HENDRIX 1968. THE ITALIAN EXPERIENCE

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Alla memoria di Massimo Bernardi (senza di lui il tour italiano di Jimi Hendrix non ci sarebbe stato) e a Gaetano Sorrentino (grande hendrixiano).

‘68 Enzo Gentile Roberto Crema Introduzione

Carlo Verdone

The Italian Experience


Nuove date per gli Experience “... Dopo un giorno di riposo, The Jimi Hendrix Experience parte di nuovo per iniziare il tour europeo di primavera, si comincia al Piper Club di Milano (23 maggio), seguito dal Teatro Brancaccio di Roma (24–25 maggio), dal Palasport di Bologna (26 maggio) ...”

Contratto fra la Bryan Morrison Agency e Massimo Bernardi per il tour italiano della Jimi Hendrix Experience.


Indice IL MIO CONCERTO, di Carlo Verdone 1968, JIMI IN ITALY L’invasione degli ultracorpi Sciamanesimo a sei corde Formidabile quell’anno Si leggeva sui quotidiani... Venti pezzi facili (per ricordare cosa si cantava nel ’68) La canzone politica

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JIMI HENDRIX, MAGGIO 1968

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MILANO, 23 MAGGIO 1968 Jimi Hendrix arriva in Italia Il Piper, nel pomeriggio Il Piper, il concerto Dai giornali

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ROMA, 24 MAGGIO 1968 99 L’arrivo 103 Teatro Brancaccio, il primo concerto 106 Teatro Brancaccio, il secondo concerto 115 Dopo il concerto 143 Il Titan Club, la jam session 149

ROMA, 25 MAGGIO 1968 Intervista con Edith Wieland Teatro Brancaccio, il concerto pomeridiano Una registrazione La cena da “Alfredo” Teatro Brancaccio, il concerto serale Una registrazione Dopo il concerto Dai giornali

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BOLOGNA, 26 MAGGIO 1968 Da Roma a Bologna Il Palasport, il concerto Una registrazione Dopo il concerto

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27 MAGGIO 1968 The Jimi Hendrix Experience lascia l’Italia

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HO VISTO UN RE

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HENDRIX SULLA STAMPA ITALIANA 243 JIMI HENDRIX (1942–1970)

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Fonti 267 Ringraziamenti 269


IL MIO CONCERTO Quella volta di Jimi Hendrix al Brancaccio fa parte delle esperienze indelebili, una di quelle serate indimenticabili trascorse insieme alla musica di un artista che all’epoca scandiva le ore delle nostre giornate di ragazzi amanti del rock e assetati di novità. Stare davanti al giradischi con i compagni di scuola e trascorrere i pomeriggi insieme per ascoltare i suoi album era il migliore nutrimento per la nostra fantasia. I primi due lp di Hendrix, quelli che preferisco di gran lunga per le composizioni e per gli accompagnatori, Noel Redding e Mitch Mitchell, li ho letteralmente consumati: non passava giorno senza che ci si confrontasse con quel patrimonio di creatività ed eleganza, di aggressività e di potenza, di ricerca dirompente che poi avremmo trovato anche nell’esibizione live. Ricordo bene le sensazioni di quell’appuntamento con la storia, dell’impazienza del pubblico: nessuno di noi aveva voglia di sentire altro e purtroppo questo andò a scapito dei gruppi chiamati a scaldare l’ambiente, che peraltro era già infuocato a sufficienza, con i boati da stadio appena si coglieva un movimento sul palco o dietro le quinte. Si aveva l’impressione di essere al cospetto di un vero evento, e Roma si era mobilitata. Erano presenti anche diversi personaggi dello spettacolo arrivati per curiosità o perché semplicemente quello era il posto in cui essere, un’occasione da non lasciarsi sfuggire, che attirava anche oltre il circuito degli appassionati di musica. Quando partirono le prime note, l’impatto fu straordinario, nonostante un’acustica del teatro e un tipo di amplificazione forse non all’altezza: Jimi avrebbe meritato di più, ma intanto con la sua chitarra aveva scatenato l’inferno, devastante, con una precisione e una sicurezza assolute, senza guardare lo strumento, tranquillo e con un portamento esemplare. La band risultava perfetta, con il suono tipico del rock inglese dell’epoca che si integrava a meraviglia con il blues e la psichedelia del primo Hendrix: avevano una carica e una spinta eccezionali, credo che come gli Experience non abbia suonato più nessuno. Jimi resterà nella storia a lungo, così come nella mia memoria quel concerto romano, che contribuì a fortificare e a radicare il mio sentimento per un certo tipo di musica, a partire da Hendrix, determinante per la cultura giovanile, per quella corrente di innovazione del suono che era passata già dai Beatles, dai Rolling Stones, e poi dai Who, Yardbirds, Animals, ma che lui portò ai vertici massimi. Are You Experienced? e Axis: Bold as Love hanno cambiato il senso e la percezione della musica moderna. Il mondo del rock e della chitarra, dopo, non sarebbero più stati gli stessi.

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Hendrix ha ridisegnato il modo di suonare, partendo dall’insegnamento dei maestri blues e lasciando poi tutti attoniti, fin dai primi contatti: comprai il suo primo album un sabato pomeriggio e non me ne staccai più. A furia di ricominciare dall’inizio ad ascoltare si capiva meglio, si riusciva a entrare nello spirito dell’artista, ma certe sonorità erano estremamente avanzate, avveniristiche, e alcuni pezzi ancora oggi appaiono d’avanguardia. Da allora il mio amore per Hendrix è cresciuto, si è approfondito, anche se credo sarebbe stato meglio mantenere la sua discografia fissa ai lavori che aveva controllato e prodotto sotto la sua diretta tutela, mentre sono andati in giro troppi prodotti di scarto, che lui non avrebbe mai approvato. Nel corso del tempo ho avuto la fortuna e la possibilità di acquistare un suo raro, breve filmato a Randall Island, e anche un autografo: li conservo come cimeli preziosi, anche da un punto di vista affettivo. Quando vennero in Italia il padre Al e la sorellastra Janie, ebbi modo di conoscerli grazie a un’intervista che mi aveva affidato la rivista “7”. Fu un bell’incontro, anche perché ero reduce dal film che tuttora preferisco nella mia storia, Maledetto il giorno che t’ho incontrato: rappresenta un grande omaggio dall’Italia a Hendrix. Raccontai a Janie, che da poco aveva preso le redini dell’eredità e della fondazione e che gestisce la memoria del fratello, di quel film e della colonna sonora, che conteneva due canzoni, The Wind Cries Mary e Foxy Lady, pagate un’inezia rispetto a quelli che sarebbero oggi i prezzi, e poi il filmato di Monterey, dove, durante l’esecuzione di Wild Thing, Hendrix incendia la chitarra, costato quindici milioni di lire: cifre impensabili allo stato attuale, ma allora c’era stato un vuoto di potere sui diritti e io li ottenni davvero con poco! Lei rimase sorpresa, magari anche un po’ scocciata, e in me aumentò la soddisfazione per aver mandato in porto un film centrato su Hendrix, i cui dischi consiglio di riprendere in cuffia, ad alto volume, magari anche in mono. Un’esperienza ancora esaltante.

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Carlo Verdone Roma, febbraio 2018

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IL MIO CONCERTO

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L’invasione degli ultracorpi «L’opera del maestro non deve consistere nel riempire un sacco ma nell’accendere una fiamma.» Plutarco Prometeo rubò il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini, divenendo così simbolo di ribellione e libertà. Qualche tempo dopo, il mito di Prometeo si rinnova: Jimi Hendrix dalla sua chitarra, con la sua musica extraterrestre, trasferirà quelle stesse fiamme ai comuni mortali del Ventesimo secolo, e da lì alle stagioni a venire. Non si dimenticano di questa tempesta perfetta costituita dal suo avvento coloro che in Italia vennero a contatto con il suono al calor bianco sprigionato cinquant’anni fa nel corso del breve tour consumato tra Milano, Roma e Bologna. With God on Our Side diceva una canzone dell’epoca e Jimi indicò la via tra le galassie, un viaggio senza respiro nella mente e nello spirito, tra i gironi infernali del Suono. Eureka! Era il maggio ’68, una data indimenticabile e non casuale, che solleva a tutt’oggi suggestioni e tumulti della memoria, correndo tra gli scontri al Quartiere Latino di Parigi, le assemblee sulla Rive Gauche o le occupazioni nelle università italiane, per una ideale colonna sonora che gli Experience rivelarono anche sui palcoscenici di casa nostra. Le cronache di quei giorni si intrecciano a Foxy Lady e Purple Haze, con gli studenti francesi e gli scioperi che paralizzano la Francia: procedono congiunte, sono realtà parallele, eventi che non torneranno, lasciando un’impronta profonda, indelebile nella storia e per le generazioni future. Il Piper di Milano, il Palazzo dello sport di Bologna, il Teatro Brancaccio di Roma sono gli scenari di quella visita di marziani che scendono diritti tra le nostre case e avvampano con le loro musiche, sconvolgendo i templi altrimenti battuti e presidiati dai soliti noti. Era l’Italia dei musicarelli, del Festival di Sanremo e di Canzonissima, del Disco per l’estate e del Cantagiro, della hit parade, guidata, in quello scorcio di tarda primavera, da Antoine (La tramontana), Patty Pravo (La bambola), Franco iv e Franco i (Ho scritto t’amo sulla sabbia). L’eterna provincia di casa che il rock di Hendrix, nero, psichedelico, ulceroso, tra l’inferno e il paradiso, avrebbe voluto spazzare via. Quelli non erano ancora anni di preminenza discografica, di storie ritagliate nel vinile, gli lp ce li portava qualche parente in trasferta di lavoro all’estero, i piccoli lussi dei più fortunati erano dati dai juke–box o da qualche mangiadischi amico, dove poter ascoltare (anche) Hey Joe e Crosstown Traffic. (Ovvero, per onestà autobiografica, tra i primi 45 giri acquistati e tuttora conservati gelosamente.) Nel nostro piccolo di adolescenti ignoranti e curiosi, un primo timido passo di Experience, sonica e non solo, verso l’emancipazione collettiva: così per vedere l’effetto che fa.

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Sciamanesimo a sei corde «Qualcosa sta accadendo. Qualcosa di strano, di incerto, di allarmante, di vivo. Qualcosa che minaccia molte sacre tradizioni di questo Paese e reclama il diritto di dare alla nazione la sua ultima possibilità di salvezza.» Iniziava così un libello del 1968, appunto, opera di Jerry Hopkins, The Hippie Papers, una ricognizione su quella che qualcuno definì «youthquake», un terremoto giovanile. Ce n’est qu’un début, continuons le combat. Underground, sottoterra: molto si muove là dove non arriva lo sguardo, anche nel ’68 hendrixiano. La stagione delle Black Panthers incrocia la musica di Jimi, dove possiamo intravedere motivi, sentimenti confluenti: non saranno mai espliciti, ma qualche punto di contatto pare evidente, anche se nessuna forma di adesione venne mai ufficializzata o dichiarata sfacciatamente. Certo l’establishment qualche preoccupazione l’avrebbe denunciata: come altri artisti, anche Hendrix venne attenzionato, seguito, indagato, affinché la sua miscela incendiaria non nuocesse troppo al potere, non facesse proseliti, pescando, seminando con la sua chitarra veleni contro il sistema. Una materia, la sua, che non era solo attuale e avveniristica insieme, ma si alimentava del passato gioiosamente: non era né apolitica, né neutrale; il demone dell’intelletto non lo è mai. La musica di Jimi, anche quella andata a scheggiare le coscienze dei fortunati che lo videro a Milano, Roma e Bologna, tirava e guardava in più direzioni: dentro di essa, amplificata dalla fedele Stratocaster, c’erano le Pantere Nere e Timothy Leary, il profeta della “riforma psichedelica”, la guerra in Vietnam e gli happening della Summer of love, i rintocchi della Swingin’ London e la memoria della brumosa periferia di Seattle. Come si conviene al primo degli immortali, Jimi celebrava ogni giorno, ogni sera, il suo rito di purificazione e di ubriacatura total body. È lui la cesura che separa il mondo moderno – della musica, ma non solo – dal passato. Una frattura che si sostanzia in dischi, composizioni, esibizioni e gioca di sponda con le sostanze psicoattive tanto frequenti e utilizzate all’epoca. La musica di Jimi è magia e lussuria, virtù e stregoneria, eccitante e curativa, una pratica sospesa tra lo sciamanesimo e il divino. Una fusione dei quattro elementi, aria, terra, acqua e fuoco, capace di indurre a euforia e sedazione; dipende dallo stato in cui la si assume, sulla soglia dell’inferno o del paradiso: e comunque pronti a entrare. Un fiume carsico che arriva da lontano e procederà verso l’infinito. Come un’illuminazione. Hendrix, per come lo abbiamo ricevuto dalle rappresentazioni “sacre” del cinema o nelle foto dell’immaginario comune (la chitarra incendiata a Monterey, morsicata negli speciali tv o accarezzata, amata, sfigurata con l’inno americano dal palco di Woodstock...), resta tutto sommato un idolo statico e ripetitivo rispetto a chi ebbe modo di imbattersi nel tormento e nell’estasi delle sue performance dal vivo. Dove si respirava un’altra idea di felicità, ad anticipare e incalzare lo stesso principio di avanguardia rock, passato e futuro si coniugavano al presente sulla Fender. La dimensione sensoriale di un concerto hendrixiano è stata testimoniata da più parti, a ogni latitudine, e certifica la discesa di un marziano tra le cose e i suoni dei giorni nostri:

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d’altronde, Jimi si conferma da più fronti e punti di vista un alieno, appassionato del cosmo, dei viaggi interspaziali, dei pianeti (tra i brani più espliciti Third Stone from the Sun, Astro Man, Exp sovrappopolato da dischi volanti) e il suo passaggio italiano sarà, una volta di più, un’autentica forma di ascensione. Il contrasto tra i fremiti di una società in subbuglio, con i moti parigini che echeggiavano anche qui da noi, e le frastagliate architetture hendrixiane, tra Flower power, blues, rock e celestiali visioni chitarristiche, risulta oggi ancora più stridente, con un mondo di mezzo – gli adulti, i mass–media, lo stesso blob dello spettacolo – sostanzialmente impermeabile: estraneo e pure un po’ infastidito dalle rivoluzioni in atto. I giornali, per non dire la radiotelevisione italiana, come sprofondati in un incubo di sabbie mobili destinato a trasformarsi in rigetto, in cronache cariche di sospettosa acribia, quasi che lo show non dovesse continuare, e magari neppure cominciare. E invece molti erano soltanto all’inizio del viaggio, una startup onirica da cui partire, dispiegando le ali in tutta la loro formidabile, irresistibile bellezza. Una specie di iniziazione, frastagliata e proiettata verso un punto di non ritorno. Per chi lo vide e lo ascoltò in concerto, per quanti lo frequentarono, per coloro che da quella polvere di stelle furono soltanto investiti: qualcosa più di una semplice esibizione da un palco, piuttosto un marchio da tramandare ai posteri, anche perché di quel transito, del maggio 1968, non restano tracce filmate, né audio, ma solo un pugno di fotografie, spesso amatoriali, e le testimonianze di tante persone entrate in contatto con Jimi per ragioni più o meno professionali. Qui ne abbiamo rintracciate e raccolte una buona dose, la parte più esplicita e concreta, una selezione ragionata per fare da contrappeso alle sensazioni più visionarie, conservate nell’intimo da chi ha goduto in qualche modo degli impatti frontali: sono ricordi che, sia pure sfumati e lontani nel tempo, abbiamo verificato e incrociato per valutarne la credibilità e la precisione dei dettagli. Abbiamo così accertato che una torma di italiani fu della partita, a vari livelli di contatto e di contagio. E dato che alcune circostanze non si dimenticano, né si rimuovono, ecco che questa invasione degli ultracorpi si rileva di speciale affollamento, per qualità e quantità ben relazionate all’evento, di cui abbiamo ricostruito i particolari minimi relativi a Jimi, Mitch e Noel: negli archivi non sono entrati documenti ufficiali. Questo è il contributo, partecipato nelle fibre più intime e profonde, di due miracolati sulla via delle galassie hendrixiane, che credono fortemente nel pensiero espresso da Gustav Mahler, il quale, interrogato sul valore e il significato della musica e dell’arte delle radici, disse semplicemente: «La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere». Ecco Jimi in Italia: un interruttore, un modo per aprire molte porte, toglierci dall’affanno di musiche alla rinfusa, di orrori e mediocrità imperanti. Il rapporto con la chitarra era il suo sogno più profondo, anzi era il suo unico sogno. L’iridescenza di un rock pronto a sentirsi un giovane corpo scalpitante. Il saluto all’alieno sbarcato tra noi nel maggio 1968 è proprio il sublime insegnamento di quello che siamo stati e di quanto certi incontri ravvicinati ci possano lasciare. E ora alziamo il volume! «Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia.» Erasmo da Rotterdam

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Formidabile quell’anno Per (cercare di) comprendere cosa significa il passaggio dalle nostre parti di Jimi Hendrix, bisogna provare a calarsi nella realtà italiana del 1968. Sbagliato dire che fosse una società retrograda o antiquata: forse, piuttosto, come Dante aveva definito Caronte nella sua Commedia, quello era semplicemente un tempo «vecchio, bianco per antico pelo». Il tempo che ci spettava, recapitatoci e avuto in eredità dai nostri genitori, con tutte le rigidità, i freni, la polvere del caso. Un numero assai ristretto di accessi radio–televisivi (la Rai ammetteva solo due canali per la televisione, rigorosamente in bianco e nero), al punto che per qualche spiraglio bisognava contare su opportune trasmissioni radiofoniche – Bandiera Gialla – o sulla remota eventualità di riuscire a sintonizzarsi su Radio Luxembourg, che di notte aveva una programmazione molto golosa, vincente; o ancora, soprattutto d’estate, su Radio Montecarlo e Radio Capodistria, che a favore di turisti “apparecchiavano” trasmissioni e scalette immensamente più avanzate e “rock” di quelle nostrane. «La postazione che ci eravamo ritagliati con Bandiera Gialla – ricordavano Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, i benemeriti conduttori di quel rivoluzionario programma, insieme al successivo Alto gradimento, dove la musica fluiva tra buonissime vibrazioni – era assolutamente privilegiata. Ci facevano fare quello che piaceva a noi, dipendeva dai dischi che riuscivamo a trovare, ma tra rock, beat, rhythm and blues, la libertà era massima. Il divertimento stava proprio nello scoprire e nel lanciare nomi nuovi: l’industria discografica praticamente ancora non esisteva, muoveva professionalmente i primi passi e la nostra passione, competenza, facevano la differenza.» La discografia, appunto. La ragione del degrado e dello stato di arretratezza che il mercato avrebbe progressivamente conosciuto in età adulta – diciamo dagli anni Novanta, con il ricorso alla nefandezza delle playlist, percorso obbligato per tutta l’emittenza fm, da un certo punto in poi – in quel 1968 aveva un’incidenza minima, molto relativa. Gli sforzi e le pressioni potevano concentrarsi su qualche manifestazione–vetrina, buona effettivamente per il business, come il Festival di Sanremo, Disco per l’estate, Cantagiro, Festivalbar. Giochi di potere per guadagnarsi qualche posizione nella hit parade di Lelio Luttazzi e poco più. (Onore alla cronaca: nel 1968 al Disco per l’estate vince Riccardo Del Turco con Luglio, al Cantagiro Caterina Caselli con Il volto della vita e gli Showmen con Un’ora sola ti vorrei, al Festivalbar Adamo con Affida una lacrima al vento, mentre a Sanremo si erano imposti Sergio Endrigo e Roberto Carlos con Canzone per te.) I negozi, per chi se li ricorda anche solo perché ci passava davanti, erano spesso una somma di materiali disparati: i dischi si vendevano insieme a materiale elettrico o per la casa, o si trovavano nei grandi magazzini, collocati in un angolo apposito, dove i commessi, se gli facevi una domanda, parevano piovuti da un altro pianeta.

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In compenso era consentito ascoltare il 45 giri in vinile e così, se ti piaceva, te lo portavi a casa, buono per il mangiadischi o la fonovaligia, perché l’impianto stereo era un lusso riservato a pochissimi. (Io non ne conoscevo e al massimo, nei mesi delle vacanze, negli stabilimenti al mare ci si approvvigionava dal juke–box: una macchina di perdizione di massa, dilagante per tutti gli anni Sessanta, con una diffusione molto sbilanciata, se si pensa che nel 1962 ne erano stati censiti 4.500 in Lombardia e solo 11 in Basilicata.) Ciò detto, non guasti un’occhiata alle posizioni di testa della hit parade nazionale dei 45 giri, che da gennaio a dicembre vede avvicendarsi queste canzoni–regina (così erano definite le prime in classifica): Scott McKenzie–San Francisco, Stevie Wonder–Il sole è di tutti, Don Backy–Poesia, I Camaleonti–L’ora dell’amore, ancora Scott McKenzie, Don Backy–Canzone, Antoine–La tramontana, ancora Don Backy–Canzone (per un mese), e ad alternarsi Antoine e Don Backy, Georgie Fame–The Ballad of Bonnie and Clyde, Brenton Wood–Gimme Little Sign, Patty Pravo–La bambola (per oltre un mese), Adamo–Affida una lacrima al vento, Franco iv e Franco i–Ho scritto t’amo sulla sabbia, Riccardo Del Turco–Luglio, Tom Jones–Delilah, ancora Del Turco, ancora Tom Jones, e quindi Franco iv e Franco i. Da settembre per oltre un mese Adriano Celentano–Azzurro, Gianni Morandi–Il giocattolo, Aphrodite’s Child–Rain and Tears, I Camaleonti–Applausi, Gianni Morandi–Tu che m’hai preso il cuor. Le quote di mercato degli album sono assai ridotte e dunque meno rilevanti: comunque in vetta troviamo Gianni 4 di Morandi, Sanremo 1968, x Zecchino d’Oro, Enzo Jannacci (Vengo anch’io. No, tu no), Dalida, Patty Pravo, Mina alla Bussola dal vivo. Queste considerazioni permettono un passo indietro, con un esempio di dieci anni prima sulla circolazione della musica e dei dischi, quando una certa benefica febbre nei confronti dell’oggetto comincia a propagarsi. L’incremento nella produzione di dischi dal 1957 al 1958 (data fatidica, anche per l’affermarsi di Domenico Modugno a Sanremo con Nel blu dipinto di blu) è di quasi il 50%, con l’interessante fenomeno degli allegati in omaggio a diverse riviste, “il Musichiere”, “Juke–Box”, “La Settimana Incom”, “Settimana Enigmistica Tascabile” (che regala Passion Flower di Baby Gate, la futura Mina), il settimanale “Sorrisi e Canzoni” che fornisce agli edicolanti una fonovaligia da tenere in esposizione per le dimostrazioni al pubblico. Assistiamo, insomma, a una autentica vampata. Nel 1962 – riferirà un articolo del “Corriere della Sera” – la spesa degli italiani per i dischi supera un ammontare di venti miliardi di lire, cifra di dieci volte superiore a quella degli incassi dei teatri di prosa o di lirica su tutto il territorio nazionale, con percentuali di invenduto, rimasto nei magazzini, praticamente insignificante. È la fase in cui il disco cessa di essere un bene di consumo saltuario, per divenire un riferimento di molti, nonostante i prezzi: un 45 giri nel 1960 costa anche 1.000 lire (circa il triplo che negli Usa), a fronte di un reddito mensile medio sotto le 50.000 lire. Il che non arresterà un’espansione impetuosa, con impianti, della Lesa ad esempio, che nel 1958, a seconda dei modelli, costano dalle 29.000 a 58.000 lire, mentre l’anno dopo una apparecchiatura stereo della Garis (la famosa fonovaligia) da listino viene 68.000 lire, una fortuna. E deve fare gola a molti se è vero che, già nel 1961, si calcolano circa 14.000 novità all’anno della cosiddetta musica leggera per gli ancora gracili consumatori italiani:

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uno sproposito. Non è improprio parlare di un boom che culla gli appassionati nel nostro Paese: dove nel 1967 si acquistano 39 milioni di dischi, di cui 30 sono 45 giri di musica leggera, nel ’68 siamo a 43 milioni. Una stima alla fine dei Sessanta parla di 4.500 case discografiche, di 5.000 negozi di dischi, mentre il settore, tra artisti, autori, distributori e gestori di sale da ballo, impiega almeno 70.000 persone. Il genere della canzone italiana può candidarsi anche a rientrare nei beni di esportazione. Almeno nel caso di Claudio Villa, chiamato a un tour di quaranta date in Unione Sovietica nel 1960, con conseguente album Canta Claudio Villa, che venderà la bellezza di 13 milioni di copie, mentre qui da noi si segnala qualche crescente fiammella di interesse per il rock’n’roll e per l’offerta oltreoceano. Lo testimonia un dato squillante, Only You dei Platters, che in Italia nel 1959 vende 380.000 copie, un record. (La situazione appare davvero ancora confusa se persino Nilla Pizzi, come ricorderà lei stessa, per un certo periodo sarà censurata dalla programmazione radiofonica a causa della sua voce troppo moderna e “americana”.) Nel frattempo si sono impennati i numeri relativi a chi ha deciso di abbonarsi alla radio e alla televisione: nel 1962 sono rispettivamente 8.880.000 e 3.270.000, per una curva destinata inesorabilmente a salire. Per la cronaca, nel 2015 gli italiani che pagano il canone sono stati 16.560.000. L’Italia del ’68 viene fuori da un decennio di velocissima modernizzazione, coglie i frutti e le contraddizioni degli anni del boom, con gli squilibri del caso. Per via delle migrazioni verso le fabbriche dove trovare lavoro, Torino viene definita una «grande città del sud». I consumi sono una spia eloquente: nel ’57 in Italia si producono 370.000 frigoriferi, dieci anni dopo sono 3.200.000; le famiglie con un televisore in casa passano dal 20% nel ’61, all’82% nel ’71; i frigoriferi dal 17% all’86%; le lavatrici passano nello stesso periodo addirittura dal 5% al 63%. E mentre cambiano i modi per spostarsi, l’autostrada A1, la prima linea della metropolitana milanese (inaugurata nel 1964), le automobili crescono nel decennio da 40 a 250 ogni mille abitanti. Ancora dati significativi: nel 1956 gli italiani che andavano a messa la domenica erano il 69%, numeri che crollano nel ’68 rispettivamente all’11% e al 26% per maschi e femmine. Nell’anno scolastico ’67–’68 gli universitari sono 500.000, mentre erano 268.000 nel ’60–’61; raddoppiano le ragazze. Il tasso di analfabetismo è dell’8,7%, che sale fino al 21% in alcune regioni. Ad aiutare gli italiani nell’istruzione di base, una trasmissione televisiva, Non è mai troppo tardi, a cura del maestro Alberto Manzi: verrà chiusa proprio nel 1968, dopo cinque anni di grandi ascolti. Il “Corriere della Sera” costa 60 lire, il biglietto di un film in prima visione dalle 500 alle 1600 lire, a seconda delle sale. Per molti versi il 1968 è cruciale. Ad esempio, per la televisione, passi timidi ma significativi. Su interessamento dell’allora presidente del Consiglio Mariano Rumor, che sollecita il plenipotenziario Rai Ettore Bernabei, la finale del Festivalbar arriva sul Secondo Programma a mezza sera: registrata a fine luglio, va in onda il 9 settembre. Il dado è tratto. Ma per i dischi è un’altra cosa. I più determinati e motivati nella ricerca della

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conoscenza sapevano peraltro che nelle rivendite delle grandi città, ad esempio alle Messaggerie Musicali, da Ricordi o in qualche store – come lo chiameremmo oggi – particolarmente fornito e avveduto, esistevano specifiche postazioni, sorta di cabine con un giradischi dove chiudersi, magari con un amico, per macinare l’intero lp che, dopo averne debitamente succhiato il nettare, potevi restituire, e avanti un altro. Ragione e sentimento. In molti, una prima cultura di base se la procurarono tramite questi curiosi meccanismi di approvvigionamento: so che sembra fantascienza all’incontrario, come calarsi in un episodio del cartoon Gli antenati, ma funzionava – anche discretamente – proprio così. I più fortunati e privilegiati, osservati con cupidigia dal drappello di amici musicofili, potevano contare eventualmente su genitori destinati a recarsi per motivi professionali all’estero o sui fratelli maggiori che per studio passavano magari l’estate in Inghilterra, destinazione già molto gettonata. Facile che da lì se ne tornassero con qualche disco sottobraccio. Ma in fondo poteva bastare che papà dovesse viaggiare in Svizzera: già appena dopo il confine, a Chiasso o a Lugano, esistevano negozi (un po’ più) specializzati. Meta forse meno romantica, ma le prime copie di Are You Experienced? o di Axis: Bold as Love arrivarono così qui da noi, come portate dalla cicogna. Quando i telefonini, i computer, cd, dvd, ma persino la tv a colori e i canali tematici erano conquiste di mondi lontanissimi, persi all’orizzonte della civiltà, la rivoluzione si manifestava anche attraverso piccoli frammenti di novità. Termini come Photoshop, social network, password, e–commerce, online, internet, podcast erano ignoti, mentre iperconnesso, digitale e socializzazione potevano essere scambiati per “brutte parole” e la navigazione era mansione contemplata solo per mare o lungo i corsi d’acqua. Una cartina di tornasole è sempre stato il Festival di Sanremo: l’edizione del ’68 seguiva quella, tragica, della morte di Luigi Tenco. Sarebbe cambiato qualcosa o avremmo trovato i ritornelli e le facce di sempre? Entrambe le cose. Dipende dai punti di osservazione. A scorrere l’elenco delle canzoni e dei partecipanti, si direbbe di una pedissequa fedeltà al passato, ma la discontinuità sta forse proprio nel risultato finale, che vede svettare un raffinato cantautore gentiluomo come Sergio Endrigo, artista di princìpi e valori sicuramente lontani dalla poltiglia festivaliera. In proposito, commentando la classifica e la vittoria di Canzone per te, in coppia con un valente rappresentante della canzone brasiliana come Roberto Carlos, così autorevolmente scrive la rivista di settore “Musica e Dischi”: «Sanremo è una tappa importante per il tormentato cammino della canzone italiana, ed è un fatto estremamente positivo che questa volta il giudizio popolare non si sia lasciato accecare dal divetto commerciale o dal cantante alla moda (che in ogni caso potranno rifarsi sul piano delle vendite, beninteso), ma abbia mobilitato la sua scelta con una serietà che nessuno, forse, si era attesa. La lezione di Tenco non è stata inutile, dopotutto: e sembra, questa, la conquista più autentica che traspare dai risultati della rassegna». Si imparerà, in quella stagione, a considerare, ad apprezzare il conflitto, con gli attriti che si sviluppano un po’ dappertutto, anche nel vocabolario, dove il suffisso

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“anti” diventa assai praticato: antiautoritarismo, antiimperialismo, antimilitarismo, antipsichiatria, anticonsumismo. Il concetto di lotta e opposizione sarà pane quotidiano, servito con volantini, manifesti, assemblee e il ciclostile come alter ego per molti. L’altra faccia della medaglia sta tutta nel pari grado semantico “auto”: proprio a determinare scelte di libero arbitrio particolarmente in voga saranno autocoscienza, autogestione, autoriduzione e tutto quel che ne consegue. Ma era la comunicazione, a vari livelli, che aveva tutt’altre regole. E la censura lavorava a tutto spiano: la rivoluzione culturale fa paura. Pare difficile immergersi all’indietro nelle abitudini di quel 1968, quando si usavano i gettoni del telefono e le prime musicassette avevano un sapore di libertà totale, perché ognuno poteva registrarsi le canzoni preferite, in un anticipo di playlist personale. Non avevamo i videogiochi, ma il flipper e il calciobalilla in qualche bar; invece di cercare fortuna con le lotterie istantanee o le slot machine mangiasoldi, si sperava nel totocalcio, nei numeri del lotto, nella lotteria di capodanno. Gli oratori erano discretamente affollati, anche da chi subiva un po’ la messa e il catechismo, quella di giocare a pallone e vedere il film alla domenica era la massima condivisione possibile. Il gap generazionale era chiaro e netto, molto più di oggi, quando nonni e nipoti hanno usi e costumi assai simili, tatuaggi e orecchini in comune, e comunicano tramite gli stessi social media. Un panorama relativamente recente, mutato in maniera drastica, un modus vivendi popolato di amici e di “mi piace” su Facebook o su Instagram: chissà quanti ne avrebbe avuti The Star Spangled Banner nella versione battezzata a Woodstock? E come si sarebbe commentato il concerto di Jimi a Milano, a Bologna, a Roma senza fare ricorso a un diluvio di emoji, stelline e cuoricini pulsanti? «Non fidarsi di quei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento, che non sono una festa anche per i muscoli.» Friedrich Nietzsche

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Si leggeva sui quotidiani... 23 maggio Siamo reduci dalle elezioni politiche: si è votato la domenica precedente e i dati sono ormai ufficiali, con il centrosinistra che ha confermato la maggioranza in parlamento. Dc 39,1%, Pci 26,9%, Psi 14,5%, Pli 5,8%, Msi 4,5%, Psiup 4,4%. Si contano anche 1.724.000 schede nulle, 1.082.000 bianche. Tra gli eletti, nelle file del Psi, a Milano, anche Eugenio Scalfari. Sono 226 i nuovi deputati, 136 i nuovi senatori: tra i neo–eletti, per il Psiup, anche Fausto Amodei, cantautore di protesta, noto soprattutto per un brano, Per i morti di Reggio Emilia. Sulle prime pagine dei quotidiani le dichiarazioni del segretario della Dc Mariano Rumor e la situazione francese in pieno fermento, con gli scioperi e le proteste che paralizzano Parigi e non solo. Azioni di protesta e scontri si registrano anche all’Università Statale di Milano. Tra i film in programmazione Banditi a Milano, Helga, Indovina chi viene a cena?, Quella sporca dozzina, I dieci comandamenti, Grazie zia, Little Rita nel West con Rita Pavone e Terence Hill. In testa alla graduatoria del Disco per l’estate ci sono gli Scooters, con Se fossi re: alle loro spalle Maurizio dei New Dada con Cinque minuti e poi, scritta da Herbert Pagani. A Rotterdam va in scena la finale di Coppa delle Coppe, tra Milan e Amburgo (2–0 con doppietta di Hamrin). Fanno scalpore le notizie di trapianto cardiaco del celebre chirurgo sudafricano Christiaan Barnard. 24 maggio Barricate degli studenti a Parigi. Gli incendi divampano sui boulevard. Scontri e contestazioni mettono alle corde il generale de Gaulle. “La Stampa” titola il suo editoriale La dittatura mostra le rughe – È iniziato il tramonto. Spicca nelle cronache italiane la nuova legge del 20 marzo che impone l’obbligo di vaccinare i bambini contro il tetano. Nei cieli di Los Angeles esplode un elicottero diretto a Disneyland, morti i 23 passeggeri. In televisione, sul Primo canale, la Tribuna elettorale con i commenti dei risultati, mentre sul Secondo va in onda Un’ora con Yves Montand. Al Giro d’Italia, dopo la terza tappa, sul traguardo di Alba, la maglia rosa va a Michele Dancelli. Sulla spinta del successo che con La bambola l’ha portata in testa alla hit parade, Patty Pravo esce con un 33 giri e dodici canzoni tra cui uno standard come Old Man River. Allarme al casinò di Sanremo per un americano di trentadue anni, il “Professore”, che vince 30 milioni in tre sere: si sospetta l’uso di un computer per elaborare i dati delle roulette. Il consumo di benzina nel primo trimestre è cresciuto del 9% rispetto allo stesso periodo del 1967. A Dallas viene rubata la lapide di Bonnie Parker, la cui vita, con Clyde Barrow, era stata al centro del film Gangster Story ed entra anche in una canzone di successo, di Georgie Fame, prima in Gran

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Bretagna, a gennaio. A St. Louis, in Missouri, viene inaugurato il Gateway Arch, imponente opera dell’architetto Eero Saarinen: 192 metri di altezza e altrettanti di larghezza della base, sarà il simbolo della città. 25 maggio A Parigi divampano i tumulti e de Gaulle dichiara in un breve discorso alla tv che la Francia è minacciata dalla guerra civile. Le manifestazioni studentesche interessano anche gli atenei di Milano e Londra. Per il terzo anno consecutivo, tra proteste e mugugni, scatta l’ora legale. La folla in piazza Venezia a Roma saluta l’omaggio del presidente Saragat alla tomba del Milite ignoto. Sul ring montato allo stadio di San Siro, a Milano, Sandro Mazzinghi sfida il pugile coreano Ki–Soo Kim per il titolo mondiale dei pesi medi. Se lo aggiudicherà l’atleta italiano, con un giorno di ritardo, causa rinvio per pioggia. Si segnala il rialzo dell’oro e il ribasso della sterlina: al cambio ufficiale il dollaro vale 622 lire. Al Lotto esce il ritardatario 14 sulla ruota di Firenze e le vendite sono ingenti, per circa un miliardo. 26 maggio Il centro della capitale francese è devastato: auto e camion bruciati, negozi e cinema distrutti, la Borsa è gravemente danneggiata. Tra le conseguenze delle tensioni che attraversano la Francia anche la sospensione delle pubblicazioni del quotidiano l’“Équipe” e l’impossibilità per Juliette Gréco di raggiungere Sanremo dove era annunciato un suo recital. Ultimi studi sulla cromoterapia: anche il colore delle pareti di casa ha importanza per la nostra salute. Clima capriccioso: nell’Italia del nord sembra autunno. Rivelate le caratteristiche delle nuove monete da 20 lire: saranno in bronzital al nichel e avranno il contorno liscio. I Rolling Stones pubblicano Jumpin’ Jack Flash. Nel frattempo, in California, si decide di cancellare la seconda edizione del Monterey Pop Festival per le pressioni della cittadinanza e degli organi di governi locali: si scopre un pesante buco economico nel bilancio della manifestazione di un anno prima. 27 maggio In Francia scarseggiano i beni di prima necessità, olio, farina, benzina (costa 600 lire al litro). Inizia in Germania il processo del talidomide: il farmaco è accusato di aver fatto nascere migliaia di bambini deformi. Intanto calcoli autorevoli dicono che la campagna elettorale è costata 20 miliardi. Nel frattempo i Viet Cong attaccano Saigon con razzi che fanno decine di vittime. Si combatte nella periferia della capitale. Graham Hill vince su Lotus il Gran Premio di Formula 1 di Monaco; velocità 125 km orari: quarto l’italiano Ludovico Scarfiotti. Fonti bene informate parlano di una crisi coniugale tra Gianni Morandi e Laura Efrikian.

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Venti pezzi facili (per ricordare cosa si cantava nel ’68) Affida una lacrima al vento. Salvatore Adamo, ragusano di nascita, figlio di emigranti in Belgio, ha almeno un piccolo capolavoro alle spalle, La notte (1965). Arriva al primo posto della classifica dei 45 giri, trionfa al Festivalbar, incurante del ciclone e del nuovo che sta per arrivare. «Affida una lacrima al vento / e fa che la porti da me, / il vento mi ha detto stai attento / la tua bella non pensa più a te...»

Ho scritto t’amo sulla sabbia. Meteora di provenienza napoletana, con tirocinio in ambito beat poi sfociata in un solo, prepotente hit: Franco iv e Franco i esistono nelle cronache della canzonetta italiana, Ho scritto t’amo sulla sabbia e alzi la mano chi rammenta un’altra loro incisione. «Ho scritto t’amo / sulla sabbia / e il vento / a poco a poco / se l’è portato via / con sé. / L’ho scritto poi / nel mio cuor / ed è restato lì / per tanto tempo...»

Avevo un cuore (che ti amava tanto). Calabrese di Fiumara, Mino Reitano ha grande esperienza e un curriculum alle spalle (ad Amburgo nel 1961 batte gli stessi palcoscenici degli emergenti Beatles, nel 1966 è a Sanremo con un brano di Mogol–Battisti, Non prego per me, versione doppiata dagli Hollies di Graham Nash): interprete generoso e volitivo, dimostra qui anche le sue qualità di autore. «Avevo un cuore / che ti amava tanto / che si è perduto / per volerti bene. / Io chiedo a te / di tendermi una mano / e di salvarmi / se lo vuoi.»

Il ballo di Simone. Nel novero delle migliori cover “Made in Italy”, questa che si afferma come il manifesto della bubble gum music, ritmi ballabili, da masticare senza problemi. Così la Simon Says degli americani 1910 Fruitgum Company giustifica nella gradevole versione italiana l’esistenza di Giuliano (Cederle) e i Notturni, la cui impronta resta destinata solo ai più accaniti collezionisti. «Batti in aria le mani / e poi falle vibrar / se fai come Simone / non puoi certo sbagliar…»

Azzurro. Un vertice assoluto della canzone italiana, con i meriti condivisi tra chi l’ha scritta, Paolo Conte, e chi l’ha portata al successo, Adriano Celentano, nella memoria incancellabile e trasversale del pubblico. «Cerco l’estate tutto l’anno / e all’improvviso eccola qua / lei è partita per le spiagge / e sono solo quaggiù in città / sento fischiare sopra i tetti / un aeroplano che se ne va». Storie di quotidianità tracciate con mirabile incisività, «quelle domeniche da solo / in un cortile a passeggiar / ora mi annoio più di allora / neanche un prete per chiacchierar...» Casa bianca. Ancora Sanremo 1968, dalle interpretazioni di Ornella Vanoni e Marisa Sannia, tenera voce dalla Sardegna che si rivelerà per l’occasione. Brano al centro di un’annosa diatriba legale sull’assegnazione dei diritti (con l’autore Don Backy protagonista di cause a ripetizione), oggi potrebbe piacere al suo legittimo occupante, Donald Trump: «Tutti i bimbi come me / hanno qualche cosa che / di terror li fa tremare / e non sanno che cos’è. / Quella casa bianca che / non vorrebbero lasciare / è la loro gioventù / che mai più ritornerà...» Cin cin con gli occhiali. Ode alla leggerezza, opera di Herbert Pagani, artista sfaccettato dalle molte qualità in diversi ambiti espressivi: questo è il suo volto più sbarazzino e sorridente, un tono fresco e garbato, il merito è anche del coautore, un giovane Edoardo Bennato. «Cin cin dai / noi siamo speciali / portiamo gli occhiali / dai vieni con noi... Ragazzina lo sai / dietro i vetri che hai / c’è uno sguardo che mette le ali / se un sorriso mi fai / e un bacio mi dai / noi faremo cin cin con gli occhiali.» Cinque minuti e poi. Maurizio Arcieri, voce e volto di quei New Dada punta del beat

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nostrano, chiamati ad aprire i concerti italiani dei Beatles e dei Rolling Stones (!), sente stretti i panni della band e presto sceglie la via solista, cinema compreso: non tutto funzionerà a dovere, ma intanto raggiunge le vette della hit parade con una ballata drammatico–petulante. «Cinque minuti e un jet partirà, portandoti via da me. / Cinque minuti per noi / poi anche tu partirai… / Chiamano un nome, sei tu, va’, non voltarti mai più / quanto cielo fra noi, è la fine, anche se / mi hai giurato che ritornerai da me.»

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Il paradiso. Al culmine di un triennio semplicemente favoloso, dopo Ragazzo triste, La bambola, Tripoli 1969, Patty Pravo piazza un’altra carta vincente con un pezzo uscito dalla factory Mogol–Battisti. La bionda Nicoletta gode di una popolarità per cui potrebbe cantare anche l’elenco telefonico, ma questa è molto meglio: «Il paradiso tu vivrai / se tu scopri quel che hai / non ti accorgi che / io amo già te.» Esportazione: lo rifanno in Gran Bretagna gli Amen Corner, con gran successo. La farfalla impazzita. Il nostro crooner per eccellenza, Johnny Dorelli, si misura con un pezzo esile e lieve come una piuma: al Festival di Sanremo lo presenta in coppia con Paul Anka, ma l’unione non fa la forza e anzi La farfalla impazzita, scritta da Mogol–Battisti, viene ingloriosamente eliminata e presto dimenticata. «Oh vola la farfalla impazzita ah ah / sfiora sorridendo la vita ah ah / io lo so ritornerà / perché lei cerca sempre il sole...» Luglio. Fiorentino, senza physique du rôle, non proprio un sex symbol, Riccardo Del Turco dalla sua ha simpatia e comunicativa, doti ribadite in un motivo tra i tanti usciti dalla penna dell’infallibile Giancarlo Bigazzi. Un sempreverde che privilegia orecchiabilità e rime baciate che conquistano al primo ascolto. «Luglio col bene che ti voglio vedrai non finirà / Luglio m’ha fatto una promessa l’amore porterà / ... Vieni, da me c’è tanto sole, ma ho tanto freddo al cuore / se tu non sei con me.» Piccola Katy. Gli eterni Pooh, dei predestinati, fin dai loro primi passi. Dopo un apprendistato tra beat e psichedelia, scocca l’ora del riconoscimento di massa ed è subito bagno di folla. Un classicone che fino al loro ultimo concerto è rimasto (giustamente) nel repertorio live: un “must”! «Piccola Katy / stanotte hai bruciato / tutti i ricordi del tuo passato / tutte le bambole con cui

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dormivi / e il tuo diario che sempre riempivi / solo con ciò che faceva piacere / a chi di notte l’andava a vedere.»

la gente pensa all’amore / Senti l’estate che torna / senti con tutti suoi sogni / senti l’estate che torna.»

Quando m’innamoro. Dalle zone alte della graduatoria finale del Festival di Sanremo, a cantare è Anna Identici, associata agli innocui americani Sandpipers: motivetto che sembra scivolare via senza lasciare il segno, ma è di prestigio e autorevolezza per la canzone italiana. Fioccano così versioni in spagnolo, francese, giapponese, e numerose cover, da Ray Conniff a Julio Iglesias, fino a Gigliola Cinquetti, Al Bano, Andrea Bocelli. «Quando m’innamoro / io do tutto il bene / a chi è innamorato di me / e non c’è nessuno che mi può cambiare / che mi può staccare da lui.»

Sono tremendo. Uno che l’America la trovò qui in Italia: beneficiato da Arbore e Boncompagni (sua la sigla di Bandiera Gialla, T Bird) e poi dal clamoroso tripudio spettato a Stasera mi butto, Rocky Roberts giostrava con abilità tra rhythm and blues, pop e canzonetta leggera, con savoir–faire e sorriso a trentadue denti. Tra le sue imprese professionali è da premiare Sono tremendo, bell’esempio di ballabile divertente e senza pretese: «Con tutte le ragazze sono tremendo / le lascio quando voglio e poi le riprendo / nessuna mi resiste ma mi arrendo / con una come te.»

Quarantaquattro gatti. Nella sterminata storia dello Zecchino d’Oro, nell’epopea del Mago Zurlì, sarà il frutto più noto, evocato come un mantra, buono anche per imparare le tabelline. Vince la decima straordinaria edizione (in gara anche le indimenticate Valzer del moscerino di una precoce Cristina D’Avena e il Torero Camomillo) una bambina goriziana di quattro anni, Barbara Ferigo, segnata per sempre da quell’apparizione. «Nella cantina di un palazzone / tutti i gattini senza padrone / organizzarono una riunione / per precisare la situazione./ Quarantaquattro gatti / in fila per sei col resto di due / si unirono compatti / in fila per sei col resto di due / coi baffi allineati / in fila per sei col resto di due...» Il tormentone dell’infanzia per eccellenza.

Torpedo blu. Il massimo risultato commerciale della carriera di Giorgio Gaber, a una decina di anni dall’inizio e poco prima di intraprendere la splendida avventura teatrale. Un tocco di fine umorismo, una vena arguta, sottile, da pregiato osservatore del mondo che gira intorno. Scritta con Leo Chiosso, partner privilegiato di Fred Buscaglione: «Vengo a prenderti stasera / con la mia Torpedo blu / è una vera fuoriserie / come senz’altro sei tu.»

Rose rosse. È solo un adolescente di belle speranze Massimo Ranieri quando incide nel 1968 Rose rosse, del solito Bigazzi. Subito non succede nulla, ci vorrà qualche mese di incubazione per esplodere a dovere, grazie al Cantagiro e a Canzonissima del 1969. A quel punto, si può dirlo, è nata una stella. «Forse in amore le rose non si usano più / ma questi fiori sapranno parlarti di me. / Rose rosse per te / ho comprato stasera / e il tuo cuore lo sa / cosa voglio da te.» Scende la pioggia. Sono gli anni di Gianni Morandi, ogni cosa che tocca diventa oro. Televisione, cinema e naturalmente dischi, non conosce confini. Con Scende la pioggia, traduzione da Eleonore degli americani Turtles, vince per la seconda volta Canzonissima, dove sbaraglia il campo con estrema sicurezza. «Scende la pioggia, ma che fa / crolla il mondo addosso a me / per amore sto morendo / amo la vita più che mai / appartiene solo a me / voglio viverla per questo.» La tipica filosofia, una specie di carta moschicida, del Gianni nazionale, che nel 1968 piazza pure Chimera, virato anche in un film dal re dei musicarelli Ettore Maria Fizzarotti: «Scrivo già poesie su di te / senza di te, senza me. / Passerò le mie sere così / senza piangere. / Un fiume quando è in piena / travolge il bene e il male / ma torna nel suo letto / e tu con me. / Ma se il mio cuore spera / non sarà solo una chimera.» Senti l’estate che torna. La via veneziana al progressive, al beat floreale–psichedelico, conduce all’abbraccio di un gruppo che ha attraversato molte vite e diede il meglio proprio agli esordi. Le Orme puntano sul riff uncinante di un 45 giri fortunato e originale (sul retro Mita Mita, dedicato a una delle protagoniste del Piper romano, l’attrice Mita Medici). «Stasera ti vedo diversa / i tuoi occhi hanno un altro colore / in strada c’è aria di festa / ora

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Un angelo blu. Forse la migliore band espressa dal girone della musica italiana negli anni Sessanta: è l’Equipe 84, da Modena, guidati dalla vocalità impareggiabile di Maurizio Vandelli. Bravi nel riprendere, tradotte, le hit anglo–americane, ma anche nel piazzare, dalla via Emilia, pezzi autoctoni. Questo è dell’onnipresente Mogol, anche se i meriti vanno all’atmosfera e arrangiamenti singolari quanto seduttivi. «Un angelo blu vola in cielo. / Un angelo blu che se fischio torna giù. / Un angelo blu e lei lo sa / è tutto ciò che io ho e in gabbia la terrò.» Zum zum zum. Ecco un cult della frangia più scanzonata del nostro brodello musicale: disponibile in varie letture, ma la preferita è quella di Sylvie Vartan, bionda interprete, moglie di Johnny Hallyday (uno dei meriti maggiori del rocker francese). Una delle tante intuizioni di Amurri e Canfora, marcetta buona per tutte le età, non a caso perfetta anche per l’esigente platea dei più piccini. «Sarà capitato anche a voi / di avere una musica in testa / sentire una specie di orchestra / suonare suonare suonare suonare / zum zum zum zum...». Non mancherà il film omonimo, di Bruno Corbucci, protagonista Little Tony. Ps. E se non bastasse, nella colonna sonora del ’68 più scanzonato troviamo anche (a prova di YouTube): Angeli Negri (Fausto Leali), Un aquilone (Ricky Gianco), Balla Linda (Lucio Battisti), Canzone (Don Backy), Canzone per te (Sergio Endrigo), Canzone per un’amica (Nomadi), La canzone di Marinella (Fabrizio De André), Una chitarra cento illusioni (Mino Reitano), Come un ragazzo (Sylvie Vartan), Deborah (Fausto Leali), La gallina (Cochi e Renato), Goganga (Giorgio Gaber), Una granita di limone (Bobby Solo), Ho difeso il mio amore (I Profeti), Io per lei (I Camaleonti), Io vivrò senza te (Lucio Battisti), Lascia l’ultimo ballo per me (The Rokes), Mi va di cantare (Louis Armstrong), Il mondo è grigio il mondo è blu (Nicola Di Bari), Nel ristorante di Alice (Equipe 84), Gli occhi miei (Dino), Un’ora sola ti vorrei (Showmen), Il ragazzo che sorride (Al Bano), Se perdo te (Gianni Morandi), Siesta (Bobby Solo), Signore io sono Irish (New Trolls), Spaghetti a Detroit (Fred Bongusto), Al telefono (Nino Ferrer), La vita (Shirley Bassey), La voce del silenzio (Dionne Warwick), Il volo del calabrone (Nini Rosso), Il volto della vita (Caterina Caselli). Ascoltare per credere. 27


La canzone politica A spulciare negli archivi, per il comparto della musica a trazione ideologica, quella più schierata e comunemente intesa come “canzone politica”, si trovano pochi titoli rilevanti, con atto di nascita proprio nel 1968. In quel periodo, forse, le energie e la destinazione degli impulsi collettivi andavano non tanto in una direzione discografica, ma piuttosto verso la creazione di una rete, di un circuito omogeneo, di sedi e luoghi comuni, alla ricerca di un clima dove respirare un’aria solidale e riconoscibile. Ecco allora che le realtà del Cantacronache, del Nuovo Canzoniere Italiano, dei primi collettivi studenteschi serviranno a stabilire un perimetro, a indicare una semina dove la produzione artistica più schierata potrà germinare negli anni a venire. Cantori di lotta e di solida appartenenza come Ivan Della Mea, Fausto Amodei, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli e altri compagni di cordata attivi nella linea dei Dischi del Sole avevano già iniziato ad agire da una sponda di attivismo e di militanza, ma sarà poi negli anni Settanta che, tra feste dell’“Unità”, manifestazioni, cortei e occupazioni, il loro ruolo prenderà quota, definendo per un periodo un’effettiva alternativa alla dimensione commerciale, una costola impegnata della canzone d’autore nel frattempo emersa con decisione anche sul piano del mercato. A sbirciare nelle classifiche non si direbbe proprio che nella vetrina musicale del 1968 sia filtrato un minimo sintomo delle contestazioni in arrivo: nessun principio barricadiero ad affermarsi, e semmai qualche rivolo del Flower power a riscattare la Summer of love della San Francisco di un anno prima. «Mettete dei fiori nei vostri cannoni», ricordate i carissimi Giganti di Proposta?! Con un’industria rampante, intenta a scalare i fatturati, si badava a una certa prudenza, per non perdere contatto con il gusto medio nazionale e nessuna rottura poteva essere auspicata per seguire le lusinghe della contestazione. Due articoli assai lucidi di Umberto Eco sull’“Espresso” aiuteranno a inquadrare la temperatura di stagione: Mille chitarre senza protesta (5 febbraio 1967), Nessuno tira più pietre (4 febbraio 1968). Del ’68 si occuperà, ad esempio, Fabrizio De André, concentrando le sue attenzioni in un album uscito un lustro più tardi, Storie di un impiegato, ma in genere l’osmosi tra i movimenti e la cultura stretta delle canzoni non avrà effetti meccanici. Brani sicuramente entrati nella memoria comune e intonati in scioperi e assemblee, come Contessa e O cara moglie, rispettivamente un inno di Paolo Pietrangeli e di Ivan Della Mea, sono del 1966 e del 1962; Per i morti di Reggio Emilia, di Fausto Amodei, è addirittura del 1960, mentre Alfredo Bandelli e Pino Masi proveranno

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a fare da megafono dalla loro barricata pisana con slogan inequivocabili come quelli contenuti in La violenza (La caccia alle streghe) o La ballata della Fiat. È l’imprimatur dato dalla nuova generazione degli chansonnier, dove va annoverata ovviamente anche Giovanna Marini. E mentre gruppi giovani partiti dal rock come i milanesi Stormy Six preparano una carriera votata di lì a poco al genere politico tout–court, le canzoni di certo più significative del ’68 italiano sono di Paolo Pietrangeli (Valle Giulia) e di Gualtiero Bertelli (Primo agosto Mestre Sessantotto). Trattasi di vere e proprie instant–song, dove le strofe e gli accordi si sostituiscono a slogan e volantini di controinformazione, che accompagneranno l’autunno caldo, nell’avvitamento tra tumulti studenteschi, protesta, rivendicazioni sindacali ad attraversare il Paese. C’è l’esigenza di ripensare alla rivoluzione, transitando dall’urgenza di canzoni che accolgono l’affanno e il desiderio, la ricerca di comunità, per evitare di sentirsi naufraghi nelle mani del Potere. «... Hanno impugnato i manganelli / ed han picchiato come fanno sempre loro / e all’improvviso è poi successo / un fatto nuovo, un fatto nuovo, un fatto nuovo / non siam scappati più, non siam scappati più. / Il primo marzo sì me lo rammento / saremo stati millecinquecento / e caricava giù la polizia / ma gli studenti la cacciavan via / “No alla scuola dei padroni! / Via il governo, dimissioni!”» Sono alcuni versi di Valle Giulia, dove Paolo Pietrangeli, figlio d’arte, poi regista per il cinema e la televisione (Porci con le ali, il Maurizio Costanzo Show), affronta un episodio di cronaca in una canzone–tazebao. Sono invettive, che fanno da contraltare alla magnifica allegoria di Ho visto un re (Enzo Jannacci + Dario Fo!), documenti di vita vissuta, transfer emotivi dal feedback collettivo possente, che nessun calcolo di copyright potrà fotografare correttamente: quella di certi autori diventa una lingua partecipata e condivisa, una tensione forgiata e amplificata a largo raggio, identità e fisionomia di una generazione. Tempo qualche decina di anni e quelle canzoni verranno dismesse, fissate nel ripostiglio del modernariato culturale, ma non del tutto dimenticate o rimosse: aiutano a capire chi e cosa (sp)eravamo, quanto e dove batteva il cuore, come si potesse guardare al futuro. Utopia di nervi, muscoli e sangue, canti, voci ribelli che furono patrimonio di molti. «Non ti dispiacere perché è finita, ma sorridi perché è successo.» Gabriel García Márquez

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JIMI HENDRIX, MAGGIO 1968 Dopo l’estenuante tour statunitense, 47 città in 57 giorni, a circa metà aprile 1968 gli Experience si riuniscono in sala d’incisione, al Record Plant di New York, per mettere mano al più ambizioso progetto hendrixiano, il doppio album capolavoro Electric Ladyland: è proprio nei primi giorni del mese di maggio che vengono composti e registrati alcuni dei suoi brani più famosi, Voodoo Child (Slight Return), House Burning Down e Long Hot Summer Night e altri meno noti come Cherokee Mist. Fu un periodo di grande creatività ma anche di tensioni, poiché proprio in quei giorni iniziano i dissapori con Chas Chandler e Noel Redding. Il primo era stanco della testardaggine di Hendrix, che voleva rifare all’infinito gli stessi brani, anche quelli che già funzionavano bene nella prima versione. Jimi non accettava consigli più da nessuno, quindi, sentendosi impotente, Chas decise di abbandonare il ruolo di produttore dell’album. Noel Redding, invece, era stanco di passare lunghe ore nello studio di registrazione seduto ad aspettare che un assolo di chitarra venisse rimixato per l’ennesima volta. Sia Chas che Noel erano entrambi infastiditi dalla presenza di altri musicisti e groupies che bivaccavano negli studi di registrazione e disturbavano. In più, i costi delle registrazioni erano lievitati a causa delle interminabili ore in studio e bisognava far affluire nelle casse denaro fresco con cui sopperire alle spese: da qui la decisione di aggiungere al precedente tour alcune date americane e altre europee che sarebbero iniziate proprio dall’Italia. Prima di volare in Europa, gli Experience suonarono due mitici concerti al Fillmore East di New York il 10 maggio e parteciparono, come attrazione principale, allo sfortunato Miami Pop Festival, che si tenne il 18–19 maggio all’autodromo Gulfstream di Hallandale. Il festival era organizzato dal ventiduenne newyorkese Michael Lang, che successivamente divenne celebre per essere l’organizzatore del Festival di Woodstock. Le violentissime piogge mandarono tutto all’aria, nessuno volle più suonare e i concerti furono annullati. L’organizzazione posticipò i pagamenti agli artisti. I musicisti presenti, Frank Zappa, John Lee Hooker, Arthur Brown, in attesa degli eventi, e comunque sotto contratto fino al 20, passarono il tempo facendo un’intensa jam session con Jimi, Noel e Mitch nel club Wreck Bar che stava nel seminterrato del Castaways, l’albergo di Miami che li ospitava. I mancati incassi dovuti all’annullamento dei concerti provocarono all’organizzazione grossi problemi di liquidità, per cui non fu pagato l’albergo in cui alloggiavano i musicisti e questi dovettero andarsene di nascosto per evitare di vedersi addebitare i costi di soggiorno. Noel e Mitch si imbucarono di soppiatto su una limousine diretta all’aeroporto e

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tornarono a Londra, da dove poi sarebbero volati su Milano Linate la mattina di giovedì 23 maggio. Jimi fu più sfortunato perché insieme a Trixie Sullivan, assistente personale di Mike Jeffery (manager di Jimi), rimase ‘sequestrato’ in camera dal direttore dell’albergo che intendeva utilizzarlo come ostaggio in attesa di essere saldato: ma i due in qualche modo riuscirono a scappare da una finestra e a raggiungere l’aeroporto. Nonostante le peripezie, forse per il clima creativo della jam session o forse per il cielo grigio e la pioggia torrenziale, a Jimi venne l’ispirazione e, mentre lo stavano accompagnando a prendere l’aereo per venire in Italia, cominciò a comporre il testo di Rainy Day, Dream Away.

Rainy Day, Dream Away

Rainy Day, Dream Away

In un giorno di pioggia, sogna ad occhi aperti

Hey man, take a look out the window ‘n’ see what’s happenin’ Hey man, it’s rainin’ It’s rainin’ outside man Aw, don’t worry ‘bout that Everything’s gonna be everything We’ll get into somethin’ real nice you know Sit back and groove on a rainy day Yeah Yeah I see what you mean brother, lay back and groove

Ehi amico, dai un’occhiata fuori dalla finestra e guarda che succede. Ehi, amico, sta piovendo Sta piovendo lì fuori amico. Ah, non ti preoccupare di questo. Tutto può prendere un’altra piega. Sta per succederci qualcosa di interessante, capisci? Siedi qui e goditela in un giorno di pioggia Sì, mmh Sì, capisco che intendi, fratello, rilassati e goditela.

Rainy day, dream away Ah let the sun take a holiday Flowers bathe an’ ah see the children play Lay back and groove on a rainy day Well I can see a bunch of wet creatures, look at them on the run The carnival traffic noise it sings the tune splashing up ‘n’ Even the ducks can groove rain bathin’ in the park side pool And I’m leanin’ out my window sill diggin’ everything And ah and you too

Sogna ad occhi aperti in un giorno di pioggia Ah, lascia che il sole si prenda una vacanza I fiori si bagnano e guardano i bambini giocare Rilassati e goditela in un giorno di pioggia Beh, riesco a vedere un bel mucchio di creature bagnate, guardale mentre scappano Il frastuono del traffico di carnevale, canta, piovono le lacrime E anche le anatre possono spassarsela La pioggia scroscia nella piscina accanto al parco E io mi sporgo dal davanzale della mia finestra osservando tutto Anche te

Rainy day, rain all day Ain’t no use in gettin’ uptight Just let it groove its own way Let it drain your worries away yeah Lay back and groove on a rainy day hey Lay back and dream on a rainy day

Giorno piovoso, ah, piove tutto il giorno Non è il caso di innervosirsi Lascia che si diverta a modo suo Lascia che ti porti via le tue preoccupazioni, sì Rilassati e goditela in un giorno di pioggia Ehi. Rilassati e sogna in un giorno di pioggia

JIMI HENDRIX, MAGGIO 1968

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In realtà, Hendrix nasce nel 1942 a Seattle nello stato di Washington. “È in arrivo Jimi Hendrix, il negro che suona la chitarra con i denti”

Chiedetemi tutto, ma non di gettarmi con il paracadute! “Giovani”, 23 maggio 1968.

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JIMI HENDRIX, MAGGIO 1968

“Mancano pochi giorni alla partenza e Jimi Hendrix si sta davvero entusiasmando. Mentre gli parlo, i suoi occhi magnifici si accendono di fuoco. «Voglio davvero superare me stesso quando canterò per i ragazzi italiani. Io e i miei Experience faremo scintille!»... Jimi Hendrix è un tipo favoloso. Ve ne accorgerete tra poco. Quando canta il suo Hey Joe non c’è nessuno che riesca a star fermo con i piedi. Andate a sentirlo e vedrete!” George Russell

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Il tour italiano della Jimi Hendrix Experience del maggio 1968 fu organizzato da Massimo Bernardi e Oscar Porri, ai tempi tra i più importanti promoter nazionali. La loro è stata una mossa dettata più dalla passione per la musica di Hendrix che da vere esigenze di business, anche perché, in quel periodo, Hendrix era relativamente conosciuto, la maggioranza dei giovani adorava i gruppi beat e impazziva per il rhythm and blues. Il tour venne annunciato già un paio di mesi prima dalle poche testate specializzate dell’epoca, che erroneamente segnalarono date anche a Napoli e Torino. La stampa italiana era impreparata e descrisse Hendrix come un selvaggio, un eccentrico, una devianza della cultura beat, senza molto curarsi della sua musica. Partendo per l’Italia, Noel incontrò Eric Barrett, roadie dei Nice, e gli offrì la possibilità di sostituire Neville Chesters, con gli Experience dai tempi del tour con i Monkees, che aveva abbandonato a metà aprile alla fine dei concerti americani. I concerti italiani furono quindi l’inizio del lungo sodalizio tra Eric e Jimi. Quando il 23 maggio del 1968 giunse nel nostro Paese, Jimi Hendrix era praticamente all’apice della sua breve carriera. Jimi atterrò all’aeroporto di Milano Malpensa intorno alle 10 di mattina del 23 maggio 1968 con un volo twa, in ritardo di oltre due ore, proveniente da Miami via New York. Ad attenderlo, oltre a un paio di fotografi professionisti mandati dalla casa discografica e a una giovanissima giornalista allora sedicenne (Daniela Cohen), c’era un gruppetto di curiosi che si erano attardati convinti che stesse arrivando Cassius Clay. Hendrix era stanchissimo e chiese di essere subito accompagnato in albergo, l’Hotel Windsor in via Galileo Galilei 2 a Milano, dove, giunto verso mezzogiorno, venne a sapere che tutta la strumentazione era stata bloccata per “controlli” e quindi il concerto pomeridiano probabilmente sarebbe saltato: così, dopo essersi registrato all’hotel, decise di andare a dormire. Gli altri membri degli Experience, Noel Redding e Mitch Mitchell, insieme ad accompagnatori e tecnici, erano invece sbarcati a Linate, provenienti da Londra. Al viaggio in Italia partecipò anche la sorella di Noel Redding, Vicky. Intorno alle 16, Leo Wächter, fondatore del Piper, si presentò in albergo pretendendo che Hendrix si facesse almeno vedere al locale, poiché, a suo dire, i ragazzi del concerto pomeridiano minacciavano di sfasciare il locale. Hendrix, che stava riposando, si irritò moltissimo per essere stato svegliato dopo poche ore di sonno: non riusciva a capire il motivo per cui dovesse dirigersi al Piper dato che non

Ciao Big, maggio 1968

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poteva suonare, ma alla fine Daniela Cohen e Massimo Bernardi lo convinsero e, visto che Jimi non aveva ancora mangiato, dopo un breve pranzo insieme a Noel Redding si diresse al locale. Qui trovò una scena apocalittica: i possessori dei biglietti del primo spettacolo (cancellato a causa dei ritardi nelle procedure di sdoganamento delle attrezzature), che dovevano uscire per far entrare quelli del secondo concerto, non sentivano ragioni, neppure l’idea di essere rimborsati li smuoveva. Non c’erano alternative: dentro tutti! Così la capienza del locale (circa 400 persone) venne quasi raddoppiata. Nonostante ciò, molti furono costretti a rimanere fuori: anche per questo si creò un caos incredibile. Jimi parlò brevemente al pubblico, firmò molti autografi, si mescolò tra la gente parlando amabilmente con i fan e naturalmente posò per fotografie con molte persone, inclusi diversi dipendenti del locale. Verso le 19, Jimi e Noel tra la confusione generale sgattaiolarono fuori dal Piper e tornarono all’Hotel Windsor, dove erano convocati per alcune session fotografiche: un veloce cambio d’abito e poi intorno alle 21 di nuovo al Piper per il concerto. Il primo set della Jimi Hendrix Experience, fissato per le 16.30, era stato annullato poiché l’attrezzatura era bloccata alla dogana di Linate: quindi, dopo i supporter Wess & The Airedales e la Bo Bo’s Band, iniziò una lunga attesa, e poco prima delle 22.30 la jhe salì finalmente sul palco. Il club era pieno all’inverosimile, all’interno si stava pigiati come sardine e qualche centinaia di persone furono costrette a restare all’esterno, con o senza biglietto. In base alle varie testimonianze, possiamo ricostruire la scaletta: la jhe suonò Killing Floor, Stone Free, Fire, Hey Joe, I Don’t Live Today, Foxy Lady, Red House, Manic Depression, Purple Haze e finì il concerto con Wild Thing: purtroppo non esistono registrazioni della performance. Dopo il concerto ci fu il solito via vai di giornalisti, fan, amici e curiosi assortiti: Jimi ritrovò una vecchia amica newyorkese, Yvonne o Luna, che ai tempi faceva la modella a Milano ed era anche fidanzata di Victor Sogliani, bassista dell’Equipe 84. È lei che gli presentò Ines Curatolo. Ines propose a Jimi di andare a Villa Bodoni, residenza–comune dell’Equipe 84, rifugio di musicisti e poeti, dove insieme passarono buona parte della notte.

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All’Hotel Windsor: Jimi Hendrix e Noel Redding con Daniela Cohen.

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Jimi Hendrix arriva in Italia RENZO ARBORE Devo ricordare che fui io a battezzare Jimi Hendrix in Italia, con Hey Joe, trasmettendolo nel mio programma radio Per voi giovani: ero abbonato alla rivista “Billboard” e mi arrivavano i dischi della classifica americana Hot 100. Così, indipendentemente dalle case discografiche italiane, io trasmettevo queste canzoni. Io ero un appassionato di soul – James Brown, Arthur Conley, Joe Tex, Rufus Thomas, Four Tops, Diana Ross e tutti gli altri – e quando ascoltai Jimi Hendrix non capii subito il suo ruolo di rivoluzionario che aveva modificato il rock; la sua musica era un po’ più “oscura” per me. Ma Hendrix era un autentico innovatore, solo successivamente lo compresi e lo apprezzai moltissimo. Sono molto contento di averlo lanciato in Italia, di averlo conosciuto e visto all’opera a Roma e sono rimasto profondamente turbato dalla sua prematura dipartita: chissà oggi cosa farebbe con la sua straordinaria chitarra se fosse ancora qui. MASSIMO BERNARDI In quegli anni mi arrivavano da Londra una ventina di dischi alla settimana in esclusiva per l’Italia e quando sentii Hey Joe, brano di un nuovo artista, un certo Jimi Hendrix, fui molto colpito. Volevo saperne di più su questo musicista e appena ho potuto sono andato a Londra per incontrarlo: una persona simpaticissima, molto divertente. Risalii al suo impresario e gli dissi: «Voglio Jimi Hendrix in Italia». Firmammo il contratto e l’unica cosa di cui mi rammarico è non aver inserito i diritti televisivi. Non mi sarebbero costati e oggi avremmo un filmato della sua visita in Italia. È così che nacque tutto: non fu facile trovare locali idonei dove far suonare la jhe. Quasi nessuno li conosceva e a Milano trovammo solo il Piper, un locale molto piccolo. OSCAR PORRI Sebbene Hendrix fosse un artista poco noto in Italia, a me e al mio socio Massimo Bernardi interessava molto. Così ci recammo in un locale di Londra per sentirlo suonare e ne rimanemmo entusiasti, con l’intenzione di portarlo nel nostro Paese. L’agenzia era la William Morris. Ci ricevettero freddamente, ma poi trattammo un po’ sulle cifre e alla fine ci accordammo. Mille sterline per ogni giorno di permanenza di Jimi nel nostro Paese (nel suo libro, Noel Redding parla di un compenso di 3.747 sterline per i soli quattro concerti romani, NdA), fissando subito anche le date: i giorni compresi tra il 23 e il 27 maggio 1968. Hendrix era una persona molto gentile. Tornati in Italia per organizzare il tour, la cosa si rivelò tutt’altro che semplice: ai tempi non esisteva un circuito di teatri o spazi per il live, se volevi sentire un cantante o un musicista dovevi andare al night e fu un po’ un esperimento farlo suonare in un teatro, al Brancaccio.

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Un concerto di Jimi Hendrix sarebbe stato uno scoop per la stampa, almeno così pensavamo: non fu proprio così, però sapevamo quanto potesse valere. Noi speravamo in un grande battage pubblicitario, tramite il nostro ufficio stampa diretto da Franca Borasio di “Novella 2000”. E quando alla Polydor, che era la sua casa discografica, chiedemmo un aiuto, ci diedero solo qualche centinaio di manifesti: dal punto di vista economico fu una grossa scommessa, perché tutto era sulle nostre spalle, praticamente senza nessun appoggio. ERIC BARRETT Tornai a casa sbronzo alle 4 di mattina, ero stato tutta la sera al Blaises, dove incontrai Noel Redding e Gerry Stickells che mi proposero di andare con loro in Italia come roadie di Jimi Hendrix. Gli dissi che ci avrei pensato. Invece, dopo poco che ero rientrato, ricevetti una chiamata da Gerry, il quale mi diceva di muovere le chiappe se volevo andare con loro a Milano. Con un terribile mal di testa mi recai in ufficio a Londra e di corsa all’aeroporto per il volo per l’Italia. FABIO TREVES L’amore per Jimi, per quanto mi riguarda, è datato giugno 1967: da circa un mese era uscito Are You Experienced? e io mi trovavo a Londra, in un alberghetto di Crystal Palace. Ai primi di luglio mi capitò finalmente di sentire un suo concerto, controllavo i giornali e le locandine e l’appuntamento era al Marquee Club, il tempio della musica rock, in Wardour Street. L’impressione fu immediatamente straordinaria. Io mi ero allenato già con l’album e anche sintonizzandomi sulle radio inglesi, che bombardavano soprattutto due pezzi, The Wind Cries Mary e Purple Haze, usciti solo come 45 giri. In quell’occasione, tra l’altro, trovai Noel Redding che avevo già visto alla guida di un proprio gruppo, come supporter di Georgie Fame in un piccolo locale, da Toft’s: scoprii che Noel era nativo di Folkestone, la cittadina dove ero solito passare le vacanze–scuola estive. Ma davanti a Hendrix tutti erano destinati a scomparire. Nel disco le note erano scarse e quindi si partiva con una fortissima curiosità: chitarristi bravi ne giravano, da Eric Clapton a Peter Green, ma uno che garantisse quella mole di effetti nessuno se lo poteva immaginare. Anche perché insieme a suoni inattesi circolava una musica molto potente sul palco del Marquee. La passione per Hendrix si alimentò in seguito e io stesso contribuii a diffondere il mito in Italia, portando le prime copie di quel disco e riuscendo a procurarmi gli altri appena venivano pubblicati sul mercato inglese. Non si può dire che ci fosse fermento già in quei primissimi mesi di attività, intorno a Hendrix: eppure dalla struttura dei pezzi, dalla forza, dalla messa a fuoco del materiale, sia su disco, sia dal vivo, i più capivano che Jimi non sarebbe stata una meteora. Non poteva essere un bluff: suonare in trio è complesso e in mancanza della tecnologia, con i soli volumi dell’amplificazione, il wah wah e i riverberi, quello che combinava Hendrix aveva dell’incredibile. La formula era classica, amplificatori Marshall e chitarra bianca Stratocaster, e molti di noi, musicisti in erba, si innamorarono subito di quei marchi. Da parte mia tentai di seguirlo anche dal vivo, ma non si avevano notizie precise, le informazioni sul rock erano scarse o nulle: si sapeva di alcuni concerti in Olanda e in nord Europa, ma mai niente di chiaro che consentisse

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di mettersi in viaggio. Poi, un bel giorno, all’improvviso, la notizia che sarebbe comparso in Italia. Da noi non era affatto una superstar: qui il rock arrivava di striscio, mentre imperavano sempre Gianni Morandi, Caterina Caselli, il Festival di Sanremo e per i gruppi lo spazio risultava limitato. Per salutare la venuta di Jimi, sui muri di Milano furono affissi dei manifesti a cura della Polydor, con il testone ricciuto di Hendrix, abbastanza clamoroso per un’epoca in cui non si usava quel tipo di promozione e io, insieme ad altri, mi ritrovai di sera a staccare con il taglierino quei poster preziosi: il segno che non ero solo. Hendrix era stato annunciato al Piper di viale Alemagna, un luogo ideale, perché l’acustica soddisfacente e la possibilità di vedere il proprio beniamino da vicino avrebbero permesso di gustarsi lo spettacolo. Come si usava a quei tempi, le repliche dovevano essere due, alle 16 e alle 21, ma nel pomeriggio di quella giornata di metà maggio Hendrix non suonò. GIUSEPPE GROTTI A quei tempi lavoravo a Malpensa e quella mattina fui incuriosito da una piccola folla tra cui spiccavano alcuni fotografi carichi della loro strumentazione: stavano aspettando un personaggio importante e qualcuno mi rispose che forse stava arrivando Cassius Clay, così rimasi in attesa anch’io. Dopo un po’ invece sbucò questo tizio, alto, magro, capelli lunghi con due mèches bionde, che mi rimase impresso per la maniera stravagante in cui era vestito e per un grosso apparecchio radio. Per me fu una delusione, non era Cassius Clay, ma un musicista americano. DANIELA COHEN Conobbi la musica di Jimi l’anno prima (1967) da alcuni parenti a Parigi e mi innamorai subito di lui. Ero una liceale e scrivevo degli articoli per “Ciao 2001”: appena seppi che Jimi Hendrix sarebbe venuto a Milano, pensai di approfittare del mio status di giornalista e di andare a prenderlo all’aeroporto per fargli un’intervista e delle foto. Mi recai alla Malpensa ad attendere Jimi Hendrix con due amici, Marilena ed Eugenio. Eravamo là alle 8 della mattina ma l’aereo della twa aveva un ritardo di almeno due ore. Oltre a noi tre, c’erano anche due fotografi ufficiali e un dirigente della Polydor. Alle 10.30 circa Jimi arrivò da solo, indossava un cappello nero, giacca di velluto blu, camicia viola con frange, jeans azzurri e due medaglioni al collo, era bellissimo. Un grande caos: nessuno di quelli della Polydor che erano venuti ad accoglierlo sapeva una parola d’inglese e, in più, alcuni passanti si erano avvicinati, incuriositi dai fotografi, e si chiedevano chi fosse quel negro che stava arrivando. Visto che lì ero l’unica in grado di comunicare con Jimi, mi offrii allora di fargli da interprete e fui invitata a salire con i miei amici sulla limousine (sei porte, con tanto di autista) che doveva accompagnare Hendrix all’hotel. Jimi era stravolto dal viaggio e desiderava solo riposarsi. Durante il tragitto dalla Malpensa a Milano diceva: «Bello, bello, sembra il New Jersey». Mi disse di non conoscere quasi niente dell’Italia e mentre si guardava attorno un po’ spaesato gli scattai delle foto. Della città di Milano Jimi praticamente non ha visto niente perché siamo andati di filato all’hotel, aveva bisogno di rinfrescarsi, si sentiva a disagio dopo oltre dodici ore di viaggio. Dopo poco, provenienti da Londra, arrivarono anche Mitch e Noel. Avendo saputo che gli strumenti e l’amplificazione erano fermi in dogana e che probabilmente il concerto delle 16.30 non ci sarebbe stato, Jimi andò in camera sua per dormire un po’.

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Il Piper, giovedì pomeriggio DANIELE BISAZZA A quel tempo qualunque appassionato di Jimi si sarebbe entusiasmato nel sapere che Jimi sarebbe venuto in Italia a suonare! A diciassette anni avevo ormai consumato i suoi dischi. Non fu facile convincere mio padre a lasciarmi andare a Milano, ma eravamo in tre e mi fu permesso di partire con il treno delle 6.35 da Vicenza per Milano. Ovviamente alle 11 del mattino al Piper era tutto chiuso, ma suonammo alla porta nella speranza che qualcuno ci aprisse. Fummo fortunati, c’era una bella signora anziana a cui chiedemmo di acquistare i biglietti per il concerto pomeridiano. Non li aveva e non poteva aiutarci, ma poi, intenerita dalla giovane età e dai visi imploranti, ci trattò come una madre premurosa: pagammo a lei il prezzo d’ingresso e ci scrisse a mano tre lasciapassare per l’entrata al concerto. Più tardi, quando si aprirono le porte, c’erano due casse e presentai quel mio foglietto dicendo che me lo aveva rilasciato la «signora». Il cassiere allora si consultò con il suo collega vicino: «cambia, cambia» e mi diede il biglietto. Davanti al palco c’era già gente che si era presa una sedia e stava seduta comodamente. Le ore passavano e Jimi non arrivava.

Piantina firmata da Jimi Hendrix. In alto a destra, al numero 13, il Piper, il locale del Palazzo dell’Arte, sede della Triennale, sito sulla destra rispetto all’entrata principale del Palazzo stesso.

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ALEX SCHIAVI La prima volta che udii il nome di Jimi Hendrix fu a casa di un piccolo promoter musicale milanese (si chiamava Freddy Torta e abitava in viale Monza). Ci parlò di questo musicista di colore e, prima di ascoltare il disco (Hey Joe), tutti noi pensammo: «Cazzo, un altro gruppo di rhythm and blues, coi fiati». Invece Freddy ci corresse: «No, è una cosa tutta nuova, uno che suona la chitarra in trio». Ebbene, io rimasi letteralmente fulminato. Avevo finalmente scoperto come e in che modo avrei voluto suonare la chitarra. Tutti i giorni andavo alle Messaggerie Musicali di corso Europa, e finalmente, nel settembre 1967, arrivò l’lp Are You Experienced?, che immediatamente comperai. Quindi, non potevo di certo perdermi il suo concerto a Milano, per niente al mondo. Nel 1968 portavo i capelli lunghi e frequentavo abitualmente il Piper di Milano. Mi ricordo che quel giorno c’era un bel sole caldo, fui uno dei primi ad entrare: sebbene il primo concerto fosse previsto per le quattro e mezza del pomeriggio, io, alle due, appena aprirono la biglietteria, ero già là. All’interno del locale c’erano due palchi, quello su cui doveva suonare Jimi dava

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sul giardino: alla sinistra, un corridoio che portava alle cucine e serviva anche da backstage per gli artisti. Appena dentro, con disappunto, notai che il palco era vuoto, non c’erano batteria, amplificatori o strumenti di alcun genere. Il tempo passava e il pubblico aumentava, ma delle attrezzature nemmeno l’ombra, a circa un’ora dall’inizio del concerto; una cosa molto strana. Sull’altro palco aveva iniziato a suonare il gruppo del locale, Wess and The Airedales, ma nessuno di noi ci fece caso e a tutti venne l’atroce dubbio di essere stati presi in giro. GIORGIO LANZANI È l’una di pomeriggio, fa caldo, io esco di casa e corro verso il metrò: vado a vedere Jimi! Al parco Sempione, sono emozionatissimo: già alle due c’è molta gente, ragazzi e ragazze con minigonne vertiginose. Entro e aspetto in piedi a una decina di metri dal palco. Poco dopo un annuncio: ci sarà un ritardo perché gli strumenti di Jimi sono fermi da qualche parte. Passa il tempo, suona Wess con gli Airedales, poi un giovane chitarrista bianco emulo di Jeff Beck con chitarra slide. Jimi non c’è, manca l’aria. DANIELE BISAZZA Le ore passavano e Jimi non arrivava. Ricordo una canzone, Black Cat, che diceva «portate via quel gatto, gatto nero»; è stata suonata talmente tante volte che mi è rimasta in testa come un’ossessione.

All’esterno del Piper, giovedì pomeriggio.

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ITALO GNANI Conobbi la musica di Jimi Hendrix attraverso un collega di lavoro, il cui fratello era batterista del gruppo di Ricky Belloni, che all’epoca aveva in repertorio alcuni pezzi di Jimi. Andai al concerto con mio fratello, non avremmo mai potuto mancare: pur essendo fan dei Rolling Stones, per noi l’idolo era lui, Jimi Hendrix. Eravamo al Piper alle 12, c’era già parecchia gente e molta altra ne arrivò. Aprirono alle 14: ricordo di un ragazzo che esibiva a braccia tese la copertina dell’album Axis: Bold as Love come un manifesto. Nella sala c’era un gruppo che suonava su uno dei due palchi, ma su quello destinato agli Experience non c’erano neanche gli strumenti e questo ci insospettì. SANDRO GAMBA Ero un giovane studente e avevo appena conosciuto la musica del grande Jimi, pur essendo fan di Yardbirds, Ten Years After, e di tutta la musica anni Sessanta che si poteva ascoltare per radio attraverso Per voi giovani o leggendo “Ciao amici”. Con alcuni amici andammo il pomeriggio al mitico Piper per ascoltare Hendrix, ma dopo lunga attesa venne annunciato che il concerto non si poteva fare perché gli strumenti erano bloccati alla dogana dell’aeroporto per sospetta droga. Sconforto massimo, eravamo accompagnati dal genitore di un nostro amico e non potevamo aspettare fino a sera per il prossimo concerto. Nel pubblico anche Maurizio Arcieri allora in auge con Cinque minuti e poi. Tornammo a casa delusi. EZIO GIONCO Come spesso succedeva in quegli anni, la dogana pensò di controllare gli strumenti per andare a “caccia” di droga. Alcuni sostengono che Jimi non voleva suonare nel pomeriggio, per cui accampò quella scusa, ma molti anni dopo incontrai Leo Wächter e mi confermò che il rinvio del concerto pomeridiano era stato effettivamente causato da problemi sollevati dai finanzieri. Per cui aspettammo tutto il pomeriggio l’arrivo della strumentazione. L’unica cosa che mi ricordo con precisione era l’attesa snervante che succedesse qualcosa: arrivò la comunicazione ufficiale che lo show del pomeriggio era definitivamente saltato e chi voleva poteva, con lo stesso biglietto, assistere a quello serale. A quel punto telefonai a casa per ottenere il permesso da mia madre di restare: ricordo ancora, come fosse oggi, l’eccitazione che mi pervase quando si ebbe la certezza che Jimi avrebbe suonato. ROBERTO MARESCA A quei tempi andavo al liceo. Ho ascoltato Hendrix per la prima volta su un nastro magnetico, a casa di Eugenio Finardi, che era appena tornato dagli Usa: il brano era Rock Me Baby di B.B. King (ma io non conoscevo l’originale) e mi turbò irrimediabilmente! Impossibile pensare di non andare al concerto, dopo aver ascoltato qualche centinaio di volte Are You Experienced?! Ci sono stato con gli amici di Baggio. Dato che il concerto pomeridiano era saltato, abbiamo deciso (io, Ricky Belloni e altri amici) di “occupare” il Piper, invece di accettare la resa del prezzo del biglietto (anche perché al pomeriggio costava 1.500 lire, mentre alla

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sera 3.000!). Ero un habitué del Piper e devo dire che il pubblico era da discoteca, ma preparato, anche perché gli artisti che normalmente accompagnavano i balli erano di notevole valore. Tra questi Thane Russal (che sembrava Brian Jones e si muoveva come Mick Jagger), Bad Boys (robusto gruppo uk, di cui ricordo il batterista scozzese Bernie Martin), Dave Anthony’s Moods (altro ottimo ensemble britannico con sezione fiati e abbigliamento rigorosamente vittoriano). LILLO GIOVARA Insieme alla fotografia, la musica da sempre è stata la mia grande passione, tant’è che già nel 1965 avevo fondato un Beatles Fans Club che presto era diventato un punto di ritrovo per i musicisti beat della provincia. Il club era in un piccolo locale a Gallarate e alla domenica organizzavamo concertini e festicciole: ben presto diventai anche il fotografo ufficiale dei gruppi beat che frequentavano il club. Il giorno del concerto faceva caldo e volevo essere tra i primi a entrare per prendere un buon posto per scattare delle foto, così, insieme a un amico, intorno a mezzogiorno presi il treno per Milano. Arrivati, il locale era ancora vuoto, così mi accaparrai un posto tra il colonnato alla sinistra del palco dove Hendrix avrebbe suonato. L’attesa per il concerto fu snervante. Il tempo passava e tra il pubblico qualcuno era anche molto incazzato, quando dal palco si sentì annunciare: «Guardate che Jimi Hendrix è qua»; poi Leo Wächter cominciò a spiegare che per problemi doganali il concerto pomeridiano non si sarebbe potuto tenere e da parte dei gestori del locale c’era la volontà di rifondere il prezzo dei biglietti. DANIELE BISAZZA La storia per noi tre avrebbe potuto avere una triste fine. Il rimborso del biglietto pomeridiano non ci permetteva di acquistare quello della sera, perché il costo era maggiore e non avevamo soldi. Ma ecco la grande idea di cercare di nuovo la signora, che, vedendoci affranti, ci aiutò di nuovo. Invece di uscire con il resto del pubblico, diede ordine di restare tutti e tre in giardino. Avremmo così potuto restare al concerto della sera senza uscire e pagare un nuovo biglietto. Un vero angelo. Fantastico! Così, attraverso i vetri, potemmo vedere il montaggio degli strumenti. ROBERTO FERRARI Quel giorno la Milano musicale era in fermento, una mattina di telefonate agli amici per andare al concerto insieme! Al pomeriggio eravamo tutti lì al Piper, si incrociavano gli sguardi. Dentro era talmente affollato che non potevamo neanche muoverci, interminabile l’attesa. Nessuno protestò per il rinvio alla sera, avevamo capito perfettamente quale fosse stato il problema. Con un amico, come al solito curiosi, andammo nel retro dove era parcheggiato il camion con gli strumenti. A un certo punto uno ci grida: «Hey man! Help us to bring the tools, we’re late». Non lo lasciammo neanche finire di parlare che già avevamo in mano due testate Marshall di Jimi: le portammo sul palco e restammo lì a vedere il backstage.

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FABIO TREVES Intanto il palco veniva allestito davanti ai nostri occhi, batteria Ludwig per Mitch Mitchell e una parete di otto amplificatori. RENZO CHIESA Ero giovanissimo, avevo appena diciassette anni, quando quel caldo pomeriggio del maggio del ’68 andai al Piper di viale Alemagna per vedere Jimi Hendrix, più per curiosità che altro, dato che fino ad allora conoscevo Jimi in maniera un po’ superficiale. Lo avevo già sentito per radio, raramente, oppure nei juke–box e, quando venivo invitato alla festa di qualche amico che aveva i suoi dischi, chiedevo sempre di ascoltarli. Io ero squattrinato e non potevo permettermi di comprare i long playing. Nonostante questo, però, Hendrix mi incuriosiva. Ero attratto da quel suo alone di mistero, quel fascino esotico. Era nero, suonava la chitarra in modo rivoluzionario come nessuno prima di lui, viveva in maniera poco ortodossa, era stato un paracadutista. PAOLO CARÙ Leo Wächter era incazzatissimo con noi del pubblico pomeridiano e usò parole molto forti e pesanti per cercare di convincerci a tornare la sera. CARLO ACQUISTAPACE Jimi l’ho conosciuto, musicalmente parlando, alle Messaggerie Musicali di Milano, dove andavo spesso per sentire in anteprima i nuovi 45 giri di quei musicisti che a me interessavano, ma che purtroppo erano irreperibili nei juke–box, forse perché troppo poco commerciali: un giorno vidi esposta, dietro il bancone dei dischi, una copertina che attirò subito la mia attenzione. Si trattava del suo secondo 45, Purple Haze. Appena messo sul giradischi, capii che quella sarebbe stata la mia musica, quella che avrebbe accompagnato la mia vita, addio caro beat! Al Piper Club in viale Alemagna di Milano ho passato, soldini permettendo, la maggior parte delle mie domeniche, dall’apertura del locale, all’inizio del 1966, fino circa alla fine del ’68. Ad ogni modo, era già da più di un anno che seguivo le notizie su Jimi sulle riviste musicali, per vedere se caso mai avrebbe fatto una visita nel nostro Paese con la sua band: un bel giorno appresi che ci sarebbe stato un tour in Italia, passando anche da Milano. Programmai la presenza al concerto per le ore pomeridiane, mi sentivo come intorpidito, in stato di trance. A un certo punto si sparge la voce che Jimi non avrebbe potuto suonare per via di problemi con la dogana, dove erano bloccati tutti gli strumenti: rifiutammo il rimborso del biglietto per la mancata esibizione, ero così eccitato dall’idea di vedere Jimi che anche se m’avessero preso a pedate nel sedere non mi sarei mosso da lì. Così fu, fino a quando finalmente non annunciarono che Jimi Hendrix sarebbe salito sul palco dopo pochi minuti. DANIELA COHEN Verso le 17 arrivò Leo Wächter, il responsabile del Piper. Era isterico e urlava. Diceva che nel suo locale stava succedendo una rivoluzione e che tremila ragazzi minacciavano di devastare il club se non avessero visto Jimi Hendrix. Il manager, invece, diceva che Jimi non sarebbe venuto a suonare senza i suoi strumenti e Leo

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Wächter di rimando: «Deve venire, deve almeno farsi vedere, sennò mi sfasciano il locale». Così andarono a svegliare Jimi che si incazzò tantissimo. Non riusciva a capire perché tutto quel casino, per lui non aveva senso andare al Piper se poi non poteva suonare, chiese allora qualcosa per tirarsi su: non sapevo cosa fare, allora un mio amico si offrì di procurargli della simpamina. Jimi intanto si era cambiato d’abito e si era sistemato i capelli e alla fine scese nella hall: siccome non aveva ancora mangiato, chiese di poter pranzare. Il Windsor aprì le sue cucine per Jimi e il suo entourage. Restavo l’unica a parlare inglese e per questo sono sempre rimasta con lui, in macchina, in albergo e anche al ristorante, perché in hotel non c’era nessuno che lo capisse: si mangiò un bel piatto di cannelloni, poi, sebbene ci fosse anche del pollo e della carne, disse che era sazio. Mentre Jimi era al ristorante, cominciai a scattare delle foto, ma mi disse per favore di non procedere per un fatto di privacy, chiedendomi di non pubblicare quei pochi scatti privati: e fu per questo che ci accordammo per una session fotografica, più tardi, nel giardinetto dell’hotel. Quindi verso le 18, insieme a Noel Redding, salimmo in macchina per dirigerci al Piper. Lungo il tragitto Jimi era ancora intontito per il viaggio e tutto il trambusto in hotel. Era anche seccato del fatto che l’organizzazione fosse molto carente e non aveva con chi lamentarsi, perché tanto nessuno lo capiva. In compenso era molto contento delle pastiglie che gli aveva procurato il mio amico. Quando arrivammo al Piper, la folla ci saltò subito addosso. Io avevo troppa paura di uscire dalla macchina: non c’era un servizio d’ordine, nemmeno un poliziotto. La polizia è arrivata alla sera, quando la tensione era salita ancora. LILLO GIOVARA Jimi fece una fugace apparizione sul palco, poi se ne andò via. Rimasi colpito dalla sua persona, innanzitutto mi sembrava diverso da come l’avevo visto in foto, aveva i capelli più corti e poi quelle mèches bionde. Fui spiazzato dalla sua “timidezza”, sembrava si stesse scusando per il mancato concerto; me lo immaginavo un duro. DANIELE BISAZZA Quando Jimi finalmente arrivò, fu grande gioia per tutti e per me un forte batticuore vederlo finalmente in carne e ossa. Ricordo anche bene che uno dei ragazzi del pubblico si era portato la copertina di Axis: Bold as Love e si fece fare l’autografo. Che fortuna! Aveva avuto un ricordo tangibile di Jimi! FABIO TREVES Alla fine passarono davanti a noi i musicisti, l’attesa era stata premiata: il clima era molto disteso, alcuni di noi si fecero intorno a Hendrix e agli altri. Qualcuno ebbe l’autografo, un altro ricevette consigli per la sua chitarra, uno un plettro, un altro ancora si mise in posa con Jimi per una foto–ricordo. Non esisteva, insomma, il distacco divistico delle rockstar e questo ci mise nelle condizioni migliori per gustare la serata. La sorpresa più impressionante fu vederlo accanto a noi: nel mio delirio di fan estremo credevo che Jimi fosse un colosso, un macigno grande e grosso con una forza straordinaria. Tutta immaginazione, perché non c’erano video, né film a disposizione. Invece, era un ragazzo normale e anche la capigliatura classica, che ricordavo da Londra, si era molto ridimensionata senza quella cotonatura che gli

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aveva gonfiato la chioma nelle foto ufficiali. Ricordo che mi avvicinai a lui e la prima cosa che mi venne in mente di dirgli fu: «Lo sai che anch’io sono nato il 27 novembre come te?»; e lui, invece che scrollare le spalle o, peggio, mandarmi a quel paese, mi abbracciò: una cosa impensabile. RICCARDO RADAELLI Insieme a due amici suonavamo in un complessino rock e ci esibivamo nei locali intorno a Lugano. Il mio cavallo di battaglia era Hey Joe e, appena ebbi notizia che Jimi Hendrix si sarebbe esibito a Milano, decisi di andare a vederlo. Purtroppo non ero autonomo e per venire in Italia, a Milano, c’erano dei problemi. Convinsi così mia madre ad accompagnarci con la sua auto; arrivammo al Piper nel primissimo pomeriggio. Eravamo in attesa del primo concerto, faceva caldo e il tempo non passava mai. La confusione e la tensione aumentavano, quando improvvisamente si creò un parapiglia: al momento non capii, poi realizzai che era arrivato Jimi Hendrix. C’erano giornalisti che gli facevano domande, fan che volevano toccarlo, gente che chiedeva autografi. Fortunatamente, da casa portai la mia macchina fotografica ed ebbi la prontezza di spirito di fare 13 scatti ravvicinati a Jimi. Ricordo, tra la gente attorno a Hendrix, Maurizio Arcieri dei New Dada. Il concerto al pomeriggio era saltato e verso le 19 mia madre tornò per riportarci a casa, non potevamo fare nulla per rimanere. Mi consolava solo di aver visto Jimi da vicino e avere un buon bottino racchiuso nella macchina fotografica. Sono foto di cui sono fiero e al contempo ne sono gelosissimo. In tutti questi anni solo pochi le hanno viste. Uno dei ragazzi che era con me, un po’ più intraprendente, un paio d’anni dopo, nella primavera del 1970, si interessò per organizzare un concerto di Jimi a Lugano. Scrisse al manager di Jimi e gli fu proposta una data nel settembre dello stesso anno, in coda al tour europeo. Però, data la nostra inesperienza e l’elevata cifra richiesta, 30.000 franchi svizzeri, non se ne fece nulla. Mai avremmo immaginato che Jimi sarebbe mancato così presto. GIANNI CIUFFINI A quei tempi facevo l’operaio in un’azienda tipografica e spesso ero al Piper perché suonavano i Dik Dik, i Camaleonti e i Pooh. Vidi Jimi Hendrix sia la mattina che la sera, ma non mi entusiasmò molto perché io andavo lì per ballare e quando ha suonato lui non si poteva ballare! ROBERTO MARESCA Fugace apparizione di Jimi al pomeriggio: garbato, quasi timido! Lo immaginavo più alto, ero affascinato dall’abbigliamento e da quelle ciocche bionde. RENZO CHIESA Dopo una lunga attesa venne sul palco anche Hendrix a spiegare che non avrebbe suonato senza la sua strumentazione. Intanto rimasi sconcertato per le mèches color giallo oro che aveva tra i capelli, che in qualche modo incrinavano l’immagine un po’ ieratica che mi ero fatto di Jimi. Comunque, sperando di sentirlo suonare dal vivo, decisi di rimanere per il concerto serale. Avevo portato con me la mia piccola e preziosa macchina fotografica, volevo essere vicino al palco per riprendere Jimi.

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BAMBI FOSSATI Partimmo da Genova per vedere Jimi Hendrix, per niente al mondo me lo sarei perso. Anche se avevo solo diciassette anni, guidai il maggiolone del mio amico per andare a Milano. Non avvisammo nessuno, tanto che mio padre ci denunciò ai carabinieri. Prima del concerto riuscii a vederlo e, non sapendo cosa dire, gli chiesi una sigaretta: lui mi diede una Philip Morris che ho conservato gelosamente. ITALO GNANI Dopo una lunga attesa, a un certo punto, dopo le 17, Jimi arrivò per spiegare che vi erano stati dei problemi ma che il concerto ci sarebbe stato alla sera; così Jimi salutò e sparì. Molti si fecero dare indietro i soldi, noi preferimmo tornare alla sera. RICKY MAIOCCHI Ero al Piper per il concerto pomeridiano. Hendrix arrivò nei camerini e mi spiegò i motivi per cui non poteva suonare. Lui non sapeva neanche che da noi esistessero dei complessi, di italiano conosceva solo Mario Del Monaco, ma di gruppi non aveva proprio idea. Abbiamo bevuto qualcosa, gli ho fatto conoscere due mie amiche (con una delle quali, fra l’altro, ha avuto una storia) e la sera, dopo il concerto, ci siamo trovati per andare a casa di una di loro, dove abbiamo fatto una festicciola, una cosa molto tranquilla. Mi regalò un battipenna e tre pick–up, che poi credo siano finiti ad Alberto Radius della Formula 3. Non mi ricordo di aver visto molti musicisti, solo Maurizio Arcieri e Milena Cantù. IVANO TONINI Ai tempi non conoscevo Hendrix, sebbene fossi un musicista, e suonavo con la Bobo’s Band. Da tre mesi eravamo fissi al Piper. Jimi entrò nel camerino insieme a Yvonne, la fidanzata di Victor della Equipe 84, e subito adocchiò la mia Fender Telecaster, la provò e mi disse che anche lui aveva fatto per molto tempo il turnista e non sempre era andata liscia, anzi fu molto dura. GABRIELE POLETTI Mi innamorai subito della musica di Jimi Hendrix. Appena sentii Hey Joe, corsi immediatamente a comperare il 45 giri. Sin dalle prime note si capiva che era diverso dagli altri chitarristi, anni luce di distanza dagli altri musicisti dell’epoca. Avevo diciotto anni e suonavo la chitarra in un complessino beat. Tra le varie canzoni in scaletta ce n’erano anche un paio di Jimi, tratte da Are You Experienced?. Come seppi che Jimi Hendrix avrebbe suonato a Milano, mi organizzai per andare al Piper per assistere al concerto serale. Convinsi così Luigi, il nostro bassista, ad accompagnarmi: sulla mia 124 Coupé, ci avviammo alla volta di Milano e trovai da parcheggiare a due passi dal Piper. Quando aprirono, mi ricordo, feci una gran corsa per entrare e prendere un buon posto. Una volta all’interno, però, vidi che c’erano già un centinaio di persone rimaste dal pomeriggio. I tecnici stavano sistemando i Marshall e qualcuno mi disse che gli amplificatori erano appena arrivati. Per un po’ ci fu l’andirivieni sul piccolo palco del Piper, che quasi scompariva con quella montagna di amplificatori, poi uno dei tecnici prese la chitarra di Jimi, la collegò, fece due accordi e se ne andò. Poi più niente. Passò un’ora, forse più, l’ambiente era buio e sempre più affollato, caldo, fumoso. Non ne potevamo più.

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DANIELA COHEN Dopo il bagno di folla pomeridiano, verso le 19 siamo tornati in albergo e solo allora Jimi si è rilassato. Fuori, in giardino, abbiamo scattato alcune foto, c’erano anche dei giornalisti che lo intervistarono. VICKY REDDING Jimi e mio fratello Noel, una volta in albergo, uscirono per delle session fotografiche nei giardini dell’hotel con Daniela e un altro giornalista, mentre io li aspettavo al bar. Lì c’era una donna, credo texana, e scambiammo qualche parola. Poi arrivò il marito che disse: «Sai, ci sono dei finocchi sul prato qua fuori che si fanno fotografare»; io molto arrabbiata risposi: «Guardi, mi scusi, ma una di quelle persone è mio fratello e non è affatto una checca».

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Il Piper, il concerto DANIELA COHEN Per la sera lo hanno chiamato verso le 21; nel frattempo ero rimasta sempre lì, poi sono di nuovo andata con lui al Piper. Non ha mangiato in albergo: lo hanno proprio trascinato fuori... Erano tutti isterici – gli organizzatori, quelli della casa discografica – non si capiva più niente. Tutti se ne volevano lavare le mani. Wächter era completamente fuori di testa, terrorizzato da quello che gli stava capitando. Un disastro, tutti con la voglia di distruggere il locale, se non avessero potuto entrare a vedere Jimi Hendrix. Cosa, d’altronde, fisicamente impossibile; c’era gente praticamente attaccata alle lampade, ai muri, fuori nel giardino, da tutte le parti. Hendrix disse che se si doveva suonare così poteva anche farne a meno. Era il caos totale. Non riuscì nemmeno a fare il sound–check: scaricati gli strumenti, li hanno montati subito. I suoni facevano schifo. Non si sentiva niente da nessuna parte. Che fosse impossibile suonare in quelle condizioni me lo aveva già detto Jimi dopo aver visto quel che stavano combinavano... Prima di cominciare a suonare, continuò a far dentro e fuori dalla cucina, praticamente il suo camerino. EZIO GIONCO Leo Wächter, che mi conosceva, mi vide e disse: «Hey, lazzarone, vuoi conoscere Jimi Hendrix?» e mi portò nelle cucine: c’era Jimi che prima del concerto stava mangiando un bel panino con la mortadella. Nel mio scarno inglese riuscii solo a chiedergli se gli piacesse e lui rispose che era molto buono. GABRIELE POLETTI Finalmente una luce illuminò il palco, l’annunciatore disse: «Eccovi la Jimi Hendrix Experience». Jimi stava collegando la chitarra e armeggiando con gli amplificatori, poi si avvicinò al microfono e disse qualcosa del tipo: «Is it too loud?» (È troppo rumoroso?). Le parole non si sentivano assolutamente, l’impianto audio era pessimo. La voce era coperta dal volume dei Marshall. Sicuramente suonò Foxy Lady, Hey Joe, Fire, Stone Free, Red House e Can You See Me, canzoni che conoscevo già allora molto bene. L’ambiente era sovraffollato, c’era gente dappertutto, persino nei corridoi dei bagni, poveracci, chissà che potevano sentire. L’acustica era terribile, difficilmente si riusciva a cogliere la voce di Jimi quando cantava.

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VICTOR TOGLIANI Avevo il biglietto per il concerto pomeridiano, saltato per i noti problemi. Insieme ad alcune decine di ragazzi, io e Daniele decidemmo di resistere e di non muoverci fino all’inizio dello spettacolo serale. Grazie a Mario, il padre di una mia amica, ci infilammo in un lungo corridoio nascosto che portava a una porticina, con accesso ai camerini. Una folata di luce e vediamo Mitch Mitchell e Noel Redding seduti davanti agli specchi, con al fianco due ragazze ciascuno per cotonare i capelli. Seduto su una cassa di legno, in un angolo, Jimi stava accordando la sua Fender Stratocaster bianca. Mario, avvicinandosi a lui, me lo presenta e Jimi mi porge la mano: io quasi soffoco dall’emozione. Rimasi in catalessi per settimane, basito anche per la tecnica sulla chitarra, che vidi mentre suonava sul palco. Ci volle del tempo per riprendermi... DANIELE BISAZZA Alla fine Jimi entrò, aveva la Stratocaster bianca e una sigaretta accesa in bocca. Qualcuno del pubblico gli tese la mano e lui gliela diede. Ero talmente vicino a Jimi che se mi allungavo un po’ sarei riuscito a toccare le sue scarpe. Un concerto immenso, strepitoso. LILLO GIOVARA Alla sera era una vera bolgia e per posizionarmi meglio presi una sedia, la misi sul tavolino. Da lì sopra avevo una buona visuale per le mie foto. Quando Jimi giunse verso le dieci di sera, ci fu una brevissima presentazione e iniziò subito il concerto: durante la sua esibizione masticava un chewing gum e con noncuranza faceva uscire dei suoni incredibili dal suo strumento. Più che aver suonato con i denti o tra le gambe, mi impressionò la scioltezza e l’affiatamento con gli altri membri della band: bastava infatti uno sguardo e il gruppo lo seguiva. RENZO CHIESA Io ero nella prima fila in piedi, a circa cinque metri da Hendrix, nel pubblico ricordo Ricky Maiocchi e i Camaleonti. Qualcuno salì sul palco, collegò la strumentazione e, dopo un tempo che a me parve un’eternità, gli Experience arrivarono sul palco per iniziare a suonare. Durante le prime canzoni, i tecnici erano indaffarati a sistemare volumi, cavi e spinotti. Hendrix dirigeva gli altri due musicisti del gruppo con cenni e sguardi. Rimasi colpito dalla sua maestria, dalla sicurezza e dalla scioltezza che aveva nel maneggiare il suo strumento: lasciava impressionati, indipendentemente dal fatto che la sua musica piacesse o meno. PIERO CERRI A Milano la cultura underground era molto viva, e io ero uno di quei ragazzi che aveva deciso di liberarsi di tutte le convenzioni borghesi per andare a vivere in una comune in corso Magenta: era un via vai di gente e tutti insieme con una colletta

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acquistammo un giradischi, ovviamente tra i vari dischi che gli amici portavano c’era anche Jimi Hendrix e lo si ascoltava spesso, perché la sua musica ti faceva veramente viaggiare. Seppi che la jhe avrebbe suonato a Milano grazie al passaparola tra amici, ma sebbene apprezzassi la sua musica non ero molto convinto di andare al concerto, perché, erroneamente, pensavo che il concerto sarebbe stato inferiore ai dischi. In pratica, non pensavo che dal vivo potesse riprodurre quei suoni pazzeschi. Poi, invece, decisi di seguire i miei amici. Ammetto che mi dovetti ricredere, Jimi era dieci volte meglio del disco, un’esplosione, una cosa davvero grandiosa. ROBERTO MARESCA Una cosa la ricordo molto bene: con un semplice distorsore e un pedale wah wah, ha fatto cose che non sento fare oggi con i multi–effetti più sofisticati! La cosa che letteralmente mi ha colpito di più è stato il volume, a cui neanche lui sembrava abituato, con la faccia che si contorceva in una serie di tic: il suo modo di interagire con il pubblico era potente, ti guardava negli occhi e sembrava tirarti a sé; ogni tanto (anzi spesso) fissava una ragazza, con atteggiamento inequivocabile, estroflessione e movimento ritmico della lingua! Non ho cercato di avvicinare Jimi dopo il concerto, ero troppo timido per farmi avanti. ITALO GNANI Alla sera la sala era straripante e quando, dopo le 22, il gruppo arrivò, Jimi dominava la scena con la sua presenza. Chissà per quale ragione lo vedevo altissimo di statura, il suono era parecchio alto e ogni tanto armeggiava con gli amplificatori per trovare il giusto equilibrio. Di Jimi mi colpì il suo sguardo semplice e buono, la velocità delle lunghe dita sulla sua chitarra: ho anche apprezzato Noel Redding al basso e la bravura scatenata di Mitch Mitchell alla batteria. CARLO ACQUISTAPACE Mi ricordo benissimo che ero posizionato in un’angolazione che mi permetteva di vedere Jimi sul suo lato sinistro. Noel e Mitch li ho solo “sfiorati” con lo sguardo, il fulcro era lui, Jimi e quello che usciva dalla sua Fender bianca. Anche se dalla mia posizione l’ascolto non era proprio ottimale, il sound che usciva dalla casse l’ho percepito proprio come lo avevo sentito sui dischi. L’unica distrazione durante il concerto è stata quando ho intravisto qualcuno (Eric Barrett o Gerry Stickells) che cercava di tenere in bilico un Amp che per motivi di ressa cominciò a ondeggiare verso la sponda del palco. ROLANDO GIAMBELLI Tanti anni fa suonavo la chitarra, come “solista”, nei Some Souls, un gruppo pop di cinque amici amanti del blues e del rock. La mia carriera di solista finì la sera che scoprimmo Are You Experienced?. Avevo capito che suonare così mi sarebbe stato impossibile, ma divenni un appassionato

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estimatore di Jimi Hendrix al punto da cercare tutto ciò che registrava e andare a sentirlo in concerto “live” pochi mesi dopo, a Milano, il 23 maggio 1968, durante quella breve, ma indimenticabile, tournée. Dopo oltre trent’anni avevo anche scoperto con piacere di essere stato fotografato casualmente sul palco di Jimi Hendrix, accanto a un suo amplificatore Marshall durante il movimentato concerto milanese al Piper in Parco Sempione. Nell’occasione, aiutai Noel Redding ad allacciare la cinghia del basso che si era sganciata durante l’esecuzione di una scatenata Stone Free. RENZO CHIESA Suonò dietro la testa, con i denti, tra le gambe, la strapazzò veramente quella povera chitarra. Quando il concertò finì, avevo le orecchie che mi fischiavano, però ero soddisfatto, non avevo mai sentito o visto una roba simile. DANIELE BISAZZA Quasi alla fine del concerto, tutti noi seduti ci alzammo in piedi e questo gesto fece indietreggiare Jimi sul palco, fino a tirarsi dietro anche il pedale wah wah. RICKY GIANCO La cosa che mi ricordo meglio del concerto di Hendrix, a parte le canzoni più famose da lui suonate, fu che a un certo punto qualcuno cercò di salire sul palco. Erano tutti accalcati vicino al palco, e un tipo che cercava di toccare Jimi: lui, probabilmente infastidito, gli ha dato un colpo sul muso con la paletta della chitarra e quello è caduto. Però devo dire che nessuno si è scomposto più di tanto e Jimi ha continuato a suonare imperterrito. GABRIELE POLETTI Il piccolo palco era assediato dal pubblico, mi ricordo che c’era un esagitato durante il concerto che cercava di toccare i piedi, le gambe, i distorsori di Jimi. Se avesse potuto si sarebbe aggrappato a una sua gamba. Hendrix, a un certo punto, si vede che si era stufato, ha mimato di tirargli un calcio. Questo tizio non si è più azzardato ad avvicinarlo... Jimi stava suonando da oltre un’ora e il volume era assordante. Cercai di restare fino alla fine per poi avviarmi verso l’uscita. Ai cancelli, gli Experience stavano salutando il pubblico annunciando l’ultima canzone Wild Thing. EZIO GIONCO Non ho parole per descrivere il concerto: fu un crescendo di emozioni. Ricordo che il concerto finì con Wild Thing dei Troggs che era in origine una canzoncina. Incredibile, rimasi a bocca aperta, la versione di Jimi fu invece così estrema, selvaggia e ne conservo ancora una memoria indelebile. PIERO CERRI Alla fine del concerto Jimi è sceso dal palco e lì l’ho visto molto bene, l’ho guardato e lui aveva questa faccia terribile, brutta, tirata. Era sfatto, sudato. La cosa mi ha

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ferito al cuore perché è caduto un mito; parafrasando Guccini in una nota canzone, «gli eroi sono tutti giovani e belli». Invece vedevo la tensione e la stanchezza di un uomo che aveva dato tutta la sua energia per quel concerto. IVANO TONINI Fu davvero un concerto incredibile, peccato che i suoni fossero discutibili: d’altronde c’era un impianto base su cui tutti dovevano lavorare, lo stesso Jimi Hendrix fu obbligato a utilizzare un Semprini. Ebbi l’idea, d’accordo con il tecnico audio, di piazzare un cavetto al mixer e registrare il concerto. Ne feci anche qualche copia a degli amici, però il nastro originale mi fu rubato insieme alla mia 500 qualche mese più tardi, dopo una sera al Santa Tecla. DANIELA COHEN Durante il concerto ho fatto proprio fatica a rimanere lì. Sono stata nelle cucine a fare qualche foto da lontano. Ho molta paura della folla, sin da piccola non mi è mai piaciuto quando c’è veramente troppo casino. Poi avevo paura per la macchina fotografica, che cadesse in tutto quel trambusto. A un certo punto, erano le 23, vidi comparire mio padre, che mi obbligò ad andare via a concerto non ancora finito. Però, devo dire la verità, non si sentiva niente. Una pessima acustica. Jimi era furibondo. ERIC BARRETT Il concerto di Milano fu il mio primo giorno di lavoro per la jhe. L’equipaggiamento tecnico era in pessimo stato perché Jimi aveva appena finito un tour americano; i coni delle casse erano mezzi fusi, le valvole degli amplificatori erano andate e la scarsa potenza dell’alimentazione non faceva funzionare bene le testate Marshall e Sound City. Hendrix era arrabbiatissimo e, nel corso di ogni brano, mi urlava di tutto: «Che stai facendo? Perché non funziona niente?». Io ero costretto a rispondergli: «Non lo so, non lo so». Non sapevo che pesci pigliare. La frustrazione era tanta e a un certo punto ho persino pensato di lasciar perdere e di andarmene. È stato Gerry Stickells a calmarmi e a dirmi di non mollare. Probabilmente attribuendo al solo sistema di amplificazione tutti i problemi tecnici, ho esagerato così come ha fatto Jimi nel dare esclusivamente la colpa a me. Ad ogni modo, Hendrix, a fine concerto, si è scusato: mi ha detto che non aveva capito che io non c’entravo e che comunque non urlava a causa mia. Sono bastati i cinque giorni del tour in Italia per conoscerlo meglio, per andarci d’accordo, cominciare a volergli bene e capire quello che stava cercando di fare. NOEL REDDING L’alimentazione andava e veniva su e giù come uno yo–yo e Jimi urlava di continuo. Poiché suonavamo con il volume a 10 e gli alti e bassi completamente aperti, gli amplificatori duravano all’incirca per un concerto. I miei Sunn erano meravigliosi, anche se Jimi era partito con 75 watt, adesso aveva sei casse Marshall con 4 altoparlanti da 12 pollici ognuna, ne provai una anch’io, ma non potevo sopportare il

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volume. Aveva inoltre 4 amplificatori Marshall da 100 watt e gadget vari: distorsori, wah wah, univibe e octavia. ALVARO FELLA Anch’io fui tra quelli che avevano scelto il concerto pomeridiano, costretto poi ad attendere la sera nei giardini dietro il locale. Appunto perché ero stato tra i primi ad arrivare, riuscii a mettermi proprio sotto il palco, in una posizione perfetta per assistere alla performance, e anche per entrare in alcune foto che ritraggono il pubblico assiepato. In quel periodo militavo come cantante in un gruppo, gli Stato d’animo, dove suonavano anche il futuro batterista dei Jumbo e il futuro chitarrista dei Maxophone. Nel nostro repertorio c’erano i pezzi degli Experience, da Fire a Foxy Lady, e tra i tanti motivi di curiosità avevamo anche quello di sentire gli originali. L’esibizione fu stratosferica, Jimi aveva volumi altissimi, faceva di tutto con la chitarra, sfregandola sull’asta del microfono a simulare l’atto sessuale e ricavando suoni incredibili con l’utilizzo del solo wah wah. Il pubblico non credeva ai suoi occhi, anche perché all’epoca tutti erano abituati ai complessi beat, molto più composti e ordinati. Oltre alla musica, era la modalità degli Experience nello stare sul palco a colpire. E poi Jimi, per andarsene, lanciò in aria la chitarra, che, ricadendo, produsse distorsioni e rumore: qualcosa di veramente straordinario.

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“PIERINO” Quando Hendrix scese dal palco, insieme a Ines Curatolo e al mio amico Lorenzo lo seguimmo entrando nei camerini, saremmo stati una decina di persone non di più. Io non ebbi il coraggio di rivolgergli la parola un po’ perché non conoscevo bene l’inglese e un po’ perché mi sentivo in soggezione. Jimi era sudatissimo e dopo un po’ tolse la camicia fradicia e la appoggiò su una sedia. Era una camicia viola con i volant e io, che ai tempi ero un ragazzino, pensai che sarebbe stata una figata averla. Così con disinvoltura mi avvicinai e la presi. Ovviamente uscii subito insieme al mio amico e “compagno di crimine” Lorenzo. Una volta fuori, era sera e buio, la nascosi per evitare che qualcuno cercandola me la trovasse addosso. Dopo poco sentiamo delle imprecazioni ad alta voce: «Fuck bastards... fuck motherfuckers». E il mio amico mi dice: «È Jimi Hendrix incazzato per la camicia». Era proprio lui, fuori di sé, non capivo letteralmente quello che diceva ma sicuramente un sacco di parolacce e ad alta voce. È andato avanti così fin quando è arrivato un taxi e lui e Ines Curatolo sono saliti. Allora io e il mio amico ci siamo detti: «Ma quante storie, Jimi, per una camicia, con tutte quelle che avrai». La storia ebbe un seguito, Ines immaginò che fossi stato io e non mi rivolse più la parola.

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INES CURATOLO Ho conosciuto Hendrix a Milano dopo il suo concerto tramite un’amica di colore che all’epoca era qui in Italia: Luna era una famosa modella newyorkese e lo conosceva. Mi propose di andare a vederlo, io avevo solo sentito qualche sua canzone. Non ero una sua fan, ma lo sono diventata dopo il concerto. Alla fine dello spettacolo siamo andate nel camerino a salutarlo. Essendo amiche di Leo Wächter, avevamo libera circolazione nel suo locale. Ci siamo presentati, poi siamo finiti a casa e lì è rimasto tutta la notte. Il giorno dopo partì per Roma, dove non potevo esserci, perché a quei tempi facevo la deejay in un locale a Milano. Lo rividi la domenica a Bologna.

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MAURIZIO VANDELLI In via Bodoni c’era la villa che noi dell’Equipe 84 avevamo preso in affitto vicino a piazzale Accursio, ed era una villa straordinaria in stile liberty, un punto di riferimento per molti artisti più o meno famosi. Da lì sono passati tra gli altri Andy Warhol, Georgie Fame, Allen Ginsberg e anche Jimi Hendrix. Però devo chiarire che Hendrix non venne per trovare me, ma venne con un’amica, Ines Curatolo. Per me non era così importante e conosciuto in quel periodo da dargli tanta attenzione: poi non parlavo molto bene l’inglese e facevo fatica a capirlo. Si fumò un paio di canne lunghe così e parlammo di come si suonava la chitarra: mi raccontò del black power che lui temeva; loro lo odiavano perché suonava con musicisti bianchi e per questo gli piaceva Londra. Domande non gliene rivolsi molte, era lui che parlava a ruota libera: non conosceva la musica italiana e voleva saperne di più, così andai a prendere un disco dell’Equipe 84, dove io sul finale avevo copiato spudoratamente, e anche in malo modo, un suo assolo. Gli faccio sentire e lui alla fine riconosce la copiatura schifosissima dell’assolo, si alza in piedi, mi abbraccia e mi dice: «Thank you very much». Il ricordo che ho di Jimi è molto tenero, lui non era un violento, non era rock, era un bravo ragazzo, delicato e gentile.

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Dai giornali

Nello stesso giorno, il “Corriere della Sera” annuncia la presenza di Hendrix a Milano in due rubriche: “Le luci della ribalta” e “Gli spettacoli”. “... è attualmente uno dei cantanti di più sconvolgente novità.” “È a Milano oggi la «Jimi Hendrix experience» vale a dire un complesso musicale che da un anno a questa parte ha bruciato le tappe del mondo della canzone anglo–americana e ne rappresenta una delle tendenze più originali... Difficile è spiegare lo stile personalissimo che ha fatto la fortuna di Hendrix e i suoi, dopo il primo disco uscito alla fine dello scorso anno. Hey Joe: è stato detto che si tratta di una tristezza aggressiva, di qualcosa di violento, di melanconico, di ipnotico.”

Hendrix a Milano “Corriere della Sera”, 23 maggio 1968. 92

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“... Cessato l’ultimo urlo di isterico entusiasmo, nella sala è ripreso il consueto baccano attraverso il quale, con molta buona volontà, era possibile cogliere gli «sfilacci» di un pezzo suonato da un’anonima orchestra. Quanto a Jimi Hendrix, proveniente da Nuova York e ai suoi partners Noel Redding e John Mitch Mitchell, hanno approfittato del disorientamento per filarsela in una Plymouth con tanto di autista in divisa e cappello, per un riposino di un’ora nell’albergo che li ospita.” Jimi Hendrix a Milano “Corriere della Sera”, 23 maggio 1968.

Quasi una rivoluzione per il cantante americano “Il Giorno”, 24 maggio 1968. 93


Il 24 maggio, il “Corriere della Sera” interviene di nuovo su Hendrix, nelle due rubriche “Gli spettacoli” e “Le luci della ribalta”, per recensire il concerto del Piper.

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“Juliette Gréco, domani sera, inaugura la stagione sanremese con il «gala delle rose». Radaelli, intanto ha annunciato che in luglio e agosto, ci saranno a Sanremo spettacoli bisettimanali con la partecipazione di famose «vedettes» della canzone.”

“... Alcuni, che erano arrivati nel primo pomeriggio, hanno atteso così undici o dodici ore per sentire finalmente Hendrix e i suoi, verso mezzanotte. È stato uno spettacolo di estrema violenza. Pubblico nuovo e vecchio ha manifestato entusiasmi al calor bianco, come quelli che si sono avuti per le visite dei Beatles o dei Rolling Stones, mentre venivano eseguiti Hey Joe,The Wind Cries Mary, Burning of the Midnight Lamp, Are you experienced? e altri pezzi del repertorio di Handrix.” V. B.

“... In realtà, la musica di Hendrix trae i suoi effetti dagli impulsi elettrici, dalle manipolazioni, e lui stesso la definisce «elettronica». Con più proprietà, Time ha scritto che la musica di Jimi Hendrix è un vortice sonoro nel quale, tumultuosamente, confluiscono il blues e i suoni psichedelici. Certo, è un ritmo che prende, che trascina; vi si avverte sotto un’eco jazzistica, e soprattutto ha una vitalità eccezionale. ... Hendrix ha soltanto due compagni (i suoi successi si intitolano Hey Joe, Are you Experienced, eccetera) e il trio ha una dignità sconosciuta a molti, troppi altri complessi. Con lui la musica pop si nobilita.” A. F.

Entusiasmo per Jimi Hendrix “Corriere della Sera”, 24 maggio 1968.

Un vortice di suoni “Corriere della Sera”, 24 maggio 1968.

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“... Se si pensa che questo è il negro al quale la televisione italiana vuole impedire di muoversi, perché considera osceni i suoi movimenti, viene da sorridere: perché anche attraverso la musica e le canzoni di Jimi passa la strada della libertà. Perché so che ascoltando lui i giovani capiscono certe cose e nutrono certi obbiettivi di giustizia e di libertà. ... Il significato sotterraneo della musica di Jimi, questo negro di 22 anni (ndr. ne aveva 27) che ha conquistato mezzo mondo, ha un significato ben più profondo, autentico, ed umano.” Gigi Movilia Il diavolo (nero) in corpo “Men”, 7 giugno 1968.

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24 MAGGIO 1968 Dopo aver trascorso una notte d’amore a Milano con Ines Curatolo, Jimi, insieme agli Experience, puntuale va all’aeroporto per prendere il volo diretto per Roma, dove atterra circa a mezzogiorno accolto da un nutrito gruppo di fan e da un cineoperatore che realizza un breve filmato per la “Settimana Incom”. Jimi, Noel e Mitch vanno a registrarsi in albergo (Hotel Metropole, via Principe Amedeo 3) e poi subito al Teatro Brancaccio (via Merulana 244) per il primo concerto romano: a fare da spalla ci sono Doctor K’s Blues Band, Pierfranco Colonna con i Boa Boa, i Triad e il balletto di Franco Estill (tra i ballerini un giovanissimo Renato Zero, Marina Marfoglia e Loredana Bertè), presenta Eddie Ponti. Entrambi gli spettacoli, quello pomeridiano e quello serale, fecero segnare quasi il tutto esaurito, con circa 1.300 spettatori. Prezzo del biglietto per gli spettacoli del 24 e del 25: pomeridiani: 800, 1.000, 1.500 lire; serali: 1.000, 1.500, 2.000 lire. In base ai ricordi incrociati dei vari testimoni, i brani suonati dalla Jimi Hendrix Experience per il primo concerto sono: Sunshine of Your Love, Fire, Stone Free, Hey Joe, Red House, Foxy Lady, Manic Depression, Purple Haze, Wild Thing. Per il secondo: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, Fire, Hey Joe, Red House, Stone Free, I Don’t Live Today, Up from the Skies, Foxy Lady, Can You See Me, Purple Haze, Wild Thing. Tra una performance e l’altra, Jimi e Noel fanno una scappata in taxi, all’insaputa degli organizzatori, al Colosseo come turisti, poi di nuovo al Brancaccio per il secondo concerto, a cui assistono numerosi personaggi famosi (Florinda Bolkan, Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Pierre Clémenti, che girerà un breve filmato in 16mm del concerto). Ventiquattro secondi circa di questo filmato sono inseriti nel film sperimentale dello stesso Clémenti: Visa de Censure N° x, realizzato nel 1973. Dopo il concerto, la serata prosegue al Titan Club, dove Jimi si esibisce in una storica jam session con i Fholks e Albertino Marozzi. Alla chiusura del locale, gli Experience e un gruppo di accompagnatori fanno un breve giro nella Roma by night sulla Fiat 500 dello stesso Marozzi, fermandosi anche al Café Cowboy a bere qualcosa. Infine, sempre sulla 500 di Marozzi, Hendrix torna in albergo accompagnato da una ragazza bionda, Bruna Urbani.

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Sestino del 3° Titan Top Show con il programma della tappa romana.

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“Nell’intento di continuare la serie di spettacoli che abbiano per vedettes i grandi nomi della musica moderna, notissimi all’estero e tuttavia mai presentati sulle scene italiane, il Titan Club ha organizzato il 3° Titan Top Show con un’artista d’eccezione: Jimi Hendrix.”

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L’arrivo MASSIMO BERNARDI Con Jimi e gli Experience volammo da Milano a Roma, mentre la strumentazione viaggiò tramite un corriere. Avevo chiesto che all’aeroporto ci fosse ad attenderci una Limousine, poi per qualche imprevisto dovemmo aspettare quasi mezz’ora e la cosa sorprendente fu che Jimi non si incazzò per niente, anzi, si intrattenne con i fan lì radunati per salutarlo, firmando autografi e rispondendo alle loro curiosità. BIZZIO Il giorno prima del concerto ero al Titan, quando si avvicina un ragazzo che ci chiede se ci avrebbe fatto piacere, l’indomani, fare da comparse nel ruolo di ammiratori all’arrivo di Hendrix con la sua band a Fiumicino. Proposta subito accettata. Il giorno dopo siamo partiti dal locale con le auto che Bernardi aveva noleggiato per l’occasione. Eravamo circa quaranta e come scesero iniziammo a urlare e gioire con tutta la nostra forza: sinceramente, altro che figuranti!!! FABRIZIO CAPITOLI Da alcuni amici venni a sapere che Jimi Hendrix sarebbe venuto a suonare a Roma e che Massimo Bernardi aveva invitato dei ragazzi ad accoglierlo all’aeroporto per fare da “claque”. Eravamo tutti curiosi di conoscere un personaggio che per noi era quasi sconosciuto e che ci colpì molto per la sua semplicità. Hendrix restò in mezzo a noi finché non venne un’auto dell’agenzia a prendere lui e quelli della band per portarli in albergo e poi al Brancaccio. VICKY REDDING Nella hall dell’albergo Jimi si mise a chiacchierare con una donna americana e il marito andò a lamentarsi con i gestori dell’albergo dicendo: «Qua c’è un negro che sta parlando con mia moglie.» FABRIZIO CAPITOLI Dopo l’aeroporto, andammo tutti, una sessantina di persone, davanti al Brancaccio ad attendere l’arrivo di Hendrix e la sua band. Al loro arrivo c’era chi gli faceva domande, chi chiedeva autografi, restando tutti stupiti dal fatto che non si dava arie da star, non era circondato da guardie del corpo, anzi sorrideva e parlava con tutti. Io avevo visto un fazzoletto annodato alla cintura e gli chiesi di regalarmelo, ma disse di no, che gli sarebbe servito in caso di raffreddore e così lo salutai dandogli la mano, colpito da quanto era liscia, affusolata, con le dita lunghissime. I suoi compagni, Noel e Mitch, a un certo punto vennero da me e mi chiesero dove si potesse andare a bere qualcosa e, nel mio inglese arruffato, risposi: «Come with me», accompagnandoli in un baretto vicino, dove si fecero servire un paio di whisky. Programma firmato per Alberto Marozzi dopo la jam session del 25 sera.

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PIERFRANCO COLONNA Quando Jimi è arrivato, siamo diventati subito amici; è stata un’esperienza molto

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bella: è stato uno degli artisti che mi ha dato più emozioni tra i tanti con cui ho lavorato. Fuori dal palco era timidissimo. La prima volta che lo incontrai, nei camerini, era stanco e spaesato, gli chiesi se potevo far qualcosa e lui mi fece intendere che per colpa delle dogane aveva paura e non si era portato niente da fumare… Al che io gli regalai due tubetti di amfetamina e un po’ di hashish. Lui è impazzito di gioia e così abbiamo legato subito. Siamo rimasti un po’ in camerino a fumare, poi uscimmo a fare lo spettacolo. EDDIE PONTI A onor del vero, prima di conoscerlo Jimi Hendrix mi stava antipatico, anche se la sua musica mi piaceva: colpa di qualcuno che me lo aveva descritto come uno sbruffone, un venditore di fumo, uno che si approfittava delle ragazzine, insomma un tipaccio. In più, la sua foto sui poster per i concerti italiani non era certo adatta per farmi cambiare idea, con quell’esasperata negritudine: capelli a cupola, espressione strafottente e faccia da brutto ceffo. Mi dava l’idea di uno che si atteggiava, che si faceva trainare dal carrozzone del black power: immaginarsi come restai quando mi dissero che avrei dovuto presentare quattro suoi concerti. La seconda sorpresa, poi, la ebbi trovandomelo di fronte nei camerini del Brancaccio… Per cominciare non era come me lo avevano descritto. Era almeno un palmo più alto di me, e i capelli li portava sì lunghi, ma ben acconciati con una larga mèche bionda sul lato destro. L’espressione non era affatto truce. Dopo i primi convenevoli mi versò un whisky dalle bottiglie di Pierfranco Colonna e, passandomi una mano sulla spalla, mi disse: «Senti, fammi solo questa cortesia, quando ci presenti ricordati di dire Jimi Hendrix Experience. Per favore non fare l’errore che fanno molti, anche in Inghilterra, di dire Jimi Hendrix and the Experience o his Experience, perché questo è un gruppo, una nuova esperienza musicale e non presenti me, bensì la nostra musica». Si arrotolò un joint e continuò: «Vorrei chiederti un altro favore se ti è possibile, visto che questo è il nostro primo tour in Italia, non è per paura, ma capiscimi abbiamo bisogno di avere una certa concentrazione quando suoniamo, quindi non vorrei nessuno sul palco, oltre a noi e ai tecnici». Solo io fui ammesso, insieme ai tecnici e al pompiere che lavorava per il teatro: nessun estraneo, compresi organizzatori e amici. ALBERTO MAROZZI Ho conosciuto Hendrix nel pomeriggio, appena arrivato a Roma, nei camerini del Brancaccio. Me lo presentò Massimo Bernardi, perché io ero uno dei pochi a parlare inglese: il camerino era pieno di gente e di giornalisti, c’erano anche Mitch e Noel. Una grande confusione, non si è capito perché dovessero intervistare un musicista prima del concerto, nel momento in cui ha bisogno di più concentrazione. Comunque, a un certo punto è arrivato un suo roadie che, con maniere spicce, ha cacciato via tutti. Stavo uscendo insieme a tutti gli altri, quando Jimi mi ha richiamato dicendomi: «No, Alberto, you stay!». Così mi sono ritrovato da solo nel camerino con Jimi, in fondo l’avevo appena conosciuto e mi sentivo un po’ intimorito. Per me era già un mito, mi sentivo imbarazzato, che poteva volere da me? Appoggiò l’orecchio al manico della chitarra e si mise ad accordarla. Restai lì con lui fino a poco prima che iniziasse il concerto, parlando, poco, del più e del meno. EDDIE PONTI Fuori dal palcoscenico si beveva e si fumava. Fortunatamente c’era un secchio per la sabbia, tutti fumavamo anche se era proibito dietro il palco, si rischiava la multa.

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Teatro Brancaccio, il primo concerto GIOVANNI BARBARESCHI Nel 1968 avevo ventiquattro anni. Lavoravo già per “Musicarte” e fui il tecnico del suono ai concerti del 24 maggio. L’altro socio, che ha lavorato al concerto del 25 maggio con me, invece si chiama Pio Medori, abbiamo curato il service per amicizia nei confronti del proprietario del Titan, non fummo pagati. Alla mattina, io e Medori montammo gli altoparlanti nel teatro. Gli amplificatori arrivarono più tardi con i furgoni, non ero presente... Quando tornai, gli amplificatori erano già sul palco..Saranno stati 80 watt ogni amplificatore e per ogni amplificatore (4) c’erano due casse: in totale 8 casse + 2 in galleria superiore, + 4 al piano teatro (40 watt a cassa, 4 coni da 12, quelle strette e lunghe).

GIOVANNI BARBARESCHI C’era ancora il vecchio impianto Semprini, il mixer si attaccava con lo spinotto Geloso. Per tutto il concerto rimasi al mixer intento a regolare le voci e un po’ la batteria; non c’erano speaker separati per la voce; il fatto che le luci fossero spente per la mancanza di corrente è solo una leggenda. Le luci erano quelle del teatro, non c’erano luci colorate o altro. I microfoni erano anche quelli della Semprini. Jimi arrivò all’ultimo minuto prima del concerto, sembrava sballato (fumato) e non andò nemmeno nei camerini prima dello spettacolo. Jimi aveva solo un fuzz face e un wah wah vox. Ricordo che Jimi cambiò la chitarra per suonare l’ultimo brano e usò quella chitarra meno buona per sfregarla contro gli amplificatori. Gli amplificatori erano nuovi, a parte un angolo dove c’erano i segni delle sei corde della chitarra… pare che Jimi sfregasse la chitarra solo in quel punto. Finito il concerto, Jimi se n’è andato subito e non ci fu nemmeno il tempo di prendere accordi per i concerti successivi.

GIORGIO BIANCHI Ero molto giovane quando conobbi la musica di Jimi Hendrix tramite un mio cugino che suonava la chitarra in un gruppo semiprofessionale. Mi ricordo come fosse ieri un pomeriggio in cui mi parlò di un nero americano, un grande chitarrista che suonava in maniera incredibile, aveva amplificatori enormi, dei capelli che quando suonava si muovevano tutti come una medusa e metteva paura ai ragazzini. Ne rimasi folgorato, così quando seppi che veniva a Roma mi sono precipitato. Andai da solo al concerto di venerdì, il 24 maggio, era un pomeriggio caldo e assolato e non c’era molta gente, al massimo 200/300 persone. Ho acquistato il biglietto sul posto, 1.500 lire, che aveva il formato tipico dei cinema e dei tram; fui tra i primi ad arrivare, appoggiato a una grande vetrata interna che per le pressioni si ruppe frantumandosi in mille pezzi. Inizialmente non mi accorsi di nulla, ma qualcuno mi fece notare che ero ferito alla mano e avevo sangue sulla maglietta. Andai in bagno e vidi tagli sulla mano sinistra e sulla pancia. Ancora oggi porto su di me quelle cicatrici. Poi iniziò il concerto: un flusso di musica mai sentita prima, che stravolgeva tutto il passato. Qualcuno ha parlato di problemi all’amplificazione, ma io ero troppo attento a quello che faceva e ai suoni che riusciva a trasmetterci per accorgermi se c’era qualcosa che non andava. Era tutto troppo per me, affascinato dalla sua magnifica abilità nel domare lo strumento. Mi colpì tutto di quel concerto, dall’abbigliamento sgargiante di Jimi alla montagna di amplificatori. Di Mitch Mitchell ricordo la bravura e l’agilità, mentre di Noel Redding l’eleganza e la compostezza. Fu un’esperienza veramente incredibile, molto superiore alle mie aspettative.

EDDIE PONTI Era una confusione, fuori e dentro. Era pieno, tutto esaurito, tanta gente anche fuori e i ragazzi si accalcavano nel timore di non poter entrare. Renzo Arbore aveva una gran paura.

DANILO STOLZI All’epoca ero uno studente. La nuova musica che incalzava, Beatles e Rolling Stones, Animals, Yardbirds, Cream, Hendrix, era lanciata per noi carbonari del rock dalla trasmissione Count down, in onda ogni domenica dalle 14.00 alle 14.30:

MAURO FERRACCI Insieme ai ragazzi del mio gruppo, I Perché, aiutammo i tecnici di Jimi a scaricare e a montare l’amplificazione, riuscendo a ottenere di entrare gratuitamente al concerto. Che ricordi!

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ENZO AISLER Ho conosciuto la musica di Hendrix grazie a un militare della nato, che suonava la chitarra elettrica facendo cover di Jimi. Quando seppi che sarebbe venuto a Roma, io e il mio batterista partimmo da Napoli in autostop. Fummo fortunati perché ci caricarono due ragazzi che andavano allo stesso concerto. Eravamo in quattro su questa piccola 500, tutti eccitati per l’evento, io conoscevo solo la sua musica e non sapevo niente di lui, nemmeno che fosse nero. Arrivati a Roma abbiamo faticato un po’ a trovare il Brancaccio, ma alla fine ci siamo arrivati: riuscimmo a entrare e fare i biglietti mentre fuori la folla aumentava e premeva, finché, con un boato, una vetrata del cinema si infranse travolgendo alcuni ragazzi. Anche in sala un gran caos, tutti che strillavano. Quando apparve Hendrix, tutti a fare un baccano incredibile. Lui era semplicemente fantastico, un vero animale da palco con le sue movenze, mentre strisciava la chitarra contro l’asta del microfono, la suonava dietro la schiena, tra le gambe, con i denti. Non avevo mai immaginato una cosa simile, ma neppure che tre persone potessero suonare una musica così piena e dirompente, una vera esplosione.

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aveva aperto i nostri orizzonti musicali e costringeva ad affannate ricerche nell’unico negozio import di Roma, Consorti, in viale Giulio Cesare. All’epoca del concerto, il 24 pomeriggio, avevo già i primi due lp usurati dall’ascolto continuo. La rivista “Ciao Big” aveva inserito in occasione dei concerti italiani di Jimi un coupon per richiedere il manifesto che veniva spedito a casa, e che io conservo come un cimelio... L’impatto visivo è come un marchio a fuoco, non avevo mai provato un’attrazione così fatale verso un artista: nemmeno Mick Jagger o John Lennon (all’Adriano) mi avevano catturato così. Noel Redding e Mitch Mitchell erano come trasparenti ai nostri sguardi: sul palco c’era Jimi e tanto ci bastava... anche fermo e in silenzio non avremmo mosso un dito... Alla fine del concerto eravamo in estasi; io e il mio amico abbiamo cercato di vederlo, almeno per un autografo, ma l’inutile attesa all’uscita camerini del teatro non fu premiata... però il manifesto del concerto lo conservo gelosamente. PAOLO CIONETTI Hendrix l’ho conosciuto attraverso i dischi che ci faceva sentire Franco Falsini, chitarrista molto bravo a Firenze in quegli anni. Gli altri del gruppo ne parlavano e discutevano. Un giorno viene deciso che il gruppo andava a vedere Hendrix a Roma, al Brancaccio; si parte da Firenze con il furgone della ditta e via. Siamo quasi davanti al palco, quando da dietro le tende viene fuori il suono di Sunshine of Your Love dei Cream, uguale nel timbro, nella dinamica, nell’armonia: si aprono le tende e comincia il concerto. Certo, il concerto mi piacque. Non ricordo problemi all’amplificazione oppure non ci ho fatto caso. LUCIANO REGOLI Prima del concerto pomeridiano c’era una tensione che si tagliava a fette e, a un certo punto, da dietro le pesanti tende del palcoscenico spuntarono le punte giallo canarino degli stivali di Jimi. Un accenno di Sunshine of Your Love e, dopo pochi secondi, una travolgente Fire aprì le danze, con i magnifici tre scatenatissimi e coloratissimi. Il teatro era pieno di casse Semprini per l’amplificazione della voce e degli strumenti, sia in platea che in galleria. Il volume era mostruoso e le strutture della galleria ondeggiavano sotto i nostri piedi. Nessuno credeva ai propri occhi, un suono mai sentito, che ci travolgeva. Hendrix, durante il solo di Foxy Lady, si lanciò contro il suo amplificatore e con il manico della chitarra tentò più volte di sfondarlo, come per attaccarlo frontalmente; ricordo Mitch che suonava come un forsennato. Tutto era sopra le righe. STEFANO PIETRUCCI Io avevo solo quattordici anni e a quei tempi battevo sui tamburi. Mi appassionai di musica grazie a mio padre cinquantenne, un padre straordinariamente all’avanguardia, molto classico nell’aspetto ma modernissimo per i gusti musicali. Lavorava al “Messaggero” come impiegato, era appassionato di musica d’orchestra e di jazz, Duke Ellington, Tommy Dorsey e altri.

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Mi portò i dischi dei primissimi Who, Beatles, Rolling Stones, Yardbirds e tanti altri; aveva un amico delle Messaggerie Musicali che gli passava tutte le novità del momento e un giorno gli disse: «Fai in modo di procurarti dei biglietti per il Brancaccio, perché viene un marziano americano che suona la chitarra elettrica con i denti». Sandro Perrone, il proprietario del quotidiano, disse a mio padre: «Romolo, se vai al Brancaccio mi scrivi qualcosa dello spettacolo dell’americano perché non interessa a nessun giornalista». In realtà mio padre non fece l’articolo, ma fu così che venni a conoscenza del concerto di Jimi Hendrix: fu lui a portarmi, sapendo che manifestavo interesse per la musica. Entrammo al Brancaccio dicendo: «Mi manda Sandro Perrone». Una volta bastava questo. Nessuna coreografia, una cosa ridicola se non inesistente. Solo una montagna impressionante di amplificatori Marshall, incredibile per quei tempi. Dopo che Eddie Ponti ebbe presentato il gruppo, Jimi, inserito il jack, fece uno scatto con la testa come per dire: «Che cavolo succede?». Al Brancaccio avevano sempre avuto problemi con la corrente e anche in quel caso non ci fu eccezione. La prima cosa che notai di Jimi era l’enorme anello che portava al mignolo e la camicia molto sgargiante. Jimi era mobile, incredibilmente veloce si piegava su se stesso, volgare ed elegante allo stesso tempo, percuoteva la sua Strato con cattiveria e riusciva a tirar fuori di tutto da quel pezzo di legno. Rimasi impietrito e frastornato da tanta potenza, tanti watt. Jimi era indiavolato, il volume era insostenibile. Finito il concerto, io e mio padre ci guardammo cianotici: lui mi disse: «Allora?». E io risposi: «Ma che è successo?». Rimasi in trance per un bel po’. Tornati a casa non si parlò d’altro. DOMENICO CHIANURA Avevo ventun anni ed eravamo un gruppo di ragazzi, tutti amici che abitavamo nello stesso quartiere e condividevamo l’interesse per la musica, ascoltavamo Bandiera Gialla, andavamo al Piper, facevamo le feste, avevamo il giradischi e quasi tutti avevamo visto i Beatles a Roma e i Rolling Stones. Era anche il periodo dei miei primi viaggi all’estero. Io mi ero già fatto un paio di giri a Londra in autostop, acquistando là molti dischi nel 1966: saputo che Jimi avrebbe suonato a Roma, ovviamente non potevamo mancare. Il giorno 24 maggio, insieme agli amici di allora, andammo per assistere al concerto pomeridiano, io mi ero munito di una macchina fotografica Pentax per immortalare l’evento. Quando iniziò il concerto, io ero in galleria e scesi fin sotto al palco per scattare delle fotografie. Mi ricordo che Jimi a un certo punto, infastidito dal flash, smise di suonare e mi mandò a quel paese con la mano, anch’io smisi subito e scappai via tornando al mio posto per paura di perdere anche le poche foto che avevo fatto. Forse erano le mie prime foto, ma ora dico che non erano un granché come foto: ne ho fatte di migliori, negli anni seguenti. Nel settembre 1970, tornando da un viaggio a Copenaghen, mi fermai a Rotterdam, avevo infatti visto i manifesti di un concerto di Jimi Hendrix. Arrivai di notte,

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stanchissimo, e dormii per terra fuori dello stadio. Non avevo i soldi per entrare ma non avrei comunque visto Jimi, in quanto la partecipazione al festival fu annullata. Appena in Italia, giunse la triste notizia della sua morte. ANTONIO PROZZO Decisi di andare al concerto perché sapevamo che era un personaggio fuori dalle righe, ad esempio contro la guerra in Vietnam, e questo ci avvicinava comunque. Al concerto ci andai con alcuni amici dell’epoca più grandi di me. Mi ci trovai per caso perché comunque suonavo la chitarra e la curiosità di vedere un solista dal vivo era troppo forte! Io ero fan di Nico Di Palo dei New Trolls. Jimi era vestito con una camicia sgargiante, pantaloni a zampa d’elefante e cinturone molto vistoso, non aveva il cappello. La chitarra era una Fender bianca con il manico di legno, corde finissime e accordatura un tono sotto al normale. Mentre suonava, era concentratissimo e i flash dei fotografi gli davano molto fastidio. Mi sembra che abbia anche alzato il dito medio, voleva il massimo di silenzio e concentrazione. Qualche problema con l’amplificazione del suono si avvertiva: mai visti tanti amplificatori tutti insieme per un ambiente piccolo come il Brancaccio. Jimi era molto affabile con il pubblico. TONI DI MAURO Quando cominciò Red House, il pubblico in un eccesso di entusiasmo cominciò a battere le mani a tempo, allora Jimi pregò gentilmente di smetterla. GIUSEPPE NISII Una mattina ero sull’autobus per andare a scuola e c’era una fermata proprio davanti al Brancaccio. Un po’ assonnato diedi un’occhiata alle locandine e vidi, con mio stupore, dei manifesti enormi con la faccia di un nero dalla capigliatura mai vista prima. Non sapevo chi fosse, ma era nero e di sicuro suonava rhythm and blues. Mi dissi che dovevo andare a sentirlo e andai al concerto pomeridiano. Davanti al teatro c’era una folla variopinta: capelli lunghi, giacche con le frange, stivaletti con tacchi alti, pantaloni di velluto scampanati... Quando il sipario si riaprì, dopo le performance di vari gruppi, vidi che in fondo al palco c’era il famoso muro di Marshall, la batteria e due chitarre adagiate per terra. Poi, quando gli Experience iniziarono a suonare, fui investito da un uragano di suoni e distorsioni inaspettato. Mi sembrava impossibile che si potessero produrre fuori tutti quei suoni, c’era un marziano sul palco o che cosa? Ero così frastornato e incredulo, così assorbito che non feci più caso a nessuno. A un certo punto dal pubblico qualcuno gridò: « ...a mostrooo», e Jimi alzò il medio rispondendo: «Fuck you» a brutto muso!!! Subito dopo aver visto Jimi al Brancaccio comprai Are You Experienced?. Ore e ore ad ascoltarlo, cercando di capire “che cosa” stavamo sentendo.

spettacolo è già iniziato», disse la cassiera. Io terrorizzato dissi: «Come già iniziato?». E la cassiera rispose: «Tranquillo, il prossimo inizia alle 20.30». Così mi rilassai, quando improvvisamente si aprì la tenda dell’atrio che dava sulla sala, era uno degli ultimi brani. Vidi Hendrix da lontano che suonava Manic Depression. Rimasi di stucco, il suono era come quello del disco. Il concerto poi finì tra boati ed esplosioni, e un gruppo di giovani uscì di corsa dalla sala travolgendoci, urlando e staccando per ricordo tutti i manifesti dove c’era la faccia di Jimi; poi si accanirono con quelli attaccati al muro dell’edificio. Erano talmente eccitati che avrebbero anche staccato il muro. NOEL REDDING Arrivati a Roma, io e Jimi ci siamo ripromessi di andare a visitare il Colosseo. In genere, quando eravamo in tour, non eravamo interessati a fare i turisti e spesso non ne avevamo nemmeno il tempo, però Roma senza almeno vedere il Colosseo non è una cosa buona. Inoltre Jimi era affascinato dalla storia, così chiedemmo all’organizzazione se dopo il concerto ci potessero accompagnare al Colosseo, ma la risposta fu negativa: «No way!», perché a loro dire era pericoloso, un posto malfrequentato, pieno di omosessuali e drogati. Non ci scoraggiammo e tra uno show e l’altro prendemmo un taxi e andammo. Lì ci sedemmo tranquilli facendoci uno spinello gigantesco: ci godemmo l’atmosfera, vicino c’erano degli hippie con la chitarra e Jimi chiese se poteva provarla, la strimpellò un po’ e alla fine ce ne andammo. La cosa curiosa è che nessuno ci riconobbe. Tornammo appena in tempo per il secondo spettacolo, salvando Gerry Stickells da un attacco alle coronarie.

MAURIZIO BONINI Arrivai al teatro di pomeriggio, insieme a una ragazzina americana mia amica. Comprai i biglietti mentre dall’interno sentivo arrivare un rumore indefinito. «Lo

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Teatro Brancaccio, il secondo concerto PIERFRANCO COLONNA Per il concerto Jimi e Noel si presentarono appena in tempo. Qualcuno già diceva: «Vedi un po’ che succede a mandà i soldi prima...». Hendrix, tranquillo, ha chiesto del suo camerino e si è chiuso dentro per cambiarsi e accordare la chitarra, nessuno ha fiatato. EDDIE PONTI Hendrix arrivò giusto giusto prima dello spettacolo, puntualissimo, devo dire che per tutti i concerti fu così, molto professionale. Prima di uscire per presentarlo al concerto serale, Jimi si avvicinò per raccomandarsi, come prima del concerto pomeridiano: «Ricordati di dire Jimi Hendrix Experience, solo quello...» Perciò gli chiesi se per caso la presentazione precedente non fosse andata bene e lui rispose: «No, no benissimo, intendevo solo ricordartelo perché ci tengo». BRUNA URBANI A quei tempi lavoravo nel mondo della moda e già in passato avevo sfilato per diverse firme al Titan Club, per cui conoscevo bene il proprietario Massimo Bernardi. Ero una habitué del locale e lo preferivo al più rinomato Piper. Era un ambiente più raccolto e lo frequentavo quasi tutte le sere, avendo parecchie amicizie nel mondo della musica dell’epoca (Mal, i Rokes, fra gli altri). Al Titan erano spesso presenti anche Renatino (Renato Zero), che conoscevo benissimo in quanto le rispettive nostre madri erano amiche, e Loredana (Bertè), che era amica della sorella di Massimo (Bernardi). Io ero sempre in compagnia della mia carissima Thea (Flemming), una ragazza olandese all’epoca abbastanza famosa grazie a parti nei fotoromanzi e in qualche film. Così, quando Jimi venne a Roma per i suoi concerti, Massimo mi invitò al concerto serale del 24. Assieme a Thea andammo allo spettacolo, Jimi lo conoscevo già come musicista. Prima dello show di Jimi, si esibiva un balletto nel quale erano presenti sia Loredana che Renatino. Avevamo un posto nella prima fila della platea. La cosa che più mi colpì, e che poi ebbi modo di apprezzare da vicino quando ci incontrammo al Titan Club, fu la sua straordinaria bellezza. Non era come appariva nelle foto che giravano, innanzitutto la sua pelle era di colore olivastro.

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MARCO “MITCH” CATONE Al Teatro Brancaccio c’erano un’infinità di capelloni e fricchettoni, parecchi avevano il cravattino, parei, giacchettoni e pantaloni a cavallo basso, a zampa d’elefante. Il pubblico era numeroso, rumoroso e impaziente. Jimi aveva una camicetta rosata. Mitch sembrava un bambino rispetto a Jimi e Noel aveva una maglietta, occhiali scuri e cappellaccio. MAURIZIO BONINI Avendo acquistato il biglietto per assistere al concerto serale, un’ora dopo la fine di quello pomeridiano eravamo seduti in una delle prime file a sinistra ad ascoltare i gruppi di supporto, che non ci impressionarono molto. Intanto, la sala andava riempiendosi. Il pubblico era formato da giovani in giacca e cravatta, della Roma–bene, con un concentrato della popolazione “beat” della città, i cosiddetti “capelloni”. A proposito di capelli, credo sia interessante ricordare che all’epoca portare anche i capelli leggermente lunghi era problematico e a volte pericoloso. Giornali come “Il Tempo” e “Il Messaggero” invitavano quotidianamente la polizia a ripulire i luoghi come piazza di Spagna, dove qualche decina di giovani beat stazionavano da tempo. L’invito era stato raccolto non solo dalle forze dell’ordine, che in varie retate avevano schedato e poi rilasciato quei giovani, ma anche dai neofascisti romani, che in ripetute spedizioni punitive avevano provveduto a ripulire la piazza da questa insopportabile vergogna. Il clima nel nostro Paese era ostile, quando non apertamente violento, verso qualsiasi forma di diversità, anche solo estetica. Nelle pagine di cronaca degli stessi giornali si scoprivano ogni giorno fumerie di droga in mano a pericolosissimi maoisti o filocinesi, come venivano bollati allora tutti quelli che avevano barbe e capelli lunghi. Lascio quindi immaginare il clima dei giorni in cui Hendrix si ritrovò a suonare qui in Italia. Tornando al concerto, dopo un’interminabile sequenza di cantanti, balletti e gruppi nostrani, presentati impeccabilmente dal povero Eddie Ponti in giacca rossa, venne il momento tanto atteso. Eddie uscì e annunciò: «Ecco a voi la Jimi Hendrix Experience», dietro di lui dall’impenetrabile sipario scarlatto partì una serie di note di chitarra. Applausi del pubblico. Si vedeva Jimi accordare la chitarra bianca e ridere; aveva un grosso joint sulla paletta della chitarra. Mitch, in primo piano, a carponi, con il sedere rivolto verso il pubblico, fa finta di accordare le pelli della cassa, invece Noel è serio, attento e concentrato. Anni dopo, quando rincontrai Noel, mi disse che il farsi trovare così impreparati era un numero che i tre facevano spesso in quei tempi per divertirsi e rompere il ghiaccio. Poi, improvvisamente le note di Sgt. Pepper’s aprono lo spettacolo, quindi Fire e Stone Free. Sbaglia un accordo in The Wind Cries Mary, ride e scuote la testa. Ogni tanto interrompe i brani, si scusa dicendo di non ricordare le parole, poi attacca Red House a basso volume. La tensione scende, il pubblico rumoreggia, non si capisce se è una protesta, forse è il bisogno di commentare ad alta voce ciò a cui si sta

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assistendo. L’incredulità e il disorientamento pervade tutti. Noel prende in mano la situazione, va al microfono e urla: «Shut up!». Lo spettacolo riprende e si interrompe di nuovo, Jimi lascia la chitarra e parla al microfono, qualcuno si incarica di tradurre: «Finché non ci sarà silenzio completo Jimi non suonerà!». Alla fine Jimi riesce a completare il blues, poi ancora Purple Haze, Foxy Lady, I Don’t Live Today e una rara esecuzione di Up from the Skies. Jimi lo esegue senza toccare le corde col plettro, ma picchiando delicatamente il corpo della chitarra in ogni sua parte guidando il suono con il wah wah. Dalla batteria, che non sembra amplificata, Mitch guarda il pubblico con una smorfia da teppista londinese. Jimi non comprende il chiacchiericcio che si era alzato prima dalla sala, ma alla fine non si spazientisce più di tanto e porta a termine lo spettacolo in un crescendo mozzafiato. Il finale, una Wild Thing con assolo tra le note di Strangers in the Night di Frank Sinatra: mentre lo esegue con una sola mano, con l’altro braccio copre il volto teso in una smorfia, poi continua a suonare mettendo la chitarra sotto una gamba alzata, la suona con i denti, si rotola a terra e alla fine si lancia contro gli amplificatori, mentre i tecnici da dietro cercano di reggerli. Il tutto finisce con una valanga di suoni che nessuno di noi aveva mai sentito uscire da nessuno strumento, poi Jimi lancia in alto la chitarra, che cade al suolo miracolosamente senza fracassarsi, e abbandona la scena tra le ovazioni. La mia amica americana era senza parole, sembrava addirittura terrorizzata e si stringeva ai braccioli della poltrona. Tornai a casa sotto shock con un mio amico, anche lui chitarrista. Non parlammo d’altro tutta la notte. Per un anno quasi non presi più in mano la chitarra, poi, col tempo, ho cercato di assimilare il suo stile e ho continuato a fare il musicista.

I Boa Boa, prima del concerto degli Experience.

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Fotogramma del filmato di Pierre ClĂŠmenti.

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Pierre ClĂŠmenti mentre riprende il concerto.

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LUCIANO REGOLI Nell’intervallo tra i due concerti mi nascosi nei bagni per non pagare un altro biglietto. E il secondo concerto fu più bello del primo. Ricordo che Hendrix virò a un certo punto sul blues Red House e il volume calò talmente che si potevano sentire i sospiri degli spettatori. Hendrix suonava quasi a zero di volume. Dalla galleria, in quel momento teso, qualcuno in romanesco gridò a voce alta: «A zingaro!»... Per tutta risposta Hendrix alzò la chitarra al massimo e fece un gran casino. Un «solo» che durò più di dieci minuti. Fantastico! PAOLO RENFERME Mi rimase impresso un blues molto lento fatto con il wah wah, sentivamo questo suono ma senza capire da dove venisse, sembrava una cornetta con la sordina, ma non c’era nessun trombettista, era Jimi. Quel wah wah ti entrava dentro... MARCO PERSICHETTI Mi ricordo che un romano da un’alta balconata del teatro, con il braccio attorno a una colonnina, verso la fine del concerto urlò: «Ahaa Ggiacomoo me pari Iddio». Lo ricorderò tutta la mia vita, perché ero d’accordo: lui era ed è il dio della chitarra. NOEL REDDING Il pubblico romano non poteva credere a quello che stava vedendo. In quel periodo l’Italia era fuori dal circuito principale del rock. Tutti chiacchieravano come matti con i loro amici per capire cosa stavano ascoltando. Ci avevano sovrastati, Jimi si arrabbiò moltissimo, disse: «Se non la smettete di parlare, io smetto di suonare». Infatti smise di suonare e uscì persino di scena per alcuni minuti. Così andai al microfono e in inglese molto semplicemente urlai: «Shut up!». GUGLIELMO BILANCIONI Ricordo la totemica presenza di Jimi che agiva con il distacco concentrato di un pittore che opera su tela, con un’eleganza leggera e precisa, nel centro fermo nella tempesta perfetta da lui provocata, la potenza distorta del suono che usciva dai Marshall e l’odiosa, violenta arroganza di Noel Redding che gridava: «Shut up!» a un pubblico sciamante e confuso che non aveva mai visto e mai rivedrà una cosa simile. EDDIE PONTI Io stavo lì angosciato perché Jimi Hendrix si era interrotto tre volte: sono sempre dovuto uscire io, che avevo la voce stentorea per dire: «Un momento, state calmi e lui riprenderà a suonare». GIORGIO DE BIASI Già allora, quando potevo, andavo ai concerti. Ricordo che l’8 maggio 1968 ero a Roma al Piper per vedere Brenton Wood e fu in quell’occasione che venni a sapere da un amico musicista che Hendrix avrebbe suonato al Teatro Brancaccio il 24. Nel 1968, qui in Italia, Jimi Hendrix non era così famoso ma decisi di andare, partendo

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da Viareggio in compagnia di un’amica. Ricordo che per i due biglietti spesi 4.000 lire, non cosa di poco conto per quei tempi: inoltre, secondo me, l’ambiente del Brancaccio non era certo adatto per quel genere di concerti. Prima di sentirlo dal vivo, avevo visto Jimi solo in alcune foto dove aveva i capelli molto lunghi, ma quella sera mi sembravano diversi, forse li aveva tagliati da poco. Hendrix indossava una camicia vistosa, di un colore rosa forte. La chitarra che Jimi usò prevalentemente durante il concerto fu la sua fedele “Strato” bianca. L’amplificazione faceva schifo, l’impianto voci, probabilmente noleggiato, era della Semprini. Jimi suonava con tre Marshall, ma, a meno che non si fosse rotta la spia, ne aveva accesi solo due. Dal punto di vista musicale Hendrix fu formidabile: non avevo mai visto suonare così la chitarra, usava il pollice che copriva tutte le corde, le sue mani mi fecero veramente impressione e poi tirava fuori dei suoni incredibili usando pochissimi effetti. FILIPPO DE ORCHI Io lo conoscevo per aver acquistato il 45 Hey Joe. Di lì a poco un mio amico mi disse che Hendrix veniva a suonare al Teatro Brancaccio di Roma e così decidemmo di comprare i due biglietti, uno per lo spettacolo del pomeriggio del 24 in galleria e l’altro per la sera del 25 in platea in terza fila centrale. Il mio amico lo vide anche la sera prima. Lo spettacolo del pomeriggio non ricordo se fosse pienissimo, mentre la sera dopo era tutto esaurito. Il concerto era preceduto dal gruppo di Pierfranco Colonna e da un balletto. Jimi aveva pantaloni di velluto rossastri e una camicia rosa, notai anche gli stivaletti verdi di Mitch. Non ricordo un Jimi molto comunicativo, anzi era un po’ scontroso, forse per i problemi di amplificazione. Il mio fermo–immagine rimanda a un assolo suonato con i denti, venne giù il teatro per gli applausi e le grida di tutto il pubblico: dopo il concerto aspettammo fuori per cercare di vederlo uscire, ma inutilmente. GIANCARLO FIORENTINI Io stavo in galleria, il pubblico era partecipe ed entusiasta. Salì sul palco Eddie Ponti che presentò il gruppo con enfasi dicendo: «The Jimi Hendrix Experience». Straordinaria la visione del palco, con i grandi amplificatori Marshall, una montagna di strumenti mai visti a Roma. Cominciò il concerto e il suono che uscì dalla chitarra di Jimi fu devastante: ebbi la sensazione che il teatro non riuscisse a contenere la potenza, il suono gigantesco che usciva dalla chitarra di Hendrix. Lui si muoveva come se fosse un rituale voodoo, un colpo d’occhio eccezionale. Nel secondo tempo, riuscimmo a scendere in platea, lì si formò un folto gruppo di fan tutti in piedi nel corridoio centrale del Brancaccio, sperando di poter arrivare al palco. Finito il concerto, purtroppo non ebbi modo di vedere Jimi, ma quando uscii dal

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teatro ero completamente sballato di musica e suoni da un’incredibile dimensione psichedelica, conscio di aver assistito a un evento eccezionale.

per lei. Al che, con uno sguardo fra lo stupito e l’ironico, mi rispose: «Ma cosa stai dicendo, non vedi che sta guardando solo te, non te ne sei ancora accorta?!».

MARIO VALENTINI Venimmo a conoscenza, tramite i giornali musicali, che Jimi avrebbe fatto una serie di concerti in Italia e decidemmo di andare al concerto serale della seconda giornata. Arrivammo al teatro carichi di entusiasmo per vedere il nuovo fenomeno della chitarra e c’era già molta gente che aspettava di entrare con il biglietto in mano. L’ambiente era variegato: musicisti romani del genere, appassionati di musica, gente di varia estrazione sociale. Eddie Ponti si avvicinò al microfono e semplicemente, ma con molta enfasi, disse: «The Jimi Hendrix Experience». Jimi salì sul palco vestito con una camicia rosa/fucsia e un paio di pantaloni di broccato scuri. Medaglione al collo e la sua fedele Fender Stratocaster bianca con manico nero. Cose mai viste: amplificatori strapazzati, chitarre sbattute sulle aste dei microfoni, fischi ed effetti sonori mai sentiti, chitarra suonata con i denti. Ma a sconvolgermi erano le movenze sul palco, come se Jimi trasmettesse al pubblico la sensazione di un amplesso con la chitarra.

GIOVANNI BARBARESCHI Ricordo che Jimi cambiò la chitarra per suonare l’ultimo brano e usò quella meno buona (Stratocaster sunburst) per sfregarla contro gli amplificatori.

FILIPPO LA PORTA Andando in Vespa con il mio amico Marco al Teatro Brancaccio, ancora non sapevo che stavo per vedere la cosa in assoluto più sovversiva di quell’anno fatidico. Avevo quindici anni e in quel periodo partecipavo a cortei e occupazioni, cominciavo a leggere Marcuse e Rudi Dutschke (di cui capivo pochissimo), il Manifesto del Partito Comunista di Marx (avvincente), vivevo in una specie di perenne eccitazione ideologica. Eppure la vera rivoluzione non stava lì, nelle manifestazioni e nelle roventi dispute dottrinarie... Si trovava invece nella musica di Hendrix. Quando vidi Hendrix con la camicia rosa e sentii l’attacco di Foxy Lady, allora una delle sigle di Per voi giovani, la popolarissima trasmissione radiofonica di Arbore e Boncompagni, ebbi come una rivelazione. Percepivo un’energia tellurica, selvaggia, anche un po’ spaventosa, e poi un modo nuovo e meravigliosamente barbarico di esprimere l’affettività, la rivolta, la gioia, la rabbia, il corpo. Non dico mica che Hendrix fosse una figura esemplare, con la sua furia autodistruttiva e il viso dolorante che mostrerà nel celebre assolo di Woodstock. Soltanto in quel pomeriggio di un maggio romano tiepido e odoroso, la sua musica mi ha rivelato un mondo intero che pure mi apparteneva e di cui fino a quel momento avevo solo un vago presentimento.

ALBERTO DENTICE A quei tempi suonavo in una band studentesca, gli Shocks: avevo diciannove anni, ero il frontman, voce e chitarra. Nel nostro repertorio c’era molto rock–blues, compreso qualcosa dei Cream e naturalmente di Jimi Hendrix, pezzi della prima ora come Foxy Lady e Fire. Nelle settimane precedenti la sua venuta a Roma eravamo stati contestati, durante l’occupazione alla facoltà di Architettura, per aver eseguito musica definita imperialista e capitalista, il rock di derivazione americana, appunto. I gruppi extraparlamentari, i marxisti–leninisti ci interruppero con letture dal libretto rosso di Mao Tse–tung! Un episodio surreale. Quando fu il giorno del concerto degli Experience al Brancaccio, c’eravamo anche noi. Andammo già la prima sera, insieme a un’amica, Dana, molto ben inserita nel giro degli stranieri di stanza a Roma, visto che il padre gestiva un locale in auge all’epoca, il Cowboy. Lei era pratica e disinvolta, girava tra la gente di spettacolo insieme ad alcune ragazze, si diceva che gradissero molto la compagnia degli artisti e magari li aiutassero a procurarsi qualcosa da fumare... Al termine dello show si dimostrò molto disponibile e ci condusse fino ai camerini per salutare la band in un incontro ravvicinato: strinsi la mano a Jimi, che aveva appena finito di suonare, fu una bella sensazione.

BRUNA URBANI Seguii il concerto rapita dalla sua immagine senza prestare molta attenzione a quello che suonava: poi a un certo momento, vedendo che insistentemente aveva lo sguardo rivolto verso di noi, dissi a Thea che probabilmente Jimi aveva un interesse

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Dopo il concerto MARIO VALENTINI Dopo il concerto avemmo la fortuna di riuscire a vedere Jimi e di avvicinarlo, insieme a tanta altra gente desiderosa di conoscerlo. Ottenni anche un autografo sia da lui che da tutti i componenti del gruppo. A un ragazzo, restituendogli il foglietto Jimi disse: «Thank you». Fui sorpreso, dimostrava la grande umiltà e umanità di un artista che fuori dal palco era una persona sensibile e molto gentile, mentre, quando saliva sulla scena, si trasformava nel più grande di tutti, un mostro dello strumento. Quella giornata mi lasciò un grande senso di benessere, perché Jimi dal palco mi aveva trasmesso tutto quello che un artista può dare con la sua musica. NOEL REDDING Avevamo dei bravi autisti a Roma, il nostro si chiamava Tony (Ruggero): ci portavano al Titan Club e in giro dopo gli spettacoli, con uno facemmo una jam. RENZO ARBORE Ebbi la fortuna di conoscere personalmente Jimi Hendrix, quando lo vidi seduto, un po’ stretto poverino, dentro la mitica Fiat 500 di Albertino Marozzi.

Al Titan Club.

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ALBERTO MAROZZI Dopo lo spettacolo era prevista una festa in onore di Jimi al Titan club, si trattava di accompagnare lui, la band e alcune ragazze al locale, così andai a prendere la mia Fiat 500 bianca. In auto con me c’era Jimi seduto a fianco e dietro un paio di ragazze, su un’altra auto Noel e Mitch.

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Il Titan Club, la jam session BRUNA URBANI Finito il concerto, Massimo Bernardi ci raggiunse in platea chiedendoci se potevamo andare al Titan, dove poi Jimi sarebbe passato, per fargli un po’ di compagnia visto che Thea poteva sostenere la conversazione. Io accettai con entusiasmo, Thea acconsentì e così, dopo lo show, salimmo sulla Mustang color argento di Thea per recarci al Titan. Una volta giunte al locale, prendemmo posto in un tavolino nei pressi del palco, dove si stava esibendo un gruppo. Dopo una breve attesa ci raggiunse Jimi, mentre Noel e Mitch arrivarono più tardi. Aiutata da Thea, iniziai a chiacchierare con Jimi che, fra il rumore nel locale e il fatto che non ero in grado di capire ciò mi diceva, volle andare in un posto più tranquillo. Rimanemmo al Titan circa un’ora e mezza; io e Thea eravamo in un’altra sala del locale, un privé dove avevano accesso solo persone selezionate. PIERO AMMANITI Dopo il concerto con gli amici ci ritrovammo da Musicarte, luogo di ritrovo dei musicisti romani all’epoca, e insieme ad alcuni amici decidemmo di andare al Titan Club. Quando fummo là, a un certo punto comparve Jimi accompagnato dalla sua band: se ne stettero tranquillamente tra il pubblico, sembravano normali clienti. Più tardi salì sul palco con i membri del suo gruppo e alcuni musicisti italiani, Jimi prese un basso, mi impressionò perché era mancino e, preso il basso, senza riaccordarlo cominciò a suonare un giro di blues. GIORGIO DE BIASI Dopo il concerto decidemmo di andare al Titan, anche perché si era sparsa la voce che Jimi sarebbe passato di lì. Più tardi infatti arrivarono e fecero anche una jam session con il gruppo che suonava al Titan, i Fholks. Gli Experience parteciparono, invertendo però i ruoli: Jimi imbracciò il basso, mentre Redding era alla chitarra. Solo Mitchell restò al suo posto. Suonarono diversi pezzi di blues e rhythm and blues.

Piantina del Titan Club e jam session.

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I FHOLKS (CLAUDIO BALDASSARRI) Noi dei Fholks eravamo fan di Jimi Hendrix e tutti insieme andammo a sentirlo il pomeriggio del 24 maggio: suonavamo al Titan Club e, sapendo che dopo il concerto serale Hendrix sarebbe venuto, chiedemmo al direttore artistico del locale di suonare mentre era presente Hendrix… Quella sera facevamo da spalla a un gruppo di R&B e, finito il loro concerto, sebbene avessimo già suonato, tornammo sul palco. Jimi era seduto proprio di fronte a noi nel tavolino dei vip insieme a delle ragazze e notai che mentre suonavamo ci guardava e

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batteva il tempo con la mano. Armando Gallo ricorda che Jimi disse: «Silenzio tutti, voglio sentire questi ragazzi suonare!». Abbiamo suonato per una mezz’oretta e, tornati nei camerini, arrivò Alberto Marozzi dicendo che Jimi Hendrix voleva che suonassimo ancora e così facemmo un altro paio di pezzi. Ma ancora Alberto venne da noi ed eccitato ci disse: «A ragà, Jimi vole fà na jam session». Rientrati sul palco, Ruggero Stefani andò alla batteria, mentre Noel Redding prese la mia Gibson 335 e Jimi andò al basso di Piero (Pierfranco Pavone). Jimi suonò il basso semplicemente girandolo senza riaccordarlo, nonostante fosse mancino. Improvvisammo alcuni blues, poi durante una pausa Marozzi si spostò alla batteria, alternandosi con Mitch Mitchell. Dopo la jam session Jimi ci invitò al suo tavolo: Alberto faceva da interprete e Hendrix ci chiese di aprire i concerti al Brancaccio il giorno successivo. Massimo Bernardi non era molto d’accordo perché noi Folhks dovevano già suonare al Titan, ma su insistenza di Jimi Massimo accettò a patto che subito dopo tornassimo al Titan. I FHOLKS (RUGGERO STEFANI) Il Titan era in via della Meloria, vicino al Bar Cristallo. Si riunivano molti personaggi del rock romano. La direzione artistica del Titan promosse il tour italiano di Jimi Hendrix. Gli organizzatori, Massimo Bernardi e Oscar Porri, essendo anche proprietario e direttore artistico del Titan, pensarono di invitare Jimi e la band a passare il dopo–spettacolo al Titan, dove, tanto per cambiare, ci esibivamo noi. In una grande sala rettangolare, appena rialzato, c’era il palco su uno dei lati corti del locale. Di fronte al palco la pista da ballo, rotonda. Ai due lati della pista, vicinissimi al palco, due salottini vip, con divani a semicerchio intorno a un tavolo rotondo: di solito erano riservati agli ospiti importanti del locale, mentre i clienti comuni si sedevano nelle altre poltrone e nei tavoli dislocati tutto intorno alle pareti: quella sera Jimi e la band furono fatti sedere in una di queste due postazioni. Noi stavamo suonando, quando lui entrò nel locale: ci tremavano le gambe, ma continuammo a suonare con la nostra solita verve. Oggi si definirebbe “groove”, per noi era “grinta”. Con Jimi, oltre a Mitch Mitchell e Noel Redding, c’erano Bernardi, Porri e Albertino Marozzi, che si rivelò un personaggio chiave della situazione. Quella sera era lì perché conosceva un po’ di inglese, quindi era riuscito a intrufolarsi come accompagnatore– interprete del gruppo. Rientrammo nel camerino camminando su una nuvola. Mentre ci asciugavamo il sudore e cercavamo di toglierci i sorrisi ebeti dal volto, entrò di corsa Albertino Marozzi dicendo: «A regà, ha detto Jimi Hendrix se risonate perché je sete piaciuti un sacco», queste furono le parole esatte. Beh, questo apprezzamento ci riempì di stupore e orgoglio, in un crescendo di enorme soddisfazione. Al termine di questa, che era la nostra terza esibizione della serata, ancora Albertino venne da noi e ci disse: «A regà, Jimi Hendrix ha chiesto de sonà qualche pezzo con voi. Ha detto che je fate venì voja de sonà». Si può immaginare la sensazione nel vedere un mostro sacro del rock avvicinarsi e salire sul palco con te, prendere la chitarra, imbracciarla e cominciare a suonare? Comunque,

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in uno stato di estasi, partimmo con un’improvvisazione. Non durò molto, ma l’importanza era nell’evento, seguito con grande soddisfazione del pubblico per l’eccezionale fuori programma. Di nuovo in camerino, dove ancora Albertino ci raggiunse, per un invito: «Jimi Hendrix ve vole al tavolo con lui. Ve vole conosce». Quindi ricevemmo ancora un sacco di complimenti, che Albertino si sforzava di tradurci. Ricordo che Mitch Mitchell mi disse che ero molto bravo. Io gli chiesi se stava scherzando e volle sapere da quanto tempo suonavo la batteria. Jimi a un certo punto smise di rivolgersi a noi e cominciò a parlare fittamente con gli organizzatori della tournée. Mi sfuggì ciò che si dissero, distratto com’ero da Mitch Mitchell, ma alla fine ci venne annunciato che il giorno dopo (sabato) avremmo aperto lo spettacolo del Brancaccio, dato che a Jimi gli mettevamo addosso una gran voglia di suonare. ALBERTO MAROZZI Suonammo un blues, alcuni classici del R&B e un pezzo che assomigliava a Foxy Lady, ma Jimi non cantava. Hendrix era alla mia destra, lo guardavo fisso mentre prendevo in mano le bacchette. Si voltò e batté il piede sul pavimento per darmi il tempo. In quel momento credevo di morire, avevo un terrore cieco di sbagliare, credevo di trovarmi di fronte al solito chitarrista esaltato che se sbagli ti sfascia lo strumento in testa. Invece niente di tutto questo. Era impossibile sbagliare con lui, sembrava avesse almeno cinque chitarre, non una. Dopo un po’ che eravamo al Titan, mi disse che voleva mangiare qualcosa visto che era tardi e il locale stava chiudendo. Lo caricai sulla mia 500 con due amiche che non parlavano inglese, diretti verso via Veneto, mi pare al Cowboy. Mentre mangiavamo, in fondo alla sala c’era un pianista di una certa età, nemmeno tanto bravo. Una volta finito di suonare, Jimi si alza e va verso di lui, tira fuori dalle tasche 10.000 lire e le passa al musicista. Era una bella cifra, allora. Rimasi sorpreso, lui gli strinse la mano, dicendo: «Be groovy out of site, man». Poi mi spiegò che voleva incoraggiare tutti quelli che fanno musica, più o meno capaci ma con la passione a guidarli. Poi ho condotto lui e una ragazza bionda a fare un giro di Roma by night, prima di riportarli in albergo. BRUNA URBANI Bernardi disse che aveva chiamato un suo amico che gestiva un american bar e se volevamo ci avrebbe ospitato: Jimi annuì e così lasciammo il Titan, raggiungendo il locale. Conversammo per alcune ore fin verso le 3, poi, data l’intesa che c’era fra me e Thea, lei capì che era giunto il momento che le cose prendessero il loro corso e ci lasciò. Così andai all’albergo in cui Jimi era ospite, vicino alla stazione Termini. Trascorsi il resto della notte con lui e il mattino seguente, verso le 11, venne a prendermi Thea per portarmi a casa, visto che non avevo abiti di ricambio per la giornata. Di quei momenti ricordo una persona estremamente gentile, dolce e sensibile: mi disse di raggiungerlo negli Usa una volta ritornato e che era sua intenzione prendere una casa a Roma e incontrarmi quando era possibile. E comunque ci lasciammo con l’intenzione di rivederci la sera dopo il concerto, di nuovo al Titan.

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25 MAGGIO 1968 Nel primo pomeriggio Hendrix concede varie interviste e un servizio fotografico in hotel per il diffusissimo giornale svizzero “Blick”. Siccome la Jimi Hendrix Experience era stata ingaggiata per due concerti a Zurigo (30–31 maggio), prima assoluta per la Svizzera, “Blick” aveva inviato all’Hotel Metropole la giornalista Edith Wieland per un’intervista e un servizio fotografico. Intorno alle 16, gli Experience si recano al Teatro Brancaccio per il concerto pomeridiano. I gruppi di supporto sono: Doctor K’s Blues Band, Pierfranco Colonna, il balletto di Franco Estill. I brani suonati dalla jhe sono: I Don’t Live Today, Hey Joe, Stone Free, Manic Depression, Foxy Lady, Red House, Wild Thing. L’intero concerto è stato registrato. Tra i due concerti Jimi viene invitato a cena al noto ristorante Alfredo alla Scrofa, in via della Scrofa 104, da una manager della casa discografica Polygram. Per il concerto serale, oltre i soliti gruppi di supporto, lo show, su insistenza di Jimi, fu aperto dai Fholks, aggiunti in cartellone dopo che Jimi li sentì suonare la sera prima al Titan Club. Massimo Bernardi non era molto d’accordo, perché i Fholks dovevano già esibirsi al Titan ma, dopo le insistenze di Jimi, Massimo accettò, a patto che subito dopo tornassero a suonare al Titan. I Fholks suonavano lì tutte le sere tranne la domenica, giornata di chiusura. Anche Pierfranco Colonna (nome d’arte di Franco Castellani) non era troppo entusiasta dell’ulteriore aggiunta di un gruppo di supporto, perché questo probabilmente avrebbe accorciato il tempo a sua disposizione. Una troupe della “Settimana Incom” tentò di filmare il concerto, ma dopo pochi minuti di ripresa furono cacciati dall’entourage di Hendrix. Tra i brani suonati dalla jhe sono: Fire, Stone Free, Red House. Solo i primi due brani e parte del terzo sono stati registrati. Dopo il secondo concerto, gli Experience tornano al Titan Club dove suonano una seconda jam session. Alla chiusura del locale, Noel, sua sorella Vicky, Jimi e alcuni accompagnatori fanno tappa al Cowboy di via Veneto e poi vanno al Colosseo e, ancora su due auto (la 500 di Marozzi e quella di Tony Ruggero), verso il parco di Villa Borghese, dove ciascuno si apparta con il proprio partner di quella sera. All’alba tentano di portare le ragazze in albergo, ma il portiere di notte non le lascia entrare, quindi attendono il cambio del portiere per riuscire a far intrufolare le ragazze in camera.

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Intervista con Edith Wieland (pubblicata il 30 maggio sulla rivista “Blick”) Jimi Hendrix esce dall’ascensore con la sua tipica postura a testa abbassata e arriva nella hall dell’albergo. Si muove con una grazia naturale, che accomuna molte persone di colore. Mi saluta e si siede accanto a me sul divano. Supera un primo momento di timidezza ordinando un succo di frutta. Edith: Non bevi alcool? Jimi: Sì, mi succede, ma non durante il giorno. Inoltre il succo di frutta mi tiene in piedi. Siamo quasi sempre in giro e mi manca il tempo per mangiare. Vede, anche la mia pelle ne risente. (Mostra una crosta sul polso, mettendo in evidenza le mani enormi, espressive. È veramente pallido, nonostante per natura abbia una pelle scura.) Edith: Perché ti descrivono sempre come un selvaggio? Jimi: Onestamente, nemmeno io so perché mi si vuole sempre vedere come un uomo orribile. A loro piacerebbe se io avessi le sembianze di un cannibale. (Fa una boccaccia, digrigna i denti e ruota gli occhi, poi scoppia a ridere. È facile notare come il materiale pubblicitario che lo dipinge come un selvaggio lo ferisca. Jimi non è una gran bellezza, ma ha un tale fascino, humour e intelligenza che ci si dimentica del suo aspetto appena inizi a parlarci insieme.) Edith: Ieri Marcello Fratoni, un critico musicale italiano, ha detto che sei il Paganini della chitarra. Jimi: Paganini? Chi è? Ah, sì, il più grande violinista di tutti i tempi. Questo mi fa molto piacere. (E sorride contento.) Edith Wieland intervista Jimi Hendrix in albergo.

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Edith: La tua musica è stata definita psichedelica, invece tu in che categoria ti classificheresti? Jimi: A questa domanda è molto difficile rispondere. È un mix di rock, blues e jazz: è una musica ancora in piena evoluzione, qualcosa che sta per arrivare, una musica del futuro. Sicuramente non la definirei psichedelica, piuttosto Bach o Beethoven (e sorride). Non fraintendermi, amo molto sia Bach che Beethoven e ho tanti dischi loro e pure di Gustav Mahler. Edith: …E che mi dici del tuo successo con le donne? Jimi: Donne? (Riflette un attimo.) Sai, io vivo solo per la musica. Per me prima viene la chitarra, poi la musica, solo molto dopo vengono le donne, però mi rimane pochissimo tempo per loro. Ma il successo non è una buona cosa perché rovina il lavoro. Edith: Lavori sempre con questo ritmo? Jimi: Non più per molto, domani finiamo il nostro tour in Italia, dopodiché andrò per un giorno a New York a firmare un contratto e, in seguito, tra quattro giorni, come già sai, saremo in Svizzera. Edith: …E dopo la Svizzera? Jimi: Un piccolo tour in Spagna e finalmente le vacanze. Ne abbiamo davvero bisogno, siamo stanchissimi! Poi voglio tornare a Roma, amo questa città! (Qualcuno interrompe l’intervista, è ora di andare a teatro.) Siamo di nuovo in ritardo e Mitch è ancora nella sua stanza, non si è fatto vedere. In un anno e mezzo che lo conosco non è stato puntuale neanche una volta. Il ritardo per lui è una malattia cronica!

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Teatro Brancaccio, il concerto pomeridiano CARLO CICIANI Quando seppi che la Jimi Hendrix Experience avrebbe suonato a Roma ero incredulo, Jimi dal vivo! Il concerto non fu molto pubblicizzato, pochi manifesti e qualche notizia sui quotidiani, alla fine fu più un passaparola tra amici. Nemmeno in sogno si poteva sperare tanto, era impossibile non partecipare nonostante il costo del biglietto (1.500 lire) che per me studente era tutto sommato una discreta somma a quei tempi. Ad ogni modo con degli amici di quartiere andammo al concerto del sabato pomeriggio. Tra il pubblico c’erano parecchi ragazzi stranieri, probabilmente turisti che non potevano perdersi l’occasione di vedere Hendrix dal vivo così facilmente e a poco prezzo: all’estero era già famoso mentre in Italia era ancora pressoché sconosciuto. THOMAS HARRISON Per metà americana e per metà italiana, la mia famiglia si era trasferita a Roma dalla Turchia un anno prima. Appassionati di musica, i miei amici ed io conoscevamo i Beatles, gli Yardbirds e gli Animals e, naturalmente ci affascinava la psichedelia e le minigonne della scena britannica. Ma un tizio di colore che si fosse impadronito di tutti quei suoni e di quei vestiti?! Diffondeva un senso di orgoglio, sia esistenziale che culturale. Noi espatriati amavamo la musica soul della Motown, anche se le sue radici e le tensioni razziali ci erano per lo più estranee. All’altro estremo c’era la scena rock bianca e transcontinentale. Improvvisamente, o così ci pareva, piovve dal cielo la Jimi Hendrix Experience, la cui immagine audace e trasgressiva ci offriva un messaggio sintetico e trionfante. In lui confluivano Inghilterra, Europa, Stati Uniti, rock, blues e soul, bianco e nero, maschile e femminile, forza e amore, istinto e artificiosità. Ovviamente non si poteva mancare al suo concerto romano, sebbene avessi dodici anni decisi di andare con mia sorella maggiore, mio fratello e un paio di amici. Comprammo i nostri biglietti direttamente al Brancaccio, che, per quanto mi ricordi, aveva come politica «prima arrivi, meglio ti siedi», per cui io e mio fratello, allo show pomeridiano, finimmo per sederci a poca distanza dal palco, a sinistra del corridoio centrale. L’atmosfera era prossima alla venerazione, credo che pochi notarono i gruppi di supporto.

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SERGIO 1952 Il tema “Chi vorresti essere dei personaggi viventi o dei grandi del passato” andò malissimo. Non era tanto la forma con cui esponevo le mie idee ad aver causato l’insufficienza – non c’erano errori di grammatica, la sintassi era corretta – e forse nemmeno le argomentazioni erano così male, in sintonia comunque con i miei quindici anni e mezzo. In fondo avevo solo parlato della mia grande passione per uno strumento musicale, del sogno di farne un giorno una professione e, visto che mi si chiedeva di impersonare qualcuno, dissi di voler essere il più grande chitarrista vivente, Jimi Hendrix. Il motivo del brutto voto e dello sdegno con cui l’anziana professoressa mi restituì il compito era quindi dovuto al soggetto che avevo scelto. L’avrei spuntata con Segovia o con Django Reinhardt e forse avrei avuto una possibilità con Robert Johnson ma con Jimi Hendrix no, impossibile. Lei non sapeva chi fosse Hendrix, figuriamoci, ma il solo fatto di apprendere che del misterioso personaggio, “un negro” poi, ammiravo la musica “elettrica”, la massa di capelli neri, le giacche variopinte tappezzate di alamari, le chitarre incendiate ecc., era davvero troppo. In realtà di Hendrix non sapevo nulla, avevo visto un paio di foto del gruppo e avevo da poco ascoltato Are You Experienced? su un giradischi dalla puntina consumata. L’ammirazione per il personaggio mi veniva più che altro dai racconti di alcuni amici molto più bravi di me con la chitarra e anche loro, poi, non è che ne sapessero molto. A distanza di anni trovo sorprendente la sproporzione tra l’eccitazione con cui attesi quel pomeriggio e l’assoluta ignoranza della musica di Hendrix. Ero un aspirante chitarrista beat (allora il rock era solo quello defunto di Elvis) e mi recai al Brancaccio, che dista meno di cento metri dalla casa in cui abito ancora. Di quel giorno ricordo l’orgoglio di esserci. La ressa all’ingresso col biglietto in mano, pigiato fino a perdere il fiato nel tentativo di raggiungere i primi posti; la corsa verso il palco nascosto da un pesante sipario di stoffa; l’esibizione di un certo Pierfranco Colonna che a detta dell’amico seduto accanto a me era un professionista vero. Di quei momenti non ricordo la musica, ma il frastuono in sala, l’energia sprigionata da un cinema enorme gremito di ragazzi eccitati che, probabilmente come me, in gran parte erano lì non per i musicisti ma per condividere un rito tribale. ANTONIO VARONE Del 1968 ricordo che era un’epoca bellissima. Fin da allora ero patito per la musica, la musica la ascoltavamo dalle radio o dai dischi di amici, fu così che conobbi Jimi Hendrix. A quei tempi mi cimentavo in un gruppo, i Demoni, tra le varie canzoni suonavamo anche qualche pezzo di Jimi. Andavo a quasi tutti i concerti, non potevo certo saltare quello del grande Jimi. Così con la mia 600 e cinque amici, il sabato pomeriggio, andammo al concerto. Ricordo che non arrivammo al teatro tra i primi e la calca mi schiacciò tra un gruppo di svedesi... il Brancaccio era pieno, anche in galleria dove ci trovavamo.

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PAT L.A. WISS La foto sulla copertina di Are You Experienced? era un programma di per sé... un ceffo scuro dai capelli cotonati affiancato, sotto il suo manto, da due pallidi giovani musicisti. Come seppi che avrebbe suonato mi attivai per assicurarmi di non perdere il suo concerto e andai con un mio compagno di classe e d’avventure. Il Brancaccio era pieno di adulatori, (pseudo) chitarristi e non, con l’adrenalina diffusa e la bava alla bocca! Non volava una mosca, tutti eravamo in attesa di vedere questo mostro della chitarra.

Fronte e retro di copertina della prima edizione di Are you experienced? Maggio, 1967.

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ADRIANO ASSANTI Nel 1968 avevo diciassette anni, suonavo la batteria, ero un amante della musica. A Napoli, dove vivevo, la situazione musicale era disastrosa, noi eravamo tra i pochi ad ascoltare e suonare musica anglo–americana. Non c’era possibilità di trovare riviste musicali e i dischi d’importazione erano difficili da reperire. La nostra principale fonte d’informazione musicale era il programma radiofonico Bandiera Gialla, oppure ci si sintonizzava sulle onde medie di Radio Luxembourg, però solo di notte. Il mio amico Geppino Esposito un giorno si presentò con un disco di Hendrix, non capivamo che diceva ma la musica era veramente diversa da tutto, sembrava un marziano. Un giorno lo stesso amico viene e mi dice che Jimi suonerà a Roma. Eravamo molto giovani e arrivare a Roma era un problema, c’era ancora un mesetto davanti, così chiedemmo a diverse persone se ci accompagnavano in auto. Finalmente si trovò una combinazione. Arrivati a Roma acquistammo i biglietti, quel pomeriggio il Brancaccio non era pieno. A quei tempi, potendo, portavo ai concerti il mio Philips a cassette, registravo tutto per poi riascoltare i musicisti e scoprire le loro dritte e trucchetti. In genere nessuno ci faceva caso e anche al Brancaccio io sono tranquillamente entrato con il registratore. Dei gruppi supporter che si esibirono prima di Hendrix ho solo il vago ricordo di un balletto, ero concentrato e interessato solo a Jimi. PAOLO RENFERME Andai al concerto senza conoscerlo per accompagnare mio fratello e due suoi amici che erano curiosi di vederlo dopo aver letto un articolo in cui si diceva che spaccasse le chitarre. Andammo al concerto del pomeriggio, non eravamo tanti, sentivo “elettricità” da tutte le parti e in me cresceva un grande desiderio di sentire Jimi finalmente suonare. EDDIE PONTI Jimi arrivò, restò un po’ nel camerino con il gruppo, senza estranei intorno. Erano sempre puntualissimi, molto professionali. Forse suonarono meno di quaranta minuti perché si perse molto tempo a sistemare quegli enormi amplificatori. CARLO CICIANI Non ricordo una particolare introduzione al concerto, nessun presentatore che intrattenesse il pubblico: disse solo «Ecco la Jimi Hendrix Experience», non avevamo alcuna idea di cosa sarebbe potuto accadere. Jimi apparve sul palco col suo abito di scena. Come cominciò rimasi senza parole, quando lo vidi suonare con i denti, contorcersi, e cavare tutti quei suoni dallo strumento, mi resi conto che tra noi e lui c’erano anni luce di differenza. Era più avanti, incredibile. ANTONIO VARONE Iniziò il concerto e sulle prime rimasi deluso, i suoni erano frastornanti, ma poi è

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cambiato tutto per il meglio Eravamo tutti presi dalla sua musica, era fortissimo, con la chitarra faceva quel che gli pareva. Anche il bassista e il batterista erano potenti, lo accompagnavano alla grande. PIERO AMMANITI Hendrix suonò tutti i suoi cavalli di battaglia, da Hey Joe in poi. Durante il concerto ci furono problemi con i suoni, la batteria in alcuni momenti sovrastava tutto il resto, il basso era cupo e la voce si sentiva poco: Jimi era molto infastidito dall’acustica, non riusciva a dare il meglio. Nonostante tutto fu un bel concerto, tra suoni fantascientifici ottenuti con solo due pedali, un fuzz face e un wah wah. Ricordo che la batteria di Mitch aveva una cassa color oro, mentre Noel Redding mi impressionò perché era secco secco con i capelli cotonati. THOMAS HARRISON Al concerto portai con me la mia Kodak Instamatic e scattai alcune foto. Avevo dodici anni. Ciò che le immagini non riescono a mostrare è l’effetto bruciante della performance. Purtroppo le stesse immagini riescono solo a catturare aspetti momentanei di un avvenimento non statico, ritagliando frammenti di un evento dionisiaco. Al Brancaccio Jimi apparve pacato rispetto ad altre occasioni, come lo si era visto a Monterey ad esempio. Sicuramente l’estraneità dell’ambiente romano influì in questo senso. Mi è difficile immaginare un altro performer in grado di convogliare un tale senso di potenza dinamica, e di fondere assieme una tale miscela di erotismo, carisma, malizia e virtuosismo musicale: con la chitarra a fare da insolito propellente. Un concentrato di passione, anni di privazioni umane, di inspiegabile brama e urgenza creativa. SERGIO 1952 Suoni assordanti, ritmo martellante, pubblico da stadio, Mitch Mitchell che faceva volare le bacchette sulle pelli, rullando fluido e potente, Hendrix sembrava piccolo, magrissimo, rispetto all’immagine gigantesca delle nostre proiezioni adolescenziali, la materializzazione della copertina del primo disco, un’icona vivente. Ero affascinato dai ruoli, dai gesti, dai colori, dalla potenza del suono. Se devo scremare i ricordi del concerto mi rimane poco: schiacciato tra la folla all’ingresso, corsa tra i sedili di legno, frastuono, Mitch che rulla e lancia bacchette, Jimi simbolo esotico, indifferente, minuto e gigantesco, Wild Thing, chitarra, amplificatori aggrediti. BRUNO D’ANGELO Ero seduto nella platea del teatro, allora anche cinema, e avevo pagato i biglietti una discreta cifra per essere proprio sotto il palco. Il gruppo mostrò subito di cosa era capace e ne fui estasiato; Mitchell pestava sui rullanti come un ossesso, spezzando molte bacchette, una mi cadde proprio addosso. Tutto avvenne nel più

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totale delirio musicale, con corpi che saltavano, urlavano, si dimenavano al fuoco sonoro di Jimi. Bei ricordi di adolescenza piena di passione; tempi in cui credevo che il mondo sarebbe cambiato anche grazie alla musica. Se avessi ancora quella bacchetta, la sventolerei per gridare: «Eravamo belli e avevamo un sogno, e questo ci faceva sentire ricchi... provate voi a sognare ora». CARLO CICIANI Tra una canzone e l’altra Jimi parlava ovviamente in inglese e io purtroppo non lo capivo, sul palco non c’era una scenografia, solo lui che con la sua musica riempiva tutto. Nonostante l’amplificazione non all’altezza che causò vari problemi, Hendrix, Mitch e Noel diedero il massimo. Fu una cosa memorabile, abbiamo assistito a qualcosa di inimmaginabile come se fossimo stati proiettati nel futuro... ricordo che accennò l’inno americano mescolato con i suoni delle bombe, chiara allusione alla guerra in Vietnam. ADRIANO ASSANTI Durante il concerto temevo che si scaricassero le pile mentre Jimi suonava, quindi il primo concerto non l’ho seguito molto, preoccupato dalla lancetta del registratore e continuavo a cambiare posizione per ottenere una ripresa ottimale.

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Una registrazione

Noel: Thank you very much… but I want you to sit down… (Grazie mille… ma voglio che vi sediate…) La quinta canzone suonata dagli Experience è Foxy Lady (durata 3:40), una versione veramente ispirata, che ha mandato in visibilio il pubblico. Noel: Thank you very much, thank you, gracias. (Grazie mille, grazie, gracias.)

Il nastro inizia con la presentazione di Eddie Ponti che semplicemente dice: «Al Titan Top Show la Jimi Hendrix Experience» e subito attaccano I Don’t Live Today (durata 3:30), una versione molto vicina all’originale con un assolo verso la fine. Al termine Noel ringrazia. Noel: Thank you very much... from us. (Grazie mille… da parte nostra.) Jimi: [accordando] Thank you very much for coming. We’d like to continue on with a song called Hey Joe… (Grazie per essere venuti. Ci piacerebbe continuare con una canzone intitolata Hey Joe…) Dopo una breve introduzione di Jimi, tra il vociare del pubblico, la seconda canzone è Hey Joe (durata 4:15). È una versione particolare; anche questa all’inizio è simile all’originale, poi però Jimi suona dei licks diversi e dopo 3:30 fa un secondo assolo. Alla fine della canzone Noel ringrazia. Noel: Thank you very much, the ladies... (Grazie mille, signore e…) Il terzo brano suonato dagli Experience è Stone Free (durata 3:42), una versione simile all’originale ma con un micidiale assolo dopo circa 2:00 minuti. Al termine del brano, Jimi si lamenta degli amplificatori, probabilmente non poteva usarli come avrebbe desiderato. Jimi: English amps don’t go with the–eh… the electricity… (Gli amplificatori inglesi non vanno con l’ee... l’elettricità...) Prima del quarto brano Jimi accorda la chitarra, quindi suona Manic Depression (durata 5:48), un’ottima versione. Nonostante durante l’assolo Jimi sbagli una nota, l’involontario errore stravolge la canzone e il “solo” si trasforma in qualcosa di incredibile, psichedelico. Mitch Mitchell fa un magistrale assolo di batteria, poi Jimi ripete il tema della canzone e chiude il brano. Noel riprende il pubblico che si accalca davanti al palco.

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Jimi: We’d like to continue on with the slow blues that we did on Are You Experienced? I–I’m sorry about the amplifiers, but there’s nothing we can do about this show. The next show it’ll be all right, okay. (Ci piacerebbe continuare con il blues lento che abbiamo fatto in Are You Experienced? Ma mi... mi spiace per gli amplificatori, non c’è niente che possiamo fare per questo show. Ma il prossimo show sarà a posto, okay.) Noel: One… (Uno…) Mentre introduce Red House (durata 10:10), Jimi cambia la chitarra e per il brano successivo usa una Gibson Les Paul. Questa versione è in assoluto una delle migliori esecuzioni di Hendrix, lentissima, con un lunghissimo assolo. Alla fine del brano, Noel ringrazia, mentre Jimi si lamenta ancora per gli amplificatori e introduce la canzone finale. Noel: Thank you very much. (Grazie mille.) Jimi: Ah, again I have to say we’re very sorry that my amplifier has gone. This, it’s completely gone now. It’s British right? Amplifier British, we ain’t messin’ with you heh. Anyway… [prova con forza un accordo, mentre accorda la chitarra] …so we have one more num–uh, song we’ve, number to do. An–uh, we’d like to say thank you very much for today. It is the song dedicated to, International anthem. Dedicated to all the soldiers that are fightin’ in Chicago, Philadelphia–ah, Washington D.C. (Ah, ancora devo dirvi che ci dispiace tantissimo, ma il mio amplificatore è andato. Questo, è completamente andato adesso. È inglese, vero? Amplificatore inglese, non ci mettiamo più con te, ehi. Comunque... [prova con forza un accordo, mentre accorda la chitarra] ...così abbiamo ancora un num..., una canzone, un numero da fare. Ah, inoltre vi vorrei dire molte grazie per oggi. È una canzone dedicata a un inno internazionale dedicato a tutti i soldati che stanno combattendo a Chicago, Philadelphia..., Washington D.C.) Pubblico: [applausi]

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Jimi: …Paris, France. Oh, yes, and Vietnam [accordando]. If everybody stand up an’ put your right hand across your left–ah, whatever you can find to put it across. Then we can–ha–ha begin [accordando]. We’d like to say thank you very much for ourselves, huh? Buonasera, goodbye [accordando]… (Parigi, Francia. Oh, sì, e il Vietnam [accordando]. Se ognuno si alzasse in piedi e mettesse la sua mano destra incrociata con la sinistra, o comunque vogliate incrociarle. Allora possiamo... cominciare [accordando]. Vorremmo dirvi grazie mille da parte nostra, huh? Buonasera, arrivederci [accordando]…) Alla fine Jimi saluta il pubblico romano e in un italiano un po’ stentato dice: «Buonasera», dedicando poi l’ultima canzone Wild Thing (durata 6:30) ai soldati che combattono in Vietnam. Anche questa è una versione atipica, molto più lenta di quella usuale. Nel mezzo accenna a Strangers in the Night, e verso la fine usa alcuni riff che ricordano The Star–Spangled Banner. Il concerto finisce. Il pubblico è in delirio.

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La cena da “Alfredo”

VICKY REDDING Dopo il concerto andammo a cena in un ristorante, uno di quelli dove portano tutte le star, Frank Sinatra, Dean Martin e così via. E c’erano tutte le loro foto appese al muro. Ci scattarono delle foto, sono sicura che adesso sono là appese. MARIO MOZZETTI Jimi Hendrix arrivò così una sera senza essere annunciato, nessuno ci preavvisò. Era accompagnato da una bellissima signora, manager della Polygram, un autista e altre quattro o cinque persone. Ci dissero che era il più grande chitarrista del mondo e che veniva dall’America, così lo facemmo accomodare in una saletta riservata e apparecchiammo il loro tavolo con le posate d’oro, quelle riservate alle celebrità. Ricordo che gli servimmo la nostra specialità, le “Fettuccine da Alfredo”, e lui ne rimase veramente estasiato. Quella sera al locale avevamo un trio musicale, chitarra, mandolino e violino, che girava tra i tavoli. Visto che lui era un grande chitarrista, quando il trio si avvicinò al suo tavolo, chiesi alla manager se poteva far suonare un pezzo a Jimi con la chitarra. Lei ci fece da tramite perché il mio inglese era troppo elementare ai tempi. Jimi accettò di buon grado e disse: «Stasera vi farò vedere una cosa speciale che non faccio molto spesso» e prese la chitarra e si mise a suonarla dietro le spalle. Non avevo mai visto fare una cosa del genere, tutti i camerieri e i clienti seduti ai tavoli applaudivano. Fu incredibile. Poi di secondo mi pare assaggiò il filetto di tacchino alla cardinale con pisellini freschi e come dolce prese delle fragole con gelato. Il caffè no, quello non lo volle. Bevve ancora del vino, poi lasciò una bella mancia e soddisfatto promise di ritornare. PAOLO VALENTE Un piatto di spaghetti, uno di fettuccine, cui hanno fatto seguito un filetto alto qualche centimetro e un fiasco di vino. Doveva essere una fame che risaliva ai tempi in cui non era ancora un cantante famoso.

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Il cibo era eccezionale! in altre parole, Veramente Fico, voglio dire, troppo, sai cosa intendo – fantastico – Grazie 1,000,000! I have been EXPERIENCED!

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Teatro Brancaccio, il concerto serale CLAUDIO BALDASSARRI Dovevamo aprire il concerto di Jimi Hendrix già nel pomeriggio, ma siccome eravamo arrivati tardi per il traffico lo facemmo solo per quello della sera. Noi dei Fholks prima delle 21 eravamo già al Teatro Brancaccio: Ponti ci presentò come i pupilli di Hendrix e aprimmo il suo concerto. RUGGERO STEFANI Ci esibimmo prima di Hendrix come lui aveva richiesto e, finito di suonare, senza il tempo per riprendere fiato, di corsa al Titan con il basso e la chitarra per fare la nostra esibizione. GIUSEPPE GAETANO In quei tempi avevo finito il servizio militare. Avevo ventun anni; in quel periodo i gruppi musicali italiani e stranieri andavano per la maggiore e, anche per questo, molti ragazzi in modo dilettantesco formavano gruppi musicali che suonavano nei locali di tutta Roma. Decisi di andare al Brancaccio con un amico, Fabio Fasan, che suonava e cantava nei Naufraghi, che seguivo sempre quando si esibivano in qualche locale. Il batterista del gruppo era Stefano D’Orazio, entrato poi nei Pooh. Ricordo che Fabio mi propose di andare a sentire Hendrix, dato che un suo amico, Ruggero (Stefani), faceva parte del gruppo supporter di Jimi, i Fholks. L’ambiente era infuocato. Hendrix sul palco era una presenza immediatamente in grado di calamitare l’attenzione di tutti e, quando iniziò a suonare il primo pezzo, eravamo tutti esterrefatti, quasi ipnotizzati. Nell’eccitazione generale già girava qualche spinello... Gli altri membri degli Experience, in quel momento, mi sembravano figure di secondo piano: quando uscimmo dal Brancaccio, ero totalmente stordito e per molti giorni con Fabio e gli altri non si parlò d’altro. CARLO VERDONE Di quella serata conservo la sensazione di un pubblico impaziente che non lasciava ascoltare nulla dei gruppi d’apertura. Mi ricordo di un gruppo che suonava, erano pure bravi, non saprei però dire il nome, si sentiva e non si sentiva a causa del vociare. Poi chiusero il sipario per montare la batteria e gli amplificatori di Hendrix. A quel punto pareva di stare in uno stadio, a tutto volume, tanto che non potevo nemmeno parlare con chi mi stava vicino. A un certo momento, dalla tenda,

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fece capolino la paletta del basso di Noel, come per dire: «Stiamo arrivando». Ci fu un boato tra il pubblico. A stento riuscimmo a sentire Eddie Ponti che annunciava la Jimi Hendrix Experience. La prima canzone fu Fire. THOMAS HARRISON Siamo tornati per il concerto serale e il clima era molto diverso rispetto al pomeriggio. C’era più gente, tant’è che riuscimmo a malapena a trovare dei biglietti per la galleria. Il pubblico era più scatenato direi, molto rumoroso, c’era un caos tremendo, tutta la gente parlava, addirittura a volte non si riusciva a sentirlo. Credo che Jimi si arrabbiò moltissimo quella sera, per il pubblico. A parte questo, la performance serale aveva un’aria più remota e astratta. Ho bene in mente come Jimi amoreggiava con gli amplificatori e la sua scelta di un’attraente e imbarazzata fanciulla in prima fila cui dedicare Foxy Lady. MARCO PERSICHETTI Mi ricordo che un romano da un’alta balconata del Teatro Brancaccio, con il braccio attorno a una colonnina, a un certo punto del concerto urlò: «...ah Giacomo me pari Iddio!!!». Non lo scorderò per tutta la vita perché ero d’accordo: lui era ed è un Dio della chitarra. ROBERTO CIOTTI Ai tempi frequentavo la prima liceo: insieme al mio amico e compagno di banco Gianni Marcucci, una volta ascoltammo per radio Hey Joe, in un programma di Arbore e Boncompagni. Questa canzone mi sconvolse, fino ad allora la musica non mi interessava molto. A casa mia andavano Celentano, Rita Pavone, Sanremo. Io tutto sommato odiavo la musica. Andare al Brancaccio fu una conseguenza naturale. Sentire Jimi suonare mi lasciò esterrefatto, una cosa incredibile che mi cambiò la vita. Da quel momento abbandonai tutto, trascurai la scuola mentre prima ero studiosissimo, mollai anche il calcio, sebbene fossi stato un grande amante del pallone, mi misi a suonare la chitarra e in un anno imparai a suonarla a orecchio, tanto che quelli del palazzo mi chiamavano per rifare le canzoncine dell’epoca. SARO CORDI Alcuni accordi e note improvvisate per scaldarsi le dita mandavano in delirio tutti!!! Suonavano in tre ma sembravano sei. Ricordo di aver battuto i piedi a ogni vibrazione di chitarra. In pochi allora conoscevano la lingua inglese, ma quando Jimi pronunciò «Hey Joe» ci fu un’esplosione di urla e di gioia: il Brancaccio iniziò a tremare, per alcuni minuti. SERGIO GIANNONI L’ultima immagine che ho di Hendrix al termine dell’ultima canzone: si sfilò la Fender come una maglietta e la gettò all’indietro verso il muro di Marshall mandando in risonanza il tutto, quasi come l’ultimo botto dei fuochi d’artificio!

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THOMAS HARRISON Uscendo dal teatro dopo il secondo show, fummo invitati (o ci fu permesso) a prendere una locandina del concerto da una pila ammonticchiata su un tavolino. Ed è quella che teniamo in mano nella foto scattata sul marciapiede appena fuori dal Brancaccio.

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Una registrazione Purtroppo la registrazione del secondo concerto è molto breve e inizia con gli applausi del pubblico fremente: si riesce a sentire la presentazione di Eddie Ponti. Il primo brano è Fire (durata 2:50), molto simile all’originale, ma Hendrix lo chiude in maniera quasi brusca dopo un brevissimo assolo. Il clima è più rumoroso rispetto al pomeriggio e subito Jimi inizia con Stone Free (durata 3:40). Noel Redding fa il controcanto a Jimi, che verso la fine della canzone suona un assolo micidiale e atipico. Prima del terzo brano, Hendrix si scusa con il pubblico per i problemi di elettricità e introduce Red House, ma sfortunatamente, poco dopo la prima strofa, il nastro finisce… anche questa doveva essere una versione eccezionale. Purtroppo nessun altro nastro è stato trovato. Dalle testimonianze risulta che Jimi suonò anche: Hey Joe, I Don’t Live Today, Foxy Lady e terminò con Purple Haze.

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Dopo il concerto

EDDIE PONTI Jimi aveva diverse chitarre, per quasi tutto il concerto usò la Fender bianca, quella buona: alla fine invece, prima di suonare l’ultimo pezzo, il cambio. Un piccolo giochetto, perché poi la spaccava. Alla fine del concerto fissavo quella chitarra sacrificata sul palco. Jimi mi vide e disse: «La vuoi? Tanto non sarà in grado di suonare, te la regalo!». Decisi di tenerla come ricordo, lo ringraziai e lui me la firmò con un pennarello. Non era distrutta completamente, aveva sferrato una pedata sopra, c’era un buco nella plastica. MAURIZIO MORETTI Lo vidi scappar via dalla sala, riuscii a bloccarlo mentre stava squagliandosela poco dopo la fine del suo trionfale concerto. Lo dovevo intervistare e gli domandai dove stesse andando così di fretta. Mi disse che aveva delle ragazze che lo stavano aspettando. Allora gli chiesi la sua impressione sull’Italia e mi disse che ne era affascinato e sperava forse a giugno di tornare per qualche giorno di vacanza. ALBERTO MAROZZI Anche il sabato sera era previsto che accompagnassi Jimi al Titan. Lì, oltre al solito rinfresco, stavolta era stata programmata in anticipo una jam session e Hendrix si portò dietro la sua Fender. BRUNA URBANI Non potei assistere al concerto, ma mi recai al Titan, dove Jimi ci raggiunse: non rimase molto tempo, alcune persone lo invitarono da qualche parte per “fumare”: io non accettai l’invito e quella fu l’ultima volta che vidi Jimi. ALBERTO MAROZZI Quando fu il momento della jam session, Jimi chiamò Noel e Mitch sul palco con lui, ma questi fecero finta di suonare e ben presto cedettero il posto ai musicisti locali. Forse erano un po’ ubriachi o forse erano più interessati alle ragazze. Fui onorato di prendere il posto di Mitch alla batteria e, se Jimi fosse stato un divo prefabbricato, non si sarebbe abbassato a suonare in mia compagnia. Ero un batterista proprio scarso all’epoca. Cominciammo la jam con un blues, insieme a me e Jimi a suonare c’era il bassista dei Fholks, Piero Pavone, tesissimo come me. Suonammo una ventina di minuti.

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Finita la jam, ci sedemmo nuovamente al tavolo e lì c’era la brochure, il programma di Jimi al Titan. Hendrix lo prese, lo aprì sulla pagina centrale e mi scrisse una dedica: «Be groovy, outtaside, thanks drummer, Jimi Hendrix». Lo fece firmare da Noel e Mitch e me lo diede dicendo: «Thank you, Alberto». CLAUDIO BALDASSARRI Dopo la jam session Jimi ci diede appuntamento, a noi dei Fholks, all’indomani al suo hotel, prima di partire per Bologna. Disse che voleva parlarci in tranquillità, senza l’assedio di un sacco di ragazze. PIERFRANCO COLONNA Con me quella sera al Titan c’era una ragazza austriaca, Claudia, che evidentemente a Jimi piaceva parecchio, ma non osava dirmelo. Me ne sono accorto io, così gli dissi che se gli piaceva poteva portarla con sé. Eravamo a questo livello di confidenza. CLAUDIA Ai tempi avevo una certa simpatia per Pierfranco Colonna e fu grazie a lui che incontrai Jimi Hendrix. Vidi il concerto di Hendrix anche il giorno prima, ma lo conobbi di persona solo dopo lo show, al café Cowboy. Jimi Hendrix fu carino con me anche se era in compagnia di un’altra ragazza, ma al momento non mi fece alcuna impressione. Io e la mia amica Dana siamo state al concerto anche la sera successiva e a cena, tra un concerto e l’altro, Noel, non so perché, raccontò a Jimi che lui mi piaceva. Così al Titan fu un continuo scambio di sguardi, alcune ragazze provarono a portarlo via, ma lui preferì restare con me. Poi salimmo su una 500, eravamo lì stipati. Mi ricordo che percorrevamo via Veneto per dirigerci al Colosseo e io stavo seduta sulle ginocchia di Jimi sul sedile davanti. ALBERTO MAROZZI Mentre guidavo lungo via Veneto con Jimi e le ragazze, avevo il finestrino abbassato e la testa fuori per via del fumo che c’era in auto: io non fumavo, ma giravano certi cannoni… Facemmo un lungo giro notturno per Roma, gli mostrai Villa Medici, la visitammo, visto che avevo il permesso per entrare. Jimi era veramente innamorato della città e mi chiese di trovargli un posto dove abitare per un po’. Dopo facemmo un altro giro e arrivammo al Colosseo, che ai tempi era aperto anche di notte e lì Jimi è impazzito di gioia. Mi disse di averlo visto il giorno prima ma dall’esterno: non immaginava che dentro fosse così, per lui era una scoperta meravigliosa.

CLAUDIA Arrivati al Colosseo, appena possibile Jimi mi trasse in disparte e mi disse che gli piacevo e mi baciò. Era molto gentile e dolce, pieno di attenzioni, mi piaceva molto ed ero felice. Più tardi ci dirigemmo tutti al parco di Villa Medici dalle parti del Galoppatoio, lì io e Jimi ci appartammo per fare l’amore tutta la notte. Per tutto il tempo mi sussurrò: «Non voglio farti male, piccola» e «Hai degli occhi così belli». Non ero mai stata così felice, fu magico. Dopo quella notte lo rividi a Bologna e poi a Vienna quasi un anno dopo, in quell’occasione mi regalò una sciarpa che ho ancora. Nessuno sapeva amare come lui. NOEL REDDING Cercammo di portare delle ragazze nel nostro hotel, ma niente da fare. Così andammo in un parco vicino, che ci avevano detto di evitare perché rischioso. Lì ci sbronzammo fino alle 6 del mattino, facendo poi ritorno all’hotel, al momento del cambio dei portieri. Così riuscimmo a sgattaiolare dentro con le ragazze. VICKY REDDING Tony, l’autista, ci portò a vedere i sette colli all’alba. DANA FAITH BENJAMIN Dopo il concerto siamo rimasti poco tempo alla festa. Poi, insieme a due mie amiche, io, Jimi, Mitch e Noel siamo scesi in macchina e siamo andati a fare un giro fino a Villa Borghese. Parcheggiata la macchina, Jimi e Claudia sono andati nel parco, Noel è andato con la mia amica Micky e, mentre io e Mitch siamo rimasti seduti in macchina a parlare... abbiamo sentito un’auto che si fermava ed era la polizia... stavano perlustrando con i loro fari e all’improvviso Jimi spunta con la sua testa da dietro i cespugli e ha letteralmente spaventato gli agenti, tanto che abbiamo sentito poi gridare: «Il diavolo»... Erano terrorizzati, i suoi capelli erano in piedi e aveva una camicia molto vistosa che era illuminata dai fari, abbiamo riso tutti e siamo tornati alle auto; li ho portati di nuovo in hotel e quella è stata una notte molto divertente... MITCH MITCHELL Roma fu davvero piacevole. Ricordo che per poco Jimi non venne arrestato, quando la polizia ci fermò all’alba con un sacco di ragazze: «Che state facendo?»; «Secondo lei cosa stiamo facendo?». Ma grazie ai nostri autisti non successe nulla.

PAOLO VALENTE Poi arrivato al Pincio, meta obbligata di ogni turista in visita nella capitale, Jimi “il mostro”, Jimi “il conquistatore” si è commosso fino alle lacrime per lo spettacolo. Ha confessato di non aver mai visto niente di tanto bello.

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ALBERTO MAROZZI Jimi era innamorato di Roma. Mentre stavo guidando, pensavo alle sue mani, che mi ricordavo, avendolo visto suonare: aveva le dita che coprivano quasi metà tastiera, così per la curiosità presi la mano di Jimi che stava di fianco a me sulla 500: la paragonai alla mia. Rimasi impressionato. La sua era ben più grande con dita lunghissime, affusolate, cosa che sicuramente lo agevolava con la chitarra. Arrivati all’albergo, salutai lui e la ragazza, e una volta entrati mi diressi a casa. Ero quasi arrivato, quando dallo specchietto vedo la chitarra di Jimi, che si era portato appresso e aveva dimenticato. Tornai di corsa indietro e diedi la chitarra al portiere dell’hotel pregandolo di consegnarla a Jimi all’indomani. A volte mi ha sfiorato l’idea che avrei potuto far finta di niente e tenermi la chitarra: o forse Jimi me l’aveva lasciata come regalo, ma non fa niente... Era davvero una bella persona, molto gentile e buona, con un grande cuore.

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Reazione distonica, rispetto al resto della critica. Qui prevalgono toni razzisti e una sostanziale stroncatura del sound di Hendrix di cui non si comprende il “campo d’azione”.

“... Apprezzatissimo dagli appassionati della musica di oggi, Jimi Hendrix è però uno degli artisti di cui il grosso pubblico conosce meno la produzione, soprattutto perché della «Jimi Hendrix Experience» esistono in commercio molti «longplaying», ma pochissimi 45 giri. ... Jimi Henrix è chiamato nei paesi anglosassoni «The Horror», ma è adorato dai «fans». Brutto com’è, spettinato, orribile (e bravo), provoca entusiasmi paragonabili soltanto a quelli suscitati dal «bellissimo» Mick Jagger dei Rolling Stones.”

“... È bravo dunque? Prima di poter rispondere a questa domanda, bisognerebbe precisare il campo d’azione del giovane Jimi. È un cantante, un solista, un personaggio da scena? Non esattamente. Ma è, comunque, tutte queste cose assieme. È soprattutto un diabolico brutalizzatore della chitarra. Aiutato dall’impianto di amplificazione, deliberatamente impostato sul fracasso che tutto confonde e tutto, quindi, nasconde, Hendrix ha tratto frenetiche, assordanti vibrazioni dal suo strumento, urlacchiando ogni tanto frasi decisamente incomprensibili. E va detto che lo scarso pubblico giovanile non si è agitato molto davanti al rumoroso «rhythm and blues» di Hendrix e degli altri complessi e cantanti che, prima del negro, avevano proposto, soltanto con maggior vigore, quello che già era stato firmato negli anni ‘50 da Little Richard, Bill Haley, Les Brown.” V. C.

“... Con la chitarra, una sottile chitarra bianca che Jimi suona da mancino «The Horror» (così lo chiamano in Inghilterra) è capace di fare cose folli. È capace di trarre fuori i suoni più assurdi, dal cavallo imbizzarrito all’arpa, dal violino strapazzato al lamento di un bue e poi (non si potrà più dire «quello che suona coi piedi», perché siamo sicuri che Hendrix ne sarebbe capace e anche bene, capovolgendo il modo di dire) arriva addirittura a suonare con i denti. Quello che non si capisce è come riesca a tirar fuori una certa atmosfera, una linea musicale, anche se psichedelica, da una valanga di suoni, toni dolci, delicati eppure agghiaccianti, a seconda degli effetti desiderati: fino al punto di imitare la voce umana. Il pubblico era letteralmente paralizzato, mentre i «gregari», anch’essi bravissimi, mandavano in aria i loro capelli alla «Presbitero» (ndr. la famosa pubblicità delle matite, dritte sulla testa). Ha lasciato la gente stordita, quasi legata alle poltrone, paralizzando tutti, anche i vari hippies di borgata venuti con l’intento di fare soltanto «caciara».” C. V.

Il Titan Top Show. “Horror” a Roma con Jimi Hendrix, 24 maggio 1968.

Il recital di Hendrix. “Orrore” al Brancaccio 25 maggio 1968.

Jimi “ The Horror” e la sua chitarra impazzita, “La Luna”, 26 maggio 1968.

l sound di Jimi Hendrix entusiasma i fans romani. “Momento–sera”, 25 maggio 1968.

Articolo che annuncia i quattro concerti romani del “3° Titan Top Show”.

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26 MAGGIO 1968

Il 26 maggio, prima di lasciare Roma, Jimi Hendrix incontra i ragazzi dei Fholks, ai quali propone di accompagnarlo nella prossima tournée americana. Per l’età e l’inesperienza, rifiuteranno l’invito. Nel primissimo pomeriggio gli Experience raggiungono Bologna per i due concerti organizzati al Palasport di piazza Azzarita. Jimi non vuole alloggiare nello stesso albergo dell’organizzazione e preferisce l’Hotel Alexander in viale Pietro Pietramellara 47, perché ha già appuntamento con alcune ragazze. È una domenica calda e umida, molta gente forse ha preferito il mare e al Palasport di Bologna non c’è la grande affluenza di pubblico che ci si aspettava. Quindi, dei due concerti previsti, in realtà solo quello pomeridiano va regolarmente in scena: la scarsa prevendita di biglietti costringe gli organizzatori a cancellare quello serale. Ma anche il primo spettacolo non fila via liscio, Jimi è stanco e forse anche un po’ ubriaco. Al momento di andare in scena, non è nei camerini. Al concerto si presenterà con oltre 90 minuti di ritardo, gettando nel panico organizzatori e collaboratori. Mitch Mitchell nel suo libro The Hendrix Experience insinua che Jimi tardò al concerto perché era indeciso su che abiti mettere: forse una vendetta postuma, visto che Hendrix ha sempre accusato Mitch di essere un ritardatario, o forse la memoria di Mitchell, dopo tanti anni, denuncia qualche vuoto. Ad esempio, sempre riguardo a Bologna, ricorda disordini avvenuti al Palasport a causa del pubblico esasperato, ma fortunatamente i molti gruppi di supporto, allungando il loro set, riuscirono a riempire i tempi di attesa. Si trattava dei The Cliffters, Ivan & the Meteors, Keith Anderson Band, Gospel’s Group, Noi e Fred. Al contrario delle esibizioni romane e milanesi, per quella di Bologna sono venute alla luce ben tre registrazioni audio amatoriali. Grazie a quei nastri è possibile sentire Jimi scusarsi della scarsa potenza dell’impianto e del fatto che debba suonare con amplificatori non a pieno regime. E infatti Fire, Stone Free e Hey Joe non risultano vivaci con gli assolo senza distorsore, anche se Jimi, con affascinante fluidità, cerca di colmare queste lacune. Red House è suonata nel silenzio più completo, cosicché Hendrix riesce a renderla soffice ed eterea, regalando al pubblico del Palasport una delle più belle versioni esistenti. Preoccupato dalla scarsa resa dei suoi cavalli di battaglia, Jimi decide allora di proporre una versione di dodici minuti di Tax Free che ammalia la platea, specie

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le prime file, interamente occupate da musicisti bolognesi. A questo punto, per esaudire le incessanti richieste dei fan, esegue Foxy Lady, il cui singolo era appena uscito in Italia. Anche se, prima dell’esecuzione, Jimi anticipa che, non essendoci potenza elettrica sufficiente, quella versione sicuramente non sarebbe stata adeguata. Foxy Lady e Purple Haze concludono l’esibizione bolognese. Quindi la scaletta del concerto fu: Fire, Hey Joe, Stone Free, Red House, Tax Free, Purple Haze, Foxy Lady. Dopo il concerto del Palasport, Hendrix si reca allo Stork Club (via Santa Margherita, angolo via Val D’Aposa), dove cena e suona una jam con artisti locali, imbracciando anche il basso (un 8mm amatoriale avallerebbe l’evento). Da Milano, Hendrix fu raggiunto da Ines Curatolo e dalla sua amica newyorkese, Luna, con cui passò la notte.

Brochure dei concerti al Palasport di Bologna. La grafica riprende quella del sestino romano in quanto fu il Titan Club a promuovere la tappa bolognese della tournée.

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“Il Resto del Carlino”, 26 maggio 1968.

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Da Roma a Bologna CLAUDIO BALDASSARRI Quella mattina fummo convocati all’Hotel Metropole dove gli Experience alloggiavano, proprio mentre Hendrix era in partenza per Bologna. Lì bevemmo una Coca–Cola mentre Jimi ci chiedeva se fossimo disponibili a seguirlo in America per accompagnarlo nella sua tournée estiva. Eravamo increduli, ma purtroppo non avevamo il passaporto, eravamo troppo giovani e il bassista doveva prestare il servizio militare, così non se ne fece niente: un’occasione irripetibile. VICKI REDDING Facemmo un viaggio di 4 o 5 ore da Roma a Bologna, viaggiando su due auto. MASSIMO BERNARDI Anche da Roma a Bologna portammo l’attrezzatura della Jimi Hendrix Experience con i camion di un corriere. Dopo la tappa di Milano non ci fidavamo più degli aeroporti e delle loro dogane. DANIELE GUIDAZZI A quei tempi suonavo la chitarra con Ivan & the Meteors. Il frontman del gruppo era il cantante Ivo Faccioli, un simpatico ragazzo di origini fiorentine ma trapiantato a Bologna. Anche Dodi Battaglia suonava con noi, ed è proprio quando entrò nel gruppo che decidemmo di introdurre brani più rock nel repertorio, tra cui Stone Free, una cover di Hey Joe e Foxy Lady. Nella primavera del 1968 venimmo a sapere che Jimi Hendrix avrebbe suonato a Bologna a un festival al Palasport, così provammo in tutti i modi a fare da spalla a Jimi anche noi. Quel pomeriggio ero già lì al Palasport di Bologna quando arrivarono dei furgoni targati Napoli che trasportavano la strumentazione e l’amplificazione di Jimi Hendrix. Da musicista, la cosa più impressionante fu l’arrivo di questa montagna di amplificatori, una cosa mostruosa per l’epoca. OSCAR PORRI Giunti a Bologna, andammo diretti al Palasport per vedere se la strumentazione era arrivata. Visto che era già lì, i ragazzi accordarono gli strumenti per lo spettacolo.

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ENZO RIGHETTI Allora con il mio socio eravamo i concessionari di Semprini: era una ditta di impianti di amplificazione, ai tempi sicuramente la più conosciuta, tra le poche all’altezza di amplificare un palazzo dello sport. Dalla sede di Milano ci chiamarono per dirci che c’era questa amplificazione per un certo Jimi Hendrix. Confesso che non sapevamo assolutamente chi fosse, per me era uno dei tanti lavori... Così partii con metà impianto perché il mio socio era alla Bussola di Viareggio, la sera prima, con Mina. Mi raggiunse in tarda mattinata a Bologna con l’altra metà e montammo il tutto. Ho messo tre aste con altrettanti microfoni, Hendrix me ne ha fatti togliere due perché ha detto che non servivano, tanto cantava solo lui. Me li ha fatti smontare, li ho tolti, poi è venuto di fianco al palco dove c’era la centralina e avevo messo il Revox. Mi ha chiesto che cosa fosse quello, gli ho detto che era l’eco, perché magari non mi dicesse che non dovevo registrare. Va bene, io lo tengo spento e ho fatto così... poi, quando hanno cominciato, ho fatto partire il registratore, perché era una mania per me. Dovunque andassi registravo tutto. DANIELE GUIDAZZI Più tardi, mentre ero giù nei camerini lo vidi; giacca e pantaloni verdi, mèche bionda, camicia multicolore, mi piaceva un sacco com’era vestito. Si aggirava lì un po’ spaesato. Mi chiese dov’era il bagno e glielo indicai, dopo un po’ lo rividi ed era ingrugnito nero, pare gli mancasse della roba... chissà. Mi chiese dove poteva bere qualcosa. Non c’era il bar al Palasport e così lo accompagnai dall’addetto che vendeva le bibite e i gelati. Mentre stavo accordando la mia chitarra, a un certo momento, Jimi è salito sul palcoscenico per mettere a punto la sua. Era piuttosto incazzato, aveva avuto dei problemi con un suo Marshall: lui e un suo tecnico continuavano ad attaccare e staccare cavetti, in più pare non trovassero più un effetto, un distorsore che forse gli avevano fregato. Era davvero cupo. Poi si mise a fare qualche accordo con la chitarra e involontariamente abbiamo reso il sound check una jam di qualche minuto, dopodiché Jimi sparì nei camerini. ANDREA MINGARDI A quei tempi, per molti Hendrix era ancora un mistero, mentre per altri era il Galileo Galilei della chitarra. I chitarristi bolognesi a quei tempi suonavano in maniera pulita, diciamo politically correct, al massimo usavano gli echi Binson ribattuti e facevano Guitar Boogie copiando Arthur Smith. Quindi il fatto che arrivasse Jimi Hendrix a Bologna, questo rivoluzionario di chitarre e suoni, di temi e musica, incuriosì parecchio tutti i musicisti, perché anche l’ultimo batterista di un’orchestra da ballo, l’ultimo chitarrista che faceva fatica a strimpellare due note diceva: «Jimi Hendrix? Devo andare assolutamente a vederlo!». Quindi i musicisti si aspettavano qualcosa di clamoroso anche se molti di loro erano scettici. Forse speravano che lui fallisse. «Cosa vuole raccontarci questo qui?

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C’erano Wes Montgomery, Django Reinhardt, grandi jazzisti. Cosa vuole venire a dirci questo qua all’improvviso? Ha per caso inventato la chitarra?». GUIDO GONZALES Sentii Jimi Hendrix per la prima volta nel 1967, a casa di un mio amico. L’album era Axis: Bold as Love. Al concerto andai assieme ai miei amici della band, non tutti, perché la sera eravamo a suonare in un locale qui in città. Nel Palasport c’era un po’ di tutto, non era pieno, molti erano ragazzini e ragazzine, ma mi ricordo anche alcuni orchestrali dell’epoca. BRUNO BRINI A casa ascoltavo Jimi Hendrix di notte, di nascosto. Avevo registrato sul “Geloso” i pochi dischi arrivati e lo mettevo sotto le coperte per non farmi sentire dai miei genitori. Appena saputo che Jimi avrebbe suonato a Bologna, non stavo più nella pelle. Hendrix suonò al Palasport, su un palchetto che adesso non si userebbe neanche in una festa di paese. L’ambiente all’interno del Palasport era molto spoglio, faceva caldo e arrivava un sacco di luce dalle vetrate in alto. I riflessi disturbavano il pubblico. Poco prima dell’inizio, qualcuno andò in cima e chiuse le grandi tende, fra gli applausi. Il pubblico non era particolarmente numeroso, c’era anche della gente un po’ per caso, secondo me neanche la metà di loro sapeva chi fosse veramente Jimi Hendrix. MAURO FILIPPINI Quello del ’68 a Bologna poteva essere un maggio come tanti altri ma non per me, io ero sempre più inquieto, capivo che qualcosa stava cambiando. Appassionato di musica, vivevo i momenti più significativi ed esaltanti quando mi ritrovavo con gli amici “musicisti” nella cantina dell’uno o dell’altro, finché il volume sempre troppo alto dei nostri amplificatori Montarbo e Davoli suscitava le proteste degli inquilini, che ci intimavano di andare a suonare altrove. Eravamo uno dei tanti gruppetti rock, ci facevamo chiamare The Feeling, e in quegli anni cercavamo di imitare i grandi gruppi inglesi o americani. L’età media non superava i diciassette anni: solo Ermanno, il tastierista, aveva la patente. Tiziano e Daniele, rispettivamente il bassista e il batterista, durante le lezioni al liceo sceglievano le canzoni o i brani da proporre agli altri e pensavano agli accordi. Tra noi era una consuetudine scambiarci i dischi, per imparare i pezzi e prendere le parole. Fu durante uno di questi incontri che ascoltammo il 45 giri di Hendrix appena uscito: Foxy Lady. Tiziano, conoscitore della musica più all’avanguardia e meno commerciale, ci parlò di questo trio formato da un bassista e un batterista inglesi e da un chitarrista di colore americano, attorno al quale c’era come un alone di mistero, data la scarsità di notizie e di informazioni. Le riviste specializzate italiane non parlavano ancora molto

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di lui. Il suo modo di suonare ci affascinava. Poco tempo dopo venimmo a sapere che ci sarebbe stata una loro tournée in Italia, che magnifica coincidenza! Ricordo ancora sui muri di Bologna i grandi manifesti che ne annunciavano il concerto al Palasport. Impossibile mancare! LUCIANO LAMBERTINI Al Palasport andai con mio cugino Mauro, e lì ad attendere Jimi c’era un discreto pubblico che non saprei quantificare, ma sicuramente più numeroso e partecipe di quello che c’era quando suonarono gli Animals, bravissimi, ma costretti a esibirsi davanti a sole 40 persone. UGO RAPEZZI Seppi della musica di Jimi Hendrix da amici. Era uno dei nostri miti. Quando vidi i manifesti in città che annunciavano il suo arrivo al Palasport, decisi subito di andarci, avevo visto tutti i concerti del periodo e non volevo perdermene uno, men che meno quello. Era una domenica calda e quel giorno ero vestito con una camicia con la bandiera inglese e pantaloni a fiori. Non c’era molta gente ad assistere al concerto di Hendrix, peccato, avrebbe meritato di più. BEPPE BRILLI Era pomeriggio e faceva molto caldo, e Jimi Hendrix tardava ad arrivare. Cominciavamo a innervosirci. OSCAR PORRI Per chissà quale motivo Hendrix non volle alloggiare nel nostro hotel, accennò a delle ragazze. Tanto insistette che così gli venne riservato un albergo vicino alla stazione. Fu l’unico capriccio durante il tour, altrimenti fu sempre mite e affrontò di buon grado anche qualche difficoltà tipica di queste circostanze. Fu sempre preciso. Lo accompagnai nell’albergo dove voleva stare, rimanendo d’accordo che poi qualcuno sarebbe passato a prenderlo per il concerto. Tornai al Palazzetto dello sport dove si teneva la manifestazione; c’erano altri gruppi che suonavano prima di lui. Quando fu il momento, mandai l’incaricato per andare a recuperarlo. Questi, dopo un po’, tornò dicendo che Hendrix in albergo non c’era. Oddio, fui preso dal panico e mandai tre o quattro ragazzi a cercarlo. In fondo, Bologna non è così grande come Roma.

CHECCO ANNONI Eravamo molto eccitati all’idea di vedere questo Jimi Hendrix, ci chiedevamo se veramente riuscisse a produrre quei suoni spaziali, se era quel personaggio che descrivevano: sul treno per Bologna incontrammo altri due capelloni che andavano al concerto e parlammo di Jimi per tutto il tragitto, anche se in realtà sapevamo poco di lui, eravamo su di giri, pieni di aspettative. Arrivati a Bologna ci affrettammo, perché eravamo un po’ in ritardo, con la paura di perdere il concerto. Fatto qualche centinaio di metri, su una via con dei giardinetti ai lati, vediamo un tipo con una giacca di velluto verde, la pelle scura, i capelli alla Jimi Hendrix. Per qualche attimo lo osservammo, poi uno di noi disse: «...Ma è Jimi Hendrix!». Ci avvicinammo titubanti, con il nostro scarso inglese, ci presentammo per chiedergli se fosse Jimi Hendrix, eravamo increduli: aveva due mèches bionde, era gentile, che ci faceva là? Era proprio lui, sorrise e, quando capì che venivamo dalla Toscana, disse: «Beautiful, beautiful». Uno dei ragazzi, seduto su una panchina, arrotolò un joint e Jimi ne fu molto contento. Alla domanda perché fosse lì, rispose che era uscito per fare due passi, respirare un po’ d’aria e sgranchirsi le gambe prima del concerto. Poi aggiunse che aveva perso un po’ l’orientamento e probabilmente cominciava a farsi tardi per il suo concerto. Stava cercando di spiegarsi, quando arrivarono un paio di tizi trafelati che lo cercavano.

CIARLY ROKETTO Vedo che c’è del movimento dietro al palco, c’è Beppe Brilli che dice a Fred (di Noi e Fred) di continuare a suonare perché di Jimi nemmeno l’ombra, e di andare avanti. La gente del pubblico è pronta per Jimi e qualcuno lo chiama con tutta la voce che ha in corpo, molte sono ragazze. Vedo Pino e gli chiedo: «Senti ho visto un movimento strano vicino alla scaletta del palco, ne sai qualcosa?». Mi risponde: «Io giù nei camerini ho sentito dire che non trovano Jimi, non è arrivato e non sanno dov’è. Ci hanno detto di suonare di più se tarda ancora».

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CHECCO ANNONI Staccai delle rose da un cespuglio lì vicino e gliele diedi prima che quei due lo portassero via. Sorridendo le prese e mi ringraziò. Non ci fu neppure il tempo di avere un autografo, che quei due lo trascinarono via verso un’auto. Poi, durante il concerto, vidi che aveva messo le rose sulla chitarra e questo mi fece particolarmente felice e orgoglioso! È stato un incontro incredibile!

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Il Palasport, il concerto OSCAR PORRI Finalmente riportarono Jimi, a me sembrava un po’ assonnato, forse ubriaco, gli chiesi se non fosse il caso di chiamare un medico per capire se fosse in condizione di suonare. Lui si arrabbiò e disse che era perfettamente in grado di fare un concerto e di lasciarlo solo un attimo per concentrarsi. MAURIZIO SOLIERI Nel maggio 1968 avevo quindici anni ed ero un bravo studente di liceo classico. Come molti ragazzi della mia età appassionati di chitarra, la musica di Jimi ci faceva impazzire, non potevo di certo mancare a quell’evento. Mi feci accompagnare dai miei genitori al Palasport dove avrei anche incontrato una mia fidanzatina dell’epoca: avevo il vestito della domenica, completino blu, camicia bianca, cravattino... Prima del concerto c’era una marea di gruppi locali che si esibivano. ANDREA MINGARDI Una delle cose più divertenti in assoluto è che c’erano Ivan e i Meteors, uno dei gruppi di supporto in cui militava anche Donato “Dodi” Battaglia: suonarono qualcosa di Jimi Hendrix, una cosa pazzesca fare i suoi pezzi prima del suo concerto! DODI BATTAGLIA Noi spudoratamente suonammo Stone Free e Foxy Lady; avevamo in repertorio anche Hey Joe. Avemmo l’ardore di suonarle prima del suo concerto forse perché eravamo giovani, incoscienti totali. Veramente abbiano avuto la faccia come... Però quando hai sedici anni e sei votato a fare questo mestiere, non vedi ostacoli. DANIELE GUIDAZZI Sorrido ancora al pensiero di quella nostra esibizione, io salii sul palco a suonare con calzoncini corti, cappellino e scarpe da tennis, un po’ come il look degli ac/dc parecchi anni dopo. Visto che eravamo uno dei gruppi che facevano da spalla a Jimi e in repertorio avevamo Stone Free e Foxy Lady, decidemmo di suonarle quel pomeriggio. Sebbene la suonassimo in maniera abbastanza simile all’originale, per il cantato, beh, non conoscevamo l’inglese e quindi Ivo (Faccioli) la faceva in maniera “onomatopeica”, cercando di imitare la pronuncia inglese. Mi chiedo se Jimi avesse sentito la nostra versione: in tal caso, si sarà piegato in due dal ridere.

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NOEL REDDING A Bologna c’erano dei gruppi che suonavano le nostre canzoni e le cantavano in italiano. MAURO FILIPPINI Al concerto del pomeriggio avevamo i biglietti per le gradinate, ma riuscimmo a eludere la sorveglianza e a scendere in platea, per stare il più possibile vicino al palco. Si susseguirono alcuni gruppi musicali di supporto, di cui ho un vago ricordo. La mia attenzione era catturata dalle sofisticate strumentazioni che, fino a quel momento, avevo ammirato solo sulle riviste specializzate. Mentre il presentatore ci invitava alla calma e al silenzio, per creare l’atmosfera adatta, ecco sul palco due tipi, capelli lunghi, batteria, basso e amplificatori Marshall. Iniziarono a sistemare gli strumenti: erano Mitch Mitchell e Noel Redding. Ero al colmo dell’eccitazione, seduto dove non dovevo... A un tratto, con un misto di curiosità e stupore, il mio sguardo fu attirato da un ragazzo di colore vestito con un completo di velluto verde, capelli stirati con le mèches, custodia della chitarra elettrica in mano e due splendide ragazze a fianco. Era comparso a una delle entrate della platea, a pochi passi da me. Volgeva intorno gli occhi miti e lo sguardo sereno, per niente turbato da quelle persone che gli stavano precipitando addosso. Quel ragazzo era... Jimi Hendrix. Subito, due carabinieri, che a Jimi non avevano dato nessuna importanza, gli fecero da scudo allontanando le persone e sparirono verso lo spogliatoio del Palasport. Hendrix riapparve più tardi ai piedi del palco, accompagnato dalle due ragazze, molto acclamate dal pubblico maschile, e salì la scaletta salutando, tra gli applausi frenetici. CIARLY ROKETTO L’ultimo gruppo di supporto ha finito l’esibizione, il pubblico rumoreggia, una decina di poliziotti si mette sotto il palco e comincia a far sedere la gente, che nel frattempo si era alzata quasi tutta. Beppe Brilli dal palco annuncia: «Jimi Hendrix è qui e farà tutto quello che volete». Per incanto, dietro un Marshall intravedo Jimi. Viene fuori, tra urla e incitazioni varie. Mentre mette il volume al massimo, dice poche parole, poi partono gli effetti Larsen che sembrano astronavi. Fa due accordi e attacca con Fire. Sulla paletta, infilate tra le corde ci sono delle rose rosse. È un momento travolgente. Sono a tre metri di distanza da lui. Immerso in quel suono, batto le mani sulle ginocchia come se volessi suonare con lui. GUIDO GONZALES Il pubblico partecipò dopo una prima fase iniziale di sconcerto! BRUNO BRINI Appena vidi Jimi sul palco, fu indescrivibile l’impressione che mi fece: rimasi lì a bocca aperta.

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Sicuramente quando Jimi iniziò il concerto sembrava arrabbiato, ma noi non eravamo in grado di capire che problemi ci fossero, forse non gli avevano portato il pedale del distorsore. Per noi era il massimo, e basta. Jimi era serissimo. Non ricordo un suo sorriso. Anche quando si mise a suonare la chitarra con i denti, lo fece come se fosse un dovere, senza scomporsi troppo: batteva continuamente gli occhi con espressioni del viso quasi estatiche. Un po’ sapevo suonare e strimpellavo già Foxy Lady, ma le sue mani erano un mistero. Come faceva a cavare quei suoni, a legare quelle note? Meraviglioso. Arrivati a metà concerto, erano tutti giù di testa, comprese le ragazzine che urlavano come se quello sul palco fosse il loro idolo. In effetti per molti di loro Jimi Hendrix lo diventò da quel pomeriggio. CIARLY ROKETTO Dopo il brano iniziale Jimi attacca subito con Hey Joe. Il pubblico urla, c’è un’intensità emotiva che colpisce tutti. Non guarda la tastiera, sembra che il braccio e le mani siano un corpo unico con la Fender. È un’immagine metafisica. La chitarra è come se fosse un oggetto da giocoliere. La fa girare dietro la schiena, la suona sopra le spalle, ci va sopra come andasse a cavallo con una naturalezza che fa impallidire. Quando svisa e al posto del plettro adopera i denti, è come se baciasse la chitarra. Un amplesso erotico! Un’orgia di suoni. Jimi suda, si gira verso i Marshall e ne tocca le manopole. Mi alzo un attimo e un agente mi intima di sedermi. Jimi comincia un lentissimo e lunghissimo blues: la gente lo ascolta strabiliata. Guardo il palco, sotto, vicino all’asta del microfono, mi accorgo che c’è solo un wah wah. Finiscono con un break perfetto, naturalmente tutti si alzano urlando, mentre lui si toglie la giacca verde rimanendo con una camicia psichedelica. L’eco del palazzo avvolge tutti. Rivedo i fiori rossi nella paletta della chitarra e mi pare di sentirne ancora il profumo. BRUNO BRINI Mi ricordo delle ragazzine sulle gradinate che ballavano perse, il pubblico davanti impazziva, era stravolto perché sentiva qualcosa di diverso. SANDRO BECCARI Al Palasport c’erano i migliori chitarristi della zona, molto interessati alla sua tecnica. La cosa che mi impressionò maggiormente fu la semplicità che aveva nel fare anche le cose più difficili e le sue mani grandi ma rapide. Ha avuto sicuramente problemi di amplificazione. Sono uscito dal concerto frastornato, non avevo mai sentito una musica così. Io, che ero abituato ad ascoltare gli Shadows con sonorità più dolci, ne rimasi veramente colpito. DANIELE GUIDAZZI Jimi suonò Stone Free e Foxy Lady, ma lo fece in una maniera inusuale. Fu un

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concerto incredibile nonostante i problemi tecnici. Quel pomeriggio ho imparato così tante cose nuove che poi ci ho impiegato degli anni per impararne altrettante. GUIDO GONZALES Anche se l’acustica non aiutò la band, fu proprio l’amplificatore di Jimi ad avere dei problemi: confabulò parecchio sul palco con i tecnici. Ma nonostante tutto, ebbi l’impressione di trovarmi di fronte a un altro mondo! A parte la tecnica mostruosa, tutto l’insieme non faceva parte del nostro mondo. Ci vollero diversi giorni prima di realizzare che cosa effettivamente avevamo sentito e visto! CLAUDIO LUCCHI Ero in posizione frontale rispetto al palco ma un po’ distante, c’era fumo a volontà. Jimi lo vidi poco. La cosa che mi colpì di più del concerto è stato il batterista Mitch Mitchell, autore di un formidabile assolo di batteria. Con l’amplificazione era un disastro. ENZO RIGHETTI C’erano degli alti e bassi, sbalzi di corrente. Io, i pezzi Foxy Lady e Hey Joe li conoscevo, però non mi figuravo questo tipo di personaggio. E sono rimasto entusiasta quando suonava con i denti, non mi sarei mai aspettato di vedere tutto ciò. Sembrava che se la mangiasse, la mordeva... ed io ero lì sotto di lui. DODI BATTAGLIA Molti musicisti bolognesi dovettero ricredersi e uscirono da quel concerto con le orecchie molto basse. ANDREA MINGARDI Dopo lo spettacolo molti chitarristi bolognesi cercarono di imitare con scarso successo quel suono incredibile che era solo suo. Le altre erano solo vaghe imitazioni. Sta di fatto che Jimi influenzò per molto tempo tutti i musicisti presenti a quel concerto, e non solo loro.

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LUCIANO LAMBERTINI Hendrix suonò, oltre i suoi pezzi più famosi, delle suite piuttosto lunghe: durante un assolo delicato ci fu un inizio di applauso da parte del pubblico, ma fu stroncato e zittito subito dal batterista col lancio di una bacchetta verso chi stava applaudendo... Jimi voleva silenzio... Hendrix era così preso da quello che stava suonando che si mise a piangere silenziosamente e le lacrime gli scendevano lungo le guance. Non avevo mai visto nessuno vivere così intensamente la musica, ed è quell’immagine che mi torna sempre alla mente quando penso al concerto. Mi ricordo che verso la fine di una canzone, mentre suonava con la bocca, si tagliò la lingua con una corda: fu una cosa notata solo dai pochi che erano vicinissimi come me. Quello fu uno dei pochi concerti dove la musica era valorizzata dal vivo rispetto al disco.

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Una registrazione «Gagliardi ragazzi, il momento che tutti stavate aspettando è finalmente arrivato! Allora ragazzi, un secondo solo, quello che vi sto dicendo non è una cosa che mi sia inventata. E, ovvio, voi dovete essere alla grande, calorosi e gagliardi. Jimi Hendrix farà tutto quello che vorrete. Ecco a voi lo strepitoso, il formidabile, il fantastico Jimi Hendrix Experience... The Jimi Hendrix Experience... The Jimi Hendrix Experience... Jimi Hendrix.» Così, un entusiasta Beppe Brilli annuncia al pubblico del Palasport il concerto degli Experience. Jimi saluta il pubblico che applaude e subito si scusa perché non può usare al meglio la sua strumentazione, a causa di problemi con l’alimentazione elettrica... JIMI: We’re gonna have difficulty with the amp because the uh power isn’t the same as in England and so it won’t be as, you know, it’ll be very, very, yeah… [accordando]… Stiamo avendo alcune difficoltà con gli amplificatori, la tensione non è la stessa dell’Inghilterra e così non sarà come, sapete, sarà molto, molto, yeah [accordando]… Il concerto quindi inizia con Fire, una versione abbastanza simile alla versione in studio, ma l’assolo qui viene eseguito senza il distorsore. In questa versione, Noel risponde ancora al coro. Jimi ringrazia, segue Hey Joe, una versione molto pulita. Anche questa un’ottima esecuzione con poche variazioni rispetto all’originale, a parte un assolo molto cristallino. Dopo i ringraziamenti al pubblico, Stone Free è il terzo brano proposto. Anche qui il suono di Jimi è meno saturo che d’abitudine e l’assolo viene eseguito senza il distorsore, ma non si avverte assolutamente la mancanza. Poi, probabilmente distratto da problemi tecnici, pasticcia un po’ con la tonalità e conduce la canzone verso il finale. Alla fine del brano Noel ringrazia. Red House è il quarto brano. Una splendida versione di una decina di minuti che inizia con fraseggi blues molto puliti. Jimi abbandona presto le parole per un interludio in cui suggerisce il ritmo percuotendo le corde della chitarra come nella versione alla Royal Albert Hall, poi un morbido assolo con il wah wah introduce la strofa finale.

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Alla fine del brano Jimi dice: Thank you very much… I’d like to say that, what we’re tryin’ to do is like–uh, you know, people used to ask us, all over, what we’re tryin’ to do, we’re tryin’ to do electric music, for instance and if we don’t have electricity here so we can’t do our songs, right, so–uh we’re very, very sorry, it’s no fault to us, you know, it’s no fault to you and no fault to anybody else, it’s all just screwed up that’s all, I’d like to do it on the suicide, no we can’t do Foxy Lady, I’m sorry, we don’t have enough power to do Foxy Lady... so, since we don’t have enough power or electricty to do our own songs, we’d like to do a jam number of a song, an instrumental… Grazie mille... vorrei dire che quello che stiamo provando a fare è come..., sapete, la gente ci chiedeva, dappertutto, cosa stiamo cercando di fare: stiamo provando a fare musica elettrica, e se per esempio non abbiamo elettricità qui non possiamo fare le nostre canzoni, giusto, perciò... siamo molto, molto dispiaciuti, non è colpa nostra, sapete, non è colpa vostra e non è colpa di nessun altro, è tutto solo incasinato, questo è tutto, mi piacerebbe buttarla sul suicidio, no non possiamo fare Foxy Lady, mi dispiace, non abbiamo abbastanza tensione per fare Foxy Lady... quindi, dato che non abbiamo abbastanza potenza o elettricità per fare le nostre canzoni, ci piacerebbe fare una jam di una canzone, con gli strumenti...

Nonostante poco prima avesse detto che non avrebbe suonato Foxy Lady, per assecondare le continue richieste del pubblico, Jimi con questa canzone chiude la tournée in Italia. È una versione strana, molto pulita. Il feedback iniziale è quasi inesistente, peccato che nella registrazione l’assolo sia tagliato. Jimi stravolge la strofa finale cantando:

Now you know you’re experienced Here I come baby, comin’ to get with you all Foxy Lady Goodbye thank you, I’m sorry…

Quindi il brano successivo è la quarta versione live conosciuta di Tax Free. Anche questa è una splendida esecuzione di più di dieci minuti, con un breve assolo di basso e di batteria. Qui Jimi sembra più rilassato e si lascia andare a sua volta a un lungo “solo”, in cui cita varie canzoni tra le quali Mary Had a Little Lamb e Come On. Da qui in poi, la registrazione è meno buona e la versione di Purple Haze che segue non è aggressiva come al solito, forse perché Jimi usa solo il wah wah e la distorsione naturale degli amplificatori con il volume al massimo, senza il fuzz face. Alla fine del brano Hendrix si scusa ancora con il pubblico per i problemi con la strumentazione. JIMI: We’re very, very sorry, we’ll say–uh, thank you very much for comin’ anyway, we’re sorry that you’re only hearin’ about one tenth of–uh normal power that we’re playin’ through and so–uh, we only play lead here I’m sorry heh–heh, you probably didn’t recognise me then. We have one more last song to do, we’d l ike to say thank you very much for coming… well for the last song we’d like to try to do Foxy Lady, but it’s not gonna work [evviva e applausi]… Siamo molto, molto dispiaciuti, diremo..., grazie mille per esserci comunque, siamo dispiaciuti che voi stiate ascoltando solo un decimo della... normale potenza con cui siamo abituati a suonare e quindi..., suoniamo solo l’essenziale qui, mi dispiace ehi..., perciò probabilmente non mi riconoscete. Abbiamo ancora un’ultima canzone da fare, vorremmo dire grazie mille per essere venuti... beh, per l’ultima canzone vorremmo provare a fare Foxy Lady, ma non funzionerà [evviva e applausi] ...

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Dopo il concerto ENZO RIGHETTI Io mi ricordo che quando è finito, loro sono scappati nel camerino, poi siamo andati a salutarli: Mitch con le bacchette picchiava su una sedia, si vede che non aveva ancora scaricato tutta la tensione. Poi li abbiamo salutati, abbiamo smontato e siamo venuti via. SERSE MAI Subito finito il concerto, eludendo quel po’ di sorveglianza che c’era, deciso a farmi fare un autografo da Jimi, mi diressi nei camerini. I camerini sono sotto il parterre. È come entrare in un altro ambiente: ci sono palestre, spogliatoi, depositi, sale stampa. C’è da perdersi. Mi feci indicare, con gran faccia tosta, il camerino di Hendrix. Vidi che la porta era socchiusa, diedi un colpetto per annunciarmi ed entrai. Jimi era abbracciato alla modella nera che lo accompagnava e che era sempre rimasta sotto il palco durante il concerto. Visto che c’ero, gli porsi il mio pennarello verde e un foglietto per farmelo autografare. Senza scomporsi me lo firmò, poi mi fece cenno di andarmene, perché probabilmente aveva cose più importanti da fare. CLAUDIA Dopo la notte d’amore al parco decisi di andare a Bologna per seguire Jimi, ma, quando arrivai, lui aveva già delle altre ragazze e mi sentii molto delusa. Lo rividi a Vienna l’anno successivo. GILIANO PANARI Allora avevo diciassette anni e con un mio amico andammo a Bologna per vedere il nostro idolo. Noi a quel tempo avevamo già un trio rock: io, bassista e chitarrista. Vedemmo il concerto, e al rientro a piedi verso la stazione di Bologna ci è capitata una fortuna incredibile. Lungo il percorso verso la stazione a un certo punto, in un porticato poco più avanti di noi, abbiamo visto fermarsi un’auto e dall’auto scendere Jimi, Mitch e Noel. Si infilarono in un piccolo hotel e io e Giuliano, increduli, ci buttammo subito dentro la lobby. Jimi era in piedi appoggiato al banco della reception, mentre Noel e Mitch erano seduti su due poltrone. C’eravamo solo noi! A quel punto dicemmo a Jimi che eravamo stati al concerto. Jimi si mise a ridere, poi chiedemmo se era possibile avere un autografo, e lui, senza problemi, prese un piccolo fogliettino rettangolare dalla reception. Quindi ci spostammo verso Noel e Mitch: pure loro, anche se erano in completo relax, ci fecero gli autografi. Infine arrivarono altri componenti dello staff e ci siamo salutati con una stretta di mano a tutti e tre. Veramente un’esperienza indimenticabile...

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ANDREA MINGARDI Mentre con i jazzisti si mangiava al Continental che era aperto 23 ore su 24, con personaggi di quel tipo non si sapeva dove andare a finire. Avevamo cercato di capirlo, seguirlo, provammo nei camerini ma non ci fecero entrare. Allora ci chiedevamo: dove andrà a cenare? Ci sarà una festa? E si parlava di un party psichedelico, dove c’erano anche belle ragazze, visto che Jimi, a detta di molti, non disdegnava l’articolo. Ma purtroppo ci depistarono. E il giorno dopo si favoleggiava di un aftershow mitico, durato tutta la notte, in cui nessuno si era fatto mancare niente. MICHELE BOVI A quei tempi avevo diciassette anni e suonavo il sassofono con la band di Pierfranco Colonna: avevo tutta un’altra cultura musicale e quel genere chitarristico addirittura mi irritava. Eravamo fissi a suonare a Bologna ed eravamo stati chiamati appositamente a Roma per fare da spalla a Hendrix. Quel giorno eravamo tornati a Bologna allo Stork Club per il nostro spettacolo. Avevamo appena finito di suonare ed eravamo stanchi. Stavamo uscendo dal locale quando si presentò Massimo Bernardi, che era il nostro impresario e padre–padrone, un tiranno. Ci disse: «Ragazzi, no, no fermi tutti, qui c’è Jimi, dobbiamo cenare insieme e poi fare jam session». Ero stanco morto, immaginarsi che entusiasmo potevo avere. PIERFRANCO COLONNA La sera del concerto bolognese, finito il concerto, Jimi e gli altri sono venuti al locale dove ci esibivamo, lo Stork Club, e tutti insieme abbiamo organizzato una cena. Alla cena io ero seduto vicino a Jimi e allo staff organizzatore del concerto, mentre Noel e Mitch erano all’altro capo della tavola insieme ai miei orchestrali. Per dire quanto Jimi fosse timido, durante la cena gli è venuta la necessità di andare in bagno, ma non osava chiedere. A un certo punto, quando non ce l’ha fatta più, mi ha preso in disparte e finalmente in modo discreto è riuscito a dirmelo. Alla fine qualcuno mi disse di organizzare una jam session e così chiesi a Jimi se volesse suonare con noi. Lui rispose: «Se a loro non importa quello che faccio, niente del mio repertorio, solo jam session, allora va bene». È andato sul palco, ha preso il basso, l’ha girato al contrario e si è messo a suonare. PIERO PANTÒ Quella sera allo Stork facemmo una festa, dopo mangiato suonammo una jam session. All’inizio Hendrix prese il basso, poi ci scambiammo gli strumenti. Quando i musicisti si trovano per suonare, devono sintonizzarsi su un linguaggio comune, per esempio se sei un jazzista suoni My Funny Valentine; insomma, tornando a Hendrix, mi ricordo che ci accordammo per Georgia on My Mind e ricordo che lui faceva delle improvvisazioni incredibili con la chitarra. Fu davvero magico. Peccato, fu girato un filmato di quella jam, ma la pellicola è andata persa. VICKI REDDING Finito il party, Jimi sparì per tutta la notte. Disse che doveva andare con una ragazza.

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27 MAGGIO 1968 The Jimi Hendrix Experience lascia l’Italia In taxi gli Experience lasciano gli alberghi diretti all’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna, da dove, con un volo privato, raggiungeranno Milano Linate. Lì, a salutare Jimi c’è Daniela Cohen. Da Linate gli Experience fanno scalo a Ginevra e infine volano a Londra. Arrivati all’aeroporto di Heathrow, gli Experience si dividono: subito dopo la dogana un roadie recupera Jimi e lo porta a prendere un volo per New York. VICKI REDDING Mitch Mitchell aveva comprato dei calici da vino da regalare ai suoi. Arrivati all’aeroporto, uscendo dal taxi, inavvertitamente li feci cadere e Mitch andò su tutte le furie. Poi, da Bologna raggiungemmo Milano Linate su un piccolo aereo. DANIELA COHEN Mi ero tenuta in continuo contatto con quelli della Polydor Italia e avevo saputo l’ora in cui Jimi sarebbe partito da Linate. Andai all’aeroporto con le foto che avevo già sviluppato in bianco e nero nello studio di un mio amico. Hendrix si ricordava perfettamente di me e rimase sorpreso che gli avessi già portato le foto fatte solo pochi giorni prima. Scambiammo qualche parola e notai la sua frustrazione per le continue pressioni a cui era sottoposto, specialmente per gli impegni del tour: era un tipo tranquillo, taciturno, mi confidò che gli piacevano il verde, i prati, i boschi. Amava anche stare tranquillo, ma non ci riusciva mai. Diceva: «D’altronde ho scelto io di fare questo mestiere». Non che si lamentasse, ma era chiaramente infastidito dal clamore che provocava la sua presenza ovunque e dal fatto di non poter condurre una vita normale. Mi parlò con molta enfasi del nuovo lp a cui stava lavorando, Electric Ladyland, costruito su un nuovo sound, una via sperimentale, e ispirata (mi confidò) anche da lsd di buona qualità. Mi diede il suo indirizzo di New York su un fogliettino per spedire le foto a colori che gli avevo scattato; lui, in cambio, mi avrebbe mandato una copia del suo disco. Avevo un anello al dito e a Jimi piaceva molto, così me lo chiese; ovviamente glielo diedi, ma lui volle assolutamente darmi dei soldi. Io rifiutai, ma lui insistette dicendomi: «Ci paghi il taxi».

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Va beh, mi diede 5.000 lire e mi fece una dedica con autografo su un fogliettino, quindi ci salutammo. VICKI REDDING Il volo da Milano partì in ritardo e così perdemmo la coincidenza da Ginevra a Londra, perciò, dovendo attendere il volo successivo per Londra, decidemmo di mangiare qualcosa. Una volta finito di pranzare, Jimi mi diede dei soldi per pagare il conto e il resto disse di lasciarlo di mancia. Arrivati a Heathrow, appena usciti dalla dogana, uno dei roadie venne da Jimi e lo portò immediatamente all’imbarco per New York. BARRY REISS Dovevo portare Jimi a New York per discutere il caso della ppx, là c’erano già Chas Chandler, Mo Ostin e Henry Steingarten. NOEL REDDING Quello italiano fu un bel tour, ci divertimmo un sacco: anche se c’è molto caos laggiù. La gente, ovunque, è simpatica e amichevole. Il 30 maggio Jimi da New York arriva a Zurigo per due concerti insieme a Eric Burdon, John Mayall, i The Move, i Traffic e gli Small Faces. Si svolsero all’Hallenstadion il 30 e il 31. Il 1° giugno la Jimi Hendrix Experience torna a Londra, dove il 5 dello stesso mese appare in tv, alla bbc, come ospite dello show di Dusty Springfield, dal titolo It Must Be Dusty. Poi trascorre gran parte del mese di giugno 1968 nei Record Plant Studios di New York per ultimare Electric Ladyland. Jimi dovette attendere la metà di luglio per concedersi quattro giorni di vacanza in Spagna, a Maiorca. Il 1° agosto la Jimi Hendrix Experience inizierà un nuovo massacrante tour americano.

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HO VISTO UN RE La stagione della grande stampa, della fioritura di iniziative e linguaggi, si portò dietro, in dote, anche la nascita e la diffusione delle riviste per giovani, principalmente a trazione musicale: un modo ancora acerbo e spontaneo per raccontare i primi germi di una rivoluzione culturale e di costume, che sarebbe passata anche dalla pagina scritta. L’editoria di genere ancora non esisteva, i libri e i materiali di quel segmento merceologico, così come i film e i documentari rock, sarebbero arrivati negli anni Settanta; la scelta, al momento, era ancora assai contenuta e riservata a un bacino di utenti ben definito, seppure in crescita e promettente, come dimostreranno i dati e l’impennata dei consumi che vedremo da lì a poco. Anche gli stessi quotidiani, o la stampa generalista, di spazio all’informazione musicale ne riservavano ben poco: le cronache degli spettacoli erano centrate su cinema, televisione, teatro e musica sinfonica, mentre i concerti, rari e ancora di nicchia, di rado entravano nel mirino delle varie testate, che al massimo se ne occupavano nelle pagine locali. La figura del critico musicale, l’esercizio della recensione, il flusso informativo che oggi ci pare una chiave interpretativa acquisita, erano ingredienti di là da venire. Il ruolo del critico musicale sarebbe stato “sdoganato” molto più tardi, gradualmente, con l’accettazione, subita e talvolta sospetta, della categoria da parte di direttori e caporedattori con evidente deficit di permeabilità. Dunque, considerando che anche in radio e in televisione gli spazi erano briciole sparse e poco più che casuali, l’informazione sull’attività musicale – discografica, novità, iniziative – praticamente non esisteva. Si concentrava solo su qualche testata che timidamente aveva provato a fare capolino. Il tono che la caratterizza è decisamente leggero: attenzione massima viene rivolta alle foto e ai personaggi più popolari, un gossip, che tiene conto ovviamente della vita privata, gli amori di questo e quella, il servizio militare, le vacanze, le esperienze più esposte alla curiosità generale. Copertine colorate, con grafica densa e sparata al fine di catturare l’acquirente, linguaggi piani e senza fronzoli e, per accattivarsi le simpatie del pubblico e macinare copie, non saranno infrequenti l’inserimento di cartoline, adesivi, poster da mettere nelle camerette dei giovani lettori. Trattasi di facili specchietti per le allodole, che ottengono i risultati voluti e che premieranno la diffusione: i giovani vengono immediatamente individuati come un obiettivo di business. Si sta creando un’industria che va seguita, sollecitata, coordinata per andare incontro alle richieste e alle esigenze di massa. La società nel suo complesso guarda al pianeta–giovani con sempre maggiore puntualità. Sulle pagine delle riviste si affrontano (anche) temi tutt’altro che frivoli: una delle battaglie preminenti riguarda il diritto di voto a diciotto anni, anziché a ventuno. Di politica, esplicitamente, non ci si occupava, ma qualche accenno affiorava dalle pagine, ad esempio, di “Big” – sottotitolo “settimanale giovane” –, che nel maggio 1967, parlando della guerra in Vietnam, metteva in guardia da quegli «autori di canzonette che ne traggono rime dai facili guadagni». Vediamo allora una mappa delle opportunità per la carta stampata a disposizione dei teenager e degli appassionati intorno alla metà dei Sessanta.

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Capostipite di una certa tipologia di stampa è da considerarsi “Ciao amici”, apparso in edicola nel dicembre 1963: orientato sui ragazzi delle scuole medie, si ispira direttamente all’esperienza del fratello maggiore francese “Salut les copains” (forte di una larghissima penetrazione sul mercato, tanto da raggiungere un milione di copie vendute). Primo esperimento editoriale generazionale rivolto ai giovani, di periodicità variabile – nato come mensile, diventerà quindicinale, per attestarsi come settimanale fino alla fine dei suoi giorni –, viene realizzato a Milano. Nell’estate 1967 assume temporaneamente la denominazione “Ciao amici Fab”. Si contano in totale centoventotto numeri. “Big” esordisce l’11 giugno 1965 e prospetta un maggiore impegno nella scelta dei temi affrontati, anche sotto il profilo squisitamente musicale: le pubblicazioni cesseranno l’11 novembre 1967 per lasciare campo a una fusione che determinerà l’avvento di “Ciao Big”, le cui uscite proseguiranno fino al 17 gennaio 1969. Fondato a Roma, con una vita inquieta per via di passaggi di proprietà e di editori, esce con cadenza settimanale: in archivio figurano centonovantanove numeri. “Big” raggiunge una tiratura di oltre il mezzo milione di copie e non disdegna il terreno sociale della realtà giovanile, tanto da avvertire i suoi lettori/elettori, per le amministrative del 1966, di evitare con cura quei partiti che non tengono nella giusta considerazione la libertà e le istanze dei giovani. L’attivismo della testata si manifesterà anche con la creazione di una serie di comitati e fan club a ragione territoriale, che porterà addirittura a un Congresso Nazionale di “Big”, indetto a Roma per eleggere novantadue segretari provinciali, diciannove regionali e un consiglio nazionale a cui demandare la creazione di una rete di supporter, centri studio e di ascolto e produzione. “Big” fu capace anche di organizzare e gestire appuntamenti di musica dal vivo con i maggiori artisti del momento: un tentativo che servì da collante e propellente per espandere la cultura beat in Italia.

Supplemento al n. 9 di “Ciao Big”.

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Nel puzzle di incastri, nascite e declino della stampa musicale, affiora, al culmine di questi fermenti, “Ciao 2001”, che festeggia il lancio del suo primo numero il 26 gennaio 1969. Il traffico, a questo punto, è piuttosto chiaro e la messa a fuoco precisa, e consente di creare progressivamente un pubblico di appassionati che su “Ciao 2001” si formeranno e cresceranno. La sua storia rappresenta un successo editoriale brillantissimo, con circa milleduecento numeri settimanali pubblicati lungo venticinque anni, fino alla chiusura alla metà degli anni Novanta. “Ciao 2001”, molto puntuale nel registrare le novità e nel seguire i movimenti, le uscite, i primi festival, provvede anche alla costituzione di una categoria di nuove figure professionali, di giornalismo musicale, con reportage, servizi, interviste, il racconto dell’emergente realtà della musica dal vivo, che anche in Italia sarà tanto vitale, agitata e controversa nel decennio successivo. In parallelo, è da segnalare anche un’altra rivista, che troviamo in edicola dal 26 febbraio 1966 fino al 1° marzo 1970: “Giovani”. Con un profilo decisamente ambizioso, spunta da una costola di “Marie Claire” e sarà rimpiazzata dal 5 marzo da “Qui Giovani”, che resiste a sua volta fino al maggio 1974.

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Interessante, per verificare i gusti del pubblico e l’orientamento della rivista, è riprendere i dati del referendum indetto tra i lettori nel 1966: tra i gruppi è schiacciante l’affermazione dell’Equipe 84 (con 104.000 voti), seguita da Ribelli (77.000) e Rokes (43.000), mentre tra i cantanti si impone Gianni Morandi (124.000), davanti a Rita Pavone (102.000), Mina (100.000) e Celentano (49.000).

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Tra i progenitori di queste riviste vanno anche inseriti “Il Musichiere”, nato intorno alla figura e all’omonimo storico programma televisivo di Mario Riva, pubblicato dall’8 gennaio 1959 al 13 maggio 1965 e “Tuttamusica”, in circolazione dal novembre 1962 all’agosto 1965. Prima ancora, è il 1945, a Milano da Arrigo Polillo e Gian Carlo Testoni viene lanciata “Musica Jazz”: ha un target preciso, ben identificato dalla testata, ma avrà modo di seguire e documentare anche quella fase di rottura che alla fine degli anni Cinquanta vive la canzone (e il mercato) italiana, con il cambio di passo e l’avvento di artisti nuovi e innovativi, oltre il solco della tradizione. In questo scenario, mette le sue radici quella che dagli anni Settanta in poi sarà la stampa (e la critica) musicale: quel tipo di approccio al rock, al pop, alla canzone che oggi è vocabolario diffuso e ha trovato cittadinanza e rappresentanza ampia, addirittura troppo, su ogni tipo di media, fino alla moltiplicazione di blog e siti, dove ormai si discute, si discorre, si straparla di tutto e di tutti. Sono i pro e i contro di una realtà che quei pionieri, che avvicinarono e approfondirono l’onda imperiosa della musica tramite la parola scritta, non avrebbero mai neppure potuto sognare. Ps. Ho visto un re: una delle canzoni più significative, e misconosciute, del ’68. Il singolo di Enzo Jannacci (testo firmato da Dario Fo), che su retro riportava la spassosa Bobo merenda: invettiva sferzante, tesa a colpire e sbeffeggiare i potenti, con un’ironia amara e tutta politica. Fu una delle classiche creature di cui la stampa non si occupò: una geniale provocazione di cui, anzi, forse proprio non se ne accorse o non se ne volle accorgere. Nel tempo diventerà uno dei manifesti della filosofia di Jannacci–Fo, una fotografia delle iniquità e della stupidità del potere: uscita nel momento giusto, il fatidico ’68, e poi fiorita, profetica come un sempreverde, negli anni a venire. La sorte dei maestri... «Ho visto un re… Un re che piangeva seduto sulla sella / piangeva tante lacrime, ma tante che / bagnava anche il cavallo /... E sempre allegri bisogna stare / che il nostro piangere fa male al re / fa male al ricco e al cardinale / diventan tristi se noi piangiam...» “«Solo pochi anni fa non sapevo decidermi tra la musica e il teatro drammatico», dice Jimi. «Ora, però, ho deciso definitivamente, perché credo di aver trovato la mia strada». Gliene diamo ampio credito, perché anche noi puntiamo su di lui.” Jimi Hendrix, un’esperienza da non dimenticare “Ciao amici”, 21 giugno 1967.

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“In questi giorni a Londra tutti fischiettano le canzoni dell’ultimo disco di Jimi Are You Experienced, un 33 giri favoloso. ... I negozianti dicono che Jimi è un successo: alcuni di loro affermano che può essere la sorpresa dell’estate 1967. Tutti i giornali specializzati hanno pagine e pagine su Jimi: è il tipo del momento.”

“Jimi, con il suo trio, The Experience, ha ottenuto un grande successo. Il disco che ascolteremo, Hey Joe, è un blues lento ed eccitante che però dà solo una mezza idea della qualità del cantante, che deve parte del suo successo a sconvolgenti e drammatiche interpretazioni visive.”

È il tipo del momento “Giovani”, dicembre 1967

Lo “sconvolgente” Jimi Hendrix “Radiocorriere TV”, 1967.

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Pazze per il mostro “Ciao Big”, 29 dicembre 1967

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“Voglio parlare dell’esperienza di qualche sera fa al «Ram Jam Club», un locale particolare non elegante, ma funzionale nella maniera giusta, dove la musica può essere sentita nella maniera giusta. E Jimi Hendrix, la belva, la forza della natura, il capo dell’esperienza sul piccolo palco della sala con il suo gruppo. Non so se riuscirò a rendere con parole l’effetto che questo tipo può provocare a chi non è abituato a simili spettacoli: in particolare il sottoscritto che non ha mai avuto la fortuna, malgrado tutti i Piper e Kilt e Woom Woom, di vedere e sentire nulla di simile.” Gigi Movilia

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“L’ultimo, uscito in Italia solo pochi giorni fa è intitolato Burning of the Midnight Lamp, promette di inserirsi sulla stessa scia dei primi: Jimi continua, imperterrito, a entusiasmare tutti.” Hendrix tutto ritmo “Giovani”, gennaio 1968

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Burning of the Midnight Lamp, di Hendrix, 45 giri (Polydor, L. 750) “Giovani”, gennaio 1968.

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“A Londra si è gridato allo scandalo. Vedrai, dicevano in molti, che gli succederà come a Sansone. Si taglierà i capelli e non sarà più nessuno. Proprio adesso, che il suo 33 intitolato Axis: Bold as Love sta mettendo sotto i piedi Beatles e Rolling Stones. Dicono i tecnici: è un travolgente vortice di musica. Dicono i fans: qualche cosa che non si era mai sentito né provato.”

“I dischi del trio pop elettronico «Jimi Hendrix Experience» sono arrivati anche in Italia dopo il trionfo ottenuto negli Stati Uniti e in Inghilterra. «Per il momento si vendono solo nei negozi più centrali di Roma e di Milano», dice Roberto Furcht dell’omonima ditta di rivendita di articoli musicali, «ma abbiamo buon speranze per il futuro». ... la loro musica è di tipo «accidentale», ma non ricalca le orme dei ritmi del compositore John Cage, l’idolo dei fans dell’elettronica. È piuttosto come sei i 3 musicisti cadessero involontariamente da una scala continuando a suonare.”

Quando Jimi si fa bello “Ciao Big”, 21 giugno 1967.

Lo spaccatutto del pop elettronico “Panorama”, 7 marzo 1968.

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Mentre Hendrix è a Roma, Gianni Morandi si esibisce a Milano. Il “Corriere della Sera” recensice il concerto, mettendo in relazione la musica e il tipo di pubblico dei due artisti. “Morandi non è cambiato, il suo pubblico nemmeno, vede in lui quello che in sostanza è: il ragazzo di campagna che non si lascia sofisticare, che esprime spontaneamente un genere di musica in cui contano ancora i sentimenti, la melodia, pur accettando rivestimenti moderni, più tesi e vibranti. Insomma le ragazzine che non impazziscono per i Beatles o per Jimi Hendrix, – l’ultimo raffinatissimo, complicato prodotto della canzone angloamericana, che abbiamo sentito qualche sera fa, – continuano a impazzire per Morandi, le cose non sono cambiate, ci pare. Sono due mondi che coesistono senza molto incontrarsi.” V. B. Lo «show» di Morandi “Corriere della Sera”, 26 maggio 1968.

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Nella rubrica “Le canzoni dei giovani”, Jimi Hendrix è presente già nel luglio 1968 accanto ai “classici”. “Jimi Hendrix: basta il suo nome per elettrizzare migliaia di fans. E non a torto. Hendrix sa imporsi anche con brani anticommerciali. Ne è la prova questa novità 45 giri Polydor con Up from the Skies e One Rainy Wish. Pregevoli, anche se abbondanti, gli effetti sonori. Ai meno sensibili alle raffinatezze interpreative consigliamo il precedente best seller di Hendrix: Foxy Lady.” U. S. Le canzoni dei giovani “La Stampa”, 19 luglio 1968.

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“... Quando Jimi accompaganto dalla sua chitarra si scatena, dai movimenti e dalla voce sprizza una sorta di magnetismo animale, dal potere quasi ipnotico. Sì, basta sentire la sua voce per restare conquistati, affascinati, anche se è un fascino simile a quello che prova un coniglio di fronte a un serpente boa.” Paolo Valente Le ragazze impazziscono per il brutto con la permanente “Sogno”, giugno 1968

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“... Hendrix che si è esibito pochi giorni fa in Italia in una serie di spettacoli organizzati dal Titan Club di Roma, nonostante sia americano è il musicista di punta dell’avanguardia pop inglese. La sua musica è un insieme di note, rumori, suoni allucinati, boati e di effetti elettronici. Non per nulla il suo complesso si chiama «The Experience», l’esperimento. Un esperimento riuscito più che bene, a giudicare dalla reazione del pubblico e dalla quantità di dischi venduti. Hendrix suona la chitarra e canta, accompagnato dal bassista Noel Redding e dal batterista John Mitchell. In tre persone riescono a produrre un volume di suono impressionante, con una carica musicale, che trascina gli spettatori inesorabilmente.” Renzo Arbore Un mostro che piace “Radiocorriere tv”, 2–8 giugno 1968

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Con dieci milioni Jimi Hendrix torna a casa “L’Europeo”, 6 giugno 1968

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“... Jimi Hendrix è dunque entusiasta dell’Italia, ma è doveroso aggiungere che i ragazzi italiani sono entusiasti di lui. Il favoloso interprete di Hey Joe, il negro indiano che suona la chitarra con i denti, ha ottenuto nel corso della sua tournée un successo stile ‘tempi d’oro’.” Maurizio Moretti Il favoloso amuleto di Jimi Hendrix “Giovani”, 13 giugno 1968.

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Jimi Hendrix il tempestoso “Grand Hotel”, 20 luglio 1968

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“Stavo uscendo dai Three Nuns, il locale dove suonavo a Los Angeles con la mia orchestra quando ho sentito i tre colpi... Jimi è un giovanottone timido e tranquillo: soltanto quando è in scena si trasforma e si scatena. E siccome la sua musica è simbolo della rivolta negra, è logico che in USA ci sia chi voglia farlo fuori. La corrente di sangue che è iniziata con l’assassinio di Malcom X e di John Kennedy ed è proseguita con l’uccisione di Martin Luther King e di Bob Kennedy, avrebbe potuto avere, poche sere fa a Los Angeles, una ennesima tragica replica.” Otis Pencill Notte di terrore per Jimi Hendrix “Ciao Big”, 7 agosto 1968.

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JIMI HENDRIX (1942–1970) Il 27 novembre 1942 nasce a Seattle Johnny Allen Hendrix, quattro anni più tardi ribattezzato James Marshall. Nel 1951, dopo la separazione dei genitori (la madre Lucille, di origini Cherokee, morirà alcolizzata nel 1958), cresce con il padre Al e il fratello minore Leon. Un altro fratello, Joseph, e due sorelle, Pamela e Kathie, andranno in affido. Adolescenza povera e disagiata, nel 1959, dopo aver acquistato la sua prima chitarra su cui sviluppare i rudimenti del blues, esordisce nel gruppo dei Velvetones, per poi passare ai Rocking Kings, che ottengono riconoscimenti in concorsi giovanili e rassegne locali. Nel 1961, dopo qualche noia con la giustizia per furto d’auto, si arruola nel corpo dei paracadutisti, da cui verrà congedato l’anno successivo, a seguito di un incidente; intanto si esibisce con il trio dei King Casuals, inizio di una serie di collaborazioni, con al suo fianco anche il bassista Billy Cox. Nel 1961 nasce Janie, che verrà adottata da Al Hendrix. Alla sua morte, sarà Janie a diventare l’erede del patrimonio editoriale che controlla l’immagine e la musica di Jimi. Nel 1963 si infittiscono gli impegni e lo troviamo sul palco, nelle band che via via accompagnano Little Richard, Lonnie Youngblood, Hank Ballard, The Supremes, Tommy Tucker, e soprattutto The Isley Brothers, Sam Cooke (sodalizio interrotto per la sua morte) e Curtis Knight. Sono numerose anche le registrazioni discografiche in studio, nel 1964, spesso non accreditate ufficialmente, ma che gli consentono una preziosa esperienza, in special modo nel campo della black music. Nel 1965 le prime, significative apparizioni discografiche (con Little Richard, Arthur Lee, Jayne Mansfield), mentre continuano gli impegni live, tra gli altri con Albert Collins e Ike & Tina Turner. Firma un contratto con il produttore Ed Chalpin, che sarà fonte di lunghe diatribe giudiziarie. Nel 1966 suona anche nei gruppi di Wilson Pickett e di Percy Sledge; e mentre le session e gli incontri musicali si moltiplicano, in estate fonda la sua prima formazione, Jimmy James and the Blue Flames, e viene notato da un talent scout d’eccezione, Chas Chandler, bassista degli Animals, che lo sente al Cafe Wha? di New York e lo inviterà a seguirlo nella Swingin’ London. Dopo un rapido casting a Londra si costituisce The Jimi Hendrix Experience, con Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria; saranno da supporter per Johnny Hallyday all’Olympia di Parigi, macinando nei club londinesi performance incendiarie e show anche improvvisati. La sua presenza nella capitale inglese non passa inosservata, destando una viva

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curiosità e un caldo apprezzamento anche nella comunità dei musicisti: a metà dicembre esce il singolo Hey Joe/Stone Free, che subito entra nelle zone alte della classifica britannica. Fin dalle prime settimane del 1967 l’attività si fa frenetica, con un tour nazionale e apparizioni alla bbc; dopo un secondo 45 giri, Purple Haze/51st Anniversary, arriva a maggio il rivoluzionario album di debutto, il capolavoro Are You Experienced? La fama si estende e The Jimi Hendrix Experience sono tra i protagonisti del californiano Monterey Pop Festival, a giugno. Gli impegni assumono una cadenza di straordinaria intensità e a dicembre esce già il secondo 33 giri, Axis: Bold as Love. Il successo è clamoroso, la risposta del pubblico e della critica è trionfale, con eccellenti riscontri anche nelle vendite. Nell’aprile 1968 viene pubblicata l’antologia Smash Hits, a maggio Jimi arriva in Italia e a giugno va in studio a New York, per realizzare l’ambizioso doppio Electric Ladyland, nei negozi a ottobre, con la controversa e scandalosa copertina “nude” censurata in diversi Paesi. Nei primi mesi del 1969 si affaccia una crisi personale e creativa che sfocia nello scioglimento degli Experience, e l’avvio di una nuova line–up più ampia, che verrà sperimentata al festival di Woodstock, in agosto, Gypsy Sun and Rainbows, che non avrà una vita effettiva, presto abbandonata a favore della Band of Gypsys, dove Jimi ritrova i vecchi amici, Billy Cox al basso e Buddy Miles alla batteria: insieme a loro festeggia la fine dell’anno con una serie di esibizioni al Fillmore East di New York, da cui sortirà un album live, l’ultimo licenziato con Hendrix ancora in vita, Band of Gypsys, in distribuzione ad aprile 1970. Nello stesso periodo si segnalano alcune session in studio, dove saranno ricavati anche i materiali per il primo postumo The Cry of Love. L’estate è tempo di festival, ad Atlanta e a Maui nelle Hawaii (da dove provengono anche le immagini poi utilizzate per il film Rainbow Bridge), l’isola di Wight, cui seguiranno altre date in nord Europa, fino all’ultimo impegno all’isola di Fehmarn, in Germania, headliner al Love and Peace Festival. Dopo ci sarà modo solo per una jam session in un club, il 16 settembre, al Ronnie Scott’s Jazz Club di Londra, città in cui Jimi muore nel sonno il 18 settembre. I primi soccorsi, vani, verranno sollecitati dalla fidanzata Monika Danneman, che non si è accorta di nulla. Al di là delle prime frettolose ricostruzioni che indicano il decesso per overdose, i rilievi autoptici certificano che Hendrix è morto soffocato dal vomito per un mix di alcol e barbiturici. Il 1° ottobre, dopo che la salma è stata traslata a Seattle, si celebra il funerale, cui partecipano anche molti colleghi; a seguire la sepoltura nel cimitero di Renton, a poche miglia dalla città.

Fonti Oltre alle interviste, alle testimonianze e alla stampa dell’epoca, le principali fonti bibliografiche consultate sono: Johnny Black, Jimi Hendrix. The Ultimate Experience, Thunder’s Mouth Press, New York 1999 Roberto Bonanzi e Maurizio Comandini, Jimi Hendrix. 5 giorni a maggio, Mondadori, Milano 1998 Charles R. Cross, La stanza degli specchi, Kowalski, Milano 2006 Enzo Gentile, Legata a un granello di sabbia, Melampo, Milano 2005 Enzo Gentile, Jimi santo subito!, Shake, Milano 2010 Caesar Glebbeek, Jimi Hendrix. Una foschia rosso porpora, Arcana Editrice, Milano 1992 Caesar Glebbeek e Roberto Crema, Jimi Hendrix in Italia 1968, UniVibes Press, Popiglio (Pt) 2010 Jimi Hendrix, Zero. La mia storia, Einaudi, Torino 2014 Mitch Mitchell and John Platt, The Hendrix Experience, Pyramid Books, London 1990 Romy Padovano, Hit Parade, Arnoldo Mondadori, Milano 1997 Irene Piazzoni, La musica leggera in Italia, l’Ornitorinco, Milano 2011 Noel Redding and Carol Appleby, Are you experienced? The inside story of the jhe, Fourth Estate Limited, London 1990 Ciarly Roketto, Jimi nel cerchio del Musico, Comune di Bologna, Bologna 1999 Charles Shaar Murray, Jimi Hendrix. Una chitarra per il secolo, Feltrinelli, Milano 1992 David Stubbs, Jimi Hendrix, the stories behind every song, Carlton Books Limited, London 2003 Ben Valkhoff, Eyewitness. The Illustrated jhe Concerts 1968, Up from the Skies Unlimited, Nijmeen 2000 http://jimihendrixitalia.blogspot.it

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JIMI HENDRIX (1942–1970)

Enzo Gentile davanti a un murale milanese degli anni Settanta.

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Ringraziamenti Lo hanno visto e ne hanno parlato: lo ricordano così… Carlo Acquistapace Enzo Aisler Piero Ammaniti Checco Annoni Renzo Arbore Adriano Assanti Claudio Baldassarri Giovanni Barbareschi Eric Barrett Dodi Battaglia Sandro Beccari Dana Faith Benjamin Massimo Bernardi Giorgio Bianchi Guglielmo Bilancioni Daniele Bisazza Bizzio Maurizio Bonini Michele Bovi Beppe Brilli Bruno Brini Fabrizio Capitoli Paolo Carù Marco “Mitch” Catone Piero Cerri Domenico Chianura Renzo Chiesa Carlo Ciciani Paolo Cionetti Roberto Ciotti Gianni Ciuffini Claudia Daniela Cohen Pierfranco Colonna Saro Cordi

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Ines Curatolo Bruno D’Angelo Giorgio De Biasi Alberto Dentice Toni Di Mauro Filippo De Orchi Alvaro Fella Mauro Ferracci Roberto Ferrari Mauro Filippini Giancarlo Fiorentini Bambi Fossati Giuseppe Gaetano Sandro Gamba Rolando Giambelli Ricky Gianco Sergio Giannoni Ezio Gionco Lillo Giovara Guido Gonzales Italo Gnani Giuseppe Grotti Daniele Guidazzi Thomas Harrison Luciano Lambertini Giorgio Lanzani Filippo La Porta Claudio Lucchi Serse Mai Roberto Maresca Alberto Marozzi Ricky Maiocchi Andrea Mingardi Maurizio Moretti Mario Mozzetti

Giuseppe Nisii Giliano Panari Piero Pantò Marco Persichetti Pierino Stefano Pietrucci Gabriele Poletti Eddie Ponti Oscar Porri Antonio Prozzo Riccardo Radaelli Ugo Rapezzi Noel Redding Vicky Redding Luciano Regoli Paolo Renferme Enzo Righetti Ciarly Roketto Alex Schiavi Sergio 1952 Maurizio Solieri Ruggero Stefani Danilo Stolzi Victor Togliani Ivano Tonini Fabio Treves Bruna Urbani Paolo Valente Mario Valentini Maurizio Vandelli Antonio Varone Carlo Verdone Pat L.A. Wiss

Un ringraziamento anche a: Roberto Bonanzi Umberto Buttafava Fulvio Feliciano Rudy Kronfuss Aldo Lastella Ivan Lezzoli Claudia Notargiacomo Irene Piazzoni E a tutti i membri del gruppo Jimihendrixitalia.

Roberto Crema con Noel Redding al santuario di Santa Caterina al Sasso, Leggiuno (Varese).

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© 2018 Editoriale Jaca Book SpA, Milano Prima edizione aprile 2018 Tutti i diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, dei contenuti inseriti nel presente volume, ivi inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei contenuti stessi mediante qualunque mezzo di diffusione, senza previa autorizzazione scritta Progetto editoriale Vera Minazzi Concept design Paola Forini/Jaca Book Redazione Elisabetta Gioanola/Jaca Book

Fotolito e selezione colore Target Color, Milano Stampa e legatura Stamperia s.c.r.l., Parma aprile 2018 ISBN 978–88–16–60560–2

Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

Saracinesca del Teatro Brancaccio.

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Dove non altrimenti specificato, le immagini provengono dall’archivio di Roberto Crema. Fra di esse: Courtesy of: Sandro Beccari, p. 208209, 210, 214, 215 Roberto Bonanzi, p. 64, 65, 114, 118-119, 120, 124, 125, 126-127, 128, 129, 130, 136, 137, 142, 145, 146, 147; Mauro Casadio Farolfi, p. 222 a sinistra e a destra in basso, 223; Mimmo Chianura, p. 111, 112, 113; Renzo Chiesa, p. 53, 54, 55, 85 a sinistra e in centro; Daniela Cohen, p.39 a

destra in alto, p. 41, 42, 43, 44; Ezio Gionco/Giorgio Lanzani, p. 76, 77, 78-79, 82-83; Lillo Giovara, p. 80, 81 a sinistra e a destra seconda, terza, quarta, quinta e ultima, p. 84, 86-87; Thomas Harrison, p. 158, 165, 166167, 168, 169, 170-171, 183; Rudy Kronfuss, p. 190, 194; Ivan Lezzoli, p. 62, 63; Riccardo Radaelli, p.66 a destra prima e seconda in alto e ultime due in basso; Fabio Treves, p.66 a sinistra, p. 195. Crediti: Agenzia Contrasto, p. 138, 139.

Courtesy of Enzo Gentile, p. 267, 270. Archivio Jaca Book, p. 92, 95, 161, 254, 255.

L’editore è a disposizione degli aventi diritto che non è stato possibile rintracciare, nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti.


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