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La catalogazione delle collezioni: la blockchain

in base a delle statistiche. Ma posso anche decidere di tenermi lontano da tutto questo perché sono un outsider e confido di trovare qualcosa di nuovo e diverso, e usando l’IA posso programmare ciò che spero di ottenere. Vado nello spazio più remoto, dico “adesso forniscimi i numeri: quanto sono vicino a un ritratto, a uno stile che ricorda un dipinto, a una sensazione generale di positività, o al contrario di inquietudine e oscurità” e proprio come una triangolazione su una mappa posso dire “se mi sposto un po’ a sinistra, mi avvicino o mi allontano dalla mia meta?”. In questo modo posso far sì che la macchina trovi automaticamente il percorso ottimale per raggiungere il mio obiettivo. È una forma di controllo che contemporaneamente mi permette di misurare le cose in modo diverso: posso guardare il dipinto e dire “bene, ma non è esattamente quel che voglio”. Quindi, come decidere che direzione prendere? Se dipingo fisicamente, posso aggiungere una pennellata qua o là, ma è un gesto intuitivo, basato sull’esperienza. Con una macchina ho maggior controllo, posso pensare razionalmente: è come in un laboratorio dove posso fare diversi test in breve tempo, mentre con il lavoro fisico sono vincolato al tempo e alla fisicità. Non si può dipingere un quadro più velocemente di quanto la pittura impieghi ad asciugare. Io credo che la creatività sia ricerca, ma anche la ricerca richiede tempo. Se utilizzo mezzi fisici, ho meno tempo per testare varie possibilità, mentre la macchina può offrirmene molte, tutte plausibili e rispondenti ai miei desideri, escludendo quelle che non reputo interessanti, permettendomi di vagliare più opzioni e avere rapidamente un’idea di ciò che sto effettivamente cercando, poiché a volte nemmeno io so cosa sto cercando.

R. P.: Una specie di creatività interattiva…

M. K: Proprio così. È un feedback loop dove costruisco un sistema con la macchina al cui interno inserisco le mie idee su un’opera o sul mondo. Il sistema non è mai perfetto, passo quindi al livello successivo: vedo come interagire con il sistema che ho costruito nel modo appreso dalla mia esperienza per ottenere infine ciò che voglio. Nel contempo imparo a migliorare il sistema a diversi livelli, e così riesco a costruire sistemi in grado di darmi soluzioni che non conoscevo: penso proprio di poter avere qualche buona idea, ma non ho un obiettivo prestabilito. Ho una direzione, un punto di riferimento, ma le soluzioni sono talmente tante, e così come un flâneur cammino attraverso questo interspazio di possibilità con gli occhi ben aperti per cogliere quelle opportunità che non mi aspettavo di trovare. Questo è l’elemento “sorpresa”. Se avessi troppe aspettative, restringerei il mio campo visivo, i miei filtri, che voglio invece mantenere il più aperto possibile senza preclusioni e preconcetti. E l’IA me lo consente. Come esseri umani siamo inclini a percorrere sentieri già battuti e ben tracciati, per questo molte cose e pensieri si assomigliano. È più difficile seguire un nuovo percorso, pensare fuori dagli schemi come mi permette l’IA. Penso sia un meccanismo biologico quello che ci lega a ciò su cui ci focalizziamo, ma con questa seconda entità come l’IA non sono più legato a quel meccanismo d’attenzione: ci rende liberi e ci permette di vedere quanto con il pensiero naturale non potremmo mai automaticamente concepire. È uno strumento davvero utile, con un’offerta di elementi che diventano parte del mio repertorio e che, come pezzi di un puzzle o di un Lego, posso ricombinare in modi diversi, in nuovi concetti.

R. P.: Le sue opere ci portano a esplorare una nuova estetica. Siamo di fronte a un’avanguardia che utilizza le nuove tecnologie. Quale sarà il prossimo futuro per gli artisti dell’IA?

M. K.: La prima fase iniziò nel 2015 quando le tecniche di deep learning arrivarono nel campo delle arti visive come un’esplosione cambriana nella nuova estetica, perché questa tecnologia ha permesso nuove ri-combinazioni di pixel. Ovviamente tutto ebbe inizio con i pixel. Abbiamo avuto così tanti modi per ottenere combinazioni di pixel che creavano immagini nuove e differenti e che non potevamo ancora classificare. Fu come un ibrido tra realtà pittorica e fotografica, foto realistica e qualcosa di simile. A mio parere questo momento durò circa tre anni in cui abbiamo dovuto fare un grande sforzo di adattamento, ma ora abbiamo fatto il punto e abbiamo capito cos’è questa nuova estetica con i suoi tipici manufatti che stanno lì tra qualcosa nello spazio: abbiamo una nuova categoria, possiamo darle un nome e riconoscerla come AI Art. Mi piacciono questi momenti in cui qualcosa è ancora misterioso e

indefinibile. Ma qualcosa si è affermato, proprio come l’Impressionismo, o l’Espressionismo: è stato scioccante a suo tempo, ma non lo riterremmo tale se qualcuno ce lo proponesse oggi. Dubito che avremo ancora un altro tipo di quell’estetica, potrebbe essere stata l’ultima. Al giorno d’oggi queste macchine lavorano per esplorare le possibilità all’interno dell’immagine digitale in uno spazio in cui ogni immagine può essere realizzata. Potremmo trovarci un sacco di cose lì dentro: a un’estremità dello spettro potrebbe esserci solo rumore, un rumore statico, e poi forme geometriche come immagini fotografiche e digitali riconoscibili come dipinti. E ora abbiamo le GAN che possono per così dire riempire quasi tutti i buchi di un immaginario conosciuto che non è ancora stato contemplato dagli esseri umani o da tecniche fisiche. E questo è il punto cui siamo arrivati. Personalmente sono al punto in cui non riesco più a vedere se c’è ancora qualche possibilità, qualche realtà sconosciuta come alcuni piccoli dettagli, che potrebbe portare nuovamente a un passo così gigantesco come questo. Per questo credo che il prossimo focus sull’AI Art dovrebbe essere a un livello più profondo. Il primo livello era su un piano stilistico o strutturale, soprattutto estetico, ma ovviamente l’AI Art non si ferma qui, approfondisce la semantica e i significati e la storia, cercando di trovare nuove composizioni, nuovi modi di raccontare qualcosa.

R. P.: È un punto d’arrivo importante.

M. K.: E la mia domanda è: possiamo trovare nuove combinazioni a cui relazionarci? E infine l’IA diventerà come un autore o un artista con una sua visione del mondo? In questo modo oltre alle opere potrebbe sviluppare la storia della sua vita, uno sviluppo da poter seguire e a cui rapportarci. E questo sarà il prossimo passo per gli artisti dell’IA: creare un complesso di ambientazioni relazionate tra loro, e qualsiasi estetica producano, dipenda pure dalla macchina, dovranno studiare il mondo, prenderne una sezione che ne diventi il tema. Ne potremo avere a centinaia di questi artisti, e ognuno di loro cercherà di arrivare a un suo pubblico. Si tratta nuovamente di ottimizzazione. Avremo robot-artisti che dipingono solo cani perché alla gente piacciono i cani, o i fumetti, altri focalizzati su questioni sociali, altri su banalità o su tematiche specifiche, tutti in cerca di una nicchia, di un pubblico che li apprezzi. Non so fino a che punto sia auspicabile, ma penso che potrebbe essere così, esattamente come gli artisti umani: ci sono quelli che seguono solo la loro inclinazione indipendentemente dal successo, altri che cercano solo di servire un mercato: si rendono conto di ciò che piace alla gente, approfondiscono il tema, trovano il modo di proporlo da varie angolazioni e renderlo riconducibile al loro stile. Se trasformate un fumetto in un dipinto, farete la fine di Roy Lichtenstein – alla fine ognuno deve pagare l’affitto di casa, quindi perché mai non ottimizzare un mercato e guadagnarsi da vivere con la propria arte? Come artista è da considerare anche questo: non si è mai totalmente liberi, bisogna adattarsi alle ristrettezze del mondo.

R. P.: Qual è il lavoro, o il progetto, che ha realizzato e che più la emoziona?

M. K.: Penso sia un lavoro che ho fatto l’anno scorso e che si chiama Appropriate Response. Ne sono molto soddisfatto perché è un tutto tondo, è omogeneo in tutte le sue parti che si incastrano armonicamente in una bella composizione. C’è l’IA che crea testi basati sul sapere umano, ma c’è anche l’elemento aptico, fisico dato dal display, dal suono che produce, e l’intero meccanismo scorre bene. Inoltre c’è l’esperienza di come il pubblico interagisce con l’opera e nasce un breve momento di contemplazione come se ci si trovasse in uno spazio sacro. E dalle reazioni che ho notato credo che il pubblico lo percepisca, quindi c’è una connessione, e quel senso di stupore che tutti abbiamo per l’IA in un modo molto ludico. Io mi entusiasmo ogni volta che lo uso. Quando tutti gli elementi si uniscono correttamente e al momento giusto, e il modo in cui il tutto appare e lo si percepisce, questo è il tipo di lavoro che preferisco e in cui non riesco a trovare un solo difetto nemmeno in seguito. Voglio dire, troverò sempre un difetto in qualsiasi cosa, ma tra tutte le mie opere, questa ha la minima probabilità che io possa rilevarvi dei difetti.

R. P.: Non posso fare a meno di chiederle di illustrarci il procedimento che sta dietro la creazione di Memories of Passersby.

M. K.: Ci provo. Nel cuore, al centro di Memories of Passersby vi è un feedback loop perché sono davvero innamorato dei feedback loop nei quali di norma si ha un sistema complesso ma in conclusione si reinserisce l’output del sistema nell’input. In questo modo si ottiene un ciclo chiuso, ma poiché il sistema è complesso, il risultato non può essere realmente previsto. È come tendere un microfono verso un altoparlante: sai che tutto ciò che ottieni è quel brutto tono acuto, ma la cosa affascinante dei moduli di feedback è che vi è sempre una piccola zona ristretta in cui se si sintonizzano i parametri in modo corretto, il sistema quasi prende vita. È un modo per non spegnersi quando il sistema potrebbe azzerarsi o sovraccaricarsi e saturarsi, come con il microfono e l’altoparlante, ma qui vi è una zona “agibile” dove accadono cose interessanti e imprevedibili. Sono sempre alla ricerca dell’imprevedibilità. Al centro di Memories of Passersby ho due GAN, due modelli addestrati entrambi sulle basi della ritrattistica classica come i dipinti della Storia dell’Arte europea. Un modello è addestrato a prendere un dipinto o un’immagine e cercare un viso, ed ecco praticamente quello che fa: quando riconosce elementi appartenenti a un viso, dove si può individuare un occhio, una bocca, la pelle, tracciando alcune linee creerà un disegno molto semplice, una mappa semantica in cui un naso diventa un triangolo in rosso, una bocca diventa un’altra forma in verde, fino a ottenere la mappa completa di ciò che vede. L’altro modello farà il contrario: si aspetta una mappa, e cercherà di ricreare ciò che ha imparato, e in questo caso cercherà di ricreare qualcosa che assomiglia a un dipinto. Allora, cosa succede adesso? Li metti tutte e due insieme e chiudi il loop e lo lasci scorrere, e questa è la parte affascinante: non gli dai un volto, gli dai solo rumore. Per il modo in cui funzionano, questi modelli non possono vedere l’intero lavoro come se fosse costituito solo da volti e ritratti, ma al minimo accenno nel rumore produrranno una qualsiasi configurazione, proprio come accade quando due pixel neri e due pixel bianchi si incontrano, e un modello pensa che potrebbe essere un occhio e lo enfatizza, e poi nel feedback loop questo occhio si fa sempre più evidente finché improvvisamente si delinea un occhio e tutto il viso inizia a prender forma. Contemporaneamente c’è rumore nel sistema, quindi i minimi cambiamenti in quella configurazione finiranno con avere un impatto maggiore. Ecco perché il sistema non diventa mai statico. Entrambi i modelli commettono lievi errori, questi errori si aggiungono l’uno all’altro e così non si vedrà mai lo stesso ritratto due volte: sarà sempre diverso perché alla minima perturbazione si avrà un risultato diverso. E la domanda è: questo sistema può rimanere interessante nel tempo? Perché non creerà mai né paesaggi né altro, continuerà a creare solo ritratti. Non sai cosa aspettarti da un meccanismo a lungo termine, senza fine, potrebbe addirittura diventarti familiare poiché sai cosa ti aspetti, tuttavia spero che, proprio per il suo stesso meccanismo, un bellissimo viso o una particolare composizione o una strana distorsione possa sorprenderti anche solo occasionalmente, e non necessariamente in senso positivo perché a volte succede che un modello si interrompe e l’altro non riconosce più nessun viso e produce uno spazio rumoroso dove appaiono solo degli artefatti pixel, ma dopo un minuto o due, inevitabilmente i volti tornano e “wow”! Straordinario! È come ritrovare qualcosa dopo averla persa, è un’emozione.

R. P.: Il sistema può sopravvivere all’artista?

M. K.: Sì! Questo è l’altro punto. È un modo per diventare immortale! Se non io, qualcosa che ho fatto continuerà a creare qualcosa di nuovo anche dopo la mia morte. In generale la grande differenza tra artisti umani e futuri artisti robot è che sfortunatamente o forse fortunatamente ci viene dato solo un certo tempo per creare mentre la macchina non morirà mai. Non corre quel pericolo del tipo “non c’è più” e una volta spenta andrà tutto perduto. Una macchina può darti una copia perfetta di ciò che vuoi realizzare, e se la programmi in modo corretto, puoi spegnerla e accenderla il giorno successivo e riprenderà esattamente da dove si è fermata. Ovviamente questo non è possibile con gli esseri umani. L’altra grande differenza sta nel fatto che la macchina non ha una sua motivazione naturale per creare e di fatto siamo noi a doverle fornire gli elementi affinché possa creare qualcosa di rilevante o qualsiasi cosa possa rappresentare una motivazione. Sinceramente non voglio fare congetture su come e perché una macchina dovrebbe avere una qualche sorta di motivazione. Alla fine è un Go-

lem, la macchina che abbiamo costruito per il nostro intrattenimento intellettuale o emotivo. È come uno schiavo. E non ci preoccupa certo che una macchina possa star bene o divertirsi. E la domanda è: dovremmo forse preoccuparcene? Pensare a una macchina in termini antropomorfici potrebbe non essere saggio. Infine una macchina non soffre come un essere umano. Probabilmente no.

R. P.: Lei ha detto «I’m addicted to surprise», e ha parlato spesso del fattore sorpresa nella produzione delle sue opere d’arte con IA. Sappiamo che si può “addestrare” una macchina con una serie di immagini specifiche ma il risultato finale può sorprendere anche l’artista e portarci a scoprire qualcosa di realmente nuovo? Come può un artista gestire una parte di creatività che sfugge al suo stesso controllo?

M. K.: Prima di tutto cos’è una sorpresa? Penso che una sorpresa sia un effetto collaterale del nostro costante tentativo di prevedere il futuro, a breve o a lungo termine. Per esempio se ho in mano una penna, posso prevedere che aprendo la mano, la penna cada sul tavolo, ma se aprendo la mano la penna restasse sospesa in aria, sarebbe una grande sorpresa! E in totale contraddizione con il modello di mondo così come lo conosco e così come funziona. Lo stesso vale se vado in una galleria d’arte con un’aspettativa basata sulla mia esperienza e improvvisamente mi imbatto in opere che non rientrano affatto nelle mie previsioni, questa è una sorpresa. La sorpresa è ciò che cerco sempre di ottenere, e penso sia un elemento umano naturale perché se non ci sono sorprese, se le cose accadono sempre come ce lo aspettiamo, ci annoiamo e cerchiamo qualcosa di nuovo e diverso. È quasi un meccanismo biologico. Con la macchina dobbiamo prima analizzare i dati di training derivanti da pittura, scultura o musica, così la macchina avrà un modello generale basato su ciò che le abbiamo insegnato: in questo tutti i dati si combineranno ma è prevedibile che quanto creerà non sarà che una rassomiglianza. Tuttavia proprio perché è una macchina, posso costringerla a uscire dalla distribuzione standard, andare oltre i confini dell’universo conosciuto che generalmente è molto rumoroso. E questo è l’altro punto: tutto ciò che non rientra nella ripartizione standard, noi lo percepiamo come rumore perché è così che interpretiamo quanto non riusciamo a comprendere, finché finalmente lo comprendiamo e non è più rumore, possibilmente è un’opera d’arte impressionista o una moderna composizione musicale. Ci vuole un po’ di tempo perché le novità siano accettate e diventino parte del nostro code-book o del repertorio che ci permette poi di procedere oltre. Noi non possiamo immetterci immediatamente nel rumore, ed è un problema con questo tipo di sorprese. Per esempio, ciò che era nuovo con l’estetica della GAN, dopo un po’ è diventato normale e l’effetto sorpresa è svanito. Così posso solo creare tanti ritratti GAN perché conosco già il gioco, ma devo cercare sempre una nuova direzione – forse volare in verticale – ed è una ricerca senza fine. La cosa ingiusta di ogni sorpresa è che non riesci a trovarne la ricetta perché una volta trovata la ricetta, non è più una sorpresa. Ecco perché vado a un livello più profondo e cerco di configurare sistemi che possano sorprendere e non diventare mai noiosi. Vi è un enorme spazio là dentro ed è qui che l’IA è molto utile, ma in uno spazio enorme il problema è che le cose più interessanti sono come piccole isole: potremmo passarci accanto nella nebbia senza nemmeno vederle perché sono appena un po’ fuori vista; tuttavia, proseguiamo perché speriamo sempre di trovare qualcosa. Altro punto, la sorpresa è anche una questione personale: cosa hai visto? Cosa hai conosciuto? Ciò che è eccitante per una nuova generazione, potrebbe essere obsoleto, una sorta di “eccolo di nuovo!” per la precedente. Le mode vanno e vengono in ogni campo e da un lato è una sorta di salvezza per la conoscenza umana altrimenti tutto andrebbe perduto, d’altro lato è terribile poiché non potremmo più creare nulla di nuovo che non fosse già stato fatto da qualche altra parte in qualche altra epoca: ormai sono state piantate tutte le bandierine sulla mappa della creatività umana. Lo stesso accade nel campo dell’arte. Ma è un terreno scivoloso. Gli esseri umani che vogliono creare la propria arte devono trovare un modo per sopravvivere mentalmente in uno spazio in cui tutto quanto possibile verrà fatto sempre più rapidamente da un’IA o da persone che sanno come applicare un’IA. Semplicemente le macchine sono più veloci di noi. Quindi è meglio coalizzarsi con loro come faccio io, e così utilizzo la velocità della macchina che mi permette di ottenere la mia visione del mondo e contemporaneamente di trovare qualcosa che sia mio almeno per un po’.

R. P.: Nel 1950, in un’intervista per Radio Sag Harbor, William Wright chiese a Jackson Pollock: «Sarebbe corretto dire che un artista dipinge con l’inconscio, e la tela deve rappresentare l’inconscio della persona che la guarda?» e Pollock rispose: «L’inconscio è un lato importante dell’arte moderna, e penso che le pulsioni inconsce abbiano molta importanza quando guardiamo un quadro». Ora, data l’importanza che l’IA ha storicamente assunto nel mondo dell’arte, le domando: pensa che le pulsioni inconsce possano avere un significato guardando un’AI work of art?

M. K.: Uno degli aspetti più interessanti del funzionamento di questi modelli è che devi considerarli come un imbuto in cui entrano un sacco di informazioni, per esempio un dipinto che consiste di milioni di pixel, e con questi learning models l’IA lo fa con vari passaggi: prima condensa e riduce l’intera informazione a pochi numeri in modo da posizionarli in uno spazio latente o presumibilmente tale. In questi passaggi ogni livello ne gestisce diversi aspetti e quanto più si scende in profondità, tanto più ci si addentra nell’inconscio della macchina, perché i livelli più profondi sono una sorta di mondo semantico dove è persino possibile dare un nome a cose che non hanno più nome, né hanno etichette e nemmeno sanno cos’è un’etichetta. Si potrebbe aggirare l’ostacolo e dare un nome a qualsiasi cosa si trovi in questo livello secondo un certo grado di somiglianza. Come essere umano puoi guardare le immagini, rifarti a uno schema che descriverai non solo con una semplice parola ma con una frase intera, per esempio «queste immagini comportano un certo sentimento di mistero» o «mi danno una sensazione di solitudine o di felicità». E la cosa affascinante con queste macchine è che, poiché sono state addestrate sull’immaginario umano, di solito catturano qualcosa anche della condizione umana perché, pur dal punto di vista di una “macchina” hanno potuto dare un’occhiata al genere umano, creare degli stereotipi, mostrarci perfino quanto siamo limitati. È spaventoso, e ovviamente a qualcuno non piace, ma in realtà la macchina estrae sicuramente qualcosa che ci riguarda e lo rende riconoscibile perché è stata in grado di vedere certi schemi che non abbiamo a livello superficiale bensì a livello profondo, e ciò che crea è come uno specchio in cui possiamo riconoscere qualcosa che personalmente associo all’inconscio. Non succede a caso. La macchina riproduce quanto è riconoscibile e riconducibile a ciò che chiamiamo inconscio perché è stata capace di toccarlo con mano. Non può dargli un nome, ma controlla tutti questi diversi elementi che diventano poi parte del dipinto. Così come persone diverse possono provare medesimi sentimenti o fare medesime associazioni, lo stesso accade con le macchine perché alla fin fine sono state addestrate in base a creazioni umane e su input umani. Tutto questo è ancor più rilevante con gli ultimi modelli: questi sono in grado di sezionare la nostra psiche, ed è spaventoso vedere cosa possono trarne. C’è un nuovo modello chiamato Clip, è uscito a gennaio su OpenAI, che è stato addestrato contemporaneamente su immagini e testi, un testo composito non didascalie. La macchina è stata interfacciata a una pagina web dove c’era una foto e un articolo correlato, e ha imparato ad associare l’una all’altro. E dopo aver visto milioni di esempi, riesce a fare queste associazioni estremamente bene. Mi piace tutto questo perché io sono molto razionale, e mi piace che la macchina possa mostrarmi qualcosa sul modo in cui sia noi sia il mondo funzioniamo. Qualcuno pensa che si stia andando su un terreno dove è pericoloso addentrarsi e chissà scoprire che anche noi siamo come macchine. Di fatto credo che noi siamo macchine computazionali, siamo più complessi, e abbiamo connessioni biologiche non ancora pienamente comprese, ma non siamo esseri magici. Possiamo riprodurre schemi che possono essere analizzati, e l’inconscio ne è una parte importante. Inizialmente la macchina replicava ciò che era simile a un sistema visivo umano. Il modo in cui la macchina vede un’immagine si avvicina sorprendentemente al modo in cui funziona il nostro sistema visivo. Quando li mettiamo a confronto, la macchina, anche se non hard-coded, arriva alle stesse soluzioni d’analisi dell’immagine. A un livello più profondo, credo che la macchina possa arrivare alle stesse soluzioni inconsce che il nostro cervello ha trovato per spiegare il mondo, interagire e far di noi degli esseri sociali. È ancora un territorio sconosciuto, ma dato che non credo nella magia, scommetto che c’è una spiegazione.

R. P.: Considerando i diversi sviluppi dell’uso dell’IA, quali sono i suoi prossimi progetti? Qualcosa di nuovo da sperimentare? M. K.: Sto sperimentando qualcosa che è proprio appena uscito. Sto aspettando un braccio robot, un robot professionale industriale, e sto cercando di tornare dal digitale al fisico, e iniziare a sperimentare, ovviamente con l’IA, ma tornando al fisico, e avere un robot che fa artefatti o dipinti e interagisce con il mondo fisico. La parte difficile è che non desidero usare il robot come una sorta di plotter che segue rigorosamente le mie istruzioni. Spero che utilizzando macchine fotografiche in cui la macchina osserva i propri progressi, la macchina stessa possa arrivare a produrre dipinti non solo come copie o come una trasposizione diretta di immagini note. Idealmente il processo fisico diventerà parte del feedback loop, un processo fisico in cui il robot semplicemente disegna una pennellata; quindi, l’IA la analizza e la definisce, e in base a misure che ancora non conosco, valuta se e come proseguire. Sto anche considerando l’approccio di Francis Bacon di lasciare che gli incidenti accadano, per esempio si versa una boccetta di inchiostro, si guarda quel che si è fatto, e poi si usa il processo di associazione per interagire con ciò che si è fatto. Ovviamente cercherò di guidarlo, ma gli lascerò anche possibilità d’azione. Mi piacerà usarlo come un altro modo per esplorare questa intersezione fisico-digitale perché c’è ancora qualcosa di molto speciale negli oggetti fisici e nelle infinite risoluzioni della natura. Con il digitale si è in qualche modo limitati dalla quantizzazione, mentre qui si hanno tutti questi effetti che arrivano spontaneamente come gli effetti reali che sono inimitabili. Cercherò di ottenere il meglio da entrambi i mondi, e spero di produrre qualcosa di cui essere soddisfatto e che potrebbe valere la pena esporre. L’intero processo di un robot in azione è molto piacevole in sé, e potrebbe esserci un’installazione in cui il processo del robot che produce qualcosa sia il focus dell’attenzione, non come singolo risultato, ma piuttosto del tipo: possiamo relazionarci? C’è qualcosa nel modo in cui si muove che sembra giusto o diverso? In realtà sono andato al seminario d’apprendimento del robot solo la scorsa settimana, e la macchina arriverà la prossima settimana, e poi beh, sono di nuovo in questo genere di mondo, continuerò a occuparmi di IA, ma sento di essere arrivato a un punto da dove altri possono ripartire. Questo campo è ormai esploso e ora tutti se ne stanno occupando. Inizialmente è stato un nuovo territorio, un nuovo continente da esplorare e tenerne per me una parte. Con questo nuovo progetto spero di continuare a lavorare in solitudine almeno per un po’. E sarà di nuovo IA, più vicina al mondo fisico.

R. P.: Ha proprio lo spirito del pioniere…

M. K.: Penso che questo sia ciò che mi sprona. Mi piace addentrarmi in un luogo deserto sperando di trovare qualcosa, una nuova specie di funghi o piccoli animali che non ho mai visto prima.

30 marzo 2021

Mike Tyka

Mike Tyka

L’IA: un nuovo mezzo da esplorare come strumento artistico

miketyka.com Sito ufficiale di Mike Tyka. Mike Tyka1, nato e cresciuto in Germania, dopo essersi trasferito in Inghilterra ha studiato biochimica e biotecnologia all’Università di Bristol dove nel 2007 ha conseguito il PhD in biofisica. Oggi vive negli Stati Uniti, dove lavora come ricercatore presso l’Università di Washington, dedicandosi in particolare allo studio della struttura e della dinamica delle molecole proteiche. Nel 2012 inizia anche una collaborazione con Google, dove applica computer vision e machine learning a studi di mappe cerebrali a livello neuronale, e dove nel 2015 è cofondatore del programma Artists and Machine Intelligence.

Mike Tyka si definisce prima di tutto uno scienziato e sono stati proprio i suoi cstudi sulle proteine a ispirare le sue prime opere d’arte: le sculture, realizzate in vetro fuso, bronzo, acciaio e legno, sono create in base a specifiche coordinate molecolari. Esposte in tutto il mondo, mostrano la bellezza nascosta delle nanomacchine.

La sua produzione artistica si concentra da un lato sulla scultura tradizionale e dall’altro sull’impiego della tecnologia moderna: crea così opere generate con reti neurali artificiali che per lui rappresentano un mezzo e uno strumento artistico.

Nel 2009 partecipa alla realizzazione del progetto Groovik’s Cube, una scultura alta trentacinque piedi, la più grande struttura funzionale al mondo del cubo di Rubik2, collocata a Reno, Seattle e New York.

Nel 2015 crea alcune delle prime opere d’arte su larga scala utilizzando Iterative DeepDream: anche Mike Tyka è sicuramente un pioniere nella produzione di opere d’arte con Intelligenza Artificiale e tra i primi ad aver esplorato le potenzialità di DeepDream3 e delle GAN in questo campo.

Nel 2017 collabora con Refik Anadol per creare Archive Dreaming, un’installazione di proiezione immersiva realizzata utilizzando le GAN.

La sua serie Portraits of Imaginary People è stata esposta all’ARS Electronica di Linz, da Christie’s a New York e al New Museum di Karuizawa in Giappone. La sua scultura cinetica Us and Them, un’installazione realizzata con l’applicazione di IA, è stata presentata alla Mediacity Biennale 2018 al Seoul Museum of Art e nel 2019 al Mori Art Museum di Tokyo.

www.youtube.com/ watch?v=uLXxwpYrPBQ Designing of the Groovik’ s cube, Mike Tyka.

Opere e progetti

Mike Tyka è un artista e uno scienziato multidisciplinare che, con una straordinaria capacità di sperimentare ed esplorare nuovi media e nuovi mondi4, è riuscito a coniugare in opere d’arte l’oggetto dei propri studi.

Con la serie Molecular Sculpture, le strutture proteiche molecolari, oggetto dei suoi studi scientifici, prendono forma attraverso vetro, bronzo e acciaio e si trasformano in sculture di gran fascino che ci mostrano la bellezza di un microcosmo invisibile all’occhio umano ma che costituisce la base della vita.

Dell’opera Angel of Death – Ubiquitin Mike ci racconta:

rb.gy/33l8qm The art of neural networks, Mike Tyka, TEDxTUM.

la vita è un equilibrio dinamico di creazione e distruzione. All’interno delle nostre cellule le nanomacchine proteiche, che ci permettono di distinguerci dal mondo inorganico, vengono perennemente riciclate e ricostruite, combattendo per sempre l’inevitabile destino del decadimento entropico5 .

1. Mike Tyka, Angel of Death, rame, oro, acciaio, 9”× 9”× 16”, 2011. Courtesy Mike Tyka.

2 ▷ p. 248

3 ▷ p. 248

Dalle affascinanti forme sviluppate da una dimensione microscopica, con la serie AI: Deepdream Mike Tyka ci accompagna alla scoperta di un nuovo mondo, nuove immagini generate con le GAN. Quest’opera è il risultato della fusione di due concetti espressi simultaneamente da una rete neurale artificiale: Bacchus, per esempio, nasce dell’unione dei due concetti brocche e fiori, espressi simultaneamente da una rete neurale. Il risultato viene generato nello spazio latente all’interno della rete neurale che ha unito i due concetti. Con AI: Deepdream Mike Tyka ha esplorato il potenziale delle creazioni di immagini nuove, quasi oniriche, che a volte possono ricordare immagini frattali o psichedeliche.

Sempre usando le GAN, nel 2017 Mike Tyka realizza la serie Portraits of Imaginary People in cui esplora lo spazio latente dei volti umani allenando una rete neurale per immaginare e poi raffigurare ritratti di persone che non esistono. Per realizzare questa serie e per addestrare le GAN sono state usate migliaia di fotografie di volti scattate da Flickr. È bene sottolineare quanto pionieristico sia stato questo lavoro: è una delle prime serie di opere in cui si esplora l’estetica

2. Mike Tyka, Bacchus, rete neurale, stampa d’archivio, 11,75”× 11,75”, 2016. Courtesy Mike Tyka.

3. Mike Tyka, I see you, stampa d’archivio, 20”× 20”, 2017. Courtesy Mike Tyka.

delle GAN in una dimensione e con una definizione ancora lontane da quella risoluzione realistica che oggi è possibile ottenere.

Nel 2017 Mike Tyka in collaborazione con Refik Anadol, realizza Archive Dreaming, una delle prime installazioni artistiche su larga scala – straordinaria e realmente innovativa – che usa le GAN per portarci in un mondo immaginario ma basato su immagini reali e strutturate in un’architettura fino ad allora solo sognata.

Insieme i due artisti hanno usato le GAN sulle collezioni SALT Research, un archivio di 1.700.000 documenti storici, creando un progetto visionario: un ambiente onnicomprensivo tra storia e apprendimento automatico verso una nuova visione della percezione museale.

Dalla riflessione sulla portanza delle reti neurali che possono creare contenuti come tweet in modo automatizzato, nasce Us and

4. Mike Tyka e Refik Anadol, Archive Dreaming, installation view, Salt Galata, 2017. Courtesy Mike Tyka.

5, 6 ▷ p. 250 Them, un’installazione multimodale che coniuga Portraits of Imaginary People con testi generati e la scultura cinetica. Una ventina di stampanti, basate sull’apprendimento automatico sfruttando l’Intelligenza Artificiale, generano tweet e falsi tweet manipolando l’opinione pubblica. I visitatori sono invitati a entrare nello spazio interno dell’installazione e a prendere posto su due sedie per conversare, circondati da un fiume inarrestabile di propaganda. Una grande riflessione sulla manipolazione politica e sociale attraverso la propaganda automatizzata.

L’installazione esamina il nostro nuovo mondo che abbiamo creato, un’economia dell’attenzione digitale, in cui siamo costantemente distratti, connessi digitalmente e tuttavia desiderosi di connessione umana6 .

5, 6. Mike Tyka, Us and Them, installazione cinetica e dettaglio, 2018, commissionata dal Seoul Museum of Art 2019, Mori Art Museum, Tokyo. Courtesy Mika Tyka.

Ho avuto il piacere di intervistare Mike Tyka nell’aprile 2021. È stato un incontro e un confronto molto interessante perché Mike non è semplicemente uno scienziato di alta levatura e un artista d’ingegno, è anche e soprattutto una persona di grande profondità d’animo e acume di pensiero. Conversando con lui ho avuto da subito la netta sensazione di trovarmi con un artista che è sì consapevole di essere espressione della nostra avanguardia, ma anche uno tra i pochi in grado di coniugare con estrema lucidità le varie manifestazioni e problematiche dell’attuale condizione umana.

La sua ricerca estetica parte dai suoi studi scientifici, come ne fosse un’estensione artistica, per mostrarci la bellezza di quanto è oggetto delle sue ricerche come per la serie Molecular Sculpture, o si realizza come una sperimentazione innovativa su temi di grande attualità con l’uso di Deep Dream per la serie Portraits of Immaginary People. È stato uno dei primi e dei pochi a realizzare un’installazione impiegando l’Intelligenza Artificiale per invitare il pubblico a riflettere sull’impatto che possono avere la tecnologia e i social se strumentalizzati per secondi fini deontologicamente scorretti: con l’opera Us and Them invita lo spettatore a riesaminare il proprio rapporto con la macchina e a cercare una vera connessione tra esseri umani.

Terminata l’intervista, dopo che Mike aveva risposto a tutte le mie domande, ho avuto la sensazione che fosse incompiuta: la verità è che lo avrei ascoltato per ore. Questo perché Mike fondamentalmente è un innovatore, sempre in cerca di nuovi orizzonti nei quali la sua ricerca può dare qualcosa e lo fa con una naturalezza incredibile – ed è proprio la sua essenza che lo porta lì, sul giusto cammino da percorrere. Non è un caso che ora il suo lavoro sia incentrato sui cambiamenti climatici, tema di estrema attualità imprescindibile per noi tutti.

R. P.: Una delle caratteristiche che la contraddistingue è la multidisciplinarità, come un moderno Leonardo. Se non sbaglio

lei ha studiato biochimica e biotecnologia, ed è rimasto affascinato dalle proteine e dalla loro bellezza strutturale, così ha creato straordinarie sculture di proteine molecolari – sculture che hanno un fascino “magnetico”, poi è passato a un nuovo campo utilizzando l’Intelligenza Artificiale. Poiché vi è un enorme salto tra la realizzazione di sculture molecolari e le opere d’arte create con IA, vorrei comprendere questo passaggio. Ma prima ho una domanda personale perché non ho trovato risposta nella sua biografia: lei dove è nato?

M. T.: Sono nato e cresciuto in Germania e ho studiato per molti anni in Inghilterra, poi circa quattordici anni fa mi sono trasferito a Seattle negli Usa come biochimico e ho svolto ricerca in biochimica computazionale all’Università di Washington. Trattando argomenti di biochimica stavo già avvalendomi dell’uso dei computer, e quando poi sono andato da Google sono stato letteralmente esposto alle machine learning e all’Intelligenza Artificiale. Ora ho cambiato nuovamente campo e mi occupo di ricerca sui cambiamenti climatici. Sono mentalmente connesso con tutti questi temi: tutto è scienza e tutto è riconducibile all’uso dei computer così come ai più diversi tipi di simulazione. In una certa misura tutto è simile, le specifiche sono di facile apprendimento e i principi sono trasferibili; pertanto, è facile lavorare con dei data e analizzare data e trasformarli poiché si possono applicare queste proprietà o esperienze a qualsiasi soggetto.

R. P.: Come artista, perché ha scelto di utilizzare l’Intelligenza Artificiale per creare le sue opere d’arte?

M. T.: La risposta è già insita in questo inizio di conversazione poiché anzitutto sono uno scienziato quindi nella mia mente elaboro ciò su cui sto lavorando. Ho studiato a lungo le proteine, ho osservato un’infinità di proteine e la loro struttura, la struttura molecolare, ma ho anche interessi artistici e i miei interessi artistici sono legati a ciò su cui sto lavorando come scienziato. Così mentre studiavo le proteine, nella mia mente non vi erano che proteine e ne ho fatto un oggetto scultoreo: hanno strutture interessanti e bellissime, ed esistono realmente. Ho pensato che potesse essere curioso renderle visibili ad altri, poiché generalmente gli altri non

Mike Tyka, Style Is Violins, rete neurale, stampa d’archivio, 21”× 21”, 2016. Courtesy Mike Tyka.

sanno come sono, a cosa assomiglino, a meno che non lavorino nel mondo delle scienze proteiche: rappresentandole con una scultura, le rendi accessibili e qualcun’altro può gettare uno sguardo in questo mio mondo.

Quando ho iniziato a lavorare con il machine learning, la mia mente è stata automaticamente portata a realizzare arte con o per mezzo del machine learning poiché era esattamente ciò che avevo in mente. È stata una transizione naturale e proprio mentre lavoravo in quel campo le reti neurali cominciarono a essere in grado non solo di analizzare data, ma di generare qualcosa. Quando le reti neurali cominciarono a essere in grado di creare, di generare immagini, fu un momento ovviamente molto interessante poiché si poteva scoprire quel che accadeva al loro interno.

Deepdream fu un esempio di come, facendo scorrere la rete neurale all’indietro, si potevano scoprire le diverse stratificazioni

della rete neurale, o i diversi neuroni rappresentati in quella rete, e che cosa captavano nei termini degli schemi che captavano. Formavano anche immagini molto belle, interessanti, e con una estetica insolita. È così che ho cominciato a occuparmene.

R. P.: Come un vero e proprio pioniere, lei ha esplorato una nuova dimensione e ha trasformato una proteina molecolare in un’opera d’arte mostrandoci così la bellezza di qualcosa di puramente scientifico. È alla ricerca della bellezza?

M. T.: Una bellezza nascosta, e non così palese. La si può vedere solo attraverso lo strumento scientifico, un microscopio non è sufficiente poiché è più piccola della lunghezza d’onda della luce. «A cosa assomiglia?» non è una domanda ragionevole: non assomiglia a nulla poiché è più piccola di quel che possiamo anche solo pensare di vedere. Quindi si tratta sempre di una rappresentazione, un’immagine sullo schermo del computer o una scultura o un modello. Vi è la possibilità di scoprirne la struttura, ma poi come la visualizzi, come la rappresenti è essenzialmente un gesto artistico. Devi procedere con una scelta arbitraria per rappresentare questa informazione, questa cognizione della sua struttura, e vi sono un’infinità di modi diversi per farlo, e non c’è un modo migliore o peggiore per farlo – dipende solo da ciò che vuoi enfatizzare. E realizzare una scultura in metallo è tanto ragionevole quanto qualsiasi altra visualizzazione, e personalmente lo considero davvero interessante.

R. P.: È davvero interessante anche per noi perché è la rappresentazione di qualcosa che è vita.

M. T.: Ed è anche molto intrigante: queste cose sono proprio lì davanti a te ma sono invisibili. Non possiamo toccarle, ma possiamo vedere che hanno la bellezza della vita.

R. P.: Nei suoi Commentari lo scultore Lorenzo Ghiberti ha scritto: «La scultura e la pittura sono scienze multidisciplinari. Consiglio agli artisti di specializzarsi in diverse arti liberali dalla geometria all’astrologia perché cultura e immagine necessitano la conoscenza di più discipline». E oggi più che mai torniamo a questa filosofia multidisciplinare. Ora, dalla biologia all’uso dell’IA, potrebbe darmi i suoi Commentari? Inoltre, per quanto la concerne, in quale misura lo scienziato coinvolge l’artista o viceversa?

M. T.: Questa è una domanda plurima. Penso che la specializzazione come l’approccio multidisciplinare siano interessanti. La totalità della conoscenza e della ricerca umana è così vasta oggigiorno che non si può essere un esperto in tutto. Questo è stato possibile nel ’400 quando c’erano solo scienziati e questi si occupavano di biologia, chimica, fisica e quant’altro. Ma oggi i confini della conoscenza umana sono talmente estesi da non poter nemmeno comprendere quali siano gli attuali problemi scientifici. Bisogna studiare dieci, quindici anni anche solo per capire in cosa consista un ultimo problema o anche solo per cominciare a risolverlo. Ecco perché le persone che si applicano in campo scientifico devono specializzarsi a fondo per contribuire con qualcosa di nuovo che diversamente sarebbe già stato scoperto o risolto. Tuttavia, a volte il progresso si fa strada proprio quando ci si applica a due diverse specializzazioni come una profonda conoscenza dell’IA e una profonda conoscenza nella scienza delle proteine, e si può applicare l’una all’altra competenza e utilizzarle come in un AlphaFold, ossia la svolta di DeepMind nel ripiegamento delle proteine.

C’è ovviamente un contrasto tra queste due opzioni. Da un lato il tempo di una vita non è sufficiente per imparare tutto, e dall’altro devi cercare di mediare con una qualche soluzione. Quindi per me, per tornare al tema dell’arte, collegare diverse discipline è un modo per trovare qualcosa di nuovo e scoprire nuovi panorami o suggestive visioni su qualunque cosa mi interessi. Penso che sia una soluzione praticabile, ed è quel che sta succedendo con l’Intelligenza Artificiale di cui molte persone hanno detto: questo è un nuovo strumento nella cassetta degli attrezzi che prima non c’era, adesso vediamo cosa succede quando lo utilizziamo per qualcosa di diverso. Ma ecco che poi penso sia del tutto ragionevole scavare a fondo in un solo ambito, focalizzarsi proprio su una sola area e non essere affatto multidisciplinari. Non so quale sia la soluzione migliore. Alcune persone sono maggiormente portate alla connessione tra ambiti diversi, e altre sono più interessate a comprendere incredibilmente a fondo qualcosa fino a diventarne totalmente esperti. Penso che questo valga anche per l’arte, puoi scegliere un

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