie a forma di cuore che decorano le risulte dell’intreccio della navata sud, le foglie polilobate che sostituiscono i donatori sono le stesse che accompagnano nella composizione originale i ritratti dei benefattori nella navata nord. Padre Saller, primo direttore dello scavo del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo, aveva già fatto notare che l’arbusto e l’anfora aggiunti alla scena di filia nell’ambiente settentrionale della chiesa sull’acropoli di Ma‘in sono così simili dal punto di vista stilistico agli stessi motivi presenti nel mosaico originale della chiesa da far pensare che siano opera dello stesso mosaicista prima autore e poi distruttore della sua opera. Questo dettaglio, se vero, sarebbe un indizio della quasi contemporaneità della realizzazione del pavimento (719/720) e del fenomeno iconofobico, che in tal caso sarebbe da mettere in relazione con il presunto ordine di Yazid ii. In questo contesto il mosaico della cappella della Theotokos nel Wadi ‘Ayn al-Kanisah acquista una sua impor-
tanza storica. Nella cappella si può notare un dato interessante che forse è da tenere presente nel tentativo di fissare sempre più precisamente la data del fenomeno iconofobico che riguarda le ex province dell’impero bizantino sotto governo islamico. Nel terzo registro di girali si può notare la testa di un cervo rifatta dopo il guasto e il restauro iconofobico con l’aggiunta di due corna filiformi, quando invece le corna originali erano seghettate e multiple come quelle visibili negli altri girali. Se la presenza di figure nei mosaici datati alla prima metà dell’viii secolo riporta il fenomeno a dopo quelle date, normalmente a dopo il 719, il particolare rifacimento figurativo potrebbe fissare una data ante quem al 762, quando l’ordine iconofobico non era più in vigore. Tale datazione potrebbe anche spiegare il contenuto dell’iscrizione nel medaglione centrale della chiesa della Vergine, rivolta al fedele che entra in chiesa, che fa diretto riferimento all’icona della Vergine Theotokos da immaginare dipinta o mosaicata nell’abside della chiesa: «Se vuoi guardare Maria, madre verginale di Dio, e il Cristo da lei generato…». Il mosaico datato al 767, al tempo del vescovo Teofane, risulterebbe eseguito dopo il periodo di crisi. Al di fuori dei mosaici, tracce di iconofobia risultano nel mobilio liturgico della chiesa dei Leoni e in un ambiente del complesso di S. Stefano a Umm al-Rasas. Testimonianze già notate su alcuni marmi delle chiese di Gerasa e di Pella in area transgiordanica. Nella chiesa dei Leoni furono abrasi due agnelli scolpiti in rilievo ai lati della croce, su una lastra di pluteo della balaustra in scisto bituminoso ancora al suo posto sul lato nord del presbiterio al momento dello scavo. Stessa evidenza sul resto di un pluteo trovato in situ nella chiesa del Prete Wu’ail, sempre a Umm al-Rasas. Lo scavo in profondità di un ambiente coperto ad archi a ridosso della chiesa del Cortile nel complesso di S. Stefano (Locus M o Cappella della Colonna) ha ridato diversi frammenti di plutei in marmo con tracce di agnelli abrasi. Questi frammenti erano stati utilizzati come materiale di riempimento quando il pavimento del vano era stato rialzato, bloccando una delle due porte di discesa alla chiesa del Cortile, e l’ambiente era stato cambiato in cappella con l’aggiunta di un piccolo presbiterio sulla parete orientale. Agli stessi plutei appartenevano altri frammenti sparsi nel cortile sud di S. Stefano e un frammento riutilizzato nel pavimento della stes-
sa cappella visibile in superficie. Dall’esame della ceramica recuperata nello scavo, la cappella risulta costruita in epoca omayyade e abbandonata verso la prima metà del ix secolo. La scoperta dei frammenti fa ipotizzare un precedente mobilio in marmo per almeno una delle chiese del complesso sostituito in epoca tarda da plutei in scisto bituminoso presenti nella chiesa al momento dell’abbandono. Ipotizzandone l’uso nella chiesa di S. Stefano, dove abbiamo recuperato anche un pilastrino in marmo con iscrizione e altri elementi in marmo, si potrebbe pensare che la sostituzione avvenne al momento del rifacimento del mosaico del presbiterio nel 756. Perciò l’intervento iconofobico sarebbe da porre prima di quella data. Il ritrovamento di questi frammenti di plutei sotterrati nel pavimento di una cappellina tardiva improvvisata con materiali di recupero, è una preziosa testimonianza per ribadire che i cristiani continuarono a restare in possesso degli edifici sacri che avevano subìto il fenomeno iconofobico. Nello scavo della chiesa del Prete Wu’ail, nell’estate del 1990, una nuova evidenza venne ad aggiungersi al dossier iconofobico della regione. Per la prima volta riuscimmo a recuperare quattro conci della calotta absidale ancora coperti dall’intonaco pitturato. I conci provenivano dalla zona meridionale della calotta ed erano caduti sul mosaico pavimentale della chiesa, in un’area evidentemente protetta dalle intemperie e ancora relativamente sgombra da macerie. I quattro conci giustapposti ci hanno ridato la figura nimbata di un santo con barba seduto con un Vangelo nella mano sinistra, all’interno di una fascia decorata con volatili in medaglioni. La figura del Santo mostrava vistose tracce di colpi di piccone tirati dall’alto in basso che si erano abbattuti sull’intonaco con l’evidente scopo di sfregiarlo. I colpi più numerosi risultavano nella zona del viso. Anche se lo sfregio non ha gli stessi caratteri di radicalità distruttiva riscontrata nei mosaici e sui plutei, e, teoricamente, potrebbe essere stato eseguito in un secondo tempo, quando la chiesa era già stata abbandonata, abbiamo in questa figura la prima testimonianza diretta per affermare che lo sfregio a Kastron Mefaa non era limitato alle figure dei mosaici pavimentali e del mobilio liturgico, ma riguardava anche le icone dei Santi affrescati o mosaicati sulle pareti delle chiese. Abbiamo cioè una prima testimonianza archeologica per un possibile movimento iconoclastico parallelo a quello di area bizantina con coinvolgimento delle figure umane e animali. Da quando il probema dell’iconofobia fu discusso dai padri Saller e Bagatti nel volume dedicato ai mosaici delle chiese del villaggio di Nebo e di Madaba pubblicato nel 1949, il dossier va sempre più arricchendosi di testimonianze. Dopo gli studi recenti, possiamo affermare che alcuni punti fermi siano già stati raggiunti: la datazione del fenomeno al periodo di occupazione musulmana, da fissare con buona probabilità nel secondo quarto dell’viii secolo, e l’attribuzione agli artigiani cristiani dell’esecuzione materiale della rimozione delle figure, come dimostra tra l’altro l’aggiunta di una croce nel restauro del mosaico nella chiesa di Massuh. Resta ancora in discussione la paternità dell’ordine iconofobico: il pio atto è da addebitare all’ordine dei vescovi o dei
Lastra in marmo di balaustra con i due agnelli in adorazione della croce erasi durante la crisi iconofobica dell’viii secolo (ii secolo dell’Egira). Deposito archeologico di Pella.
Nelle pagine seguenti: Leoni affrontati. Dettaglio del mosaico pavimentale della chiesa dei Leoni a Umm al-Rasas/ Kastron Mefaa (fine del vi secolo d.C.) risparmiati durante la crisi iconofobica.
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Nella pagina a lato: Il pavimento mosaicato della chiesa del Prete Wa’il a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa (586 d.C.) sfigurato durante la crisi iconofobica dell’viii secolo (ii secolo dell’Egira).
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califfi? L’iconofobia sembra più un fenomeno di origine musulmana, di irrigidimento dottrinale di una corrente all’interno dell’Islam. Resta però storicamente da stabilire se i califfi siano mai intervenuti con un loro ordine all’interno di una chiesa cristiana fatto che darebbe plausibilità storica a questa ipotesi. Che cosa ha provocato l’ordine di distruggere le immagini nelle chiese di Bilad esh-Sham, ex province dell’impero bizantino? Una recente ipotesi propone di vedervi un atto voluto dalle autorità cristiane per rendere le chiese atte alla preghiera dei musulmani che, secondo il Patto di Omar, potevano e dovevano essere ospitati nelle chiese e nei conventi. È noto il fatto che, se ne fu risparmiata la basilica del Santo Sepolcro, diversi complessi ecclesiastici cristiani furono utilizzati dai musulmani per la preghiera, come la basilica di S. Giovanni a Damasco, la chiesa di Homs, la chiesa di S. Sergio a Rasafa, la chiesa sulla Tomba della Madonna al Getsemani, e la stessa basilica della Natività a Betlemme, malgrado le proteste dei cristiani. Ora, una delle condizioni poste dai giuristi musulmani al fedele per poter fare le prostrazioni di rito in una chiesa cristiana, era quella di rimuovere o coprire le immagini ivi esistenti. All’origine del fenomeno testimoniato dai mosaici ci sarebbe perciò un ecumenismo forzato. Personalmente, precisando che questi interventi giuridici sono di epoca posteriore, preferisco non avventurarmi così lontano e restare ai dati della ricerca archeologica. Il problema dell’iconofobia è un problema archeologico che la continuazione della ricerca aiuterà a risolvere. La natura dell’evidenza archeologica, come si presenta nei mosaici e nel mobilio liturgico, porta a caratterizzarla più come iconofobia nello spirito dell’avversione delle ali
Planimetria della chiesa del Prete Wa’il.
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popolazioni semitiche per le immagini di qualsiasi tipo di essere vivente che trova riscontro nel comandamento della Bibbia «Non ti farai alcuna figura scolpita di qualsiasi genere: immagine di ciò che è in alto nei cieli, di ciò che è in basso sulla terra, e di ciò che è nelle acque sotto la terra» (Deut. 5, 8), e in un Hadith attribuito a Maometto che orientò la successiva prassi musulmana (Abu Hurayrah (+679) disse: «Io ho sentito l’apostolo di Dio dire: ‘Chi è più vituperevole di coloro che si mettono a creare come il mio Complesso bagni e creare un piccolo atto creatore? Lasciali creare un dei seme, atomo!’»). Questo fenomeno va distinto nettamente dall’iconoclastia bizantina per la quale nell’ viii secolo si schierarono in Recinto degli animali due campi contrapposti autorità civili, vescovi, teologi e semplici cristiani, fino a farne argomento di trattati teologici e di discussioni e decreti conciliari. Perché in nessun testo della polemica teologica bizantina pro o contro le icone di Gesù, della Vergine e dei Santi, si fa un benché minimo cenno alla cancellazione o mutilazione delle figure umane o animali. Gli unici possibili riferimenti a questa evidenza si leggono nell’intervento del prete Giovanni di Gerusalemme durante la discussione al concilio di Nicea del 787, intervento passato agli Atti del concilio. Giovanni incolpa della distruzione il califfo Yazid ii per ordine del quale, su istigazione di un ebreo di Tiberiade, «furono distrutte in ogni provincia del suo impero le sante icone e tutte le altre cose dello stesso genere». Ordine che fu interpretato come anticipatore e ispiratore della successiva iconoclastia bizantina nel territorio dell’impero. L’accusa venne poi ripetuta dagli scrittori posteriori siriaci. Le fonti arabe però ignorano questo ordine e, stranamente, autori contemporanei di parte cristiana che vivevano nella regione e che parteciparono al dibattito teologico, come san Giovanni Damasceno e il suo discepolo, il vescovo Abu Qurra, entrambi autori di trattati teologici sull’iconoclastia e sulla discussione in corso, non fanno nessun riferimento diretto a questa che doveva essere una realtà dei loro tempi, un avvenimento che non si poteva non conoscere o ignorare.
La crisi iconoclastica testimoniata nell’ex territorio dell’Arabia bizantina nella sua forma iconofobica, con la distruzione e abrasione di ogni figura rappresentante un essere vivente nei mosaici e nelle sculture delle chiese, ebbe due illustri oppositori in san Giovanni Damasceno, che scrisse in greco, e nel vescovo Teodoro Abu Qurra, che scrisse in arabo, e due martiri famosi provenienti dal territorio dell’ex Provincia di Arabia, i due santi fratelli Teodoro e Teofane di Moab noti come i Grapti (marcati al ferro rovente), confessori al tempo dell’imperatore iconoclasta Teofilo. In una lettera inviata dai due fratelli a Giovanni, vescovo di Cizico, nella quale si riassume l’interrogatorio del luglio 836, l’imperatore chiede: «In che paese siete nati? In Moabitide» rispondono i due fratelli. Teodoro era nato nel 775 e Teofane nel 778. Insieme entrarono nella laura di S. Saba nell’800. Loro maestro fu san Michele il Sincello, grammatico di chiara fama. 241
A Gerusalemme e nel deserto di Giuda, in particolare nel monastero di S. Saba, fu conservato dai monaci nell’viii-ix secolo il patrimonio della cultura in lingua greca. A fronte della decadenza culturale che seguì a Costantinopoli la caduta di Giustiniano ii, la Palestina si affermò nei primi due secoli di occupazione musulmana come un centro molto attivo di cultura greca di una sorprendente vitalità. Nel monastero di S. Saba nel deserto di Giuda nei pressi di Betlem, vissero san Giovanni Damasceno, l’ultimo dei Padri della Chiesa, strenuo difensore del culto delle immagini nel periodo di crisi iconoclastica, Andrea di Creta, Michele il Sincello, autore di una sintassi greca utilizzata fino all’epoca rinascimentale, quando ne furono stampate quattro edizioni a Firenze e a Venezia tra il 1515 e il 1526. Originario di Gerusalemme «aveva studiato – come si legge nella Vita – grammatica, retorica, filosofia e in aggiunta, poetica e astronomia», e passò 12 anni della sua vita come monaco nel monastero di S. Saba prima di essere nominato sincello del patriarca Tommaso a Gerusalemme (807-821) dove ebbe come discepoli Teodoro e Teofane. Tradusse in greco L’affermazione della dottrina ortodossa scritta in arabo da Teodoro Abu Qurra, un discepolo di san Giovanni Damasceno nel monastero di S. Saba e poi vescovo di Harran in Mesopotamia al quale si deve tra l’altro il Trattato sulle immagini in arabo. Da questo ambiente culturale venne a Costantinopoli il genere letterario dell’anacreontica legato oltre che a Sofronio patriarca di Gerusalemme, al monaco Elia Charach, da leggere probabilmente come originario di Charach Mouba (odierna Kerak in Giordania). A crisi iconoclastica superata, i difensori della dottrina ortodossa formatisi in Palestina ebbero modo di occupare posti di rilievo nella capitale e di portarvi la cultura ancora viva che erano riusciti a coltivare in territorio «arabo».
Lastra di pluteo in calcare bituminoso proveniente dalla chiesa dei Leoni a Umm al-Rasas/Kastron Mefaa con gli agnelli in adorazione della croce sfigurati durante la crisi iconofobica dell’viii secolo (ii secolo dell’Egira). Le Stagioni intervallate da edifici e il trasporto delle reliquie con un carro.
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Dettagli del mosaico pavimentale della chiesa del Prete Wa’il a Umm al-Rasas/ Kastron Mefaa (586 d.C.) sfigurato durante la crisi iconofobica dell’viii secolo (ii secolo dell’Egira).
Quando nell’808 scoppiò la polemica sull’aggiunta o meno del Filioque al Credo, tra la comunità benedettina che ancora viveva sul Monte degli Ulivi e i monaci di S. Saba, i Greci scelsero Michele e i due fratelli, più tre monaci di Gerusalemme per rappresentarli a Roma presso il Papa, dove la questione doveva essere dibattuta. Dopo l’811, Michele, diventato Sincello, cioè segretario e vicario generale, del Patriarca Tommaso, e i due fratelli furono scritti tra gli Spudei del Santo Sepolcro. La morte del califfo Harun al-Rashid e i disordini che ne seguirono, impedirono il viaggio a Roma. Michele e i due fratelli si rifugiarono prima a Cipro, per poi nell’813 passare a Costantinopoli, nel monastero di S. Salvatore in Chora. Due anni dopo, nella primavera dell’815, per ordine di Leone v l’Armeno, riprese la persecuzione iconoclastica. Il patriarca Niceforo fu deposto e al suo posto fu eletto Teodoto che convocò un secondo concilio iconoclastico che «condannò la pratica vana non autorizzata dalla tradizione di fabbricare e adorare le immagini, dando la preferenza all’adorazione spirituale e veritiera». I fratelli Moabiti furono messi in prigione e poi esiliati sul Ponto Eusino. L’imperatore Michele ii con il decreto del 28 dicembre 820, rese la libertà ai tre monaci, a condizione che non rientrassero nella capitale. Perciò i fratelli si installarono nel monastero di Sostene sulla costa europea del Bosforo. Morto
l’imperatore Michele, suo figlio Teofilo riprese la persecuzione contro gli iconoduli. Le prigioni si riempirono quando fu eletto il Patriarca Giovanni il Grammatico, un dotto e fervente iconoclasta. Vi rientrarono anche Teodoro e Teofane, che vennero flagellati e rinviati in esilio all’isola di Afusia nella Propontide. Nella lettera inviata dai due fratelli a Giovanni, vescovo di Cizico, conservata da Simeone Metafraste leggiamo la cronaca di quello che avvenne il 14 luglio 836: «… sei giorni dopo, il 14 (luglio), fummo convocati davanti (all’imperatore) Teofilo… Arrivammo al palazzo, ed entrammo nella sala detta Crisotriclinio. Era circa l’ora decima (5 o 6 di sera). L’ufficiale che ci aveva condotto si ritirò, lasciandoci soli davanti all’imperatore. Avevamo già iniziato le prostrazioni di rito, quando Teofilo rudemente ci interruppe e ci fece
Benefattori ritratti nella navata settentrionale della chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas/ Kastron Mefaa (prima metà dell’viii sec.), sfigurati durante la crisi iconofobica dell’viii secolo (ii secolo dell’Egira).
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Tutti desiderano andare alla Città dove il Verbo di Dio poggiò i suoi piedi troppo puri per sorreggere il mondo. Essi vissero in quel luogo venerabile ma come vasi d’iniquità, di superstizione e di errore. Nella perversità della loro fede compirano atti vergognosi, funesti, empi e ne furono espulsi come apostati. Allora si rifugiarono nella capitale dell’impero senza rinunciare alle loro follie criminali Perciò sono stati marcati sul viso come dei malfattori condannati e cacciati di nuovo.
La torre di Umm al-Rasas/Kastron Mefaa costruita in epoca giustinianea. Per la presenza di una chiesa ai piedi della torre e la mancanza di una scala per raggiungere la stanza in alto a 10 metri di altezza, il monumento viene interpretato come una torre che ospitava un monaco stilita o recluso che sappiamo presenti nel territorio della Provincia Arabia anche in epoca omayyade.
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segno di alzarci. Appressandoci a lui ci chiese: “Dove siete nati?” – Nella Moabitide. “Perché siete venuti qui?”. E questa volta senza nemmeno attendere la nostra risposta, comandò di schiaffeggiarci… “Perché siete venuti qui?” domandò di nuovo l’imperatore, come se volesse dire: Perché siete venuti ad abitare tra di noi, visto che vi rifiutate di condividere la nostra fede? Questa volta, restammo in silenzio, la testa bassa, gli occhi fissi a terra. L’imperatore, rivolgendosi allora ad un ufficiale, gli gridò con una voce irritata e rauca: “Portali via, stampa questi versi giambici sul loro viso e consegnali a due Saraceni che li riporteranno nel loro paese”. Ora presso di noi c’era un certo Cristodulo che aveva composto questi versi giambici e che li aveva in mano. L’imperatore gli ordinò di leggerli aggiungendo: “Probabilmente non sono belli, ma non te la prendere”. Parlava così per prenderci in giro, perché sa molto bene quale cura dedichiamo alle nostre produzioni poetiche. Ecco i 12 versi giambici in questione:
Subito dopo comandò di svestirci. Ciò fatto – aggiunge Teodoro – mi flagellarono per primo, mentre l’imperatore gridava senza posa e scongiurava gli aguzzini dicendo: “Ah! È così che mi trattano! Colpite duro!…” Quattro giorni dopo, fummo condotti davanti al prefetto della città. Dopo le minacce… il prefetto ci disse con insistenza parole suadenti: “Comunicate una volta sola, una sola piccola volta; noi non chiediamo di più. Vi accompagnerò io alla chiesa e poi andrete dove vi sembrerà bene”. Io gli risposi sorridendo: “Signor prefetto, tu parli pressappoco come chi ci dicesse: Non vi chiedo che una cosa, di lasciarvi tagliare la testa, e questo solo per una volta. Dopo potrete andare dove vorrete”. A ciò, il prefetto ordinò di marcarci i versi sul viso con un ferro rovente. Stesero allora le nostre membra ancora spezzate dai colpi su un cavalletto, e marcarono i versi giambici sui nostri visi ancora tumefatti dai colpi di flagello. Al momento di uscire dissi al prefetto e a tutti i presenti: “Sappiatelo bene! I Cherubini vedendo questa iscrizione si ritireranno davanti a noi, la spada di fuoco ci volgerà le spalle e ci lascerà libero l’ingresso in Paradiso… Voi vedrete questi versi sul viso di Cristo nell’ultimo giudizio e voi sarete costretti a leggerli. Non ha infatti detto: Quello che fate al minimo dei miei discepoli voi lo fate a me stesso?”». Dopo un breve soggiorno nella prigione del Pretorio, i due fratelli martiri furono esiliati a Karta, 20 chilometri a est di Cappadocia. Entrambi ebbero la consolazione di assistere al trionfo dell’ortodossia al tempo dell’imperatrice Teodora, quando il Patriarca Giovanni fu dimesso e lasciò il trono a Metodio. Michele fu eletto egumeno del monastero di Chora e sincello del Patriarca. Teofane fu eletto metropolita di Nicea e partecipò al concilio che confermò i canoni del concilio di Nicea del 787 e restaurò definitivamente il culto delle immagini. La cerimonia di chiusura fu tenuta in S. Sofia la prima domenica di Quaresima, l’11 marzo 843, celebrata annualmente come la Domenica dell’Ortodossia. Dei due, Teodoro morì un 27 dicembre 842 od 844, prima di Teofane, che diresse la sua diocesi per soli quattro anni. Morì infatti l’11 ottobre 845; il 4 gennaio 846 morì anche Michele il Sincello loro maestro.
dall’occupazione arabo-musulmana e non avvenne nella metà dell’viii secolo, né a causa del terremoto del 747 né a causa dello spostamento della capitale da Damasco a Baghdad nel 750, perché l’evidenza raccolta va contro simili semplificazioni. Se ne cerca allora la causa nei cambiamenti climatici e nelle epidemie in sostituzione della spiegazione del collasso sociale con l’invasione dei Barbari/Arabi. Ora è tutto da dimostrare che i cambiamenti climatici possono essere stati la causa della fine di una civiltà complessa come quella romano-bizantina-omayyade. Finora nulla dice che il clima odierno della Siria-Palestina sia diverso da quello di 1.300 anni fa. Bisogna poi dimostrare come una o più epidemie possano causare lo spopolamento e l’abbandono totale di una intera regione come il Medio Oriente. Vale per l’epidemia lo stesso discorso che si può fare per il terremoto. Prima bisogna dimostrare quale epidemia delle tante registrate dagli storici, o quale terremoto dei tanti registrati dalle fonti storiche, siano all’origine dell’abbandono. Abbiamo già visto che anche un terremoto di grande potenza come quello del 747 provocò la rovina ma non l’abbandono di città come Pella e Beit Shean. Entrambi gli abitati furono ricostruiti. Tanto meno esso può essere preso come causa diretta dell’abbandono delle città dell’altopiano transgiordanico o del Negev palestinese. Altri cercano di spiegare il fenomeno con il cosidetto processo di beduinizzazione. Il numero di tribù arabe penetrate progressivamente nel territorio siro-palestinese al seguito dell’esercito invasore, rappresentò un processo irreversibile con un danno serio all’agricoltura e di conseguenza alla vita sedentaria nella regione. Questi autori scrivono di effetti devastanti sulla vegetazione provocati dal numero di cammelli e capre al seguito dei nuovi arrivati. Inoltre molte terre tolte o abbandonate dai contadini furono coltivate con scarso successo dai nuovi arrivati, improvvisatisi agricoltori con poco frutto e molto danno, non conoscendo le tecniche di rotazione delle colture. Il declino dell’agricoltura provocò la riduzione progressiva delle aeree coltivate. Il conseguente inevitabile abbandono portò alla desertificazione e a seguito dell’erosione del terreno fertile, fenomeno questo registrabile, alla perdita di molte aree adatte all’agricoltura. Così si
spiega la presenza notata dagli archeologi di frantoi per l’olio e di pressoi per il vino in zone oggi deserte, come le città del Negev, Umm al-Rasas e la stessa montagna del Nebo. Gli scavi dei cosiddetti castelli omayyadi del deserto hanno oramai chiarito la natura di questi splendidi palazzi che, primo dettaglio importante, non sono situati per lo più nel deserto, ma al margine della terra coltivata, e, secondo dettaglio, non sono, come avevano fantasticato romanticamente i primi esploratori, rifugi nel deserto dei primi califfi che vi cercavano gli ampi orizzonti loro negati dalle mura di Damasco, ma costruzioni funzionali. Alcuni erano stati costruiti dai califfi per incontrarvi periodicamente i membri delle tribù del deserto accampate nei dintorni loro alleati. Altri svolgevano la funzione di caravanserragli per ospitare i viaggiatori. Nella maggioranza dei casi erano le ricche residenze dei nuovi padroni che sorgevano al centro di latifondi con terreni resi fertili e produttivi con elaborati e costosi sistemi di irrigazione, con dighe, serbatoi d’acqua piovana e canalizzazioni. L’élite della nuova aristocrazia araba aveva investito in queste aziende agricole le ricchezze guadagnate dalla conquista. Difficilmente, tenendo presente questa realtà documentata in Siria in Giordania e in Palestina, si può parlare semplicemente di desertificazione come causa primaria dell’abbandono. La domanda che ci si pone per una città o un villaggio resta valida anche per questi estesi latifondi basati sull’agricoltura e sulla pastorizia. Invasione, fattori climatici, terremoti ed epidemie, desertificazione e conseguente erosione del suolo, possono aver agito come cause concomitanti ma non come cause primarie di tale abbandono. Una serie di disgrazie di quel tipo che si abbattono su una regione possono essere solo l’ultimo colpo a una società già in declino che non sa fare fronte alle calamità. Dopo quindici campagne di scavo tra le rovine di Umm al-Rasas, l’evidenza archeologica porta a datare l’abbandono di Kastron Mefaa all’epoca abbaside. In nessun caso abbiamo incontrato prove di distruzione violenta delle chiese come degli edifici circostanti, ma solo tracce di un progressivo abbandono a causa di un esodo in massa della popolazione, le cui cause, religiose, politiche, economiche o semplicemente naturali, continuano a sfuggirci.
Conclusione: un territorio abbandonato La ricerca storico-archeologica ha chiarito che l’abbandono delle città e dei villaggi della Siria-Palestina non fu causata 245
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
La Provincia Arabia romana Per la stesura di questo capitolo siamo debitori agli esploratori che, a cominciare da Burchardt nel 1812, percorsero la regione documentando le epigrafi e i monumenti, e agli archeologi e storici moderni che dagli anni settanta hanno ripreso la ricerca in questo particolare settore. Tra questi si distinsero W. H. Waddington (Inscriptions grecques et latines de la Syrie, Parigi 1870), che trascorse più di 18 mesi a copiare le iscrizioni del Horan nel 1861-62 integrando il lavoro dei suoi predecessori, Porter, M. Wetzstein e Kirchhoff; la spedizione di R.E. Brünnow-A. Domaszewski (Die Provincia Arabia, voll. i-iii, Strasburgo 1904-1909); e quella americana di H.C. Butler, The Publications of an American Archaeological Expedition to Syria, Princeton 1909. Nel 1971, G.W. Bowersock faceva il punto della ricerca in un articolo di sintesi (jrs 61, 1971, 219-42), sviluppato in un libro (Roman Arabia, Londra 1983), dopo le importanti scoperte di Nahal Hever nel deserto di Giuda, gli scavi nelle città del Negev palestinese, e le esplorazioni nel Sinai, in Giordania e nel Hejaz. Contemporaneamente, M. Sartre, pubblicava un’opera parallela e complementare più documentata (Trois études sur l’Arabie romaine et byzantine, Collection Latomus, vol. 178, Bruxelles 1982), dove le vicende della Provincia Arabia sono seguite ed analizzate dalla sua costituzione nel 106 al suo massimo sviluppo geografico nel iii secolo, alle difficoltà che nel vii secolo condussero alla sua sparizione, con un capitolo dedicato ai governatori che la ressero dall’inizio alla fine. Il secondo capitolo è dedicato ai governatori della provincia di rango senatoriale (106-262), di rango equestre (262-iv secolo) e del Basso Impero (iv-vii secolo), con un accenno necessario alla Novella 102 di Giustiniano che istituisce un moderator Arabiae, di cui però non resta finora traccia nell’epigrafia, e al potere politico dell’arcivescovo di Bostra sempre più esteso al tempo di Giustino. L’approfondimento della presenza di Roma nel territorio della Provincia Arabia, con un particolare interesse per l’area ad oriente della strada del deserto non sufficientemente esplorata nel secolo scorso e nei primi decenni del secolo, è sviluppato da D.L. Kennedy (Archaeological Explorations on the Roman Frontier in North-East Jordan. The Roman and Byzantine military installations and road network on the ground and from air, bar International Series 134, Oxford 1982). Come archeologo impegnato in Giordania nella ricerca della presenza di Roma nel territorio della Provincia Arabia, Kennedy ha fatto un pregevole uso del materiale aereo messogli a disposizione dal Royal Jordanian Geographic Centre, nell’esame del territorio di Qasr al-Hallabat e dei siti nella depressione dell’oasi di al-Azraq con Qasr al-Azraq, ‘Araq Shishan, Qasr Aseikhin, Qasr al-Uweinid, Qasr ‘Ain el-Beida e Qasr ‘Ain es-Sol. L’opera di Kennedy ha un doppio merito: quello di pubblicare sezioni rilevanti del Limes Report lasciato manoscritto da Sir Aurel Stein, un pioniere con padre Poidebard in questo settore, al cui sopralluogo aereo sull’Iraq e la Transgiordania del 1938-1939, è dedicata la seconda parte,
e di fare il punto sulla ricerca nella regione suggerendo all’archeologo possibili località di intervento. L’autore non si limita a pubblicare ampi stralci dello Stein e a commentarli, ma aggiunge il suo contributo frutto di un sopralluogo accurato dei castelli del deserto e della regione circostante a cui dedica tutta la prima parte dell’opera accompagnata da foto aeree, iscrizioni, rilievi dei monumenti e descrizioni accurate di quanto resta ancora visibile. Nella parte terza Kennedy offre una lista di altre 15 località militari romane della regione con un evidente scopo pratico di completezza del lavoro e di suggerimento per la ricerca futura. I monumenti studiati mostrano una tendenza «aggressiva» di Roma spinta in profondità nel deserto con l’occupazione delle oasi lungo l’wadi Sirhan per il controllo del traffico carovaniero che vi giungeva dall’interno della penisola arabica, e un disinteresse decrescente, documentato al tempo di Giustiniano dallo storico Procopio. Il merito maggiore della ‘riscoperta’ della Provincia romana di Arabia va a S. T. Parker, e al gruppo di studiosi che con lui da più di venti anni conducono la ricerca nell’ambito del «Central Limes Arabicus Project». La prima sintesi del Parker fu pubblicata nel 1986 (Romans and Saracens. A History of the Arabian Frontier, asor, Dissertation Series 6, Winona Lake). Il lavoro si compone di due parti principali: una di carattere analitico che si propone di studiare le singole località, e un’altra di carattere sintetico che delinea lo sviluppo storico della frontiera araba nel suo insieme dall’epoca di Pompeo Magno alla conquista musulmana. In questa seconda parte si studiano le caratteristiche assunte nei vari periodi storici da questa linea difensiva che, per una serie di ragioni storiche e ambientali, possedette alcune particolarità proprie rispetto alle altre frontiere dell’impero. Si tratta infatti di una frontiera minore destinata non tanto a contrastare le minacce di un potente vicino, quanto piuttosto a garantire la sicurezza degli abitanti, sedentari e coltivatori, dalle insidie delle tribù nomadiche del deserto, per le quali la «razzia» costituiva allora una vera e propria fonte di sostentamento. Nello stesso tempo favoriva l’integrazione economica di queste popolazioni e dava impulso al grande commercio internazionale, che attraverso le vie carovaniere del deserto e la via marittima facente capo al porto di Aila sul Mar Rosso, riforniva l’impero delle più pregiate mercanzie d’oriente. Da principio Roma affidò il compito allo stato federato dei Nabatei, ma, al principio del ii secolo d.C., finì con il prendere direttamente su di sé la responsabilità della frontiera. Costituì perciò una nuova provincia, rinnovò ed ampliò la rete stradale e stabilì tutta una serie di posti militari ai margini del deserto. Non si può parlare, a questo proposito, secondo l’autore, di una vera e propria linea fortificata, quanto piuttosto di una zona, profonda anche decine di chilometri, nella quale erano distribuite forze di varia consistenza che dovevano naturalemente tenersi in stretto contatto fra di loro. Un documento del tardo impero (la Notitia Dignitatum) dimostra come i Romani adattarono la loro presenza militare alle caratteristiche del territorio collocando su questa frontiera forze dotate di maggiore mobilità (equites) ed avvezze alla durezza del clima, quali erano gli indigenae sagittarii, non senza qualche ala dromedariorum. 247
Se la massima espansione si deve registrare all’epoca dei Severi, all’attività di Costantino e dei suoi figli si attribuisce il massimo impegno nel rafforzamento del sistema difensivo. Nessun nuovo forte viene invece più costruito dopo il v secolo, ed anzi gran parte delle milizie vengono progressivamente ritirate, probabilmente a causa dell’enorme sforzo militare che l’impero dovette sostenere nel vi secolo per la riconquista, non duratura, dell’Africa e dell’Italia. La sicurezza della frontiera fu affidata di nuovo a mani clientelari, cioè a quelle tribù arabe del deserto che, avendo acquisito sufficiente autorità e potere sulle altre tribù, erano in grado di tenerle a freno. La principale fra le tribù federate fu al tempo di Giustiniano quella dei Banu Ghassan. L’impero trovò allora più conveniente sussidiare alcune tribù piuttosto che mantenere un proprio sistema difensivo completo. La migliore dimostrazione della efficienza e bontà della soluzione adottata fu la rinnovata floridezza del paese. Purtroppo però la fedeltà delle tribù non era a tutta prova e anche l’impero non fu sempre generoso e leale nel versamento dei sussidi promessi, cosicché l’indebolimento della linea difensiva si rivelò fatale per le provincie sud-orientali dell’impero, prima con l’invasione persiana (613-628) e finalmente con quella musulmana (629-636). La prima parte del lavoro è quella più originale. Vengono ordinatamente presentate 47 località della frontiera dove sono stati riscontrati insediamenti di carattere militare. In 42 di esse è stata praticata una raccolta sistematica della ceramica di superficie che viene adoperata come base per la definizione dei periodi di occupazione. Lo studio analitico delle località illustra concretamente questa storia e raccogliendo quante più informazioni possibile su di ogni singolo luogo (dati storici e letterari, epigrafici, topografici, archeologici), costituisce la base e il fondamento di molte conclusioni, la principale delle quali è l’abbandono quasi totale di forti, castelli e torri di osservazione nel corso del vi secolo. Dal punto di vista archeologico, lo studio era basato sui risultati dell’esplorazione di superficie, in preparazione delle future campagne di scavo, i cui risultati furono presentati da Parker nel 1987 (The Roman Frontier in Central Jordan. Interim Report on the Limes Arabicus Project, 1980-1985, Part i-ii, bar International Series 340 i-ii, Oxford). Malgrado il sottotitolo, Interim Report, e la sottolineatura dell’editore e direttore della ricerca, il quale tiene a precisare che la continuazione dello scavo e lo studio più approfondito dei dati possano in qualche modo sfumare se non cambiare le conclusioni generali qui esposte, tali risultati devono essere considerati in gran parte definitivi. L’opera si inserisce perciò come un punto fermo nel rinnovato interesse per la Provincia Arabia. Parker giustamente scrive nell’introduzione che a partire dal seminal article di G.W. Bowersock del 1971 dedicato alla Provincia, ne è seguito «a veritable flood of publications… increasing dramatically the quantity of evidence about the province». Lo scavo del campo romano di Lejjun e i sondaggi paralleli dei forti di Fityan e di Qasr Bashir e del fortino di Rujm Beni Yasser, come il survey della regione a est e a ovest della strada del deserto nel Moab centrale, argomento della pubblicazione, sono una scelta mirata per precisare e possibilmente dare una risposta ai problemi posti all’attenzione storica durante il survey dedicato al limes della provincia iniziato da Parker nel 1976. Da quel survey risultava che il limes arabicus aveva avuto uno sviluppo considerevole verso la fine del iii secolo-inizi del iv secolo, con una particolare concentrazione di campi, forti, fortini e torri di guardia, nel settore centrale, a est del Mar Morto, l’area poi scelta per la ricerca. Dopo due secoli di presenza più o meno attiva dell’esercito romano, risultava un abbandono definitivo delle fortificazioni verso la fine del v secolo-primi decenni del vi. Due le domande principali. Perché verso 248
il 300 d.C., al tempo della prima tetrarchia, si era sentito il bisogno la necessità di fortificare il limes? E perché lo schieramento difensivo fu abbandonato agli inizi del vi secolo? La scelta per l’esplorazione in profondità era caduta su Lejjun in quanto campo legionario, perciò focale dello schieramento, costruito su suolo vergine e mai riabitato in modo stabile dopo l’abbandono, inoltre con una storia parallela alle conclusioni generali del survey da verificare con lo scavo che fu iniziato nel 1980. Nell’opera sono raccolti i risultati delle prime tre campagne (1980, 1982 e 1985). Nella scelta della posizione, non ottimale dal punto di vista strategico, per la costruzione del campo di Lejjun, da identificare con molta probabilità con il campo di Betthorus, dove, secondo la Notitia, era acquartierata la Legio iv Martia, ebbe un ruolo decisivo la vicinanza della sorgente di ‘Ayn Lejjoun. De Vries studia il sistema di approvvigionamento idrico diretto tramite un canale superiore che terminava all’interno del campo e un canale inferiore che proseguiva verso il vicus orientale sviluppatosi all’esterno, soffermandosi sulle installazioni del wadi con dighe, e mulini difficilmente databili. Lo scavo del campo è descritto analiticamente per singola area: principia, alloggiamenti dei soldati, mura e torri di difesa, la chiesa, e un edificio del vicus occidentale. Segue una sezione dedicata alla cultura materiale, piccoli oggetti, ceramica, vetri e monete, con due studi di paleobotanica e sulla fauna rappresentata dai resti ossei. A parte la cronologizzazione relativa e assoluta affidata ai terremoti, le singole scoperte vengono lette e confrontate con i risultati della ricerca parallela effettuata negli altri campi legionari dell’impero. Particolarmente interessante in questo confronto risulta lo scavo degli alloggiamenti della truppa. Se ne può concludere una riduzione notevole del numero degli effettivi di una legione al tempo della tetrarchia: da 5.000 a 2.000. Diocleziano sentì la necessità di fortificare questo settore del limes contro le tribù del deserto che minacciavano la sicurezza delle terre abitate e coltivate. L’intervento del potere centrale si realizzò nella riorganizzazione della Provincia divisa in due settori con il wadi Hasa come confine, distaccando il potere militare da quello civile affidati rispettivamente ad un dux e ad un praeses, nel rinnovamento della rete stradale e nella costruzione delle fortificazioni di cui Lejjun e i fortini del limes sono una testimonianza. Questo stesso sistema difensivo fu abbandonato quando Giustiniano in concomitanza della pax aeterna stipulata con i Persiani, nel 532, unificò le tribù arabe del territorio a ovest del fiume sotto il comando del filarca, patrizio e re Harith il Ghassanide, una innovazione giudicata militarmente efficiente e economicamente meno dispendiosa del mantenimento di un esercito regolare. Con le conclusioni che non si fecero attendere ad una verifica di forza. L’utilizzo delle documentazioni aeree nell’archeologia della Provincia Arabia, anticipato nell’opera del 1982, trova un complemento nel 1990 (D.Kennedy and D. Riley, Rome’s Desert Frontier From the Air, B.T. Batsford Limited-Londra). L’archeologo che fa l’esperienza di sorvolare in elicottero, in aereo o più semplicemente dalla benna di una gru, l’edificio o la città oggetto della sua ricerca, sarà d’accordo con Sir John Myres che, raccontando il suo volo sulla città di Didima in Turchia nel 1916 come osservatore aereo della flotta inglese, confessò ai suoi uditori di aver fatto il proposito di non scavare più in futuro senza una previa ricognizione aerea. Dalle prime foto scattate da Henry Wellcome nel 1913 in Sudan con la macchina fotografica sospesa ad un aquilone, alle ricerche aeree pioneristiche dedicate al limes arabicus in Siria da padre Antoine Poidebard per sedici anni negli anni Venti e Trenta con un Potez 25, ricerche continuate nel
1938-39 da Sir Aurel Stein in Iraq e Transgiordania con un Vincent, fino alle moderne sofisticate tecnologie di ricognizione aerea come complemento ai dati inviati via satellite dalla serie Landsat americani o dallo Spot System francese, la ricerca archeologica è sempre più avvantaggiata nel coprire vaste aree, altrimenti impenetrabili o quasi. Dal 1979 David Kennedy con i suoi collaboratori è impegnato in un progetto d’archivio inteso a raccogliere il maggior numero di foto aeree di località del Medio Oriente da mettere a disposizione degli archeologi attivi nell’area. Un progetto già tentato con poco successo nel 1928 da O.G.S. Grawford. «The Aerial Photographic Archive for Archaeology in the Middle East» iniziato da Kennedy è ospitato dal Department of Ancient History and Classical Archaeology dell’Università di Sheffield in Inghilterra (cfr D.L. Kennedy, «Aerial Photographic Archive for Archaeology in the Middle East», in Liber Annuus, 37, 1987, pp. 412414). In articoli e opere di più vasto respiro, da anni l’Autore va sottolineando l’importanza della ricognizione aerea per un’area come il Medio Oriente (inteso in senso largo dalla costa atlantica del Nord Africa all’Arabia Saudita, all’Iran e alla Turchia) dove l’eredità archeologica conservata per secoli e millenni corre il serio pericolo di essere distrutta e inghiottita dall’avanzare degli insediamenti urbani, dal moltiplicarsi della rete stradale e conseguentemente dall’estendersi dello sfruttamento intensivo di terre con la meccanizzazione agricola. Nell’opera che presentiamo Kennedy e Riley danno una esemplificazione più generale della preziosità del materiale fotografico dell’Aerial Archive per lo studio del limes orientale dell’impero romano. Dopo una introduzione generale storico-geografica dell’area in esame, si rifa la storia dello sviluppo della fotografia aerea al servizio della prospezione archeologica in Medio Oriente con un aggiornamento che giunge ai nostri giorni. Vengono poi riportate per esteso pagine degli scritti di Poidebard e di Stein per approfondire il metodo da loro seguito nella ricognizione fotografica. La parte centrale del volume è dedicata ai siti del limes esemplificativi delle diverse condizioni ambientali che gli architetti militari romani dovettero affrontare in Medio Oriente. Tali siti sono illustrati e discussi con foto aeree spesso di rara bellezza e interesse documentario. Quattro foto sono scelte come campionatura dei diversi metodi adottati per raccogliere l’acqua piovana nella steppa, dalle dighe di Harbaqa in Siria, di Qasr Burqu in Giordania, alle canalizzazioni e cisterne di Qasr al-Hallabat, alle costruzioni di canali sotterranei conosciuti in arabo con il nome di foggaras o qanats come a Yotbatha nel Wadi Arabah. La ricognizione aerea si è dimostrata quantomai utile nell’identificare e ritracciare la rete viaria romana, dalle Viae Novae lastricate, ai tracciati in terra battuta o ai semplici percorsi carovanieri. Le foto aeree di Poidebard in Siria integrate successivamente dalle foto della Royal Air Force per la Via Nova Traiana in area giordana, sono giustamente famose e indispensabili per lo studioso moderno per ridisegnare un tracciato in gran parte sparito negli ultimi decenni. La ricognizione aerea si è dimostrata di grande utilità nella identificazione e restituzione delle complesse strutture di assedio messe in opera dai Romani a Masada, a Macheronte, a Battir durante le due rivolte giudaiche, del terrapieno che chiude la città di Hatra in Iraq visibile solo con una foto zenitale a grande altezza. Viene inoltre riproposto uno splendido collage di foto aeree delle vaste opere di fortificazioni intorno alla città di Dura Europos (Salihiyah). Altre foto di Dura, di Ana, di Souriya, di Resafa, di Halebiyeh e Zelebeyeh e di Tunainir, esemplificano il ruolo delle città-fortezze nella difesa dell’impero contro i Persiani nei punti chiave di possibile penetrazione del confine naturale costituito dall’Eufrate. Bosra al-Sham, Balad Sinjar, Lejjoun e Udruh in Giordania,
Palmira e Tayibeh sono ottimi esempi di campi legionari isolati nella steppa o parte del tessuto urbano. Alla ricca e varia tipologia architettonica del sistema difensivo romano come risulta dalla ricerca archeologica, contrasta la povertà della terminologia tecnica così da rendere solo opinabili le classificazioni proposte dagli studiosi, più tipologiche che funzionali, basate sulla forma planimetrica e sulla grandezza. Le strutture difensive catalogate da Kennedy nel generico nome di forts, è qualcosa di intermedio tra il campo legionario e una torre isolata. L’alzato di simili forti, per di più composti di due piani intorno ad un cortile centrale ne indicherebbe la nuova funzione difensiva più che offensiva venutasi a creare dal iii secolo in poi. Kennedy in modo molto pragmatico divide questi forti in Large Forts senza torri esterne, in Small Forts senza torri esterne, e in Large e Small Forts con torri esterne. Tra i Large Forts con torri esterne viene catalogato Umm al-Rasas che le iscrizioni dei mosaici da noi riscoperti nelle chiese dell’abitato danno con il nome di Kastron Mephaa. Nel fotopiano di questo sito il cui scavo fu iniziato dallo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme nel 1986, è da rivedere la posizione della chiesa all’esterno dello spigolo di nord-ovest del castrum che la ricerca sul terreno ha identificato nella chiesa «del Prete Wa’il» come facente parte di un complesso ecclesiastico più vasto che si estende sotto le casette beduine segnate nel piano. La genericità della terminologia utilizzata nell’opera (fortresses, forts, barracks, fortlet, camp, tower) è basata in gran parte sulla terminologia letteraria equivoca e deviante usata dagli scrittori romani dove a mala pena si possono distinguere i termini castra usato per i campi legionari, castrum per un forte degli ausiliari del primo impero, e castellum per i forti del tardo impero. L’Autore è cosciente, e l’insistenza lo conferma, che la scoperta di un sito per cui la foto aerea è spesso un mezzo indispensabile, è solo il primo passo per la indagine archeologica sul terreno che niente può sostituire adeguatamente. Funzionalmente, all’idea che questi forti fossero costruiti lungo un asse viario ben definito per impedire il movimento verso l’interno di potenziali nemici provenienti da est, si va sostituendo l’ipotesi più verosimile che fossero voluti e costruiti per dare rifugio ai viaggiatori e assistenza alle pattuglie incaricate di controllare la strada e i movimenti delle tribù. La carta delle fortezze finora identificate nel deserto siriano, in gran parte con l’utilizzo della ricognizione aerea, che chiude il volume, dà una idea visualizzata della catena di fortificazioni del confine orientale dell’impero a ovest dell’Eufrate. Solo l’indagine archeologica sul terreno potrà dare i dati conclusivi di conferma o di smentita delle ipotesi funzionali avanzate dagli studiosi.
L’Arabia Cristiana Un lungo contributo di sintesi, che resta insuperato fino ai nostri giorni per la documentazione raccolta con una chiarezza invidiabile e la ricchezza di dati, fu pubblicato nel 1924 da R. Aigrain («Arabie», in Dictionnaire d’Histoire et de Géographie Ecclésiastique, vol. iii, coll. 1158-1339). La voce viene svolta in quattordici capitoli: limitazione geografica, la provincia romana fino a Diocleziano e dopo la Tetrarchia, i filarchi, i regni vassalli: i Banu Ghassan e Banu Lakhm, il cristianesimo nell’Arabia del sud, i cristiani nel Hejaz fino a Maometto e le loro relazioni con il Profeta dell’Islam, con i califfi ortodossi e sotto gli Omayyadi. Lo studio è completato da alcuni accenni alla presenza cristiana araba dal tempo degli Abassidi fino ai nostri giorni, e dalla bibliografia. 249
Un lungo capitolo è dedicato alla storia dell’Arabia cristiana da R. Devreesse nel volume sul Patriarcato di Antiochia («La Province d’Arabie», in Le Patriarcat d’Antioche depuis la paix de l’Église jusqu’à la conquête arabe, Parigi 1945, 208-240). Il materiale a disposizione dello studioso, è stato riesaminato accuratamente, sia sotto l’aspetto epigrafico che storico, da M. Sartre in una doppia opera complementare dedicata alla città di Bostra (Inscriptions Grecques et Latines de la Syrie, tome xiii, fascicolo 1, Bostra, nn. 9001-9472, Parigi 1982; Bostra. Des origines à l’Islam, Parigi 1985).
Santuari e Monaci. Il Memoriale di Mosè sul Monte Nebo La conoscenza del monachesimo nel territorio della Provincia non ha avuto studi generali approfonditi. Al contrario, la ricerca ha privilegiato la presenza monastica sulla cima del Monte Nebo nei pressi del Memoriale di Mosè sul Monte Nebo e nelle valli, grazie all’indagine archeologica condotta dagli archeologi dello Studium Biblicum Franciscanum ininterrottamente a cominciare dal 1933 fino ai nostri giorni sotto la direzione dei padri S. Saller, V. Corbo e M. Piccirillo. I risultati sono stati pubblicati nel 1941 da S. Saller (The Memorial of Moses on Mount Nebo, Gerusalemme), e nel 1999 da M. Piccirillo ed E. Alliata (Mount Nebo. New Archaeological Discoveries, Gerusalemme). Grande attenzione gli studiosi hanno prestato all’identificazione dei monasteri menzionati nella Lettera degli Archimandriti nel Horan.
Madaba e i suoi mosaici La rioccupazione nel 1880 delle rovine di Madaba da parte di alcune famiglie cristiane della regione di Kerak, è all’origine delle scoperte che si sono susseguite ininterrottamente fino ai nostri giorni. Sensibilizzati dai loro sacerdoti, tra i quali si distinse don Giuseppe Manfredi, i cristiani si presero cura di conservare quanto occasionalmente riportavano alla luce costruendo le loro case. Le due case parrocchiali, la cattolica sull’acropoli, e quella greco-ortodossa all’ingresso del villaggio, entrambe provviste della dayafah, o stanza degli ospiti, furono un punto di riferimento e di sosta per gli studiosi che sempre più numerosi vennero a Madaba dopo la scoperta della Carta musiva delle Terre Bibliche nel 1897. L’apertura della missione archeologica dello Studium Biblicum Franciscanum sul Monte Nebo, diede nuovo impulso alla ricerca in città e nel territorio diocesano. Le iscrizioni delle chiese con i nomi dei vescovi di Madaba scoperte oltre che al Nebo anche nei villaggi di Umm al-Rasas e di Mekawer, ha dato la possibilità di circoscrivere il territorio diocesano. Una sintesi riguardante la diocesi nella quale sono confluite gran parte delle nuove scoperte è stata pubblicata da M. Piccirillo nel 1989 (Chiese e Mosaici di Madaba, Gerusalemme). La diocesi di Madaba è nota per i mosaici pavimentali che decoravano le chiese e le abitazioni private, recentemente pubblicati da M. Piccirillo (The Mosaics of Jordan, ed. P. Bekai and T. Dailey, Amman 1993).
Gli Arabi Cristiani della Provincia Gerasa. La città cristiana A esemplificazione del progressivo cambiamento di una città pagana in una città cristiana, abbiamo scelto Gerasa della Decapoli, che nel territorio della Provincia, è la più nota sia per i monumenti pagani che per le numerose chiese costruite dal v al vii secolo, grazie alla ricerca archeologica iniziata negli anni Venti e continuata fino ai nostri giorni. I risultati del primo decennio di scavi condotti da una Joint Expedition della Yale University e dalla British School of Archaeology, furono pubblicati da C.H. Kraeling nel 1938 (Gerasa, City of the Decapolis, New Haven). Nel volume, la documentazione pertinente al nostro periodo fu studiata da J.W. Crowfoot («The Christian Churches», pp. 171-262), C.S. Fisher («Buildings of the Christian Period», pp. 265-294), F.M. Biebel («Mosaics», pp. 297-352) e C.B. Welles («The Inscriptions», pp. 355-494). I mosaici della Chiesa di Elia, Maria e Soreg, scoperta occasionalmente nel quartiere orientale, furono pubblicati da S. Saller-B. Bagatti nel 1949 (The Town of Nebo Khirbat al-Mukhayyet, Gerusalemme). I risultati della ricerca ripresa metodicamente da un International Team nel 1981 con la scoperta di nuovi edifici ecclesiastici quali la Chiesa del Vescovo Isaia e quella del Vescovo Mariano, furono pubblicati da F. Zayadine (Jerash Archaeological Project 1981-1983, i vol., Department of Antiquities, Amman 1986). Un’iscrizione pubblicata da P.-L. Gatier (Syria, 62, 1985, pp. 297-308) ha dato l’occasione per approfondire i poteri civili man mano affidati al vescovo dall’Autorità imperiale. Per quanto riguarda la città di Bostra, resta fondamentale la sintesi scritta da M. Sartre (Bostra. Des origines à l’Islam, Parigi 1985), con le integrazioni degli scavi in corso condotti da Dentzer e da Farioli.
Già noti alle fonti bizantine e siriane del v-vi secolo, gli Arabi cristiani federati, che raggiunsero l’apogeo nel vi secolo al tempo di Areta figlio di Jabala e di suo figlio Al-Mundhir, sono stato oggetto di studi approfonditi a cominciare dal xix secolo. Nel 1887 fu pubblicata l’opera di T. Nöldeke (Die Ghassanischen Fürsten aus dem Hause Gafna’s, Berlino). Dopo Aigrain (1924), un capitolo viene dedicato loro da Devreesse nel contesto delle tre province ecclesiastiche di Eufratesia, Osroene e Mesopotamia («Les Provinces de l’Est Syrien», in Le Patriarcat d’Antioche, pp. 241-304) e da M. Sartre (Trois études sur l’Arabie romaine et byzantine, Bruxelles 1982, pp. 121-203). Nel capitolo terzo dedicato al ruolo politico e militare svolto dai nomadi nella provincia confinante con il deserto, l’Autore esamina le tracce epigrafiche e le fonti bizantine e in parte arabe, per seguirne l’evoluzione da semplici soldati al soldo di Roma, alla costituzione di «regni» locali tenuti sotto controllo con trattati di alleanza, alla istituzione del filarcato dei Banu Ghassan contrapposto a quello d’oltre Eufrate dei Banu Lakhm sotto influenza persiana, per giungere a precisare la responsabilità dei filarchi nella battaglia decisiva dello Yarmuk (20 agosto 636). Uno studioso cristiano arabo di origine palestinese, Irfan Shahid, sta realizzando il sogno della sua vita, un’opera enciclopedica dedicata ai vecchi e nuovi dati che continuamente vengono alla luce dall’archeologia, come dalla continuazione della ricerca che abbraccia l’immenso campo della letteratura araba, oltre che quella patristica greca, latina, siriaca e orientale in generale. Parallelamente ai contributi settoriali riguardanti la Provincia Arabia che si sono andati moltiplicando in questi ultimi anni, Irfan Shahid si è proposto il compito impegnativo, di riesaminare sette secoli di storia delle relazioni tra la Nazione Araba e l’Impero di Roma.
Dall’esame risulta che i gruppi più importanti di Arabi foederati con i quali Costantinopoli ebbe relazioni sono la confederazione dei Tanukh, dei Salih e dei Ghassan. L’opera, perciò, è stata programmata in tre volumi, Bisanzio e gli Arabi nel iv, v e vi secolo, di cui la maggior parte già pubblicata (Byzantium and the Arabs in the Fourth Century, Dumbarton Oaks, Washington 1984, preceduto da: Rome and the Arabs. A Prolegomenon to the Study of Byzantium and the Arabs; Byzantium and the Arabs in the Fifth Century, Dumbarton Oaks 1989; Byzantium and the Arabs in the Sixth Century, vol. i, part 1: Political and Military History; Part 2: Ecclesiastical History, Dumbarton Oaks, Washington D.C., 1995; vol. ii, part 1: Toponimy, Monuments, Historical Geography and Frontier Studies, Dumbarton Oaks, Washington D.C., 2001. I continui ritorni dell’Autore all’inizio, durante e alla fine dell’esposizione, rendono più agibile la complessa materia difficile da sintetizzare. L’opera si articola metodologicamente nello studio molto analitico della presenza araba nei testi letterari greci e latini profani e ecclesiastici, integrati dalla successiva letteratura araba che ha rimandi tradizionali preziosi a quest’epoca pre-islamica. Una lettura difficile ma appassionante con suggerimenti che bisognerà tenere presenti nella continuazione della ricerca in campo archeologico, ma soprattutto nella lettura e pubblicazione delle fonti inedite arabe e siriache riguardanti il territorio e le popolazioni della Provincia.
La fine della Provincia Un capitolo in gran parte nuovo della storiografia riguardante la Provincia, come risultato della ricerca archeologica. Nel 1945, Devreesse, senza timore di poter essere smentito, scriveva che, dopo l’invasione islamica, «il n’y a plus, pour ainsi dire, de hiérarchie dans le pays...
Les lettres du Pape Martin laissent entendre qu’il n’y a plus que deux évêques en Arabie (Philadelphie et Esbous), de même qu’il n’en reste que deux en Palestine (Bacatha et Dora, et l’épigraphie vient renforcer cette impression que le peuple chrétien fut bientôt privé de ses cadres». E a conferma della verità della sua affermazione, cita l’iscrizione del mosaico della Chiesa della Vergine a Madaba, dal Clermont-Ganneau, con molto coraggio e con fine intuito di storico e di archeologo, datato al periodo islamico: «Est-ce pur hasard que les dernières inscriptions d’Arabie ne fassent aucune mention d’évêques ou de prêtres? En 662/3, on précise que ce sont les fidèles de Madaba qui offrent une mosaïque à l’église de la Vierge; quand on se remet devant les yeux le formulaire des précédentes dédicaces, cette omission de toute hiérarchie ne peut manquer de frapper» (Le Patriarcat d’Antioche, p. 218). Nel 1980, ci rendemmo conto che nella prima linea dell’iscrizione dedicatoria, alla quale si riferisce Devreesse, nascosta sotto un muro posticcio di epoca ottomana, si leggeva il nome del vescovo Teofane. Le ulteriori e chiarificanti scoperte di Santo Stefano a Umm al-Rasas (756 d.C.) e della Cappella della Theotokos nel Wadi ‘Ayn al-Kanisah sul Monte Nebo (762 d.C.), ci hanno permesso di precisare al 767 d.C. la data proposta dallo studioso francese. In questa marcia di avvicinamento ad una lettura meno partigiana delle fonti storiche, per quanto riguarda la continuità della presenza cristiana organizzata gerarchicamente e della vita urbana più in generale nel territorio della Provincia, in epoca musulmana, è stata determinante la scoperta nel 1986 della chiesa di Santo Stefano a Umm al-Rasas costruita al tempo di Sergio ii nella prima metà dell’viii secolo, come le chiese di Ma‘in (719/20 d.C.) e di al-Quwaysmah - Amman (717/18 d.C.), restaurata nel 756 d.C. al tempo del vescovo Giobbe di Madaba (M. Piccirillo-E. Alliata, Umm al-Rasas Mayfa‘ah i. Gli scavi del Complesso di Santo Stefano, Gerusalemme 1994).
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INDICE DEI NOMI DI LUOGO E DEI SITI ARCHEOLOGICI In questo indice sono elencati i nomi di città, di villaggio, di località e di sito; non sono compresi i nomi geografici (fiume, mare, monte, regioni e così via) né quelli politici. Quando per una stessa località sono utilizzate nel testo diverse dizioni, corrispondenti a diversi periodi storici o a diverse lingue e documenti, si sono raccolti i riferimenti in corrispondenza della dizione maggiormente utilizzata, alla quale rinviano anche tutte le altre dizioni, che sono comunque riportate. Il segno ‘ indica la prima lettera dell’alfabeto arabo, quindi le parole che iniziano con esso precedono tutte le altre. Nell’ordinamento alfabetico non si è tenuto conto dell’articolo.
‘Aqrab 195 ‘Ayn al-Jadidah 167 ‘Ayn al-Kanisah 71, 74, 84, 95, 102, 104, 111, 122, 167, 177, 219, 227, 230, 236, 251 ‘Ayn Kharrar v. Wadi Kharrar ‘Ayn Nejl 52 ‘Ayn Qattara 104-106 ‘Ayn al-Wukhyan 100 al-‘Ula 35-36 ‘Uqbata 196 ‘Uyun Musa 55, 74, 83-84, 99, 101, 106, 109, 111, 145, 167, 175, 177, 179, 183, 185, 196 Abarim 80, 82 Abila 41, 72, 218 Aden 20 Adraa 19, 35, 38, 41, 43, 45, 48, 52, 66, 75, 211, 213, 218 Adra‘ah v. Adraa o Adra Adulis 21 Aenos 45, 52 Afusia 243 Ahira 38 Aila 9, 18, 29, 33, 51, 190, 212-213, 219, 247 Ainon 109 Ainos 66, 77 Ajlun 73, 104, 108, 212 Ajnadayn 213 Aksum v. Axum Aleppo 26, 214 Alessandria 9, 20, 43, 59, 61, 65-67, 69, 124, 127, 187, 195 Alqin 109 Amathus 35 Amman 19, 31, 33, 35, 38, 49-50, 52, 62, 64-66, 71-74, 102, 104, 106, 109, 135, 137, 185, 190, 201, 216, 219, 221-222, 250-251 Amra 71 Anasarta v. Khanasir Anbar 25 Antiochia 12, 48, 65-66, 71-72, 74, 112-113, 134, 186, 190, 194-198, 214, 250 Apamea 12, 14 Aqaba v. Aila Aqraba 109, 200 Araboth Moab 80 Areopolis v. Rabbat Mouba al-Arish 161 Arnon 18, 31, 33, 38, 52-53, 61, 104, 109, 167, 169, 190 Aro‘er 33 Ascalon 122, 160, 165, 222, 224 Ashtarot 112 Astarot Carnaim v. Carnaim Atene 43 Auara v. Humeima Avdat 33, 219 Axum 20, 22, 24, 193 Azio 12, 38 Azraq v. Qasr al-Azraq 252
Ba‘ Arbaya 199 Ba‘al Ma‘on v. Ma’in Ba‘albek 213 Baaru 64, 80, 82, 144, 161, 169, 182 Bacatha 74, 251 Baghdad 26, 219, 245 Baruch 55, 122 Barugaza v. Baruch Baruqia v. Constantia Baytimo 109 Beelmaus v. Ma‘in Beisan 57, 213 Beit Gamul v. Jumeil Beit Gibrin v. Eleutheropolis Beit Ras 218-219 Beit Shean 219, 245 Belemounta 222 Berenice 55, 57 Bersabea 161 Besinunte 109 Bet Ramtha v. Livias Betania 57 Bethfogor 80 Betlem 108, 161, 240, 243 Betoro 50, 52 Betproclis 38 Birsama 38 Bitabo 196 Bosor 43 Bosra al-Sham v. Bostra Bostra 18-19, 29-30, 33-34, 36, 38, 41, 43-45, 48, 52, 55, 59, 61-62, 65-67, 69, 71-72, 111-113, 126127, 134-135, 144, 191, 199, 211-213, 215, 219, 221, 224, 247, 250 Bouraq v. Constantia al-Burj 200 Busan 62 Busr al-Hariri 71 Butsa 196 Cairo 59 Calcedonia 66, 71-72, 74, 76-77, 109, 111, 113, 137, 144 Callinico 204, 206-207 Cana 113 Canatha 35, 38, 45, 52, 62, 66, 76 Canopo 124 Capha 109 Capitoliade v. Beit Ras Capitolias v. Beit Ras Carnaim 111 Carneas 74, 111 Castra Zizia 64 Cesarea di Cappadocia 67 Cesarea sul Mare 43, 57, 65, 213, 215 Chalcis v. Qinnasrin Charach Mouba 31, 35, 38, 50, 52, 53, 65, 160, 222, 243 Chasm 71 Circesio 38, 198
Ciro 74 Cizico 240-243 Clisma-Suez 9 Constantia 66, 77 Constantine v. Constantia Coprata (laura di) 109 Coraiatha 64 Costantinopoli 18, 64-67, 71-72, 74, 76-77, 187, 190, 194-199, 211, 224, 235, 243, 251 Ctesifonte 198 Damasco 9,10, 12, 14, 26, 38, 45, 52, 57, 59, 108-109, 111, 191-192, 195, 197, 200, 213-216, 218-219, 240, 245 Dannaba 80, 111-112 Dara 194 Darai 25 Daraya 109, 196 Darbat al-Dariya 71, 73, 212 Dathin 213 ed-Dayr (presso Ma‘in) 177 Dayr al-Ba‘iqi 109 Dayr al-Busra 109 Dayr al-Diyuk 71 Dayr al-Khaf 52, 109 Dayr er-Riyashi 104 Dayr Siyagha 106 Deir Murran 218 Der‘ah v. Adra Dhiban 9, 33, 167, 169 Dhouneibeh v. Dannaba Dhumayr 200 Dibon v. Dhiban Dionisia 65-66, 76 Diospolis Lidda 227 Dium 41 Dora 74, 251 Dulaylah 201 Dur 71, 249 Dura Europos 36, 249 Durbul 109 Edane 109 Edessa 18, 113, 195, 198, 213 Edom v. Petra Efeso 71, 74, 76, 188, 190, 196-199 Elat v. Aila Eleale 50 Eleutheropolis 222, 227 Elia Capitolina v. Gerusalemme Elusa 10, 35, 53, 67, 219 Emesa 14, 190, 199, 213 Emmaus v. Nicopolis Enon 57 Epifania 169, 190, 213 Eraclea 198 Ere 65-66, 74 Erem 52 Eres 66
Esbounta v. Esbous Esbous (Esbus) 19, 35, 38, 50, 52, 65-66, 79-80, 82, 113, 167, 218, 227, 235, 251 Eutimia 66, 76 Evaria v. Hawwarin Ezion Gheber 9 Ezra 66-69, 71, 77
Iamnia 69, 134 id Mahagga v. Montagna id Mahagga Imtan 36, 38, 109 In‘at 38 Iotabe 18, 53, 190 Iraq al-Amir 104 Irbid 72-72, 212
Facusa 15 Faina v. Ainos Faysaliah 170 Feinan v. Feno Feno 62, 76 Fenotus v. Ainos Fihl v. Pella Firenze 243 Fisga 99-100 Fonti di Mosè v. ‘Uyun Musa
Jabal al-Aswad 196 Jabal Harun 109 Jabal Usays 190, 195 Jaber 72 al-Jabyah 24, 112, 200, 204-205, 208, 217, 221-222 Jaffa 161 Jasim 109 Jauf 36, 52 Jemarin 71 Jerash v. Gerasa Jilliq v. Kisweh Jiza 71 Jumeil 170
Gabbula 192, 200 Gabitha v. Jabiya Gadara della Decapoli 35, 41, 48, 52, 72, 218 Gadara della Perea 35 Gadda 52 Gadoron 222 Gaza 9, 10, 41, 45, 69, 82, 144, 159-161, 165, 213, 216, 222, 227 Gbita v. Jabiyah Gerasa 18-20, 29, 35, 41, 43, 48-49, 52, 55, 64, 66, 69, 71-74, 113, 115, 117-119, 122, 132-135, 215, 217, 250 Gergesa-Kursi 113 Gerico 50, 79, 160, 165, 227 Gerusalemme 9, 24, 50, 52, 57, 59, 61, 64-66, 74, 79, 82, 94-95, 99, 102, 109, 111-113, 115, 139, 151, 159-161, 165, 188, 195, 211, 214-216, 219, 227, 230, 233, 240, 243, 249, 250-251 al-Gharby v. Qasr al-Hayr al-Gharby Ghariyeh al-Gharbiyeh 71 Ghor al-Safy v. Zoara Ghul 25 Gomorra 84, 109 Gregoria 153, 161 Gubba Barraya 197 Haditha v. Khirbhat al-Samra Hagar 25 Hama v. Epifania Hammam Ayyub 112 Hammamat Ma‘in v. Baaru Harib 208 Harith al-Jawlan 200 Harra 109 Harran 66, 70-71, 76, 79, 194, 201, 243 Harta 109 Hatita v. Khirbat al-Samra Hatra 15, 249 Hatta 25 Hauarra v. Humaima Hawwara 201 Hawwarin 198 al-Hayyat 200 Hebron 161 Hedeib al-Fala 33 Hesban v. Esbous Hessa 219 Hierapolis v. Manbij Hierokles v. Neela Hine 109 Hira 20-21, 25, 41, 186, 192, 198, 209 Hit 70, 199 Homs v. Emesa Humeima 51-52 al-Husn 71-73
Kafr 70 Kafr Hawwar 109 Karanis 30-31 Karta 244 Kastron Mefaa v. Umm al-Rasas Kedar 64-65 Kerak 52, 53, 137, 212, 243, 250; v. anche Charach Mouba Khanasir 200 Khattabiyah 106, 167, 175 Khaybar (oasi di) 194 Khilda 71, 73-74, 219, 221 Khirbat al-Fityan 52 Khirbat al-Khaldeh 51 Khirbat al-Kursi 73-74, 102 Khirbat al-Mafjar 227 Khirbat al-Mukhayyat 74, 84, 102, 104, 167-168, 170, 172-173, 175, 177, 179 Khirbat al-Nile v. Neapolis Khirbat al-Samra 52, 65, 71-72, 113, 127, 215, 221, 223 Khor 15 Kiswa v. Kusita Kisweh 200 Koraiata 65 al-Kousweh v. Kisweh Kufa 25 Kufeir Abu Sarbut v. Khattabiyah Kufeir al-Wkhyan v. Faysaliah Kurnub v. Mampsis Kusita 196 Kutaybeh 71 Kynopolis 226 Laodicea 12 Larissa v. Shayzar Lejjun 35, 38, 52-53, 248 Leuke Kome 10, 55 Lidda 213, 227 Liviada v. Salamiada Livias 35, 50, 52, 79-80, 82, 84, 109 Lubbayn 71 Ma‘arrat Nu‘man 200 Ma‘in 50, 64, 71, 80, 104, 106, 137, 144, 166-167, 169, 175, 177, 182, 219, 222, 224, 226, 235-236, 251 Macheronte 57-58, 64, 74, 104, 106, 137, 167, 169, 218, 249-250 Mada’in Salih ( Madain Saleh, Meda’in Salih) 17, 35-36
Madaba 19-20, 31, 33-35, 38, 50-53, 55, 57, 64-66, 69, 71, 73-74, 80, 84-85, 87-89, 94-96, 99, 105-106, 109, 113, 135, 137-154, 158-161, 167-182, 187, 190, 195, 201, 209, 219, 222-223, 226-227, 230, 233-235, 237, 250-251 Madrid 112 Magnesia 12 al-Mahatta 80 Mahattat al-Hajj 38 Maiumas 84, 142, 231 Majdal 109 Mampsis (Mempsis) 10, 35, 43, 50-52, 219 Manbij 197 Mar Liyas 104 Marib 25-26, 193 Marj al-Suffar 213 Marj Rahit 213 al-Markaz 112 Maro v. Meru Mashmahij 25 Massuh 73-74, 235-237 Maximianopolis 66, 71, 76 Mayfa‘ah v. Umm al-Rasas Mecca 24-26, 45, 190, 224 Mechaberos v. Macheronte Medina 10, 212 Mefaat 224 Mekawer v. Macheronte Menfis 124, 127 Meru 218 Mezayrib 112 Mismiyyeh 77 Moa 52 Moab 9, 31, 33, 51, 64, 79, 80, 216, 240, 248 Montagna di Harith 195 Montagna id Mahagga 195 Monte Hor v. Jabal Harun Monte Nebo 20, 50, 52, 55, 71, 74, 79-85, 87, 89, 94, 96-97, 99-102, 104, 106, 109, 111, 137, 139, 144-145, 151, 158, 160, 166-170, 177, 179, 183, 185, 197, 209, 219, 227, 236-237, 245, 250-251 Montrealis 52 Mosera v. Muscera Mota 212 Motana v. Imtan Motha v. Imtan Mouza 55 al-Mu‘allaqah 104 Muhaffaf 191 Mukawer v. Macheronte al-Mukhayyat v. Khirbat al-Mukhayyat Muos Hormos 55 Musayfire 109 Muscera 109 al-Mushennef 76 Muta 53 Nabau 167 Nabk 197, 199 Nablus v. Neapolis Nahita 71, 211 Nahr al-Qusayr 195 Nahra d’Qastra v. Nahr al-Qusayr Najran 21-25, 71, 186, 193, 200 Namara 36, 38, 186 Naua v. Neve Nawa v. Neve Nazaret 57, 211 Neapolis 66, 74, 160, 227 Nebe v. Neve Neela 66, 76 Negla v. ‘Ayn Nejl Nekla v. ‘Ayn Nejl 253
Nelcomia v. Neela Neneuen 111 Netzana 35 Neve 25, 66, 71, 111-112 Nicea 65-66, 71, 74, 76, 196, 240, 244 Nicopolis 222 Nilacome v. Neela Nineue v. Neneuen Nisibi 194 Nitl 137, 167, 170, 175, 190, 201, 207-209 Nysa Schythopolis 41 Oboda 10, 29, 35, 41 Odroa 222 Palmira 12, 20-21, 36, 38, 41, 43, 186, 190, 193 Pella 35, 41, 59, 61, 72-73, 122, 183, 213, 219, 237, 245 Pelusium 160, 236 Pergamo 12 Petra 9-10, 12, 14, 18, 19, 29-31, 33-36, 41, 43, 51-53, 55, 57-58, 64-65, 67, 69, 79, 109, 113 Phaena v. Ainos Philadelphia v. Amman Philippopolis 38, 43, 45, 59, 66, 76 Phisga 84 Praesidio 51 Prasidin 52 Qal‘at al-Mishnaqa 58, 169 Qal‘at al-Rabad 104 Qal‘at al-Zerqa 38 Qanawat v. Canatha Qaryatain 199 Qasr al-Azraq 52, 247 Qasr al-Ba‘iq 53, 109 Qasr al-Bashir 35-36, 52 Qasr al-Hallabat 35, 38, 52 Qasr al-Hayr al-Gharby 104, 198-200 Qasr at-Tuba 104 Qatraneh 38 Qinnasrin 26, 194, 214 Qoraiata 144 al-Qurayat 64, 167, 170 al-Quwaysmah (Amman) 71, 106, 109, 216, 219, 226, 251 Rababatora v. Rabbat Mouba Rabbah 50-51 Rabbat dei figli di Ammon v. Amman Rabbath Mouba 38, 50-53, 65, 69, 222 Rafah 69 Rafidim 161 Raham 71 Rasafa 22, 27, 198, 200-201, 207, 209, 240 Rekem 41 Rihab 71-72, 135, 211-213, 215, 219, 221 Rinocorura v. al-Arish Roma 10, 12, 18, 29, 43, 45, 48, 57, 65, 88, 130, 134, 153, 161, 188, 191, 243, 247, 250 al-Ruha v. Edessa Ruwwafa 35, 191 Sabha 246 Sadaqa 51, 53
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Safrin 196 Sakia 196 Sakka v. Sakia Sala 71 Salamiada 86 Salamina di Cipro 46, 61, 84, 113 Salem 57 Salkhad 71 Sama 71, 211 Samra 71 San Giobbe (santuario nel Hauran) 111 San Saba (laura di) 108, 215 San‘a’ 24 es-Sanamein v. Eres Santa Caterina sul Monte Sinai 102 Sapsas (laura di) 109 Sarabit al-Mahattah 80 Sarabit al-Mushaqqar 80 Sardica 66 Sayda 200 Scenas Veteranorum 36 Scitopoli 48 Sebastis 227 Segor 84, 109 Sel’a Rekem v. Petra Sela 64 Seleucia di Isauria 66, 195 Sergiòpolis v. Rasafa Shahba v. Philippopolis Shaikh Meskin 112 Shaikh Sa‘ad 112 Shaqqa v. Maximilianopolis Shayzar 213 Shivta 219 Shobak v. Montrealis Shunah al-Janubiyah 221-222, 235 Sidone 160 Sinai 9-10, 100, 102, 109, 161, 216, 246 Siyagha 80-81, 84, 100, 102, 104, 106 Sobata 35 Sodoma 84, 109 Sur 71 Suramman 109 Suwayfiyah 73 Suweidah v. Dionisia Ta‘la 109 Tabaqat al-Fahl v. Pella Tabuk 35, 212-213 Taybeh 71 Tell Abil-Quwaylbah 218 Tell Nimrin 222 Terme di Baaru v. Baaru Terme di Calliroe 161 Terme di Mosè 80, 84 Thamara 52 Thana v. Thawana Thanthia 52 Thawana 52 Thornia v. Thawana Tiberiade 22, 23, 52, 211, 240 Tiro 9, 55, 160 Tisbeh 104 Tubna 195 Tubnin v. Tubna
Tura 59 Turlipara 218 Udruh 36, 52, 249 Umm al-Jimal 41, 52-53, 71, 219, 221, 223 Umm Qays v. Gadara Umm al-Quseir 201 Umm al-Quttayn 219 Umm al-Rasas (Kastron Mefaa) 50, 55, 59, 71, 74 84, 95, 99-100, 106, 109, 113, 115, 137, 160, 167, 170, 177, 187, 201, 209, 216, 219, 223-224, 226227, 230, 233-237, 240, 242-245, 249-251 Umm al-Surab 71, 219 Umm al-Walid 201 Ur 79 Urhai v. Edessa Venezia 243 Wadi ‘Ayn al-Kanisah v. ‘Ayn al-Kanisah Wadi ‘Uyun Musa 84 Wadi al-Qura 212 Wadi Afra 104, 167 Wadi Afrit 102 Wadi Arabah 213, 249 Wadi Feiran 35 Wadi al-Habis 104 Wadi Hasa 52-53, 65, 104 Wadi Jabara 104 Wadi Kharrar 57, 109 Wadi Khudrah 35 Wadi Kufrinja 104 Wadi Mughara 10 Wadi Mujib-Arnon 18, 31, 33, 38, 52-53, 104, 190 Wadi Mukattab 35 Wadi en-Nar 109 Wadi Rajib 105, 108 Wadi Ram 12 Wadi Rumeil 201 Wadi Shu‘ayb 104 Wadi Sirhan 36, 38, 52, 213 Wadi Umm Sidaira 35 Wadi Wala-Heidan 109 Wadi Yabis 104 Wadi Yarmuk 104 Wadi Zerqa Ma‘in 104 Yajuz 72-74 Yaqut v. Dayr al-Ba‘iqi Za‘ura 109 Zadagatta v. Sadaqa Zafar 20, 22-24 Zanaatha v. Sadaqa Zay 35, 102 Zayd ibn ‘Amr 224 Zebed 200 Zerabene v. Ezra Zia v. Zay Zimrin 109 Ziziah 64, 201 Ziziun 62 Zoara 35, 108, 161, 221 Zodachata v. Sadaqa Zorava v. Ezra
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