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Francesco nacque ad Assisi, una bella città dell’Umbria, nell’Italia
centrale, nel 1182. Era figlio di Pietro Bernardone, uno dei più ricchi mercanti della città. Nei suoi viaggi in Francia questi aveva conosciuto la sua sposa e madre di Francesco, Pica. Si dice che fu proprio per la madre francese che Pietro preferì il nome Francesco, anziché Giovanni, che era stato messo al figlio alla nascita. A scuola Francesco imparò un po’ di latino, anche se fu sempre in imbarazzo di fronte alla parola scritta: già famoso, preferiva firmare con la croce. Dalla madre apprese il francese, che gli piaceva tanto: imparò molte canzoni in quella lingua, e quello stile gli servì quando, come vedremo, volle essere “giullare di Dio”. Da giovane, Francesco era di temperamento allegro, capo di un gruppo di giovani gaudenti: era ricco, spensierato, con la borsa sempre aperta. Alternava i divertimenti al lavoro nella bottega del padre, ma la sua attività preferita era bere, mangiare e cantare con la sua brigata…
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Piero Ventura & Gian Paolo Ceserani
FRANCESCO D’ASSISI con la collaborazione di
Marisa Murgo Ventura
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LA PRIMA VOLTA Durante la guerra fra Assisi e Perugia, Francesco fu tenuto prigioniero per un anno intero; ebbe una grave malattia, che durò a lungo; partì poi per una spedizione di conquista verso la Puglia con un nobile del posto: era l’occasione da tanto tempo attesa per lanciarsi verso l’avventura!
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Francesco spese un patrimonio per farsi il corredo da guerriero; poco dopo, però, se ne tornò indietro, suscitando l’ironia di tutta Assisi. Che cos’era successo? Durante la marcia era giunto in vicinanza di Spoleto: cominciò a star male, faticava a tenersi ritto in sella, si ammalò. Durante un sonno agitato sentì una voce che gli parlava: “Dimmi, Francesco, chi ti può aiutare di più, il servitore o il padrone?”. “Il padrone!” rispose il giovane. “E allora perché – proseguì la voce – lasci il padrone per il servitore?”. Il giovane capì. Capì che chi gli aveva parlato non era un uomo, che quella voce non era di natura umana.
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I FRATELLI POVERI Questa prima visita divina mutò radicalmente
la vita di Francesco. Cominciò a vedere un altro mondo, al di là della cerchia degli amici: vide con occhio nuovo i poveri che elemosinavano per le vie cittadine, che chiedevano la carità di una minestra, o semplicemente di un pezzo di pane. Francesco si spostò: dalle serate con i giovani gaudenti alla povera gente. Qualcuno ha detto che Francesco era ossessionato dalla povertà: noi dobbiamo, però, vedere la cosa con i suoi occhi. Per il Santo di Assisi la povertà, e solo la povertà, non divideva.
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Soltanto lasciando ciò che abbiamo possiamo essere fratelli di chi non ha. Si ispirava direttamente ai Vangeli: Dio non è né ricco né povero. Dio non distingue: invece, nel mondo dell’uomo, ricchezza e povertà dividono. Abbandoniamo ciò che abbiamo, pensava Francesco, così da essere tutti uguali di fronte a Dio, tutti fratelli in Dio. Può sembrare un pensiero ingenuo a noi che viviamo in una società che maschera l’ingiustizia: per un uomo del Medioevo, invece, le differenze sociali erano evidenti. Francesco era ancora un giovane ricco: ma voleva uscire dalla sua condizione. Così, durante un pellegrinaggio a Roma, fece una cosa bizzarra: chiamò uno dei tanti mendicanti e gli propose di scambiarsi gli abiti. Vesti preziose in cambio di stracci! Poi, così messo, cominciò a chiedere l’elemosina, provando sia pure per poco quella condizione tanto diversa dalla sua. Possiamo sorridere della cosa, ma certo Francesco anticipò la linea della sua vita. Di fronte ai disgraziati c’era una sola possibilità: poveri loro, povero lui.
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Fu in questo periodo che ebbe la seconda manifestazione divina. Nella sua nuova vita, sentiva sempre di più la necessità di pregare: era solito andare in una cappelletta rustica, San Damiano, che aveva come solo ornamento un crocifisso. Un giorno sentì venire una voce dal crocifisso: “Francesco, restaura la mia casa, che va in rovina!”. Il giovane si guardò attorno: in effetti, la cappella era molto malandata. Andò allora dal vecchio prete e, d’impulso, gli diede la borsa del denaro, perché comprasse olio per la lampada del crocifisso. Poi corse a casa, prese stoffe preziose, andò al mercato di Foligno e le vendette tutte; vendette anche il cavallo, e se ne tornò ad Assisi a piedi. Consegnò l’intera somma al prete di San Damiano: ma questi rifiutò il denaro, temendo l’ira del padre, il ricco mercante. Ma Francesco non si curò di nulla, e per un mese intero se ne stette nella chiesetta, pregando continuamente. Poi tornò a casa, e lì scoppiò il dramma.
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ADDIO AL MONDO Francesco aveva passato il suo ritiro in preghiera
e in digiuno; dopo un mese tornò ad Assisi. Era smagrito, sporco; i vestiti erano come quelli di un mendicante. I ragazzi del paese lo seguirono fino alla sua casa, deridendolo e tirandogli sassi. Era troppo per messer Pietro Bernardone, che fino a quel momento si era sforzato di ignorare le stranezze del giovane, anche quando se ne era stato tutto un mese lontano da casa. Un vero affronto: il figlio di un uomo tanto importante veniva deriso da tutta Assisi! Scacciò a pedate i monelli, prese Francesco e lo gettò in un sottoscala, chiudendo a chiave la porta. Come in prigione! Ma, quando il padre mercante partì per un viaggio d’affari, la madre Pica liberò Francesco, che se ne tornò a San Damiano. Il dramma era appena iniziato: al ritorno il padre, ancora più furente, si recò dai magistrati per
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riavere il denaro incassato a Foligno, e poi andò direttamente dal vescovo. Questi convocò padre e figlio nella piazza davanti al vescovado e, davanti a molta gente che si era radunata per quella strana occasione, ordinò a Francesco di restituire il denaro. Francesco, calmo, rispose: “Signore, restituirò a mio padre anche il mio abito, che gli appartiene”. Si tolse il vestito e rimase nudo. Poi, come ci racconta la tradizione, completò il discorso: “Rendo a mio padre vesti e denaro. D’ora in avanti non dirò più: padre mio Pietro Bernardone, ma Padre nostro che sei nei cieli!”. Tutti rimasero commossi. Il vescovo, turbato, stese il suo mantello sul giovane, poi mandò a cercare un vecchio abito: Francesco lo ricevette con gioia, e se ne andò lasciando tutto, padre, madre, patria. E non tornò più indietro.
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Re o Imperatore
LA SOCIETÀ Il mondo di Francesco è una società in cambiamento rispetto alla lunga età precedente, il primo Medioevo. Vediamo infatti lo sviluppo della città e di una popolazione ben diversa da quella delle campagne. È il mondo che noi chiamiamo borghese: composto di mercanti, di artigiani. Riappare, dopo vari secoli, il denaro: prima, i pochi commerci erano basati sullo scambio. La città vuol dire la nascita del Comune: qualcosa di molto diverso dalla gerarchia precedente, basata
Baroni
Cavalieri
Banditi e Fuorilegge
Amministratori feudali Soldati professionisti
Cittadini liberi
Fittavoli Servi della gleba
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Podestà o Gonfaloniere sulla proprietà della terra. La nuova borghesia, di conseguenza, comincia a contrapporsi all’autorità regale, il solo riferimento fino ad allora. Un’altra novità è rappresentata dagli intellettuali: studiosi e professori sono simili ai nostri, cioè laici, mentre prima gli insegnanti universitari erano solo ecclesiastici. La nuova società aveva infatti bisogno di saper leggere e scrivere e far di conto: l’attività del mercante lo richiedeva. Si viaggiava di più: il padre di Francesco era un mercante che frequentava vari paesi, anche lontani.
Mercanti
Ricchi borghesi
Medici
Studenti e Insegnanti universitari
Operai Avvocati e Sensali
Membri delle corporazioni
Apprendisti Garzoni
Nullatenenti urbani
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Lebbrosi
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I LEBBROSI Una delle piaghe della società in cui Francesco viveva era la lebbra, una malattia infettiva che causava danni terribili a chi ne veniva colpito: il corpo si copriva di piaghe puzzolenti, certe parti (come il naso, le mani, i piedi) cadevano a pezzi. Malattia antichissima, molto diffusa in Oriente, con il ritorno in Europa dei primi crociati, che erano stati contagiati, conobbe una diffusione enorme. I lebbrosi venivano emarginati: non potevano frequentare chiese, piazze, mercati, né bere a fiumi e fontane. Erano obbligati a vestire una divisa grigia e dovevano portare una campanella per segnalare la loro presenza. Francesco aveva un istintivo ribrezzo per questi disgraziati: appena ne scorgeva uno cambiava strada. Era ciò che stava per fare quando, poco prima dell’addio al mondo, cavalcando sui pendii del monte Subasio, ne scorse uno in lontananza. Questo a sua volta lo vide e tese il braccio per chiedere l’elemosina: con orrore Francesco vide che l’arto era putrefatto! Stava per spronare il cavallo e fuggire via quando sentì la voce interiore: “Francesco, ciò che ti ripugna si trasformerà in dolcezza!”. Il giovane scese da cavallo, si trovò di fronte allo sventurato, e quasi senza accorgersene mise una moneta nella mano
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deforme, poi d’impulso lo prese fra le braccia, baciò le mani e le guance piagate. Fu la svolta della sua vita. Da allora, Francesco si considerò sempre alla pari con tutti gli uomini, per bassa che fosse la loro condizione. Espresse questa sua visione con l’amore: l’amore era l’offerta e la richiesta di iniziare un’amicizia. Tornato ad Assisi, si sentiva invaso da una felicità senza nome. Fece subito visita a un grande lebbrosario della sua città. Aveva le tasche piene di monete: parlò con i lebbrosi ad uno ad uno, lasciò una moneta in ogni mano. Ma noi possiamo essere sicuri che quel popolo di emarginati fu più colpito dall’affetto dimostrato da un giovane ricco che non dall’elemosina. Francesco trasmise in seguito questo sentimento ai suoi frati: fra i loro compiti c’era quello di visitare costantemente i lebbrosi, di stare loro vicini, così da farli sentire uomini come tutti gli altri. E oggi, che cosa ne è di questa terribile malattia? La lebbra esiste ancora. Si diffonde soprattutto nelle zone dove maggiore è la povertà, e minore di conseguenza è l’igiene. Questo ci fa capire perché la lebbra via via lasciò l’Europa; ma nei paesi del Terzo Mondo colpisce ogni anno migliaia di persone.
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UN’ALTRA VITA Francesco, dopo l’addio al mondo, era diventato
un altro uomo. Doveva quindi vivere in un altro modo. Nella società del tempo l’abito aveva la massima importanza: segnava visivamente la condizione dell’uomo, ricco o povero, nobile o mercante o contadino. Era così anche per gli uomini di Dio: il sacerdote vestiva in modo ben diverso dall’eremita. Francesco sentì l’esigenza di segnare il suo cammino, di farlo vedere, a sé e agli altri. Indossò un saio, un camicione che arrivava a metà polpaccio, con cappuccio, chiuso da una semplice corda in vita. Ben diverso dalla toga degli ecclesiastici e dagli abiti dei cittadini, tinti con colori vivacissimi. Così vestito, Francesco cominciò a spostarsi da una stradina a una piazzetta di Assisi, ogni volta rivolgendosi così ai passanti: “Il Signore vi dia la pace!”. Seguiva alla lettera la massima evangelica: portare la parola di Dio nel modo più semplice e diretto. La popolazione di Assisi ne fu colpita. L’uomo dell’epoca era soggetto al potere, alle prepotenze: Francesco lo faceva uscire dal suo piccolo mondo per aprirgli la porta di un altro mondo, quello di Dio, dove tutti erano alla pari. Trovò dei compagni. Il primo fu Bernardo da Quintavalle, un mercante che aveva la sua stessa età; il secondo Pietro Cattani, un cittadino che ricopriva importanti cariche pubbliche. Entrambi
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fecero una cosa che lasciò stupefatti gli abitanti di Assisi: si sedettero in piazza distribuendo i propri beni ai poveri. Altri compagni arrivarono: per alloggiare costruirono una capanna nelle vicinanze della Porziuncola, una chiesetta che doveva avere un ruolo importante nella vicenda francescana. I discepoli, come il maestro, predicavano, e sempre più gente li ascoltava. Il semplice messaggio di fratellanza colpiva la gente. Francesco vedeva bene il mondo, con le sue pene e avversità, e a modo suo reagiva: reagiva predicando. Gli uomini si separavano, gruppo per gruppo, classe per classe? Ebbene, Dio avrebbe unito i loro cuori. Il numero dei fratelli cresceva costantemente. Di alcuni conosciamo i nomi: Leone, il più fedele, Egidio, il perfetto, e Masseo, il gigante, l’esatto contrario di Francesco, che era piccolissimo. Il successo richiese di organizzare il gruppo: compito per cui Francesco non era proprio portato. Era, sì, un missionario, ma nel profondo rimase un eremita: conosciamo molti luoghi riparati, molte grotte in cui amava ritirarsi, dalla cavità sopra Poggio Bustone all’eremo di Montecasale, vicino a Borgo Sansepolcro, fino al ritiro preferito su tutti, La Verna. Francesco si rendeva conto che occorreva qualcosa di più: il suo gruppo non era nemmeno riconosciuto dalla Chiesa.
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L’INCONTRO COL PAPA Francesco prese una decisione molto importante:
doveva andare a Roma, dal Papa, e chiedere che il suo movimento venisse riconosciuto. Per ottenere ciò, occorreva una Regola, come avevano tutti gli ordini monastici: un documento che fissava le intenzioni e i doveri della comunità. Con Pietro Cattani, che era un giurista, lavorarono molti giorni a stendere lo scritto. I fratelli, come amavano chiamarsi, dovevano rinunciare ai beni distribuendoli ai poveri; vestire poveramente, assistere i malati; lavorare col mestiere che avevano imparato, accettando come compenso solo cibo e abiti: il denaro era vietato. L’elemosina veniva chiesta solo in caso di necessità. Steso il documento, i fratelli, una dozzina in tutto, partirono per Roma. Ci sono molte versioni dell’incontro tra Francesco e il papa Innocenzo III. Una, riferita da un contemporaneo, è molto divertente. Il papa vide quell’omino malvestito, dalla barba lunga, e gli disse: “Fratello, cercati dei porci, coi quali starai meglio che con gli uomini; poi buttati con loro nel fango, e fai a loro le tue prediche!”. Secondo questa cronaca, Francesco uscì per le vie di Roma, trovò un branco di maiali, si rotolò
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insieme a loro nel fango, ritornò dal papa e disse: “Signore, ho fatto come mi hai comandato; ora, ti prego, esaudisci la mia richiesta!”. Non siamo, è ovvio, sicuri dell’episodio, ma conoscendo Francesco potrebbe anche essere autentico! A Roma, questo è sicuro, il gruppo incontrò il vescovo di Assisi, che diede un aiuto presentando importanti cardinali; questi suggerirono al pontefice di accettare quegli strani uomini e la loro regola. Il motivo? La Chiesa era contestata da molte parti, accusata di essere troppo dedita al denaro, al potere, a costumi dissoluti. Molti gruppi di cristiani si erano staccati da Roma per tornare allo spirito evangelico. Il movimento di Francesco, pensarono in Vaticano, poteva dimostrare che anche nella Chiesa vi era chi seguiva integralmente l’esempio di Cristo. Francesco, in realtà, contestava col suo stesso esempio il lusso di vescovi e cardinali, ma fu sempre rispettoso della Chiesa e della sua gerarchia. Comunque sia, il papa approvò oralmente la Regola, e Francesco se ne ripartì felice da Roma. Nel giro di qualche anno, quei dodici fratelli sarebbero aumentati fino a divenire cinquemila!
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IL TORNEO DEL MONTEFELTRO Una grande festa era annunciata a San Leo, nel Montefeltro, una bella zona collinare dell’Italia centrale. Era l’8 maggio 1213: un giovane della famiglia dei signori locali, che avevano proprio preso il nome di Montefeltro, veniva nominato cavaliere. L’occasione per un grande torneo! La festa durava più giorni, e da ogni parte arri-
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vava gente per parteciparvi. Era infatti abitudine offrire doni al variopinto popolo dei girovaghi, dei cantastorie, dei giullari. Francesco diede prova del suo anticonformismo partecipando alla festa come fosse un vero giullare. Ma chi erano i giullari? E perché Francesco si definiva “giullare di Dio”?
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GIULLARE DI DIO I giullari erano musicisti di bassa condizione, che
giravano per piazze, corti, santuari, soprattutto in occasione di feste, divertendo la gente con canti e danze. Francesco si comportava come “giullare di Dio”, e lo dimostrò in tutta una serie di episodi che hanno divertito, o sconcertato, i suoi contemporanei (ma anche noi!). Per esempio al torneo del Montefeltro: la Chiesa proibiva i tornei, arrivando a scomunicare chi vi partecipava. Ma Francesco vi andò ugualmente: diceva che era meglio stare fra i peccatori, che avevano bisogno di ascoltare la parola di Dio, che fra i fedeli. Così, in compagnia di frate Leone, arriva alla festa, sale su un muretto, attira l’attenzione della gente, comincia a parlare. E che tema sceglie? Addirittura una canzone d’amore, la stessa che aveva suonato, pochi metri più in là, un vero giullare! Il titolo era: “Tanto è bene ciò che aspetto / che ogni pena mi è diletto”.
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Insomma: aspettare il piacere dalla donna amata val bene qualche pena. Ma Francesco rovescia il tema in questo modo: così tanto è ciò che ci aspettiamo dal bene divino, che qualunque pena ci sembra lieve. Non sappiamo se si sia addirittura accompagnato con la musica: ne sarebbe stato capacissimo! Dalla sua “giullarata” ebbe un premio. Fra gli ascoltatori vi era un nobile del Casentino, una regione toscana: il conte Orlando da Chiusi. Questi si avvicina al fraticello e gli esprime il desiderio di parlare con lui della salvezza della sua anima. Il nobile rimane affascinato dal piccolo uomo che parla con tanta naturalezza di Dio. Nasce un’amicizia. Orlando regala a Francesco e ai suoi frati il Monte della Verna, una località remota e selvaggia, che si ergeva col bianco delle sue rocce fra il verde cupo dei boschi. Sarà il rifugio prediletto di Francesco (lì ebbe le stimmate), che vi trascorrerà molte ore dei suoi ultimi anni.
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Nelle varie cronache della sua vita, ci vengono narrati moltissimi episodi in cui Francesco si comportò “da pazzo”, come quello già ricordato di Roma, quando si rotolò fra i maiali. Teniamo presente che il folle è una tipica figura medievale, molto vicina a quella del giullare. Noi ci chiediamo: perché? Possiamo tentare una risposta: Francesco era indifferente alla sua figura di uomo, e coltivava la modestia come virtù principale, al punto da volersi spesso umiliare. Abbiamo molti esempi. Una volta ruppe la dieta severissima e mangiò un po’ di pollo: pentito, pregò un confratello di legargli una corda al collo, come si faceva con i criminali, e di trascinarlo per le vie gridando: “Guardate questo ghiottone, che si è rimpinzato di carne!”. Un’altra volta, ancora per punirsi di una mancanza, uscì in mutande per le strade e tenne un’intera predica in questo modo. Il giullare era un uomo libero, che frequentava i
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ricchi come i poveri: un tratto tipico dei francescani. Il giullare viaggiava continuamente: come i fratelli di Assisi. Il giullare si esprimeva con parole comuni, così come voleva Francesco dai suoi. Per Francesco, Dio era luce, era gioia: i modi del giullare, forse, gli sembrava che restituissero – umanamente – un po’ di quella sublime allegria che lui provava nel colloquio col Signore.
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CHIARA D’ASSISI La fama di Francesco continuava ad aumentare,
e così il numero dei suoi seguaci. Fra i molti, una donna ha lasciato un segno di grande importanza: Chiara, anche lei di Assisi, di nobile famiglia. Era nata nel 1193: a sedici anni rimase colpita da quel predicatore strano, come lei di famiglia ricca. Fin da giovane Chiara sentì la vocazione religiosa, ma non volle entrare in monastero: cercava un’altra strada. La trovò con Francesco. Lo sentì parlare
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e capì quale vita doveva condurre per arrivare a Dio. Si incontrarono più volte, e Francesco si rese conto delle sue difficoltà: la vita dei suoi monaci, con il duro lavoro e i continui spostamenti, non era adatta a una donna. Bisognava andare al di là della Regola. E bisognava anche essere prudenti: Chiara apparteneva a una famiglia potente. Chiese aiuto al vescovo Guido. Questi, durante la Domenica delle Palme, con tutta Assisi in chiesa, distribuì i rami d’olivo a chi andava all’altare. Chiara non si mosse dalla sua panca. Allora il vescovo andò da lei e le mise il ramoscello fra le mani. Era un segno preciso: il vescovo garantiva pubblicamente che la scelta della giovane era giusta. Ma i problemi stavano appena per cominciare. Chiara se ne andò di casa e si presentò alla Porziuncola, dove stavano i fratelli francescani. Fu lì che Francesco le tagliò i lunghi capelli biondi. Non si poteva però alloggiare una donna in mezzo ai frati. Francesco la condusse a un convento di monache benedettine: e lì arrivarono i parenti di Chiara, furibondi per la fuga, per
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riportarla a casa. Ma la giovane fu irremovibile: si aggrappò alla tovaglia dell’altare mostrando il capo rasato. I parenti se ne dovettero andare: rapire una persona rifugiata in un convento era un gesto assai grave. Francesco sistemò Chiara in un altro convento, e lì fu raggiunta dalla sorella Agnese. Era troppo per la famiglia, che si precipitò al convento: ma, secondo la tradizione, accadde un fatto miracoloso. Quei duri uomini rimasero in uno stato di totale immobilità, quasi fossero diventati di marmo. Così si compì il destino di Chiara. Si sistemò in San Damiano, ebbe molte compagne, che da lei presero il nome di Clarisse. Fu per molti anni la loro guida; per dare l’esempio lei stessa, la badessa, serviva a tavola, vivendo nella massima umiltà. Non vide quasi più Francesco, e molti si sono chiesti il perché. Lui si negò, probabilmente, per ricordare che in realtà le sorelle non avevano scelto lui come esempio, ma attraverso il suo esempio avevano scelto Dio. Chiara morì nel 1253, ed è oggi una delle sante più popolari e più amate.
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ALLA CROCIATA Nell’anno 1213 il papa Innocenzo III annuncia la crociata per far tornare i cristiani nei luoghi santi; nel 1219 Francesco si imbarca per l’Oriente in compagnia di Pietro Cattani e un mese dopo è fra i crociati che assediano la città di Damietta, in Egitto. Era intenzionato a predicare il Vangelo sia ai crociati che ai musulmani: difficoltà e rischi non lo spaventavano. Ciò che lo turbò fu la violenza dei combattimenti. Si trovò ad assistere ai preparativi
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di una battaglia, ed ebbe da Dio la rivelazione che i cristiani sarebbero stati sconfitti: li esortò allora a non combattere, ma nessuno lo ascoltò e la battaglia ebbe davvero esito disastroso per i crociati. Ancora peggio fu ciò che accadde quando l’esercito cristiano conquistò Damietta, e si abbandonò a violenze di ogni tipo. Molti si sono chiesti perché Francesco abbia affrontato esperienze così tempestose: gli uomini, probabilmente pensava, hanno necessità di
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ascoltare la parola del Vangelo in ogni occasione. Anche quelle crudeli. Una delle massime evangeliche care a Francesco era questa: “Non quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma gli ammalati�.
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FRANCESCO E IL SULTANO L’esperienza centrale in Terra Santa fu la visita
al sultano al-Kamil. Abbiamo diversi racconti di questo evento straordinario: tutti concordano nei punti principali. Francesco, accompagnato da un frate di nome Illuminato, si recò al campo arabo. I soldati presero i due e li malmenarono; Francesco allora si mise a gridare: “Soldan! Soldan!”, per fare intendere che voleva essere portato alla presenza del sultano. Il che accadde. Al-Kamil trattò gentilmente i frati, obbedendo alle leggi islamiche dell’ospitalità. Il raffinato sultano si trovò di fronte un piccolo uomo vestito di tela di sacco, dagli occhi scintillanti, che parlava – certamente senza farsi ben capire – di Dio. Indovinò in lui un saggio asceta o, come dicono gli islamici, un sufi. Non a caso il
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termine sufi, che indica il sapiente religioso, vuol dire “incappucciato”, così com’era Francesco. Qualcuno sospetta che l’abbia semplicemente scambiato per un pazzo che metteva a rischio la propria vita: ma l’Islam condivideva con il cristianesimo il rispetto per il “folle di Dio”. Comunque sia, Francesco venne trattato con riguardo, e tornò al campo cristiano con i doni del sultano. C’è chi ritiene che un episodio così singolare sia totalmente inventato: abbiamo invece una testimonianza dall’altra parte. Al Cairo, sulla tomba di un mistico islamico consigliere di al-Kamil, viene ricordato l’incontro con il “famoso monaco cristiano”. Nel 1220, circa un anno dopo il suo imbarco, Francesco torna in Italia. Non lo aspettava uno scenario tranquillo.
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LE STIMMATE Francesco tornò dai luoghi santi in cattive condizioni di salute. Chiamò i suoi fratelli, disse loro che sarebbe rimasto come guida spirituale, non come direttore e organizzatore. Indicò come capo Pietro Cattani: da quel momento, dovevano obbedire a lui. Non fu così semplice: Cattani morì poco dopo, e la Chiesa intervenne scegliendo una sorta di tutore nella persona del cardinal Ugolino, che sarebbe poi divenuto papa. Non furono momenti belli per Francesco: all’interno della confraternita erano ormai in tanti a premere per una vita meno severa, per maggiori aperture al mondo. Molti di loro, è bene ri-
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cordare, non avevano mai neppure conosciuto Francesco. Addirittura tentarono di fondare, a Bologna, una… università! Era troppo per il poverello di Assisi, che ebbe uno dei suoi rarissimi momenti di ira. Noi dobbiamo cercare di vedere le cose con i suoi occhi. Francesco non era un retrogrado. Pensava, però, che un frate colto si sarebbe sentito superiore al contadino analfabeta. Egli vedeva, nella cultura di pochi, una divisione, esattamente come quella della ricchezza. A Francesco rimaneva La Verna. Vi soggiornò sempre più spesso, in compagnia di pochi fratel-
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li, di cui il più caro e fedele era frate Leone. In quell’eremo sperduto, fra alberi e rocce, quell’omino stanco e malato era felice. Si alzava all’alba, ed estatico accoglieva il sorgere del sole. Il sole non faceva distinzioni: illuminava il bosco, gli animali, le semplici capanne degli eremiti. Fu a La Verna che Francesco ebbe le stimmate. Accadde durante una visione, che ci viene raccontata da San Bonaventura, che fu ministro generale dei francescani pochi anni dopo Francesco. Ecco le sue parole: “Gli apparve un uomo in vesti di serafino, confitto a una croce. A quell’apparizione si sentì ripieno di viva gioia per lo sguardo bellissimo del serafino, ma era anche atterrito
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nel vederlo inchiodato in croce nel dolore della passione”. I serafini sono creature celesti vicine a Dio: Francesco nel serafino aveva visto il Cristo crocifisso. Il racconto continua: “Nelle mani e nei piedi cominciarono a comparire gli stessi segni dei chiodi che aveva appena visto in quel misterioso uomo crocifisso”. Francesco fu il primo stigmatizzato della storia cristiana. Alcuni frati videro le sue piaghe, che a volte, in certe ricorrenze, sanguinavano. Oggi la scienza medica riconosce le stimmate, anche se non le può spiegare. Il santo più conosciuto da noi che ebbe le stimmate è San Pio da Pietrelcina.
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L’ULTIMO VIAGGIO La salute di Francesco peggiorava continuamente. Per una malattia agli occhi era quasi cieco; dolori acuti lo colpivano allo stomaco; una malattia chiamata idropisia gli gonfiava gambe e piedi. Anche le stimmate gli procuravano dolore. In quelle condizioni, non poteva piÚ rimanere a La Verna. Con pochi compagni si mise in viaggio, su un
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asinello. Dalla Verna attraversò i boschi dell’Appennino toscano, a piccole tappe fino al castello di Montauto, dove si fermò tre giorni. Poi passò da Anghiari e da Borgo Sansepolcro per raggiungere Assisi. Le testimonianze ci dicono che il suo colloquio con Dio era continuo. Attraversò Sansepolcro senza vederla; poi chiese quando vi sarebbero arrivati. Una vera folla lo accolse in Umbria. Ad Assisi temettero che i perugini volessero prenderlo, come una reliquia vivente, e lo fecero scortare dai soldati. Lo portarono da medici famosi a Rieti, Cortona, Siena, senza alcun successo. Chiese di ritirarsi alla Porziuncola, e lì morì. Era l’anno 1226: Francesco aveva solo 44 anni.
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Da allora, la sua fama non ha fatto che crescere. Anche oggi continuamente ci si occupa del Poverello, su ogni mezzo, dai libri alla televisione. Di lui ci sono rimaste tante storie e testimonianze, ma anche opere di suo pugno. Varie lettere, il Testamento, ma soprattutto il Cantico di Frate Sole, chiamato anche Cantico delle Creature, che lo ha fatto considerare il primo poeta in lingua italiana. Sono solo quattordici versi, ma ci trasmettono in modo commovente la sua visione. Francesco loda il Signore per il sole, per la luna e le stelle, per il vento, per l’acqua e il fuoco, ma lo loda anche per il dolore e le tribolazioni. Il Signore, ci ha detto sempre Francesco, non distingue.
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