LE PRIME IMMAGINI CRISTIANE
Mahmoud Zibawi
LE PRIME IMMAGINI CRISTIANE
© 1998 Editoriale Jaca Book SpA tutti i diritti riservati
Sommario
Prima edizione italiana settembre 1998 Nuova edizione italiana Editoriale Jaca Book Srl settembre 2018
I testi di Julien Ries e Mahmoud Zibawi sono stati tradotti dal francese da Fernanda Littardi
Introduzione La controversia sugli idoli, l’antropologia patristica e le origini dell’iconografia cristiana Julien Ries p. 7
Copertina e impaginazione Break Point/Jaca Book
Capitolo primo L’eredità artistica dell’Antichità i-ii secolo p. 15
Fotolito Target Color, Milano
Stampa e legatura Stamperia scrl, Parma agosto 2018
Capitolo secondo I primordi dell’arte cristiana iii secolo p. 41 Capitolo terzo La fioritura dell’arte cristiana iv secolo p. 81 Capitolo quarto L’arte tra ultima antichità e Bisanzio v secolo p. 153 Capitolo quinto La prima arte bizantina vi-vii secolo p. 247
Glossario di riferimento p. 313 ISBN 978-88-16-60565-7
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
Bibliografia p. 313 Indice dei nomi p. 315 Indice dei luoghi p. 317
Introduzione
La controversia sugli idoli, l’antropologia patristica e le origini dell’iconografia cristiana
come la scuola di Tiranno (At 19,9) o la casa di Lidia (At 16,14-40), seguendo l’esempio della casa di Pietro aperta a Gesù a Cafarnao. Dopo la morte degli Apostoli, i Padri apostolici registrano la preziosa testimonianza della giovane età della Chiesa data dalle comunità fondate dagli Apostoli e dai testimoni oculari di Gesù. Leggendo i testi si comprende l’organizzazione delle comunità, che rimangono ancorate all’unità della fede, alla preghiera e alla celebrazione eucaristica2 e sono pienamente consapevoli della responsabilità assunta nella trasmissione del messaggio di Cristo. Inoltre, gli scritti dimostrano il nascere di un lessico cristiano: eucharistia assume il significato del sacramento; evangelion viene applicato a un libro scritto da un testimone della buona novella; leitourghia indica il servizio di Dio e degli uomini; paroikia, che in origine significava abitare come straniero in un luogo, passa a indicare la Chiesa locale. In Clemente Romano (Lettera ai Corinzi 40, 5) troviamo per la prima volta il termine greco laicos per designare gli uomini che non sono né sacerdoti né leviti, vocabolo mantenuto dalla Chiesa. Gli scritti dei Padri apostolici sono il riflesso della fedeltà dottrinale delle comunità cristiane, del loro zelo apostolico e del fervore nella celebrazione dell’eucaristia. Verso la metà del ii secolo d.C. si profila l’opposizione sistematica degli intellettuali pagani al Cristianesimo, uscito prepotentemente alla ribalta manifestando grande vitalità. La storia riporta i nomi di Frontone di Cirta (100-174 d.C.), di Luciano di Samosata (125-192 d.C.) e molti altri, fra cui emerge Celso col suo Discorso della verità (Logos Alethes), scritto verso il 1703. Giustino (decapitato a Roma verso il 165) scrive una Apologia per l’imperatore Antonino Pio (138-161)4. Nel difendere i cristiani egli affronta la questione degli idoli (Apol. 1, 9, 1-5); ritiene che si tratti di statue modellate dagli uomini
Nascita di un popolo e il problema dell’arte Le prime comunità in cerca di una via
Nota al lettore I numeri a margine del testo rinviano alle tavole a corredo del volume.
Verso il 30 d.C. un fenomeno sconvolge il contesto antropologico, religioso e sociale del Medio Oriente e dei paesi mediterranei; si fa avanti infatti un gruppo di dimensioni sempre crescenti in nome di Gesù di Nazareth, il Christos, «unto», il consacrato (At 11,26). Luca sintetizza così il comportamento della prima comunità di fedeli: devoti all’insegnamento degli apostoli, si distinguono per la comunione fraterna, la frazione del pane e la preghiera (At 2,42-44; 46-48). Il redattore degli Atti racconta anche della frequentazione quotidiana del Tempio, dove il raduno avviene sotto il portico di Salomone (At 5,12). Nel documento Gerusalemme è considerata il primo centro di diffusione della nuova religione, ma altre comunità si formano rapidamente in Galilea. Con la prima persecuzione scatenata dagli ebrei viene organizzata la dispersione e le conversioni si moltiplicano. La più eclatante è quella di Saulo di Tarso che diventa fervente apostolo della missione cristiana fra i pagani. Nel 111 d.C. Plinio il Giovane invia una missiva all’imperatore Traiano, in cui lo informa di una situazione da lui riscontrata in Bitinia, nel nord dell’Asia Minore: i templi sono deserti e, sia nelle città, sia nelle campagne, scarseggiano i clienti nelle botteghe dei macellai, dove la carne deve essere preventivamente consacrata con un rituale preparatorio ai sacrifici. Responsabili della situazione sono i membri di una associazione, chiamati cristiani1. Per capire le ragioni di un numero così cospicuo di conversioni agli inizi del ii secolo si deve tener conto della mobilitazione di tutto un popolo. In quelle comunità fraternizzavano ricchi e poveri, schiavi e padroni, funzionari e lavoratori liberi. Le assemblee avvenivano sia nelle case private, sia in quelle messe a disposizione della comunità 7
crum: falsi dèi. Nel Nuovo Testamento viene introdotto il termine eidolatria, idolatria, che assume un significato specifico per il Cristianesimo, «adorazione dei falsi dèi». Dalle conquiste di Alessandro Magno le statue delle divinità hanno un immenso successo e suscitano una discreta opposizione nel mondo greco, in particolare filosofico, ma hanno altresì alcuni grandi fautori: Massimo di Tiro sul finire del ii secolo, il neo-platonico Porfirio nel secolo successivo, il suo successore Giamblico e l’imperatore Giuliano, che riporta in auge il culto degli dèi. Gli autori hanno studiato il simbolismo delle statue: il marmo e l’avorio si riferiscono al carattere luminoso della divinità, mentre l’oro ne evoca la purezza perfetta. Per l’imperatore Giuliano le statue sono simbola, segni della presenza degli dèi, ma non sono da considerarsi divinità in sé. I cristiani provenienti dalla religione ebraica avevano tradizioni molto radicate derivanti dall’opposizione a ogni forma di idolatria, mentre i cristiani convertiti dal paganesimo erano invitati a separarsi in maniera radicale dagli idoli. Una prima ragione dell’opposizione al culto degli idoli è fondata sulla loro inesistenza come realtà spirituali e sul carattere demoniaco dell’idolatria (1 Cor 10,19; Gal 4,8); la seconda ragione si ispira a Filone di Alessandria il quale, nell’opera De decalogo (52-80), sottrae la divinità a qualunque somiglianza umana e considera l’antropomorfismo un’empietà (De vita contemplativa, 7). Giustino ha sviluppato la suddetta argomentazione in Apol. 11, 1-5. Una terza ragione d’opposizione è estratta dalla demonologia: gli dèi pagani sono demoni, ombre, spiriti infami e impuri. L’argomentazione si trova nel Protrettico di Clemente Alessandrino, che considera l’idolatria un errore e una corruzione morale, perché il fedele è indotto ad adorare come divino ciò che è materia e demone (58, 3-4; 61, 4). Tertulliano in De idolatria (7-8; 11) maledice gli artisti perché modellano corpi ai demoni. Il tema demoniaco rimane un argomento che permette di condannare severamente i culti pagani; sant’Agostino, nella controversia della religione romana, definisce demoni le divinità (De civitate Dei, iv, 27 ). Nonostante la controversia degli dèi pagani, le statue divine e l’idolatria, nel mondo cristiano comincia ad aprirsi uno spiraglio per l’iconografia e per l’arte a partire dal ii secolo. L’apologia cristiana è un fenomeno dello stesso periodo e ha come conseguenza l’entrare in contatto con la religione, con il pensiero e la cultura del mondo antico. Se Taziano rifiuta e condanna integralmente l’insieme della cultura greca, lo stesso non accade con Giustino o con l’autore della Lettera a Diogneto. Giustino afferma che «il seme del Verbo è innato nell’intero genere umano» (Apol. 11, 8, 1), argomento essenziale che verrà ripreso dalla dottrina dei Padri della Chiesa. Nella Lettera a Diogneto è espresso il concetto che l’uomo sia dotato di pensiero razionale, il cosmo organizzato in funzione dell’uomo il quale, unico tra gli esseri viventi, ha assunto la stazione eretta e in tal modo può volgere gli occhi al cielo (10, 2). Clemente Alessandrino nel Protrettico ha presentato innanzitutto il canto nuovo che è nato dopo i misteri pa-
ed erette nei templi col nome di divinità, ma Dio non è simile alle immagini elaborate a somiglianza dei geni del male. Le statue senza vita, fatte di materiale grezzo, sono un oltraggio alla divinità e gli autori sono empi e dissoluti quanto i guardiani dei templi. Giustino prende in esame i vari dèi pagani opponendo loro il Cristo (Apol. 1, 25, 1-3). Terminata l’argomentazione, ritorna ai cattivi demoni ispiratori del plagio dei riti cristiani (Apol. 1, 65, 6), in particolare del battesimo e dell’eucaristia, dove dimostra come la celebrazione dei misteri di Mitra tenti di imitare quella dell’eucaristia cristiana. Sulla scia di Giustino, l’idolatria diventa uno dei bersagli principali degli apologisti cristiani contro gli dèi pagani. Tertulliano, nell’Apologeticum, si scaglia violentemente contro le statue riproducenti la divinità, fabbricate in materiali simili a quelli di vasi e utensili vari, ignorando l’omaggio e l’oltraggio, oggetti commerciali e in realtà sostituti dei demoni5. Il contemporaneo Minucio Felice, avvocato romano, sferra un attacco analogo in un libro intitolato Octavius, in cui esprime giudizi durissimi nei confronti della religione romana, delle divinità di legno, di bronzo, d’argento e di ferro fabbricati sull’incudine, così come nei confronti di riti ignobili e giochi indegni. Inoltre, sostiene che i cristiani non dispongono né di santuari né di altari, perché non è possibile rinchiudere nelle case l’Artefice dell’Universo, poiché il tempio di Dio è il cuore del cristiano6. Nella Lettera a Diogneto, scritta probabilmente verso la fine del ii secolo, la confutazione dell’idolatria è basata su argomenti analoghi: le statue sono opera di uomini e sono costituite di materiali deperibili come il bronzo, il legno, l’argento, il ferro e la terracotta. Detto questo, gli utensili fatti con materiali analoghi potrebbero forse essere considerati a loro volta divinità... (11, 2-4)7. Gli apologisti greci e latini sviluppano gli stessi argomenti contro idoli e statue degli dèi pagani. La questione resta aperta dal ii al iv secolo, con autori come Tertulliano, Minucio Felice, Cipriano e Lattanzio8. Nel 346 Firmico Materno scrive il De Errore profanorum religionum, testo in cui si trova un’aspra critica ai falsi dèi e la condanna dei loro adoratori. Nel momento in cui il Cristianesimo muove liberamente i primi passi, l’autore invita le autorità politiche all’intolleranza contro i pagani9. H.I. Marrou ha definito «idiozia dell’apologetica» la confutazione dell’idolatria della Lettera a Diogneto (11, 2-7), perché «viene implicitamente negata la possibilità di un’iconografia religiosa»10. Quindi è rimasta la questione dell’influenza dell’apologetica cristiana sul ritardo di sviluppo dell’arte cristiana delle origini. La rappresentazione visibile delle divinità in uso da millenni nel Medio Oriente e in Egitto si incontra con la tradizione greca delle statue dedicate alle divinità. Nel mondo greco il termine agalma indica la statua di una divinità venerata dai fedeli; il termine xoanon si riferisce a sua volta a una statua modellata da un artista; eidolon è impiegato più raramente nell’antichità classica ma è frequente nella Bibbia greca con cui vengono tradotti sedici diversi vocaboli ebraici. In latino è tradotto da idolum e simula8
per i cristiani tutto ciò costituisca mysterion e doxa, mentre per ebrei e pagani questi particolari sono urtanti (1 Cor 1,22-23; 2,8). I Padri della Chiesa hanno attribuito grande importanza ai simboli biblici dell’Antico Testamento che prean nunciano la croce del Salvatore: legno e albero della vita, quercia di Mamre (Gen 22,6), bastone di Mosè (Es 4,2-5). Giustino insiste sul valore e sulla necessità del linguaggio simbolico (Apol. 1, 55, 1); si serve dell’Antico Testamento come rivelatore della forza del mistero della croce (Apol. 1, 31, 7; 32, 4; 35, 2, 7; 55, 4; 60, 3,5). Ma i Padri utilizzano anche la simbologia cosmica descritta dai pitagorici e di cui Platone dà un esempio nel Timeo (36 BC): i due grandi cerchi del mondo che si intersecano a forma della lettera greca chi rovesciata, attorno ai quali gira la volta celeste sono, agli occhi dei cristiani, la croce del cielo; così il Cristo immolato sulla croce viene a trovarsi sull’asse del mondo, il Golgota (Apol. 1, 60). Il simbolismo viene largamente usato dai Padri apostolici del mondo latino; Ippolito Romano, in un’omelia pasquale, celebra la croce come l’albero cosmico che si alza dalla terra al cielo: accanto alla simbologia biblica e alla simbologia cosmica troviamo anche i simboli ripresi dalla vita quotidiana e dalle attività dell’uomo, come la navigazione. Come l’albero maestro e la vela costituiscono una sicurezza per il viaggio dei marinai e dei passeggeri, così la croce di Cristo assicura la salvezza degli uomini (Apol. 1, 55, 6-7). Gli stessi simboli si ritrovano anche in Tertulliano (Ad nationes, 1, 12, 1-16). La dottrina è diventata una pratica nella vita cristiana. Nel ii secolo, nelle catacombe, i cristiani hanno inciso il simbolo della croce in varie forme: croce greca +, croce latina † e tau τ, forma in cui si presentava lo strumento del supplizio, che costituiva anche un importante simbolo biblico. Le catacombe rivelano anche un’altra rappresentazione della croce, raffigurata come un’ancora: asse orizzontale posto al centro dell’asse verticale, talvolta il pesce disteso sull’asta dell’ancora, simbolo che i cristiani erano perfettamente in grado di capire. Tertulliano assegna ai cristiani un nome significativo: crucis religiosi (Apol. xvi, 6). Alcune croci delle catacombe sono coperte da una decorazione, crux florida. In Egitto compare relativamente presto il segno della vita dell’epoca faraonica, la crux ansata. Con l’avvento di Costantino comincia la grande fortuna della croce12. Quanto detto dimostra che l’opposizione dei cristiani agli idoli e la lotta contro l’idolatria non hanno impedito la ricerca di simboli indispensabili all’espressione della fede e della vita.
gani quindi, in capitoli concisi e animati da fervore, invita i lettori ad accostarsi alla nuova religione. Negli Stromata o Tappezzerie tenta di valorizzare gli elementi ereditati dall’ellenismo e così facendo prende in esame il simbolismo dell’antichità greca e del mondo barbarico. Esprime ammirazione per il valore simbolico dei templi egizi in cui l’immagine della divinità è posta al riparo nella penombra del naos; constata che greci e barbari hanno trasmesso la verità attraverso enigmi e simboli (Strom. v, 4, 21, 4). Tutto il simbolismo del mondo antico esercita un fascino irresistibile su di lui, inducendolo a spiegare il significato degli apoftegmi dei filosofi, della poesia religiosa, dei sogni e dei simboli. Egli ritiene inoltre che filosofi come Pitagora e Platone abbiano intuito la verità (Strom. v, 5, 29, 1-6)11. La Scuola di Alessandria prosegue il confronto del Vangelo con il pensiero antico e la cultura greca. Gli intellettuali cristiani alessandrini, platonici formatisi nella cultura ellenistica, non solo rifiutano le accuse dell’élite greco-romana contro la nuova religione, ma utilizzano alcuni elementi come il simbolismo e il lessico misterico per formulare la catechesi e adattare ai catecumeni i metodi dell’iniziazione cristiana. Origene, nell’esegesi e nella predicazione, sviluppa un simbolismo della parola di Dio diffusa dal Cristo e portata dalla Chiesa come luce che illumina il mondo. Negli scritti di Clemente e Origene viene abbozzata la visione di una storia della salvezza dell’umanità. Si può dire che nella Scuola di Alessandria siano state gettate le basi della «città di Dio» di sant’Agostino. Giustino si fa portavoce della reazione dei pagani che accusano i cristiani di follia, perché osano accostare un uomo crocifisso accanto al creatore del mondo (Apol. 1, 13, 4). Un graffito trovato sul colle Palatino costituisce la prova archeologica di quella reazione: su una croce a forma di t («tau») è posto un personaggio con le braccia tese e la testa, raffigurata come una testa d’asino, rivolta verso un altro personaggio in adorazione davanti a lui. Il graffito reca un’iscrizione sottostante: «Alessandro in adorazione del suo dio». Luciano di Samosata parla del fondatore della setta cristiana: un grand’uomo crocifisso in Palestina; Minucio Felice riporta le voci sul clamore provocato dai cristiani nel ii secolo, citando in particolare «la credenza assurda dell’adorazione della testa d’asino» (Octavius, 9, 6). Celso parla di Gesù considerandolo un brigante condannato al supplizio della croce (ii, 44, 24) e ritiene assurda la credenza in un Dio crocifisso (ii, 47, 15). Egli accusa i cristiani di aver inventato «il legno della vita» per disporre di una spiegazione allegorica della croce. Dall’epoca apostolica, il mistero della crocifissione diventa oggetto di fede per i cristiani (1 Tm 3,16; 1 Cor 2,7). Secondo san Paolo, la Chiesa è a sua volta un mistero in cui la croce costituisce l’avvenimento decisivo della salvezza, legato al mistero della creazione (Col 1,27). I Padri della Chiesa, nell’interpretazione della lettera agli Efesini (1,10), insistono sulla crocifissione come completamento della creazione e inizio di un mondo nuovo. Mettono in evidenza l’agonia, il sangue, la morte umana di Gesù, la croce fatta di due bracci uniti al centro, ritenendo che
Nascita di un antropologia cristiana L’apostolo Paolo esortava i Colossesi a rivestire l’uomo «nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, a immagine del suo Creatore» (Col 3,10). La teologia patristica germoglia dalla rivelazione: viene progressivamente elaborata una teologia dell’immagine. A par9
tire dalla luce dell’Uomo-Dio e dell’uomo trasfigurato, i Padri della Chiesa elaborano un’antropologia cristiana. Il ruolo principale in merito è da attribuirsi ai greci: Clemente Alessandrino, Origene, Atanasio, Gregorio di Nissa, Cirillo di Alessandria. Si intuisce l’importanza di questa teologia dell’immagine per le origini e lo sviluppo dell’arte cristiana. Ci limiteremo qui ad alcuni dati relativi alla genesi dell’antropologia cristiana nei primi tre secoli13. Nel mondo ebraico contemporaneo di Gesù il tema della creazione dell’uomo è diventato un’importante questione di studio e di discussione: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza ...”» (Gen 1,26). Queste parole introducono l’antropogenesi; la tradizione cristiana trova in esse il punto di partenza della sua antropologia14: Paolo (2 Col 3,184,6) dimostra che la gloria di Dio comunicata all’umanità del Cristo la rende Immagine, cosicché Gesù può dire: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). La gloria del Padre pervade il volto di Gesù. Nella lettera ai Colossesi (1,15), in un contesto di sviluppo sulla luce, l’Apostolo scrive: «Egli è immagine del Dio invisibile, / generato prima di ogni creatura». Si tratta di un’efficace espressione del mistero dell’Incarnazione. Un altro testo sull’immagine si trova in 1 Cor 11,7, in cui l’uomo è definito «immagine e gloria di Dio». Il papa Clemente nella Lettera ai Corinzi si ricollega al testo del Genesi sull’uomo «orma» dell’immagine divina, plasmata dalle mani di Dio stesso (33, 4). In Giustino il Logos è una persona che si è incarnata in Gesù e, a immagine del Logos incarnato, gli altri uomini prendono parte al Logos divino «perché il seme del logos è innato nell’intero genere umano (2 Apol. 8, 3). Nel corso del ii secolo troviamo elementi di questa dottrina in Melitone di Sardi e in Teofilo di Antiochia, ma le trattazioni teologiche più acute si devono a Ireneo di Lione, che sposta l’antropologia all’interno della storia della salvezza. Secondo Hamman, «il mistero dell’uomo si illumina nella ricapitolazione del Cristo, che permette di leggere in profondità il senso dell’immagine e della somiglianza»15. Nel suo Adversus haereses Ireneo confuta gli gnostici, quindi presenta l’insegnamento delle Scritture trasmesso dagli apostoli. Nell’esporre la dottrina della ricapitolazione egli accosta i due Adami e dimostra che il Cristo, nuovo Adamo, ha una doppia somiglianza con Dio e con l’uomo: somiglianza nella formazione, somiglianza nella missione. Il nuovo Adamo riflette l’uomo al primo stadio d’immagine e somiglianza. Il Cristo è l’uomo completo e perfetto, modello dell’uomo nuovo (Adv. haer. v, 1-3)16. Ireneo nella Predicazione apostolica afferma che Dio ha creato l’uomo e l’ha plasmato con le proprie mani, ne ha disegnato le fattezze «perché anche nell’aspetto esteriore avessero le fattezze divine» (Pred. ap. 42). Secondo Ireneo «la gloria di Dio è l’uomo vivente ma la vita dell’uomo è la visione di Dio» (Adv. haer. iv, 20, 7)17. Ireneo, sviluppando un’antropologia dell’immagine e della somiglianza, ha aperto una nuova via ponendo l’uomo al centro della creazione e della storia della salvezza.
A Cartagine, Tertulliano introduce il tema dell’immagine e della somiglianza nel De baptismo, redatto tra il 200 e il 206. Riprende questa dottrina nel Trattato contro Marcione, composto parzialmente nel 207: nella confutazione contro i marcioniti utilizza l’espressione «immagine e somiglianza» come un tutto, senza introdurre la distinzione di Ireneo18. Come quest’ultimo, combatte gli gnostici in riferimento alla Scrittura e alla regola della fede. Il suo realismo diretto all’azione e alla vita lo induce a porre al sicuro l’unità e l’integrità della condizione umana all’interno dell’ordine della salvezza. Si serve dei temi sviluppati da Ireneo adattandoli alle sue necessità. In un’antropologia in cui l’immagine e la somiglianza dell’uomo al creatore ricoprono un ruolo importante, mette in rilievo l’unità del complesso umano e dell’uomo contraddistinto dall’effigie divina, la visione della storia cristocentrica della salvezza e la tensione della condizione cristiana in via di ultimazione. Primo scrittore cristiano latino, deve creare un nuovo vocabolario che diventerà un punto di riferimento per la teologia e per l’antropologia latine. A.G. Hamman ha messo in luce il valore e l’originalità della sua antropologia19. Si è vista l’importanza della comunità cristiana di Alessandria nel ii secolo. Clemente, discepolo di Panteno, gli succede nella direzione della scuola di catechesi ed è incaricato della missione di iniziare al messaggio cristiano gli uditori, permeati di cultura greca. Il Protrettico permette di accostarsi al tema del messaggio e della somiglianza nel raffronto tra statue divine e Logos, immagine di Dio, archetipo della luce (Protr. x, 98, 2-4). Paragonando l’artigiano che ha modellato le statue e il creatore dell’uomo, egli constata che l’uomo è immagine di Dio attraverso la mediazione del Logos, luce archetipica, ma figlio del nous [“mente”] divino per nascita. L’uomo è la riproduzione del Logos e per questa ragione viene chiamato logikos. Clemente subisce l’influenza di Filone ma va molto oltre il filosofo ebreo con l’affermazione «della nascita divina del Figlio del nous». Nel Pedagogo e negli Stromata ritorna sui concetti di immagine e somiglianza avvalendosi delle fonti bibliche, inserendo quindi la sua antropologia in una visione cristocentrica: l’uomo è immagine di Dio soltanto attraverso la mediazione del Logos. L’intellettualizzazione dell’immagine la allontana dal realismo biblico fedelmente orchestrato da Ireneo di Lione. Ma, agli occhi di Clemente, il Verbo incarnato realizza l’immagine perfetta e la somiglianza assoluta del Padre e si è fatto uomo per insegnare all’umanità la maniera per assomigliare a Dio (Protr. 8, 4). Infine, è il battesimo a contenere gli elementi essenziali del cristiano: nuova nascita, crescita nello Spirito, adozione filiale, trasformazione dell’uomo terreno in creatura celeste. Lo Spirito diventa colui che opera la somiglianza20. Non resta che dire qualche parola di un’altra figura di transizione, Origene, erede del pensiero greco, specialista di una esegesi spirituale. Il teologo alessandrino si allontana dalla tradizione dei primi due secoli; in effetti, egli esclude il corpo dall’immagine, perché sostiene che 10
di un’autentica nuova genesi di cui la storia di Adamo è soltanto una figura profetica: in Adamo noi siamo «terra», in Cristo siamo «cielo». Soltanto il Cristo permette di individuare il mistero dell’uomo e dell’umanità. Ilario dimostra che l’idea di Ireneo e di Tertulliano è andata diffondendosi nel mondo cristiano. Come Atanasio, egli afferma che l’Incarnazione pone il principio dell’incorporazione nella Chiesa e la realizza, perché attraverso il battesimo nascono gli uomini nuovi che, nell’eucaristia, vivono la crescita del corpo del Cristo. Insiste ampiamente sul ruolo dell’eucaristia nella Chiesa, dando un taglio particolare alla sua antropologia, a cui manca tuttavia l’estensione all’immagine trovata nei Padri greci: Ilario è un uomo occidentale che non si lascia trascinare in speculazioni, ma si dedica totalmente al mistero della salvezza in Cristo. Gregorio di Nissa (~ 335-394), grande filosofo originario della Cappadocia, fratello di Basilio di Cesarea, è tributario del pensiero di Alessandria, soprattutto di Origene25. Raccogliendo con perfetto eclettismo gli insegnamenti di platonici e stoici, si dedica innanzitutto al testo biblico con l’obiettivo dell’evangelizzazione degli ambienti ellenistici. La visione della storia di Gregorio è cristocentrica come quella di Ireneo e la creazione dell’uomo è integralmente polarizzata dal Cristo che viene. Il Trattato della creazione dell’uomo è un testo notevole sulla condizione umana26. L’immagine di Dio in noi si basa sull’affinità con l’archetipo: tutti gli uomini hanno in sé l’intuizione di Dio. Ai suoi occhi è necessario che una certa parentela con il divino sia presente nella natura umana per contraddistinguere l’affinità che è il principio del desiderio, di conoscenza, di illuminazione. Per farsi capire, Gregorio utilizza il paragone dello specchio: l’anima si espone come uno specchio in cui Dio si manifesta. Così l’uomo prova il desiderio di avvicinarsi al modello. L’Incarnazione celebra gli sponsali della natura divina e della natura umana: è la seconda creazione. Agli inizi il Verbo fece la carne, ora si fa carne. La seconda creazione supera la prima trasformandola. La Chiesa diventa quindi lo specchio in cui uomini e angeli possono contemplare Dio; il battesimo restituisce all’essere umano la bellezza originaria e l’eucaristia completa l’azione battesimale della divinizzazione del cristiano. Dopo aver evidenziato l’importanza del tema dell’«uomo creato a immagine e somiglianza di Dio», termineremo il nostro excursus col pensiero dei Padri greci e latini dal ii al iv secolo. Ireneo di Lione, nel difendere la dottrina cristiana bistrattata dagli gnostici valentiniani, apre la via a un’antropologia cristiana fondata sulla creazione e sull’incarnazione. I Padri alessandrini si sono spinti avanti nella prospettiva di un dialogo tra fede e filosofia, con una certa insistenza sull’aspetto simbolico in Clemente, mentre Atanasio e Cirillo si sono impegnati nell’ottica dell’opposizione agli ariani, ponendo l’Incarnazione al centro della storia. In Cappadocia Gregorio di Nissa ha cominciato a elaborare una teologia della storia che mostra gli influssi di Ireneo, ritenendo che soltanto Cristo possa illuminare, da un lato
Dio ha plasmato l’uomo interiore, invisibile, incorporeo, incorruttibile. Si dedica altresì alla dottrina del Verbo mediatore, concepito come modello dato che contiene in sé le Idee, esemplari di tutti gli esseri. Dunque il Verbo trasmette l’immagine di Dio e, da quel momento, si fa strumento. Il Verbo è Immagine e l’uomo è solo l’immagine dell’Immagine, ma è simile all’immagine di Dio, elemento essenziale per l’Incarnazione del Verbo fattosi Salvatore per porre rimedio ai danni della caduta. In questo Origene respinge l’interpretazione cristologica della creazione dell’uomo. Ritiene che il Logos abbia deposto nell’uomo un seme che ne determina la crescita in quanto figlio di Dio: il cristiano diventa logikos. L’imitazione presuppone la contemplazione dell’archetipo perché questa contemplazione produce un cambiamento. Così interpreta Origene 2 Cor 3, 18: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine». Il tema dell’immagine viene sviluppato all’interno di un ordine sacramentale, strettamente legato al battesimo e all’eucaristia. Infatti, in Origene, l’immagine si sposta dal piano antropologico al piano trinitario, vale a dire che non è più uomo ma Verbo: il Logos diventa l’immagine rivelatrice ed esemplare, modello e mediatore. Il pensiero di Origene è ampiamente tributario nei confronti del pensiero di Filone21. Una delle grandi figure del iii secolo è Atanasio di Alessandria (295-373 d.C.), celebre per l’opposizione all’arianesimo22. Il suo pensiero si ispira a quelli dei predecessori: Atenagora, Ireneo, Origene. Tuttavia, rifiutando relativamente la filosofia platonica, appare basato maggiormente sulle Scritture. La divinità del Verbo guida l’antropologia legata alla nuova creazione nell’economia dell’Incarnazione. Per Atanasio, il Verbo che assume corpo e natura umana costruisce e trasforma l’uomo completamente, corpo e anima legati in maniera indissolubile. In opposizione agli ariani, dimostra che il Verbo è inoppugnabilmente Dio. In tal modo, accettando la natura umana, la rende partecipe della persona del Verbo eterno, che significa «filiazione e divinizzazione». Quindi, l’immagine e la somiglianza del Genesi sfumano, cedendo il posto alla divinizzazione. Questo è l’argomento dei suoi discorsi contro gli ariani23. All’idea dell’immagine si sostituisce dunque quella della divinizzazione: è il nuovo rapporto creato dall’Incarnazione. Atanasio utilizza i termini salvezza, filiazione, divinizzazione, grazia, incorruttibilità. Attraverso le sue intui zioni, l’antropologia è illuminante e, nel suo rifiuto di grecizzare la fede cristiana, apre prospettive nuove che saranno prese in esame dai Padri di quest’epoca aurea. Ilario, vescovo di Poitiers verso il 350, deceduto nel 367, si è dedicato alla disputa ariana e a questo scopo ha studiato particolarmente le Sacre Scritture24. I suoi testi non presentano né il rigore, né la precisione lessicale dei Padri greci e non sappiamo nulla della sua formazione intellettuale giovanile. Deciso a evitare la riduzione all’arianesimo, resta vicino al Nuovo Testamento e insiste sull’Incarnazione di Dio nell’umanità, origine 11
la prima creazione, dall’altro la seconda creazione e al contempo l’uomo nuovo che si forma attraverso l’Incarnazione del Verbo di Dio. Sul fronte latino, Tertulliano appare vicino a Ireneo. Per Ilario di Poitiers, nell’uomo, immagine e somiglianza sono principio di perfezione che trasforma l’essere nella sua totalità. Sant’Agostino si contraddistingue per la lotta contro i manichei; egli ha cercato nella struttura stessa dell’uomo «l’occhio spirituale dell’anima», il riflesso di ciò che costituisce l’essenza di Dio. L’immagine è inscritta nell’essere a titolo di proprietà ontologica.
pocalisse e si ritrovano negli Inni sul Paradiso di Efrem. Sono simboli della gloria escatologica e sono in relazione con l’attesa messianica. La loro presenza nella chiesa cristiana di Dura Europos, scoperta nel 1931-32 e risalenti circa al 256, dimostra che gli elementi della festa ebraica dei Tabernacoli sono stati ripresi dalla liturgia cristiana degli inizi. È necessario tenerne conto per comprendere perché nell’iconografia cristiana occupano un posto di grande rilievo accanto alle feste di Pasqua e Pentecoste30. Un altro simbolo frequente è quello delle colture, futeia, applicato alla Chiesa. Lo troviamo in Ignazio di Antiochia, nelle Odi di Salomone e in altri testi. In varie occasioni è legato alla catechesi battesimale. Nella Lettera a Diogneto (xii, 1-3; 7), l’autore lo riferisce all’albero del paradiso. La simbologia battesimale si ritrova in Giustino e in Clemente Alessandrino (Strom. v, 11, 72, 2). L’esame della documentazione dimostra che futeia viene utilizzato come simbolo della Chiesa, come albero raffigurante il battezzato e come albero figura di Cristo. Si tratta di uno dei simboli più antichi impiegato nella catechesi per parlare della Chiesa. Vi sono numerosi paralleli nei manoscritti di Qumran, il che ne prova l’arcaismo e le origini giudaiche. La Chiesa fondata dagli apostoli è diventata uno dei grandi temi missionari dell’epoca patristica31. L’acqua corrente e il pesce sono due simboli che si ricollegano alla liturgia e alla dottrina del battesimo fin dall’alta antichità. Il Vangelo di Giovanni riprende il simbolo dell’acqua corrente che si trova nell’Antico Testamento e nei manoscritti di Qumran (Gv 6,4; 7,37-39; Ap 22,1). Jean Daniélou, che aderisce alle tesi di Cull man, ritiene che nel testo di Giovanni ci siano alcune risonanze sacramentali che dimostrano un legame tra il rito giudeo-cristiano del battesimo nell’acqua corrente e il simbolismo dell’acqua corrente riferito allo Spirito Santo, riscontrabile nelle Odi di Salomone. Il pesce compare anche nel contesto battesimale. Infatti, nel De baptismo (1, 3), Tertulliano scrive: «Noi, pesciolini ... nasciamo nell’acqua [...]», testo confermato da numerose pitture catacombali. Secondo Daniélou all’origine di questa simbologia ci sarebbe il testo di Ezechiele (47,1-12) in cui sono descritte le acque che defluiscono dal Tempio favorendo la crescita di alberi della vita32. Clemente Alessandrino, operando la distinzione tra i simboli accettabili per i cristiani e quelli da respingere, ricorda in particolare «la colomba, il pesce, la nave spinta dal vento favorevole, la lira musicale, l’ancora marina... (Pedag. iii, 11, 59, 1). Passiamo quindi a esaminare un simbolo molto fecondo, sviluppato in molti modi dai Padri della Chiesa: la nave33. Ci limiteremo a un aspetto ripreso da un testo del martire Giustino, in cui vengono elencate le figure della croce: «Non si possono fendere i flutti se quel trofeo di nome velatura (histion) non si alza intatto sulla nave» (i Apol. 55, 3). Per Giustino la nave è il mezzo di salvezza e il simbolismo della croce occupa un posto considerevole cui l’archeologia della Palestina ha apportato una
Simbolismo, sacro e nascita dell’arte cristiana André Grabar ritiene che «gli inizi dell’arte cristiana abbiano tre secoli di ritardo sull’avvento del cristianesimo stesso» e inoltre che «le opere cristiane anteriori all’editto di Milano del 313 costituiscano una sorta di prodromo alla storia dell’arte cristiana dell’antichità e una scelta nella quantità di monumenti romani del ii e iii secolo»27. Il grande merito di Zibawi è di aver studiato accuratamente l’arte dei secoli che precedono l’avvento di Costantino per cogliere le radici dell’arte cristiana, per permetterci di comprenderne lo sviluppo e l’età dell’oro. Nei paragrafi successivi, ritorneremo sul sacro e sul simbolo in quanto elementi fondamentali dell’iconografia e dell’arte cristiana. Non è necessario soffermarsi sull’esame del sacro nel Nuovo Testamento e nei primi secoli della Chiesa. L’economia della salvezza trova il suo apice nella doppia missione del Cristo e dello Spirito. La santificazione degli uomini avviene attraverso i ministeri, i servizi di Cristo nella sua funzione messianica della Nuova Allean za che riunisce il controllo delle forze cosmiche e l’espressione dello spirito umano. Il ricorso al linguaggio cultuale nell’esprimere le nozioni di santità, sacrificio e sacerdozio dimostra l’importanza della mediazione. La santità di Cristo è incentrata su quella del Padre e sfocia nell’insieme di strutture della mediazione: Chiesa, parole, sacramenti, segni e simboli che portano i misteri e il messaggio. La funzione simbolica è direttamente legata al sacro28. Passiamo quindi a focalizzare l’attenzione sulla funzione simbolica nella vita dei cristiani e delle comunità ecclesiali delle origini. A questo scopo è necessario esaminare attentamente i testi, le feste, le liturgie, la catechesi, i documenti archeologici e i vari scritti dei Padri, degli Apologisti e dei controversisti, di cui abbiamo a disposizione una copiosa documentazione. Jean Daniélou, ne I simboli cristiani delle origini, ha tentato una prima sintesi delle scoperte nel campo della simbologia giudeo-cristiana29. Comincia col ricordare che le grandi solennità dell’ebraismo, Pasqua e Pentecoste, sono identiche a quelle del cristianesimo, ma si sono caricate di un significato nuovo. In primo luogo si sofferma sulla palma e la corona per dimostrare che costituiscono due elementi essenziali della festa dei Tabernacoli, sono legate alla simbologia liturgica dell’A12
un’empietà ispirati dai demoni malvagi. Tertulliano si spinge persino a maledire gli artisti perché plasmano un corpo ai demoni. Tuttavia, Clemente Alessandrino si apre alla cultura dell’antico Egitto e valorizza l’eredità greca. Durante la controversia, un gruppo di pagani critica la croce di Gesù, attacco che costituisce il motivo per gli Apologisti di sviluppare una simbologia della croce basata su una tipologia estratta dall’Antico Testamento, su una simbologia cosmica derivante dal pitagorismo e dal platonismo e, ben presto, un’iconografia della croce, in particolare nelle catacombe. All’epoca di Gesù sono numerose in seno al mondo ebraico le dispute sul testo del Genesi (1,26): «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza...». L’apostolo Paolo inoltre fornisce varie espressioni efficaci sul mistero dell’Incarnazione; Ireneo, in merito alla partecipazione al Logos incarnato di Giustino, confutando gli gnostici valentiniani e i loro adepti, aggiunge la dottrina che fa del Cristo l’uomo perfetto e completo, il modello dell’uomo nuovo. Tertulliano, primo fra gli scrittori di lingua latina, inventa un vocabolario e mette in evidenza l’uomo impressionato dall’effigie divina. Per Clemente Alessandrino l’uomo è a immagine di Dio per mezzo della mediazione del Logos. In Origene, l’immagine si sposta dal piano antropologico al piano trinitario. Atanasio di Alessandria, opposto agli ariani, dimostra che il Verbo è veramente Dio; Ilario di Poitiers, ancorato ai testi delle Scritture, insiste sul fatto che solo il Cristo permette di individuare il mistero dell’uomo. Per Gregorio di Nissa, l’immagine di Dio in noi è basata sull’affinità con l’archetipo. L’antropologia dei Padri sfocia nella nascita di una cultura cristiana fondata sul mistero di Cristo il quale, per mezzo dell’Incarnazione, ripete la creazione dell’uomo e rinnova tutta la creazione operata alle origini. La strada per gli artisti è aperta, per una nuova visione del mondo. Sacro, simbolico e arte cristiana appaiono intimamente legati. Ricerche recenti in quest’ambito hanno permesso di compiere notevoli progressi per quanto riguarda i primi secoli del Cristianesimo. L’esplorazione dell’eredità letteraria giudeo-cristiana, riletta alla luce dell’illuminazione biblica, ha posto in evidenza un certo numero di simboli che si ritrovano nel corso delle prime generazioni cristiane nei testi liturgici e catechetici e che sono stati peraltro confermati dalle scoperte archeologiche. Il loro utilizzo va di pari passo con i prestiti cristiani dal patrimonio greco-romano. La scoperta, nel 1931-32, delle rovine di una chiesa cristiana eretta a Dura-Europos sull’Eufrate verso il 236 è stata una fortuna insperata per la conoscenza dell’arte cristiana delle origini.
notevole conferma restituendo le immagini della nave con l’antenna che taglia l’albero maestro34. Giustino dimostra di conoscere anche la simbologia dell’arca di Noè come mezzo di salvezza. In un testo del Dialogo con Trifone scrive che Noè è stato salvato dal legno dell’arca, mentre il Cristo, primogenito di tutte le creature, è il capo di una razza salvata dal legno che conteneva il mistero della croce (138, 1-2). Per Tertulliano «la barca prefigurava la Chiesa che, sul mare del mondo, viene scossa dalle onde delle persecuzioni e delle tentazioni, mentre il Signore paziente pare dormire fino all’ultimo momento quando, risvegliato dai santi, domina il mondo e restituisce la pace ai suoi» (De baptismo 12, 8). Jean Daniélou prosegue nel suo studio prendendo in esame le immagini e i simboli tramandati dai testi liturgici, omiletici e catechetici dei primi secoli del cristianesimo. Dopo la croce, la corona, la palma, il pesce, la nave e la coltura, si sofferma sul carro di Elia, sull’aratro e l’ascia cari a Ireneo di Lione, sulla stella di Giacobbe, sui dodici apostoli rappresentati come le dodici ore del giorno e i dodici mesi dell’anno (zodiaco). Clemente Alessandrino passa dai dodici Patriarchi ai dodici apostoli per mezzo della simbologia delle dodici pietre, disposte quattro a quattro sul paramento sacro del sommo sacerdote (Strom. v, 6, 38, 4-5). La documentazione elaborata da Jean Daniélou, Hugo Rahner e altri autori succitati mette in rilievo l’ampiezza della simbologia utilizzata dai cristiani dell’età apostolica e dell’epoca precostantiniana. L’archeologia cristiana della Palestina, del Medio Oriente, di Roma e dei paesi mediterranei ha già ampiamente confermato i testi liturgici e catechetici. I capitoli che seguono costituiscono una prova ulteriore: a partire dai primi secoli i cristiani hanno tentato di elaborare un’iconografia in grado di sottendere la liturgia e la preghiera e hanno cercato le risposte al problema dell’occupazione dello spazio sacro della celebrazione dei misteri del loro culto. Conclusione Abbiamo dunque evidenziato tre fattori fondamentali all’origine dell’arte cristiana, vale a dire l’opposizione al culto degli idoli pagani, l’elaborazione, da parte dei Padri della Chiesa, di un’antropologia cristiana e anche di una simbologia radicata nella cultura e nella tradizione biblica delle due Alleanze. L’aspra polemica contro l’idolatria ha costituito un freno. I cristiani ritenevano che statue e rappresentazioni delle divinità pagane costituissero un oltraggio e
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Note 1 Cfr. J. Delumeau (ed.), Histoire vécue du peuple chrétien, i, Toulouse 1979; cfr. inoltre gli articoli di Annie Jaubert, «Surgissement d’un peuple», pp. 2147 e di A. Mandouze, «Les persécutions à l’origine de l’Église», pp. 49-74. 2 J. Quasten, Patrologia, 3 voll., Casale Monferrato 1980-81; B. Altaner, Patrologia, Casale Monferrato 1981; L. Boyer, C. Mondésert, F. Louvel, Les écrit des Pères Apostoliques, Paris 1963. 3 Edizione critica con commento di M. Borret, Origène contre Celse, «Sources Chrétiennes», 5 voll., Paris 1967-76 (trad. it. Principi. Contra Celsum e altri scritti filosofici, Sansoni, Firenze 1975). Si veda la bibliografia in M. Borret, op. cit., v, pp. 141-182. 4 J. Quasten, op. cit., i, pp. 175-194. Per il testo cfr. L. Pautigny, Justin. Apologies, Paris 1904 e A. Wartelle, Saint Justin. Apologies. Introduction, texte critique, traduction, commentaire et index, Ed. Augustiniennes, Paris 1987 (bibl. pp. 9-14). 5 J.P. Waltzing, Tertullien. Apologétique (ed. critica, trad. e commento), Paris 1929, 1961. Cfr. J. Quasten, op. cit., pp. 493-574. 6 J. Beaujeu, Minucius Felix. Octavius (ed. critica, trad. e commento), Belles Lettres, Paris 1964. Per gli studi si veda J. Quasten, i, pp. 414-421. 7 H.I. Marrou, A Diognète (intr., ed. critica, trad. e commento), «Sources Chrétiennes», Paris 1951. 8 Per gli schemi della polemica contro gli dèi è opportuno rivedere J.M. Vermander, La polémique des Apologistes latins contre les dieux du paganisme, in Recherches Augustiniennes, xvii, Paris 1982, pp. 3-128. 9 R. Turcan, Firmicus Maternus. L’erreur des religions païennes (testo, trad. e commento), Belles Lettres, Paris 1982. 10 Cfr. Lettera a Diogneto, ed. cit., p. 116. 11 Clemente Alessandrino, Protrettico, Il Pedagogo, Torino 1972; Gli Stromati, Torino 1983. Si veda J. Quasten, op. cit., i, pp. 287-314 e M. Galloni, Cultura, evangelizzazione e fede nel «Protrettico» di Clemente Alessandrino, Roma 1986 (bibl. pp. 149-162). 12 R. Schneider-Berrenberg, Kreuz, Kruzifix. Eine Bibliographie, München, 1973. Una bibliografia di oltre 2000 titoli in diciannove lingue: iconografia, storia dell’arte, archeologia, teologia, filologia, folklore. H. Leclercq, Croix et crucifix, in dacl, iii, 3045-3144; si tratta di uno studio approfondito della rappresentazione cristiana della croce. H. Rahner, Symbole der Kirche. Die Ekklesiologie der Väter, Salzburg 1964 (trad. it. L’ecclesiologia dei Padri, Cinisello Balsamo 1995). 13 Cfr. A.G. Hamman, L’homme, image de Dieu. Essai d’une anthropologie chrétienne dans l’Eglise des cinq premiers siècles, Paris 1987, testo fondamentale per il presente studio. 14 Cfr. PE. Dion, Ressemblance et image de Dieu, in Dictionnaire de la Bible, Suppl, t. x, Paris 1985, pp. 366-380. 15 A.G. Hamman, L’homme image de Dieu, cit., p. 49; J. Fantino, L’homme, image de Dieu chez S. Irénée de Lyon, Paris 1986; A. Orbe, Antropologia de san Ireneo, Madrid 1969; Ireneo di Lione, Contre les hérésies, «Sources
chrétiennes», 9 voll., Paris 1969-79 (trad. it. Contro le eresie e altri scritti, Milano 19972). 16 L.M. Froidevaux, Démonstration de la prédication évangélique, «Sources chrétiennes», Paris 1959. 17 J. Comby, La gloire de l’homme c’est Dieu vivant, Paris 1994. 18 R. Braun, Tertullien contre Marcion (intr., testo crit., trad. e note), 2 voll. «Sources chrétiennes», Paris 1990-91; R.F. Refoulé, M. Drouzy, Tertullien, Traité du baptême, «Sources chrétiennes», Paris 1952. 19 A.G. Hamman, L’homme image de Dieu, cit., pp. 100-101. 20 Ibid., pp. 113-126. 21 Ibid., pp. 127-152. 22 Si veda Atanasio, in dpac; Genova 1983; Atanasio, in dhge, t. 4, Paris 1930, pp. 1313-1340; Athanase, in J. Quasten, iii, pp. 46-125. 23 J. Roldanus, Le Christ et l’homme dans la théologie d’Athanase d’Alexandrie, Leiden 1968. M. Simonetti, La crisi ariana nel iv secolo, Roma 1975. 24 A. di Berardino, Ilario di Poitiers, in Patrologia, iii, Casale Monferrato 1978, pp. 33-71; A.G. Hamman, op. cit., pp. 176-200. 25 J. Quasten, iii, pp. 365-420; A.G. Hamman, L’homme image de Dieu, cit., pp. 201-237. 26 J. Laplace, J. Daniélou, Grégoire de Nysse. La création de l’homme, «Sources chrétiennes», Paris 1943. 27 A. Grabar, Le premier art chrétien (200-395), «L’Univers des Formes», Paris, pp. 2-7 (trad. it. L’arte paleocristiana, Milano s.d.). 28 J. Ries, Il sacro nella storia religiosa dell’umanità, Milano 19953. Cfr. Accostamenti al sacro nella religione cristiana, pp. 209-229; J. Vidal, Sacro, simbolo, creatività, Milano 1992. 29 J. Daniélou, Les symboles chrétiens primitifs, Paris 1961 (trad. it. I simboli cristiani primitivi, Roma 1990). Cfr. inoltre dello stesso autore Théologie du judéo-christianisme, Paris 1958 (trad. it. Bologna s.d.); P. Bagatti, Il simbolismo dei Giudei-Cristiani, Gerusalemme 1962. Una sintesi di questi lavori è stata utilizzata in F. Tristan, Les premières images chrétiennes, Paris 1996. Si veda anche la documentazione di H. Rahner, Symbole der Kirche, cit. (trad. it. L’ecclesiologia dei Padri, cit.). Per il retaggio culturale pagano cfr. P. Prigent, L’art des premiers chrétiens, Paris 1995. 30 J. Daniélou, Les symboles chrétiens, cit., pp. 9-30. 31 Ibid., pp. 33-48. F. Tristan, Les premières images, cit., pp. 5-56. 32 J. Daniélou, Les symboles chrétiens, cit., pp. 49-61; F. Tristan, Les premières images, cit., pp. 88-99. Si veda anche O. Cullmann, Les sacrements dans l’Eglise johannique, Paris 1951 e E. Peterson, Frühkirche, Judentum und Gnosis, Freiburg/Br. 1959. 33 H. Rahner, Symbole der Kirche, cit., pp. 306-360 e 504-547; F. Tristan, Les premières images, cit., pp. 151-160. 34 J. Daniélou, Les symboles chrétiens, cit., pp. 62-76; H. Leclerq, Navire, in dacl, xii, pp. 1008-1021; H. Rahner, Antenna crucis, op. cit., pp. 306-338.
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Capitolo primo
L’eredità artistica dell’Antichità i-ii secolo
Il cristianesimo delle origini si colloca nel corso della storia empirica. Gesù viene al mondo a Betlemme all’epoca di Augusto e inizia la sua predicazione in Galilea sotto Tiberio. La Chiesa nasce verso l’anno 30, nel giorno della Pentecoste, in una camera di un primo piano a Gerusalemme, dove abitavano «Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo... Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e della parte di Libia nei pressi di Cirene, coloni romani, ebrei e proseliti, cretesi e arabi» (At 2,5 e 9-11). L’elenco dei popoli dell’Impero ricorda la scena biblica del popolamento della terra (Gn 10); la comunità giudeo-cristiana si appresta ad accogliere i pagani. Pietro vede la discesa dello Spirito sul centurione Cornelio, alcuni pagani vengono battezzati nel nome di Gesù Cristo; a immagine di Rakhab, peccatrice straniera divenuta antenata di Cristo, la Chiesa dei Gentili include i non ebrei nel popolo di Dio e apre generosamente a loro la via della vita nuova. Il concilio di Gerusalemme segna il passaggio dalla Chiesa ebraica alla Chiesa universale. «Non c’è più giudeo né greco» afferma san Paolo, «... poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Comincia allora la missione presso i popoli non ebrei, che si diffonde nel bacino del Mediterraneo, unito dall’Impero romano in un’unica struttura politica e amministrativa. I discepoli si disperdono sulla terra abitata per proclamare «il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15): Paolo giunge «ai confini dell’Occidente»1, Giovanni guida le sette chiese dell’Asia Minore. L’espansione apostolica in Oriente raggiunge le regioni dominate dai persiani. Eusebio di Cesarea, nella Storia Ecclesiastica, afferma: «Su tutta la terra risuona la voce degli evangelisti e degli apostoli»2. La Chiesa arcaica, considerata in un primo tempo una setta giudaizzante, si espande in comunità autono-
me ma strettamente legate le une alle altre. L’insurrezione ebraica contro la dominazione romana termina nella conquista di Gerusalemme ad opera di Tito. La distruzione del tempio è percepita dai cristiani come un segno divino: l’antica legge è superata, l’imperfetto scomparirà con la venuta del perfetto (1 Cor 13,10). Niente sembra legare Chiesa e stato, la politica imperiale oscilla tra tolleranza sprezzante e ostilità. Tuttavia, servendosi delle strutture dell’impero, il cristianesimo consolida la propria universalità e affretta la sua espansione. Il Cristo era entrato nella storia con l’avvento dell’impero, pagano certo, ma che offriva alla Chiesa una struttura provvidenziale: «Ed è una grandissima prova della sua eccellenza – scrive Melitone, vescovo di Sardi, a Marco Aurelio – che la dottrina si sia diffusa all’epoca del fausto inizio dell’impero e che dall’epoca di Augusto non sia accaduto più niente di male, al contrario, tutto sia stato perfetto e glorioso, secondo la preghiera di tutti»3. Nonostante le continue persecuzioni, la pax romana apriva le porte delle nazioni all’annuncio della buona novella. Nel vi secolo, Teodoreto di Ciro commemora irenicamente la nascita dell’impero che ha trasformato le guerre in pace: «Il messaggio evangelico cominciò la sua corsa, senza incontrare ostacoli, poiché le guerre tra le nazioni si erano spente e, dal momento che tutte le nazioni erano sottomesse a un’unica autorità, gli araldi della verità attraversavano i mari in tutta sicurezza e diffondevano gli insegnamenti del Salvatore»4. Sulle coste del Mediterraneo, i popoli formano quasi una stessa famiglia umana: latino e greco sono le lingue dominanti sulle altre e sulle parlate, senza per questo soffocarle. Il primo costituisce la lingua amministrativa, il secondo la lingua della comunicazione e della cultura. La testimonianza cristiana porta l’impronta dell’universalismo romano. Il greco diventa la lingua della patristica nella 15
Romano avvia la cristianizzazione dell’ellenismo individuando la presenza del Verbo eterno nella sapienza e nella poesia dell’antichità; Ireneo di Lione combatte le gnosi con un rigore, una profondità e una forza di sintesi eccezionali. La vera gnosi è l’insegnamento degli apostoli12; lo gnosticismo cristiano si batte contro uno gnosticismo diffuso, una «babele di misteri» dove temi dell’apocalittica ebraica si intrecciano alle teorie filosofiche e ai culti orientali. Curiosamente, la prima età aurea della cultura cristiana non ha lasciato alcuna testimonianza artistica. In un mondo in cui permane largamente l’usanza del culto degli idoli, l’arte cristiana dei primordi si affaccia timidamente due secoli dopo l’avvento del Messia. La testimonianza patristica non rivela nessun interesse per la scultura e la pittura. I testi dei Padri della Chiesa dei primi due secoli non contengono alcuna considerazione sulla natura e sulla funzione delle immagini; un aspetto che rimanda all’interdizione della rappresentazione disseminata qua e là nei libri dell’Antico Testamento. Nel decalogo dell’Esodo Dio dice: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» (Es 20,4). Nel Deuteronomio, le esortazioni di Mosè rinnovano e rinforzano l’interdizione: «Poiché dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate l’immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra» (Dt 4,15-18). Solo l’immagine di due angeli fa eccezione. Dio ordina a Mosè di porre due cherubini d’oro alle due estremità del coperchio dell’arca: l’unica immagine che solo i sacerdoti possono guardare. La si ritrova nel tempio di Salomone nel cui spazio posteriore – il Debir – due cherubini di legno d’ulivo selvatico rivestito d’oro trovano posto al centro della camera interna del Santo dei santi (1 Re 6,23-30). E ancora: «I cherubini avranno due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio. Porrai il coperchio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno appunto in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti» (Es 25,20-22). Quindi, l’immagine issata sul rivestimento d’oro che ricopre l’arca sottolinea l’impossibilità di rappresentare la gloria del Creatore. I due angeli delimitano uno spazio vuoto, espressione apofatica di una presenza ancora invisibile, la presenza del volto di Dio; l’immagine è figlia dell’idolatria: Jahvè è esaltato, solo, nel suo stesso splendore. Isaia lo ricorda all’epoca dei re di Giuda: «Il suo paese è pieno di idoli;/ adorano l’opera delle proprie mani,/ ciò che hanno fatto le loro dita...» (Is 2,8),
metà orientale del mondo romano, il latino quella della metà occidentale. L’elemento etnico è insignificante: Giustino è un romano della Palestina, Ireneo un asiatico della Gallia. Gli scambi sono sistematici e ininterrotti e l’accostamento al Vangelo non richiede uno sradicamento culturale. Il giudeo-cristianesimo delle origini è ormai scomparso. La Chiesa, pur proclamando con forza la sua fede, si dimostra leale allo stato e al sovrano. Distinta teologicamente, si integra nel mondo senza farne parte, come è scritto nell’Epistola a Diogneto: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per paese, né per lingua, né per abito»5; «Non abitano in città strettamente cristiane, non si servono di una lingua particolare, la loro condotta di vita non ha nulla di singolare. La scoperta della loro dottrina non è dovuta all’immaginazione o alle fantasticherie di menti turbate; non si ergono a depositari di una dottrina umana. Si suddividono nelle città greche e barbare, a seconda del destino dei singoli; si conformano agli usi locali per quanto riguarda gli abiti, il cibo e i modi di vivere, non senza manifestare le leggi straordinarie e veramente paradossali della loro repubblica spirituale»6. Come osserva Tertulliano, questi fedeli non sono «brahmani o gimnosofisti dell’India, abitanti delle foreste o proscritti»7, ma abitano su questa terra e pregano «per gli imperatori, per i ministri e per le potenze, per il momento presente, per la pace nel mondo, per rinviare la fine»8. Le persecuzioni, locali e limitate, si moltiplicano senza tuttavia diventare sistematiche: «L’anima, mortificata dalla fame e dalla sete, diventa migliore; perseguitati, i cristiani si moltiplicano sempre di più ogni giorno che passa. Il posto assegnato loro da Dio è così nobile che non hanno il permesso di disertarlo»9. Radicata e consolidata, la Chiesa prosegue nella sua diffusione. Ormai da tempo non è più una comunità minoritaria ed emarginata, al contrario vede i suoi figli perfettamente partecipi della società romana: «Siamo nati ieri – prosegue l’apologeta – e abbiamo già popolato la terra e tutto ciò che è vostro: città, isole, fortificazioni, municipi, borghi, i campi stessi, decurie, palazzi, senato e foro; vi abbiamo lasciato solo i templi!»10. L’Immagine proibita La Chiesa, ricca di due secoli d’esistenza, conserva il deposito divino eternamente rinnovato dallo Spirito. Il canone delle Scritture del Nuovo Testamento è costituito. Il Simbolo degli apostoli si cristallizza. L’opera dei Padri apostolici illustra la formidabile espansione del pensiero teologico del cristianesimo. Le epistole di Clemente Romano e di Ignazio di Antiochia sono quasi animate dal soffio paolino. La Didaché offre un modello di catechesi primitiva, l’esultanza delle Odi di Salomone attesta la salmodia del cristianesimo semitico, Il Pastore di Erma «è simile alle apocalissi ebraiche, senza mutuare nulla da esse»11, la Lettera a Diogneto inaugura magistralmente la grande retorica patristica. Giustino 16
mirabilmente l’archetipo dell’uomo creato a immagine e a somiglianza di Dio. Modellato nella creta fine dalle stesse mani del Padre «il Verbo e la Sapienza, il Figlio e lo Spirito»18, l’uomo partecipa allo splendore divino che perde poi in seguito alla caduta. Incarnato, il Cristo riunisce «in sé la carne estratta dalla terra, salvando così l’opera da lui stesso modellata»19: «fece apparire l’immagine in tutta la sua verità diventando lui stesso quella che era la sua immagine, e ristabilisce la somiglianza in maniera ferma, rendendo l’uomo del tutto simile al Padre invisibile per mezzo del Verbo da quel momento visibile»20. Riscattato e rianimato dal sangue di Cristo, il fedele è chiamato a conservare in lui il modello per lasciare alle mani del Creatore il compito di rivestire la creta dei suoi gioielli luminosi. Padre e maestro, Dio è il solo Artista; l’uomo è la sua opera suprema: «O uomo – conclude il vescovo di Lione – non sei tu a fare Dio ma è Dio che fa te. Se dunque tu sei opera di Dio, aspetta pazientemente la mano del tuo Artista, che compie ogni cosa al momento opportuno. Presenta a lui un cuore tenero e docile, e conserva la forma che ti ha dato l’Artista, avendo in te l’Acqua che ti viene da lui e in mancanza della quale, indurendoti, non porteresti l’impronta delle sue dita. Mantenendo la tua conformazione, assurgeresti alla perfezione, perché grazie all’arte di Dio sarà espulsa l’argilla che è in te. La sua Mano ha creato la tua materia; diventerai oro puro sia dentro che fuori ed essa ti proteggerà così bene che il Re stesso sarà affascinato dalla tua bellezza»21.
«In quel giorno ognuno getterà/ gli idoli d’argento e gli idoli d’oro/, che si era fatto per adorarli,/ ai topi e ai pipistrelli,/ per entrare nei crepacci delle rocce/ e nelle spaccature delle rupi,/ di fronte al terrore che desta il Signore/ e allo splendore della sua maestà,/ quando si alzerà a scuotere la terra» (Is 2,20-21). Il discorso di Paolo davanti all’Areopago non dimentica le parole del profeta: «Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana» (At 17,29). All’epoca di Tertulliano, quell’invito è ancora attuale: «Il demonio ha ispirato nel mondo i fabbricanti di statue, di immagini e di ogni genere di rappresentazioni. In tal modo l’arte di fabbricare idoli è diventata l’origine stessa dell’idolatria. Ha poca importanza che sia uno scultore a modellarla, un cesellatore a plasmarla, un tessitore a tesserla. Poco importa la materia, gesso, colori, pietra, bronzo, argento o filo di cui è fatto l’idolo. Parimenti, poca importanza ha anche ciò che viene rappresentato, perché non bisogna credere che l’abbia unicamente se si tratta di un idolo dedicato a un soggetto antropomorfo. Se così non fosse, un popolo sarebbe meno idolatra se consacrasse l’immagine di un vitello al posto di quella di un uomo»13. Alle immagini statiche e morte si oppongono le immagini viventi di Dio: i cristiani, la cui anima è pervasa dalla bellezza divina. Da san Paolo a Origene, i Padri invitano i fedeli a forgiare su di loro l’immagine di Dio. L’uomo è chiamato a conquistare attraverso la fede la «prova di quelle [cose] che non si vedono» (Eb 11,1). «Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne» (2 Cor 4,16-18). «Niente di ciò che è visibile è bello»14, aggiunge sant’Ignazio di Antiochia. I cristiani sono le pietre del tempio di Dio: ornati soltanto dei comandamenti di Gesù Cristo, si uniscono per l’edificio del Padre15. Giustino sottolinea l’inanità degli idoli; la materia «bruta e senza vita» non può restituire l’aspetto della divinità. «Non sapete forse, senza che ci sia il bisogno di dirvelo, come gli artisti lavorano la materia, come la levigano, la tagliano, la fondono e la battono? Spesso, grazie alla loro arte, vasi ignominiosi, cambiando soltanto forma e figura, hanno avuto il nome di dèi. Quindi, ai nostri occhi è un’assurdità, che dico, un oltraggio alla divinità, la cui grandezza e natura sono ineffabili, dare nome a opere corruttibili e che hanno bisogno di essere curate dalla mano dell’uomo»16. Dio dona tutto e non ha alcun bisogno dei doni materiali offerti dall’uomo: «Egli apprezza coloro che cercano di imitarne le perfezioni, la sapienza, la giustizia, l’amore per gli uomini, infine tutti gli attributi del Dio che nessun nome creato riesce a nominare»17. Il vero culto di Dio è privo di doni materiali. Ireneo di Lione analizza
L’ellenismo cristianizzato Le vestigia del cristianesimo del iii secolo fanno intuire un approccio diverso all’arte. Nonostante la loro esiguità, dai monumenti rimasti si capisce la portata stilistica delle prime opere. I resti, talora magistrali e accurati, talora rupestri e grossolani, non hanno nulla di primitivo. Difficile cogliere in essi il preludio di un ciclo nuovo. Sia a Oriente sia a Occidente, i cristiani adottano le forme e i metodi dell’epoca per ornare i cimiteri e i luoghi di culto. I culti cambiano, ma le funzioni e le caratteristiche restano molto simili. Quest’arte, nei primi tentativi, ma anche nella prima maturità, dimostra di essere una branca del grande albero romano. La nuova religione mutua le tecniche artistiche degli ambienti in cui si diffonde. Integrati nelle città, i primi artisti cristiani, eredi della grande cultura degli antichi, restano fedeli alle tradizioni dominanti. La molteplicità di stile è soltanto il riflesso di quella delle correnti in voga. L’insieme è dominato da un fondo comune. L’espressione artistica si evolve all’interno di un mondo al crepuscolo dell’Antichità. Il preludio del iii secolo si estende fino al iv, nel momento in cui la conversione dello stato avrebbe contribuito all’espansione del cristianesimo; pitture murali, sarcofaghi, lapidi, mosaici e rilievi: le grandi tendenze dell’Antichità in declino si riflettono ovunque. L’arte, sacra o profana, di culto o imperiale, trae i cicli figurativi 17
scudo di Achille è parallela al racconto della creazione del mondo del Genesi; la storia di Thetis e di Oceano corrisponde alla separazione delle acque e della terra (Gn 1,79); la creazione di Eva è accostata a quella di Pandora; il racconto del diluvio è paragonato a quello di Deucalione e la storia della torre di Babele a quella dei giganti che ammassano il monte Pelio sopra l’Ossa»27. Le corrispondenze si moltiplicano: Ulisse prefigura Giacobbe, Minosse annuncia Mosè, Orfeo è l’immagine di Davide, l’aedo e il salmista sono entrambi figure di Cristo. Il Verbo unico riunisce tutto: l’acclamazione di Eschilo, «Salve o luce!», lo designa e lo saluta. Esistente fin dal principio, il Verbo porta a termine la genesi e la storia, «Creatore e Maestro e Pedagogo di tutto»28. Questa lettura aperta della civiltà sembra non comprendere le arti figurative. L’immagine rimane strettamente legata all’idolatria. Il pedagogo di Alessandria evoca le decorazioni dei templi egizi: «Le corti sono circondate da mille colonne, i muri sono sfavillanti di pietre venute da lontano e alle iscrizioni d’oro non manca nulla; oro, argento e vermeil fanno brillare i templi che riflettono i bagliori delle pietre preziose dell’India e dell’Etiopia, il santuario rimane all’ombra di drappi ricamati d’oro»29. Lungi dal custodire «il dio anelato», la scena presenta in fondo alla sala «un gatto, un coccodrillo, una serpe del luogo o qualche animale del genere, indegno del tempio ma degno di un anfratto, una caverna o un pantano»30. Il visibile è sempre infinitamente inferiore all’invisibile. Una volta di più, l’uomo è chiamato a costruire dentro di sé l’immagine del Cristo per conquistare «la carità dell’anima, l’immortalità della carne»31: «l’uomo abitato dal Verbo rimane se stesso, non si trasforma, conserva la forma del Verbo, assomiglia a Dio, è bello, non è abbellito. La vera bellezza esiste, ed è Dio; quell’uomo diventa Dio perché è Dio a volerlo»32. La posizione ostile all’iconografia è accentuata. Tuttavia, Clemente apre una breccia per l’ammissione, finalmente, dei segni iconografici dei simboli cristiani: i fedeli possono scegliere come simbolo «una colomba o un pesce, una nave spinta dal vento, oppure una lira, strumento utilizzato da Policrate, o un’ancora marinara, come quella incisa da Seleuco»33. L’immagine del pescatore è riconosciuta e rimanda all’apostolo Pietro. Il pugnale, l’arco e la coppa, sinonimi di guerra, sono da proscrivere.
e le forme dalla stessa fucina. Il suo ambito abbraccia quello dell’Impero e si estende dall’Eufrate all’Atlantico. Le interpretazioni si distinguono senza costituire tuttavia dei mondi separati. La tarda Antichità, romana, greca e levantina, appone il suo sigillo sul primo periodo dell’arte cristiana. L’arte, senza possedere la profondità teologica della letteratura e del pensiero cristiano dell’epoca, sembra inscindibile da un umanesimo cristiano che si diffonde con l’assimilazione della cultura classica da parte della giovane religione. La cultura antica, considerata dai romani «il bene più bello e più prezioso che possediamo in questa vita», viene ora combattuta come una forza nemica, ora recuperata come una forza alleata. Taziano il Siriaco e Tertulliano di Cartagine oppongono Atene a Gerusalemme. Filosofi, re e aurighi, i pagani compaiono in miseria davanti al tribunale divino, la filosofia è la madre delle eresie, Aristotele è considerato con disprezzo e la sua dialettica viene proscritta22. «La fede consiste in una regola. Ha la sua legge e la salvezza è nell’osservanza di detta legge»23. «Non saper nulla contro la regola è sapere tutto»24. In opposizione a questo approccio negativo, Giustino Romano integra il grande sapere degli antichi con l’economia divina. Pur dichiarandosi decisamente ateo dei presunti dèi25, il filosofo cristiano proclama il sapere greco una preparazione ai Vangeli; anche Paolo ha riconosciuto nell’«ara al dio ignoto» l’altare di Cristo, il dio che gli ateniesi, «molto timorati degli dèi», adorano «senza conoscere» (At 17,22,23). Non è solo la retorica antica a essere ammessa, ma anche la stessa filosofia degli antichi. L’influenza è ben lungi dal limitarsi alla forma. Atene ha trovato nella Nuova Gerusalemme la sua dimora. La Bibbia non è la sola ad annunziare la venuta di Cristo; per mezzo del Verbo, il Padre stabilisce fin dal principio un legame fra lui e il mondo, istruendo e illuminando tutte le anime di buona volontà: «Coloro che hanno vissuto secondo il Verbo sono cristiani, anche se considerati atei, come, tra i greci, Socrate, Eraclito e i loro seguaci e, tra i barbari, Abramo, Anania, Azaria, Misaele, Elia e tanti altri, di cui sarebbe troppo lungo citare qui gli atti e i nomi»26. I miti conosciuti sono considerati immagini travisate degli atti del Vangelo; tra il Cristo e i figli di Zeus si stabilisce una strana analogia: a immagine di Cristo, anche Hermes non nasce da un atto carnale, Perseo viene concepito da una vergine, Asclepio guarisce gli infermi e resuscita i morti, Dioniso conosce il supplizio e la morte. Il rapporto tra fede e cultura classica è stabilito. La simbiosi raggiunge il suo apogeo sul finire del ii secolo. Sulla scia di Giustino, Clemente Alessandrino sottolinea l’universalità della rivelazione: i grandi moralisti preparano la via al Vangelo e il sapere greco diventa un «altro Antico Testamento». La sua origine è universale: i suoi maestri, di razza barbara o allievi dei barbari, sono stati iniziati in origine dalle grandi figure spirituali egizie, assire, galle, persiane o indiane. Le citazioni mutuate dalla cultura greca si embricano con quelle delle Scritture. Clemente confronta i miti pagani con gli episodi biblici: «la descrizione del mondo sullo
1. Epitafio di Firmia Victoria, con faro e nave, dal cimitero della vigna degli Eustachi. Città del Vaticano, Lapidario cristiano ex Lateranense. 2. Lato di un coperchio di sarcofago con due pesci e un’ancora. Roma, Museo Nazionale delle Terme. 3. Epitafio con pesce ed ancora. Roma, catacombe di San Sebastiano. 4. Lastra funeraria con raffigurazione di una colomba che si dirige verso un grappolo d’uva. Roma, catacombe di Priscilla. 5. Lastra funeraria con due uccelli e una palma. Roma, catacombe di Priscilla. 6. Epitafio e colomba con ramoscello d’ulivo. Roma, catacombe di San Callisto.
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“Vecchio e nuovo” Il primo passo è fatto. L’accettazione dei segni porta presto a integrare l’iconografia. L’esortazione ripetuta fino a quel momento viene quasi dimenticata. All’inizio del iii secolo l’interdizione delle immagini cade come foglia morta. La cristianità imita le rappresentazioni diffuse attribuendo loro un significato inedito. Le tradizioni ereditate, sempre vive, vengono messe al servizio del nuovo culto. Le immagini, in sé e per sé, non presentano assolutamente una grande originalità. I molteplici linguag19
gi adottati riflettono le numerose sfaccettature dell’arte dell’epoca. Lungi dal presentare caratteristiche particolari, l’arte cristiana delle origini rientra abbondantemente nell’arte imperiale: la rete gettata in mare è stata tirata piena sulla riva. Seguendo l’esempio dei pescatori della parabola, i cristiani raccolgono ciò che vi è di buono e buttano ciò che non lo è (Mt 13,47,48). Discepoli del regno dei cieli, estraggono dal tesoro, come un padrone di casa, «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). L’avventura comincia sul finire del ii secolo; l’Impero ha raggiunto la massima espansione, estendendosi dalle isole Britanniche fino ai deserti dell’Arabia. La grande scuola ellenica conserva tutta la sua forza nelle grandi città imperiali. Forte ormai di parecchi secoli di storia, si spinge dalle città greche unite da Filippo il Macedone, fino alle pianure del Medio Oriente conquistato da Alessandro Magno, e fino a Roma conquistatrice, che domina sulle due sponde del Mediterraneo con la penisola iberica e la Gallia. L’Impero si estende dalla Manica al mar Rosso e dal Danubio al Sahara. L’unità culturale del mondo mediterraneo è compiuta. Oriente e Occidente costituiscono una civiltà cosmopolita e universale. L’arte greco-romana, una e molteplice, si adatta perfettamente a una pluralità di sfaccettature che ne fanno la gloria e la ricchezza. Le prime opere cristiane rientrano nell’arte della tarda Antichità, da cui dipendono. Quest’arte, a lungo screditata, agli occhi degli estimatori dell’arte greca rappresentava la fine della grande scuola classica. L’arte di Roma era considerata come una lunga e lenta decadenza. Al pari di Virgilio, si vedevano le città affidare l’arte della bellezza e dell’estetica agli stranieri, riservandosi l’arte della gloria politica e delle conquiste militari34. L’età di Augusto rappresentava la parte migliore della classicità in declino. Fedele alla lezione degli antichi, lo stato assicurava la sopravvivenza del Bello. Il regresso era visto
avvenire sotto la dinastia degli Antonini. Il degrado e il disordine si accentuavano nel iii secolo. Nell’epoca di Costantino la mediocrità diveniva la regola per sfociare quindi sulla parodia orientale di Bisanzio, inaugurando un lungo Medioevo di separazione tra l’Antichità e il Rinascimento. Il giudizio viene ridimensionato alla conclusione del xix secolo; la conformità ai canoni classici non è più considerata come somma regola di bellezza. L’arte, fedele ma senza grandi segni di rinnovamento nel primo secolo dell’era cristiana, dimostra nel corso dei secoli successivi originalità e varietà. L’espansione delle attività delle province raggiunge il centro e lo segna con la propria impronta. La fusione dei mondi e delle culture della koiné offre dimensioni nuove e più complesse alle espressioni artistiche. Pur proseguendo sulla scia dell’estetica greco-romana, la rinnova dandole nuovo respiro. I primi cristiani vivono all’interno di un mondo in cui le immagini sono onnipresenti. All’epoca in cui i primi tentativi artistici cominciano a prendere forma, le tradizioni pagane apportano un impressionante substrato iconografico ricco di cicli compiuti di forme e di immagini. Dai culti delle città ai culti misterici, passando per il culto imperiale, l’arte esprime e traduce le molteplici forme della religiosità romana. Adottati dalle varie officine, i prototipi fissi rendono i personaggi perfettamente riconoscibili. Sculture, personaggi e pitture testimoniano la diffusione universale della vulgata religiosa «grecoromana». Roma si sbarazza dei propri dèi e adotta quelli delle province: un insieme di dèi ed eroi collega l’Oronte al Tevere. Dioniso, paragonato alle divinità orientali, gode di un’attenzione diffusa, le divinità autoctone diventano universali. L’egizia Iside e la frigia Cibele hanno un posto privilegiato nel pantheon romano. Mitra, giunto dalla Persia, soppianta le divinità romane. Horus viene accostato ad Apollo, Amon a Zeus, Toth a Hermes, Osi-
7. Mitra tauroctono. Londra, The British Museum.
(a fronte)
8. Scena di suovetaurilia raffigurata su un bassorilievo del foro romano.
9. Il ratto di Ganimede, mosaico da Hadrumetum, ii secolo. Museo di Sousse, Tunisia.
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10. Orfeo, mosaico di Bararus (oggi Rugaa), iii secolo. Deposito del Museo di el-Jem, Tunisia. 11. Apollo e Marsia, mosaico da Thysdrus (oggi el-Jem), ii secolo. Museo del Bardo, Tunisi.
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movimento ininterrotto le marce, le imprese, i passaggi e gli assalti. La storia prosegue sulla colonna di Marco Aurelio: in questo caso si tratta delle vittorie riportate su marcomanni e sarmati: il suo trionfo è politico e morale. Le immagini successive pongono l’accento sulla giustizia dell’imperatore, la pietà e la clemenza. Qua e là, la drammatizzazione dei gesti consacra il sovrano, la cui forza risiede nella virtù: detentore della grazia, appare perennemente vincitore, adulato dai nemici spodestati, adorato dai suoi soldati e dai sudditi, incoronato da vittorie e assistito da geni. Esattamente come nell’arte trionfale, l’arte funeraria evoca un’attualità idealizzata e mitizzata. L’espressione della realtà viene attuata con una moltitudine di scene di vita terrena. Le formule codificate rappresentano l’istruzione, il sacrificio, il matrimonio, il banchetto, la caccia e la corsa dei carri. Scene corali, ritratti e segni simbolici sono dedicati alle funzioni svolte dai defunti durante la vita in questo mondo. Le immagini rivelano mercanti, medici, pensatori, artigiani, costruttori, arrotini o marinai; la vita materiale è inseparabile dalla vita morale, l’attualità è inseparabile dalla morale. I defunti spesso sono accompagnati da un filosofo precettore, un poeta o un musico, immagini personificate di sapienza e cultura. Il mito si unisce alla realtà per celebrare «l’immortalità in virtù della Virtù». I mortali presentano gli attributi degli dèi, segno della loro fedeltà e del loro passaggio alla vita inalterabile. La pietà e la virtù offrono all’uomo la riuscita materiale, la buona morte e l’apoteosi celeste. L’arte religiosa e l’arte imperiale cedono all’arte funeraria i cicli iconografici tradizionali. Il mondo sovrannaturale e il mondo terreno sono rischiarati dallo stesso sole, le immagini mitiche e le scene di guerra riflettono un ideale comune. Come nelle lotte ingaggiate da Ercole, Achille, o Bellerofonte, le battaglie che vedono i romani opposti ai barbari sono coronate dal trionfo della virtù e dal ripristino del giusto ordine. Le decorazioni domestiche riprendono il repertorio tematico dell’arte romana. Pitture e mosaici ricoprono pareti e pavimenti di immagini consuete: dèi e dee, battaglie e combattimenti, scene di vita sociale, ritratti di gruppo, cerimonie religiose, istruzione e iniziazioni, giochi e cacce. Gli spazi chiusi si aprono su un mondo immaginario, città incantevoli si stagliano in mezzo a paesaggi idilliaci; gli uccelli raffigurati sono di ogni specie e colore, le acque sono popolate di pesci fantastici, animali giunti dai quattro angoli del mondo imprimono un tocco di esotismo ai paesaggi. I personaggi cambiano, il paesaggio resta immutato. La personificazione degli elementi della natura rafforza il concetto di unicità di quest’ambiente botanico. Le raffigurazioni delle città sono come di sorelle: ornate dalle loro insegne, sono testimoni della prosperità della terra abitata.
ride a Dioniso. Nel pullulare di sette religiose, Plutarco di Cheronea proclama l’universalità degli dèi: come il sole e il mare, sono uguali per tutti gli uomini, barbari e greci, popoli del sud e popoli del nord. Il regno indivisibile invita talvolta a credere nell’esistenza di una sola intelligenza che governa quest’armata di dèi. L’anelito di «vivere con gli dèi»35 lascia presagire un dio cosmico artefice dell’intera creazione. Dietro il moltiplicarsi di triadi e di enneadi, un monoteismo pagano unisce le potenze ridotte a un’unica potenza: «Uno è, infatti – osserva Marco Aurelio –, il cosmo che si compone di tutte le cose, una è la sostanza, una è la legge, una è la ragione comune a tutti gli esseri dotati di intelligenza»36. Pitagorici, stoici e platonici si dedicano a una lettura spirituale dei miti conosciuti per svelarne il senso nascosto. Rappresentati in questa nuova prospettiva, dèi ed eroi diventano raffigurazioni viventi dei grandi valori morali. Apollo impersona la coscienza di sé e l’equilibrio interiore; Ercole, liberatore di Teseo, gli inferi distrutti e la vittoria sulla morte; Dioniso, che con la sua coppa guarisce ogni cosa, incarna la vita liberata dai mali e l’anima che sopravvive in un’esistenza migliore dopo la morte e la disgregazione; Ganimede, elevato fino a Giove nelle sfere celesti, è simbolo dell’anima purificata nella quiete e nell’armonia; Endimione, giovane e bello, immortale e incosciente, sonnecchiando per sempre fuori dalle realtà destinate alla decadenza è il segno dell’eterna pace che risiede nella felicità; Mitra, dio persiano che sgozza il toro dal cui sangue hanno vita le creature, è l’immagine del trionfo morale riportato sul male nella lotta della vita; Orfeo, il musico della Tracia che riesce ad affascinare e a soggiogare ogni essere animato e inanimato fa intuire il regno dello spirito sulle forze terrene. La religiosità della società traspare attraverso l’arte imperiale; la storia viene evocata e celebrata. Invece di ricostruire l’universo, l’immaginazione creatrice riproduce minuziosamente il reale e lo trasforma allegoricamente. La scultura esalta l’imperatore e rende eterno il ricordo delle sue vittorie. I celebri rilievi a narrazione continua dell’Ara Pacis, destinati a commemorare la pace di Augusto, celebrano gli ideali religiosi e civili dello stato. Il simbolo è legato strettamente alla storia. Saturnia Tellus, che stringe due bambini fra le braccia, siede tra una ninfa e una nereide, personificazioni simboliche dei fiumi e dei mari d’Italia. Ai suoi piedi, una vacca e una pecora confermano il simbolo della prosperità. La rappresentazione storica occupa i due lati delle pareti: la famiglia imperiale, assistita da senatori e sacerdoti, apre il corteo d’inaugurazione dell’altare. L’arco di Tito sottolinea l’evoluzione di questo stile durante la dinastia Savia. La narrazione diventa più realista; il movimento è sviluppato come una cronaca illustrata che narra la vittoria dell’imperatore sugli ebrei. La nuova tendenza assume un’importanza notevole all’epoca di Traiano: i rilievi, lunghi duecento metri, si snodano a spirale sulla colonna eretta da Apollodoro di Damasco come in una cronaca epica, in cui si narra delle due guerre dichiarate dall’imperatore ai daci e ai parti, riassumendone in un
Tav. 1. Il dio Aflad e un sacerdote che compie il sacrificio, da Dura Europos, i secolo, Damasco, Museo nazionale.
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Tav. 2. Busto funerario di un sacerdote, da Palmira, ii secolo. Ibidem.
Tav. 3. Altari votivi, da Palmira, iii secolo. Ibidem.
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Tav. 4. Il sacrificio di Conone, pittura murale dal tempio degli dei palmireni, Dura Europos, fine del i secolo. Ibidem.
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Tav. 5. Il sacrificio dell’incenso, da Dura Europos. Ibidem.
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Tav. 7. Stele funeraria di una giovane, da Palmira, ii secolo. Ibidem.
Tav. 6. La dea buona, il cane, il vinto e la tychĂŠ, da Palmira, i secolo. Ibidem.
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12. Il corteo della famiglia imperiale, bassorilievo dell’Ara Pacis, 13-9 a.C., Roma. 13. Marco Aurelio sacrifica agli dèi, bassorilievo del ii secolo. Roma, Musei Capitolini. 14. Sacrificio ad Apollo, medaglione dell’età di Adriano. Roma, arco di Costantino.
Tav. 8. Vittoria, da Dura Europos. Ibidem.
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Le opere dell’epoca, romane, greche, levantine, africane, galliche e iberiche sono espressione di una stessa arte. La cultura dei conquistatori arreca un’impronta ellenistico-romana alla civiltà dei paesi conquistati e le differenze non minano l’unità di una tradizione pluralista. I programmi decorativi sono strettamente legati. Tuttavia, dietro l’apparenza delle immagini, le tecniche stilistiche permettono di vedere cambiamenti e innovazioni continue. Le variazioni provenienti dalle province non lasciano indifferente il grande centro della romanità. Fin da-
gli inizi, artisti e artigiani danno prova di grande intesa; alle caratteristiche fondamentali se ne aggiungono altre particolari, derivate sia dalle tradizioni autoctone soffocate, sia dall’impero persiano, grande e ammirato rivale del mondo romano. I modelli antichi, interpretati in maniera diversa da artisti di valore, sono esaltati e ricreati. La presenza del ritratto illustra l’evoluzione degli stili attraverso una moltitudine di visi incisi e dipinti. Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, espone il concetto classico di ritratto, un’epopea iniziata con l’invenzione del disegno e culminante nella realizzazione di un’immagine fedele alla somiglianza individuale naturalista; l’ideale antico infatti è nella rappresentazione realistica di una data fisionomia. Riprodurre la morfologia del volto vivo animato e rivelarne il carattere psicologico e morale determinano la riuscita dell’opera. Il maggiore rappresentante di quest’arte è il mitico Apelle, ritrattista ufficiale di Alessandro Magno, che realizza dipinti dall’illusionismo perfetto, che sfidano l’osservatore e lo confondono, come il ritratto dell’imperatore in cui la mano sembra «così viva» che pare uscire dal quadro per toccare colui che guarda. L’idealizzazione del ritratto non consiste nel falsare o mascherare la verità, ma semplicemente nel nasconderne i difetti. Ecco dunque che Apelle, incaricato di dipingere il ritratto del re Antigono, privo di un occhio, si accontenta di dipingerlo di tre quarti, «in maniera che la parte che mancava nel corpo di Antigono sembrasse mancare invece nella rappresentazione pittorica»38.
15. Ritratto di un panettiere con consorte, dipinto da Pompei. Napoli, Museo nazionale.
16. Ritratto funerario. Il Cairo Vecchio. Museo d’arte copta.
Le stagioni consacrano il tempo che passa, cambia, ma è comunque eterno; i quattro elementi dimostrano l’ascesa all’etere delle anime. Le nereidi popolano l’aria della loro forza cosmica e vi insufflano il divino; sileni e satiri attorniano gli esseri umani; i putti giungono a rinnovare il senso di un’infanzia senza età. Le vigne instaurano un baccanale sempre ripetuto: l’uva viene calpestata, il mosto fermenta, il vino è purificato. La natura è dolce e amica dell’uomo: «perché dio si spande per tutto, per le terre, per gli spazi del mare e per il cielo profondo. Di qui i greggi, gli armenti, gli uomini, e ogni schiatta di fiere, insomma tutte le creature traggon per sé i sottili elementi vitali. Naturalmente, si rendon poscia colà, e tutte ritornano liberate le cose; e non si può parlare di morte: ma volano vive in mezzo alle stelle e ascendono in alto nel cielo»37. Unicità e molteplicità
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esiste immagine conservata o trasmessa. Esattamente come le figure del passato, i ritratti dei contemporanei sono reinventati e ricreati a discapito della loro identità reale. Sovrani o semplici sudditi, i committenti vengono rappresentati con gli attributi divini e mascherati da volti idealizzati. Nelle province orientali la tendenza sfocia in un cambiamento profondo. I dipinti funerari realizzati in Egitto presentano uno stile composito: dipinti su tela di lino o su legno, a encausto o a bianco d’uovo, diventano maschere per le mummie. Senza rinunciare al naturalismo, un insieme composito di ritratti riflette una somiglianza comune. Benché si tratti di opere funerarie, i visi dei defunti sono in larga parte visi di persone in giovane età. Il ritratto, dipinto dal vivo molto tempo prima della morte del soggetto, viene completato e portato a termine dopo il decesso del modello. I volti silenziosi e contemplativi riflettono una stessa immagine, tuttavia, al di là dell’unità stilistica, le tecniche utilizzate rivelano tre grandi stili principali: il primo, fedele all’estetica romana, cerca di avvicinare il modello alla perfezione, l’idealizzazione dei lineamenti trascende la fisionomia individuale senza tradire i canoni del viso naturale. Come nei famosi ritratti pompeiani della Ragazza con la piuma o del Panettiere con consorte, i visi romano-egiziani risplendono di una bellezza carnale idealizzata. Il secondo stile opta per un’esecuzione sommaria e schematica; provinciale e rozza, l’opera colpisce per audacia e freschezza, senza presentare un’estetica control-
All’epoca di Traiano, Plinio il Giovane esorta al mantenimento di questo ideale di bellezza. L’artista è invitato a non allontanarsi dal modello, neppure per migliorarlo adulandolo39. La corrispondenza rivela quanto fosse esasperato e oltraggiato dall’abbandono dell’antica bellezza in favore dei nuovi costumi. Certo, la scultura romana continua devotamente a copiare i capolavori greci; l’assoggettamento all’arte greca e il rispetto della resa espressiva naturalistica sono ancora dominanti, tuttavia la rappresentazione della verità fisionomica comincia a perdere terreno, mentre si fa avanti la tendenza all’idealizzazione. Alla prime sculture romane dal realismo umano svelato attraverso una varietà straordinaria di tipologie, si sostituisce una serie di ritratti idealizzati del periodo imperiale. Come aveva già osservato Plinio il Vecchio, «anche la pittura di ritratti con la quale venivano tramandate nei secoli figure somiglianti al massimo grado, è del tutto scomparsa. Si dedicano ora scudi di bronzo argentati in superficie, senza alcuna sensibilità nel differenziare le figure; si scambiano le teste delle statue...», «l’indolenza ha rovinato le arti e poiché non ci sono più ritratti di animi, si trascurano anche quelli del corpo... anzi, vengono raffigurati anche ritratti immaginari e il nostro desiderio dà forma a volti non tramandati, come è avvenuto per Omero»40. La somiglianza di un’individualità specifica viene abbandonata e gli artisti inventano a partire da un’idea personale ritratti di cui non conoscono il modello, dando lineamenti immaginari a figure di cui non
17-18. Due bassorilievi funerari di Palmira, ii secolo. Damasco, Museo nazionale.
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ne è costituita dalla contemplazione; due cerchi concentrici determinano l’occhio, con la pupilla fissa tra le palpebre; il modello astratto prevale su quello naturalista. Al nome del defunto si aggiunge il termine aramaico nafscha: soffio, anima o persona. Al di là della somiglianza terrena, il volto, innalzato sul sepolcro, si apre all’immortalità per diventare lo spazio e dimora dell’anima. Le iscrizioni semitiche designano i nomi dei personaggi. Non c’è narrazione e neppure descrizione della vita eterna, solo lo sguardo contemplativo evoca silenziosamente il mondo dell’aldilà. I volti degli dèi sono delineati secondo la stessa prospettiva. Il tema cambia, ma la «natura» espressa è la stessa: uno stesso viso si ripete all’infinito, l’umano diventa divino, il divino umano. L’esecuzione del corpo umano riflette le stesse tendenze. La supremazia dello spirito ellenistico è innegabile e la rappresentazione dei personaggi segue il modello naturalista idealista. Le forme anatomiche, armoniose ed equilibrate, seguono i canoni di bellezza dell’antichità. Benché il bassorilievo abbia il sopravvento sul tuttotondo, la scultura continua a sfidare la materia per «dare al bronzo il soffio vitale». L’artista romano, orientale od occidentale, continua a seguire l’ordine dato da Anchise a Enea, con l’obiettivo di «far uscire dal marmo i personaggi viventi». Le figure sono
lata e perfetta. Il terzo stile mostra un’evoluzione sensibile: il pittore, dal disegno e dall’arte plastica sicuri, ricrea la struttura e i lineamenti del viso, i canoni della bellezza naturalistica sono deliberatamente superati; la stilizzazione accentuata conferisce spiritualità al volto dipinto e lo spinge al limite di quella che sarà l’icona. Il viso, dipinto ante e post mortem, è immortalato al di là dei limiti spazio-temporali: con le labbra strette, il naso affilato, gli occhi stilizzati e lo sguardo aperto per sempre, è eterno. L’introduzione della foglia d’oro, che dal fondo passa alla corona d’alloro o ai monili, illumina il ritratto di una luce ultraterrena e conferisce una nota immateriale. L’ellenismo orientalizzato fiorisce nelle città-porto del deserto siriaco. Tra il Mediterraneo e la Mesopotamia, Palmira innalza una pleiade di volti deificati ripartiti nei primi tre secoli della prima era cristiana. 2, 3 Sulla stele posta sulla tomba individuale, il defunto viene rappresentato in piedi o col solo busto. Seguendo la convenzione della frontalità, la figura si presenta di faccia: nasce un’arte siriaco-greco-persiana, in cui un modello convenzionale unifica i volti e li allontana dalla tecnica naturalistica. Idealizzati e ringiovaniti, i visi degli uomini si assomigliano e sono intercambiabili, le forme si semplificano e si schematizzano, il movimento è trattenuto e l’espressione concentrata. L’unica azio-
19. Vittoria, dagli scavi di Byrsa, ii secolo. Cartagine, Museo nazionale. 20. Venere, statua da Cagliari, Museo archeologico.
21. Bassorilievo votivo, ii secolo. Damasco, Museo nazionale.
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22. Scena nilotica, mosaico da el-Alia, ii secolo. Tunisi, Museo del Bardo.
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profilano: il primo si limita a imitare gli elementi architettonici tradizionali con l’incrostazione di pannelli di stucco colorati; il secondo adotta l’architettura prospettica secondo la tecnica a trompe-l’œil delle scenografie teatrali; il terzo elimina l’idea della profondità e opta per una decorazione sobria, in cui immagini singole trovano spazio in riquadri delimitati da bordi scuri; parallelamente, il quarto stile segue la tecnica a ritroso, incorporando le immagini in un fasto architettonico dipinto a trompe-l’œil. Il linguaggio plastico presenta la stessa eterogeneità; il disegno, preciso e armonioso all’inizio, viene conquistato dal colore e si allontana progressivamente dalla scuola madre greca. Vitruvio, tendenzialmente conservatore, condanna l’innovazione ponendola a confronto con i modelli del passato; scrive l’architetto: «Infatti quel che gli antichi, dedicandovi lavoro e ingegno, si sforzavano di rendere accetto nella loro arte, oggi si consegue col colore e il loro elegante aspetto; e allora la finezza dell’artefice aggiungeva dignità all’opera, ora altro non si desidera che la prodigalità del padrone. E chi degli antichi non mostra aver usato del minio se non con parsimonia come fosse un medicamento? Ma oggi ne sono pennelleggiate qua e là pareti, e spesso tutte intere. Vi si aggiunge la chrysocolla, l’ostro, l’armenio; e queste tinte, date pure senz’arte, soddisfano gli occhi mediante il fulgore»41. Il cromatismo produce uno stile inedito: la tecnica compendiaria, che consiste nello schizzare le immagini col pennello senza descriverne i particolari precisi. Contrariamente allo stile corsivo e lineare dell’arte ellenistica, i tocchi di colore modellano rapidamente i volumi con tinte piatte vivaci, affrettate
addossate le une sulle altre, calme ed eteree come nei cortei religiosi in cui uomini e donne avanzano per render grazie agli dèi, toccanti e agitate, come nelle scene drammatiche di battaglia in cui i corpi si ammassano in uno strano brulichio. Il Sarcofago di Fedra e Ippolito rinvenuto in Libano presenta una rievocazione fedele della tradizione classica: l’eroe e i compagni sono rappresentati nudi a immagine dei Lapiti, l’eroina e le sue ancelle sono vestite di lunghi drappi come le Nike; il Sarcofago di Eracle, ritrovato in Asia Minore, rappresenta il corpo maschile in azione, seguendo gli episodi delle fatiche dell’eroe; a Cartagine, una vittoria partica di Marco Aurelio mostra, sotto i panneggi modellati, le forme carnali di un corpo sensuale e grazioso. Questo regno dell’ideale greco non è esclusivo, infatti a Palmira il corpo appare interiorizzato e inghiottito nella ieraticità; il banchetto ellenistico si immobilizza e si trasforma in un ritratto di gruppo in cui gli esseri sono accostati nella loro solitudine. Le figure ritte in piedi si ergono come colonne ornate, le regole dell’anatomia sono abolite, le figure appaiono massicce e impassibili. Il drappeggio greco è unito al grafismo orientale; le statue corazzate ricoprono i busti appiattiti. I gesti sono limitati a una mimica ripetitiva, l’essere è consumato nell’interiorità della contemplazione. La rappresentazione dei rapporti spaziali si rivela più complessa. Le decorazioni parietali delle case sepolte sotto la lava a Pompei, Ercolano e Stabia costituiscono un museo della pittura romana di circa due secoli. Le vestigia campane rivelano le diverse maniere adottate via via dagli artisti; quattro sono gli stili successivi che si
24-25. Due immagini delle pitture murali dell’ipogeo dei Tre fratelli. Palmira. 26-27. Bambini che giocano e Narciso che si specchia nella fonte, due particolari delle pitture murali dell’ipogeo presso Massyaf. Siria.
23. Hermes conduce una quadriga sulla quale era raffigurata Persefone rapita da Ade, pittura murale, ii secolo. Ipogeo di Tiro, Libano.
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Queilbeh, del ii secolo d.C., con colonnati, vegetazione e figure di defunti posti nelle metope, costituisce un’imitazione rustica e provinciale dell’arte funeraria tradizionale. Nel sud del Libano, nella regione di Tiro, una tomba contemporanea costituisce un modello esemplare della pittura classica antica. Il modellato dei volumi, la forma espressiva del trompe-l’œil e gli effetti cosiddetti illusionistici sono controllati alla perfezione. I numerosi elementi formano una sintesi dell’universo visibile e invisibile. La porta degli inferi, incorniciata da colonnine, figura sul muro di fondo; ghirlande fiorite sostenute da geni alati, guarnite da fascette e da maschere, formano strisce curve in cui si trovano scene mitologiche che hanno per oggetto la sopravvivenza e l’immortalità dell’anima, come la liberazione di Alceste ad opera di Eracle, il ratto di Persefone attuato da Hermes e il riscatto del corpo di Ettore. In Siria, un remoto ipogeo funerario nei pressi di Massyaf è ornato da un Ratto di Persefone e da un Narciso alla fonte. La figlia di Demetra e di Zeus, uguale a quelle visibili nei rilievi dei sarcofagi romani, è portata da Ade sul carro guidato da Hermes e seguito da Atena. Accanto a Narciso, una scena d’infanzia ricorda quelle della celebre tomba di via Portuense a Roma. I bambini che giocano a biglie in un paesaggio campestre presentano tre brevi legende: «Vinco tutto io», «Prende tutto lui», «Non prendo niente». I casi del gioco sono stati interpretati da F. Chapouthier come quelli della vita e della morte. Gli uomini sono chiamati a non prendere niente perché «non prendono niente che appartenga a loro, tutto è dovuto alla sorte»44. A Palmira, gli affreschi dell’Ipogeo dei Tre fratelli presentano una variazione orientale di decorazioni romane. La galleria, con i cassettoni esagonali, i falsi marmi, il bestiario e le vittorie alate che reggono medaglioni con ritratti, opta per una tematica esclusivamente greca, dimostrata dal ratto di Ganimede e dalla partenza di Achille, simbolo dell’ascesa dell’anima verso il riposo elisio. La tecnica appare più eclettica: mentre i volatili sono dipinti a trompe-l’œil, le figure alate e la imago clipeata si presentano vigorosamente stilizzate. Il disegno è l’elemento più importante, le forme si smaterializzano, il cromatismo è annullato. Il gruppo è strutturato armoniosamente e il movimento è concentrato in una mimica fissa. Le vittorie si ripetono in maniera uniforme. I drappeggi sono ritmati e regolarizzati, la ieraticità è predominante. Il corpo, fondamentale nell’arte classica, si irrigidisce per sparire sotto i drappeggi delle vesti. Veli e capelli avvolti a cercine inquadrano visi ridotti a un semplice ovale.
e concentrate. Le gradazioni di tinte e luce animano lo spazio che acquista movimento e diventa arioso. Lo spazio pittorico non è perfettamente tridimensionale; l’esperienza delle rappresentazioni prospettiche abbandona le leggi della prospettiva e della gravità. Il cosiddetto illusionismo spaziale dà l’impressione che l’azione si svolga in uno spazio in profondità, ma la disposizione degli elementi tradisce apertamente la logica architettonica. Un trompe-l’œil eclettico stabilisce liberamente l’ordine degli esseri e delle cose. Siamo molto lontani dall’antico Apatrio il quale, dopo aver dipinto completamente cupole che all’occhio sembravano dipinte solo per metà, «distrusse la scena, e modificatala ragionevolmente, dopo corretta, ebbe l’approvazione»42. Tale scelta, poco evidente nelle pitture, emerge chiaramente nei mosaici e nei rilievi scolpiti. Una sfida alla realtà che esplode nei numerosi elementi che riempiono lo spazio: le piante, senza perdere aspetto e peso reali, presentano forme ornamentali quasi irreali; l’illogicità si sviluppa nella profusione dei racemi popolati di figure umane e animali intrecciate a rami guarniti di foglie, fiori e frutti. Vitruvio, oltraggiato ed esasperato, esprime dignitosamente in una dura requisitoria la lunga lista delle deviazioni estetiche: «Ma perché poi il gusto falso vinca la verità non è fuori luogo spiegare. Ma tutto ciò di cui l’esempio si toglieva dalle cose vere, oggi è riprovato per iniquo costume. E si dipingono mostri sull’intonaco, anziché definite immagini di cose determinate. Invece di colonne si pongono giunchi, e in luogo di fastigi, viticci striati con foglie crespe e con volute. E candelabri reggenti figurazioni di tempietti. E sopra i fastigi, sorgono dalle radici teneri cauliculi a voluta, sorreggenti, senza perché, statuine sedute. E anche stelucci con statuine metà a testa umana, metà a testa animalesca. Ma queste cose non sono, non possono essere, né furono mai. Dunque le nuove usanze s’imposero al punto, che mali giudici smarrirono il criterio delle facoltà delle arti. In verità un giunco come può sostenere sul serio il tetto, e un candelabro di accessori di un fastigio; oppure uno steluccio tenue e molle reggere una statuetta sedente; o radici e gambicelli procreare statuette a metà fiori? Ma pur vedendo queste cose esser false, gli uomini non riprovano, anzi se ne dilettano, e non badano a quel che c’è in esse di possibile o no. E le menti, oscurate da giudizi malati, non osano affermare quel che è autorevole e dignitoso»43. La ricchezza degli stili traspare da tutte le espressioni artistiche. Le frontiere che separano Oriente e Occidente vengono letteralmente spazzate via; l’analogia dei programmi decorativi realizza l’unità artistica della koiné; la lingua utilizzata è la stessa, ovunque uomini e dèi sono affiancati da amori, vittorie, nereidi e geni. Solo l’esecuzione plastica conferisce all’opera il carattere classico o l’originalità. Una casa di Efeso risalente al primo secolo d.C. rivela una tipica decorazione a pannelli rossi popolati di figure di saggi, poeti e muse. Nel nord della Giordania, una tomba rinvenuta nel villaggio di
Il vino nuovo e gli otri vecchi L’arte – una e molteplice – unisce il Levante all’Occidente e il Settentrione al Mezzogiorno. Gli stili coesistono in una stessa regione. Il classicismo è sempre presente ed è affiancato a correnti nuove che ne adottano i modelli non per imitarli, bensì per trasformar38
li. Un soffio orientale giunge a dare spiritualità a forme ereditate, modulandole secondo nuove regole. La presa di distanza dall’estetica classica avviene in un’epoca in cui la Chiesa si mostra esitante in merito alle immagini. Nel iii secolo, quando i cristiani muovono i primi passi nell’arte, la koiné di cui fanno parte continua a popolarsi di personaggi del mondo visibile e invisibile, nulla traspare dell’inizio di un’arte inedita. L’arte dei pagani passa progressivamente ai catecumeni, una miniera di immagini e simboli viene recuperata dalla Chiesa: l’antichità si cristianizza. L’arte cristiana delle origini sviluppa le sue forme espressive reinterpretando gli elementi dell’arte pagana. L’arte imperiale fornisce le sue insegne al Cristo; tutto è dedicato alla glorificazione del Re dei re: padrone dell’universo, pedagogo, pastore e salvatore di tutti i popoli della terra; apostoli e santi assumono le vesti dei sapienti e dei poeti ispirati, patriarchi e profeti della Bibbia si sostituiscono a dèi ed eroi mitici, gli angeli assumono le sembianze di vittorie, numi tutelari, muse e putti; le scene bucoliche evocano paradisi perduti e ritrovati. La rappresentazione del mondo è la prova della sua condensazione nel Cristo, la ricerca di un’apparenza nuova degli esseri e delle cose è il segno della rigenerazione in una nuova vita.
«L’arte umana costruisce case, navi, città, dipinge quadri, ma – si chiede Clemente Alessandrino – come è possibile dire tutto ciò che è fatto da Dio? Guardate il mondo intero, quella è la sua opera. Il cielo, il sole, gli angeli, gli uomini sono opera delle sue mani»45. Il sipario si alza, il visibile è testimonianza dell’invisibile, l’arte è chiamata a cambiare la propria funzione. A servizio della mano divina, le dita degli artisti cristiani cercano di professare la fede da cui sono animati; sulla scia di una tradizione ancora viva, tentano di esprimere la loro fede servendosi di un linguaggio ereditato dall’Antichità. L’arte cristiana delle origini, nata già vecchia, riceve prima ancora di dare, come la terra che «produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,28). La sua originalità si manifesta gradualmente; più che un’arte nuova, appare attraverso una lunga e lenta trasfigurazione. Il vino nuovo viene versato nei vecchi otri (Lc 5,37). Per miracolo, gli otri non si rompono. Il nuovo va radicandosi e l’antico si rinnova sotto la grazia della fede. Una fede che, come afferma Ireneo di Lione, «senza posa, sotto l’azione dello Spirito divino, come una merce molto preziosa rinchiusa in un vaso eccellente, rinnova e rende nuovo il vaso stesso che la contiene»46.
Note Giustino, i Apologia, cit., p. 36. Ibid., p. 73. 27 J. Daniélou, L’Eglise des premiers temps, cit., p. 141. 28 Clemente Alessandrino, Pedagogo, iii, 99, 2, Migne, Paris 1991, p. 301. 29 Ibid., iii, 4, 2, p. 227. 30 Ibid., iii, 4, 2, p. 228. 31 Ibid., iii, 3, 3, p. 226. 32 Ibid., iii, 1, 5, p. 224. 33 Ibid., iii, 59, 2, p. 22. 34 Virgilio, Eneide, vi, 847: «Forgeran con più arte spiranti bronzi altri popoli,/ lo credo, e vivi dal marmo sapran trarre i volti,/ diranno meglio le cause, le strade del cielo/ misureranno a sestante, il sorger degli astri sapranno:/ tu ricorda, o Romano, di governare le genti:/ questa sarà l’arte tua, e dar costumanze di pace,/ usar clemenza a chi cede, ma sgominare i superbi» (trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1974). 35 Marco Aurelio, Pensieri, v, 27 (trad. di G. Cortassa, Torino 1984, p. 325). 36 Ibid., vii, 9, p. 361. 37 Virgilio, Georgiche, iv (trad. di G. Lipparini, Milano 1927, p. 273). 38 Plinio il Vecchio, Storia naturale, xxxv, 36 (trad. di R. Mugellesi, Torino 1988, pp. 295-301). 39 Plinio il Giovane, Epistolario, iv, 28 (trad. it. di F. Trisaglio, Torino 1973, p. 499). 40 Plinio il Vecchio, op. cit., xxxv, 2, p. 295 41 Vitruvio, Trattato dell’architettura, vii, 5 (trad. it. di U. Fleres, Milano 1933, pp. 101-103). 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 F. Chapouthier, Les peintures murales d’un hypogée funéraire près de Massyaf, «Syria», xxxi, 1954, p. 209. 45 Clemente Alessandrino, Protrettico, 63, 2, «Sources chrétiennes» n. 2, p. 126. 46 Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., iii, 24, 1, p. 395. 25
Clemente Romano, Commentario alle Lettere di S. Paolo, 5, 6. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, ii, 3, 1, «Sources chrétiennes» n. 31, p. 54. 3 Ibid., iv, 26, 8, p. 210. 4 Teodoreto di Ciro, Commentario del Libro di Isaia, 2, 4, «Sources chrétiennes» n. 276, p. 199. 5 Lettera a Diogneto, v, 1, «Foi vivante» n. 191, Paris 1979, p. 62. 6 Ibid., v, 2-4, p. 62. 7 Tertulliano, Apologetico, 42, 1, Les Belles Lettres, 1971, p. 90. 8 Ibid., 39, 2, p. 82. 9 Lettera a Diogneto, vi, 9-10, cit., p. 65. 10 Tertulliano, Apologetico, cit., 37, 4, p. 79. 11 Gabriel Peters, Lire les Pères de l’Eglise, Paris 1981, p. 178 (trad. it. I padri della Chiesa, Roma 1984). 12 Ireneo di Lione, Contro le eresie, iv, 33, 8, Paris 1991, p. 519 (trad. it. Contro le eresie e altri scritti, Milano 19972). 13 Tertulliano, Sull’idolatria, ii, 2-3, in J. Daniélou, L’Eglise des premiers temps, Paris 1985, p. 190 (trad. it. La Chiesa degli apostoli, Roma 1991). 14 Ignazio di Antiochia, Romani, 3, 3, in Les Pères Apostoliques, Paris 1980, p. 134. 15 Ignazio di Antiochia, Efesini, 9, in Les Pères Apostoliques, cit., p. 115. 16 Giustino, i Apologia, 9, in La philosophie passe au Christ, Paris 1982, p. 38. 17 Ibidem. 18 Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., iv, 20, 1, p. 469. 19 Ibid., iii, 22, 2, p. 384. 20 Ibid., v, 16, 2, p. 618. 21 Ibid., iv, 39, 2, p. 556. 22 Tertulliano, Sulla prescrizione contro gli eretici, vii, 6; cfr. Opere scelte, Torino 1984, p. 127. 23 Ibid., xiv, 4, p. 107. 24 Ibid., xiv, 5, p. 107. 1
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Capitolo secondo
I primordi dell’arte cristiana iii secolo
le sette giudeo-pagano-cristiane si moltiplicano; gli iniziati si appassionano al dibattito teologico. La ricerca di Dio, sia tra i cristiani, sia tra i pagani più spirituali, si fa più pressante e più esigente. Come osserva Marrou, l’ultimo paganesimo, contro cui si scontra la Chiesa, si rivela profondamente religioso. L’oggetto della sua ricerca non è più l’effimera felicità dei sensi; si sviluppa una religiosità nuova: «Non è frutto della rinascita di credenze e pratiche arcaiche della prima Antichità, presenta bensì caratteristiche originali, anche tra gli ultimi seguaci del paganesimo che vogliono restare fedeli agli dèi della città tradizionale, al politeismo rappresentato dai maestri della cultura, agli dèi di Omero e di Virgilio – ma tutto questo in un senso completamente nuovo»3. La sapienza viene lodata: per mezzo della sapienza, l’uomo riesce a godere una beata immortalità. Nell’epoca in cui prende forma la prima iconografia cristiana, l’arte pagana aggiunge al suo repertorio di divinità ed esseri mitici le immagini di questa sapienza venerabile. Un mosaico rinvenuto in una villa di Baalbek-Heliopolis, in Libano, mostra un gruppo di otto sapienti disposti attorno al busto di Calliope4. Socrate, «il più sapiente di tutti gli uomini», è posto sopra Calliope. Varie iscrizioni accompagnano sistematicamente i ritratti successivi; il nome di ogni sapiente è legato a un motto: «Solone di Atene: Niente eccessi», «Talete di Mileto: Cautela attira rovina», «Bia di Priene: La maggioranza dell’umanità è malvagia», «Cleobulo di Lindos: La misura è la cosa migliore», «Periandro di Corinto: La riflessione fa terminare il lavoro», «Pittaco di Mitilene: Cogli le opportunità», «Chilone di Sparta: Conosci te stesso». L’elenco dei nomi e delle sentenze, a parte un’eccezione, è identico a quelli del pagano Diogene Laerzio e del cristiano Clemente Alessandrino5. Racchiusi in otto medaglioni, i sapienti formano una corona il cui centro è occupato
La Chiesa, che sta crescendo, passa attraverso la tormenta del iii secolo. Mentre l’Impero si indebolisce, i decreti contro i cristiani si moltiplicano. Da Settimio Severo a Valeriano, il potere minacciato cerca di consolidare la sua unità e le frontiere. L’attrito fra stato e Chiesa si accentua; il clero è oppresso e il culto proibito; le comunità cristiane vengono perseguitate. Cipriano di Cartagine, importante testimone di quest’epoca difficile, invita i fedeli alla pazienza e alla perseveranza: «Confrontare le proprie doti spirituali con la violenza dei saccheggi e della morte, ecco l’elevazione dell’anima! La grandezza è restare diritti in mezzo alle rovine della specie umana invece di piegarsi, abbattuti, con coloro che non hanno riposto in Dio la speranza!»1. La calma ritorna sotto Gallieno, con la pubblicazione dell’editto di tolleranza del 261; la pace perdura fino al regno di Diocleziano. All’inizio del iv secolo la Chiesa subisce la persecuzione più terribile: la repressione metodica viene estesa a tutto l’Impero. La tempesta si placa sotto Costantino quando, nel 313, con l’emanazione dell’editto di Milano, viene concessa «ai cristiani e a tutti i sudditi, la libera facoltà di seguire la religione scelta». L’Impero rimane politeistico: il cristiano gode «della più completa e assoluta libertà» e può seguire la sua fede «liberamente e sinceramente, senza essere disturbato o molestato in nessuna maniera». Parimenti, gli adepti di altre religioni hanno «il pieno e completo diritto di seguire le loro usanze e fedi, e possono avvalersi della libertà di venerare dèi a loro scelta»2. Il iii secolo, disastroso per l’Impero, è un periodo fiorente per la cultura e per la riflessione spirituale. La Chiesa esce rafforzata dalle prove sostenute; mentre la filosofia antica conosce un ultimo rinnovamento, l’apologia del cristianesimo è in piena fertilità. Il neoplatonismo ha raggiunto il suo apice, le gnosi confluiscono, 41
vengono quasi trascurati, i volumi appaiono alleggeriti, le figure e le forme si smaterializzano; le leggi dello scorcio e della prospettiva aerea non sono rispettate, lo spazio è appiattito. Ciò che in un primo momento sembrava una «degradazione del mestiere» ricorda invece le più importanti correnti spirituali contemporanee. Un influsso spirituale trascende l’apparenza degli esseri e delle cose, la potenza dell’invisibile si manifesta gradualmente; la materia sensibile si veste della materia intelligibile. L’immagine non è più imitazione diretta del modello visibile che rappresenta, va oltre, cercando di risalire fino al modello ontologico per far affiorare l’archetipo intelligibile: «L’occhio interno» supera «gli occhi del corpo»; come insegna Plotino, «un occhio non vedrà mai il sole senza diventare simile al sole, così un’anima non vede il bello senza essere bella. Ogni essere dunque deve prima diventare divino e bello se desidera contemplare Dio e il Bello» (i, vi, 9). L’analogia che lega le varie concezioni religiose traspare dalle numerose opere artistiche. Gli schemi iconografici sono adottati di volta in volta dalle diverse comunità; pagani, ebrei e cristiani producono un’arte che rientra nello stesso filone. Più che la definizione dello stile, è il significato simbolico dei soggetti che conferisce all’opera un’identità confessionale. L’arte cristiana muove i primi passi nel iii secolo. Le vestigia delle origini formano un insieme ridotto di immagini e di segni destinati a decorare i luoghi di culto e funerari. L’Oriente siriano tramanda i resti di una casa ecclesiale decorata con pitture murali a soggetto biblico. L’Occidente romano conserva le prime manifestazioni di arte funeraria, sviluppatasi progressivamente per formare nel iv secolo una prima tradizione iconografica cristiana. Non si conoscono immagini precedenti, i testi scritti forniscono pochi particolari. Ireneo di Lione ricorda la presenza di opere religiose raffiguranti il Cristo tra gli “eretici” sincretisti: «Possiedono alcune immagini dipinte, altre fatte in varie maniere, perché
dalla musa avvolta in un drappo che regge nella mano ripiegata il rotolo della sapienza. Le grandi immagini allegoriche della virtù, personificate a immagine delle muse, sono a loro volta celebrate come esseri viventi. Su un mosaico di Shahba-Philippopolis, in Siria, una Euteknia in trono, assistita da due figure femminili, leva la mano in segno di accoglienza. Alla sua sinistra, Dikaiosyné in piedi ripete lo stesso gesto. Alla sua destra, in piedi davanti a una capsa piena di rotoli, Philosophia, le braccia tese, accenna con le dita il gesto dell’insegnamento proprio dei sapienti. «Euteknia – commenta Festugière – rappresenta l’avere non molti bambini, ma bambini belli e buoni: se sono tali, è grazie alla paideia che hanno ricevuto, simbolizzata dalle due figure allegoriche Philosophia e Dikaiosyné»6. Bellezza e bontà imprimono il loro segno sull’Antichità al tramonto. L’ultima arte pagana prepara l’avvento dell’arte cristiana. La dualità degli stili si accentua: dalle province arriva fino al centro di Roma dove avvolge ormai la più romana delle arti, l’arte imperiale. Sull’angolo della facciata di San Marco, a Venezia, il celebre gruppo in porfido dei tetrarchi dimostra il nuovo cammino intrapreso dall’arte. Il modello tematico è classico: seguendo una simbologia stabilita, le due coppie di personaggi imperiali si stringono e manifestano con quel gesto l’unità dell’Impero. Lo stile conferisce all’opera un carattere inedito. All’opposto del modello classico dell’imperatore guerriero, le vesti sono stilizzate; i lineamenti sono illuminati dalla superficie lucida; occhi, bocca, orecchie, naso e ciocche di capelli sono disegnati a rilievo lineare. Nella Biblioteca Apostolica Vaticana, nella scultura in porfido dedicata allo stesso gruppo, la stilizzazione della scultura è accentuata: i corpi hanno perso la struttura anatomica. I tetrarchi, rappresentati uniformemente, stringendosi una mano, l’altra mano che regge il globo terrestre, sono più immagini-simbolo che ritratti. La corrente orientaleggiante è presente in una vasta produzione artistica; i canoni estetici tradizionali
Dura Europos sull’Eufrate, racchiude l’unico modello rimasto dei battisteri anteriori all’epoca di Costantino. Decorata a pitture murali, offre un esempio pressoché unico di iconografia monumentale a destinazione cultuale. Sopra il fonte battesimale, il Buon Pastore appare con la sua pecora sulle spalle; ai suoi piedi, come sotto la terra che calpesta, Adamo ed Eva sono rappresentati in piedi in scala ridotta. L’unione delle due scene in una sola immagine evoca implicitamente il concetto sviluppato dai Padri sulla salvezza dell’umanità decaduta ad opera del Cristo: «Il Figlio “Dio è con Noi” scenderà nelle profondità della terra per cercare la pecora, vale a dire l’opera da lui stesso plasmata, e poi risalirà in alto per offrire e rimettere al Padre suo l’uomo da lui ritrovato»11. Sulle pareti si trovano due registri sovrapposti. Sul primo, sono rappresentati a narrazione continua alcuni miracoli di Cristo; gli avvenimenti si susseguono in un unico spazio. Il Cristo leva un braccio in direzione del paralitico steso sul suo letto, e questi già si alza portando sulle spalle il giaciglio, a guarigione avvenuta. Accanto a questa scena, una barca si staglia sull’acqua: davanti agli occhi dei discepoli, in piedi sulle acque, il Cristo tende la mano per afferrare san Pietro. Sul registro inferiore, sono allineate le sante mirrofore rappresentate uniformemente di fronte con un cero in mano, davanti a un grande sarcofago decorato da due stelle. A questo gruppo monumentale si aggiungono due piccole scene dove si scorge la Samaritana davanti al pozzo e Davide vincitore su Golia. Nonostante il suo carattere rozzo e provinciale, la pittura appartiene al grande filone greco-orientale dell’epoca, testimoniato dall’insieme degli edifici di culto della zona. Un mitraeum, un tempio dedicato agli dèi palmireni, e i santuari dedicati ad Atargati, Artemide, Zeus e Adone rivelano un’estetica locale che coniuga le tradizioni greca e iraniana. Inscindibile da queste opere, una sinagoga allestita in una dimora privata costituisce una testimonianza eccezionale dell’esistenza di un’arte
sostengono che un ritratto del Cristo venne dipinto da Pilato all’epoca in cui Gesù viveva tra gli uomini. Incorniciano queste immagini e le espongono insieme a quelle dei filosofi profani, cioè con quelle di Pitagora, Platone, Aristotele e gli altri, rendendo a esse tutti gli altri onori in uso tra i pagani»7. Lo storico Lampridio evoca un uso simile praticato da Alessandro Severo. Secondo la sua testimonianza, l’imperatore possedeva nel suo lararium statue dei Cesari divinizzati più religiosi, di Apollonio di Tiana «e anche di Cristo, Abramo e Orfeo»8. Le esortazioni iconofobe di Tertulliano fanno pensare all’esistenza tra i cristiani di immagini incise. Gli scritti del iii secolo sono altrettanto rivelatori; in un’epoca in cui i fedeli adattano le immagini per un uso propriamente cristiano, i padri della Chiesa rimangono insensibili, o addirittura ostili, a quell’uso, come se l’immagine fosse rimasta strettamente legata ai culti idolatrici. I cristiani sono chiamati a guardare Dio «col pensiero» e a contemplare «con gli occhi del cuore la sua paziente volontà»9. L’appello a modellare dentro di sé l’immagine del Figlio per diventare un tempio dello Spirito Santo si ripete: «Liberati grazie al Verbo di Dio da quella grande massa di terra che vi opprimeva – dichiara Origene – ora fate risplendere in voi l’immagine dell’Uomo celeste»10. L’arte cultuale di Dura Europos I primi luoghi di culto dei cristiani erano semplici case. Secondo il Nuovo Testamento, la prima comunità cristiana frequentava assiduamente il Tempio e spezzava il pane nelle dimore dei fedeli (At 2,46) a Gerusalemme, dove è nata la Chiesa, a Troade, dove Paolo ha fatto resuscitare un morto (At 20,7) e a Efeso dove all’Apostolo si è aperta una porta «grande e propizia» per la sua attività (1 Cor 16,9). La domus ecclesiae allestita quasi clandestinamente nella prima metà del iii secolo, scoperta a
30-31. Due rappresentazioni del gruppo dei tetrarchi. Venezia, piazzetta di San Marco e Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica.
28. Euteknia, Dikaiosyné e Philosophia in un mosaico da Philippopolis, iii-iv secolo. Damasco, Museo nazionale.
32. Busto d’imperatore in porfido. Museo del Cairo.
29. Calliope circondata da Socrate e dai sette saggi, in un mosaico da Heliopolis, iii-iv secolo. Museo nazionale di Beirut.
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a Orfeo, Giacobbe benedice i figli e i nipoti Efraim e Manasse. Due figure di profeti in piedi sono collegate a quelle del registro superiore: le identificazioni, sempre ipoteticamente, suggeriscono Mosè o Giosuè per il personaggio sulla destra, Mosè, Esdra o Abramo per quello di sinistra. Quattro scene narrative circondano il trittico centrale: si riconosce l’accampamento nel deserto con il pozzo di Beer, la consacrazione del tabernacolo con la presentazione delle offerte, il Tempio di Salomone con il portale, gli acroteri e le mura, l’Arca dell’Alleanza dei Filistei con il tempio devastato di Dagone, il carro e i topi d’oro. Il registro inferiore si rivela più eclettico. Da sinistra a destra, quattro scene presentano in successione Elia che resuscita il figlio della vedova, Mardocheo in trionfo sul cavallo reale, Samuele che dà l’unzione a Davide e Mosè salvato dalle acque del Nilo dalla figlia del faraone. La parete sud e nord hanno perduto gran parte delle decorazioni; sulla prima si riconosce il passaggio del profeta Elia a Sarepta, la vittoria del monte Carmelo sui profeti di Baal e il sacrificio sull’ara riparata, dove il fuoco miracoloso divora l’olocausto e il legno. Sulla seconda parete, ci sono tre scene sovrapposte: in un piccolo riquadro, unico resto del registro superiore, è rappresentato il sogno di Giacobbe; sul registro centrale la battaglia di Eben; infine, il registro inferiore è compietamente coperto dalla visione di Ezechiele sviluppata a narrazione continua. La selezione delle scene bibliche e la disposizione in registri frazionati continuano ancor oggi a suscitare
cultuale figurativa ebraica: un ampio programma iconografico traduce in immagini dipinte una selezione di racconti biblici. La nicchia posta al centro della parete ovest è sormontata da un pannello con una rappresentazione del Sacrificio di Isacco. L’immagine, molto delicata, occupa il lato destro di una superficie composita, dominata dai simboli tradizionali ebraici, vale a dire la facciata del tempio, il candelabro, il cedro e il ramo di palma. Sotto un ariete legato davanti a un arbusto compare Abramo brandendo un coltello; alla sua sinistra, Isacco è sospeso orizzontalmente su un enorme altare di pietra. Una terza figura in piedi appare ritta, in scala ridotta, come sullo sfondo. Le tre figure umane, rappresentate esclusivamente di spalle, sono senza volto. Sopra Isacco, la mano aperta di Dio spicca su una nuvola. Le pitture che ricoprono le pareti, realizzate in una seconda fase, sono in uno stile completamente diverso. Su ogni parete ci sono tre stili sovrapposti; al centro del registro superiore, sotto il pannello della nicchia, Orfeo, con il tradizionale copricapo frigio, suona la cetra davanti a un gruppo di animali, tra cui un leone e un’aquila; l’illustre cantore, posto al centro del gruppo, sembra incarnare Davide o prefigurare l’atteso Messia. Due figure incorniciate in piedi loaffiancano ai lati: Mosè compare due volte, prima davanti al Roveto ardente sul monte Oreb, poi durante l’ascesa al monte Sinai per ricevere le tavole della Legge. A destra, una grande scena composita è dedicata all’uscita dall’Egitto; a sinistra, due scene, di cui restano solo alcune tracce, sfuggono all’identificazione. Sul registro centrale, sotto il quadro riservato
33-36. Il Buon Pastore; la Samaritana; la guarigione del paralitico e il Signore che salva Pietro dalle acque; le pie donne al Sepolcro, dettagli di pittura murale dal battistero di Dura Europos. Yale, University Art Gallery. (a fronte) 37. La sinagoga di Dura Europos. Damasco, Museo nazionale.
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38. La consacrazione del Tabernacolo e il Trionfo di Mardocheo, particolari delle pitture murali della sinagoga di Dura Europos. Damasco, Museo nazionale.
39. L’arca preda dei filistei e il faraone che ordina alle levatrici di far morire i figli maschi degli ebrei, particolari delle pitture murali della sinagoga di Dura Europos. Damasco, Museo nazionale.
l’interesse degli studiosi. I cicli profetici di Mosè, Elia ed Ezechiele sono alternati a episodi estratti dai vari libri delle Scritture secondo un progetto di base la cui lettura rimane aperta alle interpretazioni più disparate e le risposte date sono sempre oggetto di controversie. Gli episodi della Santa Bibbia, sfidando ogni ordine cronologico, non sono più semplici avvenimenti di un racconto, ma i segni di una metastoria sempre viva.
cie in tinta unita; la profondità dello spazio che si apre alle loro spalle si trasforma in una superficie monocroma e uniforme. Lo stile è lineare, la linea del disegno, accuratamente seguita, marca meticolosamente i vari elementi dell’insieme: le pieghe dei drappi, gli elementi architettonici, gli oggetti e gli ornamenti sono stilizzati e schematizzati. Come le tre Marie della casa battesimale, le figure femminili della sinagoga sono simili alle donne
L’interpretazione plastica degli avvenimenti della Sacra Scrittura dipende dallo stile in voga nelle città del deserto siriano. L’apporto di Dura, di ispirazione pagana, ebraica o cristiana, presenta uno stile locale composito greco, parto e levantino. L’osmosi operata tra le correnti orientali e occidentali costituisce un linguaggio originale e omogeneo. La pittura rimanda all’antico Oriente: i personaggi, privi di peso, sono disposti su una superfi46
pagane che popolano le tombe siriache. I movimenti naturali sono aboliti, i gesti, stereotipati, sono mantenuti in rigidi limiti fissi; l’immediatezza è bandita, la ieraticità condiziona e domina tutto: il movimento è espresso da un dito puntato in avanti, la preghiera dalle mani coperte dall’estremità della tunica, la beatitudine dalle braccia degli oranti levate al cielo. La scala di rappresentazione dei personaggi è legata alla loro importanza e 47
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sta caratteristica rappresenta una particolarità che non rientra affatto nelle grandi tradizioni antiche; nell’antico Oriente, nelle grandi scene composite e descrittive, i personaggi stilizzati e idealizzati sono invariabilmente rappresentati di profilo, l’iconografia frontale è adottata soltanto per un numero ridotto e delimitato di figure definite. Nell’Impero romano, il pieno prospetto nasce simultaneamente nelle diverse regioni «grazie alla sintesi di apporti orientali, greci, italici e provinciali tra cui nessuno domina sufficientemente sugli altri per potergli attribuire la responsabilità del risultato finale»12. In Grecia e in Persia appare in forma attenuata, mentre nelle città siriache di frontiera occupa una posizione dominante che annuncia misteriosamente la grande arte cristiana successiva.
i gruppi sono disposti a falangi compatte. I ritratti sono spogli oppure ci sono scene descrittive: dai protagonisti ai personaggi minori, tutto è astratto. Alle reminiscenze orientali si aggiungono elementi propri di eredità ellenistica; le architetture raffigurate sugli affreschi recano un’impronta greca: il tempio palmireno di Conone e il tempio ebraico di Salomone sono corinzi, gli acroteri dei portali degli edifici di culto ebraici sono decorati da vittorie, un crepidoma greco ornato da pantere dionisiache e da maschere teatrali è posto tra le pareti della sinagoga. I personaggi appaiono vestiti alla maniera persiana, con tuniche corte, pantaloni sbuffanti e calzari alti; altri ancora sono abbigliati alla greca, quindi calzano sandali, indossano chitoni e imation tradizionali. L’esecuzione dei volti conferisce a questo stile un’originale peculiarità. Come nei rilievi religiosi e funerari dell’epoca, i personaggi sono invariabilmente dipinti di fronte, gli occhi fissi su chi guarda. Come a Palmira, l’arte è diretta a un pubblico ben definito. Il movimento rappresentato «dipende» da chi guarda, l’azione si apre sullo spettatore e lo accoglie nel suo spazio. Il sacerdote Conone, assistito da numerose figure in preghiera, offre il sacrificio dell’incenso su un altare in fiamme; offerente e assistenti sono rappresentati costantemente di fronte. Gli sguardi, benché cancellati, sembrano assorti nella stessa contemplazione. La figlia del farao ne e le sue ancelle salvano il piccolo Mosè sul Nilo: i gesti delle mani dei personaggi esprimono il movimento della scena, ma i visi sono rivolti verso lo spettatore. L’azione supera i limiti dello spazio pittorico. Il campo si apre su un controcampo. Nel Tempio di Salomone, l’architettura e gli oggetti sono rappresentati in assonometria. Il movimento va dal centro dell’immagine verso lo spazio esterno di fronte. La scena, nella sua immobilità, resta attiva e avanza verso colui che guarda. Que-
L’arte funeraria romana Le più antiche immagini dell’Occidente cristiano, dipinte, incise o scolpite, appartengono all’arte funeraria. I cristiani, dapprima sepolti insieme agli altri defunti, ottengono cimiteri propri simili a quelli degli altri gruppi corporativi. La ripugnanza nei confronti dell’incinerazione, in uso a Roma, e il dogma della resurrezione della carne, uniti al desiderio di conservare i corpi dei defunti per il Giudizio finale, favoriscono la rapida espansione di questo tipo di sepoltura. Tuttavia, a prima vista, le catacombe cristiane non appaiono diverse da quelle pagane ed ebraiche. Ogni necropoli sotterranea nasconde un gran numero di gallerie, con nicchie scavate destinate alle sepolture. Le tombe erano chiuse da lastre con iscrizioni incise. I sarcofagi scolpiti di marmo o di pietra, destinati ai ceti abbienti, occupavano posizioni privilegiate nelle camere mortuarie. Le pareti di questo
41. Eros e Psiche, ipogeo dei Flavi (particolare). Roma, catacombe di Domitilla.
40. Orazione funebre, pittura murale nella tomba di Clodio Ermete. Roma, catacomba di San Sebastiano.
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ottagono e da cinque immagini clipeate, di cui due sono oggi andate perdute. Le immagini, schizzate in maniera affrettata, raffigurano scene di gruppo il cui significato è rimasto incerto; l’ottagono presenta molte figurine allineate dominate da un uomo in volo sopra di loro, vestito di una corta tunica e un pallio, con una lancia in una mano e l’altra alzata come per prendere la parola. Le tre immagini clipeate presentano successivamente un’assemblea, in piedi, davanti a una sepoltura, una coppia formata da due figure dipinte in rosso e verde, e una scena di gruppo con una figura femminile seduta che stringe la mano di un uomo in segno di addio. Il simbolismo delle immagini è stato interpretato in due modi: il primo vi legge un’iniziazione a un rito misterico, il secondo la rappresentazione di cerimonie legate ai riti funebri. Il tocco cristiano è concentrato sulla pittura molto deteriorata del soffitto posto sopra l’ingresso. Il Buon Pastore riporta la pecorella ritrovata in mezzo al gregge, un grande banchetto rappresentato da figure in piedi e gruppi seduti attorno ai tavoli, forse una semplice scena di pasto funerario o la rappresentazione della distribuzione dei pani ai cinquemila accoliti; infine, sul lato destro, un gregge di maiali cade in un corso d’acqua mentre il guardiano corre ansante verso l’alto, forse l’evocazione di un miracolo compiuto dal Cristo nella terra dei Gadarrei, con la liberazione dell’indemoniato e i porci che, posseduti dai demoni cacciati via, si precipitano nel mare per trovarvi la morte. Le catacombe di Domitilla costituiscono un altro esempio di pagano-cristianesimo, come pure l’ipogeo dei Flavi, che rappresenta la parte più antica dell’area cimiteriale, ove si trova una pittura dedicata al mito di Eros e Psiche. Al centro di ghirlande guarnite di fiori e uccelli, tre scene descrittive rappresentano la storia di colei che, colpevole di aver perduto il consorte, lotta penosamente col suo dolore fino al giorno in cui, purificata dalla prova subita, lo ritrova e si unisce a lui nelle nozze eterne. Psiche, con ali di farfalla, appare accanto a Eros in un luogo verdeggiante in cui i due sposi colgono fiori ponendoli in una cesta. L’anima, sinonimo di Psiche, raggiunge l’immortalità attraverso il superamento delle prove dell’esistenza e gode, grazie al trionfo dell’amore, delle beatitudini eterne. La successiva decorazione della catacomba è segno di una cristianizzazione totale. Gli eroi biblici, i santi martiri e i devoti defunti prendono posto sulle pareti e sulle volte, costituendo il massimo esempio dell’evoluzione dell’iconografia funeraria cristiana tra il iii e il v secolo.
10, 11, mondo sotterraneo, decorate da pitture, riflettono nella 15, 16 maggior parte dei casi un’atmosfera elisia piena di spi-
ghe, fiori e uva. Le scene d’imbalsamazione, di sepoltura o di funerali sono rappresentate molto raramente; le prefiche sono quasi assenti, nulla rimanda al distacco emotivo. L’arte delle catacombe, benché funeraria, non lascia trasparire l’orrore dell’Ade. Il linguaggio figurativo dell’epoca costituisce la parte essenziale della decorazione; si trovano disseminati i cicli delle stagioni, i lavori campestri, le rotazioni dei pianeti e i vigneti dionisiaci. L’iscrizione di una tomba romana nei pressi di via Latina presenta perfettamente la forza espressiva di quei paesaggi bucolici; vi si legge: «La mia tomba non è coperta né di rovi, né di cardi; non si scorge il pipistrello che vola con le sue grida stridenti; alberi di ogni sorta crescono pieni di grazia attorno al mio sarcofago, agitando tutt’intorno con fierezza i loro rami carichi di frutti. L’usignolo melodioso e la cicala, le labbra dolci come il giglio, volteggiano tutt’intorno; si ode il sapiente cinguettio della rondine e si estende il soffio di una dolce melodia dell’armoniosa cavalletta. Io, Padrone, tutto ciò che un mortale possa desiderare, l’ho eseguito, affinché, anche nell’Ade, trovi un luogo di delizie»13. I 9 defunti prendono posto nell’ambiente bucolico; i ritratti dipinti, realizzati secondo un modello idealizzato, si presentano spesso incorniciati secondo una decorazione architettonica a carattere scenografico. La morte è trasformata in eterna primavera; la decorazione antica, privata delle connotazioni pagane, passa naturalmente al cristianesimo: «Noi non moriremo mai»14, afferma san Cipriano, «la morte non è un’uscita definitiva, ma un passaggio, un cammino temporaneo verso l’eternità»15. La pace e la felicità appartengono ai servitori di Dio per l’eternità: «Godono le dolcezze della tranquillità e della libertà allorché, sottratti ai tormenti del mondo, giungono al rifugio del soggiorno e della sicurezza eterni; quando infine, una volta oltrepassata la soglia della morte, accedono all’immortalità. Solamente allora l’anima trova la vera pace, il riposo totale, la sicurezza duratura e perpetua»16. Gli ipogei cristiani coesistono con gli ipogei pagani. Gruppi scultorei sincretistici fanno pensare a un eventuale passaggio alla nuova fede; tra questi, la cripta di 10 Clodio Ermete costituisce uno dei primi esempi. La tomba è situata sulla via Appia, sotto la triclia dove si riunivano i pellegrini cristiani per commemorare i due principi degli Apostoli. L’iscrizione all’ingresso e il soffitto dipinto, posteriori alla costruzione, sono innegabilmente cristiani. All’interno della cripta, la presenza dell’urna e delle tombe parietali attesta il passaggio dalla cremazione all’inumazione, risalente alla metà del ii secolo. Al centro della volta, una grande testa di medusa dallo sguardo fisso scongiura ogni presenza malefica. Le pareti sono decorate da immagini bucoli15 che, tralci di due viti carichi di grappoli, un pappagallo e una pernice attorno a un grande piatto di frutta posto su uno zoccolo, immagine simbolica dell’anima in cerca di felicità. Una camera posteriore è ornata da un
Decorazioni antiche e figure bibliche Nei più importanti cimiteri romani sono conservate le pitture cristiane più antiche. I cubicula delle catacombe di San Callisto costituiscono quasi un microcosmo di quest’arte, in cui le immagini si succedono e si ripetono senza obbedire a un programma stabilito. Gli episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento si mescolano e si 49
sette panieri di pani posti su un tavolo a treppiede, il pesce con una cesta di vimini sul dorso con un bicchiere di vino coperto di pani. La decorazione antica suggella il tutto con le teste ornamentali, i piccoli geni, il reticolo di ghirlande, gli uccelli e i festoni; la disposizione delle scene segue fedelmente le formule dell’epoca. Le figure delle volte sono separate in riquadri delimitati da giochi di cerchi e linee ortogonali, mentre i soggetti delle pitture parietali sono inscritti in riquadri tracciati da linee. L’insieme e gli elementi decorativi sono classici, il linguaggio romano si adatta a esprimere la fede cristiana, solo i personaggi che popolano lo spazio figurato sono cambiati. La tecnica del colore opta per la pittura compendiaria o a macchia: il fondo è spoglio, le forme spiccano sugli sfondi neutri: «Venga la grazia e questo mondo passi»17, è ripetuto nella Didaché. Le figure e i volumi sono suggeriti in primo piano da pennellate a tinte vivaci. Ritroviamo gli elementi della pittura compendiaria con effetti di freschezza, di sveltezza e leggerezza. Le pitture sono in massima parte realizzate con estrema economia di mezzi, ma la semplificazione non provoca l’abbandono del naturalismo. Il disegno, ridotto a linee pure, messo in risalto da qualche tinta, acquisisce la densità del rilievo proprio della tecnica romana. La pittura non ignora né il gioco delle vibrazioni, né l’opposizione di luce e ombra. L’aspetto sommario e le brevi note di colore conferiscono alle immagini caratteristiche di vivacità e trasparenza. La qualità dell’esecuzione varia costantemente. La pittura, rozza o sem-
compenetrano liberamente. Nella cosiddetta «cripta dei sacramenti» sono rappresentati il Buon Pastore, il Battesimo di Cristo, la guarigione del paralitico, l’incontro con la Samaritana, la resurrezione di Lazzaro, il sacrificio di Abramo, Mosè che colpisce la roccia e la storia di Giona. Nella cripta di Lucina, a questo registro si aggiunge l’immagine di Daniele nella fossa dei leoni. Dalle catacombe di San Callisto a quelle di Priscilla, il ciclo si forma e si delinea. Nella zona detta dell’Arenario è conservata la più antica pittura che ritrae la Vergine: un profeta, Balaam o Isaia, indica con la mano 22 levata una stella posta sopra la Madre col figlio divino. L’area del cripto-portico rivela l’immagine considerata una delle più antiche rappresentazioni del peccato originale: Adamo ed Eva intorno al serpente avvolto sull’albero con il frutto fra le fauci. Nella cappella gre14 ca si trovano l’adorazione dei Magi, Noè sull’arca, i tre giovani nella fornace e Susanna accusata dai vecchi. Il ciclo iconografico dell’arte funeraria prende forma. Le prime pitture del cimitero dei Santi Pietro e Marcellino, realizzate verso la fine del iii secolo, riprendono e sviluppano i modelli costituiti dell’epoca. Dalle nozze di Cana all’istituzione dell’eucaristia, i miracoli che si ripetono ricostruiscono gradualmente la vita di Cristo. Nulla sembra distinguere la nuova alleanza dall’antica; simboli, figure e scene di gruppo si alternano a immagini identificabili, come il gruppo dei sette riunito a mezzaluna attorno alla tavola, l’orante che alza le braccia in segno di preghiera, il becchino con la pala in spalla, il pescatore con il pesce pescato, la fenice sulla pira, i
42-43. Noè in preghiera nell’arca e Mosè che colpisce la roccia. Roma, catacombe di Priscilla, cappella greca. 44-45. I tre giovani nella fornace e Susanna accusata dai vecchi. Roma, catacombe di Priscilla, cappella greca. 46. Il battesimo. Roma, catacombe di San Callisto, cubiculum dei Sacramenti. 47. Susanna e Daniele oranti, Susanna accusata. Roma, catacombe di Priscilla, cappella greca. 48. Pesce eucaristico. Roma, catacombe di San Callisto, cripta di Lucina.
49. Lunetta del cubicolo della Velata. Roma, catacombe di Priscilla.
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cia della preghiera. Purifica dunque il tuo cuore dalla tristezza perniciosa e vivrai per Dio; tutti coloro che si saranno spogliati della tristezza per rivestirsi solo di gioia, anch’essi vivranno per Dio»19. L’ottimismo davanti alla morte è perpetuo. La fine della vita terrena segna il ritorno del fedele al paradiso, unica patria del cristiano. Il grande giorno e il Giudizio finale sembrano imminenti. Scrive san Cipriano: «Con la fine del mondo, già si annunziano la ricompensa della vita, la felicità della salvezza eterna, la tranquillità perpetua e il godimento del paradiso che un tempo abbiamo perduto. E le cose celesti già si sostituiscono alle cose umane, le grandi alle piccole, le eterne alle temporali. C’è motivo di inquietudine, di timore del futuro? Solo colui al quale manchino la speranza e la fede sprofonda nell’angoscia e nella tristezza. In effetti è caratteristico di chi non vuole camminare verso il Cristo temere la morte, e la principale caratteristica di colui che non vuole venire a Cristo è quella di non credere di poter cominciare a regnare con Gesù Cristo»20. La morte è inscindibile dall’immortalità che viene dopo, ogni timore davanti a essa è bandito, lo sguardo retrospettivo sulla vita del defunto si ferma su un eterno presente. L’aldilà è il luogo in cui tutte le aspirazioni trovano la loro soddisfazione: «Felicità e grazia mi saranno compagne/ tutti i giorni della mia vita,/ e abiterò nella casa del Signore/ per lunghissimi anni» (Sal 23,6).
plice, corretta o perfezionata, rimane intimamente legata al retaggio romano; lo stadio iniziale delle prime vestigia si sviluppa fino a sfociare talvolta in una grande 12, 13 pittura classicheggiante, come i ritratti degli Apostoli nel cubicolo dell’iscrizione dell’ipogeo degli Aureli i quali, dipinti verso la metà del iii secolo secondo i canoni tradizionali, si impongono immediatamente come autentici capolavori della pittura della tarda romanità. Un paradiso sotterraneo Da bambino, san Gerolamo si recava spesso con gli amici nelle catacombe per venerare le tombe degli apostoli e dei martiri. L’erudito ecclesiastico, evocando il terrore provato lungo i tetri cunicoli sotterranei disseminati di tombe, cita un versetto dei Salmi e un verso di Virgilio. L’oscurità che regna nel luogo fa intuire la realizzazione della parola biblica: «scendano vivi negli inferi», (Sal 55,16). L’effimera luce che giunge solo a tratti brevissimi a squarciare le pesanti tenebre, fa ritornare alla mente le parole del poeta: «Orrore per l’animo mio dappertutto, anche il silenzio sgomenta»18. Le pitture parietali riflettono un altro mondo; ovunque regna un’atmosfera elisia trasfigurata. Come i personaggi della Bibbia, i defunti rappresentati ignorano la paura e la tragedia della morte. Nell’area cimiteriale di Priscilla, nella camera detta della Velatio, una donna velata, vestita di una tunica e di una dalmatica, occupa il centro dell’arcosolio; in posizione orante, appare in piedi tra due immagini distinte. Sulla sinistra c’è una scena di gruppo con un vecchio seduto e una giovane coppia, sulla destra si vede una donna seduta con un bambino tra le braccia. L’insieme è stato interpretato in due modi: il primo vi identifica la Vergine, la consacrazione e la divina maternità, il secondo una defunta ritratta da un lato come giovane sposa, dall’altro come giovane madre. Quale che sia l’identità del personaggio, l’immagine dell’orante dalle enormi mani e lo sguardo che contempla l’infinito conferisce all’opera una forza strettamente spirituale. Nelle catacombe di San Callisto, nella camera detta dei cinque santi, un gruppo allineato di oranti spicca su un fondo ricco di rami carichi di frutti, sotto due pavoni affrontati e tre colombe riunite davanti a tre anfore. Un nome, seguito dall’acclamazione in pace, compare accanto a ogni figura. Dionisia, Nemesio, Procopio, Elidora e Zoe sono affiancati nel paradiso celeste, ma i loro nomi non sono conosciuti grazie all’agiografia; santi dimenticati o semplici fedeli, si ritrovano uniti nella pace, laddove «non ci sarà più la morte,/ né lutto, né lamento, né affanno,/ perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4). I visi, dolci e sereni, paiono impassibili di fronte al tormento e al dolore. Si pensi al precetto del Pastore del profeta Erma: «La tristezza, unita alla preghiera, impedisce a questa di salire pura verso l’altare. Come l’aceto, mischiato al vino, fa perdere ad esso il suo sapore, così la tristezza, unita allo Spirito Santo, diminuisce l’effica-
Immagini di pietra I primi sarcofagi cristiani costituiscono la versione scolpita della pittura delle catacombe. La loro comparsa coincide con l’ampio propagarsi della produzione pagana suscitato dall’abbandono dell’incinerazione in favore dell’inumazione, verso la metà del ii secolo. Con la scomparsa dell’urna cineraria, il sarcofago va ad occupare una posizione capitale nell’arte funeraria romana. I gruppi decorativi di sculture diventano una presenza costante; le immagini si sviluppano su fregio continuo ritmato da elementi architettonici, cortei marini e scene bucoliche. Il ricorso massiccio alle scanalature ondulate apre la via a decorazioni spoglie basate su figure singole racchiuse in edicole fisse; la scelta della decorazione scolpita obbedisce alle differenze di sensibilità spirituale. Le scene patetiche di combattimento, numerose nel ii secolo, diminuiscono per lasciare spazio crescente a scene pacate, dominate dalle figure del filosofo e della musa. Le immagini pastorali e marine animano lo spazio scolpito nella pietra. I canoni stabiliti sono ancora una volta adottati da ebrei e cristiani. Un sarcofago ebraico conservato nel museo delle Terme, proveniente dalla catacomba ebraica di Vigna Randanini, presenta vittorie alate, le stagioni e gli amori che schiacciano l’uva. L’elemento ebraico è ridotto a un candelabro intagliato nel medaglione sostenuto dalle vittorie, la decorazione antica è neutralizzata e resa giudaica da un simbolo di culto. 52
Tav. 9. Cubicolo detto dei “cinque santi”. Roma, catacombe di San Callisto.
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Tav. 10. Tomba di Clodio Ermete e decorazioni parietali, 125-140 d.C. Roma, catacombe di San Sebastiano. Tav. 11. Particolari della decorazione della “piccola villa�, iii secolo. Roma, catacombe di San Sebastiano.
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Tav. 12. San Pietro. Roma, ipogeo degli Aureli.
Tav. 13. Decorazione dipinta, iii secolo. Roma, ipogeo degli Aureli.
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Tav. 14. L’adorazione dei Magi. Roma, catacombe di Priscilla, cappella greca.
Tav. 15. Vaso con frutta e uccello, affresco dalla tomba di Clodio Ermete, 125-140 d.C. Roma, catacombe di San Sebastiano.
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Tav. 16. Il Buon Pastore. Roma, catacombe di Priscilla.
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50. Sarcofago con mescolanza di motivi pagani e cristiani. Brignoles, chiesa di Saint Sauveur.
52. Sarcofago di Giona. CittĂ del Vaticano, Museo Pio Cristiano.
51. Sarcofago di bambino. Roma, Musei Capitolini.
53. Sarcofago con immagini bibliche. Velletri, Museo civico.
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sinistra, il Cristo resuscita Lazzaro in presenza delle sorelle e dei servitori. Le formule sono stabilite: l’orante, il pastore e il letterato sono alternati agli episodi biblici. Il sarcofago di Velletri costituisce un esempio tipico di quest’arte. Le braccia aperte, l’anima in pace forma l’asse centrale della lastra. Due pastori sono posti ai lati del gruppo; il primo è un efebo pensieroso seduto ai piedi di un arbusto, il secondo, un uomo barbuto e robusto, porta la pecora sulle spalle. Lo spazio fra le tre figure è coperto da una serie di immagini di dimensioni minori: a sinistra troviamo la trilogia di Giona, Daniele in preghiera nella fossa dei leoni e un filosofo che apre il suo rotolo di pergamena; a destra, Adamo ed Eva insieme, Noè sull’Arca, e la moltiplicazione dei pani.
L’approccio cristiano è simile. Mentre continua la produzione pagana, le opere monoteiste vengono a inserirsi in una tradizione stabilita senza per questo costituire un elemento di rottura; la nuova arte infatti non presenta nessuna originalità stilistica, le scene ereditate sono spogliate di tutto ciò che è suscettibile d’idolatria per fare spazio a figure e simboli cristiani. I personaggi biblici entrano progressivamente in scena; i primi nuclei si sviluppano per costituire cicli fissi identici a quelli delle pitture parietali. I sarcofagi cristiani più antichi giunti fino a noi risalgono all’ultimo quarto del iii secolo. I modelli anteriori al periodo di tranquillità costantiniano formano un gruppo modesto, stimato in una trentina di esemplari. Gli stili e i gruppi tematici variano sensibilmente. L’esame comparato permette di vedere una fase di gestazione che fa da preludio all’arte del iv secolo. L’identità cristiana delle prime sepolture è ipotetica. Il sarcofago di Gaiola è ornato da un fregio bucolico con un pescatore con la canna, una fanciulla orante, un filosofo seduto e un Buon Pastore: figure ereditate dall’antichità, adottate e rese popolari dall’iconografia cristiana. L’assenza di ogni figura esplicitamente biblica e la presenza di Helios e di Ade alle due estremità legittimano la probabilità dell’origine pagana. Il sarcofago della via Salaria pone gli stessi interrogativi; su un fregio delimitato da due arieti, il Buon Pastore appare seduto fra un uomo e una donna, ritratto idealizzato di una coppia di defunti o personificazione della sapienza e della pietà. La sposa è circondata da una musa e da un’orante, lo sposo è assistito da due discepoli. La portata spirituale dell’opera rimane indeterminata. Per il gruppo probabilmente valgono le interpretazioni religiose, sia pagane che cristiane. Il sarcofago di un bambino, conservato nei Musei Capitolini, realizzato intorno al 290, presenta uno schema tradizionale con immagini successive tramezzate in edicole. Un letterato e una donna orante occupano i due angoli della superficie scolpita; il busto di un bambino appare in un clipeo sollevato da due uccelli, sotto un idillio pastorale. Sulla destra, un filosofo seduto svolge il suo volumen in mezzo a un gruppo di astanti. Alla sua sinistra, la rappresentazione della Resurrezione di Lazzaro conferisce all’opera l’identità cristiana. L’inserimento dei personaggi biblici produce la prima scultura cristiania. In un sarcofago del Museo Pio Cristiano si vede una scena composita incentrata sulla storia di Giona; immagini pittoresche di pesca e di pastorizia animano la decorazione. Al centro del gruppo, sotto gli occhi del sole e del vento personificati, da un lato il mostro marino si sdoppia per ingoiare il profeta gettato dalla barca, dall’altro per vomitarlo. Il ciclo si conclude col riposo di Giona all’ombra della pergola. Altri episodi biblici appaiono embricati in questa trilogia, in cui le azioni si susseguono a narrazione continua. L’arca di Noè galleggia sulle acque davanti al mostro, gli Israeliti che patiscono la sete attaccano Mosè; accanto a loro, il Servitore di Jahvè colpisce la roccia davanti a tre uomini che attingono acqua dalla sorgente. Infine, sull’angolo a
Un riposo incorruttibile Gli esempi si moltiplicano. Le decorazioni sono come variazioni «su pascoli erbosi» e le «acque tranquille» (Sal 23,2). Gesù e Mosè brandiscono la loro bacchetta miracolosa: «Il tuo bastone e il tuo vincastro – dice il salmo – mi danno sicurezza» (Sal 23,4). I defunti ideal mente si ritrovano vivi con gli eroi di Dio in paradiso «dove è la ricchezza e la grazia del Signore»21. Sul sarcofago di Santa Maria Antiqua, una coppia dai visi non modellati prende posto al centro tra Giona dormiente, il Buon Pastore e il battesimo di Cristo. I gruppi fissi paiono «pronti all’uso», in attesa di ricevere il tocco finale che dia loro i lineamenti dei committenti. L’individualizzazione del viso resta inscindibile dalla sua idea lizzazione, segno dell’attesa dell’impronta divina: «Il Signore mi rinnovò per mezzo del suo abito – recita il salmo – e mi creò grazie alla sua luce. Dall’alto mi donò un riposo incorruttibile. Divento come la terra in germinazione, fiorisce e dà i suoi frutti. Come il sole sulla faccia della terra. Il Signore ha illuminato i miei occhi, e il mio volto ha ricevuto la rugiada e il mio respiro ha gustato il suo profumo»22. La qualità della scultura eguaglia raramente i grandi modelli pagani dell’epoca; i primi sarcofagi cristiani, paragonati a quello di Ostiliano o quello detto di Gordiano iii, appaiono assai modesti. Il rilievo esita ad affrontare il tuttotondo, i volumi e le forme sono semplificati e l’utilizzo del trapano accentua i contrasti di luce; però i corpi e i panneggi rimangono legati ai modelli naturalisti e le figure antropomorfiche e animali conservano una certa vivacità. Il rilievo, pur smussando il modellato, rimane vincolato alle forme vive e al movimento propri dell’arte ellenistica. La statuaria tridimensionale è limitata a un numero ridotto di opere, ultimi barlumi di un’arte condannata a scomparire. Gli esemplari più sorprendenti sono un gruppo di cinque statue di origine incerta, conservato nel Museo di Cleveland. La prima costituisce una variante del Buon Pastore, rappresentato in piedi, con le quattro zampe della pecora strette nella mano sinistra, secondo un modello che si integra perfettamente in una serie dedicata allo stesso tema dispersa in vari musei del 62
54-55. Giona inghiottito e vomitato dal mostro, sculture di provenienza orientale. The Cleveland Museum of Art. 56-57. Giona in preghiera e in riposo, sculture di provenienza orientale. The Cleveland Museum of Art.
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spirituale, tutti bevettero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (1 Cor 10,1-4). La riva indica «la fine delle pene»; la nave, guidata dalla luce del faro, è il simbolo del cammino verso la salvezza. Ippolito Romano ne ha fatto l’immagine della Chiesa che naviga in mare aperto e subisce le ondate senza affondare. L’immagine simbolica non si limita a un solo significato; il pesce, figura zodiacale antica, diventa il segno mistico di Cristo, del cristiano, del battesimo e dell’eucarestia. Tertulliano l’accosta come epiteto al nome di Gesù Cristo. Le lettere dell’acrostico greco icthus, che indicano il pesce, corrispondono alle iniziali dell’espressione iesous christos theou uios soter, letteralmente «Gesù Cristo, Figlio di Dio, il Salvatore». I cristiani, battezzati per nascere in Cristo, sono creati a immagine del loro Signore. «Ma noi – sostiene Tertulliano – pesciolini il cui nome deriva dal nostro icthus, Gesù Cristo, nasciamo nell’acqua e solo rimanendo nell’acqua saremo salvati»23. Il pesce, immagine di Cristo, diventa naturalmente evocazione dell’eucaristia. Il celebre epitaffio del vescovo Abercio definisce il Cristo come «un pesce di fonte, molto grande, puro, pescato da una vergine pura», offerto ai fedeli dalla fede, ovunque e sempre: «Lei lo offriva sempre come pietanza agli amici, ha un ottimo vino, lo accompagna col pane»24. Il pesce grosso è anche il pescatore di pesci piccoli, celebrati da Clemente Alessandrino nel suo Inno al Cristo Salvatore: «Pescatore di uomini che tu vieni a salvare nel mare del vizio, prendi pesci puri dall’onda ostile e li porti alla letizia»25. L’immagine del pescatore si ripete sulle pareti e sui sarcofagi, ora soltanto come elemento di decoro pittorico, ora come simbolo della missione apostolica; scrive Clemente nel Pedagogo: «Anche la pesca sarà una buona attività, come per Pietro, ma è migliore la pesca del discepolo favorito dalla grazia del Signore, che ha imparato a pescare gli uomini come si pescano i pesci nell’acqua»26. I pescatori, muniti di canne e di ami, assistono alle scene bibliche e accompagnano i grandi protagonisti. La serenità bucolica conferisce alle scene marittime un carattere
mondo intero. Le altre quattro sculture, modelli unici, traspongono in tuttotondo la storia di Giona rappresentata a più riprese sulle pitture parietali e nei rilievi funerari. Il profeta, divorato dal mostro marino, mostra soltanto la parte inferiore del corpo. Espulso dalla gola dell’animale, appare a torso nudo, le braccia al cielo. La fisionomia è modificata, Giona non è più l’abituale giovane efebo; maturo e barbuto, sembra aver assunto i lineamenti dei fiumi personificati; di corporatura robusta, vestito di una tunica corta, lo si vede sonnecchiare disteso sul dorso, sotto un fusto a foglia. L’ultima pittura aggiunge una quarta immagine al ciclo tradizionale: Giona in piedi, leggermente appoggiato sui gomiti a un tronco, apre le mani in segno di preghiera. Le statue, che rientrano nella grande tradizione ellenistica, sono di fattura eccezionale. Il gruppo riunito forma un insieme la cui funzione originale non è stata ancora individuata; le ipotesi formulate lo riconducono ora a una decorazione funeraria, ora a un battistero, mentre una terza lo associa a una fontana privata. Opera di culto, sepolcrale o semplice ornamento, emette comunque il canto del cigno di un’arte ancestrale per lungo tempo predominante su tutte le altre. L’erba e l’acqua Le immagini del paesaggio, acquatiche e bucoliche, mostrano un fondo omogeneo di immagini e simboli. Le figure incise che accompagnano le iscrizioni delle pietre sepolcrali si ritrovano costantemente nelle scene iconografiche. Il pesce, la nave, l’ancora e il faro costituiscono i simboli acquatici della fede cristiana. L’acqua, immagine della morte nell’Antico Testamento, nel Nuovo Testamento diventa il simbolo principale della vita; alle acque del Diluvio si sostituiscono quelle del Battesimo. L’Antichità viene a sua volta rigenerata e salvata: «... i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo
58. Cristo Orfeo con gli animali. Roma, catacombe di Domitilla.
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paradisiaco. «Sulle sue rive – profetizza Ezechiele – vi saranno i pescatori: da Engàddi a En-Eglàim vi sarà una distesa di reti. I pesci, secondo le loro specie, saranno abbondanti come i pesci del mar Mediterraneo. Però le sue paludi e le sue lagune non saranno risanate: saranno abbandonate al sale. Lungo il fiume, su una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina» (Ez 47,10-13). L’atmosfera bucolica è dominata dalla figura del buon pastore. L’immagine di per sé non ha nulla di originale. Nella maggior parte dei casi il pastore appare glabro, la spalla destra nuda, vestito di una tunica corta, chiusa da una cintura, i coturni o i sandali ai piedi, con una fiaschetta o una bisaccia al collo. L’immagine antica è quella del crioforo, il portatore d’ariete. Il modello più rappresentativo è Hermes, che in un’occasione allontanò la catastrofe compiendo il giro della città con un ariete sulle spalle. Lui, si tramanda, fu uno degli efebi più belli scolpiti nell’antichità dal grande Calamide. L’immagine, recuperata dai cristiani, si trasforma in
quella del Signore delle Scritture: «Il Signore è il mio pastore:/ non manco di nulla;/ su pascoli erbosi mi fa riposare» (Sal 23,2). «Come un pastore – aggiunge Isaia – egli fa pascolare il gregge/ e con il suo braccio lo raduna;/ porta gli agnellini sul seno/ e conduce pian piano le pecore madri» (Is 40,11). Contro «... i pastori d’Israele, che pascono se stessi» (Ez 34,2), egli viene di persona a prendersi cura del gregge e a riunire le pecore disperse: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare, oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata...» (Ez 34,13.16); «Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro...» (Ez 34,23.24). La venuta di Cristo indica l’avverarsi della profezia; Gesù è il nuovo Davide, immagine perfetta del primo. Nel Vangelo di Luca, Gesù parla nella parabola del pastore che ritrova la pecorella smarrita (Lc 15,5): nell’allegoria egli si proclama «in verità» il buon pastore venuto a portare le pecore di tutti gli ovili. Nel Vangelo di san Giovanni è scritto: «Ci sarà un unico gregge,
59. Il sacrificio d’Abramo. Roma, catacombe di San Callisto, cubicolo dei sacramenti.
61. I tre giovani nella fornace. Roma, catacombe di Priscilla.
60. Il sacrificio d’Abramo. Roma, catacombe di Priscilla.
62. Orante. Roma, catacomba dei Giordani.
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mia preghiera,/ le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 141,2); «Innalziamo i nostri cuori al di sopra delle mani,/ verso Dio nei cieli» (Lam 3,41), esorta Geremia nelle Lamentazioni. L’immagine passa dall’Antico al Nuovo Testamento. San Paolo invita i fedeli di Cristo a pregare ovunque: «Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese» (1 Tm 2,8); sul suo esempio, Origene scrive nell’omelia su Giosuè: «Purificati nel corpo e nello spirito, eleveremo verso Dio le mani pure: la bocca pura e le labbra pure, glorificheremo Dio col cuore sincero attraverso le preghiere e gli atti»29. Immagine incarnata della preghiera, la figura orante è rappresentata per intero, con le mani tese; in gran parte dei casi si tratta di una figura femminile e in prima istanza costituisce l’immagine simbolo dell’anima liberata che si offre a Dio nella preghiera. Astratta, la troviamo sia sulle tombe di donne, sia su quelle di uomini e bambini. La figura maschile, sebbene più rara, è visibile anch’essa su sepolcri di defunti di entrambi i sessi e di tutte le età; l’astrazione non impedisce la personificazione dell’immagine: la figura di Susanna molestata alza le braccia nel gesto dei defunti in pace. Il suo volto idealizzato resta estraneo ai canoni del ritratto naturalista personalizzato. L’anima, monumentale e ieratica, si immobilizza nella pace: «E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!» (1 Gv 2,17).
un solo pastore»; Paolo parla del «Pastore grande delle pecore» (Eb 13,20), Clemente Alessandrino lo chiama «pastore degli agnelli reali», «santo pastore delle pecore sapienti»27, Abercio si definisce «discepolo di un pastore puro, che pasce le sue greggi di pecore per monti e pianure, con occhi attentissimi che vedono tutto»28. La figura, dipinta o scolpita, si rivela impersonale e generica. Talvolta, aggiunte occasionali donano alle linee stereotipate un nuovo aspetto, come il pastore della cripta di Lucina che ha un secchio di latte nella mano destra. L’immagine, simbolica o soltanto pittorica, rimanda alla visione di Perpetua, in cui un pastore arriva a portare come supremo viatico del latte di pecora cagliato somministrato in segreto alla futura martire. Seduto, il buon pastore assume il volto di Orfeo, il musico ierofante il cui canto porta la pace fin negli inferi. Nelle catacombe di Domitilla compare in un paesaggio campestre, con una cetra in mano. Il bestiario da cui è circondato comprende alcuni uccelli, un pavone, un leo ne, un lupo, un cavallo, un ariete, un topo, una lucertola, una tartaruga, un leone, un cammello, un montone e uno struzzo. In un’altra pittura il mondo animale è ridotto a un capro e due pecore. Il musico in questo caso ha il flauto di Pan; l’aedo mitico appare diverso dal dio dei pastori. L’immagine di Orfeo, cara all’iconografia dei primi cristiani, resta priva di ogni caratteristica biblica; esempio di stile completamente pagano, è adattata come una figura neutra pronta ad accogliere i simboli messianici. Solo il contesto gli conferisce un’identità cristiana. La figura orante è onnipresente. La rappresentazione antica della pietas diventa quella dell’anima lieta del cristiano; serena e fiduciosa, è espressione dell’atteggiamento cristiano di fronte alla morte, immagine che è onnipresente nei libri della Bibbia: «Come incenso salga a te la
63. Battesimo, dettaglio di sarcofago. Roma, Museo Nazionale delle Terme.
Il sacrario dei profeti Le scene veterotestamentarie sono predominanti, come numero, sugli episodi evangelici. L’ordinamento iconografico non segue alcun ordine storico o tipologico. La
64. Resurrezione di Lazzaro, dettaglio di sarcofago. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.
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ripetizione accentuata di alcune scene e l’assenza di episodi non meno importanti rimangono senza risposte. Il fondo antico si profila dietro la nuova iconografia: Ada18 mo ed Eva si sostituiscono a Giasone e Medea, il giardino dell’Eden è il riflesso del giardino delle Esperidi; 19 Noè è rappresentato orante in una cassa (capsa) quadrata che non corrisponde assolutamente all’arca descritta minuziosamente nella Genesi. L’immagine qui rispecchia quella del Deucalione galleggiante, re leggendario evocato da Teofilo di Antiochia come prefigurazione mitica del patriarca biblico. Gli uomini e gli animali imbarcati sull’arca sono scomparsi; Noè è ritto in una cassa piccola, solo, mentre accoglie la colomba, come un battezzato che esce dal fonte battesimale. Il suo salvamento annuncia la salvezza dell’uomo: «... con affetto perenne ho avuto pietà di te,/ dice il tuo redentore, il Signore./ Ora è per me come ai giorni di Noè, quando giurai che non avrei più riversato/ le acque di Noè sulla terra» (Is 54,8-9). L’acqua e il legno sono i simboli veterotestamentari del battesimo e della croce. Il fedele patriarca, immagine di Cristo, ha «il ministero di annunciare al mondo un’altra venuta»30. Il ciclo della Genesi prosegue con Abramo e l’immagine prescelta è quella del sacrificio offerto a Dio. Una pittura della stanza dei sacramenti mostra il padre e il figlio oranti, mentre un agnello e una fascina di legname evocano il sacrificio senza rappresentarlo. L’immagine si fa subito più esplicita e si vede Abramo, col coltello in mano, mentre si accinge a sacrificare Isacco: «Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19). Simbolo della prova della fede, il sacrificio dell’«amico di Dio» è anche la prefigurazione di quello di Cristo: «Abramo – osserva Ireneo di Lione – seguì veramente nella sua fede il comandamento del Verbo di Dio, offrendo con sollecitudine il suo unico e
diletto figlio in sacrificio a Dio, affinché anche Dio acconsentisse, per il bene di tutta la posterità, a consegnare il Figlio prediletto e unico in sacrificio per la nostra redenzione»31. Isacco, che raccoglie la legna per l’olocausto, prefigura il Cristo che porta la croce; il Signore, offrendo «il vaso del suo spirito» sulla croce, compie «l’evento raffigurato da Isacco condotto sull’altare»32. Il libro dell’Esodo è come riassunto nel miracolo della fonte. L’immagine del profeta che brandisce il suo bastone diventa fissa: «Mosè è stato mandato con il bastone per la redenzione del popolo: col bastone in mano, a capo del popolo, separò le acque del mare; per mezzo del bastone faceva sgorgare l’acqua dalla roccia, e gettando un pezzo di legno nelle acque di Mara, da amare qual erano le rese dolci»33. I simboli cristiani nascosti spiegano l’immagine veterotestamentaria. La fede, l’acqua e il legno, inscindibili fra loro, sono i simboli della salvezza e della rigenerazione. L’iconografia non manifesta alcuna attenzione al cammino storico del popolo ebreo. Mentre Balaam, Davide e Giobbe sono limitati a timide apparizioni, Daniele e Giona trovano nella nascente arte paleo-cristiana una presenza primordiale. Dal libro di Daniele sono tratte tre immagini principali: la prima è quella del profeta gettato nella fossa dei leoni; la seconda è l’immagine dei tre giovani nella fornace; la terza è quella di Susanna in preghiera. Daniele compare su un soffitto della cripta di Lucina ove occupa la posizione privilegiata dello zenith. Orante, appare in mezzo ai leoni, levando verso Dio le mani del corpo e dell’anima. I tre ebrei gettati nel fuoco, vestiti alla maniera persiana con la tunica corta, i pantaloni a sbuffo e il copricapo frigio, sono raffigurati nella stessa postura. Clemente Romano osserva: «Hanno resistito alle loro sofferenze con gloria. Fratelli, Daniele è stato gettato nella fossa dei leoni da coloro che temono? Anania, Azaria e Misaele sono stati rinchiusi nella fornace ardente da coloro che praticavano il culto magnifico e solenne dell’Altissimo? Sicuramente no! Chi erano dunque gli auto-
65. Banchetto eucaristico. Roma, catacombe di Priscilla, cappella greca.
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ri di quei misfatti? Persone abominevoli, aduse a ogni genere di vizi e con un furore esasperato al punto da consegnare al supplizio i servitori di Dio più zelanti e più retti. Costoro ignoravano che l’Altissimo protegge e difende coloro che servono il suo nome con la coscienza pura. Coloro che hanno sofferto senza perdere la fiducia hanno ricevuto la gloria e l’onore. Sono stati esaltati, e Dio li ha iscritti nel suo sacrario nei secoli dei secoli»34. Daniele e i tre giovani, figure della salvezza e dell’aiuto accordati da Dio, rappresentano anche l’immagine della resurrezione promessa da Dio. Il creato è presente nella sua interezza, la santificazione e la rigenerazione sono riservate non solo all’uomo, ma anche alla materia porosa. Come osserva Tertulliano, «i fuochi di Babilonia non offesero né le tiare né le brache dei tre fratelli, sebbene esse fossero vesti estranee ai Giudei»35. La conservazione è il simbolo «dell’integrità futura». «Questi fatti furono figure di noi, garantite dall’apostolo [1 Cor 9,1]; esse furono scritte perché noi credessimo che Dio è più potente di ogni legge del corpo, e che soprattutto è conservatore della carne, se di essa Egli protesse anche le vesti, anche i calzari»36. Susanna segue lo stesso percorso; come Daniele, Anania, Azaria e Misaele si alza in preghiera, le braccia aperte: «Come è avvenuto nel paradiso – dice Ippolito Romano – dove il diavolo si era dissimulato sotto le sembianze di un serpente, parimenti si era nascosto nei vecchi per far perdere Eva una seconda volta»37. Susanna, pura, giusta e fedele, non cade in tentazione. Molestata e accusata ingiustamente dai due vecchi, è l’immagine della giovane Chiesa pura e immacolata, braccata e perseguitata dagli ebrei e dai pagani. Soccorsa e fortificata da Dio, si erge splendente di bellezza, «come un paradiso nel mondo»38. Il breve libro di Giona ispira all’iconografia cristiana un ciclo che subito conosce una diffusione sorprendente. Il retaggio dell’antichità è evidente: il profeta che riposa sotto il ricino è ricalcato sul modello di Endimione steso pigramente sotto la zucca; il paesaggio pittoresco con la nave e il mostro marino sono copie esatte di modelli antichi. La portata cristiana della scena permette varie interpretazioni. Nel Vangelo, Giona rappresenta il simbolo della discesa del Cristo negli inferi: «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,40). Tertulliano vi vede il segno del potere divino della resurrezione. Carne e spirito, Giona esce intatto dal mostro marino, quando «tre giorni sarebbero stati sufficienti per le viscere di quel pesce a digerire le sue carni, molto di più di una bara, di un sepolcro, dell’invecchiare in qualche tranquilla e imbalsamata sepoltura»39. La simbologia ammette più di un senso, il mostro marino, figura della morte, è anche una rappresentazione metaforica di «quegli uomini che sono particolarmente feroci verso il nome cristiano»40. Giona non è soltanto colui che è morto e resuscitato; provato e oppresso, esce rafforzato dalla sua prova. Come sostiene Ireneo,
«Dio ha permesso che fosse inghiottito da un mostro marino non perché scomparisse totalmente, ma perché dopo essere stato rigettato dal mostro stesso fosse sottomesso a Dio e potesse glorificare maggiormente colui che gli aveva dato l’insperata salvezza»41. Immagini di Cristo Nulla pare separare o distinguere l’Antico Testamento dal Nuovo. All’inizio, l’accento è posto sulla persona di Cristo più che sulla sua vita; il buon pastore è la pietra angolare del mondo, il vero Davide: «Ha ucciso la morte come un leone, ha distrutto come un orso il peccato del mondo, ha respinto il lupo seduttore, ha strappato Adamo alla morte, tirandolo fuori dagli abissi degli inferi, come una pecora morta»42. Il tesoro nascosto delle Scritture si rivela nelle scene e nei tipi che lo prefiguravano. Non si vuole tentare il confronto delle parabole e della loro realizzazione, siamo lontani dalla tradizione patristica delle analogie metodiche. Le letture letterali, morali e mistiche delle Scritture si mescolano e si intrecciano liberamente. Le scene evangeliche si costituiscono progressivamente e la figura della Vergine col Bambino non suscita grande interesse. L’immagine, di cui il modello più antico è conservato nelle catacombe di Priscilla, non presenta alcuna particolarità. Il prototipo universale della donna col bambino è applicato fedelmente, Maria e Gesù sono simili sia ad Afrodite ed Eros, sia a Iside e Oro. La nascita e l’infanzia di Cristo sono ridotti all’Adorazione dei Magi; i re provenienti dall’Oriente, vestiti alla maniera frigia, avanzano tendendo i loro doni verso la Vergine seduta col Bambino. Lo schema iconografico si ispira a quello dell’imperatore vittorioso che assiste alla resa dei nemici vinti. Il battesimo apre la vita pubblica di Cristo. Le due figure messe a confronto mostrano un uomo alto nell’atto di battezzare un ragazzo. Seguendo la tradizione dell’iconografia antica, la persona che dà la conferma è presentata più grande rispetto a quella che la riceve: «Dio si è fatto piccolo, perché l’uomo divenisse grandissimo»43. L’immagine di un Cristo piccolo che riceve il battesimo da un grande Giovanni Battista sembra riflettere il tema dell’infanzia spirituale cara al pensiero cristiano. Secondo il Vangelo, il ritorno a uno stato infantile precede e prepara l’ingresso nel Regno dei Cieli (Mt 18,3). I cristiani, grazie al battesimo, nascono una seconda volta. L’infanzia eterna è la personificazione della nuova sapienza, «sempre in fiore, sempre uguale e identica, immutabile in eterno»44. Non vi è alcuna ricostruzione in immagini della vita di Cristo. La sua opera di salvezza è evocata solo da qualche evento. La guarigione del paralitico e l’incontro con la Samaritana evidenziano una volta di più la funzione rigeneratrice delle acque, la moltiplicazione dei pani è un preludio all’eucaristia, la resurrezione di Lazzaro indica la vita eterna di cui gode il credente: il Cristo risveglia l’amico che riposa. 68
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Tav. 17. Banchetto eucaristico. Roma, catacombe di San Callisto, cappella dei Sacramenti.
Tav. 18. Adamo ed Eva. Roma, catacomba dei Santi Pietro e Marcellino. Tav. 19. Noè e la colomba. Ibidem.
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Tav. 21. Giobbe. Ibidem.
Tav. 20. Giona gettato in mare. Ibidem.
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Tav. 22. Balaam che mostra la stella a Maria. Roma, catacombe di Priscilla.
Tav. 23. Storia di Susanna. Roma, catacomba dei Santi Pietro e Marcellino.
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Tav. 25. Mosè che colpisce la roccia. Ibidem.
Tav. 24. Resurrezione di Lazzaro. Ibidem.
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(a fronte) 66. Cristo-Elios, mosaico delle Grotte Vaticane. 67. Il Buon Pastore. Roma, catacombe di San Callisto, cripta di Lucina. 68. Cristo filosofo, frammento di un sarcofago. Roma, Museo Nazionale delle Terme.
Tav. 26. Banchetto celeste. Ibidem.
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di lui il Signore ha voluto farci provare l’immortale conoscenza»48. Fulgore della gloria divina, lo vediamo in un mosaico della cosiddetta tomba dei Giuli, nelle Grotte Vaticane, rappresentato come il dio Sole, Apollo Eliogene, cinto da un nimbo di sette raggi luminosi, ritto sul carro su fondo oro disseminato di racemi di vite. Il viso di Cristo, più simbolico che propriamente fisico, non è ispirato a un modello unico. Il Vangelo non fornisce nessuna descrizione dell’aspetto fisionomico di Gesù. Secondo la profezia di Isaia, i Padri delle origini, al fine di valorizzare la bellezza spirituale del Dio incarnato, si spingono fino ad affermare l’apparente bruttezza del Figlio di Maria, trasfigurata dal fuoco di una bellezza tutta interiore: «Alla vista è come un bambino – dichiara Clemente Romano – come una radice in una terra arida, senza bellezza né splendore, e non è gradevole d’aspetto, ma è oggetto di disprezzo e di rifiuto dell’umanità»49. La stessa tesi viene ripresa da Giustino Romano: «Quando Gesù venne nel Giordano – afferma l’apologista – lo si credeva all’epoca figlio di Giuseppe il falegname; era senza bellezza come è proclamato nelle Scritture, si pensava che fosse un falegname»50. Clemente Alessandrino è più deciso nel giudizio: «Il Signore era brutto da vedere», scrive nel Pedagogo, e lo Spirito ne è testimone nel libro di Isaia: «Non ha apparenza né bellezza/ per attirare i nostri sguardi [...]. Disprezzato e reietto dagli uomini...» (Is 53,2,3). «Ma chi è migliore del Signore? Non è la bellezza della carne, bellezza che è solo un’illusione, la vera bellezza dell’anima e del corpo che ha dimostrato è la bontà d’animo, l’immortalità della carne»51. L’arte cristiana delle origini ignora questa dimensione; le rappresentazioni del volto di Cristo mutuano i lineamenti da Apollo, Orfeo e Dioniso. Dolce e giovanile, talvolta è rappresentato come un uomo maturo, il viso squadrato e barbuto, con un «olio profumato sul capo,/ che scende sulla barba,/ sulla barba di Aronne» (Sal 133,2). Un frammento di sarcofago conservato nel Museo Nazionale di Roma lo mostra come uno Zeus-Asclepio, vestito di un semplice pallio, seduto a torso nudo su una roccia, la mano alzata in segno di parola. Maturo, giovanile o bambino, Gesù ha un viso simbolico. Perfetto e irreprensibile, è «la guida dell’incorruttibilità»52; «Non griderà né alzerà il tono,/ non farà udire in piazza la sua voce,/ non spezzerà una canna incrinata,/ non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta./ Proclamerà il diritto con fermezza;/ non verrà meno e non si abbatterà,/ finché non avrà stabilito il diritto sulla terra;/ e per la sua dottrina saranno in attesa le isole» (Is 42,2-4).
L’azione è focalizzata sul messia che alza le braccia in direzione del sepolcro, il cadavere fasciato è sempre avvolto nelle bende; l’immagine presenta il miracolo senza rivelarne il compimento. Le numerose scene del banchetto sembrano unire in una sola immagine il miracolo della moltiplicazione dei pani, la frazione del pane e l’eucaristia. Il fondo iconografico è tradizionale, si tratta di un’agape funebre, rito pagano adottato in una forma corretta dai cristiani. L’agape, tollerata dalla Chiesa, viene praticata diffusamente dalle comunità cristiane fino al v secolo; la sua sopravvivenza è il simbolo dell’unione dei vivi e dei loro defunti per pasti da condividere nei cimiteri. Il modello presenta due varianti: riuniti intorno alla tavola, i convitati sono rappresentati agitati e vivi nel primo, calmi e cerimoniosi nel secondo. Il pasto truculento è una replica del banchetto profano e la sua rappresentazione mostra i pasti dei vivi che commemorano i loro defunti. I convitati, uomini, donne e bambini, si ritrovano attorno alla tavola per riunirsi con i loro morti e condividere con essi il pasto familiare. In un’iscrizione di Stafide, risalente al 299, vengono rievocati i pasti consumati dai membri di una famiglia in memoria della madre scomparsa: «Abbiamo deciso di disporre una tavola su cui ricorderemo la quantità di grandi cose che lei ha fatto. Quando le pietanze, le coppe e i coperti saranno arrivati, per attenuare la ferita crudele che abbiamo nel cuore, la sera tardi racconteremo aneddoti e tesseremo lodi della nostra venerata madre. E lei dorme!»45. I pasti cerimoniali presentano indubbiamente alcune caratteristiche cristiane. Sette personaggi sono disposti armoniosamente intorno alla tavola, simbolo di plenitudine: il numero sette indica probabilmente l’umanità intera chiamata alla salvezza da Dio. Il pane, il pesce e il vino trovano posto sulla tavola; tutti insieme, costituiscono l’alimento della vita, annunciato dalla moltiplicazione dei pani e instaurato dall’istituzione dell’eucaristia. Nella scena compaiono anche ceste piene di pani, presentate allineate, variabili di numero da un gruppo all’altro, di solito da sette a dodici, due cifre che indiscutibilmente compaiono nella simbologia evangelica. L’agape, rappresentazione della moltiplicazione dei pani o evocazione dell’Ultima Cena, assume un aspetto liturgico. Gli invitati siedono «in un’incrollabile unità di spirito, spezzando lo stesso pane, ausilio della nostra immortalità, antidoto della morte, dispensatore in Gesù Cristo della vita eterna»46. La passione di Cristo è quasi totalmente assente. San Paolo vedeva soltanto «Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1 Cor 2,2). La follia della croce, più sapiente della sapienza umana, è stata ampiamente sviluppata dai Padri della Chiesa. Paradossalmente questo pensiero, fondamentale per la fede cristiana, non ha trovato alcun riferimento iconografico: «[...] Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,36). Pastore e pedagogo, il Figlio incarnato è, secondo l’espressione di Clemente Romano, «baluardo e soccorso della nostra debolezza»47, «Per mezzo
i Libri sacri nel loro insieme sono un libro solo»54. La condanna cristiana degli ebrei si accompagna all’appropriazione esclusiva dei loro libri: «Diffidate di voi stessi – è scritto nell’Epistola di Barnaba – e non fate come quella gente, che accumula peccati col pretesto che la nostra alleanza è inalienabile. Ossia, è nostra, ma quel popolo l’ha perduta irrimediabilmente, quando Mosè l’aveva già ricevuta»55. La distruzione delle tavole della Legge è il segno della rottura: l’alleanza degli ebrei si spezza, «affinché quella di Gesù, il prediletto, fosse scolpita nei nostri cuori, attraverso la speranza e la fede»56. L’Antico e il Nuovo formano un tutto unico. L’organizzazione della salvezza comincia dalla crea zione; come ha ricordato Ireneo di Lione, «il Cristo non è venuto solo per coloro che, a partire dall’epoca dell’imperatore Tiberio, hanno creduto in lui, e il Padre non ha esercitato la sua provvidenza soltanto a favore degli uomini del nostro tempo, ma a favore di tutti gli uomini i quali, senza eccezioni, dall’inizio, secondo le singole capacità e nel loro tempo, hanno temuto e amato Dio, hanno praticato la giustizia e la bontà verso il prossimo, hanno desiderato vedere il Cristo e ascoltare la sua voce. Tutti questi uomini, durante la sua seconda venuta, saranno risvegliati e posti davanti agli altri, vale a dire davanti a coloro che saranno giudicati, e saranno accolti nel suo regno»57. L’arte cristiana delle origini, elaborata nel iii secolo, si sviluppa nel successivo. Con la proclamazione dell’Editto di Milano, la Chiesa passa dalla lotta al riconoscimento e comincia a risplendere di luce propria. L’arte funeraria è al suo apice; l’arte religiosa ai primordi adotta i cicli elaborati per portarli verso nuove dimensioni. La cristianizzazione del mondo antico procede e il nuovo utilizza le forme dell’antico, sebbene permangano alcune differenze estetiche; il formarsi di uno stile specificamente cristiano si definisce gradualmente, la vigna di Dioniso assume una dimensione spirituale e da questo momento in poi avrà i santi come tralci e i martiri come grappoli. Gli spazi nilotici si liberano per accogliere la nave guidata da Cristo. La croce è l’albero maestro, la palma e la corona. Piantata in terra, cresce come il seme di senape, che «diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami» (Mt 13,32).
porto di scene veterotestamentarie lascia supporre l’esistenza di un’arte ebraica contemporanea che avrebbe ispirato le comunità cristiane del iii secolo. L’ipotesi è stata avanzata da alcuni senza essere provata ed è stata rifiutata da altri. L’arte ebraica comincia a formarsi in epoca ellenistica, nel momento in cui la cultura greca lascia la propria impronta sulla religione e la cultura ebraiche; le vestigia di quest’arte presentano forme artistiche ereditate su cui sono apposti i suoi sigilli, tra i quali i più importanti sono l’arca e gli oggetti di culto. Le rappresentazioni di esseri animati sono limitate a una tematica neutra sottoposta alle norme del linguaggio simbolico; gli esempi di illustrazione biblica sono rarissimi e la loro identificazione come oggetti specificamente ebraici rimane incerta. La sinagoga di Dura Europos rappresenta un esempio unico in proposito, con un linguaggio plastico che rientra nei canoni dell’arte locale della regione, formatasi nel corso dei primi due secoli dell’era cristiana. Le pitture presentano una selezione di immagini il cui senso nascosto continua a provocare controversie fra gli studiosi; una lettura erudita la interpreta come la creazione di una corrente mistica separata dall’ebraismo rabbinico; la tematica narrativa e le forme compiute fanno supporre l’esistenza di innari greco-ebraici illustrati come i manoscritti profani del tempo. Di quest’ipotetica tradizione non è rimasta alcuna traccia, ad eccezione di quanto è evocato dalle pitture parietali di Dura. Questa testimonianza siriana mostra un fondo iconografico i cui soggetti e lo stile si ritrovano solo raramente nelle catacombe cristiane romane. I cimiteri ebraici corrispondenti ad esse presentano le stesse decorazioni profane senza mai fornire immagini religiose; i personaggi biblici non rientrano tra le rappresentazioni animate: quando Fortuna e Pegaso fanno la loro apparizione fra i geni, nessuna traccia lascia intuire una qualsivoglia rappresentazione dei profeti di Jahvè. L’onnipresenza di Noè, Abramo, Mosè, Daniele e Giona nei cimiteri cristiani non presenta alcun elemento giudaizzante: «Fin dal principio i nostri padri sono stati soltanto i Patriarchi»53 afferma Cipriano. Contro le gnosi e le sette, la Chiesa afferma l’integrità della Bibbia e l’unicità dei due Testamenti. Origene precisa: «Mentre i libri profani sono una moltitudine, tutti
L’albero, la palma e la corona Le basi della tradizione iconografica sono gettate. L’arte dell’epoca viene messa a servizio del cristianesimo. Sia in Occidente sia in Oriente, le figure della Bibbia trovano le loro prime rappresentazioni. Il massiccio ap78
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Note Epitaffio del vescovo Abercio, in G. Peters, Lire les Pères de l’Eglise, cit., pp. 34-35. 29 Origene, Omelia su Giosuè, v, 6, «Sources chrétiennes», n. 71, p. 177. 30 Clemente Romano, i Corinti, 9,4, in op. cit., p. 47. 31 Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., iv, 5, 4, p. 418. 32 Epistola di Barnaba, op. cit., 7, 3, in Les Pères Apostoliques, cit., p. 197. 33 Giustino, Dialogo 86, in La philosophie passe au Christ, icthus, Paris 1982, p. 270. 34 Clemente Romano, i Corinti, 45,5-8, in Les Pères Apostoliques, cit., pp. 72-73. 35 Tertulliano, Sulla resurrezione dei morti, 58, 7 (trad. it. di C. Moreschini, Opere scelte, Torino 1984), p. 888. 36 Ibid., 58, 10, p. 889. 37 Ippolito Romano, Commento a Daniele, 1, 18, «Sources chrétiennes» n. 14, p. 87. 38 Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., v, 20, 2, p. 628. 39 Tertulliano, Sulla resurrezione dei morti, 32, 3, cit., p. 831. 40 Ibidem. 41 Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., iii, 20, 1, p. 371. 42 Ippolito Romano, Davide e Golia, 11, in Thèmes et figures bibliques, Paris 1984, p. 231. 43 Tertulliano, Contro Marcione, 2,27, 7, Opere Scelte, Torino 1984, p. 401. 44 Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, i, 21, 1, cit., p. 44. 45 Corpus inscriptionum latinarum, viii, 20277 citato in P. Prigent, L’art des premiers chrétiens, Paris 1995, p. 92. 46 Ignazio di Antiochia, Agli Efesini, 20, 2, in Les Pères Apostoliques, cit., p. 119. 47 Clemente Romano, i Corinti, 36, 1, in Les Pères Apostoliques, cit., p. 66. 48 Ibid., 36, 2, p. 66. 49 Ibid., 16, 3, p. 51. 50 Giustino, Dialogo 88, in La philosophie passe au Christ, cit., p. 274. 51 Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, iii, 33, cit., pp. 225-226. 52 Clemente Romano, ii Corinti, 19, 3, in Les Pères Apostoliques, cit., p. 172. 53 Cipriano di Cartagine, Sulla morte, 26, cit., p. 36. 54 Origene, Commento al libro di Giona, 5, 5-6, in G. Peters, Lire les Pères de l’Eglise, cit., p. 421. 55 Epistola di Barnaba, 4, 6-7, cit., p. 190. 56 Ibid., 4, 8, p. 190. 57 Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., iv, 22, 2, pp. 484-485.
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Capitolo terzo
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Cipriano di Cartagine, Sulla morte, 14, in Le chrétien devant la mort, Paris 1980, p. 27. 2 Ferdinand Lot, La fin du Monde Antique et le Début du Moyen-Age, Paris 1938, p. 31. 3 H.-I. Marrou, Décadence romaine ou antiquité tardive?, Paris 1977, p. 22 (trad. it. Decadenza romana o tarda antichità?, Milano 19972). 4 M. Chéhab, R. Mouterde, Mosaïque du groupe des sages de la Villa Soueidié à Baalbeck, in «Mosaïques du Liban», Bollettino del Museo di Beyruth, xiv, Paris 1938, pp. 32-43. 5 Clemente Alessandrino, Stromata, i, 14. 6 A.J. Festugière, Antioche païenne et chrétienne, Paris, 1959, p. 18. 7 Ireneo di Lione, Contro le eresie, i, 25, 6, Paris 1991, p. 116 (trad. it. Contro le eresie e altri scritti, Milano 19972). 8 Elio Lampridio, Storia Augusta, Alessandro Severo, 29, 2. 9 Clemente Romano, i Corinti, 19, 3, in Les Pères Apostoliques, 1980, p. 55. 10 Origene, Omelie sulla Genesi, 13, 4, «Sources chrétiennes» n. 7, p. 225. 11 Ireneo di Lione, Contro le eresie, cit., iii, 19, 3, p. 370. 12 G.C. Picard, Dart romain, Paris 1962, p. 172. 13 G.P. Secchi, Monumenti inediti d’un antico sepolcro di familia greca, Roma 1842. Cfr. ig, xiv, 1934, in F. Chapouthier, Les peintures murales d’un hypogée funéraire près de Massyaf, «Syria», xxxi, 1954, pp. 209-210. 14 Cipriano di Cartagine, Sulla morte, cit., 21, p. 33. 15 Ibid., p. 33. 16 Ibid., p. 21. 17 Didaché, 10, Naissance des lettres chrétiennes, icthus, Paris 1979, p. 119. 18 Virgilio, Eneide, n, 755, (trad. di R. Calzecchi Onesti), Torino 1974. 19 Erma, Il Pastore. Precetti, 10, 3, in Naissance des lettres chrétiennes, icthus, 1979, p. 171. 20 Cipriano di Cartagine, Sulla morte, cit., p. 20. 21 Odi di Salomone, in Naissance des lettres chrétiennes, icthus, Paris 1979, p. 35. 22 Ibid., pp. 34-35. 23 Tertulliano, Sul Battesimo, 1, «Sources chrétiennes» n. 35, p. 65. 24 Epitaffio del vescovo Abercio, in G. Peters, Lire les Pères de l’Eglise, Paris 1981, pp. 34-35 (trad. it. I Padri della Chiesa, Roma 1984). 25 Clemente Alessandrino, «Inno al Cristo Salvatore», Il Pedagogo, Migne, Paris 1991, p. 304. 26 Ibid., iii, 52, 2, p. 269. 27 Ibid., p. 304.
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La fioritura dell’arte cristiana iv secolo
Nel iv secolo la Chiesa ottiene il riconoscimento dello stato. Con Costantino si apre un’area nuova, con la designazione di un’altra capitale. Costantinopoli diventa residenza imperiale e sede amministrativa dell’impero: la nuova capitale impone la sua supremazia. Le due città sono rappresentate insieme su due monete del 330, impersonate da due busti decorati d’alloro e coperti dal mantello imperiale, ma è la nuova Roma che tiene saldamente lo scettro. Il cristianesimo procede nella sua ascesa affiancandosi ai numerosi culti diffusi nell’Impero; l’adesione del potere imperiale alla nuova fede segna una svolta decisiva. La Chiesa non esita a ricorrere all’autorità secolare per affermare la sua parola e imporla a chiunque possa costituire una minaccia. I dogmi fondamentali della nuova religione si impongono. Nel 323 il concilio di Nicea condanna Ario e definisce il Figlio «consustanziale» al Padre. Quando lo scontro prosegue col neoplatonismo, il manicheismo e altre gnosi, le dispute teologiche incentrate sul mistero della Trinità aumentano e si intensificano. Il paganesimo minacciato ha un ultimo sussulto con Giuliano l’Apostata: l’imperatore filosofo annulla la supremazia accordata dal suo predecessore alla nuova religione. Questi, come un novello Marco Aurelio, tenta di incarnare i precetti sapienziali inserendo la carità cristiana nel quadro politeista. La sua riforma del paganesimo porta alla riapertura dei santuari, alla ripresa dei sacrifici e all’abolizione delle misure adottate nel 356 contro i culti del passato. La salita al trono di Teodosio porta la Chiesa al potere, stringendo l’alleanza fra autorità religiosa e autorità secolare. L’editto di Salonicco obbliga ufficialmente i sudditi dell’Impero ad aderire alla fede cristiana. Il concilio di Costantinopoli del 381 afferma la divinità dello Spirito contro gli eretici: Dio è Uno e Trino. La sua unità assoluta è inseparabile
dalla distinzione delle Tre Persone: il Credo di Nicea e di Costantinopoli definisce e confessa questa fede. Ottant’anni dopo l’editto di Milano, il cristianesimo viene proclamato religione di stato. Il paganesimo, considerato «superstizione», è condannato a morte, i giochi di Olimpia e i Misteri Eleusini vengono soppressi: la nuova religione del potere imperiale deve diventare la regione di tutti, l’imperatore è il rappresentante di Dio e il Patriarca cappellano del palazzo: stato e Chiesa sono i pilastri dell’impero. Le decisioni prese dai concili assumono lo statuto di leggi. L’Impero romano, diventato cristiano, conserva le caratteristiche di universalità del passato, per cui gli scambi culturali non si interrompono: «Il fatto di aver preso ciò che è utile dai barbari – scrive Eusebio di Cesarea – non è da condannare, come stabiliremo dimostrando che i Greci, finanche i filosofi più celebri, hanno rubato tutto ai barbari, le conoscenze filosofiche come pure le nozioni comuni, in particolare quelle che hanno utilizzato a scopo politico»1. L’ellenismo completa la sua cristianizzazione. Platone, nella Preparazione evangelica, è percepito come «essere iniziato per natura e molto superiore»2, e Gregorio di Nazianzo non esita a definirlo come «il massimo teologo greco». I Padri della Chiesa, pur allontanandosi dalla cultura «profana», ne riconoscono il valore e la genialità. La Chiesa condanna lo stoicismo, l’aristotelismo, il platonismo e il neoplatonismo, ma continua a recuperare la parte di verità considerata come testimonianza dell’unico Creatore, fonte di bellezza e di bontà: «Tutto il bene da loro insegnato appartiene a noi cristiani – afferma Giustino nel ii secolo –. Gli scrittori hanno visto la verità indistintamente, grazie al seme del Verbo che è stato deposto in loro. Ma avere il seme e una verosimiglianza proporzionata alle proprie facoltà è una cosa, 81
sti. Ciò nonostante, le lacrime che piango ogni giorno non riescono a scacciarli»7.
avere l’oggetto stesso la cui partecipazione e imitazione procedono dalla grazia da esso emanata è tutt’altra»3. La verità assoluta e perfetta dimora in Cristo, completa la dettagliata ricerca degli antichi e la porta al compimento finale. In tal modo, i cristiani sono chiamati a nutrirsi del latte della Chiesa frequentandone la cultura profana perché, come insegna Gregorio di Nissa, quella cultura «sterile», che «concepisce sempre senza mai partorire»4, conserva dentro di sé «qualcosa a cui non dobbiamo disdegnare di unirci, in vista della procreazione futura della virtù»5. Le scuole e i calendari restano pagani e, benché relegata in secondo piano, la cultura antica sopravvive e persiste. Nel momento in cui il monachesimo vive la sua epoca d’oro, la coscienza cristiana afferma la supremazia assoluta della fede e cerca di liberarsi del peso dell’educazione ancestrale. San Gerolamo, diviso tra letteratura profana e sacra, terminate la veglia e le preghiere ritorna a Virgilio, Cicerone e Plauto. Risvegliato da un angelo, è portato in un accesso di febbre al tribunale del Giudice dove viene interrogato sulla sua religione: «Sono cristiano – risposi –. Tu menti – replicava colui che stava seduto – tu non sei cristiano, sei ciceroniano. Dov’è il tuo tesoro, là è il tuo cuore»6. Giovanni Cassiano confessa la sua alienazione nefasta alla cultura letteraria ricevuta in giovane età, e porta avanti una lotta sistematica per fortificare e consolidare la propria conoscenza di Cristo nella sua interezza: «Con la mente a tal punto infestata dalle opere dei poeti, le favole frivole e i racconti bellici di cui sono imbevuto fin dalla più tenera infanzia, nonché dai primi passi negli studi, mi tengono occupato anche all’ora della preghiera. Salmodio o imploro il perdono dei miei peccati ed ecco che il ricordo sfrontato dei poemi appresi un tempo mi attraversa la mente, l’immagine degli eroi e dei loro combattimenti sembra fluttuare davanti ai miei occhi. Mentre questi fantasmi si prendono gioco di me, la mia anima non è libera di aspirare alla contemplazione delle cose cele-
Stabilità e mutazione L’epoca di Costantino, decisiva per la storia del cristianesimo, rappresenta per la Chiesa il passaggio dalla lotta al riconoscimento. La fede della Galilea, introdotta nelle grandi città, viene espressa in latino a Roma come a Cartagine; in Oriente, gode di una grande produzione letteraria e teologica e di un ricco percorso che porta la sua estensione dalla Mesopotamia all’Asia e all’Egitto. L’espressione artistica cristiana passa dall’arte funeraria all’arte religiosa. Costantino, grande mecenate, ordina la costruzione di imponenti cattedrali nelle grandi metropoli dell’Impero. I vescovi edificatori fondano santuari in Oriente e in Occidente. La questione dell’immagine religiosa provoca le perplessità degli uni e la benevolenza degli altri: ad Anablatha, in Palestina, Epifanio di Salamina strappa un arazzo dalla porta della chiesa recante un medaglione con l’effigie di Cristo; in una celebre lettera indirizzata a Costanza, Eusebio di Cesarea rifiuta tutte le rappresentazioni del Figlio di Dio. La forma da schiavo di Gesù «è stata confusa e quel che è mortale è stato inghiottito dalla vita». Di conseguenza, ogni rappresentazione fisica del Salvatore è inimmaginabile: «Chi dunque potrebbe fissare con colori morti e inanimati e con il pennello lo splendore brillante e radioso di una gloria tale, allorché gli stessi discepoli non riuscivano a guardare colui che si lasciava vedere, e che caddero faccia a terra dicendo che quella visione era per loro insostenibile... Come dipingere l’immagine di un aspetto talmente meraviglioso e incomprensibile?»8. Al confronto con questa posizione risolutamente iconofoba, Atanasio di Alessandria, Cirillo di Alessandria, Giovanni Crisostomo e Gregorio il Teologo appaiono eloquenti difensori dell’immagine; Gregorio di Nissa celebra il ruolo pastorale dell’immagine nella vita cristiana: «Il disegno muto – sostiene – sa parlare dai muri dove viene posto e rende grandissimi servigi»9. Basilio, nel suo sermone su san Barlaam, invoca i pittori e li chiama a partecipare attivamente alla predicazione cristiana. «Venite in mio aiuto pittori famosi delle opere eroiche», «mostrate del lottatore una brillante immagine: mostrateci i demoni urlanti, perché oggi essi sono stati, grazie a voi, abbattuti dalle vittorie dei martiri», «rappresentate anche sul vostro quadro colui che presiede al combattimento e dà la Vittoria, il Cristo»10. L’appello entusiasta ha il suo punto culminante nel famoso Trattato dello Spirito Santo, in cui il santo vescovo di Cesarea enuncia con grande acume la teologia dell’icona: «Come c’è un’unica autorità sopra di noi e il potere è unico, così la gloria che rendiamo a lui è unica, e non multipla, perché l’onore reso all’immagine passa al modello. Ciò che l’immagine rappresenta grazie all’imitazione, il Figlio è per natura. Come nell’arte la verosimiglian-
69. Arco di trionfo di Costantino, 315 ca. Roma.
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raffinate che li allontanano dall’ottica tridimensionale degli antichi; i mosaici e le pitture dell’epoca riflettono tendenze simili. Sia nelle grandi metropoli sia nelle province, gli artisti rinunciano agli effetti basati sulla policromia e optano per un’arte spoglia in cui la plasticità della forma scultorea e l’espressione della profondità diminuiscono rispetto al gusto pronunciato per le immagini schematiche dai colori semplici.
za prevale sulla forma, così, per la natura divina, che è semplice, è nella comunione della divinità che risiede il principio di unità»11. L’esiguità dei resti sopravvissuti alla storia non permette una visione globale dell’arte cristiana del iv secolo. L’Antichità al tramonto esprime il suo canto del cigno attraverso un’abbondante produzione in cui l’impronta orientale si fa più imponente. L’arco di Costantino non conserva alcuna traccia della “conversione” dell’imperatore, infatti l’iscrizione incisa al centro dell’attico presenta un carattere neutro valevole sia per i cristiani, sia per i pagani: «Al pietoso e felice imperatore Cesare Flavio Costantino Magno, Augusto, perché ispirato dalla divinità e per grandezza d’animo, con il suo esercito, e giuste armi, in un solo colpo decisivo ha vendicato lo stato sul tiranno e tutta la sua fazione». I rilievi dedicati alla glorificazione imperiale presentano un’iconografia tradizionale, nulla riflette la dimensione cristiana della vittoria costantiniana così come l’ha concepita Eusebio di Cesarea, primo prelato di corte e biografo dell’imperatore. Le sculture dell’arco risalgono a due epoche diverse e presentano due stili distinti. I rilievi dell’epoca di Traiano formano un contrasto netto con le immagini concepite espressamente per il sacrario. Il grandioso stile romano è sostituito dalla stilizzazione e dalla ieraticità proprie delle province orientali, con forme sommarie e appiattite lavorate a mezzotondo. Le scene drammatiche non sfuggono a questa regola. Ovunque regna un senso di equilibrio e di serenità. La tendenza all’astrazione e all’ornamento prevale sulla percezione naturalista. L’arco di Costantino costituisce una prova singolare dell’ultima evoluzione dell’arte profana verso un’estetica dalle forme «irrigidite». I rilievi scolpiti assumono forme meno
Il retaggio artistico del iv secolo si concentra in Italia. Come per il iii secolo, l’arte funeraria costituisce la testimonianza più importante. Le decorazioni delle catacombe cristiane continuano e sviluppano i procedimenti stabiliti; il segno della conversione imperiale è ridotto a un semplice monogramma formato da due lettere, XP, iniziali del nome greco di Cristo che Costantino fece apporre sugli emblemi imperiali dopo la vittoria su Massenzio a Ponte Milvio. La giovane arte cristiana dipende ampiamente dai metodi antichi; la crescente espansione non ha decretato la fine delle costruzioni funerarie pagane che si trovano sia a Roma, sia nelle province lontane; ovunque si ritrova uno stesso anelito d’eternità. I morti resuscitati vegliano disseminati in un mondo elisio sempre in fiore. Nel nord della Bulgaria, il sepolcro di Silistra presenta la coppia padronale sulla parete centrale. I due, raffigurati in piedi sotto due pavoni affrontati, sono circondati da due gruppi di servitori nell’atto di portare vari oggetti del loro guardaroba. Nella regione di Beška, in Serbia, la tomba di Brest presenta un gruppo parietale suddiviso in cinque registri in cui una donna e tre uo-
70. I proprietari della tomba e i loro servitori raffigurati nell’ipogeo di Silistra, iv secolo. Bulgaria.
71. Pittura murale con giovane donna, ipogeo di Viminacium (oggi Stari Kostolac), prima metà del iv secolo. Jugoslavia.
Il giardino dello Spirito
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mini, separati in edicole sovrapposte, si trovano uniti in una cerimonia bucolica, portando rispettivamente un cesto di frutta, un grappolo d’uva, una coppa e un vassoio di pani. La tomba di Stari Kostolac propone un’immagine simile dell’altra vita: una donna e un servitore si ergono murati in due edicole triangolari; il busto della defunta, eternamente giovane, è avvolto in una dalmatica intessuta d’oro, con una boccetta di profumo in mano. Un efebo avanza verso di lei docilmente in un movimento trattenuto, con un grande vassoio con due pani. La morte, sempre ignorata e bandita, sembra non esistere: i defunti incorruttibili, nella vita dell’aldilà, vegliano in uno spazio paradisiaco eternamente in fiore. La versione cristiana dell’arte funeraria si manifesta nell’insieme delle gallerie delle catacombe romane. Il giardino elisio diventa un’immagine del paradiso celeste, appropriazione che si integra perfettamente nel clima culturale dell’epoca. La dimensione spirituale del giardino di Giove è percepita dai Padri della Chiesa come un segno della conoscenza biblica inconfessata dei grandi filosofi dell’antichità, solo una variazione sul giardino dell’Eden: «Questo giardino ha ispirato Platone – afferma Ambrogio di Milano – che l’ha chiamato giardino di Giove e anche giardino dello Spirito, perché per lui Giove rappresenta sia un dio, sia lo spirito del mondo intero. L’anima (da lui chiamata Venere) entra per riempirsi dell’abbondanza e delle ricchezze del giardino. Poro, ebbro, giace colà nel nettare rovesciato. Ha preso tutto ciò dal libro del Cantico, in cui si vede l’anima legata a Dio entrare nel giardino dello spirito che abbonda di ogni sorta di virtù ed è fiorito di verità. Non dimentichiamo che è nel paradiso della Genesi, con l’albero della Vita, l’albero della Conoscenza del Bene e del Male e tutti gli altri alberi che ha pensato di trapiantare l’abbondanza delle virtù nel giardino dello Spirito»12. La decorazione antica continua a essere imperante; le ghirlande di fiori e i rami di frutti trionfano, il bestiario tradizionale viene perpetuato con elementi familiari: i pavoni, le gazze, le upupe e le pernici sono onnipresenti. Le pareti sono occupate da immagini di ippocampi, caprioli e antilopi; la gioia pastorale è perpetua, la primavera diventa eterna: «La Chiesa, venerando la profondità dei misteri del cielo – scrive sant’Ambrogio – respinge lontano gli impetuosi assalti del vento e invita nel suo seno la delicatezza della grazia primaverile. Sa bene che il suo giardino non può non essere gradito al Cristo; vi chiama dunque il suo Sposo dicendo: – Levati, aquilone, e tu, austro, vieni,/ soffia nel mio giardino,/ si effondano i suoi aromi./ Venga il mio diletto nel suo giardino/ e ne mangi i frutti squisiti (Ct 4,16) – Sono alberi buoni e fecondi quelli che hanno affondato le radici nel fiume della fontana sacra e hanno germogliato sotto la linfa di una nuova fecondità, per produrre frutti saporiti, al fine di non essere soppressi dall’ascia del profeta, ma essere fertili per effetto della fecondità del Vangelo»13. La simbologia si sdoppia: il giardino,
luogo divino, è anche un’immagine dell’anima dei cristiani, «L’anima dotata di virtù è un giardino, ha dentro di sé una primavera paradisiaca, invita il Verbo di Dio a scendere, a divinizzarla per mezzo della rugiada, a inondarla con le sue acque fecondatrici»14. Il giardino dello Spirito si apre sugli spazi acquatici: le fontane stilizzate rinfrescano i pascoli e i simboli marini si imprimono sul creato cristiano. I simboli della nave, del faro e dell’ancora proliferano; il delfino conserva la sua immagine di salvatore e agente di speranza, anonimi pescatori continuano a comparire accanto ai fedeli e agli eroi biblici. L’immagine riflette l’epilogo di Giovanni: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (Gv 21,6). Il pesce è sempre presente; la sua immagine, cara ai primi cristiani, è sinonimo del buon cristiano che attraversa il mare di questo mondo contro venti e maree senza farsi inghiottire dalle onde: «Imita il pesce – esorta sant’Ambrogio –, deve essere per te una meraviglia. La tempesta infuria sul mare, soffiano venti spaventosi ma il pesce avanza, non affonda perché è abituato a nuotare. Per te, a tua volta, il mare è il mondo; ci sono molte correnti, onde alte, tempeste furiose. Sii anche tu un pesce, affinché l’onda del mondo non ti inghiottisca!»15. I defunti si ritrovano in pace in uno spazio in fiore, in cui le figure dipinte appaiono stilizzate. L’immagine oscilla liberamente tra identità personale, figura simbolica e personificazione allegorica della virtù. Uomini e donne, ritratti seduti o in piedi, le mani in posizione orante o lungo i fianchi, compaiono insieme alle muse e ai letterati. Fiducioso e sereno, l’essere continua a vegliare nel silenzio. La morte non è più un male ma un bene ed egli conosce «la tranquillità sicura non soggetta alla morte, ma strappata alla morte, in cui non esistono più lacrime né pianti»16. La varietà delle vesti femminili offre all’archetipo della figura orante caratteristiche particolari. Nel cimitero anonimo di via Anapo, una donna dalle grandi mani è rappresentata umilmente come una semplice contadina; nel cimitero di Thrason il modello si trasforma e l’orante diventa una ricca matrona con una veste intessuta a strisce decorate, con accessori lussuosi, orecchini, bracciali, collane e una corona posta sull’acconciatura raccolta sul capo. La figura in piedi, né ricca né povera, è il volto della pazienza, «tranquilla e calma, la fronte serena, senza essere contratta da alcun segno di dispiacere o di collera», «la bocca come un sigillo della dignità del silenzio»17. La vita mortale si apre su quella della felicità eterna; i doni terreni annunciano i tesori del cielo. L’evocazione della vita permette alla pittura scene di realismo aneddotico. Mentre l’aristocrazia romana sembra inesistente, in tutte le catacombe si trovano funzionari, contadini, mercanti, medici, artigiani e becchini. Nelle catacombe di San Callisto una venditrice di verdure è ritratta dietro al banco; in quelle di Pretestato lo spazio si popola di mietitori e vendemmiatori; nelle catacombe di Maio un vignaiolo conduce un carro con i buoi; nelle catacombe di Priscilla ci sono dei bottai, nelle 84
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Tav. 27. Mosè al passaggio del mar Rosso. Roma, catacombe della via Latina.
Tav. 28. Balaam fermato dall’angelo. Ibidem.
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Tav. 29. Il sacrificio di Abramo. Ibidem.
Tav. 30. Sansone mette in fuga i filistei. Ibidem.
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Tav. 31. L’ascensione d’Elia e il Buon Pastore. Ibidem.
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Tav. 32. GesĂš e la Samaritana al pozzo di Sichem. Ibidem.
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Tav. 33. Mosè fa scaturire le acque. Roma, catacombe di San Callisto, cripta delle pecorelle.
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Tav. 34. Cristo insegna agli apostoli. Roma, catacombe di Domitilla.
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Tav. 36. Cristo con gli apostoli. Roma, ipogeo dei Giordani.
Tav. 35. Cristo tra Pietro e Paolo e sotto l’Agnello. Roma, catacomba dei Santi Pietro e Marcellino.
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Tav. 37. Il rinnegamento di Pietro. Ibidem.
Tav. 38. Busto di Cristo. Roma, catacombe di Commodilla.
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rettamente da formule schematiche pagane. L’ipogeo pagano di Vibia, sulla via Appia, presenta la defunta portata da Hermes davanti al tribunale presieduto da Dis Pater [«Ricco Padre»] ed Era: «Al momento di affrontare i giudici, i Destini divini, Vibia è accompagnata da un avvocato, rappresentato dalla nobile figura di Alceste, eroina della fedeltà coniugale. Nell’affresco principale sono riunite due scene: a sinistra l’Introduzione di Vibia, condotta dal suo Angelo Buono, che supera la soglia della residenza dei beati, rappresentata da una scena di banchetto in cui Vibia appare seduta al centro di un gruppo di eletti “dichiarati Buoni dal Giudizio”»20. Nell’area cimiteriale di Domitilla, l’Introduzione della cristiana Veneranda sembra una copia dello stesso modello; la santa patrona sostituisce l’Angelus bonus e la defunta, col capo velato, vestita di una dalmatica, ha le braccia tese in posizione orante. In tunica e pallio, la santa martire indica con la mano la custodia dei rotoli delle Scritture. Nell’area cimiteriale di Bassilla, il giudizio delle anime si cristianizza. Dis Pater cede il seggio del podio a Cristo, Hermes e Alceste fanno spazio a due santi intercessori. Le scene del Refrigerium si moltiplicano: «[...] Mangiate, amici, bevete;/ inebriatevi, o cari» (Ct 5,1). Soltanto l’ubicazione del dipinto e i particolari che lo circondano rivelano il valore cristiano del soggetto profano tradizionale del pasto funerario. I nutrimenti terrestri abbondano nel giardino celeste: «Preparerà il Signore degli eserciti/ per tutti i popoli, su questo monte,/ un
catacombe di Domitilla dei panificatori, in quelle di Vibia dei mercanti di vini; soldati in arme compaiono nel Parco delle Tombe di via Latina, mentre un auriga è rappresentato nella cripta di Massimo e uno scrittore, con codice e cuneo, nella catacomba dei Giordani. La vita quotidiana approda naturalmente nell’aldilà: «Ritorna, anima mia, alla tua pace,/ poiché il Signore ti ha beneficato;/ egli mi ha sottratto dalla morte,/ ha liberato i miei occhi dalle lacrime, ha preservato i miei piedi dalla caduta./ Camminerò alla presenza del Signore/ sulla terra dei viventi» (Sal 116,7). L’esperienza della morte e il richiamo a Dio sono vissuti nella temperanza e nella pace. «Testimoniamo che siamo d’accordo col nostro credo – raccomanda Cipriano – e non affliggiamoci per il decesso di coloro che ci sono cari; quando suonerà l’ora della nostra chiamata a Dio, andiamo verso di lui senza esitazione, senza reticenza»18. L’inferno e i suoi tormenti non trovano nessuna espressione iconografica, la condanna alla Geenna, le grandi tribolazioni, l’inferno di fuoco e zolfo non esistono. I fedeli, forti della loro fede e della loro temperanza, vivono in pace, liberi da tutti i tormenti, «prendendo parte alla gloria di Cristo, felici grazie a Dio Padre, godendo in eterno della voluttà perpetua, in presenza di Dio, e rendendo grazie per sempre all’Onnipotente»19. L’apporto dei metodi antichi è costante. Seguendo ciò che Spengler definisce una semplice pseudomorfosi, tematiche specificamente cristiane sono derivate di-
banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti,/ di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6).
bibliche. Dall’area cimiteriale di Commodilla ai santi Pietro e Marcellino e nella catacomba dei Giordani, passando per il Cimitero Maggiore e il cimitero anonimo di via Anapo, gli artisti riprendono senza soluzione di continuità le immagini stabilite dell’antica alleanza. Come nel iii secolo, nelle scene veterotestamentarie dominano Adamo ed Eva, Noè sull’arca, il sacrificio di Abramo, Mosè intento a colpire la roccia, Daniele nella fossa dei leoni, i tre ebrei nella fornace e il ciclo di Giona. Le scene cristiche si focalizzano sempre sull’adorazione dei Magi, il battesimo epifanico, l’incontro con la Samaritana, la moltiplicazione dei pani, le guarigioni dell’emorroissa e del paralitico, la resurrezione di Lazzaro e l’Ultima Cena. La predominanza dei cicli tradizionali non ha impedito l’apparire di figure nuove. L’ipogeo di via Latina presenta una monumentale Bibbia in immagini in cui un gruppo eccezionale di scene inedite viene ad aggiungersi al repertorio tradizionale della pittura paleocristiana. Le immagini si succedono sulle pareti dei cubicoli e delle stanze, costituendo un’autentica pinacoteca dell’arte del basso Impero, una selezione integrata da episodi biblici che si intrecciano e si aggrovigliano seguendo un ordine deliberatamente fantasioso. Le nuove immagini, poco comuni, di un’estrema rarità o praticamente inedite, si sviluppano a partire da un nucleo classico ormai completamente formulato nel iii secolo. L’Antico Testamento continua a essere la fonte d’ispirazione della maggior parte del repertorio
La Bibbia in immagini Il linguaggio formale rimane conforme a quello dell’epoca. I soffitti sono suddivisi in riquadri delimitati da linee sottili, figure geometriche e ghirlande; combinazioni di cerchi, quadrati e parallelogrammi sono frammisti a numerosi elementi animati. La decadenza della grande tradizione classicheggiante è evidente: i decori in prospettive architettoniche sono rari, i paesaggi sono ridotti alle forme essenziali, le finezze decorative ereditate dalla tradizione alessandrina vengono abbandonate e ampiamente adottate le semplificazioni plastiche; il cosiddetto illusionismo ellenistico e la precisione del disegno non sono più importanti, le linee schizzate sono evidenziate da colori fluidi. L’apparente impoverimento della tecnica non porta con sé una mutazione stilistica; la pittura romana traspare sotto un aspetto spoglio, dando spesso capolavori di grande intensità. L’iconografia religiosa si dimostra poco sensibile alle controversie teologiche contemporanee; le scene bibliche riprendono i cicli sviluppati nel iii secolo e il percorso dei numerosi dipinti dimostra la stessa predilezione. In opposizione a ogni forma di ricostruzione cronologica, i programmi elaborati mescolano e uniscono una selezione ristretta delle figure
72. Orante velata. Roma, ipogeo dei Giordani. 73. Orante. Roma, catacomba anonima della via Anapo. 74. Petronilla e Veneranda. Roma, catacombe di Domitilla. 75. Gruppo di bottai. Roma, catacombe di Priscilla.
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76-78. Volta dipinta del cubicolo detto “delle stagioni”. Visione d’insieme e dettagli. Roma, catacomba dei Santi Pietro e Marcellino.
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iconografico. L’evocazione del peccato di Adamo ed Eva si amplia: Dio, rappresentato come un vecchio patriarca barbuto, spinge con la mano gli antenati degli uomini fuori dalla porta del paradiso; la storia prosegue con Adamo ed Eva con la mano destra sul mento in segno di sconforto, posti accanto ad Abele e Caino venuti a portare al Creatore le loro offerte: il primo porta una pecora che indica i primogeniti del gregge, il secondo un fascio di spighe che simboleggia i prodotti della terra che ha coltivato. La rappresentazione del Genesi prosegue con l’immagine inedita di Noè ebbro che alza la mano destra con la coppa di vino. Nasce il ciclo dei patriarchi: l’Apparizione di Mamre presenta Abramo «all’ingresso dell’accampamento» davanti a tre efebi in tunica e sandali: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui» (Gn 18,2); Loth fugge con le due figlie dopo la distruzione di Sodoma; la donna trasformata in statua di sale è rappresentata in scala ridotta vicino alla città 29 in fiamme. Il Sacrificio di Abramo assume un carattere di aneddoto: il servitore entra a far parte della scena, rappresentato in attesa dei padroni ai piedi della montagna; il figlio, rassegnato alla sua sorte, compare in ginocchio davanti al padre, gli occhi atterriti e le mani legate; sull’altare, vicino alla legna dell’olocausto, c’è un ariete che alza il muso verso il Patriarca. Il Pasto di Isacco ha ispirato due versioni iconografiche dell’episodio: nella prima si vede Giacobbe di ritorno dalla caccia, nell’atto di porgere la sua offerta, aiutato dalla madre Rebecca, al padre Esaù; nella seconda il padre appare disteso su un giaciglio, nell’atto di impartire l’estrema benedizione al figlio minore, sotto gli occhi del maggiore con la selvaggina fra le mani. Il Sogno di Giacobbe ha trovato a sua volta un’espressione iconografica: il giovane patriarca, come risvegliato nel sonno, appare con i gomiti appoggiati sulla «pietra che si era posta come guanciale» (Gn 28,18), con gli occhi
79-83. L’ospitalità di Abramo; il sogno di Giacobbe; l’arrivo di Giacobbe e dei suoi figli in Egitto; Adamo ed Eva afflitti; Caino e Abele che portano loro offerte. Roma, catacombe della Via Latina.
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spalancati che osservano la scala che arriva fino al cielo con gli angeli che «salivano e scendevano su di essa» (Gn 28,12). La storia di Giuseppe ha ispirato tre scene narrative: il figlio prediletto di Giacobbe contempla i nove fasci posti in uno spazio dominato da due volti che impersonano il sole e la luna; l’entrata degli israeliti in Egitto è interpretata in maniera acuta: secondo le Scritture, Giacobbe entra e «con lui tutti i suoi discendenti, i suoi figli e i nipoti, le sue figlie e le nipoti» (Gn 46,7); il testo biblico precisa: «Tutte le persone della famiglia di Giacobbe, che entrarono in Egitto, sono settanta» (Gn 46,27). Nell’immagine l’insieme di tutti i personaggi è condensato in sette figure poste su tre carri davanti alle mura di una città circondata da un fiume popolato di pesci, immagine idilliaca dell’Egitto e del Nilo. Il ciclo della Genesi termina con una scena di benedizione: il vecchio Giacobbe, seduto sul suo letto, incrocia le braccia e prende in segno di adozione i due figli di Giuseppe, «Efraim con la sua destra, alla sinistra di Israele, e Manasse con la sua sinistra, alla destra di Israele» (Gn 48,13). La raffigurazione del libro dell’Esodo si apre con l’evocazione della vita di Mosè. Il bambino abbandonato in una cesta di papiro sulla riva del fiume viene trovato dalla figlia del faraone e dalle due ancelle. Giovane e vigoroso, egli compare sull’Oreb con le fattezze di Giasone che allaccia il sandalo. La Traversata del mar Rosso è rappresentata nel dipinto come una battaglia imperiale, con un gruppo di ventotto israeliti seguiti da un esercito composto da sedici egizi. Il liberatore che guida il suo popolo brandisce ancora una volta un bastone magico: all’immagine consueta dell’acqua che scaturisce dalla roccia si sostituisce quella della Consegna delle tavole della Legge: Mosè sale sulla montagna e riceve le tavole di pietra scritte dalla mano di Dio. Accanto a lui, è innalzata una colonna a ricordo della costante presenza di Dio: «Il Signore marciava alla loro
84-85. Sansone che combatte i leoni e dettaglio del Passaggio del mar Rosso. Roma, catacombe della Via Latina.
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testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo, né la colonna di fuoco durante la notte» (Es 13,21-22). Il libro dei Numeri ha ispirato due scene; nella prima si vede l’Angelo di Jahvè con la spada in mano che sbarra il passaggio a Balaam sulla sua asina; la seconda appare più sofisticata: Zimri il traditore e la moglie madianita Chozbi, trafitti da una freccia, sono appesi sopra il fervente Pinkhas. Nella scena è introdotta una nuova figura femminile tratta dal libro di Giosuè: Rakhab fa scendere dalla finestra per mezzo di una corda i due uomini mandati a spiare; tre scene ispirate al libro dei Giudici raccontano le imprese di Sansone: l’eroe, in piedi con la mascella dell’asino in mano, è posto al centro dei Filistei vinti. Come Ercole, si lancia sul leone che lo attacca per squartarlo «come si squarcia un capretto» (Gdc 14,6). Infine, alzando il consueto bastone, manda le volpi nel campo nemico; nelle Scritture si parla di trecento volpi: seguendo la tecnica adottata per l’Ingresso di Giacobbe, nell’immagine i personaggi sono condensati in tre animali che galoppano a tutta velocità. Gli episodi eclettici completano la rappresentazione dell’Antico Testamento. Assalonne muore con la testa imprigionata nella quercia e l’immagine lo presenta sospeso tra cielo e terra accanto al «mulo che era sotto di lui» (2 Sam 18,9). Al centro di un paesaggio campestre, un coltivatore assiste all’ascensione di Elia. Il «carro di Israele e sua cavalleria» (2 Re 13,14) assumono le forme di un’apoteosi romana: il profeta, seduto su un carro condotto da quattro cavalli volanti, cede il mantello al successore Eliseo. Tobia, con un copricapo, ha nella mano destra il grosso pesce tirato a riva: «Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire» (Tb 6,4), dice l’angelo del Signore. Giobbe, abbandonato a se stesso, è ac-
coccolato sul letame; la moglie, evitando ogni contatto con lui, gli tende un pezzo di pane legato a un bastone sottile e l’uomo, oppresso, esclama: «Il mio fiato è ripugnante per mia moglie/ e faccio schifo ai figli di mia madre» (Gb 19,17). La fede è la consolazione del giusto provato e lo fortifica: «Io lo so che il mio Vendicatore è vivo/ e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!/ Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,/ senza la mia carne, vedrò Dio» (Gb 19,25-26). Dal Vangelo è tratto un gruppo ristretto di immagini: il Buon Pastore continua a vigilare il suo gregge in un paesaggio in fiore; i tre Magi con i copricapi frigi offrono i loro doni al Bambino di Maria; il Cristo Pedagogo chiama i fedeli alla vera vita; in piedi su una roccia, alza le braccia per annunciare la sua parola di fronte a un gruppo formato da dodici persone; seduto accanto a una capsa piena di rotoli presiede il gruppo dei discepoli come un cenacolo filosofico. L’annuncio della Buona Novella si apre sulla missione apostolica di cui Clemente Romano ha dato una spiegazione: «Gli apostoli hanno ricevuto per noi dal Signore Gesù Cristo la Buona Novella, Gesù Cristo è stato inviato da Dio, il Cristo viene dunque da Dio, gli apostoli dal Cristo. Le due missioni provengono direttamente dalla volontà di Dio»21. Il Figlio dell’Uomo conserva la sua grazia apollinea; giovanile, semplice e dolce, si intrattiene con la Samaritana venuta ad attingere acqua al pozzo di Giacobbe. Taumaturgo, tende il suo bastone per risvegliare l’amico morto sotto gli occhi di una folla immensa in cui sono riunite più di ottanta figure; la Passione di Cristo non è mai rappresentata, compare soltanto come presagio in un’immagine trasversale: due soldati romani tirano a sorte, con una giara e due monete d’argento, per non dividerla a metà, la tunica di Cristo intessuta in un sol pezzo. Il luogo è inondato di gloria: il Messia, col viso barbuto e la mano nel gesto della benedizione, assume un aspetto che lo apparenta
semplici. La catacomba anonima di via Latina pare fosse il cimitero di una famiglia i cui membri non cristiani hanno preparato a loro piacimento un luogo adibito ad accoglierne le spoglie. Non si tratta di un caso eccezionale, perché lungi dal costituire un modello unico, la sua decorazione composita riflette singolarmente il clima culturale pluralistico della società romana dell’epoca pre-teodosiana, in cui convivono cristiani e seguaci delle antiche religioni: i primi affermano solennemente la propria fede appoggiata dal potere e i secondi confessano la loro in tutta libertà. Gli elementi decorativi pittorici sono incisi nella pietra sui sarcofagi scolpiti. Le opere cristiane continuano ad adottare le forme e le immagini ereditate dall’Antichità, soltanto la tematica biblica rivela l’identità confessionale del sepolcro. Il sarcofago “della giovane puerpera con bambino” si limita a riprendere fedelmente le immagini comuni delle scene di caccia. L’azione si sviluppa su due fregi con una caccia al cinghiale sul lato sinistro e un inseguimento di cervi sul lato destro. Il sarcofago romano “dei tre pastori” presenta sulla facciata anteriore una festa bacchica in cui i geni alati volteggiano attorno a tre figure in piedi che occupano il centro e le due estremità del gruppo scultoreo. Questi ultimi sono rappresentati con una tu-
a Giove; seduto solennemente sul suo trono imperiale, regna in mezzo a Pietro e Paolo, «i pilastri più alti e più dritti che si siano visti resistere fino alla morte»22. Niente pare distinguere i due Testamenti. «Per mezzo della polifonia dei testi – osserva Ireneo di Lione – risuonerà in noi una sola melodia armoniosa, cantando il Dio che ha fatto ogni cosa»23. Il Messia, i profeti, gli apostoli e i fedeli sono uniti per vivere un’esistenza comune sotto lo stesso cielo. Paradossalmente, questa grande bibbia iconografica lascia intravedere alcune immagini del tutto pagane. Il decoro di un cubiculum presenta un programma dedicato integralmente al mito di Ercole; nelle pitture successive è descritta la storia dell’eroe mitico. Secondo i miti conosciuti, Ercole tende la mano ad Atena, vince il nemico, uccide l’idra, ruba le mele d’oro dal giardino delle Esperidi e riporta Alceste ad Admeda. Lo stile e la realizzazione cromatica delle immagini costituiscono un’incontestabile unità decorativa con i cicli biblici. La sovrapposizione eterodossa suscita le più disparate interpretazioni. Le letture cristiane tentano invano di interpretare allegoricamente le immagini dell’eroe antico. Interpretazioni gnostiche attribuiscono il cimitero a una setta sincretista pagano-giudaico-cristiana. Attualmente le ipotesi, contestate, perdono terreno davanti a spiegazioni più 32
89. Sarcofago con scene di caccia. Musée de l’Arles antique.
86-88. Ercole e l’idra; la dea Tellus; Ercole nel giardino delle Esperidi. Roma, catacombe della Via Latina.
90. Sarcofago dei tre pastori. Vaticano, Museo Pio Cristiano.
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cofago a colonne di Arles trasforma il miracolo della moltiplicazione dei pani in una processione liturgica; seguendo una formula classica, sette arcate sostenute da otto colonne sormontate da capitelli ornano la facciata anteriore. Sette personaggi in piedi, separati e uniti a un tempo, sono posti sotto gli archi; i discepoli in piedi volgono lo sguardo in direzione della figura centrale del Maestro e due di essi hanno le mani coperte dalle tuniche. Il primo, posto alla destra di Cristo, porta un piatto pieno di pesce; il secondo, a sinistra, offre un cesto riempito di pani. La rappresentazione trascende l’atto descritto nel Vangelo, il mare e la folla sono stati eliminati. La celebrazione presenta i cinque pani d’orzo e i due pesci come offerta eucaristica: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore;/ beato l’uomo che in lui si rifugia» (Sal 34,9). I defunti prendono posto in quel regno celeste. Axa Eliana, dolce e sorridente, tiene teneramente in mano la candida colomba del paradiso: «In effetti – osserva san Cipriano – potrà essere solo gioioso e riconoscente colui che, dopo essere stato soggetto alla morte, è stato dall’immortalità liberato da tutti i pensieri»25. Catervia, con la toga dei funzionari e il rotolo dei letterati, tende la mano alla moglie Severina; la corona della vittoria è posata sopra i due busti, segno dell’ingresso della coppia nella vita eterna. Il monogramma di Cristo e le colombe sono poste intorno all’imago clipeata: «È dolce il riposo della morte! E il Signore che risveglia coloro che riposano, perché è il Signore il Risveglio!»26. Le figure
nica corta, ghette e stivali, un bastone in mano e una bisaccia appesa al collo; portano tutti una pecora sulle spalle e sono issati su piedistalli finemente decorati. Il pastore al centro ha la barba, mentre i due che delimitano l’edicola hanno il volto con cui venivano tradizionalmente rappresentati gli efebi. La vendemmia non presenta alcun segno distintivo cristiano. I tralci di vite si popolano di geni intenti al loro compito. Psiche compare fra loro reggendo tra le mani un cesto pieno di grappoli. I tini disposti al suolo in riga aspettano la pigiatura. La festa prosegue ai lati, dove sono raffigurate le quattro stagioni secondo i lavori dell’anno: l’uva per l’autunno, le olive per l’inverno, i fiori per la primavera e le spighe per l’estate. La ieraticità, dei tre pastori compensa l’eccentrica danza dei geni coltivatori. La delicatezza pastorale tempera la celebrazione bacchica e l’immagine annuncia l’ebbrezza cristiana, «la sacra ebbrezza che diffonde in noi la gioia senza attaccare il rimorso del peccato, la sacra ebbrezza che rafforza i pensieri dell’anima sobria, la sacra ebbrezza che riversa in noi il dono della vita eterna»24. Il Risveglio divino Gli archetipi mutuati dall’Antichità costituiscono soggetti inediti; le figure, riprese sistematicamente, si manifestano di nuovo secondo programmi arditi che rinnovano le vecchie immagini e le rigenerano. Il sar-
96. Sarcofago dei due fratelli. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.
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93. Axa Eliana. Musée de l’Arles antique.
(a fronte)
94. Catervia e la moglie Septimia Severina, dettaglio del sarcofago della cattedrale di Tolentino. Italia.
91-92. Presentazione dei pani e dei pesci, due dettagli del sarcofago della moltiplicazione dei pani. Musée de l’Arles antique.
95. Sarcofago di Marcia Romana Celsa, da Trinquetaille. Musée de l’Arles antique.
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I “due fratelli”, posti in una conchiglia finemente decorata, occupano il centro di una superficie suddivisa in due registri. Le scene dei due Testamenti si susseguono sul fregio, e niente pare separare gli atti successivi. Col capo chino, la sorella di Lazzaro bacia la mano di Cristo. Gesù ricompare accanto a san Pietro e la presenza di un gallo ai suoi piedi fa presagire l’annuncio dei rinnegamenti: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» (Lc 22,34). Seguono due scene veterotestamentarie: la mano di Dio compare due volte per porgere i comandamenti a Mosè e per impedire il sacrificio di Abramo. Isacco, con le mani legate, sembra guardare Gesù affrontato a Pilato; un personaggio apporta al governatore un orcio d’acqua per lavarsi le mani. L’azione prosegue sul secondo registro, con Pietro che indica con la mano «l’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,13). Daniele, raffigurato come un orante nudo, si alza con le mani levate fra due leoni ammansiti: «Il mio Dio ha mandato il suo angelo che ha chiuso le fauci dei leoni ed essi non mi hanno fatto alcun male, perché sono stato trovato innocente davanti a lui» (Dn 6,23). Il Principe degli apostoli compare di nuovo, immerso nello studio della Legge divina, poco interessato ai soldati giunti ad arrestarlo. Il ciclo si conclude con due miracoli cristici: Gesù guarisce il cieco dalla nascita, rende grazie e benedice con entrambe le mani il pane
dei ritratti continuano a sottostare ai canoni stabiliti; spesso si tende a idealizzare i lineamenti del volto del defunto: la rassomiglianza individuale è ora superata, ora trascurata. Al ritratto personale dell’individuo si sostituisce la figura orante con le braccia al cielo. L’iscrizione incisa sul sarcofago di Marcia Romana Celsa precisa l’identità della defunta e cita esplicitamente la sua età: «xvii delle Calende d’aprile. Ivi riposa in pace Marcia Romana Celsa, chiarissima, che ha vissuto xxxviii anni, ii mesi e xi giorni. Flavio Januarino, chiarissimo, un tempo console ordinario, ha elevato questo sepolcro per la sua sposa che l’ha ben meritato». Contrariamente alla descrizione, il bassorilievo si limita a mostrare la figura femminile dell’anima in pace. La figura in piedi costituisce l’asse centrale di un fregio scolpito che si estende su due registri. I tre re ebrei e i tre re magi, con il tradizionale copricapo frigio, sono posti sul livello superiore. Sei scene pubbliche compaiono intorno all’orante: a destra, il Cristo moltiplica i pani, guarisce il cieco e resuscita Lazzaro; a sinistra, san Pietro procede lungo il cammino tracciato dal Maestro. Ai miracoli cristici fa eco la missione apostolica. Il Principe degli apostoli, prendendo il posto di Mosè sull’Oreb, fa scaturire l’acqua salvatrice del Cristo; il novello Mosè guida il Nuovo Israele, la Chiesa, la Fidanzata, la Sposa dell’Agnello: «Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
97-99: Sarcofago della catacomba del Vaticano, prospetto frontale; fianco con Mosè che colpisce la roccia e Gesù che guarisce l’emorroissa; dettaglio con Gesù che predice il rinnegamento di san Pietro. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.
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100. Sarcofago da San Paolo fuori le Mura. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano. 101. Sarcofago dalla catacomba di Domitilla. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.
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no, il Salvatore regna sopra i cieli, personificati dalla figura del dio Cielo che solleva il suo velo come una volta. Al sacrificio di Abramo sull’angolo sinistro corrisponde la presentazione di Gesù a Pilato sull’angolo destro. La prefigurazione del sacrificio del Figlio e l’annuncio della Passione sono posti attorno alla scena gloriosa della Traditio Legis. L’iconografia imperiale ispira l’investitura cristiana. Assistito dall’Apostolo dei gentili, Colui che ha vinto il mondo consegna il rotolo aperto della legge all’Apostolo degli ebrei. I due lati del sarcofago completano il decoro del magistero divino. Sulla sinistra, un Cristo imberbe e giovanile predice a san Pietro i suoi rinnegamenti. Una colonna sormontata da un grande gallo, posta tra i due protagonisti, costituisce l’asse centrale del gruppo scultoreo. Il paesaggio urbano in cui è situata l’azione annovera due basiliche: una è eretta con il battistero e un sacrario dietro un muro di cinta, l’altra è situata fuori dalle mura. I simboli sono riuniti: il battistero evoca le acque vivificanti e la remissione dei peccati, l’uccello di luce degli antichi annuncia l’alba mettendo in fuga gli antichi demoni della notte. Il battistero ricorda la remissione dei peccati e l’entrata nella vita in Cristo. A destra, Mosè-Pietro fa scaturire le acque della vita nel momento in cui il Cristo benedice con la mano colei che aveva speso «tutti i suoi averi senza nessun vantaggio» (Mc 5,26). La salvezza degli israeliti abbeveratisi
e il pesce dei viventi. I busti dei due fratelli dominano il gruppo; gravi e sereni al contempo, sembrano essere i testimoni delle numerose epifanie in cui Dio, invisibile, interviene, libera e salva gli uomini: «Io mi corico e mi addormento,/ mi sveglio perché il Signore mi sostiene» (Sal 3,6). I due fedeli, dotati dell’incorruttibilità di Cristo, si risvegliano nel Regno dei cieli. La morte è vinta, il corpo resuscita nella gloria. Come professa Tertulliano: «Parimenti anche la vita, che è, come si sa, la nemica della morte, divorerà per mezzo della contesa per la salvezza, quello che la morte aveva divorato per mezzo della contesa per la distruzione»27. I segni della Passione Cominciano a formarsi altri prototipi biblici. Sul sarcofago di Sabino sono associate le nuove immagini agli antichi simboli profani. Il miracolo delle nozze di Cana e la passione di Pietro appaiono concatenati alle stagioni, alle scene di caccia, alle figure oranti, alla resurrezione di Lazzaro, alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, alla guarigione del cieco dalla nascita e all’atto di colpire la roccia. L’iconografia veterotestamentaria viene intensamente sviluppata e il legame tra le due alleanze è rinforzato. L’azione è concentrata sul Cristo. Su un sarcofago del cimitero del Vatica-
102. Sarcofago di Giunio Basso. Città del Vaticano, Tesoro di San Pietro.
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è al di sopra di ogni altro nome;/ perché nel nome di Gesù/ ogni ginocchio si pieghi/ nei cieli, sulla terra e sotto terra;/ e ogni lingua proclami/ che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,9-11). L’esecuzione scultorea dei sepolcri fa parte dell’arte dell’epoca. Il sarcofago cosiddetto “dogmatico” del Laterano concentra su due fregi figure la cui fattura ricorda quella dei rilievi posti sull’arco di Costantino. Le opere si sovrappongono a narrazione continua intorno al ritratto incompiuto di una coppia di defunti. Sul registro superiore sono riuniti la creazione di Adamo ed Eva, la suddivisione del lavoro dopo la caduta, il miracolo di Cana, la moltiplicazione dei pani e la resurrezione di Lazzaro. Sul secondo registro si susseguono l’adorazione dei Magi, la guarigione del cieco dalla nascita, Daniele nella fossa dei leoni, l’annuncio del rinnegamento di Pietro e l’atto del colpire la roccia. La modellatura delle figure forma un contrasto innegabile con lo stile ellenistico e la successiva evoluzione romana: le figure e gli elementi riprodotti sono antichi, le forme e la stilizzazione dimostrano una nuova sensibilità; il nuovo si manifesta senza imporsi completamente, perché il classicismo è sempre presente. Talvolta si evidenzia ed è predominante sull’opera cristiana; il sarcofago di Giunio Basso ne è l’esempio più evidente. Il gruppo scultoreo riunisce su due registri dieci scene bibliche delimitate da un colonnato; il Cristo occupa le due posizioni centrali. L’entrata messianica del Salvatore raffigurato su un somarello è sormontata dal regno del Re regnante sopra il velo celeste del dio Cielo. I testimoni dell’antica alleanza si alternano a quelli della nuova. La mano celeste interviene a fermare Adamo e salvare Isacco, due soldati interrogano Pietro, Gesù è condotto davanti al tribunale, Pilato si accinge a lavarsi le mani, Giobbe si accoccola sul mucchio di letame, Adamo ed Eva si coprono le pudenda per la vergogna, Daniele dato in pasto ai leoni alza gli occhi all’Altissimo; infine, Paolo cammina con le mani legate verso il supplizio. Le colonne sono minuziosamente decorate: geni vendemmiatori traspaiono su quelli delle nicchie che ospitano le due epifanie centrali. I drappeggi sono realizzati perfettamente, le statue hanno un grande movimento, le fisionomie riflettono l’ideale di bellezza dell’arte romana. Il modellato perfetto dei rilievi si spinge alla tridimensionalità, gli animali sono rappresentati nel loro aspetto naturale. I canoni del classicismo trionfano; il sarcofago dedicato al console romano deceduto il 24 agosto del 359, dalla lavorazione perfetta, si riavvicina all’arte tradizionale e si impone come uno dei sarcofagi scolpiti più belli della tarda romanità.
all’acqua di Cristo si compie con il pagano che, dopo aver cercato invano nella filosofia pagana, trova la salvezza presso il vero Salvatore. La rappresentazione dell’arresto di Pietro e di Paolo assume l’aspetto di una Passione. Sul sarcofago di San Paolo Fuori le Mura i due apostoli vengono catturati e trasportati dai soldati romani come barbari vinti. Le due scene apostoliche sono abbinate a due scene veterotestamentarie: Abele che porta l’agnello dell’offerta e Giobbe oppresso dalle sue disgrazie delimitano la parte anteriore del gruppo scultoreo; la sofferenza dei giusti annuncia e prefigura quelle dei fedeli del Cristo. Le scene figurate sono poste in cinque riquadri formati dai tronchi di sei alberi frondosi e la parte centrale è occupata da due soldati posti di fronte a una croce nuda issata al centro del sarcofago: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato» (Lc 24,5-6). Lo strumento del supplizio, sormontato da un monogramma di Cristo circondato da una corona, è presentato come un trofeo: è «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,24). L’emblema della vittoria porta il monogramma di Cristo: «Ha realizzato la tua volontà – dice Ippolito Romano – e, per procurarti un popolo santo, ha teso le mani quando soffriva, al fine di liberare dalla sofferenza coloro che hanno creduto in te»28. L’iconografia non evoca assolutamente la sua sofferenza, non è la crocifissione che viene rappresentata ma il suo esito; il Figlio si dedica «a una sofferenza che accetta, per distruggere la morte, calpestare l’inferno, illuminare i giusti, redigere il Testamento e manifestare la sua Resurrezione»29; «Se è stato straziato – prosegue san Cipriano – è per guarire le nostre ferite. Se è stato fatto prigioniero, è per rendere la libertà a coloro che non l’avevano. Se è stato messo a morte, è per rendere immortali i mortali»30. L’immagine è dedicata alla celebrazione di questa gloria: due uccelli affrontati sono nascosti sul ramo orizzontale, trasformando la croce in albero della vita che darà un frutto incorruttibile. Lo stesso trofeo si ritrova al centro del sarcofago di Domitilla: tre scene evocano il calvario di Cristo senza mai mostrarlo. La Passione si trasforma in un canto trionfale, in cui la corona compare in quattro delle cinque edicole della parte anteriore e Gesù è rappresentato davanti a Pilato; i ruoli appaiono invertiti: mentre l’accusato conserva l’aspetto solenne di un sapiente insegnante, il legislatore volta perplesso il capo in segno di confusione. L’apposizione della corona di spine corrisponde all’incoronazione dell’imperatore, ove la corona d’alloro ha preso il posto di quella di spine. La scena della Passione corrisponde alla marcia trionfale: seguendo il modello convenzionale dell’iconografia imperiale, Simone il Cireneo avanza, sospinto da un soldato romano. Una piccola croce posta sulla spalla sostituisce lo strumento del supplizio a cui viene appeso il condannato a morte. Sospesa in cima all’edicola, la «corona della gloria che non appassisce» (1 Pt 5,4) rimane sopra i due personaggi. Tutto è cancellato dalla gloria, la croce-crisma celebra «... il nome/ che
Il Nascosto e il Rivelato Il ciclo iconografico del iv secolo si costituisce; pittura e scultura riprendono le immagini canonizzate e le portano verso un’espressione nuova. Dio Padre appare 111
la della suddivisione del lavoro: l’uomo è scacciato «dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto» (Gn 3,23). Un covone e un agnello sono i simboli di questo compito. I due elementi annunciano Caino e Abele, il pastore e il coltivatore. Il Diluvio continua a essere un’immagine simbolo: la rappresentazione delle otto anime salvate dalle acque nell’arca, posta sul sarcofago nella villa di Treviri presenta una ricostruzione eccezionale dell’episodio biblico, in cui sopravvive il modello tradizionale, in cui Noè continua a galleggiare sul suo guscio accompagnato soltanto dalla colomba del nuovo ordine del mondo; sant’Ambrogio commenta: «Dio, volendo risistemare ciò che era in difetto, inviò il diluvio e ordinò al giusto Noè di prendere posto sull’arca. Poi, allorché le acque si ritirarono, inviò innanzitutto un corvo che non fece ritorno e che fu seguito da una colomba. La colomba ritornò portando un ramo di ulivo. Così, vedendo l’acqua, il legno e la colomba si può ancora dubitare del mistero? L’acqua è dunque l’elemento nel quale è immersa la carne affinché la stessa carne sia lavata da ogni peccato, tutti i crimini sono seppelliti; il legno è il materiale a cui fu inchiodato il Signore Gesù quando soffrì per noi, la colomba è l’uccello sotto le sembianze del quale si è manifestato lo Spirito Santo, lo Spirito che dona la pace all’anima e la serenità alla mente»33. Il simbolo cristiano supera il racconto biblico e lo ricrea. L’acqua, il legno e la colomba della Genesi sono i segni viventi della morte e della resurrezione in Cristo. Noè battezzato, le mani alzate in preghiera, è l’immagine incarnata dell’uomo venuto alla pace di Dio. Il sacrificio di Abramo è onnipresente. Il modello riprende gli elementi del racconto; il decoro è composto da un altare innalzato, la legna e l’ariete. Il padre afferra il coltello per immolare il figlio sull’altare e l’immagine si focalizza sul richiamo di Dio: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio» (Gn 22,11). L’immagine visibile attesta la fede di Abramo e la salvezza di Isacco grazie all’intervento diretto di Dio. L’interpretazione cristiana vi vede la prefigurazione della Passione di Cristo; l’ariete che compare nel testo dopo il richiamo divino si ritrova nell’immagine accanto all’altare, posta di fronte all’unico figlio di Abramo. La scena riunisce le due figure di Cristo: «Isacco che non è stato immolato e l’ariete che lo è stato»34. Studiando il mistero della passione, Origene vede in questa dualità un segno della doppia natura del Figlio incarnato: «Nel Cristo – osserva – un’entità viene a lui dall’alto, un’altra dalla natura umana e dal seno della Vergine. Il Cristo soffre ma nella carne, viene messo a morte, ma è il suo corpo che muore, la carne qui raffigurata nell’ariete», «il Verbo di Dio, al contrario, vale a dire il Cristo secondo lo spirito, rappresentato da Isacco, è rimasto nell’incorruttibilità»35. La legna brucia sull’altare innalzato sulla montagna nel luogo indicato da Dio. Isacco e l’ariete riposano ai suoi piedi; il Cristo appare segretamente
molto raramente; lo vediamo dipinto nelle catacombe della via Latina e scolpito sul sarcofago detto “dogmatico” del Laterano. Nell’immagine ispirata al libro della Genesi lo si vede col volto patriarcale di un uomo maturo e barbuto. La Creazione dell’uomo lo presenta in mezzo agli altri due personaggi della Trinità: il Padre regna tra il Figlio e lo Spirito Santo, nell’atto di benedire con la mano destra due figure infantili nude. La prima, maschile, rappresenta Adamo steso al suolo; la seconda, femminile, mostra Eva in piedi, il capo coronato dalla mano imposta dal Figlio. La triade compare in un’altra immagine similare sul sarcofago di Arles “della coppia dei defunti”. Solo Adamo è rappresentato in un’altra posizione: risvegliatosi dal torpore, appare in piedi accanto alla donna estratta da lui. La coppia si volge verso la mano benedicente del Creatore; come precisano le Scritture: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gn 2,25). Benché inedita, l’immagine rappresentata non ha nulla di originale: dietro l’immagine biblica della genesi si profila il mito pagano della crea zione dell’uomo di Prometeo. Il Padre che benedice Adamo ha preso il posto del Titano che modella l’uomo, e il Figlio che impone la mano sostituisce Minerva che, con un gesto simile, insuffla l’anima all’uomo sotto forma di una farfalla. L’ardita rappresentazione non costituisce affatto un tema stabilito. Attraverso l’evoluzione dell’arte paleocristiana, il mistero della Trinità viene evocato senza essere descritto o narrato: «Immaginare il principio del principio è del tutto ridicolo»31, afferma Basilio di Cesarea. La figura del Patriarca divino sembra tradire il mistero assoluto del Dio nascosto e inconoscibile; il divieto della rappresentazione sotto l’antica alleanza si tramuta nell’omissione di rappresentare il Padre. Solo la mano che sbuca dalle nuvole testimonia la presenza continua del Creatore dei cieli e della terra, mano onnipresente, che elegge, benedice, assiste e incorona i fedeli. Secondo la testimonianza delle Scritture, lo Spirito Santo continua a mostrarsi «in apparenza corporea, come di colomba» (Lc 3,22), ora con il ramoscello del mondo rigenerato, ora nell’atto di insufflare il flusso d’acqua che scende su coloro che giungono alla pace. L’emanazione suprema del Creatore rimane quella del Figlio incarnato: «Dio nessuno l’ha mai visto:/ proprio il Figlio unigenito,/ che è nel seno del Padre,/ lui lo ha rivelato». Vero Dio di vero Dio, consustanziale al Padre, il Cristo ha il volto dell’Invisibile: «Chi ha visto me ha visto il Padre», replica accomiatandosi (Gv 14,9). Un intimo legame si stabilisce nel mistero tra il Creatore e l’uomo. Dio si fa conoscere attraverso il Figlio incarnato e si identifica nella sua creatura. Come ha affermato Ireneo di Lione, «il Padre, per quanto invisibile e illimitato in confronto a noi, è conosciuto attraverso il suo Verbo e, per quanto inesprimibile, è espresso da lui32. Le immagini veterotestamentarie riprendono sistematicamente le figure tradizionali. La scena consueta del peccato di Adamo ed Eva talvolta è associata a quel112
103. Sarcofago “dogmatico”. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano. 104. Sarcofago di una coppia di defunti, da Trinquetaille. Musée de l’Arles antique.
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deserto, «stava con le fiere e gli angeli lo servivano» (Mc 1,12); Daniele, dato due volte in pasto ai leoni, rimane indenne «poiché egli aveva confidato nel suo Dio» (Dn 6,24). Sempre impassibile, il profeta leva le mani in preghiera, datosi per sempre alla divina provvidenza. L’immagine anacronistica diventa narrativa sul sarcofago di Brescia: Abacuc raggiunge Daniele nella fossa per portargli il pasto inviato da Dio. L’iconografia paleocristiana offre al personaggio una doppia immagine: Daniele, vestito tradizionalmente alla maniera persiana, nel iv secolo appare completamente nudo. Le scritture non spiegano il cambiamento. L’ebreo di Babilonia si libera della tunica come il catecumeno venuto a presentarsi per ricevere il battesimo, che nella sua nudità si avvicina al primo periodo di Adamo nel giardino dell’Eden e al secondo Adamo sulla croce. La nudità diventa il segno della purezza e della forza, perché è grazie ad essa che il Salvatore «ha spogliato i regni e i poteri e che ha trionfato apertamente su di essi dall’alto del suo legno»38. Daniele alza le braccia come un orante liberato del vecchio corpo e delle sue azioni: l’anima in pace si presenta nuda, spogliata della cupidigia ingannevole ripete con la sposa nuda del cantico: «Mi sono tolta la veste;/ come indossarla ancora?» (Ct 5,3). La rappresentazione iconografica rimane immutata. Con le loro vesti all’orientale, i tre giovani formano un unico coro «a glorificare, a benedire Dio nella fornace» (Dn 3,51); l’immagine stereotipata assume un carattere aneddotico con l’introduzione casuale di nuovi personaggi. Si riconosce il servitore venuto ad attizzare il fuoco tenendolo vivo incessantemente e l’angelo che scende nella fornace vicino agli amici di Dio per respingere le fiamme del fuoco ardente e soffiare su di esse come «un vento pieno di rugiada» (Dn 3,50). L’anima orante ritrova i lineamenti femminili
come il sacerdote e l’offerta dell’olocausto, «perché colui che si offre come vittima al Padre suo nella carne, è offerto lui stesso sull’altare della croce»36. Mosè ritorna in tre scene stereotipate. Alla scena consueta del miracolo sull’Oreb si aggiungono il dono dei comandamenti e la traversata del mar Rosso. L’immagine del battesimo «in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare» (1 Cor 10,2) viene riprodotta all’infinito. Tra la figura del liberatore che colpisce le acque della liberazione con il bastone e quella del Salvatore che innalza lo scettro per resuscitare Lazzaro, moltiplicare i pani e trasformare l’acqua in vino si stabilisce un’analogia: «In quel caso Mosè è inviato da Dio in Egitto; qui invece il Cristo è inviato nel mondo dal Padre. Mosè deve condurre fuori dall’Egitto il popolo oppresso, il Cristo deve liberare coloro che soffrono nel mondo, schiacciati dal peccato»37. La rappresentazione della traversata del mar Rosso è ampiamente ispirata alle immagini delle battaglie imperiali. Il parallelo stabilito da Eusebio di Cesarea tra la morte di Massenzio nel Tevere e quella del faraone nel mare dei Giunchi trova una giustificazione artistica. La rappresentazione della vittoria di Ponte Milvio sull’arco di Costantino rimanda ai decori del miracolo del mare sui sarcofagi cristiani. Lo scontro dei due eserciti diventa una figura simbolo della lotta spirituale condotta «contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra» (Ef 6,12). La disfatta del tiranno e il suo inabissarsi nelle profondità del mare diventano i simboli della disfatta del demonio e della sua scomparsa nelle acque affrancatrici del battesimo. Le tre scene ispirate al libro di Daniele sono ripetute sistematicamente. Daniele si raccoglie nella pace in mezzo alle fiere; nell’Eden, l’uomo dominava «su tutte le bestie selvatiche» (Gn 1,26); Gesù, mandato nel
105. Abacuc e Daniele, bassorilievo. Brescia, Civici Musei d’Arte e Storia.
106. Daniele nella fossa dei leoni. Roma, ipogeo dei Giordani.
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109. I tre giovani nella fornace. Roma, catacombe della via Latina.
107. Daniele proclama l’innocenza di Susanna, bassorilievo di un sarcofago. Girona, chiesa di San Felice.
110-111. Giona vomitato dalla balena e Giona sotto la pianta di ricino. Roma, catacomba di via Anapo.
108. Susanna, agnello tra i lupi. Roma, catacombe di Pretestato.
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con Susanna. La giovane donna in preghiera è sempre spiata dai due vecchi, come la Chiesa immacolata assediata dagli ebrei e dai pagani. Il racconto biblico trova la sua trascrizione visiva su un sarcofago del presbiterio della chiesa di San Felice a Gerona. Seguendo lo stile della narrazione continua, la giovane è braccata nel giardino dai due vecchi, cattivi giudici, condotta in tribunale e giudicata davanti all’assemblea. L’azione prosegue con l’intervento di Daniele, l’assoluzione di Susanna e la condanna dei due vecchi. «Vedo la giovinezza due volte onorata – dichiara Asterio di Amasea – una volta giudice, una volta essendo giudicata. Vedo Daniele rallegrato dalle sentenze rese a Susanna premiata dalla vittoria della castità»39. All’immagine descrittiva del sepolcro corrisponde l’immagine simbolica delle catacombe di Pretestato, dove il nome di Susanna è inciso sopra un’agnella posta fra due lupi affrontati. Docile e invulnerabile, la pecora non teme alcun male: Dio è il suo pastore, che la rinchiude nei suoi prati e la «guida per il giusto cammino,/ per amore del suo nome» (Sal 23,3). Il simbolo di Giona appone il suo sigillo sull’insieme dell’arte paleocristiana. Il testimone ebraico viene recuperato e innalzato a soldato di Cristo. La traversata notturna nei visceri del pesce annuncia la discesa di Cristo agli inferi, il suo rigetto sulla riva indica la resurrezione vittoriosa di colui che «andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione» (1 Pt 3,19). Il parallelo è chiaramente stabilito dai Padri della Chiesa, come nel commento di Pier Crisologo: «Per mezzo dell’ostilità degli ebrei il Cristo fu immerso nelle tumultuose profondità dell’inferno; per tre giorni ne percorse tutti i recessi: quando resuscitò dimostrò sia la crudeltà dei Giudei, sia la sua maestà e il trionfo sulla morte»40. Il simbolo di Giona è accostato a quello di Ninive; il pentimento spettacolare dei suoi abitanti e la conversione della «città molto grande» (Gio 3,3) prefigurano «le nazioni che dovevano aderire alla fede e la regina del Sud, la Chiesa»41. L’iconografia stabilita conserva la sua struttura fondamentale e la dimensione cristologica del racconto non trova una traduzione figurativa. L’originalità della tecnica pittorica rende continuamente vive le scene statiche: il vascello è ora semplicemente una barchetta, ora un’imbarcazione a vela quadrata, il pesce grosso è un mostro fantastico dalle molteplici metamorfosi, l’albero di ricino cambia costantemente forma e varietà. La stessa immagine quindi appare diversa e varia; lungi dal trasformarsi in un segno grafico, si rinnova e rinasce sotto aspetti sistematicamente nuovi.
lo si vede con le fattezze di Apollo: il viso androgino, i capelli ondulati, il Verbo incarnato si presenta con un leggero sorriso sulle labbra, con i due rotoli in mano che sono i simboli dell’Antico e del Nuovo Testamento; il Buon Pastore continua a pascere il suo gregge e le sculture celebrano «un solo pastore» (Gv 10,16), colui che è venuto «perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Vestito alla maniera frigia, egli è il nuovo Orfeo che domina le fiere, i bestiami e gli insetti della terra. I simboli specificamente cristiani hanno sostituito le figure antiche, la pecorella ha preso il posto del Pastore; l’immagine rivela un «agnello senza difetti e senza macchia» (1 Pt 1,19). Nell’area cimiteriale di Commodilla è rappresentata con la zampa tesa a indicare con un gesto simbolico le sette ceste di pani. L’agnello del Libro della vita compie il miracolo della seconda moltiplicazione dei pani e annuncia velatamente l’istituzione dell’eucaristia. Il Redentore, pur continuando ad apparire in figure simboliche, si concretizza e si personifica. Sempre nella stessa area, appare il ritratto iconico del Cristo: Gesù, come i nazirei consacrati a Dio, presenta un viso squadrato e barbuto incorniciato da una lunga capigliatura. Il capo è cinto dall’aureola accostata a due lettere: il nembo cruciforme ricorda la croce redentrice e l’iscrizione «ω» evoca la dimensione cosmica di Colui che è «l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine» (Ap 22,13). La visione apofatica supera le speculazioni dogmatiche. Nessuno può concepire o immaginare come sia stata generata la seconda persona della Trinità. Come ricorda Gregorio di Nazianzo, «lo è stata nella maniera che conoscono il Padre che genera e il Figlio che è stato generato. Il resto è coperto da una nuvola e si sottrae agli sguardi fallaci»42. L’Annunciazione non è mai rappresentata; solo i resti deteriorati di un affresco nelle catacombe di Priscilla lasciano intuire l’incontro dell’arcangelo Gabriele e Maria; la Natività di Cristo è essenzialmente raffigurata dall’adorazione dei Magi. Su una lunetta del Cimitero Maggiore una giovane madre lussuosamente addobbata mostra le mani alzate in preghiera; due monogrammi costantiniani circondano il ritratto materno. L’immagine, funeraria o mariana, delinea un primo abbozzo dell’icona della Vergine che indica il cammino. Il Figlio è posto ieraticamente sul busto della madre. I due personaggi, rappresentati frontalmente, hanno lo sguardo fisso su chi guarda: «Tu l’hai mandato dal cielo in seno a una vergine. Nei suoi fianchi, Egli si è incarnato, si è manifestato come tuo figlio, nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine»43. Si delinea il mistero dell’Incarnazione; l’indescrivibile Verbo generato da Dio si fa uomo nascendo da Maria: «E il Verbo si fece carne/ e venne ad abitare in mezzo a noi;/ e noi vedemmo la sua gloria,/ gloria come di unigenito dal Padre,/ pieno di
Il Principio e la Fine Il ciclo evangelico viene sviluppato e amplificato ma le figure simboliche rimangono. La didattica cristiana attinge dall’estetica dell’Antichità, per cui il Messia continua a presentare i lineamenti dolci e giovanili degli dèi greci. Nella scultura del Museo delle Terme
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Tav. 39. La Vittoria eucaristica, mosaico pavimentale. Aquileia, aula teodoriana meridionale.
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Pagine seguenti Tav. 40. Giona gettato in mare. Ibidem.
Tav. 41. Giona è vomitato dalla balena e si riposa sulla riva. Ibidem.
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Tav. 42. L’ariete, la lotta del gallo con la tartaruga. Ibidem.
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Tav. 43. Animali e decorazione floreale. Ibidem.
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Tav. 44. Il Buon Pastore. Ibidem.
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Pagine seguenti Tav. 47. Cristo consegna le Chiavi a Pietro in presenza di Paolo. Ibidem. Tav. 48. Cristo consegna la Legge a Mosè. Ibidem.
Tav. 45. Cristo al centro del mosaico pavimentale dalla villa di Hinton St Mary. Londra, The British Museum.
Tav. 49. Particolare del volto del Cristo nella consegna delle Chiavi.
Tav. 46. Mosaico del soffitto, tralci di vite e vendemmia. Roma, Santa Costanza.
Tav. 50. Particolare dei volti di Mosè e di Cristo nella consegna della Legge.
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Tavv. 51-52. Due particolari della scena di caccia sul mosaico della volta del mausoleo di Costante. Centocelle, Tarragona.
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grazia e di verità» (Gv 1,14). Il battesimo dà inizio alla vita pubblica del Redentore. Nelle catacombe dei Santi Pietro e Marcellino la colomba dello Spirito Santo inonda un docile fanciullo di una pioggia di raggi; la pittura rivela la portata del battesimo, e l’Ecclesiaste parla di «un tempo per nascere e un tempo per morire» (Qo 3,2); la Chiesa proclama una nascita nella morte, come scrive Cirillo di Gerusalemme: «Per lui, al contrario, c’è un tempo per morire e un tempo per nascere: un solo istante ha operato l’uno e l’altro e la nascita ha coinciso con la morte»44. I miracoli si susseguono. Il Pedagogo maneggia «[...] la verga robusta,/ quello scettro magnifico» (Ger 48,17); il paralitico, il lebbroso e il cieco dalla nascita sono salvati dal tocco della grazia; l’emorroissa in ginocchio implora l’aiuto del Maestro. Sant’Ambrogio ricorda: «Chi tocca la vita, vivrà. Non è stata forse toccata la donna che toccò la sua frangia e fu liberata dalla morte grazie alla sua Parola?»45. La liberazione si rivela nella sua plenitudine con la resurrezione di Lazzaro. Nella rappresentazione il Salvatore indica col suo «scettro di ferro» (Sal 2,9) il sepolcro dell’amico di Betania; le spoglie mortali sono avvolte in un lenzuolo: l’atto viene fissato. Il morto, avvolto nelle bende, attende il richiamo alla vita: «Svegliati, o tu che dormi,/ destati dai morti/ e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14). Il Vangelo descrive il cammino del calvario, l’agonia e la messa in croce del Figlio dell’uomo. I Padri della Chiesa sviluppano una mistagogia della Passione in cui
Tav. 53. Il leone, particolare dalla scena di Daniele. Ibidem. 112. Il Buon Pastore. Atene, Museo bizantino.
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la kenosi viene rivelata in tutta la sua veridicità, come scrive Cipriano di Cartagine: «Nel momento stesso della passione e della crocifissione, prima che giunga la morte crudele e lo spargimento di sangue, quanti blasfemi ingiuriosi ha dovuto ascoltare pazientemente, quali affronti e quanto scherno ha sopportato!»46. Gesù viene dileggiato, oltraggiato, flagellato, incoronato con una corona di spine, gli vengono somministrati fiele e aceto. La sua morte è pienamente vissuta nella carne, come spiega Cirillo di Gerusalemme: «C’è stata una morte vera per Cristo, una reale separazione di anima e corpo, una vera inumazione; il suo santo corpo è stato avvolto in un sudario molto lindo e tutto questo è avvenuto davvero»47. La pittura si limita a presentare quel penoso supplizio, la croce nuda coronata dal trofeo della vittoria trasforma la scena della guardia del sepolcro in una anastasis [resurrezione]: «La morte è stata ingoiata per la vittoria» (1 Cor 15,54). Tutto viene reintegrato nella gloria della resurrezione; il primo nato tra i morti offre la sua pace ai discepoli. Sul sarcofago a San Lorenzo Fuori le Mura il Cristo e i Dodici apostoli formano un fregio di uomini raffigurati frontalmente come colonne; dodici pecore rappresentate ai piedi degli eletti si volgono verso il divino Pastore. Due giovani pastori accostati a due arbusti chiudono la scena dell’assemblea presieduta dal Principe: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21). I ritratti del gruppo consacrano la supremazia del Messia e nulla sta a rappresentare il Figlio di Dio
113. Cristo adolescente. Roma, Museo Nazionale delle Terme.
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114. Il Buon Pastore. Roma, Museo Pio Cristiano.
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«benedice» colui che lo rinnegherà tre volte. La pesca miracolosa prende forma su un rilievo conservato nel museo della basilica apostolica in catacumbas: seduto nella barca, Pietro tende con entrambe le mani la rete nelle acque del lago di Tiberiade. L’annuncio dell’epilogo di Giovanni si compie. Chiamato a pascere gli agnelli e le pecore del Cristo, il pescatore di Cafarnao assume a sua volta le sembianze del Buon Pastore: «Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,17-18). Il pastore degli apostoli e dei fedeli è chiamato alla morte per la gloria di Dio; il martirio è raccontato in tre scene: seduto con il volumen srotolato tra le mani, l’apostolo è spiato da due centurioni. Arrestato, viene trascinato via dai suoi carcerieri come un vile criminale. Il supplizio è evocato senza essere narrato: Pietro si presenta al cospetto del Signore portando la croce sulla spalla. La morte è ingoiata dalla vittoria; il martire, innalzato fino al trono del Figlio, riceve nella gloria la corona eterna.
nella sua realtà sovrumana, solo la disposizione dei personaggi suggerisce la preminenza del Signore della vita, e la rappresentazione fa «ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). La Testa corona il Corpo degli apostoli. La legge di Platone si evangelizza: «Né i montoni, né le altre bestie possono vivere senza pastore, e neppure i bambini senza Pedagogo»48. L’iconografia imperiale si cristianizza. Nel cimitero dei Santi Pietro e Marcellino 35 Gesù è posto in trono come un imperatore, tra Pietro e Paolo; sul registro inferiore, l’Agnello appare tra i santi Gorgone, Pietro, Marcellino e Tiburzio. Innalzato sulla roccia da cui sgorgano i quattro fiumi del Paradiso, simboleggia il sacrificio estremo del Verbo, e le mani dei santi sono alzate in un unico gesto a indicare il Re dei re: «L’Agnello che fu immolato/ è degno di ricevere potenza e ricchezza,/ sapienza e forza,/ onore, gloria e benedizione» (Ap 5,12). La missione apostolica è dominata dalle figure dei santi Pietro e Paolo. I volti dei due apostoli si personalizzano e ricevono tratti caratteristici: calvizie e lunga barba nera per Paolo, capelli con frangia e barba bianca corta per Pietro. La supremazia del Principe degli apostoli trova un’espressione iconografica; l’itinerario di creazione del primato romano si ricostituisce attraverso le immagini sparse degli affreschi e dei sarcofagi. Dalla guarigione dell’emorroissa alla resurrezione di Lazzaro, fino all’ingresso messianico a Gerusalemme, il discepolo accompagna il Maestro e partecipa alla sua gloria. La presentazione della moltiplicazione dei pani lo mostra accanto al Cristo, con il piatto con i due pesci fra le mani. In un frammento di decorazione scolpita nella catacomba di San Sebastiano, lo si vede mentre lascia la barca dei discepoli per venire verso Gesù: i piedi immersi nell’acqua, tende un braccio verso il Cristo implorando il suo aiuto. La predizione dei 37 rinnegamenti è accompagnata da un’investitura: Gesù
Nozze antiche Dall’arte funeraria si passa all’arte religiosa. La koiné si popola di chiese e di basiliche, poiché lo stato fornisce sostegno economico e appoggio alla Chiesa. Tuttavia, delle grandi costruzioni imperiali sono rimasti solo alcuni resti. Un gruppo molto esiguo di decorazioni musive fornisce alle immagini elaborate un aspetto nuovo: l’arte paleocristiana comincia a risplendere di luce propria. Il paradiso dei cimiteri sotterranei fiorisce nella luce delle basiliche; come per la pittura e la scultura, le pavimentazioni e i rivestimenti parietali
115. Il Cristo Orfeo. Roma, catacombe dei Santi Pietro e Marcellino. 116. Cristo agnello. Roma, catacombe di Commodilla. 117. Annunciazione, iiis. Roma, catacombe di Santa Priscilla. 118. Vergine in preghiera con il Bambino in busto. Roma, catacomba detta “Coemeterium Majus”. 119. Adorazione dei magi, particolare. Roma, catacombe di Domitilla. 121. Pietro cammina sulle acque, frammento di sarcofago. Roma, catacomba di San Sebastiano.
120. Battesimo di Gesù. Roma, catacombe dei Santi Pietro e Marcellino.
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122. Testa di san Pietro. Roma, catacomba di San Sebastiano.
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riappare sul mosaico delle corse dei carri di Barcellona. La costruzione di ville è conseguente all’espansione delle grandi proprietà rurali. Le regioni di Gerona, di Palencia e di Valdearados presentano pavimenti in cui le costruzioni geometriche e floreali sono abbinate a muse, ninfe, e stagioni. Il Mediterraneo orientale si dimostra inventivo e fecondo, le tendenze in voga in tutto l’impero si propagano e si integrano; le antiche città della Siria presentano opere religiose in cui la spiritualità del paganesimo in declino trova la sua espressione migliore. A Philippopolis, Orfeo appare ancora una volta in mezzo agli animali incantati; suonando le corde della lira, egli alza gli occhi verso l’infinito. Un’aquila e un grifone si affrontano sopra la sua testa: l’apoteosi e l’immortalità si oppongono al fato e alla morte. Un pavone, simbolo di vita eterna, prende posto dietro il musico. Nel momento in cui Eusebio di Cesarea accomuna l’incanto sereno del poeta-mago all’azione salvatrice del Verbo incarnato, Orfeo resta nell’ambito dell’élite ellenistica un modello vivente di conoscenza del divino. Le finezze dell’intelletto reinterpretano e modificano le immagini ereditate, le scene mitologiche si spiritualizzano, gli amori di Ares e di Afrodite sono privati delle caratteristiche erotiche tradizionali, l’unione di Arianna e Dioniso si trasforma in un matrimonio mistico che il significato occulto del mito moralizza e riabilita; la felicità del simposio è un’allegoria dell’estasi dell’anima e la beata ebbrezza si coniuga alla sapienza e all’immortalità.
utilizzati dai cristiani fanno parte della grande produzione dell’epoca. Il ramo cristiano fiorisce all’ombra di un’abbondante produzione profana diffusa nelle varie regioni entrate nell’orbita romana. Le opere musive romane del basso Impero, tributarie di una tradizione secolare, si diffondono in Oriente e in Occidente; i loro fasti si estendono dall’Italia all’Africa settentrionale, dalla penisola greco-balcanica alla Mesopotamia, dalla Germania alla Gallia, alla Bretagna e all’Iberia. Nell’Italia del nord, le pavimentazioni del Convento Dionisiaco di Aquileia attestano la vitalità pagana in un’epoca di epigoni; nel sud, un riferimento è costitui to da Piazza Armerina, in Sicilia. Opere di eccezionale varietà mostrano scene di caccia e di pesca, episodi mitologici, corse negli anfiteatri, raccolta di rose e vendemmie dionisiache. Opere similari abbondano anche in Africa; le officine delle province dimostrano l’appartenenza alla stessa scuola: soggetti religiosi e mitologici si ripetono, come l’altare di Apollo e Diana a Cartagine, il dio Oceano a Thuburbo Maius o la Venere di Ellès. L’amore delle lettere traspare con il Virgilio assistito dalle Muse di Hadrumetum. La fauna si moltiplica; gli animali preparati per i giochi nell’anfiteatro si sovrappongono su un’opera a Radez. Il movimento aumenta con le scene di caccia alle fiere di grossa taglia. L’auriga vincitore trionfa su un gruppo a Dougga: circondato da quattro cavalli, brandisce la palma e la corona della vittoria. I cortei marini si popolano di ogni sorta di pesci. Su un mosaico di Hadrumetum, amorini appollaiati su pesci si lanciano in una corsa nautica; alati e ingioiellati, i concorrenti incitano gli animali con le briglie. Il fantastico avanza, mentre la verosimiglianza e il naturalismo retrocedono. La fantasia crea e modella gli spazi di immagini e simboli. Le opere iberiche prolungano lo spettacolo: nella provincia di Palencia, il dio Oceano è presentato in compagnia di due nereidi che cavalcano mostri marini in mezzo a un’immensa fauna marina. La decorazione del Circo Massimo romano
La Vera Vigna I mosaicisti cristiani si presentano come continuatori fedeli dei loro predecessori politeisti. Nella necropoli precostantiniana sotto la basilica di San Pietro, nel mausoleo dei Giulii, Gesù risplende come il Dio Sole in mezzo ai racemi di vite. Nelle catacombe di Domi-
tilla una composizione tripartita della metà del iv secolo riunisce il Cristo, posto tra Pietro e Paolo, la resurrezione di Lazzaro e i tre giovani ebrei nella fornace. I tasselli variopinti di pasta di vetro danno colore alle opere e conferiscono l’effetto tipico della tecnica musiva; i primi decori delle grandi costruzioni dell’epoca di Costantino restano un mistero. Il mausoleo di Santa Costanza, destinato ad accogliere i corpi della figlia di Costantino e della sorella Elena, è ornato da un mosaico in cui gli elementi paleocristiani appaiono integrati nelle forme tradizionali dell’arte pagana. I rivestimenti della cupola sono andati perduti. Alcuni disegni del xvi secolo permettono di ricostituire i mosaici staccati nel 1620. Il decoro, suddiviso in dodici registri, rappresentava una composizione modulata da cariatidi-candelabri e da viticci di acanto; le immagini cristiane, rappresentate in scala ridotta, si integrano ai riquadri e ai cartigli; le scene bibliche prendono posto sopra un idillio sul Nilo. Accanto agli amori intenti alla pesca si riconoscono Tobia che porta il pesce, Rakhab che riceve gli spioni a Gerico, Susanna assolta, Caino e Abele, Abramo che offre Isacco in sacrificio e Gesù consegnato ai Giudei. Sulla volta del deambulatorio volatili, rami carichi di foglie, di frutti, cesti e cornucopie, vasi e uccelli sono rappresentati su fondo bianco. La vendemmia e il ritorno dalla mietitura sono narrati in uno spazio intessuto di fusti rampicanti. La consueta decorazione del suolo è trasposta in una monumentale pavimentazione, in cui gli amorini si dedicano al loro compito: «Racimolate, racimolate come una vigna» (Ger 6,9); la festa bacchica evoca la Vera 46 Vigna, quella in cui i vendemmiatori sono gli angeli, il torchio la Chiesa, e il vino la forza dello Spirito. La vigna riempie lo spazio dei suoi tralci liberi, come recita il salmo: «Hai divelto una vite dall’Egitto,/ per trapiantarla hai espulso i popoli./ Le hai preparato il terreno,/ hai affondato le sue radici e ha riempito la terra» (Sal 80,9-10). Il trionfo vegetale fa da cornice al ritratto di
una figura femminile, un ritratto idealizzato della defunta: «... mi hanno messo a guardia delle vigne», dice la sposa del Cantico (Ct 1,6). Il volto umano si apre sull’aldilà, gli occhi immensi fissano l’infinito, l’anima gode della «sobria ebbrezza», «quella che procura agli uomini l’estasi che li fa passare dalla realtà materiale ad altre, più divine»49. La pittura è delimitata da due superfici di medaglioni intrecciati in cui sono raffigurati amorini, personaggi, animali e decori a forma di fiore. L’ornato ecclesiale non differisce affatto dall’ornato romano convenzionale, l’iconografia cristiana è concentrata su due absidiole. Sulla prima si vede un mosaico della consueta scena della Traditio Legis: il Cristo, circondato da due apostoli maggiori, si erge sul monte del paradiso; giovanile e imberbe, rimette a Pietro il rotolo aperto della nuova legge: «Io l’ho costituito mio sovrano/ sul Sion mio santo monte» (Sal 2,6). Quattro pecore compaiono ai piedi del Signore, simboli dei quattro evangelisti, che assistono alla consacrazione del Principe degli apostoli. La seconda immagine si rivela più complessa: Cristo, maturo e con la barba, regna sul globo terrestre in mezzo alle palme celesti; accanto a lui, un giovane uomo avanza per ricevere nelle sue mani coperte il dono divino: «Chi salirà il monte del Signore,/ chi starà nel suo luogo santo?/ Chi ha mani innocenti e cuore puro,/ chi non pronunzia menzogna,/ chi non giura a danno del suo prossimo» (Sal 24,3-4). L’assenza di una qualunque iscrizione lascia il campo aperto a.ogni tipo di interpretazione. Il Signore è visto come Padre dagli uni e come Figlio dagli altri; parimenti, nel Servitore viene ora identificato Mosè, ora Pietro: «Le due leggi – insegna Clemente Alessandrino – servivano al Verbo per la pedagogia dell’umanità, una grazie a Mosè, l’altra grazie agli apostoli»50. Antico e Nuovo si uniscono, l’Eterno regna solo, «Pedagogo, Padre, Guida d’Israele, Figlio e Padre, uno e due al contempo, il Signore!»51.
123. Pietro pastore, frammento di sarcofago. Roma, catacombe di San Callisto. 124. Traditio legis, frammento di sarcofago. Roma, catacomba di San Sebastiano.
(a fronte) 125. Virgilio e le muse, mosaico da Hadrumetum (oggi Sousse). Tunisi, Museo del Bardo. 126. Auriga vincitore, mosaico da Thugga (oggi Dougga). Tunisi, Museo del Bardo.
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Il mausoleo di Santa Costanza ha un corrispettivo in Iberia, nella regione di Tarragona. Destinato ad accogliere il sepolcro di Costante i, il figlio cadetto di Costantino, il mausoleo di Centocelle (Centcelles) mostra una decorazione composita in cui immagini profane sono accostate a figure bibliche. La cupola è coperta da una volta anulare divisa in tre corone delimitate da zone decorative; sul registro inferiore un ciclo dedicato a scene di caccia presenta in successione la partenza dell’equipaggio con le mute e i muli carichi di reti, l’installazione delle reti, dei cervidi braccati dai cacciatori, infine il battitore che riporta alla villa il mulo carico di selvaggina. Un ritratto di gruppo riunisce i nobili attorno al «maestro di caccia». Il volto di pieno prospetto, ritratto del defunto o generico, si impone per forza e gravità. Il tempo si ferma, il movimento dei cavalieri al galoppo viene fissato per sempre. La caccia terrena si trasforma in caccia eterna e le figure bibliche occupano il secondo registro. Una successione di colonne fa da cornice alle scene di liberazione: sui pochi frammenti rimasti si intravedono il ciclo di Giona,
Daniele nella fossa dei leoni, i tre ebrei nella fornace e l’arca di Noè. I resti del terzo registro mostrano due geni, personificazioni dell’autunno e della primavera. Dal profano al cristiano, fino all’allegorico, le tre corone tramezzano un cerchio zenitale il cui decoro rimane sconosciuto. Ritratti funebri, amori dionisiaci, cacce e corse, profusione animale ed esuberanza vegetale: i soggetti biblici penetrano e popolano la decorazione romana. L’ottica cristiana adotta i vari concetti classici aggiungendovi il proprio sentire. Le pavimentazioni delle ville cristiane presentano le stesse caratteristiche. Le pavimentazioni di due sale rinvenute a Hinton St. Mary, nel Dorset, in Inghilterra, presentano entrambe uno schema con medaglione centrale che racchiude il ritratto di Cristo. Rappresentato con i tratti convenzionali di un giovane efebo, il Salvatore è cinto dal nimbo col suo monogramma dell’epoca costantiniana. Attorno al medaglione ci sono quattro lunette con scene di caccia e motivi vegetali. Agli angoli, in quattro quarti di cerchio sono rappresentate quattro figure maschili, personificazioni dei venti o ritratti simbolici dei quattro evangelisti. Curiosamente, il prolungamento del pavimento nella saletta adiacente presenta un decoro similare, incentrato sulla figura di Bellerofonte che cavalca Pegaso. A immagine di Cristo, il vincitore della chimera è posto in un medaglione bordato da due scene di caccia identiche a quelle della sala principale. L’eroe corinzio diventa l’incarnazione della devozione e dell’abnegazione; le sue imprese sono legate alla virtù e la vittoria è quella del bene sul male. La figura mitica, privata del contenuto pagano, si trasforma in allegoria cristiana ed è accostata all’immagine del Cristo vivente.
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La dimora di Dio Le decorazioni delle basiliche imitano quelle dei mausolei e delle abitazioni. Nel Veneto, nella cattedrale del vescovo Teodoro d’Aquileia, è custodita la più grande opera dell’antichità cristiana giunta fino a noi. La datazione è fornita dall’iscrizione relativa alla consacrazione: «Beato Teodoro, con l’aiuto di Dio Onnipotente e del gregge inviatovi dall’alto, avete compiuto ogni cosa con letizia e fatto una dedicazione gloriosa». L’episcopato del vescovo è collocato fra il 314 e il 320, di conseguenza l’edificio sarebbe una costruzione imperiale eretta poco dopo la proclamazione dell’editto di Milano. Sulla composizione decorativa i motivi geometrici appaiono in secondo piano rispetto agli elementi figurativi; sulla superficie dell’aula nord, i motivi vegetali e animali sono integrati al susseguirsi di elementi quadrilobati e ottagonali. La prospettiva spaziale si apre su un mondo copioso animato di animali vari, pesci e uccelli. Le figure mitiche si mescolano al bestiario terrestre, Pegaso vola con le sue ali di cigno tra pernici, merli e pappagalli. L’immaginazione degli artigiani non ha esitazioni nel mostrare una capra appollaiata su un
129. Cristo e Bellerofonte, mosaico pavimentale da Hinton St. Mary. Londra, The British Museum. (a fronte) 127. Il ciclo figurativo della cupola di Santa Costanza, Roma. Ricostituzione sulla base dei disegni del xv secolo. 128. Il ciclo figurativo della cupola del mausoleo di Costante a Centocelle (Centcelles).
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albero o una razza che cavalca un’aragosta; ancor oggi, gli esegeti continuano a tentare di decifrare il senso nascosto di queste immagini insolite. Dietro lo scontro di un gallo e una tartaruga si profila la lotta di Luce e Tenebre, le pecore rappresenterebbero i fedeli e gli arieti i superiori che guidano il gregge. La lepre che bruca l’uva rimanda alle vigne bacchiche trasformate nella Vigna vera; metafore animali o semplicemente figure fantastiche, le bestie d’aria, di terra e d’acqua si muovono in uno spazio ultraterreno. La dimora di Dio trascende il razionalismo umano; la sapienza dei saggi è demolita e la mente degli intelligenti è annientata. L’ambiente divino, liberato dai limiti della ragione, si dimostra metalogico; un cielo nuovo e una terra nuova prendono il posto del cielo e della terra precedenti. È tutto un brulichio: «Le acque brulichino di esseri viventi» (Gn 1,20); «Niente là è sterile, i frutti traboccano»52. Le rappresentazioni umane appaiono nell’aula sud. Un grande corteo marino occupa la parte superiore, dove probabilmente erano collocati la cattedra episcopale e i banchi del clero: «Il Signore tuona sulle acque,/ il Dio della gloria scatena il tuono,/ il Signore, sull’immensità delle acque» (Sal 29,3). Il mare pescoso, attraversato da putti pescatori, appare molto simile alle opere africane dell’epoca; la nave di Giona compare tra le barche degli amorini, il drago marino si alza a divorare il fuggitivo: «Ecco sorgere un mostro dagli abissi – spiega Pier Crisologo – un pesce grande si avvicina, che deve pienamente compiere e manifestare la resurrezione del Signore, o piuttosto concepire e generare il mistero; un mostro, immagine terrificante dell’inferno crudele che, quando la sua gola avida lo spinge a gettarsi sul profeta, gusta e assimila il vigore del suo creatore, e divorandolo si vota di fatto al digiuno assoluto. Il temibile soggiorno nei suoi visceri prepara la dimora dell’ospite dall’alto: cosicché ciò che era stata la causa stessa della sventura diventa l’incredibile imbarcazione per la necessaria traversata, conservando il passeggero ed espellendolo dopo tre giorni sulla riva; in tal modo veniva dato ai pagani ciò che era stato strappato agli israeliti. E quando costoro chiesero un segno, il Signore giudicò che il segno sarebbe stato dato loro, e per mezzo di esso avrebbero compreso che la gloria che avevano sperato di ricevere dal Cristo doveva essere interamente conferita ai pagani»53. Le immagini del ciclo si susseguono: il mostro ricompare per rigettare la sua preda. Giona, una volta salvo, sonnecchia come Endimione all’ombra di una cucurbita, galleggiando sull’acqua. La decorazione prosegue con grandi pannelli a volumi geometrici animati. Sull’ubicazione dell’altare mobile originario, una Vittoria brandisce la palma e la corona; ai suoi piedi, una cesta di pani e una coppa di vino rappresentano gli elementi dell’eucaristia. Come in una processione di offerta, i personaggi avanzano verso l’altare portando pane, grappoli d’uva e ghirlande di fiori: «Ricevi dunque l’azione di grazie del popolo – dice l’Eucologio di Serapione – benedici coloro che hanno portato
le oblazioni e le eucaristie, concedi la salute, l’integrità, la gioia e tutti i progressi dell’anima e del corpo a tutto il popolo, per mezzo del tuo unico Figlio, Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Com’era, è e sarà, in ogni tempo, nei secoli dei secoli»54. Dalla parte opposta del pannello eucaristico, nella parte centrale del pavimento, le figure ritratte si integrano in un insieme di medaglioni, ottagoni e quadrati. I volti degli «offerenti» sono uniti alle personificazioni delle stagioni. Un’ipotetica interpretazione vi riconosce i membri della famiglia imperiale presieduti da Costantino nel medaglione centrale. L’Impero gode la felicità attraverso il tempo e oltre i cambiamenti; sul pannello accanto, lungo l’asse trasversale dell’edificio, il Buon Pastore appare con il mantello e il piffero in mano. L’immagine non è unica ad Aquileia, ma si ripete sul pannello di un oratorio privato in cui il Pastore, assistito dai quattro volti delle stagioni, mostra il secchio di latte in un medaglione incorniciato da tralci e volatili. Nel mosaico, rimaneggiato in epoca successiva, il pastore indossa un «abito singolare»; al contrario dei pastori greco-romani, l’Hermes cristiano indossa una lussuosa tunica bianca sotto un lungo mantello porpora chiuso su una spalla. Gli attributi sono uniti: il Buon Pastore ha assunto la gloria imperiale, «poiché per mezzo di lui/ sono state create tutte le cose [...] Troni, Dominazioni, Principati e Potestà» (Col 1,16). Colui che viene a donare la vita per le sue pecore è innalzato a maestro assoluto: «Per questo Dio l’ha esaltato/ e gli ha dato il nome/ che è al di sopra di ogni altro nome;/ perché nel nome di Gesù/ ogni ginocchio si pieghi/ nei cieli, sulla terra e sotto terra;/ e ogni lingua proclami/ che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre».
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Tesori celesti Dai grandi edifici religiosi ai semplici oggetti d’uso comune la gamma cristiana impone i suoi segni e simboli. Lampade, vasi, coppe e bicchieri sono contraddistinti dal sigillo della fede. Al crisma e alla croce si aggiungono le figure emblematiche dell’arte paleocristiana: su due lampade in bronzo custodite nel Museo Archeologico di Firenze si coglie la metamorfosi cristiana delle lampade antiche; sulla prima l’ansa di presa è modellata come una corona del trionfo; all’interno, Mosè-Pietro colpisce col suo bastone la roccia di Dio davanti a un fedele inginocchiato per bere. La seconda ha assunto la forma di una barca a vela su cui Pietro è la prua e Paolo la poppa; la croce e le figure bibliche compaiono su oggetti in ceramica, avorio e metallo. I motivi dei fondi d’oro costituiscono un inventario iconografico stabilito. L’immagine si riduce a un semplice disegno inciso su foglia d’oro racchiusa tra due lastre di vetro, senza traccia di rilievo; il segno grafico, privato di ombre e sfumature, definisce i fondamenti formali dei modelli stabiliti. Il cromatismo è ridotto a un unico colore e le figure dorate risaltano sul fondo monocromatico. 140
Tav. 54. Bassorilievo con i santi Pietro e Paolo. Aquileia, Museo Paleocristiano.
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Tav. 55. Lato destro della lipsanoteca: medaglioni con gli apostoli, vocazione di Mosè, giovani nella fornace, guarigione del cieco, resurrezione di Lazzaro, ciclo di Giacobbe. Brescia, Civici Musei d’Arte e di Storia.
(a fronte) Tav. 58. Lato anteriore della lipsanoteca: medaglioni con Cristo e gli apostoli, Giona inghiottito e vomitato dalla balena, la guarizione dell’emorroissa, Cristo si rivela ai dottori e difende il suo gregge. Ibidem.
Tav. 56. Lato sinistro della lipsanoteca: medaglioni con gli apostoli, combattimento di Davide, resurrezione della figlia di Giairo, adorazione del vitello d’oro. Ibidem.
Tav. 59. Lato posteriore della lipsanoteca: Susanna in preghiera, Giona in riposo, Daniele uccide il serpente venerato dai babilonesi, trasfigurazione, castigo di Anania e Saffira, morte di Giuda, ciclo di Mosè. Ibidem.
Tav. 57. Coperchio della lipsanoteca: arresto di Gesù, predizione del rinnegamento di Pietro, giudizio di Cristo. Ibidem.
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Tav. 60-61. Dittico di Pietro e Paolo. CittĂ del Vaticano, Biblioteca Apostolica, Museo sacro.
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130. Mosaici pavimentali dell’aula nord e dell’aula sud della chiesa del vescovo Teodoro. Aquileia.
Tav. 62. Tarsia con il volto di Cristo. Museo di Ostia antica.
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I toni verdi e rossi si sposano alla luminosità dell’oro senza mescolarvisi; le iscrizioni incorniciano i personaggi e li identificano: «Vivi, anima diletta, Mara». L’anima in pace appare tra due arbusti, segno del suo riposare in paradiso; le figure dorate di profeti, apostoli, santi e fedeli, riposano in uno spazio di luce in cui la terra non esiste più: «La nostra patria è il paradiso» afferma Cipriano di Cartagine, «che profonda e perpetua felicità vivere nell’eternità! Là si trovano il coro glorioso degli Apostoli, la folla animata dei Profeti, l’armata incalcolabile dei martiri coronati dal successo contro il nemico e la sofferenza, che godono colà il loro trionfo. Là risplendono le vergini, che hanno soggiogato a prezzo di lodevoli fatiche la concupiscenza della carne. Infine, là sono ricompensati gli uomini che diedero prova di pietà, che compirono innumerevoli atti di carità provvedendo ai bisogni dei poveri e che, fedeli ai precetti del Signore, giunsero a elevarsi dai beni terreni ai tesori celesti»55. I martiri sono coronati nello «spazio di luce» e le immagini delle catacombe mostrano raramente il supplizio dei fedeli. Un frammento murale della catacomba di Calepodio presenta il supplizio di san Callisto. Un affresco che decora la Confessione sotterranea della basilica dei Santi Giovanni e Paolo mostra la decapitazione di tre santi anonimi. Una colonnetta nelle catacombe di Domitilla rappresenta a rilievo il martirio di Achilleo: un soldato si appresta a decapitare il testimone di Cristo. Tra boia e martire è eretta una croce sormontata da una corona trionfale: «la persecuzione è il tempo della lotta; è nella pace che la coscienza viene coronata»56. Non vi è nulla di patetico, l’angoscia, i tormenti e il dolore sono spariti; il martire affronta la
morte nell’impassibilità: «Se la terra si ferma in tempo di persecuzione, il cielo si apre; l’anticristo minaccia, ma il Cristo è là a proteggere; giunge la morte, ma segue l’immortalità per chi viene messo a morte; il mondo fugge, ma il paradiso si presenta per chi ritrova la vita; quella del tempo si spegne, ma la vita dell’eternità la sostituisce»57. La glorificazione dei soldati di Dio si cristallizza sui bicchieri d’oro: «la morte dei peccatori è funesta» (secondo il salmista), quella dei santi è una preziosa entrata nella vita immortale. Pietro «giunse al luogo di gloria che l’attendeva»58. Paolo, «modello supremo di coraggio»59, siede come un araldo nella dimora del Padre; Sisto e Timoteo ricevono «la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano» (Gc 1,12). I santi trionfano e dimorano nella suprema beatitudine. Incorruttibili, risplendono della Vita più forte della morte; «Bevi e vivrai» recita l’iscrizione incisa sulle immagini delle coppe. I ritratti cristiani dei medaglioni di vetro seguono fedelmente i canoni classici. L’imago clipeata del museo di Brescia presenta un ritratto di famiglia che si suppone di Galla Placidia e dei suoi figli, Valentania e Onoria. Il vetro dipinto rende minuziosamente la carnagione e il modellato dei busti; le particolarità individuali sono idealizzate, gli occhi dei personaggi fissano colui che guarda con un unico sguardo grave, tenero e profondo; il disegno delle labbra esprime la parola del silenzio; i volti, sobri e chiari, si spiritualizzano. La pittura, un tondo in miniatura, rientra nella grande tradizione pittorica della tarda antichità. L’evoluzione cristiana traspare su un dittico notevolissimo 60-61 custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Due
131. La barca della chiesa condotta da Pietro e Paolo, lampada ad olio. Firenze, Museo Archeologico.
132. Mosè colpisce la roccia, lampada ad olio. Firenze, Museo Archeologico.
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tavolette di legno dipinto mostrano i busti di Pietro e di Paolo. Le due ante pare costituissero il decoro interno di un piccolo reliquario, tuttavia la ristrettezza dello spazio formato dalle due tavole chiuse esclude questa funzione; l’opera, destinata ad accogliere soltanto le immagini dei due santi, si presenta come un reliquario «in sé». Il tradizionale dittico consolare si trasforma in icona portatile; seguendo la bella espressione di san Basilio Magno, «l’onore reso all’immagine passa al modello». Per questa pittura particolare sono state ipotizzate varie datazioni; lo studio di Cecchelli, basato sia su elementi materiali, sia su elementi iconografici, ha permesso di datare l’opera all’epoca di Costantino. Il dipinto è eseguito secondo l’antica tecnica dell’encausto, con colori diluiti nella cera fusa. L’oro illumina il fondo della sua luce e conferisce ai due volti uno splendore ultraterreno e le fisionomie dei due protagonisti sono conformi ai modelli stabiliti. La pittura traspone sul legno impregnato le figure consuete delle pareti delle catacombe e i volti riflettono una trascendenza interiore. L’immagine, dal funerario al religioso,
porta alla somiglianza divina; la santità si manifesta attraverso una presenza figurata, si svela nell’immagine e per mezzo di essa, e comunica con colui che la contempla e la venera. A metà strada tra antico e nuovo, la produzione cristiana del iv secolo si annuncia come epilogo e nuovo inizio; tributaria di una tradizione ancora viva, ricorre abbondantemente alle figure e alle decorazioni stabilite; portatrice della «buona novella», è il preludio a una nuova espressione originale. Le numerose tecniche rientrano e fanno parte della stessa ricerca e le arti minori fanno eco alle arti monumentali. Il reliquario di Brescia, capolavoro dell’arte cristiana classica, vede 55-59 riunite sui suoi lati le figure dell’arte funeraria. Il programma decorativo si svolge su quattro registri localizzati sui quattro lati del cofanetto: sul primo si vede una catena di medaglioni con il Cristo e gli apostoli; sul secondo e sul quarto sono presentate immagini veterotestamentarie. All’iconografia diffusa si aggiunge un gran numero di scene rare e inedite: Giacobbe, che compare due volte, saluta Rachele davanti al pozzo e lotta con il
133-136. Il sacrificio d’Abramo, La moltiplicazione dei pani, Pietro e Paolo, Sisto ii e Timoteo incoronati da Cristo, vetri incisi e dorati. Città del Vaticano, Museo sacro.
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messaggero di Dio; la vocazione di Mosè è preceduta da due avvenimenti: il bambino salvato dalle acque cresce e uccide l’egiziano prima di fuggire lontano dal Faraone. L’immaginazione cristiana non esita a rappresentare l’adorazione del vitello d’oro: gli israeliti festeggiano davanti all’altare costruito per la statua in metallo fuso; il popolo eletto tradisce la promessa divina e soccombe all’idolatria: «Mosè ha ricevuto l’Alleanza, ma il popolo non ne è stato degno»60, si afferma nell’Epistola di Barnaba. L’azione profetica prosegue, i Re sono rappresentati per mezzo della lotta di Davide e Golia e il castigo di Geroboamo. Il libro di Daniele fornisce un’immagine supplementare: il profeta, testimone del Dio vivente, uccide «senza spada e senza bastone» (Dn 14,25) il serpente venerato dai babilonesi; Dio parla attraverso i profeti e si rivela per mezzo del Figlio. I grandi atti della nuova alleanza prendono forma sul registro mediano, la gamma dell’arte cristiana si rinnova e si sviluppa. Sul lato anteriore, il Cristo guarisce l’emorroissa, si rivela ai dottori e difende il suo ovile cacciando il mercenario.
Sui lati destro e sinistro, guarisce il cieco dalla nascita e fa resuscitare Lazzaro e la figlia di Giairo; sulla parte posteriore ci sono tre scene inedite: il Cristo, trasfigurato, regna in mezzo a Elia e Mosè su una nube; accanto a lui si vede Pietro, seduto, che procede nel castigo di Anania e Saffira; il “campo del sangue” (Mt 27,8) chiude la scena: Giuda, il traditore, è appeso a un albero ed è posto di fronte alla coppia maledetta. Il coperchio è dedicato al ciclo della Passione. La scena, suddivisa in due parti, unisce sulla parte superiore l’arresto di Gesù da parte di un gruppo di uomini armati e la predizione dei rinnegamenti di Pietro. L’azione prosegue sul lato inferiore: sempre a narrazione continua, il Cristo appare condotto davanti al Sinedrio e quindi portato al cospetto del governatore. Come sui sarcofagi, la decorazione figurata omette di rappresentare la crocifissione e la morte del Salvatore. L’immagine si chiude su Pilato che prende l’acqua per lavarsi le mani, secondo le parole del Vangelo: «Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!» (Mt 27,24).
137. Giona gettato in mare, vetro inciso e dorato. Parigi, Louvre.
139. Eusebio, vetro dipinto. Città del Vaticano, Biblioteca.
138. Giona sotto il ricino, vetro inciso e dipinto. Città del Vaticano, Biblioteca.
140. Ritratto di famiglia, vetro dipinto. Brescia, Musei Civici d’Arte e di Storia.
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la Legge; gli avvenimenti del Vangelo proseguono con quelli degli Atti. La glorificazione del Figlio è inseparabile da quella degli apostoli: «E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,22-23). Su una tarsia di marmo e vetri colorati di Ostia, il busto di Gesù domina da solo uno spazio inquadrato da una composizione ornamentale; l’azione sparisce davanti allo splendore della contemplazione. Il pastore greco dai capelli inanellati si allontana e il Figlio dell’Uomo assume l’aspetto di un uomo maturo con la barba e i capelli lunghi. Rappresentato frontalmente, abbozza con le dita il gesto della benedizione e la sua mano è rivolta verso chi guarda; il palmo in avanti si apre ed accoglie, il viso fissa con lo sguardo chi viene a lui. Tra l’immagine e lo spettatore si stabilisce una segreta comunione: gli occhi del Cristo guardano fisso negli occhi il fedele che si vede osservato. Il ritratto iconico del Cristo Pantocratore è delineato; la rappresentazione passa dall’immagine alla rassomiglianza divina: la pseudomorfosi sfocia in una metamorfosi. L’epilogo della tradizione antica al volgere del iv secolo si apre su un nuovo inizio; il cristianesimo viene consacrato religione unica, il centro dell’Impero si sposta verso Costantinopoli, nuova capitale del mondo romano. L’Occidente è distrutto dalle invasioni barbariche e le dispute cristologiche lacerano la compattezza della cristianità. Imperturbabile, la creazione cristiana prosegue lungo il suo cammino. L’Asia, la Siria, l’Egitto e l’Africa partecipano attivamente alla sua edificazione. L’arte della Chiesa fiorisce nell’universo eurasiatico, un mondo intermedio, che va da Oriente a Occidente. Le varie tendenze stilistiche si fondono, il linguaggio pittorico interpreta e mescola i diversi prestiti artistici: la religione lo trasfigura, lo depura e lo rafforza. Le profonde intuizioni dell’epoca costantiniana hanno un buon esito: l’iconografia, eminentemente cristiana, magnifica «la gloria del Signore e la sua bellezza, l’opera delle sue mani e il lavoro delle sue dita, la moltiplicazione della sua misericordia e l’affermazione del suo Verbo»64.
L’affermazione del Verbo L’avorio, decorato con ricercatezza, riprende le formule iconografiche stabilite conferendo loro una nuova espressione. Le pitture delle catacombe optano per programmi liberi e flessibili. Gli esegeti leggono l’Antico Testamento alla luce del Cristo e confessano l’unità della Bibbia in Cristo; Ireneo di Lione dichiara: «Da parte nostra, esporremo la ragione della differenza tra i Testamenti e al contempo l’unità e l’armonia»61. Insensibili a questa «differenza», le pitture cristiane si rifanno unicamente all’armoniosa «unità». Il significato apparente e il significato nascosto si confondono: il mistero dei testi conserva la sua forza intuitiva. Come osserva Origene: «Ciascuno comprende come può ciò che è scritto: uno ne coglie il senso in maniera superficiale, come da una fonte che scaturisce a livello del suolo, un altro lo estrae più in profondità, come se attingesse a un pozzo. E l’uno e l’altro possono trarne profitto, perché si tratta della stessa cosa che per l’uno è la fonte, per l’altro un pozzo»62. Pur mescolando senza distinzione le scene dei due Testamenti, le decorazioni dei sarcofagi tendono a sottolineare la supremazia del Cristo. Il Verbo di Dio riunisce attorno a lui i profeti e i santi e si impone come la “pietra angolare” della storia santa, il Capo che corona le membra del corpo. Il reliquario di Brescia apre la via a un ordine nuovo; il susseguirsi degli avvenimenti continua a sfidare ogni ordine cronologico; tuttavia, a differenza dei programmi diffusi, la ripartizione delle scene dei due Testamenti pone ampiamente il Nuovo in posizione dominante rispetto all’Antico: le immagini veterotestamentarie sono come due fini fregi decorativi che incorniciano la parte neotestamentaria. L’alleanza passa al popolo di Cristo: «Mosè l’ha ricevuta da servitore, ma il Signore l’ha donata a noi come al popolo erede, dopo aver sofferto per noi»63. L’ordinamento delle scene mette in risalto la supremazia del Cristo: «... costituisce il Figlio che è stato reso perfetto in eterno» (Eb 7,27), «... abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo» (Eb 10,8). Il Verbo è l’inizio, il centro e la fine della storia evocata e narrata in immagini; la Grazia domina
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Note 1 Eusebio di Cesarea, La preparazione evangelica, vii, 2, «Sources chrétiennes» n. 215, p. 147. 2 Ibid., xi, 4, n. 292, p. 59. 3 Giustino, ii Apologia 13, in La philosophie passe au Christ, icthus, Paris 1982, p. 112. 4 Gregorio di Nissa, Vita di Mosè, ii, 11, «Sources chrétiennes» n. 1, p. 34. 5 Ibid., ii, 37, p. 41. 6 Gerolamo, Lettera 22 a Eustachio, in Les Pères de l’Eglise, Paris 1977, p. 247 (trad. it. I Padri della Chiesa, Roma 1984). 7 Giovanni Cassiano, Conferenze, 14, 12, «Sources chrétiennes» n. 54, p. 199. 8 P.G. C 757, trad. franc. in E. Sendler, L’icône, Image de l’invisible, Paris 1981, p. 23. 9 Ibidem. 10 P.G. 31 C 488-489 trad. franc. in B. Bobrinskoy, Bref aperçu de la Querelle des Images, «Contacts», n. 32, 1960, p. 228. 11 Basilio di Cesarea, Trattato dello Spirito Santo, xviii, 45, «Sources chrétiennes» n. 17 bis, p. 407. 12 Sant’Ambrogio, La morte è un bene, 19, in Le Chrétien devant la mort, Paris 1980, p. 54. 13 Sant’Ambrogio, Trattato dei misteri, 56, in L’initiation chrétienne, icthus, Paris 1980, pp. 83-84. 14 Sant’Ambrogio, La morte è un bene, cit., pp. 54-55. 15 Sant’Ambrogio, iii, 3, «Sources chrétiennes» n. 25 bis, p. 93. 16 Sant’Ambrogio, La morte è un bene, 55, cit., p. 81. 17 Tertulliano, Sulla pazienza, 15, 4, «Sources chrétiennes» n. 310, p. 111. 18 Cipriano di Cartagine, Sulla morte, 24, in Le Chrétien devant la mort, Paris 1980, p. 35. 19 Cipriano di Cartagine, A Demetrianus, 25, in Saint Cyprien, Namur 1958, p. 138. 20 H.-I. Marrou, Décadence romaine ou antiquité tardive?, Paris 1977, pp. 53-54 (trad. it. Decadenza romana o tarda antichità?, Milano 19972). 21 Clemente Romano, i Corinzi, 42, 1, in Les Pères Apostoliques, Paris 1980, p. 70; 22 Ibid., p. 44. 23 Ireneo di Lione, Contro le eresie, ii, 28, 3, Paris 1991, p. 237 (trad. it. Contro le eresie e altri scritti, Milano 19972). 24 S. Ambrogio, «Commento al Salmo i», in G. Peters, Lire Les Pères de l’Eglise, p. 647. 25 Cipriano di Cartagine, A Demetrianus, 25, cit., p. 138. 26 Sant’Ambrogio, La morte è un bene, 34, cit., p. 66. 27 Tertulliano, Sulla resurrezione dei morti, 54, 5, trad. it. in Opere scelte, Torino 1984, p. 881. 28 Ippolito Romano, La tradizione apostolica, Messa, in L’initiation chrétienne, icthus, Paris 1980, p. 28. 29 Ibid., 1980, p. 27.
30 Cipriano di Cartagine, Opere pie e elemosina, i, in Saint Cyprien, cit., p. 140. 31 Basilio di Cesarea, Omelie sull’Hexaemeron, «Sources Chrétiennes» n. 26 bis, p. 113. 32 Ireneo di Lione, Contro le eresie, iv 6, 3, cit., p. 419. 33 Sant’Ambrogio, Trattato dei misteri, 10-11, cit., p. 66. 34 Origene, Abraham, 9, in Thèmes et figures bibliques, Paris 1980, p. 189. 35 Ibid., p. 190. 36 Ibidem. 37 Cirillo di Gerusalemme, Cinque catechesi per i neo-battezzati, i, 3, in L’initiation chrétienne, cit., p. 36. 38 Ibid., ii, 2, p. 41. 39 Asterio di Amasea, Daniele e Susanna, 2, in Thèmes et figures bibliques, cit., p. 293. 40 Pier Crisologo, Il segno di Giona, 3, in Thèmes et figures bibliques, cit., p. 120. 41 Ibid., p. 121. 42 Gregorio di Nazianzo, Discorsi, 29, 8, «Sources chrétiennes» n. 250, p. 193. 43 Ippolito Romano, La tradizione apostolica, Messa, cit., p. 27. 44 Cirillo di Gerusalemme, Cinque catechesi, cit., ii, 4, p. 42. 45 Sant’Ambrogio, La morte è un bene, 57, in op. cit., p. 83. 46 Cipriano di Cartagine, Il benessere della pazienza, vii, in Saint Cyprien, cit., p. 159. 47 Cirillo di Gerusalemme, Cinque catechesi, cit., ii 7, p. 43. 48 Platone, Le leggi, vii, 808 D, in Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, i, 11, 2, Migne, Paris 1991, p. 136. 49 Gregorio di Nissa, Il Cantico dei Cantici, Hom. 5, Migne, Paris 1992, p. 128. 50 Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, iii, 94, 1, Migne, Paris 1991, p. 298. 51 Ibid., iii, 101, 1, p. 302. 52 Odi di Salomone, 11, in Naissance des lettres chrétiennes, icthus, 1979, p. 35. 53 Pier Crisologo, Il segno di Giona, 3, cit., p. 119. 54 Eucologio di Serapione, in L’Eucharistie, icthus, 1981, p. 47. 55 Cipriano di Cartagine, Sulla morte, 26, cit., p. 36. 56 Cipriano di Cartagine, Esortazione al martirio, xiii, in Saint Cyprien, cit., p. 190. 57 Ibidem. 58 Clemente Romano, i Corinzi 5, 4, p. 44. 59 Ibidem, 5, 7, p. 44. 60 Epistola di Barnaba, 14, 3, in Les Pères Apostoliques, cit., p. 210. 61 Ireneo di Lione, Contro le eresie, iii, 12, 12, cit., p. 331. 62 Origene, Omelia su Geremia, 18, 4, «Sources chrétiennes» n. 238, p. 187. 63 Epistola di Barnaba 14,4-6, cit., p. 190. 64 Odi di Salomone, 16, cit., p. 39.
Capitolo quarto
L’arte tra ultima antichità e Bisanzio v secolo
L’avvento di Teodosio porta la Chiesa al potere. Il cristianesimo è posto al di sopra di tutti gli altri culti e proclamato unica religione imperiale; il politeismo viene condannato e le pratiche pagane dichiarate fuori legge. L’altare della Vittoria del Senato viene tolto dalla Curia, il serapeo di Alessandria distrutto. L’alleanza suggellata tra la casta imperiale e la casta ecclesiastica porta con sé un totale cambiamento storico. La persecuzione dei pagani e degli eretici si annuncia come risposta alla persecuzione dei cristiani effettuata ai tempi di Diocleziano e Galerio. L’affermazione dell’unità di Impero e Chiesa sul finire del iv secolo si scontra ben presto con gli avvenimenti storici; alla morte del sovrano le due parti dell’impero conquistano progressivamente l’autonomia. La spinta delle popolazioni germaniche lacera il mondo occidentale e Onorio trasferisce la residenza imperiale a Ravenna. Crolla la frontiera sul Reno e Treviri viene data alle fiamme, Roma viene saccheggiata dai barbari e i pagani attribuiscono la caduta della città eterna all’empietà dei cristiani. La deposizione di Romolo Augusto ad opera del germanico Odoacre segna la fine del mondo romano. Italia, Gallia, Iberia e Africa sono occupate da ostrogoti, franchi, visigoti e vandali.
troversie dottrinali; le dispute teologiche si concentrano su Cristo, la sua persona e la sua doppia natura, divina e umana, che i nestoriani tendono a contrapporre. Per contro, i monofisiti tendono a far scomparire l’umanità di Cristo nella sua divinità. Il concilio di Efeso condanna nel 431 l’insegnamento di Nestorio e afferma l’unità ipostatica del Cristo, Verbo incarnato; Maria, madre di Gesù, di conseguenza è la madre di Dio. Il mondo siriaco si divide in due versanti: Seleucia-Ctesifonte si separa da Antiochia e va a formare la Chiesa persiana. Vent’anni dopo, il concilio di Calcedonia divide gli adepti di Efeso in «diofisiti» e «monofisiti». Il Cristo è «vero Dio e vero uomo», poiché le due nature sono unite «senza confondersi né modificarsi, senza dividersi né separarsi». Alle lotte dottrinali si aggiungono le guerre secessioniste: Egitto e Siria rifiutano simultaneamente il potere «romano» e la sua autorità ecclesiastica. Le relazioni tra Costantinopoli e Roma diventano tese, l’imposizione dell’Henotikon porta alla separazione delle due chiese nel 482: il patriarca Acacio pubblica una formulazione unitaria che evita di affrontare la questione sulla natura di Cristo. La formula, approvata dai monofisiti, viene resa obbligatoria da un decreto imperiale in tutto l’Impero. Il papa Felice iii, condannando quella dottrina compromettente, scomunica al contempo il patriarca e l’imperatore bizantini. I legami tra greci e latini si irrigidiscono. Il cosiddetto «scisma di Acacio», risolto nel 518, è segno dell’antagonismo esistente tra il seggio di Roma e quello di Costantinopoli. La supremazia papale, fondamentale a Roma, trova la propria espressione dottrinale con il papa Gelasio. L’autorità santificata dei sacerdoti e l’autorità del sovrano sono i due poteri che governano il mondo; le due autorità, strettamente intrecciate, non hanno una medesima dignità e, come l’anima rispetto al corpo, la Chiesa presieduta da Roma
L’impero crolla a Occidente ma resiste a Oriente. Le guerre dottrinali e le lotte per la supremazia dei seggi apostolici dividono la Chiesa. L’antagonismo crescente tra Costantinopoli e Alessandria minaccia l’unità dell’Oriente cristiano. Nel 325, il concilio di Nicea aveva menzionato Alessandria subito dopo la Chiesa di Roma; nel 381, il secondo concilio ecumenico accorda la preminenza onoraria al vescovo di Costantinopoli dopo il vescovo di Roma. Costantinopoli è consacrata «nuova Roma e seconda dopo di essa». Le rivalità ecclesiali e le ambizioni nazionali si intrecciano alle con152
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re con zelo l’assente, quasi fosse presente. All’estensione del culto anche presso quanti non lo conoscevano,/ spinse l’ambizione dell’artista./ Questi infatti, desideroso di piacere al potente,/ si sforzò con l’arte di renderne più bella l’immagine;/ il popolo, attratto dalla leggiadria dell’opera,/ considerò oggetto di culto colui che poco prima onorava come uomo» (Sap 14,16-20). I cristiani, incuranti della condanna, continuano a produrre immagini incise secondo i modelli antichi; i sovrani, seguendo le formule stabilite, compaiono in veste di dignitari, soldati o organizzatori di giochi. Il marchio cristiano si riduce a un timido segno o a una semplice iscrizione; sul labarum portato da Onorio sul dittico di Probo si legge «Possiate sempre vincere in nome di Cristo». L’imperatore cristiano è consacrato nuovo Mosè e nuovo Davide. Certamente, nelle due parti dell’Impero, gli uomini a capo della Chiesa ricordano costantemente che «l’imperatore è nella Chiesa e non al di sopra della Chiesa», ma questo ripetuto richiamo pare poco seguito. L’arte imperiale cristiana prolunga fedelmente il lungo cammino dell’arte imperiale pagana: la tematica è convenzionale, il linguaggio formale è uno dei molti stili in voga. La statua di Valentiniano ii, modellata in tre dimensioni, è una testimonianza della grande arte classica. La base dell’obelisco di Teodosio fa parte di un’altra tendenza: il volume tangibile non viene considerato e lo spazio artificiale capovolto. La superficie è suddivisa in registri sovrapposti ove sono rappresentate assemblee di personaggi disposti uniformemente in profondità. Il soggetto è romano, ma la forma rientra nella tendenza orientale ormai diffusa sia nelle province, sia nelle città dell’impero.
è al di sopra dello stato; nasce la teoria medievale dei «due gladi», il papa è il «capo di tutta la terra» e la sua supremazia si estende su re e vescovi. La vittoria in nome di Cristo L’arte imperiale rimane ampiamente tributaria della tradizione classica. Le effigi a tuttotondo, avvolte nei panneggi di lunghe clamidi, perpetuano il ricordo delle statue antiche, quindi nulla pare distinguere l’arte cristiana dall’eredità pagana. Teodosio e il figlio Arcadio, seguendo l’esempio degli antenati, innalzano a Costantinopoli colonne di altezza superiore a quella traiana. I programmi iconografici restano simili a quelli del passato e l’imperatore, per mezzo della grazia di cui è detentore, appare come unico e perpetuo vincitore. Acclamato dai fedeli sudditi e dai nemici vinti, si presenta come padrone assoluto della popolazione terrestre. Sul basamento dell’obelisco di Teodosio, il capo supremo regna in maestà attorniato dai cortigiani e dalle guardie imperiali nella grande loggia dell’ippodromo di Costantinopoli. Sulla base della colonna di Arcadio, i due figli di Teodosio ricevono l’omaggio delle sette province d’Oriente e Occidente. Il simbolo cristiano sostituisce i simboli pagani: due vittorie alate portano la corona del monogramma di Cristo. L’arte imperiale sopravvive alla conversione del potere e sono soltanto i segni confessionali a cambiare. La produzione di dittici consolari prosegue; il Libro della Sapienza descrive a suo modo questa pratica vanitosa osservata come una legge: «Poi l’empia usanza, rafforzatasi con il tempo,/ fu osservata come una legge./ Le statue si adoravano anche per ordine dei sovrani: i sudditi, non potendo onorarli di persona a distanza, riprodotte con arte le sembianze lontane,/ fecero un’immagine visibile del re venerato,/ per adula-
ce assiste a fianco all’apostolo Paolo alla Consegna delle chiavi. I santi sono raggruppati intorno al «pastore della chiesa universale diffusa sulla terra intera»2. Gesù, che regna sul globo terrestre, occupa il centro dell’opera. I nomi scritti sopra le figure permettono di identificare i santi e li incoronano: «Dimmi il tuo nome», ripetono i profeti. Nella tradizione biblica, il nome determina la natura e il destino dell’individuo; Dio, sempre anonimo, rimane «al di sopra... di ogni altro nome che si possa nominare/ non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro» (Ef 1,21). Il Verbo generato rivela la gloria del Padre: «Dio nessuno l’ha mai visto:/ proprio il Figlio unigenito,/ che è nel seno del Padre,/ lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Il nome del santo è l’espressione della sua persona: l’iscrizione conferisce all’immagine la sua entità e la santifica. Nello Spirito, si stabilisce la comunione tra Padre, Figlio, santi martiri e fedele, come recita uno scritto del ii secolo: «Noi veneriamo Gesù, perché è il figlio di Dio e, nei suoi martiri, amiamo il discepolo e gli imitatori del Signore; la loro incomparabile fedeltà verso il nostro re e padrone merita il nostro omaggio. Che possiamo diventare anche noi loro compagni e discepoli!»3. Da Roma alla Sicilia, passando per Napoli, le ultime manifestazioni dell’arte catacombale esprimono la nuova via dell’iconografia cristiana. Le pitture più antiche
dell’area cimiteriale napoletana di San Gennaro prolungano lo spazio pittorico degli affreschi romani. Seguendo i modelli prestabiliti, la decorazione a soggetto biblico presenta Adamo ed Eva, Mosè nell’atto di colpire la roccia, Daniele nella fossa dei leoni, il Buon Pastore e la Resurrezione di Lazzaro. Il carattere classicheggiante dello stile traspare attraverso la rappresentazione dei progenitori dell’umanità: Adamo ha il corpo vigoroso di Ercole, Eva la grazia di una Venere pudica. I colori, benché deteriorati, conservano l’effetto proprio dell’arte romana. Una scena inedita presenta tre ragazze che lavorano insieme alla costruzione di una torretta con dei conci squadrati; l’immagine, molto deteriorata, sembra illustrare la visione del Pastore di Erma, in cui le vergini, «aiutandosi mutualmente»4, danno il loro contributo a edificare una grande torre costruita «con pietre quadrate e splendenti»5. La torre rappresenta la Chiesa, è scritto nel Pastore di Erma, e le vergini sono «le virtù del Figlio di Dio»; «Nessuno può essere ammesso nel regno di Dio senza esser stato rivestito da loro del suo abito personale. Se tu ricevi soltanto il nome del Figlio di Dio, senza ricevere dalle mani delle vergini il loro vestito, non ti servirà a nulla, perché le vergini sono le virtù del Figlio di Dio. Se porti il suo nome senza possederne la virtù, porti invano il suo nome»6. Il dipinto si limita a mostrare il cantiere della torre in costruzio-
La torre del Figlio di Dio L’arte funeraria, in auge nel iv secolo, è in declino in quello successivo. L’apparire di nuove mode spinge progressivamente all’abbandono delle catacombe, che non vengono più utilizzate. Le tombe sparse vengono scavate all’interno delle pareti, dentro quartieri e monumenti pubblici abbandonati. Il culto crescente di santi e martiri si concretizza con l’aumento delle sepolture concentrate intorno alle basiliche legate alle tombe di coloro che hanno subito il martirio per Cristo. I fedeli desiderano trovare riposo presso le sante reliquie; come le ossa di Policarpo di Smirne, i resti di coloro che hanno ottenuto la corona dell’incorruttibilità rimangono in eterno «più preziosi dei gioielli, più nobili dell’oro»1; tesori santificati, rappresentano un’eterna benedizione per il popolo. La pietas cristiana trasforma le tradizioni funerarie; piuttosto che «autocelebrarsi», i cristiani onorano i martiri a beneficio dei loro defunti. L’evoluzione dell’arte funeraria è notevole; l’arte ecclesiale penetra nei cimiteri e le effigi dei santi si moltiplicano. Nelle catacombe di San Callisto, Policamo, Sebastiano e Quirino Curino sono riuniti sotto una croce innalzata tra due pecore. Nelle catacombe di Commodilla, Feli-
141. Base dell’obelisco di Teodosio. Istanbul, ippodromo.
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142. Cristo in trono tra i santi. Roma, catacombe di Commodilla. 143. I martiri Policamo, Sebastiano e Curino. Roma, catacombe di San Callisto.
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ne. Il completamento dell’edificio segnerà la fine dei tempi; e il Pastore si chiude con le parole: «Affrettatevi dunque a fare il bene, altrimenti la torre sarà terminata e voi sarete esclusi». Le pitture realizzate nel v secolo rivelano un approccio diverso. Teotecno, Ilaria e la figlioletta Nonnosa, di tre anni, si ergono in mezzo ai ceri accesi, simboli del «luogo della luce». La stilizzazione pronunciata delle tre figure conferisce al soggetto diffuso un’innegabile originalità. Gli occhi immensi e il naso affilato donano ai volti un carattere ultraterreno, i poteri sensoriali sono interiorizzati e la prospettiva frontale è assoluta; l’ovale dei volti prende posto sulla mezzaluna della curva delle spalle, le mani immobili hanno perso ogni caratteristica carnale, i corpi spariscono dietro le tuniche. La bambina, coronata da un prezioso diadema, indossa una veste intessuta di fili di perle chiusa sul petto da un gallone a tre gemme. La madre è coperta da un velo e da una sobria penula; il padre porta una clamide guarnita da una decorazione di antilopi galoppanti. I tre personaggi, lo sguardo intenso, sembrano seguire il filo di uno stesso pensiero. La corona della ricompensa eterna, sospesa nel vuoto, si alza sopra la famiglia greca; secondo Tertulliano, «Laddove ci sono tre fedeli c’è una Chiesa, anche se si tratta di laici»7. Procolo, sempre in atteggiamento orante, risalta su un fondo neutro delimitato da due torce: «Tu, Signore, sei luce alla mia lampada;/ il mio Dio rischiara le mie tenebre./ Con te mi lancerò contro le schiere,/ con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal 18,29-30). Seguendo la stessa posizione, Vitalia si risveglia in pace nel regno divino; alle due fiaccole accese si sostituiscono due codici aperti con impressi i nomi dei quattro evangelisti. Il monogramma di Cristo compare inciso sopra la defunta: «Coloro che sono in Cristo – professa Ilario di Poitiers – risusciteranno come Cristo, in cui da questo momento è compiuta la resurrezione di tutta la carne, lui che, con la potenza di Dio, è nato nella nostra carne nella quale il Padre l’ha generato secoli prima»8. Cominia e la piccola Nicaziola prendono posto nella lunetta di un arcosolio; la madre e la bambina circondano un santo aureolato rappresentato in piedi tra due grandi torce. Le dimensioni del personaggio centrale superano ampiamente quelle delle figure che l’assistono; l’artista ha ingrandito volontariamente il personaggio più importante della scena. Un’iscrizione posta tra due croci identifica il personaggio principale; ritroviamo la figura di san Gennaro, vescovo di Benevento, torturato, suppliziato e martirizzato a Napoli nel 305, ultimo anno del regno di Diocleziano. Il santo patrono è cinto eccezionalmente dal nimbo riservato al Verbo incarnato, ossia il monogramma di Gesù Cristo suggellato da alfa e omega. L’eroe di Dio vive in Cristo e il Cristo vive in lui; il santo, la madre e il bambino dimorano nella casa del Padre, «una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli» (2 Cor 5,1). I volti idealizzati trascendono l’apparenza naturalista: l’essere corruttibile ricopre l’incorruttibilità e l’uomo esteriore assume le caratteristiche dell’uomo interiore.
Alle immagi dipinte si aggiunge un insieme di ritratti di vescovi realizzati a mosaico in una cripta costruita vicino alla confessione di san Gennaro. Il più originale presenta un dignitario di razza nera che indossa una tunica bianca, con in mano un sontuoso Vangelo. La carnagione africana farebbe pensare a Quodvultdeus, vescovo di Cartagine rifugiatosi a Napoli all’epoca della persecuzione dei vandali. Il volto, ritratto di fronte, è dominato dallo sguardo penetrante; gli zigomi sono sporgenti, la testa calva; la cornea bianca degli occhi spicca sull’incarnato scuro del viso e le pupille nere scrutano l’infinito. Il busto risalta sul fondo dorato, col capo cinto da un prezioso medaglione; il decoro ornamentale è di estrema finezza, la copertina del Libro della Vita presenta una croce latina incrostata di gemme inscritta nei quattro simboli alati: l’angelo, il leone, il toro e l’aquila; il medaglione è circondato da fiori d’acanto e graziosi steli attraversano il fondo azzurro della lunetta. La volta è ricoperta da una rete di motivi geometrici e floreali, con la croce latina col sigillo alpha omega posta al centro. Il nuovo albero della vita, simbolo cosmico, riunisce la creazione e ricopre l’universo dei suoi fiori. Le effigi dei santi si moltiplicano. A San Severo, Gennaro, Protasio ed Eutichio compaiono accanto a Pietro e Paolo. I fedeli, umili e fiduciosi, si volgono verso i martiri del Cristo prima di oltrepassare la soglia del Regno. A San Gaudioso, Passenzio supplica il Principe degli apostoli per entrare in paradiso. A Siracusa, nel cimitero di Vigna Cassia, Marzia è inchinata davanti a Cristo, a implorarne l’intercessione di Pietro e Paolo. Lo spazio è cosparso di frutti neri, fiori rossi e tralci verdi. Il Signore e i due apostoli sono rappresentati di fronte, la mano tesa del Cristo unisce la donna inginocchiata ai personaggi in piedi. L’aureola è riservata al Cristo, segno della supremazia assoluta del Verbo di Dio. I fedeli, benedetti dal Padre, ricevono in eredità il Regno preparato per loro. A San Giovanni la vergine Deodata è incoronata da Cristo tra rose e alloro; Pietro e Paolo si dirigono verso il Salvatore per assistere all’incoronazione. In contrasto con i gesti dei piedi e delle mani effettuati dai personaggi, i volti sono rappresentati uniformemente in assoluta frontalità. L’immagine è dominata dalla contemplazione. Le due lettere apocalittiche, riprodotte a caratteri grandi, annunciano l’entrata della Gerusalemme celeste: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!» (Ap 22,13-15). I simboli del paradiso disegnano il giardino dell’aldilà. A San Gaudioso la vigna eucaristica emerge da un calice ansato, distendendo nello spazio i tralci guarniti di viticci, foglie, grappoli bianchi e rossi. Al centro del piano frontale, la croce accompagnata da due caratteri greci si profila su un medaglione sospeso tra le volute dei ceppi. Due agnelli affrontati, simboli degli apostoli, circondano il globo cruciforme; un’aquila cinta da una corona, 156
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Tav. 63. Adamo ed Eva. Napoli, catacombe di San Gennaro.
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Pagine seguenti Tav. 66. La defunta Ilaria. Ibidem. Tav. 65. Procolo nel “luogo della luce�. Ibidem.
Tav. 64. San Pietro e san Gennaro, particolare di lunetta. Ibidem.
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Tav. 67. Il senatore Teotecno. Ibidem.
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Tav. 68. Il vescovo cartaginese Quodvultdeus. Ibidem.
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con una bulla al collo, figura allegorica del Cristo, si erge trionfalmente sulla sommità dello spettro spiegando le ali: «Le nazioni cammineranno alla sua luce/ e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno,/ poiché non vi sarà più notte./ E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni./ Non entrerà in essa nulla d’impuro,/ né chi commette abominio o falsità,/ ma solo quelli che sono scritti/ nel libro della vita dell’Agnello» (Ap 21,24-27).
animate: i frammenti rimasti delle decorazioni andate perdute presentano gli elementi tradizionali dell’arte romana e mediterranea. Il mosaico funebre traspone i soggetti tradizionali sottomettendoli alle proprie regole, il repertorio iconografico è adattato alle dimensioni della parte superiore delle tombe. L’epitaffio nomina il defunto, la sua funzione nella chiesa, la durata della vita terrena e il giorno del trapasso: «Rogata ha vissuto 4 anni, 11 mesi, 3 giorni e 7 ore. Riposa in pace», si legge sul mosaico figurativo di Sfax. La vita e l’opera sono evocate raramente; nella maggior parte dei casi la professione è indicata da un solo termine che svela il mestiere esercitato. L’epitaffio di Pietro, sotto la chiesa di Sant’Eufemia a Grado, trasgredisce eccezionalmente la regola per ricordare la conversione del defunto: «Qui riposa Pietro che si chiamava Papario, figlio dell’ebreo Olimpio e, unico della sua stirpe, ha meritato di giungere alla grazia del Cristo ed è stato seppellito a buon diritto in questa santa stanza la vigilia delle idi di luglio, quarta indizione»9. Le commemorazioni dei fedeli celebrano il riposo nella pace dell’eternità. Su una tomba di Xaberas è citato un verso di Virgilio: «... addio, grande Pallante, addio per sempre!»10. Su una tomba di Tabarka con una scena di caccia si è optato per un epitaffio decisamente cristiano: «Ospite degli angeli, compagno dei martiri, spirando una vita placida avanza verso di te santamente. Ricordati di noi con la fedeltà e la gratitudine dovute, Crescenzio, diacono, in pace ha reso la sua anima il terzo giorno prima delle calende d’agosto»11.
Salvezza nell’eternità L’espansione delle catacombe cristiane al di fuori della penisola italica è certa, ma le vestigia giunte fino a noi sono rare. Su una tomba di Niš, in Serbia, si vedono delle figure in piedi rappresentate in mezzo agli alberi in uno spazio disseminato di ghirlande e tralci; uccelli nascosti tra le palme e grappoli ravvivano l’ordine geometrico della decorazione; il cristogramma circondato da un medaglione trasforma il giardino in paradiso celeste, ma soltanto Pietro e Paolo sono riconoscibili. Posti sulla parete orientale, accolgono i personaggi anonimi che occupano la parete occidentale. Nell’Africa del nord esistono alcune catacombe tra cui quelle di Cartagine, di Sallakta e di Hadrumetum. In Iberia, a Centocelle, si trova una stanza funeraria di cui sono rimaste solo alcune tracce. In Oriente, a Sidone, si vede una tomba rupestre con figure umane, motivi geometrici e figure
144. San Gennaro tra Nicaziola e Cominia. Napoli, catacomba di San Gennaro. 145. La vigna eucaristica. Napoli, catacomba di San Gaudioso. 146. Teotecno, Ilaria e la figlia Nonnosa. Napoli, catacomba di San Gennaro.
Tav. 69. Etimasia. Santa Maria Capua Vetere, cappella di San Prisco.
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Le immagini figurative attingono dall’iconografia paradisiaca. La croce e le lettere cristiche battezzano il giardino della pace. I personaggi biblici sono rappresentati raramente: nell’isola di Tabarka, il Buon pastore accompagna gli animali sovrapposti in registri; a Tipasa, l’arca di Noè prende posto accanto a tre figure oranti separate da ceri; a Sfax, Daniele tra i leoni domina lo spazio composito. I defunti sono molto frequenti; uomini, donne o bambini, appaiono in posizione frontale e immutabile: «I tuoi occhi guardino diritto/ e le tue pupille mirino diritto davanti a te» (Pr 4,25). Coperta di un lungo velo, Vittoria si erge in atteggiamento orante davanti a una candela illuminata; sopra di lei, il padre siede dietro il suo tavolo da lavoro; due piccioni, galline e fiori sono disposti attorno ai personaggi. Il piccolo Dardanio, avvolto in una lunga tunica bianca, apre le mani in preghiera in mezzo a due lunghi ceri; Ottimo, vestito della toga dei sapienti, abbozza un gesto di benedizione con la mano destra. I fedeli sepolti resuscitano sui loro mosaici sepolcrali; il Padre concede il paradiso a coloro che ama: «Diventano un giardino di delizie – è scritto nella Lettera a Diogneto –. Un albero carico di frutti, dalla linfa vigorosa, cresce in loro e sono ornati dei frutti più ricchi»12. L’Egitto, terra di tombe rupestri, presenta una sola catacomba ad Alessandria; il cimitero di Karamouz, andato distrutto, era ornato di pitture parietali tipicamente romane. Dall’altra parte del paese, a Baghawat, nell’oasi di Kharga – l’antica Hib, situata a ovest di Diospolis-Tebe – due cappelle presentano sulle cupole le immagini bibliche delle camere funerarie. Battezzata “cupola della pace”, la prima unisce successivamente Daniele nella fossa dei leoni, la personificazione del-
la Pace che porta nella mano destra l’ankh faraonico trasformato in croce cristiana, Abramo che si accinge a sacrificare Isacco, Adamo ed Eva davanti all’albero della conoscenza del bene e del male, san Paolo che si 74, 78 intrattiene con santa Tecla, Maria in preghiera salutata da una colomba, Noè nell’arca con «i suoi figli, sua moglie e le mogli dei suoi figli» (Gn 7,7), Isaia in piedi accanto alle personificazioni della Preghiera e della Giustizia. La linea dei corpi e dei panneggi ricorda lo spirito classico, solo la barca del diluvio e la croce ad 75 ansa della pace fanno parte del patrimonio dell’antico Egitto. L’abolizione del movimento e il dominio della ieraticità fanno rientrare l’opera nel nuovo stile cristiano; i gesti sono ridotti a mimiche misurate. Come a Dura Europos, i volti sono rappresentati uniformemente di fronte; il palmo delle mani, aperte in atteggiamento orante, accentua il pieno prospetto dei personaggi. I motivi floreali ricoprono lo spazio unidimensionale del fondo. Un tralcio avvolto guarnito di grappoli succosi rossi e bianchi incornicia il cerchio zenitale della cupola. Lo stile cambia sensibilmente con la decorazione del secondo sito: i protagonisti raffigurati nella “cupo- 72, 73 la dell’Esodo” si perdono in un paesaggio arioso disse- 76, 77 minato di pergolati, grappoli, fiori e uccelli. Gli artisti cercano di rappresentare uno spazio bidimensionale che non riescono ad equilibrare: la fattura è maldestra e inesperta, le figure umane sono grossolanamente pasticciate e, tuttavia, l’insieme non manca di un certo fascino. L’opera, come ha scritto Wulff, è «viva nella sua capacità evocativa», e fa parte di un’«arte periferica allo stato primitivo ma pieno di freschezza»13. L’interesse maggiore dell’opera risiede nel suo programma iconografico; la decorazione, suddivisa in quattro
149. Mosaico funerario di scriba o banchiere, da Thabraca (oggi Tabarka). Tunisi, Museo del Bardo. 150. Mosaico funerario con defunto in preghiera. Ibidem. 151. Mosaico funerario con decorazione paradisiaca, proveniente da Clupea (oggi Kélibia). Ibidem. 152. Optimus, museo tombale. Tarragona, Museo della necropoli di Francolí. 153. Mosaico dei martiri della chiesa di Upenna. Enfidha, Museo archeologico. 154. Mosaico funerario di Vicentius e Restitutus, dalla chiesa di Clupea. Tunisi, Museo del Bardo.
147. Il bambino Dardanio, mosaico funerario su cassa, da Thabraca (oggi Tabarka). Tunisi, Museo del Bardo.
155. Particolare del mosaico della lastra tombale di Ampelius. Tarragona, Museo della necropoli di Francolí.
148. Bessula, lapide. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.
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veniente da Saint-Sernin di Tolosa, opera del sud-ovest della Gallia, presenta uno stile completamente diverso. La tematica non presenta innovazione alcuna: il Cristo regna tra gli apostoli sul lato anteriore, un pastore e un cacciatore prendono posto sulle parti laterali. Il crisma di Cristo è inciso sul coperchio. Le forme, prive di ogni volume, appaiono appiattite, le figure sono fisse e i piedi degli apostoli sono allineati in maniera uniforme: «Coloro che camminano senza macchia non sono turbati, perché in mezzo a loro vi è un segno, il Signore; il segno indica la via a coloro che attraversano in nome del Signore»15. Il gusto ornamentale si afferma; un sarcofago proveniente dalla Valbona presenta in forma spoglia la stessa immagine: il crisma con le due lettere apocalittiche è iscritto sul coperchio tra due racemi di vite; il Cristo in piedi appare al centro. Il Salvatore e il suo Nome costituiscono l’asse centrale dell’opera; l’assemblea degli apostoli si riduce a Pietro e Paolo posti ai due angoli del sarcofago. Rappresentati come arabeschi, racemi e alberi si alternano con Cristo e i suoi due testimoni. L’opera, realizzata nella seconda metà del v secolo, è segno di uno spirito nuovo; le forme romane sono ridotte a un semplice fondo; astratto e concreto costituiscono un’unica entità. I fusti fioriti perdono la loro sostanza materiale: «Avete là, in Paradiso – annuncia il Vangelo di Tommaso – cinque alberi che non cambiano né in estate né in inverno, e le loro foglie non cadono affatto: colui che li conoscerà non assaporerà la morte!»16. La produzione di Costantinopoli presenta la stessa evoluzione. Il sarcofago “del bambino” del Museo Archeologico di Istanbul e il sarcofago di Sammazia degli Staatliche Museen sono tipicamente romani. Sul primo si vedono due angeli che reggono la corona del monogramma di Cristo su un lato e due apostoli intorno alla croce nuda del Salvatore alle estremità del sarcofago; sul secondo troviamo il Maestro e gli apostoli separati da colonne sormontate da capitelli. Le vesti, i volti e i corpi sono naturalisti; il piumaggio delle ali conserva l’apparenza sensibile, il nastro aperto sotto la corona mantiene peso e volume. Il rilievo delle arcate suggerisce perfettamente la plasticità dei decori. Quasi in opposizione a quest’arte tradizionale, una produzio-
statua di Nabucodonosor e i tre magi venuti ad adorare il Re dei re. La simbologia delle due adorazioni è rafforzata dall’analogia delle due scene figurate. I tre israeliti e i tre magi venuti dall’Oriente, che indossano la stessa veste caldea, formano due triadi similari. Gli ebrei e i pagani venerano e adorano il Dio unico, Colui che è e sarà in tutti i secoli dei secoli. Sulla superficie anteriore, il Pedagogo, imberbe e giovanile, siede in mezzo ai Dodici installati sui troni; ai piedi del Signore, i due defunti si inchinano al cospetto dell’Agnello divino: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello/ lode, onore, gloria e potenza» (Ap 5,13). La scena si ripete seguendo un’altra variante sull’altro lato: Gesù, maturo e con la barba, appare in piedi tra i Dodici; l’immagine dell’assemblea è accompagnata da una rappresentazione allegorica. Sul bordo inferiore, dodici pecore circondano l’agnello «che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). La coppia defunta, sempre prosternata, implora colui che «li guiderà alle fonti delle acque della vita» (Ap 7,17). Sul lato sinistro si vede Abramo che offre Isacco in sacrificio, un profeta non identificato, un alto funzionario e le guglie della città celeste. Le anime colombe si affrontano attorno al crisma di Cristo sul coperchio; sul lato destro troviamo l’ascensione di Elia in presenza di Eliseo, Adamo ed Eva, Noè che galleggia nel suo guscio sulle acque del diluvio e Mosè che riceve le tavole della legge. La Natività sovrasta la scena composita; vicino al neonato, un bue e un asino si rifanno alla profezia di Isaia: «Il bue conosce il proprietario/ e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce/ e il mio popolo non comprende» (Is 1,3). Le immagini si completano: il Cristo, «mediatore di una nuova alleanza» (Eb 9,15), regna sul mondo da lui riscattato, padrone ed erede, coronato di gloria e d’onore. Il sarcofago del “Cristo dottore” del Museo di Arles, opera di un’officina romana, presenta le stesse caratteristiche. Il Signore, in piedi sul monte dei quattro fiumi, rimette la legge al Principe degli apostoli. Le figure scoperte, accuratamente rifinite, assumono una forma tridimensionale; colonne e archi onorifici sono minuziosamente decorati. I canoni classici scolpiscono e modellano le forme di persone e cose. Un sarcofago pro-
156. Il ciclo figurativo della “cupola della Pace”. Baghawat, oasi di Kharga, Egitto.
Pietre, sepolcri e stele
pannelli, associa a scene paleocristiane consuete alcune rappresentazioni inedite. Eliseo incontra Rebecca, Isaia subisce il martirio, Geremia si lamenta davanti a Gerusalemme; sette vergini velate, allineate in fila indiana, portano in segno di lutto bruciaprofumi e ceri illuminati. La pace si ristabilisce con l’apparizione del Pastore alla guida del suo gregge di pecore: «[...] le viti fiorite spandono fragranza» (Ct 2,13). I grappoli di vite ricoprono il cielo della cupola; gli uccelli, simboli delle anime dei cristiani, piluccano i frutti della Vera Vigna, «delizie del paradiso in eterno»14.
Le decorazioni dei sarcofagi scolpiti attingono a uno stesso repertorio iconografico. La duplicità degli stili indica la produzione delle varie officine. A Milano, il grande sarcofago posto sotto l’ambone della chiesa di Sant’Ambrogio si impone come il modello principale della tendenza classicheggiante dell’epoca di Teodosio. Il programma segue gli stili in voga per tutto il iv secolo. Il ritratto dei due sposi si integra sul lato anteriore del coperchio fra i tre giovani che si rifiutano di adorare la 168
157. Sarcofago del “Cristo dottore”. Musée de l’Arles antique.
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158. L’ascensione di Elia, Mosè che riceve la Legge, Adamo ed Eva, Noè e la Natività di Gesù. Milano, Sant’Ambrogio.
160. Due vittorie presentano il monogramma di Cristo. Istanbul, Museo Archeologico.
159. Cristo in trono tra gli apostoli, i tre giovani nella fornace, l’Adorazione dei magi. Milano, Sant’Ambrogio.
161-163. Cristo tra gli apostoli, il Buon Pastore e caccia al leone, fronte e fianchi di sarcofago. Tolosa, Musée des Augustins.
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regna davanti allo strumento del suo supplizio. I motivi cristiani si ripetono, il cantico dell’Agnello si perpetua, l’acqua cristallina sgorga dal trono del Salvatore e le palme crescono «da una parte e dall’altra del fiume» (Ap 22,2). L’armonia delle forme riflette la pace della Gerusalemme messianica: «E non vi sarà più maledizione./ Il trono di Dio e dell’Agnello/ sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno;/ vedranno la sua faccia/ e porteranno il suo nome sulla fronte./ Non vi sarà più notte/ e non avranno più bisogno di luce di lampada,/ né di luce di sole,/ perché il Signore Dio li illuminerà/ e regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,3-5). In Iberia è rimasto un gruppo di sarcofagi che si distinguono nettamente dalle opere di ispirazione romana. A Siviglia, il sarcofago d’Écija riunisce sulla parte anteriore il Sacrificio di Isacco, il Buon Pastore e Daniele tra i leoni. I personaggi sono accostati a iscrizioni greche che ne indicano i nomi. Le figure tradizionali hanno perso ogni volume; i quattro protagonisti e gli animali sono situati sulla stessa linea del suolo, chiaramente delimitata. Le figurine appiattite sono quasi disegnate sulla pietra, la fossa dei leoni è espressa da una suddivisione rettangolare incisa intorno ai due leoni e il fuoco dell’altare assume la forma di un vello stilizzato. L’azione è consueta e i movimenti stereotipati: Daniele e il Buon Pastore sono presentati di fronte, Abramo e Isacco di profilo. La figura del leone è ripetuta uniformemente, le figure delle pecore seguono la stessa regola. La stilizzazione lineare rimodella le immagini conosciute e le ricrea seguendo una via originale; l’artigiano locale ha adottato l’iconografia romana e l’ha riutilizzata a suo modo. Un frammento di Alcaudete, conservato nel Museo Archeo logico di Madrid, presenta due registri animati da scene bibliche: sul primo si vede la resurrezione di Lazzaro rappresentata in maniera originale: tre personaggi allineati esprimono con i gesti l’afflizione, il sudario di Lazzaro è steso orizzontalmente tra due colonne sormontate da un arco e Maria si getta a terra ai piedi di Cristo; cinque personaggi, testimoni dell’avvenimento, appaiono dietro il Maestro. Le figure in piedi formano una fila indiana alternata alle due preminenti di Lazzaro e Maria. Sul secondo registro ritroviamo le stesse caratteristiche: la lotta di Davide e Golia è rappresentata secondo una disposizione lineare; quattro soldati armati di lance e scudi formano un’unica massa ornamentale. Il modello di Daniele gettato nella fossa dei leoni viene abbandonato; il profeta, seduto nella fossa, volta le spalle alle due fiere poste sopra di lui. L’insieme, rustico e popolare, è dotato di armonia ed equilibrio che gli conferiscono una forza grafica di notevole bellezza. Tre sarcofagi scanalati conservati a Tarragona si impongono per la fattura accurata e perfetta. Due personaggi femminili occupano le estremità della lastra detta “degli Oranti”: la prima donna indossa una dalmatica dalle maniche ampie e un lungo velo steso sulle spalle, la seconda veste un elegante mantello fermato da una spilla. Un volatile stilizzato è posto ai suoi piedi, con la testa graziosamente rivolta verso l’alto. Un personaggio
ne parallela mostra opere lineari in cui i modelli fissi si accompagnano a pure forme ornamentali. La tematica diventa più spoglia, i defunti scompaiono: i protagonisti dell’antica alleanza retrocedono mentre il regno di Cristo e degli apostoli si impone. Da Costantinopoli a Ravenna, la trasformazione di simboli e immagini si cristallizza. L’Annunciazione e la Visitazione appaiono sui due lati del sarcofago “di Braccioforte”. Secondo il Protovangelo di Giacomo, Maria fila «la vera porpora e lo scarlatto»17 destinati a tessere un velo per il tempio del Signore. La Visitazione evoca l’incontro tra la madre del Precursore e la madre del Salvatore. L’Antico si compie e si completa col Nuovo. L’Adorazione dei Magi occupa la totalità del lato anteriore del sarcofago detto “dell’esarca Isacio”. La visita dei tre ricchi orientali attesta l’apertura del Dio d’Israele all’insieme dell’umanità: «Vedendo l’indifferenza del suo popolo nei confronti dei profeti che annunciavano la venuta del Messia – scrive Giovanni Crisostomo – Dio fa venire degli stranieri di un paese lontano alla ricerca del nuovo re che è nato tra i Giudei; egli vuole inoltre che i Persiani per primi vengano a conoscenza di ciò che si sono rifiutati di apprendere dalla bocca dei profeti». La glorificazione del Cristo ha dato luogo a numerose varianti artistiche. Il Salvatore e i discepoli sono disposti sotto nicchie dislocate su una superficie liscia; il sarcofago detto “dell’arcivescovo Rinaldo Concoreggio” presenta il Signore in gloria che riceve l’omaggio di Pietro e Paolo. I due apostoli vengono a presentare al loro Capo la corona della vittoria. La gloria è di Cristo che, da solo, ha vinto il mondo. Il sarcofago detto “dei Dodici Apostoli” riprende un gruppo scultoreo classico con l’apporto della nuova simbologia; facendo eccezione alla regola, il rilievo mostra il Cristo nell’atto di consegnare la legge a san Paolo invece che a san Pietro. La resurrezione di Lazzaro ricorda che la morte è soltanto un «sonno profondissimo da cui Dio risveglia l’uomo»18. Su un lato del sarcofago “di Isacio”, la rappresentazione del miracolo è ridotta all’essenziale; i testimoni oculari sono spariti, il Cristo si ritrova solo davanti alla tomba dell’amico. Il resuscitato, avvolto nelle bende, presentato in pieno prospetto, rimane di fronte allo spettatore, il sudario sparisce: «La morte è stata ingoiata per la vittoria» (1 Cor 15,54). I simboli prendono il posto delle immagini; sul sarcofago “dell’arcivescovo Teodoro” due pavoni ritti dietro due vigne circondano il cristogramma accanto alle lettere alpha e omega. L’uccello che ritrova il suo piumaggio a primavera, dopo averlo perso all’arrivo dell’inverno, ricorda la resurrezione; la carne, che si credeva incorruttibile, ne fa un segno di immortalità. Il crisma è ripetuto sul coperchio e il monogramma è accompagnato dalla croce; lo scettro di gloria indica il Salvatore e ne fornisce il nome. Sul sarcofago di Costanzo iii, due pecore affrontate circondano l’agnello cinto dall’aureola posto sul monte del paradiso. Il sarcofago di Valentiniano ii ribadisce la simbologia: due croci poste sotto due calotte con conchiglie circondano l’agnello dell’apocalisse che 172
Tav. 70. La cupola “dell’Esodo”. Baghawat, oasi di Kharga, Egitto.
Tav. 71. La cupola “della Pace”. Ibidem.
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Tav. 72. Santa Tecla esposta alle fiamme, santa Tecla e i sopravvissuti; particolare della cupola dell’Esodo.
Tav. 73. Gli egiziani inseguono gli ebrei, Giona gettato in mare, Eleazaro e Rebecca, Isaia martirizzato, i tre giovani nella fornace: particolare della cupola dell’Esodo.
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Tav. 74. Eva, Tecla, Paolo e Maria: particolare della cupola della Pace.
Tav. 75. L’arca di Noè: particolare della cupola della Pace.
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Tav. 76. Mosè guida gli ebrei, santa Tecla esposta alle fiamme, santa Tecla e i sopravvissuti, il sacrificio di Isacco: particolare della cupola dell’Esodo.
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Tav. 77. Daniele, Adamo ed Eva, Geremia davanti al Tempio, l’arca di Noè: particolare della cupola dell’Esodo.
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164. La resurrezione di Lazzaro, fianco del sarcofago di Isacio. Ravenna, San Vitale. 165. L’annunciazione, fianco del sarcofago “di Braccioforte”. Ravenna. 166. L’agnello sul monte del paradiso, fronte del sarcofago “di Costanzo iii”. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia. 167. L’agnello sul monte del paradiso, fronte del sarcofago “di Valentiniano iii”. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia. 168. L’adorazione dei magi, fronte del sarcofago di Isacio. Ravenna, San Vitale.
(a fronte)
169. Sarcofago “dell’arcivescovo Teodoro”. Ravenna, Sant’Apollinare in Classe.
Tav. 78. Adamo ed Eva: particolare della cupola della Pace.
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dell’alto Medioevo; le ondulazioni delle acque sorgive ricoprono la superficie della decorazione, le acque mortali sono superate nella pace, i torrenti sono dominati: «Qua e là si alzano le onde, ma le tracce del nostro Signore Cristo sono ferme, non sono né cancellate né soppresse, il cammino è tracciato per chi passa dopo di lui, per coloro che completano il cammino della fede e adorano il suo nome»19. Le stele egizie completano il panorama della koiné. Le prime testimonianze derivano dalla tradizione siriaco-ellenistica. Le figure incise nelle pietre calcaree policrome ricordano gli altorilievi ieratici di Palmira. L’immagine incisa, proiettata in avanti a partire dal fondo, fuoriesce dalla pietra senza staccarsene. La stilizzazione si accentua, l’arte copta riduce sempre più le proporzioni dei corpi e ingrandisce quelle dei volti. L’esecuzione sommaria è predominante: pur perdendo le forme slanciate e l’eleganza levantine, l’opera è animata da un nuovo
maschile si erge a piedi nudi al centro del gruppo; vestito di una toga pesante, con la mano destra compie il gesto della benedizione e regge nella sinistra una pergamena arrotolata. I volti sono imprecisi e mani, gambe e piedi sono immensi. L’esecuzione sommaria è di grande finezza, i fasci di scanalature che separano le tre figure in piedi rafforzano l’ordine lineare della superficie. Abramo e Pietro occupano le due estremità del sarcofago di Leucadio, su cui la mano di Dio compare due volte: da una parte, interviene per salvare Isacco, dall’altra tende al Principe degli apostoli la Legge sui cui è inciso il cristogramma. L’epitaffio occupa la zona centrale: fasci di scanalature disposti su due registri coprono il vuoto. Secondo un criterio di composizione parallela, Pietro e Paolo si ergono alle due estremità del sarcofago degli Apostoli. La fattura lineare si accentua, le fisionomie dei volti, l’anatomia delle mani e dei piedi e le masse dei drappeggi annunciano lo stile romano
170. Il sacrificio di Abramo, il Buon Pastore e Daniele nella fossa dei leoni, sarcofago. Écija. (Siviglia), chiesa di Santa Cruz.
175. Adolescente che porta una croce, stele funeraria da Séheh Abadé. Duisburg, collezione privata.
171-172. San Pietro e il sacrificio di Abramo, due particolari del sarcofago di Leucadio. Tarragona, necropoli di Francolí.
176. Orante, stele funeraria da al-Fayum. Mosca, Museo Puškin. 177. Apa Sesennu, stele funeraria da Sohag. Berlino, Museo.
173. Orante, particolare del sarcofago dei due oranti. Tarragona, Museo della necropoli di Francolí.
178. Orante, stele funeraria di Rhodia da al-Fayum. Berlino, Museum für Spätantike und Byzantinische Kunst.
174. Guerrieri che assistono al combattimento di Davide e Golia, frammento da Alcaudete. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.
179. Stele con croce. Il Cairo Vecchio, Museo d’Arte copta.
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respiro. L’armonia dei piani che compongono la figura umana conferisce all’immagine un’espressività tutta interiorizzata. I simboli cristiani fanno rinascere le antiche rappresentazioni. Un adolescente è presentato con una croce e l’immagine si discosta da quella delle produzioni pagano-sincretiste dell’epoca soltanto per il segno di fede che ha fieramente in mano: la croce sostituisce la pianta e l’uccello tenuti dagli ultimi fedeli di Iside. Qua e là, la stilizzazione trasforma l’apparenza degli esseri e delle cose a scapito del realismo e del naturalismo. Una figura orante del Fayum si erge sotto l’arco dell’eternità; il corpo tarchiato e il volto gigantesco donano alla figura familiare una forma inedita. Il fondo rimane ellenistico; i drappeggi lasciano intuire un lieve ancheggiare e un movimento trattenuto traspare sotto le pieghe armoniose. Secondo i canoni consueti, la figura in piedi poggia su una sola gamba; l’aggiunta di due croci sulle colonne e l’iscrizione greca in cui si augura la pace al defunto cristianizzano il rilievo. Gli esempi si moltiplicano; la produzione locale accoglie i soggetti, i segni e i simboli del bacino mediterraneo e li rimodella in maniera originale. Le colonne, i pilastri, gli architravi e le conchiglie costituiscono la dimora dell’aldilà; la croce ansata dei faraoni è come un sigillo sulla decorazione greco-romana, il geroglifico che significa «vita» diventa il segno del «legno immortale che dà la vita». L’astrazione è predominante, la schematizzazione è spinta all’estremo, i corpi massicci sono privi dei profili dei muscoli; i volti a forma di luna si trasformano in dischi piatti. L’altorilievo viene abbandonato e l’appiattimento impone i suoi canoni a spese del modellato: Rhodia è rappresentata da una figura orante sulla stele del Fayum, la croce ansata con le lettere alfa e omega incorona il nome della fedele. La figura umana assume una forma quasi astratta; il volto arrotondato è cinto dall’aureola di una sciarpa arrotolata. I lineamenti sono appena schizzati, le labbra sono indicate semplicemente da un segno, il corpo è una massa rettangolare tracciata da un reticolo di linee sommarie, le gambe sono due fusti privati di ogni consistenza. La persona perde le caratteristiche, individuali; laico o religioso, il morto in Cristo assume l’aspetto dell’uomo originale: Apa Sesennu si erge sulla stele di Sohag. L’immagine dedicata al grande riformatore del monachesimo copto morto nel 466 mostra un vecchio in abito monacale con in mano il pastorale d’abate. Il corpo in pieno prospetto, i piedi di profilo e il volto schematico non presentano alcuna caratteristica del ritratto individuale: «Ho passato vent’anni a lottare per vedere tutti gli uomini in uno solo»20, dice un padre del deserto. L’uomo interiore si sostituisce ai mortali, nessun segno ricorda la morte fisica; imperturbabile, il fedele alza le mani fiduciose dall’anima e dal corpo, la fede invulnerabile non conosce incrinature, come afferma Atanasio di Alessandria : «Perché, come il seme gettato in terra noi non moriamo, non ci dissolviamo, ma siamo seminati per resuscitare. La morte è stata ridotta a nulla per mezzo della grazia del Salvatore»21.
Lo stile simbolista trionfa nel sud dell’alto Egitto. La figura umana è decisamente ignorata, la pietra assume la forma di un trapezio regolare contraddistinto dai simboli cristiani. Il nome proprio, segno della persona defunta, continua ad apparire sull’architrave e il monogramma del Cristo e le due lettere apocalittiche ritornano costantemente. Gli elementi tradizionali si ripetono attraverso composizioni infallibilmente riproposte; la decorazione va dall’estrema semplicità a una profusione esuberante. La composizione ornamentale è ora un semplice graffito inciso superficialmente nella pietra, ora un tappeto di pizzo incrostato finemente a rilievo. I simboli figurati sono integrati e volatili e insetti sposano forme geometriche pure; la croce non è più un semplice attributo della fede individuale: simbolo vivente di redenzione, si erge monumentale sotto l’arco onorifico. Le decorazioni spoglie la presentano orgogliosamente sola sulla 102-103 nuda superficie; le forme dei rami, sistematicamente 104 rinnovate, riproducono all’infinito le varianti del nuovo Albero della Vita. La croce di Cristo, greca, ansata, latina o trifogliata, non è mai lo strumento storico della Passione. A immagine delle anime rappresentate come colombe, un’appendice di piccole croci si iscrive intorno alla Croce del Signore. La corona di alloro circonda lo scettro infallibile e fioriscono i pampini. Le acque amare diventano dolci, la croce paradisiaca prende posto in cielo e i suoi «rami profumati danno la vita a tutti». Sapienza e santità In un mondo in cui il paganesimo regredisce sempre più, il potere, divenuto cristiano, afferma con la forza la nuova fede. Gli dèi sono ridotti al silenzio e si organizza la repressione contro i pagani. Lo zelo dei cristiani ferventi conduce alla distruzione di una quantità di capolavori dell’arte antica. Le statue vengono distrutte e le effigi colpite a martellate. I templi vengono trasformati in luoghi di culto, gli edifici abbandonati sono trasformati in chiese. A Roma, la chiesa inferiore di San Clemente è costruita su un edificio mitriaco del ii secolo; in Egitto, vicino a Luxor, il chiostro della Medina sorge su un tempio tolemaico circondato da costruzioni minori. La coesistenza di diverse confessioni, ancora vivace nel iv secolo, viene sconvolta. Ad Apamea, presso l’Oronte, due decorazioni sovrapposte a mosaico esprimono brillantemente la resistenza del paganesimo neoplatonico sotto Giuliano l’Apostata e la sua soppressione ad opera del potere cristiano nel v secolo. Tre pannelli impressionanti dimostrano la grande spiritualità dell’edificio pagano rimasto sotto la cattedrale della città. Sul primo si vedono ancelle in cerchio che danzano intorno a Ulisse giunto per incontrare Penelope sotto lo sguardo di Euriclea. La «danza perfetta» dell’Odissea si trasforma in allegoria: l’uomo liberato dei suoi stracci ritrova la felicità della filosofia al termine di una lunga ricerca. Sul secondo pannello troviamo il giudizio delle nereidi; lo sviluppo dell’episodio rivela il senso nascosto del 184
180. Rilievo del mosaico della Grande caccia. Antiochia, Musée des Antiquités.
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racconto mitologico. L’opera, invece di rappresentare la condanna di Cassiopea, ne raffigura l’incoronazione ad opera di una Vittoria. Superata la vana vendetta dell’onore offeso, la palma e la corona sono concesse a Bellezza, Sapienza e Autocontrollo. Sul terzo pannello vediamo riuniti sei sapienti intorno alla figura centrale di Socrate. L’immagine, non nuova nel contesto dell’evoluzione dell’arte paleocristiana, presenta un’esecuzione inedita: il simposio dei sapienti appare immediatamente come la trasposizione diretta dei banchetti cristiani rappresentati sui muri delle catacombe e sui sarcofagi scolpiti. Secondo l’acuta analisi di Balty «Socrate non costituisce soltanto l’immagine del filosofo pagano più venerato, del Sapiente tra i Sapienti, ma rappresenta veramente qui il rivale e il sostituto di Cristo e recupera nell’iconografia il posto sottratogli da Cristo. L’atteggiamento docente, che in origine non gli apparteneva, ne è la prova: Socrate in quest’immagine non è altro che un Cristo “paganizzato” e, considerata la cura nell’indicarne il nome in un’iscrizione benché fosse perfettamente riconoscibile, bisogna dedurne che fosse auspicabile, in un’epoca in cui lo schema era stato ampiamente utilizzato per il personaggio di Cristo, attirare l’attenzione proprio sul fatto che si trattasse al contrario di Socrate»22. Si passa dunque dalla cristianizzazione dei soggetti pagani alla “paganizzazione” dei soggetti recuperati dai cristiani; la lotta per la sopravvivenza termina con i decreti di Teodosio con cui il paganesimo riceve l’estrema condanna. Secondo l’espressione di sant’Agostino, il cristianesimo è «la sola vera filosofia». Socrate e i sapienti sono sepolti e il loro tempio trasformato in chiesa dedicata ai martiri. Il monumento, distrutto dagli sconvolgimenti che scossero Apamea nel 526 e 528, viene trasformato in una monumentale cattedrale. La dedica, inscritta in un medaglione con decoro di spighe, commemora l’offerta consacrata all’Onnipotente: «Mosaico dai ricchi colori, presentato da Paolo, che ha la mente piena dei dogmi dell’Altissimo». La pavimentazione accoglie il fedele e lo introduce nella bellezza della casa di Dio; ci sono sempre animali affrontati a gruppi di due, i simboli delle Scritture sono uniti nell’immagine di un cervo che morde un serpente: il primo simboleggia l’anima che anela a Dio (Sal 42-43,2), il rettile attaccato evoca la potenza del nemico gettata sotto i piedi dei figli di Dio (Lc 10,19). L’uomo, assente nelle decorazioni, è invitato ad abitare nel regno divino: «Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,/ di gloria e di onore lo hai coronato:/ gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,/ tutto hai posto sotto i suoi piedi;/ tutti i greggi e gli armenti,/ tutte le bestie della campagna;/ gli uccelli del cielo e i pesci del mare,/ che percorrono le vie del mare» (Sal 8,6-9). La soppressione del paganesimo segna la fine delle arti politeiste. L’antichità, spogliata delle figure idolatriche, lascia in eredità una quantità di immagini e segni. Il vocabolario neutralizzato dall’arte di culto si trasforma in espressione culturale. I grandi proprietari continuano a ricoprire i pavimenti delle loro ville secondo i costumi del passato; le allegorie personificate riman186
gono, le stagioni e i mesi prendono posto in mezzo a uccelli, pesci, bestiame, erbe, fiori e frutta, le composizioni geometriche e floreali si moltiplicano all’infinito; la profusione animale anima lo spazio e lo trasforma in una terra pacificata. Il visibile e il concreto sono inseparabili da segno e simbolo; l’ornato e il figurato si armonizzano e si completano in eterno. La prospettiva tridimensionale è rispettata raramente, la dualità degli stili regola e modella gli elementi della decorazione. Esseri e cose appaiono ora nel loro aspetto concreto, ora in un’astrazione essenziale. Le pavimentazioni di una villa costruita all’epoca nei dintorni dell’odierna Beirut presentano spighe formate di fasci geometrici decorati da vari motivi figurativi. Prive di volume, le figure animate si trasformano in segni grafici policromi. Armoniosamente disperse, le «erbe che producono seme» si alternano a «esseri viventi secondo la loro specie» (Gn 1,24) a formare un tappeto ornamentale in cui il mistero della Genesi è evocato senza essere narrato. La Grande caccia di Antiochia rientra in un altro stile; qui cacciatori e animali sono disposti attorno alla figura centrale della Magnanimità. Il fondo bianco è neutro e piatto, ma le figure su di esso rappresentate sono naturaliste. Le sfumature e le ombre modellano i corpi vivi, il bestiario conserva tutto il peso del suo aspetto fisico reale, solo la disposizione spaziale è astratta. Il fregio che racchiude la decorazione rivela un nuovo spettacolo: le vie di Antiochia e di Dafne si sovrappongono per ricostruire
un panorama di edifici celebri indicati dai rispettivi nomi. L’opera mostra la porta della città, il ponte dell’Oronte, il palazzo imperiale, la basilica, le grandi ville, i bagni pubblici e l’ippodromo. La presenza umana anima le vie: una donna accompagnata dal suo servitore si accinge a entrare attraverso la porta della città, un dignitario attraversa la via principale, una madre prende il suo bambino per mano sul ponte dell’Oronte. L’osservazione geografica e il gusto del pittoresco si sposano perfettamente. Il fregio ornamentale ricostruisce la pianta della città e ne rappresenta le strutture essenziali. I soggetti antichi, cristianizzati, entrano nelle abitazioni cristiane. Su un pavimento di una casa di campagna di Dafne, la fenice con un’aureola raggiata si alza maestosamente sul monte del paradiso. Il mitico uccello è percepito dall’epoca apostolica come il simbolo della resurrezione. Clemente Romano, nella prima epistola, invita i corinzi a prendere in considerazione «lo strano segno che giunge dai paesi orientali»: «Esiste laggiù un uccello chiamato fenice; è unico nel suo genere e vive cinquecento anni. All’approssimarsi della morte, si costruisce un letto con l’incenso, la mirra e altri aromi su cui, terminato il suo tempo, si corica e muore. Dalla sua carne in putrefazione nasce un verme che si nutre del cadavere dell’uccello e si copre delle sue piume. Diventato forte, solleva il letto in cui giacciono le ossa dell’antenato e porta il suo fardello dall’Arabia all’Egitto, fino alla città chiamata Heliopolis. Là, in pieno giorno, alla
vista di tutti, vola via verso l’altare del sole, vi depone il suo carico e ritorna al nido ad ali spiegate»23. I fedeli addormentati, come l’uccello giunto dall’Oriente, saranno risvegliati da Dio. Il Creatore lo promette e, «già, in un uccello, dimostra la potenza della sua promessa»24. La fenice sul rogo appare nel iii secolo su una pittura delle catacombe di Priscilla. Una pietra tombale dell’area cimiteriale di San Callisto la mostra in cammino, cinta da un’aureola e coronata da quattro raggi. Nel iv secolo, è inserita in un medaglione a mosaico della basilica del vescovo Teodoro ad Aquileia. L’uccello mitico, testimonianza del mistero della resurrezione, diventa nella coscienza cristiana un simbolo del Cristo. Nel v secolo, sulla pavimentazione di Dafne, l’uccello-sole si rivela solo sul monte di Sion. Piantine di boccioli di rose, disposte simmetricamente intorno all’uccello, formano un’elegante rete di losanghe sulla superficie di fondo giallo pallido; un fregio sassanide incornicia il tutto con un corteo di stambecchi poggianti su alette. Maestosamente cinto di raggi, il «Salvatore della razza mortale»25 domina lo spazio etereo, «da Oriente a Occidente, lode a lui. Da sud a nord, gloria a lui! Dalla sommità dei cieli alla loro base brilla la sua perfezione»26. Sulla pavimentazione di una villa a sud di Beirut, un pastore accompagnato dal cane appare in mezzo a un grande gruppo di animali delimitato da una doppia cornice. Vestito semplicemente di una corta tunica chiusa da una cintura e di un mantello fermato sul braccio sini-
181. La Fenice, mosaico da Antiochia. Parigi, Louvre.
182. Mosaico del Buon Pastore-Orfeo. Beirut, Museo nazionale.
183. Mosaico con decorazione paradisiaca. Beirut, Museo nazionale.
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no. A Tabgha, in Palestina, sul pavimento del transetto nord della chiesa della Moltiplicazione dei pani, gli esseri si muovono a modo loro in uno spazio aereo in cui acqua e terra appaiono mescolate. La fauna e la flora si estendono su una superficie piana liberata da ogni ordinamento geometrico. Gli uccelli e i serpenti popolano uno spazio disseminato di alloro, piante di loto e di papiro. La leggerezza e la grazia dominano e regolano gli elementi distribuiti sul bordo del lago. Ad Aquileia, sul frammento proveniente dalla chiesa del fondo Tullio, l’organizzazione spaziale assume forme completamente diverse: tralci guarniti di foglie e grappoli emergono da quattro acanti posti agli angoli del pannello e sono disposti graziosamente intrecciati. La vigna zappata, privata di ogni aspetto naturalista, si trasforma in nastro che ricopre lo spazio con le sue onde simmetriche; dodici agnelli sono disposti nelle volute dei racemi; nella prospettiva entrano anche alcuni uccelli. Un gallo e un pavone, posti rispettivamente a destra e a sinistra, danno equilibrio all’insieme. Tutto inneggia alla «vigna deliziosa» custodita «notte e giorno» da Jahvè (Is 27,3). Il crescente gusto per la simmetria conduce all’elaborazione di tele geometriche; pampini e ramoscelli stilizzati spuntano da cantari a ovolo per ricoprire lo spazio delle loro volute. Gli alberi da frutto, i cipressi, i pini e i cedri emergono da una distesa di fiorellini: «Tu hai piantato, Dio Onnipotente, per mezzo di Cristo, il paradiso a Eden, in Oriente; l’hai arricchito di ogni sorta di piante commestibili, vi hai posto l’uomo come in una dimora sontuosa. Gli hai dato la legge innata, che gli ha fornito il germe della conoscenza di Dio»28. Il riempimento sistematico mostra i soggetti più svariati. Quadrupedi e volatili, ieratici e affrontati, di corsa o volanti, sono ora a riposo, ora vivi e animati. La tela geometrica frammenta l’iconografia animale in singole unità; le catalogazioni enumerano le creature venute dai quattro angoli della terra. Come scrive Basilio il Grande, «L’intero universo è per te come un libro il cui testo diffonde la gloria di Dio: la grandezza nascosta e invisibile di Dio l’annuncia a te che sei dotato della mente per conoscere la verità»29. I segni biblici confermano la grazia paradisiaca; a Tabgha, l’airone dal lungo becco che tocca il serpente arrotolato sotto le sue zampe ricorda il cammino del Signore su «aspidi e vipere» (Sal 91,13). La vasca circondata di volatili ricorda l’eucaristia, le croci sormontano i pavoni affrontati sotto un tappeto di stagni e celebrano la vita più forte della morte. Entrare nel santuario significa penetrare nel giardino celeste e dominare di nuovo «sui pesci del mare/ e sugli uccelli del cielo/ e su ogni essere vivente,/ che striscia sulla terra» (Gn 1,28). Un’iscrizione si ripete davanti alle porte delle chiese: «Questa è la porta del Signore, solo i Giusti entrano». Il comandamento dato da Dio all’uomo risuona di nuovo: «Introducendo l’uomo nel paradiso di delizie, tu gli hai permesso di godere di tutto, ad eccezione di una sola cosa, al fine di instillargli la speranza di beni migliori; se avesse osservato il comandamento, avrebbe avuto la promessa dell’immortalità»30.
stro, il Buon Pastore appoggia la mano destra sul bastone posando il piede su una roccia. Un cane rappresentato sulla sinistra volta fedelmente la testa verso il padrone. Il mosaico fa pensare alla pittura di Orfeo col cane su una parete delle catacombe di San Callisto. Il Pastore, dipinto su fondo bianco neutro, si ritrova circondato da una quantità di animali brulicanti tra cui numerosi uccelli, insetti e bestie selvagge. Come nella Grande caccia di Antiochia, gli animali rappresentati nel loro aspetto reale sono sospesi nel vuoto, sovrapposti in profondità gli uni sugli altri. Due cerve, due faraone, una cicogna e un pavone sono accostati tranquillamente a una pantera e a una leonessa; un orso e un bue compaiono dietro un perniciotto e un fagiano, un trampoliere prende il volo vicino a una capra e un capro; due piccioni dal nastro svolazzante danno all’opera di gusto romano un tocco sassanide. La parte superiore, di cui metà è andata perduta, presenta sopra il pastore un’oca, un leone, un daino e uno struzzo. Le dimensioni degli animali rafforzano il carattere simbolico della scena, in quanto l’oca e il fagiano hanno le stesse misure dello struzzo e dell’orso. La terra pacificata unisce le fiere agli animali domestici e il Buon Pastore domina lo spazio orfico; il creato è raggruppato intorno al Creatore. La pavimentazione animata accoglie il visitatore nella pace del Signore: «... tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,22-23). Il paradiso di delizie
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Le pavimentazioni delle dimore di Dio condividono lo stesso spirito: l’immagine fantasiosa dell’emblema racchiuso in una cornice astratta è stata all’epoca abbandonata, la «finestra» cede il passo al «tappeto». I quadri figurati e i tappeti geometrici costituiscono ormai una stessa entità. La prospettiva bidimensionale regna senza riserve. La fattura degli elementi animati oscilla tra la rappresentazione naturalista e una raffigurazione schematica non naturalista. L’eliminazione dei cicli mitologici non conduce alla ricostruzione figurata della storia biblica, le decorazioni neutre attingono dai cicli stagionali e cosmici per comporre i pannelli riuniti in tappeti ornamentali. L’esuberanza vegetale si coniuga al brulicare di animali, la terra pacificata assume l’aspetto della Genesi, quando tutto agli occhi di Dio era «cosa buona» (Gn 1,10). Come recita la messa delle Costituzioni apostoliche, «Tu hai colmato il tuo universo ornandolo di erbe profumate e salutari, di molti e svariati animali, grandi e piccoli, utili per il cibo o il lavoro, domestici e selvatici, serpenti sibilanti, uccelli canterini. Tu gli hai dato il ritmo degli anni, dei mesi e dei giorni, un susseguirsi di tempeste, il movimento delle nuvole portatrici di pioggia per far maturare i frutti e aiutare gli esseri viventi; i venti soffiano ma tu li governi»27. Non c’è alcun segno di caos, la creazione è ovunque governata e dominata dall’ordine divino. L’organizzazione dello spazio figurato cambia, la pace e la calma rimango188
Tav. 79. Bacco, particolare di un mosaico da Byblos. Museo nazionale di Beirut.
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Tav. 80. Socrate e i saggi, mosaico di un edificio pagano sottostante la cattedrale di Apamea. Museo di Apamea, Siria.
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Tav. 81. Adamo troneggia tra gli animali, mosaico da Huarte. Museo di Apamea, Siria.
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Tav. 82. Adamo in trono. Museo di Hama, Siria.
Tav. 83. Il trasporto delle reliquie, mosaico dal pavimento della chiesa superiore di Huarte. Museo di Apamea, Siria.
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Tav. 84. Daniele in preghiera. Museo di Hama, Siria.
Tav. 85. Mosaico funerario da Homs. Damasco, Museo nazionale.
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184. Mosaico pavimentale con paesaggio nilotico. Tabgha, Palestina, chiesa della Moltiplicazione dei pani e dei pesci. 185. Ricostruzione del mosaico del pavimento del salutatorium del gruppo episcopale di Ginevra. Ginevra, Service cantonal d’archeologie.
(a fronte) Tav. 86. Vaso e tralci. Museo di Apamea, Siria.
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Nell’Oriente greco come nell’Occidente latino le epifanie del creato offerto a Dio si ripetono sui rivestimenti dei pavimenti. A Mopsuestia, sul pannello occidentale della navata centrale, gli animali suddivisi in due file entrano nell’arca di Noè; a Stobi, intorno al fonte battesimale, i pavoni e le gazzelle vengono ad attingere «acqua con gioia/ alle sorgenti della salvezza» (Is 12,3); a Nicopolis, pesci puri nuotano in acqua «limpida come cristallo» (Ap 22,1). Il fiume della Vita racchiude il giardino dove gli uccelli volano sopra gli alberi carichi di frutti: «In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni» (Ap 22,2). A Eraclea Lincestide, il terreno e il celeste sono riuniti in una composizione rettangolare; gli animali dediti ai combattimenti simboleggiano le passioni e la loro intesa, come osserva Basilio di Cesarea: «È una quantità di bestie selvagge che hai dentro di te. Sei stato davvero creato maestro delle bestie selvagge se, comandando a quelle che sono fuori di te, lasci le interiori senza controllo?»31. Più lontano, un capro languisce sotto un cedro finemente stilizzato, gli uccelli attraversano il cielo fiorito, la colomba spiega completamente le ali. Le potenze del male sono vinte, la primavera spirituale risplende: «Riposa ora tranquilla tutta la terra/ ed erompe in grida di gioia./ Persino i cipressi gioiscono riguardo a te/ e anche i cedri del Libano:/ da quando tu sei prostrato, non salgono più/ i
tagliaboschi contro di noi» (Is 14,7-8). Le pavimentazioni si moltiplicano; dall’Africa all’Oriente risuona lo stesso inno, ovunque si compie la profezia di Isaia: «Voi dunque partirete con gioia,/ sarete condotti in pace./ I monti e i colli davanti a voi/ eromperanno in grida di gioia/ e tutti gli alberi dei campi batteranno le mani./ Invece di spine cresceranno cipressi,/ invece di ortiche cresceranno mirti;/ ciò che sarà a gloria del Signore,/ un segno eterno che non scomparirà» (Is 55,12-13); «Il lupo e l’agnello pascoleranno insieme,/ il leone mangerà la paglia come un bue,/ ma il serpente mangerà la polvere,/ non faranno né male né danno/ in tutto il mio santo monte – dice il Signore» (Is 65,25). I personaggi biblici sono raramente rappresentati. In Cilicia, il ciclo di Sansone è sviluppato su una navata della basilica di Mopsuestia: unica nel suo genere, la decorazione narrativa ripercorre l’itinerario del nazireo di Dio attraverso una successione di immagini accompagnate da citazioni bibliche. In Palestina, Giona compare all’interno di varie edicole delle navate laterali della chiesa di Beth Djibrin; in Africa settentrionale, Daniele appare nudo tra quattro leoni su un ottagono del pavimento di Henchir Msaadin. In Siria, il Museo di Hama conserva un frammento su cui è rappresentato il profeta della corte di Nabucodonosor vestito dell’abituale abito orientale. Nel Museo di Cleveland è conservato un pannello in cui Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito e si coprono con perizomi di foglie. A questa illustrazione
190. Mosaico con inseguimento di animali, dalla chiesa superiore di Huarte. Damasco, Museo nazionale. (a fronte)
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186. Adamo ed Eva in paradiso, mosaico siriano. The Cleveland Museum of Art, John L. Severance Fund.
188. Cervi e croce, mosaico da Henchir Ounaïssia. Sbeitla, deposito del Museo.
187. Daniele nella fossa dei leoni, mosaico da Henchir Msaadin. Tunisi, Museo del Bardo.
189. Cervi e i quattro fiumi del paradiso, frammento di mosaico da Iunga. Tunisi, Museo del Bardo.
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del racconto biblico si aggiunge un secondo modello, dove il padre dell’umanità, vestito di tunica e mantello, è seduto in maestà su un trono signorile. L’archetipo si ripete su tre pannelli siriaci; nel primo, esposto nel mu82 seo di Hama, il personaggio compare tra due colonne con capitelli corinzi sormontate da un arco modanato. L’immagine è accompagnata da un’iscrizione bilingue: il nome di Adamo, iscritto a grandi caratteri greci, da una parte e dall’altra della testa, si ripete verticalmente a sinistra in caratteri siriaci molto grossolani. Sul secondo mosaico, conservato nel Museo nazionale di Copenaghen, le colonne sono sostituite da due cipressi affilati. Il pannello tagliato lascia intuire una decorazione paradisiaca di cui rimangono una testa di egretta e un ramo guarnito di un albero da frutta. Nel terzo pannello, nel 81 Museo di Apamea, vediamo un Adamo-Orfeo che regna sulla creazione di Dio; l’immagine evoca immediatamente la Genesi, nel momento in cui Jahvè conduce le bestie e gli uccelli «all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati» (Gn 2,19). Due serpenti avvolti intorno alle colonne di cipressi circondano il personaggio; gli animali, rappresentati di profilo, si voltano dai due lati verso il padrone posto in pieno prospetto. Il favoloso domina il terreno; una fenice e un grifone circondano il busto di Adamo, un leone e un’aquila prendono posto ai suoi piedi; degli uccelli, un orso, uno sciacallo e una donnola appaiono sul fondo disseminato di piccoli fiori. La figura è sormontata dall’iscrizione greca del nome. L’immagine, ieratica e solenne, si distacca completamente dalle rappresentazioni paleocristiane di Adamo: seduto su un sedile con cuscino, l’Orfeo siriaco ha un aspetto decisamente cristico. Sul mosaico conservato a Copenaghen appare cinto da aureola, mentre abbozza con le dita un gesto di benedizione. Nel frammento del Museo di Hama, il braccio è levato e il gesto è più preciso: il palmo è aperto e il mignolo si congiunge al pollice. Nel pannello conservato ad Apamea, un grande libro semiaperto tra le mani prende il posto della benedizione solenne. L’immagine rimanda irresistibilmente all’«altro Orfeo», quello che «solo, in verità», «ha avvicinato gli animali più difficili che si siano mai visti, gli uomini»32. La fenice cinta da sette raggi conferma l’identità del personaggio; di fronte a lui, il grifone immobile evoca la fatalità e la morte domate; l’aquila, uccello psicopompo dell’apoteosi, rappresenta l’ascensione e l’immortalità; l’orso ammansito, simbolo «dell’astuzia che si annida nell’animo perfido»33, fa pensare alle passioni domate. Il nuovo Adamo si profila dietro al primo. I mosaici, per mezzo delle varianti inserite, evocano il mistero senza cercare di commentarlo o spiegarlo; l’immagine battezza Adamo e indica il modello perfetto, «il Figlio, a immagine del quale è stato fatto l’uomo»34. Pierre Canivet osserva: «Come la Scrittura nasconde più di un significato e i fedeli sono abituati a scoprirne il senso figurativo dietro il significato letterale, poi le interpretazioni allegoriche o le applicazioni morali, l’immagine completa di Adamo è decifrabile come attraverso le sovrimpressioni. In primo luogo vi è l’uomo al centro della creazione, poi
191. Rilievo del mosaico pavimentale della chiesa superiore di Huarte.
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il Cristo, “secondo Adamo”, di cui il primo costituiva la prefigurazione e, attraverso le due immagini, una di peccato e l’altra di salvezza, l’umanità intera nell’attesa della resurrezione». Il pannello del Museo di Apamea proviene da una chiesa dedicata a san Michele, situata a Huarte, in Apamenia. L’immagine, riportata nella sistemazione originaria, rischiara l’insieme del pavimento del santuario. Seguendo le piante adottate correntemente, l’edificio presenta tre navate, un’abside, un battistero e una cappella dei martiri. Sulla cupola si vedono racemi avvitati popolati di gazzelle e volatili; nel lato sud sono sviluppati su tutta la lunghezza animali isolati su fondo disseminato di fiori; dei pini separano una serie di combattimenti in cui una pantera, un leopardo, un orso e un grifone attaccano rispettivamente uno struzzo, dei cervidi, asini e uno zebù. Nel lato nord sono riuniti su un’unica superficie due rappresentazioni distinte; collegate ai combattimenti del lato sud, sulla prima parte di superficie troviamo tre belve inferocite che si gettano su un cervo, un bue e uno stambecco. Una scena di trasporto è sviluppata in un’azione opposta: un personaggio rappresentato in movimento conduce due muli con una lettiga carica di una capsa preziosa. L’immagine, unica nel suo genere, è interpretata come il trasporto di reliquie o di un malato venuto a implorare l’intercessione del santo arcangelo a cui è dedicata la chiesa. La navata centrale ospita il novello Orfeo che domina la creazione; il contrasto tra la decorazione animalistica sulle navate laterali e quella dello spazio centrale non è casuale: la prima, destinata a decorare la parte della chiesa riservata ai catecumeni, sembra illustrare la «quantità di bestie selvagge» che l’uomo esteriore porta dentro di sé. La seconda, posta al centro del santuario, riflette la pace promessa a coloro che sono stati purificati nell’acqua e santificati dallo Spirito Santo: «l’inno dei tiranni si spegne» (Is 25,5). Il sovrano Servitore, inaugurando il mondo rinnovato, apre il Libro della Vita per presentare fedelmente il diritto e stabilirlo su tutta la terra. Il ciel d’oro I mosaici murali dell’epoca sono meno numerosi. La tecnica è derivata dall’uso tradizionale a cui sono stati apportati alcuni perfezionamenti; la materia è più raffinata e la tecnica più sofisticata. Milano, una delle quattro capitali dell’Impero occidentale sotto Teodosio, presenta cappelle decorate su cui si può cogliere l’evoluzione estetica operata tra il iv e il v secolo. Nell’ex battistero di Sant’Aquilino, collegato alla chiesa di San Lorenzo Maggiore, rimane soltanto un’infinitesima parte del programma originario. Un ciclo di figure in piedi allineate e sovrapposte ricopriva le pareti del vestibolo; i pochi frammenti rimasti mostrano Giuda, Simeone e Zabulone. Una scena inserita in un piccolo riquadro è posta accanto a Giuda; l’immagine, in cui si vedono una donna e un uomo accompagnati da due bambini, è interpre201
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tata come la rappresentazione di Giuda e Tamara con i gemelli Peres e Zerac. Il programma decorativo probabilmente prevedeva la rappresentazione dei patriarchi dell’antica legge e gli apostoli della nuova alleanza. Due immagini decorano le absidi della rotonda; la prima, parzialmente conservata, presenta un paesaggio pastorale in cui una quadriga appare sospesa sopra i pastori a riposo. La parte in cui era rappresentato il viaggiatore in apoteosi è andata perduta. L’immagine rimanda al Cristo-Helios della necropoli romana sotto San Pietro e pare illustrare il pensiero di Clemente Alessandrino: «Il sole di giustizia, che passa ovunque nella sua cavalcata, fa visita anche a tutta l’umanità, imitando il Padre, che “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni” (Mt 5,45), e distilla la rugiada della verità»35. La scena segue fedelmente le leggi dell’estetica antica, i pastori assopiti tra le rocce umide ripetono modelli del passato. La tematica, i motivi e i simboli sono recuperati e adottati per rappresentare il Cristo e annunciarne in immagini la “buona parola”. Sulla seconda cupola è rappresentata a mosaico l’immagine conosciuta del cenacolo apostolico riunito attorno al Cristo. L’opera, perfettamente conservata, riproduce originalmente l’affresco del cimitero anonimo romano di via Anapo, in cui un giovane Cristo glabro presiede l’assemblea. Ai suoi piedi giace uno scrigno rosso pieno di rotoli che conferma il suo status di Pedagogo supremo. I volti degli apostoli non presentano elementi tipologici particolari, solo Pietro e Paolo, posti accanto a Cristo, sono perfettamente riconoscibili. I personaggi sono vestiti uniformemente di bianco, colore adatto «agli amici della pace e della luce»36. Le figure risaltano sul fondo d’oro luminoso, come recita il Pastore di Erma: «La parte dorata siete voi, voi che siete sfuggiti a questo mondo»37. La seconda cappella milanese fa parte della basilica di Sant’Ambrogio. Battezzata San Vittore in Ciel d’O-
ro, presenta al centro della cupola luminosa il santo titolare incorniciato in una corona di alloro intrecciato di fiori e frutti. Rappresentato frontalmente tra due croci, regge un libro aperto col suo nome impresso; porta un diadema gemmato e ornato da un nastro, fissato nel vuoto sopra la sua testa. L’eroe di Dio occupa il posto solitamente riservato al Verbo invincibile; colui che «ha resuscitato in lui l’uomo caduto e l’ha fatto salire fino al più alto dei cieli»38, rivela il suo volto attraverso coloro che vivono in lui. Un gruppo di santi in piedi, posti su 88, 89 fondo azzurro cupo, scorta l’eroe vittorioso sulla base della cupola d’oro. Le iscrizioni citano Ambrogio, Gervasio, Protasio, Materno, Felice e Nabore. I martiri di Milano, venuti da Ravenna e dalla Mauritania, si ergono sotto il cielo del Cristo. Romani o stranieri i santi, pieni di Spirito Santo, sono fratelli in Cristo. Vittore, Felice e Nabore erano mori, ma l’iconografia si dimostra indifferente alle caratteristiche etnografiche; le loro agiografie li presentano come soldati e sul mosaico sono vestiti di bianco, a immagine degli eletti che «hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). Le quattro figure storiche sostengono la cupola del cielo, lo spazio è spoglio, l’azzurro e l’oro, intensi e scintillanti, si aprono sul regno celeste. Scrive sant’Ambrogio: «Nessuna nuvola, nessun temporale, nessun lampo, nessuna tempesta di vento né tenebre, né crepuscolo, né estate, né inverno segneranno le vicissitudini del tempo, e neppure il freddo, la grandine e la pioggia. Il povero piccolo sole, la luna, i globi stellari non serviranno più a niente: solo il chiarore di Dio risplenderà, perché Dio sarà la luce di tutti, la vera luce che illumina tutti gli uomini risplenderà per tutti»39. L’arte cristiana passa progressivamente dalla tarda Antichità all’epoca prebizantina. A Ravenna, capitale imperiale di Onorio, le decorazioni del mausoleo di Galla Placidia e del battistero degli Ortodossi sono te-
stimonianze dello stesso percorso. L’edificio, destinato ad accogliere le spoglie della sorella dell’imperatore, vede riuniti gli apostoli sotto la croce della cupola orien90 tata verso levante. Lo scettro di gloria, circondato dalle quattro figure storiche, riluce in mezzo alle ottocento stelle d’oro che illuminano il blu notturno del fondo. I piccoli astri si susseguono in cerchi concentrici, creando un movimento solenne e infinito. La croce si estende ai quattro venti, avvolgendo nelle sue scintille le quattro regioni del mondo. Come ha osservato Ireneo di Lione nel ii secolo, la «presenza invisibile» del Verbo si «estende alla creazione intera e ne sostiene la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità»40. La notte luminosa si estende a coprire le volte dei bracci nord e sud, una rete di lobi e corolle simmetriche tappezza lo spazio scuro; l’oro, il bianco, il verde e il rosso punteggiano il blu notte animandolo delle loro tonalità. Gli apostoli sono disposti sotto il cielo cruciforme due a due su ognuno dei quattro lati del tamburo e quattro sulle volte a botte dei bracci est e ovest; sulla lunetta sovrastante l’in91 gresso nord è raffigurato il Buon Pastore. Il mosaico, fedele all’immagine pastorale antica, presenta il pastore seduto tra sei pecore disposte armoniosamente tra ciuffi d’erba. Il senso dei volumi e la rappresentazione del paesaggio creano un’atmosfera tridimensionale, in cui la gloria si unisce alla semplicità: il mantello di porpora e la tunica d’oro conferiscono al personaggio un aspetto imperiale, l’aureola e il vincastro sormontato da una croce dominano la scena, mentre le pecore alzano docilmente la testa verso il Maestro; la mano destra si al-
lunga dolcemente ad accarezzare una delle bestie: «un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16). San Lorenzo compare in cammino sulla lunetta a sud, con la croce processionale sulla spalla destra e la Bibbia nella mano sinistra. Accanto a lui, una graticola col fuoco evoca il martirio del santo senza illustrarlo. Un armadio aperto, posto sulla sinistra, permette di vedere quattro libri con impressi i nomi degli evangelisti. Lo strumento del supplizio è accostato ai libri della buona novella, il santo avanza solennemente, col mantello svolazzante nello spazio: «Molti saranno i dolori dell’empio,/ ma la grazia circonda chi confida nel Signore» (Sal 32,10). Due cervi giungono ad abbeverarsi alle acque sorgive sulle lunette est e ovest. Composizioni vegetali fiorite ricoprono gli intradossi; la croce è inscritta in un medaglione azzurro tra i frutti: «Misericordia e verità s’incontreranno,/ giustizia e pace si baceranno./ La verità germoglierà dalla terra/ e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85,11-12). Nel battistero degli Ortodossi si compie la fusione tra cielo e terra. La parte centrale della cupola è dedicata al battesimo di Cristo, raffigurato su fondo oro; l’aria, con i suoi bagliori, fa oscillare l’immagine dell’acqua e della terra, la colomba, che spiega simmetricamente le ali, assume la forma di una croce bianca, lo Spirito Santo domina la discesa del Figlio nelle acque vivificate: «Quando egli fu immerso nel Giordano – dice san Cirillo di Gerusalemme – una volta passati alle acque gli effluvi della sua divinità, ne uscì, e lo Spirito Santo scese realmente in lui, e il simile venne a riposare sul simile»41. Dietro di lui, il Giordano personificato ha le
194-196. San Lorenzo; due figure di apostoli; cervi affrontati, mosaici. Ravenna, mausoleo di Galla Placidia. (a fronte) 192-193. Simone e Giuda, due figure dai mosaici della cappella di Sant’Aquilino. Milano, basilica di Sant’Eustorgio.
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Tav. 87. Cristo insegna agli apostoli. Milano, basilica di San Lorenzo Maggiore, cappella di Sant’Aquilino.
197. Cupola del battistero degli Ortodossi. Ravenna.
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Tav. 88. I santi Protasio, Ambrogio e Gervasio. Milano, basilica di Sant’Ambrogio, sacello di San Vittore in Ciel d’Oro.
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Tav. 89. I santi Felice, Materno, Nabore. Ibidem.
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Tav. 91. Il Buon Pastore. Ibidem.
Tav. 90. Croce dorata. Ravenna, mausoleo di Gallia Placidia.
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Tav. 92. Cristo in trono, mosaico absidale. Roma, basilica di Santa Pudenziana.
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Tav. 93 Arcone centrale della basilica di Santa Maria Maggiore, Roma.
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Pagine seguenti Tav. 96. La pesca miracolosa. Ibidem. Tav. 94. Le nozze di Cana. Napoli, battistero di San Giovanni in Fonte.
Tav. 95. Croce e fenice. Ibidem.
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Tav. 97. La traditio legis. Ibidem.
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Tav. 98-99. Due figure di martiri con la corona della vittoria. Ibidem.
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chiesa greco-romana è eretta per portare la salvezza in tutti gli angoli della terra. Le figure si ripetono uniformemente: greco-romana o ebraica, la chiesa madre ha il Libro della Vita in una mano e con l’altra abbozza un gesto di benedizione. La basilica di Santa Maria Maggiore è ornata da un ricco gruppo di mosaici d’ispirazione biblica. Un grande ciclo veterotestamentario è sviluppato su un’ampia superficie lungo tutta la navata centrale. I pannelli, lungi dal costituire un fregio ininterrotto subordinato ai valori tettonici, costituiscono quasi una serie di quadri portatili di dimensioni identiche posti simmetricamente sulla fascia sopra le colonne. L’insieme comprendeva quarantadue quadri suddivisi sui due lati; su ogni lato c’erano dunque ventuno quadri, ognuno sotto l’apertura di una finestra; ne sono rimasti ventisette, dodici a sinistra e quindici a destra. Il ciclo della basilica, al contrario dei programmi adottati nelle catacombe, obbedisce a un ordine unitario che va dal libro della Genesi a quello di Giosuè. Le immagini evocano le promesse fatte da Dio al suo popolo e il loro compimento finale in Cristo. La zona a sinistra è dedicata ai tre grandi patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe. Melchisedek apre il lungo cammino. Vero sacerdote del vero Dio, il re di Salem si prepara all’incontro con Abramo portando tra le mani un cesto di pane. Una grande urna posta tra i due uomini ricorda l’offerta del vino. Il patriarca, seduto sul suo cavallo, assegna la decima di tutto al sacerdote dell’Altissimo. La scena rimanda all’interpretazione paolina dell’evento: il Cristo emerge dalle sfere celesti per indicare con la mano colui che «rimane sacerdote in eterno» (Eb 7,3). La scena presenta uno spazio composito, in cui la superficie è divisa in tre parti: il suolo è un campo verde delimitato dal fondo oro sopra al quale appare il cielo azzurro disseminato di nuvole. L’offerta di Melchisedek è seguita dalla separazione di Abramo
mani coperte in segno di venerazione: «Che hai tu, mare, per fuggire,/ e tu, Giordano, perché torni indietro?» (Sal 114,5). Il battesimo si trasforma in incoronazione, il Precursore avanza con una sontuosa croce processionale; in piedi su uno scoglio, alza la patena sopra la testa di Cristo. La luce inonda il battezzato e lo illumina. L’epifania è avvolta in due registri concentrici; sul primo si vede una processione di apostoli condotti da Pietro e Paolo. I Dodici, separati da candelabri a forma di acanto, si ergono su un fondo azzurro scuro; indossano vesti bianche e oro e vengono a presentare le loro corone a colui che possiede la Corona della gloria, come spiega sant’Ambrogio: «La sua corona contiene tutte le altre, perché la gloria non è una parte di una sola corona, ma è la ricompensa di tutte le corone»42. Sul secondo registro vediamo una successione di oggetti liturgici che si ripetono; otto pannelli separati da candelabri mostrano l’altare del Vangelo e il trono dell’etimasia sormontato dalla croce: «Ma il Signore sta assiso in eterno;/ erige per il giudizio il suo trono» (Sal 9,8). Il trono è vuoto, segno dell’inconoscibilità di Dio; la croce campeggia come «Giudizio del giudizio». Gli archi sono ricoperti da motivi vegetali, i profeti sono situati in edicole tra i racemi: «[...] piantati nella casa del Signore,/ fioriranno negli atri del nostro Dio» (Sal 92,14). La città celeste I mosaici realizzati a Roma rientrano nell’arte della tarda 92 antichità. Nella chiesa di Santa Pudenziana il Cristo ap-
Tav. 100. Resti del mosaico della cupola con la fenice e decorazioni floreali. Salonicco, rotonda di San Giorgio (mausoleo di Costante).
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pare sull’abside, seduto su un trono imperiale. I quattro viventi e i dodici apostoli sono riuniti intorno al Maestro; il cielo e la terra salutano il Creatore. L’archetipo e la rappresentazione plastica sono tipicamente classici, la scena è costruita sul modello di un collegio romano di sapienti. Gli effetti del cosiddetto illusionismo ellenistico appaiono perfezionati; uomini, animali, costruzioni architettoniche e oggetti sono realizzati secondo i canoni naturalistici e il fondo si apre su uno spazio a trompe-l’œil. Il cielo offuscato dalle nuvole accentua la profondità del campo visivo, i rapporti reali di esseri e cose sono ampiamente rispettati; seguendo un’ottica centrifuga, le linee dello spazio rappresentato sembrano convergere sullo stesso punto di fuga. Solo la croce gemmata sospesa in cielo si allontana da tutti i modelli fantastici: rappresentata in maniera unidimensionale, appare come un elemento esteriore fissato frontalmente sullo spazio tridimensionale del cielo; le figure allegoriche sono mescolate ai personaggi storici. Due donne velate, poste una per lato, avanzano per incoronare Pietro e Paolo; le vittorie che trasmettono le corone offerte ai sovrani sono battezzate e integrate nel collegio apostolico. Le si ritrovano nella navata centrale della basilica di Santa Sabina, a incorniciare la dedica posta sopra la porta d’ingresso. L’iscrizione riporta le due grandi sorgenti della nuova Chiesa: ex gentibus ed ex circumcisione. La figura di destra appare in paludamenti regali: la
198-199. La chiesa della circoncisione e la chiesa dei gentili, due particolari dei mosaici. Roma, basilica di Santa Sabina.
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ne al figlio minore sotto lo sguardo complice di Rebecca. La vita movimentata di Giacobbe occupa gli altri pannelli dell’area; la tematica segue fedelmente il racconto biblico e le fonti iconografiche derivano dalla tradizione antica. L’azione è ambientata in un paesaggio bucolico in cui gli alberi, i fiori e gli uccelli si ripetono senza mai costituire un ordine decorativo ornamentale. I piani prospettici sono costruiti secondo un procedimento lineare e sono le gamme di colori a determinare i vari piani della composizione. L’oro inonda l’atmosfera senza annullarne la profondità; la rappresentazione pittorica rimane ampiamente tributaria delle forme classiche, le scene si susseguono come in un libro illustrato: Rachele accorre per annunciare al padre Labano l’arrivo del cugino, lo zio accoglie il nipote e lo porta con sé; Giacobbe, vestito da pastore, arriva per chiedere in sposa Rachele. La richiesta, non accolta la prima volta, viene ripetuta dopo sette anni di servizio; il pastore, abbandonato il gregge, implora lo zio: «Dammi la mia sposa, perché il mio tempo è compiuto e voglio unirmi a lei» (Gn 29,31). Lo svolgimento delle nozze è rappresentato sul registro inferiore: i due sposi si tengono per mano in segno di unione davanti al padre. La rappresentazione prosegue con le avventure del figlio di Isacco, dove si
e Lot; incapaci di vivere nello stesso accampamento, i due fratelli si separano con le rispettive famiglie: uno va a sinistra e l’altro a destra. Una scena pastorale raffigurata sul registro inferiore riprende lo stesso avvenimento; due pastori si danno le spalle guardando rispettivamente i due padroni. L’immagine allude alla disputa tra i mandriani all’origine della separazione. Lot si dirige verso la valle del Giordano e Abramo si stabilisce alla Quercia di Mamre. La rappresentazione prosegue con la visita dei tre angeli; seguendo la narrazione continua, Abramo accoglie i tre uomini misteriosi inchinandosi, chiama Sara per preparare la focaccia e presenta il vitello preparato. I tre visitatori cinti dall’aureola formano un’unica triade. La somiglianza di volti e tuniche rafforza la loro unità. Le tre aureole marcate di bianco simboleggiano la loro natura divina. La visione cristiana illumina l’episodio veterotestamentario; Dio si rivela in tre persone eguali che condividono la stessa natura. Il ciclo prosegue con i figli e i nipoti di Abramo. Il quarto pannello presenta su due registri Isacco che impartisce la benedizione a Giacobbe ed Esaù che mostra al padre il suo bottino di caccia. Il mosaico ricorda gli affreschi delle catacombe di via Latina: il vecchio patriarca, disteso sul divano, accorda l’estrema benedizio-
200-205. Abramo e Melchisedek; la separazione di Abramo e di Lot; l’ospitalità di Abramo; la benedizione di Lot; Rachele, Giobbe e Labano; la partenza di Giacobbe: particolari dei mosaici della basilica di Santa Maria Maggiore. Roma.
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re ottiene i favori del fratello maggiore. Esaù riprende il cammino verso Seir, Giacobbe parte per Sichem per acquistare la terra in cui aveva piantato l’accampamento. Il ratto di Dina chiude il ciclo; l’ultimo pannello rimasto presenta i principi della città venuti per trattare con il patriarca il matrimonio della figlia rapita. Sul registro inferiore, i capi di Sichem invitano gli uomini ad accettare la condizione richiesta da Giacobbe e i suoi figli: tutti i maschi della città devono essere circoncisi come i figli di Abramo. La zona di destra si apre sull’infanzia di Mosè. Il primo pannello presenta due scene sovrapposte. La figlia
vede Giacobbe che viene a chiedere al suocero la ricompensa dei buoni servigi per fare ritorno nella sua terra. Secondo il racconto biblico, le pecore nere e le capre chiazzate sono separate dal resto del gregge; l’astuto pastore si arricchisce formando greggi robusti. L’angelo di Dio arriva per ordinargli di partire: «Ora alzati, parti da questo paese e torna nella tua patria!» (Gn 31,13). Giacobbe annuncia la partenza alle sue donne e ai figli, Rachele e Lea offrono il loro sostegno allo sposo: «Tutta la ricchezza che Dio ha sottratto a nostro padre è nostra e dei nostri figli. Ora fa’ pure quanto Dio ti ha detto» (Gn 31,16). I due figli di Isacco si ritrovano e il mino-
206-209. L’infanzia di Mosè; il passaggio del mar Rosso; il ritorno degli esploratori da Canaan e il tradimento degli israeliti; Giosuè arresta il sole e la luna: particolari dei mosaici della basilica di Santa Maria Maggiore. Roma.
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del faraone, accompagnata dalle ancelle, presenta alla nutrice un cofanetto di gioielli per ricompensarla. Il bambino cresce e viene adottato da colei che gli impone il nome di Mosè. L’immagine biblica è accostata all’immagine ispirata a un trattato di Filone d’Alessandria: i grandi saggi d’Egitto ascoltano meravigliati lo straordinario fanciullo, la filosofia accoglie la parola divina e si inchina davanti a essa per servirla. Il gruppo delle donne e il collegio dei saggi formano due falangi ornamentali. Gli abiti variopinti costituiscono un fregio policromo intessuto d’oro, gli scorci sono spezzati, la profondità abolita. L’assemblea dei filosofi forma una serie di archi equilibrati e la disposizione dei personaggi non permette di vedere il posto che occupano veramente nello spazio. La superficie presenta un’armoniosa ondulazione che segue un ordine che ricorda le sintesi romano-parte delle province orientali. I pannelli successivi si rifanno all’iconografia imperiale; dal passaggio del mar Rosso alla vittoria di Giosuè sugli Amorrei, le scene di battaglia si susseguono come cronache epiche. Il ricordo dei rilievi narrativi delle vittorie dei sovrani è vivo. Gli egizi appaiono rovesciati e annientati; Mosè, eterno vincitore, presiede gli israeliti come un capo alla guida del suo esercito. Di fronte alla diffidenza del suo popolo, egli implora Dio e ottiene il suo aiuto. La manna e le quaglie cadono dall’alto del cielo sul deserto, ma le lagnanze continuano, il popolo chiede da bere. Mosè chiede ancora l’aiuto del Signore e, seguendo i suoi ordini, getta un pezzo di legno nell’acqua amara per renderla dolce. Un brulicare di soldati dediti alla guerra illustra la battaglia condotta contro gli amaleciti. Mosè, posto sopra le due armate, circondato da Aronne e da Hur tende le braccia per assicurare la vittoria d’Israele. Dal libro dell’Esodo ai Numeri prosegue il cammino verso la terra promessa. Mosè e Aronne ascoltano attentamente i loro uomini di ritorno dopo una missione di riconoscimento a Canaan. Il popolo eletto tradisce la promessa: la comunità tenta di lapidare i tre grandi capi; Mosè, Aronne e Giosuè sono protetti da una mandorla che li preserva da ogni pericolo. La gloria del Signore appare sul Tabernacolo dell’Alleanza, «sulla tenda del convegno a tutti gli Israeliti» (Nm 14,10).
Dopo il combattimento giunge la tregua. Secondo il racconto del Deuteronomio, Mosè rimette le tavole della legge ai sacerdoti prima di salire sul monte Nebo per trovare riposo in Dio. La dolcezza pastorale avvolge la scena: Mosè, con la testa inclinata, è disteso al suolo tinto d’oro come un pastore sonnacchioso nel suo pascolo. La missione del servitore di Jahvè è compiuta, la fiaccola è passata a Giosuè. Agli ordini della nuova guida, l’Arca dell’Alleanza è portata in processione dai sacerdoti leviti. Le acque a monte si fermano davanti ai sacerdoti che portano l’arca, il passaggio miracoloso del Giordano conduce alle porte di Gerico dove le spie sono state inviate a esaminare ed esplorare il luogo. I soldati israeliti si accingono a condurre una nuova battaglia, in cui Dio sostiene il suo popolo: il capo delle armate celesti appare a Giosuè in una teofania. Le spie, aiutate da Rakhab, lasciano la città e si recano dal loro capo per rassicurarlo: «Dio ha messo nelle nostre mani tutto il paese e tutti gli abitanti del paese sono già disfatti dinanzi a noi» (Gs 2,24). Cinque pannelli successivi illustrano lo svolgimento della guerra vittoriosa; Gerico viene conquistata e l’arca portata al suono delle trombe. Giosuè, sostenuto dal messaggero di Dio, procede con la sua armata contro Gabaon; gli amorrei sono battuti, perseguitati e annientati. Il successore di Mosè, che possiede la grazia divina, si alza in mezzo all’esercito per fermare il sole e la luna; i re vinti si inchinano davanti all’«imperatore» giudeo. Gli uomini d’Israele sono invitati a mettere un piede sulla nuca dei vinti prima di ucciderli. Le due pareti laterali della navata centrale conducono fino all’arco di trionfo eretto sulla soglia dell’abside. Il cammino veterotestamentario è terminato; su quattro registri sovrapposti è raccontata la venuta del Figlio di Dio. L’Annunciazione apre la narrazione, con Maria in tenuta solenne: vestita della palla imperiale, porta diadema e orecchini, collana e cintura d’oro incrostati di pietre preziose. Secondo le fonti apocrife, fila la porpora destinata al Tempio. Quattro angeli la assistono come i guardiani dei palazzi sacri; la colomba dello Spirito Santo e l’arcangelo Gabriele volano sopra di lei in un cielo azzurro colorato di rosso e di giallo. Sulla stessa linea del suolo, l’angelo del Signo-
210. L’etimasia, mosaico sulla parte superiore dell’arco trionfale della Basilica di Santa Maria Maggiore. Roma.
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alla sommità e al centro, come simbolo della potenza di Dio in cielo, mentre sul primo registro si può vedere il riconoscimento della regalità del Cristo da parte del suo popolo (gli ebrei e i romani); sul secondo registro, i sovrani stranieri offrono regali e omaggi al Cristo Bambino. Più in basso infine, sono situate le immagini dell’ostilità e della disfatta di Erode, il re nemico»45. Al di là di questa ricostruzione di base, i mosaici di Santa Maria Maggiore segnano una svolta nella storia dell’arte paleocristiana. Una bellezza «antica e nuova» si leva dalle undici scene distribuite sulle fasce della superficie. I personaggi sono fissi e i loro sguardi diretti orizzontalmente: un muro di figure risalta sul fondo oro. I gruppi sono simmetrici, calmi e solenni; la rappresentazione scenica è focalizzata sui punti culminanti degli avvenimenti raccontati nel Vangelo. Alla glorificazione del Verbo incarnato si aggiunge la venerazione della Madre. L’arco, contemporaneo al concilio di Efeso, innalza Maria al punto più alto della gloria. La Vergine, inseparabile dal figlio, è associata da un intimo legame al mistero dell’incarnazione. L’immagine trascende il testo per rendere omaggio a colei che dà alla luce colui che è stato generato dal Padre. La figlia di Sion risplende di uno splendore ultraterreno; regina di luce, si impone come un’immagine vivente della Gerusalemme celeste. Tra la Nuova e l’Antica Alleanza si stabilisce un ordine. L’iscrizione dedicatoria segnata sotto il trono è rivolta al «popolo di Dio». La Chiesa e il suo popolo si presentano come l’autentico Israele, eredi di tutti i doni divini. La grande traversata dei patriarchi e dei profeti conduce al Cristo. Le immagini successive ricordano i grandi eventi della storia della salvezza: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità» (Eb 11,8); «Per fede Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù anche riguardo a cose future» (Eb 11,20); «Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del faraone» (Eb 11,24); «Per fede caddero le mura di Gerico, dopo che ne avevano fatto il giro per sette giorni» (Eb 11,30). La storia ha il suo culmine con la venuta di Cristo: al termine della plenitudine dei tempi, Gesù viene a portare la fede alla perfezione (Eb 12,2). Mediatore di un’alleanza migliore, egli offre ai chiamati l’eredità eterna promessa. Le tribù di Giuda e le razze delle nazioni sono invitate al banchetto del Padre. L’armata celeste esulta e ripete: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli/ e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14).
re invita Giuseppe ad assumere la paternità legale di Gesù. Seguendo le prescrizioni della legge, Maria conduce il bambino per presentarlo al Tempio e per compiere un’offerta in sua vece. Il vecchio Simeone avanza coprendosi le mani col mantello per ricevere il bambino; la profetessa Anna, avvolta in un lungo mantello, assiste alla scena: «Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (Lc 2,38). L’angelo del Signore appare un’altra volta a Giuseppe, l’uomo viene chiamato a condurre Maria e il bambino in Egitto per sfuggire al furore di Erode. Sul secondo registro si trovano due scene di cui la prima è dedicata alla visita dei Magi. Maria e Anna circondano il bambino seduto su un sedile imbottito. La presenza delle due donne intorno al Verbo incarnato ricorda la Chiesa nata dal ceppo greco-romano e quella nata dal ceppo ebraico. I quattro angeli dell’Annunciazione sono posti a guardia dietro il bambino-imperatore. I tre Magi, guidati dall’astro posto sopra il Cristo, vengono a rendere omaggio al Re dei re. La seconda scena, ispirata agli scritti apocrifi, rappresenta l’incontro di Cristo col governatore di Sotiren in Egitto. Il Cristo (Emanuele, in ebraico il “Dio con noi” di Isaia), accompagnato da Maria, Giuseppe e i quattro angeli, si rivolge a una folla di egiziani riunita dietro il loro duce; gli dèi d’Egitto cadono e si prostrano davanti a Gesù: «La loro condizione e la loro sorte – dichiara il governatore – provano che questo bambino dev’essere il loro Dio»43. I pagani salutano «il figlio di Dio che regna in gloria»44 e confessano il Dio uno e trino. Sul terzo registro è narrato il Massacro degli innocenti e l’arrivo dei Magi al cospetto di Erode. Da una parte, il re è posto di fronte alle madri afflitte di Betlemme; dall’altra, riceve i pellegrini venuti a Gerusalemme a contemplare il vero re dei Giudei. Le due città messianiche sono situate sul quarto registro: dodici pecore suddivise in due gruppi guardano verso Betlemme, luogo della venuta di Cristo e Gerusalemme, luogo della sua seconda parusia. A immagine della città futura, gli edifici dotati di grandi mura risplendono come «una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (Ap 21,11). Le mura appaiono «adorne di ogni specie di pietre preziose» (Ap 21,19). Tutto è «di oro puro, come cristallo trasparente» (Ap 21,21). Il trono dell’etimasia, posto al centro del primo registro, corona l’insieme della composizione. La croce, la corona e il rotolo, su cui sono apposti sette sigilli, riposano su un trono sontuoso coperto di un cuscino. I quattro viventi, accompagnati da Pietro e Paolo, circondano il simbolo del potere celeste: «E non vi sarà più maledizione./ Il trono di Dio e dell’Agnello/ sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno;/ vedranno la sua faccia/ e porteranno il suo nome sulla fronte./ Non vi sarà più notte/ e non avranno più bisogno di luce di lampada,/ né di luce di sole,/ perché il Signore Dio li illuminerà/ e regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,3-5). Grabar ha svelato dietro il gruppo dell’arco la disposizione di uno schema imperiale: «il trono è situato
Offici e celebrazioni A Napoli, grande metropoli cristiana d’Italia, è custodito nel battistero di San Giovanni in Fonte un mosaico che esprime le svariate tendenze dell’epoca. Le figure evangeliche sono integrate in un ricco spazio pieno di ghirlande e di foglie di palma. I rami e i fusti fioriti, più che formare semplicemente un quadro, si aprono fino a unirsi alle immagini figurate dell’insieme. La decora225
(a fronte e in questa pagina) 211-213. Il ciclo figurativo e due dettagli con figure di oranti. Cupola della rotonda di San Giorgio, Salonicco.
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loro profezie. Il fiume paradisiaco, diviso in quattro rami, scorre ai piedi del Messia; il Giordano personificato si volta per venerare colui che nell’iscrizione è chiamato “Fonte di vita”. L’immagine è eseguita magnificamente, le pietre policrome realizzano gli effetti del cosiddetto illusionismo ellenistico in pittura. La carnagione e i drappeggi sono accuratamente lavorati, il paesaggio si estende in uno spazio aereo e trasparente, le tinte e gli effetti sono attenuati e discreti. Il Cristo è cinto da un’aureola d’oro e d’oro sono anche la tunica e i sandali: il mondo sensibile si apre su uno spazio sovrannaturale dominato da Colui che viene per riunire tutti i popoli sul suo monte. La rotonda di San Giorgio a Salonicco conserva un capolavoro artistico della tarda antichità cristiana. Un tappeto geometrico riveste le volte delle nicchie che collegano la rotonda al deambulatorio. I motivi sassanidi sono mescolati ai motivi romani. Una croce d’oro risalta su fondo argento sulla nicchia dell’asse sud-nord. La decorazione della cupola presenta tre zone concentriche, di cui la prima sezione è quella meglio conservata: alcuni personaggi si ergono uniformemente in posizione orante davanti a otto facciate architettoniche ornate di frontoni e nicchie a conchiglia. Le proporzioni stabilite tra i personaggi e gli edifici rispettano ampiamente la prospettiva obbiettiva; le costruzioni architettoniche sono ricostruite con minuzia. Con le edicole, i padiglioni circolari, gli archi e le colonne, il paesaggio architettonico evoca il quarto stile pompeiano e il gusto pronunciato per il fasto a trompe-l’œil. Tuttavia, la conquista della profondità si limita in questo caso allo sbalzo che individua il primo piano; l’oro costituisce il fondo delle facciate e inonda i vari elementi. Questo colore, pressoché introvabile in natura, avvolge esseri e cose in una luce ultraterrena. Gli elementi della decorazione lasciano intuire le absidi precedute da un altare; le croci gemmate, i libri rilegati, i calici, i ceri e le lampade formano la parte essenziale dell’arredamento liturgico. Le iscrizioni sono sistematicamente formulate in tre parole: il nome proprio, l’occupazione e il nome di un mese del calendario giuliano, mentre non ci sono indicazioni alcune di giorni o anni. In totale sono rimasti tredici nomi e dieci mesi; a dispetto di questi dati, l’identità degli oranti rimane sempre misteriosa. Un’ipotesi accettata per lungo tempo vi riconosceva i martiri di un calendario liturgico, ma le ricerche recenti hanno indotto gli studiosi a respingerla decisamente. Gli argomenti in proposito sono molti: i calendari individuati a partire dalle iscrizioni non corrispondono ad alcun calendario liturgico instaurato nei primi secoli del cristianesimo. Inoltre, i mesi citati non seguono nessun ordine cronologico; i nomi di alcuni mesi si ripetono, mentre altri sono completamente assenti. L’esistenza di un calendario di base si dimostra poco plausibile o addirittura impossibile. Le fisionomie e l’abbigliamento non corrispondono ai modelli conosciuti dei santi, le aureole e gli attributi della santità sono quasi assenti; le figure, esclusivamente maschili, presentano una varietà di ritratti ove le caratteristiche individuali sono innega-
zione, in parte perduta, conserva le fasce e i frammenti che permettono di ricostituire le varie componenti del programma. Un gruppo di martiri vestiti di bianco si erge in piedi con una corona gemmata in mano. I volti sono delineati e squadrati, le stature vigorose e possenti. I quattro Viventi spiegano le ali al centro di un cielo azzurro scuro illuminato da cinque stelle d’oro; sono rimasti solo l’angelo e il leone che, rappresentati secondo i canoni naturalistici, ricordano le figure viventi del mosaico absidale della chiesa di Santa Pudenziana a Roma. Il Buon Pastore, circondato ora da due pecore, ora da due cervi, appare quattro volte tra le foglie di palme e gli uccelli. I rapporti reali di esseri e cose non esistono più, le proporzioni sfidano la logica naturalista; i cervi hanno le stesse dimensioni del pastore, gli uccelli sono grandi come le foglie di palma. Il rigore immobilizza i corpi dei personaggi, il gusto ornamentale diventa predominante, la rappresentazione si allontana dalle regole del ritratto e del paesaggio per costituire uno spazio di segni. La calotta del battistero è divisa in otto segmenti da càntari da cui emergono colonne di vegetali popolate di colombe. Le scene evangeliche si integrano nell’ambiente paradisiaco, gli episodi si susseguono a narrazione continua. La Samaritana attinge l’acqua al pozzo di Giacobbe; accanto a lei, due servitori portano le giare delle nozze di Cana. Il Cristo, in piedi sul globo del mondo, consegna al Principe degli apostoli la legge eterna; un personaggio seduto a torso nudo in una barca lascia intuire il cammino di Cristo sulle acque. Sotto queste scene, la Pesca miracolosa presenta il Salvatore davanti al mare azzurro popolato di pesci; la Resurrezione chiude il ciclo: un personaggio seduto su una roccia e due teste femminili permettono di individuare la scena del Messaggio dell’angelo davanti al sepolcro vuoto di Cristo. La croce trionfale appare al centro della cupola; con il monogramma di Cristo sovraimpresso, rischiara un cielo stellato con due lettere apocalittiche. La mano del padre sorge dalle sfere per ornare lo scettro di una corona di alloro. Un anello guarnito di uccelli, di fiori e frutti circonda il simbolo cosmico; la fenice è posta sopra l’insegna divina, le cose celesti e terrene sono riconciliate in pace. La croce riunisce il creato e lo ricopre di stelle. Il cielo notturno si illumina d’oro, la notte nuziale comincia: «più chiara del giorno... più luminosa del sole... più dolce del paradiso»46. La testimonianza dell’Oriente greco si riduce a preziosi resti di decorazione conservati a Salonicco. La basilica della Vergine Acheropita presenta sugli intradossi delle arcate ghirlande di fiori e frutti che fuoriescono da vasi blu su pareti dorate. Alle masse vegetali si aggiungono masse geometriche accompagnate da foglie d’acanto stilizzate con uccelli e serpenti inscritti in ottagoni. Il crisma cristiano è alternato a motivi antichi e li segna con il suo sigillo. La Teofania del Cristo appare nell’abside dell’oratorio del Cristo Latomos. Il Cristo (l’Emanuele, “Dio con noi”) domina su un arcobaleno al centro di una mandorla circolare sostenuta dai quattro Viventi. Agli angoli, i profeti Ezechiele e Abacuc assistono al compiersi delle 228
Tav. 101. Croce funeraria. Il Cairo Vecchio, Museo d’arte copta.
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Pagine seguenti
Tav. 104. Croce funeraria. Ibidem. Tavv. 102-103. Croci funerarie. Ibidem.
Tavv. 106-107. Due porte di legno dalla chiesa di Santa Barbara, Il Cairo Vecchio. Ibidem.
Tav. 105. Rilievo funerario. Ibidem.
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Tavv. 108-109. L’ingresso di Cristo a Gerusalemme, architrave ligneo proveniente dalla chiesa della Vergine, el-Moallaqa. Ibidem.
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bili. Giovani, maturi o vecchi, barbuti, baffuti o glabri, membri del clero, soldati o medici, i personaggi sono disposti frontalmente con le braccia aperte. Secondo le ultime interpretazioni si tratterebbe di donatori che hanno contribuito come mecenati all’esecuzione della decorazione. Il mese corrisponderebbe alla citazione della data del loro contributo finanziario. Se è così, il mosaico celebra i benefattori e loda il loro operato che ha permesso la conversione della rotonda pagana eretta da Galerio a chiesa dedicata alla «Forza divina». Gli oranti di Salonicco, come i donatori officianti sulle mura del tempio di Zeus Theos a Dura Europos, sono posti alla base della cupola, le mani tese verso il Cristo eretto nel cerchio zenitale del cielo. Santi martiri o fedeli generosi, gli uomini del santuario partecipano alla celebrazione comune: «Ecco, benedite il Signore,/ voi tutti, servi del Signore;/ voi che state nella casa del Signore... Alzate le mani verso il tempio/ e benedite il Signore» (Sal 134,1-2). Oranti ieratici e solenni, i servi si offrono con le braccia aperte al Signore: «L’estensione delle mani ne è il segno, l’estensione del legno teso dove è stato appeso, sulla via, il Giusto»47. Dei personaggi della zona mediana non si sa nulla e del mosaico, in gran parte andato perduto, rimangono soltanto i piedi nudi di ventidue personaggi in movimento. Al centro della cupola, quattro angeli sostengono un medaglione bordato di ghirlande, stelle e un arcobaleno. L’uccello cinto dall’aureola dell’immortalità è affiancato agli spiriti alati; al centro dell’anello celeste, i resti di un’aureola, di una mano e di uno scettro rivelano il Cristo sovrano, «capo di ogni Principato e di ogni Potestà» (Col 2,9).
Colonne, stucchi e portali Le decorazioni scolpite manifestano una crescente preferenza per l’ornato. La simbologia viene elevata al rango dei temi figurativi fino a occupare il posto che per lungo tempo era stato loro assegnato. I pilastri, i capitelli e le acquasantiere sono incisi seguendo le forme simboliche dell’arte paleocristiana. Le croci e i crismi sono uniti alle masse vegetali, floreali e animali. L’iconografia cristiana si ritrova molto spesso costretta in masse ornamentali cariche di simboli. Il pensiero costante dell’armonia e dell’equilibrio regola i motivi figurati ed è alla base della loro composizione; il dualismo degli stili permane, la flora è ora presentata nel suo aspetto realistico, ora stilizzata all’estremo. Alcuni frammenti conservati nel Museo Archeologico di Costantinopoli attestano uno spirito antico sempre vivo; in quattro medaglioni scolpiti sono presentati i busti di evangelisti di ispirazione romana, il cui rilievo tende al tuttotondo; il volto, le mani e il torace sono di carne e di sangue. Un troncone di colonna mostra un pastore accompagnato da un cane e da un bue posti al centro di un gigantesco tralcio carico di pesanti volute; le proporzioni sono illogiche, ma gli elementi rappresentati conservano perfettamente aspetto e peso naturali. Sul tamburo di una colonna è rappresentato il Battesimo di Cristo sotto pesanti rami guarniti di foglie. I volti sono deteriorati ma i corpi sono rimasti intatti, i panneggi si sposano armoniosamente alle forme che ricoprono e la nudità del Cristo è rappresentata secondo i canoni di bellezza ellenistici: le braccia, il torace e le gambe
214. Decorazione in stucco. Ravenna, battistero degli Ortodossi. Tav. 110. Bassorilievo in pietra con decorazione nilotica. Ibidem.
215. Busto di evangelista. Istanbul, Museo Archeologico.
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216-218. Samuele presso Elia e, sotto, Davide che difende il gregge; Daniele in trono unto dall’inviato di Samuele e, in alto, Davide alla casa del padre davanti a Samuele: riquadro con pavoni affrontati al monogramma di Cristo, frammenti lignei dal portale della basilica di Sant’Ambrogio. Milano, Museo della basilica.
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219-223. L’ascensione di Elia; la guarigione del cieco, la moltiplicazione dei pani e le nozze di Cana; la crocefissione; i pellegrini di Emmaus; l’ascensione del Signore; particolari delle formelle della porta monumentale della basilica di Santa Sabina, Roma.
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immerse nell’acqua sono costruiti seguendo le regole anatomiche, senza preoccuparsi di coprire il sesso maschile. Il Figlio che si immerge nelle acque del Giordano, pienamente uomo, è identificato con un efebo greco intento alla libagione. A Ravenna, i rilievi in stucco del battistero degli Ortodossi mostrano uno spirito diverso. Le forme classiche sono ridotte semplicemente a un fondo, la disposizione dei personaggi obbedisce a concetti nuovi, i corpi si irrigidiscono, le fisionomie perdono il loro aspetto vivo. Come sui sarcofagi contemporanei, le figure stilizzate passano dall’Antichità al primo Medioevo. I portali di legno scolpito presentano decorazioni simili; frammenti isolati di Sant’Ambrogio di Milano permettono di ricostruire il disegno del portale originario. Un grande motivo fitomorfo fa da cornice ai gruppi figurati dei riquadri; due pavoni attorno alla corona del monogramma di Cristo sono disposti in due sezioni oblunghe trasversali della parte superiore. Parallelamente, due scene d’ispirazione biblica occupano i riquadri in alto della zona inferiore. In essi, vigile accanto al suo gregge, appare Davide, educato da Samuele alla funzione reale, che affronta Saul e combatte il leone. I due pannelli, di formato ridotto, sono dominati dai motivi ornamentali fitomorfi che ricoprono gran parte della superficie delle due ante. Molto lontano da Mila-
no, nella chiesa di Santa Barbara del Cairo Vecchio, un portale risalente alla stessa epoca presenta una lavora- 106, 107 zione analoga; due Vittorie reggenti la corona di Cristo sono poste sulle transenne della parte superiore. Proprio sotto di esse, due figure in piedi rappresentate in scala ridotta si ergono al centro di due grandi pannelli quadrati sovrapposti. Sulla parte centrale, le rappresentazioni sceniche occupano due fasce allungate le cui dimensioni sono identiche a quelle della parte superiore: sulle due ante con due gruppi di personaggi, intorno al medaglione del Cristo da una parte e della Madre di Dio dall’altra, ricostruiscono l’Ascensione. Lo stile rimane fedele alla scuola ellenistica, i corpi e i panneggi conservano morbidezza; le Vittorie sono tipicamente antiche e i busti da esse sollevati sono plasmati secondo lo stile classico. Un architrave a rilievo proveniente dalla chiesa 108, 109 el-Moallaqa (sospesa) presenta le stesse caratteristiche; inserita sotto un’iscrizione di quattro linee, la decorazione figurata unisce sulla stessa linea due scene cristiche: l’Ingresso di Cristo a Gerusalemme e l’Ascensione si uniscono a formare una teofania che apre la terra sul cielo; dietro le due raffigurazioni si profilano due muri di fondo. Mentre un portico colonnato si intuisce dietro le persone venute a incontrare il Salvatore, una serie di torri circonda il Cristo portato in cielo. Paradossalmente, la città è situata dietro il Salvatore e il portico
davanti a lui. Gesù lascia la Gerusalemme terrena per incamminarsi verso la Gerusalemme celeste, e uomini e angeli glorificano il Maestro. La teofania, disposta lungo tutto l’architrave, echeggia il salmo: «Sollevate, porte, i vostri frontali,/ alzatevi, porte antiche,/ ed entri il re della gloria» (Sal 24,7). A Roma, il portale monumentale di Santa Sabina riuniva sulle due ante ventotto pannelli figurativi, ma un terzo dell’insieme è andato perduto. Restano otto pannelli compositi verticali e dieci piccoli orizzontali. Le scene rappresentate, incorniciate da larghe fasce a motivi fitomorfi, evocano i grandi avvenimenti dei due Testamenti. Due stili si evidenziano nei rilievi: il primo, definito «brillante» da Delbrueck, appartiene alla scuola classicheggiante di Costantinopoli; il secondo, detto «franco», è simile alle opere sommarie e schematiche che si ritrovano sui sarcofagi romani. Nel primo caso, i corpi lunghi e graziosi si muovono in uno spazio aereo; nel secondo, le figure piccole e tarchiate sono articolate su un fondo piatto e stretto. Le immagini veterotestamentarie illustrano la Vocazione di Mosè, il Passaggio del mar Rosso, il Miracolo del serpente, i quattro Miracoli del deserto, l’Ascensione di Elia e di Abacuc. I modelli conosciuti sono arricchiti da dettagli aneddotici e la narrazione dimostra un gusto evidente per l’aneddotico e il pittoresco; la rappresentazione dell’episodio biblico
presenta elementi che il testo non menziona, come l’angelo che conduce la quadriga di Elia e la lucertola che assiste all’ascensione. In contrasto con questa tendenza descrittiva, le scene tratte dal Nuovo Testamento sono riassunte e ridotte agli elementi essenziali. Dall’Adorazione dei Magi all’Ascensione, la vita e l’opera salvatrice del Cristo sono evocate con una successione di immagini succinte. La Crocifissione è limitata a un’apparizione. Il Cristo e i due ladroni, sospesi nel vuoto con le braccia aperte, rievocano i tre ebrei nella fornace; ogni sentimento di dolore è assente, il volto è impassibile e il corpo non lascia trasparire nessuna emozione: «Era il Figlio di Dio – dice Agostino – ed è diventato figlio dell’uomo. Voi eravate figli dell’uomo e siete diventati figli di Dio. Lui ha condiviso con noi le sventure per darci la sua felicità»48. L’immagine, pur rappresentando la crocifissione storica, pone l’accento sul suo vero frutto: la morte è schiacciata e la felicità offerta a tutti gli uomini, la Chiesa trionfa. Il Cristo, portato dalle quattro figure storiche al di sopra del sole, della luna e delle stelle, è eretto in una mandorla, accostato alle lettere alfa e omega. A livello del suolo, Pietro e Paolo alzano sopra una donna velata la corona con impressa la croce. L’immagine, ritratto di Maria o allegoria personificata, incarna la Chiesa nascente, glorificata e consacrata regina del mondo.
226. Resurrezione, avorio. Milano, Museo del Castello sforzesco. 227. Resurrezione ed ascensione, avorio. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum.
(a fronte) 224. Adamo nel paradiso terrestre e san Paolo a Malta, dittico Carrand. Firenze, Museo del Bargello. 225. Guarigioni miracolose. Parigi, Louvre.
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hanno una grande forza espressiva. Gli elementi della decorazione sono lavorati con notevole precisione, lo spirito classico plasma l’avorio e lo eleva al rango delle opere monumentali. La creazione di sontuose rilegature ricorda gli insiemi dei portali scolpiti. Il dittico del duomo di Milano unisce armoniosamente gli emblemi simbolici alle scene evangeliche. Le scene cristiche inquadrano da un lato l’agnello mistico eretto al centro della corona di gloria; dall’altro, la croce gemmata issata sul monte del paradiso sotto una fuga d’archi d’onore. I busti dei quattro evangelisti accompagnati dai loro simboli figurano in medaglioni ai quattro angoli di ogni sportello. Gli esempi si moltiplicano, la narrazione evidenzia la vita e l’opera del Salvatore. Dall’Annunciazione all’Ascensione, prende forma un Vangelo in immagini ma, mentre le rappresentazioni dei miracoli si moltiplicano, la Crocifissione rimane assente. Solo su una lastra conservata al British Museum viene mostrato il Cristo inchiodato sullo strumento del suo supplizio. L’immagine fa parte di un insieme diviso in quattro parti dedicato alla Passione e alla Resurrezione. Sulla prima lastra è rappresentato il Cristo con la croce sulle spalle tra cinque personaggi; gli avvenimenti successivi sono mescolati: un servo versa acqua sulle mani di Pilato, un soldato accompagna il Figlio dell’uomo lungo il cammino, Pietro, seduto davanti a un braciere, alza gli occhi verso il Maestro. Una donna e un gallo posti in secondo piano evocano il rinnegamento dell’apostolo; il Calvario non presenta alcun segno di sofferenza, il Cristo non incontra nessuna difficoltà a portare la croce. Lo strumento del supplizio perde forma e peso reali ed è trasformato in un bastone con un ramoscello orizzontale. Gesù, il soldato e la donna indicano simultaneamente Pietro col gesto delle mani tese; il Principe degli apostoli è chiamato a seguire il Signore per glorificare Dio. Sulla seconda lastra sono unite la Crocifissione di Cristo e l’impiccagione di Giuda. I due ladroni sono scomparsi, Maria, Giovanni e Longino appaiono in piedi davanti alla croce. Gesù, sempre impassibile, tende le braccia sulla tavola della salvezza; il corpo nudo non lascia trasparire contrazione alcuna e gli occhi del Salvatore restano aperti. Il Signore della vita ha preso il posto dell’Uomo dei dolori: «Lo vedo crocifisso e lo chiamo re»49, dichiara Giovanni Crisostomo. Nella terza scena è mostrata la Resurrezione, con i soldati e le pie donne che circondano un tempio sepolcrale sormontato da una cupola; ancora una volta, sul portale scolpito del mausoleo è rappresentata la Resurrezione di Lazzaro. Il miracolo di Betania annuncia il miracolo supremo vissuto e compiuto dal Figlio di Dio. Nella quarta scena è illustrata l’incredulità di Tommaso; il Cristo, in piedi su un piedistallo, accostato a quattro discepoli, tende il braccio verso l’alto: «Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”» (Gv 20,26). Tommaso alza il dito per toccare il costato trafitto: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20,29).
Miniature scolpite
228. Dittico a cinque parti. Milano, Tesoro del Duomo. 229-232. Scene della passione e della resurrezione, dettagli di una cassetta in avorio. Londra, British Museum.
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Le arti minori presentano in miniatura le varie sfaccettature della produzione artistica. Le opere italiane rea lizzate verso il 400 mostrano un vivo ricordo dell’arte classica; antico e nuovo restano strettamente legati. Adamo e san Paolo si incontrano sugli sportelli del dittico Carrand; la rappresentazione del primo è ispirata al Genesi senza narrarne la vicenda: i quattro rami del fiume scorrono sulla parte inferiore della superficie e designano l’Eden come ubicazione; un bestiario costituito da diciotto animali disposti in profondità arriva fino alla sommità del gruppo. Adamo, rappresentato tradizionalmente come un giovane efebo nudo, è seduto nel vuoto sopra il creato; sul lato opposto, l’evocazione della missione di san Paolo a Malta assume un aspetto decisamente narrativo. Il santo, seduto come un saggio, annuncia la buona novella ai maltesi; ripieno dello Spirito, sbatte la vipera nel fuoco e non prova alcun dolore. Tre figure alzano le mani in segno di stupore: «... dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio» (At 28,6). Il racconto prosegue con i malati che vengono a trovare il santo nella speranza della guarigione; un uomo emaciato fa pensare al «... padre di Publio... colpito da febbri e da dissenteria» (At 28,8). La differenza tra i due sportelli del dittico si accentua: all’immagine idillica del Genesi è contrapposta la narrazione dettagliata della missione paolina. Lo stile conserva la finezza e la grazia degli antichi: il rilievo, benché costretto dalla tecnica con cui è realizzato a rimanere appiattito sul fondo, riesce a proiettare nello spazio le figure accuratamente plasmate. Il ciclo cristico si accresce e si amplifica. L’iconografia della Resurrezione viene fissata; l’avorio del Castello sforzesco di Milano rappresenta il mattino di Pasqua, con i soldati assopiti che si raccolgono davanti al sepolcro rappresentato come un mausoleo antico. Subito sotto, il Risorto si rivela alle due Marie che «avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono» (Mt 28,9). L’azione si svolge davanti a un elegante portale con ante decorate da scene evangeliche. L’immagine in miniatura si apre su una microminiatura in cui si vedono la Resurrezione di Lazzaro e Zaccheo che si sporge dal sicomoro per scorgere il Salvatore. L’Ascensione appare sull’avorio del Bayerisches Nationalmuseum. Gli avvenimenti si susseguono sotto lo stesso cielo, la caducità è associata all’eternità. Il regno del «Re dei secoli/ incorruttibile» (1 Tm 1,17) si manifesta e si instaura; i soldati sonnecchiano davanti a un lussuoso mausoleo decorato di ritratti di personaggi. Le tre pie donne ascoltano il messaggio dell’angelo seduto sulla pietra, un albero frondoso e una montagna si profilano all’orizzonte. Il Figlio sale sul monte, sostenuto dalla mano tesa del Padre; ai suoi piedi, i discepoli si prostrano a terra, colpiti dallo splendore della teofania. La disposizione delle scene e lo stile adottato dimostrano la «rinascita teodosiana»; lo spazio, i volumi e il modellato 243
realtà invece è Cristo!» (Col 2,17). Tutto gira e viene ordinato intorno a Lui, tutto deriva e procede da Lui. L’arte, maggiore o minore, monumentale o applicata, è messa a servizio dell’Eterno. Il concreto, il simbolo e l’allegoria si uniscono a formare un unico canto. Al lungo ciclo che racconta nei dettagli la venuta del Figlio di Dio, la vita tra gli uomini e l’ascensione presso il Padre, corrisponde l’immagine simbolo dell’Agnello in trono sul monte Sinai al centro della corona di gloria. La croce vittoriosa accompagna colui che conduce «alle fonti delle acque della vita» (Ap 7,17). Dalle pareti dei cimiteri alle cupole delle chiese si erge per unire le profondità della terra alle altezze dei cieli. Le forme primitive del nuovo albero della vita si evolvono e si moltiplicano; i padri della Chiesa nascente vedevano nello strumento della redenzione un segno cosmogonico divino. La x impressa dal Demiurgo sull’universo50 è soltanto una nuova versione della croce di bronzo issata da Mosè sul tabernacolo; Giustino afferma: «Platone lesse la narrazione ma senza comprenderla bene. Non vide che quel segno era una croce, credette che fosse una x e disse che dopo Dio, il primo principio, la seconda virtù era impressa come una x nell’universo»51. Nel iii secolo, sui graffiti delle catacombe, la «seconda virtù» presenta rami di uguale lunghezza e appare unita all’ancora e alla palma. Incisa «a forma di t» è accostata ai nomi impressi sui marmi sepolcrali per fortificare i defunti e «portare loro la grazia»52. Sul finire del iv secolo, all’epoca di Teodosio, lo strumento del supplizio viene ricoperto di gemme e di perle e posto nell’abside della chiesa. Sui mosaici che decorano le dimore di Dio, la croce di gloria riluce nei cieli delle cupole; issata sul trono vuoto dell’etimasia, annuncia il ritorno di colui che «si estende nell’immenso spazio da Nord a Sud, e invita alla conoscenza del Padre gli uomini ovunque dispersi»53.
L’Antichità battezzata All’epoca di Adriano, Aristide di Atene definiva i cristiani un quarto ceppo opposto a quelli di greci, barbari ed ebrei. Al di là delle scissioni e delle divisioni dottrinali, il cristianesimo imperante unisce al suo interno i tre ceppi dell’Antichità e la Chiesa è il nuovo Israele. Universale, apre le sue porte per accogliere tutti i popoli della terra: «... i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo» (Ef 3,6). La creazione artistica del v secolo riflette perfettamente quest’unione profonda. Le varie scuole, diverse ma non separate, vanno avanti e si unificano. Muovendo da un’unica fonte d’ispirazione, adottano un linguaggio comune, che si nutre e si compone di colorazioni proprie ad ognuna di esse. Il fondo è lo stesso e la distinzione tra le varie correnti regionali si rivela difficile. Antico e nuovo coesistono e si intrecciano sistematicamente, in Occidente e in Oriente, nel mondo greco e nel mondo latino. La produzione cristiana, funeraria o di culto, evolve verso un’arte che percepisce l’universale; senza rotture con la tradizione ereditata dall’Antichità, gli artisti procedono nella creazione di opere nuove. Attingendo alle fonti, mutuano, selezionano, raggruppano e ordinano figure e motivi seguendo una nuova visione creatrice. Alle reminiscenze antiche si aggiungono nuove intuizioni innovatrici; la fruttuosa osmosi di stili annuncia la rivoluzione medievale. L’arte del iii secolo battezzava la tradizione dell’Antichità, l’arte del v secolo annuncia la trasformazione operata nel corpo e nell’anima del battezzato. Il vecchio uomo esteriore va lentamente in rovina e «quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (2 Cor 4,16). La tematica veterotestamentaria, dominante nei primi secoli, si trova relegata in secondo piano: «... la
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Note Il martirio di Policarpo, 18, 2, in Les Pères Apostoliques, Paris 1980, p. 246. Ibid., 19, 2, p. 247. 3 Ibid., 17, 3, p. 246. 4 Erma, Il Pastore. Parabole, ix, 3, in Naissance des lettres chrétiennes, icthus, Paris 1979, p. 212. 5 Erma, Il Pastore. Visioni iii, 2, cit., p. 137. 6 Erma, Il Pastore. Parabole, ix, 13, cit., pp. 221-222. 7 Tertulliano, Sull’esortazione alla castità, vii, 3, «Sources chrétiennes» n. 319, p. 93. 8 Ilario di Poitiers, Trattato dei misteri, 5, in Thèmes et figures bibliques, Paris 1984, p. 29. 9 Mosaico funerario di Pietro sotto la chiesa di Sant’Eufemia a Grado, in N. Duval, La mosaïque funéraire dans l’art paléochrétien, Ravenna 1976, p. 131. 10 Virgilio, Eneide, xi, 97-98, («Salve aeternum mihi, maxume Palla, Aeternumque vale», tr. it. di R. Calzecchi Onesti), Torino 1974; epitaffio di un mosaico di Chaberras, Museo di Costantina, in N. Duval, op. cit., p. 129. 11 Tomba proveniente dall’isola di Tabarka, Museo del Bardo, in ibidem, p. 130. 12 Lettera a Diogneto, xii, 1, in Les écrits des Pères apostoliques, t. iii, «Foi Vivante», 1963, p. 72 13 Klaus Wessel, L’Art Copte, Bruxelles 1964, p. 170. 14 Odi di Salomone, 11, in Naissance des lettres chrétiennes, cit., p. 33. 15 Ibid., (39), p. 64. 16 Vangelo di Tommaso, 22, in Evangiles apocryphes, Paris 1983, p. 169 (trad. it., Milano 1996). 17 Protovangelo di Giacomo, (10), Evangiles apocryphes, cit., p. 75. 18 Agostino, Sermone per la Pasqua, (s. Guelferbytanus 5,3), «Sources chrétiennes» n. 116, p. 215. 19 Odi di Salomone, cit., p. 65. 20 Apoftegma di coloro che invecchiano nell’ascesi, S.O. n. 1, Abbazia di Bellefontaine, p. 407. 21 Atanasio di Alessandria, De Incarnatione Verbi Domini, 1,21, in J.M. Leroux, Athanase d’Alexandrie, Paris, p. 71. 22 J. Balty, Mosaïques de Syrie, Centro Belga di ricerche archeologiche di Apamea, Bruxelles 1977, pp. 78-80. 23 Clemente Romano, i Corinzi, 25,1-4, in Les Pères Apostoliques, cit., pp. 39-60. 24 Ibid., 26, 1, p. 60. 25 Clemente Alessandrino, «Inno al Cristo Salvatore», Il Pedagogo, Migne, Paris 1991, p. 303.
Odi di Salomone, cit., p. 53. Les Constitutions Apostoliques, Messe des Fidèles, in L’Eucharistie dans l’antiquité chrétienne, icthus, Parigi, p. 61. 28 Ibid., p. 62. 29 Basilio di Cesarea, De origine hominis, ii, 4, «Sources chrétiennes» n. 160, p. 235. 30 Les Constitutions Apostoliques, cit., p. 62. 31 Basilio di Cesarea, op. cit., i, 19, pp. 218-219. 32 Clemente Alessandrino, Protrettico, 3, 2, 4, «Sources chrétiennes» n. 2 bis, p. 55. 33 Basilio di Cesarea, De origine hominis, cit., p. 218. 34 Ireneo di Lione, La Predicazione degli Apostoli e le Prove, 22, Paris 1977, p. 35 (trad. it. Contro le eresie e altri scritti, Milano 19972). 35 Clemente Alessandrino, Il Protrettico, 114, 3, cit., p. 182. 36 Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, iii, 54, 2, cit., p. 271. 37 Erma, Il Pastore. Visioni, iv, 3, cit., p. 151. 38 Ireneo di Lione, La Predicazione degli Apostoli, cit., p. 43. 39 Sant’Ambrogio, La morte è un bene, 53, in Le Chrétien devant la mort, Paris 1980, pp. 79-80. 40 Ireneo di Lione, La Predicazione degli Apostoli, cit., p. 43. 41 Cirillo di Gerusalemme, Cinque catechesi per i neo-battezzati, iii, 1, in L’initiation chrétienne, icthus, Paris 1980, pp. 44-43. 42 Sant’Ambrogio, De Salmi cxviii, 3, cf, 15,11, in Atlas de l’antiquité chrétienne, Séquoia, Paris-Bruxelles 1960, p. 131. 43 La Natività di Nostro Signore Gesù Cristo e la sua infanzia secondo lo pseudo Matteo, xxiv, in Les Enfances du Christ, Paris 1993, p. 99. 44 Ibid., p. 100. 45 A. Grabar, Les voies de la création en iconographie chrétienne, Flammarion, Paris 1979, p. 48 (trad. it. Le vie della creazione nell’iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, Milano 1981, ult. ed. 2015). 46 Preghiera delle ore e dei giorni, in Livre d’heures des premiers chrétiens, Paris 1982, p. 191. 47 Odi di Salomone, 42, cit., p. 67. 48 Agostino, Sermone sulla Pasqua, «Sources chrétiennes» n. 116, p. 231. 49 Giovanni Crisostomo, P.G. 49, 413, in P. Evdokimov, L’art de l’icône, Paris 1972, p. 262. 50 Platone, Timeo, 36c (trad. it. Bari 1971). 51 Giustino, Apologia i, 60, in La philosophie passe au Christ, Paris 1982, p. 87. 52 Epistola di Barnaba, 8, in Les Pères Apostoliques, cit., p. 201. 53 Ireneo di Lione, La Predicazione degli Apostoli, cit., pp. 43-44.
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Capitolo quinto
La prima arte bizantina vi-vii secolo
Giustino i fonda la dinastia che porta il suo nome nel 518. L’avvento di Giustiniano nel 527 segna una data fondamentale nella storia di Bisanzio. L’imperatore «che non dorme mai» applica una politica occidentalizzante; nell’arco di vent’anni di guerra, l’Africa del nord, l’Italia e il sud della Spagna vengono riconquistate. Il Mediterraneo è ancora una volta un “lago” romano, ciò nonostante le frontiere rimangono provvisorie: longobardi, franchi, persiani e avari irrompono nell’Impero. A Occidente, le tribù germaniche rinunciano progressivamente all’arianesimo per convertirsi alla religione cattolica. Mentre la posizione dell’esarca bizantino a Ravenna si indebolisce, il papa si impone come alleato politico dei re germanici. A Oriente, le lotte intestine tra calcedoniani e non calcedoniani continuano. Giustiniano, nel tentativo di rendere il iv concilio ecumenico accettabile per i monofisiti, convoca il concilio di Costantinopoli nel 553: sospettati di tendenze nestoriane, Teodoro di Mopsuestia, Ibas di Edessa e Teodoreto di Ciro sono condannati e il dogma di Calcedonia viene interpretato alla luce della teologia alessandrina che insiste sulla deificazione dell’umanità in Cristo. Le definizioni dottrinali adottate, invece di racchiudere l’unità cristiana, danno origine a nuove divisioni. Speculazioni, controversie, guerre e repressioni continuano. Nel vii secolo una nuova carta geografica viene tracciata: Roma è bizantina, dal 606 al 741 tredici papi, greci o siriaci, si succedono sul soglio della Chiesa romana. L’Impero perde poco a poco le province occidentali; tribù slave si insediano nei Balcani, uno stato bulgaro nasce tra il Danubio e la catena dei Balcani centrali. Mentre Eraclio sbaraglia la potenza persiana, gli arabi conquistano la Siria, la Palestina, la Mesopotamia e l’Egitto e nel 673 assediano invano Costantinopoli. L’Impero bizantino nel 693 perde l’Africa settentrionale ed è ridotto a
Oriente all’Asia Minore e alla Grecia. L’Impero musulmano nascente si estende oltre i confini dell’antico impero di Alessandro Magno, formando una nuova koiné di cui le comunità cristiane indigene costituiscono una grande componente. La separazione tra calcedoniani e non calcedoniani risulta definitiva. Il secondo concilio di Costantinopoli del 680 condanna il monotelismo, esito del monofisismo. La Chiesa afferma la libera volontà dell’uomo, accettata e sottomessa liberamente dal Cristo alla volontà divina. Egli, avendo due nature, di conseguenza ha due volontà, la divina e l’umana. I monofisiti continuano a confessare la “natura unica” del Verbo incarnato e i nestoriani continuano a rifiutare la “fusione” delle due nature. Un Oriente “orientale” composito si forma parallelamente all’Oriente “greco”; la sua area geografica va dalla Mesopotamia a est, all’Egitto a ovest, all’Anatolia a nord e all’Etiopia a sud. Reminiscenze antiche Le ultime manifestazioni del paganesimo sono represse. Con un decreto imperiale viene ordinata la soppressione dell’Accademia Platonica di Atene; la mitologia greco-romana, privata di ogni carattere cultuale, si riduce a un’espressione culturale innocua. A Madaba, in Giordania, sulla pavimentazione di una costruzione non religiosa situata sotto la chiesa della Vergine, è rappresentata una scena dell’Ippolito di Euripide. Afrodite e Fedra compaiono assistite rispettivamente dalle Grazie e dalle serve, con l’aggiunta di tre tyché cittadine cristianizzate che impersonano Madaba, Roma e Gregoria. Lo stile, schematico e spoglio, si allontana dalla maniera classica presente nella raffigurazione d’Ippolito e Fedra sul piatto di Costantinopoli delle collezioni di 247
classica, opta per una tematica neutra costituita da motivi indipendenti. Realizzati secondo i canoni naturalisti, idilli bucolici, animali in combattimento e bambini intenti al gioco risaltano su fondo bianco. Gli artigiani, pur liberatisi delle regole del paesaggio tridimensionale, si applicano a conferire l’aspetto sensibile a esseri e cose. Le immagini, proiettate nel vuoto, conservano la plasticità delle composizioni cromatiche immateriali. All’opposto di questo stile tradizionale, le pavimentazioni delle chiese molto spesso presentano tendenze orientaleggianti; le rappresentazioni non riguardano esclusivamente soggetti religiosi. In prima istanza decorative, a un’osservazione più attenta si rivelano spirituali. Il creato, spoglio e purificato, è testimonianza e fa parte dell’increato: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute» (Rm 1,20). Come osserva Atanasio il Grande, «la creazione, per ordine e armonia, rende noto il suo maestro e creatore»1. Il grande scultore dell’antichità, Fidia, è presentato come il modello dell’artista ispirato a servizio dell’Eterno: «le sue opere, per armonia e perfezione dell’insieme, indicano l’autore in maniera certa, benché non fosse presente. Allo stesso modo bisogna, a partire dall’ordine del mondo, riconoscere Dio, suo autore e creatore, benché non si possa contemplarlo fisicamente»2. I paesaggi bucolici e nilotici vengono evangelizzati; nell’iconografia delle stagioni regna un’atmosfera di festa. La terra pacificata si trasforma in paradiso ritrovato in cui il leone e il bue condividono lo stesso pasto; la profezia di Isaia risuona ovunque: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,/ la pantera si sdraierà accanto al capretto;/ il vitello e il leoncello pascoleranno insieme/ e un fanciullo li guiderà./ La vacca e l’orsa pascoleranno insieme;/ si sdraieranno insieme i loro piccoli./ Il leone si ciberà di paglia, come il bue./ Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide;/ il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi./ Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno/ in tutto il mio santo monte,/ perché la saggezza del Signore/ riempirà il paese/ come le acque ricoprono il mare» (Is 11,6-9). La tendenza al frazionamento si accentua e trionfa quella ornamentale. L’iconografia si frammenta in unità formali; bestie e uccelli sono alternati ad anfore, cantari e ceste di frutta. Il proliferare del repertorio animale mostra pavoni, colombe, cervi, gazzelle, pecore, capre, buoi, arieti, cavalli ed aquile. Il mondo marino fornisce pesci, crostacei, frutti di mare, stelle marine, anatre e trampolieri. A Madaba, nella chiesa degli Apostoli, una donna che personifica il mare emerge dalle onde brandendo un timone, tra pesci e mostri marini. L’iscrizione intorno al medaglione collega questa rievocazione mutuata dalla mitologia classica alla potenza di Dio, il «Signore che ha fatto il cielo e la terra». Le acque marine si trasformano in fonte di vita, pura e dissetante; i cervi, figure dell’anima assetata di Dio, vengono ad abbeverarsi ai quattro fiumi del paradiso che sgorgano dalla roccia mistica. I segni cristiani battezzano discre-
Dumbarton Oaks. Il figlio di Teseo è rappresentato con in mano la nota lettera d’amore, mentre volge le spalle alla matrigna che lo tira per la clamide. Secondo l’analisi di Kurt Weitzmann, l’immagine della mitica coppia sarebbe ispirata a un modello cristiano che rappresenta il celebre episodio di Giuseppe tentato dalla moglie di Putifarre. La scena illustrata, mitica e biblica, appare ancora tributaria della grande tradizione antica. La stilizzazione dei volti non intacca lo stile classicheggiante dei corpi; seguendo i canoni estetici greco-romani, l’uomo presenta un corpo nudo di una bellezza anatomica perfetta, la donna una figura graziosa stretta sotto una tunica chiusa da una cintura svolazzante. Gli esempi si moltiplicano; il retaggio dell’Antichità, privato del suo contenuto pagano, vede perpetuate le immagini dei suoi eroi. Gli artigiani, dall’Italia all’Asia Minore e fino al basso Egitto, continuano ad attingere dal repertorio classico motivi ed elementi dei loro decori. Pittori, scultori e tessitori riprendono le eterne immagini delle leggende familiari. Nereidi, tritoni, grazie, fauni e chimere popolano lo spazio decorativo. Entrano in scena anche i cavalieri parti; la koiné artistica unisce soggetti, simboli e segni dell’area mediterranea. I piatti d’argento realizzati a Costantinopoli, lavorati secondo i canoni romani, mostrano Ercole nell’atto di soffocare il leone di Nemea, Atlante e Meleagro a riposo, Atena che presiede tra Aiace e Ulisse la disputa per le armi di Achille. La produzione copta continua a porre in primo piano gli eroi mitologici. Il cambiamento di prospettiva porta con sé una selezione tematica: Zeus e Leda scompaiono, Dioniso e Afrodite sopravvivono. I simboli vengono convertiti; la nascita della dea dell’amore, della bellezza e della fecondità diventa un’allegoria della rinascita dell’anima nelle acque del battesimo. Sul catino, figura del fonte battesimale, viene apposta la croce salvatrice. La realizzazione evolve verso un nuovo stile; l’Egitto, senza dimenticare la tradizione accademica, si avvia verso un linguaggio particolare, in cui predominano lo schematismo e la ieraticità. Nel museo Puškin, gli dèi Gea e Nilo sono raffigurati su due arazzi del iii secolo: l’anatomia, il modellato e i drappeggi sono realizzati secondo i canoni del ritratto romano; al Louvre, Dioniso e Arianna presentano un volto nuovo: l’opera, tessuta nel v secolo, rientra nello stile copto in cui le forme si fanno geometriche e i colori perdono le sfumature. Nel vi secolo, la stilizzazione pronunciata è portata all’estremo, gli artisti riducono le dimensioni del corpo e ingrandiscono quelle del volto, le forme si alleggeriscono e si semplificano, le figure assumono una forma unidimensionale. La scultura rinuncia al tuttotondo e si limita al rilievo. Gli dèi in fin di vita della tarda antichità vengono spiritualizzati prima di cedere il posto agli eroi di Dio. I mosaici delle pavimentazioni sono il prolungamento dell’evoluzione stilistica dell’epoca teodosiana. Le decorazioni musive che ricoprono il pavimento del palazzo imperiale di Costantinopoli si rivelano strettamente legate all’arte ionica antica. La decorazione, di ispirazione 248
233. Mosaico pavimentale della sala “dell’Ippolito”. Madaba, Giordania.
236. I due cacciatori Meleagro e Atalanta, piatto d’argento, da Costantinopoli. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
234. Ippolito e Fedra, da Costantinopoli. Collections Dumbarton Oaks.
237. Afrodite in una conchiglia, dettaglio di una nicchia proveniente da Abnas. Il Cairo Vecchio, Museo di Arte copta.
235. Atena e la disputa delle armi tra Aiace e Ulisse, decorazione di una coppa d’argento da Costantinopoli. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
238. Il fiume Nilo, tessuto della fine del ii secolo. Mosca, Museo Puškin. 239. Dioniso, tessuto del v secolo. Parigi, Louvre.
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legge nella chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo a Gerasa – Colui che ha finanziato l’edificio». «E chi è il pastore rappresentato? Per chi fa brillare quest’opera? Il suo nome è Atanasio, abitante della Tetrapoli, la gloria è il Salvatore». La grammatica ellenistica è riletta e modulata alla luce della Bibbia. La pace messianica domina le stagioni, i mesi e le fatiche dell’uomo. Vendemmia, raccolta, caccia e pesca sono rappresentate come piaceri paradisiaci. Il visibile è sottomesso all’invisibile; il mondo salvato, liberato da ogni peso, vive nella grazia. Le raffigurazioni delle città terrene evocano la Gerusalemme celeste. A San Giovanni di Gerasa, personaggi in movimento sono alternati agli idilli di Alessandria, di Canopo e Menuthi. Le varianti sono numerosissime ma il punto di partenza resta lo stesso. A immagine della città che scende dal cielo, ogni città presenta un gruppo di edifici eretti intorno a una chiesa, con mura, fondamenta e porte. La cartografia non sfugge a questo simbolismo; la celeberrima carta di Madaba presenta un’impressionante serie di località ordinate intorno a una rete stradale. Il mosaico, ispirato all’Onomasticon di Eusebio di Cesarea, si presenta come una guida diretta all’uso dei pellegrini della Terrasanta. Gerusalemme, dove domina il complesso costantiniano del Santo Sepolcro, occupa il centro dell’oikoumene riscattato. La toponomastica segue le referenze bibliche; la storia della salvezza è evocata nella sua cornice geografica. Il Nuovo Testamento continua e completa l’Antico, il territorio delle tribù d’Israe le è tracciato; la terra promessa ad Abramo si copre di santuari cristiani simboleggiati da una chiesa o da una porta affiancata a due torri. Il passato è sottoposto a una rilettura attualizzata. Sulla pavimentazione sono presentati e indicati la quercia di Mamre, il pozzo di Giacobbe a Sichem, la fonte di Eliseo vicino a Gerico, il luogo a Betania dove Giovanni il Precursore impartiva il battesimo, la città di Efraim dove soggiornò il Cristo, il battistero della fonte di Filippo vicino a Bethsur, la chiesa
tamente le composizioni. A Henchir Sokrin, in Tunisia, la decorazione del battistero presenta agnelli e volatili affrontati attorno a una croce con impressi alfa e omega; a Kélibia, l’antica Clupea, il catino mostra una colomba che porta il ramoscello d’ulivo vicino all’arca-cassa del Diluvio; a Tabgha, presso il lago di Tiberiade, il mosaico posto davanti all’altare raffigura due pesci che inquadrano un cesto intrecciato nel quale sono posti quattro pani segnati da una croce, in ricordo del miracolo di Cristo proprio nel luogo dove sarebbe avvenuto. A Madaba nella cappella di San Teodoro si trova la personificazione dei quattro fiumi del paradiso: il Gihon, il Pishon, il Tigri e l’Eufrate. Gli eredi vengono introdotti nell’eredità. Li troviamo ora intenti al loro lavoro, ora ieratici alla maniera degli offerenti tradizionali. Agricoltori, cacciatori o musici appaiono integrati al mondo in festa. In Palestina, nel monastero di Kyria Maria, a Beth Shean, un pastore suona lo zufolo al suo cane; in Giordania, a AyunMussa, al piedi del monte Nebo, un soldato ausiliario arabo avanza a torso nudo, armato di un arco a tracolla, la spada al fianco e lo scudiscio nella mano destra; a Zia, un bambino di nome Giorgio regge un pavone tra le braccia; a Gerasa, nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano, appaiono i giovani donatori Giovanni e Callistinos, il guardiano Teodoro e la moglie Giorgia. Nella chiesa detta “di Elia, Maria e Soreg”, il benefattore e la benefattrice tengono in mano un ramoscello e una croce processionale; in Siria, a Deir el-Adas di Bosra, il cammelliere Muchasos guida una carovana di quattro cammelli, un vignaiolo taglia un grappolo d’uva, un cacciatore cattura un uccello. A Cartagine, quattro ragazzi portano un medaglione su cui è impressa una croce circondata da due agnelli e due colombe. Le iscrizioni dedicatorie, greche, latine o siriache, evocano l’offerta fatta alla chiesa e l’autore. La lode è rivolta sistematicamente ai veri costruttori, al Dio uno e trino e ai suoi santi venerati: «Mosaico, da chi sei stato donato? – si
242. Agnelli e volatili affrontati attorno a una croce, mosaico dal battistero di Henchir Sokrin. Museo di Lemta, Tunisia. 243. La città di Gerusalemme, particolare del mosaico della chiesa “della Carta”. Madaba, Giordania.
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(a fronte)
244. Croce, agnelli e quattro figure, mosaico da Cartagine. Tunisi, Museo del Bardo.
240. Medaglione con la personificazione del mare, mosaico. Madaba, chiesa degli Apostoli.
245. Pastore che suona il flauto, particolare del mosaico del monastero di Kyria Maria. Beth Shean.
241. Pani e pesci, particolare del mosaico. Tabgha, chiesa della Moltiplicazione dei pani e dei pesci.
246-247. Soreg e Maria, due particolari del mosaico dalla chiesa di Elia, Maria e Soreg. Museo di Gerasa.
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Gregorio Magno, «essere, per Dio, è rimanere eterno e immutabile. Perché tutto ciò che muta cessa di essere ciò che è stato e comincia a essere ciò che non era. Ma essere, per Dio, è non esistere mai in maniera dissimile»4. Il viso dell’uomo deificato appare dietro i quattro volti; i lineamenti individuali sono ridotti a segni esteriori, come i baffi sottili o una barbetta a punta. Sempre contemplativo, l’uomo si erge diritto e invincibile, «sacerdote del tempio divino e spettatore delle opere e delle realtà celesti»5. Le colonne viventi diventano molto numerose. Come osserva Lattanzio, l’universo è fatto per l’uomo e l’uomo è fatto per Dio: «se, unico tra tutti gli esseri viventi, è stato plasmato con un corpo eretto e una stazione eretta, è perché fosse in maniera visibile risvegliato alla contemplazione del Padre»6. Seguendo l’esigente richiesta dei Padri, l’arte cristiana cerca di individuare l’uomo interiore; il ritratto naturalista si scontra con i propri limiti, e non è altro che il riflesso dell’immagine imperfetta ricevuta dall’uomo alla nascita. Dice Didimo il Cieco: «La somiglianza è il grado supremo dell’immagine, mentre l’immagine non è certamente assai esatta da ottenere una somiglianza senza difetto»7. Questo grado superiore sfugge agli occhi carnali; solo l’occhio dell’anima, l’occhio che è «proprio dell’uomo»8 può coglierne il mistero. Il percorso va dall’«anima vivificante» di Adamo allo «spirito vivificante» del Cristo, «Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste» (1 Cor 15,46-49). Il visibile è percepito alla luce dell’invisibile, il terreno è pervaso dal celeste. Trasfigurato, il figlio di Adamo si trasforma in figlio del Cristo. Questa metamorfosi estetica si rivela gradualmente attraverso una serie di ritratti di papi conservata a San Paolo Fuori le Mura. I medaglioni si succedono; tra i dipinti, i più antichi rivelano una percezione della figura umana come entità corporea fedele e al contempo idealizzata, morale e personale. Il cambiamento è operato per piccoli tocchi; la tecnica di realizzazione del ritratto accenna un’aperta trascendenza. Il dipinto che riproduce il modello realista conforme alla fedeltà figurativa si avvia verso una stilizzazione che conduce al limite dell’icona; dall’immagine, il volto umano assorbe progressivamente dentro di sé la somiglianza. Un viso ultraterreno si impone e si ripete; l’umano si fa divino e il divino umano. A Santa Maria Antiqua, a Roma, un insieme di pitture parietali votive, con iscrizioni latine e greche, rivela un laboratorio di forme e colori. Eseguite senza un programma specifico e in periodi diversi, le pitture sono la dimostrazione dei grandi mutamenti plastici dell’arte cristiana tra il vi il vii secolo. Le più antiche sono coperte da strati di affreschi; l’angelo dell’Annunciazione, per la fattura antica, si distacca dalle realizzazioni po-
di San Giona a Jaffa e il santuario di San Vittore a Gaza. La realtà geografica è trasfigurata. La storia della santità si estende dalla Palestina alla Transgiordania, fino all’Egitto. I segni paradisiaci rinnovano la cartografia, i corsi d’acqua tagliano i campi, le montagne sorgono attorno a città e villaggi, le piante di palma crescono a Gerico, le navi attraversano il mar Morto, il leone e la gazzella corrono nei campi di Moab. Umiltà e maestà
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La pittura religiosa comincia a seguire un’ispirazione nuova, una nuova espressione pittorica interpreta e unisce i vari prestiti stilistici: la visione cristiana la trasfigura, la sviluppa e la rafforza. Nelle catacombe di Commodilla, la Vergine con il Bambino siede in maestà tra i santi Felice e Adautto. La donatrice Turturra, rappresentata in scala minore, si erge umilmente davanti al trono regale, con le mani coperte da un tessuto immacolato. La ieraticità è assoluta e il prospetto pieno; la realizzazione della carnagione è sfumata. Un unico volto determina la struttura interna della fisionomia dei ritratti; la linea del naso forma con le arcate sopraccigliari una croce assiale, gli occhi a mandorla sono fissi sullo spettatore. La prospettiva rovesciata sostituisce la prospettiva consueta; l’immagine, piuttosto che portare lo sguardo in lontananza, al contrario, lo respinge e dà l’impressione che l’oggetto rappresentato si avvicini. Una superficie in tinta unita prende il posto dello spazio aereo dell’orizzonte; i personaggi sono disposti su una linea del suolo delimitata. La parola è assorbita dal silenzio e l’essere si consuma nel fuoco della contemplazione. Dal ritratto idealizzato, l’immagine evolve verso l’icona. Sia a Roma, sia a Napoli, le pitture catacombali realizzate nel vi e vii secolo rivelano alla perfezione il fossato che separa l’arte paleocristiana dall’arte medievale. Sempre nelle catacombe di Commodilla, l’apostolo Luca è presentato in piedi in un dipinto rettangolare. Lo stile piatto si accentua, il disegno è predominante sul cromatismo; il volto, le mani e i piedi sono segnati da un tratto carminio; il modello della pittura votiva è fissato. L’uomo di Dio, liberato dalle passioni umane, è avvolto dalla gloria divina ed eretto come una colonna vivente. Nelle catacombe di San Callisto, nella cripta di Lucina, il papa san Cornelio, il vescovo san Cipriano, il papa san Sisto ii e il vescovo san Optato si ergono uniformemente, tutti con il Vangelo su una mano e abbozzando un gesto di benedizione con l’altra. I nomi inscritti sono accompagnati dai versetti biblici: «Che cosa renderò al Signore/ per quanto mi ha dato?» (Sal 116,12), «Ma io canterò la tua potenza,/ al mattino esalterò la tua grazia/ perché sei stato mia difesa,/ mio rifugio nel giorno del pericolo» (Sal 59,17). I volti non mostrano alcun segno di turbamento o di eccitazione. Invulnerabili, i santi celebrano in silenzio la forza e l’amore del Creatore; «l’umiltà è contenuta nella maestà, la maestà nell’umiltà»3. L’essere si dedica alla pura preghiera; come osserva 252
Tav. 111. La Vergine in trono con Felice, Adautto e Turturra. Roma, catacombe di Commodilla.
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Tav. 112. San Demetrio e i donatori. Salonicco, chiesa di San Demetrio.
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Tav. 113. San Demetrio protettore di due bambini. Ibidem.
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Tav. 114. Particolare dell’affresco dell’abside con il volto di Cristo. Castelseprio (Varese), chiesa di Santa Maria foris Portas.
Tav. 115. Cristo Pantocratore. Sinai, convento di Santa Caterina.
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Tav. 117. Vergine con il Bambino. Roma, chiesa di Santa Francesca Romana (o Santa Maria Nova).
Tav. 116. San Pietro. Ibidem.
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248. San Clemente. Roma, San Paolo fuori le Mura. 249. San Sisto ii e sant’Optato, particolare della pittura murale della cripta di San Cornelio. Roma, catacombe di San Callisto. 250. San Callisto. Roma, San Paolo fuori le Mura. (a fronte)
251. San Cornelio e san Cipriano, particolare della pittura murale della cripta di San Cornelio. Roma, catacombe di San Callisto.
Tav. 118. La resurrezione di Lazzaro e i santi Gerolamo, Agostino e Gregorio: dittico di Boezio. Brescia, Musei Civici d’Arte e di Storia.
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252. Medaglione con volto. Roma, San Paolo fuori le Mura.
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lenismo al tramonto emana i suoi ultimi bagliori a Santa Maria foris Portas, a Castelseprio in Lombardia, dove in un ciclo di pitture parietali è rappresentata l’Infanzia di Cristo. Ispirata ai vangeli canonici e apocrifi, adotta scene fissate da poco tempo, come la prova dell’acqua amara inflitta a Maria o la punizione della levatrice che aveva messo in dubbio la verginità della Madre di Dio. La raffigurazione appare dipendente dalla tradizione classica; l’artista, con notevole raffinatezza formale, proietta i personaggi in un paesaggio all’aperto, con un fon-
steriori. Le tendenze plastiche sono numerose, l’antico si mescola al nuovo prima di cedergli definitivamente il posto. Alcune opere fanno pensare alla riproduzione di immagini portatili sui muri e nelle nicchie. Come ha osservato André Grabar, «la Madonna, rappresentata di busto, che indica col dito il Bambino nimbato o le tre pie madri – la Vergine Maria tra santa Elisabetta e sant’Anna – dipinte rispettivamente in piccole nicchie particolari, sono pitture in cui le tradizioni bizantine delle icone appaiono strettamente legate alle tradizioni romane»9. L’el-
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re ora giovane e imberbe, ora maturo e con la barba; le visioni teofaniche si ripetono: il Cristo in trono, con due angeli ai lati, sotto lo sguardo del sole e della luna, appare al centro di una mandorla retta dai quattro simboli degli evangelisti. La Vergine è raffigurata ora orante, ora in trono tra gli angeli. L’Egitto cristiano sembra il primo dove fu rappresentata la Madre nell’atto di nutrire al seno il Bambino divino. L’immagine cristiana, ispirata probabilmente a Iside intenta ad allattare Oro, diventa canonica. Sempre ieratica, la Virgo lactans cinge teneramente il figlio con un braccio protettivo, portando pudicamente il seno verso la bocca del Figlio. Abbondano le figure monastiche: Apollo, «l’amico dell’Angelo», appare ripetutamente. Apa Geremia e apa Enoch sono affiancati ai santi arcangeli Gabriele e Michele. La guerra invisibile condotta contro le forze del male si avvicina al termine; il santo cavaliere Sisinnio trafigge il seno destro della diavolessa Albastria e la sconfigge per sempre; un cervo, eretto ai piedi dell’apa Filoteo l’atleta, inghiotte il serpente che era avvolto attorno al suo capo, e un orso giunge ad annusare docilmente il bordo della veste di apa Giorgio. Domina la condizione paradisiaca e i beati godono in questo mondo le gioie promesse per la fine dei tempi. I volti impassibili sono animati dall’anima rafforzata, 125 legata per sempre a Dio. Il corpo appare irrigidito e trasformato in colonna e il volto iconico egiziano si determina: a immagine dei cherubini e dei serafini, è «soltanto un occhio»10. L’essere è avvolto dalle virtù dello Spirito che si vedono rappresentate allegoricamente sulle pareti di una cappella di Saqqara: una serie di busti femminili sormontati da diademi, personificazioni di «indulgenza, pace, bontà, carità, speranza, fede, temperanza, mansue-
do di architetture in lontananza. Soltanto la monumentale figura di Cristo inscritta in un medaglione sembra ricollegarsi alla pittura pre-medievale. Il retaggio dell’Oriente greco è limitato a qualche traccia, come gli esemplari provenienti dalla chiesa rossa di Peruštica, i resti trovati nella chiesa episcopale di Stobi, l’affresco dell’agorà di Salonicco, in cui due dignitari venerano la croce salvatrice, o il medaglione del Cristo Pantocratore a Salamis, a Cipro. In Siria, in Palestina e in Asia Minore, appaiono qua e là alcuni minuscoli resti di decorazioni parietali. I più significativi si trovano ad Antinoe, nell’alto Egitto, tra le rovine del convento di Bauit e di Saqqara. Le piccole cappelle dei monaci costituiscono un museo della pittura copta. La produzione indigena a prima vista sembra una ramificazione provinciale dell’arte bizantina; l’insieme non ha nulla di fastoso, la tecnica è ridotta ai mezzi elementari, tuttavia il linguaggio plastico conserva una grande forza espressiva. Il disegno è schizzato con abilità con un tratto puro e morbido. I colori sono vivaci e i toni tranquilli; i contorni sono attenuati da piccoli tocchi a mezzetinte. La produzione copta, senza la pretesa di essere arte grande e raffinata, si sviluppa e si impone. Rupestre, ma non popolare, dimostra chiaramente la grande forza spirituale da cui trae linfa e forza. Grandi composizioni decorative ornano le pareti e i soffitti. L’iconografia mediterranea viene perpetuata con la caccia al leone e alla gazzella, racemi pieni di vita, piante intrecciate e meandri decorati a ghirlande. Il programma figurativo rivela una grande ricchezza; un ricco insieme di immagini eristiche, profetiche e agiografiche si integra nella cornice antica. Le variazioni dimostrano l’evoluzione dell’arte cristiana universale: il Cristo appa-
253-254. Madonna in trono; santi in piedi: due particolari della pittura murale della chiesa di Santa Maria Antiqua. Roma. 255. Cristo pantocratore, particolare della pittura murale della chiesa di Nicodemo. Salamis, Cipro. 256. La natività e la fuga in Egitto, particolare della pittura murale della chiesa di Santa Maria foris Portas. Castelseprio, Varese.
257-258. Due edicole con la raffigurazione della Vergine del latte, da Saqqara. Il Cairo Vecchio, Museo d’Arte copta.
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tudine, verginità, pazienza, sapienza e castità»11. Il movimento è limitato a una mimica ripetitiva, la ieraticità dominante trasforma talvolta i modelli dati: l’Ascensione perde il suo carattere movimentato, la variante copta elimina l’azione degli apostoli agitati e li rappresenta in maniera uniforme di fronte, in piedi e immobili, con un Vangelo preziosamente rilegato tra le mani; come recita l’apoftegma di padre Serapione, «Come le guardie imperiali che non osano, quando sono sull’attenti, guardare a destra e a sinistra, così l’uomo è posto di fronte a Dio e guarda davanti a sé sempre intimorito: non può temere nulla dal nemico»12.
mente l’evoluzione dell’arte paleocristiana. Le figure in piedi risaltano su un fondo turchino; in una prospettiva ascensionale, al centro dell’abside, il Cristo vestito d’oro emerge dalle nuvole dai colori vivaci che tagliano lo spazio sferico. Seguendo la tradizione iconografica stabilita, Pietro e Paolo, vestiti di bianco, sono accostati simmetricamente al Redentore; il primo presenta Cosma e il secondo Damiano. I due santi cerusici, introdotti dalle due colonne della Chiesa, giungono a offrire la corona del loro martirio. San Teodoro e Felice iv entrano in scena: il legionario, come gli alti dignitari della corte di Giustiniano, indossa una sontuosa clamide quadrata; le mani velate, avanza dietro Cosma per presentare a sua volta «la corona che non passa mai». Parallelamente, il vescovo di Roma è posto dietro Damiano, con il modello della basilica tra le mani. Un’iscrizione a lettere d’oro commemora l’evento rappresentato: «La Chiesa di Dio risplende, ricca di pietre preziose; riluce soprattutto gra-
«La gloriosa città celeste» L’evoluzione dei mosaici parietali dimostra lo stesso cambiamento estetico. Il mosaico absidale della basilica dei Santi Cosma e Damiano rappresenta magnifica-
(a fronte) 261. Mosaico absidale con Cristo tra i santi Pietro, Paolo, Cosma, Damiano, Teodoro e Felice iv. Roma, basilica dei Santi Cosma e Damiano.
259. L’ascensione e la Vergine in trono tra santi, pittura absidale da Bauit. Il Cairo Vecchio, Museo d’Arte copta.
262. Mosaico dell’arco con Cristo tra i santi Pietro, Paolo, Lorenzo, Stefano, Ippolito e papa Pelagio. Roma, basilica dei Santi Cosma e Damiano.
260. Apollo circondato da quattro santi. Il Cairo Vecchio, Museo d’Arte copta.
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culmina nei mosaici posteriori; sull’arco trionfale della basilica di San Lorenzo fuori le Mura, il Cristo in trono sulla sfera celeste è accostato a Pietro e Paolo accompagnati da quattro personaggi; san Lorenzo e santo Stefano hanno un libro aperto ciascuno con impressa un’iscrizione che rievoca la loro azione caritatevole, san Ippolito porta la corona del martirio. Infine, come già Felice, il papa Pelagio presenta un modello della chiesa realizzata per suo ordine. Gerusalemme e Betlemme, impreziosite dalle gemme, sono poste alle due estremità dell’arco. Il mosaico è simile a quello della chiesa dei Santi Cosma e Damiano, ma lo stile è nettamente diverso. La tendenza contraria al classicismo si impone, le figure massicce sono alleggerite e i rilievi meno pronunciati. I personaggi, avvolti nello spazio di luce, richiamano lo spettatore a prender parte alla scena celeste. L’azione si ripete nel battistero di San Giovanni in Laterano. Sull’abside della cappella di San Venanzio, un mosaico suddiviso su due registri presenta il Cristo nell’atto della benedizione tra due angeli, sopra un’assemblea di santi attorno alla Vergine orante. I due pontefici donatori, Giovanni iv e il suo successore Teodoro, partecipano alla cerimonia. Ancora una volta, le due città mistiche appaiono ai lati; l’immagine celebra la trascendenza del divino. L’oro del fondo ha sostituito il turchino, «il cielo e la terra di prima erano scomparsi» (Ap 21,1). Il nuovo stile si affina e il carattere immateriale si accentua; l’ornato rivela fiori stilizzati privi di ogni caratteristica realistica. Il Verbo incarnato prende i «pesci puri» e li conduce dall’«onda ostile»13 alla casa del Padre. Il mosaico dell’abside di Sant’Agnese esprime perfettamente l’arte cristiana dell’alto Medioevo. La venerabile vergine, affiancata a due pontefici, si erge inflessibile su un muro risplendente d’oro. Ai suoi piedi, due fiamme e una spada evocano simbolicamente il ciclo dei supplizi. Uscita indenne dal fuoco in cui venne gettata, come narra l’agiografia, l’eroina del Cristo subisce il martirio della spada. Otto giorni dopo la morte, appare miracolosamente ai genitori avvolta in drappi preziosi. L’immagine la presenta come una sovrana bizantina, con una veste sontuosa incrostata di pietre preziose. Il corpo rigido è realizzato in masse ornamentali. Il campo è privo di qualunque elemento del cosiddetto illusionismo ellenistico; fasce policrome bordano lo spazio dorato. Come recita l’iscrizione, «la pittura dorata dei metalli intagliati brilla e avvolge la luce del giorno». Sul registro superiore, uno spazio azzurro disseminato di stelle disegna il limite dell’empireo; la mano di Dio emerge per offrire alla santa la corona eterna; come ricorda una delle odi di Salomone: «È una pietra preziosa. Per essa sono state ingaggiate battaglie, la giustizia l’ha presa e l’ha donata a voi. Prendetela per suggellare l’alleanza col Signore; tutti i vincitori saranno iscritti nel suo libro, perché il libro è la vittoria che vi appartiene, vi vede davanti e vuole che veniate salvati»14. Ravenna costituisce un’autentica vetrina di programmi decorativi. La cappella arcivescovile, eretta dal vescovo Pietro ii all’interno dell’arcivescovado, perpetua
zie alla preziosa luce della fede: grazie ai medici martiri, per lei c’è una speranza certa di salvezza. Questo luogo accresce il suo prestigio dalla sua consacrazione. Felice l’ha consacrata a Dio come dono degno di un papa al fine di meritare di vivere nella gloriosa città del cielo». Il nome del Giordano figura al centro della striscia del suolo: per giungere fino al Cristo, occorre attraversare il fiume del battesimo e della grazia. Il cammino dei santi è accostato a una processione simbolica. Sul registro inferiore, le pecore si avviano in due gruppi verso l’Agnello mistico eretto sul monte del Paradiso: «perché l’Agnello che sta in mezzo al trono/ sarà il loro pastore/ e li guiderà alle fonti delle acque della vita./ E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,17). L’azione, al contrario del mosaico di Santa Pudenziana, è dominata dalla ieraticità. I volti, rappresentati frontalmente, si volgono uniformemente verso chi guarda. L’immagine conserva tuttavia l’impronta del passato, i corpi appaiono massicci e i panneggi sono realizzati finemente. La raffigurazione avvia una trasformazione che
263. Sant’Agnese, particolare del mosaico absidale. Roma, chiesa di Sant’Agnese.
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264-268. Giustiniano con Massimiano e il seguito; Teodora con il suo seguito; l’ospitalità e il sacrificio di Abramo; le offerte di Abele e di Melchisedek; Cristo tra san Vitale e il vescovo Ecclesius. Mosaici della chiesa di San Vitale, Ravenna. 269-270. L’insieme della cappella arcivescovile e particolare di Cristo soldato. Ravenna.
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le forme prebizantine del v secolo. Il Cristo soldato, imberbe e giovanile, occupa la lunetta posta sopra la porta d’ingresso del vestibolo. Vestito di una corazza e di una clamide, con una croce a forma di lancia, calpesta con i piedi la testa del leone e dell’aspide. Un libro aperto sulla mano velata reca l’iscrizione «Io sono la via, la verità e la vita». Una superficie ornamentale popolata di uccelli e di animali appare sulla volta. Nell’oratorio, i quattro Viventi sono alternati a quattro angeli realizzati come vittorie, che sollevano il crisma del Salvatore. Una serie di busti inscritti in medaglioni ornano gli intradossi degli archi: mentre il Cristo e i suoi apostoli prendono posto su quelli a est e a ovest, sei santi e sei sante appaiono su quelli a sud e a nord. L’oro e l’azzurro sono accostati e si completano, tutto è avvolto nella luce e l’iscrizione del vestibolo recita: «Qui è nata la luce o qui, prigioniera, regna libera» [Aut lux hic nata est aut capta hic libera regnat]. La decorazione si ripete a San Vitale. Sulla volta, angeli eretti su un fondo decorato da ghirlande e da frutti sostengono l’immagine nel medaglione dell’Agnello mistico. Grandi racemi di pampini di vite emergono dai vasi circondati da colombe. I busti in medaglione del Cristo e degli apostoli si susseguono sull’intradosso dell’arco d’ingresso. Gli evangelisti, sormontati dal loro simbolo, appaiono sui piedritti degli archi. Le decorazioni musive si integrano a un universo di segni. Sulle pareti laterali i sacrifici di Abele, di Melchisedek e di Abramo annunciano e prefigurano il mistero dell’eucarestia. Sulla lunetta a sinistra, Abramo offre il vitello preparato ai tre angeli seduti al tavolo sotto la quercia. Le mani dei tre visitatori benedicono e indicano tre pani su cui è impressa la croce. Sara, in piedi davanti alla porta della tenda, ha un dito sulla bocca in segno di stupore. La nascita di Isacco è annunciata da Jahvè ad Abramo: «Al tempo fissato tornerò da te alla stessa data e Sara avrà un figlio» (Gn 18,14). Dall’altra parte, seguendo lo schema dato, il patriarca si accinge a immolare il suo unico figlio. La mano di Dio emerge dalle nuvole per fermare la mano armata del fedele. Sulla lunetta di destra, Abele e Melchisedek sono riuniti attorno alla tavola del Signore. Il primo, vestito di una pelle di animale e di un mantello rosso, offre al Dio vivente l’agnello per il sacrificio. Il secondo, vestito di una tunica sacerdotale, presenta l’offerta del pane e del vino. Al centro del mosaico, la mano del Padre benedice l’altare. Le figure veterotestamentarie si moltiplicano. Isaia e Geremia sono posti agli angoli e Mosè appare tre volte, alla guida del gregge del sacerdote Jetro, mentre si toglie le calzature sull’Oreb davanti al roveto ardente e mentre riceve le tavole della Legge sul monte Sinai. Il retaggio dell’Antichità è costante, i personaggi sono raffigurati in un ambiente bucolico disseminato di alberi, erbe e fiori. I riflessi luminosi dei verdi prevalgono sullo scintillio degli ori; il carattere alogico delle costruzioni architettoniche e l’uso eclettico della prospettiva appartengono alla nuova corrente estetica. Lo spazio è liberato dai limiti della ragione; oggetti vari sono raffigurati a volo
d’uccello, altri rasoterra. Le strutture del naturalismo e le leggi della stilizzazione sono rovesciate e si intersecano. Il mondo antico accoglie i segni del nuovo mondo. Sul catino absidale è raffigurato il Cristo in trono sulla sfera del mondo, con in mano il rotolo dei sette sigilli. Da un lato san Vitale tende le mani coperte della clamide per ricevere la corona di gloria; dall’altro, il vescovo Ecclesio avanza per offrire al Redentore il modello della basilica di cui aveva ordinato la costruzione. Il campo d’oro sostituisce l’idillio pastorale. Il paesaggio verdeggiante è ridotto alla striscia del suolo, disseminata di fiori stilizzati. Sulla parete, due pannelli commemorano l’offerta imperiale della patena e del calice d’oro. Giustiniano, accostato a Massimiano, è raffigurato col suo seguito con la patena d’oro tra le mani. Dignitari e religiosi circondano il sovrano e l’arcivescovo, un soldato reca lo scudo con impresso il crisma cristico, un diacono presenta il Vangelo e un suddiacono avanza col turibolo. L’unione dei due poteri è sancita; come si afferma nella Novella iv dell’imperatore, «i doni più grandi fatti da Dio agli uomini sono il sacerdozio e l’impero, il sacerdozio per il servizio delle cose divine, l’impero per l’ordine delle cose umane»15. L’imperatrice Teodora, accompagnata da sette dame del suo seguito, avanza con il calice incrostato di pietre preziose. Accanto a lei, un diacono e un suddiacono alzano il drappo della porta della chiesa. Sul suo mantello di porpora è intessuta un’immagine in cui si intuisce il modello dell’Adorazione dei Magi. L’imperatore e l’imperatrice, come i re venuti dall’Oriente, giungono a lodare il Re dei re, il cui regno non ha età. I due pannelli, eseguiti magnificamente, costituiscono una sintesi approfondita delle varie tendenze paleocristiane; il fasto orientale è unito alla gravità romana, gli stili ellenistico e sassanide sono associati a formare un linguaggio omogeneo. Le forme plastiche sono abolite e i gesti ridotti a una mimica controllata. L’ornamento non è più un elemento gratuito; l’oro inonda lo spazio di una luce ultraterrena. I personaggi, sempre di pieno prospetto, si voltano verso i fedeli per accoglierli «nell’artificio dell’eternità»16. A Sant’Apollinare in Classe le figure sono accostate ai simboli per creare un insieme inedito. Il santo patrono della chiesa, attorniato ai due lati da sei pecore per parte, appare in atteggiamento orante al centro di un prato guarnito da ulivi, cipressi, pini e margherite, fiori di giglio e rocce. La sproporzione tra gli elementi rappresentati conferisce al paesaggio uno stile decorativo inedito. I fiori, rappresentati frontalmente su un fondo unidimensionale, appaiono alti quanto gli alberi; le pecore e gli uccelli, posti schematicamente di profilo, perdono peso e volume. La metamorfosi è totale; lo spazio immateriale diventa un arazzo dai motivi cesellati. Il pastore, sacerdote e re, alza le braccia verso il catino absidale dove risplende la croce trionfale in mezzo a novanta stelle d’oro e d’argento. I segni della presenza invisibile del Figlio incarnato si moltiplicano: il nimbo stellato di Cristo racchiude lo strumento della salvezza, l’alfa e l’omega sono poste alle due estremità della fascia 268
Tav. 119. Il bagno di Cristo bambino. Il Cairo Vecchio, Museo d’arte copta.
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Tav. 120. Vittoria. Ibidem. Tav. 121. Putti. Ibidem.
Tav. 122. Santi in preghiera. Ibidem.
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Tav. 123. Vergine in trono tra santi. Ibidem.
Tav. 124. Daniele in preghiera. Ibidem.
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Tav. 125. Santi monaci, frammento di pittura murale da Saqqara. Ibidem.
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Tav. 126. Cristo in gloria, pittura murale proveniente da Bauit. Ibidem.
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271-275. Sant’Apollinare; croce gemmata con il medaglione del Cristo; Abele, Melchisedek, Abramo e Isacco; Costantino iv Pogonato e i suoi due fratelli consegnano a Reparato il privilegio dell’autocefalia; il profeta Elia. Particolari dei mosaici della basilica di Sant’Apollinare in Classe.
Tav. 127. Volto su tessuto copto. Ibidem.
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colombe affrontate riposano su una nicchia a forma di conchiglia segnata da una corona e da una croce. Sulla parete sinistra, il giovane Cristo imberbe compie miracoli davanti al fariseo e al pubblicano oltraggiato; le immagini si susseguono; il Figlio di Dio compie il suo primo miracolo a Cana, moltiplica i pani e i pesci, invita Pietro e Andrea a seguirlo, apre gli occhi dei ciechi di Gerico, si rivolge all’emorroissa, parla con la Samaritana, resuscita Lazzaro, benedice la vedova, è giudice tra arieti e capri, guarisce il paralitico di Cafarnao, libera l’indemoniato nel paese dei Gadareni e soccorre l’infermo di Betsaida. Sulla parete destra Gesù, maturo e barbuto, vive la Passione e resuscita nella gloria. Le scene sono una accanto all’altra; il Cristo presiede l’Ultima Cena, prega sul Getsemani, riceve il bacio di Giuda, viene condotto in giudizio, si presenta davanti al sinedrio, predice a Pietro i rinnegamenti, si intrattiene con Pilato, compie il calvario, appare ai discepoli sulla via di Emmaus e mostra a Tommaso il costato trafitto. Non c’è alcuna immagine di Gesù sulla croce, schernito e oltraggiato; la Passione è evocata senza essere presentata. Pietro rinnega il Maestro, Giuda restituisce a Caifa la borsa d’argento e Simone il Cireneo porta sulle spalle lo strumento del supplizio. I mosaici sono dedicati alla celebrazione del mondo salvato e trasfigurato dal Cristo; il cielo è d’oro puro. La rappresentazione mostra l’essenziale della scena evangelica, l’aneddoto è ridotto ai tratti principali. L’immanente è unito al trascendente; il Signore, potente nella sua misericordia e buono nella sua forza, conduce gli uomini sul suo cammino e consola coloro che sperano in lui. Sul registro mediano, sedici figure sono rappresentate sotto le nicchie della prima zona: patriarchi, profeti e santi, vestiti di bianco, spiccano sulla superficie dorata, con in mano un codex o un volumen. Lo spazio vuoto riflette una luce immateriale: «... tutto quello che si manifesta è luce» (Ef 5,13). A immagine degli angeli, gli uomini di Dio sono «portatori del silenzio divino, come
orizzontale. In un’iscrizione greco-latina il Salvatore viene nominato salus mundi e Icthus. Tutto ruota attorno al simbolo cosmico; Elia e Mosè emergono dalle nuvole, indicando con la mano la croce salvatrice. La Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor assume la forma di un’allegoria. Tre agnelli posti sulla striscia superiore del suolo, figure simboliche di Pietro, Giacomo e Giovanni, alzano gli occhi verso il nuovo albero della vita. La mano benedicente di Dio completa la teofania. Sotto il catino absidale, quattro vescovi di Ravenna si ergono in piedi in false nicchie: ieratici e immobili, Severo, Orso, Ecclesio e Ursicino portano tutti un Vangelo con mano sinistra e abbozzano un gesto di benedizione con la destra. Una decorazione posteriore, risalente alla seconda metà del vii secolo, completa il programma. Sull’arco trionfale, in una fascia continua sono allineati i quattro Viventi, disposti a coppie ai lati del Cristo Pantocratore. Agli angoli, due gruppi di sei pecore, simboli dei Dodici, emergono dalle due città mistiche. Due pannelli ai lati dell’abside commemorano i sacrifici veterotestamentari e l’offerta imperiale. Sulla parete sud, Abele, Melchisedek e Abramo sono posti attorno all’altare di Dio; sulla parete nord, Costantino iv Pogonato e i due fratelli consegnano a Reparato il privilegio dell’autocefalia. L’estetica medievale, preannunciata nel vi secolo, si afferma nell’arco di un secolo di creazioni artistiche: la concezione iconica unifica le varie componenti dell’immagine, la regolarità geometrica contraddistingue i gesti dei personaggi, un grafismo netto e pronunciato delimita le pieghe delle tuniche; la simmetria delle composizioni, la sicurezza del disegno e la densità dei colori conferiscono ai nuovi canoni iconografici forza e grandezza. A Sant’Apollinare Nuovo è rappresentato un ciclo di eccezionale ricchezza in tre bande sovrapposte sulle due pareti della navata centrale. Sul registro superiore, su un gruppo di ventisei pannelli, sono raccontate la vita e l’opera di Cristo. Le immagini, suddivise in due serie, sono alternate a un motivo aniconico in cui due
277-280. Nella colonna di sinistra il Cristo imberbe in alcuni episodi evangelici: la chiamata di Pietro e Andrea; la guarigione del cieco; la guarigione dell’emorroissa; l’incontro con la Samaritana. 281-283. Nella colonna di destra il Cristo barbuto in altri episodi evangelici: l’Ultima Cena; il bacio di Giuda; l’incredulità di Tommaso. Particolari dei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.
(a fronte) 276. Corteo dei martiri, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare Nuovo.
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rono eliminate; mura d’oro e tende di estrema finezza furono sostituite alle immagini dei primi proprietari. La città, privata di ogni connotazione storica, si presenta come un’icona della città celeste: «Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno,/ poiché non vi sarà più notte./ E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni» (Ap 21,25-26). La basilica eufrasiana di Parentium, l’attuale Pore/, completa il panorama degli edifici bizantini dell’Adriatico settentrionale. La decorazione esterna rappresenta il Cristo sul timpano della facciata ovest circondato dai Dodici con i Sette Candelabri dell’Apocalisse. L’interno riflette un evidente apporto ravennate; sull’arco trionfale, il Signore appare in trono sul globo terrestre tra gli apostoli in piedi; sull’intradosso, si vedono tredici sante inscritte in un medaglione. La Vergine Theotokos regna nel catino absidale; la Madre di gloria, vigilata da due angeli, è assistita da un gruppo di personaggi: sulla destra sono raffigurati san Mauro, grande martire della città e patrono della basilica, il vescovo Eufrasio, costruttore dell’edificio, e l’arcidiacono Claudio, sovrintendente ai lavori, con il figlioletto Eufrasio; sulla sinistra avanzano tre santi anonimi che la tradizione identifica con i pro-
luci rivelatrici disposte dall’Inaccessibile per manifestarlo sulla soglia stessa del suo santuario»17. I volti guardano, vigilano e vedono; come osserva Ireneo di Lione: «La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio»18. Infine, sull’ultima cornice, due cortei sfilano tenendo tra le mani la corona eterna. Da una parte ci sono i santi, guidati da san Martino di Tours, che avanzano verso il Cristo in maestà; dall’altra, le sante, precedute dai tre Magi, si dirigono verso la Madre di Dio. Le fisionomie sono simili: Clemente, Lorenzo, Ippolito o Cipriano, Eugenia, Sabina, Cristina o Natalia sono un solo uomo e una sola donna, un unico essere. I volti appaiono di tre quarti; seguendo la stessa direzione, le mani sono rivolte verso il Re e la Madre, i piedi sono fissi al suolo. Santi e sante, immobili, camminano misticamente verso la dimora celeste; palme stilizzate sono alternate simmetricamente alle figure in piedi. Le due processioni formano due fregi supplementari delimitati alle estremità dal palazzo di Teodorico e dal porto della città di Classe. Il programma originario presentava il principe goto e la moglie accompagnati dal loro seguito. Con la reintroduzione del culto cattolico, dopo l’editto di Giustiniano, le figure dei principi eretici fu-
284-286. Visitazione; annunciazione; arco trionfale e abside della basilica eufrasiana, Parenzo.
288. Il dono delle tavole della Legge, particolare di un mosaico del monastero di Santa Caterina del Sinai.
(a fronte in alto) 287. Vergine in trono, particolare del mosaico della Panaghia Kanakaria. Lythrankomi, Cipro.
289. Mosaico absidale con la trasfigurazione del monastero di Santa Caterina del Sinai.
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tettori di Parentium: Eleuterio, Proiecto ed Elpidio. L’arcangelo, Zaccaria e san Giovanni Battista prendono posto sui pilastri tra le finestre dell’abside. A questo annuncio frammentato corrispondono l’Annunciazione e la Visitazione sviluppate ai lati dell’abside. Le figure appaiono in un movimento trattenuto; di fronte all’impetuosità dell’angelo, Maria sembra sorpresa e confusa: colpita dalla strana novella, lascia che il gomitolo di porpora si divida. Un particolare pittoresco compare nell’incontro di Maria ed Elisabetta: una serva nell’atto di alzare la tenda portiera assiste alla scena rappresentata; la contemplazione continua a regnare. Gli esseri, ieratici o agitati, restano assorti nella pura preghiera. I resti dell’Oriente greco sono limitati a un esiguo numero di esemplari. Nella chiesa del monastero di Santa Caterina, sul Sinai, un’imponente Trasfigurazione è rappresentata sull’abside. Il Cristo appare al centro di una mandorla, vestito di una tunica argentea con larghe fasce dorate, «il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2). Ai lati del Cristo troviamo Elia e Mosè; folgorati dallo splendore, Pietro, Giacomo e Giovanni cadono ai piedi del Maestro in preda al terrore. Il mondo intelligibile si sostituisce al luogo storico; quattro fasce policrome prive di qualunque immagine sostituiscono il monte Tabor; sull’intradosso dell’arco si susseguono i medaglioni dei Dodici: Paolo, Taddeo e Mattia prendono il posto dei tre testimoni oculari della Trasfigurazione. Parallelamente,
sul bordo inferiore del catino, i medaglioni di quindici profeti circondano da entrambe le parti la figura di Davide. Agli angoli si trovano due angeli attorno all’Agnello mistico, con due busti di Maria e Giovanni Battista; in alto sulla parete, due pannelli dedicati a Mosè commemorano le due epifanie veterotestamentarie del Sinai, ossia il Roveto ardente e la Consegna delle Tavole della Legge. I mosaici, eseguiti magnificamente, sembrano un’opera di transizione in cui dominano le nuove tendenze bizantine. Due mosaici absidali conservati a Cipro testimoniano la crescente diffusione del culto mariano. Nella Panaghia Kanakaria di Lythrankomi, la Vergine col Bambino siede su un trono gemmato, scortata da due angeli. Inserita nel nimbo riservato al Cristo, la Madre di gloria poggia i piedi sulla sfera del mondo, segno dell’estensione del suo impero sull’intera terra. Seguendo la formula fissata, i medaglioni dei Dodici sono disposti sul bordo del catino; le figure, parzialmente conservate nel Museo bizantino di Nicosia, sono strettamente legate al ritratto bizantino dell’alto Medioevo. Nella Panaghia Angeloktistos di Kiti, la Theotokos è eretta su uno sgabello incrostato di pietre tra due angeli dalle ali ocellate. Pare che si tratti del più antico esemplare di Hodighitria: Maria «indica il cammino» con la mano destra rivolta verso il Cristo che sostiene con l’altra mano. Le figure e i panneggi sono riconducibili alla tradizione ellenistica; i due personaggi, avvolti nelle ampie pieghe delle tuni-
290. Vergine conduttrice, particolare del mosaico della chiesa della Panaghia Angeloktistos. Kiti, Cipro.
291. San Demetrio e l'angelo. Salonicco, chiesa di San Demetrio.
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che, hanno uno stile monumentale che ricorda la statuaria. Il riserbo altero, il pieno prospetto, il fondo oro e la presentazione delle figure dimostrano le nuove tendenze; seppur fissati sullo spettatore, gli occhi immensi della Vergine sembrano contemplare l’eternità oltre la condizione umana. Nella chiesa di San Demetrio, a Salonicco, un insieme di mosaici votivi risalenti a epoche diverse illustra il breve passaggio dal ritratto all’icona. Il santo appare accanto a un angelo, segno del suo ingresso nel Regno del Padre. I mosaici si susseguono: laici e religiosi circondano il martire e implorano la sua intercessione, una madre conduce il figlio per affidarlo all’uomo di Dio, due bambini vestiti di bianco sono rappresentati con le mani velate davanti al loro protettore, un diacono è posto in atteggiamento di pietà davanti al venerabile santo, quattro ecclesiastici circondano la colonna vivente della loro chiesa; infine, l’arcivescovo e il governatore assistono il difensore della loro città. L’assenza di peso e il rifiuto del rilievo e del tattile determinano la natura esclusivamente pittorica delle immagini; le grandi facciate che erano presenti nella rotonda di San Giorgio sono scomparse, il paesaggio architettonico è abolito. L’uomo non è più un elemento inscritto in un paesaggio e più che un microcosmo è un microtheos. Deificato, riassume in sé il cosmo rigenerato e il mondo acquisisce la dimensione spirituale del suo maestro; gli elementi decorativi sono ordinati nella luce e nella pace. Gli abiti
si trasformano in paraventi e le linee verticali accostate ritmano la decorazione; il volume tangibile è abolito e lo spazio fittizio rovesciato. La profondità diventa una superficie piana, i merli bianchi carichi di drappi verdi formano due nimbi quadrati che racchiudono i volti del governatore e dell’arcivescovo; alla frontalità totale delle figure si aggiunge quella delle architetture e degli oggetti che, immobili e statici, paiono muoversi verso lo spettatore. Il cromatismo è dominato dalle gamme fredde: i bianchi, gli azzurri, i verdi e i grigi sono laminati d’oro. Il santo e i suoi fedeli sono uniti all’immortalità e all’incorruttibilità; la Vergine e Teodoro Stratelates si ritrovano insieme su un lato del pilastro est. In alto, il Cristo emerge da un semicerchio i cui raggi si fondono con le aureole dei due santi; il «Sole che non tramonta mai» risplende sui servitori del Dio e dell’Agnello: «Non vi sarà più notte/ e non avranno più bisogno di luce di lampada,/ né di luce di sole,/ perché il Signore Dio li illuminerà/ e regneranno nei secoli» (Ap 22,5).
292. La Vergine in trono tra i santi Teodoro e Giorgio, icona. Sinai, monastero di Santa Caterina.
293. La Vergine della clemenza, icona. Roma, Santa Maria in Trastevere.
Dal dipinto all’icona Le icone più antiche che sono giunte fino a noi, realizzate a encausto, per la tecnica sono riconducibili al ritratto romano, egiziano del Fayum. L’insieme si limita a un numero molto esiguo di pitture su legno conservate in Egitto e in Europa. Lungi dallo sfociare nel modello
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divino all’umano. La Madre e il Bambino, rappresentati di fronte, hanno uno sguardo intenso che chiama incessantemente il fedele invitandolo a entrare nella Nuova Vita. L’aspetto cambia con la Vergine in trono di Santa Maria in Trastevere: la Madre di Dio, scintillante di gioielli, è presentata come un’imperatrice bizantina, con un grande diadema carico di pietre preziose sul capo; regina dei cieli e della terra, siede su un sontuoso trono, assistita da due angeli che vigilano su di lei. Le opere palestinesi adottano la sintesi romano-sassanide elaborata nelle città del deserto siriaco. Nei Tre giovani nella fornace abbiamo l’interpretazione iconica del modello paleocristiano; un angelo tende la lunga croce, simbolo della salvezza cristiana prefigurata nell’Antico Testamento. I tre ebrei, vestiti alla persiana, portano mantelli intessuti di cerchietti; i corpi tarchiati sono in piedi, appiattiti su un’ampia fascia a spirale, immagine astratta delle fiamme della fornace. Nell’icona, più stilizzata ma meno raffinata degli altri dipinti del Sinai, è visibile il crescente apporto orientale dell’arte dell’epoca posteriore a Giustiniano. Nella Vergine con Bambino è stato adottato il modello mariale dell’Adorazione dei Magi; San Giovanni Battista, ultimo profeta ebreo, vestito di una cappa sopra una tunica di pelo, presenta un inedito stile espressionista: barba e capelli folti, il viso pervaso da una sobria tristezza, reca un rotolo su cui è riportato il versetto di Giovanni: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Il Cristo e la Madre, inseriti in due medaglioni posti ai due angoli superiori della tavola, indicano con lo sguardo «l’amico dello Sposo». L’icona dedicata ai santi Sergio e Bacco è una splendida testimonianza dell’estetica siriaca. Due volti fraterni guardano lo spettatore; l’immagine clipeata di Cristo è inserita tra le loro aureole. I volti totalmente frontali, la somiglianza dei tratti e l’ondulazione stilizzata dei capelli conferiscono al dipinto un aspetto che lo avvicina ai più orientaleggianti tra i ritratti di Palmira. Le opere copte sono il prolungamento dell’arte di Bauit e di Saqqara; lo stile piatto e lineare si impone prepotentemente. L’azione è assorbita dalla contemplazione, il paradiso diventa interiore e la frontalità assoluta diventa la regola fissa. Lo sguardo intenso divora il volto; l’occhio aperto dell’anima, sempre vigile, fissa l’infinito. Il più originale tra questi dipinti è senz’altro quello del Cristo e san Mena, conservato al Louvre. Il “fratello maggiore” circonda col braccio le spalle del priore e lo presenta allo spettatore; il gesto ricorda quello del dio faraonico che introduce il faraone nell’aldilà. I due personaggi, rappresentati di pieno prospetto, risaltano sul fondo formato da una collina su una superficie ocraarancio. La tunica del Cristo, l’aureola cruciforme e il Vangelo incrostato di gemme ricordano il modello ormai tradizionale del Pantocratore. Le pieghe delle vesti sono semplificate in ampie curve e le proporzioni sono tipicamente copte, fatte di corpi minuscoli e volti enormi. La testa del Cristo si rivela leggermente più grande di quella di san Mena; i lineamenti schematizzati si
iconico che si manifesta già in alcuni mosaici e affreschi contemporanei, queste opere rappresentano un periodo di transizione in cui si scoprono varie componenti della sintesi bizantina. L’identità dei pittori rimane sconosciuta, le correnti mediterranee si distinguono senza allontanarsi. Le opere antiche sono riconducibili alla scuola di Costantinopoli, le greco-orientali alla siriacobabilonese. Le opere specificamente copte si distinguono nettamente; il Cristo Pantocratore, san Pietro, la Vergine in trono tra san Teodoro e san Giorgio, conservati nel convento di Santa Caterina, sul Sinai, si rivelano dipendenti dalla tradizione classica. L’immagine di Pietro col viso squadrato, costruita secondo le regole classiche, si presenta come un modello tipico di ritratto romano dipinto. Seguendo la composizione propria del dittico consolare, tre ritratti a medaglione figurano sopra la figura principale: il Cristo, la Vergine e san Giovanni Battista sostituiscono l’imperatore, l’imperatrice e il viceconsole. Schematizzati e idealizzati, mostrano una fattura pre-iconica nettamente in contrasto con quella del ritratto del Principe degli apostoli. Nella Vergine in trono tra i due santi combattenti si ritrova lo stesso carattere composito. Maria, seduta in trono, è circondata da due santi combattenti; in secondo piano, gli angeli alzano gli occhi verso la mano di Dio da cui esce un raggio di luce triangolare che illumina Maria dall’alto. Gli angeli e la Vergine sono dipinti secondo l’estetica antica, Gesù ha il corpo di un bambino, ma il viso dalla fronte ampia annuncia il futuro bambino adulto delle icone. La fattura cambia con la rappresentazione di Teodoro e Giorgio. L’aspetto iconico si manifesta attraverso il riserbo altero, gli occhi a mandorla, il gesto fisso delle mani che reggono la croce, le vesti trasformate in tende appiattite intessute a ornamenti. A queste caratteristiche orientaleggianti si aggiunge la doratura, che dalle aureole passa alle croci e alle tuniche, annunciando il procedimento dell’assiste. Le quattro icone mariane conservate a Roma mostrano le varie tendenze estetiche dell’epoca. La più antica è la cosiddetta “icona di Tempulo”, conservata a Roma nella chiesa di Santa Maria del Rosario. Maria, rappresentata di tre quarti, volge gli occhi verso lo spettatore, con le mani alzate in segno di preghiera. Gli occhi a mandorla, il naso affilato e la bocca piccola attestano il passaggio dal ritratto idealizzato al volto iconico. L’astrazione si accentua con la Vergine col Bambino di Santa Maria Nova. La forma del viso contrasta con i lineamenti estremamente stilizzati; l’icona molto deteriorata di Santa Maria dei Martiri unisce perfettamente il
(a fronte) 294. Vergine col Bambino. Museo di Kiev. 295. San Giovanni Battista. Museo di Kiev. 296. I santi Sergio e Bacco. Museo di Kiev. 297. Cristo e san Mena, dal monastero di Bauit. Parigi, Louvre. 298. I tre giovani nella fornace. Sinai, monastero di Santa Caterina.
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localizzazioni spesso rimangono ipotetiche. Le opere del v secolo si limitano a qualche esemplare frammentario. Nella Cronaca di Alessandria, conservata a Mosca, si trova qualche schizzo di scarso valore artistico, come la figura della Vergine col Bambino o quella del patriarca Teofilo in piedi sul serapeo distrutto. L’Itala di Berlino ha assimilato la tradizione classica conservandone metodi e tecniche. Quattro miniature bibliche accompagnano il Libro dei Re; sulla pagina dipinta, suddivisa in vari quadri, è raccontata come in un fumetto la storia di Saul e Samuele. Il profeta e il re si incontrano in uno spazio aperto dove la montagna e le costruzioni appaiono su un cielo azzurro attraversato da bagliori rosati; come in una cerimonia imperiale, Samuele arriva sul suo carro mentre Saul offre il sacrificio davanti all’altare. L’azione si anima e le scene si susseguono. Il primo re degli ebrei rincorre il profeta e lo afferra per il bordo del mantello; cosciente del suo peccato, implora il perdono e prega il Signore accanto a Samuele. I due protagonisti si ritrovano davanti alle mura di Galgala. Sotto lo sguardo del re, il profeta uccide il re degli amaleciti. Il soggetto è biblico, la pittura strettamente antica. Le ventidue miniature rimaste della Genesi Cotton si dimostrano fedeli allo stile ellenistico romano. Dal diluvio alla distruzione di Sodoma, gli avvenimenti della Genesi si susseguono rapidamente; l’azione è drammatica e i movimenti vivaci, i contorni sinuosi e le masse finemente modellate. Inoltre, la sfumatura dei toni accentua la plasticità delle figure e dello spazio. Nonostante il soggetto trattato, il pittore resta un artista romano che disegna e usa il colore seguendo una tradizione secolare solidamente stabilita.
concentrano sullo sguardo: l’artista arrotonda gli occhi a mandorla e li circonda di un segno scuro, le sopracciglia nere accentuano la fissità dei globi oculari. I tratti individuali cambiano ma lo sguardo rimane. Marco l’evangelista, il vescovo Abramo, l’arcangelo o la tyché di Costantinopoli sono come il riflesso di uno stesso volto che, ieratico e immutabile, si apre verso l’assoluto. Uomini, angeli o allegorie, il soggetto cambia ma la «natura» dipinta ed espressa rimane la stessa. La pittura celebra «l’eccellente condizione» della pura preghiera. Il libro di immagini L’illustrazione del Vangelo permette ai pittori di accostarsi a un’arte nuova. La pittura si mette al servizio delle Scritture, che trasforma in immagini. Le miniature accompagnano il testo e dipendono da esso; le raffigurazioni raccontano e narrano le storie evocate. Il campo tematico si allarga e l’azione drammatica è predominante rispetto alla contemplazione; il pittoresco e l’aneddoto si manifestano. Gli stili sono numerosi, eclettici e compositi; l’evoluzione dell’espressione pittorica riflette alla perfezione le grandi tappe dell’arte paleocristiana. Il libro adotta le forme ereditate e si arricchisce dei grandi apporti dell’epoca, in cui la trasformazione avviene progressivamente. La miniatura, pur nata dall’arte antica, elabora stili nuovi che annunciano nel vi secolo i fondamenti dell’estetica dell’epoca medievale. I manoscritti conservati costituiscono un insieme molto esiguo dall’origine sconosciuta. Datazioni precise e
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per Sichem è illustrata a narrazione continua, in cui predomina l’elemento narrativo: Giuseppe saluta il padre e il fratello minore; assistito da un angelo si avvia sulla strada di Dotahn per raggiungere i suoi fratelli. Un’altra scena campestre è costruita con pastori, pecore e cani, in cui solo una chiesetta eretta in cima a una collina ricorda l’entità cristiana dell’opera. Il cielo nuvoloso è sparito, il colore uniforme del fondo porpora esclude ogni effetto di profondità; la neutralità non comprende gli elementi rappresentati, esseri e cose conservano peso e forme. Il ciclo di Giuseppe prosegue con l’eroe vestito di una clamide e di un collare, che conduce i due figli a ricevere la benedizione; il vecchio Giacobbe posa la mano destra su Efraim e la sinistra su Manasse. L’azione si svolge in una piana luminosa in cui il verde spruzzato d’ocra si estende su un campo delimitato dall’azzurro dell’orizzonte. Le pennellate rapide dipingono uno spazio quasi impressionista che si allontana dalle decorazioni elaborate delle scene anteriori. Come nella Genesi di Vienna, il Codex Purpureus Rossanensis presenta un insieme di miniature dipinte su fondo porpora. La tecnica è simile, ma lo stile è fondamentalmente diverso. San Marco, guidato da una musa nimbata, si china per redigere il Vangelo su una larga pergamena aperta. La decorazione estremamente stilizzata imprime un nuovo ritmo al modello classico: due colonne sono sormontate da una fascia dorata su cui sono poste due piramidi culminanti in due anelli; la figura dello scriba risalta su un grande quadrato azzurro sormontato da un timpano appiattito, con un guscio rappresentato come un ventaglio. La parte anteriore e il
Le illustrazioni della Genesi di Vienna costituiscono un ricco insieme di miniature veterotestamentarie. L’immagine, inserita nel testo, prende posto sulla parte inferiore di ogni pagina. I colori e le lettere dorate e argentate risaltano sul fondo porpora. L’opera, realizzata a più mani, resta estranea alla tendenza ieratica e contemplativa dell’arte monumentale dell’epoca. L’azione è viva e animata e le aggiunte romanzate rafforzano l’aspetto narrativo delle scene. La rappresentazione figurata affronta i soggetti senza pretese simboliche, adottando le varie formule dello stile antico eclettico. L’immagine mira a un solo scopo: illustrare con realismo espressivo il racconto letterario a cui è accostata. Il diluvio ha ispirato una scena drammatica: intorno all’arca sommersa dalle onde, uomini, donne e bambini lottano invano tra i cadaveri abbandonati al furore delle acque. I movimenti dei corpi accentuano il carattere frenetico dell’avvenimento; le vittime del cataclisma sono presentate come un ammasso di carni rovesciate in cui gli agonizzanti si scontrano e si mescolano ai morti. L’incontro di Eliseo e Rebecca è raffigurato come una scena bucolica, in cui la città è rappresentata come una cinta esagonale di mura con sei torri. Dalla porta parte un sentiero che scende verso una fontana dove si vede una ninfa seminuda accoccolata. Rebecca percorre una strada con un colonnato con la giara sulle spalle; giunta al pozzo, appoggia una gamba sul bordo del sedile e tende a Eliseo il recipiente pieno d’acqua. Dietro l’inviato di Abramo, un gregge di dieci cammelli avanza per abbeverarsi; l’illustratore utilizza temi familiari e inserisce i personaggi in uno spazio idillico tradizionale. La partenza di Giuseppe
299. Vergine col Bambino, frammento della Cronaca di Alessandria. Museo di Mosca. 300. Abramo e gli angeli, frammento della Genesi Cotton. Londra, The British Library, Otho B.VI f. 26v. (a fronte ) 301. La resurrezione di Lazzaro, dall’evangelario di Rossano. Rossano (Calabria), duomo.
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divisi in due gruppi di sei, avanzano a pari distanza tra loro. Rappresentati di tre quarti o di profilo, si muovono orizzontalmente, in una cadenza ritmata dal candore delle tuniche e dal color porpora del fondo. Il Giudizio di Gesù occupa due illustrazioni parallele divise in due registri formati da un arco circoscritto e una fascia orizzontale. La scena assume l’aspetto di un tribunale imperiale presieduto da Ponzio Pilato; sul primo registro, il Cristo accusato dai due sommi sacerdoti ebrei, Caifa e Anna, è presentato solennemente davanti al governatore e ai dignitari della corte; sul secondo, Giuda rende le monete d’argento ai due sacerdoti prima di impiccarsi. Seguendo la stessa disposizione, Pilato appare nella seconda tavola, circondato dagli ebrei venuti per salvare Barabba e condannare Gesù. Sulla striscia inferiore, il Cristo, sempre solenne, è messo a confronto con il famoso prigioniero sotto lo sguardo di due dignitari e di due guardie. Le due illustrazioni, semplici ed equilibrate, fanno pensare a un modello monumentale proveniente da una pittura parietale o da un mosaico. I vuoti tra una figura e l’altra rafforzano la loro plasticità e conferiscono un aspetto di colonnato. Il Cristo, vestito di un mantello d’oro, resta ieratico e inflessibile; l’azione lo indica come giudicato e condannato e nell’immagine è mostrato «coronato di gloria e di onore» (Eb 2,9), mediatore di una migliore alleanza, nuova ed eterna. L’evangeliario siriaco di Rabbula annuncia per forma e composizione gli evangeliari bizantini miniati di epoca medievale. Il manoscritto si apre con un grande gruppo di colonne decorate su cui sono inscritti, in diciannove tavole, i canoni di Eusebio, che presentano le concordanze dei passi corrispondenti o divergenti dei quattro Vangeli. Le miniature si ricollegano a due principi me-
retro del quadro appaiono confusi, lo spazio è regolato in una nuova prospettiva lineare; il gusto dell’astrazione si impone. Gli elementi decorativi e i particolari pittoreschi sono eliminati, le figure prendono un carattere monumentale. La Resurrezione di Lazzaro è posta su un fondo neutro dove il paesaggio appare cancellato; è rimasta solo la caverna aperta in cui è posto Lazzaro. La rappresentazione segue fedelmente il testo del Vangelo; due gruppi di personaggi assistono allo spettacolo e le due sorelle sono prostrate davanti al Cristo: «Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni”» (Gv 11,39). Davanti alla tomba aperta, un servo si tappa il naso per non sentire il fetore del cadavere; subito sotto, Davide, Osea e Isaia sono rappresentati di busto con dei rotoli aperti con le citazioni dei loro scritti. Il nuovo prosegue l’antico e lo realizza; il gruppo si ripete con la parabola del Buon Samaritano, in cui il Cristo ha il posto d’onore. Assistito da un angelo officiante, si china sul ferito per raccoglierlo e farlo salire sulla sua cavalcatura. Il fondo rimane vuoto, a eccezione della rappresentazione simbolica di Gerico a un’estremità della striscia del suolo. Le figure dei personaggi vanno a formare un motivo solenne ritmato dai tre colori divini, l’oro, il bianco e l’azzurro. Davide, Michea e Sira srotolano le pergamene delle loro profezie e Dio parla attraverso i suoi profeti e si rivela per mezzo «del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,2). L’azione si drammatizza. La pittura elimina tutto ciò che è secondario nell’aneddoto, ai gesti naturali si sostituiscono mimiche ripetitive. La Comunione degli apostoli assume l’aspetto di una processione: i discepoli,
304-308. Tavola del canone; Cristo in maestà; crocifissione e resurrezione; ascensione; pentecoste. Pagine dall’evangeliario di Rabbula. Firenze, Biblioteca Laurenziana.
302-303. Il buon Samaritano; Cristo e Barabba; due pagine dell’evangelario di Rossano. Rossano (Calabria), duomo.
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vestito di un lungo colobio che ne copre il corpo fino ai piedi. Il sangue cola dal costato trafitto, ma il volto è quasi impassibile, gli occhi sono immensi; come recita una preghiera di sant’Efrem: «il Signore Gesù Cristo, Re dei re, che è potente sulla vita e sulla morte»19. La Resurrezione prende posto nel registro inferiore della stessa pagina costituendo la continuazione della scena. Seguendo lo stile narrativo, tre avvenimenti sono illustrati contemporaneamente: il sepolcro è al centro dell’immagine, davanti alla porta semiaperta da cui nascono tre raggi rossi, tre soldati di guardia sono colpiti e gettati a terra; a sinistra, un angelo seduto conversa con due mirrofore poste a destra, prosternate davanti al Risorto. La simmetria, la disposizione e la ricchezza dell’interpretazione iconografica si ritrovano nella scena dell’Ascensione; la Vergine, assente nel testo evangelico, appare orante al centro dell’illustrazione; accostata a due angeli, è circondata dagli apostoli con gli occhi rivolti verso l’alto per contemplare l’Ascensione gloriosa del Figlio. L’iconografia trascende l’avvenimento storico e pone Paolo tra gli apostoli, conferendo alla scena tutta la sua ampiezza teologica; sopra la Vergine, il Cristo vestito di bianco appare in piedi al centro di un nimbo azzurro, con la mano destra alzata e un rotolo aperto sulla sinistra. Quattro angeli circondano il nimbo, posto su quattro ali disseminate di occhi e da cui sorgono le due ruote di fuoco e i quattro animali evangelici, simboli tratti dalla visione di Ezechiele. Ai due angoli della
todici d’illustrazione: miniature marginali, che riducono le scene descrittive a una sintesi in cui l’azione è limitata a qualche elemento indispensabile, e miniature a tutta pagina, che derivano direttamente dalle grandi opere monumentali. Animali e piante, ritratti dipinti e scene evangeliche si sovrappongono a margine del testo, evocando la storia della salvezza, dalla prima alleanza alla fondazione della Chiesa. I profeti dell’Antico Testamento vi figurano in piedi, annunciatori e testimoni della storia cristica. Le scene del Nuovo Testamento seguono un procedimento di sintesi eclettica, andando dall’Annuncio a Zaccaria fino al Giudizio di Gesù. Le tavole dipinte sono dedicate alla Crocifissione, alla Resurrezione e all’Ascensione. L’interpretazione pittorica dei tre avvenimenti evangelici principali è di notevole profondità. La pittura segue da vicino il racconto evangelico; il Cristo viene crocifisso tra due ladroni e Longino trafigge con la lancia il suo costato destro da cui sgorga un fiotto di sangue. Sull’altro lato, un soldato in piedi alza una pezzuola col fiele sospesa su un bastone. Ai piedi della croce, tre personaggi seduti si dividono le vesti del Cristo. Maria e Giovanni, gli occhi fissi sul Figlio, sono posti a sinistra, mentre un gruppo di tre pie donne si ritrova simmetricamente a destra. Il Salvatore forma l’asse e il punto centrale dell’opera; i ladroni sono nudi, cinti da un drappo bianco, col petto stretto da due corde incrociate. All’opposto di questa descrizione storica delle crocifissioni romane, il Cristo appare
(a fronte) 309-312. Annuncio a Zaccaria; annunciazione; adorazione dei Magi; battesimo di Cristo. Pagine dall’evangeliario di E/miadzin. Metenedaran, Erevan.
313-316. Adorazione dei magi; scena campestre; angeli; Daniele nella fossa dei leoni. Lastre da Rasm al-Qanafez. Damasco, Museo nazionale.
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fascia superiore, due figure umane sono le personificazioni dei due astri, la luna azzurra a sinistra e il sole rosa a destra, che posano i loro raggi sull’ultima teofania. La Pentecoste mostra un’interpretazione singolare dell’avvenimento descritto negli Atti: in un ritratto di gruppo in piedi, Maria è unita ai Dodici sotto un arco decorato da rami frondosi. Sopra l’immagine, la colomba dello Spirito Santo infonde una lingua di fuoco sulla Madre di Dio; il racconto degli Atti evoca il tumulto e la confusione generale provocati dalla Pentecoste: «... si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano» (At 2,1-2). Al contrario della descrizione, gli apostoli non gesticolano, dodici lingue di fuoco circondano i loro volti silenziosi e sereni; vestiti uniformemente di bianco, sono accostati senza guardarsi, e sono intenti ad ascoltare Dio. Da Efrem di Nisibi a Giovanni di Efeso, passando per Zaccaria il Retore e Giacomo di Sarug, i «padri» siriaci evocano nell’estasi le pitture che ornano i loro santuari. Le miniature dell’evangeliario di Rabbuia emanano come un riflesso dell’arte monumentale andata perduta. La Crocifissione e l’Ascensione costituiscono canoni iconografici destinati a un’immensa diffusione nell’arte cristiana occidentale e orientale. L’elaborazione tematica è il preludio all’arte medievale, ma le forme plastiche restano tradizionali. L’Ascensione prende posto in uno spazio immateriale dove si vede il profilo di una montagna illuminata da un cielo attraversato da nuvole. La fluidità delle tinte si unisce alla realizzazione dei panneggi e alla resa dello spazio. Gli evangelisti sono dipinti seguendo i canoni antichi, Maria presenta un petto in cui l’evidenza delle rotondità è all’opposto dei canoni cristiani di bellezza femminile. L’estetica greco-romana getta i suoi ultimi bagliori prima di essere inghiottita dalle nuove tendenze. L’ellenismo orientaleggiante traspare perfettamente in quattro miniature inserite posteriormente nell’evangeliario armeno di E/miadzin; risalenti al vii secolo, rappresentano l’Annuncio a Zaccaria, l’Annunciazione, l’Adorazione dei Magi e il Battesimo di Cristo. Da Strzygowski sono state attribuite a un’officina palestinese; la fattura deriva dall’arte greco-persiana diffusa nelle province orientali: gli occhi sporgenti sono predominanti nel volto arrotondato, l’arcangelo presenta ali ocellate, con un piumaggio da pavone laminato di verde e d’oro; i Magi, con le gambe semiaperte e i talloni uniti, hanno una certa somiglianza con i re sassanidi in trono, e uno di essi mostra un profilo persiano con una lunga barba appuntita; i piatti da essi portati sono di tipo parto, le colonne degli edifici sono corinzie e l’antico nimbo a conchiglia circonda il volto centrale della Vergine in trono. L’immagine del Battesimo illustra l’antico modello iconografico in cui l’acqua del Giordano copre fino al gomito il Cristo ancora adolescente. La scena è racchiusa in un’ampia striscia decorata, con quattro volti in dischi posti sui bordi che paiono indicare gli evangelisti. Un motivo ripetuto sul riquadro è il simbolo dell’euca-
restia: il pellicano nell’atto di nutrire i figli col suo sangue emerge da un calice dorato posto su una patena. Il riposo fertile La scultura a tuttotondo è in via d’estinzione e il rilievo appare tributario dell’architettura. La decorazione scolpita applica il linguaggio ornamentale paleocristiano: racemi, palmette, grappoli e rosette, intrecci ornati di perle, ghirlande di foglie di alloro, perle, cerchi intersecati e archi a ferro di cavallo. La decorazione a profusione raffigura la corona di grazia, il grappolo appeso degli ultimi giorni e il banchetto festivo. I motivi antropomorfi e zoomorfi sono alternati armoniosamente a motivi geometrici astratti. Elementi zoomorfi sono combinati a reticoli e arabeschi; sui catini degli amboni di Ravenna, incassati in riquadri accostati e sovrapposti, pesci, uccelli e cervidi prendono parte alla predicazione. Tutto ciò che respira è chiamato a lodare il Signore: «Benedite, mostri marini/ e quanto si muove nell’acqua, il Signore,/ lodatelo ed esaltatelo nei secoli./ Benedite, uccelli tutti dell’aria, il Signore,/ lodatelo ed esaltatelo nei secoli./ Benedite, animali tutti, selvaggi e domestici, il Signore,/ lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Dn 3,7981). Fiori e animali, stilizzati e abbelliti, si trasformano in apparizioni platoniche, «perfette, semplici immutabili, beate»20. La croce cosmica battezza e unisce il mondo rigenerato da Dio. In alcuni casi, come nel martyrium di Seleucia di Pieria, le figure bibliche si integrano con grande armonia in questo campo di forme. La stilizzazione pronunciata conferisce ai modelli canonici un aspetto nuovo. Una lastra siriaca proveniente da un pluteo fornisce un’immagine originale di Daniele nella fossa dei leoni; l’opera, in contrasto con la sobrietà dello stile, si impone per originalità e stilizzazione: triangoli, piccoli ovoli e tratti verticali decorano l’ampio spazio che delimita la scena; Daniele, in piedi, alza le braccia nel gesto dell’orante, formando l’asse centrale del bassorilievo. Il volto del profeta è incorniciato dalla barba alla maniera assira, da una larga treccia, una fascia stretta e orecchini pendenti; il suo abbigliamento è quasi orientale: tunica lunga, cintura a due frange e collana di perle nell’incavo del collo. L’estrema stilizzazione dei leoni li trasforma in felini fantastici posti ai lati del protagonista. Sui folti pennacchi delle code, due pavoni che portano due enormi grappoli d’uva nel becco trasformano la fossa del supplizio in un paradiso ritrovato. La produzione copta risalta per l’originalità dello stile e la forte coesione; astrazione e geometria si manifestano efficacemente, il figurativo ornamentale si appiattisce per assumere forme grafiche unidimensionali. Le figure umane non sfuggono alla modificazione; le rotondità dei muscoli del corpo sono eliminate. I personaggi, appiattiti e schematizzati, conservano l’armonia dei vari piani che li compongono. Gli occhi sporgenti e le mani oranti si ripetono; come recita l’apoftegma di Evagrio Pontico: «la vista è il migliore di tutti i sensi, la preghiera è la più 292
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122, 123 124 Tav. 128. Ambone del vescovo Agnello. Ravenna, Museo arcivescovile.
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Tav. 129. Le nozze di Cana, particolare della cattedra di Massimiano. Ravenna, Museo arcivescovile.
Tav. 130. Cattedra di Massimiano. Ibidem.
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Tav. 131. Frammento di seta con raffigurazione dell’Annunciazione. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica.
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Tav. 132. Frammento di seta con raffigurazione della Natività. Ibidem.
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Tav. 133. Il diluvio, “Genesi di Vienna”, da Costantinopoli. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Cod. Theol. Gr. 31, ill. 3.
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Tav. 134. Rebecca al pozzo, “Genesi di Vienna”, da Costantinopoli. Ibidem, ill. 31.
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divina di tutte le virtù»21. In preghiera o in movimento, gli esseri rimangono assorti nella contemplazione. Il bagno di Cristo bambino appare sul frammento di una stele; la scena, tratta dal modello del bagno di Dioniso, attesta l’autentica umanità del Messia e ne prefigura il futuro battesimo. Seguendo il racconto del Protovangelo apocrifo di Giacomo, l’iconografia presenta due levatrici intente al bagno del neonato: una versa l’acqua, l’altra immerge il bambino nel catino. L’artista copto sottopone il modello a una pronunciata stilizzazione lineare. Le donne, sontuosamente abbigliate, indossano due enormi copricapi frigi e paiono non accorgersi della reciproca presenza; i volti, rappresentati di pieno prospetto, sono rivolti verso lo spettatore, incuranti dell’azione che stanno compiendo. Svegli, discreti e attenti, si dedicano ininterrottamente alla preghiera, senza «convenzioni né abitudine», «senza distrarsi o divagare col pensiero»22. Il bambino emerge da un catino a forma di conchiglia simile ai fonti battesimali delle chiese; il campo pittorico esclude ogni prospettiva e profondità. Un’anfora, un armadietto e un gigantesco pettine sono sospesi nel vuoto della superficie piana, riempito di rosoni. Gli oggetti d’uso comune, trasfigurati, si trasformano in vasi celesti trasferiti nel mondo eterno. Il copricapo della donna seduta e il pettine sono decorati da piccole croci. Come profetizza Zaccaria, «... sopra i sonagli dei ca-
valli si troverà scritto: “Sacro al Signore”, e le caldaie nel tempio del Signore saranno come i bacini che sono davanti all’altare» (Zc 14,20). I motivi scolpiti, siano croci, motivi geometrici e floreali, scene bibliche o figure agiografiche, per il sottile gioco delle forme affinate, sono testimonianza del mondo rigenerato del Regno futuro: «La salvezza arriva, la Pasqua del Signore si avvicina, i tempi si compiono, l’ordine cosmico si stabilisce»23. I monumenti armeni e georgiani presentano decorazioni figurate in cui i soggetti dati sono interpretati e modellati secondo i canoni cosiddetti caucasici. Le stele funerarie sono ricoperte di immagini e di segni; le opere non obbediscono a una disposizione liturgica determinata. Le figure in piedi sono erette frontalmente, isolate e disposte in rettangoli sovrapposti, il disegno è ridotto all’essenziale, le teste poggiano su corpi di piccole dimensioni, gli occhi sono immensi e il naso minuscolo; la bocca e le orecchie sono appena accennate, le pieghe delle vesti ridotte a righe parallele. Le scene corali sono il riflesso dei canoni iconografici evangelici o veterotestamentari, come il sacrificio d’Abramo, i tre giovani nella fornace e Daniele nella fossa dei leoni. Le figure riprendono i modelli del monaco, del vescovo e del combattente; i donatori si distinguono dai gesti delle mani in preghiera e dalla veste dell’epoca. La Vergine con Bambino decora un ca-
317-318. Due motivi vegetali. Il Cairo Vecchio, Museo d’Arte copta. 319. Cristo in piedi, stele di Haridj. Erevan, Museo di Storia armena. (a fronte) Tav. 135. Croce aniconica. Monza, Tesoro del Duomo.
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gli eredi conoscono per sempre il riposo fertile: «Un albero carico di frutti, dalla linfa vigorosa, cresce dentro di loro e sono ornati dei frutti più ricchi»25. Le arti applicate rimangono dipendenti dalle tradizioni antiche. Gli avori adottano fedelmente le tecniche del repertorio romano; i dittici consolari diventano cristiani: il Cristo e la Madre si sostituiscono ai sovrani e ai consoli. Dietro di loro, angeli e apostoli prendono il posto delle guardie e dei dignitari di corte. Sul celebre dittico di Berlino vediamo il Cristo e Maria in trono sotto archi a forma di conchiglia; gli arcangeli Gabriele e Michele appaiono dietro la Madre di Dio. Parallelamente, i due apostoli Pietro e Paolo incorniciano la figura del Messia. In alto, su ogni tavoletta, da entrambe le parti, appaiono le allegorie della luna sormontata da una mezzaluna e del sole con un diadema irraggiato. Le forme seguono i canoni ellenistici, l’iconografia e il linguaggio plastico restano fondamentalmente classici e soltanto la tematica è cristiana. La produzione di avori a cinque riquadri continua. Le varie pagine cristiane
pitello di Dwin conservato al Museo di Storia armena. I due volti hanno le stesse dimensioni: Gesù è il Figlio di Dio e benedice con la mano destra tenendo nell’altra il rotolo delle Scritture. Lo schematismo pronunciato dei volti e delle pieghe accentua la ieraticità spoglia e sobria dell’opera, privandola di ogni elemento dell’antica grecità. La cattedrale armena di Mren, risalente al 640, presenta una decorazione figurativa in cui lo stile autoctono rielabora in maniera originale i soggetti dati. Sul portale ovest, i due arcangeli Gabriele e Michele in vesti d’epoca imperiale hanno grandi ali; il Cristo è posto tra Pietro e Paolo, nell’atto di sollevare con la mano sinistra il drappeggio ondulato della veste. I donatori entrano in scena in atteggiamento orante, accanto al Salvatore e ai santi, vestiti con gli abiti dell’epoca e con le mani tese in segno di devozione. Tutto è sottoposto alla legge dell’astrazione: i volti appiattiti e ingranditi sormontano corpi tarchiati trasformati in fregi ornamentali; come osserva sant’Efrem, «a immagine del Paradiso, hanno fatto il loro abbigliamento»24. Introdotti nella dimora del Padre,
dano sui tre lati. Sulla seconda tavoletta, la Vergine in trono si ritrova al centro di cinque scene mariane. La rilegatura dell’evangeliario di San Lupicino, conservato nel Cabinet des Médailles a Parigi e la tavola di Murana nel Museo nazionale di Ravenna presentano uno schema simile. Pur conformandosi ai canoni dell’antichità romana, gli avori detti “a cinque riquadri” sono il preludio allo stile panegirico delle icone. Di fronte, la figura dipinta del santo è posta al centro della composizione, mentre ai bordi ci sono le scene essenziali della sua vita. Le immagini si succedono gradatamente, da sinistra
si rifanno direttamente ai modelli imperiali. Il sovrano in gloria, secondo il prototipo definito, occupa il posto centrale; sulla fascia superiore, due vittorie avanzano sopra di lui tenendo a quattro mani la corona di alloro. Ai lati e sulla fascia inferiore, una selezione di scene trionfali affiancate circonda il protagonista. Lo schema tradizionale si ripete sui due piatti che formano la rilegatura dell’evangeliario di E/miadzin: due angeli con una corona cruciforme sono posti sulla fascia superiore; sul primo sportello, il Cristo in trono costituisce la figura centrale e cinque scene evangeliche cristiche lo circon-
(a fronte) 322. Avorio a cinque parti. Ravenna, Museo arcivescovile. 320. La Vergine in trono tra gli angeli e Cristo in trono tra Pietro e Paolo, dittico di Berlino. Berlino, Staatliche Museen.
323. Il battesimo di Cristo. Lione, Musée des Beaux-Arts. 324. Cristo in trono con scene evangeliche e Vergine in trono con scene evangeliche, due piatti di rilegatura dell’evangeliario di E/miadzin. Matenedaran, Erevan.
321. San Paolo. Parigi, Museo di Cluny.
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immagini scolpite suddivise in due gruppi di cinque tavolette orizzontali narrano la vita movimentata di Giuseppe l’ebreo. Sul lato destro, Giuseppe è gettato nella cisterna del deserto, venduto ai mercanti madianiti, condotto in Egitto, tentato dalla moglie di Putifarre, accusato e incarcerato. La narrazione prosegue sul lato sinistro, dove si vede Giuseppe che interpreta i sogni del faraone, riceve i fratelli fuggiti dalle loro terre a causa della carestia, dà ordine di riempire i loro sacelli di grano e va incontro al vecchio padre. I personaggi sono disposti e realizzati secondo le tecniche della tarda Antichità. I gruppi sono sistematicamente arricchiti di dettagli aneddotici; le scene, assolutamente prive di un qualche segno di contemplazione, mirano unicamente a narrare in immagini il racconto letterario del libro della Genesi. Lo stile cambia con i rilievi che ornano lo schienale della cattedra. Le figure ellenistiche perdono l’eleganza monumentale e la scultura passa dal rilievo prominente al rilievo piatto; le forme incise assumono un aspetto pittorico. Le scene sulla parte interna dello schienale sono incentrate su Maria ed evocano la natività di Cri-
a destra e dal basso in alto. Gli atti agiografici riflettono le scene evangeliche. Il santo è portatore di Cristo, la sua vita un’evocazione della vita di Cristo. Sempre ellenistica, la produzione cristiana presenta due tecniche stilistiche. La prima è elegante, matura e raffinata, la seconda è asciutta, più sommaria e meno sorvegliata. La cattedra eburnea del vescovo Massimiano a Ravenna riunisce sui vari lati i due stili: una serie di quattro riquadri ornati di fregi orizzontali e verticali ricoprono la parte anteriore, i lati, l’interno e l’esterno dello schienale del seggio. I fregi, finemente lavorati, sono guarniti di racemi popolati di colombe, pavoni, cervi e leoni. Giovanni Battista e i quattro evangelisti, posti sotto cinque archi onorifici, sono rappresentati in piedi sul lato anteriore. Le figure sono scolpite in profondità, quasi a tuttotondo; il naturalismo idealizzato regna incontrastato. I volti conservano l’aspetto esteriore sensibile, l’anatomia è perfetta, i panneggi ondulati seguono i movimenti del corpo, le masse muscolari sono messe minuziosamente in rilievo. L’artista imita alla perfezione i modelli classici; l’azione è sviluppata sui due lati; le
rusalemme. La figura di un apostolo anonimo ritorna in molti riquadri. Sempre attento, è testimone dell’azione salvifica del Messia; il fedele, seguendo il suo esempio, è chiamato a osservare l’opera di Dio e a vedere la sua grandezza e la sua gloria. L’oreficeria cristiana presenta le stesse caratteristiche tradizionali. La celebre collezione di piatti decorati a sbalzo con gli episodi della vita di Davide, per tecnica e stile è simile alle opere dell’oreficeria imperiale. Gli avvenimenti biblici sono ricalcati su modelli antichi. L’unzione di Davide segue l’iconografia imperiale. Samuele, posto tra due soldati, alza la mano sopra il capo del figlio di Iesse. La statura di colui che incorona domina
sto. L’artista, pur adottando i prototipi fissati, conferisce ai personaggi un aspetto vivo e naturale. Come osserva Verzone, «Maria, madre divina, dimostra i sentimenti di una donna, non di un essere sovrumano: prova emozioni durante l’Annunciazione, si appoggia a Giuseppe nella fuga in Egitto, pare spossata nel corso della Natività, è soave durante l’Adorazione dei Magi, quando tiene il Bambino per mano e china il capo su di lui»26. Gli episodi della vita pubblica di Cristo ornano il lato esterno dello schienale. L’iconografia paleocristiana viene perpetuata; Gesù riceve il battesimo, trasforma l’acqua in vino, moltiplica i pani, guarisce il cieco dalla nascita, parla alla Samaritana ed entra sull’asinello in Ge-
327. Ercole strangola il leone di Nemea. Parigi, Bibliothèque nationale.
325-326. Storie di Giuseppe, particolare della cattedra eburnea di Massimiano. Ravenna, Museo arcivescovile.
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328-329. Davide uccide il leone e Davide in combattimento, piatti di argento sbalzato, dal Tesoro di Cipro. New York, The Metropolitan Museum.
330. Cristo distribuisce la comunione, patena d’argento di Riha, di provenienza siriana. Washington, Dumbarton Oaks Collection.
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di tre quarti e altri ancora di profilo, gli occhi fissi sul Salvatore, il corpo piegato in due, come se le ginocchia venissero a mancare sotto di loro, dimostrano con l’atteggiamento la fede che li anima e il profondo stupore che provano»27. Vasi sacri e strumenti liturgici si ornano di immagini cristiane. Il calice di Emesa, conservato al Louvre, è decorato da un insieme di busti inscritti in medaglioni ornati di cordoni e motivi floreali. Il Cristo e la Vergine sono i due perni su cui ruotano rispettivamente due gruppi di santi e di angeli. La decorazione spoglia, la rappresentazione dei volti e i drappeggi collegano l’opera all’arte monumentale greco-romana. Il celebre calice di Antiochia, conservato nel Cloisters Museum di New York, se ne allontana per l’evoluzione della decorazione, ma lo stile rientra nello stesso classicismo. Dodici medaglioni sono incorporati in una profusione vegetale formata da ceppi e racemi di pampini di vite. Il Cristo presiede due gruppi simmetrici di apostoli; il fogliame delle viti forma un involucro appiattito, che ricopre con fusti e grappoli pesanti la totalità dello spazio. Il bestiario è ampiamente rappresentato: vi si riconoscono una colomba, un’aquila, un agnello, un coniglio, una lumaca, una cicala e una farfalla. La decorazione aggravata dal peso dei suoi elementi, si rivela piuttosto carica. Gli elementi vegetali sono modellati secondo la loro forma naturale; il Maestro e gli apostoli, benché
su quella del re incoronato: come nell’arte imperiale, la persona che consacra appare più grande di quella che riceve la consacrazione. Il matrimonio di Davide presieduto da Samuele adotta il modello delle cerimonie matrimoniali romane. L’immagine di Davide che uccide il leone rimanda a quella di Ercole che strangola il leone di Nemea. Parimenti, la rappresentazione dell’eroe ebreo che vince l’orso deriva da quello di Mitra che uccide il toro. I volti e i corpi sono rappresentati secondo i canoni ellenistici, l’azione si svolge davanti ai portici tetrastili sormontati da frontoni. Il suolo, rappresentato da una linea dritta, forma un segmento di cerchio in cui sono posti alcuni oggetti che completano la scena rappresentata sopra. I soggetti cambiano, le decorazioni restano. Sulla patena di Riha, il Cristo somministra la comunione sotto un archivolto ornato da una conchiglia. Nell’arco di cerchio delimitato dalla linea che rappresenta il suolo, una tazza ad ansa e un coperchio prendono il posto delle armi e delle ceste consuete. Per preservare l’equilibrio della composizione, l’immagine centrale del Cristo raddoppia; il Salvatore appare due volte: in un’immagine regge il pane e nella seconda, identica, il calice, nell’atto di offrire l’eucarestia agli apostoli che avanzano in due gruppi per ricevere il corpo e il sangue del Signore. L’immagine si presenta viva e animata; come osserva Bréhier, «tutti i membri del Collegio apostolico, di cui alcuni sono rappresentati di fronte, altri
seduti nel vuoto, non hanno perso il loro peso fisico, come testimoniano le fisionomie spossate e i drappeggi, modellati secondo i canoni ereditati dalla tradizione classica. Dalle tre lastre siriache del Metropolitan Museum si intuisce l’evoluzione del linguaggio plastico; la trasformazione stilistica si realizza lentamente. Sulla prima si vede Pietro in piedi sotto un arco sostenuto da colonne ritorte e capitelli ornati da foglie di acanto, con una croce processionale in una mano e che alza l’altra in segno di predicazione. Sulla seconda è rappresentato Paolo in un contesto simile, che stringe tra le mani un Vangelo semiaperto. Sulla terza ci sono due personaggi cinti da aureole, che sostengono una grande croce con le punte allargate. Sui volti nobili, dolci e solenni, la maestà è unita all’umiltà. Il volto iconico è abbozzato nel naso affilato e negli occhi immensi. I corpi sono alleggeriti e le mani perdono ogni tratto di carnalità. Gli amici di Cristo, calmi e immobili, sono rappresentati in un gesto d’amore, fissando sui fedeli lo sguardo puro dello spirito.
I Padri della Chiesa, lungi dal cercare di definire una concezione gnoseologica e metafisica dell’immagine, chiamano i fedeli a creare dentro di sé l’immagine del novello Adamo. La riflessione, la meditazione e la celebrazione prevalgono su tutte le espressioni iconografiche. L’arte cristiana delle origini, modesta e limitata, comincia il suo cammino nel iii secolo; essenzialmente funeraria, adotta le numerose varianti dello stile grecoromano diffuso nelle varie contrade dell’Impero. La didattica cristiana attinge dall’estetica antica e la tradizione ereditata viene messa al servizio del nuovo culto. Sfidando qualunque ordine cronologico, le scene religiose mescolano Antico e Nuovo Testamento: figure di defunti appaiono accanto ai profeti, al Cristo e agli apostoli; oranti, popolano per sempre il «paradiso di gioia dove Adamo, un tempo caduto in un’imboscata tesagli dai briganti, non pensa più a piangere sulle sue ferite, e dove il brigante stesso gode la sua parte di regno celeste»29. La professione di fede nella resurrezione della carne si ripete costantemente. La carne non è votata alla distruzione, ma è addirittura solidale con la salvezza. Il corpo non è né provvisorio, né ostile allo spirito. Inestricabilmente legato all’anima, vive e partecipa dello spirito. «L’anima è corporea»30, afferma Tertulliano, «se ciò che appartiene al corpo è parabola, lo stesso è per ciò che appartiene all’anima, se non è vero per l’anima, non è vero neppure per il corpo. Perché l’uomo è sia corpo che anima, a tal punto che non è possibile che una delle due parti ammetta un’interpretazione simbolica e che l’altra la respinga»31. A immagine degli
«Bellezza antica ma nuovissima» «È innanzitutto per sentito dire – osserva Origene – che si imparano a conoscere le realtà superiori, poi se ne diventa testimoni oculari»28. Due secoli dopo la nascita della Chiesa, l’arte cristiana abbozza umilmente i suoi primi segni. Nell’epoca in cui vengono formulati i dogmi e i canoni della fede, niente sembra annunciare una concezione particolare della rappresentazione figurata.
331. Calice di Antiochia. New York, The Cloisters Museum. 333-334. San Pietro; santi che sostengono una croce: argento con tracce di doratura. New York, The Metropolitan Museum.
332. Vaso di Emesa. Parigi, Louvre.
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335. Disegni delle ampolle di Gerusalemme conservate nel Tesoro della cattedrale di Monza. Rispettivamente raffigurano: crocifissione; resurrezione; crocifissione e resurrezione; croce e apostoli; feste (annunciazione, visitazione, natività, battesimo, crocifissione, resurrezione, ascensione).
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dèi greci, Adamo, Eva, Giona, Daniele e Gesù appaiono completamente nudi: solo umani, perfettamente umani. Un’arte cristiana umanistica e classica, insensibile al pensiero monastico, si impone prepotentemente. L’immagine quasi non cerca di rappresentare il «cambiamento» del corpo trasfigurato; pur evitando gli ostacoli del sensualismo, sviluppa un naturalismo idealizzato in cui l’attento studio del volto e del corpo dell’uomo superano le particolarità individuali per esprimere una verità generale ideale. L’idealizzazione si trasforma talvolta in stilizzazione pronunciata. L’artista, sull’esempio delle opere delle province orientali, trascende i limiti del naturalismo per conferire al modello corpo e viso nuovi. Il corpo rigido si trasforma in fregio decorato e il volto diventa un disco piatto in cui immensi occhi sporgenti guardano fisso lo spettatore. La corporeità è abolita e i sensi sono assorti nella contemplazione. Il personaggio si fa persona e il ritratto icona. I soggetti si ripetono e un programma iconografico viene stabilito e diffuso sia a Oriente, sia a Occidente. In risposta alla preghiera dei moribondi, l’Ordo Commendationis Animae, viene fissato e perpetuato un ciclo di liberazioni. Ovunque, la mano di Dio squarcia i cieli per liberare Noè dal diluvio, Isacco dall’immolazione, Mosè dal faraone, Daniele dai leoni, i tre ebrei dal fuoco e Susanna dalla calunnia. Il Cristo assume l’aspetto del buon pastore; una selezione di miracoli evangelici costituisce un ciclo di liberazioni veterotestamentarie: Pietro e Paolo aprono le porte ai santi, il giardino elisio si trasforma in paradiso. I defunti, fiduciosi e sereni, convivono con i testimoni di Dio. Come osserva Clemente Romano, «tutte le generazioni da Adamo a oggi
sono passate, ma coloro che sono giunti alla perfetta carità rimangono per la permanenza dei fedeli e costoro si manifesteranno quando apparirà il regno di Cristo»32. Dall’età delle catacombe si passa a quella delle basiliche. L’arte cristiana elabora il suo linguaggio attraverso la varietà degli stili. I metodi e i modi cambiano, Roma si orientalizza e l’Oriente si romanizza. Progressivamente la componente orientale diventa più forte, il modello astratto supera il modello naturalista idealizzato, il movimento viene assorbito dalla staticità, la vita dell’uomo si accorda con quella degli angeli: «... le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17). L’uomo, più che carne animata, è un’anima vivente. L’artista non tenta più di rappresentare il corpo umano nella realtà sensibile; oltre la carne, «questa nuvola che è come uno schermo davanti all’anima e non lascia vedere nella sua purezza il raggio divino»33, l’immagine fa risaltare il corpo interiore dell’uomo, «corpo nel più profondo del corpo», come dicono i mistici. Lo spazio sensibile si apre sullo spazio intelligibile, l’azzurro cupo si illumina: «... nemmeno le tenebre per te sono oscure,/ e la notte è chiara come il giorno » (Sal 139,12). La luce divina proviene da ogni dove; il santo abita in un cielo d’oro. Questo colore, introvabile in natura, inonda il fondo e penetra i vari elementi dello spazio. La svolta è cruciale: «... ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a sparire» (Eb 8,13). Una nuova espressione pittorica interpreta e abbraccia i vari prestiti. I grandi centri del mondo cristiano partecipano alla creazione di un’arte nuova. I tentativi di distinguere le scuole si scontrano con i loro stessi limiti. Le origini delle opere e la loro localizzazione restano controverse. Le produzioni
336. Bassorilievo con san Mena. Alessandria, Museo greco-romano.
337. Ampolla con raffigurazione di san Mena. Monastero dei Siriaci, Wadi el-Natrun, Egitto.
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attingono da un fondo comune di tradizioni e motivi, i programmi iconografici e le composizioni ornamentali si ripetono. L’immagine magnifica il Creatore e la sua creazione: «Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen» (Rm 11,36). La tematica veterotestamentaria, in passato predominante, si trova relegata in secondo piano. Sant’Ambrogio osserva: «Per gli ebrei, l’acqua sgorga dalla roccia, per te, il sangue scaturisce dal costato del Cristo. Quest’acqua del passato ha dissetato solo per un momento, mentre il sangue del Cristo ti purifica per l’eternità. Il giudeo beve ed ha ancora sete; quanto a te, dopo aver bevuto, non sarai più alterato. Perché quello un tempo diventava figura, mentre adesso si tratta di verità»34. Il Figlio domina il cielo e la terra; adottati gli attributi del potere imperiale, siede in trono al centro della Gerusalemme celeste e accoglie gli eletti nel suo paradiso. Angeli, santi e vescovi trovano posto a coppie attorno a lui. Tutti sotto un solo Capo, «... tutte le cose,/ quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10). Nel Vangelo la fisionomia di Gesù è poco descritta e le affermazioni dei Padri della Chiesa sull’aspetto fisico del Figlio dell’Uomo sono divergenti: «Noi non conosciamo il suo volto, e neppure quello di sua madre»35, confessa Agostino nel v secolo. Nell’arte paleocristiana, il Cristo appare ora giovane e imberbe, ora maturo e barbuto. Sia a Oriente che a Occidente i due tipi continuano a coesistere parallelamente. La distinzione viene operata nel Medioevo, quando i due volti indicano e distinguono le due età del Verbo. Come osserva Atanasio di Alessandria, «da sempre è Dio e Figlio, essendo Verbo, Splendore e Sapienza del Padre e in se-
guito, per noi, essendosi incarnato dalla Vergine Maria, la madre di Dio, si è fatto uomo»36. Il primo modello diventa il volto simbolo del Verbo, che coesiste con il Padre dal Principio; il secondo si impone come ritratto iconico del Figlio nella realtà storica: Gesù figlio di Davide, figlio di Abramo, con una folta barba e i capelli lunghi, alla maniera dei nazirei consacrati a Dio. Il modello mariano viene stabilito nel vi secolo. Nella basilica di Santa Maria Maggiore, Maria, con la tunica, i gioielli, l’acconciatura e gli orecchini, incarna il modello femminile ellenistico. A questa prima tipologia si oppone una concezione contemporanea che, fedele al modello della realtà storica, presenta Maria avvolta nel velo o mantello delle donne siriache: l’immagine eclettica si cristallizza. La Chiesa, pur respingendo il naturalismo, adotta l’immagine veritiera del ritratto per idealizzarlo e stilizzarlo. Il terreno porta l’impronta del celeste; trasfigurato, il ritratto si fa icona. Le scene evangeliche si ripetono. Alcuni episodi sono scartati, altri adottati e mantenuti a lungo. Viene costituito un ciclo e fissato al termine di un lungo itinerario; alcuni soggetti appaiono e scompaiono senza lasciare né modelli precedenti né evoluzioni successive, altri modelli stabiliti fin dal iii secolo vengono ritrovati incompiuti e dimenticati nel v secolo. I resti del vi secolo permettono di scoprire i canoni adottati e diffusi dalle varie botteghe cristiane. Le arti, maggiori o minori, hanno un punto di partenza comune; le immagini, dipinte, scolpite o incise, riprendono sistematicamente gli stessi modelli; le scene evangeliche, monumentali o mobili, eseguite a parete o su tavole, scolpite su avorio o su legno, lavorate a sbalzo su metallo, ricamate su stoffa o tessute su drappi, si 131, 132
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338. San Simeone Stilita, stele di Djibrin (Siria del nord). Parigi, Louvre.
ripetono senza posa. Le celebri ampolle di Monza costituiscono un primo esempio di icone di grandi celebrazioni. Questi preziosi flaconi, prodotti dell’industria dell’argento di Gerusalemme, risalgono a un periodo che oscilla tra il v e il vii secolo e sono la prova della fissazione ecclesiastica per le grandi feste e della relativa interpretazione iconografica, confermando l’origine tradizionale dell’iconologia medievale. Vi si riconosce la schematizzazione elaborata e stabilita di Annunciazione, Visitazione, Natività di Cristo, Battesimo, Crocifissione, Resurrezione, Incredulità di Tommaso e Ascensione. Il simbolismo è messo a servizio del realismo mistico. La scena, rappresentata nei minimi dettagli, assume anche una dimensione simbolica. All’avvenimento storico si sostituisce l’immagine metastorica. L’iconografia, lungi dall’essere una semplice illustrazione, cerca di rivelare la portata spirituale dell’aneddoto rappresentato; l’ermetico approfondisce l’esoterico, simboli e figure ritornano da una scena all’altra; il circostanziale si coniuga all’immutabile, il temporale culmina nell’eterno. L’eternità non è quella del mondo intelligibile di Platone ma quella del mondo del Dio vivente. Come osserva Gregorio di Nazianzo, «non è né tempo, né una porzione di tempo, non è neppure misurabile; quello che per noi è tempo, misurato dal movimento del sole, per coloro che sono sempre è eternità; per loro è suscettibile della stessa estensione»37. La vita che passa non esiste più, la vita eterna domina. I santi sono posti nella dimora del Padre; l’agiografia trova la sua espressione iconografica. Le immagini commemorano i beati e celebrano «le grandi azioni dei vincitori»38. Uomini apostolici, vescovi, martiri o monaci, i santi vivono in Cristo. Agostino appare su un affresco della biblioteca papale del Laterano; sul retro del dittico di Boezio, lo si vede affiancato ai santi Gerolamo e Gregorio Magno. I tre busti, col viso rappresentato di fronte, con il Vangelo in una mano e l’altra nel gesto della benedizione, formano una triade “romana”; «Tutto qui appartiene all’unico regno: l’uomo nuovo, il canto nuovo, il testamento nuovo, e da quando canterà il canto nuovo, l’uomo nuovo apparterrà al testamento nuovo»39. In Egitto, l’immagine di san Mena si trasforma in segno preservativo; decapitato ad Alessandria, secondo la narrazione della Passione, il corpo del martire fu condotto da un cammello nel deserto e sepolto nel punto in cui si era fermato l’animale. L’immagine priva l’episodio del suo carattere aneddotico. Dai muri dipinti alle ampolle per l’eulogia, il modello si ripete. Accostato a due cammelli in adorazione ai suoi piedi, il martire è rappresentato orante, «semplice come la semplicissima unione della Trinità»40. In Siria, la figura di san Simeo ne lo Stilita trova presto un’espressione iconografica. Su una lastra d’argento dorato su cui è incisa un’iscrizione greca, l’asceta, con il capo cinto da una conchi-
glia secondo l’uso degli antichi, emerge da un catino, a formare il gran capitello di una colonna su cui è avvolto un lungo serpente squamoso, che raffigura lo spirito tentatore. Una scala appoggiata contro la colonna ricorda i racconti agiografici e la memoria biblica. Secondo i biografi, alcuni pellegrini privilegiati salivano sulla scala per comunicare col santo. Forse un simbolo storico, oppure la reminiscenza della scala celeste, quella vista da Giacobbe, che collegava la terra al cielo. Dalle stele alle eulogìe, le varianti in merito sono moltissime. L’esoterico avanza, la decorazione si semplifica e si fa spoglia, i simboli si sostituiscono alle figure. La colonna di colui che aspirava «a lasciare la vita terrena»41 è eretta nuda, sormontata dalla croce di gloria, «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,24). Il monaco da carnale diventa «completamente spirituale, i due si trasformano per una risoluzione ferma nel terzo e primo, lo spirito»42. «La novità cristiana è una trasfigurazione ben più che una creazione»43, osserva Henri de Lubac. La Chiesa dei primi secoli battezzava la tarda Antichità; il vino nuovo rinnova i vecchi otri e li trasforma in vasi eccellenti. L’estetica cristiana, assimilati tutti i fermenti, si costituisce e si forma; gli arricchimenti sono reciproci e perpetui. Oriente e Occidente danno origine a una stessa arte, al contempo una e molte. L’arte, al di là delle controversie e delle separazioni, riflette un unico Spirito e un unico Uomo. Le basi dell’arte medievale sono solidamente poste, una «bellezza antica e nuovissima» magnifica Dio attraverso e in ogni cosa. L’immagine parte alla conquista della somiglianza divina, cercando di incarnare il visibile dell’invisibile; il creato è modulato e plasmato nella luce increata. Il mondo nuovo sostituisce il mondo decaduto, il Figlio è il punto cruciale del mondo trasfigurato, il suo principio e il suo fine; «per noi è l’immagine pura»44 scrive Clemente Alessandrino. Tutto si ordina attorno al Verbo; i santi sono eretti come colonne. L’uomo terreno porta l’immagine del celeste; il corpo psichico resuscita in corpo spirituale, la natura umana ritrova la «sua somiglianza col re dell’universo, come una sorta di immagine vivente che in comune col suo modello ha la dignità e il nome»45. Tutto si ordina e si accorda seguendo un immaginario controllato in cui tutto è bipartito, ordinato e trova il riposo in Dio. L’essere trova «nell’eterna semplicità, un altro “grano”, un altro “vino” e un altro “olio”»46. L’immagine svela «la dimora di Dio con gli uomini» (Ap 21,3); il Messia «viene da oriente e brilla fino a occidente» (Mt 24,27). L’uomo nuovo si veste dell’incorruttibilità e dell’immortalità. Sacerdote e re, abita il Regno in cui risplende «una luce che non limita nessuna estensione, in cui si odono melodie che non travolgono il tempo, dove si diffondono profumi che non svaniscono al soffiare del vento, dove si gusta un cibo che nessuna sazietà riesce ad allontanare»47.
339. San Simeone Stilita, argento sbalzato da Emesa. Parigi, Louvre.
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Note Atanasio di Alessandria, Contro i pagani, 1, 35, in J.-M. Leroux, Athanase d’Alexandrie, Paris, p. 78. 2 Ibidem, p. 79. 3 Leone Magno, Sermoni, iii, 41,1, «Sources chrétiennes» n. 74 bis, p. 55. 4 Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, ii, 20, «Sources chrétiennes» n. 327, p. 115. 5 Lattanzio, La collera divina, 14, 1, «Sources chrétiennes» n. 289, p. 163. 6 Ibidem. 7 Didimo il Cieco, Sulla Genesi, i, 58, «Sources chrétiennes» n. 233, p. 149. 8 Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, ii, 1, 2, Migne, Paris 1991, p. 113. 9 A. Grabar, L’âge d’or de Justinien, Paris 1966, p. 170 (trad. it. di G. Veronesi, Milano 1980). 10 Jean-Claude Guy, Paroles des anciens, Paris 1976, p. 45. 11 M.-H. Rutschkowscaya, La Peinture copte, Paris 1992, p. 73. 12 J.-C. Guy Parole des anciens, cit., p. 159. 13 Clemente Alessandrino, «Inno al Cristo Salvatore», Il Pedagogo (3, 12), in A. Hamman, Les Pères de l’Eglise, Paris 1977, p. 97 (trad. it. Per leggere i Padri della Chiesa, Roma 1992). 14 Odi di Salomone, 9, in Naissance des lettres chrétiennes, Paris 1979, pp. 32-33. 15 Giustiniano, Novella vi, in J. Meyendorff, L’Eglise Orthodoxe hier et aujourd’hui, Paris 1960, p. 25 (trad. it. Brescia 1962). 16 W.B. Yeats, Sailing to Byzantium [Into the artifice of eternity], in The Tower, 1928, Cambridge Mass., 1939. 17 Pseudo Dionigi l’Aeropagita, I nomi divini, iv, 2, 1943, p. 95. 18 Ireneo di Lione, Contro le eresie, iv, 20, 7, Paris, 1991, p. 474 (trad. it. Contro le eresie e altri scritti, Milano 19972). 19 Efrem di Nisibi, Preghiera del vegliardo, in A.J. Hamman, Livre d’heures des premiers chrétiens, Paris 1982, p. 79. 20 Platone, Fedro, Paris 1964, p. 129. 21 Evagrio Pontico, Trattato di preghiera, 150, in Petite Philocalie de la prière du coeur, Paris 1979, p. 45. 22 Macario (Pseudo), Om. 33, 741 b, in Petite Philocalie, cit., p. 51. 23 Epistola a Diogneto, xii, 1,7, in Les écrits des Pères apostoliques, t. iii, «Foi Vivante», Paris 1979, pp. 74-75.
24 Efrem di Nisibi, Inno al paradiso vi, 14, «Sources chrétiennes» n. 137, Paris 1968, p. 87. 25 Lettera a Diogneto, cit., pp. 74-75. 26 Paolo Verzone, Parte dell’Alto Medioevo in Occidente, Paris 1975, p. 94. 27 L. Bréhier, Les trésors d’argenterie et l’école artistique d’Antioche, «Gazette des Beaux-Arts», 1920, p. 177. 28 Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, vi, 253, «Sources chrétiennes» n. 157, p. 323. 29 Ambrogio, La morte è un bene, 53, in Le Chrétien devant la mort, Desclée de Brouwer, Paris 1980, p. 66. 30 Tertulliano, Sulla resurrezione dei morti, 17 (trad. it. in Opere scelte, Torino 1984). 31 Ibid., 32, pp. 90-91. 32 Clemente Romano, i Corinzi, 50, 1, in Les Pères Apostoliques, Paris 1980, p. 76. 33 Gregorio di Nazianzo, Discorsi, 39-8, «Sources chrétiennes» n. 358, p. 165. 34 Ambrogio, Trattato dei misteri, 48, in L’initiation chrétienne, Paris 1980, p. 80. 35 Agostino, La Trinità, viii, 4, 7, cfr. 5,7. 36 Atanasio di Alessandria, Discorso contro gli Ariani, 29, 30, in J.-M. Leroux, Athanase d’Alexandrie, cit., p. 66. 37 Gregorio di Nazianzo, Discorsi, cit., 38-8, p. 119. 38 Efrem di Nisibi, Inni al paradiso, vi, 14, «Sources chrétiennes» n. 137, p. 87. 39 Agostino, P.L. 38, 210-213, Sermone 34 sul salmo 149, in Les Pères de l’Eglise, cit., p. 273. 40 Apoftegmi pseudoepigrafici, «Poussines», in Petite Philocalie, cit., p. 36. 41 Teodoreto di Ciro, Storia dei monaci siriaci, xxxvi, 12, «Sources chrétiennes» n. 257, p. 185. 42 Apoftegmi pseudoepigrafici, cit., p. 36. 43 Henri de Lubac, Catholicisme, Cerf, Paris 1952, p. 34 (trad. it. Cattolicesimo. Aspetti sociali del dogma, Milano 19922). 44 Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, i, 2, cit., p. 28. 45 Gregorio di Nissa, La Creazione dell’uomo, iv, Paris 1982, p. 46. 46 Agostino, Confessioni, ix, 10, Paris 1969, p. 217. 47 Ibid., x, 8, p. 245.
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Glossario di riferimento Anastasi: Resurrezione del Cristo, caratterizzata dalla sua Discesa agli Inferi e dal Riscatto dei Giusti dell’Antico Testamento. Apofatico, apofasia: Teologia negativa, che cerca il raggiungimento di Dio tramite lo svuotamento e la negazione. Arcosolio: Rientranza scavata nella parete di una catacomba, sul fondo della quale veniva deposto il corpo del defunto. Assiste: vedi Crisografia. Capsa: Cassetta, spesso destinata a contenere libri e carte. Chitone: Tunica senza maniche, corta per gli uomini e lunga per le donne. Codice: Insieme di fogli ripiegati e cuciti insieme a quaderno, che compongono un libro. Clipeus: Immagine rotonda a forma di scudo. Colobium: Tunica stretta, senza maniche, che cade fino alle caviglie. Crioforo: Portatore d’ariete. Crisografia: Scrittura con inchiostro aureo e quindi utilizzo di tratti d’oro per decorare alcuni elementi dell’iconografia. Cubicolo: Camera sepolcrale.
Mirrofora: Portatrice di profumi; designa le pie donne che vengono a imbalsamare il corpo di Cristo. Mistagogia: Iniziazione ai misteri divini. Odighitria: Conduttrice, colei che indica il cammino; titolo attribuito a un modello della Vergine con il Bambino. Paideia: Educazione dei giovani. Pantocratore: Signore e padrone supremo dell’universo. Pietas: Pietà, vicina alla Saggezza e associata alla Giustizia. Refrigerium: Banchetto della felicità eterna. Rotulus: vedi Volumen. Tarsia: Composizione ornamentale di vari elementi ritagliati in legno o in pietra, di varia forma e colore. Traditio Legis: Consegna della Legge. Triclia: Riparo di verzura innalzato nei giardini funebri. Tyché: Fortuna; ritratto femminile che personifica una città, una forza o una virtù. Vergine del latte/Virgo lactans: Vergine che allatta il Bambino. Volumen: Pezzi di pergamena o di papiro riuniti in una lunga striscia arrotolata attorno a un’asta.
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Dikaiosyné: Pratica della giustizia. Emblema: Immagine incastrata o incassata, allo stesso modo con il quale un gioiello viene inserito nella sua montatura. Euteknia: Felicità che viene dall’aver figli. Etimasia: Trono vuoto. Fossor: Becchino; aveva il compito di scavare le gallerie, curarne la manutenzione, decorarle e vendere parcelle e luoghi di sepoltura. Imago clipeata: immagine rotonda a forma di scudo. Kenosi: Rinunzia a se stessi fino all’annichilimento; indica l’impoverimento volontario del Figlio che, con l’incarnazione, prende e assume la condizione dei mortali. Labarum: Stendardo che porta il monogramma di Cristo. Lararium: Larario, cappella o edicola dedicata agli dei Lari, protettori della famiglia e della casa. Macrocosmo: L’universo nello spiegarsi della sua grandezza, opposto a microcosmo. Memoria: Monumento o iscrizione commemorativi. Microcosmo: Mondo di dimensioni ridotte, quindi l’uomo in quanto riassume in sé tutto l’universo.
In lingua italiana si ricordano in particolare le collezioni: Biblioteca patristica, Nardini, Firenze. Collana di testi patristici, Città Nuova, Roma. Padri Orientali, Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose. Opera Omnia di sant’Agostino, Città Nuova, Roma. Opera Omnia di sant’Ambrogio, Città Nuova, Roma. Classici Greci e Latini, Fondazione Lorenzo Valla/ Arnoldo Mondadori. Classici Utet, Torino. In lingua francese le collezioni: Icthus, Les Pères dans la foi, Littératures chrétiennes,
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Indice dei nomi I rinvii sono: in tondo alle pagine di testo, in corsivo ai numeri delle illustrazioni in bianco e nero lungo il testo e in grassetto ai numeri degli inserti di tavole. Abacuc 134, 228, 241, 105 Abele 103, 111, 112, 137, 268, 278, 83, 267, 273 Abercio di Gerapoli 64, 66, 80n Abramo 19, 43, 45, 51, 67, 79, 101, 103, 109, 110, 112, 137, 166, 169, 172, 183, 221, 222, 223, 225, 250, 268, 278, 287, 301, 310, 59, 60, 79, 133, 170, 172, 201, 202, 266, 273, 300, 29 Abramo, vescovo 286 Acacio 153 Achille 19, 22, 38, 248 Achilleo 148 Adamo 10, 11, 43, 51, 62, 67, 68, 101, 103, 111, 112, 114, 155, 166, 169, 199, 201, 243, 252, 307, 309, 82, 158, 186, 224, 18, 63, 77, 78, 81, 82 Adautto 252, 111 Ade 38, 62, 23 Admeda 105 Adone 43 Adriano, imperatore 244, 14 Aflad 1 Afrodite 68, 136, 247, 248, 237 Agnello di Ravenna 128 Agostino d’Ippona 8, 9, 12, 186, 241, 245n, 310, 311, 312n, 118 Aiace 248, 235 Albastria 263 Alceste 38, 100, 105 Alessandro Magno 8, 20, 32, 247 Alessandro Severo 43 Ambrogio di Milano 84, 112, 133, 152n, 202, 221, 245n, 310, 312n, 88 Amon 20 Ampelius 155 Anania 19, 67, 68, 150, 59 Anchise 35 Andrea, apostolo 278, 277 Anna, profetessa 225 Anna, sommo sacerdote 288 Antigono Monoftalmo 32 Antonino Pio 7 Apatrio 38 Apelle 32 Apollo 20, 22, 78, 116, 136, 11, 14, 260 Apollo, monaco 263 Apollo Eliogene 78 Apollodoro di Damasco 22 Apollonio di Tiana 43
Arcadio 154 Ares 136 Arianna 136, 248 Ario 81 Aristide di Atene 116, 152n Aristotele 19, 43 Aronne 78, 224 Artemide 43 Asclepio 19, 78 Assalonne 104 Asterio di Amasea 144 Atanasio di Alessandria 10, 11, 13, 82, 184, 245n, 248, 310, 312n Atargati 43 Atena 38, 105, 248, 235 Atenagora 11 Atlante 248 Augusto 15, 20, 22 Axa Eliana 107, 93 Azaria 19, 67, 68 Bacco 79 Balaam 51, 67, 104, 22, 28 Balty J.-Ch. 186 Barabba 288, 303 Barlaam 82 Barnaba 79 Basilio di Cesarea (il Grande) 11, 82, 112, 149, 152, 188, 199, 245n Bellerofonte 22, 139, 129 Bessula 148 Bia di Priene 41 Boezio 311, 118 Braccioforte 172, 165 Bréhier L. 306, 312n Caifa 278, 288 Caino 103, 112, 137, 83 Calamide 65 Calliope 41, 29 Callisto, papa 148, 250 Canivet Pierre 201 Cassiopea 186 Catervia 107, 94 Cecchelli C. 149 Celso 7, 9 Chapouthier F. 38, 39n, 80n Chilone 41 Chozbi 104 Cibele 20
Cicerone 82 Cipriano, vescovo 252 Cipriano di Cartagine 8, 41, 49, 52, 79, 80n, 100, 107, 111, 133, 148, 152n, 252, 280, 251 Cirillo di Alessandria 10, 11, 82 Cirillo di Gerusalemme 133, 152n, 203, 245n Claudio, arcidiacono 280 Clemente, papa 10, 248 Clemente Alessandrino 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14n, 19, 39, 39n, 41, 64, 66, 78, 80n, 137, 152n, 202, 245n, 311, 312n Clemente Romano 7, 16, 67, 78, 80n, 104, 152n, 187, 245n, 309, 312n Cleobulo di Lindes 41 Clodio Ermete 49, 10, 15 Cominia 156, 144 Commodilla 101 Conone 48, 4 Cornelio, centurione 15 Cornelio, papa 252, 251 Cosma 265, 261 Costante i 139, 128, 100 Costantina 192, 177 Costantino il Grande 9, 12, 20 , 41, 43, 81, 82, 83, 111, 114, 137, 139, 140, 149, 69 Costantino iv Pogonato 278, 274 Costanza, sorella di Costantino 82 Costanzo iii 172, 166 Crisologo Pietro 116, 140, 152n Crisostomo Giovanni 82, 172, 243, 245n Cullman Oscar 12, 14n Damiano 250, 265, 261 Daniele 51, 62, 67, 68, 79, 101, 109, 111, 114, 116, 139, 150, 155, 166, 172, 199, 292, 301, 309, 105, 106, 107, 170, 187, 257, 316, 53, 59, 77, 84, 124 Daniélou Jean 12, 13, 14n, 39n Dardanio 166, 147 Davide 19, 43, 45, 65, 67, 68, 150, 154, 172, 240, 288, 305, 306, 310, 174, 216, 217, 328, 329, 56 Delbrueck 241 De Lubac Henri 311, 312n Demetra 38 Demetrio san 291, 112, 113 Deodata 156
315
Deucalione 19, 67 Diana 136 Didimo il Cieco 252, 312n Dina 223 Diocleziano 41, 153, 156 Diogene Laerzio 41 Dionisia 52 Dioniso 19, 20, 22, 78, 136, 79, 248, 301, 239 Domitilla 111 Duval N. 245n Ecclesio 268 , 278 Efraim 45, 103, 250, 286 Efrem il Siro 12, 291, 292, 302 Eleazaro 73 Elena, figlia di Costantino 137 Elia 13, 19, 45, 46, 104, 150, 169, 241, 250, 278, 282, 158, 216, 219, 275, 31 Elidora 52 Elisabetta, madre del Battista 262, 282 Eliseo 104, 168, 169, 250, 287 Endimione 22, 68, 140 Enea 35 Enoch, monaco 63 Epifanio di Salamina 82 Era 100 Eraclio 247 Eraclito 19 Ercole 22, 104, 105, 155, 248, 306, 86, 88, 327 Erma 52, 80n, 155, 245n Erode 225 Eros 49, 68, 41 Esaù 103, 222, 223, 225 Eschilo 19 Esdra 45 Ettore 38 Eufrasio vescovo 280 Euriclea 184 Euripide 247 Eusebio di Cesarea 15, 39n, 81, 82, 83, 114, 136, 152n, 250, 288, 139 Eutichio 156 Eva 19, 43, 51, 62, 67, 68, 101, 103, 111, 112, 155, 169, 199, 309, 82, 158, 186, 18, 63, 74, 77 Evagrio Pontico 292, 312n Ezechiele 12, 45, 46, 65, 228, 291
Fedra 247, 234 Felice, santo 202, 252, 89, 111 Felice iii 153 Felice iv 265, 266, 261 Festugière A.-J. 42, 80n Fidia 248 Filippo il Macedone 20 Filone di Alessandria 8, 10, 224 Filoteo, monaco 263 Firmia Victoria 1 Firmico Materno 8 Frontone di Cirta 7 Gabriele 116, 224, 263, 302 Galerio 153, 237 Galla Placidia 148 Gallieno 41 Ganimede 22, 38, 9 Gea 248 Gelasio 153 Gennaro di Napoli 156, 64, 144 Geremia 66, 168, 268, 77 Geremia, monaco 263 Geroboamo 150 Gerolamo santo 52, 82, 152n, 311, 118 Gervasio 202, 88 Giacobbe 13, 19, 45, 103, 104, 149, 221, 222, 223, 225, 228, 250, 287, 311, 80, 81, 205, 55 Giacomo apostolo 172, 278, 282, 301 Giacomo di Sarug 292 Giairo 150, 56 Giamblico 8 Giasone 67, 103 Giobbe 67, 104, 111, 204, 21 Giona 51, 62, 64, 67, 68, 79, 101, 116, 139, 140, 199, 309, 52, 54-55, 56-57, 110-111, 137, 138, 20, 40, 41, 58, 59, 73 Giorgio, monaco 263 Giorgio, santo 285, 292 Giosuè 45, 66, 104, 221, 224, 209 Giovanni iv 266 Giovanni, evangelista 15, 65, 84, 135, 243, 278, 282, 285, 291 Giovanni Battista o Precursore 68, 250, 282, 285, 304, 295 Giovanni Cassiano 82, 152n Giovanni di Efeso 292 Giove 22, 84, 105 Giuda 150, 201, 202, 243, 278, 288, 193, 282, 59 Giuliano imperatore 8, 81, 184 Giunio Basso 111, 102 Giuseppe 103, 248, 287, 304, 325-326 Giuseppe san 78, 225, 305 Giustiniano 247, 265, 268, 280, 285, 312n, 264 Giustino i 247 Giustino Romano 7, 8, 9, 10, 12, 13, 16, 17, 19, 39n, 78, 80n, 81, 152n, 244 Golia 43, 150, 172, 174 Gordiano iii 62 Gorgone san 135 Grabar André 12, 14n, 225, 245n, 262, 312n Gregorio di Nazianzo 81, 82, 116, 152n, 311, 312n Gregorio di Nissa 10, 11, 13, 82, 152n, 312n Gregorio Magno 252, 311, 312n, 118 Hamman A.-G. 10, 14n Helios 62, 202 Hermes 19, 20, 38, 65, 100, 140, 23 Hur 224 Ibas di Edessa 247 Iesse 305 Ignazio di Antiochia 12, 16, 39n, 80n Ilaria 156, 146, 66 Ilario di Poitiers 11, 12, 13, 156, 245n Ippolito 234 Ippolito Romano 9, 64, 68, 80n, 111, 152n, 266, 280, 262 Ireneo di Lione 10, 11, 12, 13, 14n, 16, 17, 39, 42, 67, 68, 79, 80n, 105, 112,
151, 152n, 203, 245n, 280, 312n Isacco 45, 67, 109, 111, 112, 137, 166, 169, 172, 183, 221, 222, 223, 225, 268, 309, 273, 76 Isacio, arcivescovo 172, 164, 168 Isaia 16, 51, 65, 78, 166, 168, 169, 199, 225, 248, 268, 288, 73 Iside 20, 68, 184, 263 Jetro 268 Labano 222, 204 Lampridio 43, 80n Lapiti 36 Lattanzio 8, 252, 312n Lazzaro 51, 62, 68, 101, 109, 110, 111, 114, 133, 135, 137, 150, 155, 172, 278, 288, 64, 164, 301, 24, 55, 118 Lea 223 Leda 248 Leucadio 183, 171, 172 Lidia 7 Longino 243, 291 Lorenzo, martire 203, 266, 280, 194, 262 Loth 103 Luca, evangelista 7, 65, 252 Luciano di Samosata 7, 9 Manasse 45, 103, 287 Marcellino 51, 135 Marcia Romana Celsa 109, 95 Marco, evangelista 286 Marco Aurelio 15, 22, 36, 39n, 81, 13 Mardocheo 45, 38 Marrou Henri-Irenée 8, 14n, 41, 80n, 152n Marta 288 Martino di Tours 280 Marzia 156 Massenzio 83, 114 Massimiano 268, 304, 264, 129, 130, 325-326 Massimo di Tiro 8 Materno 202, 89 Mattia 282 Mauro san 280 Medea 67 Melchisedek 221, 268, 278, 200, 267, 273 Meleagro 248, 236 Melitone di Sardi 10, 15 Michea 288 Michele 201, 263, 302 Minerva 112 Minosse 19 Minucio Felice 8, 9 Misaele 19, 67, 68 Mitra 8, 20, 22, 306, 7 Mosè 9, 16, 19, 45, 46, 48, 51, 62, 64, 79, 101, 103, 109, 110, 114, 137, 140, 150, 151, 154, 155, 169, 223, 224, 225, 244, 268, 278, 282, 309, 43, 98, 132, 158, 206, 25, 27, 33, 48, 50, 55, 59, 76 Nabore 202, 89 Nabucodonosor 169, 199 Narciso 38, 27 Nemesio 52 Nestorio 153 Nicaziola 156, 144 Nilo 248 Noè 13, 51, 62, 67, 79, 101, 103, 112, 139, 166, 169, 199, 309, 42, 158, 19, 75, 77 Nonnosa 156, 146 Oceano 19, 136 Odoacre 153 Omero 33, 41 Onoria 148 Onorio 153, 154, 202 Optato, santo 252, 249 Optimus 152 Orfeo 19, 22, 43, 45, 66, 78, 116, 136, 188, 201, 10 Origene 9, 10, 11, 13, 17, 43, 66, 79, 80n, 112, 151, 152n, 307, 312n
Oro 68 Orso 278 Osea 288 Ostiliano 62 Pan 66 Pandora 19 Panteno 10 Paolo 9, 10, 13, 15, 17, 19, 43, 66, 78, 105, 111, 135, 137, 148, 149, 155, 156, 165, 166, 169, 172, 183, 186, 202, 221, 225, 241, 243, 250, 265, 266, 282, 291, 302, 307, 309, 131, 135, 224, 261, 262, 320, 321, 35, 47, 54, 61, 74 Pegaso 79, 139 Pelagio 266, 262 Penelope 184 Peres 202 Periandro di Corinto 41 Perpetua 66 Persefone 38, 23 Perseo 19 Pier Crisologo 116, 140, 152n Pietro 7, 15, 19, 43, 64, 105, 109, 110, 111, 135, 137, 140, 148, 149, 150, 156, 165, 169, 172, 183, 202, 221, 225, 241, 243, 245n, 265, 266, 278, 282, 285, 302, 307, 309, 35, 99, 121, 122, 123, 131, 135, 171, 261, 262, 277, 320, 333, 12, 35, 37, 47, 54, 57, 60, 64, 116 Pietro ii 266 Pilato 43, 109, 110, 111, 150, 243, 278, 288 Pinkhas 104 Pitagora 9, 43 Pittaco di Mitilene 41 Platone 9, 43, 81, 84, 135, 152n, 244, 245n, 311, 312n Plauto 82 Plinio il Giovane 7, 33, 39n Plinio il Vecchio 32, 33, 39n Plotino 42 Plutarco di Cheronea 22 Policamo 154, 143 Policarpo di Smirne 154 Policrate 19 Porfirio neoplatonico 8 Priscilla 116 Probo 154 Procolo 156, 65 Procopio 52 Prometeo 112 Protasio 156, 202, 88 Psiche 49, 107, 41 Putifarre 248, 304 Quirino Curino 154 Quodvultdeus 156, 68 Rabbula 288, 304-308 Rachele 149, 222, 223, 204 Rahner Hugo 13, 14n Rakhab 15, 104, 137, 224 Rebecca 103, 168, 222, 287, 73, 134 Reparato 278, 274 Restitutus 154 Rhodia 184, 178 Rinaldo Concoreggio 172 Rogata 165 Romolo Augusto 153 Saffira 150, 59 Salomone 7, 16, 45, 48, 266 Sammazia 169 Samuele 45, 240, 286, 305, 306, 216218 Sansone 104, 199, 84, 30 Sara 222, 268 Saturnia Tellus 22 Saul 240, 286 Saulo di Tarso vedi Paolo Seleuco 19 Serapione, monaco 265 Serapione, vescovo 140 Sergio san 285, 296
316
Sesennu, monaco 184, 177 Settimio Severo 41 Severina 107, 94 Severo, vescovo 278 Simeone 201, 225 Simeone lo Stilita il Vecchio 311, 338, 339 Simone il Cireneo 111, 278 Sisinnio 263 Sisto ii 252, 136, 249 Socrate 19, 41, 186, 29, 80 Solone 41 Spengler O. 100 Stefano 266, 262 Strzygowski J. 292 Susanna 51, 66, 67, 68, 116, 137, 309, 45, 47, 107, 108, 23, 59 Taddeo 282 Talete 41 Tamara 202 Taziano 8, 19 Tecla, santa 166, 72, 74, 76 Teodora, imperatrice 268, 265 Teodoreto di Ciro 15, 39n, 247, 312n Teodorico 280 Teodoro, papa 266 Teodoro, santo 265, 285, 261, 292 Teodoro di Aquileia 139, 172, 187, 147, 169 Teodoro di Mopsuestia 247 Teodoro Stratelates 283 Teodosio i 81, 153, 154, 168, 186, 201, 244, 141 Teofilo di Alessandria 286 Teofilo di Antiochia 10, 67 Teotecno 156, 146, 67 Tertulliano 8, 9, 10, 11, 12, 13, 16, 17, 19, 39n, 43, 64, 68, 80n, 110, 152n, 156, 245n, 307, 312n Teseo 22, 248 Thetis 19 Tiberio 15, 79 Tiburzio 135 Timoteo 148, 136 Tiranno 7 Titano 112 Tito 15, 22 Tobia 104, 137 Tommaso 169, 243, 278, 283 Toth 20 Traiano 7, 22, 33, 83 Tristan Frédérick 14n Turturra 252, 111 Ulisse 19, 184, 248, 235 Ursicino 278 Valentania 148 Valentiniano ii 154, 172 Valentiniano iii 167 Valeriano 41 Veneranda 100, 74 Venere 84, 136, 155, 20 Verzone P. 305, 312n Vibia 100 Vicentius 154 Virgilio 20, 39n, 41, 52, 80n, 82, 136, 165, 245n, 125 Vitalia 156 Vitruvio 36, 38, 39n Vittore 202 Weitzmann Kurt 248 Wulff 166 Zaccaria, profeta 301 Zaccaria, sacerdote 282, 309 Zaccaria il Retore 292 Zaccheo 243 Zerac 202 Zeus 19, 20, 38, 43, 248 Zeus-Asclepio 78 Zimri 104 Zoe 52
Indice dei luoghi Abnas 237 Adriatico, mare 280 Africa 136, 151, 153, 165, 199, 247 Alcaudete 172, 174 Alessandria 9, 10, 153, 166, 250, 311, 336 Anablatha 82 Anatolia 247 Antinoe 263 Antiochia 152, 186, 188, 306, 180, 181, 331 Apamea 184, 186, 201, 245n, 80, 81, 83, 86 Apamenia 201 Aquileia 136, 140, 187, 188, 130, 39, 54 Arabia 20, 187 Arles 107, 112, 169 Asia 15, 82, 151 Asia Minore 7, 15, 36, 247, 248, 263 Atene 19, 41, 244, 247 Atlantico, oceano 19 Ayun Mussa 250 Baalbek 41 Babele 19 Babilonia 68, 114 Baghawat 166, 156, 70 Balcani 247 Bararus 10 Barcellona 136 Bauit 263, 285, 259, 297, 126 Beer, pozzo di 45 Beirut 186, 187, 29, 182, 183, 79 Berlino 286, 302, 177, 178, 320 Beška 83 Betania 133, 243, 250 Beth Djibrin 199 Beth Shean 250, 245 Bethsur 250 Betlemme 15, 225, 266 Betsaida 278 Bisanzio 20, 153, 247 Bitinia 7 Bosra 250 Brescia 114, 148, 149, 151, 105, 140, 55, 118 Brest 83 Bretagna 136 Brignoles 50 Britanniche isole 20 Bulgaria 83, 70 Byblos 79 Byrsa 19 Cafarnao 7, 135, 278 Cagliari 20 Cairo Vecchio 240, 16, 179, 237, 257258, 259, 260, 317-318, 101, 106107, 119 Calcedonia 153, 247 Cana 51, 110, 111, 228, 278, 220, 94, 129 Canaan 224, 208 Canopo 250 Cappadocia 11, 15 Carmelo, monte 45 Cartagine 10, 19, 36, 41, 82, 136, 156, 165, 250, 19, 244 Castelseprio 262, 256, 114 Centcelles vedi Centocelle Centocelle 139, 165, 128, 51-52 Chaberras 245n Cilicia 199 Cipro 263, 282, 255, 287, 290, 328-329 Cirene 15 Classe 280 Cleveland 62, 199 Clupea 250, 151, 154, vedi anche Kélibia Copenaghen 201 Corinto 41 Costantinopoli 81, 151, 153, 154, 169, 172, 237, 241, 247, 248, 285, 286, 234, 235, 236, 133, 134, vedi anche Istanbul Ctesifonte 153 Dafne 186, 187
Damasco 17-18, 21, 28, 190, 313-316, 1, 85 Danubio 20, 247 Diospolis 166 Djibrin 338 Dorset 139 Dotahn 287 Dougga 136, 126 Dura Europos 12, 13, 43, 79, 166, 237, 33-36, 37, 38, 39, 1, 4, 5, 8 Dwin 302 Écija 172, 170 Ečmiadzin 292, 303, 309-312, 324 Efeso 38, 43, 153, 225, 292 Efraim 250 Egitto 8, 9, 13, 15, 33, 45, 82, 103, 114, 137, 151, 153, 166, 184, 187, 224, 225, 247, 248, 252, 263, 283, 304, 305, 311, 81, 156, 256 el-Alia 22 el-Jem vedi Thysdrus Ellès 136 Emesa 306, 332, 339 Emmaus 278, 222 Eraclea Lincestide 199 Ercolano 36 Etiopia 19, 247 Eufrate 13, 19, 43, 250 Fayum 184, 283 Firenze 140, 131, 132, 224, 304-308 Frigia 15 Gaiola 62 Galilea 7, 15, 82 Gallia 16, 20, 136, 153, 169 Gaza 252 Gerasa 250, 246-247 Gerico 137, 224, 225, 250, 252, 278, 288 Germania 136 Gerona 116, 136 Gerusalemme 7, 15, 19, 43, 135, 156, 168, 172, 225, 241, 250, 266, 310, 311, 243, 335, 108-109 Ginevra 185 Giordania 38, 247, 250, 233, 243 Giordano 78, 203, 221, 222, 224, 228, 240, 266, 292 Girona 107 Giudea 15 Giunchi, mare dei 114 Golgota 9 Grado 165, 245n Grecia 48, 247 Gregoria 247 Hadrumetum 136, 165, 9, 125 Hama 199, 201, 82, 84 Haridj 319 Heliopolis (Egitto) 187 Heliopolis (Libano) 41, 29 Henchir Msaadin 199, 187 Henchir Ounaïssia 188 Henchir Sokrin 250, 242 Hib 166 Hinton St Mary 139, 129, 45 Homs 85, vedi anche Emesa Huarte 201, 190, 191, 81, 83
Madaba 247, 248, 250, 233, 240, 243 Madrid 172, 174 Malta 243, 224 Mamre 9, 222, 250 Manica 20 Massyaf 38, 26-27 Mauritania 202 Mediterraneo, mare 15, 20, 35, 65, 136, 247 Menuthi 250 Mesopotamia 15, 35, 82, 136, 247 Milano 12, 41, 79, 81, 139, 168, 201, 202, 1243, 58, 159, 192-193, 216-218, 226, 228, 87-89 Moab 252 Monza 311, 335, 135 Mopsuestia 199 Morto, mare 252 Mosca 286, 176, 238, 299 Mren 302 Napoli 155, 156, 225, 252, 15, 144, 145, 146, 63-68, 94-99 Nebo, monte 224, 250 Nemea 248, 306, 327 New York 306, 328-329, 331, 333-334 Nicea 81, 153 Nicopolis 199 Nicosia 282 Nilo 45, 48, 103, 137, 238 Ninive 116 Niš 165 Nisibi 292 Olimpia 81 Oreb, monte Oronte 45 Ossa 19 Ostia 151, 62 Palencia 136 Palestina 9, 12, 13, 16, 82, 188, 199, 247, 250, 252, 263, 184 Palmira 35, 36, 38, 48, 183, 285, 17-18, 24-25, 2, 3, 6, 7 Panfilia 15 Parentium 280, 282, vedi anche Parenzo e Poreč Parenzo 284-286 Parigi 303, 137, 181, 225, 239, 297, 321, 327, 332, 338, 339 Pelio, monte 19 Persia 20, 48 Peruštica 263 Philippopolis 42, 136, 28 Piazza Armerina 136 Pompei 36, 15 Ponto 15 Poreč 280 Queilbeh 38 Qumran 12
Iberia 136, 139, 153, 165, 172 India 16, 19 Inghilterra 139 Istanbul 169, 141, 160, 215 Italia 22, 83, 136, 153, 225, 247, 248, 94 Iunga 189 Jaffa 252 Jugoslavia 71 Karamouz 166 Kélibia 250, 151, vedi anche Clupea Kharga 166, 156, 70-78 Kiti 282, 290 Kyria Maria 250, 245
Libano 36, 38, 41, 199, 23 Libia 15 Lione 17, 323 Lombardia 262 Luxor 184 Lythrankomi 282, 287
Radez 136 Rasm al-Qanafez 313-316 Ravenna 153, 172, 202, 240, 247, 266, 278, 292, 303, 304, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 194-196, 197, 214, 264-268, 269-270, 276, 281-283, 322, 325-326, 90, 91, 128, 129, 130 Reno 153 Riha 306, 330 Roma 7, 13, 20, 38, 42, 48, 78, 81, 82, 83, 153, 155, 184, 221, 228, 241, 247, 252, 265, 285, 309, 2, 3, 4, 5, 6, 12, 13, 14, 40, 41, 42-43, 44-45, 46, 47, 48, 49, 51, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 65, 67,
317
68, 69, 72, 73, 74, 75, 76-78, 79-83, 84-85, 106, 108, 109, 110-111, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 127, 142, 143, 198-199, 200-205, 206-209, 210, 219223, 248, 249, 250, 251, 252, 253-254, 261, 262, 263, 293, 9-16, 19-26, 27-38, 46-50, 92-93, 111, 117 Rossano 301, 302-303 Rosso mar 20, 114, 224, 84-85, 207, 27 Rugaa 10 Sahara 20 Salamis 263, 255 Salem 221 Sallakta 165 Salonicco 81, 228, 237, 263, 283, 211213, 291, 100, 112-113 Santa Maria Capua Vetere 69 Saqqara 263, 285, 257-258, 125 Sardi 15 Sarepta 45 Sbeitla 188 Séheh Abadé 175 Seir 223 Seleucia 153 Seleucia di Pieira 292 Serbia 83, 165 Sfax 165, 166 Shahba 42 Sichem 223, 250, 287, 32 Sicilia 136, 155 Sidone 165 Silistra 83, 70 Sinai 45, 244, 268, 282, 285, 288, 289, 292, 298, 115, 116 Siracusa 156 Siria 38, 42, 136, 151, 153, 199, 247, 250, 263, 311, 26-27, 338, 80-84, 86 Siviglia 172, 170 Sodoma 103, 286 Sohag 184, 177 Sousse vedi Hadrumetum Spagna 247 Stabia 36 Stafide 78 Stari Kostolac 84, 71 vedi anche Viminacium Stobi 199, 263 Tabarka 165, 166, 245n, 147, 149, vedi anche Thabraca Tabgha 188, 250, 184, 241 Tabor 278, 282 Tarragona 139, 172, 152, 155, 171-172, 173, 51-52 Tebe 166 Tevere 20, 114 Thabraca 147, 149 Thysdrus 11 Tiberiade 135, 250 Tipasa 166 Tiro 38, 23 Tolentino 94 Tolosa 169, 161-163 Tracia 22 Transgiordania 252 Treviri 112, 153 Trinquetaille 95, 104 Troade 43 Tunisia 250, 9, 10, 242 Upenna 153 Valbona 169 Valdearados 136 Vaticano 110, 97-99 Velletri 62, 53 Venezia 42, 30-31 Vienna 287, 133, 134 Viminacium 71 Zia 250
• Lullingstone
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Aquileia Venezia • • Grado Brescia • • Parenzo • Milano • • ISTRIA Pola • Bobbio • Cimiez Ravenna • Salona Fréjus • M • ar Lérins • • Spalato e
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PANNONIA
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Mar Nero BULGARIA
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• Santa Maria • Capua Vetere Napoli
Philippopolis • Adrianopoli • Salonicco •
Costantinopoli/Istanbul •
Sicilia Ippona Piazza • Cartagine • Armerina • Siracusa • • • Kélibia Tabarka • Cirta Le Kef (Costantina) • • Tebessa • Sousse/Hadrumerum Maktar • • Sbeitla/Sufetula • Sfax
Efeso •
CAPPADOCIA
Afrodisia •
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Creta
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Lago Van
Lago Urmia TUR ’ABDIN • Nisibi • Edessa/Urfa • Hierapolis
Oro
EGITTO
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Saqqara
• Il Cairo
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FAYUM
• Deir el-Boukarah •
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•
Nilo
Bauit
Sohag
Luxor
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Mar Rosso ARABIA
La geografia dell’arte cristiana dalle origini a Bisanzio
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i
• Abu Mena
r Tig
Alessandria
LIBIA
Kura
ARMENIA
• • Palmira Emesa • Biblos Tiro • Damasco SIRIA • Bosra GIUDEA • • Cafarnao • Gerasa Cesarea • PALESTINA • Gerusalemme • • Betlemme • Madaba Herodion
• Cirene
•
Lago Sewan • Ereruk
• Cesarea
fra Eu Alahan Mopsuestia • • Seleucia/Silifke Aleppo • • • Antiochia • Seleucia Pieira Cipro • Apamea
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Mare Mediterraneo
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il Kiz
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Silistra •
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Lione •
Ro
Ga
•
Dura Europos
Seleucia/Ctesifonte •
Fonti dell’iconografia Tavole a colori M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico e le nuove immagini, 312468, Corpus I – La pittura medievale a Roma, Jaca Book 2006: 92 (A. Vescovo 2003), 93 (MV-AF, 50294D) Archivio Jaca Book, Milano: 11, 27-33, 36, 70, 114-117, 128130, 133-135 Archivio Jaca Book / BAMS photo – Rodella: 90-91 Archivio Jaca Book / Lunwerg: 16 Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma: 60-61, 131-132 © The British Museum, Londra: 45 Massimo Capuani, Milano: 72-73, 76-77 Elio Ciol, Casarsa (PN): 39-44, 54 © De Agostini Picture Library / Bridgeman Images 9 © De Agostini Picture Library / G. Dagli Orti / Bridgeman Images 10, 13, 15 Institut du Monde Arabe, Parigi / cliché Ph. Maillard: 2, 3 © Kapon Editions / Mosaics of Thessaloniki: 100, 112-113 Mauro Magliani, Padova: 46-50, 87-89, 94-99 Isber Melhem, Beirut: 1, 4-8, 79-86, 101-105, 110, 119-127 Isber Melhem, Beirut e Mahmoud Zibawi: 74-75, 106-109 Photothèque André Held, Ecublens: 17-26, 34, 37, 51-53 Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, Roma: 12, 14, 35, 38, 62, 63, 111 Rapuzzi, Brescia: 55-59, 118 Roger-Viollet, Parigi: 64-69 © Shutterstock/Anton_Ivanov: 71 Mahmoud Zibawi: 78
Fotografie in bianco e nero Alinari, Firenze: 210 Archivio dello Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemme: 243 Archivio Jaca Book, Milano: 12, 13, 14, 19, 20, 30-32, 40, 5457, 86-88, 141, 181, 198, 159, 256, 292-293, 297 Archivio Jaca Book / BAMS photo – Rodella: 166, 169, 194197, 264-270, 271-275, 276-283 © The British Library, Londra: 300 © Kapon Editions / Mosaics of Thessaloniki: 291 Mauro Magliani, Padova: 192-193 Isber Melhem, Beirut: 16, 17, 18, 21, 28, 178, 182-183, 190, 258-260, 317-318, 337 Domi Mora, Lunwerg: 170 Museo di Sant’Ambrogio, Milano: 216-218 Museo di Storia Armena, Erevan: 319
Museo Nazionale di Beirut: 29 Museo Nazionale di Damasco: 37-39, 313-316 Musée de l’Arles antique: 95, 104; 89, 157, cliché Michel Lacanaud Musei Vaticani: 52, 90, 96-103, 148 Photothèque André Held, Ecublens: 120 Pontificia Commissione di Archeologia Sacra Roma: 1-6, 4149, 58-62, 65, 67, 72-85, 106, 108-111, 115-119, 121-124, 142146, 249, 251 Rapuzzi, Brescia: 105, 140 Zodiaque, Sainte-Marie-de-la-Pierre-qui-Vire: 152, 155, 171-174 Wikimedia Commons: 8 (Marie-Lan Nguyen), 15
Volumi di riferimento AA. VV, Da Aquileia a Venezia, Milano 1980: 130 AA. VV, I mosaici romani di Tunisia, Jaca Book, Milano 1993: 9, 10, 11, 22, 125-126, 147, 149-151, 153-154 ,187-189, 242, 244 AA. VV, Mosaïque, Recueil d’hommages à H. Stern, Paris, 1983: 129, 184 A. Banck, 1967: 294-296 A. Boschkov, La peinture bulgare, Office du livre, 1974: 70/ Julian Tomanov G. Bovini, Chiese di Ravenna, Novara, 1957: 167-168, 214 H. Brandenburg, Le prime chiese di Roma, Jaca Book 2004: 261 (foto A. Vescovo) G. Downey, 1963: 180 P. du Bourguet, 1967: 238-239 E. Larouche, I complessi cristiani del IV e del V secolo a Huarte, «Rivista di Archeologia Cristiana», EVI, 1980: 191 M. Piccirillo, 1991: 297, 240, 246-247 D. Srejovic (ed.), Roman Imperial Towns and Palaces in Serbia, Belgrado 1993: 71 D. Schlumberger, 1970: 24-25 G. Schlunk e Th. Hauschild, Hispania antiqua, Mainz 1978: 128 H. Stern, Les mosaïques de l’église de Sainte Constance à Rome, Dumbarton Oaks Papers, 1958: 127 «Syria»: 26-27 F. van der Meer, C. Mohrmann, 1960: 91-94 W.E. Volbach, Avori di scuola ravennate nel V e VI secolo, Longo Editore, Ravenna, 1977: 164-165, 321, 325-326 K. Weitzmann, 1977: 301-303 K. Wessel, 1964: 175-177, 237, 257 Cesare Sacconaghi (Gallarate) ha realizzato i disegni 156 e 211