ICONS. MEANING AND HISTORY

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ICONE SENSO E STORIA

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Mahmoud Zibawi

ICONE SENSO E STORIA Presentazione di Olivier ClĂŠment

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© 1993 Editoriale Jaca Book SpA, Milano

INDICE

Prima edizione italiana settembre 1993 Nuova edizione italiana febbraio 2018

Copertina e grafica Paola Forini/Jaca Book Fotolito Target Color, Milano

Un’arte, un libro, un appello Olivier Clément pag. 7 Introduzione pag. 11 Parte Prima IL SENSO DELL’ICONA

Stampa e legatura xxxxxxxxxx febbraio 2018

Capitolo primo I fondamenti dogmatici pag. 19 Capitolo secondo L’uomo secondo immagine, l’immagine dell’uomo pag. 57 Capitolo terzo La cosmogenesi iconica pag. 71 Capitolo quarto Fedeltà e libertà pag. 101

ISBN 978-88-16-60558-9

Per informazioni: Editoriale Jaca Book – Servizio Lettori via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02.48561520; fax 02.48193361 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

Parte Seconda STORIA DELL’ICONA Capitolo quinto Le origini pag. 119 5

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Capitolo sesto Bisanzio dopo l’iconoclasmo pag. 141

Un’arte, un libro, un appello

Capitolo settimo L’età ottomana pag. 173 Capitolo ottavo Dalla Rus’ alla Russia pag. 205 Capitolo nono Oggi pag. 243 Bibliografia sommaria pag. 251 Cronologia pag. 253 Carte pag. 259 Museografia pag. 263 Gossario pag. 268 Riferimenti iconografici pag. 270

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Mahmoud Zibawi è per me il simbolo della genialità libanese, ferita a morte, dunque a resurrezione. I suoi lunghi soggiorni parigini hanno portato a maturazione in lui l’universale, ma egli resta l’uomo di Beirut, della città piagata, che sanguina nel mare e le cui ferite il mare feconda, malgrado tutto, con un bruciante sale d’eternità. Solo il Libano poteva permettere in questo giovane talento, già splendente, una tale unione di Oriente ed Occidente, di Islam e di Cristianesimo e dargli, attraverso testimoni come Padre Georges – il metropolita Georges Khodr’ – il gusto di un’ortodossia segreta, interiore, quella «epignosi» giovannea che mostra l’alba dello Spirito sorgere da un corpo trapassato. Perché «dove ci sarà un cadavere si raduneranno le aquile». Segnato da questa metastoria come dalle mie parti si marchiano con un ferro rovente i giovani tori selvaggi, Mahmoud Zibawi rifugge tutte le gabbie ma si pacifica e si avvicina quando sente il profumo paradisiaco della santità. Uomo degli estremi, non sopporta i limiti e sa assumerli nella pazienza dell’arte e della riflessione, discreto ed eccessivo, ironico ed amichevole, espansivo e contemplativo. Egli ha esplorato molto presto la mistica profonda dell’Islam e del Cristianesimo, come le arti cui essi hanno dato vita. E lui che mi ha fatto scoprire la ricchezza dell’arte figurativa musulmana che, dalla Turchia all’Asia centrale, non ignora né vela il volto del Profeta. Altrettanto presto, trasformando in azione la sua contemplazione, si è messo a dipingere. Pittura violentemente espressionista dapprima, ma a poco a poco rinchiusa, immobilizzata – o piuttosto mobile verso l’unica profondità – nella ricerca e nell’incanto del volto. Questa ricerca lo ha condotto ad incontrare l’icona. Mahmoud Zibawi non dipinge icone. I volti che rappresenta sono in attesa d’icona, forse di un’altra icona. Poiché sono carichi dell’esperienza abissale della modernità che il più delle volte (ma non sempre) l’icona tradizionale ha ignorato o tralasciato nella sua anticipazione dell’ultimo. Modernità in cui Mahmoud Zibawi vede la discesa occidentale agli Inferi, l’«esilio occidentale» di cui parla la mistica iraniana. E modernità che senza dubbio costituisce oggi il solo luogo in cui Cristo, liberato da tanti edifici di pietra e da concetti che sono nei fatti «tombe di Dio», può risorgere, come hanno profetizzato il pittore della Discesa agli Inferi di Chora a Costantinopoli e ancor più Dostoevskij. I volti che Zibawi dipinge sembrano silenziosissime ferite. L’icona è stata la guarigione. Ma non da quelle ferite, che dunque attendono e annunciano ciò che non può ancora «salire al cuore dell’uomo». Il complesso gioco di specchi tra i volti che egli raffigura, l’icona del passato e quella di domani, suggerisce la strana e precoce genialità di Zibawi. Non potendo ancora, come ognuno di noi, descrivere e scrivere l’icona che pacificherebbe gli abissi sondati da Nietzsche, Dostoevskij, Artaud o Bataille, Mahmoud Zibawi ha riflettu7

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to molto, studiato molto, lavorato molto sull’arte dell’Oriente cristiano. Di qui questo libro, che mi pare innanzitutto come un capo d’opera, uno dei più giusti e più completi che si siano scritti sul senso e la storia dell’icona. Il vantaggio come carnale del nostro autore rispetto a tanti commentatori russi o occidentali è di vedere l’icona a partire dal crogiolo in cui essa si è costituita, quel Vicino Oriente biblico ed apostolico che, attraverso Gerusalemme, va dal Sinai ad Antiochia, e del quale Bisanzio e la Russia non furono mai altro che gli eredi, anche se eredi geniali. Mahmoud Zibawi ha così una conoscenza intima, secondo lo spirito ed il sangue, della genesi dell’icona. In un certo senso questa genesi costituisce la sua memoria più profonda. Infatti il famoso dogma del vii Concilio ecumenico giustifica l’arte cristiana in generale ma non dice nulla dell’icona come tale. Che la venerazione di un’immagine s’indirizzi al modello di questa, si capisce, lo direbbe ogni innamorato davanti alla fotografia della donna amata. Si vuole evitare una magia di basso profilo, che, in verità, è pur sempre possibile… Il dogma del vii Concilio giustifica Fra’ Angelico, Zurbarán, Rembrandt, La Tour o Rouault o le miniature armene e copte altrettanto bene quanto le icone propriamente dette. L’arte dell’icona, come la mostra Mahmoud Zibawi, è comparsa in uno spazio che si potrebbe qualificare «centrale» rispetto al «mondo antico» (Europa, Asia e Africa), nella «regione intermedia», come la chiamano alcuni storici greci contemporanei, spazio siriano, palestinese, sinaitico. Essa si è costituita tramite la fusione, al crogiolo, di elementi che Mahmoud Zibawi analizza con meticolosità e che sembrano esprimere una convergenza planetaria. Ecco il genio indo-europeo, con il suo polo dell’umanesimo greco-latino e il suo polo immaginifico indo-iraniano, in cui il sensibile si spiritualizza e l’intellegibile prende forma; ecco il genio semitico con il suo polo antiocheno, dove Dio diviene patetico nell’uomo e il suo polo alessandrino, dove l’uomo si fa impassibile in Dio; ecco, sotto il manto ellenistico, ricomparire i morti egiziani dagli occhi immensi, vivi di una vita impersonale; ecco anche l’ascesa degli dei dell’Oronte che resuscitavano a primavera. Atene e Gerusalemme, certo, ma anche Roma e Palmira. Tutto si consuma nella violenza ardente dei primi monaci e da questa pira dove va in ceneri il grande Pan – ricordate il grido sul mare: «Il grande Pan è morto! Il grande Pan è morto!» – scaturisce come una fenice l’uomo cristificato, l’uomo deificato, il cui intero corpo diviene volto, il volto sguardo e lo sguardo pupilla visionaria, punto di trascendenza, si potrebbe dire.

le belle nozze di Eros e Psiche. Mahmoud Zibawi abbatte questo apollinarismo capovolto e parla con giusto fervore dell’emozione contenuta ma vibrante di una vera icona, del suo espressionismo trasfigurato. Un’altra forza di questo libro consiste nel mettere in prospettiva storica, dunque creatrice, un’arte che è stata troppo spesso identificata con l’una o l’altra delle sue espressioni: classicismo bizantino dell’inizio del secondo millennio o classicismo russo dei secoli xiv e xv… Il pensiero dei teorici dell’immobilizzazione è strano: per l’arte sacra, come per la liturgia, devono ammettere secoli di ricerca e di creazione. Ma una volta raggiunta quella che essi definiscono la perfezione (e con qual diritto?), si dovrebbe solo più ripetere. Contro questi schemi, che ricordano la «chiusura dell’interpretazione» nell’Islam esoterico, Mahmoud Zibawi mostra che l’arte dell’icona fu insieme fedele e creatrice. Mette così in evidenza l’affermazione dell’umano nella sfera bizantina nei tre ultimi secoli del Medioevo (che nell’Impero d’Oriente fu in realtà una successione di «rinascite»). Berdjaev ammirava nel primo Rinascimento italiano, tutto profumato di francescanesimo, il primo fiorire di un’arte della divino-umanità, dove l’umano si dispiegava alla luce del divino. Oggi sappiamo che questo «Rinascimento trasfigurato» è iniziato in Macedonia nel xii secolo per dare poi i suoi frutti più stupendi, dalla prima arte di Mistrà, al parecclesion di Chora, che ho or ora ricordato, agli affreschi visionari dipinti a Novgorod da Teofane il Greco. Occorre ringraziare Mahmoud Zibawi per l’omaggio che rende a Teofane, certamente il maggior pittore dell’Oriente cristiano. Così, appare il dinamismo di un’arte che alcuni vorrebbero ripetitiva, dinamismo di cui è una testimonianza stupefacente l’opera parigina di Grégoire Krug dopo la seconda guerra mondiale, come ben mette in rilievo il nostro autore.

Così si è formata un’arte specifica in cui la memoria (il mandylion) e la visione del volto di Dio nell’uomo permettono l’anticipazione non meno visionaria del volto dell’uomo in Dio. Sciogliendosi dai sofismi Mahmoud Zibawi mostra che la teologia dell’icona nasce dall’antinomia di due prospettive: quella di san Giovanni Damasceno e quella di san Teodoro Studita. Il primo mostra l’energia divina che penetra la materia stessa dell’icona poiché l’incarnazione ha liberato le potenzialità sacramentali della materia. Ma, contro ogni magia o confusione con l’eucarestia, lo Studita sottolinea che la sostanza dell’icona non ha nulla a che vedere con quella del modello; l’icona esprime una somiglianza che permette una relazione – un santo è nella sua interezza relazione, ad immagine delle ipostasi divine – e la grazia può diffondersi all’interno di una comunione. Il Damasceno supera lo spiritualismo, tentazione del cristianesimo quando esso diviene un «platonismo per il popolo»; lo Studita va oltre il sostanzialismo, questa propensione dei teologi quando credono Aristotele necessario agli apostoli. Nell’emigrazione russa in Occidente alcuni teologi dell’icona (o della musica liturgica) preoccupati innanzitutto di prendere le distanze dal Cattolicesimo, pretendono che l’arte sacra non debba comportare alcuna dimensione «psichica». È ben evidente che essi temono la dissoluzione del pneuma nella psyché. Ma rischiano di dimenticare l’assunzione della seconda da parte del primo,

Vorrei infine sottolineare un ultimo aspetto di questo libro: l’importanza che viene finalmente ridata all’icona dei tempi moderni, fino alle soglie del Settecento, in quella che occorre chiamare la «sfera ottomana». Rifiutando non una certa e buona diversità ma i nazionalismi esclusivi, Mahmoud Zibawi mostra l’unità di quest’arte quando uomini e procedimenti circolavano liberamente dalla Romania alla Palestina attraverso quei nodi di comunicazione che furono Cipro e Aleppo, dove fiorì un’importante scuola araba d’iconografia. Con la sua umanità quest’arte prolunga la «Rinascita dei Paleologhi». A Creta e sull’Athos assorbe molti apporti occidentali senza snaturarsi; sviluppa anche una dimensione kenotica fino allora poco esplorata dalla tradizione iconografica. Il Cristo «al colmo dell’umiliazione» nella nicchia della prothesis*, l’Elkomenos che va volontariamente sulla croce, salendo da solo i pioli della scala appoggiata contro di essa, si ricollegano alla mistica notturna che in Occidente tien dietro alle esuberanze barocche e alle scoperte di Galileo che avevano distrutto l’ordine apparente del mondo. Quest’arte non è lontana dalla «notte di fuoco» di Pascal e dalla sua grande affermazione che «Gesù è in agonia fino alla fine del mondo». Come si vede, qui vengono confutati gli eterni lamenti ortodossi sui malefici influssi dell’Occidente: nel Settecento, quando l’arte dell’Oriente cristiano sprofondò, ciò accadde per ragioni interne e perché non era più capace di assumere trasfigurando. Nella nostra epoca, come nota Mahmoud Zibawi, le sdolcinatezze sulpiziane sopravvivono in Oriente proprio mentre le icone si moltiplicano nelle chiese occidentali e la grande arte d’Occidente si muove a tastoni tra la derisione e lo spirituale. Proprio a contatto con gli acidi e le ricerche europee l’emigrazione russa ha potuto elaborare una giusta teologia dell’icona. Ma qui occorre fare attenzione. Mahmoud Zibawi è severo verso gli «iconologi» che vorrebbero oggi trasformare questa teologia in un sistema chiuso, poveramente univoco. Non sono forse stati incapaci di pensare che possano esserci due icone della Pentecoste, una in cui sono rappresentati

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solo gli apostoli, che mette l’accento sull’invio in missione, l’altra in cui si trova la Madre di Dio (dal vi secolo nell’Evangeliario siriano di Rabula) per esprimere, proprio in sintonia con il testo degli Atti, la «pneumatizzazione» dei fedeli nella Chiesa, di cui Maria è l’immagine. I partigiani della prima interpretazione hanno preparato catene e roghi per quanti, come Grégoire Krug, accettavano anche la seconda. Puerilità dotte, che però s’iscrivono troppo spesso in produzioni corrette ma povere, nelle quali trionfa il neo-apollinarismo che più sopra ho ricordato. È vero che da Damasco a Parigi, Maldon, Maastricht, Bucarest, San Pietroburgo, sono in corso altre ricerche nelle quali la fedeltà non teme, anzi esige l’apertura all’emozione dello Spirito, un’emozione non solo affettiva ma di tutto l’essere… L’arte di Mahmoud Zibawi si dispone ai margini di questo libro. Volti in attesa, densità eppure trasparenza della materia. Arte e libro insieme non costituiscono solo uno studio ma un appello alla «santa fiamma di Dio sul mosaico d’oro di un muro», per citare Yeats, un richiamo agli esseri di fiamma così rappresentati, a quelli di ieri ma anche a quelli di domani, testimoni di parusia che fanno cantare la nostra anima, bruciano il nostro cuore e ci radunano nell’opera dell’eternità1. Olivier Clément

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Vano della chiesa dove si custodiscono e preparano le specie eucaristiche. (ndt) W.B. Yeats, Sailing to Byzantium.

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Introduzione «Per coloro che sono dediti alla contemplazione, le cose visibili vengono approfondite attraverso quelle invisibili, poiché contemplare simbolicamente le cose intellegibili attraverso le cose sensibili non è altro che comprendere il pensiero spirituale delle cose visibili attraverso quelle invisibili». Massimo il Confessore, Mystagogia, 2

L’immagine occupa un posto primordiale nella Chiesa d’Oriente. L’icona, che costituisce parte integrante della celebrazione come strumento e mezzo di preghiera, resta un elemento organico, inseparabile dalla Chiesa. Gli affreschi e i mosaici creano uno spazio di luce e di volti. Le icone acquisiscono un ruolo liturgico fondamentale: i sacerdoti le incensano ed i fedeli rendono loro grazie, abbracciandole ed accendendo ceri davanti ad esse. Per Giovanni Damasceno l’immagine è «la Bibbia degli analfabeti»: «l’icona è per gli analfabeti ciò che la Bibbia è per le persone istruite; ciò che la parola è per l’orecchio, l’icona è per la vista»1. Al di là tuttavia di questa importanza didattica, la Chiesa d’Oriente attribuisce all’immagine la dimensione del sacro e del divino. Il culto delle immagini incarna il «Trionfo dell’ortodossia»: Nicea ii commemora Nicea i e la vittoria sull’eresia iconoclasta è una vittoria sulle eresie cristologiche precedenti. L’immagine non è illustrazione ma teosofia speculativa. Una visione teologica abbraccia la prospettiva estetica; l’icona è una «teoptia», una visione fondata sulla conoscenza divina, è «una somiglianza e un paradigma». «Visione dell’invisibile», essa fa vedere la natura ontologica del reale più che reale, del finito aperto sull’infinito, del visibile dell’invisibile. In questa prospettiva l’icona è espressione della Buona Novella, come i Vangeli scritti. La lettera e l’immagine sono le due espressioni della parola delle Scritture: «La lettera è un’icona della parola»2, sottolinea san Giovanni Damasceno. L’artista ispirato è chiamato a esprimere la santità e la divinità «a parole e con la pittura, nei libri e sulla tavoletta di legno»3. La dipendenza ecclesiale dell’arte è totale. Personale ma non individuale, l’arte si sottomette a canoni elaborati e ragionati, rigorosamente definiti e prescritti nei manuali e nelle guide. L’iconografo è un agiogafo, la sua arte è quella della Chiesa. «Dal pittore dipende solo l’aspetto tecnico dell’opera – afferma il vii Concilio ecumenico – ma tutto il suo piano, la disposizione e la composizione appartengono e dipendono in modo molto evidente dai santi padri». In Occidente l’immagine ecclesiale non obbedisce a questa dogmatica, la sua funzione si limita alla didattica. Condannando gli atti del vii Concilio i Libri Carolini rifiutano categoricamente la dimensione cristologica e la portata pneumatoforica dell’immagine. Questa, vi si afferma, non può avere la santità della Scrittura: «L’uomo può salvarsi senza vedere delle immagini; non lo può senza conoscere Dio. Non si può porre l’icona nello stesso rango della croce, dei vasi sacri o della Sacra Scrittura». Secondo i Libri Carolini la Chiesa, sentendosi estranea tanto alle argomentazioni degli iconoduli quanto a quelle degli iconoclasti, non attribuisce all’immagine che un ruolo secondario. L’immagi11

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ne creata non porta l’increata, la materia non può partecipare di ciò che è imperituro, il concetto di una natura relazionale è come sconosciuto. Il primato teologico della Scrittura sull’immagine è assoluto. La pittura non rientra nella teologia: «Le immagini sono prodotto della fantasia degli artisti». Sprovvista di ogni valore dogmatico, l’arte non tocca il fondamento della fede. Per l’Oriente, al contrario, la manifestazione della santità di una presenza viene come svelata nell’icona e tramite essa. Per l’Occidente l’arte «illustra» l’agiografia senza rivelarla. Il Concilio di Francoforte, convocato da Carlo Magno nel 794, condanna contemporaneamente il Concilio iconoclasta del 754 e il vii Concilio ecumenico: «Le immagini servono solo ad ornare le chiese e a commemorare azioni trascorse». Il Concilio iconodulo viene qualificato «ridicolo». Mentre la Chiesa d’Oriente fa dell’immagine un segno dell’increato e della partecipazione al divino, la Chiesa d’Occidente sembra ignorare la posta costituita dal culto delle sante immagini. Opponendosi fermamente all’iconoclasmo riconosce l’utilità pedagogica delle immagini ma contesta il loro valore misterico. L’immagine è una rappresentazione, non una presentazione: essa commemora l’atto divino ma non lo rende partecipabile. Condannando l’iconoclasmo del protestantesimo il Concilio di Trento riprenderà le formule di Nicea ii. Tuttavia, a differenza del vii Concilio ecumenico, Trento sottolinea vigorosamente la funzione educatrice dell’arte e insieme afferma esplicitamente che nessuna «virtù» abita l’immagine, che resta priva di qualsiasi rapporto d’appartenenza con il suo prototipo.

Unicità e diversità Immagine della Chiesa, l’immagine ortodossa resta «una»: intuitivamente abbozzata nei primi secoli, essa è sviluppata con scrupolo dopo la lunga prova dell’iconoclasmo. Rompendo con l’arte romana antica delle catacombe essa si radica in un vecchio fondo greco-siriano battezzato dalla luce del Vangelo. Oriente o Roma? così Strzygowski intitola nel 1900 il suo libro consacrato all’arte di Bisanzio. L’arte della Chiesa d’Oriente fiorisce in una regione euroasiatica, zona intermediaria, che partecipa dell’Oriente e dell’Occidente. La sua irradiazione si estende in Russia, questo «immenso Oriente-Occidente, incontro e mutua reazione di elementi orientali e occidentali» (N. Berdjaev)4. L’Oriente, certo, trionfa ma in esso la grecità antica resta perpetuamente viva. L’enumerazione delle influenze, proprio per la loro grande molteplicità, ha una rilevanza limitata. Il segno greco, la stilizzazione ellenistica e l’apporto orientale non possono definire l’entità di quest’arte che, eclettica ed omogenea, resta eminentemente cristiana. Una lettura estetica sprovvista di ogni approccio religioso non può gettare che una luce parziale su di essa. L’immagine si consacra al divino. Partendo dal religioso essa indirizza verso il sacro. Le diverse correnti stilistiche si stemperano; una nuova espressione pittorica interpreta e rimescola i suoi diversi imprestiti: la religione la trasfigura, la sviluppa e la fonda. Teologica e liturgica l’immagine magnifica Dio, il suo regno e la sua creazione: «Da lui, per lui e in lui sono tutte le cose» (Rm 11,36). Il parto di quest’immagine è accompagnato da lunghe speculazioni. Lo sguardo s’impernia sull’invisibile. «Come fare l’icona dell’invisibile – scrive san Giovanni Damasceno – disegnare ciò che non ha quantità, né misura, né limite, né forma? Come dipingere l’incorporeo? Come raffigurare ciò che non ha figura, ciò che ci viene ricordato misticamente»? Cristica e cristocentrica, la raffigurazione riflette «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). «Quando l’invisibile diviene visibile nella carne, dipingi la somiglianza dell’invisibile. Quando ciò che non ha quantità, né misura, né dimensione per l’eminenza della sua natura, quando colui che 12

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è nella forma di Dio prende la forma di uno schiavo e con questa riduzione assume la quantità, la misura e i caratteri del corpo, allora dipingi sulla tua tavola e proponi alla contemplazione colui che ha accettato di essere visto»5. Figurativa ma non naturalistica, l’immagine obbedisce a un realismo simbolista proprio della Chiesa Orientale. Il creato è modulato, trasfigurato e intriso della luce increata. Dall’«immagine» l’icona parte alla conquista della «somiglianza». Nella sua traversata l’arte cerca di incarnare il visibile dell’invisibile, «Dio al di là di tutto, attraverso tutto e in tutto». In Occidente l’arte ecclesiale conosce un itinerario diverso. All’unicità dell’arte dei cristiani d’Oriente si oppone la molteplicità degli stili che caratterizzano le diverse fasi dell’arte occidentale. Nel suo primo avvio, malgrado le divisioni politico-religiose che oppongono fatidicamente i Greci e i Latini, l’Occidente subisce la supremazia artistica di Costantinopoli. L’«Italia bizantina» non è sola a testimoniare questa dipendenza: le sono compagne l’arte monastica preromanica e romanica, l’arte ottoniana, le icone realizzate durante le Crociate e la pittura dei maestri del Duecento e del Trecento. Le creazioni di un Bonaventura Berlinghieri non lasciano dubbi sulla tradizione che le ha prodotte e le opere di Cimabue e di Duccio non se ne allontanano. Lo scarto si manifesta con Giotto: il pittore mostra personaggi che hanno un’energia vitale prima sconosciuta, un intensità psicologica anima i volti. Il fondo continua a mostrare la sospensione della terza dimensione, tuttavia il colore e la luce rivelano l’abbandono della «maniera greca». Fa il suo debutto il chiaroscuro e la plastica del colore modellato trova la sua espressione. Giotto cerca di aprire la via alla percezione. Masaccio rivela l’empirismo: gli uomini ritrovano la loro individualità, anche il corpo riappare e si vede una terra reale occupare il paesaggio della scena. Viene rivendicato l’autoritratto, ripudiato dall’umile pittore servitore della fede: il pittore dipinge il proprio volto e lo mette tra quelli degli apostoli del Pagamento del tributo. Masaccio segna la fine del Medioevo ed apre una nuova via, quella del Rinascimento. «Le cose visibili passano»6 dice san Paolo. «Nulla di ciò che è visibile è buono», aggiunge Ignazio d’Antiochia7. L’arte dell’icona dipende dalla Scrittura e le appartiene. La pittura dell’uomo si adatta all’imitazione di Dio. L’esperienza delle visioni ottiche della natura materiale viene scartata: è degno di essere contemplato solo ciò che è sopraterrestre. Masaccio e, dopo di lui, i maestri del Rinascimento aprono e percorrono il cammino inverso: il visibile della natura è l’archetipo dell’artista. «che l’arte vostra quella quanto pote segue, come ’l maestro fa ’l discente sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote»8. L’insegnamento di Dante è come la pietra d’angolo del Rinascimento. La pittura va alla scoperta delle realtà materiali. Le linee verticali e orizzontali si incrociano e convergono verso un unico punto di fuga. Il corpo umano ritrova il suo volume e il suo peso nello spazio a tre dimensioni. L’illuminazione trova e individua la propria fonte, che distribuisce luce ed ombra sui corpi e sui volti. Ogni forma astratta che richiama la differenza tra presentazione e rappresentazione viene rifiutata. Viene messo da parte il concetto trascendente che rifiuta l’imitazione del modello visibile della natura. Leonardo da Vinci contempla la natura e si propone la conoscenza di essa come via verso la verità dell’arte. Abbandonando l’influenza teologica, la creazione artistica si dedica alla celebrazione dell’«umano, troppo umano». L’espressione pittorica della fede perde la sua eternità onnipersonale. Dedita 13

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alla trascrizione del trascendente, l’icona fugge il morbido e trasfigura il macabro. L’arte dell’Occidente si apre invece sulla morte. Le scene della Passione fanno vedere un «Gesù defunto, morto nell’angoscia e nella disperazione, come tutti gli uomini, suoi fratelli, moriranno un giorno»9 (G. Duby). L’equilibrio del teandrismo cristologico è come spezzato. Dalle Crocifissioni di Michelangelo alla pala di Grünewald, passando dal Cristo di Andernach, noi vediamo l’«uomo dei dolori» abbandonato dallo Spirito Santo, immagine di una morte patetica che sembra ignorare la gloria del Terzo giorno: «Lungi dallo spiritualizzare la forma come gli antichi – nota Eugène Delacroix nel suo Diario – il cristianesimo l’ha piuttosto umanizzata. Moltiplicando ed anche esagerando la miseria delle forme e la desolazione dell’espressione, ha creduto di ritrovare il proprio spirito, cioè l’adorazione di un Dio fatto uomo, caricato di tutte le nostre miserie, che muore tra i tormenti. Per i martiri, ha fatto lo stesso»10. Il carattere ieratico e imperturbabile dell’icona non costituisce più il modello ideale. Bisanzio aveva respinto l’eredità greco-romana, Roma la riabilita. Michelangelo rivela «un luogo vago, dove si vedono degli Ercoli mescolarsi a dei Cristi» (Baudelaire)11. Commentando Poussin, Delacroix scrive: «Facendo i suoi Cristi ha pensato piuttosto a Giove, oppure ad Apollo. Anche la Vergine gli è mancata: non ha percepito nulla di questo personaggio pieno di divinità e di mistero»12. La tematica è cristiana ma non il modo di trattarla né lo stile. Dal Rinascimento al Barocco, al Neoclassicismo, i maestri dell’arte lasciano una creazione plastica ammirevole, ma l’essere dell’opera oscilla tra umano, cristiano e pagano. Come la mistica profonda del cristianesimo occidentale, le migliori riuscite dell’arte religiosa celebrano la mistica della notte. Mistica notturna che trova la sua maggior espressione nell’opera di Rembrandt. Dal Barocco il pittore piega verso l’Antibarocco. Dando rilievo allo splendore del chiaroscuro egli modula immagini idilliche nelle quali la luce accarezza e penetra l’uomo. In scene bibliche, ritratti e autoritratti, il tema resta il volto o la luce. Viene radicalmente bandita l’esaltazione barocca dello spazio esterno; il terrore degli «spazi infiniti» si perde in un vuoto ricoperto di tenebre. Il mondo rimane; nulla suggerisce lo spazio taborico celeste. Ma nel cuore di questa notte terrestre «la luce risplende fra le tenebre» (Gv 1,5). Lo sguardo contemplativo scintilla, come uno smeraldo. L’essere secondo l’immagine rivela la somiglianza originaria, oscurata ma sempre presente in lui.

tico, lussuoso ed astratto, il classicismo bizantino canta la trascendenza del divino. Liberato dalle passioni l’umano, impassibile, si adorna della gloria divina. Nel xii secolo si affermano il sensibile e il naturale. L’immanente fa corpo con il trascendente; l’arte è di natura divino-umana. Dopo la caduta dell’Impero l’iconografia conosce due correnti principali. Nello spazio greco-balcanico l’icona continua a celebrare l’«umanesimo» bizantino. Divenuta «Terza Roma», la Russia indirizza l’arte verso la quiete dell’esicasmo. L’astratto segna il passo sul concreto; ogni drammatizzazione viene assorbita. Gli uomini sono «angeli terrestri». Tutto è luce, calma, gioia, pace e amore. «Il mondo nuovo e non composito» rimpiazza il mondo decaduto. L’immagine svela «il tabernacolo di Dio fra gli uomini» (At 21,3): «Assemblea di dei attorno a Dio, creature belle che formano una corona attorno alla Bellezza suprema» (Nicola Cabasilas)14. «A chi dunque paragonerete Dio, dove troverete il suo simile?» chiede il libro d’Isaia (40,18). Per secoli la Chiesa Ortodossa ha cantato una bellezza liturgica e sacramentale. All’interno di questa creazione Dio resta il primo Creatore. Padre e Maestro, è il primo artista: «O uomo – scrive sant’Ireneo di Lione – non sei tu che fai Dio ma è Dio che fa te. Se dunque sei opera di Dio, aspetta la mano del tuo Artefice, che fa tutte le cose al tempo opportuno. Presentagli il tuo cuore morbido e malleabile, conserva la forma che ti ha dato l’Artista, avendo in te l’Acqua che viene da lui per non rifiutare, diventando duro, l’impronta delle sue dita. Conservando questa conformazione, salirai alla perfezione, perché dall’arte di Dio sarà nascosta l’argilla che è in te. La sua mano, che ha creato la tua sostanza, ti rivestirà d’oro puro e d’argento di dentro e di fuori e ti adornerà così bene che il Re stesso si lascerà prendere dalla tua bellezza»15. Al servizio dell’Artista, gli artisti sono «tesaurofilachi», guardiani ispirati del tesoro divino. Affrescatori, iconografi o miniaturisti, essi celebrano la Bellezza di un mondo in Cristo. Al di là dei mutamenti storici e delle opposizioni geografiche, l’immagine moltiplica i suoi volti epifanici. «Bellezza divina», «canale di grazia», «finestra sull’eternità», l’icona lascia una luce: immagine di una terra interiore, di un Regno da aver sempre nel cuore.

Note Giovanni Damasceno, Discorsi in difesa delle icone, Discorso i, 17. Giovanni Damasceno, Défense des Icônes, in La Foi Orthodoxe suivie de…, tr. fr. Cahiers Saint-Irénée, Parigi 1966, p. 222. ³ Ibidem, p. 223. 4 Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostojevskij, tr. it. Einaudi, Torino 1974, p. 181. 5 Giovanni Damasceno, Défense des Icônes, in La Foi Orthodoxe suivie de…, cit., p. 223. 6 2 Cor 4,18. 7 Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani iii, 3, Sources Chrétiennes n. 10, Cerf, Parigi, p. 111. 8 Dante, La Divina Commedia, Inferno, canto xi, 103-105. 9 G. Duby, L’Europe au Moyen-Age: Art Roman, Art Gothique, Gallimard, Losanna 1979, p. 244. 10 E. Delacroix, Journal, 29 marzo 1860, Plon, Parigi 1950. 11 C. Baudelaire, «Les Phares», in Les Fleurs du Mal. 12 E. Delacroix, Journal, cit., 6 giugno 1851. 13 Citato da Nikolaj Berdjaev in Esprit et Liberté, tr. fr. Desclée de Brouwer, Parigi 1984, p. 67. 14 Nicola Cabasilas, Vie en Jésus-Christ, Chevetogne 19602, p. 157. 15 Ireneo di Lione, Trattato contro le eresie, iv, 39, 2, Jaca Book, Milano 1981, p. 401. 1

Il digiuno degli occhi Nell’alternarsi delle sue stagioni l’arte dell’Oriente cristiano afferma la sua vocazione originaria. Viene rifiutata la prospettiva empirica; il mondo delle apparenze non è il «vero» mondo. Per riprendere una formula di Vladimir Solov’ëv, «tutto ciò che noi vediamo non è che il riflesso, l’ombra di ciò che è invisibile ai nostri occhi»13. L’immagine è chiamata a penetrare l’invisibile. Attraverso le vie dell’ascesi e della preghiera il pittore è penetrato dal «digiuno degli occhi». La vista, santificata, diviene visione. La tradizione iconica è cristallizzata in tipologie definite ma elaborate in modo diverso nelle numerose scuole iconografiche. La libertà e la creatività obbediscono a criteri monastici. Pur conservando l’unicità della sua Tradizione, l’icona conosce innovazioni continue: qui consistono il suo enigma, la sua forza e la sua inesauribile ricchezza. Nell’età dei Macedoni l’arte, alleata alla Chiesa, elabora il proprio stile accademico. Al tempo dei Comneni delinea un «umanesimo» misurato, che trova il suo stupefacente compimento nell’età dei Paleologhi. Visibile e invisibile s’intrecciano e si penetrano reciprocamente. Lo spazio è rivestito d’oro, il colore della luce increata del Tabor. Iera14

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Parte Prima

Il senso dell’icona

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Capitolo primo

I fondamenti dogmatici

L’iconoclasmo Nell’viii secolo l’esistenza della Chiesa è dominata dal movimento iconoclasta. L’immagine religiosa sembra essere al centro della vita dell’Impero bizantino, dove suscita una disputa ed una controversia teologica che si prolungano per più di un secolo. Al termine di una lunga prova del fuoco l’icona occuperà il posto d’onore al centro della confessione di fede della Chiesa. Dalla sua restaurazione nell’843, il culto delle immagini incarna il Trionfo dell’Ortodossia. L’iconoclasmo conobbe due periodi determinanti. Il primo inizia nel 726, quando il movimento, scatenato dall’imperatore Leone iii, si scontra con una resistenza appassionata. Questo periodo, violento e sanguinoso, si conclude nel 787: sotto il regno di Irene l’Ateniese il vii Concilio ecumenico restaura l’ortodossia e ristabilisce il culto delle immagini. Riuniti a Nicea, 357 vescovi definirono l’insegnamento della Chiesa riguardo alle icone. L’arte religiosa acquisì la sua definizione dogmatica: «Noi decretiamo in tutta esattezza e coscienza che, accanto alla riproduzione della preziosa Croce vivificante, occorre far posto alle icone dipinte o a mosaico o ancora fatte di altro materiale, che ornano le sante chiese di Dio, gli oggetti del culto e i paramenti sacri, i muri e le tavole in legno, le case e le strade. Tanto all’icona di Nostro Signore, Dio e Salvatore Gesù Cristo che a quelle della Nostra Signora Immacolata, la Santa Madre di Dio, degli angeli venerabili e di tutti gli uomini santi. Poiché, nella misura in cui essi sono continuamente rappresentati e contemplati in immagine, coloro che li contemplano si innalzano verso la memoria e il desiderio del loro prototipo. Quanto al bacio che essi depongono sull’icona, secondo la nostra fede questo ha il significato di un gesto di venerazione e non di culto nel senso stretto del termine, poiché il culto deve essere indirizzato solo alla natura divina. La venerazione di cui parliamo è simile a quella che si rende alla Croce vera e vivificante, ai Santi Vangeli e agli altri oggetti sacri. A tutto questo si deve offrire incenso e ceri accesi, e così onorarlo secondo l’antica e pia consuetudine» (Mansi, xiii, 377). Il secondo periodo della controversia sulle immagini si estende dall’813 all’842. Dopo la morte dell’imperatore iconoclasta Teofilo, Teodora restaura il culto delle immagini nell’843. L’epigramma del patriarca Metodio sull’immagine del Cristo ricostituita dall’imperatrice commemora questa riabilitazione: «Il patriarca Metodio all’immagine della Chalke*. Vedendo la tua immagine immacolata o Cristo, e la tua croce tracciata in rilievo, mi prosterno e venero la tua vera carne. Essendo il Ver19

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bo del Padre, la tua natura è fuori del tempo ma tu sei stato visto nel tempo, mortale per parte di madre. E descrivendo la tua carne che ha sofferto, o Verbo, io dichiaro la tua natura divina indescrivibile. Ma i discepoli dei dogmi di Mani, con le loro chiacchere stupide e pretenziose, qualificano come apparenza irreale la tua incarnazione, con la quale ti sei unito al genere umano, e non potendo sopportare di vederti rappresentato, in un impeto di collera e d’insolenza ferina, hanno tolto la tua venerabile immagine, che dai tempi antichi era qui tracciata. Ma la regina Teodora, guardiana della fede, con i suoi discendenti vestiti di porpora, rifiutando i loro errori illeciti e imitando i re pii, mostrandosi più pia di tutti, l’ha piamente restaurata su queste porte del palazzo, per sua gloria, elogio e reputazione, per il bene di tutta la Chiesa, per la felicità del genere umano e per la perdita dei nostri cattivi nemici e dei barbari»1.

L’immagine nel Vecchio Testamento Il divieto veterotestamentario della raffigurazione e il vecchio costume del culto degli idoli costituiscono i due principali argomenti dell’iconoclasmo. La concezione teologica iconodula attinge alle Scritture per affrontare e superare queste due grandi sfide. Nel Decalogo dell’Esodo Dio dice: «Non ti fare nessuna scultura, né immagine delle cose che splendono su nel cielo, o sono sulla terra, o nelle acque sotto la terra» (Es 20,4). Nel Deuteronomio le esortazioni di Mosè rinnovano ed accentuano questa interdizione: «Ma quel giorno in cui il Signore vi parlò sull’Oreb, di mezzo al fuoco, voi non vedeste nessuna immagine. Fate dunque ben attenzione per le vostre vite, affinché voi non vi lasciate andare a scolpirvi nessun idolo di nessuna forma: né figura di uomo o di donna; né figura d’animale che vive sulla terra, né figura d’uccello che vola nei cieli; né figura di bestia che striscia sul suolo, né figura di pesce che vive nell’acqua sotto la terra» (Dt 4,15-18). Nell’assenza totale di raffigurazioni fa eccezione solo l’immagine di due angeli. Dio ordina a Mosè di fissare due cherubini d’oro alle due estremità del propiziatorio: modello figurativo unico che si ritrova nel tempio di Salomone, dove, nella sistemazione del Santo dei Santi (Debir), due cherubini in legno d’ulivo selvatico rivestito d’oro hanno il loro posto al centro della camera interna: «Essi avranno le ali aperte verso l’alto in atto di coprire il propiziatorio; staranno di fronte, con la faccia rivolta verso il propiziatorio. Porrai il propiziatorio sopra l’Arca, e nell’Arca collocherai la Testimonianza che ti darò. Lì io mi incontrerò con te, e dal propiziatorio, tra i due cherubini che stanno sull’Arca della Testimonianza, io ti darò tutti quegli ordini che tu dovrai comunicare ai figli d’Israele» (Es 25,20-22). I due angeli delimitano uno spazio vuoto: espressione apofatica di una presenza ancora invisibile. Questa presenza è quella del volto di Dio. «Mostrami il tuo volto» ripetono i testimoni della Bibbia. Sul Sinai, Mosè non vede Dio che di spalle: trasfigurato, vela il suo volto illuminato dal riflesso insostenibile della «gloria di Dio». La nube e la colonna di fuoco sono i testimoni dell’Onnipotente, i suoi segni e le sue prefigurazioni: «Fammi vedere la tua gloria!» (Es 33,18). I grandi profeti annunciano la manifestazione della gloria divina nell’avvenimento messianico. Isaia profetizza il Signore che sarà «la luce delle nazioni»: «Il Signore stesso vi darà dunque un segno: Ecco, la Vergine che concepisce e dà alla luce un figlio e gli porrà nome Emmanuele» (Is 7,14). Ezechiele vede «una figura in sembianze d’uomo» (Ez 1,26), «come una visione di fuoco, con uno splendore tutto attorno… come l’apparenza dell’immagine della gloria del Signore» (Ez 1,27-28). Nelle «visioni durante la notte» Daniele contempla il Figlio dell’Uomo «il quale s’avanzò fino all’Anziano e fu condotto davanti a lui, 20

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che gli conferì potere, maestà e regno, sì che tutti i popoli, le nazioni e le genti di ogni lingua lo servivano. Il suo potere è un potere eterno che non passerà, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Dn 7,13-14).

La venuta del Messia Cristo sigilla una nuova alleanza. «Egli era in principio presso Dio» (Gv 1,2). Il Verbo siede al centro della sinassi dei santi Arcangeli. Alcuni angeli si aggiungono all’assemblea. L’insieme si iscrive in una nube, simbolo del mondo delle altezze e delle dimore celesti. L’incarnazione rivela la venuta del Messia. «Il Verbo si fece carne e abitò fra noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria che come Unigenito egli ha dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Dio vero da Dio vero, consustanziale al Padre, Cristo porta il volto dell’Invisibile. L’icona del Cristo Pantocratore riflette il volto dell’Onnipotente. Lo sguardo di fuoco, il collo potente, i capelli lunghi ad imitazione dei Nazareni consacrati a Dio: il volto ben costruito del Salvatore si impone.

1. Acheropita, 77 x 71 cm, xii secolo. Galleria Tretjakov, Mosca.

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Nel nimbo che sempre circonda il suo capo si iscrive una croce i cui tre bracci superiori portano le lettere «ΟΩΝ», «Colui che è». La parola di Dio nell’Esodo (Es 3,14) definisce il Salvatore: l’icona rappresenta l’ipostasi, le due nature unite misteriosamente in una sola persona. La Natività del Cristo segna la nascita dell’icona. Il Verbo s’è fatto carne, Dio si fa uomo. Parola del Padre, il Figlio è anche la sua immagine consustanziale. L’icona originaria è quella del volto stesso di Cristo. Per la tradizione ortodossa la prima icona è l’icona «acheropita»: non fatta da mano d’uomo. Volto definitivo, essa è l’icona delle icone: «l’icona fatta da Dio» (Evagrio)2. Conservata al Museo di Santa Caterina del Sinai, l’icona detta Re Abgar e il mandylion del Cristo è la rappresentazione più antica di questo velo sacro: divisa in quattro rettangoli, riferisce la «leggenda» del mandylion. «Si narra questa storia: Abgar, re della città di Edessa, aveva inviato un pittore a fare il ritratto del Signore ma questi non vi riusciva poiché il suo volto brillava di uno splendore insostenibile; il Signore coprì con un mantello il suo divino volto e questo fu riprodotto sul tessuto che il pittore inviò ad Abgar che lo richiedeva» (Giovanni Damasceno)3. Il primo rettangolo dell’icona ci mostra san Taddeo (Giuda) seduto. Nel secondo il re Abgar espone alla venerazione il velo con l’«impressione» che Taddeo gli aveva portato. Negli altri due rettangoli si contrappongono quattro santi: Paolo di Tebe, Antonio il Grande, Basilio il Grande e sant’Efrem, diacono di Edessa, luogo del «ritrovamento del mandylion». Riportato ad Edessa, il velo miracoloso sarebbe stato trasportato a Costantinopoli nel 944. Perduta dopo il saccheggio della città da parte dei crociati nel 1204, quest’icona è sempre commemorata il 16 di agosto: è la festa del Volto Santo, chiamata nel servizio liturgico «Trasferimento da Edessa alla città di Costantino dell’immagine di Nostro Signore Gesù Cristo, non fatta da mano d’uomo, immagine che viene chiamata Sacro Velo». «Avendovi rappresentato il tuo purissimo volto tu l’inviasti al fedele Abgar che aveva desiderato di vedere te che, secondo la tua divinità, sei invisibile ai cherubini»4. Chiamato per assimilazione Volto Santo o Icona acheropita, questo modello iconografico commemora la misteriosa bellezza del volto di Cristo. Il volto del Salvatore è iscritto in una superficie chiara e monocroma. Il collo è eliminato, il volto del Salvatore circondato dall’aureola occupa da solo lo spazio vuoto dell’icona. A volte l’iconografo aggiunge il motivo dei due angeli che, ai due lati del volto, sostengono la stoffa bianca del mandylion. Solo l’icona di Cristo può sovrastare l’altare. Icona delle icone, il Figlio resta la «pietra angolare e preziosa» della «bellezza divina» celebrata dal Kontakion della Domenica dell’Ortodossia: «Il Verbo indescrivibile del Padre si è fatto descrivibile incarnandosi di te, Madre di Dio. Avendo ristabilito nella sua dignità originale l’immagine insudiciata, l’unisce alla bellezza divina». Il divieto di raffigurazione dell’Antica Alleanza trova eco nel divieto di rappresentare il Padre. «Nessuno ha mai visto Dio» (Gv 1,18). «Chi ha visto me ha visto il Padre», replica Gesù al momento del congedo (Gv 14,9). La Nuova Alleanza vede la riconciliazione tra il Padre e i suoi figli. Dio si riconosce nella sua creatura e tramite il Figlio incarnato si fa volto. Nel volto del Cristo l’uomo è chiamato a riconoscere il proprio volto trasfigurato. L’icona cristallizza questo riconoscimento: immagine del Cristo, riflette l’immagine dell’umanità deificata che, contemplandosi in essa, «riflette come in uno specchio la gloria del Signore» (2 Cor 3,18).

2. Pantocratore, xi secolo. Santa Sofia, Kiev. 3. Il re Abgar e il mandylion di Cristo, particolare, 34 x 25 cm. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

I Padri e l’immagine Un latente iconoclasmo preannuncia la disputa delle immagini dell’viii secolo. Nel iii secolo Origene oppone alle immagini statiche e morte le immagini vive di Dio: i cristiani la cui anima è 22

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adornata della bellezza divina. Eusebio di Cesarea rifiuta ogni raffigurazione del Cristo: la forma di schiavo di Gesù «è stata mescolata e ciò che è mortale è stato inghiottito dalla vita». «Chi dunque potrebbe fissare con colori morti e inanimati e con il pennello lo splendore brillante e raggiante di tanta gloria, quando gli stessi discepoli non potevano sopportare di guardare colui che si mostrava e caddero con il volto a terra, dicendo che tale visione non era sostenibile… Come qualcuno potrebbe dipingere l’immagine della forma tanto meravigliosa e incomprensibile, se pur si può ancora chiamar “forma” l’essenza divina e intellegibile?»5. Sant’Atanasio d’Alessandria, san Cirillo d’Alessandria, san Giovanni Crisostomo e san Gregorio il Teologo sono gli eloquenti difensori dell’immagine. San Gregorio Nisseno saluta il ruolo dell’immagine nella vita cristiana: «il muto disegno sa parlare dai muri sui quali campeggia e rende grandissimi servizi»6. Nel suo Sermone su san Barlaam Basilio invoca i pittori: «Venite in mio aiuto pittori famosi dalle imprese eroiche… Mostrateci una brillante immagine del lottatore, mostrateci i demoni urlanti perché oggi, grazie a voi, essi sono abbattuti dalle vittorie dei martiri… E rappresentate anche sul vostro quadro colui che presiede al combattimento e dona la vittoria: il Cristo»7. Nel suo famoso Trattato sullo Spirito Santo il santo vescovo di Cesarea enunciò sottilmente la teologia dell’icona: «Come non c’è che una sola autorità su di noi e il potere ne è unico, così l’onore che le rendiamo è unico e non molteplice, poiché l’onore reso all’immagine passa al prototipo.

Ciò che l’immagine là è per imitazione, qui il Figlio è per natura. E come nell’arte la somiglianza si consolida nella forma, così il principio d’unità della natura divina, che è semplice, risiede nella comunità della divinità»8. La controversia iconoclasta è la prova salutare. Vittoriosa, l’immagine è ripensata, purificata, in qualche modo «battezzata». San Giovanni Damasceno e san Teodoro Studita, ardenti difensori delle icone durante il periodo iconoclasta, elaborano le concezioni teologiche dell’immagine.

Giovanni Damasceno Arabo cristiano, Giovanni Damasceno è il maggior teologo del vii secolo. Nel cuore della Siria e sotto il regno della dinastia degli Omayyadi si oppone al furore iconoclasta che scuote il mondo bizantino: l’immagine trova il suo testimone oltre le frontiere dell’Impero cristiano, nella persona di un dignitario del Califfo. L’icona intitolata La Vergine dalle tre mani onora la memoria di questo santo. Secondo l’agiografia, l’imperatore Leone iii avrebbe fatto arrivare al califfo una lettera falsificata nella quale Giovanni Damasceno incitava l’imperatore a conquistare la Siria. Per ordine del califfo al santo fu tagliata la mano destra. Il suppliziato corse allora a pregare davanti all’icona della Vergine col bambino. Grazie

5. Vergine Conduttrice dalle tre mani, 58 x 48 cm, Russia, xix secolo. Coll. priv., Italia.

4. San Giovanni di Damasco, opera di Elias Zayat, 1988. Coll. priv., Libano.

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all’intercessione della Madre di Dio la sua mano gli fu miracolosamente riattaccata. In segno di riconoscenza, Giovanni fece aggiungere una mano votiva nella parte inferiore dell’icona. Quest’icona sarebbe il prototipo di quelle dette La Vergine dalle tre mani. Fondata su un ricordo storico, la terza mano riceve un’interpretazione allegorica: mano soccorritrice della Madre di Dio, che sempre aiuta ogni fedele, come si è miracolosamente manifestata a Giovanni Damasceno. San Giovanni Damasceno ha lasciato tre trattati consacrati all’icona. Con la sua incarnazione, Cristo santifica il visibile. La prima alleanza è passata, il divieto scritturale di rappresentare il Dio vivo è superato. «Se noi facessimo l’icona del Dio invisibile saremmo nell’errore poiché è impossibile, dato che è senza corpo, senza figura, invisibile e infinito. Se, d’altra parte, ritenessimo queste icone degli dei e rendessimo loro un culto, saremmo degli empi. Ma noi non abbiamo fatto nulla di questo genere e per noi non c’è nessuna caduta nel fare l’immagine del Dio che si è incarnato, si è mostrato nella carne sulla terra, nella sua ineffabile bontà si è mescolato agli uomini e della carne ha assunto la natura, la densità, la forma ed i colori»9. Il visibile riflette l’invisibile. Irradiando lo splendore divino, ciò che è descrivibile riflette ciò che non lo è: «La natura divina non è divenuta quella della carne ma come il Verbo è divenuto carne senza cambiamento, restando ciò che era prima, così la carne è divenuta Verbo, senza lasciare ciò che era, si è piuttosto identificata al Verbo per ipostasi. Per questo traccio con fiducia l’icona del Dio invisibile, divenuto per noi partecipe della carne e del sangue; non l’icona della divinità invisibile ma quella della carne di Dio, che noi abbiamo visto. Se non si può ancora fare un’immagine dell’anima, quanto meno di ciò che ha dato l’immateriale!»10. Rifiutando l’immagine, l’iconoclasmo pretende di porsi come una reazione al ritorno pagano all’adorazione delle immagini: le icone, i ceri, l’incenso, il culto delle reliquie e a volte il culto dei santi sono qualificati di idolatria. L’iconoclasmo attinge dalle Scritture e si riferisce al discorso di Paolo all’Areopago: «Dunque, essendo noi progenie di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia somigliante a oro o argento o pietra, scolpiti dall’arte o dall’immaginazione dell’uomo» (At 17,29). Sottolineando il ruolo dei testi della Scrittura, Giovanni Damasceno valorizza il ruolo dei sensi dell’uomo nella vita spirituale. «Beati i vostri occhi che vedono e le vostre orecchie che odono». Santificati, l’udito e la vista conducono verso la gloria della divinità: «Gli apostoli hanno visto corporalmente il Cristo, le sue sofferenze e i suoi miracoli ed hanno udito le sue parole; anche noi desideriamo vedere ed udire per essere beati. Essi l’hanno visto faccia a faccia, poiché era presente corporalmente; anche noi, poiché non è presente corporalmente, ascoltiamo le sue parole attraverso i libri, ne siamo santificati e beneficiati, e l’adoriamo venerando i libri che ci hanno fatto udire le sue parole. Lo stesso accade per l’icona dipinta; noi contempliamo i suoi tratti e, per quanto lui è in noi, cogliamo in spirito la gloria della sua divinità. Siamo doppi, fatti d’anima e di corpo e la nostra anima non è nuda ma come avvolta da un mantello; ci è impossibile giungere allo spirituale senza il corporeo. Udendo parole sensibili ascoltiamo con le nostre orecchie corporee e cogliamo le cose spirituali; allo stesso modo, tramite la contemplazione corporea, giungiamo alla contemplazione spirituale»11. L’iconoclasmo rifiuta la santità dell’icona: di natura materiale, il legno inanimato e i colori morti non possono essere qualificati come spirituali. Per Giovanni Damasceno l’incarnazione segna la salvezza della materia. Se il corpo è «tempio dello Spirito», l’icona, con il suo legno e i suoi colori, è «pneumatofora», portatrice dello Spirito. La sua materia è ripiena della grazia divina. Ricettacolo dell’energia divina, il creato porta l’impronta dell’increato. Dio è adorato, la materia onorata e venerata. «Non è la materia che io adoro, ma colui che ha creato la materia e si è fatto materia per causa mia, che ha scelto la sua dimora nella materia e tramite la materia

Giovanni Damasceno, condannato ed anatemizzato dal sinodo iconoclasta del 754, è gloriosamente riabilitato dal vii Concilio ecumenico. Respinto nelle sue basi, l’iconoclasmo conosce ugualmente una nuova diffusione: sotto il regno di Leone v l’Armeno la controversia delle immagini entra nella sua seconda fase. Fervente iconodulo, san Teodoro Studita elabora una concezione magistrale della teologia iconica. Riprendendo l’argomentazione degli iconoclasti, i suoi trattati definiscono l’importanza dell’icona ed affermano il suo fondamento cristologico e la sua fedeltà alla Tradizione. Un Concilio iconoclasta convocato nell’815 dall’imperatore Leone v respinge il vii Concilio ecumenico e vieta il culto delle immagini. Teodoro Studita si oppone a questi nuovi decreti e invita monaci e fedeli alla resistenza. La domenica delle Palme organizza una processione in cui mille monaci sfilano nelle vie con mille icone. Arrestato e deportato in Asia Minore, lo Studita rimane un gran testimone dell’immagine. Il mistero dell’incarnazione è fondamento dell’icona. Nato da Maria, il Cristo è pienamente descrivibile. La sua rappresentazione figurativa è la manifestazione della sua incarnazione: «In quanto nasce da un Padre che non si può descrivere, il Cristo non può avere immagine… Ma in quanto è nato da una madre che può esser descritta egli ha naturalmente un’immagine, che corrisponde a quella di sua madre. Se non potesse venir rappresentato nell’arte, ciò vorrebbe dire che è nato solamente dal Padre e non si è incarnato. Ma questo sarebbe contrario a tutta l’economia divina della nostra salvezza»13. Pneumatologica e ierurgica, l’icona è un veicolo della grazia divina, pur non appartenendo all’ordine sacramentale. Nella coscienza della Chiesa il pane eucaristico è il corpo di Cristo, l’icona l’immagine della sua ipostasi: il legame che unisce l’immagine all’ipostasi resta non consustanziale. L’immagine santifica permettendo una partecipazione relazionale all’ipostasi del modello: «Il prototipo non è l’immagine secondo l’essenza, altrimenti l’immagine sarebbe chiamata anch’essa prototipo e, inversamente, il prototipo immagine. Ma questo non è conveniente, poiché ogni natura (quella del modello e quella dell’icona) ha la propria definizione; il prototipo è dunque l’immagine secondo la somiglianza dell’ipostasi»14. «Nell’icona non è in alcun modo presente la natura della carne rappresentata ma solo la relazione. Altrettanto non lo è la divinità incircoscritta; in effetti questa non è presente nell’icona… più di quanto lo sia nell’ombra della carne unita ad essa. Perché in questo senso la divinità sarebbe assente, che si tratti di esseri ragionevoli o di esseri senza ragione. Ma essa è più o meno presente, secondo l’analogia delle nature che la ricevono. Non è dunque falso se qualcuno dice che anche nell’icona la divinità è presente in questa materia. Ciò vale anche per la figura della croce e gli altri oggetti sacri; tuttavia non al modo di un’unione naturale (non è così neppure per

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ha compiuto la mia salvezza… A nessuno sfugge che la carne è materia ed è creata. Io onoro questa materia tramite la quale è nata la mia salvezza, le rendo culto, l’adoro. In effetti non l’onoro come Dio, ma come ripiena dell’energia della grazia di Dio. Vi domando: non è fatto di materia il legno della croce, portatore di tante grazie e di tanta vita?… E soprattutto, non è fatto di materia il corpo e il sangue del mio Signore? O tu rinunci al culto e all’adorazione in tutte queste realtà oppure, secondo la Tradizione della Chiesa, accetti che siano venerate le immagini di Dio e quelle dei suoi amici, consacrate nel suo nome, che lo Spirito di Dio ha ricoperto con l’ombra della sua gloria»12.

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la carne divinizzata) ma per mezzo di una partecipazione relazionale, poiché tutte le cose partecipano [della divinità] per grazia ed onore»15.

La presenza della Vergine e dei Santi Il muro di divisione è distrutto (cfr. Ef 2,14). La filiazione divina conferisce l’adozione filiale. Il Verbo è «la porta» del Padre: il santo è «conforme all’immagine del Figlio» (Rm 8,29). L’iconografo è invitato a rappresentare l’uomo-in-Cristo. Il divieto dell’Antico Testamento viene tolto dal Cristo, tramite Lui, il suo corpo e le membra del suo corpo: sua madre e i suoi santi amici. Glorificando le icone degli «amici di Dio» Giovanni Damasceno sottolinea la deificazione integrale della natura umana. «D’altra parte, nell’Antico Testamento Israele non ha mai eretto un tempio in onore di un uomo né ha avuto feste consacrate alla sua memoria. Infatti la natura umana era ancora sotto la maledizione e la morte era una condanna; per questo si piangeva e chi toccava un morto era ritenuto impuro. Ma oggi la divinità si è mescolata, senza confondersi, con la nostra natura, come un medicamento di salvezza e di vita, e la nostra natura è veramente glorificata e trasformata per l’immortalità»16. «Non adoro l’icona come Dio ma attraverso l’icona e i santi offro a Dio adorazione e venerazione e, a causa sua, pietà e onore anche ai suoi amici… figli di Dio, figli del Regno, eredi di Dio e coeredi di Cristo»17.

Nella persona di san Luca, l’icona trova la sua origine apostolica: all’icona acheropita si aggiungono le prime icone della Vergine dipinte da san Luca. Nulla è rimasto delle sue opere ma le icone dette di san Luca sarebbero delle immagini dei loro antichi prototipi scomparsi. Diversi testi liturgici evocano il ricordo di quelle icone. Quando la Vergine era ancora viva, san Luca le avrebbe consacrato un’icona che ricevette grazie e benedizione dal suo modello: «Quando per la prima volta la tua icona fu dipinta dall’annunciatore dei misteri evangelici e ti fu portata perché tu la riconoscessi e le conferissi la potenza di salvare quanti ti venerano, tu ti sei rallegrata: tu che sei misericordiosa ed hai fatto la nostra salvezza, tu fosti come la bocca e la voce dell’icona… Tu dici con autorità: “La mia grazia e la mia forza sono con quest’immagine”. E noi crediamo veramente che tu hai detto questo, nostra regina, e che tu sei con noi tramite quest’immagine…»18. L’icona intitolata San Luca che dipinge l’icona della Vergine con il Bambino racconta questo episodio della vita dell’evangelista. Il modello classico mostra l’iconografo con il pennello in mano, seduto davanti al cavalletto sul quale è posta l’icona della Vergine con il Bambino. Una concezione iconografica più narrativa aggiunge altri personaggi a questa scenografia: alzata, la Vergine in piedi porta il Figlio divino e posa per il pittore. Davanti al cavalletto, Luca riceve l’ispirazione da un angelo che lo copre con le sue ali. Modello del contemplativo, Maria è l’espressione della santità, «limite del creato e dell’increato» (san Gregorio Palamas). L’individualità più concreta incarna la deificazione della natura umana. «La tua luce splende sul volto dei santi» canta la Chiesa d’Oriente. Da un’icona all’altra i volti sono «trasformati a sua stessa immagine, di gloria in gloria, a misura dell’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18). Per la Chiesa d’Oriente le immagini dei santi rendono visibile il cammino offerto all’uomo per acconsentire e partecipare all’azione divina: più che una pia raffigurazione, l’icona è il «canale di grazia» che illumina e santifica quanti la contemplano.

Il Trionfo dell’Ortodossia Su una miniatura bizantina del ix secolo un iconoclasta che sta imbiancando un’immagine del Cristo è affiancato da due soldati romani che deridono ed oltraggiano il Crocifisso. Distruggere l’immagine del Cristo è una bestemmia. La vittoria degli iconoduli segna il Trionfo dell’Ortodossia. L’icona della Domenica dell’Ortodossia rappresenta una scena di gruppo suddivisa in due registri. Nella parte inferiore san Teodoro Studita porta l’icona del Cristo Pantocratore in mezzo ai santi confessori. Nella parte superiore due angeli portano l’icona della Vergine. Alla loro sinistra sta l’imperatrice Teodora accompagnata dal figlio Michele, alla loro destra, circondato dai monaci iconoduli, il patriarca Metodio tiene i libri della vera dottrina. Questa scena panoramica rappresenta il Concilio di Costantinopoli, che mise in onore il culto delle immagini, riabilitando i dogmi del vii Concilio ecumenico. L’iconoclasmo ricapitola in sé le molteplici eresie combattute dalla Chiesa. Nicea ii porta a compimento il i Concilio di Nicea. «Qui l’empio Ario fu deposto; qui si stermina l’eresia degli iconoclasti, posti al di là del bene» (Mansi, xiii, Ch. 201 A).

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6. San Luca, particolare, 88,5 x 73 cm, 1672. Mora/a, Montenegro.

Padre Florovsky vede nella cristologia iconoclasta un ritorno a quella di Origene e di Eusebio. L’immagine, come il sensibile e il visibile, non possono ricevere la qualificazione di «divino»19. Giovanni Damasceno sottolinea implicitamente le influenze gnostiche monofisite nell’iconoclasmo: il corpo non è «un abito» né «una quarta persona» ma una materia «divenuta simile a Dio, proprio a ciò che l’ha unta, senza cambiamento»20. San Tarasio, patriarca di Costantinopoli, accusa gli iconoclasti di ispirarsi agli ebrei, ai saraceni, ai samaritani, ai manichei, ai fantasiasti, ai teopaschiti21. Il

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cronista bizantino Teofane sottolinea le influenze monofisite esercitate sugli imperatori iconoclasti originari delle regioni orientali dell’Impero. Discepolo di Giovanni Damasceno e contemporaneo di Teodoro Studita, il teologo arabo Teodoro Abu Qurra lascia un Trattato del culto delle icone consacrato alla confutazione dell’iconoclasmo dei cristiani influenzati dagli ebrei e dai musulmani che proibiscono il culto delle immagini. Il Trionfo dell’Ortodossia è anche quello della sovranità della sua Chiesa, che afferma la propria indipendenza dottrinale contro ogni pretesa cesaro-papista. Tra i signori dell’Impero d’Oriente gli imperatori iconoclasti Leone iii e Costantino v sono i soli ad attribuirsi formalmente entrambi i poteri, lo spirituale e il temporale. La dimensione socio-politica si è aggiunta al conflitto teologico: attaccando i monasteri e le chiese l’iconoclasmo secolarista riflette il desiderio imperiale di limitare la crescente potenza del monachesimo e della Chiesa. Contro ogni compromesso san Giovanni Damasceno afferma il regno del Cristo Re sulla Chiesa: «Il Signore stesso, a quanti per tentarlo gli domandavano se è permesso pagare il tributo a Cesare, ha detto: “Portatemi una moneta”. Avuto il denaro domanda: “Di chi è quest’immagine?”. “Di

Cesare”, rispondono. Allora afferma: “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mt 22,6). Poiché ha l’immagine di Cesare, essa è sua, rendetela dunque a Cesare. Quando si tratta dell’icona del Cristo, rendetela al Cristo, poiché essa è sua»22. La prima domenica di Quaresima, fissata per la festività solenne, fu l’11 marzo 843. Il trionfo dell’immagine segna il trionfo dell’ortodossia. La «somma» teologica dei concili culmina nella celebrazione. Inseparabile dalla vita liturgica e sacramentale, l’icona completa l’annuncio del mistero commemorato. Tuttavia, anche al di là della sinergia che la lega ai cicli liturgici, l’icona, da sola, cristallizza una «liturgia interiorizzata e continua» (P. Evdokimov)23. «Visione dell’invisibile», che nel suo silenzio convoglia lo sguardo verso l’essere e la luce.

7. Crocifissione e Iconoclasmo, Salterio Chludov, ix secolo. Museo Storico, Mosca. 8. Acatisto (Inno in onore della Vergine), 1376. Monastero di Marco, Skopje.

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Note L’ingresso principale del palazzo imperiale di Costantinopoli. (ndt) In Kostas Papaioannou, La Peinture Byzantine et Russe, Rencontres, Losanna, p. 100. Storia ecclesiastica, iv, 27. Giovanni Damasceno in La Foi Orthodoxe suivie de…, cit., libro iv, cap. xvi, p. 185. Stichira dei Vespri, tono 8. PG c. 757; tr. fr. in E. Sendler, L’Icône, Image de l’Invisible, Desclée de Brouwer, Parigi 1981, p. 23. Ibidem. PG 31, cc. 488-89; tr. fr. in B. Bobrinskoy, «Bref Aperçu de la Querelle des Images», Contacts, n. 32, 1960, p. 228. Basilio di Cesarea, Traité du Saint-Esprit, xviii, 45, Sources Chrétiennes n. 17 bis, Cerf, Parigi, p. 407. Défense des Icônes in La Foi Orthodoxe suivie de…, cit., pp. 218-9. 10 Ibidem, p. 221. 11 Ibidem, pp. 225-6. 12 Défense des Icônes, Discours ii, 15, in Histoire de l’Eglise per elle-même, Parigi 1978, pp. 200-201. 13 Teodoro Studita, PG 99, c. 417, citato da Olivier Clément, Aperçu sur la spiritualité de l’Icône, Institut de Théologie Orthodoxe, p. 4. 14 Teodoro Studita, AR i, 3, in Christoph von Schönborn, Icône du Christ, Cerf, Parigi 1986, p. 224. 15 Teodoro Studita, AR i, 12, in Icône du Christ, cit., p. 225. 16 Giovanni Damasceno, Défense des Icônes, in La Foi Orthodoxe suivie de…, cit., p. 224. 17 Ibidem, p. 231. 18 Stichira tono 6. 19 Vedere «Origen, Eusebius and the iconoclastic Controversy» in Church History, 19, 1950, p. 84. 20 Giovanni Damasceno, Défense des Icônes, in La Foi Orthodoxe suivie de…, cit., p. 221. 21 Nicea ii, Quinta sessione, in Mansi, xiii. 22 Giovanni Damasceno, Défense des Icônes, in La Foi Orthodoxe suivie de…, cit., p. 225. 23 Paul Evdokimov, «La connaissance de Dieu dans la Tradition Iconographique» in Unité Chrétiennes, 46-47, Lione 1977, p. 59. *

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L’ICONA, PARADIGMA E VISIONE DIVINA L’iconoclasmo lacera l’Oriente cristiano per più di un secolo. L’icona riceve il suo battesimo nel fuoco e nel sangue. Essa si iscrive sotto il segno della Trasfigurazione. Il visibile è inseparabile dall’invisibile, l’umano impensabile senza il divino. Icona delle icone, il Cristo sigilla la Nuova Alleanza. La prima icona è l’«acheropita», immagine miracolosa non fatta da mano d’uomo, quella che il Cristo impresse sulla tunica inviata ad Abgar, re d’Edessa. Pantocratore, il Cristo rivela la sua gloria divina, «gloria che ha dal Padre come unico Figlio». I suoi coeredi, i santi, partecipano di questa gloria. Inseparabile da suo Figlio, Maria è il «limite del creato e dell’increato», immagine suprema della natura deificata che essa condivide con i santi. La prova della controversia sulle immagini forgia l’icona. La Vergine dalle tre mani onora il ricordo di san Giovanni Damasceno, ardente difensore dell’Immagine. Secondo l’agiografia, il califfo, su istigazione dell’imperatore iconoclasta Leone iii, avrebbe fatto tagliare la mano destra del Santo. Pregando di fronte all’icona della Vergine col Bambino, il suppliziato riebbe miracolosamente la mano. La terza mano evoca la mano votiva che egli fece aggiungere all’icona in segno di riconoscenza. L’icona della Domenica dell’Ortodossia celebra il trionfo degli iconoduli. San Teodoro Studita, il patriarca Metodio e l’imperatrice Teodora circondano le icone del Cristo e della Vergine. L’Immagine viene consacrata paradigma e visione divina. L’iconografo si mette al servizio della Chiesa; agiografo, celebra la santità con linee e colori. A volte partecipa egli stesso della santità, come il monaco Gregorio, iconografo del Monastero delle Grotte di Kiev nel xiii secolo.

1. Mandylion con il Volto Santo, 37 x 32 cm, Russia centrale, verso il 1800. Coll. priv., Libano.

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2. Cristo Pantocratore, 120 x 90 cm, fine del xiii secolo. Chilandari, Museo.

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3. Cristo Pantocratore, Scuola d’Aleppo, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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4. Cristo Pantocratore, secolo. Patriarcato di Mosca.

5. Vergine della tenerezza, 36 x 30 cm, Russia, xvii secolo. Coll. priv., Libano.

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6. Vergine dalle tre mani, 18 x 15,5 cm, Russia del Nord, xviii secolo. Coll. priv., Parigi. 7. San Gregorio Iconografo, 30 x 19,5, opera di Grégoire Krug, xx secolo. Ermitage du Saint-Esprit, Le Mesnil-Saint-Denis.

Pagina seguente: 8. Domenica dell’Ortodossia, 65 x 47,5 cm, opera di Anania d’Aleppo, 1722. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano.

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L’UOMO A IMMAGINE DI CRISTO Fatto a immagine di Cristo, l’uomo è chiamato a divenire simile a Lui con la santità. Vivendo la sua vita in Cristo, il santo ne diviene portatore. Il volto di Cristo si erge dietro la molteplicità dei volti dei santi. Volto unico, «sguardo unico», le sopracciglia arcuate circondano i grandi occhi immobili del santo: l’essere è consumato nel fuoco della contemplazione. Un santo senza volto è inconcepibile. San Giovanni Battista, decapitato, conserva il proprio volto raggiante e ha in mano un vassoio dove è posta la sua testa tagliata. Il volto spoglio arriva a volte all’androginia, segreto dell’integralità dell’uomo edenico. «Angelo terrestre», a immagine del Cristo dell’Epifania, san Basilio Beato ha un corpo asessuato, «corpo nel più profondo del corpo». Messaggero del deserto, san Giovanni il Precursore dispiega le sue grandi ali. Nudi o velati dagli abiti di cerimonia, vescovi, anarghiri o guerrieri, i santi sono degli uomini-colonna. Sprovvisto di volume materiale il loro corpo alleggerito glorifica la rinuncia al mondo ed accentua il carattere ieratico del volto che porta. La parola scompare nel silenzio: san Giovanni Teologo porta la mano alle labbra in segno di silenzio. Il Cristo conversa con la Samaritana, l’icona sublima il dialogo in preghiera: Gesù benedice e la donna di Samaria, orante, alza le mani in segno di venerazione. I gesti sono misurati e contenuti. Il santo conosce le tentazioni e le affronta nell’impassibilità. San Giorgio «subisce in silenzio» e resta nella luce del Risorto. Cavaliere che abbatte il dragone o vittima al supplizio egli irradia la gloria della Vita più forte della morte.

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9. Trasfigurazione, 75 x 40 cm, Siria, xix secolo. Coll. priv., Libano.

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10. La Teofania o Battesimo di Cristo, diametro 35 cm, Russia centrale, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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11. San Basilio Beato, Scuola degli Stroganov, verso il 1600. Galleria Tretjakov, Mosca.

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12. Santa Maria Egiziaca, 28 x 24 cm, Russia centrale, xix secolo. Coll. priv., Libano. 13. Angelo, particolare della Resurrezione, affresco, verso il 1235. MileĹĄeva, Chiesa. 14. San Giorgio, particolare, 32 x 26 cm, Russia centrale, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

15. San Giovanni Teologo nel silenzio, 31 x 27 cm, Russia centro-settentrionale, inizio del xix secolo. Coll. priv.

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16. San Giovanni il Precursore, 24 x 19,9 cm, Russia, prima metĂ del xvi secolo. Museo Russo, San Pietroburgo.

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17. San Giovanni il Precursore, angelo del deserto, 105,5 x 85, Russia, xvi secolo. Museo Kolomenskoje (proveniente dal monastero di Solovki).

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18. I santi gerarchi: Basilio il Grande, Gregorio Teologo e Giovanni Crisostomo; i santi anargiri: Cosma e Damiano; i santi guerrieri Giorgio e Dimitri, 31 x 27 cm, Russia centrale, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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19. Deesis e assemblea dei santi, Costantinopoli, xv secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

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20. Il Cristo e la Samaritana, 31,5 x 31,5 cm, Russia centrale, xvii secolo. Coll. priv., Libano.

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21. Anastasi, con la Passione di Cristo, particolare, 47 x 35 cm, Russia centrale, xix secolo. Coll. priv., Libano.

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22. San Giorgio gettato nella calce, particolare della Passione di san Giorgio.

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23. Passione di san Giorgio, 125,5 x 94 cm, opera di Nemeh d’Aleppo, 1701. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano.

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24. Resurrezione di un morto, particolare della Passione di san Giorgio. 25. Resurrezione del bue, particolare della Passione di san Giorgio.

Pagina seguente: 26. Il supplizio della ruota, particolare della Passione di san Giorgio.

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Capitolo secondo

L’uomo secondo immagine, l’immagine dell’uomo

L’immagine e la somiglianza Per il fedele, più che immagine religiosa, l’icona è anticipazione del Regno. Destinata a riflettere la deificazione dell’uomo, fonda la sua estetica su un realismo escatologico. Lo psichico è bandito. Pneumatico, il volto è l’immagine di Dio, restaurata nella sua beltà originaria. La figura umana è il modulo di composizione dell’immagine. L’uomo è chiamato a ritrovare il suo posto originale. Signore dell’Eden, è invitato ad acquistare la santità, a ottenere il «riposo» di Dio, a essere il luogo dove Dio trova il suo «riposo». San Gregorio di Nissa definisce il cristianesimo come «imitazione della natura divina»: fondandosi sull’esperienza mistica ortodossa l’icona incarna la natura indescrivibile. L’uomo «in quanto persona non è parte, bensì contiene in sé il tutto» (Vladimir Lossky)1. Più che un personaggio, il santo è una persona: un essere unificato e penetrato dalla luce e dalla pace. Il naturalismo viene rifiutato: fatto a immagine di Dio, l’uomo deve assomigliargli con la sua santità. «Il volto umano – scrive Antonin Artaud – è una faccia vuota, un campo di morte. La vecchia rivendicazione rivoluzionaria di una forma che non ha mai corrisposto al suo corpo, che partiva per essere cosa diversa dal corpo… Il volto umano non ha ancora trovato la sua faccia»2. Oscurata dalla caduta, l’immagine trova la sua pienezza solo nella somiglianza divina, che costituisce il suo unico archetipo. Concentrata sul volto, l’icona resta completamente estranea al modello carnale. Il ritratto naturalistico viene rifiutato. È impossibile l’icona di un essere vivente. «Potrò essere un vero credente quando non sarò più visibile al mondo» scrive sant’Ignazio d’Antiochia nella sua lettera ai Romani (iii, 2). Effimero e deperibile, ciò che è terreste porta il marchio della decadenza. «Porto le stigmate della mia iniquità ma sono a immagine della gloria indicibile» dice il tropario dell’ufficio funebre. Spogliato delle sue iniquità, l’uomo è una teofania di Dio. Riflettendo il suo prototipo ultimo, il volto ritrova la sua faccia. Il sesto giorno della Genesi Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Cacciato dal giardino dell’Eden, Adamo perde la somiglianza indicibile. L’avvenimento del Cristo restaura l’immagine: «Dio si fa Uomo per rendere Adamo Dio» recita la liturgia della festa dell’Annunciazione. Un ammirevole testo di san Gregorio di Nissa mette in rilievo questo doppio movimento: «All’inizio la natura umana fioriva, finché essa abitava il paradiso, fecondata e vivificata dalle acque della sorgente; essa aveva per fogliame la virtù dell’immortalità, che ornava la natura. Ma quando l’inverno della disobbedienza seccò la radice, il fiore cadde e fu dissolto nel terreno, l’uomo fu spogliato 57

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9. Creazione di Adamo, xii secolo. Duomo di Monreale.

10. Adamo condotto in paradiso, xii secolo. Duomo di Monreale.

11. Il peccato originale, xii secolo. Duomo di Monreale.

12. La vergogna di Adamo ed Eva, xii secolo. Duomo di Monreale.

della bellezza immortale e l’erba delle virtù si seccò, poiché l’amore di Dio si era raffreddato mentre l’iniquità cresceva. Innumerevoli passioni furono sollevate in noi dai venti ostili e provocarono il naufragio delle anime. Ma quando viene colui che porta la primavera alle nostre anime, lui che, quando un vento cattivo scuote il mare, minaccia il vento e dice al mare “Silenzio! calmati” e subito tutto torna calmo e sereno, la nostra natura torna ad ornarsi dei fiori che le sono propri»3. L’uomo è la più bella delle creature dell’Eden. Ornato di una bellezza superiore è il solo ad essere creato ad immagine incorruttibile ed a somiglianza indescrivibile. Separato da Dio muore alla vita perfetta e perde l’impronta radiosa dell’immortalità. Per ritrovare la propria natura originale l’uomo deve volgersi nuovamente verso Dio, del quale è il solo a possedere immagine e somiglianza. La natura umana trova la sua pienezza nella natura divina: «Il cielo non è un’immagine di Dio, né la luna, né il sole, né la bellezza degli astri, né qualunque altra cosa può essere vista nella creazione. Solo tu sei stato fatto immagine della luce che trascende ogni intelligenza, somiglianza della bellezza incorruttibile, impronta della divinità vera, ricettacolo della beatitudine, sigillo della vera luce. Quando ti volgi verso di lui divieni ciò che lui stesso è, imitando colui che brilla in te con lo splendore che riflette la tua purezza. Tra gli esseri nessuno c’è di così grande che possa essere comparato alla tua grandezza. Dio può misurare il cielo tutt’intero con un palmo; la terra e il mare sono racchiusi nel cavo della sua mano. E tuttavia tu sei capace di contenere colui che è così grande e contiene tutta la creazione nel palmo della sua mano, egli dimora in te e non è allo stretto circolando nella tua natura»4.

Tramite il Cristo l’umano si è iscritto nel cuore della Trinità. L’incarnazione di Cristo è posteriore alla creazione dell’uomo ma l’Adamo perfetto resta anteriore all’Adamo dell’Eden. «Primogenito», il Figlio è presso Dio prima che ogni cosa venga creata. «Infatti – sottolinea Nicola Cabasilas – non è il vecchio uomo che è servito da modello all’uomo nuovo, ma il nuovo Adamo al primo Adamo… Per colui che ha dinnanzi agli occhi tutti gli esseri prima che essi esistano, l’antenato non è che imitazione del nuovo Adamo. Egli è stato creato ad immagine e somiglianza di quest’ultimo»5. A San Marco di Venezia, Palermo e Monreale, sui mosaici che rappresentano la Genesi il creatore appare con i tratti del Figlio incarnato: l’uomo è creato a immagine di Cristo. Dio agisce tramite il Figlio e lo Spirito, «le sue due mani», per riprendere l’espressione di sant’Ireneo di Lione. «Attraverso quest’ordine, tali ritmi e tale movimento l’uomo creato e plasmato diviene ad immagine e somiglianza di Dio increato: il Padre decide benevolmente e comanda, il Figlio esegue e plasma, lo spirito nutre e accresce, e l’uomo a poco a poco progredisce e si eleva alla perfezione»6. In Cristo l’uomo si radica nel mistero di Dio. Essendo dall’inizio con il Padre, il Figlio lo rivela. Unico ad essere replica perfetta del Padre, l’uomo trova in sé la sua unità, la sua immagine, la sua somiglianza, il suo prototipo e la sua via originaria. Incarnandosi in Maria, divenuto fratello degli uomini per mezzo della sua umanità, Gesù è nel suo corpo e nella sua anima l’Adamo perfetto, la realizzazione della parola della Genesi: «Facciamo l’uomo a nostra immagine». In lui si realizza e trova il suo compimento la vocazione

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Il perfetto Adamo

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data ad Adamo. «A immagine di Dio è il figlio, secondo l’immagine del quale è stato fatto l’uomo. E perciò egli apparve negli ultimi tempi, per mostrare un’immagine simile a se stesso» (Ireneo di Lione)7. «Ha effuso lo Spirito del Padre per operare l’unione di Dio e degli uomini, facendo discendere Dio negli uomini mediante lo Spirito e facendo salire l’uomo fino a Dio mediante la sua propria Incarnazione»8.

Il volto unico In Cristo e per mezzo di Cristo Dio si fa volto. Volto unico, è il volto dei volti. Al termine di una lunga ascesi, un padre del deserto dice: «Ho trascorso vent’anni di lotta per riuscire a vedere tutti gli uomini come uno solo»9. Proprio come il suo creatore, il Dio unico, a sua immagine e somiglianza l’uomo è unico. «La faccia unica e inimitabile di ogni uomo – scrive Nikolaj Berdjaev – esiste solo perché esiste la Faccia unica e inimitabile del Cristo, Dio-Uomo. In Cristo e tramite Cristo si rivela la faccia eterna di ogni essere umano»10.

Una faccia unica si ripete attraverso i volti iconici dei santi. «C’è un unico uomo» dice l’adagio dei Padri. Sulla soglia della creazione il primo uomo ricapitola in sé l’umanità storica che verrà. Riferendosi alla Genesi, Gregorio di Nissa individua il mistero di questa unicità: «Quando il testo dice che “Dio creò l’uomo”, il carattere indeterminato della formula designa l’insieme del genere umano, perché la creatura di cui qui si parla non è chiamata Adamo, come accadrà nella prosecuzione del discorso. L’uomo che è appena stato creato non porta questo o quest’altro nome, è designato con il termine generale che si applica alla sua specie. Questa denominazione generale, che comprende tutta l’umanità, ci porta a comprendere che la potenza della prescienza divina ha compreso l’insieme dell’umanità in questa creazione del primo uomo»11. Un volto unico, modello interno di ogni volto iconico. Spogliata del naturalismo, la faccia umana si trasforma in un disco piatto circondato da un’aureola dorata. L’estetica dell’icona dà la preferenza alla posizione frontale del personaggio. Di fronte, il volto del santo alberga silenzio e preghiera. Preghiera pura o fuori da tutto, l’essere si dedica a un unico pensiero. Gli occhi, immensi, contemplano lo spettatore. Nell’accoglienza, lo sguardo è il luogo di un incontro vivo. Contemplando l’icona del Cristo, occhi negli occhi, il monaco Silvano vede «il Signore vivente al posto dell’icona»12. Gli sguardi si intrecciano, gli occhi iconici affondano il loro sguardo negli occhi dello spettatore che si vede guardato. Una segreta comunione unisce l’uomo dell’icona all’uomo di questo mondo. Nel mistero della sua solitudine il volto del santo acquista un carattere tripersonale. «Separato da tutti», il santo si unisce a Dio. «Unito a tutti» in lui, egli unisce gli uomini a Dio. Il volto dell’amore diviene luogo di comunione. «Sul mio volto – scrive il padre D. Staniloaë – si può leggere la proiezione operata dalla mia coscienza del volto del mio simile per il quale mi sento responsabile. Tanto più sul volto di un santo si può leggere la proiezione, operata dalla sua coscienza, del volto di Dio davanti al quale si sente responsabile e del volto degli altri uomini per i quali si sente responsabile davanti a Dio. 14. Testa di santo, frammento di affresco, x secolo. Chiesa Desjatinnaja, Kiev.

13. Vergine Pelagonitissa, 134 x 93,5 cm. Galleria delle Arti, Skopje.

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Ciò aumenta la luminosità del volto del santo: la sua e quella di coloro che egli porta si uniscono a quella che gli viene da Dio. È la luce della bontà che ha sempre un carattere tripersonale. Essa è la bontà di qualcuno, ma è, in ultima analisi, la bontà di Dio, perché da lui viene ogni bontà; ed è bontà diretta verso un altro. Non c’è bontà non orientata a un oggetto, e colui al quale la bontà è indirizzata ha anch’egli un ruolo nella possibilità per qualcuno di essere buono. La luce deve avere un luogo dove proiettarsi. Il mistero della tripersonalità di Dio non è, forse, privo di rapporto con tutto questo»13. Dal volto visto di fronte al volto visto di tre quarti la posizione cambia, lo sguardo resta. Il Bambino appoggia la guancia al volto della Vergine Pelagonitissa e le sue braccia infantili circondano il collo materno. Il volto di Maria è orientato al Figlio divino, ma i loro sguardi si dirigono verso lo spettatore. San Paolo e san Pietro che si abbracciano sembrano guardare colui che viene verso l’icona. Davanti al cavalletto san Luca contempla simultaneamente l’icona che dipinge e lo spettatore testimone. Il volto da dietro è escluso: «Chiunque mette mano all’aratro e si volta indietro, non è adatto per il Regno di Dio» (Lc 9,62). Una frase di Macario il Grande paragona l’Inferno a un fuoco dove i dannati non possono guardarsi in volto: «nessuno può vedere un altro faccia a faccia, ma ognuno ha la faccia incollata alla schiena di un altro»14. I santi sono rappresentati raramente di profilo: il profilo evidenzia una rottura, interrompe la comunione degli occhi; sono dipinte così solo le persone che non hanno conquistato la santità. Nella Natività del Cristo, i magi e i pastori sono a volte disegnati di profilo. Nell’Ingresso Gerusalemme profili sconosciuti si mescolano alla folla. Il profilo è spesso espressione della tentazione. Simbolo dello spirito di dubbio, un vecchio pastore dipinto di profilo conversa con Giuseppe. Riuniti intorno al Cristo per la Cena, i disce-

poli contemplano a un tempo il comune Signore e colui che si dirige verso l’icona. Solo Giuda, rappresentato di profilo, non ha questo sguardo sottile: presente tra i Dodici, resta estraneo alla loro comunione. Per la Tradizione iconografica una persona senza volto è inconcepibile. Decapitato per ordine di Erode, san Giovanni Battista conserva il proprio volto ascetico e porta nella mano sinistra una coppa dove è deposta la testa tagliata. Condannati a morire di freddo nello stagno gelato della città, i quaranta martiri di Sebaste formano un fuoco solo. A destra una figura viola questa foresta di corpi e di volti: non resistendo più, uno dei soldati condannati rinuncia al martirio ed entra in un edificio. La sua testa non è più visibile; rinnegato, non ha più volto. Volto unico: «sguardo unico» evocato nel Cantico dei Cantici. «La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è sano tutto il tuo corpo sarà illuminato. Ma se il tuo occhio è guasto tutta la tua persona sarà nelle tenebre» (Mt 6,22). Purificati e santificati, gli occhi dell’anima penetrano l’invisibile: «Vi sono infatti persone i cui occhi multipli cercano colpevolmente di penetrare ciò che non ha realtà e che dividono l’uno in molteplici nature tramite le immagini che si riflettono nei loro occhi orientati in tutti i sensi. A costoro, che vengono chiamati “polivedenti”

15. Cena, particolare, 55,5 x 43,5 cm, 1778. Monastero dei Santi Sergio e Bacco, Maalula, Siria.

16. I quaranta martiri di Sebaste, 65,5 x 59 cm, xviii secolo. Chiesa dei Quaranta Martiri di Sebaste, Homs, Siria.

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il voler vedere troppe cose impedisce di scorgere qualcosa. Di conseguenza tutti quanti guardano sì verso Dio ma senza smettere di perdersi nelle immagini materiali sono indegni della lode degli angeli, poiché si lasciano ancora ingannare dalle rappresentazioni di ciò che non esiste. Al contrario, colui il cui sguardo è fissato solo su Dio, diviene cieco a tutto il resto, a cui sono diretti gli sguardi della moltitudine. Per questo la Sposa eccita l’ammirazione degli amici “con il suo sguardo unico”. In realtà è colui che ha molti occhi ad esser cieco, poiché volge tutti i suoi occhi verso l’illusione, mentre colui che con il solo occhio dell’anima guarda il solo bene ha lo sguardo acuto e penetrante» (Gregorio di Nissa)15. Un occhio iconico cristalizza questa visione. La Bibbia qualifica il profeta come «veggente», «colui che vede», «sentinella»16. Il santo dell’icona guarda, vede, vigila e osserva. Le sopracciglia arcuate circondano i grandi occhi immobili. L’essere è consumato nel fuoco della contemplazione. I poteri sensoriali sono interiorizzati: «In Dio il desiderio amoroso si fa estasi» (Pseudo Dioni17 gi) . Le labbra sono sottili e sempre chiuse. Il Figlio è «il Verbo uscito dal silenzio»18. Beato silenzio è il nome dato ad un’icona di Gesù adolescente. «L’amico del silenzio si fa prossimo a Dio; nel segreto si intrattiene con lui e riceve la sua luce» (Giovanni Climaco)19. Ad immagine degli angeli i santi sono i «portatori del silenzio divino, come luci rivelatrici poste dall’Inaccessibile per renderlo manifesto alla soglia stessa del suo santuario» (Pseudo Dionigi)20. Tenendo socchiuso il suo Vangelo, san Giovanni il Teologo porta la mano alle labbra in segno di silenzio e d’umiltà: la parola riferita nel Vangelo non è la sua ma quella di Dio, di cui egli è lo strumento. A destra un angelo gli ispira la voce di Dio ma le sue labbra restano chiuse: la parola di Dio abita al di là di ogni discorso e di ogni parola. Chiamata in Russia San Giovanni nel silenzio, quest’icona esprime il segreto dell’espressione delle labbra sigillate, continuamente ripreso dai grandi iconografi di ogni tempo. In molte icone delle feste, mentre i testi delle Scritture sottolineano la preghiera cantata e celebrata da santi e angeli, i volti iconici restano nel silenzio del Soffio del Signore, quel silenzio che

Isacco il Siro diceva essere «il dialogo del mondo che verrà». La preghiera liturgica non è altro che silenzio, «come l’anima che, cercata da Dio, non è altro che sguardo» (Pseudo Macario)21. Cristo conversa con la Samaritana. L’icona sublima il dialogo in preghiera. Le parole scompaiono. Il Figlio dell’Uomo benedice. In preghiera, la donna samaritana alza le mani in segno di venerazione. Il pozzo di Giacobbe è collocato al centro di una caverna rocciosa, immagine dell’abisso e della morte. Le acque del diluvio avevano prodotto la morte; con il battesimo esse divenivano segno della morte-resurrezione. Il pozzo riposa nell’abisso; con il Cristo le sue acque diverranno «una sorgente zampillante fino alla vita eterna» (Gv 4,14). Puro ascolto, puro sguardo, pura accoglienza: il santo entra nella preghiera pura. «Sia che mangi, che beva, che dorma, qualunque cosa faccia, anche nel profondo del sonno i profumi e l’incenso della preghiera si innalzano senza fatica nel suo cuore, la preghiera non lo lascia più. In tutti i momenti della sua vita, anche quando parrebbe cessare, essa è sempre all’opera in lui, anche segretamente» (sant’Isacco il Siro)22. Il naso fine è ridotto a un filo luminoso che lega la bocca agli occhi. Il chiaroscuro è rifiutato e i corpi non proiettano ombra poiché la luce divina «discende dal Padre delle luci, presso il quale non c’è cambiamento, né ombra di variazione» (Lc 1,17). Le orecchie sono ridotte e come interiorizzate: l’essere è all’ascolto del cuore, come la Madre di Dio che «custodiva tutti questi ricordi e vi rifletteva in cuor suo» (Lc 2,19). La massa dei capelli forma delle modulazioni armoniose che inquadrano il volto e lo impongono. «La natura divina e beata non presenta distinzione in uomo e donna» (Gregorio di Nissa)23. Angelico, il volto giunge a volte all’androginia. Le più belle icone di san Panteleimon ci mostrano un volto di efebo, anima vergine, segreto dell’integralità dell’uomo edenico prima della scissione originaria che vide la nascita di Adamo ed Eva. I corpi non hanno più sesso: nudi, il Cristo, san Basilio il Beato o santa Maria Egiziaca hanno un corpo asessuato, corpo interiore, «corpo nel più profondo del corpo» per riprendere l’espressione cara ai mistici. Sprovvisti del loro volume materiale, i corpi alleggeriti dei santi testimoniano l’insegnamento ascetico del

17. San Giovanni nel Silenzio, 45 x 31 cm, xvii secolo. Coll. priv., Libano. 18. San Demetrio, 88 x 52 cm, xiv secolo. Vatopedi, Monte Athos. 19. San Panteleimon, 41 x 34 cm, xiv secolo. Museo di Chilandari.

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monachesimo ortodosso e glorificano la rinuncia al mondo. Liberati dal peso e dalla pesantezza, nudi o velati sotto i sontuosi abiti liturgici, essi accentuano il carattere ieratico dei volti che portano.

Unità e pluralità L’uomo è unico ma questa unicità non esclude l’identità personale di ogni santo. Gli uomini sono consustanziali. «Ogni persona contiene l’unità tramite la sua relazione con gli altri non meno che tramite la sua relazione a se stessa» (Giovanni Damasceno)24. La molteplicità unitaria dell’uomo raggiunge l’unità trinitaria divina. La genesi avvolge il mistero del singolare e del plurale nell’uomo. «Facciamo l’uomo a nostra immagine»: l’uso del plurale designa la Santa Trinità e la diversità delle persone, mentre il singolare «immagine» esprime l’unicità della sostanza. L’unità assoluta sposa la diversità assoluta. San Teodoro Studita sottolinea la specificità di ogni ipostasi umana: «Infatti, come si può disegnare l’immagine di una natura che non sarebbe vista in una ipostasi? Pietro, per esempio, non è rappresentato come essere ragionevole, mortale, dotato d’intelligenza e di comprensione, poiché questo non definisce solo Pietro ma anche Paolo, Giovanni e tutti quanti appartengono a una medesima specie. Ma lo si dipinge in quanto, oltre alla definizione comune, possiede alcune caratteristiche, come il naso adunco o camuso, i capelli ricci, il colorito piacevole, la bellezza degli occhi o qualche altra specificità del proprio aspetto che lo distingue da altri individui della stessa specie»25. Da un’epoca all’altra si moltiplicano le figure dei Tre Santi Dottori. Abbigliati con i loro sontuosi paramenti liturgici, i tre «immensi luminari del triplo sole divino» tengono ognuno un Vangelo con una mano e con l’altra benedicono. La loro somiglianza è evidente, tuttavia ognuno di loro ha dei tratti specifici che lo caratterizzano. San

Giovanni Crisostomo ha i baffi sottili e una piccola barba che gli circonda il mento; una lunga barba nera a punta caratterizza san Basilio il Grande; sobrio e paterno, Gregorio il Teologo porta una barba bianca alla Cavour. «Mostrami il tuo volto», «Dimmi il tuo nome». Nella tradizione biblica il nome determina la natura e il destino della persona che lo porta. Il nome di Dio resta anonimo, «al di sopra di qualsiasi dignità o grandezza che possa essere nominata non solo in questo secolo ma anche nel futuro» (Ef 1,21). Il nome dell’uomo esprime la sua persona. «La grazia divina è data alle cose materiali con l’impressione del nome di coloro che l’icona raffigura» (Giovanni Damasceno)26. Scritto sull’icona, il nome in cui si concentra la persona conferisce all’immagine la sua entità e, al momento della benedizione finale, la Chiesa verifica la presenza della scritta con il nome e la sua corrispondenza con il soggetto dipinto. Il nome esprime l’ipostasi che il fedele vede sull’icona. L’icona e la persona raffigurata non rappresentano un’unione ipostatica. L’identità comune resta relazionale, fondata sulla somiglianza con l’archetipo. Enunciata da Giovanni Damasceno, questa relazione è sviluppata da Teodoro Studita: «Altro è il Cristo e altro l’icona del Cristo, considerati secondo la natura. Ma c’è identità quanto all’appellativo, che è comune. Se si considera la natura dell’icona non si chiamerebbe ciò che si vede “Cristo” e neppure “immagine del Cristo”. Lo si chiamerebbe “legno”, “colori”, “oro”, “argento” o qualcun altro dei diversi materiali. Ma quando si guarda la somiglianza dell’archetipo raffigurato, lo si chiama “Cristo” e “immagine del Cristo”; “Cristo” per l’identità del suo nome e “immagine del Cristo” per la relazione»27.

L’Uomo re

20. I tre santi dottori, particolare, 79 x 60 cm, Siria, xviii secolo. Monastero di San Georges Bmakin, Libano.

L’uomo è ontologicamente di natura regale. Adattata al destino che dall’inizio gli è proposto dall’«Artigiano supremo», la statura verticale dell’uomo è testimonianza della sua nobiltà: «L’uomo sta eretto, è alzato verso il cielo. Guarda in alto. È l’atteggiamento del comando che manifesta la sua identità regale. Se l’uomo è il solo essere a possedere questi caratteri mentre tutti gli altri inclinano il loro corpo verso il basso, questo mostra chiaramente la differenza di dignità tra quanti curvano la schiena sotto un dominio e la potenza che li domina. Presso tutti gli altri viventi infatti le membra anteriori sono delle zampe, poiché era necessario sostenere la curva del loro corpo; mentre nella creazione dell’uomo, queste membra sono divenute delle mani. Perché l’uomo stesse in piedi gli bastava infatti un solo punto d’appoggio, i due piedi sui quali riesce ad assicurare il proprio equilibrio» (Gregorio di Nissa)28. Uomini apostolici, vescovi, martiri, monaci o pazzi in Cristo: sulle icone i santi sono spesso degli uomini-colonna. Il corpo è smisuratamente allungato; gli abiti costituiscono un sistema ornamentale di forme, di contorni e di colori. San Nicola è rivestito delle insegne della sua funzione. Il phelonion solcato di linee d’oro e l’omophorion disseminato di croci nere coprono il busto del vescovo di Mira e formano un fregio vigoroso, al di sopra del quale è posto il volto paterno, tenero e sobrio del Santo. L’ovale del volto è basato sul semi-ovale della curva delle spalle. Gli occhi a mandorla fissano l’eternità. Ieratico, il volto riflette un’illimitata tenerezza mescolata con una maestosa rigidità: «la tenerezza del santo è insieme fermezza e bontà – scrive il padre D. Staniloaë –, entrambe si situano nell’irradiazione divina e lasciano trasparire l’ordine della bontà divina che, con autorità assoluta, s’impone nella dolcezza»29. Le espressioni emotive sono manifestate in modo molto contenuto. Il santo affronta impassibile le tentazioni e le offese; macinato dai

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dolori, subisce l’ultimo supplizio nella gloria della resurrezione. In mezzo alle fiamme il corpo del martire non è più «come una carne che brucia, ma come un pane che cuoce»30. L’icona si consacra alla trascrizione del trascendente. I quaranta martiri di Sebaste sono nel lago della morte; più lontano li si vede consumarsi in un braciere in fiamme. Nell’agonia e nella morte i loro volti, dai tratti fini e delicati, continuano a risplendere di una luce interiore. La testa di san Giovanni Battista riposa in una coppa; il volto del decapitato conserva una dolcezza commovente. «La morte dei peccatori è funesta» (Sal 32,22), quella dei santi è una dormizione, l’ingresso prezioso nella vita immortale. L’icona di san Giorgio riferisce gli episodi famosi della vita del «grande martire». Imprigionato, Giorgio subisce un ciclo di supplizi ma resta nella luce del Risorto. Sul suo cavallo abbatte il dragone con un colpo di lancia, tuttavia ha il volto solenne, calmo e impassibile. Vittima suppliziata o cavaliere che affronta un mostro che s’impenna, il santo irradia la gloria della vita più forte della morte. Il luogo e il tempo cambiano, le azioni sono molteplici ma l’essere resta impassibile. Superando ogni dualismo il Santo è pura preghiera. Vive, soffre e trionfa: nella sua preghiera interiore rimane nella beatitudine suprema e conosce l’incorruttibilità e l’immortalità già in questo mondo. Più che un luogo, il Regno è uno stato. Ripieno di Spirito Santo l’uomo è «sacerdote e re» e la sua faccia è «come quella di un angelo» (At 6,15). La morte non c’è più, solo la vita regna. La natura umana ritrova «la sua somiglianza con il re dell’universo, come una sorta d’immagine viva che ha dignità e nome in comune con il suo modello» (Gregorio di Nissa)32.

21. San Gregorio Teologo, 15 x 9 cm, Siria, 1701. Coll. priv., Parigi. 22. San Basilio il Grande, 15 x 9 cm, Siria, 1701. Coll. priv., Parigi. 23. San Giovanni Crisostomo, 15 x 9 cm, Siria, 1701. Coll. priv., Parigi.

24. I Martiri di Sebaste, particolare, 117 x 86 cm, opera di Nemeh d’Aleppo, 1701. Monastero Notre-Dame de Balamand, Libano.

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Note

Capitolo terzo

Vladimir Lossky, Teologia Mistica della Chiesa d’Oriente, tr. it. il Mulino, Bologna 1967, p. 114. Testo del catalogo dell’esposizione Portraits et desseins d’Antonin Artaud, Parigi 4-20 luglio 1947. 3 Gregorio di Nissa, La Colombe et la Ténèbre. Homelies sur le Cantique des Cantiques, Omelia v, tr. fr. L’Orante, Parigi 1967, p. 72. 4 Gregorio di Nissa, La Colombe et la Ténèbre, cit., Omelia ii, p. 34. 5 Nicola Cabasilas, La vie en Jésus-Christ, tr. fr. Chevetogne 1960, p. 183. 6 Ireneo di Lione, Contro le eresie iv, 38, 3 tr. it. Jaca Book, Milano 1981, p. 399. 7 Ireneo di Lione, Esposizione della predicazione apostolica, 22, tr. it. in Contro le eresie, cit., Jaca Book, Milano 1981, p. 497. 8 Ireneo di Lione, Contro le eresie, v, 1, 1, cit., p. 412. 9 Apophfegmes de ceux qui vieillissent dans l’ascèse, S.O. n. 1, Abbazia di Bellefontaine, p. 407. 10 Nikolaj Berdjaev, Esprit et Liberté, cap. vi, tr. fr. Desclée de Brouwer, Parigi, p. 217. 11 Gregorio di Nissa, Création de l’Homme, cap. xvi, tr. fr. Desclée de Brouwer, Parigi 1982, p. 99. 12 Arch. Sophronie, Starets Silouane, moine du Mont Athos, Parigi 1973, p. 414. 13 D. Staniloaë, Prière de Jésus et expérience di Saint-Esprit, Desclée de Brouwer, Parigi 1981, pp. 55-56. 14 Apoftegma 38 in Les Sentences des Pères du Désert, tr. fr. Solesmes, 1981, p. 186. 15 Gregorio di Nissa, La Colombe et la Ténèbre, cit., Omelia viii, p. 119. 16 i Sam 16,4; 1 Cor 12,29; Am 7,12; Ez 3,17. 17 Pseudo Dionigi l’Aeropagita, Œuvres complètes, Les Noms Divins, iv, 13, tr. fr.Aubier-Montaigne, Parigi 1943, p. 107. 18 Ignazio d’Antiochia, Magn., 8, 2, Sources Chrétiennes, 10, Cerf, Parigi, p. 102. 19 Giovanni Climaco, L’Echelle Sainte, undicesimo grado, S.O. 24, Abbazia di Bellefontaine. 20 Pseudo Dionigi l’Aeropagita, Œuvres complètes, Les Noms Divins, iv, 2, p. 95. 21 Pseudo Macario, Trentatreesima Omelia. 22 Isacco il Siro, Œuvres spirituelles, Ottantacinquesimo discorso ascetico, tr. fr. Desclée de Brouwer, Parigi 1981, p. 438. 23 Gregorio di Nissa, Création de l’Homme, cap. xxii, p. 121. 24 Giovanni Damasceno in La Foi Orthodoxe suivie de…, i, 8, tr. fr. Cahiers Saint-Irénée, Parigi 1966. 25 Teodoro Studita, A.R. iii, 34 in Christoph von Schönborn, Icône du Christ, Cerf, Parigi 1986, pp. 218-9. 26 Giovanni Damasceno, Défense des Icônes, discorso i, 36, tr.fr. L’Icône du Christ, cit., p. 198. 27 Teodoro Studita, A.R. i, 17, tr. fr. in Icône du Christ, cit., p. 227. 28 Gregorio di Nissa, Création de l’Homme, cap. viii, tr. fr. cit., p. 54. 29 D. Staniloaë, Prière de Jésus et expérience du Saint-Esprit, cit., p. 29. 30 Martirio di san Policarpo, xv, 2, Sources Chrétiennes n. 10, Cerf, Parigi, p. 264. 31 Gregorio di Nissa, Création de l’Homme, cap. iv, tr. fr. cit., p. 46.

La cosmogenesi iconica

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Il mondo del Regno L’icona fa vedere un mondo indifferente all’esperienza delle visioni ottiche della natura materiale. Con una sfida evangelica, fa scomparire lo spazio concreto, la pesantezza, gli scorci, la luce naturale e le leggi della prospettiva. È l’espressione cristallizzata della fede, quella fede che, «più fine della conoscenza delle cose sensibili» (Isacco il Siro), è «la prova delle cose che non vediamo» (Eb 11,1). La visione naturalistica è rifiutata. «Tutto il mondo giace in potere del maligno» (1 Gv 5,19). «Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo e la vittoria che ha trionfato del mondo è la nostra fede» (1 Gv 5,4). Il mondo vecchio è passato. L’icona crea il proprio spazio dove il mondo riscattato si apre su un «cielo nuovo» e una «terra nuova», dove Dio mette la sua dimora tra gli uomini. Le miniature bizantine mostrano Adamo ed Eva in preghiera al centro di un’aureola di alberi e piante. La caduta cambia la scena: nel bianco vuoto del margine, ansiosi e gementi, i due peccatori sono cacciati dall’Arcangelo. Creato per l’uomo, il mondo trova il suo senso solo nell’uomo e tramite esso. Allontanandosi dalla somiglianza divina la vita è una «vita morta»: l’interpretazione allegorica di Gregorio di Nissa vede nella pecora perduta un simbolo del mondo terrestre, che nella sua caduta resta fuori dallo spazio delle immensità spirituali. San Simeone il Nuovo Teologo descrive a lungo questa perpetua caduta cosmogonica: «Di conseguenza quando egli (Adamo) uscì dal Paradiso, al vederlo tutta la creazione, che Dio aveva tratto dal nulla, rifiutava ormai di sottomettersi al trasgressore: il sole non voleva brillare, la luna non sopportava di apparire, gli astri esitavano a farsi vedere da lui. Le fonti non scaturivano più e i fiumi rifiutavano di scorrere, l’aria meditava di ripiegarsi su se stessa e non dare respiro al ribelle; le belve e tutti gli animali della terra, vedendolo spogliato della precedente gloria, lo tennero in spregio e commisero ogni azione selvaggia nei suoi confronti; il cielo era già come in movimento per abbattersi su di lui con giustizia e la terra non sopportava di averlo sul suo dorso. Cosa fa allora Dio, l’autore dell’universo, che ha creato anche Adamo? Poiché sapeva da prima dell’inizio del mondo che Adamo avrebbe disobbedito al suo ordine, poiché aveva predeterminato che la sua nascita a una vita nuova e la sua restaurazione sarebbero state subordinate alla nascita nella carne del suo unico e divino Figlio, cosa fa? Trattiene tutti gli esseri per effetto della propria potenza; con misericordia e bontà sospende l’assalto premeditato delle creature; e insieme le sotto71

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mette tutte, come prima, all’uomo. Vuole che la creazione, assoggettata all’uomo in vista del quale era stata creata, divenendo come lui corruttibile, quando egli sarà nuovamente restaurato e diverrà spirituale, incorruttibile e immortale, sia allora liberata anch’essa dalla servitù e, dopo essere stata assoggettata da Dio come schiava al ribelle, sia restaurata con lui, divenga incorruttibile e tutta spirituale. Ecco ciò che Dio, molto misericordioso e sovrano, aveva predeterminato prima della fondazione del mondo»1. Nella sua caduta, il mondo visibile è solo verosimile. La sua verità dipende dalla sua partecipazione all’essere. Il Regno «non è di questo mondo» ma «è tra noi»; il mondo terrestre è chiamato a divenire il corpo dell’uomo deificato. La percezione iconica suggerisce il vero volto del mondo. Un simbolismo elaborato restaura l’ordine cosmico e stabilisce così ciò che fu un tempo nell’Eden e sarà domani nel Regno dei cieli. Lo sguardo si volge all’invisibile: «Le cose visibili passano, quelle invisibili sono eterne» (2 Cor 4,18). Le diverse caratteristiche della tradizione iconografica testimoniano l’invisibile. L’immagine non cerca più di imitare la visione ottica, proprio come non pretende più di dare l’illusione di una realtà materiale. Rifiuta l’apparenza degli esseri e delle cose e forgia per essi un volto trasfigurato, nel quale si riflette la loro essenza paradisiaca. L’uomo è rigenerato. La superficie piana che lo circonda si trasforma in spazio celeste. La figura umana domina tutta l’icona. Più che un «microcosmo», l’uomo è un «microtheos». Attorno a lui il paesaggio si ordina nella luce e nella pace: il mondo acquisisce la dimensione spirituale dell’uomo. «Microcosmo e macrocosmo si rivelano nella vita spirituale, non secondo la separazione e l’“estrinsecità” ma nell’unità e nella penetrazione reciproca» (N. Berdjaev)2.

Il mondo in Cristo magnifica «Dio al di là di tutto, attraverso tutto e in tutto». Dall’Assemblea degli Arcangeli alla Deesis, passando per le feste, tutto si organizza attorno al Verbo. In questa assemblea di santi i protagonisti si moltiplicano. Il Figlio rimane la «pietra d’angolo» di questo mondo trasfigurato, il suo fondamento e il suo punto d’arrivo, Egli, «più altro di tutti i secoli, di tutti i tempi, di tutti i luoghi». «Anziano dei giorni», il Cristo bambino ha la fronte e lo sguardo di un adulto, il suo corpo è quello di un giovane adolescente. La Madre di Dio ha un volto immutabile. Noi

la vediamo in braccio a sua madre Anna: solo la dimensione minore simbolizza l’età dell’infanzia. Bambina, ragazza e madre, la Vergine non conosce i cambiamenti dell’età. Lo «stile continuo» spoglia il tempo dell’ordine cronologico. Sotto il regno del «Re delle durate perpetue», la Natività di Maria, la sua Presentazione al Tempio e l’Annunciazione si concatenano in uno stesso spazio. La Luce del Tabor inonda questo luogo divino. Metalogico, l’ambiente iconico si libera delle costrizioni della natura e della ragione. La prospettiva rovesciata sostituisce la profondità di

campo. Allineati e sovrapposti, i volti dei santi sono di eguale grandezza. Riuniti nel Cenacolo, gli apostoli formano un arco suddiviso in due metà, le figure sono poste sullo stesso piano ed hanno uguale dignità. L’invisibile e l’incorporeo trovano i loro simboli: il Cristo porta in braccio un infante in fasce, immagine dell’anima immacolata della Madre che dorme il sonno della morte. San Michele schiaccia ai suoi piedi un uomo mezzo nudo: «l’empio e impenitente» spira. Una figuretta femminile simbolizza la sua anima, raccolta dall’Arcangelo.

27. Assemblea degli Arcangeli, proveniente dalla chiesa Spas di Vladimir, fine del xii secolo. Galleria Tretjakov, Mosca.

25. Deesis, 44 x 32,5 cm, Siria, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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IL MONDO NELLA LUCE DI CRISTO

28. Deesis, proveniente da Vladimir-Suzdal’, inizio xiii secolo. Galleria Tretjakov, Mosca.

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29. La Vergine conduttrice, 48x34,5 cm, Scuola d’Aleppo, inizio xviii secolo. Museo Sursock, Libano. 30. Sant’Anna con la Vergine, 106x76 cm, opera di Emmanuel Tzanès, Creta, 1637. Museo Benaki, Atene.

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31. Natività della Vergine, affresco, 1313-1314. Chiesa di San Gioacchino e Sant’Anna, Studenica.

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32. Presentazione della Vergine al tempio, affresco, 1313-1314. Chiesa di San Gioacchino e Sant’Anna, Studenica.

33. Dormizione della Vergine, affresco, 1309-1316. Chiesa della Dormizione di Ži/a.

34. Presentazione della Vergine al tempio e Annunciazione, 36 x 27 cm, Russia centrale, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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35. La Mesopentecoste, Scuola di Mosca, xv secolo. Museo A. Rublëv.

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36. Deesis, 53 x 46,5 cm, Russia, metà del xix secolo. Coll. priv., Italia.

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Pagine precedenti: 37. Deesis, affresco, 1260. Chiesa dei Santi Apostoli, Patriarcato di Pe0.

38. Trasfigurazione, Deesis, Anamnesi, affresco, 1156. Cattedrale della Trasfigurazione, Monastero MiroĹžoski, Pskov.

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39. Anastasi, affresco. Cattedrale della Trasfigurazione, Monastero MiroĹžoski, Pskov.

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40. Pentecoste, affresco di GrÊgoire Krug, xx secolo. Ermitage du Saint-Esprit, Le Mesnil-Saint-Denis. 41. Pentecoste, 35 x 28,5 cm, Scuola di Tzanès, Creta, 1662. Chiesa di San Giorgio dei Greci, Venezia.

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42. Dormizione della Vergine, 165 x 118 cm, Scuola d’Aleppo, xviii secolo. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano. 43. La Vergine offre la sua cintura a san Tommaso, particolare della Dormizione della Vergine.

Pagina seguente: 44. San Michele, 86 x 64 cm, opera di Anania d’Aleppo, 1720. Museo Sursock, Libano.

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I rapporti reali degli esseri e delle cose non esistono più. L’iconografo ingrandisce volutamente il personaggio più importante della scena. L’icona della Deesis ci mostra i tre personaggi principali del Nuovo Testamento: il Cristo, nel suo ruolo di giudice, ha il proprio posto al centro della scena. Rivolti a lui, la Vergine a sinistra e san Giovanni Battista a destra tendono le mani in segno di supplica, implorando misericordia per l’Umanità. Le dimensioni del Cristo superano quelle delle figure che lo circondano. A questa composizione possono aggiungersi altri personaggi, che rappresentano angeli o santi. Il Cristo mantiene il suo posto come nucleo centrale della scena; per rispettare la simmetria della composizione i personaggi che lo circondano sono collocati a coppie, secondo un ordine prestabilito. Per obbedire a questo equilibrio l’immagine centrale è a volte raddoppiata. Nell’abside del santuario il Cristo dell’Anamnesi, la comunione eucaristica, è raffigurato due volte: nella prima ha in mano il pane e nella seconda, identica, il calice ed offre l’eucaristia agli apostoli che, inclinati allo stesso modo verso di lui, si muovono a ricevere la comunione in due file simmetriche. Sullo sfondo i paesaggi e le costruzioni architettoniche sono insieme lontani e vicini ai personaggi. Il loro punto di contatto con la striscia del suolo non è sempre determinato in modo chiaro, né le dimensioni obbediscono ad una logica naturalistica. San Giorgio è collocato sulla striscia orizzontale del suolo e inclinandosi raggiunge la figlia del re che è posta davanti al palazzo in secondo piano. Malgrado il crepaccio del primo piano i personaggi sembrano dispiegarsi su una superficie verticale. Le costruzioni architettoniche presentano una molteplicità di forme: le proporzioni sono alogiche, le porte e le finestre hanno collocazioni e dimensioni fantastiche, che sistematicamente lasciano sconcertata la logica architettonica. La dimora di Dio trascende il razionalismo umano.

26. Anamnesi, xi secolo. Santa Sofia, Kiev.

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«La saggezza dei saggi» è distrutta e «l’intelligenza degli intelligenti» annichilita. Liberato dalle costrizioni della ragione, l’ambiente iconico è di natura metalogica. Gli elementi figurativi sono spogliati da tutto ciò che suggerisce la pesantezza, il caso e l’effimero. Ad immagine del carattere immutabile del divino, la prospettiva iconica annulla l’accidentale per individuare il tipico e l’astratto. Alla frontalità dei volti e dei corpi si aggiunge quella delle architetture, dei paesaggi e degli oggetti che, irrigiditi e statici, sembrano muoversi verso lo spettatore. Il paesaggio della Teofania ci offre un Giordano trasformato in una superficie verticale piana e delle colline rocciose che formano una composizione ritmica a cadenze regolari. La simmetria penetra, ordina ed unifica i diversi elementi dell’immagine. L’icona ignora la regola delle tre dimensioni. Il suo spazio evolve in una prospettiva rovesciata che abolisce la profondità di campo, dove tutto scompare nel «silenzio eterno degli spazi infiniti» (Pascal)3. La luce iconica non proviene da un punto determinato. L’icona appartiene ad uno spazio celeste in cui il gioco della luce è rovesciato. Il movimento interno non è più centrifugo ma centripeto. Le linee non convergono verso un punto di fuga: si dilatano in una luce la cui fonte non è precisata. La luce divina proviene da ogni parte: «Neppure le tenebre sono oscure per te e la notte splende come il giorno» (Sal 139 [138],12). Il luogo iconico è un luogo di luce. Sul Tabor, presso il Giordano, nel Tempio, nel cenacolo di Gerusalemme o sul Monte degli Ulivi splende una stessa luce. «Non ci sarà più notte: non hanno più bisogno né della luce di una lampada né di quella del sole, poiché il Signore Iddio splenderà su di loro ed essi regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,5).

Illuminato, il santo abita la luce. «Egli era ormai un tutt’uno con quella luce divina, gli sembrava di essere divenuto egli stesso luce e totalmente assente dal mondo» (san Simeone il Nuovo Teologo)4. L’oro delle icone incarna questa luce sovraterrestre. Questo colore, che non si trova mai in natura, costituisce lo sfondo dell’icona e penetra i suoi diversi elementi. Il luogo di Dio è un luogo di luce, dove il santo, «tutto intero nella profondità dello spirito, viene come deposto al centro di un abisso infinito di acque luminose» (san Simeone il Nuovo Teologo)5. La composizione non è più in profondità ma in altezza, la folla è composta di teste di egual grandezza. L’icona dei Quaranta martiri di Sebaste fa vedere una moltitudine di personaggi disposti in profondità. Essi sono quasi nudi e attendono la morte nel lago ghiacciato di Sebaste. La composizione li raggruppa su una superficie piatta mentre un picco montagnoso a sinistra bilancia il bagno rappresentato all’altra estremità. I corpi sono ridotti alle linee di base e i volti sovrapposti si sporgono verso colui che li guarda, per accoglierlo. Gli apostoli si riuniscono per contemplare la Madre di Dio nella sua Dormizione. Al centro della composizione il Cristo in piedi forma una croce con il corpo disteso della Madre. La figura del Salvatore domina la scena. «Il Signore stesso è presente – canta Giovanni Damasceno – lui che tutto riempie ed abbraccia tutto l’universo, che non è in alcun luogo poiché l’universo è in lui, come nella causa che l’ha creato e lo contiene»6. I discepoli del Cristo circondano la Madre della Vita. «Erano tutti presso di lei, la luce dello spirito risplendeva e i suoi raggi scintillanti li illuminavano, mentre con rispetto e timore, immobili in un atteggiamento d’amore, fissavano su di lei il puro sguardo dello spirito»7. La sovrapposizione delle teste dei discepoli non obbedisce alla logica, la composizione

28. Dormizione della Vergine, particolare, 165 x 118 cm, Scuola d’Aleppo, xviii secolo. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano.

27. Dormizione della Vergine, 31 x 27 cm, Russia, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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si sviluppa in altezza. Allineate e sovrapposte le teste sono di egual grandezza. Accanto ad essi si riconoscono dei vescovi, dei prelati e un gruppo di pie donne. L’assemblea dei santi non conosce personaggi secondari. L’iconografia della Pentecoste rappresenta i dodici apostoli riuniti nel cenacolo. Grazie alla prospettiva rovesciata l’assemblea forma un arco suddiviso in due file: le figure rappresentate sono situate sullo stesso piano e hanno uguale onore. L’assenza della legge di gravità e il rifiuto del rilievo e del tattile fanno dell’icona un’arte puramente pittorica. La scultura, che modella in tre dimensioni, è impossibile. Il volume tangibile è escluso e lo spazio artificiale rovesciato: la profondità di campo non è più dietro il quadro ma davanti ad esso. L’immagine dipinta converge verso colui che le si avvicina: lo spettatore è introdotto ad essa.

Tempo ed eternità «I secoli, i tempi, i luoghi – medita san Massimo il Confessore – appartengono alle cose che sono in relazione con altre. Senza di essi nulla esiste di ciò che si concepisce con essi. Ma Dio non appartiene alle cose che sono in relazione con altre, poiché in sé non ha assolutamente nulla che si concepisca con lui. Dunque, se l’eredità di quanti sono degni è Dio stesso, colui che è degno di questa grazia sarà più alto di tutti i secoli, tutti i tempi, tutti i luoghi»8. La natura divina è atemporale. Il Cristo è l’«Anziano» profetizzato da Daniele (7,13): da bambino, il suo volto ha l’aspetto e lo sguardo di un adulto e il suo corpo è quello di un giovane adolescente. Melchisedec «di cui si ignora il principio dei giorni e la fine della vita – assimilato al Figlio di Dio – rimane sacerdote per sempre» (Eb 7,3). Macario l’Egiziano è soprannominato «il vecchio bambino». Il santo non ha età. Le diverse icone mariane ci rivelano un unico volto: la Madre di Dio non muta volto nella Natività, nella Presentazione al Tempio, nell’Annunciazione o nella Dormizione. La vediamo bambina in braccio alla madre Anna: solo la sua dimensione ridotta simbolizza l’età dell’infanzia. Bambina, giovane, madre, in piedi davanti alla croce o distesa su di un lettino mortuario la Vergine non conosce i cambiamenti dell’età. I volti di santa Sofia e delle sue tre nipoti riflettono la stessa età. Per evocare l’infanzia dei tre piccoli personaggi riuniti l’iconografo riduce le dimensioni delle loro figure: solo la scala delle dimensioni dei quattro personaggi traduce in modo simbolico la loro età. Più che un lodevole atto morale, la santità è un irraggiamento personale. «La salvezza del mio volto non sono le mie opere ma il mio Dio» dice san Simeone il Nuovo Teologo9. Il volto impassibile e silenzioso domina lo spazio dell’icona. Di fronte, la figura ritratta di un santo è posta al centro della composizione, mentre sui bordi sono raffigurate le scene caratteristiche della sua vita. Questo ciclo d’immagini rispetta una disposizione tradizionale che si svolge per livelli, da sinistra a destra e dal basso in alto. Il santo è portatore di Cristo e la sua vita un’evocazione di quella del Cristo. Le icone agiografiche della Madre di Dio, di san Nicola, di san Giorgio o san Sergio ritrovano l’iconografia del Cristo. Dalla sua infanzia il santo è vocazione: viene presentato alla chiesa o al tempio e affidato a un sacerdote. In seguito lo si vede annunciare la Buona Novella, guarire le malattie, compiere dei miracoli, vivere la passione, subire il martirio e passare all’altra vita. L’iconografia della Natività di san Nicola è conforme a quella della Natività della Vergine modellata secondo il modello della natività del Cristo. Il battesimo del vescovo di Mira ricorda le iconografie della Teofania e della Presentazione al Tempio; il suo Ingresso alla scuola è simile all’icona di Gesù nel tempio tra i dottori: «egli cresceva in sapienza, in statura e in grazia da-

29. San Nicola e scene della sua vita, xv secolo. Museo d’Arte Ucraina, L’vov.

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vanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). L’apparizione ai marinai nella tempesta evoca la scena della tempesta placata (Mt 8,23-27) e le scene del Trasferimento delle spoglie e del Culto delle reliquie ricordano il sepolcro del Cristo. A questo stile panegirico si aggiunge lo «stile continuo»: le scene agiografiche non circondano più la figura-ritratto. Il tempo perde il proprio ordine cronologico, gli avvenimenti si moltiplicano e si incatenano in uno stesso spazio. Il tempo non è più un fattore di corruzione. Oltre il futuro, il passato e il presente, la temporalità sposa la perpetuità e si manifesta il regno del «Re dei secoli» (1 Tm 1,17). «L’eternità non è né prima né dopo il tempo, essa lo apre sulla propria dimensione» (Paul Evdokimov)10. Nella Natività della Vergine Anna e Gioacchino si stringono teneramente a Maria bambina; simultaneamente la partoriente è raffigurata pensierosa presso tre donne mentre altre due portano Maria neonata e si preparano a farle il bagno. La Natività del Cristo rappresenta la greppia, la Madre e il Bambino fasciato, il corteo dei re magi, i pastori e gli angeli che glorificano il Signore, san Giuseppe in preda al dubbio e le levatrici che fanno il bagno al neonato. Tre mondi coesistono nella Risurrezione del Cristo: il mondo sotterraneo della Discesa agli Inferi, quello terrestre della Risurrezione e il mondo celeste dell’Ascensione si trovano in uno stesso spazio iconico. La Discesa dello Spirito Santo è anteriore alla conversione di Saulo, tuttavia l’icona consacrata a questa festa ci mostra l’Apostolo dei Gentili seduto alla guida del circolo apostolico, presso l’apostolo Pietro. «Il numero delle persone riunite era di circa centoventi» dice il testo degli Atti (1,15). L’icona rappresenta solo dodici personaggi. Presenti al cenacolo, Marco e Luca non facevano parte dei dodici apostoli: l’immagine li integra in questo cerchio apostolico e i vangeli, non ancora scritti, sono raffigurati nelle mani dei loro autori. Il racconto degli Atti evoca il tumulto e la confusione generale suscitati dalla Pentecoste: «Si trovavano tutti insieme nel medesimo luogo. All’improvviso scese dal cielo un suono come di una raffica di vento e riempì tutta la casa dov’e-

rano riuniti» (At 2,1-2). All’opposto di questa descrizione, nell’icona regna una serenità ieratica: sprofondati nel silenzio, con le loro figure stilizzate dal contorno accentuato e i loro corpi senza volume e senza peso, gli apostoli non gesticolano. Essi stanno l’uno accanto all’altro senza guardarsi e contemplano l’eternità. Nella calma solenne l’essere è all’ascolto di Dio. L’azione divina si svolge al di fuori dei limiti di tempo e di luogo. «Tutta la stanza fu inondata di luce: il giovane non sapeva se era nella casa o sotto un tetto; vedeva solo luce da tutti i lati, addirittura ignorava di trovarsi sulla terra» (san Simeone il Nuovo Teologo)11. La scena iconica non è mai racchiusa da muri: non si svolge all’interno dell’edificio ma all’esterno. Nell’icona dell’Annunciazione l’angelo Gabriele viene incontro alla Vergine Maria in uno spazio aperto. «Lo Spirito Santo verrà sopra di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà della sua ombra» (Lc 1,35). Due edifici con scure aperture sono posti dietro i due protagonisti mentre un velo sospeso tra i muri dello sfondo simbolizza l’ambiente chiuso in cui si svolge l’azione. Questa immagine convenzionale si ripete nelle icone della Natività della Vergine, della Presentazione al Tempio, dell’Anamnesi, della Pentecoste… L’avvenimento storico si svolge in uno spazio chiuso ma il mistero divino gli conferisce una dimensione aperta. La luce irraggia nel campo dello Spirito e il velo disteso evoca il ricordo della Tenda del Santuario dove Dio venne incontro agli ebrei nell’Antico Testamento. Il tempo scompare nell’apocatastasi; la restaurazione cosmica incendia la terra. Tra l’uomo e la creazione viene ristabilita la relazione originale che esisteva prima della caduta. Il santo ottiene la vittoria sul caos. Nell’Eden l’uomo dominava «sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la terra» (Gn 1,26). Inviato nel deserto, il nuovo Adamo «se ne stava con le fiere e gli angeli lo servivano» (Mc 1,12). Nell’amore e nella compassione il santo rivive questo stato paradisiaco. «Egli va verso le belve assassine. Dal momento in cui lo vedono la loro ferocia si acquieta, esse si avvicinano a

30. Natività del Cristo, particolare, 57 x 47,5 cm, xvi secolo. Chiesa di San Giorgio dei Greci, Venezia. 31. Natività di san Giovanni Battista, particolare, opera di Giovanni di Gerusalemme, 79 x 57 cm. Chiesa di San Nicola, Tripoli, Libano.

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lui come al loro signore, muovono la testa e gli leccano le mani ed i piedi. Poiché hanno sentito emanare da lui l’odore che emanava Adamo prima della trasgressione, quando, nel Paradiso, erano andate da lui ed egli aveva dato loro il nome” (sant’Isacco il Siro)12. A Ravenna, sotto i tratti di Orfeo, il Cristo adolescente regna sul mondo animale. Trasformate in animali docili, le bestie selvatiche vengono nella pace a riunirsi attorno a san Spiridione e san Biagio; dei leoncelli alzano verso il profeta Daniele uno sguardo devoto; san Sergio di Radonež ha per compagno un orso; tenendo tra le braccia una pecorella, san Mammas cavalca un leone rosso.

Immagini, colori e simboli Nell’interpretazione di san Giovanni Damasceno gli angeli e i demoni, invisibili e incorporei, divengono visibili e corporei secondo la corrispondenza della natura umana: «Noi sappiamo dunque che la natura di Dio e quelle dell’anima e del demone non sono visibili ma che grazie a una certa trasformazione le si può vedere, poiché la Provvidenza ha attribuito dei tipi e delle figure agli incorporei, che sono senza tipi e privi di forma corporea, per tenderci la mano e darcene una conoscenza anche opaca e parziale, affinché noi non siamo nella totale ignoranza di Dio e della creazione invisibile. In effetti, per natura Dio è sempre incorporeo; l’angelo, l’anima e il demone sono incorporei se confrontati ai corpi materiali. Volendo che noi conosciamo gli incorporei Dio ha dato loro figura, tipi e immagini, secondo la corrispondenza della nostra natura; la loro figura corporale è resa visibile in una visione immateriale dell’intelletto. È questa che noi raffiguriamo e disegniamo. Come infatti dare immagine e figura ai cherubini? Ma la Scrittura contiene addirittura figure e immagini di Dio»13.

32. San Mammas, 32,5 x 26 cm, Cipro, xviii secolo. Coll. priv., Libano. 34. Sofia, la Saggezza divina, 49 x 39,5 cm, Russia, metà del xviii secolo. Coll. priv., Italia.

33. San Biagio e san Spiridione, 117,5 x 85,5 cm, secolo. Museo Storico, Mosca.

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Ai piedi del Cristo, l’icona della Teofania mostra sul fondo delle acque del Giordano due piccole figure umane, simbolo della vita terrestre un tempo sommersa dalle acque del diluvio. Sotto la croce della Crocifissione un cranio in una grotta nera è il simbolo di Adamo e dell’umanità decaduta. Il Cristo della Discesa al Limbo trae Adamo ed Eva dalle loro tombe: una figura umana incatenata su una superficie nera personifica Satana vinto e un mucchio di chiodi, catene e chiavi rotte rappresenta i rottami delle porte infernali spezzate. Sotto la colonna di Simeone il Giovane dalla bocca di un uomo sdraiato sfuggono tre diavoletti neri: il malato è guarito dal santo stilita. Il Cristo della Dormizione della Vergine porta in braccio un neonato in fasce, simbolo dell’anima immacolata di sua madre. San Michele schiaccia sotto i piedi un uomo mezzo nudo: «l’empio e impenitente» spira e una figuretta femminile simbolizza la sua anima, che viene raccolta dall’Arcangelo. L’icona della Divina Sapienza mostra un angelo incoronato e vestito su sette colonne: «La Sapienza si è costruita la sua casa, vi ha drizzato sette colonne» (Prv 9,1): il volto, le mani e le ali sono di colore rosso e gli abiti di oro puro. La tradizione cromatica trova la sua espressione iconografica. Il bianco è il colore della vita nuova. «Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero risplendenti e così candide quali nessun tintore della terra potrebbe farle» (Mt 9,3). All’Ascensione del Signore «due uomini vestiti di bianco» si trovano accanto ai discepoli. Per l’Areopagita il blu incarna il «mistero degli esseri». «La vita della carne è nel sangue» (Lv 17,11): colore del sangue, il rosso è il colore della vita. Il Cristo ha una tunica porpora e un mantello blu, mentre sua madre ha un vestito blu e un mantello porpora. Il verde è il colore della vita terrestre, il nero quello dell’abisso, il marrone bruciato quello dell’ascetismo e della rinuncia al mondo. Pietro porta il giallo e il verde variegato di blu; Paolo il verde e il rosso bordeaux. Come il profeta Elia, san Giovanni Battista è vestito di una tunica marrone scuro. Immagine dell’abisso, le caverne dipinte sulle icone sono di puro nero. «Il sesto giorno, secondo la Scrittura, introduce il compimento degli esseri sottomessi alla natura. Il settimo giorno conclude il movimento della temporalità. E l’ottavo giorno significa il modo dello stato superiore alla natura e al tempo» (san Massimo il Confessore)14. Il mondo non è più di questo mondo. Il tempo non è più; la decorazione è come immobilizzata e la scena è immersa in una luce sovraterrestre. «L’ottavo giorno annuncia il mistero ineffabile dell’eterno benessere degli esseri»15. Il mondo è di Dio e Dio è del mondo. Configurata al Regno, la terra ritrova la sua bellezza originaria. Votato a questo ministero, l’uomo è «una cetra, un tempio, un vestibolo di Dio»16. Ricevendo l’impronta divina le creature partecipano della somiglianza originale. Raccolto in Dio, il cosmo è.

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Note Simeone il Nuovo Teologo, Traité ethique i, Sources Chrétiennes n. 122, Cerf, Parigi, p. 191. Nikolaj Berdjaev, Esprit et Liberté, capitolo i, Desclée de Brouwer, Parigi 1984, p. 59. 3 Pascal, Pensieri, frammento 206. 4 Simeone il Nuovo Teologo, P.G. 120, 603; tr. fr. in Petite philocalie de la prière du cœur, Seuil, Parigi 1979, p. 132. 5 Simeone il Nuovo Teologo, Chapitres Théologiques, Gnostiques et Pratiques, Sources Chrétiennes n. 51, Cerf, Parigi, p. 75. 6 Giovanni Damasceno, Sur la Dormition, iii, 4, Sources Chrétiennes n. 80, Cerf, Parigi, p. 193. 7 Ibidem, ii, 6, p. 141. 8 Massimo il Confessore, Centurie sulla Teologia e l’Economia, i, 68; tr. fr. Philocalie des Pères Neptiques, S.O. 6, Abbazia di Bellefontaine. 9 Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli teologici, gnostici e pratici, cit., p. 57. 10 Paul Evdokimov, L’ortodossia, tr. it. il Mulino, Bologna 1965, p. 80. 11 Simeone il Nuovo Teologo, P.G. 120, 603; tr. fr. in Petite Philocalie, cit., p. 132. 12 Isacco il Siro,Œuvres Spirituelles, Ventesimo discorso ascetico, Desclée de Brouwer, Parigi 1981, p. 139. 13 Giovanni Damasceno, Défense des Icônes, in La Foi Orthodoxe, cit., p. 230. 14 Massimo il Confessore, Centuries sur la Théologie, cit., i, 51, p. 90. 15 Ibidem, i, 56, p. 91. 16 Ibidem, ii, 100, p. 124. 1 2

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Capitolo quarto

Fedeltà e libertà

L’immagine e la Scrittura L’arte dell’icona è testimonianza di una perennità non individuale. Quest’opera dedicata alla celebrazione del sacro non ha potuto nascere in una sola epoca, né con le ricerche di una sola scuola, né grazie all’immaginazione creatrice di un artista ma è sorta durante lunghi secoli di lavoro ininterrotto. Pedagogica e misterica, l’icona obbedisce a dei canoni artistici. Il pensiero ortodosso ha sottolineato vigorosamente il ruolo e il dovere dell’immagine. La tradizione iconografica si iscrive nel cuore di questo pensiero: un linguaggio teologico puramente pittorico costituisce il fondamento e l’edificio interiore di ogni icona. L’ultimo Concilio ecumenico, sottolineando la prossimità dell’icona alla Sacra Scrittura, l’eleva fino al rango dei Santi Vangeli: «L’immagine sacra di Nostro Signore Gesù Cristo deve essere venerata con lo stesso onore con il quale sono venerati i Santi Vangeli». L’immagine costituisce la tradizione pittorica della Chiesa d’Oriente allo stesso titolo delle tradizioni scritta ed orale: è la manifestazione materiale della Tradizione sacra. In questa prospettiva esclusivamente ecclesiale l’arte dell’iconografo non è l’arte di un individuo. «Ognuno di noi è della terra. Solo la Chiesa è del cielo», dice Khomiakov. Al pittore la Chiesa impone una disciplina tanto spirituale che artistica. Regole dettagliate sono prescritte nei manuali e nelle guide: per preservare la purezza dell’arte religiosa i canoni fissano le istruzioni relative alla tipologia dei santi e delle feste. La Chiesa tiene le redini al talento. «Agiografo», l’iconografo scrive la santità per mezzo della pittura. La sua arte è quella della Chiesa. Il vii Concilio ecumenico afferma formalmente questa dipendenza: «Quest’arte non è stata inventata dagli artisti. Al contrario, è un’istituzione approvata dalla Chiesa “cattolica”. Solo il lato artistico dell’opera appartiene all’artista ma la sua istituzione dipende in modo evidente dai santi Padri ed appartiene loro»1. Solo le personalità spirituali dotate di un reale talento sono chiamate a consacrarsi all’iconografia. Ricordando l’importanza dell’icona, la Chiesa vieta questa pittura agli artigiani non dotati «perché la loro incapacità non sia un’offesa a Dio»2. Nel suo manuale intitolato Ermeneutica della pittura, Dionigi di Furna, iconografo atonita del xvii secolo, invita i pittori a praticare il disegno prima di affrontare l’iconografia: «Chi vuole apprendere l’arte pittorica, innanzitutto studi e si eserciti un po’ nel disegno, solo, anche senza canoni, fino a che divenga capace»3. La Chiesa orienta il suo pittore. Il sacerdote lo benedice, prega lo Spirito Santo, legge il «Re Celeste» e il tropario della Trasfigurazione, poi, facendo il segno della croce sul capo dell’iconografo, 101

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invoca il Cristo, la Madre di Dio e san Luca: «Dio di tutto ciò che esiste, illumina e istruisci l’anima, il cuore e l’intelligenza del tuo servitore [nome] e dirigi le sue mani a dipingere in modo irreprensibile e perfetto l’immagine della Purissima Madre di Dio e di tutti i santi, per la gloria, la gioia e la bellezza della santa Chiesa, e per la remissione dei peccati a coloro che venerano e baciano con devozione queste icone, attribuendo l’onore al loro prototipo. Liberalo da ogni influenza diabolica così che progredisca in tutti i tuoi comandamenti, per l’intercessione di tua Madre Immacolata, del santo apostolo ed evangelista Luca e di tutti i santi»4.

La luce del Tabor Nella tradizione iconografica la luce del Tabor ha un posto d’onore. Il tropario della Trasfigurazione invoca «la luce eterna del Signore»: «Fa’ brillare anche su di noi peccatori la tua luce eterna, per le preghiere della Madre di Dio. Fonte di luce, gloria a te». «E questa luce – nota Dostoevskij – che distingue l’uomo dalla materia». Vestito di bianco, Cristo risplende sul monte Tabor. Mosè ha il suo posto sulla cima destra, Elia su quella sinistra. In primo piano, fulminati dalla Trasfigurazione, gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni cadono intimoriti con la faccia a terra (Mt 17,2). L’iconografo dipinge innanzitutto l’icona della Trasfigurazione, affinché i raggi della luce immateriale illuminino e penetrino la materia delle icone che dipingerà. La terminologia iconografica chiama l’oro luce. L’arcobaleno non ha l’oro: l’oro non è un colore e non ha colore. I colori dell’icona sono attraversati dall’oro: «Perché tutto ciò che appare

35. Trasfigurazione, opera di Teofane il Greco, 184 x 134 cm, xv secolo. Galleria Tretjakov, Mosca. 36. Trasfigurazione, opera di Rublëv, 1405. Cattedrale dell’Annunciazione, Mosca.

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è luce» (Ef 5,13). L’iconografo è nella luce: «Se egli pone attenzione al modo che impiega per vedere, anche qui ritrova la luce» (san Gregorio Palamas)5. Monaci, chierici o laici, gli iconografi sono uomini spirituali che vivono una vita cristiana esemplare. «Agiografi» che dipingono la santità e «biographoi» che dipingono la vita. Vivendo nella preghiera e nella contemplazione, dedito al silenzio, all’ascesi, al «digiuno degli occhi», in compagnia dei santi, l’iconografo è «nella familiarità di Dio» (san Cirillo d’Alessandria). Nell’umiltà, si sottomette volontariamente alla Chiesa: «come il ferro al fabbro – diceva san Serafino di Sarov – così ho rimesso la mia volontà tra le mani di Dio»6. Nessuna parte della sua opera sembra lasciata alla libera improvvisazione. La composizione, gli elementi figurativi, l’azione e i colori vengono riferiti a dei canoni dettagliati. Nel proprio lavoro il pittore segue le direttive della Chiesa e resta fedele alla sua Tradizione. Accanto ai santi martiri, ai santi dottori e ai santi confessori, la Chiesa ortodossa pone i santi iconografi, la cui vita non fu meno santa dell’opera dipinta che essi hanno consacrato a Dio.

Il Tempio cosmico L’icona è un’immagine dipinta a tempera, con pigmenti di colori naturali macinati e mescolati al giallo d’uovo, sulla superficie di una tavola di legno ricoperta di un fondo di gesso stemperato nella colla. «Il mondo è un tempio cosmico di cui l’uomo è il sacerdote» dice san Massimo il Confessore. L’icona è un microtempio: i suoi materiali fanno sì che alla sua creazione partecipino i diversi elementi del mondo visibile. Il legno rappresenta il regno vegetale, la colla e l’uovo quello animale, i pigmenti di colore e il gesso quello minerale. «Noi ti offriamo ciò che è tuo, da ciò che è

tuo, in tutte le cose e per tutte le cose» canta la liturgia di san Giovanni Crisostomo. Usati allo stato naturale dopo essere stati puliti, gli elementi naturali partecipano con il pittore alla lode del loro comune creatore. Il nome del santo figura sull’icona e la santifica. L’iconografo è anonimo. Sono rare le icone che portano il nome di chi le ha dipinte e queste firme sono spesso accompagnate da qualificativi che sottolineano l’umiltà dell’artigiano. Un’icona della Discesa agli Inferi della scuola d’Aleppo porta la firma dell’«umile servitore di Dio Yusuf al-Musawwir» (Giuseppe l’iconografo); un dipinto di dimensioni murali raffigurante il Giudizio Universale porta la dedica: «Dipinta dalla mano mortale dell’umile schiavo, il monaco Nemeh, figlio del defunto sacerdote Yusuf al-Musawwir». Per Plotino l’uomo si realizza scolpendo la propria immagine. «Non cessare di scolpire la tua statua» (i,6,9). Per l’iconografo l’essere è il Verbo, il sé un’immagine del Cristo. L’autoritratto si realizza in Colui che è, poiché «nulla può esistere che non possieda esistenza nel seno di Colui che è» (san Gregorio di Nissa)7. Più che un’opera d’arte che lega l’artista allo spettatore, l’icona si propone come una comunione con il prototipo. L’artista è uno spettatore che partecipa alla luce dell’Artista. Van Gogh qualifica il Cristo di «Artista increato, più grande di tutti gli artisti». L’iconografo è lo spettatore-pittore di questo Artista supremo. I volti dei santi sono volti di Cristofori. Ogni icona è un’icona del Cristo. In Cristo la porta si apre sull’infinito. L’anima ha per guida il Verbo che dice: «Io sono la porta, chi per me passerà sarà salvo; entrerà ed uscirà» (Gv 10,9). «Ed essa non cessa mai di entrare né cessa di uscire, ma entra sempre, progredendo verso ciò che è al di sopra ed esce sempre da ciò che ha già colto» (san Gregorio di Nissa)8. Artigiano e artista, pur obbedendo scrupolosamente alla Tradizione, l’iconografo crea ed innova. L’enigma segreto dell’icona s’iscrive in quest’ambiguità. Un’estetica che sembra statica, com-

37. Pantocratore, 54 x 43,5 cm, Russia, xviii secolo. Coll. priv., Libano. 38. Pantocratore, 60 x 40 cm, Romania, xix secolo. Coll. priv., Parigi. 39. Pantocratore, 44 x 32,5 cm, xix secolo. Coll. priv., Libano.

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40. Vergine Conduttrice, particolare. Coll. priv., Libano. 41. Vergine Conduttrice, 75 x 40 cm, Siria, xix secolo. Coll. priv., Libano. 42. Vergine di Krypti, 85 x 56 cm, xiv secolo. Chiesa San Giorgio dei Greci, Venezia.

43. Vergine Conduttrice, 40 x 33,5 cm, Russia, xix secolo. Coll. priv., Libano.

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piuta e chiusa, resta paradossalmente aperta, soggetta a mutamenti continui. L’imitazione di un modello non esclude l’intervento dell’originalità dell’artista. L’immagine familiare viene rivestita di luce nuova. «Di gloria in gloria» l’icona si rinnova senza mai esaurirsi. Dal vi al xviii secolo il viaggio dell’icona attinge e si abbevera a imprestiti ed innovazioni molteplici. Pur radicandosi in una Tradizione uniformizzante, l’arte incarna un’unità di sovrabbondante ricchezza. La stessa immagine è multipla, diversa e infinitamente nuova. Segnata dalle diverse eredità geografiche e culturali dei diversi paesi del mondo ortodosso, l’icona porta l’impronta del genio proprio del suo iconografo ispirato. Il segreto dell’opera appartiene alla concezione ecclesiologica, il suo mistero al dono del pittore, il cui apporto e originalità le conferiscono veracità e vita.

La sobria ebbrezza

45. Crocifissione, particolare, 31 x 27 cm, Russia, xvii secolo. Coll. priv., Libano.

I volti delle icone sono animati di un «espressionismo» segreto. Pur obbedendo a una struttura geometrica prestabilita il volto non si trasforma in segno grafico ma vive, sente e s’illumina. Non parla, non esprime, è. Non è una nullità che si azzera in Dio. Trasfigurato, il sentimento diviene l’essere. Dall’austero ascetismo greco alla soave dolcezza russa, l’icona incarna le profondità dell’emozione umana. Il lirismo si mescola all’ebbrezza, la beatitudine alla tristezza, il pentimento all’allegrezza e l’angoscia all’impassibilità. Volti d’angeli e volti d’uomini sono sempre animati da un misurato soffio d’emozione. La natura umana deificata non nega i sensi corporali-spirituali. Di natura incorporea, gli angeli non sono sprovvisti di poteri sensoriali. «Essi sono lontani da ogni affezione del corpo, benché non impassibili, poiché solo Dio è impassibile» (san Giovanni Damasceno)9. L’impassibilità è di Dio. La natura umana cerca di acquistare con la grazia gli attributi divini ma «l’immagine e la somiglianza» non sono l’identità. Un volto denudato di ogni sentimento non è più un volto. Una vena «espressionista» avviva l’arte dell’icona. Puro dai tumulti e dalle scissioni, l’iconografo vive la «sobria ebbrezza» evocata da san Gregorio di Nissa. Dal pittore alla pittura, a colui che, contemplandola, la penetra e l’abita, l’icona non spiega, evoca l’incontro e celebra la comunione. La tipografia è fissa e immutabile. La Vergine Odigitria (colei che conduce) mostra con la sua mano destra il Cristo Bambino, che sostiene con l’altra mano. Un critico contemporaneo commenta: «La Vergine ci guarda e sembra interessarsi a noi, anche se in un modo piuttosto impersonale… È in qualche modo una predica su Maria. In un senso profondo e veramente religioso, è un “manifesto pubblicitario” che dice alle persone di “andare verso Maria con tutte le loro preoccupazioni”»10. Didattico e simbolico, il modello si moltiplica integralmente. Nell’arte di questo «manifesto pubblicitario» c’è una sensibilità completamente moderna: il tema è statico, l’innovazione, quindi la creazione artistica, è nell’esecuzione plastica. Non l’immagine fa la pittura, ma la pittura fa l’immagine. All’espressione non oggettivabile degli occhi e della bocca, si uniscono la sottigliezza della realizzazione plastica e la forza dell’espressione estetica dell’opera. Il modellato dei colori e la loro uniformità, l’apporto dell’oro, gli effetti del gioco della luce e la disposizione dei piani offrono una struttura interna il cui segreto appartiene all’iconografo. L’icona rifiuta le leggi della prospettiva e la ricerca del naturalismo ma non si imprigiona nell’«astratto». Il fondo monocromo riduce i piani a uno spazio bidimensionale ma non esclude radicalmente la presenza della terza dimensione. «Tu sei libero dal peso della carne ma non sei libero dall’incarnazione divina» nota il metropolita Georges Khodr’11. Il tempo ha lasciato il suo segno sull’icona della Vergine di Krypti, della cui superficie dipinta si sono conservati

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44. Dormizione della Vergine, particolare, 165 x 118 cm, Scuola d’Aleppo, xviii secolo. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano.

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46. Dormizione della Vergine, particolare, opera di Teofane il Greco, 82 x 68 cm, xv secolo. Galleria Tretjakov, Mosca. 47. Cena, particolare. Chiesa dei Santi Apostoli, Patriarcato di Pe0. 48. Calice. Santa Sofia, Ohrid.

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solo i volti. Gli occhi, il naso e la bocca sono stilizzati. Il modellato è caldo e preciso. Un chiaroscuro trasparente mette l’accento sul rilievo della carnagione. Volto di carne e di sangue. Volto deificato. I corpi dei personaggi e degli elementi non gettano ombre ma i riflessi della luce e dell’ombra lasciano le loro tracce sui volti, i corpi e i vestiti, come sui diversi elementi dell’immagine; rifiutando il sistema prospettico al quale l’antichità romana aveva assegnato un ruolo regolatore, l’icona rivela luci di un naturalismo misurato che immette il soffio della vita nell’immagine spoglia ed astratta. L’uomo è umano, terrestre, sovrumano e celeste, naturale, soprannaturale e spirituale. Le due nature scisse trovano la loro unione antinomica e paradossale. La visione mistica del mondo non nega il mondo: «L’esoterico non rifiuta né elimina l’essoterico, non lotta contro di lui, l’approfondisce» (N. Berdjaev)12. Il temporale culmina nell’eterno, l’effimero nell’immutabile. La decorazione è come immobilizzata ma «i segni del tempo» penetrano la luce soprannaturale. L’eternità non è quella del mondo intelligibile di Platone ma quella del mondo del Dio vivente. La prospettiva non è sempre rovesciata, non segue un sistema costante: i punti di fuga sono simultaneamente davanti e dietro. «Né la prospettiva lineare né il chiaroscuro sono esclusi dall’icona; ma in essa cessano di servire a creare un’illusione del mondo visibile e s’iscrivono nella struttura generale nella quale domina la “prospettiva rovesciata”… Il sistema estremamente variato e flessibile preserva tutta la libertà del pittore, tuttavia è applicato in modo conseguente e costante in conformità al suo indirizzo» (L. Ouspensky)13. L’icona restituisce l’essenziale della realtà visibile, purifica e semplifica, ma questa stilizzazione resta complessa e indeterminata. L’approccio dell’iconografo si avvicina a quello di un Cézanne o di un Matisse. Alcuni oggetti raffigurati sono rappresentati a volo d’uccello, altri a filo terra. Occorrerebbe vedere le diverse versioni della Cena, della Natività o dell’Ospitalità di Abramo. La fantasia degli iconografi si svolge qui in tutta la sua ampiezza. Oggetti, ornamenti, architetture: tutto viene rinnovato in continuazione. È escluso il naturalismo empirico ma la regola della stilizzazione non sacrifica la precarietà dello sguardo umano. Le strutture del naturalismo e le leggi dell’astratto si rovesciano e si penetrano reciprocamente. La prospettiva iconica obbedisce ad un imperativo «soggettivo»: questo carattere si manifesta chiaramente nel paesaggio delle costruzioni architettoniche che costituiscono l’ambientazione delle scene. Con i suoi edifici, i suoi santuari, le sue finestre e le sue porte, la costruzione architettonica appare fondamentalmente alogica. «Nelle icone l’architettura ha qualcosa di un po’ folle, che libera il gioco della bellezza» (O. Clément)14.

49. Natività, particolare, 1313-14. Chiesa del Re, Studenica. 50. Natività, particolare. Santa Sofia, Ohrid.

L’uomo del desiderio Più che artista asservito ad una tradizione concettuale chiusa, l’iconografo è «colui che vuole», l’uomo del desiderio dell’Apocalisse (22,17). I Padri parlano della «sensazione di Dio». «L’amore di Dio è per natura un calore» scrive sant’Isacco il Siro. Nella vertigine controllata di questa «sensazione superiore» (san Massimo il Confessore) il pittore maneggia forme, piani, linee e colori e li dispone per rivelare l’ineffabile. Instancabilmente ripetuta, l’immagine resta sempre inedita. Formulata, la tradizione iconografica resta informulabile. La sua pienezza non si realizza nell’autonomia delle sue leggi ma nella partecipazione a Colui che abita al di là di ogni legge. Massimo il Confessore distingue nell’uomo due libertà. Una libertà innata, profonda ed intuitiva, e una libertà personale e sempre «libera». In Cristo la libertà è restaurata, unificata. «Cristo appunto è la libertà ultima – scrive Berdjaev – non la libertà senz’oggetto, ribelle e che si richiude 112

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in se stessa, che perde l’uomo e distrugge la sua immagine, ma la libertà ricca di contenuto, che ribadisce l’immagine dell’uomo nell’eternità»15. Il movimento dell’arte si apre sull’inattingibile, «essendo infinito l’oggetto attraversato, essa non cesserà mai di muoversi in avanti, poiché non troverà mai il limite della sua ricerca, che permetterebbe al movimento di arrestarsi» (san Gregorio di Nissa)16. Nella «libertà dei figli di Dio» (Rm 8,21) lo spazio della creazione è illimitato. Da un’icona a un’altra l’immagine va «di inizio in inizio, tramite inizi che non hanno mai fine». In questa prospettiva escatologica l’icona compiuta, l’ultima, sarebbe il mondo che, al termine dei secoli futuri, santificato e deificato, diverrebbe il luogo di Dio, la sua dimora e la sua incarnazione.

Note 3 4 5 6 7 8 9

Mansi, Nic. ii, Sesta sessione, 252 C. Le Stoglav, Parigi 1920, p. 135. Dionigi di Furna, Guide de la peinture, tr. fr. Didron et Durant, Parigi 1845. Ibidem. Gregorio Palamas, Triades, tr. fr. Lovanio 1959, p. 45. In Valentine Zander, Séraphim de Sarov, Parigi, p. 71. Gregorio di Nissa, Cathéchèse de la Foi, tr. fr. Desclée de Brouwer, Parigi 1978, p. 71. Gregorio di Nissa, La Colombe et la Ténèbre, Omelia xii, tr. fr. L’Orante, Parigi 1967, p. 174. Giovanni Damasceno in La Foi Orthodoxe, ii, 3, p. 47. 10 Hendrik Roelof Rookmaaker, L’Art Moderne et la Mort d’une Culture, Ligue pour la Lecture de la Bible, Guebwiller 1974, p. 9. 11 Testo arabo di Al Aykouna, Beyrouth, An-Nahar, p. 4. 12 Nikolaj Berdjaev, Esprit et Liberté, Desclée de Brouwer, Parigi 1981, p. 53. 13 Léonide Ouspensky, Théologie de l’Icône, Cerf, Parigi 1980, pp. 469-471. 14 Olivier Clément, Il volto interiore, Jaca Book, Milano 1978, p. 52. 15 Nikolaj Berdjaev, Lo spirito di Dostoevskij, tr. it. Einaudi, Torino 1977, p. 76. 16 Gregorio di Nissa, La Création de l’Homme, cap. xxi, Desclée de Brouwer, Parigi 1982, p. 116. 1 2

51. Cena, 93 x 75 cm, Siria, xix secolo. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano. 52. Anamnesi, 1313-1314. Chiesa del Re, Studenica.

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Parte Seconda

Storia dell’icona

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Capitolo quinto

Le origini

Segni e simboli La Chiesa cresce nel cuore della koinè, nella quale convivevano e si fronteggiavano Greci, Romani, Ebrei, pagani, gnostici, filosofi, teosofi e mistagoghi. Il cristianesimo, che afferma di essere «la vera gnosi» e il solo detentore della vera fede, assume un linguaggio aperto. All’Areopago Paolo riconosce nell’altare «al dio sconosciuto» l’altare del Cristo, colui che gli Ateniesi, «i più religiosi degli uomini», adorano «senza conoscere» (At 17,23). Nella sua ascesa verso la «rivelazione» il paganesimo, essenzializzato, manifesta il divino. Per Giustino di Roma, Dio non annuncia il suo avvenimento solo nella Bibbia. Con il suo Verbo egli rischiara e illumina ogni anima di buona volontà: nella sua luce filosofi e poeti sono cristiani che non sanno di esserlo. «La presenza invisibile del logos è diffusa ovunque»1, aggiunge sant’Ireneo di Lione. Poeta, mistico e pedagogo attento, Clemente di Alessandria evoca la presenza di un «secondo Antico Testamento» e avvia la cristianizzazione dell’ellenismo: Platone è stato illuminato dalla Scrittura; l’acclamazione di Eschilo: «Salve o Luce!» designa il Cristo ed orienta verso di lui. Modesta e limitata, la prima arte cristiana inizia il suo cammino durante le persecuzioni. A Roma, le catacombe nate nel iii secolo dipendono dall’arte dell’epoca; l’iconografia delle cappelle funerarie adotta lo stile greco-romano diffuso nelle diverse regioni dell’Impero: geroglifici, segni, figure, simboli e scene narrative che commemorano il Cristo, la sua vita, i suoi miracoli, la sua morte e la sua resurrezione. Clemente di Alessandria mette l’accento sui primi geroglifici cristiani: «Se noi abbiamo un sigillo, che raffiguri una colomba o un pesce, una nave che naviga nel vento o una lira, lo strumento musicale di cui si serve Policrate, o un’ancora marinara, come quella che Seleuco aveva fatto incidere sul suo anello e, se si tratta di un pescatore, egli si ricorderà dell’apostolo e dei fanciulli salvati dalle acque…»2. San Clemente Romano confronta il Cristo resuscitato alla Fenice che rinasce dalle sue ceneri. Per i testimoni della Chiesa dei primi secoli, Orfeo e Apollo sono figure-simboli del Cristo incarnato. Un affresco della catacomba di Callisto mostra una idillica natura morta in cui i simboli si moltiplicano: un pesce e cinque pani rotondi in un cesto. Il pesce simbolizza il Cristo e i cristiani; i pani illustrano il miracolo della prima moltiplicazione dei pani nel Vangelo (Mt 14,17-19) ed evocano il pane eucaristico. Nel cimitero di Commodilla l’immagine è più esplicita: sette panieri rappresentano le sette ceste di pane della seconda moltiplicazione dei pani (Mt 13,35-37) e una 119

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GENESI DELL’ICONA

53. Cristo-Fenice, Antiochia, v secolo. Museo del Louvre, Parigi. 54. Cristo-Elios, iii secolo. Necropoli sottostante alla basilica di San Pietro, Roma. 55. Il Buon Pastore, iii secolo. Catacombe di Callisto, Roma.

Roma conquista l’Oriente dove s’infiltrano e s’impongono le tradizioni locali, soggiacenti all’influenza grecoromana. In Egitto i ritratti funerari cristallizzano questa osmosi interiore. Pur seguendo i canoni romani del ritratto, il pittore si orienta verso una stilizzazione che porta alla soglia dell’icona. Le labbra chiuse, il naso affilato, gli occhi immensi fanno vedere un volto idealizzato. L’originario tende verso l’originale, il temporale verso l’intemporale. Il Levante orientalizza l’ellenismo. Dura offre uno stile composito: sprovvisti di peso, i personaggi si collocano su una superficie uniforme. Essi sono invariabilmente dipinti di fronte, con gli occhi fissi sullo spettatore. La scala della loro raffigurazione esprime la loro importanza. Dagli eroi agli elementi minori, tutto è sottomesso all’astratto. Bisanzio cristianizza l’arte. Attraverso l’alterità delle estetiche, la Chiesa d’Oriente forgia il proprio linguaggio plastico. Solo un numero limitato di pitture a encausto su legno è sopravvissuto delle icone dell’epoca pre-iconoclasta. Esse documentano le diverse componenti della sintesi bizantina. La Vergine col Bambino è seduta in trono, circondata da angeli e santi guerrieri: Maria e gli angeli sono dipinti al modo antico, Gesù ha il corpo di un bambino ma il volto annuncia il bambino-adulto dell’icona. Con gli abiti riccamente ornati e gli occhi a mandorla, i santi guerrieri esprimono una sensibilità orientale. C’è poi la doratura, che dalle aureole passa alla croce e alle tuniche, preannunciando l’«assist». Il ritratto di san Pietro segue l’arte del Fayum. Sopra di lui, nei medaglioni, il Cristo, la Vergine e san Giovanni Evangelista offrono un altro stile: il personaggio si trasforma in persona, il ritratto in icona.

45. Ritratto di donna, El Fayum. Museo archeologico, Firenze.

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Pagine precedenti 46. Il Tempio di Salomone, affresco della sinagoga di Dura Europos, iii secolo. Museo Nazionale di Damasco. 47. Il santuario di Dagon devastato dall’Arca, affresco della sinagoga di Dura Europos, iii secolo. Museo Nazionale di Damasco. 48. Giovane con corona d’oro, 55 x 21 cm, Fayum. Museo Puškin, Mosca. 49. Cristo Pantocratore, 84 x 43,5 cm, vi secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

Pagine seguenti: 50. Vergine con bambino (detta anche Madonna del Conforto), vi secolo. San Francesca Romana (Santa Maria Nova), Roma. 51. Vergine in trono tra san Teodoro e san Giorgio, 68,5 x 48 cm, vi secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

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52. San Pietro, 93 x 53 cm, vi secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

figura «viva» si aggiunge alla «natura morta»: l’Agnello del «libro della vita» dell’Apocalisse tende la sua zampa e indica i panieri con un gesto simbolico; il miracolo prefigura l’eucarestia. Su un mosaico di Dafne, in piedi su un monte che si innalza in un paesaggio fiorito, una fenice aureolata simbolizza il Cristo sul monte del Paradiso. La coscienza cristiana si esprime con il linguaggio antico. Sul carro del sole un Cristo-Helios si innalza in uno spazio dorato, circondato da un tralcio di vite. Un Cristo-Orfeo incanta la creazione decaduta e la riporta dagli inferi; un Cristo-Apollo personifica il logos, «luce del mondo» (Gv 8,12). Assunta da una parabola del Vangelo di san Giovanni e dai temi bucolici pagani, la figura del «Buon Pastore» si moltiplica in immagini diverse: il Cristo vi compare sotto i tratti di Endimione, di Ermete Erioforo o di Aristeo. Il pastore che porta il suo agnello evoca il «solo pastore» (Gv 10,16), colui che è venuto «perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza» (Gv 10,10). La didattica cristiana attinge all’estetica dell’Antichità. Le pitture sono realizzate con un’estrema economia di mezzi tecnici, tuttavia l’opera eseguita riflette il dominio dell’arte tradizionale. Lungi dal costituire uno stile popolare pittoresco, l’arte cristiana primitiva di Roma è un’arte classica. La semplificazione non esclude il naturalismo. Ridotto a puro tracciato, il disegno in risalto di alcuni colori acquista la densità del modellato propria della pittura romana. La tradizione ereditata si mette al servizio del nuovo culto. Nata vecchia, la prima arte cristiana viene inglobata nell’iconografia classica della tarda antichità.

L’ellenismo orientalizzato Paradossalmente, i primi bagliori della nuova estetica si manifestano indipendentemente dal cristianesimo. Roma conquista l’Oriente dove le tradizioni locali soggiacenti all’influenza greco-romana s’infiltrano e s’impongono in modo misterioso. In Egitto questa fusione interiore si cristallizza nei ritratti di sarcofaghi, detti ritratti del Fayum. Senza rinunciare al naturalismo, un insieme variato di ritratti lascia trasparire una comune somiglianza. Pur seguendo i canoni ellenistici e romani del ritratto, il pittore che riproduce il modello realistico in modo conforme alla fedeltà figurativa si orienta verso una stilizzazione che conduce alla soglia dell’icona. I ritratti più «classici» lasciano una testimonianza etnografica di un popolo dell’Antichità; altri operano un’evoluzione sensibile nello stile. Più «astratti», i volti vanno al di là della loro determinazione d’origine. L’arte funeraria lascia un volto che supera i limiti di luogo e di tempo. L’originario tende verso l’originale, il temporale verso l’intemporale. Ritratti funerari, i volti dei defunti sono tuttavia dei volti di persone di età giovane. Dipinto dal vivo molto prima della morte del soggetto, il ritratto viene completato e concluso dopo il suo decesso. Le labbra chiuse, il naso affilato, gli occhi stilizzati e lo sguardo eternamente aperto fanno vedere un volto idealizzato. A questi caratteri preiconici s’aggiunge a volte la lamina d’oro che, dallo sfondo, diviene anche corona d’alloro od ornamento per conferire al volto la sua luce sovraterrestre. Passando dal funerario al religioso, alcuni volti del Fayum rappresentano dei ritratti di divinità. Il tema cambia, la «natura» dipinta ed espressa resta la stessa. Uomo di tipo indigeno o Serapide, Ritratto di una donna o Iside: titolo umano o titolo divino, uno stesso volto di impone e si ripete. L’umano si fa divino, il divino umano. Ellenizzato, il Levante orientalizza l’ellenismo. I rilievi funerari di Palmira fondano un’estetica greco-siriana. Il defunto è rappresentato in piedi o a mezzo busto sulla stele eretta sulla tomba individuale. Secondo la convenzione della frontalità la figura si pone di faccia. A discapito del modello scultoreo, lo scultore disegna in rilievo. Le forme si semplificano e si schematizzano. Due cerchi 129

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concentrici determinano l’occhio; le pieghe assumono una ritmicità regolare. Il modello astratto ha la meglio sul modello naturalistico. Al nome del defunto si aggiunge il termine aramaico nafscha: soffio, anima o persona. Al di là della somiglianza terrestre, innalzato sulla tomba, il volto si apre all’immortalità, per divenire luogo dell’anima e sua dimora. Il rilievo religioso si modella su quello funerario. Il drappeggio greco si allea al grafismo orientale. Immobili, sole o allineate come in parata, le divinità aureolate sono rappresentate a volte con i loro animali e i loro simboli. La contemplazione sembra essere la loro unica azione. Come i ritratti dei defunti, le figure sono rappresentate di fronte, con lo sguardo fisso e immutabile. Abbigliate come i generali romani esse annunciano i futuri santi guerrieri. Sono spesso accompagnate dall’iscrizione dei loro nomi, a volte ridotti a qualificativi anonimi: «uno», «unico», «misericordioso». All’immagine del dio in un angolo si aggiunge l’immagine di un mortale: è il dedicatario che, in segno di pietà, compare offrendo incenso sul fuoco di un altare: azione-simbolo che si trasforma in un segno stabilito ripreso dall’artista in questi rilievi cultuali. Gli affreschi dell’ipogeo dei Tre Fratelli confermano l’esistenza di una pittura funeraria palmirena. Come nei rilievi, le figure sono vigorosamente stilizzate. L’estetica classica è abbandonata. La linea d’orizzonte è abolita. Il disegno è al posto d’onore. Il cromatismo è «piatto». La composizione è strutturata in modo armonico e il movimento assorbito dalla stabilità. I resti di una domus ecclesia scoperti a Dura Europos documentano la nascita di un’estetica estranea alla grande tradizione romana. Anteriore all’età costantiniana, questa piccola chiesa realizzata «clandestinamente» all’interno di una casa offre un insieme di pitture murali che si riferiscono a scene bibliche. Sopra la vasca battesimale il Buon Pastore porta sulle spalle la pecorella; ai suoi piedi sono rappresentati, in scala ridotta, Adamo ed Eva. Due registri si sovrappongono sui muri: su quello superiore scene dei miracoli di Cristo si succedono secondo lo «stile continuo». Vi si riconoscono la Guarigione del paralitico e Cristo e san Pietro che camminano sull’acqua. Sul registro inferiore le sante mirofore sono rappresentate con i ceri in mano, allineate davanti a un grande sarcofago decorato di due stelle. A questa composizione monumentale si aggiungono due scenette con la Samaritana al pozzo e Davide vincitore di Golia. Ingenua e rustica, la pittura è il prodotto di uno stile locale definito, che a Dura è testimoniato anche negli affreschi di una sinagoga e di un tempio palmireno, conservati oggi al Museo di Da-

56. Trittico con Serapide ed Iside, 40 x 19 cm, Egitto, iii secolo. J. Paul Getty Museum, Malibu, California. 57 a-b. Busto femminile. Museo di Damasco, Siria. 58. Busto femminile. Museo di Damasco, Siria.

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masco. La sinagoga offre la testimonianza, finora unica, dell’esistenza di un’arte cultuale figurativa ebraica: un ricco programma iconografico traduce in immagini dipinte una scelta di racconti biblici. Il tempio pagano mostra numerose grandi composizioni sceniche che rappresentano il sacrificio rituale dell’incenso e un insieme di quadri, tra cui una scena di caccia di Mitra. Di ispirazione pagana, greca e cristiana, l’eredità di Dura offre uno stile composito greco, partico e levantino. La pittura è influenzata dall’Antico Oriente. I personaggi, privati del loro peso, vengono collocati su uno sfondo unidimensionale. La profondità dello spazio che si apre dietro di loro si trasforma in superficie monocroma ed uniforme. Lo stile è lineare. Tracciata con cura, la linea del disegno coglie meticolosamente i diversi elementi della composizione: le pieghe dei drappeggi, gli elementi dell’architettura, gli oggetti e gli ornamenti sono stilizzati e schematizzati. Vengono banditi i movimenti naturali. Stereotipati, i gesti sono mantenuti entro limiti fissi e immutabili. Ciò che è momentaneo viene escluso; lo ieratismo condiziona e regna. L’azione viene espressa con un dito puntato in avanti, la preghiera con le mani ricoperte dall’estremità della tunica, la beatitudine con le braccia che si innalzano al cielo in preghiera. La scala della rappresentazione dei personaggi esprime la loro importanza. I gruppi sono disposti in falangi compatte. Semplici ritratti o scene narrative, dai protagonisti agli elementi minori tutto è sottomesso all’astratto. Alle reminiscenze orientali si aggiungono elementi propri dell’eredità ellenistica. Le architetture rappresentate sugli affreschi sono di marchio greco: il tempio degli dei palmireni e quel-

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59. Triade degli dei, Palmira, i secolo. Museo del Louvre, Parigi. 60 a-d. Pittura murale della Sinagoga, Dura-Europos, iii secolo. Museo di Damasco, Siria.

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lo di Salomone sono corinzi. Uno zoccolo greco ornato di pantere dionisiache e di maschere teatrali viene posto tra le pareti della sinagoga. Secondo il modello persiano, alcuni personaggi sono vestiti con tuniche corte, pantaloni a sbuffo e stivali alti. Altri sono vestiti alla greca: calzati di sandali portano i chitoni e gli imationi tradizionali. Davide, il re cantore, è raffigurato con i tratti di Orfeo: indossa un copricapo frigio, suona il flauto e incanta gli animali che lo circondano. Il modo di trattare i volti conferisce a questo stile la sua originalità singolare. Come nei rilievi religiosi e funerari di Dura, i personaggi sono invariabilmente dipinti di fronte, con gli occhi fissi sullo spettatore. È una particolarità che non si ritrova assolutamente nelle arti ellenistiche, greco-romane o greco-iraniane. Anche le grandi tradizioni dell’Antico Oriente adottavano la rappresentazione frontale solo per un numero ridotto e limitato di figure definite; nelle grandi scene composite e narrative questa rappresentazione è praticamente inesistente e i personaggi, stilizzati e idealizzati, sono invariabilmente riprodotti di profilo. Come a Palmira, l’arte si indirizza ad un pubblico ben definito; l’azione rappresentata «dipende» dallo spettatore. La figlia del faraone e le sue serve salvano il piccolo Mosè dal Nilo: i gesti delle mani esprimono l’azione della scena ma i volti degli attori sono rivolti allo spettatore. L’azione supera i limiti dello spazio pittorico. Il campo si apre su un controcampo. Nel Tempio di Salomone l’architettura e gli oggetti sono rappresentati in assonometria. Il movimento va dall’interno dell’immagine verso lo spazio esterno che le sta davanti. Nella sua immobilità, la scena rimane attiva ed avanza verso colui che la guarda.

si trasformano in fregi ordinati, lo ieratismo si afferma nella sua pienezza. In piedi, i santi in preghiera allargano in modo uniforme le loro braccia. Il personaggio diviene persona, il ritratto icona. «Le province marciano su Roma» (G. Rodenwaldt). I mosaici della basilica di Sant’Apollinare Nuovo esprimono questo doppio linguaggio estetico. In essi è onnipresente il dualismo iconografico, ellenistico e orientale. Gli stili si contaminano: dal «paleocristiano» l’arte passa al «bizantino».

Il realismo mistico

Nel iv secolo l’editto di Galerio introduce la tolleranza del cristianesimo e lo riconosce come religione lecita. L’editto di Milano concede libertà ai cristiani e mette a loro disposizione edifici e luoghi diversi. Costantino convoca e presiede il Concilio di Nicea. Dichiarata capitale dell’Impero, Costantinopoli è ormai la nuova Roma. Dall’età delle catacombe i cristiani passano a quella delle basiliche. La fiaccola è sul candelabro e l’arte cristiana prosegue il proprio cammino. Pur continuando ad apparire sotto figure simboliche, il Cristo si concretizza e si personifica. Al cimitero dei santi Pietro e Marcellino, Cristo imperatore troneggia tra Pietro e Paolo. Sul registro inferiore, posto sotto il Cristo, l’Agnello «in trono» simbolizza il sacrificio ultimo del Verbo: «L’Agnello che è stato sgozzato è degno di ricevere la potenza, la ricchezza, la sapienza, la forza, l’onore, la gloria e la lode» (Ap 5,12). Nel cimitero di Commodilla compare il ritratto di Cristo: l’aureola crocifera ricorda la croce redentrice e l’iscrizione dell’Alpha e dell’Omega evoca la dimensione cosmica di Colui che è, «il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine». Gli stili si compenetrano e si fondono. La componente orientale diviene più potente e l’arte ufficiale porta il segno di questo cambiamento. Un rilievo che rappresenta i tetrarchi, anteriore all’editto di Galerio, documenta il nuovo orientamento. Al contrario del modello classico dell’imperatore militare, gli abiti sono stilizzati, i tratti della fisionomia illuminati dalla lisciatura della superficie: gli occhi, la bocca, le orecchie, il naso e i riccioli di capelli sono «disegnati» in rilievo lineare. L’alterità delle estetiche è sempre presente. I mosaici di Santa Pudenziana incarnano lo stile classico ereditato e compiuto: il naturalismo, la disposizione dei piani e il movimento espresso dagli atteggiamenti vivi rivelano l’antica tradizione romana. All’altra estremità dell’Impero cristiano la svolta è cruciale. La Rotonda di San Giorgio a Salonicco esprime un’arte nuova. I profili

Le prime manifestazioni dell’arte cristiana si iscrivono nell’arte romana. La tematica è simbolica e il modo di svolgerla naturalistico. Sull’immagine di Apollo, di Ermete o di Orfeo, il primo Cristo è un giovane dio efebo, imberbe ed elegante. Nei mosaici dell’Annunciazione e della Presentazione al Tempio a Santa Maria Maggiore, Maria incarna il modello femminile ellenistico con la tunica, i gioielli, l’acconciatura e gli orecchini. A questa prima tipologia si oppone una concezione che le è contemporanea, fedele al modello storico realistico, la cui origine si trova nelle regioni siro-palestinesi, culla del cristianesimo originario. Il Cristo è il Nazareno barbuto con i capelli lunghi, vestito della tunica e del mantello dell’epoca; Maria è avvolta nel velo-mantello delle donne siriane. Nel vi secolo il cristianesimo seleziona e forgia il proprio vocabolario pittorico. Un’immagine eclettica si cristallizza. Pur rifiutando il naturalismo, la Chiesa adotta l’immagine veridica del ritratto per stilizzarla, idealizzarla e battezzarla. Ciò che è terrestre porta l’impronta di ciò che è celeste. Le famose ampolle di Monza offrono una prima tipologia delle icone delle grandi feste. Questi preziosi flaconi, prodotti dagli argentieri di Gerusalemme e risalenti ad un’epoca che va dal iv al vi secolo, provano la determinazione ecclesiastica delle grandi feste e la loro interpretazione iconografica, confermando l’origine tradizionale dell’iconologia bizantina. In essi si riconosce la prima schematizzazione elaborata e stabilita della Visitazione, della Natività del Cristo, del Battesimo, delle Mirofore al sepolcro e dell’Ascensione. Stilizzata, l’immagine realistica diviene simbolica. Alla scena storica si sostituisce l’immagine metastorica. «L’arte cosiddetta realistica – scrive N. Berdjaev – è quella che non ricerca alcuna realtà ed è ingenuamente e incoscientemente asservita al simbolo, mentre l’arte coscientemente simbolica aspira al realismo mistico e all’ottenimento della vita originale»3. A Bisanzio prende origine un realismo simbolico. Al fine di reintegrare il cosmo nel suo ordine originale la Chiesa opta per un’illustrazione meticolosamente prefigurata. Il simbolismo si mette al servizio di un realismo mistico. Il regno dei simboli riflette la realtà intellegibile. I caratteri siriani, sassanidi, ellenistici e romani si associano per costituire un linguaggio omogeneo. L’ornamento non è più un elemento gratuito. Le forme plastiche sono rifiutate. La materia viene riassorbita nella luce: «Qui è nata la luce, dove, prigioniera, regna libera» dice un’iscrizione nel vestibolo della cappella arcivescovile di Ravenna4. Il fasto orientale abbraccia la gravità romana. Una concezione iconica unifica e approfondisce la nuova estetica. La scultura si eclissa. L’arte imperiale delle grandi statue e dei bassorilievi d’ispirazione antica continua a manifestarsi ma la grande tradizione della scultura classica conosce un rapido declino. Il motivo decorativo delle foglie d’acanto si vuota e si schematizza. Il volume è assorbito nel disegno. La decorazione si riduce a una trina in rilievo. Il capitello antico si trasforma in capitello-vaso. La grande scultura monumentale cade nell’oblio e cede il posto a dei rilievi-icone trasformati in pannelli di marmo.

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Dalle catacombe alle basiliche

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L’arte profana subisce questa nuova estetica. L’immagine prende le distanze dalla realtà. La rappresentazione adotta il linguaggio dei segni. Le illustrazioni delle cronache e le riproduzioni grafiche di una carta geografica esprimono lo stesso scarto. A Bisanzio la realtà materiale sfiora la storia e la geografia storica. Anziché essere una carta geografica dei principali monumenti della Palestina, i mosaici del pavimento di Madaba sono una pre-icona della Terra Santa. L’arte è al di sopra del circostanziale, dell’individuale e del passeggero. La vita che passa non è più, regna la vita eterna.

Le prime icone

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61. Vergine circondata dai santi Felice e Adautto, vi secolo. Catacombe di Commodilla, Roma.

Tra le icone dell’epoca preiconoclasta è rimasto solo un numero limitato di quadri su legno dipinti a encausto. A Roma si trovano la Madonna della clemenza conservata a Santa Maria di Trastevere e la Vergine col Bambino di Santa Maria Nova (Santa Francesca Romana). Nel monastero di Santa Caterina del Sinai sono conservati San Pietro, il Busto di Cristo, la Vergine in trono tra san Teodoro e san Giorgio e i Tre giovani nella fornace. A Kiev si trovano la Vergine col Bambino, San Giovanni Battista, i Santi Sergio e Bacco e una quarta pittura che rappresenta santi non ancora identificati. Lungi dal raggiungere il modello iconico che già è manifesto nei mosaici di San Demetrio a Salonicco, queste pitture su legno rappresentano un periodo di transizione nel quale si possono cogliere le diverse componenti della sintesi bizantina. La Vergine col Bambino conservata a Roma fissa con i suoi grandi occhi colui che la guarda. Il modello del volto contrasta con i suoi tratti stilizzati all’orientale. L’opera annuncia il tipo della «Conduttrice», la Madre che «indica il cammino» e guida il fedele. Seduta sul trono, Maria è circondata da due santi guerrieri. Degli angeli in secondo piano alzano gli occhi verso la mano di Dio da cui scaturisce un raggio triangolare di luce che scende su Maria. Gli angeli e la Vergine sono dipinti secondo l’estetica antica. Gesù ha il corpo di un bambino ma la fronte dilatata del volto annuncia il futuro bambino-adulto delle icone. I due ultimi protagonisti documentano un’altra esecuzione: la riserva altera, gli occhi a mandorla, la rigidità e il gesto stereotipato delle mani che portano la croce e i costumi di dignitari romani trasformati in piatti sipari tessuti d’ornamenti. All’andamento iconico che s’impone si aggiunge la doratura, che dall’aureola passa alla croce e alle tuniche, annunciando il procedimento dell’assist. Dietro i personaggi raffigurati un’architettura decorata fa presentire le successive composizioni delle icone. Il ritratto di san Pietro segue fedelmente lo stile classico del Fayum. Sopra il santo tre busti racchiusi in medaglioni rappresentano il Cristo, la Vergine e san Giovanni Evangelista. Stilizzati e idealizzati, offrono una fattura pre-iconica. Come nell’icona della Vergine in trono tra san Teodoro e san Giorgio, l’architettura dello sfondo annuncia il modello proprio delle future icone. Originaria della Palestina, l’icona dei Tre giovani nella fornace rivela altre caratteristiche. Un angelo tende la lunga croce, simbolo della salvezza cristiana prefigurata nell’Antico Testamento. Vestiti alla persiana, i tre ebrei portano mantelli intessuti di piccoli cerchi. Le mani sono alzate in gesti iconici. I corpi massicci sono in piedi, appiattiti su una larga banda rossa a spirale, immagine astratta delle fiamme della fornace. Più stilizzata ma meno raffinata degli altri quadri sinaitici, quest’icona documenta il crescente apporto orientale nell’arte dell’epoca post-giustinianea. A quest’opera occorre aggiungere l’icona dei Santi Sergio e Bacco. Due volti fratelli ci guardano e il clipeo di Cristo si iscrive tra le loro due aureole. La frontalità dei volti, la somiglianza dei due santi, la stilizzazione dei tratti e dei fregi dei capelli offrono a questa pittura una fattura che ravvicina alle più orientali tra le raffigurazioni palmirene.

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Dall’immagine all’icona Per Platone il pittore è solo il copista del fenomeno che, confrontato con il noumeno, non è che realtà effimera e degradata. Ad Alessandria la metafisica di Plotino consacra la vittoria di Parmenide su Democrito: al di là dell’«alto» e del «basso», della «caduta» e dell’«ascesa», dell’«esilio» e del «ritorno», «gli occhi interiori sono votati a vedere la vera immagine», quella in cui «il mondo diviene trasparente allo spirito». I Padri dei primi secoli confermano il ruolo pedagogico dell’arte senza accordare una dimensione sacramentale all’immagine. Gli scritti dello Pseudo Dionigi celebrano la Bellezza incorruttibile: «Le cose visibili sono immagini delle cose invisibili e senza figura affinché, raffigurandole corporalmente, noi ne abbiamo una conoscenza velata»5. Nell’adattare l’immagine, la Chiesa effettua una selezione qualitativa. Il cantiere è aperto. «Abbiamo conservato della cultura profana ciò che è ricerca e contemplazione del vero» scrive san Gregorio il Teologo6. L’arte è al servizio della Chiesa. Nel 692 tre canoni del Concilio quinisesto definiscono le prime regole relative all’arte sacra. Il pittore è chiamato a rappresentare non più «l’agnello antico» ma il Figlio, «secondo il suo aspetto umano». La concretizzazione dell’immagine esprime la verità dell’Incarnazione. Essa commemora l’abitazione del Verbo «nella carne, la sua passione, la sua morte salvatrice e, per il tramite di questa, la liberazione che ne è venuta per il mondo»7. Secondo l’immagine del modello espresso lo stile deve essere puro: il canone 100 dispone l’eliminazione delle pitture ingannatrici «che corrompono l’intelligenza eccitando piaceri vergognosi»8. Il furore dei distruttori d’immagini, scatenatosi per più di un secolo, ha causato la massiccia distruzione delle icone. Tuttavia l’età iconoclasta fu l’età dei grandi iconoduli. Germano di Costantinopoli, Giovanni Damasceno, Teodoro Studita, Giorgio di Cipro e Niceforo di Costantinopoli conferirono all’immagine la sua dimensione teologica. L’icona riceve il suo battesimo nel fuoco: passando dalla croce essa risuscita, fiorisce e matura. Come il chicco di grano del Vangelo, nella propria morte vede la propria nascita.

62. I tre giovani nella fornace, vii secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai. 63. San Demetrio circondato da due donatori, vii secolo. Chiesa di San Demetrio, Tessalonica. 64. Il vescovo Ursicinus, vi secolo. Chiesa di Sant’Apollinare in Classe, Ravenna.

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Note

Capitolo sesto

PO 12, 732, in Henri de Lubac, Cattolicismo, tr. it. Jaca Book, Milano 1978, nuova ed. 2017, p. 158. Clemente di Alessandria, Il Pedagogo, iii, 11, 59, S.C. 158, Cerf, Parigi, p. 125. 3 Nikolaj Berdjaev, Esprit et Liberté, Desclée de Brouwer, Parigi 1981, p. 93. 4 Kostas Papaioannou in La Peinture Byzantine et Russe, Rencontres, Losanna 1965, p. 29. 5 Giovanni Damasceno, Défense des Icônes, Discorso i, 11, citato in Christoph von Schönborn, Icône du Christ, Cerf, Parigi 1986, p. 192. 6 PG 36, 502, in Pavel Evdokimov, L’ortodossia, tr. it. il Mulino, Bologna 1967, p. 11. 7 Rhalli e Polti, Syntagma d’Athènes, t. ii, 1852, p. 492, in Léonide Ouspensky, La Théologie de l’Icône, Cerf, Parigi 1980, p. 73. 8 Ibidem, pp. 78 e 545.

Bisanzio dopo l’iconoclasmo

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Il classicismo bizantino Durante la «controversia delle immagini» gli imperatori iconoclasti non bandirono ogni arte figurativa ma intrapresero la «desacralizzazione» delle arti. La rappresentazione tramite l’immagine non è condannata in modo esclusivo; l’interdizione si limita alla raffigurazione religiosa. La sovranità imperiale ne risulta aumentata: viene eliminata la croce tradizionalmente incisa sulle monete così che l’effigie dell’imperatore occupa il diritto e il rovescio. Sotto il regno degli iconoclasti si propaga un’arte «laica» e imperiale, iconica e aniconica. Secondo la testimonianza delle fonti scritte contemporanee le nuove decorazioni murali erano costituite da immagini dell’imperatore, scene di guerra, di caccia, di giochi di circo e di corse di carri, nonché da composizioni ornamentali con motivi vegetali, animali o astratti. Il Trionfo dell’Ortodossia è caratterizzato da un contro-iconoclasmo: gli iconoduli procedono alla distruzione sistematica delle arti iconoclaste. Un ridotto numero di affreschi nella chiesa Santa Kiriaki di Naxos e nella cappella di Santa Barbara a Gorëme, oltre ad alcune illustrazioni dei famosi manoscritti di san Gregorio Nazianzeno, sono le uniche, infime tracce rimasteci di questa corrente. L’età di Giustiniano aveva segnato il primo compimento dell’arte cristiana. La crisi iconoclasta suscitò una profonda riflessione teologica sulla legittimità, il ruolo e l’etica dell’immagine ecclesiale. Nel ix secolo il regno degli imperatori Macedoni vide la ripresa di questa «immagine». La precedente sintesi del vii secolo raggiunse in essa il suo punto culminante. Come è indicato dall’iscrizione dedicatoria, a Santa Sofia di Costantinopoli, nel ix secolo, sotto il regno congiunto di Michele iii e di Basilio i, l’originaria croce della conca dell’abside fu sostituita dalla Vergine col Bambino. Tra le diverse figure sedute e in piedi si riconoscono i quattro patriarchi che combatterono l’iconoclasmo: Germano, Tarasio, Niceforo e Metodio. Il nartece, il coro e la navata risalgono al ix e x secolo: in questa prima sintesi bizantina post-iconoclasta gli stili continuano a coniugarsi. La componente antica resta potente: i corpi sono massicci, i tratti accentuati e la fattura robusta. I mosaici della tribuna sud, eseguiti nell’xi secolo, annunciano il primo classicismo bizantino. Il modello iconico di Maria e del Bambino si impone. Gli ornamenti delle tuniche imperiali liberano i corpi dai loro pesi. La ieraticità delle figure, la simmetria della composizione, la fermezza del disegno, la densità dei colori e la stilizzazione del volto conferiscono ampiezza e veracità alla «formula» iconografica. L’originalità dello stile si afferma nella Nea Moni di Chio. Su uno sfondo d’oro splendente le figure si erigono in uno spazio bidimensionale. Il cro140

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matismo è puro e potente. I colori sono solcati d’oro. La carnagione dei volti non teme di accentuare le ombre. La regolarità geometrica impronta i gesti e i movimenti. A Dafne l’«accademismo» bizantino raggiunge la sua maturità. La linea del disegno è sottile e delicata; le forme antichizzanti si trasformano in bizantine. I volti si fanno più espressivi, senza cadere nell’emotivo. Il colore è policromo. La discreta plasticità del modello abbraccia il grafismo lineare del disegno. Le grandi scene narrative sono vive ed equilibrate; la ieraticità attenuata lascia indovinare un movimento naturalistico misurato e controllato. Le icone del ix e x secolo conservate nel monastero di Santa Caterina del Sinai documentano lo stesso percorso. Un busto di san Nicola oscilla tra l’antico e il bizantino. In contrasto con il grafismo marcato delle insegne dell’arcivescovo, l’esecuzione del volto ricorda quella del famoso ritratto a encausto di san Pietro. Differenziandosi da questa fattura naturalistica, i dieci busti a medaglione iscritti nella cornice indicano un profondo cambiamento dello stile. Un’icona contemporanea di san Filippo cristallizza l’evoluzione bizantina. Una Vergine di Kykkos rappresenta lo stesso risultato: come nei grandi mosaici contemporanei le figure si distaccano su uno sfondo d’oro spoglio di ogni elemento accessorio. Il disegno è fine e preciso. La carnagione unisce toni bruno-scuri a schiarimenti sovrapposti. Due tracce d’ombra sottolineano il naso affilato. I vestiti sono policromi. Gli accordi dei colori sono resi con strati successivi. Una traccia netta e pronunciata delimita le pieghe delle tuniche. Senza rinunciare al procedimento delle sfumature di colore, l’iconografo tende a rendere il modellato con una fine rete di tocchi chiari paralleli. Dal

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cromatismo caldo ai toni fusi e ai tracciati lineari e luminosi, il modellato si mescola al grafismo per formare uno stile omogeneo particolare. Un volto unico determina la struttura interna della fisionomia iconografica. La testa prende posto in due cerchi circoscritti mentre l’aureola determina il terzo. Il volto si presenta in modo frontale: la radice del naso è situata al centro dei cerchi e le pupille sono poste alla metà del modulo del centro del cerchio interno. La linea del naso forma una croce assiale con le arcate sopracciliari. Un’ampia fronte si dilata su un triangolo equilatero formato dagli angoli degli occhi e del naso. Questa costruzione assiale della faccia conferisce al volto la sua base e il suo equilibrio interiori. Mentre il profilo puro spezza il cerchio, il profilo di tre quarti si iscrive anch’esso in uno schema circolare. La testa copre lo spazio di due moduli. L’asse degli occhi forma un angolo retto con quello del naso: il rilievo del volto è trasformato in planimetria. Il sottile sguardo iconico trova qui il suo fondamento geometrico interno1. Raffinato e assimilato, lo stile raggiunge il suo perfezionismo accademico. L’iconografo ha l’abilità del miniaturista. Un insieme di quattro icone calendariali dell’xi secolo illustra questo nuovo risultato. Un’icona contemporanea della Scala del Paradiso è la trascrizione diretta della famosa miniatura-frontespizio nel trattato di san Giovanni Climaco. Un’icona narrativa della Natività del Cristo integra all’iconografia tradizionale altre scene secondarie. Il ciclo natalizio prende la sua dimensione integrale: spogliata di ogni elemento vegetale, una catena astratta di

65. Deesis, 36 x 29 cm, xi secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

67. Faccia frontale.

66. San Filippo, 33 x 20 cm, x secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

68. Profilo di tre quarti.

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montagne accavallate lascia vedere le diverse scene del racconto della festa. Alla composizione classica, che riunisce Maria sdraiata e languida, Cristo bambino fasciato, l’asino e il bue, Giuseppe nel dubbio e le levatrici che fanno il bagno al neonato, nella fascia inferiore si aggiungono i diversi elementi del ciclo: Erode ordina il Massacro degli innocenti, Elisabetta salva il piccolo san Giovanni; Giuseppe e suo figlio, nato da un precedente matrimonio, accompagnano Maria e il Bambino nella Fuga in Egitto. Nella parte superiore dell’icona due cori angelici guidati da due Arcangeli celebrano l’avvenimento del Signore. La delicatezza del disegno e del trattamento dei colori raggiunge il controllo e l’audacia caratteristici delle miniature. Busti, figure in piedi o scene agiografiche: il paesaggio resta denudato e vuoto, la terza dimensione si riveste d’oro e le figure si distaccano su uno sfondo di luce: la presenza del santo è un’apparizione perpetua.

L’umano trasfigurato L’ideale ascetico segna il suo trionfo. Al modellato della carnagione si aggiunge l’uso di tratti che solcano la superficie del volto. Al Cristo autocrator dallo sguardo inquisitore di Dafne si sostituisce il Cristo pantocrator di Cefalù, tenero, teandrico, contemplativo e compassionevole. Sul timpano di Santa Sofia di Costantinopoli si erge il ritratto di san Giovanni Crisostomo: il disegno e la fattura rispettano il naturalismo corporeo e la struttura organica realistica. A Palermo lo stesso santo incar-

na la bellezza monastica: un grafismo dai toni neri, bruno e carminio delimita la figura del grande vescovo. Il volto e il corpo obbediscono a una concezione nuova. La faccia si iscrive sul suo fondo circolare. «Un grande ovale leggermente inclinato e due sottili archi definiscono la fronte immensa, delimitata da una stretta striscia di capelli; dal naso al mento discendono due curve bordate di bianco mentre degli archi rovesciati scavano le guance; la bocca è modellata con cura, le orecchie sono segni astratti e gli occhi neri sotto sopracciglia nere rompono i semitoni del volto. L’occhio stralunato, il volto emaciato: il mosaicista bizantino ha rappresentato un asceta visionario in questa visione quasi immateriale di colui che fu il grande teologo ed oratore del v secolo. La regolarità geometrica degli abiti con le loro croci, del libro e della mano e il leggero tratto rosso del nimbo rafforzano ancor più l’effetto di un potente espressionismo che condiziona l’interpretazione della realtà fisica» (A. Grabar)2. Sobrio, ieratico e solenne nell’xi secolo, l’accademismo bizantino si umanizza nel xii. Stilizzati ed affilati, i personaggi rappresentati manifestano il carattere emotivo dell’umano. La ieraticità è come interiorizzata. Il modello, il movimento e i gesti si manifestano più liberamente. Nella chiesa di Nerezi le scene della Passione sfiorano il patetico. Tenera e dolorosa, la Vergine stringe suo figlio tra le braccia. Con le gambe dritte e il busto piegato orizzontalmente l’apostolo Giovanni si china sulla mano del defunto che tiene tra le sue due mani. Gli affreschi della chiesa di San Giorgio di Kurbinovo testimoniano il nuovo risultato raggiunto. L’azione è frenetica; i volti appaiono lavorati al cesello e al bulino. Disorientate, la Vergine e sant’Elisabetta si abbracciano: la Visitazione perde qui la sua tradizionale gaiezza. Il Cristo dell’Anastasi

69. Pantocratore, verso il 1100. Chiesa di Daphni. 70. Pantocratore, xii secolo. Cattedrale di Cefalù. 71. San Giovanni Crisostomo, x secolo. Santa Sofia, Costantinopoli. 72. San Giovanni Crisostomo, xii secolo. Cappella Palatina, Palermo.

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prende Adamo per il polso per strapparlo alla tomba; Eva, i profeti ed i giusti assistono allo spettacolo. Se l’azione è gloriosa, i volti, ansiosi ed amari, fanno presentire l’orrore dell’Ade. L’accento si sposta verso l’umano. Un’Annunciazione del xii secolo offre due volti di una melanconia ineffabile. In uno spazio aperto l’Arcangelo Gabriele viene incontro a Maria: in piedi a sinistra alza la sua mano destra in segno di benedizione. A destra, seduta sul trono, Maria sembra triste e grave. Lo sguardo interrogativo dell’angelo e la torsione del suo corpo riflettono l’inquietudine e l’attesa. Prima di dire «sì» all’angelo e dirsi «serva del Signore» la Vergine sorpresa, «tutta tremante»3, conosce il timore e la paura. Il Protoevangelo di Giacomo racconta: «Ma ecco che un angelo del Signore sorse davanti a lei dicendo: “Non temete, Maria, poiché troverete grazie davanti al Signore onnipotente ed è il suo Verbo che voi concepirete”. All’udire queste parole Maria, tutta esitante, rispose: “Se io devo concepire dal Signore Dio della Vita, dovrò dunque generare come ogni donna genera?”»4. Di fronte all’impetuosità dell’angelo, la maestosa «benedetta», fragile e ansiosa, prova qui l’inquietudine, la tristezza e lo sgomento. Il gioiello dell’arte dei Comneni resta la Vergine della Tenerezza, che i russi ribattezzarono Vergine di Vladimir. Il volto di Maria è allungato, il naso lungo e sottile, le labbra minuscole e gli occhi smisuratamente grandi. Un chiaroscuro etereo conferisce al modello del volto il suo calore umano. La mano si alza verso il Figlio in segno di venerazione. La Madre offre il suo Signore all’umanità: «Egli è posto per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione; e a te pure una spada trapasserà l’anima. Così si sveleranno i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35). Nessun sentimentalismo: la fissità dello sguardo riflette l’afflizione muta della Madre. «Tessuto con i tratti trascendenti della nuova creatura totalmente deificata, il suo volto pieno di maestà celeste porta nello stesso tempo tutto l’umano, anch’esso presente» (P. Evdokimov)5.

73. Vergine di Vladimir, 100 x 70 cm, xii secolo. Galleria Tretjakov, Mosca. 74. Vergine di Vladimir, particolare.

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L’umanesimo bizantino

75. Dormizione della Vergine, verso il 1320. Chiesa di Gra/anica. 76. Resurrezione di Lazzaro, xiv secolo. Chiesa della Pantanassa, Mistrà.

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Al tempo dei Paleologhi la pittura bizantina conosce un’ultima folgorante riuscita. La ieraticità viene come abbandonata. Le figure sono stilizzate e idealizzate ma il modello dei volti e degli abiti fa risorgere il naturalismo. Al gesto statico e immutabile dei Macedoni si oppone un’arte viva e movimentata. Le scene narrative si moltiplicano e si succedono. Al programma liturgico si sostituisce il racconto storico. Il paesaggio si arricchisce di elementi descrittivi. Lo spazio è come areato. La virtuosità e la torsione sono espresse nella loro pienezza. Su uno sfondo d’oro, di un blu di firmamento o di un ocra denso, i corpi camminano, si agitano e vibrano. Ciò che è umano prende il passo e ciò che è terrestre viene ristabilito ma lo spazio è immerso in una luce increata. L’impressione di volume si manifesta ma l’astrazione restaura e unifica. Pur segnando una rottura con la calma, il riposo, il lusso e la ieraticità del classicismo bizantino, l’arte dei Paleologhi conserva preziosamente la propria radice originaria. Due monumentali versioni della Dormizione della Madre di Dio illustrano questo sviluppo stilistico. Nella chiesa del Redentore di Chora, a Costantinopoli, al centro della composizione Maria, sdraiata, riposa su un lettino mortuario che occupa il piano orizzontale della composizione. La figura di Cristo in piedi forma una croce con il corpo sdraiato della Vergine. Tra le due architetture dello sfondo, sopra il Cristo, un angelo serafino con le sue sei ali di fuoco viene a porsi in cima alla volta del cielo formando una nicchia che inquadra le due figure. Accompagnati da tre vescovi, gli apostoli sono riuniti intorno alla spoglia mortale. A loro si aggiungono quattro figure femminili che rappresentano le vergini di Gerusalemme. Allineate e sovrapposte le teste sono di uguale grandezza: disposte asimmetricamente queste raffigurazioni introducono un movimento dinamico che «spezza» la croce assiale della composizione. Nella chiesa di Gra/anica l’azione prende un accento «barocco». Lo sfondo è occupato da una fioritura di angeli. Lo schema tipografico subisce una metamorfosi: la scena della dormizione si trasforma in una Traslazione del corpo della Madre di Dio da parte degli apostoli. L’affrescatore rinuncia alla convenzione frontale. Lo spazio subisce una specie di suddivisione. Gli apostoli avanzano con passo rapido; il manierismo accentua il movimento della scena. L’umano ha la meglio sull’angelico: profondamente commossi, i volti degli angeli esprimono silenziosamente lutto ed afflizione. Nella chiesa della Peribletos di Ohrid le composizioni sceniche rivelano una vera drammaturgia. Il Bacio di Giuda incarna un’azione teatrale. Il Cristo è circondato da una «masnada di gente armata di spade e bastoni» (Mt 26,47). Pietro colpisce Malco e gli taglia un orecchio. Testimoni del tradimento di Giuda e dell’Arresto del Cristo, gli apostoli perplessi e indecisi abbandonano il Figlio dell’Uomo al suo destino. La scena è tempestosa e violenta. La fattura neoellenistica ingloba i diversi elementi della composizione. La freschezza e la virtuosità del colorito rinforzano il naturalismo dello stile. La ieraticità viene assorbita; solo la figura del Salvatore mantiene la sua grandezza «tradizionale»: vestito di un blu di Prussia che lo distingue da tutti gli altri personaggi, Egli resta immobile al centro della scena. Grave, sobrio, nobile e doloroso, Egli affonda il suo sguardo penetrante in quello dello spettatore. Nel mezzo di questa trepidazione l’arte supera il «troppo umano». Un affresco della chiesa della Pantanassa a Mistrà mostra Lazzaro nel suo sudario, con gli occhi chiusi, ancora morto ma prossimo al risveglio della resurrezione. «Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore già puzza perché è di quattro giorni”» (Gv 11,39). Di fronte al cadavere un personaggio, con la testa piegata, si copre il volto con la mano per allontanare il fetore della morte. A questo spettacolo impietoso risponde la gloriosa Discesa agli Inferi sulla volta dell’abside della chiesa del Redentore 149

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77. Anastasi, xiv secolo. Chiesa Cristo in Chora, Costantinopoli.

78. Annunciazione, 94,5 x 80 cm, xiv secolo. Chiesa di San Clemente di Ohrid.

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IL CLASSICISMO BIZANTINO L’arte bizantina raggiunge la maturità sotto gli imperatori della dinastia macedone. Un disegno morbido e delicato abbraccia la plasticità del modellato. La ieraticità fa percepire un movimento misurato. Busti, figure in piedi o scene narrative: le figure si distaccano su un fondo di luce. Bisanzio si umanizza al tempo dei Comneni. Il modellato, il movimento e i gesti si manifestano più liberamente. A Nerezi l’umano sfiora il patetico: dolente, la Vergine in lacrime stringe tra le braccia il Cristo morto. A Kurbinovo la Visitazione perde la festosità tradizionale, l’Anastasi è frenetica: ansiosi e amari, i volti fanno intravvedere l’orrore dell’Ade. Un’Annunciazione del Sinai offre una Vergine di ineffabile melanconia: ansiosa e «tutta tremante», la Benedetta prova tristezza e sconforto. Vivace e movimentata, l’arte dei Paleologhi cristallizza questo «umanesimo trasfigurato». A Ohrid, il Bacio di Giuda offre una scena teatrale tempestosa e violenta. Circondato da una «banda numerosa armata di spade e bastoni», Cristo affonda il suo sguardo dolente in quello dello spettatore. L’arte sacra è quella della Chiesa di Bisanzio, non del suo Impero. Anacronica, ignora i mutamenti politici e sociali. Una miniatura contiene il doppio ritratto di Giovanni Cantacuzeno: abbigliato da basileus e da monaco, «il Sacerdozio per il servizio delle cose divine, l’Impero per l’ordine delle cose umane». Alla Bisanzio in rovina degli ultimi imperatori si oppone la Bisanzio spirituale, che continuerà a fiorire ancora per lungo tempo.

79 a-b. La Grande Umiltà, dittico, anta: 27 x 21 cm, xiv secolo. Monastero della Trasfigurazione, Meteore. 80. Annunciazione, Natività, Deposizione, Compianto del Cristo, 36 x 27 cm, xiv secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

53. Vergine in trono, «La Santa Madre di Dio di Studenica», affresco, 1208-1209. Chiesa della Vergine di Studenica.

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54. Teofania, Trasfigurazione, Deesis, Resurrezione di Lazzaro, 159 x 41,5 cm, xii secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

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55. La scala di san Giovanni Climaco, 41 x 29,5 cm, xii secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai. 56. San Nicola, 82 x 57 cm, xiii secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

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57. La Visitazione, affresco, 1191. Chiesa di San Giorgio, Kurbinovo.

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58. Anastasi, affresco, 1191. Chiesa di San Giorgio, Kurbinovo.

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59. Crocifissione, affresco, 1208-1209. Chiesa della Santa Vergine, Studenica. 60. Compianto del Cristo, affresco, 1164. Chiesa di San Panteleimon, Nerezi.

61. NativitĂ di Cristo, affresco, metĂ del xiii secolo. Chiesa dei Santi Apostoli, Patriarcato di Pe0.

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62. San Giovanni il Precursore, 70,5 x 45,5 cm, xiii secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai. 63. Annunciazione, 61 x 42 cm, xii secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai.

Pagine seguenti: 64. Apostolo del corteo (Giacomo?), affresco, 1265 ca. Chiesa della TrinitĂ , Sopo0ani. 65. Dormizione della Vergine, affresco, 1265-1270. Chiesa della TrinitĂ , Sopo0ani.

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66. Il bacio di Giuda, affresco, 1295. Chiesa della Peribletos, Ohrid.

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67. Anastasi, affresco, 1313-1314. Chiesa dei Santi Gioacchino e Anna, «Chiesa del Re», Studenica.

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68. Doppio ritratto dell’imperatore Giovanni vi Cantacuzeno, miniatura, altezza 33,5 cm, 1370-1375. Bibliothèque Nationale (grec. 1242), Parigi.

di Chora: «Ma che vuol dire “Cristo è asceso”, se non che prima egli è disceso nelle regioni inferiori della terra?» (Ef 4,9). Con il peso del corpo appoggiato su una gamba e la tunica vibrante nel vento il Cristo libera Adamo ed Eva dalla morte. Un modello naturalistico colorato d’ombre e di luci sostituisce la schematizzazione lineare della Nea Moni di Chio. Il movimento del Cristo e la torsione dei corpi di Adamo ed Eva producono un movimento d’intensità vibrante. Il campo è arioso, il creato riconquistato. «Al centro simbolico della terra dei dannati e dei morti, la gloria che unisce sostituisce la pesantezza che separa. Tutta la composizione è dominata dal volto di Dio, regale e tenero, come immobile in questo turbine liberatore» (O. Clément)6. Monumentale o mobile, eseguita su un muro o su una tavola di legno, l’immagine rivela una stessa tradizione. Un tetrattico di Costantinopoli, conservato a Santa Caterina, testimonia le caratteristiche proprie dell’età dei Paleologhi. Il manierismo è accentuato: nel Compianto del Cristo la testa di Nicodemo è posta tra i pioli della scala che porta. La dimensione ridotta delle immagini non esclude l’eccentricità degli atteggiamenti. L’espressione accentuata dei volti e il trattamento raffinato del modellato conservano la loro ampiezza. Nella Natività del Cristo Maria, ansiosa, fragile e trepida fa presentire i dolori della passione che verrà. Nel Compianto del Cristo i sette personaggi che circondano il corpo di Cristo creano un movimento irregolare che rinforza l’emozione dei volti. Il modellato è reso con una sottile rete di linee bianche. Velati da tratteggi luminosi i colori sembrano animarsi sulla superficie dell’icona. La ripartizione dei diversi elementi del paesaggio e dello sfondo partecipa alla dinamica della composizione. Le icone della galleria della chiesa di San Clemente a Ohrid sono da annoverare tra i fiori di quest’arte. San Matteo sembra camminare, tenendo un Vangelo socchiuso. L’Arcangelo dell’Annunciazione, con le ali dilatate e spiegate, è colto in movimento. La qualità plastica dei colori e la gradazione delle sfumature dei drappi segnano il trionfo dello spirito ellenico. Un bel dittico del monastero della Trasfigurazione alle Meteore riflette una visione condensata dell’«umanesimo» bizantino. L’anta di destra rappresenta un busto di Cristo conforme al modello del Cristo nel sepolcro. Il tratto angoloso delle spalle, il torace nudo ed emaciato, il fianco destro aperto dal colpo di lancia e gli occhi chiusi nella morte conferiscono al Cristo l’espressione di un dolore muto. Spogliata di ogni connotazione letteraria, la Passione è ridotta alla sua pura essenza. Nell’abbandono della morte Cristo è crocifisso sul proprio corpo, immagine ultima della crocifissione dell’essere. Sull’anta di sinistra Maria, con la testa piegata, si volge verso suo Figlio. Un manierismo grazioso disegna sottilmente il gesto delle due mani. Le sopracciglia contratte e gli occhi in lacrime denotano un «espressionismo» tipico dell’arte dei Paleologhi. Alla Passione interiorizzata del Figlio risponde la dolorosa afflizione di Maria. I due «ritratti» riuniti del dittico evocano la scena della «Pietà» ortodossa, detta Non piangere su di me, Madre.

Le costellazioni bizantine Sotto il regno dei Macedoni la ripresa dell’arte va di pari passo con il rinvigorimento della politica dell’Impero. A questa seconda «età dell’oro» succede il periodo dei Comneni. Pur continuando a seguire fedelmente i canoni dell’accademismo macedone, Bisanzio disegna un «umanesimo» che trova il suo compimento stupefacente al tempo dei Paleologhi. Senza rompere con le principali coordinate della propria Tradizione, la Città dell’Immagine si dedica ad imitare il volume e lo spazio; esplorando l’umano lo trasfigura con i raggi del Tabor. La bi-unità calcedoniana del divino e dell’umano resta il fondamento della Bellezza. Ieratico, solenne ed «astratto» il 169

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classicismo bizantino celebra la trascendenza del divino. La gloria divina costituisce il suo carattere eminente. L’«astratto» ha la meglio sul «concreto». Nel xii secolo si manifestano l’umano, il sensibile e il reale: una volta assunti hanno, con gli ultimi bizantini, un’espressione folgorante. Il poeta Yves Bonnefoy lo ha colto con molta incisività: Bisanzio, che aveva rifiutato la «minaccia» del sensibile, alla vigilia della caduta lo abbraccia con il suo fuoco. L’arte non celebra più «Teodora nel suo oro ma Mistrà in rovine, non più il pavone ma la pietra»7. Gli aspetti contrastanti vengono armonizzati con sottigliezza. Nella tessitura tra umano e divino il trascendente penetra l’immanente, la luce increata culla il creato. Capitale delle arti, Costantinopoli si propaga oltre le frontiere dell’Impero. L’arte sacra resta quella della Chiesa di Bisanzio, non del suo Impero. Dall’Asia Minore alla Russia, passando per la Grecia, l’Italia, la Serbia e la Bulgaria l’estensione dell’icona si perpetua al di là delle oscillazioni politiche e geografiche. Anacronica, l’arte ecclesiale ignora le mutazioni politiche e sociali dell’Impero. «Finestra sull’eternità», l’immagine vuole aprire «il cielo sulla terra». Sui mosaici di Santa Sofia di Costantinopoli imperatori e imperatrici offrono al Cristo e alla Vergine città, santuari, fondazioni e fortune. «I doni più grandi che Dio ha fatto agli uomini sono il Sacerdozio e l’Impero, il Sacerdozio per il servizio delle cose divine e l’Impero per l’ordine delle cose umane»8. Un doppio ritratto miniato di Giovanni vi Cantacuzeno illustra questo ideale bizantino. Il protagonista è rappresentato come basileus e poi rivestito dell’abito monacale. Puro da ogni sozzura, il monaco incarna l’ideale supremo. L’Impero cristiano si dichiara dimora della Chiesa ma l’«ortodossia» della Chiesa resta autonoma. Nel momento in cui la degradazione dell’«ordine delle cose umane» sembra fatidica, «il servizio delle cose divine» germoglia e fiorisce. Alla Bisanzio terrestre in rovina, allo stato fantasma degli ultimi imperatori, si oppone la Bisanzio spirituale. Gloriosa e giubilante di vita, «lo splendore di lei era simile a pietra assai preziosa, come il diaspro cristallino» (Ap 21,11). Come la storia imperiale, anche la storia ecclesiastica resta al di fuori del luogo iconico. Una stessa «storia» sembra ripetersi «in modo invariabile». Alla Chiesa peccatrice della storia, «alla Chiesa di coloro che periscono» si sostituisce la Chiesa del «Sole senza tramonto». Bisanzio muore nel 1453 quando il sultano Maometto ii penetra nella città e raggiunge Santa Sofia. Costantinopoli non è più. Crogiolo di una cultura cristiana millenaria la «città difesa da Dio» trasfonde la sua luce. Una pittura post-bizantina, nutrita dei suoi fermenti, prolunga l’arte dei Paleo­loghi nelle terre dello spazio greco-balcanico mentre la Russia, divenuta «Terza Roma», indirizza su nuovi sentieri l’arte che ha ereditato. L’icona è immersa nella calma dell’«Esicasmo»: elaborata a Costantinopoli nel xiv secolo, la pneumatologia palamita acquista la sua dimensione iconica in Russia.

81. Cristo in trono tra l’imperatore Costantino ix e l’imperatrice Zoe, xi secolo. Santa Sofia, Costantinopoli. 82. Vergine tra l’imperatore Giovanni ii e l’imperatrice Irene, xi secolo. Santa Sofia, Costantinopoli.

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Note

Capitolo settimo

Vedere Egon Sendler, L’Icône, Image de l’Invisible, Desclée de Brouwer, Parigi 1981, pp. 108-112. André Grabar, La Peinture Byzantine, Skira, Ginevra 1953, pp. 128-30. 3 Capitolo xi del Protovangelo di Giacomo, in Daniel Rops, Les Evangiles de la Vierge, Robert Laffont, Parigi 1948, p. 138. 4 Ibidem, p. 140. 5 Paul Evdokimov, L’Art de l’Icône, Théologie de la Beauté, Desclée de Brouwer, Parigi 1972, p. 221. 6 Olivier Clément, Byzance et le Christianisme, Presses Universitaires de France, Parigi 1964, p. 81. 7 Yves Bonnefoy, Un rêve fait à Mantoue, Mercure de France, Parigi 1967, p. 10. 8 Novella vi di Giustiniano in Jean Meyendorff, L’Eglise Orthodoxe hier et aujourd’hui, Le Seuil, Parigi 1960, p. 25.

L’età ottomana

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Il Nuovo Impero Smantellato dai Latini, smembrato territorialmente dai Serbi e dai Bulgari, ridotto ad un piccolo stato greco intorno a Costantinopoli ed infine investito dai Turchi, l’impero fantasma di Bisanzio trova la morte a metà del xv secolo. Santa Sofia è trasformata in moschea. «Città regina», la Basileousa viene ribattezzata Istanbul, un nome che deriva dal greco «eis tên polin», che significa «alla città»! L’Impero Romano d’Oriente è scomparso ma la Chiesa rimane. Il patriarca unionista Grigorios Mammas, fuggito a Roma nel 1451, aveva lasciato la sede vacante. Eletto patriarca ecumenico, Gennadios, il capo degli anti-unionisti, viene intronizzato dal sultano secondo l’antico rituale bizantino. Vescovo della chiesa, il patriarca diviene l’«etnarca» della «nazione cristiana», il «capo della razza eminente dei Romani [bizantini]». Cosmopolita, multinazione e multiconfessionale, l’Impero ottomano raggruppa Turchi, Greci, Arabi, Bulgari, Serbi e Armeni… L’islam sunnita diviene religione ufficiale ma è istituzionalizzata la tolleranza verso i «popoli del Libro». Il sistema detto dei «millet» raggruppa le «nazioni religiose» dell’Impero. I cristiani ortodossi e i musulmani sunniti, ripartiti in due millets, costituiscono la maggioranza quasi schiacciante della popolazione imperiale. Islamico, l’Impero Ottomano conserva una struttura essenzialmente diarchica. Esentati dalle imposte, il patriarca e i suoi vescovi sono riconosciuti ufficialmente come facenti parte della classe dirigente. Anche se non è cristiano, il sultano succede politicamente all’imperatore. «Nessuno dubita che a pieno diritto tu sei imperatore dei Romani – scrive Giorgio di Trebisonda a Maometto ii nel 1466 – poiché in effetti è imperatore colui che legalmente detiene la sede dell’Impero. Ora, la sede dell’Impero Romano [bizantino] è Costantinopoli: quindi colui che ha diritto su questa città è egli stesso imperatore»1. La cittadinanza ottomana ha come conseguenza il raggruppamento e l’unificazione ecclesiastica dei cristiani ortodossi dell’Impero. Come nei patriarcati di Antiochia, Gerusalemme ed Alessandria, i patriarcati indipendenti creati dai Bulgari e dai Serbi si trovano legati strettamente al patriarcato ecumenico.

Una Chiesa, un’arte La luce bizantina continua a splendere. Il fuoco che scaturisce al tempo dei Paleologhi incendia l’arte della Chiesa. La testimonianza dell’ultima Bisanzio è come vivificata. Dal xv al xviii secolo la 172

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Chiesa vede un’ultima fioritura della sua arte che, senza tradire i suoi canoni, si amplifica nutrendosi di nuove energie creatrici. «La Chiesa – scrive san Massimo il Confessore – ricrea nello Spirito tutti coloro che sono profondamente divisi dal punto di vista della razza, del popolo, della lingua, del modo di vita… Essa imprime su tutti l’immagine della Divinità. Da essa tutti ricevono una natura unica e indistruttibile, che non è influenzata dalle numerose e profonde differenze che distinguono gli uomini gli uni dagli altri»2. Ad immagine delle loro Chiese, le diverse scuole d’iconografia si prolungano, si svolgono e si unificano. Greci, Serbi, Bulgari, Rumeni e Siriani: gli iconografi sembrano praticare uno stesso linguaggio plastico. Certo, vi sono delle varianti locali, tuttavia esse non superano le coordinate di base che definiscono le particolarità di uno stile o di una scuola. Come ai tempi di Bisanzio – quando coloro che si rivoltavano contro il potere imperiale continuavano a manifestare la loro dipendenza religiosa – indipendentemente dalle oscillazioni geografiche i cristiani testimoniano una stessa fedeltà pregando con le stesse preghiere e dipingendo la stessa immagine. La rinascita dei Paleologhi si perpetua. Fin dal xii secolo la pittura religiosa aveva rivelato un interesse crescente per l’imitazione del volume e dello spazio. In essa vengono intensificate l’espressività e la forza emotiva. Anche se estranea alle definizioni dogmatiche dell’immagine sacra proprie della Chiesa d’Oriente, la vicina Italia dell’epoca subisce la stessa tentazione. Piuttosto che segno di una dipendenza o di un’influenza «straniera» subita dall’Oriente cristiano, la parentela tra le due correnti si rivela come una ricerca comune: anche se «scismatica», Bisanzio continua ad avere in Italia un’influenza artistica eccezionale. Come gli ultimi bizantini, i maestri del Duecento, anche del Trecento, esprimono lo stesso interesse per un naturalismo misurato. Viene rifiutata la percezione sensibile ed empirica. Come recita l’adagio: «Dicitur imago quod alternum exprimit et imitatur», la forza dello stile non risiede «nella corrispondenza mimetica tra natura e pittura ma nel grado in cui vi si riflette un’idea mentale». La presentazione pittorica

continua a cercare la propria immagine immateriale in cui la presenza del corpo non sporchi il «volto» dello spirito. Lo sfondo ignora la terza dimensione. L’azione e il movimento sono assenti. La contemplazione continua a regnare. Cimabue e i senesi mettono l’accento sull’umano ma continuano a mantenerlo in uno spazio celeste. L’impressione del volume segna il ritorno del creato ma lo spazio e il tempo continuano a seguire le leggi bizantine. Giotto valica la frontiera bizantino-italiana e apre la via della percezione. Masaccio divorzia con la Tradizione. L’empirismo e l’estetica bizantina si rivelano incompatibili: il Rinascimento italiano annuncia la fine dell’età dei «Primitivi». L’Oriente cristiano ignora questa metamorfosi. «È un fatto – sottolinea Olivier Clément – che gli ultimi bizantini, a differenza degli italiani, hanno dato spazio al naturale senza però elaborare un naturalismo; hanno utilizzato la profondità ma senza imprigionarla nelle leggi della prospettiva; hanno esplorato l’umano ma senza isolarlo dal divino»3. La pittura post-bizantina si manifesta più umana, più psichica, più terrestre, più naturalistica ma non meno «canonica». In essa è minuziosamente conservato l’equilibrio del teandrismo cristologico.

Le Passioni irreprensibili I Padri greci avevano sviluppato una mistagogia della Passione in cui la kenosi si rivela in tutta la sua veridicità: «Uno della Santa Trinità», il Dio-Uomo, vive l’angoscia della solitudine e dell’abbandono, soffre e muore nella carne sulla croce. Dedicandosi nell’incanto liturgico alla celebrazione del mondo salvato e trasfigurato in Cristo, nella sua età d’oro Bisanzio aveva come evitato il mistero della kenosi. Nessun Cristo in croce è mai stato scoperto in un’abside giustinianea.

83. Crocifissione, 46 x 25,5 cm, x secolo. Monastero di Santa Caterina, Sinai. 84. Crocifissione, particolare, 55,5 x 43,5 cm, 1778. Monastero dei Santi Sergio e Bacco, Maalula, Siria.

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BISANZIO DOPO BISANZIO L’Impero Romano d’Oriente spira a metà del xv secolo. Bisanzio non è più ma la Chiesa resta e la sua arte continua a splendere. Le diverse scuole si prolungano e si unificano. Greci, Serbi, Bulgari, Rumeni o Siriani, gli iconografi partecipano di una stessa arte. Sempre «bizantina», la pittura si umanizza. Cristo resuscita Lazzaro: con lo sguardo amaro egli si riconosce nell’amico, la cui morteresurrezione prefigura la propria. Un ciclo iconografico ripercorre il cammino della Passione. La Grande Umiltà innalza il dolore mistico: con la testa inclinata e le mani stigmatizzate, Cristo mostra il sangue colare dal costato trapassato. Peccatore perdonato, il santo vive in Cristo; segnato dalla morte e dall’infelicità del mondo egli conosce la tristezza del «lutto». Maria Egiziaca, con il corpo scarno e il volto quasi sfigurato, è patetica; con barba e capelli incolti e lo sguardo dolente, il Precursore è di una melanconia insondabile. Senza nuocere al proprio carattere contemplativo, l’icona si apre alla narrazione. Sotto le colonne dei santi Simeone Stilita e Simeone del Monte Ammirabile, alcune scenette riferiscono i miracoli da loro realizzati. Dietro i Quaranta martiri di Sebaste sono posti uno accanto all’altro l’imperatore Licinio, i corpi dei martiri ammucchiati su un carretto e il braciere sul quale i corpi si consumano. Il gusto dell’ornamentale conduce a volte i pittori a riempire gli spazi con decorazioni di linee, cerchi concentrici e masse compatte. Circondata dai profeti, la Vergine fiorisce sull’albero di Jesse i cui rami frondosi, stilizzati, abbondano di rose, melograni e tralci.

85. Deposizione dalla croce, particolare, 96 x 67,5 cm, xvi secolo. Museo Benaki, Atene. 86. Deposizione nel sepolcro (Compianto del Cristo), 50 x 52 cm, fine del xvii secolo. Chiesa di San Giorgio dei Greci, Venezia.

69. Resurrezione di Lazzaro, 37 x 27,5 cm, Creta, xvi secolo. Museo Bizantino, Atene.

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70. La Grande Umiltà , porta di tabernacolo, 30 x 15 cm, Scuola d’Aleppo, xviii secolo. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano. 71. Noli me tangere, 57 x 47,5 cm, Creta, xvi secolo. Museo delle Icone, Dubrovnik.

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72. Santa Maria Egiziaca, 55 x 43 cm, Siria, xviii secolo. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano. 73. La comunione di Santa Maria Egiziaca, 35,5 x 25,5 cm, Trebisonda, 1723. Coll. priv., Parigi.

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74. Decollazione del Precursore, 34 x 38 cm, opera di Franghias Kavertzas, xvi secolo. Istituto Ellenico di Studi Bizantini, Venezia.

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75. San Giovanni il Precursore, particolare della Deesis. 44 x 32,5 cm, Siria, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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76. San Simeone Stilita e san Simeone del Monte Ammirabile, 98,5 x 67 cm, opera di Nemeh d’Aleppo, 1699. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano. 77. I quaranta Martiri di Sebaste, 117 x 86 cm, opera di Nemeh d’Aleppo, 1701. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano.

Pagine seguenti: 78. Vergine conduttrice, 99 x 68 cm, opera di Nemeh d’Aleppo, 1698. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano. 79. Cristo Re dei Re, 99 x 66 cm, opera di Nemeh d’Aleppo, 1698. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano.

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80. Vergine col bambino e albero di Jesse, 156 x 56 cm, opera di Anania d’Aleppo, 1719. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano. 81. Vergine col bambino e albero di Jesse, 62,5 x 46 cm, Siria, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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Pagina seguente: 84. Il battesimo di san Paolo, 40 x 34 cm, opera di Giovanni di Gerusalemme, xviii secolo. Chiesa di San Nicola, Tripoli, Libano.

82. San Basilico il Grande, 40 x 34 cm, opera di Giovanni di Gerusalemme, xviii secolo. Chiesa di San Nicola, Tripoli, Libano.

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83. San Gregorio Teologo, 40 x 34 cm, opera di Giovanni di Gerusalemme, xviii secolo. Chiesa di San Nicola, Tripoli, Libano.

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Il famoso Codex Rabula del 586 contiene la più antica rappresentazione conosciuta del Crocifisso. Con il corpo coperto da un lungo colobium con le maniche corte, il Cristo, sempre vivo, stende le sue braccia sulla croce. Un’icona palestinese dell’viii secolo conservata al Sinai riprende questo modello iconografico: il Cristo sereno e calmo, con gli occhi chiusi, pare innalzato sulla sua croce. In una seconda tradizione iconografica il corpo nudo (solo un drappeggio copre le anche) si piega docilmente; nel silenzio della morte il volto s’inclina e si volge alla Vergine. Il Salvatore «dorme, per resuscitare il terzo giorno». La pittura post-bizantina celebra un inno al Crocifisso. Un’iconografia abbondante lascia alla Chiesa le immagini più strazianti della salita al Golgotha. Il Cristo mostra il volto denudato dell’«Uomo del Dolore». Occorre qui citare la meditazione di Giovanni Damasceno sulle «passioni naturali e irreprensibili» assunte e vissute dal Salvatore: «Noi confessiamo che Egli ha assunto tutte le passioni naturali e irreprensibili dell’uomo, poiché ha preso l’uomo tutto intero e tutto ciò che è suo, salvo il peccato. Il peccato non è naturale né deposto in noi dal demiurgo; è la semenza del diavolo, raccolta volontariamente nel nostro libero arbitrio, non ci viene imposta con la forza. Le passioni naturali e irreprensibili sono quelle che non dipendono da noi e che sono entrate nella vita umana in conseguenza della condanna per la trasgressione: la fame, la sete, la fatica, la pena, le lacrime, la corruzione, la repulsione della morte, lo spavento, l’angoscia e i suoi sudori, le sue gocce di sangue, il soccorso degli angeli nella debolezza naturale ecc.; tutte esistono nella natura umana. Egli ha assunto tutto perché tutto fosse sanato. Egli ha tentato e vinto per prepararci la vittoria e dare alla natura la potenza di vincere l’avversario affinché la natura, un tempo vinta, proprio tramite le prove con cui era stata sottomessa, vinca a sua volta colui che un tempo l’aveva assoggettata»4. Un ciclo iconografico ripercorre le tappe della Passione. Cristo sul Monte degli Ulivi, Tradimento di Giuda, Derisione, Flagellazione, Trasporto della Croce, Crocifissione, Spartizione della tunica, Deposizione, Sepoltura, Pietà. Il simbolo si congiunge al realismo. Nella Crocifissione Cristo, circondato da due legionari, sembra salire liberamente la scala della croce. «Per questo mi ama il Padre, perché io sacrifico la vita per nuovamente riprenderla. Nessuno me la toglie; ma la do io da me stesso» (Gv 10,17-18). «Non si è mai potuto vedere in lui nulla di forzato, tutto fu volontario», aggiunge Giovanni Damasceno. «È volendolo che ebbe fame, volendolo che ebbe timore, volendolo che morì»5. L’espressività pronunciata di cui testimoniano alcuni pittori supera a volte quella di un Cimabue. Le braccia sono tese sotto il peso del corpo rilasciato che sostengono. Rivoli di sangue colano dai piedi e dalle mani inchiodate. I tratti del volto riflettono una sofferenza spinta all’estremo. La Vergine e san Giovanni partecipano ai dolori del Crocifisso. Sostenuta dalle donne dolenti la Madre in lacrime tende la mano destra verso il Figlio. Con la schiena inclinata Giovanni appoggia la mano alla guancia piegandosi verso il Cristo. Gli angeli si umanizzano; a volte li si vede lamentarsi: nascondendo il volto tra le mani essi piangono la morte del Cristo e condividono il dolore di sua Madre. Si afferma e si compie il manierismo appena abbozzato al tempo dei Paleologhi. In una Deposizione del Museo Benaki, su una scala la Vergine in lacrime stringe il corpo inerte del Figlio; in piedi su questa scala Giuseppe sostiene il suppliziato per le anche; circondando la croce Maria e l’apostolo Giovanni stringono nelle loro ognuno una mano di Cristo e lo abbracciano teneramente mentre Nicodemo estrae i chiodi ancora confitti nei piedi. L’azione movimentata dei protagonisti anima la ripartizione stilizzata della composizione. Il Compianto del Cristo traspone la scena. La Vergine accompagnata da un gruppo di donne, l’apostolo prediletto, Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea e una folla d’angeli circondano il Cristo sdraiato su un sarcofago. Gli sguardi e i gesti accentuano il carattere drammatico della scena. 193

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Spogliata, l’immagine si riduce alla figura del Cristo-Sposo nella sua Passione. È l’«Akra Tapinosis», la Grande Umiltà. Con la testa inclinata, le mani e il costato destro stigmatizzati, il Figlio dell’Uomo emerge fino alla vita dalla sua tomba. L’umanità eristica si afferma nella sua pienezza. Il dolore si erge in mistica. Il calice sostituisce il sepolcro. Sempre con la testa inclinata il Cristo alza la mano per indicare il costato trapassato. Un fiotto di sangue cola sul suo torace nudo. Le effigi del Cristo Elkomenos (beffeggiato) si moltiplicano. I pittori evitano con abilità gli scogli del dolorismo. L’espressionismo è dominato da una gravità nobile: mosso dallo Spirito, l’umano, beffeggiato, dimora nella luce della grazia. Il senso rafforzato dell’appartenenza terrestre non eclissa il Sacro. Il ritegno bizantino sposa il lirismo testimoniato dalla pittura. Il divino, sempre inaccessibile, è qui impregnato di un calore umano che lo rende più vicino, più familiare, più partecipabile. Il dolore velato della Vergine di Vladimir si afferma potentemente nelle icone mariane. La futura Passione segna i numerosi volti della Theotokos: essa trova la sua interpretazione allegorica nel prototipo della Vergine della Passione, battezzata in Occidente Nostra Signora del Perpetuo Soccorso. Gli Arcangeli Gabriele e Michele, dipinti in scala ridotta, presentano gli strumenti della Passione, portando l’uno una croce e l’altro la lancia e la canna con la spugna imbevuta d’aceto. «Colui che in precedenza aveva portato il saluto alla Purissima ora presenta i simboli della Passione ma il Cristo, che ha rivestito una carne mortale, li guarda con terrore, spaventato davanti alla morte». Timoroso, Gesù Bambino alza il suo sguardo verso l’angelo che porta la croce; strin-

87. La Grande Umiltà, Museo delle Icone, Dubrovnik.

88. Vergine della Passione, opera di Michele di Damasco, 31 x 23 cm, 1743. Monastero di San Michele, Zouk, Libano.

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gendo con la due manine la destra della Madre, incrocia le gambe sotto l’effetto della paura e perde un sandalo che resta sospeso al suo piedino piegato. Tutto è posto sotto il segno della morterisurrezione. Una Risurrezione di Lazzaro del Museo Benaki riprende la rigorosa composizione della scena. Tuttavia lo sguardo del Cristo è percorso da un’impercettibile amarezza. Vincitore della morte, il Signore, sempre umano, «freme nel suo spirito», «si turba» e «piange» (Gv 11,33-35). Come nella chiesa della Pantanassa a Mistrà, un personaggio collocato davanti alla tomba aperta si tura il naso per proteggersi dal puzzo del cadavere. Lazzaro, dolente, sprofonda lo sguardo in quello del suo Salvatore. La mimica delle sorelle esprime la «proskynesi», la venerazione, ma i loro sguardi pietrificati dicono l’angoscia, lo sconforto, la paura e la supplica. Le figure del Cristo e del suo amico sono parallele. Il Cristo si riconosce in Lazzaro la cui morte-risurrezione prefigura la sua.

La piccola acedia «Peccatori perdonati» a immagine del Cristo, i santi vivono le «passioni naturali e irreprensibili». Pensosi e meditativi, i santi sono di una tristezza ineffabile. I volti sono abbronzati e scolpiti, le sopracciglia arcuate, gli occhi scuri, i crani rotondi, gli zigomi sporgenti e le guance incavate. Alla stilizzazione espressionista dei volti si unisce quella dei corpi. Il disegno del corpo nudo, che traccia un reticolo preciso per sottolineare i muscoli dello stomaco e del ventre, è ancor più pronunciato e le ossa dei fianchi, del petto, delle braccia e delle gambe sono più stilizzate. Con gli zigomi cesellati e la fronte dilatata san Nahum e san Simeone Nemanja offrono la loro benedizione e i loro sguardi compassionevoli. Le immagini di santa Maria Egiziaca sono di un’eccezionale vivacità espressionistica. Un’icona siriana narra l’incontro del sacerdote Zosima

con la santa: egli appare prosternato davanti alla reclusa che, in piedi e con le braccia alzate in segno di preghiera, il corpo smagrito, scarno, angoloso, allungato, alza il suo sguardo verso la mano benedicente di Dio. Un’icona serba continua la scena. Maria Egiziaca, col volto forgiato dal digiuno e dall’ascesi, riceve umilmente la comunione dalle mani di Zosima. L’arte dedita alla celebrazione della pace nell’anacoresi sa tradurre l’angoscia del «penthos»: segnato dalla morte, la sofferenza e l’infelicità del mondo, il santo conosce la tristezza del «Dolore». L’anima ottenebrata sperimenta la «piccola acedia». Il Dolore sfiora a volte il patetico: «Quest’ora è piena di disperazione e di timore», scrive sant’Isacco il Siro. «La speranza di Dio e la consolazione della fede hanno completamente abbandonato l’anima, che è tutta piena di esitazione e di paura»6. Trasfigurato, l’abbandono diviene tenerezza dolorosa. «Dopo la grazia ritorna la prova», continua sant’Isacco. «C’è un tempo per la prova. E c’è un tempo per la consolazione»7. Tra l’acedia, l’illuminazione e la temperanza, la via resta aperta. Pietrificati nella solitudine i volti degli asceti riflettono una melancolia insondabile. Sono immagini strazianti, tra le più impressionanti delle quali si contano le diverse figure-ritratto di san Giovanni Battista: solo busto o a figura completa, vestito di una tunica di pelo di cammello conclusa da un cappuccio, con la barba e i capelli rigogliosi, di una bellezza selvaggia, volto dell’oscillazione dell’essere tra il desiderio e il dolore, l’agapé e l’acedia, l’ardore e l’esodo.

Fedeltà e creatività Viene abbandonato il rigoroso ordine dei programmi iconografici. Le grandi scene narrative non si limitano più alle composizioni liturgiche. Anziché riprendere instancabilmente gli stessi

89. San Nicola, 59 x 46 cm, 1719. Monastero di San Giovanni Battista, Khunchara, Libano. 90. San Simeone il Vecchio, particolare, opera di Teocaro d’Aleppo, 98,5 x 67 cm, 1699. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano.

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91. Santa Maria Egiziaca, 71,5 x 42 cm, Siria, xviii secolo. Coll. priv., Libano. 92. La comunione di santa Maria Egiziaca, particolare, opera di Longino, 38 x 27 cm, 1596. Monastero di De/ani.

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modelli l’iconografo procede alla creazione di nuove composizioni, senza però rompere con la grande Tradizione ereditata. Attingendo alle sue fonti il pittore assume, sceglie, raggruppa e ordina nuovi modelli. Un’icona di Aleppo, intitolata San Simeone lo Stilita e san Simeone del Monte Ammirabile costituisce il modello-tipo di questo nuovo indirizzo, che si trova nell’iconografia bizantina, post-bizantina e russa; nella composizione e nello svolgimento plastico il genio dell’iconografo si esprime in tutta la sua ampiezza. La dedica è in arabo e vi figura il nome di Nemeh. I nomi dei due stiliti, in greco, sono collocati nella parte alta dell’icona. Cristo e i due stiliti hanno in mano dei rotoli aperti sui quali sono scritti in caratteri arabi brani del Vangelo e di testi liturgici. La presenza della scrittura araba non è il solo elemento locale: nella parte inferiore del paesaggio dell’icona è raffigurato un signore arabo accompagnato dal suo domestico. L’elaborazione pittorica continua la tradizione: il fondo d’oro è vuoto e l’ambiente naturale rappresenta il paesaggio roccioso tanto caro all’iconografia bizantina. Il movimento è come bloccato, con il Cristo e i due stiliti in posizione frontale. La tunica di san Simeone il Taumaturgo è il costume monastico tradizionale. Nemeh adotta fedelmente, nella loro purezza, i fondamenti e i canoni dell’arte bizantina, pur creando una composizione scenica completamente nuova. Il paesaggio roccioso ci rivela simultaneamente dieci scene che rappresentano miracoli realizzati dai santi. Scopriamo miracoli simili nell’iconografia della Dormizione di sant’Efrem nel deserto, che si ritrova in numerosi affreschi ed icone. Tale è l’opera di Andrea Pavias, il Cretese, realizzata nella

seconda metà del xv secolo e conservata nella chiesa di San Costantino e Sant’Elena a Gerusalemme: nella parte bassa della composizione vescovi e monaci si radunano attorno al monaco defunto sdraiato sul suo letto; a quest’immagine si aggiunge una profusione di scenette che narrano la vita di un santo stilita. Tre malati avanzano separatamente verso il Santo, un gruppo di fedeli contempla piamente e due monaci a cavallo di un leone e di un asino sono collocati ai due angoli inferiori della scena. L’artista aggiunge numerosi episodi, tra i quali la visita del dignitario arabo inviato dalla regina ismaeliana colpita dalla sterilità, la resurrezione di Caono, discepolo di Simeone, e guarigioni ottenute da un demoniaco e da un posseduto. Il gusto dell’aneddotica si manifesta nella produzione di diverse scuole locali. Senza nulla perdere del proprio carattere contemplativo, l’icona si permette descrizione e narrazione. In piedi sulle due rive del Giordano una folla di uomini, donne e bambini assiste al battesimo di Cristo. Nei Quaranta martiri di Sebaste sono affiancati l’imperatore Licinius, i corpi dei martiri ammassati su un carro, un moribondo trasportato dalla madre e infine un falò in cui si consumano i corpi dei martiri. L’invenzione e l’elevazione della Santa Croce si arricchisce di nuovi elementi che accentuano il carattere pittoresco della scena. Due piani si incrociano e si intrecciano in uno stesso spazio. In presenza di sant’Elena e di una folla assistita dal patriarca Macario, Giuda l’Ebreo scava e scopre la Santa Croce, mentre in secondo piano, circondato dai suoi diaconi, il patriarca innalza la Croce sotto lo sguardo del popolo numeroso che affolla l’icona. La Dormizione della Vergine si apre su una seconda festa mariana: al centro di una mandorla luminosa la Madre della Vita consegna la sua cintura a san Tommaso.

93. Dormizione di sant’Efrem, opera di Andrea Pavias, 39,5 x 59 cm, fine del xv secolo. Chiesa dei Santi Costantino ed Elena, Gerusalemme. 94. Invenzione della Santa Croce, opera di Giorgio Klontzas, 45,5 x 30,5 cm, 1580-1600. Monastero di San Giovanni Teologo, Patmos.

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Interferenze Le scuole locali partecipano ad un unico movimento creativo nel quale Creta ha un posto di rilievo: libera dalla dominazione ottomana fino al 1669 essa rimane legata ecclesialmente a Costantinopoli e nella sua fedeltà all’arte bizantina produce le sue più belle creazioni pittoriche. A volte i pittori escono dall’anonimato e firmano umilmente le loro opere. Greci come Andrea Ritzos e suo figlio Nicola, Teofane Bathos di Creta, Frangos Katelanos di Tebe, Michele Damaskinos, Emmanuele Lombardos ed Emmanuele Tzanes; serbi come Longino, Radul e Giorgio Mitrofanovi0; romeni come Dobromir di Tîrgoviste, Gregorio di Bierilesti e Nicola Zugravu; siriani come Yusuf al-Musawwih, suo figlio Nemeh e suo nipote Hannania. Pur promuovendo i loro santi locali come il bulgaro Ivan Rilski o il serbo Stefano Uroš iii, le scuole adottano un linguaggio comune, nutrito e variegato delle coloriture proprie ad ognuna. I modelli sono precisi, i colori denotano la virtuosità, i drappeggi sono ampi, le ombre pronunciate sono di una plasticità quasi scultorea. Si conserva il rispetto dei modi degli ultimi bizantini: l’espressività matura dei volti e dei gesti si abbiglia di un’eleganza ieratica. La carnagione è sottolineata da ombre colorate e da sottili linee bianche. Gli ori si accordano armoniosamente ai toni colorati. La gamma cromatica ariosa si accorda armoniosamente con il grafismo. «Le carni sembrano scolpite – scrive Photis Kontoglou –, le fisionomie sono forti, gli sguardi severi, i gesti e l’andamento drammatici e ieratici insieme; le composizioni sono equilibrate, i colori caldi e segreti, i tratti di pennello impetuosi eppure attenti»8. I tratteggi d’oro unificano lo spazio iconico. I volti continuano ad obbedire alla ben nota teoria dei tre cerchi. Il gusto dell’ornamentale spinge talvolta i pittori a riempire gli spazi di fregi di linee, di arabeschi, di cerchi concentrici e di masse compatte. Il Cristo-Vigna troneggia sul ceppo; suddivisi i dodici apostoli siedono ai due lati. Jesse si addormenta sdraiato al suolo; il suo albero fiorisce e i rami si moltiplicano. La Vergine è collocata al centro di questa fioritura. Disposti intorno ad essa i dodici profeti portano dei rotoli svolti: le scritte in bella grafia dicono le tradizionali prefigurazioni della Vergine. La Madre di Dio è porta, pietra tagliata senza l’intervento di una mano, via, cespuglio ardente, croce fiorita, candelabro a sette bracci, vergine eletta, scala, tenaglie che portano il carbone ardente, arca dell’alleanza, vello e montagna ombrosa. I rami frondosi stilizzati sono carichi di rose, melograni e tralci di vite. Motivi idillici di stile italiano penetrano le composizioni sceniche e si integrano in esse. Le iscrizioni sono spesso bilingui poiché alla lingua locale si aggiunge il greco «ecumenico». L’arte

non rimane insensibile alle creazioni dell’Occidente ma gli imprestiti vengono fusi nella fattura bizantina. Gli iconografi manifestano una notevole capacità di discernimento. Anziché optare per uno stile ibrido ed eterogeneo, la stessa scuola, a volte lo stesso pittore esegue opere in stili diversi: Michele Damaskinos dipinge un’Anastasi (Resurrezione) in cui la purezza dell’iconografia tradizionale raggiunge il sublime. Questa perfezione non gli impedisce di eseguire al modo veneziano un’Adorazione dei Magi, nella quale la componente bizantina è ridotta ad uno sfondo d’oro percorso da alcuni angeli.

Gli ultimi bagliori Bisanzio, al momento del suo tramonto, aveva passato la sua fiaccola ad altri spazi. Ramificato, il fuoco brilla in tutto il suo splendore. Lungi dal costituire una semplice reminiscenza dell’arte ereditata, la pittura religiosa inonda l’Ortodossia d’oro e di colore. Al termine di un fruttuoso percorso si moltiplicano i segni del declino. Le crisi politiche, religiose e sociali segnano l’arte della Chiesa. Nel xviii secolo l’ultimo degli imperi del Vecchio Mondo subisce l’urto dell’Oc-

95. Vergine e albero di Jesse, opera d’Anania d’Aleppo, 156 x 56 cm, 1719. Monastero di Notre-Dame de Balamand, Libano. 96. Albero di Jesse, particolare: Aronne profeta e gran sacerdote, 62,5 x 46 cm, Siria, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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cidente. Appoggiati dalle grandi potenze europee i missionari latini si diffondono nello spazio ottomano. Una nuova «crociata» chiama i «Greci scismatici» all’unione. Il declino dell’Impero Ottomano, il secessionismo nazionalista e la potenza cattolica erodono il corpo ortodosso. La Chiesa, la cui teologia aveva già perso la precedente potenza creatrice, perde la propria influenza culturale. L’arte sacra va incontro alla propria decomposizione. Lo scarto con l’estetica ortodossa si accentua, a dispetto del crescente numero di pittori e dell’abbondanza della loro produzione destinata alle chiese. All’eredità della Tradizione si sostituisce una pittura bastarda, vuota e rinsecchita, che invade il mondo ortodosso. L’arte religiosa divorzia dai propri fondamenti, il fuoco si estingue. Il sacro si ritrae, l’icona bizantina si snatura. Erano trascorsi già più di due secoli dal crollo dell’Impero di Bisanzio.

Note 3 4 5 6 7 8 1 2

97. Sant’Ivan Rilski, 25 x 18 cm, xviii secolo. Museo Nazionale del Monastero di Rila. 98. Anastasi, opera di Michele Damaskinos, 65 x 36,5 cm, xvi secolo. Museo Benaki, Atene.

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Franz Babinger, Mahomet le Conquérant et son temps 1432-1481, Payot, Parigi 1954, p. 299. Mistagogia 1, in Olivier Clément, La rivolta dello spirito, tr. it. Jaca Book, Milano 1980, p. 131. Olivier Clément, Byzance et le Christianisme, Presses Universitaires de France, Parigi 1964, pp. 76-77. Giovanni Damasceno, La Foi Orthodoxe iii, 20, in La Foi Orthodoxe suivie de…, Cahiers Saint-Irénée, Parigi 1966, p. 143. Ibidem. Isacco il Siro, Œuvres Spirituelles, Discorso 57, Desclée de Brouwer, Parigi 1981, p. 308. Ibidem, p. 309. Photis Kontoglou, «L’Iconographie Byzantine au Mont Athos», in Contracts 30, 1960.

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Capitolo ottavo

Dalla Rus’ alla Russia

La Rus’ bizantina Ricevendo il battesimo, la Rus’ di Kiev nasce bizantina. Il racconto leggendario della «scelta della fede» esprime questa filiazione. Inviati presso i Musulmani, gli Ebrei, i Latini e i Greci per scegliere la migliore delle religioni, gli emissari del principe Vladimir sono affascinati da Costantinopoli: «Siamo ancor oggi incapaci di dimenticare tanto splendore… Non sappiamo se eravamo in cielo o sulla terra, poiché sulla terra non si ritrova una bellezza simile. Così, non sappiamo cosa dobbiamo dire ma sappiamo una cosa sola: è qui che Dio dimora con gli uomini». Kiev, «la madre delle città russe» sceglie «la fede dei Greci». Al centro di questa conversione l’immagine è al posto d’onore. Affascinato dalla bellezza di un’icona del Giudizio Universale che un predicatore greco gli avrebbe mostrato, Vladimir lotta per guadagnarsi un posto tra i giusti del Paradiso. Il battesimo è collettivo: «Un popolo innumerevole» entra nelle acque del Dniepr mentre i sacerdoti, in piedi sulla riva, recitano le preghiere del battesimo. Costantinopoli conserva la sua supremazia, Kiev vuol essere la seconda «Carigrad» (Città imperiale). I mosaici della chiesa di San Michele e della cattedrale di Santa Sofia sono espressione dell’arte bizantina dell’xi secolo. A Santa Sofia il Pantocratore circondato da Arcangeli, la Vergine in preghiera, la Comunione degli Apostoli, la Deesis, l’Annunciazione e le figure dei Padri della Chiesa riflettono lo splendore costantinopolitano. L’ordine di queste composizioni riprende integralmente la sequenza bizantina. Opera di Greci o di Russi grecizzati, l’arte di Kiev testimonia fedeltà alla «prima Carigrad». Rostov, Suzdal’, Novgorod e Jaroslavl’ seguono la strada aperta da Kiev. Inviata da Costantinopoli a Kiev verso il 1130, l’icona della Vergine Eleousa (della Tenerezza) viene trasferita a Vladimir da Andrej Bogoliubski. Russificata, la Vergine greca diventa la Vladimirskaja. La luce bizantina si perpetua nelle città russe. Gli affreschi della cattedrale di San Dimitri a Vladimir, come le prime icone di Novgorod e di Jaroslavl’, seguono i modelli tradizionali. Greci e Serbi lavorano nelle botteghe russe. Bisanzio mette radice nella Rus’; le città del Nord diventano focolari dell’arte della Chiesa d’Oriente. Il radicamento non impedisce la nascita di una specificità russa. Mentre l’arte greco-serba assume lo stile dei Paleologhi, le scuole delle città del Nord sviluppano la Tradizione verso una maturazione propriamente russa. Creati nel xii secolo, gli affreschi delle chiese dell’Annunciazione di Novgorod, di San Giorgio a Staraja Ladoga e del Salvatore sulla Neredistra sono nel solco delle chiese serbe contemporanee. A questa espressività «si oppone» la stilizzazione pronunciata 205

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delle prime icone russe. Architetturata in modo magnifico, l’Orante di Jaroslavl’ offre una composizione scrupolosamente armonica. L’aureola di Maria e i tre medaglioni in cui sono posti Emmanuele e i due Arcangeli formano tre cerchi eguali. La figura drappeggiata forma una piramide associata a un rettangolo rovesciato disegnato dalle braccia dell’Orante. Dipinto secondo una prospettiva unidimensionale, il piedestallo forma un ampio rettangolo ovale attraversato da un fregio di linee parallele a zig-zag. Il carattere solenne dei volti rinforza il vigore della composizione e conferisce all’opera una dimensione monumentale. Come l’Angelo dai capelli d’oro, dolce, soave e sorridente, l’Arcangelo dell’Annunciazione ha una capigliatura accuratamente striata con l’«oro di Cephaz». Questa interpretazione ornamentale si ritrova nell’icona Acheropita in cui il tracciato lineare disegna i riccioli dei capelli, le arcate sopracciliari e gli occhi grandi del Salvatore. Originari di Mosca, San Michele Arcangelo e I santi Boris e Gleb cristallizzano questa imitazione. Il grafismo regna. Il modello è sprovvisto di profondità. Un intenso vermiglio disegna delle macchie splendenti delimitate con cura. Gli ornamenti sono come incrostati nelle superfici colorate. Il movimento è ridotto a gesti misurati. Rigide e immutabili, le figure si stagliano su uno sfondo monocromo vuoto.

Teofane il Greco: la Tenebra luminosa Al passaggio tra xiv e xv secolo uno zoografo eminente venuto da Costantinopoli gode di grande notorietà in Russia: affrescatore, iconografo, miniaturista, pensatore e «filosofo», come lo qualificano le cronache, Teofane il Greco conserva un posto particolare nella storia dell’arte della Chiesa

99. Battesimo di san Vladimir e di tutta la Russia, particolare, 55 x 46 cm, fine del xvi secolo. Coll. priv., Belgio. 100. L’Orante di Jaroslavl’, 194 x 120 cm, xii secolo. Galleria Tretjakov, Mosca. 101. Annunciazione. Galleria Tretjakov, Mosca. 102. I santi Boris e Gleb, xiv secolo. Museo russo, San Pietroburgo. 103. San Michele Arcangelo, xiii secolo. Palazzo delle Armature, Mosca.

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d’Oriente. I suoi affreschi nella chiesa della Trasfigurazione di Novgorod rivelano il suo genio, la sua audacia, la sua profondità e il suo vigore. Spoglia di ogni ornamento, una galleria di figure ritte si svolge nel silenzio. A differenza dei suoi contemporanei «greci», Teofane opta per una tematica sobria e classica dalla quale sono allontanati dinamismo e movimento. Nessuno spazio è lasciato all’aneddotica, l’azione si riduce a un simbolo, come l’Arca che Noè porta tra le mani. Da Adamo a san Simeone Stilita, dai giusti dell’Antico Testamento ai grandi eremiti del deserto, d’un sol colpo Teofane si situa al di fuori delle convenzioni tradizionali, non per i suoi temi ma per il suo trattamento plastico. Secondo la testimonianza del contemporaneo Epifanij il Saggio, il maestro greco dipinge spostandosi in continuazione, senza far riferimento alle raccolte di modelli. Puro e slanciato, il tracciato del disegno si rivela libero, flessibile e audace. Tuttavia il pittore «gestuale» non trasgredisce i canoni ma li trascende e supera. Il suo respiro e la sua libertà rivelano un maestro che ha assimilato le leggi e i segreti del mestiere. Le figure sono sempre tipicizzate: il genio di Teofane si afferma nella tematica e attraverso di essa. La maestria e la libertà del pittore sono stupefacenti. Spogliato di ogni ricchezza cromatica il colore è ridotto a toni smorzati di una pienezza plastica magica. Attraversate da strisce bianche le macchie d’ombra e di penombra hanno lo splendore di una luce di lampo. Il mondo di Teofane abita la «Tenebra più che luminosa del Silenzio», tenebra che «brilla della luce più splendente nel cuore dell’oscurità più nera»1. Venuto da Bisanzio, Teofane resta «greco» e i suoi contemporanei russi lo chiamano «Gre/ in». Interiorizzata, l’intensità psicologica degli ultimi bizantini si rivela più potente. Il senso drammatico esasperato diviene espressione. Viene abbandonata ogni connotazione aneddotica. Raccolti nel silenzio angeli, arcangeli, patriarchi, anacoreti ed eremiti fanno «della tenebra un

104. Teofane il Greco mentre dipinge, miniatura del xvi secolo. Biblioteca dell’Accademia delle Scienze, San Pietroburgo. 105. Pantocratore, affresco di Teofane il Greco, 1378. Chiesa della Trasfigurazione, Novgorod.

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velame» (Sal 18(17),12). In questo ritiro «contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male sparsi nell’aria» (Ef 6,12), l’anima combatte la sua invisibile guerra. Aspri, amari ed austeri, i volti fanno percepire la lotta interiore. Allo splendore dei colori si sostituiscono le iridizzazioni della luce-tenebra. Astratta e grandiosa, la pittura spinge all’estremo la propria nudità. San Macario è ridotto a una colonna di un bianco sporco. «Sullo sfondo rosa pallido – scrive Pierre du Bourguet – le sole superfici colorate, di uno stesso ocra scuro, sono l’aureola, le mani che si aprono verso di essa in un sobrio gesto di preghiera, tra il volto del santo, perduto tra le ombre bianche della capigliatura e della barba, che si svolge poi nel mantello; negli occhi brillanti si concentra la massa di luce che dà vita al volto. Come il grande fondatore ha dato vita al deserto»2. Da Novgorod, Teofane passa a Mosca, dove realizza le notevoli icone della Deesis destinate alla cattedrale dell’Annunciazione al Cremlino. Alla Tenebra luminosa si sostituiscono i fuochi scintillanti dell’oro. La finezza e la raffinatezza delle icone sostituiscono il tono espressionistico e febbrile degli affreschi. Bizantino di schiatta pura, il pittore-filosofo sfocia su un’arte esicasta. Come ha sottolineato Klibanov, Teofane orienta definitivamente la pittura russa sulla «via palamita». «Nell’iconografia – scrive il padre Pavel Florenskij – l’oro ha il valore di luce pura, mentre i colori non fanno che riflettere la luce. I colori da una parte, l’oro dall’altra, appartengono a due mondi diversi»3. Pittore alchimista, Teofane annulla questa differenza. Come per miracolo l’oro e i colori si rivelano compatibili. I pigmenti e la doratura sono di una stessa trasparenza. L’oro diviene colore e i colori luce. Nella sua tunica dorata Pietro è rivestito di luce. Vestito di carminio, Paolo s’imporpora nell’oro. Dipinti in terra di Siena, Gabriele e Giovanni il Precursore si crogiolano in un ruscellamento di fuoco. Sospeso al centro di una cornice di quadrilateri e di

107. Pantocratore, opera di Teofane il Greco, 210 x 142 cm, 1405. Cattedrale dell’Annunciazione, Cremlino, Mosca. 108. San Basilio, opera di Teofane il Greco, 211 x 121 cm, 1405. Cattedrale dell’Annunciazione, Cremlino, Mosca.

106. Il profeta Elia, affresco di Teofane il Greco, 1378. Chiesa della Trasfigurazione, Novgorod.

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ovali, simbolo del suo dominio sul cosmo, il Cristo seduto è raggiate di gloria: la sobrietà della composizione è di una purezza «suprematista». La tunica, l’aureola e la superficie dello sfondo sono di uno stesso oro. Un quadrilatero purpureo si disegna in un ovale nero posto in un secondo quadrilatero delimitato da quattro triangoli purpurei del primo quadrilatero. Eterea, la superficie policroma brilla di una stessa luminosità. Al centro del cosmo il volto e la mano benedicente del Cristo impongono la loro presenza imperiale. Teofane sceglie una carnagione sobria. La terra d’ombra bruciata si mescola all’ocra scuro per dar vita ad una gamma smorzata, accarezzata da alcune linee bianche. Una segreta ferita sostituisce il «grido» degli affreschi. Volti impregnati di luce vivono l’aspra ebbrezza di un Gregorio Sinaita. Dedito all’«orazione pura», l’essere abita la luce increata ma resta nel timore e nell’attesa. Godendo di una pienezza indubitabile persevera nel suo combattimento contro ogni pensiero intempestivo.

Pur restando apparentemente impassibili di fronte all’«espressionismo» di Teofane il Greco, gli iconografi russi si abbeverano al suo segno pittorico e al suo linguaggio plastico. Euritmia, purezza, trasparenza e luce. «È un manifesto per i pittori di Mosca» osserva M. Alpatov4. La sintesi pittorica di Teofane annuncia l’avvenimento di Rublëv, il più illustre dei pittori della Russia medievale. Secondo gli annali, Rublëv avrebbe partecipato con Teofane il Greco alla decorazione dell’iconostasi della cattedrale dell’Annunciazione. La cronaca che lo chiama «pittore degli angeli» lo descrive come dolce ed umile, «pieno di gioia e di luminosità». L’opera sarà secondo l’immagine dell’artista. La lotta interiore prende fine: angelico, grazioso e luminoso, il suo mondo abita la felicità eterna. La soavità e la dolcezza giovanile animano gli esseri di questa creazione. La tempera ha la fluidità e la trasparenza dell’acquarello. Sfumati con toni vinosi e azzurri, i colori respirano. Il modello si libera dalle ombre. Rublëv segna la nascita di un classicismo russo. La sua opera annuncia una creazione abbondante, collettiva ed anonima, contemporanea e posteriore. Le sue icone restano la grande espressione di un’arte, di una spiritualità, di uno spirito, di un tempo e di un popolo. Il Cristo-giudice di Rublëv è pura accoglienza. La capigliatura gli fa da aureola, il volto è prolungato da un collo potente che conferisce alla faccia forza e irradiazione. La carnagione è chiara, il modellato sobrio e discreto. La fronte è media e le arcate vigorose. Un grafismo fine disegna gli occhi: il «primogenito» offre la sua pace. Lo sguardo filtra, parla, libera l’interlocutore e l’accoglie nella pace. San Paolo appare come un «angelo terrestre». Un grafismo sfumato solca la fronte; la luminosità della carnagione si estende sulle ombre eteree del volto. «Iniziato alla creazione noetica», «retto, virtuoso, senza preoccupazione né tristezza, ornato di ogni virtù e ricco di ogni bene» (Giovanni Damasceno)5, l’Apostolo dei Gentili è abbigliato con la purezza originale del primo Adamo. A Zagorsk, Rublëv dipinge il suo capolavoro incontestato, l’illustre Trinità. Alla scena dell’Ospitalità di Abramo si sostituisce l’espressione iconica della non riducibilità e dell’uguaglianza delle Tre Persone. Abramo e Sara sono scomparsi. Prefigurazioni della Chiesa, un edificio, un albero e una roccia in secondo piano evocano il luogo dell’aneddoto. Al centro della composizione una coppa in cui è deposta la testa del vitello offerto da Abramo incarna simbolicamente l’Eucarestia. Attorno alla tavola «tre uomini» alati si riposano in uno spazio vaporoso. «La Santa

Trinità – commenta Grégoire Krug – non è rappresentabile in sé e se la Chiesa possiede e venera la rappresentazione della Santa Trinità, questa non può in alcun caso essere venerata come quella dell’essere di Dio, né si può considerarla come rappresentazione della natura di Dio; ma conviene, ci sembra, guardare questa icona come la più profonda delle rappresentazioni simboliche, solo così quest’immagine può essere perfetta. Al di fuori della rappresentazione simbolica dell’icona della Santa Trinità, non ci può essere giusta venerazione nei suoi confronti né, si direbbe, può nascere la rappresentazione stessa della Santa Trinità»6. La somiglianza dei tre angeli incarna l’uguaglianza delle tre Persone nella loro gloria comune; la loro triplicità rivela la loro differenza poiché le Persone, senza confondersi, sussistono separatamente le une dalle altre. Nessuna iscrizione accompagna i protagonisti; allo stesso modo Rublëv elimina il nimbo crucifero che fa da aureola al Cristo Pantocratore: «Agli angeli sull’icona della Trinità sono attribuiti tratti umani ma non bisogna intendere questa “umanità” come qualcosa che si riferisce alla natura stessa della Divinità. Una comprensione di questo tipo, che è di origine gnostica e non cessa di riapparire, non può trovare ospitalità nella Chiesa e non può essere santificata dalla benedizione ecclesiale. I tratti della dignità angelica ed umana non sono in alcun modo testimonianza del fatto che una sembianza umana qualunque sia nascosta nell’essere stesso di Dio, nella sua essenza impenetrabile… Occorre credere che questa immagine non può essere compresa che in modo assolutamente simbolico; solo così può essere pensabile la rappresentazione delle Tre Persone e tutta la struttura di quest’icona testimonia l’estrema misura e prudenza con le quali quest’immagine è stata creata»7. Nella sua unità, Dio vive una comunione interiore. Rublëv mette l’accento sulla «pericoresi»; i gesti e i colori esprimono simbolicamente il movimento circolare che si opera all’interno dell’Unità Divina: uno scambio di essere si opera misteriosamente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. «Il primo angelo rappresentato nella parte sinistra dell’icona è rivestito di un abito inferiore blu, immagine della sua natura divina e celeste, e di un abito superiore malva chiaro, che testimonia l’impenetrabilità divina e la dignità regale di questo angelo… Il fatto che la raffigurazione dell’edificio sia posta sopra la testa del primo angelo lo designa come il capo (nel senso della sua natura paterna) di questa economia. Lo stesso carattere di autorità paterna si manifesta anche in tutto il suo aspetto. La sua testa quasi non è inclinata, il suo torso è piegato, il suo sguardo volto verso gli altri due angeli. Tutto – i suoi tratti, l’espressione del volto, la posizione delle mani e il modo in cui l’angelo troneggia – parla della sua dignità paterna. Gli altri due angeli hanno le teste piegate e lo sguardo volto verso il primo con una profonda attenzione, come se conversassero. Il vestito del secondo angelo corrisponde a quello nel quale è rappresentato abitualmente il Salvatore. L’abito inferiore è di colore porpora scuro, che significa l’incarnazione; il chitone blu che avvolge con pieghe libere la figura dell’angelo ha un colore che significa la dignità divina, il carattere celeste della sua natura. L’angelo è piegato ed ha la testa ed il tronco in movimento volti verso il primo in un’intima conversazione… L’angelo posto sul lato destro dell’icona è la Terza Persona della Santa Trinità, l’ipostasi dello Spirito Santo. Il vestito inferiore dell’angelo è di colore blu trasparente e non scuro. La veste superiore è verde appena sostenuto e molto leggero, una tonalità che esprime l’appellativo dello Spirito Santo come datore di vita e l’immagine della potenza inesauribile ed eterna che rende vivo tutto ciò che è»8. La Trinità è di una bellezza formale esemplare. Le forme proiettive primordiali, cioè il cerchio, il triangolo e il rettangolo sono iscritte in uno schema circolare che unifica le Tre persone in un Tutto. All’armonia della composizione si aggiunge l’eccellente trattamento plastico dello zoografo; Rublëv opta per i toni pastello. Giallo limone verdeggiante, rosa pallido violaceo, azzurro schiarito; fuse e condensate, le gamme sono messe in rilievo da un bianco segnato di blu e

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Andrej Rublëv, il pittore degli angeli

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109. Trinità, opera di Rublëv, 142 x 114 cm, xv secolo. Galleria Tretjakov, Mosca. 110. San Giovanni Battista, opera di Rublëv. Galleria Tretjakov, Mosca.

111. San Paolo, opera di Rublëv, 158 x 106 cm, xv secolo. Galleria Tretjakov, Mosca.

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di ocra. Pur procedendo ad alcuni ispessimenti, Rublëv conserva una trama fluida e trasparente. La doratura è chiara e traslucida. L’oro giallo respira una luce bianca che copre con le sue «energie» la superficie dell’icona.

Maestro Dionisij, il classicismo russo Verso la fine del xv secolo, Maestro Dionisij dirige a Mosca una bottega dove lavorano i suoi figli e un certo numero di pittori anonimi. Iconografo laico, Dionisij è qualificato come «illustre» e «sagace» ed il suo lavoro come «meraviglioso e miracoloso». I suoi contemporanei vedono in lui «il più illustre e il più eccellente di tutti». Seguendo la via tracciata da Rublëv e dai suoi discepoli, Dionisij rompe con il modo bizantino. Una stilizzazione idealistica sostituisce il realismo mistico dei suoi contemporanei «greci». La componente naturalistica è come assorbita. Ogni tensione drammatica scompare. Le figure, graziose e pacifiche, mostrano una benevolenza serena. Le architetture sono fantasiose. L’azione ha luogo «al di fuori di ogni prigionia e di ogni preoccupazione per le cose terrene» (sant’Isacco il Siro)9. Il mondo ritrova la sua allegria paradisiaca. Il grafismo prevale sulla plasticità e mette in rilievo la pura bellezza dei colori. Dionisij riprende il prototipo bizantino ma il suo modo di dipingere fa vedere un’opera specificamente russa. Circondato da sei angioletti, Cristo appare sulla croce il cui piede è confitto nella caverna nera dove riposa il cranio di Adamo; la Madre di Dio e le tre donne sono da un lato, l’apostolo Giovanni e il centurione Longino dall’altro. Le figure sono smisuratamente allungate; solo

112. Sant’Alessio consacra l’igumeno, particolare, 197 x 152 cm, opera di Maestro Dionisij, 1462-1483. Galleria Tretjakov, Mosca. 113. Incontro di sant’Alessio con il principe di Mosca, particolare, 197 x 152 cm, opera di Maestro Dionisij, 1462-1483. Galleria Tretjakov, Mosca. 114. San Giorgio, scuola di Maestro Dionisij, Museo russo, San Pietroburgo. 115. San Giovanni Crisostomo, scuola di Maestro Dionisij, Museo russo, San Pietroburgo.

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il trattamento degli abiti è influenzato dal modo bizantino. L’espressività si trasforma in contemplazione. Profondamente umani, i volti dei testimoni conservano la loro quiete e la loro serenità. Dio asciuga tutte le lacrime dagli occhi dei suoi fedeli; il pianto e la pena non sono più, «poiché il mondo vecchio è passato» (Ap 21,4). La contrizione e il dolore hanno fine. Il corpo innalzato del crocifisso è ridotto alla sua forma lineare. Il pittore cancella ogni traccia di sangue. L’ocra del corpo, il bianco del panno e il nero della croce si incidono su un orizzonte d’oro. La morte viene assorbita. Signore della Vita, il Kyrios «sostituisce» l’uomo dei dolori morto suppliziato. Colorista di genio, Maestro Dionisij afferma la sua maestria e la sua originalità. Dai meravigliosi affreschi nella chiesa della Natività della Vergine alle ammirevoli icone dei metropoliti Pietro e Alessio «con la loro vita», il bianco, divenuto colore, brilla in tutte le sue iridizzazioni. Alessio, il primo metropolita russo, è rappresentato a tutta figura, con le braccia spalancate; una mano porta il Vangelo e l’omophorion, l’altra fa il segno della benedizione. Le insegne della sua funzione si trasformano in tappezzeria. Dionisij elimina le pieghe del drappeggio. Il corpo scompare. Ricoperto di cerchi che racchiudono delle croci, il phelonion si richiama all’omophorion dove sono incise tre croci nere e tre bande rettangolari parallele. Come nelle figure-ritratto di Teofane e di Rublëv, la barba rada prolunga il volto del santo. La stilizzazione grafica è spinta all’estremo. Un disegno fine delinea i tratti del volto, inquadrato dalla cappa bianca. Le pupille degli occhi si trasformano in due punti neri. Il trattamento lineare e i contorni definiti cancellano il modellato delle ombre e delle luci. La figura eretta è un tutt’uno con il suo sfondo. La composizione è immersa in una luce bianca. Una striscia di immagini che riferiscono la vita del metropolita di Mosca ricama il rettangolo verticale in cui è iscritto il ritratto. Alessio è votato a Dio dall’infanzia. Adolescente, intraprende presto il suo noviziato. Ordinato, gode di grande prestigio a Mosca: le scene iconiche ce lo mostrano successivamente con san Sergio, il Khan Verder e il principe Andronico. Morto, lo si vede in gloria nella bara. Santo, compie dei miracoli e gli storpi vanno sulla sua tomba per venerarlo. Queste piccole icone narrative sono di squisita bellezza. Finemente architetturate, composte e ritmate, vestite di colori trasparenti, queste vignette sono delle melodie d’armonia, chiarezza e poesia.

Il grafismo regna. Esente da ogni impronta naturalistica, l’estetica russa afferma intuitivamente la propria «modernità», che nel xx secolo affascinerà gli artisti in cerca «dello spirituale nell’arte». Il tracciato puro approfondisce la dimensione astratta dell’icona. «Il campo grafico, per sua stessa natura – sottolinea Paul Klee –, spinge a buon diritto e con facilità all’astrazione… Più il lavoro grafico è puro, cioè tanta più importanza è data alle basi formali di una rappresentazione grafica, più diminuisce l’apparato proprio alla rappresentazione realistica delle apparenze»10. Volti, figure, paesaggi e sfondi architettonici sono ridotti alla loro forma concisa. Dai colori sfumati di Rublëv alla sapida tavolozza fauve dell’iconostasi di Kargopol’, il cromatismo acquista una dimensione nuova. L’impeto russo manifesta la limpidezza e la musicalità dei suoi colori: intensi e piatti, il vermiglio fiammeggiante, il bianco luminoso e il nero puro si stagliano su uno sfondo d’ocra e d’oro. Il cromatismo si libera dalle leggi bizantine. Aureolato da un nimbo bianco, il profeta Elia si staglia su un rettangolo in cui il vermiglio di fuoco sostituisce la doratura dello sfondo. Il linguaggio autoctono porta l’immagine alla soglia di uno spazio bidimensionale, come l’icona dei Santi Floro e Lauro la cui fattura, preziosa ed araldica, ha la purezza plastica delle miniature persiane.

Uomo celeste, angelo terrestre L’uomo si «angelizza». Vescovo, monaco, principe, folle di Cristo, anacoreta o guerriero, il santo incarna «la forma terrestre dell’angelo». La «piccola acedia» è scomparsa. L’uomo di Dio è abbi-

Grammatica russa Nel periodo dell’unificazione delle città russe le scuole iconografiche vivono una fruttuosa osmosi. La produzione è prolifica. Nel momento in cui i «Greci» abbandonano gli ordinamenti e i programmi rituali orientandosi verso un «umanesimo» sacro, i Russi stilizzano, organizzano, ordinano secondo regole scrupolosamente stabilite. L’elaborazione russa dell’iconostasi condiziona i programmi delle icone. La parete che separa il coro dalla navata si trasforma in un muro di icone. Dotata di tre porte, la struttura in legno ricoperta d’icone si arricchisce di nuovi ordini. Bassa nel xiv e xv secolo, l’iconostasi si sviluppa in altezza per raggiungere una dimensione spettacolare nel xvi secolo. La porta regale, decorata con l’Annunciazione e i quattro evangelisti, è attorniata dal Cristo e dalla Madre di Dio con il Bambino. A questo trittico vengono ad aggiungersi altre coppie di icone. Secondo il criterio gerarchico di ordine (/in), nel secondo registro la Deesis si sviluppa intorno al Cristo in trono. Il terzo registro mostra il ciclo delle feste liturgiche. Infine, secondo una ritmica che riprende il modello della Deesis, i profeti riuniti attorno alla Vergine del Segno e i patriarchi che circondano la Trinità occupano i due ultimi registri. 218

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116. I santi Floro e Lauro, xv secolo. Galleria Tretjakov, Mosca.

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gliato dell’«unica semplicità della purezza». Su immagine dell’angelo dell’Areopagita, egli è «specchio puro, perfettamente limpido, intatto, senza commistioni, senza sozzure, capace, se così si può dire, di riflettere nella sua intera freschezza questa forma divina che porta l’impronta del Bene e, per quanto può, nel suo splendore perfettamente puro, la bontà del Silenzio inaccessibile»11. Greca, Maria Egiziaca è rinsecchita, rosa, addirittura sfigurata dall’ascesi; russa, è piena di dolcezza, angelo senz’ali, vestita di grazia e di felicità. L’angelismo umano trova la sua espressione allegorica nelle icone composite dell’Apocalisse e de L’anima mia magnifica il Signore: angelo del Supremo Consiglio, Cristo porta due ali di cherubino. Alati, i monaci volano su un fondo d’oro, angeli tra gli angeli. La quiete, la dolcezza e l’impassibilità sostituiscono la tensione delle «passioni irreprensibili». «Né le afflizioni del corpo – scrive sant’Isacco –, né quelle dell’anima, né la fame, né la persecuzione, né la nudità, né l’isolamento, né la prigione, né il pericolo, né la spada, né gli angeli di Satana, né le potenze malefiche, né le aggressioni della sua gloria abolita, né le calunnie, né gli oltraggi, né i colpi dati senza ragione possono separarci dall’amore»12. Le vignette che circondano l’effige del santo mostrano le torture che gli furono inflitte. Sant’Ipazio di Gangra è bruciato, trascinato a terra da alcuni cavalieri e sepolto vivo. San Niceta martire è flagellato, suppliziato, bruciato e crocifisso. «Quando l’anima è inebriata dalla gioia della sua speranza e gioisce in Dio, il corpo non sente le afflizioni, per debole che sia»13. Due leoni attaccano sant’Ignazio d’Antiochia. Svuotati di ogni

volume, posti simmetricamente a destra e sinistra, formano come due arabeschi rossi. Vestito delle insegne della sua funzione, il vescovo si erge in posa solenne in mezzo ad essi. La temperanza regna. Il dolore è abolito. L’amore salutare trionfa: la sua potenza si mostra indefettibile. Le Marie si radunano davanti alla croce del Cristo. Gli apostoli circondano la spoglia della Madre di Dio. Ogni dolore è beatificato. «La morte, un tempo odiata ed esecrata, è circondata di lodi e proclamata beata: essa, che un tempo portava lutto e tristezza, lacrime e cupa malinconia, ora appare causa di gioia e oggetto di festa solenne» (Giovanni Damasceno)14. La grammatica bizantina regola le dimensioni dei protagonisti secondo un ordine gerarchico. I santi, i «giganti», come li chiama sant’Isacco, richiedono una scala che li distingua dai «semplici mortali». Al centro dell’assemblea dei santi il Cristo resta il «primo di tutti», come nella splendida Dormizione della Vergine di Teofane il Greco, nella quale la statura gigantesca del Cristo domina la composizione. I Russi rompono questa concezione gerarchica. Proprio come i santi, gli uomini sono dei «giganti». Puramente russe le «icone di convocazione» come l’Intercessione della Vergine o l’Inno alla Vergine: noi ti celebriamo, noi ti esaltiamo, mostrano un’assemblea sovraffollata, dove la Madre di Dio e i suoi adoratori hanno la stessa taglia: ai rappresentanti dei due poteri temporali e spirituali si aggiungono quelli delle diverse «classi», immagine simbolica dell’umanità che trova qui il suo posto nella gerarchia celeste. L’ardore dell’amore incendia tutte le creature. C’è come una reminiscenza della grande spiritualità dell’ascetismo siriano. L’occhio dello spirito scopre la bontà degli uomini, di tutti gli uomini.

118. Inno alla Vergine: noi ti celebriamo, noi ti esaltiamo, particolare, opera di Maestro Dionisij, 140 x 110 cm, xvi secolo. Galleria Tretjakov, Mosca.

117. Santa Maria Egiziaca, particolare. Coll. priv., Libano.

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«Quando egli considera che tutti gli uomini sono buoni – sottolinea sant’Isacco – e quando nessun uomo gli pare impuro e sozzo, allora egli è veramente puro nel suo cuore»15. Il male non è più: gli «stranieri» e i «nemici della verità» scoprono la loro bontà originale. Tutto è filocalico: «Ogni essere viene dal Bello-e-Bene e si converte al Bello-e-Bene»16. Nella Decollazione di san Giovanni il Precursore il carnefice che alza la spada ha la grazia, la dolcezza e l’eleganza dei santi guerrieri! Lo «straniero» ha la statura e il volto del «gigante». I mostri dell’Apocalisse non hanno nulla di lugubre. Ogni esaltazione dell’orrore viene respinta. L’inferno non è più una gehenna di fuoco, dove i dannati sono castigati per l’eternità. Alle torture e ai castighi si sostituisce il tormento del rimorso. «È il giudizio da parte dell’accusato stesso – scrive Berdjaev –, lo spavento per le proprie tenebre dopo la visione della luce»17. Nelle caverne dell’inferno i volti degli «orgogliosi», sprofondati «nei pensieri del loro cuore» si stagliano sul fondo nero. Gli angeli rovesciano «i potenti dai troni». «Rinviato a mani vuote», il «ricco» che vede l’inutilità della sua fortuna si pente davanti ad una borsa d’argento derisoriamente sospesa ad un’asta.

La fine di un’arte Nuovi prototipi vengono ad arricchire l’iconografia. La galleria delle icone mariane si orna di modelli russi. La Vergine di Kazan’ non ha bisogno di una mano conduttrice per guidare i suoi fedeli. La «Donatrice di Vita» e la «Compassionevole» appoggia la testa alla mano. «Cercando ciò che è perduto» essa porta sulle ginocchia il Bambino in piedi. Madre sovrana, ella è la «Gioia degli afflitti»: poveri, umiliati e malati circondano colei che «riveste gli ignudi», «guarisce i

malati», «dà da bere agli assetati e fa camminare gli storpi». La Vergine del «cespuglio che non si consuma» siede al centro di una stella a otto raggi, simbolo del fuoco e del vegetale: profeti, evangelisti e angeli la circondano per celebrarla. Nel xvii secolo l’arte della Chiesa si divide. Il vento d’Occidente soffia sulla Russia. All’unicità degli stili testimoniata dalle scuole delle città russe si sostituisce una pluralità di correnti diverse tanto per la loro fattura che per le loro qualità. Alla soglia del suo crepuscolo la Tradizione fa intendere il suo ultimo canto. Le grandi composizioni didattiche si moltiplicano. Una produzione letteraria sovraccarica di elementi aneddotici succede all’opera dell’età aurea, grandiosa per semplicità e purezza. L’arte perde la nudità della sua prima tradizione pittorica. L’icona si orienta verso la miniaturizzazione per trasformarsi in miniatura eseguita su legno. Pittori di talento, Procopij \irin, Nikifor Savin e Jakob Kazanec rappresentano quest’ultimo orientamento. Fastuosa e preziosa, l’abbondante opera della scuola degli Stroganov mostra un universo in miniatura, sovraccarico d’ornamenti. I «lumi» penetrano nel mondo dell’arte. A Rostov e Jaroslavl’ gli influssi barocchi portano la Russia a uno stile «gotico» originale ma non liturgico. Si approfondisce il divorzio tra la Tradizione e l’arte. La generale aridità di cui soffre la chiesa produce rottura tra riflessione teologica ed estetica. I pittori si allineano all’arte dell’Occidente. La percezione e il naturalismo celebrano la loro vittoria. Di fronte allo specchio Simon Ušakov vede il «ritratto perfetto»: pur liberando la pittura dai suoi ornamenti barocchi egli riprende i modelli di Nostra Signora di Vladimir e della Trinità per trattarli alla maniera di un Raffaello. Alla fine di questa osmosi, nel xviii secolo, la Tradizione moribonda spira. Rompendo con l’eredità bizantino-russa gli iconografi assumono lo stile detto «franco». I pittori continuano a dipingere e le chiese decorate si moltiplicano: la «nuova» arte che dilaga nelle terre russe si consolida per divenire «tradizione».

119. Decollazione di san Giovanni il Precursore, xv secolo. Museo d’Arte Russa, Kiev. 120. Trinità, opera di Simon Ušakov, 124 x 90 cm, 1671, Museo russo, San Pietroburgo. 121. Vergine col Bambino, opera di Simon Ušakov, 130 x 76 cm, 1668. Galleria Tretjakov, Mosca.

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LA TRASFIGURAZIONE RUSSA 122. La Chiesa militante, xvi secolo. Galleria Tretjakov, Mosca. 123. La battaglia tra Novgorod e Suzdal’, 161 x 118 cm, xv secolo. Museo di storia e d’architettura, Novgorod.

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La Rus’ di Kiev sceglie «la fede dei Greci» e le città del nord divengono focolai dell’arte bizantina. Questo radicamento non impedisce la nascita di una specificità russa. Il disegno ha la meglio sul cromatismo, l’astratto prevale sul concreto. L’arte celebra la quiete dell’esicasmo. «Pittore degli angeli», Rublëv è la maggior espressione dell’icona russa. Euritmia, purezza, luce e soavità: ogni drammatizzazione viene ricompresa. Con un’aureola di capelli, Cristo assolve l’interlocutore e lo accoglie nella pace. «Senza preoccupazione né tristezza», i santi Apostoli sono abbigliati della purezza originaria. Erede di Rublëv, Maestro Dionisij rompe con la fattura bizantina. Prevale il grafismo, che mette in rilievo la bellezza pura dei colori. Il corpo inalberato del Crocifisso è ridotto alla sua forma lineare. Signore della vita, il Kyrios sostituisce l’Uomo dei dolori. Le scuole delle città russe si moltiplicano. L’arte canta «la semplicità unica della purezza». La temperanza regna, il dolore è abolito: impassibile, sant’Ignazio d’Antiochia si erge solenne in mezzo ai leoni. La Madre di Dio è l’idillio di questa allegrezza paradisiaca e la Santa Russia le offre nuovi modelli iconici: la Sovrana è Gioia inattesa, Donatrice di vita, Cespuglio che non si consuma. Gioia degli afflitti, essa «dà da bere a coloro che hanno sete e fa camminare gli zoppi». L’età d’oro dell’icona russa conosce il suo crepuscolo nel xviii secolo, ma le scuole dei villaggi fanno sopravvivere la tradizione. Nel xx secolo il monaco Grégoire Krug lascia un’opera carismatica nella quale la sintesi dei maestri di un tempo è illuminata da un soffio vivificante.

85. Angelo dai capelli d’oro, 43 x 39 cm, Scuola di Novgorod, xii secolo. Museo russo, San Pietroburgo.

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86. Il Salvatore, 159 x 106 cm, opera di Rublëv, xv secolo. Galleria Tretjakov, Mosca.

87. San Pietro, 189 x 82 cm, opera di Rublëv, 1425-1427. Cattedrale della Trinità, Monastero di San Sergio, Zagorsk. 88. San Paolo, 189 x 82 cm, opera di Rublëv, 1425-1427. Cattedrale della Trinità, Monastero di San Sergio, Zagorsk.

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89. Vita del metropolita Alessio, 197 x 152 cm, opera di Maestro Dionisij, 1462-1483. Galleria Tretjakov, Mosca. 90. Crocifissione, 85 x 52 cm, opera di Maestro Dionisij, verso il 1500. Galleria Tretjakov, Mosca.

Pagine seguenti: 91. San Gerasimo, 32 x 25 cm, Russia, xv secolo. Galleria Tretjakov, Mosca. 92. Sant’Ignazio di Antiochia, 39 x 32 cm, Russia centrale, xvii secolo. Patriarcato d’Antiochia, Damasco.

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93. Porta regale, Russia, xvii secolo. Chiesa di Saint-Serge, Parigi. 94. Gioia inattesa, 35,5 x 31,5 cm, Russia centrale, verso il 1800. Coll. priv., Libano.

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95. Vergine del cespuglio ardente, 33,5 x 29 cm, Russia, xvii secolo. Coll. priv., Libano.

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96. Gioia degli afflitti, 54 x 45,5 cm, Russia, xviii secolo. Chiesa di Notre-Dame Joie des affligĂŠs, Parigi.

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97. Vergine col Bambino, particolare.

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98. Icona con otto santi, Russia centrale, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

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99. Intercessione della Vergine, 89 x 69 cm, maniera di Palech, Russia, inizio del xix secolo. Coll. priv.

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100. Trinità o ospitalità di Abramo, Russia centrale, xviii secolo. Coll. priv., Libano.

Pagina seguente: 101. Mandylion con il Volto Santo, 40 x 30 cm, opera di Grégoire Krug, 1969. Ermitage du Saint-Esprit, Le Mesnil-Saint-Denis.

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La Russia celeste Bisanzio aveva trasmesso la sua luce. La Russia orienta l’arte della Chiesa verso un’estetica che si rivela certo differenziata ma non separata. Lo spirito che vivifica fa ramificare le leggi. Come ai tempi della seconda Roma, l’arte resta quella della Chiesa russa, non dello stato. Come ha scritto lo slavofilo Khomiakov, la Russia, eletta ma «empia e infedele», si mostra «indegna di questa elezione»18. La sua storia rivela «un caos di fango e di sangue» dove «non c’è nulla di buono, nulla di nobile, nulla che fosse degno di essere rispettato o imitato»19. Asservita allo stato, la Chiesa, illuminata e libera, porta su di sé i peccati della storia. Come testimoniano l’icona della Battaglia tra Novgorod e Suzdal’ o quella gigantesca della Chiesa militante che celebra l’alleanza dell’Impero e della Chiesa, il nazionalismo pseudoreligioso a volte nuoce alla sacralità della pittura ecclesiale. Tuttavia la grande arte della Chiesa russa segna il trionfo della visione monastica. Pur russificando gli sfondi architettonici, l’icona mostra una Santa Russia che «non è di questo mondo». Nel Miracolo di san Michele a Chonae, una chiesa russa sostituisce la capanna del monaco Archippo. Nell’Intercessione della Vergine Maria una Santa Sofia russa si sostituisce a quella di Costantinopoli. Il mondo non è più. L’icona si apre sull’«isola che è al di là del mondo, dove si trovano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo»20.

Note Pseudo Dionigi l’Aeropagita, Œuvres Complètes, La Théologie mystique i, 1, Aubier-Montaigne, Parigi 1943, p. 171. Pierre du Bourguet, Peintures Chrétiennes, Couleurs Paléochretiennes, Coptes et Byzantines, Famot, Ginevra 1980, p. 302. 3 Pavel Florenskij, «L’Icône», in Contracts 88, p. 328. 4 Michel Alpatov, Historie de l’Art Russe, Flammarion, Parigi 1975, p. 212. 5 Giovanni Damasceno, La Foi Orthodoxe ii, 12, in La Foi Orthodoxe suivie de…, tr. fr. Cahiers Saint-Irénée, Parigi 1966, pp. 68-69. 6 Grégoire Monaco, Carnets d’un Peintre d’Icônes, L’Âge d’Homme, Losanna 1983, p. 70. 7 Ibidem, p. 82. 8 Ibidem, pp. 78-79. 9 Isacco il Siro, Œuvres Spirituelles, Discorso viii, Desclée de Brouwer, Parigi 1981, p. 98. 10 Paul Klee, Théorie de l’Art Moderne, Denoël, Parigi 1985, p. 34. 11 Pseudo Dionigi l’Aeropagita, Les Noms Divins iv, 22, in Œuvres complètes, cit., p. 177. 12 Isacco il Siro, Œuvres Spirituelles, Discorso 8, cit., p. 99. 13 Isacco il Siro, Œuvres Spirituelles, Discorso 73, cit., p. 375. 14 Giovanni Damasceno, Sur la Dormition, i, 12, Sources Chrétiennes 80, Cerf, Parigi, p. 113. 15 Isacco il Siro, Œuvres Spirituelles, Discorso 85, cit., p. 431. 16 Pseudo Dionigi l’Aeropagita, Les Noms Divins iv, 10, in Œuvres complètes, cit., p. 103. 17 Nikolaj Berdjaev, Essai d’Autobiographie Spirituelle, Buchet-Castel, Parigi 1979, p. 376. 18 Citato da Nikolaj Berdjaev, Les Sources et le Sens di Communisme Russe, Gallimard, Parigi 1966, p. 155. 19 Khomiakov, Opere, iii, p. 12 (in russo); tr. fr. in Nikolaj Berdjaev, Khomiakov, L’Âge d’Homme, Losanna 1988, p. 124. 20 Isacco il Siro, Œuvres Spirituelles, Discorso 72, cit., p. 367. 1

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Capitolo nono

Oggi

La fine di un mondo L’arte ecclesiale dell’Oriente conosce una divisione crescente dal xvii secolo. Già nel secolo precedente l’Occidente aveva lasciato le sue prime tracce, tuttavia questo apporto si era spesso fuso nella grammatica russo-bizantina. I maestri della scuola cretese bizantinizzano la tematica occidentale: Teofane si ispira a modelli italiani per rappresentare il Massacro degli innocenti e l’Apparizione del Cristo a Emmaus. Nel 1603 Mercurius e Daniel ricorrono alle opere di Dürer e di Cranach per comporre le scene dell’Apocalisse. Con Simon Ušakov, il «Raffaello russo», l’iconografia conosce il cammino inverso: i modelli ortodossi si occidentalizzano, l’icona si trasforma nella sua stessa essenza. Affascinati dall’illusionismo del trompe-l’œil, gli iconografi cercano di dipingere secondo lo stile naturalistico. Nel suo Trattato sul dominio sapiente dei fattori della pittura, Josip Vladimirov, pur invitando a salvare l’arte nazionale russa, invita i pittori a ispirarsi alle opere degli altri paesi, dove tutto è dipinto «come nella vita». Capo dei Vecchi Credenti, l’arciprete Avakkum predica l’inammissibilità del nuovo stile: «Dio ha permesso che nella terra russa si moltiplicassero le icone di stile sconveniente. Gli isografi dipingono così, le autorità li favoriscono e tutti avanzano verso l’abisso della perdizione, legati l’uno all’altro. Dipingono l’immagine del Salvatore Emmanuele con il volto gonfio, le labbra rosse, i capelli ricciuti, le mani e i muscoli grossi; parimenti le gambe mostrano robuste anche. L’insieme risulta quello di un tedesco, solo gli manca la sciabola al fianco»1. Nikon, il patriarca riformatore, sembra combattere la stessa battaglia. Durante l’ufficio e in presenza dello zar attacca lo stile eterodosso, s’impadronisce delle icone russe dipinte alla maniera «franca» e ordina che vengano bruciate… Tuttavia, è lo stesso patriarca che fa dipingere da un fiammingo il suo ritratto, destinato alla venerazione dei fedeli! Determinata essenzialmente da un nazionalismo febbrile, la critica «ortodossa» non gode della coerenza pertinente degli iconoduli d’altri tempi. Anche temi cattolici trovano la loro interpretazione iconica: entra in scena san Giuseppe e si moltiplicano le Sacre Famiglie. Con le sette spade che le trapassano il cuore, la Vergine che intenerisce i cuori duri non è che la trasposizione della Vergine dei sette dolori. La tradizione ortodossa limitava la scena della Risurrezione di Cristo all’immagine della tomba vuota visitata dalle portatrici di mirra. Ora il Cristo esce dalla tomba, lacerando il sudario, di fronte ai soldati gettati a terra, come nell’arte occidentale. In senso inverso a questo movimento alcuni pittori 243

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riprendono i grandi temi della tradizione per interpretarli al modo occidentale. Trionfa Simon Ušakov. Privata del suo bene ecclesiale, l’arte religiosa si trasforma in un’arte laica, praticata tanto da professionisti che da «dilettanti». Josip Vladimirov vede le scuole iconografiche trasformate in un «bazar» dove i «macellai, i muratori e i calzolai si permettono di dipingere delle icone senza saper nulla del mestiere»2. Mentre i professionisti dipingono come un Paolo Veneziano, i dilettanti trasformano la grande tradizione in un artigianato popolare. Il tempo delle icone si conclude. Nel 1775 Caterina ii, adepta dei Lumi, fa sostituire l’iconostasi realizzata da Andrej Rublëv per la cattedrale dell’Assunzione di Mosca con un insieme di pitture barocche tra le quali un ritratto dell’imperatrice dipinta da santa Caterina! Verso la fine del xviii secolo un’arte pseudo-occidentale regna senza rivali nei diversi paesi ortodossi. L’invasione dei missionari e la passività della Chiesa d’Oriente producono il declino della pittura russo-bizantina. Questa «deviazione» sembra essere d’ordine religioso e non politico. Lo ha ben sottolineato lo jugoslavo Svetozar Radoj/i0: «La suddivisione della pittura bizantina in due periodi, l’uno propriamente bizantino e l’altro post-bizantino separati dalla data della caduta di Costantinopoli nel 1453 è artificiosa, poiché le influenze occidentali hanno fatto alla pittura bizantina ben più male dei Turchi»3. L’Ortodossia, presente ma incosciente, partecipa di questo declino. «La Chiesa ortodossa – scrive L. Ouspensky – ha difeso bene la propria indipendenza nei confronti del cattolicesimo romano e del protestantesimo ma la sua teologia e la sua arte perdono questa indipendenza. Nell’arte la dipendenza si è manifestata nel modo più profondo e duraturo, dunque più gravido di conseguenze. Per lungo tempo questo stato di cose ha prodotto nell’arte russa una sorta di “complesso d’inferiorità” rispetto all’arte occidentale e l’ha tenuta lontana dalla sua eredità viva e creatrice»4. La grande arte dell’Oriente cristiano cade nell’oblio: una quantità di pitture non iconiche, spesso di mediocre fattura, occupa le chiese ortodosse. Nessuna regione viene risparmiata. San Sulpizio

è al centro dell’Athos. La Chiesa conserva l’immagine ma dimentica l’icona. «Noi passavamo accanto all’icona ma non la vedevamo»5 nota Evgenij Trubeckoj all’inizio del xx secolo. L’immagine ecclesiastica ammette tanto lo stile canonico tradizionale quanto quello «moderno». Pur affermando il primato dell’icona «tradizionale» una conferenza panortodossa tenuta a Rodi nel 1961 legittima le due correnti: «Entrambe le espressioni delle verità cristiane hanno diritto di esistenza nella Chiesa del Cristo quando, nelle due correnti, è presente lo Spirito vivificatore»6. In un’epoca in cui la rivoluzione dell’arte moderna fa trionfare in Occidente i diversi volti dell’arte orientale, l’arte dell’Oriente cristiano è saccheggiata da uno stile bastardo, al quale si rifà la maggioranza quasi schiacciante delle immagini esposte nelle chiese ortodosse.

La moderna Bisanzio In Occidente per paradosso, mentre la grande arte divorzia dalla Chiesa, l’arte moderna, libera da ogni religione, è alla ricerca di un al di là del visibile. Stanco del suo eurocentrismo, l’Occidente si volge verso l’Oriente. «Roma non è più a Roma», profetizza Delacroix. Gauguin consiglia i pittori di non copiare dalla natura: «Si dice che Dio prese nella sua mano un po’ d’argilla e fece tutto ciò che sapete. L’artista a sua volta (se vuole realmente fare un’opera creatrice e divina) non deve copiare la natura ma prendere gli elementi della natura e crearne uno nuovo»7. Il naturalismo celebrato in continuazione per più di sei secoli viene finalmente battuto in breccia. «Non dobbiamo combattere in splendore con la natura per fare dell’imitazione rigorosa – nota Georges Rouault – come i musicisti noi possiamo trasporre». Disprezzata tanto a lungo, Bisanzio ritrova a giusto titolo il suo posto d’onore. Nel xix secolo l’Occidente ne aveva fatto un sinonimo di decadenza. Affascinato dall’antichità greco-romana di cui voleva essere l’erede, non vedeva in essa che una parodia orientale, diffamante e degenerata. Per

124. Resurrezione, Coll. priv., Libano. 125. Vergine che intenerisce i cuori duri, particolare. Coll. priv., Libano. 126. Santa famiglia e Trinità, 52 x 40 cm, Siria 1855. Coll. priv., Libano.

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Chateaubriand, l’autore del Genio del Cristianesimo, gli splendidi mosaici di Daphne non sono che un insieme di «pitture barbare». Per Taine e Didron l’artista bizantino non è che «una macchina da ricalco: … asservito alle sue tradizioni come l’animale al suo istinto, egli produce una figura come una rondine il suo nido o l’ape il suo alveare». Nel xx secolo Georges Millet, Emile Mâle, Charles Diehl e Georges Duthuit riabilitano Bisanzio nella coscienza europea. Per i maestri dell’arte moderna la pittura russo-bizantina è una rivelazione. Durante il suo soggiorno russo del 1911 Henri Matisse scopre incantato la bellezza delle icone e degli affreschi russi. La purezza della linea e del colore affascina l’artista fauve. «I Russi, dichiara, non hanno idea del tesoro artistico che possiedono… I vostri giovani studenti hanno qui, a casa propria, dei modelli d’arte incomparabilmente migliori… di quelli che possono trovare all’estero. I pittori francesi dovrebbero venire a studiare in Russia. In questo campo l’Italia dà di meno»8. Pittore dell’umano, Giacometti scava il ritratto per scoprire il «volto interiore». La ricerca della «somiglianza» conduce alla soglia del volto iconico: «L’attaccatura di un naso in una testa bizantina – confida l’artista – assomiglia all’attaccatura di un naso come io la vedo più dell’attaccatura di un naso in una qualunque altra pittura dal Rinascimento, Rembrandt compreso. La costruzione di un occhio è più somigliante in una pittura bizantina, almeno per me, che non in tutta la pittura fatta in seguito, della quale non comprendo gran cosa. Quando ho visto per la prima volta un dipinto di Cimabue, che al limite è ancor più bizantino rispetto agli altri pittori del Rinascimento, l’ho immediatamente preferito a tutti i dipinti che ho visto e che sono stati fatti in seguito»9. La Roma dell’Oriente affascina i poeti. Yves Bonnefoy saluta «la Bisanzio spirituale», «luogo dove il cuore può tornare a se stesso, cantare quando sarebbe tentato di compiangersi, reinventare una scelta»10. Prima di lui l’irlandese W.B. Yeats aveva «fatto vela sul mare per venire alla sacra città di Bisanzio». Il cuore del poeta si volge «verso i monumenti dell’intelletto intemporale» cercando di trovare un posto nello spazio d’oro in cui riposano i santi:

noclasta» scopre un’arte propriamente cultuale. «Non siamo in grado di esprimere a sufficienza – confessa il pastore Jean-Philippe Ramseyer – quanto siamo stati personalmente aiutati non solo da certi scritti sulle icone ma anche dalla semplice e raccolta attenzione dedicata a queste immagini così misteriosamente espressive»13. Nel mondo ortodosso la pittura non naturalistica risveglia l’interesse per l’icona. Figurativi o astratti, gli artisti russi contemplano i tesori del loro patrimonio. Vroubel’, Gon/arova, Kandinsky, Poliakov e Nicholas de Staël scoprono la modernità dell’eredità russa. Pittori profani come Grégoire Krug, Léonide Ouspensky e Photis Kontoglou vivono l’avventura dell’arte occidentale prima di convertirsi all’icona. Come ai margini della Chiesa istituzionale, i neo-iconoduli riscoprono l’arte e la teologia dell’icona. Le botteghe si moltiplicano. La Tradizione risuscita dal mondo delle ombre in cui era sprofondata. Tuttavia, se qui viene ricostituita la «metodologia», la creazione testimonia di un’aridità spirituale che il controllo e la perfezione dello stile non riescono a nascondere. Solo l’opera incomparabile di Krug fa risplendere lo splendore tutto pneumatico della grande arte di un tempo. Dalle ammirevoli icone della chiesa di Saint-Séraphin a Montgeron agli audaci affreschi dell’Ermitage du Saint-Esprit a Le Mesnil-Saint-Denis, padre Grégoire Krug afferma magistralmente il suo carisma di pittore votato all’Ortodossia. La profonda sintesi dei grandi zoografi del passato è qui illuminata dal soffio vivificante proprio del genio dell’iconografo. Grégoire Krug, che non ha fondato scuole, resta senza eredi. Segnate dal violento rifiuto di

«Voi Saggi, fissi nel sacro fuoco di Dio Come incastonati in un mosaico d’oro, Uscite roteando dal fuoco sacro, Insegnate alla mia anima il canto. Consumate il mio cuore che malato di voglia, E avvinto a un animale morituro, Non conosce se stesso e accoglietemi Nell’artificio dell’eternità»11. Di fronte alla separazione sempre maggiore tra l’arte e la Chiesa, padre Marie-Alain Couturier fa appello alla «vitalità dell’arte profana» per «rianimare l’arte cristiana». La frontiera tra l’arte sacra e quella di ispirazione religiosa resta presente: «Chi dice arte religiosa dice “arte sacra”, arte “consacrata”, nel senso in cui si dice di un calice che è consacrato, cioè riservato, separato… Ecco perché l’arte naturalistica, come l’arte astratta, non saranno mai religiose. Ecco perché la situazione dell’arte cristiana nel mondo moderno è così precaria e come disperata…»12. L’arte sacra in cui si installa il vuoto cerca di ridefinirsi. Cattolici e protestanti decifrano l’immagine ortodossa. Nel cuore delle chiese latine decorate d’immagini dipinte e scolpite, come nei templi nudi e freddi dei Riformati, l’icona manifesta una presenza crescente. In questa folgorante ascesa l’arte della Chiesa d’Oriente si rivela intuitivamente ecumenica. I teologi cattolici sottolinea­no il carattere specificamente cristiano dell’estetica bizantina. Il protestantesimo «ico246

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127. Pantocratore, opera di Grégoire Krug, xx secolo. Ermitage du Saint-Esprit, Le Mesnil-Saint-Denis.

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ogni forma d’influenza occidentale e dal sistematico abbandono di ogni innovazione, le opere dei discepoli di un Ouspensky o di un Kontoglou costituiscono una produzione artigianale corretta ma vuota. Assorbita dalla sufficienza, sclerotizzata nella cecità del «metodo» definito, compiuta e chiusa, l’icona neo-bizantina o neo-russa si rifrange nella sazietà per sprofondare in una saturazione profonda. L’icona è un segno del nostro tempo. La sua arte sembra appartenere ad un’età trascorsa ma la sua luce viva rimane ancor oggi. La bellezza abbandona le chiese contemporanee. Decorate degli affreschi più belli, le cattedrali e le chiese di ieri si trasformano in musei. Da oggetti di culto le icone si trasformano in oggetti d’arte. Da Monaco a New York, passando per Londra e Parigi, si moltiplicano le esposizioni itineranti. Musei e gallerie vengono consacrati esclusivamente alle icone. Paradossalmente, questo cambiamento apre un nuovo avvenire all’arte ecclesiastica. Sviata dalla sua originaria dimensione l’icona ne acquista una maggiore. Se n’è accorto il padre Grégoire Krug: la Trinità di Rublëv «non è sull’iconostasi della chiesa della Trinità ma sembra rivolgersi a persone che nella maggioranza sono lontane dalla Chiesa. L’icona della Trinità non è vicina solo a coloro che non hanno mai lasciato la Chiesa ma anche a quanti se ne sono allontanati e, per quanto sia inconsueto, anche a coloro che le sono ostili. E occorre vedere in questo la buona volontà della stessa Trinità Vivente. È la buona novella che conduce tutto il mondo verso la fonte della vita inesauribile»14. In un mondo secolarizzato la Bisanzio spirituale ritrova quel soffio irenico che la Bisanzio teodosiana aveva sempre messo a tacere. Oltre le leggi, i concetti, le controversie e le divisioni, la sua luce splende su tutti e per tutti. Per gli «ortodossi» come per gli «eterodossi». Per i «figli della Chiesa» come per quanti «sono nati fuori della via». Per i cristiani di tutte le Chiese. Per i fedeli senza Chiesa. Per i pellegrini dell’assoluto. Per gli artisti dello «spirituale». Per i poeti del «divino imprevisto». Per le anime in cerca della «vita vivente».

«A noi – scrive Yves Bonnefoy –, coscienze infinitamente personali, renitenti alle magie del sonno nell’universale, che bisogna considerare morte, Bisanzio tende una coppa. Per un istante possiamo attingervi con le labbra l’acqua invisibile, finitudine resa presenza, che scorre nella profondità di tutto»15.

Note Citato in Evgenij Trubeckoj, Contemplazione nel colore. Tre studi sull’icona, tr. it. La Casa di Matriona, Milano 1989, p. 12. Michel Alpatov, Histoire de l’Art Russe, Flammarion, Parigi 1975, p. 368. 3 Svetozar Radoj/i0, «Les Icônes de la Yugoslavie à la fin du xviième siècle» in Icônes, Parigi 1966, p. 121. 4 Léonide Ouspensky, Théologie de l’Icône, Cerf, Parigi 1982, p. 341. 5 Evgenij Trubeckoj, Contemplazione nel colore, cit., p. 41. 6 Giornale del Patriarcato di Mosca, 11, 1961 (in russo); tr. fr. in Léonide Ouspensky, «La Question de l’Art Sacré», in Contracts 53, 1966, p. 26. 7 Lettera non datata a Daniel de Monfreid, Plon, Parigi 1930. 8 In Léonide Ouspensky, Théologie de l’Icône, cit., p. 437. 9 Colloquio di Giacometti con D. Sylvester nel 1964, pubblicato in Dessins de Giacometti, Galerie Claude Bernard, 1975. 10 Yves Bonnefoy, Un rêve fait à Mantoue, Mercure de France, Parigi 1967, p. 10. 11 W.B. Yeats, Sailing to Byzantium, traduzione di Roberto Mussapi. 12 Marie-Alain Couturier, Art et Catholicisme, Montréal 1945, pp. 66-67. 13 Jean-Philippe Ramseyer, La Parole et l’Image, Neuchâtel 1963, p. 175. 14 Gregorio Monaco, Carnets d’un Peintre d’Icônes, L’Âge d’Homme, Losanna 1983, p. 85. 15 Yves Bonnefoy, Un rêve fait à Mantoue, Mercure de France, Parigi 1967, pp. 15-16. 1

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128. Anastasi, opera di Grégoire Krug, xx secolo. Ermitage du Saint-Esprit, Le Mesnil-Saint-Denis. 129. Non piangere su di me, Madre, opera di Grégoire Krug, xx secolo. Ermitage du Saint-Esprit, Le Mesnil-Saint-Denis.

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Bibliografia sommaria

Abuqurra Teodoro, Trattato sul Culto delle Icone, Editions Saint-Paul, Libano 1986 (in arabo). Alpatov Michel, Early Russian Paintings, Iskusstvo, Mosca 1974; Histoire de l’art russe, Flammarion, Parigi 1975. Beckwith John, Early Christian and Byzantine Art, Penguin Books, Hardmondsworth 1970. Chatzidakis Manolis, Les Icônes, Neri Pozza, Venezia 1962. Clément Olivier, Il volto interiore, Jaca Book, Milano 1978; Byzance et le Christianisme, Presses Universitaires de France, Parigi 1964. Coche de la Ferte Etienne, L’art de Byzance, Mazenod, Parigi 1981. Evdokimov Paul, L’Art de l’Icône, Théologie de la Beauté, Desclée de Brouwer, Parigi 1970. Gerke Friedrich, La Fin de l’Art Antique et les Débuts de l’Art Chrétien, Albin Michel, Parigi 1970. Giovanni Damasceno, On the Divine Image, St Vladimir Seminary Press, New York 1980. Grabar André, Le Premier Art Chrétien, Gallimard, Parigi 1966; L’Age d’Or de Justinien, Gallimard, Parigi 1966; La Peinture Byzantine, Skira, Ginevra 1953; Byzance, Albin Michel, Parigi 1967; L’Iconoclasme Byzantin, Collège de France, Parigi 1957. Grégoire (Krug) Monaco, Carnets d’un Peintre d’Icônes, L’Âge d’Homme, Losanna 1983. Lazarev Victor, Old Russian Murals and Mosaics from xith to xvith Century, Phaidon, Londra 1966; Moscow School of Icon-Painting, Mosca 1971. Ouspensky Léonide, Théologie de l’Icône, Cerf, Parigi 1982. Papaioannou Kostas, La Peinture Byzantine et Russe, Rencontre, Losanna 1965.ù Schlumberger Daniel, L’Orient Hellénisé, Albin Michel, Parigi 1970. Schönborn Christoph von, L’Icône du Christ, Cerf, Parigi 1986. Sendler Egon, L’Icône, Image de l’Invisible, Desclée de Brouwer, Parigi 1981. Talbot Rice David, Art of the Byzantine Era, Thames and Hudson, Londra 1963; Icons and their History, Thames and Hudson, Londra 1975. Teodoro Studita, On the Holy Icons, St Vladimir Seminary Press, New York 1981. Trubeckoj Evgenij, Contemplazione nel colore. Tre studi sull’icona, Casa di Matriona, Milano 1989. Icônes Bulgares: Catalogo della mostra, Petit Palais, 1976, Presses Artistiques, Parigi 1976. Icônes Melkites: Catalogo della mostra, Musée Sursock, 1969. Opera collettiva: A. Grabar, V. Candea, J. Leroy, J. Nasrallah, S. Agemian, M. Chatzidakis, Beyrouth 1968. Le Grand Livre des Icônes: Opera collettiva: K. Weitzmann, M. Chatzidakis, S. Radojcic, Editions Kogan, Parigi 1983. Les Icônes: Opera collettiva: K. Weitzmann, G. Alibegasvili, A. Volskaja, B. Babi0, M. Chatzidakis, M. Alpatov, T. Voinescu, Fernand Nathan, Parigi 1982. 251

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Cronologia

STATO

iii

iv

secolo

secolo

CHIESA

Gli imperatori illirici (268-284) riescono a salvare l’unità dell’Impero ma il mondo romano si spezza economicamente, politicamente e culturalmente.

Il neoplatonismo domina la cultura intellettuale dell’ultima antichità. Gnostici, filosofi e mistagoghi convivono e si fronteggiano in questo clima.

In Europa le invasioni barbariche si moltiplicano; in Oriente continua la guerra contro l’Impero sassanide.

La politica dell’Impero verso la Chiesa primitiva oscilla tra ostilità, tolleranza sprezzante e persecuzione. La legge proclama: «Non licet esse christianos».

Costantino si converte nel 313. Costantinopoli diviene residenza dell’imperatore e sede dell’amministrazione. L’Impero ha due capitali ma Costantinopoli afferma la propria supremazia. «Sulle monete del 330 figurano le due città in forma di busti laureati e con elmo, coperti dal mantello imperiale; ma è Costantinopoli ad avere lo scettro» (L. Bréhier).

Il Concilio di Nicea (325) condanna Ario e definisce il Figlio come «consustanziale» al Padre. Il Concilio di Costantinopoli (381) afferma la divinità dello Spirito. Dio è Uni-Trinitario. La sua unità assoluta è inseparabile dalla diversità delle sue Tre Persone: il Credo di Nicea-Costantinopoli definisce e confessa questa fede.

Nel 379 Teodosio i fonda la dinastia teodosiana. L’Editto del 392 consacra il cristianesimo religione di stato. Con le 32 cattedre della sua università, Costantinopoli diviene la capitale intellettuale dell’Impero.

L’Editto del 392 pone fine al paganesimo, ormai qualificato come «superstizione pagana». Vengono soppressi i Giochi Olimpici e i Misteri di Eleusi; il cristianesimo è la religione di tutti. L’imperatore è luogotenente di Dio; il patriarca sarà il cappellano del Palazzo. Lo Stato e la Chiesa sono i pilastri dell’Impero; le decisioni dei Concili hanno forza di legge. Basilio il Grande, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo dominano la teologia di questo secolo nel quale la «retorica» cristiana fiorisce con Giovanni Crisostomo. Il monachesimo si sviluppa in Egitto e in Siria.

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STATO

v

secolo

CHIESA

L’Impero affonda in Occidente sotto le ondate barbariche (Visigoti, Ostrogoti, Unni e Vandali) ma continua in Oriente. Il Codice teodosiano consacra l’opera giuridica degli imperatori cristiani. Nel 457 Leone i fonda la dinastia trace.

La Cristologia si cristallizza. La teologia si concentra sul Cristo, la sua persona e le sue due nature, divina ed umana. I nestoriani tendono a contrapporle; al contrario, i monofisiti riassorbono l’umanità del Cristo nella sua divinità.

STATO

ix-x

secolo

Il Concilio di Efeso (431) condanna l’insegnamento di Nestorio e afferma l’unità ipostatica del Cristo, Verbo incarnato: Maria, madre di Gesù, è in conseguenza Theotokos, Madre di Dio. Il Concilio di Calcedonia (451) afferma, contro i monofisiti, che il Cristo è «vero Dio e vero uomo», in cui le due nature sono unite «senza confondersi né modificarsi, senza dividersi né separarsi». L’arianesimo si diffonde in Occidente, il monofisismo in Siria e in Egitto. I Nestoriani si rifugiano in Persia.

vi

secolo

vii

secolo

viii

secolo

Giustino i fonda nel 518 la dinastia giustinianea. L’ascesa al trono di Giustiniano nel 527 determina la storia di Bisanzio. L’imperatore «che non dorme mai» svolge una politica occidentale. In capo a vent’anni di guerra l’Africa del Nord, l’Italia e la Spagna del Sud sono riconquistate e il Mediterraneo torna ad essere un lago romano. Tuttavia le frontiere restano deboli; Longobardi, Franchi, Persiani ed Avari si apprestano a rovesciarsi sull’Impero.

Eraclio fonda una nuova dinastia. L’Impero perde a poco a poco le sue province occidentali. Le tribù slave si insediano nei Balcani. Uno stato bulgaro sorge tra il Danubio e la catena dell’Emus. Mentre Eraclio annichila la potenza persiana, gli Arabi si impadroniscono della Siria, della Palestina, della Mesopotamia, dell’Egitto e assediano senza successo Costantinopoli nel 673. Perdendo l’Africa del Nord nel 693 l’Impero bizantino viene ridotto in Oriente all’Asia minore ed alla Grecia. La controversia iconoclasta che esplode nel 725 si trasforma in guerra civile. La dinastia isaurica attacca gli Arabi che abbandonano la parte occidentale dell’Asia minore. Nel 751, con la caduta di Ravenna, Bisanzio perde le sue posizioni in Italia. In Occidente Carlo Magno è consacrato re nel 768.

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Anastasio i protegge i monofisiti per mantenere sotto il suo controllo l’Egitto e la Siria. Cercando di rendere accettabile ai monofisiti il Concilio di Calcedonia, Giustiniano convoca il Concilio di Costantinopoli (553) in cui Teodoro di Mopsuestia, Iba d’Edessa e Teodoreto di Ciro vengono condannati perché sospetti di tendenze nestoriane. Il dogma di Calcedonia è interpretato alla luce della teologia alessandrina, che insiste sulla deificazione dell’umanità in Cristo.

Massimo il Confessore domina la teologia del secolo. Il ii Concilio di Costantinopoli (680) incorona i suoi sforzi contro il monotelismo, sviluppo del monofisismo. La Chiesa afferma la libera volontà dell’uomo, che Cristo assume e sottomette liberamente alla volontà divina. Avendo due nature, Cristo ha di conseguenza due volontà, quella divina e quella umana. Roma è bizantina dal 606 al 741; tredici Papi, greci o siriani, si succedono sul soglio pontificio romano.

xi-xii

secolo

Nell’813 i Bulgari assediano Costantinopoli. Una grande vittoria sugli Arabi nell’863 è segno della ripresa bizantina in Asia. Boris, zar di Bulgaria, viene battezzato a Costantinopoli nell’864, ma il pericolo bulgaro resta: lo zar Simeone (893-927) aspira con ostinazione al trono di Bisanzio. L’Impero si risolleva sotto la dinastia macedone. L’Italia del Sud viene riconquistata, Arabi e Bulgari sono respinti. Mentre in Asia centrale inizia a formarsi l’Impero turco, Niceforo ii Foca libera Creta, la Cilicia e Cipro (963). L’Impero tocca il suo apogeo sotto Basilio ii (976-1023) che, sopranominato il Bulgaroctono (l’uccisore dei Bulgari), in capo a sei anni di guerra mette fine al primo Impero bulgaro. Più lontano, il principe Vladimir sceglie «la fede dei Greci» e sposa una principessa bizantina: la Rus’ di Kiev diviene cristiana (989). L’Impero greco è la prima potenza del mondo. Costantinopoli il suo maggior mercato. Parallelamente l’Occidente sprofonda nella miseria: «Rustico, di fronte a Bisanzio e a Cordova appare molto povero e molto immiserito. Un mondo selvaggio, accerchiato dalla fame» (G. Duby). La potenza turca si accresce e le sue conquiste si succedono: Meerv (1023), Bagdad (1033), l’Anatolia (1071), Nicea (1081). Ungheresi, Serbi e Bogomili si oppongono a Bisanzio. I Crociati dilagano e in Oriente si moltiplicano le colonie latine. L’Occidente e l’Oriente cristiani si separano a poco a poco: i loro conflitti sono politici, culturali e religiosi. I Veneziani sono cacciati da Costantinopoli (1171) dove vengono poi massacrati i mercanti latini (1182). I re latini perseguitano gli ortodossi di Cipro (1190).

vii

Contro l’iconoclasmo il ii Concilio di Nicea (787) definisce l’iconologia cristiana.

CHIESA

xiii

secolo

Nel 1204 la Quarta crociata si rovescia su Costantinopoli: la Città Regina è messa a sacco e le sue chiese sono profanate. Papa Innocenzo iii conferma la nomina di un patriarca veneziano a Costantinopoli. Crociati e Veneziani si spartiscono l’Impero. In Grecia fanno la loro comparsa le baronie franche. La legittimità bizantina si raccoglie negli ultimi tre lembi di territorio: l’Impero di Nicea, l’Impero di Trebisonda e il Despotato dell’Epiro in Grecia.

L’iconoclasmo esplode nuovamente nell’819. L’icona è reinsediata nella sua gloria nell’843. San Teodoro Studita riforma la vita monastica. L’Università di Costantinopoli apre le sue porte nell’833. Fozio, patriarca di Costantinopoli, restaura gli studi antichi. Bisanzio vive la sua «rinascita». Cirillo e Metodio offrono agli Slavi una scrittura e una liturgia. Roma e Costantinopoli si scontrano. Il Credo niceno-costantinopolitano professa che lo Spirito Santo «procede dal Padre»; l’Occidente aggiunge «… dal Padre e dal Figlio». Fozio rifiuta questa formula latina e afferma che lo Spirito Santo procede solo dal Padre. Lo «scisma di Fozio» (867) annunzia la rottura col papato ma viene composto nell’880. La Rinascita macedone tocca il suo apogeo nel x secolo. Areta di Cesarea pubblica i maestri della cultura antica. La fondazione della Grande Lavra del Monte Athos documenta l’irradiamento del monachesimo bizantino.

Simeone il Nuovo Teologo domina la teologia e la mistica bizantine. Sull’Athos si moltiplicano le fondazioni monastiche. Psellos consacra il platonismo moderno. Eustate di Nicea commenta Aristotele. Il divorzio tra l’Occidente e l’Oriente cristiani è consumato: nel 1034 il patriarca e il legato del Papa si scomunicano a vicenda.

Nicea ha una scuola di filosofia (1249), Trebisonda la sua Accademia imperiale (1267). Mentre la scolastica latina vive il suo apogeo in Occidente, Massimo Planude traduce sant’Agostino. San Tommaso verrà tradotto nel secolo seguente. Il Concilio del 1283 definisce così la processione dello Spirito Santo: lo Spirito procede «dal Padre» e si manifesta «tramite il Figlio».

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STATO

xiii

secolo

CHIESA

Nel 1227 si forma l’Impero mongolo. Nel 1233 i Tatari invadono la Russia. Alessandro Nevskij stringe alleanza con il khan per combattere i crociati svedesi (1240) e i cavalieri teutonici (1242).

STATO

xv

secolo

Bisanzio è ridotta a un minuscolo principato. Nel 1439 Giovanni viii si reca al Concilio di Firenze ma gli Ortodossi rifiutano l’Unione. L’antagonismo di Oriente e Occidente tocca il parossismo. Per Petrarca: «I Turchi sono nemici ma i Greci scismatici sono peggiori dei nemici». Per Luca Notaras «È meglio veder regnare nella nostra città il turbante dei Turchi che la mitra latina». Abbandonata al suo destino Bisanzio muore. Il sultano Maometto ii prende Costantinopoli nel 1453. Mistrà cade nel 1460, Trebisonda nel 1461. Un nuovo Impero è erede della «grande Bisanzio». In esso i cristiani sono considerati come un solo «millet», nazione unica, senza considerazione delle differenze nazionali e linguistiche. Al potere religioso viene associato anche un potere civile, il patriarca di Costantinopoli diviene «millet-bachi», «etnarca»: capo della nazione cristiana.

Nel 1261 Michele Paleologo libera Costantinopoli. Ridotto a Nicea, alla Tracia e a una parte della Macedonia, l’Impero dei Paleologhi non è che l’ombra di quello dei Comneni. Bisanzio è «un corpo fragile, indebolito e miserabile, con una testa enorme, Costantinopoli» (Ch. Diehl). Turchi, Serbi e Bulgari si spartiscono l’Impero moribondo. Cercando l’appoggio dell’Occidente il potere imperiale riconosce l’autorità del papa al Concilio di Lione (1274) ma la Chiesa e il popolo si oppongono violentemente alla decisione. Nel 1282 Andronico ii ripudia l’Unione delle Chiese. xiv

secolo

Lo stato serbo è il più potente dei Balcani. Dušan estende il suo regno dalla Sava all’Olimpo e tenta di impadronirsi di Costantinopoli: incoronato a Skopje nel 1346, si fa proclamare «re dei Serbi, dei Bulgari e dei Greci». Le guerre civili lacerano Bisanzio, dove si scontrano Giovanni v Paleologo e Giovanni vi Cantacuzeno. Osman fonda la dinastia ottomana. Giovanni Cantacuzeno sposa sua figlia al sultano Orkhan e cede ai Turchi una piazzaforte in Tracia. Gli Ottomani intervengono direttamente negli affari dell’Impero. In meno di cinquant’anni si impadroniscono dei Balcani: il sultano Murad sottomette la Bulgaria ed impone la sua sovranità a Giovanni v (1370); i Serbi sono sconfitti sui campi di Kossovo (1389). La Bulgaria è conquistata nel 1392. Costantinopoli è assediata nel 1397 ma la vittoria di Tamerlano ad Ankara salva Bisanzio (1402). In Russia si afferma la potenza moscovita. Ivan Kalita «riunisce le terre russe». La battaglia di Kulikovo (1380) consacra la vittoria di Dimitri Donskoj sui Tatari. Tamerlano lascia la Russia nel 1395.

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Gregorio Palamas e Nicola Cabasilas dominano la teologia del xiv secolo. Barlaam di Calabria e Dimitri Kydones svolgono la loro battaglia contro l’esicasmo, che i Concili di Costantinopoli (1341-1351) sostengono e rafforzano. L’insegnamento di san Gregorio Palamas è determinante in questo orientamento. Nascosto e indescrivibile, Dio è inaccessibile e inconoscibile. Impossibile da condividere, la sua Essenza è «distinta» dalle sue «energie», tramite le quali si fa conoscere. Impregnato delle «energie divine» nella grazia l’uomo, anima e corpo, partecipa di Dio.

CHIESA

Lo stato moscovita si accresce ed estende il suo potere. Rostov è annessa nel 1467. Ivan iii pone fine all’occupazione dei Tatari ed estende il suo dominio a Novgorod (1480). Il monaco Filoteo gli scrive: «O zar benedetto, guarda e considera questo: tutti i regni cristiani si sono fusi nel tuo regno unico, due Rome sono cadute, la Terza esiste e non ce ne sarà una quarta». xvi

secolo

Sotto Solimano il Magnifico lo stato ottomano raggiunge il suo apogeo. Le conquiste vittoriose si moltiplicano: Rodi (1525), Ungheria (1526), Cipro (1564), le Cicladi (1579). Ivan iv il Terribile unifica la Russia. Nel 1547 assume il titolo di zar, erede dell’imperatore di Bisanzio.

L’umanesimo bizantino si afferma con Emmanuele Crisolora, Ermonimo di Sparta e Giovanni Argyropulo. Giorgio di Trebisonda e Teodoro di Gaza sono i pionieri dell’aristotelismo, Pletone del ritorno al platonismo. Quando scoppia il grande Scisma d’Occidente il papato cerca l’unione dell’Oriente «greco». Nel 1439 Giovanni viii si reca al concilio di Firenze e accetta l’unione alle condizioni poste dai Latini. Preferendo il dominio ottomano all’apostasia, il popolo manifesta la sua disapprovazione. I delegati greci ritirano la loro firma. Ritornato a Mosca il metropolita di Kiev viene imprigionato. Gennadio Scholarios, il capo degli anti-unionisti viene eletto patriarca ecumenico nel 1453. L’anno seguente Maometto ii gli consegna le insegne delle sue funzioni, come già facevano gli imperatori di Bisanzio. I patriarcati dell’Impero si trovano strettamente legati al patriarcato ecumenico.

Mosca diviene la «Terza Roma». Josef di Volokalamsk predica la stretta alleanza tra la Chiesa e lo Stato. Al contrario il monaco Nil Sorsky professa l’indipendenza della Chiesa e la sua fedeltà a Costantinopoli. Nel 1551 il Concilio dei Cento Capitoli avvia un insieme di riforme destinate a combattere le sette e le «deviazioni» occidentali. La Chiesa si allea allo Stato moscovita malgrado Maksim Grek difenda la libertà spirituale contro il potere zarista. Nel 1589 il metropolita di Mosca si vede elevato al rango di patriarca. Il nuovo patriarcato riceve il quinto posto nella gerarchia delle sedi orientali.

xvii-xviii

secolo

In Valacchia Michele il Bravo combatte il potere ottomano (1601). Dionigi il Filosofo guida l’insurrezione greca (1611), un insieme di rivolte che vengono isolate e schiacciate. La conquista ottomana di Creta si compie nel 1689.

Lo scisma dei Vecchi Credenti lacera la cristianità russa. Lo Stato s’infeuda la Chiesa. Per ventun anni Pietro il Grande vieta che si tengano le elezioni patriarcali. Nel 1721 un sinodo collegiale sostituisce il patriarcato: lo zar è «giudice superiore del presente collegio».

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STATO

CHIESA

Si forma l’Impero russo: nel 1646 viene occupata la totalità dell’Asia del Nord; l’Ucraina è annessa nel 1654. Nel xviii secolo l’Impero ottomano vede iniziare il suo declino; il secessionismo nazionalista lo smantella e lo decomporrà nel secolo successivo.

Un periodo oscuro si apre per la Chiesa di Costantinopoli: 48 patriarchi si succedono in 73 anni. Il nazionalismo greco identifica Ortodossia ed Ellenismo. I nazionalismi slavi ottengono che si ristabilisca l’autocefalia delle loro Chiese. La Chiesa di Costantinopoli vede le sue Chiesefiglie divenire Chiese-sorelle.

Sotto Pietro il Grande la Russia si volge a Occidente: dal 1703 San Pietroburgo è la sua nuova capitale.

L’arte delle icone in Romania, Ucraina e Russia

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L’arte delle icone nelle regioni mediterranee e nei Balcani

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Museografia

ASIA MINORE

ornamentale dipinta del vi-vii secolo. Numerosi cicli di affreschi dal x al xv secolo.

Costantinopoli

Trebisonda

Santa Sofia Decorazione ornamentale a mosaico del vi secolo, mosaici dall’ix al xiv secolo.

Santa Sofia Decorazione scolpita dal e xv secolo.

Cristo in Chora Mosaici e affreschi del xiv secolo.

Vergine Theoskepatos Affreschi del xiv secolo.

Kalenderhane Djami Mosaico dell’viii secolo, affreschi del xiii secolo.

San Saba Affreschi del xv secolo.

Kilise Djami (San Teodoro) Mosaici dell’xi secolo.

Soumela Affreschi del xiv, xv e xvi secolo.

Odalar Djami Affreschi del vii e xiii secolo.

iv

al

ix

secolo, affreschi del

xiii

GRECIA

Sant’Eufemia Affreschi del xiii-xv secolo.

Arta Vergine Parigoritissa Mosaici del xiii secolo.

Sant’Irene Mosaici dell’viii secolo.

Atene Vergine Chalkoprateia Affreschi del xiv secolo.

Vergine Gorgoepikos Rilievi paleocristiani e bizantini.

Vergine Pammakaristos e Cristo-Logos Mosaici e affreschi del xiv secolo.

Daphne Mosaici dell’xi e xii secolo.

Insiemi di pavimenti a mosaico nel Museo delle Antichità, collezioni di icone e di manoscritti al Patriarcato Ecumenico.

Omosphoklissia Affreschi del xiv secolo. Kaïssariani Affreschi del xvi e xvii secolo. Ricche collezioni d’icone nei musei Bizantino, Benaki e Loverda.

Cappadocia Fioritura di chiese rupestri a Gorême, Zelve, Çavuchin, Ugroup, Mavrucan, Soganli e Peristrema. Decorazione

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San Dimitrios Mosaici del vi-vii e ix secolo.

Castoria Insieme di settantadue chiese tra le quali:

CIPRO

Mavriotissa Affreschi del xii, xiii e xiv secolo. Santi Anargiri Affreschi dell’xi e xii secolo.

Santa Sofia Mosaici dell’viii-ix secolo, affreschi dell’xi secolo.

San Nicola Kasnitzis Affreschi del xii e xv secolo.

Vergine dei Calderai Affreschi dell’xi-xii secolo.

v

secolo, affreschi del

xiii

San Nicola Affreschi del xiv secolo.

Hosios Lukas

Sant’Eutimo Affreschi del xiv secolo.

Mosaici e affreschi dell’xi secolo.

Monastero di Vlatadon Ricca collezione d’icone.

Meteore

Vergine Kankara (Lythrankomi) Mosaico del vii secolo.

Cefalù

Vergine Forviotissa (Asinou) Affreschi del xiii, xiv e xv secolo.

Cattedrale Mosaici del xii-xiii secolo.

Vergine Arakiotissa (Lagoudera) Affreschi del xii secolo.

Monreale Cattedrale Mosaici del xii-xiii secolo.

San Neofita (Paphos) Affreschi del xii secolo.

Palermo

San Nicola del Tetto (Kakopetria) Affreschi del xii, xiv e xvii secolo.

Cappella Palatina Mosaici del xii secolo.

Ricche collezioni di icone nel Palazzo metropolitano di Kyrenia, presso l’Arcivescovado di Nicosia e nel monastero di San Neofita di Paphos.

Martorana Mosaici del xii secolo. Ravenna

Insieme di ventiquattro monasteri tra i quali: MONTE ATHOS Monastero della Trasfigurazione Ricca collezione di icone, affreschi di Teofane il Cretese (1550).

Repubblica monastica panortodossa: monasteri greco, serbo, bulgaro, russo, georgiano… Ricche collezioni di icone e manoscritti.

Chiesa di Varlaam Affreschi di Francos Catelanos (1556).

Vatopedi Mosaici dell’xi secolo, affreschi del xiv secolo.

Mistrà

Chilandar Affreschi del xiv secolo.

Insieme di chiese decorate con affreschi del xiv-xv secolo, tra cui: l’Odigitria, la Metropolitana, la Pantanassa, la Peribletos e i Santi Teodori.

Karyes Affreschi di Panselinos, xiv secolo.

Patmos Collezioni d’icone nei monasteri di San Giovanni dell’Annunciazione e della Vergine Fonte di Vita.

Costamonitou Affreschi del xv secolo.

Rodi Collezioni d’icone nel Palazzo metropolitano.

Grande Lavra Affreschi di Teofane il Cretese e di Francos Catelanos, xvi secolo.

Tessalonica

Stavronikita Affreschi di Teofane il Cretese, xiv secolo.

Rotonda di san Giorgio Mosaici del v secolo. San David Mosaici del v e del vi secolo.

Dionysiou Affreschi di Mercurio e Daniele, xvii secolo.

SIRIA E PALESTINA Museo di Gerusalemme Pavimenti a mosaico del vi e vii secolo.

Mosaici del v, vi, vii secolo nei seguenti monumenti: Battistero degli Ariani, Battistero degli Ortodossi, Cappella dell’Arcivescovado, Mausoleo di Galla Placidia, Sant’Apollinare in Classe, Sant’Apollinare Nuovo, San Vitale.

Museo di Amman Pavimenti a mosaico del vi e vii secolo.

Roma Mosaici del v, vi, vii secolo a Santa Sabina, Santa Maria Maggiore, Santi Cosma e Damiano, San Teodoro, San Lorenzo, Santo Stefano Rotondo, Santa Maria in Cosmedin.

Museo di Damasco Affreschi di Dura Europos, rilievi funerari di Palmira, pavimenti a mosaico, rilievi e affreschi di chiese cadute in rovina.

Mosaici del ix secolo a Santa Prassede, San Marco, Santa Maria in Dominica.

Patriarcato ortodosso di Gerusalemme Ricca collezione di icone e manoscritti.

Affreschi del vii, viii e ix secolo a Santa Maria Antiqua, Santi Nereo e Achilleo, San Crisogono.

EGITTO

Venezia

Santa Caterina del Sinai

Basilica di San Marco Mosaici dal ix al xiv secolo.

Mosaici del vi secolo, ricchissima collezione di icone di tutte le età e tutte le scuole.

Chiesa di San Giorgio dei Greci Icone post-bizantine.

Affreschi di chiese rupestri del vi secolo a Karmouz, Antinoé, Sakkara, Baouît, Abu-Mina, Wadi-Natrun.

Torcello Cattedrale Mosaici dell’xi-xii secolo.

Affreschi, icone, rilievi e tappezzerie al Museo Copto del Cairo.

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Santa Maria Foris Portas Affreschi del ix-x secolo.

se-

Santi Apostoli Mosaici e affreschi del xiv secolo.

Nea Moni Mosaici dell’xi secolo.

Castelseprio

Vergine Angeloktistos (Kisi) Mosaico del vii secolo.

Acheiropoietos Frammenti di mosaici del colo.

Chio

ITALIA

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Collezioni d’icone al Museo di Ravenna, alla Pinacoteca di Roma, alla Galleria dell’Accademia di Venezia, alla Galleria degli Uffizi di Firenze, al Tesoro del monastero di Grottaferrata, al Museo Nazionale di Pisa, all’Istituto Greco di Studi Bizantini e Post-Bizantini di Venezia.

Ži/a Affreschi del xii secolo. Pe0, chiese del Patriarcato (Santi Apostoli, San Demetrio, Vergine Odigitria)

Collezioni d’icone della Russia settentrionale nel Museo di Novgorod. Boiana

Ivanovo, Tîrnovo, Trapezica

Lesnovo

Markov Monastir (Skopje)

San Giorgio Affreschi del xii secolo.

Affreschi dei pittori Eutichio e Michele a San Clemente di Ohrid, san Nikita di \u/er, Staro Nagori/ino, xiv secolo.

San Pantaleimon Affreschi del xii secolo.

Affreschi della scuola di Morava (xv secolo) Ravanica, Ljubostinja, Manasija, Kaleni0. Pavimenti a mosaico e affreschi del Nazionale di Belgrado.

Arilje Sant’Achille

iv-v

secolo al Museo

Collezione di icone e manoscritti al Museo della Chiesa Ortodossa Serba (Belgrado), Museo dei Monumenti storici di Ohrid, Galleria d’arte di Skopje, Monastero di De/ani.

Affreschi del xiii secolo. Gradac Affreschi del xiii secolo.

BULGARIA Mileševo

Šumen

Affreschi del xiii secolo.

Affreschi del v secolo. Sopo0ani

Chiesa rossa Affreschi del vii secolo.

Studenica

Sofia

Affreschi del xiii, xiv, xvi secolo.

Rotonda di San Giorgio Affreschi dell’xi-xii secolo.

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Affreschi del xvii-xviii secolo Chiese dell’Arcangelo, Beato Basilio, Dormizione, Vergine di Smolensk.

Preslav Icone in ceramica dipinta dell’ix-x secolo al Museo della Città.

Collezioni d’icone alla Galleria Tretjakov, al Museo Nazionale di Storia, al Museo Puškin, al Museo Andrej Rublëv. San Pietroburgo

ROMANIA

Collezioni d’icone al Museo dell’Ermitage e al Museo Nazionale Russo.

Affreschi del xiv secolo a San Nicola d’Argex. Affreschi del xv secolo a Dolhexti Mari, Popauwi. Affreschi del xvi secolo a Suceava, Humor, Arbore, Moldoviwa, Voronew. Collezioni d’icone al Museo d’Arte della Romania, Bucarest.

RUSSIE Kiev

Peroustišta

Trinità Affreschi del xiii-xiv secolo.

Monastero di Parfuntiev Affreschi di Maestro Dionisij.

Ba/kovo, Kalotino, Dragilevci Affreschi del xv secolo.

Affreschi del xiv secolo. Nerezi

Monastero Sant’Andronico Affreschi di Rublëv.

Affreschi del xiv secolo.

Affreschi del xiv secolo.

Kurbinovo

Cattedrale della Dormizione (Zvenigorod) Icone di Rublëv.

Affreschi del xii-xiv secolo.

Affreschi del xiv secolo.

Santa Sofia Affreschi dell’xi secolo.

Cattedrale dell’Annunciazione Affreschi di Teofane il Greco.

Zemen

Gra/anica Ohrid

Mosca

Affreschi del xiii secolo.

Affreschi del xiv secolo.

Basilica eufrasiana Mosaici del vi secolo.

Affreschi di Teofane il Greco nella Chiesa della Trasfigurazione (1378).

Ba/kovo

De/ani

Pore/

San Teodoro Stratilate, Dormizione di Volotovo.

Affreschi del xii secolo.

Affreschi del xiii-xiv secolo.

ISTRIA, SERBIA E MACEDONIA SETTENTRIONALE

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Collezioni di icone alla Galleria Nazionale, al Museo Nazionale d’Archeologia, al Museo d’Archeologia e d’Arte Religiosa.

Mosaici dell’xi-xii secolo Santa Sofia, San Michele alle Teste d’oro. Collezioni d’icone al Museo di Kiev. Novgorod Affreschi del xii secolo a Santa Sofia e ad Antoniev. Affreschi del xiv secolo a San Michele di Skovorodski,

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Glossario

Acedia Rilassamento interiore, abbandono della vigilanza, profonda tristezza che il monaco a volte prova nella sua lotta spirituale.

Chitone Tunica che s’indossa sopra altri indumenti, corta per gli uomini e lunga per le donne.

Agiografia Genere letterario che riunisce la vite dei santi. Anacoresi Fuga e raccoglimento nel deserto. Anamnesi Commemorazione, memoriale; l’Anamnesi eucaristica ricorda l’opera di salvezza compiuta da Dio e l’istituzione dell’Ultima Cena.

Calcedoniano Fedele all’insegnamento del Concilio di Calcedonia (451) che professò l’esistenza delle due nature del Cristo.

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Ipogeo Camere disposte a un livello sotterraneo.

Pneumatoforo Portatore dello Spirito Santo.

Deesis Richiesta; designa l’intercessione della Madre di Dio e di san Giovanni Battista presso Cristo.

Renosi Abbandono di sé; designa l’impoverimento volontario del Figlio che, incarnandosi, prende ed assume la condizione dei mortali.

Propiziatorio Tavola d’oro che si trova sotto l’Arca.

Filocalia Amore del bello e del buono; amore per Dio fonte di tutte le bellezze; amore per ciò che è bello che conduce all’unione con la bellezza increata. Titolo dato ad alcune antologie di teologia mistica.

Athonita Legato all’Athos.

Pericoresi Azione e rapporti delle tre Persone all’interno della Trinità, in cui ognuna delle Tre resta nelle altre due in un eterno movimento di comunione e di amore.

Irenico Che opera per instaurare e ristabilire la pace.

Essenza Designa l’Essere increato di Dio.

Assist Tecnica particolare della pittura russa che utilizza linee e raggi d’oro per decorare elementi iconografici come gli abiti o le ali degli angeli.

Ierurgico Che celebra i Misteri di Dio.

Cristoforo Portatore di Cristo.

Esodo Designa la partenza e l’esperienza della morte.

Apofasi Teologia negativa, avvicinamento a Dio per la via della negazione.

Penthos Lutto, designa uno spirito che patisce per la Passione di Cristo, la miseria dell’uomo e le sofferenze del mondo.

Codice Insieme di pagine piegate che compongono un libro.

Esicasmo Ritiro ascetico dalla creazione nel silenzio, la calma, la quiete e la solitudine.

Apocatastasi Restaurazione di tutta la creazione nella beatitudine ontologica del Paradiso.

Iconostasi Parete di chiusura, costituita da icone, che separa il santuario dalla navata.

Phelonion Casula, paramento senza maniche, che ha solo un’apertura per infilare la testa, indossato dal vescovo e dal sacerdote.

Energia divina Designa l’irraggiamento della divinità inaccessibile del Padre, tramite il Figlio, nello Spirito Santo.

Anastasi Risurrezione del Cristo, che produce la Discesa agli Inferi e la Redenzione dei Giusti dell’Antico Testamento.

Parusia Seconda venuta del Cristo nella gloria alla fine dei tempi.

Ipostasi Designa la Persona, fondamento e superamento del Creato quando si tratta della persona umana.

Encausto Tecnica di pittura in cui i colori sono macinati e mescolati alla cera.

Anargiro Santo medico che cura gratuitamente gli ammalati.

Iconodulo Colui che venera le icone.

Proskynesi Gesto di prosternazione e di riverenza.

Mandorla Aureola a forma di mandorla che circonda il corpo del Cristo nell’iconografia della Trasfigurazione, dell’Anastasi e dell’Ascensione.

Quinisesto Concilio complementare ai Concili Ecumenici v e vi. Sinassi Assemblea.

Mandylion Piccolo velo, tovagliolo.

Stilita Asceta che vive in cima ad una colonna.

Mirofora Portatrice di profumi; designa le pie donne che vengono a cospargere di unguenti il corpo di Cristo e, per estensione, le donne che si dedicano ad opere di pietà.

Teandrismo Designa il divino-umano.

Mistagogia Iniziazione ai misteri divini.

Temperanza Dominio delle passioni e dei desideri.

Monofisismo Dottrina che assorbe la natura umana del Cristo in quella divina, condannata dal Concilio di Calcedonia nel 451.

Teosofia Saggezza divina; designa la filosofia religiosa di orientamento mistico.

Omophorion Stola ricamata con croci, che il vescovo indossa attorno al collo lasciandola pendere sul davanti.

Theotokos Madre di Dio.

Himation Mantello.

Palamita Che si riferisce a san Gregorio Palamas.

Tropario Strofa poetica relativa a un santo o a una festa negli uffici liturgici.

Iconoclasta Nemico e distruttore delle icone.

Pantocratore Signore e Padrone supremo dell’universo.

Zoografo Iconografo, pittore.

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Riferimenti iconografici

Dal volume La Bible, oratorio filmé par Marcel Carné, Delachaux-Nestlé, 1978: 9, 10, 11, 12 Dal volume Fresques et Icônes, Bruxelles, Elsevier, 1958: 47, 48, 50 Disegni e carte Cesare Sacconaghi, Gallarate: 67 e 68 del bianco e nero; pagg. 261, 262-3 Collezioni private Toufik Rubeiz: 14, 34 (colore) Marcelle Trad: 9, 75, 81 (colore); 25, 41, 96 (bianco e nero) Ghassan Tuéni: 1, 10, 12, 20, 21, 94, 100 (colore); 4, 37 (bianco e nero) Simone Wardé: 5, 18, 95, 97, 98 (colore); 17, 40, 45, 117, 124, 125, 126 (bianco e nero)

Colore Arsenije Jovanovi0, Belgrado: 13 Bibliothèque Nationale, Parigi: 68 Editions Citadelles/Dominique Gernet, Parigi: 19, 49, 51, 52, 54, 55, 56, 62, 63 Isber Melhem: 1, 3, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 12, 14, 18, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 29, 34, 40, 42, 43, 44, 70, 72, 73, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 92, 93, 95, 96, 97, 97, 98, 99, 100, 101 Claude Mercier, Ginevra: 92, 94 Marwan Musselmany: 46, 47 Josephine Powell, Roma: 57, 58, 60, 66 Russia Cristiana, Seriate (Bergamo): 4, 15, 35, 36 Istituto Fotografico Scala, Antella (Firenze): 30, 45, 48, 50, 69, 71, 86, 87, 88 Jovan Stojkovi0, Belgrado: 37 Branislav Strugar, Belgrado: 31, 32, 61, 64, 67 Toso, Venezia: 41, 74

Ringraziamenti Mgr Georges Abou Zakhm, Sylvia Agémian, Grégoire Aslanoff, R.P. Bersanuphe, R.P. Nicolas Cernokrak, Olivier Clément, R.P. Bandaleymon Farah, André Géha, Rima Ghadban, Mgr Georges Khodr’, Jean-Claude Marcadé, Isber Melhem, Ghassan Tuéni, Elias Zayat.

Bianco e nero Arsenije Jovanovi0, Belgrado: 6 Isber Melhem: 4, 17, 21, 22, 25, 27, 28, 37, 38, 40, 41, 45, 51, 90, 95, 96, 117, 124, 125, 126, 127, 128, 129 Claude Mercier, Ginevra: 43 Marwan Musselmany: 57 a-b, 60 a-c. V. Moroženno e V. Solovskovo, Kiev: 26 Musée Sursock: 15, 20, 31, 32, 39, 84, 88, 89, 91 The J. Paul Getty Museum, Malibu (California): 56 Josephine Powell, Roma: 77 Sinai Archive, Princeton University: 3 Réunion Musées Nationaux, Parigi: 59 Russia Cristiana, Seriate (Bergamo): 5, 34 Istituto Fotografico Scala, Antella (Firenze): 35, 61, 64, 78, 85, 87, 98, 106, 109, 110, 111, 121 Istituto Fotografico Scala, Antella (Firenze)/Museo della Macedonia, Skopje: 13 Branislav Strugar, Belgrado: 49 Toso, Venezia: 86 Dal volume Les Icônes, Paris, Fernand Nathan, 1982: 6, 65, 66, 80, 92, 93, 118 Dal volume Le Grand Livre des Icônes, Paris, Kogan, 1983: 18, 19, 62, 83, 94 Dal volume La Peinture Byzantine, Genève, Skira, 1953: 69, 70, 71, 72, 75, 76, 81, 82 Dal volume Le Premier Art Chrétien, Paris, Gallimard, 1966: 53, 54, 55, 60d

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