IL NATALE NELL’ARTE D’ORIENTE E D’OCCIDENTE
IL NATALE
NELL’ARTE D’ORIENTE E D’OCCIDENTE di FRANÇOIS BŒSPFLUG – EMANUELA FOGLIADINI
Sommario © 2020 Editoriale Jaca Book Srl Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana novembre 2020
© Alfred Manessier, by siae 2020 © Arcabas, by siae 2020 © Nikola Saric´, by siae 2020 © Emil Wachter, by siae 2020
Introduzione
12. Chiesa della Vergine Peribleptos,
7
1. Sarcofago, Museo di Arles e della
Provenza Antica, Arles
13. Cappella degli Scrovegni, Padova
14
2. Chiesa di Santa Maria Foris Portas, Traduzione dal francese dei testi di François Bœspflug Emanuela Fogliadini Copertina e impaginazione Jaca Book / Paola Forini
Castelseprio
Hildesheim
22
4. Chiesa di Hosios Loukas, Grecia
26
5. Cappella Palatina, Palermo
30
Stampa e legatura Grafiche Stella Srl, San Pietro di Legnago (VR) novembre 2020 isbn
978-88-16-60627-2
38
8. Cattedrale Notre-Dame, Chartres
42
10. Chiesa di san Giorgio, Kurbinovo San Vito dei Normanni
15. Chiesa di Chora, Istanbul
70
16. Monastero di Studenica, Serbia
74
78
18. Monastero di Visoki De/ani, Kosovo
82
19. Monastero di Marko, Skopje
86
20. Chiesa di santa Marina, Creta
90
46
de Berry
94
22. Rogier Van der Weyden,
50
Staatliche Museen, Berlino
98
54
23. Filippo Lippi, Gemäldegalerie, Berlino
104
11. Cappella di san Biagio,
66
21. Les Très Riches Heures du Duc
9. Messale di Stammheim, J. Paul Getty Museum, Los Angeles
Maestà del Duomo di Siena
Museo Matenadaran, Erevan
34
7. Monastero dei Siriani, Egitto
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
Cappadocia
62
17. Vangelo di Thoros Taronatsi,
6. Chiesa di Karanlik Kilise,
58
14. Duccio da Buoninsegna,
18
3. Evangeliario di san Bernward,
Ohrid
5
24. Geertgen tot Sint Jans,
National Gallery, Londra
39. Joseph Mulamba-Mandangi, 108
25. Bernardino Luini,
Museo del Louvre, Parigi
112
26. Scuola di Rüblev, Cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino, Mosca
116
27. Scuola di Pskov, Museo Russo,
San Pietroburgo
120
28. Federico Barocci,
Museo del Prado, Madrid
Museo di Belle Arti, Rennes
Repubblica del Congo
170
40. Sawai Chinnawong, Tailandia
174
41. Julia Stankova, Bulgaria
178
42. Wisnu Sasongko, Indonesia
182
43. Ana Ili0, Serbia
186
44. Nikola Sari0, Serbia-Germania
190
Introduzione
45. François-Xavier de Boissoudy,
Francia
194
124
29. Georges de La Tour,
128
Conclusione
199
Bibliografia
209
Riflettere sulla Natività di Cristo significa andare alla fonte del messaggio rivoluzionario cristiano. La nascita di Gesù coincide, infatti, con l’incarnazione del Verbo di Dio. Nessuna religione precedente o successiva ha immaginato che Dio possa farsi uomo. Il cristianesimo invece dichiarò con forza, pur non senza discussioni e lacerazioni1, che il suo “fondatore” ha una doppia natura, divina e umana. Un discorso sulla Natività di Cristo, pur per immagini come nel presente saggio, è in primis un discorso teologico, in particolare cristologico. Questo significa che le decisioni dei primi sette concili ecumenici (da Nicea nel 325 a Nicea ii nel 787, con il vertice di Calcedonia nel 451), e dunque l’attenzione alla cristologia, sono la base imprescindibile di ogni descrizione che voglia dirsi seria e dunque autentica sul tema. Una presentazione della Natività di Cristo comporta ovviamente anche una ricostruzione del dato storico e un’analisi delle congiunture articolate che il cristianesimo ereditò dal mondo greco-romano e che rielaborò in funzione del nuovo messaggio. La questione classica legata alla data della nascita di Cristo (giorno, mese e anno) non si esaurisce in calcoli più o meno corretti ma rivela la sua ricchezza se inserita in un contesto più ampio di riflessione sul farsi carne del Verbo di Dio, sul
30. Giovanni Battista Pittoni,
National Gallery, Londra
132
31. Icona russa, Gallerie d’Italia,
Palazzo Leone Montanari
136
32. Jean-Léon Gérôme, Museo d’Orsay, Parigi
140
33. Maurice Denis, Museo degli
Agostiniani, Tolosa
146
34. Fritz von Uhde, collezione privata
150
35. Alfred Manessier,
collezione privata
154
36. Emil Wachter, Autobahnkirche, Germania
158
37. Arcabas, Francia
162
38. He Qi, Cina
166
7
Il giorno e il mese della nascita di Gesù furono invece fissati sulla base di due fonti, il Vangelo di Luca e il calendario solare rinvenuto a Qumran. Luca, infatti, riporta che l’annuncio dell’arcangelo Gabriele rivolto a Zaccaria della futura nascita di un figlio avvenne «mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale» (Lc. 1, 8-9). In base al calcolo incrociato tra le ventiquattro classi cui erano divise le famiglie sacerdotali e quella cui apparteneva Zaccaria, si è stabilito che questi svolse servizio presso il Tempio in una data che corrisponde alla fine di settembre, nove mesi prima del 24 giugno, ossia della data della Natività di Giovanni Battista. Da questo si deduce che anche l’annuncio alla Vergine Maria «nel sesto mese» (Lc. 1, 28) dal concepimento di Elisabetta, corrisponderebbe al 25 marzo3. Di conseguenza la data di nascita di Gesù sarebbe il 25 dicembre. A questi calcoli deve essere aggiunta la volontà della chiesa di Roma di favorire la conversione dei pagani anche facendo coincidere la data della nascita di Cristo con la festività pagana del Dies natalis solis invicti che cadeva il 21 dicembre, giorno del solstizio d’inverno. Accanto al dato storico si affianca la riflessione liturgica e teologica che determinò la scelta del termine “natività” al posto di nascita e istaurò un parallelo con la morte e sepoltura di Cristo4. La formula “natività”, adottata anche dalla storia dell’arte, si riferisce esclusivamente alla nascita di Cristo, e a quella della Madre e del Precursore, Giovanni Battista, per evidenziare la centralità dei tre personaggi nella storia salvifica. Il termine italiano che è poi diventato corrente per indicare tale avvenimento, il Natale, deriva per ellissi dal latino “dies natalis”. Anche la questione dell’origine della festa liturgica della Natività di Cristo è complessa e dibattuta: «l’ipotesi più verosimile è che la festa di Natale sia stata introdotta in Occidente tra il 325 e il 362-33 d.C.»5. Nel iv secolo si celebrava una festa il 25 dicembre in Occidente,
senso di una storia lineare e non ciclica che ha il suo apice nella nascita di Gesù, sull’integrazione e l’adattamento di elementi pagani per costruire la nuova identità cristiana. Per quanto concerne l’anno di nascita di Cristo, l’opinione ormai condivisa dagli specialisti è che non sia stato correttamente calcolato. L’errore sarebbe dovuto al monaco Dionigi il piccolo. Questi, tra v-vi sec., incaricato di proseguire la compilazione della tavola cronologica per il calcolo della data della Pasqua preparata al tempo del vescovo Cirillo, calcolò la nascita di Gesù dopo la morte di Erode (4 d.C.)2, ovvero 4 o 6 anni dopo la data in cui sarebbe veramente avvenuta. Giuseppe Flavio testimoniò che la morte di Erode i il Grande avvenne dopo 37 anni del suo regno e, considerando che salì al trono nel 40 a.C., l’anno della sua morte sarebbe da far coincidere con il 4 a.C. La conferma di tale data come limite per la nascita di Gesù fu un evento astronomico, ossia la stella citata dai Vangeli, che potrebbe corrispondere o a un’eclissi lunare che sarebbe avvenuta tra l’11 e il 12 aprile del 4 a.C. o alla congiunzione di Venere con Giove del 12 agosto del 3 a.C. I calcoli affascinarono e continuano a interessare studiosi e appassionati, ma il cristianesimo ufficiale andò oltre, ponendo l’accento sul prima e dopo Cristo, ossia sulla cesura che tale avvenimento produsse al corso della storia. Oltre a rifiutare una visione ciclica del tempo e a istaurare una concezione lineare della storia che iniziò con la creazione del mondo e si compirà nella seconda Parusia di Cristo, la dottrina cristiana accentuò il cambiamento dovuto all’incarnazione che divide definitivamente la storia in un tempo precedente e uno successivo. La vita del mondo e dell’umanità dalle sue origini, i molteplici popoli che si susseguirono e persino le alleanze solenni stabilite con il popolo ebraico, furono pensati dal cristianesimo come parte di un’epoca che trovò il suo compimento nella persona di Cristo e nella vita della sua Chiesa.
8
le opere consacrate esclusivamente all’adorazione dei pastori o a quella dei Magi, mantenute solo laddove sono parte integrante dell’opera scelta come accade spesso nell’iconografia degli Orienti cristiani. Tale scelta non ignora l’iconografia della Natività nella primitiva arte cristiana che fu principalmente un’adorazione dei Magi8. Si è poi cercato di spaziare in termini geografici, di supporto (avorio, mosaico, icone, affreschi, tele, vetrate) e di ripercorrere il tema su un arco temporale molto ampio per coprire, almeno simbolicamente, i diciassette secoli di arte cristiana. L’arte propriamente missionaria non è stata esaminata in modo sistematico (mancano, per esempio, immagini dell’America latina e dell’Oceania), ma abbiamo iniziato a rendere ragione di questo ampio mondo, dotato di caratteristiche peculiari sia a livello artistico sia spirituale. In sintesi si può affermare che si è presentata la ricca gamma dell’arte cristiana sulla Natività di Cristo con attenzione alle diverse espressioni iconografiche, dalle più celebri alle più ricercate, organizzandole come elementi di un’orchestra che, attraverso una sinfonia che attraversa i secoli e gli stili, ha tradotto in forme e colori il dogma dell’incarnazione del Verbo divino.
denominata Dies natalis domini nostri Iesu Christi, e il 6 gennaio in Oriente con il nome di Epiphaneia o Theophaneia6. Per un periodo che variò nelle varie regioni, le due feste continuarono a essere celebrate parallelamente, fino a quando «la festa di Natale cominciò a essere introdotta in Oriente e quella dell’Epifania in Occidente, determinando un adattamento reciproco e che determinò una modificazione dei rispettivi contenuti»7. Le differenze attuali di date tra il mondo cattolico e una parte di quello ortodosso sono dovute all’accettazione o meno della riforma proposta dal calendario gregoriano nel 1582. Tutte le chiese dunque festeggiano la natività di Cristo il 25 dicembre, ma nelle chiese di Gerusalemme, ortodossa russa, serba, nonché antiche chiese orientali e quella cattolica orientale, il 25 dicembre, secondo il calendario Giuliano, cade il 7 gennaio. Il presente volume alterna delle straordinarie immagini a una lettura delle stesse che permetta di apprezzare il quadro complessivo, facendo attenzione ai motivi volutamente curati da iconografici, mosaicisti, miniaturisti, pittori. L’iconografia dei cristianesimi d’Oriente e d’Occidente è non solo il fil rouge del volume ma il luogo rispettivamente della manifestazione della teologia e del dogma, della creatività e vitalità artistica, della pietà. La scelta delle opere è stata guidata da più criteri. Innanzitutto una visione a tutto tondo dell’arte cristiana che consideri e valorizzi le diverse interpretazioni del medesimo evento nei diversi Orienti cristiani, in un Occidente attraversato da stili che mutano secondo i periodi e il genio degli artisti e anche nei continenti raggiunti dalla grande espansione missionaria dell’Occidente dal xvi secolo, come l’Asia e l’Africa. Per queste ultime regioni ci è parso importante presentare alcune immagini della Natività di Cristo che rivelano interessanti sensibilità locali. Si è inoltre scelto di concentrarsi sulla sola iconografia della nascita, omettendo sia l’arte popolare relativa al presepe che
Il criterio privilegiato per la scelta delle opere è stato il racconto del medesimo mistero attraverso le molteplici voci della teologia e dell’iconografia dei cristianesimi d’Oriente e d’Occidente. Per evitare una restituzione che, pur mettendo in luce le rispettive differenze, non opponesse le rispettive letture, si è scelto di procedere con un ritmo storico-temporale integrando le opere proprie di ciascun cristianesimo. Il lettore noterà che la raffigurazione della Natività di Cristo segue negli Orienti cristiani, dal mondo bizantino a quello armeno e copto fino all’Ortodossia russa, uno schema stabile9, ripresentato con una certa fedeltà lungo i secoli. È l’espressione profonda della concezione teologico-rivelativa delle immagini sacre10, presenza viva del mistero salvifico raffigurato, porta e
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Oriente, dall’India alla Cina e al Giappone. L’elemento spirituale-devozionale in Occidente sembrò prendere il sopravvento sulla presentazione teologica del dogma; allo stesso tempo l’arte latina ha il merito di mettere in luce la reale umanità di Gesù, sovente celata nella solenne ieraticità e schematicità delle icone e dei mosaici antichi.
finestra di un incontro tra mondo terreno e ultraterreno. Ogni particolare iconografico assume un significato teologico volto a esprimere la straordinarietà del dogma dell’incarnazione, senza cedere al sentimentalismo umano che la gioia di una nascita, pur fuori dall’ordinario, può suscitare. Si spiega in tal senso la posizione centrale della Madre e del Figlio che la maggior parte delle volte non si guardano perché la Madre è assorta in pensieri lontani che il Bambino, avvolto in fasce che prefigurano la morte, sembra suggerirgli. La Natività è una piccola Pasqua, il segno della vicinanza di Dio, l’anticipazione della kenosis definitiva di Cristo, l’annuncio della salvezza piena. Interessante in questo schema anche la proclamazione sobria ma ferma che il mistero eccezionale della nascita di Gesù si deve all’opera dello Spirito di Dio, i cui raggi spesso illuminano sobriamente la culla del Bambino. È sempre il dogma che spiega la posizione “all’angolo” di Giuseppe, che stupisce l’osservatore occidentale abituato a vederlo raffigurato come co-protagonista in adorazione con Maria in molte scene della Natività. Lo schema iconografico classico che sembra contraddistinguere molti Orienti cristiani fu sostanzialmente condiviso anche dall’Occidente latino per tutto il Medioevo, fino alla soglia del Rinascimento. La valorizzazione dell’umanità di Gesù, e in particolare del momento della sua nascita, promossa dalla scuola francescana sulla scia dell’introduzione del presepe nella celebrazione natalizia per volontà di Francesco d’Assisi, contribuì a mutare anche lo schema iconografico. Un’accentuazione dell’elemento sentimentale e dell’ideale del focolare familiare raccolsero Maria e Giuseppe attorno al Bambino, posato in una mangiatoia con del fieno o appoggiato per terra nudo mentre i genitori, talvolta accompagnati dai pastori, lo adorano. Aggiungiamo che l’emarginazione di Giuseppe, nelle immagini della Natività, sarebbe totalmente impensabile nell’arte dell’Africa subsahariana e altrettanto in quella delle regioni dell’Estremo
A livello metodologico, per ogni opera si fornisce la legenda con tutte le indicazioni reperibili sul soggetto (titolo, data, eventuale autore, luogo di produzione e conservazione, dimensioni, schema di composizione, motivi e stile, funzioni e usi laddove noti) e, nelle note, sono presentati precisi riferimenti bibliografici di contenuto iconografico, teologico, liturgico, spirituale e mistico. La ricchezza e puntualità delle note è anche alla base della scelta di non accorpare in una bibliografia finale – che sarebbe stata magmatica – tutti i titoli citati. Il lettore, infatti, ha la possibilità e la comodità di approfondire gli argomenti riferendosi direttamente alle note elaborate per ogni opera. Inoltre la bibliografia sul tema è farraginosa: accanto a qualche titolo di contenuto scientifico, vi sono altri testi che affrontano la questione dal punto di vista spirituale. Gli autori hanno scelto di riferirsi e citare volentieri i saggi11 e gli articoli che riflettono sulla Natività di Cristo con differenti approcci metodologici e spaziando tra le varie discipline scientifiche, tralasciando i volumi con un approccio più spirituale e devozionale.
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IL NATALE NELL’ARTE
D’ORIENTE E D’OCCIDENTE
1.
SARCOFAGO, Museo Di Arles E Della Provenza Antica, Arles Bassorilievo su sarcofago, iv secolo, Museo di Arles e della Provenza Antica, Arles, Francia
14
L’incarnazione del Verbo di Dio in Gesù di Nazareth fu confessata fin dalle origini del cristianesimo, secondo quanto riportato dai quattro Vangeli e celebrato con stupore e solennità dalla liturgia: «Venite, esultiamo per il Signore, esponendo questo mistero. Il muro di separazione che era frammezzo è abbattuto; la spada di fuoco si volge indietro e i cherubini si ritirano dall’albero della vita… Poiché la perfetta immagine del Padre, l’impronta della sua eternità, prende forma di servo, procedendo da Madre di nozze, senza subire mutamento: ciò che era è rimasto: Dio vero; e ciò che non era ha assunto, divenendo uomo per amore degli uomini»12. Ma, tra l’elaborazione di tale aspetto della Buona Novella e la sua traduzione in immagini, trascorsero almeno due secoli. Tale constatazione vale d’altra parte per la quasi totalità degli articoli del Credo. La prima Vergine con il Bambino potrebbe essere una pittura murale delle catacombe di Priscilla di fine iii secolo. Una delle prime Natività, nel senso precisato nell’introduzione, che ci è pervenuta, è probabilmente il rilievo del sarcofago del iv secolo scoperto recentemente e conservato ad Arles (Provenza, Francia). Queste due opere illustrano che la prima arte cristiana fu essenzialmente legata all’arte funeraria: il luogo privilegiato in cui le raffigurazioni comparvero fu l’affermazione della fede in occasione delle esequie,
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nei luoghi e sugli oggetti che conservavano le spoglie dei fedeli. Attorno a questi, i primi cristiani erano soliti riunirsi e pregare sia durante tutto il periodo delle persecuzioni ma anche dopo l’Editto di Milano del 313 che riconobbe il cristianesimo come una religione lecita. I lati dei sarcofagi, in particolare, furono per svariati secoli (dal iii all’viii) il luogo in cui non solo furono manifestate le idee cristiane sulla vita ultraterrena e sui beati ma anche elementi essenziali della fede cristiana al punto che alcuni sono qualificati come “sarcofagi dogmatici”, in particolare quello conservato nel museo del Laterano a Roma. Effettivamente su di essi sono scolpite non solo delle raffigurazioni
di Cristo e di alcuni suoi miracoli ma anche delle immagini della Creazione del mondo e di Adamo e Eva per mano di Dio con l’assistenza del suo Logos. La scena della Natività rappresentata su questo sarcofago è una tra le rappresentazioni del fregio che ne ornano il lato lungo. È contornata da altre immagini, in particolare nella parte inferiore vi sono i tre Magi, con il tipico berretto frigio13, che indicano con il dito la stella che si è fermata sul tetto sotto cui riposa il Bambino nel registro superiore14. La presenza della Natività su questo tipo di oggetto contribuisce all’affermazione silenziosa di un legame a tutto tondo tra il defunto e la
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trapano pongono l’accento sull’aspetto rivelativo di questa scena: si tratta chiaramente di un’epifania. La presenza del bue e dell’asino non è menzionata in nessun racconto evangelico della Natività di Gesù. Essa reclama il suo legame con la letteratura profetica veterotestamentaria («Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone», Is. 1, 3) e si spiega soprattutto grazie alla diffusione dei testi apocrifi, in particolare lo Pseudo Vangelo di Matteo15, che acquisì una certa autorevolezza su tale soggetto, agevolata dal tacito consenso della Chiesa gerarchica e dall’approvazione unanime del popolo cristiano. Si trattò di un’autorità tale che la raffigurazione del presepe non fu dispensata, fino ai nostri giorni, dalla presenza dei due animali che si ritiene abbiano riscaldato con il soffio delle loro narici il corpo del nuovo nato. Le precisazioni sull’arte che seguirono il concilio di Trento ratificarono per qualche tempo la loro presenza nei dipinti ma, richiesti dai fedeli, il bue e l’asino riapparvero nel xviii secolo nelle raffigurazioni della Natività e specialmente dei presepi. Il personaggio in piedi sulla destra, giovane, leggermente abbigliato, che compie un gesto di acclamazione e di riconoscenza non è Giuseppe, il padre adottivo di Gesù, solitamente raffigurato come un uomo anziano nell’arte cristiana primitiva. È chiaramente caratterizzato come un pastore, grazie al suo bastone che tiene come un’insegna, la sua gioia fa pendant con la riflessione inquieta di Maria.
sua fede in Cristo e ovviamente anche di un rapporto più specifico tra questi e il Bambino nella mangiatoia. Infatti, al centro della scena si trova Gesù non seduto sulle ginocchia di sua Madre ma appena nato, nudo avvolto in fasce. Questo tipo di bende rimanda, a livello simbolico, sia a quelle del defunto, la cui salma per secoli fu avvolta in bende piuttosto che posta in un lenzuolo, sia alle numerose rappresentazioni di Lazzaro morto e avvolto in fasciature da cui, una volta risuscitato, potrà liberarsi solo con l’aiuto di coloro cui Cristo si rivolge per sbendarlo. Dunque una tale Natività, posta su un sarcofago, fu indubbiamente interpretata dai contemporanei come una chiara allusione al fatto che il defunto all’interno della bara era diretto verso la vita in modo simile al Bambino Gesù. Le bende richiamano anche il Cristo crocifisso che, posto nella tomba e avvolto in lini, era rinato per sempre. Queste sono quindi investite del compito di annunciare una promessa d’eternità. A sinistra del Bambino, seduta accanto a un letto a forma di mangiatoia, avvolta anch’ella in una tunica, vi è Maria, che porta la mano destra al mento in maniera preoccupata. È la prima testimonianza di un gesto che ricorre spesso nelle opere consacrate a questo soggetto: molte immagini della Madre di Dio dell’arte cristiana la mostrano immersa in una riflessione grave o rattristata, mentre medita sul destino che attende suo Figlio. È interessante soffermarsi sulle proporzioni dei corpi che non sono rispettate. Infatti, il Bambino appena nato è anormalmente grande in rapporto a sua Madre: è il segno che l’arte cristiana non è primariamente un’arte della mimèsis, dell’imitazione scrupolosa della realtà e dell’aspetto di persone e oggetti ma un’arte della significazione, che si adopererà affinché le figure siano immediatamente leggibili e identificabili senza fatica, privilegiando la trasmissione del significato cui le comunità cristiane aderivano. Un altro effetto di tale primato di senso è la forma degli occhi, sia di quelli umani sia animali. Le loro pupille attentamente scavate con il
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2.
CHIESA DI Santa Maria Foris Portas, Castelseprio
L’affresco della Natività di Cristo presente nella chiesa di Santa Maria Foris Portas a Castelseprio è frutto di un incontro tra Oriente e Occidente. Il ciclo di pitture nell’abside principale – riscoperto nel 1944 da Gian Piero Bognetti sotto pitture del xv-xvi secolo – fu ed è tuttora oggetto di discussioni circa la cronologia, la committenza, l’origine dell’artista. Gli affreschi riproducono scene dell’infanzia di Cristo ispirate ai Vangeli apocrifi dell’infanzia, in particolare il Protovangelo di Giacomo. La peculiarità del loro stile bizantino-ellenico, in un contesto longobardo nemico di tale impero, ha acceso il dibattito tra gli studiosi sulla datazione della costruzione della chiesa e della realizzazione dei primi affreschi. La maggior parte degli studiosi li collocò inizialmente nell’viii secolo16, ma questa datazione fu contestata dal mondo accademico statunitense17. In particolare Kurt Weitzmann propose l’inizio del x secolo, mentre altri storici dell’arte altrettanto famosi optarono per un’epoca intermedia, l’80018. Non mancarono sostenitori di una datazione più antica, il vi secolo19. In ogni caso, fino alle recenti indagini del 2012 la discussione rimase aperta. La recente ricerca sistematica20 – che ha previsto un’analisi stratigrafica delle murature e dei rivestimenti, uno studio storico-artistico del ciclo di affreschi dell’abside orientale, com-
Pittura murale, ix secolo, Santa Maria Foris Portas, Castelseprio, Varese
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plesse datazioni 14C di legni e malte – ha permesso sostanzialmente di risolvere l’enigma e di datare la costruzione della chiesa al ix secolo e il ciclo di affreschi attorno alla metà del x secolo. L’artista che realizzò gli affreschi, lo scono-
sciuto maestro di Castelseprio, riprese dunque uno stile noto come “neo-ellenismo”, una corrente artistica che si diffuse probabilmente nel periodo imperiale degli Ottoni, tra il 900 e il 1000.
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Le straordinarie raffigurazioni dell’abside principale si articolano su tre registri. Nel registro superiore sono rappresentate, l’Annunciazione, nella quale Maria riceve l’annuncio dell’angelo mentre è intenta a filare, secondo lo schema tipico bizantino derivato dai racconti apocrifi; la Visitazione, di cui rimane solo una parte; la Prova delle acque amare, mezzo per testare l’eventuale infedeltà, superata sia da Maria sia da Giuseppe. Sopra la finestra centrale, vi è il medaglione con Cristo Pantocratore, cui segue la scena del secondo sogno di Giuseppe e il viaggio a Betlemme. Il racconto continua nel registro centrale con l’episodio della Natività; sulla parete che separa la conca absidale dalla navata è rappresentata l’adorazione dei Magi, sormontata dalla scena dell’etimasia, il trono vuoto su cui siederà Cristo nel giorno del Giudizio; nella parte centrale dell’abside la Presentazione di Gesù al Tempio. L’iconografia della Natività di Cristo riprende i canoni bizantini. Attorno al nucleo principale sono raccolti i diversi episodi accaduti in tempi diversi: la Madre sdraiata21 al centro della scena, Giuseppe all’angolo inferiore destro, le levatrici, l’annuncio dell’angelo ai pastori. Sul lato sinistro è raffigurata la Madre di Dio in una scena raramente riprodotta: vestita di una tunica azzurra e con un nimbo dorato che le incornicia il capo, è sdraiata su un giaciglio, sullo sfondo di una grotta, con le gambe leggermente divaricate mentre una donna, posta sull’estremità sinistra, stende la mano verso di lei per verificarne la verginità dopo il parto. I vangeli canonici non menzionano la grotta, che risale a una tradizione posteriore, testimoniata già da Giustino (100164 circa) nel Dialogo con Trifone (78,5). L’episodio, narrato nel Protovangelo di Giacomo, prende spunto dalla notizia confidata dall’ostetrica che aiutò Maria a partorire, Salomè, a un’amica: «Ho un miracolo inaudito da raccontarti: una vergine ha partorito, ciò di cui non è capace la natura»22. La reazione di questa fu l’incre-
dulità e la sfida: «Se non ci metto il dito e non esamino la sua natura, non crederò mai che una vergine abbia partorito»23. Questo frangente è riprodotto dall’affresco di Castelseprio con un realismo sottolineato dalla donna che sorregge con la sinistra il braccio destro e mette in mostra la mano inaridita, frutto della sua incredulità, e dalla Madre che sembra reggersi sui gomiti mentre osserva la scena. È un’iconografia rara (già presente nel ciclo di Santa Maria Antiqua a Roma), che rivela l’umanità e il turbamento provocato dalla nascita miracolosa di Gesù, avvolto in fasce accanto a Maria. La parte destra dell’affresco, in alto, mostra l’annuncio di un angelo in movimento, superbamente raffigurato con le ali spiegate, mentre distende il braccio destro verso i pastori. In basso Giuseppe medita sull’accaduto: è seduto, la mano sinistra indica il suo riflettere sull’eccezionalità del mistero in cui si trova coinvolto e che osserva, nella fragilità e speranza di un Bambino, verso cui rivolge il capo.
21
3.
Evangeliario di san Bernward, Hildesheim Prologo del Vangelo di Giovanni, Evangeliario di san Bernward, 1015, miniatura, cod. 18, f. 174 r., Museo Diocesano, Hildesheim
Alcune immagini della Natività tralasciano totalmente la preoccupazione narrativa per concentrarsi sul significato generale dell’avvenimento, la sua portata e le sue differenti implicazioni. È il caso di questa miniatura a piena pagina dell’Evangeliario di Bernward di Hildesheim (993-1022), celebre mecenate, un manoscritto di epoca ottoniana24. Si tratta di un’illustrazione del Prologo del Vangelo di Giovanni, che ispirò nel Medioevo un numero importante d’immagini sintetiche di grande originalità25. Un artista anonimo provò a visualizzare il senso del mistero dell’incarnazione, privilegiandone il lato escatologico. La pagina, arricchita da una cornice multipla attentamente curata e da sfondi geometrici vari e policromi, è chiaramente costituita da due registri sovrapposti, consacrati rispettivamente all’evocazione di cielo e terra. L’essenziale di questa miniatura consiste precisamente nel mostrare, alla luce del quarto Vangelo, come questi mondi comunichino tra loro in occasione della Discesa del Verbo di Dio tra gli uomini. In alto, ossia in cielo, in una gloria dorata perfettamente circolare che si staglia su un fondo scuro raffigurante la volta celeste, arricchito agli angoli superiori dai simboli del sole e della luna, siede il tre volte Santo della grande teofania di Apocalisse 4-5 con l’Agnello. Questi è assiso in una “mandorla a otto”, un’invenzione
22
Dio riservata al profeta Isaia e da questi descritta con precisione, cui partecipavano due serafini (Is. 6). Questi sono in piedi, accanto alla mandorla, e guardano l’Agnello che Dio tiene nella mano destra all’interno di un medaglione. Al pari di Dio anche l’Agnello è dotato di un nimbo crucifero; pone una zampa sul libro della vita (designato dall’iscrizione “Vita” in lettere maiuscole) chiuso con sette sigilli (invisibili) come riporta il libro dell’Apocalisse, in cui si dichiara che solo l’Agnello è degno di aprirlo (Ap. 5). L’immagine deve essere completata dalle informazioni fornite dall’ultimo libro della Scrittura, ossia che nume-
dello scriptorium di San Martino di Tours, l’abbazia di cui Alcuino fu abate per volontà di Carlo Magno. L’iconografia cristiana, a quell’epoca, ignorava ancora la figura di Dio come vegliardo, che fu sviluppata dalla fine del Medioevo (cfr. fig. 30) e si atteneva alla raffigurazione di un Dio giovane, imberbe, dotato di un nimbo crucifero e rigorosamente cristomorfo, in piena conformità alla risposta di Gesù all’apostolo Filippo «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv. 8, 32). Nella miniatura, oltre ad avere il nimbo crucifero, è coronato e ai lati vi sono due creature angeliche dotate ciascuna di sei ali costellate d’occhi, secondo la visione di
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essere interpretata come Nettuno, il dio del mare e delle acque. Mentre la creatura di destra è la divinità della terra, Gaia, anch’ella nuda fino alla vita; la parte inferiore del suo corpo è nascosta da un’ampia coperta verde. Tra le sue braccia, appoggiati sul suo seno, vi sono due bambini, forse un uomo e una donna, dai capelli castani o rossi come la dea. L’uomo tiene la coda di un serpente che si attorciglia attorno a un tronco verde formato da tre rami coronati di frutti (due sono triangolari e il terzo è circolare); dalla gola del mostro la donna si appresta a ricevere un frutto, forse una mela. Si può dunque supporre che l’albero in questione sia quello della conoscenza del Bene e del Male (Gen. 2, 9) e che si tratti della coppia di Adamo e Eva e di un’allusione al peccato originale che pone il genere umano in una situazione bisognosa di salvezza. La metà inferiore di questa pagina dipinta è dunque uno stupefacente riassunto della storia della salvezza, che evoca sia la disperazione dell’umanità peccatrice sia la speranza della salvezza apportata dalla Natività di Cristo, Verbo fatto carne (Gv. 1, 14), e solo Mediatore tra cielo e terra.
rosi angeli contornano il trono di Dio proclamando a gran voce: «L’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione» (Ap. 5, 12). Proseguendo la lettura dell’immagine in senso discendente, che è anche il senso della storia della salvezza, si arriva alla frontiera tra i due registri: qui una stella a otto braccia – possibile allusione all’ottavo giorno della creazione, quello della Risurrezione del Dio fatto uomo – gioca il ruolo di raccordo tra i due mondi. Lo spettatore può vedere in essa la stella che guiderà i Magi fino a Betlemme la luce che è il Bambino stesso, come proclama il prologo di Giovanni: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv. 1, 9). In ogni caso il collegamento è stabilito in modo chiaro dallo schema di composizione poiché l’astro emana i suoi raggi gialli e blu verso Gesù. Questi è dotato, come Dio e come l’Agnello, di un nimbo crucifero. Il suo corpo è avvolto in modo serrato dalle bende e riposa su una sorta di mobile a forma di sarcofago (prefigurazione della risurrezione con i sudari) o di altare (evocazione del sacramento dell’eucaristia). Tutto è organizzato per una comunicazione che dall’alto si dirige verso il basso per rispondere alle attese della terra. Questa è simbolizzata nella parte inferiore da una zona acquatica resa da cinque onde, da cui emergono due potenti figure mitologiche poste l’una di fronte all’altra mentre guardano verso il cielo e verso il Bambino. Sono personificazioni dell’Oceano e della Terra ferma. La figura maschile, a sinistra, con la capigliatura e la barba abbondante e brizzolata, ha due alette sulla testa. È nuda fino ai fianchi. Nella mano destra ha un’anfora, il cui collo è diretto verso il basso, che versa presumibilmente nelle acque che formano gli oceani in cui vive la popolazione marina, rappresentata da una coppia di pesci; con la sinistra comanda il mostro marino che cavalca e che indirizza la sua gola verso il Bambino come se fosse pronto a inghiottirlo. Questa figura può
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chiesa di Hosios Loukas, Grecia Mosaico, xii secolo, chiesa del monastero di Hosios Lukas, Focide, Grecia
Hosios Loukas è il più grande dei tre monasteri bizantini dello stesso periodo che sono giunti fino a noi – gli altri due sono quelli di Daphni e Nea Moni –, situato in un luogo solitario alle pendici dell’Elicona, nella Focide, nei pressi della città di Stiris. Fonte di primaria importanza per le origini dell’insediamento è la Vita del santo eremita locale Luca, redatta da un suo anonimo discepolo nella seconda metà del x secolo e certamente dopo la riconquista bizantina di Creta del 961, di cui si fa menzione. Il testo afferma che nel 946, su istanza del santo e con il contributo finanziario dello stratega dell’Ellade Krinites, fu eretta una prima chiesa dedicata a santa Barbara. Due anni dopo la morte dell’anacoreta, avvenuta nel 953, alcuni monaci a lui devoti portarono a termine la costruzione e la decorazione della chiesa ed elevarono sul luogo della tomba di questi, già venerata, un santuario cruciforme, dotando il complesso anche di alcune strutture necessarie alla vita monastica. La tomba di san Luca è stata per secoli meta di pellegrinaggi: i fedeli vi si recavano nella speranza di guarire dalle malattie mediante il “rito della incubazione”, che consisteva nel dormire vicino la tomba del Santo. All’interno di una cinta muraria di forma irregolare, costruita in parte con blocchi di reimpiego provenienti dall’antica Stiride, sorgono tre grandi
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affreschi ottocenteschi; nel nartece trovano posto infine la Lavanda dei piedi, la Crocifissione, l’Anastasis, l’Incredulità di Tommaso e il monumentale Cristo Pantocratore. Il mosaico della Natività di Cristo sfrutta la complessa architettura per sistemare i personaggi: la Vergine, coperta da un maphorion blu sul quale brillano le tre stelle simbolo della sua perpetua verginità (prima, durante e dopo il parto) è al centro, rivolta verso il Figlio, avvolto in strette bende, adagiato in una mangiatoia in muratura che segue, temprandolo, l’angolo retto. Sul lato sinistro sono collocati, in basso, Giuseppe che osserva la scena, e dietro di lui i Magi che offrono preziosi cofanetti. Gli angeli, con ali splendide spiegate al cielo, indicano la scena della Natività. Sul lato destro sono presenti l’annuncio ai pastori, intenti in vari lavori e distrazioni – quello in alto suona il flauto – e il bagno al Bambino, immerso in una bacinella che ricorda un fonte battesimale. Sullo sfondo di una composizione nella quale l’oro abbonda, si staglia una stella a otto braccia, custodita dalla semisfera azzurra, dalla quale esce un raggio multiplo che raggiunge la grotta del Bambino. Attorno l’iscrizione in lettere maiuscole greche, che annuncia l’evento: Ή ΧΥ ΓΕΝΝΗΣΙΣ, la Natività di Cristo.
edifici, tutti orientati a est. A nord si trova la chiesa della Theotokos, o Panaghia, un edificio a croce greca inscritta, su quattro colonne, con tre absidi e un ampio nartece a sei campate sostenute da due colonne. A essa si accosta, lungo il fianco sud-ovest, il katholikon, una grande chiesa a cupola su base ottagonale con trombe angolari, al di sotto della quale si estende una cripta cruciforme, decorato con splendidi mosaici, in gran parte conservati, annoverati fra le più alte espressioni dell’arte musiva bizantina. Ancora più a sud si colloca il monumentale refettorio del monastero, nella consueta pianta a navata unica con abside poligonale all’esterno. Strutture più specificamente funzionali e abitative, considerate in gran parte pertinenti alle fasi più antiche del monastero, si dispongono infine lungo il perimetro fortificato. Le più recenti ricostruzioni permettono di datare la chiesa della Theotokos alla metà circa del x secolo. Più complessa è la questione relativa al katholikon: l’opinione più diffusa è che l’edificio originario sia stato integralmente sostituito dall’attuale nel 1011, data dedotta dal testo di un ufficio liturgico relativo alla traslazione delle reliquie del santo nel vano nord-est del nuovo edificio; secondo altri invece la chiesa sarebbe stata edificata dall’imperatore Costantino ix Monomaco (1042-1055). L’importanza del sito è legata alla sua decorazione musiva e pittorica: insieme ai cicli delle chiese di Nea Moni a Chio e Hagia Sofia di Kiev, entrambi databili al quinto decennio dell’xi secolo, costituisce la testimonianza più significativa della pittura bizantina di età macedone. I mosaici decorano il nartece, il naos, il bema, l’abside e il diaconico, secondo il programma iconografico canonico dell’età posticonoclasta. Nell’abside splende la Vergine in trono con il Bambino e nella cupola del bema la Pentecoste; nelle trombe angolari restano solo l’Annunciazione, la Natività di Cristo, la Presentazione al Tempio e il Battesimo, mentre nella cupola e nel tamburo il Pantocratore e i profeti originari sono stati sostituiti da
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Cappella Palatina, Palermo Mosaico, 1143, Cappella Palatina, Palermo
La Cappella Palatina – «la più bella del mondo, il più prezioso gioiello religioso sognato da mente umana e eseguito da mano di artista»26 – è l’espressione dell’armonioso incontro tra culture, stili, religioni che caratterizzò la Sicilia del xii secolo27. Il suo patrono, Ruggero ii (1130-1154), la fece costruire al primo piano di Palazzo dei Normanni tra il 1130 e il 1132, fu decorata coinvolgendo maestranze bizantine, latine, musulmane e fu consacrata il 28 aprile 1143. La sintesi di tale sinergia è visibile nella pianta basilicale latina a tre navate, nel presbiterio sormontato da una cupola in cui domina il mosaico del Pantocratore benedicente fedele ai classici canoni bizantini e nel soffitto a muqarnas, raffinata struttura modulare in legno finemente intagliata secondo lo stile arabo. Ruggero ii, sovrano colto che parlava correntemente quattro lingue, volle che la sua corte fosse un regno di tolleranza: accolse sapienti senza distinzioni di religione o lingua e fece redigere gli editti reali in latino, greco, arabo ed ebraico. La cappella era destinata alle funzioni religiose della famiglia regnante e verosimilmente fu utilizzata anche come sala del trono, la principale manifestazione – letteralmente ridondante d’oro – della potenza della dinastia. Ruggero, con la cappella Palatina, volle superare i predecessori in magnificenza: la forma espressiva del mosaico, con gli
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quasi volesse prenderlo a testimone. Sul lato sinistro, i Magi a cavallo sono guidati dalla stella. Sono uomini di tre età diverse, secondo una tradizione che si affermò nell’arte cristiana monumentale dal vi secolo come si può osservare a Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Nel mosaico di Palermo apre la fila il più anziano dalla barba e dai capelli bianchi, segue un uomo di media età, con la barba più corta e capelli castani. L’ultimo è un giovane imberbe; con il braccio destro levato indica la stella. Questa è in alto, in mezzo alla composizione, in un arco di cerchio, composto a sua volta da cerchi concentrici, il più interno di colore blu scuro, poi azzurro fino al bianco purissimo. Dalla stella un raggio di luce si dirige sul Bambino, che leva il capo segnato dal nimbo cruciforme. Oltre al gruppo dei tre angeli sopra i Magi a cavallo, vi è un angelo isolato sulla sinistra, con la veste bianca svolazzante, che con il braccio destro levato reca l’annuncio a due pastori. Il gruppo dei pastori, raffigurati nella parete confinante, è formato da due uomini, uno vecchio con la barba bianca e uno giovane, imberbe. Un terzo pastore, con una tunica blu, munge una capra. Il tema dei Magi è raffigurato due volte: mentre arrivano a cavallo, elemento che costituisce una novità all’epoca, e nell’atto di offrire dei doni. Nel mosaico della Palatina non sono raffigurati i doni canonici, oro, incenso e mirra, ma delle uova. I Magi recano le loro offerte su un piatto: il più anziano si piega verso Gesù, mentre gli altri due sono in piedi. Le loro mani sono coperte da un lembo del mantello, segno di purezza e di rispetto, come sancito nel cerimoniale imperiale romano; inchinatisi in adorazione, offrono le uova al Bambino e a Maria, prefigurazione dell’immensa fecondità della Chiesa. Sotto i Magi, due donne sono collocate all’interno di una collina verde mentre accudiscono il Bambino lavandolo. L’origine di questo modulo è da ricercarsi nella tradizione ellenistica prima che nei testi apocrifi30. Il ricorso a un atto ordinario e profondamente umano fu voluto per rappresentare l’umanità reale e non apparente di Cristo.
ori, la fastosità e la luce che da esso derivano, si prestava alla rappresentazione di un programma ideologico estremamente ambizioso. L’iscrizione in greco nella cupola conferma tale intento28 e gli apprezzamenti che la cappella Palatina ha collezionato, nel corso della storia, confermano il successo della scelta del sovrano. Per tutti, il più celebre: «La bellezza colorata e calma, penetrante e irresistibile di questa piccola chiesa che è, senza dubbio il più bel capolavoro che si possa immaginare, ti lascia immobile davanti alle pareti coperte da grandiosi mosaici su fondo d’oro che illuminano tutto il monumento con una luce tenue e richiamano il pensiero ai paesaggi biblici e divini dove si vedono, in alto, in un cielo fiammeggiante, tutti quelli che furono uniti alla vita dell’uomo-Dio»29. Il programma iconografico prevede episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Al centro della cupola, domina Cristo Pantocratore. I mosaici della navata sono più tardi di quelli del presbiterio, realizzati tra il 1160 e la fine del secolo. Quelli della navata centrale sono distinti in due ordini e sono dedicati a scene dell’Antico Testamento. Nelle navate laterali, la fascia a mosaico è consacrata a scene della vita di Pietro e Paolo. Sulla parete destra del transetto vi è il mosaico della Natività di Cristo che occupa due pareti ad angolo. Lo schema è quello classico bizantino, riprodotto con uno stile che addolcisce i visi e dona importanza agli sguardi. Al centro della scena c’è Maria, di fronte all’ingresso della grotta buia, che si spacca per farle spazio e i cui bordi sono illuminati. Lo sguardo della Madre è diretto verso l’osservatore, la sua espressione è ieratica ma le sue mani avvolgono il Bambino, deposto su una mangiatoia che sembra in muratura. Gesù è avvolto in un bendaggio a fasce incrociate e intrecciate che rievoca quello di Lazzaro, un’anticipazione della sua morte. In basso a sinistra, Giuseppe siede pensoso su uno sgabello dalla struttura elaborata; il suo capo è rivolto verso la scena della natività, ma il suo sguardo è diretto verso l’osservatore,
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chiesa di Karanlik Kilise, Cappadocia Pittura murale, timpano del naos, fine xi-inizio xii secolo, Karanlik Kilise (Goreme n° 23), Cappadocia, Turchia
La Cappadocia, regione corrispondente in senso storico e geografico alla zona centrale dell’Anatolia, l’attuale Turchia, fu popolata da numerose comunità ecclesiali fin dall’epoca paleocristiana. L’aspra e suggestiva configurazione del rilievo favorì la presenza di asceti, alcuni dei quali, emuli dei santi stiliti, vivevano su alti speroni rocciosi. La storia della Cappadocia, intrecciata con quella delle contigue regioni transcaucasiche Armenia e Georgia, fu segnata dalla metà dell’viii secolo dall’Impero bizantino di cui divenne una provincia ricca e popolosa. La presenza di molteplici edifici di culto cristiani fu tanto rilevante da far scrivere a Gregorio di Nissa nel iv secolo che «la regione contava un numero di chiese superiore a quelle esistenti nel resto del mondo»31. Le pitture delle chiese più antiche, una prova molto interessante dell’iconografia pre-iconoclasta, si sono purtroppo raramente conservate. Con la fine della controversia iconoclasta (843) e il trionfo delle immagini sacre, la Cappadocia si trasformò in uno straordinario universo costellato di chiese rupestri dipinte32. Nella penombra di ambienti scavati nel tufo e nella roccia, si sono conservati cicli pittorici di rara bellezza, con toni ocra che riflettono i colori del paesaggio circostante, espressioni di una teologia post-iconoclasta che enfatizza l’incarna-
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strando fedelmente un testo: «È stato effettuato un lavoro di selezione e la composizione del racconto rivela una riflessione sul valore delle immagini»33. La Natività occupa una posizione privilegiata, ovvero il timpano del naos, che evidenzia la centralità dell’evento e l’unione indissociabile della natura divina e umana nella persona di Cristo. Il programma iconografico è collegato a un uso liturgico: «La comunità religiosa di Göreme si inseriva nel disegno provvidenziale, le cui grandi tappe, rinnovate sacramentalmente dalla liturgia celebrata nella chiesa, erano ricordate nella decorazione pittorica»34. La scena è raccolta nello spazio di una montagna che avvolge i personaggi principali. Nella volta contigua, sulla destra, sono raffigurati i tre Magi, riccamente abbigliati, chinati verso Cristo nell’atto di offrire i rispettivi doni; dietro di loro
zione di Cristo per affermare la liceità della sua raffigurazione. Il Museo all’aria aperta di Göreme conserva le testimonianze più straordinarie di cicli pittorici in chiese rupestri. In quest’area, la chiesa di Karanlik Kilise è tappezzata di affreschi con scene dell’Antico e del Nuovo testamento. Il suo nome – la chiesa “oscura” – si deve verosimilmente alla penombra, dovuta alla poca luce che entra dalla finestra del nartece, e che ha garantito nel tempo la conservazione degli smaglianti colori degli affreschi che rivestono le cupole, le colonne, i sottarchi e le pareti. L’ingresso della chiesa, che fu complesso monastico, è da nord attraverso un tunnel tortuoso che si apre in un nartece con volta a botte. Colpisce la profusione di immagini offerte. La storia della salvezza è narrata in forme e colori ma non illu-
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con la destra benedice. Il suo capo e la direzione dello sguardo sono rivolti verso il basso e non verso lo spettatore. Nella scena della Natività stupisce la cura degli iconografi per la direzione degli sguardi dei personaggi principali, che non incrociano mai gli occhi di nessuno, ma creano linee di fuga verso punti infiniti e accrescono il senso del mistero rappresentato.
si vedono i tre cavalli con cui sono arrivati a Betlemme. Sulla sinistra si distinguono due angeli, parzialmente rovinati, dietro ai quali è seduto un pastore con un lungo flauto tra le mani. Maria è al centro, semisdraiata, con il volto e lo sguardo rivolti verso il Figlio. La posizione delle sue braccia è singolare: mentre con la mano destra tocca la mangiatoia, il braccio sinistro è piegato, quasi forzato dalla posizione del Bambino che appoggia la testa sul letto della Madre, sontuosamente decorato. Anche la mangiatoia è peculiare con una base dotata di tre archi e bordi rossi ben curati che contrastano con lo sfondo nero su cui Gesù, avvolto in fasce intrecciate con cura, è sdraiato. Un raggio di luce, che proviene da una stella nella volta e attraversa la montagna, tocca il suo nimbo cruciforme. Giuseppe è nell’angolo sinistro, protetto da una piccola grotta decorata da piante che germogliano. Indossa una tunica scura e un mantello giallo-arancione; come la Madre è nimbato. È raffigurato nella posa classica: il corpo rivolto verso sinistra, il capo girato verso destra e gli occhi che scrutano inquieti il cielo creano un effetto avvolgente e enfatizzano i sentimenti di dubbio e riflessione che lo attraversano. Dietro Giuseppe un angelo dalle lunghe ali indica la Madre e il Bambino. A destra della scena è raffigurato il momento del bagno. Anche questo episodio è dipinto con un’attenzione ai dettagli iconografici e teologici che stupisce. Le due ostetriche, Emea e Salomè, i cui nomi sono scritti sopra le rispettive figure, fanno eco al racconto degli apocrifi. Sono vestite con abiti eleganti ma hanno le braccia parzialmente scoperte, indice del loro stato. Emea è seduta su un cuscino sontuoso, appoggiato su uno sgabello riccamente lavorato. Le sue mani sostengono un Bambino già adulto: è l’Emmanuele, IC XC (Gesù Cristo), come proclama l’iscrizione sopra il suo capo. In posizione semi seduta, in un bacino d’acqua che ricorda un fonte battesimale,
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Monastero dei Siriani, Egitto Pittura murale, xii secolo, chiesa della Vergine, monastero dei Siriani, Egitto
Il complesso noto come monastero dei Siriani, fondato con il nome di monastero della Beata Vergine di Anba Bishoi, si trova nel Wadi al-Natrun, una depressione geologica a ovest del delta del Nilo, una delle culle del monachesimo copto35. Dal iv secolo d.C., vi si ritirarono svariati eremiti e asceti e furono ben presto costruiti monasteri in cui si installarono comunità anacoretiche che diedero vita a centri di cultura ecclesiastica. L’istituzione del monastero in oggetto si ebbe intorno al 645, a seguito di una disputa teologica, legata alla cristologia miafisita del patriarca Alessandro Timoteo iii (517-535), che proclamava l’incorruttibilità del corpo di Cristo. I monaci che difendevano la posizione ortodossa, ossia l’incarnazione in un corpo pienamente umano di Gesù, si staccarono dalla comunità madre e fondarono un nuovo complesso, dedicato alla Theotokos per sottolineare la propria convinzione teologica. Il Monastero occupa una superficie quasi rettangolare. L’edificio è a quattro piani: il piano inferiore era utilizzato come magazzino per i prodotti alimentari; al secondo piano la preziosa biblioteca custodiva i manoscritti; il terzo piano era il dormitorio dei monaci; al quarto piano era ospitata la cappella dedicata a San Michele Arcangelo, secondo l’uso di molti monasteri egiziani. Diversamente da quanto si è a lungo creduto, che il monastero fosse
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stato venduto a una comunità siriana, qui visse per secoli una comunità mista di monaci siriani e copti. Attualmente il complesso è dotato di cinque chiese. All’interno della chiesa dedicata alla Vergine, i recenti restauri hanno attribuito i tre strati di intonaco a quattro diverse epoche, che spaziano dal vii al xviii secolo36. Oltre ai dipinti sono state ritrovate diverse iscrizioni e graffiti in copto, siriaco, greco e arabo, preziosi per l’identificazione dei soggetti
relativi ai diversi strati pittorici e rilevanti per ricostruire la storia del monastero e dei monaci che l’abitarono. Al momento della fondazione risale un primo affresco costituito da motivi decorativi e croci dipinte in semplice color ocra. All’inizio dell’viii secolo fu applicato lo strato più ricco di affreschi, che però non rivela l’intento di realizzare un programma decorativo a tutto tondo. Tra gli affreschi scoperti vi è una Vergine che allatta, dipinta con la tecnica dell’encausto e la cera d’api
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Maria e Gesù occupano, infatti, quasi tutto lo spazio, gli altri personaggi sono in scala molto ridotta. Questa scelta iconografica indica la loro centralità teologica. La Madre è vestita con una tunica azzurra impreziosita da polsini dorati e indossa un maphorion bordeaux che le copre il capo e le spalle; è semisdraiata su un letto rosso, circondato da una caverna nera in cui si leggono iscrizioni in siriaco. Accanto a lei, Gesù è posto in una mangiatoia rettangolare, fatta di mattoni rossi, avvolto in bende azzurre che lasciano scoperte la parte inferiore delle gambe. Gli angeli sopra la grotta creano un movimento ben studiato. I quattro centrali guardano verso destra, le ali nere appuntite creano una sorta di onda, alcune braccia sono alzate, gli abiti colorati richiamano il rosso che trionfa tra la Vergine e Cristo. Alle estremità di questi, due angeli, diretti in direzioni opposte, sono appoggiati su una grotta costellata di piante colorate. L’angelo di destra si rivolge ai Magi, i cui sguardi sono calamitati dalla scena centrale; quello di sinistra parla ai pastori. Gli iconografi introducono piccoli dettagli in movimento attorno alla scena: la solennità maestosa della Nascita di Cristo smuove il mondo che a Lui accorre.
come fissante per il pigmento. Il terzo strato di affreschi fu aggiunto tra x e xii secolo secolo: esso coincide con il periodo di massimo splendore del monastero, ricostruito e ripopolato da ben sessanta monaci dopo il drammatico abbandono nel ix secolo a seguito degli assalti dei nomadi libici. In quel periodo anche la biblioteca fu dotata di preziosi codici e divenne la più grande collezione di manoscritti siriaci del Vicino Oriente. Il terzo strato pittorico, che coprì parzialmente il precedente, evidenzia l’influenza siriana nell’iconografia. Un affresco particolarmente interessante è quello della Koimesis, la Dormizione della Vergine, con l’arcangelo Michele che riceve l’anima di Maria, mentre sette vergini bruciano incenso ai lati del suo letto. Nel xiv secolo, la comunità monastica fu decimata da una pestilenza, al punto che rimase solo un monaco. Il complesso ricominciò a vivere dal xv secolo e l’ultimo strato di intonaco fu eseguito nel xviii secolo, epoca in cui viaggiatori europei e studiosi scoprirono il monastero, ne apprezzarono i tesori, specialmente i manoscritti, che furono acquistati da prestigiose biblioteche di tutto il mondo. La scena della Natività occupa la parte destra della conca absidale del transetto. Nella medesima conca è raffigurata l’Annunciazione. Tra i due episodi la continuità è data dai colori – l’azzurro dello sfondo – e dalla figura di Maria, in piedi di fronte all’arcangelo Gabriele nell’Annunciazione, semisdraiata nella Natività. I gesti delle sue mani e i suoi sguardi sono espressivi in entrambi i momenti: una mano sotto il mento e gli occhi chinati verso il basso interpretano la domanda e l’inquietudine di Maria di fronte all’annuncio angelico; la mano destra che indica il Figlio e gli occhi rivolti nella direzione opposta sono volti a valorizzare la contemplazione del mistero dell’incarnazione. Una grotta avvolge la scena principale e la isola. Solo Giuseppe sfiora la composizione, raffigurato nella posa tradizionale, seduto con le gambe incrociate, la mano sotto il mento. Voluta la sproporzione delle dimensioni:
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Cattedrale Notre-Dame, Chartres Vetrata, inizio xiii secolo, cattedrale Notre-Dame, Chartres, Francia
Fino all’xi secolo, le finestre degli edifici religiosi ma anche quelle delle case dei personaggi con un importante ruolo sociale, erano oscurate da sottili lame di alabastro per far penetrare la luce. Si trovano ancora degli esempi a Conques ma anche in alcuni edifici del Sacro Monte a Varese. È indubbiamente da Bisanzio e persino dalla civilizzazione islamica che l’Occidente mutuò l’arte delle vetrate37. Tra le sue prime testimonianze, la testa (di Cristo?) detta di Wissembourg della fine dell’xi o inizio del xii secolo, del Musée de l’Œuvre Notre-Dame di Strasburgo38, che potrebbe appartenere a una serie di vetrate consacrate agli Apostoli nelle finestre del registro superiore della cattedrale di Augsburg. Le vetrate della cattedrale di Chartres, una delle più antiche cattedrali gotiche la cui costruzione cominciò nel 1194, furono realizzate all’inizio del xiii secolo, le più antiche risalgono al 1215 e le più recenti sono del 1235. Si tratta incontestabilmente delle più notevoli creazioni nell’arte delle vetrate nell’ambito del gotico39. Chartres gode di un rapporto privilegiato con la Vergine: conserva, infatti, il suo Velo, preziosa reliquia per contatto in seta che fu donata alla città nell’876. La città fu salvata grazie al Velo della Vergine a due riprese nel 911 e nel 1119 e alla
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da cui si intravede da lontano la cattedrale situata sulla collina. Svariate manifestazioni interreligiose hanno fatto di questo luogo la meta delle loro marce. Chartres è infine la città scelta come sede del Centro Internazionale delle Vetrate. Quattro timpani celebrano la Vergine, la cui liturgia conobbe uno slancio grazie a Fulberto che scrisse dei sermoni sulla Natività, integrati nei
sua presenza si sarebbero realizzati svariati miracoli. Chartres inoltre occupa nella memoria culturale della Francia un posto insigne, paragonabile a quello di Mont-Saint-Michel o Notre-Dame a Parigi, al punto da essere lodata da scrittori e poeti, tra cui Charles Péguy. Ancora oggi sono frequenti i pellegrinaggi di studenti che marciano per dozzine di chilometri nella piana di Beauce,
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lezionari chartriani40. La vetrata cui appartiene questo compartimento (“vetrata 50”) si trova nell’insieme narrativo attentamente costruito che si sviluppa nelle finestre dell’abside. Quest’ultimo è interamente consacrato alla vita di Cristo dall’Annunciazione fino all’Ingresso a Gerusalemme, prima del ciclo della Passione-Risurrezione, oggetto della vetrata successiva (“vetrata 51”). Queste vetrate sono state recentemente restaurate. La loro creazione corrisponde a un momento illustre della storia della cattedrale, legato alla fondazione della scuola di teologia per opera di Fulberto di Chartres e allo splendore di un certo numero di grandi nomi della teologia medievale come Gilberto Porretano, Guglielmo di Conches, Bernardo Silvestre o Giovanni di Salisbury. La Natività si trova in basso sulla destra della vetrata, in un compartimento quadrato il cui fondo è rosso vivo. È ornata da motivi vegetali di vari colori: sono otto per lato a forma di semicerchio; nella parte inferiore vi è un registro decorativo con motivi floreali e un animale fantastico del genere grifone. I principali attori della Natività sono disposti sotto una lanterna sospesa tra le due tende tirate, gialle con galloni blu, motivo che convenzionalmente indica la rivelazione. Nell’angolo superiore destro, dentro un cerchio, vi è una stella a otto braccia che guidò i Magi fino alla mangiatoia. La stella è anche un eco dei titoli attribuiti sia a Cristo sia a sua Madre, detta “Stella del mattino”. Maria è a letto sotto una coperta blu. Questo è ben costruito con un poggiatesta e delle colonne ai piedi e lascia intravedere un fondo diverso sotto il letto di colore verde che occupa tutta la lunghezza. La Madre compie un gesto di benedizione rivolto al Bambino, collocato a distanza, steso sopra di lei dentro una specie di mobile sostenuto da due colonne che evoca la mangiatoia, immediatamente sotto il bue e l’asino, che sono stati messi in quella posizione come se dovessero nutrirsi di
Gesù. Sulla destra, seduto e leggermente rannicchiato vi è Giuseppe, la cui testa è sostenuta dalla mano destra. Ha gli occhi chiusi e sembra sonnecchiare: un buon numero di immagini, in particolare nell’arte delle icone, lo rappresentano in questo modo non tanto per indicare che si astenne dagli accadimenti circostanti ma per suggerire che egli continuava a essere immerso in una tenace perplessità in merito all’origine di questo Bambino, di cui era certo non essere il padre benché ne sarebbe divenuto il padre adottivo. Maria e il Bambino, al contrario, hanno gli occhi aperti. I tre personaggi sono nimbati e Gesù è il solo dotato di un nimbo crucifero.
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Messale di Stammheim, J. Paul Getty Museum, los angeles
Un miniaturista superbamente capace compose nel xii secolo, sotto la direzione di Henri de Mindel, una serie di pagine dotate di una forza sintetica, che presentano aspetti importanti della dottrina cristiana, come la Natività e la Creazione41, collocati ogni volta al centro dell’immagine e posti in relazione sia con delle prefigurazioni veterotestamentarie sia con avvenimenti della storia successiva. Henri de Mindel, o Henricus de Middel, è il nome del prete che avrebbe composto questo messale conservato a lungo nel castello di Stammheim, cui deve il suo nome. È composto da 184 pagine, tra le quali figurano dodici miniature a piena pagina e dieci iniziali ornate, realizzate da un miniaturista anonimo42. Questa pagina della Natività, dipinta su pergamena, ha un po’ l’aspetto di un diagramma, di un panorama grafico o di un mandala, ossia di uno schema in cui svariati aspetti di una realtà sulla quale bisogna meditare sono condensati e ordinati secondo una gerarchia. È costruita su tre registri. In quello intermedio, collocata volutamente al centro della composizione, si trova Maria nimbata, sdraiata su un letto bianco “a fagiolo” al centro della composizione. Ha la testa appoggiata all’altezza di un colonnato composto da dodici aperture, il cui significato non è evidente. È vestita con un abito arancione che la copre fino ai piedi,
Messale di Stammheim, 1160-1170 circa, miniatura, ms. 64, f. 92, dimensioni del foglio 28,2 × 18,8 cm, dimensioni della pagina dipinta 20,5 × 11,5 cm, J. Paul Getty Museum, Los Angeles
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ragione per cui Ezechiele non lo porti non è spiegabile). Sopra Gesù si trova un triangolo sulla cui base poggia un tronco rigoglioso di un albero tozzo in cui possiamo riconoscere, nonostante l’assenza di fiamme, il Roveto Ardente in cui Dio, raffigurato tramite una testa cristica dal nimbo crucifero e con la mano destra imperiosa, si indirizza a Mosè come si narra nel celebre episodio del libro dell’Esodo (Es 3-4). Mosè è rappresentato a destra (le lettere del suo nome in
sotto una tunica blu chiusa al collo. È coronata da una specie di mitra. I capelli biondi sono distribuiti in due trecce che scendono fin quasi ai fianchi. La sua mano destra (e il suo sguardo?) sono rivolti verso il Bambino Gesù coricato, con la testa opposta alla posizione di quella della Madre, nella mangiatoia sotto il bue e l’asino. Gesù è fasciato (cfr. fig. 1). Ai lati della Madre due figure di profeti in piedi: Ezechiele a sinistra (tiene un rotolo con la scritta «Porta haec clausa erit», Ez 44, 2)43 e Giosuè alla destra, con un cappello da ebreo (la
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rizzano ciascuno dei due protagonisti), ossia una vergine che addo-mestica un animale dotato di un unico corno considerato selvaggio e violento fino al momento in cui la incontrò46. Il cristianesimo interpretò, fin dall’epoca patristica, molti testi veterotestamentari come prefigurazioni riferite a Cristo e alla Madre di Dio. Il medesimo Cristo si riferì al serpente di rame di Mosè indicandolo come prefigurazione della propria crocifissione (Gv. 3, 14) e spiegando la propria vita partendo dalle Scritture (Lc. 24, 26). Anche Paolo sviluppò profusamente tale lettura (per esempio in 1 Cor. 10, 4 e 11; Rm. 5, 14; Eb. 10, 1) per mostrare agli ebrei la complementarità delle due rivelazioni e agli gnostici il valore dell’Antico Testamento. Senza dimenticare dunque il significato letterale e il contesto storico in cui le profezie furono pronunciate, la tipologia divenne l’asse primario dell’esegesi patristica e medievale, in particolare in riferimento al mistero del concepimento e del parto verginale. La maggior parte di queste prefigurazioni della nascita verginale di Gesù si trovano nella “Bibbia dei poveri”, di cui il Missale di Stammheim è un manoscritto precursore. Ma la loro pertinenza fu contestata dagli Umanisti del xvi secolo al punto che queste scompariranno dai dipinti della Natività.
latino, Moyses, si leggono nella bordura esteriore arancione), mentre piega le ginocchia, è nimbato, barbuto, indossa un cappello a punta che gli Ebrei in Occidente furono spesso obbligati a portare e che divenne il principale segno utilizzato dall’iconografia medievale affinché questi fossero facilmente identificabili nello schema compositivo44. Il dialogo tra Dio e Mosè, il più lungo della Bibbia tra un uomo e Dio, è qui riassunto nelle parole scritte sul rotolo «Veni mittam te» («Ora va, io ti mando», Es 3, 10) pronunciate dal Signore a Mosè, di cui la risposta annuncia: «Obsecro, Domine, mitte quem missurus es» («Manda chi tu vuoi mandare», Es 4, 13). Il legame tra l’episodio del Roveto ardente e la Natività, frequentemente raffigurate insieme45, risale all’epoca patristica, in particolare a sant’Efrem il Siro (306-373), autore di un paragone che ha fatto scuola: come il Roveto osservato da Mosè bruciava senza consumarsi, così la Vergine ha partorito senza perdere la sua verginità. Sul lato opposto, sul medesimo registro, un altro profeta indica Gesù con un dito: si tratta di Giovanni Battista, il Precursore, nato anch’egli in un certo senso in modo miracoloso, da genitori molto anziani. Definito da Cristo il più grande dei profeti dell’Antica Alleanza (cfr. Mt 11, 11; Lc 7, 28), egli ha tra le mani un rotolo dove si può leggere, con delle abbreviazioni, «Qui de coelo venit super omnes est» («Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti», Gv 3, 31). Nel registro inferiore, altre tre immagini “profetiche” della nascita verginale. A sinistra Gedeone, vestito di una cotta di maglia e con un casco, caratterizzato dal famoso vello miracolosamente ricoperto di rose mentre il terreno intorno era completamente secco, episodio che la scritta evoca: «Oro Domine ut fiat ros i vellere» («Ti prego Signore che venga la rugiada sul vello», cfr. Gdc 6, 36). Al centro la porta chiusa intravista dal profeta Ezechiele (Ez 44, 2). A destra una “Vergine con il liocorno” (le iscrizioni laterali caratte-
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Chiesa di san Giorgio, Kurbinovo Affresco, 1191, chiesa di San Giorgio, Kurbinovo, Repubblica di Macedonia del Nord
Il programma iconografico di questa chiesetta è eccezionale per eleganza stilistica e bellezza. Nella Serbia Medievale furono attivi i migliori maestri dell’affresco medievale, membri dei più rappresentativi atelier pittorici dei Balcani. I vertici di tale opera, ispirati all’arte comnena, sono i cicli della chiesa di San Pantaleone a Nerezi (1164) e della chiesetta di San Giorgio nel villaggio di Kurbinovo. Quest’ultima è dedicata al soldato romano, martire nel 303 sotto l’imperatore Diocleziano, il cui culto si diffuse e conquistò il favore dei fedeli che a san Giorgio dedicarono innumerevoli chiese. Sono scarne le informazioni relative ai committenti di Kurbinovo: non vi sono fonti scritte né l’iscrizione relativa al krethor (fondatore). Resta solo un affresco parziale che conserva una coppia vestita con un loros, tipico abito della corte bizantina, e una rapida nota degli iconografi che comunicano la data di inizio del loro lavoro: aprile 1191. La chiesa ha una sola navata di dimensioni relativamente grandi (15 metri di lunghezza, 7 metri di larghezza), accentuata da un profondo semi-abside circolare sul lato orientale e nessun nartece. Limitati dalle caratteristiche architettoniche degli interni della chiesa, gli iconografi si trovarono di fronte alla sfida di una nuova disposizione della concezione canonica del programma
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In questa Natività a catturare l’attenzione è indubbiamente lo sguardo della Madre di Dio: è sdraiata – un segno nell’iconografia tradizionale che ricorda che la vergine ha da poco partorito – su un telo chiaro con ricami preziosi. È avvolta in un lungo maphorion scuro che le copre il corpo e il capo attorniato da un nimbo enorme. La mano destra appoggiata sulla guancia e il viso leggermente inclinato anticipano i canoni che rivoluzioneranno i ritratti nell’arte dopo Leonardo da Vinci. Il viso è perfettamente proporzionato, il lungo naso elegante, le labbra delicate, gli occhi profondi e intensi. Il suo sguardo è rivolto al fedele che si avvicina a Cristo Bambino, avvolto in bende, posto in una culla rigida, il viso chiaramente da adulto con un nimbo crucifero. È un dialogo silenzioso con il genere umano che la Vergine intrattiene da secoli a proposito del prodigio della sua maternità verginale48.
La Natività di Cristo è organizzata attorno alla grotta dove sono sdraiati la Vergine e Cristo nella culla. Il movimento è delicato e creato dai gesti degli angeli che rispettivamente indicano la nascita, levano le mani al cielo e benedicono i pastori. I loro sguardi sono profondi e interrogano sia quando si rivolgono al fedele esterno alla scena – come i due angeli sul lato sinistro – sia quando sono immersi nella preghiera di lode rivolti alla semisfera luminosa che splende in cielo, segno discreto della presenza divina e dell’Incarnazione per opera dello Spirito Santo del Verbo di Dio. Le pieghe raffinate e curate dei vestiti degli angeli, le ali colorate, i capelli ricci sono un eco dello splendido angelo dell’Annunciazione, emblema dell’arte macedone nel mondo. Attorno alla grotta, sul lato destro possiamo individuare la scena del bagno del Bambino da parte delle levatrici, in larga parte perduta e supporre che la figura di Giuseppe era dipinta sul lato sinistro.
otto padri della Chiesa, vestiti in abiti liturgici, sono divisi sui due lati, tutti rivolti verso il Cristo Anapeson47, un chiaro rimando al mistero pasquale e dunque alla liturgia eucaristica che si svolgeva nel bema. Sulle pareti il programma racconta la storia salvifica dall’Annunciazione all’Ascensione. Ampio spazio è consacrato alle scene della vita della Vergine – Visitazione a Elisabetta, l’incontro e i dubbi di Giuseppe di fronte a Maria incinta, la Dormizione – e agli episodi centrale della vita di Cristo: Natività, Battesimo, Trasfigurazione, il ciclo della Passione e Resurrezione fino all’Ascensione.
all’interno di una costruzione spaziale piuttosto austera, che è priva della cupola. Decisero dunque di collocare, nel registro più alto, la visione profetica di Daniele, l’Antico dei giorni, al posto del tradizionale Pantocratore della cupola inesistente, unendo gli elementi tematici della decorazione della cupola nelle chiese bizantine con l’esposizione delle figure profetiche, rappresentate nei registri più elevati. Nella conca absidale, la Vergine è seduta sul trono con il Figlio sulle sue ginocchia voltato verso la Madre. Sono affiancati da due angeli bellissimi, avvolti da splendide vesti candide svolazzanti. Nel registro inferiore,
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Cappella di san Biagio, San Vito dei Normanni
L’Impero bizantino, che governò la Puglia dall’871 al 1071, regalò alla regione quel modo di esprimersi squisitamente greco che resistette sino alla fine del Medioevo, nonostante la politica normanna-pontificia di latinizzazione50. Nel Salento ebbe un ruolo cardine il monachesimo siro-palestinese e italo-greco che sino al xii secolo si stanziò nelle campagne dando vita a veri e propri villaggi rupestri nei pressi di Otranto, Leuca, Gallipoli secondo gli insegnamenti di san Basilio e San Teodoro di Studion, con un modello di vita dedito a solitudine, tranquillità, meditazione e lavoro agricolo. Le fonti evidenziano l’esistenza di scuole locali influenzate dal gusto orientale. La chiesa rupestre dedicata a San Biagio51, celebre santo taumaturgo, testimonia un passato ricco di tradizioni e ben integrato al territorio, custode di pitture murali tra le più interessanti della Puglia. Si trova al centro di un piccolo complesso monastico di cui si scorgono, nei dintorni, le celle destinate ai monaci. L’insediamento subì nel corso dei secoli notevoli trasformazioni che ne modificarono l’aspetto originario. La cripta è un ambiente unico, lungo 12,5 m e largo 4,50 m, al quale si accede da un ingresso laterale. Un’iscrizione dettagliata in greco, all’altezza della porta d’ingresso sulla volta, annuncia: «Questo venerabile tempio del sacrosanto mar-
Pittura murale, xii secolo, cripta di San Biagio, San Vito dei Normanni49
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La scena della Natività è solenne e emana una straordinaria forza, rafforzata dallo spazio ridotto della cappella e dall’effetto frontale delle scene dipinte. La Vergine, sdraiata su un letto rosso lavorato, occupa la scena centrale. Con la destra stringe un fazzoletto, presagio delle lacrime che verserà sotto la croce di suo Figlio, e tiene la sinistra appoggiata sotto il mento, posa nella quale è sovente raffigurato Giuseppe che riflette. Anche la Madre medita il mistero che si fa carne, mentre il suo sguardo corre lontano. Sul lato sinistro i Magi a cavallo indicano la stella perpendicolare alla mangiatoia dove è custodito un Gesù purtroppo andato perduto. Uno dei saggi visitatori orientali, sul cavallo bianco in basso, sembra indirizzarsi a Giuseppe, con il capo chino. Nella parte destra in alto un angelo con un bastone da ambasciatore annuncia la buona notizia ai pastori, due in piedi lo ascoltano, quello seduto suona il flauto, mentre in basso le levatrici preparano il bagno per il Bambino. Le figure delicate e ben proporzionate, i colori vivi, i dettagli preziosi (la perlatura attorno ai nimbi di Maria e Giuseppe e alle briglie dei cavalli, lo sgabello della levatrice riccamente lavorato…), confermano l’alta qualità della pittura e l’abilità degli iconografi nel declinare la ieraticità della scena con la vivacità dei diversi episodi che la animano.
tire Biagio nostro padre è stato eretto e dipinto al tempo del nostro Igumeno Benedetto, con il concorso [finanziario] di Matteo e per mano dei maestri Daniele e Martino, l’otto del mese di ottobre dell’anno 6705 [=1196], indizione xv»52. Nel naos è conservato un ciclo di pitture murali di stile bizantino con scene dell’Antico Testamento e un ciclo cristologico con episodi tratti dai Vangeli canonici e apocrifi. La volta della chiesa è divisa in cinque sezioni, la cui lettura iconografica procede in senso antiorario: nella parte più ampia è dipinto l’Anziano dei Giorni (Dn 7), i simboli degli evangelisti Matteo (angelo) e Marco (leone), un serafino con sei ali e il profeta Daniele che ha il volto giovane e il berretto frigio. A sinistra dell’Anziano dei giorni, vi sono i simboli degli evangelisti Giovanni (aquila) e Luca (bue alato), un serafino a sei ali e il profeta Ezechiele. Il ciclo cristologico inizia con l’episodio dell’Annunciazione alla Vergine53, prosegue con la Natività di Cristo, la Fuga in Egitto della Santa Famiglia54, la Presentazione al Tempio di Cristo e il suo Ingresso a Gerusalemme. Completano l’armonia del racconto salvifico uno stuolo di santi che trionfa ieratico: ai lati del portale d’ingresso sono raffigurati i santi Giovanni e Andrea, tra cui compare il committente (Matteo), san Biagio, san Nicola, san Demetrio e san Giorgio, san Silvestro papa e santo Stefano. Le iscrizioni poste vicino ai santi sono tutte in greco, tranne la doppia iscrizione in latino e greco che accompagna la figura di san Nicola. Diverse vicende della vita di San Biagio sono raffigurate sulla parete orientale, con un’attenzione particolare all’episodio di addomesticamento di alcune fiere all’entrata di una grotta e all’iscrizione greca citante il nome Agricola, il governatore di Sebaste che provocò la morte del Santo55. Tale scena, considerata eccezionale per la rarità della riproduzione, attesta la diffusione del culto del martire.
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Chiesa della Vergine Peribleptos, Ohrid
Ohrid fu, in epoca medievale, centro di notevole importanza, prima del regno bulgaro e poi di quello serbo. Oggetto di contesa tra Bulgaria ed Epiro nel xiii secolo, ritornò poi sotto controllo bizantino e fu conquistata nel 1334 dal sovrano serbo Stefano Dušan, per passare definitivamente sotto il dominio turco alla fine del xiv secolo. La città e il territorio circostante conservano un gran numero di importanti monumenti di epoca medievale. Tra ix e x secolo, qui fu notevole l’attività edilizia di san Clemente di Ohrid (840 circa916), canonizzato subito dopo la morte nel 916, e inumato nella chiesa della Vergine Peribleptos alla fine dello xiv secolo. Questi moltiplicò i frutti dell’evangelizzazione iniziata nei Balcani dai santi fratelli Cirillo e Metodio, fondando un monastero e una scuola con più di 3.500 discepoli e ristabilendo le strutture ecclesiastiche che erano state quasi distrutte durante le invasioni del vi-vii secolo. Alle due estremità del regno bulgaro due scuole, una a Pliska, poi spostata a Preslav, l’altra a Ohrid, furono fondate con lo scopo di completare le traduzioni in alfabeto slavo dei libri sacri e di creare un clero autoctono. La chiesa della Vergine Peribleptos è una delle chiese più antiche della storica città di Ohrid, costruita dai megas hetaireiarches Progonos Sgouros, genero dell’imperatore Andronico ii Paleo-
Affresco, 1295, chiesa della Vergine Peribleptos, Ohrid, Repubblica di Macedonia del Nord
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verticale sulla Madre e il Figlio, racchiudendo una piccola stella in prossimità della grotta. Un tripudio di angeli è inchinato di fronte alla stella, due angeli sulla sinistra sono inginocchiati davanti alla grotta mentre un angelo sulla destra porta l’annuncio a due pastori con il capo levato al cielo, il viso stupito. Un angelo a cavallo, al pari del monastero di Marko, guida tre Magi che stanno cavalcando dietro di lui. È vestito come un messaggero bizantino: con la mano sinistra indica il prodigio ai visitatori che giungono da lontano e con lo sguardo attira l’attenzione di coloro che contemplano la scena.
Una Vergine orante, a figura intera e di taglia imponente, domina la composizione del bema, sopra la Comunione degli Apostoli e i Padri officianti, e sotto l’Ascensione di Cristo, dipinta lungo il soffitto; l’elegante iconostasi in marmo è corredata da due grandi icone e da semplici porte regali. La Natività di Cristo è raffigurata speculare alla Presentazione al Tempio di Cristo sotto un ampio arco: tra le due scene un’elaborata stella con otto raggi blu che degradano verso l’esterno, avvolta in un cerchio complesso. Da questa stella, simbolo della presenza di Dio, un raggio luminoso scende
logo, e sua moglie Eudokia nel 1295, come conferma un’iscrizione sopra l’ingresso. L’edificio presenta una tipica pianta a croce greca inscritta con cupola centrale; protesi e diaconico sono poco profondi, il naos è preceduto da un nartece. Nel 1365 l’arcivescovo Gregorio aggiunse una sorta di parekklesion al lato nord e più tardi un analogo corpo di fabbrica sul lato sud. La muratura è composta da un alternarsi di pietre e mattoni; accanto all’abside principale vi sono due absidi laterali. Il ricchissimo programma di affreschi56, in gran parte contemporanei alla sua edificazione, è una delle espressioni più riuscite dello stile paleologo maturo. Per quanto riguarda il naos, il programma decorativo, oltre alle immagini canoniche della decorazione monumentale bizantina coeva, comprende anche i cicli della Passione e della Vita della Vergine; le storie di san Giovanni
Battista (il Precursore) si trovano invece nel diaconico. Sulle lunette e sulle volte del nartece compaiono poi immagini simboliche della Vergine, il Cristo-Angelo (immagine basata sull’omelia di Pasqua di Gregorio Nazianzeno), S. Giovanni Battista alato e altre immagini che illustrano lo sticheron di Natale, inno sull’Incarnazione, attribuito a Giovanni Damasceno57. In particolare, nella volta meridionale sono raffigurate le anime dei giusti tenute nella mano di Dio. Gli affreschi sono la prima opera documentata dei celebri iconografi Michele Astrapas ed Eutichio, i cui nomi sono incisi sulle raffigurazioni di santi militari dipinti nelle colonne della cupola occidentale. Le narrazioni sono estese, le composizioni sviluppate con elaborati sfondi architettonici e la presenza di numerosi personaggi che con i loro movimenti creano una sorta di danza; dominano i colori rosso e blu grezzi.
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Cappella degli Scrovegni, Padova Giotto, affresco, 1303-1305, Cappella degli Scrovegni, Padova
Sette secoli fa, nell’anno del primo Giubileo (1300), iniziò la costruzione della cappella che Enrico Scrovegni, ricco banchiere e uomo d’affari padovano, volle far erigere a completamento del proprio palazzo. Per adornare l’edificio, destinato a accogliere lui stesso e i suoi discendenti dopo la morte, Enrico chiamò due tra i più grandi artisti del tempo: a Giovanni Pisano commissionò tre statue d’altare in marmo, a Giotto la decorazione pittorica della superficie muraria. Giotto aveva circa trentacinque anni ed era un artista già celebre poiché aveva lavorato per il Papa nella Basilica di S. Francesco in Assisi e in S. Giovanni in Laterano a Roma, nella Basilica di S. Antonio e nel Palazzo Comunale, noto come “Palazzo della Ragione”, a Padova. Nei 900 metri quadri della Cappella degli Scrovegni, a Giotto e a una squadra di artisti, artigiani, carpentieri alle sue dipendenze, fu affidato il compito di raffigurare la storia della salvezza cristiana con una sequenza di episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento che culminano nel monumentale Giudizio Universale. L’opera fu ultimata in tempi molto brevi: il giorno dell’annunciazione, il 25 marzo 1305, dopo solo due anni di lavoro, la Cappella era totalmente decorata. La narrazione del mistero cristiano inizia dalla lunetta in alto sull’arco trionfale, quando
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Dio, dopo aver ascoltato il dibattito tra le virtù, impartisce all’arcangelo Gabriele l’ordine di avviare il riscatto dell’umanità, e si dipana lungo le pareti della navata in tre registri sovrapposti che scendono a spirale, in cui sono raffigurati tre cicli: quello di Gioacchino e Anna, di Maria e di Gesù. Interessante notare che esattamente dieci anni dopo, uno dei personaggi più geniali del mondo bizantino, Teodoro Metochita, scelse il medesimo programma pittorico per la più straordinaria delle chiese costantinopolitane, Chora. Oriente e Occidente respiravano ancora modelli comuni ma è noto che Giotto, erede dei cambiamenti iniziati dal suo maestro Cimabue, «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino»58, secondo la celebre formula coniata da Cennino Cennini alla fine del Trecento. Il promettente pittore fiorentino abbandonò la supposta fissità dei canoni bizantini e innestò nella pittura il senso del tempo e della storia, modellando i personaggi sacri con atteggiamenti e fisionomie familiari per l’osservatore: «Giotto risuscitò la moderna e buona arte della pittura, et introdusse il ritrar di naturale le persone vive, che molte centinaia d’anni non s’era usato»59. Molto si è discusso sull’ideatore del programma teologico della Cappella degli Scrovegni. Si tratta plausibilmente di frate Alberto da Padova, il religioso eremitano in ginocchio che regge, con Enrico Scrovegni, il modellino della Cappella nell’affresco del Giudizio Universale, «un teologo raffinato, che mostra di padroneggiare non solo l’Antico e il Nuovo Testamento, i vangeli apocrifi e gli scritti dei Padri della Chiesa ma anche commenti e testi antichi, tardo antichi o della tradizione medievale, antica o recente; uno studioso di rigorosa formazione agostiniana, che si muove con disinvoltura anche in un ambito filosofico classico»60. Giotto lavorò dunque a stretto contatto con la scuola teologica agostiniana61, molto attiva a Padova dalla metà del xiii secolo all’inizio del xiv.
Nelle storie del primo registro si affida al racconto del Protovangelo di Giacomo, Pseudo Vangelo di Matteo e alla Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, con citazioni dalle Meditationes Vitae Domini nostri Iesu Christi dello Pseudo-Bonaventura. La Natività, che appartiene alle Storie di Gesù, si trova nel secondo registro centrale della parete sud. Giotto colloca la Natività di Cristo in una capanna, sullo sfondo di una grotta. La Madre e il Bambino sono al centro della scena. Maria, avvolta in un mantello blu di cui resta solo qualche traccia, compie un gesto premuroso, si volta con naturalezza verso Gesù e lo posiziona nella mangiatoia, con l’aiuto di un’inserviente collocata sull’estrema sinistra della composizione. La Madre è allungata come nell’iconografia bizantina, ma non è statica, non guarda lontano, i suoi occhi si posano amorevolmente sul Figlio, stretto in fasce, che la guarda vigile e cosciente. Sull’angolo sinistro della scena il bue sembra osservare la scena, mentre l’asino ha il muso dipinto verso terra. Accanto agli animali, è raffigurato Giuseppe, avvolto in un mantello chiaro e con la testa tra le mani. I suoi occhi sono chiusi, un probabile riferimento alla visione mistica avuta nel momento della nascita di Gesù62. La sua posizione laterale e meditativa è fedele al modello classico della raffigurazione del dogma dell’incarnazione. Sul lato destro, due pastori ritratti di spalle alzano lo sguardo verso l’angelo che annuncia loro che quella nascita umana ha i tratti di uno straordinario prodigio. In alto tre angeli stanno pregando con le mani giunte rivolti verso sinistra, quello centrale è chinato verso Gesù e la Madre. La scena, dominata dalla realtà del blu splendente della notte di Betlemme, trasmette serenità, la verità del farsi veramente uomo di Gesù: un bambino in fasce, con un nimbo crucifero che annuncia il suo destino di morte e risurrezione, un uomo che è Dio, protetto dalla Madre e adorato dagli angeli.
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Duccio da buoninsegna, Maestà del Duomo di Siena
La Maestà è un monumentale dipinto d’altare (211 × 426 cm), realizzato secondo la tecnica della tempera su pannello di legno, tra il 1308 e il 1311, sotto la direzione di Duccio da Buoninsegna, celebre pittore iniziatore della scuola senese63. Fu voluta dagli abitanti di Siena per ringraziare la Madre di Dio e sostituire un’icona cui erano particolarmente devoti in occasione della vittoria nella battaglia di Montaperti nel 1260. La Maestà risale agli anni della piena maturità di Duccio, da sempre considerata il suo capolavoro e uno dei dipinti più importanti dell’arte pre-rinascimentale italiana. Sono pervenuti sia il contratto tra l’Opera del Duomo e il maestro (del 1308) sia la notizia della fastosa processione con cui, il 9 giugno 1311, la cittadinanza di Siena accompagnò la grandiosa pala in cattedrale. Restò sull’altare maggiore fino al 1506 quando, per volontà di Pandolfo Petrucci signore della città, fu sostituita col grande tabernacolo di bronzo del Vecchietta. La tavola di Duccio fu appesa a una parete del transetto sinistro, dove rimase fino al 1771, quando le due facce dell’opera furono separate: quella anteriore fu posta nella cappella di Sant’Ansano, quella posteriore nella cappella di San Vittore. Nella medesima occasione furono tolte e spostate in sagrestia le tavolette della predella e del coronamento (i piccoli pannelli del registro inferiore della facciata
Duccio da Buoninsegna, pittura su pannello di legno, 1308-1311, compartimento della Maestà del Duomo di Siena, National Gallery of Art, Washington DC
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Sono in piedi, con delle borse e delle bisacce, accompagnati dal loro gregge di montoni e da un cane saggiamente seduto sulle gambe posteriori. Sulla sinistra vi è Giuseppe che stringe la tunica al collo per combattere il freddo: si tratta di un Giuseppe canuto, con il cranio leggermente stempiato, chiaramente più anziano della moglie. Sotto si vedono due donne sedute a terra, con i capelli ricoperti da una sorta di lenzuolo che segnala il loro stato di serve occupate in faccende femminili: quella di destra, che tiene il bambino Gesù nudo, si prepara a fargli il bagno e verifica con la mano la temperatura dell’acqua, l’altra sta per versare nell’acqua un profumo o del sapone. In generale lo schema iconografico segue quello classico del primo millennio, che continuerà a caratterizzare gli Orienti cristiani; i lineamenti dei visi addolciti e i colori vivaci aprono invece la porta alla creatività del Rinascimento.
Attorno alla casa si affollano gli angeli e i testimoni umani della Natività. Gli angeli sono disposti in due gruppi da sette, su due livelli, alcuni rivolti al cielo e altri alla terra a suggerire che il mistero della Natività è il luogo dell’incontro tra i due mondi. Il rango superiore è composto d’angeli, otto in tutto, che guardano verso l’alto in direzione dell’emisfero simbolico che corona il dipinto al centro: la natura angelica vive della contemplazione di Dio. Il registro inferiore riunisce degli angeli preziosamente nimbati, piegati in adorazione del Bambino. È l’illustrazione delle parole scritte dall’apostolo Pietro che anche «gli angeli desiderano fissare lo sguardo» per scrutare la Buona Novella (1 Pt 1,12). L’angelo di destra collocato più in basso sta per annunciare la notizia ai pastori (Lc 2,8-14), srotolando una pergamena incisa. Due pastori, uno giovane e l’altro anziano, lo guardano a rischio di farsi venire il torcicollo. presentate ventisei storie della Passione e Resurrezione di Cristo, divise in formelle più piccole. Nel coronamento vi erano storie di apparizioni di Gesù dopo la Risurrezione. La Natività faceva parte della predella della parte anteriore della Maestà, collocata dopo l’Annunciazione e prima dell’Adorazione dei Magi, Presentazione al Tempio, Massacro degli innocenti, Fuga in Egitto e ritrovamento di Gesù tra i Dottori del Tempio. Il gruppo della Madre con il Bambino è iscritto in una sorta di esagono formato dalla casa di Betlemme dove nacque Gesù. Il tetto ricorda che si trattava di un edificio precario mentre le pareti, fatte di pietre seriali, creano una prospettiva rovesciata un po’ maldestra. Maria è sdraiata o semisdraiata su un letto a fagiolo rosso; ha le braccia incrociate sul petto, le mani inattive ma lo sguardo attento e un po’ triste, girato verso il Bambino. Gesù è sdraiato sulla paglia sopra un mobile che rappresenta una mangiatoia, protetto da un bue e da un asino che sembrano sorvegliarsi reciprocamente. Proprio sopra la capanna, brilla una stella a otto braccia, i cui raggi emanano in direzione di Gesù.
anteriore dell’altare), che costituivano nel loro insieme la prima predella conosciuta della storia dell’arte italiana, vendute a collezionisti e musei stranieri. Quando la Maestà fu traslocata nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena, nel 1878, mancavano ormai nove elementi della predella, due tavole del coronamento e tutte le cuspidi con figure di angeli. La Maestà colpisce per la sua straordinaria complessità e bellezza: una tavola di più di quattro metri per lato, dipinta sul fronte e sul retro, traboccante d’oro e di splendidi colori volti a glorificare la Vergine e la storia salvifica di Cristo. Il lato principale, quello originariamente rivolto ai fedeli, era dipinto con una monumentale Vergine con Bambino in trono, circondata da un’affollata schiera di santi e angeli su fondo oro. La predella da questo lato conteneva sette comparti con storie dell’infanzia di Gesù, intercalati da sei immagini di profeti; nel coronamento, invece, vi erano narrazioni della Vergine riguardanti i momenti successivi la Crocifissione di Cristo. Sul retro della Maestà, destinato alla visione del clero, erano rap-
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chiesa di Chora, Istanbul 1313-1315, mosaico, Chiesa di Chora, Istanbul La chiesa di Chora è tra gli esempi, ancora esistenti, più ricchi e rilevanti dell’architettura e in particolare dell’iconografia bizantina. Al suo interno, infatti, si sono conservati la maggior parte dei mosaici e degli affreschi, espressione di un programma religioso articolato con cura, basato su fonti canoniche e apocrife. La chiesa, parte di un complesso monastico distrutto, vanta una storia millenaria, intrecciata a quella della città di Costantinopoli. Le prime tracce archeologiche64 risalgono al vi secolo; durante la controversia iconoclasta il monastero accolse il patriarca iconofilo in esilio Germano di Costantinopoli (dopo il 730) e fu probabilmente un baluardo del favore monastico per la legittimazione e il culto dell’immagine sacra nella capitale. Tra il 1077 e il 1081, Maria Ducena, suocera di Alessio i Comneno, iniziò i lavori di restauro del monastero, conclusi dal nipote Isacco Comneno nel 1120. Si deve però al genio e all’impegno del logoteta Teodoro Metochita65, vice-imperatore di Andronico ii, la più importante ristrutturazione nel xiv secolo di Chora, l’aggiunta di un parakklesion (cappella funeraria, con affreschi di contenuto escatologico), e la decorazione a mosaici delle pareti, pennacchi, volte della chiesa. La chiesa di Chora accolse l’icona della Vergine Odigitria, dipinta secondo la leggenda da san Luca, durante l’assedio di Costantinopoli nel 1453. In seguito alla
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Nella parte destra della lunetta, l’angelo dell’annunciazione si protende verso i pastori, pronunciando le parole che compongono l’iscrizione soprastante, tratta dal vangelo di Luca: «Non abbiate paura; ecco, vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,6). Sul pendio della collina più bassa, a destra, compaiono tre pastori, allineati diagonalmente, colti nel momento in cui reagiscono diversamente all’apparizione dell’angelo. A sinistra, il primo pastore, in piedi, con un fagotto e una verga, sembra indietreggiare impaurito e alza la mano destra in un gesto di difesa; accanto a lui è seduto un giovane pastore che tiene nella mano destra un piffero e che tocca il terzo pastore alla sua sinistra, come per rassicurarlo o per essere rassicurato. Il terzo pastore è il più anziano dei tre e, a differenza degli altri due che indossano corte tuniche e gambali, porta un mantello di pelliccia sopra una lunga tunica e nella mano sinistra tiene un bastone. Dalla collina, in alto a sinistra, dietro la Vergine, spuntano quattro angeli, due girati verso l’alto e due rivolti verso gli uomini: «Essi adempiono a una doppia funzione: glorificano Dio e portano agli uomini il messaggio della buona novella»67. La scena della preparazione del bagno di Gesù è in primo piano a sinistra: un’inserviente versa acqua da un’anfora dorata in un largo bacino (o fonte) d’oro collocato su un piedistallo. Una seconda inserviente, dalla parte opposta, tiene il Bambino nudo in grembo, nella piega del suo mantello; la donna porta sul capo una sorta di turbante. Nello schema iconografico bizantino della natività, Giuseppe non fa parte del gruppo centrale formato dalla Madre e dal Bambino ma è rappresentato come una figura solitaria, seduta su una collinetta in primo piano a destra. È di profilo, con il mento sulla mano destra e il gomito sul ginocchio destro; egli fissa pensieroso Cristo Bambino nella scena del bagno a sinistra. L’iconografia di Chora è sobria nel rendere i sentimenti contrastanti di Giuseppe: preferisce lasciarlo solo a riflettere sullo sconvolgente mistero che lo ha investito.
caduta dell’impero bizantino, Chora fu riconvertita, come accadde a molte chiese bizantine, in moschea nel 1510 e denominata Kariye Camii, divenne museo nel 1945. Il 5 novembre 2019 il Consiglio di Stato turco decise di trasformare nuovamente il monumento in moschea; tale sentenza è operativa dal 21 agosto 2020. La prima preghiera islamica ha avuto luogo il 30 ottobre 2020: purtroppo i mosaici e gli affreschi sono stati totalmente coperti da un sistema di tende66. La chiesa di Chora accoglie i cicli musivi apocrifi della vita di Gioacchino e Anna, quelli dell’infanzia di Maria, la nascita e il ministero pubblico di Cristo, in particolare i miracoli di guarigione, e un elaborato ciclo di affreschi che culminano nella straordinaria scena dell’Anastasis nel catino absidale e nel Giudizio universale della volta del parakklesion. Il carattere rurale dell’area, probabilmente inabitata fino al xii secolo, potrebbe essere all’origine del primo significato di chora (“terra”, “campagna” o “in campagna”). Tale termine, che indicava la zona compresa tra l’antica cinta muraria costantiniana e quella teodosiana dove sorge la chiesa, fu in seguito rivestito di un significato più mistico: Cristo Pantocratore, nel mosaico sopra la porta d’ingresso, è definito la “dimora dei viventi” (chora ton zoonton) e la Madre di Dio Blachernitissa, collocata nella lunetta di fronte, è “colei che ha contenuto l’Incontenibile” (chora tou achoretou). La Natività di Cristo è raffigurata secondo lo schema iconografico classico. Sono raccolti tutti gli episodi connessi con la nascita, distribuiti su un paesaggio collinare: ai suoi piedi è presente un tronco d’albero dal quale è germogliato un ramo con fitte foglie. Al centro della composizione vi sono Maria, adagiata su un giaciglio, e il Bambino, in una piccola grotta sopra di lei, avvolto in fasce all’interno di una mangiatoia di pietra presagio del sarcofago della sepoltura. Il Bambino è investito da un raggio di luce che discende da una stella dorata all’interno di un semicerchio al culmine della lunetta, che rappresenta simbolicamente il mondo celeste.
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Monastero di Studenica, Serbia Affresco, 1313-1314, chiesa dei Santi Gioacchino e Anna (o chiesa del Re), Monastero di Studenica, Serbia
La caduta, pur temporanea, di Costantinopoli a seguito della quarta crociata del 1204 provocò la diaspora di molti artisti nei territori limitrofi. La Serbia accolse valenti iconografi, grazie alla committenza della potente e ricca dinastia regnante dei Nemanja, l’unica in tutta l’area balcanica in grado di assicurarsi i migliori architetti, pittori e scultori dell’impero68. Uno dei capolavori che beneficiarono di tale situazione è il monastero di Studenica69 (in Serbia meridionale, nella regione della Raška). Delle strutture originarie si conservano una parte del muro di cinta, tre chiese, una torre con cappella, un refettorio. La chiesa principale, dedicata alla Vergine, fu edificata nel 1183-1196 da Stefano Nemanja (m. nel 1197), il fondatore della dinastia serba medievale, qui sepolto. La chiesa dei Ss. Gioacchino e Anna, detta anche del re, fu eretta da Milutin (m. nel 1321) nel 1313-1314. Si tratta di un edificio a navata unica, con un’abside semicircolare, nartece e cupola, la cui decorazione fu eseguita in quegli anni e si è generalmente conservata. Il complesso monastico è noto per i suoi affreschi di arte bizantina del xiv secolo, realizzati da grandi maestri che preannunciarono la rinascita dell’epoca paleologa. Nel corso del Cinquecento e del Seicento, il monastero fu più volte saccheggiato dagli eserciti Ottomani; nel 1689 la chiesa fu incendiata dai Tur-
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chi e i monaci fuggirono in Kosovo: il monastero fu abbandonato per secoli e andò lentamente in rovina. Solo negli anni Venti del Novecento iniziarono i lavori di restauro, i monaci tornarono e gli affreschi, pur essendo stati esposti per oltre due secoli alle intemperie, furono in gran parte recuperati. Il complesso fu inserito dall’Unesco nel 1986 nella lista del Patrimonio dell’umanità. Nella scena della Natività, l’iconografia è quella tradizionale ma le figure dei personaggi sono dotate di una gestualità dinamica, con proporzioni ispirate a un’armonia di derivazione classica. L’evento principale è collocato all’interno di una grotta di forma piramidale. I vari episodi, non contemporanei in ordine cronologico, sono isolati da spazi creati dal paesaggio montuoso e collinare, che rende le scene riconoscibili: «Il dogma dell’Incarnazione diventa vivo e presente non attraverso un’imitazione del mondo reale, ma con l’accumulo simultaneo di particolari narrativi che riguardano la Natività di Gesù, particolari che sono altrettanti argomenti a favore dell’aspetto miracoloso di questa nascita»70. La Madre è stesa su un materasso rosso, guarda verso sinistra e tiene dolcemente tra le mani il volto di Gesù, appoggiando la sua guancia su quella del Bambino. I loro nimbi si fondono. Il posare la guancia della Madre su quella del Figlio ritorna più volte nell’iconografia bizantina del xiii-xiv secolo: nella Natività, nell’icona della Madre di Dio Eleusa, nella Deposizione di Cristo dalla croce. È un gesto che esprime la premura della Madre per il Figlio: nell’ora della nascita e della morte, la sua cura e la tenerezza restano identiche. È esaltata la natura umana di Cristo, la condivisione della sua fragilità, e allo stesso tempo è preservato il mistero della sua divinità, reso attraverso gesti sobri, equilibrati, mistici. È la trasposizione in immagini della liturgia: «Un grande e straordinario prodigio si è compiuto oggi! La Vergine partorisce e il suo grembo resta incorrotto; il Verbo si fa carne e non si separa dal Padre»71.
Gesù è fasciato in una mangiatoia a sarcofago, formata da lastre di pietra, simbolo del futuro sacrificio di Cristo. Sopra la mangiatoia si distinguono due animali, il bue e un asino bianco. Nell’angolo sinistro in basso è raffigurato Giuseppe, il cui volto non è più visibile. Si intravede però la posa dell’iconografia classica, con la mano sinistra sotto la guancia. A sinistra, sul lato superiore della composizione, sono raffigurati degli angeli, con le mani coperte che venerano il Bambino. L’angelo più in alto leva lo sguardo e le mani verso l’alto. Sul lato opposto, un angelo con le vesti colorate e svolazzanti, annuncia la notizia a due pastori, levando il braccio destro. Il più giovane si volta intimorito verso l’angelo; sembra aver smesso di suonare uno strumento musicale che tiene nella mano destra, mentre con la sinistra si appoggia al pastore anziano. Questi, che si regge su un lungo bastone, è coperto da una lunga pelliccia e porta alla cintura una borsa. È rivolto frontalmente all’angelo, che indica con la destra, come se i due stessero conversando. La parte inferiore destra dell’immagine è incorniciata da una collina che fa da sfondo occupata dal bagno di Gesù. L’ostetrica sulla sinistra è accovacciata e tiene tra le braccia il Bambino nella vasca, nudo, raffigurato in questo particolare con un nimbo crucifero; un’aiutante in piedi, curvata su Gesù, versa l’acqua nella vasca. Passato, presente e futuro sono idealmente sullo stesso piano per rendere testimonianza al mistero del Dio-uomo che si incarna nella fragilità della carne e nell’umiltà di una grotta.
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Vangelo di Thoros Taronatsi, Museo Matenadaran, EREVAN
La miniatura contenuta nel Vangelo armeno realizzato da Thoros Taronatsi è un armonioso puzzle di differenti momenti legati alla Natività di Cristo. La scena, infatti, racchiude il cuore del tema, ossia la Madre e Gesù, l’annuncio degli angeli, l’adorazione dei Magi, Giuseppe e il concerto del pastore. Il manoscritto è tra i capolavori della miniatura armena, erede dell’università medievale di Gladzor e di un cristianesimo con un’antichissima storia. La Chiesa armena, infatti, è considerata di origine apostolica, risalente a Taddeo e Bartolomeo e già nel 301 il cristianesimo fu proclamato religione di Stato. L’arte della miniatura ebbe in Armenia un’esistenza millenaria. Il suo inizio risale al 405, anno in cui Mesrop Masˇtoc’ inventò l’alfabeto armeno: a lui si deve anche la prima collezione di manoscritti armeni del catholicos di Echmiazin e il nome del Matenadaran, una delle più ricche biblioteche di manoscritti al mondo. Gli Armeni, spesso soggetti a invasioni e saccheggi a causa della loro posizione geografica, investirono i codici del compito di salvaguardare la lingua, la coscienza e la cultura della nazione. Si sono conservati circa 30.000 codici, in particolare testi biblici e raccolte liturgiche, oltre a un gran numero di opere di filosofia, teologia, grammatica, storia, custoditi in numerose collezioni di tutto il mondo. Il popolo venerava i
Vangelo di Thoros Taronatsi, 1323, miniatura, Ms. 6789, f. 15v, monastero di Gladzor, Siunik, Museo Matenadaran, Erevan, Armenia
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manoscritti come tesori sacri. Realizzare un libro equivaleva a costruire una chiesa. Questa valorizzazione spiega le svariate tendenze di sviluppo, il gran numero di correnti, stili, artisti, l’alto livello artistico e l’originalità dell’arte dei manoscritti. L’arte dei codici e delle miniature armene fu al servizio della teologia e della celebrazione liturgica, ma fu considerata anche un’espressione di creatività artistica e culturale. Nella maggioranza dei codici, infatti, vi sono l’indicazione della data e della località di produzione, grazie ai colophon che riportavano in fondo al libro i nomi di copisti, miniaturisti, rilegatori, committenti e proprietari. Questi testi contengono anche molte notizie storiche. Secondo le fonti letterarie i manoscritti armeni furono realizzati in scriptoria presso i monasteri in cui i calligrafi erano spesso anche miniaturisti. Il mondo figurativo delle miniature del xiv secolo72 trova un’espressione particolarmente ricca nel Vangelo del 1323, le cui composizioni sono così abbondanti da non lasciare quasi più spazio alle tavole della concordanza nel centro della pagina. Il miniaturista fu probabilmente influenzato dalla scuola della Cilicia e dalle Bibbie latine illustrate che i primi missionari cattolici diffusero tra il xiii e xiv secolo73. Nella presente miniatura sono raffigurati in un’unica composizione a tutta pagina sia il Natale di Cristo che l’Adorazione dei Magi. La Nascita apparve nell’arte armena dal v secolo, sulla stele di Odzuni, e fu sovente raffigurata nelle miniature secondo lo schema iconografico tradizionale. Gli angeli, Giuseppe e i pastori circondano la Natività vera e propria, con Maria e il Bambino nella mangiatoia. In alto una mezza sfera azzurra con una stella dorata i cui raggi bianchi raggiungono la grotta. La stella è la portavoce del meraviglioso annuncio, esaltata con una commovente metafora dalla liturgia: «Sei nato nascosto in una grotta, ma il cielo ti ha annunciato a tutti, usando come bocca la stella»74. Di fronte al Bambino avvolto in
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contemplano. Quelli sulla destra sono rivolti in direzione opposta: l’angelo più esteriore è chinato verso un pastore che lo osserva con curiosità; quello più nascosto indica con entrambe le mani la sfera celeste. La soluzione artistica conferisce alla miniatura un carattere di esultanza grazie all’azzurro della montagna che incornicia la scena. La ieraticità della posizione della Madre di Dio e del Bambino si contrappongono alla dinamicità dei personaggi coinvolti nell’annuncio della Natività. L’attenzione ai dettagli e alla composizione dei personaggi, i volti personalizzati, le proporzioni armoniose, i particolari curati conferiscono concretezza, carattere e naturalezza alla miniatura, espressione concentrata del mistero salvifico e della bravura del miniaturista che l’ha realizzata.
fasce verdi, con il nimbo crucifero, si inchinano il bue e l’asino. Maria è semisdraiata, avvolta in una veste azzurra e un maphorion rosso. Gesù e la Madre guardano verso i Magi, raffigurati come tre uomini di tre diverse età, abbigliati con mantelli di differenti colori, hanno tra le mani un contenitore con dei doni e sono in piedi. Giuseppe, secondo lo schema classico dell’iconografia degli Orienti cristiani, siede meditabondo in un angolo, ha la mano destra sulla guancia e lo sguardo rivolto allo spettatore che prende a testimone del mistero complesso che si trova a vivere. Nella parte inferiore, a destra, un pastore con un cappello rosso a punta suona il flauto a delle pecore. In alto tre angeli sono rappresentanti in modo insolito, i due sulla sinistra sembrano dialogare tra loro del prodigio che
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Monastero di Visoki Dečani, Kosovo Affresco, 1335-1350, chiesa di Cristo Pantocratore, monastero di Visoki Dečani, Kosovo
Fondato nel marzo 1327 dal re serbo Uroš Stefan III Decanski (1321-1331), figlio del re Milutin75 (1282-1321), questo monastero custodisce una delle più eccezionali opere d’architettura e in particolare d’arte dei Balcani. A differenza di tanti altri tesori bizantini dei quali ignoriamo i nomi di coloro che costruirono e decorarono le chiese, per la chiesa di Dečani è noto che il capo mastro fu il francescano Vita76 e in particolare l’igumeno Danilo ii (1270 circa-1337), tra le personalità intellettuali più eminenti del Medioevo serbo, elaborò il progetto decorativo77. In circa dieci anni furono quindi realizzati circa 1000 affreschi (con scene incorniciate in un preciso spazio) e 20 programmi agiografici e liturgici. Vita costruì la chiesa in 8 anni e la concluse nel 6843 (1334/35) come lui stesso scolpì nell’architrave sopra l’entrata sud della chiesa sotto la scena del Battesimo di Cristo. Benché non sia possibile datare con esattezza tutti gli affreschi, sembra verosimile che il programma iconografico fu iniziato nei registri superiori, come era abitudine, nel 1337/38, e che si sia sostanzialmente concluso nel 6856 (1347/48) come riporta l’iscrizione dei re Stefano Dušan – nel frattempo succeduto al padre – e del figlio Uros. Una delle maggiori sfide affrontate nel katholicon fu il programma iconografico: in nessuna chiesa né bizantina né serba si può trovare un
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netti rettangolari a Cristo, posato su una mangiatoia in muratura, avvolto in un lungo panno, che ricorda i paramenti liturgici. La Vergine è girata verso gli eccezionali visitatori e compie un gesto di protezione nei confronti del Bambino, che la obbliga a assumere una posizione scomoda. Il suo sguardo è rivolto lontano, verso un punto non definito, che lascia trapelare gioia per la nascita e tristezza per il destino del Figlio. Quest’ultimo invece guarda in direzione dei Magi, come se sollevasse da solo il capo per accoglierli. In basso a destra la scena del bagno: due levatrici hanno tolto l’ampio panno al Bambino, le cui gambe restano avvolte in fasce dorate. È nimbato, il viso da adulto, gli addominali pronunciati come nelle Crocifissioni, un espediente iconografico per valorizzare la presenza viva dello Spirito Santo. Giuseppe è all’angolo destro in basso, girato in un movimento elaborato, osserva la scena del bagno.
parallelo di tale entità. L’altezza del monastero (Visoki significa “il più alto”, la cupola raggiunge i 29 metri), la lunghezza (36 metri) e la larghezza (24 metri), la presenza di svariate cappelle e corridoi, lo spazioso nartece, richiesero una scelta curata dei soggetti e un’attenzione alle rispettive posizioni al fine di permettere alle immagini sacre di interagire con il rito liturgico e, più in generale, di accompagnare la preghiera dei monaci e della comunità cristiana. Nel xv secolo, Grigorije Camblak, letterato erudito del Medioevo slavo-bizantino e per qualche anno igumeno di Decani, folgorato dalla grandezza, dall’altezza e dallo splendore della chiesa scrisse: «Non esiste una chiesa simile, questa supera per bellezza ogni immaginazione»78. La disposizione degli affreschi è intrinsecamente legata ai diversi riti celebrati nei rispettivi spazi79: le scene liturgiche sono collocate nelle absidi e nel bema; nelle cappelle di san Nicola e san Demetrio troviamo i cicli dei rispettivi patroni; le grandi Feste sono dipinte nelle aree sotto la cupola non oltre la metà del naos, da sinistra a destra; nei registri inferiori e lungo i pilastri vi sono gli episodi della Passione, i miracoli e le parabole80. Sono raffigurate due scene della Natività di Cristo: una sotto la cupola, qui riprodotta, tra i pennacchi con gli evangelisti e un’altra, con meno personaggi, appartiene al ciclo dell’Inno Acatisto alla Madre di Dio, che in questo katholicon splende quasi completo. La presente Natività appartiene al ciclo delle Grandi Feste, collocata sopra l’Entrata di Cristo a Gerusalemme. Segue lo schema classico con la Theotokos e il Bambino al centro di una grotta, attorniata in alto da angeli che contemplano la semisfera luminosa azzurra, fonte del raggio dello Spirito Santo, e che recano l’annuncio ai pastori che indicano a loro volta il cielo, come a aggiungere dettagli concreti al racconto angelico. I Magi, a piedi, indossano un copricapo che ricorda il berretto frigio: stanno offrendo dei cofa-
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Monastero di Marko, skopje Affresco, ultimo decennio del xiv secolo, chiesa di S. Demetrio, monastero di Marko, Skopje, Repubblica di Macedonia del Nord
La chiesa dedicata al santo guerriero Demetrio si trova all’interno del monastero di Marko, venti chilometri circa a sud di Skopje. Il complesso monastico fu fondato nel 1345 dal re serbo Volkašin e fu completato nel 1366 da suo figlio, Marko, che fece affrescare la chiesa nel 1376-1377. Il ciclo di affreschi è considerato «una delle più importanti opere di pittura bizantina di tutto il territorio macedone, grazie alle qualità artistiche delle pitture parietali, la ricca erudizione teologica riservata in esse e le loro specifiche caratteristiche stilistiche»81. Il Monastero di Marko fu inoltre tra i più rilevanti centri spirituali medievali in Macedonia, grazie anche all’opera di copiatura e trasmissione di preziosi manoscritti. Nell’architettura della chiesa furono integrati naos e nartece, sormontati da due cupole. All’interno è conservata un’iconostasi costruita con pilastri in pietra. Sopra l’entrata meridionale l’iscrizione del committente permette di datare con precisione la fondazione della chiesa; le parole riportate raccontano anche la tragedia della famiglia regnante, re Volkašin morì nella battaglia della Marica nel 1371, e del popolo macedone, invaso dagli Ottomani. La drammatica situazione che investì la storia macedone nell’ultimo quarto del xiv secolo si riverbera sui dipinti, sul pathos
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che traspare dai personaggi, sugli effetti di luce. Anche la scelta del protettore della chiesa, san Demetrio, è un eco della situazione storica. Le notizie riguardanti la vita di questo santo sono circondate da tratti leggendari. La versione iniziale racconta che a Tessalonica, durante le persecuzioni di Massimiano (286-305), tra i cristiani arrestati si trovasse il predicatore Demetrio, ucciso a colpi di lancia per ordine dell’imperatore. La caratterizzazione di Demetrio come santo militare si fonda probabilmente sulla fama dei suoi miracolosi interventi a difesa della città di Tessalonica contro gli attacchi di Avari e Slavi. Il santo, spesso raffigurato in armatura da soldato romano, fu chiamato a proteggere la popolazione e la famiglia reale dalle minacce di rovina che incombevano sulla regione. Gli affreschi del Monastero di Marko mostrano differenze stilistiche tra i registri superiori che esprimono un ritmo più drammatico e una tavolozza più ricca di contrasti e quello inferiore che rivela una tendenza alla stilizzazione. La presenza di diversi affreschisti che lavorarono nella chiesa non nuoce al risultato globale che è comunque armonioso, grazie a semplici ma efficaci soluzioni compositive e una resa stupefacente delle risonanze emotive. Il ciclo delle Grandi feste «fu opera di uno dei più eminenti pittori dell’epoca tardobizantina, capace di creare scene ricche di profondo misticismo e vigorosa passione»82. Nel registro superiore, la scena della Natività è seguita da quella della Strage degli innocenti, con la scena commovente del Pianto di Rachele, immagine del dolore del popolo macedone straziato dal sangue dei suoi figli che scorreva in quel momento per mano ottomana. L’iconografia della Natività è classica, con una disposizione ieratica dei personaggi e un ritmo energico dei movimenti dei Magi e dell’angelo. La struttura è definita da una montagna a forma
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spalle e passano sotto le braccia, che si ritrovano sul bordo della veste e sui polsini. Indossa dei calzari rossi e leva il braccio sinistro verso la stella che due Magi contemplano stupiti. L’angelo potrebbe essere un cherubino: oltre alle due grandiose ali rivolte verso l’alto, dietro il nimbo sono dipinte due ali unite. Più sobria la scena dell’annuncio ai pastori: un angelo si china verso una figura di spalle, che volta il capo in atteggiamento di ascolto. La totalità della scena è racchiusa da tre cerchi con diverse gradazioni cromatiche di azzurro che offrono un effetto di luce: il secondo cerchio è lambito dal semicerchio che segnala la presenza di Dio, il suo ruolo nell’incarnazione del Figlio, nonostante l’assenza del raggio di luce che raggiunge Gesù in fasce.
piramidale in cui si vede una grotta azzurra che custodisce la Madre, semisdraiata su un letto rosso dalle estremità appuntite, e il Bambino, avvolto in fasce che gli coprono anche la testa, appoggiato su una mangiatoia dalla forma squadrata con pareti murarie che ricordano un sepolcro. Il bue e l’asino lo vegliano. La Madre ha il capo leggermente abbassato, il suo sguardo penetrante è rivolto verso il Figlio. All’esterno della grotta, sulla sinistra in basso, Giuseppe è seduto nella posa classica, quasi accasciato su se stesso. Di fronte a lui, un uomo anziano di statura ridotta, vestito di pelli, con una borsa e un cappello bianco, gli si rivolge con la mano destra. La letteratura apocrifa ha attribuito a Giuseppe il dubbio umano e terreno dell’adulterio di Maria. La figura del pastore è tradizionalmente interpretata come una personificazione del demonio che alimenta i pensieri agitati di Giuseppe: «Come questo bastone non può produrre fronde, così un vecchio come te non può generare e, d’altra parte, una vergine non può partorire»83. Il pastore-tentatore, che esclude che per nascere vi siano altre vie che quella naturale, è figura della negazione del mondo divino oltre quello visibile. Il nome assegnatogli, Tirso, evoca il bastone che fu attributo tipico di Dioniso e dei suoi seguaci, i baccanti, nell’antichità pagana, in contrasto col tronco di Jesse raffigurato spesso a fianco del pastore. Nell’angolo in basso a destra, la scena della preparazione del bagno, che conferma la realtà umana e non apparente di Gesù. Nell’affresco della Natività di Cristo della chiesa di San Demetrio, la scena che cattura lo sguardo è lo spettacolare incontro tra i Magi a cavallo e l’angelo che monta un puledro rosso. I cavalli dei Magi, che indossano una tunica bordeaux e un turbante bianco, si levano quasi in piedi di fronte all’angelo. Questi è abbigliato come un guerriero, con una tunica riccamente decorata, bordature dorate che scendono dalle
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Chiesa di santa Marina, Creta Pittura murale, xiii-xiv secolo, chiesa di Santa Marina, Ravdùcha, Creta
La chiesa di Santa Marina è costruita in un anfratto roccioso nel villaggio di Ravdùcha, a circa dieci chilometri dalla città di Kolimbari, nella penisola di Rodopou. All’interno sono conservati affreschi di Cristo, della Madre, di santi e sovrani che hanno sofferto con il passare dei secoli e si sono parzialmente deteriorati. La chiesa appartiene al secondo periodo bizantino (961-1204), espressione di un’iconografia capace di elaborare con equilibrio i canoni tradizionali ereditati dal passato con le innovazioni del periodo paleologo. Creta, isola di crocevia, fu laboratorio di culture che qui si incontrarono, si scontrarono, influenzarono la popolazione locale e furono da questa rielaborate84. Fu legata all’impero bizantino in due periodi successivi, il secondo si concluse con la quarta crociata nel 1204, quando Creta, dopo una breve contesa con Genova, passò definitivamente sotto il controllo veneziano, che si protrasse fino alla conquista turca del 1671. L’isola è costellata di chiesette, la cui valenza è etnico-religiosa: «Esse sono sorte per assicurare il culto, ma non solo; per affermare la propria appartenenza religiosa, ma non solo; per rivalsa della propria confessione religiosa, ma non solo; per protesta verso i dominatori, ma non solo; per rivalità verso le comunità vicine… per sottolineare lo spirito indipendente e nostalgico
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cretese»85. Molte chiese antiche conservano resti di mosaici pavimentali decorati con motivi geometrici, grandi croci, elementi simbolici (pesci, pavoni, tralci di vite). La riconquista bizantina del 961 determinò un rafforzarsi dei rapporti tra Creta e Costantinopoli e l’inizio di una fase di fioritura artistica nell’isola; agli inizi del xiv secolo l’arte paleologa penetrò gradualmente a Creta introducendo una nuova visione estetica che superava la tradizionale ieraticità dei secoli precedenti. La sequenza delle dodici grandi feste è sovente arricchita da episodi che compongono un vero e proprio ciclo cristologico. Il fermento e la ricerca di una nuova espressività che attraversarono la pittura dell’epoca si colgono anche nelle pitture della chiesetta di Santa Marina a Ravdùcha. Gli iconografi che realizzarono il ciclo di affreschi si attennero all’antica tradizione bizantina dell’anonimato e ai modelli classici. La scena è dipinta in uno spazio ristretto, dunque i personaggi sono raggruppati attorno alla
Madre e al Bambino, così vicini da sfiorarli, pur senza toccarli. Si avverte un’attenzione a mantenere intatto lo spazio sacro della scena centrale, della grotta scura all’interno della montagna piramidale. Maria è raffigurata in proporzioni maggiori rispetto agli altri personaggi, semisdraiata su un letto rosso allungato. Indossa una tunica blu parzialmente ricoperta da un maphorion bordeaux in cui spiccano le tre stelle. Sopra il suo nimbo c’è l’iscrizione in greco MP ΘY (Mater Theou, Madre di Dio); ci sono iscrizioni anche sopra la testa di Cristo (IC XC), di Giuseppe, dei Magi, delle ostetriche che lavano il Bambino. La Madre ha le braccia incrociate, raccolte in un gesto naturale che non esprime alcun significato teologico. Il suo sguardo è rivolto in lontananza, medita sul destino del Figlio. Questi è avvolto in strette fasce, ha il capo nimbato, appoggiato su una mangiatoia chiaramente a forma di sarcofago. Giuseppe è nell’angolo sinistro, accovacciato e pensoso; con la mano sinistra sembra tenersi la
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mortale come morto di tre giorni»87. I nomi dei Magi – Gaspare, Melchiorre, Baldassarre – sono riportati dal Vangelo armeno dell’infanzia che indica anche che questi erano fratelli e i regni su cui governavano: «Il primo Melkon, regnava sui persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli arabi»88. Nella parte inferiore destra le levatrici provvedono al bagno del Bambino in una piccola nicchia. La pittura murale è cancellata nella parte bassa. Gesù è al centro, guarda frontalmente, raffigurato come l’Emmanuele; di lui rimane solo il viso. Una donna a destra versa l’acqua, mentre quella a sinistra verosimilmente controlla la temperatura per il bagno, ma di essa rimane solo un volto coperto da un foulard caratteristico che le circonda il viso. Da notare, le aggiunte cretesi di capre che combattono tra loro, diffuse in tutta la scena: ben visibili stilizzate sopra i Magi, sono riprodotte sia nere sia bianche su tutto il profilo della montagna.
testa, il suo sguardo esprime il turbamento che lo attraversa, è avulso dalla scena, quasi escluso pur essendone parte. Sopra di lui i Magi, in piedi, recano doni. Sono tre uomini di età diverse che rappresentano le tre età principali dell’uomo. Abbigliati con preziose vesti ricamate, il primo e l’ultimo hanno tra le mani degli scrigni preziosi, non si vede invece il dono del più giovane nel centro. Il loro sguardo è rivolto alla stella, non a Gesù. Il numero tradizionale dei Magi (tre), non è indicato nei Vangeli canonici; papa Leone Magno (intorno al 450 d.C.), nelle sue omelie sull’Epifania invitò tutti i popoli ad adorare Gesù come fecero i tre Magi. Fu egli a indicarne il numero e a suggerire i doni che portarono, «l’incenso a Dio, la mirra all’uomo, l’oro al re»86, simboli della divinità, umanità, immortalità di Cristo, ripresi anche dalla liturgia: «I Magi venuti dall’oriente hanno adorato il Dio fatto uomo e, aperti prontamente i loro tesori, hanno offerto doni preziosi: oro puro per il Re dei secoli; incenso per il Dio dell’universo; mirra per l’im-
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Les Très Riches Heures du Duc de Berry Fratelli Limbourg, Natività, Les Très Riches Heures du Duc de Berry, 1413-1416, miniatura Ms. 65, folio 44v., 21,3 × 29, 2 cm, Biblioteca del castello di Chantilly
Queste Très Riches Heures89 furono commissionate ai fratelli Pol, Hermann e Jean Limbourg dal più ricco e appassionato bibliofilo della fine del Medioevo, Giovanni di Francia (1340-1416), duca di Berry, figlio, fratello e zio di tre re di Francia (Giovanni ii il Buono, Carlo v e Carlo vi). Questa considerevole opera (412 pagine, 130 miniature, 3000 iniziali impreziosite da oro e argento), uno dei capolavori della miniatura gotica, fu prodotta tra il 1413 e il 1416 dai fratelli Limbourg, che morirono tutti e tre nel 1415, come lo stesso duca, probabilmente a causa della peste. Le Très Riches Heures furono ritoccate intorno al 1440 da un pittore anonimo nella parte del calendario, poi alla fine del secolo (14851486) da un grande maestro, Jean Colombe, per conto del duca di Savoia. La Natività qui riprodotta riflette un’importante svolta nella trattazione del soggetto nel corso dei secoli. Come ha osservato Émile Mâle, la maggior parte delle opere d’arte dei secoli precedenti, siano esse icone o opere occidentali dipinte o scolpite, in tale scena hanno raffigurato Maria sdraiata e distesa accanto al suo bambino, o allungata su un letto a forma di fagiolo, regola rispettata a lungo90, o anche seduta vicino alla culla, come nel mosaico della Cappella Palatina a Palermo (fig. 5), lo sguardo della Madre non
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recati alla stalla per cercare di vedere il Bambino, e altri tre, che si possono intravedere al centro in procinto di camminare in una specie di gola a ridosso delle rocce, si stanno dirigendo verso il presepe. Tre angeli, sul tetto, in modo simile a tre monaci nel coro davanti a un pulpito, cantano insieme la gloria di Dio, quello al centro tiene un volume con lo spartito. Questa miniatura decora un libro d’ore e introduce, come tutte le altre, alla recita di un ufficio le cui parole di apertura sono chiaramente leggibili: Deus in adjutorium meum intende, Domine, ad adjuvandum me festina…: «Dio vieni in mio soccorso, Dio affrettati a aiutarmi». Nella pagina recto che segue questo verso, accanto al testo dell’ufficio, vi è una miniatura con Davide che suona l’arpa; il suo posto qui si giustificata in quanto antenato di Cristo, celebrato come «figlio di Davide». A questo titolo Davide è considerato un profeta dell’Incarnazione.
ha un’aureola superba, mentre Giuseppe ha un semplice cappello, è stupito, non crede ai suoi occhi. In cielo, al centro di una densa schiera di cherubini e circondato da una corona di serafini, appare a mezzo un Dio Padre incoronato, frontale e maestoso, benedicente che porta il globo del mondo. Da lui procede un fitto raggio di raggi che discende fino a Gesù, il Verbo incarnato per azione dello Spirito Santo, visibile nella forma tradizionale di una discreta colomba, che conferma la dimensione trinitaria dell’evento. Ai margini dei raggi, possiamo vedere, in cima a uno stretto piedistallo, la statua di un idolo, che è come eclissato dalla luce proveniente da Dio. Potrebbe essere quello del dio Marte. Il contesto rurale della Natività, ai margini della città di Betlemme visibile come una città cinta da mura, posta in cima alla collina in alto sotto l’immagine di Dio in gloria, è reso da scarpate dove abbondano le pecore, un angelo annuncia l’evento ai pastori da parte, mentre tre di loro si sono già
necessariamente rivolto al Bambino, escludendo la posizione eretta o inginocchiata. Furono probabilmente gli artisti italiani, come Mariotto di Nardo, i primi, verso la fine del xiv secolo, a innovare adottando una Maria in piedi o inginocchiata accanto al neonato mentre lo contempla, un’innovazione della quale l’arte francese si approprierà in modo duraturo dal xv secolo. I fratelli Limbourg ne sono i testimoni precoci. Altra iniziativa innovativa: la loro miniatura è stata dipinta tenendo conto, alla lettera, di una delle visioni mistiche di Santa Brigida di Svezia che furono diffuse dalla seconda metà del xiv secolo e che ebbero numerosi echi nell’arte. Secondo il
racconto di questa santa, Maria avrebbe partorito Gesù senza alcun dolore, e in un istante, durante un’estasi, con le spalle voltate alla mangiatoia appositamente preparata, presso la quale Giuseppe aveva posizionato asino e bue. L’immagine è conforme a questa precisazione relativa al processo del parto e al posizionamento di Maria. Questa nascita avvenne così rapidamente che santa Brigida, come lei stessa specifica nel suo racconto, non poté seguirla91, ne vide solo il risultato finale: Gesù sdraiato a terra in mezzo a quattro arcangeli, pacifico e radioso, mentre contempla Maria inginocchiata che lo ammira e tiene le braccia incrociate sul petto. La Vergine
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Rogier Van der Weyden, Staatliche Museen, Berlino Rogier Van der Weyden (1399-1464), soprannominato Roger de la Pasture, fu un pittore fiammingo, allievo di Robert Campin, presso la cui bottega lavorò dal 1427. Fu insignito del titolo di maestro indipendente dal 1432 e nominato pittore ufficiale di Bruxelles nel 1436 o 1437. Intraprese nel 1449 un viaggio in Italia dove acquisì una reputazione appena inferiore a quella di Jan van Eyck. Fu uno dei primi pittori d’oltralpe a dipingere su tela. La sua influenza fu rilevante su pittori del calibro di Dieric Bouts, Hans Memling e Frantz Floris. Maestro nell’arte del ritratto, realizzò anche grandi composizioni, alcune delle quali divennero molto celebri come la Crocifissione (14251430, Gemäldegalerie, Berlino), il Trittico dei sette sacramenti (1444 circa, Musée Royal des Beaux-Arts, Anversa), il Trittico della Crocifissione (1445 circa, Kunsthistorischesmuseum, Vienna), la Deposizione (1432-35, Museo del Prado, Madrid) e il Giudizio universale (14451449, Hospices de Beaune). Il Trittico Bladelin92 deve il nome al suo committente tesoriere dell’Ordine del Toson d’oro; è detto anche Middelburger Altar, in riferimento alla città fondata da Bladelin dove il dipinto fu conservato fino al xvii secolo. Rea-
Rogier Van der Weyden, Trittico Bladelin, 1445-1448 circa, pittura su pannello, 91 × 89 cm pannello centrale, 91 x 40 cm, singolo pannello laterale, Stiftung Preussischer Kulturbesitz, Staatliche Museen, Berlino
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Si narra, infatti, la comprensione del mistero dell’incarnazione che ebbero dei personaggi stranieri al popolo dell’Alleanza, provenienti gli uni dall’Occidente e gli altri dall’Oriente. Il mistero dell’incarnazione è dunque mostrato così come intravisto e adorato nelle due parti che costituirono il mondo, secondo l’indicazione suggerita nel capitolo della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1228-1298) consacrato alla nascita del Salvatore. L’anta di sinistra mostra una delle sibille, quella Triburtina che alla presenza di tre rappresentanti del Senato romano incoraggiò l’imperatore Ottaviano Augusto, sontuosamente abbigliato, a contemplare in anticipo il mistero della Vergine destinata a partorire, secondo la profezia di Isaia (Is. 7). Questa appare, attraverso la finestra, come l’oggetto di una visione celeste, iscritta in una mandorla luminosa come il sole e seduta su una sedia posata in bilico su un altare. Secondo il racconto leggendario, all’imperatore sarebbe stata predetta dalla sibilla la venuta dal cielo di un re di sembianze umane che avrebbe regnato per secoli. Ottaviano Augusto avrebbe poi avuto una visione di una vergine sull’altare con in braccio un bambino e una voce che annunciava Haec est ara caeli. Questa apparizione lo avrebbe portato a dedicare l’altare accanto alla propria camera al prossimo venturo «Signore del cielo». Nell’anta di destra della Natività si mostrano di schiena, di profilo, a tre quarti, i tre Magi in cammino verso Betlemme; qui sono inginocchiati davanti alla stella che li guida e ha la forma di un bambino nudo. Questo modo di riprodurre la stella ebbe dei seguaci alla fine del Medioevo ma si esaurì in seguito. I tre Magi non rappresentavano ancora le tre parti del mondo allora conosciuto (Europa, Asia, Africa) ma le tre età della vita di un uomo. Una scena sulla destra li mostra, in scala ridotta, al bordo di un fiume mentre si purificano in vista dell’incontro con Cristo. Lo stile di questa pittura è caratteristico delle tendenze fondamentali della pittura religiosa
lizzato tra il 1445 e il 1448 è un esempio di un oggetto che si diffuse ampiamente nella pittura religiosa in Occidente dalla fine del xiv secolo, in particolare nei Paesi Bassi e in Italia. Al centro è collocato il mistero che le figure nelle ante laterali contemplano o annunciano. In questo trittico, il soggetto principale è un’adorazione di Gesù, non da parte dei Magi o dei pastori ma di Maria (la cui testa è contornata di raggi), Giuseppe (senza nimbo con in mano una candela inutile, la cui fiamma cerca di proteggere con la mano) e il donatore vestito di nero, all’epoca il colore preferito dall’aristocrazia. Si tratta di Pierre Bladelin, introdotto come contemporaneo della scena, al pari di un pastore o di un Magio. I tre sono inginocchiati sul pavimento di una casa irreale che si suppone essere in rovina, sul cui fondo appare un bue. È situata fuori dalle mura di una città fiamminga (probabilmente Middelberg), che prende il posto di Betlemme, con una strada tra le mura. Gesù stesso, che sembra minuscolo, molto più longilineo di un bambino appena nato, si trova in una situazione anormale per due ragioni. Innanzitutto è completamente nudo – una madre non lascia normalmente il figlio esposto a correnti d’aria –, e inoltre è posato a terra, anche se sopra uno dei mantelli blu di Maria. Quest’ultimo particolare potrebbe essere stato mutuato da una visione di Brigida di Svezia, che ebbe un’enorme influenza sull’iconografia della Natività nell’arte occidentale. Tre angeli (di cui uno in questo dipinto è seminascosto dalla colonna d’angolo che evoca la colonna a cui Maria si sarebbe appoggiata per far nascere Gesù) adorano il Bambino, uno accanto all’altro, inginocchiati per terra mentre altri tre li imitano in cielo. Le due ante laterali potrebbero essere un eco ai tentativi d’unione tra le Chiese orientali e occidentali che ebbero il loro ultimo apice nel concilio di Ferrara-Firenze del 1438-1439.
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tore comune ai tre pannelli di questo trittico – il più segreto e il più palese – è l’inginocchiamento, elemento tipicamente occidentale e generalmente assente nell’arte dell’icona, al pari della partecipazione delle mani e dello sguardo che contribuiscono alla formazione di un’attitudine di attenta adorazione. L’incarnazione del Verbo di Dio avviene nello spazio e nel tempo degli uomini. La sua accoglienza richiede loro una partecipazione con i corpi, gli occhi, le mani. A questo si aggiunge la maestria virtuosa di Van der Weyden nella resa dell’abbigliamento raffigurato.
occidentale nell’ultimo secolo del Medioevo. Fu inventato un nuovo spazio pitturale, che obbligò i pittori a rappresentare le scene tradizionali in uno spazio fisico realista. Questo spiega la cura di Van der Weyden nel dipingere l’anta sinistra del letto, le piastrelle del suolo, la finestra e le travi della camera e, nel pannello centrale, il fienile dove si suppone sia avvenuta la Natività; allo stesso modo fu attento alla realizzazione di paesaggi plausibili in tutte e tre le scene, allo sfondo delle strade urbane e al cielo puntellato di variazioni meteorologiche… Ma il denomina-
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Filippo Lippi, Gemäldegalerie, Berlino Filippo Lippi, L’adorazione del Bambino, 1458-1460, tempera su tavola di faggio, 126,7 × 115,3 cm, Gemäldegalerie, Berlino
Filippo Lippi (1406-1469) fu un pittore italiano della generazione successiva a quella di Masaccio e contemporanea del Beato Angelico e di Veneziano. Nacque a Firenze, sua madre morì di parto e all’età di otto anni fu affidato con il fratello ai frati carmelitani presso cui prese i voti nel 1421. Ben presto il suo talento artistico emerse e nel 1424 assistette alla decorazione della Cappella Brancacci, affrescata da Masolino da Panicale e Masaccio, che ebbe un ruolo decisivo nella vocazione pittorica di Lippi. Questi si ispirò però anche a Donatello, Luca della Robbia e Brunelleschi. È ricordato per la prima volta come pittore nel 1430. Ebbe una propria bottega a Firenze dal 1437 e dal 1439 non risiedette più in convento ma in un’abitazione privata. Dal 1452 al 1465 visse a Prato sotto la protezione dei Medici e gli ultimi anni a Spoleto. Questo periodo fu scandito da contenziosi con alcuni allievi cui avrebbe rubato la potestà delle rispettive opere firmandole e da una relazione amorosa con Lucrezia Butti, una monaca che si rifiutò di sposare ma da cui ebbe due figli, Filippino e Alessandra. Tale situazione fu regolarizzata nel 1461 da papa Pio ii su richiesta di Cosimo de’ Medici. L’adorazione del Bambino di Palazzo Medici93, una delle poche opere firmate da Lippi, fu realizzata tra il 1458 e il 1460 per la Cappella
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rocce scabre e tronchi secchi, recisi da un’ascia in primo piano. Maria e il Figlio sono all’aria aperta, circondati da una natura semiselvaggia (ci sono molti tronchi d’albero dai rami spezzati), lontani da ogni grotta, da qualsiasi stalla; nella composizione non vi è traccia di Betlemme. I gradini dietro il gruppo e una scala che arriva fino al Bambino Gesù possono essere stati volutamente introdotti dall’artista per suggerire il tema della
dei Magi di Palazzo Medici-Riccardi, dove decorava l’altare ed era il perno del ciclo di affreschi con la Cavalcata dei Magi di Benozzo Gozzoli. Si tratta di una Natività singolare, quasi enigmatica, in particolare per la sua ambientazione nella foresta, innovazione complessa da spiegare. È un dipinto denso di simboli e allegorie, una meditazione sul mistero dell’incarnazione e della Trinità. I personaggi sono inondati dalla luce divina contro la penombra del bosco fitto e scuro fra
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discesa del Verbo di Dio tra gli uomini94. Tale ipotesi è rinforzata dalla dimensione trinitaria di questo dipinto, con sopra la nube un Dio Padre a mezzo busto sullo sfondo di un cielo stellato: le frange del suo vestito volano in alto, mentre lui apre le braccia e si appoggia con attenzione; sotto di lui plana la colomba dello Spirito Santo, da cui emanano dei raggi che scendono fino al Bambino. Questi come nel quadro di Van der Weyden (fig. 16) è integralmente nudo e steso a terra sull’erba tra rose bianche e rosse e candidi gigli, attributi di Maria Vergine inginocchiata e adorante. In questa tavola, Gesù è avvolto nel mantello della Vergine, è più paffuto rispetto al dipinto fiammingo. L’indice della mano sinistra è sulla sua bocca: è un gesto che si ritrova frequentemente nei pittori del Quattrocento, probabilmente un’allusione al fatto che il Verbo di Dio accettò umilmente, per la salvezza del genere umano, di farsi bambino, infans (letteralmente “che non parla”), benché resti il Verbo fatto carne, che be presto si esprimerà proprio attraverso la bocca che indica. La Vergine è dotata di una grazia che incanta, resa dalla sua leggera inclinazione verso il Figlio, dalla dolcezza delle sue mani giunte, dalla cura con cui il suo capo è coperto di un velo trasparente, posato sui suoi capelli raccolti, caratteristici delle donne sposate, e sormontato da un nimbo dorato, e infine dalla luce raffinata dei suoi abiti sovrapposti, una veste rossa sotto un ampio mantello blu chiaro che crea una cascata di pieghe. Sul lato sinistro, si vede un bambino di cinque o sei anni, che secondo la versione dell’evangelista Luca non dovrebbe avere che sei mesi più di Gesù: è Giovanni Battista nimbato, vestito di una pelle animale sotto la tunica rossa. Nella mano sinistra tiene un bastone la cui estremità è cruciforme e un rotolo con le parole che pronuncerà in seguito alla vista di Gesù: Ecce Agnus Dei, «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1, 29.36). Curiosamente non guarda verso
il Bambino ma il suo sguardo riflessivo si perde verso sinistra. Sopra di lui, a mezzo busto, si trova un monaco anziano in preghiera con le mani giunte e la testa bassa dotato di un nimbo prospettico, la testa con la tonsura e con una barba abbondante. È rivolto verso la Madre e il Bambino che adora pur senza guardarli veramente. Di chi si tratta? La maggior parte degli specialisti lo identificano con Bernardo di Chiaravalle, il fondatore dei Cistercensi, la cui devozione alla Vergine fu celebre. Altri ritengono invece si tratti di un monaco camaldolese. All’estrema destra una cicogna inghiotte un serpente, allegoria del bene vittorioso sul male. L’assenza più strabiliante è quella di Giuseppe, che enfatizza il virginale concepimento nel grembo di Maria, per mezzo dello Spirito Santo. Nella rappresentazione mancano anche il bue e l’asino. Tali assenze non fanno che evidenziare l’emergere di un soggetto quasi ignorato dall’arte delle icone, ossia Maria inginocchiata in adorazione davanti al Figlio.
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Geertgen tot Sint Jans, National Gallery, Londra
La Natività di notte o Natività notturna è un dipinto datato attorno al 1490, eseguito da un artista olandese, un rappresentante della corrente dei “Primitivi fiamminghi”: si tratta di Geertgen tot Sint Jans (1465-1495). La sua pittura si basa principalmente su tematiche religiose, anche se l’artista è noto anche per la sua armoniosa fusione di elementi del paesaggio. Si conoscono poche notizie relative alla vita: conosciuto come “Piccolo Gerardino dei Fratelli di San Giovanni”, ordine di cui fu fratello laico tra il 1480 e il 1495, è anche nominato Geertgen van Haarlem, città dove principalmente lavorò e dove studiò presso il pittore Albert van Ouwater. È stato uno dei primi pittori olandesi a utilizzare l’olio, che consente brillantezza e trasparenza. È anche uno degli “inventori” della Natività notturna, che molti pittori del Cinquecento illustreranno, non ultimo Antonio Allegri detto il Correggio, la cui Natività da lui dipinta intorno al 1530 è appunto nota sotto il nome di La Notte95. Il pittore olandese Karel van Mander (1548-1606) lo definì “il Vasari del Nord”: Geertgen tot Sint Jans scrisse nel 1604 il Libro dei Pittori. Il catalogo dei suoi dipinti è modesto, se ne contano una dozzina, a causa delle molte distruzioni provocate dalla guerra di indipendenza dei Paesi Bassi nel xvi secolo. È ambientata nella
Geertgen tot Sint Jans, La Natività di notte, 1490 circa, olio su tavola di quercia, 34 × 25,3, National Gallery, Londra
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delle opere che trattano in modo coinvolgente e convincente questo tema come scena notturna. La luce brillante in primo piano proviene dal Cristo Bambino nel presepe. Illumina la figura della Vergine, che si china in avanti, le mani giunte in preghiera, sullo sfondo San Giuseppe e a sinistra le figure degli angioletti felici. Lo splendore dell’angelo che annuncia la nascita ai pastori sulla lontana collina fornisce un altro contrasto tra oscurità e luce divina. Una terza e minore fonte di luce proviene dal fuoco dei pastori. Le ridotte dimensioni della Natività la destinano a un uso privato, nello
navata gotica di una cattedrale La famiglia della Vergine di Amsterdam, mentre la Resurrezione di Lazzaro del Louvre è inserita in un paesaggio adorno di architetture e la Madonna col Bambino in gloria di Rotterdam è concepita in modo del tutto originale, racchiusa in una mandorla luminosa, inginocchiata sopra il diavolo e circondata da una gloria di angeli musicanti. La Natività di notte – ispirata da un’opera perduta del 1470 di Hugo van der Goes – mostra la Natività di Gesù circondato dagli angeli, con l’annuncio ai pastori sul fianco della collina. È una
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avvicinarlo né toccarlo. La Natività di Gérard de Saint-Jean è una teofania, una manifestazione di Dio»97. Questo spiega il rispettoso trattenersi di Maria, laddove di lì a poco lo spirito del Rinascimento la mostrerà rilassata, allegra, persino audace nei suoi gesti.
spirito della Devotio moderna. L’idea del Cristo bambino che illumina il presepe proviene dagli scritti di Santa Brigida di Svezia del xiv secolo, nei quali narra della visione del neonato, «la cui luce era così brillante che il sole non poteva essergli paragonato»96. In effetti la luce che Gesù emana non è accecante, al contrario è quanto la luce può offrire di più dolce: l’incontro e la comunione tra gli uomini. L’evento si svolge nel cuore della notte: la sua pittura utilizza la tecnica del chiaroscuro che inizia in quel periodo una carriera che durerà a lungo, in particolare per questa scena e alcune altre scene evangeliche, come i primi passi della Sacra Famiglia durante la sua Fuga in Egitto, fino al periodo barocco. L’unica fonte di luce che si riflette sui volti rivolti verso Gesù proviene dal suo stesso corpo, e il fuoco acceso dai pastori non può competere, né l’angelo che appare loro. L’innovazione non è palese da subito, ma guardando da vicino, possiamo verificare che il pittore non si accontentò di dipingere il neonato radioso, ma di farlo per trasmettere il messaggio che è questo corpo del Bambino che illumina dolcemente l’oscurità circostante: è, infatti, grazie alla sua luminosità che i volti della Vergine e dei cinque angeli intorno a lui sono rischiarati; con difficoltà si vedono le teste del bue e dell’asino e, dietro Maria, la sagoma di Giuseppe che rimane nell’ombra. È uno dei primi presepi rigorosamente notturni nella storia dell’arte. L’oscurità sembra vittoriosa, ma sono la pace e la costante attenzione della contemplazione ad avere l’ultima parola, grazie al talento del pittore. «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia» (Is. 9, 1-2). «La luce irradiata dal bambino crea intorno a lui uno spazio sacro, un santuario invisibile, tiene a distanza i suoi adoratori. Sua madre stessa, impressionata dalla divinità del “Verbo fatto carne”, non osa
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Bernardino Luini, Museo del Louvre, Parigi Bernardino Luini, Natività e annuncio ai pastori, 1525 circa, affresco montato su tela, 222 × 165 cm, Museo del Louvre, Parigi
Il pittore del Rinascimento lombardo Bernardo Luini (conosciuto come Bernardino Luini) nasce a Runo, una frazione di Dumenza, presso il Lago Maggiore nel 1485. Il padre, nativo di Dumenza, risiedette a Milano dal 1469 al 1481, quando tornò nel paese natale per sposarsi; qui abitò fino al 1489, occupandosi dei poderi da cui inviava frutta e verdura al fratello Pietro che le vendeva a Milano. Rientrò a Milano nel 1500 e Bernardino lo seguì. Nel 1501 l’artista è menzionato come figlio ed erede di Giovanni (ancora vivente) e in un documento successivo è detto residente a Milano, nella parrocchia di S. Carpoforo. Non è chiaro quale formazione artistica abbia avuto: se nel circuito degli artisti milanesi o se, in precedenza, presso artisti varesini; ma quando raggiunse Milano quasi ventenne era ormai un pittore formato. Le sue opere risentono dell’influenza di Bergognone, Bramantino, Bernardino Zenale, ma soprattutto di Leonardo da Vinci. Fu menzionato da Vasari, che lo descrive, a proposito degli affreschi del santuario di Saronno, come pittore «delicatissimo, vago et onesto nelle figure sue che valse ancora nel fare a olio così bene come a fresco, e fu persona molto cortese e servente de l’arte sua; per il che giustamente se li convengono quelle lodi che merita qualunque artefice che, con l’ornamento della cortesia,
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fa così risplendere l’opere della vita sua come quelle della arte»98. Questo affresco della Natività, acquistato nel 1867 dal Dipartimento di Dipinti del Louvre, fu collocato intorno al 1810 sui muri dell’oratorio di una villa della famiglia Litta a Greco Milanese99. Appartiene a un insieme narrativo con finalità devozionali, che include altri tre soggetti relativi all’infanzia di
Cristo. Luini dipinse un’altra Natività, anch’essa concepita come un’inquadratura ravvicinata sulla coppia Maria-Giuseppe, ma costruita in modo diverso. Qui sono dipinti superbamente vestiti, molto vicini a Gesù, teneri, commossi e molto attenti, correndo il rischio di orientare la pittura verso una dimostrazione di un savoir-faire pittorico tipico dello spirito rinascimentale.
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per dichiarare che ha sete o non sa parlare, ma per annunciare con questo segno che è venuto sulla terra come Parola di Dio fatta carne e significare, in modo discreto ma chiaro, che la croce annuncia la sua morte sacrificale, il significato dell’incarnazione. Con tale gesto si rivolge allo spettatore, come per chiamarlo a testimoniare. La zucca e la sacca appese all’asse verticale della croce potrebbero costituire un’allusione al ministero itinerante che attende Gesù. Tutte le altre figure densamente unite in questa scena sono raccolte e attente: la Vergine inginocchiata e Giuseppe in piedi, entrambe le mani unite e accuratamente nimbati (mentre Gesù non lo è in senso stretto ma si distinguono dei raggi intorno alla testa), i due angeli nell’angolo in alto a sinistra, sulla loro nuvoletta, e sotto l’asino e il bue, che sembrano abbandonati nella contemplazione (soprattutto il bue).
Questo rischio è scongiurato nel dipinto qui riprodotto, soprattutto grazie all’originalissima struttura che comanda l’intera composizione, anche se non è immediatamente riconoscibile. Il rigore e l’austerità dello schema, caratteristico della pittura lombarda di fine Quattrocento, manifesta infatti, con discrezione, una solida e sapiente organizzazione attorno alla croce centrale, composta dagli massicci elementi del telaio della casa dove si trova la Sacra Famiglia. Si combina con una sorta di pace che Bernardino Luini apprese verosimilmente da Leonardo da Vinci, al quale era molto prossimo, almeno dal punto di vista stilistico, che molte delle sue opere sono state o continuano a essere attribuite a Leonardo. Si spiegano la dolcezza di atteggiamenti e la serenità dei volti che regnano in questa scena, per quanto chiaramente segnata, come raramente è una Natività nella storia dell’arte di questo periodo, dal segno della croce e quindi dall’annuncio del futuro che attende il neonato. Questa dolcezza corrisponde armoniosamente alla leggenda latina inscritta sotto il dipinto dell’amabile Salvator Mundi di questo pittore, anch’esso conservato al Louvre: POSCE NEC DUBITA QUOD QUODCUM (QUE) PATRI IN NOMINE MEO PETIERIS FIET TIBI (in basso), «Chiedete, non ho dubbi che tutto ciò che verrà chiesto nel mio nome dal Padre mio vi sarà concesso». La fiducia pacifica è decisamente il messaggio fondamentale trasmesso da tutta la pittura di Bernardino Luini. L’annuncio ai pastori è nascosto nella parte in alto a destra. Un angelo in cielo si rivolge a tre pastori, due dei quali sono in piedi e il terzo seduto a terra. Un’altra croce, molto più piccola, è sostenuta da una piccola figura, forse un angelo o Giovanni Battista, che la tiene appoggiata sulla spalla e la presenta, come se volesse piantarla nel terreno, a Gesù Bambino nudo, disteso su un telo tenuto da un’altra piccola figura, questa volta sicuramente identificabile con un angelo. Gesù indica la propria bocca con il dito indice sinistro, non
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Scuola di Rüblev, CATTEDRALE DELL’ANNUNCIAZIONE DEL CREMLINO, Questa icona è un capolavoro della Tradizione iconografica, un manifesto della teologia MOSCA dell’incarnazione del Logos divino, una sintesi dell’armonia tra misurato equilibrio compositivo e una chiara e luminosa gamma cromatica. Fu realizzata dalla scuola che s’ispirò ad Andrej Rublëv100, la cui opera fu da subito apprezzata e promossa a esempio anche dalla gerarchia ecclesiastica nel corso dei secoli al punto che Rublëv è considerato il più grande pittore di icone101. Della sua vita si conosce poco: nato probabilmente tra il 1360 e il 1370, divenne monaco del monastero della Trinità fondato da Sergio di Radonež presso Mosca, dove apprese a scrivere le icone. Fu forse allievo di Prochor da Gorodec, col quale collaborò, accanto a Teofane il Greco, nella cattedrale dell’Annunciazione nel Cremlino di Mosca (1405) per la realizzazione degli affreschi, di cui rimane solo la grande iconostasi. Rublëv visse in un’epoca tumultuosa della storia russa, come magistralmente raccontato nel film, che porta il suo nome, realizzato da Andrej Tarkovskij nel 1969, il solo cortometraggio dedicato alla vita di un iconografo. La vittoria sui Tartari, nel 1380 a Koulikovo, esaltò le forze del popolo russo che sperò in una liberazione definitiva. Fu l’epoca di un grande svi-
Icona, xv secolo, scuola di Rublëv, tempera su tavola, cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino, Mosca
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colori luminosi, gioiosi e chiari. Nell’iconografia di Rublëv rinasce, trasfigurata, tutta la bellezza dell’arte greca antica, rinnovata, interpretata, armonizzata. L’icona della Natività, prodotta dalla sua scuola, emana calma, pace, un senso della misura, la perfetta sintonia dei colori, la musicalità delle linee. Lo schema è ancorato alla tradizione figurativa bizantina, attraversato da una tendenza a un’espressione più naturalistica. La montagna a forma piramidale inquadra i differenti episodi. Lo spazio centrale è occupato
luppo della coscienza nazionale e del decisivo progresso dell’unità attorno a Mosca. Fu anche il tempo dell’età aurea della santità russa, il momento in cui il monachesimo conobbe una splendida rinascita, in cui la cultura e l’arte si diffusero attorno ai monasteri. A quel rinnovamento contribuì san Sergio di Radonež, sommo rappresentante della forma russa della grande corrente mistica ortodossa, nota col nome di esicasmo. La pittura di Rublëv possiede una straordinaria profondità di contenuto, espressa attraverso
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stra, incorniciano il nucleo centrale. Hanno le mani coperte in segno di rispetto. I tre sulla sinistra sono piegati in adorazione in direzione di Cristo. Formano un’onda armoniosa che dona un leggero movimento alla scena. I due angeli più alti a destra osservano l’arrivo dei Magi, mentre quello più esterno si rivolge ai pastori che alzano la testa per ascoltarlo. Nel riquadro sinistro in alto i Magi a cavallo, con un tipico berretto frigio, indicano la stella, i cui raggi attraversano la montagna e raggiungono Gesù. La parte inferiore dell’icona riprende due temi classici: Giuseppe seduto a sinistra con il capo piegato e la mano sotto il mento. Davanti a lui un uomo con un abito da pastore gli si rivolge alimentando il suo dubbio. Giuseppe ha uno sguardo simile a quello della Madre, mesto e preoccupato; sembra quasi non prestare attenzione a chi ha di fronte, concentrato in pensieri che la ragione umana non può risolvere. In un antro a destra, due donne preparano il bagno del Bambino. È una scena importante nell’economia teologica dell’icona della Natività: Gesù rimane il Logos divino e allo stesso tempo, con un gesto quotidiano, si conferma che la sua incarnazione è concretamente reale.
dalla Madre, di dimensioni maggiori rispetto alle altre figure, sdraiata su un letto rosso con le estremità appuntite bordate d’oro. È interamente coperta da un maphorion bordeaux. La parte alta del suo corpo ruota sulla destra, mentre le gambe rimangono ferme: il movimento delicato è creato dalla spalla destra, mentre la mano sinistra appoggiata sotto il mento indica la riflessione sul mistero che sta vivendo. L’espressione del suo volto e i suoi occhi sono velati di tristezza, è come se presagisse che il destino umano del Figlio sarà doloroso. Tra gli elementi che stupiscono maggiormente nelle icone della Natività di Cristo vi è indubbiamente lo sguardo della Madre volto in direzione opposta al Figlio. È un indizio della finalità teologica delle icone che ha come scopo principale la raffigurazione del dogma. L’icona annuncia che l’evento della Natività di Cristo non è meramente umano, pur trattandosi di uno dei momenti più carichi di fragilità e bellezza umana. È il Logos di Dio che si incarna, nascosto in umili fasce, appoggiato su una mangiatoia in pietra, sullo sfondo di una caverna scura. Nella scelta di tali dettagli iconografici vi sarebbe un esatto simbolismo tra le persone, gli oggetti e le circostanze del Natale da un lato, e quelle della morte e della sepoltura dall’altro: «Secondo la tradizione dell’icona, la mangiatoia di pietra della Natività riappare come sarcofago del Cristo, e le fasce come il suo sudario. Il bue significa il sacrificio futuro; l’asino ritorna al momento dell’ingresso in Gerusalemme, dove il sacrificio sarà consumato; il lavacro del Bambino anticipa l’iniziazione battesimale, il cui pieno significato si comprende soltanto nella Risurrezione. La buia caverna della Natività diviene la caverna dell’oltretomba e la montagna, simbolo eminente della Vergine, appare regolarmente nell’icona dell’Anastasis»102. Due gruppi di angeli, collocati sopra la montagna a destra e accanto alla mangiatoia a sini-
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Scuola di Pskov, Museo Russo, San Pietroburgo
Le principali scuole iconografiche russe, Pskov, Novgorod e Mosca, ereditarono i fondamentali tipi iconografici da Bisanzio ma, con il passare dei secoli, l’iconografia russa adattò i modelli originali, inserendo in essi sfumature di colore, addolcendo la ieraticità dei volti, giungendo a creare nuovi tipi, in particolare sotto l’influenza delle innovazioni occidentali introdotte dal Rinascimento. Fino al xvi secolo l’artista russo difese devotamente la tradizione antica: «Per lui l’icona dove essere qualcosa di nobile, librarsi al di sopra della realtà sensoriale, le sue immagini dovevano incarnare gli ideali sublimi di una vita pura e morale»103. L’immagine sacra, sulla scia di quanto definito nel secondo concilio di Nicea, è chiamata a esprimere la teologia e testimoniare in forme e colori il mistero salvifico104. Il dogma della Natività è reso in una precisa realtà e allo stesso tempo astraendolo dal tempo e dallo spazio. Il contenuto dell’icona presenta due aspetti: l’incarnazione del Logos divino e «l’effetto di questo avvenimento sulla vita naturale del mondo creato»105. Nella presentazione di questi due momenti, si avverte una distanza tra terra e cielo, tra la grotta centrale che rappresenta il dogma e racchiude la Theotokos e il Figlio e la montagna che li circonda, animata da diverse scene umane.
Icona, inizio xvi secolo, scuola di Pskov, tempera su tavola, Museo Russo, San Pietroburgo
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san Nicola al centro. I santi conferiscono un tono ancora più solenne alla composizione, in particolare i tre centrali in posizione frontale, barbuti, abbigliati con paramenti solenni. Al centro è raffigurato san Nicola, il cui culto ebbe una diffusione eccezionale nel mondo cristiano, in particolare bizantino-ortodosso ma anche musulmano. La strutturazione dell’icona è interessante, con la montagna rosso scuro all’interno della quale si apre una grotta nera, singoli episodi e varie figure distribuiti tra le fenditure stilizzate della montagna, gli otto angeli sopra la montagna suddivisi equamente a destra e sinistra della stella, i santi sotto la scena principale. La montagna, che termina a forma piramidale, domina tutto lo spazio visivo e si staglia sullo sfondo oro. La scena della Natività, collocata al centro dell’icona, attrae lo sguardo: la Madre e il Figlio sono raffigurati su uno sfondo nero, che rappresenta il mondo terreno, colpito dal peccato. La Vergine indossa una tunica rosso scuro che la copre interamente, con la destra sembra reggere un fazzoletto che porta al viso, entrambe le mani sono coperte. È girata verso sinistra, mentre il Bambino è avvolto in bende in una mangiatoia rosso fuoco dalla forma irregolare e oblunga. Il suo sguardo è rivolto in alto, di fronte a lui un cavallo lo osserva. Attorno al nucleo centrale si snodano episodi avvenuti in momenti temporalmente diversi. Nell’angolo a sinistra in basso, è rappresentato il sogno di Giuseppe, che evoca l’eccezionalità dell’incarnazione di Gesù, che appartiene alla sfera soprannaturale, e i dubbi profondamente umani che attraversarono Giuseppe quando scoprì che Maria era rimasta incinta prima del matrimonio. Giuseppe è disteso su un letto, con una coperta rossa che lo copre fino ai piedi, voltato verso sinistra. Davanti a lui, in piedi, un angelo a figura intera con il braccio sinistro rivolto verso di lui lo incoraggia a fidarsi del piano divino107. Sopra, vi sono i Magi che arrivano alla grotta cavalcando: «È la prima volta che figurano nella
La scuola di Pskov106, pur profondamente radicata nella Tradizione, interpretò spesso in maniera libera i modelli iconografici, come emerge dall’icona della Natività di Cristo conservata al Museo Russo di San Pietroburgo. I Magi raffigurati due volte, Giuseppe nel deserto e il sogno di Giuseppe, i pastori che guardano stupiti la stella e la presenza di cinque santi nella parte inferiore, sono gli elementi originali di tale icona, che appartiene alla corrente arcaica della pittura pskoviana. La composizione è divisa in due registri: in quello superiore vi è la Natività e nel registro inferiore quattro santi (san Clemente, sant’Elia, san Cosma, san Damiano) circondano
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raffigurati rivolti verso destra, con le mani alzate, uno sopra l’altro a scalare, riprende la scena precedente. L’inserimento dell’adorazione dei Magi all’interno dell’icona della Natività testimonia la concezione unitaria degli Orienti cristiani rispetto all’unità del mistero dell’incarnazione e dell’epifania di Cristo, manifestazione del Salvatore alle nazioni, celebrato liturgicamente per svariati secoli il giorno della Natività di Gesù.
pittura russa antica i nomi apocrifi (leggermente deformati) dei re Magi»108. Gaspare, in primo piano, monta un cavallo nero, riccamente rivestito di briglie e di guarnizioni rosse; Baldassarre, in centro, monta un cavallo bianco seminascosto. Il cavallo di Melchiorre non è raffigurato. Ciascuno dei tre Magi ha un braccio levato in direzione della stella. Le iscrizioni in slavo sopra le rispettive teste confermano la diffusione in terra russa delle leggende che nei secoli si moltiplicarono attorno ai Magi e l’attribuzione dei rispettivi nomi, sostanzialmente accolti dal Liber Pontificalis in poi. Mentre i Magi a cavallo sono raggruppati in un’unica scena, i pastori sono presenti in ordine sparso. A sinistra dei Magi, un pastore è seduto: la direzione verso cui è rivolto è anomala, opposta alla scena della Natività. Ricoperto di una tunica di pelli verde, ha un cappello rosso; con la sinistra regge un bastone e alza la destra in segno di stupore. Due altri pastori sono collocati nella parte destra dell’icona entrambi vestiti di rosso. Nell’angolo destro tra la Madre che riceve la visita di adorazione dei Magi e Giuseppe pensieroso, un pastore suona uno strumento a fiato, mentre un terzo pastore, l’ultimo della fila destra degli angeli sopra la montagna, con la mano indica la stella mentre il suo viso è piegato verso il compagno. Sotto la grotta della Natività, vi è la scena del bagno del Bambino, rielaborata nei gesti delle donne: quella in piedi con il capo totalmente coperto dalla tunica che indossa versa dell’acqua da un vaso dalla forma allungata. Salomè invece è seduta accanto a un recipiente rosso su due piani, in cui posa la mano destra per controllare la temperatura dell’acqua. Ha sulle gambe Gesù nudo il cui capo è circondato da un nimbo di proporzioni significative. Nella scena in basso a destra, riappaiono i Magi nell’atto di offrire doni alla Madre raffigurata su un trono con il Bambino in braccio. Lo schema compositivo dei Magi
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Federico Barocci, Museo del Prado, Madrid
Federico Barocci, nato a Urbino nel 1535 da una famiglia lombarda, è tra i principali rappresentanti del manierismo, tra Correggio e Caravaggio, nel periodo della Controriforma. La sua fu una carriera rapida e brillante, ispirata da Raffaello e ammirata da Michelangelo. Un personaggio chiave per la sua carriera fu san Filippo Neri che gli comandò una Visitazione per la chiesa di Santa Maria in Vallicella, di fronte alla quale si racconta che il santo fu trasportato in estasi. La sua cagionevole salute non gli permise che di lavorare qualche ora al giorno, al punto che, dopo un soggiorno romano, ritornò a Urbino nel 1565 quasi in esilio volontario. Il suo stato di salute non fermò però le numerose richieste dei suoi estimatori. Di Barocci si conservano circa duemila disegni, un numero molto più alto di tutti gli artisti a lui coevi. L’essenziale delle sue opere è di carattere religioso, volto a rendere sensibili alla presenza di Dio nel mondo visibile. La sua popolarità è legata alla sua abilità compositiva e al modo emotivo con cui tratta la luce, elemento che potrebbe aver influenzato Rubens. La Natività ne è un esempio insigne109. L’artista gioca il contrasto tra la stalla buia, una vera e propria stalla con le sue pietre vive, senza finestre né altre sorgenti di luce naturale, con il suo spazio per la paglia. In alto si intravede la rastrelliera
Federico Barocci, La Natività, 1597, olio su tela, 134 × 105 cm, Museo del Prado, Madrid
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popolo tra i prodigi, il Sovrano, riducendo un tempo a terra asciutta l’umida onda del mare. Ma nascendo volontariamente dalla Vergine apre per noi un sentiero praticabile per i cieli»110. L’opera fu realizzata su richiesta di Francesco Maria ii della Rovere (1549-1631), condottiero e duca di Urbino, che la donò nel 1605 a Margherita d’Austria-Stiria, la moglie di Filippo ii, re di Spagna. La sua presenza è documentata all’Escorial nel 1787, in seguito passò nel Palazzo Reale e infine al Prado. Lo splendore dei colori e la soavità della scena impreziosiscono la composizione, studiata per essere una chiara rappresentazione dell’evento miracoloso della Nascita di Cristo. Barocci realizza questo lavoro in linea con le tendenze dell’arte della Controriforma, ossia nessun eccesso nella decorazione, composizioni semplici, interni spogli, luce emotiva che concentra l’attenzione sui sentimenti e volontà di creare immagini didattiche e in grado di comunicare direttamente allo spettatore il messaggio cristiano.
nità non è banale. Un cambiamento notevole è sopravvenuto nell’arte: esso riguarda l’atteggiamento di Maria, in questa scena, verso il Bambino. Infatti, ella è davvero ancora inginocchiata come nelle opere medioevali di fronte a suo Figlio? Non è più sicuro. Ciò che è certo, al contrario, è che il suo gesto non è più quello dell’adorazione a mani giunte: ella allarga le braccia, esprimendo accoglienza, ammirazione, stupore meravigliato, la gratitudine verso il cielo. Possiamo immaginare che la Madre reciti silenziosamente il Magnificat. Giuseppe emerge appena nella penombra, con il mantello che cattura la luce. È girato di spalle e si dirige rapidamente, testimone stupito della Natività, verso i pastori, ancora sulla soglia della stalla, per accoglierli e indicare con il braccio teso il Bambino pregandoli di entrare. È come se Giuseppe, erede della casa di Davide, si facesse garante della protezione e vicinanza di Dio al suo popolo che culmina nell’incarnazione di Cristo, come proclama la liturgia: «Ha salvato il suo
obbliga – non è dotato di nimbo, assenza piuttosto rara, sostituita dalla luce che emana. Ha il viso rivolto verso la Madre in un gioco di sguardi che è il vero centro della composizione e del messaggio del quadro. Lo sguardo di Maria è colmo di tenerezza per il piccolo. La sua silhouette elegante, i suoi vestiti raffinati, il velo trasparente sulla testa e sulle spalle, la cura della sua capigliatura, la delicatezza del suo gesto contrastano con la povertà del luogo. La precarietà delle condizioni dove si svolge la nascita di Gesù non diminuisce la nobiltà che emana dalla coppia Madre-Figlio. Si direbbe anzi che si trasmetta al bue e all’asino la cui solen-
con il fieno e di lato, appena sfiorati dalla luce, le teste del bue e dell’asino; in basso a sinistra, un sacco con del pane poggiato contro un gradino su cui è posto un cesto, una piccola natura morta che costruisce un contesto dimesso e semplice. Da Gesù emanano dei raggi soprannaturali: egli è sdraiato sotto il bue e l’asino saggiamente disposti e pronti a riscaldarlo con i rispettivi soffi. Il Bambino non è più per terra ma nella mangiatoia: da lui proviene la luce, da chi potrà definirsi «la luce del mondo» (Gv 8,12). Maria ne è totalmente illuminata, al pari della schiena di Giuseppe e delle teste del bue e dell’asino. Il Bambino – il realismo
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Georges de La Tour, Museo di Belle Arti, Rennes
Questo artista loreno, innamorato del gioco tra luci e ombre, virtuoso del chiaroscuro, si situa alla confluenza tra pittori fiamminghi, francesi e italiani. Nato a Vic-sur-Seille nel 1593, dell’inizio della sua carriera non si hanno notizie certe. Probabilmente incontrò pittori quali Gerrit van Honthorst e Hendrick Terbrugghen in occasione di un viaggio a Utrecht nel 1616. Si racconta, benché non vi siano prove indiscutibili, che si recò a Roma dove avrebbe scoperto l’opera di Caravaggio. Dopo il suo matrimonio con una giovane della nobiltà di Lunéville, La Tour si stabilì in quella città in cui cominciò una brillante carriera. La Guerra dei Trent’anni lo obbligò a fuggire con la sua famiglia prima a Nancy poi a Parigi dove ricevette nel 1630 il titolo di pittore del re, da parte di Luigi xiii. I dipinti della fine della sua vita rappresentano esclusivamente scene religiose. Celebre durante la vita, l’opera di La Tour fu dimenticata dopo la morte nel 1652 al punto che le sue opere furono disperse e attribuite ben presto ad altri artisti, italiani, olandesi o spagnoli, assegnazioni facilitate dal fatto che La Tour firmò raramente le sue opere. È quanto accade al dipinto che commentiamo, Le Nouveauné, che fu attribuito rispettivamente a Le Nain, Rembrandt, Vermeer o ancora a un caravaggista anonimo, persino a Quentin de La Tour,
Georges de La Tour, Le Nouveauné, 1648 circa, olio su tela, 76 × 81 cm, Museo delle Belle Arti, Rennes
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bergers113, in cui i pastori sono facilmente identificabili, e dall’altra parte La Tour abbandona la vena esplorata negli anni segnati dalla linea caravaggesca, ossia quella della farsa popolare, di un “realismo sarcastico” che si compiaceva di raffigurare povera gente in brutti luoghi, come si vede nella tavola La Rixe des musiciens del Getty Museum di Los Angeles o Le Veilleur di Nantes. Le Nouveauné, al contrario, bandisce ogni scherno e ogni bruttezza; la notte e il chiaroscuro sono al servizio non più delle tenebre ma del mistero. Gli occhi della Madre e della serva sono abbassati, rivolti verso il nuovo nato, il cui viso sembra di porcellana. La luce che illumina la scena valorizza il volto del Bambino, avvolto in strette fasce. È precisamente questo contrasto che gioca a favore della sua interpretazione come Natività di Cristo. Dolcezza, pace, pienezza silenziosa: è il clima in cui La Tour ha saputo sviluppare la nascita del Salvatore, di notte, in tutta discrezione, senza spettacolarizzazione.
ricorre alla gestualità impressionante delle figure e, in generale, i segni e le attribuzioni tradizionali della pittura religiosa sono congedati. In questa tela né la Madre né il Bambino sono nimbati, per non parlare dell’assenza di Giuseppe, del bue e dell’asino, della stalla e della stella. Ci si può quindi legittimamente chiedere se non si tratti più semplicemente di una scena generale, di un’apertura su uno spaccato di vita quotidiana che la pittura fiamminga dell’epoca amava. Le Nouveauné, con le due donne che sono raffigurate, sembrerebbe dunque illustrare una nascita ordinaria, di un neonato qualunque, e non quella di Gesù Cristo. Ma gli specialisti sono sostanzialmente concordi che l’ipotesi di una pittura generalista sia da rifiutare «per la densità simbolica e la gravità quasi liturgica del gesto della serva»112. In tal senso, questo dipinto rompe chiaramente da una parte con uno schema di composizione e un clima generalmente meno enigmatico come si può osservare nell’opera anteriore Adoration des
benché sia nato un secolo dopo. Fu soltanto nel xx secolo che la sua opera fu progressivamente riscoperta. All’inizio grazie allo storico dell’arte tedesco Hermann Voss (1884-1969) che ridonò all’autore la paternità del quadro Le Nouveauné, poi François-Georges Pariset gli dedicò il lavoro di Dottorato nel 1948 e dal quel momento La Tour iniziò a essere riscoperto, studiato e valorizzato. I lavori sulla sua opera si sono moltiplicati e gli furono attribuite un centinaio di opere di cui solo una quarantina ci sono pervenute. La
sua città natale, Vic-sur-Seille, gli ha dedicato un museo. In merito al quadro in questione è lecito chiedersi se si tratti davvero di un Nuovo Nato o di una Natività di Cristo. Come ha notato André Chastel «è singolare che non si conoscano dei dipinti religiosi normali, se così si può dire, di Georges de La Tour. Le Nouveauné elude la scena della Natività»111. La elude o meglio la riduce all’essenziale. Contrariamente all’abitudine di Caravaggio, le pitture religiose di La Tour non raffigurano effetti drammatici o teatrali né egli
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Giovanni Battista Pittoni, National Gallery, Londra
Giovanni Battista Pittoni (1687-1767) nacque in una famiglia di pittori a Venezia, dove passò tutta la vita. Fu formato dallo zio, Francesco Pittoni, e influenzato dai maestri dell’epoca, tra cui Gianbattista Tiepolo, Giovanni Battista Piazzetta, Sebastiano Ricci e Antonio Balestra. Fu grazie a quest’ultimo, pittore e incisore italiano particolarmente attivo in quell’epoca sia a Venezia sia a Verona, che Pittoni conobbe l’arte barocca: nelle sue prime opere, infatti, l’influenza di quella corrente culturale e artistica fu prominente, ma già si intravedeva nelle sue opere uno stile particolare, dove la ricerca del colore e dei particolari si fondevano alla perfezione. I suoi dipinti dunque, inizialmente tipici dello stile rococò, si trasformarono con il tempo in chiave neoclassicista. I suoi soggetti privilegiati furono sia biblici (Il sacrificio di Abramo, Agar nel deserto, Susanna e gli anziani) sia cristiani (L’annunciazione, soggetto trattato svariate volte, al pari della Natività di Cristo) e anche storici (La morte di Scipione) e mitologici (Marte e Venere). Nel 1730 il pittore lavorò, insieme ad altri artisti del suo tempo come Canaletto, a un ciclo di opere molto più corposo, che gli fu commissionato dalle corti europee, ossia le rappresentazioni di alcuni uomini appartenenti alla storia britannica. La sua celebrità crebbe fino alla nomina a presidente dell’Accademia di Belle
Giovanni Battista Pittoni, 1740 circa, 222,7 × 153,5 cm, olio su tela, National Gallery, Londra
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favorire lo scambio di sguardi, l’intimo dialogo tra Gesù e il Padre. Contemplando questo dipinto si pensa ad alcuni versetti della “preghiera sacerdotale” di Gesù nel vangelo di Giovanni, per esempio quando Tommaso chiede a Cristo di mostrargli il Padre e lui risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?» (Gv. 14, 9-10); oppure quando, parlando di se stesso, Gesù dice: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre» (Gv. 16, 28). Non è vietato osare immaginare che il Bambino Gesù, come dipinto da Pittoni e nella concezione che se ne fecero il pittore e i contemporanei, sapesse pregare già nel momento della sua nascita: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv. 17, 21).
sinistra del Salvator mundi, ossia l’immagine di Dio creatore e Salvatore della totalità dell’universo creato. Generalmente ha un diametro molto più ridotto: in questo dipinto ha delle dimensioni che non erano ancora diffuse nella storia dell’arte cristiana. Sottolinea in modo enfatico la sovranità di Dio sul cosmo e sull’intera creazione. Pittoni, riunendo in un unico spazio abitativo la Trinità e la Santa Famiglia (la “Trinità sulla terra” come osò definirla san Francesco di Sales) pose l’accento sulla portata universale della Nascita di Cristo. Lo Spirito Santo non è inattivo: attraverso l’intermediazione del suo simbolo tradizionale, la colomba, adombra il nuovo nato e dal suo becco discende su di lui un raggio che ha valore di un’unzione. Il Bambino Gesù è dipinto in modo singolare, di spalle: lo scopo non è né che volga le spalle allo spettatore né di agevolare la Madre inginocchiata, che ha una mano sul lenzuolo bianco e un’altra sul petto. Il pittore desidera molto probabilmente Arti nel 1758. Sul tema della Natività di Cristo, Pittoni realizzò due dipinti. Quello conservato al Museo di Belle Arti di Quimper, di grandezza media (74 × 56 cm), che è costruito secondo una doppia linea diagonale discendente che enfatizza l’incarnazione e la discesa del Verbo di Dio sulla terra. La Sacra Famiglia è in una stalla ma senza gli animali tradizionali; sopra una nube teofania quattro angioletti nudi, come il Bambino Gesù, lo contemplano mentre compiono delle giravolte; Maria tiene delicatamente il Figlio in un lenzuolo bianco, mentre Giuseppe, molto più anziano, si riposa accanto a lei guardando preoccupato il Bambino. La Natività conservata alla National Gallery di Londra114 è una grande tavola indubbiamente concepita come pala d’altare. Dal punto di vista artistico, il pittore riuscì in quegli anni a essere più deciso nell’uso dei colori e del chiaroscuro. Incastrata nell’angolo inferiore sinistro, la silhouette di san Giuseppe contrasta con la parte illuminata della scena. Questa è costituita da una parte dal
gruppo della Vergine e il Bambino sdraiato su un lenzuolo steso sulla paglia e dall’altra parte da una potente apparizione di Dio Padre accompagnato da sette angeli, tra cui diverse categorie di putti e un angelo di dimensioni maggiori che tiene uno dei lembi del mantello blu in cui Dio il Padre è avvolto e che sembra sollevato dal vento. Pittoni utilizza un vero e proprio tropo pitturale già usato da Filippo Lippi (cfr. fig. 23) e molto alla moda da Raffaello in avanti: si tratta di un vegliardo con barba e abbondante capigliatura, piegato con sollecitudine ma non senza autorità sul Figlio incarnato. Con la mano destra compie un gesto sia di invio in missione sia di protezione e consacrazione: questo gesto ricorda l’imposizione delle mani nella cerimonia di ordinazione sacerdotale. La mano sinistra di Dio riposa su un’immensa sfera perfettamente liscia, con un colore che evoca l’oceano. Non si tratta del globo terrestre, come si potrebbe erroneamente supporre, bensì del simbolo convenzionale della sfera del mondo, la sphaera mundi, posta tradizionalmente nella mano
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Icona russa, Gallerie d’Italia, Palazzo Leone Montanari
La raffigurazione tradizionale della Natività di Cristo, fino al xvi secolo, conservò lo schema con la Vergine distesa o semisdraiata su un giaciglio accanto a Gesù avvolto in fasce, spesso collocati all’interno dell’antro di una montagna con Giuseppe isolato, in un angolo spostato rispetto alla scena principale. Dal xvii secolo apparvero icone con la Madre seduta accanto alla mangiatoia e Giuseppe vicino a lei. Queste icone, accanto ad altri modelli iconografici, rivelano il fascino e l’influenza che i canoni occidentali dal Rinascimento in poi suscitarono sull’iconografia russa115. Le dispute teologiche che riguardavano l’iconografia della Trinità e la raffigurazione antropomorfa di Dio Padre furono regolate ufficialmente dal sinodo dei Cento Capitoli del 1551 e dal Grande Concilio di Mosca nel 1666-1667. Nonostante le decisioni conciliari, molti iconografi continuarono a rielaborare i modelli occidentali e a tradurli nel linguaggio figurativo delle icone116 al punto che Pietro il Grande, nel 1707, separò la pittura d’icone dall’arte profana per evitare di far intraprendere agli iconografi la via di un confronto con i modelli occidentali. Tale scelta però «condannò la pittura di icone al provincialismo, privando l’iconografia di nuovi impulsi e nuove idee»117; sorsero svariate discussioni tra i teologi e numerosi fenomeni di crisi. La tendenza iconografica successiva
Icona, prima metà xviii secolo, tempera su tavola, 67 × 54,6 cm, Russia centrale, Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari, Vicenza
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salvezza. Gli angeli sulla destra sono inginocchiati e con entrambe le mani indicano Gesù; i loro occhi sono rivolti alla Madre, ma non incontrano il suo sguardo che è abbassato. In cielo è dipinto un angelo in volo con in mano un rotolo, il cui testo è consumato e ormai illeggibile. Si rivolge a due pastori che sembrano parlare tra loro della stella che indicano con le mani. Questa è dipinta al centro della composizione in alto; da essa emanano dei raggi che giungono fino alla montagna. La scelta compositiva svela un’attenzione alla dimensione umana dell’avvenimento raffigurato: indubbiamente è salvaguardata la solennità della scena, alcuni elementi rimandano all’origine divina della nascita di Cristo ma si perde la restituzione precisa in forme e colori del dogma dell’incarnazione che lo schema compositivo antico custodiva. Il Bambino con il nimbo, adagiato su una mangiatoia, resta il Logos di Dio fatto uomo, che gli angeli adorano e la stella indica, ma ora è circondato dalla tenerezza di genitori premurosi che lo rende profondamente uomo.
tunica verde di cui si vedono solo i lembi, sopra polene rosse. Ha il capo inclinato verso il Figlio, ma il suo sguardo sembra rivolto lontano; la mano destra è appoggiata su un ginocchio e la sinistra sollevata al mento. Sul capo e sulle spalle sono disegnate le tre stelle che rimandano al prodigio della verginità permanente, prima, durante e dopo il parto. La Madre ha una posa più umana rispetto all’iconografia classica ma resta la Theotokos, con lo sguardo concentrato fissa il Figlio e riflette sul mistero di cui è protagonista. Giuseppe partecipa alla scena: la sua figura è la più “rivoluzionaria”. Non più seduto con la mano sotto il mento attraversato dai dubbi circa il senso e le modalità di tale nascita ma in piedi in posizione protettiva nei confronti della famiglia che gli è stata affidata. Veste una tunica rossa, ricoperta da un manto verde. È chinato verso il Bambino che indica con la destra, mentre nella sinistra tiene un piccolo cartiglio arrotolato. Vestito elegantemente, con i piedi nudi, il capo nimbato, dettagli che lo rendono un personaggio centrale nella storia della cercò di imitare il realismo, il rilievo e la voluminosità della pittura occidentale. L’eleganza dei movimenti diventò più importante del simbolo reale che le icone raggiungevano grazie alla loro essenzialità. Per i fedeli, però, l’icona rimase sempre conduttrice di energie divine, presenza misteriosa della persona raffigurata, via verso il mondo ultraterreno. La tavola della Natività composta probabilmente nella Russia centrale nella prima metà del xviii secolo118, pur avendo subito danni dovuti a maldestri restauri, svela un equilibrio tra la tradizione e la nuova tendenza narrativa-didattica. Il punto centrale della scena è il Bambino, avvolto in strette fasce, su una mangiatoia realistica con base in legno e coperta di paglia. Il simbolo del sepolcro scompare e il legame con il sacrificio pasquale è suggerito solo dalle bende. Gesù è il fulcro dell’attenzione: a livello compositivo
Madre e Giuseppe lo incorniciano a sinistra e gli angeli adoranti sulla destra. Dietro di lui vi è un muro con la parte centrale parzialmente crollata e il tetto ricoperto di paglia. In secondo piano sono visibili delle montagne a gradinate, le cui cime sono allineate. C’è un attento gioco nel rappresentare i gradini più larghi delle montagne di destra per fare apparire più lontane quelle di sinistra. Verosimilmente la tavola fu parte di un’iconostasi: il suo inserimento all’interno del ciclo delle dodici feste spiegherebbe la ricerca di una resa compositiva semplice, facilmente leggibile a distanza, con un cromatismo generale scuro che fa risaltare le fasce candide del Bambino e fissa l’attenzione sull’avvenimento principale. Abbandonato lo schema tradizionale della Natività di Cristo, l’iconografo pone vicini la Madre e Giuseppe, rivolti verso Gesù. Maria è seduta, avvolta da un maphorion arancione che copre una
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Jean-Léon Gérôme, Museo d’Orsay, Parigi Jean-Léon Gérôme, Nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, 1855, olio su tela, 620 × 1015 cm, Museo d’Orsay, Parigi (depositato ad Amiens, museo della Piccardia)
Questa tela monumentale fu commissionata dallo Stato francese, nel 1852, a Jean-Léon Gérôme (1824-1904), per l’Esposizione Universale del 1855 (la firma in basso a sinistra ne riporta la data). Il governo dell’epoca era intenzionato a fornire una migliore immagine del Secondo Impero, che sostituì la Repubblica dopo il colpo di stato di Napoleone iii il 2 dicembre 1851. Gérôme impiegò tre anni per completare questo lavoro, dato che non sorprende quando si conta il numero di personaggi che compongono l’imponente scena e l’estrema diversità degli stessi, dettagliata in modo estremamente erudito. Sostenitore del rigore e preoccupato della plausibilità antropologica, il pittore chiese e ottenne un anticipo di 5.000 franchi per finanziare un viaggio nell’Europa orientale, durante il quale svolse ricerche etnografiche per questo dipinto. Produsse molti disegni preparatori, alcuni dei quali sono conservati al Rolin Museum di Autun, al Cambridge Museum e al Vesoul Art Museum. Pittore e scultore, Gérôme si oppose al movimento impressionista iniziato da Monet e Manet continuando il neoclassicismo francese. Le sue opere sono principalmente di tema storico, mitologico e orientalistico portando la tradizione dell’Impero francese a un climax. Dopo l’Esposizione universale del 1855 e il Salon del 1857,
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diversi gruppi: indiani a cavallo di un elefante, i Parti che riportano ad Augusto le insegne romane perse da Crasso nella battaglia di Carrhes, un barbaro del Nord ricoperto di pelli di animali, una madre e i suoi figli. A sinistra, due uomini portano dei prigionieri tirandoli per i capelli. Un re orientale è sorretto da due schiavi, un giovane ragazzo nero con in mano uno scudo e una donna quasi nuda. Sul lato opposto, un gruppo con l’elefante e giovani arabi e africani a dorso di cammello. In primo piano, al centro della tavola è raffigurata la nascita di Gesù. Il neonato, scintillante di luce sul suo letto di paglia, Maria e Giuseppe inginocchiati con le mani unite in preghiera, sono separati dalla folla dalle ali protettive di un angelo che verifica quanto accade dietro di lui e protegge la Santa Famiglia che sembra non essere disturbata da tanto fragore. Il Natale è posto al centro di una turbolenta storia politica, complessa al punto da risultare quasi confusa, in contrasto con il misterioso segreto della nascita del Figlio di Dio. Ignorato dai tanti personaggi che popolano la scena, tale evento è invece destinato, nella prospettiva del pittore, a cambiare il corso della storia umana.
la fama di Gérôme aumentò molto. Per quanto riguarda il concetto centrale che governa la formidabile composizione sinfonica della Nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, Gérôme si è ispirato a un passaggio del Discorso sulla storia universale di Jacques-Bénigne Bossuet del 1681, sull’istituzione della Pax Romana da parte dell’imperatore Augusto, e la nascita di Gesù Cristo. Il dipinto risulta quindi essere un riassunto allegorico dei principali eventi che segnarono il regno di questo imperatore romano, dal 27 a.C. al 14 d.C. Per quanto riguarda lo schema compositivo, il dipinto si ispira esplicitamente all’Apoteosi di Omero di Ingres. È organizzato attorno al personaggio di Augusto, dipinto nella parte superiore, sullo sfondo del tempio di Giano. È seduto tra una fitta assemblea di cortigiani e ufficiali di stato, su un trono installato sopra un piedistallo di pietra, su cui è incisa in capitello un’iscrizione latina in suo onore. Augusto è deificato come Giove Capitolino, accanto a una piccola statua di Giove stesso. Tiene lo scettro del mondo nella mano sinistra e con la destra poggia sulla spalla di una giovane donna in piedi appoggiata alla piattaforma, vestita di una clamide rossa, che porta una lancia e uno scudo: si tratta della personificazione di Roma. Ai piedi di Augusto, sulla sua sinistra, vi è l’aquila imperiale con le ali sapientemente piegate… dignité oblige. L’iscrizione sullo zoccolo è dedicata alla gloria di Augusto ed elenca le province conquistate e pacificate: César Auguste, imperator victor canabrorum, astum, Pathorum, Raethonum et Indunum, germaniae, pannoniae, domitor pacificator orbis, pater patriae, pater patriae. A destra, in cima alla scalinata, Cesare, vestito di blu, è rappresentato morto, mentre Bruto e Cassio si allontanano scendendo le scale. Nella parte inferiore del dipinto, molte popolazioni si riuniscono per rendere omaggio al nuovo imperatore e sottomettersi alla Pax Romana. Il lato destro del dipinto presenta
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Maurice Denis, Museo degli Agostiniani, Tolosa
Maurice Denis (1870-1943) frequentò la maggior parte dei grandi pittori del suo tempo. Paul Gauguin, ovviamente, ma anche Édouard Vuillard, Paul Sérusier e Ker-Xavier Roussel. Pittore, spesso di soggetti religiosi, fu anche decoratore, incisore, teorico e storico dell’arte. Maurice Denis studiò contemporaneamente all’École des Beaux-Arts e all’Académie Julian nel 1888, ma abbandonò rapidamente la prima, giudicandola troppo accademica. Nello stesso anno conobbe Paul Sérusier, che gli offrì il suo dipinto Le Talisman (Museo d’Orsay, Parigi), dipinto sotto la direzione di Paul Gauguin. Con quest’ultimo fondò i Nabis, un gruppo di giovani pittori appassionati d’esoterismo e spiritualità. Delle loro riunioni, Denis apprezzò in modo particolare il clima mistico, il gergo esoterico e il soprannome che ogni pittore ricevette dal gruppo: egli fu soprannominato “il Nabi dalle belle immagini”. A lui dobbiamo una frase che è rimasta famosa, e che divenne una sorta di professione di fede nell’estetica nabi, spesso interpretata come intuizione di cosa sarà l’astrazione: «Ricordarsi che un dipinto, prima di essere un cavallo in battaglia, una donna nuda o un qualsiasi soggetto, è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori assemblati secondo un certo ordine». Al di là dell’opera di Denis, questa frase rimarrà come
Maurice Denis (1870-1943), La Natività di Fourqueux, 1894, olio su tela, 89 × 95 cm, Museo degli Agostiniani, Tolosa
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Si tratta davvero di una Natività di Cristo? Indubbiamente e non solo per il titolo che Maurice Denis attribuì a questo dipinto, ma perché non ha omesso nulla dai riferimenti presenti nelle Scritture riguardo a questo episodio: la stella è presente, microscopica tra le nuvole ma c’è, al pari delle pecore, i pastori, che rispondono presente, fino alla luce che illumina il piccolo e che non viene solo dalla lanterna, ma che richiama il nimbo di Gesù Bambino. Soprattutto, il pittore ha moltiplicato i segni della tradizione pittorica della Natività, quelli che generalmente troviamo nell’arte del Rinascimento. Il rosso intorno al cuscino annuncia la futura Passione di Cristo, il muro fatiscente sulla destra simboleggia la fine del vecchio mondo e la città addormentata sullo sfondo non ha ancora consapevolezza della redenzione che sta arrivando. Non c’è da stupirsi di tali scelte: furono le opere di Beato Angelico, che Maurice Denis scoprì al Louvre durante la sua formazione, a determinare la sua vocazione di pittore cristiano. È dunque la Natività che qui è rappresentata, e con il marchio del gruppo dei nabis. Nabi è un termine ebraico che può essere tradotto con “colui che è ispirato da Dio”: questi pittori, alla ricerca di percorsi spirituali, cristiani o no, rivendicavano un ruolo sacro per l’arte. Questo Natale è lontano dal rumore diurno e dalla luce accecante. Ci riporta all’infanzia. La nascita di un nuovo mondo, radicato nei secoli passati e reso presente in un mondo urbano vicino a quello della maggior parte dei nostri contemporanei.
una delle prime definizioni di arte moderna, poiché esprime in modo eloquente il desiderio di quest’arte e dell’arte moderna in generale di liberarsi dal diktat della rappresentazione mimetica e soprattutto per dimostrare la propria libertà creativa. I temi della sua pittura, di carattere religioso o situazioni della vita quotidiana, sono espressi in una dimensione ideale e irreale, in un’atmosfera di calda e serena intimità, ottenuta con un tratto estremamente delicato. Questa Natività è un’invenzione originale e audace. Un’immensa apertura, al piano terra di una casa, permette di vedere, alla luce di una lanterna, una famiglia, contemplata dall’esterno da sei pecore sapientemente allineate sulla soglia, quasi in preghiera, e che sembrano osservare attentamente una cavalla con il suo puledro. La donna ha appena partorito, è sdraiata su un letto di paglia sotto una coperta vicino al suo bambino, mentre il padre, o almeno un uomo che ne fa le veci, si china su di loro e porta una ciotola preparata per sostenerla. Un asino e un bue vegliano dietro di loro con una terza bestia difficile da identificare. Si potrebbe pensare a una scena vista da un bambino tanto è ingenua. È esattamente ciò la rende bella, carica di un potere evocativo. Al piano superiore, addossate alla finestra, una donna e sua madre... L’edificio è abitato, la stalla della secolare tradizione pittorica è trascurata per suggerire un evento che sarebbe potuto accadere il giorno prima e tra noi, anche se l’enorme ruota della carrozza appoggiata al muro rinvia a un’altra epoca, per renderla contemporanea ci sarebbe dovuto essere un pneumatico. Questa Sacra Famiglia si trova infatti in un ambiente che rievoca molto di più la periferia di una città moderna rispetto a Betlemme di oltre duemila anni fa. Gli umili muri di mattoni, i vestiti degli abitanti alla finestra, la presenza di edifici sullo sfondo rimandano alla nascita di qualsiasi bambino povero nel mondo contemporaneo.
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Fritz von Uhde, collezione privata Fritz von Uhde, olio su tela, 1911, 82,5 × 100,5 cm, collezione privata119
Fritz Hermann Carl Uhde120 (1848-1911) fu un pittore tedesco che si dedicò soprattutto alla pittura di genere e alla pittura religiosa, con uno stile che spaziò dal realismo all’impressionismo. Il suo percorso si svolse sostanzialmente in Germania e non fece mai un soggiorno in Italia, tappa quasi obbligata per i pittori d’Oltralpe. Ammesso all’Accademia di Dresda nel 1866, la lasciò in disaccordo con lo spirito che vi regnava e divenne professore d’equitazione per un decennio. Dal 1877 fu all’Accademia di Belle Arti di Monaco, poi nel 1879 a Parigi. Il soggiorno in Olanda nel 1882 rappresentò il punto di svolta del suo stile pittorico: abbandonò, infatti, il chiaroscuro per convertirsi al colorismo alla francese. Nel 1890 fu nominato professore all’Accademia di Belle Arti di Monaco, dove divenne una delle figure chiavi della «Secessione berlinese» con Lovis Corinth. A causa della sua maniera assolutamente originale, giudicata eccessivamente décalée, in anticipo sui tempi, le sue opere furono contestate. Effettivamente era solito rappresentare i soggetti biblici in maniera audacemente realistica, “de-idealizzandoli” e trasportandoli nell’attualità sociale della rivoluzione industriale, concretamente nella vita degli operai (contadini o minatori) della Germania nei dintorni di Lipsia, Dresda e Monaco. Non fu il solo all’epoca: Max Lieber-
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mann121, di cui Uhde dipinse il ritratto, adottò il medesimo criterio ma Uhde si spinse più lontano trasponendo alcune scene del ciclo dell’infanzia di Cristo fino a reinventarle, come nell’opera Schwerer Gang (“Duro cammino”) del 1890 che presenta di schiena la coppia Maria-Giuseppe, in un paesaggio immerso nella nebbia, con Giuseppe che sostiene Maria. Il pittore immaginò inoltre
delle scene fittizie e strazianti tra cui L’ultima cena del 1886, in cui il cenacolo è il cuore di una casa tedesca e i dodici apostoli degli operai e dei coltivatori piuttosto frustrati, e nella tela Lasset die Kinderlein zu mir kommen (“Che i piccoli vengano a me”) del 1884, conservata a Lipsia, collocò la scena nella stanza di una scuola di un villaggio con un caminetto.
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su una stoffa, girato verso la Madre, non fa nulla. Le sue piccole mani sono state rese con delicatezza e non compiono nessuno dei gesti pii che troppo spesso gli sono stati attribuiti dai pittori che ne sottovalutano l’infanzia123. Ciò che domina – giustamente – nell’arte religiosa di Uhde è la semplicità e la correttezza del suo sguardo, frutto di un’osservazione attenta degli atteggiamenti degli infanti. Nulla è forzato, nulla artificiale, e questo aiuta a percepire l’emozione che il pittore avvertì nell’immaginare e ricreare comportamenti simili studiati prima di realizzare il quadro. Benché tutte le solennità siano congedate, al pari degli attributi tradizionali dei protagonisti della scena (specialmente i nimbi) come alcuni personaggi (sono rare le Natività senza asino e bue né angeli né pastori), il sacro resta presente. Uhde fu capace di coniugare, come pochi artisti seppero fare prima di lui tranne probabilmente Georges de La Tour (cfr. fig. 29), il senso religioso e la semplicità, quella vera, non quella posata ma spontanea, che non diventa uno spettacolo anche se è resa perfettamente come in questo dipinto. Una tale opera non resta inascoltata in particolare se comparata retrospettivamente a dipinti sul medesimo soggetto, spesso non convincenti per la loro inutile solennità o il loro esagerato sentimentalismo.
Un caso simile è la Natività, realizzata lo stesso anno della sua morte. Fu preceduta da opere del medesimo soggetto, come Stille Nacht, heilige Nacht, una tela del 1903 che manifesta un talento esemplare nell’attualizzazione dei soggetti religiosi trattati, e da un trittico del 1888-1889 conservato a Dresda122. Uno schizzo preparatorio della tavola che qui commentiamo del 1893 è conservato nelle Städtische Kunstsammlungen di Chemnitz. Nel dipinto del 1911, la nascita di Gesù a Betlemme nel 6 circa d.C. fu trasportata da Uhde all’interno di una stalla del xx secolo. Visibilmente i genitori di Gesù non sono a casa ma in viaggio, “accampati” in qualche modo con mezzi di fortuna. Non si vede il biberon: il nuovo nato sarà nutrito con un cucchiaio. Giuseppe si attiva, si piega, appoggiandosi con la mano sul ginocchio sinistro per alleviare la schiena, verso la carriola che ha rivoltato per farne un solido supporto e istallarvi sul fondo una stufa su cui riscalda una minestra, mescolandola con un’asta che assomiglia a un pennello. Indossa pantaloni e, sulle spalle, una giacca. La barba grigia tradisce la differenza d’età con la sua sposa e gli dona un’allure da intellettuale; il modo in cui la sua barba è tagliata non doveva essere peraltro comune all’epoca di Gesù di Nazareth. La giovane madre è sdraiata sul lato, davanti a un mobile, se si può definirlo tale, su cui è posto un mastello, accanto a una bacinella che a sua volta è posata su un immenso recipiente. Il decoro non è quello di una grotta tipica né quello di un interno fiammingo impeccabilmente pulito. Si potrebbe definire un ambiente rustico… Maria è avvolta in una coperta e indossa una camicia bianca. Parlare del mobile sotto di lei come di un letto sarebbe troppo. Ha delle lunghe trecce, simili a quelle che portarono un numero elevato di donne tedesche coeve al pittore. Le sue mani incrociate alludono a un gesto familiare e non obbligano a crederla in preghiera di fronte al figlio. Maria lo guarda con semplicità: anche il Bambino, allungato per terra
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Alfred Manessier, collezione privata
La Natività di Cristo fu l’oggetto per secoli, dal debutto dell’arte paleocristiana fino all’inizio del xx secolo, degli onori dei pittori e degli scultori. Ma da quel periodo il tema della Natività subì, in modo simile alla maggior parte degli episodi del ciclo dell’infanzia di Cristo, una sorta di eclissi prossima all’oblio: la congiunzione di svariati fattori ha portato l’arte a privilegiare in modo preponderante il ciclo della Passione e in particolare la Crocifissione, promossa al rango di soggetto ossessivo delle successive avanguardie a scapito del Natale. Tra i diversi fattori che si abbatterono sull’Europa si possono annoverare le due guerre mondiali ma anche la secolarizzazione della maggior parte delle società occidentali e lo sconvolgimento che la stessa concezione dell’arte subì oltre alla perdita progressiva del senso della festa del Natale. Era ancora possibile raffigurare un avvenimento così felice, candido e tranquillo in condizioni così drammatiche? E una realtà tanto concreta come la nascita di un bambino poteva essere evocata dalla pittura astratta? L’acquarello di Manessier prova che una certa forma di arte astratta, quella che si qualifica come astrazione lirica, è ancora capace di celebrare la Natività, al pari delle numerose statue di Henry Moore che testimoniano la fascinazione di un secolo, seppur violento, per la tenerezza materna.
Alfred Manessier, 1944, 24,8 × 32,4 cm, acquarello su carta riportata su cartone, collezione privata
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nell’angolo inferiore sinistro della composizione. È però sconsigliato azzardarsi a cercare la mangiatoia con il Bambino, il bue e l’asino, e rintracciare la presenza di Giuseppe, degli angeli o dei pastori nell’una o nell’altra macchia di colore. Può essere forte la tentazione di vedere una coppa sulla destra che uno dei tre personaggi coronati – uno dei tre Magi? – starebbe per offrire al Bambino invisibile. In ogni caso, l’astrazione qui gioca la funziona di un velo leggero, un vapore o una sorta di nebbia che respinge nell’ineffabile l’insieme delle forme acquisite a favore di un festival di colori attentamente costruiti, ben armonizzati e che restano volutamente misteriosi. Manessier lo spiegò qualche anno dopo: «Sempre di più vorrei esprimere la preghiera intellettuale dell’uomo, dedicarmi all’arte sacra. I miei soggetti sono in generale un’impressione religiosa e cosmica dell’uomo di fronte al mondo… Comunque le mie tele vogliono essere delle testimonianze di qualcosa vissuto nel cuore e non un’imitazione di una cosa vista dagli occhi». E ancora, a proposito di una sua esposizione del 1956 alla Galerie de France, affermò: «Non voglio che mi rendano un fabbricante di corone di spine. Questa esposizione non avrà altro tema che la natura. È il mio proprio ritmo, credo, questa oscillazione tra Dio e la vita». Manessier congedò in tal modo e definitivamente quella che fu a lungo la regola dell’arte, ossia la mimèsis, la riproduzione imitativa e attenta della realtà recepita dagli occhi, a favore di un altro filo conduttore, quello fornito dall’ascolto delle “impressioni” provenienti dal cuore, sia che si tratti del cuore umano sia del cuore della materia. Le tele di Manessier, nato nel dipartimento della Somme cui fu legato per tutta la vita, sono dedicate alle nozze del fiume, del mare e della sabbia nella baia della Somme, o a quelle del sole e del grano; in generale tutti gli incontri tra la luce e la materia sono affascinanti per la loro capacità di far risuonare il canto del mondo.
Alfred Manessier (1911-1993) è un artista che rifiutò la qualifica di “pittore cristiano” a partire dal 1956, data dell’insurrezione di Budapest. Egli produsse un numero rilevante di opere di carattere politico impegnato, in rapporto con gli avvenimenti violenti dell’attualità: la guerra d’Algeria, del Vietnam, la miseria delle favelas, la lotta dei neri americani per i loro diritti, omaggi a Martin Luther King e a Dom Helder Camara. Allo stesso tempo quest’artista, al pari di Rembrandt, che egli scoprì molto giovane grazie alla lettura della sua biografia e lo apprezzò al punto da considerarlo come suo padre spirituale, non cessò mai di ispirarsi a temi della fede cristiana. In particolare, a seguito di un’esperienza spirituale profonda che visse nel settembre 1943 quando accompagnò uno dei suoi amici, lo scrittore Camille Bourniquel alla Grande Trappa di Soligny124. Tra i suoi temi ricorrenti vi sono la Passione e la Resurrezione che evoca tra gli altri in una serie di litografie che portano in modo deciso sull’arte astratta. La presente Natività125 risale al 1944, quindi al periodo detto di Bignon, dal nome di una casetta nella città di Réveillon nell’Orne, nella Bassa Normandia, in piena campagna, che offrì a Manessier un contesto favorevole per dedicarsi alla pittura durante l’occupazione tedesca. All’epoca dipinse svariate opere sul tema della Natività e anche delle Stalle con l’asino e il bue. Tutto sembra confermare che la sua conversione avvenuta nell’anno precedente lo stava gradualmente convincendo che l’iconografia tradizionale, descrittiva e narrativa, non era ancora (o non più?) in grado di farlo accedere al cuore di una fede intima e misteriosa dell’esperienza religiosa. Da qui il suo progressivo congedo dalle forme predefinite126, che non avvenne improvvisamente: in un buon numero di sue opere degli anni Quaranta e Cinquanta vi è la traccia, ben visibile, del figurativo. Questo si nota nel ricordo, solidamente incrostato nell’inconscio visivo del pittore, della Vergine sdraiata e appoggiata sul suo braccio destro piegato che appare
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Emil Wachter, Autobahnkirche, germania Emil Wachter, 1975 circa, vetrata, muro nord, Autobahnkirche, Baden-Baden, Germania
La rete delle autostrade si estende ormai su tutta l’Europa ed è particolarmente fitta in Germania: qui la crisi economica degli anni ’30 fece moltiplicare i cantieri autostradali con lo scopo di dare lavoro ai numerosi disoccupati. La chiesa all’incrocio delle autostrade di Baden-Baden, in Baviera-Würtemberg, fu la prima in ordine cronologico di una serie di chiese appartenenti a un nuovo genere, non destinate ad accogliere gli abitanti di una comunità parrocchiale di una diocesi ma aperte a tutti gli utenti dell’autostrada che passano per la regione, desiderosi di pregare un po’ durante una pausa o curiosi di visitare un luogo unico. L’edificio fu posto sotto la protezione di san Cristoforo, il santo “che porta Cristo”, e il progetto risale al 1965. La chiesa fu inaugurata nel 1978 e ogni anno accoglie circa trecentomila visitatori. Non è più la sola chiesa di questo tipo: sono state, infatti, costruite altre chiese “autostradali” per esempio a Siegerland. Qui si trova una chiesa ecumenica con un’architettura moderna stilizzata con base triangolare, situata vicino a Wilnsdorf sulla A45 in Westfalia, inaugurata nel maggio 2013 e aperta 24 ore su 24 con un servizio religioso tutti i venerdì sera. Anche a Himmelkron fu inaugurata nel 1998 sull’autostrada Berlino-Monaco a 20 chilometri da Bayreuth,
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soggiorno ospedaliero (la sua convalescenza fu a Bar-le-Duc), dopo il quale combatté ancora in Borgogna. Fu fatto prigioniero e durante i tre anni di reclusione, fino al 1946, riprese i suoi studi teologici. Cominciò a dipingere nel 1943, ma solo nel 1954 decise di dedicarsi alla pittura e alla scultura, completando la sua formazione a Monaco e in seguito all’Accademia di Belle Arti di Karlsruhe. Le sue opere sono state l’oggetto di un centinaio di esposizioni. Molte sono ispirate alla rivelazione giudeo-cristiana e sono collocate in edifici religiosi, in particolare le sue vetrate. Alcune chiese sono state interamente concepite da Wachter: è il caso della chiesa di Baden-Baden, di cui egli fu l’ideatore e in cui il suo talento emerge in diversi supporti, in particolari nei rilievi in pietra (o in cemento), negli smalti e nelle vetrate. I suoi rilievi in cemento sono una novità e questo aggiunge un
una chiesa dedicata anch’essa a san Cristoforo, con all’interno una pala d’altare di Gerhard Böhm. Questo concetto di chiese ideate «per il riposo e la meditazione dei viaggiatori» ha fatto scuola. Si può facilmente reperire la lista di una quarantina di “chiese e cappelle d’autostrada” in Germania, la cui definizione è controllata e il criterio è che siano collocate su un’area di sosta in prossimità immediata di un’autostrada. L’autobahnkirche Baden-Baden è il capolavoro di un artista unico, Emil Wachter (1921-2012). Dopo l’Abitur (diploma di scuola superiore) nel 1939 si arruolò volontariamente nella Wehrmacht (forze armate tedesche) come soldato e combatté in Russia e in Francia. Colpito dalla tisi, fu costretto a un lungo soggiorno in un sanatorio e iniziò una formazione filosofica e teologica a Freiburg im Breisgau. Si arruolò nuovamente nel 1941, fu ferito sul fronte russo e costretto a un nuovo
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La Natività appartiene al ciclo continuo delle vetrate. È situata in uno degli angoli, quello in cui si trovano i comandi dell’organo. In questa rappresentazione, come in tutte le altre, Wachter si preoccupò di modernizzare l’iconografia religiosa tradizionale “decodificandola” a modo suo, al pari di quanto fece Fritz von Uhde (cfr. fig. 34). La scena, costruita in due parti l’una accanto all’altra, si staglia su uno sfondo rosso. A destra vi sono i genitori di Gesù simili a personaggi moderni. Maria non è devotamente inginocchiata ma familiarmente seduta e vestita con una gonna o un vestito che si ferma alle ginocchia. Tiene tra le braccia il Bambino abbracciandolo stretto. Giuseppe è in piedi dietro di lei con un basco sulla testa (simile a quello del ritratto di Wachter), appoggiato sul suo bastone dorato: il suo portamento lo rende un uomo del nostro tempo. A sinistra l’asino, riconoscibile dalle orecchie dritte, si nutre probabilmente dalla mangiatoia e il Bambino Gesù, che appare nuovamente avvolto in bende, è sdraiato su un fondo dorato che lo valorizza come un gioiello nel suo scrigno: tale scelta evoca la sua origine divina, enfatizzata dal grande sole che risplende proprio sopra.
tocco di modernità alla sua opera. Ma egli sviluppò anche immensi cicli pittorici con ritratti biblici127, uccelli o nature morte, produsse delle serie di acquarelli, decori di volte come a San Kilian a Ettlingen o polittici monumentali come la tavola d’altare della chiesa di San Filippo a Monaco128. L’edificio di Baden-Baden è a forma piramidale con una banda di vetrate che corre lungo tutto il perimetro. Si tratta di un vero e proprio «mondo di immagini»129. Quattro assi bordati d’alberi sono posti sotto una colonna in cemento ornata da rilievi in styropor, una tecnica messa a punto da Wachter che si ritrova nell’insieme dei decori della chiesa. Ogni colonna è dedicata a un personaggio biblico, rispettivamente a Noè, Giovanni Battista, Elia e Mosè. Numerose sono inoltre le scene che disegnano tutto attorno nella chiesa una sorta di cartografia biblica. Inizialmente la chiesa non aveva campane: nel novembre 2012 – Wachter era morto nel gennaio dello stesso anno – un supporto fu destinato a servire da campanile e questo fu ultimato solo nell’ottobre 2014.
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Arcabas, francia Arcabas, Nascita a Betlemme, 1995-1997, Polittico dell’infanzia di Cristo, olio su tela, 87 × 106 cm, Palazzo Arcivescovile, Malines, Belgio
Arcabas (1926-2018) è un pittore originario della Lorena, che ha dedicato tutta la sua attività artistica all’alleanza tra la bellezza e il messaggio cristiano. È conosciuto per la chiesa di Saint-Hugues in Chartreuse, villaggio della catena montuosa a nord di Grenoble: questa chiesa è “la chiesa Arcabas” come la cappella di Vence è associata a Matisse e la cappella di Reims a Foujita. Nella chiesa di Saint-Hugues, infatti, ci sono non meno di 110 opere dipinte da Arcabas, in tre “campagne” successive: la prima nel 1952, quando compose principalmente le grandi tele in iuta con, nell’abside, La Cena e al centro, la Resurrezione di Lazzaro e sul lato La donna adultera, e nella navata I dieci comandamenti. La seconda campagna risale al 1972-1973, quando furono realizzati dei quadri astratti situati sopra le tele di iuta; nel terzo e ultimo momento, 19841985, Arcabas compose 53 dipinti in acrilico su tela, tutti della stessa altezza, collocati come una ghirlanda (“la predella”) sotto le tele in iuta130. Non si può dire che la Natività e in generale l’Infanzia di Cristo siano stati tra i soggetti preferiti di Arcabas, anche se alcuni di questi eventi sono raffigurati nel trittico dell’Adorazione dei Magi di La Tour du Pin in Isère131, e sono diverse le Madonne con il Bambino che il pittore creò: tra le altre, nella predella
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cattolica belga e che lo visitò in più occasioni nel proprio atelier e nella chiesa di Saint-Hugues, di poter istallare nella grande sala del palazzo arcivescovile di Malines un ciclo di pitture dell’amico Arcabas. Queste erano state
di Saint-Hugues de Chartreuse si vede una Madonna con Bambino132 e un coro di angeli e, sul lato opposto, Gesù tra i dottori del Tempio. Il pittore rispose positivamente alla richiesta del cardinale Danneels, che fu primate della Chiesa
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Tour e alle sue toccanti composizioni religiose – La Maddalena, Il Nuovo Nato (fig. 29), L’Adorazione dei pastori –, scene notturne dove l’unica fonte di luce è una candela. Ma Arcabas elabora in modo originale il tema: il motivo di Giuseppe che tiene la candela è assente dall’opera di de la Tour, mentre è proprio alla pittura di Arcabas; inoltre, a differenza del pittore del xvii secolo, l’artista contemporaneo adotta in questa tela altre fonti di luce, come quella che scende dal cielo sui volti di Maria e di Gesù, e quella che proviene da un’altra fonte ancora, che illumina dal basso il giaciglio134.
precedentemente esposte in una mostra nella cattedrale di Bruxelles133. Da qui nacque una serie originale di undici tele, realizzate alla fine degli anni ’90 e installate nell’attuale sede nel 2002. Il polittico, che è formato da undici quadri disposti simmetricamente per una lunghezza totale di quasi dodici metri, ci mostra le vicende che vanno dall’Annunciazione al Ritrovamento di Gesù nel tempio, utilizzando le vicende narrate sia dal vangelo di Luca che da quello di Matteo. Nel pannello centrale, La Madonna col Messia, è una sorta di visione dello sguardo dei Magi. La serie comprende opere di vari formati, la più grande delle quali è dedicata alla Strage degli Innocenti. Il Polittico inizia con le tavole dell’Annunciazione e Visitazione e si conclude con la Vita nascosta a Nazareth e Gesù tra i Dottori del Tempio. Nella tavola della Natività, il neonato addormentato è rannicchiato contro sua madre, lei stessa assonnata e distesa sotto un mantello, sulla paglia della stalla. Sono protetti dall’occhio complice e protettivo di tre piccoli putti avvolti da una gloria dorata (quello più prossimo a Maria contempla la scena con la mano sotto il mento, al pari dei cherubini di Raffaello nella Madonna Sistina), e dal respiro caldo che emerge dalle narici dell’asino e del bue, che sono estremamente tranquilli e contemplativi (Abacuc 3, 2; Is. 1, 3). Dopo aver steso una coperta su Maria, Giuseppe che ha cercato una candela, veglia sulla fiamma perché non si spenga. Come ogni neonato, Gesù è fragile e la madre, che ha appena partorito, deve essere vegliata. Giuseppe, in moltissime Natività seduto in un angolo della scena con lo sguardo rivolto lontano, qui è dipinto come il guardiano della vita preziosa e fragile. La testa quadrata di Giuseppe è un motivo ricorrente nell’opera di Arcabas. La sua silhouette, resa incandescente dalla fiamma del cero, è una citazione pittorica e un chiaro rimando a uno dei maestri del chiaroscuro, il pittore Georges de la
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He Qi, Cina He Qi, La Nascita di un Bambino, 1998, inchiostro e tempera su carta di riso, collezione particolare Attualmente residente in California, He Qi ha studiato arte religiosa alla Nanjing Normal University, al Nanjing Art Institute in Cina e arte medievale al Kunstinstitut Hamburg in Germania. Attualmente è artista invitato presso il Fuller Theological Seminary (CA) e Visiting Professor Emeritus presso l’Art Institute of ruc (Renmin University of China, Beijing). È anche professore di filosofia e teologia presso l’Union Theological Seminary di Nanchino (Cina del Sud). He Qi è uno dei tanti cinesi che hanno subito alcuni effetti dolorosi della Rivoluzione Culturale Cinese, tra cui l’obbligo di soggiornare a lungo in campagna, lavorare in una fattoria, per “curare la propria tendenza intellettuale”. Ancora giovane, riuscì a sottrarsi ai lavori forzati dipingendo ritratti del presidente Mao Tse Tung. Tuttavia, in questi anni, sfogliando una rivista, si imbattè in una Madonna col Bambino di Raffaello che lo commosse così profondamente che iniziò a dipingerne delle copie durante la notte. Fu il primo cittadino della Cina continentale a conseguire un dottorato in arte religiosa dopo la rivoluzione (1992). È anche membro della China Art Association ed ex membro del consiglio dell’Asian Christian Art Association (1998-2006). Ha ricevuto il 20° Century Award for Achievement in riconoscimento dei risultati eccezionali
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nel campo della teoria dell’arte religiosa e della creazione dell’arte cristiana dall’ibc di Cambridge, in Gran Bretagna. Ha inoltre ricevuto un dottorato onorifico dall’Australian Catholic University di Melbourne (maggio 2011). Le sue opere d’arte sono state esposte in musei, gallerie, università e chiese, dagli Stati Uniti all’Europa, dal Canada alla Russia. È diventato popolare tra i media anglofoni, dalla bbc a hk Cable Tv dal Washington Post ad Asian Week, Christianity Today, The World Daily… He Qi è specializzato nella rappresentazione di scene bibliche135. Il suo lavoro artistico mira a integrare la Bibbia nella cultura cinese. Il suo obiettivo è cambiare la percezione diffusa nel suo paese che il cristianesimo sia qualcosa di estraneo alla Cina. Il suo modo di agire ricorda quanto accadde al buddismo, che entrò in Cina anche attraverso l’arte. Il suo stile, particolarmente colorato, con sfumature varie e intense, è un felice connubio tra arte moderna e arte tradizionale cinese. Dipingendo il più delle volte in formato quadrato, offre al nostro sguardo scene bibliche in uno stile nuovo, colorato e in forme ispirate all’arte popolare cinese. Nella trattazione dei temi biblici, ripercorre le Scritture, selezionando vari argomenti, tratti per la maggior parte dal Nuovo Testamento, e in particolare le tappe della vita e del ministero di Cristo, delle sue parabole. Non tutte le pagine fondamentali della Bibbia sono oggetto di sue rappresentazioni. L’arte religiosa cinese, ampiamente influenzata da confucianesimo e buddismo, si caratterizza per la sua rappresentazione tranquilla e utopica della natura, spesso dipinta con inchiostro nero e acqua. He Qi è particolarmente influenzato dalle opere d’arte semplici e belle della Cina rurale. Cerca di ridefinire il rapporto tra le persone e la spiritualità con colori audaci, forme abbellite e tratti spessi. Il suo lavoro è una miscela di arte popolare cinese e tecnica pittorica tradizionale con l’iconografia del Medioevo occidentale e dell’Arte Moderna.
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si libra sopra di loro e parla ai due destinatari, e un gregge di pecore sotto di lui. Il compromesso è sottile tra la sinizzazione dell’iconografia di questa scena, che si nota soprattutto dalle linee degli occhi e dal colore delle pupille, e gli elementi tradizionali dell’arte occidentale. L’originalità dell’arte di He Qi emerge nell’alleanza tra una linea tanto semplice e un uso unico del colore. Un tocco di rosa, una stella d’oro, in un oceano di blu intenso.
Gesù neonato, con il suo ciuffo di capelli neri sulla fronte, tiene in mano una mela o un cuore con la coda. È teneramente abbracciato da Maria, che non è né in piedi né in ginocchio ma tranquillamente seduta, mentre stringe il suo bambino tra le braccia, guancia a guancia, in presenza dell’asino e del bue, Giuseppe in piedi dietro di lei con in mano una lanterna. La coppia è in un certo senso collocata tra la scena dell’annuncio ai pastori con un angelo che
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Joseph MulambaMandangi, Repubblica del Congo
Joseph Mulamba-Mandangi è un artista congolese (Repubblica Democratica del Congo) nato nel 1964 che studiò all’Accademia di Belle Arti di Kinshasa. Figlio di un famoso cantante, Joseph Mulamba (alias Mujos), collabora da anni con i gesuiti alla galleria d’arte e al laboratorio del centro culturale di Boboto. I suoi temi preferiti sono le donne e le maschere. Ha partecipato a diverse mostre, sia nella Repubblica del Congo che all’estero, in particolare a Pechino. La sua tecnica è quella della “pittura grattata”: la tela, il pannello di legno, o semplicemente la carta, sono raschiati prima di essere dipinti. Tale tecnica si ispira all’arte preistorica, che consisteva nell’incidere disegni su grotte su pietra, spesso con motivi del mondo animale, dopo aver raschiato la pietra. Mulamba ha dipinto diverse versioni della Natività di Cristo negli ultimi vent’anni. Tutte sono accomunate dalla particolare scelta dell’ambiente nel quale è situata la scena: non una grotta, né una casa in rovina o una stalla, come fu immaginata per secoli dalla storia dell’arte cristiana europea, bensì in una capanna africana di bambù costruita con cura. Maria e Giuseppe, in abiti locali e festivi, sono disposti frontalmente, come se posassero per una foto di famiglia, con l’asino del presepe molto vicino a Giuseppe inginocchiato, mentre due pecore fanno compagnia a Maria e
Joseph Mulamba-Mandangi, Natività, 2015, pittura grattata su tela e carta, 70 × 68 cm, Centro culturale Boboto, Kinshasa-Gombe136
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seppe, entrambi privi di aureola), ma l’insieme dei colori e la tecnica dell’opera, per non parlare della struttura di bambù che incornicia la scena, provengono chiaramente da un altro continente: questo dimostra la ricchezza e l’eloquente originalità dell’arte africana. Un altro dipinto, prossimo a quello qui riprodotto per quanto concerne lo schema compositivo, realizzato nel 1994, mostra la Natività con la presenza dei tre Re Magi, raggruppati a sinistra.
annunciano la venuta imminente dei pastori. La scena è ricca di simbolismi culturali, attraverso grazie all’ambientazione, le acconciature, gli abiti. L’artista combina l’arte tradizionale africana con le icone della Natività. Ci sono elementi tipici della pittura cristiana tradizionale, quale la stella a cinque punte sopra Gesù, dalla quale emana un fascio di luce che raggiunge il Bambino e l’aureola di luce che disegna un vasto nimbo che circonda la testa del neonato (al contrario di Maria e Giu-
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Sawai Chinnawong, Tailandia Sawai Chinnawong, Natività, 2002, olio su tela, collezione privata, Tailandia
Sawai Chinnawong, nato nel 1959, ha antenati buddisti emigrati dal Myanmar alla Tailandia. Ha deciso di dedicare la sua vita a Cristo e è membro della United Church of Christ di questo paese. Il suo amore per l’arte risale a un’epoca in cui, da bambino, osservava gli artisti che decoravano le pareti di un tempio buddista. Il suo interesse per la pittura si protrasse fino all’età adulta quando poté studiare arte a Bangkok. E fu allora che divenne cristiano. Un missionario che predicava per strada lo convinse a studiare la Bibbia ogni giorno dopo l’orario delle lezioni di arte. Dopo aver completato i suoi studi di storia dell’arte, Sawai si iscrisse alla Facoltà di Teologia dell’Università Payap di Chiang Mai. Qui fu profondamente influenzato da una serie di corsi sulla storia dell’arte cristiana tenuti nel 1984 da Nalini Jayasuriya (1927-2014), artista di fama internazionale dello Sri Lanka. Iniziò quindi a creare arte liturgica nel seminario della United Church of Christ, dove decorò la cappella. La sua opera è molto apprezzata per la sua capacità di affrontare temi cristiani attraverso l’idioma grafico thailandese ispirato alla cultura locale. Il lavoro di Sawai è oggetto di pubblicazioni del Tao Fong Shan Christian Center di Hong Kong e dell’Asian Christian Art Association of Indonesia. È stato esposto in Asia, Svezia e Stati Uniti. Sawai è uno dei cinque
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(raffigurato come un uomo giovane e senza barba, che contrasta con la rappresentazione che generalmente assume in questa scena nell’arte occidentale) stanno sulla soglia di una sorta di tenda con le tende semiaperte, tenendo insieme il Bambino Gesù. Lui solo sembra nimbato. La sua nascita porta gioia in cielo, dove quattro creature divine appaiono per salutare l’evento, angeli coronati secondo lo stile thai, di fattura buddista. Sulla terra accorrono pacificamente persone sole, ma anche famiglie con bambini e tutti i tipi di animali domestici che prendono parte alla festa, l’asino e il bue del presepe europeo sono in un certo senso eclissati da due animali colossali, tra cui un elefante, sulla destra, che saluta il neonato con la proboscide. In un’altra Natività del medesimo autore – raffigurata qui a lato – paesani, abbigliati alla moda locale, si dirigono verso il cuore dell’evento cavalcando bufale. Il Natale è una celebrazione di gioia, l’umanità si rallegra e il mondo animale stesso partecipa a tale festa.
dall’ostilità che ha prodotto una resistenza lunga ben quattro secoli, costretta a fronteggiare l’ostilità e il fatto di essere una minoranza religiosa. La situazione sembra essersi stabilizzata da diversi decenni e il governo tailandese di circa 70 milioni di abitanti riconosce ufficialmente, attraverso il Dipartimento per gli Affari Religiosi del Ministero della Cultura, cinque gruppi religiosi: buddisti, musulmani, indù, sikh e cristiani. Il dialogo interreligioso è integrato nei programmi di varie facoltà teologiche e nel novembre 2007, nella cattedrale dell’Assunzione di Bangkok, si svolse una preghiera ecumenica alla presenza di leader religiosi della Chiesa cattolica romana, Evangelica Luterana della Tailandia, la Chiesa di Cristo in Tailandia e la Chiesa ortodossa russa. La Natività di Sawai si svolge di giorno, in pieno giorno, in un clima che si può definire decisamente irenico. È trattata con una varietà di colori caldi che trasmettono la gioia suscitata da questo evento tra i più felici della vita. Maria e Giuseppe
messaggio visivo può essere magnificamente trasmesso attraverso molti stili e arti137. Questo stato d’animo e queste convinzioni sono tanto più coraggiosi e accattivanti in quanto la Tailandia, come il Giappone138, non accolse facilmente il cristianesimo, introdotto nel 1550 attraverso missionari giunti con i mercenari portoghesi a Ayutthaya. Nel 1660, il Vicariato Apostolico di Siam è stato istituito sotto la guida particolare dei padri portoghese e francese. I protestanti arrivarono nella nuova capitale di Bangkok nel 1828. I rapporti tra le organizzazioni cristiane e i governi sono stati sovente segnati
artisti scelti per la mostra dell’estate 2007, Storia cristiana: cinque artisti dell’Asia di oggi, tenutosi al Museum of Biblic Art di New York. Il suo lavoro include influenze di molti stili. L’artista stesso ritiene che Gesù Cristo vive in ogni cultura: per tale motivo ha scelto di celebrare la sua presenza nella vita di ogni uomo attraverso le forme della cultura tradizionale tailandese. Convinto che Gesù Cristo non abbia scelto un solo popolo per accogliere la sua parola, ma che il suo messaggio sia universale, indirizzato a ogni cuore umano. E proprio come la sua Parola può essere pronunciata in ogni lingua, così il corrispondente
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Julia Stankova, Bulgaria Julia Stankova, Natività di Cristo, 2009, tempera su legno, 40 × 30 cm, collezione privata, Paesi Bassi
Affascinata dalla Tradizione iconografica bizantino-ortodossa, e convinta fin dall’infanzia di essere destinata a diventare una pittrice, Stankova iniziò a tredici anni a prendere lezioni private di disegno e pittura, con l’intento di iscriversi all’Accademia Nazionale delle Belle Arti. Nonostante la vita l’abbia portata a diventare ingegnere nelle miniere, professione che esercitò per dodici anni, nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, la disintegrazione del blocco sovietico e le sue varie conseguenze socio-politico-culturali negli ex paesi dell’Europa orientale, Stankova decise di dedicare il resto dalla sua vita alla sua vocazione di artista e di affiancare alla pratica artistica lo studio della teologia e si laureò all’Università San Clemente di Ohrid a Sofia. Terminati gli studi fu assunta come assistente in un laboratorio di restauro, un’esperienza indubbiamente decisiva per la sua pratica pittorica quanto per la sua riflessione teorica: ebbe, infatti, l’opportunità di esaminare da vicino, giorno dopo giorno, le icone bulgare di xviii e xix secolo. Con il passare degli anni, divenne un’artista indipendente e iniziò a modellare una personale idea d’arte religiosa: nel rispetto della Tradizione alla quale appartiene e che ben conosce, Stankova elabora uno stile proprio, molto originale, utilizzando tecniche e colori più adatti al suo lavoro139.
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In questa icona, la composizione e i dettagli sono studiati con cura e audacia. Lo sfondo è un prato verde fiorito: Stankova fa uscire la Vergine e Cristo della grotta, nei quali l’arte li dipinse per secoli, e li mostra alla luce del crepuscolo, sotto la protezione di due angeli che li osservano devoti e attenti. Offrono rispettivamente pane e vino. Colpiscono gli sguardi intensi, in particolare di Maria ma anche di Gesù che, pur non potendosi muovere perché avvolto in fasce, la cerca con gli occhi. I rispettivi nimbi si fondono e creano un movimento di luce e d’armonia. Ai loro piedi un vaso colmo di acqua, che ricorda la scena classica nell’iconografia bizantina-ortodossa del bagno del Bambino, ma anche il fonte battesimale che purifica dalle conseguenze del peccato, contratto dai progenitori nel paradiso terrestre: l’albero, in alto al centro, con i suoi frutti rigogliosi che ricordano delle mele, è un segno della speranza che la nascita di Cristo dona all’intero creato.
Uno degli obiettivi più lodevoli di Stankova è lo studio e l’elaborazione di opere capaci di parlare direttamente all’uomo contemporaneo. Ispirandosi alla Tradizione iconografica bizantino-ortodossa, crea composizioni iconografiche nuove, che riflettono la sua interpretazione di episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento141. L’artista, a differenza di altri temi quali gli angeli e le donne nei Vangeli, ai quali ha dedicato diverse opere, ha dipinto una sola icona della Natività di Cristo. L’attenzione è concentrata sulla Madre e il Bambino: il gesto della Vergine ricorda gli affreschi della tradizione medievale serba, più aperta rispetto a quella bizantina a valorizzare i sentimenti di tenerezza tra Madre e Figlio. Nell’affresco della chiesa dei santi Gioacchino e Anna nel monastero di Studenica, Maria ha la sua guancia piegata su quella di Gesù, lo guarda dolcemente e lo abbraccia in una posa che fa eco a quella del trenos, il lamento su Cristo morto, come si può ammirare nel celeberrimo affresco nella chiesa di san Pantaleone a Nerezi.
permanente in diversi luoghi, tra cui la Cattedrale di Santa Nedelja. È anche autrice di saggi, poesie e articoli di carattere artistico-teologico pubblicati in riviste bulgare; la sua opera è inoltre oggetto di pubblicazioni più divulgative e di taglio scientifico140.
La sua arte ha incontrato ben presto il favore di un pubblico attento, che ha potuto conoscerla grazie a più di una quarantina di esposizioni personali in Bulgaria, Macedonia e Grecia, nei Paesi Bassi, Regno Unito, in Norvegia, Germania, Francia e Italia. A Sofia le sue icone sono esposte in modo
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Wisnu Sasongko, Indonesia Wisnu Sasongko, Natività decorativa, 2014, acrilico su tela, collezione privata, Indonesia
Nato nel 1975 sull’isola di Java, Wisnu Sasongko ha iniziato a dipingere da adolescente, prima di iscriversi alla Facoltà di Belle Arti dell’Istituto Seni di Yogyakarta, Indonesia, dove si è laureato nel 2002. Risiedette a New Haven nel Connecticut, nel 2004-2005, con una borsa di studio per approfondire i propri studi. Ha esposto in Asia, Europa e Nord America e le sue opere sono state spesso riprodotte in pubblicazioni di arte cristiana in Asia. È un artista prolifico: si contano nove mostre durante il suo soggiorno a New Haven. Al pari di Sawai Chinnawong (fig. 40), è uno dei cinque artisti che esposero nella mostra del 2007, The Christian Story: Five Asian Artists Today, al Museum of Biblical Art di New York. Cresciuto in una famiglia cristiana, divenne un cristiano praticante solo nel 1997. Il suo lavoro ha incontrato una certa opposizione nella sua terra natale: lui stesso ammette che essere un cristiano e un artista in Indonesia non è facile. Infatti, benché ufficialmente la costituzione indonesiana garantisca la libertà di culto e di espressione religiosa solo a sei religioni ufficiali (l’Islam, il protestantesimo, il cattolicesimo, l’induismo, il buddhismo e il confucianesimo), il 99% della popolazione è musulmana sunnita. Prima dell’arrivo delle religioni abramitiche, il sistema di credenze popolare della regione era accuratamente influenzato dalla
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ché non le ho mai viste. Come artista, posso solo immaginare Gesù»142. La sua tela ci rivela dunque la concezione personale che l’artista ha della nascita di Gesù. Vale a dire, in questo caso, come frutto ed espressione di un’unione o di una stretta comunione all’interno della Sacra Famiglia. Il fatto che Giuseppe non fosse il vero genitore di Gesù non ha impedito a Wisnu Sasongko di dipingere una coppia umana profondamente unita attorno a suo figlio, scelta audace che si riscontra molto raramente nell’arte della pittura cristiana tradizionale. Tutt’intorno una girandola di persone, animali di varie realtà interessate in un modo o nell’altro dalla Natività. In questa tela, è la fede dell’artista che si esprime, e altrettanto la sua esperienza: «Nel mio lavoro metto insieme tutte le esperienze fatte giorno dopo giorno, ma anche le mie riflessioni bibliche e le mie idee artistiche. Prendo in prestito forme e gesti umani per rendere il miracolo della vita [...]. L’arte cristiana, in senso classico è antiquata, il che significa che è necessaria una rinascita per sviluppare una nuova iconografia»143. Giuseppe guadagna in questo caso un’intimità eccezionale con Maria. L’artista affrontò anche il tema in modo più tradizionale come si vede nella Natività del 2005 (qui a lato), costruita attorno alla classica grotta.
filosofia religiosa richiamantesi al Dharma, attraverso l’induismo e il buddhismo. La diffusione dell’Islam si è verificata nel corso del xiv secolo. Provenienti dal Gujarat indiano, i musulmani s’introdussero attraverso la costa occidentale di Sumatra, per poi ampliare il proprio dominio verso Giava Orientale. Entro la fine del xv secolo vi furono una ventina di regni fondati sulle basi dell’Islam. Nel xvi secolo, i portoghesi introdussero il cattolicesimo nell’arcipelago. Questi arrivarono nel Sultanato di Malacca (l’odierna Malesia) nel 1509 in cerca di accesso alla sua ricchezza. Sebbene inizialmente ben accolti, la cattura di Goa nel 1510 e altri conflitti musulmani-cristiani convinsero i musulmani malaccani che i cristiani portoghesi sarebbero stati una presenza ostile. Sasongko differisce da molti artisti cristiani in Asia in quanto raramente dipinge eventi o storie bibliche, puntando piuttosto l’accento sui comandamenti del Regno di Dio e cercando di infondere nel suo lavoro contenuti di salvezza legati ai temi cristiani, anche laddove l’argomento non è specificatamente cristiano. Il suo scopo è più prossimo al modo attraverso il quale i cristiani usano l’amore e le cerimonie per trasformare la cultura, piuttosto che alla didattica e all’iconografia tradizionali. Nei suoi dipinti utilizza materiali convenzionali come colori acrilici e tela, esplorando un mondo figurativo che si trasforma in uno stile decorativo. Inoltre, diversamente da altri artisti cristiani espressione delle rispettive culture, Sasongko non dipinge l’iconografia cristiana tradizionale nelle lingue e negli stili della sua terra natale. I suoi dipinti e disegni sono espressioni della vita così come la vive e sono spesso modellati a causa dei conflitti religiosi che sovente si scatenano in Indonesia. Un ampio ruolo giocò la sua esperienza negli Stati Uniti nel 2004-2005, quando ebbe la possibilità di scoprire e visitare alcuni tra i più grandi musei di Chicago, Boston e New York. «Dipingo ciò che posso vedere, toccare, sentire... Non voglio dipingere le storie della Bibbia per-
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Ana Ilić, Serbia Ana Ili0, La Natività di Cristo, tempera su legno, 2018144
Il Verbo di Dio si fa carne, il Logos eterno diventa un uomo, l’incontenibile Signore dell’universo prende la sua dimora umana nel seno della Vergine. Queste affermazioni, che la Tradizione cristiana da secoli proclama con solennità, stupore e gioia, dovrebbero far sussultare, sorprendere, meravigliare, emozionare chi si accosta al mistero della Natività di Cristo. Nessuna religione ha immaginato che Dio possa farsi uomo realmente e definitivamente: il cristianesimo invece proclama con forza che Cristo è, allo stesso tempo, vero Dio e vero uomo. Cristo conserva la propria umanità anche nella via eterna. A coloro che contemplano l’icona della Natività è offerta l’opportunità di incontrare, attraverso il racconto delle immagini, il mistero di Dio che si fa uomo. Ogni particolare iconografico esprime un significato teologico e celebra la straordinarietà del dogma dell’Incarnazione, senza cedere al sentimentalismo umano che la gioia di una nascita, pur fuori dall’ordinario, può suscitare. In una logica teologico-rivelativa si comprende il senso della posizione centrale della Madre e del Figlio e l’assenza di contatto fisico tra loro. La Theotokos medita sul mistero che lei vive in prima persona, sull’eccezionale prodigio di dare vita umana al Dio incontenibile; la Madre riflette anche sul destino del Figlio, avvolto in bende strette, che
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lui, un uomo anziano di statura ridotta, coperto da lunghi capelli grigi che formano una sorta di mantello, è appoggiato su un bastone. La figura del pastore fu interpretata dalla letteratura apocrifa come la personificazione del demonio che, con le sue parole – «Come questo bastone non può produrre fronde, così un vecchio come te non può generare e una vergine non può partorire» – nutre i pensieri agitati di Giuseppe. Tra i due s’istaura un dialogo di sguardi, senza angoscia ma fermo. Nell’angolo in basso a destra, due serve, come indicano le loro vesti con le maniche corte, stanno preparando il bagno per Cristo. Questa scena, profondamente umana, è decisiva nell’economia teologica dell’icona della Natività: Gesù rimane l’Emmanuele, ha il nimbo crucifero e un volto da adulto. Allo stesso tempo, con un gesto quotidiano l’iconografia conferma che la sua Incarnazione è reale.
giato sulla mano sinistra, il capo piegato, lo sguardo è misticamente assorto in una meditazione nella quale pensieri terreni e ultraterreni si fondono. In alto, da un semicerchio blu discende un raggio elaborato che diventa un cerchio, all’interno del quale una stella propaga tre raggi luminosi che raggiungono la grotta: il prodigio dell’Incarnazione è opera di Dio e l’iconografia ne sottolinea la presenza autentica con un simbolo forte e discreto. I Magi a cavallo riconoscono il segno divino. Lo indicano, lo seguono e, grazie alla stella, saranno condotti di fronte al Verbo fatto uomo. Anche i due angeli in alto sulla destra contemplano la stella e il prodigio dell’Incarnazione, che un terzo angelo sta annunciando con la mano destra ai due pastori che, con le mani coperte in segno di rispetto, si avvicinano alla grotta. In basso a sinistra, Giuseppe siede pensoso su un tronco di un albero tagliato. Di fronte a
racconti evangelici canonici ma dalla letteratura veterotestamentaria (Is. 1, 3) e apocrifa (Pseudo Vangelo di Matteo). Cristo ha il capo leggermente alzato, in una posizione quasi innaturale, come se volesse onorare i tre angeli, dai visi delicati, che rispettosi si chinano al suo cospetto. La Madre è raffigurata in scala più ampia rispetto agli altri personaggi, una scelta iconografica che omaggia il suo ruolo centrale nella storia salvifica, confermato dall’iscrizione sopra il suo nimbo: MP ΘY (Mater Theou). Semisdraiata su un letto azzurro con le punte rosse, a forma di fagiolo, è rivestita di un maphorion bordeaux che la copre interamente: sulla fronte e sulle spalle, le stelle dorate testimoniano che è la Panaghia, la Sempre Vergine. Il viso è appog-
prefigurano la Sua morte. La Natività di Cristo annuncia la vicinanza di Dio, la kenosis del Verbo, la salvezza che si consumerà pienamente nella Sua Pasqua. Lo schema iconografico dell’icona che osserviamo è quello classico bizantino, espresso attraverso uno stile che addolcisce i visi e un’armonia sinfonica tra le varie scene, accadute in momenti temporali diversi. La montagna attesta la partecipazione della creazione intera alla nascita di Cristo. Il Bambino è posto all’interno di una caverna scura che evoca l’Ade e la Sua Discesa agli Inferi; è sdraiato in una mangiatoia rettangolare. Ha un nimbo crucifero sopra il quale vi è il monogranna IC XC (Iesous Christos). È vegliato dall’asino e dal bue, animali non menzionati dai
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Nikola Sarić, Serbia-germania Nikola Sari0, acrilico su tela, collezione privata, 2017 Nato a Bajina Bašta, giovane e già celebre artista serbo, Sari0 è cresciuto accanto a un padre talentuoso, pittore di professione, che ha riconosciuto le potenzialità del figlio e lo ha incoraggiato a intraprendere la carriera artistica. Durante i suoi studi alla Facoltà di Arti Applicate di Belgrado, iniziò a partecipare alla liturgia e si interessò all’arte bizantina. Di fronte alla Crocifissione di Cristo nel monastero di Studenica145, sedotto dalla sua profonda bellezza e forza spirituale, decise di iscriversi all’Accademia delle arti della Chiesa ortodossa serba: qui Sari0 divenne un iconografo nel 2014 e iniziò ad affrontare temi sacri armonizzando le linee astratte dell’arte moderna e il patrimonio della Tradizione bizantino-ortodossa. Attento alla vita di Cristo e alla storia cristiana, in particolare dei santi e martiri, come emerge nella recente icona dedicata ai Santi martiri della Libia, ventun cristiani uccisi barbaramente dall’Isis nel 2015, riconosciuti come nuovi martiri dalla Chiesa copta ortodossa di Alessandria, acquistata recentemente dal dipartimento di icone del Petit Palais a Parigi. Le sue composizioni sono piene di simboli e rimandi alla storia sacra: si distingue per la sua libertà e flessibilità, che lo porta a produrre dipinti innovativi e allo stesso tempo conformi alla verità dei soggetti sacri rappresentati. Le sue opere146,
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realizzate principalmente su carta ma anche su tela e legno, parlano all’uomo di oggi, a chi crede ma anche a chi si accontenta di osservarle. La forza della sua arte risiede nell’interazione armoniosa tra la Tradizione e le forme d’arte contemporanea, che trasmettono l’intuizione della bellezza eterna. La serie “Ciclo della Vita” apre la sequenza che rende omaggio alle fasi principali della vita di Cristo con una splendida Incarnazione, nel momento dell’Annunciazione; seguono la Nascita e il Battesimo – che emoziona per il commovente e fraterno abbraccio tra i due cugini – una Trasfigurazione che ci porta fuori dal tempo, il ciclo della Passione costellato di dettagli ricchi di simboli e rimandi scritturistici, la Resurrezione di Cristo con le donne al sepolcro con Pietro e Giovanni, l’Ascensione, la Parusia e infine un dipinto, che riprende lo schema tradizionale dell’Anastasis, per annunciare la Nuova Creazione147. Fil rouge della serie sono la misura del dipinto, un quadrato di 90 × 90 cm, e lo schema compositivo, che sfrutta il gioco tra rigidità del quadrato e fluidità di un cerchio collocato al centro di questo, con Cristo in posizione imponente e centrale. Al centro della scena, Maria semisdraiata alza le mani in un gesto che sembra voler sorreggere il Bambino che in verità è appoggiato sul suolo della grotta scura, avvolto in strette bende e da una mandorla rosso scuro. Le mani della Madre sono piuttosto levate in un gesto di preghiera orante e i suoi occhi rivolti al Figlio. Tra gli elementi più affascinanti di questa composizione vi sono gli occhi e gli sguardi concentrati sul prodigio di Dio fatto uomo. Giuseppe, inusualmente per l’arte orientale molto prossimo alla scena centrale, tiene in mano una candela che ricorda il suo ruolo di custode e protettore della Santa Famiglia. Uno stuolo di eleganti personaggi inginocchiati, accomunati dalla posizione, le mani levate e un mantello azzurro, ruotano attorno alla scena madre. In alto sei angeli proteggono il nuovo nato, mentre la mano di Dio esce dal cielo per inviare la
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stella, simbolo dello Spirito Santo. In basso a sinistra i tre Magi offrono doni di forme e contenuti diversi: come da tradizione bizantina-ortodossa, hanno tre età diverse per simboleggiare che la rivelazione di Cristo può essere accolta a ogni età della vita. Due pastori, uno anziano e uno con il turbante, completano la scena. In questa serie, negli angoli sono raffigurate scene profetiche: qui due concernono l’Antico Testamento e due sono presagi delle reazioni violente che la nascita di Cristo suscita. In alto sulla sinistra vi sono Giacobbe con il figlio prediletto Giuseppe: questi, a causa della gelosia dei fratelli per la predilezione del padre nei suoi confronti e per i suoi sogni, lo vendettero a mercanti ismaeliti facendo credere al padre che fosse morto. La storia narrata nel libro della Genesi capitoli 37-50, insegna che fu Giuseppe a salvare dalla carestia e dalla morte i fratelli dopo tante avventure in Egitto. Il legame con la vicenda di morte e resurrezione di Cristo è evidente. Nell’episodio in basso a destra Mosè, che pascolava il gregge del suocero Ietro (Esodo 3) si sta levando i sandali di fronte al prodigio del roveto che arde ma non si consuma. Qui leva la mano verso la Natività a suggerire che un nuovo eccezionale miracolo – Dio che si fa carne, attraverso una Vergine che partorisce e rimane tale (le tre stelle sul capo e le spalle di Maria lo ricordano) – è il luogo della rivelazione divina.
In basso sulla sinistra si raffigura il comando di Erode ai soldati di uccidere i bambini sotto i due anni, e in alto a destra il massacro degli innocenti: una madre, che ricorda la composizione dell’affresco nel monastero medievale di Marko, apre sconsolata le braccia e raccoglie dolcemente piccoli bambini uccisi per la follia del potente di turno. La Natività di Cristo è prodigio che suscita gioia e gelosia: l’umanità non potrà ignorare tale nascita e il corso della storia per miliardi di uomini è destinato a mutare.
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François-Xavier de Boissoudy, Francia François-Xavier de Boissoudy, Nascita di Gesù, 2017, inchiostro acquerellato su carta, 125 × 125 cm, collezione particolare
François-Xavier de Boissoudy è nato nel 1966 a Cambrai. Si è diplomato alla Scuola d’Arte Esag Penninghen School a Parigi. Sposato nel 1993, è padre di tre figli. La sua conversione religiosa, avvenuta nel 2004, gli ha concesso uno stupore intenso che continua a guidare la sua attività di pittore. È quindi uno degli artisti la cui creazione è stata influenzata da questo shock di natura spirituale148, come avvenne per il lavoro di Paul Claudel che ebbe un cambiamento imprevisto dopo aver assistito ai vespri a Notre-Dame a Parigi il giorno di Natale del 1886, o come quello di Albert Manessier che fu permanentemente segnato dal canto di compieta a La Trappe de Soligny nel 1943, dove era stato invitato da un amico. Molti dei suoi dipinti riguardano scene evangeliche, ma nessuno ha lo scopo di abbagliare o stupire, nemmeno per compiacere e deliziare la vista. Non si pone come regista o direttore d’orchestra, tanto meno come esteta che deve inventare a tutti i costi, provocatore o creatore insolito, ma come testimone della sacralità viva e incarnata della realtà: «I miei quadri hanno un unico obiettivo: mostrare il reale arricchito dallo spirituale, materializzatosi nell’emergere della luce. Questa è la mia vocazione di pittore e l’intuizione su cui posso costruire il mio lavoro. Non c’è più alcun soggetto per me senza que-
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La presente tela è originale e audace, poiché mostra il parto stesso, visto attraverso le gambe dell’asino che sta brucando, con Giuseppe come testimone, mentre la tradizione artistica lo ha generalmente, indubbiamente per sottolineare che non aveva nulla a che fare con la generazione di Gesù, e anche per suggerire che lui stesso dubitava della propria identità di genitore. L’artista eseguì un’altra Natività-Parto la settimana precedente, aggiungendo il bue ma escludendo Giuseppe. Possiamo comunque affermare che nessun pittore prima di Boissoudy avesse osato una simile rappresentazione della Natività. Boissoudy è riuscito a farlo pur conservando il suo mistero e la sua dignità.
sta luce presente nel mondo, sia che si rifletta in un bicchiere d’acqua, in un paesaggio o in una scena umana. Una luce morbida e benevola, silenziosa, che sposa la realtà della carne. Non acceca, non si annienta, ma rivela. Il mio ruolo non è quello di mettere in scena, ma di testimoniare, in una società in cui l’arte contemporanea è troppo spesso governata da una negazione della realtà. Testimoniare questa sacralità vivente e incarnata»149. L’opera pittorica di Boissoudy, tra le altre singolarità, è interamente monocroma e sembra aver voluto liberarsi una volta per tutte dall’obbligo (dal peso?) della policromia. Come se si trattasse di affermare e dimostrare che la verità potrebbe fare a meno del fascino del colore. I temi cristologici vi occupano un posto dominante, in particolare quello della Resurrezione, della Passione-Crocifissione (recentemente ha esposto le quattordici stazioni di una Via Crucis nella chiesa Saint-Sernin a Tolosa e a SaintJean-Baptiste a Lione) ma anche quello della misericordia150. Non mancano i temi legati all’Infanzia di Cristo. Le tele dedicate alla Natività mostrano la Santa Famiglia di notte, sotto un tetto modesto, in una radura, visitata dai pastori. Dalla coppia e dal figlio emana una luce che si riflette sui volti e proietta i suoi raggi anche sugli alberi circostanti, al punto che sembra incendiare l’intero paesaggio. Bella immagine della Misericordia in incognito, che si dona al mondo lontano dai riflettori delle notizie politiche o economiche. Ci sono tre versioni di questo soggetto: una con Maria seduta e il bambino sulle ginocchia, una seconda con Maria che giace familiarmente a terra vicino a suo figlio, mentre Giuseppe compie un gesto di accoglienza verso i pastori – questa seconda versione mostra l’asino nella mangiatoia – e l’ultima, vista dall’alto, con Betlemme all’orizzonte, Maria e Gesù che assumono la medesima posizione sdraiati.
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Conclusione
Tra tutte le feste del calendario cristiano il Natale è senza dubbio quella più coinvolgente per sentimento e immaginazione. Questo spiega la ricchezza artistica che tale festa ha suscitato da quando si iniziò a celebrarla fino ai nostri giorni. Però questo tesoro iconografico non è uniforme, anzi è abitato da tali diversità che spesso appare eterolitico. Artisticamente vi furono periodi in cui il Natale interagì sia con la razionalità sia con la sensibilità, mentre in altri frangenti l’emozione giocò la parte del leone. Si può scrivere una storia della percezione di tale festa: ogni epoca, e a fortiori ogni regione del globo terrestre, ha il proprio modo di comprenderla e di celebrarla, come lo conferma la storia dell’arte d’ispirazione cristiana, una storia che non è ancora conclusa, con svariate espressioni di interi paesi da scoprire e valorizzare. Oggi, un po’ dappertutto e non solo in Occidente, l’accento è posto soprattutto sull’infanzia e sulla famiglia e la festa è caratterizzata dalla luce, la gioia, se possibile la generosità e la condivisione. In altre epoche sono stati altri gli aspetti che hanno stimolato la creatività degli artisti: questi cercarono di considerare la teologia e la spiritualità coeve, che costituirono rispettivamente sia delle tappe sia degli stimoli per il lavoro iconografico. «La riscoperta dell’Incarnazione fu un tratto costante dei
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sermoni del xii secolo che contrastò con l’epoca carolingia»151. Nel Medioevo occidentale, per esempio, teologi e mistici come Guerrico d’Igny (1180-1155 circa), Isacco della Stella (1100-1169), poi Meister Eckart (1260-1328) e Giovanni Taulero (1300-1361), distinsero tre nascite di Cristo152: la sua nascita eterna come Verbo di Dio, la sua nascita temporale da Maria come Verbo incarnato e infine la sua nascita spirituale nel cuore dei credenti, come parola e presenza di Cristo in ciascun uomo. Le immagini della Natività che sono state scelte per questo volume si concentrano quasi tutte sulla contemplazione della seconda delle tre nascite del Verbo, quella che lo vide diventare uomo tramite la Vergine Maria, la “Madre di Dio”. Ma si tratta di immagini così diverse che, dopo averle guardate, un lettore curioso non tarderà a porsi delle domande che noi stessi affronteremo a modo di conclusione.
“Ampolle di Monza”, riportate in patria dai pellegrini che si recarono in Terra Santa, che affiorò il tema153. La scoperta dei sarcofagi romani interrati nella regione di Arles, nel sud della Francia, ha obbligato a correggere tale affermazione. Il rilievo raffigurato all’inizio del presente volume (fig. 1) è del iv secolo. Resta comunque vero il fatto che l’iconografia cristiana non focalizzò immediatamente il proprio interesse sulla nascita né sull’infanzia di Cristo, accordando priorità a altri temi come il Battesimo o la Traditio legis o il Volto di Cristo154. Verosimilmente l’Adorazione dei Magi precedette la Natività vera e propria: infatti, le feste di Natale, del Battesimo di Cristo e delle Nozze di Cana furono interpretate inizialmente come delle epifanie e la stessa Natività cominciò a essere celebrata come un momento della manifestazione della salvezza alle nazioni. Quando apparve il tema della Natività come celebrazione in immagini della Nascita del Verbo incarnato o, in maniera ancora più rigorosa, come luogo forte e misterioso della prossimità filiale tra Maria e il Figlio Gesù, un certo numero di soggetti e motivi – sia dei vangeli canonici sia dei testi apocrifi – furono convocati per arricchire il tema principale della Natività. Tra questi vi è la perplessità di Giuseppe (seduto con la mano sotto il mento), la prossimità calma e un po’ stereotipata dell’asino e del bue, gli angeli messaggeri dell’annuncio ai pastori, l’adorazione di questi ultimi del Bambino, il viaggio, l’avvicinamento e/o l’adorazione dei Magi e la stella che li guidò fino alla grotta, le donne che fanno il bagno a Gesù, per non parlare della stalla di Betlemme o della grotta della Natività che suscitarono tutta una letteratura spirituale. Detto in altri termini, le rappresentazioni della Nascita di Gesù che ben presto prosperarono e proliferarono non si concentrarono solo sul Bambino avvolto in fasce, scaldato dagli animali, posto in una mangiatoia accanto alla Madre, ma divennero una sintesi di diversi episodi riuniti attorno alla coppia Maria-Gesù. Questa caratte-
1. Innanzitutto è bene riflettere se esista una logica, o se si preferisce una storia, del tema della Natività di Cristo nell’arte, se dunque la successione di opere sul tema e la comprensione e percezione dei pittori a tale proposito siano state guidate da tappe che sono identificabili e se esistano delle caratteristiche sintomatiche dello spirito dell’epoca che le produsse. La questione è profondamente complessa e – si potrebbe obiettare – il ventaglio di opere presentate, benché sia frutto di una scelta attenta a onorare la varietà e la rappresentatività regolare dal iv al xxi secolo, è finalmente troppo ristretta perché autorizzi delle riflessioni che potrebbero risultare avventurose. Tuttavia, una frequentazione assidua di questo dossier iconografico e non solo ci permette di formulare le seguenti osservazioni. La Natività non fu uno dei primi soggetti trattati dall’arte cristiana, come il Battesimo di Cristo. A lungo gli studiosi hanno spiegato che fu solo nel vi secolo, con i celebri rilievi delle cosiddette
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ormai in ginocchio davanti al Figlio (fig. 21, 22, 28). Una tale concentrazione sul Bambino Divino, il suo mistero e fascino, ha progressivamente cacciato dai dipinti i testimoni della manifestazione storica del Verbo incarnato: il Bambino ammirato dai suoi genitori divenne il pretesto per una celebrazione dell’intimità, dell’emozione e della gioia. L’Adorazione dei pastori e quella dei Magi in Occidente divennero di conseguenza degli argomenti a sé stanti, separati dalla Natività vera e propria. Nell’iconografia occidentale si assiste a una progressiva divisione tra il tema dell’intimità della Santa Famiglia e quello della manifestazione del Verbo incarnato alle nazioni. Il ricchissimo filone di queste Natività sentimentali preparò l’emergere, nel xix secolo, sulla scia di quadri come quelli realizzati da artisti come Le Nain, di tavole con un contesto operaio o paesano dell’epoca della Rivoluzione industriale in cui il connubio tra povertà e semplicità svela il cuore della Santa Famiglia. Tale passaggio illustra la trasposizione della scena in tuguri fatiscenti come nell’opera di Fritz von Uhde (fig. 34) e ancora la creazione di Emil Wachter (fig. 36) si iscrive nella logica inaugurata da tale serie.
ristica “agglutinante” della Natività di Cristo fu dominante e tipica della Tradizione delle icone dell’Oriente cristiano fino ai nostri giorni155. In questa iconografia si nota una certa fissità, a volte un fissismo, basata sulla centralità della perenne liturgia e della teologia. In Occidente, al contrario, le opere d’arte sul tema sono caratterizzate da una varietà di approcci successivi e dall’innovazione. La creatività degli artisti però cela anche dei rischi, non sempre frenati, indirettamente incoraggiati dalle indicazioni ecclesiali caratterizzate da vaghezza e della crescente esaltazione del cosiddetto “genio” degli artisti, che ha permesso di tollerare nel corso dei secoli un certo loro arbitrio capriccioso e una soggettività trionfante, più o meno ispirata. A questi fattori si è inoltre aggiunto un peso considerabile – per alcuni eccessivo – del sentimentalismo, che rende il pittore regista della sfera psicologica e rischia di ridurre la Natività alla celebrazione del fascino di un bambino e della vita familiare, ammorbidendo o addirittura cancellando la dimensione propriamente teofanica dell’avvenimento celebrato. In queste condizioni che caratterizzano l’estrema libertà della creazione artistica nel mondo latino, non è sorprendente che la vena sia speculativa sia tipologica, profondamente teologica rappresentata dall’Evangeliario di Bernward di Hildesheim (fig. 3) e dal Messale Stammheim (fig. 9), fu gradualmente sommersa e sostituita a causa degli effetti dell’emozione e dell’intenerimento di fronte alla nascita di Gesù. Lo testimonia il Poverello d’Assisi e il successivo fascino francescano per il presepe e la sua folla meravigliosamente serena, che fu l’origine remota non solo di un’esaltazione di Gesù Bambino che generò una celebrazione pittorica inedita dell’intimità familiare, sconosciuta all’iconografia cristiana ufficiale in Oriente, ma anche di atteggiamenti di adorazione nei confronti del Bambino sdraiato al suolo tutto solo con la Madre non più distesa accanto a lui ma
2. Le osservazioni appena elencate invitano a interrogarsi su un’altra questione, ossia sul ruolo rispettivamente della Sacra Scrittura, della storia, della teologia e dell’emozione all’interno delle opere scelte. Ci accontentiamo, per evitare di prolungare eccessivamente la conclusione, di far notare che il percorso sia spirituale sia culturale delle opere riprodotte è utile per comprendere il fossato che si è scavato tra le due presentazioni della Natività di Cristo. Quella della tradizione cristiana che ha come obiettivo principale mostrare i differenti aspetti del mistero alla luce della Sacra Scrittura, della liturgia e della teologia e la presentazione che funziona come un pretesto per le feste di fine anno nelle società post-moderne. Quest’ultime, a seguito della ripresa econo-
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“Nascita di Cristo” nel miglior dizionario d’iconografia cristiana si può leggere: «Nell’arte figurativa moderna, l’iconografia della Natività è sostituita da altri temi come la Crocifissione di Cristo. Le immagini di questo tema non appaiono che in modo isolato […]»158. E, effettivamente, se ci si domanda a bruciapelo quali siano i grandi artisti del xx secolo che illustrarono il tema della Natività si resta imbarazzati, mentre non si fatica a citare a memoria coloro che si sono dedicati alla Crocifissione, spesso reinventando il soggetto secondo propri schemi. Questa evoluzione dell’arte religiosa occidentale non è ovviamente imputabile a un raffreddamento della pietà mariana nella società e nella Chiesa cattolica (1854: proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione; 1858: apparizioni di Lourdes; 1950: proclamazione del dogma dell’Assunzione) e richiede quindi una spiegazione ulteriore. La Natività è l’oggetto, da circa due secoli, di un enorme lavoro di smembramento, di riappropriazione da parte dell’arte profana e di ricomposizione sotto nuove forme che si rinnovano costantemente. Tutti i fattori indicano che essa non ricopre più il ruolo che gli fu proprio per secoli, ossia quello di uno dei due fulcri dell’arte religiosa cristiana accanto alla Passione. Il posto della Madre di Dio, in particolare, tradisce un netto calo nell’arte. Molti soggetti che tradizionalmente furono frequentati da tutti gli artisti – Annunciazione, Adorazione dei pastori, Madonna con il Bambino –, attualmente non lo sono che da un numero ristretto di loro. Alcuni soggetti – Visitazione, Adorazione dei Magi, Santa Famiglia – non lo sono apparentemente più, eccetto che in alcuni dipinti all’interno di nuove chiese e nell’immaginario devoto. Un altro risultato è che nessun artista occidentale dell’ultimo secolo ha saputo né potuto fare quello che nella propria epoca fecero il Beato Angelico, Raffaello o Michelangelo, ossia destreggiarsi tra creazione pioneristica e una produzione di opere artistiche per servire la liturgia
mica successiva alla Seconda Guerra mondiale, si accontentano sovente di vedere in Gesù il Figlio di Maria e Giuseppe, senza andare oltre. Si tratta di un approccio sicuramente ben intenzionato ma impoverente, al limite dell’insignificanza. È lecito pensare che un tale livellamento sociologico del mistero dell’incarnazione non renda giustizia alla tradizione cristiana. Agli occhi dei cristiani, infatti, la nascita di Gesù non è quella di un bambino qualunque. Il Figlio di Maria è anche l’unigenito di Dio Padre. Nato prima dei secoli, merita il titolo di “Anziano dei giorni” (cf. Daniele 7, 9). Prima che il mondo fosse, Lui era già. I cristiani d’Oriente e d’Occidente, di ieri e di oggi, lo hanno creduto e lo credono ancora, sulla scia della testimonianza di Giovanni evangelista: «In principio era il Verbo e il Verbo era Dio e il Verbo era presso Dio» (Gv. 1, 1). Per nascere da Maria, questi ha dovuto per così dire “allontanarsi dalla prossimità del Padre”. Per tale motivo egli disse di sé: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo» (Gv. 16, 28)156, precisando in occasione del suo colloquio notturno con Nicodemo che doveva discendere dal cielo157. Questa dichiarazione fu ripresa come articolo di fede nel Credo niceno-costantinopolitano (381): Descendit de caelo, «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è fatto uomo nella Vergine Maria». 3. La consapevolezza di una duplice interpretazione della Natività, sia nella percezione spirituale sia nell’arte, porta a riflettere sul suo posto nell’arte del xx secolo in Occidente e in particolare dal 1945. Non si tratta forse di un soggetto globalmente in crisi nelle arti occidentali, accanto a tutta la costellazione di soggetti a esso legati, quali l’Annunciazione fino alla Fuga in Egitto e Gesù tra i Dottori del Tempio, passando per la Visitazione, l’Adorazione dei Magi, la Madonna con il Bambino e della Sacra Famiglia? Lo si dice e lo si scrive. Alla fine dell’articolo alla voce
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glia sorta attorno a tale raffigurazione e un’altra è svendere una dimensione del Credo senza la quale il cristianesimo diventerebbe monco, ossia la confessione di un Dio che scelse di farsi bambino per la salvezza del genere umano. Gli autori di questo volume nutrono la speranza di aver contribuito, anche se come una goccia nel mare, alla riflessione sull’avvenire dell’arte di ispirazione pienamente cristiana. Questo impegno è stato possibile anche grazie alla lungimiranza degli Editori di Jaca Book, la dottoressa Minazzi e il dottor Bagnoli, che sostengono una riflessione sull’arte frutto di una sinergia tra iconografia, teologia, storia, liturgia, letteratura, antropologia e spiritualità.
della Chiesa e alimentare la pietà dei fedeli senza sconvolgere eccessivamente i destinatari. Da questo punto di vista il destino riservato alla Natività non apporta nulla di rivoluzionario ma conferma il divorzio e lo squilibrio, all’interno dei temi cristiani che continuano la propria carriera nell’arte, tra gloria e croce. Che il Natale non sia più uno dei due fulcri attorno al quale si organizza un’arte cristiana, almeno in Europa, è un fatto deplorabile, poiché si tratta di un tema che può e deve equilibrare un’arte religiosa – e una teologia – spesso eccessivamente volta verso la sofferenza e l’abbandono della Croce. Una cosa è liberarsi della paccotti-
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note
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Cfr. i dibattiti in merito preparatori al concilio di Calcedonia e le successive divisioni tra chiese calcedonesi e non calcedonesi. 2 La datazione classica della morte di Erode, sulla base di interpretazioni delle eclissi lunari, potrebbe essere anticipata al 4 a.C. Cfr. F. La Greca e L. De Caro, «Nuovi studi sulla datazione della crocifissione nell’anno 34 e della nascita di Gesù il 25 dicembre dell’1 a.C.», Annales Theologici 31 (2017); F. La Greca e L. De Caro, «La datazione della morte di Erode e l’inizio dell’Era Cristiana», Annales Theologici 33 (2019). 3Cfr. O. Ricoux, «Les traditions anciennes sur la date de l’Annonciation», in G. Dorival, J.-P. Boyer (a cura di), La Nativité et le temps de Noël. Antiquité et Moyen Âge, Publications de Université de Provence, Aix-en-Provence 2003, pp. 121-132. 4 Cfr. J. Lindsay Opie, Nel mondo delle icone. Dall’India a Bisanzio, Jaca Book, Milano 2014, cap. 6. 5 C. Gianotto, «L’origine de la fête de Noël au ive siècle», in G. Dorival, J.P. Boyer (a cura di), La nativité et le temps de noël, cit., p. 69. 6 Cfr. Fr. Monfrin, «La fête des calendes de janvier entre noël et épiphanie (La rencontre de deux calendaires)», in Ivi, p. 95-119. 7 C. Gianotto, «L’origine de la fête de noël au ive siècle», in Ivi, p. 65. 8 CF. J. Guyon, «La naissance de jésus dans la première art chrétien», in Ivi, pp. 83-84. 9 Cfr. L. Uspenkij, V. Losskij, Il senso delle icone, Jaca Book, Milano 2007, pp. 148-152; G. Passarelli, Icone delle dodici grandi feste bizantine, Jaca Book, Milano 2000, pp. 100-121. 10 Cfr. E. Fogliadini, L’invenzione dell’immagine sacra. la legittimazione ecclesiale dell’icona al secondo concilio di nicea, Jaca Book, Milano 2015. 11 In particolare si distinguono i contributi acca-
demici raccolti nel volume La Nativité et le temps de Noël. Antiquité et Moyen Âge, cit. e il testo di E. Gondinet-Wallstein, Noël sous le regard des peintres, Mame, Parigi 1989, 2a ed. 2016. 12 Liturgia della Natività secondo la carne del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, in Anthologhion di tutto l’anno, vol. i, Lipa Edizioni, Roma 2012, p. 1154. 13 Cfr. J. Guyon, «La naissance de Jésus dans la première art chrétien», in G. Dorival, J.P. Boyer (a cura di), La Nativité et le temps de Noël, cit., p. 86. 14 Ivi, p. 88 15 Cfr. il contributo di E. Norelli, «La formation de l’imaginaire de la naissance de Jésus aux deux premiers siècles», in G. Dorival, J.-P- Boyer (a cura di), La Nativité et le temps de Noël, cit., pp. 51-63 sull’antichità dei racconti apocrifi e sul ruolo che questi ebbero nel processo di formazione dei racconti canonici. 16 G.P. Bognetti, G. Chierici, A. De Capitani D’Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Fondazione Treccani degli Alfieri per la storia di Milano, Milano 1948. 17 K. Weitzmann, The Fresco cycle of S. Maria di Castelseprio, Princeton University Press, Princeton 1951. 18 E. Kitzinger, Byzantine art in the Period between Justinian and Iconoclasm, in Berichte zum xi. Internationalen ByzantinistenKongress iv,1, C.H. Beck, München 1958, pp. 1-50. 19 A.M. Romanini, Il medioevo (Storia dell’arte classica e italiana 2), Sansoni, Firenze 1988, p. 235; M. Andaloro, Castelseprio, in Enciclopedia dell’arte medievale iv, Roma 1993, pp. 453-459; G. De Spirito, «À propos des peintures murales de l’église de Santa Maria foris portas de Castelseprio», in Cahiers Archéologiques, 46 (1988), pp. 23-64. 20 P.M. De Marchi (a cura di), Castelseprio e Torba.
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Sintesi delle ricerche e aggiornamenti, SAP Editore, Mantova 2013; G.P. Brogiolo, V. Gheroldi, F. De Rubeis, J. Mitchell, «Nuove ricerche su sequenza, cronologia e contesto degli affreschi di Santa Maria foris portas di Castelseprio», in Hortus Artium Medievalium, 20/2 (2014), pp. 720-737. 21 Nelle Natività della prima arte cristiana, Maria è generalmente seduta su una sedia con i piedi su un suppedaneo. Cfr. J. Guyon, «La naissance de Jésus dans la première art chrétien», G. Dorival, J.-P. Boyer (a cura di), La Nativité et le temps de Noël, cit., pp. 85-86. 22 Protovangelo di Giacomo 20, 1, 19.3, in L. Moraldi (a cura di), Apocrifi del Nuovo Testamento. Vangeli, Piemme, Casale Monferrato 1994. 23 Protovangelo di Giacomo 19. 3, in Ivi. 24 Ivi. 24 G. Schiller, Ikonographie der christlichen Kunst, cit., t. 1, fig. 8; M. Brandt, R. Kashnitz, H.J. Schuffels, Das Kostbare Evangeliar des Heiligen Bernward, Prestel, München 1993, pp. 25-55; G. Lange, Weihnachtsbilder als Glaubensimpulse, Katholisches Schulkomissariat in Bayern, München 2003, pp. 13-14. 25 Fr. Bœspflug, «Le Prologue de l’évangile selon saint Jean dans l’art médiéval (ixe-xiiie s.). L’image comme “commentaire”», in Folia Historiae Artium (Cracovia), Seria Nowa, t. 8-9, 2002-2003, pp. 1145 (con Y. Zaluska). 26 Guy de Maupassant, La Vie errante, Gallimard, Paris 2000. 27 B. Brenk (a cura di), La Cappella Palatina a Palermo, 3 vol., Franco Cosimo Panini, Modena 2010. 28 «Fra gli imperatori dei tempi antichi, alcuni hanno eretto diversi santuari per i santi ma io, Ruggero, re potente con lo scettro ho eretto un tempio a Pietro, il primo fra i discepoli scelto dal Signore…». 29 Guy de Maupassant, La Vie errante, cit.
30 Cfr. V. Juhel, «Le bain de l’Enfant-Jésus. Des origines à la fin du douzième siècle», Cahiers archéologiques: fin de l’Antiquité et Moyen Âge, 39, 1991, pp. 111-132. 31 Gregorio di Nissa, Epistola ii, 9, in Epistole, introduzione, traduzione, note a cura di R. Criscuolo, Associazione di studi tardoantichi, Napoli 1981. 32 Per una presentazione sul tema si veda C. Jolivet-Lévy, Les églises byzantines de Cappadoce. Les programmes iconographiques de l’abside et de ses abords, Éd. du c.n.r.s., Paris 1991; S. Kostof, Caves of God. Cappadocia and its churches, The mit Press, Oxford/New York/Toronto 19892; R. Oustehout, A Byzantine Settlement in Cappadocia: Revised Edition, Dumbarton Oaks Studies, Washington DC 2012. 33 C. Jolivet-Lévy, L’arte della Cappadocia, Jaca Book, Milano 2001, p. 181. 34 Ivi, p. 182. 35 Per una presentazione generale a livello storico-artistico cfr. M. Zibawi, L’arte copta. L’Egitto cristiano dalle origini al xviii secolo, Jaca Book, Milano 2003. 36 Nel 1995 Karel Innemée, professore di arte paleocristiana e archeologia presso l’Università di Leiden, e Ewa Parandowska, restauratrice polacca, iniziarono nuove indagini scoprendo che, quasi ovunque, nella chiesa, le pitture primitive furono ricoperte da un intonaco risalente al xviii secolo. Cfr. K. Innemée, A Newly Discovered Painting of the Epiphany in Deir al Surian, in Hugoye, Journal of Syriac Studies, 14, 1. 37 Sull’origine dell’arte delle vetrate si veda C. Brisach, Le Vitrail, Nathan, Paris 1985, pp. 7-11; Jean Lafond, Le Vitrail. Origines, technique, destinées, Paris 1966; nuova edizione aggiornata da F. Perrot, La manufacture, Lione 1988. 38 Fr. Bœspflug, «Le regard de Dieu fait homme. À propos de la Tête de Wissembourg», in De Jésus à Jésus Christ. 1. Le Jésus de l’Histoire, Actes du colloque de Strasbourg, 18-19 novembre 2010, Mame-Desclée, collection «Jésus et Jésus-Christ» diretta da Joseph Doré, Paris 2010, pp. 147-166; Id., Le Regard du Christ dans l’art. Temps et lieux d’un échange, Fleurus-Mame, Parigi 2014, pp. 66-67. 39 L. Grodecki, C. Brisac, Le Vitrail gothique au xiiie siècle, Office du Livre, Fribourg (Suisse) 1984, p. 60: «Chartres, c’est […] l’apogée de l’art du vitrail, ou son apothéose»; C. Manhes-Deremble, Les Vitraux narratifs de la cathédrale de Chartres. Étude iconographique, «Corpus Vitrearum, France, Études ii», le Léopard d’Or, Parigi 1993. 40 C. Manhes-Deremble, Les Vitraux narratifs de la cathédrale de Chartres, cit., p. 169. 41 La pagina consacrata alla creazione del mondo è commentata in F. Bœspflug, F. Bayle, Les monothéismes en images, Bayard, Parigi 2014, fig. 7 e pp. 89-94.
42 E.C.
Teviotdale, The Stammheim Missal, J. Paul Getty Museum, Los Angeles 2001. 43 Le citazioni del Messale di Stammheim, e quindi anche della miniatura qui commentata, appartengono alla Vulgata Sisto-Clementina, o semplicemente Vulgata Clementina, portata a termine all’inizio del pontificato di Clemente viii (1592-1605). 44 H. Schreckenberger, Christliche Adversus Judeos Bilder; Das Alte und Neue Testament im Spiegel der christlichen Kunst (Europäische Hochschulschriften /European ... / Publications Universitaires Européennes), Peter Lang, Gebundene Ausgabe – 1. September 1999. 45 Fr. Bœspflug, «“Un étrange spectacle”. Le Buisson ardent comme théophanie dans l’art occidental», Revue de l’art 97, 1992, pp. 11-31; Id., Les Théophanies bibliques dans l’art chrétien d’Orient et d’Occident, Librairie Droz, Genève 2012, cap. 2. 46 G. Schiller, Ikonographie der christlichen Kunst, Tl. 1, Gütersloh 1966, 2a ed. 1981, pp. 63-65 («Die Einhornjagd im Hortus conclusus»), figg. 125-129; 171-172; A. Vizkelety, «Einhorn», in E. Kirschbaum (a cura di), Lexikon der christlichen Ikonographie, Tl. 1, 1968, Reger. 1991, coll. 590593. 47 Nella raffigurazione dell’Emmanuele, che i Greci definiscono Anapeson (letteralmente “reclinato”) e gli Slavi “Occhio che non dorme”, Cristo è disteso a terra, ha il capo appoggiato sul braccio destro e sembra dormire. Talvolta due angeli e la Madre lo vegliano. Ispirata alla profezia di Giacobbe, dove si parla del leone che pur dormendo veglia (Gn. 49, 9), l’immagine evoca la vittoria di Cristo sulla morte. Cfr. Georges Gharib, Icone di Cristo: storia e culto, Città Nuova, Roma 1993, p. 81. 48 Cfr. Fr. Bœspflug – E. Fogliadini, L’annunciazione nell’arte d’Oriente e d’Occidente, Jaca Book, Milano 2020, pp. 38-41. 49 Ringraziamo l’architetto Enzo Longo per la tenacia con la quale ha cercato questa immagine, permettendoci di ammirare in anteprima i frutti del restauro ancora in corso, e il fotografo Giuseppe Sacchi per aver reso con il suo scatto la meraviglia dei colori di questa pittura murale. 50 A. Jacob, «La formazione del clero greco nel Salento medioevale», in Ricerche e studi in terra d’Otranto 2 (1987), pp. 221-236; Benedetto Vetere (a cura di), Ad Ovest di Bisanzio. Il Salento Medioevale. Atti del Seminario internazionale di Studio (Martano 29-30 aprile 1988), Congedo Editore, Galatina, 1990, pp. 3-29. 51 A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, Capone Editore, Lecce 2014; F. Dell’Aquila – A. Messina, Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, Adda Editore, Bari 1998; M. Falla Castelfranchi, Pittura monumentale bizantina in Puglia, Mondadori Electa, Milano 1991. 52 N. Lavermicocca, I sentieri delle grotte dipinte, Laterza, Bari 2001, p. 33.
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53 Fr. Bœspflug – E. Fogliadini, L’Annunciazione nell’arte d’Oriente e d’Occidente, cit., pp. 65-67. 54 Fr. Bœspflug – E. Fogliadini, La Fuga in Egitto nell’arte d’Oriente e d’Occidente, cit., pp. 38-42. 55 A. Chionna, Beni culturali di San Vito dei Normanni, Editore Schena, Bari 1988. 56 M. Markovi/, «Iconographic program of the oldest wall paintings in the church of the Virgin Peribleptos at Ohrid. A list of frescoes and notes on certain program particularities», in Zograf 25 (2011), p. 119-143. 57 T. Velmans, La visione dell’invisibile: l’immagine bizantina o la trasfigurazione del reale, Jaca Book, Milano 2009, p. 144. 58 Cennino Cennini, Il libro dell’arte, Neri Pozza Editore, Vicenza 1992, cap. 1. 59 G. Vasari, Le Vite (ed. 1550), a cura di L. Bellosi, A. Rossi, Einaudi, Torino 1986, p. 147. 60 G. Pisani, I volti segreti di Giotto. Le rivelazioni della Cappella degli Scrovegni, Editoriale Programma, Padova 2015, p. 200; Id. La concezione agostiniana del programma teologico della Cappella degli Scrovegni, in F. Bottin (a cura di), Alberto da Padova e la cultura degli Agostiniani, Padova University Press, Padova 2014. 61 G. Pisani, Il capolavoro di Giotto. La Cappella degli Scrovegni, Editoriale Programma, Padova 2015. 62 «Io, Giuseppe, camminavo e non camminavo. Guardai nell’aria e vidi l’aria colpita da stupore; guardai verso la volta del cielo e la vidi ferma, e immobili gli uccelli del cielo; guardai sulla terra e vidi un vaso giacente e degli operai coricati con le mani nel vaso: ma quelli che masticavano non masticavano, quelli che raccoglievano il cibo non l’alzavano dal vaso, quelli che lo stavano portando alla bocca non lo portavano; i visi di tutti erano rivolti a guardare in alto. Ecco delle pecore spinte innanzi che invece stavano ferme: il pastore alzò la mano per percuoterle, ma la sua mano restò per aria. Guardai la corrente del fiume e vidi le bocche dei capretti poggiate sull’acqua, ma non bevevano. Poi, in un istante, tutte le cose ripresero il loro corso», in Protovangelo di Giacomo 18, 2-3. L’autore vuole suggerire a tutta la creazione il paradosso di una “Vergine che ha partorito senza partorire”, fotografando l’istante in cui il tempo e l’eternità si toccano nel-la nascita di Gesù. Cfr. la spiegazione di E. Norelli, «La formation de l’imaginaire de la naissance de Jésus aux deux premiers siècles», in G. Dorival, J.-P. Boyer (a cura di), La Nativité et le temps de Noël, cit., p. 58. 63 P.P. Donati, La Maestà di Duccio, Sansoni, Firenze 1965; E. Carli, La Maestà di Duccio, ifi, Firenze 1982; L. Bellosi, Duccio. La Maestà, Electa, Milano 1998. 64 Cfr. A. Klein, R. Ousterhout (a cura di), Restoring Byzantium, Columbia University Press, New York. 65 I. Šev/enko, «Théodore Métochites. Chora et les courants intellectuels de l’époque», in Art et
Société à Byzance sous les Paléologues. Actes du colloque organisé par l’Association Internationale des Études Byzantines à Venise en Septembre 1968, Biblioteca dell’Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini di Venezia, n. 4, Venezia 1971, pp. 16-39. 66 L. Uspenkij, V. Losskij, Il senso delle icone, cit., p. 151. 67 Fr. Bœspflug, «L’islam et son rapport aux lieux de culte non-musulmans», Boletín de la Sociedad Española de Bizantinística, n° 36 (2020). 68 Aa.Vv., Yugoslavia Mediaeval Frescoes Unesco World Art Series, New York Graphic Society/ Unesco, Paris 1955; Rosa D’Amico (a cura di), Tra le due sponde dell’Adriatico: la pittura nella Serbia del xiii sec. e l’Italia, Edizioni Edisai, Ferrara 1999; T. Velmans, L’arte monumentale bizantina, Jaca Book, Milano 1999. 69 V. Kora0 (a cura di), Studenica et l’art byzantin autour de l’année 1200. À l’occasion de la célébration des 800 ans du monastère de Studenica et du centième anniversaire de l’Académie Serbe des Sciences et des Arts, sept. 1986: reçu à la ive séance de la Classe des sciences Hist. le 29 avril 1987, Korac, Belgrade 1988. 70 T. Velmans (a cura di), Icone. Il grande viaggio, Jaca Book, Milano 2015, p. 36. 71 Liturgia della Natività…, in Anthologhion di tutto l’anno, cit., p. 1159. 72 Cfr. La miniature arménienne. xiiie xive siècles. Collection du Maténadaran, Éditions d’art Aurora, Léningrad 1984. 73 Armenian miniatures, Nairi Publishing House, Yerevan 2009, pp. 34-37. 74 Liturgia della Natività…, in Anthologhion di tutto l’anno, cit., p. 1156. 75 Liturgia della Natività…, in Anthologhion di tutto l’anno, cit., p. 1156. 76 B. Todi0, Serbian Painting. The Age of King Milutin, Draganic, Belgrado 1999. 77 R. Kovijanic, Vita Kotoranin, neimar Decana, Magellan Press, Belgrado 2016, pp. 185-189. 78 Del primo si discute sull’identificazione: l’ipotesi più verosimile è che Vita appartenesse al Terz’Ordine francescano, afferenza che gli permise di anteporre frater al proprio nome. Cf. B. Todi0- M. 1anak-Medi0, The De/ani Monastery, The De/ani Monastery, Serbian Orthodox Monastery of De/ ani, Belgrado 2005, pp. 266-274. 79 B. Bojovi0, L’idéologie monarchique dans les hagio-biographies dynastiques du Moyen Âge serbe, Pontificio Istituto Orientale, Roma 1995, pp. 175-184. 80 E. Fogliadini, «Il katholikon del monastero di Visoki De/ani: architettura e iconografia celebrano la storia salvifica», in Spazio sacro e iconografia. Limiti, sfide, responsabilità, Jaca Book, Milano 2020, pp. 43-57. 81 S. Korunovski, E. Dimitrova, Macedonia. L’arte
medievale dal ix al xv secolo, Jaca Book, Milano 2006, p. 201; cfr. anche P. Miljkovic-Pepek, Le complexe des églises de Vodo0a, Skopje 1975. 82 S. Korunovski, E. Dimitrova, Macedonia. L’arte medievale dal ix al xv secolo, cit., p. 204. 83 Il riferimento è, per contrasto, alla modalità con cui Giuseppe fu scelto dai sommi sacerdoti per affidargli Maria: sia il Protovangelo di Giacomo (cap. 9) sia lo Pseudo Vangelo di Matteo (cap. 3) raccontano del miracolo di una colomba uscita dal bastone di Giuseppe che volò sul suo capo attestandone l’elezione. 84 Byzantine art and Renaissance Europe, A. Lymberopoulou, R. Duits (a cura di), Routledge, New York 2013. 85 G. Passarelli, Creta tra Bisanzio e Venezia, Jaca Book, Milano 2003, p. 105. 86 Leone Magno, I sermoni del ciclo natalizio, Nardini, Firenze 1998. 87 Liturgia della Natività…, in Anthologhion di tutto l’anno, cit., p. 1160. 88 Vangelo armeno dell’infanzia, 5. 9, in M. Craveri (a cura di), I vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1969. 89 Les Très Riches Heures du Duc Jean de Berry, fac-simile, Moleiro éditeur, Barcellona; Les Très Riches Heures du Duc de Berry, testo di Raymond Cazelles, prefazione di Umberto Eco, Faksimile Verlag, Lucerna 1988. 90 É. Mâle, L’Art religieux à la fin du Moyen Âge en France. Etude sur l’iconographie du Moyen Âge et sur ses sources d’inspiration, Armand Colin Éditeur, Parigi 1995 (1a edizione 1909), pp. 16-17 e fig. 16 p. 20. 91 Lo dice esplicitamente: cf. G. Schiller, Iconography of Christian Art, t. 1, 1971, p. 78. 92 O. Delenda, Rogier Van der Weyden. Roger de la Pasture, Éditions du Cerf/Tricorne, Paris/Genève 1987, p. 21 e pp. 48-49; S. Kemperdick, Rogier Van der Weyden, 1399/1400-1464, Könemann, Köln 1999, p. 61; A. Châtelet, Rogier Van der Weyden (Rogier de la Pasture), Gallimard/Electa, Parigi/Milano 1999, p. 25 e pp. 102-105. 93 J. Ruda, Fra Filippo Lippi. Life and work with a complete catalogue, Phaidon Press, Londra 1993; J. Cagliardi, La Conquête de la peinture. L’Europe des ateliers, du xiiie au xve siècle, Flammarion, Parigi 1993, pp. 365-369; M.P. Mannini, M. Fagioli, Filippo Lippi. Catalogo completo, Octavo, Firenze 1997. 94 A proposito di questa tematica teologica e dell’eco che ebbe nell’arte occidentale si veda Fr. Bœspflug, Le Dieu des peintres et des sculpteurs. L’Invisible incarné, Hazan/Éditions du Louvre, Parigi 2010. 95 S. Bethmont, «Béatitude de Noël: la Nativité dans la nuit», Narthex, 20 décembre 2019. 96 E. Gondinet-Wallstein, Noël sous le regard des peintres, Mame, Parigi 1996, p. 115.
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97 G. Vasari, Le vite (1550), a cura di L. Bellosi A. Rossi – G. Previtali, ii, Einaudi, Torino 1991, p. 680. 98 Cfr. Fr. Bœspflug, Le immagini di Dio. Una storia dell’Eterno nell’arte, Einaudi, Torino 2012, p. 377. 99 V. Pomarède, 1001 peintures au Louvre : de l’Antiquité au xixe siècle Musée du Louvre Editions, Parigi 2005, p. 299. 100 G.V. Popov, Andrei Rublev, Severny˘ı palomnik, Mosca 2007 (in russo e in inglese). 101 In particolare, il concilio dei cento capitoli (Stoglav) del 1551 invitò i pittori a dipingere l’icona della Trinità secondo il modello di Rublëv. Cfr. L. Uspenskij, La teologia dell’icona. Storia e iconografia, La Casa di Matriona, Milano 1995, pp. 196-210. 102 J. Lindsay Opie, Nel mondo delle icone. Dall’India a Bisanzio, cit., pp. 97-98. 103 V.N. Lazarev, L’arte russa delle icone, Jaca Book, Milano 2006, 2a ed., p. 24. 104 Cfr. E. Fogliadini, L’invenzione dell’immagine sacra, cit. 105 L. Uspenskij, V. Losskij, Il senso delle icone, cit., p. 149. 106 M.V. Alpatov, I.S. Rodnikova, Les icônes de Pskov xiiie xvie siècles, Léningrad 1991; I.S. Rodnikova, Ancient Pskov, Gorenjski Tisk, Slovenia 2006. 107 Cfr. Vangelo di Matteo 1, 20: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 108 M.V. Alpatov, I.S. Rodnikova, Les icônes de Pskov xiiie xvie siècles, cit., p. 301. 109 A. Emiliani, Federico Barocci (Urbino, 1535 1612), vol. ii, Il Lavoro Editoriale, Ancona 2008, pp. 91-92; J.W. Mann, B. Bohn, C. Plazzotta (a cura di), Federico Barocci: Renaissance Master of Colour and Line, Yale University Press, New Haven-London 2012. 110 Liturgia della Natività…, in Anthologhion di tutto l’anno, cit., p. 1163. 111 A. Chastel, L’Art français. Ancien Régime. 1620-1775, Flammarion, Paris 1995, p. 138. 112 P. Choné, Georges de La Tour: un peintre lorrain du XVIIe siècle, Casterman, Tournai 1996, p. 150. 113 Olio su tela, 107 × 137 cm, 1644 circa, Museo del Louvre, Parigi. Questo dipinto è riprodotto e analizzato da E. Gondinet-Wallstein, Noël sous le regard des peintres, cit., pp. 142-149. 114 F. Zava Boccazzi, Pittoni, Alfieri, Venezia 1979; A. Perissa Torrini, Disegni di Giovan Battista Pittoni, Electa, Milano 1998. 115 Cfr. E. Fogliadini, «Arte e scienza in Europa. La critica ortodossa al Rinascimento», in Il Rinascimento a Milano e in Lombardia, Bulzoni Editore, Roma 2016, pp. 111-122.
116 Cfr. Fr. Bœspflug, La figure de Dieu dans l’art à l’épreuve de la Renaissance: vers la fin du christomorphisme, in Ivi, pp. 91-100. 117 T. Velmans (a cura di), Icone. Il grande viaggio, cit., p. 297. 118 Cfr. l’identificazione proposta nel catalogo ufficiale della collezione, Aa.Vv., Icone russe, Electa, Milano 1999, p. 110. 119 L’opera fu venduta nel 2012 mentre era esposta al Palais Dorotheum di Vienna. 120 A.P. Bräuer, Fritz von Uhde, Verlag der Kunst, Dresden 1985; D. Hansen (a cura di), Fritz von Uhde. Vom Realismus zum Impressionismus, Hatje Cantz, Ostfildern-Ruit 1998; G.-H. Vogel (a cura di), Fritz von Uhde, 18481911: Beiträge des 1. Internationalen Wolkenburger Symposiums zur Kunst vom 20. bis 22. Mai 2011 auf Schloss Wolkenburg, Lukas Verlag, Berlin 2013. 121 Fr. Bœspflug, Jésus atil eu une vraie enfance? L’art chrétien en procès, Éditions du Cerf, Parigi 2015, fig. 21 e pp. 105-106. 122 Olio su legno, 59 × 48 cm; Staatlische Kunstsammlungen, Galerie Neue Meister; l’opera è riprodotta e commentata da E. Gondinet-Wallstein, Noël sous le regard des peintres, cit., pp. 162-167. 123 Fr. Bœspflug, Jésus atil eu une vraie enfance?, cit., cap. 1. 124 V. Buisine, «Récit d’une conversion religieuse et picturale, Alfred Manessier», La Documentation catholique, in «L’art à la rencontre de la foi», n° 2493, 1er-15 juillet 2012, pp. 632-639. 125 Siamo profondamente riconoscenti a Christine Manessier, figlia del pittore, per aver letto con attenzione questo commento e avervi apportato alcune precisazioni. 126 Nella tela del 1946 chiamata Noël (Natale), Manessier andò ancora più lontano abbandonando tutte le forme figurative legate a questo soggetto: l’unico motivo che si riesce a identificare con certezza è la stella; cfr. E. GondinetWallstein, Noël sous le regard des peintres, cit., pp. 172-175. 127 E. Wachter, Biblische Porträts, mit Texten von F. Weinreb, a cura di C. Schneider, Thauros Verlag, Monaco 1982. 128 B. Baumstark (a cura di), Emil Wachter. Malerei und Zeichnungen 1955-1995, Badischer Kunstverein, Karlsruhe 1996; N. Badr, Emil Wachter. Leben gemalt, Swiridoff Verlag, Künzelsau 2001; C. Jöckle, Emil Wachter zum 90. Geburtstag, Malerische Schöpfungen und Werke in der Sammlung Würth, Swiridoff Verlag, Künzelsau 2011. 129 E. Wachter, Die Bilderwelt der Autobahnkirche BadenBaden, con contributi di Alfons Deissler e Herbert Schade, 2a ed., Herder, Freiburg 1982. 130 Saint-Hugues-de-Chartreuse. Catalogue complet de l’œuvre d’Arcabas, Conseil Général de
l’Isère, Grenoble 1992; Fr. Bœspflug, Arcabas. Saint-Hugues-de-Chartreuse et autres œuvres, Conseil Général de l’Isère, Grenoble 2008. 131 Fr. Bœspflug, Arcabas, Saint-Hugues de Chartreuse et autres œuvres, cit., p. 128. 132 Ivi, pp. 165-169. 133 Fr. Bœspflug, Arcabas. Et incarnatus est, préface du cardinal Danneels, Alewijn, Anversa 2002. 134 Ivi, pp. 36-37. 135 Lo testimonia bene il sito che ne raccoglie le opere: https://www.heqiart.com 136 Si ringrazia il pittore per aver messo a disposizione del pubblico italiano questa Natività e Apollinaire Dialungani Muendo e il Centro Culturale Boboto per la foto e la squisita disponibilità. 137 Cfr. intervista: https://www.omsc.org/ sawai-chinnawong 138 Cfr. S. Morishita, L’Art des missions catholiques au Japon (xvie – xviie siècle), prefazione di Fr. Bœspflug, Les Éditions du Cerf, Parigi 2020. 139 Si veda la presentazione che l’artista fa del proprio lavoro: Julia Stankova, «Le icone ortodosse: la Tradizione e la sfida del mondo contemporaneo», in Spazio sacro e iconografia. Limiti, sfide, responsabilità, Jaca Book, Milano 2020, pp. 91-97. 140 Fr. Bœspflug, «Abraham’s Hospitality in the Work of Julia Stankova, Painter of Bulgarian Icons», trad. di Jordan Daniel Wood, in The Journal of Icon Study, vol. ii, 2019, pp. 119-139. 141 Sono tutte presentate sul sito personale: http://www.juliastankova.com 142 Cfr. intervista: https://www.omsc.org/artist-sasongko 143 Ivi. 144 Si riprende integralmente il testo redatto in occasione della mostra d’icone, organizzata nel 2018 da Padre Benedetto del Monastero di Visoki De/ani, esposta in diverse città italiane. Cfr. E ti vengo a cercare. Sulla nascita di Cristo e l’infanzia delle icone, душа Duuscia Edizioni, Belgrado 2018, pp. 15-16. 145 Fr. Bœspflug, Crucifixion. La Crucifixion dans l’art – un sujet planétaire, Bayard, Parigi 2019, cap. 7. 146 Sono tutte presentate sul sito personale: www. nikolasaric.de 147 Fr. Bœspflug – E. Fogliadini, La Resurrezione di Cristo nell’arte d’Oriente e d’Occidente, Jaca Book, Milano 2019, p. 213-217. 148 Cfr. il numero tematico degli Annales. Histoire, sciences sociales, vol. 54/4, 1999, consacrato alle «Conversions religieuses», con la presentazione di Pierre-Antoine Fabre, pp. 805-812. 149 Questo testo, che raccoglie diverse dichiarazioni dell’artista, è stato pubblicato da Anne-Laure Filhol sul giornale La Vie, in «Les Essentiels», numero dal 30 gennaio al 5 febbraio 2014.
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150 François-Xavier de Boissoudy. Résurrection, Miséricorde, Lavis d’encre sur papier, 2014-2016, testo di François Bœspflug, Éditions de Corlevour, Bruxelles 2016; F.-X. de Boissoudy, J.-P. Denis, Un chemin de croix, Editions de Corlevour, Bruxelles 2019. 151 J.-H. Foulon, « La Nativité dans la prédication de Bernard, abbé de Clairvaux », in G. Dorival, J.-P- Boyer (a cura di), La Nativité et le temps de Noël. Antiquité et Moyen Âge, Aix-en-Provence 2003, pp. 213-229 (219). 152 A proposito del tema delle tre nascite, cf. A. Solignac, « Naissance divine (mystique de la) », Dictionnaire de Spiritualité, xi, 1982, col. 24-34; per Isacco della Stella, cf. il suo Sermone 42 sull’Annunciazione in pl 194, 1831 C-1832 ab; per Giovanni Taulero, cfr. il Sermone 1 per la festa di Natale, in S. Eck, Initiation à Jean Tauler, Paris, Cerf, 1994, p. 181-188; sulla mistica della nascita del Verbo di Dio nel cuore dei credenti, cfr. H. Rahner, « Die Gottesgeburt Christ aus dem Herzen der Kirche und der Gläubigen », Zeitschrift für Katholische Theologie, 59, 1935, p. 338-418, ripreso in Symbole der Kirche. Die Ekklesiologie der Väter, Salzbourg, 1964, p. 11-87. La tradizione che associa le tre nascite alle tre messe di Natale (di mezzanotte, dell’aurora e del giorno) apparve all’inizio del xviii secolo, in particolare in Innocento iii. 153 Cfr. A. Grabar, Ampoules de Terre Sainte (Monza-Bobbio), Klincksiek, Paris 1958; L. Uspenkij, V. Losskij, Il senso delle icone, cit., p. 148. 154 J.-M. Spieser, Images du Christ, des catacombes aux lendemains de l’iconoclasme, Librairie Droz, coll. «Titre courant, 57», Ginevra 2015, p. 233 ss. 155 Questa tendenza è sensibile nella pittura murale di Castelseprio (fig. 2) e ritorna in tutte le Natività orientali o “orientalizzanti”. 156 A proposito del tema della discesa del Verbo di Dio nell’arte in vista della sua incarnazione si veda Fr. Bœspflug, Le Dieu des peintres et des sculpteurs, cit. 157 «Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo» (Gv. 3, 13). 158 E. Kirschbaum, W. Braunfels, (a cura di), Lexikon der christlichen Ikonographie, articolo «Geburt Christi», ii, 1969, col. 86-120, sp. col. 116 (La fine della citazione precisa: «Per esempio in Emil Nolde, nel suo ciclo della Vita di Gesù del 1911-12. Tuttavia, in due ambiti, la tradizione iconografica vive ancora: nelle illustrazioni della Bibbia e nei presepi dell’arte popolare».
Bibliografia
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Publications de Université de Provence, Aix-enProvence 2003.
crediti fotografici
Pp. 15, 16, 19, 20, 23, 24, 25, 35, 36, 71, 73, 109, 110, 125, 126, 133, 134, 141, 143, 144-145, 151, 152, 167, 168, 171, 172, 175, 176, 183, 185, 195: Archivio degli Autori; pp. 31, 33, 37, 38, 63, 65, 92, 93, 99-101, 105, 106, 113, 114, 117, 118, 121, 122, 129, 130: Archivio Jaca Book; pp. 43, 44: World History Archive / Alamy Foto Stock; pp. 47, 48: Courtesy J. Paul Getty Museum, Los Angeles; pp. 51, 52, 59, 60, 87, 88: Courtesy Stefan, Arcivescovo di Ohrid e Macedonia; pp. 55, 57: Courtesy Giuseppe Sacchi; pp. 67, 68: Painting / Alamy Foto Stock; pp. 75, 77, 83, 85: Courtesy Monastero di Visoki De/ani; pp. 79, 80: Courtesy Museo Matenadaran; pp. 95, 96: Art Heritage / Alamy Foto Stock; pp. 137, 138: Courtesy Gallerie d’Italia, Palazzo Montanari, Vicenza; pp. 147, 149: The Picture Art Collection / Alamy Foto Stock; pp. 156-157: © Alfred Manessier, by Siae 2020; pp. 159-160: © Emil Wachter, by Siae 2020; pp. 163-164: © Arcabas, by Siae 2020; pp. 179, 180: Courtesy Julia Stankova; pp. 187, 188: Courtesy Ana Ili0; pp. 191-183: © Nikola Sari0, by Siae 2020; p. 195: Courtesy François-Xavier de Boissoudy.
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