Dal Catalogo Jaca Book
A CURA DI TANIA VELMANS
T. Velmans, A. Alpago Novello L’ARTE DELLA GEORGIA 1996 M.A. Crippa, M. Zibawi L’ARTE PALEOCRISTIANA VISIONE E SPAZIO DALLE ORIGINI A BISANZIO 1998
DA BISANZIO A ISTANBUL
E. Carbonell Esteller, R. Cassanelli (a cura di) IL MEDITERRANEO E L’ARTE. DA MAOMETTO A CARLOMAGNO 2001 M. Piccirillo L’ARABIA CRISTIANA 2002 E. Carbonell Esteller, R. Cassanelli, T. Velmans IL RINASCIMENTO TRA ORIENTE E OCCIDENTE 2003 G. Curatola, G. Scarcia IRAN L’ARTE PERSIANA 2004 W. Raunig ETIOPIA STORIA, ARTE, CRISTIANESIMO 2005 T. Velmans L’ARTE MONUMENTALE BIZANTINA 1999/2006 G. Curatola (a cura di) IRAQ L’ARTE DAI SUMERI AI CALIFFI 2006 S. Korunovski, E. Dimitrova MACEDONIA L’ARTE MEDIEVALE 2006 G. Passarelli CRETA TRA BISANZIO E VENEZIA 2007 R. Cassanelli e J. Sureda (a cura di) L’ARTE OCCIDENTALE EUROPA, MEDITERRANEO E MONDO CONTEMPORANEO 2008 G. Curatola TURCHIA L’ARTE DAI SELGIUCHIDI AGLI OTTOMANI 2010 T. Velmans L’ARTE DELL’ICONA 2013 In copertina Una veduta aerea della monumentale moschea di Ahmed I, conosciuta anche come moschea Blu.
DA BISANZIO A ISTANBUL A CURA DI TANIA VELMANS
Unico nel suo genere, il volume mette in luce la peculiarità delle grandi stagioni della metropoli del Bosforo. Quella romana, con la sua trasformazione in capitale dell’Impero d’Oriente, quella bizantina, capitale di un commonwealth mediterraneo e balcanico e centro di diffusione del cristianesimo ortodosso, come una seconda Roma. Infine quella ottomana, capitale di un impero turco che dominò per secoli anche sul Mediterraneo arabo e islamico e sui Balcani, sino alle porte di Vienna. L’opera mette in luce anche le continuità di forme artistiche nell’estrema diversità dei periodi, anzitutto il capolavoro dell’architettura cristiana dei primi secoli, Santa Sofia, che farà da modello alle moschee degli ottomani e al genio architettonico rinascimentale di Sinan. La grande arte paleocristiana e bizantina vedrà il suo seguito nell’ornamento turco ottomano. Nel mondo islamico, infatti, gli ottomani non saranno aniconici, in quanto figli di una Costantinopoli in cui si svolse la guerra iconoclasta e in cui le immagini prevalsero. Nell’800 la città diverrà culla internazionale della fotografia e vedrà lo sviluppo delle immagini riproducibili. TANIA VELMANS si è formata con André Grabar ed è una delle maggiori specialiste di pittura murale bizantina. È Directeur de Recherche al CNRS di Parigi e responsabile seminariale presso l’INALCO (Institut National des Langues et Civilisations Orientales), membro corrispondente dell’Accademia Europea delle Scienze, delle Lettere e delle Arti e autrice di numerose opere sull’arte e la civiltà del mondo bizantino. Con Jaca Book ha pubblicato: L’arte della Georgia (in collaborazione con A. Alpago Novello), 1996; Bisanzio. Lo splendore dell’arte monumentale (in collaborazione con V. Korac, M. Suput), 1999; L’arte monumentale bizantina, 2006 2; Il viaggio dell’icona. Dalle origini alla caduta di Bisanzio, 20082; Il Rinascimento in Oriente e Occidente (con E. Carbonell Esteller e R. Cassanelli), 2003; Il colore nell’arte (con I. Bargna, R. Cassanelli, C. Kontler, G. Curatola, R. Lightbow, A. Vettese, G. Zanchetti), 2006; L’arte bizantina, 2007; La visione dell’invisibile, 2009; L’arte dell’icona, 2013. Ha contribuito al volume Il Mediterraneo e l’Arte. Da Maometto a Carlomagno (a cura di E. Carbonell, R. Cassanelli), 2001. Contributi di: VITTORIO FRANCHETTI PARDO, EUGENIO RUSSO, MAURO DELLA VALLE, ÇIGDEM KAFESCIOÉLU, GIOVANNI CURATOLA, ROBERTO CASSANELLI.
www.jacabook.it ISBN 978-88-16-60525-1
Sul retro La navata centrale della basilica di Santa Sofia.
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R. CASSANELLI, G. CURATOLA, M. DELLA VALLE, V. FRANCHETTI PARDO, Ç. KAFESCIOÉLU, E. RUSSO, T. VELMANS
$! BISANZIO ! ISTANBUL A cura di TANIA VELMANS
International Copyright, 2015 Editoriale Jaca Book S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati
Indice
Traduzioni di: Lucia Mezzetti per il contributo di Ç. Kafescioélu, dall’inglese; Chiara Formis per l’introduzione e il contributo di T. Velmans, dal francese
INTRODUZIONE p. 7 Crediti fotografici AKG/Electa: 71, 144. Angelo Stabin: 178. Archivio Jaca Book: 21, 40, 69, 73, 89, 91, 94-101, 103, 104, 107-115, 118-125, 128-132, 135, 136, 140, 142, 143, 152-156, 160, 185, 238, 244-246, 271-275, 295. Archivio Jaca Book/Arnaldo Vescovo: 52, 53, 298, 307-309, 313-316, 318, 319, 322-325. The Art Archive/Gianni Degli Orti: 72. Bams Photo – Rodella: 59, 105, 116, 117, 141, 145, 146, 149-151. Bams Photo – Vision: 8, 190, 222, 267. Bibliothèque Nationale de France, Cabinet des Medailles: 106, 157, 158. The Bridgeman Art Library /Archivi Alinari: 13, 32, 67. CameraPhoto Arte, Venezia: 9, 50, 51, 78. Cigdem Kafescioglu: 186, 189, 197, 198, 202-204, 218, 221, 223, 226, 227, 231. Civico Archivio Fotografico, Milano/Luca Postini, tutti i diritti riservati: 276-290, 292-294. ©Dumbarton Oaks, Byzantine Collection, Washington D.C.: 93. Foto Scala, Firenze: 81, 82. Foto Scala, Firenze/Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz, Berlino: 126, 217. f2f studio, Roma: 68. Giovanni Curatola: 243, 252, 263. Istanbul University Library: 209. Köprülü Library, Istanbul: 199, 213. Kunsthistorisches Museum, Wien: 6. Luca Mozzati, Milano: 10-12, 14-16, 19, 20, 22-29, 31, 33-39, 41- 49, 54- 58, 60-66, 70, 74, 76, 80, 83, 84, 92, 102, 127, 133, 134, 137, 138, 159, 161, 165, 167-172, 174, 175, 177, 179, 180-182, 191, 193-196, 200, 214, 224, 225, 230, 232-234, 237, 239, 240-242, 247-251, 253, 256-262, 264-266, 268-270, 296. Mauro della Valle: 162-164, 166, 173, 176, 183, 317. Max Mandel: 75, 77, 85, 139, 147, 148, 254, 255. ©Museo Nazionale Svizzero, Zurigo: 87. Museo Civico, Barletta: 30. Nicolò Orsi Battaglini, Firenze, su concessione del Ministero dei Beni e le Attività Culturali: 88. Österreichische Nationalbibliothek, Wien: 188, 206, 207, 210-212. ©Piero Pozzi, Monza: 291. Statens Museum for Konst den Konelige Kolberstiksammling, Copenhagen: 205. Topkapı Palace Museum Library: 192, 220, 228, 229. Trinity College, Cambridge: 17, 18, 219. Universitäts- und Landesbibliothek, Düsseldorf: 201. Universiteits Bibliotheek, Leiden: 187, 215, 216, 235. Le carte e i disegni 1, 2, 3, 4, 5, 7, 79, 86, 90, 184, 208 sono di Daniela Blandino, Milano.
DA BISANZIO A COSTANTINOPOLI. PROFILO STORICO-URBANISTICO DELLA CAPITALE IMPERIALE: DALLE ORIGINI A GIUSTINIANO Vittorio Franchetti Pardo p. 13 COSTANTINOPOLI ARCHITETTURA E SCULTURA NEI PRIMI SECOLI Eugenio Russo p. 39 LA PITTURA BIZANTINA MOSAICI, AFFRESCHI, ICONE, MINIATURE Tania Velmans p. 109 ARCHITETTURA E SCULTURA FINO AL 1453 Mauro della Valle p. 219 LA CAPITALE DELL’IMPERO OTTOMANO ISTANBUL TRA XV E XVIII SECOLO Çiédem Kafescioélu p. 251 ARCHITETTURA RELIGIOSA OTTOMANA Giovanni Curatola p. 321 L'AUTUNNO DI COSTANTINOPOLI TRASFORMAZIONI URBANE E IMMAGINE DELLA CITTÀ NEL XIX SECOLO Roberto Cassanelli p. 373 Documentazione complementare p. 395 Note e Bibliografia p. 403
ISBN 978-88-16-60525-1 Per informazioni: Editoriale Jaca Book Via Frua 11, 20146 Milano Tel. 02/48561520 – fax 02/48193361 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
INTRODUZIONE
La favolosa città di Costantinopoli, centro dell’Europa culturale e politica fino al XIII secolo, non è nata dal nulla con l’arrivo di Costantino I e la divisione dell’Impero romano in due parti, occidentale ed orientale, nel 324. Di solito ci si occupa poco di questo passato senza particolare splendore che, tuttavia, ha avuto la sua importanza. Quando i Romani ne avviarono l’urbanizzazione inserendola nell’impero, la popolazione dell’antica città di Bisanzio era formata in gran parte da Greci. Distrutta da Settimio Severo (193-195) per motivi politici, e da lui in seguito ricostruita, ebbe un’agorà, delle terme, un ippodromo, oltre ad una grande piazza quadrata circondata da portici (il Tetrastoon). Queste costruzioni – assieme ad alcune altre – furono determinanti per la disposizione delle principali vie di scorrimento, delle pubbliche piazze, del palazzo e di alcuni importanti edifici della futura Costantinopoli. Quando quest’ultima venne fondata da Costantino I, l’imperatore diede inizio a colossali lavori: l’antico ippodromo fu allargato e ornato di statue e dalla sua posizione derivò anche quella del palazzo imperiale che doveva essere vicino al circo per ragioni cerimoniali. La grande arena non ospitava solo i giochi atletici ma, a volte anche scontri politici. Il sovrano assisteva dal suo palco – grande come una casa – e a volte scendeva personalmente, in ogni caso la vittoria era assegnata a lui. L’antica acropoli al contrario fu abbandonata, come pure l’agorà romana, perché il centro della città si spostò nei luoghi frequentati dall’imperatore, come il foro di Costantino la cui forma circolare aveva significato simbolico: si trattava
infatti di una rappresentazione dell’Oceano inteso come confine del mondo. La sua colonna di porfido era sormontata dalla statua dorata dell’imperatore che, così, regnava sull’infinito. All’interno e all’esterno della città furono costruiti molti martyria, fra cui la chiesa dei Santi Apostoli, collegata al mausoleo di Costantino dove il suo sarcofago, posto al centro della sala funeraria, era circondato dalle stele dei dodici apostoli. Il significato di questa disposizione era duplice: da un lato, l’imperatore si identificava così col Cristo del quale era il rappresentante sulla terra, dall’altro, si garantiva l’intercessione dei discepoli nell’ultimo giorno. Malgrado la forte impronta cristiana che la città assunse rapidamente, essa conservò per il momento gli antichi templi perché i culti pagani erano tollerati, cosa che, evidentemente, non accadeva più ai tempi di Teodosio. Nell’attesa, il cristianesimo instaurato da Costantino si presentava come un culto imperiale, non come una religione di Stato. Questo aspetto della cristianizzazione fu determinante per il controllo che l’imperatore esercitò sulla Chiesa e che, del resto, si affermò a partire dal 324, quando Costantino convocò e presiedette il concilio di Nicea che radunava a Costantinopoli tutti i vescovi dell’Oriente cristiano. Dopo la morte di Costantino la città continuò a svilupparsi rapidamente. Fra le novità più importanti erano le terme di Costanzo II, un sofisticato sistema di canalizzazioni completato, in un secondo momento, dalla grande cisterna “dalle mille colonne” (Bin bir Direk). Importanti lavori furono fatti anche dai successori di Costantino sulle mura di7 cinta, le strutture portuali, gli spazi pubblici, per non par-
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lare della fondazione quasi ininterrotta di chiese. A partire dal VI secolo – che coincide col regno di Giustiniano – Costantinopoli divenne la splendida città “senza pari” che i cronisti occidentali scoprirono pieni di stupore. Grazie alla sua straordinaria rete stradale e alla sua flotta, la sua potenza e il suo splendore non avevano eguali. Le sue enormi ricchezze derivavano in gran parte dai commerci fra Oriente ed Occidente; quanto al prestigio, nasceva dalla struttura urbana, dall’aspetto grandioso e al tempo stesso armonioso dell’architettura, dalla perfezione delle opere d’arte, dalle tante reliquie e oggetti d’oro e d’argento che riempivano le chiese e, infine, dal livello di civiltà che caratterizzava i suoi abitanti i quali avevano saputo conservare i valori culturali dell’Antichità. Le cerimonie solenni di inaudito splendore che vi si svolgevano avevano letteralmente gettato a terra per lo stupore gli ambasciatori avari, ricevuti da Giustiniano II nel 565, tanto da far dire loro che il palazzo era “un altro cielo”. Di fatto, non erano tanto lontani dal vero, visto che l’imperatore si poneva in una sfera intermedia fra l’umano e il divino e che tutto ciò che lo riguardava era sacro, compresa la sua immagine. Dal canto loro, i Bizantini consideravano gli occidentali come dei barbari, e non si meravigliavano vedendoli mangiare con le mani, mentre essi si servivano di forchette d’oro. Nel VI secolo Santa Sofia, simbolo dell’impero, raggiunse la sua forma definitiva e nello stesso periodo a Costantinopoli lo stile della pittura giunse alla piena maturità. Tutte le novità introdotte nel corso dei secoli fiorirono in questa città-faro che riuniva in sé tutti i poteri e tutti i talenti. Lo stile bizantino, sotteso dal messaggio dei Padri della Chiesa, aveva portato alla smaterializzazione del corpo e del viso umano e alla rinuncia ad ogni particolare realistico del campo figurativo. I personaggi erano rappresentati attraverso un disegno lineare che tendeva all’astrazione, ma tutte le forme rimanevano estremamente gradevoli all’occhio, proiettate su sfondi d’oro vasti e vuoti, simbolo delle luce celeste. Questo stile si prolungò con poche modifiche fino al XII secolo, come dimostrano i mosaici delle chiese di Ravenna, del Monte Sinai, di Tessalonica, realizzati da artisti costantinopolitani, come pure quelli di Santa Sofia. Se è vero che conosciamo l’arte profana monumentale solo attraverso testimonianze scritte, alcuni splendidi oggetti, come dittici d’avorio e vasi d’argento, narrano a modo loro i fasti del palazzo. Quanto alle decorazioni pittoriche, delle quali abbiamo parlato sopra, ad esse dobbiamo aggiungere le icone provenienti dalla capitale e disseminate nel mondo intero, i manoscritti illustrati, i piatti scolpiti degli evangeliari, i calici e le patene in metalli preziosi ornati da medaglioni in smalto con figure di santi, di Cristo e della Vergine, ma anche dell’imperatore e dei suoi congiunti. Nessun’arte figurativa ebbe mai, a mio parere, ambizioni più alte di quella di Bisanzio. Essa era considerata come
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una via che conduceva alla conoscenza di Dio e garantiva il pieno compimento spirituale del cristiano. Dopo la crisi iconoclasta e la vittoria delle tesi dei difensori delle icone, si pensava infatti che le immagini fossero misticamente collegate ai personaggi sacri che rappresentavano. Non solo, esse avevano un valore storico perché Cristo aveva lasciato l’impronta del suo volto su un panno, il Mandylion o Volto Santo, e la Vergine era stata ritratta dal vivo da san Luca, mentre i ritratti dei santi erano stati realizzati secondo le visioni che ne avevano avuto alcuni “uomini degni di fede”. La vittoria degl’iconoduli nell’843 non solo portò a compimento il processo di sacralizzazione delle immagini e dei loro prototipi, ma ebbe anche notevoli ripercussioni sull’iconografia. Ciascuna scena aveva ormai una collocazione fissa e simbolica nella chiesa e il programma iconografico, assolutamente coerente, appariva, per l’evidenza del suo messaggio, come una proclamazione solenne. Gli episodi evangelici furono completati da quelli dell’Antico Testamento che ne erano considerati la prefigurazione, oltre che da temi che evocavano direttamente la liturgia. La figura del male, la deformazione del corpo umano, lo stesso diavolo – così frequente nelle chiese romaniche o gotiche – non compaiono in questi dipinti, ad eccezione della discreta presenza di quest’ultimo nel Giudizio finale, nella Discesa agl’Inferi dove è rappresentato in catene, e nelle Tentazioni di Cristo nel deserto. Si dava invece risalto alle immagini della redenzione, fra cui la Déesis, cioè la preghiera d’intercessione che la Vergine e san Giovanni rivolgono al Signore per il perdono del genere umano. Un’altra importante novità derivava dalle dottrine dei difensori delle immagini i quali avevano messo l’accento sull’Incarnazione per dimostrare che il Cristo era rappresentabile. Fedeli a questo dogma, gli artisti ne umanizzarono l’immagine attribuendo sentimenti umani al Salvatore. L’iconografia delle scene della Passione fu modificata in questo senso mentre, a partire dal X-XI secolo, ma soprattutto nel XII, si affermava un nuovo umanesimo tanto nelle lettere che nelle arti. Più o meno nello stesso periodo l’iconostasi di legno, vero muro d’icone che chiudeva il santuario, prese il posto delle antiche transenne basse, di pietra o muratura. Questo stile raggiunse la sua compiuta espressione classica alla fine del X e nell’XI secolo. Costantinopoli non ha conservato decorazioni monumentali di questo periodo, ma i suoi artisti realizzarono alcuni capolavori a San Luca nella Focide, a Dafní, Chio (in Grecia), mentre diversi manoscritti illustrati a Costantinopoli nel IX e X secolo, attualmente conservati nelle biblioteche d’Europa e d’America, sono la dimostrazione di come gli artisti fossero in grado d’ispirarsi a modelli molto diversi con la stessa disinvoltura. Il Tesoro di San Marco a Venezia e altri musei ci possono dare un’idea del grado di perfezione raggiunto dall’oreficeria realizzata nelle botteghe imperiali.
Il secondo evento che ebbe conseguenze sull’evoluzione della pittura fu la peggiore delle catastrofi: la presa di Costantinopoli da parte dei Latini nel 1204. Il trauma psicologico che sconvolse i Bizantini si può capire solo sapendo che l’impero millenario era stato fondato da Cristo e che sarebbe scomparso solo alla fine di tempi. Cristo era anche, assieme alla Vergine, il protettore della capitale. Il saccheggio dei palazzi e delle chiese ad opera dei vincitori fu causa di profanazioni che turbarono profondamente lo spirito dei greci. Tuttavia, tali violenze provocarono anche una formidabile reazione di natura culturale a Nicea, la nuova capitale dove si erano rifugiati la corte, i prelati, gli uomini di lettere e gli artisti in fuga da Costantinopoli. Per rifarsi dell’umiliazione subita, i Bizantini si attribuirono le opere dell’Antichità esaltando così il proprio glorioso passato. A detta di un contemporaneo Nicea divenne la nuova Atene, dove si discutevano i testi degli antichi e se ne ammiravano le opere d’arte delle quali non si temeva più, come in passato, lo spirito pagano. Fu così che fiorì la straordinaria rinascenza detta dei Paleologhi, che fuse tradizione e prestiti dalle opere ellenistiche. Tale rinascenza, nata a Nicea grazie all’emigrazione costantinopolitana, si manifestò dapprima a Tessalonica, in Serbia e in Macedonia, dove furono chiamati alcuni artisti della capitale bizantina i quali, dopo l’arrivo dei Latini, non trovavano più abbastanza lavoro in patria. Quando, nel 261, Costantinopoli ritornò bizantina, ci si affrettò ad abbellirla con nuovi monumenti, dei quali purtroppo resta ben poco. La rinascenza nella pittura fu ricca d’innovazioni, la più importante delle quali fu la ricerca del volume dei personaggi, sostituendo la linea, fino a quel momento sovrana, col modellato, mentre il movimento e l’emozione contenuta presero il posto della serena impassibilità del passato. Gli sfondi furono occupati da architetture la cui funzione era di dare alle composizioni un minimo di profondità. Quanto ai programmi iconografici, furono notevolmente arricchiti per influenza della liturgia. Di questo periodo (XIII-XV secolo) Costantinopoli conserva molte decorazioni monumentali, fra cui quella della Fethiye Camii, del monastero di Cristo Salvatore in Chora o Kariye Camii, o ancora la Déesis di Santa Sofia. Altre, realizzate da pittori costantinopolitani, si trovano in Serbia e Macedonia, in Grecia, a Trebisonda, in Russia e nella periferia orientale del mondo bizantino. A partire dalla fine del XIV secolo, l’impero declinò e s’impoverì rapidamente, cosa che, tuttavia, non gl’impedì di avere ancora dei grandi artisti e una notevole influenza nel mondo. Certo, questa era stata più importante nel passato, quando si estendeva su tutta l’Europa malgrado lo scisma che aveva diviso la Chiesa d’Oriente da quella di Roma e l’odio reciproco che ne era seguito. Comunque, sul finire del XIV secolo, troviamo modelli costantinopolitani identificati
con certezza in Romania, mentre si riscontra un’accresciuta influenza dell’arte della capitale bizantina in Georgia oltre alla presenza, in Russia, di un geniale pittore greco. Dopo aver chiesto invano l’aiuto dell’Occidente, Costantinopoli fu presa dalle armate ottomane (1453), l’impero cessò di esistere e le regioni dei Balcani, abitate dagli Slavi, caddero a loro volta in mano ai Turchi. Tuttavia, l’ortodossia e l’arte bizantina sopravvissero a questo diluvio e pittori ed architetti continuarono a creare opere di innegabile valore estetico. Quanto a Costantinopoli, luogo mitico se mai ve ne fu uno, doveva rinascere dalle proprie ceneri col nome che le diedero i nuovi dominatori: Istanbul. Così, mentre l’Italia metteva a punto la prospettiva lineare aprendo la via al Rinascimento, e nei Paesi Bassi Van Eyck scompariva dopo aver inventato la pittura ad olio, la città in rovina sul Bosforo diventava la capitale dello stato ottomano. La popolazione fu islamizzata, le chiese rimaste in piedi, come Santa Sofia o Kariye Camii, divennero moschee ed acquistarono una nuova forma con l’aggiunta di minareti, mentre affreschi e mosaici furono ricoperti di stucco. Ben presto la città ebbe simboli e luoghi sacri musulmani. Ci si affrettò infatti a trasportarvi l’impronta del piede del profeta e a “scoprirvi” la tomba del compagno di Maometto morto davanti alle mura di Costantinopoli durante l’assedio arabo del 673-677. Nel XVI secolo la moschea raggiunse la pianta e la forma definitive con un ampio cortile interno, una navata centrale la cui cupola era sorretta da quattro pilastri, una sala di preghiera, un portico, un mihrab orientato verso la Mecca e uno o più minareti alle entrate. Gli architetti musulmani trassero ispirazione da edifici di culto bizantini che avevano sotto gli occhi, in particolare da Santa Sofia, come è evidente già nella moschea di Uç Şerefeli di Edirne (XV secolo). Ben presto alla moschea propriamente detta si aggiunsero degli ambienti destinati ad ospitare i pellegrini, soprattutto le comunità mistiche come quelle dei sufi. La moschea di Selim I (il Crudele, 1512-1520), costruita sul Corno d’Oro, è uno dei monumenti principali di Istanbul, ma la città fu arricchita di splendide moschee soprattutto durante il regno di Solimano il Magnifico (1520-1566). Questo sovrano conquistatore, che condusse campagne militari in Ungheria e in Transilvania, giungendo in seguito fino alle porte di Vienna, promosse anche un notevole sviluppo urbanistico di Istanbul che la sua politica di estensione territoriale trasformò in un centro cosmopolita e pullulante d’innovazioni. Il principale artefice del fiorire dell’architettura ottomana in questo periodo fu il famoso Yusuf Sinan (1538-1588), nato in una famiglia cristiana dell’Anatolia ed arruolato (probabilmente a forza) nel corpo militare dei giannizzeri. Dopo aver costruito un ponte in dieci giorni durante la campagna di Moldavia, fu nominato capo architetto iniziando così la sua folgorante carriera. La sua
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Giza Aree di maggior influenza artistica e culturale bizantina
1. La posizione geografica della città tra Europa ed Asia ed il suo ruolo di centro di diffusione artistica e culturale tanto in età bizantina che ottomana.
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Mehmed Agha, come lui di origini cristiane ed arruolato nel corpo dei giannizzeri il quale, come la maggior parte degli architetti dei secoli seguenti, risentì dell’influenza di Sinan. Ahmed I gli affidò la costruzione di una moschea con tutte le dipendenze che abbiamo enumerato sopra le quali si aggiunsero un ospedale, un bagno turco, una fontana pubblica e un mausoleo. Per questo grande complesso l’architetto derivò dal suo illustre predecessore la cupola centrale a struttura geometrica (piramidale?), la forma di tutte le coperture, i minareti alti e snelli. L’interno ha una decorazione in ceramica azzurra da cui deriva l’attuale denominazione di “moschea blu”. L’edificio è fiancheggiato da sei minareti. Così l’Impero ottomano trasformò l’antica capitale bizantina ma, grazie al talento del grande Sinan, la trasformazione era a sua volta ispirata da Bisanzio. La città ebbe anche palazzi, strutture commerciali e acquedotti. La maggior parte di queste costruzioni furono edificate nelle stesse aree di monumenti o siti bizantini. Così il palazzo sorse sull’acropoli – il Vecchio Palazzo – mentre la moschea di Mehmed II e le sue dipendenze si trovavano nei pressi di Santa Sofia. Le istituzioni caritatevoli erano particolarmente numerose. Un’altra caratteristica di Istanbul fu il suo aspetto a compartimenti, “cellulare”, che nasceva dal fatto che le diverse etnie – Turchi, Greci ortodossi, Ebrei, Occidentali cattolici, Armeni e Tzigani – vivevano riuniti in quartieri definiti. A parte i nomadi tzigani, questa popolazione eterogenea abitava in case di legno e fango secco nelle quali il secondo piano era spesso in aggetto, sorretto da travi. I punti nevralgici della città erano il bazar coperto ed il porto attorno ai quali si ammassavano caravanserragli e magazzini. Rispetto al XVI, il XVII secolo realizzò un minor numero di grandi edifici urbani: nella città ci furono sommosse, incendi, mentre il potere era meno stabile che in passato. Tuttavia si continuò a costruire e rinnovare. Agli edifici comuni disposti attorno alla moschea si aggiunsero fontane pubbliche (sebil) di forma rotonda e dei mausolei per i fondatori. Alcune costruzioni minori formarono il Divan Yolu, l’arteria principale della città lungo la quale nel XIX secolo si raggrupperanno anche numerose madrase. Naturalmente sorsero nuove moschee (per esempio quella di Eminönü) e vennero aggiunti padiglioni e giardini al palazzo Topkapı. Nelle zone residenziali si moltiplicarono i conventi dei sufi, mentre le ambasciate straniere si trovavano nelle “Vigne di Pera”. Accanto ai bagni e ai mercati – spazi laici di scambi aperti sia agli uomini sia alle donne – comparvero i caffè, frequentati esclusivamente dalla po-
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immensa opera è registrata in maniera incerta e comprende fra 200 e 477 costruzioni di ogni genere: acquedotti, edifici pubblici e moschee, una sessantina dei quali conservati. Il genio di Sinan consiste in una felice sintesi tra architettura bizantina, georgiana, armena e balcanica. Egli costruì moschee a pianta centrale coperte da una cupola, articolate con sapienza e arte e splendidamente illuminate. La sua opera coincide con la massima espansione dello stato ottomano e deve essere considerata come il punto culminante dell’architettura monumentale della città. Alcune delle moschee costruite da lui comprendevano, oltre gli ambienti già ricordati, una madrasa (scuola coranica), un ospizio, una scuola elementare, un giardino strettamente collegato a questi edifici, infine una fontana al centro di una corte quadrata. È all’incirca quello che troviamo nella fondazione di Şehzade – voluta dal sultano – la cui cupola centrale è fiancheggiata da quattro semicupole. Ma la più importante moschea costruita a Istanbul fu senza dubbio quella che Sinan edificò per Solimano il Magnifico, la Süleymaniye che, accanto al significato religioso, aveva lo scopo di celebrare i trionfi militari del sultano. Perciò sorse come un miraggio in mezzo a giardini e ad un cortile con ventiquattro colonne di marmo, in parte recuperate dall’ippodromo di epoca bizantina, in parte portate da Nicomedia. Qui una fontana quadrata proiettava l’acqua verso l’alto poi la lasciava ricadere sotto forma di pioggia. La sala di preghiera – alla quale si accede da quattro ingressi – è coperta da una cupola che aveva come modello quella di Santa Sofia, ma di dimensioni meno imponenti, ed è armoniosamente circondata da cupole più piccole e da semicupole. Per la decorazione interna della moschea, Sinan ha utilizzato il marmo e, per la prima volta, delle piastrelle di ceramica di Iznik a motivi floreali. I testi coranici, scritti in elegante calligrafia, s’inseriscono in questi ornamenti e, in un certo senso, li completano. Le costruzioni di Sinan modificarono l’aspetto generale della città. Una delle sue moschee, particolarmente luminosa, è quella costruita per Mehmed Paşa con 228 finestre e l’interno rivestito di ceramiche d’Iznik nelle quali dominano il blu e il bianco, con tocchi di porpora e smeraldo. A partire da questo momento, più esattamente da Rosselana, moglie di Solimano il Magnifico, le donne ebbero un ruolo importante come committenti di edifici religiosi e caritativi. Ella fondò una moschea con un ospedale, una cucina per i pellegrini, una madrasa nei pressi della colonna bizantina di Arcadio e un bagno vicino a Santa Sofia e all’ippodromo, dove un tempo erano i bagni di Zeuxippos. Sua figlia fece costruire due moschee con le relative dipendenze e Selim II e la moglie Nurbanu fondarono le più imponenti istituzioni caritative di epoca ottomana. Verso la metà del XVI secolo 37 donatori di opere caritative erano donne. Uno degli architetti più attivi dopo la morte di Sinan fu
Aree di maggior influenza artistica e culturale ottomana
Il Cairo
EGITTO
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polazione maschile. Si formarono anche molte biblioteche e nei palazzi e nelle madrase importanti collezioni di libri. Nel XVIII secolo il fiorire della vita sociale si accentuò e questo periodo – durante il quale si affermò un uovo stile di vita più aperto alla ricerca della bellezza e delle comodità – fu chiamato “l’Era dei tulipani” (1718-1730). Giardini, parchi, padiglioni di delizia, case in riva al mare resero ancora più bella la capitale, mentre lungo il Bosforo si susseguivano i palazzi di proprietà dei sultani e dell’aristocrazia ottomana e le gerarchie religiose e amministrative s’insediavano dalla parte di Galata. Il Corno d’Oro divenne il
teatro di feste notturne e di giochi ai quali la famiglia reale assisteva dai palazzi. Così, malgrado le profonde differenze, fra l’antica Bisanzio, Costantinopoli e Istanbul si può vedere una certa continuità. La civiltà bizantina riuscì a trovare la sua via pur preservando l’eredità antica e traendone ispirazione, e i musulmani stabilitisi sul Bosforo seppero apprezzare quanto restava degli splendori della sua capitale. Ne analizzarono l’architettura e l’adattarono al culto musulmano e agl’ideali ottomani di ospitalità e generosità.
DA BISANZIO A COSTANTINOPOLI. PROFILO STORICO-URBANISTICO DELLA CAPITALE IMPERIALE: DALLE ORIGINI A GIUSTINIANO Vittorio Franchetti Pardo
Tania Velmans
La città originaria Bisanzio è l’ultima tra le colonie megaresi dei territori tra il Bosforo ed il Mar di Marmara (la Propontide) e la sua fondazione risale ad una data (667 a.C. o dopo) successiva di vari anni rispetto a quella di Calcedonia. Ed è un ritardo, questo, che dall’antichità e fino a tempi recenti, è stato in genere considerato inspiegabile: sotto più profili la situazione insediativa di Bisanzio è infatti poi apparsa molto più favorevole di quella di Calcedonia. E vale la pena di ricordare che, proprio per questo motivo, era abitudine consuetudinaria definire i fondatori di Calcedonia come i “ciechi di Calcedonia”. Ma le differenti condizioni geostoriche che hanno guidato le scelte dei luoghi di impianto delle due colonie sul Mar di Marmara (Propontide), rispettivamente di Calcedonia sulla costa asiatica e di Bisanzio su quella europea, forniscono oggi invece una convincente spiegazione di questa apparentemente illogica scelta e sequenza insediativa. Uno studio di Malkin e Shmueli1 ha messo infatti in evidenza come, per navigatori che si immettevano nel Bosforo e che, come i megaresi, disponevano di navigli di dimensione ridotta e di scarsa autonomia, apparisse logica e favorevole (ragioni di venti, di correnti, di maree, di approdi, di rifornimenti ecc.) la scelta di navigare lungo la costa asiatica anziché lungo quella europea. E che, conseguentemente, il luogo migliore per stabilire una nuova colonia era proprio quello dove venne fondata Calcedonia. È dunque solo in un momento successivo, cioè quando ormai tutti i poli insediativi megaresi (non soltanto
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Calcedonia) si erano stabilmente e vantaggiosamente assestati, che risultò utile e possibile fondare la nuova colonia di Bisanzio. Perché la nuova colonia, il cui hinterland era ancora poco interessante, risultava favorevole alle attività della pesca (specialmente dei tonnetti) ed appariva utile inserirla nella rete delle altre colonie dell’area. La Bisanzio megarese non era cioè ancora pensata con riferimento alle direttrici dei percorsi di terra ed agli altri interessi economico-commerciali; né, tanto meno, in vista di funzioni di controllo territoriale. Che, invece, erano proprio gli elementi su cui si basavano le ironie nei confronti della localizzazione di Calcedonia. Guardata con gli occhi degli osservatori più tardi, Bisanzio presentava infatti il vantaggio di trovarsi sul crocevia dei fiorenti traffici e commerci che si erano nel frattempo sviluppati in tutta la regione e si svolgevano sia lungo le direttrici sud-nord, tradizionalmente vivacizzate dalle esigenze dell’approvvigionamento del mondo antico, sia lungo le direttrici est-ovest prescelte e frequentate negli scambi tra le popolazioni europee e quelle dell’Asia minore e centrale. Cioè quelle che, appunto, saranno considerate, ancora o di nuovo, molto importanti nei secoli del tardo impero romano. Sozomeno e Zosimo, storici bizantini del V secolo, riportano che Costantino, prima di scegliere Bisanzio, aveva pensato di stabilire la sua capitale presso Ilio, città situata lungo una di quelle vie. E che, anzi, ne sarebbe già stata avviata la cinta muraria. Anche se non mancano più tardi riscontri testimoniali, l’attendibilità di questa notizia resta tuttora controversa. Interessa però, lo sottolinea un recente studio di La Roc-
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ca2, la circostanza che la vicenda relativa a questa prima idea di Costantino contiene anche la descrizione della sua visita alla tomba di Aiace (oggi non più creduta tale) che richiama l’analoga visita di Alessandro Magno. Vi sarebe cioè un’esplicita intenzione di stabilire un parallelismo tra Alessandro, che dopo quella visita aveva fondato il suo impero, e Costantino, anche lui fondatore di un nuovo sistema imperiale romano. Che tipo di città era la Bisanzio precostantiniana? Con riferimento a ritrovamenti di fine Ottocento e primi Novecento, ma soprattutto agli scavi eseguiti negli anni Cinquanta del ventesimo secolo, già da qualche tempo3 sono stati portati elementi a riprova dell’esistenza di una antica città (dal XIII fino all’XI secolo a.C.), prima forse frigia poi tracia4: cui, in seguito al più generale processo di colonizzazione di età greco-arcaica, si sarebbe sostituita la colonia megarese. Ed è dunque a queste precoci epoche che andrebbe riferito anche un insieme di culti più tardi integrati (con opportuni adattamenti e modifiche) in quelli greci e poi romani5 e dei quali si trovano alcune tracce nei culti successivi. Valga, fra tutti, il toponimo di Zeus-hyppos (cioè la divinità trace del guerriero a cavallo) che diventerà Zeuxippos e che con questa accezione si conserverà fino, se non oltre, all’età severiana e costantiniana. Tutto sta comunque a dimostrare che nella localizzazione della successiva Bisanzio, ed almeno dal VII o VI secolo a.C., vi era stato un insediamento già urbano poi sviluppatosi a lungo e con continuità: con ovvie sovrapposizioni, cambiamenti e sostituzioni. La storiografia è concorde nello stabilire che le differenti fasi urbane di queste età e civiltà più antiche si sarebbero sempre sviluppate in quella parte della città che costituiva l’acrocoro della penisola: dove poi si è stabilita l’acropoli e dove più tardi vennero costruiti i tre templi di Afrodite, Artemide ed Helios-Apollo (in assenza di convincenti ritrovamenti archeologici, ne è stata però discussa, e continua ad esserlo, la rispettiva localizzazione proposta invece in altri luoghi). Ove, scrive Dagron6, continuarono ad essere celebrati i rispettivi culti pagani per più secoli. Cioè sino a quando, sotto Teodosio I, quei templi vennero sconsacrati e destinati a varie funzioni di ordine pratico anche con risignificazioni funzionali simbolicamente negative: ad esempio il tempio di Afrodite venne ridotto a stalla ed in parte ad ospizio di prostitute. Le nostre conoscenze sulla Bisanzio antica ricevono comunque tuttora scarsi aiuti dall’archeologia: è quindi gioco-forza fare riferimento soprattutto alle fonti letterarie anche se queste consentono controverse interpretazioni. Un’accesa discussione concerne il problema se la città greco-romana avesse o no una sua cerchia muraria; e se, in questo caso, essa fossa stata distrutta da Settimio Severo (tra 193 e 195) e poi, da questo stesso imperatore (si pensa per influsso del figlio Caracalla) forse ricostruita e parzial-
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mente modificata ampliandone l’area interna al circuito. Fino a pochi anni fa la primitiva cerchia, detta di Byzas (o con denominazioni simili) è stata ritenuta da molti una concreta realtà: la sua eventuale componente leggendaria (cioè il riferimento a Byzas) riguardava soltanto la figura, questa sì appunto leggendaria, del suo costruttore. Però Mango7, che ripropone tutta la questione sotto altro profilo, nega poi con forza l’esistenza sia della cerchia muraria di Byzas (secondo il circuito che in passato ne è stato ricostruito), sia, soprattutto, di quella di Settimio Severo: che, dice Mango con l’avallo di Müller-Wiener8, non ha costruito alcuna nuova cerchia muraria! Per lo studioso, le mura della città greco-ellenistica (cioè la cosiddetta cerchia di Byzas) dovevano trovarsi più a ovest di quanto di solito si pensi: forse proprio là dove, con qualche modifica di tracciato, esse sarebbero invece state ricostruite tra il 250 e il 260 probabilmente in concomitanza con l’invasione dei Goti9. Dunque (ma la tesi incontra ancora qualche opposizione) dalla Bisanzio ellenistica a quella primo-imperiale, vi sarebbe stata solo una, e sempre la medesima, cerchia muraria. È utile qualche altro cenno sulle caratteristiche di quella città. All’interno delle mura si trovavano, come di consueto, oltre all’acropoli con i templi già indicati e con il circuito murario fortificato10, anche tutte le consuete strutture e infrastrutture cittadine: l’agorà, lo stadio, un edificio termale sul fianco occidentale della dorsale, un teatro su di una conca (un luogo ancora individuabile) posta sul lato orientale: e, ovviamente, l’insieme del tessuto edilizio abitativo e commerciale e così via. Inoltre, e questo è un dato importante, vi erano almeno due porti affacciati sul Corno d’Oro: quelli che in epoca bizantina erano rispettivamente denominati Bosphorion (o Prosphorion) e Néorion. Il primo (a sua volta forse organizzato in due distinti bacini) destinato a funzioni commerciali, il secondo con finalità militari. Che è lo schema, forse più antico e non soltanto greco (anche fenicio?), quasi costantemente adottato nelle città portuali ellenistiche di area anatolica (e più generalmente mediterranea). In prossimità di tali porti era poi situato lo Strategion: un grande e antico spazio pianeggiante, forse l’antica agorà greca11, destinato agli esercizi militari. Un ulteriore sistema portuale (ma più tardo) doveva poi forse trovarsi sulla costa che si affaccia direttamente sul Bosforo. Merita però attenzione riflettere sulla situazione geo-topografica che esisteva almeno fino al II secolo e forse addiritura ancora all’epoca di Costantino. Perché quella situazione non era la medesima di quella attuale. Almeno lungo le coste, rispettivamente, del Corno d’Oro e del Bosforo, vi erano certamente aree paludose o sabbiose che vennero in seguito conquistate alla terra ferma o per effetto di movimenti naturali o mediante opere di riassetto artificiale: e, tra queste ultime, anche il sistema di piattaforme su palafit-
te adottate in queste zone per la creazione di edifici abitativi, o altro, come si dirà più avanti. Anche l’assetto della punta della penisola di Bisanzio-Costantinopoli, nella ricostruzione di Mango12 che si avvale di fonti antiche13, poteva essere in parte diverso: l’aspetto della punta sarebbe stato infatti molto più quello di un acrocoro collegato alla terra da un istmo14, che non quello di una vera e propria penisola quale oggi vediamo. Però altri, prima e dopo di lui15, non hanno interpretato allo stesso modo le stesse fonti. La questione resta dunque ancora aperta. È comunque praticamente certo che il profilo delle coste dovesse presentare insenature molto più numerose e profonde di quanto non risulti oggi, e che anche l’altimetria dei luoghi venne modificata più volte al variare, nel tempo, delle esigenze costruttive e urbanistiche16. È molto importante sottolineare la già ricordata duplice struttura portuale affacciata sul Corno d’Oro. Essa allude infatti chiaramente all’esistenza di intensi rapporti verso l’opposta punta della penisola dell’Asia minore nell’ambito di un contesto territoriale che ci riporta ai traffici commerciali con il mondo greco-ellenistico. L’importanza di queste infrastrutture portuali è del resto comprovata dal fatto che esse erano accuratamente protette. Da terra, cioè dal possibile attacco dei traci, con una cerchia muraria considerata tra le più possenti dell’età ellenistica17 e nella quale si aprivano due porte urbiche. Da mare, secondo la consueta struttura dei livmena kleistav, mediante un sistema di dighe fortificate ed una serie di catene disposte tra i due capi delle dighe a impedire l’accesso alle navi. La città era innervata da tre vie di lungo percorso18: la prima sulla costa meridionale lungo il Mar di Marmara (in sostanza un prolungamento della direttrice della via Egnatia e relativi scali portuali); la seconda sulla dorsale centrale (che per questa sua collocazione sarà detta Mese e che diventerà strada imperiale) e con successiva biforcazione verso nord e verso la piana; la terza sulla costa settentrionale, lungo il Corno d’Oro. Conosciamo infine almeno uno dei percorsi trasversali di collegamento. L’estensione dell’abitato è stata valutata nell’ordine dei 70 ettari; si sa però che all’esterno, al di là delle necropoli19 che bordavano le principali strade extraurbane, vi erano altri numerosi centri e villaggi probabilmente a carattere e ruolo preurbano. Sull’entità della popolazione della Bisanzio tra II e IV secolo d.C. mancano elementi precisi; sono però state fatte stime attendibili20 che valutano nell’ordine di 20.000 gli abitanti della città. Questa cifra indicherebbe, per l’epoca, un insediamento urbano di dimensione medio-grande. Il rifornimento idrico era assicurato da un lunghissimo acquedotto la cui costruzione, secondo alcuni, sarebbe da ascriversi ad Adriano21: che è forse lo stesso più tardi riorganizzato e migliorato da Valente. Ma questa interpretazione è ancora del tutto controversa. L’eventuale coincidenza tra i
due acquedotti, quello adrianeo e quello di Valente, non è infatti né documentata né, a quanto risulta, confermata da riscontri archeologici. Altre fonti di possibile rifornimento erano, all’esterno delle mura, il torrente Lykos, che si gettava in mare nella parte sud della penisola, e, all’interno del tessuto cittadino, soprattutto le numerose cisterne. È comunque certo che la Bisanzio preseveriana era una città a pieno titolo; e che le sue istituzioni pubbliche, cioè un’assemblea popolare, una boulé e un governo autonomo retto da due strateghi22, così come le sue caratteristiche urbanistico-architettoniche, non differivano da quelle delle città ellenistico-romane di tutta l’area.
Le trasformazioni di Settimio Severo e Caracalla: la “romanizzazione” di Bisanzio Malgrado le pur differenziate ipotesi dei vari studiosi, sembra ormai emergere l’importanza, in positivo e in negativo, delle scelte di età severiana. Al punto che, ma la tesi non sembra del tutto convincente, alcuni recenti saggisti presentano Settimio Severo come una sorta di proto-Costantino23. In verità il primo rapporto di Settimio Severo con Bisanzio è a carattere distruttivo. Nella lotta per il trono imperiale, la città aveva preso le parti di Pescennio Nigro; dunque, per questo motivo, essa ha dovuto subire un assedio dell’esercito severiano, durato due anni (193-195), che si è concluso con la distruzione di Bisanzio e la deportazione dei suoi abitanti. Ma già nel 197, forse in seguito all’intercessione del figlio Caracalla24, l’imperatore avviò numerose opere di ricostruzione della città. Anche ridenominata, secondo la diffusa consuetudine romano-imperiale (ma in questo caso senza successo), Colonia Antonina Sebaste appunto in onore dalla casata dell’imperatore. L’atteggiamento tenuto da Settimio Severo verso Bisanzio25 potrebbe sembrare improntato ad una strategia contraddittoria. Perché da un lato l’imperatore declassa territorialmente Bisanzio (prima, con statuto concessole fin dal 74, anche se saltuariamente revocato, era infatti stata città libera dell’antico regno di Tracia sottomesso a Roma) retrocedendola alla condizione di centro periferico e facendone poi una colonia26 inserita in quella rete di città che, da Traiano in poi, echeggiavano nei loro nomi l’impronta imperiale27. E perché, dall’altro lato, e come già detto, promuove invece nella città una serie di imponenti lavori pubblici sia di carattere infrastrutturale, sia con finalità di ordine rappresentativo. Questa oggettiva duplicità di comportamento non è però, di per sé e per l’epoca, indice di un comportamento veramente contradditorio. La «romanizzazione» della immagine e della vita28 dei centri urbani assoggettati, ed entrati a far parte dell’impero, è infatti un dato costante della politica urbanistica degli imperatori romani. Da que-
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A fronte: 4 e 5. L’espansione della città in età costantiniana e in quella teodosiana mostra la complessità degli interventi urbanistici conseguenti alla sua trasformazione in capitale dell’Impero. (Ridisegnati da C. Mango, Le développement urbain de Constantinople, Parigi 1990).
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Tracciato ipotetico dell’ultima cerchia di mura
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16
Stadion
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3. La città colonia greca e poi municipium romano secondo la ricostruzione consentita dai dati archeologici e dai testi (sotto, ridisegnato da D. Kuban, Istanbul. An urban History, Istanbul 1996).
Néorion
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Cisterna
Prosphorion
Prima cerchia
2. Bisanzio nel quadro della colonizzazione greca della Propontide e del Bosforo (sopra, ridisegnato da W. Müller-Wiener, Costantinopoli, la nuova Roma, 1993).
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Ippodromo Porta Aurea
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sto punto di vista i lavori di riorganizzazione e di ricostruzione intrapresi da Settimio Severo, e poi continuati dal figlio Caracalla29, sono cioè coerenti con quel criterio. Gli interventi severiani o di Caracalla possono essere così indicativamente riassunti: ristrutturazione del teatro e forse ricostruzione dell’anfiteatro (o Kynegion) già esistente a est dell’acropoli; riorganizzazione dell’agorà; primo impianto dell’Ippodromo; creazione, in prossimità di questo, delle Terme di Zeuxippos, probabilmente in rapporto con un nuovo quartiere di sviluppo nel settore meridionale della città e conseguente trasposizione del tempio di Apollo, che ne occupava originariamente l’area30; infine31 la realizzazione di una «grande via colonnata che usciva da una grande piazza quadrilatera, porticata sui quattro lati, l’antico Tetrastoon», situata presso l’Ippodromo. Di quasi tutte queste opere è discussa tanto la effettiva localizzazione quanto la relativa dimensione; salvo per quanto concerne la via colonnata in questo suo primo tratto. I recenti scavi archeologici e le scoperte di elementi scultorei, anche se più tardi, permettono oggi di ricostruirne perfettamente andamento e dimensioni. La città, ad impianto ellenistico ed in origine, come detto, situata sull’acrocoro (attuale Topkapı), dopo la ricostruzione, e tenuto conto degli ampliamenti, avrebbe avuto un incremento dell’abitato, e della popolazione, dell’ordine quasi del 50% rispetto alla città precedente32. Dati, questi, che sembrano alludere a una vivace ripresa della città. È però di segno contrario la circostanza che sia l’Ippodromo, sia le Terme di Zeuxippos rimasero complessi parzialmente incompiuti. Infatti, se si considera che nelle città romane tanto il primo quanto le seconde erano luoghi essenziali della vita pubblica e privata, si deve pensare che la città, dopo le distruzioni, non avesse invece ripreso appieno né i suoi ritmi interni, né il suo precedente ruolo di attivo centro di scambi e di mercati. E proprio a questo ordine di considerazioni si collega l’accesa polemica, che contrappone Berger a Mango33, sulla dimensione del Tetrastoon. I due studiosi interpretano infatti in modo opposto le stesse fonti: che, salvo Zosimo, sono per la verità piuttosto tarde. Per il primo la piazza avrebbe occupato una maglia del reticolo di 130 metri di lato (natura e dimensione del reticolo sono quelli da lui stesso ipotizzati) cioè all’incirca la dimensione del successivo Augustaion. Il secondo giudica invece il Tetrastoon enormemente più vasto: circa il doppio. La dimensione di questo spazio porticato, e non importa se considerato o no interno alle Terme di Zeuxippos (vi è chi crede che si trattasse di un porticato interno alle stesse Terme), è ovviamente da porre in relazione con il numero dei possibili frequentatori dello spazio stesso. Dunque accertare la dimensione della piazza è un elemento importante per capire le intenzioni e i programmi di sviluppo dell’intera città.
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L’impegno delle opere pubbliche intraprese da Settimio Severo appare comunque ingente: non va dimenticato che l’area interessata era caratterizzata da forti dislivelli. Così, per quanto concerne la predisposizione del piano di corsa dell’Ippodromo, si resero necessarie numerose e imponenti opere di terrazzamento. Anche l’ambito del cosiddetto Tetrastoon, e dei suoi dintorni, doveva essere caratterizzato da dislivelli raccordati tra loro da gradinate più o meno rilevanti. Se questo modo di intervenire era comune a tutta la cultura urbana di matrice ellenistico-romana, va invece sottolineato che, quanto alle modalità di realizzazione delle parti sostruttive, queste si collegano ad una tradizione costruttiva da tempo affermata nel Lazio e a Roma. Se ne hanno infatti esempi già in età repubblicana (in ispecie nei grandi santuari laziali) ed ancora più ampiamente (per esempio nelle grandi sistemazioni dei palazzi e delle ville imperiali) dall’età degli imperatori Giulio-Claudi in avanti, magari con riferimento all’età adrianea34. Potrebbe così nascere il sospetto che il tracciato reticolare della città preseveriana sia il risultato di interventi riferibili a precedenti fasi della presenza di Roma. Ne sarebbe indizio la disposizione di alcuni resti di edifici di età romano-imperiale situati in un’area che doveva essere allora, per così dire, periferica; dove quindi era possibile impiantare un ippodromo. Dunque, per concludere, l’intervento severiano sarebbe iscrivibile entro il più generale quadro dello sviluppo (oggettivamente più tardo rispetto a quello di altre aree orientali dell’Impero) promosso da Roma nella provincia di Tracia35.
L’impianto di una città capitale: da Costantino a Teodosio II La decisione di Costantino di trasferire a Bisanzio la sede imperiale non è circostanza di per sé eccezionale. Decisioni simili erano state prese più volte da quando l’enorme estensione dell’Impero romano, e soprattutto la composita struttura dei rapporti politici e l’articolata serie di interessi e di sistemi di potere locale su cui esso si basava, avevano suggerito la costituzione di un nuovo sistema di potere: che prevedeva la duplicazione della figura imperiale (gli Augusti) e della figura dei Cesari, che assicuravano il futuro ricambio degli Augusti, e che è il sistema tetrarchico avviato da Diocleziano. Però la scelta di fare di Bisanzio la nuova sede imperiale ha conferito alla città, fin dal primo momento connotati del tutto speciali: che ne faranno, per oltre undici secoli, un polo centrale della vita politica, economica, culturale, religiosa dell’intero bacino mediterraneo. La scelta costantiniana consegue certamente a più ordini di motivazioni; anche riferibili alle molteplici e turbinose vicende politiche e personali dello stesso imperatore. Si di-
scute così se, durante la fase romana dell’impero di Costantino, lo scontro dell’imperatore con il Senato romano sia stato o no così radicale come viene presentato da quanti considerano tale scontro uno dei principali motivi della decisione costantiniana. E pareri contrapposti sono stati espressi sulla effettiva volontà dell’imperatore di dar vita ad una «seconda Roma». Il concetto di nuova ÔRwvmh comincia infatti ad apparire in anni successivi a Costantino e dunque in rapporto a valutazioni a posteriori degli sviluppi avuti dalla città. Altrettanto complessa, problematica ed irrisolta è inoltre la questione se la scelta costantiniana tendesse ad impostare decisamente una città in chiave direttamente cristiana. Sta anzi sempre più emergendo il parere contrario. Perché, come meglio si dirà più avanti36, molti segnali indicano che, a Costantinopoli, nelle ritualità e nei culti ufficiali hanno continuato a lungo ad essere presenti le tradizionali componenti religiose di matrice pagana. L’idea di costruire una nuova capitale comincia a prender corpo nel novembre del 324: dopo appena due mesi dalla vittoria navale ottenuta da Costantino sul rivale Licinio. Per quanto concerne gli schemi insediativi di una nuova sede imperiale non mancavano, agli architetti di Costantino, riferimenti ad esempi di ordine tipologico ed esteticocostruttivo. Tra i quali, in particolare, gli impianti dei palazzi imperiali di Roma, o quelli promossi da Diocleziano, da Galerio e dallo stesso Costantino rispettivamente a Spalato, a Tessalonica (Salonicco), a Treviri. Un criterio preferenzialmente adottato era quello della contiguità dell’ippodromo con il palazzo imperiale. È così possibile pensare che nella città costantiniana, l’ancora incompleto impianto dell’Ippodromo severiano abbia influenzato la localizzazione del palazzo imperiale37. Ed altre preesistenze (Tetrastoon e Terme di Zeuxippos) potrebbero aver indirizzato la scelta relativa alle nuove esigenze insediative verso quel settore cittadino dove sorgevano quei complessi e dove dunque (come già detto) il costruito non doveva essere molto intenso. Com’è ovvio la crescita della città si sviluppò per tappe successive. Stando alle stime di Dagron e di Mango, si può infatti presumere che il progetto di Costantino non abbia trovato compimento se non verso il 360 e cioè sino alla fine del regno di suo figlio Costanzo II. Cionondimeno il “segno” impresso da Costantino è stato senza alcun dubbio forte ed incisivo; sia quanto alla concezione dell’impianto urbanistico, e conseguente dimensionamento, sia quanto al suo contenuto politico e ideologico. È possibile stabilirne alcune caratteristiche essenziali, malgrado che variazioni e trasformazioni consistenti siano spesso intervenute, nel corso dei secoli, a modificare o a far scomparire quasi tutti gli elementi utili ad una oggettiva analisi valutativa dei risultati del programma (e del “segno”) costantiniano. L’impianto è stato impostato in previsione di una forte crescita della popolazione: ben al di là di
quanto gli stessi funzionari e cittadini della Bisanzio di allora potessero immaginare. Nel suo percorso verso occidente, presumibilmente lungo il tracciato del ramo della Mese che si portava verso il Mar di Marmara (cioè verso la direttrice che si collegava con la via Egnatia), Costantino, secondo la tradizione, segna con la lancia38 un punto che si trovava a circa 2,7 chilometri dall’antica cerchia urbica: lì sarebbe sorta la porta (la Porta Aurea)39 della nuova cerchia le cui mura si svolgevano a una distanza all’incirca costante rispetto a quella più antica40. Non è però altrettanto facile41 stabilire con certezza quale fosse la localizzazione delle altre porte urbiche. Quasi nulla si conosce infatti delle vie di lungo percorso allora esistenti, cui certamente dovevano corrispondere le porte cittadine. Si sa peraltro42, e la situazione è documentata ancora sino all’età di Giustiniano, che parte della via costiera non era ancora pavimentata, e che esisteva una porta situata a nord della Porta d’Oro costantiniana43. Con la nuova perimetrazione l’area cittadina veniva ad avere una superficie di circa 6 o 7 chilometri quadrati44: tre o quattro volte quella fino ad allora esistente! Secondo i racconti di Malalas e di Filostorgio i funzionari del corteo imperiale, dopo aver a lungo seguito l’imperatore che camminava in un’area non abitata, gli chiesero, stupiti, quale riteneva dovesse essere, alfine, il nuovo limite della città. La sorpresa di quei funzionari ci permette dunque di capire che la natura della nuova città imperiale immaginata da Costantino sfuggiva anche ai suoi più avvertiti collaboratori. Tra le nuove mura e l’abitato esistente vi era comunque solo un’ampia fascia di spazi poco o per nulla abitati; nei quali, oltre tutto, sia lungo la direttrice della via principale, sia in altre parti, si allineavano le necropoli. È difficile per noi, oggi, valutare il numero di abitanti della città di Costantino45; ma ai funzionari dell’epoca era altrettanto difficile prevedere che il futuro incremento insediativo avrebbe avuto un tasso di crescita del tutto diverso da quello allora consueto. Anche se essi erano al corrente dell’importanza dell’evento di cui erano partecipi, non avevano elementi per capire che l’iniziativa di Costantino non era della stessa portata delle normali riorganizzazioni o degli ampliamenti di centri urbani; e nemmeno di quella degli altri pur assai ampi interventi urbanistici adottati nella creazione delle altre città capitali del sistema tetrarchico. Perché nessun’altra di quelle sedi si era fino ad allora proposta come
Nella doppia pagina seguente: 6. La raffigurazione delle dee poliadi di Roma e Costantinopoli nel dittico eburneo del Kunsthistorisches Museum, Vienna.
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capitale dell’intero impero: cioè come città (alternativa a Roma) nella quale, oltre all’insieme del palazzo imperiale si concentrassero tutte le funzioni amministrative, politiche e rappresentative di carattere centralistico. Lo stesso Costantino dovette adoperarsi in vario modo, con un’accorta politica demografica attuata mediante pressioni, incentivi e concessione di privilegi, per accelerare il processo di crescita della nuova capitale. Fin dal 326 furono convogliate a Costantinopoli le risorse granarie provenienti dall’Egitto, e, a partire dal 332, venne istituita un’annona gratuita e decisa la distribuzione gratuita del pane agli architetti e agli imprenditori edili impegnati nel nuovo programma di sviluppo. Fu anche imposto l’obbligo, per gli affittuari di beni imperiali in Asia minore, di costruire una casa in Costantinopoli. Inoltre, stando ad alcune fonti46, furono realizzate a spese dell’imperatore le dimore destinate al ceto senatorio che si desiderava attrarre nella nuova capitale. È facile arguire che la nuova capitale doveva essere stata pensata da Costantino come una città nella quale, in quanto destinata a svolgere una centralizzante funzione di controllo generale, e in quanto elettivamente avulsa da legami e radicamenti localistici (se non quelli meramente strumentali e finalizzati al vettovagliamento), doveva prevalere su ogni altro elemento quanto serviva a farvi emergere valori simbolici, mentali, e dunque anche religiosi: sia con riferimento alla Fortuna della città ed alla tradizione degli dei greco-romani, sia, anche, proiettati alle ritualità ed ai culti cristiani. Il complesso del Palazzo imperiale L’impianto del complesso palaziale, conosciuto solo per notizie indirette tratte dai cronisti di corte o da memorie di visitatori47, costituisce una delle principali e più significative trasformazioni impresse da Costantino nella città preesistente. Ed in particolare nel quadrante urbano sostanzialmente periferico rispetto alla dimensione e al modo di funzionare della città del tempo. Un dato interessante da sottolineare è che tale complesso, racchiuso e recintato da proprie mura difensive, rimaneva escluso da ogni diretto contatto con gli spazi e con la vita della città. Lungo un suo lato il complesso era infatti praticamente appoggiato all’Ippodromo, con il quale comunicava però soltanto mediante la struttura del kathisma (di cui si dirà in seguito). Lungo un altro lato si proiettava sia verso la severiana piazza del Tetrastoon o Augustaion (però soltanto con il filtro di un edificio tetrapilo con funzione di atrio che poi verrà detto Chalké), sia verso le Terme di Zeuxippos. Infine, lungo gli altri lati, si affacciava verso il settore sudorientale della collina: cioè in una posizione tale che la recinzione muraria ne occultava l’eventuale vista da lontano e dal basso.
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Qualunque fosse l’impianto della fase costantiniana, considerata la sua collocazione ed il suo far sistema con altri poli importanti della città severiana, il Palazzo spostava decisamente il baricentro politico e simbolico della nuova città. Con l’impianto della nuova residenza imperiale, diminuirà, ad esempio il “valore” dell’acropoli: il cui significato simbolico e connotativo si era invece mantenuto inalterato fino a quel momento. La trasformazione di Bisanzio in capitale dell’Impero romano richiedeva infatti che il suo centro simbolico si identificasse, d’ora in avanti, con la figura dell’imperatore e con i luoghi nei quali la sua presenza si manifestava all’esterno. Così anche l’Augustaion, cioè l’agorà, venne a perdere non poche delle sue funzioni; principalmente quelle di ordine civico-politico. Per lo meno nella ricostruzione che ne danno Müller-Wiener e Mango48, ne conseguì una ulteriore modifica del tratto terminale della Mese: che ora venne piegata a costeggiare il lato sudorientale dell’Augustaion ed il cui asse immetteva nel sistema palaziale mediante la già ricordata Chalké. Sulle caratteristiche del complesso palaziale costantiniano manca praticamente ogni documentazione. È tuttavia lecito congetturare, propone Janin49, che il Palazzo propriamente detto dovesse consistere in più elementi distinti; forse anche organizzati in corpi di fabbrica autonomi l’uno dall’altro. Così come nel palazzo di Diocleziano a Spalato ed in quello di Galerio a Tessalonica, oltre agli appartamenti imperiali (a loro volta articolati in più funzioni e corrispettivi ambienti, ciascuno caratterizzato da configurazioni architettoniche complesse), vi erano gli alloggiamenti per i funzionari, il personale addetto alla famiglia imperiale e alla sua corte, locali e alloggi per il corpo delle guardie, magazzini vari, giardini ecc.50 Ma, nel caso costantinopolitano, a questo nucleo fondamentale si aggiungevano poi, con opportuni snodi e articolazioni, altri due nuclei strettamente legati alla vita politica della città e all’immaginario simbolico della corte: sia un insieme di aule destinate a funzioni politiche, sia la struttura del cosiddetto kathisma, che era il palco dove l’imperatore (come nel palazzo imperiale del Palatino a Roma) si affacciava per assistere alle gare ed offrirsi alla vista degli spettatori dell’ippodromo. L’insieme può essere descritto come un organismo di concezione triadica: palazzo vero e proprio con il suo peristilio e corpo di guardia; alloggiamenti dei funzionari; altre componenti funzionali. Del primo nucleo faceva parte (se effettivamente attribuibili alla fase costantiniana) il Palazzo di Magnaura, l’annesso edificio conosciuto come Senato51 (una grande aula, nella ricostruzione di Mango52, con terminazione absidata divisa da due colonnati in tre navate secondo i consueti schemi di aule basilicali), l’insieme costituito dal grande cortile del Tribunal (o anche Delphax), il Triclinio dei diciannove Akkubita (luogo dei banchetti ufficiali ritualmente svolti secondo il cerimoniale romano),
Theotókos Ench.
S. Irene Chalkoprateia
S. Sofia
Basilica
Patriarcato Mese Milion
Palazzo di Lausos
Augustaion
Cisterna di Filoxenos Terme di Zeuxippos
Carceres
Palazzo di Antiokos
Chalké
Ippodromo
Senato
Magnaura
Tribunale o Delphax Triclinio dei 19 Akkubita
Kathisma Consistorium
Sphendoné
7. Il centro di Costantinopoli nel V e VI secolo, con indicazione dei principali monumenti e dell’area occupata dagli edifici che costituivano l’insieme del palazzo imperiale, adiacente all’ippodromo. (Ridisegnato da W. Müller-Wiener, Bildlexikon zur Topographie Istanbuls, Tubinga 1977).
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8. Veduta aerea dell’area dell’ippodromo, che ancor oggi segna il paesaggio urbano del centro di Istanbul, con il nome di At Meydanı. Si notano l’obelisco di Teodosio, quello di Costantino Porfirogenito e, sulla sinistra, due dei minareti della moschea Blu.
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9. La quadriga originariamente posta al centro dei carceres dell’ippodromo, trafugata e portata a Venezia durante la quarta crociata. L’originale è attualmente conservato al Museo di San Marco e una copia adorna la basilica.
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il Consistorium (cioè il luogo del Consiglio dell’imperatore). Un grande peristilio disimpegnava queste parti dagli appartamenti imperiali veri e propri. Il secondo nucleo, dal quale mediante una scalinata si accedeva direttamente dagli appartamenti imperiali, era invece tutto concentrato sul kathisma. Più articolate e variegate le soluzioni del terzo nucleo. La realizzazione dell’intero sistema palaziale ha comunque richiesto complesse e numerose opere di livellamento e di sostruzione. Così, in aggiunta agli spazi e luoghi di superficie realizzati, secondo la plurisecolare prassi costruttiva romana già ricordata e secondo anche come questa era già stata adottata ed interpretata nella costruzione della grande Villa Adriana di Tivoli, gli spazi ed i livelli costruttivi risultanti dalle opere di sostruzione furono utilizzati per gli alloggiamenti del personale addetto alla corte, per i magazzini, per i necessari laboratori artigiani ecc. L’Ippodromo La ripresa dei lavori per completare e ampliare l’Ippodromo, rimasto incompiuto dopo i primi interventi severiani è strettamente correlata all’edificazione dell’insieme palaziale. Poiché però, e come già detto, l’Ippodromo era elemento di primaria importanza nell’organizzazione della vita delle città romane o romanizzate, l’iniziativa della ripresa dei lavori per il suo completamento assumeva anche valenze di ordine politico e di immagine ben al di là dunque dell’impegno necessario alla realizzazione di infrastrutture di carattere pubblico. Nell’esempio costantinopolitano tali valenze sono comprovate dalla documentata profusione di elementi decorativi (sia appositamente creati, sia fatti affluire nella capitale da varie parti dell’Impero) immessi nella struttura dell’ippodromo e riferibili ad un quadro di significati simbolico-imperiali più volte analizzati. È utile ricordare, a tale proposito, che la quadriga dorata di Lisippo, trasportata nel 1204 nella chiesa di San Marco a Venezia, doveva certamente provenire da una torre posta al centro del gruppo dei carceres, e che era destinata allo sventolio della bandiera che annunciava la corsa. Di tutto il grande impianto dell’Ippodromo si sono conservati soltanto alcuni resti opportunamente studiati da indagini archeologiche relativamente recenti. In particolare si conosce la parte sudoccidentale semicircolare del complesso, nota come sphendoné, che corrispondeva alla curva ove i carri in corsa giravano per immettersi nel rettilineo opposto a quello di partenza. Secondo la ricostruzione di Vogt e le notazioni di Dagron53 basate su risultanze di scavo, la “spina” dell’ippodromo era costituita da un basso podio e da una o più vasche d’acqua: come attestato dalla documentata esistenza di una rete di canali e dal nome, Euripos, attribuito a questa parte dell’Ippodromo. È cioè probabile che l’intera “spina” consistesse in uno specchio d’acqua e che la
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“colonna serpentina” opportunamente modificata, fungesse da fontana. Anche in questo caso, per portare la lunghezza dell’impianto fino a 420-440 metri circa54, si resero necessarie, e come detto ciò va considerato un “segno” romano, imponenti opere di sostruzione consistenti in una serie di setti murari, tuttora esistenti, disposti radialmente rispetto all’emiciclo della sphendoné. Questa soluzione ha avuto interessanti risvolti funzionali: da un lato il pubblico poteva facilmente circolare sotto le gradinate, e, dall’altro lato, alcuni degli spazi tra i setti poterono in seguito essere usati come ulteriori cisterne cittadine. La Basilica A completare gli impianti del centro rappresentativo, ed anche a far da riscontro al sistema del Palazzo e dell’Ippodromo, vi era la cosiddetta Basilica: situata a nord-ovest dell’Augustaion. Il termine «basilica», la cui radice lessicale richiama un fondamentale edificio dell’agorà di Atene, (la stoà basiléos destinata alla vita pubblica e politica ateniese), nel mondo romano indicava una struttura edilizia sempre ricorrente nei fori cittadini ove, oltre a fornire spazi di incontro ai cittadini, si svolgevano anche attività giudiziare. Nel caso costantinopolitano il termine è riferito ad un grande quadriportico rettangolare che può ricordare sia una grande basilica scoperta, sia una piazza porticata di tradizione ellenistica. La dimensione del complesso è stata ricostruita senza difficoltà dagli archeologi; perché, nell’età di Giustiniano, al di sotto della corte centrale scoperta venne costruita una grande cisterna cittadina (detta oggi Yerebatan Sarayı) tuttora preservata. Il Foro di Costantino Un intervento di grande importanza per i futuri sviluppi della città è la creazione di un grande spazio porticato, il Foro di Costantino, situato all’esterno del circuito dell’antica cerchia muraria nel punto di innesto con la Mese. Ce ne dà la descrizione sia un eccezionale documento del V secolo, la Notitia urbis Romae et Constantinopolitanae, sia la documentazione fornita dalla colonna di Arcadio, in un dettaglio del fregio scultoreo della quale è stata appunto riconosciuta una rappresentazione schematica del complesso. La singolare collocazione e configurazione di questo nuovo foro esige qualche riflessione preliminare. L’enfasi dimensionale, e soprattutto la complessità del sistema, sia architettonico, sia decorativo e simbolico, dell’impianto, indica che il nuovo spazio era finalizzato alla formazione di un nuovo asse di sviluppo che privilegiava la direttrice estovest e che era cioè contrapposto a quello nord-est/sudovest secondo il quale, fino ad allora, si era sviluppata Bisanzio. Dunque mentre l’antico sistema viario era articola-
10. Nell’ippodromo si allineano la colonna serpentina in bronzo, parte del supporto del tripode dedicato ad Apollo a Delfi, del V secolo a.C., portata in città da Costantino, e l’obelisco di Karnak, fatto scolpire da Tutmosis III a metà del secondo millennio a.C. e fatto erigere da Teodosio II.
to in rapporto alle attrezzature portuali affacciate sul Corno d’Oro, la nuova direttrice di sviluppo privilegiava la viabilità di lungo percorso riferibile al collegamento con la via Egnatia. La scelta costantiniana di proiettarsi con la direttrice della Via Egnatia e verso la costa della Propontide, ha avuto successo anche in seguito: lo provano la localizzazione dei nuovi poli insediativi promossi dagli imperatori succeduti a Costantino almeno sino alla metà del V secolo. Il cosiddetto Foro di Costantino, situato lungo l’asse di accesso alla città, ma esternamente ad essa e lungo una direttrice ove da tempo esisteva una necropoli ellenistico-romana55, aveva forma circolare o quasi circolare: così come nei precedenti e noti casi di Gerasa, di Gerusalemme, e di Antiochia. La decisione costantiniana di attraversare, sovrapponendovisi, un’area cimiteriale, è analoga a quella adottata a Roma per la realizzazione del complesso del San Pietro in Vaticano: una decisione coraggiosa che contrastava con le antiche tradizioni e normative romane che impedivano questo genere di iniziative ma che era consentita all’imperatore. Ve ne erano da tempo importanti precedenti: basti pensare all’azzeramento del complesso cimiteriale del colle Esquilino eseguito (con il consenso di Augusto) da Mecenate per realizzare, nell’Urbe, un nuovo prestigioso polo insediativo. L’analisi delle caratteristiche del Foro di Costantino rende esplicito il programma ideologico e simbolico di cui esso si fa strumento. La circolarità dell’impianto planimetrico, letta dai cronachisti come rappresentazione dell’Oceano56, cioè come confine del mondo, è in stretta correlazione con l’idea guida dell’intera sistemazione di cui era perno concettuale (anche se in posizione non centrica) l’alta colonna di porfido (raggiungeva circa i 50 metri più dell’altezza delle due analoghe colonne di Roma) che sosteneva la statua dorata dell’imperatore: collocata ufficialmente, e con gran fasto rituale, sulla sommità della colonna nella cerimonia del 330. Le numerosissime cronache, descrizioni, notizie, che abbiamo di questo importantissimo monumento costantiniano (più volte danneggiato da incendi e terremoti e modificato da restauri), e la ricostruzione che, in base alle loro ricerche archeologiche, ne è stata fatta da Vett e da Mamboury nel 1929-3057, ne mostrano la complessità tecnica e simbolica. Anche a Costantinopoli, come a Roma nelle colonne di Traiano e Marco Aurelio58, l’alto basamento (su pianta quadrata) conteneva l’accesso alla scala elicoidale ricavata all’interno del fusto della colonna. Vi era inoltre un ambiente con funzioni sacrali e rituali: secondo una tradizione, per la verità assai dubbia e comunque tarda, là sarebbe stato nascostamente sepolto il “Palladio” (cioè il simulacro ligneo di Atena-Minerva) che Costantino avrebbe sottratto a Roma. Pare accertato che, in sintonia con i riti di fondazione, monete con l’effigie di Costantino fossero state o sepolte nelle fondazioni, o poste nella parte sommitaria della colonna. Il basa-
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mento, cui, mediante una gradinata, si accedeva dal piano di calpestio del Foro, era collegato al Foro stesso da una serie di arcate59. Presso una delle quali, forse sin dall’inizio ma certamente in seguito, venne sistemato un ambiente per cerimonie processionali60. La statua dorata, collocata alla sommità della colonna nel corso della già richiamata solenne cerimonia, pare fosse un Apollo con la testa raggiata: un simbolo solare del resto già adottato da più imperatori. Proveniente dalla Frigia61 o da Ilio62, la statua venne trasformata in immagine imperiale, con l’aggiunta, nella mano destra dell’imperatore, di una lancia, come ricorda Cedreno63 (cosa probabile vista l’iconografia costantiniana ufficiale) o, come narra Anna Comnena, di uno scettro: e, nella sinistra, di un globo terrestre sormontato da una Nike alata64. Due archi trionfali, in marmo del Proconneso, su uno dei quali era collocato il gruppo scultoreo dedicato a Elena, la madre di Costantino, marcavano l’accesso orientale e occidentale della piazza la quale, si direbbe, non era all’origine pensata come vero e proprio foro, cioè un luogo di adunanze e incontri di varia natura, ma, piuttosto, quale snodo tra la città vecchia e la città nuova. Proprio gli altri due esempi di Gerasa e di Gerusalemme, entrambi nella medesima area e cultura orientale, potrebbero esserne i più vicini termini di confronto. L’edilizia religiosa e i valori simbolici La nuova città di Costantino era in tutto e per tutto una città imperiale ma profondamente diversa da Roma: l’Urbe, pur rimanendo centrale sul piano identitario e dell’immaginario ufficiale, aveva da tempo perso il suo originario ruolo di unica sede e residenza imperiale. E tutto fa credere che i contemporanei avvertissero fortemente quella diversità. Tantoché, per legittimare e glorificare la città di Costantino, sembrò ben presto utile proporla come «nuova Roma»; ricercando di conseguenza, pretestuosamente, precise e ideologiche simmetrie tra le due città. Tra queste, non senza notevoli forzature, sono da ricordare l’identificazione di sette colli, l’organizzazione del tessuto cittadino in dodici Regioni (poi cresceranno di numero), la presenza del fiume. Ma al di là di queste forzate e metaforiche analogie, la nuova città capitale mirava ad un processo di integrale rinnovamento del ruolo imperiale. Proprio quel rinnovamento che non risultò possibile avviare a Costantino nel periodo romano del suo impero: sia per le caratteristiche della società e in particolare dei ceti superiori dell’Urbe, sia per l’instabile quadro politico e militare della parte occidentale dell’esercito e dell’Impero, sia per la natura stessa dei luoghi, sia, infine, per la complessa e antichissima stratificazione di valori e interessi che caratterizzavano l’impianto urbanistico di Roma. A Costantinopoli
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11. La colonna detta “cerchiata o bruciata” a C,emberlitax, è quanto resta di quella fatta erigere da Costantino nel foro che portava il suo nome.
si avverte, fin dall’inizio, la volontà dell’imperatore di presentarsi in veste divinizzata già in vita e durante l’esercizio imperiale (era ormai prassi quasi costante). Ma è nuova l’idea che nella Bisanzio, divenuta città-capitale, il tema religioso ufficiale dovesse diventarne l’elemento che ne legittimava il ruolo centralistico. Ne sono un possibile indizio, in particolare, le realizzazioni costantiniane in tema di edilizia religiosa. Anche se poi, in assenza di riscontri archeologici, lo strumento d’indagine principale cui rivolgersi è costituito dalle fonti: da accogliere con prudenza essendo evidente in esse una certa parzialità dettata da finalità ideologicoreligiose che confliggono con le esigenze di un’attendibile analisi storica. Insomma lo studioso deve fare i conti con una tradizione storiografica che intorno alla figura di Costantino ha inteso costruire il mito dell’imperatore cristiano (ϕilovcristoς basileuvς)65 e che si è sforzata di fare della stessa Costantinopoli una capitale cristiana (ϕilovcristoς povliς)66: così come, del resto, propone Krautheimer. Sarà utile qualche esempio. Eusebio ci tramanda l’immagine di una città dedicata al Dio dei martiri e riferisce che l’imperatore costruì martyria e chiese dentro e fuori la Città67. Sozomeno68 afferma che Costantino fece costruire numerosi luoghi di culto oltre al santuario dell’Arcangelo Michele ad Anaplous e ai Santi Apostoli. Socrate69 gli attribuisce Sant’Irene e i Santi Apostoli. Le fonti più tarde (VIII-XI secolo d.C.) arricchiscono la lista aggiungendo San Mokios70, Sant’Agathonikos, l’Arcangelo Michele di Sosthenion71, Sant’Akakios, San Menas, San Prokopios, San Philemon, Sant’Emilianos, San Metrophane, Santa Sofia, San Dynamis72 ed altre ancora. Ma, sostiene Dagron proprio sulla base di una affermazione di Socrate73, solo in Sant’Irene (ma non certo nella forma nella quale è giunta a noi) o ancor meglio nei Santi Apostoli (quella della fase pregiustinianea) può eventualmente ravvisarsi un qualche intervento costantiniano. Quanto alla chiesa di Sant’Irene, se nelle forme in cui è giunta fino a noi non conserva alcuna traccia di una fase costruttiva costantiniana, bisogna però tener presente che nella Notitia74, fonte relativamente alta, essa viene ricordata come ecclesia antiqua e che alcune fonti suggeriscono che in Sant’Irene, e sin dai tempi della Bisanzio precostantiniana75, sia da riconoscersi la sede vescovile. Però più recentemente ciò è stato disatteso da Bozzoni76: che non crede ad una fase costantiniana della chiesa anche se questa doveva rivestire un ruolo di grande ed antica importanza per la comunità cristiana della città. Diverso è il caso dei Santi Apostoli; che non era propriamente un edificio di culto77. Consisteva infatti in un impianto a croce il cui vano centrale era un mausoleo che conteneva i cenotafi dei dodici apostoli ed al centro il sepolcro dell’imperatore: il “tredicesimo apostolo”, nella concezione di San Paolo, cioè quasi un nuovo Cristo78. Indicazioni utili a una migliore conoscenza del problema
possono essere tratte da un’analisi dei luoghi dei culti pagani praticati nella capitale costantiniana. A tale riguardo è da notare che la città costantiniana ha rispettato le aree più significative della città antica. Infatti i nuovi impianti urbanistici, pur avendo coinvolto ampi settori della città greca, hanno risparmiato l’area privilegiata dell’acropoli: tradizionale centro religioso della Bisanzio pagana dove sorgevano, entro i loro inviolabili temena, i già citati santuari di Helios-Apollo, di Afrodite e di Artemide. L’unico intervento sull’acropoli attribuibile a Costantino79 consiste in una colonna votiva sormontata da una statua della Tuvch80: che, con un’iscrizione in latino a carattere tradizionale (ma non di impronta cristiana) ricorda una vittoria sui goti. Oltre al rispetto per le aree sacre dell’acropoli e per gli altri santuari disseminati nella città, è interessante chiarire quale parte i culti pagani abbiano rivestito nel programma edilizio della nuova capitale ed in ispecie quelli direttamente collegati con la religiosità di impronta romana e, dunque, dotati di valenze simboliche e politiche. Tra questi, un ruolo significativo assume la costruzione del Capitolium81, cioè il tempio dedicato alla triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva) secondo una prassi sistematicamente adottata (fin dall’età repubblicana) in ogni vicenda connessa o con la costruzione ex novo, o con la modifica di centri preesistenti, per marcare inequivocabilmente la “romanità” di quei centri. È evidente, nel caso costantinopolitano, l’intento dell’imperatore di perseguire una linea di continuità concettuale e simbolica con la tradizione (pagana) della società romana proprio per collegare idealmente la nuova capitale con Roma. Si deve inoltre a Costantino l’edificazione, nel Tetrastoon da lui trasformato in Augustaion, di due templi destinati a ospitare rispettivamente la Tuvch poliade, e la Tuvch di Roma82; in una apparente contrapposizione tra le due divinità, che è però funzionale al programma costantiniano di traslare i valori della capitale antica in quella nuova (è il principio che molto più tardi sarà definito traslatio imperi). Il culto della Tuvch, nella sua doppia accezione e di Roma e di Bisanzio, appare cioè fondamentale nella fondazione costantiniana; e, sostiene Dagron, non gli è probabilmente estraneo il richiamo al mitico Palladium (l’arcaica statua lignea di Athena83). A questa complessa ed articolata ricerca di valori, simboli e significati, che costituiscono il tessuto concettuale del programma costantiniano per la nuova capitale, si collegano anche le numerose immagini dei culti pagani e gli altrettanto numerosi scritti dedicatori distribuiti nei vari e principali siti cittadini: dal Foro, al Senato, alle Terme, all’ippodromo, ad altri edifici pubblici, e così via. Molto rari sono invece i monumenti esplicitamente cristiani. Eusebio ricorda i «simboli» del Buon Pastore e un gruppo di Daniele con i leoni, disposti a ornare un ninfeo del Foro di Costantino84; ma si tratta di un passo la cui at-
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tendibilità è stata messa in discussione da più di uno studioso85. È poi segnalata anche la presenza di altri simboli cristiani in diversi luoghi della città. In un’immagine posta all’entrata del Palazzo imperiale (forse nel vestibolo) vi sarebbe stato il simbolo della croce86 e su di un soffitto all’interno del Palazzo imperiale vi sarebbe stato un altro simbolo cristiano: apparentemente un monogramma d’oro tempestato di pietre preziose che Eusebio definisce un segno protettivo (un talismano: fulakthvrion) della dinastia imperiale. Ancora altri simboli cristiani sono attribuiti all’età di Costantino dai Pavtria e da alcune altre fonti tarde in luoghi significativi della città. Si tratta invece, molto probabilmente, di interventi successivi al V secolo87. Comunque, nell’ideologia religioso-dinastica costantiniana il ricorso alla simbologia cristiana rispondeva all’interesse dell’imperatore quanto al controllo dei vertici dell’organizzazione religiosa cristiana. L’ingerenza dell’imperatore nella vita della Chiesa è infatti assai precoce. Già a partire dal 314 iniziano, da parte dei vescovi, i primi ricorsi all’arbitrato imperiale allo scopo di aggirare il giudizio dei sinodi provinciali. Questa procedura, debolmente contrastata dalla gerarchia ecclesiastica88, si diffonde poi rapidamente fino a divenire un fenomeno pressoché istituzionalizzato che si concretizza nel «sinodo permanente» che, a Costantinopoli, riunisce i vescovi d’Oriente attorno all’imperatore. Il popolamento Che esito ebbe, in termini di popolamento, il progetto costantiniano per la nuova capitale? Per la fine del IV secolo sono state proposte molte e diversificate stime. La densità abitativa nella parte di città entro la cerchia antica si sarebbe mantenuta entro i 150 abitanti per ettaro, mentre nella nuova addizione tale densità doveva scendere al di sotto dei 100 abitanti per ettaro. A tali zone si devono aggiungere poi gli abitanti della regione di Sykae-Galata e della zona delle Blacherne. In tutto si potrebbe arrivare a calcolare in 90.000 circa il numero degli abitanti dell’intera città. Invece altre fonti antiche, meno attendibili ma accettate sino a tempi recenti, parlavano di centinaia di migliaia di abitanti. Charanis89 ha poi sottolineato che nel 379 il poeta Ausonio, in un elenco delle venti principali città del suo tempo, collocava Costantinopoli subito dopo Roma e prima di Alessandria e Antiochia. Secondo questa valutazione Costantinopoli verso la fine del IV secolo avrebbe cioè avuto almeno 200.000 abitanti90. Dunque il programma urbanistico costantiniano avrebbe avuto successo. L’imperatore si era mosso seguendo due criteri paralleli: da un lato «favorire l’afflusso in massa di immigrati, dall’altro, incrementare le costruzioni, in modo da poter fornire un tetto ai nuovi abitanti»91. Lo evidenziano alcuni ben articolati
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provvedimenti: tra i quali quello di concedere lo ius Italicum agli abitanti di Costantinopoli che consentiva loro di accedere alla proprietà privata dei suoli, ed anche altri privilegi contenuti in una norma costituzionale92. In sostanza l’imperatore mirava ad attirare nella nuova città i vari curiales delle vicine provincie asiatiche costringendoli a insediarsi a Costantinopoli ed a costruirvi la propria residenza. In seguito Teodosio II abrogherà quei provvedimenti e quelle norme: gli studiosi giudicano ciò una prova indiretta (i provvedimenti erano ormai inutili) del successo del programma costantiniano. Alla morte di Costantino, nel 337, la città si presentava come un immenso cantiere edilizio: erano stati avviati interventi che, con ritmo serrato e con continuità, dureranno ancora per alcuni decenni. I risultati di questo processo di sviluppo si coglieranno chiaramente agli inizi del V secolo cioè sotto Teodosio II. Il quale, registrando appunto il compimento di quel processo, darà corso a un’ulteriore significativa trasformazione di Costantinopoli. Si posero però ben presto seri ed urgenti problemi soprattutto relativamente all’alimentazione idrica. Le infrastrutture per l’adduzione e il deposito di acqua Si deve già a Costanzo II l’avvio, nel 345, delle cosiddette Thermae Constantianae93 nel cuore della nuova città costantiniana: prendeva cioè corpo un vero e proprio organico piano di ampliamento del rifornimento idrico cittadino. Seguirono gli interventi di Gioviano (373) e poi di Valente94: anche se l’acquedotto che passa sotto il suo nome venne probabilmente completato più tardi. È dell’età di Valente il già ricordato acquedotto, parte delle strutture del quale ancora oggi connotano l’immagine di Istanbul. Sono inoltre ricordati anche ulteriori impianti realizzati da altri imperatori. L’acqua, giunta in città, veniva conservata in un enorme bacino di distribuzione, lo uJdrei`on mevgisto" di cui parla Socrate (IV,8) o il nymphaeum magnum, della X Regione, di cui riferisce la Notitia. Rilevazioni archeologiche della metà del secolo scorso e studi più recenti95, indicano inoltre l’esistenza di un ulteriore e ramificato sistema di canali artificiali che provenivano da lontano: probabilmente da una distanza tra i sessanta e i cento chilometri. I canali erano coperti con strutture voltate in muratura e realizzati anche in parte, secondo la tecnica romana del tempo, con tratti di conduttura in marmo. La circostanza che le fonti di approvvigionamento si trovassero a molta distanza dalla città, cioè in zone soggette a possibili attacchi nemici (allora assai probabili) ha consigliato di costruire un grandissimo numero di cisterne in città. Secondo Mango96, il momento culminante e terminale del processo di creazione della rete idrica cittadina si può situare attor-
no all’anno 400, dunque alle soglie del regno di Teodosio II: momento che qui ritengo di assumere come conclusivo dello sviluppo urbano postcostantiniano. Va detto peraltro che la capacità delle riserve venne continuamente accresciuta anche in seguito sino nel pieno del V secolo, cioè anche oltre l’età di Giustiniano. Si arriverà così, alla fine, a riserve cittadine la cui capacità raggiungerà valori altissimi. Solo le tre cisterne a cielo aperto realizzate nel corso del VI secolo assicuravano, secondo i calcoli di Mango, una riserva della capacità complessiva di circa un milione di metri cubi. Vi era inoltre la grande cisterna della Basilica97(la già ricordata Yerebatan Sarayı), quella cosiddetta delle mille colonne (Bin bir Direk) ed altre nuove cisterne, probabilmente un centinaio, tra pubbliche e private. Le cisterne sotterranee maggiori costituiscono anche un interessante capitolo della tecnica costruttiva del tempo. Erano infatti costituite da altissimi ambienti le cui innumerevoli colonne marmoree sorreggevano, mediante archi talvolta con curvature pronunciate, coperture laterizie voltate a crociera. Secondo alcuni queste soluzioni di età tardoantica sarebbero all’origine sia delle volte dell’architettura proto-islamica, sia di quelle pre e proto-romaniche98. Il sistema portuale e i connessi impianti di magazzinaggio pubblico Di notevolissima importanza per il funzionamento della città, e quindi per le linee di sviluppo urbanistico che ne conseguono, è ovviamente il grande programma di ampliamento e ristrutturazione del sistema portuale. In ispecie quanto all’adeguamento delle infrastrutture di magazzinaggio oleario e granario. Per quanto sia stata rilevata l’importanza delle nuove infrastrutture portuali (però non individuate con certezza), non ne è stato sufficientemente sottolineato il significato in termini di sviluppo urbano.
Oltre a quelle tradizionali sul Corno d’Oro, ora tali strutture interessavano anche gli approdi della costa meridionale della penisola, cioè della Propontide, ove si erano già da tempo affermati i traffici di lungo percorso nella direttrice della via Egnatia. Del gruppo dei magazzini situati sul Corno d’Oro presso il già ricordato Prosphorion facevano parte gli Horrea Olearia (depositi per l’olio), gli Horrea Troadensia e gli Horrea Valentiaca e Constantiaca, destinati all’immagazzinamento delle scorte di grano. Mentre gli Horrea Alexandrina, prossimi al porto di Giuliano, erano destinati alle derrate dei commerci con l’Egitto. Si era giunti ad una sorta di specializzazione dei traffici: sul Corno d’Oro, e quindi più protetti, quelli connessi con il vettovagliamento cittadino; in collegamento con le rotte di lungo percorso quelli invece destinati al commercio internazionale. Il sistema portuale troverà compimento tra la fine del IV e gli inizi del V secolo: un Porto Teodosiano verrà sistemato in prossimità di quello di Giuliano e un Horreum Theodosianum andrà ad aggiungersi a quelli più sopra ricordati. Le mura teodosiane La nuova cinta muraria, delineata già nel 413 ma completata solo alla metà del V secolo, è intervento di rilievo nella storia edilizia della città: ne rappresenta il confine ultimo ed anche il limite simbolico. Le mura teodosiane sono caratterizzate, costruttivamente e cromaticamente, da un’opera listata che alterna filari di blocchetti in calcare bianco con fasce di mattoni rosso scuro. Con la loro estensione di oltre 6,5 chilometri; con i tratti delle cortine ritmati dall’alternanza di 96 torri quadrate e ottagonali, a loro volta raddoppiate verso l’esterno da un proteichisma; con le sette grandi porte monumentali; le mura erano ed apparivano veramente imponenti. Cosicché, nell’immaginario medioevale, e ben al di là del semplice ruolo difensivo, esse assu-
12. La testa colossale di Gorgone romana, riutilizzata nella costruzione della cisterna di Yerebatan Sarayı, raffigurata capovolta così come è messa in opera.
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13. La cisterna di Bin bir Direk in un’incisione di J. Carter, della metà del XIX secolo, da un quadro di W.H. Bartlett. Stapleton Collection, Regno Unito.
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14. L’acquedotto detto di Valente segna ancor oggi il paesaggio urbano. Tradizionalmente attribuito a questo imperatore è in realtà opera di più generazioni, compreso un importante restauro in età ottomana.
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mevano la valenza simbolica di esplicitare la diversità tra l’Impero bizantino e i potentati barbarici. Un elemento significativo per la conoscenza topografica della città teodosiana ci viene dalla localizzazione delle porte monumentali: cerniere di scambio tra le principali direttrici viarie esterne ed il tessuto insediativo interno. Di notevole interesse risulta la realizzazione di una nuova Porta d’Oro nella parte, assai prossima al mare, più meridionale delle mura. Sorprende che la traslazione della Porta d’Oro verso un’area più vicina alla costa non abbia suscitato adeguate attenzioni da parte degli studiosi. La localizazione della nuova Porta d’Oro non corrisponde infatti alla direttrice di prosecuzione della via Egnatia: la porta è invece spostata più a sud99. Non è stato dunque sinora risolto il problema di capire la ragione di questa apparentemente insolita circostanza.
Sia l’uno che l’altro erano corredati da una grande colonna coclide. Analizzando i dettagli decorativi della colonna di Arcadio103, si deve concludere, sottolinea Mango104, che nella sua realizzazione vi sia una precisa scelta imitativa, se non addirittura la volontà di realizzare una vera e propria copia della colonna del Foro di Traiano in Roma: «Teodosio, spagnolo d’origine, era considerato discendere da Traiano». Dunque tutti i suoi interventi urbanistico-architettonici, nell’assunzione di noti modelli e nelle intenzionali citazioni, tendevano a marcare la legittimità e la continuità dell’esercizio del potere imperiale. Infatti anche a Costantinopoli, così come a Roma, l’impianto forense comprendeva sia una Basilica coperta, poi bruciata nel 465105, sia una statua equestre dell’imperatore collocata in una corte al di là della stessa Basilica. L’edilizia religiosa
Gli spazi pubblici Sul finire del IV secolo, ce ne informa la Notitia, esistevano a Costantinopoli ben tre luoghi dedicati a Teodosio I il Grande tutti denominati Forum Theodosiacum100. Il primo indicava la località dell’antico, ma rinnovato, Strategion che, secondo i Pavtria, doveva consistere in due zone distinte: l’una, la più tradizionale, destinata alle esercitazioni militari, e, come già detto, in determinati periodi dell’anno al mercato degli ovini101. La seconda sarebbe stata invece utilizzata per funzioni e ritualità ufficiali. È dunque probabile che qui sia stato eretto l’obelisco egizio forse riferibile all’Ippodromo. Più interessanti, sotto il profilo urbanistico, sono gli altri due nuovi fori situati lungo la Mese: il Forum Theodosii, o Forum Tauri, inaugurato nel 393 o nel 394102 e poi il Forum Arcadii, o dello Xerolophos, sistemato nel 403 e situato nel tratto biforcato della Mese che si dirigeva verso sud-ovest.
L’avvio di un programma di edilizia religiosa in senso cristiano è stato ampiamente sviluppato dagli imperatori successivi a Costantino. Che, fatta eccezione per Giuliano (per questo definito l’Apostata), hanno definitivamente condannato la sopravvivenza dei culti pagani. Prevale oggi la convinzione che la costruzione della prima Santa Sofia sia da attribuirsi a Costanzo II malgrado si conosca un lascito testamentario costantiniano destinato alla costruzione del complesso. Comunque la prima fase di Santa Sofia ebbe breve durata: completata verso il 360, venne in pratica integralmente distrutta da un incendio scoppiato nel 404 e ne fu avviata la ricostruzione poi conclusa con la dedica del 415, cioè sotto Teodosio II 106. Molte sono le chiese importanti costruite fino alla fine del V secolo. Tra le quali le due, edificate su iniziativa della imperatrice Pulcheria, di Santa Maria di Chalkoprateia e di San Giovanni di Studios: la prima situata in un quartiere artigiano a
15. L’arco di trionfo di Teodosio I, o “Porta d’Oro”, fatta costruire dall’imperatore nella parte meridionale delle mura, verso il mare, su una direttrice orientata ad Occidente.
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16. Un tratto delle mura teodosiane, che ancor oggi conservano l’impianto originario con fossato, spazio scoperto, antemurale esterno provvisto di torri, e presentano la tecnica muraria che alterna fasce di mattoni e blocchi di pietre.
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nord-est della Mese, la seconda in un’area periferica all’estremo sud-ovest della città e molto al di fuori della cinta costantiniana. Dalla Notitia sappiamo che fino ai primi anni del V secolo vi erano, in Costantinopoli, almeno quattordici chiese degne di essere ricordate. Dunque oltre quelle più celebri, qui menzionate, ne esistevano evidentemente, molte altre di minore importanza. Interessa inoltre sottolineare che già a partire dalla fine del IV secolo si era avuta una notevole diffusione dei monasteri nell’area compresa tra le mura di Costantino e il futuro limite della città di Teodosio II: forse quale effetto dell’editto di Teodosio I107, che vietava esplicitamente tali insediamenti in ambito cittadino. Sappiamo che alla metà del V secolo vi erano a Costantinopoli almeno trenta monasteri e che quel numero si è ulteriormente accresciuto nei secoli successivi.
La città fino all’età di Giustiniano Il flusso immigratorio verso Costantinopoli era andato continuamente aumentando. Secondo Jacoby108, nel 450, cioè alla fine del regno di Teodosio II, Costantinopoli avrebbe avuto quasi 190.000 abitanti. Ma il tracciato della cerchia teodosiana, salvo parziali aggiunte e modifiche, resterà in pratica quello definitivo. Resta problema aperto quello relativo ad alcune opere di palificazione e rinterro realizzate lungo le coste meridionali del promontorio costantinopolitano già ricordato: a sud o a sud-ovest del Foro di Teodosio. Non è chiaro se queste opere, che avrebbero dato luogo all’insediamento di Kainopolis (di localizzazione incerta) fossero state dettate, o no, dall’esigenza di trovare nuovi spazi abitativi. Si pensa invece che altre cause siano alla base di queste iniziative: forse connesse con il progressivo interramento del porto teodosiano. In questo periodo scompare infatti ogni traccia della precedente insenatura che dava luogo ad un ristretto istmo nei pressi della foce del fiume Lykos. Muta comunque sensibilmente il profilo di questo tratto di costa. Insomma è sotto Teodosio II che si completa il progetto costantiniano di città-capitale. Però più avanti nel tempo una serie di avvenimenti mutano profondamente il panorama sociale ed edilizio della città: con un’alternanza di grandi eventi distruttivi e di altrettanto grandiose iniziative edilizie. Traumatico l’incendio del 465: per quattro giorni le fiamme aggredirono incontrastate i quartieri centrali e periferici della città ed otto Regioni furono interamente distrutte per un’area complessiva di circa 250 ettari109. Non furono lesinati mezzi e risorse economiche all’opera di ricostruzione; ma certamente molta parte dello splendore della città tardoantica doveva considerarsi perduta per sempre.
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Tra la metà del V secolo e il terzo quarto del VI una profonda crisi sociale sconvolge poi la società costantinopolitana. Frequenti moti popolari rivoltosi si succedono dunque gli uni agli altri, con cadenza sempre più ravvicinata, tra il 475 ed il 563. Vi si aggiunge la peste del 542 che lascerà un segno decisivo nel tessuto cittadino: oltre la metà degli abitanti perderà la vita e dunque quell’evento ha cambiato per lungo tempo l’assetto della capitale. L’attività edilizia conobbe però ancora fasi di grande vitalità. Sia per le grandi iniziative di Anastasio I e Giustiniano, sia, anche, ad opera della committenza privata: molto attiva soprattutto nel settore dell’architettura religiosa. Le infrastrutture, l’edilizia civile e religiosa Ulteriori fonti di alimentazione idrica, in ispecie cisterne, si aggiungono a quelle precedenti. Le più significative sono attribuite ad Anastasio I e a Giustiniano. Al primo si attribuisce la cisterna di San Mokios, al secondo è quasi da tutti attribuita la cisterna della Basilica di cui si è già parlato. Pare invece attestata l’assenza di interventi sulle fonti esterne di approvvigionamento: considerate sufficienti. Si pensa dunque che la ulteriore realizzazione di grandi cisterne soprattutto nelle aree centrali, sia da riferirsi sia alle accresciute esigenze degli edifici termali, sia alle preoccupazioni per le emergenze difensive. Non molti sono invece gli altri edifici civili pubblici realizzati dai due maggiori «costruttori»: Anastasio I e Giustiniano. Al primo si deve l’avvio alla costruzione delle Terme di Daghistos, poi completate da Giustiniano. Il secondo, stando a Procopio110, realizzò alcuni palazzi suburbani. Ha inoltre un
certo sviluppo l’edilizia assistenziale promossa da Giustiniano: ospedali, ospizi per i vecchi e per gli stranieri, ed anche alloggi per le prostitute. L’incendio e le distruzioni conseguenti alla rivolta Nika del 532 resero necessari massicci interventi di restauro sulla gran parte degli edifici pubblici dell’area centrale della città. Tra i principali, le Terme di Zeuxippos, l’edificio del Senato e addirittura il vestibolo del Palazzo imperiale (la Chalké). Molto più significativi sono gli interventi imperiali nel settore dell’edilizia religiosa. Tra la metà del V e la metà del VI secolo si registra, in questo settore, un notevole incremento nel numero delle iniziative conseguenti alla definitiva trasformazione del cristianesimo in religione di stato. Nel primo quarto del V secolo vi erano a Costantinopoli, secondo la Notitia, quattordici edifici di culto cristiani; nel 536 ne sono documentati oltre cinquanta. Cresce anche il numero dei monasteri urbani: dai trenta della metà del IV secolo si passa ai settantatré documentati nel 536. Nel frattempo si erano però aperte molte controversie (eresie) nel quadro della religiosità cristiana. Molti edifici di culto furono però realizzati su finanziamento di ricchi aristocratici in vista dell’accrescimento del loro prestigio e considerato il progressivo affermarsi di uno stato teocratico. Oltre alla già citata Pulcheria, attiva durante il regno di Marciano di cui era divenuta sposa, si può ricordare Anicia Iuliana: le si deve l’edificazione della chiesa di San Polieucto le cui dimensioni e il cui sfarzo gareggiavano con le più importanti fabbriche imperiali. Ma in questo settore è di assoluto e primario rilievo l’attività di Giustiniano. Anche grazie al De aedificiis di Procopio ne abbiamo un quadro esaustivo: forse con
17 e 18. Disegno del lato meridionale della colonna di Arcadio e della corrispondente base, riprodotti nel Freshfield album del XVI secolo, conservato alla Trinity College Library di Cambridge.
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eccessiva generosità, l’autore gli attribuisce ben trentatré opere. Ma certo le più significative, Santi Sergio e Bacco, una nuova Sant’Irene, una rinnovata chiesa dedicata ai Santi Apostoli111, soprattutto l’eccezionale ed innovativa riedificazione di Santa Sofia (impianto planimetrico e sistema costruttivo si devono ad Isidoro di Mileto ed Antemio di Tralles: entrambi non architetti) hanno inciso in maniera decisiva sugli sviluppi dell’architettura protobizantina. Popolamento e sviluppo urbano: le conseguenze della riduzione della popolazione Come detto la città aveva raggiunto alla metà del V secolo la sua massima estensione. È però possibile che questa non coincidesse con il massimo popolamento; è anzi probabile che nella seconda metà del secolo la popolazione continuasse a crescere almeno sino alla prima metà del VI secolo. Sappiamo infatti che Giustiniano prese drastiche misure per contrastare quel flusso demico. Molteplici sono le
ragioni di questa politica giustinianea. In primo luogo perché il flusso immigratorio riduceva la capacità produttiva delle provincie di provenienza: con ovvia ripercussione sui tributi che da queste stesse provenivano. In secondo luogo perché quel flusso accresceva oltremodo la popolazione cittadina improduttiva che andava a gravare sulle spalle dell’assistenza pubblica. In terzo luogo per esigenze di ordine pubblico. La ricordata peste del 542 rese però inutili questi provvedimenti di controllo dei flussi immigratori: la mortalità per l’epidemia aveva riportato i valori demici alla situazione di quasi un secolo prima. La nuova realtà della società urbana rese anche inutile continuare a costruire le strutture legate all’approvvigionamento idrico ed i magazzini destinati a costituire le riserve cittadine. La spinta espansiva, sia in termini di sviluppo del tessuto urbanistico, sia in termini di popolamento si era fermata. Ed anche le guerre, numerose e non sempre fortunate, intraprese da Giustiniano per nuovamente rafforzare il centralizzante ruolo imperiale hanno ulteriormente pesato sulla vita della città capitale.
COSTANTINOPOLI ARCHITETTURA E SCULTURA NEI PRIMI SECOLI Eugenio Russo
La lenta costruzione di un profilo peculiare «La città, e la città imperiale in quanto archetipo della città, come centro di ogni orizzonte, anche di quello metastorico su cui sorge...», «Costantinopoli come epifania dell’impero universale, dunque» (Carile): ma passando dal piano dell’ideologia al concreto evolversi nella storia, e affrontando quel che rimane dei monumenti d’una città indubbiamente unica, siamo presi dallo sconforto per il destino crudele che ha segnato le sue vicende, anche in considerazione dell’enorme sproporzione tra quanto è conservato e quanto ci viene descritto dalle fonti antiche e medievali. Qual era il carattere della città? La Bisanzio di Settimio Severo non aveva importanza dal punto di vista artistico, come la Costantinopoli dei primi decennii dopo l’11 maggio del 330 non mostra certo una fisionomia autonoma. Costantinopoli, a differenza a esempio di Efeso, non ha un grande passato alle spalle, e non subisce quindi condizionamenti particolari. Indicata come «cristiana» fin dalla fondazione, secondo una tradizione di studi che giunge fino a R. Krautheimer, oggi vien connotata generalmente come «pagana» al suo sorgere da storici e archeologi. Era una città volta al passato, oppure aveva lo sguardo teso verso il futuro (Alföldi)? Un primo aspetto ci colpisce: la nuova capitale, senza una grande tradizione, fu abbellita da Costantino e dai suoi successori con una ingente quantità di opere d’arte più an-
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tiche provenienti dall’Asia Minore e dalla Grecia, oltre a tutto quel che gl’imperatori fecero realizzare. Costantinopoli si presentava dunque come un enorme museo all’aperto. Si pensi che, per esempio, davanti al palazzo di Lausos si ergevano lo Zeus crisoelefantino di Fidia, l’Afrodite di Cnido di Prassitele e la Hera di Samo di Lisippo. Di quel poco che s’è salvato ricordo due opere rimaste in situ e due frutto della «rapina» dei Veneziani a sèguito della presa di Costantinopoli nel 1204, in occasione della IV Crociata. In città restano, sulla spina del circo, l’obelisco in granito fatto erigere – peraltro accorciato di circa un terzo – da Teodosio I nel 390 e proveniente da Tebe (Karnak) in Egitto; e una parte del supporto del tripode bronzeo che i Greci dedicarono ad Apollo a Delfi dopo la vittoria sui Persiani a Platea nel 479 a.C.: è formato dai corpi di tre serpenti attorcigliati tra loro, e un frammento di una delle teste è oggi nel Museo archeologico d’Istanbul. A Venezia, emblematici trofei, si possono ammirare i quattro cavalli di bronzo dorato già sulla facciata di San Marco e i quattro tetrarchi in porfido murati nello spigolo del Palazzo Ducale prospiciente il fianco sud di San Marco. I cavalli, di valutazione controversa, o della fine IV-primi decennii del III secolo a.C., e frutto di Lisippo o della sua scuola (Galliazzo), oppure dell’epoca di Settimio Severo (Vlad Borrelli); e giunti a Costantinopoli da Chio sotto il regno di Teodosio II, senza carro o auriga e posti sulla torre centrale dei carceres del circo, oppure già presenti in città nel luogo del futuro Milion e trasferiti da Costantino su una torre presso l’ingresso nord del circo come parte del cocchio di Helios. I tetrar-
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19 e 20. Alcuni dei sarcofagi in porfido posti nel cortile del Museo archeologico di Istanbul. A fronte, il sarcofago di Teodosio I, con quello di Costantino sulla destra. Qui sopra, sulla sinistra, il sarcofago dell’imperatore Costantino e, a destra, quello di Gioviano.
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chi, collocati a coppie su due colonne – alla stregua dei tetrarchi oggi nei Musei Vaticani – e poggianti su mensole, sono un prodotto artistico egizio di alto livello, data la resistenza del materiale, e la loro presenza nel Philadelphion ipotizzata da P. Verzone ha trovato una clamorosa conferma nel 1965 con il rinvenimento di parte del piede mancante a uno dei tetrarchi durante lo scavo del Myrelaion a sud del Foro di Teodosio: essi rappresenterebbero la seconda tetrarchia, cioè sarebbero stati realizzati dopo il 305 ed entro il 311, e costituirebbero dunque un precoce reimpiego nel Philadelphion, con Costantino glabro quale uno dei Cesari e suo padre Costanzo Cloro barbato quale uno degli Augusti (Laubscher). Sembrerebbe pertanto confermato il carattere pagano di Costantinopoli ai suoi inizii, tanto più che s’è insistito sui riti pagani che avrebbero contraddistinto la fondazione nel 330. Ma, come ha ben visto E. Follieri, vi furono riti pagani e riti cristiani. Addirittura c’è stato chi – dato che Costantino pose come centro irradiatore del nuovo assetto urbanistico il foro omonimo ubicato fuori della cinta severiana – ha congetturato che l’imperatore avesse previsto la cattedrale ugualmente fuori della cinta, da identificare persino nella chiesa dei Santi Apostoli: ch’evidentemente aveva invece la funzione di santuario-martirio con reliquie. Non dobbiamo incorrere nell’equivoco di scambiare il cristianesimo di Costantino con quello di san Luigi Gonzaga: l’imperatore nel fondare la nuova capitale si rifà ai secolari rituali adottati dai predecessori, così come non tocca i tre templi dell’acropoli antica – ubicata sulla punta, dove poi troverà sede la reggia dei sultani ottomani –, dedicati ad Artemide-Selene, ad Afrodite, ad Apollo-Helios, ma li priva delle risorse economiche e ordina la confisca dei loro tesori. E significativamente sùbito a sud fà costruire la prima cattedrale. C’è stato chi ha sostenuto che l’unica chiesa attribuibile con certezza a Costantino è quella dei Santi Apostoli: ma le fonti sono chiare anche a proposito di Sant’Irene. Sant’Irene è la prima cattedrale, e non è un ampliamento di Costantino ma una costruzione ex novo, dato che la sua posizione esclude che possa esser stata edificata su una precedente domus ecclesia. Ancor oggi accanto a Sant’Irene sorge Santa Sofia. È merito di A.M. Schneider l’osservazione che Santa Sofia pregiustinianea si trova su uno stesso allineamento rispetto all’Augustaion, al circo-ippodromo e ai palazzi imperiali, così ch’è ben ipotizzabile un unico progetto costantiniano per tutta l’area. Sappiamo per certo che la prima Santa Sofia fu consacrata da Costanzo II il 15 febbraio 360. Ma non possiamo nemmeno considerare insignificanti le fonti che rivendicano a Costantino la costruzione o quanto meno la progettazione di Santa Sofia. H.G. Beck ha magistralmente delineato la storia di Costantinopoli nel IV secolo: alla morte di Costantino la città era ancora tutta un cantiere e il suo lento sviluppo in primo luo-
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go dovuto al fatto che fino a Teodosio I gl’imperatori vi soggiornarono assai poco, presi com’erano da impegni pressanti. Ciò spiega perché, in presenza dell’edificio di Sant’Irene, la più grande Santa Sofia fosse stata realizzata senza fretta. Se a questo aggiungiamo che la dedica alla Divina Pace e alla Divina Sapienza conferma quell’unità tra i due edifici che anche topograficamente possiam rilevare, che le due chiese – secondo Socrate nella sua Storia ecclesiastica (II,16), scritta nella prima metà del V secolo – costituivano un unico complesso servito dal medesimo clero, e soprattutto che l’allineamento di Sant’Irene giustinianea è assai simile a quello di Santa Sofia pregiustinianea: ecco che il progetto unico costantiniano acquista una concreta consistenza. Concepita secondo dimensioni grandiose, che avrebbero richiesto secoli prima che tutti gli spazii fossero occupati, specialmente dopo l’ampliamento di Teodosio II, la città di Costantino, pur arricchita di tanti tesori provenienti dai centri antichi – una veste degna per una grande capitale – e orgogliosa del tradizionale passato di Roma, è dunque volta verso il futuro. Il suo rispetto verso i culti pagani è formale, non sostanziale: è al futuro del cristianesimo che Costantino guarda, pur muovendosi in una realtà pagana. È emblematico il caso del Capitolium, che Costantino eresse a imitazione di Roma. Il Capitolium, cioè il tempio di Giove capitolino, era ubicato vicino al Philadelphion (Mango), era cioè lontano dal centro antico caratterizzato da palazzo-circo/ippodromo-cattedrale, e lontano anche dal foro di Costantino: è la prova, se consideriamo quanto fece l’imperatore a proposito dei tre templi dell’acropoli, che nel rispetto formale dello schema antico della città, il tempio pagano di Giove si trovava lontano, era decentrato – in quanto polo pagano – nei confronti del polo cristiano, o meglio del centro del potere civile e religioso. È la chiesa di Cristo con la Divina Sapienza ad esser vicina al palazzo imperiale, non il tempio di Giove, che si trova ben distante, dunque in posizione subordinata, rispetto al reale centro del potere. Non è credibile che fosse stato colà ubicato da Costantino come centro della futura città e che la costruzione della cattedrale di Santa Sofia abbia portato a un radicale rivolgimento dei piani di Costantino.
Delle opere costantiniane restano visibili parte della grande curva (sphendóne) del circo/ippodromo e la colonna porfiretica che l’imperatore fece elevare quasi al centro dell’omonimo foro circolare lungo la Mese, a ovest della cinta severiana. La colonna, detta cerchiata o bruciata per le vicende dei secoli, rappresenta ancor oggi emblematicamente la vocazione imperiale della città e la grandiosità della concezione costantiniana, e in origine sosteneva la statua dell’imperatore in bronzo dorato, secondo le fattez-
ze di Helios, con il globo sormontato dalla croce nella sinistra e lo scettro o la lancia nella destra. Il fusto della colonna era in origine costituito di nove giganteschi rocchi di porfido (oggi ne restano otto, di cui sei visibili), di provenienza egizia, le cui giunture sono segnate e mascherate da corone d’alloro dalle foglie dorate. La parte terminale superiore del fusto, danneggiata nel 1106, fu rifatta con blocchi di marmo da Manuele I Comneno (1143-1180): sulla quota stradale primitiva il fusto si estolleva per 37 m. Il porfido, materiale per eccellenza imperiale nella tarda epoca romana, veniva dalle cave dell’Egitto: la sua estrazione terminò alla metà circa del V secolo. I sovrani, che nascevano in una stanza tutta rivestita di porfido (da cui l’attributo di porfirogeniti), affinché il color porpora fosse la prima cosa che vedevano venendo al mondo, erano anche sepolti in sarcofagi di porfido – almeno finché durò tale produzione – nel complesso dei Santi Apostoli: un uso che continuò, con altri materiali, nello stesso luogo, sino al 1028. Noi possediamo un piccolo numero di sarcofagi interi o di frammenti di porfido, e qualche disegno, così che sono state tentate attribuzioni agl’imperatori fino a Marciano (450-457). Secondo le recentissime proposte di Asutay ed Effenberger, il sarcofago di Costantino sarebbe da riconoscere nell’esemplare più grande e tutto conservato della serie, dai lati corti arrotondati e con quattro cilindri laterali1, prima del 337: in precedenza veniva attribuito a Giuliano detto l’Apostata; al figlio Costanzo II il frammento con putti e girali di acanto2, prima del 361, di considerevole qualità – cui apparterrebbe pure una testina di putto oggi a Berlino3 –: esso trova un chiaro parallelo nel sarcofago della sorella Costantina sepolta nell’omonimo mausoleo della via Nomentana a Roma, oggi nei Musei Vaticani, e so-
litamente veniva indicato come resto dell’avello di Costantino. A seguire il sarcofago di Gioviano4, intorno al 364; la cassa di quello di Valentiniano I, cortile della Nur-u Osmaniye Camii, 376-382, e la cassa di quello di Costanza, figlia di Costanzo II, in Sant’Irene5, intorno al 383, oppure viceversa per i due personaggi; il sarcofago di Teodosio I6, dopo il 376; il sarcofago con la cassa dalla pancia arrotondata trovato nel 1750 a Topkapı Sarayı e noto da un disegno, per Giuliano detto l’Apostata e la moglie Elena, forse 390-395; il sarcofago di Elia Eudoxia moglie di Arcadio, in Sant’Irene7, intorno al 404; la cassa di quello di Arcadio, forse nel Museo archeologico8, forse trovata a Topkapı Sarayı nel 1750 e nota da un disegno, prima del 408; sono ignoti i sarcofagi di Teodosio II (dopo il 450) e di Marciano (intorno al 453). Al Museo archeologico vi è poi un timpano triangolare di coperchio9. A parte il frammento con putti vendemmianti e racemi, le casse sono prive di decorazione, il sarcofago attribuito a Costantino si presenta allo stesso modo anche nel coperchio, gli altri sarcofagi mostrano un segno cristiano solo nei timpani triangolari dei coperchi: entro corona e nastri una croce, una croce con le lettere apocalittiche, una croce monogrammatica, una croce monogrammatica con le lettere apocalittiche; nel sarcofago n. 608 di Sant’Irene una croce con anello (l’egizio ankh) contenente il monogramma cristologico. Quest’ultimo segno conferma l’esecuzione in terra d’Egitto di tutti i manufatti; dunque i sarcofagi imperiali di porfido non ci sono d’aiuto per comprendere la produzione di Costantinopoli. È stato merito di F.W. Deichmann l’aver posto a ragione le radici dell’arte di Costantinopoli nelle consuetudini artigianali dei centri dell’Asia Minore occidentale e meridionale, come Efeso, Afrodisia, Side, Perge. E devo dire che le
21. Testina di putto di sarcofago in porfido. Staatliche Museen, Berlino.
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sculture più antiche non rivelano certo una propria peculiarità, com’è il caso dell’architrave a esedra del Museo archeologico d’Istanbul10, che potrebbe provenire dalle terme costantiniane vicino all’acquedotto di Valente, iniziate da Costanzo II nel 345. È oggi opinione comune che la capitale mostri per la prima volta una sua autonoma fisionomia nelle sculture dell’età teodosiana, per cui si parla pure impropriamente di «classicismo» teodosiano. In questi ultimi anni s’è pure fatta strada la convinzione che una variegata produzione di statue o busti di carattere mitologico (Idealstatuen) a decorare complessi sparsi in varii paesi debba esser spostata cronologicamente dal II-III secolo alla seconda metà del IV fino al V secolo. Il fenomeno è stato a mio parere ampliato anche a gruppi per cui rimango ancora perplesso, come le statue provenienti dall’Esquilino oggi nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen o quelle della villa di Chiragan oggi a Tolosa, ma di altre si deve riconoscere la validità d’una datazione tarda. Si tratta di constatazioni importanti, perché implicano non soltanto l’uso di statue più antiche per abbellire le città e le residenze, ma pure l’apprezzamento e la produzione di soggetti «fuori tempo» all’epoca teodosiana per le classi colte: statue o meglio ancora statuette di divinità pagane non potevano mancare in ambienti culturalmente elevati. E nonostante il fatto che i soggetti mitologici provocassero «modalità» esecutive diverse dai ritratti o dai rilievi storici, pure un’analisi formale adeguata rivela l’esecuzione tarda. Si tratta almeno delle statuette di Afrodite, Eroti e Tritone e di Artemide cacciatrice da Saint-Georges-de-Montagne11; il gruppo con Ganimede e l’Aquila di Cartagine, a Tunisi, Museo del Bardo; i gruppi di Hekate trifronte e di Mitra tauroktonos dal mitreo di Sidone, oggi al Louvre; le statue – che c’interessano direttamente – trovate nel 1949 a Silahtaraâa a Istanbul, accanto alla strada che costeggia la riva sud-ovest del Corno d’Oro, per un ninfeo (Helios/Apollo, Artemide, Selene, medaglione con busto femminile, busto femminile di medaglione), oggi al Museo archeologico d’Istanbul. Sono note le opere della plastica di Costantinopoli dell’epoca di Teodosio I e Arcadio: i rilievi della base dell’obelisco di Teodosio
A fronte: 22. La testa di Valentiniano II, particolare della statua trovata nelle terme di Adriano ad Afrodisia e conservata al Museo archeologico di Istanbul. Nelle pagine seguenti: 23-26. Alcune delle statue trovate nel 1949 a Silahtaraâa, a Istanbul: Artemide, Helios/Apollo, medaglione con busto femminile, Selene. Sono tutte conservate al Museo archeologico di Istanbul.
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nel circo (390); i pochi resti della colonna coclide di Teodosio nell’omonimo foro lungo la Mese, sparsi tra le fondazioni del bagno di Beyazıd (1481-1512) e il Museo archeologico d’Istanbul; il rilievo di Cristo e gli Apostoli oggi a Barletta, frutto delle razzie veneziane, testé riconosciuto come lastra di pseudosarcofago; la statuetta forse di Aelia Flacilla oggi al Louvre; i pochi resti della colonna coclide di Arcadio nell’omonimo foro; il sarcofago di Sarigüzel detto del Principe, nel Museo archeologico d’Istanbul12; e nel medesimo Museo un frammento di sarcofago con angelo, da Sultanahmet13, un frammento di sarcofago di Bakirköy14, un frammento di lastra da Yedikule15, un rilievo colossale di Nike16 (di datazione discussa tra IV e VI secolo), il busto di filosofo da Gedikpaşa17; nel Museo nazionale romano un cratere marmoreo; negli Staatliche Museen di Berlino due frammenti di un vaso (s.n. inv.); mentre s’è finalmente capito che il rilievo di sarcofago da Psamathia pure a Berlino18 è in realtà un pezzo classico le cui teste son state rilavorate all’inizio del V secolo. A queste opere si aggiunga almeno il missorium di Teodosio oggi nella Real Academia de la Historia di Madrid, del 388, nonostante qualche voce recente che vorrebbe spostarlo al tempo di Teodosio II. Ebbene la considerazione globale di queste opere – traguardate con la statuetta di Cristo seduto del Museo Nazionale romano e con la statua di Valentiniano II, 387-390, trovata nelle terme di Adriano ad Afrodisia e conservata nel Museo archeologico d’Istanbul19 – ci permette di valutare in modo diverso la produzione teodosiana di Costantinopoli. Partiamo dalla visione comparata delle teste del Cristo di Roma, di Valentiniano II, di Helios, di Artemide, di Selene, dei busti in medaglione di Silahtaraâa: un’analisi attenta delle loro caratteristiche formali e delle modalità esecutive conduce non soltanto a una contemporaneità cronologica, ma pure all’individuazione di concezioni talmente comuni da qualificare un’unica scuola. Quella di Afrodisia. Non si consideri l’aria impersonale e vagamente ottusa, ignara della realtà, che mostrano i soggetti mitologici e che appartiene alla «modalità» del genere, si guardi ai valori tecnici e formali. La testa di Valentiniano, con una straordinaria ricchezza di piani e un virtuosistico sfumato, funge al meglio da guida nella comprensione della plastica teodosiana. All’epoca di Teodosio le figure hanno uno sguardo «pneumatico»: l’occhio è diventato lo specchio dell’anima. Per questo le teste di tutte le figure della colonna di Teodosio, della base dell’obelisco nel circo, della lastra di sarcofago di Barletta, etc., anche quando si tratti di soldati in combattimento, hanno un’aria pensosa, come sospesa, irreale a volte per le situazioni in cui si trovano, appunto perché rappresentano non una situazione ma una condizione. Il volto di Valentiniano, leggermente malinconico, non è sognante come spesso si ripete, bensì presago degli scenarii futuri.
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27-29. Il sarcofago di Sarigüzel, detto “del Principe”, uno dei lati lunghi e i due lati corti. Museo archeologico di Istanbul.
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Ora il Valentiniano trascina nell’orbita di Afrodisia anche la testa di Graziano trovata a Istanbul, oggi nella Collezione George Ortiz di Ginevra, la statuetta della c.d. Aelia Flacilla al Louvre, la testa del giovane Onorio oggi nell’Institute of Arts di Detroit, la testa femminile in marmo pentelico acquistata a Roma nel 1888 e oggi nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen20, il busto di filosofo da Gedikpaşa, specialmente alla luce del ritratto di Teodosio I ad Afrodisia, frutto della rilavorazione di un originale più antico. È interessante notare l’espressione del filosofo da Gedikpaşa in relazione ad analoghi soggetti di epoca precedente: la verità non è più cercata dentro di sé, ma è come attesa dall’esterno. Invece con Cristo il potere divino emana dal maestro, e con il suo viso radioso, rivolto in avanti, «promette a tutti i credenti la beatitudine della visione divina» (Zanker): ebbene niente meglio della statuetta di Roma esprime la forza che promana da Cristo e la consapevolezza della propria divinità. Artemide e Selene da Silahtaraâa riconducono nell’ámbito della scuola di Afrodisia pure l’Afrodite e l’Artemide da Saint-Georges-de-Montagne e il rilievo colossale di Nike, anche in rapporto alla statuetta di Roma. Quest’ultima produce identico risultato per il frammento di Sultanahmet e per il sarcofago di Sarigüzel. Il piccolo sarcofago, di altissimo livello qualitativo, purtroppo in parte non rifinito, ci mostra nei lati lunghi un’immagine straordinaria: due angeli in volo dal fondo verso lo spettatore sorreggono una corona d’alloro contenente un monogramma cristologico a 6 bracci. Per indicare la profondità, e il fatto che la corona è in primo piano, gli scultori hanno posto in basso il nastro annodato e svolazzante al di sopra – cioè al di fuori – della fascia di cornice, mentre gli angeli stessi, con le ali e con i piedi hanno superato la modanatura più interna. Nei lati corti due apostoli, pure al di fuori della
modanatura, acclamano a una grande croce pure poggiata fuori della modanatura e pure più avanti rispetto agli stessi apostoli. Ma qui come per i lati lunghi è una profondità indefinita: quel che conta è la glorificazione, l’esaltazione del monogramma e della croce. Al di là del diverso stato di finitezza, non può sfuggire che due distinte maestranze della medesima bottega hanno operato nei lati del sarcofago; che si ammira per una caratteristica dell’età teodosiana nelle opere di alto livello: la straordinaria euritmia, le cadenze, le variazioni in un quadro di grande armonia. I ritmi cadenzati, le ripetizioni dei gesti che mai diventano monotoni, l’equilibrio delle composizioni, il plasticismo dei corpi congiunto alla spiritualità dei volti, si ritrovano tanto nei resti delle colonne di Teodosio e di Arcadio quanto nelle facce della base dell’obelisco e nella lastra di Barletta. Sottoposte alle ingiurie degli uomini (l’ultima dopo l’agosto del 2005), le figure della base dell’obelisco mediante sottili modulazioni e una raffinatissima applicazione delle proporzioni gerarchiche o simboliche costruiscono composizioni improntate all’esaltazione della maestà imperiale, in un quadro di ieratica fissità nel registro superiore. Certa la presenza di Onorio, Arcadio, Teodosio, Valentiniano II al centro dei lati NO e SO, è discusso se nei lati SE e NE vi siano Onorio, Teodosio, Arcadio oppure (Rebenich) Graziano figlio di Teodosio, Teodosio, Eucherio figlio di Stilicone. Anche nella base son all’opera due équipes diverse della medesima officina, l’una per i lati NO e SO, l’altra per i lati SE e NE. La base fu scolpita dopo la vittoria del 390 di Teodosio su Magno Massimo e su Flavio Vittore e prima della fine dell’estate del 392. Son evidentissimi i nessi tra l’Helios di Silahtaraâa e il Cristo di Roma. Ma questa constatazione ha una portata imprevedibilmente ricca di conseguenze per la fisionomia ar-
tistica di Costantinopoli. M. Bergmann, cui si deve uno dei più significativi contributi sulla scultura mitologica del IV secolo, ha concluso ch’essa, con pezzi distribuiti dalla Spagna all’Egitto, è testimonianza della produzione scultorea di Costantinopoli, dove sono convenute officine microasiatiche: la capitale diventa il centro moltiplicatore del design di tali sculture, che vengono esportate, influenzano «la formazione del gusto generale» e son oggetto d’imitazione. Ma se noi teniam presenti tutte le opere ch’abbiam menzionato, ci rendiamo conto che non è questa la situazione. Perché il Valentiniano II è lavorato ad Afrodisia, e di Afrodisia son pure gli scultori operanti a Costantinopoli per le opere ricordate. Ma il Cristo di Roma, eseguito da maestranze afrodisiensi, non è in marmo microasiatico né proconnesio né greco, è in marmo di Carrara. Ciò comporta che maestranze di Afrodisia han operato a Roma. Cioè la scuola di Afrodisia – che continuerà in patria a esser attiva anche nel V secolo come sempre più studi e scoperte vanno confermando – ha un tale vigore e una tale attività, che non soltanto non si è trasferita nella capitale e ha praticamente cessato di operare in patria – come pensava un tempo Deichmann –, ma ha spostato a Costantinopoli officine attirate dalle agevolazioni e da opportunità offerte dalla capitale e ha anche visto all’opera sue maestranze o officine pure molto lontano in Occidente. Riferendoci all’epoca teodosiana (giacché di marmo di Carrara è ad es. pure il gruppo di statue dall’Esquilino oggi a Copenhagen, frutto degli scalpelli di Afrodisia), la testa femminile di Copenhagen acquistata a Roma, essendo in marmo pentelico, potrebbe anche esser stata lavorata non a Roma bensì a Costantinopoli ed esportata, ma la statuetta di Cristo è risolutiva. Vorrei richiamare qui un solo confronto, foriero d’importanti sviluppi per le ricerche future, a proposito di Ravenna, la testa di Daniele nel sarcofago dell’esarco Isaacio
in San Vitale: pur con tutti i limiti dovuti alle dimensioni e agli scarti strutturali, son innegabili le similitudini con il Cristo di Roma e con le altre sculture citate. A Costantinopoli in epoca teodosiana operano maestranze microasiatiche in cui Afrodisia ha una parte preminente. Ma soprattutto riconoscibile, individuabile. Non s’è creata nella capitale una mescolanza tra le varie officine, una ricerca di vie nuove di superamento delle precedenti identità, un amalgama che produca caratteristiche peculiari: all’epoca di Teodosio non esiste insomma l’autonoma fisionomia di uno «stile» costantinopolitano. Se di Afrodisia si riesce a enucleare un significativo numero di opere nella capitale, non altrettanto è possibile attualmente per le maestranze di centri almeno come Dokimeion e Efeso – per mancanza di paralleli adeguati colà o di là provenienti –, che indubbiamente operarono a Costantinopoli. Il gruppo di Ganimede e l’aquila da Cartagine, ad es., attribuito dalla Bergmann a Dokimeion (il centro di produzione dei sarcofagi detti di Sidamara), è stato ritenuto piuttosto di manifattura efesina da E. Gazda sulla base dell’analisi del marmo. In tutte le sculture incontrate e in quelle che incontreremo non possiamo poi mai dimenticare d’immaginare l’effetto della policromia che le vivacizzava: il colore gioca un ruolo fondamentale nell’arte bizantina. L’assenza d’uno «stile» autonomo costantinopolitano all’epoca teodosiana è confermata dall’esame dei resti dell’arco di trionfo di Teodosio nel Forum Tauri lungo la Mese. Nell’arco è di grande interesse l’adozione di colonne a forma di fusti d’alberi, anzi di grandi clave erculee, poiché tenute dalle dita d’una mano al sommoscapo: in tal modo si celebrava la virtù eroica dell’imperatore. E la cifra astratta dei rami tagliati, nell’apparente naturalismo della forma a tronco, è confermata dal grafismo delle foglie d’acanto appiattite ch’adornano capitelli e cornici orizzontali. In mar-
30. Lastra di sarcofago con la raffigurazione di Cristo e degli apostoli, Museo civico di Barletta. 31. Frammento della colonna di Teodosio I, Museo archeologico di Istanbul.
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32. Missorium in argento con raffigurazione dell’imperatore Teodosio I in maestà, con accanto Valentiniano II e Arcadio, Real Academia de la Historia di Madrid.
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mo del Proconneso, l’arco nelle foglie d’acanto non rivela una particolare individualità. Un pezzo unico per svariati motivi è il grande missorium in argento del 388, oggi a Madrid, rappresentante la maestà di Teodosio I, che ha accanto Valentiniano II e Arcadio. Nell’esergo la Tellus con la cornucopia, rivolta all’imperatore, e i putti alati che gli offrono fiori e frutti, simboleggiano la sottomissione e l’omaggio che il mondo rende ai proprii reggitori in occasione del decimo anniversario del regno di Teodosio. Nell’analisi che E. Kitzinger ha fatto della Tellus, la figura è «in una posa ricercata e artefatta, esibita con consapevolezza e teatralità», e «la forma classicistica è singolarmente unita a un lineare ordine astratto». Ma è nella serliana sormontata dal frontone siriaco, perfettamente calibrata in rapporto alla circolarità del disco, cioè in uno spazio geometricamente definito e di massima schematizzazione e valenza simbolica, che va in scena la più compiuta e astratta rappresentazione del potere. Segno per eccellenza di architettura di potenza dal protiro del peristilio del palazzo di Diocleziano a Spalato, la serliana con frontone siriaco ospita al suo interno, in rigorosa prospettiva gerarchica, i tre Augusti, mentre l’iscrizione costeggia il bordo del piatto compresa entro il basamento orizzontale, che divide inesorabilmente la parte sottostante. La posa dei tre richiama quel che si vedrà poco dopo nella base dell’obelisco, così come i militi di contorno, ma è il modo di raffigurare soprattutto Teodosio ch’è diverso. L’imperatore è rappresentato nella massima frontalità del busto e della testa, secondo uno schema vagamente triangolare che per accentuare l’allungamento della figura in chiave maiestatica non esita ad «amputare» il braccio sinistro del sovrano. Ne consegue una cercata e realizzata sottrazione di corporeità per la finalità dell’esaltazione d’un potere ultraterreno, sottolineato dalla presenza del nimbo. In compenso, per fini espressivi, viene potenziato, pur nello scorcio, il braccio destro, con cui Teodosio consegna un diploma a un alto funzionario rappresentato in scala assai minore. Anche Valentiniano II e Arcadio mostrano una contrazione al braccio sinistro, la cui mano pure regge il globo simbolo del dominio sul mondo: per fini espressivi, si è qui adoperato un espediente ch’era già comparso con i quattro tetrarchi in porfido dei Musei Vaticani, dove la mano spuntava direttamente dal fianco: ma ora in funzione contraria, per esaltare non la fisicità bensì l’incorporeità quale incarnazione della maestà e del potere nella sua atemporalità. L’omaggio terreno all’imperatore è ribadito dai due putti alati – quasi una trasposizione metamorfizzata in omaggio perenne delle vittorie dell’arco di Costantino – recanti fiori nelle mani velate nei triangoli mistilinei del frontone. I volti contemplanti dei sovrani son il concentrato della sacralità del potere. Il tutto ha la forza d’un’apparizione. E il ritratto di Teodosio ritrovato ad Afrodisia comparato con
la testa del missorium fà definitivamente cadere la proposta d’identificazione dell’imperatore di quest’ultimo con Teodosio II.
L’identità trovata e il ruolo dominante Non abbiamo parlato delle decorazioni delle basi e dei fusti delle colonne coclidi di Teodosio e di Arcadio (402) giacché quasi tutte perdute sebbene note in parte da disegni antichi: in esse si guarda al passato delle colonne onorarie romane, ma con l’occhio proiettato nel futuro. Ed è la straordinaria fucina artistica della Costantinopoli teodosiana che nella tensione innovativa delle sue maestranze genera uno «stile» veramente autonomo e inconfondibile nell’epoca di Teodosio II (408-450). È nel secondo decennio del V secolo che possiam osservare questo passo ulteriore, dove non si distinguono più botteghe di Afrodisia o di altri centri, ma dove nell’amalgama delle varie correnti s’è creato un profilo nuovo e preciso. Sul crinale della città, tra la terza e la quarta collina, si conservano i resti di un acquedotto romano a due piani, per circa 1 km. È impropriamente attribuito all’imperatore Valente, in quanto C. Mango ha dimostrato esser stato costruito nel II secolo da Adriano, pertanto non ne parleremo. Il problema dell’acqua a Costantinopoli fu cruciale, e per la raccolta e la conservazione delle acque si disseminò la città di cisterne, che – come vedremo – ci riservano delle sorprese. Un cenno almeno dobbiam riservare alla colossale e inespugnabile cinta terrestre delle mura fatte costruire in nove anni, dal 408 al 416 (Feissel), con la caratteristica tecnica muraria a fasce di mattoni e di blocchi di pietre, dal Corno d’Oro al Mar di Marmara. A partire dall’esterno troviamo un fossato largo 15-20 m e profondo 5-7 m, diviso trasversalmente da 19 muretti; uno spazio scoperto di 15-20 m; un antemurale esterno, largo m 2 e alto m 8, provvisto di 92 torri (di pianta variata, esagonale, semicircolare, quadrata) alte 9-10 m e larghe 4-5 m; uno spazio scoperto di 18-20 m; un muro largo m 3 alto m 11 circa, con camminamento, con 96 torri disposte a intervalli all’incirca di 55 m, di forma da quadrata a ottagonale, larghe 810 m e alte 15-20 m. La struttura, realizzata sotto il prefetto del pretorio Antemio, aveva una larghezza complessiva da 50 a 62 m; nel 447 a séguito di numerose scosse telluriche, si rovinarono 57 delle 96 torri, ma furono ricostruite a tempo di record nello spazio di due mesi; l’ultimo «restauro», di tipo hollywoodiano, iniziato verso la fine del XX secolo, è stato per fortuna interrotto. Nella cinta si aprivano 10 porte principali; le più importanti erano la porta di Charisios in corrispondenza del braccio nord della Mese e la Porta d’Oro o Aurea in corrispondenza del braccio sud
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33. L’atrio della Santa Sofia pregiustinianea, fatta costruire da Teodosio II al posto di quella originaria distrutta da un incendio. È stato portato alla luce dagli scavi archeologici eseguiti prima della guerra davanti all’attuale Santa Sofia. 34. Decorazioni scultoree della Santa Sofia teodosiana.
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35-38. Materiali della Santa Sofia teodosiana: architrave; due architravi con agnelli e palme; capitello di colonna.
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della Mese: partendo dal Milion posto tra il circo e Santa Sofia, la Mese attraversava la città e col braccio sud, uscendo da Port’Aurea, col nome di via Egnazia attraversava tutti i Balcani e giungeva al mare a Durazzo in Albania, collegando la capitale con l’Occidente. La più importante di tutte era dunque port’Aurea. Port’Aurea, abbastanza ben conservata, è protetta all’esterno da due potenti torrioni laterali di pianta quadrata, tutti rivestiti di blocchi marmorei, come marmoreo è il nucleo centrale costituito da un triplice fornice (il centrale di dimensioni maggiori). Fino a epoca recente si riteneva la porta, inaugurata il 23 ottobre 425, opera di Teodosio II, sorta tra il 408 e il 413. Ma J. Bardill ha notato che i torrioni non sono contemporanei alle mura urbiche, sono anteriori, e che i tre fornici arcuati del corpo centrale sono stati ridotti a porte in un secondo tempo: e ha concluso riprendendo la vecchia proposta di J. Strzygowski di vedervi in origine un arco trionfale di Teodosio I, eretto per la vittoria su Massimo tra il 388 e il 10 novembre 391, e incorporato nelle mura urbiche nel 413. Ciò è stato contestato ancor più di recente da E. Meyer, secondo cui la porta Aurea è una porta, non un arco trionfale, e potrebbe benissimo esser stata realizzata all’inizio del V secolo. A noi ora non interessa la datazione della porta, interessa l’osservazione che la riduzione delle aperture nei fornici è avvenuta non originariamente: ebbene i quattro capitelli di pilastro superstiti sono a mio parere senz’altro coevi e della stessa officina di quelli ritrovati nello scavo condotto da A.M. Schneider nel 1935 nel giardino di Santa Sofia, davanti alla facciata, che ha portato alla scoperta dell’atrio dell’edificio pregiustinianeo. Questi prese il posto della prima chiesa, consacrata nel 360 e andata rovinata da un incendio il 20 giugno 404: fu nuovamente inaugurato da Teodosio II il 10 ottobre 415. La ricostruzione di Schneider, in base ai pezzi ritrovati, ci riserva una grande sorpresa: siamo infatti davanti a un’architettura di potenza, dal protiro del peristilio del palazzo di Diocleziano a Spalato al missorium di Teodosio testé esaminato. Si tratta cioè d’un’architettura profana, che in modo inusitato è trasferita davanti a un edificio religioso. Per questo io credo che ne esca rafforzata l’ipotesi di Mathews secondo cui il muro continuo alle spalle del portico colonnato sia contrario alla presenza d’un nartece, ma implichi l’esistenza d’un quadriportico alle spalle del porticato: questi, sormontato da trabeazione piana, si apriva scenograficamente al centro con un’aggettante serliana sostenente un frontone siriaco, in modo che dalla strada si percepisse il senso di potenza promanante dall’edificio della cattedrale. La mia idea è che una simile soluzione, già vista nel missorium del 388, fosse una ripresa di Teodosio II del prospetto costantiniano della Chalké, il grande accesso con porta bronzea del palazzo imperiale prima della ri-
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strutturazione giustinianea (di cui possediamo una descrizione di Procopio): dico questo anche sulla scorta del coevo (al portico teodosiano) ingresso al palazzo imperiale di Ravenna, opera di Onorio, come lo vediamo raffigurato nel celebre mosaico di Sant’Apollinare Nuovo, per tanti versi simile alla ricostruzione del prospetto della Santa Sofia teodosiana. Il prospetto si trova circa 8 m a ovest dell’esonartece della chiesa giustinianea, il portico mostrava resti di pavimento a mosaico e il muro continuo (a circa 4 m a ovest) presenta mattoni con bolli che permettono di datare il manufatto al 413-415 (Bardill). È dunque coevo alla seconda fase della Porta Aurea. Sulla scorta del prospetto e della presenza, sul lato nord, dell’edificio circolare dello skeuophylakion – dove si conservavano gli oggetti preziosi della chiesa e pure appartenente all’epoca teodosiana – gli studiosi hanno cercato di ricostruire la pianta di Santa Sofia pregiustinianea come basilica con tetto ligneo a 5 navate. In realtà sono tutti tentativi che lasciano perplessi, giacché l’esistenza probabile d’un quadriportico congiunta con le dimensioni del portico teodosiano – che sporgeva verso nord di almeno 3 m rispetto al muro nord della chiesa giustinianea – rende problematica la conformazione dell’edificio. Orbene, se esaminiamo i quattro capitelli di pilastro della porta Aurea e i capitelli di pilastro e di colonna del prospetto centrale della Santa Sofia teodosiana, dovuti a una stessa officina, noi notiamo una capacità astrattiva nella resa delle foglie d’acanto, un superamento del naturalismo per giungere a un decorativismo che pone sullo stesso piano le foglie d’acanto con le nervature profondamente incise e gli spazii chiaroscurati tra le punte tangenti dei lobi: essi creano la cosiddetta maschera d’acanto. Basta confrontare questi capitelli con quelli coevi del San Giovanni pregiustinianeo di Efeso per rendersi conto che nulla d’uguale né un parallelo evidente si può trovare fuori di Costantinopoli in Asia Minore. È uno «stile» nuovo e autonomo quello che ci rivela quest’officina della capitale. Il contrasto – come nei capitelli – tra il grande vigore e l’astrazione geometrica con profonde incisioni e chiaroscuri marcati si ritrova nelle trabeazioni, nei cassettonati e nel timpano triangolare. I due architravi, ciascuno con sei agnelli, posti da Schneider a collegare i due capitelli di colonna centrali con i due di pilastro corrispondenti, in modo da farvi impostare la vôlta a botte dell’arco del timpano, ci permettono inoltre di confrontare utilmente e istruttivamente i volumetrici animali e le palme con analoghi agnelli e palme
39. Ritratto marmoreo dell’imperatore Teodosio II, già attribuito ad Arcadio. È stato trovato presso il Forum Tauri ed è conservato nel Museo archeologico di Istanbul.
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simili in una serie di contemporanei sarcofagi conservati a Ravenna. La compresenza di vigore e capacità astrattiva còlta nella scultura architettonica e decorativa di Santa Sofia trova un clamoroso riscontro nell’esame dell’unico ritratto imperiale rinvenuto in città nel 1949 presso il Forum Tauri, in marmo pentelico, nel Museo archeologico d’Istanbul21: il ritratto di Teodosio II attribuibile al 410-420 (Özgan-Stutzinger). La geometrica precisione della testa rivela un potere astrattivo assente nel volto di Valentiniano II: in Teodosio II è l’astrazione idolica a dominare, pur in presenza del modellato più «naturalistico» delle labbra e del mento, in Valentiniano II è il ritratto ancora «atmosferico» che ci colpisce. Sono queste della porta Aurea, di Santa Sofia teodosiana, del ritratto di Teodosio II, le pietre miliari dello «stile» costantinopolitano, proiettato verso il futuro. Della virtuosistica resa formale specialmente del ritratto è quasi superfluo parlare. Merita invece indicare la divergenza che assumono la ritrattistica e la decorazione plastica a Costantinopoli rispetto alla produzione di Afrodisia – un tempo non lontano dominante nella capitale – nel V secolo, a partire dal ritratto afrodisiense di Oecumenius, datato al 400 circa (Smith) e collegato invece ai volti di Valentiniano II e della base dell’obelisco di Teodosio, a paragone col Teodosio II. A Costantinopoli possiam indicare dopo il Teodosio II una linea evolutiva compresa tra il busto di Apostolo22 – vero manifesto della spiritualità cristiana di contro ai sapienti e ai filosofi pagani –, il ritratto di Teodosio II maturo23, la statua bronzea di Leone I (457-474) (Peschlow) nota come Colosso di Barletta. Il ritratto del Louvre, impassibile ed estenuato nella sua fissità, maschera tragica e astratta del potere, rappresenta l’anello intermedio per giungere al Colosso, dove i singoli tratti fisionomici son assemblati in funzione della potente rappresentazione d’un sovrano condottiero, energico uomo d’azione dove sono stati metamorfizzati in cifra astratta i caratteri individuali. Lo stesso ritratto maschile del Museo archeologico d’Istanbul24, del secondo quarto del V secolo, si differenzia sottilmente dalla produzione di Afrodisia: dietro la fissità è da rimarcare l’asimmetria del volto e la notazione individuale della bocca leggermente inclinata. Accanto alla produzione del livello più elevato – in cui desidero ricordare anche il frammento di sarcofago a colonne e arcate conchigliate con la Madonna e il Bambino25 e il frammento di sarcofago con cipresso e cantaro26, messi in rapporto da F.W. Deichmann con i più antichi sarcofagi cristiani presenti a Ravenna, e cinquanta frammenti di testine trovate nello scavo di Saraçhane27 – esiste tutta una serie di manufatti di qualità inferiore, lastre di pseudosarcofagi, come quelli a colonne di Taşkasap28 con Cristo do-
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cente e di Ambarliköy29 con miracoli di Cristo, o come i frammenti di San Giovanni di Studios30, di Fenari Isa Camii31, di Altımermer32, contraddistinti da un intaglio più secco e semplificato e da rapporti proporzionali e compositivi la cui organicità non è sempre rispettata. E tuttavia, a parte le novità iconografiche, è precisamente il carattere sciolto della narrazione – come nell’Ingresso a Gerusalemme di San Giovanni di Studios o nella scena di Giona inghiottito dal mostro marino di Fenari Isa Camii – che c’interessa. E ancor più siamo attratti dalle composizioni in cui prevale una vena fantastica e astratta, come nel ciclo di Giona e nei Tre fanciulli ebrei nella fornace di Altımermer. Orbene, dato che queste opere son tutte in calcare, si riteneva fino a ieri che le maestranze di un livello non elevatissimo non accedessero al marmo ma si limitassero a lavorare il calcare. Ma di recente è stato acquisito dalla Collezione C.S. di Monaco di Baviera33 un frammento di fronte di pseudosarcofago con iconografia analoga a quella di una delle due fronti di Taşkasap e appartenente alla medesima corrente, tuttavia eseguita in marmo proconnesio: il problema era dunque di disponibilità economica, non di preferenza degli artefici per il calcare. Con la lastra di Barletta, della corrente aulica, si è infine compreso che anche chi poteva disporre degli artefici migliori non rifuggiva dal farsi seppellire in uno pseudosarcofago. A questo riguardo va detto che nell’aprile del 1988, durante il restauro delle mura, è stata fatta una scoperta molto importante, quella d’un ipogeo funerario immediatamente a nord della Silivri Kapı. Coperto da vôlta a botte, decorato di pitture nelle due lunette, conteneva cinque sarcofagi o pseudosarcofagi. A sud della torre 37 e con ingresso a sud, mostrava nella parete di fondo un sarcofago in posizione eminente ottenuto con più lastre di marmo: la fronte era decorata da una corona d’alloro con lemnisci terminanti con foglie d’edera, contenente un monogramma cristologico a 8 bracci, e da due candelabri ai lati. Lungo le pareti dell’ipogeo erano quattro pseudosarcofagi, due per lato, con le scene del Discorso della Montagna, la famiglia dei defunti ai lati d’una croce monogrammatica, Mosè che riceve la Legge, il Sacrificio di Isacco. Nelle due lunette le pitture richiamano quelle funerarie di Salonicco: nella lunetta nord, sopra il sarcofago di marmo, compare Cristo tra due Apostoli. Mentre il sarcofago di marmo può esser attribuito ad artefici di buon livello, non di altissimo livello, abituati a lavorare il marmo, le fronti degli altri quattro sono in calcare e si riconnettono alla corrente degli pseu-
dosarcofagi in calcare, sia pure con peculiarità proprie. L’ipogeo cronologicamente si colloca attorno al 415 e alla generazione seguente: una così importante scoperta non è stata all’inizio adeguatamente protetta, così che vandali hanno potuto rovinare i sarcofagi, successivamente portati al Museo archeologico e non esposti; le pitture sono pure in pessime condizioni.
Lo stato delle conoscenze in campo architettonico è tale e le lacune tanto estese, che non ci è possibile delineare un percorso o uno sviluppo dall’età di Costantino. Siamo certi che qui come altrove l’adozione per le chiese della pianta basilicale a sviluppo longitudinale segnò una rottura innovativa, che ha condizionato le vicende successive dell’architettura sacra; ma nulla sappiamo di Sant’Irene, di Santa Sofia, dei Santi Apostoli. Di quest’ultimo complesso – di cui conosciamo la pianta dell’epoca giustinianea attraverso il riflesso di San Giovanni di Efeso e di San Marco di Venezia – si discute se Costantino abbia costruito il mausoleo (Mango) o la chiesa. Conosciamo l’ubicazione delle terme di Zeuxippos presso il circo, ma in base ai bolli dei mattoni siamo in presenza della ricostruzione dopo il 532. Si videro anche i resti del martyrium dei Santi Karpos e Papylos, a pianta circolare e con un peribolo, coperto da una cupola, databile al 400 circa e collegabile con la pianta del Santo Sepolcro di Gerusalemme (Schneider). A nord del circo si sono ritrovati consistenti resti del palazzo di Antioco, il potente eunuco praepositus sacro cubiculo: la sala principale, esagona con 5 absidi inframmezzate da ambienti circolari e insistente su un portico semicircolare, in base ai bolli laterizii è databile al 431/32 (Bardill), e fu poi trasformata in chiesa nel VI secolo disassando l’edificio precedente, con l’introduzione dei bancali del synthronon, l’installazione d’una recinzione presbiteriale e la costruzio-
ne, in corrispondenza degli ambienti circolari, di quattro sacelli a pianta centrale, due con schema cruciforme interno e 8 lati esterni, due a 6 vôlte a botte irraggiantesi dal nucleo centrale e con 12 lati esterni. Le reliquie di Sant’Eufemia, che hanno determinato il nome dell’edificio, vi furono traslate nel VII secolo per impedire che nella vicina Calcedonia esse fossero sottratte dai Persiani. Il palazzo di Antioco sarebbe stato costruito intorno al 431/32, prima che il praepositus cadesse in disgrazia intorno al 436 e il complesso fosse confiscato. Invece non incontra oggi il favore dell’identificazione con il palazzo di Lausos l’edificio accanto a quello, a nord-est, pure del V secolo e la cui rotonda con 8 absidi e due passaggi, insistente su un portico pure semicircolare, fu affiancata a nord-ovest da una sala con atrio a forcipe, caratterizzata dalla presenza di 6 nicchie semicircolari, estradossate, sui lati lunghi (3 per parte) e di un’abside poligonale all’esterno. Da questo poco ch’è rimasto si può solo immaginare la ricchezza e l’inventiva dell’architettura profana della capitale. Ma un’altra acquisizione, frutto di scavi tra le due guerre, ci sorprende: la fonte sacra di Santa Maria Odigitria, nel quartiere di Mangana sulla punta est della città. L’edificio in pianta si presenta del tutto simile alla sala del palazzo di Antioco poi trasformata in chiesa, tanto più quando in una seconda fase l’atrio a forcipe fu collegato a un portico semicircolare come nel palazzo di Antioco. Al centro una monumentale vasca marmorea con 12 lati all’esterno e 6 all’interno e 6 nicchie semicircolari, di cui quattro munite di gradini, corrisponde alla seconda fase, mentre al di sotto è stata trovata (prima fase) una vasca in mattoni, ottagonale all’interno e arricchita da 8 nicchie semicircolari. Possiamo senz’altro attribuire al V secolo la costruzione dell’edificio, forse realizzato da Pulcheria sorella di Teodosio II. La prima chiesa di Costantinopoli di cui possediamo sostanziosi resti è San Giovanni di Studios, dal nome del pa-
40. Il synthronon della chiesa di Sant’Eufemia presso l’ippodromo, oggi non più visibile.
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trizio che la fece realizzare alla metà del V secolo. Trasformata in moschea all’inizio del XVI secolo, rovinata da un incendio nel 1782 e da un terremoto nel 1894, fu nuovamente attaccata dal fuoco nel 1920 e non più riparata. Compare l’abside poligonale all’esterno, caratteristica della capitale, ma certo non per la prima volta: ad es. possiam considerare poligonali anche le absidi del palazzo di Antioco poi divenuto Sant’Eufemia. Preceduto da un quadriportico con nartece, dato che la chiesa era a due piani, l’interno rivela un rapporto tra lunghezza e larghezza tendente al quadrato, con trabeazione piana sulle preziose colonne di verde di Tessaglia (otto per lato) che dividendo la navata centrale dalle due laterali infondono un carattere di classicità alla costruzione; anche nel nartece è coerentemente presente la trabeazione piana. Ma a Costantinopoli non dobbiam mai identificare la classicità con la staticità: non siamo a Roma. La navata centrale è maggiore in larghezza della somma delle due navate laterali (N>2n), e questo potrebbe rafforzare l’idea d’una solennità statica, rafforzata dalle proporzioni tendenti al quadrato. Ma non è così. San Giovanni Battista di Studios ci fà toccare per la prima volta con mano la forza e il significato della luce nell’architettura della capitale. In questo caso è richiesta la nostra partecipazione nella ricostruzione mentale dello spazio interno originario del grande rudere. Nell’edificio con gallerie le finestre (8 in alto, 8 in basso sui due lati, 2 a est al termine delle gallerie, in numero imprecisato nel lato ovest del nartece in alto) illuminano la navata centrale con una luce filtrata da gallerie e colonnati ma abbondante (non era relativamente buia come pensa Krautheimer): e in questo contesto irrompe direttamente la luce attraverso le tre grandi finestre poste nell’abside. C’era quindi come un risucchio spaziale verso l’abside generato appunto dalla luce, ma al contempo un dinamismo che lentamente varia, legato alla posizione del sole, che nel suo movimento fà mutare le prospettive, fino all’effetto pomeridiano inverso rispetto al mattino. Il colore del prezioso materiale usato per le colonne, per lo stilobate del presbiterio, per i pilastrini di recinzione, in contrasto con il marmo del Proconneso di stilobate della navata centrale, di basi, di capitelli (per quanto dipinti), della trabeazione piana, dei plutei che recingevano le navate in basso e in alto e il nartece in alto e il presbiterio, nonostante tutta la decorazione a mosaico e in pittura ch’è andata perduta, ci permette d’intuire l’importanza che la policromia esercita nell’arte della capitale. Si aggiunga anche la ricchezza delle decorazioni marmoree, rappresentata dall’impiego di marmi per le spalle e per l’intradosso degli archi delle finestre al pianterreno, dai portali, dalle mensole (segnate con una croce al pari dell’intradosso degli archi delle finestre), che reggevano la soffittatura delle navatelle, dalle zoccolature, per avere un quadro di grande prestigio entro cui inserire il San Gio-
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vanni, con il suo monastero ch’è stato un faro di civiltà nella trasmissione della cultura antica. Una replica del San Giovanni di Studios è a Costantinopoli la chiesa di Santa Maria Chalkoprateia, pure a schema basilicale con tetti di legno e assenza di pastoforii, persino con la stessa cripta cruciforme che parte dalla corda dell’abside verso il presbiterio: fu costruita, in base ai bolli laterizii, tra il 474 e il 478 (Bardill). Sul lato nord del quadriportico era posto un edificio internamente ottagono con quattro nicchie semicircolari sulle diagonali e due rettangolari sull’asse trasversale: era la cappella di San Giacomo (Mango) – di cui furono portate reliquie –, costruita da Giustino II. Pianta simile e con abside pure poligonale ma con la navata centrale larga come la somma delle navate laterali (N=2n) e con la solea davanti al presbiterio, mostra la chiesa scavata nell’àmbito del Topkapı Sarayı, che aveva sei colonne per parte. Un capitello di pilastro con foglie d’acanto ci fornisce la datazione della basilica, la metà circa del V secolo, non oltre, dati i suoi collegamenti con le foglie dei capitelli della porta Aurea e di Santa Sofia teodosiana. Ancora simile è la pianta della chiesa di Sant’Agathonikos (Müller-Wiener), vista a sud della Mese all’altezza del Forum Tauri. La prima fase, con abside poligonale, risale al V secolo; un capitello di pilastro ci indica un intervento di epoca giustinianea (nella seconda fase l’edificio si presenta con un’abside semicircolare). Vanno ricordati pure il consolidamento della sphendoné del circo negli anni 447-449 (Bardill), immediatamente dopo il terremoto del 447; la rotonda presso il Myrelaion, dal diametro significativo di 100 piedi romani (m 29,60), con otto nicchie, alternativamente semicircolari e rettangolari, che grazie alle foglie d’acanto di capitelli e mensole possiamo porre pure nella seconda metà del V secolo (Naumann); infine nel quartiere di Beyazıd il mausoleo poi trasformato in Balaban Aâa Mescidi, una rotonda con sei nicchie rettangolari, così che all’interno appariva esagonale, da attribuire al V secolo. Questo il quadro dell’architettura di Costantinopoli prima degli edifici del VI secolo. La scultura architettonica di San Giovanni di Studios rappresenta un passo ulteriore rispetto alla Porta Aurea e alla Santa Sofia teodosiana sulla strada dell’astrazione delle decorazioni. Si confrontino ad es. le trabeazioni dei due edifici: a San Giovanni il kymation ionico è scandito maggiormente, anche per le dimensioni e per gl’intervalli adoperati, dal chiaroscuro tra ovoli bordati e lancette. La fascia a
41. Il quadriportico e il nartece della chiesa di San Giovanni di Studios.
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42. La controfacciata della chiesa di San Giovanni di Studios.
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43. La navata centrale e l’abside della chiesa di San Giovanni di Studios. Il pavimento, pur in condizioni precarie, permette di cogliere ancora la ricchezza delle decorazioni marmoree mediobizantine.
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girali d’acanto ha perso vigore nelle foglie e ha guadagnato spazio lo scuro, nel rapporto con il chiaro, rispetto a Santa Sofia; la fascia a foglie-pelte grazie all’impiego del trapano ha una densità coloristica assente a Santa Sofia. Ma è con i capitelli compositi del nartece che meglio misuriamo il cammino compiuto: le foglie d’acanto sono del tipo «finemente dentellato», con frantumazione e parcellizzazione di luci e ombre, la presenza sistematica della lavorazione a giorno nella zona sopra il kalathos – estradosso delle volute comprese – e nell’ipotrachelio è in singolare contrasto con le parti lasciate scoperte della campana del kalathos, soprattutto in alto ma pure in basso tra le foglie dell’ordine inferiore. Costantinopoli dall’età di Teodosio II è la città dominante – non l’unica – in campo artistico. Allo sviluppo della sua arte ha certo giovato anche la presenza, lì accanto nel Mar di Marmara, dell’isola di Proconneso, il cui marmo era esportato almeno fin dai tempi dell’imperatore Adriano. Dal V secolo, con il ruolo svolto dalla capitale, assume carattere industriale l’esportazione di prodotti in marmo proconnesio per tutto il bacino del Mediterraneo e del Mar Nero, favorendo anche la diffusione delle elaborazioni che avvenivano nella città. Non si deve però pensare – convinzione ancor oggi assai diffusa – che si esportassero unicamente manufatti già lavorati e pronti per l’uso, giacché non soltanto per la cattedrale di Stobi, per la basilica A di Nea Anchialos, per la basilica B di Filippi, per il San Giovanni di Efeso, e più in generale per Ravenna nel momento in cui la capitale viene spostata da Milano, ma pure per altre zone, come il bacino superiore dell’Adriatico, Roma, la Palestina, almeno per il VI secolo, noi assistiamo all’esportazione di materiali allo stato di abbozzo e all’attività di maestranze greco-costantinopolitane (oltre naturalmente all’attività delle maestranze locali, nel duplice aspetto d’imitatori o di non imitatori dei prodotti dei greco-costantinopolitani). Tra l’altro tale articolazione, che amplia e arricchisce il quadro, si adegua pure alla realtà della pro-
duzione nelle sue varie fasi di lavorazione e allo stato delle sculture come si sono rinvenute nelle cave dell’isola di Proconneso – i manufatti si trovano in tutti gli stati di lavorazione (ma non i capitelli a cesto, soltanto sbozzati) –, che oggi conosciamo grazie ai fondamentali contributi di N. Asgari. Non erano dunque solo in città gli artefici, ma erano dislocati anche sull’isola, dov’erano in grado di condurre a termine una gran parte dei manufatti. A Costantinopoli si lavoravano sarcofagi non soltanto figurati, ma pure decorati con elementi simbolici, a partire dal sarcofago in marmo proconnesio posto davanti al Museo archeologico34, da Koça Mustafa Paşa, con monogramma cristologico e lettere apocalittiche entro corona d’alloro e due lemnisci in basso con foglie d’edera (da notare pure le semipalmette negli acroterii del coperchio): la sua datazione agl’inizii del V secolo si evince dal confronto con le foglie d’alloro nell’ornamentazione dell’intradosso dell’archivolto frammentario del frontone siriaco nel propileo della Santa Sofia teodosiana. Quando s’interruppe l’estrazione del porfido, alla metà circa del V secolo, gl’imperatori per i proprii sepolcri dovettero far ricorso ad altri materiali: tra questi ebbe un posto in prima fila il verde di Tessaglia, di cui segnalo almeno tre sarcofagi, l’uno all’ingresso35, l’altro all’esterno36 del Museo archeologico, il terzo nell’esonartece di Santa Sofia37; il primo mostra uno schema assai diffuso nei plutei, al centro un monogramma cristologico entro clipeo doppio, nodo in basso da cui partono due lemnisci con foglia d’edera terminale sostenente due croci latine laterali, il secondo sulle facce e sul coperchio un disco contenente la croce, come il terzo. Lo stesso Giustiniano, non potendo usufruire d’un avello di porfido, fu costretto a risolvere diversamente: nel suo caso adoperò un materiale ch’è un unicum, di color grigio-rosato, di cui non s’è identificata l’esatta provenienza: venuto alla luce nel 1959 nei pressi del circo/ippodromo, il sarcofago è stato collocato in una delle corti del Topkapı Sarayı; è ornato da una semplice croce. Nel maggio del 1969 in corrispon-
44. Un capitello del nartece della chiesa di San Giovanni di Studios. 45. Sarcofago in marmo verde di Tessaglia, collocato all’ingresso del Museo archeologico di Istanbul.
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denza della seconda porta del Topkapı Sarayı è stata scoperta la cassa d’un sarcofago in marmo alabastrino, oggi davanti alla facciata del Museo archeologico38, un marmo pure particolare e decorato soltanto da croci a doppio risalto: si tratterebbe del sepolcro di Eraclio (Mango) o di Costantino (869-79) figlio di Basilio (Gnoli). La produzione costantinopolitana ci permette di seguire nel V secolo l’evoluzione del capitello corinzio, con le varianti a foglie di cuoio, a lira, a medaglione, con foglie a piccoli dentelli, con foglie finemente dentellate, etc.; del capitello composito (come si è visto a San Giovanni di Studios); del capitello a 2 zone. Quest’ultimo consiste in due parti divise orizzontalmente, e con decorazioni di carattere completamente diverso: in basso un giro di foglie d’acanto, in alto agli spigoli protomi di ariete o grifone o aquile o colombe inframmezzate da uccelli, cornucopie, decorazioni varie; a contrastarsi a vicenda anche dal punto di vista coloristico e formale. Compaiono anche i capitelli ionici a imposta (o capitelli imposta ionici), in cui il pulvino forma un tutt’uno con il capitello ionico tradizionale: con esempi in città a partire dal San Giovanni di Studios. Un capitello di dimensioni adeguate era posto sopra le colonne onorarie fatte erigere dagl’imperatori. Oltre alla colonna di porfido – però mancante della parte terminale – rimangono in piedi la colonna dei Goti e la colonna di Marciano. La prima fu eretta alla punta nord-est della città, pare per celebrare la vittoria di Costanzo II nel 332 sui Goti: ma il capitello corinzio che sussiste è di epoca severiana ed è stato qui reimpiegato (Peschlow); al di sopra non vi era una statua d’imperatore, ma una di Nike (Mango). L’altra colonna, quella di Marciano, fu eretta da Taziano, praefectus urbi tra il 450 e il 452, pare entro un foro (Mango), secondo la lettura data da I. Yev/enko dell’epigrafe nel lato nord del basamento: quivi due Nikai alate – di notevole plasticità – sorreggono uno scudo, mentre sui tre restanti lati compare il monogramma cristologico entro una corona d’alloro; il capitello (alto cm 149) è corinzio, sopra si trova l’imposta con quattro aquile angolari in bas-
so e la base per la perduta statua dell’imperatore in alto. Nel 1959 nella seconda corte del Topkapı Sarayı fu trovata la parte superiore di un’altra colonna onoraria: due rocchi della colonna (di cui uno solo completo), segnati ciascuno da una cornice bombata marcapiano, l’una con foglie d’acanto e corona di bacche contenente il monogramma cristologico, l’altra con motivo fogliato orizzontale e corona d’alloro con il chrismon a 6 bracci; il capitello corinzio alto cm 238, l’imposta pure adornata da foglie d’acanto e alta cm 117, la base della statua. Sono pezzi che appartengono tutti allo stesso manufatto, dato il diametro di cm 179 circa. U. Peschlow ha con validi argomenti rivendicato la sua esecuzione all’epoca di Leone I (457-474): si tratterebbe della colonna fatta erigere da Eufemia in onore del fratello imperatore nella piazza di Pittakia, immediatamente a nord-est di Santa Sofia. I pezzi sarebbero stati spostati dunque di poche centinaia di metri, quando la colonna fu abbattuta per la costruzione delle mura del serraglio. La conclusione di Peschlow ha un’importanza ancor maggiore nel momento in cui si risolve anche l’attribuzione a questa colonna della colossale statua bronzea di Barletta; le sue dimensioni tra l’altro si adattano assai meglio alla colonna della piazza di Pittakia che a quella di Marciano: il Colosso è dunque Leone I. Nella resa delle foglie d’acanto e delle decorazioni va notato il carattere conservatore ch’esse assumono nelle dimensioni colossali rispetto alla produzione di dimensioni normali. Ma è anche vero che lo sguardo parzialmente – e sorprendentemente – retrospettivo che le colonne di Marciano e Leone I rivelano si può collegare ad alcuni capitelli efesini di alto livello, di datazione tuttavia anteriore, dei primi decennii del V secolo, ed è pertanto probabile che membri dell’officina di Efeso, trasferitisi a Costantinopoli, siano alla base di alcune delle scelte nella decorazione delle due colonne. Quest’inatteso sguardo al passato a Costantinopoli però non rimane un fatto isolato. Si considerino le due basi parallelepipede trovate nella seconda corte di Topkapı Sarayı verso il 1845 e nel 196339 e dedicate all’auriga Porfirio,
A fronte e qui: 46-48. Imposta con foglie d’acanto, capitello corinzio e rocchio di colonna con il chrismon. Appartenevano tutti a un unico manufatto, la colonna onoraria di Leone I, e sono conservati nella seconda corte del Topkapı Sarayı.
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vincitore delle corse delle quadrighe nel circo, e si comprenderà quel che intendo. Nella seconda base c’è addirittura una citazione della base dell’obelisco di Teodosio. Al passato guardano quivi ad es. anche le quattro Vittorie angolari in alto: si pensi al rilievo colossale di Nike40 già ricordato; però non è questa una buona ragione per assegnarlo al VI secolo, dato che nella base si riprendono, con l’usura dovuta alla reiterazione dello schema e impoveriti nella resa formale, modelli come appunto la Nike del rilievo, in cui la differenza formale è data non soltanto da una più alta qualità, bensì pure da un’anteriorità cronologica evidente. Ma, si dirà, si tratta di basi erette in onore di un «mitico» auriga, idolo delle folle – una sorta di Pelè o Maradona dell’epoca, nato verso il 480, cui furono dedicate sette statue sulla spina del circo, l’ultima verso il 540 (Al. Cameron) –, il cui carattere non poteva esser che ripetitivo, senza innovazioni. Ebbene, vi sono ritratti del più alto livello che lasciano scorgere una tendenza analoga, accanto al filone che mostra un’evoluzione astrattizzante. Mi riferisco in primo luogo – stante l’incertezza circa la cronologia del busto femminile con cuffia e rotolo in mano del Metropolitan Museum di New York41 – al ritratto femminile della Ny Carlsberg Glyptotek42, dell’inizio del VI secolo, che si ricollega alla coeva testa di alabastro del Louvre43. Questa è il trait-d’union con il frammento di testa maschile del Museo dell’Alto Medioevo a Roma44, dal Palatino, la cui fissità trova un nesso inscindibile con il c.d. Leone I o Anastasio di Copenhagen: dopo l’inquadramento del Colosso di Barletta nell’immagine di Leone I, pare anche cronologicamente più congrua l’identificazione con Anastasio. Il ritratto maschile di Roma riveste ai nostri occhi un’importanza eccezionale, dato che il marmo in cui fu scolpito è il lunense: è una prova – altre ne vedremo – della mobilità delle maestranze costantinopolitane e della loro attività a Roma all’inizio del VI secolo. Con l’Anastasio di Copenhagen siamo rientrati nel filone astratizzante in cui si colloca il Leone I di Barletta. Ora è significativa l’aderenza alla tipologia del marito – che non nega le fattezze personali ma le colloca in un’aura di estremo distacco, nella lontananza dello sguardo – come si manifesta nell’imperatrice Ariadne (morta nel 515). Di Ariadne possediamo ben tre teste: nei Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori45, nel Museo di San Giovanni in Laterano, con tracce di policromia, nel Museo del Louvre46. Ebbene, altra straordinaria prova di lavorazione a Roma da parte di costantinopolitani, la testa dei Musei Capitolini è di marmo lunense; forse nello stesso marmo è stata eseguita l’Ariadne del Louvre. La ritrattistica imperiale raggiungerà la perfezione idolica nella Teodora del Castello Sforzesco di Milano47, opera prodotta a Costantinopoli probabilmente nel decennio 530-40.
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La rivoluzione di San Polieucto e la risposta giustinianea Su questo quadro si abbattono con la forza di un ciclone le novità sconvolgenti rappresentate dalla chiesa di San Polieucto e dalle sue decorazioni. Costruita nel V secolo, la chiesa fu ricostruita all’inizio del VI secolo: per quanto riguarda le fondazioni sotterranee pare da Fl. Areobindo nel o súbito dopo il 508-9, con cessazione dei lavori nel 511-12, mentre la parte in alzato fu realizzata dalla moglie Anicia Iuliana, dopo la morte di Areobindo, tra il 517-18 e il 521-22 (Bardill). Chiesa sfortunata: ignorata deliberatamente da Procopio nel De aedificiis affinché fosse posta in risalto unicamente l’attività edilizia di Giustiniano, abbandonata nell’XI secolo e spogliata dagli stessi bizantini, ricevette il colpo di grazia dai veneziani in occasione della IV Crociata, come si comprese dopo il suo casuale ritrovamento – si era perduta completamente memoria della sua ubicazione – nel 1960 nel quartiere di Saraçhane: in base ai reperti degli scavi è stato possibile attribuire a San Polieucto ad esempio i pilastri c.d. acritani in piazzetta San Marco e una serie di capitelli messi in opera nella chiesa veneziana. La scoperta di San Polieucto, con le sue sculture di vertiginoso virtuosismo tecnico, costringe a riconsiderare in modo radicale lo sviluppo dell’arte bizantina nel VI secolo. Ne escono sconvolti il vocabolario e la sintassi tradizionali: si pensi ad esempio alla trasformazione del kymation ionico, a ovoli e lancette, come lo abbiamo visto nell’epistilio e nel prospetto di Santa Sofia teodosiana, con gli ovoli bordati e le lancette dalla punta rivolta in basso, secondo lo schema consueto, e come compare completamente modificato, con i suoi collegamenti ad archetto in basso tra ovoli isolati e fiori, nell’ipotrachelio dei capitelli di pilastro e di colonna di San Polieucto. Ben prima del ritrovamento della chiesa per le sculture superstiti le decorazioni erano state messe in collegamento con quelle delle sculture e delle stoffe sâsânidi. Ma appunto la tendenza oggi dominante vuole veder unicamente nelle stoffe figurate il tramite delle novità introdotte con San Polieucto. Una corrente ampia di studi si è preoccupata di ricondurre San Polieucto a un semplice episodio, in cui l’eterogeneità e l’eterodossia della decorazione sarebbero state assai presto riassorbite con le costruzioni giustinianee: insomma un fenomeno di c.d. gusto – dovuto specialmente alla stravaganza d’una ricchissima anziana aristocratica –, che sarebbe stato portato all’unitarietà del progetto e al rispetto delle norme con gli edifici posteriori. In pari tempo si sono volute sminuire le novità delle decorazioni di San Polieucto nella ricerca dei precedenti e con ricostruzioni cronologiche e interpretazioni non valide. Ma per quanti sforzi siano stati compiuti, non si sono trovate spiegazioni sufficienti a inquadrare la rivoluzione provocata da San Polieucto all’interno d’una
49. Le fondazioni della chiesa di San Polieucto, riportate alla luce negli anni ’60 del secolo scorso.
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sorta di sviluppo naturale dell’arte di Costantinopoli. Un’analisi capillare di quanto compare su capitelli di pilastro e di colonna, archivolti, cornicioni e cornici, pilastri, plutei, etc., conferma il mio assunto. È evidente che vi sono anche motivi più tradizionali – come i tralci di vite e i grappoli d’uva negli estradossi delle nicchie, o le croci su disco nei parapetti degli amboni, o monogrammi cristologici entro clipei e corone, con croci, nei plutei – o capitelli corinzii della produzione corrente; ma l’eterogeneità di forme e di decorazioni non è casuale: il loro insieme è dovuto a una fortissima e originalissima personalità che aveva diretta e approfondita conoscenza dell’arte sâsânide e che adoperando con grande fedeltà o adattando tutta una serie di singoli elementi sâsânidi, ha in piena coscienza e libertà elaborato strutture, schemi e modelli. Come l’introduzione del capitello a cesto, circolare in basso, quadrato in alto. Geniale applicazione d’un’invenzione sâsânide da parte del nostro architetto-elaboratore, il capitello a cesto compare improvviso a Costantinopoli; il suo impiego è motivato – come comprendiamo esaminando gli edifici giustinianei conservatisi – dalla necessità di trovare la migliore soluzione per collegare le colonne con un sistema a vôlte soprastante. È una forma non perfettibile: in basso la circolarità è la stessa delle colonne, in alto il quadrato permette di sfruttare al massimo la superficie superiore del capitello a contatto con le murature delle vôlte; inoltre si elimina il pulvino, incorporandone la funzione. Anche per le sculture di non alto livello qualitativo e più tradizionali, San Polieucto ci riserva sorprese importanti: mi riferisco ai pannelli con busti di Cristo, della Madonna col Bambino, di sette o otto Apostoli, che dovevano adornare l’architrave dell’iconostasi della chiesa; ora è certo che furon eseguiti nel VI secolo, e che dunque San Polieucto aveva sin dall’inizio un templon, giacché le teste sono state sistematicamente scalpellate in occasione di quella tragedia ch’è stata l’iconoclastia, non dopo. È probabile che a Costantinopoli l’attenzione ai motivi decorativi persiani, al di là degl’influssi delle stoffe figurate, soprattutto seriche, sia dovuta ad Areobindo, come fanno fede due dei suoi dittici consolari per l’anno 506, conservati al Louvre48 (Kitzinger), a rafforzare un’ipotesi formulata sul piano storico da Mango. Basta confrontarli con il dittico romano di Sividio del 488 (Parigi, Bibliothèque Nationale), per rendersi conto della distanza, pur nella similarità degli schemi, che intercorre nella concezione delle iconografie, tra il classicismo dell’opera romana e l’«esotismo»
50-51. I due pilastri detti “acritani”. Collocati in piazzetta San Marco, a Venezia, provengono in realtà dalla chiesa di San Polieucto e furono trafugati dai veneziani con la quarta crociata.
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dei manufatti costantinopolitani, non certo derivato dalle stoffe. Si tratta tuttavia di forme ridotte, prima dell’esplosione su scala monumentale con la chiesa di Anicia Iuliana. San Polieucto introduce inoltre una nuova concezione del rilievo, lì dove s’impiega la tecnica d’esecuzione a traforo: le superfici sono bidimensionali, e la bidimensionalità può esser superata soltanto «in negativo» mediante la lavorazione a giorno. Quest’idea di profondità è collegata con l’ombra, con lo scuro, mentre balzano ancor meglio in primo piano – potenziate dalla policromia che sempre presentavano – le parti in chiaro alla luce. Il trapano, strumento illusionistico per eccellenza, riesce ad esaltare la superficie e contemporaneamente a smaterializzare la superficie stessa. Le trine colorate si stagliano sui trafori, che operano come un risucchio della materia nel buio d’uno spazio indefinito. Quest’effetto ottico portato con San Polieucto alle estreme conseguenze, grazie anche alla strabiliante bravura delle maestranze, sarà immediatamente compreso e applicato nella capitale. Di San Polieucto non rimane oggi nulla in alzato; ma le sue fondazioni ci consentono, insieme alla presenza del capitello a cesto, di sostenere che la chiesa era coperta da un sistema a vôlte. Il suo scavatore, R.M. Harrison, ha immaginato, per quest’edificio a tre navate, con nartece, esedre, matroneo e cripta, una ricostruzione con cupola che precorre alcuni aspetti cruciali di Santa Sofia. Una recentissima tesi vuole la chiesa a cinque navate coperte da un tetto ligneo: un’idea destituita di fondamento. Per una costruzione a vôlte parlano i due muri di fondazione della navata centrale, dello spessore abnorme di m 7 ciascuno, che non può avere altra spiegazione se non la necessità di sostenere un sistema a vôlte; la presenza di contrafforti nel nartece; i capitelli a cesto su colonne; la presenza di semicapitelli di pilastro, con una parte destinata a esser incassata nel muro, segno ch’essi erano sovrapposti a pilastri addossati alle pareti, per contenere le spinte laterali delle vôlte, come i capitelli a cesto che con la loro forma quadrata in alto postulano di necessità un sistema di vôlte (la zona quadrata dell’abaco è inconciliabile con lo spessore dei muri verticali e con la larghezza dei peducci delle arcate nelle chiese che hanno tetti lignei); ricordo infine che le esedre in una costruzione a due piani presuppongono una copertura a vôlte nella navata centrale. Se c’era una cupola – non ne abbiamo la certezza –, questa s’impostava su un quadrato, o meglio su un cubo, non su un ottagono, dato lo sviluppo longitudinale della pianta. Ora una cupola di 18 m di diametro compare per la prima volta a Costantinopoli, rivela audacia non soltanto tecnica ma anche concettuale, essendo un organismo desunto chiaramente dal mondo orientale, cioè persiano. L’Asia Minore rappresenta una fucina per l’architettura, ma nella fattispecie resta problematico definire gl’influssi di regioni come la Cilicia e l’Isauria.
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52-54. Tre capitelli provenienti da San Polieucto: a fronte, capitello di colonna a cesto con il motivo a maglie di rombi e capitello di pilastro con palma di datteri; sopra, capitello di colonna a cesto, col motivo centrale a palmette e foglie di loto. Museo archeologico di Istanbul.
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Nei versi dell’epigramma ch’era scolpito all’interno e noto dall’Antologia Palatina, che ha permesso con i resti delle nicchie di riconoscere una chiesa altrimenti sconosciuta (Mango-Yev/enko), Anicia Iuliana è detta aver superato la sapienza di Salomone nell’erezione del tempio di San Polieucto. Per questo Harrison ha creduto che la chiesa di Anicia Iuliana fosse la ricreazione del tempio di Salomone o piuttosto del tempio ideale e simmetrico qual è descritto da Ezechiele, anche per le dimensioni esterne di San Polieucto, m 52, cioè 100 braccia «reali» per lato; e il suo superamento, giacché vi si adorava la Trinità, non soltanto il Dio dell’Antico Testamento. Certo la chiesa doveva esser splendidamente ornata anche di stucchi, di sectilia parietali e di mosaici: della decorazione parietale a mosaico è stata trovata nello scavo soltanto una parte di un volto con un occhio. Alla vigilia dell’età giustinianea, San Polieucto ha rappresentato una rivoluzione, e ci permette di comprendere le costruzioni dell’età giustinianea, mentre non trova un’adeguata spiegazione nelle opere che l’hanno preceduta a Costantinopoli e nell’Oriente greco. Senza la chiesa di Anicia non avremmo avuto i capolavori dei Santi Sergio e Bacco, di Santa Sofia e di San Vitale, e tutta l’arte bizantina sarebbe stata diversa. Come dal 1° novembre 1512 l’arte del Cinquecento, e non solo, ha dovuto far i conti con gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, così dal momento dell’apertura di San Polieucto l’arte bizantina ha imboccato una nuova strada.
Le ripercussioni son immediate. A Roma, nella chiesa di San Clemente, il presbitero Mercurio al tempo di papa Ormisda (514-23) fà realizzare il ciborio e l’altare: le opere, a traforo, sono di alto livello, eseguite da maestranze costantinopolitane. Ebbene la mia antica proposta di vedervi la
mano di artefici non romani che hanno lavorato però a Roma, ha ricevuto una clamorosa conferma dall’analisi del marmo dei capitelli, ch’è risultato lunense. Un altro straordinario esempio di mobilità delle maestranze greco-costantinopolitane. La lavorazione a giorno di questi pezzi vede come prototipi le sculture di San Polieucto: se la chiesa di Anicia Iuliana fu realizzata tra il 517-18 e il 521-22, le opere di San Clemente dovrebbero datarsi quasi ad annum tra il 522 e il 523. È vertiginoso il panorama della capitale negli anni dopo il San Polieucto, cioè nell’età di Giustino I e di Giustiniano: la chiesa di Anicia ha fatto esplodere fantasia e creatività, e i riflessi si hanno in tutto il bacino del Mediterraneo e del Mar Nero, dato che la produzione e l’esportazione di manufatti in marmo proconnesio conosce fin dopo la metà del VI secolo il momento di massima espansione, e accanto ai prodotti più tradizionali si lavorano e si spediscono pure le nuove tipologie, eseguite con la tecnica a traforo. A parte i capitelli dei Santi Sergio e Bacco e di Santa Sofia di cui diremo, ecco la rivitalizzazione e l’arricchimento del tipo a due zone con grifoni angolari, come in un capitello del Museo archeologico d’Istanbul49 rinvenuto nel restauro del harem di Topkapı Sarayı, dove il traforo delle foglie in basso trova la contrapposizione plastica dei corpi dei grifi, contrappuntati con maschere fogliate e con protomi di Gorgone; o come due esemplari di recente ingresso, da Sultanahmet50, dove i quattro grifoni son intervallati da due Vittorie alate sorreggenti sul capo un disco con croce. Si assiste all’aumento delle zone, come nei capitelli a tre zone con colombe angolari reimpiegati a Davut Paşa Medresesi; s’incontra pure un esemplare a due zone d’impronta classicistica, con foglie d’acanto in basso e protomi di quattro Pegasi in alto, trovato vicino al circo51, di straordinaria qualità, tanto che i cavalli hanno la dignità di statue: ma una datazione al III-IV secolo è smentita sia dalla la-
56-58. Tre capitelli del Museo archeologico di Istanbul documentano la diffusione delle innovazioni introdotte a San Polieucto. Dall’alto in basso: capitello con foglie d’acanto estremamente dentellate e mosse dal vento; capitello a due zone con Pegasi alati; capitello imposta con busto d’imperatrice.
55. Pannello con busto della Madonna con il Bambino, parte del templon di San Polieucto. Museo archeologico di Istanbul.
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vorazione delle foglie con la punta ripiegata, sia dal motivo nel bordo dell’abaco. E ancora: capitelli a cesto con pigne angolari, capitelli a cesto con maschere fogliate52, un capitello di tipo misto (per metà corinzio, per metà a cesto) con maschere fogliate e cornucopia, trovato a Mudanya53, capitelli a cesto polilobato, capitelli con ghirlande incrociate, capitelli con foglie mosse dal vento54, etc. Da segnalare pure un capitello imposta, da Bakirköy55: sulle fronti un’imperatrice è fiancheggiata da due Vittorie alate, sui fianchi lo schema decorativo deriva dall’arte sâsânide. Nulla dirò di amboni, plutei, transenne, cornici, etc. Richiamo due frammenti di colonne tutte lavorate56, perché c’introducono a una tipologia che non abbiam finora incontrato: la loro datazione a ridosso di San Polieucto è attestata dal trattamento e dalla resa delle foglie di vite, lavorate a giorno nel fondo. In questo contesto vitineo compaiono varie figurazioni, tra cui spicca il Battesimo di Gesù; è possibile che si tratti di colonne d’un ciborio. E ricordo ancora il rilievo con Eracle e la cerva di Cerinea, nel Museo nazionale di Ravenna57: doveva esser parte del ciclo delle dodici fatiche, a indicare la fortuna dei soggetti mitologici (con chiara valenza simbolica) anche nel VI secolo, e dev’esser stato importato a Ravenna nello stesso secolo, mentre il rilievo – resto d’un altro ciclo – presente nella facciata ovest di San Marco a Venezia (Eracle e il cinghiale d’Erimanto) pare decisamente una conseguenza della IV Crociata. Il rilievo di Ravenna è un capolavoro dei piani contratti e compressi e insieme al pezzo di Venezia costituisce l’unica testimonianza scultorea superstite di questo genere nella Costantinopoli dei primi secoli.
addirittura come base una colossale Gorgone romana reimpiegata rovesciata, in funzione apotropaica: però sui capitelli è necessaria la presenza d’un’imposta per collegare il capitello al peduccio della vôlta, di forma quadrata. La seconda, con 224 colonne, è impressionante perché, per aumentarne l’altezza, sono stati sovrapposti due fusti, collegati mediante un dado marmoreo circolare; chiusa per molti decennii, è da qualche anno visitabile, dopo ch’è stato stabilizzato come quota di calpestìo il livello dell’interramento e l’interno è stato pavimentato e adibito a bazar, ristorante e caffè. Solo una piccola porzione ci consente di verificare lo sviluppo verticale originario; ma la visione dell’interno ci mostra una pronta e convinta applicazione – qui come altrove nelle cisterne – del capitello a cesto, in questo caso non decorato, ideale per collegare il cerchio della colonna al quadrato della base delle vôlte, rendendo superflua ed eliminando qualsivoglia imposta. E un altro ritrovato, fors’anche più cruciale, ci svelano le cisterne della capitale: con la moltiplicazione delle colonne e delle vôlte, in un perpetuum che si può protrarre ad libitum nella ripetitività della struttura, le cisterne di Costantinopoli sono giunte molto prima degl’islamici a definire spazii coperti da un gran numero di vôlte rette da colonne, come quelli della moschea di Cordova (Bettini, Brandi), e tolgono all’architettura islamica un primato che generalmente le viene riconosciuto. È nell’architettura bizantina delle cisterne la creazione, che gl’islamici riprenderanno, della prospettiva infinita; e se osserviamo di fronte, avremo un’infilata di vôlte e una fuga di colonne, ma guardando obliquamente ci troveremo dinanzi a un moltiplicarsi di archi intrecciati.
L’acqua ha sempre costituito un problema cruciale per Costantinopoli, fin dai tempi di Bisanzio. Adriano aveva costruito l’acquedotto, ma c’era la necessità di non rimanerne sprovvisti in caso di calamità o di minacce da parte di nemici esterni, dato che la città era dipendente dall’esterno. Per l’approvvigionamento e la conservazione si crearono bacini di raccolta grandi e piccoli, le cisterne. Costruzioni in muratura, erano coperte da un continuum di vôlte a vela o a crociera; erano circa un centinaio in città. Con le cisterne assistiamo a un vero «spreco»: in luogo di pilastri in muratura, come sostegni vennero adoperate colonne con capitelli. Migliaia di colonne e di capitelli, spesso decorati, con un sistema magnifico di vôlte in mattoni, per spazii bui che non sarebbero stati visti da nessuno! Ma uno «spreco» geniale e per noi illuminante. Di tutte le cisterne, consideriamo le due più note, nel rifacimento giustinianeo; quella di Yerebatan Sarayı, la cisterna basilica, di fronte a Santa Sofia, e quella di Philoxenos o Binbirdirek («Mille e una colonna»), a ovest di Sant’Eufemia e a sud della Mese. La prima, con 336 colonne, mostra spesso capitelli corinzii, e ha
La Costantinopoli di Giustiniano rappresenta uno dei momenti forti nel cammino della storia dell’arte, come l’Atene di Pericle, la Roma di Augusto, la Firenze dei Medici, la Roma papale rinascimentale e barocca. Un’akmè che conclude il mondo antico, se mai sia lecito esprimersi in termini tanto sintetici. È un dato di fatto che non assistiamo a un’evoluzione lenta e progressiva, ma alla liberazione di energie creative, alla risposta agli stimoli alle provocazioni alle meraviglie del San Polieucto di Anicia Iuliana. È dunque una reazione al terremoto provocato dal San Polieucto quella che compie l’arte dell’epoca giustinianea, e di conseguenza allo scarto che la chiesa di Anicia ha operato con
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59. Veduta d’insieme della cisterna di Yerebatan Sarayı, nota anche come “cisterna basilica” per l’elevato numero di colonne e l’ampio spazio racchiuso. Sono utilizzati numerosi capitelli corinzi.
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l’arte precedente. In questa reazione, che assume e modifica ed elabora e sviluppa le novità rivoluzionarie offerte dal San Polieucto, l’arte dell’età giustinianea consolida e allarga per certi aspetti lo scarto con quant’era stato prodotto prima della chiesa di Anicia, con una velocità impressionante, che trova un imprevedibile detonatore nelle distruzioni causate dalla rivolta di Nika del 532. Nel giro di pochi decennii si consuma un’esperienza straordinaria, si assiste a una rincorsa, a una tensione, a una volontà d’emulazione, di superamento, d’invenzione che lascerà esausta sul piano artistico Costantinopoli soprattutto dopo Giustino II: l’eredità del passato assumerà un peso determinante, lo sguardo retrospettivo – congiunto alle difficoltà provocate dalle vicende storiche – diventerà una cifra importante per leggere il sèguito degli sviluppi nell’arte della capitale, a differenza di quant’era avvenuto fino allora. La chiesa dei Santi Sergio e Bacco fu costruita da Giustiniano appena divenuto imperatore nell’àmbito del palazzo di Hormisdas, situato a sud-ovest del circo e abitato dal sovrano quando era «soltanto» il nipote di Giustino I: accanto al palazzo nel 519 Giustiniano aveva fatto erigere la chiesa in onore dei Santi Pietro e Paolo, ancora assente a quel tempo a Costantinopoli. Divenuto imperatore, Giustiniano fece collegare, cioè inglobare, il palazzo, sua residenza personale, con il resto dei palazzi imperiali. In base a Procopio, i Santi Pietro e Paolo erano presso il palazzo, poi furono costruiti i Santi Sergio e Bacco e poi di fianco ai Santi Sergio e Bacco anche un altro santuario. Dunque l’edificio – scomparso – ch’era a sud, a destra della chiesa e collegato ad essa mediante un triforio tanto al pianterreno quanto al piano delle gallerie, non poteva esser i Santi Pietro e Paolo (Polacco). Nei primi decennii del secolo scorso sulla sinistra, a nord, si vedevano ancora tracce d’un analo-
go passaggio verso altro edificio, e nei lunghi restauri che hanno apena riportato all’apertura della chiesa, tali tracce sono state ben rimesse in vista: poteva esser il collegamento col palazzo (o con i Santi Pietro e Paolo?). È ancora acceso il dibattito se i Santi Sergio e Bacco erano una chiesa di palazzo o una chiesa monastica che aveva accolto i monaci monofisiti rifugiatisi a Costantinopoli e protetti da Teodora. Pare strano che fosse un monastero di monofisiti, dato che Paolo igumeno del monastero dei Santi Pietro e Paolo e dei Santi Sergio e Bacco sottoscrive nel 536 gli Atti del Concilio contro i monofisiti (Mathews). Pare dunque probabile che il monastero monofisita dovesse esser lì vicino nell’àmbito del palazzo di Hormisdas. Costruiti tra il 527 e il 533 o 536, i Santi Sergio e Bacco costituiscono la pronta risposta giustinianea alla sfida lanciata da Anicia Iuliana con il San Polieucto (Connor). Al lungo elogio che Anicia aveva fatto scolpire nel perimetro interno della navata centrale di San Polieucto, Giustiniano replica con un testo stringato ma scolpito all’identico modo nel fregio del vano centrale, miracolosamente conservatosi. L’esame del contenuto delle due scritte dedicatorie conferma l’idea di risposta alla sfida. Si deve pure notare la scelta di san Sergio, un santo militare orientale, sepolto in Siria non lontano dalla Persia, per la dedica della chiesa, al momento dello scoppio nel 527 della guerra con i persiani, allo stesso modo che san Polieucto era un santo militare orientale (Shahîd). Si dice che risposta a San Polieucto sia stata Santa Sofia. È vero, è stata «anche» Santa Sofia: ma mentre la risposta dei Santi Sergio e Bacco è stata programmata, è una risposta meditata e attuata appena possibile dopo l’ascesa al trono, quella di Santa Sofia appare provocata da una circostanza casuale, imprevedibile, la distruzione legata alla rivolta di Nika del 532; dall’incendio
60. Veduta della chiesa dei Santi Sergio e Bacco dal lato dell’ingresso. Il portico a sei colonne fu costruito dagli Ottomani sull’area di un precedente atrium; il minareto ricorda il suo utilizzo come moschea.
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61. Il triforio centrale della galleria, rivolto verso l’abside. Nella doppia pagina seguente: 62. Veduta d’insieme del vano centrale dell’abside.
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di Santa Sofia è scaturita la risposta definitiva dell’imperatore homo novus all’audacia della grande aristocratica romana Anicia Iuliana. Ma San Polieucto ha lasciato un segno indelebile, che i contemporanei hanno ben compreso. Se le chiese giustinianee rappresentano un «ritorno all’ordine», si deve dire che non è più l’ordine precedente, è un nuovo ordine ch’è costretto a far i conti con la rivoluzione di San Polieucto. Partiamo dai capitelli. Al pianterreno si crea un nuovo tipo, il capitello a cesto polilobato, una reazione all’introduzione del capitello a cesto nella chiesa di Anicia, nel cosciente tentativo di adattare la struttura a cesto con la forma del capitello corinzio e composito tradizionale: ma rispetto al cesto, quadrato in alto, il cesto polilobato dei Santi Sergio e Bacco, mantenendo superiormente la forma dei capitelli tradizionali, incorre negli stessi inconvenienti che s’erano manifestati nel momento in cui sopra i capitelli avevano fatto la loro comparsa gli archi, in luogo delle trabeazioni piane, e ciò aveva portato all’adozione, al di sopra, delle imposte a tronco di piramide rovescia. Non è affatto un caso che nella chiesa i capitelli a cesto polilobato sorreggano al pianterreno una classica trabeazione piana, alla maniera di San Giovanni di Studios, mentre per le gallerie, in presenza degli archi e delle vôlte, sian stati adottati capitelli imposta ionici: i capitelli imposta ionici sono gli unici a poter esser correttamente adoperati – a parte quelli a cesto – in edifici a vôlte, poiché contengono nella loro struttura l’indispensabile tronco di piramide rovescia, per offrire in alto un quadrato come appoggio alla muratura degli archi e degli spiccati delle vôlte; li incontriamo anche a Santa Sofia, a Sant’Irene, a San Giovanni a Efeso. Il virtuosismo dei capitelli polilobati dei Santi Sergio e Bacco – tutti lavorati a giorno, nel continuum ondulato della superficie bidimensionale e nell’alternarsi di luci e ombre dovute al marmo e ai trafori – è certo di grande livello; ma il tipo polilobato non poteva avere una grande fortuna, dal momento che per arcate e vôlte doveva far ricorso a un’imposta soprastante. Naturalmente le novità introdotte dal San Polieucto, oltre ai motivi d’origine persiana, sono ben presenti agl’ideatori e agli artefici nelle decorazioni: si veda ad esempio l’ipotrachelio dei capitelli a cesto polilobato. Ma è la concezione bidimensionale e il trattamento a giorno del rilievo che non posson più esser ignorati dopo San Polieucto. Si può tornare agli elementi classici che compongono il fregio della trabeazione (ma con l’inserimento dell’epigrafe), però poi nei capitelli imposta ionici delle
63. Particolare della trabeazione piana del pianterreno, della chiesa dei Santi Sergio e Bacco, con i capitelli a cesto polilobato.
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gallerie si è costretti a far di nuovo ricorso ai trafori bidimensionali per «aggiornare» la resa formale. Nelle piattabande degli architravi al pianterreno si scolpiscono motivi geometrici che anche nella tecnica esecutiva rimandano alle decorazioni nelle facce dei plutei, e che con ben altra coerenza e rigore verranno ripresi nelle piattabande degli architravi dei finestrati nelle gallerie di Santa Sofia. La scultura architettonica si differenzia volutamente da quella di San Polieucto per le scelte tipologiche: trabeazione piana, capitelli a cesto polilobato, capitelli imposta ionici, capitelli a cesto con decorazione continua e banda centrale verticale (come quelli nel triforio del lato sud del pianterreno), transenne (come le due superstiti rimpiegate nel minbar), sono sì eseguiti da maestranze di alto livello, ma non raggiungono la qualità formale (non si dice l’invenzione) degli analoghi pezzi della chiesa di Anicia. La risposta architettonica manca purtroppo – per una valutazione comparata – del corrispettivo di San Polieucto. Ma appare interessante fin dalla visione della pianta. Può ben essere che le emergenze architettoniche precedenti abbiano condizionato la forma quadrata irregolare dell’edificio, ma balza agli occhi che in una struttura a pianta centrale quadrata sia stato come inserito a forza un nucleo centrale ottagono, e per di più con quattro esedre che sulle diagonali si gonfiano verso l’esterno (mentre sono rettilinei i tre triforii all’ingresso, a nord, a sud) e trovano una vaga corrispondenza nelle quattro absidiole agli spigoli, che tuttavia vieppiù evidenziano la capacità espansiva dello spazio del vano centrale. Tale inserimento come forzato e non sinfonico genera tensioni e drammatizzazioni spaziali che risultano rafforzate e moltiplicate quando si passa alla visione diretta. I Santi Sergio e Bacco sono un edificio a pianta centrale, con galleria e coperto da cupola, vale a dire un edificio a doppio involucro, con corridoio avvolgente sia in basso sia in alto. La luce entra attraverso un doppio filtro nel vano centrale: dalle finestre e dagli ambulacri; con l’eccezione delle otto aperture nella cupola e delle tre nell’abside, dove il tramite è dato soltanto dalle finestre. Trasformata in moschea tuttora officiata (Küçük Aya Sofya Camii, la Piccola Santa Sofia), la chiesa ha perduto tutte le decorazioni parietali, tutta la struttura legata alla liturgia (ambone, recinzione presbiteriale, altare, bancale del clero con la cattedra), le lastre di recinzione nella galleria e ha ricevuto alcune inserzioni in rapporto alla nuova funzione di moschea; ma lo spazio era stato poco alterato, dato che la quota pavimentale è stata rialzata di circa 55 cm rispetto al VI secolo, così che fino agli ultimi restauri ne risultavano coperte le basi delle colonne; oggi invece il pavimento è stato abbassato di circa 40 cm (è dunque soltanto 15 cm circa sulla quota del VI secolo) e sono ricomparse la basi, che sono di forma ottagonale nei plinti, a piedistallo basso nei due del triforio
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64. Particolare di uno dei capitelli imposta ionici della galleria. 65. La cupola a ombrello.
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d’accesso, con uno scalino cortissimo le altre (nella galleria le basi son invece del tipo attico normale). Inoltre fino agli ultimi restauri le decorazioni e i trafori marmorei erano stati resi «sordi» da una mano di calce passata sui marmi. Anche nei Santi Sergio e Bacco la policromia doveva giocare un ruolo importante: ne fanno fede le colonne, di verde di Tessaglia quelle dei triforii tanto in alto quanto in basso e nel nartece in alto, di marmo di Chio quelle nelle esedre sia al pianterreno sia nella galleria (le colonne dei passaggi a nord e a sud sui due piani sono invece di marmo proconnesio), e il resto ad affresco di finta decorazione di marmo policromo e i due successivi piccoli frammenti di marmo colorato di rivestimento parietale appena rimessi in luce, abbassando il pavimento, nell’angolo nord-est dell’ottagono centrale (a farci rimpiangere tutto quel ch’è scomparso). La cupola ci coglie impreparati, ed è di vera genialità: a ombrello – non circolare né a costoloni –, con otto spicchi diagonali concavi, in corrispondenza degli spigoli dell’ottagono, e otto spicchi assiali non concavi ma piatti. In questi otto spicchi assiali sono aperte le otto finestre nella curvatura della struttura, pur se all’esterno compare un basso tamburo verticale. Si legge spesso dell’incombenza della cupola, dell’assenza di verticalismo, di mancanza di slancio, ma la visione diretta consente di verificare, soprattutto oggi, un grande equilibrio nelle proporzioni del vano centrale. La compresenza di cubature tra loro dissonanti si avverte sin da quando si è nel nartece, e si è coinvolti in una vera drammatizzazione spaziale man mano che ci si muove verso il centro. La prospettiva muta incessantemente, il contrasto tra architravi orizzontali in basso e archi in alto, tra spazii concavi e spazii rettilinei, tra espansione verso l’esterno e ingresso contripeto della luce dall’esterno, genera un continuo dinamismo, con tagli di luce sempre variati. Fino agli ultimi restauri si aveva una percezione errata dello spazio, giacché entrando si avvertiva l’effetto sgradevole provocato nel nartece dal taglio netto orizzontale dell’architrave del triforio interno d’ingresso, che impediva la visione del catino absidale, ma oggi – soprattutto considerando la quota del VI secolo – il catino absidale si coglie fin dall’ingresso, sia pur con la «sorpresa» dell’architrave orizzontale. Richiamo l’attenzione sulla tensione spaziale messa in atto dagli ambulacri avvolgenti – senza simmetria, come asimmetriche sono le quattro nicchie angolari absidate –, i quali drammatizzano ulteriormente le proprie strutture a nord e a sud con due restringimenti per lato, generando quelle compressioni e accelerazioni che ritroveremo potenziate nelle navate laterali di Santa Sofia e il cui effetto appare ora in nuce ma ancor più teso. Fin dall’ingresso è il catino absidale il punto focale della visione. Vi sono al pianterreno due posizioni privilegiate, legate all’altare e alla cat-
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tedra, da tener presenti nella comprensione dello spazio. Dall’altare si colgono il triforio d’ingresso, 2/3 delle esedre ai lati del triforio d’ingresso e dei triforii centrali, 5 finestre della cupola, quasi tutta la cupola con il suo andamento «ondulato» e 13 spicchi per intero; dalla cattedra 3 finestre e quasi 2/3 della cupola con 7 spicchi per intero, il triforio d’ingresso e 2/3 delle esedre laterali all’ingresso: lo sguardo è attirato attraverso l’altare sia dal triforio centrale sia dalla soprastante finestra della cupola, la quale ha un suo slancio verticale, pur potendosi percepire sinteticamente fin oltre la sua metà (dunque per tutta l’altezza). Al piano superiore si ripetono tutti i dinamismi e le tensioni spaziali che il movimento al pianterreno ha provocato. Sappiamo dal «Libro delle Cerimonie» che l’imperatore nei Santi Sergio e Bacco assisteva alle funzioni in alto nella loggia: ed effettivamente il punto di vista più privilegiato nella chiesa è quello dal triforio centrale nella galleria. Sempre il catino absidale costituisce il fuoco della visione. Si vedono 2/3 della cupola, con 7 delle 8 finestre, ma nulla delle due esedre laterali al triforio da cui ci si affaccia. Soltanto dal centro dei triforii e delle esedre nella galleria (oltre che dall’altare) si riesce a cogliere appieno con un unico colpo d’occhio la compresenza di architravi piani in basso ed esedre con triforii in alto, ciò che drammatizzando lo spazio gli dà pure slancio verticale. Oggi si crede che il nartece attuale sia cronologicamente posteriore all’ottagono centrale e al quadrato che lo contiene (Svenshon-Stichel). Ma per quanto l’edificio possa aver subìto alterazioni persino nella sua cortina muraria laterale, per via degli edifici che l’affiancavano, possiamo esser certi che fin dall’origine, oltre al nartece, mostrava all’esterno un aspetto assai semplice, anonimo, con pareti lisce e l’abside poligonale all’esterno, in contrasto con l’interno. Ripeto, se con i Santi Sergio e Bacco si pensa a un «ritorno all’ordine», dobbiam dire che lo spazio interno ci ha proposto un risultato fortemente innovativo (in assenza del confronto con San Polieucto).
Stando davanti a Santa Sofia, immaginiamo di trovarci all’esterno del Partenone. Contemplandolo dall’esterno, noi abbiamo «visto» il Partenone: l’architettura greca è un’architettura di esterni. Completamente all’opposto è l’architettura bizantina: il vero spazio dell’architettura è lo spazio interno, e vi è un contrasto voluto tra l’esterno e l’interno, un nascondimento intenzionale degli spazii interni con un esterno sobrio, che diventa anonimo – lo abbiam osservato – nei Santi Sergio e Bacco, per risultare addirittura irritante e provocatorio in Santa Sofia, con i plutei marmorei e i telai pure marmorei dei finestrati, e se è vero – ma non è certo – che le superfici erano rivestite di lastre di marmo.
66. L’esterno della chiesa di Santa Sofia, da sud. Nelle due pagine seguenti: 67 e 68. Due immagini dello spazio monumentale della navata centrale di Santa Sofia.
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69. La cupola centrale di Santa Sofia.
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Mai, guardando dall’esterno quel recipiente con un coperchio da zuccheriera in alto, il visitatore potrebbe comprendere ciò che di lì a poco l’aspetta all’interno. Santa Sofia è il capolavoro dell’architettura mondiale, opera di due scienziati, Isidoro di Mileto e Antemio di Tralles, chiamati da Giustiniano per erigere la nuova chiesa dopo che l’incendio appiccato il 15 gennaio 532 durante la rivolta detta di Nika aveva distrutto la Santa Sofia teodosiana. La costruzione procedette in tempi accelerati, e la nuova cattedrale fu consacrata il 27 dicembre 537. La cupola con cui Isidoro e Antemio l’avevano ricoperta era talmente ardita che, danneggiata da terremoti dell’ottobre e del dicembre 557, crollò parzialmente insieme alla semicupola orientale il 7 maggio 558. I lavori di restauro furono affidati al nipote di Isidoro, l’architetto Isidoro il Giovane, che nell’arco di più di quattro anni portò a termine l’impresa: Giustiniano poté partecipare alla riapertura di Santa Sofia il 24 dicembre 562. Come capolavoro assoluto, la chiesa ha sempre sfidato l’intelligenza dei visitatori, a partire dall’unico scrittore che ce ne parli nelle condizioni antecedenti al crollo, Procopio di Cesarea, e da Paolo Silenziario, che il giorno dell’Epifania del 563 legge la sua Ekphrasis di Santa Sofia rinnovata parte in presenza dell’imperatore, parte davanti al patriarca; e giù giù fino agli architetti dei sultani (Santa Sofia fu trasformata in moschea da Maometto II nel 1453, è museo dal 1935) e ai visitatori e studiosi dei nostri giorni: tra tutte le letture, rimane ancora insuperata per acutezza quella di C. Brandi. Ci si è accorti sùbito che il progetto è stato concepito unitariamente, e gli studi hanno mostrato che le basi proporzionali tutto coinvolgono, fino ai pannelli dell’opus sectile (De Angelis d’Ossat) e ai capitelli della navata (Hoffmann). Per comprendere la genesi della pianta della chiesa bisogna partire dai Santi Sergio e Bacco: se noi tagliamo a metà, come una mela, la pianta dei Santi Sergio e Bacco, e tra le due metà inseriamo un quadrato, noi abbiamo lo schema di Santa Sofia (Wulff). Si tratta dunque d’un intenzionale collegamento iniziale con quella ch’era stata la prima e meditata risposta a San Polieucto, per sviluppare un progetto straordinario. Soltanto in tempi assai recenti, e grazie a strumenti di grande precisione, V. Hoffmann è riuscito a enucleare, per il progetto iniziale, la figura geometrica dell’analemma (costituita da un quadrato che contiene un piccolo cerchio ad esso tangente ed è contenuto da un altro cerchio tangente agli spigoli), che si lascia trasformare in un cubo intersecato al centro dei lati da una sfera e ch’è alla base del progetto di Santa Sofia tanto per la pianta quanto per l’alzato. Tale figura, con il quadrato centrale di 100 piedi bizantini, ha permesso pure di ricostruire la curvatura della prima cupola, che risultava più bassa di 25 piedi rispetto all’attuale (come aveva correttamente indicato lo storico bizantino Zonara). Noi infatti vediamo la Santa Sofia nei rifacimenti d’Isidoro il Giovane, il quale fu costret-
to a rinforzare i quattro piloni centrali chiudendo anche arcate e creando contrafforti posteriori, a consolidare, diminuendo le dimensioni delle finestre, i due grandi lunettoni sopra i colonnati e a rialzare il sesto della cupola, che oggi risulta più alta di circa 7 m rispetto alla primitiva (la cupola, in séguito a terremoti, è stata in parte rifatta nel X secolo dall’architetto armeno Trdat e nel XIV secolo). Immaginata anche dagli studiosi come vôlta a vela, la prima cupola aveva in realtà un sesto molto ribassato e nella curvatura s’aprivano le finestre, come nell’attuale (40), che però è costolonata (dunque rinforzata) a differenza dell’altra. L’impostazione avviene pure su quattro pennacchi sferici. È significativa la scelta del cubo, di origine orientale, per impostare la cupola, mentre i pennacchi sferici rimandano senz’altro al mondo greco-romano. Le finestre dei lunettoni in origine in alto potevano esser a lunetta e tripartite come quella sul nartece in facciata. Certo, anche per le parole di Procopio, la luce in origine doveva entrare più copiosa. Isidoro è riuscito nell’impresa di non snaturare il progetto iniziale: per quanto rialzato, il sesto della cupola è tale da permettere al visitatore di cogliere sin dall’ingresso la cupola fino alla sua sommità (Michelis). Attraversati il quadriportico (scomparso) in cui s’alternavano due colonne e un pilastro, l’esonartece e il grande endonartece, il visitatore si trova immerso in un mondo «altro», diverso e autosufficiente. L’idea della chiesa come microcosmo era espressa al tempo, come vediamo da un inno siriaco per la consacrazione a santa Sofia della cattedrale di Edessa alla metà circa del VI secolo, con interpretazione in chiave cosmica e biblica dell’edificio, secondo la teologia dello Pseudo-Dionigi, e come ritroviamo in parte pure per il kontakion scritto nel 562 per la seconda consacrazione della chiesa costantinopolitana: in alto la cupola come il cielo, i mosaici come il firmamento, gli archi i quattro lati del mondo, in basso il pavimento come il mare. Santa Sofia è immagine della liturgia celeste, è il luogo dove la Sapienza del Padre ha preso dimora tra noi. Per rendere questi concetti ci si è serviti del cubo e della sfera, ordine dell’universo e sua forma fisica (Hoffmann). Perduti la solea, l’ambone, la recinzione presbiteriale, l’altare e tutti gli arredi, il synthronon e tutti gli arredi, restano l’edificio con la sua spazialità e le decorazioni parietali: tentiamone un approfondimento. I materiali più preziosi son stati adoperati: marmi provenienti da ogni dove a rivestire le pareti, colonne di verde di Tessaglia nella navata centrale e nella galleria per le esedre, otto colonne di porfido di reimpiego per il pianterreno delle quattro esedre, grandi lastre di marmo proconnesio per il pavimento, con le venature a richiamare appunto le onde del mare (e ricordo ch’era non a mosaico, bensì a grandi lastre di marmo il pavimento più pregiato). Gli artefici erano del più alto livello. Come nei Santi Sergio e Bacco, entro una sorta di quadrato (m 71 x 77) è inserito
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il nucleo centrale quadrato, con le due semicupole e le esedre: e si ripropone, ampliata e moltiplicata, ma meno tesa, quella drammatizzazione spaziale ch’avevamo sottolineato nella chiesa presso il palazzo di Hormisdas. Non si tratta solo della mobilità dello sguardo di cui parla Procopio, di quel movimento dell’occhio che si sposta da un punto all’altro attratto da visioni sempre nuove; mi riferisco all’impiego di ritmi diversi tra pianterreno e gallerie per le colonne della navata e delle esedre, ai restringimenti e agli allargamenti delle navate laterali sia al pianterreno sia nelle gallerie, alla presenza di coppie di colonne di altezza inferiore collegate mediante una sorta di archi rampanti alle colonne al centro delle navate sia al pianterreno sia nelle gallerie (e quivi pure con un interasse difforme rispetto al colonnato). L’espansione dei volumi, il loro trascorrere dal vano centrale alle esedre alla semicupola alla cupola, è stato colto già da Procopio; come pure da lui è stato individuato il ruolo della luce: «In verità si direbbe che questo luogo è illuminato non dall’esterno grazie al sole, ma che la luce è generata in esso», dato che «una tale sovrabbondanza di luce si riversa in questo tempio»: dove la luce riflettendosi sulle pareti a sua volta ne rimbalza in modo centrifugo. È in quest’equilibrio-dinamismo tra movimento centripeto e dilatazione centrifuga che viene immerso il visitatore. Ma il visitatore oggi: in origine il fedele. E il fedele in questo spazio ch’è una creazione nuova viene irresistibilmente spinto verso Dio. Sentiamo ancora Procopio: «E quando si entra nella chiesa per pregare, si comprende sùbito che quest’opera è stata resa armoniosa non dall’abilità umana né dall’arte, ma per influsso divino. Così, la mente sollevata verso Dio, si innalza verso il cielo, credendo che non può essere lungi, ma ama dimorare in particolare in questo luogo ch’Egli stesso si è scelto». Non è un caso se Giustiniano alla consacrazione della chiesa nel 537 poté esclamare: Salomone, ti ho vinto! Certo il riferimento ad Anicia Iuliana è chiaro, ma lo è pure al «sentimento» del divino che si prova al suo interno. E l’interno è speciale grazie anche alla maestria con cui si sono sfruttate le opportunità offerte dal doppio involucro. Stando nella navata centrale si è dentro un doppio guscio traforato, anche se la luce supera un solo filtro nelle finestre della cupola, delle semicupole, delle semicalotte delle esedre e dell’abside, del doppio ordine nell’invaso dell’abside, dei lunettoni della navata centrale, della lunetta sopra il nartece. Lo spazio aggirante, con le sue colonne e i suoi pilastri, si pone veramente come «interno-esterno-d’un-interno» (Brandi), e nella navata centrale si ha la percezione d’un interno al quadrato. La luce con i suoi significati filosofici e teologici si avvale, nella costruzione dello spazio, di due elementi imprescindibili: il colore e lo spessore delle superfici. Nel mondo bizantino il colore ha una funzione essenziale nella fisicità e nella smaterializzazione della ma-
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teria. È attraverso il colore che le superfici perdono la loro bidimensionalità: si pensi alle venature dei marmi sul fondo colorato dei marmi stessi. Si pensi ai trafori, che – come s’è visto con San Polieucto e come non si è potuto più prescindere dopo la chiesa di Anicia – con le loro luci e ombre, i pieni e i vuoti, creano una profondità alle superfici: e a Santa Sofia il traforo compare non soltanto nei capitelli e nelle pareti nell’estradosso degli archi nel pianterreno e nelle cornici dei pannelli di opus sectile nelle pareti anche dell’abside, ma persino – imitato a opus sectile – negli estradossi delle arcate delle gallerie. Uno spessore alla parete ottenuto anche mediante le cornici dentate che circondano i pannelli di marmi policromi. È una «sinfonia drammatica» quella che ci propone l’interno di Santa Sofia. Ricordo che la smaterializzazione della materia nei trafori è dovuta pure alla policromia stesa sui marmi del Proconneso. Lo stesso effetto di smaterializzazione e di spessore è ottenuto mediante il fondo oro dei mosaici su cui spiccano le decorazioni aniconiche: il medium è diverso, trafori nei marmi, opus sectile, fasce di stucco, mosaico, ma il risultato è il medesimo. Un vero Gesamtkunstwerk Santa Sofia, in cui tutto è riconducibile a un medesimo risultato e all’unitarietà del progetto nella sua ideazione e nella sua realizzazione. Nella scultura soltanto è possibile il confronto con San Polieucto: e notiamo che vi è un aggancio esplicito ai Santi Sergio e Bacco nell’impiego dei capitelli imposta ionici traforati negli spazii avvolgenti delle gallerie e dei capitelli a cesto polilobato nell’atrio del battistero, e un’altrettanto esplicita distinzione nella scelta dei tipi e delle decorazioni rispetto a San Polieucto. Nei capitelli imposta ionici s’è – come ai Santi Sergio e Bacco – adottato il tipo a volute angolari, che hanno lo scopo d’eliminare l’asse del capitello, in funzione della fruibilità libera del capitello stesso su ogni lato (nei capitelli doppi della loggia nella galleria i pulvini a indicare l’asse sono presenti): e questo egregiamente avviene negli spazii laterali delle gallerie, mentre nei Santi Sergio e Bacco tale tipologia si trova non soltanto nella galleria del nartece, ma pure, meno coerentemente, nelle archeggiature delle esedre nelle gallerie che si aprono sullo spazio centrale. Nell’atrio del battistero compaiono due capitelli a cesto polilobato, pure introdotti nei Santi Sergio e Bacco ma assenti a San Polieucto. Nella navata centrale e nelle esedre si è creato un nuovo tipo, che però esso pure mostra, al pari degli altri, la medesima concezione del rilievo rispetto a San Polieucto: il capitello con campana del kalathos circolare anche in alto (il c.d. Kesselkapitell o capitello a conca), rifacendosi in maniera diretta al capitello di colonna di San Polieucto con cornucopie angolari oggi a Barcellona, e in più aggiungendo in alto i pulvini del capitello tradizionale ionico, in modo da segnare anche l’asse del capitello: una ri-
70. Uno dei capitelli a conca con pulvini, traforati, nel pianterreno della chiesa di Santa Sofia. Nella doppia pagina seguente: 71. Le decorazioni parietali del pianterreno.
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cerca di armonizzazione con il passato, come lo è il tipo a cesto polilobato dei Santi Sergio e Bacco, nel momento dell’adozione delle imprescindibili novità introdotte con San Polieucto. Ma il tipo a cesto, quadrato in alto, non è perfettibile: così che, come nell’esemplare oggi a Barcellona, il capitello a conca dev’esser sormontato da un’imposta quadrangolare – a formare un pezzo unico – che funga da raccordo con la soprastante muratura, sulla scorta e a imitazione degli analoghi capitelli di San Polieucto. Rispetto a San Polieucto i motivi decorativi dei capitelli sono meno dinamici, ma mai statici. Va fatto almeno un cenno alle due cornici orizzontali marcapiano pure lavorate a traforo, ma con foglie d’acanto più tradizionali, e al complesso delle travi di legno del pianterreno e delle gallerie, che mostrano motivi decorativi di origine persiana sulla scorta di San Polieucto: ma tali decorazioni son assai diffuse a Santa Sofia, trovandosi un po’ dappertutto. L’insieme dei plutei delle gallerie mostra nelle due facce esiti formali e strutturali differenti: nella faccia rivolta all’esterno, verso la galleria, entro precise partizioni geometricamente definite dalle cornici modanate, una superficie di fondo non affollata, ampia e luminosa, in cui la luminosità è ottenuta mediante la levigatezza e la qualità del marmo e in cui le parti a rilievo schiacciato e modulato emergono non per un gioco d’ombre, bensì come zone e risalti luminosi su fondi luminosi; nel lato verso l’interno, il motivo ricco di gole e listelli e modanature, in cui la decorazione centrale è racchiusa da uno o più rombi entro un quadrato o un rettangolo, con ben diversi esiti plastici e chiaroscurali. È una sorta di «double face». Orbene la decorazione interna doveva esser fruita dal basso e da lontano, a differenza dell’altra: vi è dunque una ben precisa ragione strutturale, che tutto unifica ed esalta, in questa scelta così diversa. S’è tenuto conto della posizione del fedele in rapporto al gioco delle luci, che giungevano da varie posizioni, specialmente dall’alto, di fronte e dietro le lastre, e si sono precisamente calcolati in conseguenza il tipo e le modalità del rilievo. Anche per la faccia delle lastre rivolta verso le gallerie si fu così abili e attenti, che non si levigò perfettamente il marmo, appunto per evitare un effetto di «specchio», e al centro si pose un motivo decorativo studiato in modo che potesse risaltare anche nei momenti di massima intensità di luce. Tutto a Santa Sofia è calcolato. In chiesa erano presenti anche transenne, al modo dei Santi Sergio e Bacco: oltre a quelle sopra il presbiterio nelle gallerie, ne sono state di recente identificate tre antiche
72. La galleria di Santa Sofia, veduta dal nartece verso la navata centrale.
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tra quelle che delimitano la loggia del sultano (Barsanti), un organismo eretto dai fratelli Gaspare e Giuseppe Fossati tra il 1847 e il 1849, i quali dunque reimpiegarono le tre e fecero eseguire per il resto delle imitazioni. Ai restauri dei fratelli Fossati, al loro rispetto del monumento, alla loro prudenza si deve se Santa Sofia è giunta sino a noi. All’angolo sud-ovest della chiesa si è salvato il battistero, trasformato dal 1623 in Türbe (mausoleo) per il sultano Mustafa I e poi per Ibrahim e per altri membri della dinastia. Le strutture per questo si sono abbastanza ben conservate. Dopo aver esaminato la chiesa, il battistero appare del tutto tradizionale, quadrato in pianta all’esterno, ottagono all’interno e in alto all’esterno, con quattro nicchie semicircolari sulle diagonali, ricavate nello spessore dei muri, abside sporgente a est, tre nicchie rettangolari poco profonde all’ingresso e sull’asse trasversale, coperto da una cupola. A ovest si apriva la porta (oggi ridotta a finestra) che dava su un atrio trasversale coperto da crociere. Un altro atrio con portico è a nord, per la comunicazione con la chiesa. Una gigantesca vasca monolitica di marmo, in origine al centro dell’edificio, è stata spostata sotto il portico nord al momento della trasformazione in mausoleo.
Dall’akmè al suo rapido epilogo Se la pianta di Santa Sofia, propriamente longitudinale, si percepisce all’interno dell’edificio sostanzialmente come centrale, per via del cubo sormontato dalla cupola, con i suoi due movimenti ascendente e discendente, e a motivo delle semicupole a est e ovest e le navate su due piani a nord e a sud; nella ricostruzione della prima cattedrale, Sant’Irene, sùbito a nord di Santa Sofia, dopo l’incendio del 532 durante la rivolta di Nika, si optò decisamente – alla maniera di San Polieucto – per una basilica longitudinale a vôlte, coperta da una cupola. Il 26 ottobre 740 un terremoto la danneggiò seriamente, così che, pur rispettando la pianta del VI secolo, la costruzione dovett’esser in gran parte rifatta. Nel VI secolo Sant’Irene si presentava con quadriportico, nartece, due campate coperte con vôlte a botte, una vôlta a botte di collegamento con la cupola su pennacchi sferici, una vôlta a botte sopra il presbiterio, l’abside con la semicalotta e semicircolare all’interno, poligonale all’esterno, alla maniera delle chiese della capitale almeno a partire da San Giovanni di Studios. Otto colonne, quattro per parte, dividevano lo spazio centrale sotto la cupola dalle navate laterali, disposte su due piani (dunque 2+2 colonne per ogni lato); un finestrato si apriva nei lunettoni al di sopra delle gallerie ch’erano i muri nord e sud sottostanti la cupola. Sant’Irene era dunque una chiesa a tre navate con doppio involucro, con tutte le caratteristiche di questo tipo d’edifici.
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È un fatto abbastanza strano che per un edificio ch’era stato la prima cattedrale e ch’era una fondazione imperiale – come fanno fede i monogrammi di Giustiniano e di Teodora sulle imposte –, si sia adottato per i capitelli il tipo ionico a imposta, cioè un tipo tradizionale. I capitelli non sono certo all’altezza, né come tipologia né come resa formale, di quel ch’era avvenuto dopo la «rivoluzione» di San Polieucto. A Sant’Irene non troviamo i capitelli a cesto, e nemmeno assistiamo alla messa in opera di capitelli ionici a imposta lavorati a traforo, come s’è visto in precedenza. È vero però che a San Giovanni a Efeso abbiamo capitelli analoghi a quelli di Sant’Irene, pure con i monogrammi di Giustiniano e di Teodora nelle imposte del braccio ovest. Pare quasi che si siano esperite tutte le possibilità – o che non se ne vogliano cercare altre – dopo i capitelli di Santa Sofia, e che s’intenda tornare a un tipo decisamente tradizionale, con l’asse ben marcato dai due pulvini, come a stabilire un limite alle fughe in avanti: ma in una struttura a vôlte e a cupola che non è più quella tradizionale. Queste osservazioni sui capitelli mi portano a confermare la datazione dell’inizio del rifacimento di Sant’Irene non immediatamente dopo la rivolta di Nika – dato che tutte le energie intellettuali e materiali erano concentrate nell’edificazione di Santa Sofia –, ma più tardi, negli anni ’40 o primi ’50 del VI secolo (Peschlow); nel 564 la ricostruzione era già completata. Dopo il terremoto del 740 l’impianto è rimasto il medesimo: ma all’interno una vôlta a vela copre le due campate di ovest, e quivi al pianterreno il pilastro del VI secolo di spartizione è stato affiancato da una colonna con capitello, nello spazio sotto la cupola al pianterreno sorreggono la galleria quattro colonne con capitelli per lato, e la cupola è impostata su un tamburo cilindrico – evidente anche all’esterno, contraffortato – sopra i pennacchi sferici, così che le spalle delle finestre sono aperte nel muro verticale, non nella curvatura della cupola. Soprattutto la ricostruzione dell’VIII secolo ha eliminato le gallerie vôltate nelle navate laterali, creando un’unica campata a ovest, e impostando sulle navate laterali una copertura con vôlte a botte trasversali tanto nella campata a ovest quanto nello spazio a nord e a sud della cupola: è su quattro vôlte a botte che s’impianta ora la cupola con i pennacchi sferici e il tamburo cilindrico. I grandi lunettoni finestrati vengono di conseguenza spostati nelle pareti esterne, e raddoppiati di numero, da due a quattro, dato che vengono creati anche in corrispondenza della campata a ovest. In questo modo l’interno non è più a doppio involucro ma assume la spazialità d’un edificio cruciforme. È certo una realtà spaziale nuova, con una cubatura e una dilatazione diverse, e l’atmosfera è certo suggestiva, ma s’è perduta la complessità anche coloristica oltre che concettuale e volumetrica offerta dal doppio involucro, né vale a creare dinamismo la messa in opera di quattro colon-
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ne per lato sotto la cupola: il ritmo serrato dei colonnati non contribuisce ad alcuna accelerazione. Le navate laterali sono in posizione del tutto subordinata, anche dimensionalmente, rispetto alla navata centrale dominata dalla cupola. Va detto che all’interno si può godere della spazialità antica senza le sovrapposizioni determinate dalla trasformazione in moschea, e si conserva ancora il synthronon nel giro absidale: Sant’Irene, ricadendo entro le mura di Topkapı Sarayı, era stata adibita ad arsenale.
I capitelli a conca con due pulvini in alto, come quelli del circuito interno di Santa Sofia, non ebbero fortuna a Costantinopoli. Ma trovarono puntuale applicazione, poco dopo la costruzione di Santa Sofia, in una chiesa rinvenuta casualmente nel 1943, durante i lavori di ampliamento della Facoltà di Lettere dell’Università nell’area di Beyazıd, la chiesa A di Beyazıd. Una chiesa a tre navate, dalle proporzioni tendenti al quadrato (come già San Giovanni di Studios), con la navata centrale predominante (N>2n) sostenuta da cinque colonne per lato e con ogni probabilità munita di gallerie, per via anche del nartece anteriore. Essa da un lato ci dimostra la forza e l’impatto della novità dell’inusitato tipo a cesto e il desiderio d’imitazione del modello della cattedrale, dall’altro il limite di tale impiego: infatti la chiesa A, con lo spessore esiguo dei suoi muri, doveva esser coperta da un tetto di legno (Firatlı). Orbene nella chiesa A si dev’esser verificato quanto ci è dato di vedere a San Demetrio di Salonicco, a San Vitale di Ravenna e nella basilica eufrasiana di Parenzo, dove per metter in opera i capitelli a cesto si è dovuto far ricorso – in presenza del tetto ligneo – a una soprastante imposta di raccordo con la muratura. Varii esemplari di capitello a conca sono superstiti, rovinati, oggi nel Museo di Santa Sofia58, almeno uno già nel Museo di Santa Sofia59 oggi al Museo archeologico60, ma, a conferma della presenza dell’imposta (nell’area ne è stata trovata una), dallo scavo della chiesa A son emersi pure tre capitelli imposta ionici, oggi nel Museo di Santa Sofia, evidentemente da altre parti (come il matroneo?) dell’edificio. Ch’era riccamente decorato, come fanno fede un frammento di capitello di parasta, frammenti di cornice, le colonne in verde di Tessaglia, l’ambone ricomposto nel Museo di Santa Sofia. Inoltre gl’incassi nelle basi delle colonne ci indicano la presenza di lastre di divisione tra le navate (Firatlı), allo stesso modo del San Giovanni di Studios nel V secolo (Peschlow). Se la chiesa A aveva il tetto di legno, le chiese B e C del complesso presentavano una copertura a vôlte. La loro datazione è discussa. La chiesa B mostrava il presbiterio tripartito e al centro una vasca: un battistero o una fonte sacra. Nell’attigua cisterna sono stati trovati mattoni con bolli dell’imperatore Maurizio, e se non sono di reimpiego la
73. La navata laterale nord della chiesa di Sant’Irene, (si veda anche l’immagine di p. 221).
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chiesa si potrebbe identificare con la Theotòkos Diakonissa, costruita dal patriarca Ciriaco nel 597-98 (Bardill). La datazione comporterebbe conseguenze interessanti, dal momento che avremmo entro la fine del VI secolo il primo presbiterio tripartito a Costantinopoli. Particolarmente dolorosa, tra le tante, è la perdita di San Giovanni Battista in Hebdomon, perché presentava una pianta simile, per com’è stata ricostruita, al San Vitale di Ravenna, ma doveva esser coperta da un sistema a vôlte, ed era una replica, senza la genialità e la complessità dell’edificio ravennate, dovuto a un grande architetto costantinopolitano: fu fatta costruire da Giustiniano poco prima del 555; e non doveva esser un tipo isolato, giacché Procopio ci descrive la scomparsa chiesa di San Michele in Anaplo alla stessa maniera di San Giovanni in Hebdomon. Si deve alla filologia di C.L. Striker se negli scavi e nei restauri della Kalenderhane Camii (Santa Maria Kyriotissa) tra il 1966 e il 1978 si sono potute enucleare le varie fasi della storia della chiesa con annesso monastero. Una prima chiesa si addossa all’acquedotto di Valente e ne sfrutta quattro piloni, inglobandone tre nella navata sinistra: è una chiesa a tre navate, con nartece, matroneo, tetto di legno e un’alternanza di pilastri e colonne per sostenere una navata centrale assai ampia (N>2n): la chiesa nord pare già dell’epoca di Giustino II. A fianco, ma orientata precisamente, viene costruita più tardi, pare negli anni posteriori al 687, una chiesa «a bema», con le medesime caratteristiche dell’altra – che continua a sussistere –, vale a dire a tre navate, con nartece, matroneo, tetto di legno, mentre al pianterreno nella navata centrale vi potrebbero essere tre colonne per lato, nella galleria cinque per lato; da notare che la na-
vata sinistra è larga meno della metà della navata destra, ma sempre è predominante la navata centrale (N>2n). La chiesa «a bema» sopravvive fino alla fine del XII secolo, mentre la chiesa nord è già abbandonata dal X secolo, e tra il 1195 e il 1204 è costruita la chiesa principale, poi trasformata in moschea. Uno sviluppo graduale che tiene conto delle preesistenze, a partire dall’età romana: possiamo senz’altro dire che la prima chiesa, a nord, nell’adattarsi all’acquedotto romano, non persegue un progetto architettonicamente ambizioso, ma s’inserisce utilitaristicamente in un contesto già costituito secondo uno schema costruttivo tradizionale, che poi trapassa senza traumi nella chiesa della fine del VII secolo. Pare la fotografia della situazione nella capitale dopo la grande, esaltante stagione di San Polieucto, dei Santi Sergio e Bacco e di Santa Sofia, anche nel campo della scultura: in questa una rarità di schemi innovativi, di contro all’apertura al nuovo, all’arricchimento degli schemi che si può verificare a Nicea, in Tracia, a Salonicco, a Yakacık in Bitinia, a Efeso, in centri cioè che possiamo definire egei, nella seconda metà del VI secolo, precorrendo un fenomeno che si potrà osservare nella scultura mediobizantina. Nella capitale invece alla fine dell’età di Giustiniano pare concludersi un ciclo: si veda un capitello col monogramma di Giustino, ch’è Giustino II, non I, oggi riadoperato in San Marco di Venezia61, a cesto con le pigne angolari, che per la biforcazione del gambo della pigna-carciofo, per le foglie dell’abaco-imposta, per la completa trasformazione delle semifoglie ai lati della foglia centrale, per la perdita di precisione nel tratto e nel contorno, per la semplificazione e l’impoverimento degli elementi, per il raggelamento della foglia centrale; ci rivela una distanza formale che diven-
ta di necessità anche cronologica rispetto agli esemplari di età giustinianea. A Yalova in Bitinia sono conservati capitelli a cesto col monogramma di Giustino II e di sua moglie Sofia: ebbene anche qui l’insicurezza del tratto, l’abbandono della tecnica a traforo, l’approssimazione dei motivi nell’ipotrachelio e nell’incorniciatura dei pannelli trapezoidali, l’appiattimento delle foglie, la semplificazione di lobi e nervature; tutto concorre a qualificare tali prodotti, in un edificio di fondazione imperiale, come una stanca e abitudinaria ripetizione di schemi e modelli divenuti tradizionali, e come tali usurati.
Quando però vengono stimolati dal contesto in cui si trovano a operare e dalla particolarità della committenza, gli artefici greco-costantinopolitani riescono a dare ancora il meglio di sé, come si verifica in varie circostanze a Roma nella seconda metà del VI secolo, specialmente in occasione della recinzione del presbiterio sopraelevato di San Pietro in Vaticano alla fine del secolo.
Nella grande area dei palazzi imperiali quasi tutto è andato perduto. Ritrovamenti spesso frammentarii e casuali non permettono di ricostruire con grande precisione un quadro attendibile dell’articolazione del complesso, e si è costretti per questo a ricorrere soprattutto alle fonti scritte. L’ultima scoperta rilevante è recente, nei lavori tra il dicembre 1997 e il luglio 1998 nel cortile dell’ex prigione per la trasformazione in albergo, a sud-est di Santa Sofia. È stata trovata una porzione dei palazzi, con strutture a pilastri e otto vôlte, di epoche differenti, a partire dal VI
secolo, e con pannelli di pitture a motivi geometrici e floreali, posteriori al VI secolo. L’unico scavo intenzionale, condotto nell’area dall’Università di St. Andrews dal 1935 al 1938 e dal 1952 al 1954, ha però portato a un rinvenimento eccezionale, un peristilio con portico di m 66,50x55,50, con 12 colonne sui lati lunghi e 10 sui lati corti e il pavimento a mosaico, e sull’asse una sala absidata di m 30x15, che secondo una recentissima proposta di J. Bardill sarebbe l’Augusteus, l’aula principale delle udienze. Le colonne del peristilio con le basi e i capitelli misuravano complessivamente m 7,20 in altezza. Ma è il mosaico che, seppur perduto per l’85%, ha sùbito attirato l’attenzione: restaurato tra il 1983 e il 1997 sotto la direzione di W. Jobst, che ha compiuto anche uno scavo al di sotto, è visibile nella sua sede, il Museo dei Mosaici, a sud-est della moschea blu. È di eccezionale qualità, e un unicum nel panorama dei pavimenti del tempo. Su un fondo color avorio sono disposte singole scene senza legame tra loro, di carattere bucolico o pastorale, con giochi di bambini, combattimenti tra animali e tra uomini e animali, scene di vita campestre, anche temi mitologici nel lato est, etc., per un totale in origine di 1872 mq. Le immagini sono disposte in modo da esser osservate stando nel giardino del peristilio, cioè nell’interno della struttura. Una fascia contiene il fregio che borda il mosaico, con un tralcio di acanto abitato da frutti, uccelli, animali e maschere umane, di straordinaria perizia. Non c’interessa ora ricercare le origini del repertorio, nella Roma del I e II secolo, a riprova della temperie ellenistica che anima le figurazioni; ci preme invece rimarcare la bellezza, la finezza, l’amalgama della tavolozza cromatica, un gusto infallibile nell’accostamento dei colori, l’assenza delle file scure di tessere nei contorni, che
74-75. Due scene di animali dal grande mosaico del palazzo imperiale. Museo dei mosaici di Istanbul.
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76-77. Particolari di una scena di vita campestre e di un fregio con un mascherone, dal grande mosaico del palazzo imperiale. Museo dei mosaici di Istanbul.
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sono giocati con le tessere dello stesso colore o della stessa gamma cromatica, segno del pittoricismo che pervade le figure. Per raccordare le figure al fondo avorio i mosaicisti adoperano quand’occorre una o due file di tessere avorio nel contorno. Ma vorrei spendere una parola sul fondo avorio, che fà da tramite tra le figurazioni, l’una indipendente dall’altra. Il fondo è avorio, dunque neutro, indefinito come il fondo oro, ma al contempo non amorfo come sarebbe con le tessere messe in file orizzontali, bensì palpitante di un senso plastico e contemporaneamente «neutro», grazie alla realizzazione a pelte. Il fondo è allo stesso tempo vivo, non inerte, e discreto, rispettoso, non invadente, il medium ideale, in un «vuoto» attivo tra le figurazioni, per isolarle e al contempo riunificarle nell’insieme. Il fondo, grazie al trattamento a pelte, perde la valenza bidimensionale e acquista uno «spessore» analogo a quello ch’abbiam già individuato come caratteristica delle pareti della Santa Sofia e mette, col suo ruolo attivo e discreto, ancor più in rilievo il plasticismo delle figure. Orbene, un tale trattamento del fondo è circoscritto ai mosaici pavimentali di Siria e Libano: Huarte, chiesa nord, Michaelion; Huad, San Giorgio; Hueidjit/Halava; el-Kursi, battistero; Mezra‘a el-‘Ulia; Seleucia Pieria, martyrium; Sueida, chiesa a 5 navate; Khan Khaldé, chiesa superiore, terzo annesso, e chiesa inferiore,
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lato sud del presbiterio; Zahrani, davanti alla porta sinistra del nartece; pannello a mosaico nel Museo di Cleveland, di provenienza siriaca, con Adamo ed Eva che mangiano il frutto proibito. Ma in questi mosaici quasi sempre tra le pelte è inserito un petalo di rose, che rende decorativo il fondo, rovinando completamente l’effetto raggiunto nel Grande Palazzo; oppure il motivo a pelte non è coerente o non vi sono grandi spazii bianchi tra i motivi; segnalo che nel pannello oggi a Cleveland non vi sono petali tra le pelte. È dunque una deliberata ripresa e applicazione d’un sistema reperibile in àmbito siriaco, con modifiche sostanziali e adattamento ad ampie superfici di fondo, quella che mettono in atto i mosaicisti del peristilio per raggiungere il risultato indicato. Il pavimento a mosaico appartiene alla seconda fase del peristilio, come ha chiarito lo scavo del 1987-88: la prima fase appare anteriore alla fine del V secolo, la fase del mosaico è compresa entro il 550 (Jobst). La recentissima proposta di Bardill di datare il mosaico alla fine del VI o alla prima metà del VII secolo sulla base del bollo di un solo mattone caduto probabilmente da una delle vôlte della sala absidata, è talmente fragile per ammissione dello stesso studioso, che non può esser accolta: una datazione all’epoca di Giustiniano, intorno alla metà del VI secolo, appare la più consona per questo meraviglioso mosaico.
LA PITTURA BIZANTINA MOSAICI, AFFRESCHI, ICONE, MINIATURE Tania Velmans
Per un intero millennio Costantinopoli, in quanto centro politico, economico, militare e, al tempo stesso, spirituale ed ecclesiastico dell’Impero bizantino, avrebbe esercitato la più profonda influenza sull’evoluzione politica del mondo e sullo sviluppo culturale dell’umanità.
Georg Ostrogorsky
Premessa Lo storico al quale si richieda uno studio sull’arte di Costantinopoli non può non avere un attimo di perplessità. Gli mancano infatti le decorazioni monumentali di interi periodi importanti per l’evoluzione dell’arte bizantina visto che, quando nel 1453 la città dalle innumerevoli chiese e dagli splendidi palazzi fu presa dai Turchi e divenne Istanbul, edifici, piazze, portici e statue vennero distrutti e l’interno delle chiese più fastose intonacato e poi decorato con motivi ornamentali islamici. Allora, come dimostra questo libro, sul Bosforo fiorì un’altra civiltà. Tuttavia, la pur deplorevole scomparsa di un gran numero di chiese apre la via a uno studio indipendente dalla decorazione parietale. Quando scrivevo un altro libro, L’arte monumentale bizantina, il cui orizzonte si dilatava a tutta la zona d’influenza bizantina, comprendendo sia i monumenti dei Greci e degli Slavi, sia quelli dei Georgiani e degli Armeni, come pure le decorazioni parietali dei Cristiani del Vicino Oriente, il primo problema da risolvere era quello del loro altissimo numero che non consentiva di prestare molta attenzione ad avori, miniature, icone, tessuti o al vasellame liturgico, per quanto di grande bellezza. Orbene, la maggior parte di queste opere sono di origine costantinopolitana, di conseguenza, il presente volume offre la sperata occasione di scoprirle. È ovvio che i mosaici e gli affreschi di Santa Sofia, Santa Eufemia, Kariye Camii e di altre chiese della città non saranno per questo trascurati. Per capire il significato profondo delle decorazioni parieta-
li è normale far ricorso alla teologia e alla liturgia, come ho fatto nel volume citato. La cosa vale anche per le opere mobili ma, dato che nella maggior parte dei casi si tratta di commissioni imperiali, per interpretarle correttamente bisogna anche tener conto di altri fattori storici, in particolare delle idee, delle credenze, del rituale e delle cerimonie che definiscono il culto imperiale. Ne parleremo dunque ampiamente in questo testo che, pur mantenendosi del tutto indipendente, completerà quello richiamato sopra come un secondo pannello. Ma prima di passare allo studio propriamente detto, sarà utile allontanarci un po’ dall’argomento per coglierlo in una prospettiva a volo d’uccello.
Introduzione Atene, Roma, Bisanzio, più nota col nome di Costantinopoli, sono le fonti dalla cui infinita ricchezza nella creazione di forme sono nate l’arte del Medioevo e quella del Rinascimento. La cosa, per Roma e Atene, è pacifica, ma a proposito di Costantinopoli la maggior parte dei lettori ha le idee molto meno chiare. Ora, durante i secoli «bui» (Dark Ages), le invasioni dei cosiddetti barbari venuti dal nord avevano causato all’Occidente un forte declino sia politico e sociale, sia intellettuale e artistico, spazzando via anche il ricordo dell’Antichità classica, ed è stata Bisanzio a restituirgli questa eredità. In genere quello che si sa è tutto qui, mentre è importante sapere come e perché si è verificato questo passaggio di
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eredità. Certo, la potenza e l’estensione dell’Impero, come le sue favolose ricchezze, sono oggi ben note, ma cosa si sa dell’Università fondata nel 408-450, delle biblioteche municipali che esistevano nello stesso periodo, del diritto bizantino fondato su quello romano e che era già molto evoluto nel Codex Theodosianus (438), vero monumento di normativa giuridica? Cosa si sa della saggia amministrazione di quest’Impero in epoca remota, della pompa delle due liturgie, imperiale ed ecclesiale, che vi si celebravano, o ancora dell’incredibile complessità del protocollo e della raffinatezza di cui dava prova l’alta società bizantina? E cosa pensare dei palazzi, delle chiese, delle piazze di questa «città senza pari», secondo le parole di Geoffroy de Villehardoin, vera sintesi dell’Impero, nella quale si concentravano tutti i poteri ed era riunita una moltitudine di opere d’arte di assoluta e rara bellezza? D’altra parte, la città era il centro nevralgico degli scambi fra Oriente e Occidente ed esportava verso quest’ultimo spezie, sete, manufatti e prodotti rari di ogni genere. Col passare del tempo e via via che l’Occidente si «civilizzava», l’armonia delle architetture e lo splendore dei mosaici costantinopolitani suscitarono anche qui un’ammirazione unanime. Roma e altre città d’Italia, in alcuni periodi parte dell’Impero, furono le prime a mostrare interesse per il gusto bizantino (VI-VII secolo). Poi fu la volta dell’Impero dei Franchi che vide fiorire la Rinascenza carolingia e ottoniana e, in varie misure, quella della quasi totalità dell’Europa e di parte del Medio Oriente sotto gli Omayyadi (i mosaici all’esterno della Grande moschea di Damasco e i motivi ornamentali della cupola della Roccia a Gerusalemme, 691). La penetrazione dell’arte bizantina in territorio straniero non si limitò a fornire un modello da imitare, ma giocò un ruolo di intermediazione fra le antiche opere del Basso Impero e il linguaggio piuttosto rozzo, per non dire barbarico, dell’epoca merovingia. Faceva eccezione solo Roma che, malgrado il sacco dei Visigoti nel 410 e le devastazioni dei Vandali nel 455, era ancora colma di vestigia lasciate dagli Antichi e produceva un’arte paleocristiana classicheggiante di alto livello, cosa che la rese, in seguito, particolarmente ricettiva, e per secoli, nei confronti delle correnti artistiche bizantine. Al centro di questa diffusione era Costantinopoli, la città che per tutto il Medioevo fece sognare i popoli latini e anglosassoni, le tribù germaniche e i marinai scandinavi che scendevano con le loro veloci imbarcazioni alla conquista della città d’oro, di marmo e di luce. Ma cos’era dunque questa città-faro che sedusse Venezia, influenzò il corso delle crociate e fece sognare il mondo intero? Come fu possibile che quello che nel II secolo era ancora un grosso borgo chiamato Bisanzio si trasformasse in una potente metropoli e nella capitale del primo Impero cristiano? Come e perché questa città romana, abitata da Greci, Ebrei, Siriani, Arme-
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ni e altri orientali, produsse una civiltà, uno stile e un’iconografia che vennero adottate senza riserve dai popoli slavi – Russi, Bulgari, Serbi, Macedoni – dai Moldavi e Valacchi, dall’attuale Romania e, con più o meno varianti di carattere locale, dai cristiani d’Oriente – Georgiani, Armeni, Siriani, Palestinesi, Copti d’Egitto, Nubiani, Etiopi? Infine, come è stato possibile che questa città diventasse il crogiolo di due sensibilità opposte dell’Antichità, l’ellenismo e la romanità, adottando le più alte realizzazioni dello Stato romano e della cultura greca? Ci proponiamo di rispondere a tutte queste domande nelle pagine che seguono, ma prima ci sia permesso di tentare un bilancio sommario. Come il linguaggio artistico di Roma e di Atene, anche quello di Costantinopoli sopravvisse allo Stato che l’aveva visto nascere. Ma in maniera diversa: dopo la scomparsa dell’Impero romano l’arte antica non fu più praticata, ma divenne il modello assoluto per l’arte europea fin verso la fine del XIX secolo. L’arte bizantina non assurse a tale valore universale, tuttavia, dopo la caduta dell’Impero nel 1453, rimase viva e capace di evolversi in tutti i paesi o comunità ortodossi fino al XIX secolo. In Occidente, resistette nel Veneto e a Creta (possedimento veneziano) fino al XVI-XVII secolo e continuò a decorare le chiese delle minoranze ortodosse in Medio Oriente fino al XIX; infine, influenzò l’architettura musulmana dell’Impero ottomano. Nel XX secolo, i pittori innovatori alla ricerca di una spiritualità nell’arte, come Kandinskij, o quelli che scoprivano una nuova dimensione del colore e della luce, come Matisse, furono – per loro stessa ammissione – sensibili al messaggio e alla bellezza delle opere bizantine, sulle quali gli storici dell’arte del XIX secolo avevano appena incominciato ad avviare la ricerca sistematica. In realtà gli studi bizantini erano cominciati ben prima di questa data, a partire dal XVI secolo, perché l’interesse per l’Antichità classica degli uomini del Rinascimento passò necessariamente per Bisanzio alla quale si volsero i filologi italiani per raccogliere i manoscritti greci e pubblicare la letteratura classica. E furono sempre degli autori bizantini della fine del Medioevo – Manuele Crisolora, Bessarione, Giorgio Gemisto Pletone e alcuni altri – a essere studiati divenendo il fondamento della filologia greca in Occidente. Ma l’Italia non fu la sola a riscoprire la civiltà bizantina. Nei principati tedeschi, Hieronymus Wolf (1516-1580), bibliotecario ad Augsburg, pubblicò, col sostegno della casa dei Fugger, al cui servizio si trovava, diverse opere bizantine, fra le quali la Cronaca di Giovanni Zonara; inoltre fu il primo a valorizzare il particolare campo di indagine rappresentato dalla storia bizantina. In Francia l’interesse per Bisanzio si manifestò dal XVI secolo quando Jacques Amyot tradusse parecchi romanzi bizantini, alcuni dei quali (Gli amori di Teagene e Cariclea) incantarono il giovane Racine a Port-Royal. Sotto i regni di Luigi XIII e di Luigi XIV,
Colbert avviò, con l’aiuto della stamperia del Louvre, la pubblicazione di una collana di storici bizantini e il Du Cange (1610-1688), a sua volta, continuò queste ricerche e pubblicò molte opere che posero le fondamenta degli studi bizantini, tanto che alcune vengono consultate ancora oggi. L’epoca dei lumi mostrò solo disprezzo per queste «raccolte di miracoli» (Voltaire) e quello bizantino fu considerato, in alcuni casi, come il periodo della decadenza dell’Impero romano. Infine, nel XIX e XX secolo, vi furono molti importantissimi storici dell’arte bizantina, soprattutto in Russia (Kondakov, Aïnalov, Lazarev), in Francia (Diehl, Bréhier, Millet, Grabar), in Germania (Volbach, Delbrueck, Strzygowski, Demus), e negli Stati Uniti (Weitzman, Kitzinger, Buchtal), per citarne solo alcuni.
Il travaglio di una nascita in un luogo straordinario. Il ruolo dell’imperatore Nel III e IV secolo, l’estensione dell’Impero romano e il suo inesorabile declino resero necessaria una divisione dei territori per poterli amministrare separatamente. All’inizio, la divisione fra Impero d’Occidente e d’Oriente non si poneva come definitiva, lo divenne solo in seguito alle invasioni barbariche in Occidente. Nel frattempo, l’imperatore Costantino I (324-337) aveva spostato in Oriente il centro di gravità dell’Impero di Roma, scegliendo come capitale la città greca sul Bosforo (324), allora di scarsa importanza, della quale però aveva intuito la straordinaria posizione strategica. Costantinopoli, che si chiamava Antonina Sebasta Byzantion, è nata fra il 324 e il 336, quando vennero costruiti la nuova cinta muraria e diversi edifici all’interno. Il luogo dove sarebbe sorta la città è veramente unico: si tratta di uno sperone roccioso che separa due mondi: l’Asia Minore, più precisamente la regione pontica, e il continente europeo e, per di più, domina lo stretto del Bosforo. Questo stretto passaggio di circa 500 metri, formato dai detriti del massiccio che un tempo collegava l’Europa all’Asia, fu a lungo una posizione strategica per chiunque volesse passare dal Mar Nero al Mar di Marmara o anche al Mediterraneo attraverso lo stretto dei Dardanelli e viceversa. La città greca di Bisanzio fu costruita su tre colline, sulle due sponde del Corno d’Oro che forma un’insenatura profonda sulla sponda europea ed è considerata uno dei più bei bacini del mondo. Benché costruita su due mari, Costantinopoli non era una città esclusivamente marittima perché la sua imponente rete stradale ne faceva anche una potenza continentale. Essa era infatti collegata direttamente con Salonicco da una via che risaliva poi la valle del Vardar passando per Skopije, si collegava con l’antica via Egnatia e portava all’Adriatico, cioè in Italia. Un’altra strada andava verso la valle del Da-
nubio che dava accesso all’Europa centrale; sempre la stessa via collegava i porti traci del Mar Nero permettendo di raggiungere il Caucaso in nave. Un percorso molto battuto attraversava la Tracia, fino a Filippopoli (l’attuale Plovdiv) e Serdica (Sofia) quindi, attraverso le valli della Nisava e della Morava, raggiungeva Belgrado. Anche l’Oriente era a portata di mano perché, dopo la fondazione di Costantinopoli, l’antica via delle Indie che partiva da Sardi fu sostituita da quella che attraversava Prusa, Nicea, Iconio, entrava nel regno armeno di Cilicia, poi in Siria, per terminare nella valle dell’Eufrate. Una delle sue diramazioni collegava la Cappadocia all’Armenia, cosa che ebbe evidenti conseguenze nel campo dell’arte. Queste vie terrestri e marittime, che convergevano tutte verso Costantinopoli, favorivano i commerci e anche le mire espansionistiche degli imperatori. Questi ultimi si preoccuparono sempre di provvedere a un abbondante approvvigionamento d’acqua per la città costruendo acquedotti e cisterne, il che rese possibile, fra l’altro, l’apertura di numerosi bagni pubblici. Se aggiungiamo a quanto è stato ricordato l’organizzazione centralizzata dell’Impero e l’onnipotenza del sovrano, è facile intuire come la capitale bizantina fosse diventata, col tempo, una specie di centro d’irradiazione estremamente efficace non solo sotto il profilo militare, ma anche sotto quello della penetrazione delle forme e delle idee. Tale eccezionale situazione della capitale bizantina la destinava a realizzare una sintesi fra Europa e Asia, fra cultura greco-romana, cristianesimo e civiltà orientali1. Fin dall’inizio del suo regno (324-337), Costantino si preoccupò di abbellire la sua capitale costruendo grandi vie di comunicazione ornate di portici rivestiti di marmo2, di fori, palazzi, edifici pubblici e chiese. Un intero popolo di statue antiche venne importato da altre città come Nicomedia, Antiochia, Atene o Roma. Si trovavano ovunque, nelle pubbliche piazze, nei due fori, nelle terme e nell’ippodromo. Quanto al Grande Palazzo, detto anche Palazzo Sacro, fu la dimora dell’imperatore fino a tutto l’XI secolo. Rimaneggiato e ampliato a più riprese nel corso dei secoli, alla fine aveva un’estensione di circa 100.000 m2. Vi si trovavano edifici, chiese, terrazze, gallerie, cortili e giardini, un insieme così vasto che si potrebbe parlare di una città nella città. Ben presto, gli imperatori fecero costruire sul Bosforo sontuose residenze estive circondate da parchi dalla vegetazione lussureggiante. Infine, nei palazzi e in tutti i luoghi pubblici, come pure nei mercati, l’ostentazione di ricchezza, di lusso e di raffinatezza era tale da impressionare profondamente i forestieri che non vi erano abituati. Il cronista della quarta crociata, Robert de Clari, scrive: «Dalla creazione del mondo nessuno mai vide né conquistò una fortuna così grande, nobile e ricca, né al tempo di Alessandro, né al tempo di Carlo Magno, né prima né dopo; e non penso proprio che nelle quaranta città più ricche del mondo ci
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siano stati tanti beni quanti se ne trovarono nel cuore di Costantinopoli»3. Probabilmente i Bizantini non hanno apprezzato questi complimenti perché consideravano i signori latini degli zotici che pensavano solo alla caccia e alla guerra, privi di educazione e di cultura. L’imperatore e la nobiltà bizantina, al contrario, erano appassionati di lettere e arti, discutevano di sottigliezze teologiche, osservavano una rigorosa etichetta e coltivavano il proprio gusto estetico. Questo non significa che fossero virtuosi, caso mai il contrario, se si pensa alla lunga serie di crimini commessi per la conquista del potere supremo. I festeggiamenti per la fondazione di Costantinopoli (11 maggio 330) durarono quaranta giorni e si svolsero soprattutto nel foro4. Nel decreto ufficiale la città era chiamata la «Nuova Roma» e le erano concessi gli stessi diritti e privilegi dell’antica5. Nel IV secolo essa ricordava una città romana ma, a ben guardare, vi si potevano già notare molte differenze. Il foro infatti aveva una forma circolare come si poteva vedere in alcune città dell’Asia, come ad Apamea; su una colonna di porfido era la statua bronzea di Costantino in veste di Apollo che reggeva il globo del mondo il quale, però, segno dei tempi, era sormontato da una croce. L’imperatore si fece rappresentare anche in una statua equestre e, secondo Niceforo Callisto, aveva fatto erigere tre croci monumentali6 una delle quali, chiamata «Christòs» che, secondo un’altra fonte, era d’oro con incrostazioni di pietre preziose7. Si tratta probabilmente della croce posta davanti all’ingresso del palazzo imperiale per proteggerlo dalla malvagità dei nemici del sovrano8. Come si vede da quest’esempio, la croce, segno della vittoria di Cristo, per tutta la durata dell’Impero ebbe la stessa valenza anche per il sovrano, tanto che, a partire dal tempo di Teodosio I (376-395), questi è rappresentato con una croce astile in una mano e la sfera nell’altra. Infine, la croce ricordava anche l’episodio leggendario della conversione di Costantino I il quale, durante la battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio, ebbe la visione di una croce luminosa che gli annunciava la vittoria e lo spinse alla conversione9. Croce e palazzo sono ormai scomparsi, come pure i nove sarcofagi imperiali in porfido di cui si parla nel Libro delle Cerimonie dell’imperatore Costatino Porfirogenito e fra i quali erano anche quelli di Costantino I e di sua madre, sant’Elena10. Eusebio, vescovo di Cesarea, descrive il mausoleo dell’imperatore che comunicava con la basilica dei Santi Apostoli. All’interno, il sarcofago si trovava al centro, circondato da dodici stele, ognuna dedicata a un apostolo. Così, conclude l’autore, il defunto avrebbe beneficiato delle preghiere rivolte a loro e sarebbe stato considerato pari agli apostoli (isapòstolos). Gli atti apocrifi di san Giovanni (150-300) ci dicono che Costantino I aveva fatto appendere a una colonna di porfi-
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do del foro i ritratti su tavola dei primi tre vescovi di Costantinopoli11. Se l’informazione è esatta, si tratta forse delle prime icone o, almeno, dei loro modelli. A proposito degli ultimi monumenti ricordati, notiamo come il porfido fosse particolarmente ricercato nel caso di commesse imperiali per via del suo colore porpora, simbolo di maestà. Dalle fonti scritte sappiamo che in questa pietra furono scolpite molte immagini d’imperatori, delle quali la più nota è il gruppo dei Tetrarchi (308-309), murato nel XIII secolo nell’angolo sud-ovest di San Marco a Venezia12. Costantino ricevette il battesimo solo sul letto di morte, ma prima aveva proclamato il cristianesimo religione ufficiale e fondato numerose chiese, fra cui la spettacolosa Santa Sofia (ricostruita nel VI secolo), a dimostrazione del fatto che Costantinopoli ebbe dall’inizio il sigillo di ciò che sarebbe divenuta più tardi: il centro della cristianità orientale. Egli compì un altro atto di portata storica convocando a Nicea il primo concilio ecumenico (325) che pose le basi dogmatiche e canoniche della Chiesa cristiana13. D’altro canto, presiedendo i dibattiti e influenzando le decisioni di quest’assemblea, creò un precedente che in futuro avrebbe fatto dell’imperatore bizantino, eletto da Dio, il capo dello Stato e al tempo stesso della Chiesa, cosa che fu un importante fattore di unità spirituale e ideologica, malgrado la sporadica comparsa di contrasti fra i due poteri. Una cosa però è certa: da questo momento le dispute dottrinali, particolarmente vivaci nel IV e V secolo, non furono più solo una faccenda interna alla Chiesa, ma un affare dello Stato e dell’imperatore. Alla morte di Teodosio (395) ebbe luogo la separazione definitiva fra l’Impero romano d’Occidente e quello d’Oriente, affidati ai due figli dell’imperatore, Arcadio e Onorio. Questa divisione, la nuova capitale dell’Impero d’Oriente e il trionfo del cristianesimo segnano l’inizio di una civiltà che, pur fondandosi sulle acquisizioni di Roma in fatto di amministrazione, diritto, opere di utilità pubblica, cominciava a incamminarsi su una propria strada. A partire dal 324 Costantinopoli crebbe senza sosta tanto che, dopo due secoli, la popolazione sfiorava ormai il mezzo milione. Essa era composta per la maggior parte da Greci, ma anche da Orientali – Armeni, Siriani, Persiani, Ebrei e Arabi. La lingua parlata era il greco, ma ci si diceva Romani. Molto più tardi, la parola Romani fu sostituita da Elleni che corrispondeva meglio alla progressiva grecizzazione dell’Impero e a un nuovo approccio nei confronti dell’Antichità che ebbe luogo nel XIII secolo. Comunque, il termine «Bizantino» col quale noi indichiamo queste popolazioni,
78. Il gruppo in porfido dei tetrarchi, in piazzetta San Marco a Venezia.
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era loro ignoto. Per quanto riguarda le strutture interne dello Stato, l’eredità romana e la cultura greca, rivedute e corrette dal cristianesimo, si fusero in una forma originale che fu alla base di tutte le future realizzazioni di Bisanzio. Al tempo di Teodosio I (379-395), la città era in gran fermento per due motivi, uno di natura religiosa, l’altro che riguardava le grandi opere di architettura avviate dall’imperatore. I fermenti religiosi nascevano dagli appassionati interrogativi suscitati dalla duplice natura di Cristo e avevano i loro centri propulsori nelle province orientali dell’Impero, in grandi e ricche città come Antiochia o Alessandria. Ma le dottrine che vi si elaboravano rifluivano necessariamente verso Costantinopoli. Il prete alessandrino Ario negava la divinità di Cristo e riteneva insostenibile l’uguaglianza fra il Padre e il Figlio. L’imperatore e la Chiesa, rendendosi conto dell’entità del rischio, convocarono in gran fretta a Costantinopoli il secondo concilio ecumenico (381) che condannò Ario e affermò la consustanzialità del Padre e del Figlio. Una volta spazzati via i dubbi suscitati dall’arianesimo, si pose con insistenza un’altra questione, quella cioè della coesistenza delle due nature, divina e umana, in Cristo, coesistenza che, di fatto, non era facile da capire. La scuola di Antiochia vedeva in Gesù due nature separate, delle quali quella divina era definita come un vaso che conteneva l’uomo nato da Maria, il che portò a chiamare la Vergine «Madre di Cristo» e non «Madre di Dio» ( Theotòkos). Uno dei principali sostenitori di questa dottrina fu il patriarca di Costantinopoli Nestorio, dal quale essa prese il nome. La scuola di Alessandria, di spirito più mistico, si oppose alla separazione delle due nature che considerava unite. Lo scontro fra le due dottrine diventò un affare di stato quando il rappresentante della scuola di Antiochia, Nestorio, occupò la sede patriarcale di Costantinopoli (428) e cominciò a diffondere le sue idee. Il patriarca di Alessandria, Cirillo, le rifiutò categoricamente ed ebbe la meglio al concilio di Efeso (431) che condannò Nestorio e proclamò Maria Madre di Dio14. Ma questa vittoria non fu definitiva perché un discepolo di Cirillo, Eutiche, propose una versione estrema della dottrina alessandrina riducendo al minimo il ruolo della natura umana di Cristo. Fu condannato come eretico dal sinodo patriarcale di Costantinopoli con l’assenso del papa Leone I. Ci furono poi altri sviluppi e controversie che ebbero veramente fine solo nel 451, quando l’imperatore Marciano convocò il IV concilio ecumenico di Calcedonia che definì il dogma delle due nature perfette, inseparabili e «inconfondibili» di Cristo15. Questa vittoria, realizzatasi nell’intesa cordiale fra Roma e Bisanzio, venne guastata durante lo stesso concilio. Fino a quel momento, infatti, il vescovo di Costantinopoli occupava il secondo posto dopo il papa di Roma; ora il canone 28 del concilio proclamò la parità dei vescovi dei due centri ecclesiastici, riconoscendo tuttavia
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al papa un primato d’onore. Così, mentre si ristabiliva la pace delle coscienze, si preannunciavano i futuri conflitti. Prima di analizzare le opere commissionate dagli imperatori, è opportuno interrogarci sulla funzione imperiale a Bisanzio. L’imperatore, eletto da Dio e suo rappresentante in terra, era oggetto di una mistica molto particolare e di un culto politico-religioso. La sua persona era sacra come tutto ciò che a essa si riferiva e posta in una sfera intermedia fra il divino e l’umano. L’Impero era fondato e governato da Cristo, ma amministrato in suo nome dal basilèus. La fine dell’Impero non poteva non coincidere con la fine del mondo in una prospettiva escatologica. Il potere di questo sovrano, che si proclamava «basilèus e autocrate in Cristo», era illimitato. Egli era infatti al tempo stesso giudice supremo, unico legislatore, comandante dell’esercito, protettore e capo della Chiesa. Ci occuperemo più avanti delle cerimonie solenni che raggiunsero il massimo splendore nel Medioevo, ma già nel VI secolo erano simbolo di ricchezza e spettacolarità. È quanto risulta dai versi coi quali il poeta di corte Corippo descrive l’impressione che ricevette l’ambasciata àvara dall’accoglienza riservatale da Giustino II nel 565: «I barbari sono stupefatti dalla guardia imperiale che sta nell’anticamera della sala delle udienze ed è formata da uomini con elmo, armati di lance e scudi ornati d’oro. Il soffitto della sala è anch’esso decorato con dorature, mentre l’imperatore in trono è vestito di porpora e coronato di un diadema di uno splendore senza pari. I «barbari», confusi, si gettano a terra, col viso sul pavimento. Sono così sorpresi che credono che il palazzo sia un altro cielo» (et credunt aliud Romana palatia coelum)16. A questo punto, conosciamo la definizione giuridica dell’imperatore, il suo culto e il suo ambiente; ma chi erano realmente questi sovrani onnipotenti? Malgrado sia per così dire impossibile rispondere alla domanda senza analizzare in questo senso tutta la storia di Bisanzio, possiamo cogliere alcuni tratti che li caratterizzano quasi tutti e che ci aprono anche uno spiraglio sulla mentalità bizantina. I più famosi di loro furono grandi costruttori, pii e superstiziosi. Michele Psellos (XI secolo) descrive l’angoscia di Alessio Comneno quando, recatosi alla chiesa delle Blacherne prima di partire per la guerra contro i Normanni (1107), l’icona taumaturgica della Vergine non si tolse (da sé) il velo che la copriva quando venne il momento in cui, normalmente, accadeva il miracolo17. Un altro imperatore, Romano III (1028-1034), pianse di gioia allorché, dopo una sconfitta, ricevette un’icona della Vergine, ritenuta miracolosa, che era chiamata «Custode degli eserciti»18. Malgrado questa fede a tutta prova, la maggior parte degli imperatori erano crudeli e senza scrupoli quando si trattava di conquistare il potere supremo. Così Michele V conquistò la corona mandando in esilio lo zio e suo benefattore Giovanni Orfanotrofo e chiudendo in un convento l’imperatrice Zoe19.
L’imperatore doveva essere coraggioso – e molti sovrani bizantini lo furono – e la sua partecipazione ad alcuni giochi del circo, fra i quali la corsa dei carri, miravano a darne la dimostrazione davanti al popolo riunito. Così Teofilo (829842), Michele III (842-867) e Manuele I (1143-1180) furono proclamati vincitori nell’arena20. Andronico Comneno (1183-1185) si fece rappresentare nel suo palazzo mentre guidava un carro sulla pista dell’ippodromo e incoronato dopo la vittoria21. Altre imprese del basilèus nella caccia e in guerra furono tradotte in immagini sulle pareti dei palazzi e Niceta Coniate osserva che queste immagini testimoniano sia che uomo fosse l’imperatore, sia le sue imprese con «l’arco, la spada e nella corsa coi cavalli»22. L’immagine del sovrano, anch’essa sacra, riceveva per così dire gli stessi omaggi della sua persona: era inviata nelle province per rappresentarlo, riceveva la proscinesi (prosternazione) da parte di tutti ed era acclamata al grido di «santo»23. Fino al X secolo fu anche esposta nelle chiese, incensata e circondata di ceri, malgrado una legge del 325 l’avesse proibito24. Accanto a questo aspetto della mistica imperiale, il ritratto del basilèus aveva anche una valenza giuridica e di conseguenza era esposto nelle aule dei tribunali garantendo, con la sua presenza, l’infallibilità del giudice e la giustizia delle leggi. In alcuni casi, era cucito sugli abiti dei capi militari e degli alti funzionari e campeggiava anche sugli scudi di alcuni ufficiali superiori25 indicando così l’autorità dalla quale il personaggio in questione riceveva il potere. Un cronista bizantino, lo Pseudo-Codino, che descrive uno di questi ritratti, precisa che esso era circondato da angeli26, a conferma dell’intenzione dell’artista di collocare il sovrano in una sfera sovrumana, tra cielo e terra27. A partire dal IV secolo, il rapporto dell’imperatore con Dio era stato fissato nell’arte decorativa secondo uno schema
iconografico che non sarà mai dimenticato. In una medaglia del Kunsthistorisches Museum di Vienna Costantino I appare in tenuta militare, circondato dai tre figli ma nettamente più grande di loro, e incoronato dalla mano divina che spunta da un lembo di cielo28. Questa formula dell’investitura simbolica del sovrano come conferma della volontà divina non sarà mai più abbandonata e ben presto si vedrà il Cristo in persona al posto della mano di Dio. Il ritratto imperiale era molto diffuso e i testi parlano, per la sola Costantinopoli, di ottanta e più statue d’imperatori e imperatrici29, delle quali rimane ben poco. Tuttavia, il Museo Archeologico di Istanbul ci consente un confronto fra due statue d’imperatori di un certo interesse: quella di Valentiniano II (371-392), trovata nelle terme di Afrodisia30, che rappresenta un giovane paffuto e quasi sorridente, abbastanza tipico dell’arte ellenistica allora diffusa nella quasi totalità dell’Impero romano, e quella di Arcadio (392-408) scoperta a Istanbul31 che si discosta alquanto dall’osservazione della natura. Il volto infatti è giovane e bello, come quello di Valentiniano, ma rivela un’idealizzazione dei tratti in funzione della ricerca di simmetria. Altre statue del Museo di Istanbul mostrano le nuove tendenze dell’espressione formale, come quella di un anonimo personaggio togato, la cui testa è andata perduta, che si avvicina già, per la linearità insistita delle pieghe del drappeggio e per i grandi angoli duri che esse formano, ai dipinti bizantini del VI secolo. La statua colossale di Barletta (IV secolo), che rappresenta Valentiniano I (?), rappresenta anch’essa uno scarto rispetto all’ellenismo, abbandonando in parte la vivacità naturalistica a vantaggio del significato simbolico. L’imperatore, con la croce nella destra e il globo nella sinistra, appare come generale vittorioso che riunisce in sé i due poteri della
79. Rilievo del medaglione con Costantino I e i figli, conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
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80. Statua di Valentiniano II, proveniente da Afrodisia e conservata al Museo archeologico d’Istanbul. Il particolare della testa è a pagina 44. 81. Testa colossale di Costantino I, in bronzo. Museo nazionale di Belgrado. 82. Il Colosso di Barletta, la statua bronzea che raffigura Valentiniano I o Leone I.
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Chiesa e dello Stato32. L’artista suggerisce, attraverso la stilizzazione dei tratti del volto e una semplificazione sintetica dei piani, la forza vittoriosa ma anche un po’ brutale del potere imperiale. Gli stessi mezzi stilistici sono usati con un risultato analogo nella testa colossale di Costantino I del Museo Nazionale di Belgrado33. Questi ritratti, che appartengono a un periodo in cui Bisanzio non aveva ancora trovato un proprio linguaggio artistico, mostrano, oltre a una volontà molto precisa di orientarsi verso l’astrazione a scapito del dato realistico, il modo con cui verrà concepito a Bisanzio il ritratto imperiale, e persino il ritratto in genere. Al contrario delle fisionomie dei santi, che dovevano essere riconoscibili attraverso la tipologia dei volti e fedeli ai prototipi, la persona fisica dell’imperatore non interessava a nessuno: quello che contava era l’augusto detentore del potere supremo, il sovrano eletto e investito da Dio di questo potere34.
La forma ellenistica e i segnali premonitori di un nuovo linguaggio figurativo (IV-VI secolo) I segnali premonitori dell’estetica bizantina compaiono già nelle statue che abbiamo esaminato or ora; ma si tratta appunto solo di indizi mentre, a partire dal IV-V secolo, alcune opere ancora isolate rivelano una nuova visione del mondo. Quest’ultima finirà col prevalere, ma con molti ritorni al passato e alcune correnti conservatrici che rimangono legate al realismo di un tempo, cioè alla volumetria della forma, anatomicamente precisa e in rapporto armonico con lo spazio illusionistico dell’arte ellenistica. Quest’espressione formale era nata dalla concezione razionale che i Greci avevano applicato alla realtà. La rottura con i canoni ellenistici avvenne gradualmente, a piccoli passi, a partire dalla fine del IV secolo. Ma già da molto prima, dal III secolo, la società romana era in preda a una crisi politica, economica e sociale35 che era sfociata in una crisi ideologica facendo vacillare il mondo rassicurante della tradizione ellenistica. Il Cristianesimo, divenuto religione ufficiale, fece il resto. Nell’arte apparve un nuovo rapporto fra l’uomo e il suo ambiente, mentre la materia e la varietà dei suoi aspetti erano considerati illusori e, soprattutto, privi d’interesse. I teologi bizantini affermarono con san Paolo che «il mondo visibile non è altro che un velo posto fra l’uomo e l’invisibile che solo deve essere considerato come vero ed eterno»36, e lo Pseudo-Dionigi Areopagita (V secolo) attribuì al reale una nuova dimensione: «Il visibile non è altro che l’immagine nella quale si riflette l’invisibile»37. Questa concezione del mondo, opposta al pensiero razionale, sarà uno dei fondamenti sui quali si svilupperà lo stile bizantino che tende a esprimere
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l’essenza attraverso l’apparenza e l’eterno invece del temporale. Mentre l’Occidente subiva le invasioni barbariche, Costantinopoli era continuamente abbellita dagli imperatori. Ma i tempi erano burrascosi e nel 413 Teodosio II, per proteggere la città, fece costruire una nuova cinta muraria, a occidente di quella di Costantino. Tuttavia la sicurezza non era l’unica preoccupazione dell’imperatore; si può anche dire che la bellezza e il prestigio di Costantinopoli lo fossero altrettanto. A questo scopo si fece venire da Roma la celebre quadriga in amalgama di bronzo, argento e oro che, molto tempo dopo, i crociati portarono via per decorare San Marco a Venezia. All’epoca di Teodosio questo capolavoro fu posto sopra la loggia imperiale dell’ippodromo, loggia che era grande come una casa. Nel 390 l’imperatore fece erigere sulla spina (dorsale attorno alla quale giravano i carri) dell’ippodromo, un obelisco in porfido rosa che Giuliano l’Apostata aveva fatto venire dall’Egitto. La cosa che a noi interessa di più è la sua base marmorea scolpita (390-395). I bassorilievi che ne decorano i quattro lati rappresentano il basilèus e la sua corte mentre assistono alle gare dell’ippodromo dalla loggia imperiale38. Benché i giochi del circo avessero una notevole importanza nella vita quotidiana dei Romani, un tema iconografico simile non compare altrove nell’Antichità; bisogna dunque ammettere che fu una creazione costantinopolitana. La cosa è tanto più verosimile perché i giochi a Costantinopoli avevano un’importanza ancora maggiore che a Roma dal momento che vi si assisteva spesso allo scontro tra fazioni rivali (i Blu e i Verdi, per esempio) che corrispondevano ad altrettante tendenze politiche. Sotto Giustiniano I l’ippodromo fu teatro di gravi disordini e i rivoltosi incendiarono il palazzo del prefetto di Costantinopoli; il fuoco si propagò fino al Grande Palazzo e a Santa Sofia e il generale Belisario non riuscì a domare i ribelli prima di averne massacrati quarantamila. L’ippodromo sorgeva nel centro della città (l’attuale At Meydanı), ed era collegato direttamente col Grande Palazzo e con Santa Sofia. Destinato prima di tutto alle corse dei carri, vi si svolgevano anche diversi tornei e giostre, cacce di belve e combattimenti fra animali. L’edificio comprendeva una doppia pista, la spina (un piccolo muro basso), delle terme e la loggia imperiale (cathisma) con un trono di marmo bianco39. Tutto il complesso era ornato da colonne, una delle quali di marmo nero, da bassorilievi e statue. Oggi rimangono solo l’obelisco di Teodosio con la relativa base, la Colonna di marmo serpentino proveniente dal tempio di Apollo a Delfi (478 a.C.), e il cosiddetto Colosso di Costantino Porfirogenito, un obelisco un tempo rivestito di lastre di bronzo dorato e probabilmente eretto da quell’imperatore40. La vittoria degli atleti dell’arena era riferita all’imperatore
83. Base dell’obelisco di Teodosio: a sinistra nel registro superiore Teodosio e i famigliari; nel registro inferiore barbari vinti che offrono doni; a destra l’imperatore assiste ai giochi.
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84. Base dell’obelisco di Teodosio: l’imperatore offre il lauro della vittoria al vincitore della corsa; nel registro inferiore danzatrici e musici.
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85. Base dell’obelisco di Teodosio: l’imperatore e il suo seguito assistono alle gare.
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che gli spettatori acclamavano alla fine di ogni gara. Queste consuetudini avevano avuto origine a Roma e rimandavano ai giochi del circo, ma a Bisanzio facevano parte della «liturgia imperiale» nella quale ogni gesto del sovrano era regolato minuziosamente41. Le feste che si svolgevano all’ippodromo nell’alto Medioevo rispecchiavano, come l’arte, l’importanza dei giochi e, a detta dei contemporanei, erano di una sontuosità senza pari. Beniamino di Tudela (XII secolo) ce ne ha lasciato una descrizione entusiasta che si conclude con queste parole: «Non credo che ci siano sulla terra dei giochi di una tale magnificenza»42. Le sculture sulle quattro facce dello zoccolo dell’obelisco descrivono il solenne rituale col quale si esaltava il trionfo imperiale all’ippodromo e lasciano indovinare le linee di forza che porteranno lo stile bizantino a divenire quello che conosciamo. L’imperatore appare in trono, circondato dalla sua famiglia, da dignitari e soldati, così come lo potevano vedere i contemporanei che assistevano ai giochi43. Tutti i personaggi sono rappresentati in posizione rigorosamente frontale e in file isocefale. Lo spazio intorno a loro è abolito, tanto che neppure se lo avessero voluto si sarebbero potuti muovere. Anche il volume, come lo spazio, è scomparso, i corpi sono appiattiti, senza consistenza. A seconda della faccia che abbiamo davanti, l’imperatore appare con una corona realizzata per il vincitore, o con una borsa, altrimenti è uno dei cortigiani che mostra, sollevandola, una borsa simbolo delle elargizioni imperiali durante ogni rappresentazione. Nel registro inferiore, i soggetti sono vari e rappresentano dei vinti che portano doni, delle danzatrici, dei musici e degli acrobati, i lavori per la messa in opera dell’obelisco o ancora delle file di spettatori. Le proporzioni dei personaggi dipendono dalla loro importanza morale e dal loro rango gerarchico all’interno della società bizantina. Lo stile severo, che tende all’astrazione, in questo caso è in perfetto accordo col contenuto che esalta il potere sovrumano e la vittoria perpetua del sovrano.
Vista l’importanza di questi giochi, a volte il basilèus scendeva personalmente nell’arena, soprattutto per partecipare a qualche corsa sui carri. Così è raffigurato l’imperatore Maurizio Tiberio (582-602) in un medaglione d’oro del Metropolitan Museum of Art44. L’immagine è notevole per l’estrema semplificazione del disegno che fissa solo l’essenziale delle forme le quali, tuttavia, si possono riconoscere alla prima occhiata malgrado l’essenzialità dei mezzi figurativi. Questa tecnica non ha impedito all’incisore di rappresentare la croce che sormonta la corona del sovrano e il monogramma di Cristo che indica la protezione divina. L’imperatore ha la mappa (borsa che contiene le elargizioni) nella destra e il globo sormontato da una piccola vittoria nella sinistra. Sull’altra faccia, probabilmente il diritto della medaglia, egli è rappresentato a mezzo busto con gli stessi attributi tranne la vittoria, sostituita da un’aquila il cui significato è equivalente. È giunta fino a noi anche un’immagine del sovrano alla guida di una quadriga sulla base marmorea (fine V-inizio VI secolo) di una statua di bronzo scomparsa che ornava l’ippodromo; la base è attualmente al Museo Archeologico di Istanbul45. Nelle alte sfere dello Stato si imitava tutto ciò che veniva dal palazzo: così i consoli si fanno rappresentare anche loro all’ippodromo (dopo il 399) sui dittici d’avorio nei quali assumono atteggiamenti simili a quelli che caratterizzano i ritratti imperiali, facendosi anche circondare da simboli trionfali. Fra queste preziose tavolette, che in origine contenevano documenti e che i consoli spedivano per comunicare la propria nomina, alcune mostrano l’interessato mentre assiste ai giochi dell’ippodromo. È quanto vediamo in un dittico consolare del VI secolo, realizzato a Costantinopoli nel 506 e conservato al Landesmuseum di Zurigo46, nel quale il console occupa il posto dell’imperatore ed è rappresentato come una figura ieratica, spersonalizzata, che simboleggia il potere, circondato dai simboli della vittoria e da due personaggi secondari. Nella destra ha la mappa e
86. Rilievo del medaglione d’oro con l’imperatore Tiberio conservato al Metropolitan Museum of Art. 87. Dittico del console Areobindo, VI secolo conservato presso lo Schweizerisches Landesmuseum di Zurigo.
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nella sinistra, uno scettro sormontato da una piccola statua. Il corpo e il volto appiattiti, come pure la rigidità della figura, sembrano voluti, mentre tutto il campo figurativo è stipato e lo spazio non esiste. Sotto i piedi del dignitario, gli spettatori, in atteggiamento stereotipato (inclinazione parallela delle teste) formano due file convergenti e quanto mai schematizzate. In compenso, ancora più in basso, la raffigurazione degli atleti che lottano con delle fiere induce l’artista a copiare modelli ellenistici, semplificandoli. La sacralizzazione di quanto era vicino all’imperatore – persone e oggetti – è ben visibile in un dittico d’avorio dell’inizio del VI secolo conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze47 dove l’imperatrice Ariadne è simile a un’apparizione. Ella è in piedi, al centro di un ciborio la cui cupola è coronata da due aquile, inquadrata dai drappeggi di due tende, quasi per meglio sottolineare il mistero sacro che la circonda. Rappresentata di fronte, immobile e vestita di una clamide di taglio quasi geometrico, regge un globo sormontato da una croce. Sul suo mantello, il ritratto dell’imperatore indica che solo da lui ella deriva il suo stato e la sua autorità, come dire: la sua sacralità. In molte sculture abbiamo potuto osservare segni premonitori del nuovo stile che, a volte, compaiono accanto a forme ellenistiche. Di fatto, la lenta elaborazione dello stile bizantino è compiuta, per quanto riguarda la pittura murale, nel VI secolo, come dimostrano i mosaici di Ravenna e del Monte Sinai, ma nella scultura e nella decorazione dei pavimenti, dove la tradizione ellenistica era molto forte, si notano frequenti ritorni al passato fino al periodo iconoclasta. È quanto vediamo nel caso del celebre dittico Barberini del Museo del Louvre48, che in una delle valve presenta l’imperatore Giustiniano a cavallo (527). Lo spazio è suddiviso, come di solito, in cinque scomparti e, nella parte superiore, appare il Cristo a mezzo busto entro un disco
celeste col sole, la luna e una stella sorretti da due angeli, secondo un ben noto schema antico nel quale i due angeli erano due vittorie. Il Salvatore con una mano benedice e con l’altra regge una croce astile, ma il suo volto è quello di un qualsiasi eroe paffuto dell’antico Pàntheon. Subito sotto il Cristo ecco l’imperatore che monta un focoso destriero. È rappresentato come capo dell’esercito, incoronato e vincitore; con gesto imperioso ha piantato la lancia a terra coprendo così, in parte, un soldato vinto che porta un berretto frigio. Il suo cavallo impennato tende a uscire dalla cornice lanciandosi verso lo spettatore. È un’immagine dinamica come quelle che amavano gli Antichi, in contrasto con l’esigenza bizantina d’immobilità dei personaggi. Le forme sono modellate con cura e anatomicamente precise. Sulla destra dell’imperatore una vittoria alata, in piedi sul globo terrestre, gli tende una corona (oggi scomparsa) e regge la palma del trionfo mentre, sotto i suoi piedi, una personificazione della terra, seminuda, gli offre dei frutti e gli tiene la staffa in un gesto di sottomissione che indica l’universalità del regno del basilèus. Come se questi simboli non bastassero, il donatore, rappresentato sulla valva sinistra come un soldato, gliene offre altri. Ha in mano infatti una piccola vittoria che porge una corona al sovrano, mentre ai suoi piedi è posata la borsa che contiene le monete destinate al popolo. Nella parte più bassa, nella fascia orizzontale del dittico, è una terza vittoria alla quale alcuni barbari vinti portano doni. La decorazione della valva destra è scomparsa. L’arte profana, alla quale non appartengono i ritratti imperiali salvo quando si tratta di battaglie o di cacce, ha lasciato poche vestigia a Costantinopoli, mentre i rari oggetti conservati sono dispersi in tutta l’Europa e negli Stati Uniti. Come la scultura e i pavimenti, questo genere di opere è rimasto per molto tempo fedele ai canoni estetici del Basso
Nelle due pagine precedenti: 88. L’imperatrice Ariadne raffigurata su una valva del dittico d’avorio conservato al Museo Archeologico Nazionale del Bargello a Firenze. 89. Giustiniano a cavallo, al centro di una valva del dittico Barberini, Museo del Louvre.
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A fronte: 90. Rilievo di un piatto d’argento dorato del VII secolo con raffigurazione di Sileno e di una menade danzanti, conservato al Museo dell’Hermitage a San Pietroburgo. Sopra: 91. La musa e il poeta su un dittico del Tesoro del Duomo di Monza.
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92. La comunione degli apostoli raffigurata sulla patena ritrovata a Stuma, presso Antiochia, e conservata al Museo archeologico d’Istanbul.
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93. La comunione degli apostoli raffigurata sulla patena ritrovata a Riha, sull’Oronte, e conservata nella Byzantine collection di Dumbarton Oaks, a Washington.
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Impero. Per quanto riguarda l’oreficeria di alta epoca, la collezione più importante è quella del Museo dell’Ermitage dove troviamo, fra l’atro, un piatto d’argento lavorato a sbalzo negli ateliers della capitale fra il 527 e il 565, decorato con un personaggio dalla muscolatura fortemente segnata, che indossa una tunica corta e sembra meditare in un paesaggio popolato di piante e animali49. Un altro piatto, databile fra il 610 e il 629, mostra un sileno e una graziosa menade danzante50, di pura tradizione ellenistica. Della stessa collezione non si può non citare un vaso d’argento51, per l’eleganza delle figure, in particolare una nereide seminuda seduta su un mostro marino – un motivo che, sette-otto secoli più tardi, servirà a rappresentare la personificazione della terra nel Giudizio Finale. Ma la fedeltà alle antiche regole non riguarda solo l’argenteria. Infatti, in un dittico d’avorio che fa parte del Tesoro del duomo di Monza e rappresenta l’ispirazione di un poeta, vediamo il personaggio seduto a gambe incrociate e visto di tre quarti, con la parte superiore del corpo nuda e muscolosa; davanti a lui sta una donna dalle forme opulente che suona uno strumento musicale52. In questo caso l’artista si è curato soprattutto di creare uno spazio per le figure dando loro come cornice la linea interrotta del soffitto che suggerisce un interno. A proposito delle opere del VI secolo ancora vicine all’estetica ellenistica, gli storici dell’arte parlano spesso di una Rinascenza giustinianea, un giudizio sull’evoluzione delle forme che non è giustificata perché non si tratta di una riscoperta dell’Antico, come farebbe pensare il termine Rinascenza, ma del suo perdurare; e se il VI secolo ci appare giustamente come un periodo di fioritura artistica, è soprattutto per l’inesausta attività di costruttore di Giustiniano I (518-527), che aveva al suo attivo la fondazione di al-
meno una trentina di chiese e commissionò anche molte opere d’arte, fra cui delle sculture. Siccome la scultura non era incoraggiata dalla Chiesa che la considerava pericolosa perché palpabile e, quindi, in grado d’indurre all’idolatria, essa rappresentava soprattutto temi profani ispirandosi ai numerosi modelli proposti dalla tarda Antichità. La stessa parentela con le forme greco-romane si ritrova sui pavimenti, dove non si potevano rappresentare personaggi sacri che sarebbero stati calpestati. Perciò il pavimento a mosaico del Grande Palazzo di Costantinopoli (VI secolo), del quale rimangono alcuni resti, è ancora vicino ai grandi mosaici romani di Antiochia e della Sicilia53. Qui vediamo alcuni animali ineccepibili sotto il profilo anatomico, delle piccole, deliziose, scene campestri, degli edifici pittoreschi come un mulino ad acqua54, dei pastori, dei cammellieri e altri personaggi affaccendati che a volte fanno dei movimenti rapidi e sono modellati con grande cura. Tali piccole figure confermano un dato ben noto: il permanere delle forme ellenistiche in tutta l’area dell’antico Impero romano. Tuttavia, alcune sculture di soggetto religioso provano che gli artisti hanno trovato una nuova via in tutte le discipline, compresa la scultura. D’altro canto, la tecnica ha poca importanza; basta il significato dell’immagine a determinarne non solo l’iconografia ma anche lo stile, come vediamo in due piatti d’argento realizzati probabilmente a Costantinopoli fra il 565 e il 578 – e attribuiti in un primo momento alla Siria – nei quali è rappresentato un tema religioso che compare qui per la prima volta. Si tratta di due patene destinate a contenere il pane eucaristico e scoperte una a Stuma, nei pressi di Antiochia, ed esposta al Museo Archeologico di Istanbul, l’altra a Riha sull’Oronte55 e appartenente alla collezione di Dumbarton Oaks-Washington. Entram-
be sono marchiate sul retro con punzoni di controllo attribuiti a Giustino II (565-578). Il soggetto rappresentato è la Comunione degli apostoli: i discepoli formano due gruppi che s’inchinano davanti alla mensa di un altare dietro alla quale Cristo è rappresentato due volte. La cosa può apparire strana nella stessa immagine, ma non è così perché quello che importa mostrare è la comunione sotto le due specie. Infatti, una delle figure di Gesù tende al primo apostolo del gruppo il pane, l’altra il vino. L’azione si svolge evidentemente nel sancta sanctorum di una chiesa che è evocato ma senza ricorrere alla linea spezzata del soffitto come nell’arte antica, linea che avrebbe dato allo spazio una certa profondità «realistica» e che è sostituita, sulla prima patena, dalla cupola molto stilizzata di un ciborio e, sulla seconda, da una trave sorretta da due colonne che richiama il templon, una barriera che separava il sancta sanctorum dalla navata. Queste testimonianze della scultura sono significative perché ci permettono di seguire il lento cammino che porta allo stile originale creato da Bisanzio, anche se qua e là s’incontrano ancora delle testimonianze piuttosto sorprendenti. Nel VI secolo Ravenna è inglobata nell’Impero (540) ed è quasi certo che, anche prima di questa data, i mosaici che ne decorano le chiese siano opera di artisti costantinopolitani. Ravenna era allora una città brillante, abitata da una società colta di nobili ed ecclesiastici in rapporto costante con la capitale. I suoi mosaici compongono un vasto insieme di una qualità eccezionale, tanto che nessuna decorazione contemporanea e pochissime opere isolate sono comparabili a tale complesso. Nelle chiese, la suddivisione delle scene e dei motivi ornamentali rivela un rigoroso piano preliminare e una profonda conoscenza del rapporto tra forme architet-
toniche e immagini, e ci consente anche di capire i valori simbolici legati alle diverse parti dell’interno della chiesa e dei quali parlano i testi. La cupola indicava il cielo, l’aldilà trascendente. In questo periodo, vi si poneva in generale una croce d’oro per evocare la vittoria di Cristo; quando era tempestata di gemme, essa ricordava quella apparsa in cielo al momento della Seconda Parusia prima del trionfo definitivo del Signore sul male (Mt 24,30). L’Agnello, immagine di Cristo, compariva più di rado in questa collocazione e fu presto proibito dal concilio Quinisesto (Costantinopoli 692). L’abside era considerata il luogo della teofania e Cristo vi era rappresentato in piedi o in trono, circondato da angeli e santi, anche se a volte al suo posto compare la Vergine in trono col Bambino. Sulle volte e sulle parti superiori della navata erano rappresentati episodi dei due Testamenti. I registri inferiori delle pareti erano riservati ai santi in piedi quando si trattava di dipinti, a pannelli di pietre dure negli edifici coperti di mosaici, come nel caso di Santa Sofia di Costantinopoli. Questo programma iconografico cambierà nel IX secolo. Nella maggior parte dei casi i personaggi rispettano le regole della simmetria e della semplificazione costruttiva: gli occhi sono grandi, la bocca piccola, il naso è ormai lungo e sottile e permette di allungare anche l’ovale: si cerca così di raggiungere una spiritualizzazione della figura umana per renderla idonea a rappresentare la dimensione del sacro. La decorazione musiva di San Vitale (prima del 547-548)56 è un esempio dell’applicazione delle caratteristiche che abbiamo or ora indicato. Nell’abside, il Cristo è assiso sul globo del mondo come un imperatore sul trono; ai suoi piedi, i quattro fiumi del Paradiso indicano il luogo. Attorno a lui, due angeli, il vescovo Ecclesio (committente dell’edificio) col modello della chiesa, e san Vitale in abito di
Qui e a fronte: 94 e 95. L’imperatrice Teodora e l’imperatore Giustiniano in due dettagli dei mosaici di San Vitale a Ravenna.
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alto dignitario bizantino. Il santo avanza verso il Signore per ricevere la corona del martirio che Cristo gli porge tenendola nella mano destra mentre, nella sinistra, regge il Libro dei sette sigilli dell’Apocalisse. Egli ha il viso rotondo e imberbe degli eroi antichi. La composizione maestosa e trionfale evoca le parole di Eusebio che paragona il Cristo a un gigantesco imperatore: «Gli archi del mondo gli fanno da trono; la terra è il suo sgabello; intorno a lui siedono i fiumi del cielo; le potenze soprannaturali sono le sue guardie armate di lancia e lo riconoscono come loro signore e re»57. Più in basso, sulle pareti laterali dell’abside, sono rappresentati l’imperatore terreno nella persona di Giustiniano I circondato dai suoi cortigiani e, dalla parte opposta, l’imperatrice Teodora col suo seguito58. Agghindata con i segni del potere – la corona a pendenti, la clamide di porpora e le calzature scarlatte – la coppia assiste idealmente alla consacrazione dell’edificio e offre doni al Signore rappresentato in alto, davanti a loro. In questo modo si sottolinea il parallelismo fra Cristo e l’imperatore tanto caro ai Bizantini, rimandando al tempo stesso a un fatto reale come il contributo finanziario elargito alla chiesa da Giustiniano. L’imperatore, infatti, porta un contenitore che si suppone pieno di monete d’oro e che, se nell’intenzione è destinato a Cristo, nella realtà va al vescovo Massimiano (Maximianus) verso il quale il dono è indirizzato. Il vescovo, che aveva consacrato la chiesa, è rappresentato con tutti gli attributi della sua carica episcopale, cioè col pallium (la stola bianca) e, nella mano destra, la croce gemmata. Inoltre, è l’unico personaggio il cui nome «Maximianus» è scritto sopra il suo ritratto. Fra l’imperatore e il vescovo sta un personaggio che è,
probabilmente, il prefetto del pretorio per l’Italia. Dato che la coppia imperiale non è mai stata a Ravenna, si è avanzata l’ipotesi che sia stato lui a consegnare i doni imperiali alla chiesa. Tutti i personaggi sono in posizione frontale, disposti in una fila che occupa tutto il campo pittorico lasciando solo lo spazio per due colonne incrostate di gemme che inquadrano la scena sui due lati. Qui si nota una piccola incongruenza che sparirà nei secoli seguenti: le figure si stagliano contro un fondo d’oro che risponde allo stesso canone estetico dei loro corpi senza consistenza, nascosti sotto drappeggi simili a superfici piatte; però, sul bordo superiore della scena, compaiono le travi di un soffitto raffigurato con una prospettiva approssimativa ed evidentemente derivata direttamente da un modello antico. Collegato alle colonne laterali, il soffitto dovrebbe rappresentare un interno, almeno secondo l’intenzione originaria. Qui la fascia formata dalla travi è troppo stretta per creare quest’illusione che, evidentemente, non ci si curava di dare. I personaggi, del tutto privi di peso e di volume, fluttuano nello spazio dorato e l’artista non si è preoccupato dei loro piedi che qua e là si sovrappongono. Nel registro superiore del coro alcune scene dell’Antico Testamento prefigurano gli episodi del Nuovo secondo quanto stabilito dai teologi. Fra queste, vediamo il Sacrificio d’Isacco che preannuncia quello, volontario, di Cristo e l’Eucaristia. Nella volta quattro angeli sorreggono, come cariatidi, un medaglione con l’Agnello, simbolo del Cristo immolato; un’immagine che si richiama al vangelo di Giovanni (1,29) che dice, indicando Gesù: «Ecco l’Agnello che toglie i peccati del mondo». I girali d’acanto, i fiori, le melagrane e gli uccelli che circondano questo medaglione
A fronte: 96. Cristo seduto sul trono del mondo attorniato da due angeli, dal vescovo Ecclesio e da san Vitale. Particolare del mosaico absidale di San Vitale a Ravenna. Sopra: 97. La Trasfigurazione raffigurata nel mosaico absidale della chiesa omonima nel monastero di Santa Caterina del Sinai. Il mosaico, dono dell’imperatore Giustiniano, è opera di artisti costantinopolitani.
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evocano il Paradiso al quale il fedele può aspirare grazie al sacrificio del Signore. Se a Ravenna è facile identificare i caratteri derivati direttamente dalle opere della Tarda Antichità, la cosa non è una regola, come dimostra un altro mosaico dello stesso periodo nell’abside della chiesa della Trasfigurazione nel monastero di Santa Caterina del Sinai59. Il fatto che il donatore sia l’imperatore Giustiniano e la qualità dei mosaici non lasciano dubbi sulla provenienza costantinopolitana degli artisti. Nel catino absidale domina la Trasfigurazione, certamente con riferimento alla dedicazione della chiesa. Al centro vediamo il Cristo radioso, vestito di bianco, in una mandorla azzurra attraversata da raggi di luce candida, contro un fondo d’oro il cui fulgore si somma alla luce che emana dal Signore. I pittori non seguono sempre i testi alla lettera, ma in questo caso succede; infatti Matteo, descrivendo la Trasfigurazione, dice: «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2). I fasci di luce raggiungono anche gli altri personaggi, in particolare i profeti Mosè ed Elia, in piedi ai lati di Cristo e, più in basso, gli apostoli Giovanni, Pietro e Giacomo caduti a terra, abbagliati dalla luce del Tabor che supera la capacità visiva dei loro occhi. Giovanni Crisostomo, in un’omelia, sottolinea il carattere sovrumano di questa luce notando come gli apostoli ne siano atterriti60. Di solito Pietro è rappresentato non al centro, come qui, ma a destra e nell’atto di parlare, secondo il racconto dei vangeli di Luca (9,32-36) e di Matteo (17,4-8) La scena è inquadrata da due file di personaggi a mezzo busto: in alto sono allineati i dodici apostoli la cui serie è interrotta da una croce d’oro che evoca la natura divina di Gesù (e infatti un fascio di luce scende dalla croce verso il suo capo), mentre il bordo inferiore presenta alcuni profeti, fra cui Davide che è posto ai piedi di Cristo per ricordare che sua madre apparteneva a questo illustre lignaggio, un’allusione indiretta all’Incarnazione. Il pittore ha poi aggiunto alla scena simbolica due rimandi a personaggi contemporanei: i ritratti dell’igumeno del monastero, Longino, e del diacono Giovanni, probabilmente il futuro san Giovanni Climaco che fu anch’egli igumeno e scrisse qui il suo celebre trattato nel quale insegna ai monaci la via della virtù. Al di sopra dell’abside sta l’Agnello al quale due angeli in volo offrono delle corone. Ma l’Agnello, simbolo del Cristo immolato, non è solo: più in alto si vedono i busti della Vergine e di san Giovanni, un primo abbozzo della Déesis, immagine della preghiera d’Intercessione che la mediatrice per eccellenza e l’ultimo profeta rivolgono a Cristo in favore del genere umano. L’insieme è la prova di come, a partire dal VI secolo, le immagini bizantine fossero il risultato di una profonda riflessione teologica: così, non ci si limita a rappresentare la scena evangelica della Trasfigurazione, ma si allude anche alla duplice
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natura di Cristo (croce e ritratto di Davide) e alla salvezza (Déesis). Quanto allo stile, è già tipicamente bizantino, orientato verso un affinamento e una suggestiva semplificazione delle forme, come mostrano i volti non caratterizzati (Giovanni e Giacomo hanno gli stessi tratti a parte la barba che fa la differenza), le sagome allungate e i corpi che scompaiono sotto il panneggio ampio e rigido (Mosè ed Elia). Ma la semplificazione non è ancora generalizzata e l’artista dà agli apostoli membra massicce, anche se schematizzate. I personaggi dai toni di colore spenti (grigio e bianco) sono uniti dalla cromia che suggerisce la loro caratteristica comune: aver contemplato la divinità di Gesù. Essi risaltano contro la luminosità, che si suppone soprannaturale, del fondo d’oro, più chiara vicino all’aureola del Signore perché, in questa zona, è disseminata di tessere giallo limone che ne esaltano lo splendore mentre delle tessere brune invadono l’oro man mano che ci si allontana dal Cristo, sorgente della luce.
L’icona, presenza sacra (VII-VIII secolo) Secondo le fonti scritte, le prime icone sono apparse intorno al 350, ma le rare immagini giunte fino a noi non risalgono oltre il VI secolo. La maggior parte di esse viene da botteghe costantinopolitane e si trova oggi nel monastero di Santa Caterina del Sinai. Una delle più significative è quella del Cristo Pantocratore, onnipotente e signore del mondo (VI-VII secolo), di una qualità eccezionale, che rappresenta anche una tappa importante nel formarsi delle fattezze definitive del Salvatore61. Come i teologi avevano avuto difficoltà nel definire in che modo coesistessero le due nature, divina e umana, nella persona di Gesù, così all’inizio vi furono due interpretazioni della sua fisionomia: quella siriaca, che appare nel Vangelo di Rabula e nelle scene della Passione in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, ci mostra un Gesù magro, con capigliatura e barba fluenti di un bruno molto scuro62; quella derivata dai modelli antichi, invece, presenta un efebo imberbe coi capelli chiari, corti e ricci, e l’ovale rotondo, che troviamo spesso nelle chiese bizantineggianti di Roma e anche a Ravenna63. L’icona del Pantocratore rappresenta il tipo orientale, addolcito però dalla capigliatura e dalla barba castano chiaro, dal modellato morbido e dai tratti leggermente individualizzati. A parte queste particolarità, che rivelano ancora qualche esitazione, l’immagine mostra già quale sarà il tipo di
98. Icona del Cristo Pantocratore, monastero di Santa Caterina del Sinai.
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volto adottato in futuro per il Cristo. Se ne distacca solo per la disposizione leggermente divergente delle pupille, il disegno asimmetrico degli occhi e delle sopracciglia, l’angolo d’inclinazione diverso delle due parti dei baffi, i capelli che ricadono tutti sulla spalla sinistra – cosa che non si vedrà mai in seguito – infine il naso, che è leggermente deviato rispetto all’asse mediano del viso, e le labbra, appena visibili a partire dal IX secolo, che in questa icona sono morbide e carnose. L’espressione non è quella di un cupo asceta del deserto (il tipo siriaco), né quella, amabile, del giovane pastore romano: si tratta in questo caso di un ideale umano nel quale predominano la saggezza e un’austera benevolenza, la meditazione e la pietà. Come deve aver avvertito perfettamente il calligrafo che ha aggiunto all’icona un’iscrizione posteriore al dipinto e che definisce il tipo di questo Cristo come Philantropos, cioè Amico degli uomini. Egli con la destra benedice e nella sinistra ha un vangelo con la rilegatura ornata di borchie e pietre preziose. Il tipo della Vergine, nel quale il modello orientale prevalse ben presto su quello classico, pone meno problemi. Tuttavia, anche in questo caso, nell’icona del VI-VII secolo con la Theotòkos col Bambino in trono fra i santi Giorgio e Teodoro, conservata al Monte Sinai, il volto di Maria non è ancora quello più o meno standardizzato64. Gli occhi sono molto grandi ma, invece di essere sottolineati da una linea decisa, sono dipinti alla maniera antica usando l’ombra delle orbite per dar loro risalto; inoltre, sono uno più alto dell’altro rompendo la simmetria del volto alla quale si baderà tanto in futuro, cosa che, nel contempo, la caratterizza. Come Cristo, anche la Vergine ha il naso carnoso e le labbra ben disegnate, e anche un tocco di rosa sulle guance e sul mento; è giovane e graziosa, il che non corrisponde all’ideale bizantino della Madre di Dio. Infine, il maphòrion che l’avvolge getta un’ombra sulla sua fronte, un particolare realistico che non si vedrà più prima del XIV secolo, quando la Rinascenza dei Paleologhi riporterà in auge i modelli antichi. Così, quest’icona sta a mezza strada fra il ritratto della Tarda Antichità come lo vediamo, per esempio, nel cimitero romano-egiziano del Fayum65, e la Theotòkos bizantina, strumento dell’Incarnazione. Se Maria, che domina in primo piano la composizione, risente del passato in maniera molto evidente, i due santi che le stanno a lato appartengono allo stile pienamente bizantino. I tre personaggi sono in posizione rigorosamente frontale, immobili e privi non solo di volume (a parte le ginocchia della Vergine), ma anche di consistenza corporea. Le
99. Icona della Theotòkos con il Bambino in trono tra i santi Giorgio e Teodoro, conservata nel monastero di Santa Caterina del Sinai.
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forme, infatti, sono nascoste da panneggi rigidi e i santi, addossati a Maria, hanno una sola mano che regge la croce del martirio. L’altra è stata certamente considerata inutile dal punto di vista semantico, tanto che il braccio corrispondente è scomparso dietro la figura centrale. Per il resto, il pittore si è limitato a dare loro dei piedi piccolissimi, sui quali non potrebbero mai reggersi. I loro volti corrispondono alle tipologie adottate in seguito: Teodoro ha le guance incavate, grandi occhi neri e la barba scura a punta, come lo vediamo in Siria e in Egitto; la fisionomia di Giorgio deriva invece dalle statue greco-romane di eroi biondi e ricciuti, dal colorito chiaro. Entrambi fissano lo spettatore e indossano l’abito romano composto da una tunica e un mantello fermato alla spalla da una fibula. Tutti i personaggi in primo piano stanno in uno spazio senza alcuna profondità. Dietro a loro si apre il mondo celeste, fatto di un’altra sostanza che è indicata dal colore. Qui vediamo due angeli che alzano la testa verso una mano divina che esce da un lembo di cielo e manda un raggio di luce in direzione della Vergine e di Gesù. I loro atteggiamenti e la loro posizione, decisamente di tre quarti, come pure i loro volti, si rifanno a modelli antichi, e così lo spazio, suggerito da un’architettura concava, simile a un’abside. Ma il colore biancastro e uniforme usato per queste figure dipinte come cammei le colloca lontano dalla policromia del mondo terreno sottolineandone la natura trascendente. Tutti questi personaggi sono lì solo per Gesù; ecco perché, per ultima, conviene analizzare la sua immagine. Egli è rappresentato in grembo a sua madre per ricordare allo spettatore che fa parte dell’umanità, almeno durante il suo passaggio sulla terra; ma dietro la corporeità e la protezione materna di cui gode, bisognava anche sentire, come se si sprigionasse da esse, la sua natura divina. E certo con l’intenzione di sottolineare le due nature l’artista ha dato al Bambino un corpo grassottello, delle guance paffute, un naso largo in punta, una bocca dalla commessure ben segnate, simili a quelle dei putti antichi, ma anche una veste ocra e oro e, a suggerire la luce, un nimbo troppo grande per la sua testa. Gesù non stabilisce alcun contatto con la madre perché non è un bambino comune; egli guarda infatti lo spettatore che è venuto a salvare. Inoltre, sta al centro del campo pittorico. Sua madre è lì per rappresentare il dogma dell’Incarnazione, gli angeli e la mano di Dio per far vedere la sua natura divina, mentre i due santi martiri morti nel suo nome significano che la storia della salvezza continua ormai nella Chiesa della quale essi sono i pilastri. Opera di transizione, la nostra icona associa due diverse concezioni dello spazio, tre modi di rappresentare il corpo umano (angeli, santi, Gesù) e tre sostanze (quelle della luce divina, della divinità incarnata e dell’umano). Questa lunga analisi nasce dal fatto che l’icona della Vergi-
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ne col Bambino ci mostra in che modo si vadano formando sia l’iconografia bizantina, che ormai deve esprimere nuovi contenuti, sia il linguaggio figurativo che deve darle forma. Essa però testimonia anche come l’estetica bizantina abbandoni progressivamente gli antichi modelli per creare, interpretandoli diversamente, un proprio linguaggio figurativo la cui interna coerenza sarà fra le più rigorose che siano mai esistite. Un’altra icona dello stesso periodo, molto probabilmente costantinopolitana, mostra san Pietro a mezzo busto con le chiavi del regno e la croce astile del pastore di anime66 secondo le parole del vangelo di Matteo (16,19): «Io ti darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Pietro rappresenta simbolicamente la Chiesa, come indica la forma concava che ricorda un’abside alle sue spalle. Sopra quest’immagine dipinta all’antica, compaiono tre teste in uno stile completamente diverso che non è altro che quello cha si sta formando. Si tratta di Cristo fra due personaggi anonimi, probabilmente la Vergine e san Giovanni, rappresentati entro medaglioni. La composizione ricorda quella dei dittici imperiali, ad esempio quello di Giustino II del 540, ora agli Staatliche Museen di Berlino67 nel quale, al di sopra del ritratto propriamente detto, appare il Cristo fra l’imperatore e l’imperatrice, tutti e tre a mezzo busto entro medaglioni. Dal VI secolo in poi, l’infatuazione per le icone sarà senza limiti: le fonti scritte ci dicono che si vedevano dappertutto, nelle case, nelle botteghe, nei luoghi pubblici, oltre a essere cucite sulle vesti. Inoltre erano considerate, secondo un’abitudine pagana, come protettrici degli eserciti e, per-
ciò, portate in battaglia, e anche delle città, tanto che in caso di bisogno venivano esposte sulle mura di Costantinopoli. Esse erano inoltre elementi indispensabili al culto e, per ogni liturgia, l’icona che corrispondeva alla festa del giorno era messa su un espositore e riceveva i segni di venerazione previsti dal rituale, fra cui la preghiera, l’incensamento e la proscinesi. La sua funzione era rendere presente il santo che si celebrava, perciò riceveva anche gli omaggi dei fedeli che accendevano ceri e si prosternavano. L’icona dunque non era un semplice oggetto ma una presenza sacra ed efficace grazie al rapporto mistico con quelli che rappresentava. Era in grado di agire poiché faceva miracoli, era dotata di ubiquità, guariva, parlava, piangeva. Questo carattere sacro e quasi magico dell’icona nell’VIII secolo avrebbe scatenato una reazione violenta: la crisi iconoclasta. L’attribuzione di una natura trascendente alle immagini, cosa dalla quale l’Occidente – che ubbidiva ai Libri Carolini – si era sempre guardato68, non bastava ai teologi per i quali esse erano diventate intermediarie fra l’uomo e Dio; inoltre, erano una via alla conoscenza del mondo divino e conducevano il fedele verso il compimento spirituale69. A questo scopo, bisognava che i tratti riprodotti nell’immagine fossero considerati autentici, e alcune leggende servirono a provarlo. Così, il ritratto della Vergine era stato dipinto quando era viva da san Luca, quello di Cristo si era impresso su un panno al contatto col suo viso (la reliquia del santo Mandylion), e i santi e gli angeli erano stati visti in sogno da persone degne di fede. Così, all’immagine bizantina venne attribuito un fondamento mistico e, al tempo stesso, pseudostorico.
100. Dittico in avorio di Giustino II, conservato agli Staatliche Museen di Berlino. A fronte: 101. Icona di san Pietro, del monastero di Santa Caterina del Sinai.
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Il più grande scontro ideologico e le sue conseguenze per la pittura La sottomissione dell’imperatore a Cristo, che innalza il basilèus al di sopra del comune mortale, si manifesta chiaramente nel VII secolo. La cosa era già evidente nel dittico Barberini, ma ora vi si aggiunge spesso un’allusione al parallelismo fra i due regni. Su una moneta di Giustiniano II del 685695 esposta al British Museum, l’imperatore, che regge la croce trionfale, appare in piedi su una gradinata circondato dall’iscrizione Servus Christi, mentre sul diritto sta il Cristo a mezzo busto con l’iscrizione Rex Regnantium. Questa novità testimonia l’elaborazione via via più precisa del rapporto fra Cristo, che governava l’Impero, e l’imperatore che lo amministrava in suo nome. Nell’abside della sala d’oro del Grande Palazzo (chrysotriclinos), al di sopra del trono imperiale c’era un mosaico col Cristo in trono70, mentre quello della Vergine come «porta divina» era sopra l’entrata. Quando l’imperatore sedeva in trono, assumeva la stessa posizione del Cristo sopra di lui, lasciando ciascuno degli astanti libero di immaginare il grado di prossimità che li legava. Accanto al trono del sovrano ce n’era un altro, più piccolo, sul quale era poggiato il vangelo. Esso aspettava il Cristo della Seconda Venuta alla fine dei tempi, ma era anche un soggetto iconografico a sé chiamato l’Hetimasia. L’imperatore veniva così sottratto alla sfera terrena e umana e posto a diretto contatto con Dio. Del resto, il culto imperiale ereditato da Roma aveva assorbito elementi orientali – fra i quali lo straordinario fasto del cerimoniale – e altri cristiani. L’onnipotenza dell’imperatore si manifesta nella maniera più chiara con la crisi iconoclasta (711-843). Le opere d’arte costantinopolitane, testimonianze di questo movimento d’idee, sono poche: si tratta di un mosaico con la raffigurazione di una croce entro un medaglione (VIII secolo) in Santa Sofia71 e di un’altra, molto grande, che occupa tutto il catino absidale di Sant’Irene, costruita intorno al 532, ma senza dubbio decorata più tardi72. L’iscrizione è stata ricostruita e dice: «Noi saremo ricolmi delle cose (?) buone della Tua Casa. Il tuo tempio è santo. La tua giustizia mirabile. Ascoltaci, o Dio nostro Salvatore, speranza dei confini della terra e degli oceani»73. Alcune descrizioni e qualche decorazione dipinta in Grecia ci danno un’idea dei programmi ecclesiastici di questo periodo che comprendevano scene di caccia e di pesca, piante e frutti e molti motivi decorativi d’ispirazione bizantina simili a quelli che possiamo vedere nella Grande moschea di Damasco o nella Cupola della Roccia a Gerusalemme74. Queste decorazioni profane in edifici di culto provocarono le vivaci proteste di papa Gregorio II e una sua ammonizione nei confronti di Leone III75. Malgrado si tratti di opere di scarsa importanza, è il caso di
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richiamare le circostanze e l’oggetto della questione iconoclasta viste le conseguenze che ebbero le dottrine iconodule sulla pittura dei secoli seguenti. Ma ci sono anche altre due ragioni: si tratta di un fenomeno essenzialmente costantinopolitano (anche se coinvolse gran parte dell’Impero) e ridefinì il ruolo dell’imperatore nelle questioni ecclesiastiche, alle quali l’arte appartiene. La proibizione di rappresentare Cristo e i personaggi sacri in genere è una decisione dell’imperatore che così afferma, ancora una volta, la propria autorità di fronte alla Chiesa. Fu Filippico Bardane (711-713) a far distruggere la rappresentazione del sesto concilio ecumenico e dell’iscrizione commemorativa posta sopra la porta del Milion o Millenarium Aureum – una specie di arco di trionfo adorno di statue – dalla quale partivano le vie che solcavano l’Impero. Al posto di queste pitture fece mettere il proprio ritratto e quello del patriarca iconoclasta Sergio. Un simile atto, che potrebbe apparire arrogante, nasceva, si pensa oggi, dalla paura dell’idolatria e dal desiderio di liberare la fede da tutti i residui pagani. Il caso del successore di Bardane è alquanto diverso. Leone III (717-741), originario dell’Anatolia, era certamente un cristiano sincero, ma la sua iconofobia derivava senza dubbio anche dagli stretti rapporti esistenti fra questa provincia orientale dell’Impero e i suoi vicini musulmani aniconici. Quando, nel 726, egli fece distruggere l’immagine di Cristo che sovrastava la porta di bronzo della Chalkè (l’ingresso principale del palazzo imperiale), il popolo si oppose violentemente e la sommossa causò anche dei martiri, fra cui la futura santa Teodosia76. L’argomento principale portato dagli iconoclasti poggiava sulla «indescrivibilità» di Cristo la cui natura divina, inconoscibile, non poteva essere rappresentata, mentre raffigurare solo la sua natura umana sarebbe stato blasfemo. Sul fronte degli iconoduli, il patriarca Niceforo77 e Teodoro Studita78 ripresero questo argomento nei loro trattati, e il patriarca Metodio giunse alla conclusione che l’immagine della natura umana di Cristo ci fa conoscere anche la sua natura divina. Chi rifiutava le immagini negava la realtà dell’Incarnazione, annullando così l’opera della salvezza79. Le obiezioni non modificarono l’atteggiamento imperiale, tanto che nel 730 Leone III pubblicò un editto che vietava ufficialmente di rappresentare personaggi sacri e di rendere loro culto annunciando, inoltre, le sanzioni nei confronti dei trasgressori. Tuttavia le persecuzioni violente si scatenarono solo con Costantino V (741-775) che costrinse migliaia di monaci a fuggire, soprattutto verso l’Italia Meridionale. Nel corso della lotta fra iconoclasti e iconoduli vi furono alterne vicende; le rispettive dottrine furono confermate da alcuni concili, come quello di Hiereia (754) per gli iconoclasti80 e quello di Nicea (787) per gli iconoduli81. Questo rapidissimo cenno al quadro degli eventi dell’epoca è
102. La decorazione di età iconoclasta dell’abside della basilica di Sant’Irene.
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necessario per capire il movimento di idee, ma solo queste ultime riguardano direttamente l’arte. In risposta alle accuse degli iconoclasti, gli iconoduli – che furono teologi di vaglia come Giovanni Damasceno, i patriarchi Germano, Niceforo e Metodio, o ancora l’abate del grande monastero di Costantinopoli Teodoro Studita82 – fra le altre sostennero queste tesi: Cristo, essendosi incarnato, aveva attribuito alla materia un valore e una dignità nuovi; aveva lasciato la propria impronta su un panno (il Mandylion)83 perché gli uomini conservassero il ricordo del suo aspetto fisico; di conseguenza dipingere la sua immagine era pienamente giustificato, addirittura necessario83. D’altro canto, quest’impronta era il prototipo secondo il quale si dovevano dipingere tutte le rappresentazioni del Signore. La teoria dei prototipi e il desiderio di conferire autenticità alle immagini si estesero anche ad altri personaggi sacri; si credeva infatti che san Luca avesse dipinto dal vero il ritratto della Vergine, mentre i santi erano stati visti in sogno da «uomini degni di fede»84. Le icone erano tanto più necessarie in quanto lo Pseudo-Dionigi Areopagita aveva affermato che per opera di Cristo gli uomini erano divenuti capaci di «contemplare con l’intelletto i simboli sensibili». Ora, i simboli sensibili che permettevano la contemplazione del divino erano proprio le immagini. Al contrario di quanto professato dagli iconoclasti, gli iconoduli affermarono che le immagini avevano un valore equivalente (e a volte superiore) a quello del verbo; gli ar-
gomenti che i primi traevano dall’Antico Testamento, in particolare dall’Esodo (20,4-5) dove l’Eterno ordina a Mosè di non farsi immagini, erano falsi perché l’Antico Testamento era solo l’ombra della verità e non la verità stessa. Il sinodo riunitosi nell’869 si concluse affermando che la rappresentazione di Cristo era necessaria per completare l’opera dell’Incarnazione voluta da Dio86. Così l’immagine venne inclusa nel piano provvidenziale. Ma essa aveva già una dimensione mistica: Giovanni Damasceno, infatti, pensava che la raffigurazione creasse un contatto col soggetto raffigurato, sfuggendo così alla propria materialità. Cristo e i santi proiettavano la loro «ombra» o la loro «energia» sulle immagini che li rappresentavano87. I suoi successori, Teodoro Studita e il patriarca Niceforo88, svilupparono l’idea affermando che la grazia discendeva sull’icona che «ne tratteneva un frammento». Secondo lo Studita essa era come l’impronta lasciata da un sigillo (la persona rappresentata)89. Accadde così che il significato dell’immagine, si potrebbe quasi dire il suo statuto, fu fissato definitivamente durante l’iconoclastia. Il culto delle icone venne ripristinato una prima volta dalla reggente Irene (784-813), ma per poco, a causa di una controversia piuttosto buffa con il figlio, il futuro Costantino VI. La reggente aveva rotto il fidanzamento di quest’ultimo con una figlia di Carlo Magno e gli aveva fatto sposare una provinciale di origini modeste, Maria l’Armena, scelta dal ministro Staurakios in seguito a uno di quegli strani con-
103. Il disegno sui margini del Salterio Chludov assimila l’azione degli iconoclasti a quella degli uccisori di Cristo. Il manoscritto costantinopolitano del IX secolo è conservato al Museo storico di Mosca, add. gr. 129.
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corsi di bellezza in uso alla corte bizantina e organizzati al fine di reclutare le future imperatrici. Dopo una lotta a fasi alterne tra madre e figlio, Costantino VI fu proclamato imperatore90 e l’iconoclasmo ristabilito. Il conflitto si concluse qualche tempo dopo con la vittoria degli iconoduli grazie alla reggente Teodora che agiva in nome del figlio, Michele III. Il patriarca Metodio, eletto di nuovo, convocò un concilio che proclamò il ripristino del culto delle immagini e l’11 marzo 843 si celebrarono, in un misto di pompa imperiale ed entusiasmo popolare, grandi feste delle quali il Libro delle Cerimonie ristabilì lo svolgimento. Le massime autorità religiose si recarono al palazzo delle Blacherne, il che voleva dire che venivano simbolicamente per invitare l’imperatore (in questo caso la reggente) a ripristinare il culto delle icone. Sembra proprio che la reggente, dal canto suo, sia andata incontro al clero. Quando s’incontrarono formarono un’unica processione alla testa della quale erano Teodora, il patriarca Metodio e coloro che portavano le sante icone, seguiti da migliaia di monaci e anacoreti scesi dai monti della Bitinia, e dal popolo della capitale. Essi agitavano stendardi, cantavano inni e avevano in mano dei ceri accesi. Secondo le conclusioni che possiamo trarre dal resoconto di una processione dello stesso tipo che si svolse intorno all’820-828 e che leggiamo nella Vita di Teodoro Studita, si trattava di una processione che s’ispirava ai trionfi militari dell’imperatore e prevedeva anche dei prigionieri, ruolo assunto, in questo caso, da alcuni eretici91. La processione si recò a Santa Sofia, dove le icone furono solennemente re-intronizzate nella loro collocazione abituale. Per commemorare l’evento, la Chiesa istituì la festa della Domenica dell’Ortodossia. Il Libro delle Cerimonie ci dice che in quel giorno l’imperatore non entrò nel santuario per comunicarsi, come avveniva di solito, senza dubbio perché l’11 marzo 843 era una donna a occupare il posto dell’imperatore, e le donne non avevano, e non hanno neppure oggi, il diritto di oltrepassare la recinzione del coro. Le conseguenze di questo trionfo si fecero sentire fino alla caduta dell’Impero. Ormai, infatti, l’immagine religiosa era definitivamente sacralizzata in base al legame soprasensibile, che le veniva attribuito, col personaggio rappresentato. Una simile concezione, come la dottrina dei prototipi, limita la libertà degli artisti sia sotto il profilo della scelta dei temi, sia sotto quello dell’iconografia delle forme. Gli schemi iconografici, una volta fissati, divennero anch’essi relativamente stabili, il che non ne esclude l’evoluzione nel corso dei secoli, tuttavia la limita. L’importanza data all’Incarnazione diede vita a un nuovo Umanesimo i cui segni premonitori comparvero in pittura dal IX secolo e questo fermento di nuove idee crebbe sempre più a partire dal X raggiungendo il culmine al tempo dei Paleologhi. Esso si manifestò, fra l’altro, in una precoce umanizzazione di Cri-
sto che prova sentimenti di dolore e tenerezza, e modificò in questo senso le scene della Passione. La maggior parte delle opere dell’VIII-IX secolo giunte fino a noi non riflette lo scontro ideologico che ebbe luogo nella capitale bizantina nel periodo iconoclasta; tuttavia il conflitto ha lasciato qualche traccia nell’illustrazione dei salteri del IX secolo, in particolare nel Salterio di Chludov92; ma si tratta di miniature marginali e piuttosto sommarie che mostrano o un personaggio armato di martello nell’atto di distruggere un’immagine, o un altro che venera un’icona, di solito quella della Vergine col Bambino93 e, a volte, anche un tema più complesso. In compenso, disponiamo di opere e documenti che testimoniano l’arte profana realizzata negli ateliers imperiali, per il puro piacere del sovrano. Fra queste, molti drappi di seta di grande perfezione sia estetica che tecnica, ispirati a modelli persiani. Tessuti di questo tipo erano prodotti a Costantinopoli fin dal VI-VII secolo, come prova quello con la rappresentazione di alcune quadrighe, ricordo dei giochi dell’ippodromo, attualmente esposto al Museo di Cluny94. Un’altra stoffa dello stesso tipo ma dell’VIII secolo, con la rappresentazione di cavalieri affrontati che cacciano il leone, rimasta a lungo nella cattedrale di Moissac, è attualmente divisa fra il museo di Aquisgrana e il Museo Storico dei tessuti di Lione95. Questa stoffa, nella quale si nota una felice combinazione di elementi ellenistici, iranici e bizantini, fu donata a Pipino il Breve da Costantino VII. Le fonti scritte ricordano delle immagini di battaglie vittoriose contro gli Arabi rappresentate su alcuni edifici pubblici di Costantinopoli del periodo dell’imperatore iconoclasta Costantino V (741-755), che suscitavano l’approvazione entusiasta della folla96. Basilio I (976-1025) non fu da meno, benché durante il suo regno la crisi iconoclasta fosse ormai risolta: fece realizzare nel suo palazzo del Kenurgion dei mosaici che rappresentavano l’opera svolta dall’imperatore per il bene dei suoi sudditi, i suoi sforzi «erculei» e le sue guerre vittoriose97. Immagini di questo tipo erano per così dire «tradizionali» nei palazzi costantinopolitani ed esistevano fin dall’epoca costantiniana. Eusebio di Cesarea ne ricorda uno che rappresentava Costantino I nell’atto di trafiggere con la lancia un serpente – il nemico del genere umano Licinio – davanti ai suoi figli e probabilmente a una croce, segno della vittoria, posta al di sopra del suo capo98, mentre una testimonianza di Niceta Coniate ci dice che alcune azioni gloriose di Manuele Comneno (1143-1180) decoravano il palazzo delle Blacherne. Le prodezze guerriere degli imperatori non erano gli unici temi presenti nei palazzi dove si alternavano spesso con scene di caccia nelle quali si esaltavano il vigore del sovrano e la sua vittoria sulle belve, promesse di futuri successi militari. Altri cicli mostravano le sue prodezze nel circo, in particolare nelle corse dei carri99.
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La fioritura post-iconoclasta della decorazione parietale Subito dopo la crisi iconoclasta la Chiesa fissò il programma iconografico, fino a quel momento un po’ fluttuante (vago), che doveva decorare l’interno delle chiese. L’immagine aveva ormai acquisito un valore quasi sacramentale e gli edifici di culto erano decorati secondo regole che trasformavano il programma iconografico in un sistema decorativo razionale ed estremamente coerente, messo a punto in accordo (concordanza?) coi dogmi, la storia biblica e la liturgia e adattati agli edifici a croce inscritta con cupola (centrale) che avevano preso il posto delle basiliche. L’interno delle chiese era sentito come un microcosmo, un universo ideale nel quale si realizzava l’incontro mistico tra il fedele e Dio. Poiché l’Incarnazione aveva assunto nuova importanza, la Madonna, sola o col Bambino, venne posta ben in vista nel catino absidale. Ella inoltre doveva essere intesa come la mediatrice fra Dio e gli uomini e cooperava alla salvezza dell’umanità con la preghiera d’intercessione rivolta a Cristo. Infine, era il simbolo della Chiesa. Ella prese dunque il posto della croce del periodo iconoclasta e del Salvatore che, in precedenza, compariva spesso nell’abside. Il posto riservato alla Vergine è segno anche di un’evoluzione della pietà: certo, Cristo aveva il posto più alto nella chiesa e vegliava sul mondo dalla cupola, ma la liturgia si svolgeva nell’abside, e quest’ultima era abbastanza vicina ai fedeli perché essi potessero rivolgere le loro preghiere alla Madre di Dio. Nei registri inferiori dell’abside stavano ritti gli apostoli e i Padri della Chiesa, come pure i liturgisti e altri grandi teologi, tutti con in mano dei libri o dei rotoli. Il Cristo Pantocratore, Signore del mondo e onnipotente, stava al centro della cupola, circondato dagli angeli che formavano la sua guardia d’onore. Gli iconoduli avevano parlato molto degli angeli e, nell’843, un anacoreta di nome Isaia aveva fatto un sogno profetico al quale si prestò la massima attenzione. Il testo diceva, fra l’altro: «la venerazione delle immagini di Dio – come quella della croce – trova il suo modello nell’offerta degli angeli che rendono gloria al Signore. L’uomo, davanti all’icona, è come l’angelo davanti alla luce divina»100. Il tamburo della cupola era riservato agli apostoli o (e) ai profeti, i peducci pennacchi agli evangelisti intenti a scrivere. Il patriarca Fozio (IX secolo), in un sermone, paragona Cristo a un «basilèus celeste» e gli angeli e i santi ai suoi sudditi101. Nelle decorazioni, gli angeli circondano direttamente il Salvatore formando la sua guardia del corpo, mentre i santi si dispongono nel tamburo e nello spazio sotto la cupola. L’Historia Ecclesiastica elenca le diverse categorie di personaggi e i rispettivi ruoli nella costruzione della Chiesa dicendo: «I patriarchi che l’hanno prefigura-
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ta, i profeti che l’hanno annunciata, gli apostoli che l’hanno fondata e i martiri che l’hanno portata a compimento»102. Nella zona superiore della navata erano raffigurate le Grandi Feste del calendario liturgico attraverso episodi evangelici di contenuto dogmatico. Seguiva il ciclo della Passione e, più raramente, quello dei Miracoli di Gesù. Infine, il primo registro, vicino al pavimento, era riservato ad alcuni santi in piedi che accoglievano i fedeli, ne ascoltavano le preghiere e partecipavano con loro alla liturgia. Così, il cristiano che ascoltava i canti e le preghiere dell’ufficio partecipando ai riti che rimandavano alla vita di Gesù, si sentiva circondato e sostenuto dai santi rappresentati alla sua altezza. Quanto alle immagini delle Grandi Feste – la Passione, la Predicazione e i Miracoli di Cristo – esse mostravano, come in uno specchio, i fatti richiamati dalla parola, completando quanto era stato detto e traducendo in linguaggio semplice i dogmi della fede. Inoltre, rendevano presente e immediata la storia della salvezza, come se si svolgesse davanti agli occhi del fedele. Profumi d’incenso e altri effluvi lo avvolgevano mentre i canti afferravano la sua anima e la cullavano portandola in cielo. Cosa desiderare di più davanti a tanta perfezione? I testi ci descrivono un programma iconografico di questo periodo (890 ca.), mentre la chiesa al cui interno si dispiegava è scomparsa. Essa è nota col nome del suo donatore, il magister Stylianos Zaoutzès, e mostrava, intorno al Pantocratore della cupola, degli angeli che celebravano la divina liturgia, la stessa che si credeva servisse da modello a quella sulla terra. Attualmente le immagini più antiche che si conoscano con questo soggetto sono del XIV secolo. Al di sotto della divina liturgia stavano alcuni santi e profeti, mentre la Vergine era nel catino absidale. Sulle pareti, il ciclo delle Grandi Feste era seguìto dall’immagine, piuttosto rara, del Cristo morto nella tomba. Oggi è difficile farsi un’idea di cosa fosse l’interno di Santa Sofia – chiesa faro e palladio dell’Impero – in epoca bizantina. Certo lo spazio creato dalle smisurate dimensioni della cupola con le mezze cupole che la fiancheggiano, come pure dalle absidiole embricate in queste ultime, conserva tutta la sua magnificenza, e l’occhio si perde in una giustapposizione di volumi che evocano l’infinito. In certe ore del giorno, quando la luce penetra in fasci obliqui attraverso le finestre del tamburo, poste a un’altezza vertiginosa, sembra trasportare un pulviscolo d’oro mandato dal cielo che non poteva non impressionare i Bizantini. Le lastre di pietre dure nei toni del verde pallido, di rosa incomparabili, di grigi venati di malva che rivestono i muri ci sono ancora, come anche le colonne di marmo di diverse provenienze con i capitelli scolpiti, ma tutte queste meraviglie hanno perso il loro splendore perché sono sporche; ed è la stessa cosa per i marmi policromi del pavimento. Infine sono scomparsi la recinzione del coro, in argento incrostato
di smalti e perle, e le lampade che vi erano sospese e diffondevano ovunque infiniti riflessi, come pure i tendaggi ricamati di fili d’oro che, in alcuni momenti dell’ufficio, chiudevano lo spazio fra le colonne del templon103. Naturalmente non c’è più traccia dei due candelabri d’oro, grandi come alberi, che erano davanti al santuario, né del vasellame liturgico d’oro, dei ventagli liturgici, delle rilegature d’oro o d’argento incrostate di pietre preziose o delle croci coperte di medaglioni in smalto, di perle e di pietre dure. Sopra l’altare d’oro erano sospese le corone imperiali in quanto venivano da Dio e potevano essere custodite solo in chiesa; l’imperatore le riceveva dal patriarca nelle grandi occasioni al suo ingresso nel nartece. Molti testi di straordinaria intensità poetica, ma anche estremamente precisi quando evocano l’interno di Santa Sofia, ci aiutano a scoprire la sensibilità dei Bizantini e il modo con cui essi sentivano la magia che si sprigionava dalle meraviglie riunite in questa chiesa. Procopio ne parla con precisione di architetto, ma si lascia anche prendere dall’emozione, in particolare quando descrive la cupola. Secondo lui, essa «non sembra costruita in muratura ma sospesa al cielo con una catena d’oro»104. Altri testi parlano degli angeli che l’avrebbero costruita. Più avanti, Procopio paragona le colonne e i rivestimenti di marmo a una prateria in fiore e dice in seguito che chiunque sia venuto qui a pregare capisce immediatamente che non si tratta di un’opera umana ma di qualcosa di «ispirato» da Dio che ha scelto di prendervi dimora105. Lo storico Evagrio chiama la chiesa «il divino palazzo»106 e il poeta Paolo Silenziario, che scrive nel 563, indugia nella descrizione della raffinatezza e della bellezza dell’illuminazione notturna. Egli parla di lampade sospese a catene d’oro, di altre rese più splendenti dalla luminosità del vetro e specifica che queste «innumerevoli» sorgenti luminose erano poste a diverse altezze e brillavano a gara con le candele dei candelabri e dei lampadari d’oro107. Viene spontaneo pensare a un altro testo, l’omelia pronunciata nell’864 dal famoso patriarca Fozio per la consacrazione della chiesa della Madre di Dio al Faro, oggi scomparsa: «È come entrare nel cielo stesso senza alcun ostacolo da nessuna parte ed essere illuminati dalla bellezza di tutto ciò che rifulge tutt’intorno come stelle» (Omelie di Fozio). Una parte dei mosaici di Santa Sofia è ancora visibile. L’iscrizione dedicatoria sull’arco absidale ricorda gli impostori che hanno distrutto le immagini e i pii imperatori che la hanno sostituite con altre. Nel catino absidale la Vergine in trono col Bambino, realizzata verso l’864108, prese il posto delle croce. Avvolta nell’ampio maphòrion (velo), Maria, strumento dell’Incarnazione, spicca su un fondo d’oro, simbolo della luce divina109. Il minimo che si possa dire è che non può essere considerata una figura tipica della pittura post-iconoclasta: ella infatti, col suo viso giovane e at-
traente, le guance pienotte, il naso di forma classica, non risponde invero al tipo della Theotòkos. Se la confrontiamo con la Vergine di Santa Sofia a Salonicco, realizzata circa nello stesso periodo, la differenza salta agli occhi perché qui Maria ha un volto severo, codificato, perfettamente simmetrico, con le labbra sottili e gli occhi immensi110. Non ha età né, tanto meno, il fascino della Theotòkos costantinopolitana la quale tiene Gesù – che è troppo grande in confronto a lei – in asse col proprio corpo, due caratteristiche tipiche dell’iconografia bizantina più antica. Notiamo anche il viso «all’antica» del Bambino, modellato con cura, e i suoi grandi piedi disegnati in modo quasi naturalistico. Il trono, con due cuscini, è ornato da grosse borchie. Degli arcangeli che la circondavano ne è rimasto solo uno, Michele111. Realizzato tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, corrisponde all’estetica bizantina meglio della Madre di Dio. Il corpo scompare sotto il drappeggio, le dimensioni dei piedi e della testa sono state volutamente ridotte, le ali appaiono immense. L’ovale è molto allungato, ma gli altri tratti del volto rimangono più vicini ai modelli ellenistici di quanto accada in genere nei mosaici. A proposito di queste figure resta un dubbio perché nel 1346 un terremoto distrusse la grande arcata orientale di Santa Sofia, ma non sappiamo se l’abside sia stata anch’essa colpita. In tal caso, queste immagini sarebbero state restaurate durante la Rinascenza dei Paleologhi e non avrebbero più niente di strano. Nel bema erano rappresentati sedici profeti (scomparsi) e quattordici vescovi dei quali tre si sono conservati. Si tratta di grandi ritratti in piedi di Giovanni Crisostomo, autore di una delle più importanti liturgie e patriarca di Costantinopoli, Ignazio di Antiochia e Ignazio il Giovane, patriarca di Costantinopoli morto nell’877 e canonizzato nell’88612. I mosaici esprimono bene la statura spirituale e intellettuale di questi uomini eccezionali: sono infatti figure monumentali che si presentano in posizione frontale e, malgrado l’altezza alla quale sono poste, fissano lo spettatore con occhi di fuoco. Ancora una volta, i corpi scompaiono sotto il drappeggio. Con i loro tratti regolari e perfettamente simmetrici, le fronti alte, le bocche piccole e le guance incavate, questi volti non riflettono ancora l’ideale dell’asceta ma non ne sono lontani. Nella calotta della cupola, il Pantocratore (IX secolo) era assiso sull’arcobaleno e circondato da una gloria simile a quella dell’Ascensione. Oggi si vedono solo due dei quattro cherubini che decoravano i pennacchi, realizzati pro-
Nelle due pagine seguenti: 104-105. L’arcangelo Michele e la Vergine, due frammenti del mosaico del catino absidale e della volta del bema di Santa Sofia.
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babilmente nel IX secolo ma rifatti dopo il 1346. Le diverse gerarchie angeliche, così ben definite dallo Pseudo-Dionigi Areopagita (V secolo)113 avevano il privilegio di vedere Dio direttamente e avevano anche un ruolo importante nella liturgia: durante l’Ingresso Solenne, processione che portava i doni dalla prothesis (ambiente nel quale venivano preparate le specie) all’altare maggiore, gli officianti cantavano l’inno dei Cherubini che si pensava li assistessero. Allo stesso modo, gli angeli stavano accanto al sacerdote mentre recitava la preghiera segreta dell’ufficio eucaristico. Ricordiamo ancora il Battesimo e la Pentecoste che erano rappresentate sulle volte centrali dei matronei meridionale e settentrionale, che conosciamo solo da disegni posteriori114. In una sala scoperta recentemente, addossata alla tribuna sud-orientale, diciotto figure (frammentarie) si dirigono verso una Déesis rappresentata nel timpano115. Si tratta degli apostoli e dei patriarchi di Costantinopoli che avevano elaborato alcune dottrine in difesa delle immagini durante la lotta iconoclasta, cioè Germano, Niceforo, Metodio e Tarasio (847 ca.), dopo la canonizzazione di Metodio. La loro presenza in mezzo agli apostoli voleva dire che, difendendo le immagini, essi erano divenuti loro successori. Gli iconoduli non dicevano forse che chiunque negasse il valore delle immagini negava anche l’Incarnazione e, perciò stesso, la Redenzione?
La tentazione dell’Umanesimo. Oggetti sacri e miniature (IX-X secolo) Fra il IX e il X secolo, l’Impero conobbe un periodo di grande stabilità accompagnato da un’espansione notevole. Il suo influsso culturale raggiunge ora vasti territori acquisiti grazie alla conversione al cristianesimo dei Bulgari (IX secolo), dei Russi (X secolo) e dei Serbi (XI secolo). La Chiesa bizantina aveva portato a termine quest’opera missionaria con successo e diplomazia, dotando anche i paesi slavi di un proprio alfabeto (Costantino – che prese il nome di Cirillo quando entrò in monastero – e Metodio)116. Regnando ormai su un insieme di popoli, il patriarca di Costantinopoli guadagnò in potere e prestigio mentre la Chiesa aumentò la propria influenza sull’arte. Si affermò anche, rispetto a quanto si era fatto fino allora, una più radicale spiritualizzazione della forma che fu ulteriormente raffinata divenendo sempre più astratta; un’evoluzione che, nell’XI secolo, approderà al classicismo bizantino. Accanto a quest’evoluzione, a Costantinopoli apparve un’altra corrente artistica che, però, riguarda solo opere di piccolo formato destinate alla corte e a qualche letterato umanista. In essa notiamo una tendenza opposta a quella descritta sopra, il desiderio cioè di imitare pitture e sculture
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tardoantiche. Si tratta soprattutto di avori e miniature nelle quali una straordinaria maestria tecnica va di pari passo con un gusto sicuro. Tale corrente, spesso definita Rinascenza macedone, era nata dal movimento umanista, fiorito a seguito delle teorie degli iconoduli che ponevano l’accento sull’Incarnazione grazie alla quale, ripetevano senza sosta, Cristo era rappresentabile. La definizione di «Rinascenza» in questo caso è inesatta perché la cosa riguarda troppo poche opere, e tutte di piccole dimensioni, per poter usare un termine così generale. Nelle decorazioni parietali, che dipendono dall’arte ufficiale, non si nota niente di simile e le grandi chiese del tempo – Santa Sofia di Salonicco (dopo l’843) o la Dormizione di Nicea (787-815) – sono decorate di mosaici che tendono all’astrazione. L’importanza data dagli iconoduli all’Incarnazione ebbe molte altre conseguenze, in particolare nel campo dell’iconografia. Fino al IX secolo Cristo era stato soprattutto, nell’immaginario bizantino, un Re dei re, un Signore trionfante. Perciò la Crocifissione era poco rappresentata e, quando lo era, mostrava Cristo a mezzo busto sopra la croce – come si vede sulle ampolle per l’olio benedetto conservate a Monza e a Bobbio e trovate in Palestina (VI secolo)117 – oppure appoggiato al legno, più che inchiodato su di esso e, in entrambi i casi, con gli occhi aperti, dunque vivo118. A partire dal IX secolo ci fu un cambiamento importante: nel Salterio Chloudov (Mosca, Museo storico, add. gr. 129), così chiamato dal nome del suo proprietario e miniato a Costantinopoli verso l’830119, cioè in un momento in cui le teorie degli iconoduli erano già pienamente affermate, si accettò all’improvviso di rappresentare Cristo morto sulla croce, con gli occhi chiusi, la testa che ricade sulla spalla destra e vestito di un semplice perizoma attorno ai fianchi120. Un trittico a smalto di altissima qualità del X secolo (Parigi, Cabinet des Médailles) mostra una Crocifissione sulla placca centrale e medaglioni con santi sulle valve laterali121. Cristo è raffigurato morto sulla croce, con la testa reclinata sulla spalla e vestito solo del perizoma. Ai lati, la Vergine e san Giovanni nel gesto abituale della testimonianza, in alto due angeli a mezzo busto. All’altezza dei piedi del crocifisso stanno l’imperatore Costantino e sua madre, sant’Elena, figure cronologicamente sfalsate, ma emblematiche della coppia imperiale devota. Orbene, la pietà degli imperatori veniva sempre sottolineata tanto che, a partire dal XII secolo, nelle chiese i ritratti imperiali
106. Cristo incorona l’imperatore Romano II Lecapeno e l’imperatrice Eudocia, placchetta d’avorio conservata al Cabinet des Médailles, Parigi.
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Nelle due pagine seguenti: 108. La resurrezione dei corpi nella visione del profeta Ezechiele, miniatura dalla raccolta di Omelie di san Gregorio di Nazianzo, Bibliothèque Nationale, Parigi, Ms. gr. 510, f. 438v. 107. Il trittico Harbaville presenta nel registro superiore del pannello centrale la Déesis e, in quello inferiore e sulle valve, apostoli e santi. Realizzato in avorio, è conservato al Museo del Louvre.
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109. Mosè riceve le tavole della Legge, miniatura della Bibbia del patrizio Leone, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. gr. 1, f. 155v.
erano spesso di fianco o di fronte a quelli dei santi Costantino ed Elena perché si potesse fare il confronto. Questi ritratti ci offrono il destro per passare all’esame delle opere di stile antichizzante citato più sopra, nelle quali l’iconografia imperiale è piuttosto sviluppata. Molte composizioni interessanti rappresentano l’incoronazione dell’imperatore per mano di Cristo. Questa investitura simbolica si trova fra l’altro su una placchetta d’avorio di grande finezza, realizzata verso il 950 e conservata a Parigi, al Cabinet des Médailles122. Il Cristo, dal volto ben caratterizzato, è al centro su un doppio piedistallo e incorona con ambo le mani Romano II Lacapeno e l’imperatrice Eudocia, nominati nelle iscrizioni. Di fatto egli posa le mani sulle loro teste coronate dato che non potevano essere rappresentati senza questi attributi del potere. Il rapporto della Vergine con l’imperatore è importante quasi quanto quello che si pensava egli avesse con Cristo. Anche lei, all’occorrenza, lo incorona come nel caso di un frammento di avorio dell’886-912123. Il frammento in questione è chiamato lo «scettro di Leone VI» senza che si sappia veramente a quale oggetto appartenesse. Sotto un’architettura ad arcate che probabilmente indica il palazzo, stanno tre personaggi a mezzo busto. Al centro, la Theotòkos posa la mano sulla corona dell’imperatore che ha in mano lo scettro e il globo. Il terzo personaggio, a destra, è un angelo in abito imperiale che porta le stesse insegne del sovrano. A partire dal X secolo si incomincia anche a rappresentare sempre più spesso la Déesis, nella quale Maria ha un ruolo essenziale. Uno dei più begli avori dell’epoca, il trittico di Harbaville (fine del X secolo, Museo del Louvre)124 è completamente dedicato a quest’immagine della preghiera d’intercessione. Nel pannello centrale troneggia Cristo simile a un imperatore celeste. La sua testa è inquadrata da due medaglioni con degli angeli; il viso, di proporzioni classiche, ha un non so che di affascinante perché, oltre alla benevolenza che esprime, è soffuso di una sorta di mistero che si manifesta soprattutto nello sguardo, rivolto lontano. Assomiglia in modo sorprendente a quello che incorona Romano Lacapeno e lo stile delle due opere si può dire identico, tanto che c’è da chiedersi se non siano da attribuire allo stesso artista. In questo trittico, egli è fra la Vergine e san Giovanni che gli rivolgono la loro preghiera d’intercessione per gli uomini. In un secondo registro stanno cinque apostoli in piedi, mentre altri santi ornano le valve laterali. Benché non siano nell’atteggiamento tipico, si associano tutti a questa preghiera perché hanno il potere di intercedere. Il rovescio del pannello centrale dà a questa Déesis il suo pieno significato che sembra rimandare alla Seconda Venuta del Giudizio Finale. Qui campeggia una grande croce fiorita, ornata da rosette e fiancheggiata da due alberi della vita carichi di grappoli d’uva, allusione all’Eucaristia, e di uccelli. Si tratta della croce vittoriosa,
simbolo di salvezza, piantata in Paradiso, come indicano gli alberi. L’iscrizione IC XC NIKA (Gesù Cristo ha vinto) conferma questo significato e colloca l’immagine nel futuro, perché solo al momento della sua Seconda Venuta Cristo riporterà la vittoria definitiva sul male e sulla morte. Immediatamente la Déesis del diritto deve essere pensata, anch’essa, all’orizzonte della storia, quando si faranno i conti nel Giudizio Finale. Una serie di splendide miniature mostra la capacità, da parte degli artisti bizantini, di esprimersi in maniere diverse usando, all’occorrenza, la tradizione della pittura antica. Sono immagini che si trovano in pochi manoscritti e non hanno certo l’aria di appartenere a un’arte ufficiale destinata alle masse; si tratta piuttosto di gioielli rari per un’élite di persone colte. Così la Raccolta delle Omelie di san Gregorio di Nazianzo (Parigi, Biblioteca Nazionale, 510), realizzata fra l’867 e l’886 per il fondatore della dinastia macedone Basilio I, ci permette di contemplare un vero miracolo estetico125: si tratta di una scena dell’Antico Testamento che prefigura la risurrezione dei corpi nella visione del profeta Ezechiele il quale vede delle ossa rivestirsi di carne (Ez 37,1-10). La miniatura mostra un angelo che conduce il profeta nella valle delle ossa. La scena si svolge in un paesaggio di rocce e verzura al sorgere del sole, senza dubbio per suggerire la speranza della risurrezione. La luce rosa vivo, quasi ciclamino, del cielo tinge anche la veste e i piedi nudi del profeta, il cui volto colpisce per il suo realismo. L’angelo commuove per la sua grazia e per il volto giovanile dalle guance rotonde e dallo sguardo pensoso, pieno di dolcezza. Non ci sono contorni ma un modellato delicato che dà risalto ai volumi e incolla le tuniche contro i corpi per renderli più evidenti. Altre miniature di questa raccolta sono più vicine allo stile propriamente bizantino: è il caso dell’immagine della Trasfigurazione dove, al posto del modellato, ricompare la linea di contorno. Di lì a poco, agli inizi del X secolo, furono realizzate le miniature del Salterio gr. 139 (Parigi, Biblioteca Nazionale), che risentono di diverse forme di espressione. Qui ci occuperemo solo delle miniature a piena pagina ispirate a modelli antichi e adattate al contesto biblico. Consideriamo l’ultimo episodio della vita del re di Giudea, che narra le imprese del re Ezechia e, soprattutto, la sua malattia e la sua morte (2 Cronache 32), e si svolge in un giardino lussureggiante. Elementi architettonici sono accostati a piante, alberi e rocce, il tutto sullo sfondo di un cielo rosa pallido126, mentre una personificazione del sole diffonde i suoi raggi color arancio. Il centro della composizione è riservato all’ammalato disteso sul letto, che però lascia molto spazio alla terrazza e alla grande scalinata che si profilano dietro di lui. L’ombra disegna sulla scala una linea obliqua, resa con due tonalità di blu. Non ci si fa scrupolo di stipare la scena con oggetti diversi – il letto decorato di Ezechia
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col suo materasso di un rosso tenue, il poggiapiedi con le sue scarpe, un vaso posto accanto a lui ecc. –. Il corpo leggermente accasciato e il volto del malato tradiscono un certo languore, che è proprio quello di un uomo indebolito. Sulla destra del letto, Ezechia è rappresentato una seconda volta, in piedi e guarito, di spalle rispetto a colui che soffre, a indicare che si tratta di un’altra sequenza del tempo. I personaggi secondari, colti in vari atteggiamenti, sono accordati con cura alle due figure centrali sia per mezzo delle loro movenze sia dei colori vivaci, dovuti certo a un’influenza degli smalti. I volti sono tutti modellati alla perfezione, visti in prospettiva, a volte anche di profilo, cosa rara a Bisanzio. I corpi, vestiti o nudi, rispondono ai canoni di un’anatomia naturale. A questo gruppo di manoscritti appartiene anche la Bibbia del patrizio Leone della Biblioteca Vaticana (Reg. Svev. gr. I). Nella miniatura che rappresenta Mosè mentre riceve la Legge127 il paesaggio serve a indicare la cronologia degli eventi, lo svolgersi dell’azione. Vediamo infatti il Monte Sinai, reso secondo la prospettiva intuitiva dell’Antichità, che utilizza diversi piani per dare l’illusione della profondità. In primo piano, Mosè si toglie i sandali, come gli ordina l’Eterno, per non profanare un suolo sacro. Più oltre, una seconda figura di Mosè riceve la Legge continuando a camminare con le braccia tese verso la mano divina che emerge da un lembo di cielo. La notevole distanza fra i suoi piedi e la testa rovesciata all’indietro suggerisce la cadenza del movimento e, con questo espediente, l’emozione del personaggio, il che pone l’immagine nel momento presente. Da parte loro gli Ebrei, divisi in due gruppi in primo piano, alzano il capo, stupefatti. Una personificazione del
luogo (?) non solo è rappresentata di spalle, cosa insolita, ma anche quasi nuda, con un panno verde oliva che copre solo le gambe. Due caratteristiche che appartengono a una formula ben nota nella tarda Antichità. Un altro manoscritto illustrato, il Rotolo di Giosuè della Biblioteca Vaticana (Palat. gr. 431) della metà del X secolo128 deve essere forse inteso come un’eco dei trionfi militari bizantini in Palestina nello stesso periodo. Queste composizioni essenziali, simili ai modelli antichi come le miniature testé esaminate, si distinguono per due tratti caratteristici: si stagliano su uno sfondo unito giallo pallido e la loro cromia si limita a quest’unico colore al quale si aggiungono il bruno mischiato al porpora e il blu. Le piccole scene che narrano la storia di Giosuè come la racconta l’Antico Testamento si susseguono quasi senza soluzione di continuità, come su una striscia disegnata. Tale procedimento, unito ai movimenti piuttosto rapidi dei personaggi, rende le immagini estremamente dinamiche dando l’impressione che esse sfilino sotto i nostri occhi. Queste opere squisite che piacciono alla corte non rappresentano evidentemente ciò che la civiltà bizantina aveva di più originale e caratteristico. Ma non corrispondono neppure alla mentalità profondamente religiosa dei Bizantini, il cui ideale d’uomo era l’asceta, non il bell’efebo muscoloso. Come abbiamo già detto, queste opere sono una minoranza e lo stile che imita i dipinti antichi non tocca né la decorazione parietale né le icone, e neppure un gran numero di oggetti istoriati. Un poeta morto dopo il 931, Costantino di Rodi, precisa del resto che un buon cristiano nutre solo disprezzo per le opere d’arte pagane (sottinteso: e per quelle che le imitano). D’altro canto è significativo
110. Calice in pietre dure, sardonica e argento dorato appartenuto all’imperatore Romano II Lecapeno. 111. Piatto di rilegatura con l’arcangelo Michele in busto. Entrambi conservati nel Tesoro di San Marco a Venezia.
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che le miniature citate rappresentino soprattutto episodi dell’Antico Testamento e che nel rotolo con la Raccolta delle omelie di Gregorio di Nazianzo (gr. 510) il linguaggio figurativo si faccia più severo quando si tratta di rappresentare la Trasfigurazione. È la corrente animata da un ideale di spiritualità a caratterizzare molti frammenti di oggetti e di icone rinvenuti nella chiesa di Costantino Lips, l’attuale Fenari Isa Camii, che porta il nome del suo donatore. Questo alto dignitario era il responsabile del vasellame imperiale e aveva sicuramente molto gusto per l’oreficeria, come dimostra l’icona a intarsio (X secolo) del Museo archeologico di Istanbul. Qui santa Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II (V secolo), con la corona e l’abito imperiale, è rappresentata vista di fronte e orante, col corpo appiattito dall’effetto delle pietre colorate incrostate sulla sua dalmatica, e il volto austero129. Anche a proposito del calice in pietre dure, sardonica e argento dorato appartenuto all’imperatore Romano II e conservato nel tesoro di San Marco a Venezia, generalmente si propongono due date: si pensa infatti che la base sia del IIIIV secolo, mentre le figure disposte attorno alla coppa sono databili fra il 959 e il 963130 e non sono meno ieratiche, smaterializzate e solenni dell’immagine di Eudocia che appare nella sua icona. È questo il caso di un piatto di rilegatura in metallo dorato e smalto cloisonné, proveniente da una chiesa costantinopolitana e ora nel Tesoro di Venezia, sul quale è rappresentato il busto dell’arcangelo Michele (X secolo)131 visto di fronte e caratterizzato da un ovale allungato, un naso molto lungo, una bocca minuscola e uno sguardo fisso. Per ottenere un effetto di maestà, di rigore e di solenne bellezza sono state usate diverse tecniche. Il volto e le mani dell’arcangelo, lavorate a sbalzo, sono d’oro, come il nimbo e lo sfondo d’oro realizzati in filigrana. La dalmatica è incrostata di smalti, mentre la combinazione di oro e smalto è particolarmente originale sulle ali dalle piume dorate e blu. Sono veramente figure eteree, tanto sembrano leggere e prive di consistenza, quelle che compaiono nella Raccolta delle Omelie di san Giovanni Crisostomo (Sinait. Gr. 364). Si tratta di un commento al Vangelo di Matteo (10421050). Il codice, oggi nel monastero di Santa Caterina del Sinai, fu probabilmente un dono offerto dall’imperatore Costantino IX al monastero di San Giorgio delle Mangane. Nella miniatura a piena pagina del fol. 3r. Costantino IX Monomaco (1042-1055) sta fra la moglie Zoe e la sorella di quest’ultima, Teodora, entrambe «nate nella porpora» (porfirogenite) come sottolinea l’iscrizione. I tre personaggi sono come assorbiti dal fondo d’oro e si potrebbe crederli impregnati di luce celeste. Solo dei contorni scuri e qualche chiazza colorata che accenna alle loro vesti li definiscono. Al di sopra delle loro teste è il Cristo assiso sull’arcoba-
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leno al centro di una mandorla di luce, con due angeli ai lati. Tutti e tre tendono delle corone in direzione della famiglia imperiale, mentre dei raggi di luce provenienti dalle mani e dai piedi del Signore si dirigono verso le teste dei tre personaggi. In un’iscrizione il Salvatore e Pantocratore è pregato di proteggere la «luminosa trinità dei sovrani terreni»132. Si tratta di un’invocazione simbolica particolarmente studiata.
I ritratti in Santa Sofia (X-XII secolo)
112. Icona a intarsio con la raffigurazione dell’imperatrice santa Eudocia, conservata al Museo archeologico d’Istanbul.
La decorazione di Santa Sofia riflette solo parzialmente il programma iconografico tipico stabilito dopo il trionfo della Chiesa. In compenso, vi sono molti ritratti imperiali databili fra il IX-X e il XIII secolo. Beninteso, il termine «ritratto» non va preso alla lettera: si potrebbe usare altrettanto bene quello di effigie, visto che si tratta di volti idealizzati e di figure che rappresentano più la funzione, nel caso specifico il potere imperiale, che la persona che ne è investita in un dato momento. Nel mosaico del timpano posto sopra la porta d’ingresso che conduce dal nartece al naòs, Leone VI il Saggio (886-912), in preghiera, si prosterna davanti al Cristo Sapienza divina (iscrizione) in trono133. L’immagine del Salvatore era spesso accompagnata da diversi epiteti come Misericordioso, Onnipotente, Amico degli uomini ecc. Naturalmente, qui si è scelto quello di Sapienza (Sofia) che corrispondeva al nome della chiesa. Egli ha in mano un vangelo aperto con due versetti riuniti arbitrariamente (Lc 4,36 e Gv 20,19.26) che si traducono: «La pace sia con voi. Io sono la luce del mondo». Ai lati di Cristo, due medaglioni con la Vergine in preghiera e l’arcangelo Gabriele a mezzo busto. Il rapporto fra tutte queste figure non è chiaro, tanto che l’immagine ha dato luogo a molte interpretazioni diverse. Secondo André Grabar si tratterebbe della rappresentazione ideale di un rito imperiale: quello dell’ingresso dell’imperatore nella Grande chiesa descritto da Costantino Porfirogenito nel Libro delle Cerimonie. Inoltre, ricorderebbe anche che Cristo è «il supremo sovrano dell’imperatore». E infatti è proprio prima di passare dal nartece al naòs, nel punto preciso in cui si trova il mosaico, che l’imperatore si prosternava in segno di umiltà cristiana. La scena dovrebbe dunque raffigurarlo mentre prega il Cristo Sapienza di donargli la saggezza necessaria a governare l’Impero. Grabar mette poi il mosaico in relazione con un sermone di Leone VI sull’Annunciazione, nel quale egli glorifica la Vergine «che fece risplendere la luce (intendendo Cristo) sul mondo» e la supplica di fargli da guida. Se l’Annunciazione non è rappresentata secondo lo schema consueto (l’angelo che annuncia la buona novella a Maria),
sarebbe perché si tratta solo di un richiamo134. Secondo le regole dell’iconografia medievale si rappresentavano entro medaglioni alcuni personaggi evocati a proposito di una scena, ma fisicamente assenti. Quest’interpretazione è chiara per la prima parte: il rito celebrato dall’imperatore ha certo determinato la collocazione dell’immagine, ed il suo prosternarsi esprime sicuramente il rapporto fra Cristo Re dei re e il sovrano. La seconda parte di tale interpretazione è meno sicura. La Vergine supplice, infatti, richiama molto più la Déesis che l’Annunciazione, tanto più che l’arcangelo non è rivolto verso di lei ma è visto di fronte. I dipinti con questo soggetto (la Déesis) presentano in genere Maria e il Battista in preghiera ai lati di Cristo, ma ci sono state anche delle immagini con due personaggi (senza il Battista). In entrambi i casi si tratta di una preghiera d’intercessione che i mediatori rivolgono a Cristo per il perdono del genere umano, supplica alla quale, a volte, si uniscono alcuni angeli. La rappresentazione di tale soggetto in un ritratto dell’imperatore è tanto più verosimile in quanto Leone, in una delle sue omelie, parla del proprio terrore davanti al Giudizio finale; di più: egli si vede prostrato davanti a Cristo mentre invoca l’intercessione di Maria e delle «forze spirituali», gli angeli, certamente135. Malgrado gli argomenti in favore della Déesis, bisogna riconoscere che, se si fosse voluto rappresentare solo quella, si sarebbe fatto diversamente. Tutto porta a credere che la presenza di Gabriele sia anche un rimando all’Annunciazione. Un’ingegnosa spiegazione di C. Osieckowska collega le due evocazioni ricordando come, nelle litanie, l’Incarnazione sia in stretto rapporto con la preghiera d’intercessione136. Non solo, secondo la studiosa, i copti avrebbero messo un angelo al posto di san Giovanni. A proposito di quest’ipotesi ho solo un’obiezione: se in alcune immagini copte della Déesis Giovanni è sostituito da un angelo, si tratta di eccezioni, perché tutte quelle che conosco non seguono tale schema. Sono state avanzate anche altre interpretazioni di questo mosaico, fra cui quella di Zaga Gavrilovi0137 che riprende a grandi linee le tesi di Grabar ampliandole, e quella di N. Oikonomides che vede nella scena il Pentimento dell’imperatore per i suoi quattro matrimoni138, un’ipotesi che poggia unicamente su fatti storici senza prove iconografiche, mentre siamo di fronte ad un’immagine che, per il momento, resta un po’ enigmatica. Tuttavia non c’è dubbio che si tratti dell’imperatore che si umilia davanti a Cristo, del quale egli è il rappresentante sulla terra, come Cristo stesso si era umiliato durante la Passione; infatti si raccomandava agli imperatori di imitare il Salvatore. Il sovrano chiede perdono per i propri errori riallacciandosi così al tema della Déesis, ma per essere giustificato ricorda anche i propri meriti, cioè le omelie sull’Annunciazione e la Redenzione. Così, la Vergine e l’Ar-
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113. Leone VI il Saggio prosternato di fronte a Cristo in trono nel mosaico della lunetta sovrastante la porta di accesso al naòs di Santa Sofia.
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114. Giustiniano offre alla Vergine la chiesa di Santa Sofia e Costantino la cittĂ , mosaico della lunetta sovrastante la porta meridionale del nartece di Santa Sofia.
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cangelo appartengono sia alla Déesis sia all’Annunciazione. Le insolite iscrizioni sul vangelo che Cristo ha nelle mani potrebbero indicare la sua risposta positiva all’orante. «La pace sia con voi» vorrebbe dire allora che la preghiera dell’imperatore è stata esaudita, e «Io sono la luce del mondo» sarebbe un’identificazione di colui che concede il perdono, cioè Cristo. Il linguaggio figurativo bizantino è ormai pienamente maturo anche se, nel corso dei secoli, subirà diverse variazioni. Le figure, smaterializzate, si stagliano contro un fondo d’oro uniforme e vuoto che elimina ogni differenza spaziotemporale creando per i personaggi un ambiente sostanziato di luce che suggerisce l’eternità, mentre la loro relativa fissità indica che sono immutabili. Il modellato all’antica è scomparso e i volumi sono chiusi entro una linea morbida che ritma la composizione e, a seconda delle epoche, sarà più o meno insistente. L’insieme è simile a una visione e nulla, tranne il rispetto dell’organicità del corpo e del volto umano, ricorda il mondo reale. Un altro ritratto, nella lunetta sopra l’ingresso che porta dal vestibolo meridionale al nartece, ci mostra due celebri imperatori che avevano contribuito molto allo splendore di Costantinopoli (l’opera è datata 989 o 1019). Costantino, fondatore della capitale e canonizzato, presenta il modello della sua città alla Vergine in trono col Bambino, mentre Giustiniano I, che fece ricostruire completamente Santa Sofia, le offre quello della chiesa139. Il faccia a faccia dei due imperatori potrebbe sembrare strano perché li separano due secoli, ma questo vorrebbe dire non conoscere la mentalità bizantina, del tutto insensibile alla verità storica. In questo caso, infatti, non si tratta di storia ma di un’immagine simbolica a gloria di Costantinopoli e di Santa Sofia, considerate sacre allo stesso modo, come pure di due grandi imperatori che offrono alla Theotòkos quanto avevano fatto di più bello. Il mosaico, realizzato durante il regno di Basilio II, rispecchia senza dubbio anche i suoi gusti e le sue ambizioni. Sappiamo che egli ammirava i due imperatori e cercava di assomigliare a loro; del resto ci riuscì molto bene collezionando conquiste e trionfi, come già aveva fatto Giustiniano, e nel 1019 celebrò in Santa Sofia la spettacolare vittoria sui Bulgari. Aveva riconquistato anche la Siria e la Mesopotamia, antichi possedimenti bizantini da tempo perduti. Nel Medioevo l’Impero non avrebbe mai più raggiunto tale estensione. Il nostro mosaico indica un progressivo distacco dello stile rispetto ai modelli antichi: se infatti lo confrontiamo con quello di Leone VI, notiamo che i corpi hanno perso ulteriormente volume, mentre il grafismo si accentua indurendo i contorni. La linea ora s’insinua all’interno delle forme e i volti degli imperatori sono come incisi di rughe, senza che ci fosse l’intenzione di rappresentarle. La tribuna a nord era riservata alle donne, quella a sud alla
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famiglia imperiale. In questo ambiente, dal quale l’imperatore e la sua famiglia assistevano alle funzioni, si trova una serie di loro ritratti. Si tratta di mosaici che ricordano le donazioni imperiali elargite regolarmente a Santa Sofia. In quello datato 1028-1042 campeggia Cristo in trono avvolto in un manto indaco, un colore squillante che spicca sul fondo d’oro. Egli ha in mano un vangelo rilegato sontuosamente e benedice rivolto verso l’imperatore Costantino IX Monomaco che sta alla sua destra con un apokombion (una borsa che contiene almeno tre chili di pezzi d’oro), mentre l’imperatrice Zoe, alla sua sinistra, ha una carta nella quale sono elencate le donazioni dei sovrani a Santa Sofia. Le teste dei tre personaggi sono state rifatte nel 1042-1050, quando il mosaico fu restaurato in occasione delle nuove nozze di Zoe con Costantino IX, suo terzo marito. Il restauro era stato avviato per volere dell’imperatrice, forse perché il suo viso era stato danneggiato quando ella era stata bandita dal secondo marito, Michele V140. Secondo Michele Psellos, al momento di quest’ultimo matrimonio ella aveva 64 anni, ma era bionda e fresca come al tempo della giovinezza141. Si direbbe che lo storico non abbia fatto solo della retorica, visto che in questo mosaico il volto dell’imperatrice è particolarmente avvenente e giovanile. I tre personaggi colpiscono per la loro leggerezza e la mancanza di consistenza. Solo la figura di Cristo, benché il suo corpo non sia realmente percepibile, acquista una parvenza di volume per via delle numerose pieghe del manto; i corpi della coppia imperiale, invece, scompaiono sotto gli abiti rigidi e interamente coperti di gemme. Le vesti dorate dei donatori sono in parte assorbite dallo sfondo luminoso, così che la figura di Cristo risalta ancora di più e sembra addirittura la sola veramente presente. Notiamo poi la grazia e la finezza della sua mano benedicente. La composizione del secondo pannello, realizzata verso il 1118, è simile a quella del primo. Al centro è la Madonna col Bambino, affiancata da Giovanni II Comneno e dall’imperatrice Irene che le offrono doni142. Le due opere, pur eseguite a distanza di mezzo secolo, sono molto vicine; ritroviamo nella Vergine della seconda il drappeggio indaco che, contro lo sfondo, crea un effetto cromatico di grande impatto, mentre gli sposi imperiali sono chiusi nelle loro corazze di pietre preziose, tanto più rigide in quanto il contorno si è fatto onnipresente e più duro che in passato. I piccoli tratti paralleli sulle guance dell’imperatrice e il naso, ridotto al suo profilo ossuto, preannunciano lo stile grafico della seconda metà del XII secolo. Il volto della Vergine ha raggiunto la forma definitiva, quella che ora è considerata il prototipo. Il Bambino, che benedice rivolto verso l’imperatore, è vestito d’oro e i suoi tratti, perfettamente simmetrici e idealizzati, sono quelli considerati in grado di rivelarne la natura divina. Sul pilastro adiacente a questi riquadri sta Alessio Comne-
115. Cristo benedice l’imperatore Costantino IX Monomaco e l’imperatrice Zoe, mosaico della tribuna sud di Santa Sofia. Nelle due pagine seguenti: 116 e 117. Particolari dell’imperatore e dell’imperatrice.
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no, figlio di Costantino e Zoe e associato al potere fin dal suo diciassettesimo anno, ma destinato a una morte prematura143. Il giovanetto, rappresentato in rigida frontalità, è perfettamente cosciente della dignità imperiale e della gravità del ruolo che gli è stato affidato da Dio. Egli è incoronato, coperto di gemme e nimbato, come le due coppie imperiali. L’alone di luce è un attributo di tutti gli imperatori e le imperatrici in virtù del titolo di «santo» concesso al basilèus. Sul viso di Alessio il grafismo è ancora più accentuato che su quello di Zoe; infatti è percorso da linee biancastre che si alternano con altre, di un rosa piuttosto vivo. Lì vicino, sul pilastro di nord-ovest (faccia orientale) è rappresentato un altro imperatore giovane e sfortunato, Alessandro. Associato al trono nell’886, regnò solo per un anno in modo autonomo, dal 912 al 913144. Come Alessio, è rappresentato in piedi, di fronte, con una tunica ed il loros tempestato di pietre preziose e borchie. Questo tipo di sciarpa particolare simboleggiava la morte e la risurrezione di Cristo145 e veniva indossato in diverse cerimonie e anche quando l’imperatore si recava dal palazzo in Santa Sofia. Nel ritratto, Alessandro ha nella destra, anziché lo scettro come di solito, una piccola scatola o una borsa con un dono, ma l’oggetto è poco definito e potrebbe essere anche l’akakia (un fazzoletto arrotolato contenente della terra per ricordare all’imperatore che è mortale). Nella sinistra, il sovrano ha il globo, simbolo dell’Impero universale. Questa volta il viso è completamente coperto da un reticolo di linee di colore chiaro (che in seguito diventerà sempre più scuro) che colloca il mosaico nella prima metà del XII secolo, come il precedente. La concezione di questi due ritratti imperiali è simile per molti versi, ma soprattutto dal punto di vista cromatico. Le due figure, immerse nell’oro dello sfondo e in quello dei loro abiti dai quali emerge solo la testa, evocano l’apparire dell’imperatore nelle cerimonie auliche e sono simili a visioni incorporee.
È così, infatti, che gli ambasciatori stranieri potevano intravedere il sovrano quando si presentava loro, poiché la «liturgia imperiale» era concepita come un sistema di simboli molto elaborato nel quale la distribuzione delle varie componenti – forme, colori, illuminazione, come pure i gesti dell’imperatore – era regolata minuziosamente. Si voleva che il visitatore si trovasse immerso in un mondo fiabesco che sottolineava inoltre la dimensione sovrumana del basilèus. I resoconti del Libro delle Cerimonie e quelli di alcuni autori occidentali, fra cui Liutprando, vescovo di Cremona e ambasciatore ricevuto a corte, testimoniano lo splendore e la raffinatezza delle cerimonie bizantine, ma anche la loro dismisura. L’ospite straniero anzitutto attraversava diverse sale rivestite di marmi, decorate di mosaici e di tessuti sfarzosi; poteva ammirare i pavimenti multicolori, i tappeti venuti dall’Oriente, i parati di seta, o ancora respirare gli effluvi delle piante odorose e dei mazzi di fiori disposti ovunque. Nel X secolo, queste cerimonie di accoglienza si svolgevano nel palazzo della Magnaura, ed è facile immaginare la meraviglia degli ambasciatori occidentali le cui condizioni di vita erano ancora tanto dure. Tuttavia, attraversando gli spazi di volta in volta scintillanti e cangianti del palazzo, l’ospite di riguardo non aveva ancora visto niente. Egli entrava, sbalordito, al suono degli organi, nella sala del trono dove gli alti dignitari, superbamente vestiti, facevano ala al suo passaggio. La parete di fondo della sala si arrotondava in forma di abside (come nelle chiese) e là, sopraelevato da tre gradini di porfido, si ergeva il trono d’oro dell’imperatore. Vestito di una tunica e di una specie di casula ornata di pietre dure, perle e pietre preziose, che la rendevano rigida come un’armatura nascondendone completamente il corpo, egli era seduto, diritto, immobile, muto e simile a un’icona. Si può dire che si stagliasse contro un fondo d’oro, come nei mosaici, perché tutto quanto lo circondava
118. L’imperatore Giovanni II Comneno e l’imperatrice Irene offrono doni alla Madonna col Bambino, mosaico della tribuna sud di Santa Sofia. A fronte: 119. Particolare della Madonna col Bambino.
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era ricoperto di questo metallo prezioso. Due leoni stavano a guardia del trono, accanto al quale erano uno o due alberi d’oro che accoglievano fra le loro fronde degli uccelli meccanici e delle chimere. Arrivato a mezza strada dal trono, il visitatore sbalordito doveva rispondere alle domande di un alto funzionario, il logoteta, e deporre i suoi doni. Poi, avvicinatosi finalmente al trono, doveva salutare l’imperatore prostrandosi a terra tre volte secondo il rituale della proscinesi. Nello stesso momento, gli uccelli si mettevano a cantare e i leoni a ruggire. Ma non era finita: mentre lo straniero si prosternava, il trono dell’imperatore scompariva ai suoi occhi perché s’innalzava verso il soffitto per poi ridiscendere lentamente. Forse il visitatore non aveva capito subito di aver assistito all’Ascensione imperiale, che riproduceva quella di Cristo, né che il ritorno del sovrano nella sala stabiliva un parallelo col futuro Ritorno del Signore alla Fine dei tempi; ma non poteva non rendersi conto del fatto che gli era appena stata imposta una sottomissione simbolica al basilèus146.
I progressi dell’iconografia e dello stile nei secoli XI e XII. Pittura murale, oreficeria, icone e miniature L’Impero bizantino raggiunge il suo apogeo alla fine del X e nel corso dell’XI secolo, anche grazie alle campagne vittoriose di Basilio II (976-1024) nei Balcani in seguito alle quali arrivò a estendersi fino al Danubio e al mare Adriatico (XI secolo), annettendosi una parte dell’Armenia e della Georgia e consolidando i possedimenti bizantini nell’Italia meridionale. Michele Psellos, nato nel 1018, uomo di Stato e storico, fu lo spirito più brillante del suo tempo, e la sua Cronografia è senza dubbio il libro più importante della letteratura bizantina. Fu per suo suggerimento che a Costantinopoli, nel 1045, nacquero due nuove scuole d’insegnamento superiore – una di filosofia, l’altra di diritto – che andarono ad aggiungersi a quelle di grammatica, retorica e dialettica, discipline tradizionali nel Medioevo, ma anche di aritmetica, geometria, astronomia, filosofia e musica. Le osservazioni di Beniamino di Tudela, che visitò Costantinopoli nel 1161, descrivono la città come un prodigio di marmo, pietre preziose e oro. L’oro infatti era ovunque: rivestiva alcuni muri e mobili dei palazzi imperiali, mentre i santuari delle chiese ne rigurgitavano147, come sottolineano altri autori per Santa Sofia. Tuttavia, sotto Costantino Monomaco (1042-1055) era iniziato un leggero declino dell’Impero minacciato in Oriente dai Turchi Selgiuchidi, sul Danubio dai Peceneghi, e in Italia dai Normanni. In effetti, risale a questo periodo la perdita dell’Italia meridionale e della Sicilia.
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I rapporti fra Chiesa romana e bizantina si erano guastati a partire dal IX secolo, quando papa Nicola I aveva cercato di sottrarre la Bulgaria alla giurisdizione bizantina per sottometterla a quella di Roma. Il patriarca Fozio, spalleggiato da Michele III, reagì con forza ed ebbe la meglio, ma pensò bene di attaccare il papa anche su questioni teologiche. Poiché i Bizantini pensavano che lo Spirito Santo fosse uguale al Padre e al Figlio, mentre i teologi romani affermavano che «procede» dal Padre e dal Figlio (ex Patre Filioque), si convocò a Costantinopoli un concilio che, nell’867, dichiarò eretica questa dottrina e scomunicò Nicola I148. Tuttavia, la separazione definitiva fra le due Chiese sarebbe avvenuta solo nel 1054. Se, da un lato, la conversione al cristianesimo dei popoli slavi che era continuata nel X e XI secolo colpiva le pretese di universalità della Chiesa romana, i Bizantini dal canto loro erano irritati dall’incessante progredire dell’influenza pontificia nell’Italia bizantina i cui vescovati, quasi tutti occupati da Greci, dipendevano dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Verso la metà dell’XI secolo il patriarca Michele Cerulario (Keroularios) aveva rafforzato la propria autorità sia a corte, sia presso il clero e il popolo. Il notevole ampliamento della sfera d’influenza ortodossa grazie all’opera missionaria svolta dalla Chiesa presso gli Slavi e alle sue buone relazioni con i vescovati orientali alimentò le sue ambizioni. Egli era ormai a capo di metà del mondo cristiano e voleva che fosse chiaro. In una lettera a papa Leone IX chiese l’autocefalia della Chiesa di Costantinopoli e la parità fra papa e patriarca di Bisanzio. Tornarono sul tappeto le vecchie dispute sulla processione dello Spirito Santo, l’uso del pane azimo (non fermentato) da parte della Chiesa romana per la comunione, il digiuno del sabato e il celibato ecclesiastico, tutte cose alle quali i Bizantini si opponevano. L’invio a Costantinopoli di legati e di una bolla papale che scomunicava Cerulario portò all’esito fatale del conflitto e alla scomunica dei legati romani da parte di un sinodo greco, riunito in gran fretta149. La rottura definitiva fra le due Chiese non fece, per così dire, una grande impressione ai Bizantini e la gravità di questo fatto, con le relative conseguenze nefaste, si manifestò solo molto più tardi. L’arte figurativa fra la fine del X e la metà circa del XII secolo è quella del classicismo bizantino e delle decorazioni parietali caratterizzate da un equilibrio sereno che ben rispondeva alle aspirazioni profonde della religiosità bizantina. La grandezza e la perfezione di quest’arte nascono anzitutto dal perfetto equilibrio fra significato teologico, iconografia scelta per manifestarlo, mezzi espressivi usati per tale formulazione. Nelle chiese si nota una raffinata armonia nel rapporto fra l’architettura e le immagini che ne sottolineano i volumi, negli accordi cromatici all’interno delle singole composizioni ma anche fra quelle che appartengono a cicli più ampi. Le scene sono ancora più spoglie di
prima, ridotte solo agli elementi realmente significativi. Tutto quanto è ornamento, tratto pittoresco, addirittura persino dettaglio narrativo, viene ignorato. I pochi personaggi di ogni scena risaltano su un fondo d’oro uniforme e vuoto dove, a volte, scompare anche la linea del suolo. Le figure, prive di qualsiasi riferimento, planano nella luce celeste, proiettate fuori dallo spazio e dal tempo. Come in precedenza, sono senza consistenza, immutabili ed elevate a una ieraticità di classica purezza. Tuttavia, il desiderio di cogliere attraverso l’immagine l’essenza dei personaggi, riuscendo così a dare un’idea della loro perfezione morale e della loro altezza spirituale, non impediva ai Bizantini di cercare di dar loro il più armonioso aspetto fisico possibile. Questo non si deve solo al senso estetico degli artisti, ma anche al significato metafisico che i teologi attribuivano alla bellezza. Con la parola «bellezza», il Bizantino alludeva all’ordine e alla forma opposti al disordine (caos) e all’informe, sinonimi di inesistenza. Dio stesso, creatore e ordinatore dell’universo, era «bellezza» e, secondo lo Pseudo-Dionigi Areopagita, faceva risplendere questa bellezza sulla sua creazione150. Una forte ispirazione, accompagnata dal rispetto di questi principi, si rivela nelle chiese di San Luca nella Focide (fine X-inizio XI secolo), nella Dormizione di Dafní (1080 ca.)151 e nella Nea Moní a Chio (1042-1048)152, certamente decorate da artisti costantinopolitani, anche se questi mosaici non sono firmati. La gamma cromatica usata a Chio è diversa da quella delle altre due perché è costituita da colori vivaci e si basa su contrasti a volte violenti153, mentre a San Luca predominano, a parte l’oro, i toni del nero, del bianco avorio e del grigio e la tavolozza di Dafní è composta di tinte pastello. A San Luca, la Madonna col Bambino154, piuttosto piccola
rispetto al vasto fondo dorato dell’abside, fa pensare ad un aldilà luminoso e trascendente più che all’Incarnazione della quale ella è, tuttavia, il simbolo. Dall’alto della cupola un imponente Pantocratore veglia sull’edificio e sui fedeli. Egli è al centro di un medaglione incorniciato da un motivo ispirato all’arcobaleno. Il santo al quale è dedicata la chiesa è rappresentato a mezzo busto e in preghiera, visto di fronte e con lo sguardo fisso sullo spettatore155. La figura, così lontana da un ritratto, ha però una straordinaria presenza, tanto che si può dire che il santo abiti veramente l’edificio, come del resto credevano i Bizantini. Nell’Annunciazione di Dafní156, l’arcangelo Gabriele e Maria, in indaco e bianco, molto distanti l’uno dall’altra, e molto soli nello spazio d’oro e di luce, ci comunicano a modo loro che il tempo non esiste. Malgrado numerosi insuccessi militari, la capitale bizantina rimase la formidabile creatrice di forme e di idee che era sempre stata. A seguito della conversione degli Slavi, gli artisti costantinopolitani erano molto richiesti e decorarono, con la collaborazione di artisti locali, le chiese del monastero di Santa Sofia (1043-1046) e di San Michele (1108) a Kiev157. Anche se gli ateliers costantinopolitani non avevano mandato in Russia i loro migliori maestri – e le figure di Santa Sofia sono, pur restando belle e maestose, un po’ tozze e schematiche – questi mosaici sono preziosi perché ci mostrano l’evoluzione del programma iconografico. Nella cupola, il medaglione col Pantocratore è circondato da quattro angeli158 mentre nell’abside vi sono la Vergine orante nel catino, la Comunione degli apostoli nel secondo registro e, nel terzo, i santi vescovi159. A partire dall’XI secolo, la Comunione degli Apostoli, che è una versione liturgica dell’Ultima Cena, diventa la regola nel secondo registro dell’abside e mostra il Signore come offi-
120. Il Pantocratore della cupola di Santa Sofia di Kiev.
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ciante che porge il pane e il vino a due file di apostoli che convergono verso di Lui. La scena, che rappresenta l’ufficio divino celebrato da Cristo in cielo, ha un pendant nel registro successivo: i santi vescovi, rappresentati in posizione frontale. Essi, a partire dal XII secolo, si volteranno di tre quarti per celebrare la liturgia in terra. Le due liturgie, delle quali una è considerata il modello dell’altra, sono poste sotto l’immagine della Madonna – con o senza il Bambino – strumento dell’Incarnazione e mediatrice, ma anche simbolo della Chiesa. Sono sempre artisti costantinopolitani quelli che hanno lavorato nella chiesa di San Demetrio a Vladimir (1190 ca.), ma di questi dipinti resta ben poco, a parte alcune toccanti teste di angeli160. Una patena di alabastro (XI secolo) dal disegno di straordinaria purezza testimonia il gusto squisito dei Bizantini e la magnificenza dei pezzi di oreficeria realizzati a Costantinopoli161. L’oggetto è attualmente nel Tesoro di San Marco, come tante altre splendide patene, calici, croci, e oggetti liturgici portati via dai crociati durante il sacco di Costantinopoli (1204). Al centro della superficie lattea di questo piatto, diviso in cinque lobi che gli danno l’aspetto di un fiore, è un medaglione in smalto con il busto di Cristo. Attorno a esso corre un’iscrizione che cita le parole di Gesù durante il suo ultimo pasto con gli apostoli (Lc 22,19): «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo». Il bordo della patena è una fila serrata di pietre preziose lavorate a cabochon, i cui colori splendenti creano un felicissimo contrasto col candore opaco dell’oggetto. Il piatto di rilegatura in oro e smalti del Tesoro di San Marco a Venezia162 mostra l’evoluzione dell’iconografia e la purezza di stile tipici dell’XI secolo. Il pannello presenta una Crocifissione con l’iscrizione, nella zona più alta: «O croce potente, che proteggi dagli spiriti maligni, tu, Legno divino, custode della vita». Nella parte superiore della composizione stanno gli arcangeli Michele e Gabriele e le personificazioni del sole e della luna a suggerire che l’evento si colloca fuori dal ciclo delle stagioni e dei giorni, nell’eternità. Si tratta di una trasposizione simbolica della scena, non di un racconto dell’episodio evangelico attraverso l’immagine. La testa di Cristo è ora completamente abbandonata, gli occhi chiusi, mentre le braccia e le gambe si piegano leggermente. Sotto i piedi si nota il cranio di Adamo perché, secondo i vangeli, il supplizio si è consumato sopra le sue ossa, donde il nome Golgota che significa luogo del cranio (Mt 27,33). Ed è anche per riscattare il peccato di Adamo che Gesù è venuto al mondo ed ha subìto la Passione. Maria e Giovanni, ai lati della croce, sono ancora impassibili e si presentano come testimoni dello scandalo ma anche come coloro che sanno che il crocifisso è il Figlio di Dio e sembrano non pensare alle sue sofferenze. Cosa strana, l’abbreviazione M P – U (Madre di Dio) è scritta da ambo i lati della croce. Altre due iscrizioni dicono: «Madre
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di Dio, ecco tuo Figlio» e «Ecco tua Madre», libera interpretazione del vangelo di Giovanni (19,27). La placca è decorata da quattordici pietre preziose e da una bordura di foglie d’acanto in metallo lavorato a sbalzo. Come in altri periodi, alla rappresentazione della liturgia ecclesiastica fanno riscontro quelle della liturgia imperiale al servizio del sovrano. I ritratti imperiali del codice Sinait. gr. 364, dei quali abbiamo già parlato, ricompaiono sulle placche d’argento dorato e smaltato appartenute alla cosiddetta corona di Costantino IX Monomaco, ora al Museo Nazionale Ungherese di Budapest (1042-1050)163. Sembra che si tratti di un dono diplomatico offerto alla regina d’Ungheria, forse in occasione del matrimonio del fratello di Andrea I d’Ungheria con la figlia di Costantino IX. L’imperatore bizantino in abiti di gala è fra la moglie, Zoe, e la sorella Teodora, che aveva regnato per brevi periodi. I tre personaggi, in piedi, in atteggiamento rigidamente protocollare, sono appiattiti al punto da sembrare dei collages. Lo stesso si può ripetere per le altre figure, fra cui le personificazioni delle virtù imperiali dell’umiltà e della sincerità, e per le danzatrici raffigurate sulle placche laterali. La rappresentazione di danzatrici è inusuale nell’arte bizantina, sia pure profana, e tradisce un influsso islamico. Esse ricordano certamente una festa svoltasi in una delle due corti. Nello stesso museo si trova un’altra corona, questa volta intera, chiamata «la santa corona d’Ungheria o corona di santo Stefano», che fu donata da Michele VII Dukas (10711078) al re Geza I d’Ungheria (1074-1077)164. In argento dorato e ornata di cabochon e perle, presenta anche dei ritratti in smalto che possiamo dire riflettano l’ideologia politica bizantina. Nella parte posteriore di questa corona, il ritratto dell’imperatore Michele VII Dukas (1071-1078) domina quelli del figlio Costantino, associato al trono imperiale dal 1074 al 1078, e di Geza I, re di Ungheria, entrambi a lui subordinati nell’ordine gerarchico. Malgrado le
Nelle due pagine precedenti: 121. Patena di alabastro con al centro medaglione in smalto con il volto di Cristo, Museo del Tesoro di San Marco, Venezia. 122. Corona di Costantino IX Monomaco, Museo Nazionale Ungherese di Budapest. 123. Corona detta “di Santo Stefano”, donata da Michele VII Dukas a Geza I d’Ungheria, Museo Nazionale Ungherese di Budapest. A fronte: 124. Ritratto di Niceforo III Botaniate, dalla raccolta di Omelie di san Giovanni Crisostomo, Bibliothèque Nationale, Parigi, Coislin 79, f. 2r.
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piccole dimensioni della figura dell’imperatore, il suo viso ridotto a una maschera esprime alla perfezione l’autorità sovrumana alla quale aspira il sovrano. Sul davanti della corona il Cristo Pantocratore in trono è il pendant dell’imperatore visto che ha la stessa collocazione mentre, più in basso, due angeli corrispondono ai ritratti del re d’Ungheria e del co-imperatore. Così si affermano chiaramente la gerarchia dei poteri e la loro complementarietà. Come dice bene André Grabar, «il basilèus era considerato come il culmine dell’umanità, al di sopra della quale c’era solo Dio»165. Secondo la concezione bizantina i doni imperiali indirizzati ad altri sovrani presupponevano il riconoscimento della superiorità del basilèus e, di conseguenza, una certa subordinazione di chi riceveva il dono. D’altra parte, il potere supremo e ritenuto universale dell’imperatore gli era conferito da Cristo; dunque, questa corona è paragonabile a un documento della cancelleria imperiale. Fra i manoscritti dell’XI secolo, una delle opere più celebri dell’arte bizantina è la Raccolta delle Omelie di san Giovanni Crisostomo (1078 ca., Parigi, Biblioteca nazionale, Coislin, 79). Il codice si apre con quattro pagine di ritratti, il più impressionante dei quali è quello di Niceforo III Botaniate (1078-1081) del fol. 2r.166. L’imperatore, in posizione frontale, è seduto su un trono a forma di lira, sormontato dalle personificazioni della Verità e della Giustizia, virtù imperiali per eccellenza. Attorno a lui alcuni dignitari, fra cui un eunuco. Personificazioni e cortigiani sono tutti molto più piccoli del sovrano, così che la sua immagine ieratica, di concezione monumentale malgrado le proporzioni necessariamente ridotte, sembra ancora più imponente che se egli fosse stato rappresentato solo. Ma la differenza di formato non nasce solo dalla ricerca di un effetto estetico: essa indica che l’imperatore si pone al vertice della gerarchia sociale, anzi, dell’umanità. I suoi abiti da cerimonia, in tutto e per tutto regolamentari, ammettono solo colori vivaci che esplodono sul fondo d’oro come squilli di tromba. L’abito, superbamente decorato, è rigido, così che il corpo ancora una volta scompare dietro l’esuberanza dell’ornamentazione, oltre che per la mancanza di pieghe. La corona e il nimbo, dorati come lo sfondo, sono perfettamente visibili grazie a un leggero contorno scuro. È un’immagine della potenza e della maestà imperiale al cui significato nulla aggiunge l’iscrizione nella quale lo scriba chiede l’approvazione (simpatia) del sovrano, gli assicura la propria lealtà ed evoca il trono splendente e le virtù del basilèus. Le miniature di un altro manoscritto, la cui datazione oscilla fra XII e XIV secolo, descrivono le fasi di un matrimonio imperiale, come pure una cerimonia a esso legata, la prokypsis o apparizione167. Si tratta del resto di un poema scritto e illustrato in occasione delle nozze di una principessa nel 1180 e conservato alla Biblioteca Vaticana (Vat. gr. 1851). Nel fol. 7r. la miniatura corrisponde alla descri-
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zione di Codino e rappresenta l’imperatore Manuele, suo figlio Alessio e la fidanzata di quest’ultimo, Anna168. Secondo lo Pseudo-Codino, questa cerimonia, istituita nel XII secolo, si ripeteva anche in occasione del Natale, dell’Epifania e dei giorni dell’Incoronazione e si svolgeva di notte, dopo l’ufficio della sera, davanti a una grande folla. A un segnale convenuto, si tirava la tenda che nascondeva il podio di legno eretto per la festa e splendente di luci. La famiglia imperiale in abiti di gala era là, allineata e perfettamente immobile. A parte l’imperatore, questi personaggi erano visibili solo fino alla vita, simili a delle icone. Codino descrive e commenta la veste e le insegne del basilèus: «L’imperatore porta la croce, segno della sua fede in Cristo, lo stemma (un tipo particolare di corona), segno della sua dignità, la benda (?) segno della sua dignità di soldato, il saccos (un tipo di abito) nero, segno del mistero della regalità, la terra detta akakia... segno che l’imperatore è umile in quanto mortale... il fazzoletto, segno dell’instabilità del potere, la spada, segno del suo potere»169. Molti poeti hanno descritto l’impressione prodotta dalla prokypsis sugli spettatori e tutti sottolineano l’emozione che provocava la visione della famiglia imperiale avvolta di luce. Holoblos la paragona all’aurora e accosta l’imperatore al sole170. Il confronto può sembrare semplicemente metaforico, ma in realtà ha radici più profonde perché la prokypsis risale probabilmente al Dio-imperatore-sole del culto imperiale romano. Se nel suo poema Holoblos si abbandona a esagerazioni come «Elio si ritira accecato dal sole imperiale», è anche perché la visione dell’imperatore durante alcune cerimonie era veramente abbagliante171. Comunque, quasi tutti i ritratti dei sovrani corrispondono a quello che i Bizantini vedevano durante questa cerimonia notturna accompagnata dagli auguri di lunga vita di cantori e musici. Nei primi decenni del XII secolo, Bisanzio perse i possedimenti nell’Italia meridionale che passarono nelle mani dei Normanni. Ruggero II di Sicilia s’impadronì della Puglia e della Campania e riuscì a farsi riconoscere da papa Anacleto II che lo incoronò re a Palermo il 25 dicembre 1130172. Malgrado ciò, dopo solo una quindicina di anni Ruggero II chiese alla corte bizantina di mandargli dei mosaicisti per decorare le nuove chiese. Fu così che alcuni maestri costantinopolitani, con l’aiuto di artisti locali, ornarono la cattedrale di Cefalù dove il re fu rappresentato nell’atto di offrire a Cristo il modello della chiesa, il palazzo reale e la Cappella Palatina (1143-1189) della quale ricorderemo il ciclo particolarmente esteso dell’Antico Testamento e quelli, piuttosto rari, dedicati alla vita degli apostoli Pietro e Paolo. Nella cupola, il Pantocratore è circondato da quattro arcangeli in abito imperiale – Michele, Gabriele, Raffaele e Uriele – e da altrettanti angeli vestiti all’antica. L’iscrizione greca sottolinea il significato simbolico del Pantocratore: «Il cielo è il mio
trono e la terra lo sgabello dei miei piedi, dice il Signore che regna sull’universo». Più in basso seguono i profeti e gli evangelisti173. Quasi nello stesso periodo fu decorata la chiesa della Martorana (Santa Maria dell’Ammiraglio, 1143-1151), dove Ruggero è raffigurato incoronato da Cristo e il donatore, Giorgio di Antiochia, prosternato ai piedi della Vergine174. Nella cattedrale di Monreale (1172-1173) la partecipazione di artisti locali è più rilevante che negli edifici citati e i santi latini sono più numerosi. Inoltre, accanto al ciclo evangelico, ne compaiono atri più rari, come quelli della Genesi e della Vita degli apostoli Pietro e Paolo. In questa chiesa, Guglielmo II (1166-1189) seguì l’esempio dei suoi predecessori facendosi ritrarre due volte (sui pilastri orientali): nel primo pannello è incoronato da Cristo, mentre alcuni angeli gli portano le insegne della sua carica: il globo del mondo sormontato da una croce e il labarum175. Nel secondo registro dell’abside, l’iscrizione che l’accompagna chiama la Vergine Panachrantos (Tutta Pura) riecheggiando così le controversie del tempo sull’Immacolata Concezione. Lo stile è quello della fine del XII secolo con la tipica accentuazione grafica (la linea non si limita più al contorno delle figure ma ne sottolinea le parti anatomiche), il dinamismo (movimenti rapidi dei personaggi e drappeggi dalle pieghe agitate) e la capacità di esprimere il dramma sacro. Da notare anche il rigore cromatico che evita i contrasti in vista dell’unità dell’insieme. Anche se dobbiamo supporre che i maestri inviati da Costantinopoli non fossero di prim’ordine, questi mosaici sono opere di grande qualità il cui influsso si fece sentire in tutta l’Italia, per non parlare dei mosaici dell’abbazia di Grottaferrata realizzati certamente dagli stessi artisti. A seguito di un furioso incendio (1106), la basilica di San Marco a Venezia fu decorata una seconda volta nel XII e XIII secolo, salvo il battistero che è del XIV. Le fonti attestano gli inviti rivolti a maestri costantinopolitani, cosa del resto confermata dalle immagini. I Greci si circondarono di mosaicisti veneziani dando origine a una fiorente scuola locale. Il programma iconografico s’ispira, come l’architettura, a quello oggi scomparso della chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli. La decorazione delle due cupole centrali colpisce per l’eleganza delle composizioni di un equilibrio rigoroso, e per la sicurezza del disegno. Qui, nella cupola centrale, vediamo l’Ascensione rappresentata secondo lo schema bizantino nel quale s’inseriscono però anche sette Virtù e nove Beatitudini che derivano dall’iconografia occidentale. Segue, come nei vangeli, la Pentecoste nella cupola occidentale. Il ciclo della Passione si dispiega sulle volte e colpisce per gli effetti drammatici; quello della Vita di san Marco è formato da molti episodi che si susseguono senza soluzione di continuità, conferendo all’insieme un aspetto tanto più arioso in quanto le figure sono piccole e
slanciate, sperdute nello scintillio dorato del fondo176. I mosaicisti di San Marco hanno lavorato in tutto il Veneto. Fra le loro opere più importanti si annoverano la decorazione del duomo di Torcello (XII secolo), con quella Vergine col Bambino filiforme, isolata negli ori senza fine dell’immensa abside177, e il Giudizio finale sormontato della Discesa al Limbo, come si vedrà più tardi a Kariye Camii. Artisti costantinopolitani lavorarono anche a Cipro, che era diventata un’importante base militare contro i Turchi e nella quale si era stabilito Alessio Comneno per organizzare la difesa dell’Impero contro un nemico sempre più dilagante. La crociata del 1192 portò alla conquista dell’isola dove, però, l’arte bizantina continuò a svilupparsi. La chiesa del monastero di San Giovanni Crisostomo (prima del 1105) fu finanziata da un alto ufficiale greco, Eumathios Philocalis, e tutto lascia credere che gli affreschi che la decoravano fossero stati realizzati da un artista metropolitano178 come nel caso della Panaghia Phorbiotissa ad Asinu (1105-1106)179 dove incontriamo una delle prime rappresentazioni a più registri del Giudizio Finale, anche se questa composizione cumulativa è già presente nell’XI secolo. Qui una personificazione della terra cavalca un leone e una personificazione del mare è seduta su un mostro marino180. Le due figure, abituali nel Giudizio Universale bizantino, erano necessarie per rendere visibile la risurrezione dei corpi nel momento della Seconda Venuta. Infatti, i mostri che esse cavalcano di solito vomitano i corpi inghiottiti nel corso della storia. Lo stile maturo della Panaghia Arakiotissa (1192) non lascia dubbi sulla provenienza dei pittori181. Il prevalere della linea sul modellato, che altrove tende a parcellizzare le forme, come si nota soprattutto nelle province dell’Impero, in particolare al Monte Athos e nei paesi slavi, in Macedonia e in Russia verso la fine del XII secolo182, qui si avverte appena. Il modellato è presente senza essere eccessivo e i volti sono di una bellezza classica. Ritroviamo, è vero, la rapidità dei movimenti dei personaggi, i drappeggi svolazzanti, le tuniche gonfiate dal vento e le pieghe a cannoncino – tipiche della seconda metà del XII secolo – sul dorso dei personaggi, ma senza eccessi baroccheggianti, con un bellissimo effetto. Col passare del tempo, l’evolversi dell’Umanesimo aveva modificato un po’ la sensibilità religiosa e la pietà della società bizantina che, nel XII secolo, era diventata sentimentale. Si compiangeva Maria per le prove che aveva subìto e i patimenti di Cristo erano diventati fonte di emozioni. Sembrava anche ovvio che Gesù Bambino avesse potuto provare tenerezza per sua madre. Quest’ottica, opposta a quella che aveva dato vita ai personaggi impassibili e immobili dell’arte bizantina tradizionale, portò alcuni cambiamenti negli schemi e anche nei programmi iconografici; così, al ciclo della Passione e a quello dell’Infanzia della Vergine, vennero aggiunte scene particolarmente commoventi.
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Un’icona giustamente famosa nella quale compare questo tipo di iconografia è quella della Vergine Eleousa o della Tenerezza (1130 ca.), detta di Vladimir183, realizzata a Costantinopoli e inviata a Kiev, poi, dopo una ventina d’anni, trasferita a Vladimir. A dire il vero, Maria non manifesta alcun sentimento, a parte la gravità triste che le è propria e che si spiega col fatto che ella conosce la futura Passione del Figlio, rivelatale dal vecchio Simeone al momento della Presentazione al Tempio (Lc 2,34-35). In compenso, il Bambino che ella tiene fra le braccia appoggia la guancia a quella della madre e col braccio sinistro le cinge il collo, la mano destra posata sul petto di lei. Quanto all’espressione del dolore fisico e morale, gli artisti della capitale furono certamente i primi a rappresentarla, un secolo prima degli Italiani. La prima rappresentazione convincente è quella della chiesa di San Panteleimon a Nerezi, in Macedonia (1164), allora territorio bizantino. Il finanziatore della chiesa fu Alessio Comneno, cugino dell’imperatore regnante Manuele Comneno. Del resto, la qualità degli affreschi è eccezionale, tutti indizi che fanno credere alla presenza di pittori costantinopolitani184. Fra gli episodi della Passione, la Deposizione dalla croce è una scena straziante nella quale Maria lascia esplodere il proprio dolore e abbraccia con tenerezza il corpo di Cristo. Una nuova scena, il Compianto, aveva fatto la sua prima comparsa nella pittura murale nella chiesa cipriota del Salvatore (1110-1118), nel monastero di Kutsovendi, dipinta probabilmente da artisti costantinopolitani. Questa scena diventa a Nerezi una vera immagine di lutto e di sconforto185 con il lamento di Maria sul corpo esanime di Gesù. Il tema non compare nei vangeli canonici e si basa sui racconti degli apocrifi di Nicodemo (IV secolo)186, Giuseppe
d’Arimatea (VII secolo, Rayon, n. 104) e Simeone Metafrasto187, come pure sulla liturgia e sugli inni cantati il venerdì e il sabato santo188. Le nuove tendenze iconografiche compaiono anche nelle immagini mobili. Così, in un’icona del XII secolo con la Crocifissione, conservata agli Staatliche Museen di Berlino189, il corpo di Cristo si contorce per la sofferenza e le sue braccia si allungano per il peso sostenuto, le gambe si piegano e la testa non è più reclinata ma cade sulla spalla come un oggetto inanimato, mentre il volto porta i segni del dolore. Infine, se la Madonna è ancora impassibile, san Giovanni sembra piangere. Anche il progredire del grafismo è evidente: la linea contorna tutte le forme, anche quelle anatomiche all’interno dei volti e dei corpi; inoltre disegna le pieghe che ora si fanno più fitte. L’intenzione di rappresentare sentimenti umani implica il dramma e questo, a sua volta, esige il movimento. Così, i personaggi prima sereni e immobili, compiono gesti che vorrebbero essere rapidi ma che, in mancanza della prospettiva, finiranno per restare sempre statici, come bloccati in pieno slancio. Se cercassimo un’immagine emblematica della spiritualità bizantina e di come essa trova espressione nell’arte del XII secolo, bisognerebbe pensare, fra l’altro, all’icona in mosaico del Cristo Pantocratore del Museo Nazionale di Firenze, molto probabilmente della metà del XII secolo e realizzata a Costantinopoli190. Il Cristo Signore del mondo vi è rappresentato a mezzo busto, in assoluta frontalità e benedicente, col vangelo nella sinistra. Dietro di Lui, il fondo d’oro si fonde col suo nimbo e al tempo stesso, in quanto simbolo della luce divina, ne rappresenta l’irradiarsi. La rigorosa simmetria del viso, reso più lungo da una barba a punta, i grandi occhi sottolineati da un bordo continuo
125. La Deposizione dalla croce nell’affresco di San Panteleimon a Nerezi, in Macedonia.
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126. Icona della Crocifissione, del XII secolo, conservata agli Staatliche Museen di Berlino.
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con le palpebre superiori che arrivano fino alle tempie e raggiungono quasi l’arco delle sopracciglia, il naso lungo e diritto, infine le labbra sottili, chiuse e unite fra loro, concorrono a fare di questo Pantocratore una sintesi sublime di tutti gli uomini della terra e delle loro più alte aspirazioni. A proposito di questo volto, John Beckwith parla di un modellato delicato, ma di fatto il modellato non c’è. Un esame diretto dell’opera conferma quanto si vede anche in qualsiasi buona riproduzione a colori, che cioè la zona d’ombra intorno all’ovale è insignificante, i tratti sottolineati, le guance ridotte a chiazze rotonde quasi geometriche. Tale linearismo mette in evidenza l’aspetto ascetico e la gravità di questo volto idealizzato. Fin qui abbiamo parlato poco degli edifici eretti a Costantinopoli dopo la crisi iconoclasta e oggi scomparsi, ma dei quali ci danno notizia le fonti. Uno di questi è la chiesa di San Demetrio, eretta da Leone VI (886-912)191 e nella quale campeggiava, al centro della cupola, Cristo assiso sull’arcobaleno, circondato da una gloria sorretta da angeli. Questo schema iconografico corrisponde a quello dell’Ascensione, è dunque probabile che alla base o nel tamburo della cupola ci fossero gli apostoli e la Vergine, come si può vedere nello stesso periodo in Santa Sofia di Salonicco. Sembra che un ampio ciclo della Vita di Cristo si trovasse nella chiesa della Vergine Peribleptos (1028-1034), in quella dei Santi Anargiri (1034-1131?) e in San Giorgio delle Mangane192. A Kalenderhane Camii sono stati recentemente trovati alcuni affreschi e frammenti di ceramica193. Gli scavi hanno riportato in luce frammenti dell’iconostasi del XIII e XIV secolo con una Déesis (Cristo fra la Vergine e san Giovanni in preghiera) e un’Etimasia (immagine della Seconda Venuta nella quale è rappresentato un trono vuoto su cui, a
volte, stanno gli strumenti della Passione). Nel nartece si conserva un affresco con la Vergine Kyriotissa, cioè «Sovrana». Ma la particolarità più interessante di questa decorazione appartiene al XIII secolo: si tratta dell’unica traccia lasciata dai crociati a Costantinopoli (1204-1261). In una cappella dipinta si conserva un ciclo della Vita di san Francesco d’Assisi, che è anche il primo ciclo noto dedicato al santo. Questo ci introduce ai grandi sconvolgimenti del XIII secolo.
Verso una frattura col passato e una precoce Rinascenza Agli albori del XIII secolo, Bisanzio, e in particolare Costantinopoli, dovettero affrontare una catastrofe nazionale che assunse caratteristiche apocalittiche. Paradossalmente, questo fu anche un momento d’intensa attività artistica, di scoperte e di splendore. Nel 1204 la capitale era in preda a lotte interne per la successione e i guerrieri della quarta crociata accampati davanti alla città approfittarono dell’occasione. Spinti da una crescente ostilità verso Bisanzio dopo la separazione delle Chiese e da un’incontenibile cupidigia, i capi crociati ordinarono la conquista della città malgrado i Bizantini fossero loro alleati. Il 13 aprile la città fu presa e immediatamente saccheggiata. L’Impero venne diviso e Baldovino, conte di Fiandra e Hinaut, fu consacrato imperatore del nuovo Impero latino di Costantinopoli in Santa Sofia, con una cerimonia molto simile a quella dell’incoronazione tradizionale. Un latino, Tommaso Morosini, fu nominato patriarca. Poi si passò alla suddivisione dell’Impero: Baldovino ebbe Costantinopoli, la Tracia, parte dell’Asia Minore e alcune isole; la Repubblica veneta
127. Frammento della predica agli uccelli, dal ciclo affrescato della Vita di san Francesco, nella Kalenderhane Camii. 128. Icona musiva del Cristo Pantocratore, conservata al Museo Nazionale del Bargello, Firenze.
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occupò i porti dell’Ellesponto e del Mar di Marmara, con Gallipoli e Ragusa sulla costa adriatica e, nel Mediterraneo, le isole di Eubea, Nasso, Creta, Rodi, Andros, assicurandosi così le posizioni strategiche per la navigazione e il commercio; Genova ebbe diverse isole, fra cui quelle di Chio e Lesbo, e Galata, mentre Bonifacio del Monferrato diede vita all’effimero regno di Salonicco. Nella Grecia continentale furono fondati alcuni principati franchi, veneziani, angioini e catalani, mentre nel Peloponneso il principato di Morea con Mistrà capitale fu una felice creazione dei Franchi che vi edificarono una struttura feudale (le rovine della fortezza sono ancora visibili). Infine, un cugino dell’ultimo imperatore, Michelangelo, approfittò della confusione per fondare il Despotato d’Epiro nel nord della Grecia. La corte bizantina, l’aristocrazia civile e militare, i funzionari, come pure l’alto clero, gli uomini di cultura, artisti e artigiani si ritirarono in Asia Minore, a Nicea, loro nuova capitale. Qui, nel 1208, Teodoro Lascaris si fece incoronare imperatore e Michele Autorianos fu eletto patriarca ecumenico di Costantinopoli. Così Bisanzio ritrovò un nuovo centro politico, ecclesiastico e culturale, in attesa della restaurazione dell’Impero e della riconquista della capitale che avvenne nel 1262 per mano di Michele VIII Paleologo. Ma prima di riuscire nell’impresa, bisognava vincere lo sgomento che si era impadronito delle coscienze. La presa di Costantinopoli era stata per i Greci molto più di una cocente sconfitta politica e militare: vacillava un mito millenario, quello dell’Impero fondato e governato da Cristo ed eterno come il mondo. Non solo, la convinzione che la Madonna proteggesse la città andò in frantumi. In passato Maria l’aveva salvata dagli assedi più duri e dai ripetuti attacchi dei suoi nemici, ma davanti ai crociati l’aveva abbandonata. Notiamo, infine, che la presa della capitale fu seguita da un saccheggio senza precedenti per estensione e ferocia che privò i Bizantini dei tesori accumulati per secoli, testimonianza della loro storia. Geoffroy de Villehardouin è stupito dall’accumulo di ricchezze che scopre: «Dalla creazione del mondo non si era mai accumulato un bottino simile in una città»194. Il saccheggio fu anche una profanazione. Alcune testimonianze di contemporanei ce ne danno un’idea. Così Niceta Coniate descrive il furto delle reliquie più venerate che erano l’orgoglio delle chiese, la distruzione dell’altare splendente di gioielli di Santa Sofia, che fu fatto a pezzi per essere portato via più facilmente, e la razzia degli oggetti d’oro e d’argento, smalti e pietre preziose di cui erano colmi edifici di culto e palazzi. La furia degli invasori fu tale che, per portare via più in fretta il bottino della Grande Chiesa, vi fecero entrare degli asini; nella loro fretta non si rendevano neppure conto che gli animali erano sovraccarichi e, quando crollavano a terra, li uccidevano, col rischio di vederne il sangue e le in-
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teriora spandersi sul suolo sacro195. Un racconto che ci aiuta a immaginare la disperazione dei Greci. I quali, tuttavia, si ripresero. La Chiesa volle spiegare tali fatti come esito dei peccati dei Greci e come «un castigo passeggero», dove la parola «passeggero» era usata per alimentare la speranza. Ma questa spiegazione del disastro non ebbe un gran successo. Ben presto si fece strada un’altra idea che si rivelò molto feconda. Si trattò, da una parte, dell’esaltazione del glorioso passato di Bisanzio e dei suoi valori, dall’altra, dell’affermazione che le opere dell’Antichità greca facevano parte del suo patrimonio. Questa pretesa, tanto ardita quanto gratuita, ebbe l’effetto di una molla: un’ondata di ellenismo dilagò nel paese e ormai ci si diceva «Elleni», mentre per secoli i Bizantini si erano sentiti «Romani». Gli uomini di lettere e di scienza, alcuni membri dell’alto clero, gli storici e gli artisti, rivolsero la loro attenzione alle opere antiche. Si leggevano Omero, Euripide, Tucidide e, ancora di più, Platone e Aristotele. Queste letture cambiarono in qualche misura la mentalità bizantina, tanto che l’imperatore Teodoro Lascaris pianse per l’emozione davanti alle rovine (antiche) di Pergamo196 e Giorgio di Cipro paragonò Nicea ad Atene per la vivacità che vi regnava197. Nacque una splendida Rinascenza, ma fu una Rinascenza dall’orizzonte chiuso. Avremo occasione di riparlarne. Le opere antiche erano ormai consultate senza la diffidenza che avevano suscitato una volta. Non si aveva più paura del paganesimo come al tempo dei Padri della Chiesa e, ancora, nell’XI secolo, quando un grande umanista come Michele Psellos si era sentito chiamare «pagano» dai rappresentanti della Chiesa. Un nuovo ideale prese il posto di quello dell’asceta; ormai l’uomo perfetto doveva certo avere tutte le qualità morali possibili e immaginabili, ma si pensava anche che possedesse un sapere universale e un vivissimo senso della bellezza. Perciò ora alcuni autori descrivono paesaggi, città e opere d’arte198. Teodoro Choumnos e Giovanni Apocaukos, metropolita di Naupatto, manifestarono apertamente il proprio amore per la natura e l’ammirazione per la letteratura dell’Antichità199; Nicola Mesarites descrisse nei minimi particolari la chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli200 e Giorgio Acropolita ci ha lasciato una storia dell’Impero di Nicea che sembra obiettiva201. L’imperatore Teodoro Lascaris fu un notevole scrittore e un instancabile fondatore di biblioteche202 e nel XIV secolo altri grandi spiriti favorirono l’inizio del Rinascimento italiano. Il loro pensiero non era sostanzialmente originale, ma annunciava un nuovo inizio. La cosiddetta Rinascenza dei Paleologhi si manifestò all’inizio fuori dai confini dell’Impero. Gli artisti bizantini, che non trovavano abbastanza lavoro in patria, erano molto richiesti nei paesi slavi, nel regno di Trebisonda e, nel XIV secolo, in Georgia, con la conseguenza di una forte diaspora
Nelle due pagine seguenti: 130. L’angelo, particolare delle mirofore al sepolcro di Cristo, affresco di Mileyeva. 129. Crocifissione, affresco della chiesa della Madre di Dio nel monastero di Studenica.
131. Figura di profeta, particolare di un affresco della chiesa della Santissima Trinità di Sopo0ani.
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della quale i principali beneficiari furono i re serbi della giovane dinastia dei Nemani0. Ambiziosi, colti e ricchi, conquistarono vasti territori nella Serbia meridionale e fondarono monasteri a un ritmo vertiginoso. Avendo bisogno dei migliori artisti per decorare le loro chiese, chiamarono quelli di Costantinopoli. L’arcivescovo Sava, figlio del re Stefano Nemanja (1167-1196) e fondatore della Chiesa serba, si recò personalmente a Costantinopoli e a Nicea per sceglierli. Ma non fu l’unica volta che pittori bizantini andarono in Serbia; la loro attività nel paese, dove dipinsero dei veri capolavori, è provata per tutto il XIII secolo. Dopo gli affreschi della chiesa della Madre di Dio a Studenica (1208-1209), che per alcune caratteristiche preannunciano l’imminente rottura con la tradizione, artisti costantinopolitani decorarono quella dell’Ascensione a Mileyeva (1218-1222), dove la Rinascenza si avverte ormai chiaramente. In questa decorazione il grafismo lineare è scomparso lasciando spazio al modellato, e al posto delle figure filiformi compaiono personaggi dall’aspetto florido, con cosce muscolose e guance paffute. I gesti si fanno più armoniosi, si nota qualche scorcio, nelle composizioni predominano le curve e le rotondità203. Nello stesso periodo artisti costantinopolitani dipingono altre chiese in Serbia204, mentre a pittori della stessa provenienza si attribuiscono anche gli affreschi di altissima qualità di Santa Sofia a Trebisonda (1260 ca.), in Asia Minore105. Poco dopo questa data è stata realizzata la decorazione parietale della Santissima Trinità a Sopo0ani (1265-1275), che si avvicina più decisamente al gusto dell’Antichità e deve essere considerata il vertice della cosiddetta Rinascenza dei Paleologhi. Qui, fra i numerosi santi in piedi, alcuni profeti di aspetto monumentale ricordano la statuaria antica. La loro volumetria, i volti ispirati e generalmente incorniciati da capigliature in disordine, gli atteggiamenti sono quelli dei filosofi nella pittura del Basso Impero. I nasi sono larghi, le labbra sinuose e sensuali con le commessure ben sottolineate, gli occhi immersi nell’ombra delle orbite. Nella Trasfigurazione, l’apostolo Giacomo disteso a terra, è rappresentato mediante lo scorcio, e altri personaggi seduti, come Giuseppe nella Natività, rivelano una notevole consistenza volumetrica, proprio quella di una persona avvolta in un mantello e ripiegata su se stessa206. L’iconografia si è arricchita molto rispetto al passato; fra XI e XII secolo compaiono nuovi temi, fra cui l’Amnos o Agnello che, al centro del terzo registro dell’abside, rappresenta Cristo bambino disteso nudo su una patena per indicare l’Eucaristia. Le due file di santi vescovi officianti convergono verso di Lui. I cicli cristologici abituali fino a questo momento aumentano di numero perché vi si aggiungono quelli dei Miracoli e delle Parabole; quanto alla Dormizione della Vergine, si arricchisce di nuovi episodi
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secondari ispirati ai vangeli apocrifi, mentre il Giudizio Finale si amplia a sua volta; dal canto loro, le scene dell’Antico Testamento cercano parallelismi nel Nuovo, e i protagonisti di ogni scena raddoppiano di numero. Anche i riferimenti alle preghiere e ai riti della liturgia vengono tradotti in linguaggio figurato e i cicli agiografici raccontano la vita dei santi come faceva con successo la letteratura a partire dall’XI secolo. Infine, le emozioni dei personaggi sacri, fattesi più intense, modificarono gli schemi tradizionali. È per questo che nella pittura murale la Crocifissione è a volte una composizione con molti personaggi. A Sopo0ani, Giovanni lascia il suo posto a destra della croce e passa a sinistra per sorreggere la Madonna che vien meno; in primo piano i risorti escono dai sarcofagi per far capire bene che la morte è stata vinta grazie al sacrificio volontario di Gesù e che la sua Risurrezione è l’anticipazione di quella di tutti gli uomini nell’ultimo giorno. Nelle due successive capitali dell’Impero, Costantinopoli e Nicea, si è conservata solo una minima parte delle decorazioni monumentali del XIII secolo, ma una di esse ci mostra il nuovo stile nella sua forma compiuta e applicata al mosaico. Si tratta di una Déesis monumentale nella tribuna meridionale di Santa Sofia di Costantinopoli, datata intorno al 1262. Le figure di Cristo, della Vergine e di san Giovanni sono rappresentate in piedi, ma la parte inferiore dei corpi è perduta. Anche qui la delicatezza del modellato prende il posto del reticolo di linee, i tratti hanno acquistato forza anche se molto meno che a Sopo0ani. I nasi rimangono sottili e le bocche piccole. Tuttavia, come nel Cristo della Dormizione di Sopo0ani, l’artista, altra novità, ha saputo rendere lo stato d’animo dei due intercessori i cui occhi esprimono una profonda tristezza, intrisa di dolcezza in Maria e molto più severa nel precursore. La loro compassione va all’umanità peccatrice per la quale invocano il perdono divino207. Tutte le altre testimonianze della pittura di questo periodo trovate a Istanbul sono di qualità nettamente inferiore. La cosa vale per gli affreschi della chiesa di Sant’Eufemia (fine del XIII secolo), nei pressi dell’ippodromo, anch’essa ridotta allo stato di rovina. Purtroppo il loro stile è schematico, quindi non significativo per il periodo. Tuttavia, il programma iconografico, o piuttosto quanto ne resta, è lo specchio della nuova generazione di artisti, diventati ormai prolissi. Quattordici scene illustrano la vita e il martirio della santa; inoltre sono stati rappresentati molti santi guerrieri, fra cui alcuni cavalieri e i Quaranta Martiri di Sebaste208. Nel XIV secolo i pittori costantinopolitani continuano a percorrere il mondo ortodosso e i re serbi li chiamano ancora spesso, come dimostrano molte decorazioni209. Essi si recano anche in Georgia influenzandone in maniera definitiva la pittura e in Russia, dove lavora l’artista più origi-
132. Déesis monumentale a mosaico, nella tribuna meridionale di Santa Sofia. Nelle due pagine seguenti: 133 e 134. Particolari dei volti della Vergine e del Cristo.
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nale di questo periodo, Teofane il Greco. Li troviamo a Mistrà nel Peloponneso, in particolare nella chiesa della Vergine Peribleptos e in quella, sempre dedicata alla Madonna, detta Aphendikòs, dove gli affreschi della cappella funeraria dell’abate Pacomio (1311-1312 e 1322)210 ricordano per molti versi i mosaici di Fethiye Camii. Infine, a Tessalonica, la cappella di Sant’Eutimio (1303-1304) nella chiesa di San Demetrio fu decorata grazie al comandante militare (protostrator) Michele Glabas Tarcaniote e a sua moglie Maria211. L’origine del donatore e la qualità degli affreschi, ancora molto vicini allo stile del XIII secolo, inducono a pensare a un pittore della capitale, benché una fiorente scuola locale avesse fatto di Tessalonica un importante centro artistico. Malgrado l’onnipresenza di pittori costantinopolitani nelle zone d’influenza bizantina, assistiamo anche a un affermarsi delle scuole locali. La pittura si evolve in modo diverso a seconda che si prenda in considerazione l’iconografia o lo stile. I programmi e gli schemi iconografici continuano a seguire le tendenze che si erano affermate nel XIII secolo, mentre l’evoluzione dello stile non è lineare e conosce frequenti ritorni al passato. Quando la nuova maniera della Rinascenza raggiunse il massimo sviluppo a Sopo0ani, divenne impossibile per la pittura accostarsi ulteriormente ai modelli antichi e allo spirito che li ispirava senza rischiare di perdere la propria identità. Se il movimento iniziato nel XIII secolo avesse continuato a svilupparsi, la rappresentazione realistica avrebbe preso il posto delle forme idealizzate bizantine, ne avrebbe distrutto i principi basilari, per approdare a un linguaggio figurativo simile a quello del Rinascimento italiano. Ora, gli spiriti non erano affatto pronti a un tale passo e, per parte sua, l’ortodossia ne avrebbe ricevuto un grave colpo, cosa inaccettabile. Così si conservano il modellato e la tavolozza arricchita di nuove sfumature e guadagnano ancora terreno le quinte architettoniche come pure alcuni elementi del paesaggio, già presenti nella seconda metà del XIII secolo. A volte vi si aggiungono anche citazioni dirette dai modelli antichi, ma si tratta di particolari che non cambiano in nulla il messaggio che l’immagine propone. Si tratta del resto di un procedimento in uso anche in letteratura, dove citazioni di testi antichi sono frequenti nelle opere dei letterati bizantini senza che questi ne accolgano la sensibilità o la filosofia, come invece accadrà poco dopo in Italia. Le forme si assottigliano, diventano leggere, eteree e, malgrado il modellato, si avvicinano di nuovo alla tradizione. I tratti si affinano e i volti rivelano un’ispirazione classica, mentre ricompaiono i procedimenti grafici del XII secolo. Le chiese costantinopolitane del XIV secolo mostrano contemporaneamente l’interrompersi dell’evoluzione della Rinascenza, il suo permanere e occasionali ritorni alla tradizione più antica. Il monastero della Theotòkos Pammakaristos (Beatissima) o
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135 e 136. La Vergine e san Giovanni Battista, particolari del parekklesion del monastero della Theotòkos Pammakaristos.
Nelle due pagine seguenti: 137 e 138. Un angelo e il Cristo nella lunetta della stessa cappella.
Fethiye Camii ha conservato la sua chiesa, costruita nel secondo quarto del XII secolo da Giovanni Comneno a da sua moglie Anna Dukaena, come indica l’iscrizione sulla cornice del bema212. I nomi di Michele Glabas Tarcaniote – lo stesso che aveva donato la cappella di Sant’Eutimio a Tessalonica – e della sua sposa Maria Dukaena Comnena sono legati alla Pammakaristos a partire dal 1265 circa; ma sappiamo anche che qualche tempo dopo l’hanno fatta restaurare. La chiesa era decorata da affreschi, oggi molto rovinati, dei quali restano solo alcuni frammenti di un ciclo della Dormizione della Vergine. Alla morte di Tarcaniote (fra il 1310 e il 1315), la sua vedova entrò in monastero col nome di Marta e fece costruire, a sud del naòs della chiesa, una cappella (parecclésion), 1315 ca., per la sepoltura del marito (epigramma del poeta Manuele Philes sulla facciata meridionale)213. Il programma iconografico di questa cappella è conforme alla sua destinazione, con la Déesis nel bema, una caratteristica tipica dei cicli figurativi realizzati per decorare gli ambienti funerari. La preghiera d’intercessione era quanto di più adatto per portare soccorso ai defunti, e per questo motivo è ripetuta nell’ufficio funebre. Qui il Cristo si trova nell’abside ed è senza dubbio la figura più bella dell’intera decorazione: è assiso su un trono incrostato di gemme, il corpo – ben visibile sotto il tessuto perché perfettamente modellato «a tutto tondo» – è avvolto in un manto azzurro quasi incipriato di grigio. Il Signore risalta su un ampio fondo d’oro e benedice con un gesto maestoso. Ai lati, in due lunette, la Vergine e san Giovanni in preghiera hanno, come il Cristo, dei volti di una bellezza classica, cosa da notare a proposito del Battista rappresentato qui come un uomo ancora giovane, mentre generalmente gli si attribuisce un viso solcato di rughe. Sulla volta del bema, subito sopra al Cristo in trono, partecipano all’intercessione i quattro arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele e Uriele214. Infine, i santi vescovi, nel secondo registro della protesis e del diaconicon secondo la collocazione abituale, non officiano come vorrebbe la regola e sono particolarmente numerosi. Nel naòs si trovano poi molti santi isolati, fra i quali diversi monaci, tutti potenziali intercessori sempre invocati durante gli uffici funebri, il che fa pensare che a Fethiye Camii si credesse che prendessero parte alla Déesis. Nella cupola, il Pantocratore è attorniato da profeti in atteggiamenti diversi e visti di tre quarti. Ricordiamo il movimento di Mosè con la testa volta all’indietro che lascia scoperto il collo, così frequente a Kariye Camii. Questi personaggi dell’Antico Testamento hanno in mano dei filatteri con brani delle loro profezie. Quella che compare sul rotolo di Isaia: «Ecco, il Signore cavalca una nube leggera» (Is 19,1) è insolita ma niente affatto gratuita. È un versetto che si legge durante la liturgia celebrata per la festa dalla Presentazione di Gesù al tempio, e si riferisce all’Incarnazio-
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ne. Del resto, l’insieme delle citazioni veterotestamentarie sulle pergamene dei profeti è tratto dalla liturgia215. Questi profeti carichi di dinamismo e dalle forme piene corrispondono al nuovo stile della Rinascenza e sono molto diversi da quelli di qualche decennio posteriori conservati nella cupola meridionale del nartece di un’altra chiesa costantinopolitana, quella di San Teodoro, o Kilise Camii (secondo quarto del XIV secolo), al centro della quale sta la Madonna col Bambino216. I profeti attorno e lei annunciano un ritorno ai valori tradizionali del gusto bizantino del XII secolo. Ritroviamo qui il grafismo piuttosto duro, ostile al modellato, le fitte pieghe verticali e i lembi delle cinture che ricadono a «cascata» del tempo dei Comneni. I mosaici della cupola centrale sono meno ben conservati e il Pantocratore che era nella calotta è addirittura scomparso217. Queste figure sono in posizione frontale, immobili, e i loro volti sono simili (a parte, in qualche caso, la forma degli occhi); hanno tutte lo stesso naso e sono senza la bocca che, il più delle volte, è coperta dalla barba, ma quando fra questa e i baffi si vede uno spazio libero, come per esempio in Gregorio di Nissa, le labbra non compaiono.
Kariye Camii, la sfolgorante Il monastero (distrutto) con la chiesa di Cristo Salvatore in Chora, detta comunemente Kariye Camii (1315-1321 ca.) dal suo nome turco, fu fatto costruire dal grande umanista Teodoro Metochite (1270-1332) che voleva farne il proprio mausoleo. Fu certamente perché pensava che la bellezza di un’opera d’arte potesse assicurare l’immortalità al suo donatore218 che scelse i più grandi artisti dell’Impero. Gran logoteta, cioè custode del tesoro, Metochite ebbe, quando giunse al culmine della carriera, un ruolo simile a quello di un primo ministro di oggi. Questa importante carica non gli impedì di essere un uomo di grande cultura: astronomo, matematico, botanico e, in più, un valente teologo ed esperto di letteratura bizantina antica. A dire il vero, quello che stupisce è l’aspetto enciclopedico delle sue conoscenze e il gran numero delle sue opere, perché per
139. Il Pantocratore circondato da profeti nella cupola del naòs della chiesa del monastero della Pammakaristos. Nelle due pagine seguenti: 140. Il donatore, Teodoro Metochite, offre il modello della chiesa nel mosaico del nartece della chiesa di San Salvatore in Chora. 141. Il nartece della chiesa.
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quanto riguarda la letteratura e la conoscenza dei classici erano per così dire obbligatorie per chi volesse occupare posti importanti nello Stato. Dal IV al XV secolo, infatti, gli imperatori hanno sempre preteso dai loro alti funzionari un livello di cultura letteraria eccezionale; e fu lo stesso per i dignitari di corte e i prelati219. Chi poi era in grado di discutere con disinvoltura anche di temi scientifici aveva ancor più possibilità di successo. Da parte loro, molti imperatori sono stati autori di talento; le principesse disponevano di ampie biblioteche, copiavano manoscritti e scrivevano220. Notiamo con l’occasione che tutta la società colta bizantina diede prova di una non comune sete di conoscenza. Metochite nacque in questo ambiente e approfittò del fervore che allora regnava a Costantinopoli. Nato da genitori colti ma caduti in disgrazia, decise ben presto di farsi strada da solo: scrisse i primi poemi a vent’anni e si fece notare leggendone uno sulla città di Nicea quando Andronico II vi si recò in visita. Entrò così al servizio dell’imperatore; ormai il dado era tratto e le cose andarono tanto bene che Metochite finì per imparentarsi con l’imperatore dando la propria figlia in sposa a un nipote di quest’ultimo, Giovanni Paleologo. Ora, il monastero di Chora era sotto la giurisdizione della casa imperiale e Metochite non ebbe nessuna difficoltà a farsi affidare la supervisione dei lavori di restauro ormai diventati necessari. Ne pagò una parte, mentre all’altra provvide l’imperatore, e scelse come luogo di sepoltura la cappella meridionale. Dopo molte vicende, trascorse gli ultimi due anni di vita nel monastero e vi morì, ma la sua tomba non è mai stata trovata, mentre nella chiesa si conservano altri sarcofagi e ritratti di defunti. Metochite fu un personaggio emblematico della Rinascenza dei Paleologhi: cercava e ammirava ogni forma di bellezza, cantò in un poema quella della chiesa di Chora221, ammirava la natura – e questo era un sentimento nuovo – e cercò una forma d’immortalità che non è precisamente cristiana visto che, per conquistarla, contava sullo splendore dei mosaici della sua chiesa222. Cosa ne rimane oggi? Qualche mosaico nel naòs e molti altri nei due narteci, oltre ai dipinti della cappella meridionale dove è facile riconoscere un programma iconografico adatto a una destinazione funeraria. Il tutto di una freschezza, di una grazia e di una maestria rare. Nel nartece, fra i mosaici superstiti, troviamo il ritratto del donatore inginocchiato ai piedi di Cristo in trono nell’atto di offrirgli il modello della chiesa223. Il volto e il corpo sono di nuovo completamente piatti, ma l’espressione ne tradisce i pensieri certamente ispirati al pentimento, a giudicare dalle sopracciglia aggrottate. Gli occhi sono piccoli e il naso lungo e ridotto al profilo ossuto. Malgrado il supposto pentimento, il personaggio era abbastanza pieno di sé e piuttosto vanitoso, come s’indovina dai suoi scritti. Perciò si è fatto ri-
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trarre con uno splendido vestito coperto di ornamenti e un enorme cappello che doveva essere in rapporto con i suoi titoli e la sua carica. Gli altri mosaici sono formati da diversi cicli molto estesi, fra cui l’Infanzia di Cristo, la sua Vita pubblica che comprende le parabole e i Miracoli e, cosa insolita, conta una sessantina d’immagini; poi l’Infanzia di Maria e la Genealogia di Cristo, mentre gli affreschi della cappella rappresentano le Prefigurazioni di Maria e il Giudizio Finale che è arricchito da allusioni originali. La tendenza al racconto che si rivela in questo programma, il gran numero d’immagini di ogni ciclo, i numerosi personaggi della maggior parte delle scene, come pure i loro movimenti e la varietà degli atteggiamenti sono altrettanti caratteri tipici dell’iconografia bizantina dell’inizio del XIV secolo. Questi nuovi cicli sono stati elaborati a Costantinopoli ed esportati in tutto il mondo ortodosso, tanto che in alcune grandi chiese serbe i temi rappresentati arrivano al numero di 360 circa, come nel caso di De/ani, nel Kosovo224. Una delle numerose immagini del nartece di Kariye Camii è una grande Déesis con due soli personaggi, Cristo e la Vergine, secondo una variante dello schema più diffuso225. Anziché in trono, il Salvatore è rappresentato in piedi, non corrisponde al tipo consueto del Giudice e l’iscrizione lo chiama Christòs Chalkìtes. Si tratta di una tipologia rara che però compariva al di sopra della porta d’ingresso del Grande Palazzo e perciò acquistò connotazioni imperiali. Al suo fianco, a destra, Maria, leggermente piegata verso di lui e in atteggiamento di preghiera. Ai piedi dei due personaggi stanno, in ginocchio, due piccole figure: la prima è quella di Isacco Comneno, figlio dell’imperatore Alessio I Comneno (1081-1118) che aveva contribuito a un primo restauro del monastero collocandovi la propria tomba e il proprio ritratto. In seguito fece trasferire la tomba altrove ma volle che il ritratto restasse al suo posto (tuttavia quello attuale fu realizzato più tardi). La seconda figura, inginocchiata davanti a lui, è una piccola monaca: Melania, una dama mongola, come ci dice l’iscrizione. È difficile identificare il personaggio perché sono due le principesse bizantine che hanno sposato un gran khan di Mongolia226. Le pareti del naòs hanno perso la maggior parte della decorazione figurata, ma conservano il rivestimento di marmo che ne copre i tre quarti della superficie. Ai lati della recinzione del coro (scomparsa) due grandi figure in piedi accolgono il fedele; si tratta di Cristo, il cui volto è molto rovinato, e della Madonna col Bambino227, un’immagine, questa, che è uno splendido esempio del progredire della Rinascenza dei Paleologhi. Qui incontriamo per la prima volta un atteggiamento completamente nuovo di Maria che tiene il Bambino lontano dal proprio corpo per poterlo guardare. Ella è dunque rappresentata anzitutto come madre, poi come Theotòkos,
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mentre finora era avvenuto il contrario. Il suo volto giovane e bello, ma infinitamente malinconico, è modellato con toni così sfumati da far pensare a un dipinto, mentre quello di Gesù ha i lineamenti paffuti di un bimbo. Egli guarda sua madre e non più lo spettatore e benedice lei, non l’assemblea che assiste alla funzione. Anche Maria ha gli occhi fissi sul suo divin Figlio che, sgambettando come un bambino qualunque, scopre un ginocchio passando uno dei piedi sotto l’altro così da mostrarne la pianta. Del resto, sembra proprio che in questo caso gli iconografi siano stati particolarmente attenti al tema dell’Incarnazione al quale sono dedicate, sia pure con sfumature diverse, ben tre cupole della chiesa. Da parte sua, il ciclo dell’Infanzia della Vergine nel nartece interno comprende moltissimi episodi: comincia con due scene oggi distrutte e continua mostrando anche delle sequenze raramente rappresentate, come Gioachino che si lamenta di non avere una discendenza228 seguito dall’Annuncio a sant’Anna229. Quest’ultima scena è ambientata in un paesaggio idilliaco nel quale appare anche un’imponente architettura. Lo spazio riservato in tutto il ciclo al paesaggio e agli elementi architettonici rivela un atteggiamento «moderno» dovuto alla Rinascenza dei Paleologhi; tuttavia si tratta di sfondi onirici, del tutto irreali. L’edificio davanti al quale sta sant’Anna è formato da elementi ciascuno dei quali è visto da un punto fisso diverso e che, di conseguenza, si contrappongono gli uni agli altri annullando l’effetto di profondità prodotto singolarmente da ciascuno di essi. Questo partito preso deriva dalla paura, sempre viva nei Bizantini, di accostarsi troppo alla realtà desacralizzando l’immagine. Una paura che determina anche uno dei limiti di tale Rinascenza in un momento in cui Giotto osservava attentamente la natura cercando di rappresentare il più fedelmente possibile il mondo che lo circondava. Il ciclo dell’Infanzia di Maria termina con la Dormizione rappresentata sul muro occidentale del naòs. Fra le scene di questo ciclo va ricordata la Presentazione di Maria al tempio, dove ai personaggi principali si aggiunge un lungo corteo di nove vergini, tanto che la scena si distende su un’intera volta230. Il tema degli antenati di Cristo, rappresentato in due cupole, fa parte anch’esso di quello più generale dell’Incarnazione. Nella calotta della cupola settentrionale è rappre-
Nelle due pagine precedenti: 142 e 143. La Vergine e il Cristo della Déesis del mosaico nel nartece di San Salvatore in Chora. A fronte: 144. La Vergine con il Bambino, mosaico nel naòs di San Salvatore in Chora.
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145 e 146. Alcuni dei mosaici che raffigurano scene dell’Infanzia di Maria e, a fronte, particolare dell’Annunciazione al pozzo, nel nartece di San Salvatore in Chora. Nella doppia pagina seguente: 147. Il Pantocratore è raffigurato circondato dai patriarchi e dai rappresentanti delle dodici tribù d’Israele nella cupola sud, dedicata alla genealogia di Cristo; nei pennacchi, miracoli operati da Cristo, nartece di San Salvatore in Chora.
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sentata, secondo uno schema convenzionale, la Madonna col Bambino. Attorno a lei stanno i re d’Israele, il profeta Daniele, i Giusti dell’Antico Testamento che avevano predetto l’Incarnazione e i Tre Ebrei nella fornace. Al centro della cupola meridionale è il Pantocratore, attorno al quale si dispongono i Patriarchi e i rappresentanti delle Dodici Tribù d’Israele231. Le due cupole insieme rappresentano la Genealogia di Cristo, allo scopo di radicare il Figlio di Dio nella storia degli uomini. Si ricorda dunque che attraverso Maria Egli appartiene alla stirpe di Davide. Questa evocazione veterotestamentaria dell’Incarnazione è generalmente raffigurata con un altro soggetto: l’Albero di Iesse232, che non è mai nella cupola, il che gli dà meno importanza di quanta ne abbia a Kariye Camii. Negli affreschi della cappella funeraria la cupola non mostra più le origini della Vergine, ma la sua glorificazione a opera di coloro che l’hanno cantata e del coro degli angeli. Ella appare col Bambino nella calotta, scortata da dodici angeli monumentali233, mentre gli innografi che hanno composto canti liturgici in suo onore sono nei pennacchi, di solito riservati agli evangelisti. Il volto di Maria – severo, molto allungato, magro e senza età – corrisponde qui alla tipologia corrente, fedele all’ideale del passato. Come gli evangelisti, gli innografi sono nell’atto di leggere e scrivere234 e, in ciò che li riguarda, l’artista si dimostra molto acuto. Se infatti la loro presenza sotto il corteo degli angeli evoca la glorificazione di Maria che si trova nei loro versi, i brani scritti sulle pergamene rimandano agli uffici funebri collegando così la cupola ai tanti ritratti di principi rappresentati sopra le loro tombe, nella parte occidentale della cappella. Sul libro di Romano il Melode si legge un versetto del VI Canone dei funerali laici: «Noi siamo tornati alla terra dopo aver trasgredito il comandamento di Dio»235, e sul rotolo di Giovanni Damasceno: «Quale gioia della vita non ha una parte di tristezza?». Il grande teologo porta un turbante, certo per ricordarne l’origine siriaca. L’iscrizione sul rotolo del terzo poeta, Giuseppe, è tratta dall’Ode 4 del suo Canone per l’inno Acatisto236 che celebra la riconciliazione di Dio con gli uomini per mezzo di Maria e viene così a trovarsi in relazione con il ciclo delle Prefigurazioni della Vergine sulla parete settentrionale, delle quali parleremo più avanti. La figura del quarto poeta, Cosma di Majuma, ha perso l’iscrizione che era sulla sua pergamena. Tutti questi innografi dai corpi possenti sono visti di tre quarti e, segno dei tempi, sono inquadrati ai due lati da imponenti architetture dalle forme fantasti-
148. La Vergine con il Bambino al centro della cupola nord, dedicata alla genealogia di Cristo nel nartece di San Salvatore in Chora.
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che, che danno alla scena una certa profondità di campo. Sotto i pennacchi compaiono altre allusioni alla Vergine, in particolare le sue Prefigurazioni veterotestamentarie. Nella lunetta occidentale sono il Sogno di Giacobbe (Gn 28,1017), la Lotta di Giacobbe con l’Angelo (Gn 32,24-30) e Mosè davanti al roveto ardente (Es 3,1-8). Il Sogno di Giacobbe racconta come, addormentatosi, il patriarca vide degli angeli che salivano e scendevano lungo una scala che collegava la terra e il cielo. Il brano è stato commentato così da Giovanni Damasceno: «Maria è la scala che ha permesso al divino Logos di scendere fino a noi, di trasformare la debole sostanza umana e farne uno spirito che vede Dio»238. La convinzione che la venuta di Cristo avesse trasformato gli uomini si era radicata negli animi dopo l’iconoclasmo. La nostra immagine rappresenta Giacobbe addormentato ai piedi di una scala sulla quale volano degli angeli, mentre in cima appare la Madonna col Bambino in un’aureola luminosa. Posta com’è vicinissima agli innografi della cupola, l’immagine evoca non solo il commento di Giovanni Damasceno ma anche quanto Giuseppe e Romano avevano affermato nei loro inni in onore di Maria. La Lotta di Giacobbe con l’Angelo corrisponde al racconto di come egli abbia combattuto con Dio e sia stato da lui benedetto e chiamato Israele. L’immagine di Kariye Camii ci mostra uno splendido angelo, vestito di arancio e azzurro, che lotta con Giacobbe il quale indossa una tunica di un grigio-verde molto tenue e un mantello lilla. Più lontano, Mosè è raffigurato due volte in un paesaggio montuoso che non è altro che il Monte Sinai. Nella prima scena egli, in mezzo al suo gregge, si toglie i sandali per non profanare il suolo santo, come gli ordina l’Eterno (Es 3,5-6); nella seconda, il profeta è in piedi davanti a un roveto ardente fra i cui rami appare la Madonna col Bambino al centro di un’aureola e, un po’ più in alto, un angelo benedicente. L’immagine rispecchia fedelmente il testo biblico, anche se quest’ultimo parla solo di un angelo nel cespuglio in fiamme (Es 3,1-3). I teologi cristiani hanno visto nel cespuglio che brucia senza consumarsi una prefigurazione della verginità di Maria. In questa parte della chiesa compaiono altre prefigurazioni di Maria, alcune delle quali rappresentate raramente, come la Dedicazione del tempio di Salomone (1 Re 8,1-11) che si leggeva durante la festa della Presentazione della Vergine al tempio. Gli inni che si cantavano nel corso di questo ufficio celebrano Maria come il «tempio di Dio»239. Molte immagini rappresentano la storia dell’Arca dell’Alleanza (1 Re 8,3-6) che conteneva le Tavole dell’Antica Legge, quella degli Ebrei, e che veniva paragonata a Maria che aveva portato nel suo seno Gesù, la Nuova Legge. Un po’ più lontano Aronne e i suoi figli stanno davanti all’altare dell’arca (Lev 9,7 e 10,1-2)240, seguiti dalla Profezia di Isaia sull’Arcangelo che avrebbe cacciato gli Assiri da Gerusa-
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lemme (Is 37,21-36; 2 Re 19,20-35) e fa di san Michele un protettore d’Israele241. Su questo argomento aveva scritto Teodoro Metochite242. Le Prefigurazioni di Kariye Camii corrispondono, come del resto avviene di solito, alle letture del Prophetologion, una raccolta di brani dei libri dei profeti che istituivano dei paralleli con episodi o personaggi del Nuovo Testamento e che si leggevano o cantavano durante le funzioni delle feste mariane. Le iscrizioni che accompagnano le Prefigurazioni di Kariye Camii corrispondono esattamente a questi testi. Sulle pareti nord e sud della cappella si ergono alcuni santi guerrieri fra cui Procopio che estrae la sciabola con un gesto impetuoso. Fra loro è anche una Madonna della tenerezza243 che regge il Bambino con ambo le mani e in modo molto naturale, mentre Gesù si aggrappa al suo maphòrion. Questa volta non è solo lui ad appoggiare la guancia a quella di sua madre come nell’icona di Vladimir; anche Maria infatti si piega verso di lui. Nel muro occidentale si aprono ampie nicchie, con arcosoli scolpiti, che contengono le tombe e i ritratti di diversi personaggi di rango principesco. Il ritratto funerario ha una certa diffusione a Bisanzio a partire dal XIII secolo, forse in seguito a influssi occidentali. I defunti rappresentati nella chiesa di Chora indossano a volte vesti sontuose, che indicano il loro rango, a volte abiti monacali244. Niente di strano del resto; infatti è noto che spesso i grandi di questo mondo – e a volte anche gli imperatori – si ritiravano nei monasteri alla fine dei loro giorni. Tali personaggi sono raffigurati secondo le regole del passato: in posizione frontale e col corpo ridotto a una semplice superficie. Ci troviamo così di fronte a un’innovazione iconografica e, al tempo stesso, a un ritorno al passato dal punto di vista stilistico. Uno solo di questi ritratti, con il defunto davanti alla Vergine in trono col Bambino245, denuncia una leggera influenza occidentale anche se tutta la parte superiore della composizione è scomparsa. Infatti sia Maria, sia il trono e il poggiapiedi sono posti decisamente di tre quarti. I mobili sono disegnati secondo una prospettiva approssimativa, il cui punto di fuga è al centro del primo piano del dipinto. Il pavimento è a lastre e mostra a sua volta una qualche ricerca prospettica. Infine, il manto di Maria ha pieghe spesse modellate in modo da dar loro volume; invece di formare angoli acuti esse disegnano infatti delle curve armoniose che avvolgono le gambe della Theotòkos. La decorazione della parte orientale della cappella si collega idealmente ai ritratti che a loro volta sono, come abbiamo visto, in stretto rapporto con le immagini della cupola. Così, in questa cappella, tutto è collegato e il suo programma è di una coerenza assoluta. In generale il Giudizio Finale viene rappresentato sul muro occidentale o nel nartece delle chiese bizantine. Qui è diverso: siamo in una cappella funeraria e il tema più importante per i defunti o per quan-
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ti meditano sulla loro morte è proprio il Giudizio, con la risurrezione nell’ultimo giorno quando Cristo ritornerà come giudice (Mt 24,30-31). Perciò il Giudizio Finale si dispiega nella volta al di sopra dell’abside ed è la prima cosa che si vede entrando nella cappella. Quanto all’immagine che domina il catino, essa è in rapporto diretto col Giudizio visto che si tratta della Risurrezione e della Discesa agli Inferi. Questa rappresentazione si basa sul testo del vangelo apocrifo di Nicodemo che racconta la discesa al limbo di Cristo dopo la morte e la risurrezione. San Giovanni è inviato laggiù «in avanscoperta», per annunciare ai Giusti e a molti profeti presenti che il Cristo verrà ad annunciare loro la salvezza. Satana chiede ad Ade, signore del regno degli Inferi, di mobilitare il suo esercito di demoni ma, nel fragore di un tuono, il «Re delle gloria» infrange le porte degli Inferi e irrompe, circonfuso da una luce abbagliante che illumina le tenebre del luogo. Poi ordina agli angeli che sono con lui di incatenare Satana e chiede ad Ade di lasciarlo così fino alla sua Seconda Venuta alla fine dei tempi246. L’immagine della nostra chiesa è una delle più belle raffigurazioni di questo tema247: al centro della composizione, Cristo, rappresentato come sorgente di luce, è vestito di bianco e circonfuso da una mandorla bianca bordata di stelle d’oro. L’effetto, sullo sfondo blu notte, è impressionante e si ha veramente la sensazione che egli illumini tutta la scena. Gambe divaricate, il Signore compie un movimento violento e trae a sé, con tutte due le mani, Adamo ed Eva. La forte trazione fa sì che i loro corpi volteggino nell’aria disegnando delle diagonali mentre escono dai loro sarcofagi. È la redenzione, il perdono del peccato originale. Ai due lati del gruppo centrale stanno alcuni profeti e giusti fra i quali si riconosce, a sinistra, il Battista che accompagna i re veterotestametari Davide e Salomone. Sotto i piedi del Salvatore, nell’oscurità infernale, giace Satana incatenato fra le porte dell’Inferno divelte e chiodi e serrature saltati. Il volto di Cristo corrisponde al tipo tradizionale, ma non è affatto schematizzato ed esprime una vera determinazione. Quest’immagine rassicurante è resa ancora più esplicita dai due Miracoli di Gesù che le stanno accanto, sull’arco di fronte all’abside. Si tratta della risurrezione di persone comuni, precisamente la figlia di Giairo (Mt 9,18-19.23-26) e il figlio della vedova (Lc 7,11-12). Alla sommità della volta, il Giudizio Finale248 si apre con un angelo in volo che arrotola il cielo stellato con il sole e la luna a indicare la fine dei tempi, secondo la predizione dell’Apocalisse (Ap 4,14). Sotto al cielo arrotolato sta il Cristo Giudice entro un’aureola rotonda in quattro sfumature di blu chiaro. Il gesto è quello convenzionale per il giudizio: la mano sinistra volta verso il basso a indicare la condanna, mentre la destra, con la palma aperta, accoglie gli eletti. Accanto a lui la Vergine e san Giovanni che formano con lui una Déesis. Ai due lati
149. L’affresco del soffitto del parekklesion di San Salvatore in Chora con la raffigurazione del Giudizio Universale.
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150 e 151. L’affresco dell’abside con la raffigurazione dell’Anastasis, la discesa di Cristo agli Inferi, e, a fronte, particolare centrale, con Cristo che trae a sé i due progenitori, Adamo ed Eva.
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del nodo centrale della composizione, gli apostoli seduti. Tradizionalmente rappresentati in posizione frontale e immobili, qui compiono diversi movimenti, in qualche caso si girano di tre quarti, parlano fra loro. La stessa cosa si può dire per gli angeli che stanno dietro di loro, come guardie d’onore. Il secondo registro di questa complessa composizione ha, al centro, l’Hetimasia, il trono preparato per il Cristo alla sua Seconda Venuta, fra due cherubini. Su di esso sono gli strumenti della Passione mentre, ai lati, Adamo ed Eva sono prosternati in preghiera. Nelle zona immediatamente sottostante vediamo la Pesatura delle anime, il corteo dei dannati, nudi e incatenati, condotti da un demonio verso il fiume di fuoco dell’Inferno che forma una sorta di mare dal quale emergono delle teste umane. Degli eletti, sulla sinistra, rimangono solo frammenti. La scena paradisiaca dipinta nel pennacchio di nord-est ci mostra il povero Lazzaro nel seno di Abramo (Lc 16,1924) e alcuni bambini che rappresentano le anime dei Giusti, mentre il racconto continua nel pennacchio di sud-est col ricco Epulone che brucia tra le fiamme dell’Inferno (Lc 16,24-25). In quello di sud-ovest rimangono solo poche tracce delle personificazioni della Terra e del Mare che restituiscono i morti (Ap 20,13). La scena del pennacchio di nord-ovest è invece originale: un angelo posa le mani su una figurina nuda in un gesto di protezione. Abbiamo motivo di pensare che si tratti dell’arcangelo Michele che intercede per l’anima di Teodoro Metochite249. Se così fosse, l’idea sarebbe audace nel contesto bizantino, ma anche verosimile dato lo spirito originale e a volte temerario del personaggio e considerato anche il periodo caratterizzato, fra l’altro, dal moltiplicarsi e diversificarsi dei ritratti, oltre che dal diffondersi delle immagini funerarie, il che, d’altro canto, indica una maggiore attenzione nei confronti dell’individuo. Quanto abbiamo detto fin qui sullo stile del XIV secolo si riscontra a Kariye Camii: i personaggi di questi mosaici dai colori cangianti sono slanciati, leggeri, persino fragili. Essi si muovono con passo danzante e in punta di piedi, quasi temessero di toccare terra. I loro corpi a volte sono ben modellati, a volte nascosti dal panneggio le cui pieghe formano spesso angoli acuti. Fra le novità della Rinascenza ritroviamo la vivacità delle figure che, in alcuni casi, sono dipinte in movimenti impetuosi e atteggiamenti derivati direttamente dai modelli antichi, come la testa piegata di lato o volta all’indietro. Ma tutti questi gesti, ripetuti identici infinite volte, sono diventati dei cliché e fanno pensare a un calco riprodotto sulla parete250. A volte gruppi di figure sono copiati anche da manoscritti greci antichi ispirati già all’arte del Basso Impero, come il servo che sgozza un quadrupede nelle Nozze di Cana251. L’intera decorazione è caratterizzata da un ritorno alla forma classica, almeno per
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quanto riguarda i volti, e dal desiderio di ridurre l’importanza del mondo materiale, o piuttosto di trascenderlo idealizzandolo. L’influenza di Kariye Camii è stata notevole, anche se è difficile da valutare a causa delle massicce distruzioni avvenute a Costantinopoli dopo la caduta dell’Impero; ma è chiara fuori dalla capitale e in una zona piuttosto vasta. Prima di tutto a Salonicco, nella chiesa dei Santi Apostoli (13131315), decorata probabilmente da artisti costantinopolitani252 e, in misura minore, in quella dipinta da Kaliergis a Veria253. Tuttavia, lo stile di Kaliergis è meno accurato di quello dei pittori di Kariye Camii e il suo modo di modellare i volti e i corpi più sfumato e libero. Troviamo degli affreschi simili a questi anche a Mistrà, nel Peloponneso, ma ne sono un ricordo anche i rivestimenti di marmo e gli affreschi, già ricordati, della Vergine Odigitria o Afendiko (dopo il 1313 e fino al 1407)254. Anche diverse icone e miniature realizzate nell’Impero hanno risentito dell’influsso di Chora. Per esempio, nell’Arcangelo che compare nell’icona del miracolo di Chonae, nel monastero di San Giovanni Teologo a Patmos (XIV secolo)255, ritroviamo quello che, a Kariye Camii, cacciava gli Assiri. La stessa influenza si trova fuori dall’Impero: in Valacchia (Romania) nella chiesa di Curtea de Arzeş (1377-1383), dove alcuni temi sono rappresentati secondo schemi derivati dalla chiesa costantinopolitana256. Anche una decorazione bulgara è legata a Costantinopoli, anzi, direttamente a Kariye Camii. Si tratta degli affreschi della chiesa rupestre di Crkvata, vicino al villaggio di Ivanovo, che faceva parte di un monastero esicasta e fu realizzata grazie alla munificenza del re Giovanni Alessandro (1331-1371)257. Qui, come nei mosaici dei due narteci di Kariye Camii, troviamo alcune scene che ricordano le miniature ma i cui personaggi, accuratamente modellati, rivelano una certa volumetria e sono fissati in gesti a volte molto rapidi come, per esempio, nel caso del Tradimento di Giuda di Ivanovo. Del resto, questi dipinti danno prova di grande audacia introducendo degli atlanti nudi nelle scene della Passione. È vero che tali statue erano già comparse in alcuni manoscritti costantinopolitani del XII secolo, ma servivano solo a inquadrare dei ritratti di santi258. Nella Serbia nord-occidentale, dove nasce la vivace scuola della Morava, gli affreschi della chiesa di Kaleni0 (1418) rivelano significative affinità con quelli di Chora. La scena del Censimento è rappresentata secondo lo stesso schema in entrambi i casi259 e lo stile morbido, come pure i volti di porcellana, ricordano quei dipinti. Si può affermare che, generalmente, l’influsso di Costantinopoli è notevole nelle zone d’influenza bizantina nel XIV secolo, quando l’Impero è sempre più povero e minacciato dall’avanzata dei Turchi in Asia Minore, mentre i pittori della capitale continuano a essere molto richiesti all’estero.
152. Particolare del banchetto di Erode, dall’affresco nella cappella del Precursore della chiesa dei Santi Apostoli a Tessalonica.
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Il più famoso di loro è senza dubbio Teofane il Greco che, con l’aiuto di un artista che non sappiamo se locale o costantinopolitano, realizzò gli affreschi della cattedrale della Trasfigurazione a Novgorod (1380 ca.). È evidente che Teofane deve molto a Costantinopoli e alla tradizione bizantina, ma è prima di tutto un artista originale, un creatore posseduto dai suoi fantasmi e dalle sue visioni. D’altra parte, nulla contrasta con le esili figure di Kariye Camii più dei santi vigorosi e monumentali di Teofane. I profeti e i santi che egli fa vivere sotto i nostri occhi sono dei mistici ispirati, degli asceti alla ricerca dell’eternità, e le sante donne sono brutte, come probabilmente erano nella realtà. Santa Barbara, di solito bella e in abiti sontuosi perché figlia di re, è qui una poveretta dal viso sgraziato, con la corona posata di traverso sul capo260. La tecnica di Teofane nel dipingere i volti consiste nel procedere partendo da un tono-base scuro, sul quale aggiunge tocchi violenti, contrastanti, quasi bianchi, come se, immersi nelle tenebre, essi fossero illuminati dai bagliori di una fiaccola. I capelli e le barbe sono dipinti anch’essi a rapide pennellate di tipo impressionista, mentre i corpi sono realizzati in due diversi modi, secondo le due opposte tendenze in voga nel XIV secolo. In alcuni casi, infatti, rivelano una certa consistenza volumetrica, in altri rimangono nascosti sotto abiti rigidi, come nel caso degli angeli della cupola261. La consueta serenità dei santi bizantini è qui sostituita da passioni violente che lasciano supporre un travaglio per la fede. Neppure i tratti dei volti corrispondono alla tipologia bizantina, perché sono volutamente deformati. Così sant’Antimo è un allucinato che ci fissa con occhi senza pupille262 ma – e qui sta l’abilità del pittore – niente affatto ciechi. Macario non ha assolutamente occhi, ma solo delle sopracciglia espressive che suggeriscono uno sguardo263. Il giovane Quirico, figlio di santa Giulitta, ha il viso paffuto ed il naso rotondo di un bambino, ma i tratti sono duramente sottolineati264. Come abbiamo già ricordato, il contorno forte ed espressivo del XII secolo, che viene ripreso nel XIV, aveva la funzione di moderare il nuovo linguaggio della Rinascenza. Alcuni giovani santi hanno lineamenti armoniosi, colli possenti, come san Teodoro Stratilate265, ma non per questo sono meno convenzionali a motivo del modo di suggerire la luce, non più con macchie veloci, ma con piccoli tratti paralleli bianchi, mentre il volto e il nimbo sono dipinti in un miscuglio di rosso e terra di Siena. Teofane è un pittore anticlassico, tuttavia è l’unico che, pur prendendo le distanze dalla Rinascenza, continua a modo suo lo stile monumentale, potente e classico di Sopo0ani. Notiamo tuttavia che le sue icone sono realizzate secondo un linguaggio plastico molto diverso, convenzionale e rispettoso della tradizione del passato266, sicuramente perché il pittore si sentiva meno libero di fronte a immagini destinate al culto.
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Più o meno nello stesso periodo un altro pittore costantinopolitano, Manuele Eugenikòs, è chiamato in Georgia per dipingere la chiesa di Calendzikha (1384-1396), commissionata dal nobile Vamek Dadiani. Anche se alcuni pittori locali lo affiancano in quest’opera, lo stile dell’insieme della decorazione è diverso da quanto si vedeva prima in Georgia, dunque ispirato da Eugenikòs. Il programma iconografico non risponde del tutto ai canoni di Costantinopoli, ma vi si accosta e alcuni temi, come l’Amnos, vi compaiono per la prima volta in Georgia267. Alcune chiese della capitale, datate al XIV secolo, conservano frammenti di affreschi come vediamo in Santa Maria dei Mongoli al Fener, Odalar Camii, Sant’Irene e nella Theotòkos Chalkoprateia268. Teofane il Greco aveva lavorato anche alla decorazione di molte chiese costantinopolitane scomparse, come a Galata, a Calcedonia e a Caffa in Crimea.
I bagliori del crepuscolo
153. Sant’Antimo, particolare dell’affresco del diakonikon della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Novgorod.
Tutte le caratteristiche della Rinascenza dei Paleologhi ricompaiono nelle immagini mobili e nelle miniature del tempo. Così l’icona dei Dodici Apostoli (inizio XIV secolo) del Museo Puykin di Mosca269 è strettamente legata al dipinto della cappella meridionale di Kariye Camii. Gli apostoli sono su due file giustapposte e, anche se una composizione di questo tipo dovrebbe indurre alla frontalità e all’immobilità, quelli della prima fila sono rappresentati in movimento e quelli della seconda, visibili solo fino alla vita, volgono il capo in varie direzioni. I corpi massicci sono modellati ricorrendo a luci violente sulle parti in rilievo e fra i volti, grassocci, riconosciamo al centro Pietro e Paolo. I discepoli, vestiti di panni piuttosto scuri, tranne Pietro, sono come illuminati dal fondo d’oro scintillante e questa luce sembra riflettersi sui visi di una tonalità ocra chiaro. Una mirabile icona della Crocifissione (1300 ca.) è quella attualmente nel monastero di San Giovanni Teologo a Patmos270. Si tratta di una scena animata con molti personaggi e dagli accenti drammatici. La croce con Gesù non è più al centro del campo figurativo, ma leggermente spostata verso sinistra. Anche Giovanni ha raggiunto Maria sulla sinistra della croce e i due si parlano. L’apostolo si porta una mano alla guancia, con un gesto convenzionale che esprime tristezza e si piega verso la Vergine che lo chiama (gesto della mano) e alza la testa verso di lui. I colori delle loro vesti sono armonizzati con cura nei toni dal blu al malva, ed anche il maphòrion purpureo (colore tradizionale) di Maria tende al lilla per indicare che i personaggi sono animati dallo stesso spirito e dallo stesso dolore. Il volto di Cristo è rovinato ma, ciononostante, conserva segni di dolore negli occhi chiusi mentre, in seguito al supplizio, il corpo si inar-
ca all’altezza delle anche. Il sangue scorre dai suoi piedi sulla roccia del Golgota e sul cranio di Abramo che, così, sarà lavato dal peccato. Più in basso si svolge la scena della Spartizione delle vesti (Mt 27,35) che ha come protagonisti tre personaggi seduti. Infine, sulla destra della croce, non è rappresentato solo il centurione, benché la sua presenza sia sottolineata dalla tunica arancione che attira lo sguardo, ma anche una folla anonima abilmente disposta. Sembra che il fondo (scomparso) fosse dorato o color ocra, ma vi sono anche alcuni elementi architettonici che rappresentano le mura di Gerusalemme. Conseguenza della disposizione dei personaggi che, con il Crocifisso, formano un triangolo, è uno sfondamento dello spazio, una novità introdotta dalla Rinascenza dei Paleologhi. Siamo ben lontani dalle figure allineate su un unico piano, dalla frontalità e dalla mancanza di volume delle opere del passato. I gesti dei protagonisti e l’illuminazione molto viva e a forti contrasti danno alla scena un aspetto drammatico che è raro trovare in un’icona, persino nel XIV secolo. Quanto alle icone a mosaico, anche se sparse per il mondo, sono sempre prodotte da atelier costantinopolitani. Esaminiamo ora un’opera di questo tipo datata al XIV secolo, custodita nella chiesa romana di Santa Croce di Gerusalemme, che ci propone un’immagine sorprendente della Pietà271. Prima però vediamo cosa rappresenta questo tema, giunto in Italia nel XIV secolo, a Bisanzio, dove è noto fin dal XII. Si tratta di un’immagine di Cristo ispirata alla liturgia. Il tropario del Sabato santo e la preghiera che il sacerdote recita sui doni proclamano che, avendo vinto la morte sulla croce, Cristo è diventato «principio di Vita eterna»272. Le parole «con la sua morte ha vinto la morte» ritornano in diversi uffici ma, a parte il Sabato mattina, si recitano soprattutto nell’ufficio della sera del Venerdì santo che comprende una processione funebre durante la quale Cristo viene portato simbolicamente al sepolcro. Per esprimere i due termini contraddittori «morte» e «principio di Vita» bisognava evitare di collocare l’immagine in un quadro storico, per quanto evangelico, trasferendola su un piano simbolico. Sempre partendo dagli schemi della Crocifissione e della Deposizione dalla croce, la trasposizione viene fatta isolando il Signore e raffigurandolo il più delle volte a mezzo busto, un tipo di immagine che si addiceva a questo soggetto che è per definizione irrealistico e, di conseguenza, fuori dall’ambito della storia. D’altra parte, la stessa formula iconografica è stata usata spesso per indicare il Cristo celeste, per esempio il Pantocratore. Gesù è rappresentato solo o con la Vergine dolente che gli fa da pendant. Si tratta dunque di un’iconografia che non cerca il realismo, e neppure il dramma, poiché assieme alla morte evoca la risurrezione. Proprio per questo la nostra icona è eccezionale. Il corpo di Gesù è rappresentato in modo sche-
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matico, le braccia sembrano di legno e le mani che si sovrappongono sull’addome rispondono allo schema consueto, ma il suo volto è quello di un morto tormentato e non rimanda affatto alla Vita eterna. La testa ricade sulla spalla sinistra, gli occhi sono chiusi e i capelli in disordine sparsi sulle spalle. Queste particolarità contribuiscono a creare l’effetto complessivo, ma non hanno nulla di veramente straordinario. Il tratto inatteso, e certamente unico nell’arte bizantina, è la piega amara che parte dalla commessura delle labbra e scende verso il mento dando a tutto il viso un’espressione di dispetto, di delusione che fa pensare alle parole così inquietanti di Cristo sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,47), un versetto che ha sempre seminato dubbi nei cristiani, e che dunque non è bene rappresentare, soprattutto in un’immagine che evoca anche la risurrezione. Il dittico a mosaico del Tesoro della Cattedrale di Firenze è un lavoro di grande finezza e precisione che comprende le immagini delle Dodici feste solenni del calendario liturgico, sei su ciascuna delle due valve, cominciando dall’Annunciazione (angolo superiore sinistro) per finire con la Pentecoste e la Dormizione della Vergine (angolo inferiore destro)273. È un vero lavoro da orafo, con tessere minute, tuttavia ogni episodio rappresentato comprende molti personaggi e potrebbe essere trasferito su scala monumentale. Il movimento è ovunque, anche nelle scene che potrebbero essere statiche a motivo del loro contenuto, come la Pentecoste. Infatti, se è vero che gli apostoli sono seduti su
una panca, le loro teste però sono disposte e inclinate diversamente, i gesti variano, come anche la posizione dei piedi. I volti, diversi in ogni scena, non si assomigliano affatto, come è evidente in particolare nella Dormizione della Vergine. Notiamo ancora che queste figurine sono modellate in modo da sottolinearne la volumetria. Infine, malgrado il fondo d’oro tradizionale e il piccolo formato delle scene, non mancano gli elementi architettonici e i paesaggi rocciosi. Qui il trattamento delle forme è molto vicino a quello di Kariye Camii, anzi, a quello della fine del XIII secolo, tanto che è possibile che l’icona sia stata realizzata nei primissimi anni del XIV. A partire dalla metà del XIV secolo, in concomitanza con la vittoria degli esicasti, si afferma la tendenza conservatrice della quale abbiamo già parlato. È quanto vediamo in un’icona con l’Annunciazione del Victoria and Albert Museum di Londra274, datata alla seconda metà del XIV secolo e realizzata a mosaico, nella quale si nota il ritorno all’insistenza sul contorno a scapito del modellato, e un sovraffollamento dello spazio dovuto al fatto che l’architettura avanza verso il primo piano senza suggerire una benché minima profondità. D’altra parte, i personaggi sono posti, anch’essi, all’estremo bordo inferiore della scena. Tuttavia l’emozione della Vergine è resa meglio qui che in altri casi, e il suo viso giovane, quasi infantile, mostra un certo realismo. Al contrario, l’arcangelo è sgraziato e le pieghe del suo manto, rigide. Il ritorno a un linguaggio formale ispirato a quello del XII
154. Icona della Crocifissione, cattedrale dell’Annunciazione, Patmos.
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secolo è evidente nell’icona con l’Arcangelo Michele del Museo Civico di Pisa275 nella quale il messaggero celeste è rappresentato immobile, in posizione frontale, con la tunica e il mantello segnati da pieghe dure, verticali e parallele. Nella sinistra ha un ritratto rotondo del Cristo Emanuele che è, probabilmente, il suo riflesso nel globo del mondo, un attributo tradizionale degli angeli. Più in basso, vediamo la Pesatura delle anime rappresentata da una bilancia con due piccoli personaggi nudi e un demonio alato che, mentre cerca di farla ribaltare dalla sua parte, è trafitto dalla lancia dell’arcangelo. Durante il XIV e anche il XV secolo il mondo delle lettere e della filosofia non si limitò a rimanere fedele allo spirito della Rinascenza, ma fece alcuni progressi. Certo, era solo un piccolo numero di persone che continuava a leggere gli Antichi, che tradusse parte dell’opera di Tommaso d’Aquino e altri autori latini276, oltre a trattati di matematica e astronomia arabi che avevano arricchito l’eredità classica277. Infine, nel XV secolo, uno spirito originale, Giorgio Gemisto Pletone, arrivò a rifiutare l’ortodossia optando per un ellenismo utopico278. Tuttavia questi vari scritti non furono di alcuna utilità a Bisanzio; furono invece trasmessi dai Greci all’Italia, dove il clima culturale era loro favorevole279. Nacquero così, a Firenze (1420 ca.), una nuova struttura dello spazio e la prospettiva con un unico punto di fuga basata sulla geometria e messa a punto da Masaccio. Naturalmente le Chiesa non seguì queste scoperte e si oppose decisamente agli umanisti. Ora, a Bisanzio la Chie-
sa, centro dell’ecumene ortodossa, aveva conquistato tanto maggiore peso quanto più l’Impero si era andato indebolendo. A questo punto, intorno al 1300, a Costantinopoli, Salonicco e al Monte Athos si diffuse un movimento di idee di tipo mistico, l’esicasmo, che in breve conquistò tutta la sfera d’influenza bizantina, con conseguenze anche sulla pittura. Si trattava in realtà di un’antica dottrina, nata nel VI secolo al Monte Sinai, che nel XIV si sviluppò grazie all’azione e ai numerosi scritti del suo capo, Gregorio Palamas che insegnava un metodo psicosomatico basato sul controllo della respirazione e sulla preghiera. Tale metodo doveva condurre l’iniziato ad uno stato di grazia tale da permettergli un contatto diretto con la divinità attraverso una visione della luce «increata» che aveva la stessa essenza divina di quella che gli apostoli avevano visto sul monte Tabor, durante la Trasfigurazione280. L’esicasmo acquistò un’importanza ancora maggiore quando esplose la disputa fra Palamas e un monaco calabrese, Barlaam, che a Costaninopoli insegnava filosofia secondo il metodo scolastico che aveva imparato in Italia. Egli attaccò la dottrina palamita negando l’essenza divina della luce del Tabor. Affermò inoltre che l’uomo non può stabilire un contatto diretto con Dio dal momento che non gli è dato di conoscerlo. Ancora più scandalosa fu la sua proclamazione dell’autonomia della ragione alla quale sarebbe stato possibile capire tutto quanto non fosse Dio. Infine, considerò la Scrittura come «fonte di citazioni e di riferimenti», negandone così, implicitamente, la rivelazione. Pa-
155. Pietà, icona a mosaico di Santa Croce in Gerusalemme, Roma.
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lamas rispose a tutto ciò che bisognava distinguere la sostanza divina trascendente dalle energie divine che operano nel mondo e si manifestano agli uomini281. Fra i due scoppiò una violenta polemica che durò anni e venne affrontata in diversi concili, l’ultimo dei quali condannò le tesi di Barlaam approvando quelle di Palamas tanto da inserirle nel credo della Chiesa (1351). Questa vittoria è significativa perché conferma una tendenza costante della teologia bizantina e il suo tentativo di gettare un ponte fra l’aldilà e la realtà terrena. Nel campo dell’arte, significa il trionfo del conservatorismo bizantino. Possiamo dire che Palamas non ha mai parlato di pittura, ma condannò severamente la Rinascenza nel suo insieme, cioè la letteratura, la filosofia e l’arte di tendenza umanistica alla quale rimproverava una contaminazione col paganesimo dell’Antichità. Predisse anche un ritorno alle forme tradizionali «precedenti il nuovo Umanesimo», vale a dire a quelle del XII secolo. Nacque così nella pittura una corrente conservatrice che si nota soprattutto a partire dalla seconda metà del XIV secolo. Ma l’esicasmo ha influenzato anche l’iconografia. A proposito della decorazione di Kariye Camii abbiamo parlato d’immagini che suggeriscono parallelismi fra Antico e Nuovo Testamento, e delle Prefigurazioni della Vergine. Palamas si disse contrario a questi accostamenti affermando che l’Antica Legge era solo l’ombra della verità portata da Cristo. Perciò, a partire dal XIV secolo, queste rappresentazioni si fecero sempre più rare. In compenso, Palamas manifestò una vera adorazione per
la Vergine alla quale dedicò molte omelie insistendo, fra l’altro, sulla sua risurrezione corporea. Così oggi vediamo un’immagine della Dormizione che comprende anche l’Assunzione della Theotòkos. Altri influssi di questo movimento si fecero sentire nell’iconografia282 ma, dal momento che non riguardano le opere che qui c’interessano, non le prenderemo in esame. Palamas aveva insistito molto sull’«energia divina» che si sarebbe manifestata sotto forma di una luce particolare, quella che gli apostoli avevano visto durante la Trasfigurazione sul monte Tabor. Può darsi che si tratti di una semplice coincidenza, ma è certo che, da ora in poi, nella scena della Trasfigurazione la luce che circonda il Cristo occupa molto spazio e, spesso, ha una forma complessa. Tale particolarità iconografica è evidente nella miniatura a piena pagina del famoso manoscritto di Giovanni Cantacuzeno della Biblioteca Nazionale di Parigi (gr. 1242), certamente miniato a Costantinopoli nella seconda metà del XIV secolo283. L’immagine, notevole per la sua perfezione artistica e per la gamma cromatica formata quasi solo da tante sfumature blu su fondo oro, invita alla meditazione. La gloria attorno al Cristo è rappresentata da forme geometriche incastrate le une nelle altre che emettono raggi di luce. Questi si dirigono verso gli apostoli riversi, tranne Pietro, che punta l’indice verso Gesù. Il ritratto, che a Bisanzio non è naturalistico, da questo punto di vista non cambia affatto al tempo dei Paleologhi, tuttavia si evolve. È più frequente di prima, occupa posi-
156. Arcangelo Michele, icona del Museo Civico di Pisa. 157. Trasfigurazione, miniatura del manoscritto di Giovanni Cantacuzeno, Bibliothèque Nationale, Parigi, Ms. gr. 1242.
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zioni di rilevo nelle chiese, mentre si è notevolmente ampliato il ventaglio sociale dei personaggi rappresentati. L’imperatore e i prelati non ne sono più gli unici soggetti, per la semplice ragione che i committenti sono anche persone di condizione relativamente modesta come semplici preti, mercanti, piccoli notabili di provincia, autori di opere letterarie. L’allargarsi del ventaglio sociale non muta gli schemi iconografici creati per i grandi di questo mondo, primo fra tutti l’imperatore. Mentre lo stile della Rinascenza si era rinnovato in modo tanto ardito fra il XIII e l’inizio del XIV secolo, rifiutando il grafismo e le forme piatte del passato per sostituirle col volume, col modellato ottenuto attraverso sapienti sfumature, per tutto lo stesso periodo il linguaggio plastico dei ritratti resta invariato. In alcune chiese si resta colpiti dal contrasto fra lo stile della decorazione nel suo insieme e quello dei ritratti il cui immobilismo deriva dalle loro origini imperiali, quindi dalla necessità di rappresentare non tanto degli individui quanto le loro immagini ideali, le loro funzioni e il loro rapporto col divino. Tutto ciò è molto evidente nella pittura murale, ma è presente anche nelle miniature. Il manoscritto d’Ippocrate della Biblioteca Nazionale di Parigi (gr. 2144) fu illustrato verso il 1342 solo con due ritratti, il primo dei quali rappresenta l’autore e il secondo il committente. Ippocrate, il volto stereotipato, è seduto su una specie di trono al di sopra del quale è un tessuto sistemato a mo’ di baldacchino; è in posizione frontale e regge una penna e il suo libro aperto284. Il ritratto del committente ce lo mostra seduto e visto di tre quarti, con in capo un berretto a forma di corona. Si tratta del grande ammiraglio Apocaukos che assume qui una posa ricercata indicando il manoscritto che ha fatto copiare285. Le due tende tirate che lo inquadrano e l’atteggiamento affettato ricordano certe opere occidentali dello stesso periodo, tuttavia è completamente scomparso il modellato a pennellate sfumate che seguono le forme anatomiche. Il ritratto rivela anche una buona dose di presunzione e di ottimismo, e non è più solo l’affermazione del rango che Apocaukos aveva nella società bizantina. Le due tendenze principali del XIV secolo sono presenti anche nei ritratti del Typikon del Lincoln College (gr. 35; 1399-1400), un manoscritto che raccoglie le regole monastiche del convento di Nostra Signora della Buona Speranza a Costantinopoli, precedute da una prefazione della fondatrice Eufrosine Comnena, pronipote dell’imperatore Michele VIII Paleologo. Le miniature sono solo ritratti, tranne un’immagine della Madonna col Bambino286, e questo interesse per il ritratto le collega al gusto della Rinascenza, ma lo stile è quello del passato. Si tratta di nove doppi ritratti della fondatrice rappresentata assieme ad altrettanti membri della sua famiglia. Sono ogni volta due personaggi affiancati che s’ignorano a vicenda e guardano
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dritto davanti a sé. I loro corpi sono nascosti da pesanti abiti coperti di decorazioni. Nell’ultima pagina vediamo l’intera comunità monastica287, un’idea che deriva dalle nuove abitudini di rappresentare anche persone di condizione relativamente modesta. Ma queste monache hanno quasi tutte lo stesso viso sgraziato coi tratti emaciati e il contorno puramente lineare. Solo quattro di loro, in primo piano, sono leggermente caratterizzate. Quanto ai corpi, sono sostituiti da una gran macchia nera dalla quale emergono soltanto alcune mani. La figura centrale, probabilmente quella della fondatrice, si distingue dalle consorelle per il contorno chiaro. Dopo molti, infruttuosi tentativi diplomatici per salvare l’Impero con l’aiuto dell’Occidente, gli imperatori assistettero alla sua lunga agonia. Giovanni Cantacuzeno aveva ideato un progetto di unione delle Chiese orientale e romana, ma le trattative con Anna di Savoia e col papa Clemente VI (1342-1352) s’interruppero. Un’altra mossa sembrò più promettente perché Giovanni V accettò tutte le richieste di Innocenzo VI pur di ottenerne l’aiuto. Ma non riuscì a fare accettare queste condizioni al clero bizantino, decisamente antiunionista. In particolare gli esicasti vi si opposero con tutti i mezzi a loro disposizione. A sua volta, il patriarca Filoteo concepì il progetto di una crociata ortodossa ma, invece di unirsi, le potenze coinvolte si fecero battere separatamente dai Turchi che invasero i Balcani. Alla fine, l’avanzata dei Turchi e il blocco di Costantinopoli (dal 1392) riuscirono a scuotere l’Occidente e le truppe di Venezia e di Genova, il re Sigismondo d’Ungheria e mille cavalieri francesi sotto il comando del conte di Nevers e del maresciallo Boucicaut presero la via dell’Oriente. Tuttavia, passato il Danubio, i cristiani furono sconfitti dalle truppe di Beyazıd. Bisanzio resistette e giunse a proporre ai Turchi delle alleanze che non potevano essere accettate. Ben presto Costantinopoli fu in stato d’assedio, accerchiata dai guerrieri di Murad II ai quali fu riconosciuto il diritto di saccheggiare la città quando l’avessero presa. Nel 1423, l’imperatore Giovanni VIII Paleologo si recò un’ultima volta in Occidente in cerca di alleanze, come aveva già fatto il suo predecessore Giovanni V, e firmò un trattato di Unione delle Chiese che, al suo ritorno, malgrado fosse l’ultima ancora di salvezza per Bisanzio, fu rifiutato con indignazione dalle autorità ortodosse e dal popolo. Maometto II fissò l’assalto alla città per il 29 maggio 1453. La vigilia di quel giorno Costantino XI, assieme agli alti di-
158. Ritratto del committente, miniatura dal manoscritto d’Ippocrate, Bibliothèque Nationale, Parigi, Ms. gr. 2144.
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gnitari e al clero, partecipò in Santa Sofia a una funzione solenne, alla fine della quale le più venerate icone miracolose furono portate in processione sui bastioni. Non lontano da lì, nei pressi della porta di Adrianopoli, i Turchi riuscirono a sfondare il muro di cinta; a questo punto, malgrado l’eroica resistenza dei Greci, non c’era più speranza. Allora, l’imperatore si gettò nella mischia seguito da alcuni suoi fidi colpendo con la sciabola tutto quello che poteva colpire, fino a perdere la vita. I massacri che ne seguirono
non risparmiarono nessuno; le famiglie che avevano cercato rifugio in Santa Sofia furono trucidate e la chiesa messa a sacco. L’Impero era finito e non conservò neppure il ricordo della sua grandezza a testimonianza davanti alla storia, come era stato per Roma, perché le distruzioni e i saccheggi cancellarono le tracce materiali del passato. Sopravvissero solo l’ortodossia e, con lei, la pittura, che continuarono a svilupparsi presso gli Slavi, i Greci, i Moldavi, i Valacchi e tutti i popoli dell’antico Oriente cristiano.
ARCHITETTURA E SCULTURA FINO AL 1453 Mauro della Valle
L’architettura della Seconda Iconoclastia Squillano le trombe degli araldi sulla Chalkè, la porta di bronzo del Grande Palazzo, risuonano profonde le canne degli organi d’oro delle fazioni dell’Ippodromo, Costantinopoli saluta un nuovo imperatore: Teofilo succede al padre Michele II di Amorion1. È l’829 e l’Impero bizantino vive un’altra fase critica della sua storia, quella della Seconda Iconoclastia, lanciata nell’815 da Leone V. Meno feroce della Prima (730-787) verso gli oppositori e meno distruttiva nei confronti dei monumenti e delle loro decorazioni figurative, che vengono il più delle volte solo ricoperte d’intonaco e ridecorate con soggetti profani, pure questa nuova fase iconoclasta è severamente stigmatizzata dagli storici più tardi, interpreti dell’Iconodulia trionfante. L’iconoclasta Teofilo si è macchiato di questa colpa gravissima, e il suo biografo, il cosiddetto Teofane Continuato, metà del X secolo, lo definisce «tiranno» e «nemico di Dio»; al tempo stesso però mette in luce come l’imperatore si dedichi con passione al restauro e alla ricostruzione degli edifici della città, ponendo un’attenzione particolare alle mura e alle residenze, segnatamente il Grande Palazzo e il Palazzo di Bryas, sulla sponda asiatica del Mar di Marmara. Ma non si manca di ricordare anche le fondazioni pie, le chiese e le cappelle interne ai palazzi stessi2. Questo atteggiamento ambivalente pare essere dovuto a un progetto pianificato di riabilitazione del personaggio3, che certamente aveva stupito i contemporanei per le molte doti e soprattutto per l’inesausto desiderio di moderazione e
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giustizia. Certo questo non avviene immediatamente ma non sembra esserci dubbio che tale riabilitazione sia comunque iniziata subito dopo la sua morte, ad opera della vedova Teodora, che restituì definitivamente il culto delle icone e fu poi Santa venerata dell’Ortodossia. Indubbiamente gli dovette giovare anche la fama di grande costruttore, che in qualche maniera lo accomunava all’opera dei principali imperatori del passato. Se nelle fonti viene dato così tanto risalto alle attività edilizie di Teofilo, e poi a quelle di Basilio I il Macedone (867886), c’è da sospettare che in città, dopo la grande crisi del VII-VIII secolo, con i ripetuti assedi di Persiani, Slavi, Arabi, ci fosse molto da ricostruire. Non che gli imperatori iconoclasti, in particolare Costantino V (741-775), – la cui importanza storica come «salvatore» della città dal destino di spopolamento, abbandono e ruralizzazione che toccò alla gran parte dei centri urbani del mondo antico in quei secoli viene oggi più ampiamente riconosciuta4 – non si siano prodigati anche in quella direzione. La chiesa della Sant’Irene, la seconda più grande ancora esistente a Costantinopoli, costruita, o restaurata, da Costantino, e poi da Giustiniano, si presenta sostanzialmente nelle forme dategli nella ricostruzione voluta proprio da Costantino V intorno al 753: a tre navate (figg. 159-160), separate da pilastri e colonne di riuso sottodimensionate, in parte coperta da una grande vela e in parte da una cupola, con gallerie monumentali, e un atrio sostanzialmente intatto5. È evidente, dunque, che nell’ambito della politica di riaffermazione dell’autorità imperiale perseguita dai sovrani
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dell’VIII secolo la costruzione o ricostruzione di chiese dovette avere un certo posto anche se è piuttosto l’edilizia civile e di pubblica utilità che interessò prevalentemente questi imperatori. Si sa che ancora Costantino V, dopo il 766, riparò l’acquedotto di Valente e pose mano alle mura di Terra, come testimoniato dalle iscrizioni6. Ma questi restauri alle mura dovettero certamente essere completati da Teofilo, visto che altre iscrizioni sulle mura di Terra, e almeno sedici sulle mura di mare7 ci testimoniano di una ricostruzione quasi totale, soprattutto per quel che riguarda queste ultime, ancora leggibili per vasti tratti nel settore che fronteggia il Mar di Marmara (fig. 162). Il sopraccitato Teofane rivela dunque una conoscenza diretta della realtà monumentale cittadina; si potrebbe quindi pensare a una testimonianza degna di fede anche per quanto riguarda le chiese e i palazzi attribuiti alla committenza di Teofilo che, contrariamente alle opere difensive, non sono sopravvissuti neanche in minima parte. Se si deve giudicare dalle fonti, ma è difficile distinguere realtà e fantasia, furono i palazzi a impressionare grandemente i contemporanei e i posteri. Dalla descrizione che ne fa Teofane sembrerebbe quasi che Teofilo abbia restaurato e abbellito l’intero Grande Palazzo, ivi comprese le sale di rappresentanza dei suoi predecessori, alle quali aggiunse il Triconco, grande ambiente triabsidato con la volta sorretta da quattro colonne di porfido e la cupola dorata. Vi costruì anche una serie di appartamenti dai nomi evocatori, tra cui l’Eros, in realtà un’armeria, dipinta con panoplie guerresche, e la Perla, nel quale abitava; tutti avevano delle viste spettacolari sul mare, erano immersi in un giardino lussureggiante e collegati da scalinate e portici8. Uno splendido giardino doveva poi circondare le sale e gli appartamenti del Palazzo di Bryas: dalle fonti sappiamo
che imitava nelle strutture e nelle decorazioni i palazzi dei califfi arabi9. Alla fine degli anni Cinquanta fu proposto di riconoscere nelle rovine in località Küçükyalı proprio il dibattuto Bryas, e l’idea di poter finalmente confrontare fonti e resti monumentali, soprattutto per un periodo così poco noto come quello della Seconda Iconoclastia, ebbe grande successo; tale identificazione divenne tradizionale, a onta di altre, comunque possibili e avanzate in precedenza, ad esempio quella con il Monastero di Satiro del patriarca Ignazio (m. 877). Si tratta di un’imponente fondazione rettangolare, scandita da arcate cieche su due livelli che innalzano il piano di calpestio; i resti principali consistono in un ampio spazio rettangolare, di dimensioni assai inferiori a quello del basamento, scandito da ventiquattro pilastri o colonne, che dà accesso a est a una sala cupolata, ben conservata, inscritta in un quadrato e ai relativi quattro ambienti di risulta. In questi resti, paragonati ai complessi ommayadi e abbassidi, si era voluto riconoscere un percorso cerimoniale che attraverso un lungo atrio o cortile conduceva a una sala a pianta centrale coperta da una cupola. Recentissimi sondaggi10 hanno invece dimostrato senz’ombra di dubbio che le sostruzioni vennero da subito utilizzate come cisterne e, soprattutto, che gli scarsi resti degli alzati, una terminazione triabsidata, le fondazioni di potenti pilastri, due portici d’ingresso a nord e a sud, devono appartenere a una chiesa a pianta centrale, preceduta da un atrio rettangolare e circondata dagli edifici di un monastero, i cui altri resti sono ormai scomparsi sotto i nuovissimi fabbricati d’abitazione. Torna così in vita l’ipotesi ignaziana e tramonta la possibilità di farsi un’idea del palazzo di Teofilo, anche se non sarebbe comunque privo di interesse un complesso monumentale databile nel primo decennio del regno di Basilio I, seppur un più «comune» monastero.
In questa pagina: 161. Volte affrescate in età iconoclasta della navata meridionale di Sant’Irene. Nelle due pagine precedenti: 159. Veduta esterna della chiesa di Sant’Irene, con uno dei grandi timpani finestrati e la cupola. 160. Veduta della navata centrale della chiesa verso l’abside.
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A fronte: 162. Particolare di una torre delle mura di mare, con l’iscrizione relativa a restauri fatti eseguire da Teofilo.
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Come che sia, all’interno di questi palazzi Teofilo non mancò certo di edificare luoghi di culto, e non solo cappelle private ma anche magniloquenti chiese. In Bryas, con tutte le sue suggestioni islamiche, furono costruiti un oratorio dedicato alla Theotòkos e una chiesa a pianta triconca, nella corte del palazzo; le tre absidi erano dedicate all’Arcangelo Michele, quella centrale, e a due sante martiri quelle laterali (forse Tecla, la prima martire, ed Eufemia di Calcedonia, la più venerata martire di Costantinopoli). Se si considera che uno degli atti più esecrati di Costantino V era stato proprio quello di distruggere le reliquie di Eufemia, questa dedica sembrerebbe in qualche modo una sconfessione dei modi assai più violenti e sbrigativi del predecessore.
La dinastia macedone Questa politica di restauro e ricostruzione – qui però, nella quasi totalità, chiese e monasteri – viene proseguita da Basilio I. Questi opera in una realtà molto diversa da quella nella quale si era trovato ad agire Teofilo: lo Stato è di nuovo forte e in espansione; l’Iconoclastia ha esaurito la sua spinta e il culto delle icone è ristabilito; il monachesimo risulta essere il vincitore morale di questa contesa. Ed è vero che da questo momento in poi verranno costruiti soprattutto monasteri, fuori le mura, come da tradizione, ma soprattutto all’interno delle mura, e questo è un fenomeno sostanzialmente nuovo, almeno in questa quantità. In pratica, tutte le chiese dell’età medio-bizantina che sopravvivono in città furono all’origine chiese principali di monasteri. È ampiamente diffusa la convinzione che i principali committenti di tutte queste architetture non siano più stati gli imperatori, come in età paleo-bizantina, ma alti funzio-
nari, vertici militari, esponenti di casate aristocratiche11. Questo è probabilmente dovuto al fatto che si sono conservati dell’età macedone soprattutto monumenti con committenze altre da quella imperiale. È stato però il caso a decidere così, visto che molti imperatori fecero costruire dei complessi religiosi, il cui splendore e la cui ricchezza sono celebrati dalle fonti, purtroppo però a noi non pervenuti, anche se la ricerca archeologica recente ne ha, almeno in alcuni casi, nuovamente consentito una seppur parziale conoscenza. Gli imperatori dunque non persero mai il loro ruolo nell’ambito dell’edilizia monumentale anche se effettivamente vennero affiancati da un gran numero di committenti diversi che edificarono i loro monasteri per ritirarvisi in età avanzata e farsi poi seppellire, per pura devozione o per investire capitali in imprese sicure e al riparo dal fisco. In questo contesto Basilio I avvia un programma di restauro degli edifici religiosi della capitale di entità tale da non aver precedenti né imitatori nella storia bizantina. Per avviare questo progetto approfitta del terremoto dell’869, che le fonti ricordano come assai distruttivo. Ovviamente bisogna dare fede al testo più antico che ce lo tramanda e cioè la Vita Basilii12. Tale testo celebrativo si diffonde ampiamente sull’attività edilizia dell’imperatore13, elencando oltre quaranta chiese che furono in qualche misura da lui restituite; se ne è dedotta l’esistenza di un progetto deliberato di Basilio che, da «imperatore pio» quale era, poneva rimedio ai danni inferti dagli «empi»14. Qui noteremo alcuni tratti originali di questo «progetto», che certo ha dei retro-significati assolutamente non trascurabili, e che più che illuminarci sull’attività edilizia di quei decenni, molto ci rivela sulla personalità del suo ideatore. Basilio I, dunque, in primo luogo, restaurò fondazioni dei secoli IV-VI, e sono la maggior parte, tra cui San Mocio e
163. Incisione con l’ippodromo di Costantinopoli e i suoi dintorni dal De Ludis Circensibus, di Panvinio, Padova 1681.
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Sant’Acacio all’Heptaskalon, i Santi Apostoli, ai quali dedicò attenzioni tali da stupire i contemporanei15, San Giovanni Battista all’Hebdomon ad ovest della Porta d’Oro e San Michele presso l’attuale fortezza di Rumeli Hisar. Queste chiese sono ormai scomparse ma altre che possono essere inserite in questa categoria sono ancora visibili, seppur in condizioni assai diverse. Della Theotòkos Chalkoprateia, metà del V secolo, vicinissima e in asse con la Santa Sofia, rimangono i resti della terminazione absidale est e le sostruzioni del probabile battistero all’angolo nord-ovest. La Theotòkos Pegè, al di fuori delle mura nel quartiere di Balıklı, esiste ancora, ma completamente ricostruita nel 1833-1835, e perpetua nei millenni antichissimi culti legati all’acqua, non rari in una città che da sempre ha avuto problemi di approvvigionamento idrico16. I Santi Sergio e Bacco e la Santa Sofia si presentano invece sostanzialmente nella facies che diede loro Giustiniano: se per la prima si direbbe che Basilio si sia limitato a restaurarvi le immagini sacre, il caso della Santa Sofia17 è invece assai più complesso, e la fonte, non chiarissima, è stata interpretata in maniere diverse. Gli studiosi ancora discutono sull’entità dei restauri portati avanti in questi anni, soprattutto se i grandi timpani finestrati nord e sud siano stati solo rimaneggiati o completamente ricostruiti e se i lavori di consolidamento e contraffortatura abbiano riguardato l’abside est o la fronte ovest18. Certamente l’imperatore vi pose le immagini sacre, tra cui, esplicitamente menzionata, la Vergine con il Bambino: è ancora discussa l’identificazione con quella ancor oggi visibile nell’abside centrale. Per quanto riguarda le nuove fondazioni, queste furono, in pratica, tutte realizzate all’interno del Palazzo. Chiese e cappelle sorsero in diversi luoghi del recinto, tra le quali la massima realizzazione architettonica di Basilio I, la Nea Ek-
klesìa19, dedicata a Cristo, alla Theotòkos, all’arcangelo Gabriele, al profeta Elia, a san Nicola, edificio mitizzato dai posteri, che lo vogliono addirittura prototipo di quella pianta a croce greca inscritta in un quadrato, con quattro colonne che sorreggono la cupola centrale, ed eventualmente altri quattro cupolini agli angoli, pianta che dagli inizi del X secolo effettivamente si afferma come la preferita a Costantinopoli per almeno quattro secoli. Questa chiesa, consacrata nell’880 e distrutta da un fulmine alla fine del XV secolo, potrebbe essere documentata dalla famosa incisione raffigurante l’Ippodromo, pubblicata dal Panvinio nel seicentesco De Ludis Circensibus ma tratta da un’immagine quattrocentesca (fig. 163). Nell’area disabitata spicca un edificio innalzato su di una potente sostruzione ad arcate; il suo corpo è dominato da una grande cupola, traforata da finestre alla base, alla quale si affiancano quattro cupole minori. È ben probabile che si tratti della Nea, visto che le sue caratteristiche architettoniche coincidono con il dettato delle fonti, le quali purtroppo poco o nulla dicono della tipologia dell’edificio, tranne la posizione panoramica, la presenza di un atrio e di portici, le cinque cupole da cui era coronata e che probabilmente corrispondevano al vano centrale e a quattro cappelle laterali dedicate ai personaggi summenzionati in ordine gerarchico. Dunque non sappiamo come fosse in pianta la chiesa; per di più edifici a cinque cupole, e con pianta variamente cruciforme, esistevano ben prima della fondazione di Basilio. Senza scomodare l’illustre testimonianza dei Santi Apostoli, ricordiamo almeno la chiesa, di altissima complessità di forme, di Sant’Andrea a Peristera, presso Tessalonica, dell’871, che ha pianta a croce libera con cinque cupole su alti tamburi all’incrocio e sui bracci della croce (fig. 164). In termini più generali, sembra estremamente significativo sottolineare come tutti i principali monumenti dei secoli
164. La chiesa di Sant’Andrea a Peristera, presso Tessalonica, con le sue cinque cupole.
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165. L’esterno della parte absidale della chiesa del IX secolo, oggi Atik Mustafa Paxa Camii.
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166. Le absidi del IX secolo della chiesa della Theotòkos di Costantino Lips, oggi Fenari Isa Camii.
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167. Volta della prothesis della chiesa della Theotòkos di Costantino Lips, oggi Fenari Isa Camii. 168. La cupola centrale della chiesa corona la pianta a croce greca sulla quale è costruito l’edificio.
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IV-VI,
oltre a una quantità di edifici minori, fossero comunque agibili e utilizzati continuativamente anche in anni di gravi difficoltà politiche ed economiche; questo spiega, in parte, anche perché, dopo l’età giustinianea, le dimensioni degli edifici religiosi di nuova costruzione si ridussero sempre di più; la popolazione doveva essersi molto ridotta e nelle solennità certamente frequentava le chiese paleo-bizantine, sempre più immaginate come opere sovrumane; inoltre, le dinamiche urbane avevano fatto sì che i grandi spazi monumentali, fori, piazze, colonnati, fossero ormai in rovina o adibiti ad altre funzioni, mentre gli abitanti si erano raccolti in piccoli nuclei sparsi nel vasto territorio interno alle mura, il ché potrebbe spiegare il proliferare di tanti piccoli monasteri, con tutto quello che ciò significava in termini di assistenza sanitaria, ospitalità di pellegrini, cibo per i poveri, istruzione di base. Se molti dei monumenti citati non esistono più, pure, della prima età macedone, da Basilio I a Romano I Lecapeno (920-944), sopravvivono in città tre chiese che ben si inseriscono nel quadro di riferimento che siamo fin qui venuti delineando. Quella oggi nota con il nome di Atik Mustafa Paşa Camii si trova sul Corno d’Oro, non lontana dalle mura delle Blacherne20. È ancora dibattuta la sua dedicazione originaria; di contro una data nella seconda metà del IX secolo appare ampiamente condivisa dagli studiosi. Si tratta di un piccolo edificio, con pianta a croce greca inscritta ma con pilastri che sorreggono la cupola e formano agli angoli quattro ambienti che potrebbero essere stati utilizzati come cappelle. Nonostante i continui rimaneggiamenti, già in età bizantina e fino in tempi recentissimi, la costruzione ha un sapore antico, la zona est, triabsidata, è ben conservata (fig. 165), non ci sono state radicali alterazioni della pianta. Se la datazione è corretta sarebbe il più antico monumento conservatosi a Costantinopoli dell’età macedone e, assai probabilmente, vista la scala ridotta e il posizionamento eccentrico rispetto a quello che doveva essere il centro cittadino all’epoca, una fondazione privata, di quelle che abbiamo notato intensificarsi sempre di più in questi secoli. E fondazioni private sono anche le altre due. La più antica è la chiesa della Theotòkos di Lips, oggi Fenari Isa Camii21, posizionata nell’ampia vallata ove scorreva il fiume Lycos, ai piedi della collina dei Santi Apostoli, oggi sostituiti dalla Fatih Camii. Siamo sicuri della sua origine grazie ai monogrammi sull’architrave della porta principale e ai resti dell’iscrizione dedicatoria che correva all’esterno intorno alle absidi in cui viene appunto ricordato il patrizio Costantino Lips, drungario della flotta, che ha fatto costruire il monastero, ormai, come in tutti gli altri esempi costantinopolitani, completamente scomparso, del quale la chiesa era il fulcro. Molto rimaneggiata in età paleologa
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e poi ottomana, con l’asportazione delle quattro colonne sostituite da due grandi arconi nell’asse ovest-est, la chiesa è stata infine radicalmente restaurata nel Novecento, dopo gli incendi e l’abbandono di inizio secolo. La primitiva pianta, accertata in tali lavori, era la tipica pianta a croce greca inscritta con cupola centrale su quattro colonne, preceduta da un nartece, con zona absidale tripartita (fig. 168); le due absidi laterali, la prothesis e il diakonikon, hanno pianta quadrilobata, con sofisticate coperture (fig. 167); due cappelle fiancheggiavano in alto la zona absidale ed erano probabilmente accessibili attraverso scale lignee. Costruita con la tradizionale tecnica dell’alternanza di conci di pietra bianca e mattoni rossi, ma con prevalenza di questi ultimi, se non grande di nobili proporzioni, presenta forme monumentali all’esterno, privo di decorazioni tranne la summenzionata iscrizione; all’interno, di contro, sopravvive una grande quantità di scultura in funzione architettonica, sia eseguita espressamente sia spogliata da monumenti più antichi. I lavori di ripristino hanno poi restituito molti altri materiali che testimoniano la ricchezza degli interni, oggi nudi, marmi intarsiati con paste vitree, pavimenti in opus sectile, sculture, mosaici, affreschi, ceramiche. La terza chiesa, il Myrelaion, posizionata nel cuore stesso della città, è oggi la Bodrum Camii22 (fig. 169). Si tratta sicuramente della chiesa fondata nel 920 da Romano I poco prima della sua ascesa al trono, e collegata con un monastero femminile che l’allora Grande Ammiraglio aveva insediato in un suo adiacente palazzo. La chiesa, a due piani, doveva avere funzione di mausoleo dei Lecapeni, le cui tombe vennero collocate in quella inferiore, che riproduce in pianta e in altezza, cupola esclusa, quella superiore. Restaurato di recente, l’edificio è in buono stato. Perfettamente proporzionato, è costruito in maniera tradizionale ma con esclusiva presenza di mattoni, e gli unici elementi decorativi presenti all’esterno sono le semicolonne, anch’esse in laterizio, che aggettano tutt’intorno all’edificio, sottolineando all’esterno le scansioni volumetriche e funzionali degli interni. Anche in questo caso la pianta è quella a croce greca inscritta con cupola su quattro colonne, qui sostituite, come di norma in età ottomana, da quattro pilastri, con abside tripartita; il nartece ha terminazioni «a forcipe», forse una ripresa di forme paleocristiane. Questi monumenti sono di certo esempi della committenza aristocratica che si diffonde ampiamente in quest’epoca e che continuerà anche in seguito. Questo non vuol dire però che i sovrani smisero di promuovere la costruzione di edifici, anzi, molti degli imperatori che si sono succeduti sino alla fine della dinastia, nel 1056, hanno fondato almeno un importante complesso, destinato alla loro sepoltura e a quella dei loro familiari. Romano I lo abbiamo già con-
169. Veduta esterna della parte superiore della chiesa del Myrelaion, oggi Bodrum Camii. 170. L’interno della chiesa inferiore del Myrelaion, destinata a mausoleo dei Lecapeni.
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siderato, segnaliamo poi Giovanni I Tzimisce (969-976), Romano III Argiro (1028-1034), Costantino IX Monomaco (1042-1055): il primo, «usurpatore» che affianca i fanciulli Basilio II (976-1025) e Costantino VIII (976-1028), gli ultimi, due dei tre mariti di Zoe, la Porfirogenita, titolare in proprio per nascita della dignità imperiale. Si tratta di personaggi che acquisiscono la porpora per altre strade e non per il sangue e quindi vogliono proclamare anche materialmente il potere conquistato, unitamente a un’autoaffermazione del proprio lignaggio. Giovanni I commissionò la chiesa del Salvatore della Chalkè, che si doveva trovare tra la porta del Palazzo Imperiale e i carceres dell’Ippodromo, sopravvissuta in età ottomana come luogo di ricovero per le fiere, da cui il nome Arslan Hane. Danneggiata da più incendi le sue rovine furono infine rase al suolo agli inizi dell’Ottocento. È documentata da un’immagine evocativa che si trova nella pianta di Costantinopoli eseguita nel 1537 da Matrakçi, (Biblioteca dell’Università di Istanbul, Ty 596423), e da un disegno (di un monumento ormai in rovina) pubblicato nel 1804. Le fonti testimoniano comunque di un edificio assai alto e slanciato, con una cupola centrale, due semicupole sull’asse Nord-Sud, ampie finestrature, apparentemente, di una certa originalità24. Romano III fondò il monastero della Theotòkos Peribleptos, sito nel quartiere di Samathia, in alto, non lontano dalle rive del Mar di Marmara. Ben nota ai viaggiatori, si veda il resoconto dell’ambasciatore spagnolo Clavijo che fu a Costantinopoli nel 140325, la chiesa sopravvisse, seppur progressivamente dilapidata, fino al 1782 quando venne distrutta da un primo incendio, e poi più volte ricostruita. È oggi una chiesa moderna, centro degli Armeni, nota come Sulu Manastır, e cioè «monastero con l’acqua»; questo perché anche qui esiste una sorgente venerata, ancor oggi attiva. Le descrizioni sono come sempre poetiche e la facies bizantina del monumento si era ritenuta definitivamente perduta fino a quando, negli anni Novanta del Novecento, non sono state intraprese ricerche nel sottosuolo dell’edificio. Si è dunque potuto esplorare un ambiente sotterraneo complesso che ha dimostrato di rispecchiare con molta esattezza quelle che potevano essere la pianta e le forme del soprastante edificio, di dimensioni simili a Lips e al Myrelaion: una chiesa a croce greca in un quadrato con quattro colonne, nartece e zona absidale tripartita affiancata a nord e a sud da altri ambienti, forse cappelle, il ché potrebbe confermare la
171. L’interno della chiesa superiore del Myrelaion, oggi Bodrum Camii, con i rifacimenti di età ottomana e successivi.
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notizia che tramandava nella chiesa cinque altari26. Il sepolcro di Romano III si trovava nella zona absidale ma anche un altro imperatore venne in seguito sepolto nella chiesa, forse Niceforo III Botaniate (1078-1081), che qui prese l’abito monacale dopo la deposizione. Per quanto riguarda invece l’ambiente sotterraneo vero e proprio, piuttosto curato anche per quanto riguarda le murature, è stata ipotizzata una funzione come cripta, dove erano ospitate le tante reliquie ricordate dai pellegrini. A proposito poi delle murature, ricordiamo infine che qui si trova il più antico esempio datato della tecnica detta a «filari di mattoni alternatamente nascosti», che poi caratterizzerà tutta l’architettura fino al XII secolo, tecnica che nasce per utilizzare anche mattoni di qualità minore o frammentari, che vengono annegati nei letti di malta e resi così invisibili; un modo di procedere utilizzato estensivamente anche negli alzati che apre il problema della presenza, o meno, di intonacature esterne, che avrebbero reso inutili tali accorgimenti ma che sempre più spesso la ricerca sui monumenti riscontra come presenti, sia con motivi decorativi che figurativi, questi però in una fase più tarda27. Ultimo tra i monumenti di spicco fondati dai sovrani dell’età macedone fu il monastero di San Giorgio delle Mangane, quasi sulla punta del promontorio, voluto da Costantino IX dopo il suo matrimonio con Zoe nel 1042; qui venne infine sepolto. Secondo le fonti l’imperatore demolì e ricostruì tre volte il complesso prima di mostrarsi soddisfatto del risultato, con quale danno per le casse dello Stato è ben facile immaginare. Per di più, gli irriverenti cronachisti insinuarono che tale costruzione non fu voluta per onorare il Martire ma perché l’imperatore avesse una scusa ufficiale per recarsi a visitare la sua amante, la bella Skleraina, che abitava nei paraggi e che fu anch’essa sepolta nella chiesa. Il monastero e le sue adiacenze vennero distrutti quando, alla fine del Quattrocento, si iniziò la costruzione del Topkapı Sarayı e venne creata un’ampia area di rispetto tutt’intorno alla residenza del Sultano. Le sostruzioni vennero riscoperte negli anni Venti del Novecento, quando Istanbul si trovava sotto amministrazione anglo-francese e in quell’area erano appunto acquartierate le truppe d’occupazione28. Le vestigia sono imponentissime e su più piani, il ché sostanzia il dettato delle fonti in merito alla grandiosità della struttura: si è potuta verificare l’esistenza di una fontana monumentale, di un atrio e di una chiesa, nonché di altri ambienti, certamente del monastero; ma doveva esserci anche un palazzo imperiale e un ippodromo, tutto all’interno di un magnifico giardino29. Sotto il profilo della pianta, per quel che si può capire, non si doveva trattare della solita chiesa a croce greca iscritta in un quadrato ma di un’altra tipologia, pure assai diffusa in area bizantina, che consiste sempre in una struttura qua-
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drata ma con un ampio naòs sotto la cupola centrale, circondato su tre lati da un deambulatorio, collegato al naòs da schermi colonnati che formano arcate. Sono emersi poi, nella stessa area, numerosi altri resti monumentali, variamente interpretati, che rivelano come questa zona fosse all’epoca intensamente popolata: sono visibili ancora oggi solo quelli riccamente decorati delle facciate degli ambienti inferiori del monastero del Cristo Filantropo, sulla riva del mare, più probabilmente riconducibili, per i ricchi ornati esterni in laterizio, a un restauro paleologo. Anche questo monastero custodiva una celebre fonte, poi utilizzata in età ottomana nel padiglione detto Incili Köxk. Tutti gli altri sono invece, attualmente, non più verificabili, perché ricoperti dalla ferrovia metropolitana e ancora in una zona di stretta pertinenza militare. Questi complessi furono dunque fondazioni di sovrani che non appartenevano per nascita alla dinastia imperiale. Più sfumata è in effetti la committenza dei Macedoni veri e propri, che peraltro ereditano dalle epoche passate un imponente patrimonio di fondazioni religiose da intrattenere, pur considerando che i restauri di Basilio I avevano restituito solidità e splendore a molti di questi monumenti. Costantino VII Porfirogenito (913-959) si dedicò piuttosto a restauri e abbellimenti del Grande Palazzo: il tetto della sala da pranzo detta Triclinio dei Diciannove letti e la ridecorazione a mosaico, con soggetti vegetali, del Crisotriclinio, che fornì anche di porte e di arredi in argento intarsiato. Di Basilio II in particolare ricordiamo la parziale ricostruzione della Santa Sofia, ancora ben leggibile sulla cupola che era crollata nel quarto ovest, fatta eseguire subito dopo il terremoto del 989, e terminata nel 994, nonché la ricostruzione di San Giovanni Battista all’Hebdomon, dove poi fu sepolto30. La nipote Zoe si fece seppellire nella chiesa del Cristo Antiphonetes, che aveva costruito, o almeno restaurato.
L’età dei Comneni Dopo la morte di Teodora, nel 1056, si apre per l’Impero un periodo assai travagliato, che vede succedersi sei imperatori, e che culmina, nel 1071, nella catastrofe militare di Manzikert, che apre ai Turchi le porte dell’Anatolia, e nell’abbandono della piazzaforte di Bari, ultimo avamposto in Italia. Solo con l’ascesa al trono di Alessio I Comneno (1081-1118) lo Stato si stabilizza, contiene le pressioni ai confini, recupera parte del suo antico territorio. Alessio I fonda una dinastia che regnerà incontrastata fino al 1185. Anche in questo caso saranno le fondazioni religiose a manifestare l’auto-affermazione di questa casata dell’aristocrazia militare, centro di un clan formato dalle famiglie a essa imparentate, i Ducas, i Brienni, i Dalasseni, i Camate-
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ri, i Contostefani, e altre ancora. Nel caso dei Comneni siamo stati più fortunati, e alcune delle grandi fondazioni imperiali sono arrivate ai giorni nostri in condizioni relativamente buone. Osservando questa stagione edilizia è possibile notare che le fondazioni comnene non sono più sparse su vasta scala all’interno della cinta muraria, come ancora era stato nell’età precedente, ma si concentrano in alcuni punti, segnatamente nel sito dell’antica Acropoli, dove oggi si trova il Serraglio, e lungo la fascia costiera prospiciente il Corno d’Oro, dalla metà circa di questo percorso fino alle mura. Non è improbabile che questo sia dipeso da questioni relative alla proprietà dei suoli, e i Comneni erano anche dei grandi proprietari terrieri. Ma bisogna certamente considerare due fattori: da un lato tutti i commerci si erano ormai orientati verso gli scali sulle rive del Corno d’Oro, dove si trovano anche le concessioni degli Italiani, dall’altro i sovrani risiedevano ormai stabilmente nel Palazzo delle Blacherne, vicino alle mura, proprio alla fine di quel tratto di mare che percorrevano di frequente per recarsi alla Santa Sofia e al Grande Palazzo, in parte ancora utilizzato per funzioni ufficiali. Del regno di Alessio I ci dà ampia notizia la figlia Anna nell’Alessiade. La principessa si diffonde ampiamente su una sola fondazione paterna, una grande istituzione pubblica, l’Orphanotropheion: come dice il nome, un asilo per orfani ma anche per malati, anziani e altre «fasce sociali deboli». La vasta costruzione, posizionata sull’Acropoli, venne realizzata intorno a una preesistente chiesa dedicata a San Paolo; una «città nella città», dove ogni assistito, uomo o donna, aveva un suo alloggio, veniva nutrito, vestito e curato a spese del sovrano che aveva dotato l’istituzione di beni e rendite fondiarie31. Alessio I potrebbe aver avuto in mente di rivitalizzare così una zona emarginata dallo sviluppo urbanistico degli ultimi secoli, certamente segnata dal progressivo abbandono del Grande Palazzo. L’Orphanotropheion non esiste più. Resta invece la chiesa del monastero fondato dalla madre di Alessio I, Anna Dalassena, se è giusta l’identificazione della Eski Imaret Camii con la chiesa del Cristo Pantepoptes, posizionata in alto sulle colline che degradano verso il Corno d’Oro, allora in posizione panoramica, oggi rintracciabile a fatica nel fittissimo tessuto urbano della città. Costruito intorno al 1085 sulle pendici della collina dei Santi Apostoli, è di non grandi dimensioni ma raffinato e di eleganti proporzioni, con un marcato sviluppo ascensionale (fig. 172). Per quanto riguarda la pianta ci troviamo di fronte ancora una volta alla croce greca inscritta in un quadrato con quattro colonne che sorreggono la cupola centrale, zona absidale tripartita, nartece e, in questo caso, esonartece. All’interno, le uniche decorazioni che sopravvivono sono le mostre delle porte, le cornici e altri elementi scultorei in funzione architettonica. È invece ancora praticabile la
172. L’articolato esterno della chiesa del Cristo Pantepoptes, oggi Eski Imaret Camii.
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loggetta imperiale a tre fornici a ovest, da cui certamente la fondatrice assisteva alla Liturgia. Più interessanti gli esterni che conservano un marcato carattere bizantino: prevalentemente in mattoni, con pochi filari di pietra, si caratterizzano per uno spiccato gusto per la decorazione, anch’essa in laterizio, in particolar modo gli archi a ghiere ribattute che incorniciano le finestre e, più ampiamente le grandi pareti d’ambito, quasi completamente traforate dalle finestre stesse, un bell’esempio di quel caratteristico gioco di linee curve che si rincorrono, si soprappongono, si intersecano l’una all’altra, linee curve che dai finestrati passano ai cornicioni e poi all’imposta della cupola e alla cupola stessa, per poi degradare verso il catino absidale, così tipico ed anzi, identificativo, dell’architettura medio-bizantina. Le facciate sono infine movimentate da inserimenti di altri elementi decorativi in laterizio: croci, svastiche, spirali e altri simboli, testimonianza precoce, se risalgono all’XI secolo, di quella ricca decorazione degli esterni che si affermerà compiutamente solo nel XIII-XIV secolo32. Sotto il profilo del complesso gioco di volumi curvilinei che caratterizza in questi decenni l’architettura di Costantinopoli ancora più straordinario è l’effetto che si raggiunge nella chiesa del monastero del Pantokrator, la più importante fondazione comnena, sede del mausoleo di famiglia33. Oggi noto come Zeyrek Camii, l’edificio è composto da due chiese affiancate e da una cappella interposta, unite insieme grazie allo sfondamento delle pareti comunicanti al fine di creare un’unica aula (fig. 175), che si sviluppa in un totale di sette absidi e cinque cupole, di dimensioni, altezza e forma diverse, unificata in facciata da un nartece che si distende lungo tutta la lunghezza della fronte, al quale fu poi aggiunto, davanti alla chiesa sud, un esonarte-
ce. Il monastero, fondato dopo il 1118 da Irene, moglie di Giovanni II Comneno (1118-1143), fu portato a termine da quest’ultimo, dopo la morte di lei, nel 1136. I lavori constarono di tre fasi principali, certamente con un gran numero di modifiche in corso d’opera e poi ancora nelle età successive, delle quali siamo ora meglio informati dopo l’avvio dei restauri nel 1995. La prima chiesa a essere terminata fu quella sud. Dedicata al Pantokrator, è la più grande, sviluppando circa 40 m di lunghezza dall’esonartece all’abside; impiega la pianta a croce greca inscritta in un quadrato con, in origine, quattro colonne di marmo rosso, in seguito sostituite da pilastri a fascio. È coperta da una cupola alta 24,5 m, mentre un’altra cupola, di minori dimensioni, sormonta la campata centrale della loggia imperiale che si trova sopra al nartece. Assai monumentale per gli standard medio-bizantini, conserva un pavimento in opus sectile, con l’inserimento di scenette figurative, e parte del rivestimento marmoreo dell’abside, nonché cornici, capitelli e altre sculture in funzione architettonica. In un secondo momento, perfettamente parallela, venne edificata la chiesa nord, dedicata all’Eleusa; identica nella pianta ma di dimensioni leggermente ridotte, è coperta da una cupola. Della sua decorazione conserva cornici scolpite e, in una bifora della facciata del nartece, una colonna di porfido con relativo capitello, segno dell’ampio dispendio di materiali preziosi impiegati nella costruzione (fig. 174). In un momento ancora successivo, tra le due viene inserito un heroon oblungo, con due cupole e abside, dedicato a san Michele e destinato alle sepolture dei Comneni ma più tardi utilizzato anche dai Paleologi; vi erano conservate moltissime reliquie delle quali danno ampiamente conto i
Crociati e i pellegrini. Sopravvive in parte il pavimento a opus sectile. Dal complesso sono anche emersi numerosi resti di vetri istoriati legati con piombo; non è ancora chiarito se si tratti di vetrate e, nel caso, a quale epoca datino: il Pantokrator, infatti, dal 1204 al 1261 ospitò i Veneziani. Il monumento è certamente imponente, spettacolare con il suo gioco di absidi e di cupole diversamente dimensionate e ornate; è l’unico edificio bizantino, oltre alla Santa Sofia, che sia ancora oggi chiaramente distinguibile nella famosa «skyline» della città, ritmata dalle cupole e dai minareti delle moschee imperiali. Ciò non toglie però che esso sia anche testimonianza di un inaridirsi della vena creativa dei Bizantini e del restringersi del loro orizzonte: ormai evidentemente impossibilitati a immaginare un complesso originale e dalle molteplici funzioni, non trovano altra soluzione se non quella di ripetere due volte uno stesso edificio, unendo poi i due corpi con un terzo elemento dalle proporzioni di necessità poco armoniose. E se esso ci appare oggi, comunque, notevole, è perché siamo certamente di nuovo pronti ad accettare l’«anticlassico» come categoria estetica positiva. Di intonazione parimenti grandiosa sono anche altre due chiese del XII secolo, che godono di minor fama delle precedenti certamente per il fatto che non è stato possibile identificare con certezza la loro dedicazione originale, e quindi ripercorrerne in qualche modo le vicende storiche anteriori al 1453. La Gül Camii34, forse la Santa Teodosia, è un grande edificio che sorge presso le rive del Corno d’Oro, anch’esso sulle pendici della collina dei Santi Apostoli. La sua architettura mostra caratteri diversi rispetto alle fondazioni del periodo: si innalza su di un possente basamento praticabile che potrebbe essere stato utilizzato per scopi non religiosi;
la pianta è a deambulatorio con gallerie sui lati nord-ovestsud; le due absidi minori si innalzano alla stessa altezza di quella centrale, al fine di fornire terminazione absidale alle gallerie nord e sud, forse due cappelle, oggi coperte da cupole, anche se c’è da dire che tutto il sistema di coperture dovrebbe essere stato rifatto in età ottomana. In effetti l’edificio appare piuttosto rimaneggiato: all’interno, la pianta e gli alzati, almeno fino all’imposta delle volte, come testimoniato dalle cornici scolpite, sono bizantini, così come le absidi minori, con il loro raffinato gioco di finestre, di arcature cieche, di fregi in laterizio; l’abside maggiore, le fronti finestrate nord, ovest, sud, con il loro singolare profilo a ziggurat, e il nartece, sono invece ottomane, seppur realizzate con un gusto per l’alternanza di conci bianchi e mattoni rossi che non tradisce lo spirito della costruzione, che è dunque una delle più riuscite sintesi tra nucleo bizantino e ricostruzione turca. Di proporzioni imponenti è anche la Kalenderhane Camii35, forse il Cristo Akataleptos, che sorge in una zona meno interessata dalle committenze comnene, sotto alla terminazione est dell’acquedotto di Valente, ai piedi della collina sulla quale si trova la Süleymaniye Camii. L’edificio, rimaneggiato in età ottomana ma prettamente bizantino nel carattere, è l’ultimo di una serie di costruzioni che si sono succedute in quel punto della città, la più antica delle quali furono terme di fine IV secolo. Nel VI-VII secolo vennero costruite in successione due chiese, una delle quali sopravvisse poi sino alla fine del XII secolo, quando venne costruito l’attuale edificio. Anche questo mostra una certa originalità di pianta; è infatti una croce in un quadrato, con cupola su possenti pilastri che creano quattro ambienti sussidiari, a due piani, agli angoli. Sono originali i grandi timpani nord e sud, traforati da finestre. Alle absidi è inve-
173. La loggetta imperiale all’interno della chiesa del Cristo Pantepoptes, oggi Eski Imaret Camii. 174. Trifora con colonna di porfido del complesso del Pantokrator, oggi Zeyrek Camii.
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Nella doppia pagina seguente: 175. La veduta absidale del complesso di Cristo Pantokrator, oggi Zeyrek Camii, mostra le due chiese affiancate e la cappella interposta.
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176. Veduta dall’interno di uno dei grandi timpani finestrati della Kalenderhane Camii, il cui nome bizantino non è stato identificato con certezza. 177. Veduta d’insieme dello spazio interno della Kalenderhane Camii.
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ce stata sostituita una parete rettilinea; il nartece, originariamente a due piani, e l’esonartece sono stati completamente ricostruiti dopo il 1453. L’interno, recentemente restaurato, conserva ancora il parato marmoreo multicolore che ricopre gli alzati sino all’imposta delle coperture che si innalzano fino ai 20,5 m della cupola. Più tradizionale, invece, a croce greca inscritta in un quadrato con quattro colonne che reggono la cupola centrale, è la piccola Hirami Ahmet Paşa Masjid, lungo il Corno d’Oro, non lontana dalle mura, unanimemente riconosciuta come la chiesa di San Giovanni in Trullo36. Nel corso dei restauri novecenteschi sono state ripristinate le colonne e i relativi capitelli. Radicalmente ricostruite agli inizi del Trecento sono, infine, la celeberrima Chora, opera di Isacco Sebastokrator, fratello di Giovanni II, e la Theotòkos Pammakaristos, odierna Fethiye Camii, forse commissionata da Adriano, fratello di Alessio I, forse dal curopalate Giovanni Comneno: se ne tratterà in seguito. Intensa fu dunque l’attività edilizia nella Costantinopoli del XII secolo e anche ricca e varia nelle piante, negli alzati, nelle decorazioni. Gran parte di tutto questo splendore dovette danneggiarsi gravissimamente nel corso degli incendi, dei massacri e dei saccheggi che precedettero e seguirono la presa dalla città da parte dei Crociati il 12 aprile 1204. Nella Santa Sofia, il successivo 16 maggio, fu incoronato imperatore Baldovino di Fiandra, e gran parte del territorio dell’Impero fu spartito tra i diversi feudatari, che crearono così una galassia di fragili staterelli. La fiamma dell’orgoglio bizantino fu tenuta viva dai tre Stati greci che allora si formarono, gli «imperi» di Nicea, di Trebisonda e l’Epiro.
L’età dei Paleologi Il 15 agosto 1261, rioccupata la città, Michele VIII Paleologo (1261-1282) entra dalla Porta d’Oro, in processione, dietro l’icona dell’Odigitria. Nel lungo tragitto fino alla Santa Sofia avrà ben potuto valutare lo stato di prostrazione nel quale Costantinopoli ormai versava, lui che la vedeva per la prima volta, essendo nato, in esilio, a Nicea. Avviò subito un programma di restauri che interessò chiese, palazzi, complessi monumentali, culminato nell’erezione, di fronte ai Santi Apostoli, di una colonna celebrativa che sulla sommità portava un gruppo bronzeo raffigurante lo stesso Michele mentre offriva il modellino della città all’Arcangelo suo omonimo e protettore37. La colonna non esiste più ma resta la chiesa edificata dalla moglie Teodora intorno al 1282, per farne un mausoleo della dinastia. Non viene costruita ex-novo ma si addossa a sud di un edificio precedente, in questo caso la già nota Theotòkos di Lips del X secolo, alla quale viene rimossa appunto la parete sud, al fine di creare così un ampio spazio unitario38. In questo caso non viene ripetuta la pianta a croce greca su quattro colonne ma si adotta quella a deambulatorio con setti colonnati, che si apre in un’ampia abside e due pastofori di ridotte dimensioni. I due edifici vengono poi esternamente unificati con un ampio esonarteceparekklesion a «L», ove vengono realizzati un gran numero di arcosolii funerari; arcosolii e sepolture terragne anche nella chiesa. All’esterno, dunque, il complesso appare sostanzialmente omogeneo: solo nella zona absidale si possono distinguere con chiarezza le due fasi. All’austera cortina muraria medio-bizantina si contrappongono le movimen-
178. La facciata del Tekfur Sarayı, detto Palazzo del Porfirogenito. A fronte: 179. Lo spazio interno della cappella annessa alla chiesa della Pammakaristos, oggi Fethiye Camii.
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Nella doppia pagina precedente: 180. L’esterno, armonico e perfettamente equilibrato nelle sue ridotte dimensioni, del corpo annesso in facciata alla chiesa della Pammakaristos, oggi Fethiye Camii.
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A fronte: 181. L’esterno della chiesa dei Santi Teodori, oggi Vefa Kilise Camii; sulla destra la facciata del nartece. Sopra: 182. Il maestoso nartece della chiesa.
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tate absidi paleologhe, riccamente modanate e ornate, con ghiere ribattute, archetti ciechi, decorazioni laterizie e marmoree, un esuberante partito decorativo degli esterni che è una caratteristica tipica di questa epoca che vede, inoltre, anche rinascere uno spiccato gusto per la bicromia bianco-rossa, con un uso assai più frequente di pietra rispetto all’età medio-bizantina, che aveva visto il predominio del mattone. A questi stessi anni può essere datato il cosiddetto Palazzo del Porfirogenito, o Tekfur Sarayı, unico edificio civile bizantino ancora in piedi in città. Costruito a ridosso delle mura, dovette essere un annesso dell’adiacente Palazzo delle Blacherne. Originariamente a due piani su di un atrio colonnato, presenta facciate riccamente ornate, ispirate alla caratteristica bicromia, con fantasiosi motivi decorativi di impronta geometrica realizzati in laterizio con grande raffinatezza e originalità (fig. 178). Sono questi due gli unici monumenti ancora esistenti che possano essere fatti risalire direttamente alla committenza dei sovrani; tutti gli altri sono stati infatti eseguiti su committenza di membri minori della casa imperiale e di grandi proprietari o possidenti a vario titolo, segno dell’ormai ineluttabile declino della finanza pubblica, che all’epoca si confondeva con il patrimonio privato dell’imperatore, rispetto alle grandi fortune che si potevano concentrare nelle mani dei privati, denari anche in parte pubblici, però, visto che tali privati erano assai spesso funzionari dello Stato, ministri, generali e quant’altro. Anche in quest’epoca, è possibile notare che l’attività edilizia si è concentrata in gran parte in un punto specifico, tra le mura e il Corno d’Oro, a breve distanza dalle Blacherne che, d’altronde, da secoli erano ormai un polo di attrazione molto forte per lo sviluppo urbanistico della città39. Privata fu la cappella annessa alla già menzionata chiesa della Pammakaristos40, per volontà della monaca Marta, al secolo Maria Dukaena, per seppellire il marito, il generale Michele Dukas Glabas Tarkaneiotes, morto nel 1310 circa. È un piccolo edificio, perfetto nelle sue proporzioni, in pianta una croce greca inscritta con quattro colonne, oggi restituite nei restauri, che sorreggono la cupola (fig. 179); altre due cupole sulla loggia che sormonta il nartece e si affaccia nel naòs. La muratura esterna è perfettamente apparecchiata con un nitido sovrapporsi di filari di mattoni e conci di pietra, questi ultimi in netta prevalenza, e movimentata da bifore, trifore, arcature cieche, ghiere ribattute,
183. Veduta esterna dell’abside del parekklesion della chiesa della Chora, oggi Kariye Camii Müzesi.
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cornici a dentelli e intarsi bicromi, con uno slancio ascensionale che contribuisce a magnificare le dimensioni dell’edificio, che al primo impatto appare tutt’altro che di ridotte dimensioni (fig. 180). Intorno alla chiesa è poi stato costruito un deambulatorio-parekklesion a «C» che unisce l’edificio principale con la cappella funeraria. Anche alla Vefa Kilise Camii, forse la chiesa dei Santi Teodori, databile a fine XI-inizi XII secolo per analogia di pianta e alzati con il Pantepoptes, furono aggiunti, nel XIV secolo, un parekklesion a sud e un esonartece porticato dall’intonazione palaziale, coronato da tre ampie cupole costolonate. La grande loggia di facciata impiega capitelli, colonne, plutei di età paleo- e medio-bizantina di notevolissima fattura (figg. 181-182). Fu invece un rifacimento pressoché totale quello promosso da Teodora Raoulaina, nipote di Michele VIII, intorno al 1300 nell’antichissima chiesa di Sant’Andrea in Krisei, l’odierna Koça Mustafa Paşa Camii, poi radicalmente rimaneggiata in età ottomana. Se l’esterno ha perso quasi del tutto il carattere bizantino, in pianta invece, e parzialmente all’interno, è ancora distinguibile il deambulatorio, con schermi colonnati e la grande cupola montata su tre arconi. Ma la più significativa intrapresa architettonica degli inizi del Trecento fu certamente la ricostruzione della chiesa della Chora, oggi Kariye Camii Müzesi41. La chiesa, i cui splendidi marmi, mosaici e affreschi sono ancora in gran parte conservati, fu riedificata da Teodoro Metochite, ministro di Andronico II (1282-1328), nel 1315-1320. Della chiesa di età comnena viene mantenuta, in parte, la terminazione absidale est; tutto il resto viene rifatto, in dimensioni ridotte ma con intonazione monumentale e grande ricchezza, ottenendo un naòs ad aula unica cupolata, con unica abside, preceduto da nartece, con due cupole, ed esonartece, quest’ultimo collegato a un lungo parekklesion, anch’esso cupolato, ove si conservano un gran numero di sontuose sepolture. Anche questo edificio ha subìto molteplici restauri, si consideri ad esempio la facciata, scandita da cinque monumentali arcate a ghiera su pilastri, già parzialmente tamponate in età bizantina per realizzarvi arcosolii, che hanno oggi una tagliente terminazione rettilinea al posto di quella ondulata ben documentata nelle incisioni ottocentesche e assai più appropriata al carattere generale del monumento. È però, nel complesso, quello forse meglio conservato, Santa Sofia a parte, dell’intera città. Merito anche di una costruzione notevole sotto il profilo delle tecniche impiegate, dalle fondazioni, che si avvalgono di più antiche strutture, alle robuste contraffortature, alle murature impeccabili, foderate dal consueto partito bicromo, con significativa prevalenza dei conci di pietra bianca (fig. 183). Misteriosa, infine, è la Theotòkos dei Mongoli nel quartiere del Fener42, cosiddetta da Maria, figlia di Michele VIII, che sposò il khan Abaqa (1265-1282). Dopo la vedovanza
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si ritirò in questo monastero e riedificò l’edificio, che doveva essere assai più antico. Le sue diverse fasi sono testimoniate dalla pianta insolitamente irregolare che unisce a una struttura trilobata un corpo principale a due navate su colonne, dal non chiaro orientamento. Il fatto che così poco si conosca di questo edificio è ancora più singolare se si considera che si tratta dell’unica chiesa di Costantinopoli a non essere mai stata convertita in moschea (oltre a Sant’Irene) e ad aver continuativamente servito la comunità greco-ortodossa. Ma, accanto a questi complessi maggiori, dell’età paleologa si conservano anche un gran numero di edifici minori, piccoli monasteri, cappelle private o altro, di nessuno dei quali è stato possibile identificare l’originaria intitolazione, caratterizzati da grande raffinatezza nelle apparecchiature murarie. Tale fioritura deve ritenersi conclusa più o meno entro la metà del Trecento, quando prende avvio quella che fu
certamente la più grandiosa impresa dell’epoca cioè la parziale ricostruzione, addirittura, della Santa Sofia. Nella notte del 10 maggio 1346 crolla il quarto est della cupola giustinianea, trascinando con sé il relativo arcone e la semicupola. Nonostante la difficile situazione politica l’imperatrice Anna di Savoia procede immediatamente alla ricostruzione. Questa fu poi portata a termine da Giovanni VI Cantacuzeno (1341-1354), con l’assistenza di Giovanni Peralta, apparentemente un occidentale; la ridecorazione fu terminata da Giovanni V Paleologo (1341-1391), una volta ritornato unico imperatore43. Dopo quest’intervento le strutture della Santa Sofia non sono state sostanzialmente più toccate. I Bizantini hanno dunque ancora le capacità tecniche per portare felicemente a termine una simile colossale intrapresa, nella quale però sembrano esaurire le loro residue forze, concludendo così la grande stagione dell’architettura costantinopolitana.
LA CAPITALE DELL’IMPERO OTTOMANO ISTANBUL TRA XV E XVIII SECOLO Çiâdem Kafescioâlu
Centro di un vasto Impero multietnico e multireligioso – esteso dai Balcani al Mediterraneo sud-orientale –, la Istanbul di epoca ottomana era luogo di incontri, molteplicità e giustapposizioni. Lì si decretava il sorgere e il tramontare delle mode che dalla corte si diffondevano nel resto del regno; era il luogo in cui venivano a contatto le tendenze culturali formatesi all’interno e all’esterno dei confini orientali e occidentali dell’Impero. La capacità di incontrare e assimilare che caratterizza il lungo periodo della storia ottomana portò alla formazione di una classe dirigente imperiale sovranazionale e seppe inoltre dare vita a quel notevole miscuglio di comunità etniche e religiose che, variamente integrate o ghettizzate, abitarono la città. Incontro e molteplicità sfociavano, chiaramente, non solo nella convivenza ma anche nell’opposizione. La presenza di contrasti era costante nella capitale dell’Impero: tra governanti e governati, tra la classe politica ottomana e gli osservatori europei, e anche tra la città e i suoi sobborghi oltre il Bosforo e il Corno d’Oro, tutti con una propria immagine e una peculiare composione etnica. Kostantiniyye (la forma arabizzata di Costantinopolis, nome ufficiale della capitale ottomana fino al 1923) era fin da allora un luogo la cui identità è in grado di comprendere agevolmente molteplici interpretazioni. Il vasto corpo di rappresentazioni letterarie e visive di cui venne fatta oggetto, attesta la pluralità dei modi in cui veniva concepita. Centro principale dell’Impero nel Mediterraneo orientale, Costantinopoli/Istanbul è un luogo di continuità, in cui una serie di modelli urbani, architettonici e monumentali
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hanno a lungo mantenuto, con il passare del tempo e il susseguirsi delle civiltà, una grande ricchezza di significati. È nel contempo un vasto palcoscenico di rotture, passaggi di potere e riprese, di innovazione e sperimentazione. Durante i secoli dell’Impero ottomano, Istanbul giocò un ruolo di primaria importanza rappresentativa per la politica ottomana; nello stesso tempo era anche il luogo in cui la compagine imperiale ottomana veniva concepita e riprodotta. A dispetto dell’affermata nozione di sviluppo urbano «organico», ben poco di quel che concerne la formazione e la trasformazione della configurazione cittadina di Istanbul venne lasciato al caso. Una serie di costanti modelli urbani, connessi da un lato alla struttura della dinastia e alle sue relazioni con la città e dall’altro ai metodi di vettovagliamento e produzione manifatturiera tipici di una metropoli premoderna, hanno determinato l’aspetto della Istanbul ottomana. Nel contempo, l’evolversi della classe politica ottomana, e le mutevoli dinamiche che intercorrevano tra la corte e la città, hanno influenzato i molteplici modi in cui la forma e l’immagine urbana della Istanbul ottomana venivano modellate e rimodellate. Attraverso i mutevoli assetti politici, le forme di mecenatismo, i cambiamenti di gusto e di tendenza, e il continuo ampliarsi della classe committente e della casta dirigenziale implicata nello sviluppo urbano e suburbano di Costantinopoli/Istanbul, i committenti ottomani rispondevano non solo alla configurazione sociale e politica che dava forma alle loro vite e alle loro carriere, ma anche alla singolare topografia della città e alle sue strutture di lungo periodo. Que-
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sto capitolo presenterà una panoramica della storia ottomana della città fino al tardo XVIII secolo, sottolineando la formazione e riformazione dei modelli urbani al fine di inserirli nel panorama delle più generali tendenze della città ottomana.
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La nascita dell’organizzazione politica imperiale e della sua capitale
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1. Hagia Sophia e i mausolei di Selim II, Murad III, Mehemed III 2. Palazzo di Topkapı 3. Fontana di Ahmed III 4. Complesso di Ahmed I 5. At Meydanı (Ippodromo) 6. Palazzo di Ibrahim Paşa 7. Complesso di Ismihan Sultana e Sokullu Mehmed Paşa 8. SS. Sergio e Bacco / Küçük Ayasofya (moschea, bagno e convento) 9. Padiglione Sepetciler 10. Complesso della Yeni Valide e bazar delle spezie 11. Rüstem Paşa Camii 12. Bagno di Tahtakale 13. Bedestan e bazar coperto 14. Complesso di Nuruosmaniye
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Gli interventi che gli Ottomani apportarono all’apparato urbano di Costantinopoli in seguito alla conquista della città avvenuta nel 1453 vennero messi in atto in concomitanza a una serie di trasformazioni interne all’organizzazione politica ottomana che ebbero luogo in quegli stessi anni. La ricostruzione della città promossa dagli Ottomani fu una conseguenza della costituzione dell’Impero ottomano stesso dal momento che fu proprio il possesso del millenario centro nevralgico dell’Impero Romano d’Oriente a servire da principale catalizzatore nella trasformazione del principato in Impero. Come l’Impero veniva costruito attraverso un cambio di orientamento in campo politico e culturale e attraverso la creazione di un nuovo concetto di sovranità e di una nuova classe dirigente, così doveva essere ricostruita anche Costantinopoli. La città era il luogo che avrebbe ospitato, rappresentato e riprodotto il nuovo ordine ottomano. I guerrieri di confine e i proprietari terrieri che ne erano i capi militari, insieme alle loro guide spirituali – fino allora due componenti fondamentali dell’organizzazione ottomana, a partire dai suoi modesti inizi di
piccolo principato in Bitinia un secolo e mezzo prima – erano destinati a essere emarginati e infine eliminati dallo spettro politico ottomano. Mehmed II (r. 1451-1481) fu il promotore del cambio di orientamento politico, delle trasformazioni che ebbero luogo all’interno dell’Impero ottomano e della ristrutturazione dell’apparato amministrativo che seguì la conquista di Costantinopoli1. Gli anni del suo regno furono dedicati alla creazione di un apparato burocratico imperiale centralizzato e alle conquiste nei Balcani e in Anatolia con cui vennero cancellate dalla regione le ultime tracce di Bisanzio e dei principati successori dei Selgiuchidi. Intenzionato a creare uno stato centralizzato che servisse come base per un Impero di scala mondiale, Mehmed II rimpiazzò l’aristocrazia fondiaria e i proprietari terrieri delle regioni di confine con una nuova élite militare composta da truppe di devxirme (soldati reclutati tra la popolazione di origine cristiana) e da un più vasto esercito di ufficiali giannizzeri. Centralizzò l’apparato religioso e lo dotò di una struttura gerarchica i cui più alti ranghi erano occupati dai dottori della Legge ()ulema) educati nelle otto scuole costruite attorno alla moschea congregazionale recentemente sorta per suo volere nella nuova capitale. La creazione di un nuovo tipo di classe dirigente faceva parte del suo progetto imperiale. Mehmed assunse titoli regali di sommo prestigio nelle società turca, islamica e bizantina divenendo Hünkar, Han, Sultano, e Cesare; ideò anche un nuovo cerimoniale di corte che ne sottolineasse l’autorità assoluta e la sacralità della persona. Durante il suo regno si venne a consolidare il metodo di governo che, basato sui concetti di regalità e sovranità degli imperi
15. Moschea e convento di Mahmud Paşa 16. Firuz Agha Camii 17. Madrasa e biblioteca Köprülü 18. Complesso di Atik Ali Paşa 19. Madrasa e mausoleo di Sinan Paşa; moschea e madrasa di Çorlulu Ali Paşa 20. Bagno di Gedik Ahmed Paşa 21. Complesso di Bayezid II 22. Palazzo Vecchio 23. Monastero della Kyriotissa / Kalenderhane Camii 24. Complesso della Süleymaniye 25. Chiesa di San Teodoro / Kilise Camii 26. Convento e moschea di Şeyh Vefa 27. Sarı Bayezid Camii 28. Monastero del Pantocratore / madrasa e moschea Zeyrek 29. Complesso di Şehzade 30. Monastero del Myraleion / Bodrum Camii 31. Surp Asdvadzadzin (patriarcato armeno) 32. Complesso di Has Murad Paşa 33. Complesso di Mehmed II (Fatih) 34. Chiesa del Santo Salvatore Pantepoptes / Eski Imaret Camii 35. Chiesa di Santa Teodosia / Gül Camii 36. Bagno di Küçük Mustafa Paşa 37. Selim I Camii 38. Patriarcato greco-ortodosso 39. Panaghia Mougliotissa (Santa Maria dei Mongoli) 40. Chiesa della Theotokos Pammakaristos / Fethiye Camii 41. Bagno di Haseki Hürrem 42. Chiesa / Kefeli Camii 43. Monastero di San Salvatore in Chora / Kariye Camii 44. Sinagoga Ahrida 45. Sinagoga Istipol 46. Sinagoga Çana 47. Mihrimah Sultana Camii
48. Nişancı Mehmed Paşa Camii 49. Mesih Mehmed Paşa Camii 50. Kara Ahmed Paşa Camii 51. Hadım Ibrahim Paşa Camii 52. Porta Aurea / cittadella a Yedikule 53. Chiesa di San Giovanni di Studios / Imrahor Ishak Bey Camii 54. Monastero e chiesa di S. Andrea in Krisei / Moschea e convento di Koca Mustafa Paşa 55. Complesso di Davud Paşa 56. Complesso di Haseki Hürrem e madrasa di Bayram Paşa 57. Madrasa e moschea di Damad Ibrahim Paşa 58. Madrasa e mausoleo di Kuyucu Murad Paşa 59. Laleli Camii 60. Monastero di Athanasios? / Madrasa Isa Kapı 61. Monastero di Costantino Lips / Fenari Isa Camii 62. San Paolo / Arap Camii 63. Sokollu Mehmed Paşa Camii 64. Fontana di Sultan Saliha 65. Tophane / fonderia di cannoni 66. Complesso di Kılıç Ali Paşa 67. Fontana di Tophane (Mahmud I) 68. Mausoleo e complesso di Eyüp 69. Fındıklı Molla Çelebi Camii 70. Fontana di Hekimoğlu Ali Paşa 71. Beşiktaş, Sinan Paşa Camii 72. Beşiktaş, mausoleo di Barbarossa Hayreddin Paşa 73. Üsküdar, complesso di Mihrimah Sultana 74. Üsküdar, fontana di Ahmed III 75. Üsküdar, Yeni Valide Camii 76. Üsküdar, Şemsi Paşa Camii 77. Moschea e convento di Rum Mehmed Paşa 78. Ayazma Cami 79. Complesso di Atik Valide 80. Giardini e palazzo dell’arsenale (Aynalıkavak pavilion)
184. Carta dei principali monumenti di Istanbul in età ottomana. Per le chiese bizantine trasformate in moschee sono indicati i due nomi. 185. Gentile Bellini, Ritratto di Mehmed II, 1480 circa, The National Gallery, Londra.
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Turco-Mongolo, Iraniano-Islamico e Romano, avrebbe largamente caratterizzato la condotta politica del casato ottomano nei secoli a seguire. Le ambizioni imperiali fecero spazio a nuove tipologie di mecenatismo culturale, attraverso il quale il mondo ottomano fece proprie le prestigiose tradizioni culturali con cui era venuto in contatto2. Il mecenatismo di Mehmed II, dunque, si estese al campo delle arti e delle scienze del mondo iraniano e dell’Italia, così come ai letterati greci. Raccolse diverse reliquie e opere d’arte bizantine, e incluse fra i suoi propositi quello di sorpassare la gloria e lo splendore di Bisanzio. Dato che l’Italia era lo scopo finale delle sue ambizioni imperialistiche e uno dei principali centri dei suoi ampi interessi culturali, seguì da vicino gli sviluppi in campo artistico, architettonico e di tecnologia militare che lì avevano luogo. Il fine ultimo del mecenatismo culturale del sultano era la diffusione della propria immagine come imperatore del mondo. Carica di significato simbolico, la capitale bizantina era in uno stato rovinoso al tempo della sua caduta. Incapace di riprendersi appieno dopo la distruzione provocata dalla Quarta Crociata del 1204 e privata del proprio retroterra dall’espansione ottomana del secolo successivo, ospitava appena 50.000 abitanti a dispetto della sua ampia estensione. La sua ricostruzione mirava, certamente, a risollevarla dal suo stato di decadimento, ma anche a riproporla come sede dell’organizzazione politica ottomana. Durante questo processo, l’eredità imperiale di Bisanzio venne vagliata per selezionare gli elementi da assorbire e quelli da scartare; un esempio lampante è fornito dalla
trasformazione di Santa Sofia, centro religioso e politico del cristianesimo ortodosso, in moschea regale cittadina, e la conseguente demolizione della statua equestre di Giustiniano che si trovava nelle vicinanze. Quando la politica centralizzata di Mehmed II venne messa in atto e il suo concetto di Impero, e di se stesso come imperatore, si cristallizzarono negli ultimi decenni del suo governo, la città venne modellata per fare spazio a quei cambiamenti e per rappresentare e rendere palesi quei concetti. I suoi maggiori contributi alla città, un palazzo e un complesso religioso ideati nel 1459 e costruiti tra gli anni Sessanta e Settanta, crearono gli spazi cittadini in cui si palesava l’autorità di Mehmed II sull’élite militare e religiosa. I progetti di edificazione della classe dirigente, delle istituzioni religiose e di beneficenza, delle strutture commerciali, dei palazzi, e degli acquedotti contribuirono alla rinascita della città. Lo stabilirsi nella capitale delle necessarie istituzioni urbane, dei palazzi del monarca e della classe dirigente comportò l’introduzione nell’assetto urbanistico di una serie di gerarchie formali che rivelassero la presenza di un nuovo ordine politico e culturale. Un modello monumentale e delle infrastrutture di servizio vennero quindi creati in funzione di una capitale dalle dimensioni idealmente enormi. Quella che era stata in passato la capitale bizantina divenne teatro di un programma di edificazioni su vasta scala nel corso dei decenni immediatamente successivi alla conquista ottomana. Un primo gruppo di edifici imperiali fu completato entro il 1459; ne facevano parte un palazzo nel ter-
186. Hardtman Schedel, veduta di Costantinopoli, incisione colorata dal Liber chronikarum cum figuris et ymaginibus ab initio mundi, Norimberga 1493. 187. Melchior Lorichs, Hagia Sophia, foglio 6 della serie di vedute di Istanbul: ventun fogli disegnati nel 1559 e rielaborati nel 1561-62. Leida, Universiteits Bibliotheek, BPL 1758.
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188. La cittadella presso la Porta Aurea, disegno a inchiostro di Francesco Scarella, 1686. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna, Cod. 8627. 189. Particolare del Palazzo Vecchio, tratto dalla xilografia di Giovanni Andrea di Vavassore, Byzantium sive Costantineopolis, 1520-40 circa, da un originale del 1480 circa.
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reno in cui precedentemente sorgeva il Forum Tauri bizantino, una cittadella a forma di stella presso la Porta Aurea della città bizantina, un vasto complesso commerciale nelle vicinanze del primo palazzo e della Mese, e infine un complesso religioso con moschea fuori dalle mura cittadine, sulle rive del Corno d’Oro, che individuava il luogo di possibile sepoltura di Ayyub al-Ansari, un seguace del Profeta che si credeva avesse partecipato al primo assedio arabo di Costantinopoli. L’edificazione del santuario di Ayyub, che stabiliva un collegamento tra l’ordine ottomano e una presunta presenza islamica al margine della città bizantina, segnò il definitivo trasferimento della corte ottomana da Edirne nell’antica capitale, e anticipò una nuova fase di costruzioni in scala monumentale. Inseriti in un secondo e più vasto programma di edificazione promosso da Mehmed II, il Palazzo di Topkapı e la Fatih Camii (chiamati dai contemporanei Palazzo Nuovo e Moschea Nuova) furono le due maggiori imprese imperiali che modellarono la città all’interno delle mura. Entrambi vennero costruiti in spazi che avevano ricoperto un ruolo simbolico nella Costantinopoli bizantina: il palazzo venne eretto sulla punta orientale della penisola sopra l’acropoli dell’antica Bisanzio; gli edifici della moschea sorsero invece sul quarto colle della penisola dove in precedenza si trovava la chiesa dei Santi Apostoli. I due edifici alterarono in maniera radicale il panorama cittadino; annunciavano e concretizzavano i cambiamenti decisivi avvenuti nell’organizzazione politica ottomana. Erano stati concepiti in coppia, come luoghi che avrebbero ornato e conferito un’aura monumentale alle istituzioni e allo stato centralizzato recentemente riconfigurati. Radicati in parte nella precedente tradizione ottomana, ma allontanandosi da essa in maniera significativa, entrambi rappresentavano dei cambi paradigmatici nell’architettura civile e religiosa ottomana. I membri degli alti ranghi dell’élite dirigente parteciparono al processo di monumentalizzazione cittadina secondo il linguaggio ottomano, con la costruzione di un gruppo di edifici religiosi e di beneficenza, bagni e palazzi. Il sostanziale e cospicuo patrocinio delle istituzioni cittadine da parte della classe dirigente rappresentò un fattore decisivo nella formazione e trasformazione del piano urbanistico della Istanbul ottomana e continuò ad esserlo fino alla fine del XVIII secolo. Il Palazzo di Topkapı è oggi un palinsesto di strati architettonici e decorativi accumulatisi nel corso di circa quattro secoli sopra e attorno all’iniziale impianto fondato da Mehmed II3. Sebbene il palazzo abbia preservato in maniera considerevole il suo assetto originario, è stato comunque soggetto a espansioni, rimodernamenti, campagne decorative, e programmi di restauro, soprattutto quando nuovi cerimoniali di corte e nuove tendenze venivano adottati
dalla dinastia durante il lungo periodo in cui venne adoperato come principale sede imperiale. L’edificio di XV secolo venne portato a termine in più fasi: la costruzione di un primo corpo ebbe inizio poco dopo che Mehmed ebbe annunciato il suo progetto urbanistico nel 1459. Il primo dei suoi due cortili consecutivi ospitava un nucleo centrale di strutture amministrative (la Sala del Consiglio del Visir, la Tesoreria Pubblica, e la Cancelleria) raggruppate all’angolo nord-occidentale e segnalate da una torre, e una sezione di ambienti di servizio (cucine e stalle) disposti sui lati lunghi dello spiazzo trapezoidale e da esso separati per mezzo di pareti divisorie. Al di là di un vestibolo e di un portale in fondo al cortile, erano situate le stanze private del sultano e la scuola di addestramento per i paggi, sempre disposte attorno a una corte. Qui, immediatamente oltre la porta monumentale che marcava il passaggio dalla zona pubblica a quella privata del palazzo, si trovava la Sala delle Udienze del Sultano. Ai due angoli opposti del cortile erano situate due strutture preposte all’uso privato del sultano: a nord-ovest c’erano la Stanza Privata e gli appartamenti in cui abitava Mehmed II che consistevano in quattro ambienti quadrati con copertura a cupola disposti a formare una pianta quadrangolare. La facciata sul cortile era preceduta da un colonnato, così come la fronte esterna verso il distretto di Pera, il Corno d’Oro, e il resto della penisola di Costantinopoli. Opposto a questo, e dietro a un altro colonnato, era situato il complesso di edifici con il Bagno e la Tesoreria, comprendente una loggia che si apriva con magnificenza sui mari e le terre che si estendevano a nord e a est oltre gli alti archi doppi. Murature in pietra tagliata, marmorei colonnati, tetti a spiovente e cupole ricoperti in piombo distinguevano gli edifici regali della corte interna dai dormitori dei paggi; questi ultimi venivano scelti tra le reclute giannizzere più promettenti e preposti a svolgere diverse mansioni nella parte privata del palazzo, ricevevano allo stesso tempo un’educazione che li avrebbe portati a occupare ranghi di prestigio all’interno della gerarchia militare-amministrativa. A ovest, posizionati in un angolo del corpo principale del palazzo e caratterizzati da dimensioni più ridotte rispetto a quelle che avrebbero assunto successivamente nel XVI secolo, sorgevano i quartieri dell’harem dedicato alle consorti del sultano. La parte privata del palazzo si estendeva a nord tramite un giardino pensile sorretto da una struttura ad archi e provvisto di terrazza in marmo e bacino d’acqua; accanto a esso sorgeva un padiglione trasparente costruito con frammenti di cristallo. Situato all’estremità settentrionale della terrazza più alta del colle dell’Acropoli, il giardino pensile era circondato da un muro costellato di torri-belvedere. Una seconda fase costruttiva munì il palazzo di mura esterne che attorniavano l’intero promontorio all’estremità nord-orientale della penisola di Costantinopoli. Le mura,
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190. La veduta aerea del complesso palaziale di TopkapĹ mostra la corte piÚ esterna, a partire dalla chiesa di Sant’Irene (in alto a sinistra), e la successione delle due grandi corti attorno a cui si articola il complesso.
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191. La porta di Mezzo del Topkapı, che dalla corte esterna, o corte dei Giannizzeri, dà accesso alle due grandi corti del palazzo. 192. La seconda corte del palazzo di Topkapı, raffigurata da Lokman, Hunername, Topkapı Sarayı Library, H 1424, fols. 18v-19r.
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193 e 194. Due immagini del colonnato, dalla bell’andatura rinascimentale, che circonda la terza corte, dove si trovano il complesso del tesoro e dei bagni.
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195 e 196. Due immagini del Çinili Köxk, il padiglione estivo riccamente decorato in ceramica che fa parte del complesso palaziale di Topkapı. Nelle due pagine seguenti: 197 e 198. La porta imperiale e il muro esterno del palazzo di Topkapı, in una litografia da Gaspard Fossati, Aya Sofia, Constantinople: as Recently Restored by the Order of H.M. The Sultan Abdul Medjid, Londra 1852.
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completate nel 1478, si estendevano per una lunghezza approssimativa di due chilometri e mezzo ed erano collegate alle mura di mare bizantine che costeggiavano il Bosforo e le spiagge della Propontide. Al di là di una nuova porta monumentale nei pressi di Santa Sofia, furono edificate ulteriori sezioni amministrative e di servizio del palazzo. Gli edifici esterni comprendevano una serie di giardini, aree di gioco, frutteti. Quando questo vasto terreno venne recintato e incluso nell’area del palazzo, nei giardini più esterni furono costruiti anche diversi chioschi e padiglioni. Il Topkapı, continuamente ingrandito, rinnovato e rimodernato, preservò tuttavia in maniera apprezzabile la sua struttura basata sui tre cortili consecutivi con rispettive funzioni fondamentali fino alla metà del XIX secolo, quando il casato ottomano si trasferì in un nuovo palazzo imperiale di gusto europeo situato sul Bosforo. Una modifica consistente fu introdotta negli anni Trenta del XVI secolo, quando i quartieri femminili del palazzo furono rinnovati e ampliati, e quando la favorita di Solimano – Hürrem (nota come Rosselana in Occidente) –, divenuta sua consorte, si trasferì nei quartieri femminili del Topkapı con i propri figli. Questo segnò l’inizio di una tendenza che diede luogo, nel corso dei secoli, alla continua espansione dei quartieri privati del palazzo. L’harem – le stanze abitate dalle concubine e dalle mogli del sovrano, e dal seguito delle donne al loro servizio – si ampliò fino ad acquisire una complessa struttura composta di una serie di stanze organizzate attorno a diversi cortili e affacciate su giardini pensili. Nel tardo XVI secolo, vi venne trasferita anche la residenza personale del sultano. Come il complesso di edifici della Nuova Moschea, fondato dal sultano nello stesso anno, il Nuovo Palazzo era
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un’assoluta novità per il mondo ottomano. Il progetto innovativo, le forme ibride in cui era stato concepito, e la diffusa presenza di motivi traspiranti varietà e rielaborazione attestano l’intimo legame del palazzo con le più ampie tendenze politiche e culturali dell’epoca. Nuovo nelle proporzioni monumentali senza precedenti e nel linguaggio decorativo, rappresenta la convergenza in un nuovo modello di una varietà di forme provenienti da fonti di diverso tipo. Qui l’organizzazione poco compatta degli spazi dei primi palazzi ottomani, composti da numerosi padiglioni e apparati effimeri e caratterizzati dalla presenza di una torre regale preposta a molteplici funzioni, lascia il posto a una meticolosa concertazione degli spazi (spesso progettati in strutture simmetriche o speculari) in cui specifiche funzioni sono attribuite a una varietà di strutture di nuova concezione. In questo processo alcune caratteristiche proprie dei palazzi bizantini, timuridi, e italiani vennero inserite in un contesto ottomano dove vennero associate ad aspetti dell’architettura pubblica autoctona precedente assumendo una gamma di significati completamente nuovi. Il Topkapı era allo stesso tempo uno dei principali costituenti del più ampio centro simbolico e cerimoniale di Costantinopoli e un’area molto isolata e circondata da una cinta muraria fortificata che la separava nettamente dal resto della città dando forma concreta al concetto di una regalità appartata che sottolineava l’autorità divina e assoluta del sultano. L’isolamento, concreto quanto metaforico, era stato il motivo principale per cui il palazzo era stato circondato da vasti giardini. Mura massicce intervallate da torri e da un portale monumentale ne costituivano la facciata pubblica rivolta verso la città.
Un corollario all’isolamento spaziale del palazzo era la sua relazione visuale con la città. Configurazioni architettoniche e spaziali che rappresentavano concretamente e simbolicamente lo sguardo del sultano sui propri domini integravano il modello e la pratica di regalità isolata elaborato e codificato nel corso degli ultimi decenni del regno di Mehmed4. Questo risulta in particolar modo evidente al margine settentrionale del complesso di edifici che compone il palazzo dove, collocate su una sporgenza rialzata che dà sul mare, esistevano due costruzioni regali – da cui si potevano ammirare la città, i suoi sobborghi, e i mari e le terre che si estendevano al di là di essi – e che rappresentavano il punto di vista del monarca e, nel contempo, richiamavano gli sguardi da oltre le distese d’acqua che circondavano il promontorio. Attraverso la posizione geografica che occupava, il Nuovo Palazzo riproduceva la configurazione spaziale del centro reale e simbolico della città bizantina dove i centri religioso, di governo e di rappresentanza civile si concretizzavano nella terna di edifici composta dal Grande Palazzo, Santa Sofia e l’Ippodromo. Scegliendo l’Acropoli quale luogo per la costruzione del Nuovo Palazzo, Mehmed II fece un primo importante passo verso la formazione di una nuova triade costituita dal Nuovo Palazzo, dalla moschea di Santa Sofia e dall’At Meydanı/Ippodromo. La decisione di edificare il Nuovo Palazzo sul terreno dell’antica Acropoli comportava lo spostamento della residenza della dinastia ottomana nel centro gravitazionale della Costantinopoli bizantina; d’altro canto rendeva esplicite una serie di successive decisioni connesse alla configurazione e agli usi cerimoniali dello spazio urbano della Costantinopoli ottoma-
na. Il primo cortile del Nuovo Palazzo e il suo portale regale nei pressi di Santa Sofia divennero il punto di partenza della processione imperiale che attraversava il Foro dell’Augustaion e procedeva poi lungo la Mese/Divan Yolu, ricalcando in parte l’itinerario del cerimoniale cittadino bizantino. La moschea di Mehmed II a Istanbul, completata nel 1470, fu la prima moschea monumentale ottomana a coronare le colline della città e divenne il centro nevralgico del più vasto complesso religioso mai costruito dagli Ottomani5. Molto simile a Santa Sofia nella struttura generale, la moschea era posizionata al centro di un’ampia piazza che misurava 210 metri su entrambi i lati e i cui bordi erano occupati da una serie di edifici d’appendice come le otto madrase (le scuole religiose per le più alte classi sociali del regno ottomano) e le otto madrase elementari, un ospizio e una cucina pubblica. La pianta e le architetture erano state studiate per riprodurre e rappresentare la nuova configurazione politica e le nuove gerarchie che avevano portato a una ridefinizione dei rapporti tra lo stato e le istituzioni religiose: gli )ulema, ora inglobati in una gerarchia amministrativa, acquisirono il potere derivante da uno stato centralizzato, ma furono nel contempo sottoposti all’autorità assoluta del sultano. Lo spazio religioso del governante non ospitò più i dervisci sufi, un tempo tanto venerati, giacché la moschea era sprovvista del convento che fino allora era sempre stato annesso alle moschee dei complessi religiosi sultaniali. Grazie al luogo in cui venne edificato, e alla propria configurazione formale e spaziale, il nuovo complesso si proponeva come portavoce di una novella di-
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gnità imperiale, della rinnovata relazione con l’eredità imperiale di Costantinopoli, e di una ristrutturazione del corpo delle autorità religiose. La chiesa dei Santi Apostoli – costruita da Costantino e riedificata da Giustiniano che la trasformò in mausoleo imperiale della capitale – non venne abbattuta fino all’avvio dei lavori di costruzione nel 14636. Il centro dinastico di Bisanzio, il luogo che rappresentava il succedersi millenario degli imperatori bizantini, venne quindi occupato dalla prima moschea sultaniale della città, simboleggiando la continuità tra i due ordinamenti imperiali e il passaggio di legittimità intercorso tra l’uno e l’altro. Il mausoleo personale di Mehmed II era destinato a sorgere poco dopo la sua morte oltre il muro della kibla della Nuova Moschea. Come per quasi tutte le costruzioni della Istanbul di XV secolo, le radici culturali alla base del nuovo complesso architettonico erano molteplici. L’idea di fondo poggiava sulle nozioni di progettazione ideale che proprio in quegli anni venivano elaborate in Italia; sono state infatti notate riguardevoli somiglianze nella distribuzione degli spazi con l’Ospedale Maggiore di Milano, progettato dall’architetto Antonio Averlino, noto come Filarete7. Prove circostanziali suggeriscono che, se non l’architetto italiano stesso, alcuni progetti da lui realizzati siano giunti a Costantinopoli per essere utilizzati nel complesso di Mehmed. L’aspetto davvero interessante è il fatto che un progetto originato da un modo innovativo di concepire la città sia stato scelto per un monumento pubblico di primaria importanza della Istanbul ottomana. Il progetto di Filarete è esposto nel suo trattato architettonico il cui soggetto principale è
Sforzinda, la città ideale che Filarete stesso aveva progettato per gli Sforza e che era studiata per ospitare e rappresentare l’assolutismo politico del duca di Milano. La concezione di uno spazio gerarchizzato che incarnasse le esatte geometrie della città ideale di Filarete e le sue parti costitutive si adattava perfettamente alla maniera in cui il sovrano ottomano concepiva la propria capitale (e la classe politica ottomana più in generale). È soprattutto alla nuova élite militare – che Mehmed II aveva posto sotto il proprio diretto comando e inserito in un’amministrazione gerarchica attentamente studiata e i cui ruoli e compiti sarebbero in seguito stati definiti in un codice giuridico – che si deve la costruzione di un alto numero di edifici carichi di valore simbolico, nella capitale e nelle zone periferiche di Eyüp e Üsküdar; le loro commissioni furono infatti seconde solo a quelle del sultano in persona. Composta per lo più da soldati convertiti che avevano fatto carriera all’interno della gerarchia amministrativa dell’esercito (una percentuale consistente vantava origini aristocratiche), la nuova élite militare che si era sostituita alla vasta aristocrazia terriera turca era essa stessa il risultato dell’apparato imperiale centralizzato voluto dal sovrano. Il gusto ottomano, che favoriva la molteplicità e il confronto, piuttosto che il ricorso a un metodo unico e omogeneo, si espresse nella forma della città stessa. Una visione imperiale sincretistica perseguiva i propri scopi accogliendo e contrastando una miriade di usanze cittadine e diversi modi di concepire la metropoli stessa. Nelle precedenti capitali ottomane di Bursa ed Edirne il centro cittadino era contrassegnato da una moschea congregazionale e dallo stabilimento commerciale centrale.
199. Il complesso di Mehmed II come è raffigurato nella mappa della rete idrica del 1672, Köprülü Library 2441/1. 200. La moschea di Rum Mehmed a Üsküdar.
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Sultani successivi avevano in seguito fatto edificare una serie di complessi religiosi e di beneficenza organizzati attorno a conventi (usati anche come moschee), spesso a una considerevole distanza dal centro stesso. Mentre il concetto urbanistico del complesso architettonico venne ripreso pienamente negli edifici commissionati nella nuova capitale, un importante cambiamento si manifestò invece nella struttura istituzionale del complesso e, di conseguenza, nelle sue architetture. Di fatto alcuni cambiamenti nella politica religiosa dello stato si ripercossero sugli spazi architettonici dedicati all’attività socio-religiosa. Il centro nevralgico del gruppo architettonico non faceva più capo al convento – teatro di tutta una serie di attività socio-religiose – ma a una moschea congregazionale, luogo della religione ortodossa. Come in altre città ottomane, le cucine, gli ospizi e i bagni rappresentavano i principali edifici annessi alla moschea. Gli alloggi per i viaggiatori e la cucina pubblica – quelli monumentali del complesso di Mehmed come quelli incorporati nei complessi architettonici commissionati dalla classe dirigente – testimoniano la persistente ripresa di un precedente ideale ottomano, quello cioè di esprimere ospitalità e generosità attraverso l’offerta di cibo e di riparo: pratiche di alto valore simbolico necessarie a un ethos basato sulle vicissitudini di una società caratterizzata da un alto fattore di mobilità. L’emergente classe politica ottomana assunse una funzione di filtro attraverso il quale le pratiche urbanistiche tardomedioevali dei mondi islamico e bizantino e i concetti di architettura civile che iniziano ad essere elaborati in Italia venivano selettivamente accolti e sincretisticamente affiancati. È importante sottolineare la natura selettiva della ricettività ottomana: in un momento in cui le istituzioni urbane ottomane formatesi nel periodo di preconquista subivano delle trasformazioni a Istanbul e l’eredità imperiale di Bisanzio veniva vagliata e solo in parte assorbita, gli Ottomani si dimostrarono ricettivi anche nei confronti dell’architettura e del pensiero urbanistico italianizzanti, specie in quegli aspetti che potevano prestarsi a ospitare e a rappresentare le riconfigurazioni della sfera politica. Si spiega dunque come gli spazi di rappresentanza del nuovo governo – la cittadella e il Nuovo Complesso – mostrino segni evidenti delle idee architettoniche e urbanistiche da poco formulate in Italia, e come anche nel Nuovo Palazzo sia possibile riscontrare l’uso di forme classiche e italiane. Prendendo in considerazione i progetti regali ottomani chiaramente connessi ai modelli italiani del tempo, non si può che riscontrare una dimensione di interscambio culturale che attraversava il Mediterraneo: una serie di parallelismi culturali e politici, peculiari di un mondo moderno che iniziava a dispiegarsi, spiegano l’entusiastica ricezione delle idee rinascimentali nella Istanbul ottomana. Infatti, la tendenza verso sistemi
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politici centralizzati che caratterizzava il vasto mondo mediterraneo, e il concomitante interesse rivolto alla rappresentazione spaziale dai regimi recentemente consolidati, rese le teorie sulla nuova spazialità formulate nell’Italia del XV secolo molto attraenti agli occhi dei committenti stranieri. È altresì importante notare che un aspetto fondamentale della nuova concezione architettonica e urbana elaborata in Europa venne costantemente ignorato dai mecenati ottomani e dalle architetture da essi commissionate: la disposizione delle strade e delle piazze. In netto contrasto con l’enfasi posta dai teorici e dai committenti rinascimentali sulla strada come entità – e quindi sull’importanza di una struttura viaria, ordinata e uniforme – coloro che diedero forma alla città ottomana non fecero (come è noto) alcuno sforzo per conferire un’immagine uniforme a strade e piazze. Venne invece articolato un modello alternativo di spazialità e visibilità urbanistiche. Gli spazi cittadini vennero utilizzati al meglio per conferire risalto e visibilità ai monumenti ottomani; di rimando gli stessi luoghi furono caricati di nuovi significati. A determinare il destino di piazze e arterie della città bizantina – ora disseminate di monumenti ottomani – non fu tanto un «islamico» rifiuto di spazi pubblici di natura non religiosa ma piuttosto l’evolversi di una tendenza pianificatrice, già presente in precedenza nel mondo ottomano, che dava un’importanza centrale alla relazione tra paesaggio e monumenti e che pose altrettanta enfasi sulla relazione tra i monumenti e il preesistente impianto stradale. Una nuova immagine urbana si venne così a dispiegare lungo quella che in precedenza era stata l’arteria cerimoniale cittadina, legandosi indissolubilmente alla sua topografia tripartita. Questa nuova immagine urbana non era fondata su configurazioni prospettiche e geometriche intese a imporre ordine e coesione ad ampie aree dello spazio urbano. In alternativa alla visualizzazione geometrica dell’organismo urbano, si preferì concedere particolare importanza ai panorami più belli e all’interrelazione visiva tra i monumenti e i punti focali cittadini. Questa particolare concezione era fondata sull’interrelazione tra topografia e architettura, così come sull’immancabile opposizione nella capitale imperiale. Affermatosi con gli interventi ottomani sull’organizzazione urbana di Costantinopoli nel corso del tardo XV secolo, questo sfruttamento delle interrelazioni visive tra i monumenti cittadini toccò l’apice della propria maturazione nei progetti architettonici che la dinastia ottomana e la sua classe dirigente commissio-
201. Disegno a inchiostro della mappa di Costantinopoli, da Christoforo Buondelmonti, Liber Insularum Archipelagi, 1481 circa. Düsseldorf, Universitäts-und Landesbibliothek, Ms. G. 13, fol. 54r.
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narono alla fine del XVI secolo e che vennero realizzati dal Primo Architetto imperiale Sinan. Diversa dalla città di Costantino, il cui fronte monumentale era rivolto verso la Propontide, la Costantinopoli del tardo periodo bizantino che gli Ottomani si trovarono di fronte nel XIV secolo era popolata e costellata di monumenti soprattutto nella zona settentrionale. La precedente distribuzione dei monumenti era testimoniata dalla presenza di frammenti e resti piuttosto che dall’intatto complesso di strade e fori. Quindi riproporre la planimetria del tempo di Costantino comportò anche un’inversione di tendenza nell’organizzazione dell’apparato monumentale della città antica. Particolare importanza venne attribuita non al tratto meridionale della Mese – che conduceva al sobborgo di Hebdomon e, attraverso la Via Egnatia, giungeva fino a Roma – ma piuttosto al suo tratto settentrionale che, attraversando la Moschea Nuova, portava al santuario di Eyüp e quindi all’antica capitale, Edirne. Il santuario di Eyüp, posto a settentrione, fungeva quindi da contrappunto alla Zoodochos Pege, il sacro santuario che era stato collocato a sud, al di fuori della cinta muraria, a protezione della città bizantina. Nel distretto di Galata – popolato in prevalenza da non musulmani – a parte la costruzione della cinta muraria non furono introdotti importanti cambiamenti per quel che riguarda gli spazi pubblici: non vi si edificarono infatti né edifici commerciali di carattere ufficiale né strutture religiose di dimensioni monumentali. L’assenza di un edificio rappresentativo del potere ottomano sottolinea una sorta di distinzione da Costantinopoli, per la quale a Galata era tacitamente riconosciuta l’autonomia sociale e culturale, se non addirittura legale. D’altro canto, l’attività costruttiva interessò invece la periferia di Galata. Nella zona del Corno d’Oro, presso le mura della città di Galata, vennero edificati un arsenale e una residenza estiva. Tophane, il centro dove venivano fusi i cannoni, sorse invece al margine della periferia settentrionale, lungo il Bosforo. Un ulteriore centro ottomano, la scuola di formazione dei paggi da palazzo, sorse diversi decenni dopo a Galatasaray, più a monte rispetto alla torre di Galata. In accordo con la tradizione islamica, le opere pubbliche cittadine – quelle di carattere religioso, come quelle educative o di beneficenza – venivano finanziate attraverso la struttura istituzionale del waquf (vakuf lingua turca) o fondazione. Fondare una donazione comportava conferire una proprietà rurale o urbana, a volte denaro, mentre il reddito che ne risultava era destinato alla creazione e al mantenimento dell’istituzione stessa. Grazie alle proprietà loro concesse, e alle diverse migliaia di impiegati e beneficiari, le fondazioni religiose e benefiche cittadine create dal sultano e dai membri dell’élite governativa divennero dei centri istituzionali ai quali facevano capo vaste reti di patrocinio. In
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qualità di impiegati di queste fondazioni o di locatari delle proprietà che esse concedevano in affitto, una porzione considerevole della popolazione cittadina si ritrovò connessa a questa rete di patrocinio. Anche questo è un aspetto della struttura spaziale e sociale cittadina che avrebbe seguitato a plasmare la città durante il periodo ottomano. La tipologia delle istituzioni fondate dal corpo governativo subì dei cambiamenti in relazione al mutare delle necessità e delle tendenze della classe politica e della società ottomane nel corso dei secoli successivi; con essa mutarono anche i gusti e le configurazioni formali, ma la committenza delle fondazioni rimase un fenomeno di centrale importanza per la classe dirigente ottomana che utilizzava queste istituzioni per compiere azioni caritatevoli ma anche per marcare le tappe delle proprie carriere, per creare e mantenere un sistema di supporto sociale e politico, per garantire delle entrate certe a se stessi e alle proprie famiglie. Prendendo in considerazione le rappresentazioni visive della città risalenti alle ultime decadi del XV secolo, si può notare come esse attestino un cambiamento nell’immagine cittadina in concomitanza con la riorganizzazione dei suoi spazi fisici. Tra le tante vedute urbane e piante di Costantinopoli realizzate in quei decenni, due risultano particolarmente significative in quanto rappresentano il rinnovato ordine politico-religioso e spaziale che diede alla città una nuova forma. La prima è una versione della mappa di Costantinopoli in appendice a un manoscritto contenente il Liber Insularim Archipelagi di Christoforo Buondelmonti; la seconda invece è la stampa realizzata dal cartografo veneziano Gian Andrea di Vavassore che, sebbene pubblicata nel terzo decennio del XVI secolo, riproduce la città intorno all’anno 14808. Entrambe le immagini sono caratterizzate da una netta enfasi posta sulle innovazioni introdotte dagli Ottomani nel tessuto urbano di Costantinopoli, in particolare sui progetti in scala monumentale promossi dal sultano e dell’élite governativa. L’immagine di Vavassore è organizzata attorno a una sequenza allineata di monumenti regali: il Palazzo di Topkapı, Santa Sofia, il centro commerciale, il Vecchio Palazzo, il complesso religioso di Mehmed II si susseguono dalla Propontide fino alle mura di terra; la cittadella presso la Porta Aurea segna il confine meridionale delle mura. La stessa sequenza di edifici è presente nell’immagine di Buondelmonti, dove viene affiancata dalle costruzioni patrocinate dall’élite governativa. D’altro canto, la rappresentazione della città da poco riconfigurata proposta dalle due immagini contiene una serie di commistioni e anacronismi poiché rappresenta fianco a fianco alcuni dei più significativi simboli della città bizantina e di quella ottomana. Nell’immagine di Düsseldorf, Santa Sofia – provvista del minareto di recente costruzione – presenta una croce in cima alla cupola; poco distante, al centro esat-
202. Giovanni Andrea di Vavassore, Byzantium sive Costantineopolis, xilografia del 1520-40 circa, da un originale del 1480 circa. 203. Il patriarcato ortodosso presso la chiesa della Pammakaristos, xilografia da un disegno, 1578-81 circa (da Schweigger, 1606).
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to della raffigurazione, si può vedere la statua equestre di Giustiniano, un potente simbolo della capitale bizantina che sotto il dominio ottomano si era conservato per poco meno di due anni. L’immagine di Vavassore riproduce nelle bandiere dei vascelli posizionati nelle acque cittadine l’aquila bizantina e il leone di Venezia accanto alla mezzaluna ottomana. Diversi nomi di santi sono associati alle chiese del centro urbano, testimoni della visibile presenza cristiana in città; il titolo dell’immagine – «Byzantium sive Constantinopolis» – attesta il mutare dell’identità cittadina e i molti governi cui era appartenuta. La natura polifonica delle immagini sottolinea le molteplici identità cittadine e, allo stesso tempo, la singolare facilità con cui il governo ottomano seppe utilizzare tutta una serie di discorsi e strategie rappresentative per comunicare con le diverse realtà con cui era venuta in contatto e che la circondavano.
La Istanbul ottomana: formazione e mutamento dei modelli architettonici residenziali e commerciali nel lungo periodo La ricostruzione comportò il ripopolamento: inviti in città e concessioni gratuite di terreni, così come la deportazione forzata di comunità musulmane, cristiane ed ebraiche da altre zone del regno ottomano, erano intese alla creazione di una fiorente capitale cosmopolita. La popolazione era per lo più composta da comunità forzatamente confinate nella città e nel suo circondario9. Il più antico documento conservato relativo a un censimento risale al 1477 e contiene i risultati finali degli sforzi compiuti da Mehmed II. In quell’anno la popolazione cittadina stimata doveva essere
compresa tra le 60.000 e le 70.000 unità. Degli abitanti della città vera e propria, il 60% era musulmano mentre il restante 40% era composto da greci ortodossi, ebrei, cattolici di Caffa, armeni di Istanbul, armeni e greci provenienti dal Karaman, e gitani. Nel distretto di Pera, che in precedenza era stato una colonia genovese, il rapporto percentuale tra musulmani e gli altri era invertito: il 35% della popolazione cittadina era musulmano mentre greci ortodossi ed europei andavano a formare la maggioranza degli abitanti dell’ex-colonia di Genova. Anche se la popolazione subì un’improvvisa crescita tra la fine del XV e il tardo XVI secolo, la consistente eterogeneità dei cittadini rimase una costante durante il periodo ottomano. La penisola di Costantinopoli doveva ospitare tra 300.000 e 360.000 cittadini tra la fine del XVI e l’inizio del XIX secolo, mentre la popolazione doveva raggiungere le 400.000 unità nella più vasta area urbana comprensiva dei sobborghi. Un censimento realizzato nel 1844 lascia pensare che la percentuale di residenti nella capitale, musulmani e non, non avesse subìto radicali cambiamenti nei quattro secoli intercorsi. A quel tempo, il 47% della popolazione della città, includendo la periferia, era musulmano mentre le comunità composte da greci ortodossi, armeni gregoriani ed ebrei – che costituivano i più importanti gruppi nonmusulmani – rappresentavano rispettivamente il 21%, il 22% e il 6% della popolazione urbana10. La fondazione del patriarcato greco ortodosso nel 1454, e la formalizzazione delle relazioni con le autorità civili e religiose delle altre comunità non-musulmane avvenuta in quello stesso anno, giocarono un ruolo fondamentale, da un lato, nel consolidamento del potere ottomano in città e, dall’altro, nella promozione di nuovi trasferimenti a Costantino-
204. La chiesa della Theotòkos Panaghia Mougliotissa in una litografia di A.G. Paspates, 1877. 205. Melchior Lorichs, i tetti delle case di Istanbul e un edificio cupolato in lontananza, disegno a penna su carta, 1559 circa. Copenhagen, Staatens Museum for Konst den Konelige Kobberstiksamling.
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poli11. Il sistema che definì le rispettive posizioni sociali delle comunità musulmane e non – in città, ma anche nel resto dell’Impero – si venne a definire durante i primi decenni della dominazione ottomana: le comunità non musulmane vennero inserite in un sistema di relazioni gerarchiche rispetto allo stato così come nei confronti delle divisioni della società musulmana, mentre vennero loro garantiti i diritti di semi-autonomia per quel che riguardava le rispettive amministrazioni interne. Anche la coesistenza etnica e religiosa, plasmata all’interno di una struttura non paritaria, fu parte integrante dell’organizzazione spaziale cittadina. Durante la fase iniziale del governo ottomano della città, la popolazione tendeva a concentrarsi soprattutto nella zona nord-est della penisola, nell’area in cui si era ritirata la Costantinopoli del tardo periodo bizantino. I primi stanziamenti ottomani in città avvennero anche nella fascia costiera alla base del Corno d’Oro e sui suoi declivi. I membri delle comunità deportate e coloro che già abitavano in Costantinopoli – che vi rimasero o vi tornarono poco dopo la caduta della città – occupavano per lo più edifici bizantini12. Nuovi quartieri residenziali vennero edificati lungo le principali arterie cittadine così come nei pressi delle porte e attorno alle prime costruzioni monumentali promosse dagli Ottomani. Nel corso dei secoli queste aree rimasero quelle più densamente abitate; la consistente crescita di popolazione che si verificò alla fine del XVI secolo segnò invece il diffondersi di più densi stanziamenti nelle zone meridionale e occidentale della città murata. Lungo il perimetro delle mura di mare e di terra della città sorsero altri nuclei abitati; i terreni che si snodavano lungo le mura teodosiane invece furono occupati da giardini e frutteti e rimasero disabitati fino al XIX secolo. Sia la città murata che la periferia esterna erano organizzate in un numero sempre crescente di quartieri che, a partire dai primi decenni del XVI secolo, vennero incorporati in più ampi distretti urbani. È stato già più volte notato che la città venne ad assumere una struttura cellulare in cui ogni quartiere residenziale si sviluppava attorno a un centro che racchiudeva gli specifici luoghi di culto della comunità che vi abitava. È importante notare che una tale omogeneità cellulare non fu mai un fenomeno assoluto nella lunga storia della città; in particolare, nel corso del primo secolo del regno ottomano l’omogeneità etnica (e quindi religiosa, linguistica e culturale) di Istanbul nelle aree residenziali e commerciali era piuttosto rara. Se da un lato una tendenza verso stanziamenti di tipo più omogeneo può essere riscontrata a partire dal tardo XVI secolo, i quartieri residenziali di rado ospitavano esclusivamente i membri di una sola comunità. L’ondata di conservatorismo che caratterizzò il tardo XVII secolo spinse verso una ghettizzazione di tipo assoluto, ma questa non venne mai messa in pratica pienamente; di fatto non si giunse nemmeno a una definizione
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esatta dei confini fisici e sociali delle diverse zone residenziali. Il numero dei quartieri cittadini, al pari dei loro confini, rimase sempre variabile e mutevole, specie nei periodi di trasformazione della storia cittadina. Circa un secolo dopo lo stanziamento degli Ottomani in città, si era verificato un fenomeno di distribuzione demografica i cui risultati rimasero per lo più immutati fino all’inizio dell’età moderna. I quartieri residenziali che ospitavano un amalgama di realtà etniche e religiose si concentrarono nelle aree orientali del Corno d’Oro. Gli insediamenti greci si allinearono invece lungo le mura cittadine disponendosi in una lunga fila ininterrotta che partiva dal quartiere Petrion – a ovest di Cibali, sul Corno d’Oro – e seguiva le mura di terra fino a raggiungere il Mar di Marmara, con diversi quartieri che si spingevano fino all’area di Kumkapı/Kontoskalion13. In corrispondenza del margine settentrionale di quest’area si stanziarono alcune comunità greche ed ebraiche mentre presso il margine meridionale diversi insediamenti armeni si insinuarono fra i quartieri greci. A partire dagli ultimi decenni del XVI secolo, le aree centrali della città murata, fino allora abitate dalle differenti comunità che vi si erano stabilite nel corso dei precedenti decenni, acquisirono una forte impronta musulmana; accanto a questo gruppo dominante, tuttavia, coesistevano gruppi più piccoli di comunità non musulmane. Una rete stradale irregolare e intricata, costellata di strade chiuse, caratterizzava il tessuto urbano della maggior parte dei quartieri residenziali. A Istanbul, nel corso del primo secolo del governo ottomano, gli edifici residenziali cittadini di epoca precedente (bizantini o italiani) rappresentavano un tratto distintivo del tessuto urbano. In particolare all’interno delle aree più fittamente popolate poste nelle zone orientali del Corno d’Oro, i documenti ottomani di XV e primo XVI secolo spesso descrivono l’utilizzo da parte dei nuovi abitanti della città di abitazioni, edifici commerciali, magazzini, a volte chiese. Qui, oltre alle case a corte, si trovavano edifici che presentavano negozi al pianterreno e abitazioni ai piani superiori, spesso privi di cortile o di giardino. Questi, come le palazzine a più piani e più unità abitative nel distretto commerciale – simili a quelle riscontrate anche a Galata oltre il Corno d’Oro – facevano probabilmente parte del tessuto urbano preottomano14. A Galata – spesso paragonata a una città italiana, in particolar modo a Genova – gli edifici in pietra e mattoni presentavano due o tre piani che si innalzavano su depositi ubicati al piano interrato, mentre strade porticate erano sormontate da stanze per sfruttare al meglio lo spazio disponibile in una periferia tanto popolosa. Case di uno o due piani, di modeste dimensioni e costruite con materiali poveri, caratterizzarono le aree residenziali della città murata fino alla prima parte del XVI secolo. Un testimone oculare italiano degli anni Trenta del Cinquecento scrisse che la città era «piena di case, non molte però
206. La moschea di Beyazıd e, sotto di essa al centro, il quartiere di Tahtakale e il Palazzo Vecchio (subito a sinistra della linea di piega), particolare di una veduta di Istanbul di un autore anonimo, del 1590 circa. Österreichische Nationalbibliothek, Cod. 8626*, fols. 159v-60r.
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di buona qualità essendo fatte in argilla e legno e molto raramente in pietra»; i disegni che ritraggono le case di Istanbul a metà e alla fine del XVI secolo confermano questa testimonianza illustrando solo edifici di uno o due piani con la struttura esterna realizzata prevalentemente in pietra e legno15. I documenti ottomani forniscono un’idea generale della forma e della disposizione di questi edifici: le case erano per lo più di due piani nelle zone più densamente popolate che si trovavano nell’area nord-occidentale della penisola, mentre quelle di un solo piano erano più frequenti nei distretti occidentali. Nella maggior parte dei casi le sezioni d’abitazione e di servizio erano disposte attorno a una corte sulla quale si affacciavano le stanze precedute da un portico o anticamera; lo stesso spazio comprendeva anche una cucina, a volte una dispensa, una toilette e un pozzo. Abitazioni di questo tipo continuarono a caratterizzare il tessuto urbano residenziale della capitale fino ai secoli XVII e XVIII. Un’altra tipologia di residenza riscontrata nella Istanbul della fine del XVI secolo è rappresentata da edifici a un solo piano in cui le numerose stanze venivano organizzate attorno a un cortile; possono forse essere considerate gli antecedenti delle case per scapoli che si sarebbero diffuse nel corso dei secoli successivi16. Le case a corte, che rimasero a lungo una caratteristica costante degli edifici residenziali dell’area del Mediterraneo orientale, sembrano essere state un elemento condiviso dalla tradizione bizantina come da quella ottomana. Le pendici collinari che si dispiegavano tra il Vecchio Palazzo e il Topkapı – un’area di residenza ambita dai funzionari di corte – ospitavano una certa quantità di ampie isole organizzate intorno a più cortili con numerose stanze, che inglobavano di norma parti di strutture preottomane. Queste residenze più ampie, con diverse corti, potevano essere suddivise in quartieri separati dedicati alle diverse esigenze della famiglia, agli affari economici e alle relazioni sociali sbrigati dagli uomini. Esse presentavano inoltre dotazioni assenti nelle residenze più modeste in cui viveva la maggior parte della popolazione, come giardini alberati, stalle, caldaie, pozzi, stanze aggiuntive e bagni privati17. Gli ultimi decenni del XVI secolo videro l’affermarsi di una tendenza destinata a plasmare l’organizzazione sociale e spaziale della capitale nei secoli successivi, per lo meno negli schemi di espansione e contrazione: da un lato, furono introdotte una serie di misure volte a sottolineare l’isola-
207. In questa scena di festeggiamenti a Tavukpazarı, l’antico foro di Costantino, sono raffigurati la colonna di Costantino, la moschea di Atik Paşa e il khan degli ambasciatori. Österreichische Nationalbibliothek, Cod. Vindob. 8626.
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mento della popolazione cittadina musulmana da quella di altra religione, dall’altro, le divisioni tra gli spazi abitativi delle diverse comunità vennero sottolineate anche visivamente. Fu in questo periodo che le comunità di cristiani ortodossi e quelle minori di cristiani cattolici – che fino allora avevano occupato i distretti centrali della penisola murata, proprio attorno alle infrastrutture cittadine appena rinnovate quali i nuovi edifici dei bagni e le pubbliche cucine – furono spinte a trasferirsi ai margini della città. Prese allora forma lo schema residenziale della città murata, con le comunità non musulmane stanziate per lo più lungo le mura di terra e di mare e i quartieri musulmani al centro. Sempre in questo periodo si venne consolidando il concetto di struttura residenziale cellulare secondo cui le comunità etniche e religiose avrebbero dovuto vivere in quartieri separati, sviluppati attorno ai rispettivi luoghi di culto. Sebbene il suddetto schema abitativo non sia mai stato messo in pratica in maniera esclusiva, i concetti di differenziazione comunitaria, ghettizzazione e gerarchia vennero ad assumere un ruolo centrale nel linguaggio politico ufficiale. Speciali misure volte a una più stretta ghettizzazione delle comunità e all’espulsione dei non musulmani dai centri di importanza economica o simbolica venivano a volte utilizzate come espediente per legittimare la corte agli occhi della popolazione musulmana. Per quel che riguarda l’aspetto visivo e spaziale della città, la conseguenza più tangibile di questa tendenza fu una serie di norme riguardanti non solo i luoghi di culto ma anche le residenze private che i membri delle diverse comunità possedevano in Istanbul. I diversi tentativi di regolamentazione miravano principalmente a una distinzione gerarchica tra residenti musulmani e non. Il ricorrente, seppure intermittente, desiderio da parte delle autorità ottomane di distinguere visivamente le case dei musulmani dalle altre trovò espressione concreta solo nella differenziazione dei colori e delle altezze delle abitazioni. Il fatto stesso che la corte impartisse tali direttive in corrispondenza dei periodi di maggiore spinta per l’ortodossia, rivela con chiarezza la natura decisamente omogenea e sopranazionale dell’architettura residenziale ottomana al di là delle distinzioni etnico-religiose. La topografia cittadina – determinata dalla geografia come dalla storia – ispirava senza ombra di dubbio orientamenti di continuità tra gli usi spaziali bizantini e quelli ottomani, specie nel quartiere commerciale. Da quando era stata concepita quale capitale dell’Impero Romano d’Oriente, Costantinopoli era stata il maggiore centro di consumo del Mediterraneo orientale e, date le scarse risorse naturali nelle immediate vicinanze, aveva sempre mantenuto una quasi completa dipendenza dalle importazioni18. Le derrate alimentari di prima necessità, al pari delle mercanzie di
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Moschea di Ahi Çelebi
TAHTAKALE (Taht Al-Kal’a)
Moschea di Sarı Timur
Moschea e Khan di Rüstem Paşa E M I N Ö N Ü
Moschea e madrasa di Hoca Hamza Bagno di Tahtakale
Complesso di Yeni Valide
Papazoğlu Khan
Yağcı Khan
Uzunçar ş i/Ma kros Emb olos
Balkapanı Khan
Bazar delle spezie
Leblebici khan e moschea di Alaca Moschea di Atik Ibrahim Paşa
Mahmud Paşa (Kürkcü) Khan
Valide Khan
Moschea e bagno di Hoca Paşa
Madrasa di Rüstem Paşa
Moschea di Mercan Agha
Büyük Yeni Khan
Bagno di Sırt Moschea di Daye Hatun
Cebebi Khan
Bagno di Şengül, moschea e madrasa di Hacı Beşir Agha
Çuhacılar Khan
Moschea e convento di Mahmud Paşa
Ali Paşa Khan
Bedestan bazar coperto
Bagno di Cağaloğlu Complesso di Nuruosmaniye
Complesso di Bayezid II
Moschea e madrasa di Çorlulu Ali Paşa Madrasa e mausoleo di Koca Sinan Paşa
Vezir Hanı Bagno di Çemberlitaş
Complesso di Atik Ali Paşa Complesso di Köprülü
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lusso, venivano trasportate via terra ma soprattutto via mare così che i porti e le vie di comunicazione che li collegavano al resto della città avevano acquisito importanza primaria nell’organizzazione dello spazio urbano. La ristrutturazione della città promossa dagli Ottomani comportò la ripresa di un analogo schema di approvvigionamento, con le relative componenti di trasporto, magazzinaggio e distribuzione. Il quartiere commerciale ottomano aveva un assetto bipartito: l’area del porto sul Corno d’Oro, dove venne «ottomanizzata» una struttura urbana preesistente, e il centro commerciale di nuova costruzione presso il primo palazzo di Mehmed e il tratto in salita della Mese. Gli stabilimenti lungo la linea del porto erano per lo più dedicati al commercio all’ingrosso e alle attività artigianali; la seconda sezione lungo la salita era invece il centro del commercio di metalli preziosi, tessuti e armi. Il Makros Embolos della città bizantina, che nella Istanbul ottomana era diventato l’Uzunçarşı, si estendeva nell’area tra il porto e la Mese, collegando tra loro i due nuclei del distretto commerciale. Il tessuto bizantino dell’area settentrionale della penisola, specie nei quartieri molto commerciali situati a est del Corno d’Oro e collegati al porto, venne per lo più conservato nel periodo ottomano19. L’assetto demografico di questa zona, che aveva ospitato gli insediamenti commerciali italiani, cambiò in maniera radicale, ma il suo tessuto urbano si conservò come parte dell’eredità italiana e bizantina della città. Le strade che scorrevano parallele alla linea costiera – ognuna caratterizzata da un differente tipo di commercio o di produzione artigianale, secondo l’ordine tradizionale di un quartiere di mercato premoderno – vennero descritte in termini del tutto simili da Ibn Battuta nel corso del XIV secolo e dai numerosi testimoni oculari del XVI secolo e oltre20. Proprio all’inizio del Makros Embolos/Uzunçarşı, oltrepassata la porta imperiale, c’era il mercato di Taht al-Kal‘a, letteralmente un’area «sotto la cittadella», tipica della configurazione urbanistica ottomana, destinata alla vendita di prodotti al dettaglio per i residenti nella zona ma anche per i nuovi arrivati in città21. Punto di partenza di una delle arterie principali e area centrale del distretto commerciale, il Taht al-Kal‘a fu tra le prime zone di Costantinopoli a subire l’intervento architettonico ottomano con l’installazione di un doppio bagno la cui grandiosa sala dell’apoditerium, con copertura a cupola, dava sulla stra-
208. Pianta del quartiere commerciale di Istanbul (ridisegnata da W. Müller-Wiener, Bildlexikon zur Topographie Istanbuls: Byzantion, Konstantinopolis, Istanbul bis zum Beginn des 17. Jahrhundert, Tubinga 1977).
da principale. Costruito durante la campagna promossa da Mehmed II per il restauro delle condutture idriche cittadine e l’edificazione di «splendidi e costosi» bagni (ne furono costruiti ventisei solo durante il suo regno), quello del Taht al-Kal‘a era destinato a rimanere nei secoli a venire uno dei più grandi bagni della città ottomana. Il fatto che un bagno di dimensioni monumentali piuttosto che una moschea servisse come mezzo per marcare il principale ingresso cittadino rivela un modello tipico e altamente significativo del processo di monumentalizzazione cittadina durante i decenni immediatamente successivi alla conquista. Nella costruzione del bedestan e dei mercati circostanti che delimitavano il centro del Mercato Coperto di Istanbul, la forma dello spazio pubblico fu determinata da uno schema ottomano piuttosto che dalle preesistenti configurazioni. Il bedestan ottomano, i cui prototipi sono da ricercarsi nel mondo antico e medievale, ospitava spazi per il commercio dei beni di lusso e le operazioni bancarie, e costituiva un centro attorno al quale era destinato a formarsi un distretto esclusivamente commerciale. La vicinanza al primo palazzo e alla Mese, nonché i collegamenti con l’area portuale e la possibilità di espansione, sembrano aver giocato un ruolo determinante nella scelta della posizione geografica. Il porto e il complesso del bedestan con annessi mercati rimasero i punti nevralgici attorno ai quali, durante i secoli successivi, prese forma lo sviluppo commerciale della capitale con l’aggiunta di numerosi caravanserragli di grandi proporzioni. Questi spazi non erano destinati soltanto alle attività connesse alle importazioni – come ad esempio il trasporto, il magazzinaggio, l’alloggio dei mercanti – ma anche alla regolamentazione dell’attività mercantile e a un’efficiente riscossione dei tributi22. Questi edifici, spesso costruiti come parte di ampie fondazioni di carità e beneficenza, erano di norma a due piani e organizzati attorno a uno o più cortili la cui disposizione spesso si adattava agli edifici urbani circostanti tra i quali si inserivano. Una fitta rete di negozi circondava queste strutture monumentali edificate in pietra.
Cambi di traiettoria: i decenni successivi al regno di Mehmed II Il regno di Beyazıd II ebbe una durata di trentuno anni (1481-1512) e fu caratterizzato da significativi cambiamenti in ambito politico e culturale. L’allontanamento dal cosmopolitismo promosso da Mehmed II e un’enfasi crescente posta sull’identità sunnita dello stato ottomano sono gli aspetti più significativi di tale trasformazione e si riflettono sull’immagine del sultano così come su alcune scelte politiche dello stato ottomano. Bayezid II non promosse un radicale cambio di orientamento all’interno della classe politi-
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ca ottomana, né voltò completamente le spalle alle imprese culturali di carattere imperiale iniziate da suo padre: invitò Leonardo da Vinci e Michelangelo a prendere parte ad alcuni progetti regali in Istanbul e i letterati di formazione persiana continuarono a occupare posizioni rilevanti nella corte ottomana. Nel contempo Beyazıd smorzò le reazioni alle continue campagne di centralizzazione e al cosmopolitismo assoluto promossi da Mehmed II. Quando il governo ottomano tentò di rispondere adeguatamente alla nuova configurazione politica formatasi con il sorgere dello stato sciita safavide sul confine orientale, l’identità sunnita ortodossa dello stato e della società ottomani venne evidenziata allo scopo di rafforzare e salvaguardare l’integrità politica e culturale dell’Impero stesso23. Solo vent’anni dopo la propria ascesa al trono Beyazıd II fondò in Istanbul un complesso regale religioso e di beneficenza. Nel frattempo aveva però fatto costruire grandi complessi ad Amasya ed Edirne nel tentativo di riequilibrare il dislivello creatosi durante il regno di suo padre a favore della nuova capitale e a scapito di altri centri urbani di importanza simbolica. Anche molti membri della classe politica dirigente evitarono di promuovere progetti architettonici su vasta scala in quegli stessi anni. Quando venne ripresa la costruzione di edifici pubblici nella capitale, il bacino di committenza preposto alla loro sponsorizzazione si era ampliato: i membri del concilio imperiale e i comandanti in capo erano stati affiancati dagli agha, ufficiali palatini d’alto rango, nel ruolo di promotori di importanti progetti architettonici. Hüseyin Agha, il capo degli eunuchi bianchi, convertì la chiesa dei Santi Sergio e Bacco in moschea e vi fece annettere un convento, una pubblica cucina e un bagno; il custode del tesoro, Firuz Agha, fece costruire una piccola moschea (1490) in una zona molto in vista dove la Mese raggiungeva l’Ippodromo. Nelle vicinanze, sopra la cisterna Philoxenos/Binbirdirek, Firuz Agha fece edificare il proprio palazzo che, simile al Topkapı, era organizzato attorno a una successione di tre cortili24. Nel corso di questi decenni la Mese venne definitivamente trasformata nella Divan Yolu della capitale ottomana, la principale arteria cerimoniale della città; questa era caratterizzata da diverse strutture monumentali commissionate dell’élite al potere e disposte in successione a partire dalla masjid di Firuz Agha. A meno di cinquecento metri di distanza lungo la stessa arteria, sopra il Foro di Costantino con al centro la distintiva colonna in porfido, fu innalzato il complesso del gran vizir Atik Ali Paşa (1509). Andando oltre si giungeva al Forum Tauri la cui zona settentrionale era ora occupata dal complesso di Beyazıd II con edifici disposti lungo l’arteria principale per tutta la lunghezza dell’area del foro. Più oltre, sul lato settentrionale dell’arteria bizantina, tra la moschea del venerdì di Mehmed II e la porta di Edirne, Atik Ali Paşa fece edificare un’altra
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moschea congregazionale insieme a un grande bagno che si affacciava sulla via principale. Nelle immediate vicinanze del lato meridionale della Mese, a occidente rispetto al Foro di Arcadio, nel 1485 Davud Paşa fece edificare un complesso provvisto di moschea-convento, pubblica cucina e madrasa. Le costruzioni promosse dal polo governativo ottomano sulla Mese consolidarono il ruolo della principale arteria cittadina quale percorso cerimoniale costellato di architetture ottomane. A eccezione dei bagni e delle locande, questi edifici non si affacciavano sull’arteria principale ma erano per lo più recintati da muri finestrati. Le imponenti dimensioni, l’utilizzo della pietra tagliata, le cupole rivestite in piombo, la profusione dei preziosi materiali architettonici e l’alta qualità delle manifatture li mettevano in risalto rispetto alle costruzioni circostanti. La Divan Yolu acquisì le caratteristiche proprie di un percorso processionale, segnato dal susseguirsi di costruzioni che caricavano di significato lo scenario e i rituali che venivano eseguiti lungo la via e in alcuni spazi che si aprivano su di essa25. La Divan Yolu ottomana è in questo senso paragonabile ad altre arterie caratterizzate dalle stesse architetture tipiche di un percorso processionale quali la Via Papale a Roma, che si era formata nel corso dei primi decenni del XVI secolo, o la via al-Moaz al Cairo, su cui a partire dal XIII secolo una serie di edifici mamelucchi si erano affacciati in una successione singolare e ininterrotta26. L’enfasi, in tutti e tre i casi, non era posta sull’asse lineare ma sulla disposizione lungo il percorso degli edifici significativi dell’élite, quindi sulla visibilità e sulla rilevanza ottenute tramite la scelta della posizione e il design architettonico. La diversità dei processi politici che promossero queste costruzioni, e i diversi linguaggi architettonici nei contesti mamelucco, italiano e ottomano fanno di questi tre percorsi processionali strutture simili ma distinte. Durante il regno di Beyazıd si venne a creare uno stretto rapporto tra lo stato e l’ordine sufi degli Halvetiyye, che divenne l’ordine di dervisci più attivamente supportato dal governo ottomano, soprattutto nel corso dei secoli XVI e XVII. Il passo più determinante che portò gli Halvetiyye a occupare una posizione di primo piano nella politica ottomana fu l’invito rivolto da Beyazıd II a Çelebi Halife per il trasferimento della sede dell’ordine da Amasya, principesca capitale nel nord dell’Anatolia, a Istanbul. I grandiosi finanziamenti di cui il capo spirituale e i suoi seguaci godettero nella capitale segnò una svolta radicale nel mecenatismo ottomano: a partire dal complesso fondato nel 1486 da Koça Mustafa Paşa (con la conversione della chiesa di Sant’Andrea in Krisei in convento-moschea) un numero consistente di importanti edifici religiosi fondati nel corso del regno di Beyazıd furono destinati ad accogliere l’ordine Halveti. Il nuovo rapporto tra lo stato e l’ordine sufi
trovò regale espressione nella moschea congregazionale che Beyazıd fece edificare a Istanbul. Questa costruzione si distingueva dalle moschee congregazionali già erette dai sovrani ottomani per l’aggiunta di sezioni conventuali su ambo i lati della sala di preghiera. Il forte messaggio politico espresso nella configurazione architettonica del complesso di Mehmed venne qui sostituito da un concetto formulato con altrettanta decisione e chiarezza: il convento, simbolo dell’ospitalità concessa ai sufi dal governo, venne ad assumere un’importanza centrale grazie alla sua nuova collocazione all’interno della regale moschea cattedrale. Oltre a Santa Sofia, e alle chiese monastiche del Pantokrator, della Kyriotissa e di Pantepoptes, poche altre strutture cristiane erano state convertite in istituzioni di beneficenza o di educazione dalla classe dirigente ottomana durante il regno di Mehmed II. Nel corso dei primi decenni successivi alla conquista, l’élite politica ottomana si era piuttosto concentrata su nuove costruzioni. I regni di Beyazıd II e Selim I, al contrario, furono caratterizzati da un’ondata di conversioni che può in parte essere interpretata come un segno del rafforzarsi dell’identità religiosa dello stato ottomano all’interno dello spazio cittadino della capitale (il secondo dei suddetti sultani, infatti, tentò senza successo di convertire tutti i santuari non musulmani presenti in città chiamando in causa la principale autorità musulmana perché si esprimesse legalmente in merito). Tra i vari conventi di nuova fondazione dell’ordine Halveti, tre trovarono posto nelle chiese bizantine convertite dei Santi Sergio e Bacco, dello Studios e di Sant’Andrea in Krisei. In questo periodo divennero moschee il Myrelaion (la Bodrum Camii fondata da Mesih Paşa), la Gül Camii (il cui fondatore ottomano resta ignoto, così come la sua identità bizantina), la Chora (fondata da Atik Ali Paşa, cui si deve la costruzione di altre due moschee congregazionali in Istanbul), il monastero di Costantino Lips (fondato da Fenarizade Alaüddin Beg), la Toklu Dede Mescidi (commissionata da Koça Mustafa Paşa, lo stesso che determinò la conversione di Sant’Andrea in Krisei). Almeno due di queste chiese, la Gül Camii e la Costantino Lips, erano ancora in uso al tempo della loro conversione. Un altro strato della memoria di Bisanzio veniva così assorbito dall’ordine ottomano mentre l’identità islamica della capitale diveniva un aspetto più determinante nella costituzione della sua immagine. I mosaici figurativi della Chora, così come quelli di Santa Sofia e probabilmente di altre chiese, rimasero integri e visibili fino al tardo XVI secolo27.
Ordine e magnificenza: la capitale imperiale al tempo di Solimano La pianta di Istanbul realizzata da Matrakcı Nasuh nel 1537 ca. cattura l’immagine della capitale ottomana che si
era definita nel corso dei primi decenni del XVI secolo28. Si tratta di una miniatura ed è pertanto caratterizzata dalle convenzioni caratteristiche di questa tecnica artistica e dall’adattamento di taluni aspetti delle vedute cittadine europee, come ad esempio quelle inserite nell’Isolario di Christoforo Buondelmonti o nelle copie di tardo XV secolo della Geografia di Tolomeo. La Istanbul di Matrakcı è la città dei monumenti costruiti dal sultano, dalla famiglia imperiale e dalla classe politica nella penisola murata e nei sobborghi di Eyüp e Üsküdar. I monumenti regali di maggior rilievo – Santa Sofia, il complesso di Beyazıd, il Vecchio Palazzo, il complesso di Mehmed II – formano un asse centrale che si snoda attraverso la penisola e costituisce una linea di congiunzione per tutti i monumenti rappresentati nel panorama cittadino. Il Palazzo di Topkapı, dislocato esternamente rispetto a quest’asse centrale, rimane tuttavia una presenza determinante vista anche la sua posizione sulla punta della penisola. La scelta di tali monumenti a scapito degli edifici bizantini e non musulmani, la cui presenza in città viene sottaciuta, porta in primo piano l’identità islamica della capitale ottomana. Assecondando le convenzioni delle «prospettive a volo d’uccello» di tardo XV secolo, e volendo nel contempo rappresentare un’ideale città paradisiaca, Matrakcı non mostra alcun interesse per la rappresentazione dell’assetto urbano e sceglie piuttosto di inserire i singoli monumenti – molti dei quali si possono riscontrare nella Istanbul di primo XVI secolo – in un paesaggio paradisiaco di piante e alberi in fiore. La rappresentazione di Istanbul come una città-giardino proposta da Matrakcı riecheggia una nuova tendenza che caratterizzò l’area di influenza della città durante gli anni Venti e Trenta del XVI secolo e che determinò la costruzione da parte della dinastia ottomana di palazzi e giardini suburbani lungo il Bosforo, in particolare sulla sponda asiatica29. Mentre sono poche le dimore suburbane risalenti ai decenni iniziali del governo ottomano in città, queste si moltiplicarono nel corso del XVI secolo. Giardini regali lungo il Bosforo o sulla sommità delle colline che vi si affacciavano, segnarono la costa asiatica tra il distretto di Üsküdar, situato oltre il Palazzo di Topkapı, e quello di Beykoz, vicino al Mar Nero. Si trattava nella maggior parte dei casi di giardini organizzati in maniera informale, con una grande varietà di alberi e fiori, e con diversi recinti delineati da gruppi asimmetrici di chioschi, padiglioni e torri belvedere. Nel corso del tardo XVI e XVII secolo questi palazzi suburbani si moltiplicarono su entrambe le sponde del Bosforo, nell’area orientale del Corno d’Oro, nel sobborgo di Eyüp e nella Propontide; quelli già esistenti vennero invece ricostruiti e ampliati. Mentre in principio i giardini dei palazzi suburbani della dinastia ottomana si prestavano all’organizzazione di banchetti e ricevimenti regali oltre che a raduni privati e spedizioni di caccia, essi vennero sempre più utilizzati
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209. Pianta di Istanbul nel Beyan-ı Menazil-i Sefer-i Irakeyn di Nasuhü’s-Silahi (Matrakcı). Istanbul University Library, T. 5964, fols. 8v-9r.
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Sopra: 210. Üsküdar e Calcedonia sulla riva asiatica, con il palazzo Kavak e i palazzi dei visir a Üsküdar, particolare della veduta panoramica di un autore anonimo. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna, Cod.8626*.
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Sotto: 211 e 212. Il portale d’ingresso e il cortile della sala di pubblica udienza del palazzo di Sokollu Mehmed Paxa, acquerello su carta dell’Album Löwenklau, 1586 circa, da disegni realizzati nel 1573-78. Österreichische Nationalbibliothek, Cod. 8615, fols. 137r-v.
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come luoghi di ritiro privato. Il Palazzo Kavak a Üsküdar, rinnovato e ampliato negli anni Cinquanta del XVI secolo per servire da residenza estiva del sultano, era quello più esteso. Nelle sue vicinanze si trovavano i palazzi del più ampio casato imperiale, del gran vizir Sokollu Mehmed e della sua regale consorte Ismihan. Sul colle Ayazma (sacre fonti) era invece situato il palazzo di un’altra coppia composta da un vizir e da una principessa, quello di Rüstem Paşa e Mihrimah Sultan, che nel tardo XVIII secolo venne rimpiazzato dalla moschea di Ayazma. Nulla rimane dei giardini ottomani e degli annessi palazzi di XVI secolo, con i caratteristici chioschi e padiglioni di piccole dimensioni, spesso costruiti in legno e riccamente decorati con squisita finezza. Allo stesso modo, le informazioni relative al tessuto residenziale di Istanbul fino al XVIII secolo si basano principalmente su fonti visive e documentarie piuttosto che su quanto resta di case e palazzi degli abitanti della città. Diversamente dai piccoli chioschi e padiglioni che costituivano la caratterizzazione principale dell’immagine dei palazzi esterni alle mura cittadine di Istanbul, quelli dei dignitari all’interno della città murata erano costruiti a immagine e somiglianza del palazzo regale e presentavano quindi due o tre cortili in successione e quartieri che si prestavano a diversi utilizzi pubblici e privati. Le stesse caratteristiche contraddistinguevano il già nominato palazzo cinquecentesco di Firuz Agha, così come quello costruito nel tardo XVI secolo a Kadırga, nella Propontide, dalla principessa Ismihan Sultan e da suo marito il gran vizir Sokollu Mehmed Paşa30. Altri palazzi urbani, sprovvisti di quartieri residenziali, erano situati a lato dell’Ippodromo e venivano utilizzati come sale di udienza per gli ufficiali d’alto rango dello stato31, ma fungevano anche da tribune regali durante i festeggiamenti e le processioni organizzati nell’antico At Meydanı. Diversamente dal panorama architettonico urbano e suburbano della capitale, caratterizzato da una relativa volubilità, le costruzioni pubbliche di tardo XVI secolo trasformarono lo spazio e l’immagine della città in maniera permanente, dotandola di alcuni fra i maggiori monumenti che ancor oggi contraddistinguono il contesto urbano della penisola murata. Una trasformazione polivalente della cultura politica dello stato ottomano, verificatasi a partire dagli anni Trenta del XVI secolo, fece da base alla formazione della nuova immagine imperiale della Istanbul cinquecentesca. Il regno di Solimano – detto «il Magnifico» nelle fonti europee e «il Legislatore (kanuni)» in quelle ottomane –, vide l’Impero raggiungere dimensioni tali che un’ulteriore estensione sarebbe risultata impraticabile dati i mezzi militari e amministrativi del tempo (aveva esteso i propri possedimenti in Mesopotamia e nell’Iran occidentale, come anche in Ungheria e nell’Europa orientale). All’inizio del XVI secolo il rafforzamento
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dell’identità islamica della classe politica ottomana venne promosso in conseguenza dell’espansione dei territori ottomani che portò all’annessione delle città sante di Gerusalemme, La Mecca e Medina e del consolidamento dello stato sciita safavide lungo i margini orientali dell’Impero ottomano verificatosi nel corso dei decenni precedenti. Quando l’identità islamica della classe politica e della dinastia imperiale andò a occupare un posto di primo piano nel mecenatismo culturale del corpo amministrativo, le trasformazioni in campo politico portarono a un’ulteriore burocratizzazione e gerarchizzazione del regno ottomano, accompagnate da una canonizzazione delle sue pratiche legali e dal consolidamento di un élite gerarchizzata32. La conseguenza più immediata sul panorama cittadino del concetto di un nucleo imperiale accentratore fu la sottomissione al potere centrale degli atelier di corte, di architetti e artisti, al fine di intraprendere la progettazione, costruzione e manifattura delle opere d’arte e delle architetture commissionate dal sultano, dalla sua famiglia e dall’élite amministrativa. Gli atelier di corte mediarono la formazione di un linguaggio visivo che si identificasse in maniera immediata ed esclusiva con il corpo di governo ottomano. Mentre è certo che un gruppo di architetti di corte esisteva già a partire dai primi decenni del XVI secolo, una loro organizzazione sottesa a più ampie funzioni si sarebbe consolidata nel corso dell’ultima parte del regno di Solimano e soprattutto attraverso Sinan, Primo Architetto della corte ottomana per cinque decenni – a partire dalla fine degli anni Trenta del XVI secolo fino al 158833. Nella sua forma recentemente definita e ampliata, questa corporazione serviva da ufficio centrale per i lavori pubblici e svolgeva diverse funzioni che potevano riguardare sia la costruzione di opere idrauliche e di strutture militari sia la progettazione e la costruzione di edifici pubblici e privati del casato ottomano e della classe politica dirigente sia la supervisione della crescente industria edilizia o lo svolgimento di compiti municipali quali la costruzione e la manutenzione di strade e lo sviluppo e il controllo delle norme edilizie riguardanti gli edifici pubblici e privati posseduti dagli abitanti della città. Essendo egli stesso un risultato della configurazione «classica» dello stato ottomano, Sinan – Primo Architetto della corte imperiale durante i regni di tre successivi sultani – elaborò, nel corso della propria carriera durata mezzo secolo, uno stile architettonico che si esprime con particolare forza nelle monumentali moschee da lui realizzate: si tratta di edifici a pianta centralizzata, con copertura a cupola, che dimostrano un sapiente uso delle possibilità strutturali delle tecniche di costruzione muraria raggiungendo magistrali risultati di aggregazione, espressione architettonica, articolazione spaziale e illuminazione34. Non è una coincidenza che i capolavori architettonici di Sinan siano le moschee congre-
gazionali da lui realizzate per i sultani ottomani, per la loro famiglia e per i membri dell’élite governativa, dal momento che gli stessi decenni che lo videro attivo furono caratterizzati dal rafforzamento dell’identità sunnita dello stato ottomano. Mentre la costruzione di una monumentale moschea congregazionale rimase un obbligo del sultano nel corso dei secoli della storia ottomana, il fatto che la moschea venisse scelta da tutti i committenti che desideravano realizzare una struttura architettonica pubblica – fossero essi sultani, membri della dinastia imperiale o dell’élite politica – è un fenomeno specifico della seconda metà del XVI secolo. L’elemento centrale di molti complessi architettonici era l’edificio multifunzionale composto da moschea e convento, che svolse un ruolo fondamentale prima del consolidamento della configurazione dello stato ottomano alla metà del Cinquecento. Nel corso degli ultimi decenni del XVI secolo, un ulteriore cambio nelle forme di mecenatismo fece sì che le costruzioni più piccole sviluppate attorno alle madrase e ai mausolei dei fondatori divenissero le forme favorite di edilizia urbana. I luoghi all’interno della città murata in cui furono costruiti i due complessi urbani commissionati da Solimano a Sinan danno una chiara idea dei progetti del principale committente di architetture del mondo ottomano di XVI secolo. Sia da un punto di vista istituzionale che spaziale, il complesso della Süleymaniye (1550-1557) si rifà da vicino a quello di Mehmed II, con la moschea congregazionale circondata – secondo una disposizione geometrica meno rigida rispetto a quella del suo modello –, dalle madrase, dall’ospedale e dagli edifici di abitazione dell’isola. Come tutti gli analoghi complessi regali dentro le mura, anche questo era di tipo funerario, con il mausoleo del fondatore che si ergeva oltre il muro della qibla della moschea. La disposizione degli ambienti e i programmi decorativo ed epigrafico fecero della moschea un esempio concreto del definitivo passaggio della classe politica ottomana all’Islam sunnita35. Diversamente dai complessi commissionati da Beyazıd II e da Selim I (costruito postumo da Solimano), nessun convento era annesso alla moschea che risultava così isolata. Da allora in poi nessuna moschea imperiale avrebbe più ospitato parti destinate all’abitazione. Il complesso della Süleymaniye rappresenta il momento culminante di una fase dell’architettura monumentale cittadina del periodo ottomano. Situato in una zona ricavata nell’area settentrionale del Vecchio Palazzo, questo insieme di edifici di pietà e beneficenza – il più vasto fra quelli ottomani – trasformò l’immagine cittadina con la maestosa forma della propria moschea, circondata dalla miriade di cupole delle annesse costruzioni che si affacciavano sull’area delle attività commerciali e sul Corno d’Oro. Per la sua posizione su di un pendio affacciato sull’insenatura marina che separa la città vera e propria dalla in gran parte euro-
pea e non musulmana Galata posta sulla riva opposta, il complesso della Süleymaniye appartiene al gruppo dei monumenti sultaniali ottomani che caratterizzano il panorama generale di Istanbul; le sue proporzioni imponenti e la sua vicinanza alla costa, infatti, ne fanno l’anello centrale di una catena di monumenti che costella i colli e i declivi di tutto il Corno d’Oro36. Questa successione di moschee monumentali caratterizza fortemente l’immagine della città sia che la si guardi da uno dei margini dell’area urbana, dal Palazzo di Topkapı e dal sobborgo di Eyüp, oppure da Galata, oltre il Corno d’Oro. Posizionato al margine più remoto dell’area del Vecchio Palazzo (ora provvisto di un portale che si apriva sulla strada che costeggiava il perimetro della moschea), il complesso della Süleymaniye non aveva contatti con le strade cittadine più trafficate. La prima impresa architettonica di Solimano, il complesso che aveva fatto erigere tra il 1543 e il 1548 in memoria di Şehzade Mehmed – il suo defunto figlio nonché prescelto per la successione al trono –, è invece situata lungo la principale via cerimoniale della città, sul lato settentrionale della Mese bizantina e dell’ottomana Divan Yolu che conduceva alla porta di Edirne passando attraverso la piazzacortile della moschea di Mehmed II. Occupando parte del cortile delle caserme dei giannizzeri (elemento che si potrebbe interpretare come un gesto in favore di questi ultimi, nel tentativo di garantirsene il supporto nella crisi per la successione dinastica che seguì la morte del principe)37, il mausoleo e la moschea di Mehmed si sviluppano parallelamente alla strada, in prevalenza lungo le mura perimetrali finestrate dell’organismo architettonico stesso, ricalcando in parte la struttura del complesso di Beyazıd II che presentava una simile relazione con la Mese/Divan Yolu. In questo e in altri complessi architettonici, Sinan si uniformò alla linea seguita dai suoi predecessori ottomani e non fece uso di composizioni urbanistiche organizzate secondo una prospettiva monocentrica o secondo una concezione planimetrica assiale e geometrica, come quelle che venivano elaborate allora in Italia. Esplorò invece le potenzialità panoramiche dei grandi monumenti nella loro relazione con la topografia e l’assetto cittadino già esistente, seguendo la dimensione relazionale e visuale dell’urbanizzazione di Istanbul così come era stata elaborata a partire dai primi decenni della presenza ottomana in città. Le potenzialità visive connesse alla posizione dei monumenti sono messe a frutto in diversi modi, tramite i panorami che si possono godere da un particolare edificio e, nel contempo, attraverso la visibilità dell’edificio stesso da altri luoghi all’interno della città. Il dialogo visivo che percorreva lo spazio urbano – attraverso la topografia collinare della penisola di Costantinopoli come tra le masse di terra separate dal Corno d’Oro e dal Bosforo – veniva elaborato attraverso la scelta della posizione ed espedienti paesaggistici. Sinan non si curò dell’aspetto pro-
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spettico, creò invece delle composizioni architettoniche complesse e polivalenti, rendendo il terreno collinare di Istanbul e il suo denso tessuto urbano parti integranti dei suoi progetti. I molteplici punti di vista – i molteplici punti, fisici e visivi, attraverso i quali si poteva accedere all’ordine costruttivo degli edifici – vennero sapientemente manipolati non solo nel principale monumento dell’epoca, il complesso della Süleymaniye, ma anche in lavori minori come il complesso religioso di Ismihan e Sokollu a Kadırga (1567-1571) e quello di Shahsultan e Zal Mahmud a Eyüp (1577-1590). Due tipologie di relazione tra i monumenti e la città – la Istanbul dei paesaggi collinari divisi dalle acque e quella delle maggiori arterie cittadine, rispettivamente – restano le caratteristiche a lungo termine dell’architettura monumentale della capitale ottomana. Le sommità collinari e i declivi della penisola volti verso il Corno d’Oro, insieme all’affollata strada che dal Topkapı si dirigeva a est fino a biforcarsi ad Aksaray per raggiungere le porte cittadine alle punte settentrionale e meridionale lungo le mura di terra bizantine, rimasero le aree dove più densa era la presenza di strutture pubbliche edificate dal corpo governativo ottomano. Mentre i monumenti ottomani vennero a definire sia il panorama generale che l’asse cerimoniale della città, lo straordinario aumento dell’attività edilizia nel tardo XVI secolo portò a una nuova tendenza nel processo di monumentalizzazione urbana, in linea con il rafforzamento dell’identità sunnita della classe politica ottomana. Le moschee e i complessi religiosi commissionati dalla famiglia imperiale e dall’élite dirigente andarono a segnare i confini e gli ingressi cittadini. Le moschee congregazionali, tutte caratterizzate dallo stile che Sinan aveva formulato nel corso della propria attività durata quasi mezzo secolo, andarono spesso a rimpiaz-
zare minori moschee di quartiere un tempo erette nei medesimi luoghi. È questo il caso della moschea di Rustem Paşa (1561-1563 ca.), situata al centro del frenetico distretto commerciale di Tahtakale oltre la porta cittadina che conduce alla salita del bedestan; del complesso religioso di Mihrimah, la figlia di Solimano e di Hürrem, eretto accanto alla porta di Edirne (1563-1570 ca.), al margine estremo della Divan Yolu che proseguiva fuori dalle mura fino al sobborgo di Eyüp; delle moschee di Hadim Ibrahim Paşa e di Kara Ahmed Paşa, che segnarono le porte di Silivri e di Top (del Cannone) lungo le mura di terra. Le monumentali moschee congregazionali costruite dai membri del concilio imperiale – quella di Azapkapi (commissionata da Sokollu Mehmed Paşa) e quella di Tophane (voluta da Kılıç Ali Paşa) segnarono i due margini del sobborgo per lo più nonmusulmano di Galata, lungo le sue mura di mare. I complessi religiosi commissionati da donne della famiglia regale e da dignitari marcarono le coste e le pendici del sobborgo asiatico di Üsküdar oltre il Bosforo. Dotando la capitale ottomana di una forte identità islamica, queste costruzioni andavano nel contempo articolando un regime visivo egemonico basato su un sistema stratificato di rappresentazioni architettoniche. Un vocabolario di forme canoniche altamente standardizzate venne utilizzato per dare forma agli edifici dell’élite governativa ottomana e articolare così le gerarchie dello stato all’interno dello spazio cittadino della capitale. Un concetto di decorum traduceva la struttura altamente gerarchizzata della dinastia ottomana e della classe governativa in un linguaggio immediatamente visibile nello spazio urbano. Mentre la gerarchizzazione dello spazio urbano risultava dalla riconfigurazione dell’ordine amministrativo ottomano avvenuta durante il regno di
213. La moschea di Mihrimah alla porta di Edirne, lungo le mura di terra, come è raffigurata nella mappa della rete idrica del 1672, Köprülü Library 2441/1. 214. Veduta parziale dell’edificio dei bagni (Haseki Hürrem Sultan Hamam) costruito da Sinan su commissione di Hürrem/Rosselana.
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Mehmed II, mai prima dell’epoca di Solimano – né dopo, nella storia della città – un concetto di decorum così strettamente stratificato avrebbe dettato in maniera tanto chiara le forme e i limiti della committenza istituzionale e architettonica. La visualizzazione delle gerarchie di rango all’interno della capitale imperiale venne effettuata tanto attraverso i luoghi scelti per le opere pubbliche della classe dirigente che attraverso l’iconografia architettonica degli edifici stessi. Ne derivò il posizionamento delle strutture dinastiche lungo i due spazi dischiusi dall’immagine urbana della Istanbul ottomana: il percorso processionale della Divan Yolu e il fronte monumentale della città a nord, verso il Corno d’Oro e Galata. Ne derivò anche l’articolazione di un’iconografia propria delle moschee, altamente specifica dei decenni tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del Cinquecento, che distingueva visivamente le strutture commissionate dal sultano e dai suoi familiari (attraverso l’uso di più di un minareto, di cortili d’ingresso pavimentati in marmo, di elementi architettonici che rimandassero a Santa Sofia come le semicupole o gli archi nel timpano) da quelle finanziate da committenti minori. Le stesse costruzioni a cupola rimasero un privilegio della famiglia imperiale ottomana e dei membri d’alto rango dell’élite governativa: nessun mecenate musulmano dei livelli inferiori della gerarchia amministrativa, né alcun committente non musulmano di una struttura religiosa, poteva patrocinare la costruzione di un edificio di culto a cupola. Era la stessa consapevole visione di status e di rango che mirava, a volte riuscendoci, a gerarchizzare il tessuto residenziale cittadino attraverso la distinzione visiva delle residenze degli abitanti della città a seconda del gruppo sociale e della religione38. Da quando Mehmed II aveva ordinato ai propri dignitari di far edificare in città edifici pubblici e privati, i lavori architettonici – specie quelli della burocrazia militare amministrativa – avevano portato alla costruzione dei maggiori monumenti e di alcuni dei principali spazi pubblici della capitale. Da allora e fino alla fine del XVI secolo, le committenze finanziate dall’élite politica furono caratterizzate dalla ripresa e dall’ulteriore formalizzazione di tendenze che erano state stabilite nel secolo precedente. Non è questo il caso delle monumentali opere pubbliche commissionate da figure femminili, che divennero parte integrante delle gerarchie visive articolatesi in Istanbul nel corso del XVI secolo. Tra le circa 120 moschee edificate nella capitale al tempo di Mehmed II, solo quattro erano state patrocinate da donne committenti – due delle quali erano imparentate con la famiglia imperiale. Tutte erano moschee circondariali, modeste per dimensioni e materiali costruttivi, prive di pretese monumentali. Le donne della famiglia imperiale, invece, intrapresero la costruzione di opere pubbliche di primo piano nelle capitali della provincia. La comparsa di committenti femmi-
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nili tra i finanziatori di edifici pubblici nella capitale (e oltre, nelle province) segnala un momento innovativo della cultura architettonica e urbana ottomana, determinato da una serie di trasformazioni nel ruolo delle donne della famiglia imperiale rispetto al funzionamento della classe politica ottomana39. A iniziare da Hürrem – nota in Occidente con il nome di Rosselana, l’amata e potente consorte di Solimano (al quale era sposata legalmente, cosa del tutto eccezionale per una consorte) –, i membri femminili della famiglia imperiale assunsero un ruolo sempre più importante come finanziatrici di istituzioni e imprese architettoniche urbane. Il complesso di Hürrem (1537-1540, con aggiunta dell’ospedale nel 1551) – situato a nord del Foro bizantino di Arcadio, sul lato meridionale della Mese, che ora portava il nuovo nome di Avratpazarı, «mercato delle donne» – attesta in maniera eloquente la natura femminile delle scelte effettuate da Hürrem per la sua fondazione, così come i suoi progetti di mecenate dell’architettura. Situati in una frequentata piazza pubblica che ospitava un mercato di schiavi oltre a negozi che vendevano alle donne, i più imponenti edifici del complesso di Hürrem comprendevano istituzioni di beneficenza, una pubblica cucina e un ospedale oltre a una madrasa e a una piccola moschea a cupola unica40. Anche se i suoi edifici sono collocati per lo più al margine del foro bizantino, che aveva al centro la monumentale colonna di Arcadio decorata con rilievi narrativi, il complesso di Hürrem risulta allo stesso tempo spostato rispetto ai più centrali e prestigiosi luoghi di edilizia pubblica all’interno della città murata: l’asse della Divan Yolu o le zone settentrionali della penisola. La scelta di costruire in tale posizione relativamente marginale è sostituita da una nuova tendenza che porta gli edifici commissionati dalle donne della dinastia imperiale ad acquistare maggiore rilevanza. Negli anni Cinquanta del XVI secolo Hürrem avrebbe commissionato all’architetto Sinan un doppio bagno proprio al centro della città, oltre Santa Sofia e in prossimità dell’Ippodromo, nel luogo dove un tempo sorgevano gli antichi bagni di Zeusippo. Nel corso degli ultimi decenni del XVI secolo il mecenatismo architettonico divenne uno dei mezzi attraverso cui le donne di famiglia imperiale potevano negoziare il proprio status e il proprio potere all’interno della politica dinastica sempre più complessa della corte ottomana41. Mihrimah, la figlia di Solimano e di Hürrem, segnò due margini della periferia cittadina con altrettanti complessi religiosi, uno sul molo di Üsküdar, l’altro alla porta di Edirne; la consorte – poi moglie – di Selim II, Nurbanu, fece edificare nella zona circondariale di Üsküdar una delle più ampie fondazioni caritative e di beneficenza mai create dal casato ottomano. Le principesse sposate a membri del concilio imperiale intrapresero alcune costruzioni assieme ai rispettivi mariti, ma gli edifici presero poi il nome dal membro maschile della coppia. Due dei capolavori cinquecenteschi di
Sinan – gli edifici noti come moschea di Sokollu a Kadırga e la moschea di Zal Mahmud Paşa a Eyüp – erano infatti progetti di coppia finanziati dai vizir e dalle loro regali mogli. Se il nome delle principesse sia stato taciuto per una loro scelta o per via della mentalità patriarcale dell’epoca che restringeva il ruolo femminile alla fondazione di edifici di carità e beneficenza, non è dato sapere; di fatto però l’attività di committenza esercitata da Ismihan e Shahsultan, rispettivamente mogli di Sokollu e di Zal Mahmud, fu oscurata dalle figure dei loro mariti. Dal periodo della loro costruzione in poi, gli edifici vennero attribuiti ai visir. La trasformazione dell’immagine urbana della capitale imperiale, delineata dal crescente numero di moschee monumentali con gli edifici ad esse annessi e dalla crescente densità del tessuto urbano, venne colta nei disegni delle panoramiche monumentali cittadine realizzati dagli artisti europei che accompagnavano gli ambasciatori in visita alla città. Potrebbe non essere una coincidenza il fatto che le più antiche vedute conservatesi siano datate agli anni immediatamente successivi al completamento della Süleymaniye che, con le sue maestose dimensioni, la sua magistrale articolazione dei volumi e delle facciate, gli ampi edifici annessi che le formavano una città di cupole tutto intorno, e una posizione dominante subito sopra al fervente porto, costituiva il vero e proprio centro di tutte le panoramiche cittadine riprese da oltre il Corno d’Oro. Queste sono le caratteristiche della veduta realizzata da Melchior Lorichs, che accompagnava Ogier Ghislain de Busbecq – l’ambasciatore a Istanbul del Sacro Romano Impero nel 1555 – e che eseguì numerosi disegni di edifici, scene di strada e ritratti dei membri delle delegazioni, oltre a un noto ritratto di Solimano42. La lunghezza di quasi dodici metri che caratterizza la veduta della città murata esprime la reazione del disegnatore di fronte al vasto panorama cittadino compreso tra la punta del Serraglio, con il Palazzo di Topkapı e i giardini, e il sobborgo di Eyüp a occidente. L’enorme veduta realizzata da Lorichs, il primo esempio noto del sorgere di un nuovo tipo di rappresentazione di Costantinopoli, sottolinea anche il consolidamento dell’immagine imperiale della città. Anche se gli artisti occidentali, come quelli ottomani, non avrebbero smesso di rappresentare Costantinopoli in «prospettiva a volo d’uccello», dai decenni centrali del XVI secolo in poi la rappresentazione standard della capitale ottomana in Occidente prese la forma di un’ampia veduta del profilo urbano e dei declivi settentrionali, che venne preferita alla più estesa, ma allo stesso tempo più limitata, «prospettiva a volo d’uccello». È significativo che Melchior Lorichs abbia usato come modello di riferimento il più antico dei moderni piani prospettici della città, quello stampato nel 1530 circa dal cartografo veneziano Giovan Andrea di Vavassore, in particolare per i cartigli con cui demarca alcu-
ni luoghi. Il contenuto visivo dell’opera di Lorichs – fedele testimonianza dell’identità ottomana della città – contrasta con il testo che inserisce nell’immagine luoghi bizantini antichi e attuali di Costantinopoli (soprattutto le chiese), accostandoli ai monumenti dei sultani contemporanei. La veduta urbana della metà del XVI secolo fu un contributo di lunga durata alle rappresentazioni di questa metropoli, la più raffigurabile tra quelle della prima modernità: fino al tardo Ottocento e oltre, fin nel XX secolo con il diffondersi della fotografia, le vedute di Costantinopoli e Galata, più raramente anche di Üsküdar, rimasero le forme più popolari e diffuse in cui la città veniva rappresentata. La realizzazione di vedute monumentali della capitale ottomana, come quella di Melchior Lorichs o quelle di artisti anonimi oggi conservate presso le biblioteche nazionali francese e austriaca, coincise con il perfezionamento del fronte monumentale della città, caratterizzato da miriadi di cupole e da molteplici minareti. Queste immagini di ampie dimensioni e notevole precisione tentano di superare i limiti presentati della veduta panoramica rispetto alle più antiche «prospettive a volo d’uccello»; nell’intento di rappresentare la città nella sua totalità, dispiegano tutti gli elementi significativi della capitale descrivendoli nei minimi dettagli. A differenza della «prospettiva a volo d’uccello», il genere della veduta panoramica permette di mettere in risalto gli elementi più rappresentativi dell’identità imperiale e islamica della città: le moschee congregazionali e gli edifici annessi. Mentre la straordinaria crescita dell’attività edilizia del XVI secolo ridefiniva la forma della capitale ottomana ponendo una nuova enfasi sulle strutture religiose, le vedute realizzate in quello stesso periodo dagli artisti europei – che sottolineavano proprio gli stessi monumenti – riflettevano il mutare della concezione occidentale di Istanbul come capitale della principale potenza islamica. I panorami ottomani realizzati nel corso del XVI secolo non vollero condividere la polisemia che aveva determinato la forma delle più antiche raffigurazioni di Istanbul. Al pari della celeberrima veduta di Matrakçı Nasuh già esaminata in precedenza, le successive immagini topografiche della città, che corredavano i volumi di cronache della corte ottomana, ne mettono in luce l’identità dinastica e islamica. Il ricordo di ciò che Istanbul era stata in precedenza viene quindi offuscato, dei monumenti bizantini vengono raffigurati solo quelli pienamente assunti nell’ordine ottomano: Santa Sofia, l’Ippodromo e le mura cittadine sono quanto resta visibile di Bisanzio. Queste immagini, prodotte in un periodo in cui l’Islam sunnita divenne un elemento costituente centrale della politica ottomana, mettono sempre più in risalto l’identità islamica della città. Le immagini ottomane di Istanbul – quali la veduta offerta dal manoscritto Hünername o quelle che illustrano le copie del Kitab-ı Bahriye di Piri Re’is – adattando al linguaggio mi-
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215. Melchior Lorichs, il complesso della Süleymaniye, con a sinistra il Palazzo Vecchio e a destra la corte dei giannizzeri, foglio 10 delle vedute di Istanbul. Leida, Universiteits Bibliotheek, BPL 1758.
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216. Melchior Lorichs, il complesso di Şehzade e l’acquedotto di Valente, foglio 11 delle vedute di Istanbul. Leida, Universiteits Bibliotheek, BPL 1758.
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niaturistico le convenzioni della veduta prospettica occidentale e dell’immagine cittadina riprodotta nelle carte nautiche, seguono l’orientamento del monumentale fronte urbano verso nord. L’immagine del manoscritto Hünername ottiene questo risultato in maniera alquanto complicata, riprendendo da molteplici punti di vista tanto la cittadella murata quanto i singoli monumenti in essa contenuti. L’orientamento della città verso le acque che la circondano è sottolineato con il denso tessuto urbano costellato da monumenti religiosi verso sud lungo il Mar di Marmara e verso nord lungo il Corno d’Oro. La successione di monumenti ottomani intesi a esaltare il profilo di Costantinopoli viene quindi resa dallo stesso punto di vista che caratterizza le vedute europee, mettendo in rilievo la consapevole creazione dell’immagine imperiale della capitale ottomana da parte del corpo governativo. Il più alto esemplare di questo tipo di immagini è rappresentato da una veduta della città raffigurata in una copia di tardo Seicento, o primo Settecento, del Libro dei mari di Piri Re’is – un’opera di inizio XVI secolo che nelle copie prodotte a partire dagli anni Cinquanta del XVI secolo iniziò a includere tra le carte nautiche e i panorami cittadini che la corredavano un’immagine della capitale ottomana43. La successione delle moschee all’interno delle mura cittadine viene posta in primo piano, così come i più importanti edifici monumentali che definiscono un denso ma uniforme tessuto urbano. D’altro canto l’enfasi concessa allo sviluppo cittadino all’esterno delle mura deriva da successive trasformazioni che saranno esposte in seguito. L’assetto monumentale cittadino si sviluppò in risposta all’articolazione degli schemi del cerimoniale imperiale all’interno della città a partire dagli ultimi decenni del XV secolo. Su molteplici livelli differenti, e in spazi urbani di-
versificati, la disposizione dei monumenti cittadini creava un palcoscenico nel quale venivano messi in atto, oltre agli aspetti della vita quotidiana, una serie di cerimoniali e rituali. La costruzione dei complessi funerari ottomani sull’asse compresa tra il Palazzo di Topkapı e il complesso di Eyüp, o nei suoi pressi, corrispondeva all’elaborazione di un cerimoniale urbano, e in particolare di riti funerari e di successione al trono che accompagnavano la morte di un sultano e l’incoronazione del suo erede. Il percorso terrestre, che in parte seguiva la Mese bizantina, e quello navale, lungo il Corno d’Oro, univano i due estremi del tragitto cerimoniale – il palazzo e il santuario di Ayyub fuori dalle mura, dove i sultani venivano incoronati – dando vita a un itinerario circolare che racchiudeva le monumentali pendici settentrionali della penisola murata44. Le processioni regali toccavano tutti i luoghi politicamente significativi dentro le mura cittadine trasformando così la successione di monumenti sultaniali in una metafora dell’ininterrotta catena della successione dinastica ottomana. La Divan Yolu, che faceva da monumentale sfondo alle processioni imperiali e fungeva da principale arteria di circolazione nella vita cittadina di tutti i giorni, era un luogo in cui l’architettura monumentale e il cerimoniale regale contribuivano a riflettere l’immagine che lo stesso corpo governativo ottomano voleva dare di sé45. La Divan Yolu condivideva la sua funzione di spazio rappresentativo con l’At Meydanı/Ippodromo, un altro luogo carico di memorie e di resti tangibili del passato bizantino. A partire dall’inizio del XVI secolo in poi, l’antico Ippodromo di Bisanzio – posto al di fuori dell’arteria Mese/Divan Yolu e nelle immediate vicinanze di Santa Sofia e del Palazzo di Topkapı – era stato utilizzato come palco per i festeggiamenti, e in particolare per quelli organizzati in occasione degli sposa-
217. Piri Re’is, mappa di Istanbul, dal Kitab-ı Bahriye, Staatsbibliothek zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Orientabteilung, Diez A fol. 57, fols. 28r-v. 218. Pieter Coecke van Aelst, la processione del venerdì, del sultano Solimano, attraversa l’ippodromo, incisione del 1553.
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lizi e delle cerimonie di circoncisione della famiglia imperiale. L’At Meydanı rimase il luogo d’incontro tra la corte e la città. L’Ippodromo infatti non era solo un palco per le celebrazioni che si tenevano presso il palazzo, ma anche il principale luogo cittadino in cui avvenivano le pubbliche manifestazioni di autorità e di dissenso: lì avevano luogo le pubbliche esecuzioni e lì, nella principale piazza cittadina, si originarono tutte le rivolte e le ribellioni urbane – soprattutto a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo e, con sempre maggiore frequenza, nel corso del Seicento. Verso la fine del XVI secolo, le celebrazioni regali nell’Ippodromo si erano ormai trasformate in eventi sempre più elaborati che si protraevano per diverse settimane. Ai banchetti, alla distribuzione di elemosine e di cibo, ai giochi di vario tipo, alle gare, agli spettacoli teatrali che avevano animato queste celebrazioni a partire dagli anni Venti del Cinquecento, si andarono ad aggiungere processioni organizzate dalle gilde di tutti i mestieri della società ottomana46. Questi cortei, in cui le associazioni artigiane e le altre grandi organizzazioni urbane di mestiere sfilavano di fronte al sultano e al suo entourage di dignitari e ospiti prestigiosi, contribuivano alla definizione dell’immagine di sé che l’Impero voleva trasmettere, all’ideale realizzazione dell’ordinamento sociale ottomano così come era stato concepito dalla coreografia della corte. La crescente importanza delle festività tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, unitamente alla disposizione gerarchica delle processioni artigiane, riflette il consolidamento e la crescente influenza delle gilde nella città ottomana. L’esposizione di arti, tecniche e prodotti, oltre a definire la posizione dei singoli gruppi in relazione agli altri e al più ampio ordine sociale, era in effetti una spettacolare manifestazione della generale ricchezza ottomana. L’aspetto carnevalesco dei festeg-
giamenti non aveva solo lo scopo di aggiungere colore alla scenografia, ma metteva anche in luce gli attacchi più o meno espliciti all’ordine e alle leggi sociali che si manifestavano limitatamente al corso di questi eventi47. Diverse attestazioni – letterarie e visive – dei festeggiamenti che si tenevano presso l’antico At Meydanı testimoniano la notevole abbondanza che caratterizzava questi spettacoli durante i quali la corte e la città si incontravano all’Ippodromo e si mettevano in mostra in molteplici maniere48. Le miniature che raffigurano i festeggiamenti presentano l’Ippodromo come un palcoscenico con il sultano che assiste alla parata dalla loggia del Palazzo di Ibrahim Paşa che era disposto lungo i margini occidentali dell’antica costruzione e fu ristrutturato e rimodernato per l’occasione. Il suo entourage e gli ospiti ammirano gli spettacoli dall’altezza delle logge, strutture effimere costruite appositamente per l’occasione. I dipinti attestano che le festività erano concepite come atti di ostentazione e ritraggono lo sfoggio di una notevole varietà di oggetti – da quelli di lusso a quelli della vita di ogni giorno – con la riproduzione di vascelli e di edifici quali moschee e castelli (e, in un caso, perfino la messa in scena di un paesaggio rurale). Veniva inscenata una rappresentazione onnicomprensiva delle industrie ottomane che comportava l’utilizzo di riproduzioni degli edifici più comuni quali i bagni pubblici, le botteghe dei barbieri, le panetterie dentro i quali gestori e clienti svolgevano le rispettive attività quotidiane. Una delle riproduzioni di negozio che, trasportata su ruote, sfilò davanti al sultano durante i festeggiamenti del 1582 rappresentava una caffetteria ed era animata da giovani che preparavano e servivano il caffè mentre alcuni clienti bevevano le rispettive bevande seduti per terra a gambe incrociate. Il caffè era di recente introduzione a
219. Santa Sofia e l’ippodromo, con gli obelischi e le colonne, acquarello su carta dal Freshfield Album, 1574 circa. Cambridge, Trinity College Library, Ms. 0.17.2, fol. 20. 220. Corteo degli architetti regali all’ippodromo, con un modello della Süleymaniye, in occasione di una cerimonia di circoncisione, da Intizami, Surname, 1582 circa. Topkapı Sarayı Library, fols. 190v-191r.
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Istanbul dove la prima caffetteria era stata aperta negli anni Cinquanta del XVI secolo, al centro dell’area commerciale del Taht al-kal)a (Tahtakale) situata lungo il Corno d’Oro, per essere presto seguita da moltissime altre49. La caffetteria, insieme ad altri luoghi, svolgeva anche una funzione di intrattenimento sociale cittadino e godeva di una condizione non soggetta al controllo vigile del monarca né alle pratiche di sorveglianza della legge religiosa. Di qui la storia controversa del caffè e delle caffetterie nella Istanbul dei secoli XVI e XVII, periodi durante i quali si alternavano fasi in cui il prodotto veniva proibito e le sale in cui lo si serviva venivano chiuse, a momenti di relativa tolleranza. A dispetto degli aspri dibattiti sugli effetti negativi o positivi del caffè e sul permissivismo delle caffetterie, e nonostante i frequenti bandi, il caffè e le caffetterie sopravvissero e finirono con l’affermarsi nel panorama cittadino di Costantinopoli come spazi di interazione sociale maschile sempre più importanti e di primo piano. Le caffetterie fungevano da spazi laici di socializzazione, circoli letterari, luoghi aperti allo scambio di informazioni e opinioni; erano frequentate da uomini di varia classe sociale e di diverso ambiente professionale. La loro crescente popolarità e centralità rispetto al panorama sociale cittadino ne fece una nuova istituzione urbana nonché un nuovo sistema di interazione sociale. Visitando Istanbul nel 1716, lady Mary Montagu scrisse a proposito dei bagni: «In pratica sono la caffetteria al femminile, dove si raccontano tutte le novità successe in città, si inventano gli scandali, e tutto il resto.» sottolineando la primaria funzione sociale di entrambe le istituzioni urbane che erano l’una un’assoluta novità introdotta all’inizio del-
l’epoca moderna e l’altra una componente essenziale dell’antica eredità del mondo mediterraneo50. Sebbene una successiva osservazione avanzata da lady Montagu secondo cui le donne «non hanno spazi pubblici se non i bagni» non sia del tutto esatta, recarsi ai bagni una volta la settimana era un diritto normalmente concesso alle donne che erano così libere di socializzare al di fuori dell’ambiente casalingo. Esse, ad ogni modo, frequentavano anche i mercati cittadini, prendevano parte come spettatrici ai festeggiamenti che si tenevano all’Ippodromo e altrove. È tuttavia necessario sottolineare che le attività femminili nella sfera urbana erano molto circoscritte e spesso permesse solo dopo un processo di negoziazione51. Mentre il concetto di isolamento femminile limitava la visibilità e l’azione delle donne nella sfera pubblica, negli spazi religiosi così come in quelli laici, una specifica disposizione degli spazi cittadini ne consolidava l’emarginazione (infatti l’unico mercato liberamente frequentato dalle donne, l’Avratpazari, si trovava appartato rispetto alle principali arterie cittadine e ai maggiori centri di commercio). Se le donne erano, in quanto tali, meno visibili nei pubblici spazi cittadini rispetto agli uomini, esse ebbero invece un ruolo molto significativo nella fondazione e nel mantenimento delle pubbliche istituzioni urbane. A metà del XVI secolo erano donne il 37% del totale dei fondatori di istituzioni di beneficenza (waqf) in città. Queste erano nella maggior parte dei casi meno ricche ed ampie rispetto a quelle di committenza maschile, a sottolineare come le donne avessero un accesso più limitato ai patrimoni finanziari52. Le dimensioni e le caratteristiche generali delle committenze promosse dalle donne erano, come è ovvio,
determinate anche dalla loro posizione sociale. Come notato in precedenza, le donne della dinastia imperiale che disponevano di alte rendite immobiliari e proprietà fondarono spesso vaste istituzioni caritative. Le trasformazioni che a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo interessarono la cultura politica ottomana permisero alle donne di entrare nella sfera urbana in maniera molto più determinante.
Cambio di modelli politici e di committenza: dagli ultimi decenni del XVI secolo in poi Gli ultimi decenni del XVI e l’inizio del XVII secolo portarono a un periodo di turbolenza politica, lotte intestine nell’ambiente di corte, insurrezioni di massa in Istanbul (e non solo) e, nel complesso, a una tensione sociale e politica che affondava le proprie radici nelle molteplici risposte date alle profonde trasformazioni che interessarono la politica e l’economia ottomane. Le principali rivolte cittadine dei secoli XVII e XVIII presero tutte il via tra le truppe; a quell’epoca, tuttavia, il corpo dei giannizzeri aveva assunto profonde caratteristiche civili e si era sempre più inserito nell’economia e nella politica della città e della corte53. Una delle maggiori e più violente fra queste rivolte si verificò a metà del secolo e trasformò l’At Meydanı/Ippodromo nel principale palco di rappresentanza da cui i dissidenti avanzavano le proprie richieste; di giorno in giorno i corpi senza vita degli ufficiali di palazzo e dei cortigiani venivano appesi a un gigantesco platano che cresceva nella principale piazza pubblica della città. La concomitanza di una situazione fortemente tesa con la politica sempre più instabile della corte costrinse Mehmed IV a ritirarsi nella città di Edirne, che era stata la capitale ottomana fino al 1459 circa. Il sultano e la sua corte erano destinati a rimanervi a lungo, fino all’inizio del XVIII secolo, lasciando Istanbul sotto il governo di una serie di vizir appartenenti alla potente famiglia Köprülü. Non sarebbe tuttavia corretto pensare che i Köprülü regnassero soli: nel mondo politico del XVII secolo, tormentato dai disaccordi tra fazioni, la base del potere si allargò oltre i confini dell’élite cinquecentesca composta dal sultano e dai dignitari di più alto rango. Le donne della dinastia imperiale, e in particolare la regina
221. Antoine Melling, «Intérieur d’un café public sur la place de Tophane», dal Voyage Pittoresque de Constantinople et des Rives du Bosphore, Parigi 1819. Nella doppia pagina seguente: 222. La monumentale moschea di Ahmed I, che si affaccia, a destra, sull’At Meydanı, l’area dell’antico ippodromo. A sud, verso il Mar di Marmara, la cupola della cucina pubblica; a ovest il palazzo di Ibrahim Paşa.
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madre, acquisirono un ruolo sempre più predominante e divennero personaggi chiave del panorama politico insieme agli agas di corte e ad altri funzionari che di volta in volta appoggiavano uno dei molteplici partiti. Mentre l’Impero ottomano raggiungeva la sua massima estensione territoriale in Europa nel corso della seconda metà del XVII secolo, un equilibrio di forze e una configurazione territoriale nuovi erano destinati a prendere forma in seguito alla sconfitta ottomana avvenuta a Vienna nel 1683. È bene sottolineare che il Seicento fu sì un secolo tumultuoso e segnato da crisi manifeste, ma per la città fu anche un’epoca di notevole vitalità54. Le istituzioni e le forme della vita sociale sorte nel corso dei decenni precedenti si diffusero sempre più. Le caffetterie aumentarono di numero in modo esponenziale e si estesero anche alla periferia cittadina assumendo un ruolo sempre più centrale nell’interazione sociale maschile, e in particolare in quella di artigiani e giannizzeri. Insieme alle nuove forme urbane e laiche di socializzazione, le caffetterie fornirono il contesto spaziale per nuove modalità di pubblico intrattenimento come gli spettacoli con giochi di ombre e le narrazioni. Un altro spazio sociale che venne ad assumere una popolarità crescente fu quello delle confraternite dei sufi – elemento che sottolinea la diffusione delle loro pratiche – i cui conventi da tempo erano divenuti un altro ambito di interazione sociale in città. Il numero crescente delle persone coinvolte in entrambe le forme di socializzazione fu, almeno in parte, il fattore scatenante alla base del movimento degli ultraconservatori Kadizadeli. Questi seguaci del predicatore fondamentalista Kadizade, mossi da zelo puritano e da una visione idealizzata dei giorni dorati del tempo in cui visse il Profeta – e che loro miravano a ripristinare –, si opposero a tutte le innovazioni, non solo a quelle di natura religiosa, ma anche a quelle in ambito sociale. I loro bersagli principali erano le pratiche e i raduni dei sufi (quindi anche i loro conventi che avrebbero voluto distruggere, riuscendovi in alcune occasioni). Gli oltre cinquant’anni trascorsi tra l’affermazione di Kadizade negli anni Venti del Seicento e la perdita del pubblico favore subita nel 1683 dall’ultimo dei suoi potenti successori, Vani Efendi, furono comunque caratterizzati da frequenti bandi – che pure venivano raramente messi in pratica, se non per periodi di tempo relativamente brevi – riguardanti il consumo di vino, tabacco e caffè. Il convento sufi e la caffetteria, così come la taverna, divennero i bersagli del movimento conservatore poiché influenzavano in maniera determinante non l’aspetto monumentale ma quello sociale della capitale. La corte, per ragioni proprie legate alla preservazione dell’ordine cittadino, si schierò spesso a favore dei bandi promossi dai Kadizadeli55. Durante lo stesso periodo si verificò un cambiamento nella politica statale verso gli abitanti non musulma-
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ni della capitale. L’islamizzazione delle zone commerciali che si estendevano sul fronte marittimo di Eminönü e Galata, e i tentativi di imporre uno stretto rispetto delle elaborate leggi che enfatizzavano la distinzione gerarchica tra le comunità, furono le più immediate conseguenze della crescente influenza del conservatorismo religioso sullo spazio urbano e sulla vita cittadina di ogni giorno56. Due progetti imperiali, portati a termine rispettivamente nel 1609 e nel 1663, alterarono la configurazione visiva e urbana delle due aree al centro della città. Nel 1609, dopo un’interruzione di più di mezzo secolo durante la quale nessun progetto urbano imperiale era stato portato a compimento all’interno della città, Ahmed I intraprese la costruzione di un monumentale complesso religioso sull’At Meydanı/Ippodromo. Questa impresa risultò altamente impopolare: comportò spese difficili da giustificare – non essendo disponibile alcun bottino di conquista da cui attingere – e implicò l’espropriazione di due palazzi realizzati da Sinan per altrettanti vizir nel corso del tardo XVI secolo. In termini di funzionalità, quello di Ahmed I seguì i precedenti complessi sultaniali costruiti in Istanbul ed Edirne tra il tardo XV e il tardo XVI secolo: in quanto tali, gli edifici annessi alla monumentale moschea congregazionale ospitavano una madrasa, una scuola per bambini, una scuola per la recita del Corano, l’ospedale, la pubblica cucina, un bagno, un portico con negozi sormontato da stanze in affitto, e quattro sebils – camere dove si offriva gratuitamente acqua da bere. Mentre da un punto di vista funzionale quello di Ahmed I seguì consistentemente i precedenti modelli di complesso regale urbano, apportò dei cambi significativi alla struttura visiva e spaziale del più importante centro cerimoniale della città. La moschea e il mausoleo, allineati lungo il lato orientale dell’Ippodromo e opposti al palazzo di Ibrahim Paşa (che aveva offerto ai sultani ottomani la sua loggia durante le festività tenute all’Ippodromo), definirono i confini della pubblica piazza. Il muro finestrato che recintava il cortile esterno della moschea e che era provvisto di fontane ai due margini, procedeva per un lungo tratto a lato dell’Ippodromo; a nord rispetto a entrambe le costruzioni era ubicato il mausoleo del committente, fatto edificare dal successore di Ahmed I, in accordo con il costume ottomano. Proprio la posizione del mausoleo – allineato anch’esso rispetto al perimetro dell’Ippodromo e separato dal muro di recinzione della moschea da una serie di negozi pure affacciati alla piazza – sottolinea l’importanza primaria della pubblica piazza nella progettazione del complesso. La locazione del mausoleo a lato del piazzale cittadino, piuttosto che nella tradizionale posizione ad esso riservata oltre il muro della qibla della moschea, seguiva di fatto una tendenza affermatasi nel corso degli ultimi decenni del XVI secolo, quando i mausolei imperiali iniziarono a essere edifi-
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cati all’interno del muro perimetrale – primo fra tutti quello di Selim II, costruito all’interno del muro di recinzione di Santa Sofia rivolto alla strada57. L’architetto del complesso, Mehmed Agha, definì l’area dell’At Meydanı uniformando da un punto di vista architettonico il muro perimetrale della moschea e il mausoleo. Dato che una via di negozi si snodava oltre il margine orientale della recinzione muraria della moschea, il centro religioso ed educativo del gruppo architettonico veniva a trovarsi collocato tra due spazi pubblici laici. Gli istituti di beneficenza del complesso, l’ospedale e la grande cucina pubblica affacciata sul Mar di Marmara si trovavano spostati rispetto a queste strutture, all’estremo margine meridionale dell’Ippodromo presso la curva (sphendoné). Posizionata nel cuore della città, la moschea di Ahmed I rappresentava una risposta agli edifici che costituivano i simboli più significativi del governo ottomano. Essa si propose come contrappunto al palazzo di Ibrahim Paşa, che aveva caratterizzato l’Ippodromo a partire dai primi decenni del XVI secolo, e instaurò un dialogo spaziale e visivo con Santa Sofia, la più importante moschea imperiale della città, e con il Palazzo di Topkapı, con il cui cancello principale si trovava direttamente allineata. Replicando la copertura a quadrifoglio delle cupole proposta da Sinan nella moschea di Şehzade, la moschea di Ahmed I si pose in relazione anche con un monumento della venerata età di Solimano58. Se il progetto di Mehmed Agha non si dipartiva in maniera significativa dall’eredità di Sinan, introduceva però delle novità rappresentate soprattutto dall’enfasi posta sulle altezze che caratterizzava la struttura complessiva dell’edificio, e dai sei minareti che racchiudevano la costruzione in un corridoio monumentale di torri in direzione della qibla, rimarcando il passaggio dallo spazio urbano dell’At Meydanı al santuario. Altre novità proposte dalla progettazione dell’edificio testimoniano le nuove funzioni ricoperte dalla moschea congregazionale; queste erano a loro volta determinate da trasformazioni avvenute nella condotta politica del sultano, come anche da cambi verificatisi nelle pratiche sociali e religiose della società ottomana. La più importante di queste novità è rappresentata dal padiglione regale unito alla moschea, una struttura ispirata ai padiglioni del Palazzo di Topkapı. Inizialmente veniva usato come luogo da cui il sovrano poteva sorvegliare il procedere dei lavori di costruzione; in seguito divenne uno spazio che il monarca stesso utilizzava per riposare o per dare udienza nei giorni in cui visitava la moschea. La crescente visibilità del sultano in questo luogo era associata a una complementare espansione della gamma di attività svolte all’interno della moschea imperiale e che includevano le annuali e molto apprezzate rappresentazioni del poema sulla natività del Profeta (mevlid) – seguite da offerte di cibo e bevande a
tutti i presenti – e i sermoni pronunciati in particolari giorni della settimana dagli sceicchi sufi59. Durante la seconda metà del XVII secolo un altro progetto imperiale portò alla trasformazione di un’altra area centrale interna alla città murata. In seguito al grande incendio avvenuto nel 1660 che distrusse gran parte del centro commerciale cittadino, un precedente progetto che prevedeva un complesso religioso nella zona del porto – iniziato dalla regina madre Safiye sul principio del XVII secolo e poi abbandonato – venne ripreso da un’altra potente regina madre, Hadice Turhan (1627-82)60. Poiché suo figlio – il sultano Mehmed IV (r. 1648-1687) – era salito sul trono ottomano all’età di soli sette anni, Hadice Turhan svolse le funzioni di regina reggente durante la prima parte del suo regno. L’ambizioso progetto della regina madre segna il culmine di un processo interno alla città di Istanbul durato quasi un secolo e mezzo e che aveva visto le donne della dinastia imperiale – le principesse, le consorti o mogli, e soprattutto (e sempre più spesso) le madri dei sultani – lasciare negli spazi cittadini segnali della propria ascesa nelle dinamiche di potere dell’élite politica ottomana. Le prime committenti ottomane avevano finanziato – a proprio nome o insieme ai propri mariti (che erano di norma membri del concilio imperiale) – delle strutture relativamente modeste. Il progetto per la Nuova Moschea a Eminönü attesta il completo passaggio, dal monarca all’onnipotente regina madre, della prerogativa sultaniale di costruire complessi religiosi che presentassero tutte le caratteristiche del mecenatismo imperiale (molteplici minareti, cortili degli atri pavimentati, coperture provviste di semicupole a supporto
della cupola centrale rialzata). Safiye, che negli ultimi anni del XVI secolo era stata l’iniziale committente del complesso di Eminönü, era stata la prima a concepire un progetto tanto ambizioso che avrebbe comportato il radicale stravolgimento delle norme di committenza regale prestabilite all’interno dei domini ottomani; la sua impresa era tuttavia stata bloccata dalle resistenze opposte sia alla sua prominente posizione di regina madre, sia all’infrazione delle norme che regolavano il mecenatismo istituzionale e architettonico che si sarebbe verificata se un membro femminile della dinastia imperiale avesse intrapreso la costruzione di un complesso regale urbano. Simbolo più evidente dell’ottomano «regno delle donne» nella capitale, la Nuova Moschea della Regina Madre determinò anche una radicale trasformazione della struttura spaziale e demografica dell’area in cui fu costruita. Il centro commerciale annesso al porto del Corno d’Oro era stato abitato per lo più da una comunità ebraica fin dalle deportazioni di tardo XV secolo; i membri della comunità esercitavano un controllo considerevole sullo stabilimento commerciale e sulle dogane che vi si trovavano. Sia il progetto iniziato da Safiye Sultan sul principio del XVII secolo e poi abbandonato, sia il completamento dello stesso promosso da Hadice Turhan dopo l’incendio del 1660 comportarono l’acquisto e l’esproprio dei beni immobili della comunità ebraica e l’espulsione di quest’ultima dalla zona stessa. L’islamizzazione dell’area del porto, che era stata abitata da una popolazione multietnica e multireligiosa sin dai tempi di Bisanzio, fu una componente fondamentale del concepimento e dell’ideazione del progetto61. Edifica-
223. Veduta di Eminönü con la Nuova Moschea della regina madre Hadice Turhan, da Guillaum-Joseph Grelot, Relation nouvelle d’un voyage de Constantinople, Paris 1680.
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to in un periodo di crisi finanziaria, quando i committenti incontravano grosse difficoltà a sostenere delle imprese architettoniche costose, il complesso è caratterizzato dal predominio delle funzioni commerciali. Una strada a L che attraversava un mercato coperto – l’ancora rinomato e brulicante Bazar delle Spezie – abbracciava la moschea e il mausoleo e formava parte del muro di recinzione del centro religioso sui lati meridionale e occidentale; si veniva così a creare un secondo centro presso la struttura piramidale della moschea. Il fatto che il patrono, in quanto donna, fosse escluso dalla congregazione, venne compensato dalla costruzione, in una posizione di rilievo, di un elegante padiglione regale. L’edificio, inserito in una porzione delle mura bizantine della città, era rivolto verso la fervente area del porto e verso gli altri edifici del complesso, rappresentando la presenza di Hadice Turhan e la sua supervisione dei progressi edilizi dalla propria fondazione62. Se la moschea di Ahmed – edificata nel primo XVII secolo e posta sulla principale piazza pubblica della città – si era prestata a nuove pratiche sociali e religiose, il complesso di Hadice Turhan, completato mezzo secolo più tardi, divenne invece luogo in cui si manifestò la reazione conservatrice contraria alle pratiche innovative e sempre più mondane di una vivace vita cittadina. L’islamizzazione demografica e spaziale dell’area del porto viene sottolineata con forza nelle cronache contemporanee alla costruzione, come nei processi di espropriazione immobiliare e nel programma epigrafico della moschea. L’opera di uno dei maggiori leader del movimento reazionario e puritano dei Kadizadeli, Vani Efendi – predicatore nella moschea di Turhan Sultan – mette in luce la presa di posizione della regina madre in favore del conservatorismo radicale del gruppo63. Le conseguenze di un altro vasto incendio cittadino – questa volta oltre le acque del Corno d’Oro, a Galata, nel 1696 – permisero alle tendenze di tardo XVII secolo, volte a favorire l’islamizzazione delle aree urbane più centrali, di assumere forma concreta. All’indomani dell’incendio che aveva spazzato via la maggior parte dei sobborghi di Galata, le comunità non musulmane vennero avversate nella ristrutturazione dei propri edifici di culto: una nuova misura contraria all’abitudine ottomana di permettere interventi architettonici su santuari non mussulmani già esistenti. Disposizioni e misure simili a quelle che avevano riconfigurato l’area di Eminönü attraverso il complesso religioso di Turhan Sultan, miravano ora a riformare il porto di Karaköy. A mettere in atto tale cambiamento fu ancora una volta una regina madre, Gülnuş Emetullah Sultan, la madre di Mustafa II e di Ahmed III che intraprese la costruzione di una moschea congregazionale al centro dell’area portuale di Karaköy. Il lotto di terreno su cui la moschea (una modesta struttura edificata in legno) fu costruita venne espropriato alla chiesa cattolica e al convento di San Fran-
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cesco. Il nuovo edificio rappresentò l’espressione più concreta di una serie di misure prese dalle autorità ottomane per inasprire la ghettizzazione delle comunità religiose a Galata, per bandire le taverne, il gioco d’azzardo e le case di prostituzione, e per trasferire considerevoli quantità di possedimenti urbani ai privati musulmani64. È necessario notare che le misure volte a favorire l’impronta islamica e la ghettizzazione non furono mai messe in atto totalmente, mentre il discorso sull’islamizzazione degli spazi cittadini rimase un fondamentale strumento di legittimazione dagli ultimi decenni del XVII secolo in poi. Al principio del XVIII secolo, la corte seguitava a emanare editti che decretavano il trasferimento degli ebrei residenti in prossimità della moschea della regina madre a Eminönü65. Un vasto numero di documenti ufficiali attesta che anche nel corso del XVIII secolo la corte tentava di tenere nettamente separati i diversi gruppi religiosi mentre concedeva alla comunità musulmana la precedenza nelle transazioni legali. Un altrettanto ampio insieme di documenti però evidenzia, da un lato, frequenti passaggi di proprietà tra musulmani e non che favorivano il formarsi di quartieri residenziali misti sia da un punto di vista religioso che etnico e, dall’altro, la mancanza di una distinzione tra i linguaggi architettonici originari delle diverse comunità presenti in città66. La vasta gamma di tendenze religiose e culturali tenute unite dal molteplice e complesso mondo ottomano di epoca premoderna si prestava ugualmente alla coesistenza come alla ghettizzazione. Disposizioni e programmi politici diretti in entrambe le direzioni si devono quindi considerare come tendenze contestuali e congetturali piuttosto che come aspetti statici e immutabili della cultura urbana ottomana. I due progetti imperiali realizzati all’interno della città murata nel XVII secolo furono accompagnati da dispute sull’esproprio delle proprietà residenziali e sui finanziamenti per far fronte a tali imprese costosissime, dove il secondo argomento era solo in parte derivato dal primo. Il terreno per qualsiasi istituzione pubblica doveva essere acquistato o espropriato. Questo fatto, unito alle ridotte risorse economiche dei committenti in un’epoca di frequenti crisi economiche, spiega la riduzione delle dimensioni e della gamma di funzioni attribuite alle architetture commissionate dalla classe dirigente in questo periodo. Tutti i complessi urbani fondati dall’élite governativa nella capitale a partire dagli anni Sessanta del Quattrocento in poi erano organizzati attorno a una moschea; a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo un piccolo complesso – con una madrasa, il mausoleo del fondatore e un distributore pubblico d’acqua (sebil) – divenne la forma più diffusa di fondazione patrocinata dall’élite dirigente ottomana67. L’aula della madrasa poteva anche servire da masjid; meno spesso, e a seconda dalle relazioni clientelari e delle inclinazioni reli-
224 e 225. Due immagini della madrasa di Gazanfer Agha presso l’acquedotto di Valente.
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gioso-culturali del fondatore, questi complessi relativamente piccoli potevano includere anche un convento sufi. Il progetto architettonico di queste fondazioni esprime una relazione nuova e più interattiva con il contesto urbano, in cui le forme circolari delle fontane o sebil, decorate e sporgenti verso la strada, e i muri di cinta finestrati, che spesso si snodavano lungo l’arteria cittadina principale, mettevano in risalto il mausoleo e la madrasa in esso contenuta. La committenza di questi complessi minori che coinvolgevano la pubblica via nel proprio progetto conferirono una nuova continuità architettonica alla Divan Yolu. La via, che era stata la principale area di edificazione degli edifici religiosi e laici della classe governativa a partire dai primi decenni del XV secolo, ora ospitava, in alcuni tratti, una successione quasi ininterrotta di strutture pubbliche ottomane. La tendenza era destinata a persistere nel corso della storia ottomana della città così che, entro il tardo XIX secolo, il 38% di tutte le madrase di Istanbul e della sua periferia erano situate su questa arteria o presso di essa68. La devozione ortodossa veniva enfaticamente messa in mostra nella principale via di traffico cittadina; nella maggior parte dei casi invece, i conventi dei sempre più affermati ordini sufi erano collocati in zone meno in vista all’interno delle aree residenziali. Negli stessi decenni e sempre su commissione delle donne della famiglia imperiale e dei visir, diversi nuovi caravanserragli urbani di notevoli dimensioni si vennero ad aggiungere all’area commerciale tra la Divan Yolu e il Porto. La natura relativamente limitata delle imprese architettoniche dei sultani ottomani in città venne controbilanciata all’interno del palazzo dove i giardini e le coste di Topkapı vennero provvisti di chioschi e padiglioni riccamente arredati e decorati. Tra il 1630 e il 1640 quattro nuovi chioschi e padiglioni, assieme a un nuovo bacino d’acque con fontana, trasformarono la terrazza che – posta a lato del terzo cortile del Palazzo di Topkapı, oltre la camera privata di Mehmed II (che allora conteneva le sante reliquie del Profeta) – si affacciava sulla città, verso il Corno d’Oro e Galata. A questo gruppo appartenevano i chioschi di Baghdad e Revan, sontuosissimi nella costruzione come nell’arredamento; questi due edifici, a cupola e con pianta a croce, danno prova della costante importazione di linguaggi visivi, che aveva già caratterizzato gli interni dei grandi edifici laici e religiosi dei secoli precedenti. Anche se queste strutture di squisita fattura e decorazione – che commemoravano le vittorie ottomane nelle rispettive città – rimanevano confinate nello spazio interno del palazzo, i sempre più numerosi chioschi imperiali che iniziarono a essere edificati nell’ultimo decennio del XVI secolo davano segnale di un cambiamento sia nei modelli urbani che nella natura stessa dell’architettura dei palazzi cittadini. Un altro risultato della stessa tendenza, e prova della sua diffusione al di fuo-
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ri dei confini del Topkapı, fu il padiglione eretto oltre il Corno d’Oro, sulla costa compresa dai giardini regali e prossima all’arsenale. Nel tardo XVII secolo le processioni artigiane e le festività imperiali che le incorporavano lasciarono per la prima volta il proprio percorso tradizionale che si svolgeva esclusivamente su terra attorno all’At Meydanı/ Ippodromo per trasferirsi sul Corno d’Oro. Qui le esibizioni d’arte artigiana e i vari giochi venivano inscenati su barche mentre il sultano vi assisteva dal padiglione sulla riva69. I padiglioni costieri, intercalati alle antiche mura di mare che circondavano la punta del Serraglio o situati sulle rive, anticipavano un tempo in cui abitare lungo i due specchi d’acqua della città – il Corno d’Oro e il Bosforo – sarebbe diventata la forma di residenza favorita dall’élite governativa ottomana. Nel corso dei primi decenni del XVII secolo, la rete di distribuzione dell’acqua in città fu estesa ai distretti di Tophane, Fındıklı, e Kabataş, tutti situati a nord di Galata. Ai decenni successivi risalgono invece i primi stanziamenti nei pendii tra Galata e il principale centro abitato in direzione nord, Beşiktaş70. Nelle immediate vicinanze a nord del perimetro murario dei sobborghi di Galata, nell’area che veniva chiamata Vigne di Pera, sorgevano le residenze degli ambasciatori europei nell’Impero (che vi si erano trasferiti dalla città murata di Galata) e le case di alcuni dei più ricchi mercanti non musulmani di Istanbul71. La graduale espansione dei sobborghi di Galata oltre i suoi confini settentrionali, insieme a quella che interessò gli stanziamenti lungo le coste, rappresentarono i primi segnali di un processo che avrebbe trasformato in maniera decisiva l’immagine urbana di Istanbul nel XVIII secolo, quando Galata si allargò verso i culmini delle colline del distretto di Pera ospitando – pur non esclusivamente – gli europei presenti nella capitale insieme alla borghesia non musulmana, e quando le coste del Bosforo vennero corredate da una sequenza di palazzi e residenze di minor lusso appartenenti a cittadini di diversa classe sociale. Forse il ritratto più grandioso ed eloquente della capitale ottomana nel XVII secolo venne realizzato dal cortigiano, viaggiatore e scrittore ottomano Evliya Çelebi che, ritiratosi al Cairo nell’ultimo periodo della propria vita, raccontò in un’opera in dieci volumi i propri viaggi nei territori ottomani e oltre. Il voluminoso scritto di Evliya si apre con la descrizione di Istanbul, che ne occupa il primo volume72. La centralità della capitale e i suoi monumenti nell’immagine dell’Impero ottomano furono resi in maniera oltremodo chiara in questo vasto resoconto della città e della sua storia intessuta attorno agli edifici più rappresentativi. È significativo il fatto che le moschee e i mausolei imperiali siano le tipologie edilizie su cui più insiste questa lunga narrazione che comprende la storia della città, dei suoi mi-
ti, dei monumenti, delle organizzazioni amministrative e commerciali, e presenta anche alcuni tratti di storia ottomana. Le descrizioni delle moschee imperiali costituiscono il corpo centrale attorno al quale vengono intessuti i racconti di conquista e altri frammenti della storia del casato di Osman, le descrizioni dell’apparato legale ottomano e delle varie gerarchie amministrative sviluppate dal corpo governativo ottomano assieme all’enumerazione dei singoli personaggi che ne fecero parte. I capitoli dedicati alle moschee sono seguiti dal catalogo riassuntivo di un numero più parco di edifici pubblici e privati, ordinati secondo una gerarchia tipologica; quindi Evliya prende in esame i mausolei imperiali. Egli riteneva che questi edifici conservassero e racchiudessero qualcosa di più che i resti delle passate dinastie. Come nella trattazione delle moschee imperiali, le sezioni dedicate ai dignitari, agli )ulema e ai letterati seguono le introduzioni dedicate alle singole tombe dei sultani ottomani. Le moschee e i mausolei imperiali vengono a impersonare i regnanti che occuparono posizioni di primaria importanza nella storia e nelle istituzioni ottomane: l’architettura e, attraverso essa, lo spazio cittadino vengono utilizzati come cornici monumentali che racchiudono e danno significato ai racconti di conquista, da un lato, e ai meccanismi di governo e alle dinamiche socio-politiche della capitale imperiale, dall’altro. Evliya termina la descrizione della città vera e propria con un lungo resoconto di una processione urbana avvenuta nel 1675; in essa – uno dei ritratti più vividi delle gilde professionali urbane – l’autore sottolinea la struttura gerarchica e la notevole varietà che caratterizzavano i gruppi artigiani della capitale nella seconda metà del XVII secolo. Il ritratto d’Istanbul colto da Evliya Çelebi è anche quello della capitale ottomana nella fase che precede un importante processo evolutivo del tessuto urbano e dei modelli di committenza. L’opera presenta quindi un’immagine riassuntiva della città «classica», incentrata sulla penisola murata che ospitava – salvo rare eccezioni – tutti i monumenti cittadini importanti, testimoni dell’elaborazione e della trasformazione dei modelli di committenza, spazio urbano, e cerimoniale regale dai primi decenni del governo ottomano in Istanbul fino al tardo XVII secolo.
Riorientamento urbano verso il Bosforo e il Corno d’Oro Il riorientamento che lo contraddistingue fa sì che il XVIII secolo segni una radicale rottura rispetto ai modelli urbani stabiliti in Istanbul durante i secoli precedenti. Ahmed III, salito al trono nel 1703, diede il via al proprio governo con un fastoso ritorno alla capitale. Il ritiro del sultano e della sua corte in Edirne, capitale in Tracia, non poteva durare
oltre, data la crescente instabilità del contesto sociale in Istanbul. Il ritorno della corte nella capitale riportò in voga anche il tradizionale ritiro estivo presso i palazzi residenziali nella periferia cittadina. La preferenza accordata dal sultano, dalle principesse e dai membri dell’élite governativa al Corno d’Oro e alle coste occidentali del Bosforo determinò un cambio decisivo degli schemi urbani. Il definitivo trasferimento della corte nella capitale imperiale innescò la frenetica costruzione di palazzi periferici che trasformò i modelli di movimento della corte all’interno della capitale e, con essi, l’immagine della capitale stessa. È importante notare che non soltanto il sultano e il proprio casato, ma un numero sempre più consistente di membri dell’élite cittadina – funzionari palatini di vario rango, membri della burocrazia militare e amministrativa, membri dell’élite religiosa e studiosi – prendevano parte al rito del ritiro stagionale nelle residenze estive appena costruite, o ampliate, nella periferia cittadina73. I decenni iniziali del XVIII secolo, periodo durante il quale presero forma questi cambiamenti nella cultura di corte, vennero denominati «Era del Tulipano» (il fiore più diffuso nei giardini che si facevano via via più gai) per lo sgargiante stile di corte che li caratterizzò, per il crescente interesse rivolto alle forme e agli usi della cultura europea, per le ambientazioni del nuovo stile di vita che favoriva giardini, palazzine sulla costa, padiglioni di svago. Le date convenzionali dell’«Era del Tulipano» (1718-1730) sono comunque fuorvianti dal momento che la violenta fine del regno di Ahmed III nel 1730 non produsse che un momentaneo arresto dei modelli di recente diffusione che interessarono gli ambiti residenziale, di intrattenimento, artistico, architettonico e di espressione poetica del Settecento ottomano. Durante il corso del XVIII secolo il Bosforo subì una radicale trasformazione. Mentre la maggior parte dei più antichi giardini imperiali era situata sul lato asiatico dello stretto, le nuove costruzioni si concentrarono principalmente sulla costa europea (già più densamente popolata). A differenza dei giardini imperiali realizzati sul Bosforo nei secoli XVI e XVII, distanti dall’acqua e racchiusi in mura perimetrali, i nuovi palazzi imperiali e dell’élite governativa lì costruiti esponevano le lunghe facciate sul lungomare. Entro la seconda metà del XVIII secolo la linea della costa europea tra Beşiktaş e Kuruçeşme fu corredata dal susseguirsi di palazzi estivi del sultano e dell’élite, mentre lo sviluppo suburbano interessava anche il resto del Bosforo. I membri delle gerarchie amministrativa e religiosa invece costruirono le proprie residenze più vicino all’antico centro di Galata, nei distretti di Tophane e Fındıklı, e in direzione nord fino a Bebek. Ortaköy e Arnavutkoy, a settentrione delle più ampie coste imperiali di Beşiktaş, erano principalmente abitate da comunità non musulmane; più a nord anche i villaggi di Yenikoy e Emirgan pre-
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226. Palazzo di Beşiktaş, sulla riva europea del Bosforo, in Antoine Melling, Voyage Pittoresque de Constantinople et des Rives du Bosphore, Parigi 1819. 227. Il complesso civile di Sa‘dabad e i suoi giardini, incisione di M. d’Ohsson, Tableau général de l’Empire ottoman, Parigi 1787-1820.
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Nelle due doppie pagine seguenti: 228. Corteo delle corporazioni durante una cerimonia di circoncisione, in Vehbi, Surname-i Vehbi, 1720 circa. Istanbul, Topkapı Sarayı Library, A.3593, fols. 107b-108a. 229. Festeggiamenti notturni sul corno d’Oro, in Vehbi, Surname-i Vehbi, 1720 circa. Istanbul, Topkapı Sarayı Library, A.3593, fols. 92b-93a.
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sentavano una popolazione per lo più non musulmana74. L’usanza del trasferimento stagionale in residenze secondarie sul Bosforo dovette essere emulata dagli ambasciatori europei residenti nella capitale ottomana dato che gli stessi acquistarono alcune proprietà nelle aree settentrionali della costa europea dello stretto. La costruzione del complesso civile di Sa)dabad (casa della gioia) presso il fiume Kagithane, all’interno della costa settentrionale del Corno d’Oro, era caratterizzato dai cambi negli usi e costumi delle zone costiere determinati dalla cultura della corte ottomana nel corso dei decenni precedenti. Il palazzo costruito per Ahmed III dal gran vizir Nevxehirli Damad Ibrahim Paşa presenta quartieri privati (harem) separati e maschili oltre a una moschea, una fontana e un padiglione da giardino che si affacciava su un vasto specchio d’acqua. Vicino al palazzo imperiale i due lati di un canale artificiale vennero offerti a circa 170 cortigiani e funzionari statali a condizione che vi costruissero le proprie residenze in uno stile consono al palazzo imperiale. Diversamente dal Topkapı o dai precedenti palazzi suburbani, il Sa)dabad non era isolato all’interno di un muro di cinta; la disposizione aperta e la visibilità dai giardini pubblici che lo circondano erano caratteristiche innovative e peculiari del suo progetto globale75. La disposizione senza precedenti del palazzo e quel che si conosce del suo linguaggio decorativo portavano gli osservatori occidentali dell’epoca, come i moderni studiosi a supporre che il nuovo stile di corte derivasse da influenze europee – in particolare francesi. Recenti studi, comunque, hanno evidenziato che i primi resoconti ottomani sull’architettura civile francese sono successivi alla costruzione del palazzo e che, se i palazzi francesi di XVIII secolo e i loro giardini costituirono un modello per il nuovo complesso imperiale a Istanbul, un altrettanto valido archetipo potrebbe essere offerto dai progetti del palazzo di Shah Abbas nell’Isfahan safavide. A questo infatti – e non ai modelli francesi – facevano riferimento i cronisti e i poeti ottomani nei loro elogi del Sa)dabad76. Dopo un’assenza virtuale di mezzo secolo, la corte ottomana dimostrò la propria presenza nella capitale stabilendosi dietro il Topkapı, nel complesso civile recintato e isolato, visibile solo da lontano e praticamente inaccessibile. In concomitanza all’espansione della corte nelle zone del Bosforo e del Corno d’Oro, il sultano aumentò la propria visibilità prendendo parte a cerimoniali sempre più sontuosi così come a feste e celebrazioni che si tenevano in suo onore in diversi palazzi. I palazzi affacciati sul mare venivano anche utilizzati come sale di ricevimento per incontri ufficiali della corte così come per riunioni diplomatiche con inviati stranieri77. La presenza del palazzo imperiale a Beşiktaş e il numero crescente dei palazzi dei dignitari e dei membri dell’élite nelle sue vicinanze, fece del Bosforo un
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altro percorso processionale che ricalcava in parte le funzioni della principale – e su terra – via processionale cittadina, la Divan Yolu78. Il cambio dei centri di potere nella capitale andò a riflettersi anche nella coreografia dei festeggiamenti imperiali tenuti a corte e in città. I festeggiamenti con cui si celebravano i matrimoni regali, le circoncisioni dei principi, o l’inizio e la fine delle campagne militari nei secoli XVI e XVII erano stati organizzati nella principale piazza pubblica della città murata, l’At Meydanı. Nel XVIII secolo, il più sfarzoso di tali festeggiamenti – le celebrazioni per la circoncisione dei tre figli di Ahmed III nel 1720 – furono invece dislocati in diversi luoghi: nella suburbana Ok Meydanı, sui pendii settentrionali del Corno d’Oro, si tennero le processioni artigiane; lo stesso Corno d’Oro fece da sfondo ai festeggiamenti notturni, agli spettacoli e ai giochi cui la famiglia imperiale assistette dai propri chioschi e residenze sulla costa; nel palazzo di Topkapı si tennero invece le cerimonie direttamente connesse alla circoncisione79. Una nuova tendenza riguardo alla visibilità del femminile negli spazi urbani fu instaurata quando le principesse lasciarono il Topkapı per stabilirsi in palazzi propri, spesso collocati nei sobborghi cittadini in espansione80. La costruzione delle loro residenze private, assieme alla committenza di strutture e istituzioni pubbliche, fece sì che le donne della famiglia imperiale assumessero un ruolo più influente nella determinazione dei nuovi modelli urbani che si stavano sviluppando. Nel contempo, i palazzi più numerosi destinati alle principesse, che ne ospitavano le rispettive corti, diffusero la presenza e la visibilità della corte in città. L’espansione della corte oltre i suoi centri tradizionali, sulla punta del Serraglio e sulle sponde asiatiche del Bosforo, fu accompagnata dalla formazione di nuove infrastrutture per lo sviluppo urbanistico di quelle stesse aree. L’impresa più notevole interessò il sistema di distribuzione dell’acqua in città: esso nei secoli XV e XVI aveva compreso la città murata e la periferia nelle immediate vicinanze, ora venne abbondantemente ampliato a più riprese, in particolare con la costruzione di una grande diga e l’estensione della rete di distribuzione alla periferia di Galata e oltre, fino ai distretti di Beşiktaş e Ortaköy sul Bosforo. La riparazione e la significativa estensione delle condutture idrauliche cittadine – in concomitanza con le nuove forme di urbanizzazione e committenza architettonica che stavano allora emergendo nel mondo ottomano – possono essere messe in relazione con l’introduzione di una nuova tipologia edilizia nel panorama di Istanbul, a partire dal 1730: la fontana pubblica isolata, intesa a segnare il centro di una piazza cittadina o ad abbellire un giardino pubblico81. Queste strutture cubiche con tetti zincati, piramidali o a cupola, erano inizialmente comparse quali caratteristiche peculiari del contesto cittadino ottomano in Edirne
230. La fontana fatta costruire da Ahmed III nel 1728.
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durante il periodo in cui la corte vi soggiornò durato fino al tardo XVII secolo. Molte di queste fontane isolate, commissionate dalla famiglia imperiale o dai vizir e situate in luoghi già definiti da monumenti edificati nel XV o XVI secolo, manifestano chiaramente una diversa concezione dell’architettura monumentale e la secolarizzazione dei gusti che caratterizza la Istanbul del XVIII secolo. La più grandiosa e sontuosa di queste strutture venne fatta costruire da Ahmed III nel 1728; essa si trova proprio all’esterno del portale del Palazzo di Topkapı e sul retro di Santa Sofia. Ai due estremi del lungomare di Galata – ad Azapkapı, sul Corno d’Oro, e a Tophane, sul Bosforo – due monumentali fontane meydan furono portate a termine nello stesso anno (1732-1733) e collocate entrambe in prossimità delle moschee congregazionali edificate da Sinan nel tardo XVI secolo. Altre fontane monumentali sorsero presso le moschee cinquecentesche costruite da Sinan: una a Kabataş, a nord di Tophane, e un’altra proprio dietro l’approdo del sobborgo asiatico di Üsküdar. La costruzione di fontane isolate era anche una conseguenza del proliferare delle piazze e dei giardini pubblici in Istanbul, specie lungo il Bosforo e il Corno d’Oro. Come accadeva in Francia e in Inghilterra in quello stesso periodo, i giardini divennero elementi socialmente e culturalmente centrali nel tessuto urbano contemporaneo, in parte per l’apertura al pubblico di quelli che erano stati giardini di palazzo, e in parte per la creazione di nuovi giardini imperiali lungo il cui margine si veniva presto a formare una pubblica promenade. Anche le caffetterie, comparse nel contesto cittadino ottomano nel corso del XVI secolo e divenute successivamente luoghi sempre più popolari di interazione sociale maschile, parteciparono alla nuova organizzazione delle piazze e dei giardini. Il proliferare di spazi pubblici di ricreazione e di incontro facilitava anche il controllo dell’ordine pubblico da parte della corte: i nuovi giardini civici spesso ospitavano anche caseggiati per i giardinieri le cui funzioni comprendevano anche la vigilanza della folla così da garantire il rispetto dell’ordine e delle leggi relative al lusso e all’abbigliamento82. I palazzi dell’élite e le abitazioni nei comuni cittadini vennero caratterizzati da un nuovo linguaggio architettonico emergente. I palazzi sul lungomare del Bosforo, così come i complessi civili sul Corno d’Oro o nelle vicinanze non erano più strutture in pietra, il materiale edilizio preferito per i palazzi delle epoche precedenti: i nuovi palazzi cittadini vennero costruiti in legno su fondamenta in pietra. Si trattava per lo più di edifici suburbani le cui facciate allungate, volte verso il mare, erano caratterizzate dal ripetersi di unità similari, arricchite da prospetti aggettanti sull’acqua mentre grandi finestre ne aprivano gli spazi interni
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verso il canale. Simili nell’aspetto ad apparati effimeri e scenografie teatrali, in questo periodo i nuovi edifici caratterizzarono lunghi tratti del Bosforo; le stesse caratteristiche, d’altro canto, fecero sì che solo pochi sopravvivessero agli incendi e al naturale degrado dovuto al passare del tempo83. L’architettura dei palazzi sul lungomare era strettamente legata al linguaggio non ufficiale che aveva preso forma a Istanbul nel corso del XVII secolo e che condivideva lo stesso ampio utilizzo del legno, sia nelle strutture che nelle pareti, sopra le fondamenta in pietra. Come accadeva in altre sfere culturali nel XVIII secolo, era la città a ispirare la corte, in questo caso nella definizione di un nuovo linguaggio palatino84. Nella città murata come a Üsküdar ed Eyüp – che rappresentavano la vecchia periferia abitata per lo più da musulmani – la precedente tendenza di commissionare istituzioni di carità e beneficenza venne mantenuta; allo stesso modo rimase in voga anche la tipologia del piccolo gruppo di edifici accentrati attorno a una madrasa e al mausoleo del fondatore. Sia nella commissione delle fontane pubbliche che in quella delle istituzioni di beneficenza, si è osservato un ampliamento del bacino di committenza, cui si andò ad aggiungere un alto numero di uomini e donne di classe media85. Nel contempo, committenze architettoniche minori intervennero a stabilire una più intima relazione tra le strutture pubbliche e il preesistente tessuto urbano. Una più fluida composizione di elementi come fontane, sebil o portali mise in atto un processo di stretta interazione con le architetture circostanti. Alcuni edifici di questo tipo – commissionati da funzionari ottomani d’alto rango quali Nevşehirli Damad Ibrahim Paşa, il gran vizir di Ahmed III, e Çorlulu Ali Paşa – arricchirono ed esaltarono la Divan Yolu – la monumentale arteria caratterizzata sin dal tardo XV secolo dalla presenza di strutture pubbliche monumentali – portando a un’ulteriore articolazione del suo carattere ottomano. Numerose biblioteche, per lo più collocate all’interno della città murata e spesso costruite come parte di più vasti complessi architettonici, riflettono la diffusione della cultura libraria e della lettura nel regno ottomano. Le madrase, le moschee e i palazzi avevano fino allora conservato, come è ovvio, vaste raccolte di libri, ma la biblioteca come edificio isolato e istituzione autonoma rappresentava una relativa novità nel tessuto urbano di Istanbul (la prima, costruita dal gran vizir Köprülü Fazıl Ahmed Paşa, risaliva al tardo XVI secolo). Le biblioteche settecentesche – quali l’Atıf Efendi con la sua sala di lettura a ferro di cavallo, o la Nuruosmaniye con la sua forma ovale – sono spesso strutture innovative che riflettono il cambio di gusto dell’epoca. Il fatto che Ahmed III abbia fatto costruire una biblioteca isolata all’interno del terzo cortile privato del Palazzo di Topkapı testimonia la stessa tendenza: l’affermarsi della
231. La residenza imperiale di Bebek, sul lungomare del Bosforo, incisione da Antoine Melling, Voyage Pittoresque de Constantinople et des Rives du Bosphore, Parigi 1819.
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cultura libraria nella corte come in città, e l’assegnazione in entrambi gli ambiti di uno spazio ben determinato per la conservazione delle raccolte librarie. Il cambio di gusto e l’emergere di un nuovo linguaggio visivo nell’architettura monumentale si riflette anche nei più importanti progetti dell’epoca, come la moschea di Nuruosmaniye (1748-1755), cui era annessa la biblioteca già menzionata. La moschea presenta un chiaro riferimento al vocabolario architettonico europeo contemporaneo sia nel programma decorativo, come nel cortile d’ingresso a ferro di cavallo, nell’unica massiccia cupola che si innalza verticalmente sopra i tetti e le cupole del vicino bazaar coperto; essa dimostra così la predilezione accordata dai committenti imperiali al linguaggio innovativo per la più tradizionale delle strutture pubbliche urbane. Una simile preferenza per un’estetica nuova – che faceva uso sia del linguaggio decorativo ottomano che dei motivi europei contemporanei di decorazione architettonica – può essere riscontrata nelle numerose moschee imperiali progettate nel tardo XVIII secolo: la moschea di Laleli, al centro della città antica; quella di Ayazma (sacra fonte), che andò a rimpiazzare il palazzo imperiale omonimo; quella della regina madre Gülnuş Emetullah a Üsküdar; quella di Beylerbeyi, sulla costa asiatica del Bosforo; e la ricostruita moschea di Mehmed II – in gran parte distrutta durante il terremoto del 176686. Queste e altre architetture del XVIII secolo associano un interesse per la resa naturalistica e tridimensionale dei motivi a fiori e frutti e un rinnovato gusto per la decorazione astratta del mondo timuride di XV secolo con un crescente utilizzo del vocabolario architettonico e decorativo ispirato alle contemporanee tendenze europee. L’emergere di un nuovo vocabolario di forme – nei monumenti della dinastia imperiale ottomana e dell’élite, in quelli della classe media cittadina come anche nei contemporanei progetti delle comunità non musulmane presenti nella capitale – attesta il delinearsi di una sensibilità estetica condivisa al di sopra dei raggruppamenti sociali e religiosi e la compresenza, nell’interesse rivolto alle forme di ispirazione europea, di ragioni e di unità e diversità87. Nel suo Voyage Pittoresque de Constantinople, Antoine
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Ignace Melling – l’architetto e pittore originario dell’Alsazia che venne nominato Architetto di Corte da Selim III nel 1795 –, dipinse uno dei più significativi ritratti del Bosforo settecentesco, ridefinito dalla leggera ed effimera architettura in legno delle residenze sul fronte marittimo che ne segnava il corso. Cosa forse ironica, Melling fu anche uno dei fautori della trasformazione dello stesso paesaggio: il palazzo da lui progettato per la sorella di Selim III, Hatice Sultan, a Defterdarburnu – una struttura in pietra sormontata da un portico a colonne doriche di chiaro stampo neoclassico – annunciava la mutata sensibilità estetica dell’élite ottomana all’aprirsi del XIX secolo. Mentre la residenza in legno sulle rive sarebbe rimasta una tipologia in voga per le case estive dei ceti medi della capitale, i palazzi in pietra della famiglia imperiale avrebbero iniziato a sostituire quelli in legno che, facilmente danneggiabili, venivano frequentemente ricostruiti. Il cambiamento delle coste del Bosforo, con il passaggio dagli effimeri palazzi in legno alle solide strutture in pietra caratterizzate da dettagli di chiaro stampo europeo, rappresentava in effetti una calzante metafora delle vaste trasformazioni che caratterizzarono il regno ottomano nel corso del XIX secolo. In parte si consolidarono tendenze avviatesi nell’epoca precedente: il Bosforo, inizialmente luogo di ritiro estivo della corte, finì con l’ospitare il principale centro di governo quando il casato imperiale ottomano si trasferì definitivamente dal Topkapı al Palazzo Dolmabahçe appena costruito. Nel contempo, però, il XIX secolo segnò la definitiva ripresa di una posizione centrale da parte della città, con la corte e il proprio seguito ritirati sul Bosforo e la borghesia di recente affermazione nei distretti di Pera e Beyoâlu, nella periferia settentrionale di Galata88. La penisola di Costantinopoli partecipò alle imprese di modernizzazione promosse dai riformatori ottomani, ma questo centro millenario dell’Impero – dalla sua fondazione da parte di Costantino fino al trasferimento della corte nel 1856 – divenne anche l’emblema di un’epoca ormai sorpassata di gloria e tradizione, in netto contrasto rispetto agli insediamenti al di là del Corno d’Oro che rappresentavano il principale avamposto degli usi e dei simboli della modernità di stampo occidentale nel regno ottomano.
ARCHITETTURA RELIGIOSA OTTOMANA Giovanni Curatola
Le prime architetture religiose islamiche nella città conquistata «La città di Costantinopoli è morta e non c’è più ora in essa alcun segno di vita». Così il vescovo Isidoro di Kiev, testimone delle vicende in una lettera agli Universis Christi Fidelibus (da Creta, l’8 luglio 1453) all’indomani della caduta della città nelle mani delle forze turche guidate da Maometto II (1451-1481), il sultano che il 29 maggio del 1453 (intorno alle due del pomeriggio, per l’esattezza) vinse la resistenza bizantina otto secoli e mezzo dopo l’inizio dell’era musulmana, mettendo così fine ai tanti tentativi condotti dagli eserciti islamici a partire dall’epoca omayyade (con Mu‘awiyya e A‘bd al-Malik già nel 673-77, 717-18, 740) e più recentemente da Beyazıd I Yildirim (1397-99) e dal padre Murad II (1422). Diverse, ovviamente, le reazioni musulmane alla presa di quel luogo simbolico da parte del controverso Mehmed (dipinto come sanguinario e dissoluto da una parte e, dall’altra, idolatrato come «Ombra di Dio sulla Terra», ma in ogni caso uomo colto e fors’anche sottile umanista), il quale salito sulla cupola di Santa Sofia avrebbe avuto, nella testimonianza di Tursun Beg e Ibn Kemal, un moto di malinconia: «Quando scorse i dintorni di questo poderoso edificio [appunto Santa Sofia] coperti di rovine e deserti, meditò sull’incostanza e sulla variabilità di questo mondo, il cui destino è quello di cadere in rovina». Indubbiamente la fine di Stambul (e anche di Galata, o Pera, negoziata dai Genovesi – probabili alleati degli Ottomani contro Bizantini e Veneziani – con una
strategia forse spregiudicata ma non eccezionale dati i tempi), segnò un tracollo psicologico notevole nel mondo mediterraneo occidentale, dando ragione alle più pessimistiche profezie (un genere letterario a sé stante di notevole interesse) circolate per secoli. Ma che idea possiamo farci della Costantinopoli di metà Quattrocento? Una città importante, strategicamente, ma indebolita e impoverita da numerosi fattori; c’è chi addirittura sostiene (con un po’ di esagerazione) che non si fosse mai ripresa dalle devastazioni della Quarta Crociata (1204), ma di certo l’economia bizantina non era florida. Un segnale è nelle unanimi descrizioni dei viaggiatori delle rovine del palazzo imperiale nei pressi dell’ippodromo, funzionalmente sostituito dalla fortezza/palazzo delle Blacherne. I numeri dettati dalle fonti storiche non sono sempre convergenti, e non è agevole fare un quadro preciso; le forze impegnate nella difesa della città possono essere valutate intorno alle 7000 unità e i caduti in combattimento, da entrambe le parti, fra i 3000 e i 4000. La stima della popolazione non è facile, ma un orientamento accettabile è quello che valuta la città abitata da un minimo di 40.000 persone a un massimo di 60.000/80.000. Ma non è affatto detto che questi dati siano certi: un censimento della popolazione del 1477 conta a Istanbul 8951 nuclei musulmani, 3151 greci cristiani e circa 2000 fra armeni, latini e zingari, mentre a Galata/Pera sono contate 535 famiglie musulmane, 592 cristiane greche e circa un migliaio per le altre. Anche sui danni subiti in seguito alla sconfitta non c’è unanimità di vedute, e questo è probabilmente dovuto ai diversi atteggiamenti tenuti dalle
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comunità genovese (apertamente accusata di intelligenza con il nemico) e da quella veneziana schierata – non senza ambiguità come risulta chiaro dagli atti del Senato dopo che Costantinopoli passò di mano – dalla parte dei Bizantini. Il danno complessivo (merci perdute, case, gioielli, navi distrutte, etc.) sarebbe ammontato a quattro milioni di ducati, una cifra abbastanza realistica tenuto conto delle voci che correvano a Genova sul disastro finanziario di Pera (con conseguenze sulla Casa, poi Banco, di San Giorgio), stimato in circa un milione di ducati. Da parte cristiana, com’è noto, la caduta di Costantinopoli ebbe forti conseguenze, soprattutto a livello psicologico. Anche perché i Turchi erano stabilmente insediati nei Balcani e si paventava – sempre con lo strumento di stravaganti eppure seguitissime profezie – addirittura una conquista di Roma. Diverso fu invece l’atteggiamento dei conquistatori musulmani (i quali avevano in qualche modo negoziato se non una protezione, la salvaguardia dei beni genovesi a Pera), niente affatto ansiosi di trasferire la capitale sul Bosforo, tanto che alcune fonti secondarie (peraltro smentite dai resoconti più accreditati, ma nondimeno indicative di un approccio ideologico) fanno risalire soltanto al 2 giugno l’ingresso a Costantinopoli di Maometto II, da allora chiamato Fatih (Conquistatore). Città sicuramente splendida ma provata da tante vicissitudini e dall’assedio, il primo problema che si dovettero porre i nuovi signori fu quello del ripopolamento dell’urbe; politica abituale, assolta da migrazioni forzate con provenienze più dalle regioni anatoliche che non da quelle balcaniche europee. Dal punto di vista urbanistico e architettonico non succede inizialmente un granché: le chiese talvolta vengono mantenute al loro culto originario (ma senza alcuna manutenzione; spesso vengono abbattuti i campanili e vietato il suono delle campane), oppure usate come alloggio della élite governativa islamica e, infine, trasformate in moschea. Scarsi gli
interventi urbanistici e le mura non vennero restaurate. La conquista di Costantinopoli, vissuta come apogeo della forza militare ottomana, avrà come conseguenza pratica un allentamento dello spirito cameratesco egualitario proprio delle milizie combattenti, soppiantato da una maggiore importanza e visibilità della organizzazione civile e burocratica. Se dapprima questo sarà stato motivo di scontento e di allontanamento dal sovrano (non più accessibile direttamente come in passato, ma ora disponibile attraverso il filtro di una notevole organizzazione di palazzo, sempre più strutturata, più burocratica e più potente), a lungo andare quella burocrazia costituirà il nerbo dell’efficiente e perfettamente funzionante Impero ottomano. Effettuata la conquista il problema che si pone ai nuovi signori ottomani è molto semplice: come islamizzare la città. Fra leggenda e realtà il luogo prescelto per questa operazione sorge lungo le sponde del Corno d’Oro, la sottile lingua di mare che si insinua nella parte europea della città, fuori dalla cerchia delle mura, dove miracolosamente viene individuata la tomba di Abu Ayyub al-Ansari (in turco Eyüp), un compagno del Profeta Maometto, morto durante il primo assedio arabo di Costantinopoli (673-77). La tomba è particolarmente venerata e questo sito viene considerato fra i più sacri luoghi musulmani (dopo Mecca e Medina, Gerusalemme e Hebron), dunque perfettamente adatto a essere assunto come simbolo islamico dal Fatih dopo il suo ingresso nella città storica. La moschea venne costruita nel 1458 e ingrandita verso la fine del Cinquecento da Murad III e rimaneggiata (con la ricostruzione dei minareti) da Ahmed III. Mahmud I (1730-54) vi fece portare il calco dell’impronta del piede del Profeta, «reliquia» tratta dal Tesoro imperiale e, infine, Selim III (a fine Settecento) la fece ricostruire dopo il rovinoso e terribile terremoto del 1766. Tanta attenzione, documentata appunto dai numero-
232. La moschea di Mahmud Paşa vista da ovest. Con la doppia cupola e gli ampi spazi cupolati laterali, esemplifica bene la continuità tipologica architettonica con le moschee di Bursa. 233. La cupola della moschea di Rum Mehmed Paxa ad Üsküdar: fin dalla tecnica costruttiva – alternanza di mattoni e pietre di piccolo taglio – si evidenzia la dipendenza strutturale da modelli costruttivi bizantini.
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si interventi sultaniali, è giustificata dal fatto che tomba e moschea sono il fulcro religioso islamico di Istanbul e l’intero quartiere è caratterizzato, sulla collina, da un gigantesco cimitero utilizzato ininterrottamente a partire dal XVI secolo. Eyüp costituisce il retroterra religioso necessario a una capitale che è ricchissima di monumenti religiosi cristiani di grande rilevanza; il più insigne è indubbiamente Santa Sofia, prontamente e immediatamente trasformata in moschea senza alcuna alterazione strutturale, ma con l’aggiunta di minareti. Pur non divenendo subito capitale, Istanbul (forse da is tin pòlis, etimologia incerta ma popolare), vide, oltre a Eyüp, la costruzione di moschee (come la Mahmud Paşa Camii del 1464) che sono dei semplici cubi sormontati da cupola e non si discostano molto dal tradizionale modello architettonico affermatosi a Bursa, talvolta a doppia cupola e con ambienti laterali (in turco: tabhane; locali dove i pellegrini potevano alloggiare gratuitamente per tre giorni. Poi anche sede di confraternite religiose destinati ad alloggio o alle cerimonie delle varie confraternite religiose dei dervisci). La moschea costruita a Üsküdar (quindi in un’area importante ma periferica) da Rum Mehmed Paşa (1469) e quella di Davud Paşa (1485) sono di un certo interesse architettonico e sembrano aver inglobato e adattato perfettamente la lezione bizantina a un linguaggio autonomo ottomano, come in Davud Paşa, appunto, con lo spazio aggettante del mihrab che richiama un motivo absidale. Questo, comunque, non deriva necessariamente da un immediato confronto stambuliota, ma appartiene anche a un percorso più ampio che trova giustificazione nella lunga e ininterrotta presenza nei Balcani, dove l’architettura cristiana bizantina sarà costantemente sotto gli occhi dei costruttori ottomani e importante fonte di ispirazione. La trasformazione di Istanbul attraverso la costruzione di edifici a scopo religioso (ma va sempre tenuto conto che,
comunque, una moschea è più di un luogo di culto) ha una tappa importante nella moschea del sultano Mehmed II Fatih, programmata fin dal 1459, ma la cui edificazione avrà inizio nel 1463 per essere portata a termine sette anni dopo. Con la costruzione della moschea del Fatih ha inizio un’opera di profonda trasformazione urbanistica che cambierà il volto della città: praticamente ogni altura di Istanbul, e sono molte, avrà la propria moschea, giusto a partire dal quartiere di Eyüp – fondamentale dal punto di vista ideologico –, si assisterà alla conscia e programmata islamizzazione dei luoghi per giungere alla fisionomia che ancora domina la contemporanea Istanbul. Per la moschea – voluta e fatta costruire dal sultano che la città aveva conquistato, dunque paradigmatica in più di un senso – fu scelto il sito della chiesa dei Santi Apostoli e del mausoleo di Costantino. Che dovesse essere a cupola centrale è perfino ovvio se si tiene presente la costante evoluzione dell’architettura di stato ottomana, attenta sì alle più importanti esperienze bizantine e non solo (sebbene un richiamo alla San Marco veneziana sia eccessivo), ma anche ben avviata sulla strada di un’autonoma elaborazione che trova il suo esempio più clamoroso nella planimetria della Uç Şerefeli (1438-47) di Edirne, la capitale, con l’ampia corte con fontana centrale, i ben quattro minareti, e la stupefacente soluzione della cupola centrale poggiante apparentemente (perché i contrafforti sono ben mascherati nei muri d’ambito perimetrali) solo su due enormi pilastri esagonali. Certamente lo spazio interno è arioso e di grande fascino anche perché lo spazio della sala di preghiera è accentuatamente rettangolare; i problemi maggiori sono a livello di copertura, dove alcuni passaggi risultano angusti e sacrificati, impressione certamente accentuata dal pessimo restauro strutturale portato a termine qualche anno fa: un insulto di putrelle d’acciaio che spezzano e modificano l’armoniosa continuità degli archi. La lezione è ben pre-
234. Veduta interna della grande cupola della moschea Uç Şerefeli a Edirne. Già alla metà del Quattrocento, e prima della conquista di Costantinopoli, l’architettura ottomana sperimenta la soluzione della copertura a cupola centrale. 235. Melchior Lorichs, il complesso di Mehmed II, foglio 13 delle vedute di Istanbul. Leida, Universiteits Bibliotheek, BPL 1758.
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sente ai costruttori di Istanbul che nella moschea del Fatih – purtroppo già danneggiata seriamente dal terremoto del 1509 e completamente distrutta in quello del 1766; dunque in realtà poco o nulla sappiamo della sua forma originale, e anche il bellissimo disegno di Melchiorre Lorichs (1559) non è documentazione sufficiente – inseriscono, per esempio, una loggia imperiale antistante l’ingresso con cinque cupole, una prerogativa sultaniale. Si tratta, in ogni caso, di un vasto complesso di edifici di largo respiro contenente una serie di madrase (ovvero scuole coraniche) teologicamente importanti e poi soppiantate solo da quelle successive volute da Solimano, madrase che secondo fonti attendibili potevano ospitare fino a mille discepoli. Il grande viaggiatore turco seicentesco Evliya Çelebi (16111684, autore di una preziosa opera, il Seyahat name, talvolta forse un po’ esagerato per troppo entusiasmo...) ne parla con toni di ammirazione perché oltre all’edificio principale e alle scuole vi era un ospedale, l’immancabile hammam (bagno termale) per i riti di purificazione, un ospizio per i viaggiatori (che, secondo la regola, garantiva un soggiorno gratuito per tre giorni), una mensa per i poveri e, infine, un caravanserraglio in grado di ospitare molti animali. Nell’architettura della moschea si è indubbiamente tenuto conto di Santa Sofia; la pianta doveva essere imperniata su una cupola centrale, una semicupola/esedra sopra il mihrab e uno spazio laterale coperto da tre cupolette su ciascun lato. Gli edifici delle madrase seguono una disposizione simmetrica nella quale G. Necipoâlu ha voluto ravvisare un’influenza architettonica italiana (Filarete, Fioravanti) ma non è necessariamente così.
Le moschee di Beyazıd II e di Selim I Alla fine del Quattrocento vi è un importante incremento demografico nella città: i Turchi a Istanbul provengono un po’ dappertutto, sia dai Balcani, sia dalle regioni propriamente anatoliche. Molti gli Armeni (per esempio dalle province di Sivas e Kayseri) e anche Greci dalle isole. Alla fine del XV secolo Istanbul ha una popolazione stimabile in 100.000 abitanti, prima del boom cinquecentesco, se si calcola che nel 1590 la cifra più attendibile suggerisce una crescita quintuplicata. Beyazıd II (1481-1512) non sembra per un ventennio particolarmente interessato a patrocinare edifici importanti. Inizialmente il sultano converte le chiese in moschee: il caso forse più noto è quello di San Salvatore in Chora (Kariye Camii) non lontano dalle mura e dal palazzo di Costantino Porfirogenito; una scialbatura di bianco ricoprirà gli splendidi mosaici (senza danneggiarli) e un mihrab marmoreo ben si armonizza con le lastre dello stesso materiale, magari tagliate a «libro aperto» secondo un uso bizantino di largo impiego. Altre basiliche subiscono la stessa sorte: Santa Sofia diventa moschea praticamente subito, come quella dello Studion e anche i Santi Sergio e Bacco (nota come küçük Aya Sofia, «Piccola Santa Sofia»), mentre la Kilise Camii – nome fortemente evocativo – doveva forse in origine essere San Teodoro. Databile al 1491 è la piccola, ma perfettamente equilibrata, moschea di Firuz Agha, voluta dal tesoriere di Beyazıd e fatta erigere ai margini della grande spianata dell’ippodromo, nei pressi del Divan Yolu, una delle principali arterie storiche di Istanbul. Un’incisione di Pieter Coecke datata al 1553 è una documentazione grafica piuttosto precisa dell’edificio il quale, con la sua unica cupola e il portico antistante,
236 e 237. La moschea di Firuz Agha, presso l’ippodromo, come è raffigurata nell’incisione cinquecentesca di Pieter Coecke van Aelst (vedere anche a pagina 297) e come appare oggi. La moschea sintetizza perfettamente il meccanismo “modulare” dell’architettura ottomana delle moschee di modeste proporzioni, un modello usato in tutto l’Impero.
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238. La veduta aerea della moschea di Beyazıd II evidenzia con chiarezza i punti di forza della struttura e la fase di transizione con le tabhane sui lati, quasi un’aggiunta, destinate a scomparire perché non più funzionali. 239. La corte porticata della moschea illustra bene la indispensabile funzione di “filtro” dello spazio che è circoscritto ma aperto. Nelle due pagine seguenti: 240. L’interno della moschea di Beyazıd II con il mihrab e il minbar. È evidente la monumentalità dell’impianto. 241. Una delle semicupole della moschea.
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sembra essere il prototipo delle piccole strutture costruite un po’ ovunque non solo in Anatolia ma anche in molti altri territori soggetti al dominio ottomano che, sempre di più, viene a caratterizzarsi come un Impero multietnico e policentrico, nonostante il fortissimo accentramento. La decisone di costruire una grande moschea in una posizione di assoluta visibilità non solo non è sorprendente, ma anzi è perfettamente coerente con una politica di stato che perseguiva un duplice scopo: islamizzare la città e glorificare le imprese belliche del sovrano. I lavori si vogliono ufficialmente iniziati nel 1491, ma questi furono solo preparatorii per spianare il terreno; la moschea sorse fra il 1501 e il 1506. Il progetto e la direzione dei lavori furono di Yakub Shah ibn Sultan Shah e, però col senno di poi, il giudizio relativo a questo complesso edificio non può che essere legato a una fase di transizione. Infatti nella moschea di Beyazıd II troviamo assimilati elementi già sperimentati a Edirne, Amasya e Tokat, senza comunque dimenticare quale sfida – incombente e latente – abbia da sempre e per sempre rappresentato Santa Sofia per chiunque si sia avventurato a praticare architettura a Istanbul. È presente il modello della Uç Şerefeli di Edirne nella scelta (poi confermata in innumerevoli occasioni) di dedicare uno spazio grosso modo equivalente alla corte porticata – con finestrature che si aprono all’esterno e, in un gioco di velature, interagiscono perfettamente con lo spazio circostante – fatta salva la confermata esigenza di mantenere anche due ambienti laterali (o tabhane, locali dove i pellegrini potevano alloggiare gratuitamente per tre giorni). Questo delle tabhane è un elemento particolarmente importante sul quale conviene brevemente puntare l’attenzione; non si tratta, infatti, solo di una questione di stile architettonico e funzionale come vediamo proporsi nella prima architettura ottomana a Bursa, bensì di una questione di primaria importanza con risvolti teologico/dottrinari e quindi anche politici. Uno spazio integrato nella moschea per pellegrini, o più comunemente per membri di una confraternita religiosa a tendenza mistica sufi (come quella potentissima dei Naqşbandi, rigorosamente sunnita e ben diffusa fra i giannizzeri, l’esercito di élite che tanta parte ha avuto nella storia ottomana), ovviamente ne condizionava con pesantezza e perennemente l’uso. L’esistenza o meno di questi ambienti (sostituiti, se vogliamo, da madrase indipendenti), non è questione tecnicamente architettonica e neutra, ma ha molto a che fare con l’esercizio del potere nell’Impero. L’interno della sala di preghiera si basa su una cupola centrale (certo non più una novità, ormai...) sorretta da quattro grandi pilastri intervallati (solo sui fianchi) da una massiccia colonna monolitica in granito; l’ingresso e la parete dirimpetto a questo, qibli e dunque ospitante il mihrab, sono sormontati da una semicupola e in questo accorgimento voler vedere una consapevole citazione di Santa Sofia ci pare in assoluto legittimo e
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anche molto chiaro. Gli spazi laterali sono cupolati e non vi è galleria; la cupola centrale ha una dimensione non gigantesca (17 metri) e il senso di verticalità è ben sostenuto dalle semicupole che emergono dalla massa cubica perfettamente leggibile. I contrafforti «volanti» all’esterno della cupola sono risolti con eleganza. Interessante è anche il posizionamento degli ingressi: tre a metà lato nella corte e due nella sala di preghiera, spostati verso l’angolo formato dall’emergere delle tabhane. Alle estremità di queste si trovano i due minareti, staccati, dunque, dal grande corpo centrale e defilati. Si tratta di una novità e non particolarmente riuscita, perché la loro distanza in qualche modo destabilizza l’insieme e disperde l’attenzione, pur lasciando la cupola regina dello spazio. L’interno è ben risolto e abbastanza armonioso, non fosse per gli ambienti laterali che non si integrano affatto nell’attuale planimetria (ma sono probabilmente state apportate modifiche in seguito a eventi sismici), rimanendo sostanzialmente estranei allo sviluppo della moschea, e con la presente disposizione assolutamente non adatti e fruibili per lo scopo per il quale erano stati ideati. Il terremoto del 1509 fu un evento tragico: si contarono circa 13.000 morti – un numero altissimo per l’epoca e in assoluto – e danni incalcolabili alle strutture. La cupola di Beyazıd II crollò (e forse anche le tabhane furono modificate in fase di restauro), e quella della moschea del Fatih fu fortemente danneggiata (venne giù tutto definitivamente nel 1766) e si calcolarono in più di cento i luoghi di culto distrutti. A Santa Sofia lo stucco che ricopriva i mosaici si staccò in molti punti, circostanza di pessimo auspicio anche per gente non troppo superstiziosa; il sultano non fu molto attento a questa realtà e le energie furono incanalate più sulle ricostruzioni che non su nuove opere, com’è anche attestato dalle fonti.
242. Particolare della decorazione a muqarnas del portale di accesso alla moschea di Beyazıd II. Il tema della composizione geometrica delle figure solide è tipico di tutta l’architettura islamica e dunque anche ottomana.
Selim I («Il Crudele»), regnò poco (1512-20), ma lasciò segni profondi del suo passaggio. Appoggiato dai giannizzeri si ribellò al padre Beyazıd deponendolo (il sultano morì il 26 maggio1512), e poi fece uccidere fratelli e nipoti che potevano comunque costituire un pericolo (esempio che deve essere rimasto ben impresso un po’ a tutti i suoi successori, ma in particolare al figlio Solimano); la sua decisa azione contro gli Sciiti lo portò a uno scontro con le tribù turcomanne degli Aq Qoyunlu (cosiddetti «Montoni Bianchi») e col potere safavide persiano (il fondatore della dinastia Shah Isma‘il I aveva preso il potere nel 1501, e si era dichiarato ufficialmente sciita), il quale fu sconfitto sonoramente dagli Ottomani nella battaglia di Chaldiran del 1514. Grande stratega militare – sua la riorganizzazione del corpo dei giannizzeri, suoi lealissimi sostenitori e della flotta affidata a due personaggi diversi quanto entrambi fuori dalla norma: Khayr al-Din Paşa (Barbarossa), corsaro e stratega marittimo di grande nerbo, e Piri Re’is b. Hajji Mehmed, uno dei più grandi cartografi mai esistiti – do-
po gli scontri con i Persiani – dei quali, nonostante tutto, ammirava la grande cultura; anch’egli un poeta, seppure mediocre in quanto tale, ha lasciato un divan (raccolta, canzoniere) scritto in lingua persiana – si dedicò all’annessione di Siria ed Egitto, mettendo fine, nel 1517, al regno mamelucco e soprattutto prendendo il controllo di Mecca e Medina, aggiungendo ai propri titoli nobiliari anche quello di «Servitore [Custode] dei Due Luoghi Sacri». Una così intensa attività bellica ovviamente mal si conciliava con l’opera di organizzazione dei cantieri edilizi, ma probabilmente questi furono lo stesso numerosi ma impegnati soprattutto a ripristinare la normalità dopo il grande terremoto. Cionondimeno ci resta un importante monumento di quell’epoca e cioè la moschea di Selim I a Istanbul, probabilmente terminata nel 1522, ma dedicata alle imprese di quello che nel bene e nel male è stato uno dei più importanti sovrani ottomani. Costruire una moschea non era solo un gesto di devozione o di liberalità, ma costituiva un atto politico importante che era legato a delle solide convenzioni e tradizioni (le quali quasi assumevano il valore di legge), legate alla vita e alle opere del sultano. Era scontato che il finanziamento avvenisse con il bottino catturato ai nemici (meglio ancora se cristiani) e che il sovrano fosse stato personalmente a capo della spedizione. La moschea di Selim I sorge sul quinto colle di Istanbul (s’è detto databile al 1522), e il sultano a cui è intitolata era già scomparso e quindi fu un omaggio compiuto dal figlio Solimano II (detto in turco kanuni, cioè «legislatore» e «Il Magnifico» in Europa). Sia la scelta del luogo, un colle appunto, sia la morfologia della moschea (per esempio i doppi minareti erano prerogativa sultaniale) rispondevano a requisiti immediatamente leggibili da qualunque cittadino dell’Impero. La moschea di Sultan Selim I è posta sul Corno d’Oro e di fronte a una cisterna all’aperto (di Aspar), in una splendida posizione panoramica. La planimetria è abbastanza semplice: una corte rettangolare con tre accessi, con al centro una fontana e cupolette del riwaq (porticato) sostenute da diciotto colonne, precede una sala da preghiera quadrata (con cupola centrale) e due tabhane laterali anch’esse quadrate e con nove cupolette di copertura (e quattro piccoli ambienti angolari con finestra e un bello spazio cruciforme). Il fronte della corte è più ampio di quello della sala di preghiera e i minareti cadono esattamente nell’angolo fra il muro esterno della corte e a metà della tabhane (non più alla sua estremità come nel caso della moschea di Beyazıd II). Alla sala di preghiera si accede dalla corte, oppure lungo l’asse trasversale Est-Ovest, dagli ingressi delle tabhane che sono indipendenti. Insomma, la pianta non presenta novità sostanziali ed è coerente con il programma architettonico di una moschea nella quale lo spazio per gli ordini religiosi è ancora considerato importante. Vista dall’esterno la moschea è decisamente bella e ben proporzionata, con un gioco di semplici volumi studiato con
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cura: il muro esterno della corte è con finestrature riquadrate in basso e più piccole replicate in alto e un bel portale aggettante. Il minareto, con un solo balconcino, svetta alto e contemporaneamente stacca e inserisce le tabhane (più basse rispetto al muro perimetrale della corte); il cubo della sala di preghiera emerge alto – con un rinforzo agli angoli e un accenno di copertura, sempre angolare – e lascia spazio a una cupola di ottime proporzioni e dalla curvatura morbida, quella tipica della migliore architettura ottomana. A chi si deve il progetto e l’esecuzione di questa moschea? Le fonti la attribuiscono ad Acem Alisi (che poi vorrebbe dire ‘Ali il Persiano), un architetto, probabilmente azerbaigiano, portato a Istanbul da Selim dopo la presa di Tabriz (1514), al quale si attribuiscono anche altre moschee in Bulgaria, a Eyüp (la moschea Cezeri Kasim). Chiunque sia l’artefice di questa moschea è certamente stato un grande architetto. A giudicare dalla planimetria, l’integrazione fra i tre corpi (corte, sala di preghiera e tabhane, tenendo ovviamente fuori i minareti) non è delle più riuscite, ma il risultato effettivo (considerati gli alzati) è di sorprendente dinamicità pur difettando di coerenza. Il gioco delle diverse altezze è perfettamente leggibile e percepibile anche a distanza: una concezione dei pieni e dei vuoti, dei tagli di luce, delle superfici giocate in masse compatte che dimostra una padronanza particolare e una sapienza quasi mai raggiunta, e pare una bestemmia, nemmeno da Sinan. Descrivere le architetture, piuttosto che viverle, è compito sempre difficile; due sono le caratteristiche che colpiscono il visitatore della moschea di Sultan Selim I: la corte e la sala di preghiera. La corte non è dissimile da molte altre, ma presenta un’armonia di forme e un ritmo e una proporzione degli elementi (come le colonne, le altezze, la fontana centrale) che spesso ci hanno portato alla mente la migliore architettura rinascimentale italiana, quella di un Leon Battista Alberti, per fare un nome. Parimenti straordinaria è la cupola di grandi dimensioni (ha una luce di 24.5 metri e un’altezza di 32.5; uguaglia la Uç Şerefeli di Edirne e sorpassa sia la moschea di Beyazıd II a Edirne (20.5 metri), sia quella di Istanbul (17.5 metri), semplicissima (sembra un’anticipazione di Shaykh Lutfollah a Isfahan) ma di straordinaria potenza espressiva con le finestre che all’interno coronano ciascuna parete esaltando con una forte luminosità la perfetta e lineare proporzione delle strutture. È uno dei monumenti più insigni dell’arte islamica a Istanbul e la sua cupola, a nostro avviso, è la più bella di tutta la città.
Il sultano e l’architetto
243. La moschea di Selim I.
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Con il lungo regno di Solimano il Magnifico (1520-1566), Istanbul assiste a uno dei periodi più fecondi della sua storia. Solimano nacque a Trebisonda il 6 novembre 1494 e passò i primi quindici anni in quella città dove il padre Se-
lim aveva la sua corte prima di salire al trono; importante città portuale, Trebisonda aveva una notevole tradizione orafa anche grazie a importanti miniere d’argento ed essendo luogo di raccolta e commercio di minerali preziosi, tant’è che una sorta di leggenda vuole che sia Selim sia Solimano fossero versati in quest’arte. Solimano fu governatore di Caffa (in Crimea, già importante emporio e piazzaforte genovese) e poi di Manisa e, il 20 settembre 1520, divenne sultano. Fu molto impegnato e attivo sul piano militare in Occidente – campagne in Ungheria (1521), battaglia e vittoria di Mohács (1526), assedio di Vienna (1529), campagna di Germania (1532), assedio di Buda (1541) e campagne di Transilvania (1551-52), fino a quella contro la fortezza ungherese di Szigetvár dove trovò la morte il 7 settembre 1566 – e anche in Oriente contro il potere sciita safavide (campagne del 1533-35 e del 1548-49). Solimano, conosciuto a ragione in Occidente come Magnifico, per i Turchi è invece kanuni, ossia il «legislatore». In realtà kanun (raccolta di leggi) furono promulgati anche da altri sovrani ottomani, come lo stesso Mehmed II Fatih e Beyazıd II, ma l’opera di sistematizzazione di Solimano fu particolarmente importante perché rese valido il codice in tutto l’Impero, superando una certa aleatoreità per certi versi connaturata all’Islam. In questo fu fondamentale l’opera dello storico Chelalzade Mustafa, cancelliere (1534-1556) che stese materialmente le norme e le rese armoniche e compatibili alla shari‘a attraverso un confronto serrato con il più eminente teologo dell’Impero, lo Şeyhulislam Ebussuud, uomo potentissimo e altra figura chiave del regno. Una burocrazia fortemente strutturata, in tutti i campi compreso quello artistico e architettonico-urbanistico, in questo contesto i più pertinenti, permetteva al sovrano lunghe assenze per le grandi campagne militari, senza che l’amministrazione avesse a risentirne. Questo è un dato fondamentale per comprendere lo straordinario sviluppo anche urbanistico di Istanbul nel Cinquecento, reso possibile da una società – come ce l’ha magistralmente raccontata R. Mantran – estremamente complessa che era organizzata in corporazioni e secondo un sistema chiuso ma allo stesso tempo dinamico. Era una cultura e una civiltà che offriva molte possibilità; banalmente, possiamo per esempio segnalare come con Solimano su 23 vizir (9 primi vizir e 14 vizir) solo quattro fossero musulmani di nascita! Inoltre le numerose conquiste e annessioni territoriali, a Est come a Ovest, portarono grandi novità e quell’atmosfera cosmopolita che da sempre è la migliore incubatrice per le innovazioni culturali. Se Michelangelo non sarebbe stato tale senza Giulio II, così, probabilmente, Sinan non sarebbe ricordato come uno fra i più grandi architetti di sempre – un genio assoluto – senza Solimano. Infatti le loro strade e destini si sono intrecciati e pochi uomini hanno pesato e modificato la forma stessa di
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una città come hanno fatto loro con Istanbul. Le origini di Yusuf Sinan sono abbastanza oscure; egli nacque alla fine del Quattrocento (1489-91) in Anatolia (villaggio di Agirnas, Kayseri; provincia di Karaman) forse da famiglia armena georgiana o greco ortodossa, quasi certamente cristiana, e fu uno dei giovani del devşirme – la leva obbligatoria dei giovani reclutati nelle province, non solo asiatiche ma anche europee, soprattutto non musulmani e avviati al corpo dei yeni-çeri (giannizzeri), la struttura di élite e asse portante dell’esercito ottomano, legatissimi al sultano e spesso decisivi nel far prevalere una fazione ereditaria sull’altra – che arrivò a Istanbul già adulto intorno al 1512. Entrato appunto nel corpo dei giannizzeri, Sinan parteciperà alle campagne militari di Selim prima e Solimano poi sia a Corfù, in Puglia e nei Balcani (fino alle porte di Vienna), sia nell’Oriente, vedendo Tabriz (ma anche Sultaniyya) e Baghdad, Bassora e Cairo, segnalandosi per le sue spiccate capacità logistiche e di ingegnere militare esperto in fortificazioni e ponti, oltre a essere avvezzo alla ferrea disciplina dell’organizzazione militare che gli consentiva una eccellente organizzazione dei cantieri. Egli fece carriera nel corpo – da questo, comunque, veniva cooptata tutta la macchina amministrativa e bellica ottomana, dagli agha (comandanti) delle truppe di terra, ai kapudan (ammiraglio che deriva da amir, emiro) della flotta, ai paşa dei distretti (o sangiaccati) fino alle più alte cariche di vizir o primo vizir – divenendo prima yayabaşi o subaşi (comandante dei novizi) e poi, durante l’assedio di Baghdad (1534-37), zenberekcibaşi, ovvero capo del reggimento responsabile delle catapulte e delle altre macchine da guerra. Questa lunga esperienza di apprendistato, se così si può dire, culminerà nel 1538 nella costruzione durante la campagna di Moldavia di un ponte sul fiume Pruth (compito portato a termine in soli dieci giorni), incarico affidatogli dal suo principale protettore Lutfi Paşa, che una volta diventato gran vizir lo nominerà (1539) archi-
tetto capo, una posizione non importantissima e ambita (prima di lui!), incarico che manterrà fino alla morte, centenaria, nel 1587-88. Con Sinan non avremo al potere soltanto un ingegnere di solidissima preparazione e un architetto fantasioso (viene in mente Pierluigi Nervi...), ma un genio amministrativo, uno straordinario organizzatore di cantieri particolarmente complessi, e un urbanista, un responsabile di lavori pubblici (acquedotti, viabilità, sanità, oltre alla progettazione e realizzazione di moschee e complessi polifunzionali, in turco külliye), certo coadiuvato da un importante staff al quale venivano delegate non poche responsabilità. L’opera e la vita di Yusuf Sinan ci sono note attraverso un’autobiografia dettata al poeta Mustafa Sai (che ci è giunta in cinque versioni) con i manoscritti dal titolo Tuhfetu’l-mi‘marin (Dono degli Architetti) e Tezkiretu’l-ebniye (Ricordo Biografico degli Edifici), e nonostante quasi cinquant’anni di dominio incontrastato non siano pochi, gli edifici che gli sono stati variamente attribuiti sono un’enormità nelle ipotesi più generose: 477 edifici costruiti, di cui circa 200 sarebbero ancora stanti, con, fra questi, ben 106 moschee di cui una sessantina esistenti! Sbalorditivo in ogni caso. Oltre a moschee eseguite dai suoi assistenti (il cui progetto, comunque, non poteva non avere il suo imprimatur) un po’ in ogni landa dell’Impero, il grosso delle opere è concentrato nelle due capitali, Istanbul e Edirne, e lungo la strada che unisce questi due centri. Prima di una disamina di alcune delle architetture di Sinan a Istanbul (se ne contano decine, per l’esattezza 39), è opportuna una premessa e considerazione critica che ben può valere anche come conclusione, ma che espressa qui permetterà, crediamo, di comprendere meglio e appieno l’originalità della sua opera e l’impatto che questa ha avuto su Istanbul, oltre che condividere il giudizio non esagerato che vede in Sinan il massimo architetto moderno nel Mediterraneo. La conquista di Istanbul, avvenuta circa un seco-
244. La firma monumentale o tughra del Sultano Solimano il Magnifico. Questo esemplare di notevoli proporzioni (158 x 240 cm), eseguito dal grande artista Mehmed Çelebi, era appeso nella sala della Cancelleria del Consiglio di Stato Imperiale del Palazzo del Topkapı e serviva da modello per la riproduzione da parte degli artisti incaricati di firmare i documenti ufficiali. Topkapı Sarayı Müzesi.
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lo prima, porta gli Ottomani – molto attivi, s’è detto, sul piano militare con il sovrano che era costantemente impegnato come supremo ghazi, un titolo d’onore ma etimologicamente legato inizialmente all’incursione di razzia e poi entrato nel lessico come «raid contro gli infedeli» –, a sentirsi al contempo fortemente legati all’originale etnia turca, ma anche a considerarsi i veri eredi e continuatori del mondo romano/bizantino; e legittimamente, senza soluzione di continuità, non certo come usurpatori. In architettura Sinan si vede «costretto» a inventare un linguaggio che tenga conto di entrambe le matrici. Di qui, riteniamo, hanno origine quei giudizi che considerano, un po’ paradossalmente in verità, poco islamico Sinan, dimenticando come in realtà le radici, ovvero il ceppo, ma anche il tronco da cui si sviluppa quella che chiamiamo «arte islamica» ha anche (ma non esclusivamente) componenti classiche. E che i Turchi, provenienti dall’Asia Centrale, transitati per la Persia (incontrando Bisanzio, ma anche le varianti caucasiche e quelle armene, georgiane, greche e balcaniche), riescano a stabilire una sintesi turco anatolica intinta e rivisitata alla luce di uno spirito mediterraneo, è quasi semplicemente logico e naturale. Sarà questo il compito di Sinan e la sua genialità starà nel farsi sommo interprete di queste esigenze. Come? La centralità della figura del sovrano, la sua organizzazione burocratica e la forte connotazione religiosa in chiave sunnita – Solimano dichiara, con opportuna fatwa (sentenza giuridica), gli Sciiti (Safavidi) infedeli e dunque conduce una legittima «guerra santa» al fine di restaurare la shari‘a – oltre all’esigenza di togliere potere, o riequilibrarlo, alle confraternite sufi, tolgono dalla scena architettonica come prima cosa le tabhane, eredi dell’architettura di Bursa (con la cosiddetta pianta a T rovesciata) e impianto evoluto e conservato fino al primo Cinquecento e, attraverso un canone architettonico preciso e codificato, stabiliscono minuziosamente il rango e la visibilità di cia-
scuna moschea. Per fare un esempio l’orientamento di tutto un complesso verso Mecca e il porticato antistante l’ingresso con copertura a 5 cupole, o, ancora, la corte lastricata di marmi sono prerogative sultaniali. Lo strumento scelto da Sinan per affermare questa unità stilistica imperiale (e anche per distinguere e segnalare una scala di valori), è il continuo e inesausto studio, e sperimentazione, di una planimetria basata su una cupola centrale su base rettangolare, quadrata, esagonale o ottagonale, combinando liberamente e rigorosamente le varie soluzioni possibili. Poi, accanto a questo schema variabile eppure fisso, una miriade di varianti negli elevati delle facciate, nei minareti, nei portali, nelle finestre, nelle modanature, nei porticati, nelle fontane, nei rivestimenti interni dipinti o in ceramica, nelle iscrizioni: niente era lasciato al caso e tutto obbediva a una logica legata all’affermazione del potere autocratico sultaniale. Sinan, di suo un personaggio eccezionale, va comunque contestualizzato in una società in forte espansione (si veda, per esempio, l’atteggiamento di grande apertura ottomana verso le comunità ebraiche cacciate dalla penisola iberica dopo il 1492, e gli impulsi commerciali che ne derivarono), ed è il frutto maturo di un’intera società e di un’epoca. Santa Sofia è indubbiamente una pietra di paragone, un continuo motivo di confronto, ma esitiamo molto a parlare di sfida: sicuramente non doveva essere vista come qualcosa di estraneo (se vogliamo attraverso un’opera di rimozione psicologica collettiva), bensì come parte integrante di una storia che non conosce interruzioni. D. Kuban, uno dei massimi studiosi dell’opera di Sinan, giustamente segnala come egli non ceda mai al decorativismo e la sua opera sia un inno alla pura struttura in forma moderna. Si è detto delle differenze gerarchiche fra le varie moschee; soprattutto è importante comprendere le differenze fra quelle sultaniali (o a tale status assimilabili) e di corte, dai familiari ai vizir. Il protocollo in merito era abbastanza ri-
245. La firma e il sigillo di Sinan. Il sigillo in particolare era gelosamente custodito presso gli uffici dell’architetto imperiale capo e veniva apposto in tutte le occasioni nelle quali era necessario siglare un documento ufficiale.
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gido: lo si rileva soprattutto nei dettagli quali la scelta del sito, il numero dei minareti (due o più solo per le moschee di rango elevato), il tipo di porticato e le pavimentazioni, oltre alle decorazioni interne – dalla scelta dei materiali, al contenuto delle iscrizioni, ai tappeti che ne ricoprivano la superficie – e alla dicotomia fra centro (Istanbul, ma anche Edirne) e periferia, dove comunque si mantenevano le caratteristiche salienti, magari con variazioni locali (e viene alla mente la moschea di Sinan a Damasco), per segnalare anche visivamente l’unitarietà imperiale. La moschea è il centro politico e culturale di un quartiere; la dottrina giuridica hanafita, alla quale gli Ottomani aderivano, permetteva la costruzione di più di una moschea congregazionale, o del venerdì, quella riservata alla preghiera comunitaria. Severe normative limitavano l’altezza degli edifici vicini di modo che la moschea potesse essere sempre visibile e, da subito dopo la conquista, i campanili erano di fatto spariti dalla silhouette della città.
Le prime moschee di Sinan La prima committenza importante per Sinan arriva dall’inaspettata morte, avvenuta nel 1543, del principe Mehmed (Şehzade, erede designato) il maggiore dei quattro figli maschi avuti dal sultano da Haseki Hürrem – la famosa Rosselana delle fonti europee, una schiava liberata che Solimano aveva legalmente sposato nel 1534; Mehmed era nato nel 1520-21; gli altri tre furono Selim (1524), Beyazıd (1525), Cihanghir (1531), quest’ultimo gobbo e malato. Il figlio Abdullah (1522-23) morì quasi subito dopo la nascita; l’unica femmina Mihrimah nacque nel 1522. Sebbene un altro principe, il fratellastro Mustafa (nato nel 1515), avesse una straordinaria popolarità e fosse molto ben visto dai giannizzeri, la nomina di Mehmed a governatore di Manisa, luogo vicino alla capitale e tradizionale seggio dell’erede, dove prima di lui aveva soggiornato per otto anni Mustafa (poi trasferito con la di lui madre nella più periferica Amasya), era stato un segnale preciso della volontà sultaniale. Ma la morte precoce di Mehmed – amatissimo da entrambi i genitori e beniamino della corte – cambiò la storia e offrì a Sinan una straordinaria opportunità di affermazione. Il luogo prescelto, centralissimo, fu lungo il Divan Yolu (strada fra le più importanti di Istanbul), su un’area elevata dove sorgevano gli acquartieramenti dei giannizzeri e dei novizi del corpo (qui Sinan aveva compiuto il suo apprendistato), non distante da uno dei simboli classici di Istanbul, ancora oggi ben visibile: l’acquedotto di Valente. Sinan era pronto per l’impresa. Il mausoleo del principe, un classico edificio ottagonale con copertura a costolature di vaga reminiscenza timuride, molto semplice e luminosissimo, costruito nel 1543 è deco-
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rato all’interno da bellissime mattonelle eseguite a cuerda seca con motivi floreali di soave fattura – secondo una tradizione persiana – in blu, azzurro, bianco, giallo, rosso scuro e verde; quest’ultimo colore, associato alla gioventù, alla primavera, alla rinascita, all’Islam e al Paradiso, costituisce la nota dominante di un luogo nel quale Solimano trascorreva molto tempo alla ricerca della serenità. La moschea – anzi il complesso (külliye) di Şehzade visto che comprendeva anche una madrasa, un ostello (con scuderie annesse), un ospizio e una scuola elementare – non è assolutamente un’architettura di transizione, ma l’opera matura di un grande costruttore. La pianta della moschea (che data agli anni 1544-48) è di estremo rigore formale. Lo spazio è complesso e utilizzato con intelligenza col giardino intorno all’edificio principale che fa integralmente parte della struttura; non è una novità (lo si incontra già nella moschea del Fatih che insieme a Santa Sofia e alla moschea di Beyazıd II erano le principali istituzioni religiose cittadine prima della Şehzade), ma una conferma di quanto la natura potesse far parte del progetto. La corte è quadrata, con l’ampio porticato interrotto da tre ingressi monumentali e ben articolati con portali a riquadri e copertura a muqarnas (nicchie ad alveoli); mediano quello sul lato Nord, più spostati verso le estremità i due lungo l’asse Est-Ovest. Al centro vi è una bella fontana (turco: şadirvan), e la lastricatura marmorea della corte la connota come una fondazione sultaniale, circostanza confermata anche dai due sottili minareti, ciascuno con due balconcini a interrompere ed esaltare l’altezza del fusto. Si può sostenere che lo spazio della corte sia diviso in cinque settori dalle aree sostanzialmente equivalenti: i quattro porticati – proporzionati e molto snelli con colonne alte il doppio dell’intercolumnio – e la zona centrale. La sala di preghiera copre uno spazio grande come quello della corte, e già questa scelta è significativa; l’impianto è a cupola centrale – con una luce di 19 metri è più ampia di Beyazıd II (17 metri), ma più ridotta rispetto a quella del Fatih (che doveva essere di 26 metri) e di Selim I con i suoi 24.5 metri – impostata su quattro grandi pilastri e quattro semicupole di eguale proporzione e cupolette angolari. Un dispositivo a quadrifoglio (potrebbe essere una rivisitazione islamica di un’architettura rinascimentale italiana), molto ben gestito anche a livello di spinta, assorbita da contrafforti mascherati nei muri perimetrali. In posizione mediana lungo l’asse Est-Ovest sono situati due portali e i minareti sono inseriti nel punto di tangenza fra corte e sala di preghiera. L’interno è compatto e armonioso e all’esterno sono già chiare quelle che sono le linee di forza del pensiero di Sinan: proporzioni accuratissime con rapporti geometrici fissi, leggibilità assoluta delle forme solide con perfetta aderenza fra interno ed esterno. Le quattro cupole angolari circondano e introducono le esedre che lateralmente hanno il prolun-
246. La moschea Xehzade, la prima importante moschea di committenza sultanale costruita da Sinan. L’immagine evidenzia benissimo il perfetto senso delle proporzioni fra i vari elementi, compresi i due minareti.
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In queste due pagine: 247. Veduta angolare della moschea Şehzade con uno dei porticati laterali e minareto. La cospicua massa architettonica è alleggerita dalle arcate e dalle numerose finestre che permettono una adeguata luminosità interna. 248. Due delle finestre che si aprono sulla corte nella moschea Şehzade. La correttezza e linearità formale del disegno è ineccepibile.
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Nelle due pagine seguenti: 249. La grande sala di preghiera della Şehzade con uno dei grandi pilastri a sostegno della cupola. Impegnativa opera d’esordio nella capitale, ma già autonoma e matura. 250. Le coperture (cupola centrale, semicupole, e cupolette angolari) della Şehzade viste dall’interno corrispondono perfettamente a quanto appare esternamente. Questa apparente semplicità è uno dei grandi pregi dell’opera di Sinan.
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gamento in altezza, cilindrico e cupolato, dei pilastri di supporto, tracciando un’ipotetica linea diagonale che viene a chiudersi alla sommità della cupola (una sorta di immaginaria linea che sottolinea un’ascendenza piramidale), sostenuta anche da contrafforti «volanti». Un’altra caratteristica e invenzione di Sinan è la trasformazione, attraverso lo strumento di uno stretto porticato sormontato da cinque arconi, ciascuno di questi dotato di tre finestre, delle pareti Est e Ovest in vere e proprie facciate alternative rispetto a quella di ingresso dalla corte marcata unicamente da una cupola più alta. La decorazione interna è sobria e le iscrizioni che ne costituiscono il tratto principale sono esclusivamente coraniche; nella cupola centrale l’iscrizione si riferisce all’isra’ (il viaggio notturno di Maometto da Mecca a Gerusalemme) e il successivo mi‘raj (o Ascensione del Profeta), sono una chiarissima allusione alla speranza di un viaggio paradisiaco anche per il defunto principe Mehmed. La complessità del cantiere deve essere stata notevole e Sinan dà prova sia di straordinarie capacità tecniche e gestionali, sia di eccezionale maturità artistica; è tutto meno che un esordio, piuttosto l’opera serena di una mente superiore per niente intimidita dalla difficoltà del progetto e consapevole del proprio immenso valore e, dunque, priva di qualsivoglia autocompiacimento o tentativo di stupire se non attraverso un esercizio di semplicità quasi naturale, senza inutili e dannosi fronzoli e orpelli. In pratica, contemporaneamente alla costruzione della grande moschea di Şehzade, Sinan fu responsabile di un altro cantiere, quello per la moschea di Mihrimah Sultana a Üsküdar, in Asia dirimpetto a Istanbul nella località nota come Selaniki. La principessa Mihrimah («Sole e Luna», questo significa il suo nome, e davvero nomen omen...) era figlia amatissima di Solimano e di Hürrem, e fu data in moglie (1539) al non troppo aitante (ma di grande intelligenza e abilità) Rüstem Paşa, un nativo croato di umili origini (forse addirittura guardiano di porci nei pressi di Sarajevo), che anche grazie al matrimonio divenne gran vizir nel 1554. Il trio formato da Hürrem Haseki, Mihrimah e Rüstem ebbe un ruolo importantisimo nelle vicende familiari ottomane per garantire il trono, a discapito di Mustafa, a uno dei figli di Rosselana, Beyazıd (preferito da Mihrimah) o Selim, dato che il fragile e malato Cihanghir era fuori gioco. Come sappiamo prevalse Selim i cui rapporti con l’intrigante e spropositatamente ricca sorella non furono mai troppo calorosi. Mihrimah sopravvisse alla madre (che morì nel 1558), al marito (scomparso nel 1561; ella tentò, senza successo, di accasarsi anche col successore del marito, il gran vizir Ali Paşa), al padre (1566) e al fratello Selim II (1574), e morì ultracinquantenne nel 1578. Alla sua morte il nipote Murad III ereditò due terzi della sua considerevole fortuna e un terzo andò alla figlia Ayşe Sultan.
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Grazie al suo status particolare (in questo Solimano fece molti strappi alle regole a favore delle sue donne), Mihrimah poté commissionare a Sinan due moschee per se stessa e una per il marito Rustem. La prima moschea, come s’è detto, fu quella di Üsküdar; la morfologia del terreno su cui doveva sorgere impose a Sinan delle limitazioni che comunque egli seppe sfruttare bene; la pianta è analoga alla Şehzade, ma priva della corte e della quarta esedra/semicupola, sostituita da un portico a cinque cupole a sua volta fasciato da un altro portico con copertura a spiovente (un dispositivo probabilmente visto dal nostro in Siria), con un padiglione quadrato aggettante che ospita lo shadirvan per le abluzioni. I due minareti, con un solo balconcino, sono testimonianza precisa dell’alto rango attribuito alla principessa. G. Necipoâlu nel suo importante studio su Sinan molto acutamente osserva come le moschee possano essere interpretate, attraverso l’analisi dei particolari costruttivi, quali «ritratti» dei committenti. La ventenne Mihrimah era donna volitiva e potente. Il fatto che la sua moschea abbia due minareti è molto indicativo; inoltre la coincidenza temporale con la costruzione della moschea funeraria del fratello non deve essere stata casuale. Un cantiere vasto come quello della Şehzade (con i decreti finanziari e di organizzazione proposti da Sinan, ma promulgati da Rüstem Paşa...), con larga quantità di uomini e materiali, permetteva sicuramente di distoglierne una parte per favorire il disegno del gran vizir – a cui taluno ha significativamente attribuito la moschea – e della figlia prediletta del sultano. Non a caso, una serie di tombe di nipoti e altri personaggi fanno di questo sito una sorta di memoriale di famiglia, pur se non vi sono sepolti né Mihrimah né Rüstem. I documenti della wakfiyya (testi che sono una via di mezzo fra il testamento e l’atto di donazione a scopo benefico) di Mihrimah sono molto interessanti e confermano una predisposizione sufi – in realtà comune a molte donne della famiglia, compresa la madre – in particolare con una devozione nei confronti dello sceicco Halveti Nureddinzade a capo, come shaykh/«cappellano militare», della spedizione ungherese in cui morì Solimano. I wakf, e non solo nel caso di Mihrimah ma più in generale per le famiglie principesche e anche dei vizir, assegnando a un edificio una serie di importanti proprietà e nominandone espressamente gli esecutori testamentari e i loro eredi diretti, permetteva di
251. La moschea di Mihrimah Sultana a Üsküdar, con il portico esterno a spiovente e la severa e massiccia sagoma della cupola. I due minareti sono una concessione di Solimano il Magnifico alla sua unica e prediletta figliola.
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mantenere una grande proprietà – con tanto di capitale, come diremmo oggi, rivalutabile e depositato in un fondo fiduciario – in ambito familiare, pur essendo formalmente e talora anche sostanzialmente un’opera pia religiosa. Per tornare alla moschea di Üsküdar, nonostante la zona periferica e una non perfetta disposizione delle finestre che rendono l’edificio un po’ in penombra in certi punti (quasi un omaggio, si direbbe, al nome della principessa), si conviene in genere che sia una moschea importante e di rango elevato: a nessun familiare del sultano regnante sarà permessa una simile ostentazione.
In celebrazione del sultano: la moschea Süleymaniye I tempi sono ormai maturi per la più importante e imponente moschea di Istanbul del Cinquecento, quella dedicata al sultano stesso: la Süleymaniye. Questa moschea viene concepita come l’apoteosi del regno di Solimano e per celebrare i suoi trionfi militari in Occidente come in Oriente, attraverso un’architettura che per posizione e struttura – assieme ai numerosi edifici che non sono un semplice corollario – fosse visibilissima in tutta Istanbul, e celebrasse uno dei più grandi sultani musulmani; e inoltre, dialogando intimamente con Santa Sofia, infine, superasse ogni altra struttura di esecuzione islamica. Le date ufficiali della costruzione sono fra il 1550 e il 1557, ma il progetto può essere stato concepito almeno un paio d’anni prima e alcuni lavori accessori e di rifinitura e due delle madrase sono più tardi (1559). Il sito prescelto è altamente significativo: affacciato sul Corno d’Oro inglobando terreni del terzo colle della città dove sorgeva l’antico campidoglio bizantino e, più recentemente, i padiglioni regali o vecchio serraglio, in parte distrutti da un incendio nel 1541. La külliye di Solimano oltre alla moschea – la quale risulta inserita in un grande giardino
– conta un gran numero di edifici e si pone come centro di aggregazione religioso a un livello superiore rispetto alla fondazione di Mehmed II. Vi sono ben cinque madrase, tante quanti gli arkan (pilastri della fede), e una di queste, anomala nella disposizione planimetrica forse perché pensata e aggiunta in corso d’opera, era riservata per eminenti teologi pensionati, una specie di superiore accademia religiosa specializzata in esegesi coranica e negli hadith (detti e fatti riguardanti la vita e la missione profetica di Maometto). Del resto Solimano si proponeva come il paladino della vera fede, confortato in questo dalla vittoria, diplomatica, sugli sciiti persiani di Shah Tahmasp I, sancita dal trattato di pace di Amasya del 1555, nel quale viene in un certo senso dichiarata la superiorità della sunna a sostegno della shari‘a. Oltre alle scuole teologiche viene costruita una scuola di medicina, un ospedale, un caravanserraglio/ospizio (e anche botteghe), una mensa di carità per i poveri, una biblioteca, un hammam e una pubblica fontana. Il tutto è funzionale al progetto di far emergere la moschea con la sua bella cupola – al centro di un giardino e su una piattaforma – come una gemma a coronamento di un diadema prezioso. A questo scopo Sinan sfrutta magistralmente il declivio della collina con opportuni terrazzamenti a procurare uno scenografico stacco e colpo d’occhio. Le diverse prospettive devono essere state studiate accuratamente dall’architetto capo. G. Necipoâlu giustamente nota: «La Süleymaniye è scolpita tridimensionalmente su diversi livelli di terrazzamenti per esaltare la sua massiccia silhouette piramidale. Combinando i livelli di approccio visivo, Sinan ha creato una dimensione dinamica fra le strutture di contorno e le prospettive più distanti» (p. 212). Il grande giardino con camminamenti che conducono alla diecina di porte del recinto (216 x 144 metri), come già nella Şehzade è parte integrante del programma architettonico. Secondo un canone ormai ampiamente accettato per una moschea sultaniale, la corte porticata e la sala di preghiera sostanzialmente copro-
252. La moschea Süleymaniye in un rarissimo disegno fatto dal veneziano colonnello Giovanni Francesco Rossini fra il 1723 e il 1727 dalla casa del bailo (ambasciatore) Francesco Gritti a Pera. 253. La moschea Süleymaniye appare come uno dei baricentri visivi e ineludibili della passata e odierna sagoma islamica di Istanbul.
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no la medesima superficie, anche se l’andamento è più marcatamente rettangolare e la sala di preghiera più estesa (108 x 72 metri), forse per rispettare la regola non scritta di permettere a quante più persone possibile di stare sulla stessa linea rispetto al muro qibli e anche differenziarsi, in origine, dalla verticalità di chiese e basiliche cristiane. La corte, molto compatta e proporzionata, ha un ingresso a Nord e due lungo l’asse Est-Ovest, nei pressi degli angoli e molto vicino ai due minareti che sono alla tangenza con la parete di accesso alla moschea. Le 24 colonne in marmo della corte provengono da recuperi effettuati a Istanbul nell’ippodromo (17), da Nicomedia (Izmit) e da altri luoghi dell’Impero. Il riutilizzare materiale antico era considerato un motivo di prestigio. Al centro della corte, Sinan costruisce una fontana quadrata non per le abluzioni (questa zona è messa all’esterno della moschea sul lato Ovest, ricavata sotto il portico), ma per dissetarsi, alimentata da un ingegnoso sistema idraulico che faceva cadere l’acqua dall’alto, come una pioggia. La scelta di non permettere le abluzioni nella corte ne fa uno spazio più sobrio, in carattere con tutta la filosofia costruttiva dispiegata nella moschea. La sala di preghiera si ispira palesemente a Santa Sofia, ma razionalizzandone l’impianto e, a noi pare, senza alcun intento di sfida. Varcato l’ingresso abbiamo lungo l’asse Nord-Sud una semicupola, la grande cupola (ma non immensa; 27 metri contro i 31 di Santa Sofia, anche se lo spazio libero è di 36 metri contro i 34 della basilica bizantina; l’altezza è più o meno simile, con 54 metri per la struttura di Sinan e due in più per l’opera voluta da Giustiniano), e la semicupola sopra il mihrab. Lateralmente abbiamo degli ambienti voltati e cupolati. La cupola è sostenuta da quattro grandi pilastri sagomati e mossi secondo una lezione chiarissima appresa da Santa Sofia, monumento che Sinan conosceva benissimo avendo guidato – come architetto capo – i lavori di consolidamento e restauro periodicamente necessari. Lungo il filo esterno dei pilastri, sui lati Est e Ovest, sono quattro enormi colonne di granito rosso (9 metri di altezza e 1.26 di diametro) provenienti da Baalbek, Alessandria e Costantinopoli, con altre quattro in marmo cipollino con rocchi composti e poste verso il muro, per il sostegno degli archi laterali di spinta; ovviamente lo spazio fra i pilastri a Nord e Sud è libero per non interrompere dall’ingresso l’immediata visuale del mihrab. Sebbene la sala di preghiera abbia quattro ingressi, due ciascuno lungo le pareti Est e Ovest, alle estremità di queste, è evidente che un percorso ideale prevedesse l’ingresso da Nord e l’attraversamento della corte. C’è una perfetta corrispondenza di lettura fra esterno e interno, e questo costituisce quasi una firma di Sinan nella cui opera la pulizia formale e la rigorosa applicazione di regole e proporzioni ferree sono elementi imprescindibili. Si è scritto che l’ispirazione da Santa Sofia è palese: vero, ma l’organizzazione dello spazio è diver-
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sa; prendiamo il fronte laterale (e Sinan tratta tutti e quattro i lati come una facciata, sempre tenendo a mente diverse prospettive di veduta), con cinque identici arconi sopra un portico, scanditi dai contrafforti (1- 3-1) e cupole di diversa grandezza proprio per scandire il ritmo e, ancora, sopra il grande arcone centrale, con le due cupole a coronamento del pilastro «emerso» (una novità voluta da Sinan; da elemento debole viene trasformato in punto di forza: geniale) e infine la grande cupola sostenuta dai contrafforti «volanti». Gli assi Nord e Sud presentano invece – sempre con una disposizione piramidale, e sempre con intento scalare – cupole laterali, semicupole, esedra, sempre le due cupole del pilastro «emerso» e infine la grande cupola. Un capolavoro di armonia. L’interno rispecchia precisamente l’esterno. Le 249 finestre sono una fonte luminosa indispensabile; la luce veniva filtrata dai porticati sui fianchi Est e Ovest, lasciandoli un pochino in penombra ed esaltando l’asse ingresso-mihrab con una luminosità più accentuata. L’effetto è monumentale e sobrio: così doveva apparire, e così era, riflettendo appieno il carattere del committente. Anche il programma decorativo è in linea con l’ideologia sottesa; il mihrab è in marmo e per la prima volta intorno a esso troviamo ceramiche di Iznik a motivi floreali – non più persianeggianti e a cuerda seca – forse di una scala esornativa troppo piccola per la monumentalità del sito, errore prontamente riscattato nei mausolei di cui diremo tra breve. I testi iscritti sono esclusivamente coranici e se nella Şehzade si erano privilegiati brani inerenti alla missione del Profeta e al Paradiso, qui ci si attiene a un’enunciazione rigorosa e tradizionalista aderendo strettamente alle regole sunnite (quasi a dire: la shari‘a siamo noi!). La scelta dei brani e delle iscrizioni è certamente opera dello Şeyhulislam Ebussuud, e non sorprende che i medaglioni oltre ai nomi di Allah, Muhammad e i quattro «califfi ben guidati», contemplino pure quelli di Hasan e Huseyn in un afflato universalistico. La calligrafia è di Hasan Çelebi Karahisari, allievo del più celebre calligrafo ottomano, Ahmad Karahisari, e in molti – compreso Sinan che gli affiderà anche il decoro della Selimiye di Edirne – hanno ritenuto che l’allievo non abbia sfigurato neanche al confronto del Maestro. I costi materiali di questa impresa furono colossali: 26.241.938 akçe di cui 25.802.000 provenienti direttamente dai fondi personali del sultano. Dietro il lato sud della moschea, ovvero oltre il mihrab, un giardino profumatissimo, come riferiscono concordemente le fonti, i cui effluvi in primavera ed estate penetravano nella moschea nel-
254. Il minareto posto all’angolo e il portale di accesso della corte della moschea Süleymaniye. Il giardino che circonda l’edificio è parte integrante del progetto architettonico.
255. La corte porticata della Süleymaniye. La fontana centrale, usata per dissetarsi e non per le abluzioni, è perfettamente inserita nello spazio e la sua esistenza permette una corretta valutazione delle proporzioni dell’architettura, sontuosa e severa. 256. L’interno della Süleymaniye con il mihrab e il minbar. Il senso della serena potenza del sovrano è tradotto in architettura dai massicci pilastri a sostegno della copertura. È una spazialità che intimorisce quella predisposta da Sinan.
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Nella doppia pagina seguente: 257. Tecnicamente le coperture della moschea di Solimano sono una grande dimostrazione della capacità ingegneristica e strutturale. Le decorazioni epigrafiche seguono un preciso schema voluto dal sovrano, scritto dallo Şeyhulislam (capo religioso), posizionato da Sinan e realizzato dal miglior calligrafo dell’epoca.
l’area del mihrab, ospita i due mausolei di Haseki Hürrem e di Solimano, quest’ultimo in allineamento perfetto con il mihrab della moschea. La tomba di Rosselana (1558) è molto semplice e rivestita da pannelli di ceramiche di Iznik con bellissimi motivi floreali. La Türbe di Solimano (1556-67) è più sobria come si conviene al carattere del personaggio. A pianta ottagonale con cupola a doppio scafo, ha un piccolo portico di ingresso con copertura a spiovente e, all’interno, otto antiche colonne in marmo e mattonelle floreali e iscrizioni di produzione di Iznik. Accanto al sultano riposano la figlia Mihrimah e due suoi successori.
Lo splendore della maturità e della vecchiaia Come si è detto l’opera di Sinan, lunga ininterrottamente un cinquantennio, ha profondamente modificato l’urbanistica di Istanbul; diecine di progetti portano la sua firma o sono stati da lui approvati. Infatti solo un gruppo ben coeso e con una distribuzione del lavoro parcellizzata e specializzata poteva riuscire nell’impresa di portare a termine con successo così tante opere. G. Necipoâlu si spinge a paragonare il ruolo di Sinan con quello di Andrea Palladio (1508-1580); si può accettare se ci si riferisce all’importanza e al perdurare nel tempo che i rispettivi stili hanno avuto nelle epoche successive quali imprescindibili punti di riferimento per generazioni di architetti, ma non come ruolo effettivo nella realtà contemporanea. Sinan fu architetto di stato, mentre, a Venezia, Palladio fu uno dei tanti e costruirà pochissimo (San Giorgio Maggiore 1565; Redentore 1576-77), in una realtà nella quale la sua fortuna fu assai limitata, a differenza di quanto è riferibile al contado. Di Sinan a Istanbul sono almeno da ricordare altre tre moschee: quella di Rüstem Paşa (il vizir muore nel 1561, ma il completamento della moschea è posteriore), quella per Mihrimah Sultana a Edirnekapı (1562-65) e quella per il vizir Sokollu Mehmed Paşa (1571-72), pressoché contemporanea al capolavoro dell’architetto, la Selimiye a Edirne (156975; sebbene l’inaugurazione sia del 1572 il completamento è successivo alla morte di Selim II del 1574). La moschea costruita a Tahtkale, sul Corno d’Oro, non lontano dal bazar egiziano e sotto la grande moschea di Solimano, era intesa a commemorare al massimo livello architettonico possibile a esclusione di persone appartenenti alla strettissima cerchia sultaniale, un abile ministro quale Rüstem Paşa e, in qualche modo, anche la di lui sposa, la sempre potente vedova Mihrimah. Non solo il sito, estremamente centrale ma con preesistenti edifici che ne condizionavano la possibilità di espansione, ma anche il protocollo legato allo status del personaggio – gran vizir e genero del sultano – inducono Sinan a scelte abbastanza particolari; scontata quella del singolo minareto, innovativa
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quella della copertura interna con piastrelle ceramiche di Iznik, alla cui espansione industriale Rüstem Paşa aveva dato il suo pieno avallo. Due ingressi con scala alle due estremità conducono al piano rialzato (al piano terra vi sono dei negozi e magazzini, anticamente parte del wakf) nel quale si è accolti da un doppio porticato, coperto a spioventi con cinque cupolette prospicienti il lato d’ingresso, porticato che è anche un terrazzamento che si affaccia sul mare del Corno d’Oro. Un accorgimento simile, lo si ricorderà, a quello impiegato nella moschea per Mihrimah a Üsküdar. La pianta è a cupola centrale con impianto ottagonale iscritta in un rettangolo, con due piccole navate laterali coperte con due cupolette e una volta a crociera. All’esterno quattro semicupole e quattro arconi si alternano e sostengono la classicissima cupola con finestre e contrafforti «volanti». L’interno, ma anche la facciata di ingresso, sono un tripudio floreale con una miriade di mattonelle di Iznik che ricoprono i quattro massicci pilastri ottagonali, le pareti fino ai pennacchi, l’interno del mihrab (ma la muqarnas della lunetta è in marmo) e anche parte del mihrab. I colori dominanti sono il bianco luminoso di fondo e il blu, ma fa la sua comparsa lo stupendo rosso ceralacca, e il verde smeraldo è di grande intensità. Sono fra le mattonelle più belle in assoluto e l’aspetto della moschea è semplicemente leggiadro. È possibile che l’uso estensivo delle ceramiche – in genere associate a monumenti funerari – così come l’impostazione ottagonale della cupola poi ripreso nella Selimiye di Edirne, in questa moschea siano stati elementi voluti da Mihrimah e sottintendano il fatto che la fondazione era un omaggio postumo; certo questa moschea è unica. Il mausoleo di Rüstem Paşa, sempre progettato da Sinan (1561) è il consueto prisma ottagonale ed è ubicato nel giardino funerario del complesso di Mehmed Şehzade. Anche in questo caso l’interno è decorato con bellissime mattonelle di Iznik, su due registri sovrapposti, con uno stacco costituito da un fregio con belle iscrizioni coraniche in bianco risparmiate su fondo blu. La successiva e quasi contemporanea moschea costruita a Istanbul da Sinan è quella sulla collina a Edirnekapı (la porta della città all’altra estremità del Divan Yolu, da cui partivano le spedizioni militari verso l’Europa) per la vedova Mihrimah Sultana (non c’è data di fondazione, ma probabilmente 1562/3-70) nei pressi delle mura della città, le quali, probabilmente hanno in parte condizionato lo spazio della corte, scelta comunque obbligata anche da dispute legali in merito ai terreni e alle proprietà immediatamente dietro il muro qibli. Una tradizione popolare vuole che per riscattare la penombra della moschea di Üsküdar, Sinan abbia qui costruito la più luminosa di tutte quelle della sua carriera, affidandosi a ben 204 finestre, ma soprattutto ponendone una ventina (19) in ciascuno dei quattro arconi liberi, e ventiquattro nella cupola! La corte rettangolare, s’è
258. Il doppio porticato della moschea di Rüstem Paxa a Tahtkale nei pressi del Bazar delle spezie. I rivestimenti parietali esterni sono fatti con pannelli di piastrelle policrome prodotte negli atelier imperiali di Iznik.
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259. La parete del mihrab della moschea funeraria del grande primo vizir Rüstem Paxa. La decorazione è caratterizzata da bellissime mattonelle (oltre 160 diverse tipologie grafiche) di Iznik. La nicchia vera e propria (con lunetta a muqarnas in pietra) ospita una serie di pannelli (anch’essi sagomati a nicchia) con un elegante vaso da cui ha origine uno splendido bouquet fiorito: omaggio della vedova Mihrimah allo scomparso marito.
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260. La moschea di Mihrimah Sultana presso le mura della città e la porta di Edirne a Edirnekapı, è caratterizzata dalla semplicità d’impianto e da un cospicuo numero di finestre nei quattro arconi di sostegno alla cupola. Nella doppia pagina seguente: 261. Nel complesso dedicato al vizir Sokollu Mehmed Paxa e a sua moglie, Sinan si trova a costruire l’edificio
sul declivio di una collina e a sfruttare con abilità la possibilità di lavorare su più livelli e registri. 262. La fontana nella corte e la facciata della moschea di Sokollu Mehmed Paxa confermano la notevole capacità di Sinan di rinnovare il proprio linguaggio rimanendo fedele al proprio stile.
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detto, è limitata dalle mura cittadine e ha una fontana centrale, mentre gli ambienti laterali ospitano la struttura di una madrasa tipologicamente anomala; sul fronte un porticato a sette cupole. La sala di preghiera è rettangolare e ospita una cupola centrale impostata su un cubo incorniciato agli angoli da quattro pilastri poligonali cupolati e quattro enormi arconi a timpano con estradosso scalare. È una struttura particolarmente indovinata e di ampio respiro che indubbiamente ha una sua notevole originalità; un solo minareto la rende sbilanciata, ma questa circostanza deve essere imputata a una sorta di veto posto da Selim II una volta divenuto sultano, mai in buoni rapporti con Mihrimah la quale, del resto, aveva appoggiato l’altro fratello Beyazıd risultato sconfitto nella cruenta lotta per la successione nel 1559 e morto nel 1562 (la sua tomba è a Sivas). Uno dei grandi committenti e protettori di Sinan fu il gran vizir, di origini bosniache, Sokollu Mehmed Paşa, il quale gli ordinò numerose moschee e fondazioni religiose in diverse parti dell’Impero. Come spesso avviene nella vita la casualità diede una mano a Sokollu; salvò da annegamento Haseki Hürrem e questo, unito a un’indiscussa abilità e un carattere estremamente prudente eppure autonomo, gli garantì una rapida carriera ai massimi livelli. Nel 1546 era grande ammiraglio e tre anni dopo governatore generale della provincia di Rumelia e nel 1554 terzo vizir; accompagnò Solimano nella sua ultima spedizione militare essendo già primo vizir e alla morte del sultano l’erede Selim – in soccorso del quale, con un intervento bellico decisivo, Sokollu era giunto nel 1559 a Konya – lo ricompensò dandogli in moglie la ben più giovane (40 anni circa di differenza) sua prima figlia di tre avute dalla famosa moglie veneziana Nurbanu; questa era Ismihan Sultana. Dunque Sokollu era in una posizione di grande importanza, tant’è che le fonti veneziane lo dipingono come il vero sovrano (fra il 1566 e il 1574; Selim essendo noto ai Turchi come sarhoş, «ubriaco»), sempre prudente ma vero artefice della politica. Fu vizir anche con Murad III, ma venne ucciso nel 1579 da un fanatico religioso e immediatamente proclamato martire. Il suo sodalizio con la giovane moglie fu buono, nonostante una serie quasi ininterrotta di eredi morti precocemente. La moschea fatta da Sinan per lui (e per la moglie; entrambi ne rivendicano la costruzione nei rispettivi waqfiyye), data al 1571-72 e, ancora una volta, in essa rifulge in tutto il genio di Sinan ormai ottuagenario ma lucidissimo. Il complesso di Sokollu Mehmed Paşa (e di Ismihan Sultana) sorge sotto l’ippodromo nel quartiere di Kadirgalimanı – l’antico porto di Giuliano sul mar di Marmara e a metà epoca bizantina divenuto l’arsenale Kontoskalion, poco distante dalla chiesa, trasformata in moschea, dei santi «militari» Sergio e Bacco, vulgo «Piccola Santa Sofia». Ancora una volta la morfologia del terreno, a mezza costa di una collina, obbliga Sinan ad alcune scelte particolari le quali, come
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sempre, si rivelano felici. I diversi livelli del terreno sono letti e sfruttati magistralmente dall’architetto. A partire dal punto più basso, sul fronte Nord, troviamo un porticato con uno spazio aggettante dal quale una scala conduce alla corte che si trova a un livello superiore. L’elevato del porticato, un piano sopra e a livello della corte (questa con una bella fontana centrale) ospita una madrasa (che si estende anche ai lati della corte con una disposizione a «U») che nel punto aggettante ha la derşane (sala comunitaria della scuola). Alla corte si accede da due diversi livelli, integrando perfettamente l’insieme; sette cupole precedono la sala di preghiera il cui fronte, comunque, è più stretto occupandone solo cinque. Nell’angolo Nord-Ovest svetta l’unico minareto a un solo balconcino, a testimoniare lo status non imperiale del committente, seppure il pavimento della corte lastricato in marmo costituisca comunque uno strappo alla regola. La pianta è rettangolare e qui Sinan – come già nella moschea di Kara Ahmed Paşa (1561-62), gran vizir quando Rüstem fu momentaneamente esautorato dal potere perché ritenuto dal potente partito dei giannizzeri artefice della fine del principe Mustafa – si esercita sul tema della cupola centrale su base esagonale iscritta in un rettangolo, ovviamente con i lati obliqui allungati. Il meccanismo strutturale è semplice: rafforzamento degli angoli, contrafforti mascherati dall’ingresso a Nord e dal minbar (pulpito) a Sud nel muro qibli, e contrafforti in vista, interni ed esterni, a metà dei lati Est e Ovest. Su questi lati, sostenuti da colonne di marmo, sono due ballatoi/matronei ben inseriti nei volumi verticali. Facile, apparentemente, e perfetto. Dietro la moschea, più a Sud, viene costruito un convento. L’interno è molto razionale con la transizione verso la cupola di notevole equilibrio anche in virtù di un accurato dosaggio nell’illuminazione. L’arcone che ospita il mihrab – il quale è in pietra, come del resto il minbar, con la consueta lunetta a muqarnas – è decorato con bellissime ceramiche floreali di Iznik, forse fra le più eleganti di tutta la gloriosa produzione dell’antica Nicea. In ceramica sono anche la copertura a prisma del minbar, alcuni tondi iscritti, e le trombe di raccordo immediatamente sotto il tamburo, sfinestrato, della cupola. Alcune decorazioni dipinte su legno dei soffitti, sebbene riprese e restaurate in epoche recenti, sono certamente originali. La moschea di Sokollu Mehmed Paşa reca indubbiamente
263. Particolare del pannello ceramico di Iznik del mihrab della moschea di Sokollu Mehmed Paxa. In particolare il pannello con medaglioni sfalsati su fondo bianco (tipologia simile ai coevi motivi tessili) campito con rosette, tulipani, garofani e giacinti, enfatizza il concetto – così caro a tutta l’arte islamica – di decorazione aperta, come citazione dell’infinita opera creatrice di Dio.
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il marchio del disegno di Sinan, essendo perfettamente in linea con il suo modo di progettare, anche se il cantiere deve essere stato portato avanti da uno dei suoi assistenti perché in quegli anni il grande architetto era impegnato in un’altra opera importante, il suo capolavoro, e cioè la Selimiye di Edirne (1569-75). Le ragioni per cui una moschea sultaniale così importante non sia stata costruita a Istanbul probabilmente sono da ricercare nell’importanza che Edirne – capitale estiva, ma comunque capitale – ha sempre avuto per la casata ottomana e, forse, in misura minore nella circostanza protocollare che il sultano non fu personalmente a capo delle truppe che conquistarono l’isola di Cipro col cui bottino venne finanziata l’opera, e dunque una localizzazione meno centrale può essere sembrata più consona. Non era neppure facile trovare a Istanbul un luogo adatto a una fabbrica così imponente, mentre il sito di Edirne fu quello del vecchio palazzo reale, di modo che non fu necessario espropriare nessuna proprietà. La Selimiye è la perfezione del lavoro di Sinan. Tutta la forza espressiva e la maturità – Sinan ha circa ottant’anni quando inizia questo edificio – raggiungono il loro apice. Ovviamente ci sono tutti gli elementi cari al nostro: le proporzioni, la leggibilità e interdipendenza fra interno ed esterno, i motivi modulari, la scalarità piramidale, la pulizia formale. A ben vedere parrebbe quasi che dopo la Sulemaniye, sia Rüstem Paşa sia la moschea di Mihrimah a Edirnekapı, costituiscano dei bozzetti, degli esercizi o tappe di avvicinamento alla grande opera di Edirne. Sfida a Santa Sofia? Può anche essere... ma basta con i luoghi comuni; la concezione architettonica – a differenza della Süleymaniye che ne era una citazione precisa ma rivisitata – è molto diversa: è il punto di arrivo di un coerente e per questo non sempre lineare percorso professionale. I quattro altissimi (70 metri) minareti con tre balconcini ciascuno sono posti ai quattro angoli della sala di preghiera e accompagnano perfettamente lo sviluppo piramidale di cubi inseriti l’uno nell’altro e semicupole alternate ad arconi per giungere alla grande cupola (con un diametro di 31.22 metri questa, seppure di poco, supera Santa Sofia con un diametro fra i 30.9 e i 31.8 metri, e si pone fra le più vaste in assoluto nel mondo musulmano). All’interno della sala di preghiera – anche in questo caso su una superficie complessiva equivalente a quella della corte – otto grandi pilastri spinti verso le pareti d’ambito sostengono un ottagono regolare su cui insiste la cupola. L’ostacolo più grande è quello della parete Sud col mihrab che risulterebbe un po’ soffocato dai due contigui pilastri se rimanesse a filo con essi. Ma Sinan, con la genialità che gli permetteva di trasformare un elemento debole in punto di forza come nei pilastri «emersi», risolve la cosa arretrando il mihrab in un ambiente quasi separato, regalandogli, fra l’altro, una maggiore intimità e il «taglio di luce» di finestre poste ai suoi
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lati. La decorazione vede un uso parsimonioso delle piastrelle di Iznik e un programma epigrafico coranico molto preciso, tradotto in arte dal maestro calligrafo Hasan Çelebi Karahisari, già complice di Sinan in altre imprese. Pochi dubbi che questo sia il punto più alto raggiunto dall’architettura imperiale ottomana nel suo periodo migliore, il Cinquecento. Nel 1574 un grande incendio, una piaga costante per una città enorme come Istanbul, creò scompiglio in vari quartieri. Sinan continuerà a lavorare pure dopo il compimento della Selimiye, ma anche per l’età le sue forze andavano diminuendo; e scomparve nel 1588, avendo dominato col suo genio un intero secolo e condizionando tutta la successiva architettura ottomana – e non solo – fino ai giorni nostri. Istanbul subì altre trasformazioni; abbiamo già scritto di Eyüp, e deve essere chiaro che quella parte di città vide una costante, ininterrotta, attività edilizia legata a moschee, madrase ma soprattutto mausolei, piccoli e grandi, che lasciarono una traccia e un segno importante sulla fisionomia della città. Con l’epoca di Selim II Santa Sofia – che, lo ricordiamo, era diventata moschea già ai tempi di Mehmed II – subisce numerosi rimaneggiamenti e non solo lavori interni ed esterni di restauro volti ad assicurarne la stabilità e conservazione, ma anche aggiunte negli spazi limitrofi, come i minareti che da due (in origine lignei) passano a quattro, e la costruzione di mausolei, come quello dello stesso Selim II, destinati a esaltare e glorificare la dinastia.
L’architettura religiosa a Istanbul dopo Sinan Con la scomparsa di Sinan (17 luglio 1588) l’Impero perde il suo genio più affermato, capace di conciliare fantasia e rigore in un’epoca, fra l’altro, di grande rigoglio economico, ma non per questo l’importante scuola da lui fondata rinuncia a modificare, anche profondamente, l’assetto urbano; l’esempio più clamoroso è la sistemazione dell’ippodromo, da sempre il vero centro di Istanbul e dell’Impero. Prima di allora, a fine Cinquecento, a Davud Paşa , successore di Sinan, viene affidata la costruzione della moschea Yeni Valide (valide era il titolo spettante alla madre del sultano regnante) a Eminönü, ovvero all’imboccatura del Corno d’Oro, nei pressi del mercato coperto egiziano e del ponte che collegava la zona con il quartiere di Galata/Pera – una struttura, quella del ponte, per la quale si dice fu addirittura richiesta l’opera di Leonardo da Vinci. L’aspetto più particolare e riuscito, anche tecnicamente, è quello delle fon-
264. La moschea Selimiye di Edirne, il capolavoro e testamento artistico di Sinan.
265. Equilibrio di forma, decorazione e luce nelle cupole di copertura della Selimiye di Edirne. 266. La grande cupola della moschea Selimiye di Edirne: con questa struttura Sinan si confronta da pari a pari, per grandezza, abilitĂ tecnica, spazialitĂ , originalitĂ , con gli architetti di Santa Sofia.
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267. Il cuore monumentale della città è sempre stato l’At Meydanı, ovvero l’antico Ippodromo, alla cui estremità sorge Santa Sofia. Sulla destra si individua la chiesa di Santa Irene entro la prima corte del palazzo del Topkapı, dominato dal verde dei giardini. In asse con l’ingresso del Palazzo, sull’altro lato, l’enorme mole della seicentesca külliye di Ahmed I, con i sei minareti che circondano la moschea.
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268. La corte della moschea di Ahmed I e la facciata della stessa; la lezione di Sinan è ben visibile, ma l’eccessiva mole della struttura non si armonizza e frena lo slancio architettonico. 269. Un particolare della veduta esterna del sistema di cupole e semicupole per la copertura della moschea di Ahmed I.
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dazioni costantemente invase dall’acqua vista la posizione; la sua costruzione (con status sultaniale dati i due minareti) fu assai tormentata e fu portata a termine con fatica solo una sessantina di anni dopo, in pieno Seicento. Non è un edificio brillante per soluzioni architettoniche e sostanzialmente costituisce un arretramento, ispirandosi con qualche modifica al modello della Shehzade. Torniamo all’ippodromo e a uno dei più ambiziosi progetti architettonici di Istanbul, la grande moschea di Ahmed I o Ahmediye, pensata e costruita per dialogare e rivaleggiare con Santa Sofia, che le sorge dirimpetto. Il sovrano che la commissionò fu Ahmed I (salito al trono nel 1603 regnò fino al 1617), il quale però più che nelle imprese belliche era versato nella caccia e molto sensibile al fascino femminile; il suo progetto – palesemente volto ad accreditarlo come un novello Solimano – fu fieramente osteggiato dalle gerarchie religiose dal momento che, in primis, in quella parte della città, non popolatissima, già c’era Santa Sofia più che bastevole a soddisfare le esigenze religiose dei cittadini e poi per il fatto che il sultano non aveva allargato i confini dell’Impero a spese dei cristiani e dunque il finanziamento non era dovuto a un bottino bellico, secondo la tradizione, ma a carico dello Stato. Il tentativo, invero abbastanza ingenuo, di accreditare come vittoria la repressione di alcune rivolte popolari interne mentre il prestigio internazionale scendeva, non superò le obiezioni e, inoltre, l’idea di costruire ben sei minareti (uno sproposito, pur non privo di precedenti), fu popolarmente interpretato come una sfida quasi sacrilega alla grande moschea di Mecca. In ogni caso la moschea venne edificata – su terreni acquistati dal sovrano comprendenti i resti del palazzo reale bizantino sui quali la moschea è fondata e altri spazi dove sorgevano i palazzi, abbattuti, dei due grandi vizir passati Rüstem Paşa e Sokollu Mehmed Paşa – e questo è testimonianza della tenacia con cui Ahmed I perseguì lo scopo, ampiamente raggiunto, di essere ricordato nella storia. Architetto capo fu Mehmed Agha, pure lui di nascita cristiana, verso il 1540, e di origine europea, giunto a Istanbul come giannizzero verso il 1563. La sua carriera non fu lineare; era noto, soprattutto, come abile maestro ebanista con una vera vocazione per un uso originale della madreperla. Nel 1597 divenne soprintendente agli acquedotti, quasi sempre un buon trampolino per la carica più ambita in campo architettonico, che egli raggiunse nel 1606. Fra il 1609 e il 1617 fu impegnato giorno e notte nella costruzione della moschea e, fatalità, morì più o meno contemporaneamente al suo illustre mecenate, avendo portato a termine il lavoro, salvo gli edifici accessori (ospizio, madrasa, scuola coranica, scuola elementare, ospedale, fontane pubbliche, hammam, un’area commerciale destinata a essere affittata in favore del waqf e, infine, il mausoleo per il sultano stesso), edifici che vennero ultimati tre anni più tardi.
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Una sorta di leggenda vuole che Mehmed Agha abbia visitato tutti i più importanti edifici dell’Impero per prepararsi all’impresa e in effetti le citazioni riscontrabili nell’opera sono numerose, ma queste non sono accompagnate da barlumi di originalità. Va da sé che l’eredità di Sinan pesava, pesava moltissimo. Alcuni elementi sono ormai acquisiti da tempo, come le superfici equivalenti fra corte e sala di preghiera, la cupola centrale e la struttura geometrica, scalare e piramidale delle coperture; i minareti altissimi e stretti, gli ingressi multipli decentrati rispetto agli assi laterali, ma centrali per la corte e la sala di preghiera. La corte è regolare e ben proporzionata con al suo centro un piccolo padiglione/fontana esagonale su colonne molto elegante. Per l’interno l’architetto non osa riferirsi alla Selimiye o alla Süleymaniye, probabilmente e giustamente considerati modelli inavvicinabili e non modificabili in alcun elemento, ma lo fa nuovamente alla Şehzade che così assume la caratteristica di opera classica e matura, dallo schema pulito e semplice ma duttile, quindi imitabile e adattabile perfettamente. L’esigenza di monumentalità (questa moschea doveva ostentare potenza, essere grande, grossa e ricca...) porta Mehmed Agha a impostarla su quattro pilastri giganteschi e sproporzionati perché il loro slancio è quasi interrotto, i quali, poi, supportano una cupola relativamente modesta con i suoi 23.5 metri di luce per 43 di altezza e dunque 47 m2 utili, poco più grande della Şehzade ma più piccola della Süleymaniye. Le proporzioni non sono soddisfacenti. Gli interni sono molto ricchi con il 75% della superficie dipinta di azzurro (e di qui il nome popolare di «moschea azzurra», non blu come erroneamente talvolta si sente dire) e pannelli di ceramiche di Iznik (si dice che Ahmed I ne fosse un indiscriminato collezionista e che in parte siano state utilizzate per la moschea scorte di materiali depositati nel palazzo, anche se alcune sono ovviamente state eseguite su misura per quegli spazi), un’enorme profusione di circa 20.000 mattonelle che però danno l’impressione di essere quasi affastellate. L’ingresso della prima corte del palazzo del Topkapı è posto in asse con quello della moschea, con questo stabilendo una connessione simbolica tutt’altro che secondaria. Dell’esterno colpiscono i sei minareti, quattro attorno alla sala di preghiera (ciascuno con tre balconcini) e due (con solo una coppia di balconcini) dalla parte opposta della corte; la distanza fra i quattro della sala di preghiera e i rimanenti due è eccessiva e visivamente ciò crea una frattura che indebolisce e disgrega l’insieme. Il meccanismo piramidale delle coperture voluto da Sinan – ma con lui rigoroso e formalmente sempre logico e ineccepibile – qui assume ritmi ridondanti ed eccessivi col risultato che la cupola, e quindi l’intera struttura, non decolla, appesantita dalle transizioni, comunicando una massiccia pesantezza laddove una maggiore leggerezza sarebbe stata indispensabile. G. Goodwin lucidamente commenta: «Aspi-
270. Con la moschea Nuruosmaniye di metà Settecento l’architettura ottomana si apre a influenze disparate, predisponendosi ad accogliere suggestioni occidentali e a giocare un ruolo importante nei successivi movimenti artistici fra fine Ottocento e primo Novecento.
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ra alla maestosità e in certa misura la raggiunge, ma non la regge» (p. 349). Se agli storici dell’architettura questa moschea non piace particolarmente, va però sottolineato che essa ha sempre incontrato il favore del grande pubblico, dai viaggiatori veneziani che la qualificavano «superbissima» ai turisti attuali, spesso in visibilio, circostanze sulle quali una serie di riflessioni non sarebbero vane. La moschea di Ahmed I è l’ultimo grande cantiere di trasformazione di Istanbul, uno dei più impegnativi per localizzazione, impianto e impatto sulla realtà urbana. Altre moschee saranno comunque costruite in città nei decenni successivi e, fra queste, una speciale menzione la merita la Nuruosmaniye Camii (iniziata durante il regno di Mahmud I sarà completata durante quello di Osman III nel 1755), in pieno centro accanto alla Çemberlitaş o colonna bruciata di Costantino e non lungi dal grande bazar coperto. A cupola
centrale e con due minareti è impostata su quattro grandi archi, ha una corte a forma di semicerchio a ferro di cavallo con cupolette, e un aspetto che tenta di coniugare la classicità ottomana con elementi riconducibili al barocco europeo. Considerazioni analoghe valgono per il complesso Laleli (lale è il tulipano e a Istanbul un’intera epoca, straordinaria, di fioritura artistica prende questo nome), costruito fra il 1759 e il 1763. Anche qui l’influenza occidentale è presente ma la grande personalità dell’architettura ottomana come si è venuta strutturando nel corso dei secoli certamente prevale su tutto. Ottocento e primo Novecento sono periodi di assestamento e non sarebbe affatto corretto parlare di decadenza. L’Islam con le sue moschee ha modellato la seconda Roma, ma Istanbul con la sua tradizione e la sua vivacità ha trasformato per sempre l’architettura dell’Islam attraverso l’opera del suo più grande genio: Sinan.
L’AUTUNNO DI COSTANTINOPOLI TRASFORMAZIONI URBANE E IMMAGINE DELLA CITTÀ NEL XIX SECOLO* Roberto Cassanelli
Per la capitale del «malato d’Europa» (secondo la definizione dello zar Nicola I), l’Ottocento – il «secolo lungo» che si conclude non tanto con la rovinosa partecipazione alla prima guerra mondiale, il tracollo dell’impero e la caduta del sultanato, quanto piuttosto con la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908 e l’esilio di Abdül Hamid II l’anno successivo – è un periodo attraversato da forti, contraddittorie tensioni. Se da un lato la struttura dello Stato si indebolisce e destruttura irreversibilmente, scossa dai periodici sussulti centrifughi che determinano la perdita, in rapida successione, della maggior parte dei territori europei (dalla Grecia ai Balcani) e nordafricani (dall’Egitto alla Tunisia), e dalla gravissima crisi della finanza pubblica1, dall’altro Costantinopoli si sviluppa e rinnova in modo decisivo sul modello delle grandi metropoli europee, ampliando i confini e mutando significativamente il proprio volto. E mentre, seguendo l’indirizzo tracciato dai sultani e condiviso (almeno formalmente) dalla classe dirigente, si laicizzano e modernizzano in senso occidentale le istituzioni, in campo letterario e figurativo si elabora un’immagine accentuatamente fiabesca e orientaleggiante della città, di un Oriente però immaginato, destinato in breve tempo a svanire, così come si dissolve la «Costantinopoli pittoresca» di Melling2. È un apogeo che ha in sé i germi del declino. L’«autunno di Costantinopoli» (secondo l’espressione felice di Giuseppe A. Borgese)3, malinconico e struggente come il tardo Medioevo, inizia ben prima del 1918, quando, occupata dalle potenze straniere, la città avvia il proprio congedo dal ruolo di capitale di un impero vastissimo e multietnico.
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Riforme e trasformazioni urbane Nei primi decenni del secolo si protraggono gli effetti della politica riformista di Selim III; in particolare nel corso del regno di Mahmud II (1808-1839) e di Abdülmecid (1839-1861) si pone incisivamente mano alla riforma della struttura amministrativa dell’Impero. Le innovazioni concernono soprattutto la riorganizzazione dell’esercito, avviata nel 1826 con la soppressione del corpo dei giannizzeri4, delle finanze e dell’istruzione, sottratta al controllo della sfera religiosa. Si aprono scuole di ogni tipo (militare, medico, tecnico), tra cui alcune straniere, volte a soddisfare le esigenze della folta comunità cosmopolita, fortemente incrementata dopo gli accordi commerciali anglo-turchi del 1838 e poi soprattutto a seguito della guerra di Crimea (nella seconda metà dell’800 gli stranieri giungeranno a costituire il 15% della popolazione). Anche il mondo della cultura e della comunicazione si trasforma, con la comparsa nel 1840 dei primi giornali in turco, il governativo Takvim-i Vekayi e il Ceride-i Havadis, pubblicato dall’inglese William Churchill, cui si aggiungono numerosi periodici in lingua inglese e francese, come The Levant Herald and Eastern Express, il Journal de ConstantinopleÉcho de l’Orient, Stamboul, Le Moniteur Oriental/The Oriental Advertiser. Gérard de Nerval, attraversando nel 1843 le strade della città vecchia, osserva come sui tavoli dei caffè compaiano molti giornali in greco e armeno («se ne
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271. Thomas Allom, Costantinopoli e il Bosforo, incisione su acciaio; da R. Walsh, J.C.M. Bellew,
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Constantinople and the Scenery of the Seven Churches of Asia Minor, London 1838.
Herald and Eastern Express, il Journal de ConstantinopleÉcho de l’Orient, Stamboul, Le Moniteur Oriental/The Oriental Advertiser. Gérard de Nerval, attraversando nel 1843 le strade della città vecchia, osserva come sui tavoli dei caffè compaiano molti giornali in greco e armeno («se ne pubblicano cinque o sei solo a Costantinopoli, senza contare i giornali greci che vengono dalla Morea»), testimoni del multiculturalismo che innerva l’intera parabola dell’Impero ottomano sino agli inizi del Novecento, e commenta: «Strana città Costantinopoli! Splendore e miseria, lacrime e gioie; più che altrove l’arbitrio, ma anche più libertà; quattro popoli diversi che vivono insieme senza odiarsi troppo: turchi, armeni, greci ed ebrei, figli della stessa terra che si sopportano molto meglio di quanto non facciano, da noi, cittadini di province diverse o di diversi partiti»5. Tra il «nuovo ordine» (Nizam-ı Cedit) di Selim III e il periodo dei «Tanzimat» o delle riforme (1839-1876) si chiude per Costantinopoli l’era preindustriale e si avvia una nuova convulsa fase di sviluppo. Questa innesca meccanismi potenziali di annientamento del tessuto urbano storico che proseguiranno, con effetti devastanti, sin oltre la metà del Novecento (e ancora in parte operanti). In breve tempo il volto della città si trasforma con la costruzione di banche e caserme, edifici da appartamenti (sino a quel momento sconosciuti), teatri, nuovi palazzi imperiali, linee ferroviarie e persino una sorta di metropolitana (il Tünel), breve funicolare sotterranea tra Galata e Pera progettata dall’ingegnere francese Eugène Henri Gavard6. Gli accordi commerciali del 1838 imprimono un’improvvisa accelerazione al processo di industrializzazione e aprono il mercato ottomano alle industrie europee sulla base di una massiccia importazione di macchinari e maestranze specializzate, alle quali fanno seguito investimenti resi convenienti dagli alti margini di profitto e dal limitato carico fiscale. È soprattutto il Corno d’Oro a sopportare le conseguenze maggiori di tale trasformazione, a causa della forza attrattiva dell’arsenale e del porto, con le ciminiere dei nuovi insediamenti industriali che ne occupano le rive, prima punteggiate da eleganti residenze, e che gareggiano in altezza con i minareti, caratterizzandone il profilo. Industrie si insediano anche a Eminönü, Fatih e Eyüp, non avvertendosi allora contrasto tra le attività produttive e la vita civile (solo le tintorie vengono confinate a Yedikule e gli armamenti a Tophane). La determinazione delle classi dirigenti nel perseguire modelli occidentali troverà la sua più significativa espressione nella prima Esposizione industriale turca del 1863 ad At Meydanı (piazza dell’Ippodromo). Ciononostante, soprattutto nel lungo regno di Abdül Hamid II, esse continueranno a considerare più vantaggioso dedicarsi ai commerci, con il conseguente sviluppo del porto che incide in modo determinante sull’alterazione dei prospetti a mare. Il XIX secolo segna anche l’avvio dell’organizzazione e del
controllo in campo edilizio da parte dell’autorità centrale. Nel 1849 è creato il Ministero dei Lavori Pubblici, mentre nel 1857 si istituisce la prima amministrazione comunale (Şhremaneti). Già negli ultimi anni di Mahmud II si erano avviate iniziative volte ad un ripensamento del tessuto urbano, di cui nel corso dei secoli si era in parte smarrita l’antica struttura regolare, sostituita da un complesso impianto caratterizzato da isolati irregolari di dimensioni variate, percorsi stretti e tortuosi e fondi ciechi (il reticolo viario «orientale», secondo l’espressione di E. Wirth). Vengono così coinvolti consulenti stranieri come Helmuth von Moltke, giovane consigliere militare prussiano (1835-39), incaricato nel 1836 di redigere la pianta in scala 1:25.000 della capitale7. L’impulso decisivo è con tutta probabilità da attribuire al gran visir Mustafa Reşid, il quale, nello stesso anno, in una lettera indirizzata da Londra al sultano, aveva attirato la sua attenzione sulla pratica tradizionale dell’impiego del legno nella costruzione delle abitazioni, soggette a periodici devastanti incendi, e sull’opportunità di fare di necessità virtù, approfittando di tali eventi per riformare e razionalizzare l’impianto urbano. Si sarebbero potute tracciare vie ampie e diritte, utilizzando negli edifici, riallineati e aggiornati al gusto europeo, nuovi più resistenti materiali, come la pietra e il laterizio. Il visir non si nascondeva le difficoltà di una tale trasformazione, e suggeriva di importare in un primo tempo le maestranze specializzate dall’Europa, ma anche di inviare alcuni giovani di talento a studiare architettura in Europa per acquisire le competenze necessarie8. L’ordinanza imperiale dell’8 giugno 1839 (che precede di alcuni mesi l’editto di Gülhâne, avvio del periodo Tanzimat) recepisce tali indicazioni, subordinando le trasformazioni urbanistiche da attuarsi alla disciplina di un piano generale «in cui la larghezza e la direzione delle strade che si è stabilito di aprire e livellare saranno disegnate e indicate con colori diversi e le differenze di livello, cioè le pendenze, saranno rappresentate e quotate»9. Non ignorando le difficoltà tecniche e finanziarie dell’impresa, si dispone di graduare gli interventi iniziando dalle aree libere o devastate da incendi. L’attenzione del riformatore si concentra su Stambul, la città nella penisola chiusa dalle mura, non ponendo in quel momento gli altri due nuclei urbani costitutivi (Galata e Skutari) particolari problemi viabilistici. Si prevede il taglio di nuove arterie di rapido collegamento «dalla porta di Silivri e di Mevlevihane e da Bayezid alla porta di Edirne passando attraverso il mercato di Çarsampa a Egrikapı, e dal porto di Kadirga, all’interno delle mura, a Yedikule e da Bahçekapı a Eyüp». Né questo, né d’altra parte i piani successivi, verranno però attuati in modo organico, rimanendo gli incendi, che scandiscono drammaticamente la seconda metà del secolo, il principale motore delle trasformazioni urbane: nel 1856 l’incendio di Aksaray distrugge 748 case, nel 1865 quello di Hocapaşa
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272 e 273. Thomas Allom, La piazza dell’Ippodromo e l’obelisco di Teodosio; Moschea di Mahmud II a Tophané, incisioni su acciaio; da Walsh, Bellew, 1838. Pagina a fronte: 274 e 275. Thomas Allom, Il gran bazar; Interno di caffè turco, incisioni su acciaio; da Walsh, Bellew, 1838.
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(Sirkeci) lambisce Santa Sofia, raggiunge il mare e devasta entrambi i lati di Divan Yolu (l’antica mese bizantina); nel 1870 bruciano a Pera circa 3000 edifici. Il giovane CharlesEdouard Jeanneret (non ancora Le Corbusier) è testimone nel 1911 di uno dei tanti incendi (se ne sono calcolati 229) e vi legge una premonizione «dello spaventoso disastro, dell’inevitabile catastrofe che annienterà Stambul: l’arrivo della modernità»10. Il nuovo modello amministrativo getta le basi della Costantinopoli moderna, con l’impianto urbano sottratto al controllo del kadı e della giurisdizione religiosa, e sottoposto alle decisioni di una struttura centralizzata e verticistica che prescinde dal consenso della comunità (come nel caso degli espropri per pubblica utilità, sino a quel momento sconosciuti). Si affronta anche la questione dei collegamenti tra le distinte parti della città con la costruzione nel 1836 del primo ponte sul Corno d’Oro. La municipalità detta norme per la pulizia delle strade e la loro illuminazione (la prima illuminazione pubblica è introdotta nella Grand’Rue di Pera utilizzando il gas prodotto per il palazzo imperiale di Dolmabahçe). Nel 1857 la capitale viene ripartita, secondo il modello di Parigi, in quattordici distretti, di cui solo tre nella città murata (Fatih, Aksaray, Ayasofya), con Eyüp, Skutari (Üsküdar) e Kadıköy costituiti a parte, come le isole dei Principi e gli insediamenti sul Bosforo11. Lo sviluppo di Galata, Pera e dei quartieri lungo la sponda europea del Bosforo, sulla direttrice dei palazzi imperiali di Dolmabahçe e Yıldız, costituisce il quartiere europeo, fortemente cosmopolita, della città. Pera, compresa nel sesto distretto (altıncı daire), posto sotto la protezione delle potenze straniere (privilegio abolito nel 1913), svolge in tale sistema un ruolo particolare, costituendo un mondo a parte, del tutto distinto da Stambul, con il ponte (il celebre ponte di Galata, realizzato nel 1845 e più volte ricostruito) posto a valico, collegamento essenziale e al tempo stesso invisibile frontiera. È il quartiere delle ambasciate, dei cittadini stranieri e della nuova borghesia costituita dalle minoranze cristiane. Nel 1858 si rimodella la piazza di Karaköy, all’innesto del ponte, mentre nel 1864-65, secondo il modello di atterramento sperimentato per il Ring di Vienna, si demoliscono le mura di Galata. La Grand’Rue, asse principale di Pera e luogo della modernità, verrà prolungata sino alla scuola militare (1869) e poi ancora sino a Şişli, mentre, sempre su modello europeo, si realizza, a spese del cimitero, il primo parco pubblico a Taksim.
Architettura «Beaux-Arts» e revival ottomano L’architettura ottomana del XIX secolo ha goduto sino a tempi recenti di scarsa considerazione da parte della critica, ed è stata spesso confinata in una sorta di limbo bizzarro e
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decadente. Si tratta in realtà di un’esperienza complessa e intrecciata, caratterizzata da imprestiti occidentali, ibridazioni e ritorni alla tradizione ancora non pienamente indagati, anche tenuto conto delle difficoltà di accesso alle fonti documentarie. Le raccomandazioni di Reşid Paşa sull’opportunità di formare all’estero i futuri architetti ottomani vennero almeno in parte ascoltate, e dagli anni Quaranta diversi membri della famiglia Balyan, dinastia di abili architetti di origine armena per molti decenni al servizio della famiglia imperiale, si recano a studiare a Parigi12. Il patriarca è Krikor (1764-1831), al quale spettano numerosi edifici dell’epoca di Selim III e Mahmud II, in particolare la grande caserma Selimiye e la moschea Nusretiye (Vittoria), a Tophane, iniziata nel 1823 e inaugurata nel 1826, poco prima della soppressione del corpo dei giannizzeri, nella quale si riprende il fortunato modello della Nur-u Osmaniye. Una sorta di manifesto della modernità è invece il mausoleo di Mahmud II, edificato in linee severamente neoclassiche lungo Divan Yolu. Il figlio e successore Abdülmecid, prima di abbandonare il palazzo di Topkapı per trasferirsi sulle rive del Bosforo, dispone la costruzione nella città vecchia della moschea-reliquiario destinata a conservare il mantello del Profeta, di forma singolarmente ottogonale. Nikogos Balyan (1826-1858), figlio di Garabed (18001866), frequenta dal 1842 al ’45 l’École Sainte-Barbe, dove è allievo di Labrouste e si diploma nel 1845, seguito da Sarkis (1831-1899), mentre Agop (1837-1875) prosegue gli studi a Vienna, Venezia e in altre città europee. Dopo il ritorno da Parigi, Nikogos, che ha una breve ed intensa carriera, viene nominato a soli ventidue anni architetto imperiale da Abdülmecid. L’impresa familiare più impegnativa è senza dubbio la costruzione della nuova, gigantesca residenza imperiale di Dolmabahçe, personale versione ottomana di Versailles, lungo la riva europea del Bosforo, nella quale si sperimenta per la prima volta la tipologia del palazzo monumentale isolato. Già dal XVIII secolo si era sviluppato l’interesse per il Bosforo da parte di esponenti della dinastia, degli alti dignitari e degli ambasciatori delle potenze europee, con la costruzione di numerose residenze estive (come quella celebre dell’ambasciatore inglese a Therapia) e di yalı quasi a pelo d’acqua. Con Mahmud II i sultani avevano iniziato a disertare la punta del Serraglio, e con Abdülmecid, che opta per le comodità di tipo europeo e la solidità delle costruzioni in pietra da taglio, tale decisione diviene irreversibile13. Il complesso palaziale, edificato tra il 1844 e il ’56 in sostituzione di un precedente edificio in legno, è costituito da un blocco principale e da due ali laterali formate dalla giustapposizione di diversi corpi di fabbrica (corrispondenti alle distinte funzioni cerimoniali), e caratterizzato dal lunghissimo, biancheggiante prospetto (284 metri) in marmo dell’isola di Marmara, parallelo alla costa. Gli interni (la cui sin-
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276. Pascal Sébah, Seraskierat (Ministero della Guerra e torre di avvistamento per gli incendi detta di Beyazıd). 277. Pascal Sébah, La Sublime Porta. 278. Abdullah frères, Cimitero di Eyüp.
279. Abdullah frères, Isole dei Principi. 280. Pascal Sébah, Türbe (mausoleo) del sultano Mahmud II. 281. Abdullah frères, Veduta di Tophané e della Nusretiye. Stampe all’albumina, II metà del XIX secolo.
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tassi distributiva è del tutto slegata dall’omogeneità della fronte) sono improntati ad un fasto ostentato e teatrale, inteso a suscitare la meraviglia nelle delegazioni in visita alla Sublime Porta (in particolare nella gigantesca sala delle udienze). Théophile Gautier, che visitò Costantinopoli nel 1852 e venne accompagnato nella visita del palazzo dallo stesso Nikogos, fu colpito dall’immenso palazzo ancora in costruzione, «qui baigne ses pieds blancs dans l’eau bleue et rapide», e dal suo stile indefinibile: «non è nè greco, nè romano, nè gotico, nè rinascimentale, nè saraceno, nè arabo, nè turco, e si avvicina a quel tipo che gli spagnoli definiscono plateresco, e che fa assomigliare la facciata di un monumento ad una grande opera di oreficeria per il lusso complicato della decorazione e la folle ricerca dei dettagli»14. La costruzione di Dolmabahçe fissa un nuovo asse di sviluppo urbano, che si origina dalla moschea Nusretiye e da Tophane e prosegue lungo il Bosforo verso Ortaköy per la forza attrattiva della nuova residenza, collegata alla città vecchia dal ponte gettato sul Corno d’Oro tra Eminönü e Galata/Karaköy nel 1845 e voluto dalla madre di Abdülmecid per consentire al figlio di ispezionare con rapidità il cantiere. Tale direttrice verrà in seguito ulteriormente rafforzata dalla scelta di Abdül Hamid II (1876-1908) di stabilire la propria residenza privata nel parco di Yıldız. Nella valletta di Ihlamur, alle spalle di Dolmabahçe, Nikogos Balyan costruisce un piccolo padiglione di caccia ad un solo piano nel quale sperimenta attraverso una decorazione esuberante e sovraccarica lo stile rococò. L’alto zoccolo basamentale consente l’inserzione di una scala a doppia rampa a ferro di cavallo e quella, eccezionale nell’architettura ottomana, di un balcone sul lato breve. Dopo la morte per tubercolosi nel 1861 di Abdülmecid, il fratello e successore Abdülaziz decide di realizzare una serie di nuove residenze, sempre affidate a membri della famiglia Balyan (Agop e Sarkis), in particolare la ricostruzione del palazzo di Çiraéan e di quello di Beylerbeyi, sulla costa asiatica del Bosforo. Rispetto all’epoca di Abdülmecid, i partiti esterni, di gusto neorinascimentale, sono più sobri, mentre all’interno si introduce su larga scala una decorazione di gusto orientaleggiante15. Al di là del significativo contributo degli architetti ottomani, il panorama dell’architettura del secolo è però dominato dalle presenze straniere. Già prima del periodo Tanzimat erano affluiti a Costantinopoli architetti, in particolare italiani, come il ticinese Gaspare Fossati (1809-1883), presto raggiunto dal fratello minore Giuseppe (1822-1891), inviato a Costantinopoli nel 1837 dallo zar Nicola I per costruire sulla collina di Pera l’ambasciata di Russia. A lui il sultano affida numerosi incarichi, come la realizzazione dell’Ospedale Militare del Ministero della Guerra (1841), del palazzo dell’Università (1845-47), della Scuola imperiale nella piazza dell’Ippodromo (1846) e il restauro di Santa Sofia, che
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285. Pascal Sébah, Esterno di Santa Sofia. 282. Abdullah frères, Portale d’ingresso del palazzo imperiale di Dolmabahçe. 283. B. Kargopoulo, Kiosque du Grand Flamour (Ihlamur). 284. Abdullah frères, Palazzo di Beylerbeyi. Stampe all’albumina, II metà del XIX secolo.
286. Pascal Sébah, Interno di Santa Sofia. Stampe all’albumina, II metà del XIX secolo.
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offre anche la prima occasione di studio dettagliato della grande basilica giustinianea16. Fossati è attivo anche per privati, come Reşid Paşa, per il quale costruisce il palazzo sul Bosforo. A lui fanno seguito Giacomo Leoni, Giovanni Battista Barborini, Pietro Montani, Guglielmo Semprini e soprattutto Raimondo D’Aronco, tra i maggiori esponenti europei dell’architettura Liberty, chiamato nel 1893 per progettare il complesso dell’Esposizione Nazionale Ottomana (non tenutasi a causa del violento terremoto del 1894), e divenuto uno degli architetti preferiti di Abdül Hamid II, per il quale progetta e realizza numerosi edifici, tra cui alcuni padiglioni del complesso di Yıldız, che segna il ritorno al modello abitativo tradizionale ottomano, sebbene rivisitato in chiave moderna, anzi «borghese»17. Nonostante tali significative presenze, nella seconda metà del secolo il ruolo di maggior spicco continua ad essere giocato dalla folta comunità di architetti francesi, diffusori dello stile «Beaux-Arts» e sostenitori del revival ottomano, come il nizzardo Alexandre Vallaury (1850-1921), formatosi all’École des Beaux-Arts di Parigi con E.-G. Coquart. La crisi delle relazioni con i governi di Parigi e Londra a seguito del protettorato francese sulla Tunisia (1881) e di quello britannico sull’Egitto (1882) apre la strada agli architetti tedeschi e rinsalda i rapporti tra la Sublime Porta e la Germania, già coinvolta da decenni nella riorganizzazione dell’esercito. Il governo del Kaiser Guglielmo II aveva d’altra parte manifestato un vivo interesse per lo sviluppo delle comunicazioni, in particolare ferroviarie, verso est sulla direttrice Costantinopoli-Baghdad via Konya. L’imperatore visita per ben due volte la città (1889 e 1898), portando in dono nella seconda occasione una fontana progettata da Max Spitta, montata nella piazza dell’Ippodromo e inaugurata nel 1901. I più significativi edifici pubblici di fine secolo sono realizzati così da architetti tedeschi, come la stazione di Sirkeci (1889), punto d’arrivo dell’Orient-Express, di A. Jachmund (autore anche del palazzo della Deutsche Orient Bank e di Germania Han), e quella di Haydarpaşa (19061909), sulla sponda asiatica, capolinea della Costantinopoli-Baghdad, di Otto Ritter e Helmut Cuno. Tra gli edifici delle due stazioni si opera un singolare scambio stilistico, che sottolinea il ruolo della città a cerniera di due mondi e due continenti: se Sirkeci pare esaudire, con le sue forme orientaleggianti, le aspettative di esotismo del viaggiatore occidentale, Haydarpaşa rappresenta per chi giunge dall’Asia la porta dell’Occidente, ed è pertanto concepita in compassate forme neorinascimentali nordiche18.
Il viaggio in Levante Dalla metà dell’Ottocento, soprattutto dopo la normalizzazione dei rapporti tra l’impero e la Grecia (già nel 1839
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appaiono a Parigi la Guide du voyageur à Constantinople et dans ses environs di Frédéric Lacroix e il Voyage de Paris à Constantinople par bateau à vapeur di Marchebeus), il viaggio in Levante e in particolare a Costantinopoli diviene sempre più agevole, confortevole ed economicamente accessibile19. I collegamenti più rapidi (e certamente più sicuri della via di terra attraverso i Balcani, molto sfruttata in precedenza, con soste d’obbligo a Vienna e Belgrado) vengono assicurati da linee regolari di navigazione che fanno capo ai porti del Mediterraneo occidentale, in particolare Marsiglia e Trieste (in seguito anche Napoli). Nel 1852 Théophile Gautier naviga sul Léonidas (la stessa nave che nel 1843 aveva trasportato Gérard de Nerval ad Alessandria)20 da Marsiglia a Costantinopoli via Malta, impiegando, con brevi scali a Syros e Smirne, la «porta d’Oriente», dodici giorni21. Il percorso «cheapest, quickest and most agreable» (secondo le promesse dell’Handbook for travellers in Greece del 1854) sembra però essere quello da Trieste, con le navi del Lloyd Austriaco. È la ferrovia comunque che nella seconda metà dell’Ottocento, grazie alla realizzazione di alcuni grandi trafori alpini, prende progressivamente il sopravvento, in particolare con l’Orient-Express, la linea diretta Parigi-Costantinopoli inaugurata ancora incompiuta nel 1883 (con trasbordo a Varna in Bulgaria), e portata a termine, con il collegamento alla stazione di Sirkeci, a Stambul, nel 1889 (i binari furono fatti passare per la punta del Serraglio e determinarono la parziale demolizione delle antiche mura)22. La linea si affiancava ad un altro importante asse di comunicazione misto (ferrovia-nave, con imbarco a Brindisi), la Valigia delle Indie, tra Londra e Bombay. Il nuovo percorso consente un’ulteriore diminuzione dei prezzi e dei tempi di percorrenza, dal mese circa d’inizio secolo ai cinque-nove giorni del 1878, alle sessanta (o ancora meno) ore di fine secolo, ad un decimo del costo originario. Ciò comporta una profonda trasformazione antropologica del viaggiatore, dall’aristocratico erudito, o dal diplomatico in missione della prima metà Ottocento23, alle classi medie di cent’anni dopo, non più costrette a vagheggiare il viaggio solo dalle pagine di libri e riviste, che avrebbero trovato nel 1933 con Murder on the Orient Express di Agatha Christie un’efficace quanto tardiva rappresentazione, e per le quali vengono predisposte opportune strutture di accoglienza, in primo luogo gli alberghi come il celebre Pera Palace. L’incremento dei viaggiatori ha come diretta conseguenza la crescita esponenziale delle pubblicazioni specializzate e
287. [P. Sébah], Figura femminile. 288. P. Sébah, Figura femminile velata. 289. Abdullah frères, Dervisches tournants. Stampe all’albumina, II metà del XIX secolo.
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la fortuna dei resoconti di viaggio, soprattutto in inglese e francese. È questo il momento in cui si fissa definitivamente e diffonde l’immagine della città attraverso una serie di fortunati stereotipi. Un ruolo nodale svolge in tal senso Constantinople di Théophile Gautier, scritto a seguito di un soggiorno nel 1852, alla vigilia della guerra di Crimea, e pubblicato l’anno successivo24. L’Oriente suscitava da tempo un profondo interesse nello scrittore – che aveva già visitato l’Andalusia e l’Algeria e nel 1851 scriveva all’amico Maxime Ducamp «je me sens mourir d’une nostalgie d’Asie mineure» –, ancora fresco della lettura del Voyage en Orient di Nerval, pubblicato solo pochi mesi prima. L’occasione, del tutto estemporanea, del viaggio è offerta dalla necessità di raggiungere la compagna Ernesta Grisi, cantante d’opera partita in tournée alla fine del 1851 e rimasta a Costantinopoli malata e senza denaro. All’inizio Gautier prevede di fermarsi per un periodo breve, che progressivamente si dilata sino a superare i due mesi (esattamente sessantadue giorni; partirà il 28 agosto per rientrare a Parigi via Venezia), soggiorno reso possibile dai proventi degli articoli scritti per La Presse. L’originalità dell’approccio di Gautier consiste soprattutto nel rendere la città soggetto autonomo di riflessione, nell’attribuirle un’identità riconoscibile, estratta dal caleidoscopio di immagini «orientali» riunite nei precedenti testi odeporici. Si tratta di un orientamento già in parte anticipato da Nerval, che aveva isolato dal corpo della sua opera e pubblicato separatamente il nucleo delle Nuits du Ramazan. Ma la città continuava a rappresentare pur sempre solo un punto di passaggio, uno snodo, per quanto essenziale, che prefigurava un altrove poeticamente trasfigurato. Strumento fondamentale dell’operazione di Gautier è la descrizione, per quanto possibile aderente al dato reale, depurato da ogni elemento romanzesco o soggettivo. Non è però agevole descrivere Costantinopoli conservando il delicato equilibrio tra il tutto (il profilo complessivo della città, tra acque e cielo) e la miriade di episodi particolari che la compongono. La pista da seguire è dunque quella della ricerca delle equivalenze verbali in grado di rendere un tale stupore: «un panorama merveilleux se déploie sous mes yeux comme une décoration d’opéra dans une pièce féerique»*. Lo scrittore si installa a Pera (tra la Grand’Rue e il Petit Champ-des-Morts, forse in derviş sokak) presso una donna greca di Smirne, che gli affitta una camera e un salotto al primo piano di una casa in pietra. Da qui in poi lo sguardo di Gautier è quello di un pittore realista che mostra la città senza alcuna metamorfosi poetica. E il paragone con la pittura, o il disegno, è evocato dall’autore stesso sin dall’inizio, dai primi momenti che precedono lo sbarco25. Si succedono così in* «un meraviglioso panorama si dispiega davanti ai miei occhi come una scenografia d’opera in una commedia fatata».
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nanzitutto vedute ‘animate’ dei caffè e dei bazar, e poi i cimiteri, con il singolare, confidenziale rapporto tra questi e gli abitanti, le cerimonie dei dervisci (specialmente approfondite), gli spettacoli teatrali e la maschera di Karagöz, il selamlik e il beïram del sultano Abdülmecid, la cucina turca, le donne, la rottura del digiuno (il soggiorno coincide con il Ramadan) e infine, ma solo in ultimo, i monumenti e i palazzi sul Bosforo, con una spiccata preferenza per le residenze imperiali piuttosto che per le moschee (a lui si deve come s’è visto la precoce descrizione di Dolmabahçe ancora in costruzione). Nel 1876 si reca a Costantinopoli Edmondo De Amicis, grande scrittore di viaggi, reduce dal successo ottenuto con la pubblicazione di un vivace reportage sul Marocco. Il libro verrà pubblicato due anni dopo e godrà di un duraturo interesse internazionale, come testimoniano le numerose traduzioni26. Il 1876 è l’anno dei «tre sultani», segnato dalla morte di Abdülaziz, l’effimera parentesi di Murad V e la salita al potere di Abdül Hamid II, che promulga un’altrettanto effimera Costituzione. Il periodo delle riforme è ormai esaurito, e mentre Pierre Loti inizia la sua solitaria lotta antimoderna (il romanzo Aziyadé esce nel 1879), De Amicis coglie, nel catalogo ormai consolidato dei luoghi e dei tipi27, la frenetica vitalità della capitale, che riassume nel ponte di Galata. Rimanendo nella metafora di Gautier, la visione pittorica da realista si fa impressionista: «stando là, si vede sfilare in un’ora tutta Costantinopoli. Sono due correnti umane inesauribili, che s’incrociano e si confondono senza posa dal levar del sole al tramonto, presentando uno spettacolo del quale non sono certamente che una pallida immagine i mercati delle Indie, le fiere di Niznij-Novgorod e le feste di Pekino. Per veder qualche cosa bisogna fissarsi un piccolo tratto del ponte e non guardare che lì; se si vaga cogli occhi, la vista s’abbarbaglia e la testa si confonde. La folla passa a grandi ondate, ognuna delle quali offre mille colori, ed ogni gruppo di persone rappresenta un gruppo di popoli. S’immagini pure qualunque più stravagante accozzo di tipi, di costumi e di classi sociali; non si giungerà mai ad avere un’idea della favolosa confusione che si vede là nello spazio di venti passi e nel giro di dieci minuti»28. Remigio Zena, in una sorta di giornale di bordo del viaggio compiuto nell’estate 1885 sullo yacht La Sfinge con gli amici Cesare Imperiale e Filippo Bonfiglio, si affida ironicamente alla guida di De Amicis per prenderne poi, punto per punto, le distanze: «apro il volume di De Amicis per chiedergli aiuto, e quella litania
290. Abdullah frères, Il ponte di Galata. Stampa all’albumina, II metà del XIX secolo.
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di vocaboli scintillanti, quei gridi continui d’ammirazione e di stupore, invece di soccorrermi mi spaventano, mi danno le vertigini; m’interrompo, salgo in coperta, abbraccio collo sguardo le due rive del Corno d’Oro...». E ancora, a proposito del ponte di Galata: «De Amicis lo vide il ponte famoso con una lente d’ingrandimento e lo descrisse con fantasia esaltata, cedendo piuttosto all’impulso dell’artista che non studiandosi d’esser vero, agglomerando tanta gente d’ogni paese e d’ogni razza, in un punto solo e nello spazio di cinque minuti, quanta non si trova forse in tutta Costantinopoli durante una settimana»29. Solo due anni prima, nel 1883, era entrata in funzione la linea dell’Orient-Express. Il brillante giornalista e scrittore Edmond About fu invitato al viaggio inaugurale e lo descrisse in un libro (De Pontoise à Stamboul)30. Non essendo la linea ancora compiuta, occorreva percorrere l’ultimo tratto in battello, dalla foce del Danubio al mar Nero, e proseguire in nave sino a Costantinopoli; ma si trattava di un’esperienza così eccezionale, di un «sogno ad occhi aperti» che meritava di essere immediatamente fissato su carta: «Esattamente tredici giorni fa lasciavo le rive dell’Oise per salire sul treno rapido d’Oriente alla Gare de Strasbourg; e in questi tredici giorni, cioè in minor tempo di quanto ne occorresse a Madame de Sevigné per andare da Parigi a Grignan, sono andato a Costantinopoli. Ho passeggiato per le vie della città, mi sono istruito e divertito, e ne sono ritornato senza fatica, pronto, volendo, a ripartire il giorno dopo per Madrid o Pietroburgo. E notate bene che abbiamo fatto una sosta di ventiquattr’ore in quella Francia d’Oriente che si chiama Romania, abbiamo assistito all’inaugurazione di un palazzo d’estate nei Carpazi, preso il tè con un re e con una regina e sontuosamente banchettato al Bignon di Bucarest». La meraviglia inizia sin dalla stazione e dai nuovi convogli, messi a confronto con quelli tradizionali: «Da un lato la carrozza-ospedale, la carrozza-prigione, la vecchia vettura verde e polverosa; dall’altro tre case su ruote lunghe diciassette metri e mezzo, fatte di teak e di cristallo, riscaldate a vapore, illuminate dalla brillante luce del gas, largamente aerate e confortevoli almeno quanto un ricco appartamento parigino». Su questo ‘appartamento su ruote’ salgono i quaranta invitati della Società, e il viaggio si dipana veloce, tra buona cucina e raffinatezze da grand hotel, come il cambio quotidiano delle lenzuola. L’incanto purtroppo si conclude bruscamente con la discesa a terra «in piena campagna davanti alla chiatta melmosa e fatiscente del Danubio», quando i facchini si impadroniscono dei bagagli per trasferirli sul battello. Fortunatamente il piccolo piroscafo è confortevole e veloce e in breve tempo trasporta il gruppo a Rusc,uk, da dove si riprende la ferrovia fino a Varna. Al largo attende la nave Espero del Lloyd Austriaco che finalmente raggiunge Costantinopoli. «È il primo colpo d’occhio, il profilo
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delle colline, lo stagliarsi di cupole e minareti sul cielo azzurro, il colore caldo e variato degli edifici piccoli e grandi, l’andirivieni delle navi e dei caicchi sul Bosforo e sul Corno d’Oro, la mirabolante varietà di tipi e di costumi. Il viaggiatore abbastanza fortunato o abbastanza coraggioso da attenersi alla prima impressione, si estasierebbe per un quarto d’ora e poi tornerebbe a casa senza chiedere altro; e farebbe assai bene».
Incisione, fotografia, pittura A differenza di altri luoghi (Francia e Gran Bretagna innanzitutto, ma anche gli altri paesi d’Europa e gli Stati Uniti), nei quali la notizia dell’invenzione della fotografia si diffuse con fulminea rapidità nei primi giorni di gennaio del 1839, nella capitale dell’impero il nuovo mezzo riproduttivo venne conosciuto con singolare lentezza. La critica si è interrogata sulle ragioni di un tale ritardo, se possa essere cioè dipeso dalla resistenza ad innovazioni tecnologiche estranee alla cultura tradizionale che con fatica si stava aprendo alle influenze occidentali, piuttosto che da una radicata diffidenza verso la riproducibilità dell’immagine, o infine da una questione di mercato, in rapporto alla circolazione delle stampe e alla trasformazione nella cultura letteraria e figurativa del ‘topos’ urbano di Costantinopoli31. Il 1839 è d’altra parte l’anno dell’editto imperiale di Gülhâne che dà avvio al periodo Tanzimat e segna una tappa fondamentale nel processo di occidentalizzazione della società. La città stava per affermarsi, anche se con qualche ritardo, ad esempio sul Cairo, come una tappa nell’immaginario orientalista, così come i suoi monumenti stavano per divenire oggetto di studio appassionato e di visite evocative, o di restauri come nel caso di Santa Sofia. Nel 1838 viene pubblicata l’opera di R. Walsh, Constantinople and the Scenery of the Seven Churches of Asia Minor, illustrata con tavole di Thomas Allom che costituiscono un modello di riferimento per le prese di vista in seguito privilegiate dai fotografi32. Anche nei confronti dell’immagine è in atto un cambio radicale. Nel 1836 Mahmud II fa esporre il proprio ritratto nelle caserme, mentre il sultano Abdülmecid se ne farà dipingere uno dal pittore francese Doussault33. Costantinopoli è dunque all’inizio degli anni Quaranta una città che si sta aprendo all’Occidente, con un’immagine nuova in via di definizione. Fatto è che, nonostante le segnalazioni della stampa periodica, in ritardo comunque di qualche mese, solo nel luglio 1841 si ha la prima notizia dell’attività stabile di un fotografo, installato al Belle Vue di Pera, dove opera tutti i giorni e in particolare la domenica. Si tratta di un certo Kompa, di origine francese, che si dichiara allievo di Daguerre e oltre a fotografare dà lezioni e vende il materia-
le necessario. La localizzazione è naturalmente un indicatore importante, perché segna una tendenza poi consolidatasi: proprio a Pera, luogo deputato della modernità, si installeranno infatti tutti i principali studi fotografici. Costantinopoli gioca un ruolo marginale nelle prime raccolte di incisioni «d’après les daguerréotypes», come le celebri Excursions Daguerriennes di Lerebours, o nelle opere di Joseph Philibert Giraud de Prangey (Monuments arabes d’Egypte, de Syrie et d’Asie Mineure dessinés et mesurés del 1842 à 1845), autore di un migliaio di dagherrotipi, dispersi alcuni anni fa all’asta, che sceglierà di privilegiare soprattutto altri luoghi, come l’Egitto, mèta in seguito del viaggio di Gustave Flaubert e Maxime Ducamp (buon conoscitore di Costantinopoli, dove soggiorna nel 1843), o la Terra Santa. È comunque proprio a Prangey che si deve la prima veduta panoramica di Costantinopoli al dagherrotipo34. Si è a lungo sostenuto che il primo studio ad aprire del quale sopravviva concreta testimonianza sia stato quello dei fratelli di origine armena Abdullah nel 1858; si posseggono in realtà materiali precedenti, anche se le più antiche fotografie conosciute non possono arretrare oltre il 1850. È significativo che l’impulso decisivo provenga da tecnici stranieri impiegati nei lavori di modernizzazione della capitale, come l’ingegnere Ernest de Caranza e James Robertson. In un album che de Caranza realizza nel 1852 sono documentati, oltre ai paesaggi, i monumenti bizantini e ottomani, da Santa Sofia alla fontana di Ahmet III, dalla moschea di Tophane alla torre di Galata. Nel 1854 un altro album completa con i siti del Bosforo la selezione. Nel 1857 de Caranza espone alla Société Française de Photographie di Parigi diciotto stampe, prima occasione di avvicinamento alla capitale attraverso la fotografia da parte del pubblico occidentale35. Contemporaneamente si avviano indagini sul patrimonio architettonico e storico-artistico, come quella dei calotipisti francesi Alfred Nicolas Normand, architetto dell’École Française de Rome36, e Gustave de Beaucorps, o del litografo Francis Bedford, fotografo del principe di Galles nel viaggio compiuto nel Mediterraneo nel 1862. Inizia l’epoca degli album fotografici commercializzati in più esemplari e della straordinaria fortuna delle vedute stereoscopiche, avviata nel 1857 da ClaudeMarie Ferrier37. La produzione che però si distingue nettamente per qualità tecnica e profondità di scandaglio è quella di James Robertson, incisore della Zecca imperiale, che inizia a fotografare nel 1852 e apre poi uno studio in società con Felice Beato (di cui aveva sposato la sorella Matilde), col quale si recherà anche a Gerusalemme e opererà durante la guerra di Crimea38. Il primo fotografo a installarsi in città in modo permanente sembra essere stato Basile (Vassilaki) Kargopulos, suddito ottomano di origini greche, che si dedica soprattutto alla ritrattistica e sarà il primo fotografo ad essere insignito
del titolo di fotografo del sultano39. Gli studi principali della seconda metà del secolo sono però quelli di Pascal Sébah (poi Sébah & Joailler)40 e dei tre fratelli Abdullah, di origine armena, che subentrano nel 1858 allo studio Rabach41. La cultura fotografica in città si sviluppa dunque divisa tra operatori stranieri – viaggiatori o tecnici impegnati nei progetti dei Tanzimat – e locali, reclutati questi ultimi tra le minoranze culturali o religiose, armene e greco-ortodosse (occorrerà attendere gli inizi del Novecento per vedere comparire i primi fotografi turchi ottomani). La diffusione della fotografia e della cartolina illustrata consente di visualizzare preliminarmente i luoghi e di serbarne memoria dopo la visita. Nel 1849 un chirurgo trasformatosi in scrittore, Albert Smith, passa il mese di settembre a Costantinopoli e l’anno successivo pubblica il volume A month at Constantinople. Qualche anno più tardi tiene sullo stesso argomento una conferenza alla Egyptian Hall di Londra, davanti a un panorama dipinto della città42, replicata poi in forma di peepshow. Smith ha un largo seguito di pubblico che conferma l’interesse per queste forme di introduzione, verbali e visive, a paesi e popoli stranieri. I resoconti giornalistici del tempo testimoniano le scene più gradite: l’harem del sultano, la moschea, la chiesa di Santa Sofia43. Presto si passa dal panorama dipinto a quello fotografico, con fotomontaggio di stampe perfettamente congiunte, di dimensioni talvolta eccezionali, presentato editorialmente in album da svolgere, nel quale si cimentano i maggiori studi fotografici del luogo44. La fotografia conta negli stessi anni un appassionato d’eccezione, lo stesso sultano Abdül Hamid. In particolare nel corso degli anni Ottanta egli raccoglie nella biblioteca di Yıldız un’enorme quantità di materiale fotografico (e in generale iconografico) sull’Impero, la capitale e le province, raccolto in circa 800 album di preziosa fattura conosciuti come gli «album di Abdül Hamid» o «di Yıldız», ora nella biblioteca dell’Università di Istanbul, dove sono stati trasferiti nel 1925, insieme a oltre 7000 manoscritti e 1500 volumi a stampa, per ordine di Atatürk. Altri album contengono invece fotografie degli Stati Uniti, del Giappone e dell’Estremo Oriente45. Si tratta dell’«occhio» del sultano, di uno strumento di controllo capillare che gli consente di informarsi e vigilare sul proprio immenso territorio senza spostarsi dalla residenza imperiale (egli sviluppa in parallelo un sistema poliziesco altrettanto efficace). Per ordine del sultano si allestiscono anche due serie di album offerte in dono al governo degli Stati Uniti e a quello britannico, con lo scopo esplicito di presentare l’Impero agli occhi occidentali. Questi album presentano naturalmente caratteristiche diverse rispetto a quelli privati, e bene palesano le intenzioni di accreditamento dell’autocrate turco in quello che è stato definito un «autoritratto imperiale»46.
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291. Pascal Sébah & Polycarpe Joailler, Panorama di Costantinopoli dalla torre di Galata. Stampa all’albumina, 1890 ca. Tra i molti panorami realizzati nel corso della seconda metà del XIX secolo, questo di Sébah e Joailler fissa l’immagine della capitale nei primi anni del regno di Abdül Hamid II.
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Dagli album del sultano Abdül Hamid II: 292. Abdullah frères, L’Ammiragliato 293. Abdullah frères, Confiserie à Stamboul (Pasticceria a Stambul). 294. Abdullah frères, Via della vecchia Stambul. Stampe all’albumina, II metà del XIX secolo. Notizie tecniche più dettagliate sulle fotografie ottocentesche pubblicate in questo capitolo si trovano a p. 413.
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Giunto a Costantinopoli suggestionato dalla lettura di Gautier e De Amicis, Fausto Zonaro, pittore di origine veneta, accompagnato dall’allieva e attenta fotografa Elisa Pante (presto divenuta sua moglie), vi si stabilisce dal 1891 – ultimo esponente di una folta colonia di artisti occidentali operanti in città sin dal Settecento47 –, realizzando vedute di grande fascino e vivaci scene di genere (gli viene concesso, a differenza di altri pittori e fotografi, di recarsi ovunque, ad eccezione di Yıldız ed Eyüp) che incontrano presto il favore della clientela internazionale. Dopo l’omaggio al sultano del dipinto La cavalleria imperiale viene nominato pittore di corte, succedendo a Luigi Acquarone, scomparso qualche mese prima48. Gode del favore costante di Abdül Hamid, che lo coinvolge in un’altra passione, quella delle porcellane, per le quali fa costruire da Raimondo D’Aronco nel parco di Yıldız una fabbrica, e gli affida incarichi di riallestimento degli ambienti di rappresentanza, come nel caso della visita dell’imperatore di Germania. Nonostante l’amicizia con Enver Bey, la rivoluzione del 1908 comporta una mutazione radicale della sua situazione. Il nuovo sultano, Mehmed V Reşad, non ha denaro da impegnare nella pittura e gli revoca la prestigiosa carica, chiedendo anche il pagamento dell’affitto per l’appartamento di servizio. Nel 1910 lascia Costantinopoli per non farvi più ritorno. Prima di lui aveva operato tra gli altri Alberto Pasini, giunto in città durante la guerra di Crimea al seguito del diplomatico francese Prosper Bourrée, in missione presso lo Shah di Persia (e in seguito ambasciatore presso la Sublime Porta), nelle cui vedute svolgono un ruolo centrale le architetture tradizionali, che negli stessi anni iniziano a essere divulgate e studiate anche in Occidente. Ma sono molti, e di diverse nazionalità, gli artisti presenti in città (negli anni Settanta è ad esempio a più riprese in Turchia Jean-Léon Gérôme, attratto soprattutto da Bursa, ma anche dagli interni del Topkapı), mentre matura nella cultura figurativa locale un orientamento decisamente filooccidentale che segna una radicale rivoluzione rispetto alla produzione miniaturistica e decorativa precedente. Come nel caso degli architetti, anche i pittori vengono inviati a studiare a Parigi, come Ahmed Ali, Süleyman Seyyid e Osman Hamdi Bey, fondatore dell’Accademia di Belle Arti, di orientamento orientalista, tra i primi a dedicarsi alla figura umana49.
Orientalismo fin-de-siècle 295. Fausto Zonaro, La cavalleria imperiale, particolare, olio su tela, 1901; Istanbul, Palazzo di Dolmabahçe. Il dipinto, molto apprezzato dal sultano Abdül Hamid II che nominò l’artista pittore di corte, raffigura il passaggio della cavalleria imperiale sul ponte di Galata, mentre dalla città vecchia
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si dirige nel quartiere «europeo» lungo il Bosforo, probabilmente per la cerimonia del selamlik presso la residenza di Yıldız. È qui efficacemente colto il complesso rapporto tra l’Impero e l’Occidente (simboleggiato dagli astanti), con un richiamo alla tradizione militare che prelude all’affermazione del partito Unione e Progresso e alla rivoluzione del 1908 dei Giovani Turchi.
Dopo la sconfitta nella guerra russo-turca del 1877-78, che sancisce la perdita di gran parte dei territori balcanici, si apre per l’impero un periodo di relativa tranquillità, che non vede ulteriori decurtazioni (a parte l’invasione della Tunisia da parte della Francia e dell’Egitto da parte della
Gran Bretagna nel 1881-82, ma si trattava di zone da lungo tempo sottratte al diretto controllo della Sublime Porta), e coincide in sostanza con il regno di Abdül Hamid, il «sultano rosso», che agisce dopo la sospensione della Costituzione con potere sostanzialmente autocratico50. Con il decreto di Muharrem (1881) si raggiunge un accordo con i creditori occidentali che dà origine all’Amministrazione del Debito Pubblico ottomano. Rinegoziato il debito, ridotto del 50% (pari al tasso di sconto praticato), all’Amministrazione sarebbe spettata la riscossione delle tasse e lo sfruttamento di gran parte delle risorse dello Stato, con i cui proventi avrebbe provveduto a ripianarlo. A capo dell’Amministrazione viene posto un consiglio di sette membri rappresentanti le nazioni creditrici (Gran Bretagna, Francia, Germania, Paesi Bassi, Italia, Austria-Ungheria) e la Banca ottomana (il rappresentante del governo non aveva diritto di voto). La struttura burocratica si diffonde capillarmente, contando alla vigilia della prima guerra mondiale 5000 funzionari direttivi europei51. Contro la pervasiva presenza dell’Occidente, vista come una minaccia alla conservazione delle tradizioni e dello spirito del luogo, sono molte le voci che si levano, interne ed esterne, tra le quali emerge per profondità e intensità quella di Pierre Loti, pseudonimo di Louis-Marie-Julien Viaud, ufficiale di marina e viaggiatore appassionato. Il suo primo incontro con la Turchia risale al 1870, anno nel quale, a bordo della nave-scuola Jean-Bart, visita Smirne. Nel 1876 è di ritorno, a Salonicco e a Costantinopoli, dove si svolge la storia d’amore con l’odalisca Hatidjé, che fornisce la materia per il suo primo romanzo, Aziyadé (1879). È l’occasione che determina il profondo radicamento dello scrittore nella città, nel suo popolo e nelle sue tradizioni. «Una fascinazione dalla quale non mi riprenderò mai mi ha colto per l’Islam quando abitavo le rive del Bosforo; e subisco questo incanto in mille modi, anche nelle cose, nei disegni, nei colori e persino nei vecchi fiori di sogno ingenuamente dipinti sulle maioliche delle mie pareti» (il riferimento è naturalmente alla casa di Rochefort)52. Un fascino che giunge a improntare di sé la vita e persino l’abitazione di Loti53. I soggiorni si moltiplicano, protraendosi anche per alcuni mesi. Nel 1890, per una collana di monografie pubblicate da Hachette sulle capitali del mondo, accetta di presentare Costantinopoli, e vi si reca appositamente. Nel testo, apparso nel 1892, il filo della narrazione più puntualmente descrittiva (anche se mai impersonale) si intreccia con quello della memoria e dell’immaginazione54. Nessuna mèta turistica, naturalmente; ma la ricerca, nelle pietre e nelle persone, del «passato immutabile» che queste custodiscono e che è destinato a scomparire, così come si disgrega l’impero minacciato dall’idea occidentale di progresso e di modernità. Una minaccia che di lì a pochi anni sarebbe divenuta realtà.
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DOCUMENTAZIONE COMPLEMENTARE
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A fronte 296. La moschea ottocentesca di Ortaköy e il moderno ponte sul Bosforo.
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297. La cisterna di Binbirdirek. (Ricostruzione grafica di K. Wulzinger) 298. Ricostruzione della facciata della Santa Sofia teodosiana. (Da Schneider) 299. Particolare dalla pianta del Martyrium di Sant’Eufemia. (Da Naumann-Belting) 300. Pianta della fonte sacra di Santa Maria Hodegetria. (Da Demangel-Mamboury) 301. Pianta di San Giovanni di Studios. (Da Müller-Wiener) 302. Pianta dei palazzi di Antioco e Lauso e del Martyrium di Sant’Eufemia. (Da Müller-Wiener)
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303. Pianta di Santa Maria Chalkoprateia e della cappella di San Giacomo. (Da Kleiss) 304. Pianta della chiesa di Topkapı Sarayı. (Da Firatlı) 305. Le sostruzioni di San Polieucto. (Da Harrison)
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A fronte: 306. Pianta della cisterna basilica. (Da Müller-Wiener) 307. Pianta di Santa Sofia. (Da Mainstone) 308. L’ideazione geometrica di Santa Sofia. (Dall’esposizione Der geometrische Entwurf der Hagia Sophia in Istanbul)
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309. Pianta dei Santi Sergio e Bacco. (Da Grossmann) 310. Ricostruzione della pianta di San Giovanni Battista in Hebdomon. (Da T.F. Mathews) 311. Pianta della chiesa A di Beyazıd. (Da Firatlı)
312. Pianta di Sant’Irene. (Da Ebersolt-Thiers) 313. Frammento di sarcofago imperiale in porfido di Costanzo II, Museo archeologico di Istanbul. 314. Testa di Cristo, particolare della statuetta del Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo, Roma. 315. Testa di Teodosio I. Museo di Afrodisia. 316. Disegno ricostruttivo dell’arco di Teodosio. (Da Naumann) 317. Colonne a forma di grandi clave erculee, resti dell’arco di Teodosio. 318. La base della colonna di Marciano.
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319. Testa di Teodosio II. Museo del Louvre, Parigi. 320. Testa di Ariadne. Museo del Louvre, Parigi. 321. Testa di Teodora. Castello sforzesco, Milano. 322. Rilievo di Ercole con il cervo. Museo nazionale di Ravenna. 323. Frammento di colonna lavorata. Museo archeologico di Istanbul (Inv. 901). 324. Capitello con monogramma di Giustino II, riutilizzato in San Marco a Venezia. 325. Fasi costruttive di Santa Maria Kyriotissa / Kalenderhane Camii. A. Bagno romano; B. Chiesa Nord; C. Chiesa a bema; D. X-XII secolo; E. Chiesa maggiore; F. Trasformazione in età ottomana. (Da Striker)
326. Pianta delle chiese del monastero di Costantino Lips / Fenari Isa Camii. 327. Pianta di Cristo Pantocratore / Zeyrek Camii. (Da Megaw) 328. Pianta del Myrelaion / Bodrum Camii. (Da A. van Millingen) 329. Pianta di Sant’Andrea, da Peristera. (Da C. Mango) 330. Pianta di San Salvatore in Chora / Kariye Camii. (Da C. Mango) 331. Pianta di San Giorgio delle Mangane. (Da C. Mango) 332. Pianta della chiesa della Peribleptos.
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Alla pagina seguente: 333. Pianta e sezione della moschea e del mausoleo di Atik Paşa 334. Pianta del Topkapı. 335. Il complesso di Selim I; dietro alla moschea sono indicati quattro mausolei.
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336. Pianta dell’Ospedale Maggiore di Milano, dal Trattato di Architettura del Filarete. 337. Il complesso di Mehmed II: 1. Moschea; 2. Madrase; 3. Giardino con diversi mausolei; 4. Alloggio per i pellegrini; 5. Ospedale; 6. Scuola elementare.
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338. Il complesso di Beyazıd II: 1. Moschea e mausolei; 2. Alloggio e caravanserraglio; 3. Madrasa; 4. Doppio bagno; 5. Scuola elementare; 6. Palazzo Vecchio. 339. Il complesso di Şehzade: 1. Moschea; 2. Mausolei;
3. Madrasa; 4. Caravanserraglio e alloggio. 340. Il complesso della Süleymaniye: 1. Moschea; 2. Mausolei; 3. Madrase; 4. Ospedale; 5. Ospizio; 6. Alloggio; 7. Tomba di Sinan; 8. Bagno.
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Note e Bibliografia 3
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ActaAArtHist: Acta ad archaeologiam at artium historiam pertinentia, Institutum Romanum Norvegiae ActaByzFenn: Acta Byzantina Fennica ActaHyp: Acta Hyperborea AEspA: Archivo Español de Arqueología AJA: The American Journal of Archaeology AnnaliArch: Annali di Architettura AnnSAIA: Annuario della Scuola Archeologica Italiana di Atene AnTard: Antiquité Tardive AntPlastik: Antike Plastik AO: Ars Orientalis ArteMed: Arte medievale ASMOSIA: Association for the Study of Marble an other Stones in Antiquity AWelt: Antike Welt BJb: Bönner Jahrbücher BurlMag: The Burlington Magazine ByzSlav: Byzantino-Slavica BZ: Byzantinische Zeitschrift CahArch: Cahiers Archéologiques CARB: Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina
CRAIBL: Comptes-rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres DeltChristArchHet: Deltivon th" Cristianikh`" ∆Arcaiologikh`" Etairiva" DOP: Dumbarton Oaks Papers EAA: Enciclopedia dell’Arte Antica EAM: Enciclopedia dell’Arte Medievale EO: Echos d’Orient GreekRomByzStud: Greek Roman and Byzantine Studies IntJournClTrad: International Journal of the Classical Tradition IntJournMEStud: International Journal of Middle East Studies IstArchMüzYıll: Istanbul Arkeoloji Müzeleri Yıllıéı IstMitt: Istanbuler Mitteilungen JbAntChr: Jahrbuch für Antike und Christentum JdI: Jahrbuch des Deutschen Archäeologischen Instituts JÖBG: Jahrbuch Österreichischen Byzantinistik JRA: Journal of Roman Archaeology JRS: Journal of Roman Studies JSAH: Journal of the Society of Architectural Historians MHR: Mediterranean Historical Review
MiscByzMon: Miscellanea Byzantina Monacensia MusHelv: Museum Helveticum OAJ: The Oxford Art Journal ÖJh: Jahreshefte des Österreichischen Archäologischen Instituts in Wien OrChr: Oriens Christianus OrChrPer: Orientalia Christiana periodica PG: Patrologiae cursus completus, Series graeca, éd. J.-P. Migne RA: Revue Archéologique RAChr: Reallexikon für Antike und Christentum RBK: Reallexikon zur Byzantinischen Kunst REB: Revue des études byzantines REG: Revue des Études Grecques RendPARA: Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia RevRoumHistArt: Revue roumaine d’histoire de l’art, série beaux-arts SymbOsl: Symbolae Osloenses TrMem: Travaux et mémoires VizVrem: Vizantijskij Vremennik ZLU: Zbornik za likovne umetnosti Matice srpske ZPE: Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphie ZRVI: Zbornik radova Vizantoloykog instituta
DA BISANZIO A COSTANTINOPOLI PROFILO STORICO-URBANISTICO
ed. A. Cameron-J. Herrin, in Constantinople in the Early Eight Century, Leiden 1984. Pavtria: Pavtria Kwnstantinoupovlew" ed. Th. Preger, in Scriptores originum Constantinopolitarum, III, Teubner, 1901-1907. 1 I. Malkin-N. Shmueli, The «city of the blind» and the founding of Byzantium, in MHR 3 (1988), pp. 21-36. 2 In proposito vedi: E. La Rocca, La fondazione di Costantinopoli, in G. Bonamente e F. Fusco (a cura di), Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo, Macerata 1993, t. II, pp. 553-583. 3 Cfr. Mango 1990, pp. 15-17. 4 Ramazanoglu 1957, pp. 333-361; Firatlı 1973, p. 573; inoltre il più articolato e recente Müller-Wiener 1977 e anche Müller-Wiener 1993, p. 144. 5 Rhea, Cibele, Ecate, Selene, eroi come Achille ed Aiace, senza parlare del mitico eroe eponimo Byzas, e così via. Cfr. Dagron 1974, pp. 373 ss. 6 Ibid., p. 381. 7 Mango 1990, p. 14; cfr. anche A. van Millingen, Byzantine Constantinople: The Walls of the City and the Adjoining Historical Sites, London 1899, p. 8. 8 W. Müller-Wiener, Zur Frage der Stadtbefestigung von Byzantion, in BJb 161 (1961), pp. 165-175. 9 Mango 1990, pp. 14-15. 10 Forse è questa la cerchia del mitico Byzas. 11 Guilland 1959, p. 53; Mango 1990, p. 19. 12 Mango 1990, pp. 16-17. 13 Dionigi di Bisanzio, Strabone, Procopio, Zosimo, Filostorgio ecc. 14 Di cui il toponimo Zeugma avrebbe conservato la memoria. 15 Cfr. Dagron 1974, p. 531. 16 Con qualche prudenza possono valere le interpretazioni che il Mamboury e lo Janin – per la parte centro-occidentale si veda fig. 4 in Dagron 1974 hanno dato dei vari terrazzamenti. 17 Mango la data a un’epoca anteriore al 400 a.C. facendo riferimento a un episodio dell’Anabasi di Senofonte: questi avrebbe chiesto il permesso di entrare con le sue truppe per l’imbarco verso la Grecia. 18 Müller-Wiener 1977, p. 149. 19 Ibid., p. 145. 20 D. Jacoby, La population de Constantinople à l’époque byzantine: un problème de démographie urbai-
ne, in «Byzantion» 31 (1961), pp. 81-109; Mango 1990, p. 19. 21 Ibid., p. 13. 22 Si vedano le note bibliografiche in Dagron 1974, p. 59. 23 Dagron 1974, p. 15; anche Mango 1990, p. 19. 24 Müller-Wiener 1977, p. 143. 25 Ma prima di lui anche da precedenti imperatori: il giudizio riguarda la politica imperiale romana nel suo complesso. 26 Nel senso che il termine, e il corrispettivo meno indicativo ruolo, aveva allora assunto: cfr. Dagron 1974, pp. 59 ss. 27 Ibid., p. 60. 28 Nel senso di una Roman way of life. 29 Müller-Wiener 1977, p. 145, mette però in guardia contro la possibile «tendenziosità» delle fonti di tale attribuzione di paternità. 30 Si tratta evidentemente di un’operazione politicamente e religiosamente assai incisiva e lesiva delle tradizioni locali, cosa che appare peraltro un tratto costante dell’incidenza romana sulle città ellenistiche. La Rocca (op. cit.) giudica che l’intervento di Costantino dà luogo ad una sorta di seconda città aggiuntiva alla preesistente. Pare dunque di poter aggiungere che un celebre precedente di questa prassi romano-imperiale è l’ampliamento di Atene ad opera di Adriano: un’iscrizione apposta all’ingresso di tale ampliamento sottolinea appunto il passaggio dalla «città di Teseo» a quella dell’imperatore romano. 31 Müller-Wiener 1977. 32 Concina 2003, p. 4. 33 Cfr. Mango 1990, pp. 69-72 e si veda anche Mango 1959, pp. 42 ss. 34 Come, rispettivamente, negli esempi dei santuari di Palestrina e di Terracina e a Roma quelli dei palazzi imperiali del Palatino, dei fori imperiali, basti il caso traianeo, della vasta spianata del tempio di Venere e Roma, del Settizonio ecc. 35 Dagron 1974, p. 59. 36 R. Krautheimer, Three Christian Capitals, Berkeley 1983. 37 Non è da escludere l’ipotesi che qualche precedente nucleo residenziale imperiale avesse anticipato e guidato la scelta costantiniana. Anche in questa ipotesi, però, vi sarebbe stata comunque contiguità
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341. Il complesso di Mihrimah Sultana a Üsküdar: 1. Moschea; 2. Madrasa; 3. Scuola elementare; 4 e 5. Mausolei. 342. La moschea di Rüstem Paşa a Tahtakale. 343. Il complesso di Mihrimah Sultana a Edirnekapı. 344. Pianta a sezione del complesso di Ismihan Sultana e Sokollu Mehmed Paşa a Kadırgalimanı. 345. Il complesso di Yeni Valide a Eminönü: 1. Moschea; 2. Mausoleo; 3. Bazar coperto.
Particolare riferimento sarà fatto alle seguenti opere: Berger 1987: A. BERGER, Altstadt von Byzanz, in «Poikila Byzantina» 6 (1987). Bozzoni 2006: C. BOZZONI, V. FRANCHETTI PARDO, G. ORTOLANI, A. VISCOGLIOSI, L’architettura del mondo antico, Roma-Bari 2006. Concina 2003: E. CONCINA, La città bizantina, Roma-Bari 2003. Dagron 1974: G. DAGRON, Naissance d’une capitale: Constantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris 1974 (trad. it. 1991). Dagron 1984: G. DAGRON, Naissance d’une capitale, Paris 19842. De Cerimoniis: CONSTANTINUS VII PORFIROGENITUS, De Cerimoniis aulae Byzantinae, ed. A. Vogt, Paris 1939. Firatlı 1973: N. FIRATLI, New Discoveries concerning the first settlements of ancient Istanbul-Byzantion, in Proceedings of the Xth International Congress of Classical Archaelogy, Ankara-Izmir 1973. Guilland 1959: R. GUILLAND, Études sur la topographie de Constantinople Byzantine. Les trois places (forum) de Théodose Ier le Grand, in JÖBG VII (1959). Janin 1964: R. JANIN, Constantinople byzantine, Paris 1964. Mango 1959: C. MANGO, The Brazen House. A Study of the Vestibule of the Imperial Palace of Constantinople, Copenaghen 1959, pp. 8ss. Mango 1990: C. MANGO, Le développement urbain de Constantinople (IVe-VIIe siècles), Paris 1990. Müller-Wiener 1977: W. MÜLLER-WIENER, Bildlexicon zur Topographie Istanbuls, Tübingen 1977. Müller-Wiener 1993: W. MÜLLER-WIENER, Costantinopoli, la nuova Roma, in Storia di Roma, 3**, Torino 1993. Ramazanoglu 1957: M. RAMAZANOGLU, Aperçu sur la période pré-byzantine. Les Phrygiens. Nouveaux éléments qui éclairent la période pré-byzantine, in Silloge bizantina in onore di S. Mercati, Roma 1957. Vita Const.: EUSEBIUS, Vita Constantini. Parastavsei": Paraotavsei" suvntomoi cronikaiv,
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ipotesi, però, vi sarebbe stata comunque contiguità e interrelazione tra Ippodromo e residenza. 38 Il rituale dell’infissione della lancia per marcare il nuovo territorio urbano è stato oggetto di più interpretazioni simboliche. Cerimonie simili sono registrate relativamente alla fondazione di Roma da parte di Romolo e all’impianto di un accampamento in territorio nemico da parte di Alessandro Magno. Nel caso di Costantinopoli, Niceforo riferisce che Costantino, interrogato da quanti lo seguivano su dove e quando si sarebbe fermato nell’ampliamento, rispose che si sarebbe fermato solo e quando lo avesse indicato la potenza celeste che lo guidava, che era l’arcangelo Michele (La rocca, op. cit., p. 565). 39 Secondo Mango 1990, p. 25, sarebbe la Antiquissima pulchra porta di cui vi è indicazione sulla veduta del Buondelmonti. 40 Almeno nell’ipotesi che di quel tracciato formulano Mango, Müller-Wiener e altri con loro. 41 Mango 1990, pp. 32-33. 42 Ibidem. 43 Prok., De aedif. IV. 8,5. 44 Müller-Wiener 1977, p. 147. 45 Dagron 1974, pp. 326-327. 46 Ps. Kod., Pavtria, pp. 146-147. Secondo Dagron la diffusione di queste dimore in varie parti della nuova città avrebbe anche funzionato da innesco per altri tipi insediativi: una delle cause del tipo di tessuto costantinopolitano. 47 I pochi resti archeologici sono in genere considerati di età più tarda. Cfr. S. Miranda, Étude sur le Palais Sacré de Constantinople. Le Walker Trust et le Palais de Daphne, in ByzSlav 44 (1983), pp. 41-49 e 196-204. 48 Si vedano schema a p. 23 e analisi a p. 97 di Mango 1959. 49 «Même pour les parties datant du règne de Constantin, on ne saurait dire avec certitude qu’elles ont formé un tout organique à plan carré ou rectangulaire, suivant le modèle du palais de Dioclétien à Spalato ou du palais Mschatta, à l’est du Jordain, qui sont presque contemporains» (Janin 1964, p. 109). 50 Dobbiamo d’altronde immaginare che il Palazzo rispecchiasse quelle soluzioni architettoniche che abbiamo viste affermarsi in età tardo-antica, caratterizzate da planimetrie complesse che vedono strutture articolate, padiglioni più o meno integrati nell’insieme, immersi in ampi spazi scoperti sistemati a giardino. Le strutture segnate da soluzioni planimetriche mistilinee non dovevano distinguersi significativamente da quanto sopravvive delle ricche residenze tardo-imperiali sia urbane che extraurbane. 51 Di cui però non è chiaro quali fossero le funzioni: vi era infatti, in altro luogo, un altro edificio per il Senato. 52 Mango 1959, p. 23. 53 Dagron 1974, p. 327. 54 La lunghezza effettiva resta incerta per l’assenza di ritrovamenti della testata dei carceres. E. La Rocca, op. cit.. 55 Müller-Wiener 1977, p. 256. 56 Pavtria, p. 218. 57 Müller-Wiener 1977, p. 256. 58 Le colonne di Traiano e Marco Aurelio erano alte una quarantina di metri contro la cinquantina di quella costantinopolitana. 59 Dagron 1974, p. 37. 60 Cfr. E. D’Alleggio d’Alessio, Les Fouilles archéologiques au pied de la colonne de Constantin à Constantinople, in EO, XXIX (1930), pp. 339-341. 61 Chr. Pasch., Bonn 1828-97, p. 528. 62 Mal., ibid., p. 320; Zon. XIII, 3, 25-26. 63 Kedr., Bonn, I, p. 656. 64 Niceforo Callisto sostiene con poca attendibilità che la mano sinistra dovesse sostenere una croce (Hist. cccl. VII, 49, in PG, 145, col. 1325CD). 65 Greg. Naz., Or. XXI, XXVI, in PG, 35, coll. 1088, 1228; XXXV, in PG, 36, col. 257.
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Vita di santa Melania la Giovane, 53. Vita Const. III, 48. 68 Soz., Hist. eccl. II, 3. 69 Sokr., Hist. eccl. I, 16. 70 Teoph., ed. C. de Boor, Teubner, 1883, p. 23. 71 Leo Gramm., ed. I. Bekker, Bonn 1838-39, pp. 88-89. 72 Pavtria. 73 Dagron 1984, pp. 392 ss. Mango ritiene che a Costantino debba anche ascriversi il martyrion extra muros di San Mokios ma l’attribuzione è tutt’altro che certa: la prima citazione del martyrion è infatti del 402 (Soz. VIII, 17,5) ma appare significativo che solo a partire dall’VIII secolo si fa riferimento per la sua origine a Costantino (Patria, p. 19). 74 La cronologia della Notitia oscilla tra il 423 e il 427; cfr. P. Speck, Studien zur Frühgeschichte Konstantinopels, in MiscByz Mon, 14 (1973), pp. 144-150. 75 Dagron 1984, p. 391. Sia in Socrate (Hist. eccl.) che nella Vita di Paolo di Costantinopoli (Phot., Bibl, col. 257, in PG, 104, col. 132) si fa riferimento a un ampliamento della chiesa a opera di Costantino, rafforzando così la tesi che vede in Sant’Irene la chiesa principale della comunità cristiana della Bisanzio precostantiniana. 76 Bozzoni 2006, p. 441. 77 Cfr. sull’argomento Mango 1990, p. 35; Dagron 1984, p. 391; Bozzoni 2006, p. 390. 78 Bozzoni 2006, p. 390. 79 Müller-Wiener 1977, p. 53; F.W. Deichmann, in BZ 64 (1971), p. 512. 80 Lyd., De mensibus IV, 132; cfr. sull’argomento Mango 1990, p. 71. 81 L’attribuzione a Costantino del Capitolium è attestata dalla Vita Const. ed è accettata dalla maggior parte degli studiosi. 82 Zos. II, 31, 2-3; Dagron 1984, p. 373, sostiene che le statue citate da Zosimo si debbano identificare con i due ijdruvmata di Pallas citati da Esichio (Hesychius 41) e che siano piuttosto da localizzarsi nella Basilica sede dell’antico Tucaivon. 83 L’identificazione tra Athena e la Tuvch sostenuta da Dagron è effettivamente suggerita dalla tradizionale rappresentazione della Tuvch romana, la dea Roma, che si presenta appunto nelle sembianze di una Minerva con elmo, scudo e lancia. 84 Vita Const. III, 49. 85 Ch. Picard, Ad Vitam Constantini, III, 49, in REG LIX-LX (1946-47), p. XXI; C. Becatti, La colonna coclide istoriata, Roma 1960, pp. 210-211. La scarsa credibilità di questo passo di Eusebio appare chiara sia per l’evidente cripticità di una rappresentazione «simbolica» del Buon Pastore, sia per l’inadeguatezza di un soggetto come Daniele e i leoni per la decorazione di una fontana. Se poi si devono effettivamente riconoscere nella pecora e nella figura maschile con mantello, che appaiono nell’immagine del Foro costantiniano rappresentata sulla colonna di Arcadio, così come è riprodotta nei disegni della collezione Freshfield, rispettivamente il simbolo del Buon Pastore e san Daniele, allora hanno buon gioco Ch. Picard (Sur l’Orphée de la fontaine monumentale de Byblos, in OrChrPer, XIII (1947), Miscellanea C. De Jerphanion, I, 1947, pp. 266-281), e il Becatti (La colonna coclide istoriata cit., p. 211) a ritenere piuttosto che le due opere citate da Eusebio possano invece essere identificate con un unico gruppo di Orfeo tra gli animali, soggetto di gran lunga più consono alla decorazione di un ninfeo, come pure i due autori hanno avuto modo di evidenziare. 86 Vita Const., III, 49. Si sarebbe trattato di una tavola, dipinta a encausto, che mostrava Costantino con i figli, Costanzo II e Costantino II. Al di sopra della testa dell’imperatore doveva essere il simbolo della croce (swthvrion [semei§on]), mentre il suo piede schiacciava un serpente, trapassato da una lancia, che precipitava nelle profondità del mare. Ma l’interpretazione suggerita dall’autore della Vita Con67
stantini, che interpreta l’immagine in chiave biblica, con la Chiesa di Dio assalita dal diavolo-serpente a causa della tirannide degli atei, non convince; alla lettura di Eusebio si oppone infatti l’immagine, inconsueta nel tradizionale tema della calcatio, del serpente scagliato nel mare, suggerendo piuttosto una rappresentazione, coerente con l’iconografia imperiale, simbolica del trionfo dell’imperatore sul nemico Licinio, sconfitto appunto sulle sponde della Propontide, a Chrisopolis. Quello della calcatio è d’altronde un tema iconografico romano, solo successivamente cristianizzato, e quindi coerente con una rappresentazione trionfale dell’imperatore. Sulla critica all’interpretazione di Eusebio cfr. A. Grabar, L’Empereur dans l’art byzantine, Paris 1936, p. 44; Mango 1959, pp. 23-24; Dragon, p. 390-391. 87 E. Dinkler, Bemerkungen zum Kreuz, in Festschrift Theodor Klauser, in JbAntChr, suppl. I (1964), pp. 71-78, attribuisce il simbolo a Teodosio I mentre Dagron 1984, p. 390, sottolinea come la particolare forma della croce, con i bracci svasati e dalle estremità arrotondate, così come viene descritta dalle fonti (Pavtria, pp. 160 e 205), sia prematura in età di Costantino. 88 In effetti i concilii di Antiochia del 330 (canoni 11 e 12) e di Sardica del 342/343 (canoni 7, 8, 9 e 21) cercano di scoraggiare il ricorso all’arbitrato imperiale (cfr. Dagron 1984, pp. 416-417). 89 D. Jacoby, La population de Constantinople à l’époque byzantine cit., pp. 81-109. P. Charanis, Observations on the demography of the Bizantyne Empire, in Proceedings of the XIIIth International Congress of Byzantines Studies, New York-Toronto 1967, p. 450. 90 Questa stima è accolta in Concina 2003. 91 G. Pugliese Carratelli, Una disposizione di Costantino per favorire lo sviluppo edilizio di Costantinopoli, in Studi in onore di Pietro De Francisci, Milano 1956, pp. 373-404. 92 Sull’attribuzione di annonae ai proprietari di case, sulla concessione di godere dei fundi patrimoniales ecc. cfr. ibid., pp. 377-378. 93 Peraltro furono completate solo nel 427, cioè sotto Arcadio (cfr. Mango 1990, p. 41). 94 Cfr. O. Dalman, Der Valens-Aquädukt in Konstantinopel, Bamberg 1933, p. 22. 95 F. Dirimtekin, Adduction de l’eau à Byzance dans la région dite «Bidgarie», in CahArch, X (1959), pp. 217-243. 96 Mango 1990, p. 42. 97 Però, a differenza della gran parte degli studiosi che la attribuiscono a Giustiniano, Krautheimer la considera del V secolo (cfr. R. Krautheimer, Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1981, p. 269). 98 S. Bettini, Tra Oriente ed Occidente: origine della crociera ad ogive, in Saggi di storia dell’architettura in onore di Vincenzo Fasolo, Istituto di Storia dell’Architettura, serie VI-VII-VIII, Roma 1961, pp. 83-92. 99 È stato però ipotizzato che lo spostamento sia avvenuto già nel 333 (vedi Mango 1990, p. 33, nota 59). 100 Sulla questione si vedano Guilland 1959, pp. 53-67; Mango 1990, p. 43, testo e note. 101 Guilland 1959, p. 54. 102 Chr. Pasch., p. 565. 103 Ne conosciamo le caratteristiche sulla base di più tardi, ma superstiti, disegni. 104 Mango 1990, p. 43. 105 Ibid., p. 44: in base a quanto descrive Cedreno, la Basilica avrebbe avuto una lunghezza di circa 80 metri e una larghezza di circa 28 metri e sarebbe stata disposta in senso parallelo alla Mese. Quindi, come nella Basilica Ulpia, ortogonalmente all’asse del Foro. 106 È alla fase teodosiana che, salvo il diverso parere degli autori citati, viene di solito attribuito il muro del portico tuttora esistente e qualche altro resto archeologico (colonne ecc.) recentemente ricomposto nel contesto di Santa Sofìa.
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Cod. Theod. 16.3, I ss. D. Jacoby, La population de Costantinople à l’époque byzantine, cit., pp. 105-107. 109 A.M. Schneider, Brände in Konstantinopel, in BZ, 41 (1941), p. 383; Mango 1990, p. 51; cfr. anche Evagr. II, 13; Mal., p. 372; Chron. Pasch., p. 595. 110 Prok., De aedif. I, II,1-15. 111 La chiesa dei Santi Apostoli fu infatti ricostruita da Giustiniano, che la consacrò nel 550. 108
COSTANTINOPOLI ARCHITETTURA E SCULTURA NEI PRIMI SECOLI 1
Istanbul, Museo archeologico, inv. 3155. Mus. arch, inv. 806. 3 Staatliche Museen, inv. 6129. 4 Istanbul, Museo archeologico, inv. 3156. 5 Inv. 609. 6 Museo archeologico, inv. 3154. 7 Inv. 608. 8 Inv. 2391 9 Inv. 3157. 10 Inv. 5302, 5324, 5325. 11 Rispettivamente Louvre, inv. MA 3537 e Bordeaux, Musée d’Aquitaine, inv. 71.16.1. 12 Inv. 4508. 13 Inv. 5122. 14 Inv. 2462. 15 Inv. 2111. 16 Inv. 948. 17 Inv. 2461. 18 Inv. 2430. 19 Inv. 2264. 20 Inv. 835. 21 Inv. 5028. 22 Istanbul, inv. 930. 23 Louvre, inv. MA 1010. 24 Inv. 5278. 25 Istanbul, inv. 5639. 26 Istanbul, inv. 4938. 27 Tra cui Istanbul, inv. 6021. 28 Inv. 5422 e 5423. 29 Inv. 5769. 30 Inv. 2394, 2395, 2396. 31 Inv. 4517. 32 Inv. 1232 e 1233. 33 Inv. 305. 34 Inv. 5667. 35 Inv. 823. 36 Inv. 3153. 37 Inv. 325. 38 Inv. 6227. 39 Museo arch., inv. 2995, 5560. 40 Inv. 948. 41 Inv. 1966.66.25. 42 Inv. 3170. 43 Inv. IN 1012. 44 Inv. 1. 45 Inv. 865. 46 Inv. RF 1525. 47 Inv. 476. 48 Inv. OA 9064, 9525. 49 Inv. 6228. 50 Inv. 93.79. 51 Inv. 2404. 52 Inv. 2253, 72.37. 53 Inv. 599. 54 A Arhikapı, inv. 2366. 55 Inv. 6229. 56 Inv. 901, 902. 57 Inv. 350. 58 Inv. 253, 429, 476. 59 Inv. 430. 60 Inv. 91.19. 61 Corpus, n. 473. 2
Della gigantesca bibliografia consultata, si riportano soltanto le opere pubblicate a partire dal 1992: F. CONCA, M. MAZZI, G. ZANETTO (a cura di), Antologia Palatina, I, Torino 2005; R. LABRUSSE, Critique,
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G. Ostrogorsky, Histoire de l’Etat byzantin, Paris 1997, p. 53ss. Trad. it. Storia dell’impero bizantino, Torino 1968. 2 Lo Pseudo-Codino descrive quattro di queste vie principali. Cfr. Th. Preger, Studien sur Topographie Konstantinopels, BZ, XIV, 1905, I, p. 148; cfr. anche Fr. Dölger, Byzanz und die europäische Staatenwelt, Brünn 1944, p. 82-94. 3 Ch. Hopf, Chroniques greco-romaines inédites ou peu communes, Berlin 1873. 4 Su queste festività cfr.: Th. Preger, Das Gründungsdatum von Konstantinopel, in Analecta Graecensia, Graz 1893, p. 151; A. Frolow, La dédicace de Constantinople dans la tradition byzantine, in «Revue de l’histoire des religions», 127 (1944), p. 64-127. 5 F. Dölger, Rom in der Gedankenwelt der Byzantiner, in Zeitschrift für Kunstgeschichte, 56, 1937, p. 13; Preger, Costantinopoli, p. 17. 6 Niceforo Calliste, Historia ecclesiastica, VIII, 32; PG, 146, col. 121. 7 R. Janin, Constantinople Byzantine, Développement urbain et répertoire topographique, Paris 1964, p. 80. 8 Eusebio, De Vita Constantini, PG, 20, passim. 9 Ibid., col. 28, 40. 10 Solo pochi frammenti di sarcofagi sono esposti al Museo archeologico di Istanbul: A.A. Vasiliev, Imperial Porphyry sarcophagi in Constantinople, DOP, 4 (1948), p. 1-26. 11 Ch. Delvoye, L’art byzantin, Paris 1967, p. 116. 12 Ibid., p. 102. 13 G. Ostrogorsky, Histoire, p. 74; H. Kruse, Studien zur offiziellen Gestaltung des Kaiserbildes im römischen Reiche, Paderborn 1934, p. 31. 14 G. Ostrogorsky, Histoire, p. 75-76. 15 Ibid, p. 85. 16 D. Obolensky, The Byzantine Commonwelth, Eastern Europe, 500-1453, London 1971, p. 49. Trad. it. Il Commonwealth bizantino, Bari 1974. 17 Il sesto giorno della settimana, su un altare posto a destra di questa icona coperta da un velo, si celebrava una funzione nella chiesa delle Blacherne. Al momento stabilito, i presenti lasciavano la chiesa e il velo si sollevava. Poi rientravano per la recita di alcune preghiere e si prosternavano. (H. Belting, Image et culte, Paris 1998, p. 686). 18 Ibid., p. 249, 250. 19 G. Ostrogorsky, Histoire, p. 347-348. 20 Constantino Porfirogenito, Vita Basilii Maced., p. 197-199, PG, 110, col. 1037.
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Eustazio di Salonicco, Oratio ad Manuelem, ed. W. Regel, in Fontes rerum byz., p. 40. 22 Niceta Coniate, Des Andronico Comneno, II, p. 432-434; Teodoro Prodromo, Epitaffio di Giovanni Comneno, PG, 133, col. 1393. 23 A. Grabar, L’Empereur dans l’art byzantin, London 19712, p. 5. 24 O. Treitinger, Die oströmische Kaisers- und Reichsidee, vom oströmischen Staats- und Reichsgedanken, Darmstadt 1956, p. 210. 25 Ibid., pp. 6, 9, 10. 26 J. Verpeau, Pseudo Codinos, Traité des offices, introd., testo e trad., P. Lemerle, Paris 1966. 27 Sulla funzione imperiale a Bizanzio cfr.: O. Treitinger, Reichsidee, pp. 199-201. 28 F.W. Unger, Quellen der byzantinischen Kunstgeschichte, indice, ai nomi degli imperatori e delle imperatrici; J.B. Richter, Quellen der byzantinischen Kunstgeschichte, indice, s.v. Bildsäulen. 29 A. Grabar, L’Empereur, p. 16, n. 2. 30 R. Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, I, Milano 1970, fig. 339. 31 Ibid., fig. 340. 32 A. Grabar, Le premier art chrétien(200-395), Paris 1966, tav. 211; Idem, L’Empereur, tav. I. 33 Idem, Le premier art chrétien, tav. 210. 34 A. Alföldi, Die Ausgestaltung des monarchischen Zeremoniels am römischen Kaiserhofe, in «Römische Mitteilungen», 49 (1934), pp. 35, 37-38. 35 R. Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica cit., XI, 373. 36 Cfr. Rm 1, 19-20. 37 Pseudo Dionigi, Epistola X, PG, III, col.1117. 38 G. Bruns, Der Obelisk und seine Basis auf dem Hippodrom zu Konstantinopel, Istanbul 1935. 39 Brunn, Fragments de l’itinéraire de Clavijo, Odessa 1880, p. 21. 40 R. Janin, Constantinople, p. 188-193. 41 A. Grabar, L’Empereur, p. 145ss. 42 Beniamino di Tudela, Voyage, L’Aia, 1735. 43 D. Talbot Rice, Art byzantin, Paris-Bruxelles 1959, fig. 5 et n. 38. 44 J. Beckwith, The Art of Constantinople, London 19682, p. 48, fig. 61. 45 Ibid., p. 24, fig. 31-33. 46 R. Delbrueck, Die Consulardiptychen und verwandte Denkmäler, Berlin-Leipzig 1926-1929, I, 19; W.F. Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike und des frühen Mittelalters, Mainz 1952, n° 18. 47 A. Grabar, L’Empereur, tav. V. 48 G. Schlumberger, L’ivoire Barberini, in Monuments Piot, VII, Paris 1900, p. 79-94; Ch. Diehl, Manuel d’art byzantin, Paris 1925, fig. 145; Grabar, L’Empereur, tav. IV. 49 Ibid., p. 42, fig. 53. 50 Ibid., p. 49, fig. 62. 51 Ibid., p. 51, fig. 64. 52 H. Peirce e R. Tyler, L’Art Byzantin, Paris 1932, II, tav. 144; M. Mundell Mango, Silver from Early Byzantium, Baltimore 1986, fig. 35.1-35.9. 53 R. Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica cit., fig. 314, 315 (Antiochia), 224-227 (Sicilia). 54 A. Grabar, L’età d’oro di Giustiniano, Milano 1966, p. 102, fig. 105. 55 J. Ebersolt, Le trésor de Stuma, in RA, 4as., XVII (1911), pp. 410ss.; L. Bréhier, Les trésors d’argenterie syrienne et l’école artistique d’Antioche, in Gazette des Beaux Arts, I (1920), tav. 173; Mundell Mango, Silver, fig. 34.1-34.8. 56 F.W. Deichmann, Frühchristliche Bauten und Mosaiken von Ravenna, Wiesbaden 19582. I mosaici risalgono a prima del 547 o 548, data della consacrazione della chiesa a opera del vescovo Massimiano. Vedere G. Bovini Eglises de Ravenne, Novara 1960, p. 115; T. Velmans, L’arte monumentale bizantina, Milano 20062, tav. 3. 57 G. Bovini, Ravenne, p. 134. 58 T. Velmans, La peinture monumentale byzantine à la fin du Moyen Age, Paris 1977, cap. I, tavv. 5, 6.
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K. Weitzmann, Loca sancta and the Representional Arts of Palestine, in Studies in the Arts at Sinaï, Princeton 1982, fig. 1. 60 Giovanni Crisostomo, Omelie, PG, 57, 58, 59 passim; 151, col. 441, 145. 61 K. Weitzmann, The Monastery of Saint Catherine at Mont Sinai. The Icons, Princeton 1976, tav. B.1; T. Velmans (a cura di), Il viaggio dell’icona. Dalle origini a Bisanzio, Milano 2002, fig. 7. 62 G. Bovini, Ravenne, figg. alle pp. 92-95. 63 Ibid., fig. A p. 24. 64 K. Weitzmann, The monastery, tav. B.3; T. Velmans (a cura di), Il viaggio dell’icona, fig. 20. 65 R. Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, Milano 1970, figg. 260-265. 66 K. Weitzmann, The monastery, tav. B.5; T. Velmans (a cura di), Il viaggio dell’icona, fig. 8. 67 J. Beckwith, The Art, fig. 51. 68 I Libri Carolini furono probabilmente redatti da Teodulfo d’Orléans su richiesta di Carlo Magno (790-794 ca.). Si tratta di una sorta di risposta al dibattito del secondo concilio di Nicea che attribuiva valore sacro alle immagini, precisando che esse sono un mezzo per istruire gli illetterati e decorare le chiese e che non hanno alcun carattere sacro. Cfr. J.C. Schmitt, L’Occident, Nicée II et les images du VIIIe au XIIIe siècle, in F. Boespflug, N. Lossky (a cura di), Nicée II (787-1987), Paris 1987, pp. 271, 273-276, n. 16. 69 Gregorio di Nissa, PG, 44, col. 1256. 70 C. Mango, The Art of Byzantine Empire, 3121453. Sources and documents, Englewood Cliffs 1972, p. 184. 71 J. Beckwith, The Art, fig. 71. 72 D. Talbot Rice, Art byzantin, p. 282, fig. 53. 73 Ibid., p. 283. 74 K.A.C. Creswell, Earl Muslim Architecture, I, Oxford 1932. 75 A. Grabar, L’iconoclasme byzantin, Paris 1957, p. 111ss. 76 Su questi fatti cfr. G. Ostrogorsky, Les débuts de la querelle des images. Études sur l’histoire et sur l’art à Byzance, in Mélanges Ch. Diehl, Paris 1930, p. 235255; Idem, Histoire, p. 180-194. 77 Niceforo, PG, 100, col. 232, 233, 236ss. 78 Teodoro Studita, PG, 99, col. 408ss. 79 A. Grabar, L’iconoclasme, pp. 137-138. 80 G. Ostrogorsky, Histoire, p. 201. 81 F. Boespflug, N. Lossky (a cura di), Nicée II (787-1987) cit. 82 Giovanni Damasceno, Trattato in difesa delle sante icone, I-III; Niceforo, Antirrheticus, I; Teodoro Studita, Antirrheticus, III e Epistole. Su questi testi cfr.: A. Grabar, L’iconoclasme; H-B. Beck, Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, München 1959; H.J. Geischer, Der byzantinische Bilderstreit, Texte zur Kirchen- und Theologiegeschichte, IX, Cuberlach 1968. 83 La leggenda narrava come i lineamenti di Cristo si fossero miracolosamente impressi su un telo che era stato posto sul suo viso e come questa reliquia avesse guarito il re di Edessa, Abgar. Gli iconoduli interpretarono questo racconto a sostegno della loro dottrina sul Mandylion: E. Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende, I, Leipzig 1899, 19312. 84 A. Grabar, L’iconoclasme, pp. 244-245. 85 Pseudo-Dionigi Areopagita, Gerarchia celeste cit., p. 7. 86 Antirrheticus III, 5, in Nicéphore. Discours contre les iconoclastes, trad. e cura di Marie-José Mondzain-Baudinet, Paris 1989, p. 264. 87 Giovani Damasceno, Trattato, II, 14, PG, 94, col. 1300. 88 Teodoro Studita, Epistole, I, 17, PG, 100, col. 261. 89 A. Grabar, L’iconoclasme, p. 246. 90 L. Bréhier, Vie et mort de Byzance, Paris 1969 (1946), p. 87ss. 91 A. Grabar, L’iconoclasme, p. 207-208.
92 Museo storico di Mosca (Add. gr. 129v., 830): V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino 1967, p. 116, fig. 87. 93 A. Grabar, L’iconoclasme, fig. 151. 94 Ch. Delvoye, L’art byzantin, fig. 73. 95 J. Beckwith, The Art, p. 59, fig. 72. 96 Niceta Coniate, De Manuelis Comneni, PG, 139, col. 373ss. 97 A. Grabar, L’Empereur, p. 40, n. 4. 98 Ibid., p. 44, n. 1. 99 Ibid., p. 40, n. 5, 58-59. 100 A. Grabar, L’iconoclasme, p. 208, n. 3 101 A. Frolow, Deux églises byzantines d’après des sermons peu connus de Léon VI le Sage, in REB, III (1946), p. 50ss.; Sirarpie der Nersessian, Le décor des églises du Xe siècle, in Actes du VIe Congrès international des Etudes byzantines, Paris 1948, Paris 1951, p. 315-320. 102 Patriarca Germano, Historia ecclesiastica, PG, 98, col. 384ss. 103 C. Mango, The Art, p. 96-102. 104 Ibid., p. 74ss. 105 Ibid., p. 76. 106 Ibid., p. 79. 107 Ibid., p. 89-91. 108 Sui mosaici dell’abside di Santa Sofia: C. Mango, E.J. Hawkins, The Aps Mosaics of St. Sophia at Istanbul, in DOP, 19 (1965), pp. 113-151, figg. 1-12; riproduzione della Vergine: C. Mango, Hagia Sophia: A vision for Empires, Istanbul 1997, fig. alle pp. 35 e 36; T. Velmans, L’arte monumentale, cit., fig. 35. 109 S. Averincev, L’or dans le système des symboles de la culture protobyzantine, in «Studi Medievali», 20, 1 (1979), p. 55. 110 T. Velmans, La peinture murale, cit., fig. 76. 111 Ch. Delvoye, L’art byzantin, p. 225, fig. 105; C. Mango, E.J. Hawkins, The Aps Mosaics, fig. 41-47; C. Mango, Hagia Sophia. A vision, fig. p. 37, 39. 112 Su questi mosaici: C. Mango, E.J. Hawkins, The Mosaics of St. Sophia at Istanbul. The Church Fathers in the North Tympanum, in DOP, 26 (1972), pp. 1-42, figg. 12-44. Cfr. anche, per Giovanni Crisostomo: A. Grabar, La peinture byzantine, Genève 1953, fig. a p. 96. 113 Pseudo-Dionigi Areopagita, La hiérarchie céleste (Sources chrétiennes 58), Paris 1958; PG, 3, col. 369-584. 114 Questi disegni furono realizzati dai fratelli Fossati, da Cornelius Hoos (1710) e dall’architetto Salzenburg. Cfr. G. Fossati, Aya Sofia, Constantinople, London 1852; ristampa, Die Hagia Sophia, Dortmund 1980. 115 R. Cormack, E.J W. Hawkins, The Mosaics of St. Sophia at Istanbul: the Rooms above the Soutwest Vestibule and Ramp, in DOP, 31 (1977), pp. 175-251, figg. A-D, 27-47, la Déesis fig. 27. 116 L’invenzione dell’alfabeto cirillico si deve a san Cirillo (827/28-869) e a suo fratello san Metodio (825-885ca.). Originari di Tessalonica e certamente greci, hanno evangelizzato una parte delle popolazioni slave fondando la loro Chiesa e la relativa liturgia. Questa opera fu continuata dai loro discepoli. Cfr.: G. Ostrogorsky, Histoire, 257, 258; Idem, Moravska misija i Vizantija, in Vizantija i Sloveni (Sabrana dela IV), Beograd 1970, 59-78; A. Vasiliev, Obrazi na Kiril i Metodij v Bblgaria, Sofia 1970; C. Grozdanov, Portreti na svetilite od Makedonija od IX-XVIII vek, Skopje 1983, fig. 1, 2, 5-10, diss. 1-3. 117 Cfr. A. Grabar, Les ampoules de Terre Sainte, Paris 1958, tavv. XI, XII, XIII, XIV etc. 118 K. Weitzmann, Loca sancta, figg. 19, 20, 21. 119 M.V. Y/epkina, Minijatjuri Hludovskoj psaltiri, Moskva 1977. 120 A. Grabar, L’iconoclasme, pp. 198-199, fig. 158; Y/epkina, Minijatjuri, fig. 72v. 121 A. Cutler, J.-M. Spieser, Byzance médiévale. 7001204 (coll. L’univers des formes), Paris 1996, figg. 137-138. 122 F. Volbach, Les ivoires sculptés, in Cahiers de ci-
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vilisation médiévale, I (1958), p. 23; D. Talbot Rice, Art byzantin, p. 300, fig. 97. 123 A. Cutler, J.-M. Spieser, Byzance médiévale, fig. 97. 124 D. Talbot Rice, Art byzantin, p. 301, figg. 100102. 125 Riproduzione a colori in A. Grabar, La peinture byzantine, p. 166. 126 Riproduzione a colori, Ibid., fig. a p. 168. 127 Ibid., fig. a p. 170. 128 K. Weitzmann, Illustration in Roll and Codex: a Study of the Origin and Method of Text Illustration, Princeton 1997, passim. 129 A. Cutler, J.-M. Spieser, Byzance médiévale, fig. 129, 130. 130 Ibid., fig. 145. 131 D. Talbot Rice, Art byzantin, tav. XV; Catalogo Venezia e Bisanzio, Venezia 1974, fig. 37. 132 J. Spatharakis, The Portrait in Byzantine Illuminated Manuscripts, Leiden 1976, pp. 99ss., fig. 66 133 A. Grabar, La peinture Byzantine, fig. p. 91, 92; Idem, L’iconoclasme, pp. 239-241; E.J. Hawkins, Further Observation on the Narthex Mosaic in Saint Sophia at Istanbul, in DOP 22 (1968), pp. 151-166; H. Kahler, C. Mango, Hagia Sophia, London 1967, fig. p. 90. 134 A. Grabar, L’iconoclasme, p. 240-241. 135 Per il testo di questa omelia, cfr.: Leone VI, imperatore, Canticum compunctionis, PG, 107, col. 309-314. 136 C. Osieckowska, La mosaïque de la porte royale à Sainte-Sophie de Constantinople et la litanie de tous les saints, in Byzantion IX, 1 (1934), pp. 41-83. 137 Z. Gavrilovi0, The Humiliation of Leo VI the Wise: the Mosaic of the Narthex at Saint Sophia, Istanbul, in Studies in Byzantine and Serbian Medieval Art, London 2001, p. 28ss. 138 N. Oikonomides, Leo VI and the Narthex Mosaic of Saint Sophia, in DOP, 30 (1976), pp. 151-172. 139 H. Kahler, C. Mango, Hagia Sophia, fig. 91; T. Velmans, L’arte monumentale cit., cap. III, tav. 35. 140 A. Grabar, La peinture byzantine, fig. p. 98; Th. Whittemore, The Mosaics of Hagia Sophia at Istanbul. The imperial Portraits of the South Gallery, Oxford 1942, pp. 9-20, 42-59, tavv. II-XIX. Bella riproduzione in: C. Mango, Hagia Sophia. A vision, fig. p. 149, 151, 153. 141 Michele Psello, PG, 122, col. 817ss.; J.M. Hussey, Michael Psellus, Cambridge 1935, p. 86; G.T. Dennis, Psellos, Mihaêl. Mich. Pselli Orationes panegyricae, Stuttgart 1994; J. Spatharakis, The Portrait, p. 101, n. 18. 142 A. Grabar, La peinture byzantine, fig. p. 99. 143 Ibid., fig. p. 103; Mango, Hagia Sophia. A vision, fig. p. 143. 144 T. Velmans, La peinture murale cit., cap. III, fig. 82; C. Mango, Hagia Sophia: A vision, fig. p. 156. 145 Costantino Porfirogenito, Le livre des cérémonies, éd. A. Vogt, Paris, I-1, pp. 14-15. 146 O. Treitinger, Reichsidee cit., p. 199. 147 Beniamino di Tudela, Viaggio, L’Aia, 1735; Mango, The Art, pp. 72-78 (Procopio), 80-91 (Silenziario). 148 G. Ostrogorsky, Histoire, p. 259. 149 L. Bréhier, Vie et mort, p. 217. 150 Dionigi l’Areopagita, I nomi divini, PG, 3, col. 701; trad. fr. M. de Gandillac, Paris 1943, p. 100. 151 A proposito di questa decorazione e della relativa datazione: E. Diez, O. Demus, Byzantine Mosaics in Greece. Hosios Lucas and Daphni, Cambridge, Mass. 1931. 152 A proposito di questa decorazione e della relativa datazione: D. Mouriki, The Mosaics of Nea Moni on Chios, I-II, Athenai 1985. 153 Ibid., tavv. 48-57, ma i colori non sono riprodotti fedelmente. Invece, in A. Grabar, La peinture byzantine, fig. alle pp. 112, 113, corrispondono perfettamente a quelli del mosaico. 154 E. Diez, O. Demus, Byzantine Mosaics, tav. V; T. Velmans, L’arte monumentale cit., fig. 85. Sulla chie-
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sa, K.M. Skawran, The Developement of Middle Byzantine FrescoPainting in Greece, Pretoria 1982, N. Chatzidakis-Bacharas, Peintures murales de Hosios Loukas. Les chapelles occidentales, Athenai 1982; D. Mouriki, Monumental Paintings in Greece, 11th12th Centuries, in DOP, 24-25 (1982), pp. 77-124. 155 T. Velmans, La peinture murale cit., tav. 33. 156 E. Diez, O. Demus, Byzantine Mosaics, fig. 4; a colori in: T. Velmans, L’arte monumentale cit., tav. 43. 157 V. Lazarev, Old Russian Murals, London 1966, p. 31ss., 225ss., 243. Trad. it. L’arte dell’antica Russia. Mosaici e affreschi, Milano 2000. 158 T. Velmans, L’arte monumentale cit., tav. 37. 159 Ibid., tavv. 38-41. 160 Ch. Delvoye, L’art byzantin, fig. 121; V. Lazarev, Old Russian Murals, p. 79ss., 244, figg. 63-64. 161 D. Talbot Rice, Art byzantin, fig. 137. 162 Ibid., fig. 138. 163 J. Beckwith, The Art, p. 107ss., fig. 133; A. Cutler, J.-M. Spieser, Byzance médiévale, p. 332, figg. 264-266. 164 J. Déer, Die heilige Krone Ungarns, Wien 1966, passim, figg. 1-18. 165 A. Grabar, L’Empereur, p. 15. 166 H. Omont, Miniatures des plus anciens manuscrits grecs de la Bibliothèque Nationale du VIe au XIVe siècle, Paris 1929, tavv. LXI-LXIV; J. Spatharakis, The Portrait, p. 107ss., 210ss., fig. 71. 167 Verpeau, Pseudo Codinos cit., pp. 202-204. 168 La miniatura del fol. 71 è abbastanza vicina alla descrizione di Codino (T. Velmans, La peinture murale byzantine à la fin du Moyen âge, Paris 1977, fig. 10). 169 J. Verpeau, Pseudo Codinos, pp. 201-202. 170 J. Strzygowski, Das Epithalamion des Palaelogen Andronikos II, in BZ, X (1901), p. 131. 171 A. Heisenberg, Aus der Geschichte und Literatur der palaiologenzeit, in Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, München 1920, p. 116. 172 L. Bréhier, Vie et mort cit., p. 267. 173 Su questi mosaici: O. Demus, The Mosaics of Norman Sicily, London 1949; E. Kitzinger, The Mosaics of Monreale, Palermo 1960. 174 O. Demus, The Mosaics, fig. 58A, 58B. 175 Ibid., 76A, 76B. 176 Su San Marco a Venezia, la sua architettura, i suoi mosaici e le sue sculture cfr. O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, due voll. di testo e due di tavole, Chicago-London 1984. 177 O. Demus, Studies among the Torcello Mosaics, in BurlMag, 82 (1943), pp. 136ss., 84 (1944), pp. 41ss. 178 A.H.S. Megaw, E.J.W. Hawkins, Report on Field Work in Istanbul and Cyprus, in DOP, 18 (1964), pp. 333ss. 179 M. Sacopoulo, Asinou en 1106 et sa contribution à l’iconographie, Bruxelles 1966, p. 66-67. 180 A.J. Stylianou, The Painted churches of Cyprus, London 1985, figg. 277, 278. 181 Ibid., p. 157ss. 182 Sugli affreschi del Monte Athos, di Staraja Lagoda, Arkazi e Neredica, che corrispondono alla versione esasperata dello stile grafico del XII secolo, cfr. V. Lazarev, Old Russian Murals, p. 93ss., 250 (Arkazi), 251 (Neredica), 249 (Staraja Lagoda); L. Hadermann-Misguich, Kurbinovo, I, II, Bruxelles 1975. 183 K. Onasch, Die Ikone der Gottesmutter von Vladimir in der Staatlichen Tretjakov-Galerie zu Moskau, in «Wissenschaftliche Zeitschrift des Martin Luther Universität», Halle-Wittenberg, vol. 5, I, 1955, pp. 56-64; T. Velmans, L’arte monumentale cit., fig. 127. 184 T. Velmans, La peinture murale cit., p. 143, figg. 128-132, tavv. 53-61; I. Sinkevi0, The Church of St. Panteleimon at Nerezi, Wiesbaden 2000. 185 T. Velmans, La peinture murale cit., tavv. 56-58, 60; Sinkevi0, Nerezi, figg. XLV, XLVI, XLVIII.
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C. Tischendorf, Evangelia apocrypha, Leipzig 1853, pp. 162, 283, 292. 187 Il racconto, scritto in Palestina nell’VIII secolo, è noto in una traduzione georgiana pubblicata dalle Izdanija fakultet vosto/nich jazykov, Teksti, raziskanija po armjanogruzinskoj filologiji, II, Sankt Peterburg 1900, capp. 6-7. 188 PG, 114, col. 209-218. Per le antiche fonti cristiane, vedere anche W. Schneemelcher (ed.), New Testament Apocrypha, Cambridge-Louisville (Kentucky) 1991-1992. 189 P. Orsi, Quadretto bizantino a mosaico della Sicilia, in Studi Bizantini, I (1925), figg. alle pp. 220227; O. Wulf, M. Alpatov, Denkmäler der Ikonenmalerei in Kunstgeschichtlicher Folge, Dresden 1925, tav. 59. 190 W. Felcetti-Liebenfels, Geschichte der Byzantinischen Ikonmalerei, Lausanne 1956, p. 63, tav. 71; L. Marcucci, Cataloghi dei musei e gallerie d’Italia. Galleria Nazionale di Firenze, Dipinti toscani, Scuole bizantine, 1958, 25. 191 Per queste descrizioni di chiese scomparse: Ch. Delvoye, L’art byzantin, p. 229; per la riproduzione del particolare della cupola di Santa Sofia di Salonicco: T. Velmans, L’arte monumentale cit., tav. 31. 192 Ch. Delvoye, L’art byzantin, p. 229. 193 E. Coche de la Ferté, G. Ostuni, L’art de Byzance, Paris 1981, p. 478, figg. 681, 682. 194 G. de Villehardouin, La conquête de Constantinople, II, Paris 1939, p. 52. 195 H. Hunger, Die Byzantinische Geisteswelt: von Constantin dem Grossen bis zum Fall Constantinopels, Baden-Baden 1958, pp. 198-200. 196 L. Bréhier, B. Tatakis, Histoire de la philosophie, Paris 1949, pp. 228-314. 197 Gregorii Cyprii, Sermo res suas continens, PG, 142, col. 22. 198 I. Yev/enko, Theodore Metochites, Chora et les courants intellectuels de l’époque, in Art et société à Byzance sous les Paléologues (Colloque international de Venise, 1968), Venezia 1971, p. 13-40 (nuova ed. Theodore Metochites, the Chora, and the Intellectual Trends of His Time, in The Kariye Djami, IV, p. 1791). 199 Sulle idee espresse dagli scrittori del tempo, cfr: H.-G. Beck, Besonderheiten der Literatur in der Palaiologenzeit, in Art et société à Byzance, p. 43ss. 200 Riprende Mesarite lo studio di A. Heisenberg, Grabeskirche und Apostelkirche, zwei Basiliken Konstantins, Leipzig 1908, pp. 9-96. 201 Idem, Dissertatio de vita scriptoris Georgii Acropolitae, in Opera Georgii Acropolitae, Leipzig 1903; Idem, Studien zu Georgios Akropolites, in Sitzungsberichte der philos. philol. und histor. Klasse der K. bayer. Akademie der Wissenschaften, 1899, II, pp. 463-558. 202 Theodori Lascaris, De naturali communione, V, 2, PG, 140, col. 1345; J. Dräseke, Theodoros Laskaris, in BZ, III (1894), pp. 498-515. 203 S. Radoj/i0, Mileyeva, Beograd 1967, in particolare tavv. VIII, IX, XX, XXIII; T. Velmans, L’arte monumentale cit., tavv. 76-78. 204 La cosa riguarda quasi tutte le grandi chiese del XIII secolo in Serbia. Su queste pitture cfr. T. Velmans, La peinture murale cit., cap. V; V.J. Djuri0, Vizantijske freske u Jugoslaviji, Beograd 1975, pp. 31, 55. 205 Su questa decorazione, cfr. D. Talbot-Rice, Byzantine Painting. The last phase, London 1968. 206 Riproduzioni in V.J. Djuri0, Sopo0ani, Beograd 1963, tavv. III-VII, IX, XV, XXXVII-XXXIX; Velmans, L’arte monumentale cit., tavv. 81, 83. 207 Riproduzione in H. Kahler, C. Mango, Hagia Sophia cit., fig. 93; C. Mango, Hagia Sophia: A vision cit., fig. pp. 132-139. 208 R. Naumann-H. Belting, Die Euphemia-Kirche am Hippodrom zu Istanbul, Berlin 1966. 209 Cfr. nota 204. 210 M. Chatzidakis, Mistra, Athenai 1981, p. 53ss. 211 A. Xyngopoulos, Thessalonique et la peinture
macédonienne, Thessaloniki 1955, pp. 213-219; V.J. Djuri0, Solunsko poreklo resavskog zivopisa, in ZRVI, 6 (1960), pp. 116-117. 212 H. Belting, C. Mango, D. Mouriki, The Mosaics and Frescos of St-Mary Pammakaristos (Fethiye Camii) at Istanbul, Washington 1978, pp. 5, 15. 213 Ibid., p. 21. 214 Ibid., tavv. I-IV, XV fig. 28. 215 Menologio (2 febbraio). 216 H. Belting, C. Mango, D. Mouriki, The Mosaics, tav. 119. 217 Ibid., tav. 120. 218 I. Yev/enko, Theodore Metochites, The Chora, in The Kariye Djami, vol. IV, pp. 49-51, 54-55. 219 H.G. Beck, Theodoros Metochites, die Krise des byzantinischen Weltbildes im 14. Jahrhundert, München 1952, p. 51ss. 220 Di queste principesse e delle loro attività si parla in I. Yev/enko, Theodore Metochite, The Chora, in The Kariye Djami, IV, pp. 22, 23, nn. 21 et 25. 221 Ibid., p. 54, n. 148. 222 Cfr. nota 218. 223 P. Underwood, The Kariye Djami, I, II, III New York 1966, cfr. II, tav. 3. 224 V.R. Petkovi0-Dj. Boykovi0, Manastir De/ani, III, Belgrado 1941. 225 P. Underwood, The Kariye Djami, II, tav. 6; I, p. 93. 226 Ibid., I, pp. 46-47. 227 Ibid., II, tav. 187. 228 Ibid., II, p. 91, tav. 84. 229 Ibid., II, p. 94, tav. 85. 230 Ibid., II, p. 119, tav. 91. 231 Ibid., II, pp. 66, 67, ss, tav. 78 (cupola nord), tav. 46, p. 42 (cupola sud). 232 V. Milanovi0, The Tree of Jesse in the Byzantine Mural Painting of the Thirteenth and Fourteenth Centuries, in «Zograf» 20, pp. 48-60 (con bibliografia). 233 P. Underwood, The Kariye Djami, III, pp. 409411, tavv. 211-223. 234 Ibid., III, pp. 426-436., tavv. 224-227. 235 Giovanni Damasceno, Idiomèles pour le service funéraire, PG, 96, col. 1368. 236 PG 105, col. 1021. 237 P. Underwood, The Kariye Djami, III, pp. 437ss., tavv. 228-229. 238 PG, 96, col. 713. 239 R.P.F. Mercenier, La prière des églises de rite byzantin, t. I-II, Chevetogne 19532, pp. 81-91. 240 P. Underwood, The Kariye Djami, III, l’Arca dell’Alleanza: p. 454, tav. 231; Aronne e i suoi figli davanti all’altare: pp. 466ss., tavv. 236-238. 241 Ibid., III, p. 464, tav. 235. 242 Sirarpie Der Nersessian, Programme and Iconography of the Frescoes of the Parecclesion, in The Kariye Djami, IV, pp. 303-349. 243 P. Underwood, The Kariye Djami, III, pp. 486487, tav. 249. 244 Ibid., tavv. pp. 533-549. 245 Ibid., tav. p. 549. 246 M.R. James, The Apocryphal New Testament, Oxford 1924, p. 117ss. 247 P. Underwood, The Kariye Djami, III, pp. 341351, tav. 201. 248 Ibid., pp. 368-410, tavv. 204-210. 249 Ibid., p. 393, tav. 206. 250 A volte il movimento si ripete due volte nella stessa immagine. (Ibid., vol. II, pp. 143-145, tav. 97). 251 Le due figure, piuttosto realistiche, ornano il pennacchio di nord-ovest della volta centrale del nartece esterno (Ibid., vol. II, p. 230, fig. 117). 252 Confrontare la Trasfigurazione dei due monumenti: A. Xyngopoulos, ‘Η ψηϕιδωτηδιακοσ ησις του̃ ναου̃ των ‘Αγιων ‘Αποστολων θεσσαλονικης Thessaloniki 1953. 253 S. Pélékanidis, Kalie¢rgh", Athenai 1973. 254 M. Chadzidakis, Mistra cit., pp. 59-67. 255 K. Weitzmann (et al.), Frühe Iconen, WienMünchen 1967, testo di M. Chatzidakis, tav. 69.
256 Sulle scene simili a Curtea de Argex e a Kariye Camii: C.-L. Dumitrescu, Anciennes et nouvelles hypothèses sur les monuments roumains du XIVe siècle: L’église Saint-Nicolae-Domnesc de Curtea de Argex, in RevRoumHistArt, 16 (1979), Bucarest, pp. 163; D. Simi0-Lazar, Observations sur le rapport entre les décors de Kaleni0, de Kariye Cami et de Curtea de Argex, in CahArch, 34 (1986), pp. 143-160 (151154). 257 Su questi affreschi cfr. A. Vasiliev, Ivanovskite stenopisi, Sofia 1953; T. Velmans, Les fresques d’Ivanovo et la peinture byzantine à la fin du Moyen Age, in Journal des savants, (1965), pp. 343-358. Osservazioni pertinenti sulle somiglianze stilistiche con Kariye Camii e anche sulle loro esagerazioni da parte di alcuni autori in L. Mavrodinova, Stenata zivopis v Bblgaria do kbraja na XIV vek, Sofia 1995, pp. 100ss. 258 T. Velmans, Infiltrations occidentales dans la peinture murale byzantine au XIVe et au début du XVe siècle, in L’Ecole de la Morava et son temps (Symposium, 1968), Beograd 1972, pp. 37-48. 259 D. Simi0-Lazar, Kaleni0 et la dernière période de la peinture byzantine, Skopje-Paris 1995, passim. 260 G.J. Vzdornov, Freski Feofana Greka v cerkvi Spasa Preobrazenija, Moskva 1976, fig. 151. 261 Ibid., fig. pp. 31-33. 262 T. Velmans, L’arte monumentale cit., tav. 105. 263 G.J. Vzdornov, Freski, fig. a p. 233. 264 Ibid., fig. a p. 143. 265 T. Velmans, La peinture murale cit., tav. 108. 266 G.I. Vzdornov (et al.), La sainte Russie, Milano 1994, cap. VI, tav. 16. 267 T. Velmans, L’arte della Georgia, Milano 1966, pp. 155ss. 268 Coche de la Ferté, Ostuni, L’art de Byzance cit., figg. alle pp. 479, 480, 487. Su queste chiese e la relativa bibliografia cfr.: T. Velmans, La peinture murale cit., pp. 213-215. 269 K. Weitzmann (a cura di), Les icônes, Paris 1982, fig. a p. 73. 270 AA.VV., Frühe Ikonen, Sinaï, Griechenland, Bulgarien, Jugoslavien, Wien, testo di M. Chatzidakis, fig. a p. 67. 271 K. Weitzmann, Les icônes, fig. a p. 76 272 G. Millet, Recherches sur l’iconographie de l’Evangile, Paris 1916, p. 487. 273 D. Talbot Rice, Art byzantin, fig. 189, tavv. XXXVI-XXXVII; Weitzmann, Les icônes, figg. alle pp. 74-75. 274 D. Talbot Rice, Art byzantin, tav. XXXVIII. 275 Frühe Ikonen, fig. 77; D. Talbot Rice, Art byzantin, fig. 189. 276 W.O. Schmidt, Lateinische Literatur in Byzanz. Die Übersetzungen des Maximus Planudes und die moderne Forschung, in JÖBG, 17 (1968), pp. 127-148. 277 H.W. Haussig, Kulturgeschichte von Byzanz, Stuttgart 1959, pp. 434-436. 278 Su Giorgio Gemisto Pletone: J.W. Taylor, Georgius Gemistus Pletho’s criticisme of Plato und Aristotle, Manasha, Wisconsin 1921. 279 A. Chastel, Marcile Ficin et l’art, Genève 1954; Idem, Le platonisme arts de la Renaissance, in Actes du Congrès de Tours et Poitiers, Paris 1954. 280 Su questa dottrina: Jean Mayendorff, Introduction à l’étude de Grégoire Palamas, Paris 1959. 281 Idem, Saint Grégoire Palamas, Paris 1959. 282 T. Velmans, Le rôle de l’hésychasme dans la peinture murale byzantine du XIV siècle, in Mélanges en honneur de Christopher Walter, Londres 2006. 283 D. Talbot Rice, Art byzantin, tav. XXXIX. 284 Ibid., fig. 188. 285 Ibid., tav. XXXIV. 286 Ibid., tav. XL. 287 Ibid., fig. 191.
ARCHITETTURA E SCULTURA FINO AL 1453 1 F. de’ Maffei, Gli strumenti musicali a Bisanzio, in Da Bisanzio a San Marco. Musica e liturgia, a cura di G. Cattin, Bologna 1997, pp. 61-87. Per l’illustra-
zione della vita di Teofilo: V. Tsamakda, The illustrated Chronicle of Ioannes Skylitzes in Madrid, Leiden 2002, pp. 83-105, figg. 93-51, ff. 42v-62r. 2 Trad. ingl. in C. Mango, The Art of the Byzantine Empire 312-1453, Toronto-Buffalo-London 1986 (19721), pp. 160-165; C. Barsanti, Le chiese del Grande Palazzo di Costantinopoli, in Medioevo: la Chiesa e il Palazzo (Atti del convegno internazionale di studi, Parma, 20-24 settembre 2005, a cura di A. C. Quintavalle), Parma-Milano 2007, pp. 87-100. 3 A. Markopoulos, The rehabilitation of Emperor Theophilos, in Byzantium in the Ninth Century: dead or alive? (Papers from the Thirtieth Spring Symposium of Byzantine Studies, Birmingham, March 1996, a cura di L. Brubaker), Aldershot 1998, pp. 37-49. 4 P. Magdalino, Constantinople médiévale. Études sur l’évolution de structures urbaines, Paris 1996, e R. Ousterhout, The Architecture of Iconoclasm, in L. Brubaker, J. Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era (ca. 680-850): the sources, Aldershot 2001, pp. 3-31. In generale, E. Concina, La città bizantina, Roma-Bari 2003, in particolare pp. 27-46. P. Magdalino, Constantine V and the Middle Ages of Constantinople, in Idem, Studies on the History and Topography of Byzantine Constantinople, Aldershot-Burlington VT, 2007, IV, pp. 1-24. 5 U. Peschlow, Die Irenenkirche in Istanbul, Tübingen 1977; ora, per tutti i monumenti, J. Freely, A.S. Çakmak, Byzantine monuments of Istanbul, Cambridge 2004, non sempre aggiornato. 6 B. Meyer-Plath, A.M. Schneider, Die Landmauer von Konstantinopel, Berlin 1943 (rist. 1978), pp. 123-150. 7 C. Mango, The Byzantine Inscriptions of Constantinople: A Bibliographical Survey, in AJA, 55, 1 (1951), pp. 52-66, in part. pp. 54-57; Idem, Architettura bizantina, Milano 1974. 8 A.R. Littlewood, Gardens in the Palaces, in Byzantine Court Culture from 829 to 1204, a cura di H. Maguire, Washington 1997, pp. 13-38; oggi anche gli studi raccolti in Byzantine Garden Culture, a cura di A. Littlewood, H. Maguire, J. WolschkeBulmahn, Washington 2002. 9 Cfr. L. Zangheri, B. Lorenzi, N.M. Rahmati, Il giardino islamico, s.l. 2006. 10 A. Ricci, The road from Baghdad to Byzantium and the case of the Bryas palace in Istanbul, in Byzantium in the ninth Century cit., pp. 131-149; Ead., Palazzo o monastero, Islam o Occidente: il complesso mediobizantino a Kücükyalı (Istanbul), in III Convegno nazionale di Archeologia medievale, a cura di R. Fiorillo, Firenze 2003, pp. 515-519. 11 J.P. Thomas, Private religious foundations in the Byzantine Empire, Washington 1987. 12 Quinto libro del Teofane Continuato, poi ripreso da molti altri storici: trad. inglese in C. Mango, The Art of the Byzantine Empire cit., pp. 192-199; trad. it., ma da Skylitzes, in Bisanzio nella sua letteratura, a cura di U. Albini, E.V. Maltese, s.l. 1984, pp. 307-311. 13 R. Ousterhout, Recostructing ninth-century Constantinople, in Byzantium in the ninth Century cit., pp. 115-129. 14 Parafrasando l’iscrizione apposta sull’arco absidale della Santa Sofia, parzialmente conservata, tramandata per intero in Antologia Palatina, I, lib. I-VII, a cura di F. Conca, M. Marzi, G. Zanetto, Milano 2005, I, 1, pp. 80-81. 15 Vedi il poema di Costantino Rodio: parziale trad. ingl. in C. Mango, The Art of the Byzantine Empire cit., pp. 199-201. 16 A. Paliouras, The Byzantine monuments and the Oecumenical Patriarchate, Athens 1990, pp. 90-93. 17 Di recente, A. Guiglia Guidobaldi, C. Barsanti, Santa Sofia di Costantinopoli, Città del Vaticano 2004, e M. L. Fobelli, Un tempio per Giustiniano, Roma 2005. 18 R.J. Mainstone, Hagia Sophia, s.l. 1988, pp. 89101. 19 P. Magdalino, Observations on the Nea Ekklesia
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of Basil I, in JÖBG, 37 (1987), pp. 51-64, rist. In Id., Studies cit., V, pp. 51-64. 20 Th.F. Mathews, E.J.W. Hawkins, Notes on the Atik Mustafa Paxa Cami in Istanbul and its frescoes, DOP, 39 (1985), pp. 125-134. Per le trasformazioni islamiche: S. Kirimtayif, Converted Byzantine Churches in Istanbul. Their Transformation into Mosques and Masjids, Istanbul 2001. 21 T. Macridy, A.H. Megaw, C. Mango, E.J.W. Hawkins, The monastery of Lips (Fenari Isa Cami) at Istanbul, DOP, 18 (1964), pp. 249-315. 22 C.L. Striker, The Myrelaion (Bodrum Cami) in Istanbul, Princeton 1981. 23 D. Halbout du Tanney, Istanbul vu par Matrakçi, Istanbul 1993, p. 56. 24 W. Müller-Wiener, Bildlexikon zur Topographie Istanbuls, Tübingen 1977, p. 81. 25 R. González de Clavijo, Viaggio a Samarcanda 1403-1406, a cura di P. Boccardi Storoni, Roma 2002 (19961), pp. 56-59. 26 K. Dark, The Byzantine church and monastery of St. Mary Peribleptos in Istanbul, in BurlMag, CXVI (1999), pp. 656-664, e A. Guiglia Guidobaldi, La perduta decorazione del monastero della Theotòkos Peribleptos a Costantinopoli e un ritratto di Papa Clemente nel cod. Vat. Lat. 5407 della B.A.V., in Studi in memoria di P. Angiolini Martinelli, a cura di S. Pasi, Bologna 2005, pp. 169-189. 27 R. Ousterhout, Master Builders of Byzantium, Princeton 1999, pp. 174-179. 28 R. Demangel, E. Mamboury, Le quartier des Manganes et la première région de Constantinople, Paris 1939. 29 H. Maguire, Gardens and Parks in Constantinople, DOP, 54 (2000), pp. 251-264. 30 R. Demangel, Contribution à la topographie de l’Hebdomon, Paris 1945. 31 Trad. it. in Bisanzio nella sua letteratura cit., pp. 512-514. 32 W. Müller-Wiener, Bildlexikon cit., pp. 120-122. 33 Ibidem, pp. 209-215; Z. Ahunbay, Restoration of the Zeyrek Cami in Istanbul, in Proceedings of the 21th International Congress of Byzantine Studies, III, London 2006, pp. 388-389, e R. Ousterhout, The construction history of the Pantokrator Monastery in Constantinople, ibidem, pp. 249-250. 34 H. Schäfer, Die Gül Cami in Istanbul, Tübingen 1973. 35 Kalenderhane in Istanbul, a cura di C.L. Striker, Y.D. Kuban, Mainz 1997. 36 W. Müller-Wiener, Bildlexikon cit., pp. 144-146. 37 A.M. Talbot, The Restoration of Constantinople under Michael VIII, DOP, 47 (1993), pp. 243-261. 38 T. Macridy, A.H. Megaw, C. Mango, E.J.W. Hawkins, The monastery of Lips cit. 39 In generale, per tutti i monumenti menzionati, vedi S. Eyice, Son Devir Bizans Mimarisi, Istanbul 1963; E. Zanini, Materiali e tecniche costruttive nell’architettura paleologa a Costantinopoli: un approccio archeologico, in L’arte di Bisanzio e l’Italia al tempo dei Paleologi 1261-1453, a cura di A. Iacobini, M. della Valle, Roma 1999, pp. 301-320; D. Kidonopoulos, The Urban Physiognomy of Constantinople from the Latin Conquest through the Palaiologan Era, in Byzantium: Faith and Power (1261-1557), a cura di S. T. Brooks, New York 2006, pp. 98-117. 40 H. Belting, C. Mango, D. Mouriki, The mosaics and frescoes of St. Mary Pammakaristos (Fethiye Cami) at Istanbul, Washington 1978. 41 R. Ousterhout, The Architecture of the Kariye Cami in Istanbul, Washington 1987. 42 W. Müller-Wiener, Bildlexikon cit., pp. 204-205. 43 M. della Valle, Costantinopoli e Tessalonica al tempo di Anna Paleologina, in L’arte di Bisanzio e l’Italia cit., pp. 125-142. LA CAPITALE DELL’IMPERO OTTOMANO ISTANBUL TRA XV E XVIII SECOLO 1
H. Inalcık, The Ottoman Empire. The Classical
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Age 1300-1600, Praeger, New York 1973, pp. 23-34, 59-103. 2 A proposito del mecenatismo culturale promosso da Mehmed II, si vedano: J. Raby, A Sultan of Paradox: Mehmed the Conqueror as a Patron of the Arts, in OAJ, 5/1 (1982), pp. 3-8 e G. Necipoélu, Architecture, Ceremonial and Power: the Topkapı Palace in the Fifteenth and Sixteenth Centuries, Cambridge (Mass.), New York 1991. 3 La sezione dedicata al Palazzo di Topkapı è per lo più basata su G. Necipoélu, Architecture, Ceremonial and Power cit. 4 G. Necipoélu, Framing the Gaze in Ottoman, Safavid, and Mughal Palaces, in AO, 23 (1993), pp. 303-342. 5 S. Yerasimos, La fondation de Constantinople et de Sainte-Sophie dans les traditions turques: légendes d’empire, Istanbul & Paris 1990, pp. 153-154; Ç. Kafescioélu, Constantinopolis/Istanbul: Constructing the Space and Image of the Ottoman Imperial Capital, Philadelphia 2008. 6 Secondo il Patriarca Gennadios, poco dopo la conquista la chiesa fu sede del Patriarcato Greco, e fu abbandonata quando il patriarca, non sentendosi sicuro in una regione tanto isolata, chiese di essere trasferito presso il monastero della Pammakaristos; Marios Philippides (a cura di), Emperors Patriarchs and Sultans of Constantinople, Brooklyn 1990, p. 57. 7 M. Restle, Bauplannung und Baugesinnung unter Mehmed II Fatih, in «Pantheon» 39 (1981), pp. 361-367. 8 Ç. Kafescioélu, Constantinopolis/Istanbul cit.; I. Manners, Constructing the Image of a City: the Representation of Constantinople in Christopher Buondelmonti Liber Insularum Archipelagi, in «Annals of the American Association of Geography», 87 (1997), pp. 72-102. 9 Iniziata con le campagne nel Peloponneso nel 1458, e terminata con la conquista della colonia genovese di Caffa nel 1475, l’espansione territoriale ottomana procedette parallelamente a una massiccia deportazione in Costantinopoli di intere comunità espulse dai territori di recente acquisizione. Gli sconfinamenti nella capitale si protrassero durante il regno di Selim I (512-1520); in merito alle deportazioni e alla densità di popolazione si veda H. Inalcık, Istanbul, in S. Yerasimos (a cura di) Encyclopedia of Islam, 1999, vol. V, pp. 222-223, 238-44. «Osmanlı Istanbul’unun Kuruluxu», Osmanlı Mimarlıéının Yedi Yüzyılı, Uluslararası bir Miras, Istanbul 1999; S. Yerasimos, La communauté grecque-orthodoxe de Constantinople aux lendemains de la conquête ottomane, in «Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée», 107-110 (2005), pp. 375399, http://remmm.revues.org/document2822.html. 10 Stanford Shaw, The Population of Istanbul in the Nineteenth Century, in «International Journal of Middle East Studies», 10 (1979), p. 266. 11 B. Braude, Foundation Myths of the Millet System, in B. Braude, B. Lewis (a cura di) Christians and Jews in the Ottoman Empire, 2 voll., LondonNew York 1982, vol. I, pp. 69-88; M. Epstein, The Leadership of the Ottoman Jews in the Fifteenth and Sixteenth Centuries, in Ivi, pp. 89-100; K. Bardakjian, The Rise of the Armenian Patriarchate of Constantinople, ivi, pp. 101-115. 12 Una panoramica delle mutevoli tendenze politiche in relazione alle concessioni gratuite di terreni agli abitanti è fornita da H. Inalcık, The Policy of Mehmed II toward the Greek Population of Istanbul and the Byzantine Buildings of the City, DOP, XXIIIXXIV (1969-70), pp. 231-249. 13 S. Yerasimos, La communauté grecque-orthodoxe de Constantinople cit. 14 Ç. Kafescioélu, Constantinopolis/Istanbul cit. 15 B. Ramberti, The Second Book of the Affairs of the Turks, in A.H. Lybyer, The Government of the Ottoman Empire in the Time of Suleiman the Magnificent, Cambridge 1913, p. 239.
16 S. Yerasimos, Houses of Istanbul in the Sixteenth Century, in S. Faroqhi e Ch. Neumann (a cura di) The Illuminated Table, the Prosperous House: Food and Shelter in Ottoman Material Culture, Würzburg 2003, pp. 326-327. 17 Per una discussione delle fonti relative alle strutture residenziali bizantine e ottomane del XV secolo si veda Ç. Kafescioélu, Constantinopolis/ Istanbul cit. 18 C. Mango, G. Dagron, Constantinople and its Hinterland, Variorum, Hampshire 1995; R. Mantran, Istanbul dans la seconde moitié du XVIIe siècle, Paris 1962, pp. 22-23. 19 Per osservazioni in merito a similitudini e continuità tra i modelli residenziali bizantini e ottomani, si veda A. Bryer, The Structure of the Late Byzantine Town: «Dioskimos» and the «Mesoi», in A. Bryer, H. Lowry (a cura di), Continuity and Change in Late Byzantine and Early Ottoman Society, BirminghamWashington 1986, pp. 263-279. 20 Ibn Batuta, Travels in Asia and Africa, H.A.R. Gibb, London 1929, p. 160; M. Letts, The Pilgrimage of Arnold von Harff, Cambridge 1946, p. 244. Documenti di finanziamento datati a partire dagli ultimi decenni del XV secolo descrivono questa stessa struttura spaziale. 21 Marlia Mundell-Mango sottolinea come alcuni aspetti tipici della città bizantina restino gli stessi nella città ottomana, come per esempio la posizione dei mercati di lusso nei pressi del palazzo; M. Mundell-Mango, The Commercial Map of Constantinople, DOP, 54 (2000), pp. 206-207. 22 Le frequenti annotazioni al margine delle ordinanze imperiali redatte nel libro delle leggi di Mehmed II specificano gli ingressi cittadini e i porti d’entrata dei beni specifici e gli spazi cittadini dedicati al loro smercio; R. Anhegger, H. Inalcık (a cura di), K, anunname-i Sult-ani ber muceb-i ‘Örf-i ‘Oŝmani, Ankara 1956, pp. 41-50, 57-60, 82-85. 23 In merito ai cambi di orientamento politico e religioso nel mondo ottomano durante il periodo successivo al regno di Mehmed II si vedano I. Beldiceanu-Steiner, Le règne de Selim 1er: Tournant dans la vie politique et religieuse de l’empire ottoman, in «Turcica», 6 (1975), pp. 34-48; I. Melikoff, Le problème Kızılbax, in «Turcica», 6 (1975), pp. 49-67; N. Clayer, Mystiques, états, et société: les Halvetis dans l’aire balkanique de la fin du XVe siècle à nos jours, Leiden 1994. 24 A proposito di questo edificio, si veda W. Müller-Wiener, Bildlexikon zur Topographie Istanbuls: Byzantion, Konstantinopolis, Istanbul bis zum Beginn des 17. Jahrhundert, Tübingen 1977, pp. 177183, 414. 25 Per uno studio del complesso imperiale situato lungo la Divan Yolu nel contesto delle cerimonie funerarie che prevedevano la visita delle tombe del sultano, si veda G. Necipoélu, Dynastic Imprints on the Cityscape: the Collective Message of Imperial Funerary Complexes in Istanbul, in J.-L. BacquéGrammont e A. Tibet (a cura di), Cimetières et Traditions funeraires dans le Monde islamique, Ankara 1996. Per lo sviluppo architettonico della Divan Yolu nel corso dei secoli successivi, si veda M. Cerasi, The Urban and Architectural Evolution of the Istanbul Divanyolu: Urban Aesthetics and Ideology in Ottoman Town Planning, in «Muqarnas», 22 (2005), pp. 189-232. 26 A. Ceen, The Quartiere di ’Banchi: Urban Planning in Rome in the Fist Half of the Cinquecento, New York 1977, pp. 104-171; N. Alsayyad, Bayn alQasrayn: The Street between the Two Palaces, in Z. Çelik, D. Favro, R. Ingersoll (a cura di), Streets: Critical Perspectives on Urban Space, Berkeley 1994, pp. 71-82. 27 Robert Ousterhout ha fatto presente che Stephan Gerlach ha visto i mosaici della Chora nel 1578: R. Ousterhout, The Architecture of the Kariye Camii in Istanbul, Washington 1987, p. 6. Per i mosaici di Santa Sofia si veda G. Necipoélu,The life of
an imperial monument: Hagia Sophia after Byzantium, in R. Mark, A.S. Çakmak (a cura di), Hagia Sophia from the age of Justinian to the Present, Cambridge - New York 1992. 28 H.G. Yurdaydın (a cura di), Nasuhü’s-Silahi, Beyan-ı Menazil-i Sefer-i ‘Irak,eyn-i Vult-an Süleyman G, an, Türk Tarih Kurumu, Ankara 1976. 29 G. Necipoélu, Suburban Landscape of SixteenthCentury Istanbul as a Mirror of Classical Ottoman Garden Culture, in M. Sevcenko (a cura di), Theory and Design on Gardens in the Time of the Great Muslim Empires, Leiden 1996, pp. 32-71. 30 T. Artan, The Kadırga Palace Shrouded in the Mists of Time, in «Turcica», 26 (1994), pp. 55-124. 31 Ibid.; T. Artan, Ibrahim Paxa Sarayı, in Dünden Bugüne Istanbul Ansiklopedisi, 8 voll., Istanbul, 1994, vol. IV. pp. 128-130. 32 C. Fleischer, The Lawgiver as Messiah: The Making of the Imperial Image in the Reign of Süleyman, in G. Veinstein (a cura di), Soliman le Magnifique et son temps, Paris 1992, pp. 159-177; C. Kafadar, The Myth of the Golden Age, in C. Kafadar, H. Inalcık (a cura di), Süleyman the Second and His Time, Istanbul 1993, pp. 37-48; G. Necipoélu, A Kanun for the State, a Canon for the Arts, in G. Veinstein (a cura di), Soliman le Magnifique et son temps cit., pp. 195216. 33 A proposito della carica di architetto imperiale e della figura di Sinan come Primo Architetto, si veda G. Necipoélu, The Age of Sinan: Architectural Culture in the Ottoman Empire, London 2005, pp. 127-186. 34 A. Kuran, Sinan, The Grand Old Master of Ottoman Architecture, Washington 1896. 35 Per uno studio del complesso di Solimano inserito nel contesto di consolidamento dell’ortodossia sunnita ottomana, si veda G. Necipoélu, The Süleymaniye Complex in Istanbul, in «Muqarnas», 3 (1985), pp. 92-117. 36 E. Guidoni, Sinan’s Construction of the Urban Panorama, in «Environmental Design», 1-2 (1987), pp. 20-32. 37 G. Necipoélu, The Age of Sinan cit., pp. 191206. 38 Per i concetti di decorum, gerarchia e iconografia architettonica nel mondo ottomano del XVI secolo, cfr. G. Necipoélu, The Age of Sinan cit., pp. 103124. 39 L. Peirce, Gender and Sexual propriety in Ottoman Royal Women’s Patronage, in D.F. Ruggles (a cura di) Women, Patronage, and Self-Representation in Islamic Societies, New York 2000, pp. 53-68. 40 G. Necipoélu, The Age of Sinan cit., pp. 271276. 41 L. Peirce, The Imperial Harem: Women and Sovereignty in the Ottoman Empire, New York-Oxford 1993, pp. 186-218. 42 C. Mango, S. Yerasimos, Melchior Lorichs’ Panorama of Istanbul, a cura di A. Ertug, Bern 1999. 43 S. Soucek, Piri Reis and Turkish Mapmaking after Columbus, London-Oxford 1996; I. Orbay, Istanbul viewed: the representation of the city in Ottoman maps of the Sixteenth and Seventeenth Centuries, Ph. D. Dissertation, Massachusetts Institute of Technology, 2001, pp. 117-176. 44 G. Necipoélu, Dynastic Imprints on the Cityscape: the Collective Message of Imperial Funerary Complexes in Istanbul cit. 45 Oltre il complesso di Bayezid II, il percorso seguiva delle vie secondarie parallele all’asse principale giungendo al complesso di Mehmed II attraverso le costruzioni commissionate da Şehzade Mehmed; M. Cerasi, The Urban and Architectural Evolution of the Istanbul DivanYolu cit., pp. 189-195. 46 D. Terzioélu, The Imperial Circumcision Festival of 1582: An Interpretation, in «Muqarnas», 12 (1995), pp. 84-100. 47 Ibid., pp. 91-97. 48 M. Ali, Cami‘u’l-Buhur der Mecalis-i Sur, Ankara, 1996; N. Atasoy, 1582 Surname-i Humayun: An
Imperial Celebration, Istanbul 1999; O.X. Gökyay (a cura di), Evliya Çelebi Seyahatnamesi, 10 voll., Istanbul 1996, vol. 1, pp. 220-317. 49 R. Hattox, Coffee and Coffeehouses: The Origins of a Social Beverage in the Medieval Near East, Seattle 1988; A. Saraçgil, L’introduction du café à Istanbul (XVIe-XVIIe s.), in H. Desmet-Grégoire, F. Georgeon (a cura di), Cafés d’Orient revisités, Paris 1997, pp. 27-42. 50 M. Wortley Montagu, Letters, London, 1906, pp. 104-106. 51 D. Terzioélu, The Imperial Circumcision Festival of 1582: An Interpretation cit., p. 94; C. Kafadar, Women in Seljuk and Ottoman Society up the midNineteenth Century, in G. Renda (a cura di) Woman in Anatolia, Istanbul 1993, pp. 192-205. 52 G. Baer, Women and Waqf: an Analysis of the Tahrir of 1546, «Asian and African Studies», 17 (1983), pp. 9-28; M. Zilfi, Muslim Women in the Early Modern Era, in S. Faroqhi (a cura di), The Cambridge History of Turkey, 3. The Later Ottoman Empire, Cambridge 2006, pp. 239-241. 53 C. Kafadar, The Question of Ottoman Decline, «Harvard Middle Eastern and Islamic Review», 4 (1997-1998), pp. 30-75; C. Kafadar, On the Purity and Corruption of the Janissaries, «Turkish Studies Association Bulletin», 15 (1991), pp. 273-280; S. Faroqhi, Introduction, in S. Faroqhi (a cura di), The Cambridge History of Turkey, 3. The Later Ottoman Empire 1603-1839 cit., pp. 3-17. 54 C. Kafadar, The City that Rålamb Visited: The Political and Cultural Climate of Istanbul in the 1650’s, in K. Ådahl (a cura di), The Sultan’s Procession, Istanbul 2006, pp. 58-73. 55 M. Zilfi, The Politics of Piety: The Ottoman Ulema in the Post-classical Age, 1600-1800, Minneapollis 1988, pp. 137-149; D. Terzioélu, Sufi and Dissident in the Ottoman Empire: Niyazi-i Misri, 1618-94, Ph.D. Dissertation, Harvard University, 1999, pp. 190-208. 56 M. Baer, The Great Fire of 1660 and the Islamization of Christian and Jewish Space in Istanbul, in IntJourMEStud, 36 (2004), pp. 164-165. 57 G. Necipoélu, The life of an imperial monument: Hagia Sophia after Byzantium cit. 58 N. Avcıoélu, Ahmed I and the Allegories of Tyranny in the frontispiece to George Sandy’s Relation of a Journey, in «Muqarnas», 18 (2001), pp. 219-222. 59 G. Necipoélu, The Age of Sinan cit., pp. 516517. 60 L. Thys-Xenocak, The Yeni Valide Mosque Complex at Eminönü, Istanbul (1587-1665): Gender and Vision in Ottoman Architecture, in «Muqarnas», 15 (1998), pp. 58-70. 61 L. Thys-Xenocak, The Yeni Valide Mosque Complex cit. 62 Ibid., pp. 69-89. 63 D. Terzioélu, Sufi and Dissident in the Ottoman Empire: Niyazi-i Misri, 1618-94 cit., pp. 203-204. 64 P. Girardelli, Architecture, Identity, Liminality: On the Use and Meaning of Catholic Spaces in Late Ottoman Istanbul, in «Muqarnas», 22 (2005), pp. 233-236; E. Eldem, Istanbul: From Imperial to Peripherialized Capital, in E. Eldem, D. Goffman, B. Masters (a cura di), The Ottoman City Between East and West, Cambridge 1999, pp. 151-155. 65 A. Refik Altınay, Onikinci Asr-ı Hicride Istanbul Hayatı, Istanbul 1988, pp. 88-89. 66 Per riferimenti documentari sull’argomento, si veda T. Artan, Architecture as a Theater of Life: Profile of the Eighteenth-Century Bosphorus, Ph.D. Dissertation, Massachusetts Institute of Technology, 1989, pp. 59-66; S. Hamadeh, The City’s Pleasures: Istanbul in the Eighteenth Century, Seattle 2007, pp. 38-42. 67 Z. Nayır, Osmanlı Mimarlıéında Sultan Ahmet Külliyesi ve Sonrası, Istanbul, 1975, pp. 170-194. 68 M. Cerasi, The Urban and Architectural Evolution of the Istanbul Divanyolu cit., pp. 199-213.
69 La descrizione di Silahdar Fındıklılı Mehmed Agha dei festeggiamenti che celebrarono il ritorno di Mehmed IV dalla campagna in Polonia nel 1679 è riportata in S.H. Eldem, Köxkler ve Kasıler, 2 voll., Istanbul 1969, vol. I, p. 252. 70 T. Artan, Arts and Architecture, in S. Faroqhi (a cura di), The Cambridge History of Turkey, 3. The Later Ottoman Empire 1603-1839 cit., pp. 453-4. 71 E. Eldem, Istanbul: From Imperial to Peripherialized Capital cit., p. 148. 72 O.X. Gökyay (a cura di), Evliya Çelebi Seyahatnamesi, 10 voll., Istanbul 1996, vol. I. 73 T. Artan, Architecture as a Theater of Life cit.; S. Hamadeh, The City’s Pleasures: Istanbul in the Eighteenth Century cit. 74 T. Artan, Architecture as a Theater of Life cit., pp. 73-103, 332-451. 75 S. Hamadeh, The City’s Pleasures cit., pp. 26-27, 59. 76 Ibid., pp. 231-235. 77 S. Hamadeh, The City’s Pleasures cit., pp.50-56. 78 T. Artan, Architecture as a Theater of Life cit., pp. 66-72. 79 E. Atil, The Story of an Eighteenth-Century Ottoman Festival, in «Muqarnas» (1993), pp. 181-200. 80 T. Artan, The Palaces of the Sultanas, «Istanbul» 2 (1993). 81 S. Hamadeh, The City’s Pleasures cit., pp. 76109. 82 Ibid., pp. 112-114, 122-126. 83 T. Artan, Architecture as a Theater of Life cit., pp. 248-331; S.H. Eldem, Türk Evi Plan Tipleri, Istanbul 1968; M. Cerasi, The Formation of Ottoman House Types: A Comparative Study in Interaction with Neighbouring Cultures, in «Muqarnas», 15 (1998), pp. 117-156. 84 Ahmed III ordinò che padiglioni e stanze fossero resi nello stesso stile delle case cittadine; Tarih-i Raxid cit. in S. Hamadeh, The City’s Pleasures cit., p. 72. 85 B. Yedıyıldız, Institution du waqf au XVIIIe siècle en Turquie, Ankara 1985. 86 G. Goodwin, A History of Ottoman Architecture, London 1971, pp. 381-413. 87 P. Girardelli, Architecture, Identity, Liminality cit., pp. 241-248. 88 A. Ersoy, Istanbul, in J.M. Winter, J. Winter (a cura di), Encyclopedia of Modern Europe, New York, 2006; Z. Gelik, The Remaking of Istanbul, Seattle 1986.
ARCHITETTURA RELIGIOSA OTTOMANA Su Istanbul e le sue moschee esiste una letteratura a dir poco sterminata. Nello scrivere questo saggio due libri sono stati comunque riferimento costante e imprescindibile: G. NECIPOGLU: The Age of Sinan. Architectural Culture in the Ottoman Empire, London 2005 e il classico G. GOODWIN, A History of Ottoman Architecture, London 1971. Si vedano anche: E.H. AYVERDI, Avrupa’da Osmanli Mimari Eserleri, 4 voll., Istanbul 1977, 1981-82; F. BABINGER, Mehmed der Erober und seine Zeit. Weltensturmer einer Zeitwende, München 1953; O.L. BARKAN, Sulemaniye Cami ve Imareti Inshaati (1559-1557), 2 voll. Ankara 1972-79; A. R. BURELLI, La moschea di Sinan, Venezia 1988; W.R. DENNY, The Ceramics of the Mosque of Rustem Pasha and the Environment of Change, New York 1979; E. EGLI, Sinan: Der Baumeister Osmanischer Glanzzeit, Zürich 1954; J. ERZEN, Mimar Sinan: Estetik Bir Analiz, Ankara 1996; R. GUNAY, Sinan the Architect and His Works, Istanbul 1988; P. GENNARO, Istanbul. L’opera di Sinan, Milano 1992; C. GURLITT, Die Baukunst Konstantinopels, 2 voll., Berlin 1907-12; M.N. HASKAN, Eyüp Tarihi, 2 voll., Istanbul 1993; H. INALCIK, The Policy of Mehmed II toward the Greek Population of Istanbul and the Byzantine Buildings of the City, in DOP, XXIII-XXIV (1969-70), pp. 231-249; H. INALCIK, Istanbul: An Islamic City, in Essays in Ottoman History, Istanbul 1998, pp. 249-271; A.A. INAN, Mimar Koca Sinan, Ankara 1956; C. KAFADAR, Bet-
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ween Two Worlds: The Construction of the Ottoman State, Berkeley-Los Angeles-London 1995; D. Kuban, Istanbul: An Urban History, Istanbul 1996; D. KUBAN, Sinan: An Architectural Genius, Bern 1999; A. KURAN, The Mosque in Early Ottoman Architecture, Washington-Istanbul 1987; C. MANGO, Studies on Constantinople, London 1993; R. MANTRAN, La vie quotidienne à Costantinople au temps de Soliman le magnifique et de ses successeurs (XVI et XVII siècles), Paris 1965; R.M. MERIC, Bayezid Cami Mimari, Ankara 1958; «Muqarnas»; G. NECIPOGLU, Dynastic Imprints on the Cityscape: The Collective Message of Imperial Funerary Mosque Complexes in Istanbul, in J.L. Bacqué-Grammont e A. Tibet (a cura di), Cimitières et tradition funéraires dans le monde islamique, 2 voll., vol. II, Ankara 1996, pp. 23-36; T. OZ, Istanbul Camileri, 2 voll., Ankara 1962-65; A. PERTUSI, (a cura di), La caduta di Costantinopoli. Le testimonianze dei contemporanei, s.l., 1976; A. PETRUCCIOLI (a cura di), Mimar Sinan: The Urban Vision, in «Environmental Design», 1-2 (1987); J.M. ROGERS, R.M. WARD, Suleyman The Magnificent, London 1988; H. STIERLIN, Turchia. Dai selgiuchidi agli ottomani, Köln 1999; L. VALENSI, Venise et la Sublime Porte. La naissance du despote, Paris 1987; N. VATIN, Aux origines du pèlerinage à Eyup des sultans Ottomans, in «Turcica», 27 (1995), pp. 91-99; S. YERASIMOS, Les Voyageurs dans l’Empire ottoman (XIVe-XVIe siècles), Ankara 1991; S. YERASIMOS, La Mosquée de Soliman, Paris 1997. L’AUTUNNO DI COSTANTINOPOLI 1 D. Quataert, The Age of Reforms, 1812-1914, in An Economic and Social History of the Ottoman Empire, ed. by H. Inalcık with D. Quataert, Cambridge, Cambridge University Press, 1994; rist. 2004, II, pp. 761 sgg. Sull’ultimo secolo dell’impero v. le sintesi introduttive di J. McCarthy, The Ottoman Turks. An introductory History to 1923, tr. it. I Turchi Ottomani dalle origini al 1923, Genova, ECIG, 2005; D. Quataert, The Ottoman Empire 1700-1922, tr. it. L’impero ottomano 1700-1922, Roma, Salerno editrice, 2008) e E.J. Zürcher, Turkey: a Modern History, tr. it. Storia della Turchia. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2007. Utili indicazioni di metodo in S. Faroqhi, Approaching Ottoman History. An Introduction to the Sources, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. 2 S. Germaner, Z. Inankur, Orientalism and Turkey, Istanbul, Türk Kültürüne Hizmet Vakfi, 1989; sull’orientalismo come aspetto dell’imperialismo cfr. J. MacKenzie, Orientalism. History, Theory and the Arts, Manchester, Manchester University Press, 1995. 3 G.A. Borgese, L’autunno di Costantinopoli, Milano, Treves, 1929. 4 La riforma produsse effetti surreali, così riassunti da Helmuth von Moltke: «un esercito all’europea colle giacchette russe, regolamento francese, armi belghe, berretti turchi, selle ungheresi, sciabole inglesi e istruttori di tutte le nazioni» (H. von Moltke, Briefe über Zustände und Begebenheiten in der Turkei aus den Jahren 1835 bis 1839. Eine Auswahl, Berlin 1841; tr. it. Lettere dall’Oriente, Milano, Treves, 1878, e rist. col titolo Una guerra da Turchi, Milano, Touring Club Italiano, 1998, p. 255). 5 G. de Nerval, Viaggio in Oriente, Torino, Einaudi, 1997, p. 395. 6 Sulla città nel XIX secolo v. R. Mantran, Histoire d’Istanbul, Paris, Fayard, 1996, tr. it. Istanbul, Roma, Salerno, 1998, pp. 221 sgg.; P. Mansel, Costantinopoli. Splendore e declino della capitale dell’Impero ottomano 1453-1924, Milano, Mondadori, 1995; sulle trasformazioni urbane Z. Çelik, The Remaking of Istanbul. Portrait of an Ottoman City in the Nineteenth Century, Seattle, University of Washington Press, 1986, e rist., Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1993; D. Kuban, Istanbul. An Urban History, Istanbul, The Economic and Social History Foundation of Turkey, 1996,
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in part. pp. 376 sgg.; P. Pinon, Trasformazioni urbane tra il XVIII e il XIX secolo, in «Rassegna», XIX, 1997, n. 72 (numero monografico dedicato a Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio), pp. 53-61. Fondamentale per ogni aspetto la Dunden Bugune Istanbul Ansiklopedisi, Istanbul, Tarih Vakfi, 1993-95, 8 voll. 7 Moltke 1998, pp. 66-67. 8 D. Barillari, E. Godoli, Istanbul 1900. Architettura e interni Art Nouveau, Firenze, Octavo, 1996, p. 11. 9 Barillari, Godoli 1996, p. 12, anche per la citazione che segue. 10 Le Corbusier, Viaggio in Oriente, a cura di G. Gresleri, Venezia-Parigi, Marsilio-Fondation Le Corbusier, 1995, III ed. riv., p. 247. 11 Distretti del 1857: 1) Ayasofya; 2) Aksaray; 3) Fatih; 4) Eyüp; 5) Kasimpaxa; 6) Beyoâlu (GalataPera-Tophane); 7) Bexiktax; 8) Emirgân; 9) Büyükdere; 10) Beyköz; 11) Beylebeyi; 12) Üsküdar (Skutari); 13) Kadıköy; 14) Isole dei Principi. 12 P. Tuâlaci, The role of the Balian family in Ottoman Architecture, Istanbul, Yeni Çiâir Bookstore, 1990. Per un quadro generale, G. Goodwin, A History of Ottoman Architecture, London, Thames and Hudson, 1971, p. 421 sgg.; S. Yerasimos, Constantinople. De Byzance à Istanbul, Paris, Place des Victoires, 2000, pp. 354 sgg. 13 Vasta documentazione iconografica in S.H. Eldem, Boâaziçi Anilari / Reminescences of the Bosphorus, Istanbul, Çeltüt, 1979. Su Abdülmecid v. le testimonianze raccolte in Léopold de Belgique (futur Léopold II), Voyage à Costantinople 1860, texte établi, présenté et annoté par S. Basch, Bruxelles, Ed. Complexe, 1997, pp. 12-16, e quanto ne scrive Théophile Gautier in Constantinople (1853): «entre une haie de vizirs, de pachas et de beys [...] parut Sa Hautesse le Sultan Abdul-Medjid, se détachant sur le fond sombre de la porte. [...] Par l’interstice de son paletot on voyait briller quelques dorures sur sa poitrine; je regrette fort, pour ma part, l’ancienne magnificence asiatique; j’aimais les sultans impassibles comme des idoles dans des châsses de pierreries, espèces de paons du pouvoir épanouis au milieu d’une aurore du soleils. [...] Cependant [...] la qualité d’Abdul Medjid ne pouvait être un mystère pour personne...». 14 «Il n’est ni grec, ni romain, ni gothique, ni renaissance, ni sarrasin, ni arabe, ni turc, se rapproche ce genre que les espagnols nomment plateresco, et qui fait ressembler la façade d’un monument à une grande pièce d’orfévrerie pour le luxe compliqué des ornements et la folle recherche des détails». T. Gautier, Constantinople, texte présenté et annoté par J. Huré, Istanbul, Isis, 1990, p. 259. Sul palazzo v. Ç. Gülersoy, Dolmabahçe. Palace and its environs, Istanbul, Istanbul Kitaplıâı, 1990. 15 Yerasimos 2000, pp. 358 sgg. 16 Die Hagia Sophia in Istanbul, Akten des Berner Kolloquiums (1994), herausgegeben von V. Hoffmann, Bern [etc.], Lang, 1998; N.B. Teteriatnikov, Mosaics of Hagia Sophia. The Fossati Restoration and the Work of the Byzantine Institute, Dumbarton Oaks, Research Library and Collection, 1998; S. Schlüter, Gaspare Fossatis Restaurierung der Hagia Sophia in Istanbul 1847-49, Bern [etc.], Lang, 1999; Bilder aus sechs Jahrhunderten. Die Hagia Sophia in Istanbul und Gaspare Fossatis Restaurierung der Jahre 1847 bis 1849, Katalog der Ausstellung (BernStendal, 1999), herausgegeben von V. Hoffmann, Bern, Universität Bern – Abteilung für Architekturgeschichte und Denkmalpflege, 1999; R. Nelson, Hagia Sophia 1850-1950. Holy Wisdom Modern Monument, Chicago, University of Chicago Press, 2004. Cfr. anche G. Fossati, Die Hagia Sophia nach dem Tafelwerk von 1852, erläutert und mit einem Nachwort von U. Peschlow, Dortmund, Harenberg, 1980 («Die bibliophilen Taschenbücher, 187»). 17 D. Barillari, Raimondo D’Aronco, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 27 sgg.; Barillari, Godoli, 1996; D’Aronco Ottoman architect. Projects for Istanbul 1893-1909. Restorations, projects, books / D’Aronco
architetto ottomano. Progetti per Istanbul 1893-1909. Restauro, progetti, libri / ‘Osmanli Mimari’ D’Aronco. Istanbul projeleri 1893-1909. Restarasyon, projeler, kitaplar, catalogo della mostra (Istanbul, Istituto Italiano di Cultura, 2006), Istanbul, Istanbul Arastirma Enstitusu, 2006. Sulla residenza di Yıldız v. F. Georgeon, Abdülhamid II. Le sultan calife, Paris, Fayard, 2003, pp. 127-146. Una testimonianza di natura del tutto privata sul sultano è quella della figlia, Aïché Osmanoglu, Avec mon père le sultan Abdulhamid de son palais à sa prison, Paris, L’Harmattan, 1991. 18 La vicina stazione delle linee di navigazione, dell’architetto Vedat Tek (1915), è invece in forme neo-ottomane. D. Barillari, Architettura neo-ottomana a Istanbul dalla teoria alla costruzione, in Architettura dell’Eclettismo. La dimensione mondiale, atti del V e VI Convegno di architettura dell’eclettismo (Jesi, 2003-2004), a cura di L. Mozzoni e S. Santini, Napoli, Liguori, 2006, pp. 261-293. Sull’architettura degli ultimissimi anni dell’impero, dopo la rivoluzione del 1908, v. E. Godoli, “A l’orient seule l’architecture orientale convient”, in «Rassegna», XIX, 1997, n. 72, pp. 77-84. 19 J. Ebersolt, Constantinople byzantine et les voyageurs du Levant, Paris, Leroux, 1918 (e rist. anast., London, The Pindar Press, 1986), in part. cap. VII, «Les voyageurs du levant au XIXe siècle», pp. 205 sgg.; un’ottima selezione di testi di autori francesi in J.-C. Berchet, Le voyage en Orient, Paris, Laffont, 1985, pp. 427 sgg. 20 Nerval raggiunse Costantinopoli via mare da Cipro, dopo aver visitato l’Egitto (Nerval 1997). 21 «Monsieur Théophile Gautier, l’un des plus charmants écrivains de Paris [...] est arrivé à Constantinople par le bateau à vapeur français le Léonidas»; Journal de Constantinople Écho de l’Orient, giovedì 24 giugno 1852. 22 A. Servantie, Ne rêvez plus d’Istanbul, allez-y! Le voyageur de l’Orient-Express, in Le Voyage à Constantinople. L’Orient-Express, catalogo della mostra (Bruxelles, Galerie CGER, 1997-98), sous la dir. de E. Collet, Gand, Snoeck-Ducaju & Zoon/Pandora, s.d. [1997], pp. 15 sgg. 23 Come ad esempio il viaggio dell’erede al trono del Belgio Leopoldo nel 1860 (cfr. Léopold de Belgique 1997). 24 Cfr. l’ed. critica a cura di J. Huré, T. Gautier, Constantinople, Istanbul, Isis, 1990, da cui sono tratte le citazioni che seguono. 25 Gautier 1990, p. 81: «en attendant... faisons un léger croquis au crayon du tableau que nous peindrons plus tard». 26 Si tratta di un grosso volume di oltre 500 pagine: E. De Amicis, Costantinopoli, Milano, Treves, 1878 e successive riedizioni; rist. parziale, a cura di L. Scarlini, Einaudi, Torino, 2007. Sulla produzione odeporica di De Amicis v. B. Danna, Dal taccuino alla lanterna magica. De Amicis reporter e scrittore di viaggi, Firenze, Olschki, 2000. Come già nel caso del volume sul Marocco, venne pubblicata successivamente e in parallelo un’edizione illustrata con disegni di Cesare Biseo (1882). Cfr. M.A. Fusco, L’Oriente «profanato dalla matita cristiana»: Cesare Biseo a Costantinopoli, in Studi in onore di Michele D’Elia, a cura di C. Gelao, Matera, R&R, 1996, pp. 451-462. 27 La sequenza degli argomenti non si discosta di massima da quella di Gautier: il ponte (al quale si attribuisce particolare enfasi), Stambul, Lungo il Corno d’Oro, Il Gran bazar, La vita a Costantinopoli, Santa Sofia, Dolma Bagcè, Le Turche, Ianghen Var, Le mura, L’antico Serraglio, Gli ultimi giorni, I Turchi, Il Bosforo. 28 De Amicis 2007, pp. 29-30. 29 R. Zena, In yacht da Genova a Costantinopoli, Genova, Tipografia Marittima, 1887; nuova ed. Genova, De Ferrari, 1999; rist. parziale in C. Boito, A.G. Cagna, R. Zena, Opere scelte, a cura di G. Spagnoletti, Milano, Mondadori, 1967, p. 578, 604.
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E. About, De Pontoise à Stamboul, Paris, Hachette, 1884; qui si cita da E. About, 1883 Orient Express, in «Le vie del mondo-Viaggi d’autore», I, 1996, 1, pp. 107-113. 31 Sulla fotografia del XIX secolo a Costantinopoli e nell’impero ottomano v. i repertori di E. Özendes (Çizgen), Osmanlı Imparatorluâu’nda fotoârafçılık / Photography in the Ottoman Empire (1839-1919), Istanbul, Iletixim Yayınları, 19952 (I ed. 1987) e B. Öztuncay, The Photographers of Constantinople. Pioneers, Studios and Artist from 19th century Istanbul, Istanbul, Aygaz, 20062; e inoltre G. Beaugé (a cura di), Images d’Empire. Aux origines de la photographie en Turquie d’après la collection Pierre De Gigord, catalogo della mostra, Istanbul, Institut d’Etudes Françaises, s.d. [1993]; W. Allen, Sixty-five Istanbul Photographers 1887-1914, in K. Collins (ed.), Shadows and Substance. Essays on the History of Photography in honour of Heinz K. Henisch, Troy, Mich., The Amorphous Institute Press, 1990, pp. 127-136. 32 Constantinople and the Scenery of the Seven Churches of Asia Minor, illustrated in a Serie of Drawings from Nature by Thomas Allom, with an Historical Account of Constantinople and Descriptions of the Plates by Robert Walsh and J.C.M. Bellew, London, Fisher, Son & Co., [1838]; rist. a cura di M. Wilson, Piscataway, NJ, Gorgias Press, 2006. Cfr. G. Beaugé, Istanbul: gravures et photographies au XIXe siècle, in L’image dans le monde arabe (extrait de l’Annuaire de l’Afrique du Nord, 1993), sous la direction de G. Beaugé et J.-F. Clément, Paris, CNRS, 1995, pp. 231-256; N. Baxgelen, Istanbul «city of the sultans». From Engravings to Photographs, Istanbul, Archaeology and Art Publications, 2006. 33 Journal de Constantinople, 1 dicembre 1845. 34 Öztuncay 20062, I, pp. 70-71. 35 Catalogue de la deuxième exposition annuelle des oeuvres des artistes et amateurs français et étrangers, sl. s.d. [Paris 1857], ristampato in Catalogues des expositions organisées par la Société Française de Photographie 1857-1876, Paris, Jean-Michel-Place, 1985, p. 7. Cfr. B. Öztuncay, Ernest de Caranza, Member of the Société Française de Photographie, in «History of Photography», 15/2, 1991, pp. 139-143. 36 Alfred Normand. Calotypes 1851-52. Photogra-
phies d’Italie de Grèce et de Constantinople, préface de Ph. Néagu, Gorle/Bergamo, Grafica Gutenberg, 1978. 37 Una serie di stereoscopie venne acquistata dal principe di Brabante Leopoldo, durante il viaggio compiuto nel 1860. Cfr. Leopold de Belgique 1997. 38 B. Öztuncay, James Robertson Pioneer of Photography in the Ottoman Empire, Istanbul, Eren, 1992. La cronologia di Felice Beato, cittadino corfiota di origine italiana e nazionalità inglese, è stata recentemente riordinata, anche per la parte costantinopolitana, in J. Clark, J. Frazer, C. Osman, A revised Chronology of Felice (Felix) Beato, in Japanese Exchanges in Art 1850s-1930s, J. Clark ed., Sydney, Power Publications, 2001, pp. 89-120. 39 B. Öztuncay, Vassilaki Kargopoulo Photographer to His Majesty the Sultan, Istanbul, BOS, 2000. 40 E. Özendes, From Sébah & Joaillier to Foto Sabah. Orientalism in Photography, Istanbul, YKY, 1999. 41 E. Özendes, Abdullah frères. Ottoman Court Photographers, Istanbul, YKY, 1998. 42 Sui panorami di Costantinopoli v. S. Oettermann, The Panorama. History of a Mass Medium, New York, Zone Books, 1997, pp. 119, 154-155. 43 Cfr. Nelson 2004. 44 B. von Dewitz (hrgg. von), An den süssen Ufern Asiens. Ägypten, Palästina, Osmanisches Reich. Reiseziele des 19. Jahrhunderts in frühen Photographien, Köln, Agfa Foto-Historama, 1988; Öztuncay 20062, passim. 45 Ogni album ha un numero assai vario di fotografie, in media da 10 a 80, anche se qualcuno ne reca una sola e altri alcune centinaia di piccole dimensioni. I formati delle fotografie sono generalmente 9 x 12 e 18 x 24. Alcuni hanno l’indicazione del fotografo o dello studio fotografico che ha realizzato le riprese; pochi però sono datati e solo tre colorati (uno di Costantinopoli e due dell’Egitto). Si è calcolato che l’insieme assommi a 33.350 fotografie. Cfr. J.M. Landau, Abdul-Hamid’s Palestine, London, A. Deutsch, 1979; E. Ihsanoâlu, Istanbul geçmixe bir bakıx / A Glimpse into the Past, Istanbul, IRCICA, 1992; H. Ixık, S.N. Akçexme (a c. di), Sultan II. Abdülhamid Arxivi Istanbul fotoâraflari, Istanbul, Kültür A.I, 2007. 46 Gli album sono ora conservati nella Library of Congress di Washington e nella British Library di Londra. Cfr. W. Allen, The Abdul Hamid II Collec-
tion, in «History of Photography», 8/2, 1984, pp. 119-145; C.E.S. Gavin and The Harvard Semitic Museum (ed.), Imperial Self-Portrait: the Ottoman Empire as revealed in the sultan Abdul-Hamid II’s Photographic Albums, Harvard, Office of the University Publisher, 1989 («The Journal of Turkish Studies», 12, 1988). 47 F. Hitzel, Couleurs de la Corne d’Or. Peintres voyageurs à la Sublime Porte, Courbevoie, ACR, 2002, p. 206 sgg.; sugli artisti italiani v. M.A. Fusco, Lo sguardo della mezzaluna. Pittori italiani a Costantinopoli nell’Ottocento, a cura di V. Petrini, Roma, Semar, 1998. 48 Fausto Zonaro. Dalla Laguna veneta alle rive del Bosforo, un pittore italiano alla corte del sultano, catalogo della mostra (Roma, Vittoriano, 2004), Istanbul, Yapı Kredi, 2004. 49 Cfr. G. Renda, T. Erol, A. Turani [et alii], Histoire de la Peinture Turque, Genève, Palasar, 1988, p. 115 sgg.; B. Demisar Arlı, From Orientalism to Contemporary Turkish Painting, Istanbul, Toprakbank, 2000. 50 F. Georgeon, Abdülhamid II. Le sultan calife, Paris, Fayard, 2003. 51 McCarthy 2005, pp. 298-299. 52 P. Loti, Fantôme d’Orient (1892), cit. in Id., Costantinopoli nel 1890, a cura di C. Costantini, Como-Pavia, Ibis, 2006, p. 12. «Un charme dont je ne me déprenderai jamais m’a été jeté par l’Islam le temps où j’abitais la rive du Bosphore et je subis de mille manière ce charme-là même dans les choses, dans les dessins, dans les couleurs, jusque dans ces vieilles fleurs de rêve qui sont ici naïvement peints sur les faïences de mes murs». 53 Pierre Loti photographe (1850-1923), cat. de l’éxposition, commissaires B. Gaudichon et A. Quella-Villéger, Poitiers, Musée de la Ville de Poitiers et de la Société des Antiquaires de l’Ouest, 1985, in part. pp. 67-89; e soprattutto A. Quella-Villéger, Istanbul. Le regard de Pierre Loti, Tournai, Casterman, 1992; B. Vercier, Les Orients de Pierre Loti par la photographie, Paris, Editions du Patrimoine, 2006. 54 Loti 2006. Sugli ultimi anni di Costantinopoli capitale cfr. Istanbul 1914-1923, dirigé par S. Yerasimos, Paris, Autrement, 1992.
NOTIZIE TECNICHE SULLE FOTOGRAFIE OTTOCENTESCHE 276. Pascal Sébah, Seraskierat (Ministero della Guerra e torre di avvistamento per gli incendi detta di Beyazit), stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico «Album G 3 – Vedute estere», n. 37. 277. Pascal Sébah, La Sublime Porta, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 39. 278. Abdullah frères, Cimitero di Eyüp, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 56. 279. Abdullah frères, Isole dei Principi, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 55. 280. Pascal Sébah, Türbe (mausoleo) del sultano Mahmud II, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 40. 281. Abdullah frères, Veduta di Tophané e della moschea Nusretiye, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 52.
282. Abdullah frères, Portale d’ingresso del palazzo imperiale di Dolmabahçe, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 45. 283. B. Kargopoulo, Kiosque du Grand Flamour (Ihlamur), stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 58. 284. Abdullah frères, Palazzo di Beylerbey, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 57. 285. Pascal Sébah, Esterno di S. Sofia, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 25. 286. Pascal Sébah, Interno di S. Sofia, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 19. 287. [P. Sébah], Figura femminile, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Da Istanbul a Yokohama - Turchia», VE J 523. 288. P. Sébah, Figura femminile velata, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Ar-
chivio Fotografico, «Da Istanbul a Yokohama - Turchia», VE J 797. 289. Abdullah frères, Dervisches tournants, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Da Istanbul a Yokohama Turchia», VE J 384. 290. Abdullah frères, Il ponte di Galata, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Da Istanbul a Yokohama Turchia», già «album G3», n. 9. 291. Pascal Sébah & Polycarpe Joailler, Panorama di Costantinopoli dalla torre di Galata, stampe all’albumina, 1890 ca.; collezione privata. 292. Abdullah frères, L’Ammiragliato (dagli album del sultano Abdul Hamid II), stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 50. 293. Abdullah frères, Confiserie à Stamboul, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Da Istanbul a Yokohama Turchia», VE L 409. 294. Abdullah frères, Via della vecchia Stamboul, stampa all’albumina, seconda metà XIX sec.; Milano, Civico Archivio Fotografico, «Album G 3 – Vedute estere», n. 18.
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DEI MONUMENTI I monumenti sono indicizzati sotto il luogo; le chiese trasformate in moschea sono riportate con nome originario / nome ottomano. Le località di Defterdarburnu, Eyüp e Üsküdar hanno voci distinte da Costantinopoli. c. : chiesa; cpl. : complesso; f. : foro; m. : moschea; mon. : monastero; pal. : palazzo; t. : tempio. Abaqa khan, 249 About E., 386 Abd al-Malik, 321 Abdül Hamid II, 373, 375, 382, 384, 387, 393, 389-392 Abdülaziz, 380, 384 Abdullah, 338 Abdullah frères, 387, 379, 390 Abdülmecid, 373, 378, 380, 384, 386 Acem Alisi, ‘Ali il Persiano, 335 Acquarone L., 393 Adriano, 15, 55, 69, 242 Afrodisia, terme di Adriano, 115, 45 Ahmad Karahisari, 348 Ahmed I, 10, 304 Ahmed II, 306 Ahmed III, 309, 316, 318, 322, 317 Ahmed Ali, 393 Aiace, 14 Aïnalov D.V., 111 Alessandro, 164 Alessandro Magno, 14, 111 Alessio Comneno, 114, 160, 173-174, 196, 234, 242 Alföldi A., 39 Ali Paşa, 344 Allom T., 386, 374, 376 Amasya, 282, 332, 338, 346 Amyot J., 110 Anacleto II, 172 Anastasio I, 37, 72 Andrea I d’Ungheria, 170 Andronico I Comneno, 115 Andronico II Paleologo, 191, 249 Anicia Iuliana, 37, 78, 80, 82, 87, 96 Anna Comnena, 28 Anna Dalassena, 234 Anna di Savoia, 216, 250 Anna Dukaena, 187 Antemio di Tralles, 38, 95 Arcadio, 10, 26, 34, 37, 43, 45, 52, 55, 112, 115, 292, 54 Areobindo, 72, 74, 122 Ariadne, 72, 126, 127, 398 Aristotele, 178 Asinu, Panaghia Phorbiotissa, 173 Asutay N., 43 Atik Ali Paşa, 282-283 Augusto, 27, 80 Ausonio, 30 Aysha Sultan, 344 Ayyub al-Ansari, 257, 252 Baldovino di Fiandra, 176, 242 Balyan, famiglia di architetti, 378, 380 Barborini G. B., 382 Bardane, 140 Bardill J., 60, 63-64, 72, 104-105 Barlaam, 213-214 Bartlett W.H., 32 Basilio I il Macedone, 143, 151, 219, 224-225, 230, 234 Basilio II, 160, 166, 233-234 Beato F., 387 Beck H.G., 42 Beckwith J., 176 Bedford F., 387 Belisario, 118 Bellew J.C.M., 374 Bellini Gentile, 253 Beniamino di Tudela, 122, 166 Berger A., 18 Bessarione, 110 Bettini S., 80
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Beyazıd I Yildirim, 216, 321 Beyazıd II, 45, 281-283, 289, 326, 332333, 335, 360 Beyazıd, figlio di Rosselane, 338, 344, 360 BISANZIO Bosphorion (Prosphorion), 14; ippodromo, 18; Kynegion, 18; mura di Byzas, 14; Néorion, 14; Porta Aurea, 19; Strategion, 14, 34; t. di Afrodite, 14, 29, 42; t. di Artemide, 14, 29, 42; t. di Helios-Apollo, 14, 18, 29, 42; terme di Zeuxippos, 10, 18, 22, 37, 63, 292; Tetrastoon, Augustaion, 18, 22, 26, 29 Bonfiglio F., 384 Borgese G.A., 373 Borrelli V., 39 Boucicaut, 216 Bourrée P., 393 Bozzoni C., 29 Brandi C., 80, 95-96 Bréhier L., 111 Buchtal H., 111 Buondelmonti Christoforo, 272, 283, 270 Calendzikha, 211 Caracalla, 14, 15, 18 Carile A., 39 Carlo Magno, 111, 142 Carter J., 32 Cedreno Giorgio, 28 Cefalù, cattedrale, 172 Çelebi Halife, 282 Çelebi Hasan Karahisari, 348, 362 Charanis P., 30 Chio, Nea Moní, 167 Churchill W., 373 Cihanghir, 338, 344 Cipro, mon. di Kutsovendi, 174; mon. di S. Giovanni Crisostomo, 173; Panaghia Arakiotissa, 173 Ciriaco, patriarca, 104 Cirillo di Alessandria, 114, 148 Clavijo, R. Gonzáles de, 233 Clemente VI, 216 Colbert Jean-Baptiste, 111 Connor C., 82 Coquart E.G., 382 Cordova, Grande m., 80 Corippo, 114 Çorlulu Ali Paşa, 318 Cosma di Majuma, 203 Costantina, 43 Costantino I, 7, 14, 19, 22, 26, 27, 2930, 36, 39, 42, 43, 55, 63, 111-112, 115, 118, 143, 151, 170, 219, 268, 41, 116 Costantino V, 140, 143, 219, 223 Costantino VI, 142-143 Costantino VII Porfirogenito, 112, 118, 143, 157, 234, 24 Costantino VIII, 233 Costantino IX Monomaco, 156, 160, 164, 166, 170, 233, 161 Costantino XI, 216 Costantino-Cirillo, 148 Costantino di Rodi, 154 COSTANTINOPOLI acquedotto di Valente, 30, 33, 295, 307; Altımermer, 62; At Meydanı / Ippodromo, 26, 118, 122, 219, 225, 267, 292-293, 233, 252,
267, 288, 297-298, 301, 308, 316, 375, 24, 27, 62, 224, 367; Atıf Efendi, 318; Avratpazarı, 292, 300; bazar delle Spezie, 306, 355; Capitolium, 29, 42; c. A di Beyazıd, 102, 397; c. del Myrelaion / Bodrum Camii, 64, 230, 230-233, 283, 231, 399; c. del Pantokrator / Zeyrek Camii, 236, 237, 283; c. dell’Arcangelo Michele di Anaplous, 29; c. dell’Arcangelo Michele di Sosthenion, 29; c. della Divina Sapienza, 42; c. della Madre di Dio al Faro, 145; c. della Theotòkos Diakonissa, 104; c. della Theotòkos Pammakaristos / Fethiye Camii, 186-187, 242, 249, 191, 246, 273; c. della Theotòkos Pegè, 225; c. della Theotòkos Peribleptos, 176, 233, 399; c. di Cristo Pantepoptes / Eski Imaret Camii, 234, 249, 235, 236; c. di Nostra Signora della Buona Speranza, 216; Çinili Köşk, 264; cisterna delle mille colonne / Bin bir Direk, 7, 80, 32, 395; cisterna di Philoxenos, 80; cisterna ‘basilica’ / Yerebatan Sarayı, 26, 31, 80; cpl. di Ahmed I / Ahmediye / m. Blu, 252, 304, 306, 370, 24, 301, 367369; cpl. di Beyazıd II, 326, 332333, 277, 328, 400; cpl. di Hürrem, 292; cpl. di Ismihan Sultana e Sokollu Mehmed Paşa a Kadırgalimanı , 290, 203, 360, 361, 402; cpl. di Laleli, 320; cpl. di Mehmed II/ Fatih Camii, 230, 257, 268, 270, 320, 324, 333, 325, 400; cpl. di Mihrimah Sultana a Edirnekapı, 290, 354, 362, 291, 357, 402; cpl. di Nuruosmaniye, 43, 318, 320, 378, 371; cpl. di Xehzade, 10, 304, 321, 338, 344, 346, 348, 354, 295, 339-343, 400-401; cpl. di Selim I, 9, 333, 335, 400, 334; cpl. di Solimano / Süleymaniye Camii, 10, 237, 289-290, 293, 346, 354, 362, 294, 299, 349-353; cpl. di Yeni Valide / Nuova Moschea a Eminönü, 305, 362, 402; conv. di S. Francesco a Karaköy, 306; f. Arcadii, o dello Xerolophos, 34, 282, 292; f. di Costantino, 26-28, 29, 42, 279; f. Tauri, 34, 42, 53, 62, 64, 257, 60; f. Theodosiacum, 34, 36; fontana di Ahmed III, 387, 317; fortezza di Rumeli Hisar, 225; hammam di Haseki Hürrem, 291; horrea, 31; Incili Köxk, 234; madrasa di Gazanfer Agha, 307; Makros Embolos/Uzunçarşı, 281; mausoleo di Costantino, 7, 324; mon. di Costantino Lips / Fenari Isa Camii, 62, 156, 230, 233, 240, 283, 227-228, 399; mon. di Cristo Filantropo, 234; mon. di Satiro, 223; m. di Atik Mustafa Paşa, 230, 226, 279; m. di Ayazma, 288, 320; m. di Balaban Agha, 64; m. di Beylerbeyi, 320, pal. 380; m. di Davud
Paşa, 324; m. di Firuz Agha, 326; m. di Hadim Ibrahim Paşa, 290; m. di Hirami Ahmet Paşa, 242; m. di Kara Ahmed Paşa, 290; m. di Mahmud Paşa, 324, 323; m. di Odalar, 211; m. di Rüstem Paşa, 354, 355-356, 402; m. di Tophane, 290, 380, 387, 379; m. di Turhan Sultan, 306; m. Nusretiye, 378, 380, 379; m. Toklu Dede, 283; Nea Ekklesìa, 225; pal. di Bebek, 319; pal. di Beşiktaş, 316, 310; pal. delle Blacherne, 143, 230, 234, 249, 321; pal. di Antioco v. S. Eufemia; pal. di Bryas, 219, 223-224; pal. di Çira⇔ an, 380; pal. di Costantino Porfirogenito, 326; pal. di Dolmabahçe, 378, 380, 384, 380, 392; pal. di Hormisdas, 82, 96; pal. di Ibrahim Paşa, 298, 304; pal. del Kenurgion, 143; pal. di Lausos, 39, 63; 395; pal. di Topkapı / Topkapı Sarayı, 10, 18, 43, 64, 69-70, 78, 192, 233, 252, 257, 266-267, 270, 272, 279, 282, 283, 290, 293, 297, 304, 308, 316, 318, 320, 336, 370, 378, 393, 71, 252, 259-264, 299, 367, 396, 400; pal. imperiale / Grande Palazzo, 22-26, 29-30, 108, 111, 130, 219, 223, 233, 234, 267, 107; Pal. Vecchio, 10, 283, 277; Yıldız, pal. imperiale, 378, 382, 387, 393, 392; Philadelphion, 42; Porta Aurea, 19, 34, 55, 60, 62, 64, 242, 272, 35, 256; Porta di Charisios, 55 S. Acacio all’Heptaskalon, 225; S. Agathonikos, 29, 64; S. Akakios, 29; S. Andrea in Krisei / Koça Mustafa Paşa Camii, 249, 282, 283; S. Demetrio, 176; S. Dynamis, 29; S. Emilianos, 29; S. Eufemia, 63-64, 80, 109, 182, 62; S. Giorgio delle Mangane, 156, 176, 233, 399; S. Giovanni Battista all’Hebdomon, 104, 225, 234, 397; S. Giovanni di Studios, 34, 62-64, 70, 87, 101-102, 65-68, 395; S. Giovanni in Trullo, 242; S. Irene, 29, 38, 42-43, 63, 87, 102, 140, 211, 250, 103, 141, 222, 259, 367, 397; S. Maria Chalkoprateia, 34, 211, 225, 396; S. Maria dei Mongoli / Panaghia Mougliotissa, 211, 249, 275; S. Maria delle Blacherne, 114; S. Maria Kyriotissa / Kalenderhane Camii, 104, 176, 237241, 283, 398; S. Maria Odigitria, 63, 395; S. Menas, 29; S. Metrophane, 29; S. Michele, 225; S. Mokios, 29, 37; S. Philemon, 29; S. Polieucto, 37, 72, 74, 78-80, 90, 96, 101, 104, 73-74, 77, 79, 396; S. Prokopios, 29; S. Salvatore della Chalkè / Arslan Hane, 233; S. Salvatore in Chora / Kariye Camii, 9, 109, 173, 187, 191, 196, 203-204, 208, 210-212, 214, 242, 249, 283, 326, 196, 198, 203, 205-207, 399; S. Salvatore Pantepoptes / Eski Imaret Camii, 283; S. Sofia, 8, 10, 29, 34, 38, 42, 60-61, 63-64, 69,
72, 75, 78, 87, 90, 95, 102, 109, 112, 118, 131, 140, 143-145, 157, 160, 164, 166-167, 178, 182, 218, 225, 234, 237, 242, 249, 252, 254, 266-267, 272, 283, 292-293, 297, 304, 318, 324, 326, 332, 337, 348, 362, 378, 380, 381, 387, 56-59, 9194, 158-9, 183, 255, 299, 367, 381, 395, 397; S. Teodoro / SS. Teodori / Vefa Kilise Camii, 191, 249, 326, 247-248; S. Teodosia / Gül Camii, 237, 283; SS. Anargiri, 176; SS. Apostoli, 7, 29, 38, 42-43, 63, 112, 173, 178, 225, 230, 234, 237, 242, 257, 268, 324; SS. Karpos e Papylos, martyrium, 63; SS. Pietro e Paolo, 38, 78, 82, 87, 90, 225, 282- 283, 83-86; SS. Sergio e Bacco / Küçük Aya Sofya Camii, 87, 95-96, 101, 104, 326, 83, 87, 88, 397; Sa)dabad (casa della gioia), 316, 311; Saraçhane, 62, 72; Seraskierat (Ministero della Guerra e torre di avvistamento), 379; Silahtara⇔ a, 45, 52; Silivri Kapı, 62; stazione di Sirkeci, 382; stazione di Haydarpaşa, 382; Taht al-Kal‘a / Tahtakale, 281, 290, 300; Tekfur Sarayi / pal. del Porfirogenito, 249, 242; türbe di Atik Paşa, 400; türbe di Haseki Hürrem, 348, 354; türbe di Mahmud II, 378, 379; türbe di Mustafa I, 101; türbe di Rosselana, 354; türbe di Solimano, 348, 354; Zoodochos Pegè, 272 Christie A., 382 Costanza, 43 Costanzo Cloro, 42 Costanzo II, 7, 19, 30, 34, 42-43, 45, 70, 397 Crisolora Manuele, 110 Crkvata, c. rupestre, 208 Curtea de Arzeş, mon., 208 Cunao H., 382 D’Ohsson M., 311 Dafní, mon. 167 Dagron G., 14, 19, 26, 29 Daguerre L.J., 386 Damasco, Grande m., 110, 140, 338 D’Aronco R., 382, 393 Davud Paşa, 78, 282, 362 De Amicis E., 384, 386, 393 De Angelis d’Ossat, 95 De Beaucorp G., 387 De Caranza E., 386 De Clari Robert, 111 De Nerval G., 375, 382, 384 De Villehardoin Geoffroy, 110, 178 Defterdarburnu, pal. di Hatice Sultan, 320 Deichmann F.W. , 43, 62 Delbrueck R., 111 Delfi, t. di Apollo, 118, 27 Demus O., 111 De Prangey J. Ph. Giraud, 387 Diehl Ch., 111 Diocleziano, 18, 19 Doussault Ch., 386 Du Cange, 111 Ducamp M., 384, 387 Ecclesio, 131 Edirne, m. di Beyazıd II, 335; m. Selimiye, 348, 354, 362, 370, 363-365; m. di Sokollu Mehmed Paşa, 354, 357; m. Uç Xerefelı, 9, 324, 332, 335, 325 Efeso, S. Giovanni, 60, 63, 87, 69, 102 Effenberger A., 43
Elena, 112, 151 Elia Eudoxia, 43 El-Kursi, 108 Enver Bey, 393 Eucherio, 52 Eudocia Augusta, 151, 156, 148 Eufemia di Calcedonia, 224 Eufrosine Comnena, 216 Eumathios Philocalis, 173 Euripide, 178 Eusebio di Cesarea, 29, 112, 132, 143 Eutiche, 114 Evagrio, 145 Evliya Çelebi, 308-309, 326 Eyüp, cimitero, 379; cpl. di Shahsultan e Zal Mahmud Paşa, 290; m. Cezeri Kasim Paşa, 335; tomba e santuario di Abu Ayyub al-Ansari, 297, 322 Ezechia re, 151, 154 Fenarizade Alaüddin Beg, 283 Ferrier C.-M., 387 Fidia, 39 Filarete (Antonio Averlino detto il), 268, 326 Filippi, basilica B, 69 Filippico Bardane, 140 Filostorgio, 19 Fioravanti Aristotele, 326 Firuz Agha, 282, 288 Flaubert G., 386 Flavio Vittore, 52 Follieri E., 42 Fossati Gaspard, 101, 380, 264 Fossati Giuseppe, 101, 380, 382 Fozio, patriarca, 144, 145, 166 Galata, m. di Azapkapı, 290; ponte, 378, 384, 386, 385; torre, 387, 389 Galerio, 19 Galliazzo V., 39 Gautier Th., 380, 382, 384, 393 Gavard H.-E., 375 Gavrilovi0 Z., 157 Gazda E., 53 Gedikpaşa, 52 Germano, patriarca, 148 Gérôme J.-L., 393 Gerusalemme, Cupola della Roccia, 110, 140; Santo Sepolcro, 63 Geza I d’Ungheria, 170 Giairo, 204 Gian Andrea di Valvassore, 272 293, 256, 273 Giorgio Acropolita, 178 Giorgio di Antiochia, 173 Giorgio di Cipro, 178 Giotto, 196 Giovanni I Tzimisce, 233 Giovanni II Comneno, 160, 187, 236, 242, 164 Giovanni V Paleologo, 216, 250 Giovanni VI Cantacuzeno, 214, 216, 250 Giovanni VIII Paleologo, 216 Giovanni Alessandro, 208 Giovanni Apocaukos, 178, 216 Giovanni Climaco, 134 Giovanni Crisostomo, 134, 145, 172173 Giovanni Damasceno, 140, 142, 203 Giovanni Orfanotrofo, 114 Giovanni Peralta, 250 Gioviano, 30, 41, 43 Giuliano l’apostata, 34, 43, 118 Giulio II, 355 Giuseppe d’Arimatea, 174 Giustiniano I, 8, 13, 19, 31, 37-38, 69, 72, 78, 80, 82, 95-96, 101-102, 104, 108, 118, 126, 130, 132, 134,
160, 219, 225, 254, 267-268, 274, 348, 127 Giustiniano II, 140 Giustino I, 78, 82 Giustino II, 64, 104-105, 131, 138, 398 Goodwin G., 370 Grabar A., 111, 118, 140, 157, 172 Graziano, 52 Gregorio di Nazianzo, 151, 156 Gregorio di Nissa, 191 Gregorio II, 140 Grisi E., 384 Gritti Francesco, 346 Grottaferrata, abbazia, 173 Guglielmo II, 173, 382 Gülnuş Emetullah Sultan, 306 Hadice Turhan, 305-306, 320 Halveti Nureddinzade, 344 Harrison R.M., 75, 78 Haseki Hürrem Sultan (Rosselana), 266, 290, 292, 338, 344, 360, 291 Hatice Sultan, 320 Hoffmann V., 95 Huad, san Giorgio, 108 Huarte, Michaelion, 108 Hueidjit, Halava, 108 Hüseyin Agha, 282, 348 Ibn Battuta, 281 Ibn Kemal, 321 Ibrahim Paşa, 101, 304, 301 Ignazio di Antiochia, 145, 223 Ignazio il Giovane di Costantinopoli, 145 Imperiale C., 384 Ippocrate, 216 Irene imperatrice, 142, 160, 236, 164 Isacco Comneno, 196 Isacco Sebastocrator, 242 Isfahan, pal. di Shah Abbas, 316 Isidoro di Kiev, 321 Isidoro di Mileto, 38, 95 Isidoro il Giovane, 95 Ismihan Sultana, 288, 293, 362 Jacoby D., 36 Jachmund A., 382 Janin R., 22 Joailler P., 387, 389 Jobst W., 105, 108 Kabataş, 318 Kadizade, 301 Kaleni0, mon., 208 Kaliergis Giorgio, 208 Kandinskij V., 110 Kargopulos B. (V.), 387 Khan Khaldé, 108 Khayr al-Din Paşa (Barbarossa), 333 Kiev, S. Michele, 167; S. Sofia, 167 Kılıç Ali Paşa, 290 Kitzinger E., 55, 74, 111 Koça Mustafa Paşa, 69, 282-283 Kompa, fotografo, 386 Kondakov N., 111 Köprülü famiglia, 301 Köprülü Fazıl Ahmed Paşa, 318 Kostantiniyye (Costantinopolis), 251, 373 Krautheimer R., 29, 39, 64 Krikor, patriarca, 378 Kuban D., 337, 16 Labrouste H., 378 Lacroix F., 382 La Rocca E., 13,14 Lascaris Teodoro, 178 Lazarev V., 111 Le Corbusier (Ch.-E. Jeanneret), 378 Leon Battista Alberti, 335 Leonardo da Vinci, 282, 362 Leone I, 62, 70, 72, 71, 116 Leone III, 140 Leone V, 219
Leone VI il Saggio, 157, 160, 176, 158 Leoni G., 382 Lerebours N.-M., 387 Licinio, 143 Lisippo, 26, 39 Liutprando, vescovo di Cremona, 164 Longino, 134 Lorichs Melchior, 293, 326, 255, 275, 294, 295, 325 Loti P., 384 Luigi XIII, 110 Luigi XIV, 110 Lutfi Paşa, 336 Magno Massimo, 52 Mahmud I, 322, 372 Mahmud II, 373, 375, 378, 386 Malalas Giovanni, 19 Malkin I., 13 Mamboury E., 27 Mango C., 14, 15, 18, 22, 30, 34, 42, 55, 70, 74, 78, 16 Mantran R., 355 Manuele Comneno, 43, 115, 143, 172, 174 Manuele Eugenikòs, 211 Manuele Philes, 187 Maometto, 9, 344 Marciano, 37, 43, 70, 114 Marchebeus, 382 Maria Dukaena Comnena, 187, 249 Maria l’Armena, 142 Masaccio, 213 Massenzio, 112 Massimiano (Maximianus), 132, 133 Mathews Th. F., 60, 82 Matisse H., 110 Matrakçı Nasuh, 233, 283, 293 Maurizio Tiberio, 122 Mecenate, 27 Mehmed II Fatih, 10, 95, 216, 253254, 257, 267, 272, 289, 292, 308, 321-322, 355, 362 Mehmed IV, 301, 305 Mehmed V Reşad, 393 Mehmed Agha, 10, 304, 370 Mehmed Celebi, 336 Melania,196 Melling Antoine Ignace, 310, 320, 373, 301 Mercurio, 78 Mesih Paşa, 283 Metafrasto Simeone, 174 Metodio, 148 Metodio, patriarca, 140, 143, 148 Meyer E., 60, 395 Mezra’a el-‘Ulia, 108 Michelangelo, 78, 282, 355 Michelangelo d’Epiro, 178 Michele II di Amorion, 219 Michele III, 115, 143 Michele V, 114, 160 Michele VII Dukas, 170 Michele VIII Paleologo, 178, 216, 242, 249 Michele Autorianos, 178 Michele Cerulario, 166 Michele Glabas Tarkaneiotes, 186187, 249 Michele Psellos, 114, 160, 166, 178 Michelis, 95 Mihrimah Sultana, 288, 292, 338, 344, 354 Milano, Castello Sforzesco, 72; Ospedale Maggiore, 268, 400 Mileyeva, 182, 179 Millet G., 111 Mistrà, Aphendikòs, 186; Vergine Odigitria, 208; Vergine Peribleptos, 186 Moissac, cattedrale, 143
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Monreale, cattedrale, 173 Montani P., 382 Montagu Mary, 300 Monza, duomo, 130, 127 Morosini Tommaso, 178 Mu‘awiyya, 321 Müller-Wiener W., 14, 22, 64, 16, 23, 281, 395, 397 Murad II, 216, 321 Murad III, 322, 344 Murad V, 384 Mustafa IV, 306 Mustafa, 338, 244 Mustafa Kemal, Atatürk, 387 Mustafa Reşid, 375 Mustafa Sai, 336 Naqshbandi, 333 Naumann R., 64, 397 Nea Anchialos, basilica, 69 Necipoâlu G., 326, 344, 346, 354 Nemanja Stefano, 182 Nerezi, S. Panteleimon, 174 Nestorio, 114 Nevşehirli Damad Ibrahim Paşa, 316, 318 Niceforo III Botaniate, 172, 233 Niceforo Callisto, 112 Niceforo, patriarca, 140, 148 Niceta Coniate, 115, 143, 178 Nicodemo, 174, 204 Nicola I, 166, 380 Nicola Mesarites, 178 Normand A.-N., 387 Novgorod, c. del Salvatore della Trasfigurazione, 210 Nurbanu, 10, 292 Oecumenius, 62 Ogier Ghislain de Busbecq, 293 Oikonomides N., 157 Omero, 178 Onorio, 52, 60, 112 Ormisda, 78 Ortaköy, m., 395 Osieckowska C., 157 Osman, 309 Osman III, 372 Osman Hamdi, 393 Ostrogorsky G., 109 Pacomio, 186 Palamas Gregorio, 213, 214 Palermo, Cappella Palatina, 172; Martorana / S. Maria dell’Ammiraglio, 173, Palladio Andrea, 354 Panvinio, 225 Pante E., 393 Parenzo, 102
Pasini A., 393 Patmos, S. Giovanni Teologo, 208, 211, 212 Peristera, S. Andrea, 225, 399 Pescennio Nigro, 15 Peschlow U., 70, 102 Pipino il Breve, 143 Piri Re’is b. Hajji Mehmed, 293, 297, 333, 296 Platone, 178 Pletone Giorgio Gemisto, 110, 213 Polacco, 82 Prassitele, 39 Procopio, 37, 60, 72, 82, 95-96, 145 Pseudo-Codino, 115, 172 Pseudo-Dionigi Areopagita, 95, 118, 142, 148, 167 Pulcheria, 34, 37, 63 Racine, 110 Ravenna, pal. imperiale, 60; S. Apollinare Nuovo, 60, 134; S.Vitale, 78, 102, 104, 131, 130, 133 Reşid Paşa, 378, 382 Ritter O., 382 Robertson J., 387 Roma, Cappella Sistina, 78; f. di Traiano, 34; S. Clemente, 78; S. Croce in Gerusalemme, 211, 213; S. Giovanni in Laterano, 72; S. Pietro in Vaticano, 27 Romano I Lecapeno, 230 Romano II Lecapeno, 151, 156, 148, 154 Romano III Argiro, 114, 233 Romano il Melode, 203 Rossini G. F., 346 Ruggero II di Sicilia, 172-173 Rum Mehmed, 268 Rumeli Hisar, 225 Rüstem Paşa, 288, 290, 344, 354 Safiye Sultan, 305 Saint-Georges-de-Montagne, 45, 52 Salomone, 96 San Luca / Hosios Loukas, 167 Santa Caterina del Sinai, mon., 134, 156, 133, 138 Sarigüzel, 52, 50 Sava, arcivescovo, 182 Scarsella Francesco, 256 Schedel Hardtman, 255 Schneider A.M., 42, 60, 63 Sébah P., 381, 387, 379, 389 Xehzade Mehmed, 289 Seleucia Pieria, martyrium, 108 Selim I Il Crudele, 9, 283, 289, 333, 336, 355
Selim II, 10, 292, 304, 338, 344, 354, 360, 362 Selim III, 320, 322, 373, 375, 378 Semprini G., 382 Sergio, patriarca, 140 Settimio Severo, 7, 14, 15, 18, 39 Yev/enko I, 70, 78 Seyyid Süleyman, 393 Shah Isma‘il I, 333 Shah Tahmasp I, 346 Shahsultan, 293 Sheyhulislam Ebussuud, 348 Shmueli N., 13 Sileno, 127 Silenziario Paolo, 95, 145 Sinan Yusuf, 9-10, 272, 288-290, 292, 304, 344, 336-337, 354, 362, 350 Sividio, 74 Skleraina, 233 Smith A., 387 Socrate, 29-30, 42 Sokollu Mehmed Paşa, 287, 288, 290, 293, 360, 370 Solimano il Magnifico, 9-10, 266, 283, 288-290, 290, 292-293, 304, 326, 333, 336-337, 344, 346, 355, 296, 336, 350 Sopo0ani, SS. Trinità, 182, 186, 210, 179 Sozomeno, 13 Spalato, pal. di Diocleziano, 22, 55, 60 Spitta M., 382 Staurakios, 142 Stichel R.H.W., 90 Stilicone, 52 Stobi, cattedrale, 69 Striker C.L., 104 Strzygowski J., 60, 111 Studenica, c. della Madre di Dio, 182, 179 Sueida, 108 Sultanahmet, 52, 78 Svenshon H., 90 Tarasio, patriarca, 148 Tecla, 224 Teodora, 82, 102,132, 143, 156, 170, 219, 234, 242, 130, 398 Teodora Raoulaina, 249 Teodoro Choumnos, 178 Teodoro Metochite, 191, 208, 249 Teodoro Studita, 140, 142-143 Teodosio I, 7, 14, 34, 36, 39, 42-43, 45, 52, 55, 112, 114, 41, 54 Teodosio II, 30-31, 34, 36, 39, 43, 55, 60, 62-63, 69, 118, 156, 27, 56, 398
Finito di stampare nel mese di settembre 2015 Fotocomposizione Oldoni Grafica Editoriale, Milano Selezione delle immagini Graphic, Milano Stampa e confezione Svet Print d.o.o., Ljubljana
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Teofane Continuato, 219, 223 Teofane il Greco, 186, 210-211 Teofilo, 115, 219, 223-224, 222 Tessalonica, pal. di Galerio, 22; S. Demetrio, 102, 186; S. Eutimio, 186187; S. Sofia, 145, 148, 176; SS. Apostoli, 208, 209 Tivoli, Villa Adriana, 26 Tolomeo, 283 Tolosa, villa di Chiragan, 45 Tommaso d’Aquino, 213 Torcello, duomo, 173 Traiano, 15, 34 Trdat, 95 Trebisonda, S. Sofia, 182 Tucidide, 178 Tursun Beg, 321 Tutmosis III, 27 Üsküdar, cpl. di Mihrimah Sultana, 318, 344, 354, 345-346, 402; m. di Gülnuş Emetullah, 320; m. di Rum Mehmed Paşa, 324, 268, 323; pal. dei visir, 286; pal. Kavak, 288, 286 Valente, 15, 30, 45, 237, 338 Valentiniano I, 43, 115, 116 Valentiniano II, 52-53, 55, 62, 115, 45, 54, 116 Vallaury A., 382 Vamek Dadiani, 211 Van Aelst Coeke Pieter, 326, 296 Vani Efendi, 301 Venezia, Redentore, 354; S. Giorgio Maggiore, 354; S. Marco, 8, 26, 39, 63, 72, 79, 112, 118, 156, 170, 173, 324, 74, 154, 398 Verzone P., 42 Vett C., 27 Viaud L.-M.-J., 393 Vladimir, S. Demetrio, 170 Vogt A., 26 Volbach W.F., 111 Voltaire F., 111 Von Moltke H., 375 Walsh R., 386, 374 Weitzman K., 111 Wirth E., 375 Wolf Hieronymus, 110 Wulff O., 95 Yakub Shah ibn Sultan Shah, 332 Zal Mahmud, 290, 293 Zaoutzès Stylianos, 144 Zena R., 384 Zoe, 114, 156, 160, 164, 170, 233-234 Zonara Giovanni, 95, 110 Zonaro Fausto, 393, 392 Zosimo, 13