LE GRANDI STAGIONI DELL’ARTE ANTICA E MEDIEVALE
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LE GRANDI STAGIONI DELL’ARTE ANTICA E MEDIEVALE IN EUROPA E NEL MEDITERRANEO Testi di Roberto Cassanelli, Adam S. Cohen, Robin Cormack, Jas’ Elsner, Alain Erlande-Brandenburg, Robert Hillenbrand, Robin Osborne, Serena Romano, Joan Sureda, Claudio Tiberi, Tania Velmans
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Editoriale Jaca Book © 2020 tutti i diritti riservati I capitoli qui pubblicati sono apparsi nella Storia universale dell’arte Jaca Book / Lunwerg © 2008 Introduzione François Bœspflug © 2020
Traduzioni dal francese: Chiara Formis (Velmans), Fabio Scirea (Erlande-Brandenburg); dall’inglese: Elena Lissoni (Elsner, L’arte etrusca e romana, Osborne), Chiara Peri (Hillenbrand), Gloria Romagnoli (Cohen, Cormack, Elsner, La prima arte cristiana), dallo spagnolo: Gloria Romagnoli (Sureda)
Grafica e impaginazione Paola Forini Stampa e legatura Tiskarna Vek, Koper Febbraio 2020
ISBN 978-88-16-60607-4
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
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SOMMARIO
PREFAZIONE François Bœspflug pag. 7 L’ARTE GRECA Robin Osborne pag. 11 ARCHITETTURA GRECA E ARCHITETTURA ROMANA Claudio Tiberi pag. 33 L’ARTE ETRUSCA E ROMANA Jas’ Elsner pag. 53 LA PRIMA ARTE CRISTIANA Jas’ Elsner pag. 77 L’ARTE COPTA Tania Velmans pag. 89 L’ARTE BIZANTINA Robin Cormack pag. 101 L’ARTE DELL’ALTO MEDIOEVO IN EUROPA Adam S. Cohen pag. 123 L’ARCHITETTURA DELL’ALTO MEDIOEVO OCCIDENTALE Roberto Cassanelli pag. 139 L’ARTE ROMANICA Joan Sureda pag. 151
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L’ARTE GOTICA Alain Erlande-Brandenburg pag. 179 LA PITTURA GOTICA. UNA TRACCIA DI SVOLGIMENTO FRA TRECENTO E QUATTROCENTO Serena Romano pag. 213 L’ARTE ISLAMICA Robert Hillenbrand pag. 229 Bibliografia pag. 267 Gli Autori pag. 277 Riferimenti iconografici pag. 278
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PREFAZIONE
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di François Bœspflug
Esistono diversi modi di affrontare un “grande libro” che, per la ricchezza di informazioni e riproduzioni che contiene – al di là della sua qualità di bel libro d’arte che in questo caso è incontestabile –, assomiglia a una cassaforte che custodisce tesori o a uno scaffale di una biblioteca. Vi sono in particolare tre modalità. La prima è una rassegna rapida e distante, alla ricerca di ricordi vaghi di memorie antiche, di paesi attraversati fugacemente e di conoscenze che sono già familiari. Si tratta di un interesse temporaneo, accidentalmente selettivo e fatalmente superficiale. La seconda assomiglia a un’immersione puntuale verso tematiche scelte, storiche o geografiche, in vista, potenzialmente, di approfondimenti specifici. E la terza, che non vogliamo imporre, ma sulla quale vorremmo soffermarci per comprendere meglio cause ed effetti, è un approccio che potrebbe essere definito meditativo e fraterno di fronte ai vasti orizzonti che offre la cultura. Quest’ultima modalità si basa sulla profonda unità del genere umano e sulla vocazione di ogni persona, e presume che le civiltà e le culture, le religioni, le spiritualità, le tendenze artistiche e persino le mode siano destinate a dialogare e stimolarsi a vicenda, anche a distanza o a grande distanza spazio-temporale. Si tratta di una scommessa ragionevole e fondata antropologicamente. Ne illustriamo i motivi. Molte specie animali indubbiamente superano gli esseri umani in svariati campi e per molte prodezze: gli uccelli per quanto concerne il volo, molti quadrupedi per il galoppo, quantità di pesci in termini di nuoto e immersione, altri animali ancora sono molto più abili degli uomini nello scavare, perforare, sostenere l’inverno e il digiuno, ecc. Ma gli umani – benché sia senza dubbio banale sottolinearlo, è importante meditarlo –, superano chiaramente nell’atto di creazione, nell’immaginare e perfezionare forme pittoriche e architettoniche cariche di esperienza, di intelligenza, di una percezione originale della 7
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vita e del mondo che può essere trasmessa e assaporata di generazione in generazione e di regione in regione. Di ciò, gli animali, è ovvio, sono radicalmente incapaci. Uno dei più recenti progressi dell’antropologia è l’essere andato oltre la definizione specifica di uomo come homo sapiens o homo faber, sottolineando il fatto, attestato dal tempo delle caverne, che egli è fondamentalmente homo pictor, qualità che trascende le capacità di qualsiasi animale e pianta e a fortiori degli oceani, montagne, granelli di sabbia, nuvole e stelle. Se è possibile e ragionevole sostenere che gli animali, per molti aspetti, comunicano tra loro, “parlano” e si capiscono, non conosciamo una specie che abbia prodotto recipienti, armi e gioielli, disegni, dipinti o sculture, torri e ponti, templi e castelli. Il presente lavoro, alla luce di quanto è stato appena detto, merita di essere percepito come una sorta di bottiglia nel mare, di un formato imponente, lanciata di comune accordo dai suoi autori sulle distese marittime della cultura. Il contenuto? La presentazione di un gran numero di creazioni tecniche e artistiche che costituiscono, al di là delle loro possibili funzioni utilitarie, ricchi messaggi inviati in altre epoche e da altri luoghi, che si offrono a una recezione attenta, all’analisi, alla decodifica paziente, all’interpretazione della nostra generazione e del nostro paese, nel quadro di una recezione e di una trasmissione che devono continuare di generazione in generazione: se questi si bloccassero si cadrebbe in un impasse pericoloso. Infatti, anche l’utilità porta il segno di chi la concepisce, che si tratti di un piatto, una tazza o un coltello, un vestito o un armadio, un ponte o una torre, tutte realtà materiali che portano il segno di uno stile, una percezione religiosa e/o un’affiliazione sociale o una competenza professionale. È quindi legittimo e perfino saggio chiedersi: cosa hanno da dire, cosa dicono a noi, 8
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cosa dicono a me queste architetture, queste decorazioni, questi dipinti, questi motivi? Che tipo di meraviglia per il mondo delle forme e degli esseri viventi attestano? Quale idea delle loro funzioni e dei rispettivi usi, dei loro destinatari? Quali aspirazioni, quali percezioni, di quali conflitti sociali sono testimoni? Di quale Weltanschauung? Di quali forme di potere sono la firma chiaramente identificabile? Ci sono libri che invitano a ricevere, a registrare o addirittura a trasmettere in modo un po’ disilluso e fatalmente distaccato o persino passivo l’idea che altri, convenzionalmente chiamati autori, si sono fatti e propongono di questo e quel fenomeno. Ce ne sono altri che forniscono dati riguardanti le molecole, la materia o gli oceani, che non si prefiggono di interpretare, ma solo di accumulare dati per far superare fasi di cultura obsoleta. E infine altri – e a questa categoria appartiene il libro che il lettore ha tra le mani – che al contrario offrono, per così dire, un bouquet di produzioni che si possono considerare “adulte” e “impegnate”, essenzialmente frutto della libertà umana consapevole, delle sue scelte e della sua creatività, e che allo stesso tempo lasciano, per così dire, la porta aperta a vari tipi di “letture”, all’interpretazione, alla meditazione e all’attenzione duratura di tutti quei lettori che finalmente hanno ripudiato l’idea che per secoli fu tristemente celebre, da Agostino di Ippona a Blaise Pascal, che la curiosità sia “uno sfrontato difetto”, e hanno optato per l’idea, foriera di un futuro luminoso, della curiosità come virtù cardinale, condizione sine qua non per la serenità di coppia e la pace delle comunità, della società e delle civiltà stesse, passerella necessaria per la comprensione tra individui e personalità collettive, e anche tra i geni specifici di ogni tempo e luogo. Una comprensione in assenza della quale non c’è pace duratura sulla faccia della terra. 9
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Robin Osborne
1. Altare di Zeus, da Pergamo, particolare del fregio con la Gigantomachia. Marmo e pietra calcarea, 150-125 a.C. ca. Pergamonmuseum, Antikensammlung Staatliche Museen, Berlino.
Sebbene ancora sopravviva qualcuno degli edifici che ospitavano nella Grecia classica gallerie di pitture, nessuno dei dipinti che li adornavano esiste più. Le nostre conoscenze della pittura greca prima del iv secolo a.C. si fondano esclusivamente sulla ceramica dipinta, conservatasi particolarmente bene nelle tombe degli Etruschi, che le accordarono una decisa preferenza, importandola in grande quantità. Solo una piccola parte di questa ceramica è firmata dai pittori, ma anche quando il vaso è firmato, il nome dell’artista non ci dice nulla. Ci sono stati pittori e scultori le cui opere hanno dato loro fama in tutto il mondo greco, ma anche nel caso degli scultori ben poche opere originali superstiti possono essere attribuite con certezza a qualche artista il cui nome e reputazione siano noti attraverso le fonti letterarie. Edifici sopravvissuti continuativamente dall’antichità, come il Partenone sull’Acropoli di Atene, ci consentono di documentare la storia della scultura architettonica con maggiore certezza. Sculture arcaiche in pietra (vii-vi secolo a.C.), rimaste sepolte negli stessi luoghi dove erano state erette, consentono di tracciare la storia più antica della scultura a tuttotondo. Migliaia di statue bronzee di età classica (v-iv secolo a.C.) ed ellenistica (iii-ii secolo a.C.), che decoravano i centri religiosi e civili delle centinaia di città-stato indipendenti da cui era costituita la Grecia antica, furono invece rubate o fuse, così che la storia di queste sculture deve dipendere dalle copie che ne trassero i Romani. Le condizioni di sopravvivenza delle opere d’arte dell’antica Grecia non ci consentono di scrivere una storia dell’arte greca come avrebbe potuto farlo un Greco. La nostra
conoscenza di cosa un Greco avrebbe scritto dipende, come per molti altri casi, dai Romani: è Plinio il Vecchio (i secolo d.C.) a preservare qualcosa delle linee generali della storia dell’arte greca così come era stata raccontata dagli scrittori ellenistici. L’impossibilità di riscrivere quell’antica storia non è però del tutto uno svantaggio. Costretti a concentrare l’attenzione sulle scene dipinte sui vasi, fatti per essere usati e non solo contemplati, o sulle scene scolpite nella pietra, che commemoravano la morte o guidavano il pensiero dei fedeli al tempio, siamo obbligati a interrogarci sul ruolo dell’arte nella società e sull’impatto sociale del mutare delle caratteristiche formali delle opere d’arte. Questa introduzione all’arte greca tenta di fare di necessità virtù e di esplorare non semplicemente lo sviluppo formale delle arti nell’antica Grecia, ma le relazioni tra queste e lo sviluppo della società che le ha prodotte. Lo sfondo: l’età del Bronzo Durante l’età del Bronzo ( iii - ii millennio a.C.) si sviluppò in Grecia una sofisticata tradizione figurativa. Nella cosiddetta Creta «minoica» oggetti di ogni scala, dalle pareti ai vasi alle statue di piccole dimensioni, fino alle gemme, vennero decorati con figure umane e animali. Una tale vastità di materiali, che includeva anche la scultura monumentale, è nota fin dalla civiltà micenea della Grecia continentale. L’interpretazione delle scene nell’arte minoica e micenea è particolarmente complessa poiché, sebbene i documenti ritrovati a Creta e nella Grecia continentale, scritti in greco con un alfabeto sillabico noto come
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Lineare b, siano stati decifrati, si tratta per lo più di atti burocratici che dicono poco sulle credenze, le vicende, la storia politica o la vita privata dei Greci dell’età del Bronzo. Le scene figurate assunsero progressivamente importanza in molti settori della vita della Grecia dell’età del Bronzo. Appaiono dipinte sulle pareti delle grandi strutture centralizzate conosciute come «palazzi», nelle tombe, dipinte sui sarcofagi, sui gioielli personali e nelle dediche nei santuari. Nonostante le incertezze che circondano la precisa interpretazione delle scene, è evidente che alcune immagini dell’arte minoica e micenea si riferiscano alle divinità, e altre alla vita quotidiana. Le figurine rappresentano quasi certamente dèi e dee, talvolta accompagnati da animali. Sia gli anelli con sigillo sia i dipinti sui sarcofagi mostrano scene di culto, alcune delle quali forse connesse strettamente a pratiche che si potevano osservare nella vita reale, altre invece trasposte nel mondo degli animali fantastici. Rituali da connettersi forse agli dèi oppure alla presentazione e al sostegno dell’ordine politico appaiono in prevalenza negli affreschi, come nel caso della «processione delle navi» negli affreschi di Thera o degli acrobati sul toro (raffigurati anche in forma scultorea) del palazzo di Cnosso, e di altri danzatori e atleti. Gli uomini sono frequentemente raffigurati impegnati nella caccia o nel domare animali selvaggi come i tori. Accanto a scene con armati, che marciano come per andare in guerra, compaiono scene di lotta, alcune delle quali chiaramente identificabili in scene di battaglia. La rottura nella tradizione della rappresentazione figurativa causata dal collasso della civiltà palaziale minoica e dal successivo «Medioevo ellenico» (1100-900 a.C.) sembra essere stata totale. Restano poche evidenze di continuità artistica, nonostante sia dimostrabile con sicurezza in alcuni centri della Grecia continentale la continuità nelle pratiche di culto. Quando l’arte figurativa venne reinventata nel ix secolo a.C., gli artisti stavano quasi certamente raccontando ancora storie già narrate nella tarda età del Bronzo (racconti che costituivano una parte della tra-
dizione orale alla quale appartenevano anche i poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea). Ma se si erano così tramandati alcuni dei modi in cui i Greci dell’età del Bronzo si immaginavano il mondo, nessuno dei loro modi di raffigurazione visiva venne ereditato dai Greci del ix e viii secolo. Come per il sistema di scrittura dell’età del Bronzo, così per l’arte figurativa, la Grecia dell’arcaismo e della classicità non raccolse l’eredità precedente e quanto ci è testimoniato dal ix secolo in poi è la reinvenzione dal nulla di una comunicazione visiva. Gli inizi dell’arte figurativa nella Grecia arcaica Gli studiosi definiscono «geometrico» lo stile della ceramica prodotta dai Greci nel ix e viii secolo a.C., impiegando talvolta lo stesso ter-
2. Maestro del Dipylon, Anfora monumentale, dalla necropoli del Dipylon, Atene. Ceramica dipinta, 760 a.C. ca. Museo Archeologico Nazionale, Atene.
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3. Pittore MacMillan, Olpe Chigi, da Veio. Ceramica dipinta, 640 a.C. ca. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma.
mine per parlare della Grecia – così detto della «Grecia geometrica» –, e sostenendo che il desiderio di un ordine visivo, manifestato negli schemi con cui la ceramica e altri manufatti vennero decorati, possa essere ravvisato anche in altri aspetti della vita. Questa interpretazione univoca privilegia tuttavia uno solo degli aspetti dell’espressione artistica, in un periodo nel quale sono ravvisabili vari e numerosi orientamenti. Opere tipiche dell’«arte geometrica» sono i grandi vasi ceramici prodotti ad Atene alla metà dell’viii secolo e utilizzati come segnacolo tombale. Ispirandosi alla forma, in versione ingrandita, dei vasi impiegati per bere (il cratere, la brocca e l’anfora), questi pregevoli esempi dell’arte del vasaio sono riccamente decorati con file sovrapposte di motivi geometrici. I motivi possono tramutarsi in sequenze di animali (uccelli o animali al pascolo), mentre, nella zona centrale, dove un motivo continuo sarebbe stato impos-
sibile, venne spesso inserito un riquadro più ampio. Le figure umane presentano forme semplificate, i busti sono resi da triangoli, e le stesse posture sono ripetute in modo che l’unità dello schema prevalga sulle singole figure. Ma diversamente dai fregi con uccelli o animali al pascolo, le scene con attività umane non costituiscono semplicemente un modo differente di creare un motivo gradevole; per queste scene, perlomeno qualche volta e forse con una certa frequenza, c’è un legame diretto con lo scopo del vaso. Così, nel caso di un vaso del Dipylon usato per segnare la tomba di una donna, la scena tra le anse mostra una figura femminile distesa sul letto funebre, con ai lati dolenti con le braccia sollevate in atteggiamento di dolore, e altri inginocchiati sotto il feretro. La relazione tra la scena e lo scopo per il quale il vaso è stato impiegato non è sempre così diretta come in questo caso. Molti vasi utilizzati per segnalare le tombe maschili mostrano più episodi, con processioni di guerrieri su carri o scene di battaglia, talvolta con una nave. Non è facile determinare se le scene si riferiscano alla vita del defunto o ad altre vicende conosciute. Scene simili ricorrono su vasi non utilizzati per sepolture e sembra che la loro particolare selezione sia stata dettata, almeno in parte, dal desiderio di rappresentare soggetti caratterizzati da un forte elemento ripetitivo con molte figure impegnate in un’unica attività. In questi vasi è il gruppo più che l’individuo ad attrarre l’attenzione, e anche su quelli che contraddistinguono una tomba individuale sono i gruppi dei dolenti e di quelli in processione coi carri a dominare la scena. Le anfore tardogeometriche mostrano di norma soldati in marcia, danzatori e parate di carri – tutte scene in cui il motivo può essere ripetuto più volte –, mentre talvolta i vasi recano scene che sembrano mostrare altri rituali, con dettagli incomprensibili, ma la cui attrattiva per l’artista è stata evidentemente la ripetizione sistematica di una particolare azione. In contrasto con il desiderio di regolarità mostrato dalla ceramica – compresa quella realizzata in luoghi diversi da Atene, sebbene
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altrove il repertorio delle scene sia piuttosto diverso – piccole statuette bronzee di figure umane mostrano un alto grado di individualità. Sebbene ci siano statuette di aurighi con i carri, e talvolta figure in un contesto narrativo, come il combattimento con un centauro, la maggior parte dei bronzetti è costituita da figure individuali. Ciò che le caratterizza è l’economia dei mezzi coi quali si dà loro vita. La rotazione del capo e l’angolo audace con cui questo è sorretto danno immediatamente vita a una semplice statua, mentre il ritmo delle braccia conferisce espressività all’intera figura. I muscoli del corpo attirano poco l’attenzione, nonostante il dorso sia strutturato enfatizzando la linea della colonna vertebrale, le giunture siano solo appena delineate e le proporzioni delle gambe rispetto al corpo varino profondamente da un esemplare all’altro; ma la posa della figura e la cura dei dettagli degli occhi e delle sopracciglia le conferiscono una vivace presenza individuale. Le scene figurate della ceramica geometrica e le statuette bronzee hanno in comune la semplificazione delle forme del corpo; ciononostante i loro punti di forza e orientamenti sono fortemente contrastanti. L’individualità dei bronzetti attrae lo spettatore all’interno di una storia particolare, mentre la concentrazione sulle azioni ripetute delle scene sui vasi invita all’attribuzione di un significato generico o generalizzato. Le espressive statuette bronzee sono state recuperate sull’Acropoli di Atene, mentre laminette d’oro che condividono le tendenze espressive dei bronzi sono state rinvenute nelle stesse tombe ateniesi contrassegnate da vasi le cui scene sono fortemente generiche. Non si sta trattando qui di differenti tendenze in atto in diversi luoghi della Grecia, ma di differenti tendenze all’interno di diversi gruppi sociali. Molto probabilmente abbiamo a che fare con una forte influenza del contesto d’uso sullo stile e sul contenuto della decorazione. I vasi erano fatti per essere usati e vennero utilizzati in occasioni comuni, quando, per un banchetto o per un funerale, un gruppo le acquistava per servirsene. Le statuette invece vennero verosimilmente create per essere dedicate da un sin-
golo. Erano oggetti in sé compiuti, non intesi solo come decorazione di altri oggetti (sebbene esistano molti bronzi, di animali, ecc., che fanno parte di oggetti di maggiori dimensioni come i calderoni a tripode). Membri di piccole comunità molto competitive, i Greci utilizzarono le arti figurative come un mezzo piuttosto che contemplarle come un fine. Per tale motivo, per caratterizzare gli oggetti dai quali muovere per scrivere la storia dell’arte greca, occorre rintracciare la stretta relazione tra stile, iconografia e contesto d’uso. La narrazione di una storia Non è del tutto chiaro da dove provenga l’ispirazione per le figure piuttosto rigide della ceramica geometrica, né per quelle accentuatamente sciolte dei bronzetti. Nello stesso periodo in cui vennero create, i Greci si avventurarono – con sempre maggior frequenza e su distanze sempre maggiori – nel Mediterraneo. Verso la fine dell’viii secolo s’insediarono da un lato in Italia meridionale e in Sicilia, nel Levante dall’altro. In entrambe le aree, come nel mare Egeo, entrarono in contatto con i Fenici, che stavano tessendo nello stesso periodo relazioni commerciali in quasi tutto il Mediterraneo e attraverso le cui mani passavano oggetti di produzione orientale e greca, come pure materie prime, in particolare i metalli. Sappiamo che fu dai Fenici, probabilmente nell’viii secolo, che i Greci acquisirono i segni convenzionali per registrare i suoni che tradussero nell’alfabeto greco. Alla fine del secolo acquisirono anche un nuovo stile di disegno e forse l’idea di introdurre uno svolgimento narrativo nelle arti figurative. Nella ceramica i primi segni del massiccio abbandono dei motivi geometrici, anche come espediente per le cornici, vennero dalle fornaci di Corinto, che si specializzarono in particolare nella produzione di vasi di piccole dimensioni destinati a contenere oli profumati. La forma di alcuni di questi era esemplata direttamente sui prodotti del Mediterraneo orientale, da cui probabilmente derivava an-
4. Kouros di Anavysos, Marmo, 530 a.C. ca. Museo Archeologico Nazionale, Atene.
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che la pratica di utilizzare unguenti. Non deve stupire perciò che la decorazione figurata della ceramica corinzia mostri l’influenza delle convenzioni dell’arte del Medio Oriente. Fregi con animali all’interno di uno schema decorativo a rosette e altri motivi vegetali, insieme all’uso della policromia, sono il principale tratto caratteristico della ceramica corinzia, della quale solo una piccola parte presenta scene figurate. La cosiddetta Olpe Chigi, dal nome dell’antico proprietario, venne dipinta attorno alla metà del vii secolo. Modellata come un vaso metallico (la parte alta dell’ansa non ha molto senso in un manufatto ceramico), questa brocca, alta 26 cm, reca un’elaborata decorazione figurata non comune che utilizza pienamente l’ampia tavolozza di colori di nuovo a disposizione dei pittori. Nella zona dell’ansa, alla sommità del vaso, è rappresentata una scena con guerrieri con armi pesanti che si scontrano. Le due schiere si fronteggiano, mentre un suonatore di doppio flauto, la cui musica accompagna la marcia, separa le compagini sulla sinistra. Si tratta di una scena piuttosto rara nell’arte greca, una scena non semplicemente di guerrieri, ma di eserciti. Scene con guerrieri che marciano per schiere sono state dipinte sulla ceramica geometrica e scene con coppie di guerrieri stavano divenendo comuni, ma una rappresentazione come questa di eserciti in file serrate è ben altra cosa. Gli studiosi hanno spesso utilizzato questa scena per segnalare un cambio nell’armamento dei guerrieri e nelle tattiche militari, supponendo, poiché si vede qui per la prima volta una «schiera serrata», che doveva così essere effettivamente nella realtà, con il recente sviluppo di schiere compatte di truppe con armamento pesante. L’assenza di ulteriori paralleli ci deve però ammonire sul fatto che qui si è di fronte a un esperimento artistico unico, piuttosto che all’inizio di un nuovo stile di guerra. Ciò che con successo e in modo significativo questa scena riesce a mostrare è la doppia faccia di un esercito: da un lato l’ordine, la disciplina e l’uniformità; dall’altro le attitudini e i destini individuali. I guerrieri marciano compatti, hanno tutti pe-
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santi armature con gambali, corazza, elmo e un grande scudo retto da un manico centrale nel quale è inserito l’avambraccio. Questi uomini sembrano operare come un unico corpo. Dall’altra parte, si vede un soldato dietro il fianco destro delle schiere che si china per accomodarsi i gambali; il suo problema personale con l’armatura lo mette fuori dai ranghi, mentre nell’esercito che avanza da destra è apprezzabile la grande varietà inventiva degli scudi che presentano una serie di immagini – gorgone e aquila, verro e leone – ai soldati che incedono contro. In questa scena, come in tutte le altre del vaso, si colgono la vivacità e la ricchezza di dettagli dei gesti dei personaggi e degli sguar-
di penetranti che l’attraversano da parte a parte. Il modo in cui le scene sono giustapposte invita però alla lettura del significato generale piuttosto che di quello particolare. Immediatamente al di sotto della scena di guerra, la fascia nera mostra dipinta in bianco una caccia alla capra. Il fregio sottostante è composto da quattro diversi elementi. Sotto l’ansa è una scena solitamente identificata come il Giudizio di Paride, con il giovane raffigurato nell’atto di scegliere la più bella tra Afrodite, Atena ed Era. La scelta di Afrodite gli farà avere Elena in cambio e la guerra di Troia ne sarà la conseguenza. La scena di giudizio, piuttosto solenne, è collocata tra una con la caccia al leone e un corteo di carri
5. Gigantomachia, particolare del fregio nord della facciata del Tesoro dei Sifni, 525 a.C. Museo Archeologico, Delfi.
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Pagine seguenti: 6. Bronzo a di Riace, Bronzo, v secolo a.C. Museo Nazionale di Reggio Calabria. 7. Bronzo b di Riace, Bronzo, v secolo a.C. Museo Nazionale di Reggio Calabria.
e cavalieri. All’altra estremità una sfinge dal doppio corpo dipinta con colori brillanti separa i due episodi. L’assortimento delle scene che affiancano il Giudizio consente una pluralità di interpretazioni: la caccia al leone, con un occhio attento alla bellezza femminile; il cavalcare e il guidare il carro come forme di manifestazione di una virilità che si esprime anche nella guerra; oppure il confronto, proposto in forme diverse, tra la ricerca della bellezza femminile e la caccia al leone, o tra l’esibizione della grazia femminile e la parata solenne dei cavalli e dei cavalieri; o infine le vicende di una storia personale, dalla battuta di caccia del giovane Paride, attraverso l’atto fatale del giudizio, fino al conflitto bellico. L’ulteriore scena sottostante di caccia, nella quale cacciatori e prede sono in un esplicito contesto rurale di caccia alla lepre con i cani, offre una versione più domestica della caccia al leone: l’esotica Elena, lo spettatore è invitato a domandarsi, era vista come un leone in confronto alle prede locali? Come i vasi geometrici posti sulle tombe, questa brocca può essere correttamente apprezzata solo nel suo contesto d’uso. Impiegata per mescere il vino nelle coppe in banchetti di soli uomini, presenta qualcosa che provoca, o solletica, l’orgoglio maschile. Offre il pretesto per spostare la discussione dalle imprese degli eroi alle prodezze di tutti i giorni, oppure per trasferire le quotidiane vanterie nella discussione dei personaggi del mito. Svela l’aspetto privato della guerra che solo la comunità può sostenere, e rivela le conseguenze generali della maggior parte delle azioni personali. C’è qualcosa in cui ciascun uomo al banchetto può rispecchiarsi, anche se soltanto nella caccia alla capra. L’ossessione per il gruppo inteso come un corpo, presente in molta pittura geometrica ateniese, si combina qui con la vivida osservazione individuale mostrata dal creatore delle statuette bronzee. Tuttavia le inusuali formule adottate con successo da questo artista protocorinzio – l’uso della policromia, la rappresentazione del momento che precede lo scontro armato – vennero largamente trascurate nell’arte successiva, mentre l’uso di allusioni al mito e alla
vita quotidiana per esplorare l’individualità in un preciso contesto, maschile o femminile, divennero in seguito il cuore delle ricerche artistiche.
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Di fronte agli dèi Il bronzetto dell’viii secolo raffigurante un uomo – al quale si è prima accennato – costituisce un’offerta votiva a un santuario. Piccole figure votive in bronzo, ritrovate in grande quantità, costituiscono un elemento determinante dell’archeologia della Grecia dell’viii secolo. Manifestazioni materiali delle credenze religiose si moltiplicarono nel corso del secolo in altri modi, tra cui la costruzione di templi. Questi, probabilmente fin dall’origine, vennero costruiti come ripari per le immagini degli dèi, e dal 700 a.C. circa sopravvivono sporadiche immagini di culto. Nel corso del vii secolo declinò il numero dei bronzetti votivi, mentre nella seconda metà del secolo cominciarono ad apparire nuove forme di dedicazione sotto forma di statue in pietra di dimensioni che oscillano da circa la metà del naturale fino alla scala monumentale. Nel vi secolo queste figure stanti maschili e femminili, conosciute come kouroi e korai, costituirono le più popolari offerte scultoree nei santuari; si ha notizia che verso la fine del vi secolo alcuni di essi ne esibissero più di un centinaio. A prima vista kouros e kore sono in netto contrasto con i repertori decorativi della ceramica. Mentre le figure di questa appaiono in precisi contesti di storie o di vita quotidiana, kouros e kore offrono minimi indizi di contesto. Ciò è particolarmente vero per i kouroi, figure di giovani stanti nudi, imberbi e adulti al tempo stesso. Con lo sguardo fisso in avanti e i piedi saldi a terra, queste figure non offrono appigli riguardo a una storia di cui potrebbero essere parte, né suggerimenti sulla loro identità. Sono figure di uomini o di dèi? Se si potesse dare risposta a una sola delle domande sulla loro identità, è che si tratta di mortali. Mentre i kouroi sono normalmente raffigurati a mani vuote, le korai recano tal-
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volta offerte, elemento più appropriato come attributo del fedele che del dio adorato. Ma, cosa più importante, essi sono stati talvolta ritrovati fuori dai santuari, impiegati come segnacoli sepolcrali. Le iscrizioni associate alle sculture in questo contesto indicano esplicitamente che la figura deve essere identificata con il defunto di cui contrassegna la tomba: «Questo è il segno di Phrasikleia: io voglio essere sempre detta kore [fanciulla], poiché ottenni questo nome dagli dèi in luogo del matrimonio»; «Fermati e piangi la tomba del defunto Kroisos, che l’irato Ares [dio della guerra] uccise mentre combatteva in prima linea». Ma non sarebbe esatto imporre una singola identità a tutti i kouroi e le korai. La semplice aggiunta di un arco e una diversa direzione dello sguardo trasformano un kouros nell’immagine di Apollo ed evocano le storie del dio. Il corpo maschile nudo e privo di ornamenti si offre all’attribuzione di plurime identità: l’osservatore, il cui sguardo si riflette nella postura frontale del kouros, può scegliere di vedere nella statua se stesso, oppure di riconoscerne lo sguardo come quello di un dio. Per tale ambigua relazione queste figure stanno tra uomo e divinità, in una relazione analoga a quella dei personaggi dell’epos omerico e degli altri miti, spesso incerti se il loro interlocutore sia un dio o un mortale, o come quella che suggeriva il filosofo Senofane (500 a.C. ca.), argomentando che, se gli animali avessero avuto gli dèi, questi avrebbero avuto le loro medesime sembianze animali. Né la mitologia né la razionalità greca si piegarono alle conseguenze di una religione antropomorfa, così che nel kouros è possibile vedere una figura che conserva idealmente l’ambiguità tra umano e divino. Dei templi della fine del vii secolo sopravvivono in parte anche le decorazioni di grande scala. La forma base di un edificio longitudinale, circondato da un colonnato e sormontato da uno spazio ricoperto di pece, si articolò progressivamente secondo schemi particolari, dei quali il primo e più diffuso è quello noto come ordine dorico. Questo è caratterizzato da colonne rastremate e scana-
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late, sormontate da un capitello costituito da un cuscino (echino) e da un blocco (abaco) su cui poggia una trave liscia (architrave), su cui sono disposti alternatamente blocchi lisci e scanalati (triglifi) che reggono il tetto. I blocchi lisci (metope) della sequenza offrivano uno spazio adatto alla decorazione sia pittorica sia, più frequentemente, plastica. Altre sculture potevano essere collocate nei frontoni. La maggior parte delle prime decorazioni scultoree nei frontoni e sulle metope è intesa, come il kouros, per fronteggiare il fedele. Talvolta questo è messo a confronto con il potere soprannaturale, come nel caso della grande Gorgone al centro del frontone del tempio di Artemide a Corfù (inizi vi secolo a.C.). Talvolta con un episodio del mito, attraverso Zeus e Europa, o Eracle e i Cercopi. Lo scultore è vincolato alle preesistenti conoscenze delle vicende da parte del fedele, e non deve necessariamente rinarrarle, ma può riferirvisi mostrando solo un episodio caratteristico. Dalla fine del vi secolo ci sono indizi del fatto che gli scultori intendessero allontanarsi da questo momento di confronto e dispiegare davanti agli occhi del fedele una sorta di narrazione, coinvolgendo lo spettatore nella vicenda, analogamente a quanto facevano i ceramografi. Uno dei primi tentativi in tal senso è in un edificio santuariale di Delfi particolarmente decorato, il Tesoro dei Sifni. L’edificio presenta un fregio scultoreo continuo che gira tutt’intorno, caratteristica propria del così detto ordine architettonico ionico che vi è impiegato e che non utilizza metope e triglifi. Alle estremità la scena del fregio è perfettamente centrata, invitando lo spettatore a fermarsi e contemplare (nella parte meglio conservata è la pesatura da parte degli dèi dei destini di Achille e Memnone prima dello scontro, per sapere chi morirà). Lungo i lati le scene sono più dinamiche, mostrando, in una porzione meravigliosamente conservata, la lotta tra gli dèi e i giganti. Si trattava di un piccolo edificio e il fregio scolpito non era distante dall’altezza dell’occhio. Tutte le figure sono accompagnate da didascalie e l’azione può essere così seguita nel dettaglio. Il
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godimento estetico risiede infatti nei dettagli e l’artista spesso indulge in giochi visivi sui nomi dei personaggi. Sperimentare i limiti della rappresentazione Quello che è accaduto all’arte greca alla metà del secolo, dopo che il fregio del Tesoro venne scolpito, è stato definito da Ernst Gombrich come la «rivoluzione greca». Gli schemi di rappresentazione adottati dagli artisti arcaici furono, per Gombrich, solo versioni più sofisticate dell’arte concettuale dei vasi geometrici. Ma dal momento che l’arte arcaica greca, come quella egizia, era una questione di «fare», ciò che è accaduto nei primi anni del v secolo è che gli artisti greci hanno scoperto l’arte di «assomigliare», la mimesi. Per Gombrich la fine dell’arte classica è stata «la conquista delle apparenze, in modo abbastanza convincente da permettere la ricostruzione fantastica di eventi mitologici o storici». Quanto è successo all’arte greca in questi anni, cioè attorno al 500 a.C., ha giocato senza dubbio un ruolo cruciale nello sviluppo dell’arte occidentale. Le convenzioni dell’arte greca classica sono divenute modelli per l’arte successiva, non solo a Roma, ma anche nel Rinascimento e oltre. Sia che la mimesi fosse stata individuata come lo scopo fondamentale – come per tanta parte della storia dell’arte occidentale –, sia che avesse costituito la caratteristica da rifuggire maggiormente, quello che Gombrich descrive come la conquista della realtà è stato al centro della vita artistica occidentale effettivamente sin dall’antichità classica. Descrivere ciò che è accaduto negli anni attorno al 500 a.C. in termini di svolta dal fare all’assomigliare, oscura le implicazioni degli sviluppi artistici di quegli anni, che si stanno ancora indagando. Abbiamo già visto come lo stile figurato geometrico fosse estremamente adatto a ritrarre rituali e altre attività collettive nelle quali l’azione di gruppo si ponesse al centro dell’attenzione come un insieme. Per contrasto non vi si ritrova nulla di utile per narrare
vicende particolari. Nel secolo successivo artisti come il maestro dell’Olpe Chigi, mentre conservavano almeno alcune delle caratteristiche del ritratto di gruppo, introdussero elementi per individuare vicende particolari, comprese le didascalie. Queste persistettero nell’arte del vi secolo, ma fin dal tempo del loro impiego nel fregio del Tesoro dei Sifni il grado di individualizzazione scultorea dei personaggi rese il loro impiego sostanzialmente ozioso. L’espressione del senso di un gruppo in azione non aveva richiesto all’artista del periodo geometrico riferimenti all’individualità. La narrazione delle vicende mitologiche richiese agli artisti del vii secolo di distinguere un carattere da un altro, senza peraltro la necessità di riferirsi a un individuo per mezzo di una didascalia. Posta però la scultura sulla tomba, tuttavia, e trattata la figura scolpita in modo da rappresentare in qualche misura il defunto, cominciarono a essere opportuni i rimandi all’aspetto, alle azioni, e persino al carattere dell’individuo. L’esplosione di interesse per l’individualità appare chiaramente nella ceramica dipinta all’incirca nell’ultima decade del vi secolo. Attorno al 525 a.C. artisti ateniesi iniziarono a dipingere con la tecnica delle figure rosse. Se nella ceramica a figure nere le figure erano rese come silhouette in nero e i particolari venivano incisi, nella ceramica a figure rosse il vaso era ricoperto da vernice nera, le figure risparmiate sull’argilla rossa e i particolari sovraddipinti. Dipingere su una superficie chiara, piuttosto che incidere su di una scura, modificò profondamente le possibilità di suggerire la tridimensionalità delle figure. Laddove la tecnica a figure nere eccelleva nel mettere in evidenza gesti e azioni, quella a figure rosse lo fece nel rendere l’anatomia e i particolari delle forme del corpo. Le nuove possibilità tecniche vennero esplorate rapidamente. Uno dei pionieri della nuova tecnica è uno dei pochi ceramografi che in quel momento si firmavano col loro nome, Eufronio, specializzato in grandi vasi, in particolare crateri. Dipinse spesso scene mitologiche, ma in un cratere rivolse la propria attenzione al ginnasio.
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8. Cavalieri, fregio nord del Partenone, dall’Acropoli di Atene. Marmo, 447-432 a.C. ca. British Museum, Londra.
Il ginnasio era un punto di incontro importante per i giovani – e non solo – della città, e allo stesso tempo il luogo dove fare pratica ginnica, prima di esibirla nelle competizioni che caratterizzavano le principali festività dedicate agli dèi. L’occhio del pittore non si sofferma solo sulle attività atletiche, ma si rivolge anche ai diversi esercizi preparatori con i quali i ragazzi attraevano l’attenzione dei potenziali amanti. Il centro della scena è infatti occupato da un lanciatore di disco impegnato nella preparazione della rotazione, mentre a destra e a sinistra sono giovani, assistiti da schiavi, che si preparano alla gara: uno fascia il proprio pene, l’altro ripiega la veste. Ci sono molti aspetti nei quali il disegno non somiglia in tutto alla realtà, sia nella rappresentazione dei dettagli (già da mezzo secolo circa gli artisti padroneggiavano la resa dell’occhio di profilo), sia in quella del corpo (le braccia sono spesso sproporzionate e i giovani schiavi sono improbabilmente piccoli, come adulti in
miniatura). Ciò che contraddistingue Eufronio – a un grado molto superiore di qualsiasi cosa vista prima dello scultore della statuetta geometrica, o del pittore dell’Olpe Chigi – è la capacità di catturare i dettagli narrativi di posa e movimento. Si prendano le mani del giovane che fascia il pene, o l’inclinazione della testa; oppure il gesto di ripiegare il manto, o l’equilibrio e il modo di atteggiare la testa del lanciatore di disco. Che i diversi atteggiamenti non siano del tutto congruenti tra loro, non cambia il fatto che Eufronio offra qui uno scrutinio di individualità interpretata veramente a fondo. Nonostante gli studiosi moderni siano ragionevolmente cauti nell’impiegare il termine «ritratto» per scene come queste, c’è la tentazione di pensare che Eufronio sia riuscito a catturare qui i tratti individuali dei personaggi che attentamente fissa. Due punti occorre a questo punto sottolineare. Il primo è la continua selettività della
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mimesi. Il «realismo» delle pitture di Eufronio e delle scene dipinte dagli artisti nella ceramica nel corso del v secolo non dipende da nulla di avvicinabile alla verosimiglianza fotografica. Si basa sulla capacità di cogliere la posa o il gesto caratterizzante, il ruotare di una testa o il cenno di una mano. Molto di questa dettagliata raffigurazione resta concettuale. Ciò è ben dimostrabile dando ancora uno sguardo alla raffigurazione dei genitali maschili. Non è improbabile che alcuni atleti avessero ritenuto opportuno proteggere i genitali in occasione di esercizi violenti. Rappresentazioni di fasciature di questo tipo si trovano in numerose scene con atleti, sebbene senza motivi apparenti. L’idea di proteggere così il pene venne adottata dagli artisti anche in altre circostanze. In particolare alcuni artisti rappresentarono personaggi che festeggiavano per strada dopo un banchetto, con i peni bloccati. Né il modo di legare (o avvolgere) l’organo sessuale né le circostanze sono verosimili: non si trattava di discutere se uomini per strada si fossero comportati così dopo un banchetto, ma di dare un segnale di limitazione sessuale. L’uomo civile, diversamente dal satiro sfrenato, non deve esibire l’eccitazione sessuale, persino nelle situazioni più provocanti. Il secondo punto da sottolineare subito, una volta che il riferimento a singoli individui diviene così ampio come nel cratere di Eufronio, concerne la domanda se l’artista stia qui distinguendo un (tipo di) uomo da un altro, o piuttosto particolari individualità. Molti studiosi moderni del cratere di Eufronio concordano nel concludere che ciò che vediamo sono distinte raffigurazioni di ciascun atleta, sebbene non si possa escludere la possibilità che i contemporanei trovassero le pose e i gesti identificabili in modo più preciso. Ma in opere dove ancora maggiori sono i riferimenti, è oggettivamente difficile immaginare che qualcuno sia con precisione identificabile. Due sculture in bronzo, ritrovate sul fondo marino al largo della Calabria negli anni Settanta del Novecento, offrono un eccellente esempio dell’intensità e dei limiti di ogni ulteriore riferimento a un corpo particolare.
Non sappiamo dove le statue fossero originariamente collocate, ma sembra probabile che fossero parte di un grande monumento, forse commemorativo della vittoria dei Greci sull’invasione persiana del 480-479 a.C., eretto forse attorno al 460. Le statue raffigurano entrambe guerrieri nudi di età matura, barbati, in pose molto simili; l’impressione che suscitano è però profondamente diversa. Il cosiddetto guerriero a ha un buon tono muscolare, e vivacità nei capelli e nella posa. Il guerriero b ha una pelle più delicata, i capelli e la barba più lisci e sottili, ed è meno vigoroso. Gli studiosi moderni sono propensi ad attribuire loro stili di vita e contesti sociali differenti, immaginando anacronisticamente che uno stile attuale di vita possa corrispondere ai loro diversi aspetti. Ciò che è interessante non è se le moderne riflessioni sulla vita privata delle statue siano o meno corrette, ma che l’aspetto delle statue le susciti. L’attenzione al corpo trasmessa qui dallo scultore è così puntuale che quel cor-
9. Centauro e lapita, metopa 30 sud del Partenone, dall’Acropoli di Atene. Marmo, 447-432 a.C. British Museum, Londra.
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po particolare acquista una storia propria. Nessun osservatore di sesso maschile avrebbe potuto riconoscere se stesso in queste statue, come invece, plausibilmente, avrebbe potuto vedersi in un kouros. La scultura ha conquistato una vita propria, che esclude progressivamente altre vite; non è più la rappresentazione di un’intera classe, o anche di un tipo, ma di una storia particolare. Questa è una rappresentazione che non include, ma esclude. Nei termini impiegati da Gombrich a proposito dell’assomigliare, i Bronzi di Riace potrebbero essere considerati una sorta di vertice: una somiglianza così perfetta che una persona sola può coincidere con la raffigurazione. Gombrich pensò in termini di conquista delle apparenze, per consentire la ricostruzione fantastica di eventi storici o mitologici, ma in queste statue il rapporto con l’apparenza minaccia di diventare tale da concentrare l’attenzione su una storia personale e di fatto distrarre da ogni ricostruzione mitica
o storica. Quando il riferimento a una individualità è così preciso da presentare solo una particolare storia di vita, allora la rappresentazione concentra l’attenzione interamente sull’individuo in questione. Ciò consiste nel modo di contestualizzare questa individualità, sia come membro di una particolare città o nazione, sia come prodotto di un particolare tipo di formazione o di un contesto sociale ed educativo. Piuttosto che trovare nella raffigurazione un ostacolo a vedere il mondo in modo vario, a vedere quanti diversi tipi di apporti contribuiscano alla società nella quale l’osservatore aspira a vivere, l’osservatore si trasforma qui in un voyeur per il quale il grande generale, o qualunque altra cosa, sono solo un corpo con un’unica storia. Ciò che è accaduto all’inizio del v secolo nell’arte greca è stato certo di vitale importanza, ma non si è trattato dell’improvvisa sostituzione di una modalità di rappresentazione a un’altra, quanto piuttosto della scoperta del fatto che non esistono limiti alla potenziale ricchezza di riferimenti ai corpi reali che si può raggiungere nelle raffigurazioni, e che se una raffigurazione può non essere in grado di trasmettere un certo tipo di contenuto, perché troppo poco riferibile all’apparenza del reale, lo stesso può accadere perché è troppo poco riferibile a un corpo particolare.
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In equilibrio tra personale e politico L’arte realizzata in Grecia alla metà del v secolo ha raggiunto uno status unico nella storia dell’arte. Ciò è avvenuto non a causa della sua unica capacità di rassomiglianza – si vedrà infatti che in molti suoi aspetti non è così –, ma a causa del delicato equilibrio che è riuscita a mantenere tra il personale e il politico. Nell’antichità la maggiore figura dell’arte classica è Policleto, il cui Doriforo (milite che porta la lancia) è forse l’opera della scultura greca che ha esercitato la maggiore influenza. Originariamente in bronzo, e noto ora solo attraverso copie più tarde, il Doriforo esprime bene l’equilibrio raggiunto tra individuo e società. La lancia che porta gli attribuisce
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un preciso ruolo civico, ma è una figura che non può essere rintracciata nella vita reale. E ciò non solo perché alcune caratteristiche fisiche (come i muscoli addominali) sono sottolineate irrealisticamente, ma perché le diverse parti del corpo non si combinano nel formare un singolo individuo sociale. Sebbene i Greci fossero davvero fieri della loro abitudine di gareggiare nudi, non andavano in guerra nudi. La lancia e la nudità non stanno insieme nella vita, ma solo nell’arte. E sebbene il volto del Doriforo sia privo di particolari indizi di giovinezza, il corpo mostra chiari segni di maturità che esigerebbero un volto barbato. Policleto ha in effetti ricreato la formula artificiale del kouros arcaico, scolpendo una figura altamente realistica, e al tempo stesso impossibile, la migliore con la quale porsi in relazione e concordare da parte dello spettatore, piuttosto che riflettere al suo riguardo. L’espediente mostrato dal Doriforo è largamente apprezzabile nelle sculture del Partenone, il tempio dedicato ad Atena eretto sull’Acropoli di Atene tra il 447 e il 432 a.C. La città era al culmine del suo potere, alla guida di una lega di città che le pagavano tributi e che contava tra i suoi membri più di duecento città-stato dell’Egeo, e il Partenone fu il tempio decorato con il maggior numero di sculture rispetto a ogni altro edificio precedente. Infinite discussioni sono sorte sul modo in cui le scene del fregio, che corre intorno alla sommità della cella del tempio, all’interno del colonnato, alludano chiaramente o piuttosto non corrispondano alla processione che aveva luogo in occasione della festa di Atena, le Panatenee. Si vede l’offerta delle vesti (peplos) destinate ad adornare la statua di Atena, ma non la nave che faceva parte della processione. Vi si trovano file serrate di cavalleria, ma si tratta di giovani imberbi con cavalli inverosimilmente piccoli, e non vi sono opliti, ad eccezione di quelli che partecipano ad una gara di salto dai carri in corsa. Quanto più attentamente gli studiosi hanno confrontato quanto sappiamo delle Panatenee reali con ciò che si vede sul fregio, tanto più hanno scoperto discrepanze. Non è infatti la presentazione realistica di una particolare
processione panatenaica, quanto piuttosto la raffigurazione di ciò che gli osservatori associavano senza difficoltà alle Panatenee, utilizzato per precisare alcune caratteristiche della processione e ispirare alcune riflessioni sul significato del parteciparvi, caratteristiche e pensieri rivolti alla glorificazione di Atene. L’attenzione classica alla selettività e i suoi effetti emergono bene dal confronto tra due sculture poste l’una accanto all’altra nelle metope dell’angolo sud-est del Partenone e i
11. Pittore delle Canne e aiuti, Lekythos con raffigurazione di un giovane davanti a una tomba. Ceramica dipinta, fine v secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale, Atene.
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Bronzi di Riace. Entrambe le metope mostrano un centauro che combatte contro un lapita (greco), e in entrambi i casi il lapita sta avendo la peggio. Osservando i lapiti potremmo pensare a scene successive di un’unica lotta; non penseremmo lo stesso però guardando i centauri. La metopa più a oriente mostra il centauro con il volto come una maschera, grandi occhi, arcate orbitali profonde, barba arruffata e un casco di capelli. Di contro, sulla metopa immediatamente a occidente di questa il centauro ha un’espressione gentile e compassionevole, uno sguardo dolce e i capelli come la barba lisci e sottili. Nessuno potrebbe pensare che si tratti della raffigurazione dello stesso personaggio in momenti diversi, piuttosto esse offrono due diversi modi di presentare il centauro: una ne mette in mostra la bestialità, l’altra l’umanità. Ma concentrando l’attenzione sulle teste dei centauri, e trattandole in modo fortemente differenziato, lo scultore indirizza l’attenzione dello spettatore non alla vicenda individuale del centauro, quanto piuttosto alla più generale questione della natura animale, avanzando un interrogativo che può essere seguito lungo l’intera sequenza di scene con centauri e lapiti del lato meridionale. In alcuni vasi dipinti del periodo possiamo vedere un analogo criterio di selezione, anche se impiegato in modo differente. La seconda metà del v secolo costituisce la grande epoca della ceramica a fondo bianco. La tecnica di dipingere figure su un fondo bianco, spesso con l’aggiunta di colori diluiti, venne adottata in particolare per piccoli recipienti per unguenti (lekythoi) da collocare sopra o deporre nelle tombe. Le scene delle lekythoi sono spesso connesse con la morte, o mostrando il sepolcro, o rappresentando momenti del viaggio del defunto nell’aldilà. Una lekythos della fine del v secolo, attribuita a uno degli artisti che lavorò con il cosiddetto «Pittore delle Canne», mostra un giovane seduto di fronte a una pietra tombale, con due compagni ai lati. Il trattamento del corpo e della veste del giovane è estremamente sommario (in origine del colore diluito rialzava il mantello), sebbene sia più che sufficiente per sug-
gerire la posa e l’atteggiamento rilassato. Per contrasto la testa è stata realizzata con grande attenzione, con gli occhi e la bocca delineati con cura e i capelli elegantemente acconciati. La testa attira l’attenzione dell’osservatore e provoca la sua corrispondenza simpatetica. A differenza dei Bronzi di Riace, il corpo del giovane non suggerisce qui alcuna storia, e non ne offre spunto alcuno, sebbene la testa ci spinga a confrontarci col fatto che la morte ci sottrae i compagni con cui parliamo, ridiamo e condividiamo le emozioni.
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Oltre l’ordinario La discussione sui criteri di selezione dell’arte classica spesso verte sul fatto che tale selezione è dominata dall’«idealismo». Gli splendidi giovani che ornano il fregio del Partenone o le stele funerarie classiche sono così intesi come rappresentazioni dell’«ideale greco». Senza dubbio, tuttavia, ciò che la scultura classica presenta non è un (impossibile) ideale, ma una serie di domande e di sfide. La gioventù classica non è posta su un piedistallo per essere ammirata, ma offerta come tema di discussione, proprio come nei dialoghi di Platone, nei quali Socrate poteva criticare un giovane in particolare, o ciò che qualcuno aveva fatto o essere stato indotto a fare, come esempi concreti da indagare. Ciò che conta in queste figure classiche non è che uno possa diventare come loro, ma che sia possibile aspirare alle qualità – qualità in particolare di affinità e collaborazione –, che in modi diversi fanno emergere. Mentre i Bronzi di Riace impediscono ogni possibilità di generalizzazione, e con questa i fondamenti di una vita basata sulla democrazia, mostrando in modo energico le proprie concrete storie corporali, le figure classiche invitano alla generalizzazione, a condividere una storia che è anche storia di altri. Senza dubbio, come mostra la discussione sui centauri delle metope del Partenone, l’arte classica lascia poco spazio allo straordinario: anche le creature mitiche sono sottoposte al tipo di vita che domina la comunità civica classica. A partire dal iv secolo a.C., accanto
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al linguaggio classico, che continua a dominare ad esempio i rilievi scultorei delle tombe, gli scultori cominciano a esplorare forme per rappresentare ciò che è fuori dall’ordinario. Un aspetto di tale esplorazione riguarda gli dèi. Si è alluso in precedenza alla sfida che l’antropomorfismo ha costituito per gli artisti, che nel corso del v secolo sembrano aver imboccato due strade contrastanti per rappresentare il divino, una delle quali è consistita nell’evocazione dell’arte di un’età precedente. Così la grande statua in oro e avorio di Atena, realizzata da Fidia nel Partenone, presentava caratteristiche ben diverse dal resto delle sculture del tempio. Essa era, e così s’intendeva che fosse, terribile e implacabile. L’altro approccio pure visibile nel Partenone, ma questa volta nel frontone orientale, consisteva nel mostrare semplicemente gli dèi come esseri umani. Gli dèi e le dee, riuniti in occasione della nascita di Atena dalla testa di Zeus, sono raffigurati mentre oziano, mostrando le loro notevoli caratteristiche fisiche ed evocando un pantheon evidentemente decoroso anche se non troppo attivo. È difficile trovare negli dèi dell’arte del v secolo, sia in scultura sia in pittura, qualche traccia dei dubbi teologici avanzati nelle tragedie di Euripide o nelle opere di alcuni filosofi. La scultura del iv secolo accetta la sfida teologica. In particolare le opere che possono essere attribuite a Prassitele, lo scultore che fece tornare ancora una volta di moda le statue libere in marmo (piuttosto che in bronzo), sembrano suscitare quesiti piuttosto acuti sulla natura e il comportamento degli dèi. Egli presenta Apollo, famoso per aver ucciso un dragone, come un ragazzo piuttosto effeminato, che si compiace sadicamente nel contemplare l’imminente uccisione di una piccola lucertola. È ancora più celebre la sua presentazione di Afrodite, la dea associata all’amore sessuale, nuda, che guarda chi sta arrivando mentre si accinge a denudarsi per bagnarsi. Questa statua ha stimolato molte discussioni nell’antichità e lunghi testi descrivono reali o fittizi osservatori e le loro reazioni di fronte a essa. La scultura consentiva al pubblico sia di collocarsi in li-
nea con lo sguardo di Afrodite, ed essere così l’oggetto che attrae la sua attenzione – una posizione pericolosa, considerando le spiacevoli conseguenze che il mito riservava a chi aveva visto nude Atena o Artemide –, sia di guardarla di profilo, vista privilegiata per la non rivelata terza parte. Entrambe le statue pongono la questione in che misura gli dèi debbano essere raffigurati come uomini: si possono indagare le motivazioni di Apollo? A chi la dea dell’amore è disposta a mostrare le proprie attrattive sessuali? A quale grado di intimità può giungere la relazione tra uomo e divinità? È possibile burlarsene? È possibile abbracciarli? Altri artisti hanno ripreso tali questioni teologiche e le hanno spinte oltre il pantheon olimpico: così Lisippo, più giovane contemporaneo di Prassitele, ha ritratto Eracle come un gigante con il fisico di un culturista, ma totalmente esausto, e ha rappresentato Kairos (l’opportunità) come una figura alata che corre, con i capelli rasati nella parte posteriore (perché l’opportunità passa in fretta e se non la si afferra non la si può più recuperare). Opere associate a un altro celebre artista contemporaneo di Prassitele, Scopas, conducono l’esplorazione di questo tema in un’altra direzione. Mentre i volti maschili che le sculture del Partenone o di Policleto presentano tendono a essere anodini, non invitando lo spettatore a considerare i processi mentali del personaggio, Scopas attira l’attenzione sulla vita interiore – per lo più con la tecnica relativamente semplice di affondare un poco gli occhi nelle orbite. L’attività mentale suggerita dall’espressione della figura invita lo spettatore a porsi nella posizione del personaggio rappresentato, a immaginare come sarebbe stato viverne la straordinaria storia passata e la situazione presente. Per la prima volta nell’arte greca la sfida non sta solo nella simpateticità con un elemento esterno, ma nel rivivere la vita del personaggio. Inizialmente applicata alle figure mitologiche, come è apprezzabile, tra le statue esistenti, nelle figure di Telefo e Achille nel frontone del tempio di Atena a Tegea, la tecnica di Scopas ebbe un ulteriore impiego
12. Prassitele, Afrodite di Cnido. Marmo (dall’originale, perduto, del medesimo materiale), 360-340 a.C. Palazzo Nuovo, Musei Capitolini, Roma.
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nella raffigurazione dei defunti sui rilievi sepolcrali e nella sempre più popolare arte della scultura. Ritratti postumi di Euripide utilizzano questa tecnica, impiegata anche nei ritratti di Alessandro. I vari, più o meno contemporanei, ritratti di Alessandro, dei quali sopravvivono copie, riservano tutti grande attenzione agli occhi: lo sguardo di Alessandro fissato in lontananza o leggermente rivolto verso il basso con espressione meditativa non è tra quelli di cui l’osservatore può farsi oggetto, ma è costruito come uno sguardo visionario, che anticipa un futuro straordinario o riflette su un passato ugualmente straordinario. Persino le monete, che offrono solo una vista di profilo, riescono, con l’attenta posizione della pupilla e/o estendendo la palpebra inferiore un poco oltre quella superiore, a trascinare l’osservatore nella contemplazione di uno sguardo che non si ferma sulle cose del mondo ordinario. Già con l’analisi delle opere di Prassitele e Lisippo, conosciute quasi interamente attraverso copie romane, il dibattito sull’arte greca è sostanzialmente condotto grazie alla mediazione dei collezionisti romani. Quando i sovrani dei grandi regni ellenistici subentrarono alle città-stato greche come grandi committenti d’arte, le sculture piuttosto che i programmi decorativi degli edifici pubblici divennero il fulcro della produzione artistica. Si è perso nell’insieme un gran numero di statue erette dalle città a commemorazione di personaggi dal iv secolo in avanti – nel migliore dei casi restano le basi con le iscrizioni. Per quanto gli scultori creassero le proprie opere affinché fossero viste come parte di una sequenza, per essere lette in confronto con le altre statue tra le quali erano collocate, non siamo in grado di comprendere neppure la minima percentuale delle opere che sono sopravvissute. Solo alcune, per lo più di scultura, ma a volte mosaici (una forma d’arte sviluppatasi a partire dal iv secolo) e talvolta dipinti, ci permettono di avere un’idea delle continue ricerche degli artisti in un mondo la cui struttura del potere politico era considerevolmente cambiata e non gravitava più nel sud della Grecia.
Un’opera incarna al meglio l’arte del periodo in cui il mondo greco venne gradualmente controllato da Roma e l’arte greca divenne arte romana. Quasi certamente realizzato nella prima metà del ii secolo a.C., il cosiddetto «grande Altare» di Pergamo aveva due fregi scultorei e una imponente serie di più di settanta statue libere, soprattutto femminili. Nessuno dei due fregi era innovativo nel contenuto: uno mostrava la battaglia tra gli dèi e i giganti già presentata nel Tesoro dei Sifni e nelle metope orientali del Partenone; l’altro mostrava la storia di Telefo, già nel frontone del tempio di Atena a Tegea. Molte delle tecniche scultoree impiegate sono proprie della scultura del iv secolo – gli occhi infossati, lo sguardo fisso in lontananza, i teneri tratti facciali richiamano puntualmente le opere di Scopas e Prassitele. Il fregio della Gigantomachia, in particolare, aggiunge però
13. Lisippo, Ritratto di Alessandro Magno. Marmo (dall’originale, perduto, in bronzo), 330 a.C. Museo del Louvre, Parigi.
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14. Lisippo, Due giovani atleti, dalla villa dei Papiri di Ercolano. Bronzo (dall’originale, perduto, del medesimo materiale), iv secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.
Pagine seguenti: 15. Altare di Zeus, da Pergamo. Marmo e pietra calcarea, 150-125 a.C. ca. Pergamonmuseum, Antikensammlung, Staatliche Museen, Berlino.
un virtuosismo espressionistico che ha indotto i critici a parlare di «barocco ellenistico». Comparato ai fregi classici, anche ai fregi pieni di azione come quello del tempio di Apollo a Bassae, tutto nel fregio della Gigantomachia di Pergamo è eccessivo. È alto più di due metri, presenta altorilievi virtuosisticamente scolpiti, con le pieghe profonde del panneggio che avvolgono membra sbalzate a tutto tondo, e presenta figure con corpi giganteschi, capelli drammaticamente arruffati ed espressioni angosciate, coinvolte in scene di iperattività. Non si tratta di un fregio che susciti il coinvolgimento da parte dell’osservatore, ma piuttosto una condizione da spettatore, invitando a retrocedere per guardare e meravigliarsi, mentre attività letteralmente «fuori dal mondo» si svolgono davanti ai suoi occhi. Benché orripilanti per la violenza con la quale i serpenti divorano la preda, queste
scene non provocano empatia, quanto piuttosto suscitano stupore. Qui viene certamente celebrato il potere degli dèi, ma non sono chiare le conseguenze per i comuni mortali di come questi trattano i giganti. Sia che si consideri la lontananza degli dèi come il riflesso delle tendenze della filosofia contemporanea, incline a interrogarsi sull’interesse o il coinvolgimento degli dèi verso gli uomini comuni, o di una nuova struttura politica, nella quale si toglieva il potere dalle mani degli uomini comuni concentrandolo in quelle di una dinastia regnante (gli Attalidi, nel caso di Pergamo), non c’è dubbio che queste sculture riflettano un mondo mutato – un mondo in qualche modo più vicino a quello dell’Impero romano che a quello della città-stato greca arcaica o classica. La distanza che abbiamo percorso dalle figure geometriche delle anfore del Dipylon alla Gigantomachia dell’altare di Pergamo può difficilmente essere misurata in termini stilistici. Le formule molto schematiche che costituivano una figura in lutto sul vaso dell’viii secolo non hanno nulla in comune con l’eccesso stravagante che presenta un gigante ad altorilievo in una posa contorta. È più facile misurare la distanza in termini politici. Il Maestro del Dipylon, come è talvolta chiamato, ha creato l’immagine della reazione di un gruppo alla morte di un individuo all’interno della comunità, incoraggiando chi avrebbe visitato il cimitero a pensare alla perdita di un individuo come a qualcosa di condiviso. Nonostante la sua totale mancanza di individualismo, questa è un’arte intima. Gli scultori anonimi dell’altare di Pergamo crearono un’immagine di potere remoto, offrendo, a chi lo avrebbe visitato, una situazione con la quale misurarsi solo con stupore. Mentre l’arte greca arcaica e classica è servita per stabilire relazioni all’interno della comunità di osservatori, l’arte del mondo ellenistico ha fatto una serie di dichiarazioni a una comunità che non aveva altra scelta se non di prenderle o lasciarle. Stava nascendo un mondo dell’arte separato, ma è difficile non pensare che, allo stesso tempo, si stava perdendo qualcosa di prezioso.
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Claudio Tiberi
Il parametro scelto per tracciare in poche pagine un quadro storico coerente è il rapporto, mutevole nel tempo e nei luoghi, che l’uomo instaura col mondo in cui vive: la mentalità (ma il termine è riduttivo) che sottende l’esistere, il conoscere, l’agire. È contenuto profondo, immancabile, delle opere e ne garantisce un metro non estrinseco. L’entusiasmo per un suo picco d’intensità o la freddezza per un suo momento d’ombra, che talvolta posso non trattenere, non implicano giudizi di riuscita espressiva, perché l’arte germoglia in qualsiasi stato di cultura e altro è il suo metro. D’altra parte – va detto – anche per vedere dei contenuti bisogna dare briglia sciolta a un animo commosso. Dalle origini all’arcaismo
1. Tempio di Apollo, particolare del colonnato, iniziato alla fine del iv secolo e ancora in costruzione nel ii secolo a.C. Didima.
La civiltà micenea, propria di genti che parlano dialetti ellenici, s’afferma dal xvi sec. a.C. nella gran parte della penisola greca e oltre, in contatto con civiltà più antiche e mature, in particolare con quella minoica, che si irraggia da Creta. Ne subisce gli influssi, ma si notano nelle arti, non nell’architettura. Basti un cenno. Nella fuga fantasiosa di ambienti dei palazzi dell’isola invano si cercherebbe un tipo edilizio ricorrente e forte, nitido invece nell’area achea: è il megaron con tetto a due falde, noto da tempi antichissimi nell’ambito balcanico in forme strette e allungate e ora più compatto e largo, costituito da due muri longitudinali paralleli e, tra loro, da muri trasversi che delimitano una sala e un portico in antis,
talvolta separati da un vestibolo. Il megaron garantisce la riconoscibilità e tramanda una memoria. Si delinea una civiltà indipendente, una «civiltà del segno»: con «civiltà del segno», intesa in diverse accezioni, dovremo misurarci seguendo vicende greche e romane. Dopo l’esaurirsi della civiltà micenea al volgere del xii secolo a.C., una continuità nel culto e nelle tradizioni può essere ipotizzata e talvolta provata, ma non restano tracce eloquenti di opere: pare un momento di stasi, a preludio degli esiti originalissimi dell’età che diciamo «geometrica» (secoli ix e viii). Per definirne alcune tendenze ritengo utile citare la grande anfora del Dipylon, dell’viii secolo, di destinazione funeraria, conservata nel Museo Archeologico di Atene (n. 804). A contrasto con la stesura precisa di strisce segnate da regolari motivi geometrici, nella scena figurata piccole varianti generano asimmetrie rispetto all’asse verticale. C’è una sorta di simbiosi tra ordine e guizzi di libertà, indissolubilmente legati in un unico capolavoro, in cui si frenano e si definiscono a vicenda. La simbiosi, che dell’ordine scansa il predominio esclusivo non lasciando spazio al gelo di una regola senza incrinature, durerà, e nei secoli la seguiremo, avvertiti sin da ora della pregnanza di minimi scarti e pronti dunque a coglierli con sensibilità nuova. La simbiosi, insieme con il disegno nitido, regge anche gli ordini architettonici che dal vii secolo si elaborano a legare in maglie di grammatica e sintassi parti costitutive del costruito, chiaramente riconoscibili nelle forme evolute in pietra, schematizzate nelle figure. Nell’ordine dorico, che nasce nella
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madrepatria greca e troverà la sua maggiore diffusione là e nelle colonie dell’ovest, l’incrinatura della regola sta nel fregio, costituito da un’alternanza di triglifi e metope, conclusa da un triglifo a ogni estremità. È il cosiddetto ‘conflitto angolare’: guardando un prospetto, per le dimensioni delle parti in gioco, il triglifo sullo spigolo, a differenza di quelli intermedi, non è centrato sulla sottostante colonna, ma spostato verso l’esterno; di conseguenza la metopa adiacente è più larga delle altre, spezzando un ritmo. Sorge un problema. Verso l’inizio del vi secolo, nel tempio di Hera a Olympia, si sperimenta la cosiddetta contrazione angolare: si riduce cioè l’ampiezza dell’intercolumnio prossimo allo spigolo e così l’allargamento della metopa anomala si riduce e potrà poi talvolta annullarsi. In certo senso si trasferisce la difficoltà dal fregio al colonnato. Comunque la varietà delle scelte dimostra un lavorio e il conflitto angolare resterà una salutare spina nel fianco e una fonte di idee: in piena età classica, Ictino, l’architetto del Partenone, attuerà una contrazione eccessiva per esiti singolari. Nell’ordine ionico, che nasce nelle colonie d’Asia Minore e là resterà diffusissimo anche quando passerà alle altre terre di Grecia, a contrasto della regola sta il capitello, in cui il cuscino s’avvolge a spirale ai lati, a formare due volute che scendono oltre l’echino, coprendolo: le due coppie di figure opposte, l’una con l’echino visibile e le volute, l’altra con l’echino non visibile e il fianco delle volute, generano disordine in angolo, perché su uno dei fronti compare agli spigoli un capitello che mostra una faccia diversa da quella dei capitelli intermedi. Il problema trova presto un esito. Nella seconda metà del vi secolo, nel tempio di Hera a Samo, detto di Policrate: nel capitello d’angolo stanno due facce frontali con echino visibile e volute, che incontrandosi si piegano in diagonale verso l’esterno, e due laterali con il fianco delle volute. Ma l’ordine ionico è più sciolto del dorico, non ne ha il
rigore, e la fantasia si esercita soprattutto nella varietà delle forme, nell’esuberanza delle modanature, nella ricchezza delle parti scolpite. Santuari e templi Gli ordini architettonici si elaborano per gli edifici di rilievo. E spiccano quelli di carattere religioso (per i tempi più lontani, quasi i soli di cui si abbiano resti). Per distinguerne due tipi definisco parametri costanti: il «nucleo sacro», dove sta in effige o si manifesta il nume; il «luogo del rito», dove si svolge l’azione liturgica; il limite del temenos che li contiene, sempre noto, anche quando non è costruito; il temenos, area consacrata, spazio fruibile per i fedeli. Un tipo, che convenzionalmente chiamo «santuario», si addice a culti esoterici, propri di un gruppo di iniziati: il nucleo sacro (un elemento di natura o un oggetto che evochino la presenza divina e la loro eventuale protezione muraria) può essere semplice per ampiezza e per qualità; il luogo del rito (e il modo) restano il più spesso ignoti, per un segreto non rivelato mai; il limite del temenos assume importanza massima e si concretizza in muri, a garantire la segretezza, e il temenos può diventare una sala, con riuscite architettoniche intense. Il secondo tipo, che convenzionalmente chiamo «tempio», è proprio di culti pubblici: il nucleo sacro, il sacello che ospita il simulacro del dio, s’ingigantisce e s’adorna; il luogo del rito, l’altare, rimane al di fuori; il temenos che li contiene non ha limite di mura, non essendo segreta la liturgia. Si annuncia un’architettura templare di esterni, che può coinvolgere l’intorno e, con l’intorno, linee e presenze del paesaggio intense per aspetto e per significato: è un respiro che s’ha da intendere, se si vuole intendere la grecità. I tipi, va detto, sono astrazioni, e la realtà è più complessa: le fabbriche offrono un panorama vario, che talvolta alle astrazioni sfugge, e tra culti misterici e olimpici
2. Tempio di Atena Afaia, 500-490 a.C. ca. Egina.
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Pagine seguenti: 3. Veduta dell’Acropoli di Atene. 4. Eretteo, Portico delle Cariatidi, iniziato nel 420 a.C. Acropoli di Atene.
esistono incontri e legami frequentissimi. Ma i tipi, lo schema, lasciano cogliere valori di fondo utili al fare storia. Un esempio limpido di santuario è, a Eleusi, nel complesso consacrato alle dee, Demetra e Persefone, l’ambiente in cui si svolgevano le cerimonie essenziali dei Misteri: il Telesterion (uso il nome delle sue ultime fasi). Riconoscibile con buona probabilità in età micenea in un’area cinta da un muro intorno a un megaron con una an-
tistante piattaforma (il cosiddetto megaron b), diventa un ampio edificio rettangolare coperto quando è ricostruito nel periodo protoarcaico al volgere dal vii al vi secolo (il cosiddetto Telesterion soloniano) e appresso, nel periodo arcaico maturo, presumibilmente poco dopo la metà del vi secolo, mentre Pisistrato domina Atene e forse col suo intervento, assume l’aspetto insolito di sala ipostila. Guardando dall’ingresso, verso il fondo a sinistra sta l’Anaktoron
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(uso il nome documentato dall’inizio del v secolo), la stanzetta cioè in cui si tenevano le cose sante. L’Anaktoron, la cui posizione non varia nei Telesteria sovrappostisi nel tempo, è il nucleo sacro, e per l’Anaktoron il limite del temenos si chiude; costruito, intorno alla sala, il temenos, lungo i cui tre lati senza porte una corona di nove gradini agevolava la visibilità dei riti. La soluzione ipostila è originale o mutuata da esperienze estranee al mondo greco (le aree teatrali minoiche o le grandi sale egizie o quelle persiane)? Si può rispondere che gli architetti della fabbrica, anche se non le ignoravano, ne derivarono scelte dettate dalla destinazione d’uso, rispondendo all’esigenza di dar vita a uno spazio insolitamente esteso e accentrato per una folla di fedeli: c’è concretezza, coraggio di sperimentare. Le stesse doti rivela il tipo tempio. Modelli fittili dei secoli viii e vii somigliano a un megaron miceneo (la cella) con antistante portico in antis (il pronaos), ma i resti costruiti dell’architettura protoarcaica, che è assai varia e ricca di ricerche, rimandano ai megara premicenei, stretti e lunghi: la forma della casa antichissima rinasce per gli dèi e rimarrà canonica. A Thermo, in Etolia, nel tempio di Apollo, troviamo l’esempio precocissimo di due figure tese a esaltare il costruito come volume, a eliminare viste privilegiate: l’opisthodomos, che ripete il pronaos sul lato della cella opposto all’ingresso; la peristasi, giro di colonne che avvolge il tutto. Ogni scorcio è importante (anche se non uniformemente, ché ciascuno ha le sue voci). Si coglie un respiro di spazio. La cella si elabora per accogliere sempre meglio il simulacro del nume: se a Thermo ha una fila di colonne in asse, nel tempio di Hera a Olimpia si libera, e nell’arcaismo maturo s’afferma quella a navate con doppio colonnato interno, com’è nel tempio di Apollo a Corinto o in quello più recente di Aphaia a Egina, intensissimo anche per nessi molteplici con l’ambiente naturale circostante, vicino e lontano. In Asia Minore, terra dell’or-
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dine ionico, nel complesso sacro di Hera a Samo a un sacello antichissimo (prima metà dell’viii secolo a.C.) seguono, dopo un più maturo rifacimento, il tempio detto di Rhoikos (tra il 570 e il 550) e quello di Policrate, dal nome del tiranno che resse la città tra il 540 e il 525 circa; a Efeso, dopo varie vicende, poco prima della metà del vi secolo s’inizia un nuovo tempio di Artemide. Tutti sono dipteri e immensi (lo stilobate di quello di Policrate, il più grande, è di 55,16 x 112,20 metri) per un gusto del colossale che coinvolge anche le colonie d’occidente (tempio G di Selinunte; Olympieion di Agrigento, dorici), ma non la madrepatria greca. Dall’arcaismo alla classicità Col terzo decennio del v secolo, dopo le vittorie della piccola Grecia sul colosso persiano, il conoscere e l’esistere s’addensano in un salto qualitativo repentino e sovvertitore, preparato da un lavorio secolare e al tempo stesso in quanto sintesi nuova. È la classicità. Scintilla tra due poli, che pare si potenzino a vicenda: l’uomo, da una parte si apre e si abbandona a forze che lo dominano e che non può dominare, dall’altra s’interroga, prende coscienza di sé, esalta e distingue la propria opera; da una parte il subire, dall’altra il costruire. E nel costruire convivono esigenze di regola e moti di una libera ricchezza di forme che gareggia con quella di natura. È il tempo teso, sofferto, di Eschilo, di Sofocle. In coro cantano le voci altrettanto intense di scultori, ceramisti, architetti. A Olimpia il tempio arcaico di Hera sorge a ridosso della collina che delimita a nord l’area sacra, quasi confuso con l’ambito naturale, ma il tempio di Zeus, eretto fra il 470 e il 456, emerge più a sud libero e innalzato da terra su un terrapieno di tre metri: l’opera umana s’impone sul contesto. In un secondo momento, nella cella s’inserisce a forza una grande base con l’imponente statua del dio, e per poterla venerare
e ammirare si costruiscono gallerie lignee sulle navatelle laterali: il rapporto col divino conserva la sua carica mistica, ma si fa più diretto, e uno spazio prima sottratto agli uomini, architettonicamente quasi un non-spazio dentro al nucleo sacro, ora li accoglie. La statua era di Fidia. Nel Partenone, la fabbrica che s’erige in breve volgere d’anni dal 447 e inaugura gli interventi periclei per l’Acropoli di Atene, a stringere in un abbraccio la statua, anch’essa di Fidia, i colonnati laterali della cella, che si slarga per essere ottastila la peristasi, si piegano e si uniscono al fondo, e due grandi finestre si aprono ai fianchi della porta per un contatto anche fisico con l’esterno. Il Partenone è un buon esempio dei caratteri nuovi. La paratassi arcaica cede alla sintassi classica. Trionfa l’unità dell’insieme: il diametro e l’interasse delle colonne dei fronti e di quelle dei fianchi non si differenziano più e i piani cedono al volume. La vista corre su linee agili, senza fratture: l’entasis delle colonne diventa lieve; nel capitello l’echino non più gonfio tende al tronco di cono. L’unità dell’insieme si conferma e al tempo stesso vibra di moti: le colonne angolari hanno diametro maggiore, per serrare agli spigoli il costruito; s’inflettono verso l’alto stilobate e trabeazione; le colonne, le ante, i lati dell’abaco s’inclinano. Si toglie durezza geometrica a un oggetto che si vuole vivo. Però rapporti matematici legano lunghezza e larghezza dello stilobate, e si avverte la presenza del numero. L’astrazione convive con l’amore per la vita. Con rigore logico si usano i tipi dell’architettura sacra, il santuario e il tempio. Molto probabilmente poco dopo il 450 s’inizia a Eleusi un nuovo Telesterion, che ripete la forma e ingloba i resti di quello pisistratico (distrutto dai Persiani e forse in parte già restaurato e ingrandito) circa quadruplicandone l’ampiezza. La fabbrica, il cui architetto è quello stesso del Partenone, Ictino (almeno in una stesura iniziale), a differenza di prima non ha
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5. Tholos di Marmaria, 370-360. a.C. ca. Santuario di Delfi.
prostoon: il fronte di pietra grigio-azzurra, lungo più di cinquanta metri, con le sole aperture delle tre porte, appariva enorme, incombente; ma è scelta rigorosa, perché non si tratta di nucleo sacro, ma di limite del temenos, che impropriamente si vestirebbe da tempio. Il nucleo sacro, l’Anaktoron, la cui posizione non muta, sta all’interno, ed è una capanna incastrata tra le colonne senza simmetrie e quasi con violenza: non può esserci incontro, ma scontro, fra parto umano e luogo non misurabile del sovrumano. Con altrettanta forza nei Propilei dell’Acropoli ateniese, che dal 437 al 432 crea Mnesicle con piglio più risoluto di quello di Ictino, la profusione dei marmi fa da contropartita al percorso intatto sulla nuda roccia per l’ingresso mistico alla città sacra. Ne dà una conferma intensissima il santuario di Apollo Epikourios in Arcadia, costruito dopo il 430, su progetto di Ictino. A più di mille metri di quota, sperduto in una natura intatta di fughe di monti, piccolo, indifeso nel confronto con forze su cui l’uomo non ha potere, dell’uomo grida però la forza. Entro la peristasi insolita (c’è una ripresa di caratteri arcaici) una sala elaboratissima precede una piccola cella nuda (fra le due, in asse, una colonna libera, col suo capitello di foglie d’acanto, è il più antico esempio noto di ordine corinzio), sede quasi certa del simulacro del dio. In armonia con il suo duplice carattere, la sala, forse luogo del rito, sembra un temenos chiuso (come il Telesterion eleusinio) che, anziché circondare il nucleo sacro, lo precede. La sala comunica pregnanza nuova. Per qualità delle fattezze appariva ricercata e più grande della sua dimensione reale. L’architetto si compiace della sua opera. Per un attimo sembra perda di vista lo spazio dell’esperienza, formato soprattutto per accogliere oggetti e atti della vita. Crea uno spazio ideologico, potenzialmente sufficiente in sé per le proprie qualità, alieno da contatti con l’intorno. Il polo attivo della dialettica fra subire e costruire prende la via di un’astrazione forte.
Dalla crisi della classicità all’ellenismo
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Nella fabbrica ictiniana quella dialettica canta il suo inno estremo, audacissimo, al limite del rischio. Poi si spezza. S’atrofizza il sub ire. La classicità finisce. S’avvia una secolare vicenda di spazi ideologici. Nell’Eretteo dell’Acropoli, edificato assai probabilmente tra il 421 e il 405, l’attenzione si volge all’eleganza, e la varia scelta dei caratteri raffinatissimi dell’ordine ionico e delle sue decorazioni floreali differenzia piani e scardina l’unità dell’insieme: si guarda ai Propilei, ma se ne riprende qua e là qualche fattezza, senza intenderne il significato. Si curano esiti particolari, scansando di dar risposte al reale intero. Col iv secolo torna un’esigenza d’ordine, ma è un ordine nuovo: non impegna più sfera sovrumana e sfera umana; è tutto rivolto alla sfera umana. Già Euripide, legato ai sofisti, senza la volontà e la fede di Sofocle, aveva aperto un varco al dubbio e al prevalere del pensiero. Dopo i sofisti, Platone e Aristotele, nella scia di Sofocle, fondano una mutata filosofia. Gli artefici dànno vita a un classicismo, per usare in senso estensivo il termine, richiamando l’insorgere di esigenze razionalistiche di regola e rapporti col passato che implicano fattezze ma non contenuti. Il tempio di Athena Alea a Tegea, iniziato intorno al 350, riprende quello di Apollo Epikourios in Arcadia, ma scompare il confronto tragico tra natura e opera umana, e s’offusca la distinzione tra tipi edilizi, il santuario e il tempio, che Ictino aveva tenuto a base delle sue sottili scelte figurali. A conferma, verso l’ultimo quarto del iv secolo il Telesterion eleusinio s’arricchisce di un prostoon, e così l’edificio immenso, disadorno, s’atteggia a tempio e s’ingentilisce, e meno possente incombe la presenza oltreumana del mistero. Per amor di regola possono scansarsi i guizzi di libertà che avvivano gli ordini architettonici: c’è simpatia per edifici centrici, sia dorici (la tholos di Delphi e quella di Epidauro, opera di Po-
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licleto il giovane, autore nella stessa città anche dello splendido e ben conservato teatro), sia ionici (il Philippeion di Olimpia), dove la forma rotonda elimina rispettivamente il conflitto angolare e il problema suscitato dal capitello. Per amor di regola può apprezzarsi un’evidente presenza della matematica: a Priene l’architetto Pytheos serra il tempio di Athena Polias in una rete di maglie geometriche; a Megalopoli un sagace insieme di sostegni interni sostiene la copertura del vastissimo Thersilion (sala delle assemblee), per nominare almeno uno degli edifici non sacri che si diffondono a dire l’umana varietà di interessi. Si nota la tendenza ad attenuare il contatto della fabbrica col suolo, con l’elemento di natura ricco di sacralità: a Efeso il ricostruito Artemision ripete le stesse forme di quello arcaico, distrutto nel 356 da un incendio, ma s’innalza su un basamento di tredici gradoni. Trionfando e isolandosi, il polo attivo della dissolta sintesi classica fra subire e agire, fra partecipare e creare, può dar vita a esiti di regola e di libertà (il pensiero forma anche il disordine). Esiti di libertà avviano l’età ellenistica (dalla fine del iv al i secolo): più evidenti nella scultura e nella pittura, meno nell’architettura. Nel Didymaion presso Mileto, iniziato verso la fine del iv secolo, il sacello con la statua di Apollo e il suo temenos sono racchiusi in un rettangolo murario scoperto, altissimo, circondato da due colonnati concentrici su un crepidoma imponente: il diptero enorme, a scala non umana, racchiude nume e riti, dice la consumata confusione di tipi, si isola dall’intorno. Per volontà di regola si manifesta nell’avanzato ii secolo una virata di tendenza, di cui, attingendo a fonti coeve, gli autori romani che trattano d’arte (Plinio il Vecchio, Quintiliano e, prima, Cicerone) tramandano l’impianto teorico, così riassumibile: la riuscita delle opere cresce dall’età che segue alle guerre persiane, culmina con Fidia, declina fino a Prassitele e Lisippo; appresso, dopo l’olimpiade cxxi (296-293) l’arte si spegne, e di nuovo torna a vivere nell’olimpiade clvi
(156-153). Si definisce per la prima volta un classicismo in senso stretto: reazione a fremiti di libertà giudicati brutti; apprezzamento di forme di un passato lontano ritenute esemplari, con termine moderno classiche, da porre a fondamento dell’operare. L’impianto teorico, accolto nella Geschichte der Kunst des Altertums pubblicata nel 1764 da Winckelmann, per autorità antica e recente ha pesato e pesa dogmaticamente, nonostante salutari ripensamenti, sul giudizio: l’arte di quel poco più di un secolo e mezzo continua a chiamarsi classica.
6. Tempio di Portunus (già detto della Fortuna Virile), i secolo a.C. Foro Boario, Roma.
7. Veduta del Foro romano. Roma.
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8. Cariatidi del Canopo, 123-138 d.C. ca. Villa Adriana, Tivoli.
Ma negli ultimi decenni del v secolo, s’è visto, una frattura separa il prima e il poi; alla classicità segue un classicismo; classicità e classicismo sono antitetici; confonderli significa ridurre l’una all’altro e di fatto ignorarla. Non a caso le opere degli architetti periclei sono in genere ritenute, tutte, esiti infelici di progetti originari diversi e «belli» per qualche ragione alterati in corso d’opera; progetti, che in chiave classicistica si vogliono ricostruire. Invece di adeguare il criterio di giudizio alle fabbriche, si correggono le fabbriche per l’errato criterio di giudizio. All’impianto teorico, origine di tante distorsioni critiche, corrisponde la prassi. Attivo dall’avanzata prima metà del ii secolo, Hermogenes erige il tempio ionico di Artemis Leukophryene a Magnesia sul Meandro puntando su uniformità di membrature e rispondenze rigorose di parti, con un presumibile risultato in parallelo, in qualche modo, con l’ossessiva monotonia della battaglia di Amazzoni del conservato fregio; dell’ordine ionico codifica le regole; di quello dorico, viziato da pecche, sconsiglia l’uso. Un altro teorico scova il rimedio per progettare un tempio dorico perfetto: conserva la corrispondenza d’assi verticali di triglifo e colonna estremi e pone verso lo spigolo del fregio una mezza metopa circa; elimina cioè il conflitto angolare, la fonte di libere scelte che dell’ordine garantiva la vitalità. Le opere e i principi di Hermogenes di Priene e il richiamo del toccasana per l’ordine dorico (non attuato mai, almeno nelle grandi fabbriche, prima del v secolo) li dice in età augustea Vitruvio, che apprezza il classicismo neoattico, nel De architectura, destinato a influire a fondo sui maestri del Rinascimento e oltre. Spontaneamente entra in scena la civiltà romana, chiamata in causa per uno dei suoi problemi più scabrosi: il rapporto con quella greca. Non si può affrontarlo in sé, però: bisogna tornare a tempi lontani per delineare un quadro d’insieme, sia pure nelle grandi linee e con la secchezza imposta dalla brevità.
Roma. Dalle origini ad Augusto
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L’Italia preromana si presenta come un intricato insieme di genti diverse, aperto a vari influssi esterni (forte, quello greco, sia dalle colonie sorte dall’ottavo secolo nel meridione della penisola e in Sicilia, sia dalla madrepatria per i rapporti commerciali con gli Etruschi) e ha «in generale l’apparenza di un ambiente di esperienze recettive piuttosto che di esperienze creative» (Massimo Pallottino). Nell’ambito dell’arte, quindi, è nello spirito del luogo ricorrere a fattezze d’altre culture, usarne di diverse in prodotti coevi, o in uno stesso prodotto combinarle tra loro e con modi propri per origine o invenzione. Anche se di fattezze e modi restano rintracciabili l’ascendenza e il dosaggio, nascono figure originali. È vero per le figure e, a maggior ragione, per i correlati contenuti, che le piegano a esprimere, nella sintesi delle forme, religiosità e usi e abitudini del luogo. È falso, dunque, che a Roma l’arte nasca dalla sommatoria di elementi propri e di elementi greci che restino greci, e che di questi poi via via si liberi: l’arte romana è romana sempre in un susseguirsi complesso di esiti figurali, anche se resta fecondo definire intensità e modi dell’influenza subita e cogliere, quando ci sono, non escludibili assonanze di contenuti profondi. Quanto ai contenuti profondi, seguo ancora le fortune di regola e libertà (mi limito a cenni di quanto avviene in Roma o emana da Roma), o dando ai termini il senso, già chiarito, di classicismo e anticlassicismo, categorie utilissime se liberate dall’errore frequente di identificare la prima con l’apporto ellenistico e la seconda con l’affermarsi del patrimonio locale. È comunque diverso il fondamento delle mentalità: teoretica, quella greca; pratica, quella romana. Da una parte, ecco la filosofia, le matematiche. Dall’altra, ecco lo Stato, le sue leggi, i suoi ordinamenti. Le due civiltà danno entrambe vita a sbocchi ideologici, ma quello romano è pratico: l’Impero. L’Impero è idea cui tutto si subordina: per farla trionfare chi lo regge può parago-
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narsi agli dèi; per rappresentarla ed esaltarla germinano edifici grandiosi e statue, mosaici, pitture. L’orientamento pratico dà conto del rispetto di usi e gusti di genti disparate dell’estesissimo territorio, senza preconcetti teoretici, ma anche dell’importanza della tecnica (strade, ponti, acquedotti), della varietà dei tipi architettonici (fori, templi, basiliche, terme, teatri, anfiteatri, circhi, mercati, monumenti sepolcrali, archi onorari, portici, ninfei, fontane), della cura dell’edilizia privata (case, ville). Si configura un panorama di fenomeni variato nel tempo e nei luoghi. In origine Roma gravita culturalmente nell’area etrusca. L’architettura templare, se rivela l’apporto greco nei rivestimenti in terracotta dell’intelaiatura lignea, segue indipendenti linee d’impianto. Nel tipo più completo fronteggia le celle un profondo portico a colonne (l’ordine tuscanico, su cui Vitruvio si sofferma, ha piedritti non scanalati, capitello simile al dorico, base derivata dallo ionico), costituendo uno spazio fruibile all’interno del costruito e testimoniando scarsa implicazione dell’esterno. I colonnati possono proseguire ai fianchi del corpo delle celle, ma si interrompono contro i prolungamenti del suo muro posteriore, vero fondale. Il tempio è fatto per esser visto frontalmente, e frontalmente rampe o scalee raggiungono l’alto podio: altra presenza, che conferma il distacco dall’ambiente esterno. È manifesta la predilezione per impianti assiali. Siffatti caratteri si ritrovano anche quando Roma si è ormai imposta in Etruria e in Italia, e nella scia delle ulteriori conquiste dalla fine del iii secolo a.C. nella città giunge dal mondo ellenistico una marea di opere d’ingegno e d’arte, rinnovando in termini attuali l’influenza più antica. Ne è frutto il tempio pseudoperiptero, che soltanto in modo ibrido si veste alla greca, con le colonne del pronaos che continuano in semicolonne appoggiate al corpo murario sui lati e sul retro: è buon esempio il tempio ionico rettangolare del Foro Boario a Roma (ultimi decenni del ii
secolo a.C.), dove il capitello con le volute abbinate sulla diagonale compare non solo agli spigoli del pronaos, ma anche sulle semicolonne che serrano il fronte della cella. A secondare la predilezione italica per ampi spazi conclusi privi di sostegni interni e a potenziarla con esiti imponenti, si diffondono l’arco e la volta, e si crea un mezzo nuovo per curvare pareti in pianta e in alzato (in uso, in edifici, dal ii secolo a.C.): è un conglomerato di malta (calce e sabbia) e pietrisco (caementa, donde il nome: opus caementicium), gettato in casseforme lignee e poi, via via, tra pareti sottili di elementi litei (opus incertum), di tufelli a base quadrata visti con la diagonale in verticale (opus reticulatum), di mattoni (opus latericium; opus testaceum). Il rinnovamento di Roma nel ruolo di centro di uno Stato immenso s’avvia nel clima di un classicismo, d’un prevalere d’ordine, che culmina con Augusto, quasi in parallelo con quello instaurato, con l’Impero, dopo anni e anni di discordie civili. Si guarda alla più evoluta cultura greca e se ne adottano, con la mediazione del classicismo neoattico, teorie (le diffonde Vitruvio) e fattezze. Nello spirito della lex de Urbe augenda (45 a.C.) Cesare apre il Forum Iulium, la prima piazza monumentalmente concepita della città, ruotandone l’asse, rispetto a quello dell’adiacente foro repubblicano, verso la sella tra colle capitolino e Quirinale, e quindi verso il Campo Marzio, zona di prevista espansione. Stabilisce così le assialità, parallele o ortogonali, dei fori a venire: di Augusto; Transitorio, iniziato da Domiziano (81-96 d.C.) e inaugurato da Nerva (96-98 d.C.); di Traiano (98-117 d.C.). Alla morte di Augusto (14 d.C.) lo stesso Foro antico ha assunto un aspetto più regolare (che conserverà poi), soprattutto per l’erezione del tempio del Divo Giulio, che lo chiude a sud-est facendo da riscontro al Tabularium (il possente «archivio di Stato», del 78 a.C.), che a nord-ovest lo domina, a distanza, dal Campidoglio. Nel Foro di Augusto c’è connubio di fattezze ellenistiche
9. Pantheon, 115-127 d.C. Roma.
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e locali, ma le prime finiscono con l’avere la meglio: due grandi esedre serrano ai fianchi i porticati a colonne intorno all’area dominata frontalmente dal tempio di Marte Ultore, ma, schermate come sono, si spegne il respiro di spazio, vasto e diverso, che sembrano nate per provocare. Da Augusto agli Antonini Si snodano le vicende dell’architettura imperiale. Dopo la regola augustea, a contrastarla, vibrano empiti di libertà. Al tempo di Claudio (41-54) si manifesta un attacco alla stesura dell’ordine architettonico: com’è nella Porta Maggiore di Roma, ne emergono brani da rudi bugnati rustici che sembra li avvolgano mentre contribuiscono a formarli. Con Nerone (54-68) la grande sala ottagona della Domus Aurea porta una ventata di fremiti nella vicenda degli edifici centrici che nella prima età giulio-claudia, in forma sia circolare sia quadrata, convergono in unità di parti graduate verso la verticale mediana: rispetto a questa la simmetria si spezza poiché sono disposti solo su cinque degli otto lati i vani al contorno; per le loro dimensioni l’unità di parti graduate cede alla dialettica di parti d’analogo peso. Il monologo cede al dialogo, tra sapienti dosaggi di luci e ombre. Come le fabbriche neroniane, anche quelle dei Flavi (69-96) sono ricche di indipendenza: a confermarlo, riscuote particolare favore un ultimo ordine architettonico, il composito: nel capitello, alle foglie d’acanto del corinzio si sovrappongono, su un giro di ovoli, quattro volute ioniche, che, piegandosi diagonalmente, si giuntano agli spigoli. Autore della domizianea Domus Augustana sul Palatino è un artefice grande: Rabirio. Lavora per Traiano (98-117) un altro artefice grande, Apollodoro di Damasco, ma segue una poetica diversa, evidente nella sua impresa maggiore, l’ultimo foro imperiale e i connessi Mercati a Roma. Interrompe la vicenda di vani centrici e di spazi conclusi e progetta secondo assi, coinvol-
gendo la città e legandone le parti: sull’asse longitudinale la Colonna, altissima, si proietta a nord-ovest verso la Via Lata e il Campo Marzio; parallelo all’asse trasverso per la Colonna e le Biblioteche, quello della Basilica, ambiente chiuso, si riflette subito in quello della piazza porticata, ambiente aperto, delle cui esedre, visibili (non schermate come quelle del Foro di Augusto), quella a nord-est rispecchia la più ampia forma della parte inferiore dei Mercati, che salgono al Quirinale foderandone il ripidissimo pendio. Apollodoro possiede appieno l’arte romana del costruire, ma conosce e apprezza altre culture. Si coglie il respiro e il movimento delle città ellenistiche d’Asia Minore, ma anche la memoria di maniere ancor più distanti nel tempo: significativamente la fascia scolpita che narra le imprese daciche dell’imperatore salendo a spirale intorno alla Colonna, essendo in gran parte male e poco visibile, costituisce un fatto nuovo per Roma, ma rammenta opere greche come il celeberrimo fregio del corpo delle celle del Partenone, posto dietro i colonnati della peristasi in una zona molto alta e poco illuminata. Apollodoro si distacca dal presente e guarda al passato, sia per riprendere moti ellenistici di libertà, sia per richiamare fattezze ancor più lontane: esprime, quanto a contenuti profondi, un classicismo. Ma non è che una parentesi. Si torna ai vani centrici e agli spazi conclusi con Adriano (117-138), ma in chiave nuova, per la contemporanea presenza di regola e libertà: è un «classicismo romantico», per usare una calzante categoria felicemente creata da Giedion nel 1922 per la cultura del secondo Settecento europeo. Lo scontro è continuo, violento, mutevole per una caleidoscopica varietà di scelte, cui non fu estraneo lo stesso imperatore. Penso a Villa Adriana, il vastissimo complesso nei pressi di Tivoli. Penso al Pantheon romano, dove la geometria cristallina convive con giunzioni aspre di parti, con incastri di fattezze diverse. La libertà adrianea si spegne nelle solide e più composte architetture del tempo degli Antonini (138-192).
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Dai Severi a Costantino
10. Terme di Caracalla, 211-217 d.C. Roma.
All’avvio del iii secolo, carico di tensioni, l’arte richiama quella della seconda parte del i, ma con piglio più secco e più incisivo. Del nuovo foro voluto da Settimio Severo (193-211) a Leptis Magna, sua città natale, e della connessa basilica (inaugurata poi da Caracalla) rammento soltanto, oltre al disegno sapiente che compone le divergenze d’orientamento, l’ampia via lastricata di marmo e dotata di accessi alle estremità che, a mo’ di atrio scoperto, alla basilica
si affianca sul suo lato lungo opposto alla piazza: sulla parete esterna dell’edificio si appoggia una serie di ventisette colonne con basamenti e tratti di trabeazione propri, a costituire presenze indipendenti, calate a invadere lo spazio vuoto e dargli vita, portando a conseguenze estreme un partito noto dall’età di Domiziano (Foro Transitorio a Roma) e largamente proposto in età adrianea. Delle romane terme di Caracalla (211217), che ripetono ingrandito lo schema di quelle traianee, noto il caldarium imponente che s’erge a competere col corpo centrale
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del frigidarium e a spezzare la convergenza graduata delle parti a un unico polo. Lo schema ricompare nelle terme di Diocleziano (285-305), ma nel cinquantennio dalla morte di Alessandro Severo (235) al 285 il clima culturale, dopo preannunci via via più frequenti e intensi, è profondamente mutato, e l’epoca antica ha ceduto il passo a quella tardoantica. Si respirano possanza e semplicità nuove: il fronte esterno del frigidarium, verso la natatio, è articolato in sequenza di quattro massicci piloni svettanti; tra frigidarium e palestre i setti a colonne che separano ambienti uguali lasciano trasparire la dimensione enorme. Nel palazzo di Diocleziano a Spalato, configurato a mo’ di accampamento, aree ben distinte ospitano funzioni essenziali. Di una sala termale enucleata dal suo contesto ha forma, a Roma, la basilica di Costantino (312-337). Con lui, che ricompone la compagine statale, si respira un ordine che raccoglie in termini essenziali l’eredità del passato: un classicismo, che fa sue anche fattezze di non classicistico stampo. Nella vicenda delle fabbriche centriche, qui di necessità trascurata, il mausoleo della figlia dell’imperatore Costantina (ora chiesa di Santa Costanza) mostra un carattere gravido di futuro, anche protobizantino: per il deambulatorio costruito ad anello intorno al bulbo cupolato lo spazio interno si arric-
chisce con una varietà che possa somigliare e sostituirsi a quella dell’esterno per un più sentito distacco. Per richiami iconologici della decorazione musiva Santa Costanza ci porta al momento in cui l’Impero, al dilagare del culto nuovo, si fa cristiano, a conferma del carattere pratico della romanità. Nascono alla grande pertinenti fabbriche sacre. Ma è altro tema.
11. Mausoleo di Costanza (attuale chiesa di Santa Costanza), 350 d.C. ca. Roma.
Conclusioni Ho richiamato per un verso le presenze immesse in spazi ideologicamente costituiti, quasi per l’ansia di dimenticarli quali sono e subordinarli agli oggetti che contengono, e per altro verso il chiudersi in sé di spazi ideologicamente esclusivi. Sono tendenze antagonistiche, e si addensano o si dissolvono quando fattori molteplici (un disfacimento interno della civiltà romana; l’apporto via via più robusto dei cosiddetti barbari; gli effetti del cristianesimo) convergono verso sbocchi nuovi. Un travaglio permea l’età tardoantica e i momenti che l’avviano, e sfocerà, per l’Occidente europeo, nell’età altomedievale. Si sarà attuata una rivoluzione, quanto a contenuti profondi, per il grido prepotente del subire (dopo tanti secoli di silenzio) accanto a un agire sommesso. Gli spazi ideologici cederanno agli spazi dell’esperienza.
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1. Ritratto maschile, da Otricoli. Marmo, 50 a.C. ca. Museo Torlonia, Roma.
In Grecia le arti, anche nel periodo arcaico, giunsero a elaborare una sorta di canone, un paradigma per la produzione figurativa di molte altre aree del Mediterraneo, come Cipro e l’Italia. È possibile interpretare questo insieme di relazioni in termini di «influenza», attraverso cui l’arte greca ha fornito un modello dominante (nonché un gran numero di artisti) da esportare in Asia, Nord Africa, Etruria e Sicilia –, o di «appropriazione», attraverso cui culture e comunità differenti adottarono quanto si confaceva loro del repertorio di forme e soggetti greci, adeguandoli e trasformandoli. Entrambi i modelli di assimilazione dell’arte greca nel bacino del Mediterraneo antico presuppongono svariate e variabili forme di acculturazione della cultura materiale nel corso di molti secoli. Essi inoltre dipendono da quella che potrebbe essere definita la dinamica del «classicismo» – cioè il costante sguardo retrospettivo e il riutilizzo di paradigmi precedenti per nuove finalità, in un dialogo creativo con il passato e con tutto quanto fosse straniero. Questa dinamica, fondamentale per l’arte etrusca e sviluppata in modo brillante nell’arte romana, divenne progressivamente uno dei principali motori di innovazione artistica e di cambiamento dell’intera tradizione occidentale. Le arti del Medioevo e del Rinascimento, per non parlare del Neoclassicismo – nella forma di commenti visivi, revival, o reazioni a canoni precedenti (specialmente alla produzione figurativa greco-romana) – furono, in tal senso, eredi diretti di una tradizione classica elaborata per la prima volta dagli Etruschi e dai Romani in relazione all’arte greca.
Dopo il naturalismo trionfante dell’arte greca del v e iv secolo a.C. e le straordinarie conquiste di Alessandro, il mondo del Mediterraneo orientale si frantumò in una serie di monarchie ereditarie, la cui propaganda visiva era profondamente debitrice dei nuovi, ma già canonici, stili e forme di Grecia, adattati al tempo stesso alle esigenze locali. Poiché gli sviluppi salienti dell’arte greca erano propri del contesto culturale della democrazia ateniese, l’adattamento dello stile naturalistico alle esigenze delle monarchie, che reclamavano uno status divino per i loro sovrani, necessitò di operazioni complesse. Lo stile greco doveva essere adattato però anche ad altre – non greche – esigenze culturali (come i diversi sistemi di sepoltura, o le differenti tradizioni mitologiche) e a metodi e stili locali di produzione delle immagini. Il risultato – in tutto il Mediterraneo, molto più estesamente che nella sola Italia – fu un affascinante processo di acculturazione visiva. Prima ancora di quella che viene definita l’età ellenistica, il satrapo persiano di Caria, Mausolo, commissionò attorno al 360 a.C. ai più illustri artisti del tardo classicismo la decorazione della sua tomba ad Alicarnasso. Le esigenze di una monarchia divinizzata portarono ad adattare la scultura greca a un tipo orientale di monumento (la struttura del mausoleo dipende ad esempio da quella delle piramidi egiziane) e ad un certo tipo di contenuti (come le scene di caccia) che appartenevano più alla tradizione della scultura a bassorilievo persiana e assira che all’arte greca. Analogamente, il cosiddetto Sarcofago di Alessandro, sarcofago del tardo iv secolo commissionato probabilmente per l’ultimo re fenicio di Sidone, Abdaloni-
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mo, manufatto di forma e funzione non greche, è ornato da sculture a rilievo interamente di stile greco di spettacolare qualità. Un lato del sarcofago mostra una battaglia tra Greci e Persiani, tradizionale soggetto greco con più di due secoli di storia, forse destinato qui specificatamente a rappresentare la grande vittoria di Alessandro a Isso nel 333 a.C.; l’altro lato, invece, presenta (con non minore evidenza) una scena di caccia con un leone e un cervo, soggetto persiano e assiro, qui forse anche rievocazione della battuta di caccia tenutasi nel parco reale di Sidone nel 332, alla quale avevano preso parte Alessandro e Abdalonimo. Il possibile riferimento a eventi reali della vita di monarchi con ambizioni di divinità, la combinazione dei soggetti, la forma del sarcofago, sono tutti elementi che indicano l’allontanamento da una comprensione rigorosamente in senso greco dell’oggetto, a favore di un’interpretazione della sua creazione come una forma di acculturazione visiva. Muovendo da oriente a occidente – e con più puntuale riferimento a ciò di cui qui ci occupiamo, l’Etruria e Roma – si consideri uno squisito manufatto rinvenuto a Roma, ma probabilmente originario dell’Italia meridionale o della Sicilia. Il Trono Ludovisi, del secondo quarto del v secolo a.C., è un’opera unica. La sua forma è singolare come i soggetti raffigurati – tra i quali la nascita di Afrodite e una flautista nuda, scolpita più di un secolo prima che Prassitele, con la sua Afrodite Cnidia, introducesse nel 340 a.C. nel repertorio del classicismo greco il tema del nudo femminile. Resta sempre la possibilità che si tratti di un falso del xix secolo (come il trono di Boston, modellato su questo), ma la qualità della sua lavorazione, la finezza di linea e modellato (nonostante qualche incoerenza nel controllo del naturalismo, con la gamba destra della flautista che sembra non congiunta al corpo), inducono a ipotizzare una provenienza dall’Italia meridionale. Le norme dell’arte greca sono qui impiegate in modo creativo e adattate a un contesto differente (forse il culto di Afrodite a Locri). Il fatto che lo scultore fosse un artista greco
attivo in Italia, oppure un italico che padroneggiava la tecnica e lo stile della nuova arte greca, è irrilevante ai fini della comprensione e della fruizione dell’opera. Si tratta di un problema che si ripropone infinite volte per innumerevoli altre opere (solitamente le migliori) nella storia dell’arte etrusca e romana. Il Sarcofago di Alessandro e il Trono Ludovisi – distanti tra loro nel tempo forse centocinquant’anni e provenienti da aree del mondo molto diverse – indicano alcuni elementi delle prime finalità e dell’ampiezza del fenomeno dell’acculturazione collegata con il classicismo che le arti dell’Italia antica avrebbero sviluppato. Questi temi sollevano la questione cruciale di quale identità rivestissero tali oggetti per chi ne faceva uso, committenti e osservatori, come pure, ovviamente, per i loro artefici. In conclusione, nella formazione dell’arte ellenistica – come di quella etrusca e romana – occorre porre la questione dell’identità, espressa visivamente attraverso scelte stilistiche o formali diverse, in un contesto culturale dove era possibile operare molte opzioni. La disponibilità di soluzioni molteplici costituì essa stessa un elemento imprescindibile all’interno di un contesto culturale molto più ampio del centro politico, ristretto e introverso, delle città-stato greche prima del iv secolo a.C.; è un fatto che non può essere separato dal concetto di Impero, con le sue forme di colonialismo, multiculturalismo, con la struttura monarchica e le esigenze di comunicare con diverse comunità collegate. Arte etrusca Gli Etruschi occupavano gran parte dell’Italia centrale. L’Etruria propriamente detta si stendeva dal corso del fiume Arno tra Pisa e Firenze a nord, fino alla costa tirrenica; verso l’interno raggiungeva Perugia, e il Tevere a sud. Ma l’espansione e l’influenza etrusca si estesero ben oltre – a nord fino al Po, Piacenza e Mantova, e a sud oltre Capua. Per quanto se ne può dire oggi, gli Etruschi erano una popolazione indigena, che parlava
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2. Sarcofago degli sposi, dalla necropoli della Banditaccia, Cerveteri Terracotta policroma, 520-510 a.C. ca. Museo del Louvre, Parigi
. Pagine seguenti: 3. Lottatori. Tomba degli Auguri, necropoli di Monterozzi. Pittura murale, 530-500 a.C. ca. Tarquinia.
una propria lingua, l’etrusco, non collegata alla famiglia delle lingue indoeuropee che comprende il greco e la maggior parte delle lingue antiche d’Italia come il latino, l’osco e il falisco. A differenza della Sicilia, dell’Italia meridionale, della Corsica o del Sud della Francia, l’Etruria non fu colonizzata da Greci o Fenici. La copiosa produzione artistica – con opere tra le più raffinate dell’antichità – rappresenta da un lato l’affermazione di stili locali e perciò, presumibilmente, di un’identità locale (bene dimostrata da oggetti estranei alle influenze greche e, in particolare, al naturalismo) e dall’altro la conquista dello stile greco per soddisfare esigenze specificamente locali. Si confronti l’urna-canopo in terracotta da Chiusi della metà del vi secolo con uno
dei due sarcofagi in terracotta a grandezza naturale da Cerveteri, databili a poco più tardi nello stesso secolo. Sono entrambi oggetti funerari, il primo impiegato come urna per le ceneri, il secondo evidentemente come cassa per l’inumazione di un corpo intero, che all’epoca, nella tradizione etrusca, era consuetudine cremare. Il primo rappresenta il rito di sepoltura più comune in Etruria, mentre il secondo adatta ciò ad una forma di importazione, soddisfacendo probabilmente, con la sua sontuosità, le esigenze aristocratiche. L’urna di Chiusi è a tutta evidenza estranea ad ogni influenza stilistica greca. Essa crea un «ritratto» antropomorfico bloccato, che tenta di definire un tipo ideale con specifici tratti individuali. Anche se il defunto, le cui ceneri sono raccolte nell’urna, non fosse
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stato rassomigliante a questo, i suoi osservatori lo avrebbero desiderato e l’avrebbero immaginato in quel vigore di giovinezza e salute che l’oggetto mostra. Non siamo in grado di dire se la forma dell’urna rappresenti una genuflessione stilistica alla tradizione locale italica nel contesto funerario, o un deliberato rifiuto dell’influenza greca, oppure il risultato dell’ignoranza delle forme greche da parte dei suoi creatori. Il sarcofago, che mostra una coppia sdraiata su un letto da convito, è nella più elegante tradizione stilistica ionica (sebbene la forma del sarcofago non sia greca e neppure etrusca), e rivela il gusto e la fattura della scultura greca arcaica. Il soggetto – una coppia su un letto, certamente di pari condizione sociale – è indiscutibilmente non greco (il tema del simposio non fa parte della commemorazione funebre greca). Si tratta di un’affermazione di identità locale etrusca in una forma stilistica di influenza greca. Una caratteristica che
serve a stabilire come l’arte etrusca sia fondamentalmente diversa da quella greca è la compresenza di queste scelte stilistiche molto diverse in differenti contesti civici, che partecipano però della medesima cultura. Fin dal periodo arcaico l’arte etrusca fu caratterizzata dalla varietà multiculturale delle potenziali opzioni artistiche. A queste possibilità locali si deve aggiungere l’ulteriore opzione di utilizzare qualcuna delle numerose importazioni da altri luoghi, in particolare dalla Grecia. La maggior parte dei più celebri vasi greci proviene dalle tombe etrusche come – scegliendo a caso, un bell’esempio di stile ateniese a figure rosse tardo arcaico, degli ultimi anni del vi secolo – il grande cratere con il combattimento di Ercole e Anteo. Il vaso, trovato in Etruria nella necropoli di Cerveteri e ora al Louvre, fu realizzato ad Atene e firmato dal ceramista e pittore Eufronio. L’assimilazione delle forme e dello stile dell’arte greca in tutti i campi della produzio-
4. Sarcofago delle Amazzoni, particolare, da Tarquinia. Marmo dipinto, 350 a.C. ca. Museo Archeologico, Firenze.
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5. Pittore di Nazzaro, Cratere con scene della guerra di Troia. Ceramica dipinta, 375-350 a.C. ca. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma.
ne artistica – dai più elaborati e costosi bronzi e dalla pittura monumentale fino agli specchi e alle ceramiche dipinte, relativamente meno costosi – è un fenomeno estremamente vasto e complesso. Analizzando la produzione etrusca potrebbe essere fuorviante tentare di separare l’elemento «greco» dagli stili o dalle influenze locali, ma può aiutare a determinare le variazioni e le varietà delle forme di acculturazione. L’elemento di centrale importanza è il fenomeno di incrociata «fertilizzazione» visiva che alla fine produsse qualcosa di nuovo e riconoscibile all’interno di quella che potrebbe essere ampiamente definita la tradizione ellenistica. Nel campo della pittura monumentale, che raramente è superstite nell’antica Grecia, la Tomba degli Auguri, nella necropoli di Monterozzi a Tarquinia, costituisce un esempio piuttosto antico. Qui, nell’ultimo terzo del vi secolo a.C., un artista di grande abilità influenzato dallo stile greco (e forse egli stesso di origini ioniche) dipinse scene di grandi
dimensioni tratte dalla tradizione funeraria e rituale specificamente etrusca. I famosi lottatori con i tre calderoni sovrapposti rappresentanti il premio per la lotta potrebbero essere un adattamento dell’iconografia dei ginnasti e degli eroi greci (disponibile sulla ceramica, come ad esempio il cratere di Eufronio, realizzato all’incirca nello stesso periodo e, a giudicare dalle condizioni, immediatamente importato da Atene in Etruria), ma, nel contesto funerario, alludono ai giochi che avevano luogo in onore dei defunti. Essi sono osservati sulla sinistra da un personaggio che tiene un bastone ricurvo, forse il bastone degli auguri o un attributo proprio dei giudici. Sulla destra è un curioso personaggio con una maschera barbuta e un cappello a punta, con corpetto bianco e nero e un panno rosso attorno ai fianchi. Chiamato phersu, tiene al guinzaglio un grosso cane che tormenta un uomo bendato (ora molto rovinato). Questo episodio potrebbe riferirsi all’usanza dello spargimento rituale di sangue al funerale dell’eroe defunto, ma qualunque fosse il suo preciso significato e valore per gli spettatori contemporanei, certamente si radica in un contesto culturale etrusco piuttosto che greco. Con il passaggio in Grecia allo stile naturalistico, ben noto agli Etruschi grazie agli acquisti di ceramica dipinta ateniese, anche le forme dominanti dell’arte etrusca mutarono. Un esempio eccellente di tale cambiamento nella pittura parietale è costituito dalla testa di Velia, moglie di Arnth Velcha, nella Tomba dell’Orco, anch’essa della necropoli di Monterozzi. Questo straordinario profilo della metà del iv secolo (frammento di un affresco che in origine rappresentava una coppia sdraiata per il banchetto) guarda indietro al mondo greco del tardo v secolo, e potrebbe essere stato ispirato dalla ceramica dipinta. Risale probabilmente allo stesso periodo, sebbene aggiornato nei richiami allo stile greco più recente, il Sarcofago delle Amazzoni, in marmo greco delle isole, trovato a Tarquinia e ora a Firenze. Si tratta di un raro esempio di sarcofago dipinto (le uniche sculture sono sui frontoni del coperchio). Le figure, le loro pose e forme abbreviate, come gli scudi, sono resi con bril-
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lante virtuosismo naturalistico, con delicate modulazioni di colore. Un’analoga capacità di padroneggiare tutte le tecniche, così come le richieste di costose fusioni in bronzo di alta qualità, può essere individuata in opere come la Lupa Capitolina, del tardo arcaismo, il Bruto Capitolino, del 300 a.C. ca., e la Chimera di Arezzo, degli inizi del iv secolo, ora a Firenze. Questo grande bronzo, alto poco meno di un metro, probabilmente un’offerta votiva, rappresenta un mostro mitologico greco (che combina le fattezze di un leone, di una capra e di un serpente). Il corpo in tensione magistralmente reso della Chimera potrebbe essere stato originalmente parte di un gruppo, una scena di combattimento contro l’eroe Bellerofonte sul suo cavallo alato Pegaso. Il manufatto, così come è pervenuto, come pure nella qualità tecnica, mostra una stretta aderenza alla tradizione mitologica greca, ma queste qualità non devono in alcun modo essere date per scontate. In un raffinato cratere del secondo quarto del iv secolo, realizzato e dipinto in una bottega etrusca nell’ambito del tentativo locale di colmare il vuoto del mercato causato dal blocco della produzione ad Atene dopo la guerra del Peloponneso, il pittore di Nazzaro utilizza modelli greci per rappresentare una famosa scena mitologica, il saccheggio di Troia. In basso a sinistra Menelao insegue Elena, alla quale scivola il manto rivelando parte del corpo nudo, mentre Afrodite intercede per lei presso il marito infuriato. Elena pare inciampare in Priamo disteso che sta per essere ucciso da un troiano con una tiara (un errore per un greco?) invece che da Neottolemo, figlio di Achille, come nella tradizione mitica. Sopra Priamo, la drammatica figura di Neottolemo scuote Astianatte, figlio di Ettore, fino ad ucciderlo. La dimensione di Neottolemo è tale da invadere le zone ideate dal pittore per distinguere il terzo superiore e quello inferiore della scena, con l’arciere troiano separato solo da una linea dall’episodio sottostante di Elena. Il vaso rappresenta l’ambiziosa realizzazione di un episodio celebre e drammatico, forse non troppo familiare alla clientela etrusca e forse neppure completamente compreso dal
suo autore. Il disarmonico adattamento di più modelli figurativi per le diverse scene dipinte può probabilmente spiegare le incoerenze narrative del cratere. Con un’operazione analoga, si poterono recuperare anche gli eroi della mitologia greca e tradurli nei miti etruschi, molti dei quali restano per noi incomprensibili. Un raffinato specchio degli inizi del v secolo, fuso in bronzo con incrostazioni d’argento, mostra Ercole che rapisce una donna chiamata Mlacuch, una storia di cui non si sa nulla, che però appare un adattamento al contesto etrusco del ciclo di Ercole. Gli Etruschi presero la forma dello specchio e le sue soluzioni decorative dai Greci, ma come per molti altri manufatti fecero significativi adattamenti. Lo specchio a fusione, per esempio, a differenza di quelli incisi o sbalzati, non era conosciuto in Grecia. Oltre alla formulazione di nuove narrazioni mitologiche con figure ignote, gli Etruschi introdussero cambiamenti all’interno di trame familiari, e nuove iconografie in scene con protagonisti noti. Uno specchio inciso della metà del iv secolo da Volterra mostra Eracle perdonato da Era dopo aver superato le fatiche e placato la sua collera. Al centro del campo visivo l’eroe
6. Chimera di Arezzo. Bronzo, inizi del iv secolo a.C. Museo Archeologico, Firenze.
7. L’ombra della notte. Bronzo, iii secolo a.C. Museo Etrusco Guarnacci, Volterra.
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è ritratto mentre succhia il latte dal seno della dea. In un altro specchio inciso da Vulci, del 300 a.C. circa, una elaborata e sincretica ricreazione di figure mitologiche allude a una storia sconosciuta. Nella zona superiore è rappresentato Eracle mentre presenta un ignoto fanciullo alato chiamato Epiur a Zeus, al fianco del quale, ai lati, sono le dee Thuran (Afrodite) e Thalma. Nel registro inferiore Elena di Troia è seduta su un trono e prende per mano Agamennone barbato, mentre tra loro si trova il giovane e seminudo Menelao. Dall’altro lato del trono è raffigurato Paride anch’egli nudo e giovane, mostrato in un’elegante prospettiva da dietro, rovesciata rispetto a Eracle stante di fronte a lui. Si tratta forse della raffigurazione di Elena, dei suoi due mariti e del capo della spedizione greca nei Campi Elisi? Sia nell’ingresso di Eracle nell’Olimpo, sia nella scena elisiaca in cui Elena è ritratta insieme ai suoi due mariti, mentre tiene per mano Agamennone, è sicuramente affrontata una tematica di riconciliazione. Ma risulta impossibile stabilire se le scene rimandino a una precisa narrazione, o se davvero ne inventino una, attraverso l’interpretazione della tradizione mitologica. A fianco di questi eleganti e sofisticati dialoghi con lo stile e i miti dell’ellenismo, si svolge una lunga tradizione squisitamente etrusca che esclude completamente lo stile classico o naturalista. Ne sono un esempio le allungate statuette votive rappresentanti divinità, aruspici (o indovini) e offerenti, che provengono sia dall’Etruria settentrionale (Chiusi e Volterra), sia da Nemi nel Lazio. Queste figure estremamente astratte – come molte statue di Alberto Giacometti (19011966), lo scultore svizzero che ne fu certamente influenzato – rispondono al classicismo dominante con una potente aderenza a modelli cultuali più arcaici. La medesima combinazione di stili diversi si trova anche in altri luoghi, come ad esempio in Grecia. Ma qui gli oggetti «primitivi» e astratti dei santuari erano i più antichi, consacrati dal tempo e dalla tradizione, mentre in Etruria – e poi a Roma – un consapevole arcaismo formale potrebbe essere stato dettato dalla
volontà di soddisfare scopi precisi (in questo caso religiosi). Allo stesso modo (e in ambito funerario piuttosto che votivo), molte delle urne in terracotta e in alabastro di Volterra – in forma di sarcofagi in miniatura –, infrangono le regole del naturalismo rappresentando il defunto come una piccola figura simile a una marionetta con una testa sproporzionata. Nel corso del iii secolo a.C. l’Etruria perse progressivamente la propria autonomia in coincidenza con l’ascesa politica e militare di Roma. Col 90 a.C., volenti o nolenti, i diritti della cittadinanza romana vennero estesi agli Etruschi, mentre il potere di Roma si estese progressivamente oltre i confini dell’Italia verso la Grecia e l’Oriente, e parallelamente verso la Spagna e il Nord Africa. Alcune delle più grandi opere dell’arte etrusca sono inseparabili da Roma. La Lupa – un bronzo arcaico riferibile al 500 a.C. ca. simbolo ancora oggi della città – è un’opera etrusca, restaurata e modificata nei modi del Pollaiolo (1431-1498) nel xv secolo. Il famoso ritratto bronzeo conosciuto come il Bruto Capitolino, una testa espressiva di dimensioni superiori al vero del 300 a.C. circa, potrebbe essere opera di un artista etrusco (o anche greco), che lavorava a Roma, in un momento in cui l’Etruria invece che Roma era ancora il potere locale dominante. Per contro, il bronzo a grandezza naturale di un uomo di nome Avle Metelle (Aulo Metello), come indicato dall’iscrizione etrusca, realizzato attorno al 90 a.C. è, di fatto, un’opera romana. Nota come L’arringatore, rappresenta una figura togata con gli alti calzari caratteristici dei magistrati romani. La testa tondeggiante, i capelli corti, la posa oratoria, tutto indirizza ad un contesto romano. Se non fosse per l’iscrizione etrusca, lo attribuiremmo senza esitazione a Roma.
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Arte romana L’arte etrusca rappresenta una negoziazione, sulla piccola scala di un discreto contesto culturale e territoriale, di esigenze locali con influenze e imprestiti da forme artistiche
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8. Sarcofago di Metilia Acte e Junius Euhodus, da Ostia. Marmo, 161-170 d.C. Museo Chiaramonti, Musei Vaticani, Città del Vaticano.
9. Rilievo detto dell’Argano, dalla tomba di Quintus Haterius Tychicus, Roma. Marmo, fine del i secolo d.C. Museo Gregoriano Profano, Musei Vaticani, Città del Vaticano.
esterne. Nell’arte romana si aggiunge l’ulteriore complicazione di un Impero multilingue e multiculturale, che si snodava dal Reno al Nilo e dalla Spagna occidentale alla Palestina. Per molti aspetti la medesima relazione con l’arte greca esistette a Roma come in Etruria. Ma la nostra comprensione dell’arte romana poggia su basi radicalmente diverse da quelle dell’arte etrusca. Mentre la nostra conoscenza della cultura etrusca è in gran parte archeologica – in effetti le interpretazioni di edifici, manufatti artistici e materiali sono state formulate in una relativa assenza di testi –, quella della cultura romana dipende tanto dal ricco materiale di testi sopravvissuto (sia letterario, sia sotto forma di numerose iscrizioni), quanto da quello archeologico. Ciò significa che le opere d’arte romane non devono essere studiate solo in relazione ad altri materiali archeologici o a nostre astrazioni storiche fondate sull’analisi di gruppi di manufatti, ma che esse possono essere valutate alla luce delle fonti scritte.
Una cultura visiva La quantità di testi che contengono riferimenti all’ambito figurativo conferma ciò che le numerose opere d’arte già suggeriscono, e cioè che la cultura romana era profondamente visiva. Le immagini vennero impiegate ovunque: nei rituali religiosi, nella politica, nelle case. Il modo più semplice – sia in età repubblicana, sia nel periodo tardo imperiale – per conoscere il grado di popolarità di un uomo politico (un senatore, un governatore, un imperatore) era di guardare la sua statua. Le statue di chi cadeva in disgrazia erano soggette a rovina e iconoclastia, mentre a una nuova stella del firmamento politico veniva immediatamente concessa un’immagine onorifica. In ambito religioso non solo i cerimoniali di stato – come il censo repubblicano e il sacrificio che lo accompagnava – venivano rappresentati nelle opere d’arte (forma di educazione per le generazioni future), ma anche le forme e l’identità delle divinità vennero definite per mezzo delle immagini e non at-
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10. Scene della guerra contro i Daci, particolare della colonna Traiana. Marmo, 113 d.C. ca. Foro di Traiano, Roma.
traverso la teologia, un’innovazione cristiana. Nella sfera privata i Romani diffusero la loro identità culturale attraverso i busti degli antenati, i loro propri ritratti (specialmente in contesti funerari) e la grande varietà di decorazioni delle case. In un mondo dove la maggior parte dei cittadini era illetterata, le immagini svolsero un ruolo fondamentale non solo nella trasmissione di messaggi politici e religiosi, ma anche nell’educazione. Accanto alla lettura ad alta voce di testi di mitologia e storia, le immagini ebbero un ruolo cruciale nella diffusione di tali narrazioni. L’effetto di un’abbondanza di immagini spinta fino all’eccesso è efficacemente illustrato dal rilievo detto «dell’Argano» dal Sepolcro degli Haterii, ora nei Musei Vaticani. Questo pannello, parte di una serie proveniente dalla tomba di Quintus Haterius Tychicus, imprenditore edile di grande successo nel periodo flavio, alla fine del i secolo d.C., mostra la costruzione di un monumento funerario con un grande argano a fianco, che pare alludere alla professione di Haterius. Il monumento è pieno di immagini (come lo stesso rilievo, che proviene dal contesto che illustra): lungo il lato sono disposti ritratti in nicchie a conchiglia, con al di sotto rilievi mitologici e statue, e fregi di putti con ghirlande e personaggi alati vendemmianti sopra la porta. La maggior parte delle colonne è decorata con animali, fiori e spighe di grano (possibile allusione alle quattro stagioni), comprese le quattro colonne all’entrata del monumento con un motivo elicoidale. Sul frontone dell’ingresso e sulla complessa trabeazione scolpita apparentemente sul tetto della tomba vi sono altre immagini (che probabilmente raffigurano ciò che avrebbe dovuto contenere), verosimilmente il ritratto della moglie di Haterius come matrona nel frontone, come Venere, in quello che sembrerebbe un arco trionfale, e infine sul letto funebre. La profusione di immagini che circondarono la vita e la morte nella cultura romana è qui resa su piccola scala in modo straordinario e celebrata visivamente. Si tratta di una testimonianza privata – nella quale le immagini marcano sia il passaggio della vita sia la personale identità
dei committenti – non solo delle loro aspirazioni religiose (come l’assimilazione della donna a Venere), ma anche dei termini del loro rapporto coniugale e dello status sociale del marito attraverso il suo successo professionale. Il significato dell’arte come mezzo per rappresentare un’identità idealizzata è ben espresso dal modo in cui i Romani combinarono i ritratti con i temi mitologici. Imperatori come Commodo e Claudio furono ritratti nelle vesti di Ercole e Giove; privati cittadini come Venere e Marte. Laddove Haterius aveva impiegato un argano – simbolo facilmente riconoscibile della sua professione – per dichiarare il proprio status, sua moglie viene ritratta (perlomeno in uno dei rilievi del Sepolcro degli Haterii) come Venere. In un notevole sarcofago della seconda metà del ii secolo d.C. da Ostia, la coppia Metilia Acte e Junius Euhodo – lei sacerdotessa della magna mater, lui funzionario di una corporazione di carpentieri – sono raffigurati come Admeto e Alcesti. La porzione centrale mostra Alcesti, con il volto matronale di Metilia, sul letto funebre, affiancata a sinistra dal marito (per amore del quale, in linea con il mito, lei sta morendo). La porzione di destra mostra Eracle che riporta dagli Inferi Alcesti/Metilia velata, mentre stringe le mani a Admeto/Euhodo. Qui la coppia di defunti è elevata a una dimensione mitologica non solo grazie all’iconografia scelta per il loro sarcofago, ma anche per l’incorporazione, al suo interno, dei loro ritratti: un fiducioso messaggio di trionfo sulla morte. Una forma estrema dell’eccesso visivo mostrato dal Sepolcro degli Haterii, è costituito in un contesto pubblico dallo straordinario fregio spiraliforme scolpito della Colonna Traiana, eretta attorno al 113 d.C. Essa, nella sua spettacolare profusione di immagini così piccole (molte delle quali invisibili a occhio nudo) e così numerose da essere di fatto indecifrabili, rappresenta un immenso monumento visivo in onore di Traiano. La colonna fu profondamente innovativa anche dal punto di vista architettonico, poichè all’interno venne realizzata una scala che poteva essere percor-
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sa per godere di una spettacolare vista di Roma. Il fregio, che si snoda a spirale attorno al fusto, rappresenta, con infiniti ripetitivi dettagli, il lungo racconto della guerra e delle vittorie dell’imperatore contro i Daci, culminando nella sua statua bronzea posta alla sommità, per la quale, di fatto, la colonna funge da elaborata base. Nonostante la quantità di interpretazioni avanzate al riguardo, le scene raffigurate sulla Colonna Traiana erano di fatto invisibili: l’arte, spingendosi fino ai suoi limiti estremi, realizzava un segno di virtuosismo figurativo potenzialmente leggibile, ma alla fine indecifrabile. Piuttosto celebrò la vastità di una vicenda che poteva essere raccontata e la grandezza di un imperatore universalmente elogiato. Il fatto che la colonna (veramente l’acme dell’arte pubblica nella Roma imperiale) venisse imitata – già una volta nella città di Roma (con la colonna di Marco Aurelio) e due a Costantinopoli, la nuova Roma (con le colonne, ora distrutte, di Teodosio e di Arcadio) – la indica come suprema sintesi di ciò che l’arte poteva fare al servizio dell’Impero. Al di là del suo significato nella formulazione di nuove vie per progettare e realizzare scene narrative, e nel suggerire nuovi modi di leggerle (dall’alto in basso lungo il fusto, come pure seguendo lo svolgersi della spirale), la Colonna Traiana segna il limite a cui poteva giungere il gusto romano per l’abbondanza di immagini, giustapposte, proliferate ed estese a tutta la superficie visiva. Nelle scene della Colonna Traiana l’arte romana è chiaramente il linguaggio figurativo di uno stato potente e centralizzato, che controlla un esercito, un’amministrazione burocratica, un’infrastruttura in grado di costruire strade e favorire i commerci. Per quanto concerne i manufatti, ciò è esemplificato dalla massiccia produzione di ritratti imperiali di alta qualità in tutto l’Impero. Si prenda l’immagine del primo imperatore, Augusto. La sua testa-ritratto – difficilmente modificata tra i venti e i sessant’anni (e certamente mai invecchiata) – è replicata in centinaia di esemplari. Alcuni vennero probabilmente realizzati a Roma ed esportati, altri vennero prodotti nelle diverse province dove poi so-
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11. Augusto della via Labicana. Marmo, inizi del i secolo d.C. Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano, Roma.
no stati ritrovati. Alcuni erano busti, ma molti riguardavano un’ampia varietà di tipi umani, trasformando lo stesso imperatore da austero sacerdote sacrificale a pubblico oratore, da generale a divinità. Queste statue presentano analogie con il profilo dell’imperatore riprodotto sulle monete e con molti dipinti oggi perduti. Per quanto si interpreti la diffusione dell’immagine imperiale di Augusto e dei suoi successori, è impossibile negare che vi sia stata in ciò una deliberata intenzione da parte dello Stato, diretta dall’alto, come pure un’orchestrazione competente e centralizzata del progetto. Poiché l’immagine dell’imperatore era per molti aspetti un’icona dello Stato, ne simboleggiava l’unità, fissava nelle fattezze del ritratto il tipo riconoscibile del monarca, e suggellava, attraverso un’intelligente manipolazione di parallelismi visivi, la relazione parentale ereditaria tra l’imperatore e la sua famiglia (in particolare con i suoi successori designati), anche quando l’unico nesso era costituito dall’adozione. L’arte romana costituiva allo stesso tempo la cultura visiva di migliaia di nuclei familiari – un mondo di molteplici culti religiosi, lingue e stili di vita vissuti in una dimensione domestica e di vicinato. L’«astrazione» della statuaria in calcare di Palmira, i rilievi di culto egiziani in stile egizio antico, la produzione locale largamente estranea a ogni influsso naturalistico dell’Iberia e del Nord Europa, per non parlare della tradizione italica dell’arte etrusca, fanno parte dell’arte romana tanto quanto l’idealizzata verosimiglianza di Augusto con i suoi prestiti ellenistici. La maggior parte del patrimonio artistico romano pervenutoci proviene dall’età imperiale, non solo opere prodotte (spesso da artisti stranieri) a Roma, ma in tutto un territorio che comprendeva l’intero bacino del Mediterraneo nel corso di molti secoli. Ciò significò una serie di centri diversi di produzione, un’ampia varietà di influenze e stili nella creazione delle opere d’arte, una grande diversità di gusti ed esigenze locali talvolta in contraddizione tra loro. Gli stessi imperatori scelsero di essere rappresentati in forme non ufficiali e di ispirazione locale: come faraoni, ad esempio, o assimilati all’identità di diverse
divinità. In parte ciò potrebbe aver costituito un tentativo di rafforzare il loro potere attraverso la religione, in parte fu un rivolgersi alla molteplicità dei popoli sottomessi delle province in termini che tutti potessero comprendere. In questo Roma è erede diretta delle strategie visive già invocate dai sovrani ellenistici, come ad esempio i Tolomei in Egitto. Ad ogni modo Roma è da ritenersi correttamente come l’ultima e la più grande monarchia ellenistica: il suo potere e il suo dominio furono, di gran lunga, più estesi e più duraturi di ogni altro impero mediterraneo precedente.
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Il classicismo romano o l’eclettismo degli stili La commistione degli stili disponibile nella stessa Roma è ben esemplificata da due opere databili attorno al 50 a.C., entrambe della tarda età repubblicana, ed indicative della tradizione visiva che si sarebbe profondamente sviluppata durante l’età imperiale. L’atleta nudo firmato dall’artista Stephanos (discepolo di Pasitele), attualmente a villa Albani, è una versione in marmo di grande maestria di un probabile originale bronzeo greco. Esso evoca con grande evidenza lo «stile severo» dell’arte greca degli inizi del v secolo, in modo apertamente classicistico. Non solo lo stile e la forma, ma anche il soggetto (derivati dagli atleti greci), evidenziano l’ossequio tributato al canone artistico di provenienza straniera fattosi romano con il collezionismo degli originali (come il Trono Ludovisi) e la produzione di copie come questa statua. Stephanos (o il suo committente) fece una specifica scelta artistica selezionando uno stile che non era né «arcaico», né «tardo-classico», né «barocco ellenistico». Opere in tutti questi stili sopravvivono dalla tarda repubblica al primo Impero, tutti da contesti domestici elitari e ville più o meno simili a quello al quale, si presume, apparteneva l’atleta di Stephanos. L’opera di Stephanos è una delle numerose copie del tutto simili di originali perduti, alcune isolate, come questa, e altre combinate con statue differenti per creare nuovi gruppi tematici.
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La cultura «della copia» – forse meglio definibile come un sistema creativo di produzione di tutte le possibili varianti in un catalogo di prototipi canonici – implica l’esistenza di un largo commercio di tali oggetti con un gusto raffinato che ambisce al possesso di opere d’arte d’influenza greca. L’arte della copia raggiunse il suo apogeo nel ii secolo d.C. con opere famose come l’Apollo del Belvedere, per proseguire con successo nel iii, quando l’artista Glicone firma la sua versione grandiosamente barocca del tipo dell’Ercole – già affrontato da Lisippo, celebre scultore del iv secolo a.C. – nel cosiddetto Ercole Farnese, proveniente dalle Terme di Caracalla. Esempi magistrali di questa tendenza classicista, radicata in molta dell’arte greca precedente, si trovano al più tardi ancora nel iv e v secolo d.C.: dallo splendido gruppo di statue del iv secolo rinvenuto sull’Esquilino a Roma e ora a Copenaghen, ai ritrovamenti disseminati tra la Francia meridionale, Cartagine, Alessandria, Antiochia e Amman. Il fatto che tali versioni moderne di modelli greci stessero fianco a fianco con i numerosi originali importati a Roma (come il Trono Ludovisi), indica che si era svilpuppata una competenza da conoscitore
presso i ceti sociali più elevati, che dovevano essere perlomeno in grado di distinguere tra le due serie di immagini collezionandole entrambe. Di contro, il ritratto maschile trovato vicino a Otricoli, ora nel Museo Torlonia a Roma, sembra sfidare tutti i principi di idealizzazione del classicismo dell’atleta di Stephanos. All’incirca dello stesso periodo, combina lo sguardo frontale con un’attenzione alquanto innaturale per le rughe e l’invecchiamento del volto. Lo stile di questa immagine – e di altre simili – è solitamente definito «veristico», e comporta un’attenzione per l’individualità spinta fino alla bruttezza, per l’indagine analitica dei minimi dettagli facciali e una predilezione per un tipo di viso emaciato, apprezzabile nelle maschere funebri in cera (imagines) che affiancavano il corteo funebre e venivano custodite in appositi santuari di famiglia, come parte del culto degli avi. Il suo iperrealismo non è meno ideologico, né meno idealizzante del classicismo delle emulazioni dell’arte greca. Esso evoca gli austeri valori repubblicani di rusticità e gerarchia, quando le idee politiche patrizie e l’audacia militare erano associate a occupazioni rurali concrete come l’agricoltura (come
12. Ara di Domizio Enobarbo, particolare, dal Campo di Marte, Roma. Marmo, 100 a.C. ca. Museo del Louvre, Parigi.
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13. Arco di Costantino, con rilievi scultorei di epoca anteriore, 315 d.C. Roma.
in molti dei miti romani narrati nelle Storie di Livio). Al servizio di questa ideologia romana, che contrastava con le implicazioni dell’atletismo e dell’attività ginnica greca, per non parlare della (omo)sessualità evocata da giovani nudi come l’atleta di Stephanos, si impiegarono abilmente le tecniche ellenistiche dell’iperrealismo grottesco (esse stesse sviluppatesi originariamente per creare esuberanti opere di genere nelle corti ellenistiche) per rispondere a un bisogno culturale specificamente romano. Questo tipo di ritratto, spesso considerato come un fondamentale apporto romano alla storia dell’arte, di radice italica, sopravvisse a lungo oltre la Repubblica. Si ritrova nella ritrattistica imperiale di Vespasiano alla fine del i secolo d.C., nei volti splendidamente espressivi degli imperatori del iii secolo, come
Traiano Decio o Filippo l’Arabo, nei ritratti in porfido simili a maschere degli imperatori della Tetrarchia alla fine del iii secolo, come nelle opere d’arte patrocinate da liberi cittadini e classi popolari in tutto l’Impero. Il convergere di approcci così differenti al visivo all’interno di un unico contesto culturale è forse la caratteristica distintiva dell’arte romana. Un tipo d’uomo come quello raffigurato nel patrizio Torlonia – un senatore, come Cicerone ad esempio – avrebbe potuto non di meno collezionare opere come l’atleta di Stephanos. Due ideologie apparentemente contraddittorie (tenendo conto delle invettive dei retorici morali romani del i secolo prima e dopo Cristo, rivolte contro tutto quanto fosse greco) sembrerebbero coesistere, in pratica, sia nei gusti che nelle scelte estetiche dei sin-
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goli, sia negli stili impiegati nei monumenti. Uno dei più importanti monumenti pubblici tardo-repubblicani, la cosiddetta Ara di Domizio Enobarbo – forse commemorativa di una cerimonia pubblica come il censo, o forse in origine impiegata come base per un gruppo statuario –, mescola stili piuttosto differenti e persino tipi di pietra. I rilievi del monumento sono attualmente divisi tra Monaco e Parigi. I bassorilievi di Monaco, scolpiti in marmo bianco con venature azzurre proveniente dalla Grecia orientale, presentano un corteo tipicamente ellenistico di creature marine che celebrano il matrimonio tra Poseidone e Anfitrite. Il bassorilievo di Parigi, scolpito in un marmo diverso, non raffigura una danza mitologica, ma un evento civico, storico, il censimento, accompagnato dal rituale della lustratio e dal sacrificio suovetaurilia a Marte. Mentre i rilievi di Monaco uniscono al moto drammatico la rigorosa adesione alle «regole» illusionistiche, quello di Parigi trasmette una sensazione di quiete ed anche di solennità documentaria, eliminando ogni elemento di scala naturalistica e preferendo piuttosto indicare l’importanza delle singole figure attraverso le loro dimensioni. Questo contrasto stilistico – un fregio è chiaramente debitore del classicismo ellenistico mentre l’altro, in apparenza, è più radicato nella tradizione italica –, è stato preso a fondamento dell’arte romana. Tuttavia, si potrebbe osservare che tutti gli elementi di entrambe le serie dei rilievi dell’altare derivano di fatto interamente dalla tradizione greca (come nel caso del ritratto Torlonia), e che ciò che differenzia i fregi di Parigi e Monaco (ad esclusione dei materiali e dei soggetti) è la diversa scelta formale di orchestrare le figure in un insieme scultoreo. Entrambe le scelte – illusionistica o gerarchica, fantastica o più moderata – sono ugualmente romane. Gli studiosi si sono occupati del dualismo, o bipolarità, dell’arte romana, divisa tra ellenismo e tendenze stilistiche italiche (o, per adottare altre etichette, classicismo e anticlassicismo, corrente patrizia e plebea, spinte centripete e centrifughe). In tutti questi casi, più gli oggetti appaiono simili ad opere d’arte greca, tanto più sono classici,
patrizi, centrali; quanto meno aderiscono alle regole del naturalismo, tanto più sono plebei, provinciali o italici. Francamente, questa insistenza sul dualismo è troppo riduttiva e sarebbe meglio parlare di pluralismo di stili disponibili, la maggior parte dei quali influenzati in modo diverso dal classicismo, impiegati nella realizzazione di manufatti artistici estranei ai repertori della tradizione precedente. Non tutte le tradizioni confluite nel classicismo romano furono peraltro influenzate dal mondo greco. In modo diverso rispetto alla cultura visiva etrusca, i Romani svilupparono una passione per l’arte egizia rivale solo di quella europea del xix secolo. Questo interesse pluralistico nel collezionare e sperimentare, in molti modi, la varietà di cose che l’Impero poteva offrire è una caratteristica fondamentale della cultura romana. Lo si vede ugualmente nella varietà di religioni e iconografie religiose che finirono col caratterizzare ogni città dell’Impero, dalla capitale ai più distanti avamposti come Dura Europos in Siria, e non di meno negli stili dei monumenti romani e nei loro influssi. Ciò che risulta particolarmente sorprendente nell’Ara di Domizio Enobarbo è che l’eclettismo stilistico e visivo, così precoce negli esempi sopravvissuti di arte pubblica romana, si ritrova nella storia del rilievo ufficiale romano come, per esempio, la grande base della colonna di Antonino Pio, eretta attorno al 160 d.C. a Roma e ora in Vaticano, o nei rilievi dell’arco di Costantino che furono messi in opera nel secondo decennio del iv secolo. Nell’arco, monumento pubblico eretto secondo la tradizione dal Senato nel 315 in onore del conquistatore di Roma dopo la vittoria sul suo rivale, l’imperatore Massenzio, al ponte Milvio nel 312, vennero impiegati rilievi provenienti da monumenti dedicati a precedenti imperatori (in particolare dell’età di Traiano, Adriano e Marco Aurelio). Sia che fossero stati rimossi dalle loro collocazioni originarie per tale scopo, sia che fossero stati prelevati dai magazzini nei quali venivano conservati perché precedentemente danneggiati, questi materiali di reimpiego furono collocati accanto ai rilievi realizzati nell’età di Costantino, nonostante questi ultimi fossero profon-
14. Decorazione in stile egizio. Pittura murale, i secolo a.C. Tablino nero, Villa dei Misteri, Pompei.
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15. Mummia e ritratto di Artemidoro, da Hawara. Legno dipinto e parzialmente dorato, 100-120 d.C. British Museum, Londra.
damente differenti per stile. Si confrontino, ad esempio, due medaglioni con scene di caccia provenienti da un monumento celebrativo in onore di Adriano, dell’inizio del ii secolo d.C., con uno dei fregi del iv secolo che mostra l’imperatore mentre elargisce donativi alla popolazione di Roma. I due medaglioni – quello sulla destra mostra l’imperatore trionfante dopo la caccia con un leone morto steso sotto di lui, mentre quello di sinistra lo ritrae velato per sacrificare a Ercole – vennero eseguiti in modo apertamente naturalistico in uno dei periodi più classicisti in scultura, il regno di Adriano. Il panneggio, le pose, la relazione tra primo e ultimo piano, tutto obbedisce alla verosimiglianza. Il fregio sottostante, per contro, mentre il soggetto è del tutto tradizionale e riecheggia temi analoghi degli archi di trionfo di Traiano e Marco Aurelio, ne offre una trasposizione simbolica. L’imperatore al centro (ora privo della testa) siede rigidamente frontale in mezzo a un gruppo di consiglieri virtualmente identici, disposti simmetricamente intorno in file sovrapposte, al di sopra dei contenitori della sua benevolenza. Una serie di «finestre» nella parte superiore mostra funzionari mentre distribuiscono la munificenza imperiale. Le figure non sono in alcun modo realistiche, ma eseguite per rappresentare gli uomini in modo simbolico. La giustapposizione di questi rilievi – quelli realizzati appositamente e quelli formati da elementi di reimpiego – ha suscitato meraviglia tra gli artisti e gli storici dell’arte fin dal Rinascimento, ispirando molte pagine sulla decadenza delle arti a Roma (per i fregi del iv secolo), sul declino del gusto e della perizia tecnica. Tuttavia, il fatto è che l’eclettica cultura di assemblaggio dell’arco – trasmessa poi alle arti del Medioevo, che avrebbero impiegato pezzi originali antichi (spolia) all’interno degli edifici e nella produzione di oggetti preziosi – non è in realtà diversa da quella dell’Ara di Domizio Enobarbo o dal contrasto tra l’atleta di Stephanos e la testa Torlonia. Dalle sue radici repubblicane all’apogeo imperiale e alla tradizione cristiana, la cultura visiva dell’Impero romano mostrò un’avidità immensa di collezionismo e la giustapposizione delle differenze stilistiche.
La stessa varietà si ritrova nella dimensione domestica e privata. Uno dei grandi vantaggi (dal nostro punto di vista) dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., è il fatto che si siano preservate le eclettiche decorazioni delle case romane esattamente com’erano in quel momento. Si consideri ad esempio una villa suburbana vicina a Pompei. In una delle prestigiose stanze della cosiddetta Villa dei Misteri, oecus 6, è un fregio di grandezza quasi naturale, dipinto ad affresco all’incirca tra il 60 e il 50 a.C. Su un sontuoso sfondo rosso, una serie di figure si succede sulle pareti, in una complessa e ancora elusiva sequenza di scene tra loro connesse, il cui soggetto «misterioso» (e la possibile evocazione dei Misteri) dà il nome alla stanza e alla villa. L’affresco potrebbe rappresentare l’iniziazione al culto dionisiaco, o la preparazione della sposa alle nozze; potrebbe avere un significato profondamente religioso, o del tutto personale per i sui ideatori, oppure essere una decorazione particolarmente spettacolare. Le immagini mostrano scene di rituali oscuri (come, ad esempio, la rivelazione del fallo), creature non umane (come il demone alato che frusta una donna), come pure l’apparizione di Dioniso a Ariadne. Per quanto riguarda soggetti, stile ed esecuzione si è ritenuto che gli affreschi rivelassero la dipendenza da modelli greci. Tuttavia, sebbene le figure siano in sé dipinte abilmente secondo la tradizione naturalistica, non c’è nulla di realistico nel modo in cui si dispongono sullo sfondo rosso come se stessero per introdursi all’interno della stanza. Non si tratta di uno spazio in trompe-l’œil, di preteso illusionismo, ma piuttosto esse stanno tutt’intorno e delimitano la stanza, dominando l’osservatore. Per contro, due ambienti più in là rispetto all’oecus 6 (ma non distanti), costituiscono il cosiddetto «Tablino nero», decorato attorno all’ultima decade del i secolo a.C. Gli stili pittorici e il gusto sono mutati radicalmente nel volgere di una generazione, e il committente, lieto di conservare i vecchi affreschi dei Misteri nell’oecus 6, allo stesso tempo si compiace di esibire in una splendida successione di nere pareti lucide, il nuovo minimalista «ter-
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zo stile», con una zona superiore bianca, un mosaico pavimentale, pure bianco, e le decorazioni eleganti e squisite di sottili colonne e viticci che si delineano sul fondo nero. La zoccolatura a fondo nero è occupata da motivi di ispirazione egizia rappresentanti divinità – figure a colori eseguite con precisione, che appartengono alla fiorente tradizione romana dell’«egittomania». Come l’ossessione per la Grecia, così l’interesse visivo per l’Egitto si estese dall’importazione di opere d’arte originali, come gli obelischi giunti dopo la conquista di Cesare e Augusto dell’Egitto, attraverso la produzione di vari manufatti in stile egizio (dall’obelisco di Adriano in onore del suo favorito Antinoo, morto, alle sfingi e alle numerose altre divinità) sino a Roma tardoantica, dove ad esempio tra le incrostazioni in opus sectile di marmi e pietre dure della basilica di Giunio Basso è un fregio con divinità egizie e altri personaggi che accompagnano la scena della morte di Ila tra le ninfe. Certamente si può considerare che la giustapposizione di stili che si riscontra in questi due ambienti – ciascuno dei quali si riferisce in modo eclettico e con grande abilità a stili e temi di una differente tradizione culturale, in ogni caso più antica e venerabile di Roma – sia semplicemente indicativa di diverse date d’esecuzione e di un cambiamento nel gusto. Ciò non tiene però conto dell’effetto complessivo, senza dubbio intenzionale, offerto dalla presenza nella stessa casa di elementi differenti dal punto di vista culturale e stilistico – almeno quando le decorazioni di gusto egizio si aggiunsero al già ricco repertorio decorativo dipinto della villa. Nell’ambito privato (dell’élite patrizia, presumibilmente) e nella pittura, come nell’ambito pubblico dei rilievi ufficiali e nella produzione di scultura per il mercato, ciò che stupisce è la diversità e l’eclettismo dell’arte e del gusto. In altri esempi pittorici, come gli affreschi della villa scoperta vicino alla Farnesina a Roma, databili attorno al 20 a.C., straordinari tipi figurativi di provenienza eterogenea, comprese divinità egittizzanti, paesaggi di tradizione ellenistica, soggetti
mitologici, cicli narrativi e singolari pastiche di elementi tratti dalla pittura ateniese su fondo bianco del v secolo, sono giustapposti all’interno di un unico campo visivo sui muri di una serie di ambienti. Questo sincretismo visivo non è esclusivo di Roma, ma si trova anche altrove. Si prenda la mummia di Artemidoro, trovata a Hawara, in Egitto, nel 1888 e ora al British Museum. Il corpo è in stucco dipinto, mentre le scene figurate, dorate e realizzate in stile egizio antico, rappresentano riti funerari della tradizione egiziana, secondo i quali Artemidoro venne sepolto. Il volto però è uno squisito ritratto di tradizione greco-romana, eseguito con colori a encausto di cera su una tavoletta di legno, che sembra catturare i lineamenti del defunto con una vibrante immediatezza raramente raggiunta in seguito nella pittura fino al Rinascimento. L’iscrizione in greco dice «Addio Artemidoro». Questa mummia con un ritratto romano (o si tratta piuttosto di un ritratto funerario romano collegato a una mummia?) rappresenta uno straordinario esempio della dimensione multiculturale stilistica e religiosa del mondo romano. Questa tendenza multiculturale, caratteristica di un’identità che attraversa tradizioni profondamente diverse tra loro, permea sia i temi, sia il linguaggio figurativo dell’arte romana. Da un lato Artemidoro è estremamente lontano dai monumenti pubblici romani come l’Ara di Domizio Enobarbo, l’Ara Pacis Augustae e la Colonna Traiana. Ma il localismo radicato nelle pratiche religiose e nel culto tipicamente egizio è esso stesso una significativa lezione della necessità di resistere a generalizzazioni che enfatizzino il ruolo del centro. Come si è visto, anche le opere d’arte di Roma e di Pompei erano largamente eclettiche nei riferimenti a prototipi non metropolitani. La straordinaria mescolanza di modelli figurativi disponibili nel mondo romano, il pluralismo religioso e la competitività tra i culti nell’attrarre nuovi adepti, avrebbero fatto sorgere l’arte cristiana all’interno della tradizione romana.
Pagine seguenti: 16. Grande fregio con misteri dionisiaci: l’Iniziata e la menade. Pittura murale, 60-50 a.C. ca. Villa dei Misteri, Pompei. 17. Grande fregio con misteri dionisiaci: Lettura del rituale e preparativi per il sacrificio. Pittura murale, 60-50 a.C. ca. Villa dei Misteri, Pompei.
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Jas’ Elsner
1. Edicola, probabilmente di un battistero cristiano, da Dura Europos, Siria. 240 d.C. ca. Yale University Art Gallery, New Haven, Stati Uniti.
Il problema fondamentale dell’arte dei primi cristiani è, probabilmente, se possa essere considerata, almeno nella sua fase iniziale, una categoria del tutto distinta. Non c’è dubbio che dagli inizi del iii secolo, se non prima, è esistita una produzione d’arte, se non dei, almeno per i primi cristiani. Resta però, al fondo, un punto controverso stabilire quanto questa produzione fosse all’epoca distinguibile per qualche aspetto dalle altre arti di ispirazione religiosa del mondo greco-romano (compreso il giudaismo). È certo che alla fine del iv secolo si era ormai creata una cultura visiva esclusivamente cristiana, le cui radici potevano essere rintracciate nel passato. Ma questa azione di ritorno al passato era (e rimane) teleologica. Rilevanti problemi di definizione si pongono inoltre per la produzione artistica successiva alla Pace della Chiesa. Dobbiamo definire arte cristiana solo le immagini di iconografia cristiana? O tutte le immagini prodotte nell’impero cristiano, comprese quelle che mostrano divinità pagane e attività non religiose o di vita quotidiana? E includervi tutte le categorie tradizionali dell’arte romana – la ritrattistica onoraria, i monumenti e i rilievi pubblici e ufficiali, l’ornamentazione privata, dai sontuosi rivestimenti in marmo e dai pavimenti a mosaico alle molto più modeste stoviglie in terracotta? Un caso estremamente perspicuo in tal senso è costituito dal cofanetto di Proiecta, dal Tesoro dell’Esquilino (realizzato a Roma alla fine del iv secolo), che giustappone scene della vita dell’élite sociale, con la visita alle terme e una rappresentazione di una toeletta aristocratica, sullo sfondo di una vivace scena pagana di una Venere nuda al bagno, con un’iscrizione cristiana che
invita i proprietari del cofanetto a «vivere in Cristo». In questo contributo, potendo solo offrire poco più che una versione selettiva e personale dell’argomento, mi concentrerò ampiamente su immagini con soggetti cristiani, ignorando inevitabilmente l’ampia gamma di temi non cristiani, proseguiti (spesso in forme molto tradizionali) nel vi e vii secolo. Analogamente mi occuperò della produzione artistica piuttosto che dell’architettura o dell’urbanistica e quindi ignorerò un’area cruciale e creativa dell’innovazione cristiana nell’ambito della cultura materiale. Inoltre, dato che i soggetti cristiani erano in larga misura prodotti per mecenati o fruitori ecclesiastici, la mia analisi non prenderà in esame né la sfera privata (il mondo del cofanetto di Proiecta) né le arti ufficiali dell’élite senatoria, come pure della famiglia imperiale. La nascita dell’arte cristiana Alle origini il cristianesimo, nel periodo che precede Costantino e soprattutto nel iii secolo d.C., era solo uno dei tanti culti all’interno della vasta offerta di religioni del mondo romano, pluralistico sul piano religioso. Esse andavano dai culti misterici tradizionali (come i misteri eleusini) alle nuove religioni come il mitraismo o il cristianesimo, dai vecchi culti civili (ad esempio l’adorazione di Artemide Efesia) alle religioni tradizionali su base etnica come il giudaismo, o alle nuove versioni di culti tradizionali, come quelli di Iside o Giove Dolicheno. Tutte più o meno tollerate per la maggior parte di questo arco di tempo e con alcuni episodi di persecuzione nel caso del cristianesimo. Nessuna di esse, tranne
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alcuni casi in ambito cristiano e giudaico, si opponeva esplicitamente ai riti ufficiali dello Stato romano, che si esprimevano nel culto imperiale e nel sacrificio civile. L’arte era uno dei modi in cui questi culti si manifestavano, stabilendo un senso coesivo di solidarietà fra gli iniziati e incoraggiando forse i convertiti attraverso la singolare incomprensibilità di iconografie altamente simboliche ed esoteriche. Il iii secolo in particolare mostra una crescita spettacolare nella produzione artistica di questi culti, che attraverso le immagini asserivano competitivamente la loro identità. Si comprende meglio la produzione della prima arte cristiana se la si considera come un ulteriore episodio in questo complesso contesto. Per prendere un esempio della metà del iii secolo, la lunetta dell’aediculum della parete ovest del modesto edificio cristiano della città di frontiera di Dura Europos in Siria (datata al 240 d.C. circa), forse un battistero, raffigura Adamo ed Eva che prendono la mela e, sopra di loro, il Buon Pastore con il gregge. Questo esempio precoce di arte cristiana, eseguito in modo molto sommario, era sicuramente comprensibile solo agli iniziati. Chi altri avrebbe potuto interpretare le due figure nude accanto ad un albero come la storia della Cacciata, o il significato del Pastore come un tipo di Cristo, o il senso esegetico di un accostamento che implicava che la Cacciata avesse fatto precipitare la condizione umana, che avrebbe potuto essere redenta solo dall’Incarnazione? Questo complesso insieme di significati – basato sul metodo tipologico, nel quale le figure dell’Antico Testamento erano utilizzate per preannunciare e prefigurare eventi del Nuovo – ulteriormente complicato dalla presenza nel medesimo ambiente di un ciclo con altre scene. Lo stesso può dirsi delle scene, eseguite con molta maggiore abilità, di mitologia e storia ebraica che decoravano la sinagoga di Dura, all’incirca contemporanea. Il modo in cui l’interpretazione simbolica agisce nell’edificio cristiano (che possiamo comprendere solo perché, tra le nuove molteplici religioni della tarda antichità, il cristianesimo è trionfalmente sopravvissuto)
è diverso rispetto ai significati storici della tradizione ebraica individuabili nei dipinti della sinagoga di Dura. È però parallelo a tali immagini, come il grande dipinto di una tauroctonia, o uccisione del toro, nel mitreo di Santa Maria Capua Vetere in Campania, pure datato al secondo quarto del iii secolo. Qui Mitra, vestito con foggia persiana e con un copricapo frigio, uccide un toro bianco pugnalandolo al collo. Un cane lecca il sangue del toro, uno scorpione stringe i testicoli dell’animale e un serpente striscia al di sotto. A sinistra e a destra sono raffigurati i tedofori mitraici, Cautes e Cautopates, mentre al di sopra sono i busti del Sole e della Luna e sotto le teste di Oceano e Terra. Si tratta di una tra le dozzine di tauroctonie, tutte di iconografia simile, scolpite o dipinte, esistenti in tutto l’Impero; ma mentre nell’accostamento cristiano di Cacciata e Incarnazione possediamo una chiave scritturale per svelare alcuni dei significati che i contemporanei vi potevano individuare, nel caso del mitraismo non abbiamo più accesso ai significati di un’icona manifestamente simbolica, con potenziali riferimenti nella pratica rituale, in una perduta biografia sacra del dio, nel simbolismo astrologico, o in tutti questi insieme. Mentre è certo che l’arte cristiana è sorta, almeno in parte, dalla competizione tra i diversi culti, è possibile che differenti sette cristiane abbiano affermato le loro specifiche identità utilizzando immagini tra loro in concorrenza. Sappiamo che nella Roma del primo iii secolo le sette collegate al presbitero Ippolito e a papa Callisto – ubicate rispettivamente presso il Castro Pretorio e sulla Via Appia – decoravano con immagini i loro luoghi di culto. I seguaci di Ippolito eressero una statua di Ippolito (oggi molto restaurata), attualmente nella Biblioteca Vaticana, su cui sono incisi un calendario pasquale, tavole per il computo della Pasqua e un elenco delle opere di Ippolito. Per contro i seguaci di Callisto, a partire dal 220 d.C. circa, fecero scavare alcune catacombe decorate con scene bibliche (ad esempio Mosè, i miracoli di Cristo e il Buon Pastore), figure simboliche (come l’immagine del pesce) e immagini di
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2. Mitra tauroctonos, pittura murale, Mitreo, 225-250 d.C. ca. Santa Maria Capua Vetere.
scavatori, i fossores. Considerata la concorrenza fra questi gruppi, può essere che l’arte dei primi cristiani a Roma fosse un prodotto tanto del loro conflitto, quanto della più generale necessità di differenziare il cristianesimo dagli altri culti misterici. Sebbene nel periodo delle origini non vi fosse certamente un unico cristianesimo, diversificato o ortodosso, ma piuttosto molte sette che abbracciavano una vasta molteplicità di credenze e affermavano tutte di essere
cristiane, è anche vero che non è facile distinguere molti di questi «cristianesimi» dalle varie forme di politeismo pagano. Si consideri la Gemma Pereire, quasi certamente la più antica immagine cristiana della Crocifissione, forse della fine del ii o dell’inizio del iii secolo. Sul piccolo diaspro l’immagine di Gesù (nudo e con i genitali incisi in modo esplicito, a differenza di tutti gli esempi successivi) è circondata da una serie di iscrizioni magiche (su entrambi i lati della gemma) che sembra-
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no invocare il suo sacro potere proprio come avveniva, ad esempio, sugli amuleti di Iside. Potrebbe trattarsi di un oggetto cristiano, nel senso che le formule magiche venivano invocate da un fedele o da un proprietario cristiano. Ma potrebbe essere stata ugualmente commissionata da un pagano che desiderava appellarsi all’aiuto di una nuova divinità oltre a quelle del pantheon tradizionale. La fede religiosa del committente originario (anche nel caso si potesse ricostruire) non ci direbbe nulla sui successivi proprietari o fruitori, per non parlare del suo incisore. Un tale sincretismo è continuato nell’arte cristiana ben oltre il trionfo di Costantino. Nell’ambiente 79 delle grandi catacombe dei santi Marcellino e Pietro a Roma, ad esempio, datate al terzo quarto del iv secolo, immagini sulla stessa parete accostano Orfeo che suona la lira, Pietro che fa scaturire l’acqua dalla roccia, Daniele nella fossa dei leoni e la resurrezione di Lazzaro. Orfeo potrebbe essere «depaganizzato» se lo si interpretasse come una figura mitologica piuttosto che scritturale di Cristo, ma anche in questo caso non si tratta di un tipo nello stesso senso di Daniele. È possibile anche un’interpretazione sincretistica, che fa dell’ambiente una singolare fusione di motivi pagani e cristiani che evocano una gamma ugualmente bizzarra di credenze tra loro mescolate. Nella stessa catacomba vi è un ambiente (il 66) apparentemente decorato con atleti senza alcun significato cultuale evidente, mentre altre catacombe (la più famosa è quella della Via Latina) presentano iconografie pagane come le imprese di Ercole. Lo sviluppo dell’arte cristiana
3. Il Buon Pastore, pittura murale, 220 d.C. ca. Catacomba di Priscilla, Roma.
È comunque certo che nei tre quarti di secolo che separano l’editto di tolleranza di Costantino (313 d.C.) dagli editti di Teodosio che imposero il cristianesimo (380) e vietarono i sacrifici pagani (391), l’arte cristiana è stata fondata in senso proprio. Essa decorò ogni genere di edifici religiosi ufficiali, dai luoghi di sepoltura alle chiese; adornò l’intera gamma di oggetti legati al culto – dai paramenti
ai libri, dalle patene d’argento o di vetro ai cucchiai, alle pissidi per le ostie consacrate, ai reliquiari per rispondere alla crescita, improvvisa e a pioggia, del culto dei santi alla fine del iv secolo. E si diffuse nella sfera privata, con l’uso di invocazioni e monogrammi cristiani su ogni genere di oggetti non religiosi, dai cofanetti per la toeletta ai piatti da tavola, agli anelli e alle gemme di uso personale. Nulla può essere dato per scontato in questo periodo delle origini. Con lo sviluppo di specifiche iconografie per ogni storia cristiana, una molteplicità di approcci differenti emersero (così il Cristo senza barba rimase a lungo accanto alla versione barbata). Differenti centri di produzione a Oriente e a Occidente, con diverse sfere di influenza stilistica e formale, significarono una molteplicità di modi di formulare le idee cristiane nell’arte, tanti quanti ce n’erano in teologia (che viveva allora un periodo molto creativo). L’elemento tipologico che, come abbiamo visto, aveva caratterizzato i primi passi dell’arte cristiana nel battistero di Dura o nelle catacombe di Callisto, con il suo invito all’interpretazione teologica e al confronto tra motivi provenienti da contesti narrativi differenti, si amplia per inglobare accostamenti iconografici ancora più complessi, anche su scala monumentale. In un maturo sarcofago cristiano della metà del iv secolo, quello di Adelfia (realizzato probabilmente a Roma, ma ora a Siracusa), le due serie figurate della fronte, abbinate a una terza sul coperchio, danno vita a una grande rassegna di temi vetero e neotestamentari che circondano il doppio ritratto della defunta e del marito nel tondo centrale. Un’opera come questa colloca il corpo inumato nel sarcofago all’interno di una sinossi della Scrittura evocata e realizzata per immagini. Essa impone ai suoi osservatori il riconoscimento delle storie e la capacità di compararle e dare loro una sequenza teologica, piuttosto che, come naturale, narrativa. Dal punto di vista cronologico, la Natività, ad esempio, sulla destra del coperchio, precede immediatamente l’Adorazione dei Magi, che è stata sottratta al suo ordine narrativo per essere posta al centro,
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nella parte inferiore, sotto il medaglione con la coppia di sposi. Visivamente, la scena dei Magi sta fra il Miracolo di Cana (a sinistra) e la Tentazione di Eva (a destra). La prima Epifania della natura divina di Cristo è posta efficacemente accanto al suo primo miracolo e alla Cacciata, redenta dalla sua Incarnazione. Si tratta di un significato teologico altamente astratto, molto lontano dall’immediatezza narrativa da cui questi episodi derivano. Non è radicalmente diverso, nello spirito, dalla giustapposizione di Cacciata e Buon Pastore di Dura, ma è molto più complesso, in quanto include altri tipi narrativi e utilizza l’insieme dei significati come un dato preferenziale all’interno di una serie molto più ampia di analoghe comparazioni teologiche. A scala monumentale, in uno dei più antichi mosaici parietali cristiani superstiti, nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma (costruita da papa Sisto iii dal 432 al 440), è un ciclo di scene veterotestamentarie disposte in riquadri al di sopra delle arcate della navata maggiore. Molte di queste (come la Visione e l’Ospitalità di Abramo) sono magnifiche immagini narrative che attingono a schemi iconografici dell’arte greco-romana molto più antichi. Nell’insieme (originariamente vi erano 42 riquadri) costituivano una sinossi
estremamente efficace della Bibbia ebraica e dei suoi molteplici annunci di Cristo. Nell’arco trionfale l’enfasi sistematica attribuita alla venuta di Cristo e all’Incarnazione compie la promessa delle prefigurazioni dell’Antico Testamento con il racconto biblico della nascita di Gesù. In origine l’abside (distrutta nel xiii secolo) coronava entrambi i cicli narrativi con la celebrazione della Vergine Theotokos (Madre di Dio), forse in diretta relazione con il programma teologico formulato nel 431 dal Concilio Ecumenico di Efeso, proprio un anno prima che la chiesa fosse iniziata. In Santa Maria Maggiore un modello tipologico, che aveva costituito per il cristianesimo la rivendicazione della propria diversità rispetto alle altre religioni, oltre che un’affermazione delle radici ebraiche e del suo fondarsi su un canone scritto, è utilizzato a fini altamente politici e celebrativi e adattato alle esigenze decorative e alla struttura della basilica. Si conserva il programma tipologico di base di Dura o dei principali sarcofagi, ma invece delle immagini poste fianco a fianco per comparazione, tutti i temi dell’Antico Testamento sono confinati nella navata, mentre quelli del Nuovo fanno il loro ingresso nello spazio sacro del santuario. Ogni gruppo è coordinato per mezzo di una distribuzione
4. Sarcofago di Adelfia, marmo, probabilmente da Roma, 350 d.C. ca. Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi, Siracusa.
5. Il Santo Sepolcro e l’Angelo che annuncia la Resurrezione di Cristo alle due Marie, valva di dittico, probabilmente da Roma. Avorio, 400 d.C. ca. Civiche Raccolte d’Arte Applicata, Castello Sforzesco, Milano.
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narrativa o cronologica, ma insieme (l’uno di fronte all’altro) essi presentano un significato tipologico. La politica delle immagini in Santa Maria Maggiore risuona non solo rispetto al Concilio di Efeso (e alla scomunica di vari «eretici» che avevano opinioni diverse sul ruolo della Vergine, compreso il patriarca Nestorio di Costantinopoli), ma anche rispetto agli ebrei (contro i quali fu emanata una legislazione sempre più severa nei primi quattro decenni del v secolo), e come segno della ripresa di Roma dopo il sacco del 410 per opera di Alarico re dei Goti. La gestione politica dello spazio sacro, e la gloria che si poteva ottenere con gesti spettacolari di generosità episcopale o imperiale verso la Chiesa, non sarebbe mai più mancata all’arte cristiana. I grandi spazi – come la cupola mirabile, la dimensione colossale e gli arredi fastosi della chiesa giustinianea di Santa Sofia a Costantinopoli, oppure, nella stessa città, la straordinaria maestria della chiesa ora in rovina di San Polieucto, di poco precedente, ma sempre nel vi secolo, fondata da Anicia Giuliana, oppure l’immagine di paradiso sulla terra creata dagli straordinari mosaici del presbiterio dell’innovativa chiesa giustinianea di San Vitale, nella da poco riconquistata Ravenna (eretta alla fine degli anni ’40 del vi secolo) – testimoniano sia il desiderio laico di autopromozione sia l’impegno spirituale. Gli arredi erano sontuosi quanto gli edifici. Tra le rare testimonianze superstiti dei primi manufatti lignei ricordiamo le porte della chiesa di Santa Sabina sull’Aventino, a Roma, eretta nel 430 circa. Delle 28 formelle se ne conservano ora 18 (non più nella sequenza originaria di collocazione). Esse presentano i consueti accostamenti di scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, che individuano proprio all’ingresso nella chiesa le tematiche tipologiche del cristianesimo. Il tipo di porta decorata esemplificato in Santa Sabina è ben rappresentato in una placchetta, forse una valva di un dittico, probabilmente realizzata a Roma verso il 400 d.C. e ora a Milano. Vi è raffigurato il sepolcro di Cristo, con le porte aperte ornate con le scene della Resurrezione
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di Lazzaro e di Cristo che parla a Zaccheo, dinanzi al quale un angelo annuncia alle due Marie che Gesù è risorto. Nella parte superiore sono due soldati romani, atterriti dinanzi alla scena del sepolcro aperto, e i simboli degli evangelisti Luca e Matteo, il bue alato e l’angelo. La forma rotonda del sepolcro allude alla forma circolare della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, dove si era recata in pellegrinaggio la madre di Costantino, Elena, e che Costantino stesso aveva edificato. I riferimenti ai luoghi sacri di Terra Santa in opere così prestigiose realizzate in Occidente (un altro esempio è il mosaico absidale nella chiesa di Santa Pudenziana a Roma, della fine del iv secolo) rendono omaggio all’immenso significato teologico della Palestina e dei Loca Sancta nel periodo delle origini. Questa notevole placchetta d’avorio – parte di un gruppo di avori di squisito intaglio, realizzati tra la fine del iv e l’inizio del v secolo – era probabilmente utilizzata durante la liturgia. Una delle aree-chiave per l’innovazione artistica del primo cristianesimo è costituita dalla decorazione del libro. I cristiani stessi furono i responsabili del passaggio dal rotolo di papiro al codice di pergamena nella produzione libraria – trasformazione tecnologica fondamentale che ebbe luogo in gran parte nel iv secolo (analoga, per l’impatto che avrebbe avuto sulle abitudini di scrittura e lettura, all’invenzione della stampa nel Rinascimento e del computer nel xx secolo). Il codice, un libro manoscritto di forma molto simile a quelli che usiamo oggi, è molto più efficace del rotolo per leggere ad alta voce brevi passi della Scrittura per scopi liturgici, passando da un testo all’altro, invece di seguire un’unica linea narrativa. L’uso di tali letture liturgiche era rigorosamente parallelo a quello della tipologia figurativa, accostando passi di narrazione a livello acustico, udibili dall’assemblea dei fedeli, invece di immagini da contemplare sul piano figurativo. Abbastanza rapidamente gli esempi più sontuosi di questi libri – con pagine tinte di porpora e caratteri vergati con inchiostro d’oro (come nel frammento di Sinope del
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secolo ora a Parigi) o d’argento (come nell’Evangeliario di Rossano o nella Genesi di Vienna, entrambi del vi secolo) – sarebbero stati miniati in modo straordinario per dare vita ai testi scritturali con la profusione delle illustrazioni. Si consideri, ad esempio, un manoscritto scritto in siriaco dal monaco mesopotamico Rabbula nel 586, ora a Firenze. L’immagine dell’Ascensione mostra Cristo trionfante, portato in cielo dagli angeli, mentre la Vergine e gli Apostoli sono nella parte bassa. Questa scena va oltre la semplice illustrazione del testo di Atti degli Apostoli 1,2-11, con l’aggiunta di una esegesi visiva (che comprende ad esempio le figure della Madonna e di san Paolo – a sinistra, con la testa calva – non menzionate nel racconto scritturale). L’immagine, creata nella Siria cristiana, ha risonanza al di là della sua collocazione sulla pagina a illustrazione di un testo e diviene un’evocazione del luogo reale sul monte degli Ulivi nella non lontana Palestina, dove l’evento stesso era celebrato in una basilica fatta costruire da Costantino. In un’iconografia non del tutto irrelata con la pagina di Rabbula, l’immagine dell’Ascensione venne diffusa in Terra Santa alla fine del vi secolo come sacra superficie decorativa per le ampolle (o fiaschette) realizzate in stagno e vendute come souvenir per i pellegrini. Erano prodotte in serie martellinando le due metà sullo stampo e saldandole insieme, e venivano poi riempite di olio santo. La maggior parte recano l’iscrizione: «olio del legno della vita dai luoghi santi di Cristo». Due collezioni molto precoci di questi ricordi di pellegrinaggio relativamente poco costosi – una conservata con cura e visibile nel corso dei secoli nel Tesoro del duomo di Monza (al quale furono donate dalla regina longobarda Teodolinda all’inizio del vii secolo), l’altra seppellita come insieme di reliquie sacre nella tomba di san Colombano, il controverso santo irlandese, a Bobbio, in Italia settentrionale, nel 615. Entrambi i gruppi di ampolle presentano decorazioni che si riferiscono non solo a diverse storie bibliche (la Natività, la Crocifissione, la Risurrezione e così via), ma anche ai luovi
6. Mosaici del presbiterio e della conca absidale, 532-548 d.C. Basilica di San Vitale, Ravenna.
ghi della Terra Santa in cui questi eventi erano celebrati e dove si può immaginare che la particolare fiaschetta con l’immagine appropriata fosse stata acquistata. Dopo avere compiuto il lungo viaggio verso l’Italia, questi oggetti relativamente economici erano divenuti reliquie sante, evocazioni della lontana Palestina non solo per le immagini e la provenienza, ma anche e soprattutto per l’olio santo che contenevano. Esse divennero abbastanza preziose da costituire la donazione prestigiosa di una sovrana o venire sepolte accanto a un corpo santo. Dal punto di vista iconografico, le immagini su questi oggetti senza pretese sono complesse. Può darsi che esse riflettano grandi immagini (cicli musivi o pitture) di chiese importanti, come la perduta basilica costantiniana dell’Ascensione, ma ciò non è necessariamente vero. È più semplicemente possibile che nel vi secolo lo sviluppo dell’iconografia cristiana fosse tale che perfino oggetti relativamente poco costosi e prodotti in serie, come anche i manoscritti estremamente preziosi, potessero condividere un repertorio figurativo molto articolato di fronte al quale il fedele cristiano sapeva subito riconoscere la narrazione sacra evocata. Il sorgere delle arti di pellegrinaggio a partire dalla fine del iv secolo pone il problema dell’esistenza di una cultura devozionale più personale o privata accanto alle basiliche grandiose e alle chiese ufficiali. Oltre alla diffusione delle interpretazioni teologiche attraverso la tipologia figurativa e all’insegnamento della Scrittura agli analfabeti attraverso le narrazioni visive, sorge un nuovo mondo di immagini sotto forma di oggetti di culto. Questo aspetto devozionale nelle arti del primo cristianesimo doveva dare origine, entro la fine del v secolo, a uno dei contributi più peculiari dell’arte cristiana alla storia dell’arte occidentale in generale, la nascita dell’icona. Si consideri la straordinaria tavola del vi secolo con la Vergine in trono, dipinta a encausto, forse a Costantinopoli, ritrovata negli anni ’50 del xx secolo nel monastero di Santa Caterina sul monte Sinai. La Madonna, ancora raffigurata con un cer-
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to naturalismo classico, è seduta su un trono dorato con un cuscino rosso. Con un leggero accenno di «contrapposto» antico, il suo ginocchio destro orienta l’osservatore verso sinistra, mentre lo sguardo punta verso destra. Il Cristo bambino in grembo esalta questa dinamica visiva, in quanto guarda verso destra, ma tiene le gambe a sinistra e stringe un rotolo nella mano sinistra. Ai lati della Vergine sono due santi intercessori – non identificati da iscrizioni, ma probabilmente i santi Teodoro e Giorgio – che recano croci e guardano diritto davanti a sé oltre l’osservatore. Come la Vergine e il Bambino questi santi sono dipinti con una ricca tavolozza di colori che indica la loro esistenza terrena. Dietro, per contrasto, compaiono due angeli dipinti in toni fantasmatici di bianco e oro; essi guardano in alto verso la mano di Dio e il raggio di luce che scende dalla parte inferiore di una sfera divina e fluisce sulla Vergine e il Bambino. Si tratta di un’immagine meravigliosamente complessa che fonde lo splendido naturalismo di base delle posture dell’angelo e dell’atteggiamento della Vergine con l’astrazione iconica dei santi. L’immagine costruisce visivamente una gerarchia trinitaria del cielo dove la mano di Dio e il raggio dello Spirito Santo discendono sul Figlio e sulla Madre, mentre i santi terreni – attraverso il loro sguardo diretto e la posizione in primo piano – offrono all’osservatore devoto la possibilità di intercedere presso il mondo divino della Vergine e degli angeli che essi delimitano. Una grande icona come questa (quasi 70 x 50 cm) era utilizzata nelle processioni e nelle occasioni pubbliche di venerazione. Ma era anche disponibile per gli atti privati di devozione, baci, offerte, prosternazioni. Altre icone analoghe – ma più piccole – erano usate esclusivamente nella devozione privata. Questo complesso di immagini – per molti aspetti un’eredità diretta dell’adorazione delle statue (grandi e piccole) del paganesimo e dell’uso dei sacrari (in casa come per i rituali civili) – può avere preoccupato alcuni teologi, soprattutto nell’viii e nel ix secolo durante il periodo dell’iconoclastia bizantina, ma
ha rappresentato il modo più efficace in cui l’arte cristiana è giunta a soddisfare i bisogni devozionali dei cristiani. Esso ha trasferito la devozione dagli «idoli» tridimensionali del paganesimo alle tavole bidimensionali predilette dal cristianesimo delle origini e da quello bizantino. Ebbe così origine la forma caratteristica della tavola, che avrebbe non solo contraddistinto la produzione delle icone dell’Oriente bizantino, ma anche dominato l’arte devozionale in Italia di tutto il Medioevo e del Rinascimento.
7. La Vergine in trono tra i santi Teodoro e Giorgio. Pittura a encausto su tavola, vi secolo. Santa Ctaerina sul monte Sinai. 8. Ascensione, Evangeliario di Rabbula, fol. 13v. Miniatura, 586 d.C. Biblioteca Mediceo-Laurenziana, Firenze.
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1. Horus a cavallo che uccide il coccodrillo. Pietra calcarea, iv secolo d.C. Museo del Louvre, Parigi.
Sin dal momento della sua scoperta, l’arte copta, quella cioè dei cristiani d’Egitto prima e dopo la conquista araba (641), ha dato luogo a molte interpretazioni inesatte. Le ragioni principali di queste incomprensioni sono, da un lato, l’animosità esistente fra le Chiese copta e bizantina e, dall’altro, il numero limitato, fino ad epoca recente, di pubblicazioni non solo sull’arte copta, ma anche su quella della periferia orientale del mondo bizantino. Ora, l’Egitto fa parte di questa periferia proprio come la Nubia, l’Etiopia, la Siria e la Palestina, nonché la Georgia e l’Armenia. Tutti questi paesi sono o antichi possedimenti bizantini, oppure zone in cui la vita culturale è stata dominata nel suo complesso dalla brillante civiltà sviluppatasi sulle rive del Bosforo. Inoltre, nel medioevo, i programmi e gli schemi iconografici di tutta quest’area sono stati fra loro simili e al tempo stesso differenti rispetto a quelli di Costantinopoli, ripresi nei Balcani e in Russia, cosa che fa dell’arte figurativa dell’Oriente cristiano una sorta di entità a sé. La tradizione artistica dei Copti d’Egitto, di cui qui ci occuperemo, va dal vi al xiii secolo, anche se prenderemo in esame alcune opere del iv-v secolo che, pur appartenendo alla tarda antichità, presentano caratteri particolari e, a volte, importanti per il futuro. Fra l’epoca faraonica e il vii secolo, l’Egitto fu occupato in successione dai Greci, dai Romani e dai Bizantini (fino al 641). Ciononostante la lingua copta rimase viva fino al xiii secolo quando, estromessa dall’arabo, servì solo alla celebrazione del culto. La dottrina cristiana penetrò in Egitto prima della fine del ii secolo e Panteno fondò verso il 190 la scuola di Alessandria; Origene (185-253)
ne proseguì l’opera col successo che è noto. Ufficialmente cristianizzato contemporaneamente a Bisanzio, l’Egitto copto fu la culla del monachesimo cristiano, poiché qui vissero i primi eremiti con Paolo di Tebe nel iii secolo, quando le persecuzioni di Decio spinsero molti a fuggire nel deserto. Di lì a poco, verso il 323, sant’Antonio fondò il primo monastero. Una vera organizzazione di queste comunità attraverso una regola e una gerarchia precise risale a san Pacomio (349 ca.). Il nuovo ideale cristiano conquistò la Cappadocia per opera di Basilio di Cesarea, e Ilarione lo diffuse in Palestina. In questo periodo esso si poneva in antitesi rispetto al cristianesimo greco, sorto nell’ambiente dei nobili, divenuti alti dignitari ecclesiastici, ma non a quello dei monaci incolti di origine rurale, come nel caso dell’Egitto. Dopo l’editto di tolleranza dell’imperatore Gallieno (260) furono costruite le prime chiese e, alla fine del iii secolo, l’Egitto contava un centinaio di vescovadi. A partire dal v secolo, la Chiesa copta si separò da quella bizantina opponendosi, con le Chiese siriaca, armena ed etiope, alle decisioni del Concilio di Calcedonia (451) che aveva proclamato il dogma delle due nature – divina e umana – di Cristo, indissociabili, «inconfondibili» ed equamente ripartite. A questo dogma si sostituì la dottrina monofisita, considerata eretica dai Bizantini, che dava il primato alla natura divina del Signore. La liturgia era ormai celebrata in copto. Era chiamata giacobita, e si distingueva dal rito greco per pochi dettagli senza una vera importanza dogmatica. Fondata da Alessandro Magno, la città cosmopolita di Alessandria fu all’inizio un celebre centro neoplatonico
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e divenne un fiorente punto d’incontro di cristiani, gnostici, uomini di cultura greci ed ebrei, fra i quali Filone, e infine seguaci del culto di Mitra. Il patriarca vi stabilì la propria sede e furono costruite molte chiese, delle quali però non resta quasi nulla. Per i loro edifici di culto i copti adottarono unicamente l’impianto basilicale, in genere a tre navate, non senza un collegamento con le sale ipostile dei templi faraonici, come nel caso di el-Achmunein (Hermapolis) o Abu Mena. Fino alle soglie dell’viii secolo queste costruzioni presentano frontoni spezzati, come quello di Abu Mena (San Mena), soldato martire sepolto secondo la leggenda nel deserto di Mariut, presso Alessandria, e rappresentato fra due cammelli – nota locale inserita in uno schema ispirato a quello di Daniele nella fossa dei leoni. Il frontone spezzato deriva dall’arte ellenistica del ii secolo, ma se ne distingue per una maggiore divaricazione fra i due blocchi laterali. Nella nicchia concava che si apre al centro, si trovano decorazioni scultoree – foglie d’acanto, croci, conchiglie e figure umane – che d’altra parte si incontrano anche sui capitelli e sui pilastri. Alcuni eleganti frontoni, come pure capitelli a canestro o di altre forme, sono conservati nel Museo Copto del Cairo Vecchio, al Louvre e al Museo delle Icone di Recklinghausen. Fra questi il Cristo benedicente del v secolo preannuncia quello delle absidi dipinte del vi-vii. In questo periodo temi cristiani sono ancora accostati a soggetti mitologici, come nel caso del frontone col trionfo di Dioniso della Dumbarton Oaks Collection a Washington (v secolo). I copti lavorarono anche l’avorio e il legno. Alcuni avori giustamente celebri sono incastonati nella cattedra offerta da Enrico ii (1002-1024) alla cattedrale di Aquisgrana. Va menzionato quello che rappresenta un cavaliere a caccia, incoronato da due angeli (vi secolo), perché ricorda i primi santi cavalieri che trafiggono con la lancia le personificazioni del male, tanto diffusi in Oriente. A differenza di quanto accade a Bisanzio, questi santi cavalieri sono raffigurati nella pittura murale copta a partire dal v-vi secolo e,
nelle altre regioni orientali, dal vi-vii secolo. Tuttavia questo avorio, come i santi cavalieri che si vedono nelle cappelle di Bawit, potrebbe avere un modello ancora più antico sul suolo egiziano. Una statuetta di Horus a cavallo, del iv secolo, nel Museo del Louvre, mostra la divinità con testa di falco che trafigge un coccodrillo con la lancia. Nell’arte cristiana, Horus diventerà un santo guerriero e il coccodrillo un drago. Tra i frammenti di pietra decorata, uno in calcare iridato di Medinet el-Fayyum con la Vergine che allatta (iv secolo), conservato agli Staatliche Museen di Berlino, è particolarmente interessante per la genesi di questo tipo iconografico, creato probabilmente in Egitto sul modello assai diffuso di Iside che allatta Horus. Lo si ritrova d’altra parte nel vii secolo nella decorazione dipinta del monastero di San Geremia a Saqqara. È giunto fino a noi anche un certo numero di tessuti istoriati di questo periodo. Queste stoffe, prodotte inizialmente in Cina, poi in Persia, sono state importate in Siria e in Egitto prima del iv secolo, e in seguito realizzate sul posto, soprattutto nelle città di Antinoe e Panopolis (Akhmin). Esse presentano veri e propri busti-ritratto entro cornici rettangolari, animali, scene evangeliche o mitologiche, generalmente eseguite nello stile antichizzante delle botteghe di Alessandria. Tuttavia alcuni pezzi più rari testimoniano un nuovo linguaggio plastico, come nel caso dell’icona della Madonna col Bambino del Museo di Cleveland (vi secolo): la Theotokos troneggia fra due arcangeli reggendo il Bambino in asse col proprio corpo; sopra di lei è l’Ascensione. Nella cornice si alternano motivi vegetali e medaglioni con busti di santi. L’icona dipinta su legno con il busto del vescovo Abramo degli Staatliche Museen di Berlino, e quella di Cristo con san Mena del Louvre, entrambe del vi-vii secolo, sono testimonianze preziose delle prime, rarissime immagini mobili non solo copte, ma anche bizantine. Esse corrispondono alla nascente estetica bizantina e all’ideale dell’asceta che aveva preso il posto di quello del bell’atleta dell’antichità.
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2. Veduta dei resti della basilica di san Mena, iv-vii secolo d.C. Abu Mena.
Pagine seguenti: 3. Cristo e san Mena, dal monastero di Bawit. Pittura a encausto su tavola, fine del vi-inizi del vii secolo Museo del Louvre, Parigi. 4. Ritratto funerario di giovane uomo, dal Fayyum. Pittura a encausto su tavola, 150 d.C. ca. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
I personaggi sono presentati frontalmente, immobili, impassibili, e i loro corpi scompaiono sotto le pieghe delle vesti. I volti nobili, di tipo orientale, ricordano i celebri ritratti funerari romano-egizi del Fayyum, anche se vi si osserva una nettissima tendenza all’astrazione, dovuta alla volontà di smaterializzare le forme del volto e del corpo e di ridurre l’importanza di quest’ultimo, essendo solo il viso capace infatti di esprimere gli slanci spirituali. Così gli occhi sono ingranditi e lo sguardo è fisso, concentrato, come per cogliere presenze invisibili. I nasi sono lunghi e sottili, le bocche piccole con le labbra serrate, i piedi e le mani rimpiccioliti. In Egitto questo stile, elaborato a Costantinopoli, è più schematico e generalmente privo di reminiscenze antiche; si nota anche una certa geometrizzazione delle forme, una voluta rigidezza e composizioni dominate da una rigorosa simmetria. Lo stile si evolverà poco durante il Medioevo, al contrario di quanto accade a Bisanzio e nel mondo slavo. Tuttavia, a partire dal x secolo, si manifesteranno influenze musulmane e armene.
La pittura murale bizantina realizzata nelle chiese si distingue dalle altre forme d’arte per due particolarità: è un’espressione artistica che si rivolge alla folla dei credenti – cosa che non avviene per i libri miniati, i tessuti, gli avori e altri oggetti – ed è in stretto rapporto con la liturgia. Queste due peculiarità ne determinano il carattere ufficiale e spiegano perché essa rispecchi al meglio lo spirito di un’epoca nel periodo d’influenza bizantina. Per tale motivo ci soffermeremo più a lungo. Dopo gli affreschi d’ispirazione popolare delle cupole della necropoli di el-Bagawat ( iv e v secolo) che appartengono ancora all’arte paleocristiana, quelli delle cappelle dei monasteri di Sant’Apollo a Bawit e di San Geremia a Saqqara (vi-vii secolo) sono d’importanza fondamentale per la storia della pittura copta e cristiana orientale. Il programma iconografico è già pienamente definito e cambierà pochissimo nel corso del Medioevo. L’abside, davanti alla quale si svolge la liturgia, è la parte più importante e più ricca di valori simbolici. È generalmente occupata dalla Visione Teofanica,
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che corrisponde all’interpretazione cristiana delle visioni dell’Eterno che ebbero i profeti dell’Antico Testamento, in primo luogo Ezechiele e Isaia. La composizione è più o meno ricca di elementi diversi: quella della cappella xvii può essere considerata come un esempio tipico. Vi si vede il Cristo in maestà benedicente e con il libro, entro una mandorla trapunta di stelle, fra il sole e la luna che dànno valore cosmico alla visione. I quattro animali citati dai profeti e ripresi dall’Apocalisse, dove sono chiamati zodia (Ap 4,6-8), emergono dalla gloria. Si tratta, naturalmente, del bue, del leone, dell’aquila e dell’uomo. Generalmente considerati simboli degli evangelisti, in Egitto erano oggetto di un culto particolare e la loro festa era celebrata il 4 novembre. Spesso sono rappresentati con le ali, come nella cappella, a causa di una confusione nei testi con i serafini di Isaia. Sotto la mandorla, ai piedi di Cristo, sono dipinte due ruote con notevole realismo. Non sono quelle della gerarchia angelica di cui parla Ezechiele (Ez 1,16-18), raffigurate in alcune teofanie con forme più astratte, ma un rimando al carro dell’Eterno, perfettamente riconoscibile nella cappella xxvi di Bawit. Nel registro inferiore dell’abside sono gli apostoli, nel mezzo dei quali è la Vergine orante, cosa che fa assomigliare lo schema iconografico nel suo insieme a una gigantesca Ascensione. In realtà non è così: se Maria appare coi discepoli sotto la Visione, è per ricordare, da un lato, l’Incarnazione e dall’altro il proprio ruolo di mediatrice che intercede per il genere umano; proprio per questo, infatti, ella è il simbolo della Chiesa. In molti casi la Vergine col Bambino prende il posto della Vergine orante, dimostrazione ulteriore del fatto che non si vuole raffigurare una «Ascensione simbolica», come hanno ritenuto alcuni studiosi, e che, tutt’al più, si può parlare di uno schema della Visione Teofanica contaminato con quello dell’Ascensione, associazione in parte giustificata dal fatto che i due eventi sono caricati di allusioni alla Parusìa. Infatti il ve-
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ro significato di questa rappresentazione è il trionfo definitivo di Cristo tra gli astri, le fiamme e, più tardi, gli angeli, nel momento della sua Seconda Venuta. Questo programma, con qualche variante, è diffuso in tutta la periferia orientale del mondo bizantino fin dal vii secolo, mentre è molto raro nelle zone che seguono la regola costantinopolitana. Alcune absidi, in particolare a Saqqara, adottano la stessa decorazione, ma il Cristo può essere raffigurato anche a mezzo busto e, a volte, sostituito dalla Vergine col Bambino. Sulle pareti si ergono quasi ovunque santi in piedi, in posizione frontale. Malgrado l’occupazione musulmana, i copti nel Medioevo erano molto meno isolati di quanto si sia a lungo creduto. Le affinità di moltissimi schemi iconografici con quelli della Siria e della Cappadocia dimostrano invece che i contatti fra i monaci delle diverse regioni dell’Oriente bizantino erano frequenti. Il programma absidale con la Visione Teofanica resta quasi invariato per tutto il Medioevo, ma i registri inferiori sono raramente conservati. La chiesa nord del monastero dei Martiri (Deir al-Chohada), decorata nel 1148, presenta il Cristo in trono che regge il libro con la sinistra e benedice con la destra alzando il braccio molto in alto, come i trionfatori romani. Questo gesto, di origine siro-babilonese, aveva un significato magico e apotropaico. Nelle Teofanie orientali esprime sia la vittoria di Cristo sia la protezione che Egli concede alla comunità dei fedeli. Nella nostra chiesa la gloria del Signore emana una luce rossa perché l’Eterno è apparso ai profeti tra le fiamme (Ez 1,26-27); è anche incorniciata da una fascia trapunta di stelle nella quale s’iscrivono il sole e la luna. Dalla mandorla emergono le ali ocellate dei quattro animali, mentre ai lati del nodo centrale sono rappresentati due arcangeli in atteggiamento orante. Un po’ più in basso, in due piccole trombe, sono due busti di santi in preghiera e, nel registro inferiore, la Vergine col Bambino (scomparso) fra due angeli.
A sinistra di quest’abside se ne apre un’altra che presenta uno schema quasi identico nel catino, salvo che gli arcangeli in preghiera sono per metà genuflessi e che una parte della figura di Cristo è scomparsa. Sotto il gradino del trono linee ondulate e pesci indicano le acque vivificanti e pescose dell’Antico Testamento (Ez 48,1-10; Ez 12,3; Zc 14,8) ricordate anche dall’Apocalisse, dove si parla del mare di cristallo (15,2) e del «fiume di acqua viva» (Ap 22,1). Nella chiesa di San Mercurio (Deir el-Akhmar) al Cairo Vecchio, affrescata nel 1301, lo schema descritto per il monastero dei Martiri è arricchito dalle figure dell’ordine angelico delle ruote. Sotto i piedi di Cristo è il versetto di Isaia (66,1), scritto in copto, «il cielo è il mio trono e la terra lo sgabello dei miei piedi»; ma è stato aggiunto l’ordine angelico delle ruote infuocate, che secondo Ezechiele (Ez 1,16-18) erano quattro e tutte della stessa forma. Nella chiesa di Abu Seifein, sempre al Cairo Vecchio, riprende lo schema con la Vergine orante fra gli apostoli nel secondo registro che ricorda da vicino la decorazione di Bawit. Nel monastero di Sant’Antonio, più precisamente nella chiesa principale che porta lo stesso nome (1232-1233), s’incontra
5. Santi, particolare dei dipinti della cella A del convento di San Geremia, Saqqara. Pittura murale, vii secolo. Museo Copto, Il Cairo.
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6. Vergine col Bambino e santi, particolare dei dipinti dell’abside della sala 6, dal monastero di Sant’Apollo, Bawit. Pittura murale, vi-vii secolo. Museo Copto, Il Cairo.
un programma di grande coerenza; la decorazione dell’abside è indissociabile da quella della cupola e dello spazio sottostante chiamato haikal (santuario). La conca absidale è occupata da Cristo in trono entro una mandorla, circondato dai quattro viventi, dai grandi luminari e da due angeli adoranti. Sotto i piedi di Cristo è, scritto in copto, il versetto di Isaia (66,1): «il cielo è il mio trono e la terra lo sgabello dei miei piedi». Nel secondo registro sta la Vergine col Bambino assisa tra due angeli. La decorazione della cupola corrisponde quasi del tutto a quella delle chiese che seguono la regola costantinopolitana: vi è infatti rappresentato il Cristo Pantokrator, Signore dell’universo, in un medaglione sorretto da quattro angeli che si alternano alle quattro figure del tetramorfo. Questi ultimi, ispirati alle visioni profetiche, sono piuttosto rari a Bisanzio. Sempre nella cupola, sotto questa raffigurazione, sfila un corteo di angeli affrontati. Più in basso, i Ventiquattro Vegliardi coronati che recano calici d’oro si dispongono intorno all’ottagono.
Sono i Ventiquattro sacerdoti incorporei, assisi attorno all’altare di Dio, come spiega il sinassario copto: «Essi pregano per il genere umano e offrono a Dio le preghiere dei santi come soavi profumi». Il sinassario si basa a sua volta sull’Apocalisse di Giovanni (4,4; 4,9; 5,8; 7,11; 11,13). Un apocrifo copto ne spiega la collocazione in Sant’Antonio col fatto che essi si presentano nell’atto di celebrare la liturgia divina in cielo, in altre parole, nella cupola che ne è il simbolo. In Egitto i Ventiquattro Vegliardi sono celebrati il 20 novembre; li troviamo eccezionalmente in Cappadocia, ma non sono mai rappresentati a Bisanzio. Nella nostra chiesa i Vegliardi sono accompagnati, negli angoli, da quattro scene veterotestamentarie che prefigurano l’eucaristia. Si tratta di Isaia purificato dal serafino (Is 6,1-7), molto frequente in Cappadocia, di Melchisedek visitato da Abramo al quale il re-sacerdote tende un calice, del sacrificio di Isacco e di quello di Iefte (Gdc 11). Questo programma si collega a un canto lirico che è anche una preghiera. Si tratta di una Visione Teo-
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fanica con un richiamo all’Incarnazione e alla celebrazione nei cieli di una liturgia a gloria di Cristo onnipotente al quale si rivolge, attraverso l’intercessione dei Ventiquattro Vegliardi, una supplica per il perdono dei peccati degli uomini. La Chiesa terrena risponde a questa preghiera con la liturgia, al centro della quale sta il mistero eucaristico, già preannunziato dall’Antico Testamento. Un’altra versione, più antica, dei Ventiquattro Vegliardi si trovava un tempo nel monastero di San Simeone (Deir Anba Siman) ad Assuan (ix-x secolo). I Vegliardi erano raffigurati incoronati, con in mano non delle coppe ma dei libri, ciascuno dei quali recava una lettera dell’alfabeto. Quest’ultima particolarità trova riscontro in un antichissimo commento, citato da Andrea di Cesarea, che troviamo illustrato anche in Cappadocia. In questo i Vegliardi sono considerati la personificazione della conoscenza: «Essi si distinsero tanto nell’azione che nella conoscenza». A partire dall’ xi - xii secolo, la Visione Teofanica non è più l’unico soggetto destinato all’abside. Come nelle altre zone della periferia orientale, vi si rappresenta anche la Deesis, cioè la preghiera d’intercessione che la Vergine e san Giovanni rivolgono a Cristo perché perdoni le colpe del genere umano. Tuttavia, malgrado questo contenuto specifico, la Deesis non è un’immagine completamente indipendente né in Oriente né, tanto meno, in Egitto. Infatti il campo pittorico è quasi interamente destinato a Cristo in trono e ai quattro animali, mentre la Theotokos e il Precursore, molto più piccoli, si trovano ai lati. Una decorazione del xii secolo rivela la genesi di quello che sarà lo schema della Deesis, per lo meno in Egitto: nell’abside settentrionale del monastero Bianco (1124), presso Sohag, decorata da un pittore armeno (iscrizione), si trova una Visione Teofanica simile a quelle che già conosciamo (a parte l’aggiunta di quattro medaglioni con gli evangelisti); ma nell’arcone, all’altezza della testa di Cristo, entro due medaglioni, sono i busti della Vergine e san Giovanni
in preghiera. Nell’abside meridionale (xiii secolo) essi si trovano nel catino, ma il resto dello schema è atipico, poiché la croce e gli strumenti della Passione hanno preso il posto del Cristo. La composizione, infine, è molto più sviluppata nella cappella dei Quattro Animali del monastero di Sant’Antonio, dove il Signore troneggia in una mandorla sorretta da quattro angeli; ai lati di questa gloria stanno i quattro animali in piedi, seguiti dalla Vergine e dal Battista in preghiera. Si tratta di schemi originali non solo rispetto alla tradizione costantinopolitana, ma anche a quanto si è conservato nelle altre regioni della periferia orientale. In epoca antica lo Uadi Natrun era un fiorente centro religioso, ma dei suoi tanti monasteri e chiese resta ben poco. Tra questi è il monastero fortificato di San Macario (Abu Makar) ad aver conservato nel suo haikal alcune pitture, fra cui una Deesis e una parte della Visione di Isaia, particolarmente interessante per un dettaglio: il cherubino-serafino che porge al profeta il carbone ardente all’estremità di una pinza. La presenza di Ezechiele che mangia il libro (Ez 3,1-4) e di Isaia purificato dal carbone (Is 6,6-7) è abbastanza comune nelle Teofanie della Cappadocia, ma queste rappresentazioni non sembrano essere state accolte altrove. Fra le altre immagini ancora visibili a San Macario ci sono quelle, così tipiche dell’Egitto, dei Ventiquattro Vegliardi in trono, che tengono le coppe rivolti a Oriente, oltre a due santi cavalieri affrontati, alcune scene dell’Antico e del Nuovo Testamento e alcuni santi in piedi. I santi cavalieri compaiono anche nella cappella di San Michele nel Qasr, dove se ne vedono quattro, e precisamente: Basilide, Macario, Giusto e Apoli, oltre a Teoclia, moglie di Giusto e madre di Apoli. Il monastero dei Siriani (Deir es-Surian) fu chiamato così perché nell’xi secolo venne acquistato da monaci siriani. La chiesa principale, El-Adra, è un tetraconco dedicato alla Madre di Dio che conserva dipinti di altissima qualità il cui stile raffinato e prossimo a modelli antichi contrasta con le deco-
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7. Pitture murali dell’abside della chiesa superiore di Abu Seifein, Il Cairo, xiv secolo. Museo Copto, Il Cairo.
razioni fin qui esaminate. La loro datazione è controversa. Nelle quattro conche compaiono, nell’ordine: l’Ascensione (a occidente, sopra la porta d’ingresso), l’Annunciazione, la Natività e la Dormizione della Vergine. Lo schema iconografico dell’Annunciazione è ricco in modo inconsueto, poiché la Vergine e l’arcangelo, al centro della composizione, si trovano fra due profeti – uno da ciascun lato – che hanno predetto l’evento. Essi tengono dei filatteri sui quali si leggono brani tratti dalle loro profezie. La scena si svolge davanti a una città con molte chiese, alberi e case; un insieme che fa pensare al ri-
nascimento bizantino, detto dei Paleologhi, del xiii secolo. Il volume dei corpi, l’accuratezza del modellato e la nobiltà dei volti, molto vicini ai prototipi ellenistici, rafforzano quest’ipotesi. Ma c’è un altro particolare a favore della datazione di questi dipinti al xiii secolo: la Dormizione della Vergine comprende anche l’Assunzione di Maria, un tema che non è rappresentato prima del xiii secolo nella zona d’influenza bizantina ed è ancora piuttosto raro anche a questa data. In questa chiesa sono rappresentati anche i Ventiquattro Vegliardi. Le iscrizioni che accompagnano le diverse scene sono in siriaco. Pochi dipinti del monastero di AlBaramus sono sopravvissuti alle distruzioni, tra cui un soggetto piuttosto raro: Melchisedek che dà la Comunione a sant’Abramo (xiii-xiv secolo). Sulle pareti del monastero di San Bishoi (xiii-xiv secolo) sono ancora visibili figure di santi isolati. I santi cavalieri sono raffigurati quasi ovunque, ma sono particolarmente numerosi – undici – nel monastero di Sant’Antonio dove, a volte, sono accompagnati da piccole scene della loro vita, che li circondano come una cornice, alla maniera delle icone bizantine del xiii secolo e successive. Composizioni di questo tipo non s’incontrano altrove nella pittura parietale. L’Egitto è il paese che ha inventato il papiro. In epoca cristiana la letteratura fu molto fiorente e non è dunque strano che l’arte della miniatura vi sia stata praticata con una certa indipendenza nei confronti di Bisanzio. Un’indipendenza che si rivela nello stile cui si è accennato in precedenza, ma anche in alcuni schemi iconografici. I libri illustrati copti sono dispersi nei vari monasteri d’Egitto e nelle biblioteche in Europa e America. Si tratta soprattutto di evangeliari, decorati con miniature a volte inserite nel testo, a volte a piena pagina. Spesso i primi fogli di questi manoscritti sono decorati da grandi croci trionfali poste su un basamento e adorne di racemi, motivi geometrici, trecce. Si tratta di un soggetto presente anche nella pittura murale copta, per esempio nel
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monastero di Sant’Antonio, e molto diffuso anche nei manoscritti etiopi e siriaci. Nel Vangelo copto n. 516 della Pierpont Morgan Library di New York, la croce è circondata da uccelli multicolori. Questi schemi si mantengono fino al xiv secolo, come si osserva nell’Evangeliario della Biblioteca Vaticana (Copto 9, ci. B.V.). Al centro della croce è il busto di Cristo in un medaglione, mentre alle estremità dei quattro bracci stanno gli evangelisti, anch’essi entro un medaglione. Un’iscrizione indica la data di queste miniature: 12041205. Nello stesso manoscritto belle miniature a piena pagina, piuttosto vicine a opere costantinopolitane, rappresentano gli evangelisti intenti a scrivere, tra cui san Marco ispirato da un angelo. L’Evangeliario della Pierpont Morgan Library n. 597, databile al 913-914, illustra una tendenza stilistica opposta alla precedente. Si tratta qui di uno stile monumentale, schematico, ieratico, ma non meno espressivo, come testimonia, fra l’altro, la scena dell’Annunciazione. Vi sono raffigurati solo la Vergine intenta a filare e l’arcangelo (senza ali) che occupano tutta la pagina. Uno dei più famosi manoscritti copti è il Vangelo della Bibliothèque Nationale di Parigi (Copte 13), probabilmente miniato tra la fine del xii e l’inizio del xiii secolo. Le miniature sono caratterizzate dalla vivacità delle scene, dal loro aspetto drammatico e dalla verve narrativa che vi si rivela. A partire dal x secolo l’influenza della tradizione islamica si fa sentire sempre più frequente-
mente, in particolare nell’Evangeliario della Biblioteca dell’Institut Catholique di Parigi, del 1249. È soprattutto evidente nei ritratti degli evangelisti, a volte distesi, a volte assisi sotto grandi baldacchini riccamente ornati. La scultura in legno non viene abbandonata nel Medioevo ma, sotto l’influsso dell’arte musulmana, diventa quasi esclusivamente ornamentale e riguarda soprattutto le porte e l’arredo delle chiese, come si può vedere, ad esempio, nel monastero dei Siriani. Sono stati realizzati comunque anche pannelli di legno con scene evangeliche e veterotestamentarie, come quelli della collezione Kevorkian di New York e altri del British Museum. La produzione artistica copta continua dopo il xiv secolo, ma diventa artigianale, mentre il peso dell’ambiente musulmano si fa sentire sempre di più. Prima di concludere va notato ancora che la Nubia, a sud dell’Egitto, evangelizzata dai bizantini, ha risentito pochissimo dell’arte copta, elaborando uno stile e diversi schemi iconografici propri. Anche in Etiopia si riscontrano pochi elementi copti, malgrado la venerazione degli stessi santi locali e alcune evidenti affinità nella liturgia. Così, l’arte copta conserva una notevole omogeneità per un millennio e, nonostante il carattere popolare, gode di un’ispirazione senza incrinature, ma non s’irradia al di là del suo territorio d’origine come invece aveva fatto, con tanto splendore, quella di Bisanzio, madre nutrice spesso rinnegata.
8. San Giovanni Evangelista. Evangeliario, fol. 174v, 1249. Bibliothèque Universitaire de Fels, Institut Catholique, Parigi.
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Robin Cormack
Che cos’è l’arte bizantina?
1. Stauroteca, reliquiario della Vera Croce da Constantinopoli. Argento dorato, pietre e smalti, 963 ca. d.C. o subito dopo. Domschatz, Limburg an der Lahn.
L’arte bizantina costituisce uno sviluppo dell’arte greco-romana, di cui ha rappresentato una fase altamente specifica e creativa, che a sua volta ha influenzato l’arte del Medioevo occidentale e il Rinascimento italiano, proseguendo come tradizione nell’arte della moderna Chiesa ortodossa. Tuttavia gli storici dell’arte non sono concordi nel definire il termine «arte bizantina» e neppure nell’inquadrarla nel panorama generale dell’arte. In linea di massima si ammette che non sia uno «stile», perché al suo interno coesistono diversi stili, forme e tratti peculiari. È piuttosto un termine che definisce il periodo e la cultura che quest’arte hanno prodotto. Ne deriva che occorre considerare il carattere e la storia della società che tale arte utilizzava per spiegarne il carattere e lo sviluppo. L’arte bizantina costituisce il pensiero visivo della società che visse a Costantinopoli sul Bosforo (dove era ubicata l’antica città di Bisanzio) dalla fondazione nel 330 d.C. fino alla caduta definitiva per opera dei Turchi ottomani nel 1453 (quando divenne una capitale islamica, che in seguito prese il nome di Istanbul). Gli abitanti di Costantinopoli videro nel loro sistema politico un proseguimento dell’Impero romano (i loro testi erano per lo più scritti in greco, ma essi si definivano Romani); e Costantino il Grande, il fondatore della città, era dal 324 il sovrano di tutto l’Impero (avendo sconfitto gli altri imperatori rivali, in primo luogo Massenzio al Ponte Milvio, vicino Roma, e poi Licinio nel 324 a Crisopoli in Bitinia). Nel corso del iv e v secolo Costantinopoli si sviluppò e si ampliò divenendo la sede per-
manente dell’imperatore, e quindi di fatto la capitale dell’Impero. Con l’abdicazione dell’ultimo imperatore «d’Occidente», Romolo Augustolo, nel 476, Costantinopoli (o «Nuova Roma», come la città venne poi chiamata) divenne l’unico centro del potere imperiale romano e, anche se l’imperatore Giustiniano (527-565) riconquistò temporaneamente i territori del Nordafrica e d’Italia, Costantinopoli era di fatto la capitale di un Impero d’Oriente separato. L’arte di Costantinopoli deve essere considerata quindi l’arte di un centro politico che ha dominato il pensiero e la cultura dell’area mediterranea orientale nel Medioevo, rivendicando in diversi momenti il controllo sull’Italia e sul Nordafrica, compresi l’Egitto, la Siria e la Palestina, l’Asia minore, Cipro, i Balcani e la Grecia. L’idea di un Impero romano d’Oriente senza soluzione di continuità è in se stessa per molte ragioni controversa. Come centro del potere, Costantinopoli fu soggetta a diverse trasformazioni politiche. Come città e come centro, fu la sede dell’imperatore e si dotò di tutti gli apparati e ornamenti del potere imperiale; tuttavia come potenza imperiale perse molti territori (in modo particolare a vantaggio degli Arabi dopo l’espansione dell’Islam nel vii secolo); dopo il 1261 questo «Impero», sotto la dinastia dei Paleologhi, comprendeva solo l’Asia minore occidentale e parte dei Balcani e della Grecia. Nondimeno, sotto la dinastia macedone (ixxi secolo) e quella dei Comneni (fine xi-xii secolo) vi furono momenti di espansione e prosperità in cui Costantinopoli venne considerata la più importante città del Medioevo (la «Regina delle città»). In altri termini,
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l’idea di un Impero romano d’Oriente ininterrotto è troppo semplice per descrivere la realtà della situazione. Un’altra questione fondamentale riguarda il cristianesimo e l’arte. Costantino (morto nel 337) divenne un cristiano battezzato in punto di morte e un «convertito» prima di morire. Alla fine del iv secolo il cristianesimo era la religione ufficiale dell’Impero. Man mano che la dottrina cristiana venne nel corso dei secoli elaborata e affinata, la Chiesa di Costantinopoli si discostò sotto parecchi aspetti (teologici e politici) dalla Chiesa di Roma, e dopo lo scisma del 1054 le due chiese separate vennero distinte come Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica. La fede della Chiesa ortodossa si basa principalmente sulle definizioni dogmatiche dei sette concili ecumenici tenuti fra il iv e l’viii secolo. Si riteneva che le verità principali della fede fos-
sero state stabilite definitivamente in queste occasioni e richiedessero in misura minima una formulazione ulteriore (anche se alcuni successivi concili di Costantinopoli fecero delle aggiunte alla dottrina, ad esempio gli insegnamenti dell’esicasmo nel xiv secolo sulla natura della Luce Divina). Gran parte dell’arte bizantina superstite è arte religiosa, prodotta per soddisfare gli scopi cultuali del cristianesimo. Essa racchiude e insegna allo stesso tempo le verità eterne e immutabili della fede. Come arte religiosa, che crea uno spazio sacro per l’adorazione della divinità, l’arte di Costantinopoli è straordinariamente efficace e le sue conquiste sono state emulate e imitate non solo nell’Europa occidentale, ma anche nel mondo islamico e nei territori russi. L’arte «laica» superstite della società bizantina colpisce meno. Mentre l’imperatore e i suoi ospiti pranzavano in piatti d’oro e
2. L’imperatrice Teodora e il suo seguito. Mosaico, 547-548 d.C. Presbiterio della basilica di San Vitale, Ravenna.
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si vestivano con sontuosi abiti di seta, le famiglie normali di Costantinopoli usavano la ceramica comune e vivevano, per quanto se ne sa, in stanze poveramente arredate. Tutto ciò che conosciamo di Bisanzio indica che il mondo dell’arte bizantina era costituito dall’arte delle chiese, dalla magnificenza dei monasteri e dai palazzi sontuosi della classe dirigente. Anche se esisteva una burocrazia importante che produceva molti documenti autenticati con sigilli di piombo o d’oro, i libri erano rari manoscritti, e quelli miniati erano molto costosi e al di fuori della portata della maggior parte delle persone, tranne che per la famiglia imperiale, il più alto clero e i monaci: l’alfabetismo era limitato, come erano limitati i libri in cui potevano sperare di imbattersi anche coloro che sapevano leggere e scrivere. L’arte bizantina copre un periodo di oltre mille anni e in tutto questo tempo il suo scopo principale fu di servire e proclamare le verità immutabili del cristianesimo. Il suo studio richiede un’attenzione particolare per riconoscerne e interpretarne le continuità e le discontinuità nel corso del lungo periodo, e per notare come anche piccoli cambiamenti nello stile e nei soggetti possano riflettere sviluppi significativi nella cultura che alimentò. Essa mirava a comunicare una fede religiosa permanente e immutabile, ma le forme che impiegava si modificarono nei diversi periodi della sua storia. L’arte bizantina non è affatto una forma d’arte immutabile, anche se è volutamente conservatrice e tradizionale. Così come non si incoraggiava l’innovazione nella fede ortodossa, allo stesso modo l’innovazione artistica doveva essere sottilmente dissimulata. I materiali superstiti dell’arte bizantina Questo periodo è generalmente ripartito in ampi segmenti temporali, utili agli storici dell’arte per le loro riconoscibili caratteristiche distintive. L’arte paleocristiana, o protobizantina, si riferisce al periodo in cui l’arte cristiana è nata e ha acquisito per la prima
volta il proprio carattere peculiare. Essa ha inizio verso il 200, non esistendo prove certe della produzione di un’arte identificabile come cristiana prima del iii secolo. I primi monumenti cristiani conosciuti che presentano dipinti sono la domus ecclesiae di Dura Europos in Siria, alla frontiera orientale dell’impero romano (il battistero, con le immagini dell’Antico e del Nuovo Testamento, risale ad epoca anteriore alla distruzione della città nel 256), e le catacombe, all’esterno del perimetro delle mura di Roma, decorate per la prima volta dopo il 200 circa con scene di salvezza adatte ai loro scopi funerari. Si ritiene che il primo periodo comprenda gli inizi dell’arte cristiana e in prevalenza le opere prodotte tra il regno di Costantino e quello di Giustiniano. A questo periodo appartengono alcune delle principali chiese del primo cristianesimo, come l’(antica) chiesa di San Pietro a Roma, il Santo Sepolcro a Gerusalemme e le prime chiese di Costantinopoli, compresa la prima Santa Sofia, fondate per iniziativa di Costantino. Molte chiese antiche erano di grandi dimensioni, ma la maggior parte di quelle costruite per la celebrazione dell’Eucaristia della domenica presentavano una copertura lignea, una struttura funzionale, ma non molto complessa. Tuttavia alcune erano a pianta centrale, e la maggior parte venne costruita per commemorare luoghi sacri o santi martiri, e dette perciò martyria. Con la ricostruzione, fra il 532 e il 537, di Santa Sofia da parte di Giustiniano, si inaugurò la fase successiva dell’architettura bizantina. Santa Sofia non era soltanto di dimensioni enormi, tanto da richiedere sofisticate capacità ingegneristiche al limite del rischio, ma era anche decorata con sculture e mosaici parietali in paste vitree (con vaste zone delle volte ricoperte da tessere d’oro raffiguranti croci e ornamenti). Essa combinava la pianta centrale e la struttura basilicale, presentando un’alta cupola centrale al di sopra dell’ampia navata. Dopo l’impresa di Santa Sofia, la chiesa bizantina standard fu costituita da un edificio a pianta centrale con almeno una cupola; si continuarono a edificare basiliche con il tetto di legno, ma i rituali
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della Chiesa ortodossa si potevano svolgere in modo più adeguato in uno spazio sacro decorato al di sotto di una cupola. Alcuni ritengono che il periodo compreso fra l’età di Giustiniano e il ix secolo faccia ancora parte dell’arte protobizantina, ma essendo un’epoca di trasformazione radicale dell’Impero (di dimensioni sempre minori) ha senso attribuirgli un’identità separata. Si tratta di una valutazione controversa, legata al dibattito sulla fine dell’«età antica». Giustiniano è stato l’«ultimo imperatore romano» o il «primo imperatore bizantino»? L’iconoclastia ha segnato la fine dell’età antica? Quel che è chiaro è che dopo la morte di Giustiniano vi fu un periodo prolungato di invasioni straniere (a opera di Persiani, Slavi e Arabi) e condizioni politiche difficili e pericolose. La maggior parte dell’viii e del ix secolo (dal 730 circa all’842) fu inoltre dominata dalla disputa religiosa sulla natura particolare dell’arte cristiana. Questa disputa, nota come iconoclastia, coinvolse l’intero Stato, riguardando la definizione delle giuste credenze, o ortodossia. Gli imperatori e i maggiori esponenti della Chiesa accettarono l’iconoclastia e proibirono o distrussero le immagini figurate nelle loro chiese. Ma altri gruppi, in particolare i monaci, si dichiararono a favore dell’uso delle icone e teologi come san Giovanni Damasceno enunciarono nell’viii secolo per la prima volta una teoria articolata sulle immagini cristiane. Il periodo iconoclastico, in cui vennero distrutte molte immagini e ben poche immagini nuove furono create, durò oltre un secolo (con una breve reintegrazione delle icone fra il 787 e l’815) e terminò infine nell’843 con il «Trionfo dell’Ortodossia», quando l’arte figurativa venne accettata non solo come ortodossa, ma come segno distintivo della Chiesa bizantina. Dopo l’iconoclastia e sino alla metà dell’xi secolo si realizzò una notevole produzione artistica, nonché lo sviluppo di nuovi mezzi espressivi come gli smalti. Le frontiere dell’impero si ampliarono a est e a nord attraverso le campagne militari e la diplomazia; grazie all’attività missionaria gran parte dei Balcani e dei territori russi vennero convertiti al cristianesimo nella sua versione ortodossa.
Durante gran parte di questo periodo la dinastia regnante fu quella dei Macedoni, dai quali deriva appunto il termine «macedone» per designare l’epoca; alcuni storici dell’arte definiscono il x secolo «Rinascimento macedone» per porre in rilievo la fioritura dell’arte dopo il lungo periodo dell’iconoclastia (ritenuto il «Medioevo» bizantino), ma anche per suggerire che nel periodo vi fu un interesse consapevole per la rinascita dell’arte dell’antichità classica. Il periodo dei Comneni (dal 1081) fu ugualmente impressionante per la quantità della produzione artistica, e il xii secolo è degno di nota per lo sviluppo della pittura monumentale e della produzione di icone sia a Costantinopoli sia nelle regioni al di fuori della capitale. Bisanzio attraversò un periodo storico del tutto particolare tra il 1204 e il 1261, quando Costantinopoli fu dapprima conquistata e poi occupata dagli occidentali – i crociati –, che insediarono regni occidentali cattolici. Ma nel 1261 l’imperatore Michele viii Paleologo lasciò la sede bizantina temporanea di Nicea, in Asia Minore e riconquistò la città; la dinastia dei Paleologhi regnò quindi fino al 1453. Questo periodo finale fu meno sontuoso dal punto di vista della produzione artistica (si realizzarono pochissimi mosaici), ma i contatti con l’Occidente furono estremamente fruttuosi; l’arte bizantina mantenne la propria peculiarità, ma si modificò in modo sottile, accogliendo le idee pittoriche di narrazione e realismo sviluppatesi in Italia e in altri luoghi. La prima arte bizantina: lo sviluppo delle forme e il vocabolario dell’arte cristiana Dal momento in cui l’imperatore Costantino legittimò il culto cristiano (con il cosiddetto editto di Milano, emanato con l’altro augusto, Licinio), le chiese divennero un elemento essenziale e percepibile del paesaggio urbano e rurale. All’interno erano dotate di altari – contenenti di solito reliquie di santi – e di vasi liturgici, come il calice per conservare il vino eucaristico e la patena per conservare il pane. Le pareti e le volte delle chiese
3. L’Agnello nimbato in un tondo sostenuto da quattro angeli tra elementi vegetali e figure animali. Mosaico, 547-548 d.C. Volta del presbiterio della basilica di San Vitale, Ravenna.
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erano decorate con dipinti o, se la comunità o il mecenate erano ricchi, con mosaici con tessere di marmo o vitree. La basilica di San Vitale a Ravenna (consacrata nel 548) mostra fino a che punto si fosse sviluppata l’arte protobizantina nel vi secolo: sulle pareti e sulle volte del presbiterio vi sono mosaici raffiguranti scene e figure dell’Antico Testamento, gli evangelisti del Nuovo, nell’abside immagini di Cristo in cielo con angeli e santi, dell’Agnello di Dio nella volta e di Dio Padre nell’arcone di accesso. Altri mosaici con l’imperatore Giustiniano e la moglie Teodora raffigurano l’inizio del culto domenicale, quando il vescovo e il clero, la famiglia imperiale, i funzionari di corte e l’esercito entrano simbolicamente in chiesa preceduti dalla croce, recando il calice e la patena da usare per la
comunione eucaristica. Nell’insieme questo complesso musivo è una dichiarazione visiva non solo del ristabilimento del potere imperiale in Italia, ma anche dell’imposizione dell’ortodossia in tutto l’Impero in un’epoca in cui si diffondeva ogni genere di teorie eretiche sulla natura di Cristo, a Ravenna come in altri luoghi. La speculazione cristologica sulla differenza fra la natura umana di Cristo e la divinità ossessionava la Chiesa delle origini, e in verità anche l’uomo della strada; dal momento che il cristianesimo era una religione monoteistica in cui, a differenza del giudaismo o dell’islam, Dio era apparso in forma umana sulla terra, non era irragionevole indagare la questione della natura della persona di Gesù Cristo nel momento in cui era stato visibile all’umanità.
4. Trasfigurazione. Mosaico, 565-566 d.C. ca. Conca absidale della basilica. Monastero di Santa Caterina sul monte Sinai.
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Sia la forma architettonica della basilica ottagonale di San Vitale che il carattere decorativo delle sculture della chiesa – come i capitelli delle colonne – indicano che l’origine degli artisti o dei loro modelli era Costantinopoli (sebbene gran parte dei finanziamenti per la chiesa possano essere stati erogati da un banchiere locale, Giuliano Argentario, di cui si registrò nell’epitaffio la donazione di 26.000 solidi d’oro). Le chiese dei Santi Sergio e Bacco e di Santa Sofia, costruite entrambe a Costantinopoli per Giustiniano negli anni ’30 del vi secolo, impiegano modelli simili nella loro ornamentazione scultorea; e il marmo usato in queste chiese provenne perlopiù dalle cave proconnesie delle isole del mare di Marmara. Santa Sofia fu costruita su scala monumentale; al suo interno si esprimeva la santità del Dio cristiano attraverso la luce «divina» che entrava da un gran numero di finestre alla base delle cupole ed era messa in rilievo dalla superficie scintillante dei mosaici d’oro raffiguranti in forme molteplici la croce. In questo periodo lo sviluppo dell’arte monumentale era spesso sostenuto finanziariamente dalla corte imperiale, senza dubbio con l’incoraggiamento del clero e in modo particolare dei vescovi, che costituivano nella prima età bizantina una nuova classe di potere in crescita. Molto probabilmente si doveva al mecenatismo imperiale il finanziamento di un altro monumento significativo del periodo, la Rotonda a Salonicco, una chiesa ottenuta ristrutturando un edificio a pianta centrale nel complesso della reggia di questa città della Grecia settentrionale (capitale della provincia dell’Illirico). L’edificio originario era stato probabilmente progettato all’inizio del iv secolo come mausoleo per l’imperatore Galerio, ma non fu mai usato per questo scopo. Fu trasformato in una grande chiesa circolare con un’abside e un deambulatorio. L’epoca della ristrutturazione e della decorazione musiva resta controversa: queste possono avere avuto luogo verso il 380, ma sono state anche fatte risalire a varie epoche successive, fino al 500 circa. La chiesa ospita vaste raffigurazioni musive di santi in cielo, in un registro attorno al medaglione centrale con
l’immagine di Cristo. Si nominavano i venti santi e si menzionava la data della loro morte secondo la sua celebrazione nel calendario della Chiesa; ognuno era ritratto a figura intera in un magnifico interno di chiesa – una raffigurazione che indicava la loro vita eterna in cielo dopo la morte. Le figure e gli edifici sono ritratti in modo naturalistico con dovizia di particolari, ma il volto di ogni santo è un ideale di carisma umano piuttosto che un ritratto realistico. Tutto l’insieme rappresentava la gloria e lo sfarzo del regno celeste di Dio; il suo soggetto preciso può essere destinato a illustrare il momento della Seconda Venuta di Cristo, che nella chiesa cristiana primitiva si riteneva imminente. Le chiese vennero decorate con mosaici monumentali non solo a Costantinopoli e nelle capitali regionali come Salonicco e Ravenna. Sappiamo che in questo periodo a Cipro esistevano tre chiese con absidi raffiguranti immagini della Vergine Maria; e vi sono mosaici nel remoto monastero di Kartmen in Asia Minore. Una delle immagini absidali più straordinarie di questo periodo si trova nella chiesa giustinianea del monastero di Santa Caterina sul monte Sinai e raffigura Mosè e il roveto ardente e Mosè che riceve le Tavole della Legge – eventi, questi, che ebbero luogo sulla montagna accanto a questo monastero, meta di pellegrinaggi. Nella conca absidale è la Trasfigurazione, mentre l’immagine centrale è una figura di Cristo, splendente di luce divina, in posizione dominante. Senza dubbio l’uso del mosaico nelle volte delle chiese era relativamente comune e costituiva un mezzo espressivo all’epoca in crescita. Era ancora più comune l’uso di mosaici con scene figurate e altre ornamentazioni nei pavimenti delle chiese (come nella pavimentazione del Grande Palazzo degli imperatori bizantini a Costantinopoli). Oltre allo sviluppo della dimostrazione visiva e pubblica della verità del cristianesimo e del suo ruolo nella vita di tutti i cittadini romani, questo primo periodo vide la produzione di libri cristiani miniati nel moderno formato del codice, come il Libro della Genesi di Vienna (Österreichische Nationalbibliothek,
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Theol. gr. 31), calici di metalli preziosi e altri tesori liturgici, recipienti e reliquiari d’avorio, e le prime icone (dipinte su tavole lignee e quindi trasportabili agevolmente). Ma la produzione della statuaria monumentale diminuì, anche se Costantinopoli era adornata con colonne imperiali, comprese due colonne coclidi a imitazione delle due colonne di Roma, e statue equestri di imperatori. Altra caratteristica delle strade e degli spazi pubblici di Costantinopoli era l’esibizione di statue famose dell’antichità pagana, trasportate da Costantino e altri; esse includevano i quattro cavalli ellenistici in bronzo che vennero esposti nell’ippodromo fino al 1204, quando furono rimossi dai veneziani e collocati nella chiesa di San Marco a Venezia. Questo periodo costituì un momento cruciale per la fondazione dell’arte cristiana e a tutta evidenza l’importanza di Costantinopoli fece sì che il suo mecenatismo determinasse il carattere sia dell’arte bizantina che dell’arte medievale europea. Non vi fu alcuna rivoluzione contro le formule e il vocabolario dell’arte greco-romana pagana. Si verifica un’evidente continuità e le immagini di Cristo devono molto alla raffigurazione di maestri e filosofi pagani, nonché ad alcuni elementi della rappresentazione dell’imperatore romano; gli angeli assomigliano alle vittorie classiche e alcuni elementi dei racconti mitologici antichi sono trasferiti nella raffigurazione di scene di salvezza e di miracoli dell’Antico e del Nuovo Testamento. L’innovazione iconografica più significativa della prima arte bizantina riguarda la Vergine col Bambino, con tutte le implicazioni sull’incarnazione di Cristo come uomo e sulla sua morte e risurrezione. Sebbene le evocazioni mistiche e spirituali di questa immagine siano nuove nella prima arte cristiana, la raffigurazione di un gruppo di una madre con il figlio non era nuova e trovava le sue radici nell’iconografia pagana, tanto del mondo greco-romano quanto dell’arte dell’antico Egitto e di altre culture. Comunque, nonostante la continuità delle forme e del repertorio visivo dell’antichità, nella prima arte bizantina ci si orientò verso l’immediatezza visiva e la
simmetria compositiva. Ciò non deve interpretarsi come un declino dei modelli classici, in quanto rappresenta la volontà cristiana di suggerire nell’arte religiosa le verità immutabili della fede e di quel mondo in cui l’anima cristiana avrebbe abitato dopo la morte. Il periodo del dibattito sul futuro dell’arte cristiana (565-842) Dopo Giustiniano le lotte di potere nel Mediterraneo orientale segnarono l’indebolimento dell’egemonia di Costantinopoli sul suo «Impero». Vi fu l’avanzare di migranti slavi nei
5. San Demetrio con i fondatori della basilica. Mosaico, v secolo. Basilica di San Demetrio, Salonicco.
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6. Emissari gabaoniti prostrati davanti a Giosué, Rotolo di Giosué, segm. xii. Miniatura, 950 d.C. ca. Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano.
Balcani e perfino in Grecia; Salonicco fu per la maggior parte di questo periodo una città praticamente sotto assedio e dovette dedicare le proprie energie alla difesa e alla promozione del suo difensore soprannaturale, san Demetrio. La grande chiesa patronale era decorata da mosaici che ne illustravano le azioni caritatevoli ai cittadini, al vescovo e al governatore. I Persiani avanzarono in Asia Minore e le loro conquiste e i loro saccheggi culminarono in una guerra con l’imperatore Eraclio (610641), che riuscì con successo a recuperare e a restituire la Vera Croce da questi sottratta nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme. L’evento più rilevante del periodo fu però l’ascesa dell’islam. Maometto nacque attorno al 570 e morì nel 632. Dieci anni dopo la sua morte la Persia era sotto il controllo islamico, come lo furono ben presto le province medio-orientali dell’Impero bizantino. Lo scontro fra islam e cristianesimo era allo stesso tempo politico e religioso e le due parti utilizzarono l’arte come strumento per costruire un’identità culturale.
Già all’inizio del viii secolo l’islam si distingueva per l’uso esclusivo dell’arte non figurativa nei luoghi di culto, mentre le chiese cristiane raffiguravano la storia di Cristo sulle pareti e introducevano le immagini di Cristo, della Vergine e dei santi in un numero sempre maggiore di opere d’arte all’interno degli edifici – sia in icone su tavola (parecchie delle quali si conservano nella raccolta del monastero di Santa Caterina sul monte Sinai) che attraverso altre tecniche (come il tappeto-icona della Vergine col Bambino, Cristo e gli apostoli nel Cleveland Museum of Art). La conseguenza più notevole per la storia dell’arte di questo periodo fu la decisione di Costantinopoli, verso il 730, di vietare le immagini figurate cristiane e di esigerne la rimozione dalle pareti delle chiese bizantine. L’iconoclastia rimase una questione dibattuta per più di un secolo e causò inevitabilmente un calo della produzione artistica. La sua sconfitta finale dette luogo a un ritorno alle forme della prima arte bizantina e alla loro rinascita. Si trattava fondamentalmente di un
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ulteriore dibattito sulla natura di Cristo e sulla possibilità per il cristianesimo (a differenza dell’ebraismo e dell’islam) di raffigurare legittimamente nell’arte il «Figlio di Dio» come uomo (e di fatto come uomo «perfetto»); non sorprende perciò che una delle prime immagini dell’epoca posticonoclasta sia un mosaico con la Vergine col Bambino nell’abside della chiesa della Koimesis a Nicea in Bitinia, in Asia Minore – rifacimento della stessa iconografia realizzata nella chiesa verso il 700, che gli iconoclasti avevano distrutto e sostituito con una croce. Questa iconografia dichiara apertamente che Cristo è nato fatto uomo dal grembo di una madre e che l’Incarnazione di Cristo legittima la raffigurazione di Dio in forma umana con materiali terreni come il mosaico di paste vitree, il pigmento, la tempera all’uovo o altri materiali. La conseguenza della lotta fra iconoclasti e iconoduli fu che l’arte riemerse a Bisanzio come strumento principale per persuadere gli osservatori della veridicità della fede cristiana; allo stesso tempo si pose in rilievo la natura sacra dell’arte stessa, mentre le icone divennero oggetti che operavano miracoli di per sé in virtù del loro rapporto con la persona santa raffigurata. L’idea delle icone formatesi in modo miracoloso (acheiropoietos o «non fatte dalla mano dell’uomo»), o che in virtù della figura rappresentata potevano agire operando miracoli divini, nacque nel periodo anteriore all’iconoclastia, fu anatema durante l’iconoclastia, ma entrò a far parte del pensiero ortodosso dopo l’842. Quindi l’incensamento, l’usanza di portare in processione e baciare le icone e altri oggetti fu una pratica ordinaria della Chiesa bizantina dopo l’iconoclastia. In tal modo si stabilì pienamente la centralità dell’arte nella cultura. Dall’iconoclastia alla fine dell’xi secolo: il periodo degli imperatori macedoni La rinascita delle arti figurative dopo l’iconoclastia coincise con la rinascita della potenza politica e militare bizantina e con l’amplia-
mento dei confini. Il consolidamento in Grecia e nei Balcani, la conversione al cristianesimo ortodosso dei territori della Rus’ di Kiev e l’espansione del controllo in Asia Minore furono solo alcuni segni della rinascita della potenza bizantina. Essa fu agevolata dal fatto che gli Arabi musulmani avevano ridotto la loro pressione militare su Costantinopoli (dopo il fallimento di diversi attacchi nell’viii secolo), trasferendo il perno del loro potere da Damasco a Baghdad. Senza dubbio i Bizantini conoscevano bene l’arte islamica del periodo e ne introdussero alcuni elementi nell’arte macedone. Ad esempio gli esterni delle chiese (come quelle del monastero di Hosios Lukas, vicino a Tebe, in Grecia cen-
7. Atrio e facciata del Katholikon, 1050 d.C. ca. Monastero di Hosios Lukas.
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8. Cristo crocifisso tra la Vergine e san Giovanni. Mosaico, 1050 d.C. ca. Nartece del Katholikon. Monastero di Hosios Lukas.
trale) erano ornati sulla parete da scritte cufiche, che richiamavano le decorazioni delle moschee contemporanee, con la differenza che si trattava di caratteri decorativi e non di vero arabo (da qui il termine di pseudocufico). Queste scritte decorative sono presenti anche nelle pitture e su una tazza in vetro dorata e dipinta del x secolo, ora nel Tesoro di San Marco a Venezia, decorata con figure in stile antico. È probabile che questo oggetto ricco e prezioso sia stato preso nel 1204 dai Veneziani nel Grande Palazzo degli imperatori macedoni. A partire dall’842 l’arte di Costantinopoli si sviluppò con una conoscenza ricettiva del-
le idee artistiche delle culture vicine, comprese l’arte islamica e quella dell’Occidente medievale. L’arte occidentale, oltre ad essere in quel periodo innovativa, era anche nota a quei monaci ed ecclesiastici bizantini – se non agli artisti – che avevano abbandonato Costantinopoli e si erano rifugiati a Roma e in altri luoghi durante il periodo turbolento dell’iconoclastia. Nello stesso modo in cui si avvertono gli influssi delle idee bizantine in Occidente, a Roma e nel mondo carolingio – e forse in maniera più evidente nelle pitture murali scoperte nel 1942 nel santuario della chiesa di Santa Maria foris portas a Castelseprio in Lombardia (un ciclo sull’Incarnazio-
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ne dipinto secondo la modalità naturalistica bizantina) –, così si osserva il flusso delle idee occidentali verso Costantinopoli. L’influenza occidentale più evidente è osservabile probabilmente nello smalto ad alveoli. Sviluppatosi in Occidente all’inizio del ix secolo, venne adottato rapidamente a Bisanzio e a metà del x secolo era una tecnica popolare fra i ricchi committenti di Costantinopoli. Un grande reliquiario destinato a contenere sette minuscoli frammenti della Vera Croce e altre importanti reliquie (come i capelli di san Giovanni Battista) fu decorato prevalentemente con smalti raffiguranti Cristo e i santi. Si tratta della Stauroteca ora a Limburg an der Lahn, dove venne portata dopo che un crociato tedesco se ne era impossessato nel 1207, certamente nel Grande Palazzo di Costantinopoli. Nella sua forma presente venne realizzata su richiesta di un
alto funzionario di corte (un eunuco chiamato Basilio il Proedro), nel 963 o poco dopo, ed era destinata a essere usata dall’imperatore durante le campagne militari. L’imperatore poteva viaggiare confidando che l’aiuto divino sarebbe stato sempre a portata di mano durante la battaglia. Una caratteristica dell’arte dell’epoca posticonoclasta è l’ulteriore sviluppo di cicli particolarmente complessi di iconografia cristiana. Questi si trovano sulle pareti delle chiese o sui manoscritti miniati e mostrano come la tradizione greco-romana della narrazione pittorica potesse essere trasformata in una forma di comunicazione estremamente raffinata della teologia cristiana e delle sue verità. La complessità di tali cicli può essere osservata, ad esempio, nella decorazione dei salteri bizantini. Questi libri contenevano la serie dei salmi e delle odi dell’Antico
9. Monastero di Vatopedi, 972 d.C. Monte Athos.
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10. Katholikon, 1160 d.C. ca. Monastero di Dafni.
Testamento usati nelle funzioni religiose, in particolare nei monasteri, ed erano illustrati con immagini che assumevano ogni tipo di significato profondo. Un gruppo di tali manoscritti è conosciuto come quello dei salteri con illustrazioni a margine, di cui i meglio conservati sono il Salterio Chludov del ix secolo (cod. 129-d, Museo Storico di Stato, Mosca), probabilmente decorato a uso del clero di Santa Sofia a Costantinopoli poco dopo la fine dell’iconoclastia, e il Salterio di Teodoro nella British Library (add. 19.352), miniato nel monastero di Studios a Costantinopoli nel 1066 dall’arciprete Teodoro per l’abate Michele. Entrambi contengono centinaia di illustrazioni a margine destinate a chiarire passi specifici dei salmi di Davide. Il loro denso contenuto iconografico è di per sé un’affermazione del trionfo dell’ortodossia sugli iconoclasti; ogni
manoscritto ritrae poi un famoso campione iconodulo (il patriarca Niceforo nel Salterio Chludov e san Teodoro Studita nel Salterio di Teodoro), nonché immagini degli iconoclasti eretici intenti a scialbare le icone di Cristo. Le illustrazioni erano in parte l’equivalente dei commenti testuali ai salmi che i lettori conoscevano grazie ai libri di esegesi teologica. Esse suggeriscono connessioni fra eventi dell’Antico e del Nuovo Testamento: queste immagini tipologiche comunicano idee – come la profezia dell’avvento di Cristo come Messia – o associano le cattive azioni degli eretici ai peccati dei personaggi e agli avvenimenti dell’Antico Testamento. Questi salteri sono una guida eloquente ai vari livelli semantici che ci si attende di trovare nelle immagini narrative dell’arte bizantina. Altri salteri di questo periodo sono decorati con illustrazioni a piena pagina, come il Salterio
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di Parigi (Bibliothèque Nationale, cod. 139), realizzato probabilmente a metà del x secolo per l’imperatore Costantino Porfirogenito. Esso contiene un ciclo di illustrazioni di Davide, autore dei Salmi, e degli autori delle Odi. A prima vista queste immagini sembrano mere illustrazioni del testo, ma anch’esse evocano senza dubbio sensi più profondi – comunicando forse all’imperatore bizantino e ad altri lettori il carattere (e anche le manchevolezze) dei re dell’Antico Testamento, tra i modelli di un sovrano cristiano. Un altro splendido manoscritto del x secolo, il Rotolo di Giosuè (Biblioteca Vaticana, Pal. gr. 431) illustra una serie di eventi narrativi del libro di Giosuè, ma può anch’esso alludere ad avvenimenti coevi di storia bizantina, piuttosto che alla storia biblica, e può evocare il successo dell’imperatore bizantino nella guerra di Terra Santa. Allo stesso modo ci dobbiamo accostare alle immagini sulle pareti di una chiesa bizantina, accettando l’impatto diretto dell’arte e allo stesso tempo l’inclusione di significati più profondi che il pubblico bizantino poteva individuare grazie alla familiarità con la Bibbia e altri testi cristiani. Attraverso prediche, inni, la liturgia e le vite dei santi, i fedeli e gli intellettuali bizantini disponevano di un grande repertorio di parole e racconti cristiani per mettersi in relazione con la produzione artistica. Forse l’esempio migliore di arte pubblica per tutti è la decorazione a mosaico di Santa Sofia a Costantinopoli. Se il primo periodo dell’arte bizantina inventò una tradizione per l’arte cristiana, in epoca posticonoclasta questa tradizione fu reinventata e raffinata. Quando la basilica di Santa Sofia venne inaugurata alla presenza di Giustiniano il giorno di Natale del 537, la decorazione era costituita esclusivamente da croci. Dopo l’iconoclastia si rimaneggiarono completamente le volte della chiesa e si collocò una serie di immagini in posizioni eminenti. La prima fu una Vergine col Bambino fra arcangeli, inserita nell’abside principale sopra il santuario nell’867. Il mosaico, sebbene in posizione elevata nella chiesa, era un’immagine dominante. Il tema è l’Incar-
nazione di Cristo, ma il suo inserimento in un ciclo non figurativo subito dopo la fine dell’iconoclastia fa capire chiaramente che si tratta di un’insistenza polemica sull’argomentazione iconodula, secondo cui la nascita di Cristo in forma umana ne legittimava la raffigurazione nelle icone. Per evitare ogni dubbio sul fatto che l’immagine partecipasse agli atti di devozione della chiesa e rappresentasse anche un’argomentazione in forma pittorica, il patriarca dell’epoca, Fozio – che pronunciò un sermone per inaugurare il mosaico e spiegarne il significato – fece porre un’iscrizione attorno al mosaico in cui si definivano eretici gli iconoclasti e si menzionava la religiosità degli imperatori dell’epoca (Michele iii e Basilio i il Macedone), che nell’867 patrocinavano il restauro delle icone in Santa Sofia. Un altro mosaico in Santa Sofia di questo periodo (realizzato alla fine del ix o all’inizio del x secolo) è la grande lunetta sopra il portale centrale occidentale che immetteva nella chiesa dall’endonartece. Il mosaico raffigura al centro Cristo in trono, un imperatore non identificato in adorazione ai suoi piedi, e due medaglioni ai lati, uno con la Vergine Maria e l’altro con un arcangelo. La porta sottostante era l’entrata speciale alla navata della chiesa utilizzata dall’imperatore e dal patriarca con il loro seguito per gli ingressi cerimoniali. Quando si mise in opera il mosaico la chiesa era usata da parecchi secoli – dalla dedicazione nel vi secolo – e le qualità del suo interno erano già ben note ai visitatori. Era un luogo di pace cristiana e luce celestiale. Il testo che tiene Cristo si riferisce direttamente a questi attributi di Santa Sofia, con le parole del Vangelo di Giovanni: «Pace a voi; io sono la luce del mondo». Ma nel mosaico sono racchiusi altri significati e l’unica chiave per individuarli consiste nell’applicare i principi generali tratti dallo studio di altre opere dell’arte bizantina. La Vergine e l’arcangelo possono alludere all’Annunciazione e al ruolo successivo della Vergine Madre nel mediare le preghiere rivolte a Cristo al momento del Giudizio. L’imperatore è privilegiato nell’accedere a Cristo, giacché la
11. Vergine col Bambino, detta di Vladimir, da Costantinopoli. Tempera su tavola, 1120 ca. d.C. Galleria Tret’jakov, Mosca.
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teoria politica bizantina lo riteneva rappresentante di Cristo sulla terra. Alcuni storici hanno visto in questo imperatore uno specifico personaggio prostrato dinanzi a Cristo nella speranza di ottenere la remissione dei peccati e hanno suggerito che si trattasse di Leone vi (886-912), che aveva commesso il crimine di sposarsi quattro volte (cosa vietata dalla legge canonica). Il dibattito della critica moderna sull’interpretazione del mosaico offre un esempio significativo delle volute ambiguità semantiche espresse dalle iconografie bizantine – e che senza dubbio erano messe a frutto dal
pubblico bizantino. Vi sono comunque pochi testi che spiegano i significati delle icone e quelli che lo fanno confermano che la flessibilità dell’interpretazione era parte della contemplazione delle arti figurative. Un terzo mosaico di Santa Sofia dopo l’iconoclastia è la lunetta del vestibolo sudorientale della chiesa, ancora sopra una porta d’ingresso, che in questo caso immette nella zona sud dell’endonartece. Il mosaico risale alla fine del ix o al x secolo e connota un corridoio d’ingresso cerimoniale; questo è infatti l’ingresso in chiesa dal palazzo patriarcale ed è ubicato inoltre sul lato della chiesa
12. Compianto sul Cristo morto. Pittura murale, 1164 ca. d.C. Chiesa del monastero di San Pantaleone. Nerezi, Macedonia.
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Pagine seguenti: 13. Albero genealogico dei Nemanjidas. Pittura murale, 1327-1347 d.C. Nartece della chiesa dell’Ascensione. Monastero di Decani, Kosovo.
antistante al Grande Palazzo degli imperatori bizantini e all’ippodromo (costruito originariamente per le corse dei carri), dove si svolgevano gli spettacoli pubblici più popolari. Il mosaico raffigura la Vergine col Bambino al centro, con a sinistra Giustiniano che dona loro la basilica di Santa Sofia e a destra Costantino che offre loro la città. Il mosaico rende visivamente la percezione bizantina di questo periodo, secondo cui la grandezza di Bisanzio si doveva a questi due sovrani, rappresentati con le aureole della santità. Probabilmente fa anche allusione alla tradizione, elaborata nel periodo macedone, secondo cui la Vergine stessa difendeva la città. Questo mosaico, come altri in Santa Sofia, ci ricorda che questa era una grande chiesa di stato, la sede del patriarca – a capo degli ortodossi –, la chiesa in cui l’imperatore si mostrava in pubblico e in cui si mostravano ai visitatori stranieri i più alti raggiungimenti architettonici ed artistici degli artisti di Costantinopoli. Un’altra caratteristica del periodo fu l’aumento crescente di monasteri. L’idea del monaco o dell’eremita risale alla prima età bizantina, quando uomini e donne come sant’Antonio e santa Maria Egiziaca andarono a vivere come asceti nel deserto, o altri come san Simeone Stilita vissero da soli su una colonna per la maggior parte della vita. Nel periodo macedone esistono numerose comunità organizzate di monaci, alcuni in luoghi speciali – come le chiese rupestri della Cappadocia, nell’altopiano anatolico centrale – o in regioni montuose dell’Asia Minore occidentale o sulle pendici del Monte Athos nel Nord della Grecia (il posto più inaccessibile di tutti, che ha mantenuto il suo isolamento e la sua esclusività di luogo riservato agli uomini e appartato fino ai nostri giorni). La loro espansione fu favorita da una spiritualità che considerava la dedizione all’adorazione continua di Dio uno scopo meritevole per la vita, incoraggiato dal mecenatismo dei ricchi, che erano pronti a delegare la preghiera e l’adorazione ai monaci e alle monache e cercavano nei monasteri un luogo di sepoltura finale per i loro corpi dopo la morte. I monasteri erano i beneficiari di donazioni considerevo-
li e potevano permettersi di creare ambienti decorati da opere d’arte sublimi per i monaci dediti a funzioni religiose lunghe e faticose, giorno e notte. La decorazione dei monasteri comprendeva spesso i ritratti dei grandi santi asceti di cui si emulava la vita nel monastero. Il monastero di Hosios Lukas venne fondato da un santo del x secolo, san Luca di Stiris; dopo la sua morte nel 953 le sue reliquie furono collocate in una cappella speciale nella chiesa. La tomba divenne presto un luogo di pellegrinaggio e si registrarono guarigioni miracolose di malati (si manifestarono parecchi miracoli durante la sua vita e quindici sulla sua tomba dopo la morte). Ogni anno nell’anniversario della morte, il 7 febbraio, in monastero si leggeva un lungo ed edificante racconto della sua vita e dei suoi miracoli. I fedeli potevano vedere attorno a sé, nella chiesa principale, una ricca decorazione di rivestimenti marmorei, sculture e mosaici nei quali figuravano centinaia di santi, la vita e la risurrezione di Cristo e ritratti dello stesso san Luca. Il monastero si ampliò per rendere possibile il controllo delle folle, con due chiese collegate e affiancate per permettere ai pellegrini di camminare in fila fin oltre il sepolcro del santo patrono; la chiesa inferiore fu ampliata con sarcofagi e tombe, affinché gli abati, i monaci e altri personaggi potessero riposare in pace al di sotto delle reliquie del padre santo. Il monastero di Hosios Lukas è ubicato in una regione remota della Grecia, sulle colline fra Delfi e Tebe; ma lo scenario di questo luogo di pellegrinaggio e di culto è stato probabilmente progettato e realizzato da artisti di Costantinopoli. Benché fosse uno scenario magnifico ed esprimesse il carisma di un santo famoso, non era una fondazione unica all’epoca. I nuovi monasteri del monte Athos – a partire dalla Grande Lavra nel 963, seguita presto da altre importanti fondazioni come Vatopedi – erano progettati in modo altrettanto straordinario come monumenti situati in luoghi remoti e in grado di trionfare sulla natura. Sull’isola di Chios verso il 1050 la famiglia imperiale fece una donazione per edificare e decorare la Néa Moni (Nuovo Monastero),
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proseguendo così la tendenza a finanziare grandi complessi monastici sia a Costantinopoli sia in regioni lontane dell’Impero. Nella capitale il monastero più noto è quello di San Giovanni di Studios, dove nel 1066 venne miniato il Salterio di Teodoro e dove fiorì la decorazione dei manoscritti; era un monastero in cui gli imperatori e l’aristocrazia potevano ritirarsi in periodi di agitazione politica o alla fine della vita. La caratteristica del periodo macedone è la notevole rinascita delle arti figurative dopo l’iconoclastia, raggiunta cogliendo le opportunità di sperimentazione artistica sostenute da finanziamenti considerevoli e facendo proprie nuove idee provenienti dal di fuori dell’Impero, dall’arte contemporanea come da quella del passato. Se si trattò di «Rinascimento», fu un revival del ruolo complessivo dell’arte nella cultura e non semplicemente un ritorno ad alcune idee dell’antichità. La dinastia dei Comneni. Gli sviluppi artistici del xii secolo e dell’epoca delle Crociate Il tardo xi secolo fu per l’Impero bizantino un momento critico per diversi motivi, in particolare per la perdita di gran parte dell’Asia Minore a vantaggio dei Selgiuchidi dopo la battaglia di Mantzikert nel 1071 e la presenza ostile degli eserciti crociati e dei coloni dal 1095 in poi. La dinastia dei Comneni si impadronì del potere imperiale con l’ascesa al trono di Alessio i Comneno nel 1081; attraverso la diplomazia e l’attività militare Bisanzio rimase una potenza assai importante, almeno fino a quando nel 1204 l’esercito della quarta Crociata non puntò su Costantinopoli e i suoi territori invece che sulla Terra Santa. Malgrado tutte queste minacce che gravavano sulla potenza bizantina, il xii secolo fu un’epoca di notevole attività artistica, soprattutto nei monasteri e nelle città al di fuori di Costantinopoli. Ad esempio, man mano che l’isola di Cipro acquisiva importanza strategica grazie alla vicinanza con i campi di battaglia, il governatore bizantino
e le persone ragguardevoli del luogo fecero edificare chiese e monasteri che imitavano le idee della capitale e, impiegando artisti itineranti, le dotarono di pitture murali simili per stile e contenuto a quelle delle chiese della capitale. A tale riguardo, la piccola chiesa del monastero di Azinou, decorata nel 1105, ospita un ciclo completo di pitture murali con figure molto colorate e serene, che può trovare una corrispondenza in altre aree del mondo bizantino, ad esempio la città di Kastoria nel Nord della Grecia. Il xii secolo si caratterizza per la continuità rispetto agli sviluppi del periodo macedone, ma anche per cambiamenti e innovazioni, in particolare nell’attenzione prestata a nuovi modi per esprimere le narrazioni e le credenze cristiane. Il retroterra culturale di Costantinopoli era caratterizzato dalla tendenza a mettere in questione alcuni suoi valori tradizionali; ad esempio si criticavano la purezza dell’ascetismo monastico – così come era perseguito in realtà – e la logica di un certo pensiero religioso. Inoltre si conoscevano sempre meglio l’arte e la cultura islamiche, come pure le idee occidentali, sia religiose che laiche (molti membri della famiglia dei Comneni avevano mogli occidentali). Bisanzio diffidava delle intenzioni dei suoi vicini, ma era abbastanza realista per osservarli da vicino. Il monastero di Dafni, vicino ad Atene, è un buon esempio della continuità e del cambiamento percepibili nell’arte bizantina del periodo. Benché l’architettura della chiesa principale differisca per molti particolari (come la forma e la dimensione delle finestre) da quella di Hosios Lukas, anch’essa presenta una pianta a croce iscritta in un quadrato con cupola centrale; indubbiamente gli autori dei mosaici avevano visto e studiato i mosaici della chiesa più antica (i mosaici di Hosios Lukas risalgono alla prima metà dell’xi secolo e quelli di Dafni alla seconda metà dell’xi secolo o forse all’inizio del xii). Ma a Dafni nei mosaici compaiono meno ritratti di santi e più scene narrative, perciò i significati del ciclo ne risultano sottilmente modificati. Quando in entrambe le chiese compaiono le
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stesse scene, quelle di Dafni si distinguono per l’aggiunta di un maggior numero di elementi fantastici, e sono più naturalistiche sia per lo stile delle figure che per l’inserimento di particolari. Rispetto ad esse, le grandi composizioni di Hosios Lukas enunciano le verità simboliche fondamentali e immutabili della Chiesa, espresse dagli eventi della vita di Cristo, e lo stile delle immagini insiste sull’immutabilità; a Dafni pare piuttosto che l’osservatore sia presente all’avvenimento descritto nei Vangeli, che si tratti della Nascita di Cristo o della sua Crocifissione. L’umanizzazione delle figure e l’attenzione per i particolari aneddotici, come gli angeli che scendono dal cielo nella Crocifissione, offrono una narrazione più mondana. Una differenza rispetto a Hosios Lukas è osservabile a Dafni anche nel nartece, che ospita un ciclo di mosaici della vita della Vergine – un insieme di storie che non provengono dai quattro Vangeli canonici (200 circa) accettati dalla Chiesa come testo autorizzato del Nuovo Testamento, bensì dai Vangeli apocrifi scritti successivamente, che forniscono particolari sconosciuti della sua vita prima della nascita di Cristo. La conseguenza dell’inclusione di queste scene a Dafni è che la chiesa presenta un maggior numero di immagini e opportunità narrative rispetto a Hosios Lukas, riecheggiando così un interesse crescente all’epoca dei Comneni per la narrazione dettagliata della storia della vita della Vergine – un interesse che trova echi nei manoscritti del xii secolo (come nelle illustrazioni che accompagnano due versioni manoscritte illustrate dei sermoni del monaco Giacomo di Kokkinobaphos, cod. Vat. gr. 1162, e codice di Parigi, gr. 1208). L’enfasi sulla Vergine, e soprattutto sul pathos della sua vita e della sua missione, si osserva in modo crescente nell’arte del xii secolo. Forse l’esempio più famoso è l’icona dipinta a Costantinopoli verso il 1120 e inviata in dono ai sovrani russi a Kiev, che a loro volta la portarono a Vladimir. Questa icona della Vergine col Bambino, detta di Vladimir (conservata ora in una cappella consacrata all’interno della Galleria Tretjakov), è dive-
nuta una delle più celebri icone miracolose della storia russa: è stata trasferita infine a Mosca per essere conservata nel Cremlino, venendo ridipinta di continuo ogni volta che era danneggiata o richiedeva un restauro. Un’icona ugualmente emozionante è una grande tavola dipinta sui due lati ora a Kastoria, nel Nord della Grecia, dipinta alla fine del xii secolo, probabilmente per essere usata nelle processioni dei riti pasquali in un monastero. Sul lato anteriore la Vergine tiene il figlio in braccio, con uno sguardo permeato di tristezza mentre medita sulla sua sorte; sul lato posteriore è raffigurato Cristo morto come Uomo di Dolore. Analogamente l’idea della narrazione come modo per entrare in consonanza con i racconti evangelici è una caratteristica di molti monumenti del xii secolo. Un ciclo particolarmente significativo di pitture murali è nella chiesa del monastero di San Panteleimon a Nerezi, vicino a Skopje in Macedonia. La chiesa fu costruita per un membro della dinastia dei Comneni nel 1164 e fra le scene è visibile una rappresentazione del Compianto sul corpo di Cristo che suscita emozioni nell’osservatore per la sua tristezza, evidente sebbene sfumata. Questo genere di pathos a metà del xii secolo era certamente efficace, ma ben presto gli artisti si resero conto che potevano essere ancora più drammatici nel ritrarre le emozioni, enfatizzando i movimenti e i gesti dei partecipanti. Alla fine del secolo sia nella regione di Nerezi che in tutto il mondo bizantino erano in voga dipinti con figure e composizioni contorte; se ne trovano esempi a Kurbinovo, non lontano da Nerezi (1191), a Lagoudera (1192) sull’isola di Cipro e in un’icona dell’Annunciazione nella collezione di Santa Caterina sul monte Sinai. Questa moda si diffuse nell’Occidente cristiano attraverso le opere di artisti bizantini itineranti, e in modo assai evidente nei mosaici del grande duomo di Monreale vicino a Palermo, nella Sicilia normanna, realizzati negli anni ’80 del xii secolo. Sebbene questa forma d’arte bizantina altamente espressiva non avesse precedenti nei secoli anteriori, sul piano concettuale si tratta
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di una prosecuzione delle idee espresse da Fozio quando inaugurò il mosaico absidale della Vergine col Bambino in Santa Sofia nell’867. Negli anni che seguirono la fine dell’interdizione delle immagini figurate – un’interdizione che egli aveva subito durante l’iconoclastia – Fozio comprese molto chiaramente che il veder rappresentati gli eventi della vita di Cristo costituiva un modo molto efficace per ritenere che fossero accaduti realmente. Gli artisti dell’epoca dei Comneni riu scirono a comunicare in modo ancora più vigoroso che cosa potesse significare assistere a questi eventi straordinariamente importanti. Dal 1204 al 1453: la fine dell’arte bizantina L’occupazione di Costantinopoli da parte dei crociati danneggiò gravemente la cultura di Bisanzio, anche perché le chiese e i palazzi della città furono saccheggiati e molti tesori passarono nei paesi dei nuovi proprietari, in Italia e in Francia (la Sainte-Chapelle a Parigi ospitava alcune delle reliquie bizantine più importanti, mentre per quantità Venezia era imbattibile). Bisanzio perse dei territori, alcuni dei quali non sarebbero stati recuperati mai più; Cipro, Creta e altre isole divennero avamposti coloniali dell’Occidente. Anche dopo la riconquista di Costantinopoli nel 1261 e la rinascita dell’Impero bizantino, tecniche costose come il mosaico divennero una rarità. Il mosaico della Deesis nella galleria meridionale di Santa Sofia fu messo in opera nel 1261, o subito dopo, per sottolineare il ritorno della chiesa all’ortodossia, e verso il 1300 alcune chiese della capitale vennero nuovamente decorate con mosaici. Dopo i lavori ambiziosi nel monastero di Chora (ora Kariye Camii) fra il 1315 e il 1321, che comprendevano sia mosaici che pitture murali, questa tecnica fu praticamente abbandonata e sopravvisse solo nella sua forma miniaturizzata nei pannelli in micromosaico. La chiesa di Chora fu l’opera più ambiziosa e raffinata dell’inizio dell’epoca dei Paleologhi
e venne iniziata da Teodoro Metochites, il cortigiano più potente dell’amministrazione imperiale. I cicli della vita della Vergine e di Cristo nei narteci si sono conservati abbastanza bene nonostante la trasformazione in moschea dopo il 1453 (la sorte di tutte le chiese bizantine di Costantinopoli durante l’epoca ottomana). Rispetto all’arte del xii secolo vi è un interesse perfino maggiore per i particolari e la proliferazione della narrazione, cosa che comporta anche l’inserimento di elementi architettonici per suggerire lo spazio pittorico. Altri dipinti monumentali dell’epoca rivelano la stessa complessità e ricchezza, particolarmente evidenti negli estesi cicli di Decani in Kosovo (1327-1347). Questa chiesa, costruita dalla famiglia reale serba, riflette un’altra caratteristica del periodo: l’evidente conoscenza dell’arte italiana (in questo caso l’architettura e la scultura dell’edificio furono opera di muratori e scalpellini della costa dalmata) e allo stesso tempo però il rifiuto della nuova strutturazione prospettica «razionale» a favore di tradizioni bizantine più conservatrici. Qualcosa di simile si osserva nelle chiese della tarda città bizantina di Mistrà, nella Grecia meridionale. L’arte degli artisti greci di Creta si radicalizzò: mentre alcune icone ricalcavano schemi bizantini tradizionali, altre accettarono gli elementi occidentali più innovatori. Creta e le altre isole non erano più sotto il controllo bizantino, anche se la maggior parte della loro popolazione era ortodossa. Una caratteristica dell’epoca dei Paleologhi è la diffusione, fra gli artisti, dell’uso di firmare le opere – su molte icone compare la frase «di mano di…». Perciò possiamo conoscere qualcosa delle carriere di molti pittori di icone a Creta, ma anche, ad esempio, di Giorgio Kalliergis di Verria in Grecia settentrionale. Altri documenti menzionano gli spostamenti degli artisti, come nel caso del pittore costantinopolitano Teofane che si trasferì al nord e terminò la sua carriera a Mosca come artista famoso. Anche se gli artisti bizantini non raggiunsero mai la notorietà dei personaggi celebri dell’età classica o del
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cristiani dei Balcani. La produzione di icone era ancora fiorente, in particolare come reazione ai cambiamenti che ebbero luogo negli interni delle chiese bizantine, dove le alte iconostasi iniziarono a sostituire le basse transenne precedenti. Queste barriere fra la navata e il santuario iniziarono a essere decorate con icone all’epoca dei Comneni; a partire dal xiii secolo vi furono appese grandi tavole, cosicché i fedeli non poterono più vedere l’altare, tranne in momenti speciali della liturgia. L’interno della chiesa ortodossa moderna si sviluppò all’epoca dei Paleologhi.
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L’essenza dell’arte bizantina
14. La creazione delle stelle. Mosaico, 1180 d.C. Cattedrale, Monreale.
Rinascimento, l’epoca dei Paleologhi rivela cambiamenti sociali in linea con l’Europa occidentale e suggerisce un modello culturale molto diverso rispetto alla prima età bizantina e a quella macedone. L’idea di firmare in modo visibile le opere d’arte emerge per la prima volta all’epoca dei Comneni. Costantinopoli e il suo Impero vissero una condizione di crisi sempre più accentuata a partire dal xiv secolo, mentre i turchi accerchiavano gradualmente la città con un attacco a tenaglia ed eliminavano i vari regni
Rispetto alla Costantinopoli ottomana, la cultura bizantina guardava a Occidente e apparteneva alla cultura europea. Qualunque cosa possa dire la carta geografica in termini di collocazione fra Oriente e Occidente, e sebbene l’arte bizantina sia superficialmente considerata un’espressione «non occidentale», stereotipata e immutabile, essa fa parte indubbiamente della cultura dell’Occidente. Come arte religiosa, l’arte bizantina si fondava sulla «familiarità» dei modelli. Una volta stabilito nel vi secolo il modello del Cristo con la barba (grazie alle prove provvidenziali fornite dalle icone «non di mano umana»), tutti credettero di sapere che aspetto avesse Cristo e tale familiarità creò a sua volta la fede nella verità del cristianesimo. L’arte bizantina è stata quindi fin dall’inizio un’arte missionaria. Anche se la visione moderna dell’arte bizantina è incentrata su Costantinopoli e mette in rilievo la grande arte e i mecenati potenti, dal punto di vista statistico la maggior parte dell’arte religiosa bizantina tuttora esistente è ubicata probabilmente nei monasteri più modesti o nelle chiese dei villaggi. L’arte bizantina – può essere un paradosso – è ugualmente efficace in una chiesa delle dimensioni di Santa Sofia, in un piccolo manoscritto o in un’icona, in uno splendido mosaico o in una modesta pittura murale di una minuscola cappella.
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L’ARTE DELL’ALTO MEDIOEVO IN EUROPA
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Adam S. Cohen
1. Grande pietra runica. Granito, 965-985 ca. Cimitero reale danese, Jelling.
Esaminare l’arte e l’architettura dell’Occidente europeo dal sacco visigoto di Roma, nel 410, fino al punto di svolta del millennio, nell’anno Mille, significa andare incontro ad una sbalorditiva varietà: una molteplicità di popolazioni; numerose istituzioni militari, politiche ed economiche; differenti religioni – sia all’interno che all’esterno delle comunità cristiane emergenti; e una serie impressionante di attività culturali. In questi sei secoli l’Europa inizia a prendere la forma attuale. Quando Alarico entra a Roma alla testa dei Visigoti, sferrando il primo dei numerosi analoghi attacchi nel corso del v secolo, la città ha da tempo cessato di essere la capitale amministrativa di un vasto Impero. I Visigoti (insieme a popoli confederati come Vandali, Suevi e Alani) non erano dei «barbari» puramente distruttivi, come sono stati spesso descritti, poiché molti di questi avevano da tempo stretto alleanze variabili con Roma, e molti dei loro capi vi avevano ricevuto un’istruzione, imparentandosi perfino, attraverso matrimoni, con le famiglie aristocratiche dell’Impero. Ciononostante il sacco di Roma rappresenta perlomeno una rottura psicologica rispetto al passato e induce Agostino, vescovo di Ippona sulla costa nordafricana, a scrivere un’opera monumentale intitolata La città di Dio. In questa grande impresa teologica di uno dei pensatori più eminenti della prima età cristiana, i cui molti scritti avrebbero dominato il pensiero religioso per tutto il Medioevo, si tenta di spiegare il rapporto fra il transitorio mondo politeistico romano ed un mondo che fa parte dell’ordine cosmico cristiano. La prospettiva di Agostino si basava sulla fede, ma da un punto di vista storico non era
affatto sicuro che l’ex Impero romano e il resto dell’Europa al di là di questo si sarebbero orientati verso il cristianesimo. Nel 410 la maggior parte dei popoli del continente e dell’intera Scandinavia seguiva culti tradizionali e importanti differenze dottrinali fra chi professava la fede in Gesù rendevano la nuova religione tutt’altro che omogenea. Nell’anno Mille il politeismo era ormai limitato a poche zone e la popolazione europea condivideva un cristianesimo fondamentalmente unificato, il cui capo titolare era il vescovo della Chiesa di Roma, il papa. Sarebbe utile delineare lo sviluppo dell’arte e dell’architettura nell’Europa altomedievale come una parte della storia della lenta diffusione del cristianesimo; la questione del ruolo dell’arte nella conversione cristiana dell’Europa è effettivamente fondamentale e ne discuteremo diffusamente in seguito. Ma seicento anni di storia europea non possono essere narrati da un’unica prospettiva. La situazione dei Merovingi nella Francia del vi secolo, ad esempio, differisce enormemente da quella dei Vichinghi nella Scandinavia dell’ viii , che a sua volta differisce in modo decisivo da quella degli Ottoni sassoni o dei Mozarabi spagnoli nel x. La storia dell’arte altomedievale è costituita in realtà da diverse storie, ognuna delle quali deve essere compresa nella sua peculiarità. Solo prendendo in esame una molteplicità di punti di vista sarà possibile trarre conclusioni più ampie su ciò che caratterizza l’arte e l’architettura dell’Europa nell’alto Medioevo. Il termine «medievale» viene in origine impiegato da esponenti del Rinascimento come Giorgio Vasari per distinguere se stessi
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dal periodo che li ha preceduti. Il Medioevo è quindi l’epoca che separa la Toscana del xiv e xv secolo dal mondo classico, di cui il Rinascimento tenta di far rivivere la cultura. Nelle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri (la prima moderna storia dell’arte, si potrebbe dire), opera pubblicata alla metà del Cinquecento, Vasari esprime una visione decisamente negativa dell’arte medievale, visione ancora oggi diffusa. Secondo Vasari ciò che distingue l’arte tra il iv e il xiv secolo è la sua minore qualità stilistica rispetto all’arte classica. Paragonando il fregio dell’arco di Costantino, del 315 circa, alle sculture reimpiegate dell’epoca di Traiano, Adriano e Marco Aurelio sempre inserite nell’arco, Vasari definisce con precisione le opere più recenti come un rifiuto degli ideali formali classici, tra i quali vi è la creazione di uno spazio illusionistico in cui corpi proporzionati e organicamente disposti interagiscono in modo più o meno otticamente convincente, fatti spesso risaltare dall’attenzione per particolari come gli abiti, le acconciature, il modellato dei tratti del volto e la messa in scena. Solo nell’ultimo secolo gli studiosi sono stati in grado di valutare questo cambiamento non dal punto di vista negativo vasariano, ma puntando a capire il significato del rifiuto delle forme classiche di tradizione greco-romana. Esiste inoltre un gruppo di manufatti altomedievali che poco o nulla hanno a che fare con l’Impero romano e la sua cultura artistica. Nel tracciare una sintesi dell’arte europea nell’alto Medioevo è necessario considerare non solo ciò che ha condotto da Roma al Rinascimento, ma anche quelle parti della storia dell’arte che non svolgono necessariamente un ruolo in tale grandiosa narrazione. Stile altomedievale Per Vasari l’arte migliore si conforma all’ideale estetico stabilito dai Greci nel v secolo a.C. ed essenzialmente adottato dai Romani. Eppure anche all’apogeo di Roma, quando
gli imperatori estesero il loro dominio dalla Britannia alla Spagna, attorno al Mediterraneo e oltre, differenti stili regionali e schemi estetici, preferiti dalle classi non aristocratiche, coesistettero accanto al raffinato stile ellenistico dell’arte imperiale ufficiale. Lentamente, fra il ii e il v secolo, lo stile plebeo e provinciale fu sempre più utilizzato per comunicare i messaggi dello stesso imperium romano. Questo stile figurativo, sebbene non molto naturalistico e condannato secoli dopo da Vasari e dalla critica successiva, offriva altri vantaggi. Con l’appiattimento del piano delle figure, che riduceva ogni suggerimento di spazio illusionistico tridimensionale, l’eliminazione della coesione organica e dell’individualità nelle figure, e la loro postura rigida e gerarchica, l’arte tardoromana – come il fregio dell’arco di Costantino criticato da Vasari – poteva enfatizzare in modo molto più evidente e drammatico concetti come il potere del sovrano e le diverse relazioni gerarchiche. Nel corso dell’alto Medioevo gli artisti potevano scegliere di rendere le loro immagini in modo classicheggiante o anticlassicheggiante. Queste scelte ci dicono due cose, spesso tra loro collegate: da un lato, e più direttamente, gli scopi in generale estetici ed espressivi dell’artista, dall’altro il modo in cui singoli individui o gruppi definivano se stessi, in particolare rispetto all’antichità classica. L’artista Non vi sono dubbi sull’esistenza nell’alto Medioevo di grandi artisti e architetti, ma la documentazione storica ha lasciato pochissime informazioni sulle singole personalità. A differenza del Rinascimento, nessun biografo ha narrato le vite dei grandi artisti del periodo e d’altra parte questi non erano interessati a celebrare se stessi, né ci si aspettava che lo facessero. Grazie ai testi disponibili è spesso possibile gettare uno sguardo su un singolo artista, ma raramente tale accenno può essere collegato a un’opera d’arte superstite. È più frequente (sebbene an-
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2. Lotario offre il codice all’imperatore Ottone iii. Evangeliario di Lotario, dalla Reichenau, fol. 15v. Miniatura, 990 ca. Tesoro della cattedrale, Aquisgrana.
cora eccezionale) trovare il nome, e talvolta perfino l’immagine, di un artista all’interno di un’opera d’arte, ma anche in questo caso non si può ipotizzare nulla sull’individuo al di là della valutazione della sua abilità tecnica. In un evangeliario realizzato per Ottone iii poco prima dell’anno Mille, ad esempio, la raffigurazione dell’imperatore è preceduta da un’immagine e da un’iscrizione esplicativa: «Con questo libro, imperatore Ottone, possa Dio rivestire il tuo cuore. Ricorda che lo hai ricevuto [il libro] da Liuthar». L’abito semplice e la tonsura del capo indi-
cano che Liuthar era un monaco e che era a tutta evidenza abbastanza importante da essere incluso nell’illustrazione a doppia pagina; ma oltre a ciò non possiamo dire nulla su di lui, neppure se fosse uno scriba, o un artista, o entrambe le cose. In sostanza l’artista altomedievale è perlopiù una figura anonima; in effetti in questo periodo lo status dell’artista è quello di artigiano. Certo, gli artigiani erano altamente apprezzati. Nel codice delle leggi dei Burgundi la multa per l’uccisione di una persona è di trenta solidi, ma se si uccide un fabbro sale a cinquanta monete d’oro. L’uccisione di un argentiere costava al trasgressore cento solidi, mentre un orafo ne valeva duecento – chiara affermazione dello status differente di un artigiano e di una persona comune. Si deve osservare, comunque, che le multe venivano calcolate non a favore della famiglia dell’artigiano, ma dei suoi datori di lavoro. L’artigiano era sostanzialmente uno schiavo apprezzato, il cui padrone andava indennizzato per la perdita del suo talento. Di conseguenza, parlando dell’ispirazione che informa un’opera d’arte dell’alto Medioevo, si può certamente apprezzare l’abilità formale degli artisti anonimi; ma se ci si occupa del significato riposto dell’oggetto è opportuno preoccuparsi soprattutto delle idee e dei valori legati agli interessi del committente, di personaggi come l’imperatore Ottone iii. Durante questo periodo l’impiego delle arti era riservato prevalentemente alle classi più elevate della società, le quali fornivano – più che in altre epoche – sia i materiali preziosi che la motivazione ideologica che ispirava la creazione delle opere. Nell’alto Medioevo la società era rigidamente gerarchizzata e la maggior parte delle persone non aveva né il tempo né il denaro da investire in imprese artistiche. Sia fra i cristiani sia fra i politeisti, i governanti, gli aristocratici, i nobili erano i principali mecenati delle arti e dell’architettura, mentre nel mondo cristiano erano analogamente mecenati importanti i vescovi, gli abati e le badesse.
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La conversione dell’Europa
3. L’imperatore Ottone iii. Evangeliario di Lotario, dalla Reichenau, fol. 16r. Miniatura, 990 ca. Tesoro della cattedrale, Aquisgrana.
In uno dei contributi precedenti Jas’ Elsner ha delineato lo sviluppo dell’arte dei primi cristiani e ha dimostrato come essa abbia trovato il proprio fondamento nelle forme e nelle idee romane. Con la conversione di Costantino al cristianesimo e gli editti che lo dichiararono religione ufficiale dell’Impero, il iv secolo costituì una svolta di fondamentale importanza nella storia d’Europa. L’emergente religione cristiana venne innestata sulle fondamenta dell’Impero e, come in passato le legioni erano partite da Roma per conquistare l’Europa, così ora i missionari cristiani – e l’arte cristiana – sarebbero partiti da Roma e dall’Italia per diffondere il regno temporale di Cristo sulla terra. Un esempio particolarmente evidente è la missione di sant’Agostino (di Canterbury) in Inghilterra. Partiti da Roma nel 597 per ordine di papa Gregorio Magno, Agostino e i suoi confratelli giunsero nel Kent, dove presto causarono la conversione di re Etelberto e di gran parte del suo popolo. Secondo il resoconto della fine del vii secolo redatto dal monaco inglese Beda (Historia ecclesiastica gentis Anglorum, i, 25-26), quando vennero convocati per la prima volta dal re, i missionari si fecero precedere da una croce processionale d’argento e da un’immagine dipinta di Gesù. Nessuno di questi oggetti, che a quanto pare svolsero un ruolo fondamentale nel tentativo di Agostino di dimostrare al pagano Etelberto le verità della religione cristiana, è giunto fino a noi. I beni della missione includevano senza dubbio un evangeliario, quasi certamente il manoscritto custodito ora al Corpus Christi College di Cambridge. Il libro è in effetti un elemento chiave nella storia della conversione e ci ricorda in primo luogo come fossero importanti i libri nel cristianesimo primitivo. Il Vangelo di Giovanni inizia dopo tutto con le parole «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Senza tenere conto delle complesse implicazioni teologiche dell’equazione Gesù Cristo-Verbo, questo versetto sottolinea il valore accordato alle parole e ai libri che le contenevano. Na-
turalmente ciò era particolarmente vero nel caso del Vangelo, le cui parole narravano la vita e gli insegnamenti di Cristo. Se l’evangeliario era particolarmente significativo per Agostino e i suoi compagni cristiani, esso avrebbe avuto un impatto ancora maggiore sugli Inglesi, per i quali la lettura e la scrittura erano ancora concetti estranei. Sappiamo grazie alla testimonianza di Bonifacio, un missionario dell’viii secolo presso i Frisoni, che un evangeliario di lusso era ritenuto uno strumento efficace per far colpo sui pagani analfabeti e convertirli. L’Evangeliario di sant’Agostino può essere stato uno strumento efficace ai fini della conversione anche perché illustrato. In una lettera tratta da un diverso contesto, papa Gregorio Magno sottolinea il ruolo rilevante che le immagini potevano svolgere nell’istruzione degli analfabeti o dei non cristiani. Vale quindi la pena osservare attentamente le figure del manoscritto. Il fatto stesso che il libro fosse illustrato indica che si trattava di un libro di alto livello, le cui illustrazioni completavano in maniera significativa il testo. Purtroppo solo due delle otto immagini originarie si conservano oggi, ma ciò basta a fornirci una buona idea dello schema figurativo complessivo. Ognuno dei quattro testi evangelici era preceduto da un’immagine del proprio autore, in questo caso Luca. L’inserimento del ritratto dell’autore prima di un testo era un espediente tradizionale greco-romano; in effetti Luca è raffigurato con le sembianze familiari di un filosofo, con capelli bianchi e toga, ed è assiso sotto una struttura architettonica classicheggiante (che presenta nella lunetta un bue, il simbolo di Luca). Tiene in grembo un grande libro aperto, cosa che sottolinea il ruolo importante dell’evangelista nella trasmissione ai fedeli della vita e degli insegnamenti di Gesù. Su ciascun lato della struttura una serie di scene narrative raffigura eventi importanti tratti – cosa che non stupisce – dal Vangelo di Luca. Ma nella pagina illustrata che precede Luca c’erano dodici scene tratte non solo da quel Vangelo, ma anche dagli altri, per sottolineare l’armonia intrinseca dei diversi racconti evangelici.
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Benché non si sappia con certezza se ciò valga anche per il manoscritto di sant’Agostino, gli evangeliari illustrati nell’alto Medioevo contenevano di solito all’inizio del volume una serie di tavole canoniche illustrate, a ulteriore dimostrazione della correlazione dei passi dei diversi Vangeli. Malgrado le differenze stilistiche dovute all’epoca e all’area geografica, queste tavole canoniche rivelano una coerenza notevole nella loro struttura architettonica e nell’inclusione dei simboli degli evangelisti nelle lunette (Matteo/Uomo, Marco/Leone, Luca/Bue, Giovanni/Aquila). Si osservi ad esempio la tavola canonica di una Bibbia mozarabica del x secolo da Valeránica, in Castiglia. Lo stile delle immagini e le prove paleografiche e testuali dell’evangeliario di sant’Agostino indicano che questo manoscritto fu scritto e illustrato in Italia, forse a Roma, verso la fine del vi secolo. In ciò il libro rappresenta una prova concreta della diffusione del cristianesimo e della sua cultura figurativa da Roma al resto dell’Europa occidentale. Beninteso, i popoli incontrati da Agostino e dai confratelli missionari disponevano già di un’arte locale, pur non avendo esperienze precedenti nella produzione libraria. Ciò valeva non solo per gli Angli e i Sassoni d’Inghilterra (come per i Pitti, i Gallesi e gli Irlandesi), ma anche per i numerosi gruppi che si insediarono nei secoli successivi alla disgregazione dell’Impero romano: Vandali, Unni, Avari, Slavi, Alani, Suevi, Visigoti, Ostrogoti, Longobardi, Franchi, Burgundi, Bretoni, Alemanni, Sassoni, Juti, Danesi, Frisoni e Vichinghi. Non è qui possibile dar conto adeguatamente dello sviluppo stilistico dell’arte vichinga, ad esempio, o esaminare le differenze fra l’arte dei Longobardi e quella degli Alemanni. Si possono tuttavia fare alcune considerazioni generali per caratterizzare la produzione artistica di questi gruppi. In linea di massima, e soprattutto prima dell’arrivo del cristianesimo, si poneva l’accento sulla fabbricazione di oggetti preziosi in oro, argento, vetro colorato e gemme. Di solito si trattava di ornamenti personali dalle classi elevate: fibbie di cinture, spille, fermagli da fissare sulle spalle, orecchini, bracciali e anelli. Si realizzavano poi altri
oggetti metallici, spesso di carattere cerimoniale, come strumenti di guerra – foderi per spade, lame di asce, elmi, sino a bardature e staffe per cavalli. Un esempio particolarmente bello di tali oggetti è una fibula longobarda ad arco risalente al 600 circa, in argento dorato, realizzata a stampo e rifinita con fitte incisioni sfaccettate. I bordi triangolari sono riempiti di niello, lega metallica nera, e l’arco centrale è esaltato da giri sottili di filo perlinato. Oltre alle sette placchette (delle undici originali) zoomorfe della lamina principale, l’intera superficie della fibula è ornata da una profusione di animali astratti. Simili motivi zoomorfi – in questo caso quadrupedi acquattati raffigurati di profilo con sottili corpi nastriformi e teste con lunghe mascelle – erano onnipresenti negli oggetti metallici di tutta Europa, sebbene gli stili particolari differissero da un luogo all’altro e da un periodo all’altro. Un’altra tecnica popolare e diffusa è il cosiddetto stile policromo, in cui la superficie della fibula viene ricoperta da piccoli elementi di vetro o pietre semipreziose, più comunemente granati rossi fatti risaltare dalla raffinata filigrana d’oro. Una coppia di fibule in bronzo dorato a forma di aquila con una bella combinazione di cloisons rossi, verdi e azzurri sono tipiche del periodo visigotico in Spagna, nel vi secolo. La sporgenza centrale presenta un cabochon di cristallo, mentre l’occhio è costituito da una sfera di ametista incassata nella seppiolite. È importante notare come questi materiali e stili non siano, come si pensava in passato, prerogativa esclusiva delle tribù nomadi. Piuttosto, molte caratteristiche basilari, formali e iconografiche, compaiono anche negli oggetti metallici romani. Fibule come quelle longobarde e visigote erano portate da donne di ceto sociale elevato non solo per fermare gli abiti, ma, insieme ad altri oggetti di ornamento personale, per indicare la propria posizione sociale. Inoltre, secondo la pratica politeistica, uomini e donne venivano sepolti con i loro gioielli preziosi e altri simboli di status. Dato che le testimonianze disponibili a proposito di questa arte mobile provengono principalmente
4. Fibula ad aquila, da Alovera. Bronzo dorato, pasta vitrea e pietre dure, inizi del vi secolo d.C. Museo Arqueológico Nacional, Madrid.
5. Corona votiva di Recesvinto, dal Tesoro di Guarrazar, Toledo. Oro, granati, pietre e perle; lettere: oro, pietre preziose e cristallo di rocca; croce pendente: oro, zaffiri e perle, 653-672. Museo Arqueológico Nacional, Madrid. La «r» originale è conservata nel Musée National du Moyen Âge, Parigi.
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da scavi archeologici di siti funerari, esse ci forniscono una visione un po’ distorta della produzione artistica, che deve avere compreso anche tessili riccamente decorati, di cui rimangono frammenti in tutta Europa, e ogni tipo di scultura e architettura lignea, anch’esse andate in seguito perdute. Un sito funerario particolarmente importante è quello di Sutton Hoo, nell’East Anglia, in Inghilterra. Portato alla luce nel 1939, all’ombra minacciosa della seconda guerra mondiale, il sito ha rivelato circa cinquantasei tombe e diversi tumuli con numerosi reperti funerari. Il ritrovamento più spettacolare avvenne in un tumulo che conteneva la tomba di un personaggio nobile a cui è stata attribuita – in modo convincente, anche se assolutamente non certo – l’identità di Raedwald, re dell’East Anglia morto attorno al 625. La posizione sociale del personaggio è indicata dalla sua collocazione in una grande nave di legno ricolma di un considerevole assortimento di oggetti straordinariamente ricchi. Molti di essi, di fattura squisita, rappresentano gli esemplari più significativi dell’epoca – una fibbia per cintura in oro massiccio con serpenti e quadrupedi intrecciati, il coperchio di una borsa e fibule in oro con granati lavorati a intarsio da fissare sulla spalla, un raffinato millefiori e complessi oggetti cloisonnés. Uno scudo, un elmo, una spada, vari recipienti per bere e la stessa nave sepolta ricordano il medesimo tipo di mondo evocato nel grande poema medievale anglosassone Beowulf, in cui uomini d’armi eroici lottano contro le forze del male, cercano la gloria e l’oro, e, in un passo, lasciano andare alla deriva un re danese morto su una nave carica di tesori. Nella nave funeraria di Sutton Hoo si trovò anche un grande tesoro comprendente vasellame d’argento tardoromano e bizantino coevo, prova questa non solo della tendenza degli Angli ad accumulare ricchezze in forma di oggetti preziosi, ma anche del commercio diffuso in epoca altomedievale. È possibile inoltre ipotizzare che la decorazione di alcuni di questi oggetti d’argento abbia un evidente simbolismo cristiano. Che significato potrebbero mai avere oggetti simili nell’ambito di una sepoltura evidentemente pagana? Una
teoria a lungo sostenuta suggeriva che tali oggetti commemorassero le ambivalenti inclinazioni religiose di re Raedwald che, secondo Beda, dopo aver abbracciato il cristianesimo tornò alla pratica pagana, cercando di far coesistere l’antica e la nuova religione. La presenza di questi oggetti potrebbe essere spiegata anche nel modo opposto, come un’affermazione di politeismo da parte dei successori di Raedwald, che lo avrebbero seppellito insieme agli oggetti per esprimere il loro rifiuto della nuova religione che stava penetrando grazie agli sforzi di missionari come Agostino di Canterbury. In breve, sebbene l’interpretazione esatta della nave-tomba di Sutton Hoo e del suo prezioso corredo funerario ci sfugga ancora, essa rappresenta un importante momento di transizione dalle pratiche politeistiche del passato al mondo sempre più cristianizzato dell’inizio del vii secolo. Ciò non significa che con la diffusione del cristianesimo le forme e le idee indigene siano scomparse rapidamente. Tuttavia, man mano che un numero sempre maggiore di gruppi di diverso tipo insediati in tutta Europa abbracciava il cristianesimo romano, la Chiesa riusciva a mutare l’usanza pagana di introdurre ricche suppellettili nelle sepolture. Chi in precedenza riteneva opportuno portare con sé nella tomba le proprie ricchezze fu persuaso a offrire tali oggetti alle chiese, che divennero così depositarie di grandi opere d’arte e ricchezze. A questo proposito è significativa la corona realizzata per committenza del re visigoto Recesvinto fra il 653 e il 672. Ritrovata nei pressi di Toledo, dove probabilmente era stata sepolta per proteggerla dagli invasori musulmani, la corona era in origine appesa al di sopra dell’altare di una chiesa. Invece di produrre un oggetto destinato all’ornamento personale, con oro e gemme si era creato un ricco oggetto liturgico a cui erano sospese alcune lettere formanti la scritta «Donazione di re Recesvinto» – a indicare l’importanza per il committente di dimostrare la propria devozione agli uomini e a Dio. Per tutto l’alto Medioevo alcuni degli oggetti più splendidi furono associati al servizio liturgico: paliotti d’oro, patene e calici d’oro, d’argento e di ve-
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tro antico rilavorato, paramenti sacerdotali di seta preziosa e filo d’oro, legature di evangeliari in oro, gemme e avorio. Come la corona di Recesvinto, opere analoghe proclamavano la generosità del mecenate, la cui donazione era destinata ad assicurargli il favore divino per questa vita e soprattutto per la successiva, e dimostravano sempre la gloria di Dio, trattandosi di oggetti preziosissimi usati durante le funzioni religiose. I libri più lussuosi erano decorati anche all’interno. Uno straordinario evangeliario del 700 circa, dal monastero di Lindisfarne in Northumbria, fornisce ulteriori prove della transizione dal paganesimo al cristianesimo nelle isole britanniche (considerata la difficoltà di determinare dove, con esattezza – in Inghilterra, Irlanda o Galles – sia stato prodotto un particolare manoscritto, gli studiosi definiscono così l’intero gruppo come «insulare»). Il ritratto di Matteo si basa sullo stesso tipo di ritratto degli evangelisti apprezzabile nell’Evangeliario di sant’Agostino, di provenienza italiana; in effetti Beda dice che Benedict Biscop, il fondatore dei vicini monasteri di Monkwearmouth e Jarrow, si recò in Italia per acquistare tavole dipinte e libri di cui dotare la chiesa. Un codice fornì il modello per un’immagine dello scriba Esdra dell’Antico Testamento in una Bibbia (detta Codice Amiatino) realizzata a Monkwearmouth-Jarrow, come pure per il Matteo dell’Evangeliario di Lindisfarne. Mentre Esdra conserva gran parte dell’illusionismo tardoantico evidente nell’Evangeliario di sant’Agostino, la figura di Matteo è stata invece trasformata in modo radicale. L’evangelista si ritaglia piatto sul piano della figurazione, assiso su uno scranno con poggiapiedi sospeso in modo poco convincente in uno spazio a stento articolato. L’uso di larghe stesure di colori piatti e la mancanza di ombre o modellato – evidente nel modo in cui i capelli di Matteo e il panneggio sono definiti da semplici linee – elimina nelle figure ogni senso di plasticità. L’impiego dello stile zoomorfo locale è ancora più evidente nelle cosiddette «pagine a tappeto», decorazioni a piena pagina che precedono ogni testo evangelico e la cui
funzione non è stata ancora compresa con chiarezza. Queste pagine – capolavori di inventiva nei loro dettagli ornamentali, basate su formule matematiche complesse – rivelano come l’estetica utilizzata in precedenza negli oggetti metallici sia stata messa al servizio dei libri cristiani (si noti il motivo cruciforme generale che struttura la pagina). Un’iscrizione del x secolo alla fine del manoscritto afferma che l’evangeliario è stato scritto, e molto probabilmente miniato, da un unico personaggio di nome Eadfrith, che sappiamo essere divenuto ad un certo punto l’abate del monastero. L’atto stesso di creare questo libro lussuoso, che richiese pergamena tratta dalla pelle di diverse centinaia di animali e anni di lavoro
6. Eadfrith, San Matteo, Evangeliario di Lindisfarne, fol. 25v. Miniatura, 698 ca. British Library, Londra.
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7. Eadfrith, pagina-tappeto, Evangeliario di Lindisfarne, fol. 94v. Miniatura, 698 ca. British Library, Londra.
diligente, è certo espressione della devozione del monaco verso Dio. In effetti l’iscrizione evidenzia che l’evangeliario è stato scritto in onore di Cutberto, santo locale di Lindisfarne le cui reliquie vennero traslate in un nuovo santuario nel 698, ed è probabile che questo avvenimento abbia dato luogo alla realizzazione dello splendido libro. Nell’Evangeliario di Lindisfarne Matteo è identificato dall’iscrizione ed è accompagnato dal simbolo abituale, l’angelo, sospeso al di sopra dell’evangelista mentre suona una tromba. A destra dell’illustrazione la testa di una figura misteriosa fa capolino in modo non naturalistico da dietro una tenda. È sicuramente una figura veterotestamentaria, Mosè o
Esdra (come nel Codice Amiatino), o forse la personificazione dell’Antico Testamento stesso; l’aureola è un segno di santità equivalente a quella di Matteo, ma il libro dell’evangelista è aperto e quest’ultimo è totalmente visibile, mentre la figura regge un libro chiuso ed è nascosta in parte dalla tenda. L’illustrazione sta comunicando così la rispettiva posizione delle Scritture ebraiche, che dopo la venuta di Cristo sono superate (chiuse), e del Nuovo Testamento, che rivela (apre) la verità del nuovo ordine cristiano. L’abrogazione della legge mosaica e il suo compimento nel tempo di grazia sotto Cristo è un tema complesso che è stato elaborato in molti testi e immagini altomedievali e si cristallizza in modo sintetico nel ritratto dell’evangelista dell’Evangeliario di Lindisfarne. Questa immagine smentisce di conseguenza l’affermazione vigorosa di Gregorio Magno, secondo cui le immagini potevano fungere da «Bibbie per analfabeti». È chiaro che nessun analfabeta sprovvisto di una guida teologica avrebbe potuto capire un’immagine come quella di Matteo nell’Evangeliario di Lindisfarne, o quella di Ottone iii di cui si parlerà più avanti. Anche se è probabile che Gregorio stesse parlando specificamente di immagini in grande scala dipinte nelle chiese, illustrazioni come il Matteo di Lindisfarne ci ricordano che le figurazioni medievali erano tutt’altro che semplici da capire e rappresentavano molto più di banali illustrazioni del testo.
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La Renovatio Imperii Romanorum L’uso delle immagini per scopi teologici e ideologici complessi fu una caratteristica soprattutto dei Carolingi, la dinastia franca che sostituì verso la metà dell’viii secolo i Merovingi. Il giorno di Natale dell’anno 800 papa Leone iii incoronò Carlo Magno «imperatore romano». Questo atto altamente simbolico costituiva un rafforzamento reciproco. Accettando la corona, Carlo riconosceva l’autorità del papa nelle questioni ecclesiastiche, mentre la sua elevazione al grado di imperatore non era solo un riconoscimento da parte del papa del po-
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8. San Matteo evangelista. Evangeliario dell’Incoronazione, fol. 15v. Miniatura, 800 ca. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
tere temporale del re (Carlo aveva unificato la maggior parte dell’Europa occidentale sotto il proprio esclusivo controllo militare e amministrativo), ma anche un modo concreto per assicurarsi quella potenza a favore della Chiesa. L’alleanza fra Carlo e il papato avrebbe avuto molti effetti, tra cui la reintroduzione dell’ideologia dell’imperium romano in Occidente, che Carlo proclamò con orgoglio in una moneta su cui era impressa a rilievo la scritta Renovatio Imperii Romanorum – rinnovamento dell’Impero romano (un’idea che deve avere infastidito i sovrani bizantini dell’epoca, che sostenevano di costituire una catena ininterrotta di successione da Roma). Un’espressione del rinnovamento dell’antichità a opera di Carlo – che si comprende meglio alla luce di un legame specifico con la Roma paleocristiana – è la serie di ritratti degli evangelisti di un evangeliario detto «Evangeliario dell’Incoronazione», per l’evento che può averne motivato la creazione. Nel ritratto di Matteo possiamo vedere come l’artista (la cui identità – cosa che non stupisce – è ignota) ha dipinto la pagina in un bello stile classicheggiante. L’evangelista è assiso comodamente in uno spazio cui fa da sfondo un cielo con delicate sfumature di azzurri pallidi e rosa. Il panneggio avvolge il corpo in modo convincente e il volto e il collo sono modellati con sottili gradazioni di colore per rendere l’illusione della luce, dell’ombra e della tridimensionalità – proprio le caratteristiche formali rifiutate dagli artisti del Matteo dell’Evangeliario di Lindisfarne. Infine, l’evangelista è collocato entro una cornice ornata di raffinate foglie d’acanto classicheggianti, e il tutto è circondato dalla porpora regale. Un’altra manifestazione della rinascita del passato a opera di Carlo è evidente nella cappella del palazzo di Aquisgrana. La chiesa, a pianta centrale con perimetro ottagonale, progettata negli anni ’90 dell’viii secolo da Odo di Metz, era annessa al palazzo reale (scomparso) e al secondo livello aveva una loggia alla quale Carlo poteva accedere direttamente e da cui poteva vedere l’altare, proprio di fronte. Una pianta centrale simile era insolita per le chiese, e quasi certamente si basava su quella della basilica di San Vitale a Ravenna, del vi secolo,
con i suoi famosi mosaici dell’imperatore Giustiniano e dell’imperatrice Teodora. Secondo Eginardo, un esponente della corte autore di una biografia di Carlo, il sovrano si procurò colonne di porfido da Ravenna e da Roma, collegando così in modo tangibile la sua fondazione ai grandi centri imperiali del passato. Carlo Magno fece affidamento su Roma anche per procurarsi i libri con cui uniformare il testo della Bibbia e regolarizzare il servizio liturgico. Per realizzare questi scopi chiamò presso la corte ad Aquisgrana gli uomini più colti d’Europa e arricchì le chiese e soprattutto i monasteri maschili e femminili in tutto il regno. Durante l’alto Medioevo i monasteri furono i depositari principali dell’alfabetizzazione e spesso i produttori o i beneficiari di una parte del materiale iconografico più splendido prodotto all’epoca (ad esempio l’Evangeliario di Lindisfarne). Un documento insolito dell’inizio del ix secolo riporta una pianta ideale per un monastero. Inviata dall’abate Haito di Reichenau all’abate Gozbert di San Gallo in Svizzera, dove si conserva ancora il manoscritto originale, la pianta descrive schematicamente in un formato sistematico e modulare i diversi edifici del complesso monastico. Quello più importante era naturalmente la chiesa, al centro, con il chiostro adiacente in cui i monaci recitavano quotidianamente i salmi. Altri edifici a uso dei monaci comprendono il refettorio, la cucina, l’infermeria e lo scriptorium (dove si producevano i libri); sono inseriti perfino particolari come le latrine e i diversi alberi del cimitero. Vi erano anche numerosi spazi riservati ai laici, come la foresteria, l’ospedale e una scuola gestita dai monaci. Questi si mantenevano grazie a un panificio, una fabbrica di birra, stalle, dispense e un orto. La pianta di San Gallo, sebbene mai realizzata in questa forma, fornisce un’idea notevolmente particolareggiata, senza precedenti nei testi coevi, della vita monastica e delle strutture necessarie per il sostentamento dei monaci. Nella pianta di San Gallo la chiesa è dotata di quasi una dozzina di altari diversi. Nell’Occidente medievale gli altari contenevano sempre una reliquia – qualche resto fisico di un santo o un oggetto che era venuto a contatto
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con una figura santa. L’associazione fra altare e reliquia si basava su un versetto del libro dell’Apocalisse (6,9): «Vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa». Man mano che nell’Europa occidentale aumentava il numero delle chiese, si sviluppò la pratica di dividere il corpo dei santi per distribuirlo in modo più ampio. La reliquia era un resto tangibile della figura santa, un legame fisico con il santo (o perfino con Maria o Gesù) che ora era in cielo e a cui si poteva ricorrere perché intercedesse presso Dio a favore del richiedente. Dal momento che tali reliquie erano ritenute così preziose, di solito si conservavano in contenitori realizzati con i materiali più lussuosi. Un bell’esempio è il reliquiario ottoniano contenente il sandalo dell’apostolo Andrea. Realizzato a Treviri negli anni ’80 del x secolo per l’arcivescovo Egberto, il contenitore ha assunto la forma della reliquia che contiene ed è realizzato in oro, smalto e gemme preziose. Ancora una volta un oggetto simile avrebbe dimostrato non solo la gloria del santo, le cui reliquie erano ritenute operatrici di miracoli, ma anche il prestigio del mecenate. L’arcivescovo Egberto fu una delle molte figure ecclesiastiche potenti nel regno ottoniano, un’entità politica formatasi a metà del x secolo nella parte orientale dei territori appartenuti un tempo a Carlo Magno (l’equivalente pressappoco dell’attuale Germania). La famiglia sassone dei Liudolfingi occupò il vuoto lasciato dai sovrani carolingi, sempre più inetti, e ricostituì l’idea di Carlo Magno di un Impero romano quando Ottone i fu incoronato dal papa a Roma nel 962. L’espressione più notevole della regalità ottoniana, tuttavia, andò molto al di là di quanto concepito nella società carolingia. Mi riferisco a una rappresentazione di Ottone iii in un evangeliario realizzato poco prima del Mille, in cui l’imperatore è raffigurato su uno sfondo di oro puro, innalzato al di sopra della terra e quasi nei cieli, come indica la mano di Dio che scende dall’alto per incoronarlo. Il sovrano è circondato da una mandorla, un alone attorno al corpo che indica santità, e dai simboli dei quattro evangeli-
sti. Simili particolari, nonché la composizione della pagina nel suo insieme, si basano direttamente su prototipi carolingi raffiguranti Cristo in maestà, e in effetti questa illustrazione di Ottone compare nell’evangeliario proprio dove ci si sarebbe aspettati ordinariamente una Maiestas Domini (fra le tavole canoniche e il ritratto di Matteo). In breve, Ottone, o più probabilmente il consigliere teologico che sovrintendeva all’esecuzione dell’immagine per conto dell’imperatore, sostituì fondamentalmente a Cristo il sovrano – una dichiarazione senza precedenti, questa, della funzione del sovrano temporale come rappresentante divino di Cristo sulla terra. Una delle cause importanti del crollo dell’impero carolingio furono le ripetute incursioni degli abitanti vichinghi della Scandinavia, che disgregarono la vita politica e religiosa dell’Europa occidentale. Gli attacchi reiterati e violenti dei pagani Vichinghi erano in primo luogo un modo per saccheggiare e procurarsi un ricco bottino, ma furono anche il preludio al loro insediamento, in Normandia e nell’Inghilterra settentrionale. Tale insediamento portò gli abitanti della Scandinavia a contatto più stretto con comunità cristiane consolidate, e il tipo di atti predatori che portarono, ad esempio, al saccheggio e all’abbandono di Lindisfarne nel 793 (quando i monaci fuggirono con le reliquie di Cutberto e l’Evangeliario di Lindisfarne) cedette lentamente alla conversione cristiana. Tra la fine del x e il xii secolo la Scandinavia visse lo stesso tipo di trasformazione culturale e artistica descritta in precedenza per l’Inghilterra del vi e vii secolo. Ancora una volta lo stile animalistico e non figurativo degli abitanti della Scandinavia, impiegato soprattutto per oggetti destinati all’ornamento personale, era usato ora in un nuovo contesto cristiano. Un esempio splendido è la grande pietra runica eretta a Jelling, in Danimarca, da re Aroldo Dente Azzurro, che si convertì al cristianesimo verso il 965 (morì nel 985 circa). È un enorme masso di granito a tre lati (alto 3,43 metri) fatto innalzare da Aroldo fra due grandi tumuli funerari come memoria dei genitori e commemorazione della sua gloria. L’iscrizio-
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9. Reliquiario del sandalo di sant’Andrea apostolo. Oro, smalto e pietre preziose, 980-990. Domschatz, Treviri.
ne runica che ricopre un lato e continua alla base degli altri due dice: «Re Aroldo fece fare questi memoriali per suo padre Gorm e sua madre Thyre; [è] quell’Aroldo che conquistò tutta la Danimarca e la Norvegia e rese cristiani i danesi». Mentre l’ubicazione e l’iscrizione proclamano chiaramente la funzione dinastica della pietra, la decorazione a bassorilievo rivela la commistione di motivi importati e locali. Su un lato figura una rappresentazione astratta e molto piatta del Cristo crocifisso, circondato da un intreccio nastriforme che forma un cerchio attorno alla sua cintola. Sul secondo lato compare una raffigurazione della «grande bestia» che sarebbe divenuta centrale nell’arte scandinava. Un grande animale con artigli,
forse un leone, è avvinto da un serpente, e la coda della bestia si trasforma in una fluente foglia di acanto che a sua volta avvolge il serpente. Ciò che rende la pietra così straordinaria non sono le particolarità stilistiche, ma il modo in cui l’artista scandinavo ha trasformato motivi occidentali e cristiani, come la voluta di acanto e la rappresentazione di Cristo, in questa nuova sintesi artistica. La mescolanza di culture che produsse la Pietra di Jelling in Danimarca fornì anche il contesto per l’arte della Spagna altomedievale. I Visigoti si erano convertiti dalla forma ariana del cristianesimo a quella cattolica verso il 600, ma persero poi il regno a causa dell’invasione musulmana del 711. La presenza cri-
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stiana in Spagna si ridusse così a una piccola porzione di territorio al nord. Nei tre secoli successivi e anche oltre, l’arte e l’architettura della penisola iberica furono integrate nelle espressioni artistiche dei territori musulmani. Gioielli, oggetti in metallo, intagli in avorio e tessili sontuosi furono i prodotti caratteristici di questo periodo, e quando i cristiani riconquistarono infine Al-Andalus tra il x e il xii secolo, gli stili, i materiali e le tecniche islamiche influenzarono la loro arte. Fra gli oggetti più interessanti prodotti in questo periodo di conflitto religioso e culturale è un gruppo di manoscritti miniati nei monasteri benedettini di confine. Questi libri «mozarabici», molti dei quali copie dei commenti all’Apocalisse del monaco Beato di Liébana, dell’viii secolo, mostrano un approccio piatto, astratto e soprattutto cromatico alla pittura. Un’illustrazione significativa è il Giudizio Finale del Beato di Gerona, un manoscritto dell’Apocalisse illustrato in modo sontuoso, prodotto verso il 970 nel monastero di Tábara, nel León. Le figure astratte sono collocate su uno sfondo formato da ampie fasce di colore saturo in cui tutto comunica la drammaticità e il carattere ultraterreno della scena. L’immagine del Giudizio Finale in uno dei molti manoscritti dell’Apocalisse realizzati dalla generazione vissuta nel periodo che precede l’anno Mille richiama alla mente i terrori che, come si è spesso creduto, avrebbero accompagnato il millennio a venire. Le tracce di queste paure sono decisamente eterogenee, esistendo con tutta probabilità un’intera gamma di opinioni sull’incombente anno Mille: si andava dall’ansia totale per la fine imminente del mondo alla visione assolutamente fiduciosa secondo cui non sarebbe cambiato nulla. Il problema è che la maggior parte degli individui dell’altomedioevo non ha lasciato traccia dei propri pensieri e, per la documentazione storica, dobbiamo contare su ciò che una piccola percentuale colta della popolazione ha deciso di tramandare per iscritto. A questo proposito il Beato di Gerona è veramente rappresentativo dell’arte altomedievale. È un libro cristiano prodotto dall’élite erudita di un monastero benedettino. Un’iscrizione
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indica che è stato realizzato per ordine dell’abate Dominicus – un tipo di committente caratteristico dell’alto Medioevo; scritto dal monaco Senior – che realizzò altri manoscritti a Tábara, ma di cui non sappiamo nient’altro; e illustrato da Emeterius, monaco, e da Ende, «pittrice e serva di Dio» – cosa che ci ricorda che le monache erano attive nel campo della scrittura e dell’illustrazione dei libri, mentre le loro corrispondenti laiche erano spesso importanti committenti e produttrici di tessuti e oggetti in metallo. Lo stile astratto e lineare del Beato di Gerona, benché chiaramente mozarabico, è rappresentativo del modo in cui l’arte altomedievale rifiuti per lo più l’illusionismo greco-romano a favore di uno stile non naturalistico per trasmettere chiarezza visiva e ideologica. Nel Giudizio Finale non si ha tanto la paura del millennio a venire, quanto la speranza fervida dell’accettazione eterna di Cristo. Dalla prospettiva dello storico, l’elemento significativo dell’anno Mille è in definitiva il fatto che esso segna il primo momento in cui l’Europa occidentale e settentrionale furono unite sostanzialmente nella religione cristiana. Con la conversione attorno al Mille dell’Islanda e della Scandinavia, della Polonia e dell’Ungheria, era possibile trovare in Europa un’espressione religiosa comune. Mentre molte delle idee espresse dall’arte altomedievale sarebbero rimaste costanti nel secoli successivi – ornamento personale, potere, posizione sociale, venerazione materiale dei santi, gerarchia terrena e celeste, desiderio ardente di tornare a un passato puro, e speranze sempre presenti nel favore divino in questo mondo e in quello a venire – le forme assunte da tali idee nell’arte e nell’architettura avrebbero continuato a mutare.
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10. Ende e Emeterio, I sette angeli che recano le sette piaghe escono dal santuario. Beato di Gerona, dal monastero di San Salvador de Tábara, fol. 198r. Miniatura, 975. Museu Diocesà, Gerona.
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L’ARCHITETTURA DELL’ALTO MEDIOEVO OCCIDENTALE
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Roberto Cassanelli
1. Cappella palatina, ora cattedrale, interno. 792-805. Aquisgrana.
L’ampio arco cronologico che dalla fine del vi giunge alla metà dell’ xi secolo – tra la dissoluzione della parte occidentale dell’Impero romano, la rottura dell’unità mediterranea e il sorgere del comune come forma autonoma di governo delle città – ha trovato solo di recente, nell’ambito della storiografia architettonica, una propria autonoma definizione, soprattutto a seguito delle indagini archeologiche successive alla seconda guerra mondiale, che hanno moltiplicato in modo determinante le conoscenze in un campo sino a quel momento ritenuto quasi del tutto privo di testimonianze. Un primo momento di svolta nell’interesse critico si è manifestato in realtà già nella seconda metà degli anni Trenta, con la comparsa dello studio di un giovane archivista, Jean Hubert (L’Art préroman, 1938), che apriva per la Francia orizzonti sino a quel momento insospettati, che sarebbero stati presto esplorati per la Germania da Edgar Lehmann e per l’Italia da Paolo Verzone. L’ultimo cinquantennio ha visto una decisa inversione di tendenza, che ha diversamente calibrato anche la tradizionale partizione che privilegiava, assumendo come tornante l’anno Mille, il nesso vitale tra l’esperienza carolingia e quella romanica (Conant), e introdotto – anche per l’architettura – una nuova, icastica quanto discutibile, categoria, il «preromanico», già applicata alla scultura da Arthur Haseloff, e da intendersi, proprio per tale riassuntività, come etichetta di comodo, di delimitazione geografica e cronologica del fenomeno, priva di implicazioni e conseguenze di natura stilistico-evolutiva.
Le ricerche avviate da Carol Heitz sui rapporti tra architettura e liturgia nell’età carolingia; da Walter Horn e Ernest Born sulla pianta di San Gallo e l’architettura monastica; da Louis Grodecki sull’architettura ottoniana; la redazione di cataloghi sistematici delle emergenze superstiti a raggio europeo (come quello di Oswald, Schäfer, Sennhauser); i nuovi dati offerti infine dagli scavi archeologici, restituiscono una situazione variegata e peculiare, che riconosce nella sintesi carolingia non più un punto di inizio, ma un baricentro fondamentale nella definizione di una nuova cultura europea anche sotto il profilo della storia costruttiva. Nonostante la vastità del territorio interessato (dal Portogallo sino al corso dell’Elba e oltre, sino all’area d’influenza bizantina) il patrimonio edilizio superstite resta assai scarso. La semplicità della gran parte delle costruzioni (in cui il legno giocava spesso un ruolo preponderante nella struttura, come lo stucco nella decorazione), le radicali ricostruzioni successive (soprattutto dopo l’xi secolo, con la forte ripresa economica), e le inevitabili distruzioni e trasformazioni, ci hanno consegnato un quadro di riferimenti slabbrato e talvolta casuale. È così indispensabile ricorrere all’appoggio di una vasta gamma di testimonianze scritte (narrative, epigrafiche, giuridiche), nonché iconografiche e soprattutto archeologiche per riguadagnare alla conoscenza l’originario assetto dei monumenti. Già con l’età tardoantica e la cristianizzazione delle città si marca la centralità dell’edificio religioso come momento di coordinamento per le differenti attività artistiche, dalla pittura alla scultura sino all’o-
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reficeria (per la suppellettile liturgica) e alla stessa decorazione del libro, che non è possibile immaginare separata dal luogo effettivo di produzione (lo scriptorium monastico) e di fruizione (le biblioteche monastiche e la chiesa nell’ambito del culto). Un’età di trapasso
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La crisi del mondo antico e l’irrompere delle popolazioni barbariche segnano in campo architettonico e più in generale artistico la rottura dell’unità normativa e l’incontro tra la tradizione classica e la cultura barbarica. I nuclei di invasori agiscono con differenti strategie sulle strutture di potere, emarginando o distruggendo, a seconda dei casi, le élite romane autoctone, alle quali si sostituiscono anche sotto il profilo dell’evergetismo. Alcuni fenomeni decisivi accompagnano questa trasformazione. In primo luogo viene abbandonata l’estrazione della pietra dalle cave, anche in relazione alle difficoltà di trasporto e alla mancanza di sicurezza delle vie di comunicazione. Tra vi e viii secolo è quasi del tutto dimenticata, o comunque accantonata, la tecnica di realizzazione della malta di calce. Analogamente si constata una minore cura nella costruzione degli edifici e un sistematico ricorso al reimpiego, all’utilizzo cioè di materiale di spoglio (dai mattoni ai rivestimenti parietali) proveniente da edifici precedenti di età romana (le statue finiranno invece perlopiù nei forni per produrre la materia prima necessaria per la realizzazione dello stucco). Tali limitazioni sono compensate dalla raffinatezza del decoro e della carpenteria. È infatti amplissimo il ricorso al legno, più economico e facile da lavorare. In tale situazione viene drasticamente a cadere la complessità delle specializzazioni delle botteghe artigiane. Un indicatore in tal senso è la produzione scultorea, progressivamente mutuata dalle officine lapidarie, abituate a incidere le lastre e a lavorare quindi «in negativo»; si diffonde così la pratica della scultura detta appunto «ad
incisione», che caratterizza lo scorcio del vi e del vii secolo. Ma le competenze, sebbene fortemente ridotte, non scompaiono del tutto. Le popolazioni germaniche giungono nei territori dell’Impero generalmente prive di una propria tradizione costruttiva, circoscritta a forme estremamente semplici. È dunque inevitabile il ricorso a maestranze locali, portatrici di una cultura architettoni-
2. Annuncio a Zaccaria. Pittura murale, dopo il 758. Abside sinistra della chiesa di Santa Sofia, Benevento.
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ca tradizionale, che si incontra e integra nel gusto e nell’orientamento delle nuove classi dominanti. Un flagrante e precoce esempio di tale «meticciato» è il mausoleo di Teodorico a Ravenna, che all’enfasi monumentale e a un lessico ancora sostanzialmente classico unisce elementi di decoro barbarico che hanno fatto pensare alla suggestione delle tende delle popolazioni nomadi. Tra continuità e frammentazione linguistica
3. Capitello con decorazione vegetale. Marmo, 753 ca. Chiesa di San Salvatore, Santa Giulia-Museo della Città, Brescia. 4. Il sacrificio di Isacco, capitello. Marmo, fine del secolo vii. San Pedro de la Nave, Zamora.
Il territorio nel quale il passaggio tra l’antico e il nuovo assetto di potere si è svolto in modo meno traumatico è certamente la Gallia merovingia. All’inizio del v secolo il limes renano viene ampiamente valicato e diverse tribù germaniche debordano invadendo la Gallia romana; tra queste emergono i Franchi, che cercano un accordo con i Romani, dei quali almeno in parte riconoscono l’autorità (il corredo della tomba di Childerico i, fondatore della stirpe dei Merovingi, rinvenuta nel 1653 presso Tournai, rivela i tratti romanizzanti del suo potere). Il figlio Clodoveo, respinti al sud della Loira i Visigoti, che rifluiscono nella penisola iberica, tra la fine del v e gli inizi del vi secolo insieme al suo popolo si converte al cristianesimo: scelta decisiva che gli con-
sente di presentarsi come il continuatore legittimo dell’autorità romana e di ottenere il sostegno dei vescovi. L’architettura religiosa svolge un ruolo guida: i grandi gruppi episcopali (formati da cattedrale, talvolta doppia, battistero e residenza del vescovo) costituiscono complessi monumentali di grande impegno edilizio e decorativo e incidono in modo determinante nell’assetto urbanistico. La pianta basilicale continua a essere la più diffusa (Saint-Pierre a Vienne), accanto a quella cruciforme (Saint-Laurent a Grenoble). La dinastia regnante e l’aristocrazia gallo-franca promuovono la fondazione di edifici di culto dei quali le fonti ricordano la sontuosità della decorazione, di cui ben poco sopravvive (si pensi alla più tarda recinzione presbiteriale di SaintPierre-aux-Nonnains a Metz). È Poitiers a conservare il più significativo nucleo di edifici di età merovingia, come il battistero di Saint-Jean (con fasi edilizie che giungono all’xi secolo), di solenne monumentalità, o il piccolo Ipogeo delle Dune, riscoperto dal padre Camille de la Croix nel 1883, voluto dall’abate Mellebaude tra vii e viii secolo. Stabilita la capitale a Toledo, i Visigoti si convertono rapidamente dall’arianesimo al cattolicesimo, favorendo in tal modo la loro acculturazione e l’integrazione con la popolazione locale. Anche in questo caso
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prevalgono gli elementi di continuità con la tradizione tardoantica. È oggetto attuale di dibattito la datazione di un gruppo consistente di edifici, realizzati con filari regolari di blocchi di pietra da taglio ben squadrati e commessi senza malta, con copertura talvolta voltata e archi a ferro di cavallo (San Pedro de la Nave, Zamora; Quintanilla de la Viñas, Burgos), che si è proposto recentemente di spostare (senza però concreti appoggi documentari) a dopo il 711, data che segna la fine del regno a seguito dell’invasione araba. Datata dall’iscrizione dedicatoria è la chiesa di San Juan de Baños de Cerrato (Palencia), fondata da re Recesvinto nel 652 o 661, la cui singolare pianta «a tridente», con tre corpi allineati a est, ha trovato da non molto tempo un confronto nella Santa Lucía del Trampal (Alcuéscar), riscoperta nel 1980. La sconfitta dell’esercito bizantino e la decapitazione della classe dirigente locale consentì ai Longobardi, presentatisi nel 568 alle porte d’Italia nell’attuale Friuli, di insediarsi nelle sedi del potere e negli edifici di prestigio, con una marcata preferenza verso la tradizione gota (i numerosi palazzi fatti costruire da Teoderico in Italia settentrionale), alla quale consapevolmente ci si intende ricollegare. La conversione costituirà – come testimonia Paolo Diacono, storico della «nazione longobarda» – un fenomeno più lungo e travagliato, permanendo a lungo il dualismo confessionale. Non molto sopravvive dell’attività edilizia, sulla quale contribuisce a gettare qualche sprazzo di luce un testo normativo aggiunto all’Editto di Rotari, il Memoratorium de mercedibus commacinorum, che fissa i compensi spettanti alle maestranze impegnate in attività di costruzione e decorazione. Perduti quasi completamente gli edifici (trasformati o distrutti), è la scultura a costituire la testimonianza fondamentale anche in funzione dell’assetto spaziale, in particolare le lapidi sepolcrali e le lastre di arredo liturgico, di cui Pavia conserva un nucleo assai consistente, di particolare interesse perché collegato ai sovrani e agli alti dignitari del regno.
Verso la sintesi carolingia Se il vii secolo si presenta particolarmente avaro di testimonianze e fortemente parcellizzato in esperienze «nazionali» (Gallia merovingia, Spagna visigota, Italia longobarda e bizantina), in parte tra loro dialoganti, l’viii si caratterizza per una marcata ripresa dei modelli classici, destinati a divenire poi normativi grazie all’opera di coordinamento politico e culturale a latitudine europea della nuova dinastia carolingia, costruita sull’alleanza Roma/Saint-Denis, che porta alla definizione di una nuova tradizione architettonica. Gli scavi di Saint-Denis presso Parigi hanno dimostrato come la chiesa abbaziale voluta dall’abate Fulrado nel 754-775 prefiguri già le strutture basilicali carolingie, e una analoga grandiosità progettuale è avvertibile in quanto sopravvive del San Salvatore di Brescia, promosso dall’ultimo re longobardo, Desiderio. La Santa Sofia di Benevento, testimone intermedio tra il modello costantinopolitano e la cappella palatina di Aquisgrana, dichiara invece tutta la vivace sperimentazione del periodo. «Templum... opulentissimum ac decentissimum» (Erchemperto) fondato da Arechi ii nel 758, è una rimeditazione sui modelli bizantini di pianta centrale, variata dalla singolare soluzione stellata (ritrovata in fondazione e frutto di restauro moderno). Casi particolari che hanno provocato vivaci discussioni critiche sono il Tempietto di Santa Maria in Valle di Cividale e il Tempietto delle fonti del Clitumno, entrambi da collocare nella seconda metà dell’viii secolo. Si torna a studiare Vitruvio (alla base della corrispondenza tra Eginardo, biografo di Carlo Magno, e un certo Wussin), si riscoprono le tecniche di lavorazione antiche, si rivisitano i modelli classici, come nel caso della Torhalle di Lorsch, consapevole rielaborazione dell’arco onorario romano. Le principali costruzioni sono frutto dell’iniziativa della corte carolingia. La fondazione di cattedrali, monasteri e palazzi reali si moltiplica vertiginosamente (sono state
5. Crociera d’incontro e capitello con Daniele nella fossa dei leoni, fine del vii secolo. San Pedro de la Nave, Zamora.
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calcolate, tra il 768 e l’855, 27 nuove cattedrali, 417 monasteri, 100 residenze regie), gettando le basi di un tessuto edilizio profondamente rinnovato, che fungerà da matrice fondamentale per i secoli successivi. Eginardo viene incaricato della realizzazione del palazzo e della cappella palatina di Aquisgrana, nuova stabile residenza di Carlo Magno, la cui progettazione è affidata a Eudes (Oddone) di Metz. Il palazzo (fondato su un sistema modulare basato sul piede carolingio) è ispirato allo schema del triclinio romano, filtrato attraverso il triclinio papale del Laterano a Roma. La cappella, a pianta ottagonale, è realizzata con un ampio ricorso ai materiali di spoglio, tratti in particolare dalla basilica di San Vitale di Ravenna. I due complessi – civile e religioso – erano collegati per consentire le processioni, che influenzano in modo determinante la struttura delle nuove costruzioni (duomo di Colonia, Centula/ Saint-Riquier, Fulda). Viene dunque rinnovato il patrimonio edilizio precedente con forme di maggiore prestigio e durevolezza. Si introduce anche in forma embrionale la cripta, inizialmente di forma assai limitata, ad andamento anulare per consentire ai pellegrini la venerazione delle reliquie. Un’altra fondamentale innovazione è la ridefinizione degli spazi per il clero. La riforma della vita canonicale promossa da Crodegango di Metz rese necessaria l’elaborazione di una nuova forma architettonica, quella del chiostro; parallelamente si avvia, in linea con la riforma di Benedetto di Aniane, il rinnovamento dell’edilizia monastica. L’impianto monastico comprende, oltre alla chiesa (e a diverse cappelle), al refettorio e al dormitorio per i monaci, numerosi ambienti di servizio e di lavoro, di accoglienza per gli ospiti, di residenza per l’abate e, nei casi di maggiore sviluppo, persino un quartiere per le attività artigianali. La grande planimetria conservata nella biblioteca dell’abbazia di San Gallo in Svizzera, realizzata attorno all’820-830 su cinque fogli di pergamena congiunti (ciascuno di 77 x 112 centimentri), a lungo ritenuta un
progetto paradigmatico di monastero, è oggi considerata una pianta destinata all’abate Gauzbert di San Gallo da Heito, vescovo di Basilea e abate di Reichenau dopo i sinodi di Aquisgrana-Inden dell’816-817. La struttura della chiesa monastica subisce nell’età carolingia una profonda trasformazione, legata all’emergere di una doppia polarità. Si-
6. Pianta dell’abbazia di San Gallo. Inchiostro rosso su pergamena, 820 ca. Stiftsbibliothek, San Gallo.
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no ad allora l’accento era stato unicamente posto sul blocco orientale, ospitante l’altare maggiore. Da questo momento il blocco occidentale inizia a svilupparsi assumendo una propria autonomia, strutturale e simbolica (Westwerk). Questa trasformazione la si osserva con estrema evidenza nell’abbazia di Centula (attuale Saint-Riquier, nella Somme, antica Neustria), fondata nell’ultimo decennio dell’viii secolo dall’abate Angilberto, strettamente legato alla corte carolingia. La chiesa abbaziale è stata radicalmente ricostruita, ma il complesso è ben noto grazie alla documentazione grafica (Corvey ne costituisce una parziale replica). Sempre nel ix secolo si introduce una nuova forma architettonica, che prelude al castello. Si tratta di fortificazioni private, in primo luogo in legno (come quelle di cui si ha testimonianza in Renania), e poi in pietra (palazzo reale postcarolingio di Broich). Un’esperienza del tutto peculiare è offerta dal regno delle Asturie, roccaforte della resistenza all’invasione araba nel nord della Spagna e poi punto di partenza per la Reconquista, che elabora una propria esperienza architettonica tra viii e x secolo, che trova un momento apicale nel regno di Alfonso ii (791-842). Dopo la distruzione di Oviedo da parte degli Arabi, il re fortifica la capitale e la dota di diversi edifici civili e religiosi: la Cámara Santa, cappella del palazzo, su due piani (purtroppo distrutta nel 1934 e in seguito ricostruita); la basilica di San Julián (Santullano) de los Prados, sorta a breve distanza dalla città, struttura ad arcate su pilastri, con muratura irregolare intonacata e grandioso ciclo decorativo dipinto. Le chiese del monte Naranco spettano invece al periodo di Ramiro i (842-850) e di Ordoño i (850-866). San Miguel de Liño (Lillo) e Santa Maria de Naranco (già sala del Belvedere del palazzo reale, poi mutata in chiesa) manifestano la maturità espressiva e l’abilità costruttiva raggiunta dalle maestranze locali nell’elaborazione della parete e nel trattamento dei conci di pietra.
Nell’Impero degli Ottoni
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Questo sviluppo trova però quasi subito un forte ostacolo nella disgregazione del potere centrale e nella ripresa del fenomeno delle invasioni, questa volta di popoli del Nord, Vichinghi e Normanni, e poi degli Ungari, sino alla metà del x secolo. È in questo momento che si avvia una nuova ricomposizione territoriale, in Gallia attorno alla dinastia capetingia e in Germania e Italia attorno a quella ottoniana; periodo denso di conseguenze che prende il nome riassuntivo di «anno Mille», carico di tutte le suggestioni, i timori e le aspettative della scadenza millenaristica. Il cinquantennio (980-1030) che marca il passaggio del millennio e si conclude con l’avvio della grande fabbrica del duomo di Spira, nuova chiesa dinastica che apre nei territori dell’Impero la stagione romanica, è ricca di lieviti basilari, nel contrasto talvolta stridente tra l’esperienza costruttiva precedente e le novità che faticosamente si affermano a un livello quasi di «grado zero». Un brano di Rodolfo il Glabro (Storie, iii, 13) coglie il senso della trasformazione: «Si era già quasi all’anno terzo dopo il Mille quando nel mondo intero, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali: sebbene molte fossero ben sistemate e non ne avessero bisogno, tuttavia ogni popolo della cristianità faceva a gara con gli altri per averne una più bella. Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido manto di chiese». È singolare la precisione con la quale il cronista indica l’inizio del rinnovamento edilizio attorno al 1003 (in prossimità della morte di Ottone iii), che ritiene compiuto nel 1008; rinnovamento, è da considerare, circoscritto dal punto di vista territoriale e tipologico agli edifici religiosi (le «chiese basilicali») di Gallia e Italia, in un’ottica squisitamente devozionale. Si è discusso sul significato da attribuire al «candido mantello» di chiese che ricopre l’Europa cristiana alla svolta del Mille, da intendere non tanto come un riferimento preciso alla finitura a
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intonaco delle pareti, ma soprattutto allo splendore della decorazione. La trasformazione della concezione architettonica nei territori dell’Impero ebbe un vettore formidabile nell’azione di grandi vescovi-committenti – Egberto a Treviri, Notger a Liegi, Bernward a Hildesheim, Ariberto a Milano – che, legati alla casa imperiale degli Ottoni, ne interpretarono in chiave religiosa le aspirazioni di grandiosa autocelebrazione. Il cuore e le matrici culturali della nuova dinastia sono da rintracciarsi in Sassonia. Se nulla resta del palazzo imperiale di Quedlinburg, la chiesa dinastica, la cattedrale di Magdeburgo, voluta da Ottone i tra il 955 e il 970, e destinata ad accogliere la sua sepoltura, ha rivelato nel corso di scavi archeologici parti dell’originario tracciato. Utilizzando, come già prima Carlo Magno per la cappella di Aquisgrana, le chiese di Roma e Ravenna come «cave» di materiali da costruzione e repertori di decorazioni da saccheggiare, l’imperatore optò per una struttura a cori contrapposti di matrice carolingia (Centula/Saint-Riquier) con due torri come a Fulda a stringere l’abside orientale. A testimoniare la raffinatezza dell’arredo liturgico sono i brani (oggi dispersi in diversi musei) dell’antependium a placchette d’avorio che ornava l’altare maggiore. La chiesa del monastero femminile di San Ciriaco a Gernrode si conserva, miracolosamente, quasi intatta. Costruita tra il 960 e il 965 per iniziativa del margravio Gerone, ha pianta basilicale con alta cripta e alzato a tre livelli, con sostegni alternati (colonne e pilastri), matroneo e finestre alla sommità. Già da questi primi casi si può ricavare come della varietà planimetrica dell’architettura carolingia si selezioni perlopiù l’impianto cruciforme, adatto alle funzioni liturgiche e di rappresentazione del potere, depurato e semplificato negli alzati. Ugualmente si mantiene il corpo occidentale, elaborato nella forma del Westwerk. Il monumento più significativo dell’architettura ottoniana nei territori dell’Impero resta comunque il San Michele di Hildesheim, realizzato per
iniziativa di uno degli uomini più influenti a corte, l’arcivescovo Bernward, precettore di Ottone iii e consigliere della madre Teofano, vescovo di Hildesheim dal 992. L’edificio, fondato nel 996 e completato tra il 1010 e il 1033, riassume in sé gli elementi fondamentali del linguaggio architettonico ottoniano: la presenza di due corpi contrapposti svolti in modo monumentale, a est e a ovest, con duplicazione del transetto, e l’elaborazione ai più alti livelli di qualità formale della parete-schermo, di una superficie cioè che rinuncia a ogni aggetto e nella quale anche le aperture si riassumono in formule di alta astrazione grafizzante. Si è cercato di rileggere nei viaggi compiuti in tutta Europa dal vescovo la diramata cultura di esperienze architettoniche che la chiesa dichiara, ma la cristallina chiarezza dei volumi e la loro perfezione matematica sono frutto di sintesi originale. La chiesa è in realtà – come già il duomo di Magdeburgo qualche decennio prima (lo testimonia Titmaro di Merseburg) – un gigantesco reliquiario, un templum angelicum nel quale alla base dei sostegni sono reliquie di santi che «reggono» la struttura, per la quale Bernward aveva anche provveduto a realizzare diversi elementi dell’arredo, come le monumentali porte bronzee, trasferite poi in cattedrale. Sull’esempio di Hildesheim altri prelati rinnovano gli edifici religiosi. Meinwerk a Paderborn nel 1017 realizza, per operarios graecos, la cappella di San Bartolomeo, dalle altissime, esili colonne, di matrice bizantina. In ciò la cappella palatina di Aquisgrana gioca naturalmente un ruolo costante di riferimento. Numerose sono le sue derivazioni, che non vanno confuse con le repliche del Santo Sepolcro: dalla rotonda di Ottmarsheim in Alsazia (consacrata nel 1049), a quella di Brescia. Accanto ai grandi vescovi-costruttori non vanno dimenticati gli abati, come Gauzlino a Fleury (Saint-Benoît-sur-Loire), Maiolo e Odilone a Cluny. Ancora Rodolfo il Glabro viene in aiuto per illuminare una figura di grande committente come Gugliel-
7. Interno della cupola, con mosaici rifatti nel xix secolo, 792-805. Cappella palatina, Aquisgrana.
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mo da Volpiano, che getta un ponte tra l’Italia e le esperienze architettoniche d’oltralpe: «in quest’opera di rifacimento degli edifici di culto si distinse in quel tempo il venerabile abate Guglielmo, che il beato Maiolo aveva chiamato a reggere la chiesa del santo martire Benigno [a Digione], chiesa che egli fece ricostruire subito in forme così magnifiche che difficilmente si può vedere altrove qualcosa del genere» (Storie, iii, 16). Il cambio di dinastia, nel 1025, si pone, per quanto riguarda la politica edilizia nel segno della continuità. Il nuovo sovrano Corrado ii il Salico fonda nel 1025 l’abbazia di Limburg-an-der-Haardt, oggi ridotta a
grandiosa rovina nella foresta. Le parti superstiti dell’incrocio tra il transetto e la navata consentono di percepire che una svolta fondamentale sta maturando nella concezione della parete, che comincia ad animarsi, ad articolarsi in risalti, in aggetti e rientranze che ne fanno fisicamente percepire lo spessore. Alla nettezza dei piani e all’equilibrio calibrato delle proporzioni si sostituisce la monumentalità delle masse, che troverà la sua più immediata e alta espressione nella fabbrica della cattedrale di Spira (dal 1030), con la quale prende avvio la nuova stagione romanica.
8. Sala superiore della chiesa di Santa Maria di Naranco (antico Palazzo Reale), 842-850. Monte Naranco, Oviedo. 9. Facciata orientale della chiesa di Santa Maria di Naranco (antico Palazzo Reale), 842-850 ca. Nel belvedere è la copia in gesso dell’ara con iscrizione dedicatoria il cui originale è nel Museo Arqueológico di Oviedo. Monte Naranco, Oviedo.
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Joan Sureda
Il termine «romanico» venne usato per la prima volta nel xviii secolo nell’ambito del dibattito sulle radici delle lingue europee moderne, intendendo che queste non derivavano direttamente dal latino, ma da un processo secolare di volgarizzazioni. Nel 1819 l’inglese William Gunn applicò, per analogia, il termine all’architettura medievale, che si supponeva debitrice di quella romana, anche se furono gli archeologi normanni Alexis-Adrien de Gerville e Arcisse de Caumont che lo impiegarono con più accusato senso storico per definire l’architettura realizzata fra la caduta dell’Impero romano e la fioritura della metà del xii secolo nell’Île-de-France. Alla metà del xix secolo l’architettura, la scultura e la pittura romaniche iniziarono a essere oggetto di esplorazioni e interpretazioni, ma il loro riconoscimento come manifestazioni artistiche a tutti gli effetti di un periodo fondamentale della civiltà occidentale, che abbraccia all’incirca il periodo compreso fra l’anno Mille e la fine del xii secolo, non giunse che nei primi decenni del xx. La prima arte comune europea
1. Capitello del chiostro. Pietra, fine dell’xi secolo. Monastero di Santo Domingo de Silos, Burgos.
Secondo Rodolfo il Glabro (Raoul Glaber, Cronaca), poco dopo l’anno Mille, scrollandosi di dosso e lasciandosi alle spalle la sua vetustà, il mondo dette segni di un certo ringiovanimento e i popoli manifestarono una nuova bramosia di vita che fece sì che le terre abitate si rivestissero di un «manto splendente di chiese». Il monaco non descrive la nascita dell’arte romanica, ma evidenzia un certo orientamento nel modo di vivere dei popoli del tempo che favorì la genesi e lo sviluppo
del romanico, un’arte che, per la prima volta dal frazionamento delle strutture politiche ed economiche dell’antichità classica, mostra una notevole omogeneità in tutta l’Europa cristiana. I secoli del romanico, a cui la Chiesa dette il proprio contributo con la promulgazione della Pace di Dio (989) e della Tregua di Dio (1041), sono secoli di relativa stabilità dei confini, di recupero dei terreni agricoli, di crescita demografica, di una certa prosperità economica, di floridezza delle città e di importanti interscambi culturali favoriti dai mercanti che frequentavano le fiere, dai monaci che fondavano monasteri, dai pellegrini che desideravano lucrare indulgenze visitando i luoghi santi, dagli studenti che si recavano nelle scuole famose e dai crociati che dalla fine dell’xi secolo oltrepassarono a Oriente le frontiere del mondo cristiano. Le tappe dell’arte romanica In questa Europa che si risvegliava da un lungo letargo, l’arte romanica non sorse comunque in tutte le regioni nello stesso momento. Fra la fine del x e il primo quarto dell’xi secolo si notano i primi tentativi di rinnovamento architettonico, nei quali, sebbene la muratura delle costruzioni sia ancora rustica, come si osserva nei cenobi pirenaici di Canigó e Cuxà, la pietra comincia a essere usata per coprire le absidi. Anche in quest’epoca la miniatura gode di un certo prestigio e nel campo della scultura si ha un tipo di rilievo – come negli architravi rossiglionesi di Saint-Genis-des-Fontaines e San Andrés di Sureda, databili a poco prima del 1025 – nei quali l’influsso arabo non soffoca il sottofondo classicista.
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Verso la metà dell’xi secolo la nuova arte inizia a consolidarsi, il taglio regolare dei conci diviene consueto e le volte sostituiscono, almeno nell’Europa meridionale, le coperture in legno. In questa fase, in cui la scultura architettonica, soprattutto dei capitelli, inizia a coniugare l’aspetto ornamentale con quello narrativo, si erigono grandi costruzioni come Saint-Savin-sur-Gartempe, e il romanico si spinge verso sud grazie al progresso della Reconquista ispanica, e verso occidente con la conquista normanna dell’Inghilterra. Questo processo raggiunge il culmine nel primo quarto del xii secolo, epoca in cui – oltre all’architettura e alla scultura, che conquista le facciate (Ripoll, Beaulieu, Vézelay) e, con i notevoli cicli istoriati dei chiostri (Moissac) – ha luogo un’importante rinascita della pittura murale. Verso la metà del xii secolo l’austerità degli ordini riformatori e la magnificenza dei vescovi, che badavano più al potere e alle ricchezze temporali che al trascendente, interrompe lo sviluppo dell’arte romanica. Tuttavia in alcune regioni, come la Provenza (SaintGilles-du-Gard), il Roussillon (Serrabona) e la Catalogna (complessi murali), il romanico continua a manifestarsi con vigore nel corso della seconda metà del xii e in buona parte del xiii secolo. Istruire, dilettare ed emozionare con la bellezza
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Nei secoli in cui emerge il romanico l’arte era considerata una forma di conoscenza, come lo era la scienza, ma mentre quest’ultima anelava al sapere puro, l’arte esigeva l’azione o la fabbricazione di cose. Il «fare cose» era qualcosa di vantaggioso per l’uomo e dipingere o scolpire immagini costituivano un mezzo indispensabile per il consolidamento della fede. Le tendenze iconoclaste che avevano rifiutato le immagini, accettando soltanto la croce come simbolo della divinità, vennero dimenticate. Le immagini del divino non erano ritenute illusioni frivole e ingannevoli, ma elementi indispensabili per inculcare le dottrine della Chiesa agli analfabeti, così come lo erano
i libri per quei pochi che potevano godere della loro lettura. Per i fedeli le figurazioni ad affresco che ricoprivano le pareti delle chiese e i rilievi scultorei delle facciate erano la vera parola di Dio, il ricordo imperituro dei sermoni dei predicatori, la luce che li guidava nel cammino della salvezza. La muta pittura, aveva affermato Gregorio di Nissa secoli prima, parla sul muro e reca così un gran servizio; le opere d’arte, attestò san Bonaventura, istruiscono l’intelligenza, alimentano la memoria ed emozionano il cuore. Perciò il bravo pittore o il bravo scultore dovevano – come il bravo oratore dal pulpito – istruire, dilettare ed emozionare. L’istruzione esigeva semplicità e chiarezza nel modo di rappresentare le immagini; per dilettare l’artefice doveva mettere il suo mestiere al servizio del decoro e dell’ornamentazione; per emozionare le immagini dovevano essere vigorose ed espressive. L’incanto e l’emozione, a differenza dell’istruzione, non erano qualità del contenuto, ma della forma, una forma che, per conseguire i suoi fini, doveva essere bella. La bellezza non era qualcosa di estraneo all’uomo medievale. Al contrario, era una fonte di piacere: «Ecco la terra adorna di fiori; che spettacolo incantevole! Che diletto per la vista! Che fonte di emozioni! Guardiamo le rose di colore acceso, gli iris candidi, le violette purpuree e ammiriamo non solo la loro bellezza, ma l’origine meravigliosa del loro splendore. Come la sapienza di Dio – affermava con ammirazione Ugo di San Vittore – riesce a far scaturire tanta bellezza cromatica dalla polvere della terra!». Dilettarsi del bello presentava però i limiti e i pericoli propri della realtà mondana e di tutte le cose temporali. L’ammirazione del bello era valida e vantaggiosa solo nella misura in cui era ritenuta un’immagine del piacere infinito che animava segretamente le cose belle. L’occhio umano non poteva provare diletto per l’esteriore o per le forme visibili se queste non erano concepite e considerate simboli del mondo spirituale trascendente. Il fine delle forme belle, e quindi dell’arte, era la lode del Creatore, del Sommo Artefice; era raggiungere la suprema perfezione. Per conseguire questo fine le
2. Volta affrescata della navata maggiore con Storie della creazione, 1050-1100. Chiesa abbaziale, Saint-Savin-sur-Gartempe.
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forme del romanico, dominate della geometria, dovevano superare i limiti della realtà, allontanarsi dall’inganno del quotidiano, del temporale, dell’accidentale e fare attenzione solo ai caratteri più essenziali e costanti delle cose, ai più universali. Ciò allontanò il desiderio di usare forme che creassero la sensazione di profondità laddove vi era solo superficie. L’essere umano non poteva andare oltre la manifestazione del divino; non poteva oltrepassare in modo illusorio la realtà fisica delle pareti, perché in esse si rendeva presente l’assoluto, il principio e la fine del creato. Nella pittura le superfici cromatiche venivano stese in modo uniforme conferendo agli sfondi luminosità (Francia occidentale, ad esempio), oscurità (Francia orientale), o frazionandosi in fasce orizzontali sovrapposte. Ma lo sfondo piatto non è stato l’unico limite alla possibilità di espansione delle figure romaniche. La stessa cornice architettonica condizionò la rappresentazione degli esseri e delle cose, come si nota nella scultura, le cui forme talvolta si
appiattiscono o si allungano, si torcono o si distendono per adattarsi alla cornice entro la quale si collocano. Nonostante ciò, sia nella scultura che nella pittura romaniche non è difficile avvertire una certa volontà di superare i limiti e creare una sensazione di profondità, ottenuta fondamentalmente mediante il principio della sovrapposizione; ossia, una figura vista nella sua interezza determina un primo piano, mentre quelle poste dietro e viste in modo solo parziale producono un’illusione di profondità e di allontanamento. Talvolta questa illusione deriva anche dalle architetture e dagli elementi di arredo rappresentati, che per le loro caratteristiche peculiari consentono una certa resa prospettica. Ma tale prospettiva è sempre inversa: le linee laterali oblique tendono a unirsi in direzione dello spettatore (primo piano) invece di convergere, come avviene nel Rinascimento, sulla linea dell’orizzonte (piano di fondo). In ogni caso, nel romanico la variazione delle dimensioni dei corpi obbedisce soprattutto a un carattere simbolico. La mag-
3. Chiostro, 1100 ca. Abbazia di Saint-Pierre, Moissac.
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giore o minore grandezza dei personaggi non indica il loro grado di vicinanza o lontananza rispetto al punto di vista dello spettatore, ma il loro rapporto gerarchico. Così come le belle forme del romanico non corrispondono all’aspetto delle cose viste, anche il colore obbedisce a leggi proprie, quasi sempre estranee a quelle della natura. Il colore delle figure, delle vesti, degli elementi architettonici, degli animali, degli ornamenti vegetali è frutto soltanto dell’aspirazione a raggiungere un’armonia cromatica – basata sul principio di opposizione – del colore scelto: così il giallo richiede la presenza dell’azzurro, come il rosso quella del verde. Le opere d’arte e gli artefici
4. Capitelli del chiostro, 1100 ca. Abbazia di Saint-Pierre, Moissac.
Per i teologi dell’epoca esistevano tre tipi di opere d’arte: quelle del Creatore, quelle della natura e quelle dell’essere umano. Dio è l’artista perfetto, il grande architetto del mondo che mescola elementi che di per sé resterebbero eternamente isolati. Anche la natura struttura, anch’essa costruisce, proprio come fa con lo stesso organismo umano. L’opera d’arte uscita dalle mani dell’uomo si produce quando questi trasforma la materia, dipingendola, scolpendola o fabbricando un qualsiasi strumento utile per l’agricoltura o costruendo un edificio secondo le leggi della natura. Le
opere degli uomini, sebbene anelino a raggiungere la bellezza suprema, sono periture e imperfette; l’opera di Dio è eterna e perfetta. Dio, il grande architetto Per l’uomo del periodo romanico Dio era l’architetto dell’universo che con squadra e compasso aveva disegnato la terra, l’alfa del tempo storico dell’umanità. La creazione divina poteva derivare solo dalla perfezione delle forme semplici e al tempo stesso assolute, come quelle sferiche o quadrate. Dio, l’architetto-geometra, creò la Terra come un cerchio circondato da una fascia marina popolata di pesci e isole, una fascia che si amplia a occidente per penetrare nella terraferma e che si dirige verso il Mediterraneo circondando l’Europa, l’Asia e l’Africa fino a raggiungere un quarto e misterioso continente. I fiumi solcano i territori evangelizzati dagli apostoli, i cui centri o omphalos sono Roma e Gerusalemme. Dio col suo compasso non ha tracciato solo la Terra, ma anche la Gerusalemme Celeste, la città che l’evangelista Giovanni descrive nell’Apocalisse, città specchio di tutte le perfezioni e modello della somma bellezza. Le mura – in questo caso con un perimetro quadrangolare (Saint-Chef, San Pietro al Monte a Civate, Branswick) – sono quelle
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di quel paradiso in cui la presenza di Dio o dell’Agnus Dei farà sì che i prati siano giardini fioriti di perenne bellezza, che gli alberi siano tutti i giorni carichi di frutta, che i boschi siano pieni di cervi, che scorrano fiumi di latte e che tutto trabocchi abbondanza. Dio ha creato il mondo e la Gerusalemme celeste della fine dei tempi; ma il frutto principale di Dio, come artefice perfetto, è stato l’uomo. In un atto di teofania suprema Egli ha modellato l’uomo con l’argilla e lo ha fatto a sua immagine e somiglianza. Per questo nel xii secolo si concepiva l’uomo, creato da Dio, senza contenuto temporale; era un’allegoria del trascendente, un’immagine del cosmo. Era un microcosmo e come tale doveva obbedire alle leggi universali e a quelle della perfezione geometrica. L’artefice pratico A differenza di Dio, l’essere umano nel suo lavoro creativo si trova dinanzi a una materia che si ribella ai suoi desideri. Per questo, e poiché è il prodotto di un sapere incompleto e mutevole, la sua opera non riesce mai a raggiungere il livello della perfezione. Nell’età romanica quella che ora chiamiamo «opera d’arte» era considerata innanzitutto una cosa conforme ai principi e alle leggi della tecnica e del mestiere (res artificiata), qualcosa che poteva raggiungere perfezione e bellezza proprie solo entro i limiti dell’umano, ossia un giusto adeguamento alla sua funzione. Nel lavoro artistico si distingueva fra il creatore nel senso intellettuale del termine, ossia l’artefice teorico (artifex theorice), di solito religioso (vescovo, abate, monaco), che parla e che progetta i programmi iconografici delle decorazioni murali, delle tavole, dei rilievi di una facciata o dei capitelli di un chiostro, e l’artefice pratico (artifex practice), conoscitore del mestiere necessario per portare a termine l’opera. Sebbene poche volte si conosca l’artifex practice romanico (pictor, magister operis, ecc.) sul piano documentario, non possiamo dire che fosse anonimo. Il tipo di relazioni di lavoro dell’epoca – basate soprattutto su ac-
cordi verbali –, il nomadismo di molti artefici, l’obbligo dei religiosi di praticare l’umiltà dinanzi al timore di assomigliare al Creatore e la perdita di innumerevoli opere e documentazione hanno fatto sì che siano rimasti relativamente pochi nomi di coloro che senza dubbio svolsero il loro lavoro con alta considerazione professionale. Un esempio di alta considerazione si ha nel duomo di Modena, sulla cui facciata si leggono ancora i versi che celebrano la gloria e la fama dello scultore Wiligelmo, che ne scolpì i rilievi, e sulla cui abside un’altra iscrizione elogia Lanfranco, il suo primo architetto. Tuttavia non sempre le iscrizioni che attestano la paternità di un’opera sono così elogiative; la maggior parte di esse si limitano a laconici «mi fece» (me fecit) o «fece questo» (hoc fecit), anche se esistono iscrizioni che affermano la qualità del lavoro (hoc opus insigne) o la nobiltà dell’artefice (hoc nobile facit opus). Non mancano neppure quelle che riportano la data dell’esecuzione, come l’iscrizione incisa sull’architrave della facciata occidentale dell’antica cattedrale di Saint-Pierre a Maguelone. Ma l’artefice non scrive solo il suo nome, con maggiore o minore orgoglio. Nell’epoca romanica non sono inconsuete le raffigurazioni dell’artefice intento a eseguire il suo lavoro, come ad esempio nel tardo chiostro catalano di Sant Cugat del Vallés, in cui lo scultore Arnau Gatell è rappresentato mentre scolpisce un capitello, e nel frammento di una vetrata proveniente dal monastero renano di Arnstein in cui figura Gerlachus, l’autore, rappresentato con un pennello in una mano e il recipiente del colore nell’altra. I magistri operis L’ansia edificatrice che dilagò in tutta l’Europa cristiana dalla metà dell’xi secolo fino alla fine del xii mutò il volto della Terra. Gli artefici, i magistri operum (il termine «architetto» era usato poco in questo periodo), supplirono – salvo rare eccezioni, come quella del capomastro Aliberto di Tournai, che apprese le arti
5. Gerlachus, Mosé e il roveto ardente, e Autoritratto dell’artista, Vetrata, dalla chiesa del monastero di Arnstein, 1150 ca. Westfälisches Landesmuseum für Kunst und Kulturgeschichte, Münster.
6. Dio, supremo architetto, edifica l’universo. Codex Vindobonensis 2554, fol. 1v. Miniatura, 1220-30 ca. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna. Pagine seguenti: 7. Cattedrale, 1063-1118, e Torre campanaria, iniziata nel 1173-1174. Pisa. 8. Transetto della chiesa abbaziale (Cluny iii), braccio sud, 1088-1130. Cluny.
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liberali nelle scuole capitolari – con la pratica e l’esperienza nel cantiere alla conoscenza di discipline come la geometria e l’aritmetica. Il magister operis romanico non progettava preliminarmente i suoi edifici con disegni o schizzi e neppure costruiva modelli. Il terreno costituiva una grande pianta a grandezza naturale. Dal famoso disegno del monastero benedettino svizzero di San Gallo, verso l’820830, che, ispirandosi nella disposizione ai grandi palazzi carolingi, strutturava in modo molto logico tutti gli spazi dell’attività monastica, fino al palinsesto di Reims (1240-1260), al Taccuino di Villard de Honnecourt e ai disegni della cattedrale di Strasburgo, si perde la costanza del disegno architettonico, ad eccezione di quelli realizzati a posteriori rispetto all’opera in questione (condutture d’acqua del monastero di Canterbury, 1160). La carenza di disegni preliminari fu una delle cause delle innumerevoli vicissitudini che un edificio era solito attraversare man mano che avanzava la costruzione. Nonostante ciò, la mancanza di un progetto direttivo non fu l’unica ragione – né sicuramente quella principale – delle variazioni nel processo costruttivo, che potevano essere dovute a vari motivi: dall’aumento demografico di una comunità religiosa o dei parrocchiani di una parrocchia, ad esempio, fino a questioni esclusivamente decorative, come nell’abbazia benedettina di Saint-Savin-sur-Gartempe, fondata da Carlo Magno verso l’800, in cui si eliminarono gli archi che dovevano fasciare la volta a botte della navata maggiore a beneficio della maggiore chiarezza narrativa dei dipinti murali che la dovevano decorare. Scalpellini e artigiani L’impulso architettonico provocò il rigoglio di tutte le arti direttamente legate all’architettura. Le arti figurative del romanico – dalla pittura alla scultura, dalla vetrata al mosaico – non possono essere comprese se le si isola dal contesto edilizio, e ancor meno al di fuori della chiesa, che si trasformò nel luogo di sintesi delle diverse pratiche artistiche.
Il lavoro dello scultore – dello scalpellino, secondo la terminologia medievale – era strettamente collegato a quello del capomastro; in rare occasioni gli si consentiva persino di scegliere la pietra. Si usava la stessa pietra del paramento murale (arenaria, pietra calcarea, marmo, ecc.); solo in grandi imprese si constata l’impiego di pietre provenienti da regioni lontane dal luogo di costruzione o di tipo diverso rispetto a quello del resto dell’edificio. Come il capomastro, neppure lo scalpellino – che usava lo scalpello per sgrossare il blocco di pietra, i trapani per perforare le superfici e le lime e gli abrasivi naturali per la finitura – realizzava schizzi preliminari, ma effettuava direttamente il disegno sul blocco. Mentre la scultura monumentale romanica era legata al lavoro degli scalpellini e alla pietra, nell’esecuzione di immagini isolate – Vergini col Bambino, Maestà, Deposizioni, ecc. – e nella realizzazione di arredi liturgici – panche, armadi, reliquiari, mense di altari, baldacchini, paliotti – e quotidiani il legno era il materiale più usato. Le opere in legno, soprattutto le sculture devozionali e gli arredi liturgici, venivano di solito completate con una finitura policroma – frequente anche nei rilievi in pietra – che alcune volte, quando l’economia lo consentiva, era realizzata con metalli nobili e pietre preziose. Alcune immagini devozionali erano rivestite di metallo, come nel caso della cosiddetta Maestà di Sainte-Foy a Conques e del busto-reliquiario di San Bandino a Saint-Nectaire, in cui l’anima di noce si arricchì di lamine in rame.
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I pittori, le tecniche e le opere Come le sculture e i rilievi, le pitture murali e i mosaici erano necessari per trasformare lo spazio architettonico in riflesso e strumento di una società teocentrica stretta fra gli eventi quotidiani e il pensiero trascendente. L’ideale delle arti figurative del romanico consiste, come si è detto, nel conseguimento della perfezione. Tale esigenza di perfezione richiedeva al pittore un apprendimento lento e graduale,
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eminentemente pratico, a partire da alcune ricette proprie del mestiere trasmesse oralmente dai maestri agli apprendisti e, in qualche occasione, anche attraverso dei trattati. Fra questi si distingue il De diversis artibus o Schedula diversarum artium (Saggio sulle diverse arti), di cui si conservano una dozzina di manoscritti. Si divide in tre parti: la prima dedicata alla miniatura e alla pittura murale, la seconda alla fabbricazione del vetro e la terza alle opere con pietre e metalli. Fu scritto nel xii secolo dal monaco Teofilo, nome che potrebbe essere uno pseudonimo usato per garantire l’anonimato al suo vero autore, forse uno degli orafi tedeschi più importanti degli inizi del xii secolo, Roger de Helmarshausen. Di solito le pitture che ricoprono le pareti degli edifici romanici sono definite erroneamente affreschi. Anche se l’affresco era senza dubbio la tecnica basilare impiegata nelle pitture murali, in rare occasioni si può parlare in senso stretto di affresco puro o di «buon fresco». Le pitture parietali romaniche sono di solito opere realizzate con una tecnica mista in cui si combinano l’affresco, la tempera e i pigmenti sciolti in un medium grasso, probabilmente olio, colla, gomma o albume. La preparazione del muro per questo tipo di pittura richiedeva due materiali, calce e sabbia, mescolati nella proporzione adatta: due parti di sabbia e uno di calce. Una volta mescolato il tutto, si formava una malta con acqua e, dopo averla lasciata riposare qualche giorno, si stendeva sulla parete. Al momento di dipingere si ricopriva il primo strato con un’imprimitura dello stesso tipo, anche se in questo caso la sabbia doveva essere più fine e la calce meno viva. Si poteva dipingere solo quando l’intonaco era fresco; ciò richiedeva un processo molto rapido cui si poteva ovviare preparando solo quella parte di pittura che poteva essere dipinta in un giorno (giornata). Quando si usava la tempera si doveva inumidire di nuovo la superficie. Secondo il De diversis artibus dapprima si stendeva un colore di base, di solito chiaro; su questo si disegnavano le linee fondamentali delle figure e dei motivi decorativi con tratti neri o in ocra rossa; di seguito si
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realizzava la finitura procedendo dai motivi generali al dettaglio. I colori usati dai pittori erano solitamente il prodotto delle terre naturali del luogo: essi stessi li macinavano, li mescolavano con acqua, li macinavano di nuovo e li mantenevano umidi per poterli usare al momento opportuno. A partire dalla seconda metà del xii secolo in alcune zone di Francia e nei paesi germanici si usarono le vetrate in edifici che, per la loro struttura architettonica, annunciavano già gli elementi essenziali dello stile gotico, come nelle cattedrali di Angers, Poitiers, Chartres e nella chiesa abbaziale di Saint-Denis. La tecnica delle vetrate non presenta una grande complessità. Dopo un bozzetto preliminare si realizza un disegno su una superficie dura che riproduce esattamente la forma e le dimensioni della vetrata; poi si tagliano i pezzi di vetro, di solito molto grossi, prestando attenzione al disegno e alle esigenze del colore (azzurri chiari, verdi, rossi, gialli e bianchi) – un colore che non solo può essere dato al vetro in precedenza durante la sua lavorazione, ma che a volte si ottiene dipingendo il vetro stesso. Infine i pezzi sono montati nei listelli di piombo che formano la trama della composizione. Se escludiamo le coperture – ottenute con riquadri di legno che rivaleggiano in monumentalità con le pitture murali, come mostrano i soffitti di San Martino a Zillis e di San Michele a Hildesheim – la pittura su tavola è solita decorare l’altare, formato di solito da una semplice lastra rettangolare di pietra sostenuta da un pilastro centrale, o da pilastrini laterali, chiusa sul davanti da un frontale o paliotto (tabula ante altare) e talvolta da tavole laterali. Nelle comunità economicamente agiate queste opere da altare, con un’iconografia simile a quella delle pitture murali, erano realizzate in marmo o intagliate nel legno ed erano ricoperte con metalli, inclusi l’oro e l’argento. La pittura svolgeva un ruolo importante anche nei baldacchini e nei retabli. Il baldacchino – detto anche ciborio, di tradizione orientale e usato già nel cristianesimo delle origini – è nel romanico fondamentalmente di
due tipi. Alcuni hanno forma di piccoli tempietti aperti sui lati mediante archi semicircolari poggianti su colonne slanciate e con una struttura piramidale come copertura (teguria); altri sono formati da un semplice soffitto collocato in posizione inclinata sull’altare mediante travi trasversali (laguearia). Meno frequenti sono i retabli (retabula o tabula retro altare, ossia tavole poste dietro l’altare), eredi dell’originario bancale o predella in cui si collocavano le reliquie. I pochi esempi giunti fino a oggi presentano di solito una struttura a fregio continuo o a tempietto con piccoli scomparti laterali. In questo tipo di opere liturgiche si è soliti impiegare il rovere, il pioppo, il pino silvestre e la quercia. Come base per la pittura, una volta coperte le giunture delle tavole con tela di lino, si usavano la pergamena, la tela incollata e, come ultima preparazione, uno strato di gesso e colla. Poi si disegnava con una punta o un pennello e infine si applicava il colore. I rilievi in stucco (gesso sciolto in acqua mescolato con colla animale) erano usati raramente e la tecnica della pastiglia era impiegata con minor frequenza. Nel xiii secolo inizia a essere frequente l’impiego di foglie metalliche negli sfondi e in alcuni motivi (di solito le aureole), così come la colradura, una specie di vernice che, applicata su questi elementi, conferisce loro una qualità simile all’oro. Le esigenze della liturgia, la necessità di conservare e trasmettere le conoscenze, come quella di esaltare i santi, e il gusto del lavoro lento e minuzioso così caratteristico del raccoglimento monastico, hanno trasformato i testi illustrati con immagini – cartulari, antifonari, evangeliari, Bibbie, salteri, libelli – in una delle testimonianze più notevoli della pittura romanica. La tecnica della miniatura non era, nei suoi aspetti fondamentali, diversa dalle altre tecniche pittoriche. In una prima fase il miniaturista faceva un leggero abbozzo della scena che avrebbe rappresentato su fogli di pergamena di pelle di vitello, capra o pecora; poi miniava il disegno con i colori base, per delineare infine, talvolta con inchiostro rosso, i volti, le vesti e gli altri motivi.
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Gli orefici e le opere di altri artefici
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L’oreficeria, i bronzi, gli smalti, gli intagli in avorio, le opere in oro e in argento e i tessuti ebbero un grande sviluppo all’epoca romanica, soprattutto nelle zone di influsso ottoniano e carolingio. I metalli (bronzo, ottone, oro, argento) non vennero impiegati solo nella realizzazione di oggetti liturgici, ma anche in opere di dimensioni notevoli, come i fonti battesimali e le grandi porte di abbazie e chiese. Accanto all’oreficeria – con gli splendidi oggetti di culto realizzati con la cesellatura e la filigrana – la tecnica che raggiunse la maggiore perfezione e diffusione nel romanico fu lo smalto. Sebbene i laboratori di smaltatori proliferassero nelle valli del Reno e della Mosa, i più notevoli furono quelli di Limoges. A differenza dello smalto bizantino, quello romanico non usò l’oro come supporto, bensì il rame; si abbandonò la pasta traslucida a vantaggio di quella opaca, che offriva maggiore resistenza alla temperatura di cottura. La tecnica dello smalto cloisonné, in cui piccoli alveoli o cellette separate da cloisons o fili metallici di filigrana sono riempiti di smalto, passò in secondo piano dinanzi alla tecnica dello smalto champlevé (campito o scavato) in cui gli alveoli si formano direttamente nella lamina metallica del supporto. Non solo le arti del metallo soddisfecero il desiderio di ostentazione dell’età romanica. Dinanzi all’austerità degli ordini monastici, i cui membri si vestivano solo di «umili tuniche di lino e lana e pelli d’agnello», la classe signorile, l’aristocrazia, la corte e gli alti prelati preferivano i tessuti ispano-musulmani e le sete orientali, bizantine o arabe, di cui sono un buon esempio i manti da cerimonia degli imperatori Enrico ii e Ruggero ii d’Altavilla. Committenti e donatori Nonostante l’abilità, le conoscenze tecniche e le capacità creative degli artisti romanici, il merito e la gloria di una bella costruzione o
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di una splendida opera non spettavano di solito all’artifex practice né all’artifex theorice, ma al committente dell’opera o eventualmente al donatore, che si trattasse dell’abate di un monastero, di un vescovo o del capitolo di una collegiata o di una cattedrale. Così, ad esempio, gli scritti dell’epoca considerano Gaurí, abate di San Michele di Cuxà, un essere quasi soprannaturale per avere costruito il monastero rossiglionese; e l’abate Odilone di Cluny è
paragonato a Ottaviano Cesare per avere ricostruito in marmo, nel xii secolo, il chiostro in legno della grande abbazia. Gaurí di Cuxà, Odilone di Cluny e molti altri, raffigurati nelle opere che hanno patrocinato, sono stati committenti grandi ed elogiati; ma il personaggio che ha avuto la maggiore consapevolezza dell’importanza delle opere d’arte di cui si è fatto promotore è sicuramente Suger, abate di Saint-Denis, nel secondo
Pagine precedenti: 9. Chiostro, fine dell’xi-inizi del xiii secolo. Monastero di Santo Domingo de Silos, Burgos. 10. Il chiostro dalla sala capitolare, fine dell’xi-inizi del xiii secolo. Monastero di Santo Domingo de Silos, Burgos.
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quarto del xii secolo. Nel Liber de rebus in administratione sua gestis (Libro delle cose fatte durante la sua amministrazione), Suger ha fornito un resoconto particolareggiato delle opere da lui realizzate nell’abbazia, fra le quali spiccano la ricostruzione della facciata (11301140) e l’erezione del transetto e dell’abside (1140-1144), nonché il programma per le vetrate dell’abbazia, oltre all’acquisto di numerosi oggetti preziosi. Per l’abate di Saint-Denis, che ebbe un’accesa discussione al riguardo con san Bernardo, nulla era abbastanza bello per glorificare Dio, e per quante lodi ricevesse l’opera o per quanti meriti possedesse, la sua grandezza non era da attribuire all’inventiva dell’artefice né alle sue glorie mondane, ma all’essere divino che in essa abitava, così come all’ansia di raggiungere il paradiso. I committenti e i donatori romanici non fecero dell’umiltà la loro virtù principale, e in diverse occasioni le loro figure vennero riprodotte dagli artisti mentre presentavano la loro offerta – ad esempio un modellino dello stesso edificio eretto – a Cristo, alla Vergine o a qualche santo. Ne sono un esempio le raffigurazioni di Enrico ii Plantageneto ed Eleonora d’Aquitania in una vetrata della cattedrale di Poitiers, e della contessa Lucia di Pallars nella decorazione murale dell’abside della chiesa del monastero benedettino di Sant Pere di Burgal. Il paesaggio romanico. Città e castelli
11. Facciata occidentale, 1190 ca. Basilica di Saint-Trophime, Arles.
Nell’età del romanico il paesaggio, quello che l’uomo poteva raggiungere con lo sguardo, era dominato dalla natura. Città e villaggi erano isole in mezzo all’oceano della natura, i cui piccoli nuclei abitati erano uniti da antiche strade lastricate eredi delle vie romane. I villaggi erano piccoli agglomerati di case costruite spesso nei pressi di un castello, con un’unica strada e stretti passaggi fra le abitazioni, e per i loro abitanti la chiesa era l’unico luogo comune. Le case delle persone più importanti – eco lontana delle antiche ville romane – possedevano un patio, un orto e un pozzo, e quelle dei più poveri erano poco più che capanne simili
ai rifugi dei pastori di montagna, le quali, oltre a dare riparo ai loro abitanti, erano usate come granaio e magazzino per gli attrezzi. In questo paesaggio, l’età del romanico assistette alla rinascita delle città assopite da secoli e alla creazione di nuovi nuclei abitati in luoghi di sviluppo minerario o agricolo, di commerci o di pastorizia, nei territori della Reconquista e in terre ripopolate, e soprattutto nei luoghi in cui sostavano i pellegrini diretti verso luoghi santi come Roma e Santiago de Compostela. La città romanica non fu però esclusivamente urbana. In essa penetravano il paesaggio, la natura e le attività proprie della campagna, come quelle agricole e pastorizie. Malgrado questa rinascita, le città non raggiunsero grandi estensioni, in genere fra i diciotto e i venti ettari, con pochi esempi di città come Venezia e Firenze che raggiungevano i 300-400 ettari. Città importanti dal punto di vista politico e culturale, come Parigi e Lipsia, non raggiungevano i trenta o quaranta ettari. La densità si aggirava attorno ai 150 abitanti per ettaro, sebbene nei centri più attivi si toccasse una densità dell’ordine di circa 350400 abitanti per ettaro. Nelle città costruite su antichi nuclei romani si rispettò di solito l’organizzazione rettangolare o quadrata, come si osserva in numerosi nuclei urbani italiani (Verona, Firenze, Milano) e anche francesi (Lione). L’ortogonalità del mondo antico non fu assente nemmeno nelle città costruite ex novo, come mostrano, fra le altre, la città bassa di Carcassonne, e Massa Lombarda, disposta secondo una struttura quadrangolare, o Cracovia, iscritta in un perimetro quadrangolare con angoli morti. Nonostante ciò, nelle città edificate ex novo il tracciato si adattava nella maggior parte dei casi alle condizioni e al rilievo naturale del territorio: le rive di un fiume, la cima di una collina, una valle aperta, ecc. Un caso tipico di questa dipendenza è il tracciato della Londra medievale, le cui strade seguivano, e talvolta seguono ancora, il percorso del Tamigi. A Siena, ubicata sulle dolci pendici di tre colline e sul sito di un antico castrum romano, le strade si disposero conformemente alla linea divisoria delle acque, convergendo
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nella cosiddetta Piazza del Campo. A spese della particolarità di ciascuna di esse, le città erano solite racchiudere all’interno delle mura un labirintico tessuto urbano di strade secondarie non pavimentate e poche strade principali in condizioni analoghe, che andavano dalle porte delle mura fino al centro, dove si aprivano una o due piazze: quella del mercato e quella della chiesa principale o della cattedrale. In alcune città importanti dell’Europa centrale e dell’Italia le strade principali si trasformavano in lunghi mercati, vie ampie che potevano incrociarsi – come il cardus e il decumanus romani – separando quartieri come quelli degli artigiani e dei commercianti. Benché i secoli del romanico fossero secoli di relativo boom economico, in queste città in cui la pavimentazione delle carreggiate – quando era possibile portarla a termine, come nella Parigi di Filippo Augusto – era ritenuta la massima manifestazione del loro potere, la ricchezza degli edifici religiosi e di alcune residenze di signori e aristocratici era soffocata dalla povertà del vivere comune. Il passare del tempo ha cancellato la traccia delle abitazioni umili; si sono conservati solo alcuni complessi di case in pietra e qualche isolata residenza urbana (Rosheim, Treviri, Tournai, Saint-Antonin, Praga, Roma, Ascoli, Venezia, Viterbo, Norwich, Lincoln, Lérida, Estella). Nelle città non mancavano i servizi comunitari, benché scarsi, soprattutto quelli dedicati all’assistenza a viaggiatori, mercanti e pellegrini, come alloggi, locande e ospedali, considerati «luoghi santi, case di Dio, riparo dei santi pellegrini, sosta dei bisognosi, sollievo dei malati, salvezza dei morti e ausilio dei vivi» (Codex Calixtinus). Non erano rari neppure i bagni, che sebbene avessero una distribuzione simile alle terme romane, mostravano evidenti influssi delle abitudini igieniche e decorative arabe. Quando si superavano le porte delle mura uscendo dalla città, la vita cambiava. La campagna restituiva l’uomo alla natura. Le terre coltivate, gli spazi boschivi e le zone incolte e desertiche configuravano un pa-
esaggio appena trasformato dall’impronta dell’uomo; solo ogni tanto la mole di pietra di una torre o di un castello avvertiva il viaggiatore della presenza di piccoli nuclei abitati, a cui talora doveva accedere attraversando le acque dei fiumi su ponti belli e imponenti, come quelli che si ergono ancora ad Avignone, Rouen, Narbona, Puente la Reina e Besalú – ponti alla cui costruzione avevano partecipato monaci, come santo Domingo de la Calzada, ed esperti architetti e artisti, come Petrus Deustambenn, capomastro di San Isidoro a León, e lo stesso Maestro Mateo di Santiago de Compostela. I castelli, con le loro enormi masse di pietra, erano la dimora dei signori e guardiani di questi centri abitati. La tipologia architettonica che dette luogo alla nascita del castello romanico fu la torre-vedetta (donjon) di tradizione preromanica, la cui funzione era sia difensiva che abitativa. Qualunque villaggio, per quanto piccolo, desiderava trovarsi sotto la protezione di questa torre generalmente a pianta quadrata o circolare e più raramente con un perimetro poligonale. Secondo la floridezza economica della comunità e del signore del luogo la torre-vedetta crebbe, con edifici annessi e muri di protezione, fino a trasformarsi in una vera città, simbolo del potere civile e militare dell’epoca. Malgrado la rilevanza nel tessuto sociale, la tipologia dei castelli non obbediva a modelli stabiliti a priori, dipendendo piuttosto da innumerevoli fattori condizionanti. Di solito l’estensione territoriale non era molto grande (da uno a due ettari), anche se quelli racchiusi in recinti urbani – come a Weimar e Mont-Saint-Michel – occupavano di solito buona parte di questi ultimi. Solo i castelli che si ergevano in valli o in ampi pianori – come la Torre di Londra o la fortezza di Carcassonne – avevano piante più o meno regolari (esagono irregolare a Londra, rettangolo quasi perfetto a Carcassonne); e tuttavia più di frequente il perimetro e anche le diverse costruzioni si adattavano all’orografia del terreno e la cerchia muraria si integrava talvolta con le protezioni rocciose naturali, come nei castelli di Loarre e Saône.
Pagine seguenti: 12. Volta della navata maggiore, 1075 ca. Basilica di Saint-Sernin, Tolosa. 13. Maestro di Taüll, Agnus Dei, Dextera Domini e particolare della Maiestas Domini, dall’abside maggiore della chiesa di Sant Climent de Taüll, Barruera. Pittura murale, 1123 ca. Museu Nacional d’Art de Catalunya, Barcellona.
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Oltre alle città degli uomini il paesaggio dell’Europa romanica vide crescere le città di Dio, i monasteri, luoghi di preghiera ma anche centri di grande vitalità economica e intellettuale e paradigma di un tipo di società, quella feudale, in cui l’elemento spirituale era indissolubilmente legato a quello materiale. Fin dagli inizi, il monachesimo medievale fu guidato dalla regola di san Benedetto (vi secolo), il cui influsso si fece sentire fino al secolo xi inoltrato. Ma in questo lungo periodo la regola benedettina si era allontanata molto dalle norme dettate a Montecassino dal santo di Norcia. Già nel ix secolo il riformatore Benedetto d’Aniane ritenne che la regola primitiva, pensata per monaci totalmente isolati dalla vita mondana, che dedicavano sette ore al giorno al lavoro manuale e due a quello intellettuale – una preghiera era come un lavoro e il lavoro si trasformava in orazione – non fosse adatta a monaci che in un modo o nell’altro dovevano stare vicini alla società. Benedetto d’Aniane ridusse il lavoro manuale, il cui onere principale passò a laici e servitori, e trasformò il monastero in un luogo di preghiera e di studio. La sua riforma fu completata nel x secolo dagli abati di Cluny, monastero fondato nel 910, che incoraggiarono una vita molto più attiva, in cui la preghiera e la dedizione agli uffici divini non facevano trascurare la pratica della teologia, la poesia o la storia. Il rinnovamento dei «monaci neri» di Cluny fu soffocato dalla riforma promossa dal monaco borgognone Bernardo di Chiaravalle all’inizio del xii secolo nell’abbazia di Cîteaux (Cister) e nel monastero di Clairvaux (Clara Vallis). L’arricchimento e l’eccessivo potere temporale di cui giunse a godere Cluny favorirono il proposito dei «monaci bianchi» di tornare alle origini e soprattutto alla santificazione del lavoro manuale. I luoghi scelti per le fondazioni monastiche, quasi sempre quieti, tranquilli e vicini a fonti o sorgenti, di solito avevano un passato religioso, anche se non necessariamente cristiano. In questi luoghi lontani dai centri urbani il monastero cresceva intorno a un’area che
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fungeva da punto di raccordo, il chiostro, uno spazio quadrangolare a cielo aperto nel cui interno a giardino erano un lavabo e un pozzo. Il chiostro è circondato da una galleria coperta che permette di accedere alle diverse stanze. Nell’ala settentrionale la galleria del chiostro è solitamente collegata alla chiesa, mentre nelle tre ali restanti si aprono ambienti annessi come la sala capitolare, il refettorio o sala da pranzo e le stanze per l’amministrazione. Al piano superiore del chiostro è ubicato di solito il dormitorio dei monaci, in comunicazione attraverso una scala con il transetto della chiesa. Questa distribuzione di base differisce in qualche caso a seconda dell’orografia del terreno e del clima, ma in generale dipende dalle esigenze e dalla condizione economica della comunità, che a volte porta ad aggiungere altri edifici, come la casa o il palazzo dell’abate, la scuola dei novizi, il magazzino delle provviste, la cantina, le stalle, la foresteria dei pellegrini, l’orto e il cimitero. L’architettura della chiesa L’edificio comune alle città degli uomini e alle città di Dio è la chiesa. Dal punto di vista funzionale il suo spazio risulta dalla congiunzione fra le esigenze della celebrazione degli uffici liturgici e quelle dei fedeli che vi partecipano, esigenze che di solito gli conferiscono una disposizione longitudinale orientata ovest-est (dalla facciata all’abside). Di solito arcate a sezione semicircolare (a tutto sesto) poggianti su pilastri o su colonne ripartiscono lo spazio in tre navate, che dalla parte anteriore della chiesa avanzano verso la zona absidale, tagliate da una navata trasversale, o transetto, a guisa di collegamento fra il luogo destinato ai fedeli e quello del celebrante; disposizione che suole delineare la pianta a croce latina tipica delle antiche basiliche di Roma (San Pietro) e anche di quelle orientali (San Demetrio di Salonicco). Talvolta i bracci del transetto si aprono su absidiole; altre volte un transetto a due navate dà luogo a una croce a doppia traversa (cattedrale di Canterbury), e non è singolare neppure la cosiddetta pianta a sala, ossia quella in
cui le navate si concludono nella zona absidale senza l’interruzione del transetto, come accade a Notre-Dame-la-Grande a Poitiers. La testata absidale, il presbiterio o cappella maggiore, può essere costituita da una semplice abside, spazio concavo a sezione semicircolare coperto da una volta a catino, oppure da un importante corpo edilizio con tre o più absidi, quella centrale e le cappelle radiali. Più raramente il presbiterio accoglie il prolungamento delle navate laterali sotto forma di deambulatorio, e in questo caso si innalza di solito al disopra di una cripta. Nelle regioni tedesche non è raro trovare una controabside, ossia un’abside nella parte anteriore della chiesa come spazio di venerazione delle reliquie. La navata principale è l’ambito attivo della costruzione dal punto di vista tettonico e spaziale, dato che le navate laterali agiscono come strutture di controspinta rinforzate da massicci contrafforti. Sulla superficie muraria fra gli archi di valico delle navate e l’imposta della copertura si aprono le finestre, che possono variare dalla semplice apertura con strombatura unica o doppia, sino al vano con archivolti torici su colonne. In alcune regioni, e in epoca già un po’ avanzata, le finestre da cui filtrava la luce attraverso lastre di alabastro vennero sostituite o integrate nella loro funzione dal triforio, stretta galleria formata da una successione di moduli di archi doppi o tripli, o anche da un falso triforio, ovvero da moduli di archeggiature senza la corrispondente galleria. La copertura dei diversi spazi della chiesa è stato uno dei principali problemi che gli architetti del romanico hanno dovuto risolvere. Secondo gli ambiti geografici, il clima, i materiali disponibili e il potere economico delle comunità, il problema ha ricevuto soluzioni molto diverse. La copertura in legno su struttura a due spioventi era la soluzione più semplice per coprire la navata principale, ma la sua facile combustibilità la rese sconsigliabile e venne sostituita dalla volta semicilindrica in pietra (volta a botte o a mezza-botte) rinforzata da archi fascianti. Nella copertura degli spazi quadrati, come le campate delle navate laterali, delle cripte, dei bracci del transetto, ecc., si adottarono
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soluzioni più semplici, come la volta a crociera, frutto dell’intersezione di due volte a mezza-botte, l’una perpendicolare all’altra. Per coprire la crociera d’incontro, spazio di intersezione fra la navata longitudinale e il transetto, si adottò la cupola emisferica, di tradizione romana, oppure la volta a botte o a crociera, aperta da una lanterna nella cuspide, poggiante su pennacchi (triangoli con superficie e lati concavi, due dei quali si confondono con gli archi di sostegno della cupola e il terzo con la sezione circolare del perimetro alla base di questa) o trombe (nicchie di forma troncoconica), che agevolano il raccordo fra la zona emisferica superiore e lo spazio quadrato – più di rado rettangolare – della pianta. In alcune regioni meridionali, in cui la tradizione classica appare contaminata da quella orientale, come in Lombardia, per la copertura si adottano soluzioni che ripartiscono la volta in scomparti mediante costoloni, modanature o nervature che anticipano l’incrocio di ogive gotico.
Tranne qualche eccezione, come la chiesa abbaziale di Cluny iii, le costruzioni più grandiose del periodo romanico, insieme alle cattedrali, furono le chiese erette nelle principali città delle rotte di pellegrinaggio e in particolare in quelle disseminate lungo le strade che conducevano a Santiago de Compostela. Tuttavia la magnificenza di questo tipo di costruzioni non è sicuramente dovuta tanto alle masse di pellegrini che dovevano accogliere, quanto piuttosto al fatto che la «grandiosità» era una delle qualità fondamentali nella definizione del bello; la grandiosità era ciò che provocava la commozione del sublime, l’emozione religiosa nei fedeli. I grandi spazi delle chiese di pellegrinaggio che dovevano accogliere i riti di venerazione delle reliquie e le processioni dei pellegrini nascevano da questa necessità di sbigottire, di innalzare lo spirito; il pellegrino che entrava in Sainte-Foy a Conques, Saint-Martial a Limoges, Saint-Saturnin a Tolosa, Saint-Martin a Tours o Santiago de Com-
14. Arazzo di Bayeux, particolare. Tessuto ricamato, 1077 ca. Centre Guillaume le Conquérant, Bayeux.
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Pagine seguenti: 15-16. Menologio (i mesi dell’anno). Pittura murale, 1100-1125. Panteón Real, intradosso dell’arco. Real colegiata de San Isidoro, León. 17. Panteón Real, interno, 1100-1125. Real colegiata de San Isidoro, León.
postela doveva colmarsi di ammirazione, restare stupefatto dinanzi all’architettura per pervadere il suo cuore di sentimenti religiosi e raggiungere, attraverso la bellezza umana, la bellezza divina. Sebbene le chiese a croce latina, nelle sue molteplici varianti, siano le più frequenti nel periodo romanico, vi sono anche chiese o cappelle a pianta centrale – circolari o poligonali – riferibili all’architettura delle rotonde funerarie dell’antichità romana e a quella dei martyria dei primi tempi cristiani. La loro centralità perfetta è il simbolo della virtù suprema e della speranza nella vita futura, immagine del tempio di Salomone, della Gerusalemme Celeste e dell’omphalos del mondo, il Santo Sepolcro di Gerusalemme. All’esterno, la volumetria delle chiese romaniche è di solito massiccia, austera, costituita da forme nitide e regolari. Vi si distingue la torre del campanile, che può ergersi isolata rispetto alla chiesa propriamente detta – come il famoso campanile, o torre, di Pisa –,
può fiancheggiare uno dei lati della facciata o entrambi, come avviene generalmente nelle cattedrali dell’Europa centrale (Worms e Magonza), oppure disporsi in uno o entrambi i bracci del transetto. Di solito ha pianta quadrata o ottagonale, mentre quella cilindrica è meno frequente (Torrecalada de Uzès). Nell’architettura cisterciense i campanili vennero perlopiù eliminati o ridotti a modeste torri di legno. Dal punto di vista architettonico, insieme al campanile, la zona che acquista maggiormente un carattere monumentale è la testata absidale. Di norma l’esterno delle absidi corrisponde alla disposizione interna, dilatando in numero e volumetria le navate della chiesa. Il paramento è di solito costituito da conci regolari a cui talvolta si addossano contrafforti a sezione rettangolare, a tutta altezza, o semplicemente lesene o pilastri. In Lombardia, e in aree sotto il suo influsso dal punto di vista architettonico, sono frequenti strette gallerie o arcate cieche che circondano la zo-
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na absidale della chiesa nella sua parte alta e che possono anche prolungarsi nei bracci del transetto e nei fianchi della navata maggiore. Come avviene nella testata absidale, la facciata della chiesa, salvo eccezioni – come a Saint-Trophime di Arles – riflette la distribuzione dello spazio interno. Quindi a una costruzione a tre navate corrisponde una facciata in cui una porta, o portale principale, è fiancheggiata da altre due, talvolta cieche. I portali, che in alcune regioni italiane sono preceduti da una sorta di tempietto sorretto da colonne su leoni, risolvono lo spessore del muro con una svasatura che si traduce nella moltiplicazione di archi o archivolti il cui raggio si riduce dall’esterno all’interno e che poggiano su stipiti o colonne addossate. In asse col portale, nella metà superiore della facciata, si apre di solito un oculo circolare o una finestra che dà luce alla navata principale e alla cui altezza, all’interno, può esserci una galleria o una cantoria. Le lunette – in cui si iscrive spesso la teofania del Giudizio finale –, gli archivolti, gli stipiti, i pilastrini, talora l’intera facciata (Ripoll, Moissac, Madeleine di Vézelay, Sangüesa), si prestano ad accogliere un ricco vocabolario ornamentale, geometrico, di animali reali o leggendari, mostri, personaggi o scene bibliche. In particolari occasioni si giunse perfino a sostituire le decorazioni dei fusti delle colonne dei portali con sculture rigide, ieratiche, in realtà statue-colonne eredi delle cariatidi classiche. Il lavoro scultoreo a scala monumentale trovò nei capitelli uno spazio privilegiato. Fra le tipologie dei capitelli greco-romani, l’arte romanica recuperò unicamente il capitello corinzio, che poteva trasformarsi fino a rendere irriconoscibile la sua origine. Il suo volume a tronco di piramide, o in altri casi, come nell’area germanica, cubico e ad angoli tagliati, fu usato per narrare scene bibliche, episodi della vita dei santi e della vita quotidiana, così come per sviluppare lotte simboliche fra uomini e animali mostruosi, fiere, chimere, arpie, in larga misura motivi di ispirazione orientale diffusi attraverso gli avori o i tessuti.
Il simbolismo della chiesa Il nome «chiesa», si tratti di chiesa cattedrale, parrocchiale o abbaziale, è metonimia di ecclesia, l’assemblea dei cristiani, la sua assemblea locale o la sua assemblea universale, anche se dopo lo scisma del 1054 solo i cristiani che si trovavano sotto l’obbedienza papale costituivano l’ecclesia romana o latina. Per questo la chiesa come edificio, con il suo spazio interno, la sua suddivisione, le sue colonne e pilastri, le sue volte e cupole, non era solo una somma di elementi architettonici o scultorei che obbedivano a leggi funzionali o estetiche; la Chiesa, come assemblea dei cristiani, tempio di Dio sulla terra, doveva riflettere l’ordine universale che promana dalla divinità. La pianta della chiesa romanica ricorda la disposizione del corpo umano e, per estensione, del corpo mistico della cristianità, di cui Cristo è il capo visibile. L’abside si identifica con il santuario di Dio, con il luogo stesso della rivelazione divina; la forma semicircolare è immagine della curva della testa dell’uomo, e in alcune costruzioni presenta anche l’asse inclinato rispetto a quello della navata centrale, come se si trattasse del capo reclinato del crocifisso. Quando varca la soglia e si immerge nella penombra, il fedele si sente attratto dalla presenza dell’abside. Questo spazio-percorso che separa la facciata dalla zona absidale presenta tre aspetti: terreno, di transizione e divino. Quello terreno, che corrisponde alle navate, è propriamente il corpo della Chiesa, di cui ogni cristiano è membro. Se nella facciata è la scultura monumentale il mezzo più adeguato per comunicare la complessa simbologia della chiesa-costruzione, nelle navate è la pittura la manifestazione artistica che rivela il soprannaturale attraverso una realtà visibile. La navata longitudinale è interrotta dalla cupola, che si innalza nello spazio della transizione: la crociera d’incontro. Le campate quadrate della navata maggiore simboleggiano la sfera temporale; le forme circolari dell’abside sono un riflesso del divino. Dal canto suo, la cupola della crociera d’incontro, che come elemento architettonico partecipa delle due forme geometriche (struttura emisferica su pianta qua-
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drangolare), unisce i due mondi e incanala la luce della purificazione necessaria per giungere a Dio, quel Dio che come giudice onnipotente si insedia nel catino absidale. L’abside, orientata a est, all’inizio del giorno è inondata dal sole del levante, simbolo del Sole della Salvezza (Sol Salutis), e alla fine dei tempi accoglie nel catino il sole del tramonto, il Sole di Giustizia (Sol Justitiae) che dovrà giudicare tutti gli uomini. Questo «capo» ecclesiastico costituisce anche l’epicentro generatore del programma della decorazione murale. Come inizio, e, allo stesso tempo, come fine; nel suo quarto di sfera si manifesta la divinità circondata dalle visioni apocalittiche e dalla sua corte celeste; ai suoi piedi tutto l’universo è rappresentato dai personaggi compartecipi della sua gloria. Se il catino absidale è immagine del divino, la mensa dell’altare è il suo riflesso sulla terra, la tavola su cui si compie il mistero eucaristico, il luogo catalizzatore del sacro: la sua presenza riassume l’insieme della chiesa e dell’universo. I cibori che lo proteggono, i paliotti e le delimitazioni laterali che lo racchiudono mostrano questo microcosmo che è il crogiolo del divino e dell’umano. Le immagini del divino I testi evangelici, canonici e apocrifi, i commenti apologetici, le leggende agiografiche, i bestiari, sono state le fonti principali delle immagini romaniche, come lo è stata anche la tradizione iconografica consolidata nel corso dell’alto Medioevo (nell’arte paleocristiana, copta, bizantina, carolingia, ottoniana, mozarabica, ecc.). L’immagine più frequente è la Maestà del Signore (Maiestas Domini o Pantokrator), che mostra Cristo sulle «nubi del cielo con grande potere e gloria». Le sue fonti, sebbene diverse, rimandano ad una concezione sintetica dell’Apocalisse. Cristo si presenta in tutta la sua maestosità per giudicare gli uomini, per attestare la grandezza divina e la fine dei tempi. La sua figura, smisuratamente grande, al di fuori della sfera temporale, lontana da quella terrena, è simbolo dell’assoluto,
di ciò che racchiude in sé il principio e la fine. Rappresentato in modo totalmente frontale, il Cristo apocalittico è assiso su un trono o un arco di cerchio ed è iscritto in un’aureola a mandorla che allude alla sua gloria. I piedi poggiano su uno sgabello o su una emisfera simbolo della terra; i gesti sono magniloquenti e autoritari; la mano destra, alzata maestosamente, più che benedire minaccia l’uomo ed evidenzia il potere di Dio; la mano sinistra regge il libro della vita, quello che rende testimonianza della sua natura e dei suoi attributi: Io sono la luce del mondo (Ego sum lux mundi), Io sono il primo e l’ultimo (Ego sum primus et novissimus), Pace (Pax), Legge (Lex), Dio principio e fine (Hoc Deus alfa et omega). La raffigurazione, accompagnata talvolta da altre teofanie, come la Dextra Domini, ossia la mano destra di Dio benedicente, l’Agnello di Dio (Agnus Dei) con i sette occhi apocalittici, e la colomba dello Spirito Santo, è affiancata da quella dei quattro evangelisti e dei loro simboli (Tetramorfos), l’aquila (Giovanni), il bue (Luca), il leone (Marco) e l’angelo, o l’uomo (Matteo), esseri che giorno e notte, senza sosta, rendono gloria, onore e azione di grazie a colui che è assiso sul Trono, come fanno anche i ventiquattro anziani dell’Apocalisse, soprattutto sulle facciate delle chiese e più di rado nei catini absidali. Il programma di salvezza è completato dalla risurrezione dei morti – che sollevano le lastre dei sepolcri per presentarsi all’ultimo dei giudizi, la psicostasia o pesatura delle anime –, con gli eletti che godranno per sempre della presenza divina e i condannati che soffriranno le pene infernali, i cherubini e i serafini con gli occhi eterotopici che ne ricoprono il corpo e gli arcangeli intercessori di Peticio e Postulatio. Quando la narrazione sintetica cede il passo a quella narrativa, risplende la vita del Dio-uomo, dalla sua genealogia e annunciazione fino alla sua morte e ascensione nei cieli, con i cicli della nascita, dell’infanzia, della vita pubblica, della passione e della glorificazione di Cristo. Nelle chiese dedicate a Maria (Santa Maria a Taüll, Santa Maria a Mur, Santa Maria della Libera in Foro Claudio, Notre-Dame a Montmorillon-sur-Gartempe,
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ecc.) e anche in alcune chiese dedicate a un santo (Santa Pudenziana a Roma, la cappella del castello di Castel d’Appiano, la chiesa di Saint-Laurent a Palluad-sur-Indre, Sant Pere di Sorpe, ecc.), la raffigurazione del Cristo apocalittico è spesso sostituita da quella della Vergine come trono del Salvatore e mediatrice fra gli uomini e Dio (Maiestas Mariae). In queste figurazioni la madre è assisa, ieratica e assente, come trono o sede del Bambino Gesù. La Vergine ha un posto d’onore anche nel Collegio apostolico, che attesta la divinità di Cristo e, in ragione della natura umana dei suoi componenti, rappresenta dinanzi alla divinità i fedeli riuniti nella chiesa. In questo caso di solito Maria mostra un calice o una coppa in una mano – un modello iconografico che segue quello della Babilonia apocalittica, così come le invocazioni mariane di «vaso di elezione» e «calice del mondo». Tuttavia la presenza di Maria nei programmi iconografici romanici, nei catini absidali, nei paliotti, nei capitelli dei chiostri, nei pilastri delle facciate, o la sua raffigurazione in statue isolate può essere intesa non solo considerando il suo ruolo di madre del Salvatore, o talora di anti-Eva o nuova Eva, che con la sua verginità ha aperto la strada alla redenzione dell’umanità, ma anche come sublimazione della donna medievale, di colei che Giovanni Crisostomo aveva considerato «male necessario», «tentazione naturale» e «pericolo domestico» dell’umanità, e che altri ecclesiastici ritenevano un essere immondo: «la bellezza fisica non va al di là della pelle. Se gli uomini vedessero quello che c’è sotto la pelle, la vista delle donne causerebbe loro la nausea… E se non possiamo toccare con la punta delle dita uno sputo o lo sterco, come possiamo voler abbracciare un sacco di escrementi?», giunse ad affermare Oddone abate di Cluny. Le immagini della natura Nell’età romanica l’uomo viveva così vicino alla natura da non prenderla quasi in considerazione, né in letteratura né nell’arte. So-
lo il contesto allegorico religioso permise la presenza di visioni radicate nella bucolicità di Teocrito e Virgilio, ma il paesaggio dei prati non calpestati e pieni di fiori profumati delle pastorelle mistiche non ebbe alcun riflesso in pittura o scultura. Nelle pitture murali, nelle sculture o nelle miniature romaniche la terra calpestata dalle creature umane o divine è raffigurata perlopiù attraverso una serie di linee ondulate da cui spuntano piccoli cespugli o gruppi di fiori. Non manca neppure la flora arborea simbolica nelle scene che la richiedono, come quelle relative al paradiso, all’annunciazione ai pastori o al battesimo di Cristo. Neppure il cielo e gli astri possiedono una vita iconografica propria, quindi il sole e la luna sono intesi, ad esempio, come motivi che simboleggiano la luce e le tenebre, la realtà celeste e quella infernale o la nuova e l’antica legge. Di solito il sole è immaginato come una stella e la luna è raffigurata calata, sebbene non siano rare le visioni antropomorfe in cui il sole è una ruota ardente che racchiude il viso sorridente di un personaggio maschile e la luna un cerchio spento con il volto triste e perfino lacrimoso di una donna. Gli animali sono più frequenti nell’arte del tempo; nella loro rappresentazione l’artefice mostra la sua vena più immaginativa e fantastica, che si tratti di animali vicini allo scultore o al pittore, come il gallo, il cane, la colomba, la pecora o il cavallo, o di animali immaginari come i leggendari draghi, centauri, grifi o sirene. Bisogna considerare tuttavia che per l’uomo del romanico un leone o un elefante erano reali quasi come un grifo o un centauro. La sua mancanza di preoccupazione per la natura gli impediva di distinguere alcuni esseri reali da quelli che conosceva solo attraverso bestiari o scritti ecclesiastici, come l’Imago Mundi di Onorio di Autun. Ma questa confusione non concerneva unicamente gli animali. Nella Città di Dio sant’Agostino parla di persone con un solo occhio in mezzo alla fronte o con i piedi rivolti all’indietro; di individui che possiedono entrambi i sessi, generano e partoriscono; di persone che non hanno bocca e vivono esclu-
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sivamente dell’aria che respirano dal naso; dei pigmei che misurano solo un braccio di altezza; di individui con una sola gamba e di altri che d’estate si proteggono dal sole con l’ombra dei piedi (sciopodi). Seguendo la tradizione hisperica, l’arte romanica non poté resistere alla tentazione di raffigurare questo mondo fantastico e di attribuirgli un simbolismo psicomachico. Il mostruoso e l’esotico giunsero a essere reali quanto il quotidiano, o più reali, ma sempre, come si legge nel tanto apprezzato Liber monstrorum de diversis generibus (Libro sui diversi tipi di mostri), con la credenza che il brutto o il deforme liberasse l’uomo dal mondo sensibile e gli facesse percepire la nostalgia dell’ideale divino.
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Le immagini dell’uomo In questo mondo senza spazio né tempo, in cui la realtà si confonde con la fantasia, l’uomo come essere individuale venne quasi ignorato. L’essere umano non aveva alcun valore in sé; la sua raffigurazione era lecita solo quando svolgeva un ruolo nello sviluppo narrativo delle fonti bibliche. L’uomo, come essere creato da Dio, peccatore e condannato al lavoro, era preso in considerazione unicamente per ricordare il suo debito verso il Creatore, la sua ingratitudine e la sua colpevolezza in tutti i mali che potevano colpire sia lui che il mondo stesso. I temi relativi al Peccato originale insistono inoltre sulla necessità di obbedire al potere temporale: l’uomo, il servo, non può ribellarsi al dominus. Fin dalla creazione l’uomo deve sottomettersi ciecamente alla volontà del Signore, come appare nel sacrificio di Isacco. Le regole morali ricordate a Caino, l’alleanza con Noè, l’alleanza con Abramo sono solo tappe fino alla legge positiva che Dio rivela a Mosè: gli uomini del popolo eletto dovranno osservare la Torah, la legge del loro Signore, altrimenti le maledizioni e il castigo di Dio ricadranno su di loro. Gli episodi della Genesi sono gli unici che evidenziano una relazione diretta fra Dio
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e l’uomo. Negli altri casi il Figlio, Cristo, è colui che come Salvatore vive insieme agli uomini e come Essere Onnipotente li giudica. Se negli episodi della vita e della passione di Cristo di solito non vi è una differenziazione gerarchica marcata fra la figurazione degli uomini e quella di Dio, in quelli del Giudizio Finale la gerarchizzazione è assoluta: Cristo, come Giudice Supremo, si impone in modo maestoso agli uomini, rimpiccioliti dinanzi alla sua figura. Benché l’arte romanica non si sia interessata all’uomo contemporaneo né al personaggio storico, tranne che nei monumenti funerari, si possono citare esempi in cui l’uomo acquista una certa importanza iconografica, come nel caso degli uomini devoti – Costantino rappresentato nel battistero di Poitiers, re Fernando di Castiglia e León nella collegiata di San Isidro a León o l’abate Desiderio a Sant’Angelo in Formis – o di coloro che parteciparono a imprese storiche, com’è evidente nella conquista normanna raffigurata nel cosiddetto arazzo di Bayeux. Malgrado ciò, sono più frequenti gli episodi che potremmo definire di genere, senza individualizzazione dei personaggi, soprattutto quelli di caccia – un’iconografia di tradizione tardoromana che probabilmente possedeva un simbolismo cristologico (Ebreuil, Castell’Appiano, San Baudelio a Berlanga) – e quelli dei menologi o calendari con la raffigurazione dei lavori caratteristici di ogni mese dell’anno (Panteón Real della collegiata di San Isidro a León).
Gli eletti di Dio La presenza opprimente del soprannaturale angosciava l’uomo medievale; questi aveva bisogno di esseri che potessero mediare fra lui e Dio e che manifestassero di possedere doni o attributi oltre quelli naturali. L’uomo del romanico non sperimentava né conosceva la realtà in tutta la sua estensione; non sapeva neppure con assoluta certezza quale fosse il suo ruolo in essa. I santi – esseri che abbandonavano la vita quotidiana, i suoi piaceri e i suoi vizi, che davano testimonianza pubblica della loro bontà, che trionfavano fronteggiando le forze del Maligno, esseri specchio di virtù e partecipi del potere e della gloria di Dio, per i quali le sofferenze nel corpo erano meriti per raggiungere l’eternità – lo aiutavano a seguire la via vera illuminata da Cristo; erano la sua guida. L’arte romanica raffigurò la vita, il martirio, la morte e i prodigi di questi uomini santi (Andrea, Baudelio, Clemente, Stefano, Lorenzo, Martino – vescovo di Tours –, Nicola, Paolo, Pietro, Saturnino, Tommaso, Vincenzo, Eulalia, Ines, Giuditta, Lucia, Maddalena, Margherita, ecc.), affinché le loro virtù eccezionali servissero come modello per tutti gli uomini. Le narrazioni agiografiche sono solite rappresentare la conversione del santo o la rivelazione pubblica della sua fede, il suo scontro con le tentazioni e i poteri del male e talora con l’autorità pagana – che lo costringe a rinunciare alla fede religiosa e che, dinanzi al suo rifiuto, lo sottopone alle prove e ai martirî più crudeli –, la sua morte e la sua glorificazione, allorché le sofferenze temporali sono ricompensate con la visione eterna di Dio.
18. L’arcangelo Michele. Pittura murale, 1072-1086. Abside della basilica di Sant’Angelo in Formis.
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Alain Erlande-Brandenburg
L’arte gotica ha costituito per quasi tre secoli l’espressione visuale della società medievale. Essa è stata ritmata in modo regolare a sua immagine dai grandi movimenti che l’hanno attraversata. Non può però essere ridotta alla sua definizione iniziale, anche se le prime creazioni sono spesso servite come riferimento. Esse non sono peraltro sufficienti a dar conto di una ricchezza che le ricerche recenti hanno evidenziato, sottolineandone la stupefacente varietà. Come le variazioni di un tema musicale, hanno offerto possibilità enormi da cui i committenti e gli artisti hanno saputo trarre un partito sempre rinnovato. L’arte gotica come linguaggio universale
1. Volte a crociera della navata maggiore, 1208 ca. Cattedrale di Notre-Dame, Parigi.
L’arte gotica, come l’arte paleocristiana e quella barocca, è stata uno stile internazionale. Da questo punto di vista s’iscrive nella concezione cristiana dell’ecumenismo destinato all’insieme dell’umanità, nella misura in cui questa può essere suscettibile di condividere la stessa fede. Committenti (maîtres d’ouvrages) e architetti (maîtres d’œuvres) del periodo gotico si sono riallacciati alle preoccupazioni dei loro predecessori del iv secolo nel momento in cui hanno definito un’estetica per rispondere alle esigenze di una religione per tutto l’Impero. Nell’uno e nell’altro caso si trattava di rifuggire da categorie concettuali per considerare l’uomo come figlio di Dio. Le lingue vernacolari erano perciò bandite durante la celebrazione del culto a vantaggio del latino; allo stesso modo l’estetica doveva essere unica. Si ritrova la stessa preoccupazione nell’espressione visuale. L’immagine ha avuto
nell’epoca paleocristiana, come in quella gotica, un ruolo fondamentale. Essa sfuggiva alle diversità linguistiche, era comprensibile da tutti al di là delle specifiche origini. Il linguaggio universale ha giocato in entrambi i periodi un ruolo essenziale come elemento di coesione. Mai nella storia dell’uomo l’immagine ha avuto un tale ruolo, avvertito da committenti e architetti. Essa si era liberata da ogni soggezione per meglio rivolgersi a tutti, per meglio convincere. Non obbediva a un codice che avrebbe condotto alla sacralizzazione. Le Scritture sono sacre poiché ispirate da Dio; l’immagine concepita dall’uomo è destinata all’uomo. Questa autonomia dell’immagine, riaffermata a intervalli regolari, segnatamente in Occidente, in occasione dei grandi conflitti orientali, non solleva alcuna critica in epoca gotica; la sua forza mediatica si fonda, al di là del suo messaggio, sul genio dei creatori. Tuttavia l’epoca gotica mostra una differenza importante rispetto a quella paleocristiana: la religione cristiana, che è la religione della popolazione occidentale, non deve più nascondersi; può esprimersi liberamente, in particolare nelle città, divenute a poco a poco il centro della vita intellettuale. Committenti religiosi e architetti laici dell’età gotica si sono inoltre confrontati con una realtà umana altrettanto complessa di quella del iv secolo. Certo, nel frattempo la città era profondamente mutata. Secondo un processo oggi ben chiarito, la città antica, sottoposta ad uno statuto amministrativo, aveva lasciato il posto alla città medievale. Gli uomini liberi avevano preso in mano il proprio destino. Si è dovuto tenere conto nei nuovi programmi di questa nuova forza: in
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L’arte gotica
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architettura, lasciando loro lo spazio dovuto all’interno dell’edificio di culto; nel campo visuale, tenendo conto dei loro bisogni. La creazione artistica deve essere analizzata attraverso il prisma di questo rapporto complesso tra fedeli e pensiero contemporaneo. Come tutte le creazioni, l’arte gotica pone il problema dei metodi per analizzarla. La sua riscoperta nel xix secolo ha indotto un approccio positivistico che, nonostante le critiche di grandi storici, è ancora diffuso. Fatti nuovi trovano sempre una spiegazione materialista: l’esempio più clamoroso a tale proposito riguarda l’architettura, che, va ricordato, servì a definire l’arte gotica. Con Viollet-leDuc l’attenzione si è principalmente focalizzata sulla copertura a ogiva, sull’arco acuto e l’arco rampante. La prima imponeva un’evoluzione tecnica che nulla avrebbe ostacolato. Viollet-le-Duc, di sensibilità materialista, reagiva infatti come un uomo del xix secolo, che in opposizione all’ideologia del Rinascimento affermava il primato dell’attività manuale su quella intellettuale. Si è poi fatta giustizia di un approccio così riduttivo, mettendo in luce come la creazione gotica, al pari delle altre creazioni, riveli la vita dello spirito. Alla direzione dei cantieri hanno contribuito grandi intellettuali, professionisti di altissimo livello che hanno sublimato la materia per piegarla alla loro sete di creazione. È infatti la questione dell’organizzazione della creazione ad essere oggi chiamata in causa. L’uomo in grado di trovare la collocazione migliore per ciascuna delle diverse tappe è un uomo che appartiene al proprio tempo, ne condivide angosce e speranze e ha trovato il modo migliore per esprimersi, ma anche per esprimere il proprio tempo. Ogni opera è il risultato del momento, della memoria acquisita e del suo divenire. A tale riguardo l’arte gotica non sfugge alla regola generale e non può essere ridotta a una concezione evoluzionistica. Come l’arte attuale, essa è stata «contemporanea» ed è stata recepita come tale. Così si comprendono i cambiamenti, gli sconvolgimenti e le diversità; fenomeni legati all’epoca, ai territori, agli uomini.
La prima arte gotica (1130 ca.-fine xii secolo) Saint-Denis: il manifesto dell’arte gotica La dedicazione dell’abbazia di Saint-Denis, a qualche chilometro a nord di Parigi, nel 1140, e la consacrazione degli altari nel 1144 hanno costituito i maggiori avvenimenti della creazione artistica del Medioevo. Tutto aveva congiurato perché fosse così: il committente innanzitutto, l’abate Suger (morto nel 1151), che occupava un posto di alto rango nel governo del regno; l’abbazia, divenuta col tempo uno dei luoghi principali della monarchia capetingia; la nuova costruzione, in rottura con le ultime realizzazioni della Francia settentrionale; la mediatizzazione delle due cerimonie religiose che riunirono tutti i grandi dell’epoca; gli scritti del committente, cui era affidato il compito di dar conto del significato del suo progetto. Sembrava difficile sfuggire a un tale avvenimento. È difficile giudicare oggi il progetto di Suger, tanto appare mutilato. I lavori vennero interrotti ben prima della morte del committente; la loro ripresa a partire dal 1231 ha modificato molti aspetti originali; gli uomini si sono accaniti dalla fine del xviii secolo nel mutilare l’abbazia, tanto che architettura, scultura, vetrate e ornamenta ecclesiae altro non sono che relitti di un sogno mutilato. Dell’edificio del xii secolo rimane il blocco occidentale e una parte della testata absidale; della scultura rimangono la Porte du Cimetière (o Porte des Valois), lunettoni e archivolti della facciata occidentale mutilata, alcune teste conservate nei musei; delle vetrate, alcuni pannelli rimontati nelle cappelle rayonnantes, altri in collezioni pubbliche o private; quanto agli ornamenta, i pezzi sono conservati al Louvre e in altre istituzioni. Ciononostante queste reliquie, grazie al contributo dei testi, consentono di cogliere l’ambizione dell’abate Suger. La facciata, costruita per prima, era destinata con i suoi tre portali, le venti statue-colonne e il trumeau ad accogliere i fedeli. La testata absidale era stata rinnovata
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percepito come strabiliante. Egli immaginò la testata come un’immensa arca-reliquiario, completamente libera all’interno grazie all’impiego di due serie di dodici colonne ridotte nel diametro grazie alla posa en délit (vale a dire con andamento delle venature del blocco di pietra perpendicolare al piano di posa; ndc), chiusa verso l’esterno da un involucro in pietra traforato da due immense aperture per cappella. L’aria circolava liberamente e così la luce, abbondante e filtrata dalle vetrate colorate. La luce era incaricata di unificare lo spazio interno, integrandone gli ornamenta ecclesiae, realizzati in metalli preziosi e decorati con gemme. Essa aggiungeva al significato materiale una portata metafisica, come sottolinea Suger a più riprese nei suoi scritti e nei diversi tituli.
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Il pensiero contemporaneo
2. Facciata occidentale, iniziata nel 1140. Basilica di Saint-Denis.
e considerevolmente ampliata per inglobare l’antico santuario con l’altare del vi secolo, il nuovo altare più a est, associato alle reliquie dei martiri traslate dalla cripta, il doppio deambulatorio e le cappelle ospitanti altari e reliquie di altri corpi santi. Un corpo longitudinale, presto interrotto, doveva collegare i due blocchi. Era previsto a cinque navate. All’architetto, anonimo, era stato affidato il compito di unificare con l’architettura un programma che avrebbe dovuto essere
Le idee sviluppate dall’abate Suger non erano esclusivamente sue, ma appartenevano al pensiero dominante nel milieu intellettuale parigino del secondo terzo del xii secolo. Nell’ambito dell’abbazia di Saint-Victor, ai piedi della Montagne Sainte-Geneviève, alcuni canonici avevano creato un luogo di riflessione nel quale Ugo di San Vittore si affermò rapidamente come personalità dominante. Il suo spessore culturale e il suo interesse per la pedagogia gli valsero l’interesse dei grandi spiriti contemporanei. Egli sviluppò le sue idee a partire da testi dell’antichità cristiana, fra cui la Gerarchia celeste – attribuita a Dionigi l’Aeropagita, confuso con il primo vescovo di Parigi sepolto a Saint-Denis, dove era conservata anche una copia manoscritta. Suger era stato altrettanto sensibile a tale pensiero, che s’iscriveva nella corrente neoplatonica per il ruolo attribuito alla luce e per l’interpretazione anagogica. È sorprendente constatare come i prelati che hanno commissionato i primi edifici gotici abbiano intrattenuto legami molto stretti con l’abbazia di Saint-Victor, talvolta anche con lo stesso abate Suger: i vescovi di Chartres, Lisieux, Parigi e Senlis; gli abati di Saint-
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Germain-des-Prés a Parigi, di Saint-Remi a Reims, ecc. Quale che fosse la sensibilità dei committenti, i programmi elaborati rivelano concezioni grandiose (Laon, Parigi, Sens), anche nel caso si tratti di piccole diocesi (Noyon, Senlis). Alcuni iniziarono i lavori dalla facciata (Lisieux, Saint-Remi de Reims, Senlis), altri si accontentarono di costruire la testata absidale (Saint-Germain-des-Prés a Parigi), rispondendo alle richieste dei fedeli in particolare nelle cattedrali, o cercando di riorganizzare la testata per integrarvi le reliquie dei santi. Questi edifici, talvolta giganteschi, imposero la distruzione delle antiche mura all’est (Noyon, Parigi), ad ovest (Lisieux, Soissons), o il rimaneggiamento di un intero quartiere (Noyon, Parigi, Soissons). Il nuovo stile venne adottato ovunque.
Architettura gotica e architettura paleocristiana Queste nuove costruzioni non sono state realizzate su terreni vergini, ma hanno sostituito o completato edifici precedenti. In questa regione della Francia, nella quale l’attività costruttiva si era relativamente ridotta nel corso della prima metà del xii secolo, questi ultimi dipendevano da ciò che si è convenuto definire «prima età romanica», caratterizzata da un’estetica paleocristiana proseguita sino ad un’epoca molto avanzata. Essi ne presentavano tutti gli elementi: capriate lignee, muri sottili, ampiamente traforati da aperture con una diffusa luminosità. Come nel iv secolo, essi avevano navate maggiori molto larghe: 10 metri a Parigi, 14,60 a Saint-Remi di Reims, quando le chiese della seconda età
3. Frammento di croce monumentale, detta croce di sant’Eligio, già sull’altare maggiore della basilica di Saint-Denis. Oro e vetro colorato, 625-650 ca. Cabinet des Médailles de la Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
Pagine seguenti: 4. Navata maggiore, dal 1140. Basilica di Saint-Denis. 5. Navata maggiore e incrocio del transetto, dal 1140. Basilica di Saint-Denis.
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romanica, voltate in pietra, non superavano gli 8 metri di larghezza come Saint-Sernin a Tolosa o, eccezionalmente, i 10 metri come a Vézelay. I committenti dell’età gotica chiesero agli architetti di conservare questi elementi coprendoli in pietra. Fu così per alcune navate romaniche a Reims, ma anche per la cattedrale di Angers, dove la navata unica misurava 14,60 metri di larghezza. Nel caso di un semplice completamento, ad esempio della testata absidale (Saint-Germain-desPrés a Parigi, Saint-Remi a Reims, Saint-Denis), gli architetti erano obbligati a rispettare la larghezza della parte conservata. Infine nelle chiese interamente rinnovate era apparso inammissibile ridurre la larghezza offerta dall’edificio destinato a scomparire (Laon, Parigi, Sens). Nei diversi casi menzionati l’architetto si trovava nella necessità di stabilire un legame fra parti antiche e parti rinnovate. L’abate Suger si è lungamente espresso sulla questione, tanto più delicata da risolvere a Saint-Denis in quanto il blocco occidentale e la testata absidale serravano un corpo longitudinale carolingio. La luce, che inondava in modo così intenso l’intero edificio, dava coerenza, armonia fra elementi eterogenei. Penetrando uniformemente, unificava i volumi interni, attenuando così le «rotture». Certo è difficile giudicare oggi Saint-Denis, profondamente modificata a partire dal 1231 per collegare le due estremità, con un intento che però rivela la medesima concezione unificatrice della luce. La fascinazione degli uomini del xii secolo per le forme paleocristiane caratterizza anche le piante e alcuni elementi architettonici. Numerosi edifici paleocristiani al tempo ancora superstiti presentavano disposizioni che hanno avuto la tendenza a scomparire molto più tardi. È così che il transetto dell’abbazia di Saint-Germain presentava ancora i bracci arrotondati alle estremità risalenti al vi secolo. Gli architetti di Noyon e di Soissons non esitarono a riprendere nel xii secolo la formula, che aveva d’altra parte il vantaggio di consentire un trattamento originalissimo della luce. Il ruolo affidato alla colonna, monolitica per l’impiego dei blocchi di pietra
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posati en délit o a rocchi, s’iscrive in questa stessa sensibilità (Laon, Noyon, Parigi, Sens, Senlis). La rivoluzione tecnologica Il rinnovamento formale dell’architettura gotica poggia su una rivoluzione tecnologica dell’arte di costruire, di cui si comincia solo a prendere coscienza. La sfida lanciata dai committenti agli architetti li obbligava a ripensare i metodi e immaginare nuove soluzioni. A un esame attento, la costruzione dei primi edifici gotici lo evidenzia bene. La relazione del monaco Gervaise a proposito di Canterbury è al riguardo illuminante. Guglielmo di Sens, chiamato sul cantiere nel 1175 dopo un drammatico incendio, portò le tecniche allora correnti sul continente. Esse sbalordirono letteralmente i tecnici e i religiosi inglesi. Si è dunque in grado di giudicare le modifiche più rilevanti; esse hanno riguardato tanto la lavorazione del legno quanto della pietra, fortemente distinte nel Nord della Francia: i ponteggi non poggiano più a terra, come in epoca romanica, ma sono a sbalzo; la centina delle ogive è ottenuta da cerchi ridotti di numero poggianti sull’abaco dei capitelli e che potevano venire riutilizzati. Quanto alla pietra, l’architetto fece prova di una conoscenza precisa delle cave e delle venature che offrivano. Dalle differenze seppe trarre il miglior profitto: pietra leggera per le coperture per non gravare troppo, pietra più resistente per i muri, a elevata densità per gli elementi portanti (sostegni, ogive); pietre che potevano rivaleggiare con il marmo quando erano destinate a essere tagliate en délit (Notre-Dame a Pargi, Sens, Saint-Denis). Tagliapietre e muratori per la messa in opera si rivelano grandi professionisti, che utilizzano strumenti mirabilmente temperati e malte a presa lenta. Si spiegano così le prodezze tecniche che hanno permesso, fra l’altro, di coprire in pietra grandi spazi. I metodi utilizzati sono vari quanto gli edifici. Si trattava innanzitutto di non aumentare il peso dell’edificio, di non rafforzare oltre misura le
fondazioni e di ridurre l’impiego di materia prima. Così a Notre-Dame di Parigi le volte sono piane e non spingono quasi; ad Angers e a Sens sono molto bombate ed esercitano spinte sulla verticale. L’apparecchiatura delle vele si spiega ugualmente con la preoccupazione di limitare le spinte laterali. Ci si accorge così che la costruzione di un grande edificio ha obbedito a un certo numero di regole: in primo luogo quella della dissociazione dei diversi elementi, affinché la caduta dell’uno non metta in discussione la stabilità dell’insieme. I drammi della prima guerra mondiale e i bombardamenti della seconda hanno permesso di giudicare ciò, e costatare la relativa elasticità della costruzione gotica. L’analisi di Notre-Dame a Mantes evidenzia l’indipendenza dei diversi elementi che assicurano coesione e resistenza: sostegni, archi, ogive, vele. Gli uomini Durante questo periodo l’architetto gotico ha ritrovato la pienezza della sua professione. È stato incaricato di concepire l’opera nel suo insieme. È stato così a Saint-Denis, dove l’abate Suger ha affidato a un architetto, di cui non si è curato di rivelare il nome, la concezione e la realizzazione delle nuove costruzioni, la direzione delle squadre di cantiere, lapicidi e carpentieri, scultori, maestri vetrai, e gli uomini addetti ai metalli, orefici, fonditori, ecc. Si trattava di assicurare al meglio la coerenza e l’armonia di un’impresa unica. L’architetto si trovava alla testa di una struttura importante incaricata di preparare i documenti necessari alle diverse attività: disegni, dime per i lapicidi; disegni quotati per i muratori; disegni, modelli, maquette in scala naturale per scultori, fonditori, maestri vetrai e orefici. Un intervento così incisivo ha permesso di evitare dissonanze, mentre l’iconografia era di competenza del committente. Il numero di edifici costruiti nel corso della seconda metà del xii secolo e la loro qualità d’esecuzione, l’importanza e la quantità dei programmi scolpiti, l’estensione in
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superficie delle vetrate realizzate possono essere spiegati solo attraverso una rinnovata organizzazione dei diversi mestieri. La specializzazione, esito finale della professionalità, si impose generalmente. Essa aveva inoltre un doppio vantaggio: il risparmio di tempo, l’abbassamento dei costi. Il ricorso a documenti preparatori, già richiamati a proposito della costruzione, fu uno dei modi che condussero alla ripartizione dei compiti, che si ravvisa anche in altre tecniche, ove sussista un numero di testimonianze sufficientemente elevato, come scultura e vetrate. Gli scultori delle grandi facciate a programma (Mantes, Parigi, Saint-Denis), dei chiostri (NotreDame-en-Vaux, a Chalon-en-Champagne), di tombe (Saint-Germain-des-Prés) erano incaricati, grazie ad un modellino a scala naturale, di realizzare elementi specifici: mani, visi, panneggi. Certo, restavano sotto l’autorità di un maestro che imponeva l’unità della statua, affinché non apparisse discordante in una visione d’insieme. A questo proposito il Portale reale di Chartres è testimonianza eloquente di uno scacco: le statue-colonne, intagliate in una pietra estranea alla regione, appaiono giustapposte come se si trattasse di opere individuali. Questa specializzazione ha assunto, nell’ambito dell’architettura di difesa, una dimensione notevole, che si spiega con gli avvenimenti contemporanei: lo scontro che oppose i due grandi regni del tempo, Capetingi e Plantageneti. Questi ultimi, con Riccardo Cuor di Leone, per proteggere Rouen costruirono a Château-Gaillard una fortezza isolata e senza appoggio alle spalle, per dirla in breve poco adatta alle nuove esigenze. Poco prima Filippo Augusto aveva lanciato un vasto programma in funzione delle sue conquiste, consistente in una serie di elementi difensivi a ridosso della città, costituiti da una cinta di protezione e da una torre. La prima riprendeva lo schema antico della cortina scandita a intervalli regolari da torri; quanto alla seconda, con i suoi 30 metri d’altezza era emblematica dell’affermazione del potere capetingio. Nell’uno e nell’altro caso, di cui sussistono una ventina di esempi,
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la formula era identica nella concezione generale come nei dettagli d’esecuzione. Il modulo in pietra, la disposizione generale della torre, che riprendeva fin nei minimi dettagli quella del Louvre. Per giungere a tale risultato, il re aveva creato un consiglio di architetti esperti nei diversi campi di difesa. Si raggiunsero progressi tecnici impressionanti ed anche un’apprezzabile economia finanziaria. In pochi anni il panorama architettonico principalmente urbano o urbanizzato della Francia settentrionale era stato profondamente modificato, parallelamente all’imporsi della nuova estetica. I contemporanei ne furono colpiti e alcuni di loro, come i religiosi
di Canterbury, cercarono di fare altrettanto. Tuttavia il caso di Guglielmo di Sens e l’invito rivoltogli provocarono presto dissensi.
6. Cattedrale, 1260. Chartres.
Lo stile 1200 Dopo l’esposizione del 1970, al Metropolitan Museum di New York, si è convenuto di definire «stile 1200» una corrente stilistica che ha molto profondamente interessato attraverso i suoi artisti l’Europa del Nord. Essa ha evidentemente debordato in un senso e nell’altro rispetto alla data evocata. La più antica testimonianza, uno dei grandi capolavori dell’arte
7. Cattedrale, navata maggiore, 1260. Chartres.
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medievale, è da individuarsi nel fonte battesimale di Liegi, fuso all’inizio del xii secolo da Renier de Huy. La scultura, ad altorilievo, è di plasticità stupefacente. I personaggi, liberi nei movimenti, in atteggiamenti sciolti la cui spigliatezza è sottolineata dal panneggio che mette in evidenza le forme, testimoniano una conoscenza approfondita dell’arte ellenistica. Numerosi artisti del xii e del primo terzo del xiii secolo hanno adottato questo stile, nella scultura monumentale (Santiago di Compostela, Fontevrault, Sens, Strasburgo, York), negli arredi (avori, oreficeria), in pittura. Grandi capolavori sono, fra gli altri, le opere dell’orafo Nicolas de Verdun e del pittore – o dei pittori – del Salterio d’Ingeburge. Oltre alle casse-reliquiario di Colonia e di Tournai, Nicolas realizzò nel 1181 un ambone – trasformato nel 1351 in retablo – su richiesta dei canonici di Klosterneuburg (Austria). Si trattava di illustrare, su lastrine di rame smaltato, la triplice concordanza di scene tratte dall’Antico Testamento, ante Legem e sub Lege (Antico Testamento), e dal Nuovo, sub Gratia. Il ricchissimo contenuto iconografico è stato valorizzato da un’ammirevole esecuzione dell’incisione delle lastrine e dallo smalto. L’espansione gotica (fine xii secolo-1230 ca.)
8. Rosone con la Seconda Venuta di Cristo e vetrate con la Vergine col Bambino (al centro), i profeti e gli evangelisti, nel transetto della cattedrale, 1220-1230. Chartres.
Gli anni attorno al 1200 sono segnati dal trionfo dell’arte gotica nelle sue differenti espressioni, almeno in Francia. Le condizioni delle grandi creazioni del tempo ci appaiono in modo meno chiaro rispetto all’epoca precedente, e le scelte dei committenti sono più variegate dal punto di vista stilistico. Per quanto concerne l’architettura, il fenomeno è particolarmente sorprendente a nord come a sud. Nella maggior parte delle nuove costruzioni si è tenuto conto delle tradizioni locali. In Normandia la torre-lanterna rimane un elemento essenziale della composizione della testata absidale, le cui masse vanno a scalare per costituire una solida base (Coutances). Le innovazioni non sono meno importanti. Sempre in Normandia, gli architetti, pre-
occupati dell’alleggerimento delle forme, giunsero ad uno stile di estremo rigore, la cui messa in opera impose il ricorso alla stereotomia (Coutances). Essi non hanno esitato a utilizzare una formula che si è in seguito largamente diffusa, l’impiego di metallo per rinforzare una muratura di grande leggerezza (Bayeux). Nell’Anjou gli architetti rinunciarono al ruolo strutturale dell’ogiva a vantaggio di un ruolo puramente decorativo, che ha portato a stravolgere la definizione spaziale dell’interno. La copertura divenne così un elemento di fusione dello spazio interno grazie all’impiego moltiplicato di nervature e costoloni. La campata, sulla quale gli architetti del xii secolo avevano fondato la nozione di gotico, fu dunque rimessa in discussione. In Borgogna gli architetti si valsero di una tecnica sbalorditiva per rinnovare lo spazio interno, separando l’involucro esterno dalla muratura interna (Notre-Dame a Digione). Gli architetti del sud al contrario rimasero legati a una muratura imponente. Occorre d’altra parte sottolineare un certo numero di caratteri che si sono imposti in modo generalizzato: la campata a pianta rettangolare con volta quadripartita (barlong), l’alzato a tre livelli con la scomparsa dei matronei, la generalizzazione dell’arco rampante, infine la tecnica. La storia dell’arte oggi non crede più che il modello di Chartres si sia imposto per un cinquantennio. Gli architetti hanno dato prova di forte immaginazione sempre rinnovata. A tale proposito, tutto divide le cattedrali di Bourges e di Chartres, pur contemporanee: il lirismo della prima, ottenuto grazie a una messa in opera eccezionale, contrasta con la calma serenità della seconda. I legami spesso affermati fra Reims (1211), Amiens (1220) e Beauvais (1225) non riguardano che dettagli, poiché il trattamento delle masse esterne e la definizione spaziale interna conducono a risultati molto diversi: equilibrio a Reims, snellezza esacerbata a Beauvais, luminosità ad Amiens. L’evoluzione dell’architettura gotica nel lungo periodo mostra come la ricerca di luminosità interna sia stata determinante. Lo si è visto per gli esordi, lo si vedrà ancora per il
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periodo che segue. Questo periodo segna una tappa importante nell’incessante ricerca concentratasi in modo specifico sull’altezza delle volte. La loro elevazione, continua da Chartres (37 metri) a Beauvais (46,77 metri) passando per Bourges (37,15 metri), Reims (37,95 metri) e Amiens (42,30 metri), non è tanto una ricerca di sfida, quanto la volontà di aumentare l’illuminazione. Il punto d’arrivo è Beauvais, che ha vetrate di quasi 40 metri di altezza. Il Taccuino di Villard de Honnecourt Una preziosa raccolta di disegni, iniziata nel primo terzo del xiii secolo da Villard de Honnecourt, apporta sulla tecnica impiegata una testimonianza oggettiva insostituibile. È stato recentemente dimostrato che i disegni di architettura non sono dei rilievi, ma delle copie che Villard ha tratto dai documenti conservati presso la bottega dell’architetto di Reims. Non si tratta dunque di un’istantanea del cantiere, ma della memoria di un cantiere in corso: la documentazione riguardante altri monumenti (Losanna, Laon) e i disegni di progetto dall’architetto per la cattedrale. Così Villard ha fermato nei suoi disegni le dime destinate a scomparire alla chiusura del cantiere. I lapicidi potevano lavorare senza alcuna difficoltà i diversi elementi della muratura portando sul ponteggio e sul piano di posa le indicazioni destinate ai muratori. Questa preziosa testimonianza, che conferma ciò che si sapeva dallo studio dei primi edifici gotici, aiuta a comprendere la qualità della posa in opera a Reims, ma pure di molti altri edifici. La ripartizione dei compiti L’organizzazione del lavoro, che significava a un tempo risparmio di tempo e riduzione dei costi, si trova anche in altre tecniche. La scultura ne offre un’ulteriore eloquente testimonianza. I complessi monumentali realizzati nel corso del primo terzo del xiii secolo sono stati per certi versi tanto importanti quanto quelli del xii secolo. I bracci del transetto di
Chartres sono in tal senso eccezionali per il numero delle opere, per la loro qualità, ma anche per la rapidità con cui è stato realizzato, un decennio al massimo. Una squadra di scultori era stata riunita sotto l’autorità dell’architetto e di un responsabile della scultura incaricato di organizzare il cantiere e ripartire i compiti, fornendo modelli a scala naturale, modelli di statue complete o di dettagli – visi, panneggi, membra, ecc. –, per consentire di rinnovare ogni composizione. Si comprende meglio così la difficoltà a identificare lo stile di ciascun scultore, a causa dell’intervento in una stessa opera di diversi artisti. Nulla impedisce d’immaginare che alcuni scultori, guadagnata una certa notorietà, si spostassero di cantiere in cantiere portando con sé i propri modelli. La medesima organizzazione del lavoro si ritrova anche in altre tecniche: lo smalto, la vetrata, il libro. Lo smalto ne offre una testimonianza convincente. Si trattava per gli artigiani limosini di rispondere a una domanda continua di ornamenta ecclesiae. L’utilizzo del rame come supporto e l’impiego di smalti di vari colori permetteva di creare opere meno costose rispetto a quelle d’oro o d’argento, ma di effetto altrettanto notevole. Gli artigiani si organizzarono nel corso del xiii secolo per ridurre ulteriormente i costi, ripartendo i compiti e diffondendo le loro opere in tutta l’Europa. È avvenuto lo stesso per il libro. La creazione e lo sviluppo delle università hanno sviluppato dei bisogni ai quali le biblioteche religiose non potevano rispondere. A Parigi come a Bologna, apparve un nuovo mestiere, il «libraio», attorno al quale si andò organizzando l’attività editoriale: pergamene, «scrivani» (di fatto i copisti), miniatori, raggruppatisi in un medesimo quartiere. La cura più attenta era riservata alla decorazione dipinta, affidata a pittori incaricati di realizzare sia gli elementi decorativi sia le scene figurate. In quest’ultimo caso indicazioni molto precise erano fornite sulla pagina di pergamena. Si è stabilita così una gerarchia nella produzione, dalle opere più correnti, prodotte «in serie», relativamente poco costose, a quelle commissionate, il cui prezzo raggiungeva talvolta somme considerevoli.
9. Carlo Magno dirige la costruzione di una chiesa, dalla Storia di Carlo Magno, deambulatorio della cattedrale. Vetrata, 1205-1235. Chartres.
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La produzione di vetrate dipinte segue uno schema identico. L’enorme domanda degli architetti gotici impose ai maestri vetrai di organizzare ancora meglio la bottega. È difficile stimare la produzione di questo periodo, che si calcola sulla base delle dimensioni delle aperture degli edifici di culto. A Chartres, che dispone del complesso meglio conservato, realizzato in tempi relativamente brevi – tra il 1200 e il 1235 –, le 150 vetrate e i rosoni totalizzano 2.500 metri quadrati. A differenza dell’epoca precedente, quando si collocavano in prossimità del cantiere, le botteghe si stabiliscono ora in città. La catena produttiva era perfettamente regolata: acquisto da parte del capo-bottega dell’impasto di una certa quantità di vetro colorato, taglio del vetro secondo il modello fornito dal pittore, assemblaggio dei diversi pezzi, esecuzione della grisaille da parte del pittore, cottura in forno, inserimento nelle cornici di piombo. Il ruolo del pittore era dunque essenziale, poiché egli forniva il cartone che serviva come riferimento in ogni fase, ma poteva essere sostituito al momento dell’esecuzione della grisaille da abili mani specializzate nei dettagli: visi, mani e panneggi si attenevano più o meno fedelmente alle indicazioni fornite dal cartone. Il maestro poteva in effetti essersi recato altrove, chiamato a causa della sua reputazione in altri cantieri importanti. Così si spiega uno stile identico in luoghi tra loro distanti. Per tentare di trattenerlo, il committente utilizzava i mezzi finanziari più convincenti.
forme corrispondenti a una società in piena evoluzione. Essi dovettero abbandonare i settori più impegnativi, come quelli dell’edilizia o che riguardavano gli ornamenta ecclesiae. Hugo d’Oignies ne è stato l’ultimo esempio all’inizio del xiii secolo nel campo dell’oreficeria. Mathieu Paris, monaco dell’abbazia di Saint-Albans, le cui capacità erano molteplici, non ha nascosto nei suoi scritti il disappunto di fronte a questa esclusione.
10. Villard de Honnecourt, Costruzione della torre della cattedrale di Laon, dal Taccuino. Inchiostro su pergamena, 1300-1330 ca. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
Artisti laici, artisti religiosi Lo specialismo si è sempre più imposto, portando a termine il processo di laicizzazione dei mestieri artistici. L’arte gotica, fin dall’inizio, aveva accelerato questo processo, avviatosi alla fine dell’xi secolo. I religiosi si erano visti privare del ruolo trainante che avevano esercitato attorno all’anno Mille, al tempo del rinnovamento che aveva coinvolto l’intera Europa. Le cause sono state molteplici, ma una è stata decisiva: quali che fossero le loro qualità, i religiosi non erano più portatori di
L’arte rayonnant o il trionfo dell’arte gotica (1230-metà xiv secolo) Sino alla fine del primo terzo del xiii secolo la diffusione dell’arte gotica si è limitata a qualche luogo in Inghilterra, Spagna e nell’Impero. Si trattava in ciascun caso di iniziative personali del committente, come si è visto in precedenza per Canterbury. L’adesione non fu generale. Nella diffusione del nuovo stile si è attribuito un ruolo trainante
11. Facciata occidentale, iniziata nel 1211. Cattedrale, Reims.
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12. Cattedrale, interno, 1248-1322. Colonia.
13. Berenguer de Montagut e Ramon Despuig, basilica di Santa Maria del Mar, 1329-1383. Barcellona.
Pagine seguenti: 14. Annunciazione (sinistra) e Visitazione (destra). Portale maggiore della facciata occidentale, 1240-60. Cattedrale, Reims.
ai cisterciensi. Al contrario, essi si mostrarono reticenti, poiché l’adozione delle volte ogivali e della tecnica en délit non portò a una nuova concezione dello spazio interno, rimasto frammentato e non unificato. Si deve attendere la fine del primo terzo del xiii secolo e l’inizio del successivo per assistere a un cambiamento decisivo e constatare una larghissima adesione all’arte gotica, secondo una concezione rinnovata alla quale è stato dato il nome di rayonnant. Le condizioni di tale cambiamento sono vicine a quelle che avevano dato avvio alla prima arte gotica. La riflessione allora condotta dagli uomini di Chiesa non poté essere interamente rinnovata, ma approfondita. Una generazione di pensatori, fra i quali san Bonaventura e Roberto Grossatesta, ha scritto testi che sottolineano ciò che si è successivamente definito «teologia della luce». Il dato nuovo rispetto a quello del xii secolo è che tale pensiero non è più limitato agli intellettuali, ma innerva la società contemporanea, e la creazione musicale e la letteratura ne sono testimonianza. Gli artisti contemporanei non potevano sottrarvisi; prossimi su questo punto ai commit-
tenti, espressero il ruolo trascendentale della luce nelle loro opere: in architettura e in tutta la produzione a essa legata, ma pure in altri ambiti più distanti, come quello del libro. Gli architetti, come spesso in questo momento, sono all’avanguardia e le modificazioni portate agli edifici ne costituiscono, come si è visto a proposito di Amiens e Beauvais, le più antiche testimonianze. Questo orientamento portò a concepire l’edificio di culto come uno spazio luminoso, una «scatola di vetro», uno scheletro in pietra chiuso da giganteschi cloisons traslucidi. La muratura scompare così alla vista per l’abbondanza della luce, che quando si posa è percepita come un accento grafico. Per giungere a questo risultato, gli architetti perfezionarono invenzioni più antiche e ne immaginarono di nuove, sintetizzandole in un sistema coerente. La prima di queste invenzioni fu quella che Viollet-le-Duc nel xix secolo definì «finestra a telaio» (fenêtre-châssis). Villard de Honnecourt, colpito nel xiii secolo da questa nuova disposizione, non aveva esitato a disegnarla nel suo Taccuino. Il principio era l’indipendenza della finestra dalla muratura, cosa che ne consentiva le maggiori dimensioni. L’utilizzo del metallo come rinforzo permise in un secondo tempo di moltiplicare le ripartizioni, realizzate en délit, e di giungere alla soppressione del muro fra i sostegni. Il primo esempio di utilizzo della «pietra armata» è la testata dell’abbazia di Saint-Denis, rinnovata a partire dal 1231. Il sistema venne esteso al triforio grazie all’abbassamento del colmo delle navate minori a vantaggio delle terrazze, e all’utilizzo come pluviali degli archi rampanti. L’architetto – ancora una volta anonimo – della Sainte-Chapelle a Parigi, che ha spinto ancor più avanti l’utilizzo della «pietra armata», poté così innalzare, su un basamento di 10,70 metri di larghezza e 6,60 di altezza, la cappella superiore, le cui volte raggiungono 20,50 metri di altezza per una superficie di 618 metri quadrati di vetrate. L’impiego del metallo permise di realizzare immensi rosoni, alcuni dei quali prossimi ai 13 metri di diametro (Parigi). La maestria di questa nuova tecnica spiega non soltanto
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l’ardire dei nuovi progetti, ma dà conto delle modificazioni apportate alle costruzioni in corso d’opera. Ad Amiens e a Beauvais l’architetto poté sublimare la pietra a vantaggio dell’immaterialità del vetro. Architetti rayonnant Queste costruzioni, che esigevano un architetto e maestranze di altissimo livello, furono immediatamente apprezzate da un gran numero di committenti nella Francia settentrionale come in altre regioni. A testimoniare il successo degli architetti è la celebrità che ottennero ancora in vita: Jean de Chelles (morto nel 1258) è celebrato da un’iscrizione scolpita nel braccio sud del transetto della cattedrale di Parigi; Pierre de Montreuil (morto nel 1263) ottenne il titolo universitario di maître ès pierre; Hugues Libergier (morto nel 1263) è raffigurato sulla sua lapide funeraria come un intellettuale accompagnato dal compasso, dall’asta e dal modello di Saint-Nicaise, che aveva completato. Frequentemente l’architetto è rappresentato associato al committente nelle vetrate (Troyes) e nelle miniature. Il loro impegno è suggellato da un accordo molto preciso (Gautier de Varinfroy). Il suo nome è iscritto nei labirinti, comparato al più celebre fra gli architetti greci: Dedalo. Questo periodo di legittima ammirazione non doveva però durare molto: dalla fine del xiii secolo le costruzioni sono tornate anonime. I committenti ambiziosi del Sud della Francia, come di altre parti d’Europa cercarono di rivaleggiare con le realizzazioni della Francia del Nord. In Germania diedero a questa estetica il nome di opus francigenum, tanto la sua origine non lasciava dubbi. Infatti si fece appello ad architetti francesi per avviare i seguenti progetti: Strasburgo (1240 ca.), Colonia (1248) e Praga (1346) nell’Impero; Burgos (1255) in Spagna; Westminster (1250 ca.) in Inghilterra. I grandi prelati del Sud della Francia fecero lo stesso nel corso dell’ultimo terzo del xiii secolo: Bordeaux, Clermont, Limoges, Narbona, Tolosa. Non ci si poteva ac-
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contentare di chiamare un architetto, poiché la presenza di maestranze specializzate si era rivelata indispensabile (Uppsala, Praga): disegnatori da studio, collaboratori in grado di realizzare edifici in rottura tecnico-stilistica con le tradizioni locali. L’impiego della «pietra armata» non era dei più semplici (Carcassonne, Colonia, Praga, Westminster), e il minimo errore rischiava di avere conseguenze funeste (sala capitolare di Westminster). Nondimeno, accanto a questi successi dell’architettura rayonnant, alcuni committenti preferirono forme più tradizionali da rinnovare. Il contrasto era sorprendente, com’è ancora oggi quando si esamina Sainte-Cécile ad Albi. Il vescovo, Bernard de Castanet, optò per una soluzione a navata unica e per il mattone come materiale di costruzione. Poté così creare una navata di 19 metri di larghezza e definire masse esterne cubiche. Egli cercava con questa cattedrale edificata in terra catara di affermare all’esterno e attraverso l’organizzazione interna l’unicità della fede cattolica. È la ragione per cui aveva adottato questo tipo di navata, di cui gli ordini mendicanti – domenicani e francescani – avevano diffuso l’utilizzo attraverso l’Europa. Esso si adattava a differenti esigenze, tra cui il superamento della distinzione di ecclesia fratrum ed ecclesia laicorum unificate in un immenso invaso. A partire da uno schema relativamente semplice, gli architetti contemporanei hanno saputo immaginare edifici estremamente vari. Bastava modificare l’illuminazione interna per variare i giochi d’ombra nelle cappelle sistemate fra i contrafforti; le grandi superfici murali intervenivano come contrappunto. Alcune realizzazioni sono il prodotto dei più grandi geni contemporanei. Nella chiesa dei Jacobins di Tolosa le colonne si innalzano per 22 metri e ritmano lo spazio interno senza frazionarlo. L’impiego delle colonne nella cattedrale di Carcassonne ha portato alla felice fusione di transetto e cappelle. Alla Chaise-Dieu l’architetto di Clemente vi ha immaginato una navata centrale fiancheggiata da cappelle laterali i cui muri divisori sono stati soppressi.
L’orientamento a favore di una spazialità totale è un carattere generale nell’Europa occidentale. Ha nondimeno assunto in alcune regioni tratti specifici. L’Italia ne offre un esempio precoce con San Francesco ad Assisi, la cui navata raggiunge i 13 metri di larghezza. A Firenze il vescovo, il comune, domenicani e francescani restarono fedeli all’impianto basilicale, ma sono però riusciti a integrare le navate minori in quella centrale. La copertura gioca a tale riguardo un ruolo essenziale nella definizione dello spazio interno: a capriate in Santa Croce, in pietra in altri casi. Edificando la cattedrale, Arnolfo di Cambio ha realizzato la sintesi più brillante fra l’estetica paleocristiana e quella contemporanea, riuscendo a lanciare volte in pietra di 19,50 metri di ampiezza. Nell’Impero gli architetti hanno insistito sulla distinzione fra le due zone di culto: l’ecclesia fratrum è costituita da una testata lunga e stretta; l’ecclesia laicorum è un largo volume rettangolare, diviso in tre navate. Nella chiesa dei domenicani di Strasburgo le capriate erano sorrette da alte colonne. La formula venne subito ripresa, in particolare nella chiesa dei domenicani di Colmar. I committenti catalani dimostrarono più inventiva nella volontà di unificare lo spazio. Religiosi e architetti si riunirono nel 1416 a Gerona per discutere quale fosse la soluzione migliore per completare la cattedrale: la navata unica o tripartita. Venne scelta la prima a causa delle eloquenti ragioni della sensibilità contemporanea, come evidenzia il ruolo della luce. Con la cattedrale di Manressa e Santa Maria del Mar a Barcellona l’architetto Berenger de Montagut ha saputo creare opere fra le più significative dell’epoca.
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Gli scultori L’estetica rayonnant ha riguardato tutta la produzione artistica contemporanea, la scultura come la pittura. Ciò che rivela il nuovo stile è la rottura con la monumentalità per la scultura, anche se quest’ultima rimane associata all’edificio. Con la liberazione della statua nello spazio si stabilisce un rapporto reciproco più com-
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plesso. Questa indipendenza si accompagna a nuovi accenti che potrebbero dirsi manieristici. Il lunettone del portale centrale di Notre-Dame a Parigi è il più antico esempio conosciuto di una corrente che s’imporrà con estrema rapidità. Si tratta di elementi più tardi rimontati maldestramente in un complesso dei primi anni del secolo. Si caratterizzano in primo luogo per le proporzioni allungate, con un rapporto 1 a 7, e per i panneggi profondamente scavati per catturare la luce e creare effetti d’ombra e contrasti. A ciò si aggiungono le ricerche nella resa del volto attraverso rotture di piani, infine la preoccupazione di rendere la vita attiva. Ne è derivato un sorriso appena abbozzato. Questo stile si è diffuso rapidamente come l’architettura attraverso l’Europa grazie ai modelli e soprattutto grazie agli artisti trasferitisi in altri cantieri. Alcuni di questi sono divenuti presto dei diffusori. L’esempio di Reims è a tal riguardo eloquente. Ciononostante Parigi è rimasta il grande centro innovatore, ritmato, a intervalli regolari, dalla creazione di grandi capolavori. Nella Sainte-Chapelle, prima del 1248, le statue degli apostoli sono divenute indipendenti rispetto alla muratura. Nel braccio nord del transetto della cattedrale le sculture si proiettano davanti al muro (1250), sebbene un poco più tardi (1258) Pierre de Montreuil le confini entro nicchie. È sorprendente constatare come l’architetto sia rimasto l’ideatore e il responsabile del cantiere, e come abbia gelosamente avuto cura di stabilire un particolare rapporto con la superficie muraria. Tuttavia, dalla facciata di Reims (dopo il 1255) si fa strada la rottura. Scultori di orizzonti diversi non si piegano più alle direttive dell’architetto. Al contrario, nella facciata di Strasburgo (fine del xiii secolo) l’accordo fra architettura e scultura è rispettato grazie all’evidente autorità dell’architetto, che ha scelto i più grandi artisti contemporanei piegandoli a una legge comune. Strasburgo, come Reims, è stata un centro di diffusione. Scultori del cantiere vennero chiamati a Friburgo. I rapporti sono troppo stretti per essere spiegati con un ge-
nerico influsso. Da Strasburgo o da Friburgo lo stile rayonnant si è diffuso in una parte dell’Impero. Il sorriso appena accennato a Parigi, franco a Reims, ironico a Strasburgo si è mutato in una smorfia a Magdeburgo. Il sorriso non è l’unico elemento che consente di seguire la diffusione di uno stile nato a Parigi; il panneggio in rapporto con il corpo è altrettanto suggestivo. All’inizio, lo scultore ha concepito la statua come molto più tardi farà Rodin con il Balzac, nuda prima di essere rivestita di un tessuto che ha il compito di esacerbare il movimento del corpo. Alla fine, le vesti sono liberate da tale costrizione per giungere a effetti di contrappunto (Erfurt). Gli scultori del xiii secolo, come i loro predecessori, non si specializzavano in un’unica tecnica. I più celebri erano chiamati a lavorare il marmo, l’alabastro, l’avorio, o a modellare la cera per il fonditore o l’orafo. Il Roman de la Rose evoca così Pigmalione mentre intaglia l’avorio. A Giovanni Pisano venne commissionato dai canonici della cattedrale di Pisa una grande pala d’altare in avorio. Resta la stupefacente Vergine con il Bambino nel museo (53 centimetri). L’analisi stilistica ci assicura che fu lo stesso per le più grandi casse-reliquiario, limitandosi l’orafo a lavorare a sbalzo il metallo prezioso: Saint-Taurin a Evreux, Saint-Romain a Rouen, Sainte-Gertrude a Nivelles e molte altre. Quanto alle differenze di stile che si notano a Nivelles, si spiegano non per la presenza di più orafi – strettamente sorvegliati nella manipolazione del metallo prezioso –, ma di modelli dovuti ad artisti differenti. I pittori Il rinnovamento stilistico della fase rayonnant riguardò anche le opere policrome: dipinti, miniature, vetrate, smalti. Nel campo delle vetrate l’intervento dell’architetto rimase determinante, segnatamente nella definizione della gamma di colori. È questa che unifica lo spazio interno, e che gli confe-
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15. Dormitio Virginis, 1230-1235. Lunetta del portale del transetto meridionale della cattedrale. Strasburgo.
risce la tonalità. Talvolta disegnava anche i cartoni, come si può agevolmente supporre per Saint-Urbain a Troyes, affidando però la pittura su vetro a grandi artisti contemporanei. Per evidenti ragioni di economia, alcuni cartoni sono stati impiegati per l’esecuzione di diverse vetrate. Le modificazioni sono in questo caso minime, applicate ai colori o ai particolati per conferire una qualche diversità. È così che a Saint-Père, a Chartres, le quaranta figure della testata absidale sono state dipinte utilizzando diciannove cartoni, mentre nelle navate lo stesso cartone è stato riutilizzato ogni due finestre. La nuova estetica si manifesta in due aspetti: il disegno generale delle forme; l’illuminazione generalizzata grazie al ricorso a colori meno forti e all’impiego di vetri bianchi o appena colorati.
Il gusto per una tavolozza più chiara è un fenomeno generale che si ritrova in tutte le tecniche. Nei manoscritti si ricorre inoltre all’impiego della pergamena a «risparmio» come elemento della gamma cromatica. L’utilizzo di materiali preziosi per la scultura, come l’alabastro, il marmo, l’avorio, ha le stesse conseguenze sulla policromia – che diviene estremamente leggera –, talvolta limitate ai volti, alle mani, alle bordure. La preziosità si era affermata. La società civile Gli anni attorno al 1300 sono segnati da una cesura fondamentale. E ciò non tanto per gli avvenimenti che hanno subito un’accele-
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razione, quanto secondo il principio di cristallizzazione per la presa di coscienza che il mondo era cambiato. La celebrazione del Giubileo in quell’anno aveva fatto prendere coscienza che le differenti componenti che fondavano la società tradizionale erano state rinnovate. Gli esseri umani avevano compreso che non spettava più agli uomini di Chiesa il compito di tracciare l’avvenire, ma che costituiva un loro diritto. In una parola, per riprendere un’espressione attuale, si assisteva alla presa di potere da parte della società civile. La fede non era certo in discussione, era ancora radicata presso i laici, ma si era in effetti interiorizzata, e sfuggiva in parte agli ecclesiastici. Spettava loro intervenire in questo ambito come individui, ma anche e soprattutto come componenti della Chiesa. L’evoluzione era stata lenta, avviata d’altra parte non da laici, ma da chierici. La riscoperta del pensiero aristotelico spinse i più grandi spiriti contemporanei a interrogarsi sui rapporti fra fede e ragione. Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, suo discepolo, entrambi domenicani, affermarono l’esistenza di un diritto umano accanto a quello divino. Essi riconoscevano all’uomo un posto specifico in seno alla natura, al mondo, alla società. La politica fu presto sconvolta dal riconoscimento del ruolo del popolo nella definizione delle leggi. La forma di regime pareva secondaria – democratica, aristocratica, monarchica –, l’essenziale era che offrisse all’uomo la possibilità di indirizzare la propria vita al vero bene. Federico ii (morto nel 1250) e san Luigi (morto nel 1270) avevano già insistito sull’indipendenza del loro potere nei confronti del cesaropapismo. Nel 1300 Bonifacio viii non poteva che constatare i guasti: i monarchi avevano preso il potere. Essi si erano trovati costretti a condurre la loro azione in una realtà nuova, segnata dall’affermazione dell’uomo: la città che determinava l’avvenire di un paese o di una regione; i gruppi umani che si organizzavano poco a poco, fra l’altro, in corporazioni; infine, e soprattutto, l’individuo. Questo è stato il grande vincitore della trasformazione: gli è
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stata alla fine riconosciuta la felicità di vivere materialmente, ma anche fisicamente. Il Roman de la Rose, nel seguito dovuto a Jean de Meun, invitava le donne ai piaceri della carne. I nuovi committenti Questo panorama interamente rinnovato ha modificato considerevolmente le condizioni della creazione artistica. A partire da questo periodo le iniziative più decisive sono state opera di laici; quando gli ecclesiastici si sono lanciati in imprese importanti, li hanno imitati. Il Palazzo dei Papi di Avignone ne è la dimostrazione visiva. La seconda parte del Medioevo, così come è stata definita nel xix secolo, si iscrive in una direzione che conduce senza grandi rotture al Rinascimento. Questo periodo ha esaltato letterariamente le principali caratteristiche dell’epoca precedente. Questi due secoli di attività artistica non sono univoci, ma riflettono i grandi momenti che hanno attraversato. Se l’Italia intraprese una via diretta, seguendola senza cedimenti, il resto d’Europa assunse inflessioni differenti. Si possono nondimeno individuare tre periodi: il primo, che copre la prima metà del xiv secolo, si caratterizza per lo spettacolare cambiamento dei rapporti fra committente e artista e la nuova gerarchia delle tecniche; il secondo è quello dei re e dei principi che integrano l’attività artistica nella loro azione politica; il terzo è quello dei borghesi, che colgono l’importanza di questo ambito per la società contemporanea. La prima metà del xiv secolo
16. Giovanni Pisano, Pulpito. Marmo e porfido. 1297-1301. Chiesa di Sant’Andrea, Pistoia.
Già prima del 1300 alcuni sovrani avevano aperto la strada, come Federico ii che, cercando di stabilire un legame con l’antichità, aveva indicato agli artisti quali dovevano essere le loro fonti d’ispirazione. O come san Luigi, di cui occorre ricordare che fu committente laico della Sainte-Chapelle, alla quale conferì una portata che va al di là del
significato tradizionale. È attraverso questo prisma che assume il proprio significato, essendo destinata a essere il luogo in cui custodire le reliquie più sacre del mondo cristiano, quelle della Passione del Figlio di Dio. Ospitate in un enorme reliquiario innalzato nell’area del palazzo reale, le reliquie irradiavano con la loro aura la monarchia capetingia. La città di Roma conservava i corpi di Pietro e Paolo, Parigi quello di Cristo. Filippo il Bello, il primo re ad aver ricevuto sin da giovanissimo una formazione politica, grazie a Egidio Romano, comprese i vantaggi che ne poteva ricavare. La canonizzazione del suo avo Luigi ix gli permise di compiere un nuovo passo, che concretizzò nella creazione di un convento di domenicani, a Poissy. La chiesa del priorato, ispirata in pianta all’abbazia di Royaumont, riuniva in un complesso architettonico sul luogo di nascita del re, religiose, religiosi e la famiglia reale. Egli aveva affidato il progetto a uno dei più grandi architetti contemporanei, rimasto anonimo, che realizzò un monumento rayonnant che rilievi del xviii secolo permettono di immaginare. Venne completato con un programma scultoreo non meno eccezionale, rappresentante i membri della famiglia del re, la moglie e alcuni dei figli fra cui Robert de Clermont, ancora vivo al momento della consacrazione dell’edificio. Nella Grand’Salle del palazzo reale di Parigi, il re aveva disposto che fossero riunite le statue di tutti i sovrani a partire da Pharamond, così da illustrare visivamente l’unione sacra della dinastia già prima del cristianesimo. Alla sommità della scalinata aveva fatto erigere la propria statua sul trumeau, come abitualmente avveniva con quella del Cristo benedicente all’entrata delle cattedrali. I luoghi del potere furono nel corso del periodo una delle preoccupazioni maggiori del sovrano. Non si trattava solo del luogo nel quale veniva esercitato, ma, come nell’viii secolo, anche della sua espressione visiva. Ciò significa che i progetti architettonici furono oggetto di studi approfonditi per attribuire loro una risonanza specifica: così fu per il re di Maiorca a Perpignan e per i Comuni
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di Firenze e Siena, dove la torre divenne decisiva. In tal senso, l’opus novum di Clemente vi (1342-1352) ad Avignone sfugge alla definizione classica di residenza papale. I comuni italiani, a differenza del resto d’Europa, avevano sempre considerato la cattedrale come posta sotto la propria responsabilità. In epoca romanica essa era stata un elemento significativo dell’egemonia e dell’ambizione municipale. Firenze, Pisa e Siena rivaleggiarono in ciò tra loro, tanto che a Siena fu lanciato un progetto che, se completato, avrebbe sconvolto l’assetto della città. Questi nuovi committenti, che rinnovavano i programmi architettonici impegnando ingenti somme, imposero un’organizzazione finanziaria estremamente rigorosa e un attento controllo degli architetti e delle loro squadre di lavoro. In effetti erano coscienti del fatto che la scelta dell’architetto aveva conseguenze decisive, non solo sullo stile ma anche nell’organizzazione del cantiere. Si spiega così il ruolo determinante svolto dalla fiducia personale. La supremazia della pittura Lo sconvolgimento sociologico delle condizioni della committenza portò a un mutamento radicale nella gerarchia delle arti. Fino ad allora il primato era unanimamente accordato all’architettura. Nella concezione cristiana, l’ecclesia era destinata a riunire in un unico insieme gli esseri umani, i defunti attraverso il loro ricordo, le opere d’arte. Spettava all’architetto organizzare ciò in un tutto coerente. A partire da questo periodo, soprattutto in Toscana, la pittura fu riconosciuta come arte maggiore. Una tale posizione di favore andò a vantaggio soprattutto della pittura da cavalletto. Questo trionfo, manifestato secondo schemi differenti a Firenze e a Siena, portò ad un analogo riconoscimento della figura del pittore. A Siena assunse una connotazione festosa il 9 giugno 1311, quando clero, magistrature cittadine e popolo si recarono alla bottega di Duccio per condurre in cattedrale la Maestà appe-
na terminata. Il sentimento comune trovava una legittima spiegazione nel culto della Vergine, ma anche nell’espressione stilistica dell’opera, avvertita come una scelta contemporanea, e infine nell’idea che la cattedrale si completasse con la messa in opera del dipinto. Si comprende meglio così la scelta del Comune di commissionare poco dopo a Simone Martini una Maestà destinata al Palazzo pubblico. Firenze prese una decisione più amministrativa. La Signoria richiamò Giotto con un documento ufficiale sottoscritto il 12 aprile 1334, nel quale il suo genio pittorico era riconosciuto, affidandogli un incarico ben più vasto, quello di magister e gubernator della città. A lui, considerato il maggior ornamento di Firenze, spettava il compito di riorganizzarla e sovrintendere all’attività edilizia. È per questa responsabilità che ricevette, tra l’altro, l’incarico di erigere il campanile. Per quasi un secolo gli architetti italiani non ebbero sempre il privilegio di essere gli unici creatori della città, e i pittori assunsero talvolta un ruolo determinante. Il gusto spiccato per la pittura aveva già toccato, e toccò rapidamente, gran parte d’Europa. Era strettamente legato al genere della pittura da cavalletto. Il pittore si trovava liberato dalle impegnative incombenze della pittura monumentale, la più gravosa delle quali era lo stare sul posto. Egli poteva accettare importanti committenze lavorando nella sua bottega. Nondimeno, i grandi committenti si lanciarono per tutta Europa a caccia dei maggiori talenti, grazie ai compensi proposti. Roberto d’Angiò, desideroso di trasformare Napoli in una grande capitale europea, fece appello nel 1329 a Giotto per aumentarne il prestigio. Attorno al 1336 il cardinale Stefaneschi riuscì a convincere Simone Martini a trasferirsi ad Avignone. Egli fu presto raggiunto da un gruppo di pittori italiani che trovarono collaboratori sul posto. La scelta del committente non si fondava solamente sulla reputazione dell’artista, ma obbediva all’ammirazione per la sua arte. Ciò portò a stabilire rapporti privilegiati fra gran-
17. Giovanni Pisano, La Fortezza (a sinistra) e La Prudenza (a destra), particolare del pulpito. Marmo, 1302-1310. Cattedrale, Pisa.
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di personalità, che spesso presero un’inclinazione affettiva. Fu così a Napoli fra Roberto d’Angiò e Giotto. Quest’ultimo entrò nella familia del re con un giuramento ratificato da un diploma. Si è già visto però come gli accordi presi non bastassero a trattenere l’artista: il destino dei pittori si giocava in effetti a livello europeo. I committenti non miravano sempre ad attirare personalità così celebri; sovrani, città e uomini di Chiesa continuarono ad accontentarsi di artisti italiani meno noti. Raramente i loro nomi ci sono pervenuti e quando ciò è avvenuto le informazioni restano di scarsa utilità. Essi sono attestati presso il re di Francia, d’Inghilterra, di Maiorca e presso le città (Colonia). Si può anche trattare di opere la cui origine è incontestabile. Mahaut d’Artois ne fece un’importante collezione. La considerazione di questa realtà umana spiega la difficoltà d’analisi della produzione pittorica contemporanea, attraversata da stili differenti: le tradizioni regionali si mescolano così strettamente all’arte italiana che non è quasi mai agevole identificare la mano dell’artista. I dipinti del Palazzo dei Papi di Avignone sollevano periodicamente la questione della collaborazione degli artisti francesi.
Gli scultori La messa in discussione del primato dell’architetto ebbe indiretta ripercussione sui rapporti con le altre maestranze, segnatamente con gli scultori. Fino ad allora era scontato che questi ultimi, almeno nell’ambito della scultura monumentale, gli dovessero obbedire. Alla fine del xiii secolo, in Italia, acquisirono un’amplissima libertà che talvolta sollevò grandi difficoltà, come a Siena. Il desiderio era di creare una facciata occidentale che potesse rivaleggiare con quelle del Nord, ove il legame fra muratura e opere scolpite era strettissimo, in uno stile che impose la scelta dello scultore Giovanni Pisano. L’assenza di organizzazione nel cantiere portò a veri e propri sprechi. L’artista finì per infuriarsi, lasciando opere grandiose mal integrate nell’edificio. Alcuni committenti, desiderosi di originalità, non trovarono più interesse nelle opere monumentali o negli arredi in pietra. Il loro gusto li indirizzò verso materiali più preziosi, come il marmo (Siena) o l’avorio. Lorenzo Maitani si spinse ancora più in là per audacia, associando nel portale di Orvieto il bronzo al marmo. Si spiega così il successo
18. Duccio di Buoninsegna, La Maestà (lato anteriore della parte centrale), dall’altare maggiore della cattedrale, Siena. Pittura su tavola, 1308-1311 ca. Museo dell’Opera del Duomo, Siena.
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19. Duccio di Buoninsegna, La Maestà (lato posteriore della parte centrale), dall’altare maggiore della cattedrale. Pittura su tavola. 1308-1311 ca. Museo dell’Opera del Duomo, Siena.
degli scultori presso i committenti, sedotti dalle forme eleganti e preziose delle opere, cosa consentita dalla liberazione dai vincoli della monumentalità. Le chiese, i palazzi e le dimore private si popolarono di sculture, sia acquistate, sia direttamente commissionate. Nel primo caso il luogo d’acquisto non coincide necessariamente con quello di produzione; nel secondo, i libri di spese forniscono dati molto precisi. Parigi fu al tempo un importantissimo luogo di concentrazione, dove l’Europa intera andava a rifornirsi. La scelta era varia, e numerosi artisti avevano bottega in un quartiere specifico. Si stabilirono, certo in misura minore rispetto ai pittori, legami privilegiati fra committenti e scultori. L’esempio più celebre è quello di Mahaut d’Artois e Jean Pépin de Huy: la prima lo fece diventare di moda e così l’artista ottenne commissioni dai personaggi più importanti. Il suo stile si adattava strettamente alla clientela: materiali, eleganza, iconografia. Non aveva slancio creativo, ma seppe esprimersi in modo notevole, soprattutto nell’esecuzione di sepolcri. È certo che furono gli artisti attivi a Parigi a diffondere la formula del gisant. Il defunto è raffigurato nel giorno della Resurrezione, scevro da deforma-
zioni fisiche e all’età di trent’anni. Sfugge così alla contingenza della realtà fisica, scolpito nei materiali più preziosi – marmo, alabastro – o fuso in bronzo. L’individualismo della società non poteva che incitare i personaggi più importanti ad assicurarsi l’aldilà. È così che appaiono in Inghilterra le Chantry Chapels, in Francia e nell’Impero le cappelle individuali. Nella cattedrale di Strasburgo Bertold di Buschenk realizzò un complesso eccezionale per l’architettura, ma anche e soprattutto per il programma scultoreo. I manoscritti L’individualismo dell’aristocrazia si esprime nel trionfo del manoscritto miniato, particolarmente nei Libri d’Ore. Il credente poteva così esercitare il suo gusto per la preghiera individuale guardando le immagini, alcune delle quali realizzate dagli artisti più celebri. In Francia Jean Pucelle – nulla vieta di pensare che il suo nome evochi l’Italia – fu in grado di rispondere con stupefacente sensibilità a committenze sia maschili che femminili. Le Heures de Jeanne d’Evreux, sposa di re Carlo iv, sono la quintessenza di questa
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produzione di grande lusso: formato, supporto, scelta delle preghiere e soprattutto l’illustrazione concorrono a farne uno dei grandi capolavori dell’epoca. Gli oggetti preziosi La società aristocratica, ricca e dal gusto raffinato, assicurò il successo degli oggetti in metallo prezioso destinati agli edifici di culto o ad uso personale. Decorati con elementi policromi, talvolta ideati da celebri pittori contemporanei e realizzati da smaltatori di grande talento. È così che Guccio di Mannaia divenne a Siena uno specialista dello smalto traslucido su lastra d’argento incisa, mentre Guillaume Julien su quella d’oro. Anche in questo caso la produzione e la vendita, talvolta concentrate a Parigi, inondarono l’Europa occidentale. In campo economico, si trattò di un trasferimento, a profitto di opere molto costose, di somme fino ad allora riservate agli edifici. Sovrani e principi (seconda metà del xiv-inizi del xv secolo) Avvenimenti drammatici stavano per sconvolgere l’ordine delle cose: la guerra dinastica fra Capetingi e Plantageneti fece fronteggiare l’una contro l’altra le due grandi potenze occidentali, Francia e Inghilterra; la «peste nera» (1347-1352) svuotò delle forze vive regioni intere e soprattutto le città. Siena e Firenze persero così rispettivamente il 50 e il 40 per cento della popolazione. Sopravvivere durante la terribile epidemia e ricostruire al momento del suo affievolimento fu l’unico modo di resistere. L’Europa ne uscì salassata, segnata psicologicamente. Il mondo politico era diviso, la Chiesa indebolita dalla «cattività babilonese». Gli intellettuali uscirono dai loro rifugi per definire nella Chiesa come nella società civile i nuovi equilibri. In Francia, Carlo v commissionò nel 1374 Le Songe du Verger, che definiva i rapporti fra potere religioso e potere civile. Un chierico e un cava-
liere vi dialogano affrontando i problemi con i quali si confrontava la società civile. Il contesto della riflessione era stato generalizzato in questo periodo, ed incise sulla creazione artistica. Essa non fu più considerata rilevante in senso edonistico, ma come un elemento della politica. Lo stesso papa non sfuggì a tali considerazioni quando decise di rinnovare il palazzo di Avignone con l’ampliamento del palazzo nuovo, destinato a diventare la residenza definitiva del papato dal momento della presa di possesso della città. Il successore
20. Busto-reliquiario dell’imperatore Carlo Magno. Argento parzialmente dorato e pietre preziose, 1349 ca. Tesoro della cattedrale, Aquisgrana.
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21. Fray Juan de Segovia, Arca degli smalti, smalti del xiv secolo montati in struttura di argento dorato del 1450 ca. Monastero di Santa María de Guadalupe, Cáceres.
di Clemente vi terminò l’opera innalzando una cinta in pietra di 4.650 metri di lunghezza. Per la prima volta il sovrano pontefice era responsabile della propria casa, rivaleggiando con i grandi sovrani contemporanei. Quella che dal xix secolo si definisce la capitale, diviene l’elemento fondamentale del potere. Lo si è già visto per Napoli, lo si vede per il regno di Maiorca, lo si apprezza ancor meglio a proposito di Praga. Carlo iv cercò di rivaleggiare con Roma e Costantinopoli. Praga era la capitale del regno di Boemia, ma doveva dive-
nire quella di un impero duraturo. Quanto a Carlo v di Francia, già prima di salire al trono (1364) si adoperò per rinnovare radicalmente una città devastata dall’occupazione inglese. A imitazione di quanto successo nell’Impero romano con Augusto, ogni azione era sottoposta alla politica, all’affermazione del potere monarchico. L’incidenza di ciò fu gigantesca per un rilancio senza precedenti dell’attività artistica. L’architetto ritrovò ben presto il suo ruolo primario: Mathieu d’Arras a Praga e Raymond du Temple a Parigi. En-
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trambi vennero incaricati di ripensare la città e la sua urbanistica, città nuova a Praga, sviluppo sulla rive droite a Parigi; di costruire i maggiori edifici, la cattedrale a Praga, il Louvre a Parigi; di edificare mura, ponti, case e i complessi extraurbani di Karlstein e Vincennes. Lo stile è il rivelatore delle scelte politiche: Carlo iv aveva scelto di costruire una cattedrale «alla francese» con Mathieu d’Arras, ma per meglio integrare la città nell’Impero decise di chiamare Peter Parler. Il nuovo stile, in aperta rottura con quello precedente, andava diffondendosi in gran parte dei paesi germanici. L’architetto riacquisiva nel contempo la sua autorità sull’insieme del cantiere: le squadre di scultori furono di nuovo strettamente associa-
te. Alcune opere di questo periodo a Parigi, Vincennes e Amiens evidenziano il profondo accordo con l’architettura. Avviene lo stesso a Praga, in particolare nella cattedrale. Il programma iconografico rimaneva, in scultura come in pittura, di competenza del committente. Si spiega così l’insistenza sulla coppia reale a Parigi; la famiglia o la genealogia dei Přzemyslidi in Boemia. Si trattava di imporre un’immagine. La cosa è ancora più marcata nelle figurazioni dipinte dei manoscritti dei grandi momenti del regno di Carlo v. Il ruolo del sovrano nella creazione artistica imponeva al suo entourage di farsi portavoce di tale politica. Nella maggior parte dei paesi d’Europa, principi della Chiesa, membri
22. Rogier van der Weyden, Deposizione. Dipinto su tavola, ante 1443. Museo del Prado, Madrid. Pagine seguenti: 23. Rogier van der Weyden, Deposizione, particolare.
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delle famiglie reali e signori giocarono questo ruolo. In Francia in particolare, dove Anjou, Berry, Borgogna e Orléans vollero dotarsi di una capitale, attirando grandi artisti (Beauneveu, Jean de Cambrai, Sluter). Alcuni prelati non furono meno attivi. Fu lo stesso a Praga; ad Avignone ciò avvenne per il ruolo degli ecclesiastici. Colpisce ancora una volta constatare come il rinnovamento della committenza sia andato di pari passo con il rinnovamento dell’estetica. L’arte rayonnant, esauritasi con le formule destinate a soddisfare una clientela di corte, non era più adatta alle nuove esigenze. Secondo una cronologia che varia in base alle regioni, videro la luce nuovi stili, ai quali sono state date denominazioni differenti: flamboyant in Francia, parleriano nell’Impero, perpendicolare in Inghilterra. Gli architetti seppero rinnovare le costruzioni gotiche grazie alle innovazioni tecniche. Si generalizzò così la stereotomia. Essa permetteva assemblaggi inediti delle pietre, che tra l’altro hanno consentito di evitare il ricorso al metallo. Come in epoche precedenti, la «pietra armata» lascia il posto alla sola pietra. Il primo esempio è quello della Sainte-Chapelle di Vincennes, dove per assicurare la coesione della muratura fu necessario moltiplicare il sistema delle aperture e ridurre i vuoti. È a tale prezzo che il diametro dei rosoni poté essere conservato. Lo stile internazionale L’attività artistica della fine del xiv e dell’inizio del xv secolo ha una tonalità particolare, che è stata definita «gotico internazionale». L’esposizione di Vienna ha ben evidenziato questa corrente che ha attraversato le corti d’Europa. Il gotico internazionale è stato inizialmente praticato dai pittori, prima di estendersi alla scultura. Si caratterizza per il gioco sottile dei panneggi e per i colori dai toni contrastanti. Le «belle Madonne» dell’Europa centrale ne sono state l’espressione più compiuta. La policromia gioca un ruolo importante nella percezione dell’opera.
Il tempo dei borghesi
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L’Europa offriva alla fine del primo terzo del xv secolo condizioni che non conosceva più da un secolo. La pace le aveva permesso una fioritura spettacolare nei diversi ambiti dell’esistenza: la demografia innanzitutto, poi l’economia. In pochi anni le perdite provocate dalla peste erano state colmate: i «borghesi» avevano preso in mano il loro destino investendo negli affari. Questa classe, che fonda il suo potere sulla ricchezza, determinò l’evoluzione della società con il suo spirito imprenditoriale e il suo bisogno di successo. Il suo orizzonte si estese all’insieme dell’Europa grazie alla conquista di nuovi mercati e alla sua brama di scoperte. Certo, le cose non andarono sempre allo stesso modo, e la rottura fra l’Italia e il resto d’Europa è manifesta nel campo della creazione artistica. Lo spirito che la anima è però identico: è nel corso di questo periodo che si realizza un vecchio sogno degli uomini, l’invenzione del multiplo. La stampa e l’incisione permettevano di diffondere testi e immagini attraverso l’Europa. La rivoluzione fu percepita in modo altrettanto rivoluzionario quanto le tecniche attuali. La classe borghese giocò un ruolo determinante nella creazione artistica della seconda metà del xv e dell’inizio del xvi secolo, non tanto per il rinnovamento delle forme quanto per aver privilegiato alcune tecniche. Lo stile flamboyant ha trionfato in architettura, ma ha offerto rispetto al periodo precedente una differenza importante a causa del suo intervento in un ambito che concerne la fede. Il fenomeno della democratizzazione è stato rilevante in questo periodo, come d’altra parte per altri. La forza di convinzione religiosa ha spinto molti individui a prendere posizioni ardite, col rischio di sfiorare l’eresia. Si interrogavano sul loro ruolo nella Chiesa, sul posto della Chiesa nella società del tempo, e nell’aldilà. Lo sviluppo della religiosità individuale, famigliare o di gruppo, avrà conseguenze molteplici.
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In architettura le scelte che dipendono da questa autorità si sono diversificate per la volontà di legare strettamente i culti e le tradizioni locali. La chiesa parrocchiale diviene un nodo essenziale per il suo significato emblematico: essa ricopre nell’ambito della parrocchia il ruolo della cattedrale nei primi tempi della Chiesa. Non si tratta più del quadro urbano, ma di quello della parrocchia, riconosciuta come una realtà territoriale forte grazie al fenomeno della laicizzazione. I borghesi perseguono dal canto loro il desiderio di ingrandirla, di modernizzarla, riservando al cantiere la stessa attenzione riservata ai propri affari. Badano a tutto: al finanziamento, alle spese, e soprattutto all’organizzazione del cantiere, alla scelta dell’architetto e delle squadre, alla definizione del progetto architettonico e dei documenti necessari alla sua realizzazione (disegni, dime, ecc.). Due elementi attirano particolarmente la loro attenzione: la torre occidentale che serve da accesso e il campanile; le navate sono generalmente concepite come uno spazio unificato: navata unica o navata centrale affiancata da navate minori largamente aperte. Essa riunisce l’insieme della comunità e le assicura la miglior visibilità dell’altare. Certo, la separazione materiale con il santuario è mantenuta, ma si attenua. È così che lo jubé si riduce a una sorta di grande arcata aperta, destinata a sostenere il pontile, e talvolta semplicemente a una trave. L’Europa è così attraversata da un movimento senza precedenti di costruzione di chiese parrocchiali, alcune delle quali rivaleggiano per ambizione con le cattedrali (nell’Impero Friburgo e Ulm). Tale movimento ebbe ripercussioni su canonici e vescovi, che decisero di completare la loro cattedrale o di costruirla (Siviglia). È ancora nel corso di questo periodo, in stretta connessione con la decisione politica di governare le città, che i borghesi hanno costruito edifici pubblici: i municipi in particolare, ma anche torri e fontane sono divenuti ele-
menti indispensabili all’ornamento della città, che muta d’aspetto, mentre la pietra s’impone in modo definitivo. La pittura È sempre in questo periodo che il pittore trova nell’ambito della società uno status che ancor oggi gli appartiene. Più che l’architetto e lo scultore, egli esprime l’assoluto di questi uomini. Egli vive della sua arte, mentre il suo talento è riconosciuto e si integra perfettamente in un mondo di cui condivide i gusti. Diviene così, come Giotto nel xiv secolo, il più bell’ornamento della città. Bruges seppe sfruttare la presenza di van Eyck, che vi si stabilì nel 1429. La moglie gli facilita l’ingresso nella buona società (van der Weyden). La vita bohémienne non è cosa per lui, si considera un intellettuale, reso inquieto dalla fede (van der Goes). Egli accetta generalmente commissioni per dipinti da cavalletto, ma grazie ai modelli anche a ben altro: vetrate, oreficerie, tessuti. Realizza poi miniature di grande raffinatezza (Fouquet, van Eyck). Martin Schongauer affidò i suoi titoli nobiliari all’incisione, lavorando sul rame come avrebbe fatto un pittore per creare contrasti di luce e ombra. Lo scultore Il suo successo è a detrimento di quello dello scultore. La società borghese, a differenza dei principi, non lo favorisce. Il carattere spesso ombroso degli artisti, la difficoltà del loro mestiere, che impone una bottega e dei collaboratori, infine il costo della materia prima non facilitano per nulla l’integrazione. Raramente gli scultori sono divenuti celebri, e quando ciò è avvenuto la cerchia degli ammiratori è ristretta (Michel Colombe in Francia). Tuttavia, non sono mai state realizzate tante sculture come in quest’epoca. Non si tratta, come nel xiii secolo, di vasti complessi monumentali – sebbene ne siano stati realizzati alcuni –, ma di statue di devo-
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zione, perse talvolta nella penombra di una chiesa o al contrario risplendenti sull’altare. Statue realizzate nei materiali più diversi – marmo, alabastro e soprattutto legno, più precisamente di alberi da frutto. L’eterogeneità della committenza spiega il rinnovamento iconografico, in particolare di tombe e sepolcri.
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L’organizzazione del cantiere La fine del Medioevo si caratterizza per una produzione di massa – pale d’altare e arazzi – la cui realizzazione fu resa possibile da una rinnovata organizzazione delle botteghe. Si trattava innanzitutto di abbassare i costi mantenendo la qualità e di produrre in tempi relativamente brevi. La produzione di arazzi nei Paesi Bassi del nord, di retabli lignei nelle Fiandre e in alcune regioni dell’Impero si spiega in questo modo. La ripartizione dei compiti avveniva senza difficoltà: il capo-bottega era allo stesso tempo un imprenditore legato ad ambienti finanziari – la banca nelle Fiandre, per ottenere denaro liquido e in grado di agevolare la clientela; l’ideatore che forniva disegni e modelli; colui che realizzava i cartoni a dimensioni naturali per gli esecutori e reperiva scultori e finitori. In certi casi questi ultimi erano specializzati nella realizzazione di dettagli, volti e panneggi. Nei retabli si rendeva necessaria un’ultima operazione, quando l’opera era assemblata: la policromia. Essa era indispensabile per l’omogeneità; pitture e dorature occultavano, fra l’altro, errori o debolezze esecutive. Il panorama della fine del Medioevo è quello ereditato dagli uomini del Rinascimento. La creazione artistica era così ben organizzata e in così stretta simbiosi con una parte della società che le reticenze di fronte all’arte contemporanea furono forti. In un primo tempo il cambiamento non riguardò che le forme. Ci vollero anni affinché s’imponesse un cambiamento più profondo, che toccava lo stile, ma forse soprattutto l’iconografia. Secondo le regioni, secondo le personalità.
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LA PITTURA GOTICA. UNA TRACCIA DI SVOLGIMENTO FRA TRECENTO E QUATTROCENTO
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Serena Romano
1. Giotto, Conferma della Regola di san Francesco. Affresco della parete destra della basilica superiore, 1290 ca. Basilica di San Francesco, Assisi.
Nel 1456 Bartolomeo Facio, intellettuale ligure alla corte di Alfonso d’Aragona a Napoli, scrisse il De viris illustribus, un trattato che include capitoli sui pittori e gli scultori più eccellenti al mondo. L’opera è celebre, essendo stata studiata molte volte, e specialmente da Michael Baxandall; i pittori che Bartolomeo Facio citò, come i migliori del suo tempo, furono quattro, due italiani e due fiamminghi, Gentile da Fabriano e Pisanello, Jan van Eyck e Roger van der Weyden. Facio ha ben chiara la differente pertinenza dei suoi quattro artisti, ma riconosce loro alcuni tratti comuni di fondo, che sono anche il motivo della loro eccellenza: l’expressio, cioè la capacità di rendere sentimenti e passioni dei personaggi rappresentati nella varietà delle loro azioni; e la fedeltà alla natura, che essi sanno imitare al punto da non far notare la differenza tra il modello naturale e la rappresentazione pittorica. Il frangente culturale – il delicato punto di passaggio tra la fine del Medioevo e il primo Rinascimento – che Facio così bene rappresenta non è l’oggetto di questo saggio. Importa qui averlo evocato, perché serve come soglia per osservare la storia a ritroso. Facio, infatti, ritrova nella rinomatissima Navicella di Giotto – il mosaico che si trovava fino al 1610 sulla facciata di San Pietro in Vaticano – la stessa capacità di esprimere diversi affetti ed emozioni nei personaggi, che egli esalta nella pittura dei suoi quattro pittori eccellenti; e in Jan van Eyck, così apparentemente lontano dai luoghi e dalle opere degli antichi, egli non vede solo il sublime pittore nordico, ma anche il colto intellettuale che studia le proprietà dei
colori dai testi di Plinio ed è capace di piegare la pittura alle acrobazie narrate dagli antichi, facendole imitare statue e rilievi, e fingere immagini riflesse in marmi neri. La natura nelle sue sfumature e manifestazioni, e il modello inarrivato e trasversale dell’Antico sono dunque i fari che orientano lo svolgimento della cultura visuale europea, in un arco geograficamente e temporalmente assai vasto, e che ammette esiti apparentemente molto diversi l’uno dall’altro. Come questa lunga storia si svolga, non era intenzione di Facio raccontarlo; nelle pagine che seguono cercheremo di riassumere almeno alcuni elementi essenziali di questa vicenda, che è la storia dell’Europa gotica e della sua cultura visiva. Firenze, Roma, Assisi: Giotto Non rischieremo l’accusa di sciovinismo culturale, se cercando da dove cominciare il racconto di questa storia, in uno scritto inevitabilmente «a tesi» come qualsiasi testo troppo breve su un fenomeno molto vasto, sceglieremo come punto di partenza l’Italia degli ultimi anni del Duecento e degli inizi del Trecento. Il Duecento è un secolo complesso e mobilissimo: nasce nel solco del rinnovamento formale del cosiddetto «stile 1200», conosce le multiformi riscoperte dell’antico nella scultura francese della prima metà del secolo, vede le esperienze quasi antiquarie della corte di Federico ii nell’Italia meridionale, assiste alla formazione degli «stili di corte» attorno a Luigi ix di Francia e – in minore misura, e in diversi termini – a Enrico iii d’Inghilterra.
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La pittura gotica fra trecento e Quattrocento
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Nel bacino del Mediterraneo, a seguito della nascita dei regni latini d’Oriente, una «lingua franca» che affianca elementi formali e iconografici occidentali e bizantini rimescola le acque nei centri di produzione di pittura e miniatura sulle sponde del mare, e influenza profondamente la pittura bizantineggiante italiana. I due mondi, quello settentrionale e quello meridionale, sembrano però distanti e sostanzialmente paralleli nei ritmi di sviluppo e nelle, per così dire, rispettive competenze. A un certo punto, alla fine del secolo, uno dei due sembra invece accelerare, e nel giro di pochissimi anni, forse di mesi, arrivare alla messa a punto di un linguaggio pittorico di tale novità e autorevolezza, da configurarsi come il nuovo linguaggio pittorico del Trecento: italiano, e in buona misura anche europeo. Questa rivoluzione si produce in un ben preciso quadro storico-geografico. La Toscana, dove Giotto nasce e dove, secondo la tradizione letteraria e aneddottica che elabora dati molto verosimilmente reali, è allievo di Cimabue; la Roma pontificia, con i suoi cantieri continui e il suo traboccante bagaglio di cultura e di materiali antichi; un luogo intermedio, Assisi, dotato di una carica spirituale di forte capacità innovativa e percorso nel giro di qualche anno dai maggiori artisti dell’Italia centrale, fianco a fianco attivi sui ponteggi; in questo contesto, con questa ricchezza di potenzialità, tradizioni e apporti, appaiono a un certo punto nella navata della basilica di San Francesco ad Assisi le due scene spazialmente fulminanti dell’Inganno di Giacobbe e di Esaù respinto da Isacco e, subito dopo, i ventotto riquadri del ciclo della vita di Francesco, in cui un nuovo modo di narrare usa un nuovo modo di rappresentare lo spazio, la persona umana, il paesaggio, le architetture della vita di tutti i giorni. È singolare che proprio questo gruppo di dipinti, in cui si radica tutta la successiva storia pittorica dell’Italia gotica, abbia dato origine a secoli di contese. L’attribuzione degli affreschi di Isacco e del ciclo della vita di Francesco al giovane Giotto non è infatti senza difficoltà, che ri-
siedono nelle oggettive variazioni interne al gruppo dei dipinti citati, e del gruppo intero con la successiva opera del pittore. E tuttavia non sarebbe l’unico caso nella storia, se si pensa alla maniera del giovane Tiziano rispetto a quella dei suoi quadri più tardi, o alla camaleontica capacità di variazione di Pablo Picasso; e se in più si prende in conto, nel caso di Assisi, l’organizzazione del lavoro nel cantiere, il più antico progetto già esistente, la necessità di finire presto il lavoro di decorazione per liberare la visitatissima chiesa da ponteggi operai e artisti, in sostanza le condizioni ancora tutte medievali di un cantiere in cui la personalità innovatrice e dirompente dell’artista dovette farsi largo via via, e non potè forse mai controllare completamente l’intero lavoro come invece gli fu possibile qualche anno più tardi, in un cantiere più piccolo e tutto suo come quello della cappella degli Scrovegni a Padova. Ma non c’è precedente per la libertà narrativa che si mette improvvisamente in luce nei dipinti che abbiamo citato. Il pittore rifugge da dettagli e orpelli; concentra gli elementi della sua messa in scena per conferire il massimo di icasticità drammatica al racconto, che si svolge in uno spazio tangibile e affidabile – abitabile, è stato definito – dunque a misura umana; in esso, gli attori appaiono come grandi figure monumentali, impegnati ognuno nel gesto per il quale si svolge il dramma e che lascia sui loro volti e nell’attitudine dei loro corpi un riflesso emotivo leggibile e plausibile. Lo spazio razionale e anzi virtuosistico dei due affreschi di Isacco non è pensabile senza i modelli e i prototipi antichi, tuttavia rimeditati e rielaborati alla luce di una mentalità geometrica che è assolutamente gotica; la nobiltà monumentale delle grandi figure che lo abitano ridona all’essere umano un ruolo di assoluto protagonista nell’azione narrativa, e le sue emozioni, i suoi affetti – per usare un termine per allora anacronistico – acquistano una dignità da primo piano. Si capisce come Bartolomeo Facio vedesse in un’opera giottesca – il perduto mosaico della Navicella, come prima abbiamo detto
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2. Giotto, Le Nozze di Cana. Affresco, 1303-1305. Cappella degli Scrovegni, Padova.
– un apice mai raggiunto di capacità espressiva, paragonabile, e con successo, ai primati antichi. All’antico, alle sue formule visive, e anche alle sue tecniche, Giotto era attentissimo, forse avendole studiate nelle rovine e nei monumenti durante il suo soggiorno romano: la tecnica delle giornate, che sostituisce quella pienamente medievale delle pontate, è di origine antica, e costituisce una vera e propria riscoperta che affiora contemporaneamente in questi anni, a Roma e nel cantiere
di Assisi. Qualche anno più tardi, saranno i finti marmi, una specialità antica che Plinio descrive e ammira, a essere realizzati nello straordinario zoccolo delle Virtù e dei Vizi della cappella padovana degli Scrovegni. La stessa tecnica, più sopra lo abbiamo accennato, fu ammirata da Facio in Jan van Eyck: il virtuosismo dei finti materiali, la grisaille che finge la scultura in pittura, sono aspetti che inaspettatamente legano le esperienze giottesche a quelle francesi del Tre-
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cento e fiamminghe del primo Quattrocento, nel segno di un riferimento comune a modelli di passata eccellenza, pur interpretati in modi diametralmente opposti. A Padova, nel grande ciclo della vita di Cristo e delle storie della Vergine che Giotto dipinge nella cappella dell’Arena di Padova, nasce definitivamente la lingua del Trecento pittorico italiano. Le soluzioni compositive e narrative messe a punto dall’artista, la sua maniera di rappresentare figura umana, architettura e paesaggio, saranno ormai imitate lungo tutto il secolo, per il tramite della folta bottega che diffonde le formule del maestro, ma anche, e ancora più vastamente, per l’adesione immediata e sostanziale che questo nuovo linguaggio riscuote in Italia da parte di tutti gli artisti, i quali, se non si lasciassero conquistare da esso, apparirebbero di colpo, e senza rimedio, fuori moda. Giotto è un artista interregionale, che lavora in molte città italiane e per molte tipologie di committenti; è certo anche grazie a questa sua «vendibilità», a questa capacità di adattarsi a situazioni svariate e conquistarle, che la pittura fiorentina conosce il successo travolgente che la storiografia le attribuisce e le riconosce. Da Ghiberti, ma soprattutto da Giorgio Vasari, gli svolgimenti della pittura italiana verranno ormai colti quali suddivisioni regionali di un modo di vedere e di rappresentare che si avverte, al fondo, unitario; flessioni locali che mai mettono in dubbio il giudizio che per Vasari è senza discussioni e senza appello, quello del primato di Giotto su ogni altro artista della sua epoca, e della scuola fiorentina su ogni altra italiana, quella senese compresa. Siena A Vasari la sorte aveva giocato un brutto scherzo. Nelle sue Vite, l’incunabolo del primato fiorentino negli anni subito prima di Giotto è il dipinto della Maestà della Vergine, detta Madonna Rucellai, in origine in Santa Maria Novella a Firenze, e ora agli Uffizi: un dipinto che oggi sappiamo essere indiscutibi-
le opera di Duccio, il capostipite della scuola pittorica senese, attorno al 1285. Duccio era pittore legato alla tradizione bizantina, ma attento e vicino anche all’opera del fiorentino Cimabue: è ovvio come la realtà degli sviluppi pittorici dell’Italia fosse più mobile e meno costretta negli schemi campanilistici che sono propri della lettura vasariana degli avvenimenti. Gli scambi tra artisti e botteghe dovevano essere ben frequenti, e grande la libertà
3. Duccio di Buoninsegna, Vergine col Bambino in trono con angeli, detta Madonna Rucellai, dalla cappella Rucellai nella chiesa di Santa Maria Novella. Dipinto su tavola, 1285 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze.
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4. Simone Martini, La Maestà. Affresco, 1312-1315. Sala del Mappamondo, Palazzo Pubblico, Siena.
di scelta da parte dei committenti: almeno fino a quando – come nel caso di Giotto e della sua bottega, o dell’establishment senese – l’eccellenza di uno o più artisti, e di conseguenza il protezionismo delle corporazioni locali nei confronti delle minacce forestiere al mercato, non produsse qualcosa di molto somigliante a una serie di piccoli monopoli. Siena doveva essere un centro di produzione pittorica estremamente attivo e viva-
ce già attorno alla metà del Duecento. Gli affreschi dell’antico atrio della cattedrale, recentemente scoperti e messi in luce, costituiscono un documento eclatante dell’eccellenza di questa scuola già attorno agli anni Settanta del Duecento, e ne confermano la fisionomia bizantineggiante, che Duccio, di lì a qualche anno, manterrà. Ma non si tratta certo di puro bizantinismo: i preziosismi, gli effetti di luce, i grafismi bizantini, nella
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cultura duccesca ricevono una traduzione gotica, le lumeggiature d’oro seguono un ritmo nuovo, le aureole dorate mascherano gli effetti di spazio e negano la profondità, ma i personaggi si affollano e sono atteggiati alla gotica, il movimento è moderno, la resa delle volumetrie dice chiaramente che anche il bizantineggiante Duccio è ben attento al corso maggiore della pittura del suo tempo, e che non resta indietro in questa strada anche se la percorre secondo tracciati del tutto personali. Sua è la gigantesca Maestà della Vergine della cattedrale senese (1308-1311); sue sono molte opere, alcune di grande formato, altre minuscole e incredibilmente raffinate, opere prodotte per la devozione privata di committenti di gusto forse conservatore ma di altissimo livello. Un grandissimo pittore che – diversamente dal vagabondo imprenditore Giotto – non sembra essersi mosso che in un raggio molto ristretto dalla sua città natale. E Duccio non andò probabilmente a Parigi, come qualcuno ha voluto pensare sulla base di documenti certamente non inoppugnabili; ma è vero che il suo specialissimo bizantinismo gotico – o se si vuole, goticismo bizantineggiante – ebbe forte impatto sulla maniera della scuola miniatoria parigina e della Francia del Nord, da Maître Honoré a Jean Pucelle, e come vedremo poi, anche per tutto il corso del secolo. In città, intanto, le cose procedevano svelte. Dopo Duccio, ma in realtà già contemporaneamente a lui, la pittura senese cominciò a imboccare una via di relativo distacco dai contenuti austeramente religiosi che marcano la maggior parte dell’opera del «capostipite». Simone Martini, forse il più grande dei pittori senesi, autore di una Maestà della Vergine nel Palazzo Pubblico senese di soli pochi anni più tarda di quella di Duccio, viene sistematicamente definito pittore «cortese» e aristocratico, e pour cause, non fosse che per i temi cavallereschi che egli ama e che tornano nella cappella di San Martino nella basilica di Assisi e nel celebre Guidoriccio da Fogliano, tante volte sospettato d’essere un falso ottocentesco. Ma Simone è attentissimo alla capacità giottesca di resa del volume e della
forma tramite il chiaroscuro, e la imita e la pratica lui stesso, ancorché nascondendo poi i suoi volumi sotto cascate di stoffe preziose ed evidenziandone in modo grafico i profili. I materiali preziosi entrano da protagonisti nel corpo stesso della sua pittura: l’oro, l’argento, il metallo, il cristallo di rocca, perfino frammenti di pergamene iscritte e miniate vengono incorporati nell’intonaco della sua Maestà, un’attitudine supremamente artigianale che Giotto, l’intellettuale che celebrava l’eccellenza della pittura in un precoce paragone delle arti giocando con la propria mostruosa capacità di imitare pietre e marmi col pennello, non avrebbe mai potuto avere. Per altri versi, e qualche anno più tardi, saranno i programmi pittorici a contenuto politico e civile a dar luogo a opere memorabili. Protagonisti di questa fase della pittura senese sono i fratelli Lorenzetti; ed è Ambrogio il maggiore interprete di questa cultura cittadina. La sala del Palazzo Pubblico dove egli affresca le sue allegorie del Buono e del Cattivo Governo sono semplicemente una summa – colorata, aneddotica, favolosa – della dottrina e del mito politico cittadino, che negli Effetti del Buon Governo riesce anche a spalancare un paesaggio a volo d’uccello che Otto Pächt ha giustamente indicato come la più autentica rilettura delle formule di paesaggio antiche, e la più precoce avvisaglia dei panorami affollati e pulviscolari della pittura tardogotica e specialmente dell’opera dei fratelli Limbourg. La coscienza filosofica e civile della pittura lorenzettiana, questa capacità di visualizzare concetti ardui e anche aridi in immagini allettanti e familiari allo spettatore, ha probabilmente ancora una volta un precedente giottesco: le allegorie comunali di Giotto, quella dipinta a Firenze e quelle affrescate nel Palazzo della Ragione di Padova, tutte purtroppo perse ma note nelle fonti. Tuttavia, a Siena questo tipo di programma conosce una fioritura particolare: il governo senese fa appello al senso della collettività cittadina, radicato in concetti e simboli religiosi, soprattutto mariani – la città di Siena vergine come la Vergine dell’Annuncia-
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zione – e certo necessario per il continuo pericolo rappresentato dall’aggressiva Firenze alle frontiere dello Stato. La diffusione del linguaggio toscano e senese
5. Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo nella città e nel contado, particolare. Affresco, 1338-1339 Sala della Pace o dei Nove, palazzo Pubblico, Siena.
Il supremo artigiano, Simone Martini, fu anche il pittore favorito di Francesco Petrarca, che possedeva le sue opere e lo riteneva il più grande artista contemporaneo. La passione del poeta per il pittore senese è significativa, ben più che per definire il gusto del grande intellettuale italiano: è una marca dei tempi. Nei decenni centrali del Trecento, infatti, e forse per tutto il secolo, la pittura più internazionale, più alla moda, più «chic», non è quella fiorentina – un po’ appiattita sull’e-
sempio di Giotto e dall’attività anche ripetitiva della sua bottega – ma quella senese; e la diffusione incredibilmente vasta del gusto e del linguaggio senesi si avvantaggiano ulteriormente del vero e proprio monopolio che gli orafi senesi impongono al mercato, specialmente nel campo di quella che può essere considerata anch’essa un’arte parapittorica, cioè l’arte dello smalto traslucido. La diffusione avviene soprattutto in due modi, tra loro peraltro strettamente connessi, e per il tramite di situazioni e avvenimenti storici di grande portata. Il primo sistema è quello che propaga gusto, artisti e oggetti, a macchia d’olio, sulle tracce delle rotte commerciali e politiche che mettono in comunicazione città e regioni affacciate sullo stesso comune lago di storia: il Mediterraneo. La
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Catalogna, Valencia, Maiorca, pertinenti al linguaggio del Sud della Francia fino a tutta la fine del Duecento e ai primi del Trecento, a partire dagli anni Trenta circa del secolo, subiscono una forte italianizzazione. La Catalogna comincia a seneseggiare; a Barcellona, nel monastero di Pedralbes, gli affreschi attribuiti a Ferrer Bassa e alla sua bottega ci appaiono un vero doppio della pittura dei Lorenzetti, e a partire da lì il fenomeno si generalizza, generando artisti e botteghe che si allineano sulla maniera di dipingere dei Lorenzetti o degli artisti senesi dei decenni
seguenti; i prodotti circolano, gli artisti viaggiano, i modelli vengono conosciuti, copiati, modificati, sulle sponde del Mediterraneo, da Barcellona a Valencia a Maiorca, Genova, Pisa, Napoli si fonda una lingua comune, un gergo per parecchi versi omogeneo che inganna talvolta il conoscitore e comincia a mettere in dubbio la pertinenza esclusivamente locale e regionale, «vasariana», di opere e artisti. Il secondo sistema è invece il radicamento della maniera senese nel crogiolo di cultura più importante del secolo, Avignone. Gli
6. Ferrer Bassa, Storie della Vita di Cristo, ciclo di pitture murali nella cappella di San Miguel, chiostro del monastero di Pedralbes, 1346, particolare. Museu-Monestir de Pedralbes, Barcellona.
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7. Matteo Giovannetti, Vita di san Marziale, nella volta della cappella di San Marziale. Affreschi, 1344-1345. Palazzo dei Papi, Avignone.
avvenimenti storici sono ben noti: nel 1308 la corte pontificia lascia Roma e si installa ad Avignone, piccola città del tutto inadatta a contenere una corte così numerosa ed esigente. Per i contemporanei, si trattò di un trasferimento temporaneo, ma vissuto spesso in toni apocalittici, come la fine di un disegno provvidenziale che vedeva in Roma l’unica possibile sede del passato: Dante, lo stesso Petrarca e Caterina da Siena si ribelleranno violentemente al prolungarsi apparentemente senza fine del cosiddetto «esilio avignonese».
Che se esilio era, era certo dorato: mai come nel corso dei decenni avignonesi la corte dei papi e dei cardinali rivela tutta la propria mondanità. A Roma, l’elemento tradizionale «romano» aveva dominato in modo schiacciante la produzione artistica; nonostante il carattere internazionale della curia, lo stesso paesaggio monumentale della città, stratificato nei secoli e vitalmente ancorato ai suoi modelli paleocristiani e antichi, aveva fortemente condizionato gli artisti e il gusto dei committenti. Ad Avignone, committenti e artisti sono liberi dal condizionamento locale: la città in pratica non esiste, è un borgo immerso in un bellissimo paesaggio, non ha modelli da offrire. Si tratta, quindi, di animare questa situazione troppo «povera», di arricchirla di tutti i monumenti e gli oggetti di lusso degni del rango dei richiedenti, che sono i principi della Chiesa e i loro stretti ed esigenti collaboratori, i quali devono stabilire un train de vie capace di rivelare al primo colpo d’occhio il loro status sociale e il loro potere. Gli artisti intuiscono le potenzialità di mercato che un terreno praticamente vergine di botteghe locali può offrire ai forestieri, e accorrono in Provenza; i cardinali, i dignitari pontifici, cercano di ricostruirsi un habitat, costruendo i loro palazzi o requisendoli sul posto, e poi chiamandovi gli artisti, che magari talvolta provenivano dalla loro stessa terra natale e ne ricreavano il gusto a loro abituale. In questo ambiente cosmopolita e colorato, dove inglesi, spagnoli, francesi e italiani coabitano, Giotto – che muore nel 1336 – non metterà mai piede: il suo esempio rimane come una sorta di modello universale, guardato da tutti, imitato, ineliminabile, ma in qualche modo meno spendibile e legato alla moda. Gli artisti senesi, invece, più giovani, più aggressivi, disposti a viaggiare e a spostarsi per conquistare mercati, e spazi, e potenti protettori, sono ricercatissimi. Arrivano molto presto: già negli anni Venti il cosiddetto Maestro degli Angeli Ribelli – e il Maestro del Codice di San Giorgio, che senese per la verità non era – poi Simone Martini che ad Avignone morirà nel 1344; e poi
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Matteo Giovannetti, l’artista viterbese di nascita, ma senese di formazione e di maniera, che diviene il pittore del papa e dipinge a più riprese cappelle e saloni nel palazzo papale. Le decorazioni pittoriche delle residenze cardinalizie e dello stesso palazzo papale sono straordinariamente profane nei temi iconografici e nel gusto con cui i temi stessi sono trattati; sono ornamenti degli spazi destinati a principi, anche se principi della Chiesa. La maniera pittorica senese si adatta al quadro sociologico che affronta; ed è soprattutto Matteo Giovannetti – per inclinazione personale, o per soddisfare il gusto dei suoi molto mondani committenti – colui che sviluppa un modo di dipingere a Siena non altrimenti attestato, una maniera curiosa e naturalistica di riprodurre la realtà nei suoi dettagli aneddottici, nelle particolarità delle fisionomie umane, nelle smorfie d’espressione, nei gesti e nelle attitudini di uomini e animali. La traslocherà poi a Roma, seguendo il papa e la curia che ritornavano in città e che rinfrescavano e ridecoravano il palazzo pontificio ormai invecchiato e fuori moda: ma questi lavori sono perduti, e tutto quello che abbiamo sono i riflessi che se ne avvertono nella pittura contemporanea, e specialmente nell’Italia meridionale angioina. Il mondo internazionale L’esperienza avignonese aveva tutte le caratteristiche effimere e transitorie di un fenomeno legato a una situazione storica accidentale e di breve durata. Nel campo che ci interessa, tuttavia, divenne un laboratorio che preparò gli sviluppi di tutta la fine del secolo e dell’inizio del Quattrocento: divenne, cioè, il prodromo del gusto «internazionale», gusto delle corti nell’autunno del Medioevo, arte di lusso prodotta per classi sociali aristocratiche sempre più costrette a patteggiare con gli esponenti della grande finanza e del commercio internazionali. In un certo senso, era nata per una classe di déracinés; aveva fondamenti regionali, ma si era trasformata in un linguaggio destinato a soddisfare persone e
gruppi sociali di origine geografica e provenienza culturale diversificate, il cui minimo comune denominatore erano l’ambizione e la necessità di rappresentatività sociale, e la cui omogeneità era garantita dal censo e dalla ricchezza. L’Europa delle Signorie e delle corti principesche della seconda metà
8. Dittico Wilton. Re Riccardo ii presentato alla Vergine col Bambino dai santi Giovanni Battista, Edoardo e Edmondo. Dipinto su tavola, 1400 ca. National Gallery, Londra.
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del Trecento e del primo Quattrocento è un piccolo mondo, dove i potenti si sposano incessantemente tra loro in cerca di alleanze e di sicurezze dinastiche; dove gli oggetti artistici sono sempre più privati, piccoli capolavori personalizzati e facilmente trasportabili al seguito dei principi o delle dame ostaggio
di questo o quel matrimonio diplomatico, doni sofisticati di un potente a un altro potente geograficamente magari lontanissimo ma molto simile per configurazione sociale e per la virtualità dello spazio di manovra. Scrivere la storia della pittura europea della seconda metà del Trecento e dei primi decenni del Quattrocento significa quindi seguire un pattern in continuo movimento, inseguire le origini di un oggetto e tentarne una spesso vana definizione geografica, per poi ritrovarsi di fronte a un panorama ingannatore, in cui le etichette geografiche – Parigi, Londra, Boemia, Colonia, Milano – identificano differenze che alle volte si fanno sottili fino a svanire. Chi era l’anonimo pittore che dipinge il dittico Wilton, capolavoro della Londra di Riccardo ii d’Inghilterra attorno all’anno 1400? Era un artista inglese, sommo artista nato in un apparente deserto? Era un francese, prestato a una corte ambiziosa? Era boemo, come l’amata moglie di Riccardo? O fiammingo? Che la ricerca attorno a quest’oggetto abbia ammesso in passato, e ammetta tuttora, un ventaglio così largo di incertezze e ipotesi diverse, è un dato significativo per comprendere la capziosa internazionalità di questa Europa brillante ed effimera. Uno dei crogioli di omogeneizzazione fu costituito, in decenni che in parte si sovrappongono a quelli avignonesi, dall’Impero praghese di Carlo iv, e dal suo breve resuscitare l’anacronistico ideale dell’Impero. La corte imperiale è una corte simile alle altre, in questo scorcio di Europa medievale: Carlo si muove, viaggia, percorre il suo Impero disgregato perseguendone una improbabile rinascita, si spinge fino a Roma alla ricerca di incoronazione e di universalismo. Chiama a Praga e a Karlstein Tommaso da Modena, che vi passa lunghi anni: uno dei pittori più grandi del gotico boemo, maestro Teodorico, deve moltissimo alla lezione del pittore italiano. Questo stile addolcito, sinuoso, pieno di ombre dense e fumose simili a quelle che avevano caratterizzato la pittura di Vitale da Bologna e dei pittori emiliani della prima metà del secolo, conti-
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nuerà sotto Venceslao, che succede a Carlo; e arriverà poi fino in Germania, dove nel corso del Duecento dominava l’angoloso Zackenstil, e dove nel Nord, ad Amburgo, la pittura di Meister Bertram costituisce uno sviluppo strettamente coerente con le premesse boeme di questo stile. Il cantiere del duomo di Praga, iniziato da Matteo d’Arras – che veniva da Avignone – e continuato dai Parler, che invece provenivano da Colonia e da Schwäbisch Gmünd, è una delle grandi fucine dell’Europa tardogotica, e l’altro sarà, negli anni Ottanta del secolo, quello del duomo di Milano, che con la Boemia ha stretti contatti. I Visconti, che dominano Milano, sono a più riprese imparentati con la casa regnante francese; la produzione artistica che fiorisce sotto di loro mostra con chiarezza i debiti alla pittura e alla miniatura parigina – da Pucelle, al Maestro del Paramento di Narbona, a Jean de Bondol – e, per quanto riguarda l’Italia, ai limitrofi Veneto ed Emilia, cioè alla maniera pittorica di Avanzo, di Altichiero, di Giusto dei Menabuoi, che è come dire alla grande tradizione di origine giottesca trapiantata nelle regioni settentrionali italiane. Giovannino de’ Grassi, l’artista che emerge all’interno del cantiere del duomo, comincia a lavorarvi come pittore nel 1389, poi vi diventa scultore, infine dovrà, dice un documento, «designari ecclesiam», ossia progettarla. Nelle miniature, e nei taccuini di disegni, egli si dimostra artista attentissimo al dato naturalistico, talvolta addirittura «realistico» dell’osservazione della natura e degli animali, e disegnatore di grande eleganza; ridotte quasi ad ombre, le figure di santi che egli dipinge sui piedritti dei portali del duomo milanese ci danno un’idea dell’eccellenza anche della sua arte «monumentale». Ma a Milano non c’è monopolio italiano: solo qualche anno più tardi, nel 1398, arriva nel cantiere di Milano Jacques Coene, pittore di Bruges: forse identico al Maestro di Boucicaut, dunque a uno degli artisti più raffinati attivi nella Parigi di Carlo vi e di Jean de Berry.
E quella Parigi doveva essere il luogo più à la page dell’elegante Europa delle corti: Parigi, e i centri, a essa strettamente legati, del Berry, dell’Anjou, della Borgogna. Le tante perdite del patrimonio monumentale sono state catastrofiche: proviamo solo a immaginare come dovevano presentarsi i vari castelli di Jean, duca di Berry, pieni degli oggetti che egli collezionava e richiedeva ai suoi artisti. Della pittura da cavalletto nel-
9. Fratelli Limbourg, L’Uomo anatomico. Les très riches Heures du duc de Berry, fol. 14v. Miniatura, 1413-1416. Musée Condé, Chantilly.
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10. Ritratto di Giovanni ii il Buono re di Francia. Dipinto su tavola, 1360 ca. Museo del Louvre, Parigi.
la Francia trecentesca rimangono solo rari esempi – vengono subito alla mente alcuni esempi celebri, relitti di un patrimonio che doveva essere notevole: il ritratto di Jean le Bon, la Pietà rotonda di Jean Malouel dipinta per la certosa di Champmol, il polittico Balti mo ra/Anversa – e altri pezzi celebri sono discussi, dal dittico del Bargello che tende verso le Fiandre ad alcuni dipinti di Broederlam e Henri Bellechose, che vanno
a comporre un gruppo borgognone dai contorni autonomi. Di nomi di artisti ne conosciamo parecchi, ma quasi nessuno è più di un nome. Charles Sterling, pubblicando il documento del 1391 che cita 25 nomi di pittori/ miniatori nessuno dei quali legabile a un’opera sopravvissuta, scrisse giustamente che la pittura parigina della fine del Trecento è «misteriosa ma non mitica»: sappiamo che essa è esistita, ma come fosse, dobbiamo molto largamente immaginarlo, e soprattutto dedurlo dalle opere che sono sopravvissute più numerose, quelle di miniatura, peraltro di incomparabile bellezza. Colpisce, in questi decenni, ed è stato particolarmente indagato da Millard Meiss, il persistente conservativismo, relativo soprattutto ad alcuni elementi della tradizione miniata e all’italianismo che la pervade. Pittori romani avevano lavorato in Francia all’inizio del Trecento, per Filippo il Bello, e non solo nel Sud; uno di essi, Filippo Rusuti, aveva operato in uno dei castelli che passarono poi di proprietà di Jean de Berry, e molto probabilmente a quel tempo i dipinti esistevano ancora, e potevano essere ancora guardati e apprezzati. Le grisaglie delle Heures di Jeanne d’Evreux, opera di Jean Pucelle nel terzo decennio del secolo, avevano sviluppato ed estremizzato il gusto della grisaille, inaugurato da Giotto nello zoccolo con le finte statue di Virtù e Vizi nella cappella padovana degli Scrovegni; per contro, le soluzioni compositive, non solo nelle figure ma nell’impostazione spaziale delle scene, erano chiaramente debitrici a Duccio, l’opera del quale Pucelle doveva aver ben conosciuto, forse anche nel corso di un probabile viaggio in Italia. L’esempio dei senesi perdura: sono purtroppo perduti i due ritratti di Laura e del cardinal Napoleone Orsini, opere del Simone Martini avignonese che Petrarca stimava sopra ogni cosa, e quindi non possiamo valutarne la funzione di incunaboli nei confronti della pittura francese; ma attorno al 1360, il ritratto di Jean le Bon, il primo ritratto autonomo di profilo, è indivisibile
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dai modelli martiniani e soprattutto dalla versione fisionomicamente puntuta che della pittura di Simone dà, ad Avignone, Matteo Giovannetti. Legato ai modelli di Duccio e di Simone Martini – il celebre Calvario di Anversa – è il meraviglioso Paramento di Narbonne, anch’esso non classificabile come pittura tout court, essendo piuttosto una sorta di gigantesco disegno a inchiostro nero su seta bianca, una stoffa liturgica dell’ottavo decennio del secolo, in grisaglia perché usata in epoca di Quaresima, quando le statue troppo fisicamente umane e i dipinti troppo festosamente colorati dovevano sparire dagli altari e far posto al grigio-nero-bianco del lutto e della penitenza. Jean de Berry doveva apprezzare straordinariamente questo stile sottile e raffinato, e gli inventari delle sue collezioni ci rivelano la presenza di opere di Jean Pucelle. Certo è che i pittori e i miniatori che lavorano per lui continuano a usare i modelli senesi e a elaborarli, specialmente l’autore delle Très Belles Heures de Notre-Dame – che forse è il medesimo maestro di Narbonne – mentre André Beauneveu, che minia per lui un Salterio, vi dipinge monumentali figure di profeti assise, anch’esse in grisaglia, finte statue degne della dignità statuaria dei prototipi giotteschi. Nelle stesse Heures de NotreDame, la scena della Presentazione di Jean da parte dei santi Andrea e Giovanni Battista è incomprensibile senza i modelli martiniani, e a sua volta dovette offrire l’idea alla scena analoga del già citato dittico Wilton, che a essa appare molto affine. Il fascino perdurante della tradizione italiana nulla toglie alla varietà e alla compiutezza di questa fase di produzione artistica, che è coronata dall’opera di miniatori come i fratelli Limbourg, i quali, già al servizio del duca di Borgogna, entrano poi nell’entourage di Jean de Berry e come lui muoiono di peste nel 1416, lasciando incompiuta la più celebre delle loro imprese miniate, le Très Riches Heures oggi a Chantilly. Attorno al 1415-1420, dunque, Parigi dominava quale centro di cultura in un continente di linguaggio certo diversificato, ma che più si alza di livello sociale e più sembra omogeneo. Anche le zone più lontane dalla
capitale francese risentono di questa pressione di gusto. In Catalogna, dove l’ondata italianizzante di Ferrer Bassa e dei suoi continuatori aveva caratteristiche diverse dall’italianismo parigino, l’aggiornamento filoitaliano continua anche alla fine del Trecento e negli anni iniziali del Quattrocento: un pittore come Gherardo Starnina, fiorentino, fa il va e vieni tra la costa catalana e l’Italia – questo ulteriore mélange produce altri casi di opere di difficile attribuzione, come il famoso Taccuino degli Uffizi, opera che è stata lungamente contesa tra il tardo gotico toscano e la composita scuola valenziana – mentre a Barcellona e a Valencia arrivano altri pittori stranieri, qualcuno anche dalla lontana Germania, come Marçal de Sax, che introduce in Catalogna un gusto marcato per l’espressione che arriva a sfiorare la deformazione fisionomica e anatomica. Con la bottega dei Serra, con Ramon Destorrents, Miguel Alcanys, Gonçal Peris, Luis Borrassà e Bernat Martorell, la Catalogna diventa una regione ricchissima di pittori, di committenti e di opere, che nonostante i disastri della Guerra Civile negli anni Trenta del xx secolo costituiscono ancora oggi in Europa uno dei pa-
11. Maestro del Paramento di Narbona, Paramento di Narbona, dalla cattedrale di Narbona. Inchiostro su seta. 1370-1380 ca. Museo del Louvre, Parigi.
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trimoni più ricchi di pittura murale e soprattutto di pittura su tavola. Il Compianto sul Cristo morto, predella del retablo che Luis Borrassà dipinge per la cattedrale di Manresa, è un brano straordinario per qualità e per forzatura espressionistica, che trova precise affinità nelle miniature di uno dei maestri raggruppati attorno a Jean de Berry, e che per le Heures de Rohan lavora – attorno al 1430-1433 – per Violante d’Aragona, moglie di Renato ii d’Angiò. Contemporaneamente agli ultimi anni del lungo stile internazionale, e già a partire dal terzo decennio del secolo, comincia però a formarsi nelle Fiandre quella che sarà l’ars nova: un nuovo modo di dipingere, anzi, di più, di vedere e di rappresentare la realtà. La pittura sembra appropriarsi delle qualità plastiche della scultura, e associarle alle proprie esclusive caratteristiche del colore e degli effetti di luce/ombra. Negli stessi anni, in Italia, comincia a lavorare Masaccio, e insieme e dopo di lui i pittori del «Rinascimento»: come lo chiamarono per la prima volta gli umanisti e i letterati italiani del Quattrocento, i quali volevano sottolineare l’idea della rottura forte e decisa tra questo
loro mondo rinnovato e il passato, dunque con ciò che noi chiamiamo Medioevo. Sono queste le due spinte potenti che conducono alla sua conclusione il gusto internazionale; ma è una conclusione che, se è esaminata nella sincronia della storia, ci parla di un lungo parallelismo, qualcosa più che una lunga sopravvivenza. Il gusto «gotico» vive accanto all’opera di Masaccio e di Piero della Francesca in Italia, e forse si assimila via via alle correnti che sono state chiamate antirinascimentali, o pseudorinascimentali, le quali non si identificano con i principi rigorosi e scientifici propriamente «rinascimentali» e scelgono vie traverse, oblique, marginali: per questo, di un fascino irresistibile ancora ai nostri occhi, e forse agli occhi dei contemporanei che le preferivano, magari sempre più socialmente e culturalmente rétro. Nel resto dell’Europa, dalla Spagna alla Germania al basso Reno a tutta la Francia, non c’è alternativa all’acquisizione del modo di vedere che viene dalle Fiandre. A partire dalla fine del terzo decennio del secolo, e in seguito in modo irresistibile, l’internazionalismo della cultura europea parla dunque un’altra lingua.
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1. Pannello murale con motivi floreali e geometrici, da Samarra. Gesso, ix secolo. Museo d’Arte Islamica, Il Cairo.
Qualsiasi breve trattazione dell’arte islamica che miri ad andare al di là di un approccio superficiale deve necessariamente articolarsi per temi piuttosto che per sequenze cronologiche. Il motivo è evidente: in un Impero che in età medievale si estendeva dalla Spagna all’India e le cui numerose regioni, i cui confini variavano continuamente, erano governate da dozzine di dinastie diverse, la cronologia tende a mettere in ombra questioni più rilevanti per la comprensione della religione, della società e della cultura del mondo musulmano medievale nel suo insieme. Il lettore si troverebbe facilmente disorientato in una selva di nomi poco noti e di termini tecnici. Perciò una breve sintesi sull’arte islamica potrà essere maggiormente comprensibile se si incentrerà sui tratti costanti della materia. Naturalmente questo comporta delle generalizzazioni e, altrettanto naturalmente, comporta anche la necessità di ignorare le eccezioni a queste. Potrò difendermi dall’accusa di essere poco accurato ricordando che un quadro d’insieme richiede pennellate ampie e che un’eccessiva enfasi sui dettagli non può che distorcerlo. Con queste considerazioni non si intende certo affermare che la storia o la geografia abbiano scarsa rilevanza nello sviluppo dell’arte islamica. Al contrario, il dato storico delle eccezionali conquiste conseguite dagli Arabi a partire dagli anni ’30 del vii secolo che portarono la nuova fede dell’islam nella maggior parte del vecchio mondo, e del primo grande impero islamico, quello degli Omayyadi (661750), che si estendeva dalla Francia meridionale ai confini della Cina, aiuta a spiegare l’unità che caratterizza la prima arte islamica. Questa unità è ben rappresentata dalla circolazione di tipi quasi identici di monete in
tutta la vasta area – monete che esprimevano la fede islamica nella lingua araba, «lingua franca» dell’impero. Una simile unità si radicò ulteriormente nei primi anni della dinastia abbaside (750-1258), che aveva la capitale a Baghdad e poi a Samarra. La prima arte abbaside, dell’viii-x secolo, era analogamente di respiro internazionale, come dimostrano le forme caratteristiche dell’architettura (come altro si spiegherebbe la presenza di moschee a nove cupole in Spagna, Egitto e Afghanistan?), della decorazione architettonica (si noti in particolare la pervasiva popolarità dello stucco di Samarra nelle sue molte varietà) e delle cosiddette «arti minori» (vetro, tessuti copiati nella lontana Spagna, ceramica lucida trovata in Nord Africa e nella Valle dell’Indo). In tutti questi esempi si potevano avvertire lo splendore e il prestigio ineguagliabili della più ricca civiltà del mondo. Per città distanti migliaia di chilometri, Baghdad svolgeva lo stesso ruolo di Roma. I rapporti diplomatici e mercantili con l’Estremo Occidente e con l’Estremo Oriente esprimevano esattamente lo stesso senso di orizzonti vastissimi. L’Impero era veramente troppo grande per poter mantenere a lungo la propria unità culturale e politica. Verso la fine del x secolo il mondo islamico si era già frammentato in quelle che rimasero per secoli le sue parti principali: l’Occidente musulmano, che comprendeva le attuali Tunisia, Algeria, Marocco e la penisola iberica; le terre centrali dell’islam, le cui principali erano l’Egitto e la Siria; e la parte orientale del mondo islamico, che comprendeva i territori turco-persiani di Anatolia, Iran, Asia Centrale e buona parte dell’India. Gradualmente questo ultimo gruppo conseguì il dominio politico e si suddivise a
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sua volta in età tardomedievale, cosicché ciascuna area assunse il proprio carattere distintivo: entro il 1500 il mondo islamico risultava diviso fra tre superpotenze. Il maggiore dei cosiddetti «imperi della polvere da sparo» fu quello degli Ottomani, iniziato come una dinastia minore intorno al 1300, ma che durò fino al 1923. Sebbene il centro del loro territorio fosse l’Anatolia, gli Ottomani espansero grandemente il loro dominio a seguito della conquista di Costantinopoli nel 1453, sottomettendo rapidamente la maggior parte del mondo arabo e riducendolo alla condizione di provincia, e costituendo anche una continua minaccia per l’Europa centrale e persino occidentale. L’Impero safavide (1501-1726) controllava l’Iran, l’Iraq, buona parte del Caucaso e l’Afghanistan. Contemporanea-
mente l’Impero Moghul (1525-1858) assunse il dominio della maggior parte di quello che ora si chiama subcontinente indopakistano. Queste tre superpotenze conobbero, a partire dal 1700 circa, un declino culturale e politico che rispecchiava – a volte direttamente e a volte indirettamente – la crescente egemonia geopolitica dell’Occidente, ed ebbe un’influenza anche sull’arte. Per questa ragione tradizionalmente la maggior parte delle trattazioni di arte islamica non si occupa degli ultimi tre secoli, sebbene siano stati molto produttivi. La ricerca su questa fase a lungo trascurata, con la sua storia di ripetuti revival e l’influenza sempre crescente di idee e motivi di origine occidentale, è ancora agli inizi. Naturalmente ciascuna delle tre superpotenze sviluppò un proprio stile nell’arte
2. Cupola della Roccia, 691-692, con ricostruzioni successive. Gerusalemme.
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e nell’architettura, in cui si avvertono anche influenze straniere dall’Europa e dalla Cina. Così nelle moschee imperiali di Istanbul si riconoscono agevolmente elementi bizantini; il rapporto con la porcellana cinese blu e bianca e con la pittura europea si avverte rispettivamente nella ceramica e nella ritrattistica safavide; gli erbari europei e, soprattutto, le tecniche del modellato e altri espedienti naturalistici hanno trasformato la pittura indiana. Più in generale, l’architettura islamica in tutta la sua storia non può essere compresa senza considerare la ricca eredità dell’architettura greco-romana, il cui lessico di colonne, capitelli, volte, cupole, archi e porticati ha permeato il vocabolario architettonico musulmano. L’impatto delle forme classiche fu particolarmente forte nel vii e viii secolo d.C., come dimostrano i sontuosi mosaici degli edifici religiosi omayyadi, come la Cupola della Roccia di Gerusalemme e la Grande Moschea di Damasco. Prima di procedere, è forse opportuno considerare brevemente alcuni dei più comuni equivoci – generalmente di origine occidentale – che condizionano negativamente l’impatto dell’arte islamica sul pubblico più vasto. Si ritiene spesso che questa arte non evolva in modo significativo, che sia quasi esclusivamente di carattere religioso e che eviti di ritrarre esseri viventi. Anche l’idea che l’arte islamica sia essenzialmente ornamentale è largamente diffusa, sebbene non si possa negare che il cosiddetto horror vacui – la tendenza a non lasciare nessuno spazio vuoto – costituisca un importante principio generativo in tutte le forme, i periodi e i tipi di decorazione. Se in ciò si possa leggere qualcosa di più di una comune predilezione per le superfici decorate è dubbio. Eppure molti elementi giustificano la presentazione dell’arte islamica come il prodotto di un’unica cultura, ed è l’approccio qui seguito. Tra i motivi ricorrenti dell’arte islamica troviamo la continuità di idee per molti secoli e nella maggior parte dei paesi islamici, l’influenza determinante del primo secolo dell’islam su tutto ciò che sarebbe venuto dopo e la generalizzata influenza della religione su ogni forma d’arte. I più potenti fattori di uni-
ficazione erano il pellegrinaggio alla Mecca, le vie commerciali terrestri e marittime che attraversavano quei paesi e la religione comune, la cui lingua – l’arabo – divenne la «lingua franca» di un’intera cultura. Sebbene le forti divisioni etniche tra Arabi, Persiani e Turchi fossero molto marcate, ciascun gruppo in tempi diversi dominò sugli altri, garantendo una continua contaminazione tra le tradizioni artistiche. Quali sono le espressioni caratteristiche dell’arte islamica? Senza dubbio l’architettura e la connessa decorazione – cupole, minareti, scintillanti ornamenti policromi – sono divenute il simbolo del mondo dell’islam per molti non musulmani. L’Alhambra, il Taj Mahal, la Cupola della Roccia non sono soltanto nomi evocativi – ciascuno di questi monumenti è divenuto una sorta di simbolo visivo immediatamente riconoscibile per migliaia di persone. Ma l’attrattiva esercitata da questi e da altri grandi edifici islamici ha allo stesso tempo messo in ombra l’importanza dell’arte profana nel mondo musulmano. Questo filone di arte secolare – della cui esistenza è difficile convincere i non specialisti, dal momento che è diffusa la convinzione (alquanto inesatta) che l’arte islamica abbia principalmente un carattere religioso – non trova spazio, come spesso avviene, nell’architettura. Ciò dipende dal fatto che l’architettura pubblica nel mondo islamico ha funzione soprattutto religiosa, essendo rappresentata da moschee, madrase, tombe e santuari, più che da palazzi, caravanserragli e strutture industriali o vernacolari. L’arte secolare trovò piuttosto la propria espressione più frequente nelle spesso impropriamente definite arti «minori» o «decorative», che in questa cultura hanno invece un’importanza notevole. Dopo tutto, il mondo islamico non sviluppò mai un gusto per la scultura tridimensionale, per l’arte religiosa figurata o per la pittura da cavalletto, e anche l’affresco è relativamente poco diffuso. Non si sviluppò nemmeno un culto della personalità incentrato su grandi artisti. In effetti l’arte e l’architettura islamica conservano i nomi di migliaia di artisti, ma generalmente non si sa nulla di loro, così le loro opere restano di fatto anonime. Queste
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assenze spiegano le difficoltà che incontrano gli occidentali che cercano invano gli equivalenti islamici dei mezzi di espressione e delle finalità stesse dell’arte europea. Gli artisti nel mondo musulmano tendono piuttosto ad esprimersi in forme d’arte come la ceramica e la lavorazione dei metalli, dell’avorio e del vetro, i tessuti e i tappeti e naturalmente la miniatura. Così l’ordine dei valori nel mondo islamico è radicalmente diverso da quello dell’Europa, dell’India hindu o della Cina. Pertanto chi ha familiarità con l’arte occidentale ed è abituato ad apprezzarne i canoni e le forme dovrà fare uno sforzo notevole per sviluppare una sensibilità per le forme artistiche peculiari dell’arte islamica e per le forme d’espressione di cui esse sono veicolo. Eppure, nonostante l’enorme estensione dell’arte islamica nello spazio, nel tempo e nelle forme non si può negare che essa – come pure, in modo diversissimo, l’arte cinese – abbia una caratteristica specifica e riconoscibile. Questo è particolarmente evidente nella decorazione islamica, che dimostra ineguagliata ricchezza e virtuosismo. Il tabù religioso sulle immagini devozionali è stato generalmente interpretato nel senso di escludere figure di esseri viventi o di animali da contesti religiosi, sebbene esistano numerose eccezioni, in genere di minore importanza: ad esempio in Siria, Anatolia e Iraq, nel xii-xiii secolo, o nell’arte realizzata per committenti sciiti nel mondo iranico a partire dal xiii secolo. Questo «divieto» (che non è esplicito, come si tende a ritenere, nel Corano né nei detti di Maometto universalmente riconosciuti) non si applicava tuttavia all’arte secolare; come già osservato, la maggior parte dell’arte islamica al di fuori dell’architettura è in effetti secolare. Va però rilevato che le restrizioni nel campo dell’arte religiosa spinsero l’energia creativa di molti artisti verso la decorazione astratta, che in questa cultura raggiunse vette di complessità, sofisticatezza ed espressività che hanno pochi paralleli nell’arte mondiale. Essa fu applicata con la stessa felicità (ed efficacia) a superfici grandi e piccole, potendo rivestire una coppa come una cupola, un tappeto come una parete.
Caratteri generali Prima di discutere nel dettaglio i diversi contenuti dell’arte islamica, potrebbe essere utile tentare di illustrare nei loro caratteri generali le principali forme artistiche di questa tradizione. L’architettura avrà qui un posto d’onore, dato che se ne parlerà solo sporadicamente nel resto del contributo. In architettura l’edificio islamico più caratteristico è la moschea. Nella sua forma primitiva, così come si è sviluppata dall’inizio del vii secolo in poi, si ritiene derivi dalla forma della casa di Maometto a Medina, che consisteva grosso modo in uno spazio aperto recintato con una zona coperta rivolta verso la Mecca. Per questa tipologia di edificio sono stati suggeriti paralleli con l’architettura ebraica, cristiana e araba delle origini e la sua semplicità lascia di fatto spazio a teorie di ogni genere. Questa semplicità, sebbene non venga del tutto persa e anzi sia stata periodicamente rinnovata attraverso i secoli nel tentativo di catturare lo spirito dell’islam primitivo, non poteva però resistere a lungo all’emergere di nuove esigenze, nuove funzioni e modelli stranieri via via che la comunità islamica si trasformava in un Impero mondiale e iniziava ad assorbire e modificare le diverse tradizioni dei popoli conquistati. Così nel corso dei secoli la cosiddetta «pianta araba», che conservava in buona parte l’essenza della dimora di Maometto, fu arricchita da cupole, portici, portali e iwan (vani voltati) tratti da modelli classici, bizantini e persiani. Altre caratteristiche costanti della moschea saranno discusse in seguito, quando si parlerà dei temi religiosi. La moschea a più cupole degli Ottomani, testimoniata in Anatolia e altrove, e la moschea a corte con quattro iwan del mondo iranico sono solo due dei caratteristici sottotipi locali della moschea, che trovarono popolarità accanto alle moschee più semplici di «pianta araba». Queste moschee, costruite per accogliere assemblee numerosissime per la preghiera del venerdì (e solitamente dette «moschee del venerdì» proprio per questa ragione) servivano spesso da centri per la comunità, dove si svolgevano attività educative, legali e assistenziali, e a volte incorporavano
3. Cupola della Roccia, interno, ricostruita nel 1022-1023. Gerusalemme.
Pagine seguenti: 4. Minareto della moschea Kutubiyya, 1195. Marrakech.
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strutture dedicate specificamente a questi e altri scopi non direttamente connessi al culto. Molte moschee avevano uno o più minareti, che costituivano allo stesso tempo un simbolo dell’islam e una torre da cui chiamare i fedeli alla preghiera. Altri tipici edifici pubblici islamici erano destinati a una serie di funzioni molto diverse. Uno di questi era il caravanserraglio, usato per accogliere i viaggiatori con gli animali e le merci. Molti caravanserragli facevano parte di una rete di strutture poste alla distanza l’una dall’altra di una giornata di cammino sulle vie più frequentate. La madrasa o scuola teologica, spesso indistinguibile nella forma da una moschea se non per il fatto che in genere comprende ambienti al piano terreno e a quelli superiori destinati ad alloggi per gli studenti e a sale di lettura, è un tipo di edificio diffuso dalla Spagna all’Indonesia. I più antichi esempi conservati risalgono al 1100 circa. La venerazione dei santi e il desiderio di perpetuare la loro memoria è spesso il motivo per la costruzione di monumenti commemorativi, molto diffusi in tutto il mondo islamico. I mausolei classici e i martyria paleocristiani furono i modelli a cui si spirarono la maggior parte di queste strutture. La Cupola della Roccia (691-92) ne è l’esempio più antico e solitamente è ritenuto anche il più eminente. L’influenza classica è ugualmente evidente nelle forme dei palazzi del Vicino Oriente e dell’Occidente musulmano, o perché liberamente ispirati al modello del castrum romano (come le residenze nel deserto omayyadi) o perché richiamano i complessi agglomerati quasi casuali di strutture diverse degli edifici romani o tardoantichi di Tivoli, Piazza Armerina e del palazzo degli imperatori bizantini a Costantinopoli. L’Alhambra a Granada e il Topkapi Sarayi a Istanbul sono versioni tardomedievali di questo secondo tipo; le differenze che presentano non sono concettuali, ma dipendono dalla situazione locale. C’erano naturalmente altri tipi di edifici. Il ribat e la khanqah, ad esempio, erano entrambi destinati a ospitare pii musulmani, il primo per scopi militari e la seconda per gruppi di
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dervisci o di sufi (mistici). L’hammam (bagno) aveva funzioni non solo igieniche, ma anche religiose e sociali, mentre il bazar era una componente essenziale del commercio locale e internazionale. E non bisogna dimenticare strutture di pubblica utilità quali ponti, mulini e dighe. Ma se si considerano i monumenti pubblici più diffusi, si resta colpiti dalla notevole intercambiabilità dei tipi degli edifici in questa architettura. Ciò può essere dovuto al clima caldo secco che caratterizza la maggior parte del mondo islamico. In ogni caso, essi mostrano in genere una preferenza per alcuni elementi modulari quali la corte aperta delimitata da portici o iwan, e aree coperte (di solito a volta) scandite da cupole più o meno grandi. Le ampie superfici parietali che caratterizzano questo genere di edifici erano spesso riccamente decorate, specialmente nei punti di maggiore importanza, con intagli di stucco o pietra, piastrelle policrome o intarsi marmorei. Le cosiddette arti «minori», importate talvolta dalla Cina e anche dall’Europa, hanno grande rilevanza nel mondo islamico medievale. Divengono il veicolo per molte delle energie creative che in altre culture sono incanalate nell’arte devozionale (come in Europa, India e Cina) o in altri mezzi espressivi, come pittura e scultura. Le loro principali caratteristiche sono l’instancabile virtuosismo tecnico e l’inventiva, spesso uniti ad un’istintiva sensibilità cromatica e al gusto per la decorazione. I loro contenuti saranno esaminati in dettaglio in seguito; per ora è importante ribadire, come si è già accennato, che le gerarchie di distinzione tra tecniche e materiali operanti nell’arte islamica medievale, per quanto presentino numerosi punti di contatto con quelle di altre culture, ne differiscono decisamente. L’assenza stessa di tecniche a cui altre culture davano priorità significa che la committenza di sovrani, nobili e ricchi si concentrava principalmente sulle arti «minori». Da qui l’inesauribile profusione di stili, tecniche, forme e decorazioni della ceramica e della lavorazione del vetro e del metallo islamiche, in cui a una materia prima di base poco pregiata si attribuiva prestigio, impatto visivo, significato e
(incidentalmente) un notevole valore aggiunto. Una particolare enfasi andrebbe riconosciuta al ruolo dei tessuti in questa cultura, in quanto – dopo le monete – costituivano la forma di ricchezza mobile più usata e accettata. Le fonti medievali menzionano diverse centinaia di tipi di tessuti, identificati in base al disegno, al colore, alla tecnica e al luogo di fabbricazione; erano prodotti praticamente ovunque. Servivano come doni, venivano concessi come onori e presto divennero lo status symbol preferito. Gran parte della decorazione architettonica può essere interpretata come una derivazione dai tessuti, al punto che alcuni edifici sembrano esserne avvolti. Anche la calligrafia e la miniatura rivelano la loro diffusione. La popolarità dei tessuti arrivò fino in Europa, le cui lingue hanno conservato molte parole, solitamente dal suono esotico, per descrivere l’atlante dei tessuti islamici, tra cui vanno ricordati satin, organdi, damasco, taffetà, mussola e fustagno. Mentre sono rimasti solo pochi esempi di affresco e mosaico islamici, le arti del libro – miniatura, calligrafia e legatura, oltre all’illustrazione – hanno avuto un posto d’onore nella cultura musulmana. Lussuosi Corani in pergamena sono noti fin dall’epoca omayyade, e poco prima del 1000 d.C. la carta, già in uso da tempo nella cancelleria, iniziò a essere impiegata anche per questo scopo. I Corani offrono in effetti una documentazione preziosa per lo sviluppo della miniatura e delle diverse forme di scrittura che per praticità, sebbene impropriamente, vengono raggruppate nelle categorie di cufica e naskh. La santità del Corano ha favorito la conservazione di molti fogli antichi. L’illustrazione vera e propria, però, ha sofferto maggiormente i danni del tempo; la carta è, dopo tutto, un materiale molto più facilmente deperibile dell’argilla e del metallo e la perdita di intere biblioteche per gli incendi è una triste costante della storia islamica medievale. Il panorama della decorazione libraria islamica si articola in quattro correnti: araba, persiana, indiana e turca. La decorazione araba ha conosciuto al suo apice, durato meno di due secoli a partire dal 1200 circa, un’incre-
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dibile varietà di contenuti e stili. Tuttavia la brevità della sua durata ha portato gli studiosi a sottovalutare la sua importanza e a trascurare le implicazioni dell’abbondante documentazione letteraria, che indica che fin dall’età omayyade venivano prodotti manoscritti arabi miniati. Il rapido declino della qualità della pittura araba dalla fine del xiv secolo, specialmente perché in contrasto con la contemporanea fioritura dell’arte della miniatura in altre parti del mondo islamico, ha contribuito al mancato apprezzamento di questa ricca tradizione. Eppure nel suo periodo di massimo splendore la pittura araba eccelleva nell’illustrazione di trattati scientifici sugli argomenti più vari, dalle stelle alle piante, alla medicina, alla tattica militare, all’arte del maniscalco e alla storia naturale in genere; e libri illustrati su questi argomenti continuarono a essere prodotti per tutta la durata del lungo declino di cui si è detto. Nel campo della letteratura spiccano due testi. Il primo è la collezione di favole di animali noto come Kalila wa Dimna, che (come le Favole di Esopo) è una sorta di enciclopedia di sapienza popolare, ma serviva anche da manuale di politica per i governanti e divenne il libro di racconti più popolare del mondo medievale, tradotto in dozzine di lingue, dall’islandese all’indonesiano. Il secondo è un’opera tipicamente araba, le Maqamat (Riunioni) di al-Hariri, il cui testo, apparentemente una serie di racconti, ma in realtà un pretesto per sfoggi verbali pirotecnici, era destinato ai conoscitori della lingua araba. Tuttavia ogni racconto ha una precisa ambientazione geografica e spesso la dinamica della narrazione comporta una serie di occasioni che si prestano in modo particolare all’illustrazione narrativa o di genere. I pittori arabi colsero questa opportunità per realizzare immagini di forte impatto e vivacità, percorsi da un’inaspettata vena umoristica. Esse sono evocative della città medievale islamica in tutti i suoi aspetti: l’atmosfera solenne della moschea mentre il predicatore parla all’assemblea, la lotta senza esclusione di colpi in tribunale, la rumorosa animazione del mercato e lo squallido sottobosco dei criminali, dei truffatori e dei dissoluti.
La tradizione persiana matura prediligeva i temi tratti dalla poesia epica e lirica – in particolare dallo Shahnama di Firdawsi e dallo Khamsa di Nizami – e sviluppò pertanto un efficace stile narrativo. Gli elementi cinesi introdotti in seguito all’invasione mongola, a partire dal 1220, modificarono e arricchirono il suo repertorio figurativo con formule fisse, dal naturalismo stilizzato, per le nuvole, gli alberi, le rocce, l’acqua e altri elementi naturali, che andavano a comporre per l’azione uno scenario particolareggiato, anche se molto concettualizzato. La precisione dell’esecuzione e la ricchezza di dettagli messe al servizio dell’immaginazione più che del realismo, i colori intensi e la fluidità calligrafica delle linee costituiscono i tratti caratteristici della pittura classica persiana di età timuride (1400-1500 circa). Nei secoli successivi questa pittura si emancipò gradualmente dal libro al singolo foglio, rispecchiando un cambiamento radicale nell’ambiente di lavoro degli artisti. Avvenne così che artisti di corte impiegati negli atelier reali, o artisti con propria bottega che rifornivano un mercato di ricchi bibliofili, iniziarono a trasformarsi in professionisti free-lance che vivevano della vendita di fogli di studi figurativi o calligrafici ad acquirenti occasionali. Quest’ultimo tipo di artisti, ben rappresentato da Riza-i ‘Abbasi e Mu’in Musawwir, dominò il mercato del xvii secolo, un periodo in cui molti occidentali arrivarono nell’Iran safavide, con la conseguente infiltrazione di tecniche (come la pittura a olio) e concetti (la prospettiva, il naturalismo e la resa atmosferica) tipicamente occidentali nella pittura persiana. Queste caratteristiche proseguirono nei secoli successivi, in particolare sotto i Qajar nel xix secolo, e servirono a raffigurare nuovi soggetti, tra cui ritratti, immagini di danzatrici e temi tratti dal repertorio dell’Iran preislamico. La miniatura islamica indiana, che iniziò, a quanto sembra, negli ultimi tempi del sultanato, fu pesantemente influenzata dalle tradizioni locali non musulmane, ma si ispirò anche all’Iran per i soggetti, per cui abbiamo il curioso esempio di uno Shahnama del xv secolo in stile giainista. L’elemento iranico
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5. Camera del tesoro pubblico. Grande Moschea, 706/707-715. Damasco.
divenne ancora più percepibile nel xvi secolo, con l’arrivo in India di alcuni dei migliori artisti della corte safavide, invitati a lavorare per l’imperatore Humayun. Suo figlio Akbar, nell’ambito di un’ardita politica di riconciliazione delle diverse fedi nel suo Impero in espansione, estese generosamente il proprio mecenatismo ad artisti hindu e musulmani, mentre idee e temi dall’Europa arricchivano ulteriormente la pittura moghul. In essa era consueto uno studiato naturalismo, che forse si esprimeva al meglio negli studi di fiori e animali e nei ritratti; ma gli artisti Moghul erano anche abilissimi in scene di folla, di battaglia e di cerimonia. Cronologicamente l’ultima delle quattro tradizioni dell’illustrazione islamica è quella
turca, che dopo un esordio brillante molto legato ai modelli persiani, si trovò a partire dal xvi secolo definitivamente sotto il patronato dei sultani ottomani. Gli imperatori prediligevano i soggetti storici, come la vita del sultano Solimano il Magnifico, o le campagne militari del re, ma anche scene di processioni e feste. Gli Ottomani, come i Safavidi e i Moghul, svilupparono un gusto per gli studi su un singolo foglio, in genere ritratti o esercizi (con soggetti diversissimi, quali draghi, angeli e fiori). La pittura ottomana, ricchissima di dettagli e dai colori vivacissimi, si esprime al meglio nelle rappresentazioni di gruppi di soldati e cortigiani, delle folle, degli edifici e nelle vedute a volo d’uccello delle città, tutti resi bidimensionalmente.
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Religione È ora tempo di analizzare più nel dettaglio i temi dell’arte islamica. Sarà opportuno iniziare dal ruolo della religione. Qui il posto d’onore va all’architettura, in particolare alla moschea, ai suoi arredi e accessori – minareto, mihrab, minbar e tappeti da preghiera. Altre comuni tipologie di edifici con valenza religiosa sono la madrasa, o scuola coranica, e il mausoleo, spesso usato come luogo di preghiera, oltre che come sepoltura. In effetti, alcuni dei principali santuari islamici si sono sviluppati intorno a tombe di santi, espandendosi fino a diventare enormi complessi polifunzionali. La Ka’ba alla Mecca è diventata un simbolo popolare di santità, raffigurata
in manoscritti poetici, guide, certificati di pellegrinaggio e piastrelle invetriate; la stoffa che la copre e le chiavi della Ka’ba fungevano da regali pii da parte di governanti e alti ufficiali. Una speciale venerazione era accordata ai manoscritti del Corano, per cui vennero sviluppati da noti maestri particolari caratteri. La miniatura era concentrata nei frontespizi e nei colophon, formando pagine «a tappeto» con complessi intrecci geometrici; i titoli dei capitoli, le palmette ai margini e i tondi che segnavano la numerazione dei versetti erano spesso miniati, specialmente in oro e in blu oltremare. Legature in pelle lavorata per ciascun volume – spesso 30 per una singola copia – richiamano a monocromo le pagine a tappeto dell’interno. Leggii pieghevoli di le-
6. Facciata della sala di preghiera. Grande Moschea, 706/707-715. Damasco.
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Pagine seguenti: 7. Madrasa Ince Minareli, 1260-1265. Konya.
gno permettevano di esporre il libro aperto; come le scatole in legno o in metallo intarsiato che contenevano i manoscritti in più volumi del Corano, essi recano iscrizioni coraniche. Queste ultime sono così ricorrenti in tutte le forme d’arte islamica – edifici, vestiti, ceramica, oggetti di metallo, vetri – da costituire uno dei principali elementi, in grado di rendere sacri anche gli oggetti di uso più comune. Un altro tema religioso è costituito dal paradiso. A volte è raffigurato in modo esplicito, come nel caso delle rappresentazioni del viaggio di Maometto ai Sette Cieli. Gli alberi del paradiso – enormi e ingioiellati – sono descritti dettagliatamente nel Corano e nei suoi commentari. Questi alberi sono raffigurati minuziosamente nel Mi‘rajnama (Libro dell’Ascensione [del Profeta], 1436) e probabilmente nei mosaici della Cupola della Roccia e della Moschea al-Aqsa a Gerusalemme, e in quelli della Grande Moschea di Damasco, oltre che negli intagli in stucco del Gunbad-i ‘Alaviyyan a Hamadan, Iran (xii secolo?) e nel tappeto di Ardabil. Talora sono raffigurate le huri che aspettano i veri credenti, come anche i calici da cui i beati berranno, gli edifici in cui riposeranno e i frutti che mangeranno. Gli uccelli ibridi sul portale a piastrelle invetriate del Masjid-i Shah safavide (ora ribattezzato Masjid-i Imam) a Isfahan potrebbero costituire un’altra allusione al paradiso, anche perché le iscrizioni sui portali degli edifici religiosi e sulle placche metalliche delle porte a volte giocano sull’idea che questi edifici rappresentino le porte del paradiso. Per di più in molte miniature persiane di carattere ostentatamente profano, gli ingressi presentano l’invocazione «O Tu che apri le Porte», che è rivolta ad Allah e implica l’invocazione supplementare «Apri la Porta per noi». La maggior parte delle allusioni al paradiso è tuttavia in codice, anche subliminale. I numerosi versetti coranici che descrivono l’acqua come un attributo del paradiso fanno sì che le fontane per le abluzioni delle moschee, o i dispensari d’acqua costruiti per la pubblica utilità in molte città islamiche, come Gerusalemme o Il Cairo,
costituiscano una sottile allusione a questa connessione, a volte resa esplicita dalla scelta delle citazioni coraniche. La più efficace anticipazione del paradiso è il giardino. Quindi la descrizione di giardini dalla fioritura miracolosa nelle illustrazioni dei libri, sulle piastrelle invetriate, sulle stoffe e sui tappeti, si presta a una duplice interpretazione. Questa è implicita, ad esempio, in arabo e persiano, in cui la parola firdaws (apparentata con il greco paradeisos e le sue derivazioni in molte lingue europee) significa sia «giardino» sia «paradiso». Così anche i giardini veri e propri, dal Generalife di Granada a quelli del Taj Mahal a Agra, sfruttano questa sostanziale ambiguità. Molti giardini sono cinti da mura e quindi inaccessibili, sono attraversati da canali d’acqua e, a volte, hanno una connotazione funeraria in quanto sono associati a un mausoleo. In effetti la parola rawda («giardino» in arabo) indica anche la tomba. L’agiografia ha iniziato a influenzare l’arte islamica a partire dal 1300 circa, probabilmente nel momento in cui molti tabù islamici vennero infranti in seguito all’invasione mongola. Inizialmente le immagini del profeta Maometto derivavano da prototipi cristiani, ma gradualmente si sviluppò un’iconografia vera e propria, fino a culminare in età ottomana in una produzione di biografie del profeta riccamente illustrate. Manoscritti miniati del Mi‘rajnama raffiguravano Maometto in un contesto celeste, e con il passare del tempo questo tema venne trattato anche dal punto di vista estetico, fino a rendere Maometto una figura sovrannaturale avvolta dalle fiamme e scortata dagli angeli. Il profeta, ’Ali e la sua famiglia erano particolarmente venerati dagli Sciiti, con raffigurazioni del leone (haydar, uno dei nomi di ’Ali), delle imprese militari di ’Ali e delle cerimonie di Muharram (che commemoravano il martirio di ’Ali) e nella relativa architettura, nelle piastrelle figurate e nei mobili. Questa iconografia religiosa sciita divenne predominante nell’Iran dei Qajar durante il xix secolo. Moltissimi santuari in Iran testimoniano tale devozione. Fonti giudaiche e cristiane offrirono la base per le Qisas al-
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anbiya (Storie dei Profeti), la cui popolarità giustifica le frequenti raffigurazioni di Nuh (Noè), Sulayman (Salomone), Da’ud (Davide), Ibrahim (Abramo), Musa (Mosè), Yunus (Giona) e ‘Isa (Gesù) nella pittura islamica. Il soggetto preferito è senza dubbio Yusuf (Giuseppe), la cui storia, secondo l’interpretazione fornita da poeti di dottrina sufi, è abbondantemente raffigurata su manoscritti, piastrelle, tappeti e pareti. Scene cristiane, di solito tratte dalle narrazioni delle vite di Gesù e Maria, appaiono talora sulla ceramica, sulle pitture delle pareti e dei soffitti, ma soprattutto su oggetti di metallo intarsiato realizzati sotto gli Ayyubidi di Siria. La qualità straordinaria di queste immagini prova che gli artigiani musulmani probabilmente lavoravano in modo sistematico per committenti cristiani. Viceversa, oggetti musulmani venivano utilizzati in contesti cristiani in tutta l’Europa medievale, come nel caso dei calici in cristallo di rocca, che la tradizione riteneva aver contenuto il sangue di Cristo, delle sete e delle scatole d’avorio usate come reliquiari, dei troni episcopali realizzati da disiecta membra di intagli musulmani e delle monete abbasidi riutilizzate incidendovi il nome di governanti occidentali. Uno specchio di questo rapporto tra le due culture è offerto dalle aureole presenti in molti dipinti italiani del xv secolo (ad esempio di Gentile da Fabriano), che presentano iscrizioni arabe che recitano «Gloria al nostro Signore il Sultano» o persino frasi arabe di contenuto religioso. La miniatura persiana più tarda era permeata di temi mistici. A volte, come negli Khamsa (Cinque poemi) di Nizami o nel Mantiq al-tayr (Linguaggio degli uccelli) di ‘Attar, il testo è denso di allusioni all’esperienza e all’insegnamento della mistica, e alcuni protagonisti sono chiaramente allegorici. In altri casi, invece, è l’artista che enfatizza o persino introduce l’elemento sufi, come nel caso delle illustrazioni di una copia del Diwan (Raccolta di poesie) di Ahmad Jalayir. Questi temi possono essere legati a una specifica narrazione (ad esempio, la storia di Yusuf e Zulaykha) oppure illustrano pratiche fami-
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liari e simboli sufi. I poeti sufi erano molto stimati a corte e ufficiali di alto rango si vantavano di aver ricevuto un’istruzione sufi ed erigevano molte fondazioni sufi, come le khanqah o santuari in cui la tomba del santo diventava il centro attorno al quale sorgevano numerosi altri edifici costruiti nel corso dei secoli. Queste «piccole città di Dio» divennero importanti centri della vita religiosa della popolazione locale, capaci di attrarre anche pellegrini da luoghi lontani. I simboli religiosi dell’arte islamica, non sempre interpretati correttamente, comprendono la mezzaluna, a volte usata in associazione a una stella per indicare l’islam; il colore verde, che può indicare la santità o la discendenza dal profeta; stendardi, bandiere e globi, spesso iscritti con motti religiosi; il velo bianco, associato in particolare a Maometto; le aureole, sia circolari, secondo il modello europeo, che fiammate, come nell’arte buddhista; i vari tipi di turbante (ad esempio quelli dotati di una bacchetta rossa a indicare la fedeltà ai Safavidi); una serie di immagini connesse alla luce – cupole traforate, rosette, lampade, marmo bianco, iscrizioni con aste a raggio, disegni con raggi, ecc. – che giocano sull’associazione tra Dio e la luce (Corano xxiv, 35). La titolatura regale, incentrata su termini quali «luce», «stella», «sole», «luna» e «lucerna», attinge a un immaginario analogo. A partire dal xiii secolo si affermarono esplicite rappresentazioni di esseri sovrannaturali, quasi esclusivamente nella miniatura. Gli angeli appaiono nei manoscritti cosmologici, nei testi che trattano della vita del profeta e in singoli fogli d’album intesi come una prova di abilità disegnativa. Non si percepisce una netta differenza tra i jinn che servono Sulayman nei frontespizi dei manoscritti e i div contro cui combattono gli eroi dello Shahnama (Libro dei Re) di Firdawsi o i demoni che tormentano i dannati all’inferno nel Mi‘rajnama. In quest’ultimo testo appare anche Buraq, il favoloso destriero dalla testa umana del profeta e questo tema era largamente usato anche per illustrare lo Haft Paykar di Nizami.
La rappresentazione della regalità
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Buona parte della migliore arte islamica fu realizzata per committenza regale e i temi connessi alla regalità sono dunque di fondamentale importanza. Come nel caso dell’arte religiosa, l’architettura svolgeva un ruolo di primo piano. I palazzi erano la principale manifestazione del lusso reale e trasmettevano questa idea in molte forme – città intere, enormi complessi, strutture abitative medievali più o meno organizzate; tenute di campagna costruite intorno a un’unica residenza reale; casini di caccia; padiglioni e persino lussuose tende. Nemmeno il tema del potere vero e proprio era trascurato. Nella maggior parte delle città islamiche la cittadella, spesso al centro della città, ospitava la residenza del governatore, il tesoro e un presidio militare. Porte e portali comunicavano lo stesso messaggio attraverso i simboli reali (leoni, aquile, draghi) e le iscrizioni. La moschea congregazionale aveva un significativo ruolo politico, poiché il califfo, o il suo accreditato rappresentante, guidava il popolo nella preghiera e il sermone che lui (o il suo rappresentante) teneva dal minbar, il pulpito a forma di trono, era anche una dichiarazione di fedeltà politica. Le forme architettoniche utilizzate vantavano già una lunga storia politica in altre culture: il mihrab poteva essere connesso alla nicchia o all’abside in cui sedevano l’imperatore o il vescovo, il minbar è un tipo di trono, la maqsura o recinto reale richiama il kathisma bizantino e la cupola e la navata assiale avevano associazioni onorifiche già secoli prima dell’avvento dell’islam. Con il tempo anche il minareto divenne un simbolo di potere. Così la moschea nel suo complesso incarnava la teoria dottrinale secondo la quale l’autorità religiosa e quella secolare erano una cosa sola. Anche i mausolei servivano alla celebrazione del potere secolare, benché nei territori occidentali dell’islam ciò avvenisse in misura minore. A volte un’intonazione religiosa veniva data dalla titolatura delle iscrizioni, che spesso celebravano la pietà dell’intestatario; dall’ubicazione, presso la tomba di un santo; o dall’aggiunta di un mihrab. Seb-
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bene però siano noti grandi mausolei dedicati a personaggi legati alla religione, capolavori di questo genere di solito venivano eretti per i principi. Le tende, nonostante la loro precarietà, manifestavano il lusso della corte attraverso le dimensioni e lo sfarzo dei tessuti. Alcune potevano accogliere fino a 3.000 persone e la loro erezione richiedeva un mese; non c’era niente di improvvisato nella loro struttura, che traeva ispirazione dall’architettura, dalle moschee ai castelli. Il contributo islamico più originale fu il cosiddetto ciclo del principe, una serie di scene tra loro connesse che raffigurano i piaceri e le cerimonie della corte: la musica di arpa, tamburello, flauto, tromba, tamburo e liuto; danzatrici; scene di lotta, combattimento con
bastoni, giostre e lotte tra gladiatori e animali; caccia con cani e falchi, compreso il recupero della selvaggina; simposi e banchetti; scene di omaggi e udienze; giochi da tavolo; cavalcate su elefanti – la varietà delle scene è davvero stupefacente. Spesso vengono rappresentati anche coppieri, stallieri e servitori, ciambellani e vari altri ufficiali, ciascuno con i propri attributi. Non sono rare neppure le scene di vita campestre e di attività agricole, come vendemmiare o zappare. Il ciclo è flessibile: può essere allungato o ridotto e probabilmente deriva in parte da fonti bizantine e sasanidi. È spesso attestato nella decorazione di oggetti mobili, come quelli in metallo (ad esempio il secchiello Bobrinski, realizzato a Herat nel 1163) o in avorio (come i cofanetti e le pis-
8. Arcate del portico nord fondato probabilmente prima del 1065 e ancora in costruzione nel 1100. Palacio de la Alfajería, Saragozza.
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sidi di Cordova), ma anche nelle sculture su pietra (ad esempio la Pila di Xàtiva) o sulle decorazioni parietali – a volte attestate anche in territorio cristiano, chiara indicazione del fatto che il gusto per questo tipo di temi era internazionale (ad esempio in Sicilia, nella cattedrale di Cefalù e nella Cappella Palatina a Palermo, e in Armenia, nella chiesa della Santa Croce di Aght’amar). Di solito, le immagini del ciclo sono disposte l’una accanto all’altra su una sola banda o in tondi, per rinforzarne e intensificarne l’effetto. Queste immagini, oltre a offrire una semplice rappresentazione della vita di corte, potrebbero aver avuto la finalità di evocare visivamente i cospicui consumi che ci si aspettava dai reali. Questo ciclo può anche essere messo in relazione con le iscrizioni di benedizione che spesso lo accompagnano. L’uno e le altre comunicano lo stesso messaggio, rispettivamente in forma figurata e con parole: questa è la Vita Beata, e i riferimenti delle iscrizioni alla felicità perpetua, alla sicurezza permanente e a concetti analoghi rimandano all’aldilà, quando la Vita Beata continuerà in paradiso per tutta l’eternità. Immagini del sovrano in gloria erano comuni nell’arte islamica come in quella occidentale medievale e in quella bizantina e derivavano dalle medesime fonti. La scena preferita era quella dell’intronizzazione solenne, che ricorre dall’epoca omayyade in poi nella scultura tridimensionale, nelle medaglie e negli affreschi, ma soprattutto sui frontespizi dei manoscritti a partire dal xiii secolo. Spesso il re è ritratto circondato dai suoi cortigiani, emiri e guardie. Ad eccezione di poche immagini del tutto simboliche, i ritratti veri e propri sono relativamente tardi; iniziano nel 1420 circa con Baysunghur e proseguono con i governanti delle superpotenze ottomana, safavide e moghul. La modalità consueta per fare riferimento a un sovrano era quella epigrafica. Le monete sono un laboratorio perfetto per ricostruire una simile evoluzione: il nome del re si sposta dal bordo al campo centrale, aumentando gradualmente la titolatura. Le sete e altri materiali realizzati nei laboratori reali effigiano il nome e i titoli del sovrano su
vestiti, copricapi, bracciali e tendaggi. Così le iscrizioni, la cui lunghezza e il cui contenuto erano determinati da una rigida gerarchia, divennero una sorta di livrea. Gli artisti erano abilissimi nell’integrare la titolatura reale con la forma e lo stile degli oggetti in metallo e in vetro, in particolare durante il patronato dei Mamelucchi. Iscrizioni di lettere fitte, le cui punte formano un’irta falange, corrono su piatti e coppe, proclamando la titolatura di emiri e re e occupando la maggior parte della superficie. Gli emblemi fanno da contrappunto all’epigrafe e identificano il proprietario attraverso la sua carica più che il suo nome. Anche in architettura fasce e pannelli iscritti, spesso attentamente proporzionati e posizionati per ottenere la massima leggibilità, identificano il committente, il cui nome è generalmente accompagnato da una lista di titoli. Nelle iscrizioni su piastrelle in ceramica il nome del sovrano spicca sul resto per i diversi colori utilizzati – ambra (a ricordare l’oro, il colore regale), blu o verde scuro. Oltre alla proprietà dell’edificio, forse il tema più comune espresso da queste iscrizioni reali è quello della vittoria, anche se l’idea di erigere un monumento solo per commemorare una vittoria era estranea alla sensibilità islamica. Così i monumenti per la vittoria, spesso identificabili non solo per le circostanze storiche, ma anche per la presenza nelle iscrizioni della sura della Vittoria (xLviii) dal Corano, potevano trovarsi vicino a moschee, minareti o altri monumenti commemorativi. Un’allusione meno esplicita alla vittoria poteva essere trasmessa dall’impiego del bottino, di solito sottratto agli edifici religiosi di altre fedi – cristiana, egizia, hindu o giainista. A volte questi oggetti erano posti sulla soglia, in modo da essere sottoposti a una simbolica umiliazione. Le battaglie erano un tema molto usato per la decorazione parietale dei palazzi reali. Sono rimasti pochissimi esempi (soprattutto persiani, di epoca safavide e qajar), ma queste raffigurazioni sono comunissime nell’illustrazione dei libri. Il tema della vittoria è anche espresso nella rappresentazione della sottomissione o della conquista simbolica di un nemico ri-
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tratto in forma di animale o di motto epigrafico. Iscrizioni protettive o allusive alla vittoria decoravano armature, insegne e stendardi. I simboli utilizzati nell’iconografia reale islamica, a differenza degli equivalenti occidentali, devono ancora essere studiati nel loro complesso. Sono raffigurati diversi tipi di corona, di trono, di parasole, di arco onorifico e di baldacchino. I sovrani seduti sono spesso ritratti con una coppa in mano, che può essere connessa o con la coppa magica di Jamshid della tradizione persiana o con una complicata serie di cerimonie diffuse tra i Turchi (in turco, and). I governanti spesso hanno in mano un ramoscello di fronde, il cui significato è oscuro. Alcuni elementi del costume reale avevano finalità simboliche e pratiche a un tempo e alcuni motivi ornamentali sui tessuti rappresentavano simboli personali o dinastici, mentre altri erano importati da culture straniere. Il simbolismo dei colori nell’abbigliamento reale deve ancora essere studiato. Un elaborato sistema di emblemi venne sviluppato con i Mamelucchi: il repertorio di emblemi nei cartigli comprendeva simboli semplificati (quali fazzoletto, coppa, spada, bastone da polo) che identificavano la carica del committente. Questi emblemi, utilizzati in architettura, nella lavorazione del legno, del metallo, della ceramica e del vetro, sulle monete e sugli abiti, sono perfettamente evocativi della rigida gerarchia della casta militare mamelucca. Infine, la vita reale viene trasfigurata e resa come modello nel mondo del mito. Nello Shahnama, la chiamata dei monarchi risale alle origini del tempo e continua fino all’avvento dell’islam, cosicché il mito lascia impercettibilmente spazio alla storia. Ma mito e storia sono ugualmente interpretati attraverso il filtro del sentimento nazionale e la versione della monarchia iranica fornita da Firdawsi è divenuta parte della cultura di ogni iraniano. Alcuni re dell’Iran, che sono stati in realtà personaggi storici, quali Alessandro Magno, Ardashir, Bahram v, Cosroe i e ii, il sultano Mahmud di Ghazna, il sultano Malikshah e il sultano Sanjar, hanno assunto nella letteratura iraniana caratteri mitici. I temi reali
tratti da Firdawsi e Nizami, lungi dall’essere confinati alla miniatura, si sono introdotti in altre espressioni artistiche, in particolare la ceramica e le piastrelle, ma anche i tappeti, gli stucchi, oggetti in lacca e in metallo. Inoltre la popolarità di Firdawsi e Nizami si diffuse fino alla Turchia ottomana e all’India. Il poeta indiano Amir Khusraw Dihlavi (1253-1325) riprese i temi di Nizami, mentre circolavano anche versioni arabe e imitazioni ottomane dello Shahnama.
9. Cupola della campata che precede il mihrab della Grande Moschea, 965. Córdoba.
Motivi profani I motivi profani hanno un ruolo importante nell’arte islamica, in quella popolare e nella scienza, in letteratura e nella vita quotidiana. Immagini di genere, benché sottovalutate, sono attestate ovunque e comprendono occupazioni quali l’edilizia, la lavorazione dei metalli, l’artigianato e i lavori legati ai mesi (un tema comune sugli oggetti in metallo) e, soprattutto, i lavori agricoli (una decorazione sussidiaria in moltissime pitture persiane di epoca tarda). Il tema dell’intrattenimento popolare ricorre in diverse forme. La ceramica lucida egiziana di epoca fatimide, ad esempio, raffigura scene di uomini che combattono con bastoni, scene di pugilato e – questa volta con sottintesi omosessuali – combattimento di galli. Raffigurazioni di danze con maschere zoomorfe ricorrono sporadicamente nell’arte islamica, dalle decorazioni parietali sui casini di caccia omayyadi alle rappresentazioni delle processioni delle corporazioni ottomane. Queste processioni, a giudicare dalle contemporanee illustrazioni di libri, prevedevano diversi tipi di spettacoli pubblici, tra cui bande, acrobati e saltimbanchi, trampolieri e nani. Il pittore ottomano Levni era specializzato in questi temi, strettamente connessi alla celebrazione di importanti festività, come la nascita del profeta o la fine del Ramadan. Questi soggetti costituiscono un genere a parte nella pittura ottomana, mentre sotto i Moghul il repertorio si estese a comprendere anche festività e spettacoli hindu. Altre feste
Pagine seguenti: 10. Patio de los leones, probabilmente concluso nel 1380. Alhambra, Granada.
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non musulmane venivano rappresentate a causa della loro stranezza, come nelle illustrazioni dell’Athar al-baqiya (Cronologia delle nazioni antiche; 1307-1308) di al-Biruni che tratta dei costumi «esotici» di zoroastriani, Indiani e Babilonesi. Un tema molto più comune era la raffigurazione delle più banali attività della vita quotidiana. Questi argomenti conobbero una diffusa popolarità nell’arte islamica a partire dal xii secolo, dall’Iraq alla Spagna, dove la Pila di Xàtiva è decorata con scene di vita rustica e il romanzo illustrato di Bayad e Riyad brulica di amanti svenevoli, governanti intriganti e salotti letterari dominati da imperiose preziose. Una corrente profana si distingue anche nelle illustrazioni librarie islamiche più antiche: contadini in perizoma lavorano nei campi, assistenti mescolano pozioni nelle botteghe degli speziali, studiosi discutono tra loro, o tengono lezioni per gli studenti. Brulicanti scene di vita umile abbondano nelle illustrazioni dei numerosi manoscritti delle Maqamat (Riunioni) di al-Hariri prodotti nel xiii secolo in Iraq e Siria. Gli odori e lo squallore, il pullulare e il rumore della vita cittadina contemporanea sono ritratti in queste pagine con non comune realismo. Il chiasso della taverna e del mercato degli schiavi, il rituale solenne della moschea e del tribunale, le fanfare e le celebrazioni di gala che annunciano le parate militari o la partenza di una carovana di pellegrini per la Mecca, tutto è raffigurato con estrema sobrietà, gusto e efficacia. Un panorama completo della vita degli Arabi del xiii secolo si apre sotto i nostri occhi. E poi, improvvisamente come si era manifestato, questo mondo svanisce per sempre, per ragioni che non possono essere comprese del tutto. La fine della pittura araba segue immediatamente, con solo una episodica ripresa nel secolo successivo. La precisa natura della committenza che portò alla realizzazione di questi manoscritti miniati resta nel campo delle ipotesi, ma la relativa rarità di committenti reali o di alto rango è cosa certa. Da questo momento in poi, l’illustrazione si adeguò fondamentalmente a un gusto aristocratico e la scelta dei testi cadde sul genere
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epico o lirico, ad eccezione dell’enigmatico corpus di dipinti attribuito a un artista noto con lo pseudonimo di Siyah Qalam («Penna Nera», un’espressione che indicava lo stilo e il disegno a inchiostro, spesso di stile cinese). Questi fogli singoli, molti dei quali di grande formato, non hanno mai fatto parte di un testo scritto e per questo vanno considerati a sé stanti rispetto a quasi tutto il resto della pittura presafavide. Raffigurano la laboriosa routine della vita dei nomadi: badare agli animali, accollarsi pesanti carichi, piantare l’accampamento, lavorare faticosamente senza porsi domande. Nessun corpus di scene di genere in tutta l’arte islamica può essere paragonato a questo per gravitas e intensità emotiva. Un realismo più attenuato caratterizza la scuola di Bihzad (tardo xv secolo), che pone l’accento sul quadro d’insieme più che sull’individuo. Le raffigurazioni formali della vita di corte sono intervallate da vivaci vignette di tagliatori di legna e venditori di meloni, mandriani, aratori e pescatori, e talora da intere mises-en-scène tratte dalla vita quotidiana: un accampamento di nomadi, una scuola, un caotico cantiere, un hammam affollato. Tale esaltazione della gente comune è sottilmente rivoluzionaria, ma la crescente enfasi sull’abilità tecnica sembra consentire all’artista non più che un contatto superficiale con l’apparenza delle cose. Una natura metodicizzata sembra essere stata la parola d’ordine per questi pittori persiani dell’età tarda, che giocavano con il realismo, come Muhammadi con i suoi paesaggi pastello e picnic all’aperto o Riza, i cui schizzi di scene di vita umile e loschi paggi, realizzati con un vivido tratto calligrafico, conquistarono il gusto safavide, e Mu’in, che realizzò alcuni notevoli ritratti. I motivi profani nell’illustrazione dei libri coprivano i più vari soggetti: avventura, viaggi per mare, cacce, bevute, battaglie, banchetti, scene di lotta e altri sport, ma soprattutto romanzo. Nel libro di favole di animali noto come Kalila e Dimna, i racconti celavano dietro un’apparente leggerezza insegnamenti politici e saggezza mondana,
condita da prediche morali. Le versioni illustrate di questo testo erano diffuse nel xiii e xiv secolo in Siria, Iraq, Egitto e Iran. Gli artisti avevano piena libertà nel ritrarre gli animali, che realizzavano in stile vivace, sebbene stereotipato, spesso fuori dal loro habitat e in atteggiamenti antropomorfi (ad esempio, il re degli uccelli indossa una corona). Nelle opere scientifiche, le illustrazioni dovevano illustrare e spiegare testi importanti, che trattavano di astronomia, tecniche e manovre militari, automi e soprattutto
11. Decorazione del mihrab, particolare. Fine del xiii secolo. Grande Moschea di Sidi ben Hassan, Tremecén, Algeria.
A fronte: 12. Due pavoni reali affrontati, con iscrizione in caratteri cufici. Seta, xii secolo. Victoria and Albert Museum, Londra.
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Pagine seguenti: 13. Brocca per l’acqua, realizzata per il califfo fatimide Al-aziz bi-llah. Cristallo di rocca (su montatura posteriore), 975-976 ca. Tesoro di San Marco, Venezia.
14. «Bote de Zamora», da Madinat al-Zahra. Avorio e argento, 964. Museo Arqueológico Nacional, Madrid.
farmacologia. Le piante raffigurate sono stilizzate, ma è evidente la loro natura ornamentale e il puro intrattenimento prende il sopravvento sulla scienza. Anche i libri sugli animali aggiungevano molto materiale islamico a un sostrato classico; il loro interesse era farmacologico quanto zoologico. La geografia e le meraviglie della creazione catturarono l’immaginazione dei pittori musulmani, i quali dipingendo angeli e jinn, animali e piante esotici e persino favolose e strane creature di sembianze umane credevano di varcare orizzonti lontani.
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Motivi vegetali tratti da varie fonti furono portati dall’arte islamica a una nuova, splendida intensità e raffinatezza. Il mondo classico, ad esempio, fornì l’acanto e il tralcio abitato, e rese familiare al mondo islamico l’intaglio ajouré, da cui ebbe origine tutta la tradizione della mashrabiyya, e il capitello corinzio, che offrì il punto di partenza per una serie di variazioni che resero irriconoscibile il modello classico. L’Iran e la Mesopotamia sasanidi offrirono la palmetta e la palmetta alata, la rosetta e, soprattutto, il concetto della ripetizione dei motivi attraverso cui le forme vegetali assunsero un andamento geometrico. L’uso dello stucco, la cui naturale duttilità permetteva di assecondare ogni stravaganza della decorazione, incoraggiò lo sviluppo di questo genere di disegni. Tale tendenza raggiunse il suo apice a Samarra, la capitale abbaside, dove motivi vegetali a stampo policromi in tutte le gamme, dal naturalismo all’astrazione, erano utilizzati come decorazione parietale. La principale innovazione introdotta dall’arte islamica nel campo della decorazione vegetale fu l’invenzione dell’arabesco, che rivela nel nome stesso la propria origine. Una caratteristica essenziale di questa decorazione vegetale stilizzata è la sua proteiforme variabilità, che gli permette di adattarsi a qualunque contesto – strettamente avvolta o leggermente ondulata, ridotta a poche foglie o carica di frutti e germogli, enorme o minuscola, sullo sfondo o in primo piano. I motivi cinesi, già presenti nell’arte islamica almeno a partire dal primo periodo abbaside, si svilupparono enormemente in seguito alle invasioni mongole del xiii secolo. Questi motivi comprendevano la peonia, il loto e il crisantemo, e la combinazione di questi fiori esotici modificò notevolmente i motivi floreali tradizionali. Sebbene sempre più stilizzati, questi fiori potrebbero aver acceso un certo interesse per la natura, favorendone un’osservazione più attenta ed entro la fine del xv secolo fiori resi accuratamente e distinguibili dal punto di vista botanico erano entrati a far parte del repertorio dell’arte islamica: tra di
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essi, il dianto, il giacinto, il garofano e soprattutto il tulipano. Sotto il dominio ottomano si sviluppò lo stile saz, una decorazione che copriva l’intera superficie e si ispirava alla forma di queste piante, mentre la «febbre dei tulipani» raggiunse tali livelli nella capitale all’inizio del xviii secolo che quel periodo rimase noto con il nome di lale devri (età del tulipano). I motivi vegetali sono utilizzati nel modo più vario. Possono costituire uno sfondo discreto per una decorazione più importante, come un’iscrizione, oppure possono assumere una pari dignità, come nel caso dell’intreccio vegetale che riempie i motivi poligonali negli intagli lignei. In entrambi i casi, gli artisti giocano sul contrasto tra la decorazione vegetale e altri tipi di decorazione. I motivi vegetali si prestano anche a fare da cornice, separando un campo di decorazione dall’altro. La logica interna di un tralcio vegetale, con l’aiuto della gamma cromatica, la rende ideale nel caso di composizioni a palinsesto, in cui disegni successivi sono sovrapposti, senza perdere coerenza. La pervasività della decorazione vegetale nell’arte islamica è mostrata dalla trasformazione dell’architettura in un’entità organica. Il processo iniziò con le grate delle finestre di età omayyade, continuò con gli archi a lambrecchini dell’architettura islamica occidentale e culminò nei pannelli del palazzo Aljaferia (xi secolo) di Saragozza, dove colonne, capitelli e archi si dissolvono in una giungla di vegetazione. Anche gli archi ciechi si prestavano a una decorazione di carattere vegetale, così come i mihrab e gli archi, in cui l’articolazione architettonica spesso è celata dalla lussureggiante decorazione. Le dimensioni, la tipologia e la collocazione dei motivi vegetali possono variare da un contesto all’altro. Essi possono riempire del tutto un’enorme finestra, coprire il plinto o la cupola; possono trovarsi nelle pagine a tappeto di un manoscritto o sui frontespizi. Insieme ai motivi geometrici, rappresentano il principale repertorio della decorazione dei tappeti e sono prevalenti anche negli avori, nella ceramica e nella metallurgia. Con un grado sempre maggiore di astrazione, i motivi vegetali divennero sempre più
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fantasiosi e la fedeltà botanica cominciò a esser trascurata. La geometria prevale e le volute vegetali vengono disciplinate in ripetizioni regolari e persino in cerchi concentrici. La calligrafia assume forme organiche, cosicché alle estremità delle lettere spuntano foglie e persino germogli, come nella scrittura cufica, prima fogliata e poi fiorita. Allo stesso modo, anche figure di uomini, animali e uccelli tendono ad assumere un carattere vegetale. Del resto solo la fantasia più sfrenata può rendere i grandi e straordinari alberi del paradiso. Tale connotazione paradisiaca si può cogliere spesso nella decorazione vegetale islamica, ad esempio nei mihrab o nei tappeti da preghiera, ma raramente è espressa in modo esplicito. Forse gli artisti usavano i motivi vegetali per suggerire, in generale, la ricchezza della creazione divina. La celebrazione della fertilità risultava infatti naturale per persone vissute in un duro ambiente desertico; in effetti l’immagine di un’oasi è evocata nei cortili delle moschee, per mezzo di alberi, di una vasca, o di una fontana. Un motivo piuttosto comune su mosaici, stoffe di seta, architettura e avori è un albero enorme, fiancheggiato da animali. Il contesto di alcuni di questi esempi rimanda all’antichissimo tema dell’Albero della Vita.
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Geometria Come i motivi vegetali, così la geometria pervade a tutti i livelli l’arte islamica. La sua importanza nell’arte deve molto all’attrazione che gli Arabi sentivano per la matematica, vista attraverso gli strumenti e i mezzi scientifici – globi celesti, astrolabi, automi – e i testi che trattavano di essi o delle minuzie della costruzione architettonica di Abu al-Wafa al-Buzajani (940-98) e al-Kashani. I numerosi termini arabi, scientifici e matematici, passati nelle lingue occidentali (zenith, nadir, algoritmo, algebra), insieme ai numeri «arabi» e al concetto stesso di zero, ne sono un’ulteriore testimonianza. Ma la traduzione di questi concetti in pratica è un interesse primario delle scienze visive. La costruzione degli edifici islamici era realizzata per mezzo della quadra-
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tura del cerchio, l’equivalente pratico di calcoli che avrebbero dovuto esprimere la radice quadrata di due; le misure si ottenevano per mezzo di corde e pioli. Un sistema di quadrati ruotati è alla base di alcuni dei più complessi motivi architettonici islamici, ad esempio le volte a muqarnas. Molta conoscenza pratica veniva trasmessa oralmente da maestro a apprendista, ma tracciati grafici semplificati servivano come promemoria per coloro che avevano le competenze per decodificarli. Esempi che richiedevano un’interpretazione di questo genere sono i rotoli che contengono soltanto una piccola parte dell’intera pianta, le griglie che sembra servirono come impalcatura per gli enormi edifici religiosi eretti dagli shaybanidi nell’Asia Centrale occidentale, o la pianta incisa di una volta a muqarnas trovata a Takht-i Sulayman. Una griglia di triangoli equilateri è alla base non solo delle grate delle finestre e dei mosaici pavimentali del periodo omayyade, ma anche delle moschee e delle madrase delle epoche successive, e l’importanza della diagonale come chiave di misura generativa è stata dimostrata per i palazzi omayyadi e per la pittura persiana. Le relazioni proporzionali aiutano a spiegare l’innata armonia e simmetria di molti edifici islamici e l’uso di elementi modulari quali ar-
chi e finestre ha lo stesso effetto. La predilezione islamica per la decorazione non esclude un gusto per le strutture costruite attraverso gli elementi base della geometria solida: cubi, cupole emisferiche, minareti cilindrici e tetti conici. Le superfici spoglie aumentano l’impatto di queste forme semplici. La geometria trova la sua principale applicazione sulle superfici decorate che caratterizzano gran parte dell’arte islamica. I motivi decorativi possono essere finiti, come su plinti, porte, legature e tappeti, o infiniti, come nelle decorazioni usate per i bordi, o negli spazi curvi delle cupole e di molti oggetti in metallo. Ma non ci sono divisioni nette che distinguano i modi in cui le due categorie operano, o i loro contesti. Spesso la cornice riecheggia la natura del motivo racchiuso in essa, cosicché pannelli quadrati incorniciano iscrizioni in scrittura cufica squadrata e stelle racchiudono disegni di stelle. La decorazione geometrica, come quella vegetale, si presta a composizioni a palinsesto, in particolare nei tappeti, ma anche negli schemi per mosaici di piastrelle, come quelli a poligoni in rilievo. La nomenclatura utilizzata per i motivi geometrici, nell’Iraq medievale come nell’Iran e nel Marocco di età moderna, rivela che i motivi non venivano percepiti in termini di linee, ma
15. «Pila di Xàtiva». Marmo, xi secolo. Museo de l’Almodí, Xàtiva, Valencia
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16. Muhammad ibn al-Zain, cosiddetto «Battistero di san Luigi». Metallo, oro e argento, 1320-1340 ca. Museo del Louvre, Parigi.
come solidi. Un ovale, ad esempio, era chiamato mandorla. L’artista aveva così a disposizione un repertorio di forme, ciascuna con il proprio nome, a cui attingere per creare i propri motivi. La geometria trova infinite espressioni all’interno dell’arte islamica. Una determinata forma, ad esempio, può subire successivi cambiamenti di colore all’interno di un motivo, cosicché la stessa linea assume una doppia o tripla funzione semplicemente riapparendo in un colore diverso. La geometria può controllare l’apparente esuberanza organica della decorazione vegetale, come nel caso di tralci vegetali concentrici particolarmente intricati. Nel caso della calligrafia, un preciso gruppo di regole basate su una forma modulare a diamante creata da una penna passata su una superficie determinava l’aspetto di ciascuna lettera. Così la geometria controlla, a livello fondamentale, l’arte della calligrafia, sebbene in questo caso, come in molti altri nell’ambito dell’arte islamica, l’uso della geometria non sia evidente. Un senso istintivo per la geometria può spiegare alcune caratteristiche
ricorrenti, quali l’equilibrio (la predilezione per la simmetria speculare e per le gerarchie), la rotazione e la ripetizione. La ripetizione è particolarmente efficace in una cornice geometrica, che può controllare e modulare la monotonia, l’infinitezza, il ritmo, il mistero e l’unità – solo per menzionare alcune delle associazioni che suggerisce. La ripetizione di colonne e porticati nelle moschee ipostile, o di cupole e volte può creare effetti di crescendo e di diminuendo, suggerire unità nella diversità oppure definire un punto di fuga. Le fonti letterarie islamiche medievali non trattano del significato della geometria nelle arti visive, ma ciò non ha scoraggiato le speculazioni moderne sull’argomento. I musulmani talora attribuivano un significato simbolico ai numeri, come è attestato dai vari sistemi di abjad, in cui a ogni lettera dell’alfabeto veniva associato uno specifico valore numerico. E la geometria era usata per definire il concetto di Uomo Perfetto negli scritti, del x secolo, prodotti dal gruppo noto come Ikhwan al-safa (Fratelli della Purezza). Questa interessante testimonianza tuttavia non basta a spiegare
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il ruolo dominante della geometria nell’arte islamica. Alcune espressioni potrebbero essere intese come meditazioni sulla natura – fiori, stelle, cristalli, fiocchi di neve, conchiglie, ragnatele – e questa spiegazione si addice in particolare a certe volte a muqarnas, come ad alcuni tappeti o frontespizi del Corano. Più in generale, l’onnipresenza dei motivi geometrici suggerisce che essi esprimono l’unità (arabo tawhid) che è il primo attributo di Dio. Anche nel pensiero cristiano la geometria era considerata un’espressione archetipica del pensiero divino, ma non si può affermare con certezza che un artista musulmano si ispirasse a concezioni di questo tipo nel creare una composizione geometrica. Scrittura
17. Frontespizio delle Maqamat (Riunioni) di al-Hariri, fol. 1r. Miniatura, 1334. Österreichische Nationalbibliotek, Vienna.
I numerosi riferimenti alla scrittura contenuti nel Corano contribuirono alla grande considerazione di cui la calligrafia godette, fin dai tempi più antichi, in ambiente islamico e l’usanza di fare copie del Corano rafforzò il prestigio dell’arte della scrittura in tutto il mondo musulmano. Molte migliaia di manoscritti del testo sacro, la maggior parte dei quali oggi incompleta, mostrano che il Corano veniva copiato molto di più di quanto non lo fosse la Bibbia nell’Occidente cristiano, anche se i motivi di questo fenomeno non sono stati ancora del tutto chiariti. Il prestigio degli scritti coranici era accresciuto dalla dimensione morale della calligrafia, in quanto una bella scrittura era considerata un’espressione di virtù e i calligrafi che copiavano il Corano facevano attenzione a trovarsi in uno stato di purezza rituale prima di iniziare la loro opera. L’islam è una religione della Parola e, praticamente fin dalle sue origini, la scrittura è stata uno dei suoi principali motivi artistici. In effetti l’innata dimensione religiosa conferiva alla scrittura uno status che forse non ha paralleli in altre culture. Le monete trasmettevano messaggi religiosi – la basmala (invocazione), la shahada (professione di fede) e citazioni dal Corano. La maggior parte delle iscrizioni nel mondo islamico era in
arabo, anche quando non era la lingua locale: il fatto che il Corano fosse in arabo garantì a questa lingua un primato indiscusso per i musulmani. Le più lunghe iscrizioni architettoniche sono tratte dal Corano; in tal modo l’edificio stesso funge da libro sacro dell’islam e alcuni edifici moderni nella penisola araba sono persino costruiti a forma di libro. Analogamente, i minareti si prestavano a portare la professione di fede iscritta alla loro sommità. Le cupole delle moschee erano spesso iscritte all’interno con i 99 Bei Nomi di Dio, ciascuno in un cartiglio diverso e in orbita come stelle nel firmamento. Nei circoli mistici ad alcune lettere dell’alfabeto veniva attribuito un significato specifico, in particolare la waw (associata con il concetto di tawhid) e la legatura lam-alif, che simboleggiava la relazione tra l’anima e l’Amato. I nomi di Dio, di Maometto e di ’Ali, a stento leggibili a causa dell’estrema astrazione della scrittura «cufica quadrata», erano spesso usati per rivestire edifici interi. Le iscrizioni cufiche venivano usate per santificare oggetti di uso quotidiano, spesso per mezzo della parola baraka (benedizione), ma anche attraverso associazioni della calligrafia con il Corano e con le iscrizioni coraniche, associazioni che conferivano loro un’aria solenne. L’aspetto delle iscrizioni aveva molta importanza in una società che era ancora in larga misura analfabeta. Di conseguenza, l’effetto della calligrafia e dell’epigrafia era soprattutto simbolico. Le iscrizioni risultavano spesso illeggibili a causa della complessità della scrittura o della loro posizione elevata. La scrittura poteva essere usata per connotare la fede, come nel caso dei minareti coperti di iscrizioni o di edifici convertiti a uso islamico. Le formule stereotipe su molti oggetti medievali in metallo avevano una funzione simbolica a largo raggio, contemporaneamente di protezione e benedizione, e venivano probabilmente intese nel loro senso generale, anche da chi non era in grado di decifrarle parola per parola. Altri tipi di epigrafe, come le iscrizioni a lettere fittissime tanto diffuse nell’arte mamelucca, oppure le numerose varianti della tughra ottomana, avevano una connotazione esplicitamente regale.
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I colori speciali utilizzati per i nomi reali nelle iscrizioni monumentali avevano un effetto simbolico. L’alfabeto assumeva un significato particolare quando l’abjad era utilizzato in cronogrammi poetici o in lucchetti a combinazione. Una grande importanza era attribuita anche ai dipinti calligrafici, in cui le lettere erano accostate a comporre forme di animali, uccelli, moschee, mihrab, barche, facce e figure. A volte le lettere che formano il disegno esprimono un gioco di parole che riguarda la figura rappresentata – ad esempio, la parola haydar (leone, uno dei nomi di ’Ali) scritta in forma di leone. Immagini a specchio, che comprendono necessariamente delle scritte realizzate al contrario, sono un altro genere molto diffuso. L’intero genere ha una natura enigmatica, quasi perversa, che invita l’osservatore a scoprire i doppi sensi e i significati nascosti. Il testo è spesso di natura religiosa: preghiere, hadith o citazioni coraniche. La scrittura era ornata in molti modi. Forse il più comune, almeno per quanto riguarda la scrittura cufica, prevedeva che alla lettera venissero aggiunti elementi decorativi – foglie, fiori, aste intrecciate o a due punte, rosette e altri motivi. Altrettanto diffusi erano vari tipi di deformazione, per ottenere i quali il calligrafo alternava tratti spessi e tratti sottili, oppure allungava alcune lettere e affastellava insieme alcune altre. Nel xii e xiii secolo si diffuse per gli oggetti di metallo intarsiato la moda, di breve durata, delle iscrizioni animate, in cui dapprima l’estremità delle aste, poi le aste stesse e infine l’intera iscrizione erano composte da volti umani, figure umane e talora anche da animali. Presumibilmente il fatto che tali iscrizioni risultassero praticamente illeggibili faceva parte della loro attrattiva. Altri espedienti includevano la disposizione bustrofedica del testo, in cui righe alternate di testo venivano scritte immediatamente sopra la riga precedente, ma alla rovescia; il palinsesto, in cui tre diverse iscrizioni, ciascuna in un colore o in uno stile calligrafico, venivano sovrapposte l’una all’altra; iscrizioni che andavano a comporre un motivo geometrico più ampio, o un’altra iscrizione; il cufico quadrato, in cui le lettere venivano deformate in
modo da formare elementi squadrati; e esercizi di virtuosismo, alcuni di maestria incredibile. Interi capitoli del Corano venivano scritti su una foglia, o persino su un chicco di riso, oppure un intero Corano copiato in dimensioni tanto piccole da entrare in un guscio di noce. Molti manoscritti coranici presentano contrasti di scritture di diverso stile, colore o dimensione sulla stessa pagina. Una categoria a parte, spesso attestata negli oggetti in metallo e sui tappeti, è quella delle pseudoiscrizioni in cui le lettere sono accostate in parole o sequenze prive di significato. Strettamente connesso a essa è il «cufesco», in cui le lettere non solo non formano parole di senso compiuto, ma non hanno più nemmeno la forma delle lettere arabe, anche se il loro aspetto le ricorda. Il cufesco è tipico di contesti cristiani più che musulmani (ad esempio sulle porte della cattedrale di Le Puy, sulla struttura in mattoni esterna della chiesa monastica mediobizantina di Hosios Loukas, o sulle stoffe raffigurate nei dipinti di Gentile da Fabriano e di altri artisti italiani del tardo Medioevo). Tali «iscrizioni» erano apprezzate per il loro aspetto esotico e i contenuti erano spesso profani («Gloria al Nostro Signore il Sultano»). Molte fasce iscritte, monumentali o di piccolo formato, sviluppano un proprio ritmo attraverso l’appiattimento delle parti ascendenti o discendenti delle lettere, aggiungendo terminazioni sinuose ai caratteri e con il gioco della spaziatura. Lo studio di questi complessi elementi è appena agli inizi ed è curioso notare che i manuali di calligrafia scritti nel mondo musulmano dicono molto poco a proposito delle convenzioni da seguire per disegnare una pagina calligrafica o dei significati celati dietro tali convenzioni. Il mondo naturale La natura non assume, nell’arte islamica, l’importanza che ha nella pittura europea dopo il Medioevo o nella pittura cinese. Ha tuttavia un proprio ruolo significativo, più come elemento di ispirazione che come modello da copiare fedelmente. Gli animali e gli uccelli
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18. Storia di Bayad e Riyad, probabilmente da al-Andalus, fol. 23r. Miniatura, inizi del xiii secolo. Biblioteca Apostoclica Vaticana, Città del Vaticano.
erano i principali oggetti di interesse, come si vede nei più antichi tappeti, nonché nella ceramica e dalla decorazione a stucco. La popolarità della caccia come motivo decorativo assicurava che gli animali che ne erano protagonisti – cane, lepre, cervo, leone, ecc. – fossero rappresentati frequentemente. Gli animali e gli uccelli si prestavano anche a essere rappresentati sullo sfondo o come elementi decorativi secondari, nei margini dei libri miniati, o come riempitivo nelle cornici. Talora vengono raffigurati con scrupoloso naturalismo, come nelle copie illustrate del libro di favole di animali Kalila e Dimna (ad esempio Istanbul, Biblioteca Universitaria, f. 1422).
La fantasia si affermava più largamente del realismo. Gli intagli lignei egiziani e la ceramica di Samarra o di Nishapur si dilettavano con creature composte da elementi vegetali, antropomorfi ed epigrafici. Un radicato timore dell’idolatria può spiegare la bizzarra tendenza degli artigiani del metallo nell’evitare di raffigurare creature facilmente identificabili, anche quando creavano brocche o bruciaprofumi zoomorfi; il grifone di Pisa, composto da tre animali diversi e rivestito da pannelli e bande con decorazioni vegetali, geometriche e calligrafiche, costituisce un esempio di questo paradossale specchio della realtà. In forme ancora più lontane dal
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realismo, riecheggiamenti della figura umana sono rintracciabili nelle brocche mamelucche. Tralci desinenti in teste umane o animali decorano gli oggetti in metallo, le fodere e i tappeti. Ma il caso più strano è quello di alcuni disegni moghul e safavidi, immagini composte dall’accostamento di una miriade di vignette singole di esseri viventi, avviluppate nei modi di Arcimboldo, che si intrecciano e contrastano tra esse – la loro datazione suggerisce che si siano ispirate a modelli europei – o di paesaggi incantati, quasi psichedelici, che si mutano in creature umane o in altri esseri viventi. Un altro aspetto della fantasia è la prevalenza di creature fantastiche, quali aquile a due teste, leoni con una testa e molti corpi (diffusi dalla Sicilia alla Transoxiana, la loro origine viene rintracciata in Asia occidentale), il simurgh, cavalli alati, grifoni, sfingi e arpie. Creature esotiche di origine estremo-orientale – il drago, il qilin, l’unicorno e la fenice – appaiono nella ceramica islamica, sui tessuti e specialmente nell’illustrazione del libro a partire dall’invasione mongola. I draghi custodiscono anche i portali. Un’importanza maggiore viene attribuita alle creature reali, soprattutto al leone, all’aquila e al falco, e persino all’elefante. Tutti questi animali fanno parte del repertorio per la decorazione di stoffe costose e vengono spesso raffigurati in posa araldica in tondi, rampanti, che passano, che guardano, che si addossano o affrontano o stanno per attaccare animali più deboli. I leoni fungono da piedistallo per i governanti, custodiscono i troni e le balaustre e decorano i mausolei reali e i caravanserragli. I re, come Bahram Gur, sono spesso ritratti mentre combattono e sottomettono leoni. Le aquile servono da decorazione per avori, edifici reali e mura urbiche. Le parole «leone» (arabo asad, persiano shir, turco arslan) e «aquila» o «falco» (nasr, tughril) figurano come nomi o titoli reali. Gli elefanti sono raffigurati mentre portano i sovrani in processione o in battaglia, oppure come pezzi del gioco degli scacchi. Essi, come altre creature, hanno spesso un significato simbolico. Tra gli esempi si possono menzionare motivi comuni come l’apoteosi, lo strangolatore di
leoni e il pavone, o gli «uccelli del paradiso» che vegliano gli ingressi degli edifici sacri. La ricerca sta rivelando a poco a poco le associazioni simboliche di animali come il coniglio, il gatto, il cammello, il galletto e altri, specialmente in contesti letterari in cui essi rappresentano emozioni e stati d’animo (ad esempio nel Warqa va Gulshah, un manoscritto miniato persiano del 1250 circa). Il pesce è un motivo diffuso e spesso rappresenta il mare, specialmente nelle scene in cui il governante è rappresentato come cosmokrator, ma anche in contesti zodiacali o cosmologici. In modo analogo, il serpente rappresentava la terra. Il toro, a parte le sue ovvie valenze zodiacali, come anche il combattimento tra toro e leone, un antico tema iconografico reale del Vicino Oriente, aveva una valenza apotropaica e calendariale, connotava i banchetti sacri, i simposi e i sacrifici ed era anche un simbolo di forza in ambiente turco. Alcuni animali assunsero un’ulteriore importanza quando il calendario turco-mongolo degli animali, che aveva strette connessioni con quello cinese, entrò in uso accanto al calendario lunare islamico. Gli animali servivano spesso per finalità didattiche. La finalità pratica del Kitab albaytara, un trattato sull’arte del maniscalco, richiedeva che immagini di cavalli accompagnassero il testo. Il titolo stesso del Kitab al-hayawan (Libro degli animali; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ar. a. f. d. 140 Inf.) di al-Jahiz spiega il motivo per cui il testo è riccamente illustrato con immagini di animali – stereotipati, ma riconoscibili – spesso rese particolarmente vivaci da un dettaglio rivelatore, come nel caso dello struzzo che cova con attenzione le proprie uova. I libri arabi e persiani sull’utilità degli animali presentano illustrazioni che mostrano gli animali in contesti che riguardano la medicina e la farmacologia. Il trattato di al-Sufi sulle stelle fisse comprende la raffigurazione di animali, oltre che di esseri umani, sotto la costellazione corrispondente. Gli animali sono un tema centrale nella principale enciclopedia islamica medievale sul mondo naturale, lo ‘Aja’ib almakhluqat (Meraviglie della creazione) di al-
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19. Frontespizio del Corano, da Valencia, fol. 1r. Miniatura, 1182-1183. Ístanbul Universitesi Kütuphane, Istanbul. Pagine seguenti: 20. Piviale con iscrizioni arabe, particolare. Seta, fine del xiv secolo. Museo Catedralicio, Burgos. 21. Finestra della moschea del sultano Hassan, 1450 ca. Museo di Arte Islamica, Il Cairo.
Qazwini, che è noto in molti esemplari, alcuni con centinaia di illustrazioni. Il paesaggio è l’altro fondamentale tema dal mondo della natura. Si può trovare realizzato in molte tecniche, ma il suo massimo sviluppo si realizza nell’illustrazione dei libri, specialmente in Iran. Talora esso è il tema principale dell’illustrazione, ma più spesso funge da sfondo per l’azione in primo piano. Paesaggi di questo genere erano composti da un numero limitato di elementi, anche se poi possono avere un numero pressoché infinito di varianti di colore, tono, dimensioni, forma e composizione. Le rocce ne sono un esem-
pio significativo; in alcuni manoscritti sono realizzate con una esuberanza cromatica barocca, e sono una festa per gli occhi anche in se stesse, oltre a servire da sottile commento all’azione. Molte convenzioni, quali il modo di trattare il fuoco, il fumo, la polvere e le nuvole, derivano da modelli cinesi. La Cina offrì anche, forse attraverso mappe xilografiche, le regole per la rappresentazione dell’acqua, ferma o in movimento, di ciuffi d’erba, rocce, montagne, di una molteplicità di piani inclinati e di alberi. I pittori talora non capivano le sottigliezze di queste convenzioni e se ne servivano distrattamente o con non opportuna
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esuberanza. Il potenziale decorativo di questi simboli paesaggistici divenne sempre più accentuato e la loro capacità di suggerire uno spazio infinito venne compromessa dalla sostituzione delle linee sfumate con tratti precisi e dell’originale monocromia con colori vivaci. I pittori tendevano a usare il paesaggio non come portatore di significato in sé, né come corrispettivo oggettivo dei temi della poesia che lo accompagnava nell’ambiente cinese originario, ma semplicemente come uno splendido scenario per l’azione. Per un certo periodo, specialmente quando l’influenza dell’arte cinese era molto forte, il paesaggio ebbe una parte importante nella creazione dell’atmosfera, approfondendo e arricchendo il significato del dipinto. I pittori del tardo xiv secolo semplificarono, smorzarono e addomesticarono questi paesaggi espressionisti. Finché il testo persiano rimase iperbolico, il paesaggio fu il suo appropriato equivalente, ma il suo ruolo era diventato più limitato e meno profondo di quanto non fosse nella pittura cinese. Inoltre, non sembra fosse mai stato ispirato da un attento studio della natura; essa infatti era tipicamente appresa più che osservata. Magia Le immagini apotropaiche erano comuni. Le porte delle città e delle cittadelle hanno immagini di draghi, serpenti, leoni e altri animali terrificanti; i battenti delle porte presentano leoni o serpenti intrecciati; questi ultimi garantivano una doppia efficacia, poiché si riteneva comunemente che i nodi avessero doti magiche. Sulle porte venivano rappresentati serpenti e, più spesso, disegni a intreccio. I frontespizi e le pagine finali dei manoscritti presentano a volte immagini di carattere apotropaico; lo stesso vale per le composizioni che fungono da ex libris. Motivi a intreccio ricorrono spesso nella ceramica islamica, ma il loro significato è ancora oscuro, e lo stesso vale per alcuni tipi di stelle (ad esempio l’esagramma, il sigillo di Salomone). Le soglie erano un posto adatto per motivi a intreccio e spolia; in questo caso il messaggio era di vit-
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toria perpetua. Nella moschea omayyade di Damasco una vite d’oro (forse annodata), il karma, segnava – e proteggeva – il perimetro della moschea. Quando andavano in battaglia, i sultani ottomani indossavano camicie come talismani sopra le armature; esse erano decorate con lunghe iscrizioni a carattere religioso, tratte soprattutto dal Corano. Poteri apotropaici erano attribuiti ad alcuni automi, ad esempio i leoni ruggenti che custodivano i troni dei califfi, oppure il cavaliere collocato sopra il palazzo di Baghdad; si credeva che la sua lancia puntasse nella direzione da cui la città era minacciata. Allo stesso modo le figure femminili alate che affiancano le figure autorevoli sui frontespizi delle illustrazioni dei libri medievali di Mesopotamia hanno probabilmente una funzione protettiva – per questo sembrano guardare attentamente a destra e a sinistra della persona a fianco a cui stanno, come guardie del corpo. Le immagini che fungono da talismani sono strettamente connesse a quelle apotropaiche e spesso riflettono credenze popolari, ad esempio il panjah o khams, la «Mano di Fatima». La gente indossava amuleti con iscrizioni che si credeva portassero fortuna, e molti veicoli in Afghanistan e in Pakistan, ad esempio, presentano ancora oggi iscrizioni che recitano mashallah (Ciò che Dio vuole). Le coppe per la divinazione hanno iscrizioni dettagliate che invocano benedizioni e maledizioni in circostanze specifiche e anche gli specchi venivano utilizzati per la divinazione, a giudicare dalle iscrizioni magiche e di invocazione che si trovano sui loro retri. L’equivalente medievale della raccomandata era iscrivere un oggetto con la parola buduh, perché si credeva che il valore abjad delle lettere che la compongono (2:4:6:8) assicurasse un eccellente grado di sicurezza. I musulmani attribuivano virtù di talismano al celadon, perché si riteneva che si spezzasse se vi veniva introdotto del veleno. Grandi giare non invetriate per l’acqua erano decorate con rilievi che continuavano l’antica iconografia mesopotamica, il cui potere magico era apparentemente sopravvissuto all’avvento dell’islam. Testi illustrati quali il Falnama (Libro della divinazione) presentano
particolari di episodi e pratiche magiche che comportano l’uso di talismani. Gli animali mitologici avevano connotazioni magiche. I grifoni trasportano Alessandro Magno nell’empireo e Pegaso compare nelle decorazioni di sete e manoscritti. Una nutrita schiera di creature mitiche, in parte derivate da fonti cinesi, ma soprattutto da ambienti sciamanici, si trova nel corpus di dipinti associati all’enigmatica personalità che si cela dietro lo pseudonimo di Siyah Qalam. Alcune sono mostri da incubo, con forma umana ma teste e code di demoni, armati di denti aguzzi e artigli. Il mondo musulmano, come l’Occidente medievale, tendeva a collocare le meraviglie a Oriente. Perciò al-Wasiti, il pittore del manoscritto Schefer delle Maqamat (Riunioni; 1237; Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. arabe 5847), raffigurava sfingi e arpie nelle meravigliose isole orientali, dove abbondavano fenomeni straordinari come l’albero parlante o l’albero waqwaq. Il testo e di conseguenza le illustrazioni della cosmologia di al-Qazwini abbondano di creature incredibilmente ibride. Un’altra feconda fonte di immagini fantastiche era la poesia, specialmente in Iran. Qui la principale fonte di ispirazione era lo Shahnama (Libro dei re) di Firdawsi (morto nel 1020). Le tribù bestiali di Gog e Magog, le Amazzoni e gli uomini-leone, la ricerca dell’Acqua della Vita, l’empia ascensione di Kay Ka’us al cielo, mostri come draghi, leoni-scimmia, unicorni, lupi cornuti o il Grande Verme di Kirman, re che hanno serpenti che spuntano dalle spalle, guerrieri di pietra, streghe e stregoni, demoni, fate e sirene – gli artisti avevano l’imbarazzo della scelta. Ma questo e altri testi analoghi (come quelli di Nizami e Amir Khusraw) che attingevano al passato leggendario dell’Iran preislamico colpivano anche un livello di immaginazione più elevato in quanto costituivano una vera miniera di miti, che interpretavano il passato in termini eroici e fornivano modelli di comportamento, oltre che motivi di svago. Per questo veniva posto l’accento sui grandi re ed eroi della leggenda iranica – Gayumars, Tahmuras, Jamshid, Kaykhusraw e Faridun,
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Zal, Suhrab e Rustam – oltre che sui personaggi storici, quali Iskandar (Alessandro Magno) e i monarchi sasanidi. La storia e il mito si fondono e gli eventi vengono mitologizzati (ad esempio la storia di Cosroe e Sciria). Infine, in alcuni casi viene raffigurata la taumaturgia vera e propria. In questo caso la figura principale è Salomone; sono numerosissime le allusioni a lui come mago, signore dei jinn e esperto del linguaggio degli animali e degli uccelli. La popolarità delle Qisas al-anbiya ha contribuito alla diffusione di questa iconografia, che comprendeva anche i miracoli di altri profeti, ad esempio Mosè, oltre a influenzare il particolareggiato ciclo della vita del Profeta (si vedano, ad esempio, i manoscritti della Storia del Mondo di Rashid al-Din, datati dal 1314 in poi). Corpi celesti Per i musulmani la scienza delle stelle comprendeva astronomia e astrologia e destava molto interesse perché si riteneva comunemente che i corpi celesti influenzassero la vita degli uomini. A questo si deve l’ampia diffusione nell’arte islamica delle immagini dello zodiaco. Particolarmente numerose sono le immagini solari, che affondano le radici nel mondo classico (ad esempio il nimbo) e nel Vicino Oriente antico (ad esempio la rosetta). Il leone è la creatura che per eccellenza è associata al sole, attraverso il segno zodiacale del Leone (che spesso è raffigurato mentre sovrasta il Toro) e dato che il leone era anche un popolare simbolo per rappresentare il re, i sovrani potevano anche fregiarsi di attributi solari, come nel caso della Fontana dei Leoni nell’Alhambra di Granada. La connessione è particolarmente evidente nell’emblema reale iranico, nel quale sono raffigurati il leone e il sole; le origini dell’emblema risalgono ad epoca partica, sebbene il motivo si sia affermato soltanto nel xiii secolo. Da quel momento in poi si ritrova comunemente sulle monete, sulla ceramica, in architettura e persino – nel xix secolo – su francobolli e banconote. Anche le aquile potevano avere una connotazione sola-
re. Espressioni più astratte del tema del sole ricorrono senza dubbio in contesti reali, come nelle volte con raggi, nei mosaici e nelle numerose rosette a Khirbat al-Mafjar o nei mosaici della volta con raggi della Grande Moschea di Córdoba. L’interno delle cupole presenta spesso un motivo decorativo a raggi, che vengono riprodotti in scala minore nei motivi shamsa dei manoscritti. Ma le cupole, che per una tradizione antica erano equiparate alla volta del cielo – per questo motivo molte antiche cupole islamiche sono descritte come qubbat al-khadra (cupola del cielo) – potevano avere un oculus o un’apertura a forma di stella che le collegava al cielo. Le citazioni poetiche sulle ciotole mostrano che esse erano comunemente intese come simboli della volta celeste. Il motivo dei raggi si trova anche in epigrafia, specialmente nel periodo mamelucco, quando le iscrizioni a raggi, con le aste che imitano i raggi del sole, erano molto diffuse. La connotazione solare era accentuata dall’uso di intarsi d’oro. L’immagine della rotazione, ancora una volta con allusioni al cielo, era ripresa nelle sfingi disposte in cerchio e dal motivo della peschiera. Le stoffe presentano un’ampia serie di immagini celesti, ma il sole è l’elemento predominante nella maggior parte di esse. La luna aveva un’importanza solo marginale nell’iconografia islamica. Nei dipinti e negli oggetti in metallo si trovano allusioni alle eclissi lunari e la mezzaluna, che apparve per la prima volta in età omayyade, divenne un importante tema astrologico sulle monete della Mesopotamia del xii e xiii secolo. Solo in seguito la mezzaluna, spesso associata alla stella, divenne un simbolo della fede islamica, ma l’evoluzione di questo processo resta oscura. L’esempio più evidente di iconografia lunare nell’arte islamica è la moschea Aqmar al Cairo; il suo nome (Illuminata dalla luna) esplicita tale connessione e la sua facciata è adorna di iscrizioni raggiate e immagini sciite, che mettono in rapporto temi lunari e religiosi. Le allusioni al sole e alla luna sono solo aspetti particolari della più ampia categoria dello ‘ilm al-nujum, la scienza delle stelle. Ogni musulmano istruito doveva avere una conoscenza di questo ramo della scienza e
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questo può spiegare la frequenza di allusioni alla sfera celeste nell’arte islamica. I pianeti – che nella concezione musulmana includevano il sole e la luna – e i loro simboli facevano parte del repertorio decorativo di centinaia di oggetti in metallo e, in misura minore, della ceramica. Anche i cosiddetti pianeti-bambini erano un tema comune nella metallurgia e nella miniatura fino all’età ottomana. Il ruolo dell’astrologia nell’arte islamica non è ancora del tutto chiaro, anche in casi famosi come lo Haft Paykar (Sette ritratti) di Nizami, uno dei cicli più noti della pittura iranica, che è pieno di riferimenti astrologici. Lo zodiaco penetra nel calendario turco-mongolo degli animali, nell’immaginario religioso, su porte di città e bazar, su ponti, monete, manoscritti e soprattutto nell’arte del metallo, in cui la popolarità dei temi zodiacali aveva forse a che fare con la scelta dei metalli utilizzati per creare gli oggetti – anche se resta da chiarire il motivo per cui la metallurgia in particolare rappresentasse immagini astrologiche. La luce è il tema più diffuso. Si fa un uso ampio del famoso capitolo della Luce del Corano (xxiv), e specialmente del versetto 35, usato spesso come epigrafe per i mihrab perché è interpretato come un riferimento a una lampada in una nicchia; molti mihrab presentano raffigurazioni di lampade appese. I minbar spesso presentano l’iscrizione del versetto successivo, in modo da essere tematicamente collegati al mihrab; inoltre hanno in genere anche altri riferimenti alla luce, come ad esempio poligoni a forma di stella, stelle o il nome di Dio, realizzato in avorio o in osso e che pertanto spicca come se fosse illuminato nello sfondo prevalentemente scuro del minbar. Le lampade contengono la stessa ovvia allusione, quando sono iscritte con tutto il verso 35 della sura xxiv o con parte di esso, e lo stesso vale per le rosette o analoghi temi solari. Giacché di solito sono realizzate in vetro o in metallo traforato, le lettere dell’iscrizione risaltano come insegne al neon quando la lampada è accesa. La trasparenza delle finestre è utilizzata per ottenere lo stesso effetto, con grate traforate e lunette che creano giochi di luce, mentre nel caso delle vetrate colorate si
aggiunge l’effetto della policromia. Le volte a muqarnas o a nido d’ape, quando sono rivestite da piastrelle invetriate o realizzate in intonaco dipinto, diventano metafore della luce perché imitano la rotazione dei cieli e un’abile collocazione delle finestre crea raggi di luce che sembrano balenare verso il basso in direzioni diverse. Le iscrizioni mettono in relazione questi soffitti con la Via Lattea e con le Pleiadi, provando così che le implicazioni cosmiche di questi effetti di luce erano volute. Lo stesso vale per interi palazzi, concepiti come ricettacoli di luce grazie ai soffitti in alabastro e alle pareti di vetro. Alcuni dei palazzi che presentano queste caratteristiche volevano emulare i leggendari palazzi di Ghumdan, Sadir e Khwarnaq nell’Arabia preislamica. Il minareto, etimologicamente connesso al concetto di fuoco e/o di luce, doveva essere un veicolo per l’illuminazione materiale e spirituale. I minareti venivano illuminati in circostanze particolari (anche oggi hanno iscrizioni religiose al neon) ed erano usati come fari per le navi o per le carovane notturne. Nella pittura islamica sono attestate aureole di vari tipi – circolari, a raggi, allungate o a mandorla. Le nuvole ondeggianti intorno alle iscrizioni nei manoscritti possono essere intese come un mezzo per santificarle e dunque fungere come un altro tipo di aureola. Anche diverse tipologie di oggetti di metallo sfruttavano le molteplici associazioni con la luce, ad esempio per mezzo di iscrizioni allegoriche di ispirazione sufi: portacandele, bruciatori per incenso, supporti per torce, candelabri e lampadari. Infine, i numerosi titoli usati dai governanti musulmani sfruttano il concetto di luce: sole (shams), luna (qamr, badr), luce (nur), stella (najm), sfera celeste (falak) e lucerna (siraj), in combinazioni quali «Luce della Religione» (nur al-din) o «Sole dello Stato» (shams al-dawla). In questo modo le potenti implicazioni della luce in contesti morali e religiosi venivano utilizzate a fini politici. Questa combinazione di messaggio politico e religioso attraverso il mezzo della scrittura, che fungeva allo stesso tempo da decorazione, riassume in modo efficace i caratteri distintivi dell’arte islamica.
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GLI AUTORI
roberto cassaneLLi, Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo, professore nella Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano adam s. cohen, professore di Storia dell’Arte, University of Toronto robin cormack, professore emerito in Storia dell’Arte, University of London Jas’ eLsner, professore di Storia dell’Arte, Humfry Payne Senior Research Fellow in Classical Archaeology and Art, Corpus Christi College, Oxford University e Visiting Professor di Storia dell’Arte alla University of Chicago aLain erLande-brandenburg, direttore del Museo Nazionale del Rinascimento dal 1999 al 2005. È stato anche Direttore degli Studi alla École Pratique des Hautes Études (iv sezione)
robert hiLLenbrand, professore di Arte Islamica, alla University of Edinburgh e alla University of St Andrews robin osborne, professore di Storia Antica, Cambridge University s erena r omano , professore di Storia dell’Arte Medievale, Università di Losanna Joan sureda, professore emerito di Storia dell’Arte, Università di Barcellona cLaudio tiberi, professore di Storia dell’Architettura, Università «La Sapienza», Roma tania veLmans, già direttrice di ricerca al cnrs – Centre National de la Recherche Scientifique, Parigi
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RifeRimenti iconogRafici (I numeri corrispondono alle pagine in cui compaiono le illustrazioni) aisa:
224; album/Erich Lessing: 15, 16, 28, 29, 30-31, 55, 68, 86, 88, 93, 206, 228, 262-263; Amt für Kirchliche Denkmalpflege Trier, Rita Heyen/Jaca Book: 135; Archivi Alinari, Firenze: 18, 19, 22, 23, 52, 71, 222223; Archivo Fotográfico Fournier Artes Gráficas, s . a .: 115; Archivo Iconográfico, s . a ./Jaca Book: 141 destra; Archivio Jaca Book: 130, 131, 132, 178, 248; Archivo Lunwerg: 21, 24, 27, 38-39, 47, 49, 51, 59, 60, 61, 62, 80, 83, 144, 177, 188, 191, 196-197, 200, 204, 205, 212, 225, 226-227; 1994: 217; 1995: 92; 1996: 95; Achim Bednorz: 153, 154, 155, 160-161, 162, 167, 181, 183, 184-185, 187, 188, 194, 199; Bams Rodella/Jaca Book: 84, 102; Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano/Jaca Book: 109, 257; Biblioteca Universitaria di Istanbul/Jaca Book: 259; Bibliothèque Nationale de France, Parigi/Jaca Book: 182; Bistum Limburg/Jaca Book: 100; Matías Briansó: 148; Massimo Capuani/ Jaca Book: 91, 94; Mario Carrieri, Milano/Jaca Book: 250; Centre Guillaume le Conquérant, Bayeux: 170171; Comune di Padova, Settore Musei e Biblioteche: 215; Gianni Costantino/Jaca Book: 140; Joaquín Cortés: 260-261; Jordi Cuxart: 143; Domkapitel Aachen (foto Munchow)/Jaca Book: 125, 126; Ekdotike Athenon s.a.,
Atene/Jaca Book: 106, 108, 111; Franco Cosimo Panini Editore, Modena/Jaca Book: 105; Imagen Mas: 172-173; index: 74-75, 192, 220 Institut Catholique, Parigi/Jaca Book: 99; Vlado Kiprijanovski, Skopje/Jaca Book: 116117; Lauros/Giraudon: 122; Marc Llimargas i Casas: 136-137, 151, 160 163, 207, 252; Xurxo Lobato: 174175; Oscar Masats: 195; Francis G. Mayer: 76; Domi Mora: 220; Museo Arqueológico Nacional, Madrid: 128, 129, 251; Museo Nacional del Prado, Madrid: 208211; Oesterreichische Nationalbibliothek, Vienna/Jaca Book: 156, 157, 254; Carlo Perogalli, Milano/Jaca Book: 110; pRisma: 12; Publifoto s.n.c. di Brai, Palermo/Jaca Book: 121; Antonio Quattrone: 219; Rmn, Parigi/Hervé Lewandowski: 200; Servei Fotográfic-mnac (Calveras/ Mérida/Sagristà): 166-167; Shutterstock: Irina Orel: 32; Aerial Motion: 35; 69; Dmitry Naumov: 42; Mazur: 43; Jocic:112; Photo Stella: 113; Lambros Kazan: 136-137; Uwe Aranas: 138, 147; Jarno Gonzalez Zarraonandia: 149; Massimo Todaro: 158-159; Radu Razvan: 186; Artjazz: 193; Mikhail Markovskiy: 230; Witr: 234235, 237; Hayri Kodal : 242; Louis Overlander: 242; Stefano Valeri: 245; Pecold: 246-247; Victoria & Albert Museum, Londra/Jaca Book: 249; Nikola Zivkovic, Belgrado/Jaca Book: 118-119; Cortesia del Ministero dei Beni e Attività Culturali, Roma: 13, 56-57, 58, 60, 64, 66, 70, 73, 79, 82, 86, 216; 1990, Opera Metropolitana, Siena: 205.
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