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I musei: verso nuove frontiere

1. Blue Bot, il chatbot della compagnia KLM.

e ha imparato davvero bene: è competente – consiglia anche al cliente cosa indossare prima di partire in base al meteo –, gentile, e in grado di fare qualche battuta.

L’utilità del chatbot è ormai indubbia: ha una disponibilità continua, può assisterci h24 sette giorni su sette e gestire più conversazioni simultaneamente, ed è utilissimo per la riduzione dei costi del personale operativo di un’azienda. Può darci informazioni, può guidarci negli acquisti online, può migliorare la user experience, cioè la qualità dell’esperienza di visita di una persona sia durante la navigazione su un sito web sia durante una visita virtuale, o fisica, in un museo.

Un punto di forza di questa tecnologia è la sua facilità di fruizione: di base è uno strumento di messaggistica intuitivo che tutti sono in grado di usare poiché spesso sfrutta piattaforme già esistenti e note agli utenti come Messenger di Facebook. Dato il loro impiego in diversi settori, oggi si cerca sempre più di “personalizzare” i chatbot dando loro una specifica connotazione attraverso il tono di voce, calibrandolo sia in modo da dare all’interlocutore una percezione di “umanizzazione” sia in modo da simpatizzare con il diverso tipo di interlocutore: un chatbot per giovani adolescenti dovrà risultare più “smart” e vivace rispetto a un chatbot preposto a conversazioni nell’ambito finanziario. Questa personalizzazione è una delle chiavi del suo successo.

I chatbot sono oggi strumenti sempre più sofisticati, e il loro impiego è in continua crescita. Secondo un’indagine di Grand View Research1, si stima che il mercato globale dei chatbot raggiungerà un valore di 1,25 miliardi di dollari entro il 2025, con una crescita annuale del 24,3% dal 2017 al 2025.

L’uso di un chatbot, o di un Intelligent Personal Assistant come Siri, sta diventando per molte persone un’abitudine. Solo negli Stati Uniti si è stimato che:

128 milioni di persone negli Stati Uniti utilizzeranno un assistente vocale almeno una volta al mese nel 2020, in aumento dell’11,1% rispetto ai 115,2 milioni del 2019. Ciò rappresenta il 44,2% degli utenti di Internet e il 38,5% della popolazione totale2 .

Come si insegna a parlare a una macchina?

Le macchine hanno un linguaggio ben lontano dal nostro e per ottenere una conversazione uomo-macchina la simulazione del nostro linguaggio è il punto di partenza, l’abc per costruire un dialogo. Questo abc è il Natural Language Processing, un procedimento in cui si insegna alla macchina a riconoscere e imitare il nostro linguaggio: le parole, la grammatica, la sintassi, le relazioni semantiche. Il Natural Language Processing (NLP) si riferisce quindi alla capacità di una macchina di riconoscere il nostro linguaggio “naturale” e di riprodurlo semplicemente simulandolo.

Per andare oltre questo livello e arrivare alla comprensione, dobbiamo passare a un concetto più ampio di elaborazione del linguaggio naturale, ovvero al Natural Language Understanding (NLU) che permette alla macchina di arrivare alla comprensione di un testo, o di rispondere a specifiche domande come un chatbot.

NLP e NLU condividono l’obiettivo di dare un senso al concetto di linguaggio naturale come comunicazione verbale uomo-macchina. Negli ultimi decenni sono stati fatti grandi passi in questo settore: dal pioneristico lavoro di Alan Touring siamo

arrivati all’applicazione di algoritmi di Deep Learning che permettono alle macchine una “comprensione” del nostro linguaggio naturale.

Quando nasce la “tecnologia chatbot”?

Per comprendere un chatbot inteso come forma di Intelligenza Artificiale dobbiamo fare un passo indietro negli anni. Nel 1950 Alan Turing pubblica un famoso articolo sulla rivista Mind3 dal titolo «Computing Machinery and Intelligence». Turing si chiede: «Una macchina può pensare?». E per rispondere a questo importante quesito crea l’Imitation Game, oggi definito il “Test di Turing”, che consiste nel mettere in tre stanze due persone e una macchina che parlano tra loro tramite un’interfaccia. Quando l’interrogante non è più in grado di distinguere se sta parlando con la macchina o con l’altro essere umano vuol dire che il Test è stato superato. Al di là dell’importanza del Test di Touring nella storia della ricerca per definire l’intelligenza di una macchina, ci troviamo di fronte a un primo chatbot.

Il precursore del moderno chatbot è ELIZA4, creato nel 1966 da Joseph Weizenbaum e messo a punto dal MIT (Istituto di Tecnologia del Massachusetts), in grado di simulare una conversazione con

2. Il precursore dei moderni chatbot ELIZA.

www.youtube.com/ watch?v=r7E1TJ1HtM0 How does IBM Watson work?

www.youtube.com/ watch?v=P18EdAKuC1U Watson and the Jeopardy! Challenge IBM Research. uno psicoterapeuta rogersiano. ELIZA era stato programmato per riconoscere parole chiave, le cue-words5, che le permettevano di centrare il senso della frase – o della domanda – e di poter quindi formulare risposte in linea con il senso del discorso.

Il nome ELIZA fa riferimento alla popolana fioraia Eliza Doolittle, che troviamo nella commedia Pigmalione di George Bernard Shaw, in cui il professor Higgins, grande esperto di fonetica, scommette che sarebbe riuscito a trasformare ELIZA in una raffinata dama insegnandole il corretto linguaggio e l’accento dell’alta società.

Il lavoro per creare un chatbot non è così lontano da quello del professor Higgins perché anche il chatbot necessita di conoscere – e usare – il giusto linguaggio – quello umano ovviamente – per essere in grado di colloquiare correttamente.

Nel 1995 viene creato A.L.I.C.E. (Artificial Linguistic Internet Computer Entity), un chatbot “open source” programmato con il linguaggio A.I.M.L. (Artificial Intelligence Markup Language). Rispetto a ELIZA, A.L.I.C.E. è un chatbot più evoluto e il risultato finale è una migliore qualità della narrazione e del dialogo. Lo scienziato e programmatore Richard S. Wallace, che lo ha creato, è stato insignito ben tre volte del premio Loebner nel 2000, 2001 e 2004: questo ambito premio viene assegnato al Bot che riesce meglio a dialogare come un umano ed è basato sull’esecuzione del test di Turing.

Con il nuovo millennio sono stati fatti passi da giganti nello sviluppo di chatbot.

Nel 2006 arriva IBM Watson6 – sviluppato all’interno del progetto DeepQA di IBM – e creato per sfidare i concorrenti del programma americano Jeopardy!7, un quiz televisivo molto in voga al tempo.

Con la sfida Jeopardy!, abbiamo realizzato ciò che si pensava fosse impossibile: costruire un sistema informatico che opera nel regno quasi illimitato, ambiguo e altamente contestuale del linguaggio e della conoscenza umana. Dr. David Ferrucci IBM Fellow e scienziato a capo del team di ricerca IBM che ha creato Watson8

Watson riuscì a vincere a Jeopardy!. Oggi IBM Watson è stato potenziato con le più recenti innovazioni del machine learning9 – in realtà è diventato molto più di un semplice chatbot – ed è impiegato in diversi contesti compreso il settore sanitario per il quale è utilizzato in progetti realmente innovativi.

Dove siamo arrivati oggi?

Negli ultimi 10 anni l’evoluzione di queste nuove tecnologie è stato rapidissimo. Oggi i chatbot sono in grado di apprendere autonomamente e migliorarsi – grazie al machine learning continua a imparare (continuous learning). Un esempio è dato dagli assistenti vocali come Siri, Google Home e Alexa Amazon Echo. In realtà questi tre dispositivi sono qualcosa in più di una chatbot: non solo parlano e interagiscono con l’utente, ma eseguono comandi come accendere luci, impostare la temperatura in casa o mandare una e-mail. Il primo Intelligent Personal Assistant su smartphoneè stato Siri, introdotto nel 2011 – un’innovazione tecnologica rivoluzionaria. L’algoritmo di Intelligenza Artificiale di questi assistenti virtuali è in grado di comprendere il linguaggio naturale dell’utente, di fornire la risposta più pertinente e, come abbiamo detto, di eseguire comandi. Ogni volta che poniamo una domanda a questi dispositivi interagiamo direttamente con l’Intelligenza Artificiale. Oltre che per la rapida evoluzione, questi tre prodotti sorprendono anche per la sempre più ampia diffusione sul mercato, e non solo per il loro utilizzo all’interno delle nostre case. Questi assistenti virtuali sono in grado oggi di comprendere il contesto di riferimento di una domanda o di una richiesta sfruttando la comprensione della lingua naturale (NLU), del NLP e del Machine Learning per continuare a imparare, e quindi a migliorarsi.

Musei e tecnologia chatbot: perché i musei dovrebbero usarla?

Rispondo a questa domanda con tre parole: coinvolgimento, utilità, fidelizzazione. In ambito museale l’uso di un chatbot può aiutare nel processo di coinvolgimento del visitatore lungo il percorso di visita di una mostra o di un museo. La chiave del successo dei chatbot nei musei è che con questa tecnologia si offre ai visitatori un servizio atto a migliorare l’esperienza museale consentendo di esplorare le tematiche di maggiore interesse, ed è il visitatore a scegliere quale tematica approfondire. Con lo sviluppo e l’uso di tecnologie chatbot si è trovato quindi un modo – nuovo ed educativo – per coinvolgere il pubblico e in particolare, attraverso progetti orientati alla gamification e allo storytelling, si è ottenuto il coinvolgimento del pubblico più giovane. I musei sono stati in prima linea nello sviluppo della “personalità” dei chatbot che non solo “chattano” e forniscono informazioni, ma lo fanno con uno stile, a volte con un “volto” che li rende più interessanti, e divertenti, in breve riescono a “coinvolgere” il pubblico creando nuove esperienze di fruizione.

E non solo.

Il chatbot è utile per diversi motivi. Abbiamo visto che può essere un assistente virtuale di grande supporto durante la visita virtuale di un sito: infatti può suggerire percorsi di visita online in base ai propri interessi, o dare informazioni pratiche su quando aprirà una mostra o sul costo di un biglietto. L’utilità di un chatbot è ancor più rilevante in quei musei che, per propria conformazione storica o architettonica, non possano stravolgere il percorso di visita installando pannelli informativi fisici o multimediali. In questi casi è quanto di più utile poiché è in grado di offrire le informazioni aggiuntive sul percorso di visita in modo non invasivo, semplicemente a portata di smartphone.

Il chatbot infine può fidelizzare il pubblico che ha imparato a conoscere questo strumento e ne ha esplorato già l’utilità. A questo scopo il Maxxi proponeva un incentivo: più si chattava con il Bot, più si accumulavano monete virtuali da spendere nel museo, le Museum Coins, per ottenere ad esempio sconti sul biglietto d’ingresso.

Un’ultima considerazione: il chatbot continua ad assistere il visitatore e a essere uno strumento informativo anche dopo la visita fisica al museo. Poter chattare per chiedere informazioni su un dipinto che abbiamo visto esposto a distanza di giorni dalla nostra visita e in qualunque posto noi ci troviamo è sicuramente un valore aggiunto.

Vediamo ora alcuni esempi di successo dell’uso del chatbot nei musei.

La Casa di Anna Frank10

Nel 2017 la casa Museo di Anna Frank ha lanciato il suo primo chatbot basato su Intelligenza Artificiale e progettato per fornire sia informazioni pratiche sia informazioni specifiche sulla vita di Anna Frank. La Casa di Anna Frank è il primo museo al mondo a utilizzare questa tecnologia sulla piattaforma Messenger. Con l’introduzione del Bot Anna Frank House per Messenger, i visitatori possono ricevere risposte personalizzate e immediate alle domande, 24 ore al giorno.

Ronald Leopold, amministratore delegato della Anne Frank Foundation ha illustrato lo scopo di questo Bot:

Vogliamo condividere la storia della vita di Anna Frank con il maggior numero possibile di persone. Persone provenienti da tutto il mondo possono ora ricevere risposte istantanee alle loro domande su Anna Frank, la sua famiglia, il diario di Anna e l’era in cui vivevano. Con questo bot, Facebook Netherlands ci offre una possibilità innovativa di raggiungere un grande pubblico, in particolare i giovani11 .

www.youtube.com/ watch?v=YPH4vUWcN2U Anne Frank House bot for Messenger launch.

Il museo Anna Frank raggiunge 1,3 milioni di visitatori ogni anno e la metà dei visitatori ha meno di 30 anni. Basato sull’Intelligenza Artificiale di deep learning di MSG.AI, il bot impara a comprendere il contesto delle domande per fornire contenuti, dare informazioni, e coinvolgere.

«L’esperienza del consumatore digitale è sull’orlo del cambiamento più significativo dopo lo smartphone. La messaggistica sta diventando il nuovo browser e il gateway on-demand per la vita dei consumatori, con l’Intelligenza Artificiale che è la nuova interfaccia utente» ha dichiarato Puneet Mehta, Fondatore e CEO di MSG. AI, e ha aggiunto: «Con il nuovo bot, Anne Frank House offre ai consumatori l’esperienza digitale del futuro: personalizzata, informativa, immediata [..]. Siamo entusiasti che la piattaforma MSG.AI di deep learning sia parte di un programma così rivoluzionario»12 . Nel video che trovate cliccando sul QR code aggiunge: «Artificial intelligence is all about humanizing technology and the Anne Frank House is all about that human connection».

3. Interfaccia del Bot Anna Frank House.

Chattare con un dinosauro13

rb.gy/359t0t Message Máximo the Titanosaur, The Field Museum.

Nel 2018 il Field Museum of Natural History a Chicago in Illinois ha introdotto un chatbot davvero originale che ha avuto un grande successo: è Máximo, che permette di parlare con Máximo il Titanosauro. Bisogna dirlo: è un chatbot davvero ben studiato e molto divertente ed è ancora disponibile online – bisogna parlargli in inglese. Sulla pagina web dedicata a Máximo leggiamo:

Attraverso la chat online puoi chiedere al nostro simpatico titanosauro com’era la vita durante il Periodo Cretaceo, come è arrivato al museo e persino il suo colore preferito o cosa gli piace mangiare.

Attraverso un’interfaccia molto semplice l’interlocutore di questa chat, il dinosauro Máximo, è in grado di rispondere a tutte le domande sulla sua vita, il periodo storico in cui è vissuto, i suoi gusti. E non solo. Ho provato più e più volte questo chatbot e dopo aver esaurito tutte le mie possibili domande, gli ho chiesto se per rispondermi usava l’Intelligenza Artificiale, e Máximo mi ha risposto: «Personalmente non sono abbastanza sicuro di come funzioni. Sono affascinato dalla tecnologia, soprattutto dopo essere stato sottoterra per 101 milioni di anni». Oltre a essere in grado di dare – tante! – informazioni, è anche simpatico. Il chatbot

Máximo è uno strumento valido e utile per avvicinare i più piccoli alla scoperta della storia di questo nostro mondo, e alla tecnologia contemporanea.

4, 5. Il chatbot del Field Museum of Natural History a Chicago in Illinois e una delle sale del museo.

Il Chatbot che ti premia: il Museo Maxxi14

Maxxi chatbot: «Ciao, sono il chatbot del museo e posso accompagnarti alla scoperta del Maxxi. Cercami su Facebook Messenger digitando @museomaxxi. Con me potrai accumulare Museum Coin. Ti aspetto!».

Nel marzo del 2018, il Maxxi di Roma ha messo a disposizione un chatbot per andare alla scoperta delle collezioni ospitate in questo straordinario edificio progettato da Zaha Hadid. Chattando su Facebook Messenger si potevano avere risposte a tante domande pratiche: «Quali giorni è aperto il museo?», «Quali sono le mostre in corso?». Non solo. Durante la visita virtuale, si potevano accumulare i Museum Coin, le monete virtuali da spendere all’interno del Maxxi.

I Museum Coin sono la moneta che puoi accumulare interagendo con il chatbot del Maxxi durante la tua visita al museo. Lungo il percorso puoi decidere se spendere Museum Coin al raggiungimento di tre livelli differenti: 300, 600 o 1.000 richiedendo, direttamente nella chat, il codice di utilizzo.

www.youtube.com/ watch?v=M3l4d18aXfI Maxxi chatbot.

Il progetto ha avuto una sua seconda release a maggio 2020: In base alle emozioni comunicate – rabbia, tristezza, gioia, paura etc. – il chatbot ti accompagnava a esplorare le opere del Maxxi suggerite

6. Il chatbot del Museo Maxxi. 7. Il chatbot del Museo Maxxi.

www.youtube.com/ watch?v=os_shHyK3-0 Museu do Amanhã, presentazione di Iris+. in base al proprio stato d’animo. Questo chatbot è stato realizzato in collaborazione con Engineering, leader italiano nella Digital Transformation, ed è rimasto attivo fino a giugno 2021.

Il Museo del Domani che guarda al Futuro15

Il Museu do Amanhã a Rio de Janeiro16 si definisce come «a Singular Museum in search of a plural future». Il curatore Luiz Alberto Oliveira ben descrive la mission del museo come la realizzazione di «una serie di esperienze in cui i visitatori possono gradualmente acquisire i mezzi e le risorse per vivere le possibilità del domani che si presentano già oggi». Non poteva mancare in questo museo un chatbot realizzato con l’Intelligenza Artificiale.

IRIS+ è il progetto che permette ai visitatori di approfondire la loro esperienza al Museo del Domani. Costruito con IBM Watson, è stato sviluppato non solo per rispondere ai visitatori, ma anche per fare domande.

Nello specifico, IRIS+ è stato creato per interagire con il visitatore durante il percorso di visita alla Mostra Principale del Museu do Amanhã, con lo scopo di incoraggiare la riflessione sul ruolo della società di oggi e agire per un domani più consapevole e sostenibile. All’ingresso di questo museo – uno “spazio scientifico” che esamina il passato, illustra le tendenze del presente ed esplora possibili scenari per i prossimi 50 anni – il visitatore riceve la carta dell’assistente virtuale. Alla fine del percorso sono ubicati sei totem self-service, due dei quali sono a uso prioritario di persone su sedia a rotelle e di bambini. Il dialogo inizia quando il visitatore indica la sua principale preoccupazione in relazione a quanto ha visto e approfondito nel percorso di visita. IRIS+ presenterà progetti di varie organizzazioni, fondazioni e istituzioni brasiliane, previamente catalogati dal team del Museo di Domani, che potranno condurlo a un impegno sociale.

Per realizzare IRIS+ è stata utilizzata l’API di programmazione delle applicazioni Watson Conversation Service (WCS) ospitata su IBM Cloud. L’applicazione è stata addestrata a rispondere alle domande e anche a porre domande, guidando un dialogo con i visitatori sui due principali assi tematici del Museo del Domani: supporto e convivenza.

Case Study: un chatbot per le Case Museo di Milano

Dopo aver visto come l’impiego di chatbot all’interno dei musei rappresenti uno strumento estremamente utile, versatile e attuale, vediamo ora nel dettaglio un progetto di successo che ha coinvolto e motivato i più giovani nella visita e scoperta delle Case Museo di Milano17 .

Una piccola premessa: le Case Museo di Milano sono costituite da quattro realtà: Museo Poldi Pezzoli, Museo Bagatti Valsecchi, Villa Necchi Campiglio e Casa Boschi di Stefano. Questi meravigliosi luoghi d’arte sono storiche case di collezionisti privati che hanno aperto le loro porte al pubblico. L’impianto è classico, spesso con muri importanti – da tener conto per la portabilità di Internet –, come ad esempio il Museo Poldi Pezzoli, aperto al pubblico sin dal 1881, che

www.invisiblestudio.net/museumchatbot-game Museum Chatbot Game. 8. Il chatbot delle Case Museo di Milano.

espone un prezioso corpus di opere: da Sandro Botticelli al Pollaiolo, da antichi arredi ottocenteschi ai pregiati orologi meccanici.

La sfida che si sono proposte le Case Museo è stata quella di avvicinare e invogliare alla visita il pubblico adolescente. Coinvolgere i giovani è sempre un progetto ambizioso per un museo e lo è ancora di più se la realtà museale è costituita da realtà storica con opere che spaziano dai Fondi Oro al Novecento. Per raggiungere questo obiettivo le Case Museo hanno contattato la società di innovazione culturale, InvisibleStudio18 con sede a Londra, fondata da Giuliano Gaia e Stefania Boiano.

Quale progetto può coinvolgere un pubblico adolescente?

Per rispondere a questa domanda il team di InvisibleStudio ha adottato un metodo di problem solving creativo – il Design Thinking –‚ studiando i punti di forza e di debolezza del pubblico giovane per individuare e creare un progetto ad hoc. Hanno tenuto conto di due fattori fondamentali: gli adolescenti sono un pubblico con alti livelli di distrazione e molta dimestichezza con l’uso dei social media. Una proposta interattiva come la gamification, attraverso lo sviluppo di un gioco con l’impiego di chatbot studiato e rivolto agli adolescenti, si è rivelata la scelta vincente.

Il team di InvisibleStudio aveva sperimentato la tecnologia dei chatbot con un progetto pioneristico nel 2002, al Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, quando

ancora la tecnologia non ne supportava bene l’uso – non c’erano ancora gli smartphone!

Forti dell’esperienza maturata negli anni, per le Case Museo InvisibleStudio ha realizzato un gioco: una caccia al tesoro. Il chatbot è diventato quindi lo strumento per aiutare il pubblico a risolvere un gioco ambientato negli spazi fisici dei musei. Per partecipare si necessita solo di uno smartphone e attraverso Facebook e Messenger si può interagire con un personaggio virtuale, una giovane ragazza, che guida gli utenti alla scoperta di una serie di indizi nascosti per sconfiggere un misterioso mago del Rinascimento, realmente esistito. Il chatbot è diventato così un “compagno virtuale” in un percorso di gioco e scoperta che implica la visita nei musei.

Prima del lancio finale, InvisibleStudio ha condotto un test operativo coinvolgendo adolescenti di età compresa tra i 16 e i 18 anni delle scuole superiori di Milano:

Se i test avranno successo, nell’autunno 2016 offriremo ai musei la possibilità di provare le nostre chat. Pensiamo che i musei potrebbero essere attratti dall’idea di testare il potenziale delle piattaforme di messaggistica, sia come nuovo modo di coinvolgere il pubblico che come strumento di marketing per attirare nuovi visitatori19 .

Ecco i risultati20: • Il 90% degli studenti è riuscito a completare il gioco • Il 30% ha avuto problemi di connessione • Il 34% era preoccupato per il traffico dati • L’88% ha scoperto che la lunghezza del gioco era giusta • Il 72% ha valutato il gioco come altamente divertente • Il 66% lo ha trovato un utile strumento di apprendimento, soprattutto se utilizzato insieme a un altro studente o condiviso in piccoli gruppi

Il Gioco è stato completato da nove adolescenti su dieci e sette ragazzi su dieci si sono molto divertiti. Oltre al risultato positivo del test, gli sviluppatori hanno tenuto conto di due fattori: in primis agli studenti piaceva usare il chatbot in piccoli gruppi, poiché il gioco andava a innescare una competizione amichevole con gli altri team (Boiano & Gaia 2017b). Il secondo punto riguarda il livello di narrazione con il chatbot che è stato reso più realistico e coinvolgente attraverso riferimenti diretti a oggetti e opere presenti nei Musei.

Un “punto di debolezza” è stata la qualità della connessione: non sempre uniforme all’interno delle Case Museo che con le antiche e spesse pareti non permettono una buona qualità del wifi – problema oggi superato con gli ultimi modem disponibili sul mercato.

Come hanno sottolineato gli autori di questo progetto, «altre sfide devono ancora essere affrontate»21: con la possibilità di API più aperte, i chatbot potrebbero essere migliorati e sviluppati per un pubblico potenzialmente più ampio e rivelarsi uno strumento utile per implementare il coinvolgimento nel percorso museale.

9. Visita al Museo Poldi Pezzoli di Milano con l’assistenza del chatbot di InvisibleStudio.

Conclusione e riflessioni

Per il Case Study sul chatbot ho selezionato il progetto delle Case Museo Milanesi per due motivi. Il primo: la società InvisibleStudio con l’approccio metodologico Design Thinking ha effettua-

to un’attenta analisi sul tema “portare i giovani al museo” trovando come soluzione – e sperimentandolo con successo – il progetto del chatbot sviluppato come caccia al tesoro. I giovani oggi hanno molta dimestichezza con tutte le nuove tecnologie ed è difficile – direi impossibile – trovare in un museo un solo adolescente che non usi il suo smartphone. Trasformare quindi uno strumento, lo smartphone, che potrebbe essere solo una “distrazione” nel percorso museale, in uno strumento di supporto e di coinvolgimento per la visita stessa, è un importante punto di riflessione.

Tuttavia, sebbene vi siano stati molti casi di successo di questa tecnologia, deve ancora essere migliorata. Una prossima evoluzione di un chatbot con migliore qualità narrativa e con l’inserimento della realtà aumentata potrebbe rivelarsi vincente, coinvolgente e soprattutto educativa. Arriviamo al secondo motivo: ci sono realtà museali che per la loro struttura consentono l’inserimento fisico di pannelli interattivi e guide robotiche all’interno del percorso di visita. Pensiamo ai grandi musei americani di recente costruzione con ampi spazi espositivi e percorsi moderni: in questi ambienti è facile introdurre una tecnologia fisica – già c’è! – come un grande totem multimediale che interagisce col pubblico o una guida robotica che accompagna il visitatore. Ma quando si parla di piccole realtà museali e nello specifico di antica costruzione, oltre all’impossibilità concreta di introdurre interfacce fisiche, si rischia di snaturare e alterare la conformazione di una struttura espositiva che per la sua storicità è già un’attrazione. In Europa abbiamo tantissime piccole realtà artistiche: un esempio ne è la miriade di meravigliose chiese ubicate in piccoli paesi che ospitano al loro interno preziose pale o straordinari affreschi. Non possiamo certo alterare l’impianto strutturale di grande pregio storico e artistico di queste realtà, ma dobbiamo studiare un percorso di visita ad hoc per valorizzarle. Sempre in questa analisi includo i parchi e i giardini storici laddove l’installazione è il giardino stesso e, per queste realtà, un supporto per approfondirne il percorso di visita sarebbe davvero importante. Una proposta per valorizzare queste realtà e coinvolgere anche i più giovani potrebbe essere proprio un chatbot inteso in un’ottica di sviluppo con la realtà aumentata o un assistente virtuale intelligente. Il chatbot ha la potenzialità di unire una componente sociale, culturale e tecnologica, e di offrire un percorso di scoperta sotto forma di gioco come la caccia al tesoro, o di approfondimento. Immagino un percorso di visita nelle chiese piemontesi sotto forma di caccia al tesoro supportata dalle scuole locali. Oppure una visita a un giardino alla francese nella campagna fuori Parigi con la possibilità di conoscere la storia delle sue essenze botaniche attraverso una chat.

Vorrei sottolineare che una visita in un museo è un’esperienza unica, preziosa, emotiva, personale e sempre educativa. La contemplazione fisica, l’intima emozione e la riflessione personale davanti a un’opera d’arte è insostituibile. Nessun mezzo potrà mai sostituire quel coinvolgimento dato dalla contemplazione della Gioconda di Leonardo, delle Tre Grazie di Canova, di un grande dipinto di un artista della Hudson River School o di un ritratto di Botticelli. Il chatbot va quindi inteso come uno strumento di supporto al coinvolgimento e come uno strumento di approfondimento – che reputo possa essere ben impiegato anche a livello scolare, visto il risultato positivo raccolto dal progetto della InvisibleStudio.

Oltre a queste due importanti considerazioni ne aggiungo una terza: dobbiamo sempre pensare che il museo è un’istituzione volta alla fruizione pubblica e la nostra popolazione è composta da un’alta percentuale di persone disabili. Il chatbot potrebbe rivelarsi uno strumento utile per il percorso di inclusione di persone con disabilità. Pensiamo per esempio a integrare il percorso di visita museale con persone non vedenti che possono conoscere le opere d’arte con un assistente vocale connesso a un pannello che prenda la forma 3D delle opere esposte – una visione, ma ci arriveremo. Il Museu do Amanhã a Rio de Janeiro ha messo a disposizione due dei suoi totem del chatbot IRIS+ per persone su sedia a rotelle, e la possibilità di parlare – oltre che scrivere – lo rende accessibile anche ai non udenti. Ricordiamolo sempre: la cultura è per tutti, deve essere inclusiva, e l’Intelligenza Artificiale si sta dimostrando una valida risorsa in questo percorso di sviluppo e inclusione.

Le nuove guide robotiche

1. RoboThespian, Engineered Arts Ltd, Falmouth. «I robot erediteranno la terra? Sì, ma saranno i nostri figli.» Marvin Minsky

Creare sistemi meccanici autonomi e intelligenti, un alter ego vivente, è sempre stato un desiderio dell’uomo. Dai miti antichi alla letteratura più recente, troviamo un’infinità di racconti di esseri “artificiali” che prendono vita: dal Golem, il gigante d’argilla della tradizione ebraica, al Pinocchio di Collodi, il burattino di legno che diventa un bambino, fino a Roy Batty nel film di fantascienza Blade Runner, tratto dal romanzo di Philip K. Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche?

In questo capitolo espongo in estrema sintesi la storia della nascita dei robot, la loro evoluzione nel corso dei secoli fino alle nuove tipologie attualmente impiegate nel mondo museale.

La robotica moderna affonda le sue radici in un’affascinante storia di ardite invenzioni meccaniche e oggi è arrivata a coinvolgere molteplici discipline quali l’informatica, la cibernetica, la meccanica, l’elettronica, la meccatronica e l’Intelligenza Artificiale – per citarne solo alcune.

Ma cos’è un robot? Tra le tante definizioni, Hans Moravec, Principal research scientist presso il Carnegie Mellon University Robotics Institute, in un’intervista del 1997 definiva il robot universale come:

Una macchina che può essere programmata per svolgere molti lavori diversi. È analogo a un computer, che è un processore di informazioni universale, tranne per il fatto che le sue capacità si estendono al mondo fisico1 .

Mi piace questa definizione perché sottolinea la peculiarità della fisicità del robot ovvero la caratteristica che lo contraddistingue dalle altre macchine. E ancora per raffinare la definizione di robot, Michael Brady, fondatore del Robotics Research Group dell’Università di Oxford scrive che «la robotica è quel campo che si occupa della connessione della percezione all’azione»2, e prosegue: «L’Intelligenza Artificiale deve avere un ruolo centrale nella robotica se la connessione vuole essere intelligente».

Chi ha inventato la parola “robot”?

La parola robot è stata usata per la prima volta nel romanzo R.U.R. (Rossum’s Universal Robots) dello scrittore ceco Karel \apek, un romanzo di fantascienza pubblicato nel 1920. Nel libro lo scrittore usa la parola robota per descrivere l’operaio artificiale: la macchina che svolgeva il “lavoro faticoso”. R.U.R. ottiene un grande successo e viene rappresentato in molti teatri da New York a Praga ed ecco la rapida diffusione del termine robot, assimilato in quasi tutte le lingue del mondo. In realtà, il vero inventore della parola fu il fratello di Karel, Josef – scrittore e pittore cubista – che suggerì robot al posto dell’originario “labor”.

Troviamo il termine inglese robotics per la prima volta nel racconto di fantascienza Bugiardo! (Liar!, 1941) dello scrittore Isaac Asimov. Sempre ad Asimov si deve l’invenzione delle Tre Leggi della Robotica3 enunciate nel racconto Runaround (1942)4 incluso anche nell’antologia Io, Robot.

Quando è stato creato il primo robot? Dalle creazioni meccaniche ai robot

L’uomo si è cimentato nella creazione di macchine in grado di eseguire specifiche funzioni fin da tempi antichissimi. In questa sede accenno solo alcuni dei momenti di questa lunga storia. I primi esperimenti hanno dato origine a ingegnose realizzazioni meccaniche in grado di compiere specifici movimenti. Già nel I secolo d.C. il matematico e fisico greco Erone di Alessandria ideava e costruiva automi, invenzioni visionarie per l’epoca. Ancora più indietro nel tempo, nel IV secolo a.C., Aristotele ci parla di automi e ci racconta di una visione:

Le tre Leggi della robotica scritte da Isaac Asimov

1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.

3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo e, come dicono che fanno le statue di Dedalo o i tripodi di Efesto, i quali, a sentire il poeta, “entrano di proprio impulso nel consesso divino”, così anche le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi5 .

Tra il 1204 e il 1206 lo scienziato arabo Al-Jazari scrive il Libro della conoscenza dei meccanismi ingegnosi dalla cui lettura possiamo comprendere quanto fosse avanzata la ricerca tecnologica nel Vicino Oriente. Nel XVI e XVII secolo vengono realizzati straordinari orologi che sono veri capolavori di ingegneria e oreficeria. Proprio mentre scrivevo questo capitolo sono andata al MUDEC di Milano per la mostra Robot. The Human Project e ho potuto ammirare oggetti meccanici antichi tra cui anche la ricostruzione di un primo progetto di un automa a opera di Leonardo da Vinci:

un leone meccanico semovente, presentato nel 1515 in segno di omaggio al nuovo re di Francia Francesco I in occasione del suo ingresso a Lione. In mostra, tra le creazioni meccaniche antenate dei robot, c’era il “Gioco potorio a forma di Diana Cacciatrice a cavallo di un cervo”. Si tratta di un Trinkspiele, ossia un congegno pensato per divertire i commensali: di certo riusciva nel suo intento grazie a un meccanismo che gli permetteva di muoversi ruotando su sé stesso.

Alle Civiche Raccolte d’Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano, mi ha stupito l’incredibile automa seicentesco dello schiavo incatenato6: ha le sembianze di un diavolo ed è in grado di agitarsi e urlare terrorizzando gli ospiti.

Percorrendo la storia degli automi arriviamo in Giappone, forte di una tradizione e cultura ingegneristica che affonda le sue radici nel XVII secolo quando gli artigiani-meccanici giapponesi crearono le Karakuri, straordinarie bambole meccaniche in grado di compiere azioni finite: per esempio potevano danzare o servire il tè, oltre a essere esteticamente molto ricercate. Tra il ’600 e il ’700 abbiamo svariate realizzazioni di animali meccanici e automi, ma dobbiamo aspettare il 1738 per vedere il primo automa funzionante in senso moderno: creato da Jacques de Vaucanson, questo robot era in grado di suonare il flauto, ossia di eseguire autonomamente una serie di movimenti complessi.

Dopo tante e strabilianti realizzazioni meccaniche nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, arriviamo ai nostri anni ’60 quando, grazie a un’avanzata evoluzione tecnologica, i robot vengono largamente impiegati come supporto nella produzione industriale: nascono i robot della prima generazione, non più creazioni meccaniche ma veri e propri dispositivi robotici. Siamo nel 1961 quando la General Motors introduce il primo robot industriale produttivo nella sua fabbrica di automobili in New Jersey. Questi robot erano sostanzialmente macchine programmabili che non comunicavano con l’esterno. Erano soprannominati “robot fracassoni” per il rumore che emettevano poiché i loro bracci meccanici urtavano contro dei fermi posti per limitarne i movimenti.

Dalla prima alla seconda generazione di robot il passo è molto breve. I robot di seconda generazione sono più evoluti rispetto ai primi: compiono azioni specifiche e strutturate, interagiscono con l’ambiente esterno e hanno una migliore strategia di controllo – alcuni sono dotati anche di servocontrollo.

Per arrivare ai robot della terza generazione il passo è stato invece molto grande. Questi robot, infatti, sono macchine evolute che possiedono un’Intelligenza Artificiale: hanno la capacità di agire in autonomia e di elaborare dati acquisiti a livello sensoriale

2. Ricostruzione funzionante del leone meccanico semovente progettato da Leonardo da Vinci. Luca Garai e Opera Laboratori fiorentini, 2005. © Bologna, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna.

al fine di regolare il loro movimento. Alcuni sono in grado di migliorarsi per eseguire nuovi compiti e possono superare l’uomo in efficienza in determinate azioni come il processo di saldatura. È importante rilevare che i robot, a differenza dei computer, sono dotati di capacità percettiva che attraverso dei sensori permette loro di percepire la propria posizione: dispongono infatti di sensori tattili o di telecamere per la percezione visiva. I robot di terza generazione, databili dalla fine degli anni Ottanta, possono svolgere già operazioni altamente sofisticate: dalle ispezioni spaziali alla saldatura ad arco adattiva.

E i robot di oggi?7

Arriviamo ai robot 4.0 ossia i robot della Quarta rivoluzione industriale di cui fanno parte i robot industriali tecnologicamente più avanzati: “gli umanoidi”, ossia robot autonomi molto sofisticati, e infine “gli androidi” che differiscono sostanzialmente nell’estetica: gli umanoidi replicano infatti le fattezze umane somigliando a tutti gli effetti a delle persone.

I robot industriali e i cobot – robot collaborativi – sono stati utilizzati inizialmente nei settori produttivi al fine di automatizzare le industrie per accelerarne i tempi di produzione abbattendone i costi: sono robot i moderni bracci meccanici che troviamo sulle linee di assemblaggio o di immagazzinaggio delle più svariate aziende.

Ma i robot di oggi sono utilizzati in molteplici settori: nel campo della medicina come ausilio, tra i tanti, in interventi chirurgici complessi fino a sostituire i medici in specifiche operazioni di alta precisione. Nelle missioni esplorative, dallo spazio ai fondali marini grazie alla capacità di muoversi su terreni accidentati, o sono utilizzati per intervenire in supporto all’uomo in pericolosi casi d’emergenza: li abbiamo visti all’opera tra macerie e tetti in fiamme nel rovinoso incendio di Notre Dame de Paris nell’aprile 2019. Per finire esistono robot musicisti8 in grado di suonare improvvisando come Shimon con la sua marimba, perché i robot 4.0 sono autonomi, collaborativi, interagiscono con l’uomo: sono “robot sociali”, e così il robot è diventato anche uno strumento a supporto dell’interazione riprendendo la tradizione antica degli automi di intrattenimento.

Per questa loro funzione specifica di interazione sociale li troviamo oggi anche a interagire e supportare il pubblico durante il percorso di visita nei musei.

Dalla visione di Aristotele, con la quarta generazione di robot siamo giunti al futuro: i robot oggi imitano e riproducono sempre

shorturl.at/epPX6 Robots: from programming to learning. Torsten Kröger, TEDXKIT.

3. Sophia, l’androide sviluppato dalla compagnia di Hong Kong Hanson Robotics Limited.

www.youtube.com/ watch?v=U7jf3MYL3Xg&t=17s Shimon the robot jamming with a human marimba player at Moogfest.

4. Il robot Shimon suona la marimba combinando la modellazione computazionale della percezione musicale, dell’interazione e dell’improvvisazione, con la capacità di produrre risposte acustiche melodiche.

5. Il robot Pepper.

più efficacemente le azioni e le funzioni umane. E si apre un grande dibattito sulla questione etica.

I robot nei musei

Molti musei nel mondo si sono affidati alle ultime tecnologie robotiche e con successo. Nei luoghi d’arte possiamo incontrare due diverse tipologie di robot: le guide robotiche che accompagnano il visitatore alla scoperta delle collezioni e i robot teleguidati. Entrambi svolgono funzioni a supporto del visitatore per coinvolgerlo, per fornire informazioni aggiuntive o per permetterne una visita da remoto. Uno degli esempi di successo è Pepper9, un robot umanoide progettato nel 201410 dalla SoftBank Robotics con la capacità di leggere le emozioni, di coinvolgere il visitatore e di supportarlo nel percorso di visita. Pepper è il primo robot emotivo, progettato per essere un assistente in grado di comprendere e reagire alle principali emozioni umane e di comprendere anche il messaggio sotteso a un diverso tono di voce: è realmente sorprendente!

Guardando Pepper di primo acchito sembra d’interfacciarsi con un semplice robot ma non lasciatevi ingannare dalla sua sim-

www.youtube.com/ watch?v=AHZ1AhdUS_M The Smithsonian’s newest guide is the robot Pepper. www.youtube.com/ watch?v=N9aeg4PUxZI After Dark at Tate Britain. patia e dalla sua estetica. Pepper è un robot estremamente sofisticato soprattutto nella sua ultima versione: nel 2016 IBM e SoftBank Robotics11 hanno siglato un accordo per integrare in Pepper il sistema di Intelligenza Artificiale IBM Watson – ne abbiamo parlato nel capitolo sui Chatbot – consentendo agli sviluppatori e ai clienti di personalizzare l’esperienza d’interazione. Cosa fa Pepper? Fornisce informazioni aggiuntive sulle opere poiché dispone di uno schermo di supporto integrato, risponde alle domande e intrattiene i visitatori. La sua semplicità a livello di interazione è sicuramente il suo punto vincente. Pepper non nasce per sostituire le guide museali ma per offrire al visitatore uno strumento di maggiore godimento, personale e culturale, nel percorso di visita.

La seconda tipologia di robot che possiamo incontrare nei musei è il robot teleguidato che permette la visita al museo da remoto. Qual è la differenza tra una visita virtuale e una visita con un robot teleguidato? La risposta è semplice ma non scontata. Con i virtual tour si può accedere online alle collezioni di un museo seguendo uno schema di visita specifico e regole di fruizione predefinite: manca l’elemento sociale che è una caratteristica intrinseca di una visita in un luogo d’arte. Con un robot teleguidato si ha la possibilità di guidare un avatar all’interno del museo scegliendo il percorso che si preferisce e si ha l’opportunità di interagire con il pubblico fisicamente presente in loco. L’esperienza rimane sicuramente virtuale ma è interattiva, personalizzata e “umanizzata”.

Nel 2014 il museo Tate Britain12 ha messo a disposizione quattro robot controllati a distanza per cinque notti dalle 22 di sera alle 3 del mattino. Il pubblico ha potuto accedere a un’applicazione chiamata Web After Dark per seguire un tour del museo da remoto a luci spente. Migliaia di persone in tutto il mondo hanno partecipato a questo evento. Nel video Web After Dark, l’astronauta Chris Hadfield – che ha guidato i robot Canadarm e Canadarm III nello spazio – ci racconta:

Il robot e le tue mani diventano un’estensione della tua mente: è così che dovrebbe essere la tecnologia.

Quando nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha imposto un lockdown mondiale, molti musei hanno introdotto i robot per offrire al

pubblico l’opportunità di visitare le collezioni senza uscire da casa. Ad esempio, l’Hastings Contemporary, un museo nel sud dell’Inghilterra vicino a Brighton, ha messo a disposizione dei robot teleguidati che accompagnati da un membro dello staff potevano muoversi lungo i percorsi interni e visionare la maggior parte delle opere esposte nei suoi spazi.

Il robot teleguidato usato all’Hastings Contemporary è Double 3, realizzato dalla californiana Double Robotics13. È un robot dotato di uno schermo, di microfoni e altoparlanti, e che grazie a particolari sensori può essere teleguidato dal PC o dal cellulare. La possibilità di muovere questo robot liberamente e scegliere dove andare e cosa vedere, ci permette di realizzare e seguire un percorso individuale. Quando sono andata al MUDEC per l’inaugurazione della mostra sui Robot ho potuto parlare con uno dei curatori, che non poteva essere fisicamente presente, proprio tramite robot: io passeggiavo mentre il curatore mi illustrava gli oggetti esposti parlandomi dallo schermo di Double 3 che mi camminava a fianco.

Double 3 è stato usato in Italia dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma ed è attualmente impiegato al MUDEC per visitare le collezioni. È stato usato anche dagli apparati scolastici che, in Italia e in Europa, hanno dovuto gestire la didattica a distanza durante i periodi di lockdown nel 2020, così come da tutte le persone impossibilitate a recarsi fisicamente in un museo ma desiderose di visitarlo.

Personalmente credo che la pandemia ci abbia portato a riflettere su quanto, per molti di noi, la fruizione della bellezza anche solo attraverso la visita virtuale di un museo, sia un bene necessario. E questa riflessione mi porta a introdurre un tema tanto importante e sempre attuale: l’inclusione in ambito museale. Se le guide robotiche possono offrici l’opportunità di visitare musei ubicati in città lontane, per le persone disabili costituiscono un nuovo strumento utile, se non indispensabile, per accedere ai musei, vicini o lontani che siano. Questa è una grandissima opportunità offerta dai robot: persone impossibilitate a muoversi per malattie o problematiche fisiche che ne limitano la mobilità, possono accedere a una esperienza museale che, pur virtuale, con queste tecnologie risulta completa e coinvolgente. Grazie all’impiego delle tecnologie di ultimissima generazione e dell’Intelligenza Artificiale, questa opportunità è estendibile anche a persone colpite da malattie fortemente o purtroppo totalmente invalidanti come vedremo nel prossimo case study.

6. Il robot teleguidato Double 3 nella Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, Roma. Courtesy Beyond International. Case Study: BrainControl Avatar

Crediamo che l’innovazione tecnologica debba innanzitutto portare un miglioramento nella qualità di vita delle persone.

BrainControl Avatar14

Molte ricerche hanno ampiamente dimostrato come la presenza umana quindi la socialità costituisca una delle motivazioni che porta l’uomo a visitare un museo o una mostra. La cultura è anche aggregazione, lo è sempre stata. Secondo i dati Istat, in Italia ci sono 3,1 milioni di persone disabili che costituiscono il 5,2% della popolazione15. È importante sottolineare che:

Una ricca vita culturale può avere impatti significativi sulla soddisfazione delle persone per la vita nel suo complesso. L’effetto positivo della partecipazione culturale sulle persone con limitazioni gravi è rilevante. Infatti, tra coloro che, nonostante gravi disabilità, sono attivi nell’andare al cinema, al teatro, ai concerti o a frequentare luoghi del patrimonio, una persona su tre si dichiara molto soddisfatta della vita16 .

Abbattere le barriere e dare accesso ai luoghi d’arte alle persone diversamente abili è un passo necessario e irrinunciabile per una piena inclusione sociale. L’art. 6 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.L. 42/2004) ribadisce che la valorizzazione del patrimonio culturale consiste anche nell’«assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili al fine di promuovere lo sviluppo della cultura[...]». La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, rettificata dal Parlamento italiano nel 2009, impegna gli stati membri a rimuovere ogni ostacolo per permettere alle persone con limitazioni una partecipazione attiva alla vita culturale. Attualmente si sta lavorando per abbattere queste barriere, tangibili e intangibili, ma ancora nel 2015 solo il 37,5% dei musei pubblici e privati italiani erano attrezzati con strutture idonee per disabili.

Se il tema dell’accessibilità ai luoghi d’arte per le persone diversamente abili è oggi di estrema attualità, ancora poco si parla di accessibilità per quelle persone affette da disabilità gravi o limitazioni fisiche tali da essere costrette all’immobilità. Parliamo per esempio di persone che soffrono di malattie neuromuscolari degenerative come la sclerosi laterale amiotrofica o la sclerosi multipla, o che presentano danni cerebrali di origine ischemica o traumatica. L’abbattimento delle barriere architettoniche in questi casi non è certo sufficiente per consentire loro l’accessibilità ai luoghi di cultura.

Può l’Intelligenza Artificiale essere d’aiuto per le persone diversamente abili nel percorso di accessibilità ai luoghi d’arte e cultura?

La risposta è sì. Un progetto di successo che utilizza proprio l’IA al servizio dell’inclusione sociale è BrainControl Avatar17 .

www.youtube.com/ watch?v=SMEUUsALXYw BrainControl Avatar – Inclusione sociale senza limiti.

Si tratta di un progetto tutto italiano realizzato dalla società Liquidweb S.r.l. operativa nel settore HCI (Human Computer Interface), fondata dall’Ingegnere Pasquale Fedele che me ne ha illustrato il funzionamento: BrainControl Avatar è un robot teleguidato utilizzabile da persone diversamente abili, persino da persone affette dalla sindrome Locked-In completely (LIS). È un alter ego in grado di muoversi all’interno degli spazi di un museo in modo del tutto autonomo, di osservare gli oggetti in maniera ravvicinata e interagire con il pubblico presente.

Recentemente alcuni musei nel mondo si sono dotati di alter ego robotici teleguidati. Ne è un esempio il Van Abbemuseum di Eindhoven nei Paesi Bassi: oltre a essere davvero ben organizzato per l’accoglienza delle persone diversamente abili, offre la possibilità di una visita con un robot da remoto alle persone che non possono accedere fisicamente per disabilità o per lontananza. Al momento della prenotazione sul sito del museo viene inviato all’utente un programma per teleguidare il robot. Il Van Abbemuseum si è posto all’avanguardia nel campo dell’inclusione e con una particolare nota d’attenzione al tema della socialità e dell’interazione poiché sarà una guida ad accompagnare il robot, e quindi l’utente, durante tutta la visita.

BrainControl Avatar ha fatto un ulteriore passo avanti in questa direzione perché è in grado di integrare differenti modalità di interazione, ed è proprio qui l’innovazione di maggior rilievo di questo progetto: l’alter ego robotico può essere guidato da un simulatore di mouse, da un puntatore oculare, e dalla modalità BCI (Brain-Computer Interface) che interpreta e classifica le onde cerebrali generate dal movimento immaginato. In pratica il dispositivo offre modalità di interazione atte a essere gestite da persone che possono muovere anche solo una piccola parte del corpo, le palpebre o un dito, e che conservano intatte le facoltà cognitive. Lo scopo di BrainControl è aiutare le persone con deficit fisici tali da precludere ogni movimento ad accedere a musei, mostre e luoghi d’arte, che come abbiamo detto sono attività che migliorano, o contribuiscono a migliorare, le condizioni di vita.

Con BrainControl Avatar, siamo in grado di creare esperienze di visita e di interazione sociale completamente da remoto. L’avatar si muove negli spazi reali, guidato dal paziente che può così vivere un’esperienza sociale e culturale totalmente immersiva e senza precedenti18 .

Attraverso questo robot è possibile visitare una mostra o un luogo d’arte: si può regolare autonomamente l’audio e l’altezza del campo visivo per osservare i dettagli di un’opera o leggerne le didascalie. Il visitatore da remoto può inoltre rendersi visibile per relazionarsi e interagire faccia a faccia con il pubblico o con la guida.

La storia di questo progetto ha inizio nel 2014, quando l’ingegnere Pasquale Fedele vede per la prima volta Surrogates, un film di fantascienza in cui gli uomini si trovano a guidare avatar robotici. Assistendo alla nascita di questi avatar, creati inizialmente per aiutare persone con difficoltà motoria, nasce l’idea di BrainControl Avatar, che rappresenta oggi una realtà di rilevante portata nel campo dell’inclusione sociale attraverso l’innovazione tecnologica. Presentato con successo al Museo Santa Maria della Scala di Siena nel 2020, è un esempio di come l’uso dell’Intelligenza Artificiale applicata alle guide robotiche porti a risultati straordinari a supporto dell’inclusione per persone con gravi e gravissime disabilità.

Un alter-ego robotico che ci auguriamo di vedere sempre più presente nei musei di tutto il mondo.

Riflessione

Due cose riempiono la mente con sempre nuova e crescente ammirazione e rispetto, tanto più spesso e con costanza la riflessione si sofferma su di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. dalla Critica della ragion pratica, epitaffio sulla tomba di Immanuel Kant

Quali discussioni etiche possono scaturire dal fatto che oggi i robot non hanno coscienza? Alla base delle riflessioni etiche che in questo millennio si stanno affrontando c’è l’idea dell’uomo e l’uso che può fare delle nuove tecnologie. È stata coniata una parola per indicare l’etica applicata alla robotica ed è la “roboetica”19, ovvero la disciplina che studia le implicazioni morali, etiche, sociali, umanitarie, culturali ed ecologiche della robotica.

Ricordiamo che l’etica è un valore umano: è l’etica degli uomini, è quel cielo stellato che gli occhi di un robot non potranno mai vedere. Forse.

7. BrainControl Avatar, nelle stanze del Museo Civico di Siena.

1. La visita nei musei supportata dallo smartphone.

Il potere dei social (e il loro lato oscuro)

«Il computer più nuovo al mondo non può che peggiorare, grazie alla sua velocità, il più annoso problema nelle relazioni tra esseri umani: quello della comunicazione. Chi deve comunicare, alla fine, si troverà sempre a confrontarsi con il solito problema: cosa dire e come dirlo.» Bill Gates

L’uso dei social

Negli ultimi anni la comunicazione è cambiata in moltissimi ambiti, dal mondo dell’industria al mondo culturale. Per promuoversi e promuovere i propri prodotti, oltre alla strategia pubblicitaria tradizionale della carta stampata o del digitale, le aziende devono fare i conti con i social media la cui portata oggi è assolutamente impossibile ignorare. Perché? Rispondo con i dati. Secondo uno dei più importanti report1 circa la metà della popolazione mondiale, ossia 3,8 miliardi di persone, utilizza regolarmente i social media. Una persona d’età compresa tra i 16 e i 64 anni mediamente è collegato online per 6 ore e 43 minuti al giorno. Questo significa che nel 2020, collettivamente, abbiamo trascorso online l’equivalente di 1,25 miliardi di anni. Più di un terzo di questo tempo,2 ore e 24 minuti al giorno, viene speso sui social.

L’uso dei social2 è un trend in crescita. Il numero degli utenti attivi nel 2020 è aumentato del 9,2% rispetto all’anno precedente. Sul podio delle piattaforme più usate troviamo Facebook con 2.449 milioni di utenti seguito da YouTube (2.000 milioni),

2. La diffusione nel mondo dei supporti di telefonia mobile e l’utilizzo di Internet e dei social media. Screenshoot dal report Digital 2020, Global Digital Overview by We are Social & Hootsuite.

WhatsApp (1.600 milioni), FB Messenger (1.300 milioni), WeChat (1.151 milioni), Instagram (1.000 milioni) e TikTok (800 milioni).

Con questi dati alla mano, dobbiamo ben riconoscere quanto sia importante oggi la comunicazione specifica sui social.

Come è cambiata la comunicazione virtuale con i social?

Prima della nascita dei social un utente visualizzava i contenuti di proprio interesse unicamente sui siti Internet: era un semplice fruitore di informazioni online. Con la nascita del web 2.0 abbiamo assistito alla nascita dei social ovvero di piattaforme di interazione sociale e condivisione di informazioni, foto, video e audio. SixDegrees, il primo social, nasce nel 1997 e pur senza raggiungere il successo desiderato, aprirà le strade alle piattaforme basate sulla registrazione di un utente che crea il proprio profilo personale online per comunicare con altri utenti. Negli anni ’90 le connessioni Internet non erano ancora largamente diffuse e questo fattore non contribuì allo sviluppo di SixDegrees. Diversamente pochi anni dopo il numero degli utenti con accesso a una rete Internet si era implementato e quando Mark Zuckerberg, il 28 ottobre 2003, mise online Facemash, l’antenato di Facebook, per connettere gli studenti di Harvard, nelle sole prime quattro ore registrò 450 visitatori. Il 4 febbraio 2004 nascerà la prima versione di Facebook destinato a diventare una delle piattaforme digitali più visitate al mondo.

www.youtube.com/ watch?v=H7MG2AIFoIg Bernard Marr: how Facebook is using Artificial Intelligence (AI).

Il grande cambiamento dovuto allo sviluppo dei social riguarda soprattutto gli utenti che da fruitori di informazioni diventano produttori di contenuti e hanno inoltre la possibilità di divulgare il o i contenuti – dalla foto alla notizia – di altri utenti, creando così un effetto di visualizzazione pluri-condivisa. I social costituiscono quindi delle reti partecipate in cui gli utenti non solo condividono i contenuti pubblicati ma interagiscono tra loro e in tempo reale.

In quale modo i social utilizzano l’Intelligenza Artificiale?3

Per capire come i social media utilizzino l’Intelligenza Artificiale dobbiamo parlare di Big Data e come abbiamo visto tanti dati costituiscono il terreno fertile per gli algoritmi.

Nel 2001 Doug Laney, Vicepresidente e Service director della Meta Group, introduce e descrive in un report le 3V dei Big Data: Volume, Velocità, Varietà4 .

Un modo semplice per descrivere grandi “masse” di dati estesi in termini di volume, velocità e varietà generati dall’evoluzione delle tecnologie e ovviamente dallo sviluppo del digitale e di Internet.

Con il passare degli anni alle 3V sono state aggiunte due nuove V volte a indicare nel dettaglio come questi nuovi dati dovrebbero essere. Le due nuove V sono Veridicità – «Bad data is worse than no data (I dati sbagliati sono peggio di nessun dato)» – e Variabilità, intesa anche come formato: dall’immagine all’informazione scritta. A queste 5V vorrei aggiungere anche la V di Valore, poiché oggi i dati rappresentano un nuovo “oro”. Possiamo immaginare i social, da Facebook a Instagram, come contenitori di Big Data. Vediamo quali sono gli scopi delle diverse piattaforme social – per piattaforme social media mi riferisco a Twitter, Facebook, Instagram, TikTok e Linkedin – per poi andare a vedere come funzionano i loro algoritmi:

INSTAGRAM: il suo scopo è creare e condividere contenuti accattivanti e decisamente personali tra utenti con interessi analoghi e nella connessione raggiungere ed esercitare un potere fortemente influente. TIKTOK: è la piattaforma leader dei video brevi ed è rivolta soprattutto ai teen-ager. La sua missione è ispirare creatività e portare buonumore.

TWITTER: rappresenta l’attualità “in diretta”: gli utenti, spesso in dialogo tra loro, forniscono un aggiornamento personale, live e non-stop, su cosa sta succedendo – chi come cosa dove e perché. FACEBOOK: lo scopo è dare alle persone l’opportunità di porsi personalmente in contatto con chiunque nel mondo e il potere di costruire o costituire una comunità pur virtuale ma con scopi o interessi condivisi. LINKEDIN: è una piattaforma di presentazione e collegamento tra professionisti di tutto il mondo per agevolare le opportunità di contatto e di successo in ambito lavorativo.

Se i social sono dei contenitori di Big Data, come gestire tutto questo flusso di informazioni, foto, post e video, creando per ogni utente la possibilità di vedere ed esplorare contenuti che siano il più pertinenti possibile ai suoi propri interessi? Attraverso gli algoritmi. Uno dei più famosi è l’algoritmo di Instagram, e quello di TikTok per i più giovani. Adulto o adolescente, l’utente può non sapere cosa sia oggi l’Intelligenza Artificiale ma se è un utente attivo di Instagram, sa perfettamente quanto sia importante quell’algoritmo. Gli algoritmi giocano infatti un ruolo chiave nel selezionare le informazioni che ci raggiungono sui social, e se pur funzionano in modo diverso tra loro, hanno tutti molto in comune: in base alle azioni che compiamo sui social, l’algoritmo ci suggerisce stories, post e video da visualizzare e con cui interagire. Per esempio, l’algoritmo di Facebook valuta ogni post che viene pubblicato assegnandogli un punteggio e disponendolo seguendo un ordine di interesse crescente o decrescente per ogni utente. Lo scopo di questo algoritmo è che l’utente trovi sempre contenuti pertinenti, inclusi inserti pubblicitari rispondenti ai suoi interessi.

Quali sono i fattori che determinano il posizionamento di un post?

Anzitutto la relazione tra gli utenti: il post è stato pubblicato da una persona con la quale interagiamo? Che sia un amico o un personaggio pubblico, vengono prese in considerazioni anche le interazioni passate: dal like (“mi piace”) al follow (“segui”). Si considera poi il tipo di contenuto: è un media che prediligiamo? La novità: il post è recente? La popolarità: è un post che ha coinvolto anche i nostri amici?

Un esempio: se il direttore di un museo che io seguo e di cui spesso commento i post, pubblica una foto – che tra i media è quello che prediligo – e io interagisco, Facebook mi proporrà quel post tra i primi da visualizzare. Nel mio caso seguo molte pagine dedicate all’arte sulle quali interagisco e, puntualmente, i post e le stories che i social mi presentano, nel 90% dei casi, provengono dal mondo dell’arte: dai post degli artisti alle stories dei musei che i miei contatti hanno apprezzato. Lo stesso vale per le pubblicità: dalla sponsorizzazione di una mostra a un nuovo libro d’arte spesso con richiesta call to action ovvero sollecitando l’acquisto di un biglietto o del volume poiché – ricordiamolo – uno scopo dei social è sottoporci anche offerte pubblicitarie in linea con i nostri gusti o i nostri interessi.

Con i media tradizionali tutte queste possibilità di contatto diretto e immediato con l’utente o il suo target di riferimento non esistono, esistono invece con i social media proprio grazie a questi algoritmi e alla possibilità di creare advertising o sponsorizzazioni di post e stories selezionando a priori il pubblico. Questo vale sia per i brand privati sia per le istituzioni pubbliche come ad esempio un museo.

Sostanzialmente, gli algoritmi che lavorano sui social sono ottimizzati in base alle preferenze dell’utente che si esprime attraverso i post che pubblica: i like, le visualizzazioni, i commenti, le foto e i video. Facebook oggi è in grado di sapere anche il mio stato d’animo, che posti frequento se ho attivato il GPS e con chi li frequento se anche gli altri utenti hanno Facebook sullo smartphone.

Per vedere come Instagram usa l’IA possiamo andare alla pagina “Esplora” in cui troveremo post e storie di tendenza selezionati in base ai nostri gusti o in base all’hashtag utilizzato.

I social possono essere uno strumento d’ausilio per la comunicazione nel mondo dell’arte?

La risposta è: eccome! In queste reti sociali partecipative i musei si inseriscono come promotori di cultura oltre che della propria immagine. Questo dialogo tra istituzioni culturali e utenti ha creato una relazione di comunicazione diretta tra i luoghi d’arte e il pubblico. Si è andata così a costituire una serie di canali di promozione e condivisione culturale che sta creando delle communities,

una rete partecipativa di utenti che interagiscono, condividono e ampliano l’eco comunicativa dei musei stessi. Inoltre, anche sui social vale quello che personalmente auspico e sostengo da sempre ovvero: «Cultura chiama Cultura». I musei, le gallerie d’arte, i parchi storici ora sono presenti sui social nella maggior parte dei casi con grande successo. Parallelamente sono presenti tanti artisti e profili di esperti o appassionati d’arte che amplificano l’effetto della condivisione culturale. Gli stessi social si sono resi conto che l’arte è un trend in crescita, e si sono fatti promotori di iniziative legate al mondo dell’arte e dei musei.

Un esempio da TikTok: l’interesse e la diffusione dei contenuti legati al mondo della cultura è inoltre dimostrata dall’incredibile crescita che gli hashtag tematici hanno registrato nell’ultimo anno. I contenuti con gli hashtag più popolari in questa categoria – #FineArt, #ArtHistory e #ArtOnTikTok – hanno raccolto fino a oggi, a livello globale, oltre 2 miliardi di visualizzazioni al mese, crescendo di oltre il 3000% nell’ultimo anno5 .

TikTok, la piattaforma social più giovane in tutti i sensi, ha rilevato quanto i contenuti culturali siano cresciuti e il 18 maggio scorso, in occasione della Giornata Internazionale dei Musei, ha lanciato il #MuseumMoment: un evento globale live non-stop che ha coinvolto grandi istituzioni quali la National Gallery di Singapore e gli Uffizi di Firenze con il suo Travel-Creator Giovanni Arena (@giovanniarena_), ambassador dell’iniziativa #tiraccontolitalia insieme al Direttore Eike Schmidt.

Per Instagram i dati sono ancora più rilevanti: secondo il Report di Wearesocial.com6, nella classifica degli hashtag più usati di sempre al sesto posto troviamo #Art con un numero di post pari a 583.900.000.

I social per gli artisti e le gallerie d’arte7

Il mondo che ruota attorno all’arte, non solo i musei ma certo anche gli artisti e i galleristi, hanno ormai ben chiaro che le dinamiche del mercato stanno cambiando.

www.youtube.com/watch?v=is02kewy80 “Young Money: Understanding Millennial Collectors”.

Una delle novità è che i giovani sono entrati in modo massiccio nel mondo del collezionismo. Nel report di Deloitte 2021, Il mercato dell’arte e dei beni da collezione. Nello stato dell’arte ai tempi del Covid-198, viene sottolineato il progressivo aumento dei giovani e dei millennials nell’acquisto di beni da collezione. La cronaca e i dati lo confermano: la casa d’aste Christie’s ha reso noto che il 32% degli acquirenti delle vendite online-only sono stati millennials (23-38 anni)9 e Sotheby’s ha dichiarato che il numero di buyers under 40 è raddoppiato nell’ultimo anno10 .

Parallelamente, e significativamente durante la pandemia da Covid-19 con gallerie e case d’aste fisicamente non accessibili, i social hanno messo in comunicazione gli artisti con i potenziali collezionisti che hanno iniziato ad acquistare online.

In particolare, Instagram ha visto nella pubblicazione di immagini di opere d’arte un suo nuovo punto di forza, e Art Trade Report di Hiscox e ArtTactic ci informano che il 69% di tutti gli intervistati ha affermato che Instagram è stata la loro piattaforma di social media preferita per l’arte e il 35% dei compratori millennials ha affermato di aver acquistato opere d’arte tramite Instagram11. Leggendo altri report sull’arte è chiaro che Instagram è oggi la piattaforma social che offre la migliore visibilità e possibilità d’interscambio tra artisti e collezionisti. E stanno già nascendo nuove piattaforme di condivisione per l’arte.

Inoltre, molte figure che ruotano attorno al mondo dell’arte come nuovi curatori, divulgatori, riviste e testate giornalistiche, oggi hanno il loro profilo sui social permettendo agli utenti di fruire di una più vasta informazione sul panorama artistico. Oltre a una maggiore informazione, i potenziali acquirenti possono trovare sui social i profili degli artisti, interagire direttamente con loro e comprare le loro opere. Parimenti i curatori e i galleristi possono entrare in contatto con gli artisti per divulgarne o presentarne le opere.

È quindi importante sottolineare che i social non sono solo una piattaforma di contatto o di ampia visibilità per il mondo dell’arte, ma stanno diventando un punto d’incontro concreto tra artisti, collezionisti e figure che operano in questo mercato, e un mercato – mi piace ricordarlo – in cui sono sempre più presenti

i millennials che hanno ben imparato a usare i social come strumento utile per interagire con i protagonisti di questo mondo e acquistare opere d’arte.

La figura del Social Media Manager

Per un’istituzione culturale oggi è fondamentale iniziare a pensare digital e valutare l’uso dei social e delle nuove tecnologie come veicolo di comunicazione e incontro con il pubblico. In quest’ottica una delle figure professionali sempre più ricercata nel sistema museale è il Social Media Manager, incaricato di gestire la comunicazione sui social del museo o della galleria.

La strategia di social media marketing comprende diversi punti specifici che vanno definiti braccio a braccio con il museo, la galleria e l’artista.

Ecco alcune delle domande che devono trovare risposta per stabilire una strategia operativa: quali sono gli obiettivi da raggiungere? Cosa necessita comunicare? Si desidera fidelizzare il pubblico o raggiungere un pubblico sempre più vasto? Creare una community, condividere messaggi culturali, promuovere mostre ed eventi? Creare o accrescere la brand reputation?

Una volta definito “il” o “i” punti di partenza, si passa a definire il target che si vuole raggiungere e come lo si vuole raggiungere. Si procede quindi con il “come comunicare” e si crea un piano editoriale studiato per ogni singolo social: per esempio un video per i giovanissimi su TikTok, dei post informativi su Facebook, o immagini di alto coinvolgimento su Instagram.

Per monitorare i risultati, i social mettono a disposizione strumenti di analisi utili a valutare l’efficacia di ogni contenuto pubblicato e la sua portata.

Oggi non basta “essere” su un Social per avere successo nella propria mission: bisogna essere interattivi ed esserlo costantemente. L’interazione con i commenti degli utenti è di estrema importanza così come le collaborazioni con altri utenti o con le istituzioni.

Gli errori sui social non sono ammessi: un post sbagliato può ledere la brand reputation di un museo e il diritto all’oblio viene meno da quando esiste l’opzione di poter fare screenshot.

Sottolineo l’importanza delle immagini da utilizzarsi: oggi gli utenti sono attratti dalle immagini prima ancora che dai contenuti.

Ho cercato di riassumere alcuni dei compiti del social media manager per sottolineare che oggi essere presenti sui social è un lavoro e richiede l’intervento di professionisti del settore.

Cosa succede quando i social sono ben gestiti da un’istituzione museale?

Crescono i followers, si crea una community che a sua volta condividerà i contenuti culturali che altri utenti potranno vedere, aumenterà il traffico verso il sito web istituzionale. Aumenterà la notorietà – quella che i marchi chiamiamo brand awareness – e migliorerà l’engagement. Infine, si arriverà a incrementare il ROI, quel ritorno sugli investimenti che per un museo è rappresentato in primis da un incremento dei visitatori e per un artista o una galleria è costituito dalle vendite di opere d’arte.

Il lato oscuro dei Social: una Doomsday Machine?

«Da grandi poteri derivano grandi responsabilità.» Zio Ben, Spiderman

Parlando di social non potevo non porre questa domanda la cui risposta meriterebbe una trattazione a parte. Qui cerco di rispondere senza andare fuori tema, cioè parlando d’arte.

In un articolo pubblicato dal The Atlantic nel dicembre 2020, Adrienne LaFrance definisce Facebook come una Doomsday Machine, una macchina dell’Apocalisse, e scrive:

Facebook è uno stato-nazione senza confini, con una popolazione di utenti grande quasi quanto la Cina e l’India messe insieme, ed è governato in gran parte da algoritmi segreti12 .

Con questa affermazione LaFrance denuncia e accusa l’enorme e sconfinata portata che può avere un social sugli utenti: «La megascala di Facebook conferisce a Zuckerberg un grado di influenza senza precedenti sulla popolazione globale. Se non è la persona più potente del pianeta, è molto vicino al vertice». Ricor-

diamo che gli utenti di Facebook sono 2.449 milioni (!!!) ovvero circa un terzo della popolazione mondiale, considerando anche che l’accesso diretto a Facebook in Cina è bloccato.

Immaginiamo cosa potrebbe succedere se Zuckerberg modificasse un algoritmo per fare in modo che durante un’elezione politica venissero messi in risalto notizie di carattere positivo riguardo a un candidato, nascondendo quelle del suo oppositore. Sono ovvie le conseguenze penali che questo comporterebbe, ma consideriamo che potenzialmente su Facebook vi sono i mezzi per poter sovvertire decisioni politiche o sociali, o creare un immaginario collettivo distorto e alterato. È davvero pazzesca la portata della sua capacità di influenzare l’opinione pubblica. E come gestire il post di un alto esponente politico che per esempio incita al razzismo? Censurarlo per non influenzare gli utenti o lasciarlo per stimolare l’indignazione generale? Censura o libertà di parola? A mio avviso entrambe le risposte – censura o libertà – sono sbagliate: se il potere decisionale che va a influenzare milioni di persone è lasciato all’arbitrio di un team di moderatori cui fa capo una sola persona, è sbagliato, e anche pericoloso.

Gli artisti stanno portando ai nostri occhi le loro riflessioni sul mondo dei social, su come anche l’IA possa essere usata per secondi fini eticamente scorretti. Parlando di artisti che usano l’Intelligenza Artificiale, nel capitolo dedicato a Mike Tyka, vedremo come la sua opera-installazione Us and Them13 denunci questo tema riflettendo sui fake profiles, i finti profili presenti sui social e il loro impatto se strumentalizzati:

La tendenza dei faking individuals su larga scala nei media sta avendo una profonda influenza sulle nostre convinzioni collettive, sia che ci muoviamo verso sinistra o verso destra nello spettro politico.

Mike Tyka

3. Mike Tyka, Us and Them, Kinetic Installation 2018, Mori Art Museum, Tokyo. Courtesy Mike Tyka.

La riflessione di Mike Tyka ruota anche attorno ai deep-fake: oggi con il machine learning si possono creare volti artificiali, in pratica un algoritmo impara a mappare nel dettaglio un volto e le sue espressioni e può realizzare un vero e proprio innesto facciale virtuale. Questa tecnica si è diffusa su Reddit e sui siti pornografici, tanto che nel 2018 Google ha incluso queste involuntary synthetic pornographic imagery nella sua Ban List – la lista delle attività proibite.

Rebor, ovvero Marco Abrate, un artista torinese definito come “lo street artist gentile”, ha creato con l’Intelligenza Artificiale un personaggio immaginario che vive nei social: è Chiara Ascioni14 che in pochi mesi ha raggiunto 10k follower. Tramite un chatbot Chiara poteva interagire con gli utenti e in pochi si sono accorti che lei non era vera.

È incredibile, ma molto spesso sono proprio gli artisti che usano l’Intelligenza Artificiale come medium per creare opere d’arte a denunciare il lato di strumentalizzazione sbagliata che può verificarsi con un uso improprio della stessa.

Riprendendo ora le considerazioni di LaFrance, faccio un’ultima riflessione su come sia difficile moderare questo continuo fluire di informazioni e profili fake. C’è un dilagante fenomeno che definisco “comparse e primi attori”: sui social alcune persone pensano di poter acquisire un ruolo che di fatto nella vita reale non hanno e si sentono protagonisti – è come se in un teatro una comparsa si sentisse d’un tratto primo attore. Ma nella vita come sui social non diventi qualcun altro con un click; tuttavia, nell’ego profondo questa possibilità stravolge le dinamiche. Vi sono molte persone con questa mania di protagonismo che sciorinano commenti e giudizi a sproposito sui social e soprattutto c’è un mondo di haters sempre pronti a denigrare o a fare critiche che danno origine a fenomeni corrotti come il cyberbullismo o il razzismo.

Su Facebook seguo una pagina che pubblica sempre post inerenti all’arte e alla cultura. Una delle fan più attive era una straordinaria ragazza tetraplegica che chiameremo “C” e che usava il puntatore ottico per scrivere. Nonostante sia sempre stato segnalato il fatto che i post di questa ragazza potessero

rb.gy/9rteai Chiara Ascioni: la creazione dell’artista Rebor realizzata con l’Intelligenza Artificiale. Rebecca Pedrazzi, Notiziarte. com, 26 Maggio 2021.

https://scl.io/l/zd6UdxXI Mark Zuckerberg annuncia il nuovo marchio Meta, 28 ottobre 2021 non essere grammaticalmente corretti per ovvi motivi, apparivano sempre commenti d’odio verso “C” a tal punto che si è dovuto procedere con denunce alle autorità competenti.

Oggi si studiano nuovi algoritmi per prevenire i commenti d’odio, ma evidentemente non è sufficiente: la moderazione dell’intelligenza umana è ancora una volta l’elemento necessario e determinante.

È utile ricordare che purtroppo, quando si è sui social, si è sempre e comunque esposti: da un lato il grande pubblico interessato ai contenuti culturali, dall’altro, anche se è fortunatamente una minoranza, ci sono soggetti che, e chissà se solo per amor di protagonismo, arrivano a insultare.

Oggi eliminare i social non è certo una strada praticabile: se ne creerebbero immediatamente altri, ma bisogna ragionevolmente alzare il livello di moderazione, il che non vuol dire affatto censura, e in questo senso l’Intelligenza Artificiale con i suoi algoritmi si sta affinando e potrà esserci sempre più d’aiuto. Quando si usano i social occorre intelligenza, e consapevolezza. Dobbiamo essere consapevoli che ogni volta che facciamo clic su un pulsante di reazione su Facebook, un algoritmo lo registra e va a integrare il nostro “profilo utente”: chi siamo, cosa ci piace. Non sempre siamo noi a decidere cosa vedere: il suggerimento è una costante ed è per questo che si auspica una politica sempre più chiara su quali algoritmi e su come vengono usati nei social.

Fra l’altro, proprio mentre questo libro sta andando in stampa, Mark Zuckerberg ha annunciato che la “galassia Facebook” – che comprende fra gli altri Instagram e WhatsApp – punta a diventare un “metaverso”: ci si immergerà ancor di più nella nuova piattaforma, afferma Zuckenberg, un “meta universo” in cui si avrà la sensazione di essere in presenza. Si apre un nuovo capitolo per la social technology dalle molteplici implicazioni.

La catalogazione delle collezioni: la blockchain

«The problem is to time-stamp the data, not the medium.» Stuart Haber & W. Scott Stornetta1

rb.gy/66mifm “Getting serious about blockchain”. Interview with Don Tapscott. Una delle grandi rivoluzioni tecnologiche realizzate nell’industria 4.0 è rappresentata dalla blockchain2 . E nelle sue più diverse applicazioni la blockchain con l’Intelligenza Artificiale integrata – questo straordinario sistema di security– ha già generato, e in costante evoluzione continuerà a generare, innovazioni nei più diversi settori: dal mondo finanziario a quello dell’advertising al mondo dell’arte, e vedremo come nello specifico quando applicata nel mercato delle opere d’arte digitali.

Cos’è la Blockchain?

La blockchain è un registro condiviso e immutabile che facilita il processo di registrazione delle transazioni e di tracciamento degli assets in una rete di business. Un asset può essere tangibile (case, automobili, soldi, terre) o intangibile (proprietà intellettuali, brevetti, copyright, marchi). Praticamente qualsiasi cosa che abbia un valore può essere rintracciata e scambiata su una rete blockchain, riducendo i rischi e i costi per tutti gli interessati.

IBM.com3

La blockchain è un insieme di tecnologie volte a creare un registro digitale decentrato in cui i dati inseriti vengono archiviati in blocchi crittografici – block – che vanno a creare una catena – chain – tracciabile, verificabile, sicura e che salvaguarda la privacy. Possiamo immaginarla come un libro mastro: un enorme database digitale distribuito, quindi non centralizzato, e questo è un suo punto di forza, con specifiche caratteristiche.

Cercando di esporre quanto più semplicemente possibile, vediamo come funziona. Per prima cosa per accedere a una blockchain un utente dovrà registrarsi e ottenere un’identità virtuale. Qualsiasi operazione l’utente andrà a effettuare nella blockchain, verrà registrata e approvata. I nuovi dati inseriti e quindi archiviati in un blocco della catena di archiviazione virtuale, dovranno essere validati. La validazione dei nuovi blocchi che formano la catena è essenziale – ed è qui l’innovazione della blockchain. La creazione di un nuovo blocco si chiama mining (estrazione) e ogni volta che ne viene creato uno bisogna creare una proof of work, appunto una prova o verifica realizzata con un algoritmo. A effettuare questo processo di validazione ci sono i miners – letteralmente estrattori– che dispongono di computer potenti. Gli algoritmi usati in questo processo permettono di verificare che ogni nuovo elemento aggiunto alla blockchain rispetti determinati criteri e che non ne vengano manomessi i dati. Potremmo definire questi miners come degli attenti supervisori che ricevono un premio per il loro lavoro – per esempio una remunerazione in bitcoin. Ci sono intere reti di miners che agiscono da diverse parti del mondo e validano i blocchi contenuti in questo enorme registro le cui copie vengono salvate su diversi dispositivi nel mondo: un database digitale distribuito.

I dati inseriti, per esempio i dati relativi a una transazione, vanno a formare nuovi blocchi di una catena incorruttibile, tracciabile e trasparente in cui la verifica gioca un ruolo fondamentale. La sicurezza è garantita anche perché basata sulla crittografia.

1. Immagine stilizzata della blockchain technology. Quando nasce la blockchain?4

bitcoin.org/files/bitcoinpaper/bitcoin_it.pdf “Bitcoin: un sistema di moneta elettronica peer-topeer”, Satoshi Nakamoto.

La storia della nascita della blockchain ci permette di comprendere meglio la sua funzione, la sua struttura e il suo sviluppo attuale. La sua origine va ricondotta agli studi di W. Scott Stornetta e Stuart Haber i quali cercarono un sistema per assegnare un parametro univoco e non modificabile a un file digitale. Nello studio «How to Time-Stamp a Digital Document»5 pubblicato nel 1991 nel Journal of Cryptology, Stornetta e Harber illustrano le basi della tecnologia blockchain:

The problem is to time-stamp the data, not the medium. We propose computationally practical procedures for digital time-stamping of such documents so that it is infeasible for a user either to back-date or to forward-date his document, even with the collusion of a time-stamping service. Our procedures maintain complete privacy of the documents themselves, and require no record-keeping by the time-stamping service.

A fronte della grande digitalizzazione in corso negli anni ’90, i due studiosi cercano di creare un nuovo metodo per crittografare il digitale (time-stamp). I sistemi di archiviazione a loro coevi erano

inadatti a supportare un sistema nascente di crittografia informatica e Stornetta e Harber definiscono quindi un nuovo modello, una sorta di “cassetta di sicurezza digitale”. Introducono l’hash che gioca un ruolo decisivo nella blockchain. Semplificando: l’hash è una funzione che a partire da una stringa di input A, produce una corrispettiva stringa B che ha una lunghezza fissa, indipendentemente dalle dimensioni di A. Praticamente l’hash è l’impronta, l’estensione digitale della transazione online, e la sua peculiarità è di essere irreversibile: pur conoscendo l’hash, è matematicamente impossibile ricostruire il testo originale. In alcuni casi viene anche aggiunto il nonce, un numero arbitrario che rappresenta un ulteriore elemento di controllo in questo processo di crittografia. Per un malintenzionato è praticamente impossibile trovare la giusta combinazione per alterare le informazioni una volta che siano state crittografate. Le informazioni crittografate relative a un’ipotetica transazione verranno poi archiviate in un blocco insieme ad altre, e in seguito distribuite su tanti computer nel mondo, chiamati nodi, e validate. I nodi vanno a costituire la blockchain. Se un malintenzionato provasse a modificare una transazione, gli altri nodi – che hanno copia dell’hash originale – non approverebbero la modifica.

Dopo l’introduzione dell’hash, viene fatto un ulteriore passo in avanti nel 2004 quando l’informatico e crittografo Hal Finney6 crea il sistema RPoW – Reusable Proof of Work: il protocollo di verifica per le transazioni che andranno a costituire i nuovi blocchi della catena.

Oggi la blockchain è spesso associata alle criptovalute perché la sua fama nasce proprio con queste. La Blockchain Bitcoin (con la b maiuscola), la mamma di tutte le blockchain, nasce il 31 ottobre 2008 quando Satoshi Nakamoto pubblica il protocollo Bitcoin: un sistema di moneta elettronica peer-to-peer su The Cryptography Mailing List sul sito metzdowd.com. In questo documento leggiamo:

Una versione puramente peer-to-peer7 di denaro elettronico permetterebbe di spedire direttamente pagamenti online da un’entità a un’altra senza passare tramite un’istituzione finanziaria8 .

2. Esempi di criptovalute: Bitcoin ed Ethereum.

Potremmo dire che a Satoshi Nakamoto va il merito di aver dato una prima concreta applicabilità della tecnologia blockchain grazie all’introduzione, o meglio l’invenzione di una nuova moneta: il Bitcoin.

Era solo il 2008 e la blockchain è ancora una tecnologia giovane, ma già si possono distinguere tre generazioni. Per le sue caratteristiche così come le abbiamo descritte – ossia decentramento, privacy, possibilità di crittografia e verifica – oggi questa nuova tecnologia è stata già impiegata anche in diversi settori compreso il mondo dell’arte.

La blockchain nel mondo dell’Arte

Se Dio esistesse, sarebbe una biblioteca. Umberto Eco

Quando lavoravo come art-advisor ho dovuto catalogare molte collezioni d’arte: un lavoro complesso e non poco macchinoso perché per ogni opera dovevo creare il suo “passaporto personale”. Ogni opera d’arte va sempre corredata da un “passaporto”, un insieme di documenti costituito da: • Il certificato di autenticità che viene rilasciato dalla fondazione di riferimento, dall’artista (se ancora vivo) o dall’esperto di riferimento riconosciuto anche dal mercato.

• Il condition report, ossia il documento che registra lo stato di conservazione di un’opera d’arte e include informazioni su eventuali restauri effettuati. Deve essere compilato da professionisti: restauratori o laboratori di restauro e conservazione. Ed è indispensabile per spostare un’opera in caso di esposizione o vendita o per assicurarla. • La letteratura dell’opera: pubblicazioni in cataloghi ragionati, monografie o libri d’arte. • L’elenco dettagliato delle esposizioni dell’opera con annesso riferimento nell’eventuale catalogo.

Perché è necessario un passaporto dell’opera? Senza una certificazione che ne attesti l’attribuzione, l’opera non potrebbe, o non dovrebbe essere venduta (si veda l’art. 64 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio9 – D.L. n° 42, 22 gennaio 2004).

Il certificato di autenticità che accompagna l’opera è costituito da: foto dell’opera, nome dell’artista, titolo, anno di realizzazione, tecnica e dimensioni, numero di copie – in caso di opera multipla come le stampe –, provenienza, firma e/o timbro di chi rilascia la certificazione, numero di archivio se si autentica tramite archivio d’artista o fondazione.

La creazione di questo passaporto veniva fatta un tempo su carta stampata – e quanti documenti persi! – e fino a qualche anno fa in analogico. Ogni volta che il proprietario faceva “qualcosa” con un’opera – un restauro o un prestito per una mostra o una vendita – si doveva recuperare il dischetto, aprire il file word, modificare e rimasterizzate il dischetto e restituirlo. Immaginate il lavoro di un art-advisor che segue tante collezioni o di un collezionista senior che vent’anni fa cercava di masterizzare i file della sua stessa collezione su un dischetto! E, sottolineo, i collezionisti che volevano catalogare le proprie collezioni erano una piccola percentuale. Spesso i giovani che ereditavano una collezione d’arte non sapevano nemmeno dove e quale documentazione cercare e si presentavano a un consulente o a un esperto con una miriade di fogli, note, foto, copie di stampe in cui raccapezzarsi era davvero un impegno improbo. Non ultimo il tema privacy: vi ricordate quanti virus entravano nel PC quando è arrivato Internet? Avreste tenuto copia digitale della vostra preziosa collezione sul PC? Ecco perché c’erano i dischetti che spedivi o consegnavi brevi manu al collezionista o al suo erede.

Perché vi ho raccontato tutta la macchinosa trafila su come si faceva una catalogazione vent’anni fa? Per farvi capire quanto la digitalizzazione delle collezioni e la blockchain oggi siano un’innovazione incommensurabile per chi vive e opera in questo settore.

Oggi esistono piattaforme online che supportano il cliente in tutto quello che è il processo di catalogazione digitale e gestione online della documentazione – il passaporto di cui parlavo – e che semplificano con un click di mouse eventuali richieste del collezionista, che sia un grande museo o un piccolo privato, o dell’artista. Il collezionista, o l’artista, ha ora un nuovo strumento che può supportarlo, in sicurezza e nel rispetto della privacy, in tutto il processo di archiviazione digitale. Aggiungo una considerazione importante: in questi anni in cui la digitalizzazione è un dogma, digitalizzare la propria collezione è diventato, non dico una moda, ma un’attitudine sempre più diffusa grazie alla nascita di molte piattaforme, da quelle private a quelle bancarie, che inoltre hanno costi davvero contenuti. Solo vent’anni fa un art-advisor faceva salti mortali per convincere i propri collezionisti a digitalizzare la loro collezione. Oggi sono i collezionisti a cercare online la migliore offerta per fare questo passaggio e comprendono sempre più il valore del “passaporto” dell’opera d’arte. Si va verso la creazione di un mercato più trasparente e in particolare proprio il 2020 è stato un anno di grande accelerazione digitale. Questo è un punto davvero importante contando che nel 2004 gli esperti del Fine Art Expert Institute (FAEI) di Ginevra hanno stimato che più della metà delle opere d’arte in circolazione sul mercato erano false. Legare l’opera al suo apparato di certificazione, o andare a crearlo laddove manca, è quindi una necessità in un mercato in cui falsi e attribuzioni erronee hanno dilagato e dilagano sempre più.

Oggi stanno creandosi anche realtà “ibride” molto interessanti tra le quali alcune piattaforme per l’archiviazione digitale di collezioni con tecnologia blockchain che da una parte permettono di usufruire di tutto il processo di crittografia e validazione e dall’al-

tro forniscono una serie di servizi dedicati al management. Queste nascenti piattaforme offrono inoltre agli artisti la possibilità di creare il proprio archivio digitale in un’ottica di vendita sempre più legata all’autenticazione delle opere. La direzione è quindi verso la crescita di un mercato dell’arte più regolamentato e consapevole.

La mia attenzione va proprio a queste tipologie di piattaforme che incentivano e aiutano il processo di verifica di autenticità e supportano il proprietario di un’opera sia nel processo di creazione del corrispettivo passaporto sia nel management delle collezioni.

In chiusura del capitolo troverete l’intervista con Andrea Concas, fondatore di Art Rights, la piattaforma che coniuga i servizi di gestione e certificazione alla tecnologia blockchain.

Crypto art, blockchain e NFTs: le nuove frontiere del mercato dell’arte10

Uno dei grandi punti di forza della blockchain è di poter creare assets digitali unici. Per questo motivo siamo in una primavera che va forse verso l’estate (o verso una grande bolla speculativa?) della vendita dei NFTs.

Il mercato della Crypto Art è al centro dell’attenzione. L’opera Everydays: The First 5000 Days11 realizzata dall’artista digitale Mike Winkelmann12, alias Beeple, è stata battuta in asta da Christie’s nel marzo 2021 per oltre sessantanove milioni di dollari.

«Christie’s non aveva mai offerto una nuova opera mediatica di questa portata o importanza prima d’ora»13, ha detto Noah Davis, specialista in Post-War & Contemporary Art presso Christie’s di New York. Con questa vendita milionaria l’attenzione di tutti si è spostata sulla Crypto Art che senza troppo rumore si è fatta strada prendendosi, o meglio guadagnandosi un’interessante fetta del mercato dell’arte.

Un mese dopo, nel giugno 2021, Sotheby’s ha realizzato online Natively Digital la prima asta interamente dedicata alla vendita di NFTs, e i collezionisti hanno avuto la possibilità di pagare sia in denaro sia in criptovaluta, Ethereum o Bitcoin.

www.youtube.com/ watch?v=sWUa6Jn_Veo Gordon Berger, Blockchain Artwork Series (NFT) 14 aprile 2020. 3. Beeple, Everydays: The First 5000 Days, @ Christie’s 2021, 21,069 × 21,069 pixels (319,168,313 bytes). © Beeple

Secondo il Report14 NFTs 2020 della Non Fungible Corporation e l’Atelier BNP Paribas, nel 2020 il mercato dei NFTs aveva già triplicato il proprio valore: +299%, arrivando a duecentocinquanta milioni di dollari. Secondo la piattaforma Cryptoart, il Total Crypto Art Value è di 201,212.386 ETH – la cryptomoneta Ethereum – che equivale a 367,067,730.66 dollari con 132.289 opere vendute (dati del 17 marzo 2021). Con questo aumento esponenziale dell’interesse e del volume d’affari, è scattata una vera e propria corsa all’oro per i NFTs.

NFTs: che cosa sono?15

www.youtube.com/ watch?v=DBk69WnPmk4 Andrea Concas: “Che cos’è la Crypto Art?”, 29 marzo 2021.

Un NFT, ossia un Non Fungible Token, è fondamentalmente un certificato di autenticità digitale. Partiamo dalla parola fungibile, ovvero un“bene fungibile” che indica un oggetto, un qualcosa di sostituibile: per esempio una moneta da 1 euro può essere sostituita con un’altra moneta da 1 euro, il valore resta 1 euro. Al contrario i “beni non fungibili” hanno una specifica individualità: per esempio un’opera d’arte autentica non è sostituibile con una sua copia.

Prima dell’avvento della tecnologia blockchain e dei NFTs, il grande problema nella vendita di un’opera digitale era dato dalla

facilità di duplicazione. Semplificando molto: un artista realizza un’opera digitale e la invia in visione a 5 potenziali acquirenti. Ora sei persone possiedono il file dell’opera: chi ha l’originale? L’artista ovviamente, ma come lo si può dimostrare? E come si può certificare il passaggio di proprietà dell’opera digitale dall’artista al nuovo acquirente in maniera univoca e sicura?

La risposta è la “tokenizzazione” dell’opera e la sua immissione nella blockchain.

Per essere venduta, un’opera d’arte digital viene “tokenizzata” ossia viene creato uno smart contract che certifica i diritti sull’opera e la sua autenticità. A un NTF può quindi essere associato un certificato elettronico che ne attesta la proprietà e la provenienza. In questo modo può essere immessa su una blockchain per essere venduta. Quando l’opera viene venduta il token passa all’acquirente che ne diventa proprietario, e tutta l’operazione viene registrata su piattaforma blockchain. Il passaggio in piattaforma blockchain è fondamentale perché il token venga registrato così come vengono registrati e approvati tutti i passaggi a esso legati.

Il focus di questa grande evoluzione nel mercato della Crypto Art ruota attorno al concetto di unicità tramite tokenizzazione, e di proprietà. Con l’uso dei token si ha la certificazione della proprietà di opere digitali – non solo d’arte: è stato tokenizzato anche il primo tweet della storia! È questo che ha creato il valore e ha fatto schizzare in alto questo mercato negli ultimi mesi: è la monetizzazione dell’arte digitale.

Tutti possono comprare opere d’arte tokenizzate?

Tutti possono comprare opere su piattaforme dedicate come https://superrare.com o OpenSea ma attenzione: è un settore e un mercato che facilmente può ammaliare sia artisti sia collezionisti. È un mercato tanto di moda oggi dopo che Christie’s ha superato i 69 milioni di dollari con la vendita dell’opera di Everydays: The First 5000 Days di Beeple! Ma è un mercato e come tale ha le sue dinamiche. E vi ricordo che il simbolo dell’unità di conto della valuta di Ethereum – l’Ether – è una piramide. E proprio la piramide rappresenta questo mercato: sulla cima gli dei dell’Olimpo, pochi e già affermati, sotto invece tanti artisti che potrebbero – o non potrebbero – accedere all’Olimpo. Non è semplicemente comprando opere su blockchain che si fa il buon affare: come in ogni mercato, a maggior ragione in questo che è in una fase evolutiva. Se volete investire in un Crypto Artist affidatevi a un professionista o a chi ne ha competenza, o al vostro cuore se l’opera vi piace e non avete pretese di investimenti redditizi.

Anche gli AI artists usano i NFTs e la tecnologia blockchain?

Sì. Recentemente diversi AI artists hanno tokenizzato le loro opere, ad esempio Mario Klingemann16, un artista e un’autorità nell’uso di algoritmi e Intelligenza Artificiale per realizzare opere d’arte, ha tokenizzato la sua Mitosis: un loop video di due minuti composto da oltre 750.000 ritratti generati con l’impiego d’Intelligenza Artificiale che lo stesso Klingemann ci spiega rappresentare «sfide, speranze e paure che stiamo affrontando in un momento in cui l’Intelligenza Artificiale sta diventando sempre più parte della nostra vita quotidiana».

L’artista indiano Harshit Agrawal ha organizzato e curato la prima NFT Art Exhibition in India Intertwined Intelligences17. An-

4. Mario Klingemann, Mitosis, particolare. © Mario Klingemann / Courtesy Onkaos.

che Helena Sarin e Sofia Crespo sono presenti in questo mercato con i loro NFTs.

Considerazioni tra proprietà e fruizione oggi

Quando nel 1936 Walter Benjamin scrisse L’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica, ovviamente il digitale non esisteva, ma era bastata l’invenzione della stampa, della fotografia e del cinema a far riflettere il nostro Benjamin sull’hic et nunc dell’opera d’arte, sul suo valore di unicità: la sua aurea.

Nel 1936 il mercato dell’arte non era come lo intendiamo oggi, non c’erano le aste online, la blockchain e le moderne fiere, e soprattutto non c’erano i computer quindi la tecnologia per creare opere digitali o opere con IA. Probabilmente, al nostro caro visionario Benjamin oggi sarebbe venuto un infarto vedendo Internet. Eppure, il suo concetto di “aura” dell’opera a mio avviso è attualissimo.

In un mondo che ruota sempre più nel virtuale e nel digitale, vorrei invitarvi a riflettere sul concetto di fruizione. Quando si parla di un’opera d’arte è fondamentale che a essa sia connessa la possibilità di vederla, di fruirne in modo fisico. Parlando di opere in formato digitale è ovvio che queste non hanno la fisicità del classico dipinto a olio perché per loro natura non sono “fisiche”, ma credo che non vada perso il concetto di contemplazione fisica di un’opera. Anche le opere d’arte digital devono essere esposte per essere contemplate. In questo senso i musei18 sono al passo coi tempi ed espongono opere digitali da quando la Digital Art è nata. Ma anche i collezionisti, che oggi possono comprare opere di Crypto Art, dovrebbero riflettere che non basta possedere il file dell’opera – bisogna esporla altrimenti la sua “aura” intrinseca si perde nel PC.

Intervista ad Andrea Concas

www.andreaconcas.com Website di Andrea Concas. Cagliaritano, classe 1982, Andrea Concas1 è fondatore e CEO della startup dell’arte Art Backers, di Art Rights – una piattaforma per la gestione e la certificazione delle opere d’arte, e di Art Backers. Agency – un’agenzia di Marketing Culturale e Comunicazione dedicata al mondo dell’Arte 3.0.

È coordinatore scientifico del master in Marketing e digital innovation per l’arte e la cultura della 24Ore Business School, e collabora attivamente con importanti università di Milano come docente in numerosi corsi e master specialistici.

Ha dato vita alla galleria d’arte The AB Gallery e fondato ProfessioneARTE.it, la prima community online per la formazione, aggiornamento e orientamento verso le professioni dell’arte. Ha pubblicato già vari libri, compresi i Libri ChatBOT.

Ho conosciuto Andrea Concas nel 2019, quando in Italia si iniziava a indagare l’interconnessione tra arte e Intelligenza Artificiale. L’ho poi incontrato per una prima intervista in occasione del workshop Exploring artificial intelligence in art a cui ha partecipato come relatore, in qualità di professionista ed esperto di tematiche legate all’Arte & Innovazione, e l’ho incontrato per l’intervista che

1. Andrea Concas. Courtesy Andrea Concas © Luigi Corda.

segue nel luglio del 2021: abbiamo parlato di blockchain, IA, libri chatbot e del ruolo dell’artista 3.0.

Da oltre quindici anni Andrea Concas opera nel settore dell’arte e della cultura. Instancabile e appassionato innovatore, ha sempre avuto chiara la sua missione: ideare e creare nuovi strumenti e nuovi scenari nel mondo dell’arte.

R. P.: Come funziona Art Rights2, la piattaforma di supporto alla gestione e certificazione di opere d’arte?

A. C.: Art Rights offre la possibilità ad artisti, collezionisti e professionisti del settore di inserire tutte le informazioni che hanno disponibili a corredo di un’opera, come la sua provenienza, il condition report, informazioni che concorrono a determinarne la valenza economica e culturale, ovvero tutto il suo storico. Per le opere, una volta immesse, viene creato un certificato che ha una sua validazione temporale nella blockchain. La peculiarità di Art Rights è che gli utenti possono convalidare le informazioni tra loro e avere quindi la possibilità di tracciare e avere diverse conferme sull’autenticità delle opere stesse.

R.P.: In che modo l’Intelligenza Artificiale è applicata in Art Rights?

A. C.: In questo momento abbiamo bisogno di tanti dati, in questa fase di e-learning sta acquisendo tutti i dati sui comportamenti dell’utente e su quali caratteristiche hanno le loro collezioni. La utilizzeremo fondamentalmente in due modi: da un lato per determinare le peculiarità delle collezioni che a occhio nudo non sono sempre percettibili fino alla verifica dell’autenticità, quell’insieme di più fattori che concorrono alla determinazione dell’autenticità o meno di un’opera in riferimento al suo corredo documentale, compresa la relazione di chi carica i dati e la capacità di rapportarsi alla community.

R. P.: È fondamentale che ogni opera sia corredata da tutta la sua documentazione – dal suo “passaporto” – costituito in primis dal certificato d’autenticità. Quanto le piattaforme di art-management hanno contribuito a creare una maggiore consapevolezza verso una corretta catalogazione delle opere di una collezione in ambito privato?

A. C.: Sicuramente tutto ciò che riguarda la digitalizzazione delle collezioni e di conseguenza anche questi strumenti, per lo più software gestionali che permettono la catalogazione delle opere, costituiscono un sistema che oggi possiamo definire cruciale, fondamentale per quanto riguarda la gestione di collezioni pubbliche e private. Ovviamente quando il sistema gestionale inizia a dialogare con altri professionisti o con altri sistemi gestionali e database può essere condiviso, seppure in privacy, secondo una propria scelta di necessità e d’opportunità. È facile allora capire la grande portata della digitalizzazione. Questo significa che l’utente che possiede una raccolta d’arte, inserendo i dati delle opere sulla piattaforma in completa privacy e sicurezza, decide anche con chi poter condividere queste informazioni: è possibile dare accesso temporaneo oppure può decidere di inviarle in visione ad altri professionisti ed esperti.

Tutto questo a tutela dai falsi perché se un’opera non è autentica, anche tutto il suo corredo documentale e i certificati d’autenticità saranno di conseguenza falsi: ogni qualvolta viene inviata una e-mail con più allegati, questi possono poi essere soggetti a eventuali modi-

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