ICONS. THE GREAT JOURNEY

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CORPUS BIZANTINO SLAVO


Elka Bakalova, Karl Christian Felmy, Emanuela Fogliadini, Sreten Petkovi0, Solomiya Tymo, Tania Velmans, Panayotis L. Vocotopoulos

ICONE IL GRANDE VIAGGIO A cura di Tania Velmans


Sommario

Nuova edizione 2021 Copyright © 2015 by Editoriale Jaca Book Srl, Milano Prima edizione italiana novembre 2015 Prima parte I testi di Tania Velmans sono stati tradotti dal francese da Chiara Formis. Quelli di Panayotis Vocotopoulos e Sreten Petkovi0 sono stati tradotti dall’inglese da Chiara Beccari. I testi di Elka Bakalova sono stati tradotti dall’inglese da Chiara Beccari (Icone mariane del periodo tardo bizanzino, Iconografia dei santi di diversi paesi ortodossi) e dal russo da Daria Rescaldani. Seconda parte I testi di Tania Velmans sono stati tradotti dal francese da Chiara Formis. Quello di Christian Felmy è stato tradotto dal tedesco da Maria Luisa Milazzo. Il testo di Solomiya Tymo è stato tradotto dall’inglese da Max \esky´, che ha tradotto dal greco moderno anche il testo di Panayotis Vocotopoulos con la revisione dell’autore.

PARTE PRIMA DALLE ORIGINI ALLA CADUTA DI BISANZIO

PARTE SECONDA DA BISANZIO AL ’900

Tania Velmans INTRODUZIONE pag. 8

Tania Velmans INTRODUZIONE PERENNITÀ E DIFFUSIONE DELL’ICONA pag. 197

Tania Velmans LE PRIME ICONE pag. 11 Emanuela Fogliadini L’ICONOCLASMO BIZANTINO pag. 23

Copertina e grafica Jaca Book / Paola Forini Selezione delle immagini Graphic Srl, Milano

Tania Velmans LO STILE DELL’ICONA E LA REGOLA COSTANTINOPOLITANA I BALCANI E LA RUSSIA (VI-XV SECOLO) pag. 27 Tania Velmans LA PERIFERIA ORIENTALE DEL MONDO BIZANTINO pag. 71

Stampa e legatura Tipolitografia Pagani Srl Passirano (BS) maggio 2021

Panayotis L. Vocotopoulos FUNZIONI E TIPOLOGIA DELLE ICONE pag. 95 Elka Bakalova, Sreten Petkovi0 ICONOGRAFIA BIZANTINA pag. 137

Panayotis L. Vocotopoulos ICONOGRAFIA E STILE NEL BACINO MEDITERRANEO E NEI BALCANI pag. 203 Karl Christian Felmy STORIA, ICONOGRAFIA E STILE DELL’ICONA IN RUSSIA DOPO LA CADUTA DI BISANZIO pag. 267 Tania Velmans LE ICONE RUMENE pag. 327 Tania Velmans L’ICONA POSTBIZANTINA NELL’ORIENTE CRISTIANO pag. 335 Solomiya Tymo LA PITTURA D’ICONE IN UCRAINA OCCIDENTALE E BIELORUSSIA XV-XVI SECOLO pag. 357

BIBLIOGRAFIE E NOTE pag. 379 ISBN 978-88-16-60654-8 Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 – 342 5084046 libreria@jacabook.it; ebook: www.jacabook.org Seguici su


parte prima

DALLE ORIGINI ALLA CADUTA DI BISANZIO

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Introduzione

nopoli in conformità con gli ideali del tempo, col pensiero dei Padri e col desiderio di aprire ai fedeli una finestra sul cielo; ma altre – cosa del tutto normale – sono ancora molto vicine all’arte della Tarda Antichità. Per prima cosa infatti nasce la nuova idea che lo schema traduce in termini grafici, mentre lo stile si forma in seguito, quando si cerca l’espressione più adatta ad un certo contenuto. Un intero capitolo è dedicato alle dottrine che si scontrarono nel periodo dell’iconoclastia, poiché è proprio grazie ai difensori delle immagini che ha preso forma lo status dell’icona e, con esso, la sua iconografia ed il suo stile. Sempre a partire da questo momento, l’icona è stata realmente santificata, visto che ormai si pensava che la rappresentazione fosse in rapporto diretto col modello che faceva scendere su di essa le proprie «energie». Parallelamente a questa concezione mistica dell’immagine ed in perfetto accordo con essa, compaiono le prime icone taumaturgiche e quelle acheropite (non dipinte da mani umane) che contribuirono a fissare l’aspetto e gli atteggiamenti dei personaggi sacri. Tali modelli venivano considerati inalterabili perché fedeli ai prototipi, in altre parole, alla realtà storica. Sono prese in considerazione anche le diverse categorie d’icone che si moltiplicarono nel Medioevo; esse ebbero collocazioni fisse nelle chiese a seconda delle funzioni loro assegnate durante le celebrazioni, funzioni che ne influenzarono anche l’iconografia. C’erano dunque icone a doppia faccia che venivano portate in processione, mentre altre erano destinate all’iconostasi, il che comportava la presenza di grandi pannelli che mostravano la preghiera d’intercessione rivolta a Cristo dalla Vergine e, a volte, da san Giovanni o dal santo patrono della chiesa; altre ancora erano collocate a turno su un espositore e dovevano richiamare la festa del giorno; e questi sono solo alcuni esempi. Una sezione importante di questa prima parte è dedicata allo studio iconografico. Benché basato su figure concrete, il linguaggio dell’icona, come quello della pittura bizantina in generale, è anche un sistema di segni. È così che un trono vuoto rappresenta quello preparato per la Seconda Parusìa, mentre il Cristo Bambino disteso sull’altare indica l’eucarestia. Per comprendere veramente il contenuto di un’icona bisogna conoscere i significati nascosti e l’articolazione di questo linguaggio iconografico, come pure le tappe fondamentali della sua evoluzione. Infine lo stile, che subisce alcune mutazioni nel corso dei mille anni di vita della pittura bizantina, viene trattato a parte. Questo capitolo rispetta scrupolosamente l’ordine cronologi-

Sulle icone sono stati pubblicati centinaia di album e alcuni libri che hanno, tutti, la loro ragion d’essere. Generalmente essi contengono delle tavole a colori ed una documentazione con notizie sull’epoca, la provenienza e il significato di ciascuna icona riprodotta. Tuttavia, una volta terminata la lettura, per quanto ci si trovi arricchiti da alcune informazioni particolari, si rimane privi di conoscenze più generali sull’immagine mobile bizantina, incapaci di cogliere il significato delle icone e privi di punti di riferimento che consentano di esprimere un giudizio personale. Il nostro primo scopo è proprio quello di offrire al lettore tali punti di riferimento, perché il piacere estetico aumenta quando vi si aggiunga una comprensione approfondita dell’opera contemplata. D’altro canto, l’amatore preparato, lo studente o l’antiquario non possono non porsi alcune domande: che cosa è immutabile nell’icona e che cosa si evolve nel corso dei secoli? Come avviene il passaggio dal ritratto ellenistico all’icona? A quali testi ci si ispira, oltre ai Vangeli? Vi sono rappresentazioni che si rifanno anche all’Antico Testamento, agli scritti apocrifi, alla letteratura omiletica, infine ai canti ed alle preghiere della liturgia? L’icona serviva soprattutto alla devozione privata o faceva parte della sfera pubblica? Non era forse al tempo stesso palladio dell’Impero, elemento indispensabile alla celebrazione del culto e presente in ogni casa? E il suo stile? Quali sono i fattori che lo determinano e per quali vie un’immagine può giungere a trascendere il reale pur rappresentandolo? Questa prima parte risponde a questi interrogativi e a molti altri, esaminando sotto diverse angolazioni e secondo un metodo rigorosamente scientifico le icone realizzate fra il vi ed il xv secolo, cioè lungo tutto il corso dell’epoca bizantina, mentre alla produzione artistica post-bizantina è dedicata la seconda parte. A un arco di tempo che copre l’intero periodo bizantino, corrisponde un’estensione della ricerca nello spazio. Infatti, contrariamente a quanto si fa di solito, le nostre indagini non si limitano alle icone greche e slave, ma prendono in esame anche quelle delle due aree periferiche del mondo bizantino: quella orientale dalla Georgia all’Etiopia e quella occidentale, che comprende la costa adriatica serba ed una parte dell’Italia. Il lavoro è organizzato attorno ad alcuni grandi assi. Perciò, esaminando il problema dell’origine dell’icona, è parso evidente che le prime immagini portatili giunte fino a noi (vi-vii secolo) non corrispondono a quanto ci si sarebbe aspettato a priori in un periodo di cristianesimo così fervido. Certo, alcune testimoniano già la nuova estetica elaborata a Costanti-

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altre espressioni figurative e ad altri valori di civiltà. È quello che si cerca di fare nell’ultimo capitolo di questa prima parte. L’insieme di conoscenze che questo volume offre dovrebbe rendere il lettore indipendente, affinare la sua capacità di giudizio e accrescere il suo godimento estetico. Inoltre, egli si sentirà più vicino alla cultura bizantina che tanto ha dato all’Occidente durante il Medioevo. Ma è anche possibile che si spinga oltre. L’aver imparato a guardare da vicino l’icona non lo porterà a un’esplorazione delle proprie istanze più profonde e delle legittime aspirazioni dell’uomo da quando è diventato una «canna pensante»?

co, perciò è stato messo nella prima parte dell’opera, mentre nel processo creativo l’iconografia precede lo stile. Ogni periodo genera il proprio, ma tutti questi modi di esprimersi obbediscono ai principi fondamentali dell’estetica bizantina, tanto che le innovazioni che si susseguono non oltrepassano mai, per così dire, i limiti di questo quadro ideologico. Lo studio che abbiamo appena riassunto potrebbe fermarsi qui. Tuttavia, le icone continuano a essere presenti in mezzo a noi non solo come testimoni del passato o come opere d’arte, ma anche come luogo di accoglienza della preghiera per gli ortodossi e per alcuni non ortodossi. Qualche pittore del xx secolo ne ha anche tratto ispirazione. Questo pone un problema filosofico, cioè perché l’icona agisce in tal modo su di noi? Ci si può anche chiedere che cosa rappresenti l’icona rispetto ad

Tania Velmans

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LE PRIME ICONE Tania Velmans

descrive una scultura posta nella città di Paneas (Palestina), che rappresentava la guarigione dell’emorroissa, ed aggiunge: «… L’abbiamo vista noi stessi recandoci in quella città»8. Lo storico bizantino Teodoro il Lettore (vi secolo) accenna all’invio di un’icona della Madre di Dio Odigitria9 a Pulcheria, sorella di Teodosio ii (408-450), da parte della sposa di quest’ultimo, Eudocia. L’immagine era venerata in una chiesa appositamente costruita ed era attribuita dai bizantini a san Luca10. Allo stesso autore sono state assegnate altre due icone della Vergine e la liturgia ricorda tutta questa leggenda negli uffici delle feste mariane. In quello del 26 agosto Maria, guardando il ritratto dipinto da san Luca, esclama: «La mia grazia e la mia potenza sono con quest’immagine» (lité dello stichiron, tono 6)11, il che fa pensare che la grazia della Vergine si estenda a tutte le sue icone.

Sulla specificità dell’icona rispetto alla pittura murale si potrebbe scrivere un volume, ma è anche possibile definirla brevemente. Dal punto di vista tecnico, essa in generale è dipinta a encausto1 o a tempera2 su una tavola di legno; più raramente è realizzata a mosaico o in altri materiali preziosi come l’avorio, l’oro e l’argento. Le sue funzioni sono molteplici: serve tanto alla pietà pubblica che a quella privata come punto di accoglienza della preghiera, ma si pensa anche che completi l’insegnamento del vangelo e apra al fedele una finestra sul mondo divino. Inoltre, è indispensabile alla celebrazione dell’ufficio sacro; infine, dopo l’iconoclastia, è considerata come strettamente legata al personaggio che rappresenta3. I soggetti delle icone sono soprattutto dei «ritratti», o considerati tali, di Cristo, della Vergine e dei santi, di solito raffigurati a mezza figura4; tuttavia vi trovano un loro spazio anche temi evangelici ed altri che illustrano inni e preghiere particolari.

Modelli e tentativi di raffigurazione Testimonianze letterarie sulle più antiche immagini cristiane

Le prime immagini cristiane ancora conservate risalgono al primo terzo del iii secolo e si trovano per la maggior parte nelle catacombe, in Occidente12, e nel battistero di Doura Europos (v. 230, Siria), in Oriente13. I soggetti sono ritratti funerari oppure immagini che esprimono la speranza dei defunti di ottenere la salvezza e, a volte, rappresentano il loro destino nell’oltretomba. Questo programma è realizzato mediante diversi temi14 la cui caratteristica è quella di essere rappresentati non per se stessi, ma in rapporto ai defunti. Del resto, le iscrizioni che li accompagnano non indicano il soggetto, come accadrà in seguito, ma il nome della persona scomparsa15. I ritratti del Fayum (Egitto) sono stati spesso accostati alle icone perché, malgrado le differenze essenziali, il rapporto fra le due categorie è evidente16. Fra i ritratti sui sarcofagi, quello della Madre col bambino della Galleria Lapidaria di San Sebastiano17 è particolarmente vicino allo schema cristiano della Vergine Nicopèia, poiché la madre regge il figlio in asse col proprio corpo, e quest’ultimo è al centro di un medaglione. La stele funeraria di un centurione della Galleria Lapidaria del Vaticano18 presenta un personaggio in piedi entro un’edicola i cui pilastri, ornati con numerose immagini, formano la cornice laterale dell’insieme [t. 1]. Le tavole portatili di santi con episodi della loro vita sulla cornice, che faranno la loro comparsa nel xiii secolo, seguiranno questo modello quasi alla lettera. A partire dal iii-iv secolo sono numerosi i ritratti cristiani che rappresentano apostoli e vescovi. Le effigi affrontate degli apostoli Pietro e Paolo compaiono su alcuni medaglioni di

Le prime icone sono probabilmente perdute, ma alcune fonti concordano nel datarle fra il ii ed il v secolo. Così, un testo greco, gli Atti apocrifi dell’apostolo Giovanni, attribuito al ii secolo e redatto in Asia Minore, racconta di come un discepolo dell’evangelista Giovanni, Licomede, avesse commissionato un ritratto del maestro che collocò nella propria camera; vi pose intorno fiori e ceri e gli rivolgeva regolarmente delle preghiere. Quando Giovanni lo scoprì, disapprovò l’iniziativa, precisando che il ritratto in questione riproduceva solo il suo aspetto esteriore, ma non la sua verità interiore; e finì il suo discorso dicendo al discepolo: «Tu… che conosci le forme… delle nostre anime, sii un buon pittore per me […]». Questo testo non dimostra solo l’esistenza di un’icona nel ii secolo, ma ne descrive anche la genesi: essa deriva dal ritratto di un personaggio venerato, come era uso nell’antichità, e riceveva omaggi e preghiere. Ci ricorda d’altra parte che, parallelamente alla concezione cristiana dell’uomo, del quale veniva valorizzata solo l’anima, i filosofi pagani del basso Impero avevano proclamato, dal canto loro, il primato dello spirito sul corpo5 e Plotino diceva già che, attraverso la forma tangibile e materiale, bisognava rappresentare l’uomo interiore6. In un suo scritto Eusebio, vescovo di Cesarea (iv secolo), parla di un ritratto scolpito di Cristo, risalente ai tempi evangelici, che si trovava presso la sua stessa dimora, il che fa pensare che egli l’avesse veramente visto7. In un secondo brano, poi,

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1. Stele funeraria di un centurione dei pretoriani, Galleria Lapidaria del Vaticano. A fronte: 2-3. Vetri dorati con la raffigurazione dei santi Pietro e Paolo, Museo Sacro, Biblioteca Apostolica Vaticana.

bronzo, rinvenuti soprattutto a Roma19; nel iv secolo sono riprodotte anche su vetri dorati che imitano dei medaglioni pagani contemporanei con la raffigurazione di due eroi (per esempio i Dioscuri) o due imperatori [tt. 2 e 3]. Alcune serie di ritratti di vescovi del v e vi secolo si trovano nella basilica dei vescovi, nella cripta dei vescovi nelle catacombe di San Gennaro a Napoli20. Diverse di queste immagini sono al centro di un medaglione secondo la tipologia dell’imago clipeata, che deriva dal ritratto funerario romano, molto comune sui sarcofagi pagani e ripresa anche su quelli cristiani, come sul sarcofago dei Due Fratelli dei Musei Vaticani21. L’imago clipeata ritorna anche nelle decorazioni monumentali e nei ritratti dei vescovi22. La figura di Cristo circondato dai discepoli compare nel iv secolo, in particolare sui sarcofagi, fra cui quello di Giunio Basso23, e nelle absidi, come in Santa Costanza a Roma24. Anche un altro ritratto di Cristo che decorava l’interno di un piccolo edificio, forse destinato al culto cristiano, si avvicina agli schemi delle icone. Si tratta dell’immagine a intarsi marmorei, risalente alla fine del iv secolo, rinvenuta ad Ostia. Qui il Redentore è rappresentato a mezzo busto entro una cornice rettangolare. Questo ritratto sembra derivare da un’opera pittorica del iv secolo25, donde il suo particolare interesse [t. 4]. Nel v e vi secolo queste rappresentazioni si moltiplicano e si differenziano mostrando a volte gli apostoli Pietro e Paolo che ricevono da Cristo la nuova Legge, come vediamo, fra l’altro, nel sacello di Sant’Aquilino a Milano26, a volte composizioni più vaste nelle quali il Cristo in trono è circondato dagli apostoli, seduti a semicerchio secondo uno schema che ricorda al tempo stesso il synthronon27, dove sedevano i vescovi, e le opere antiche che rappresentavano delle riunioni di filosofi28. Uno degli esempi più belli di questo tipo di ritratti di gruppo è quello conservato nell’abside di Santa Pudenziana a Roma29, nella quale il Signore compare in mezzo ai suoi discepoli nella Gerusalemme celeste. È possibile che qualche immagine di Cristo del v secolo abbia fatto da modello alle icone. Così, in una cappella di Santa Matrona nella chiesa di San Prisco a Santa Maria Capua Vetere (v secolo), il Cristo è raffigurato a mezzo busto, al centro di una gloria rotonda su cui spiccano le lettere a e w30. Il resto della lunetta è vuoto, tanto che si ha l’impressione di un’icona sospesa in mezzo al mosaico del fondo [t. 5].

e questo per diversi motivi. Per l’Impero romano d’Occidente, infatti, il v secolo fu quello della dissoluzione definitiva, quando gli Unni invadevano l’Italia mentre i Vandali saccheggiavano Roma. L’Oriente, dal canto suo, era dilaniato da violente dispute teologiche che riguardavano la natura di Cristo, in altre parole la parte divina e quella umana che definivano la sua persona in terra. Il concilio di Calcedonia (451) mise fine a queste controversie proclamando il dogma della compresenza delle due nature, divina ed umana, inseparabili e inconfondibili, del Signore. Quanto alla Vergine, il suo stato di Madre di Dio (Theotókos), stabilito dal concilio di Efeso (431), che era stato contestato da alcune di queste eresie, fu parimenti confermato31. Tanta inquietudine non era evidentemente favorevole alla

Le rappresentazioni scolpite o dipinte che abbiamo appena citato sono importanti perché ci aiutano a farci un’idea sugli inizi delle icone, visto che quelle di cui disponiamo non risalgono oltre il vi secolo. Certamente, come dimostrano le fonti, ce ne sono state anche prima, ma è probabile che fossero molto rare,

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4. Cristo nimbato e benedicente, decorazione di un opus sectile, edificio presso Porta Marina, Museo Ostiense, Ostia.

5. Cristo nel mosaico della lunetta, cappella di San Prisco, presso Santa Maria Capua Vetere.

creazione artistica, tanto meno a quella dell’icona. Inoltre, è certo che un numero incalcolabile di immagini è stato distrutto durante l’iconoclasmo. Questo stato di cose non è in contrasto con la tesi, ben documentata, secondo la quale le prime icone sarebbero state dei ritratti del v secolo che rappresentavano alcuni santi stiliti e venivano distribuite (o meglio, a mio parere, vendute) ai pellegrini che affluivano verso le colonne in cima alle quali stavano questi santi32. È nota l’ammirazione dei cristiani per queste forme estreme di ascesi, come pure la loro abitudine di riportare a casa dei pii ricordi dei loro viaggi, testimoniata anche, un secolo più tardi, dalle celebri ampolle di Monza e di Bobbio33. Il culto delle reliquie, così sentito nel iii e iv secolo, s’indebolisce nel vi fino ad essere sostituito da quello delle icone, collocate ben in vista nelle chiese, incensate, onorate con la proskynesis, baciate e spesso dichiarate miracolose, in grado di esaudire preghiere e guarire gli ammalati. Di alcune di esse si

affermava persino che fossero acheropite, «non dipinte da mano d’uomo», ed erano considerate il risultato di un intervento divino, come l’impronta lasciata da Cristo sul Mandylion o Santo Volto34. Questo tipo d’immagine è definito, nella Storia ecclesiastica di Evagrio35, «l’icona fatta da Dio». È interessante osservare, d’altro canto, che la reliquia del Mandylion era trattata come una persona, tanto che veniva celebrata con una festa ed una liturgia che le attribuivano il potere di introdurre gli uomini nella Gerusalemme celeste: «Per mezzo suo (dell’immagine di Cristo) concedi, o Salvatore, che i tuoi servi entrino senza ostacoli nell’Eden» (stichiron, tono 6)36. Al Mandylion si rivolgono anche preghiere d’intercessione per gli uomini.

Le icone più antiche Le icone del vi-vii secolo giunte fino a noi sono state realizzate, probabilmente, a Costantinopoli, Alessandria e al Monte Sinai.

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elemento capace di esprimere l’aspirazione ad una profonda spiritualità – sono ingranditi, fissi e sottolineati dal contorno. Anche il tempo è negato dal fondo d’oro, luce assoluta che non muta mai intensità, oltre che dall’immobilità dei personaggi. Per il volto del Cristo Pantocratore nell’icona del monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai (vi secolo)37, l’artista ha adottato il tipo semitico con barba e lunghi capelli che ha soppiantato il Cristo imberbe e col volto giovanile che vediamo, per esempio, in San Vitale di Ravenna38. Il modellato molto morbido e sfumato gli dà una sorta di dolcezza che non ritroveremo più prima del xiv secolo, con la Rinascenza dei Paleologhi, che s’ispira anch’essa ai modelli antichi [t. 7]. L’icona proviene certamente da Costantinopoli, poiché rivela una perfetta conoscenza delle opere del basso Impero unita a una squisita raffinatezza e a un tentativo, frutto di lunga ponderazione, di codificare i tratti del volto del Signore ed il suo atteggiamento così da farne un’apparizione ieratica che non rimanda a nessun individuo in particolare, ma è piuttosto una

Come i programmi iconografici delle chiese, lo stile bizantino non giungerà a piena maturazione prima della fine della crisi iconoclasta, come chiariremo meglio nel capitolo sullo stile. Tuttavia i Bizantini sanno perfettamente fin da principio cosa domandare alle immagini religiose e, in particolare, alle icone. Perciò non s’interessano alla rappresentazione dei fenomeni, instabili e mutevoli, ma alle essenze, immutabili ed eterne, che ne sono l’origine. Ritroviamo pressappoco le idee di Platone, che ora vengono chiamate archetipi. Questi ultimi possono essere rappresentati solo sciolti da ogni pesantezza e quasi immateriali, dal momento che sono pura forma e non possono evolversi che in un mondo fuori dallo spazio e dal tempo. Nelle pitture murali e nelle icone lo spazio è infatti abolito dalla presenza del fondo d’oro che costituisce, per le figure, un ambiente sublimato fatto di pura luce. Inoltre i personaggi sacri sono rappresentati frontalmente, quasi senza corpo, visto che quest’ultimo è nascosto dalle innumerevoli pieghe delle vesti, ed hanno volti in cui gli occhi – specchio dell’anima, unico

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6. Madre di Dio con il Bambino, Museo delle Arti Bogdan e Varvara Khanenko, Kiev. A fronte: 7. Cristo Pantocratore, monastero di Santa Caterina del Sinai.

sorta di sintesi dell’umano. Qui il volto di Cristo non ubbidisce ancora alle regole dell’astrazione che puntano a spiritualizzarlo il più possibile allontanandolo dalla realtà, ma rappresenta già «l’uomo interiore», quello che, al di là dei suoi tratti, è l’estrema speranza del mondo. Non abbiamo icone preiconoclaste della Vergine della stessa qualità e, per lo studio di quella della Theotókos col Bambino fra i santi Teodoro e Giorgio del Monte Sinai (vi secolo) che, oltre ad essere molto bella, rivela il processo di elaborazione del nuovo linguaggio plastico, rimando al capitolo sullo stile [t. 1, pag. 29]. Dal punto di vista stilistico è particolarmente interessante un’altra icona della Vergine col Bambino, risalente al vi secolo, già al Monte Sinai ed attualmente al Museo Bogdan e Varvara Khanenko a Kiev39. Con quella di san Pietro del Monte Sinai40, essa è senza dubbio l’icona più vicina alle pitture della Tarda Antichità note finora [tt. 6, 8]. Maria regge il Bambino col braccio sinistro, come la futura Odigitria, ma lo tiene anche col destro; il suo corpo è leggermente girato verso di lui mentre la testa si volge in direzione opposta, un atteggiamento non conforme alle regole dell’iconografia, non ancora codificate nel vi secolo. Infine il suo volto, con la bocca sensuale, quasi ridente, non è esattamente quello della Madre di Dio; tuttavia da esso si sprigiona una sorta di irradiazione che fa sì che non si abbia alcuna difficoltà nel vedere in quest’immagine un’autentica icona.

Le icone romane La più interessante delle quattro tavole del vi-vii secolo raffiguranti la Vergine col Bambino e conservate a Roma è quella di Santa Maria in Trastevere41. Essa ci mostra un’immagine di Maria in abiti imperiali e incoronata, come non la vediamo a Bisanzio prima del xiv secolo, ma la cui tradizione si perpetuerà, in Italia, in molte pitture murali anteriori a questa data; citiamo quelle di Sant’Angelo in Formis e di Santa Maria della Libera del Foro Claudio (dopo il 1200)42. È dunque legittimo chiedersi se questo tipo della Vergine-Regina non corrisponda ad una perduta icona greca che non avrebbe avuto successo a Bisanzio. Quanto alla nostra icona, dipinta nel periodo in cui Roma era bizantina (vi-vii secolo), si tratta certamente dell’opera di un pittore locale commissionata dal Vaticano, visto che ai piedi della Vergine è rappresentato un papa prosternato. L’iscrizione latina evoca lo stupore degli angeli davanti a Maria che ha portato Dio nel proprio seno. La Vergine-Regina è rappresentata

in trono, in posizione frontale, in atteggiamento veramente maestoso, col Bambino seduto in grembo e due angeli adoranti ai lati. La composizione, che obbedisce ad una rigorosa simmetria, ieratica e atemporale, nel suo insieme è assolutamente bizantina, come pure i volti degli angeli. Quello della Theotókos invece non corrisponde al tipo orientale attribuitole a Bisanzio, ma semmai a quello di una fiera e inaccessibile patrizia romana [t. 10]. L’interferenza della tradizione romana è ancor più evidente nell’immagine della Vergine, che si fa fatica a chiamare icona, attualmente conservata nella chiesa di Santa Maria del Rosario a Monte Mario e dipinta a encausto. Eppure si tratta dell’icona della Madre di Dio Agiosoritissa detta «Monasterium

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Nelle pagine precedenti: 8. San Pietro, monastero di Santa Caterina del Sinai.

10. Madre di Dio con il Bambino, tra due angeli, Santa Maria in Trastevere.

9. Madre di Dio Agiosoritissa, detta «Monasterium tempuli», Santa Maria del Rosario, Roma.

L’ICONOCLASMO BIZANTINO Emanuela Fogliadini

11. Madre di Dio con il Bambino, Santa Maria ad Martyres (Pantheon), Roma.

Tempuli»43. Essa mostra una matrona romana fra due angeli, rappresentata a mezzo busto e vista di tre quarti, le cui enormi guance ci fanno immaginare un corpo dalle forme opulente. Perciò sono assolutamente contraria all’ipotesi che la vuole di provenienza costantinopolitana44, come pure alla sua identificazione, che nulla giustifica, col tipo dell’icona dell’Hagia Saros, proposta da Bertelli45 [t. 9]. L’icona della Vergine col Bambino della basilica di Santa Maria ad Martyres (Pantheon) è molto vicina alla Theotókos bizantina che compare nella pittura murale, ma è anche più tarda. È stata datata all’Alto Medioevo46 e, a nostro parere, potrebbe essere dell’viii-ix secolo. La Vergine, visibile fino alle anche, regge il Bambino sul braccio destro e corrisponde al tipo dell’Odigitria, appellativo che significa, testualmente, «colei che guida nel cammino». La figura colpisce per la sua frontalità e rigidità, per l’immobilità ed impassibilità. Lo sguardo fisso della madre non sembra posarsi su nessun oggetto particolare, neppure sul Figlio, perché ella è rivolta verso la propria interiorità, quasi a cercare di capire il mistero dell’Incarnazione [t. 11]. A Roma e nel monastero del Monte Sinai esistono altre icone di alta epoca, ma non sono numerose, probabilmente

a causa della facilità con cui è possibile distruggere, rubare e trasportare tali oggetti, come pure delle massicce distruzioni avvenute durante l’iconoclasmo, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare. Ci si può stupire nel vedere l’icona di Santa Maria ad Martyres inserita in questo capitolo, il cui limite cronologico non va oltre il vii secolo. L’eccezione nasce dal fatto che le opere esaminate fin qui potrebbero apparire piuttosto sconcertanti al lettore, a causa della loro grande somiglianza con quelle di epoca ellenistica. Sono infatti molto meno «bizantine» delle decorazioni parietali dello stesso periodo, indipendentemente dal luogo in cui queste ultime si trovano: a San Demetrio di Salonicco (vii secolo), alla Panagia Angeloktisti di Cipro (vi secolo) o, ancora, nelle chiese di Ravenna. Perciò, una persona che non abbia dimestichezza con queste immagini potrebbe far fatica a cogliere i passaggi che collegano le icone del vi-vii secolo a quelle del Medioevo. L’Odigitria del Pantheon può contribuire ad indicarglieli, come accade anche per due icone copte del vi secolo, delle quali si parla nel capitolo sulle icone nella periferia orientale del mondo bizantino [t. 1, pag. 72].

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stato anche dalla teologia iconofila che, nel controbattere alla dottrina iconoclasta, si mosse sul medesimo terreno teologico, investendo il dogma dell’incarnazione del Verbo di Dio del compito di legittimare le raffigurazioni a soggetto sacro. L’interpretazione di una controversia politica, dettata dalla lotta tra il potere imperiale e quello monastico, è stata supportata anche dalla matrice confessionale. La letteratura iconofila ha giudicato l’iconoclasmo un aberrante fenomeno, di rottura e crisi, rispetto a un cristianesimo favorevole alle immagini sacre fin dal suo originarsi, pregiudicando in tal modo l’indagine di un evento che fu più articolato e perpetuando ermeneutiche che, volte a purificare la memoria ecclesiale dalla macchia iconoclasta, attribuiscono ogni colpa al potere imperiale. A causa di una lettura parziale e faziosa tramandata alla storia dai vincitori, si è verificato un ridimensionamento della riflessione teologica e una riduzione, sbrigativa e superficiale, dei concili a strumenti politici manovrati dai gusti religiosi di imperatori malvagi. Il riferimento al dato ecclesiale e teologico merita invece di essere messo in evidenza e attentamente analizzato. La controversia iconoclasta ebbe come oggetto le raffigurazioni religiose, fu una riflessione sul tema basata sul dogma di Calcedonia, si espresse attraverso quattro concili (due iconoclasti, nel 754 e nell’815, e due iconofili, nel 787 e nell’842), coinvolse il culto e la devozione. Riflettere sul problema cristologico sollevato dai teologi iconoclasti e ripreso dalla dottrina iconofila risulta dunque fondamentale per la comprensione dell’intero dibattito sulle immagini sacre. Gli snodi fondamentali sul tema e le differenti declinazioni adottate dalle varie confessioni cristiane hanno le proprie radici nella controversia iconoclasta. Le decisioni iconofile ratificate al secondo concilio di Nicea nel 787 alterarono definitivamente il secolare equilibrio cristiano tra Parola e immagine e decretarono l’inesorabile allontanamento tra il cristianesimo d’Oriente, che abbracciò una prospettiva che sfocerà nell’investitura dell’icona di un significato rivelativo, liturgico, teologico, e l’Occidente, che continuerà a pensare la raffigurazione artistica come dossologica e subordinata alla Scrittura. Inoltre, la dottrina iconoclasta e la conseguente valorizzazione di un cristianesimo privo di immagini non tardarono ad affascinare, pur con le rispettive puntualizzazioni, svariate correnti del cristianesimo, dalla corte carolingia ai riformatori protestanti, in particolare Calvino, fino ai più recenti tentativi pseudo-gnostici di elaborare un cristianesimo privo di raffigurazioni artistiche. Indagare il nucleo teologico della controversia iconoclasta significa non solo affrontare uno dei momenti intellettualmente più vivaci della storia del cristianesimo, ma anche cogliere i fondamenti di differenti impostazioni teoriche,

Una discussione complessa e affascinante L’aniconismo dei primi due secoli cristiani è un dato di fatto che pungola la ricerca scientifica e interroga il grande pubblico abituato da millenni a uno sfarzoso tripudio e a una tale diffusione delle immagini sacre da ritenere quasi paradossale l’assenza di raffigurazioni di Cristo, della Madre, dei santi nel cristianesimo primitivo. L’immagine religiosa è subentrata nel cristianesimo solo nel iii secolo diffondendosi in modo capillare nell’Oriente bizantino dal vi secolo e generando nell’viii-ix secolo il dibattito noto come controversia iconoclasta. Molteplici sono le ragioni che hanno determinato quest’ultima discussione dai tratti accesi e dalle ripercussioni complesse nei rapporti tra Bisanzio e Roma. La controversia iconoclasta è tra i fenomeni più complessi e affascinanti della storia del cristianesimo. Dispute di natura squisitamente speculativa, volte a preservare il dogma cristologico, si intrecciarono con contrasti di matrice politico-economica che coinvolsero in scontri spesso aspri il governo imperiale, il mondo monastico, il papato. Nell’ambito di un contesto attraversato da un ritorno a un cristianesimo spiritualizzato, libero dal ricorso a supporti materiali, si consumò un dibattito che non interessò solo l’ambito artistico né si configurò come una mera manovra di imperatori capricciosi, bensì fu una lunga e profonda riflessione che la Chiesa elaborò al suo interno e con gli strumenti tipici della propria storia, ossia la teologia e i concili. Vescovi, monaci e imperatori si mossero secondo quella sinfonia dei poteri caratteristica del mondo bizantino e rifletterono sulla congruità con il dogma cristiano di un’immagine che rappresentasse con fattezze umane il Logos di Dio, vero Dio e vero uomo. A dispetto delle ipotesi storiografiche che a lungo hanno attribuito un ruolo chiave alla corte imperiale nel ratificare e diffondere una politica iconoclasta, la controversia sulle immagini sacre fu nell’Oriente bizantino una questione essenzialmente teologica con una portata ecclesiale. Indubbiamente il ruolo degli imperatori, in particolare Leone iii e Costantino v, fu considerevole nel promuovere l’iconoclasmo a dottrina ufficiale della Chiesa bizantina, ma tale passaggio non sarebbe stato possibile senza l’adesione di larga parte della gerarchia ecclesiale e l’approvazione di un concilio riunito a Hieria nel 754. Tra l’viii e il ix secolo la Chiesa bizantina, a fronte dell’elevata diffusione delle immagini sacre tra i propri fedeli e del fervore al limite dell’idolatria riservato a un culto non ancora normato teologicamente e canonicamente, decise di ragionare sulla liceità della raffigurazione artistica di soggetti sacri. Che si sia trattato di una controversia di natura cristologica è atte-

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Gli imperatori Leone iii e Costantino v sono universalmente considerati i protagonisti per eccellenza della controversia iconoclasta. Questa, è bene ricordarlo, non ebbe però una fisionomia omogenea, ma fu modellata dalle proposte teologiche, dagli eventi sociali e politici, dalle ripercussioni del rapporto con le sedi patriarcali e il papato. L’iniziale intervento dell’imperatore Leone iii fu caratterizzato da prudenza e un dialogo serrato con la parte avversa. Egli si fece portavoce della secolare tendenza aniconica che negli ultimi decenni aveva ravvivato svariati focolai in Asia Minore diffondendosi in tutto l’Impero bizantino e guadagnando alla propria causa alti rappresentanti del clero – i veri promotori della teologia iconoclasta – e dei ranghi della politica bizantina. La decisione di mettere in atto una politica aniconica restò comunque aperta a una trattativa sia con il papato che, pur respingendo con tono insolitamente duro le dichiarazioni iconoclaste dell’imperatore, si adoperò per evitare una rottura istituzionale con la sede costantinopolitana, sia con il patriarca Germano di Costantinopoli, che inizialmente fu un interlocutore e non un avversario. Leone iii si mosse da abile stratega per evitare di esasperare i toni della dialettica e per porre le basi di un dibattito che fu sistematizzato con l’ascesa al trono del figlio Costantino v. Fu solo con il suo regno che l’iconomachia divenne un movimento potente e, a periodi, molto popolare, una corrente teologica che nel 754 ricevette la massima conferma ecclesiastica da un grande concilio di 338 vescovi riuniti a Hieria. L’imperatore Costantino v fu dipinto dalla trionfante letteratura iconofila come l’avversario per antonomasia, al punto che il disprezzo fu associato a una condanna che si rinnova annualmente nella liturgia della festa del Trionfo dell’Ortodossia. Le accuse a lui rivolte furono confezionate con una ferocia e una sistematicità da lasciare sconcertati. Ogni ambito della sua vita fu denigrato e gli furono attribuiti vizi sessuali, deviazioni nella fede, errori comportamentali fin dalla nascita. Inoltre fu alimentato il mito di un’epoca di terrore spietato, operazione volta a far risplendere il coraggio del mondo monastico. A pesare sul giudizio negativo emesso contro Costantino v, fu la scelta di promuovere una riflessione teologica di cui egli stesso si fece interprete e di convocare un concilio per conferire legittimità ecclesiastica all’iconoclasmo. L’assise che si svolse a Hieria nel 754 rappresentò il vertice della dottrina iconoclasta, lo snodo obbligato con cui dovette confrontarsi il filone iconofilo, la base cristologica per il secondo iconoclasmo e per le riprese nel corso della storia cristiana della condanna delle immagini sacre. Il fascino e la forza teoretica dell’iconoclasmo perdurarono anche dopo il cosiddetto «intermezzo iconofilo» rappresentato

cultuali, liturgiche, devozionali sulle immagini sacre che hanno attraversato e ancora abitano le differenti espressioni cristiane.

Le tappe di una disputa tra mito e realtà Sovente gli storici amano individuare un momento preciso che delinei l’inizio e la fine di un determinato fenomeno storico. Per quanto concerne la controversia iconoclasta, l’editto emesso dall’imperatore Leone iii nel 726 e la presunta rimozione dell’icona di Cristo che sovrastava l’entrata principale del palazzo imperiale a Costantinopoli, sostituita da una croce, sono tradizionalmente considerati l’inizio della disputa sulle immagini sacre. L’evento conclusivo è considerato la proclamazione della festa del Trionfo dell’Ortodossia nell’843. La costante della controversia iconoclasta sono stati mito e leggenda, che hanno contribuito a modellare un racconto suggestivo, talvolta lontano dalla verosimiglianza storica. Alcuni personaggi, infatti, sono stati resi protagonisti loro malgrado, a tratti demonizzati come l’eretico Costantino v, o santificati come i monaci difensori delle presunte distruzioni di massa delle icone, paragonati ai martiri delle persecuzioni romane. La realtà storica fu però molto più complessa. Ciascuna corrente al proprio interno fu caratterizzata da sfumature di pensiero; le rispettive posizioni si delinearono nel corso del tempo e spesso in risposta alle tesi contrapposte; le Chiese d’Oriente e d’Occidente affrontarono la questione con metodologie diverse, giungendo a risultati differenti pur nella comune difesa delle raffigurazioni a soggetto religioso. Furono dunque molteplici i meccanismi che concorsero a rendere l’iconoclasmo uno dei fenomeni più ricchi e articolati della storia bizantina e cristiana. La complessità in questione favorì ermeneutiche divergenti e sovente contrapposte su ogni aspetto: le cause dell’origine della controversia, i successivi sviluppi, le influenze ideologiche e religiose degli imperatori bizantini, il peso attribuito alle catastrofi naturali, l’uso delle immagini nei secoli precedenti, le possibili ascendenze dell’ebraismo e dell’islam, le sfumature di posizione del clero bizantino, il peso dei monaci nelle lotte iconoclaste, il ruolo della sede romana. Questo spiega l’approdo a una lettura non univoca sull’iconoclasmo e sostanzialmente inficiata da una prospettiva politica che sottovaluta il peso della Chiesa e la riflessione teologica. È doveroso quindi contestualizzare l’appassionata e appassionante discussione sulla legittimità delle immagini sacre nel più ampio dibattito che animava l’Oriente bizantino per comprendere l’importanza di una riflessione a tutto tondo sul tema e il ruolo chiave dell’universo ecclesiale.

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merita comunque di essere analizzata: spogliata del superfluo e del dato mitico, ha tramandato in modo plausibile sia stralci delle Peuseis composti dall’imperatore Costantino v sia la definizione di fede del concilio di Hieria. Il pensiero teologico della controversia iconoclasta, sia di tendenza aniconica sia iconofila, si radica in una riflessione più generale che l’intera Chiesa sviluppò fin dal debutto delle immagini sacre. Nei primi sette secoli, alcuni eventi sono indicativi del fermento diffuso sul tema: il sinodo di Elvira nel 313 interdisse la presenza di immagini nelle chiese per evitarne l’adorazione; Epifanio di Salamina ed Eusebio di Cesarea nel iv secolo si espressero con forza contro le raffigurazioni sacre; al contrario, papa Gregorio Magno nel 598 rispose alla provocazione del vescovo iconoclasta Sereno di Marsiglia enfatizzando il lato utile e didattico delle immagini; nel medesimo solco, si mosse anche il concilio Trullano, che nel 692 promosse la rappresentazione realistica di Cristo. Nell’Oriente bizantino e non solo, erano molte e generalizzate le perplessità rispetto a una rappresentazione di Cristo in forme e colori materiali. Queste si possono intuire sia dalle risposte che il patriarca Germano di Costantinopoli scrisse ad alcuni vescovi di orientamento aniconico sia dal successo della politica iconoclasta, che sfociò in una convergenza feconda tra Chiesa e politica nel concilio di Hieria. La riflessione programmatica dell’assise iconoclasta del 754 fu di alto livello, ma la critica storica non le ha ancora reso giustizia riconducendola a una riproposizione delle tesi teologiche elaborate da Costantino v. La proposta teologica di Hieria fu invece sottile, volta a fondare su una base stabile la dottrina iconoclasta e a correggere le incongruenze della tesi imperiale. L’immagine di Cristo non riguardava meramente la raffigurazione dei tratti del suo volto, bensì il dilemma di rendere attraverso mezzi materiali la doppia natura, divina e umana, del Logos di Dio. L’idea cardine riassunta nelle Peuseis di Costantino v era quella di dimostrare l’impossibilità teologica di raffigurare il Cristo senza contraddire il dogma calcedonese della perfetta unione in una sola ipostasi della natura umana e di quella divina: se in un’icona si fosse raffigurata solo l’umanità di Cristo, essendo la sua divinità incircoscrivibile, si sarebbe ricaduti nell’eresia nestoriana. Per l’imperatore l’immagine doveva essere consustanziale al modello originario e dunque l’unica icona possibile di Cristo era costituita dall’eucarestia. Costantino v fu sollecito – conformemente al suo ruolo di custode della cristianità – alla convocazione di un concilio volto a condannare ufficialmente l’immagine sacra e a dotare l’iconoclasmo di una dottrina che diventasse legge per la Chiesa. Tale solerte organizzazione non deve però automatica-

dal secondo concilio di Nicea che nel 787 legittimò l’esistenza e il culto delle immagini sacre. Nonostante la letteratura favorevole alle icone abbia enfatizzato il ruolo dirimente di tale concilio, lo svolgimento reale degli avvenimenti fu più complicato e, nel momento in cui l’imperatore Leone v restituì agli iconoclasti facoltà d’azione, essi dimostrarono la propria vivacità intellettuale, la loro capacità organizzativa e l’ampia diffusione di cui godevano ancora. Nel periodo del secondo iconoclasmo, le condizioni storiche erano indubbiamente mutate, la riflessione teologica non fu ai livelli alti dei primi promotori e il contesto ecclesiale era maggiormente diviso tra molteplici posizioni intermedie o di compromesso. Nonostante questo, il dibattito teologico continuò e i concili furono nuovamente lo strumento per legittimare le proprie posizioni: nell’815 l’iconoclasmo tornò a essere dottrina ufficiale della Chiesa, mentre nell’843 fu ufficialmente conclusa la controversia con la rilegittimazione delle immagini sacre e la proclamazione della festa del Trionfo dell’Ortodossia.

La teologia e l’interrogativo delle immagini sacre La teologia è la base e il filo rosso della riflessione sulle immagini sacre. Minimizzata o addirittura dimenticata dalla maggior parte delle ricerche storiche, essa rivendica il ruolo centrale che ha svolto nella controversia iconoclasta. Il ridimensionamento subito sconta la rielaborazione delle fonti della parte iconofila che tramandò alla storia il classico racconto del vincitore. L’iconoclasmo fu liquidato come un momento di rottura rispetto a un culto che, benché non menzionato nelle scritture cristiane, era stato tramandato dagli stessi apostoli e risaliva dunque alla Chiesa delle origini. La colpa di tale eresia fu imputata a una dinastia di imperatori influenzati dalle suggestioni aniconiche ebraiche e islamiche, che interferirono con le decisioni interne della Chiesa. La manipolazione iconofila elevò il secondo concilio di Nicea a punto di svolta e fondamento della nuova diffusione delle icone, accusando le persecuzioni iconoclaste di aver distrutto il patrimonio iconografico precedente l’viii secolo e provocato martiri tra le fila dei monaci pronti a difendere le icone come prova della fede nell’incarnazione di Cristo. Sostanzialmente l’influenza di una ricostruzione ideologica, confessionale e agiografica non ha favorito un’attenta considerazione della speculazione teologica, neppure quella iconoclasta, restituita peraltro solo dalla letteratura che la condanna. La documentazione di parte, benché metodologicamente non regga il confronto con la ricerca storico-critica,

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LO STILE DELL’ICONA E LA REGOLA COSTANTINOPOLITANA I BALCANI E LA RUSSIA (VI-XV SECOLO) Tania Velmans l’immagine sacra di un rapporto peculiare con il prototipo e le accreditò un ruolo inedito rispetto al cristianesimo dei primi secoli, che spiega l’apparente incomprensione del cristianesimo latino il quale sottoscrisse gli atti di tale assise ma non li ratificò nella pratica. Ragionare sulla controversia iconoclasta, sulle differenti proposte teologiche elaborate e sui pronunciamenti conciliari iconofili e iconoclasti significa anche comprendere l’origine delle divergenze sull’arte sacra tra Oriente e Occidente cristiano. Il pensiero, la comprensione, l’orientamento che i due cristianesimi hanno sviluppato nel corso dei secoli sul tema, la distanza sul senso e ruolo delle immagini religiose affonda le proprie radici proprio nella controversia iconoclasta e si è rinforzata nel corso di una storia secolare che i due cristianesimi vissero in parziale ma significativa autonomia.

mente ridimensionare il profilo teologico del concilio di Hieria. I padri, infatti, corressero sensibilmente le argomentazioni delle Peuseis distanziandosi da un’identificazione quasi magica dell’immagine con il prototipo che risultava problematica. Il concilio di Hieria corresse la teologia imperiale e motivò l’impossibilità di una raffigurazione di Cristo, enfatizzando la distanza tra la carne del Logos interamente divinizzata e la materia delle icone che non è degna di essere veicolo della rivelazione divina. A lungo la teologia iconofila non fu in grado di smontare i teoremi iconoclasti. La risposta del secondo concilio di Nicea fu più assertiva che esplicativa: le icone sono legittime e con la propria presenza confermano lo straordinario prodigio dell’incarnazione. Tale concilio, nell’intento di legittimare la possibilità dell’immagine sacra, introdusse una novità: investì

per distaccare i personaggi dalla realtà e creare un sistema di forme capaci di esprimere verità di ordine spirituale. Così, si suppone che l’icona debba insieme rappresentare Cristo sotto i tratti della sua incarnazione ed esprimere, tramite l’immagine, la sua gloria divina. Investiti di questa alta missione, gli artisti bizantini, e forse ancor più i pittori di icone, si posero alla ricerca della forma perfetta, capace di esprimere la Bellezza infinita di Dio7. L’icona era una parziale rivelazione di questa Beltà e diveniva così una sorta di manifestazione divina adeguata ai nostri occhi carnali.

Quando si parla dello stile di un’opera d’arte s’intende il particolare modo di esprimere attraverso una forma un certo contenuto, sia esso narrativo, simbolico, ideologico o astratto. Di conseguenza, uno studio sullo stile dell’icona dovrebbe anzitutto porsi il problema del rapporto tra la forma, il contenuto e le idee ispiratrici. Definito in questo modo, un certo linguaggio figurativo non resta immutato per un lungo periodo di tempo: bisogna allora stabilire le fasi della sua evoluzione ed i fattori che le condizionano. Questa ricerca di carattere storico – un tuffo verticale nel tempo – non sarebbe esauriente senza un’indagine orizzontale e senza tener conto dello spazio geografico entro il quale sono state realizzate le diverse opere. È questo lo scopo che ci proponiamo nei due capitoli a noi affidati in questa parte, il secondo dei quali riguarda l’Oriente bizantino, e che comprendono anche uno studio iconografico.

Nascita di un’estetica Nel capitolo iniziale di questo libro abbiamo potuto renderci conto che le prime icone rimasteci mostrano il più delle volte una sorta di esitazione tra il ricordo dei ritratti della Tarda Antichità e il desiderio di andare oltre le apparenze del mondo sensibile per cercare di rivelarne l’essenza. La realtà percepita dai sensi era messa in dubbio dalla certezza di una verità che la trascendeva pur rimanendo nascosta ai nostri occhi, mentre lo sguardo interiore, come già Plotino8 diceva, poteva accostarvisi. Per tradurre in linguaggio plastico tale concezione del mondo i pittori partono, come sempre, dalla tradizione che li precede, in questo caso dall’arte illusionistica del Basso Impero, le cui forme vengono in seguito semplificate, purificate, smaterializzate e, infine, ristrutturate grazie ad una tendenza all’astrazione. I personaggi sacri sono rappresentati in posizione frontale secondo le regole di una rigida simmetria – proprio perché quest’ultima non esiste in natura – simmetria che vale tanto per i volti che per i corpi. Essi sono immobili perché perfetti e, secondo i Bizantini, solo l’imperfezione poteva portare al desiderio di cambiare stato; d’altro canto, il movimento e l’azione – inutili nello splendore dell’ordine divino – si collocano necessariamente nel flusso del tempo, mentre le figure di Cristo e dei santi dovevano iscriversi in una dimensione extratemporale. Fin verso il xii secolo tutti sono impassibili, persino la Vergine ai piedi della croce. Ed è così da un lato perché questi personaggi eccezionali conoscono il mondo divino, dall’altro perché dominare le proprie emozioni significava anche dominare il proprio corpo9, il che corrisponde all’ideale dell’asceta. Immobilità ed impassibilità suggeriscono anche il silenzio e la pace; il transitorio non poteva turbare i personaggi sacri che conoscono l’assoluto. I Padri della Chiesa definiscono a volte lo stato di santità invocando il silenzio totale10, intendendo dire

L’icona – immagine mobile generalmente dipinta su tavola ad encausto o a tempera – acquista il suo pieno significato, e di conseguenza la piena maturità dello stile, solo durante e dopo la crisi iconoclastica (726-843). Secondo la testimonianza delle fonti scritte, la Chiesa ha tollerato, e addirittura incoraggiato le rappresentazioni figurate fin dal iii e iv secolo, visto che alla fine di questo periodo i Padri chiedono già all’immagine di unirsi alla parola del Vangelo e dei grandi predicatori per rendere i fedeli partecipi della pienezza della Rivelazione. Così san Basilio il Grande († 379) conclude la sua orazione in memoria di Barlaam dicendo che, per onorare il martire, lascia il posto ad un linguaggio più perfetto, quello della pittura1, e giunge anche ad esortare i pittori a far piangere i demoni, vinti una seconda volta dalla rappresentazione del coraggio dei martiri2. Nella sua omelia per la festa di san Teodoro, Gregorio di Nissa parla della pittura come di un linguaggio muto che si esprime alla maniera di un libro3, affermazione ripetuta anche da san Nilo4. Infine, Atanasio il Grande pone l’accento sul fatto che l’icona non dà un’emozione estetica ma offre la contemplazione della Parola5. Questi testi hanno una certa importanza, poiché ci permettono di comprendere il carattere dogmatico dell’icona e i principi fondamentali sui quali si è sviluppato lo stile bizantino. Il pensiero dei Padri riguardo alla pittura è servito da base all’82° canone del Concilio Quinisesto (692) che vietò le rappresentazioni simboliche del Cristo, come il pesce o l’agnello. L’ultima parte di questo canone precisa che, se il ricorso al simbolo è inopportuno quanto alla scelta dei soggetti rappresentati, è invece auspicabile utilizzare un linguaggio simbolico per risolvere il difficile problema di come raffigurare i personaggi sacri6. Ci si riferisce allo stile e ai mezzi utilizzati

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A fronte: 1. La Madre di Dio tra i santi Teodoro Stratilate e Giorgio, monastero di Santa Caterina del Sinai.

nano a quelli di Maria; viceversa l’insieme della composizione, coi tre personaggi frontali, e ancor più i volti emaciati dei due santi e i loro corpi che scompaiono sotto le vesti, i piedi piccoli e le mani minuscole corrispondono in pieno alle nuove esigenze della pittura.

quello del corpo, delle passioni e dell’estasi. Solo l’anima poteva muoversi innalzandosi verso Dio. Anche l’imperatore, rappresentante di Cristo in terra, si presentava immobile ed impassibile durante le cerimonie ufficiali, giungendo spesso fino a sostituire la parola con battiti di ciglia11. Eusebio, invece, parla dell’immagine di Cristo come di quella di un gigantesco imperatore al quale la terra serva da sgabello12, il che dimostra fino a che punto le espressioni simboliche di un’epoca – linguaggio plastico, cerimoniale, abbigliamento ecc. – siano simili perché sottese dalle stesse idee base, dalla stessa visione del mondo. Per sottolineare il distacco dei personaggi rappresentati dalle contingenze della vita terrena era necessario smaterializzarli senza alterarne la bellezza e l’armonia, due concetti ereditati dall’Antichità. Perciò nella resa del modellato il chiaroscuro viene ridotto a favore del contorno che appiattisce le forme e le libera di colpo dal loro peso e volume. Quanto ai volti, tendono ad allungarsi, come tutta la figura. Gli occhi si fanno più grandi, mentre le bocche diventano più piccole, come pure la testa, i piedi e le mani. In generale le immagini di questo tipo sono proiettate contro uno sfondo d’oro che le allontana ancor più dal mondo reale ed abolisce ogni riferimento spaziotemporale, mentre invece suggerisce la luce celeste che, secondo quanto affermavano i Padri della Chiesa, è dorata13.

Le conseguenze dell’iconoclastia nel campo della rappresentazione figurata (726-843) Nell’viii secolo, con la crisi iconoclasta e la resistenza che si organizzò in difesa delle immagini, queste ultime furono sacralizzate e investite di contenuti ben precisi; fu definito con chiarezza anche il loro rapporto con l’uomo e con Dio, così che gli artisti, consci della propria missione, furono abbastanza ispirati da portare a compimento l’elaborazione del linguaggio figurativo adeguato all’icona. Gli iconoduli hanno insistito molto sul dogma dell’Incarnazione: essendo incarnato, Cristo poteva essere rappresentato. Non solo, dagli scritti dei difensori delle immagini, come Giovanni Damasceno o Teodoro Studita, risulta che un legame preciso univa la rappresentazione al rappresentato, «come l’impronta presuppone il sigillo»15. Dal prototipo scendevano sull’immagine delle «energie divine» e inchinandosi ad essa si rendeva omaggio al prototipo stesso. L’icona cessò così di essere un semplice oggetto per diventare un ponte fra il mondo intelligibile e quello degli uomini, e fu anche considerata come una gnosi. Attraverso la contemplazione dell’immagine e la preghiera rivolta ad essa si apriva al fedele una via verso la conoscenza di Dio e verso la propria completa realizzazione spirituale.

L’icona del Monte Sinai con la Vergine e il Bambino fra i santi Teodoro e Giorgio (vi secolo) è, molto probabilmente, di origine costantinopolitana14 e mostra chiaramente una fase in cui il pittore si trovava ancora al bivio fra la via delle reminiscenze antiche e l’estetica del futuro [t. 1]. I tre personaggi in primo piano, frontali ed immobili, i corpi dei due santi completamente nascosti dalle vesti rigide e prive di rilievo, i loro volti allungati e col mento appuntito sono un chiaro annuncio di un nuovo linguaggio figurativo. Tuttavia il volto di Maria presenta ancora un naso piuttosto carnoso, come le labbra, e gli occhi, benché ingranditi, sono resi con mezzi pittorici e non col semplice contorno. Delle ombreggiature verde oliva ed alcuni tocchi rosati sottolineano l’anatomia. L’aspetto troppo umano – perché ispirato a modelli antichi – dei due angeli sospesi al di sopra della Theotókos è trasfigurato dalla luce bianca che li penetra e li circonda. Malgrado la riuscita di questo espediente, gli angeli della nostra icona restano ancora piuttosto vicini ai loro modelli greco-romani perché non solo sono rappresentati di tre quarti, ma sono anche visti di sottinsù, come avrebbe voluto una prospettiva che tenesse conto della loro reale posizione nello spazio. I tratti dei loro volti si avvici-

Dopo la vittoria dell’ortodossia16 ci fu sicuramente una ricca produzione di immagini mobili, ma poche sono giunte fino a noi. Esse formano due grandi gruppi diseguali: quelle che appartengono allo stile tendente all’astrazione, che è quello del futuro (e sono la maggior parte), e quelle prodotte dalla cosiddetta Rinascenza Macedone (867-1056). Quest’ultima si espresse soprattutto in opere di piccole dimensioni, come le miniature, destinate ad un’élite privata di umanisti, e ben poco nella pittura murale che si rivolgeva alla massa dei fedeli. Per quanto riguarda le icone, essa si manifesta solo in alcuni dittici e trittici d’avorio. I due gruppi di opere sono in stretto rapporto con le idee degli iconoduli, ma si riferiscono ad aspetti diversi di tali dottrine. I pittori del primo gruppo riprendono soprattutto

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2. I santi Zosima e Nicola, monastero di Santa Caterina del Sinai.

3. San Filippo, monastero di Santa Caterina del Sinai.

Per il primo gruppo citiamo due icone del Monte Sinai18 con alcuni santi in piedi, in posizione frontale. Si tratta di quelle dei santi Zosimo e Nicola (x secolo) e dell’apostolo Filippo benedetto da Cristo (x-xi secolo), [tt. 2 e 3]. Le figure sono slanciate, i corpi immobili contro il fondo d’oro. L’apostolo Filippo ha occhi immensi che catturano il nostro sguardo, mentre il naso lungo e sottile sottolinea la perfetta simmetria del volto. Il gioco del drappeggio, reso con l’ausilio della linea ritmica, ha come risultato una stilizzazione geometrica del corpo. Nell’angolo superiore destro il Cristo benedice il santo dall’alto del cielo. Sono stati certamente il desiderio di rendere l’icona luminosa, come permeata di luce celeste, ed il gusto per il fasto, caratteristico dell’Oriente, a spingere gli artisti a realizzare anche icone in metalli nobili, impreziosite da pietre colorate,

la spiritualizzazione e la sacralizzazione dell’icona, come pure l’identità fra la cosa rappresentata e il suo prototipo, il che li spinge a cercare forme depurate e fortemente stilizzate; quelli del secondo sono invece influenzati dal nuovo umanesimo, fiorito nella letteratura e nella filosofia, rappresentato da un pensatore brillante come Michele Psello (1018?1078?). Questa corrente di pensiero nasce dall’importanza data all’incarnazione dai sostenitori delle immagini e doveva necessariamente condurre ad una certa «umanizzazione» di Cristo e ad un accostamento fra Gesù – Uomo e Dio – e i fedeli, se non sul piano puramente intellettuale (è stato definito così a partire dal Concilio di Calcedonia)17, almeno su quello della sensibilità religiosa, fondamentale per la creazione artistica.

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4. Sant’Eudoxia, icona in marmo intarsiato, da Costantinopoli, Museo Archeologico di Istanbul.

5. Piatto e dorso di una coperta di evangeliario con Cristo e la Vergine orante, busti di santi nella cornice, smalto, da Costantinopoli, Tesoro di San Marco, Venezia.

È invece alla Rinascenza Macedone (dunque al nostro secondo gruppo) che dobbiamo ascrivere l’icona del Monte Sinai col busto di san Nicola (x-xi secolo) entro una cornice ornata di medaglioni con busti di santi21 [t. 8]. In questo caso, non solo il volto del personaggio centrale è decisamente in carne, con tratti appesantiti, modellati all’antica, ma si può addirittura pensare ad un ritratto. Lo sguardo è vivace, volto verso destra, e la mano del santo è quasi reale. Troviamo la stessa ispirazione in una serie di piccoli dittici e trittici d’avorio, come quello detto di Harbaville della fine del x secolo (Parigi, Louvre), con la rappresentazione di una Grande Deesis22 nella quale le figure dei tre personaggi principali sono di una bellezza e di un’armonia stupefacenti [t. 6]. Una valva di dittico con la Madre di Dio Odigitria del Museo arcivescovile di Utrecht (xi

perle e smalti, come vediamo nella coperta di evangeliario del x secolo, conservato in San Marco di Venezia19, che presenta sulle due valve rispettivamente Cristo e la Vergine, circondati da busti di santi entro medaglioni. Malgrado la cornice di pietre preziose, il Cristo e la Theotókos, come pure i santi – tutti in smalto cloisonné su fondo oro – sono realizzati in uno stile severo ed essenziale che ci consente di collocare questo dittico nel nostro primo gruppo [t. 5]. La stessa cosa si può ripetere per un’icona in pietre dure (x-inizio xi secolo) del Museo Archeologico di Istanbul20 che rappresenta sant’Eudoxia orante [t. 4]. La santa, vista di fronte e assolutamente priva di volume, indossa l’abito di un’imperatrice bizantina. Sul suo volto smunto si notano solo i grandi occhi spalancati, dallo sguardo fisso.

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25. Trittico Harbaville, avorio, Museo del Louvre, Parigi. 26. Madre di Dio Odigitria, icona in avorio, Museum Catharijneconvent, Utrecht.

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Nelle pagine precedenti: 6. Trittico Harbaville, avorio, Museo del Louvre, Parigi.

8. San Nicola in busto e santi nella cornice, monastero di Santa Caterina del Sinai.

A fronte: 7. Madre di Dio Odigitria, icona in avorio, Museum Catharijneconvent, Utrecht.

9. La scala del Paradiso, monastero di Santa Caterina del Sinai.

secolo) presenta Maria come una donna giovanissima con le guance piene e le labbra sensuali, che accenna una specie di sorriso23 [t. 7]. Nell’xi secolo le due correnti tendono a fondersi, cosa che porterà al classicismo bizantino fatto di misura, equilibrio e intensa spiritualità, uniti alla bellezza fisica. Tutte caratteristiche evidenti nell’icona di san Giovanni Climaco (xi-xii secolo) che illustra l’idea portante del trattato di san Giovanni lo Scolastico, cioè le virtù che permettono al monaco di percepire la luce divina e di accedere al Paradiso [t. 9]. Il tema, di per sé un po’ astratto, è rappresentato con maestria e in modo molto concreto. I monaci salgono lungo la scala delle virtù che conduce a Cristo, nell’angolo superiore destro dell’immagine, mentre alcuni di loro, che hanno peccato, finiscono nelle mani dei demoni che li tengono al guinzaglio24. Si tratta di una composizione sapiente, disposta lungo una linea obliqua (la scala coi monaci) che divide il campo pittorico del fondo d’oro in due triangoli diseguali. Un’altra diagonale in senso inverso, in modo da compensare la prima, è appena suggerita da un gruppo di monaci che stanno nell’angolo inferiore destro e da alcuni angeli nell’angolo superiore sinistro. I monaci che s’inerpicano lungo la scala hanno atteggiamenti diversi, mentre i demoni appaiono come eleganti angeli neri. Questo modo di rappresentare le forze demoniache è conforme all’estetica bizantina che rifiutava le incarnazioni zoomorfe del male come ne vediamo in Occidente, e la bruttezza in generale. In alcune icone di tipo narrativo si nota un particolare sforzo di sintesi: attorno ad un nodo centrale sono raggruppate diverse piccole scene secondarie che si riferiscono ad un episodio importante della storia della Salvezza, ma che accadono in momenti successivi e in luoghi diversi. Il racconto razionale dei fatti come si esprime attraverso la parola viene abolito nell’immagine, che è proiettata di colpo fuori dallo spazio reale e dal tempo, in una sorta di eterno presente che permette al fedele di afferrare con un’occhiata tutta l’ampiezza dell’evento. È il caso, per esempio, dell’icona della Natività (xi secolo) del Monte Sinai25 nella quale, attorno alla Madonna col Bambino nella mangiatoia, si dispongono cori di angeli, l’Adorazione dei magi, l’Annuncio ai pastori, il Ritorno dei magi e, più in basso, l’Annuncio a Giuseppe, il Bagno del Bambino, la Fuga in Egitto e la Strage degli Innocenti [t. 10]. Presente, passato e futuro sono posti sullo stesso piano, mentre delle linee ondulate che indicano le irregolarità del terreno creano alcune barriere che vorrebbero essere naturali e che isolano almeno un po’ i

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diversi episodi, rendendoli riconoscibili. Così il dogma dell’Incarnazione diventa vivo e presente non attraverso un’imitazione del mondo reale, ma con l’accumulo simultaneo di particolari narrativi che riguardano la Natività di Gesù, particolari che sono altrettanti argomenti a favore dell’aspetto miracoloso di questa nascita.

Lo stile grafico del xii secolo e la nuova attenzione al sentimento A partire dall’xi secolo la recinzione del coro, formata dalle lastre del pluteo e da un architrave su colonnine, comincia a trasformarsi in iconostasi. Il processo continua nel xii secolo e termina solo al tempo dei Paleologhi. A questo punto il templon del passato, descritto in precedenza, è completamente coperto

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10. La Natività ed episodi dell’infanzia di Cristo, monastero di Santa Caterina del Sinai.

A fronte: 11. Crocifissione con medaglioni di santi e angeli nella cornice, monastero di Santa Caterina del Sinai.

nografia che lo stile, ma se ne parliamo qui è per sottolineare il fatto che, dal momento in cui lo spazio fra le colonne del templon è riempito, le icone si fanno più grandi, mentre i pittori tendono ad accentuare i contrasti su questo tipo di immagini, in modo da renderle ben visibili a una certa distanza. Certo, i personaggi sacri che vengono posti molto lontano dagli uomini, in una sfera celeste, vi resteranno per tutto il periodo bizantino; ma Gesù e quanti gli sono vicini durante la Passione saranno considerati, a partire dal xii secolo, come esseri capaci di provare sentimenti umani. I segni premonitori di questa evoluzione compaiono già all’avvicinarsi o all’inizio del secolo, come dimostra l’icona della Crocifissione del Monte Sinai, datata all’xi-xii secolo, con busti di santi nella cornice [t. 11]. La Madre di Dio e san Giovanni – impassibili fino a questo momento – mostrano segni di tristezza e il corpo di Cristo, nudo e contorto nel dolore, è quello di un uomo che ha sofferto; la sua testa ricade sulla spalla a indicare che egli è morto, mentre per molto tempo era stato rappresentato vivo sulla croce. Anche il volto tradisce la sofferenza fisica. Inoltre, la delicatezza del modellato sottolinea le forme anatomiche del corpo e il perizoma trasparente permette di seguire il profilo delle gambe. Gli angeli in cielo piangono. Non è più la Crocifissione trionfale del periodo preiconoclasta27, né quella simbolica del ix-x secolo28, ma una scena triste, benché ancora serena e piena di riserbo. Nel 1130 la celebre icona costantinopolitana della Vergine Eleousa, detta di Vladimir29 perché rimase a lungo nella cattedrale di questa città30, mostra Gesù nelle braccia di sua madre in un atteggiamento di tenerezza [t. 12]. Il Bambino appoggia la guancia a quella della Theotókos e le passa un braccio attorno al collo. La Vergine ha un’espressione grave e distante e i suoi occhi esprimono una tristezza inconfessata perché ella ha presente la futura Passione del Figlio. Volti dolorosi compaiono anche sull’icona processionale, quindi dipinta su entrambe le facce, con Cristo e la Vergine della Pietà (xii secolo) del Museo Archeologico di Kastoria31, proveniente dalla cattedrale della città [tt. 29-30, pagg. 168-169]. Poiché si tratta di un soggetto nuovo, lo schema iconografico non è ancora perfettamente elaborato; è per questo che, su una delle due facce, la Madre di Dio è col Bambino che, invece, non dovrebbe essere presente. Tuttavia la sua tristezza è profonda e si esprime attraverso lo sguardo e le sopracciglia aggrottate. Quanto alla testa di Cristo (sull’altra faccia), ricade sulla spalla mentre i tratti rigidi sono quelli di un cadavere: labbra serrate, quasi inesistenti, occhi chiusi.

di icone. Sopra l’architrave, detto anche epistilio, stanno due o tre registri di icone che rappresentano la Deesis o il ciclo delle Grandi feste dell’anno liturgico. Fra una colonna e l’altra vengono collocate delle icone di notevoli proporzioni nelle quali sono raffigurati Cristo, la Vergine, a volte il Battista e il santo protettore della chiesa che, tutti insieme, rappresentano la preghiera d’intercessione che la Vergine e san Giovanni, accompagnati da angeli o da altri santi, rivolgono a Cristo per il perdono del genere umano, in altre parole una Deesis26. In alcune iconostasi, dunque, questo tema compare due volte. Le conseguenze del nuovo muro d’icone riguardano più l’ico-

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12. La Vergine di Vladimir, Galleria Tret’jakov, Mosca. A fronte: 13. Annunciazione, monastero di Santa Caterina del Sinai.

A parte la comparsa del motivo affettivo nel campo del sacro, altri tre nuovi elementi caratterizzano lo stile del xii secolo, detto anche dei Comneni dal nome della dinastia regnante32: il grafismo, l’accelerazione del movimento dei personaggi e la tendenza ad un certo manierismo. La linea prende ormai il posto del modellato, compenetra le forme e, in qualche caso estremo, tende a frantumarle. Essa è probabilmente l’unico mezzo escogitato in questo momento per rispondere alla nuova esigenza di rappresentare il dramma ed anche di animare le scene attraverso i movimenti rapidi dei personaggi. D’altro canto il grafismo portava ad una certa astrazione in grado di compensare «l’umano troppo umano» che, col nuovo interesse per i sentimenti, si era introdotto nell’universo del sacro. Una delle icone di questo periodo, intrisa della raffinatezza, addirittura di un certo preziosismo manierista tipico degli atelier imperiali, è di una qualità eccezionale. Si tratta di un’Annunciazione della fine del xii secolo, conservata al Monte Sinai33, nella quale l’arcangelo Gabriele avanza a grandi passi verso la Vergine seduta sulla porta di casa e intenta a filare [t. 13]. La sua tunica è percorsa da un’infinità di pieghe, indicate da linee morbide e capricciose, mentre il vento anima tutto il drappeggio, solleva l’orlo della veste e fa svolazzare la cintura. In questo modo tutta la figura di Gabriele è resa dinamica, quasi nell’intento di esprimere la sua emozione di messaggero della buona novella, ed è in contrasto con l’aspetto quieto di Maria che non conosce ancora il contenuto del messaggio, visto che continua a filare. Una piega tubolare sale lungo la schiena di questo impetuoso arcangelo, s’interrompe, ricompare all’altezza delle cosce. Questo tipo di piega è caratteristico di tutta la pittura bizantina del xii secolo, soprattutto della seconda metà, nei Balcani e in Russia. In primo piano si profila un paesaggio nilotico ispirato all’arte antica. Numerosi uccelli animano il corso d’acqua che indica come la Vergine stia per diventare Sorgente di Vita eterna34. La nobiltà dei tratti dell’arcangelo, l’eleganza del suo atteggiamento e, in generale, la bellezza delle forme di quest’icona, derivano quasi esclusivamente dalla mestria con cui l’artista si serve della linea ritmica. Ma non è solo questo: se escludiamo il maphòrion di Maria, il corso d’acqua e le ali dell’arcangelo, in quest’immagine tutto è dorato – lo sfondo, le architetture, il trono, le vesti dell’arcangelo e la colomba dello Spirito Santo che scende verso la Vergine dall’alto del cielo – tuttavia ogni elemento è ben riconoscibile e contribuisce all’armonia dell’insieme. Le aureole, anch’esse dorate, sono luminose e riflettono

la luce. Vicino al tetto della casa due uccelli in un nido evocano discretamente la futura nascita del Signore.

La rinascenza del xiii-xv secolo La rinascenza detta dei Paleologhi ha inizio nella pittura murale a partire dagli anni trenta del xiii secolo, quando a Mileyeva, ai Santi Apostoli di Pe0 e all’Acheiropòietos di Salonicco si nota una straordinaria consonanza coi modelli della Tarda Antichità. Solo dopo qualche decennio questo movimento, che coinvolge un’ampia area geografica, investe la pittura di icone. Il mutamento nasce da un certo numero di fattori convergenti. L’umiliazione per la presa di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204 suscitò un desiderio di rivalsa che, in mancanza di una forza militare, poteva tentare solo la via del

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A fronte: 14. La Madre di Dio Eleousa, o della Tenerezza, Museo Archeologico Nazionale di Sofia.

scorcio del xiii secolo, come quella della chiesa della Vergine Peribleptos nella stessa città43, che alla pittura di icone. L’evangelista è rappresentato di tre quarti mentre cammina (!) da destra a sinistra. Le forme del suo corpo sono state ingrandite al massimo; le cosce, i polpacci e le braccia sono enormi, mentre il tessuto che le modella le rende ancora più piene attraverso il gioco delle ombre e delle luci. Il drappeggio ricade sul dorso del personaggio in pieghe grandi e pesanti. Infine il volto, paffuto e fortemente illuminato, è a sua volta sottolineato da una linea leggera che non corrisponde affatto alla sua anatomia [t. 15]. Questo modo di dipingere i volti s’incontra nella chiesa della Peribleptos ad Ohrid, dipinta dai maestri – probabilmente tessalonicesi – Michele ed Eutichio, ai quali si potrebbe attribuire anche l’icona. La maggior parte delle tavole di età bizantina appartengono al xiv secolo, un periodo di fioritura artistica malgrado la povertà e la debolezza dell’Impero. Inoltre, è in questo momento che si verifica la più forte espansione della pittura bizantina che giunge fino alla Moldavia e alla Valacchia, mentre l’influenza costantinopolitana guadagna terreno anche nella Georgia.

predominio culturale. Di conseguenza i Bizantini dichiararono come proprio il patrimonio culturale dell’antica Grecia35, cosa che consentì ad artisti e letterati di studiarlo ed imitarlo, entro i termini consentiti dalla loro estetica particolare. Un’ondata di ellenismo dilagò su Nicea, la nuova capitale, risvegliando gli spiriti ed aprendo nuove vie, tanto da far dire a Giorgio di Cipro che la città era una novella Atene36. L’ideale ascetico lasciò il posto ad una nuova concezione dell’uomo perfetto. Quello che si ammirava adesso era il sapere dell’uomo di lettere, accompagnato da doti morali e dalla sensibilità nei confronti delle opere d’arte. Nel xiv secolo il grande logotete dell’Impero, Teodoro Metochita, giunse ad affermare che la creazione artistica garantiva al proprio autore l’immortalità37, e il metropolita di Naupatto, Giovanni Apokaukos († 1230), fu paragonato da uno storico del xiv secolo agli umanisti italiani del tempo38. A tutto ciò si aggiunga il fatto che a Costantinopoli i crociati avevano portato avanti un’attività artistica39 e che l’antica capitale bizantina distava da Nicea solo cinquanta chilometri. L’arte dei crociati non era particolarmente vicina ai modelli antichi, ma permetteva ai Bizantini – attraverso la conoscenza di altre opere cristiane – di rimettere in discussione la propria estetica. D’altro canto, i pittori non trovavano più lavoro nell’Impero ormai impoverito, mentre il giovane regno di Trebisonda e i sovrani serbi, fondatori di molti monasteri, li chiamavano a decorarne le chiese; il fatto di allontanarsi dai grandi centri bizantini favorì a sua volta una parziale rottura col passato. Nella pittura di icone il modellato prende il posto dei contorni marcati del xii secolo, ne consegue che i personaggi acquistano volume, mentre si allargano le spalle e il collo, come pure tutti i tratti del viso.

Fra la seconda metà del xiii e il xiv secolo lo stile detto dei Paleologhi non si evolve molto; tuttavia negli episodi evangelici si accentua il gusto per la narrazione, mentre i personaggi tendono ad aumentare di numero e perdono volume divenendo più slanciati e fragili. Appaiono diversi modi, tutti di grande finezza, per modellare il volto e le parti nude del corpo, rendendo il passaggio dall’ombra alla luce più dolce e progressivo che in passato. L’icona della Crocifissione del Museo Bizantino di Atene (xiv secolo)44 a prima vista appare piuttosto tradizionale nel suo schema a tre personaggi che ricorda le crocifissioni simboliche del passato. In questa tipologia di immagini gli artisti non puntano a descrivere con la maggior precisione possibile l’episodio evangelico, ma piuttosto a tradurne i valori dogmatici in linguaggio figurativo. Eppure, la nostra icona rivela anche importanti novità [t. 16]. Qui la croce è posta volutamente molto in alto, in modo che la testa di Cristo sia vicina agli angeli che volteggiano nello spazio dorato e, per accrescere ulteriormente l’impressione del Crocifisso che si libra al di sopra delle contingenze terrene, la linea d’orizzonte è stata posta molto in basso. Sulla sottile striscia di terra così ottenuta s’innalza, tutta d’oro, la città di Gerusalemme, prefigurazione della Gerusalemme celeste più che luogo nel quale si svolge l’azione. Che questa sia la vera intenzione dell’artista appare tanto più probabile in quanto la

Nell’icona di san Giacomo benedetto da Cristo conservata nel monastero di San Giovanni Evangelista a Patmos (xiii secolo)40, si notano chiaramente un appesantirsi del corpo, il naso carnoso, le labbra larghe e morbide, gli occhi senza contorno immersi nell’ombra delle cavità oculari. Più grafica, e quindi più arcaizzante, l’icona della Madre di Dio Eleousa (della Tenerezza) del Museo Archeologico di Sofia, datata al xiii-xiv secolo41, testimonia, dal canto suo, una maggiore intensità dei valori affettivi e una nuova morbidezza nel movimento. Maria si china ora affettuosamente verso Gesù che, a sua volta, è quasi piegato in due per accarezzarla. I profeti nella cornice sono quelli che hanno annunciato l’Incarnazione [t. 14]. La tavola del Museo di Ohrid (xiii secolo) con l’evangelista Matteo in piedi42 è più prossima alla pittura murale dell’ultimo

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15. San Matteo evangelista, Galleria delle icone della chiesa di San Clemente, o della Peribleptos, Ohrid. A fronte: 16. Crocifissione, Museo Bizantino, Atene.

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17. San Matteo evangelista, monastero di Chilandari, Monte Athos.

18. L’arcangelo Michele, Museo Bizantino, Atene.

19. Annunciazione, chiesa della Peribleptos, Ohrid.

madre, e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: “Donna, ecco tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre”. E da quel momento il discepolo la prese con sé». I due personaggi sembrano confidarsi reciprocamente il proprio dolore, sotto lo sguardo delle pie donne. A destra il centurione, circondato da nove ebrei – moltitudine agitata e vagamente inquieta – proclama l’innocenza di Gesù (Lc 23,47). In primo piano la Spartizione delle vesti (Lc 23,34) occupa molto spazio per essere un episodio secondario. Ma, evidentemente, il pittore si è divertito a rappresentare i suoi personaggi pittoreschi, uno dei quali è addirittura visto di spalle!

smo che può nascere dalla compassione. I volti di Giovanni e Maria sono scomparsi; quello di Cristo, come pure il corpo, è modellato mediante diverse tonalità intermedie fra l’ombra e la luce, il tutto avvolto da un colore caldo beige dorato, in piena armonia con lo sfondo d’oro che sembra riflettere. Un effetto analogo si nota nell’icona col busto dell’arcangelo Michele del Museo Bizantino di Atene (xiv secolo)45, ottenuto però grazie ad una tecnica diversa: quella dei piccoli tratti paralleli estremamente fini e chiari che coprono come le maglie di una rete le parti in risalto del viso e delle vesti. Egli regge il bastone e la sfera, immagine dell’Universo. Quest’ultima, perfettamente trasparente, consente di vedere al di là il mantello del messaggero celeste il cui volto, grave e sereno grazie alla stilizzazione dei tratti, non può essere pensato come esistente sulla terra [t. 18]. Più vicina all’affresco, l’icona dell’evangelista Giovanni del monastero di Chilandari (1360 ca.) appartiene all’iconostasi

città è ricca di alberi, rappresentati in filari, in maniera sistematica, come per ricordare i giardini dell’Eden e la Croce-Albero della Vita. Le due figure della Vergine e di san Giovanni ai lati del Crocifisso sono molto allungate. Quella di Maria, stretta nel maphòrion e di un’eccessiva esilità, si erge come una stele, emblema del dolore. Il pittore non cerca più di suggerire la serena maestà di colei che fu lo strumento dell’Incarnazione, né di mostrarci la madre radiosa e tenera che accarezza il suo bambino, bensì un essere nello stesso tempo sovrumano e prostrato dalla sofferenza. San Giovanni, desolato, appoggia la guancia sulla mano in un gesto tipico fin dal ix secolo, tuttavia è molto diverso da quanto si vedeva allora. Il suo corpo è stanco, come se non avesse più la forza di reggersi in piedi; lasciandosi cadere in avanti ripete il movimento del Crocifisso riprendendone la curva al livello delle anche e dell’addome. La corrispondenza fra le due figure, esteticamente eloquente, ritma la composizione ma indica certamente anche il mimeti-

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Se lo stile della rinascenza dei Paleologhi è influenzato, generalmente ma in maniera abbastanza diffusa, da quello della tarda Antichità, in alcune opere troviamo anche qualche particolare ripreso tale e quale, o quasi, da quella pittura. La cosa è molto più frequente nei dipinti murali, ma si riscontra anche in alcune icone, come dimostra quella dell’Annunciazione della chiesa della Peribleptos (oggi San Clemente) di Ohrid, realizzata certamente da un maestro metropolitano dell’inizio del xiv secolo48 [t. 19]. Si tratta non solo del prodotto di un’arte matura, ma il trono a baldacchino di Maria, riccamente decorato, presenta due rare particolarità: 1. l’artista rappresenta la faccia interna del baldacchino con delle travi a vista, come il soffitto di una stanza, secondo quanto si faceva normalmente nell’arte gotica, ma non a Bisanzio, e 2. mette due piccole cariatidi nude, sormontate da capitelli a forma di testa di leone, in cima alle colonnine che sostengono il baldacchino. Le cariatidi nude, come pure le teste di leone, sono frequenti nella pittura e nella scultura italiane del tempo49, che le deriva a sua volta dai bassorilievi greco-romani, mentre possiamo dire che a Bisanzio non se ne trovano esempi50 tranne che negli affreschi della chiesa rupestre di Crkvata ad Ivanovo, in Bulgaria51. Sempre in Bulgaria (Galleria dell’Arte Nazionale, Sofia) si trova l’icona bifronte di origine costantinopolitana che presenta, su una faccia, la Madre di Dio Katafygé, cioè rifugio, e san Giovanni Teologo; sull’altra, una Visione dei profeti52. La tavola venne donata dall’imperatrice Elena, moglie dell’imperatore Manuele ii Paleologo, al monastero bulgaro di Poganovo. Malgrado alcune argomentazioni a favore di Salonicco53, ci sembra più giusto attribuire l’icona alle botteghe imperiali di Costantinopoli54. L’opera, di puro stile paleologo, per le figure monumentali di san Giovanni e di Maria [t. 21] nelle quali la plasticità delle forme rimanda al xiii secolo, e per il finissimo modellato, sottolineato da vivaci lumeggiature – secondo l’uso del xiv

della chiesa principale46. L’evangelista, visto di tre quarti, sfoglia delicatamente il suo libro, lo sguardo perduto lontano. Il volto è appena modellato con tratti quasi bianchi sulle parti sporgenti, insoliti i colori saturi delle vesti, lilla per la tunica e verde per il mantello [t. 17]. Le tendenze narrative, molto forti nella pittura murale del tempo, sono assai meno evidenti nelle icone. Tuttavia un pezzo come la Crocifissione del monastero dell’isola di Patmos (Kathisma, xiv secolo)47 ce ne può dare un’idea [t. 20]. Qui le architetture dello sfondo rappresentano Gerusalemme ma in maniera «realistica» in confronto a quella della Crocifissione del Museo Bizantino di cui abbiamo già parlato. I personaggi sono quadruplicati. Giovanni è passato sulla sinistra e conversa con Maria, cosa rara, anche se non eccezionale. L’artista si ispira evidentemente al Vangelo di Giovanni (19,26-27) che riferisce le parole di Gesù inchiodato sulla croce: «Gesù vedendo sua

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A fronte: 20. Crocifissione, inizio del xv secolo, Kathisma, cattedrale dell’Annunciazione, Patmos.

Nelle pagine seguenti: 21-22. Icona bifronte: su un lato la Madre di Dio Katafygé e san Giovanni Teologo; sull’altro la visione dei profeti Ezechiele e Abacuc, dal monastero di Poganovo, Galleria Nazionale d’Arte, Sofia.

quello del miracolo di Latomos», possiamo essere certi di una cosa sola: l’autore dell’icona conosceva la leggenda riferita nella Diegesis del monaco Ignazio, i cui manoscritti appartengono al xii-xiii secolo60, e nella quale si parla del miracolo in questione. Si tratta del mosaico di Salonicco in cui il Cristo della Visione dei profeti avrebbe preso il posto della Vergine, rappresentata in un primo momento61. Il testo offre anche una descrizione abbastanza esatta dello scenario della Visione, ma non accenna ad alcuni elementi importanti, come i fiumi del Paradiso. E giustamente il nostro pittore non li rappresenta.

secolo – colpisce anche per la ricercata armonia cromatica, giocata sulle diverse tonalità di azzurro e sull’oro dello sfondo. La giustapposizione delle vesti blu su fondo oro è normale nel mosaico bizantino, ma tipica delle opere costantinopolitane del x-xii secolo come vediamo, per esempio, nei due mosaici votivi delle tribune di Santa Sofia (xi e xii secolo), alla Néa Moni di Chios (xi secolo)55, o ancora nelle chiese dei re normanni di Sicilia. Nel xiv secolo, a Kahrié Djami, gli azzurri sono decisamente più dolci56, come pure nella Deesis (xiii secolo) delle tribune di Santa Sofia57. Il blu profondo del maphòrion di Maria della nostra icona è ignoto alla pittura murale, e mi pare che non si trovi neppure nelle immagini mobili, almeno in quelle di dimensioni notevoli. Il rilievo dei volti è ottenuto con ombreggiature di un verde piuttosto uniforme, senza sfumature, e con piccoli tratti paralleli di un luminoso rosa tenero sulle parti in risalto. Le sopracciglia della Theotókos sono congiunte in un’unica linea secondo uno schema arcaico che incontriamo più spesso nell’xi-xii secolo ma che non scompare nel xiv, come dimostra l’icona in mosaico della Vergine col Bambino del Museo Bizantino di Atene (xiv secolo)58. Nel nostro caso i due volti di Maria e Giovanni sono profondamente tristi, ma più che un grande dolore esprimono una meditazione soffusa di melanconia. Se dovessimo riflettere su questo stato d’animo, si direbbe che le due figure, rivolte l’una verso l’altra come per parlarsi, potrebbero essere quelle di personaggi staccati da una Crocifissione del tipo di quella dell’icona di Patmos che ci mostra la madre e il discepolo dallo stesso lato della croce, ma a Bisanzio non si conosce nessun’altra rappresentazione simile. Sull’altra faccia dell’icona [t. 22] sta una maestosa rappresentazione di Cristo giovane, seduto sull’arcobaleno, al centro di una mandorla di diversi toni di azzurro, e sorretto dai quattro animali dell’Apocalisse (Ez 1,5-10; Ap 3,6-7). Ai suoi piedi si distende un ridente paesaggio con una terrazza di rocce ed un lago pescoso – certamente il fiume Khobar di cui parla Ezechiele (1,1) nel racconto della sua visione. Il profeta stesso, dal corpo robusto e i gesti vivaci, è rappresentato a sinistra, mentre sulla riva opposta sta seduto col suo libro aperto un giovane profeta la cui identificazione è incerta59. L’artista non si è limitato a rendere il fiume con un disegno più o meno schematico, come si faceva di solito. Qui l’acqua s’increspa formando delle onde grazie ad un abile uso dell’ombra e della luce indicate da finissimi tratti di diverse tonalità, così che si compenetrano fra loro. La composizione ricorda, in effetti, quella della Visione Teofanica dell’abside della chiesa di Cristo Latomos a Salonicco, come abbiamo già notato (cfr. nota 53); ma la somiglianza è vaga e, malgrado l’iscrizione «Gesù Cristo,

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Nel xv secolo gli artisti mantengono le innovazioni della rinascenza dei Paleologhi ma, entro questa cornice, si sviluppano anche alcune tendenze stilistiche particolari e, a volte, contrastanti. Così, l’immagine di santa Marina (xv secolo)62 del Museo Bizantino di Atene, una sinfonia di rosso e oro di una sonorità purissima, sorprende per la fattura assolutamente piatta e la voluta assenza di modellato. I tratti della santa (lungo naso sottile, bocca piccola) corrispondono alle regole dell’estetica bizantina tradizionale; tuttavia Marina non si presenta allo spettatore in posizione frontale, ma leggermente di tre quarti, per evitare una simmetria troppo rigida. Inoltre non ha più la testa piccola di un tempo, che presuppone una pettinatura semplice e liscia stretta sotto il maphòrion, ma una cuffia gonfia per l’abbondante capigliatura, segno di femminilità e di sensualità, anche quando, come nel caso della nostra icona, è avvolta in un tessuto.

Le icone in materiali preziosi e quelle d’ispirazione popolare Nel xiv secolo si fanno sempre più frequenti le immagini portatili con rivestimenti di metallo che coprono il fondo e, generalmente, anche le aureole dei personaggi. A Bisanzio l’icona in materiale prezioso è sempre esistita: nel x secolo è in avorio; nell’xi, quella dell’arcangelo Michele in San Marco a Venezia63 è d’argento dorato, arricchita da smalti e pietre preziose, come pure, nella stessa chiesa, la celebre Pala d’oro del xii secolo [tt. 23 e 24]. Infine, per il xiii e l’inizio del xiv secolo, possiamo citare l’icona del Pantocratore a mezzo busto del Museo di Ohrid64, i cui colori caldi creano un felicissimo effetto di contrasto con lo splendore freddo del fondo e del nimbo rivestiti di una foglia d’argento finemente lavorata. Qui sono presenti diverse tecniche: la cesellatura per la decorazione del fondo, la filigrana per i medaglioni del nimbo e della cornice, e lo sbalzo per i busti dei santi sulla cornice stessa.

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23. L’arcangelo Michele in piedi, icona in argento dorato, smalto e pietre preziose, Tesoro di San Marco, Venezia. A fronte: 24. L’ingresso a Gerusalemme, particolare della Pala d’Oro, Basilica di San Marco, Venezia.

Una delle più belle icone con il fondo e le aureole rivestiti di metallo argentato è quella dell’Odigitria col Bambino del Museo di Ohrid (xiv secolo)65, certamente di origine costantinopolitana [t. 34, pag. 128]. Il fondo e la cornice d’argento lavorato sono coperti da un motivo a palmette, il nimbo da racemi intrecciati. Gesù, tutto vestito d’oro, irradia una luce ancora più intensa perché è posto fra il maphòrion purpureo di Maria e il grigio azzurro del rivestimento dello sfondo. Un riflesso della tunica dorata del Bambino illumina il bordo del velo della madre. Quest’ultimo getta un’ombra trasparente sulla sua fronte e i suoi occhi, come a suggerire, con questo elemento «realistico» il mistero di Maria. Nel xiv secolo riscuote grande favore un altro genere di immagini portatili in cui si rivela il gusto dei Bizantini per il lusso: l’icona in mosaico. Probabilmente essa è sempre esistita, ma non ne abbiamo esemplari prima del xii secolo. Il Cristo a mezzo busto del Museo del Bargello a Firenze (xii secolo)66 è un’immagine molto spiritualizzata, priva di volume e di modellato, senza alcun movimento che ne possa attenuare la rigida frontalità [t. 25]. La Trasfigurazione del xiii secolo attualmente al Museo del Louvre67 evidenzia già l’impronta di alcune caratteristiche dello stile paleologo, benché la linea ritmica sia ancora sovrana [t. 9, pag 147]. Infine, i pannelli in mosaico del xiv secolo rivelano anche una tendenza all’ornamentazione, come dimostrano, fra le altre, le icone screziate di san Demetrio in piedi del Museo Civico di Sassoferrato (xiv secolo)68 e dell’Annunciazione del Victoria and Albert Museum della seconda metà del xiv secolo69 [tt. 41, pag. 181 e 26]. Queste opere, sparpagliate per l’Europa, sono tutte di origine costantinopolitana. Immagini mobili di ispirazione popolare sono certamente esistite a partire dal periodo posticonoclasta, ma sembrano moltiplicarsi nel xiv e xv secolo. Un bell’esempio è costituito dall’icona con la Deesis del monastero di Ba/kovo, in Bulgaria70, dipinta nel 1497. Il Cristo in trono, fra la Vergine e san Giovanni che intercedono per i peccati del genere umano, non appartiene ad un’arte ingenua o rozza (di cui conosciamo alcuni esempi in questo periodo), e neppure rivela una certa imperizia. Tuttavia i colori troppo violenti, addirittura chiassosi, i contrasti troppo forti soprattutto per quanto riguarda i volti e le mani scheletriche dei due intercessori, tradiscono le origini modeste e la formazione insufficiente del pittore. Rimane da esaminare un ultimo aspetto. Il lettore occidentale, abituato alle numerose scuole artistiche che si formano dapprima in Italia e più tardi anche nei diversi principati

tedeschi e in Francia, potrebbe chiedersi se anche a Bisanzio compaiono scuole e come i diversi centri di pittura d’icone influenzano lo stile. In realtà, solo le icone costantinopolitane e, a volte, quelle provenienti da Tessalonica possono essere contraddistinte per il loro stile. La differenza è a malapena formulabile e non sempre si riesce a cogliere, tuttavia la produzione costantinopolitana è maggiormente segnata da un classicismo severo, dalle forme essenziali. In Serbia e in Bulgaria non ci si può riferire ad alcun centro specifico e neppure pretendere che l’una o l’altra immagine mobile sia stata realizzata in uno di questi Paesi. Sono certamente esistite botteghe d’icone negli antichi regni serbo e bulgaro, come sul monte Athos e in Albania ma riusciamo a identificarle solo attraverso poche firme. Le botteghe di Cipro sono riconoscibili per le deboli influenze occidentali rilevabili occasionalmente dal xii-xiii secolo.

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A fronte: 25. Cristo Pantocratore, icona musiva, Museo del Bargello, Firenze. 26. Annunciazione, icona musiva, Victoria & Albert Museum, Londra.

icone destinate alle chiese e ai principi russi provengono da Costantinopoli e, all’inizio, furono importate dal principato di Kiev, mentre altre furono certamente dipinte da artisti locali. Tuttavia le immagini mobili della Russia meridionale sono andate perdute nel xiii secolo, in seguito all’invasione mongola. Tutte quelle giunte fino a noi provengono dal Nord della Russia, in particolare dalle città di Novgorod, Jaroslavl’, Pskov Vladimir, Suzdal’ o, ancora, Rostov. Le prime icone conservate risalgono alla fine dell’xi secolo, ma la scuola di Novgorod non è riconoscibile prima della fine del xiii. Una celebre tavola della Galleria Tret’jakov di Mosca è da considerare, a nostro parere, fra i grandi capolavori dell’estetica bizantina. Si tratta dell’icona bifronte del Mandylion o del Volto Santo (1130-1140)71. La reliquia taumaturgica del sacro Mandylion, in altre parole l’impronta lasciata dal volto di Cristo su un tessuto inviato al re di Edessa per guarirlo72, era considerata dagli iconoduli come un’indiscutibile giustificazione delle immagini religiose73. Dopo l’iconoclastia la storia del Mandylion fu inserita nel libro degli uffici dei santi (tà Menàia)74 e la sua festa venne fissata al 16 agosto. Per celebrarla erano però necessari testi appropriati, come il Canone del Mandylion75 e delle omelie76, ma anche le icone della santa reliquia, che non tardarono ad apparire a Costantinopoli e nella sua immediata sfera d’influenza (Balcani, Russia)77. Tuttavia a Edessa78 già nel vi secolo si celebrava un ufficio in onore della reliquia, e abbiamo motivo di credere che fin da allora nella periferia orientale del mondo bizantino esistessero immagini del Mandylion, come testimonia nella sua iscrizione un’icona georgiana del vii secolo79. L’immagine della reliquia racchiude un simbolismo polisemantico che varia a seconda della collocazione e delle rappresentazioni che l’accompagnano80, ma nelle icone essa rimanda soprattutto al mistero dell’Incarnazione. Nell’icona russa del Mandylion [t. 27], il Cristo ha occhi immensi che formano un tutto unico con le sopracciglia volutamente asimmetriche e fortemente sottolineate per aumentare l’espressività del volto. Il naso sottile, la bocca esangue così da apparire poco evidente, contribuiscono a dare a questo volto un non so che di strano, ed è proprio questo l’effetto che ci si propone di ottenere. Cristo, infatti, con l’Incarnazione si era fatto Uomo, ma non un uomo comune, visto che in lui coesistevano due nature. Dunque il pittore suggerisce questa doppia appartenenza, al cielo e alla terra, anche attraverso il contributo della straordinaria luminosità del colore. In realtà il rapporto fra l’incarnato dorato del volto, la capigliatura scura

Vedremo tra poco che in Russia dominano due scuole: quella di Novgorod, che si espande nella Russia settentrionale nelle città di Pskov, Tver’ e Jaroslavl’, e quella di Mosca. Infine, il capitolo che tratta delle icone nell’Oriente cristiano mostra che le icone copte e georgiane hanno caratteri specifici per quanto concerne il loro linguaggio plastico.

La Russia In questa sezione ci proponiamo di parlare delle icone russe il cui stile è diverso da quello di Costantinopoli e di altri centri balcanici, ma anche da quello delle immagini portatili dipinte da artisti greci che avevano ricevuto delle commissioni dalle chiese dei principati di questo immenso territorio. Le prime

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A fronte: 27. Mandylion o Volto Santo, recto dell’icona bifronte, Galleria Tret’jakov, Mosca.

Nelle pagine seguenti: 29. Annunciazione di Ustjug, Galleria Tret’jakov, Mosca. 30. Particolare della testa dell’angelo della Deesis angelica, Galleria Tret’jakov, Mosca.

28. La glorificazione della croce, verso dell’icona bifronte, Galleria Tret’jakov, Mosca.

ne parla (Ap 1,12-16), ma secondo noi il testo di Daniele è più importante perché lo descrive così: «La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente». Il pittore segue scrupolosamente il testo che conosce certamente attraverso i commenti e il sinassario della liturgia del 25 marzo, festa dell’Annunciazione. Egli ci mostra infatti l’Antico dei giorni vestito di bianco e seduto su un trono di cherubini incandescenti, circondato da serafini color del fuoco. Sul petto di Maria si vede il Bambino, dipinto tono su tono, come se lo indovinassimo nel suo seno. Così l’immagine mostra contemporaneamente l’Annunciazione e il Concepimento. La forma a mandorla degli occhi dell’arcangelo, la cui palpebra superiore si prolunga sulla tempia, il naso e la bocca ricordano quelli del Mandylion (cfr. supra) e dell’icona con l’arcangelo dai capelli d’oro, datata 1130-120086 e conservata al Museo Russo di San Pietroburgo [t. 26, pag 118]. Nell’icona dell’Annunciazione l’incarnato dei due personaggi è piuttosto scuro, e i colori delle vesti ne riprendono le tonalità variandole con sapienti gradazioni e con lumeggiature dorate (l’arcangelo). Tale scelta cromatica dà straordinario risalto al fondo d’oro che si estende anche alla cornice. Così, la luce divina risplende in maniera particolare, permettendo al fedele in preghiera di perdervisi e di esserne a sua volta inondato. L’icona dell’Annunciazione è stata datata al 1130-1140 ed alcuni elementi, come le pieghe dei panneggi, il trattamento grafico delle ali dell’arcangelo e dei volti, renderebbero plausibile questa datazione. Tuttavia è difficile immaginare una tale monumentalità e, soprattutto, volumetria delle figure prima del xiii secolo, anche se in Russia l’aspetto monumentale dei personaggi caratterizza anche altre icone del xii secolo, in particolare quelle di san Giorgio in piedi e a mezzo busto87. Il plasticismo delle figure (vedi la coscia destra dell’arcangelo) non si riscontra altrove in questo periodo. Ma c’è anche un’altra riserva: quest’icona è stata considerata da V. Lazarev come realizzata a Novgorod, e l’argomento a favore di tale ipotesi è il fatto che il suo trasferimento dal monastero di San Giorgio di Novgorod a Mosca, voluto da Ivan il Terribile, è ricordato nella cronaca Rozysk Dyaka Viskovatogo88. Ma il fatto ebbe luogo nel xvi secolo, di conseguenza non prova quasi nulla. Infine, l’affinità evidente fra i tratti dell’icona di Ustjug e quelli delle due sopra citate e datate al 1130-1200 (e che sembrano appartenere anch’esse al xiii secolo), giustifica a sua volta una datazione della nostra immagine portatile verso il 1200-1220.

e spruzzata d’oro, il nimbo giallo chiaro e bianco e lo sfondo dorato è tale che il Cristo appare come una sorgente di luce, secondo la definizione dei Padri della Chiesa. Un contemporaneo, Simeone il Nuovo teologo († 1122), parla anch’egli di «Cristo luce del mondo»81, ed è certamente questo il concetto che l’artista ha inteso tradurre in immagine. La combinazione oro-giallo chiaro-bianco è quella che produce il più intenso splendore; per questo veniva già usata, sia pure in maniera molto più discreta, negli sfondi d’oro dei mosaici ravennati. A proposito della luce che sembra emanare da Cristo nell’icona del Mandylion, bisogna sapere che, nel corso dell’ufficio del 16 agosto, alcuni testi liturgici stabiliscono un parallelo fra la luce della Trasfigurazione sul Monte Tabor e il Santo Volto: «Caddero a terra [...] vedendo il Signore rivelare l’alba dello splendore divino [...] ora siamo noi che ci prostriamo davanti al Santo Volto che splende più del sole»82. Si pensa che l’icona del Mandylion sveli ai fedeli quello che gli apostoli hanno contemplato durante la Trasfigurazione, e il nostro pittore si è certo ispirato all’idea della carne trasfigurata, illuminata dalla grazia, secondo quanto dice san Paolo proprio a proposito della Trasfigurazione83. Nessun documento attesta l’origine di questa sorprendente immagine che, secondo gli autori russi, sarebbe stata realizzata nel principato di Vladimir-Suzdal’. Considerata la sua eccezionale qualità, pensiamo che sia molto più probabile che essa sia stata eseguita a Costantinopoli, anziché in territorio russo. Sull’altra faccia, dipinta in un secondo momento, compare un tema di origine siro-palestinese: la Glorificazione della Croce84 [t. 28]. Due angeli stanno ai lati di una croce che porta la corona di spine ed è piantata sulla collina del Golgota col cranio di Adamo, mentre sopra di essa volano dei serafini e dei cherubini. Lo sfondo è bianco sporco e indica forse il Paradiso, come viene dipinto nell’episodio che lo rappresenta nel Giudizio finale. L’autore potrebbe essere originario di Novgorod, perché lo stile ricorda vagamente quello degli affreschi della chiesa di Neredica (1199). Nell’icona dell’Annunciazione di Ustjug della Galleria Tret’jakov, vediamo l’arcangelo Gabriele mentre porta il lieto annunzio a Maria che lo accoglie con un gesto della mano destra piegata sul petto85, e quindi riceve lo Spirito Santo che, dall’alto dei cieli, scende sotto forma di un raggio dorato (non visibile nelle riproduzioni), inviato dall’Antico dei giorni [t. 29]. Quest’ultimo corrisponde alla visione di Daniele (7,9-10) interpretata dagli esegeti cristiani come Dio Padre rappresentato coi lineamenti del Figlio. Anche l’Apocalisse di Giovanni

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A fronte: 31. Madre di Dio, Grande Panagia, da Jaroslavl’, Galleria Tret’jakov, Mosca. 32. Dormizione della Vergine, Galleria Tret’jakov, Mosca.

domina nei panneggi della Vergine, assolutamente disordinati e privi di qualsiasi ritmo). La Theotókos è rappresentata in atteggiamento orante ed ha sul petto il Bambino a mezzo busto entro un’aureola circolare, il che la avvicina ad un’icona miracolosa, palladio dell’Impero, custodita a Costantinopoli nella chiesa delle Blacherne92. Questo non è tuttavia un motivo sufficiente per attribuirla alla capitale bizantina dal momento che, comunque, era normale che si copiassero modelli costantinopolitani. Queste due immagini mobili, alte oltre due metri, hanno, come l’Annunciazione di Ustjug, dimensioni insolite a Bisanzio, e si pensa che servissero a decorare i pilastri orientali in chiese di legno o muratura che non erano ornate da affreschi (o lo erano solo parzialmente). Se le opere del xii secolo della regione di Rostov-Suzdal’, detta anche Vladimir-Suzdal’, presentano, malgrado la maestà del loro aspetto, qualche imperfezione, altre, datate al xiii secolo, sono esteticamente elaborate e rivelatrici di un clima particolare. È il caso, per esempio, della piccola icona del Cristo coi capelli d’oro93, dallo sguardo velato o parzialmente nascosto dall’ombra delle orbite, dai capelli splendenti che ne inquadrano il volto dal quale sembrano ricevere luce. Uno strano nimbo verde scuro costellato, come le vesti, di medaglioni d’oro, accentua ancora il lume dorato che si diffonde su questo volto, e le rare imperfezioni del disegno (naso troppo piccolo) nulla tolgono all’emozione che esso ci comunica. L’icona bifronte della Dormizione della Vergine, datata al secolo e conservata alla Galleria Tret’jakov, è attribuita alla scuola di Novgorod, destinata ad un brillante avvenire nel secolo seguente94. Si tratta di un pezzo di alta qualità, caratterizzato da una cromia un po’ troppo vivace e da forme appiattite dal contorno scuro e tagliente, che già preannuncia la straordinaria gioia di vivere tipica della scuola di Novgorod fra il 1250 e il 1450 circa [t. 32]. La tavolozza è ancora un po’ dura, i volti degli apostoli sono dello stesso colore del tessuto che copre il letto funebre, e si nota qualche errore di disegno (per esempio gli occhi del Cristo, visto di fronte, sono uno più alto dell’altro). L’immagine sul rovescio dell’icona conferma l’attribuzione ad un pittore russo il quale, infatti, vi colloca alcuni santi che a Bisanzio non sarebbero mai stati raffigurati assieme, cioè Pietro e Natalia, la cui presenza si spiega solo col nome dei donatori. Una mano diversa ha realizzato questo dipinto nel quale il linearismo dello stile è stato soppiantato da un trattamento più pittorico della forma, modellata servendosi di macchie di colore.

Le tonalità spente caratterizzano una delle più belle teste d’angelo del repertorio della pittura bizantina, dipinta sul lato destro di un pannello col Cristo Emanuele e un altro angelo [t. 30]. Si tratta di una parte di epistilio che decorava l’architrave di un’iconostasi. Il pannello è stato datato alla fine del xii secolo89. Quest’angelo dagli occhi immensi sembra animato da un’intensa vita interiore e il suo volto esprime un’insolita malinconia.

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Se l’origine delle tre icone citate ci sembra per lo meno incerta, sono certamente russe quella della grande Panagia della Galleria Tret’jakov (1224 ca.) proveniente da Jaroslavl’90 [t. 31] e quella di san Demetrio in trono (fine del xii secolo)91 assegnata alla regione di Rostov-Suzdal’, entrambe dipinte a tempera d’uovo. In esse notiamo un linguaggio plastico semplificato, una propensione per le formule bell’e pronte e un certo schematismo (vedi i volti dai tratti duramente sottolineati, dalla simmetria pesante; o la totale mancanza di volume del san Demetrio e la confusione che

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33. San Giovanni Climaco con i santi Giorgio e Biagio, Museo Russo, San Pietroburgo. A fronte: 34. San Giorgio a cavallo con scene della vita, Museo Russo, San Pietroburgo.

Sappiamo dagli archivi che a Novgorod sono state importate moltissime icone bizantine, e che le relazioni fra il principato e Costantinopoli erano strettissime grazie al vescovo filogreco Nifone. Dal canto suo, l’imperatore Manuele Comneno visitò la città nel 1186, visita che venne restituita dal futuro arcivescovo Antonio (Antonij) verso la fine del secolo. Tuttavia, qualunque sia stata l’importanza di tali contatti, essi furono meno decisivi di altri fatti riferiti dalle cronache. Fonti scritte affermano, per esempio, che un’intera strada di Costantinopoli era occupata da traduttori e copisti di Novgorod, e inoltre che, fra il 1193 ed il 1229, il partito filogreco fu particolarmente attivo nel principato russo. Tuttavia la penetrazione della cultura bizantina non si deve solo ai legami con Costantinopoli e il suo patrimonio culturale, ma anche agli stretti rapporti fra Novgorod e Kiev che, per prima, accolse alcuni pittori costantinopolitani incaricati di decorare le grandi chiese costruite nel x-xi secolo, e che rimase a lungo un centro di cultura greca. Tutti questi fatti ci danno informazioni sui modelli ispiratori e le prime esperienze dei pittori di Novgorod, ma non sulla fioritura di uno stile originale nel xiv secolo. La situazione geografica di Novgorod favoriva la molteplicità dei contatti e la vivacità dello spirito. La città stessa, malgrado la sua posizione decentrata nell’estremo Nord, è tutto tranne un luogo isolato. È infatti da questa regione che passava la grande via che collegava la Scandinavia con Costantinopoli; d’altra parte, questo territorio era circondato da una rete di laghi profondi e di fiumi navigabili che sfociavano in quattro mari: il Baltico, il Mar Bianco, il Caspio ed il Mar Nero. Il commercio col Nord, con Costantinopoli, con gli Arabi e con l’Occidente era molto fiorente, e la molteplicità dei contatti influenzò il gusto degli abitanti di Novgorod rendendoli anche, probabilmente, più indipendenti da Bisanzio sul piano estetico. A parte i contadini, gli artigiani e i signori, la società di Novgorod era formata da ricchi mercanti e navigatori. I principali committenti di icone erano i signori e i mercanti, e la domanda si fece così forte che gli atelier della Chiesa e della corte non riuscivano più a soddisfarla. A partire dal xiii secolo interi quartieri furono occupati da pittori, riuniti in corporazioni come in Occidente, cosa non comune nel mondo ortodosso di allora. Probabilmente non è estraneo alla nascita del nuovo stile neppure un fattore politico: i Mongoli, che devastarono la Russia nel xiii secolo, anche se non invasero il principato, di fatto interruppero la strada fra Kiev e Costantinopoli. Venne così a crearsi una frattura che

consentì ai pittori di trovare la propria identità volgendosi verso il folclore locale pur restando, essenzialmente, discepoli di Bisanzio. L’icona di san Giovanni Climaco accompagnato dai santi Giorgio e Biagio del Museo Russo di San Pietroburgo (xiii secolo)95, presenta già tutte le caratteristiche, o quasi, della scuola di Novgorod [t. 33]. La prevalenza del rosso cinabro ravvivato di bianco, le figure così piatte da sembrare dei collages, una certa ingenuità nella concezione dell’insieme (vedi la diversità nelle dimensioni dei personaggi) sono tutte caratteristiche da attribuire non allo stile della pittura di Novgorod in generale, ma solo a quello della pittura d’icone di questa e di altre città dei suoi dintorni96.

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35. I santi Biagio e Spiridione con il gregge, Museo storico, Mosca.

36. Deesis e cittadini di Novgorod in preghiera, Museo storico, Novgorod.

37. Il miracolo dei santi Floro e Lauro, Galleria Tret’jakov, Mosca.

altre, un’onnipresenza del mondo rurale e un vivissimo interesse per la natura [t. 35]. I santi protettori degli armenti sono seduti uno di fronte all’altro, mentre i loro animali dai colori vivaci, che avrebbero fatto la felicità di Matisse nel xx secolo, si dispongono sotto i loro piedi. Cristo benedice dall’alto del cielo. La composizione è ricercata, la scelta e la disposizione dei colori – caldi e in una gamma di tonalità limitate, come sempre a Novgorod – creano una gioiosa armonia, molto diversa dall’atmosfera grave e perfino severa delle icone bizantine. Queste caratteristiche sono presenti anche nel secolo successivo, quando però le forme si fanno più raffinate ed una nuova eleganza si rivela nell’allungarsi dei corpi e nella scioltezza di gesti. Lo vediamo nell’icona della Deesis del Museo Storico di Novgorod (1467) che presenta, nella parte superiore, la preghiera d’intercessione e, nella metà inferiore, i donatori della stessa grandezza dei personaggi sacri!99. I loro nomi sono indicati da un’iscrizione, mentre le vesti ne rivelano il rango sociale, senza dubbio quello di mercanti [t. 36]. Un’icona di questo genere, che dà la stessa importanza ai personaggi sacri e agli uomini, sarebbe impensabile a Bisanzio. Essa è una testimonianza sia della pietà sia della fierezza dei committenti, pienamente coscienti del proprio valore come individui. Ormai padroni dei mezzi espressivi, gli artisti introducono temi nuovi, a volte difficili da rappresentare in uno spazio relativamente modesto. Tuttavia ci riescono benissimo in una scena ardua come la Vittoria di Novgorod contro Suzdal’, ottenuta grazie alla protezione dell’icona miracolosa della Vergine del Segno (Museo di architettura e di storia di Novgorod)100. Qui gli edifici sono tipicamente russi, con cupole a bulbo di cipolla; lo sfondo bianco dà risalto alle sagome dei cavalli – eleganti e preziose come in un dipinto gotico – e le bandiere sbattono al vento mentre l’icona della Vergine, come uno scudo, rimanda le frecce destinate ai Novgorodiani sui loro nemici.

Più equilibrata, e tuttavia ingenua come un racconto di fate, l’icona con san Giorgio a cavallo del Museo Russo di San Pietroburgo (xiv secolo)97 presenta le stesse particolarità stilistiche della precedente [t. 34]. Il santo ha miracolosamente domato il drago, simbolo del male, che minacciava la città di Lasja e la sua principessa. È lei che ora tiene il mostro al guinzaglio, mentre la famiglia reale assiste alla scena. I volti sono piuttosto lontani dalla nobiltà e dalla spiritualità dei lineamenti della pittura bizantina, e i tratti della principessa sembrano piuttosto quelli di una contadina o di una mercantessa.

Vogliamo chiudere questa rassegna delle icone di Novgorod con un’immagine originale dal punto di vista sia iconografico che stilistico: quella dei santi Lauro e Floro, protettori dei cavalli, della Galleria Tret’jakov (fine del xv secolo)101 [t. 37]. Lo schema iconografico, ignoto nei Balcani e tipico della scuola di Novgorod, comprende tre registri: in alto, i due santi in preghiera accanto all’arcangelo Michele che tiene le briglie di due cavalli affrontati, posti nel registro mediano. Più in basso, dei mandriani in sella guidano dei cavalli che, abbeverandosi, camminano nell’acqua. I colori dominanti nelle figure sono il

Alcune icone della fine del xiv secolo dimostrano la raggiunta maturità di questo linguaggio (originale, diretto, di una freschezza e gaiezza che derivano certamente dalla concezione della vita ottimista, positiva e semplice, propria degli abitanti di Novgorod). L’icona di san Biagio e san Spiridione del Museo Storico di Mosca (fine del xiv secolo)98 rivela, assieme ad

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costantinopolitana la cui tendenza alla meditazione raccolta e all’approfondimento del pensiero teologico viene sostituita da una concezione del mondo ingenua, simile ad un racconto incantato. Questo atteggiamento, lo ribadiamo ancora una volta, non riguarda però né gli affreschi di Novgorod e del suo territorio, del resto realizzati almeno in parte da un pittore costantinopolitano, Teofane il Greco102, né quelli di Pskov (monastero di Snetogorsk o Snetogory, 1313), di chiara ispirazione mistica, che si collocano, assieme a quelli di Volotovo, fra le opere all’avanguardia della pittura dei Paleologhi. Questi affreschi nascono da altre correnti – monastiche e mistiche – che non hanno nulla a che fare col folclore locale.

rosso, il bianco e diverse tonalità di marrone, che spiccano con forza su uno sfondo giallo della massima intensità luminosa. Uomini e animali sembrano toccati dalla grazia, tanto le loro forme e i movimenti si armonizzano creando una composizione perfettamente equilibrata che, malgrado sia tanto sapiente, non tradisce la minima pedanteria e neppure l’ombra del calcolo. Così, l’arcangelo centrale (in alto), non è posto sulla linea mediana, ma leggermente spostato verso destra; e la deviazione rispetto all’asse è compensata da due alberi neri, ridotti a motivi decorativi, a sinistra. In basso, in primo piano, i due gruppi di cavalli non hanno lo stesso numero di animali, il che rende più vivace tutto l’insieme. Infine, i mandriani con le fruste alzate e ondeggianti sono disposti in modo da collegare i due cavalli al centro del campo pittorico con quelli del bordo inferiore, che sguazzano nel corso d’acqua. Quest’opera, come avviene in generale per lo stile di Novgorod, è un’interpretazione gioiosa ed irruente dell’arte

Le cose cambieranno completamente nelle icone della scuola di Mosca databili al xiv-xv secolo, anche se vi riscontreremo numerosi elementi derivati dalla pittura del Nord della Russia, regione con la quale vi erano rapporti strettissimi. La scuola na-

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A fronte: 38. I santi Boris e Gleb con scene della vita, da Kolomna, Galleria Tret’jakov, Mosca.

Nelle pagine seguenti: 40-44. Andrej Rublëv e aiuti, Deesis: Cristo in maestà entro un’aureola di cherubini, la Madre di Dio e san Giovanni Battista, gli apostoli Pietro e Paolo, icone monumentali dalla cattedrale della Dormizione di Vladimir, Galleria Tret’jakov, Mosca e Museo Russo, San Pietroburgo.

39. Crocifissione, Museo d’arte russa antica A. Rublëv, Mosca.

è spesso mischiato al bruno. Un altro elemento comune alle due scuole è la forma piatta, quasi ridotta a una superficie, ritagliata e modellata dal contorno. Ma mentre a Novgorod questa forma è compatta, sebbene priva di volume, a Mosca è spesso evanescente, e tende a fondersi con l’ambiente. Gli artisti moscoviti adottano poi, ancor più che a Novgorod, una cornice particolarmente larga per le icone agiografiche, così che le scene della Vita del santo che vi sono inserite assumono un insolito risalto e riducono il campo riservato al santo stesso. Altri caratteri delle due scuole sono invece contrapposti. Così, a Mosca, una tavolozza fatta di sfumature e dove le tonalità sono il frutto di sapienti miscugli prende il posto dei colori decisi, accostati con lo scopo di creare violenti contrasti, tipici della scuola di Novgorod. Quanto ai volti, si adotta una tecnica particolare, detta in russo «plav», che consiste in una delicata fusione di diverse tonalità appena differenziate e che sembrano riprodurre l’ombra e la luce senza ricorrere a toni molto variati; quindi, i volti sono privi di volume quasi quanto i corpi. Tutte queste caratteristiche sono presenti nell’icona dei principi martiri Boris e Gleb della Galleria Tret’jakov104, realizzata nel secondo quarto del xiv secolo [t. 38]. I due santi, rappresentati in piedi, fianco a fianco e circondati dalle scene della loro vita, hanno fisionomie dai tratti nobili e individualizzati che, pur senza esserlo, si avvicinano a dei ritratti105. ta a Mosca fiorì anche nelle grandi città vicine, come Vladimir, Suzdal’ e Rostov103, oltre che nei monasteri. Il xiv e il xv secolo sono caratterizzati, in Russia e, in particolare in Moscovia, da una ripresa dell’esicasmo – dottrina e, al tempo stesso, pratica mistica – che in un primo tempo era stato diffuso dai monaci atoniti e, dal 1351, era stato adottato dalla Chiesa ortodossa. Parallelamente, il monachesimo russo conobbe una vera fioritura a partire dalla seconda metà del xiv secolo. Figura tipica della spiritualità russa dell’epoca fu l’eremita, divenuto santo, Sergio di Radonez, che coi suoi ideali ed il suo insegnamento influenzò anche Andrej Rublëv. Sarebbe troppo lungo descrivere qui le caratteristiche del monachesimo e della spiritualità russa di questo periodo; ricordiamo solo che uno dei tratti più sorprendenti fu l’esaltazione dell’amore e della carità.

Alcune icone moscovite sono particolarmente vicine all’arte costantinopolitana, come quella della Crocifissione del Museo Andrej Rublëv a Mosca (xiv secolo)106, la cui origine russa è tuttavia evidente e si nota, fra l’altro, nella semplificazione del modellato, nella scelta dei colori, nell’atteggiamento fortemente proteso in avanti e nel corpo massiccio di san Giovanni [t. 39]. L’altezza dell’iconostasi russa, ed il fatto che sia occupata quasi per intero da immense figure che tutte insieme formano una Deesis, ha prodotto icone di tre metri, nelle quali i personaggi sacri sono ridotti a semplici sagome. Nessun’ombra e, spesso, nessuna luce ne modellano le forme, come è particolarmente evidente nell’icona realizzata nel 1408 dal grande pittore dell’inizio del xv secolo Andrej Rublëv, che rappresenta il Cristo in maestà entro un’aureola di cherubini. L’icona, attualmente alla Galleria Tret’jakov, era destinata alla recinzione del coro della cattedrale della Dormizione di Vladimir107 [tt. 40-44]. Qui il Cristo appare vestito di una tunica fra il giallo e il beige ma che vuole apparire dorata; è iscritto in una losanga rossa, circondato da un’aureola verde scuro piena di cherubini

Le prime icone moscovite giunte fino a noi sono dell’inizio del xiv secolo, ma il loro stile si preciserà solo alcuni decenni più tardi. Il colore, meno vivace, si avvicina però a quello della scuola di Novgorod nella predilezione per il rosso e il bianco, ma il bianco è addolcito da un’idea di beige mentre il rosso

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45. Andrej Rublëv, Salvatore tra le Potenze, Galleria Tret’jakov, Mosca. A fronte: 46. Andrej Rublëv, L’Ospitalità di Abramo, o Trinità, Galleria Tret’jakov, Mosca.

il cui disegno appare relativamente sfumato, tanto che più che distinguerli uno per uno li si indovina. I piedi del Signore poggiano su ruote alate, un ordine angelico secondo Dionigi l’Areopagita, ricordate nella Visione di Ezechiele (1,15-18). Egli ha in mano il libro aperto e benedice. L’aureola verde coi cherubini spicca su un riquadro fiammeggiante, agli angoli del quale stanno i quattro animali che Ezechiele vide (1,5-10) e che anche l’Apocalisse di Giovanni ricorda (Ap 4,7), rappresentati tono su tono e appena visibili nelle riproduzioni. Si tratta di una Visione Teofanica secondo i profeti, e in particolare secondo Ezechiele che dice: «Io guardavo: ecco avanzare... e un turbinio di fuoco, che emanava splendore all’intorno; nel suo centro si scorgeva come un globo di elettro»; e più avanti (Ez 1,26-27) parla di un trono di zaffiro e di una forma umana circondata di fuoco. Il monaco profondamente mistico Andrej Rublëv s’identifica qui col profeta e dipinge la propria visione di Dio, ispirata al testo sacro. Accetta una scommessa audace rinunciando a servirsi dell’oro e rifiutando i normali modi d’indicare la luce sulle parti sporgenti del viso e del corpo. Tale rifiuto lo mette di fronte ad una maggiore difficoltà: rappresentare un Cristo luminoso senza illuminazione particolare. Tuttavia fa la sua scelta sperando, probabilmente, di rendere l’immagine aerea, ineffabile, il più possibile immateriale. Quindi il colore è fortemente diluito e quasi illuminato dall’interno. I contorni del trono e del gradino, che nella descrizione di Ezechiele (1,26) sono in pietra e zaffiro, sono iscritti entro l’aureola verde scuro la cui parte superiore è affollata di cherubini. Trono e gradino sono completamente trasparenti, visibili solo attraverso alcune linee chiare, forse per indicarne il valore minore in quanto oggetti che non fanno parte del mondo delle essenze, o per non appesantire l’insieme della composizione.

Trinità, costruita da san Sergio di Radonez, bruciata dai Tartari e ricostruita, sempre in legno, nel 1411. Più tardi nello stesso punto venne costruita una chiesa in pietra, anch’essa intitolata alla Trinità. Come ha già ricordato N.V. Lazarev, alla fine del xiv secolo il dogma trinitario era diventato di scottante attualità perché negato dall’eresia degli strigolniki, che avevano il loro centro a Novgorod. A Bisanzio la Trinità era generalmente rappresentata con la Filossenia od Ospitalità di Abramo (Gen 8,1-33)110; solo che al posto dei tre uomini di cui parla il testo veterotestamentario vengono rappresentati tre angeli, soli o in compagnia di Abramo e Sara. Rublëv ha voluto evitare ogni elemento aneddotico e mostra perciò solo tre angeli seduti attorno alla tavola del banchetto [t. 46]. Essi sono, come voleva l’estetica bizantina tradizionale, senza spessore, immobili ed impassibili. L’inclinazione delle teste, il movimento dei piedi e delle mani creano un sottile legame fra loro e li collocano entro un cerchio immaginario. In questo modo essi formano un’unica figura composta di tre personaggi, come è appunto il caso della Trinità, tuttavia non comunicano tra loro. Silenziosi, lo sguardo perso in un’indefinita lontananza, sono immersi in una profonda meditazione il cui oggetto è, forse, il mistero

Qualche anno dopo, nel 1410-1415, Rublëv riprende lo stesso schema iconografico in modo più convenzionale (Galleria Tret’jakov, t. 45)108. Questa volta il Cristo è vestito d’oro, il suo volto illuminato da tocchi di luce, i cherubini sono ben visibili mentre il trono e il gradino sono di legno. L’insieme ha la lucentezza e lo splendore dello smalto e rappresenta una visione gloriosa di Cristo Dio onnipotente, ma l’aspetto ineffabile ed etereo è scomparso, e con lui l’impressione di accostarci ad un mondo che ci si svela solo a metà, come nell’icona del 1408. L’opera più importante di Andrej Rublëv è l’icona della Trinità (1411) oggi alla Galleria Tret’jakov109. Si pensa che essa sia da mettere in relazione con la chiesa in legno dedicata alla

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LA PERIFERIA ORIENTALE DEL MONDO BIZANTINO Tania Velmans

questi volti. L’insieme è un ritorno alle sorgenti e, al tempo stesso, una novità; si tratta infatti di un’espressione purissima dei principi fondamentali dell’estetica bizantina, parzialmente abbandonati dalla pittura contemporanea dei Paleologhi. L’elemento estraneo a questa estetica è il lirismo venato di malinconia che l’immagine esprime ma che troviamo anche, eccezionalmente nello stesso periodo, negli affreschi della scuola della Moravia, in Jugoslavia, in particolare a Manasija (Resava) e Kaleni0. L’icona è pervasa anche da una sorta di dolcezza, ignota fin qui al mondo bizantino, che ricorda in qualche misura il gotico italiano, fiorito molto tempo prima. Tuttavia queste particolarità non faranno scuola; Rublëv avrà degli allievi ma non dei continuatori, anche se influenzerà i pittori russi delle future generazioni.

eucaristico. I gesti degli angeli indicano infatti il centro della tavola e il calice nel quale è la testa di un vitello. Ora, il vitello dell’Antico Testamento è considerato dai commentatori cristiani una prefigurazione dell’agnello immolato, in altre parole dell’Eucaristia. All’armonia delle linee che definiscono le tre figure corrisponde una raffinata armonia fra i colori caldi delle ali, delle tuniche e dei mantelli nella parte sinistra dell’immagine, e gli azzurri freddi, accompagnati dal verde tenero nella destra. Al centro, la superficie bianca della tavola, alla quale gli angeli appoggiano le ginocchia e le mani, crea una sorta di saldatura materiale fra i personaggi, già indissolubilmente uniti dai loro movimenti che descrivono un cerchio. Infine i lineamenti, appena indicati e di una finezza estrema, caratterizzano

cioè in epoca post-bizantina, quando si afferma il grande maestro di questa categoria di opere, Fre Seyon (1445-1480)7.

Eccezion fatta per la Georgia, sembra che le regioni della periferia orientale del mondo bizantino non abbiano avuto grande interesse per l’icona. Così in Egitto, Siria, Palestina e Armenia, le icone di epoca bizantina sono quasi introvabili, un fatto che, probabilmente, è da mettere in rapporto col disinteresse dimostrato dall’Oriente nei confronti della questione iconoclasta e, di conseguenza, delle teorie degli iconoduli che avevano sacralizzato l’icona considerandola intrisa di emanazioni (energie) della persona rappresentata1. Inoltre il culto delle icone, così com’era praticato a Bisanzio, era forse in contrasto con le credenze dell’eresia monofisita 2 seguita in alcuni dei Paesi che abbiamo ricordato. È infatti difficile conciliare l’idea di un Cristo divino e solo divino con una rappresentazione figurata e col culto di un’immagine. Probabilmente si è verificata una convergenza di entrambi questi fattori. È comunque significativo il fatto che la Georgia – dove le icone sono numerose – sia stata monofisita solo per un secolo e sia poi rientrata in seno all’ortodossia aderendo alle tesi del Concilio di Calcedonia3.

Una delle icone palestinesi trovate nel monastero di Santa Caterina del Sinai è quella con l’Apparizione di Cristo alle Marie, chiamata da K. Weitzmann «Chàirete» e datata al vii secolo8, una parte della quale è andata perduta. Vi si vedono tuttavia il Cristo in piedi davanti a due donne, una delle quali è la Vergine, riconoscibile dalla sigla greca che l’accompagna. A giudicare dallo stile, deve essere stato realizzato in Palestina anche un altro frammento d’icona del Monte Sinai, forse del vi secolo, in cui si vede una parte della scena dell’Ascensione9, mentre un terzo, dell’viii-ix secolo e sempre del Monte Sinai, nel quale è rappresentata la Crocifissione, proviene, come indica lo schema iconografico, da Gerusalemme10 [t. 2]. Al centro è il Cristo morto ma dipinto con un corpo rigido e diritto che sembra addossato alla croce senza la minima traccia di dolore fisico. Accanto a lui stanno i due ladroni (se ne vede uno solo) con le braccia legate dietro la croce, la Vergine e san Giovanni, mentre ai suoi piedi ha luogo la Spartizione delle vesti. In quest’icona, realizzata dopo la crisi iconoclasta, si ammette la morte di Cristo come logica conseguenza dell’Incarnazione, cosa che non accadeva in precedenza. Tuttavia il cristiano non accettava ancora l’idea che il Cristo, uomo e Dio, avesse realmente sofferto sulla croce.

Due icone provenienti dall’Egitto copto sono particolarmente preziose perché risalgono ad un’epoca molto antica: si tratta di quelle del vescovo Abraham e del Cristo che protegge san Mena, entrambe del vi-vii secolo. Nella prima, conservata agli Staatliche Museen di Berlino4, il personaggio appare a mezzo busto, in posizione frontale e con un Vangelo fra le mani [t. 66]. Un’iscrizione greca lo indica come il vescovo Abramo. Il volto, praticamente a due dimensioni, è fortemente schematizzato e tradisce qualche reminiscenza dei ritratti precristiani, come quelli che sono stati ritrovati su alcune mummie o nelle tombe del Fayum.

In Palestina, nel regno latino di Gerusalemme, sono state dipinte successivamente altre icone di stile misto che testimoniano una felice simbiosi fra la tradizione romanica o gotica e quella di Bisanzio; ma esse costituiscono un gruppo a parte che non ha posto in questo libro.

Un po’ meno astratta, la seconda, conservata al museo del Louvre5, rappresenta due figure massicce, in piedi, viste di fronte, le cui teste troppo grandi sono assolutamente sproporzionate rispetto al corpo. Il Cristo, che posa affettuosamente la mano destra sulla spalla di san Mena abbracciandolo, regge un grosso libro riccamente decorato, probabilmente il Vangelo. Malgrado le pose rigide, quest’icona sprigiona una certa dolcezza che nasce dall’espressione del volto di Cristo e dall’armonia dei colori usati dal pittore, in particolare dalla giustapposizione del fondo rosa-arancio e del giallo dorato delle aureole. Le due immagini mobili sono dipinte a tempera su legno e provengono dal monastero di Sant’Apollo di Bawit6.

Le icone georgiane in metallo e smalto Le icone della Georgia si distinguono da quelle degli altri Paesi ortodossi tanto per la tecnica quanto per il materiale usato e, in molti casi, per lo stile. Si tratta di opere in metallo lavorate a sbalzo, cesellate o smaltate. In questa regione l’oreficeria e la tecnica dello smalto sono state usate fin da epoca molto antica: la prima è nota attraverso oggetti del secondo millennio a.C.11, mentre la seconda compare nel ii-iii secolo. Per tutto il Medioevo i Georgiani si sono distinti in queste tecniche, dimostrando, fra l’altro, una certa originalità nella composizione chimica degli smalti12 per i quali preferivano la tecnica del cloisonné13, la più complessa da realizzare.

Non parleremo delle icone dell’Etiopia perché, a quanto pare, non compaiono prima della seconda metà del xv secolo,

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A fronte: 1. Il vescovo Apa Abraham, Museum für Spätantike und Byzantinische Kunst, Berlino. 2. Crocifissione, da Gerusalemme, monastero di Santa Caterina del Sinai.

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A fronte: 3. Deesis, trittico di Martvili, smalto e argento dorato, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi. 4. Madre di Dio Odigitria, oro e argento dorato, smalti e pietre preziose, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi.

Dio del tipo dell’Odigitria16 in piedi, sotto un arco trionfale raddoppiato da un secondo arco di pietre semipreziose [t. 4]. Contrariamente a quanto afferma Y. Amiranayvili17, si tratta di un’immagine severa e ieratica della Theotókos che regge il Bambino sul braccio sinistro e guarda dritto davanti a sé, senza stabilire alcun rapporto col Figlio. Nella cornice coperta di motivi floreali trovano posto undici busti di evangelisti e di altri santi. Le figure, in smalto cloisonné, sono iscritte entro medaglioni i cui bordi imitano un filo di perle, secondo un uso comune in questo periodo. Ma i caratteri particolari della Georgia sono altrove: essi compaiono infatti nell’ovale irregolare e paffuto di Maria, che si trova anche in un certo numero di pitture murali, in particolare ad Ateni e Gelati18, ed anche nel motivo floreale punteggiato in superficie – mai visto a Bisanzio – che ne decora il maphòrion e sottolinea, in modo abbastanza curioso, la posizione delle ginocchia. Un’imitazione di un filo di perle borda la scollatura del manto e le aureole.

Per quanto riguarda le icone di metallo, ne esistono di due tipi: le prime sono completamente metalliche – cosa rarissima a Bisanzio – e le chiamiamo «placche» per distinguerle da quelle della seconda categoria che sono rivestimenti di metallo fissati su un’anima di legno. A Bisanzio questi rivestimenti in genere coprono solo il fondo e le aureole, mentre i volti, le mani e le vesti sono dipinti: questo tipo di icone esiste anche in Georgia, ma nella maggior parte dei casi il rivestimento copre, oltre alla cornice, l’intero campo dell’icona. Un piccolo trittico bilaterale a smalto dell’viii-ix secolo, trovato a Martvili, presenta una Deesis14 con due angeli15 [t. 3]. La parte centrale col Cristo d’oro è andata perduta (ne rimane solo il nimbo) e fu sostituita dal trofeo della sua vittoria, la croce. Gli angeli, che partecipano alla preghiera d’intercessione della Madre di Dio e di san Giovanni, si distinguono per la bellezza classica delle proporzioni e per la volumetria delle forme modellate all’antica, cosa che fa pensare ad un’influenza costantinopolitana.

Anche quando sono semplici rivestimenti, alcune icone georgiane danno quasi la sensazione di un altorilievo, come nel caso di quella d’argento dorato con san Giorgio cavaliere (x-xi secolo), trovata a Sakao e conservata al Museo di Arte

L’icona della Vergine col Bambino di Martvili (x-xi secolo), adorna di smalti dell’viii secolo, presenta la Madre di

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5. San Giorgio a cavallo, da Sakao, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi. A fronte: 6. Gli arcangeli Michele e Gabriele in vesti militari, Tsvirmi.

Georgiana a Tbilisi19 [t. 5]. Il cavallo del santo calpesta un guerriero atterrato che non è altro che l’imperatore Diocleziano, persecutore dei cristiani. Si tratta di uno schema iconografico tipicamente georgiano20, anche se lo troviamo nel resto dell’Oriente cristiano, in particolare in Armenia, Egitto e Cappadocia 21. L’imperatore romano prende il posto del drago come incarnazione del male. Quanto al mostro, esso generalmente viene trafitto da san Teodoro o da san Giorgio, quando non si tratta di un’immagine simbolica del guerriero che, in nome di Cristo, combatte contro le forze delle tenebre, ma di una rappresentazione narrativa che evoca la leggenda del Santo che libera la città di Lasa e la sua principessa, come nel caso di un’icona in smalto del xv secolo conservata al Museo Statale di Arte Georgiana22. Si tratta di un’opera ingenua, dalle forme semplificate, che tradisce anche un’influenza della Persia sassanide. Tale influenza è molto forte nella scultura monumen-

tale georgiana dal vi all’xi secolo, cosa più che comprensibile visto che parte del territorio di questa regione fu a lungo sotto la dominazione persiana 23. Alcune icone in metallo dell’xi secolo sono particolarmente fedeli all’estetica bizantina, come, per esempio, quella di san Simeone stilita proveniente da Lagami (Svaneti)24 e realizzata nella prima metà dell’xi secolo dall’orafo Filippo per il vescovo di Iskhani (Tao-Klardzetia) Antonio di Tsageri, particolari che ci sono rivelati da due iscrizioni georgiane. Questo rivestimento d’argento dorato (su un’anima di legno) ci mostra il grande asceta a mezzo busto, in cima alla colonna, mentre il committente è rappresentato in piedi e in preghiera. La cornice è ornata da un motivo vegetale particolarmente sontuoso, interrotto da medaglioni con figure a mezzo busto. In alto si vede una Deesis la cui collocazione fa sì che il Cristo benedicente appaia

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nell’arte bizantina fin dal ix secolo e, in maniera molto più evidente, a partire dall’xi-xii. Una delle ragioni di questa novità è stata certamente la lotta contro l’eresia dei bogomili 27 i cui adepti s’identificavano con gli angeli decaduti e veneravano in Cristo l’Angelo superiore e non incarnato. Per indicare chiaramente il loro ruolo specifico nell’economia della salvezza, i nostri due arcangeli indossano l’abito dei santi guerrieri, cioè quello dei soldati romani. Con la sfera in una mano e il labaro nell’altra, stanno ritti su dei gradini, le gambe leggermente divaricate, in un atteggiamento particolarmente marziale. Rappresentati fianco a fianco, in assoluta frontalità, non hanno però niente di rigido, probabilmente grazie ai loro corpi slanciati, dalle proporzioni armoniose. I volti sono nobili e vicini all’ideale classico, secondo un’iconografia abituale per gli angeli a Bisanzio. Otto santi guerrieri decorano la cornice accentuando ulteriormente il ruolo di protettori e di

proprio sopra la testa del santo. Nella fascia inferiore stanno gli evangelisti Matteo, Giovanni e Luca, mentre gli apostoli Pietro e Paolo e alcuni arcangeli ornano le due fasce verticali. Il viso e il corpo di san Simeone corrispondono ai canoni del classicismo bizantino dell’xi secolo con quel misto di bellezza fisica (che rivela il diffondersi del pensiero umanista), di ieraticità e di profonda spiritualità. La cosa vale anche per l’icona d’argento con gli arcangeli Michele e Gabriele (xi secolo), rinvenuta e conservata a Tsvirmi 25 [t. 6]. Qui i due arcangeli sono celebrati come archistrateghi, cioè nel loro ruolo di custodi dei popoli e dei giusti 26. L’arcangelo Michele era considerato anche il capo delle milizie celesti che compaiono spesso nella cupola attorno al Pantocratore. In generale, il numero degli angeli rappresentati nei diversi episodi e la loro differenziazione secondo il loro ruolo aumenta

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7-9. Battesimo di Cristo, Annunciazione, Ascensione, placche di Sagolayeni, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi.

combattenti contro il male dei due arcangeli che erano anche i patroni degli eserciti.

compare una decorazione a denti di sega di origine siriaca, a volte vegetali e appartenenti al repertorio greco-romano, come i calici floreali dell’Annunciazione29. In quest’episodio [t. 8] vediamo la Vergine intenta a filare sulla porta di casa. L’arcangelo Gabriele le ha appena annunciato la buona novella, tanto che ella ha un gesto che tradisce la sua emozione ed il suo stupore. Maria appare fra due tende socchiuse, un motivo che, fin dall’Antichità, e poi nell’arte paleocristiana e bizantina, suggerisce il mistero. Tuttavia, nelle composizioni bizantine dell’Annunciazione, i tendaggi non sono posti ai lati della Vergine, ma fanno semplicemente parte dell’architettura rappresentata dietro di lei. Al centro del registro superiore, una cupola fiancheggiata da due case, che non ha alcun rapporto con le architetture ereditate dall’arte antica comuni a Bisanzio, suggerisce l’identificazione tra la futura Madre di Dio e la Chiesa.

Finora abbiamo parlato di icone con un rivestimento di metallo. Le cinque placche dette di Sagolayeni (xi secolo), attualmente al Museo di Arte Georgiana, potrebbero aver fatto parte di un mobile di chiesa. Tuttavia le cornici molto larghe, formate da diverse fasce ornamentali, che si sono conservate nelle placche della Visitazione e della Presentazione al tempio, c’inducono a pensare che si tratti di icone. Tali opere, che in origine dovevano essere dodici, corrispondenti alle Grandi Feste dell’anno liturgico, sono state realizzate nella Georgia meridionale e portate in seguito in Sida-Kartli nella chiesa di Sagolayeni. Ognuna di esse è cesellata su una lamina d’argento. Ieratiche e maestose, queste composizioni essenziali, con personaggi fortemente stilizzati, sono straordinariamente espressive. Le forme sono tutte semplificate in vista di un’astrazione che le smaterializza e le trasfigura. Le cornici sono formate da diverse fasce con motivi a volte astratti, come nel Battesimo28 [t. 7], dove

Nella Presentazione di Gesù al tempio30, lo sfondo è vuoto, eccezion fatta per un immenso solido sospeso sopra al

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tributato a Maria come patrona del Paese. Gli apostoli sono tutti in posizione frontale, impassibili ed immobili, cosa rara in questa scena che, a Bisanzio, è generalmente molto animata.

Bambino che la Vergine tende a Simeone. Questi è seguito dalla profetessa Anna con un cero acceso mentre Giuseppe, in posizione frontale, coi due colombi portati al tempio, sta immobile dietro Maria, quasi estraneo alla scena. Il solido, che ha la forma di una cupola georgiana, simboleggia la Chiesa, luogo dell’evento, ma per la sua posizione sottolinea anche la natura divina e il futuro trionfo del Cristo. Si sa che, in quasi tutti i soggetti rappresentati in Oriente ed anche in Georgia, è evidente un’accentuazione trionfale simile a quella che si riscontra nell’arte paleocristiana31; ed è significativo che questa tendenza si manifesti anche nella Presentazione al tempio, visto che proprio in quel momento il vecchio Simeone annuncia a Maria la futura Passione di Cristo.

Un’icona con la Vergine in smalto su fondo oro, inserita nel trittico di Khakhuli33, risale probabilmente al x secolo ed i suoi frammenti furono abilmente ricomposti [t. 10]. Qui Maria è vista di tre quarti e in atteggiamento di preghiera, cosa che fa pensare che in origine nell’angolo superiore destro si trovasse la figura del Cristo a mezzo busto, formando così una Deesis a due personaggi. Uno schema iconografico dello stesso tipo è stato usato in un’altra icona georgiana, quella di Khobi, descritta da D. Gordeev34. L’icona era destinata fin dall’inizio ad un trittico come quello che vediamo oggi; nel x secolo il re Davide Kuropalate ne fece dono alla chiesa di Khakhuli dalla quale Davide il Costruttore (1085-1125) la trasferì al monastero di Gelati. Un’iscrizione del trittico attesta che l’attuale telaio è stato realizzato sotto Demetrio i (1125-1154) e che il committente

Nell’Ascensione32 l’artista ha preferito il Cristo in trono (più trionfale) a quello seduto sull’arcobaleno che s’incontra generalmente a Bisanzio [t. 9]. Le figure del Redentore e della Vergine orante hanno dimensioni superiori rispetto agli apostoli, il che ci ricorda il particolare culto che in Georgia veniva

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10. Trittico di Khakhuli, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi.

era un certo Svimon \kondideli che aveva il titolo di cancelliere ed occupava un posto importante nella prima metà del xii secolo. È citato anche il maestro orafo: Assan di \kondidi (cioè di Martvili)35. Ma per la cesellatura lo studio dello stile ha permesso di identificare tre artisti. Quanto all’icona centrale, il viso e il collo (cm 11,6), le mani, ed anche i polsi della Vergine sono in smalto cloisonné di un color rosso-violaceo chiaro e sono le più grandi superfici smaltate del Medioevo note finora. Le dimensioni straordinarie delle ante in argento dorato del trittico di Khakhuli (Museo Statale di Arte Georgiana, xii secolo), hanno permesso l’uso di varie tecniche: cesellatura, rosette formate da racemi traforati, cornici con fili di perle, incrostazioni di gemme e pietre preziose, smalti. Delle croci in metallo e pietre semipreziose, una crocifissione smaltata, dei medaglioni e dei rettangoli con figure in smalto cloisonné (viii-ix e xi-xiii secolo), ora di origine costantinopolitana, ora di provenienza locale, si dispongono un po’ su tutta la superficie, seguendo però un certo ordine, anche se non ne è sempre rispettata la simmetria. Le gemme, più abbondanti nella zona mediana, sembrano cadere come una pioggia miracolosa attorno alla figura di Maria. Tutto il trittico non è che una sontuosa incorniciatura a gloria della Vergine, la cui immagine ne occupa il centro. Fra gli smalti provenienti da Costantinopoli bisogna ricordare quello in cui appare la coppia imperiale36, in posizione frontale e in vesti di gala: Michele vii regge il labarum ed il volumen, Maria lo scettro sormontato da una croce la cui forma è tipica della Georgia37 [t. 11]. L’imperatrice, che era figlia del re Bagrat iv (1027-1072), ha lo stesso scettro in una miniatura della Raccolta delle omelie di Giovanni Crisostomo della Biblioteca Nazionale di Parigi, nella quale è rappresentata a fianco del secondo marito, Niceforo ii Botaniate (1078-1081)38. In Georgia l’arte dello smalto raggiunge il culmine fra il e il xv secolo, ed è utilizzata anche in icone di piccole dimensioni come quella della Presentazione di Gesù al tempio (Lc 2,22-23 e Vangeli apocrifi) del Museo di Arte Georgiana (xiii secolo)39. Qui vediamo la profetessa Anna ed il vecchio Simeone il quale, con le mani velate in segno di rispetto, si appresta a ricevere il Bambino che Maria, seguita da Giuseppe, tiene fra le braccia. Il fondo d’oro è ornato da un’imponente architettura [t. 12]. Gli studiosi datano l’icona a volte alla fine del xii secolo40, a volte al xii-xiii41; tuttavia, malgrado le circonvoluzioni lineari con cui sono rese le pieghe del drappeggio, motivo tipico del xii secolo, non è possibile che sia stata realizzata prima della metà del xiii. xiii

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11. L’imperatore Michele vii Ducas e l’imperatrice Maria, smalto, particolare del Trittico di Khakhuli.

Fino a questo periodo, infatti, nella pittura bizantina le architetture sono più vicine al simbolo o all’ideogramma (come vediamo, per esempio, in quelle di San Marco a Venezia della fine del xii-inizi del xiii secolo o nei mosaici del xii delle chiese bizantine della Sicilia)42 che a edifici massicci come quelli, per esempio, della chiesa di Sopo0ani. Nelle icone questo genere di architetture è molto più raro e non compare prima del xiv secolo. Ora, nel nostro caso, le architetture non solo hanno un peso, ma sono di un realismo sorprendente, dal momento che rappresentano in modo riconoscibile e persino senza errori di prospettiva delle chiese georgiane con le loro cupole dagli alti tamburi e coperte, in qualche caso, da tetti piramidali. D’altro canto si nota una certa rotondità delle forme, mentre le figure non sono né allungate, né ascetiche come invece accade generalmente nella seconda metà del xii secolo. Le teste, un po’ troppo grandi rispetto alle proporzioni reali, contribuiscono a rendere i corpi massicci e non privi di rilievo, pur in assenza di un vero modellato. Fra i due gruppi di personaggi, un cero acceso ricorda sia la profezia di Simeone secondo la quale Gesù avrebbe portato al mondo la salvezza («luce per illuminare le genti», Lc 2,32), sia la Festa della Purificazione di Giuseppe e Maria43 fissata dalla Chiesa ortodossa al 2 febbraio. Al termine del periodo della loro purificazione Maria e Giuseppe presentarono Gesù al tempio e, in occasione di questa festa, in epoca paleocristiana si facevano delle processioni notturne nelle quali i fedeli portavano dei ceri accesi44. Quest’usanza di origine romana si perpetua durante la liturgia la mattina della festa quando, dopo il canto della Nona Ode45, si accende la luce. Il ricorso alla luce è, a sua volta, un’espressione simbolica della profezia di Simeone. La rappresentazione di un cero acceso nella scena della Presentazione al tempio è molto comune in Georgia ma rara altrove. Giuseppe porta i due colombi da offrire in sacrificio, quasi un simbolo del futuro sacrificio del Cristo evocato da Simeone davanti a Maria (Lc 2,35). Particolare raro e toccante, il volto della Vergine esprime il suo stato d’animo all’annuncio profetico. Con estrema sobrietà l’artista riesce ad esprimere la tristezza di una giovane madre che s’interroga su ciò che ha appena udito. Egli è anche un notevole colorista: le tonalità luminose che ha scelto sono messe in risalto dal fondo d’oro, le aureole verdi e azzurre spiccano contro il bianco delle architetture, il Bambino indossa una tunica a righe, certo di origine locale e contemporanea, infine l’importanza simbolica dei colombi offerti da Giuseppe è sottolineata dal giallo vivo del paniere che li contiene.

L’icona faceva parte di un insieme di piccole placche di smalto che rappresentavano il ciclo delle Dodici Grandi Feste dell’anno liturgico e, prima della Rivoluzione d’Ottobre, appartenevano tutte alla celebre collezione Boktine. Purtroppo, il Museo di Arte Georgiana di Tbilisi è riuscito a recuperarne solo tre: la Presentazione al tempio, la Pentecoste e la Resurrezione di Lazzaro [t. 13], tutte caratterizzate da architetture che rappresentano delle chiese georgiane alle quali però, nell’ultima46, è stata aggiunta la cinta muraria di una città, certamente quella di Betania. Nella Pentecoste47 [t. 14, pag. 153], gli apostoli sono seduti su una panca semicircolare attorno ad un personaggio coronato, personificazione dell’Universo e simbolo dei popoli che saranno evangelizzati. Il cielo è rappresentato da una fascia a righe bianche e azzurre dalla quale si dipartono in direzione dei discepoli dodici raggi: le fiammelle dello Spirito Santo. Lo schema costantinopolitano presenta, al posto della personificazione dell’Universo, alcuni rappresentanti

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12-13. Presentazione al Tempio e Resurrezione di Lazzaro, smalti del ciclo delle Grandi Feste, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi.

dei popoli da evangelizzare, mentre altre immagini mobili georgiane riprendono lo schema della nostra icona di smalto come nel caso, per esempio, di una tavola d’ispirazione popolare detta della Pentecoste e dipinta nella provincia di Imerezia nel xiii secolo, conservata al Museo di Arte Georgiana48. Uno dei pezzi principali del tesoro d’icone georgiane è quella della Vergine della Tenerezza di Zarzma, attualmente nello stesso museo 49. Si tratta di un rivestimento d’argento dorato su un’anima di legno. La Vergine, del tipo Eleousa, col Bambino che appoggia affettuosamente la guancia a quella della Madre, è al centro di una cornice straordinariamente larga che comprende quindici episodi del Vangelo, corrispondenti alle Grandi Feste dell’anno liturgico [t. 14]. I volti delle due figure sono stati dipinti o ridipinti in epoca recente. L’iscrizione georgiana che corre tutt’intorno indica i nomi dei nobili donatori 50, ma non ci dà nessun indizio sulla data dell’icona che inizialmente è stata attribuita all’xi secolo51, poi

all’xi-xii52 infine, da me stessa, alla seconda metà del xiii53. E ciò per diversi motivi. L’osservazione delle opere datate dimostra infatti che, nel mondo bizantino, le icone la cui cornice è ornata da scene agiografiche o evangeliche (come nel caso della nostra) compaiono solo nel xiii secolo; inoltre, il maphòrion di Maria, che le ricade in una cascata di pieghe attorno al viso e sulle spalle, è anch’esso tipico degli ultimi anni del xii secolo, se non addirittura del xiii. La cornice, che misura poco meno della metà della larghezza del campo centrale, è straordinariamente ampia e comprende quindici scene di cui dieci del ciclo delle Grandi Feste e cinque di quello dell’Infanzia di Maria. Nella serie delle Feste, non è rispettata la sequenza cronologica e manca la Pentecoste. Nella parte superiore della cornice si dispongono, da sinistra a destra, la Crocifissione, l’Anàstasis, l’Ascensione e la Dormizione della Vergine. La fascia verticale sinistra comprende, dall’alto in basso, l’Annunciazione, la Presentazione di Gesù al tempio e la

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14. Vergine Eleousa, o della Tenerezza, di Zarzma, argento dorato, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi.

come chiese georgiane che ricompaiono anche nell’immagine della città nell’Ingresso in Gerusalemme. Gli apostoli sono ridotti a due mentre i giudei sono più numerosi di quanto non sia normale in Georgia. Due bambini stendono le loro vesti davanti alla mula, straordinariamente robusta, e altri due tagliano dei rami d’albero. Una montagna, che probabilmente indica il Golgota, occupa il resto dello sfondo. Quasi in cima ad essa, un particolare insolito in Georgia ma presente a Bisanzio alla fine del Medioevo, cioè il profeta che ha predetto l’evento rappresentato. In generale, come del resto anche nella nostra immagine, egli ha in mano un rotolo svolto, allusione al testo della sua profezia. La rappresentazione di un profeta aggiunta ad un episodio narrativo, molto frequente nella Dormizione della Vergine e in qualche altra scena, è rara nell’Ingresso in Gerusalemme anche in epoca tarda. In Georgia, poi, è una cosa assolutamente eccezionale. Nella nostra icona si tratta di Zaccaria, che predisse l’arrivo a Gerusalemme del suo re vittorioso montato su un asino (Zac 9,9) ed è citato dagli evangelisti Matteo (21,5) e Giovanni (12,15). Ritroviamo il profeta nel 1250, nel Tetravangelo copto dell’Istituto cattolico (copto-arabo, fol. 19)59, nell’episodio che precede l’Ingresso in Gerusalemme e parla dei due apostoli mandati a cercare l’asino; e ancora nello stesso episodio, che in questo caso forma un’unica composizione con l’Ingresso in Gerusalemme propriamente detto, nel Tetravangelo di Berlino (Berol. qui. 66, fol. 65v)60 datato all’xi-xii secolo. Non conosco nessun esempio georgiano di tale schema iconografico. Un certo gusto per il racconto si nota anche nel Battesimo, dove compaiono la personificazione del Giordano ed il serpente, allegoria del male e forza demoniaca calpestata da Cristo [t. 16]. Si vuol dire così che l’antico patto di Adamo col diavolo è ormai rotto. Completano la scena il lembo di cielo con la mano di Dio che regge la colomba, due montagne e la vegetazione (dietro san Giovanni). Quanto agli angeli, sono tre (il loro numero allude alla Trinità) ed hanno il capo chino, le ginocchia leggermente flesse, le mani nascoste sotto i panni dalle fitte pieghe che essi protendono. L’acqua del Giordano ha un aspetto quasi realistico, con le sue ondulazioni irregolari che imitano delle onde. L’allegoria del Giordano, il serpente, la mano divina e la colomba sono evocati dalla liturgia del 6 gennaio. La Natività [t. 16] occupa lo spazio di due scene e si sviluppa secondo uno schema grandioso in cui le tendenze narrative raggiungono la massima ampiezza, cosa doppiamente significativa qui, considerate le ridotte dimensioni della rappresentazione. Nella parte superiore del campo pittorico si vede il cielo da

Trasfigurazione, mentre quella di destra presenta l’Ingresso in Gerusalemme, il Battesimo e la Natività. Nella parte inferiore sono l’Offerta di Anna e Gioacchino, l’Annuncio ad Anna, l’Annuncio a Gioacchino e il Miracolo del Bastone fiorito di Giuseppe. Le immagini presentano molte particolarità iconografiche che sono altrettanti indizi per una datazione ancora più precisa dell’icona. Così, nella Crocifissione, la testa di Cristo che ricade sulla spalla si trova già nelle opere dell’xi-xii secolo; in compenso, le braccia e le gambe fortemente piegate in corrispondenza dei gomiti e delle ginocchia non compaiono prima del xiii54 come dimostrano, fra l’altro, la placca smaltata (fine del xiii secolo) inserita nella facciata della chiesa di San Basilio ad Arta (xii secolo)55, la Cronaca di Manasse (xiv secolo)56, la rilegatura di Vangelo in metallo del monastero di San Giacomo degli Armeni (1333), o ancora gli affreschi di Gradac (xiv secolo)57. In Georgia questo motivo compare nel xiv secolo nella Crocifissione della chiesa dei Santi Arcangeli nel comune di Lendzeri (Svanezia)58. Nella nostra icona, sulla destra della croce, vediamo Giovanni con la guancia appoggiata alla mano, secondo lo schema abituale; ma l’inclinazione della testa è molto accentuata ed esprime una sorta di desolazione. Un altro elemento che tradisce un’epoca tarda è il centurione dietro Giovanni rappresentato in piena azione; cammina infatti rapidamente verso destra mentre si volta verso il Cristo con un gesto che esprime la sua testimonianza. Tutta la scena è straordinariamente dinamica e concitata, tanto più se si pensa alle sue piccole dimensioni. Nella Discesa al Limbo, immagine della Resurrezione, la figura di Cristo spicca ancora una volta per il movimento elastico e piuttosto elaborato, con la testa volta in una direzione e i piedi nell’altra, mentre calpesta due demoni e ne atterra uno con la sua croce dalla lunga asta (scomparsa). A destra, immobili, tre profeti-re mentre Adamo ed Eva, a sinistra, sono tratti fuori dai loro sarcofagi. Da notare l’ampiezza del passo di Adamo: lo spazio che si apre così fra le sue gambe è una caratteristica delle immagini del xiii e xiv secolo. Anche i due demoni sotto le porte infrante dell’Inferno sono molto rari e non possono appartenere che allo stesso periodo, una particolarità del quale è proprio il notevole aumento degli elementi narrativi a cui corrisponde il moltiplicarsi dei protagonisti di tutti gli episodi evangelici. Nelle scene rappresentate sulla cornice della nostra icona c’è un altro tratto significativo che vale la pena di ricordare: nella Presentazione di Gesù al tempio [t. 15] le architetture, che indicano appunto il tempio, sono rese ancora una volta

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15. Annunciazione e Presentazione al Tempio, particolari della cornice dell’icona di Zarzma (t. 14).

16. Battesimo di Cristo e Natività, particolari della cornice dell’icona di Zarzma (t. 14).

cui un raggio scende sulla mangiatoia. Non c’è la stella che guidò i magi. Sulla sinistra della grotta appare una vera legione di angeli; a destra è l’Annuncio ai pastori, il primo dei quali riceve il messaggio, mentre l’altro adora il Bambino e gli offre i doni. La Vergine non è distesa, come nelle immagini bizantine del Medioevo, ma seduta, un arcaismo frequente in Georgia. All’asino, al bue e alla mangiatoia si aggiunge una capra. Nella terza parte del campo pittorico sono rappresentati, da sinistra a destra, Giuseppe, il Bagno del Bambino e sei pecore, un prolungamento dell’Adorazione dei pastori. Gli elementi essenziali di questi episodi e la relativa sequenza, ma con la Vergine distesa, si ritrovano in due rivestimenti bizantini del xiv secolo, quelli delle icone della Vergine Odigitria61 e della Crocifissione a Vatopedi62; ma questo schema della Natività è molto più antico e diffusissimo sia nella pittura murale sia nelle miniature. In compenso, i due gruppi con molti angeli non compaiono in genere nelle opere in metallo di epoca bizantina con la rappresentazione di questo tema, ma sono presenti a volte negli affreschi e nelle icone del xiv-xv secolo63. Col passar del tempo, il numero degli angeli aumenta nella maggior parte delle composizioni. Nella Dormizione della Vergine manca la parte sinistra, probabilmente rotta e persa nel corso di lavori di rimaneggiamento. Tuttavia, i sei apostoli ancora visibili ci colpiscono per la profonda commozione che esprimono. Tre di loro portano al volto un lembo di tessuto o la mano nuda, come per asciugarsi le lacrime; tre sono volti l’uno verso l’altro, come a dirsi il proprio dolore, uno di loro volge addirittura le spalle a Cristo. Dietro il letto funebre compare un settimo personaggio, probabilmente un santo vescovo, fortemente piegato in avanti tanto che sembra abbracciare il tessuto sul quale è distesa Maria. I valori affettivi si manifestano nella pittura bizantina nella seconda metà del xii secolo, ma uno schema della Dormizione vivace come quello della nostra icona non è frequente prima della seconda metà del xiii. Del resto, nelle opere georgiane di metallo del xii secolo64, ed anche in alcuni rivestimenti bizantini del xiv65, gli apostoli sono allineati uno accanto all’altro, lo sguardo fisso solo su Maria. In Georgia e altrove il tema comincia ad evolversi nel xiii secolo. Così, nell’icona di Kortskheli, la cornice presenta una Dormizione in smalto nella quale gli ultimi due apostoli a destra hanno le teste molto ravvicinate, pur restando in posizione frontale66. Nella chiesa di Timotesubani (1215 ca.)67 in due casi due apostoli piegano la testa in modo da avvicinarsi e stabilire un rapporto fra loro, ma senza spostare il corpo e senza mettersi faccia a faccia come nel nostro caso. Questo motivo si nota anche in due icone

dipinte del xiii secolo della Galleria Tret’jakov68. Ma la piena evoluzione dello schema, in cui gli apostoli assumono diversi atteggiamenti e si volgono decisamente gli uni verso gli altri come nella nostra icona, si realizza solo nella seconda metà del xiii secolo, negli affreschi di Sopo0ani (1265)69. Se consideriamo lo stile dell’icona della Vergine, si resta colpiti da molti tratti tipicamente georgiani che non compaiono nei rivestimenti bizantini. Si tratta, anzitutto, di un sicuro senso della forma scultorea ignoto ai Greci e di una lunga pratica nella lavorazione a sbalzo dei metalli, elementi che hanno consentito all’artista di creare delle figure in rilievo che risaltano chiaramente sullo sfondo, e di dare ai corpi e ai volti dei personaggi un volume che ricorda quello degli affreschi bizantini della seconda metà del xiii secolo. Perciò egli si guarda dal moltiplicare le pieghe del drappeggio, ma le raccoglie là dove non nascondono le forme anatomiche, in particolare nelle maniche e nella parte inferiore delle tuniche. Malgrado le piccole superfici a disposizione, le pieghe formano delle ondulazioni a cascata. Le conoscenze anatomiche del cesellatore, come la sua abilità nel rappresentare correttamente personaggi in movimento, sono la prova di un’educazione artistica di altissimo livello, oltre che di una profonda conoscenza dell’arte della cosiddetta Rinascenza dei Paleologhi. Inoltre, il moltiplicarsi dei personaggi, i loro atteggiamenti e gli elementi di contorno (i demoni nell’Anastasis, il serpente e la personificazione del Giordano nel Battesimo, o la legione di angeli e le sei pecore nella Natività) non sono obbligatori quando lo spazio è tanto ridotto, e ciò è ancor più vero in Georgia che a Bisanzio. In molte scene è presente un altro carattere tipico della pittura dei Paleologhi: le architetture imponenti e a volte realistiche, le cui linee di fuga sfondano lo spazio, in particolare nell’Annunciazione, nell’Ingresso in Gerusalemme e nel Miracolo del bastone di Giuseppe, mentre nelle Offerte di Anna e Gioacchino il ciborio è rappresentato con uno spazio interno a tre dimensioni. Per quanto riguarda la data di esecuzione dell’icona della Vergine della Tenerezza, le osservazioni fatte fin qui vanno tutte nella stessa direzione. Se ne deve perciò dedurre che è assolutamente impossibile che essa sia stata realizzata prima della seconda metà del xiii secolo, come si è creduto finora senza averne fatto uno studio iconografico. In Georgia, questo fu un momento poco propizio per l’arte a causa delle devastanti invasioni dei Mongoli, che iniziarono nel 1220. Tuttavia, malgrado la sottomissione al khan mongolo, alcune province come la Kartlia e la Kakhezia godettero di una relativa pace e prosperità che consentirono l’attività artistica, soprattutto

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17. Madre di Dio con il Bambino di Tsilkani, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi. Nelle pagine seguenti: 18. Arcangelo Michele, dalla chiesa dei Santi Quirico e Giulitta, Lagourka, Museo statale di Storia ed Etnografia della Svanezia, Mestia. 19. Crocifissione, Museo Statale di Storia ed Etnografia della Svanezia, Mestia.

Le vesti della maggior parte dei personaggi sono rosse o porpora (la tunica di Maria), ma hanno diverse sfumature e formano, con la tunica di Gesù e il fondo ocra che imita l’oro, un insieme fatto solo di toni caldi. Gli arcangeli, in abiti imperiali, reggono la sfera, attributo fisso del loro rango. I volti, dagli incarnati insoliti perché troppo chiari, sono stati prima dipinti in bianco, poi coperti di un sottile strato rosato. I tratti hanno contorni decisi, schematici e risentono del gusto popolare. Le aureole di metallo decorate a smalto dei due personaggi principali sono opera di un artista più colto ed abile, tuttavia ci si chiede perché quelle degli arcangeli siano state coperte col colore dello sfondo. Quanto alla tecnica usata, le analisi chimiche hanno dimostrato che i volti e le parti nude del corpo, il cui impasto è molto spesso, sono dipinti con cera a freddo77. La cornice di metallo con figure di santi lavorate a sbalzo o in smalto presenta un’anomalia iconografica. Nella parte inferiore, infatti, si vede la Vergine in preghiera che rivolge chiaramente la sua supplica a Gesù ed appartiene, dunque, alla Deesis. Di fronte a lei dovrebbe stare il Precursore – intercessore per eccellenza – che però è stato sostituito da un santo guerriero, cosa che non ha senso e, di conseguenza, crea un problema.

sotto il regno di Demetrio ii (1271-1289). Del resto, in diversi momenti del xiii secolo vennero realizzati molti smalti, alcune icone dipinte ed altri pezzi d’oreficeria.

Le icone dipinte in Georgia In Georgia le icone dipinte sono molto più rare di quelle in metallo. Una delle più note è la tavola della Madre di Dio col Bambino di Tsilkani70, eccezionale sotto molti aspetti [t. 17]. Si tratta, a prima vista, di un’immagine solenne e ieratica di Maria che regge il Bambino dalla parte sinistra secondo il tipo dell’Odigitria; accanto ai due personaggi stanno, in atto di venerazione, due arcangeli in piedi, uno dei quali punta l’indice su Gesù che benedice con la destra ed ha un rotolo nella sinistra. L’iscrizione georgiana sulla cornice, con la firma di Bartolomeo vescovo di Tsilkani, la cui calligrafia tradisce l’xi secolo, si riferisce solo alla cornice stessa, riccamente ornata. Delle sigle greche indicano le due figure principali. Per quest’opera sono state proposte diverse datazioni: al x-xi secolo da Y. Amiranayvili71, al ix e xiii da G. Alibegayvili ed A. Volskaja72, ma nessuno di questi autori spiega le ragioni della propria datazione che, a nostro avviso, è in parte discutibile. Secondo G. Alibegayvili ed A. Volskaja, i volti e le parti nude dei corpi (mani, piedi ecc.) sarebbero del ix secolo, mentre le vesti, lo sfondo e l’iscrizione sarebbero stati ridipinti nel xiii. Un attento esame dell’immagine in questione rende assolutamente improbabile una datazione al ix secolo per vari motivi, fra cui la posizione della gamba destra di Gesù che mostra allo spettatore la pianta del piede, cosa inimmaginabile all’epoca e che compare molto più tardi, nel xii secolo, quando si rappresenta il Bambino che sgambetta fra le braccia di sua madre, l’accarezza e preme il suo volto contro quello di lei, secondo il tipo della Vergine Pelagonitissa che compare in un’icona del Monte Sinai del xii secolo73, dove la Vergine col Bambino è entro una cornice con figure di profeti e, nella parte superiore, il Cristo in maestà74. Uno schema simile compare in un affresco cipriota della chiesa della Vergine Arakiotissa a Lagoudera (1192)75. Certo, qui non ci troviamo proprio di fronte alla stessa tipologia, visto che i gesti e i movimenti del Bambino non sono gli stessi, tuttavia è il solo caso in cui si vede la pianta del piede di Gesù. Questa libertà «realistica» diventa normale solo al tempo dei Paleologhi76 e ci orienta verso il xiii secolo. La posa della Vergine non è meno insolita di quella del Bambino perché, invece di tenerlo seduto sul braccio sinistro, per sorreggerlo gli passa la mano sotto l’ascella, il che è un apax.

Benché rinvenuta nella regione montuosa della Svanezia, nella chiesa dei santi Quirico e Giulitta, l’icona dipinta con l’arcangelo Michele a mezzo busto (Museo di Mestia, t. 18), datata alla fine dell’xi-inizio del xii secolo78, rivela uno stile raffinato e vicino al classicismo bizantino dell’xi secolo che permane in alcune opere nel corso del xii, malgrado la tendenza a dare più importanza alla linea che alla forma. Gli occhi e lo sguardo triste del nostro arcangelo ricordano quelli degli angeli del Giudizio finale di San Demetrio a Vladimir (1195 ca.)79; tuttavia la mancanza di volume è molto più evidente nell’icona georgiana che nell’affresco. Queste constatazioni ci rimandano ancora una volta agli affreschi di Lagoudera dove l’arcangelo Gabriele dell’Annunciazione, sulla parete nord della chiesa80, ha alcuni tratti del viso (forma degli occhi, del naso, della bocca) simili, come pure le mani dalle lunghe dita sottili. Solo le guance scavate del nostro arcangelo ed il suo mento possente lo differenziano da quei volti. Le osservazioni fatte fin qui consentono di trarre alcune conclusioni: 1. quello che accomuna le tre opere citate è, evidentemente, il loro legame coi valori classici dell’arte bizantina, particolarmente forti a Costantinopoli; 2. il mento possente e la mancanza di volume dell’arcangelo di Mestia inducono a pensare ad un pittore georgiano che abbia potuto utilizzare un modello costantinopolitano; 3. i confronti stilistici con opere della fine

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20. Deposizione e Compianto del Cristo, chiesa dei Santi Quirico e Giulitta, Lagourka. A fronte: 21. I Quaranta Martiri di Sebaste, Museo Statale di Storia ed Etnografia della Svanezia, Mestia.

del xii secolo, come pure la particolarità iconografica del piede del Bambino, rendono estremamente probabile una datazione dell’icona georgiana alla fine del xii secolo. Anche nella tavola con la Crocifissione (xii secolo) del Museo di Mestia, nell’Alta Svanezia81, si nota un’influenza costantinopolitana [t. 19]. I corpi sono ancora più allungati di quanto non sia abituale in questo periodo, e quello di Cristo appare come una forma quasi immateriale. Tuttavia reca le tracce di una reale sofferenza, come del resto si nota anche nel volto. La composizione, volutamente semplificata e ridotta a tre personaggi, come la tavolozza limitata all’ocra e al bruno, contribuiscono a trasmettere allo spettatore un’autentica emozione. Un’icona in cui è rappresentata la Deposizione dalla croce e conservata nella chiesa di Lagourka, nell’Alta Svanezia82, è stata finora datata all’xi secolo, cosa senza dubbio inesatta [t. 20]. Nella parte inferiore compare il momento successivo alla Deposizione, cioè il Compianto su Cristo morto. Nel x-xi secolo, quando negli affreschi e nelle miniature bizantine si comincia a rappresentare la Deposizione dalla croce, il corpo di Cristo sulla croce è diritto, parallelo al patibolo come nella Crocifissione83 ed il suo volto non mostra segni di dolore. Nella nostra icona è esattamente il contrario: il corpo di Cristo si piega ed il suo viso, come quello di Giuseppe che lo sorregge e quello della Vergine che bacia la mano del Figlio, esprime la sofferenza. Quanto al Compianto, nell’xi secolo, quando in genere si rappresenta la Sepoltura84, lo schema iconografico non è ancora definito ma ne esiste solo una forma embrionale in qualche miniatura85. Verso il 1150 il tema compare negli affreschi86 e nelle miniature, fra le quali spiccano quelle del Tetravangelo georgiano di Gelati87. Ora, nella nostra icona, ci troviamo di fronte ad uno schema molto elaborato: la Vergine è per così dire distesa sul Figlio che ella abbraccia mentre appoggia la sua guancia a quella di lui; alcune pie donne stanno dietro a Maria, Giovanni porta la mano di Gesù verso il proprio volto, Giuseppe e Nicodemo si piegano verso le sue gambe e i suoi piedi, infine quattro angeli volano sopra la scena. Lo schema è identico a quello della miniatura del Tetravangelo di Gelati (fol. 85v) tranne che per il numero delle pie donne e degli angeli nel cielo, leggermente superiore nell’icona. Quest’ultima s’ispira al già citato Tetravangelo nel quale troviamo anche, in un’unica pagina (fol. 217r), una Deposizione dalla croce praticamente identica a quella dell’icona e, più in basso, la Sepoltura di Cristo, un episodio che, a partire dal xiii secolo, viene in molti casi sostituito dal Compianto. Tenuto conto di

questi indizi, si può affermare che la datazione dell’icona non può risalire oltre la seconda metà del xii secolo. Il Museo di Mestia conserva anche un’icona dei Quaranta Martiri di Sebaste (xiii secolo) di straordinario valore88, erroneamente datata al xii secolo [t. 21]. I quaranta soldati romani, che furono esposti nudi su un lago ghiacciato perché rifiutarono di abiurare la propria fede, sono stati rappresentati sia nella pittura murale e nei manoscritti sia nelle icone. Tuttavia lo schema iconografico della tavola georgiana è unico per diverse ragioni. Ci limiteremo ad indicarne alcune che, comunque, confermano la nostra datazione al xiii secolo. I martiri, in diversi ranghi sovrapposti, sono generalmente rappresentati molto più calmi ed impassibili, tranne che in una placca votiva d’avorio del Museo di Berlino89 che risale alla Rinascenza macedone90. Nell’icona georgiana è evidente che essi soffrono fisicamente, animati al tempo stesso da una profonda compassione reciproca. Sono meno agitati che nell’avorio di Berlino, ma esprimono una tenerezza toccante. Così, tre coppie di guerrieri si abbracciano, un anziano soldato sostiene un giovane

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Vi è rappresentata la Dormizione della Vergine, ma la parte centrale, che comprendeva probabilmente il letto funebre di Maria e forse – poiché c’è molto spazio – l’episodio di Afonias che ebbe le mani tagliate per aver bestemmiato davanti alla defunta, è andata perduta. L’icona, con gli apostoli che piangono la Madre di Dio, e Cristo, che ne accoglie l’anima in forma di bambino, circondato da arcangeli, santi e sante, dal punto di vista iconografico e stilistico è molto vicina alle rappresentazioni di questo tema realizzate durante la cosiddetta Rinascenza dei Paleologhi, fiorita a Bisanzio fra il xiii e il xv secolo92. Ma non c’è nulla di strano dal momento che, in Georgia, l’influenza della pittura costantinopolitana aumenta nel corso del xiv secolo come dimostrano, fra l’altro, le pitture murali di Likhne, Zarzma o Calendzikha93. Il nostro trittico ha alcuni caratteri (per esempio, il trattamento del drappeggio) che ricordano gli affreschi della chiesa di Ubisi, il che ne conferma la probabile origine locale.

che sviene fra le sue braccia, mentre un terzo lo prende per un braccio, gesti che ricordano la Deposizione dalla croce; più in alto è un giovane che aiuta il più vecchio a non venir meno, e questo aiuto ai più deboli è rappresentato una terza volta nella quarta fila, sulla sinistra. I gesti degli altri martiri sono molto vari. Alcuni si sfregano le mani per il freddo, altri cercano di proteggersi il petto e le spalle, altri ancora sembrano invocare Cristo che appare in un lembo di cielo, le braccia tese per lasciar cadere delle corone del martirio (appena visibili) sulle teste dei valorosi soldati. Alcuni sembrano parlare fra loro e un personaggio è in atto di benedire. Infine, in prima fila, i soldati sono tutti a terra, seduti o distesi, e uno di loro mostra solo la testa dai folti capelli – particolare audace – col volto incorniciato dalle braccia. Il sentimento profondo che caratterizza quest’icona non va confuso col senso del dramma che si nota, per esempio, a San Giorgio di Kurbinovo (1191) e che non si manifesterà che negli ultimi anni del xii secolo, o addirittura nel xiii. D’altra parte, lo stile dell’icona ci rimanda chiaramente al xiii secolo. Per convincersene basta osservare la varietà degli atteggiamenti, le braccia muscolose dei personaggi, l’anatomia e la delicatezza del modellato, come pure la volumetria dei corpi. Nelle parti nude di questi corpi e di questi volti non compare alcun elemento grafico, come avviene invece regolarmente nel xii secolo quando l’addome e il petto, le ginocchia, gli zigomi e le guance sono sottolineati da una linea di contorno più o meno secca e dura. Il color rosa intenso dei perizomi che i martiri indossano è tipicamente orientale. Ricordiamo ancora, per il xiv secolo, il grande trittico dipinto a tempera su commissione di un certo Bablak Lakhisvili per il monastero di Ubisi (Museo Georgiano di Belle Arti)91.

Con questo rapido esame abbiamo potuto renderci conto di quanto sia diseguale l’interesse per le immagini mobili nelle regioni della periferia orientale del mondo bizantino e del notevole successo che hanno avuto in Georgia. D’altra parte si è visto che, pur seguendo l’iconografia e l’estetica bizantina, le icone dell’Oriente cristiano generalmente si distaccano dalla regola costantinopolitana rivelando caratteri propri. Quanto alle icone georgiane, esse presentano spesso delle innovazioni evidenti in alcuni schemi iconografici originali e nel modo di lavorare i metalli. Malgrado le differenze, possiamo tuttavia affermare che, grazie all’ortodossia, l’espressione artistica del mondo bizantino rimane unitaria, per nulla indebolita, anzi arricchita dalle molteplici varianti.

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FUNZIONI E TIPOLOGIA DELLE ICONE Panayotis L. Vocotopoulos

talmente tante icone, che non possono riferirsi soltanto ai pannelli posti sulla struttura divisoria del santuario o sugli speciali piedistalli adoperati per esibire le icone da venerare permanentemente o in una data festività (proskyneseis, proskynetaria). Determinare la posizione originale di un’icona in una chiesa risulta perciò molto difficile. Molte chiese importanti furono occupate dai Latini o dagli Ottomani, come a Costantinopoli – dove soltanto una chiesa bizantina minore fu lasciata al rito ortodosso –, a Tessalonica, nei villaggi di Creta, o a Rodi, e le loro icone deteriorate o disperse. Anche nei casi in cui le chiese bizantine hanno mantenuto la loro funzione originale fino al tempo presente, come sul Monte Athos, nei monasteri del Sinai e di Patmos e nelle cappelle rurali, la collocazione delle icone è variata e le iconostasi dei santuari bizantini furono rimpiazzate nei secoli dal xvi al xviii da nuove, meglio corrispondenti alle nuove concezioni e ai nuovi gusti. Tra le scarse fonti scritte, i resoconti di viaggiatori forniscono poche e vaghe informazioni. I visitatori medievali delle chiese di Costantinopoli, ad esempio, erano ben più interessati alle sacre reliquie e menzionano raramente le icone, se non per ragioni particolari, come nel caso di pannelli che si credono dipinti da san Luca, connessi alle reliquie o considerati in grado di far miracoli. Tutti i visitatori di Costantinopoli descrivono Santa Sofia, il più importante monumento della cristianità orientale, ma le informazioni che possiamo raccogliere sulle sue icone sono scarse. Per esempio, i pellegrini russi del xiv e xv secolo fanno riferimento ad alcuni pannelli senza descriverli nel dettaglio o nelle dimensioni. Nel xiv secolo le icone di Cristo, della Vergine e di santa Maria Egiziaca erano appese nel nartece di Santa Sofia. Il patriarca, entrando nella chiesa, venerava l’icona della Vergine nel nartece e le icone poste di fronte all’ambone, prima di proseguire all’interno del tempio. Un’altra icona del Cristo era posta in Santa Sofia sopra la porta centrale, sulla parete ovest della navata; un’icona della Madonna sotto il ciborio nella navata nord, un’icona in mosaico del Cristo con le stigmate più a est, presso le reliquie della sua Passione. Un’altra icona di Cristo, che è stata pugnalata da un ebreo, era posta vicino al tempio della Fonte Sacra, mentre un pannello raffigurante l’Ospitalità di Abramo era situato presso la vera tavola usata da Abramo, che era esposta in Santa Sofia8. Soltanto tre icone – due di Cristo e una della Vergine – sono citate in resoconti di pellegrini riguardo alla grande ed importante chiesa dei Santi Apostoli, nonché altre due – di Cristo e della Vergine – nelle descrizioni della Peribleptos, una fondazione imperiale dell’xi secolo9. È degno di nota che la maggior parte dei pannelli menzionati rappresentino Cristo e la Vergine.

Questo capitolo prende in esame la tipologia e gli usi delle icone nell’Impero bizantino e nelle regioni appartenenti alla sua sfera culturale, nel periodo compreso tra la definitiva restaurazione del culto delle icone nell’843 e la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani nel 1453. Oggi, quando parliamo di icone, abbiamo in mente delle tavole di legno dipinte, a volte parzialmente coperte da un rivestimento d’argento. Durante il periodo mediobizantino, tuttavia, le icone erano fatte anche di materiali diversi, quali bronzo, argento, avorio, steatite, smalto o marmo, in qualche caso con inserti di placche colorate; spesso inoltre erano decorate con pietre preziose. A volte materiali diversi erano combinati tra loro, come nei famosi pannelli che rappresentano l’arcangelo Michele nel tesoro di San Marco a Venezia [t. 23, pag. 50], in un pannello con la Crocifissione e vari santi, fatto di placche di argento e smalto e adorno di pietre preziose al museo dell’Ermitage a San Pietroburgo o in un’icona a mosaico della Grande Lavra con una cornice di filigrana decorata con medaglioni di smalto1 [t. 1]. Le tavole lignee sono predominanti dal xiii secolo in poi. Bisogna inoltre tener presente che il termine greco eikon indica qualsiasi immagine, anche dipinti murali o mosaici. Solitamente le icone erano rettangolari, perlopiù con l’altezza maggiore della lunghezza. Alcuni pannelli hanno la sommità a forma d’arco ma non si riscontrano vertici triangolari, piuttosto comuni invece nell’arte occidentale. Pannelli rotondi sono estremamente rari e fanno la loro comparsa in epoca tarda, tanto che pochissimi di questi tondi si sono conservati2, ma la loro esistenza può essere dedotta anche da pannelli rotondi riprodotti in affreschi3, dipinti in miniature4 o citati in fonti scritte5. Inventari citano alcune icone skoutarin, cioè a forma di scudo6, anche se non è chiaro di quale forma si tratti, dato che c’erano scudi ovali, triangolari, rotondi e a forma d’aquilone. La distinzione tra icone riservate al culto privato o pubblico non è sempre semplice. Di regola, naturalmente, le tavole piccole erano destinate al culto privato, ma potevano essere adoperate anche in chiesa. Ci sono esempi nei quali le icone erano trasferite da un’istituzione religiosa a una casa privata o viceversa. In altri casi, le icone di proprietà privata venivano poste in un monastero o in una chiesa, per poter sfruttare le rendite che procuravano7.

Le icone nel culto pubblico Le icone erano collocate in posizioni varie all’interno di chiese e monasteri. Le regole e gli inventari monastici enumerano

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A fronte: 1. San Giovanni Teologo, icona musiva con decorazioni di smalto nella cornice, monastero della Grande Lavra, Monte Athos.

2. La venerazione dell’icona della Madre di Dio Odigitria, codice Hamilton 119, Kupferstichkabinett, Berlino.

Molte più informazioni possono essere raccolte nei typika (regole) dei monasteri e, più in generale, nei testi che regolavano l’esecuzione delle sacre funzioni, come, ad esempio, il typikon del monastero di Cristo Pantocratore nella capitale, fondato dell’imperatore Giovanni ii Comneno nel 1136, e una disposizione, del 1400 circa, sulle funzioni all’interno di Santa Sofia a Tessalonica10. Candele venivano accese di fronte alle icone già prima dell’iconoclastia. Singole icone da venerare ed incensare, anche nel senso più largo (inclusi alcuni affreschi), così come candele e lampade di fronte ad esse, erano già prima di allora elementi ben affermati della prassi liturgica11. Gli inventari di icone si occupano quasi esclusivamente di quelle «decorate» e forniscono solo brevi informazioni sulle categorie alle quali appartengono – ovvero icone processionali o dittici –, sul loro soggetto, sul materiale di cui sono fatte, la decorazione con metallo, smalto o pietre preziose, ma non dicono nulla sulla loro collocazione all’interno delle chiese. Le tavole non decorate di legno semplice sono di solito considerate in blocco oppure semplicemente omesse. Nell’inventario del monastero minore di Xylorgou sul Monte Athos, ad esempio, redatto nel 1142, sono elencate sei icone delle quali sono descritte nello specifico le cornici, niellate, d’oro o d’argento, aureole e risvolti delle maniche e il numero di pietre preziose che le adornano, mentre le icone non decorate sono liquidate alla voce «novanta piccole e grandi hylographiai (tavole in legno)»12. Oggi, dietro all’altare nelle chiese ortodosse è posta una croce, secondo una pratica che risale ai tempi di Bisanzio13. Sembra, tuttavia, che potesse essere posta dietro l’altare anche una larga icona, proprio alla maniera delle pale d’altare occidentali14. Testi del xii secolo parlano di un’icona del Salvatore sopra l’altare della chiesa di Chalkoprateia a Costantinopoli e suggeriscono l’ipotesi che la famosa icona della Vergine di Vladimir fosse anch’essa posta presso l’altare. Il modo in cui questi pannelli erano collocati dietro all’altare è deducibile da un affresco postbizantino a Sucevitsa in Moldavia, rappresentante un altare con un’icona della Vergine dietro ad esso, sotto a un ciborio15. Le icone venerate in maniera particolare erano probabilmente poste su di un piedistallo sotto un baldacchino e protette da un velo e da un’elaborata grata mentre alcune lampade ad olio erano appese davanti ad esse, come nel caso della Vergine Odigitria, il palladio di Costantinopoli, come raffigurato sul foglio 39v del Salterio Hamilton (Berlino, Kupferstichkabinett, cod. 78A9), datato al 1300 ca.16 [t. 2]. Sotto a molte grandi icone erano attaccati arazzi ricamati, chiamati podea o encheirion17.

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Undici arazzi «festivi» e sei vecchi arazzi «feriali» sono elencati nell’inventario del 1449 del piccolo monastero della Vergine Eleousa nella Macedonia del Nord. Quelli adibiti all’uso durante le feste hanno ricami dorati e uno di essi era decorato con il Cristo circondato dagli apostoli18. Un documento cretese del 1436 riferisce che durante le grandi feste, come il Natale e la Pasqua, il relativo pannello era posto nel mezzo della chiesa su di un piedistallo19. File di tavole con busti di santi erano verosimilmente appesi alle pareti delle chiese, in particolare nel santuario. Simili serie di icone, assieme ad un anello o gancio per appenderle a un chiodo o a un’asta, sono state riprodotte in affreschi in molte chiese di Costantinopoli, Kastoria, del Peloponneso e persino in Serbia e a Kiev20. Alcune icone molto grandi si pensa siano state commissionate per la decorazione delle pareti delle chiese. Questo vale per le icone dei santi Pietro e Paolo della metà dell’xi secolo dalla cattedrale di Santa Sofia a Novgorod (m 2,36x1,47; t. 3), per quella di san Giorgio, proveniente dall’omonimo monastero vicino a Novgorod, risalente al secondo quarto del xii secolo (m

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3. I santi apostoli Pietro e Paolo, da Santa Sofia di Novgorod, Museo di Storia e Architettura, Novgorod.

4. San Giorgio, dall’omonimo monastero presso Novgorod, Galleria Tret’jakov, Mosca.

5. La processione dell’icona dell’Odigitria, particolare dell’icona della Lode della Madre di Dio con scene dell’inno Acatisto (t. 52).

un’icona alta 2,38 m dei santi Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo e Basilio con Cristo che appare sopra di loro23. Le icone venivano deposte anche nelle tombe. Un testamento del 1098 e un typikon del 1152 stabiliscono che icone del Cristo e della Vergine siano collocate nella tomba del marito della monaca Kale Pakouriane e in quella del sebastocratore Isacco Comneno, figlio dell’imperatore Alessio i e fondatore del monastero di Kosmosoteira in Tracia24. Non è chiaro invece se le «sacre immagini» di san Teodoro Studita e di suo fratello Giuseppe, arcivescovo di Tessalonica, che erano dipinte nella loro tomba nel monastero Studios di Costantinopoli, fossero icone portatili e non ritratti ad affresco, come quelli di san Cirillo sopra la sua tomba nella chiesa romana di San Clemente25.

2,30x1,42; t. 4), e per l’Annunciazione di Ustjug, della seconda metà del xii secolo (m 2,29x1,44; t. 31, pag. 56)21. L’icona di san Giorgio è di soli 8 cm più stretta del pilastro sul quale era fissata. Un gruppo di icone sono estremamente alte e strette, forse perché dovevano esser appese ad un pilastro o nella stretta nicchia di una chiesa gotica. Tre icone di questo tipo, rispettivamente di misura 252x43, 204x38 e 259x46 cm, più la parte bassa di una quarta, sono esposte nel Museo Bizantino della Fondazione Makarios iii a Nicosia; una di queste è datata ca. 1356 e le altre devono essere contemporanee22. Pochissime icone di grandi dimensioni hanno la sommità rotonda o a punta, ovviamente per poter combaciare ad una parete posta sotto una volta a botte o a costolatura. Non si può non ricordare

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6. Dittico con la raffigurazione della Madre di Dio e di Cristo uomo dei dolori, monastero della Trasfigurazione, Meteora.

sant’Isidoro, nel deserto, include un grande pannello dell’Odigitria completo di podea33. Durante le campagne militari, imperatori e generali recavano con sé le icone miracolose, che erano trasportate attorno alle mura anche nelle città assediate, specialmente a Costantinopoli34. Le icone prendevano parte alle processioni trionfali degli imperatori. Quando Giovanni ii Zimisce entrò in Costantinopoli dopo la conquista della Bulgaria nel 971, lo fece cavalcando dietro ad un carro sul quale era stata posta un’icona della Madre di Dio col Bambino35. Giovanni ii e Manuele i Comneno, durante la loro trionfale entrata nella capitale, dopo le vittorie del 1133 e 1167, seguivano un carro sul quale era stata posta un’icona della Madre di Dio. Giovanni seguiva a piedi tenendo una croce, Manuele invece era a dorso di cavallo36. Quando infine Michele vii riconquistò Costantinopoli nel 1261, entrò in città a piedi, al seguito della miracolosa icona dell’Odigitria, innalzata su un carro37.

Processioni liturgiche di clero e popolo, accompagnate da invocazioni, erano piuttosto comuni a Costantinopoli, specialmente dopo l’xi secolo [t. 5]. Ad alcune di esse prendevano parte l’imperatore stesso o il patriarca. L’ufficio del Vastagarios (colui che porta il santo in chiesa durante le processioni e le solennità ufficiali) è riportato in un tardo documento26. La più nota di queste processioni era quella settimanale del palladio della città, la Madre di Dio Odigitria, che avveniva ogni martedì: è stata descritta in molti resoconti di viaggiatori ed è raffigurata in un affresco del xiii secolo nel nartece della chiesa del monastero di Vlacherna vicino ad Arta e in un tessuto russo datato 149827. Le rappresentazioni concordano con la descrizione fornita dal pellegrino russo Stefano di Novgorod, che visitò Costantinopoli a metà del Trecento: la pesante tavola è sorretta da un uomo che allunga le sue braccia come se fosse crocifisso e cammina bendato, guidato dall’icona28. Una confraternita vestita di rosso portava l’icona fuori dal monastero in una piazza nella quale essa era sostenuta a turno da ogni membro, come narra Stefano, e anche la trasportava in altre occasioni: l’Odigitria veniva trasferita tre volte l’anno al monastero del Pantocratore, dove erano sepolti Giovanni ii Comneno e la sua famiglia, e restava durante la notte presso le loro tombe. Occasionalmente veniva trasferita a Santa Sofia e nel Trecento rimaneva nel palazzo imperiale dal giovedì precedente alla Domenica delle Palme fino al Lunedì di Pasqua. Inoltre durante gli assedi era portata lungo le mura cittadine29. Parecchi tardi dipinti parietali, icone e miniature raffigurano un’icona della Madre col Bambino con la sua podea, portata in processione da due uomini o posata su un piedistallo con le ruote, e venerata da gruppi di chierici, cantori e laici30. Un’altra icona condotta in processione ogni settimana nella capitale e custodita da una confraternita era quella della Vergine «Romaia»31. Simili litanie avevano luogo anche in altre città. Un’icona dell’Odigitria era portata in processione a Tessalonica dalla chiesa di Santa Sofia all’Acheiropoietos durante le festività della Vergine. Nella regione di Tebe una confraternita, comprendente membri del clero ma anche laici di ambo i sessi, scortava un’icona della Vergine di Naupaktos (Naupaktitissa), che era trasportata a turno in varie località, rimanendo in ciascun luogo parecchie settimane. Al di fuori della chiesa, le icone non venivano soltanto portate in processione, ma avevano un ruolo preminente nei funerali dei santi, come in quello di san Simeone Nemanja, morto sul Monte Athos ma sepolto nel monastero della Madre di Dio a Studenica32. L’icona – conservata al Museo Bizantino di Atene – del funerale di un santo eremita, probabilmente

Le icone nel culto privato Le icone avevano un ruolo centrale nella devozione privata, e passavano in dote da genitore a figlio38. Potevano essere portate dai loro proprietari in viaggio o in guerra, come nel caso di un uomo d’armi che teneva nella sua bisaccia un’immagine dei santi guaritori Cosma e Damiano39. I laici tenevano nelle loro case non soltanto icone del Cristo e della Vergine, ma anche di santi morti recentemente e che avevano avuto l’occasione di conoscere40. Rappresentazioni di monaci nelle loro celle di solito mostrano una piccola icona con il busto di Cristo, della Vergine o di un santo appeso alla parete, ma questa è ovviamente una semplificazione41. Dovevano esserci stati più pannelli appesi e dovevano includere scene del Vangelo. Il rimprovero di san Lazzaro del Monte Galesion, che chiedeva ai suoi monaci di non tenere icone nelle loro celle, in quanto costituivano una proprietà e contraddicevano i loro voti monastici, rappresenta certamente un’eccezione. Le icone erano viste pressoché esclusivamente come oggetti di devozione, ma già nell’xi secolo Michele Psello, il più grande erudito dell’epoca, confessava in una lettera di rubare e collezionare le icone «perché mostrano l’arte del pittore». D’altro lato, potevano essere ipotecate, come ogni altro bene42. Un’indicazione riguardo alle icone che potevano essere in possesso di una famiglia agiata nel Trecento ci viene da un atto del tribunale ecclesiastico di Tessalonica del 1384, nel quale

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Un numero relativamente basso di dittici bizantini è giunto fino a noi. La loro altezza varia dai 12 ai 51 cm, ma la maggior parte è alta tra i 20 e i 25 cm. Il soggetto più comune è la Madre di Dio nell’anta sinistra e Cristo in quella destra [t. 6]. Santo Stefano il Giovane, che fu martirizzato durante l’iconoclastia, è raffigurato di solito nell’atto di sostenere un tale dittico. Quattro dittici – tra i quali il più antico, risalente alla prima metà dell’xi secolo e conservato sul Monte Sinai, e un pregiato mosaico in miniatura degli inizi del Trecento conservato al Museo dell’Opera del Duomo a Firenze [t. 1, pagg. 138-139] – sono decorati con il Dodekaorton. Nel più recente, conservato al monastero del Sinai e databile alla fine del Trecento o ai primi del Quattrocento, ogni anta è suddivisa in quattro scomparti ad arco, dove il motivo del Dodekaorton si combina con quello della Vergine e del Cristo: i due scomparti superiori all’interno sono occupati dai busti della Vergine con Bambino e dal Cristo Pantocratore, mentre i rimanenti contengono due scene del Vangelo ciascuno44. Un altro dittico con scene dalla

sono menzionate sette icone decorate, valutate tra le due e le sette hyperpera ciascuna43. Due di esse erano in bronzo. I soggetti menzionati sono la Theotókos, la Deposizione dalla croce e san Nicola. La famiglia possedeva probabilmente anche icone non decorate, che però sono omesse nel documento in nostro possesso. Dittici, trittici, polittici Pannelli pieghevoli, soprattutto dittici e trittici, erano molto più comuni a Bisanzio di quanti ne possediamo ai giorni nostri. Quelli di piccole dimensioni erano evidentemente destinati al culto privato ed erano naturalmente facili da portare in viaggio o in guerra, senza incorrere in danno alcuno. I dittici nell’Antichità erano usati come taccuini: nelle superfici interne spalmate di cera si poteva scrivere con qualsiasi strumento appuntito. Ci sono rimasti molti dittici del periodo paleocristiano, ma sono intagliati nell’avorio.

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7. Trittico con l’Odigitria Aristerokratoussa e scene della vita, monastero di Santa Caterina del Sinai.

vita di Cristo è citato nel 1093 nel testamento di san Christodoulos, il fondatore del monastero di san Giovanni il Divino a Patmos45. Una piccola icona del monastero del Monte Sinai con un ciclo della Natività del Signore è stata identificata come l’anta sinistra di un dittico, distrutto a Kiev durante la Seconda guerra mondiale, nella cui anta destra erano dipinte scene dell’infanzia di Cristo46. I trittici erano molto più comuni, specialmente fino all’xi secolo, ma di molti di essi sono sopravvissuti solo frammenti. La più grande collezione è quella del monastero di Santa Caterina del Sinai, dove sono conservate numerose ante di trittici datate al primo millennio. Tra queste, l’opera più importante è della metà del x secolo, della quale sopravvivono soltanto le ante, con scene della storia del Volto Santo, che era probabilmente raffigurato nel pannello centrale andato perduto47 [t. 21, pag. 160]. La reliquia stessa fu portata da Edessa in Mesopotamia a Costantinopoli nel 944. Nei trittici bizantini le ante laterali sono di metà ampiezza rispetto al pannello centrale, e dall’xi secolo in poi terminano con un quarto di cerchio. Nei trittici di epoca postbizantina, al contrario, le ante laterali hanno approssimativamente l’ampiezza della parte centrale e sono coronate da un semicerchio. Come nei trittici in avorio, il pannello centrale di quelli dipinti era generalmente occupato da una figura singola o da una scena, mentre le ante erano di solito suddivise in due o tre ordini. È questo il caso di uno dei più antichi trittici rimastici, dove la Madre di Dio Odigitria del pannello centrale è fiancheggiata da scene della sua vita su tre ordini nelle ante [t. 7]. Questo pezzo è di dimensioni piuttosto ampie, con il pannello centrale che misura cm 112,5x81,5. Un altro trittico del xiii secolo, anch’esso conservato nella sua interezza, è tipicamente sinaitico nella sua iconografia: la Crocifissione del pannello centrale è incorniciata dai profeti Mosè e Aronne nelle ante laterali. Questo trittico è molto più piccolo, poiché misura soltanto 29 cm d’altezza48. L’uso di dipingere entrambi i lati delle ante non è attestato prima dell’iconoclastia e risulta essere un’innovazione del periodo mediobizantino. Secondo Weitzmann, la popolarità dei trittici era dovuta alla loro somiglianza, quando chiusi, con le porte del templon. L’apertura delle ante dà la sensazione di vedere un santuario interno rivelarsi, come quando le porte del bema vengono aperte. Numerosi trittici completi, datati a partire dal x secolo, sono sopravvissuti in Georgia49. Molti di questi hanno un rivestimento in metallo. Il pannello centrale è spesso decorato con la Vergine col Bambino circondati dal busto del Cristo Pantocratore, da angeli e santi, con santi in piedi nelle ante. Ci

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8. Tetrastico con la raffigurazione delle Dodici Feste, monastero di Santa Caterina del Sinai.

Nelle pagine seguenti: 9. Dittico con menologion di tutto l’anno liturgico, monastero di Santa Caterina del Sinai. 10. Menologion del mese di marzo, pannello di grandi dimensioni, monastero di Santa Caterina del Sinai.

sono anche, comunque, composizioni non convenzionali, come nel trittico di Ushguli, del xiv secolo, dove il pannello centrale e le ante contengono una scena della Passione, mentre santi guerrieri sono raffigurati nel retro delle ante. In altri esempi una figura singola è rappresentata sia nel pannello centrale che nelle ante, come nel piccolo trittico di Iprari, dove l’immagine centrale della Vergine col Bambino, a figura intera, è adorata del re Davide v prosternato. La citazione nell’iscrizione della sposa di Davide, Gvantza, data il trittico al periodo tra il 1252 e il 1263, rispettivamente l’anno del loro matrimonio e quello della morte della regina. A parte i trittici portatili, ce n’erano altri molto grandi, specialmente nel caso di icone venerate in modo particolare,

che erano protette a rinforzate dalle ante. Trittici di tale tipo sono sopravvissuti in Georgia, ma dobbiamo presupporre che esistessero anche a Bisanzio. La famosa Madonna di Khakhuli, (primo quarto dell’xi secolo, t. 10, pagg. 80-81) e il Salvatore di Anchi (fine del xii secolo), entrambi alti ca. 1,48 m, erano coperti, a parte la faccia e le mani, da rivestimenti in metalli preziosi, al contrario di un trecentesco trittico di Ubisi, con scene della vita della Vergine e del Nuovo Testamento, che attorniano un riquadro mancante con la Vergine, ora al Museo delle Belle Arti di Tbilisi, che è alto m 1,3350. Icone pieghevoli con quattro o sei pannelli sono sopravvissute soltanto nel monastero di Santa Caterina del Sinai. I tre tetrastici sono decorati principalmente con scene del Vangelo.

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Due di questi risalgono all’xi e xii secolo e sono alti rispettivamente 57 e 63 cm51 [t. 8, 53, pag. 192]. L’unico tetrastico del Trecento, decorato con quindici scene del Vangelo e due santi militari, è alto soltanto 37 cm52. In una delle due icone a sei sportelli conosciute, i quattro centrali, con il menologion dell’intero anno, sono fiancheggiati da cinque tipi iconografici della Vergine e scene del Vangelo su più ordini a sinistra, e dal Giudizio universale a destra53. Molte delle iscrizioni sono in greco e georgiano. Iscrizioni greche sul retro del pannello riportano il nome del pittore, il monaco Ioannes (Giovanni). L’altra icona sopravvissuta, con pannelli stretti di 31x13,5 cm, risale alla metà del Trecento. Il Dodekaorton è raffigurato da un lato, con angeli, apostoli e vescovi sul retro54.

Icone calendariali Un certo numero di cosiddette icone calendariali sono conservate nel monastero di Santa Caterina del Sinai. Le principali festività e santi dell’intero anno vi sono rappresentati su scala ridotta su diversi ordini e distribuiti su due, quattro o dodici pannelli. Le icone calendariali risalgono all’xi e xii secolo, sono strettamente legate alle miniature di manoscritti coevi contenenti le vite dei santi, che in quel periodo, dopo che Simeone Metafraste scrisse la sua estesa compilazione delle vite dei santi, andavano molto di moda, e furono probabilmente dipinte da artisti versati in entrambi i generi. Corrispondono piuttosto al Synaxarion, un libro che conteneva brevi notizie biografiche,

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11. Madre di Dio Odigitria, icona con rivestimento in argento, dalla chiesa della Peribleptos di Ohrid, Museo Nazionale di Belgrado. A fronte: 12. Vergine di Khobi, icona con rivestimento in argento dorato decorato con smalti e pietre preziose (il volto è un rifacimento tardo), Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi.

che al Menologion, una collezione di vite complete di un numero scelto di santi, come quella del Metafraste, che trova invece il suo contraltare nelle icone con un santo incorniciato dalle scene della propria vita, di cui si tratterà più avanti. Piccoli dittici e polittici-calendario erano con tutta evidenza destinati al culto privato. Tavole singole, al contrario, erano usate nelle chiese e poste su un proskynetarion nei giorni in cui venivano celebrati i santi o le feste ivi rappresentate. Non sono attestati dopo il xiii secolo, ma furono riportati in uso in epoca più tarda in Russia55. Si possono distinguere due tipi di icone calendariali. Nel primo tipo è rappresentato il martirio di santi che andarono incontro a morte violenta, mentre i santi non martirizzati stanno eretti in posizione frontale. Scene e figure singole sono chiaramente distinte e separate. Si raffigura soltanto il primo santo menzionato nel Menaion in una particolare data. A questo tipo appartengono un polittico della fine dell’xi secolo56 e quattro piccoli pannelli del xii secolo per i mesi da gennaio ad aprile, da un gruppo originale di dodici, sul retro dei quali sono dipinte scene del Vangelo; questi pannelli, che misurano 22,5 cm d’altezza, sono stati paragonati alle più tarde tavolette conservate a Novgorod e a Suzdal’, che si custodivano in chiesa ed erano poste a vicenda su di un leggio, durante il mese del quale erano rappresentati i santi e le festività57. Nel secondo tipo tutte le figure singole sono in piedi frontalmente, e alcune scene incluse riproducono soltanto episodi della vita di Gesù, la Madre e san Giovanni Battista. Santi celebrati nello stesso giorno sono raggruppati assieme. Questo secondo gruppo comprende un dittico con una moltitudine di figure su otto file, dove medaglioni del Cristo, della Madre di Dio ed alcune festività occupano la parte superiore ad arco di ogni anta58; comprende anche dodici pannelli – uno per ogni mese – alti quasi un metro, che attualmente sono appesi nelle colonne della navata nella basilica del monastero del Sinai59. Il dittico [t. 9], alto 36 cm, era probabilmente destinato al culto privato. I grandi pannelli singoli [t. 10] erano esposti su un piedistallo per essere venerati nella basilica, durante il mese nel quale erano celebrati i santi e le feste ivi rappresentati60. Alcuni pannelli con file di santi a figura intera in posizione frontale, e che sono celebrati nello stesso giorno, presentano soltanto una somiglianza tipologica con le icone calendariali. È il caso di due grandi pannelli dei primi del Duecento nel monastero del Monte Sinai (approssimativamente 57,5x41 cm), nei quali i monaci martirizzati sul Sinai e a Raitho sono dipinti in quattro file di dieci santi ciascuna61. Nella stessa collezione, un’icona del Quattrocento, ma che imita lo stile del Duecento, è decorata con la Grande Deesis e gruppi che rappresentano

varie categorie di santi su cinque file. Un busto del donatore, un monaco del Sinai, a braccia aperte, è dipinto nel margine inferiore62.

Icone con rivestimenti di metallo Le icone di metallo erano comuni a Bisanzio, a giudicare dalle numerose citazioni in fonti scritte, ma poche ne sono rimaste. Un numero maggiore è ancora esistente in Georgia. Le icone di metallo non sono trattate in questo contributo, così come quelle in marmo, avorio, steatite o smalto. Le icone dipinte su legno, di cui ci occupiamo, erano tuttavia piuttosto spesso ricoperte parzialmente con rivestimenti in argento o in argento dorato, che le impreziosivano e ne aumentavano il valore [t. 11]. Epigrammi bizantini che celebravano alcune icone specifiche, come quelli composti dal poeta Manuel Philes, mettono in rilievo la

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13. San Nicola di Lipna con figure di santi nella cornice, Museo di Storia e Architettura, Novgorod.

14. Bottega di Dionisij, Metropolita Pëtr con scene della sua vita, cattedrale della Dormizione del Cremlino di Mosca.

Nelle pagine seguenti: 15. San Panteleimon con scene della vita e del martirio, monastero di Santa Caterina del Sinai. 16. San Nicola e storie della sua vita, Pinacoteca provinciale, Bari.

loro decorazione con rivestimenti in metallo o gioielli; inoltre inventari e documenti simili specificano se un’icona fosse coperta con oro o argento o avesse aureole fatte con quei metalli preziosi o se fosse adorna di pietre preziose63. Questi pannelli, definiti nei documenti bizantini «icone decorate» (kekosmeimenai eikones), stando agli inventari medievali, risultano esser stati molto più numerosi di quanto il limitato numero rimastoci lascerebbe presupporre. Qualche volta soltanto la cornice di un’icona era coperta con lamine di metallo, spesso decorate con figure di santi o scene dello stesso materiale o in smalto64. Icone con i bordi in metallo decorate con busti di santi e figure intere sono elencate nella Diataxis del monastero del Cristo Panoiktirmon, del 1077, e un’icona in miniatura a mosaico di san Nicola nel tesoro del monastero di Patmos, con l’Etimasia e sei busti di santi in medaglioni sulle lamine di metallo che l’incorniciano, è stata anch’essa datata all’xi secolo65. Documenti del xii secolo fanno menzione anche di icone nelle quali il rivestimento di metallo ricopre una piccola o grande parte della superficie dipinta. In alcuni casi erano aggiunte aureole d’argento o dettagli come i risvolti delle maniche66. In altri casi i pannelli erano coperti interamente con un rivestimento di metallo ad eccezione delle figure, in casi estremi soltanto le facce rimanevano scoperte67 [t. 12]. L’abitudine di accrescere parti di una figura con rivestimenti d’argento o argento dorato potrebbe esser paragonata al caso delle antiche statue di dèi nelle quali le parti nude erano fatte di metalli più preziosi di quelli delle parti drappeggiate. Quest’abitudine risale al periodo paleocristiano, come indicano i mosaici di san Demetrio a mani aperte nel suo martirio a Tessalonica e quelli di santo Stefano orans nella cappella dell’anfiteatro a Dyrrachium, i cui palmi, in entrambi i casi, sono fatti di tessere dorate che imitano evidentemente il rivestimento dorato di un’icona portatile68. Dal Duecento in poi le aureole in metallo, i risvolti e altri elementi dei parametri liturgici, oppure l’intero fondale di un’icona, erano alle volte imitati in gesso, specialmente a Cipro69.

bilmente due icone dell’xi secolo sul Monte Sinai: una del busto di san Nicola circondato da dieci medaglioni [t. 8, pag. 34] e l’altra con la Deesis fiancheggiata da due santi in piedi, mentre sei medaglioni – la maggior parte ridipinti – occupano i bordi superiore e inferiore70 [t. 24, pag. 163]. Almeno tre pannelli di questo gruppo appartengono al xii secolo: una Crocifissione del Sinai, orlata da 18 medaglioni [t. 11, pag. 37]; il busto del Cristo Pantocratore proveniente dalla chiesa di Panagia tou Arakos di Lagoudera, ora a Nicosia, con vescovi a figura intera sui lati e busti sul margine inferiore; e un’icona del profeta Elia nutrito dal corvo a Kastoria, con due apostoli in piedi su ogni lato e due busti di santi sul margine superiore71. Un maggior numero di icone bizantine incorniciate da singole figure appartiene al xiii, xiv e xv secolo. La stessa disposizione si ritrova nella fastosa icona in oro, argento e smalto dell’arcangelo Michele in piedi, nel tesoro di San Marco a Venezia, del x-xi secolo [t. 23, pag. 50], nella Madre di Dio col Bambino tra due arcangeli del ix secolo pro-

Icone incorniciate da figure singole o da scene Icone a figura singola – Cristo, la Vergine o un santo – oppure, in casi eccezionali, una scena del Vangelo, sono spesso incorniciate da piccoli scomparti dove sono rappresentati santi o scene della vita e del martirio dei santi raffigurati, o che sono in relazione alle scene del Vangelo. I pannelli incorniciati da figure singole appaiono per primi. Le più antiche sono proba-

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Pannelli con scene in piccoli scomparti che incorniciano il soggetto centrale sono attestati con certezza a partire dal xii secolo e furono di moda soprattutto nel xiii76. Questa pratica si riscontra nell’arte romana imperiale, dove un soggetto centrale poteva essere circondato da scene complementari su scala ridotta. Rappresentazioni di un soggetto incorniciato da piccoli scomparti con scene attinenti si incontrano nell’arte paleocristiana e carolingia. È tuttavia poco probabile che icone dipinte di questo tipo derivino da modelli così antichi. Si ispiravano piuttosto alle icone argentee o a pannelli decorati con cornici di metallo comprendenti scene. Gli esempi bizantini rimastici risalgono al periodo della dinastia dei Paleologi, ma un’icona in argento georgiana della Madre di Dio col Bambino incorniciata da quattordici scene del Vangelo è probabilmente un lavoro dell’xi secolo, e icone bizantine simili esistevano probabilmente perlomeno nello stesso secolo77. Delle quasi trentacinque icone conosciute di questa categoria, la grande maggioranza – ventotto – riguarda santi [t. 15]. Il più popolare è san Nicola con nove pannelli, seguito da san Giorgio con cinque e santa Marina con tre. La Madre di Dio è soggetto di cinque icone, mentre una rappresenta l’inno in suo onore «Di te si rallegra» circondato da 24 scene del Vangelo, e due contengono scene della Passione – la Crocifissione, la Deposizione dalla croce e la Sepoltura – incorniciate ancora una volta da scene del Vangelo. La figura principale è dipinta sia a mezzo busto che a figura intera. Figure erette sono di solito frontali, ma in due esempi sono rivolte verso Cristo che appare in un quadrante. La Vergine in un caso è dipinta in trono, mentre san Giorgio e san Mama sono raffigurati nell’atto di cavalcare un cavallo e un leone su due pannelli ciprioti. L’uso esatto delle icone in questo gruppo non è chiaro. Quelle del Sinai erano presumibilmente esposte in cappelle dedicate ai santi ivi rappresentati, mentre quella di santa Caterina era probabilmente collocata vicino alla sua tomba. Alcune grandi icone nel monastero del Sinai che raffigurano soltanto una figura intera erano con tutta probabilità esposte originalmente in cappelle dedicate ai santi rappresentati78. Nella maggior parte degli esempi rimastici le scene circondano la figura principale da tutti e quattro i lati, mentre in cinque casi – due dei quali sono manifestamente influenzati dall’arte occidentale – si limitano ai lati e in altri sei occupano i bordi laterali e quello superiore. In cinque casi si tratta di pannelli bifronti, in altri due di pannelli in rilievo. Icone incorniciate da scene della vita sono di solito di una certa grandezza; quasi la metà di queste eccede il metro d’altezza, e comprende, le più

veniente da Tsilkani [t. 17, pag. 89], nella Vergine della metà del x secolo da Khobi [t.12], entrambi ora a Tbilisi, e negli altri esempi georgiani, sia di legno con rivestimento in argento, che di solo metallo72. Un pannello di santa Caterina circondata da due figure erette e sei busti sulla sua cornice d’oro e argento è riportato in una lista delle icone del monastero del Cristo Panoiktirmon del 107773. Le tavole bizantine circondate da figure in scala ridotta sono quindi probabilmente ispirate a icone con medaglioni di metallo o smalto nelle loro cornici. Weitzmann aveva notato che i colori sorprendentemente brillanti dei medaglioni che incorniciano il pannello di san Nicola nel monastero del Sinai suggeriscono l’influsso di smalti cloisonné, e arrivò alla conclusione che fossero effettivamente ispirati alle cornici smaltate non solo nella forma ma anche nel colore74. In Russia le cornici decorate con figure in scala ridotta compaiono alla fine del xii secolo ma sono molto più numerose nel xiii. I medaglioni si incontrano raramente. San Nicola è la figura centrale più popolare75 [t. 13].

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17. Templon della chiesa di San Panteleimon, 1164, Nerezi, Macedonia.

19. San Marco, icona di una Grande Deesis, collezione privata.

18. Iconostasi monumentale della cattedrale della Trinità di San Sergio, 1427, Sergiev Posad. Russia.

Scene biografiche incorniciano quasi invariabilmente un ritratto del santo in questione. Una rara eccezione è data da una piccola icona del Trecento con iscrizioni in greco, di dimensioni 29x25 cm, nella quale le scene dalla Vita di santa Maria Egiziaca sono dipinte su quattro ordini, senza alcuna separazione tra le singole scene83.

grandi icone bizantine conosciute: la Vergine in trono della chiesa della Chrysaliniotissa a Nicosia e san Nicola del Tetto a Kakopetria, anch’esso a Cipro, che misura m 2,03x 1,5779. Più di una dozzina, però, sono di grandezza media; la più piccola è l’icona della Crocifissione del Sinai, che misura 32x33 cm. Le icone incorniciate da scene erano particolarmente popolari sul Monte Sinai e a Cipro, e in misura minore in Macedonia occidentale, in special modo a Kastoria. Pochissimi esem­plari bizantini compaiono in altri luoghi: due nelle isole greche, due in Bulgaria, uno in Asia minore, uno in Ucraina. Simili esemplari sono raramente attestati in Serbia e Georgia80 ma divennero molto popolari in Italia e in Russia. Pannelli agiografici furono trapiantati in Italia all’inizio del Duecento. Sono spesso muniti di timpano e le scene sono disposte verticalmente su entrambi i lati della figura centrale. Un’eccezione notevole è rappresentata da un’icona di san Nicola, ora alla Pinacoteca Provinciale di Bari, dove gli episodi circondano su tutti e quattro i lati il santo in piedi che è vestito come un vescovo ortodosso81 [t. 16]. In Russia, le icone con scene sono invariabilmente incorniciate da scomparti nei quattro lati [t. 14]. Fanno la loro comparsa nel Duecento, superano quasi sempre il metro d’altezza – una è alta 2,35 m – e, a parte alcuni santi comuni anche nell’ambito bizantino e nell’Occidente, come Nicola – il più frequente –, il profeta Elia o l’arcangelo Michele, raffigurano santi locali come Boris e Gleb82 [t. 38, pag. 64].

Il templon Durante il periodo trattato in questo capitolo, il templon, ossia la barriera tra la parte centrale della chiesa, dove si riunisce l’assemblea dei credenti, e il santuario, fu gradualmente ricoperta da pannelli di legno84. Questa parete divisoria, che all’origine consisteva di plutei, alti fino alla cintola fissati tra i pilastri, nel vi secolo si era già evoluta in una barriera più alta, con colonnine che sorgevano dai pilastri che sostenevano una trabeazione o epistylion. Il templon derivava probabilmente dal Tabernacolo del Vecchio Testamento, che separava con un tramezzo il Sancta Sanctorum nel Tempio di Gerusalemme; in origine era decorato soltanto con motivi vegetali o animali, ai quali gradualmente si aggiunsero rappresentazioni su scala ridotta di Cristo, della Vergine, angeli e santi, intagliati o sbalzati nello stesso materiale della trabeazione, di solito marmo ma anche, in rari casi, probabilmente, su un rivestimento d’argento o avorio85.

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Nelle pagine precedenti: 20-25. Bottega di Dionisij, la Madre di Dio e san Giovanni Battista, l’arcangelo Michele e l’arcangelo Gabriele, san Gregorio di Nazianzo e san Demetrio di Tessalonica: icone monumentali del registro della Deesis, dall’iconostasi della cattedrale della Madre di Dio del monastero di Ferapont, Galleria Tret’jakov, Mosca e Museo Russo, San Pietroburgo.

26. Angelo dai capelli d’oro, da una Deesis originariamente sul tramezzo dell’altare, Museo Russo,San Pietroburgo.

Può darsi che veli fossero appesi tra gli intercolumni sopra i plutei. All’inizio del periodo medio-bizantino, le sacre immagini che decoravano il templon non erano rimovibili; erano raffigurate nello stesso materiale che costituiva la trabeazione, o fissate su di esso in smalto, o in pasta vitrea o in encausto. Pian piano, tuttavia, le icone fecero la loro comparsa sull’epistilio e grandi pannelli furono collocati negli intercolumni, facendo diventare il templon una compatta parete, giustificando appieno il termine moderno di iconostasi. Questo sviluppo è connesso probabilmente alla tendenza di celebrare una parte della liturgia lontano dallo sguardo dell’assemblea dei fedeli. Non c’è accordo sulla data in cui questi cambiamenti furono introdotti. La trasformazione che abbiamo descritto continuò per un lungo periodo e con buona probabilità non ebbe inizio nello stesso momento e non seguitò dappertutto in modo uniforme. La situazione avrebbe potuto anche variare da monastero a monastero, pur nella stessa area. Templa della tarda bizantinità in villaggi montani di Cipro non hanno icone tra gli intercolumni. L’originale decorazione dei templa con icone di solito non è sopravvissuta in situ, cosicché la si deve ricostruire tenendo presente sia, da un lato, icone che spesso non sono più nella loro originale collocazione sia, dall’altro, descrizioni in fonti scritte che alle volte non sono tanto esplicite quanto ci si sarebbe auspicati86. Una di queste fonti, i Miracula S. Artemii, risalente al terzo quarto del vii secolo, indica che l’epistilio del templon di una chiesa di Costantinopoli che conteneva le reliquie di sant’Artemio era decorato con rappresentazioni di Cristo, di san Giovanni Battista e del santo patrono87. Si è pensato che queste fossero icone mobili, ma, a nostro avviso, ciò non è in alcun modo certo, tenendo anche in considerazione che nella ricostruzione suggerita le icone sono sia triangolari che rotonde, cioè presentano una forma piuttosto rara per le icone. Il templon bizantino è relativamente basso e permette all’assemblea di vedere la Vergine o il Cristo dipinti nella parte superiore dell’abside [t. 17]. Dall’inizio del xv secolo in Russia esso è rimpiazzato da un’alta iconostasi monumentale, che separava completamente il santuario togliendolo alla vista [t. 18]. L’iconostasi comprendeva quattro o cinque ordini di pannelli con figure singole e scene, con l’immagine del Cristo in Gloria al centro della Deesis, che superava in altezza gli altri livelli [tt. 20-25]. Questo sviluppo è stato messo in relazione col metropolita della Russia Cipriano (1375-1406) e con l’adozione del cerimoniale di Gerusalemme sotto il suo governo. Inoltre è stato associato con le aspettative escatologiche riguardanti

l’anno 700 dell’era bizantina (a.d. 1492). Non è ancora chiaro se all’inizio del suo sviluppo un ordine con figure di profeti, di metà lunghezza, fosse stato aggiunto a quelli preesistenti assieme alla Deesis e alle feste da Teofane il Greco o dal suo discepolo Andrej Rublëv88. Tra le più antiche iconostasi alte rimaste ci sono quelle della cattedrale della Dormizione di Vladimir e quella della Lavra della Trinità di San Sergio, datate 1408 e 1427 rispettivamente [tt. 40-44, pagg. 66-67; 18]. L’iconostasi alta fu adottata a Novgorod e a Pskov in ritardo, dopo la loro annessione allo stato di Mosca. Le alte iconostasi russe comprendevano nel registro riservato alle Feste scene sconosciute negli epistili bizantini, come, ad esempio, l’Ospitalità di Abramo.

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27. Pannello con la Grande Deesis nel primo registro e raffigurazione delle Dodici Feste, piccola icona che riprende le raffigurazioni dell’epistilio di un templon, monastero di Santa Caterina del Sinai.

di Cristo e della Vergine formavano le cosiddette Dodici Feste (Dodekaorton), che di solito comprendevano l’Annunciazione, la Nascita di Cristo, la Presentazione al tempio, il Battesimo, la Trasfigurazione, la Resurrezione di Lazzaro, l’Entrata a Gerusalemme, la Crocifissione, la Discesa agli Inferi, l’Ascensione, la Pentecoste e la Dormizione della Vergine. I più importanti episodi della vita di Cristo furono gradualmente scelti e illustrati nelle edizioni dei Vangeli, nelle icone e in decorazioni parietali a partire dalla fine del x secolo. Il numero scelto, dodici, che ricorda i dodici apostoli e i dodici mesi, è conveniente, in quanto si presta a varie combinazioni simmetriche – sei scene su entrambi i lati di un soggetto centrale, tre file di quattro scene o quattro file di tre scene l’una. Il numero era già fissato, pare,

Le icone dell’epistilio A partire dal x secolo le icone dipinte sono state spesso collocate – così sembra – sulla trabeazione dei templa89. Per citare Christopher Walker, «esse davano ai laici un soggetto su cui meditare mentre la liturgia si celebrava dall’altro lato della barriera del santuario»90. Il centro dell’epistilio era di solito occupato dalla Deesis, cioè la Vergine e san Giovanni Battista che pregano Cristo per la salvezza dell’umanità. Questo soggetto centrale era incorniciato da scene della vita di Cristo, la Vergine o un santo, o dalla Grande Deesis, vale a dire angeli, apostoli e spesso altri santi, un soggetto che evidentemente alludeva al Giudizio universale. Le principali scene della vita

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28. Parte di epistilio con scene delle Dodici Feste, monastero di Santa Caterina del Sinai.

quando il canone delle scene rappresentate non era ancora ben stabilito. Il termine Dodekaorton è attestato per la prima volta nell’xi secolo91. In chiese dedicate alla Vergine o ad un santo, la trabeazione dell’iconostasi era di solito decorata con scene dalle loro vite, che incorniciavano la Deesis al centro. Un esempio ce lo fornisce l’epistilio della metà del xii secolo con i miracoli di sant’Eustrazio, conservato sul Sinai, che proviene da una cappella dedicata ai santi Eustrazio, Eugenio, Mardario ed Oreste [t. 29], mentre un inventario di icone del monastero costantinopolitano di Cristo Panoiktirmon (l’Onnimisericordioso) del 1077 menziona un templon con la Deesis nel mezzo e con la storia di san Giovanni Battista92. La più antica scena di Dodekaorton da un templon esistente è forse un’icona con la Lavanda dei piedi nel monastero del Sinai, databile alla prima metà del x secolo93 [t. 17, pag. 155]. Il typikon del monastero di Petritzonitissa nel nord della Tracia, compilato nel 1083, è la più antica fonte scritta che citi un epistilio con scene dal Vangelo davanti al quale si dovevano accendere dodici lampade94. Un piccolo pannello dell’apostolo Tommaso conservato sul Sinai è stato attribuito al x o xi secolo, e si reputa provenga da una Grande Deesis, ma datazione e attribuzione sono state messe in discussione95. D’altro canto, l’esistenza nel corso del x secolo, a Costantinopoli e a Preslav, di icone da epistilio in ceramica che raffiguravano il Cristo e vari santi, indica che a quel tempo avrebbero potuto benissimo esistere anche icone dipinte con figure singole96. Sebbene ci siano riferimenti certi ad epistili dipinti nella seconda metà dell’xi secolo97, le più antiche trabeazioni conservate risalgono al xii e xiii secolo; si trovano nel monastero di Santa Caterina del Sinai [t. 28] e nella Grande Lavra sul Monte Athos e molto probabilmente provengono da botteghe di Costantinopoli. Il Cristo della Deesis era raffigurato in piedi o sul trono, le altre figure intere o a mezzobusto, in veduta frontale o a tre quarti. Il programma iconografico aveva una certa flessibilità. Epistili con il Dodekaorton potevano includere santi, e san Giovanni Battista alla sinistra di Cristo poteva essere sostituito da un altro santo. Ciò vale nel caso di un epistilio parzialmente conservato al monastero del Monte Sinai, dipinto su due travi, mentre la Deesis consiste nel Cristo, la Vergine e san Nicola, e gli altri scomparti comprendono la Natività di Cristo, una scena della vita di san Nicola, due scene non identificate e due santi militari a figura intera. In un altro caso simile sono dipinti soltanto la Deesis, gli apostoli Pietro e Paolo, i quattro evangelisti

e due santi militari98. Scene e figure singole erano raggruppate su lunghe travi, in numero da una a tre, con un’altezza media di 40-45 cm che in certi casi poteva raggiungere anche 70 cm, oppure erano dipinte su pannelli separati, che sono attestati nel xii secolo ma predominano a partire dal xiv99. Tra gli epistili dipinti su una o più lunghe travi si potrebbero ricordare i sei esempi del xii secolo e due esempi del xiii sul Monte Sinai, e qualche altro nel monastero di Vatopedi sul Monte Athos, a San Pietroburgo, a Veria e a Cipro100. Trabeazioni dipinte su una o più travi furono gradualmente rimpiazzate da santi e scene della vita su pannelli singoli. Molte icone che rappresentano un santo a mezzobusto e a tre quarti appartenevano forse alla Grande Deesis, della quale mancano gli altri pannelli, per esempio san Giovanni Teologo, che già faceva parte di una collezione ateniese, e l’angelo dai capelli d’oro del Museo Russo di San Pietroburgo, entrambi della seconda metà del xii secolo101 [t. 26]. Scene del Vangelo su trabeazioni potevano occupare due file, come in un epistilio del Trecento nella chiesa di san Giovanni Lampadistis a Kalopanayotis, Cipro. Singoli pannelli da epistilio potevano anche contenere due scene sovrapposte, formando così due ordini, come nell’icona del Sinai con la Comunione degli apostoli e la Lavanda dei piedi sotto un’arcata in bassorilievo, che è stata datata all’xi secolo102. È altresì molto probabile che alcuni templa fossero decorati sia con la Grande Deesis che con il Dodekaorton su due registri sovrapposti. È stata anche avanzata l’ipotesi che un pannello di squisita fattura della

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del trono con gli strumenti della Passione, la Vergine e san Giovanni; è stata datata alla fine del Trecento o agli inizi del Quattrocento107.

seconda metà dell’xi secolo nel monastero del Sinai, nel quale una Grande Deesis completa e il Dodekaorton sono dipinti su quattro file, sia stato ispirato da un epistilio di templon dove entrambi i soggetti erano raffigurati su due file sovrapposte103. Il vertice arrotondato di alcune scene mostra che nel prototipo le scene stesse erano dipinte sotto degli archi [t. 29]. Alla fine del periodo dei Paleologhi le tavole d’epistilio con figure singole potevano superare il metro d’altezza, come le icone ancora esistenti di una Grande Deesis del monastero Vatopedi sul Monte Athos, del terzo quarto del xiv secolo, che misurano tra 1,19 e 1,39 m in altezza104.

Icone poste nell’intercolumnio del templon Dall’xi, o almeno dal xii secolo in poi, i pannelli lignei, chiamati icone di culto (eikonismata proskyniseos), erano posti negli intercolumni del templon108. Raffiguravano Cristo alla destra della porta del templon e la Vergine alla sua sinistra, di solito a mezzobusto. Nel caso di templa molto grandi erano incluse anche due ulteriori icone, di san Giovanni Battista e del santo o della festa eponimi. Questa pratica pian piano prevalse. Prima di ciò, le icone erano poste su piedistalli di fronte al templon. Cristo era comunemente rappresentato in atto di tenere un Vangelo, aperto o chiuso, in mano, mentre la Vergine tiene il Bambino Gesù. In alcune chiese le rappresentazioni di Cristo, della Vergine e del patrono erano in origine dipinte in affresco o mosaico sulla facciata delle pareti che separano il santuario dalla prothesis e dal diakonikon oppure nelle pareti laterali adiacenti al templon, e questa pratica continuò anche dopo che si era fermamente stabilita l’abitudine di inserire icone negli intercolumni. Raffigurazioni simili, chiamate a volte icone proskynetaria, rimandano all’intercessione di santi per il fedele e, in definitiva, al Giudizio universale, e sono attestate a partire dal x secolo. Spesso presentano un’elaborata cornice in marmo o stucco che estende in

La croce del templon Sulla sommità dell’epistilio veniva fissata una croce. Croci di metallo erano poste all’apice dei primi templa a partire dal vi secolo105. Più tardi furono sostituite da croci in legno, con raffigurazioni di Cristo crocifisso. I più antichi esempi conosciuti, conservati nel monastero del Monte Sinai, risalgono al xii-xiii secolo e comprendono scene dalla Passione e Resurrezione106. In epoca più tarda le estremità dei bracci della croce erano decorate con la Vergine, san Giovanni, angeli, o con i simboli degli evangelisti. La grande croce (m 1,82x1,35) che era posta un tempo sulla sommità del templon del monastero del Pantocratore sul Monte Athos, è decorata con il Cristo crocifisso, Adamo ed Eva prostrati sui due lati

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29. Epistilio con scene della vita di sant’Eustrazio, monastero di Santa Caterina del Sinai.

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30. Porte del santuario con le immagini dei santi Giovanni Crisostomo e Basilio il Grande, Galleria Tret’jakov, Mosca. A fronte: 31. Porte del santuario con raffigurazione dell’Annunciazione, monastero della Grande Lavra, Monte Athos.

un senso il templon in marmo, come nel caso della chiesa della Theotókos del monastero di San Luca, nel Protaton sul Monte Athos o nella chiesa di San Panteleimon a Nerezi, oppure ancora una cornice dipinta109. In alcuni casi l’imitazione di icone portatili arriva fino a simularne lo sfondo dorato: nella chiesa dei Santi Anarghiri a Kastoria, sulla superficie del pilastro orientale che separa la navata centrale da quella sud, e immediatamente alla destra del templon non più esistente, l’affresco dei santi titolari della chiesa incoronati da Cristo è l’unico ad esibire un fondo dorato. Le aureole dei santi sono inoltre decorate con rinceaux in rilievo, che imitano le aureole di metallo. Questo affresco proskynetarion è arricchito da una cornice dipinta molto elaborata e con la sommità caratterizzata da un arco trilobato110. Non è facile distinguere quali icone rimaste furono dipinte per essere poste negli intercolumni del templon, poiché è noto che pannelli piuttosto grandi, le cui dimensioni lo consentivano, erano collocati in vari luoghi all’interno delle chiese, ad esempio appesi nel naos o nel nartece, oppure poste sui proskynetaria o dietro all’altare. L’indicazione più sicura è quando le icone di soggetto e dimensioni adatte sono conservate a coppie, come nel caso delle icone del Cristo Pantocratore e della Madre di Dio della chiesa della Vergine Arakiotissa vicino a Lagoudera del 1192 ca. o le coppie di icone abbinate nei monasteri di Vatopedi e di Chilandari sul Monte Athos, che sono state attribuite a cappelle o a templa successivi della chiesa principale dei monasteri111. Dal xii secolo l’improvvisa crescita del numero di icone che raffigurano santi, soli o circondati da scene della loro vita e del martirio, di dimensioni adatte agli intercolumni delle iconostasi, suggerisce l’ipotesi che molte di queste fossero icone di santi eponimi poste sui templa. In qualche raro caso gli intercolumni erano costruiti sopra ai lastroni di chiusura e alle pseudo-icone dipinte sull’into­naco112. Nelle chiese in cui il templon era costruito in muratura – una pratica diffusa nelle piccole cappelle ma che si riscontra anche in chiese grandi come San Giorgio a Staro Nagori/ino – i soggetti delle icone di culto erano dipinti ad affresco113. Che questi ultimi sostituissero dei pannelli mobili è comprovato dal fatto che sul retro della muratura ci sono spesso gli stessi soggetti che decorano il retro delle icone, come linee ondulate rosse e nere o una croce fogliata.

ma devono essere esistite anche quelle in legno; raffigurazioni in miniature del ix secolo, in particolare nel manoscritto parigino delle Omelie di san Gregorio di Nazianzo (Par. gr. 510), sono state interpretate come riflessi di modelli posteriori per forma ed iconografia, esibendo figure erette con aureole115. Le più antiche porte in legno di iconostasi conservate risalgono al xii secolo. Sono arcuate, con ogni battente che termina in un quadrante. Del periodo bizantino esiste ancora quasi una dozzina di porte di santuario con decorazioni pittoriche, la maggior parte sul Monte Athos e sul Sinai, ma ce ne sono alcune altre con decorazione ad intaglio o con intarsi in avorio e intagli d’osso. La maggior parte delle porte di templon bizantine erano decorate con l’Annunciazione, Gabriele rappresentato sul battente sinistro e Maria in quello destro [t. 31]. Ciò si riconnette al fatto

Le porte del santuario Le aperture del templon che introducono al santuario furono chiuse da basse porte con due battenti114. Soltanto le porte di metallo si sono conservate fino a noi dal periodo paleocristiano,

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che la Madonna era, secondo la letteratura ecclesiastica, la porta che conduceva il fedele in Paradiso. Un esempio della fine del Trecento, dall’originale iconostasi del monastero della Trasfigurazione sulle Meteore, combina l’Annunciazione con busti degli apostoli Pietro e Paolo. L’Annunciazione non appare rappresentata nel caso di piccole cappelle, dov’era sostituita invece dal santo patrono o da santi; una porta della fine del xii secolo nel monastero del Sinai con rappresentazioni di Mosè e Aronne proviene probabilmente da una cappella dedicata a questi profeti116. È stato notato che le icone del templon ripetono in qualche modo il programma iconografico della chiesa117; così, ad esempio, l’Annunciazione delle porte del bema è ripetuta sulla parete sinistra della chiesa o sui pilastri orientali che sostengono la volta. La Deesis che occupa il centro dell’epistilio in taluni casi decora anche la parte superiore dell’abside, mentre le scene del Vangelo della trabeazione si ritrovano sulle volte e sui muri della chiesa. Le più antiche porte d’iconostasi russe provengono da Novgorod, risalgono alla fine del Duecento e sono simili nella decorazione a quelle bizantine: l’Annunciazione è dipinta nella parte superiore, due vescovi in posizione frontale in quella inferiore; la parte superiore non ha la forma di un quadrante, ma nel profilo ricorda una cupola russa. In un esempio più tardo della scuola di Tver’, della fine del Trecento, la parte superiore è mancante, i vescovi sono girati verso il centro e tengono in mano dei cartigli aperti118 [t. 30]. Un terzo esempio, alla Galleria Tret’jakov, come i due precedenti e un quarto, al Museo di Zagorsk, è decorato con l’Annunciazione e i quattro evangelisti. Questi ultimi sono stati datati l’uno al primo quarto del xv secolo, mentre l’altro, proveniente dalla cerchia di Andrej Rublëv, agli anni 1425/1427119.

Icone bifronti Il lato posteriore delle tavole era lasciato di solito con la superficie lignea in evidenza. In alcuni rari casi vi si incidevano indicazioni quali il nome del pittore, il donatore e la data dell’icona120. Molto più numerosi sono i pannelli che ricevevano una mano di vernice al fine di proteggerne la superficie in legno. In tal caso venivano decorati a righe orizzontali di ondeggianti pennellate rosse e nere121, con semplici disegni geometrici122, elaborate croci adorne di perle all’interno di cerchi123, o con una croce fogliata124. In ogni caso, sono sopravvissuti all’incirca 150 pannelli che sono dipinti su entrambi i lati con raffigurazioni a soggetto125. Il soggetto più comune è la Madre di Dio col Bambino, che

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32-33. Icona bifronte con la raffigurazione della Madre di Dio Brephokratoussa e di san Giacomo il Persiano (?), Museo Bizantino della diocesi di Pafo, Cipro.

Nelle pagine seguenti: 34-35. Icona bifronte con l’Odigitria e la Crocifissione, Galleria delle icone di San Clemente, o chiesa della Peribleptos, Ohrid.

è dipinto su almeno 80 icone bifronti, mentre il Cristo appare in venti casi soltanto. La combinazione più comune è la Madre di Dio su un lato e la Crocifissione sull’altro, dove di solito soltanto Maria e san Giovanni sono raffigurati ai due lati della croce [tt. 34-35]. Sono riportati circa quaranta casi di questa combinazione, compresa la più antica icona bifronte conosciuta: la Madre di Dio Odigitria a Costantinopoli, sul cui retro fu dipinta, attorno al x secolo, una Crocifissione. Questo pannello fu distrutto, secondo lo storico Doukas, durante la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453126, ma del recto conosciamo l’aspetto grazie a sue raffigurazioni precedenti alla distruzione, in particolar modo quella sul fol. 39v del Salterio Hamilton a Berlino127. Se aggiungiamo le combinazioni di Vergine col Bambino ai soggetti in relazione con la Crocifissione, come la Salita al Calvario, la Deposizione dalla croce oppure il Christus patiens risultano esserci almeno

nomi, forse lo stesso donatore e sua moglie. Un’icona con la Vergine su un lato e san Gerasimo col leone dall’altro, ora a Gerusalemme, proviene dal monastero di san Gerasimo presso il fiume Giordano, mentre sul retro della Vergine Demosiana, il palladio di Corfù, è rappresentato sant’Arsenio, vescovo di quell’isola nel x secolo128. Le due facce delle icone bifronti non sempre sono contemporanee. In alcuni casi una composizione appropriata era dipinta sul retro per poter trasformare un pannello normale in un’icona che si potesse vedere da entrambi i lati. Una Crocifissione fu aggiunta in seguito sul retro dell’originale Odigitria, già menzionata, e lo stesso soggetto fu dipinto, per esempio, durante il Settecento sulla parte posteriore di una Vergine Eleousa dei primi del Trecento proveniente da Tessalonica. In altri pannelli bifronti il rovescio, che era esposto maggiormente, si logorava e veniva susseguentemente rinnovato. Ciò vale nel caso dell’icona di Gerusalemme con san Gerasimo sul retro, risalente al 1300 circa, nella quale il lato frontale con la Vergine e il Bambino fu rinnovato nel xix secolo129. Alcuni pannelli dipinti su entrambi i lati non dovrebbero essere considerati icone bifronti. In certi casi il rovescio di un vecchio pannello, che fosse troppo danneggiato o annerito, era utilizzato per dipingervi una nuova icona. Questo è certamente il caso delle due rappresentazioni della Madre di Dio Odigitria su retto e rovescio di un pannello a Veria. Il dipinto più vecchio e scurito risale al Trecento, il più recente proviene da una bottega locale del xvi secolo130. Un’icona danneggiata dei primi del Duecento a Kastoria, con i santi Cosma e Damiano circondati da scene della loro vita su tutti e quattro i lati fu decurtata del registro inferiore con le scene della vita e lo stesso soggetto fu raffigurato sul rovescio nel xvii secolo, con scene sulle parti laterali ed inferiori131. La maggior parte delle icone bifronti è bizantina o postbizantina. Relativamente poche sono opera di artisti serbi, russi od occidentali132. Nell’Oriente greco le icone bifronti sembrano aver goduto di un certo favore in certe regioni, mentre rimangono di fatto sconosciute in altre. Non è certamente per caso che ventuno tavole di questo tipo provengano da Kastoria, diciannove siano conservate nei monasteri del Monte Athos, diciassette a Veria e a Cipro, nove a Ohrid e otto a Rodi, mentre se ne conoscono soltanto tre nel monastero di Santa Caterina del Sinai, due a Creta e nessuna nel monastero di San Giovanni il Divino a Patmos. La differenza è notevole nel caso di Cipro e di Creta da un lato, e in quello di Rodi e Patmos dall’altro, due coppie di isole che ebbero un destino storico simile e che condivisero un’eredità cultu-

una cinquantina di pannelli bifronti che abbinano la Vergine e il Bambino sul recto con una scena dalla Passione di Cristo nel rovescio [tt. 29-30, pagg. 168-169]. Questa predilezione è dovuta probabilmente all’uso di questi pannelli durante gli uffici della Settimana Santa. In quasi cinquanta pannelli bifronti sono dipinti santi su uno o tutti e due i lati. In 22 casi il santo sul rovescio è abbinato alla Vergine con Bambino sul recto [tt. 32-33]. La scelta del santo da rappresentare potrebbe essere dovuta alle richieste del donatore, al santo venerato in quella chiesa o monastero ai quali il pannello era donato, oppure ai santi venerati in una data città o regione. L’abbinamento di san Pietro con santa Natalia, entrambi nell’atto di pregare Cristo, sul retro della Madre di Dio del Segno (Zamnenie) del xii secolo al Museo di Storia e Architettura di Novgorod è probabilmente dovuto al fatto che la famiglia del donatore comprendeva due membri con quei

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36. Stauroteca, con i santi Pietro e Paolo all’interno e san Giovanni Crisostomo sul coperchio, Museo Sacro, Biblioteca Apostolica Vaticana.

tuttavia, alcuni casi di reliquie inserite in pannelli lignei, sia singoli che dittici. Il più famoso è probabilmente un dittico conservato nella cattedrale di Cuenca in Spagna, la Vergine col Bambino nell’anta sinistra e Cristo in quella destra, in piedi, circondato da 14 busti di santi135. Una piccola nicchia alla base di ciascun busto contiene una reliquia del santo corrispondente. Una minuscola figura è prostrata ai piedi di Cristo e della Vergine. La figura rappresenta Tommaso Preljubovi0, governatore di Ioannina nell’Epiro, e sua moglie Maria Angelina Doukaina Palaiologina; il dittico può così sicuramente essere datato tra il 1367 e il 1384, quando Tommaso era governatore di Ioannina. Entrambi i pannelli sono rivestiti di lamine d’argento dorato decorate con fogliame. I contorni di Cristo e della Vergine, i bordi della cornice interna che li circonda e racchiude, e le aureole di tutte le figure sono adorni di piccole pietre preziose e di centinaia di perle. Un pannello che è un’esatta copia dell’ala sinistra del dittico, ma che non presenta la decorazione in lamine di metallo e pietre preziose, è conservato nel monastero della Trasfigurazione delle Meteore, il cui secondo fondatore era Giovanni-Ioasaph Uroy Palaiologos, fratello di Maria Palaiologina, che donò molte icone e vasi a quella fondazione136. Le reliquie del pannello delle Meteore sono andate perdute. Perduto è anche il frammento della Vera Croce precedentemente montato su un pannello misurante cm 63x34, nel monastero atonita di Chilandari, dove gli arcangeli Michele e Gabriele sono raffigurati negli angoli superiori e i santi Costantino ed Elena in quelli inferiori137. La stauroteca è stata datata alla seconda metà del xiv secolo. Un vasetto per le unzioni (ampulla) contenente mirra dal martirio di san Demetrio a Tessalonica è incastonato nella cornice di un mosaico in miniatura che rappresenta il suddetto santo in piedi che tiene una lancia e uno scudo decorati da un leone araldico, ora al Museo Civico di Sassoferrato nelle Marche138 [t. 41, pag. 181]. Un’iscrizione in greco sul lato destro della cornice fa riferimento al contenuto dell’ampolla. L’instabilità della figura allungata del giovane santo tende a sottolineare una datazione del mosaico alla seconda metà del xiv secolo. Appartenne un tempo all’umanista Nicolò Perrotto, amico del Bessarione che probabilmente gli donò l’icona. Icone-reliquiari sono menzionate negli inventari di monasteri bizantini. Tre icone di questo tipo sono citate, ad esempio, nell’inventario del monastero di San Giovanni Teologo a Patmos, del 1200139. Icone-reliquiari sono conosciute anche in Occidente, come, per esempio, nel trittico trecentesco ad Arbizzano in Veneto140.

rale comune. A parte le icone nella Macedonia occidentale (Kastoria e Veria) e sul Monte Athos, i pannelli bifronti esistenti a tutt’oggi nella Grecia continentale vi furono in realtà trasportati durante lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia nel 1923 e derivano perlopiù dalla Tracia e dal Nordest dell’Asia minore, cioè dall’entroterra di Costantinopoli. Un attento esame del materiale disponibile rivela alcune caratteristiche locali. Quattro raffigurazioni conosciute su sei del Christus patiens su pannelli bifronti si trovano a Kastoria, mentre tutt’e tre le rappresentazioni dell’Annunciazione che ci è dato conoscere sono dipinte sul verso di icone di Ohrid [tt. 11, pag. 108 e 4, pag. 142]. A Veria, dall’altro lato, sono dipinte di solito figure singole e la raffigurazione sui due lati non è contemporanea. Molte icone bifronti portano nella parte inferiore i segni che mostrano come esse fossero attaccate ad un’asta. Di conseguenza si è pensato che fossero portate in processione. Molte tavole bifronti servivano di certo a questo scopo, come, per esempio, la famosa icona dell’Odigitria a Costantinopoli, ma altre erano semplicemente esposte in chiesa su un piedistallo detto «stasidion». D’altro canto, non tutte le icone portate in processione erano necessariamente bifronti.

Icone che contengono reliquie È ben nota l’estrema venerazione nella quale erano tenute le sacre reliquie sia in Oriente che in Occidente. Esse erano conservate solitamente in reliquiari fatti di metallo, avorio o legno. Le coperture dei reliquiari lignei qualche volta assomigliavano ad un’icona, come nel caso di due reliquiari dal Sancta Sanctorum del Laterano, ora al Museo Sacro della Biblioteca Apostolica Vaticana133, e di un altro a Perpignan134. Le loro coperture erano decorate con soggetti attinenti ai loro contenuti. Nel coperchio di uno dei reliquiari del Sancta Sanctorum, per il quale sono state proposte diverse datazioni comprese tra il vi e il ix secolo, e che contiene piccole pietre provenienti dalla Terra Santa, sono rappresentate cinque scene della vita di Cristo; il secondo, una stauroteca datata al x secolo, è decorato con la Crocifissione nella parte superiore e con san Giovanni Crisostomo a figura intera sul lato interno del coperchio [t. 36]. Il reliquiario di Perpignan, che potrebbe essere datato alla prima metà del Trecento, conteneva una reliquia di san Giovanni Battista ed è decorato con l’immagine di quel santo dotato di ali che tiene in mano su un piatto la sua testa staccata dal corpo. Ci sono anche,

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37. Trittico di Seti, Museo di Storia ed Etnografia della Svanezia, Mestia.

Icone composite Una categoria piuttosto insolita di dipinti è quella nella quale un piccolo pannello è circondato da una grande cornice, la cui decorazione figurativa è in relazione con quella dell’inserto. Tale inserto di un’icona composita non è necessariamente un dipinto a tempera su tavola. Può trattarsi di un’icona a mosaico o di un pannello con decorazione in rilievo, come nel caso di una steatite. D’altro canto, la cornice di un’icona composita dev’essere una tempera su legno. Perciò sono escluse icone con una cornice di metallo o smalto che presentino anche decorazioni figurative. Le icone composite sono piuttosto rare. Fanno la loro comparsa a Bisanzio nel primo periodo della dinastia dei Paleologi, ma la maggior parte di esse risale al xvi secolo e oltre. L’esemplare più antico sembra essere un pannello nel monastero di Santa Caterina del Sinai, dove una piccola icona di steatite di san Nicola è circondata dalla Deesis, gli apostoli Pietro e Paolo, e i santi Giorgio, Onofrio e Blasio. L’inserto è stato datato all’xi secolo, la cornice al xiii o xiv141. Un mosaico in miniatura del xiv secolo, con busti dei santi Giovanni Crisostomo, Basilio, Nicola e Gregorio Nazianzeno al Museo dell’Ermitage, già nella collezione Likhachev, è incastonato in un pannello più grande decorato con la Deesis e sette santi, e contenente alcune reliquie142. Anche la cornice risale al Trecento. Un certo numero di pannelli bizantini, inoltre, è inserito in cornici postbizantine. Le icone composite si incontrano anche in ambiti culturali strettamente legati a Bisanzio, come la Georgia. Nel duecentesco trittico di Seti, ad esempio [t. 37], una piccola icona della Vergine Odigitria, inserita nel riquadro centrale, è circondata da un busto di Cristo, due angeli in piedi e dai busti di santa Marina e santa Barbara, mentre le ante laterali sono decorate con santi guerrieri a figura intera143. Due grandi trittici trecenteschi dal monastero di Ubisi, ora al Museo Nazionale delle Belle Arti di Tbilisi, sono provvisti di cavità rettangolari, dove pare fossero inserite icone più piccole. Un trittico è decorato con scene della Vita della Vergine, l’Albero di Jesse, la Scala di Giacobbe, il Roveto ardente e profeti che tengono in mano attributi della Vergine; l’altro con la sua Dormizione, angeli e vari santi144. Un piccolo trittico nel Museo di Storia ed Etnografia della Svanetia a Mestia, con gli apostoli Pietro e Paolo nelle ante laterali, conteneva nel pannello centrale una steatite della Deesis, e può così essere paragonato al pannello del Sinai contenente una steatite di san Nicola. In un pannello centrale molto deteriorato di un trittico nello stesso museo,

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A fronte: 38. San Giorgio e scene della vita, icona lignea in rilievo, Museo Bizantino, Atene.

Bizantino di Atene, che raffigura san Giorgio con scene della sua vita da un lato e alcune sante dall’altro, volte verso il busto di Cristo149. Soltanto san Giorgio e il suo scudo, derivato da modelli occidentali, sono in bassorilievo [t. 38]. La provenienza di questa icona e degli altri pannelli in rilievo dalla Macedonia occidentale non è stata mai chiarita. Sono stati suggeriti vari luoghi d’origine, tra i quali la stessa Macedonia e Arta in Epiro sono i più probabili. In alcuni casi, come nell’icona di san Demetrio a Omorphokklisia, il rilievo è estremamente basso ed i dettagli non sono resi grazie all’intaglio ma solo nel colore del dipinto. È degno di nota che dei sette pannelli in rilievo da noi conosciuti in Macedonia occidentale, ben cinque rappresentano san Giorgio; inoltre è notevole il fatto che sia raffigurato anche nella grande icona ora a Kiev e, a dorso di cavallo, su un’icona del Duecento proveniente da Herakleia (Erefli) nella Tracia orientale, ora a Nuova Herakleia presso Tessalonica. Icone devozionali a parte, anche le porte del santuario potevano essere in rilievo, come la porta reale dell’iconostasi di una chiesa nella regione di Treska vicino a Skopje, probabilmente Sant’Andrea, della fine del Trecento, dove sia Maria che Gabriele sono scolpiti in bassorilievo150. Riguardo al motivo per cui siano state eseguite icone in rilievo, nessuna spiegazione plausibile è stata avanzata finora. L’abbondanza di legno a disposizione non può certamente esser presa in considerazione, dato che icone simili non sono conosciute in Russia. È stata fatta notare l’influenza dell’arte occidentale, ma le regioni nelle quali si rinvennero le icone in rilievo sono molto meno aperte verso gli influssi occidentali di altre nelle quali non c’è alcuna evidenza di opere simili.

un riquadro con la Vergine Odigitria è incorniciato da scene del Vangelo e santi e profeti145.

Icone lignee in rilievo Pannelli lignei, nei quali il soggetto è scolpito in bassorilievo e dipinto, sono piuttosto rari. La maggior parte si trova nella Macedonia occidentale, ma il più grande e probabilmente il più antico esemplare, ora a Kiev, proviene dalla Crimea; è un’opera imponente, che misura cm 106,8x74,5, e rappresenta san Giorgio in piedi, circondato da dodici scene della sua vita, ed è stato stabilito essere dell’xi-xii secolo146. È malamente conservato, parzialmente a causa di una copertura in argento, rimossa alla fine dell’Ottocento. Ancor più grande e lavorata in alto rilievo è un’icona dello stesso santo nel villaggio di Omorphokklisia presso Kastoria, che misura cm 298x68, e probabilmente risale alla fine del Duecento147. Il viaggiatore russo della metà del Trecento Stefano di Novgorod vide nel 1349 un’immagine del Cristo a grandezza naturale, che si reggeva da sola senza supporti o sostegni, nella Nea Ekklesia, la nuova chiesa edificata da Basilio i nel palazzo imperiale, ma non specifica se fosse realizzata in legno o pietra148. Tra i rilievi lignei rimasti, la scultura di san Clemente, nell’omonima chiesa di Ohrid (un tempo la chiesa della Vergine Peribleptos), non era in realtà un’icona ma un’effigie distesa (gisant), posta originariamente sulla tomba del santo. Su altre icone la figura principale è in bassorilievo, mentre quelle secondarie e le scene della vita sono soltanto dipinte. Questo è il caso di un’icona bifronte del Duecento al Museo

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ICONOGRAFIA BIZANTINA Elka Bakalova, Sreten Petkovi0

cipalmente a causa della sua iconografia pietrificata. Il tradizionalismo di tale iconografia trovava spiegazione nella visione bizantina per cui l’immutabilità è alla base del mondo reale e le rappresentazioni comunemente accettate del passato cristiano erano state fissate una volta per tutte. Da ciò si inferì che le formule iconografiche tradizionali erano d’impaccio alla libertà dell’artista e che una volta adottata una certa forma, essa veniva tramandata di secolo in secolo soltanto con minime variazioni, non percepibili da un occhio inesperto. È in questo contesto, si pensò, che vanno compresi l’origine e l’uso continuo per secoli di manuali per pittori, le hermeneiae, in cui venivano fornite precise istruzioni su come si dovessero dipingere i santi e le scene della storia cristiana (l’hermeneia più nota fu compilata all’inizio del xviii secolo dal pittore Dionisio di Furnà). Nei decenni passati, con il diffondersi della conoscenza dell’arte bizantina in Occidente, le teorie sulla rigidità della sua iconografia sono state modificate e alcune concezioni sbagliate sono state abbandonate. Le regole dell’iconografia bizantina, infatti, cambiarono nel tempo, sebbene i cambiamenti siano avvenuti in misura più contenuta che nel caso dell’arte medievale e, in particolare, dell’arte occidentale più recente. La letteratura ecclesiastica bizantina ebbe i suoi poeti dotati, predicatori eloquenti e abili autori di vite di eremiti e martiri, i cui testi erano una costante fonte di arricchimento dei manuali per pittori. Inoltre, alcuni dettagli occasionali erano presi anche dalla vita quotidiana. La varietà e la ricchezza dell’iconografia bizantina furono in parte il risultato dell’attività di botteghe locali, che seguivano delle formule specifiche per conto proprio. Del resto, gli Stati indipendenti all’interno della Chiesa orientale, come la Russia, la Serbia o la Bulgaria, produssero novità che riflettevano le predilezioni dei loro popoli ortodossi. Né i manuali ostacolavano la via verso concezioni più libere: le istruzioni riguardo alla raffigurazione di certi santi e di certe composizioni erano abbastanza generiche e gli artisti bizantini godevano di un considerevole grado di libertà, purché osservassero le regole iconografiche di base.

L’iconografia è una disciplina storica ancillare, che studia il contenuto di opere d’arte e serve principalmente alla storia dell’arte e all’archeologia. Consiste in un insieme di regole che determinano come debbano essere rappresentate alcune figure e composizioni nella pittura, nella scultura e nelle arti applicate. Le origini della disciplina risalgono al xix secolo, quando la storia dell’arte e l’archeologia dovettero affrontare il problema della sistematizzazione e l’esplicazione di una gran quantità di opere d’arte, specialmente vasi classici e sarcofagi paleocristiani. Alcuni studiosi come A.N. Didron, A. Springer, E. Mâle, E. Rossi, R. Garucci, N.P. Kondakov e G. Millet si incaricarono di classificare e di spiegare le opere d’arte secondo il contenuto. All’inizio non si poté far altro che studiare i contenuti mitologici e cristiani indipendentemente dall’epoca e dall’ambiente di origine. Più tardi, mentre lo studio guadagnava in profondità, si fecero degli sforzi per stabilire anche l’evoluzione di certi temi in relazione all’ambiente geografico e alla data. Il distinguere tratti e fenomeni estetici esulava dagli obiettivi di tale studio. Il bisogno di chiarire i contenuti formali delle opere d’arte, estranei all’uomo moderno, era particolarmente sentito nello studio dell’arte medievale e di quella classica. Alla luce di ciò, l’iconografia bizantina sembra strana e difficile da capire, specialmente per chi conosce e apprezza le arti occidentali ed è cresciuto all’interno di tradizioni ben consolidate, appartenenti ad una civiltà diversa. Nel corso dei suoi mille anni di storia (v-xv secolo), Bisanzio, il grande Impero cristiano comprendente i territori dell’Europa orientale e dell’Asia Minore, sviluppò le proprie idee estetiche e iconografiche relative all’arte, che rendono difficile, a volte persino impossibile, apprezzare tale espressione, erede di quella ellenistica. La tradizione classica introdusse nell’arte bizantina, compresa la pittura, non soltanto i propri ideali estetici, ma anche alcuni modelli iconografici basati su concetti e credenze ellenistici. Nei primi secoli del cristianesimo, l’arte della Chiesa bizantina, per sviluppare la propria iconografia, dovette tuttavia rifarsi a fonti letterarie nuove, piuttosto che a quelle pagane: il Nuovo Testamento fu e rimase la fonte più importante, mentre all’Antico Testamento fu attribuito un significativo ruolo parallelo. Oltre a questi testi canonici, per stabilire le formule iconografiche fu utilizzato anche un certo numero di testi apocrifi. Con l’andare del tempo, le omelie, la poesia liturgica, le vite dei santi, i riti liturgici e gli scritti didattici o mistici, cominciarono a rivestire un ruolo di sempre maggior importanza come fonte letteraria dell’iconografia bizantina. La pittura bizantina, in particolare la pittura d’icone, fu vista come un’espressione artistica rimasta inalterata per secoli, prin-

Il ciclo delle Grandi Feste Le prime rappresentazioni delle Grandi Feste cristiane dipinte su icone risalgono già al primo periodo bizantino, ma lo scarso numero di esemplari ancora esistenti non permette di stabilire con precisione se esse stessero di per sé o facessero parte di complessi e, in questo caso, quali essi fossero. Il loro numero non

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Nelle pagine precedenti: 1. Dittico musivo con le Dodici Feste, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze.

4. Annunciazione, verso dell’icona bifronte della tav. 11, pag. 108.

5. Natività, icona di una delle Dodici Feste, monastero di Santa Caterina del Sinai.

2-3. Annunciazione: le due icone dell’arcangelo Gabriele e della Vergine Annunciata erano poste nel templon, chiesa della Peribleptos, Ohrid.

fu stabilito fino all’xi secolo. I primi esempi delle dodici Grandi Feste – il greco Dodekaorton – si datano appunto in quel periodo, benché sia molto probabile che tale ciclo sia stato formato già nel x secolo. Le dodici composizioni sono: l’Annunciazione, la Natività di Cristo, la Presentazione, il Battesimo, la Trasfigurazione, la Risurrezione di Lazzaro, l’Ingresso a Gerusalemme, la Crocifissione, la Discesa agli Inferi, l’Ascensione, la Discesa dello Spirito Santo e la Dormizione della Vergine. Durante l’xi e il xii secolo fu aggiunta occasionalmente qualche altra scena alle dodici Grandi Feste (la Visitazione, l’Incredulità di Tommaso ed altre ancora) in sostituzione di alcune di quelle citate (più comunemente della Risurrezione di Lazzaro, della Discesa dello Spirito Santo e della Dormizione della Vergine). La sostituzione era necessaria perché si procurava di mantenere il numero stabilito, che portava con sé un significato simbolico (l’analogia con il numero degli apostoli). La disposizione delle composizioni sull’iconostasi segue rigorosamente la cronologia degli eventi. Le fonti letterarie delle illustrazioni delle Grandi Feste si trovano principalmente nei testi del Nuovo Testamento, eccezion fatta per la Discesa agli Inferi e la Dormizione della Vergine, che traggono origine da testi apocrifi e di altro genere. Il ciclo più antico delle Grandi Feste apparve sulle travi dell’iconostasi e su rilievi in avorio e steatite molto prima che negli affreschi: la selezione definitiva delle Grandi Feste fece la sua comparsa su affresco soltanto nella prima metà del secolo xiii [tt. 8, pagg. 104-105; 27, pag. 119; 28, pagg. 120-121; 1].

testimonianza già nel iv secolo. Il vecchio Giuseppe di solito è raffigurato isolato in mezzo al fervore degli eventi; solamente a partire dal xiii secolo è raffigurato in atto di parlare con un pastore. Non si trova menzione nelle fonti letterarie riguardo al bagno di Gesù Bambino, che potrebbe essere un prestito dall’arte classica, a imitazione delle rappresentazioni della nascita di divinità ed eroi. La venuta dei tre Re Magi d’Oriente è descritta in Matteo (2,1-12), ma nei primi apocrifi essi sono sostituiti da tre re persiani: conseguentemente in alcune icone appaiono come re, a volte a cavallo. I pastori cominciano ad apparire sulle ampolle già dal vi secolo; più tardi aumentano di numero e sono raffigurati mentre svolgono varie attività – alcuni ascoltano la buona novella della Natività di Cristo, annunciata da un angelo, altri suonano flauti, altri ancora badano al proprio gregge. Gli angeli furono inclusi nella composizione almeno a partire dal ix secolo e successivamente appaiono con varie funzioni – guidano i Re Magi, informano i pastori della nascita di Cristo oppure gioiscono del lieto evento [tt. 16, pag. 87; 7]. La Presentazione di Gesù al Tempio Quaranta giorni dopo la Natività di Cristo, la Vergine, accompagnata da Giuseppe, portò l’infante al Tempio di Gerusalemme per fare un’offerta (Lv 12,6-8). L’evento è descritto solamente da Luca (2,22-29), nemmeno il Protovangelo apocrifo di Giacomo ne fa menzione. Le rarissime rappresentazioni di questa scena nei primi secoli del cristianesimo mostrano solamente le figure della Vergine con Cristo e Simeone, colui che riceve Dio. A partire dal x secolo questo schema iconografico prende una forma ufficiale più elaborata: la Vergine, con Gesù Bambino in braccio e accompagnata da Giuseppe, che porta due colombe sacrificali in una gabbia, si avvicina al vecchio Simeone alla presenza della profetessa Anna. Le figure generalmente sono distribuite in modo che la Vergine e Giuseppe si trovino sul lato sinistro, e Simeone e la profetessa su quello destro. In rare occasioni, la simmetria è disturbata e Simeone appare in piedi da una parte, da solo. Cristo, avvolto in fasce o in un indumento corto, fu ritratto in braccio a sua madre fino al xii secolo: successivamente appare più spesso in braccio a Simeone. A volte lo si trova raffigurato, in modo alquanto realistico, con le braccia tese verso la madre. A partire dal xii secolo, la profetessa Anna viene raffigurata con in mano un cartiglio, che reca l’iscrizione: «Questo bambino ha coronato il Cielo e la Terra». Non si sa da dove siano state tratte queste parole, ma una fonte probabile potrebbe essere la poesia religiosa. Secondo i Vangeli, l’evento avviene nel Tempio di Gerusalemme, quindi

L’Annunciazione in modo convincente questo stato emozionale – l’esitazione dell’arcangelo Gabriele e la sorpresa della Vergine. Le icone più antiche generalmente mostrano l’arcangelo Gabriele che si rivolge a Maria mentre fila seduta; quelle posteriori all’xi secolo, invece, di solito la rappresentano in piedi, e la sua sorpresa e incredulità sono espresse attraverso un gesto della mano destra. A volte, le icone dell’Annunciazione mostrano un giardino chiuso – l’hortus conclusus –, raffigurazione che deriva da un verso del Cantico dei Cantici (4,12): «Giardino chiuso tu sei, / sorella mia, / sposa, / giardino chiuso, / fontana sigillata». Il giardino chiuso intende simboleggiare la verginità di Maria e il Giardino del Paradiso [tt. 2 e 3, 4].

La rappresentazione dell’Annunciazione è la più semplice delle composizioni delle Grandi Feste. Le icone mostrano solamente l’arcangelo Gabriele e la Vergine, nel momento in cui le viene comunicata la notizia che darà vita al Salvatore. L’arcangelo si rivolge a Maria, che è raffigurata in piedi o seduta, attonita per lo stupore. Sopra di lei si vede una colomba, che incarna la grazia dello Spirito Santo che discende su Maria. L’evento è descritto soltanto nel Vangelo di Luca (1,26-38), ma compare anche, con maggior ricchezza di dettagli, nei testi apocrifi, nelle omelie e nella poesia. Il Protovangelo di Giacomo (11,1-2) dice che, quando l’arcangelo Gabriele le apparve, Maria stava filando della lana vermiglia per un arazzo da appendere nel tempio di Gerusalemme, perciò viene spesso raffigurata con una conocchia. Le omelie di Andrea di Creta e Iacopo Kokinovafos per il giorno dell’Annunciazione forniscono il dettaglio aggiuntivo dell’incertezza dell’arcangelo su come rivelare a Maria la novella. Le icone tardo-bizantine cercano di rappresentare

La Natività di Cristo La festa cristiana della Natività di Cristo è rappresentata con gran ricchezza di dettagli nella pittura bizantina, icone incluse. Alcuni riferimenti letterari si possono trovare nei testi degli

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evangelisti (Mt 1,11; Lc 2,7-20), ma l’esigua documentazione biblica è supportata dai testi apocrifi, dalla poesia liturgica e dalle omelie. Una composizione completa della Natività di Cristo comprende l’evento principale e numerosi altri episodi. Le tipiche scene tardo-bizantine mostrano al centro la grotta con la Vergine e la culla con Gesù Bambino. Sopra la culla ci sono un bue e un asino, che scaldano il neonato con il loro respiro. In primo piano c’è Giuseppe e, un poco discosto da lui, due donne che fanno il bagno al Bambino. Alla destra della grotta ci sono i pastori con le loro greggi, informati dall’angelo della miracolosa Natività di Cristo. Alla sinistra della grotta i tre Re Magi si avvicinano per rendere omaggio al bambino Salvatore e per recargli i loro doni. Sopra la grotta si vedono la stella, che ha guidato i Re Magi e gli angeli in gloria. Molti, se non tutti questi dettagli, apparvero già nei primi secoli del cristianesimo. La rappresentazione della grotta come luogo della Natività di Cristo è basata sul Protovangelo di Giacomo e fu adottata già nel v secolo. Del bue e dell’asino vicino alla culla si trova

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6. Bottega di Andrej Rublëv, Presentazione al Tempio, icona di una delle Dodici Feste, dalla cattedrale della Dormizione di Vladimir, Museo Russo, San Pietroburgo.

7. Presentazione al Tempio, Battesimo, Anastasi, Trasfigurazione, pannello di tetrastico con la raffigurazione delle Dodici Feste (v. anche t. 10), monastero di Santa Caterina del Sinai.

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8. Battesimo di Cristo, icona di una delle Dodici Feste dell’iconostasi, monastero di Santa Caterina del Sinai. A fronte: 9. Trasfigurazione, icona musiva, Museo del Louvre, Parigi.

si vede un baldacchino dietro i protagonisti; tuttavia in alcune icone è la facciata del tempio a fare da sfondo alla scena [tt. 12, pag. 83; 15, pag. 86; 6, 7]. Il Battesimo di Cristo Il Battesimo di Cristo, che precede la sua attività pubblica, è descritto in modo piuttosto conciso da tutti e quattro gli evangelisti (Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22; Gv 1,29-34). Seguendo i loro resoconti, gli artisti raffiguravano Cristo con un drappo attorno alla vita o nudo nel fiume Giordano, mentre san Giovanni Battista (il Precursore) lo battezza dalla sponda, appoggiandogli la mano sul capo. Un raggio scende dal cielo aperto verso la testa di Cristo – lo Spirito Santo. Sulla sponda vicino a Giovanni Battista, che ha in mano un cartiglio in cui si esorta al pentimento, generalmente veniva dipinto un albero con una scure (Mt 3,10; Lc 3,9). Con l’andare del tempo, la composizione venne ad includere nuovi dettagli derivati da testi liturgici e dal libro dei Salmi. Oltre a san Giovanni, in piedi su una sponda, si possono trovare, sulla sponda opposta, due o tre angeli nel ruolo di diaconi, per analogia con il rito battesimale cristiano. A partire dall’xi secolo, le braccia degli angeli, protese verso il Salvatore, furono coperte in segno di grande rispetto. La più antica rappresentazione esistente di angeli in questa composizione risale al vi secolo. Dal xiii secolo appaiono nel fiume le personificazioni del Giordano e di Oceano. Ciò è associabile ad un salmo (114,3): «Il mare vide e si ritrasse / il Giordano si volse indietro». Per mezzo del battesimo di Cristo, Giordano ha sorpassato Oceano, una divinità pagana. Giordano è raffigurato come un vecchio per metà nudo appoggiato ad un’anfora, laddove il mare è presentato come una donna a petto nudo che fugge a volte a cavallo di un pesce. Alcuni bambini che fanno il bagno nel Giordano – l’intrusione di una scena di genere – appaiono abbastanza frequentemente dall’xi secolo in poi. Solo raramente, e nel periodo tardo, si vedono i simboli di Jor e Dan, i due fiumi uniti nel Giordano, raffigurati come due giovani sulle colline nella parte superiore dell’icona [tt. 7, pag. 78; 16, pag. 87; 7, 8].

tagna con Mosè e il profeta Elia davanti a Pietro, Giovanni e Giacomo spaventati. Le rappresentazioni della Trasfigurazione si stabilizzarono nel vi secolo e subirono piccole variazioni nel corso dei secoli. Cristo, con una veste bianca, appariva al centro nella parte superiore della composizione, incorniciato da un campo radiante di forma circolare o ellittica: la mandorla. Al suo fianco, erano raffigurati da una parte Mosè, con in mano la tavola dei Dieci Comandamenti, e dall’altra il profeta Elia. Essi rappresentano i vivi e i morti che saranno messi alla prova il giorno del Giudizio. Mosè rappresenta i morti, mentre Elia rappresenta i vivi perché è asceso al cielo da vivo. Nella parte inferiore dell’icona sono raffigurati i tre apostoli, prostrati dal terrore, in diverse posizioni espressive: alle loro spalle si vede il paesaggio roccioso ai piedi del Monte Tabor. Nell’xi secolo divenne comune raffigurare Pietro al centro, Giovanni alla sua sinistra e Giacomo

La Trasfigurazione La Trasfigurazione, ossia l’apparizione di Cristo sul Monte Tabor in gloria divina davanti a tre apostoli, è stata descritta in modo pressoché identico da tre evangelisti (Mt 17,1-9; Mc 9,2-9; Lc 9,28-36). Il Salvatore «splendente come il sole», con la veste «candida e sfolgorante», parlò sulla cima della mon-

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A fronte: 10. Risurrezione di Lazzaro, Ingresso a Gerusalemme, Ascensione, Pentecoste, pannello di tetrastico con la raffigurazione delle Dodici Feste (v. anche t. 7), monastero di Santa Caterina del Sinai.

borazione iconografica dall’xi secolo in poi, ma in particolare nel xiv secolo. Cristo è sul lato sinistro dell’icona in groppa ad un asino, seguito dagli apostoli: ha in mano un rotolo come un regnante e benedice come un sacerdote. Sul lato destro si vedono i cittadini di Gerusalemme, che lo salutano: molti di loro sventolano rami di palma. In mezzo ai due gruppi, dei bambini stendono mantelli sulla strada davanti a Cristo: di solito c’è anche un bambino arrampicato su una palma per spezzarne dei rami. Il gesto di stendere indumenti sul cammino di Cristo e di sventolare dei rami è un’antichissima usanza mediterranea, particolarmente comune in Oriente, per rendere omaggio ad un visitatore illustre. Secondo il testo del Vangelo apocrifo, gli indumenti vengono stesi e i rami vengono spezzati da bambini, non da adulti. Nel periodo tardo-bizantino, la composizione aveva acquisito numerosi vividi dettagli: Cristo è accolto da un numero maggiore di bambini in festa, una madre porta il suo bimbo tra le braccia, il ragazzo che si arrampica sulla palma ha una piccola ascia alla cintura e Gerusalemme è composta da una serie di edifici posti dietro i bastioni. Le icone mostrano un numero ridotto di figure e non comprendono l’episodio della ricerca dell’asino che Cristo cavalca entrando a Gerusalemme [tt. 24, pag. 51; 10].

alla sua destra. Nel primo periodo gli apostoli venivano a volte ritratti in piedi. In casi molto rari, la composizione si allargava a comprendere le rappresentazioni di Cristo e degli apostoli, che ascendono il Monte Tabor a sinistra e lo discendono a destra. La Risurrezione di Lazzaro La Risurrezione di Lazzaro, il più grande miracolo compiuto da Cristo nel corso della sua vita terrena, è descritta solamente nel Vangelo di san Giovanni (11,1-45). Le rappresentazioni della scena più ricche di particolari sono quelle delle icone del xiv e xv secolo. Nelle icone dell’epoca, Cristo, accompagnato dai discepoli, appare generalmente sul lato sinistro con Marta e Maria, le sorelle di Lazzaro, ai suoi piedi. Sulla destra si vede Lazzaro, cui un uomo toglie il sudario fatto di bende, mentre un altro, che ha sollevato (o sta sollevando) la pietra sepolcrale, si tura il naso a causa del fetore della decomposizione. In mezzo a questi due gruppi stanno i giudei venuti a confortare le sorelle di Lazzaro. Nello sfondo si vedono un paesaggio montuoso e la città di Betania. Questa descrizione così particolareggiata si è evoluta gradualmente. Nelle rappresentazioni più antiche della Risurrezione di Lazzaro, trovate in catacombe e in sarcofagi risalenti al iv secolo, appaiono solamente i protagonisti della scena; maggiori dettagli furono introdotti nei secoli successivi. Le sorelle di Lazzaro appaiono solo raramente nel x e nell’xi secolo, ma dal xii secolo sono presenti regolarmente. Nel xii secolo le composizioni comprendono solamente due o tre discepoli; nel xiv secolo e più tardi tutti i dodici apostoli compaiono dietro a Cristo. Anche altri dettagli furono modificati nel corso del tempo: nel xii secolo Lazzaro è ancora raffigurato come un giovane, ritto in piedi nella tomba, avvolto in bende di lino come una mummia; nelle icone tardo-bizantine invece è più vecchio e seduto. Le rappresentazioni della Risurrezione di Lazzaro furono interpretate, fin dai primi tempi della cristianità, come la promessa della risurrezione nel giorno del Giudizio e della vita eterna in Paradiso [tt. 13, pag. 83; 10].

La Crocifissione Lo schema iconografico di base della Crocifissione comprende tre figure: Cristo sulla croce, la Vergine alla sua destra e Giovanni Evangelista alla sua sinistra. Questa formula concisa viene usata occasionalmente dai primi secoli dell’arte bizantina al xv secolo, in particolar modo quando la superficie disponibile è ridotta. Nelle icone più antiche Cristo appare vestito, mentre in epoca più tarda lo si vede quasi nudo, con soltanto un panno attorno alla vita; a partire dal ix secolo i suoi occhi sono chiusi. I resoconti dettagliati dell’evento nei Vangeli (Mt 27,33-65; Mc 15,22-41; Lc 23,33-49; Gv 19,17-37) hanno comunque ispirato l’aggiunta di una serie di dettagli alla base della struttura compositiva. I tre soldati che si dividono le vesti di Cristo tirando a sorte (Gv 19,23-24) appaiono subito sotto la croce o vicino ad essa già dal vii secolo. La presenza della Vergine e delle donne di Gerusalemme, che appaiono alla destra di Cristo, è anche testimoniata da Giovanni (19, 25-27). Le raffigurazioni dei due ladroni crocifissi insieme a Cristo trovano supporto nel Vangelo di Luca (23,32-33 e 39-43). Il sole e la luna che appaiono negli angoli delle icone illustrano la testimonianza di Luca (23,44-45) sull’oscuramento del sole al momento della morte di Cristo sulla

L’Ingresso a Gerusalemme Il solenne Ingresso a Gerusalemme alla vigilia della Crocifissione è descritto da tutti e quattro gli evangelisti (Mt 21,1-9; Mc 11,1-11; Lc 19,29-36; Gv 12,12-18). Anche nel Vangelo apocrifo di Nicodemo si fa menzione dell’evento. Il soggetto fu adottato in pittura già dal iv e vi secolo e ricevette un’ela-

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11. Crocifissione, monastero di Santa Caterina del Sinai.

12. Discesa agli Inferi, icona di una delle Dodici Feste, chiesa della Peribleptos, Ohrid.

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13. Ascensione, monastero di Santa Caterina del Sinai.

14. Pentecoste, smalto del ciclo delle Feste, Museo Statale d’Arte Georgiana, Tbilisi.

croce. Accanto a Giovanni Evangelista, le icone raffigurano il centurione romano che si convinse, sotto la croce, che Cristo era il figlio di Dio (Mc 15,39). Dal vii-viii secolo in avanti, sopra la croce si vedono degli angeli che lamentano la morte di Cristo. Alcuni resoconti apocrifi della sofferenza di Cristo sulla croce aiutarono ad arricchire ulteriormente la composizione. Dall’xi secolo un teschio con delle ossa è dipinto alla base della croce, poiché, secondo la tradizione, la croce su cui Cristo fu crocifisso fu piantata nella terra proprio dove sorgeva la tomba di Adamo, cosicché il sangue della ferita di Cristo lavò via il peccato originale dell’uomo. I testi apocrifi menzionano anche il nome del centurione – Longino – e dei due ladroni crocifissi insieme a Cristo – Gesta e Dima [tt. 11, pag. 37; 16, pag. 43; 20, pag. 46; 39, pag. 65; 2, pag. 73; 19, pag. 91; 35, pag. 129].

rato negli Atti degli Apostoli (2,1-2) e le illustrazioni dipinte seguono quel testo. Gli apostoli sono seduti su una panca a forma di mezzo ovale o di u, di solito parzialmente rivolti l’uno verso l’altro: alla testa della panca siedono generalmente san Pietro e san Paolo, e i quattro evangelisti sono accanto a loro. Raggi simili a lingue di fuoco separate scendono su di loro dal cielo aperto, nel quale si vede lo Spirito Santo in forma di colomba. Le icone, dipinte per la maggior parte nel periodo compreso tra il ix e il xii secolo, raffigurano le cosiddette «tribù» in un campo a forma di mezzo ovale al centro della parte inferiore della tavola. Sono menzionati negli Atti degli Apostoli (2,9-11) come gli abitanti delle terre in cui i discepoli di Cristo dissemineranno la nuova religione. Le tribù sono rappresentate da dodici figure reciprocamente distinguibili per i loro costumi esotici, la parziale nudità o il colore della pelle. Spesso il numero dei rappresentanti delle tribù veniva ridotto. A partire dal xiii secolo, fu introdotta nella composizione una personificazione del Cosmo in sostituzione dei dodici «popoli»: appare come un vecchio incoronato che tiene in mano un foglio dispiegato con dodici rotoli simboleggianti le dodici lingue che gli apostoli cominciarono a parlare dopo la discesa dello Spirito Santo [tt. 10, 14].

La Discesa agli Inferi Al contrario dell’arte occidentale, che rappresenta la Risurrezione di Cristo con la sua ascensione dalla tomba, la pittura bizantina, compresa quella di icone, mostra la più grande delle festività cristiane nell’Oriente medievale come la Discesa di Cristo agli Inferi prima della Risurrezione. Un resoconto di tale evento, non descritto dagli evangelisti, si trova nel Vangelo di Nicodemo; alcuni altri dettagli, riscontrabili nelle composizioni derivano invece dalla poesia liturgica e dalle omelie. La composizione sviluppata appieno mostra Gesù Cristo che libera i personaggi dell’Antico Testamento. È raffigurato in piedi sopra le porte distrutte: in una mano tiene una croce, simbolo del sacrificio e della vittoria, mentre l’altra mano è protesa verso Adamo. Una variante iconografica, apparsa nel xiii secolo, raffigura Cristo che tiene per mano Adamo ed Eva, ed è un angelo a portare la sua croce. A fianco di Cristo sono raffigurati san Giovanni il Precursore, i profeti Davide e Salomone, i patriarchi Abele e Jesse ed altre figure, dell’Antico Testamento soltanto, rappresentanti il genere umano. Non tutti furono introdotti nella composizione allo stesso momento: sia ad Adamo sia al profeta Davide, che annunciano la venuta di Cristo, venne dato un compagno – Eva fu aggiunta ad Adamo e Salomone a Davide. San Giovanni il Precursore, sebbene menzionato già nei primi testi apocrifi, fu introdotto nella composizione solamente a partire dal x secolo. Abele, figlio di Adamo, raffigurato con un bastone da pastore, fu dipinto a partire dall’xi secolo, quando l’omelia pasquale di san Epifanio – un arcivescovo di Cipro dell’viii secolo – in cui è menzionato, era diventata molto popolare [tt. 7, 12].

La Dormizione della Vergine

L’Ascensione Insieme alla Crocifissione, l’Ascensione fu un tema particolarmente popolare nella rappresentazione delle Grandi Feste durante il primo periodo dell’iconografia bizantina (fino al ix secolo). Le illustrazioni si basavano sui testi del Nuovo Testamento (Lc 24,50-52; At 1,9-12), sugli inni liturgici e sui sermoni dei sacerdoti. Si possono distinguere due segmenti nella composizione. Nella parte superiore, due o quattro angeli portano Cristo in un campo di luce di forma circolare, ovale o di mandorla; con una mano alzata, egli fa scendere la sua benedizione. Nella parte inferiore ci sono la Madre, due angeli e i dodici apostoli. La Vergine ha le braccia alzate, degli angeli vestiti di bianco additano il cielo e Cristo, e gli apostoli commossi guardano il Salvatore ascendere. A volte si vedono alcuni alberi sullo sfondo. I brevi testi dei Vangeli non vengono seguiti alla lettera. Il Nuovo Testamento non nomina la presenza della Vergine

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La grande festività della Dormizione – morte della Vergine, koimesis in greco – riconosciuta dalla Chiesa solamente nel vi secolo, ricevette nell’iconografia bizantina una rappresentazione estremamente ricca di particolari, specie durante gli ultimi due secoli dell’esistenza dell’Impero millenario. Gli scritti canonici non descrivono la Dormizione della Vergine, ma si trovano riferimenti o testimonianze di tale evento in diversi testi apocrifi, particolarmente in quelli di Epifanio e pseudo-Giovanni Teologo, in inni e in omelie (del patriarca Modesto e di san Giovanni Damasceno). Questi testi non canonici fornirono la base, dal x secolo in poi, per una composizione molto complessa, con diverse dozzine di partecipanti. Al centro della stessa completamente sviluppata si trova il feretro con la Vergine. Dietro di esso c’è Cristo in mandorla, circondato da angeli, che tiene tra le mani l’anima della madre rappresentata da un’infante. Attorno al feretro ci sono i dodici apostoli, tre vescovi (Dionisio, Ieroteo e Timoteo) e le donne che servivano la Vergine. Di poco discosti, si vedono Giovanni Damasceno e Cosma, due poeti che avevano glorificato la Madre di Dio nei loro versi e che avevano scritto poesie speciali per commemorarne la morte.

nell’ascensione di Cristo: viene invece menzionata in questo contesto solamente nella poesia liturgica e la sua inclusione viene interpretata come simbolo della Chiesa di Cristo, che resta sulla terra al posto di Cristo, tornato al Cielo. I due angeli sono descritti da Luca (At 1,10) come due uomini in veste bianca, ma le omelie e la poesia liturgica si riferiscono a loro chiamandoli angeli. Anche il numero degli apostoli presenti non è lo stesso nel Nuovo Testamento e nelle icone: laddove i testi parlano solamente di undici apostoli presenti all’Ascensione, la pittura ne mostra sempre dodici [tt. 9, pag. 79; 10, 13]. La discesa dello Spirito Santo Sebbene il più antico dipinto esistente della discesa dello Spirito Santo risalga addirittura al vi secolo, il soggetto diventerà piuttosto comune solamente nel x. I personaggi dell’Antico Testamento, in particolare Giovanni Battista, predicono la discesa dello Spirito Santo (Gl 2,28; Mt 3,11). L’evento è nar-

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15. Dormizione della Madre di Dio, verso di un’icona bifronte, Galleria Tret’jakov, Mosca.

16. Prochor di Gorodec, Ultima Cena, icona del registro delle Feste, cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca. A fronte: 17. La Lavanda dei piedi, monastero di Santa Caterina del Sinai.

Di fronte alla bara appariva Efonio, che provò a rovesciare il feretro e gli vennero tagliate le mani da un angelo. In Cielo i dodici apostoli sono condotti da angeli tra le nuvole per congedarsi dalla Vergine; questa, mentre sale al Cielo, consegna al riluttante apostolo Tommaso la sua cintura come prova del fatto che anche lui ha preso congedo da lei. Nel xiv secolo alla scena della Dormizione della Vergine fu incorporata quella della traslazione del corpo nella tomba, cosicché la scena comprendeva una rappresentazione dei quattro evangelisti che trasportano la bara. Alcuni dettagli della scena, come l’assunzione della Vergine o la presentazione della cintura, furono introdotti solamente nel xiii e xiv secolo, sotto l’influenza delle omelie contemporanee e dei canti in lode della Vergine. Queste scene mostrano meglio di qualunque altra che le icone bizantine non osservano l’unità di tempo e di luogo, poiché rappresentano non soltanto la morte della Vergine, ma anche gli eventi precedenti e successivi ad essa, all’interno della medesima composizione [tt. 32, pag. 59; 15].

Il ciclo della Passione La Passione di Cristo fu uno dei temi maggiormente rappresentati nella pittura bizantina, secondo solamente alle Grandi Feste. Gli eventi drammatici dall’Ultima Cena al Compianto erano associati al grande sacrificio del Figlio di Dio per la redenzione del genere umano. Come testimoni dei fatti, i quattro evangelisti scrissero resoconti dettagliati della morte del Salvatore e di tutti gli eventi che precedettero e succedettero la Crocifissione (Mt 26,7-27; Mc 14,12-15,47; Lc 22,1-23,55; Gv 13,1-30; 18,1-19,42). Il Vangelo apocrifo di Nicodemo fornisce anche una narrazione particolareggiata di questi eventi, ma in alcuni aspetti differisce da quelle degli evangelisti e menziona alcuni dettagli non riscontrabili in questi ultimi. Quasi tutti gli eventi associati alla Passione appaiono nelle rappresentazioni scolpite sui sarcofagi paleocristiani già dal iv secolo e all’inizio del secolo successivo risalgono invece alcuni mosaici su tale soggetto. Nell’xi e xii secolo, e poi in particolare durante i tre secoli precedenti la caduta di Costantinopoli,

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Il ciclo inizia con l’Ultima Cena (Mt 26,20-30; Mc 14,17-26; Lc 22,14-38; Gv 13,20-30). L’evento era usato come soggetto già nel vi secolo, ma nessuna icona che lo raffiguri è giunta fino a noi. La composizione generalmente presenta Cristo e i dodici apostoli seduti ad una tavola semicircolare. Fino al xiii secolo Cristo di solito era raffigurato nella parte sinistra della composizione e Giuda Iscariota era dalla parte opposta, leggermente staccato dagli altri. Dal xiv secolo Cristo occupa il centro della scena, con l’apostolo Giovanni appoggiato alla spalla. Alla sua destra e alla sua sinistra ci sono gli altri apostoli, alcuni dei quali siedono di fronte alla tavola, parzialmente girati verso lo spettatore. Prima di allora, nel ix secolo, la presentazione di Giuda fu modificata: non era più staccato dagli apostoli

venivano frequentemente trattati temi della Passione in omelie e nella poesia ecclesiastica: ciò contribuì all’elaborazione della loro iconografia. È stato recentemente suggerito che le icone raffiguranti la Passione furono poste su iconostasi già nell’xi secolo, molto prima di quanto si pensasse in precedenza. Alcune scene della Passione, come l’Ultima Cena o il Compianto (la Crocifissione appartiene al ciclo delle Grandi Feste), erano dipinte di tanto in tanto separatamente per scopi speciali. Nella maggior parte dei casi, comunque, le composizioni raffiguranti la Passione formavano un ciclo e rappresentavano un insieme iconografico separato. Diversamente dal ciclo delle Grandi Feste, il numero delle scene del ciclo non era fisso e andava liberamente da poco più di un paio a quindici.

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18. Christos Elkomenos (Cristo fatto salire sulla croce), dalla chiesa della Santa Croce di Pelendri, palazzo vescovile di Limassol, Cipro.

19. Il compianto di Cristo, monastero di Santa Caterina del Sinai.

composizioni raffigurano Cristo che esorta, lungo la strada, le donne di Gerusalemme a non piangere per lui (Lc 23, 27-31).

in senso spaziale, ma si poteva riconoscere perché era l’unico nell’atteggiamento di prendere la coppa sulla tavola. L’evento dell’Ultima Cena è di importanza eccezionale, poiché qui Gesù istituì il mistero della Santa Comunione col pane e col vino. Di conseguenza, questa composizione viene generalmente posta all’inizio del ciclo, sebbene la Lavanda dei piedi dei discepoli la preceda dal punto di vista cronologico [t. 16].

Cristo sollevato sulla croce. Gli evangelisti non parlano dell’elevazione della croce sul Golgota, né di quando Cristo viene inchiodato ad essa. La lacuna è colmata da un trattato apocrifo che menziona anche il dettaglio in cui i soldati romani ordinano a Cristo di salire da solo sulla croce per esservi inchiodato. Di conseguenza, si trovano due versioni di questa scena nei cicli della Passione del xiv secolo: in una Cristo viene elevato sulla croce, nell’altra Cristo si arrampica sulla croce per mezzo di una scala [t. 18].

La Lavanda dei piedi dei discepoli (Gv 13,4-14). Le prime rappresentazioni di questa composizione sono state ritrovate su sarcofagi e in un manoscritto del vi secolo. L’iconografia di questo evento subì pochi cambiamenti: diversamente dalle rappresentazioni occidentali, che mostrano Cristo inginocchiato mentre lava i piedi all’apostolo Pietro, nell’arte bizantina Cristo è sempre raffigurato in piedi, appena piegato sulla bacinella. In rappresentazioni successive, l’apostolo Pietro indica la testa di Cristo, un gesto associato al suo dialogo con il Salvatore (Gv 13,6-9). Fino al xii secolo, gli undici apostoli dietro i protagonisti stanno in piedi immobili, ma a partire dal xiii secolo sono raffigurati in vivace movimento, nell’atto di togliersi i sandali [t. 17].

La Crocifissione. Si veda il ciclo delle Grandi Feste. La Deposizione (Mt 27,57-59; Mc 15,42-46; Lc 23,50-53; Gv 19,38). Gli evangelisti annotano brevemente come il corpo di Cristo venne staccato dalla croce dopo che Giuseppe di Arimatea ne aveva ottenuto il permesso da Ponzio Pilato. Non un solo dettaglio sulla deposizione dalla croce viene menzionato né dagli evangelisti, né dall’ignoto autore del Vangelo di Nicodemo. Solamente un sermone di Giorgio di Nicomedia, un oratore del ix secolo, descrive la Vergine che bacia le mani e altre parti del corpo di Cristo dopo la rimozione dei chiodi. Di lì in avanti, gli artisti raffigurarono frequentemente Maria che bacia una delle mani del figlio, mentre Nicodemo libera l’altra e Giuseppe di Arimatea sostiene il corpo di Cristo [t. 20, pag. 92].

L’Agonia nel giardino (Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,3946). Il tema, conosciuto dal vi secolo, fu diviso in due segmenti cronologici: Cristo è inginocchiato in preghiera nel giardino del Getsemani mentre un angelo appare per confortarlo, e Cristo che rimprovera gli apostoli di non vegliare con lui. e nel Vangelo apocrifo di Nicodemo. La composizione sviluppata completamente mostra Pilato in trono che si lava le mani, Cristo legato di fronte a lui, i soldati che lo sorvegliano e una folla di ebrei. In alcune raffigurazioni si vede anche il servitore che porta a Pilato il messaggio di sua moglie che gli raccomanda di non avere a che fare con Cristo (Mt 27,19). Sui sarcofagi del iv secolo la composizione è piuttosto semplice, ma entro il vi secolo diventa abbastanza particolareggiata. Alcuni dettagli, come quello del messaggio della moglie di Pilato, spariscono per un certo periodo, per poi diventare di nuovo popolari nel xiv secolo. In quell’epoca di rinnovato classicismo si mise molta cura nell’evocare in icone ed affreschi la visione di un foro classico.

Il Tradimento di Giuda (Mt 26,47-56; Mc 14,43-50; Lc 22,4754; Gv 18,3-12). È rappresentato su sarcofagi e in mosaici del vi secolo. Cristo viene avvicinato, generalmente da sinistra, da Giuda che lo bacia. Intorno a loro ci sono soldati armati e i servitori dei sacerdoti con le lanterne. L’episodio in cui Pietro taglia l’orecchio al servitore Malco in difesa di Cristo sembra essere stato parte della composizione in tempi anteriori, ma è documentato soltanto a partire dall’xi secolo. Il Giudizio di Anna e Caifa (Mt 26,57-66; Mc 14,53-64; Lc 22,54-71; Gv 18,13-24). I cicli più lunghi mostrano come Cristo fu condotto prima da un sommo sacerdote – Anna – e poi da un altro – Caifa. Quest’ultimo, mostrando di essere furioso, si straccia le vesti. Più comunemente Cristo è raffigurato di fronte ad entrambi i sacerdoti, sebbene ciò sia in contrasto con i Vangeli.

La Derisione di Cristo (Mt 27,27-31; Mc 15,16-20; Lc 22,6365; Gv 19,1-3). Dopo la sentenza di Pilato, Cristo è esposto allo scherno. I Vangeli riportano che i soldati scherniscono Cristo come falso imperatore: gli mettono addosso un mantello scarlatto, gli pongono sul capo una corona di spine e gli danno

Il Giudizio di Pilato (Mt 27,1-26; Mc 15,1-15; Lc 23,1-25; Gv 18,29-40; 19,1) È descritto da tutti e quattro gli evangelisti

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in mano una canna. Nelle icone e negli affreschi, tuttavia, gli schernitori sono dei giovani comuni, ai quali si uniscono alcuni musici non menzionati nei Vangeli. Questa stranezza iconografica deriva dai mimi classici, che parodiavano le cerimonie di corte, e dalle rappresentazioni religiose medievali.

Il Compianto. Sebbene tutti e quattro gli evangelisti scrivano della sepoltura di Cristo, nessuno di essi riporta il Compianto. Alcuni resoconti di esso si trovano nel Vangelo apocrifo di Nicodemo, nei testi innografici di Romano il Melode (vi secolo) e nelle omelie di Giorgio di Nicomedia (xi secolo). La composizione sviluppata completamente raffigura la Vergine che abbraccia il corpo di Cristo disteso a terra, mentre Giovanni gli bacia le mani e Giuseppe di Arimatea i piedi. Nicodemo sta appoggiato alla scala e le portatrici di mirra si strappano i capelli dal dolore. All’inizio le rappresentazioni del Compianto erano piuttosto semplici, ma già nel xii secolo diventano molto elaborate e raggiungono considerevole complessità iconografica nel xiv secolo, quando conquistano notevole popolarità. Verso la fine del xii secolo, in conseguenza del trasferimento da Efeso a Costantinopoli della pietra sulla quale Cristo fu deposto, la scena del Compianto acquistò anche un simbolismo liturgico. La pietra venne a simboleggiare il sacro altare e tutta la scena fu interpretata come la prima liturgia divina [t. 20, pag. 92; 19].

Cristo condotto alla Crocifissione (Mt 27,31-32; Mc 15,2021; Lc 23,26-32; Gv 19,16-17). Tutti e quattro gli evangelisti descrivono come Cristo arrivò con la croce al Golgota. I loro resoconti, tuttavia, differiscono: i primi tre affermano che fu Simone di Cirene a portare la croce sul Golgota al posto di Cristo, indebolito ed esausto, laddove Giovanni scrive che Cristo raggiunse il posto detto Golgota «portando la croce» (Gv 1,17). Le testimonianze dei quattro evangelisti vengono riunificate nel Vangelo di Nicodemo: egli scrive, infatti, che Cristo portò la croce fino alla porta di Gerusalemme e lì venne sollevato dal peso da Simone. La rappresentazione con Simone è comune nella pittura bizantina, mentre l’arte occidentale mostra Cristo che vacilla sotto il fardello della croce. Alcune altre

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A fronte: 20. Cristo Pantocratore «O Eleimon», il Misericordioso, icona musiva, Museum für Spätantike und Byzantinische Kunst, Berlino.

del x secolo del monastero sinaita, nella quale è raffigurato anche il re Abgar. Il sovrano tiene tra le mani il tessuto bianco con l’impronta del volto di Cristo, e sembra riceverla da un giovane (probabilmente Anania). Accanto a loro è raffigurato l’apostolo Taddeo, e sotto di loro quattro altri santi. Come hanno osservato gli studiosi, il volto di Abgar riproduce le fattezze dell’imperatore Costantino vii Porfirogenito, il che può far pensare a un’origine costantinopolitana dell’icona [t. 21]. Proprio a quell’epoca le raffigurazioni del Mandylion, che rappresentava al tempo stesso una preziosa reliquia e la prima icona, cominciano a diffondersi nell’iconografia bizantina. Dal xii secolo la raffigurazione del Mandylion (chiamato nella tradizione russa Salvatore non fatto da mano d’uomo) si trova anche isolata, tanto nelle icone che nella pittura monumentale. Tra gli esempi più antichi di questo tipo iconografico si ricorda la famosa icona russa della seconda metà del xii secolo proveniente da Novgorod (oggi conservata nella Galleria Tret’jakov di Mosca, t. 27, pag. 54) e l’icona eseguita attorno al 1200 e conservata nella cattedrale della città di Laon (La Sainte Face de Laon). La stessa immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo, dipinta su un pannello, fu donata alla Repubblica genovese dall’imperatore bizantino Giovanni v Paleologo (1341-1391) e si trova oggi nel convento di San Bartolomeo degli Armeni a Genova. È interessante notare come sulla cornice di argento dorato di questa icona siano illustrate scene della leggenda del re Abgar [t. 22]. Il tipo iconografico del Cristo Pantocratore, che si incontra spesso nelle icone di tutto il mondo ortodosso, viene talvolta identificato con un altro nome, probabilmente in conformità ai desideri del committente. Così, per esempio, nell’icona a mosaico della prima metà del xii secolo conservata a Berlino, reca l’epiteto di ΕΛΕΗΜΩΝ (Misericordioso, t. 20), e nell’icona del 1183 proveniente dal monastero di San Neofita a Cipro ha l’epiteto di ΘΙΛΑΝΤΡΟΠΟΣ (amante degli uomini). In alcuni casi sui bordi dell’icona sono aggiunte immagini di santi a figura intera, come si può vedere nella famosa icona cipriota del 1192 del monastero della Madre di Dio Arakiotissa. Sulla cornice sono collocate anche iscrizioni che riportano i nomi dei committenti. In epoca tardo-bizantina, analogamente alle icone della Madre di Dio (si veda oltre), appaiono anche i ritratti dei committenti. Così, per esempio, nell’icona bizantina del 1363 proveniente dal monastero atonita del Pantocratore (oggi conservata nel Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo) la tradizionale immagine del Cristo Pantocratore è completata dalle figure di due donatori in preghiera, raffigurati sui bordi. Dalle iscrizioni conosciamo i loro nomi: «Supplica del servo di Dio grande strato-

L’iconografia di Cristo L’icona di Cristo più diffusa nel mondo ortodosso è l’immagine che lo raffigura a mezzo busto con il Vangelo chiuso (o aperto) nella mano sinistra e la mano destra atteggiata in gesto benedicente. Questo tipo iconografico fa la sua comparsa a partire dal vi secolo, non soltanto nelle icone ma anche nella pittura monumentale e nell’arte plastica di piccole dimensioni, sostituendo così le raffigurazioni simboliche di Cristo tipiche dell’arte paleocristiana. Cristo è rappresentato come un uomo maestoso nel fiore della gioventù, con una barba corta e marcata e la lunga chioma che gli ricade sulle spalle, abbigliato all’antica con chitone e himation [t. 25, pag. 52]. Questo tipo iconografico è conosciuto dai greci come «Pantocrator» e dagli slavi come «Vsederzitel’» (Onnipotente). La più antica raffigurazione di questo tipo è senz’altro la famosa icona del vi secolo del monastero di Santa Caterina del Sinai [t. 7, pag. 17]. Fonte di questo tipo iconografico, e al tempo stesso dimostrazione dell’autenticità del volto di Cristo, sono i molteplici esemplari di immagini «non fatte da mano d’uomo», che, secondo la tradizione bizantina, non furono create da volontà di uomo ma grazie all’intervento diretto di Dio, vantando perciò una particolare autenticità. Nel 574 una di queste immagini di Cristo non fatta da mano d’uomo fu traslata trionfalmente da Kamuliana a Costantinopoli, dove divenne il palladio dell’Impero. Nel 944 fu portata a Costantinopoli un’altra immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo, impressa su una placca, chiamata dai Bizantini Mandylion. L’origine di questa immagine trova spiegazione in un testo apocrifo composto in Siria ancora nel iii secolo. Secondo questo testo, il sovrano di Edessa Abgar inviò da Cristo il suo messo Anania con una lettera in cui implorava il Signore di recarsi da lui per guarirlo dalla grave malattia che l’aveva colpito. Cristo inviò ad Abgar la sua lettera di risposta assieme all’immagine non fatta da mano d’uomo impressa sul tessuto, apparsa miracolosamente sul velo con cui Cristo si era asciugato il sudore dal volto. Il Signore inviò ad Abgar anche l’apostolo Taddeo, il quale con l’aiuto dell’immagine miracolosa guarì Abgar, predicò il cristianesimo, battezzò il popolo e fondò la prima chiesa cristiana a Edessa. Il testo della leggenda, con successive elaborazioni, entrò a far parte dei menologi e dei prologhi del mondo ortodosso, tanto che il giorno dell’arrivo dell’immagine non fatta da mano d’uomo nella capitale bizantina divenne addirittura una festa liturgica (16 agosto). Questo avvenimento fu rappresentato, probabilmente in seguito a una specifica committenza, sulla straordinaria icona

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21. Re Abgar riceve il Mandylion, i santi Paolo di Tebe e Antonio, Basilio ed Efraim, già ante laterali di un trittico, monastero di Santa Caterina del Sinai. A fronte: 22. Mandylion o Volto Santo, icona con rivestimento d’argento dorato con smalti, monastero di San Bartolomeo degli Armeni, Genova.

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23. Cristo «Antico dei giorni», monastero di Santa Caterina del Sinai.

24. Deesis con i santi Giovanni Eleimon e Giovanni Climaco nella cornice, monastero di Santa Caterina del Sinai.

pedarca Alessio» e «Supplica del servo di Dio grande condottiero Giovanni». Tali icone costituivano al tempo stesso un’immagine devozionale e la raffigurazione della devozione ad esse tributata. Altri tipi iconografici della raffigurazione di Cristo costituiscono due altre sue ipostasi, che rappresentano i principali concetti simbolico-dogmatici relativi alla divinità trinitaria. La prima persona della Trinità è interpretata come l’immagine del Cristo anziano, chiamato «Antico dei giorni» (in greco: ΠΑΛΑΙΟΣ ΤΩΝ ΗΜΕΡΩΝ), cioè Colui che esiste dall’eternità nel seno di Abramo. La raffigurazione di Cristo nelle sembianze di un vecchio canuto si rifà a due testi biblici: il Libro del profeta Daniele (Dn 7,9), che descrive la visione dell’«Antico di giorni» nato prima che il tempo fosse, e il testo di san Giovanni evangelista che descrive come segue il Giudice universale, che apparirà alla fine dei tempi: «I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve» (Ap 1,14). Questo tipo iconografico si incontra all’inizio del vii secolo, per esempio nell’icona del monastero sinaita che raffigura Cristo con i capelli bianchi, assiso sull’arcobaleno celeste e racchiuso in una mandorla sorretta dagli angeli. Il cosmo eterno è raffigurato dalla mandorla blu scuro, trapuntata di stelle [t. 23]. Più raramente si incontra l’immagine isolata del giovane Cristo Emmanuele. I tipi iconografici del Cristo Antico dei giorni e del Cristo Emmanuele in alcune icone di epoca tardo-bizantina formano una composizione dal contenuto teologico complesso, chiamata «Trinità del Nuovo Testamento» o «Paternità». Un interessante esempio è rappresentato dall’icona di Novgorod dell’inizio del xv secolo nella quale è raffigurato il Cristo Antico dei giorni, assiso su un alto trono, con la destra atteggiata al gesto benedicente. Sulle sue ginocchia è seduto il giovane Cristo Emmanuele che tiene con entrambe le mani il globo con la colomba bianca, simbolo dello Spirito Santo. Sopra lo schienale del trono sono raffigurati due serafini dalle sei ali. La simbologia della raffigurazione è basata sui testi del Vangelo di Giovanni: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), «Il Padre è in me, e io nel Padre» (Gv 10,38; 14,10; 17,21) e altri. Nell’iconografia del periodo tardo-bizantino e post-bizantino gli importanti concetti simbolico-dogmatici della Divina umanità e la definizione concettuale dell’immagine di Cristo sono visualizzati anche in altre immagini del Cristo Sacerdote e Grande Arcivescovo (più spesso all’interno di composizioni), del Cristo Angelo del Buon Consiglio, e così via.

Cristo morto, nudo nella tomba. Questo tipo iconografico si è formato in seguito a una trasformazione e caratterizzazione dell’immagine di Cristo contenuta nelle composizioni che formavano il ciclo della Passione (vedi oltre), come la Crocifissione, la Deposizione dalla Croce, il Compianto su Cristo morto, la Deposizione nel sepolcro, nota nella tradizione europea occidentale col nome di Imago pietatis (Uomo dei dolori), mentre nella tradizione bizantina è conosciuta come ΑΚΡΑ ΤΑΠΕΙΝΩΣΙΣ, e in quella slavo-ecclesiastica come Christos vo grobe – Cristo nel sepolcro. L’esempio più antico di questo tipo iconografico si ritrova nell’icona a due facce di Kastoria, risalente al xii secolo, sul verso della quale è raffigurata l’immagine a mezzo busto della Madre di Dio addolorata [tt. 29 e 30]. La formazione di questo tipo iconografico e la funzione di tale icona a due facce sono legate

Tra i tipi iconografici più rari un posto particolare è occupato dalla raffigurazione a busto (o a mezzo busto) del

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L’immagine di Cristo si incontra in numerose composizioni che illustrano i momenti essenziali della sua vita e della sua Passione. Sono generalmente classificabili in due cicli: il ciclo delle Feste del Signore e il ciclo della Passione (vedi sopra). Ma in alcuni casi l’immagine di Cristo rappresenta il nucleo della composizione iconografica nota col nome di Deesis (in greco ΔΕΗΣΙΣ – supplica). In una delle antiche icone del xii secolo del monastero sinaita, Cristo è rappresentato a figura intera, in piedi come un imperatore su uno sgabello rosso, che benedice con la destra. Ai lati stanno la Madre di Dio e Giovanni il Precursore (Battista), che protendono le braccia verso di lui in gesto di supplica. Lo schema iconografico è derivato dal cerimoniale di corte, allorché, durante i ricevimenti, gli alti dignitari stavano ai lati dell’imperatore in pose analoghe. Il significato della Deesis sta nell’idea dell’intercessione della Madre di Dio, che rappresenta la Chiesa della Nuova Alleanza, e di Giovanni Battista, che rappresenta la Chiesa dell’Antica Alleanza, al cospetto del supremo Giudice, per i peccati dell’umanità. La Deesis a tre figure si trova anche con il Cristo assiso in trono. Può trattarsi anche di un’icona devozionale isolata, ma più spesso costituisce l’immagine centrale di un ordine composto da molte figure, disposte sull’iconostasi. Le altre icone della Deesis raffigurano generalmente gli apostoli e gli angeli (a mezzo busto o a figura intera), anch’essi in atteggiamento di supplica [tt. 40-44, pagg. 66-67; 3, pag. 74; 20-25, pagg. 116-117; 27, pag. 119; 24 ]. Con lo sviluppo del ciclo della Passione nella liturgia bizantina e nell’arte è legata anche la caratterizzazione di alcune scene della vita di Cristo in alcune rare icone isolate. Tale, per esempio, è la rarissima icona cipriota del xii secolo (dalla chiesa della Santa Croce a Pelendri) che raffigura Cristo sul Monte del Golgota ai piedi della croce davanti al Crocifisso [t. 18]. È rappresentata qui una variante specifica della famosa scena della «Salita al Calvario», in cui compare la Madre di Dio come rappresentante delle donne di Gerusalemme, cui Cristo si rivolge prima della crocifissione (Lc 23,27-28). La presenza della Madre di Dio – il personaggio principale nella scena del Compianto su Cristo morto – trova corrispondenza nel testo noto sotto il titolo di Acta Pilati e legato al crescente interesse per il dramma liturgico del compianto di Cristo nella liturgia e nell’arte bizantina del xii secolo. Alcune scene relative agli avvenimenti successivi alla morte di Cristo possono apparire anche isolate nelle icone in funzione delle preferenze dei committenti. Un esempio in questo senso è fornito dall’icona dell’Incredulità di Tommaso, del 1384 circa, proveniente dal monastero del Salvatore

allo sviluppo delle funzioni liturgiche della Settimana santa. Tali icone, probabilmente, venivano trasportate processionalmente durante il servizio liturgico del Venerdì santo, ed è proprio il contesto liturgico a determinare il programma iconografico dell’immagine. In alcuni casi le immagini di Cristo nel sepolcro e della Madre di Dio addolorata non sono raffigurate su un’unica icona, ma su due diverse che costituiscono un dittico, come vediamo, per esempio, in due icone di piccole dimensioni, provenienti dal monastero del Salvatore della Trasfigurazione alle Meteore [t. 6, pag. 101]. Secondo gli studiosi, tale disposizione delle immagini è da attribuirsi alla volontà dei committenti. Sempre secondo gli studiosi, fa parte di un dittico anche la famosa icona bizantina musiva di Cristo nel sepolcro, del xiv secolo, custodita nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma.

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25. Madre di Dio Odigitria, icona musiva, Museo Archeologico, Sofia.

26. Madre di Dio Eleousa, icona processionale, monastero di San Neofita, Pafo.

della Trasfigurazione alle Meteore. Vi è raffigurata l’apparizione del Cristo risorto agli undici apostoli (Mt 28,16; Mc 16,14; Lc 24,9.33), allorché invita l’incredulo Tommaso a toccare la ferita del suo costato per convincersi della sua autenticità. Quest’apparizione è festeggiata nella prima settimana dopo Pasqua, chiamata settimana di Tommaso. Tra gli apostoli è raffigurata anche la committente, Maria Angelina Doukaina Paleologina, consorte del despota dell’Epiro Tommaso Preljubovi0. Questa icona ha probabilmente carattere commemorativo, fu commissionata in memoria del marito della committente, morto nel 1384, e rappresenta il suo santo protettore, l’apostolo Tommaso. L’esistenza di una grande quantità di icone del genere mostra l’evoluzione della varietà funzionale e iconografica delle immagini in epoca tardo-bizantina.

L’iconografia della Vergine Dalle origini al periodo medio-bizantino L’inizio della venerazione della Madre di Dio risale ai primi secoli del cristianesimo. Ciò è testimoniato dalle raffigurazioni di Maria conservate nelle catacombe romane. Nonostante quelle raffigurazioni, l’affermazione della venerazione della Madonna ha richiesto alcuni secoli e decisioni di concili ecclesiastici. In questo senso hanno avuto un ruolo eccezionalmente importante i Concili di Efeso (431) e Calcedonia (451). Nel primo di essi fu coniata la definizione Theotókos, cioè Madre di Dio – «colei che ha racchiuso in sé Dio che è incontenibile» – divenuta pietra angolare della teologia mariana. Le prime icone della Madre di Dio si sono conservate in Italia. Dal mondo bizantino è giunta

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27. Madre di Dio Galaktotrofusa, Museo Bizantino, Atene.

fino a noi un’icona relativamente piccola della Madonna sul trono con bambino, con due angeli e due santi guerrieri, dal monastero di Santa Caterina del Sinai, datata vi secolo e che fu più che probabilmente oggetto di culto. Ma la figura della Madre di Dio ricevette una particolare attenzione dopo la vittoria del culto delle icone. Essa era legata al dogma dell’Incarnazione e quindi gli iconoduli le attribuirono un particolare significato, poiché volevano sottolineare in tutti i modi la natura umana di Cristo – principale argomento a favore della possibilità di rappresentarlo sulle icone. Quale importante significato dava la Chiesa alla figura della Madre di Dio è testimoniato dall’ufficio della Festa del Trionfo dell’Ortodossia, istituita la prima domenica di Quaresima in onore della vittoria sull’iconoclastia e del ripristino del culto delle icone. Esprime la ragion d’essere di questa celebrazione l’icona del British Museum di Londra, al centro della quale è raffigurata l’icona della Madre di Dio Odigitria, la più venerata a Bisanzio, alla sua destra sta l’imperatrice Teodora, che ripristinò il culto delle icone nell’843, con il figlio minorenne Michele iii, a sinistra il patriarca e i monaci, nel registro inferiore sono raffigurate personalità della Chiesa che ebbero meriti speciali nella vittoria del culto delle icone. Ogni icona della Madre di Dio, oltre al proprio intrinseco valore «storico», legato al luogo della sua apparizione, miracoli compresi, o di difesa in qualche chiesa o monastero, possiede un determinato senso dogmatico, simbolico e liturgico, che si comunica attraverso particolari dettagli, attributi o gesti. Le icone della Madre di Dio si suddividono convenzionalmente in alcuni modelli iconografici fondamentali, che pongono uno speciale accento sul contenuto teologico. Tutti gli svariati tipi iconografici si riducono ad alcuni schemi compositivi. Variando uno di questi modelli, cambiando leggermente i rapporti tra la Madre e il Bambino, aggiungendo nuovi dettagli, si creano numerose repliche e varianti. Denominazioni molteplici si accompagnano alle raffigurazioni della Madre di Dio su icone di diversa origine e significato. Esse non sempre indicano un modello iconografico fisso o, più precisamente, le icone dell’uno o dell’altro tipo iconografico possono venir indicate con denominazioni diverse. Alcune di esse, spesso attinte dalla poesia ecclesiastica, pongono l’accento su determinate qualità della Madre di Dio. Altre si riferiscono al luogo d’origine o alla protezione che proviene da icone della Madre di Dio famose, miracolose e particolarmente venerate. Al novero degli esemplari antichi e più popolari appartiene l’Odigitria (greco Odigítria – colei che guida), il tipo più solenne e ieratico tra le icone della Madre di Dio. Inizialmente questa

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A fronte: 28. Madre di Dio Agiosoritissa, Diözesanmuseum, Frisinga.

tardi riceverà la denominazione di Kikkotissa, dal nome di una grande e miracolosa icona consimile, custodita nel monastero di Kikkos sull’isola di Cipro. Questo modello godette di una vasta diffusione non soltanto nei Balcani ed in Russia, ma anche in Egitto, Italia ed Etiopia. Un’altra variante è data dalla cosiddetta Madre di Dio di Vladimir (russo Vladimirskaja), insigne monumento della pittura bizantina dell’inizio del xii secolo. Secondo le fonti storiche, attorno al 1130 essa fu trasportata da Costantinopoli a Kiev; poi, nel 1155, il principe russo Andrej Bogoljubskij la portò a Vladimir, dove appositamente per essa fu costruita la cattedrale della Dormizione della Madre di Dio. Nella Russia medievale fu considerata miracolosa e palladio del principato di Vladimir, tant’è che nel 1395 il principe moscovita Vassilij Dmitrevi/ ordinò di trasferirla a Mosca, sperando di trovare in essa la difesa dagli eserciti di Tamerlano che si stavano avvicinando alla capitale (oggi è esposta nella galleria Tret’jakov di Mosca, t. 12, pag. 38). Sul suo esempio, variando il soggetto, sono state dipinte in Russia una decina di icone. Con il nome Eleusa vengono chiamate tutte le icone in cui la Madre di Dio è dipinta in atteggiamento di preghiera senza il Bambino. Così è raffigurata, per esempio, su un’icona del xii secolo proveniente dal monastero di San Neofita (nei pressi di Pafo) di Cipro [tt. 14, pag. 40; 14, pag. 85; 26]. Raffigurazioni della Madre di Dio che intercede per le colpe dell’umanità in atteggiamento di preghiera di fronte a Cristo, fanno parte della composizione detta Deesis (dal greco «preghiera»). A dire il vero questo modello iconografico porta l’iniziale denominazione di Agiosoritissa (dal greco Agiosorítissa), poiché un’antica icona di questo genere si trovava nella cappella con il sacro reliquiario (greco ‘Agia Sorós) – nel quale veniva conservata la cintura della Madre di Dio, un tempo custodita nella chiesa della Madre di Dio Chalkoprateia a Costantinopoli, che era oggetto di speciale devozione. Uno dei primi esempi di icona di questo tipo è costituito da quella della seconda metà del secolo xi, custodita nel monastero Machairas (da cui il suo secondo appellativo Macherotissa) di Cipro. Questo modello è riprodotto nella celebre icona della Madre di Dio con una splendida decorazione a smalti, custodita nella cattedrale di Frisinga (pittura prima del 1258, decorazione del xiv secolo, t. 28). In questo caso è stata aggiunta la poetica denominazione «Speranza dei disperati» (in greco elpís ton apelpisménon), che ancor più pone l’accento sull’aspetto di intercessione per le sofferenze dell’umanità. A cominciare dal secolo xii le immagini della Madre di Dio con la pergamena aperta della preghiera

era costituita da una rappresentazione a figura intera della Vergine che regge il Bambino con il braccio sinistro, talvolta seduta sul trono. Più tardi sopravviene la rappresentazione a mezzo busto, con il Bambino ora sul braccio destro, ora sul sinistro. In accordo con la tradizione, questa icona fu dipinta dall’apostolo Luca in persona. Già nel v secolo essa fu inviata a Costantinopoli, dove divenne il palladio della capitale bizantina. Al tempo dell’assedio della città da parte degli Arabi, veniva portata sulle mura fortificate, unitamente alla croce. Veniva custodita nel monastero Odegon di Costantinopoli, al cui nome essa è legata. Ad essa sono inoltre collegate molte solenni processioni, preghiere ed altri eventi della vita sociale di Costantinopoli. Una copia in mosaico (circa 1060) di questa icona si conserva al giorno d’oggi nel Patriarcato ecumenico di Istanbul. Ma in tutto il mondo ortodosso esistono innumerevoli repliche di questa icona miracolosa, come, per esempio, l’icona in mosaico realizzata a Costantinopoli nel xiv secolo (oggi nel Museo archeologico di Sofia). Si può dire che non esiste chiesa ortodossa senza l’icona della Madonna Odigitria [tt. 7, pag. 33; 4, pag. 75; 7, pag. 103; 11, pag. 108; 34, pag. 128; 25, 29]. Tra tutte le icone giunte fino a noi occupa un posto significativo l’immagine della Madre di Dio denominata Eleousa (dal greco Eleoúsa – benigna, benevola), detta anche della Tenerezza, una denominazione che trasmette bene il carattere della raffigurazione di Maria che coccola il bambino. In alcune occasioni è detta Glicofilusa (dal greco Glikofiloúsa – dolce bacio). Una variante particolarmente espressiva di questo modello iconografico è dipinta sulla celebre icona del monastero di Santa Caterina del Sinai, risalente alla metà del xii secolo. Il Bambino scalzo in braccio alla Madre è raffigurato nello slancio di un’energica s, nell’atto di rovesciare la testa all’indietro, mentre con la mano sinistra tira il maphòrion della Madre e con la destra regge un piccolo rotolo di pergamena. Nell’icona del Sinai attorno a Maria in trono sono dipinti personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento in relazione con l’incarnazione del Logos. Alla sua sinistra ed alla sua destra ci sono le quindici figure dei profeti che tendono alla Madre di Dio delle pergamene srotolate con i testi delle proprie profezie riferite al miracolo dell’Incarnazione di Cristo, e gli attributi-simboli con cui ella viene paragonata in questi testi dell’Antico Testamento. Le figure dei santi circostanti e l’abbondanza di testi biblici mettono gradualmente in luce l’importanza molteplice dell’immagine della Madre di Dio. Il modello iconografico della Madre di Dio con Bambino di questa icona (ma senza figure di contorno) si diffonde largamente nel mondo ortodosso e più

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Nelle pagine precedenti: 29-30. Icona bifronte con l’Odigitria e Cristo uomo dei dolori (ΑΚΡΑ ΤΑΠΕΙΝΩΣΙΣ), Museo Archeologico, Kastoria.

31. Madre di Dio Blachernitissa con Mosè e il patriarca Eutimio ii di Gerusalemme, monastero di Santa Caterina del Sinai.

Madre di Dio venivano ricordati e si ricordano annualmente nel giorno delle feste a lei consacrate. Oltre all’Annunciazione (25 marzo/7 aprile) e alla Natività di Cristo (25 dicembre/7 gennaio), che sono perlopiù collegate a Gesù, sono quattro le feste di Maria particolarmente degne di nota: la Natività di Maria (8/21 settembre), istituita a Costantinopoli a partire dal vii secolo, la sua Presentazione al Tempio (21 novembre/4 dicembre), proclamata festa dall’inizio dell’viii secolo, il Concepimento di Anna (9/22 dicembre) e la Dormizione di Maria (15/28 agosto). A ognuna di queste feste corrisponde una singola e ben determinata icona festiva, che riflette la narrazione evangelica, così come i testi dell’ufficio divino del giorno stesso. Così, per esempio, l’iconografia della Natività della Madre di Dio comprende la raffigurazione di sant’Anna, semisdraiata sul letto al centro della composizione, rivolta verso le donne che entrano recando doni. Ai piedi del letto è dipinto il bagno dell’infante, mentre talvolta sullo sfondo della scena compare Gioacchino. La fine della vita terrena di Maria è legata sia ad Efeso, dove si trasferì il discepolo prediletto di Cristo, Giovanni Evangelista, sia a Gerusalemme e al Gethsemani. Fonti apocrife, attribuite a san Giovanni Evangelista e Andrea di Creta, narrano della morte di Maria e della sua Ascensione. In base a questi testi e anche ai canoni ecclesiastici degli innografi bizantini Giovanni Damasceno e Cosma di Maiuma, prese forma l’iconografia della Dormizione di Maria. Accanto alla Madonna distesa sul letto sono dipinti su entrambi i lati i gruppi degli apostoli addolorati e dei santi; al centro dell’opera – dietro il letto – si innalza Cristo, che regge tra le mani una figurina in fasce, simbolo dell’anima della Madre. I due palazzi che racchiudono la composizione indicano la casa di Giovanni Evangelista, dove Maria visse dopo l’Ascensione di Cristo. Una variante iconografica matura della Dormizione di Maria comprende la rappresentazione degli apostoli in volo tra le nubi, provenienti da diversi luoghi e diretti verso Gerusalemme, e degli angeli in volo verso Cristo al quale recano l’anima della Madre, degli angeli che l’innalzano al cielo e degli angeli che indicano il cammino agli apostoli [t. 32, pag. 59].

si riscontrano sulle colonne degli altari delle chiese ortodosse; questo modello iconografico reca il nome di Paraklesis (dal greco Paráklesis, «la postulante»). La figura della Madre di Dio, dipinta spesso intera (talvolta mezzo busto), con le mani protese in preghiera, che regge davanti al petto uno scudetto o un medaglione con l’immagine di Cristo Emanuele benedicente, era esposta nell’abside della principale chiesa della Madre di Dio alle Blachernae (quartiere di Costantinopoli). Essa era conosciuta sotto il nome Blachernitissa [t. 31], Nikopeia, Platitera [t. 32], Episkepsis, e pure Kipriotissa, nella tradizione russa Madre di Dio del Segno (Znamenie). Dopo che si era manifestato nella chiara immagine della profezia di Isaia (7,14), questo modello iconografico divenne una delle più efficaci forme per raffigurare il mistero dell’Incarnazione. Uno dei più antichi modelli iconografici della Madre di Dio è la figura della donna che allatta, Galaktotrofusa (dal greco Galaktotrofousa), che compare già prima dell’iconoclasmo e si riscontra nelle pitture delle chiese copte. La postura del Bambino tra le braccia della Madre che lo allatta ricorda l’icona della Madre di Dio della Tenerezza, ma l’accento è legato ai futuri patimenti per la Redenzione. Tale modello iconografico, raro nel mondo ortodosso, fu particolarmente diffuso in Occidente [t. 27]. Anche gli eventi della vita terrena della Madre di Dio venivano rappresentati sulle icone. I Vangeli canonici a malapena rendono note alcune notizie sulla vita di Maria (Mt 1,16; Mc 3,31; Lc 1,26-56; Gv 19,24; At 1,12-14), legate direttamente a Cristo; l’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele, il miracoloso concepimento e la nascita del Salvatore, le sue sofferenze ai piedi della croce. Tale laconicità è colmata dalle notizie del Protoevangelo di Giacomo, testo apocrifo comparso nel ii secolo. In esso si narra della miracolosa nascita di Maria, dei suoi genitori Gioacchino e Anna, discendenti della reale stirpe di Davide, della sua consacrazione a Dio e della sua presentazione al tempio, dove ella rimase fino all’età di dodici anni, del suo fidanzamento con Giuseppe, anch’egli discendente della schiatta di Davide, della loro modesta vita a Nazaret. Proprio questi eventi costituiscono il più precoce ciclo dell’infanzia e della giovinezza di Maria. Essi sono raffigurati sull’icona del xiii secolo del monastero di Santa Caterina del Sinai. Suddivisa in tre parti, essa costituisce un trittico al cui centro è dipinta la Madre di Dio con il Bambino, mentre ai lati sono raffigurate dodici scene, dal rifiuto dei doni di Gioacchino ed Anna e dalla preghiera di Anna in giardino all’Annunciazione a Maria presso il pozzo. I più importanti avvenimenti della vita terrena della

Le icone mariane nel periodo tardo-bizantino Stando alla definizione elaborata durante l’iconoclastia, in un contesto quindi pregno dei princìpi del dogma dell’Incarnazione, l’icona si doveva concepire come un mezzo artistico e tecnico per trasportare la presenza mistica del prototipo sacro. Secondo la sequenza icona-preghiera-salvezza, si riteneva che

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maggior parte dei casi, si tratta di icone bilaterali sorte, appunto, con questa funzione. A questo proposito, l’icona bifronte conservata nel museo bizantino di Kastoria (Grecia) sembra essere di particolare interesse [tt. 29-30]. L’icona è relativamente grande (115×77 cm) ed è databile non oltre l’ultimo quarto del xii secolo. Sul fronte dell’icona è raffigurata la Madre di Dio Odigitria, con due busti di arcangeli negli angoli superiori; sul retro, invece c’è Cristo raffigurato nel tipo iconografico dell’Uomo dei Dolori, il Christus patiens. È rappresentato a mezzobusto, nudo davanti alla croce, già morto. L’aureola reca un’iscrizione e sulla croce si legge «Re di Gloria». Alcuni autori (D. Pallas e H. Belting) mettono in relazione la comparsa del Christus patiens con i riti sviluppatisi nei monasteri di Costantinopoli a partire dall’xi secolo il cui soggetto è la Passione di Cristo, e con l’introduzione del Compianto, Threnos, durante la Settimana santa. L’icona di Kastoria esemplifica questa relazione. Secondo Belting, che ha esplorato la funzione liturgica di icone simili, «Si aveva bisogno di un certo numero di icone – ad esempio la Deposizione, il Compianto o la Sepoltura – oppure di un’unica icona, complessa e funzionale, in grado di rappresentare tutte queste funzioni in una volta sola». Proprio in quanto immagine di una festa così complessa, destinata alle funzioni della Passione, l’icona di Kastoria chiarifica la relazione tra icona e liturgia. le immagini fossero in grado di aprire ai credenti la via verso la misericordia divina, che si acquisiva attraverso l’intercessione di santi accuratamente scelti. È probabile che le icone che chiamiamo portatili siano state parte integrante di specifici contesti politici o ideologici, specialmente se unite ai ritratti o alle iscrizioni dedicatorie dei donatori. Fenomeni di questo tipo possono essere considerati una vera e propria moda fino al periodo tardo-bizantino, nonostante tali processi si possano far risalire addirittura alla seconda metà del xii secolo. In realtà la maggior parte data dal xiii secolo in poi. Ovviamente bisogna sempre tener presente che, in questo caso, la cornice cronologica degli eventi storici – 1261 e 1453 – non coincide sempre con l’inizio e la fine dei processi della vita culturale. Quali erano le occasioni, le specifiche componenti per le quali queste icone venivano commissionate? E qual era la loro funzione? Prima di tutto è bene ricordare che il programma iconografico di alcune icone della Madre di Dio cambia in relazione allo sviluppo del rituale liturgico. In altre parole, le icone venivano incluse in specifici momenti dello svolgimento della liturgia: questi momenti e i loro rispettivi contesti liturgici determinavano il programma iconografico delle icone. Nella

Un altro tipo di icona della Madre di Dio rappresenta la devozione personale attraverso la significativa donazione di opere espressamente commissionate. Abbiamo, in questo caso, una tale varietà di denominazioni, di santi che le accompagnano e di iscrizioni, da impedire qualsiasi tipo di classificazione. In linea generale si possono distinguere due gruppi: donazioni personali a una specifica chiesa o monastero, ossia ex dono, o preghiere per l’anima di una persona cara defunta, ossia ex voto. Darò alcuni esempi. Una delle più antiche icone commemorative, datata in modo abbastanza convincente attorno al 1224, è la famosa icona del Sinai raffigurante la Madre di Dio Blachernitissa tra Mosè e il patriarca Eutimio ii di Gerusalemme [t. 31]. Grazie alle iscrizioni che sono sopravvissute, essa è uno dei rari esempi da cui si possono reperire dati affidabili sulla funzione dell’icona («in nome della benedetta / venerabile memoria del patriarca Eutimio ii di Gerusalemme») e sul pittore, il monaco Pietro, che l’aveva commissionata (l’iscrizione recita come segue: «preghiera del pittore Pietro»). Quest’ultimo, secondo D. Mouriki, «era strettamente connesso al patriarca di Gerusalemme ed era stato favorito in modo particolare dall’abate e

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32. Madre di Dio Episkepsis, o della Protezione, icona musiva, Museo Bizantino, Atene.

tizza l’idea della “salvezza” dei giusti e suggerisce la protezione divina. Nell’icona di Poganovo, l’epiteto Katafygé (il Rifugio), raramente associato alla Theotókos, è un prestito dall’innografia bizantina che identifica la Madre di Dio come protettrice dei fedeli, nonché come rifugio per le anime dei giusti che lottano per la salvezza spirituale. L’inusuale composizione del recto dell’icona – l’immagine della Vergine e di Giovanni il Teologo – può anch’essa trovare spiegazione nei testi delle opere innografiche. La liturgia della Dormizione di san Giovanni il Teologo, santo patrono del monastero di Poganovo (26 settembre), composta dall’arcivescovo Simeone di Tessalonica (1416/17-1429), rivela la relazione esistente tra il santo e la Theotókos, facendo notare che l’apostolo, un teologo, conobbe un cambiamento nella propria vita quando la Madre di Dio fu affidata alle sue cure, e ciascuno dei due trovò nell’altro rifugio e protezione. L’icona offre un’interpretazione visiva del testo liturgico, rendendo omaggio al patrono del monastero in modo simile alla celebrazione della liturgia in suo onore. La complessa orchestrazione delle immagini, dei testi e delle associazioni di immagini e testo, che costituiscono il messaggio speciale di queste icone, i personaggi che accompagnano la figura della Vergine e che sono collegati al monastero in cui le icone furono create, aggiungono tutti connotazioni ulteriori alla semantica delle immagini. Nell’icona del Sinai, attraverso la figura di Mosè, il tema commemorativo della glorificazione del defunto è abbinato a quello storico della santità del Sinai, mentre nell’icona di Poganovo san Giovanni il Teologo è anche patrono del monastero, nonché un possibile patrono della famiglia del donatore, e intercede per conto dell’anima del defunto davanti alla Vergine. Il fatto che egli sia anche autore dell’Apocalisse costituisce un nesso con il tema escatologico, che compare sull’altro lato dell’icona.

arcivescovo del Sinai». Inoltre, in quest’icona esiste qualcosa di molto particolare, che potremmo definire come una specie di ritratto commemorativo della persona in memoria della quale l’icona fu commissionata. La composizione segue, sotto molti aspetti, il tipico schema iconografico del tema “presentazioneintercessione”. Tuttavia, il fatto di sostituire un santo patrono con un patriarca deceduto recentemente costituisce, come ha messo in evidenza D. Mouriki, «una variante unica dello schema iconografico della “presentazione-intercessione”». Una delle più tarde icone commemorative dell’ultimo quarto del xiv secolo è la cosiddetta icona bifronte di Poganovo, conservata nel Museo archeologico di Sofia nella quale sono raffigurati su un lato la Vergine Katafygé e san Giovanni Evangelista (Teologo) e sull’altro la visione di Ezechiele e Abacuc. Questa icona possiede caratteristiche originali che possono essere viste come emblemi dell’ultimo stadio di sviluppo dell’arte bizantina. È un’icona che non ha precedenti dal punto di vista iconografico. Sfortunatamente l’iscrizione è seriamente danneggiata; in ogni caso non vi sono dubbi sul fatto che fu donata da un esponente di una delle famiglie nobili più in vista. Finora sono state fatte due ipotesi sull’identità del donatore: l’imperatrice bizantina Elena Dragas, moglie di Emanuele ii Paleologo (1391-1425), oppure Elena, moglie di Giovanni Uglesa (1366-1371), il despota serbo governatore di Serres. Una cosa è certa: l’icona fu realizzata da un artista di notevole talento, che diede forma a messaggi di importanza particolare – una commissione speciale eseguita su richiesta di un donatore illustre per un’occasione specifica – e la sua rilevanza commemorativa è incontestabile. La visione del profeta Ezechiele, messaggero del Giudizio universale, simboleggia la resurrezione e la salvezza dei giusti. Cristo Emmanuele è seduto in gloria, con i simboli dei quattro evangelisti; la corrispondenza con le miniature di alcuni manoscritti bizantini non lascia dubbi riguardo al soggetto iconografico. Il paesaggio è insolito perché le acque sono ricolme di pesci, le cosiddette “acque viventi”, che compaiono raramente nell’arte bizantina e sono generalmente associate all’Apocalisse (7,17; 21,6; 22,1) e alla morte. L’argomento escatologico dell’icona dimostra chiaramente che l’opera commemora e rende omaggio anche al parente del donatore, recentemente deceduto [tt. 21-22, pagg. 48-49].

Tra le due icone mostrate e altre similari si possono collocare alcune icone raffiguranti la Madre di Dio in diverse varianti iconografiche e in vari contesti. Durante il periodo tardo-bizantino c’è un’insolita abbondanza di denominazioni tratte dall’innografia bizantina, dipinte accanto alla Madre di Dio, che enfatizzano alcune delle sue caratteristiche specifiche: dalle denominazioni o dalle metafore più frequenti quali Peribleptos, Gorgoepikos, Panthanassa (onnipotente), Episkepsis (Colei che protegge, t. 32), “Speranza per coloro che hanno perso la speranza” (traduzione letterale dal greco), fino a quelli veramente rari quali Signora della Vita (H Kyria Tes Zoes) e simili. Il fatto che questi epiteti non conducano ad alcun cambiamento nei modelli iconografici è anch’esso indice della singolarità del loro messaggio.

In entrambi gli esempi esaminati esiste una relazione con i testi dell’innografia bizantina, che rivelano altri aspetti del messaggio dell’icona. Nell’icona del Sinai, il testo del troparion per la funzione mattutina della Dormizione della Vergine enfa-

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del monastero di Vatopedi, fatta fare da Anna Paleologina Cantacuzena, sono di particolare interesse. A volte sono in metrica, come nel caso dell’icona della Madre di Dio Paraklesis del Museo diocesano di Frisinga (Germania), opera di Manuel Dispatos [t. 28]. Un gruppo speciale è rappresentato dalle icone donate ad una chiesa o ad un monastero, in cui sono incluse immagini del donatore. La presenza di questi ritratti può essere vista come la più forte manifestazione di ambizione personale e di preferenza del donatore. È opportuno notare che questi fenomeni si possono osservare non soltanto in icone della Madre di Dio, ma anche in quelle raffiguranti Cristo e altri santi. Sarà sufficiente ricordare la ben nota icona di Cristo Pantocratore dell’Ermitage (1363 ca.) con i ritratti dei due donatori. Ci sono due icone mariane, risalenti approssimativamente allo stesso periodo (tra il 1360 e il 1384), commissionate dall’“imperatrice” Maria Angelina Doukaina Paleologina (moglie del despota di Giannina Tommaso Preljubovi0) e rinvenute rispettivamente in un monastero delle Meteore (Grecia) e nella cattedrale di Santa Iglesia di Cuenca (Spagna). Queste icone sono immagini devozionali e allo stesso tempo rappresentano vere e proprie preghiere. Il donatore è raffigurato in proskynesis (similmente all’icona dell’Ermitage), la più diretta forma possibile di preghiera e patronato davanti alla Madre di Dio. Della formula “presentazione-intercessione” veniva omessa solamente la presentazione, senza tuttavia il ruolo intermediario di un altro santo patrono. Tale ruolo, infatti, viene assunto, in una certa misura, dai ritratti dei santi e dalle loro reliquie, che circondano le immagini di Maria e di Cristo. L’icona-reliquiario di Cuenca è particolarmente interessante da un altro punto di vista: è sintomatica della trasformazione del culto delle icone. Se, nell’alto Medioevo, il percorso va dalla reliquia alle immagini, «des reliques aux icônes» secondo la felice formula di Grabar, in epoca tardo-bizantina le reliquie e le immagini sacre si trovarono a svolgere molte funzioni in comune e godettero di posizioni simili. In altre parole, nell’ultimo periodo bizantino e dopo la caduta di Bisanzio, le icone nel mondo ortodosso godevano della stessa venerazione e rispetto portati alle reliquie e ciò bastò a farne un unico oggetto di culto, che sarebbe stato chiamato icona-reliquiario. Non è difficile notare che il loro genere ripete i reliquiari a pannello medio-bizantini (Tafelreliquaire), che, nella maggior parte dei casi, contenevano parti della Santa Croce. L’esempio meglio noto è la cosiddetta staurotheka della cattedrale di Limburgo (x secolo circa). Al centro delle icone di Maria Paleologina, al posto di una

D’altro canto, anche le numerose iscrizioni dedicatorie che appaiono sia sulle icone che sulle loro coperture metalliche del periodo dei Paleologhi sono degni di uno studio più approfondito. L’inclusione di varie iscrizioni all’interno dell’immagine stessa è una forma di interazione tra parola e immagine nell’arte medievale e, in termini più concreti, tra segni verbali convenzionali e i segni iconici che dominano nel disegno dell’icona. Di conseguenza, le iscrizioni sono una parte imprescindibile della scena dipinta e forniscono un contesto aggiuntivo al messaggio dell’immagine. Le iscrizioni possono variare da una serie di messaggi laconici a dettagliate descrizioni di relazioni genealogiche e dei servizi del donatore verso la chiesa, come, ad esempio, quelli raffigurati sui rilievi metallici dell’icona della chiesa della Madre di Dio Eleousa in Mesembria, offerta in dono nel 1341-1342 dallo zio del re bulgaro Ivan Alexander [t. 14, pag. 40]. Ampi messaggi poetici, come quelli dell’icona

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33. San Giovanni Battista, Museo delle Arti Bogdan e Varvara Khanenko, Kiev. A fronte: 34. San Procopio in veste militare, anta di dittico, monastero di Santa Caterina del Sinai.

croce di legno c’è un’immagine della Vergine (o di Cristo), mentre frammenti di ossa di vari santi sono poste attorno ad essa. L’icona-reliquiario mostra il ruolo dominante dell’immagine della Vergine (e di Cristo) rispetto alle immagini dei santi e a parti delle loro reliquie, che hanno una posizione marginale. È questo il nuovo aspetto dell’oggetto di culto tardo-bizantino ed è proprio questa tradizione ad essere seguita nel periodo post-bizantino.

Iconografia dei santi L’esecuzione di un’icona del ritratto pittorico di un santo corona l’affermazione del suo culto. La comparsa di testi agiografici e teologici – vite e testi liturgici propri – coincide con l’atto di canonizzazione del santo. Parallelamente a ciò, emerge la necessità di crearne un’immagine visuale, e in molti casi, come apprendiamo dalla letteratura agiografica, questa immagine compare nell’icona posta sulla tomba del santo. Tale icona ha una funzione di mediazione, deve stabilire un legame mistico tra i fedeli e il santo archetipo. Per raggiungere l’identità con l’archetipo, l’immagine del santo deve essere fedele, cioè corrispondere ai dati che si sono conservati nelle Sacre Scritture o nella letteratura agiografica; deve essere facilmente identificabile e possedere tratti distintivi ben caratterizzati. Perciò l’icona di ciascun santo segue sempre un’iconografia fissa, universalmente accettata in tutti i paesi dell’universo cristiano. Si creano essenzialmente ritratti tipologici, nei quali sulla base della caratterizzazione fisiognomica, ma anche attraverso le vesti e gli attributi, il santo può essere annoverato nel gruppo (nella schiera) degli apostoli, dei martiri, dei gerarchi della Chiesa, dei monaci, dei taumaturghi, degli eremiti, e così via. Perciò, per esempio, gli apostoli sono vestiti alla foggia antica, con chitone e himation, gli evangelisti tengono in mano i rotoli delle Scritture o i libri, i santi martiri guerrieri indossano l’armatura e impugnano per lo più la lancia e lo scudo, ma recano anche le croci come simbolo del loro martirio; gli arcivescovi indossano il sakkos e l’omophorion, e i monaci il saio monastico. I rappresentanti più illustri di questi gruppi sono provvisti anche di una caratterizzazione somatica individuale, formata sulla base di variazioni di alcuni elementi fondamentali: l’ovale del volto, il colore dei capelli e la pettinatura, la forma e il colore della barba. Così, per esempio, san Giorgio e san Dimitri sono sempre giovani, con la faccia tonda e imberbi; san Giovanni Crisostomo

è sempre raffigurato con la fronte alta, con un’incipiente calvizie, con l’ovale allungato del volto ascetico e la barba corta e appuntita. I ritratti di alcuni santi particolarmente venerati si andarono formando ancora in epoca pre-iconoclasta. Una delle più antiche icone bizantine è l’immagine a busto del sommo apostolo Pietro (vi-vii secolo, monastero di Santa Caterina del Sinai) [t.

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35. Santa Caterina con scene del martirio, monastero di Santa Caterina del Sinai.

36. Sinassi degli arcangeli Michele e Gabriele, dalla chiesa dei Santi Arcangeli, Museo del monastero di Ba/kovo.

37. I tre gerarchi Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, Museo Bizantino, Atene.

8, pag. 18]. Nella destra tiene le chiavi, a ricordo delle parole rivoltegli da Cristo (Mt 16,19), e nella sinistra un bastone dorato con la croce, interpretato come il simbolo dell’autorità di pastore d’anime. L’immagine di Pietro è caratterizzata da grande nobiltà ed espressività, e trova una precisa corrispondenza nelle antiche descrizioni delle fattezze dell’apostolo, come per esempio nella Cronografia dello scrittore bizantino Giovanni Malala (vi secolo): «Di media statura, con il capo semicalvo, l’incarnato chiaro e il volto pallido, gli occhi scuri come il vino, i capelli e la barba completamente grigi, la barba bella, il naso grande, le sopracciglia unite; ha una posa eretta, l’espressione profonda, vivace fino a sembrare adirato, mutevole (a motivo del suo rinnegamento) e con grande dominio di sé; lo Spirito Santo parla dalle sue labbra». Tra le più antiche icone «ritrattistiche» va ricordata particolarmente quella di san Giovanni Battista (vii secolo, Kiev; t. 33). Il profeta, che visse nel deserto, è ritratto a figura intera; tiene nella sinistra il rotolo su cui è scritto il testo di Giovanni (1,29), incentrato sul tema del sacrificio di Cristo. Con la destra indica le immagini di Cristo e della Madre di Dio, raffigurate nei medaglioni collocati negli angoli superiori della composizione. I tratti marcati del volto, i capelli lunghi e neri che ricadono sulle spalle, gli enormi occhi ardenti caratterizzano la figura di eremita e visionario. Questo tipo iconografico, che gesticola con la destra e tiene un rotolo con un testo nella sinistra, si ritrova in quasi tutte le icone più tardive di san Giovanni Battista. I santi guerrieri sono tra i santi più popolari, sia in Oriente sia in Occidente. I ritratti di alcuni di loro si formarono addirittura in epoca pre-iconoclasta. Lo testimoniano le immagini di san Giorgio e san Teodoro nella famosa icona della Madre di Dio (vi secolo) del monastero sinaita di Santa Caterina [t. 1, pag. 29]. Ma la venerazione dei santi guerrieri si affermò soprattutto dopo la vittoria degli iconoduli, e le loro icone-ritratto, a partire dall’xi secolo, si sono conservate in tutte le regioni del mondo ortodosso. Questi santi sono rappresentati solitamente a figura intera (più raramente a busto) in sontuose vesti militari e con un’arma in mano; solamente le peculiarità del volto e della pettinatura (talvolta anche dei copricapi) permettono di distinguere san Giorgio da san Procopio, san Teodoro Tirone da san Teodoro Stratilate, san Demetrio da san Giacomo il Persiano, e così via [t.1, pag. 29; 33, pag. 60; 4, pag. 98; 25, pag. 117; 33, pag. 127; 34, 40, 41].

di sant’Eudoxia, eseguita su una lastra di marmo incrostata di vetri colorati, proveniente dal monastero costantinopolitano di Costantino Lips [t. 4, pag. 31]. Questa santa, durante la sua vita, fu la consorte dell’imperatore bizantino Teodosio ii, e per questo è raffigurata in abiti imperiali e con una corona sul capo. L’altra santa costantinopolitana, Teodosia (18 luglio), morta lottando in difesa della venerazione delle icone, è raffigurata con un manto scuro e il particolare copricapo delle monache bizantine, come nell’icona sinaita del xiii secolo, e tiene in mano la croce dorata simbolo del martirio. Molto diffuse sono anche le icone della santa martire Caterina (24 novembre), in cui la santa è generalmente rappresentata a figura intera, vestita da imperatrice bizantina, poiché, secondo la tradizione, Caterina era di stirpe regale. Sfoggia in capo una corona con pendagli di perle e nella destra tiene la croce

Di icone con immagini di sante si ha notizia solo a partire dal x secolo. Una delle più antiche è senz’altro la piccola icona

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particolare nella gerarchia celeste, sono normalmente raffigurati con le vesti imperiali, con dalmatica purpurea e loros dorato. Hanno in mano diversi attributi: scettri, sfere con l’effigie di Cristo o rotoli. Spesso i due in primo piano reggono un medaglione con l’immagine del Cristo Emmanuele benedicente. In rari casi, come, per esempio, nell’icona del xiv secolo del monastero di Ba/kovo (Bulgaria, t. 36), sono rappresentati soltanto due arcangeli e nel medaglione è raffigurato il busto della Vergine orante con il Bambino sul petto. Il culto degli arcangeli, dei valorosi guerrieri celesti, difensori e salvatori da tutti i pericoli, presenta varie sottolineature. Gli arcangeli e gli angeli sono mediatori tra Dio e il mondo. Nei testi evangelici si sottolinea particolarmente il fatto che proprio loro recarono l’annuncio, glorificarono per primi la nascita di Cristo e annunciarono la sua Resurrezione e ascensione al cielo. Ma le icone

simbolo del martirio [t. 35]. Un’altra santa molto popolare è la martire Marina (17 luglio), raffigurata anch’essa con la croce del martirio nella destra, ma avvolta in un maphòrion rosso chiaro, che, secondo la tradizione, fu colorato dal sangue della sua morte nel martirio. Proprio perché nei sinassari ecclesiastici alcuni santi sono commemorati in gruppo, esistono icone che rappresentano una sorta di «ritratto collettivo» di tutti i santi di un determinato gruppo. Tale è, per esempio, l’icona della Sinassi degli arcangeli (Συναζις), legata alla festa liturgica della Sinassi dell’arcangelo Michele e di tutte le forze incorporee, che ricorre l’8 novembre. Lo schema iconografico classico di questa composizione, che si incontra nelle icone a partire dal xiii secolo, è rappresentato da un gruppo di arcangeli, prevalentemente in posizione frontale e disposti in varie schiere. Poiché essi occupano una posizione

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38. San Giovanni Battista, il Precursore, monastero di Santa Caterina del Sinai.

della Sinassi degli arcangeli sono destinate a esaltare le schiere celesti che sconfiggono le forze demoniache, come proclamano i testi legati alla festa liturgica dell’8 novembre.

sono sempre rivolti l’uno verso l’altro come in conversazione; Pietro ha in mano il rotolo e Paolo il libro. Talvolta tra di loro è raffigurata la croce con l’effigie di Cristo in un medaglione, come nell’icona del xiv secolo del Museo Bizantino di Atene e in quella di Santa Sofia di Novgorod [t. 3, pag. 98]. Fu probabilmente dopo l’epoca iconoclasta che apparve a Bisanzio anche un’altra variante iconografica di questo «ritratto accoppiato»: l’abbraccio simbolico dei santi Pietro e Paolo, rappresentati a figura intera o più spesso a busto. Questa variante, che esprime l’idea dell’unità tra le Chiese d’Occidente e d’Oriente, risultava particolarmente attuale nel xv secolo, dopo il Concilio di Ferrara-Firenze del 1438-1439, che aveva sollevato il problema dell’unione. Tra i santi taumaturghi vengono raffigurati a coppie Cosma e Damiano, chiamati anche guaritori e Anarghiri – medici che curano senza mercede – la cui memoria si festeggia il primo novembre. Le più antiche icone di questi santi, che talvolta contengono anche scene della loro vita e dei miracoli, sono conservate a Kastoria e risalgono al xii secolo. I santi sono rappresentati in posizione frontale, dotati dei relativi attributi «professionali» – nella sinistra normalmente hanno una scatoletta con i medicamenti e nella destra gli strumenti chirurgici (di solito lo scalpello). Una delle più antiche icone bizantine (datata al vii secolo e conservata a Kiev, in Ucraina) rappresenta i santi martiri Sergio e Bacco, vissuti a Roma, già alti dignitari dell’imperatore Massimiano, poi martirizzati per la loro fede cristiana nel 295. Qui sono raffigurati a mezzo busto, indossano clamidi e chitoni, con le croci dei martiri in mano, e tra di loro nella zona superiore della composizione si vede un medaglione con il volto di Cristo. In rari casi – come nell’icona del xiii secolo del monastero sinaita di Santa Caterina – sono raffigurati come guerrieri a cavallo, ma hanno in capo la corona dei martiri. Spesso associati nelle icone sono anche i santi guerrieri Teodoro Tirone e Teodoro Stratilate, alcuni Padri come sant’Atanasio di Alessandria e san Cirillo di Alessandria e altri ancora.

Esiste anche il tipo iconografico dei dodici apostoli, nato probabilmente in funzione della relativa festa liturgica (30 luglio), nota a Bisanzio fin dal x secolo; tuttavia le icone più antiche, chiamate Sinassi degli apostoli, che si trovano nel monastero sinaita di Santa Caterina, nel Museo Puykin a Mosca e a Princeton, risalgono al xiii-xiv secolo. In queste icone gli apostoli sono generalmente disposti in due o tre schiere, una dietro l’altra, e ciascuno è dotato di una sua particolare caratterizzazione ritrattistica. Esiste anche una sorta di «ritratto di gruppo» di santi, legati da avvenimenti e destini comuni, o da meriti comuni per l’affermazione della fede cristiana. Il «ritratto di gruppo» più diffuso nel mondo ortodosso è forse l’icona dei Quaranta Martiri di Sebaste, la cui memoria ricorre il 9 marzo [t. 21, pag. 93]. L’icona ritrae sostanzialmente la scena della loro morte nel martirio su un lago ghiacciato. I santi sono raffigurati seminudi, in varie file e con pose e atteggiamenti diversi che esprimono la sofferenza e l’agonia che precede la morte. Nella parte superiore dell’icona compaiono talvolta le quaranta corone dei martiri che, secondo il testo della Vita, apparvero sopra il loro capo. Questo schema iconografico si conserva quasi immutato dal x secolo (di quell’epoca ci è giunta una piccola icona in steatite, conservata a Berlino) fino all’epoca post-bizantina, in icone realizzate su svariati supporti e con diverse tecniche. La più antica ancora preservata è una piccola icona in avorio del x secolo, oggi conservata a Berlino, mentre dal xiv secolo si è tramandata l’icona musiva di origine costantinopolitana, oggi conservata a Washington. Il «ritratto di gruppo» di cinque santi si trova in icone raffiguranti i martiri Eustrazio, Aussenzio, Eugenio, Mardario e Oreste, la cui memoria si festeggia il 13 dicembre, poiché essi morirono assieme, all’epoca delle persecuzioni contro i cristiani. Tre Padri della Chiesa di Cappadocia, san Giovanni Crisostomo, san Basilio il Grande e san Gregorio Nazianzeno, particolarmente venerati come autori dei testi della liturgia e grandi teologi, sono spesso raffigurati insieme in icone note a partire dal xiv secolo [t. 37]. Esistono infine icone-ritratto a coppie. Spesso sono raffigurati insieme i sommi apostoli Pietro e Paolo, come in una delle più antiche icone di questo tipo, quella risalente al xiv secolo, del monastero sinaita di Santa Caterina. I due apostoli

Icone con scene della vita dei santi I più antichi esempi esistenti di icone raffiguranti santi singoli, incorniciati da una serie di piccole scene della loro vita, martirio e miracoli, risalgono alla fine del xii secolo, ma è molto probabile che fossero dipinte anche prima. Attorno al pannello centrale che ritrae il santo è sistemata una serie di composizioni semplificate disposte su file orizzontali, che seguono l’ordine cronologico degli eventi. Generalmente la sequenza comin-

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39. I tre ritrovamenti della testa di san Giovanni Battista, monastero della Grande Lavra, Monte Athos.

di altri santi – santa Caterina, san Panteleimon, santa Maria Egiziaca o il profeta Elia – sono molto rare e furono dipinte solamente quando questi santi erano patroni della chiesa per la quale l’icona veniva dipinta.

ciava dall’angolo in alto a sinistra e finiva in quello in basso a destra. È possibile che queste icone abbiano tratto ispirazione dall’apparire del Menologion – una raccolta di vite di santi stilata da Simeone Metafraste all’inizio dell’xi secolo. Le piccole illustrazioni all’interno di manoscritti che trattavano delle vite di singoli santi furono anch’esse un incentivo e un modello per le icone di questo tipo. Le icone con scene della vita dei santi apparirono relativamente tardi e furono prodotte solamente dalla fine del xii secolo alla caduta di Costantinopoli, cosicché ne è giunto fino a noi solo un esiguo numero. Tali icone in genere raffiguravano i santi più popolari, come san Nicola, san Giorgio e san Giovanni Battista o san Demetrio. Icone con scene delle vite

San Giovanni Battista Giovanni Battista – il Precursore – è il profeta che battezzò Cristo e rappresenta un ponte tra l’Antico ed il Nuovo Testamento: per questo il suo culto si rafforzò sin dai primi secoli del cristianesimo. Gli furono dedicate chiese e le sue reliquie, in particolare la sua mano destra, con la quale battezzò Cristo, diventarono oggetto di grande devozione. La reputazione di

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40. San Giorgio, monastero della Grande Lavra, Monte Athos.

41. San Demetrio, icona musiva, Museo Civico di Sassoferrato.

42. I santi Boris e Gleb, Museo di Storia e Architettura, Novgorod.

san Giovanni è anche testimoniata dal fatto che, eccezion fatta per Cristo e Maria, il suo è l’unico concepimento celebrato dalla Chiesa ortodossa. La vita e le sofferenze di san Giovanni Battista sono descritte nel Nuovo Testamento (Mt 3,1-12; Mc 1,1-19; Lc 1,2-25; Gv 1,6-8,19-37,23-30), mentre resoconti della strana storia della sua testa mozzata si trovano nella raccolta di biografie di Simeone Metafraste e in altri scritti apocrifi. San Giovanni Battista – il Precursore – è presentato come una figura emaciata per il digiuno, con i capelli e la barba ricci, che indossa una veste di pelo di cammello sopra la quale è gettato un himation. Generalmente in una mano tiene una lunga croce e nell’altra un cartiglio in cui si esorta al pentimento (Mt 3,2). Il ciclo che illustra la sua vita inizia con l’annuncio del suo concepimento a Zaccaria ed Elisabetta, seguito dalla Natività, il sermone sul Giordano, l’imprigionamento, la festa di Erode, la decapitazione e, rare volte, da tre scene sul ritrovamento della sua testa [tt. 43, pag. 67; 23, pag. 117; 33, 38, 39]. La vita e i miracoli di san Nicola San Nicola è uno dei santi più popolari della Chiesa cristiana. Fu arcivescovo della città di Myra, metropolia nella regione di Licia in Asia Minore. Visse tra la seconda metà del iii e l’inizio del iv secolo. Testimonianze sulla sua vita si ritrovano nelle opere degli scrittori bizantini Andrea di Creta, Metodio, patriarca di Costantinopoli, Simeone Metafraste e altri. I meriti di san Nicola sono legati alla sua partecipazione al i concilio ecumenico a Nicea nel 325, dove difese con grande zelo la fede ortodossa dall’eresia ariana. Morì nel 345 circa e fu sepolto nella città di Myra. La venerazione del santo ebbe inizio subito dopo la sua morte. Il suo culto si andò formando a Costantinopoli già tra il iv e il vii secolo e trovò ampia diffusione in tutti i paesi del mondo ortodosso. La traslazione delle reliquie di san Nicola da Myra di Licia, in Asia Minore, a Bari, in Italia meridionale, nel 1087 ebbe un ruolo decisivo per la diffusione del suo culto in Europa occidentale. Questa scena viene talvolta inserita nei cicli iconografici dedicati alla vita del santo. La popolarità di questo culto, ampiamente diffusa tra i fedeli, è legata al fatto che san Nicola era noto anche come grande taumaturgo. A lui si rivolgevano in cerca di aiuto coloro che viaggiavano per terra e per mare, e i bisognosi di sollecito soccorso in ogni necessità. Ancora oggi san Nicola è venerato come protettore dei marinai, dei commercianti, dei banchieri e di altre categorie. L’iconografia di san Nicola si è formata nell’arte bizantina tra l’xi e il xii secolo. Di quell’epoca si sono conservati fram-

menti di un trittico con alcune scene della sua vita. Una delle più antiche icone agiografiche di san Nicola risale all’inizio del xiii secolo, è conservata nel monastero di Santa Caterina del Sinai ed era destinata alla cappella di San Nicola. Nelle scene sulla cornice attorno all’immagine a mezzo busto del santo, che riceve da Cristo il Vangelo, e dalla Madre di Dio l’omophorion arcivescovile, sono raffigurati sedici episodi agiografici che si attengono al testo principale della vita del santo. Il ciclo inizia, come è tradizione, con la nascita di Nicola e si conclude con le esequie. Nella porzione superiore della cornice si trovano tre scene: L’educazione del santo, L’ordinazione sacerdotale, La consacrazione vescovile, e subito sotto La Liturgia di san Nicola. Ma il tema principale è svolto nelle dieci scene dei miracoli: la storia della salvezza dei tre strateghi dell’imperatore Costantino, ingiustamente condannati, in cinque scene; i due miracoli più famosi: il Miracolo sul mare (La tempesta sedata e il salvataggio

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risale al vi secolo e lo rappresenta come un martire nelle vesti di supremo condottiero, come per esempio nell’icona della Madre di Dio in trono con i santi Teodoro e Giorgio del monastero sinaita di Santa Caterina (vedi sopra). A partire dall’xi-xii secolo l’immagine di san Giorgio trova ampia diffusione nell’arte bizantina, e le icone con i cicli di scene della vita del santo cominciano a diffondersi a partire dal xiii secolo. Tra le più antiche merita di essere ricordata l’icona agiografica di san Giorgio del monastero sinaita di Santa Caterina, l’icona a bassorilievo in legno del Museo di Kiev e l’icona di Kastoria, attualmente conservata nel Museo Bizantino di Atene. Quest’ultima costituisce un’interessante combinazione tra una raffigurazione a rilievo del santo a figura intera e scene pittoriche che illustrano episodi della sua vita. Nei cicli iconografici, che iniziano spesso dalla scena di San Giorgio davanti a Diocleziano e Massimiano, l’accento cade solitamente sulle diverse forme di martirio cui il

dei naufragi) e La cacciata del demone dal cipresso di Placoma, nonché le scene relativamente rare del Salvataggio di Basilio figlio di Agrik dalla cattività saracena e del Salvataggio dei tre uomini dalla condanna capitale. I miracoli di Nicola ricordano i sacrifici ascetici e la forza del santo, come a conferma dell’efficacia delle preghiere a lui rivolte [tt. 2, pag. 30; 8, pag. 34; 13, pag. 110; 16, pag. 113]. La vita di san Giorgio Il culto di san Giorgio si formò nel v secolo in Asia Minore, in Siria e in Palestina ed ebbe vasta diffusione tanto a Bisanzio e nei Paesi del mondo ortodosso, quanto in Europa occidentale. È uno dei santi guerrieri più esaltati, vissuto tra la fine del iii e l’inizio del iv secolo in Cappadocia e morto martire sotto l’imperatore Diocleziano. La più antica iconografia di san Giorgio

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A fronte: 43. San Giovanni di Rila, Museo Nazionale del Monastero di Rila.

lonica, la visione di Illustrio degli angeli che invitano invano san Demetrio ad abbandonare la città, la guarigione presso il sepolcro, san Demetrio che trafigge con una lancia re Kalojan in difesa di Tessalonica, san Demetrio che salva Tessalonica dalla carestia [tt. 25, pag. 117, 41].

santo è sottoposto: san Giorgio in prigione, schiacciato da una pietra, la tortura della ruota, la tortura della calce, la tortura dei calzari ardenti, la tortura dei ganci e la decollazione. Tra i miracoli vengono raffigurati soprattutto La resurrezione del centurione Leone, La rianimazione del bue, L’abbattimento degli idoli e Il miracolo di san Giorgio col drago. Alla base di quest’ultima scena stanno le tradizioni orali popolari, diffuse nei territori dell’Asia Minore, particolarmente in Cappadocia, che parlano delle origini leggendarie del santo. Secondo la tradizione agiografica, il re Selvio della città di Lasja è costretto a gettare sua figlia in pasto al drago, ma san Giorgio vincerà il drago e la principessa lo porterà in città avvolto alla cintola. Nelle altre varianti iconografiche (ridotte), san Giorgio trafigge il drago con la lancia. Questa leggenda gode di una straordinaria popolarità e viene spesso rappresentata anche isolata in singole icone nelle varie regioni del mondo ortodosso come pure nell’arte europea occidentale [tt. 1, pag. 29; 33, pag. 60; 4, pag. 98; 40].

Iconografia dei santi di alcuni Paesi ortodossi Nel mondo ortodosso, il culto di numerosi santi regionali, comparso piuttosto tardi in certe regioni o all’interno di differenti culture popolari, rimane ancor oggi attuale nella pratica religiosa di quasi tutte le nazioni ortodosse. Ad essi venivano dedicate chiese e le loro reliquie erano oggetto di venerazione, mentre le loro immagini, insieme a scene tratte dalle loro vite, venivano dipinte sulle pareti delle chiese e su icone ad essi specialmente dedicate. L’iconografia di queste immagini segue i princìpi della composizione delle «icone-ritratto» di santi cristiani in genere. Ciò che veniva creato era principalmente un ritratto tipologico del santo attraverso le caratteristiche del volto, laddove gli indumenti e gli attributi «classificavano» il santo appena canonizzato come membro di uno specifico gruppo di santi – venerabili, martiri, arcivescovi, monaci eremiti, e così via.

San Demetrio San Demetrio di Tessalonica è uno dei più venerati santi guerrieri della cristianità ortodossa. Morì nella persecuzione cristiana dell’inizio del iv secolo. Il suo culto è associato sia a Sirmio che a Tessalonica, ma dopo la devastazione di Sirmio (l’attuale Sremska Mitrovica, in Serbia) da parte degli Avari nel 582, Tessalonica divenne il cuore del suo culto, poiché lì erano custodite le sue reliquie emananti mirra. San Demetrio è considerato il protettore di Tessalonica, dove un’imponente cattedrale a lui dedicata fu eretta nel v secolo. Il santo viene generalmente raffigurato come un giovane imberbe, con l’armatura e le armi. Le icone lo rappresentano spesso in sella a un cavallo mentre trapassa con una lancia re Kalojan di Bulgaria. Il martirio di san Demetrio fu dipinto probabilmente a partire dal xii secolo, come le altre icone con scene della vita, le sofferenze e i miracoli di santi, ma gli esemplari esistenti sono di una data leggermente successiva. Le scene sono basate sull’agiografia di Giovanni, arcivescovo di Tessalonica nel vii secolo, su due opere che raccontano i suoi miracoli, una delle quali fu scritta da Giovanni Staviakios, e su un’omelia di Plotino, arcivescovo di Tessalonica. La storia di san Demetrio è composta di due parti, il suo martirio e i suoi miracoli postumi, che vengono riunite in un unico ciclo. Le scene illustrate più comunemente sono: san Demetrio davanti all’imperatore Massimiano, san Demetrio che benedice Nestore in prigione, Nestore che uccide Liaeo il tormentatore, la morte di san Demetrio, san Demetrio che difende Tessa-

È tipico dell’Europa medievale il fatto che tali santi, figure storiche, fossero noti per il loro ruolo morale: erano asceti, fondatori di monasteri o riformatori della vita ecclesiastica o monastica. In generale essi diventano un punto di partenza, la pietra miliare della vita ecclesiastica di ogni nuovo Paese che avesse adottato il cristianesimo e determinano importanti tendenze nel suo sviluppo. Sono re (principi)-martiri (come i santi Boris e Gleb per i russi o santo Stefano di De/ani per i serbi), patriarchi, arcivescovi e guide spirituali per il loro popolo (come l’arcivescovo serbo san Sava) o fondatori di vita monastica (come san Giovanni di Rila per i Bulgari). I primi santi russi sono Boris e Gleb – i figli di Vladimir, principe di Kiev, al quale si deve l’adozione del cristianesimo in Russia. La morte del principe Vladimir (1015) fu seguita da un periodo di lotte nel corso delle quali Boris e Gleb furono assassinati dal fratellastro Svjatopolk. I due fratelli innocenti cominciarono ad essere venerati dopo la loro tragica morte e furono canonizzati intorno al 1072. L’allusione al sacrificio innocente di Gesù è sempre presente nel loro culto, insieme alla forza di espiazione del loro sacrificio, che trasformò i due santi in difensori delle terre russe e patroni dei regnanti, dei principi e dei guerrieri russi.

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44. Arcangelo Michele, Museo civico di Pisa.

A fronte: 46. Icona menologio del mese di febbraio, monastero di Santa Caterina del Sinai.

45. Il miracolo di Chonae, monastero di Santa Caterina del Sinai.

diventato la religione ufficiale del popolo bulgaro (865). Nato nell’876 e morto nel 946, fu il primo eremita e il fondatore dell’ascetismo in Bulgaria. Il periodo della sua vita è chiamato da alcuni «Età dell’oro della storia alto-medievale bulgara» e da altri è individuato come civiltà di Preslav (dal nome della città reale, nuova capitale cristiana). San Giovanni di Rila fondò un grande monastero al quale lasciò in eredità i princìpi della vita monastica. Un testo giunto fino a noi, chiamato il «comandamento» di san Giovanni di Rila, permette di paragonare il suo ruolo a quello di san Saba in Palestina, anche se il fondatore della Lavra abitò le gole aride del deserto della Giudea, mentre san Giovanni di Rila fece della «selvaggia regione di Rila» la propria dimora. L’eremita riformò il monachesimo bulgaro nello spirito delle tendenze mistiche e ascetiche del monachesimo contemplativo orientale. Con la sua concezione della povertà e dell’assoluta abnegazione del monaco, può essere paragonato a uno dei più grandi santi del mondo occidentale: san Francesco d’Assisi. Una delle prime «icone-ritratto» del santo, risalente al primo quarto del xiv secolo, si trova nel monastero di Rila, dove sono

Nel loro culto si riflettono le concezioni che condannano le lotte intestine ed esaltano l’unità dello Stato russo. Una delle più antiche icone dei santi Boris e Gleb giunte fino a noi, che utilizza l’iconografia dell’icona del santo-patrono, fu creata come decorazione per la chiesa di Novgorod poco dopo la sua costruzione nel 1377. I due santi vengono raffigurati in fulgore araldico, mentre cavalcano fianco a fianco, con i volti rivolti l’uno verso l’altro e con in mano due stendardi. Boris e Gleb sono vestiti come principi-guerrieri, indossano caffetani variopinti, mantelli e i tipici copricapo russi di pelliccia, decorati con un anello di perle. Da questo momento in poi, essi appaiono in molte icone, nonché nell’arte monumentale, come guerrieri a cavallo, raffigurati secondo le formule iconografiche con cui, nell’arte ortodossa, venivano presentati i santi guerrieri e i martiri (per esempio, i santi Sergio e Bacco, san Giorgio e san Demetrio) [t. 38, pag. 64; 42]. Il primo santo bulgaro fu san Giovanni di Rila, che visse ed operò negli anni successivi a quelli in cui il cristianesimo era

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47. Il profeta Elia nel deserto, Museo di Arti Decorative della Carelia, Petrozavodsk.

48. Dionisij, I grandi profeti Daniele, Geremia e Isaia, dal registro dei profeti dell’iconostasi, monastero di Ferapont.

Gli arcangeli Gli arcangeli, come gli altri ordini angelici, servono Dio portando a compimento ciò che comanda. Per volontà dell’Onnipotente sono anche mediatori tra il Cielo e la Terra: essi difendono, salvano e, quando necessario, puniscono il genere umano. Secondo la Gerarchia Celeste di Dionigi Aeropagita (500 circa), tutti gli angeli sono suddivisi in nove cori: serafini, cherubini, troni, dominazioni, virtù, potestà, principati, arcangeli e angeli. Illustrazioni raffiguranti tutti i cori sono rare e cominciano ad apparire solamente nel x-xi secolo. Più diffusi sono gli arcangeli, quattro dei quali sono conosciuti anche per nome: Michele, Gabriele, Uriele e Raffaele. Sono raffigurati come esseri umani con le ali e, a seconda del ruolo che viene loro attribuito, tengono in mano una sfera con una croce o una spada. Sono condotti dall’arcangelo Michele, comandante delle schiere celesti, guaritore degli infermi e pesatore delle anime nel giorno del Giudizio (perciò raffigurato a volte con in mano la bilancia). L’arcangelo Gabriele è il più importante dei messaggeri di Dio e porta messaggi dal cielo agli uomini. Raramente nella Bibbia gli arcangeli vengono menzionati per nome (Dan 8,16; 9,21; 10,13; 12,1; Lc 1,19 e 26; Giuda 9; Ap 12,7; Libro deuterocanonico di Tobia 3,25; 8,3; 12,15). Essi compaiono considerevolmente più spesso nei testi apocrifi, in omelie, leggende, encomi e canti. Le illustrazioni delle loro apparizioni e i loro miracoli si basano sull’Antico Testamento e sui testi apocrifi piuttosto che sul Nuovo Testamento o su scritti allegorici. A certi eventi descritti nell’Antico Testamento (Il sacrificio di Abramo, La scala di Giacobbe, I tre giovani giudei nella fornace di fuoco ardente, Daniele nella fossa dei leoni ed altri) nei quali gli angeli hanno un ruolo importante, venne attribuito un significato simbolico nell’interpretazione dei testi del Nuovo Testamento. Tra i più recenti miracoli attribuiti ad arcangeli, particolarmente degni di nota, c’è la storia dell’arcangelo Michele che salva la sua chiesa di Chonae (in Frigia, Asia Minore), che i pagani volevano distruggere allagandola. I cicli bizantini che illustrano le apparizioni o i miracoli degli arcangeli Michele e Gabriele risalgono ai secoli xi e xii e la più antica icona in cui sono raffigurati i miracoli degli arcangeli è della fine del xiv o della prima metà del xv secolo [tt. 18, pag. 44; 23, pag. 50; 6, pag. 77; 18, pag. 90; 2, pag. 140; 36, 44, 45].

conservate anche la sua tomba e le sue reliquie, meta di pellegrinaggio e venerate da tutti i Bulgari. Come tutti i monaci, il santo indossa il saio e tiene in mano un rotolo. Il volto esprime vigore d’intelletto e mostra una controllata espressività interiore: san Giovanni di Rila è prima di tutto e preminentemente un pensatore e un filosofo. La ricerca del raccoglimento verso l’interno, immutabile ideale del cristianesimo, si intensificò nella vita spirituale a Bisanzio, in Bulgaria e in Russia alla metà del xiv secolo in corrispondenza con il crescente misticismo e il diffondersi dell’esicasmo [t. 43]. Il primo santo romeno è san Giovanni il Nuovo, le cui reliquie furono traslate a Suceava, la capitale del principato moldavo, nel 1402, all’epoca del principe Alessandro il Buono (1400-1432). È un martire, torturato dai Tartari, i nemici del principato moldavo. Più tardi il suo martirio sarà rivisitato nel contesto delle invasioni ottomane dei Balcani: nei più antichi frammenti delle icone con scene del suo martirio giunti fino a noi, i suoi torturatori sono raffigurati come Turchi ottomani.

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di quanto lo fossero gli eventi dell’Antico Testamento. Ciò nondimeno, alcune figure dell’Antico Testamento furono rappresentate accanto a Cristo e agli apostoli fin dai primi tempi cristiani. Gli avvenimenti del passato remoto furono messi in relazione con quelli dei tempi di Cristo e dei suoi immediati discepoli. Gli scrittori cristiani videro nelle insolite storie di personaggi dell’Antico Testamento, come i patriarchi Abramo, Giacobbe e Mosè o i profeti Daniele, Giona ed Elia, una sorta di anticipazione dei più importanti eventi del Nuovo Testamento, come l’Annunciazione, la Natività di Cristo, la Risurrezione o l’istituzione del mistero della Santa Comunione [tt. 47-48].

santi e le festività celebrate dalla Chiesa. I più antichi esemplari esistenti, già sviluppati completamente da un punto di vista iconografico, risalgono all’xi secolo. La comparsa di queste icone è quasi contemporanea alla compilazione dei menologio – raccolte di vite dei santi riunite ed edite in dieci volumi da Simeone Metafraste all’inizio dell’xi secolo. Si pensa che queste vite abbiano stimolato la comparsa delle icone menologio. Le prime icone menologio, risalenti ai secoli xi, xii e xiii (monastero di Santa Caterina del Sinai) riflettono in modo molto chiaro le loro peculiari caratteristiche iconografiche. Sul pannello di legno ogni giorno dell’anno ha un proprio campo separato. A volte su un unico pannello viene dipinto l’intero anno, altre volte tre mesi, un mese o solamente pochi giorni. Nei singoli campi sono raffigurati i santi commemorati in quello specifico giorno o il loro martirio o singole festività maggiori, con un numero ridotto di personaggi. Queste icone sono simili a quei manoscritti in cui il testo della vita del santo è accompagnato dalle miniature della sua figura e delle scene del suo martirio. Le icone menologio vengono esposte nella chiesa su un leggio speciale: l’analogion [tt. 9, 10, pagg. 106-107, 46].

Le icone menologio

Icone con scene dell’Antico Testamento

Le icone menologio sono un tipo specifico di icone della cristianità ortodossa, che rappresenta, seguendo i giorni dell’anno, i

La vita, gli insegnamenti e la morte di Cristo e dei suoi primi seguaci erano soggetti per icone ed affreschi assai più comuni

L’ospitalità di Abramo Il primo libro della Bibbia racconta l’ospitalità che il patriarca Abramo offrì a tre uomini presentatisi alla sua porta (Gn 18,116). Uno dei visitatori predisse che Sara, la moglie di Abramo, benché molto vecchia, gli avrebbe partorito un figlio. Questo evento dell’Antico Testamento fu interpretato molto presto nell’arte paleocristiana e bizantina come l’apparizione ad Abramo della Santissima Trinità e la promessa del viandante che Sara avrebbe partorito un figlio, Isacco, venne presa come una predizione dell’Annunciazione. In armonia con quanto detto, la composizione acquisì molto presto un’iconografia ufficiale. Tre angeli sono seduti ad un tavolo, sebbene la Genesi nomini tre viaggiatori senza

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49. L’ospitalità di Abramo, o la Trinità, Galleria Tret’jakov, Mosca.

50. Mosè e il roveto ardente, monastero di Santa Caterina del Sinai.

51. I tre giovani nella fornace, Museo Russo, San Pietroburgo.

visione nel sonno. Vide un’alta scala la cui cima raggiungeva il cielo, con angeli che salivano e scendevano. Dio apparve in cielo e promise a Giacobbe che l’avrebbe protetto (Gn 28,10-19). Poco dopo la comparsa del cristianesimo, la visione onirica di Giacobbe diventò un simbolo della Vergine, perché era considerata la scala vivente ed il collegamento tra il Cielo e la Terra perché lei, un essere terreno, partorì Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Il testo di questa visione viene letto in chiesa alla vigilia delle festività collegate alla Vergine, e il poema in lode della Vergine, l’inno Acatisto, fa riferimento appunto a questo simbolismo: «Salve, scala sovraceleste dei prodigi di Cristo». Ecco il motivo per cui la composizione comprende un medaglione con la figura della Vergine. La scala di Giacobbe a volte fu anche interpretata come una predizione dell’Ascensione. Il sogno di Giacobbe fu rappresentato già nel ii secolo e successivamente subì variazioni minime. Giacobbe è raffigurato mentre dorme ai piedi della scala, con la testa appoggiata su una pietra. Generalmente due o tre angeli scendono o salgono la scala. In cima si vede Cristo o la dextera Dei. A partire dall’xi secolo, alcune composizioni comprendono la figura di un angelo in piedi, che indica il medaglione con la Vergine. Ciò non è menzionato nella Genesi, ma il dettaglio fu introdotto per indicare più chiaramente l’importanza simbolica dell’evento [t. 9, pag. 35]. Mosè e il roveto ardente L’episodio scelto dall’iconografia bizantina tra i numerosi avvenimenti della vita di Mosè, guida del popolo ebreo, fu la miracolosa visione sul Monte Oreb di un roveto che arde senza consumarsi. Il racconto si trova nel secondo libro del Pentateuco (Es 3,1-8). Le illustrazioni di questo evento cominciano ad apparire molto presto: in catacombe del iii secolo e nei mosaici murali del v e vi secolo. Le prime rappresentazioni non vedono comparire nel cielo Jahvè, ma la dextera Dei o, più tardi, Cristo Emmanuele. Col tempo, la visione diviene più elaborata: Mosè viene dapprima raffigurato in piedi davanti al roveto ardente, sormontato da un medaglione con la Vergine, più tardi figura nell’atto di togliersi i sandali in segno di rispetto verso la terra sulla quale si trova. La popolarità del soggetto si basava sul significato simbolico ad esso attribuito. A partire dal iv secolo, la rappresentazione di Mosè davanti al roveto ardente venne interpretata nelle omelie e nella poesia religiosa come una prefigurazione della verginità di Maria. In una preghiera letta il giorno dell’Annunciazione, l’angelo dice a Maria che, come il roveto non era stato consu-

Il sacrificio di Abramo

ulteriori specificazioni. L’angelo al centro ha un’aureola con inscritta una croce, che rivela come in realtà egli sia Gesù Cristo. Gli altri due angeli aureolati, che siedono alla sua sinistra e alla sua destra, sono Dio Padre e lo Spirito Santo. In piedi, accanto all’angelo centrale, si vede Abramo che serve i suoi ospiti. Quando la rappresentazione intende essere principalmente un’illustrazione dell’evento dell’Antico Testamento, appare anche Sara, che guarda di nascosto da un lato o serve i visitatori insieme ad Abramo. In questi casi, sulla tavola è generalmente raffigurato un vassoio con la testa del vitello servito da Abramo ai visitatori. Quando invece l’intento è di sottolineare in icone ed affreschi che la visita dei tre viandanti sconosciuti fu in realtà un’apparizione della Santissima Trinità, di solito vengono raffigurati solamente gli angeli al tavolo e qualche volta è compreso anche Abramo. In tal caso, l’iscrizione consueta è «La Santissima Trinità» [tt. 46, pag. 69; 49].

L’episodio dell’Antico Testamento in cui Abramo è pronto a sacrificare la vita del suo unico figlio Isacco per compiere l’ordine di Jahvè (Gn 22,1-18) fu illustrato molto presto nell’arte cristiana. Rappresentazioni di questo evento sono sopravvissute in dipinti murali del iii secolo, su pissidi del iii e iv secolo e sarcofagi del iv secolo. La prova alla quale Dio sottopone l’obbedienza di Abramo è rappresentata nel suo momento più drammatico: Abramo sta sollevando il coltello per pugnalare Isacco, inginocchiato sull’altare con le mani legate, quando un angelo accorre in volo a trattenergli la mano, mentre un ariete, designato per il vero sacrificio, spunta da un cespuglio. All’inizio la composizione comprendeva solamente Abramo, Isacco, l’angelo e l’ariete sacrificale, ma fu presto arricchita di dettagli. Le illustrazioni dell’xi secolo sono molto particolareggiate – Abramo carica sul mulo la legna per il sacrificio, Isacco la trasporta in cima alla collina sulla quale dovrà essere sacrificato, e così via. Il sacrificio di Abramo

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assunse significato simbolico fin dall’inizio. La sollecitudine di Abramo nel sacrificare il suo unico figlio fu paragonata a quella di Dio Padre, che sacrificò suo figlio Cristo per la salvezza del genere umano. Dai primi secoli cristiani, questo evento fu considerato un’anticipazione del sacrificio di Cristo e fu associato al mistero della Santa Comunione. Anche altri dettagli dell’episodio del sacrificio di Abramo furono interpretati come anticipazioni di eventi futuri collegati alle sofferenze di Cristo; ad esempio, Isacco, che porta sulla schiena un fascio di legna, fu considerato una prefigurazione di Cristo che porta la croce, e le spine del cespuglio furono associate a quelle della corona posta sul capo di Cristo prima della Crocifissione. La scala di Giacobbe Giacobbe, nipote di Abramo e figlio di Isacco, andando a Carran, passò la notte in un luogo deserto dove ebbe una strana

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A fronte: 52. Lode della Vergine con scene dell’inno Acatisto, cattedrale della Dormizione, Cremlino di Mosca.

Sidrac, Misac e Abdenago, amici del profeta Daniele, si rifiutarono di fare quanto era stato decretato. Allora Nabucodonosor ordinò che fossero gettati in una fornace di fuoco ardente. I tre giovani rimasero illesi, poiché un angelo li protesse dentro la fornace, mentre i loro torturatori rimasero uccisi, travolti dalle fiamme. Questa storia, narrata nell’Antico Testamento (Dn 3,130), si trova rappresentata in catacombe romane dell’inizio del iii secolo, su sarcofagi del iv secolo e in un’icona del vii secolo. I tre ragazzi sono generalmente raffigurati in preghiera con le braccia alzate, circondati da lingue di fuoco, e sullo sfondo un angelo con le ali spiegate che li protegge. La miracolosa liberazione dei tre giovani ebrei dalla fornace ardente fu interpretata come un annuncio della discesa di Cristo agli Inferi dopo la morte sulla croce e della liberazione del genere umano. Di conseguenza l’illustrazione fu, fin dall’inizio, espressione della fede nella risurrezione dei morti [t. 51].

mato dalle fiamme, così lei sarebbe rimasta vergine anche dopo la nascita del Figlio di Dio. Nel iv secolo, anche san Giovanni Crisostomo parla, in un’omelia sull’Annunciazione, della miracolosa conservazione della verginità della Madre di Dio paragonandola al roveto ardente sull’Oreb [t. 50]. Daniele nella fossa dei leoni Il miracolo del profeta Daniele, rimasto vivo dopo essere stato rinchiuso con i leoni, è narrata in due testi simili ma non identici. La prima versione si legge nell’Antico Testamento (Dn 6,128), la seconda è compresa nella parte del testo deuterocanonica trasmessaci in greco (14,23-42). Le icone bizantine illustrano il miracolo facendo riferimento alla seconda versione. Il profeta Daniele, al servizio di re Ciro di Persia, accusato di aver ucciso un serpente sacro, viene gettato in una fossa con sette leoni, sigillata subito dopo. Durante la sua prigionia nella fossa, gli viene portato del cibo da Abacuc, chiamato dalla Giudea a Babilonia dall’arcangelo Michele. Quando, il settimo giorno, la fossa viene riaperta, Daniele è trovato vivo perché Dio ha chiuso le fauci dei leoni. Il profeta Daniele viene raffigurato nella fossa, generalmente in mezzo a due leoni, con addosso una veste corta e un mantello. Sopra di lui si vede il profeta Abacuc con il cibo, sospeso in aria trattenuto per i capelli dall’arcangelo Michele. Il numero dei leoni varia, sebbene siano raramente raffigurati tutti e sette – in genere se ne vedono due o tre attorno a Daniele, sufficienti per indicare la loro presenza nella fossa. Il soggetto fu rappresentato già nei primi secoli del cristianesimo, poiché si pensava avesse valore simbolico. Gli esempi più antichi si trovano nelle catacombe e risalgono alla fine del ii secolo. La sopravvivenza di Daniele e la sua uscita dalla fossa dei leoni furono considerate un’anticipazione della risurrezione di Cristo e la rappresentazione di Daniele in mezzo ai leoni nella fossa fu interpretata come la prefigurazione di Cristo nella tomba. La presenza del profeta Abacuc, miracolosamente trasportato dalla Giudea per portare pane e pesci a Daniele, fu interpretata come una predizione dell’istituzione della Santa Comunione nell’Ultima Cena. Infine, il fatto che Daniele riceva del cibo dal profeta Abacuc senza che sia stato rimosso il sigillo della fossa fu interpretato come simbolo della nascita immacolata di Cristo o della verginità di Maria.

L’illustrazione della poesia liturgica La poesia liturgica occupa uno specifico posto chiave in tutte le molteplici forme del rituale divino della Chiesa ortodossa. Non esiste un momento nello svolgimento della liturgia in cui la lettura dei salmi o di altri testi dell’Antico Testamento, del Vangelo degli atti e delle lettere apostoliche, delle vite e dei sermoni non si alterni con inni. La poesia liturgica sorge nell’epoca del primo Impero bizantino e raggiunge il primo vivido rigoglio nel vi e vii secolo. Le sue forme di genere si cristallizzano e si affermano tuttavia nel ix-xi secolo, mentre i testi si consolidano e si raggruppano secondo i tipi di libro liturgico verso la fine dell’xi secolo. Parallelamente l’influenza dell’innografia sulla pittura sacra comincia a rivelarsi a partire dal xii secolo. Le diverse forme del rapporto «innografia-iconografia» si possono osservare in tutta la serie di icone dell’epoca tardobizantina. In alcuni casi le immagini sacre si uniscono a quelle di famosi innografi bizantini, i quali appaiono in ambo le parti della scena della Dormizione della Madre di Dio. Ne è un esempio l’icona della collezione Kanelopulos (Atene, fine del xiv-inizio del xv secolo), dove a destra e a sinistra della Dormizione sono raffigurati famosi autori di inni, san Giovanni Damasceno e san Cosma di Maiuma; sotto la scena è visibile il «ritratto» in busto di Josif Gimnopisec, e sotto questi Teofane Graptos. Sulle pergamene che tengono tra le mani sono scritti testi di poesia liturgica inerenti alla Dormizione di Maria, che occupano un posto definito nell’ufficio liturgico.

Tre giovani ebrei nella fornace di fuoco ardente Re Nabucodonosor di Babilonia aveva fatto costruire una statua d’oro e decretato che tutti dovessero adorarla. Tre giovani ebrei,

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A fronte: 53. Il Giudizio Universale, pannello di tetrastico, monastero di Santa Caterina del Sinai.

La formazione dell’iconografia dell’inno avviene a cavallo del xiii-xiv secolo nella pittura monumentale del mondo ortodosso. Del xiv secolo sono state conservate anche alcune icone con l’illustrazione del ciclo dell’Acatisto. Una delle più interessanti icone del xiv secolo, che si trova oggigiorno nei musei del Cremlino, include al suo centro una composizione, La lode della Vergine; ai suoi margini sono disposte le illustrazioni delle 25 strofe dell’Acatisto. Per visualizzare le prime 12, in cui si menzionano gli avvenimenti relativi alla nascita di Cristo, vengono impiegate le scene evangeliche corrispondenti, mentre l’iconografia delle seguenti 12 scene si forma sotto l’influsso di altre fonti, tra le quali il cerimoniale bizantino ecclesiastico e di corte. Così, per esempio, la scena che illustra il proemio presenta la supplica davanti all’icona della Madre di Dio Odigitria [t. 52]. Un altro inno di ringraziamento in onore della Vergine «in te si rallegra, o beata, ogni creatura...», ritenuto opera di san Giovanni Damasceno, compare nella pittura russa alla fine del xv secolo e ancora per cent’anni avrà larga diffusione nell’arte dei popoli ortodossi. Alla tradizione russa è legata anche l’iconografia delle icone con la raffigurazione della Protezione della Madre di Dio, che rappresenta anch’essa testi di inni e mette in evidenza l’idea dell’intercessione e della protezione di Maria.

Questi testi, scelti con cura e finalità nell’enorme repertorio della poesia liturgica, aiutano l’interpretazione dell’immagine raffigurata in una data scena dell’avvenimento. C’è tuttavia un’altra possibilità di arricchire l’iconografia tramite l’utilizzo dei testi di poesia liturgica. Essa denota non solamente un legame tra una data scena e i concreti testi poetici – unitamente ai loro autori – ma anche la visualizzazione della loro poetica. È questo il caso dell’icona che raffigura lo stichiron di san Giovanni Damasceno «Che cosa ti offriremo o Cristo, tu che ti sei rivelato sulla terra come uomo in nostro favore; ogni creatura ti rende grazie », verso che viene recitato nell’ufficio serale di Natale. Troviamo il primo esempio di utilizzo di questo verso nell’icona russa nota con il nome Sinassi della Madre di Dio (Pskov, fine del xiv-inizio del xv secolo). La festa della Cattedrale di Maria, celebrata il 26 dicembre/8 gennaio, riunisce i credenti per la glorificazione e l’espressione della riconoscenza. Al centro dell’icona è effigiato Gesù Bambino in grembo alla Madre; gli portano i doni non solo i Magi, ma anche la Terra e il Deserto (rappresentati da figure femminili), e pure i rappresentanti del genere umano, di varie età e nazionalità. Nella parte inferiore dell’icona sono raffigurati i cantori che eseguono l’inno. È possibile che abbiano esercitato una certa influenza su questa icona anche altri inni, cantati nel giorno di Natale e, in particolare, il celebre kontakion «La Vergine oggi genera colui che è il sostanziale», che viene attribuito al famoso innografo bizantino Romano il Melode (Sladkopevec nella tradizione ortodossa).

Il Giudizio Universale Il grandioso quadro della fine del mondo e della risurrezione dei morti, turbando l’immaginazione dell’uomo medievale e rappresentando il destino dei giusti e dei peccatori dopo la seconda venuta di Cristo, godeva di particolare popolarità nella pittura medievale. La formazione dell’iconografia della composizione nota con il nome di Giudizio Universale comincia già nella prima epoca bizantina, ma fino al x secolo incessantemente si arricchisce di tutta una serie di episodi attinti da varie fonti letterarie, tra le quali, accanto alla Bibbia, ebbe particolare rilievo il colloquio di sant’Efrem Siro Sull’avvento del Signore e sul Giudizio. Nell’arte bizantina dall’xi secolo in poi la scena del Giudizio Universale fa la sua comparsa nelle miniature dei manoscritti, così come di preferenza nelle decorazioni delle cattedrali, dove si situa sulla parete occidentale o sul nartece della chiesa stessa. Si sono conservate rare icone con la rappresentazione del Giudizio Universale, le quali includono tutta una serie di motivi iconografici permanenti.

Uno dei più solenni inni in onore della Madre di Dio è rappresentato dall’Acatisto (dal greco Akathistos, in piedi: un canto durante il quale i fedeli dovevano restare in piedi). La creazione di questo capolavoro della poesia innografica bizantina è attribuita al Beato Romano il Melode (vi secolo). Esso è composto da 24 strofe; le prime 12 presentano le vicende della vita terrena della Madonna, dall’Annunciazione alla Presentazione del fanciullo al tempio di Gerusalemme; le restanti 12 includono le lodi e gli elogi alla Madre di Dio. Nel 626, in concomitanza della vittoria di Bisanzio contro i Persiani e gli Arabi, all’Acatisto fu aggiunta una strofa introduttiva di glorificazione della Vergine, protettrice della capitale bizantina, in quanto stratega e difensore di fronte al pericolo nemico. Precisamente da questo tempo e da quel giorno questo inno veniva cantato solennemente al sabato della quinta settimana di Quaresima.

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43). Sotto la Madre di Dio è raffigurato il «Seno di Adamo»; attorno all’avo seduto stanno le anime dei giusti, mentre nel suo grembo siede il misero Lazzaro, che in accordo con la parabola evangelica (Lc 16,20-26) si procura la beatitudine paradisiaca dopo la morte. A sinistra di Cristo e dell’Etimasia si trova l’Inferno. Ai piedi di Cristo, in conformità alle visioni profetiche, sono ruote di fuoco con le ali e un fiume di fuoco (Dn 7,9-10). Qui è raffigurato l’angelo dell’Apocalisse, che riavvolge il cielo come una pergamena (Ap 6,14). Nell’oscura caverna dell’Inferno è dipinto Satana, mentre sotto di lui gli angeli soppesano i peccati e si vedono i diversi aspetti dei tormenti infernali. Infine, nel registro inferiore dell’icona è dipinta la risurrezione di tutti i morti, con gli angeli trombettieri e la terra e il mare che rendono i loro cadaveri. Il tema della seconda venuta di Cristo può essere rappresentato in rari casi per mezzo della Visione del profeta Ezechiele, come accade, per esempio, nella celebre icona del xiv secolo del monastero di Poganovo sopra ricordata [tt. 2122, pagg. 48-49; 53].

Una di queste icone, del xii secolo, si conserva, ad esempio, nel monastero di Santa Caterina del Sinai. Al centro del registro superiore è visibile il Cristo in trono, ai lati la Madonna e san Giovanni Battista, che in qualità di protettori del genere umano si rivolgono al Supremo Giudice implorando misericordia. Ai loro lati sono i 12 apostoli, seduti sui troni, con il libro aperto tra le mani, nel quale – secondo la tradizione – sono scritte tutte le azioni degli uomini; dietro a loro sono disposti gli angeli. Al di sotto di Cristo, al centro dell’icona, si vede l’Etimasia (il trono preparato), sul quale siederà il Salvatore nel giorno del Giudizio. Ai piedi del trono si avvicinano incespicando Adamo ed Eva, che giungono le mani implorando salvezza. Alla destra di Cristo, nella raffigurazione, compaiono i giusti in ordine gerarchico: apostoli, profeti, martiri, vescovi, beati, donne sante. Sotto di essi è effigiato il Paradiso, la cui porta è sorvegliata da un serafino con sei ali. Nel giardino edenico siede la Madre di Dio con due arcangeli, accanto a lei c’è la figura del buon ladrone che, crocifisso assieme a Cristo, si convertì a lui prima di morire, e perciò è meritevole del Paradiso (Lc 23,40-

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parte seconda

DA BISANZIO AL ’900


INTRODUZIONE PERENNITÀ E DIFFUSIONE DELL’ICONA Tania Velmans

in Paesi rimasti indipendenti nel periodo considerato, come la Russia e la Romania, e nei territori occupati da conquistatori stranieri, di religione diversa e, per di più, ostili alle immagini. Prima di analizzare la diffusione dell’icona postbizantina, è il caso d’interrogarsi sulle ragioni della sua straordinaria vitalità che non sorprende in Russia visto che, alla caduta di Bisanzio, i Russi avevano ufficialmente rivendicato l’eredità bizantina proclamando Mosca terza Roma. Anzi, per dimostrarlo al mondo, Ivan iii aveva fatto inserire nel proprio stemma l’aquila bicipite della dinastia dei Paleologhi, e l’icona divenne in breve un’immagine emblematica dei principati russi unificati. Quando, nel xvi e xvii secolo, l’evoluzione della pittura d’icone portò a rappresentazioni troppo diverse da quelle bizantine perché aveva adottato un’iconografia eccessivamente complessa ed esuberante per essere capita al primo sguardo, la Chiesa russa reagì energicamente convocando uno dopo l’altro tre concili che si occuparono della pittura. Nel 1551, i partecipanti al sinodo detto “Stoglav” (o “dei Cento Capitoli”) fecero persino confiscare un lotto di icone destinate ad essere esportate in Moldavia perché, secondo loro, non erano conformi ai modelli bizantini dai quali non ci si doveva allontanare neppure di uno iota. Questo gesto, come le decisioni del concilio, non è assolutamente il segno di una fedeltà servile alla tradizione bizantina, ma la dimostrazione dell’importanza data alle icone. Come era già stato affermato durante e dopo il conflitto iconoclasta, l’icona non era infatti un’immagine dipinta su una tavola, ma il tramite di un rapporto col divino. Riceveva perciò le “energie” di colui o di colei che rappresentava, divenendo così un oggetto sacro.

Questa seconda parte comprende studi diversi ma collegati fra loro sull’icona postbizantina (xv-xviii secolo) in tutti i territori a maggioranza ortodossa e in alcuni Paesi e regioni dove l’ortodossia è la religione di una minoranza della popolazione. È la prima volta, non solo nel campo dell’editoria ma addirittura in quello della ricerca, che questo tema viene affrontato. L’arte postbizantina, infatti, è stata a lungo ignorata e, a parte l’icona russa di questo periodo, l’immagine mobile ortodossa ha suscitato fin qui scarso interesse. Le cose cominciarono a cambiare una ventina d’anni fa quando gli archeologi greci, guidati dal compianto Manolis Chatzidakis e da Panayotis Vocotopoulos, pubblicarono i loro studi sull’icona cretese, i suoi legami con Venezia e la sua influenza sui Balcani. Fu una vera rivelazione. Questi dipinti, che accolgono alcune esperienze del prerinascimento e del Rinascimento italiano, sono di grande bellezza e raggiungono in breve un grado di perfezione e di virtuosismo tecnico veramente stupefacente. Gli studi ebbero come conseguenza la rivalutazione delle icone postbizantine in generale, trascurate fino a quel momento in favore di quelle di epoche anteriori. Si cominciò subito a studiare con cura e pubblicare le opere greche, bulgare e serbe posteriori alla caduta di Costantinopoli, mentre altre analisi svelarono il contenuto delle grandi icone russe il cui simbolismo polisemantico era rimasto in parte oscuro. Infine, in Romania, le icone postbizantine della Moldavia e della Valacchia attirarono l’attenzione degli storici dell’arte. Le grandi dimenticate da questi studi furono, e sono ancora, le icone della periferia orientale del mondo bizantino, delle quali parlano pochissime pubblicazioni; siamo perciò particolarmente felici di aver potuto dedicare loro un capitolo di questo volume.

Nei Paesi privati dell’indipendenza, il permanere dell’arte dell’icona ed il suo sviluppo dipendono in gran parte dalla capacità di resistere della religione ortodossa e da una certa tolleranza nei suoi confronti da parte delle autorità turche ed arabe. D’altro canto, l’icona faceva parte del culto che non poteva essere celebrato in mancanza di essa; inoltre, nella misura in cui le chiese continuavano a funzionare, e dove si costruivano nuovi edifici religiosi, c’era bisogno di dipinti su tavola per l’iconostasi; come se non bastasse, i riti dell’ufficio esigevano la presenza di icone particolari per ciascun giorno dell’anno liturgico. Infine l’icona fu anche, come la lingua e l’appartenenza confessionale, un mezzo d’identificazione nazionale e un modo per esprimersi in un idioma familiare. Come in epoca bizantina, le si chiedeva aiuto e protezione nei momenti difficili. Esposta nelle case dei credenti, sosteneva

Detto questo, non si può non interrogarsi sul fenomeno culturale rappresentato dall’icona postbizantina le cui perennità e diffusione sono fenomeni senza precedenti. La storia dell’arte c’insegna che la durata delle tradizioni artistiche non supera (o supera solo di poco) quella dello stato che le ha chiamate in vita; orbene, i principi fondamentali dell’estetica bizantina sono stati definiti fra il vi ed il ix secolo, l’Impero ha cessato di esistere a metà del xv e la pittura, che è l’espressione più importante della sua specificità in campo artistico, ha continuato a vivere per altri tre secoli in maniera creativa e, sotto forma di copie, fino ai nostri giorni. A proposito dell’eccezionale longevità dell’icona, è bene ricordare le condizioni geopolitiche all’interno delle quali il fenomeno si è sviluppato. Tali condizioni non sono, evidentemente, le stesse

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A fronte: 1. S. Giovanni Battista con figure di santi, Museo nazionale d’arte, Bucarest. Soggetti o figure poco diffusi in età bizantina divengono ora frequenti, come la raffigurazione di san Giovanni Battista alato a causa della sua assimilazione agli angeli, che lo avevano assistito durante il Battesimo.

avere successo in Italia in epoca postbizantina, malgrado il dispregio di alcuni per la “maniera greca”. A Venezia l’importazione d’icone praticamente non si era mai interrotta e in città prosperavano molte botteghe tenute da artisti greci. Così, nel 1687, sull’altare maggiore della chiesa della Salute veniva posta un’icona proveniente da Candia. Inoltre, i Veneziani che vivevano a Creta commissionavano e comperavano regolarmente icone che, del resto, erano molto diffuse in Italia. Ancora oggi un’icona bizantina sta al centro di un insieme realizzato da Fogolino a Santa Corona di Vicenza, e Francisco de Hollanda, intorno al 1538, riferisce con quanta venerazione Michelangelo parlasse di un’icona di Cristo che si gloriava di aver copiato per la regina del Portogallo. Molte opere, come quella di Andrea Gilio da Fabriano (Degli errori e degli abusi dei pittori, 1564), contrappongono la nobiltà delle immagini bizantine alla volgarità lasciva di quelle del Rinascimento ed un pittore, architetto e storico dell’arte come il Vasari ripete più o meno lo stesso concetto confrontando la dignità e la spiritualità dei santi bizantini con le figure simili a divinità pagane che dipingevano i suoi contemporanei italiani. Un altro documento, pubblicato a Mantova da Giorgio Comanini, ci dice che nel 1591 nei palazzi dei nobili si conservavano delle icone annerite dal fumo non come antichità, ma per la preghiera. Infine, alcune testimonianze mostrano che la maniera greca incontrava il favore della pietà popolare ancora alla fine del xvi secolo. È noto che molti pittori astratti, fra cui Matisse e Malevi/ – che ne parlano addirittura nei loro scritti – subirono l’influenza dell’estetica bizantina; e non c’è da stupirsi del fatto che degli artisti assetati di spiritualità e in cerca di nuove vie per superare ogni riferimento al reale si sentissero attratti dalle immagini su tavola bizantine e postbizantine. L’influenza dell’icona sulla pittura di questi artisti non opera a livello delle forme, agisce piuttosto sulla concezione dell’immagine come riflusso o espressione di un mondo posto oltre il reale. Nei pittori moderni questa concezione ha condotto all’astrazione (Kandinskij) o, quanto meno, alla semplificazione delle forme (Matisse). Era accaduto lo stesso nell’estetica bizantina, che escluse l’astrazione ma dette un ruolo fondamentale all’allontanamento dal reale tramite la tendenza all’astrazione. Nella sua opera Lo spirituale nell’arte (1911), Kandinskij fondava la libertà del pittore, dunque anche il suo diritto all’astrazione, sulla ricchezza del suo immaginario e su ciò che chiama “la sua necessità interiore”. Per l’artista bizantino necessità interiore si chiama Dio, e l’imperativo alla realizzazione, trascendenza.

il loro ideale spirituale affermando ogni giorno, in maniera convincente perché visibile, l’esistenza di un radioso aldilà. Quest’ultima affermazione richiede qualche chiarimento: a differenza delle opere occidentali di analoga natura, l’icona garantiva infatti il passaggio dal visibile all’intelligibile, assumendo quindi un ruolo di mediatrice fra la forma concreta, immediatamente percepibile, e il mondo celeste che sfugge ai nostri sensi. I bizantini le avevano inoltre attribuito un valore uguale a quello del vangelo, inserendola così all’interno della rivelazione. Dopo la crisi iconoclasta, si pensava poi che esistesse un legame preciso fra la rappresentazione e ciò che veniva rappresentato, e queste due nozioni generalmente separate erano paragonate a un sigillo (la figura rappresentata) e alla sua impronta (l’immagine). Si credeva anche che dai personaggi sacri scendessero degli influssi sulle loro icone. L’insieme di tutti questi significati e di alcuni altri, la cui esposizione ci porterebbe troppo lontano, accresceva l’impatto dell’immagine sulle coscienze e il bisogno di possederne una o più. Tuttavia l’icona bizantina non si è limitata a durare nel tempo ma, nel corso dei secoli che seguirono la caduta dell’Impero, ha continuato ad evolversi [t. 1]. Le furono così attribuiti nuovi significati simbolici che non si riferivano solo a personaggi sacri rappresentati sotto forma di ritratti o a episodi evangelici, ma illustravano anche il contenuto di alcune preghiere, di celebri omelie, di leggende agiografiche e di riti liturgici. Comparvero quindi anche degli “equivalenti” figurativi che esprimevano concetti dogmatici o commenti teologici che, a volte, presentavano diversi livelli di lettura. Ne sono perfetti esempi le icone che rappresentano la Sapienza divina o il Cristo Sapienza le quali, partendo dai salmi e dalle omelie, si riferiscono contemporaneamente all’incarnazione, al sacrificio, all’eucaristia e alla Trinità. Anche i temi tradizionali furono infarciti di allegorie, personificazioni, richiami al ruolo della Chiesa nell’economia della salvezza e al mistero della comunione. Alcune accolsero anche elementi dell’arte occidentale, che però si rivelavano quasi solo nello stile o in alcuni particolari che non modificavano né il significato delle immagini, né i principi fondamentali dell’estetica bizantina su cui si fondava il loro linguaggio. Particolarmente significativo è il favore che l’icona postbizantina incontrò in Paesi non ortodossi. Dopo aver influenzato tutta la pittura italiana del xii secolo e le più belle pale del xiii (fra cui quelle di Duccio e Cimabue), l’icona continuò ad

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A fronte: 2. L’altare maggiore di S. Maria della Salute a Venezia, con al centro l’icona cretese collocata nel 1687.

ma – per creare una certa atmosfera che evoca il raccoglimento, il lutto, il calore dell’intimità, ecc. In altre parole, l’icona ha assunto un tale valore simbolico da diventare l’elemento determinante il significato e l’atmosfera di un ambiente anche se questo, come la scena rappresentata, non ha nessuna connotazione religiosa. Le icone si trovano pure in piccole riproduzioni a buon mercato e su oggetti di paccottiglia venduti per strada. Il fatto che rende particolarmente strano questo ricorso all’icona, così frequente nel mondo occidentale, è che, parallelamente, quando si tratta della parola, si evita qualsiasi riferimento a Bisanzio. La cosa non riguarda solo la comunicazione di massa, ma anche certi libri nei quali si preferisce parlare di “influenza mediterranea” anziché “bizantina”, anche se la suddetta influenza proviene direttamente da Costantinopoli. Quando il canale televisivo francese Arte ha presentato un film sulla Sicilia ed ha commentato le decorazioni a mosaico realizzate da artisti costantinopolitani nelle chiese commissionate dai re normanni, le parole “Bisanzio” o “bizantino”, non sono mai state pronunciate. Questa reticenza non nasconde, probabilmente, nessuna ostilità ma, semplicemente, un’ignoranza dovuta alle lacune dell’insegnamento scolastico. Ciò non impedisce che tale atteggiamento renda l’interesse per l’icona ancor più significativo, attribuendole un non comune potere di seduzione. Sembrerebbe dunque che Bisanzio avesse creato la più felice espressione visiva del sacro nel mondo cristiano e che l’immagine mobile postbizantina l’abbia conservata. La cosa nasce dal significato trascendente attribuito all’icona al quale abbiamo accennato in precedenza, alla voluta smaterializzazione delle forme attraverso l’abolizione o la riduzione del loro volume, alla mancanza di ogni riferimento spazio-temporale, infine all’abbagliante luminosità del fondo d’oro, simbolo della luce divina. Tuttavia, queste sono solo indicazioni sommarie alle quali bisogna aggiungere ciò che, probabilmente, è l’essenziale: lo sguardo del pittore non era volto verso l’esterno, verso il mondo visibile, ma tutto concentrato sull’interiorità, sull’essenza del personaggio rappresentato e sul simbolismo sotteso ad ogni episodio evangelico che, pur svolgendosi sulla terra, è considerato come una realtà soprannaturale. Come in un famoso quadro di Van Gogh nel quale non è la scarpa di un contadino ad essere rappresentata, ma la verità essenziale di ogni scarpa di uomo di fatica, l’icona non vuole rappresentare la giovane donna di nome Maria dalla quale nacque Gesù, ma l’essere mitico, strumento dell’insondabile

Matisse ha anche manifestato la propria incantata meraviglia quando, durante un viaggio in Russia, scoprì la pittura d’icone alla quale deve molto anche l’arte di Chagall. Eisenstein ne ha tratto ispirazione per i suoi film, in particolare per Ivan il Terribile dove, praticamente, ogni inquadratura corrisponde allo schema di un’icona, e così pure gli atteggiamenti di molti personaggi. Per un occhio anche poco esercitato il film è un susseguirsi di trasposizione in campo laico di icone a volte celebri. Attualmente si realizzano icone postbizantine in tutti i Paesi ortodossi e quest’arte vive una sorta di rinascenza in Russia, dove sono sorti molti ateliers monastici. In quello di Zagorsk, nei pressi di Mosca, la pittura si realizza ancora con colori all’antica, preparati sul posto. Ma ateliers simili o meno austeri si trovano in tutti i Paesi ortodossi ed anche in Occidente: a Parigi (Institut de théologie Saint-Serge), Londra, New York. Il commercio è fiorente e gli acquirenti sono in prevalenza cattolici. Ma l’icona è presente anche nelle chiese cattoliche d’Occidente, malgrado la cosa non salti agli occhi. In Francia e Italia, infatti, la maggior parte delle chiese possiede una o due icone che però, in generale, non sono messe particolarmente in evidenza eccetto, in Italia, alcune immagini ritenute miracolose. Ve ne sono altre anche nelle poche chiese e monasteri cattolici del mondo musulmano. Alcuni anni fa, le fotografie apparse sui giornali in occasione dell’assassinio di sette eroici monaci per mano di bande estremiste, hanno mostrato un’icona della Vergine Eleusa (della Tenerezza) nell’abbazia cattolica di Nostra Signora dell’Atlante a Tiberhine, in Algeria. C’è qualcosa di paradossale in questa situazione perché, fino a poco tempo fa, la Chiesa romana mostrava una certa diffidenza nei confronti dell’ortodossia e persino della civiltà bizantina in genere; conseguenza di questo fatto è stata, in Francia, la sua esclusione dall’insegnamento secondario, senza che ci si sia resi conto dei motivi di tale scelta. Solo in epoca recente, in seguito all’azione ecumenica di Giovanni Paolo ii, il rancore ha lasciato il posto ad un benevolo interesse per l’ortodossia. Resta comunque il fatto che l’immagine-simbolo di un’altra religione, misconosciuta per secoli, era ed è sempre normalmente presente nei santuari che appartengono ad una diversa confessione. Così pure abbiamo quotidianamente occasione di vedere icone in qualche film, su riviste o cartoline con gli auguri di fine anno, indipendentemente da qualunque contesto ortodosso. Esse sono spesso usate – specialmente nel cine-

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ICONOGRAFIA E STILE NEL BACINO MEDITERRANEO E NEI BALCANI Panayotis L. Vocotopoulos

senza un’analisi preliminare, senza capire quanto è stato appena detto, semplicemente perché tocca nel profondo la sensibilità di ciascuno, risveglia desideri repressi di conoscere il mistero dell’uomo, del mondo e di Dio; s’insinua infine nella sfera dell’inconscio e appaga la vista con la sublimità delle sue forme, che non è il suo merito più piccolo.

mistero dell’Incarnazione. L’icona pretende di essere rivelazione e non descrizione del mondo divino. Perciò, quando rappresenta il Cristo oppure altri personaggi sacri mostra delle teofanie profetiche, delle visioni salvifiche il cui intento profondo è permettere l’incontro del cristiano con Dio. Volutamente spersonalizzata e sottoposta ad una certa astrazione, l’icona è tuttavia assoluta presenza e irradiazione. Per tutti questi motivi, e per altri, la amiamo e la “vogliamo”

Tania Velmans

spesso decorati con santi e con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento [t. 2]. In alcune regioni, subito al di sopra delle porte dell’iconostasi erano disposte icone di forma allungata, con la raffigurazione dell’Ultima Cena, dell’Ospitalità di Abramo, della Cena di Emmaus e del Compianto [t. 2]. Le porte venivano chiuse da due battenti lignei detti bemóthyra, che in alcune regioni, nel xvii secolo e particolarmente nelle porte laterali, furono sostituiti da un solo battente, che inquadrava perfettamente la luce della porta. I soggetti correntemente raffigurati sui battenti del presbiterio sono l’Annunciazione e diversi apostoli e gerarchi4 [tt. 2, 3, 43, 46]. Sulle porte sono raffigurati il Cristo – sulla porta centrale, quella detta “porta bella” – angeli e santi5 [tt. 32, 43, 52]. Nelle regioni balcaniche e mediterranee l’iconostasi non si sviluppò alle altezze raggiunte in Russia, dove arriva fino al soffitto. Le icone erano disposte anche su tutti i lati della navata. Presso l’ingresso viene collocata su un apposito leggìo, detto proskynetárion, l’icona della festa o del santo al quale è dedicata la chiesa o che viene festeggiato in giorni particolari, perché i fedeli possano venerarla e baciarla entrando e uscendo dalla chiesa. Altre icone sono disposte su piedestalli in altre parti della chiesa oppure sono appese alle pareti. Normalmente nelle chiese ortodosse non esiste dietro la mensa eucaristica qualcosa di corrispondente alla pala d’altare latina, anche se si fa menzione di icone collocate in questa posizione in età bizantina e ne esistono raffigurazioni in pochissime rappresentazioni postbizantine6. Dietro la sacra mensa era usualmente collocata una croce, che dal xvii secolo, almeno nelle isole Ionie, è lignea con dipinta la raffigurazione del Cristo morto. Si deve tuttavia osservare che alcuni artisti della scuola cretese hanno dipinto pale d’altare per le chiese di rito latino7.

Questa seconda parte abbraccia il periodo che va dalla metà del xv secolo – quando cadde Costantinopoli e, con eccezioni limitate, si completò la conquista turca delle regioni continentali della penisola Balcanica – fin quasi ai giorni nostri. In questo arco di tempo le icone conservarono, nella divina liturgia e nel culto personale, il ruolo primario acquisito in età mediobizantina. Non si notano al riguardo differenze sostanziali tra le regioni soggette al governo turco, e le isole e le poche città che appartenevano all’area controllata dai Genovesi, dai Veneziani e dai cavalieri di San Giovanni, né con le regioni abitate da Greci, Serbi, Bulgari e da altri gruppi etnici. Tutti infatti aderivano allo stesso credo ed erano soggetti alla suprema giurisdizione spirituale del patriarca ecumenico di Costantinopoli, che li amministrava tramite i vescovi locali. Divenne stabile, all’interno delle chiese, la disposizione dell’iconostasi, che isolava il presbiterio (Ieròn Béma) e che comprendeva diversi registri di icone, evidentemente a seconda delle sue dimensioni. Le principali erano le icone cosiddette “despotiche”, o del Signore, quelle cioè di Cristo, della Panagía e, quando esisteva lo spazio necessario, del Precursore e del santo o della festa ai quali il tempio era dedicato [t. 2]. Nel registro superiore ad esse un ordine di icone di minori dimensioni presentava le principali feste del ciclo cristologico e della Madre di Dio – le cosiddette Dodici feste o Dodekáorton – che potevano peraltro presentare un numero maggiore o minore di raffigurazioni [t. 20]. Al di sopra delle Dodici feste è spesso collocato un registro di icone, raffiguranti i dodici apostoli, a mezzobusto o intronizzati [t. 19], solitamente con al centro un’icona di Cristo o della Deesi – il Cristo implorato dalla Madre di Dio (Theotókos) e da san Giovanni Battista1. In età bizantina le iconostasi erano coronate da croci metalliche o lignee con decorazione dipinta. Al più tardi dall’inizio del xvi secolo diviene regolare la collocazione sulla sommità dell’iconostasi di una grande croce lignea scolpita con la raffigurazione dipinta del Cristo crocifisso, accanto al quale stanno la Panagía (la Santissima Madre di Dio) e il giovane apostolo Giovanni, raffigurati su due distinte tavole rettangolari2 [t. 2]. Questa composizione, presente nella pittura veneziana già nel xiv secolo, continua nelle regioni greche fino alla nostra epoca, mentre in Italia scompare alla fine del xv secolo. Tra gli esempi meglio conservati c’è la croce della chiesa greca di Livorno, commissionata a Candia nel 1640 e ricevuta tre anni dopo: come recita il relativo documento, essa è “secondo l’usanza di Creta, di stile moderno, cioè con fogliame e gigli intagliati”3 [t. 1]. I plutei lignei collocati sotto le icone despotiche sono

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Le icone erano sempre presenti anche nelle case dei fedeli, che pregavano di fronte ad esse. Di solito erano tavole rettangolari ma esistevano anche icone pieghevoli, soprattutto trittici, specie fino all’inizio del xvii secolo. Dal xvi secolo, soprattutto a Creta, le icone non vengono trattate solo come oggetti di devozione ma anche come opere d’arte che abbelliscono le dimore delle classi agiate e trovano il loro posto nelle collezioni, accanto ad opere italiane e fiamminghe e a sculture antiche8. Vale la pena di notare che, delle diverse categorie di icone, salvo un’eccezione, non sono documentate le icone menologio, dove sono raffigurati su una stessa tavola i diversi santi e gli episodi celebrati nello stesso periodo dell’anno, come esistevano invece a Bisanzio e conobbero grande diffusione in Russia in età postbizantina9. Esiste un certo numero di casi, specie nelle isole,

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1. Croce lignea scolpita dell’iconostasi della chiesa greca dell’Annunciazione, Livorno. A fronte: 2. Iconostasi della cappella della Vergine, monastero di S. Giovanni il Teologo, Patmos.

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3. Porte di iconostasi, Museo Bizantino, Atene. 4. Nikolaos Tzafouris, Cristo, uomo dei dolori, con Maria e Giovanni, Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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A fronte: 5. Madre della consolazione, Museo Benaki, Atene. Nella doppia pagina seguente: 6-7. Andreas Pavias, Vergine Odigitria e Cristo Pantocratore, Camposanto teutonico, Città del Vaticano.

principalmente dall’isola di Creta, possesso veneziano dal 1210, dove le condizioni politiche ed economiche, specie nella loro configurazione quattrocentesca, favorirono la creazione artistica da parte dell’elemento greco vassallo. Nei due primi secoli di governo veneziano – il xiii e il xiv – vennero fondate centinaia di cappelle, sparse nel territorio dell’isola, decorate con affreschi generalmente di scarso livello creativo. La situazione mutò nel primo cinquantennio del xv secolo13, quando gli affreschi, le miniature e le icone prodotte a Creta si distinguono per la loro qualità. Nello stile e nell’iconografia si seguono allora le tendenze della pittura costantinopolitana della seconda metà del xiv secolo, come si vedono per esempio negli affreschi della chiesa della Peribleptos a Mistrà (a Costantinopoli non si sono conservate opere di pittura monumentale di questo periodo). Le caratterizzano composizioni ritmiche e simmetriche, figure slanciate dai nobili lineamenti, pacatezza nei movimenti e misura nell’espressione dei sentimenti, plasticità accentuata, ricorso contenuto all’elemento lineare e colori armoniosi14. Va osservato che, nelle regioni soggette al governo latino, la scultura e l’architettura furono influenzate dall’arte italiana molto più che non la pittura. La preponderanza di questo stile è dovuta alle frequenti relazioni artistiche tra Costantinopoli e Creta all’epoca, e all’influsso dello spirito classico del Rinascimento italiano. Sappiamo che artisti costantinopolitani si trasferirono a Creta e che pittori cretesi visitarono Costantinopoli; come anche che a Creta erano presenti opere d’arte rinascimentali nei monasteri latini e nelle case signorili occidentali, che vi lavoravano alcuni pittori italiani e che circolavano incisioni di provenienza occidentale. Le influenze italiane erano state attribuite all’insediamento di pittori greci a Venezia; anche per questo venne introdotto il termine di Scuola veneto-cretese. Le indagini archivistiche degli ultimi decenni provano che invece, nel xv secolo, non c’è documentazione di pittori greci insediati a Venezia in modo permanente. In quest’epoca i pittori cretesi erano installati nelle città dell’isola, in particolare nella capitale, Candia, l’attuale Erákleion. Anche quanti non erano originari ma appartenevano alla prima e alla seconda generazione di rifugiati da Costantinopoli, dal Peloponneso e da altri luoghi, erano abitanti permanenti dell’isola e la loro arte non differisce in nulla da quella degli altri esponenti della scuola cretese. Dal xvi secolo un numero relativamente piccolo di pittori greci si insediò nella città lagunare, dopo che i veneziani dapprima consentirono la costituzione della comunità greca (1498) e poi la costruzione di una chiesa ortodossa (1514)15. Alcuni artisti, mediocri nella maggior parte dei casi, dipinsero icone italianizzanti, nello stile

di icone “composite”, nelle quali un’icona più antica, oggetto di particolare devozione, diveniva la parte centrale di un’icona di maggiori dimensioni, che costitutiva, con l’inserto, un insieme iconografico unitario10. Sono rare le icone-lipsanoteche, che racchiudono in piccole cavità microscopiche reliquie di santi11. Le icone bilaterali, dipinte su entrambi i lati per fini processionali, sono rare in età postbizantina12. Normalmente si tratta di icone rovinate, sul verso delle quali viene dipinta la stessa o un’altra raffigurazione, che era anche la sola ad esser utilizzata, mentre non era più usata la raffigurazione originaria. Le icone che godevano di particolare onore venivano spesso ricoperte con una lamina argentata lavorata a sbalzo che lasciava scoperti solo i volti e le mani. In altri casi veniva posta un’aureola argentata attorno alla testa delle sacre figure rappresentate. Come già quelle bizantine, di regola le icone postbizantine sono rettangolari. Sono rare le icone con il lato superiore curvo o angolare e i tondi. Costantinopoli, capitale amministrativa ed ecclesiastica dell’Impero romano d’Oriente, era rimasta per oltre mille anni il centro artistico di tutta la cristianità orientale, con eccezione degli anni dal 1204 al 1261 quando fu conquistata dai soldati della quarta crociata. Quando fu presa dai Turchi, il 29 maggio 1453, la città perse la sua funzione centrale, il cui significato aveva già cominciato a scemare diversi decenni prima della sua caduta, quando l’autorità bizantina si era ridotta alla stessa Costantinopoli, al Peloponneso e a poche isole dell’Egeo. Ne seguirono circostanze molto avverse ai cristiani, che ebbero come conseguenza anche il trasferimento all’estero di una gran quantità di capacità artistiche e risorse spirituali, e la nascita di centri artistici minori che continuavano la tradizione bizantina, mentre quanti si trovavano nelle regioni soggette al governo latino si stabilizzarono e assimilarono gli influssi dell’arte occidentale. Lo studio dell’arte postbizantina è reso difficile dall’assenza di fonti scritte, almeno per i primi secoli; fa eccezione Creta, i cui archivi sono in grande misura conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia. Le stesse icone raramente conservano, specie per i primi secoli, firma, datazione e nome del donatore, che aiutano molto poco se non ci sono testimonianze, soprattutto sull’artista e sul committente.

Creta e la prima fase della sua scuola Il ruolo di Costantinopoli come centro artistico che irradiava nella penisola balcanica e nel Mediterraneo orientale fu assunto

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A fronte: 8. Andreas Pavias, Calvario, Galleria Nazionale, Atene. Nella doppia pagina seguente: 9. Ingresso in Gerusalemme, Museo della città di Atene. 10. Noli me tangere, Istituto Ellenico di Studi Bizantini, Venezia.

Occorre ricordare che i committenti non si aspettavano che i pittori producessero opere originali – anche se i pittori cretesi crearono diversi tipi iconografici – ma al contrario che seguissero fedelmente i temi consacrati dalla tradizione, che mostrassero virtuosismo e che le loro opere fossero di tecnica impeccabile. Le stesse caratteristiche che, nel medioevo, si richiedevano anche agli artisti dell’Europa occidentale. Già nel primo periodo della scuola cretese, che abbraccia il xv e l’inizio del xvi secolo, i pittori cretesi erano in grado di dipingere composizioni bizantineggianti o italianizzanti oppure di mescolare i due stili. In una magistrale pala d’altare del Museum of Fine Arts di Boston, proveniente da Monopoli di Puglia, composta di sette pannelli, l’intronizzazione della Madre di Dio Brefokratousa dello scomparto centrale è incorniciata dai santi Cristoforo, Agostino, Stefano, Giovanni Battista, Nicola e Sebastiano. Le figure sono circondate da una cornice lignea tardogotica e l’opera ricorda i polittici italiani del xiv secolo, quelli veneti in particolare18. La maggior parte delle figure – come la Panagía, Giovanni e Nicola – sono puramente bizantine, correlate con le opere costantinopolitane del xiv secolo; i santi Agostino e Stefano, come del resto il trono della Panagía, sono dipinti nello stile veneto del xiv secolo. Le iscrizioni sono in latino, con eccezione delle abbreviazioni in greco per il Cristo e per la Madre di Dio. Si tratta dell’opera di un eccellente artista greco, dell’inizio del xv secolo, educato nella tradizione della pittura paleologa ma anche perfettamente al corrente dello stile e dell’iconografia italiani, come sappiamo che accadeva a Creta. Si sono conservate relativamente poche cornici in stile gotico di opere di scuola cretese. È eccezionalmente elegante, nella sua semplicità, la cornice di una Panagía del tipo della Madre della Consolazione oggi al Museo Benaki [t. 5]. Nelle porte del presbiterio che, secondo la tradizione, si trovavano nell’iconostasi più antica del katholikón del monastero di San Giovanni il Teologo a Patmos, e che sono decorate con le raffigurazioni dell’Annunciazione, dell’apostolo Pietro e dell’apostolo Giovanni il Teologo, non si rintraccia alcuna influenza occidentale; la decorazione floreale traforata tardogotica culmina con il busto del profeta Davide, che porta un cartiglio aperto. Da figure analoghe sono coronate le cornici in legno scolpito di alcuni polittici veneziani dalla fine del xiv agli anni Settanta del xv secolo19. Verso la fine del xv secolo, in due icone di Cristo e della madre di Dio Odigitria, opera di Andreas Pavias di Candia, ricordato tra il 1470 e il 1504, il solo elemento occidentale è la decorazione floreale bulinata delle aureole [t. 13, 14]. Nel Calvario della Pinacoteca nazionale di Atene, lo stesso pittore

del primo Rinascimento, soprattutto Panagíe; di qui la loro denominazione di “Madonneri”. Pochissimi – Domenico Theotokopoulos El Greco e Antonio Vasilakis Aliense – troncarono le loro radici bizantine e adottarono il manierismo italiano. La maggior parte degli artisti operanti a Venezia – sia che fossero di passaggio, come Michele Damaskinós (m. 1592), sia che si insediassero in modo permanente, come Marco Bathás (m. 1578) e Emanuele Tzanfournaris (m. 1631) – non si differenziarono né per l’iconografia né per lo stile dai loro confratelli della scuola cretese e non fecero assolutamente nascere botteghe dalle caratteristiche diverse. Fino a che fu conquistata dai Turchi nel 1669, Creta rimase il centro artistico più significativo dell’oriente ortodosso e riforniva di icone, codici miniati e sculture lignee le regioni soggette al governo veneziano ma anche quelle governate dai Turchi, in particolare i centri monastici del Monte Athos, Patmos e Sinai; ebbe anche grande risonanza tra i cattolici d’Italia e Dalmazia. In base ai documenti degli archivi veneziani, risulta che nel xvi secolo a Candia, una città tra i 16 e i 20.000 abitanti, risiedevano duecento pittori. Questi documenti offrono informazioni anche riguardo al modo con cui venivano effettuate le commesse, al prezzo delle icone, alla ripartizione del lavoro per far fronte ad ordinazioni massicce, alle clausole penali in caso di ritardi di consegna. Nel 1499 tre pittori si spartiscono una commessa di settecento icone mentre, in un altro documento dello stesso periodo, un pittore commissiona a un suo collega di dipingere ogni giorno circa sette volti di Madonna per la durata di due mesi16. Sono, evidentemente, contratti che riguardano icone di carattere artigianale. Sembra che le ordinazioni massicce cessino all’inizio del xvi secolo mentre, per i clienti italiani, continua la produzione di opere singole di elevata qualità. La produzione di icone per clienti di Paesi, riti e gusto diversi costrinse i pittori cretesi a imparare a lavorare seguendo modelli molto vari per stile e iconografia, “a la greca” e “a la latina”, o combinando i due modi, a seconda delle richieste dei loro clienti. Un esempio caratteristico delle icone dipinte “a la latina” sono le diverse varianti della Vergine col Bambino (Panagía Brefokratousa), nel tipo della “Madre della Consolazione”, per la quale esisteva evidentemente una grande richiesta specie da parte di clienti cattolici: se ne sono conservati decine di validi esempi [t. 5] e centinaia di carattere artigianale17. Va notato che le icone italianizzanti non erano destinate solo ai clienti cattolici ma erano amate anche dagli ortodossi, non solo dai cittadini cretesi il cui gusto era naturalmente influenzato dalla Dominante, ma anche dalle chiese e dai monasteri ortodossi.

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A fronte: 11. Allegoria della Gerusalemme celeste, monastero della Platytera, Corfù.

siede sopra un animale con sette teste. A destra la morte, con in mano la falce, conduce verso l’inferno due numerosi gruppi di peccatori; tra di essi due possenti cavalli trascinano un carro sul quale si erge, a seno nudo, la personificazione della carne. Un angelo conduce un giovane verso la raffigurazione della Penitenza, che lo accoglie a braccia aperte. Non conosco opere con lo stesso soggetto nell’arte bizantina né in quella postbizantina; l’eccezionale icona della Platitera sembra ispirata dalle rappresentazioni allegoriche ricche di personificazioni, che ricorrono spesso nell’arte italiana del xiv e xv secolo. Il carro richiama alla mente gli affreschi del palazzo ducale Schifanoia di Ferrara e altre raffigurazioni del xv secolo. Il terminus post quem per la datazione è costituito dal gruppo di ragazze che escono dalla porta in basso a sinistra: sono l’imitazione di una calcografia attribuita all’incisore Zoan Andrea, che riproduce il coro delle Muse nel quadro del Parnaso di Andrea Mantegna, conservato al Louvre e datato 149725.

si attiene al modello italiano nei numerosi episodi secondari, nell’architettura gotica in alto a sinistra e nella folla abbigliata al modo dell’epoca20 [t. 8]. La commistione delle due maniere avviene in modo che ne risulti un insieme armonico, che non contrasta con le abitudini visive degli ortodossi. Tra gli elementi occidentali incorporati nelle opere dei cretesi del xv e dell’inizio del xvi secolo ci sono i paesaggi nebbiosi in lontananza, le architetture italianizzanti, gli animali finemente lavorati, che ricordano i quadri italiani, i troni marmorei con decorazione a intarsio, le iscrizioni pseudocufiche e le aureole con decorazione floreale a bulino21. È un tratto caratteristico della pittura cretese la cristallizzazione di determinati temi iconografici, che sono ripetuti con variazioni minime da tutti i pittori successivi. I maggiori tipi che si consolidano nel xv secolo e verranno poi ripetuti fino alla fine del xvii, provengono dalla tarda pittura paleologa. Ad esempio una variazione dell’Ingresso a Gerusalemme, dove il Cristo proviene da destra e non da sinistra, gli apostoli che lo accompagnano sono seminascosti dalle pieghe del terreno e all’estremità sinistra del gruppo che lo accoglie all’ingresso della città compare un uomo senza barba che distoglie il volto. Il più antico esempio noto di questa variante è un’icona conservata in una collezione americana, opera costantinopolitana della fine del xiv o dell’inizio del xv secolo22. È più raro trovare l’ispirazione da un modello di raffigurazione italiano, come San Giorgio a cavallo che uccide il drago, che ricorda una composizione di Paolo Veneziano, e il Noli me tangere [t. 10], composizione tradizionale dove tuttavia Maria Maddalena, con i biondi capelli sciolti e il manto rosso cinabro dalle morbide pieghe è un imprestito dallo stile gotico internazionale dell’inizio del xv secolo23. Non si deve tuttavia pensare che gli artisti cretesi non dipingessero anche soggetti estremamente rari, come ad esempio l’Allegoria della Gerusalemme celeste, nel monastero della Madre di Dio Platytera a Corfù24 [t. 11]. Gerusalemme è appollaiata sulla sommità del monte delle Virtù; secondo l’Apocalisse (21,10-27) è quadrata e circondata da mura con dodici torri. Al centro si erge Cristo biancovestito, circondato da otto gruppi di diverse categorie di santi. Sotto, a sinistra, una città cinta di mura e fittamente popolata rappresenta Babilonia, “madre delle meretrici e degli abominevoli della terra”, secondo l’iscrizione ispirata ai capitoli 17 e 18 dell’Apocalisse. Da una porta stretta escono monaci e donne portando croci, che danno inizio alla faticosa ascesa verso la Gerusalemme celeste. Dalla porta centrale avanza un gruppo di giovani che simbolizzano i diversi peccati; sotto, a sinistra, la personificazione di Babilonia

I soggetti iconografici consacrati dagli artisti cretesi vennero adottati dai pittori di altre botteghe, come quelle di Cipro e di Tebe, ma anche di altre nazionalità, come nei libri liturgici serbi, stampati a Venezia nel xv e xvi secolo26. Malgrado la grande differenza di qualità che esiste tra le icone e gli affreschi delle diverse botteghe, tra le diverse regioni dell’ellenismo, sotto il governo turco come sotto quello latino, si rileva l’esistenza di un comune linguaggio artistico nella pittura religiosa, che scaturisce dalla comune eredità estetica bizantina e dalla fede ortodossa. Esso viene facilitato dalla circolazione degli artisti e delle opere d’arte e confermato dall’adozione da parte dei patriarcati e dei grandi centri monastici ortodossi, con il loro elevato prestigio. Il patriarcato costantinopolitano e i centri monastici che irradiavano su tutti i popoli ortodossi contribuirono alla diffusione dell’arte dell’ellenismo postbizantino nei Paesi ortodossi confinanti, tra i Serbi, i Bulgari, i Rumeni, i cristiani di Siria e Palestina, per i quali, come per i Greci, la tradizione iconografica ed estetica bizantina aveva il carattere di dogma evidente. Caratteristiche generali della pittura postbizantina fino al xviii secolo sono l’attaccamento alla tradizione bizantina e l’accettazione molto limitata delle innovazioni iconografiche e morfologiche dell’arte rinascimentale e barocca. È degno di nota che, ancora nel quarto decennio del xviii secolo, la Guida della pittura (Ermineía tis zografikís tékhnis) presenta come modelli le opere di Panselínos (circa 1300) e di Teofane di Creta (secondo quarto del xvi secolo). Gli apporti esterni che si incontrano, particolarmente nella pittura dei territori soggetti

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12. Angelos, San Giovanni Battista, Museo Bizantino, Atene.

A fronte: 14. Angelos, Cristo Pantocratore in trono, Museo di Zacinto.

13. Angelos, San Fanurio, Megali Panagía, Patmos.

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A fronte: 15. Andreás Rítzos, Vergine del perpetuo soccorso, Galleria nazionale, Parma. 16. Andreás Rítzos, Vergine in trono, monastero di S. Giovanni il Teologo, Patmos.

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A fronte: 17. Andreás Rítzos, Ascensione, Ospitalità di Abramo e santi, The National Museum of Western Art, Tokyo.

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18. Andrea Pavías, Dormizione di sant’Efrem, chiesa di S. Costantino, Patriarcato Greco Ortodosso di Gerusalemme.

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19. Eufrosinos, San Pietro, monastero di Dionisiou, Monte Athos.

soldato il cui culto si diffuse all’epoca a Rodi e a Creta [t. 13]. I tre primi temi ritornano presso i pittori postbizantini delle generazioni successive.

al governo latino, vengono assimilati in modo da non offendere le abitudini ottiche degli ortodossi, ad esempio mantenendo un modellato lineare. La maggior parte delle icone del xv secolo e dei primi decenni del xvi sono prive di firma. Ve ne sono però di firmate da importanti artisti, dei quali possiamo conoscere la carriera grazie alle informazioni contenute nei documenti degli archivi veneziani. Nessuna delle icone firmate porta anche la data, ciò che impedisce di seguire lo sviluppo della loro attività artistica. Alcune icone di eccezionale qualità portano la firma Cheir Angélou, “di mano d’Angelos”, senza cognome. Seguono il tardo stile paleologo, con accentuate pieghe rigide e modellato molto accurato, dove le superfici luminose dei volti e delle mani si dissolvono in pennellate bianche disposte a raggiera. Le aureole sono prive di decorazione. Angelos viene identificato con Angelo Akotántos, pittore e primo corista a Candia, che morì intorno al 145727. Ebbe una chiara predilezione per temi come Cristo tronco di vite – che si riferisce alle parole di Cristo agli apostoli: “Io sono la vite, voi i tralci” –; Cristo Pantocratore abbigliato di una tunica e di un manto, con un libro in mano, seduto su un trono marmoreo [t. 14]; san Giovanni Battista alato, rivolto verso il Cristo che lo benedice, mentre accanto si trova un piatto con la sua testa tagliata [t. 12]; Fanurio, il santo

La figura più significativa tra i pittori cretesi della seconda metà del xv secolo è Andreás Rítzos, nato a Candia attorno al 1422 e ricordato fino al 149228. Figlio dell’orefice Andreás Rítzos, si sposò due volte ed ebbe due figli, che furono a loro volta pittori. Firma a volte in greco, a volte in latino, a seconda della nazionalità dei suoi clienti. A lui si deve probabilmente la variante della bizantina Madre di Dio della Passione nella forma nota in Italia come Madre del Perpetuo Soccorso, dove la Panagía raffigurata in busto sorregge Cristo bambino, spaventato alla vista di due angeli a mezza figura che gli indicano gli strumenti della Passione [t. 15]. Questo tipo iconografico fu amato tanto nell’oriente ortodosso che in Italia. Rítzos dovette essere assai famoso se il monastero di San Giovanni il Teologo a Patmos, una delle fondazioni monastiche ortodosse più importanti, gli commissionò le grandi icone di Cristo e della Panagía Brefokratousa in trono [t. 16] per l’iconostasi della propria chiesa principale. Di eccezionale maestria, queste icone si conformano all’iconografia tradizionale, arricchita tuttavia con particolari mutuati dall’arte italiana all’alba del Rinascimento,

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20. Teofane di Creta (attr.), parte di trave dell’iconostasi con le raffigurazioni dell’Ultima Cena, della Lavanda dei piedi e dell’Agonia al Getsemani, monastero di Iviron, Monte Athos.

firmate31. Risedette stabilmente a Candia, dove possedeva immobili, fu prestatore di denaro e operoso imprenditore. Tra i suoi numerosi allievi si annovera Angelo Bitzamános, pittore minore che si trasferì in Italia meridionale. Le opere di Pavías si caratterizzano per una certa asprezza e per la ricerca di realismo, evidente nei personaggi ordinari e nelle figure tarchiate [tt. 6, 7, 8]. È didascalico il confronto della Madre di Dio Odigitria nel Camposanto Teutonico di Roma [t. 6] con la Vergine “della Passione” di Andreás Rítzos a Parma [t. 15]. Un tema pittoresco documentato nel periodo dei Paleologi ma consolidato a Creta nel xv secolo è quello della morte e sepoltura del santo asceta, dove diversi monaci pregano, lavorano o si muovono a cavallo di un asino o di un leone per partecipare alle esequie. Un’icona con questo soggetto porta la firma di Pavías [t. 18]. L’accentuazione delle linee di contorno e i colori vivaci la rendono meno idealizzata di altre icone con lo stesso soggetto. Come anche Andreás Rítzos, Pavías firma sia in greco che in latino e, in alcuni casi, aggiunge con una certa fierezza il suo luogo d’origine, come nella Crocifissione di Atene, dove si firma andreas pavias pinxit de candia [t. 8]. Nel 1492 il provveditore veneto di Napoli di Romania commissionò una grande pala d’altare a tre artisti di Candia: lo scultore Nicola Barbarigo, il pittore Nicola Zafuri e Giorgio

come il trono di marmo della Panagía, con intarsi marmorei, i giglietti e il cuscino annodato alle estremità, decorato da ricami che ricordano la scrittura araba. Un’altra icona interessante di Andreás Rítzos si trova nel Museo d’arte occidentale di Tokyo [t. 17]. Il suo tema principale è l’Ascensione, sopra la quale è raffigurata la Preparazione del trono (Etimasía) mentre attorno sono raffigurati l’ospitalità di Abramo e santi, a figura piena o in busto. L’icona non si allontana dall’iconografia tradizionale; va tuttavia notato che tra i santi a figura piena viene raffigurato Sebastiano, un santo molto popolare in Occidente. In questo stesso periodo lo si incontra in affreschi a Creta e alle Meteore. Nicola Rítzos, figlio di Andrea, è ricordato tra il 1482 e il 150329. Si è conservata una sola icona con la sua firma, dove mette in evidenza di essere il figlio di Andrea30. Vi è raffigurata una Deesis (Cristo al quale la Panagía e san Giovanni Battista si rivolgono in preghiera per la salvezza degli uomini), incorniciata da dieci piccole scene del ciclo cristologico, dove compaiono ormai definiti i tipi che predomineranno nella pittura dell’Oriente ortodosso fino alla fine del xvii secolo. Un pittore spesso menzionato nei documenti veneziani è Andrea Pavías (ci sono testimonianze dopo il 1470, muore tra il 1504 e il 1512), del quale si sono conservate sette icone

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21-22. Michele Damaskinós, I santi Sergio, Bacco e Giustina, con particolare di santa Giustina, Museo dell’Antivouniotissa, Corfù.

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23-24. Michele Damaskinós, Decollazione del Battista, con particolare dell’ebreo e dell’ufficiale, Museo di Corfù.

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25. Giorgio Klóntzas, Giudizio Finale, monastero della Platytera, Corfù.

A fronte: 26. Giorgio Klóntzas, In Te si rallegra, Istituto Ellenico di Studi Bizantini, Venezia.

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A fronte: 27. Thomas Bathás, L’Apocalisse con san Giovanni il Teologo, grotta dell’Apocalisse, Patmos.

In questi anni inizia a Creta il percorso di un pittore che farà poi carriera in Italia e in Spagna, dove morirà. Domenico Theotokopoulos nacque intorno al 1541 a Candia, dove apprese la sua arte e divenne presto conosciuto, dato che all’età di 22 anni è chiamato “maestro” nei documenti. Delle rarissime opere del suo periodo cretese, prima dell’espatrio nel 1567, la più significativa è la grande icona della Dormizione che si trova sull’isola di Syros36. Gli elementi bizantini – lo schema iconografico, la Panagía, il Cristo, gli apostoli, gli edifici – si combinano con altri di origine italiana, come i grandi candelabri disposti davanti al letto, la corona della Madre di Dio che viene assunta in cielo e la mezzaluna ai suoi piedi. Due altri artisti dotati, contemporanei del Greco, al corrente anch’essi delle nuove tendenze artistiche, preferirono finalmente non allontanarsi completamente dalla tradizione e fecero la loro carriera a Creta. Si tratta di Michele Damaskinós e Giorgio Klóntzas, che con la loro opera agirono da catalizzatori sulla pittura cretese dell’ultimo terzo del xvi secolo. Ambedue ne rinnovarono i mezzi espressivi e crearono nuovi modelli iconografici, spesso imitati dai pittori del xvii secolo. Entrambi furono influenzati dal manierismo italiano mentre deliberatamente ignorarono la pittura italiana precedente. Damaskinós dipinse anche numerose icone tradizionali, prive però della secchezza e del modellato rigido che caratterizzarono l’opera della maggior parte dei pittori delle due precedenti generazioni. Michele Damaskinós risiedeva a Candia, dove era nato intorno al 1535, passò però numerosi anni in Italia, dove dipinse numerose icone per San Giorgio dei Greci a Venezia37. Qui approfondì la propria conoscenza della pittura italiana e sembra che abbia anche raccolto disegni. Secondo un documento del 10 settembre 1581, lo scultore Alessandro Vittoria, che allora abitava in rio dei Greci, pagò trenta ducati a Damaskinós, in presenza di Jacopo Palma il Giovane, “per il resto di tanti dissegni del Parmigianino e di altri valentuomini”. Costituisce un campione delle opere tradizionali del pittore la grande icona di Cristo sommo sacerdote in trono, che si trova oggi a Corfù38. Nei paramenti sacerdotali il solo elemento estraneo è costituito dalle calzature, decorate con teste di putti. Cristo regge un vangelo con i brani dove viene menzionata la sua duplice caratteristica di sovrano (“Il mio regno non è di questo mondo…” Gv 18,36) e di sommo sacerdote (“Prendete e mangiate…” 1 Cor 11,24). Il trono ligneo ha piedi a forma di putti ed è abbellito da figure monocrome, dipinte con rapide pennellate auree, che ricorrono spesso nelle opere di Damaskinós. Nella parte inferiore del trono sono raffigurati due vegliardi. A sinistra un profeta dalla lunga barba regge un incensiere e un bastone fiorito; si tratta di Aronne, che spesso

Vlastós, che l’avrebbe dorata. Non sappiamo come andò a finire quest’opera ma la firma di Zafuri (Tzafouris) è conservata in otto icone, fortemente influenzate dalla pittura italiana32. Dipinse soprattutto due temi, ispirandosi all’arte gotica veneziana: la Vergine col Bambino, nel tipo conosciuto come Madre della Consolazione, e il Cristo paziente, che si erge in un sarcofago, come nel trittico dell’Hermitage, influenzato dal tipo creato da Bellini o nella tavola del Kunsthistorisches Museum di Vienna [t. 4]. Le opere di questi pochi artisti, che appartengono con certezza alla prima fase della scuola cretese hanno consentito l’attribuzione di numerose altre icone con diversi soggetti [tt. 5, 9-11] e di delineare un’immagine più precisa della formazione di una scuola con principi unici quanto a tecnica e stile.

La scuola cretese nel xvi secolo Il periodo tra il 1530 e il 1560 circa è caratterizzato dal grande rigoglio della pittura murale. I pittori cretesi decorarono con affreschi di elevata qualità le chiese e i refettori dei monasteri del Monte Athos e delle Meteore, che conobbero un periodo di grande fioritura e ingaggiarono i migliori pittori d’immagini sacre disponibili. In questo periodo si rileva la riduzione dell’influsso del Trecento italiano; scompaiono ad esempio le aureole con decorazioni a bulino. Le principali fonti d’ispirazione sono le creazioni dei Cretesi del xv secolo, che si conformavano ai modelli del periodo paleologo. Di questo periodo si sono conservate pochissime icone firmate. Al più famoso pittore, Teofane Strelitzas o Bathás, conosciuto anche come Teofane di Creta, che lavorò al Monte Athos e alle Meteore, sono attribuite le icone dell’iconostasi dei monasteri aghioriti della Grande Lavra di Iviron [t. 20] e di Stauronikita33. Le sue forme hanno una signorile nobiltà, le figure sono gravi, le composizioni armoniche. Le ridotte influenze italiane sono principalmente imprestiti dalle calcografie di Marcantonio Raimondi. Non abbiamo alcuna informazione sul sacerdote Eufrosinos, che nel 1542 dipinse per il monastero aghiorita di Dionisiou un’impressionante Grande Deesi, che richiama alla memoria le forme del xiv secolo34 [t. 19]. Si sono conservate pochissime icone con la firma di Marco Bathás, nato a Creta intorno al 1500, che prima del 1538 si installò in modo permanente a Venezia, dove morì nel 157835. Tre sue icone si sono conservate a Giannina. In una di esse le scene della vita del Battista che ne circondano la figura, eseguite con grande maestria, preannunciano lo stile personale di Giorgio Klóntzas, uno dei migliori pittori della fine del xvi secolo.

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A fronte: 28. Geremia Palladás, Santa Caterina, chiesa di S. Matteo, Eraklion, Creta. 29. Emanuele Lambárdos, Crocifissione, Museo nazionale d’Arte medievale e moderna, Siracusa.

e Bacco e santa Giustina consiste nel fatto che, secondo il santorale latino, essi vengono festeggiati lo stesso giorno, il 7 ottobre. La loro raffigurazione si riferisce alla grande vittoria delle flotte riunite di Venezia, di Spagna e del pontefice nella baia di Lepanto il 7 ottobre 1571. Il trionfo della flotta cristiana veniva attribuito all’intervento di questi tre santi, in onore dei quali venne fondata a Corfù la chiesa dalla quale proviene l’icona. La battaglia navale di Lepanto ispirò molti artisti, come Veronese e Tintoretto, che raffigurarono lo scontro vero e proprio40. Al contrario Damaskinós si richiama ad essa in modo allegorico, dipingendo i santi protettori delle forze cristiane che calpestano un drago, simbolo della forza ottomana. Nel registro superiore, di piccole dimensioni, Cristo regge un libro con le parole “Pax tibi Marce, evangelista meo”. Accanto a lui sono raffigurati un vescovo, probabilmente san Marco, protettore

tiene una verga, a simbolizzare la Madre di Dio o la divina incarnazione. L’altro anziano è certamente Melchisedek, che è ritenuto prefigurare Cristo e che, secondo la Guida della Pittura di Dionisio di Fournás, è “un vecchio dalla lunga barba, abbigliato in paramenti sacerdotali, con in testa una mitra, che porta un vassoio sul quale si trovano tre pani”. Gli stessi profeti, alla metà dell’xi secolo, sono messi in relazione con Cristo sacerdote nei mosaici di Santa Sofia di Kiev, dove Cristo è raffigurato in un disco tra i due profeti a figura piena. Damaskinós collega le figure con maggior riuscita, mettendo in rilievo la figura centrale del Signore e disegnando i due profeti in monocromia. Rivela al contrario un forte influsso della pittura veneziana contemporanea un quadro con la raffigurazione dei santi Sergio, Bacco e Giustina, che schiacciano sotto i piedi un drago a tre teste decapitato39 [t. 21]. La sola relazione tra i santi Sergio

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30. Emanuele Tzanfournaris, Madonna lactans (Galaktotrofousa), monastero dei Santi Teodori, Corfù.

A fronte: 31. Giovanni Apakás, Giudizio Universale, Istituto Ellenico di Studi Bizantini, Venezia.

L’eccezionale qualità della decorazione della panoplia monocroma (camaïeu) e l’accentuazione delle vene, ad esempio sul collo dell’ufficiale, è tipica di Michele Damaskinós. In questa composizione gli elementi tradizionali sono costituiti solo dagli angeli, che scendono a ricevere l’anima del santo e dalle pieghe della veste del Battista e dei due ebrei che parlano con l’ufficiale: Damaskinós li riprese dal Martirio dei santi Primo e Feliciano al Museo civico di Padova, dipinto da Veronese nel 1562. Il nuovo tipo di decollazione creato da Damaskinós conobbe un eccezionale successo e fu ripreso da numerosi pittori del xvii e xviii secolo. Tra le numerose altre creazioni di Damaskinós che furono imitate fino all’inizio del xviii secolo, c’è l’Allegoria della Divina Liturgia, che appartiene alla serie di sei grandi icone commissionate nel 1591 per il monastero di Vrondisi, Creta meridionale. Vale la pena osservare che tutte sono fortemente influenzate dalla pittura italiana, pur essendo destinate a un monastero ortodosso. L’altro importante artista cretese degli ultimi decenni del xvi secolo è Giorgio Klóntzas, che proviene da una famiglia benestante di Candia ed è ricordato tra il 1562 e il 160842. Deve essersi fatto un nome da giovane, dato che nel 1566 viene nominato perito per la stima di un’ope­ra del suo collega Domenico Theotokopoulos. Era anche copista di libri e miniatore. Solo sedici icone e due codici illustrati portano la sua firma, ma devono essergli attribuiti un numero tre volte maggiore di icone e quattro manoscritti illustrati. La sua sola opera datata è il codice Marcianus graecus Cl. vii, 22 contenente testi oracolari, che copiò egli stesso e decorò con quattrocento disegni a colori nel 159092. Poche delle sue icone si attengono al­l’iconografia e allo stile tradizionali. Ebbe una particolare attitudine per le composizioni di piccole dimensioni, con molti personaggi, influenzate dal manierismo italiano. Sembra che vi fosse una grande richiesta dei suoi trittici, per i quali riceveva ordinazioni dall’Italia. Mentre non sono conosciuti trittici di Angelos, di Andreás Rítzos e di Michele Damaskinós, si sono conservati tre trittici con la sua firma e una decina d’altri sono attribuiti a lui o alla sua bottega. Due composizioni spesso dipinte da Klóntzas e imitate dai pittori successivi sono il Giudizio Finale e la raffigurazione dell’inno alla Panagía “In Te si rallegra”. Un’icona di Corfù con il primo soggetto non porta la sua firma ma gli viene concordemente attribuita43 [t. 25]. La caratterizzano la simmetria e la leggibilità, malgrado l’accumulazione di numerosi episodi. La curvatura dei registri superiori dà la sensazione della profondità e guida lo sguardo verso il centro, dove si distaccano il Cristo, che giudica gli uomini, la croce adorata dagli angeli e un arcangelo che brandisce una spada.

di Venezia, e san Simeone, che nella chiesa latina viene festeggiato il giorno seguente a quello della battaglia. Le tre figure principali, specie santa Giustina, con i capelli biondi fluenti e il diadema sostenuto da putti che portano un rubino, evocano le figure dei pittori veneziani dell’epoca. Una riuscita mescolanza degli elementi bizantini e di quegli italiani contemporanei è percepibile nella Decollazione del Precursore, una delle poche opere datate di Damaskinós, che porta la data 1590, due anni prima della sua morte41 [t. 23]. È una scena frequente nell’arte bizantina ma il pittore, anziché ripeterne l’iconografia abituale, preferì creare una nuova composizione, ispirata alle pale d’altare italiane del xvi secolo, dove venivano presentate scene di martirio. I numerosi personaggi si dispongono su tre livelli: in primo piano il carnefice decapita il santo; dietro, Salomè si avvicina per riceverne la testa; sullo sfondo, un dignitario che porta la testa sale i gradini del palazzo dove cena Erode. È degna di nota la figura dell’ufficiale di destra, che porta una borgognotta dorata, decorata con un drago, maschere sui lati e un grande pennacchio [t. 24].

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32. Emanuele Tzánes, San Cirillo di Alessandria, Museo dell’Antivouniotissa, Corfù.

33. Teodoro Poulákis, In Te si rallegra, Museo Benaki, Atene.

rocciose e il monastero storico, è ricco di scene raffiguranti la vita dei monaci ed episodi dell’Esodo, come il passaggio del mar Rosso e l’adorazione del vitello d’oro. Sullo sportello di destra è raffigurata la Crocifissione, fortemente influenzata dalle raffigurazioni con molti personaggi di questo episodio centrale della passione di Cristo, come erano state dipinte in Italia nella seconda metà del xiii secolo. Si sono conservati dieci trittici o ante di trittico con questo tema, che portano la firma di Klóntzas o che gli sono stati attribuiti. Malgrado le ridotte dimensioni, la Crocifissione presenta anche la salita al Golgotha e numerosi episodi secondari, come la Veronica, i soldati che si giocano ai dadi la veste di Cristo, lo svenimento della Panagía, mentre nelle due zone sovrastanti sono raffigurati la Discesa al Limbo e Cristo che risorge dalla tomba. Al centro della faccia anteriore di un magistrale trittico al Museo diocesano di Osimo (Ancona), non firmato ma certamente opera di Klóntzas46, è raffigurata un’altra crocifissione con molti personaggi, nella quale una delle donne che sostengono la Panagía svenuta indossa un abito della fine del xvi secolo ed è acconciata alla moda dell’epoca. Si tratta probabilmente della committente, che potrebbe chiamarsi Anna, dato che sull’anta di sinistra sono raffigurate scene della vita di sant’Anna che non si incontrano in alcun’altra opera di Klóntzas. Tra i pittori cretesi della generazione di Damaskinós e Klóntzas, menzioneremo solamente Tommaso o Tomio Bathás, che risedette a Venezia, dove morì a soli 45 anni nel 159947. Fu influenzato da Michele Damaskinós ma non si avvicinò alla qualità delle sue opere. A Venezia lavorò a San Giorgio dei Greci e dipinse le icone dell’iconostasi della chiesa greca di Barletta, ma la sua opera più significativa è l’icona alta 170 cm nella grotta della Rivelazione a Patmos, dove raffigurò la visione dell’evangelista Giovanni descritta all’inizio dell’Apocalisse [t. 27]. Si tratta di un testo che non era stato raffigurato a Bisanzio; anche per questa ragione Bathás copia una xilografia di Dürer per rappresentare il soggetto principale, Dio Padre. L’evangelista sdraiato non si allontana invece dallo stile tradizionale.

Lo stesso tema, influenzato dall’incisione italiana contemporanea, si dispiega sulle facce anteriori dei tre sportelli di un trittico firmato, già appartenuto alla famiglia Spada44. Sulla faccia esterna dell’anta sinistra è dipinto un tema iconografico ispirato all’inno alla Theotókos “In Te si rallegra”, che incontriamo anche nell’icona di ottima mano all’Istituto Ellenico di Venezia45 [t. 26]. La Panagía Brefokratousa è disposta al centro, circondata dalle potenze angeliche e da schiere di santi. Sulla faccia esterna dello sportello centrale del trittico è raffigurato il monte Sinai. Il paesaggio, con le scoscese cime

La scuola cretese nel xvii secolo La maggior parte degli artisti della generazione seguente ritornano ai modelli del xv e dell’inizio del xvi secolo48. La loro opera è caratterizzata da un’esecuzione molto accurata, qualche freddezza accademica e un certo eclettismo nella scelta dei modelli iconografici. Conferma l’orientamento della grande maggioranza

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del pubblico in favore della tradizione la definizione dell’arte di un pittore conservatore dell’inizio del xvii secolo, il monaco Geremia Palladás, come “degna del confronto con le pitture di riconosciuti iconografi antichi”. Palladás lavorò principalmente per le fondazioni greche dei Luoghi Santi e dell’Egitto, e molte delle sue opere sono andate perdute negli incendi 49. Tra le sue opere più conosciute sono la Santa Caterina dell’iconostasi della chiesa del monastero del Sinai, secondo un modello creato alla fine del xvi secolo e un’altra icona con lo stesso soggetto nella chiesa di S. Matteo a Eraklion, Creta [t. 28]. Il pittore più famoso di questo periodo è Emanuele Lambárdos, residente a Candia e membro di una famiglia che aveva dato numerosi artisti50. Come la maggior parte dei pittori cretesi suoi contemporanei, modella le parti scoperte del corpo con sottili pennellate bianche, alternativamente intense e tenui, disegnate con precisione impeccabile, come nella testa del Pantocratore al Museo bizantino di Atene. In quest’epoca sono consuete a Creta, nel coronamento dell’iconostasi, icone con la sola testa del Cristo, della Panagía e del Battista. Alcune, come l’icona di Atene, portano la firma di Lambárdos. Tra le sue poche icone che seguirono modelli italianizzanti, la Crocifissione del Museo di Siracusa si ispira a una composizione di Pavías [t. 8] ma la interpreta in modo tradizionale [t. 29]. Il corfiota Emanuele Tzanfournaris, allievo di Thomas Bathás, abitò a Venezia dove probabilmente morì nel 1631. Fu un pittore diseguale, che non assimilò in modo creativo elementi di arte bizantina e italiana per creare un idioma personale51. Rimane un artista eclettico, che a volte imita i pittori cretesi del xv secolo, a volte Michele Damaskinós, a volte ancora modelli occidentali, come nella Panagía Galaktotrofousa di Corfù [t. 30] che imita una calcografia di Agostino Carracci del 1589. Non esistono testimonianze scritte riguardo a Giovanni Apakás, che deve aver operato nella stessa epoca. Le icone despotiche del monastero di Krupa, in Dalmazia settentrionale, ripetono modelli cretesi antichi e consacrati, mentre in altre opere si riscontrano tracce di influenze italiane52. La piccola icona del Giudizio Universale all’Istituto Ellenico di Venezia, ispirata all’opera di Giorgio Klón­tzas, ha la particolarità di essere creata su diaspro [t. 31]. La sola opera nota dello ieromonaco Nilo è la Storia di Giuseppe, con scene di piccole dimensioni e molti personaggi, disposte in quattro ordini, che furono dipinte nel 1642. La composizione è ispirata a un’incisione di Jan Sadeler ma è evidente anche l’influsso di Klóntzas, nella resa virtuosa delle folle e negli edifici rinascimentali disegnati in prospettiva53. Con la guerra di Creta, che iniziò nel 1645 e si concluse nel

1669 con la resa di Candia, ebbe fine il ruolo dell’isola come grande centro artistico. I pittori cretesi si rifugiano nelle isole Ionie, a Venezia e, alcuni, nelle Cicladi. La fase conclusiva della scuola cretese, dal 1640 alla fine del xvii secolo, quando morirono in esilio gli ultimi artisti cretesi, è caratterizzata anch’essa dalla coesistenza di tendenze conservatrici e innovatrici, ma gli artisti di maggior talento furono più intensamente influenzati dai modelli occidentali. Tuttavia l’elevato numero di icone nelle quali ricorrono i temi consacrati, nonché la fama di maestri mediocri ma tradizionalisti, come Viktor, indicano la preferenza della maggior parte dei clienti per l’iconografia tradizionale. Il dualismo della pittura religiosa di questo periodo non è dovuto a ragioni dogmatiche né alla provenienza sociale dei pittori. Ad esempio, Emanuele Tzánes e Filoteo Skoúfos, vissuti nella stessa epoca, furono entrambi chierici ortodossi e le loro carriere furono parallele, ma le loro opere sono molto differenti.

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34. Teodoro Poulákis, Storie del profeta Elia, Museo Bizantino, Atene. A fronte: 35. Teodoro Poulákis, In Te si rallegra, monastero di S. Giovanni il Teologo, Patmos.

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A fronte: 36. Viktor, Dormizione della Vergine, Istituto Ellenico di Studi Bizantini, Venezia. 37. Filoteos Skoúfos, Presentazione di Cristo al tempio, Museo Bizantino, Atene.

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A fronte: 38. Filoteos Skoúfos, Decollazione di san Giovanni Battista, Panagía Spileotissa (cattedrale), Corfù.

eclettico, riprodusse più antichi pittori cretesi, come Klóntzas (ad esempio nell’icona In Te si rallegra, del Museo Benaki [t. 33]) e Michele Damaskinós (due sue icone riprendono la Decollazione del Precursore di Corfù), ma anche le opere italiane. Nel dipingere scene bibliche con molti personaggi si rifece spesso alle calcografie fiamminghe e tedesche, mentre nelle figure isolate di solito adotta modelli cretesi tradizionali. Sono caratteristici i volti delle sue figure, con la fronte allungata, le palpebre pesanti e il naso corto. Nell’icona monumentale con scene della vita del profeta Elia [t. 34], la scena centrale con l’ascensione in cielo del santo riprende una calcografia di Jan Sadeler. Tra i modelli iconografici da lui introdotti c’è una variazione dell’In Te si rallegra, organizzata in registri orizzontali [t. 35]. La sua opera è molto diseguale quanto a esecuzione artistica. Sembra che abbia avuto una bottega ben organizzata e che molti lavori con la sua firma siano realizzazioni dei suoi aiutanti. Un numero elevato di icone porta la firma Cheir Víktoros, “mano di Viktor”. Questo artista molto produttivo, che fu sacerdote ortodosso e parroco a Candia nel 1653, non ha relazione con i due pittori omonimi vissuti nel xvi secolo a Venezia, né con il terzo, che visse nel xviii secolo. Neppure deve essere confuso con il sacerdote uniate Vittorio da Corfù, attivo nel 1669-1670 come maestro della Scuola greca di Venezia, né con il sacerdote ortodosso di Corfù Vittorio Klapatzarás, che visse a Venezia all’inizio del xviii secolo ma nel 1712 si trasferì a Corfù, dove morì nel 175458. Le numerose icone del nostro Viktor sono datate tra il 1654 e il 1694. Godette di buona fama già dall’inizio della sua carriera, come mostra la commessa di una icona da Venezia nel 1653. Tanta notorietà è dovuta alla ripresa di modelli affermatisi nel passato, specie quelli di Michele Damaskinós. Quando tenta di creare composizioni originali, i risultati sono mediocri. La Dormizione della Madre di Dio dell’Istituto Ellenico di Venezia [t. 36] riprende lo schema iconografico delle due eccellenti icone della fine del xv secolo presenti nella stessa raccolta, ma ha ancor maggiore somiglianza con la copia realizzata da Emanuele Lambárdos, che oggi si trova a Corfù59. Porta la firma di Viktor anche lo stendardo della galera di Francesco Morosini, custodito al Museo Correr di Venezia. Si è supposto che sia stato dipinto a Venezia per la sua nave ammiraglia, prima della spedizione in Grecia meridionale nell’ultimo quarto del xvii secolo, ma la sua iconografia è schiettamente cretese. Anche per questo è stato recentemente sostenuto che lo stendardo sia stato dipinto a Candia assediata, durante la seconda permanenza del Morosini, nel 1667-1669. Effettivamente la Madre di Dio Odigitria riproduce la famosa Panagía Mesopantítissa che, dopo la capitolazione di Candia,

Il pittore più valido di questo periodo è Emanuele Tzánes, erudito sacerdote di Rethimnon, che si rifugiò a Corfù quando i Turchi conquistarono la sua patria nel 1646; riparò poi a Venezia, dove fu per molti anni parroco di San Giorgio dei Greci e dove morì nel 169054. Nelle sue opere a volte si attiene ai modelli tradizionali della prima scuola cretese, altre volte segue le opere del primo Rinascimento, particolarmente nelle scene evangeliche. Venne invece minimamente influenzato dall’arte italiana a lui contemporanea e dai grandi pittori cretesi del xvi secolo, Michele Damaskinós e Giorgio Klóntzas. Nella resa delle parti nude, la superficie è interamente coperta da sottilissime pennellate bianche, che disegnano i volumi con intento calligrafico. Si conclude qui l’evoluzione di una tecnica presente nelle icone bizantine del xiv secolo, come il Cristo Pantocratore di Pietroburgo. Le pennellate bianche, nel xiv secolo rade e corpose, divengono più stilizzate alla fine del xv e, riprodotte con secca precisione, perdono nel xvii la loro vivacità. Tzánes ebbe una particolare attitudine per la raffigurazione di tessuti preziosi, con rappresentazioni di scene o di personaggi isolati, sotto l’influenza di quadri italiani del xv secolo, come quelli di Carlo Crivelli [t. 32]. Istituì diversi nuovi tipi iconografici, come il santo persiano Gobdelas, di origine regale, raffigurato con una corazza decorata e il diadema di piume, o san Cirillo d’Alessandria, vestito del sakkos (dalmatica) vescovile e della mitra, mentre nell’arte bizantina è raffigurato con il phelonion (pianeta) e la cuffia in testa. Nel 1654 Tzánes dipinse tre porte per l’iconostasi della chiesa dei Santi Giasone e Sosipatro a Corfù, dove sono raffigurati i santi Cirillo d’Alessandria [t. 32], Giovanni Damasceno e Gregorio Palamas, recanti ognuno un cartiglio con un passo dei loro scritti relativo alla processione dello Spirito Santo dal solo Padre. In questo modo veniva sottolineata la dedizione della chiesa ortodossa all’insegnamento dei Padri, e combattuta la propaganda della chiesa latina, che aveva una posizione dominante nelle isole Ionie, soggette al governo veneziano. Questa pratica, che sembra sia stata introdotta da Tzánes, ebbe ampia diffusione a Corfù fino all’inizio del xviii secolo55. A Tzánes sono attribuiti anche alcuni Crocifissi, collocati dietro l’altare di chiese di Corfù, nei quali il modellato è ottenuto col suo caratteristico fitto intreccio di pennellate bianche56. Imiteranno la sua impeccabile tecnica lineare, tra gli altri, il fratello Costantino, pittore mediocre stabilitosi come lui a Venezia, e Stefano Tzankarólas. Teodoro Poulákis è originario “di Cidonía [Chaniá] della famosa isola di Creta”, come annota egli stesso in una sua icona57. Nel 1644 lo troviamo stabilito a Venezia ma viaggiò spesso nel Levante e morì a 70-75 anni a Corfù, nel 1692. Fu pittore

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39. Vergine con Bambino e donatori, Museo Bizantino e Pinacoteca della Fondazione Arcivescovo Makarios iii, Nicosia. A fronte: 40. San Demetrio, Museo Bizantino, Atene.

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41. I Quaranta martiri, san Giovanni Climaco, santa Maria Egiziaca, san Giovanni di Ioannina, monastero della Metamorfosis (Trasfigurazione), Meteora.

A fronte: 42. San Giorgio, Museo Bizantino, Atene.

migliore è senza dubbio la Presentazione di Cristo al Tempio del Museo Bizantino di Atene [t. 37]. Un altro profugo cretese insediato a Zacinto è Elia Móskos, di Rethimnon62. Influenzato dai modelli occidentali, creò un nuovo tipo di Anastasi, seguendo le calcografie occidentali. Dipinse figure italianizzanti con modellato cretese, e questo suo modo trovò molti imitatori nelle isole Ionie. Dei pittori che trovarono rifugio nelle isole Egee, il più produttivo è Emanuele Skordíles che, come altri pittori della stessa famiglia, si ispira alle opere dei cretesi del xvi secolo63.

L’icona postbizantina nelle altre regioni ottomane, balcaniche e adriatiche Con la presa di Candia, la scomparsa della borghesia greca e l’impoverimento dell’elemento cristiano, Creta cessa di essere centro di creazione artistica. Abbiamo insistito sull’opera degli artisti della scuola cretese perché furono il modello che tutte le botteghe locali si sforzarono di imitare, ma anche perché se ne sono conservate informazioni scritte che solitamente mancano per gli artisti delle altre regioni. Una notevole bottega locale si sviluppò anche a Cipro, almeno fino alla sua presa da parte dei Turchi nel 1570. Si è conservato un gran numero di icone delle quali si conoscono la datazione e il nome degli offerenti, ma che raramente portano la firma dell’artista64. Le ragioni di questa fioritura sono le stesse che a Creta: il miglioramento demografico e la crescita economica del xv secolo, l’introduzione nell’isola delle idee del Rinascimento da parte di ciprioti che avevano studiato in Italia o comunque l’avevano visitata, la maggiore indipendenza della chiesa ortodossa. Nelle icone cipriote sono spesso raffigurati gli offerenti, come in un’icona del 1529 [t. 39]. I santi hanno spesso le caratteristiche fisiognomiche prefissate, con un modellato morbido e una qualche dolcezza nell’espressione, e la loro postura è manieristica, come nella grande Deesis dell’iconostasi del monastero di San Neofito. Alla fine del xv secolo, l’introduzione di iconostasi alte, in legno scolpito, al posto del tramezzo in muratura che veniva poi dipinto, creò il bisogno di rivestirle di icone. Tra le peculiarità iconografiche che incontriamo a Cipro in quest’epoca, segnaliamo il Cristo di Passione (Christós Akra Tapeínosis) a tutta figura davanti al sarcofago, e san Giorgio a cavallo con un paesaggio marino. Anche qui la conquista turca ebbe conseguenze catastrofiche: il numero e la qualità delle icone precipitarono verticalmente. Questa caduta di qualità è evidente nell’icona dell’apostolo

venne trasportata a Venezia, dove è conservata a Santa Maria della Salute: il vescovo genuflesso è san Tito, protettore di Creta, e le dieci figure a mezzobusto sono i Dieci santi che, durante la persecuzione di Decio, furono martirizzati sull’isola, dove sono molto popolari60. Come Emanuele Tzánes e Viktor, fu sacerdote anche Filoteo Skoúfos61. Nacque a Chaniá, dove fu igumeno del monastero Chrysopegés. Durante l’invasione turca del 1645 si distinse combattendo alla testa dei suoi monaci e dopo la perdita di Chaniá si rifugiò a Candia, di qui a Corfù, dove nel 1648 era attivo come pittore insieme a Emanuele Tzánes. Dopo aver vissuto alcuni anni a Venezia come maestro della Scuola greca e parroco di San Giorgio dei Greci, nel 1665 gli venne messa a disposizione dal Senato veneziano, in ricompensa dei servizi resi, una chiesa a Zacinto, dove morì nel 1685. Skoúfos si inserisce nel solco dei pittori tradizionalisti degli inizi del xvii secolo, ripetendo modelli iconografici introdotti da pittori precedenti, come Michele Damaskinós [t. 38]. La sua opera

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43. Onufri, porte regali di un’iconostasi, Museo nazionale d’arte medievale, Korça, Albania.

A fronte: 44. Onufri Qiprioti, Madre di Dio Odigitria, Istituto per i monumenti culturali, Tirana.

In Grecia centrale e in Epiro nel secondo e terzo quarto del xvi secolo si individua una bottega locale della quale i principali artisti erano tebani, come sappiamo dalle iscrizioni degli affreschi. È strettamente correlata con la scuola cretese ma i colori sono più vivaci, le scene hanno più personaggi e maggior movimento, le espressioni e i gesti sono più intensi. Le aureole e gli accessori dei costumi sono spesso dorati e in rilievo. Recentemente sono state attribuite a questa bottega alcune icone non firmate né datate. A Frangos Katelános, il pittore principale della bottega tebana, è attribuita ad esempio un’icona despotica di san Demetrio proveniente da Salonicco e conservata al Museo bizantino d’Atene65 [t. 40]. Nel monastero della Trasfigurazione delle Meteore è conservata una serie di icone menologio [t. 41] che con tutta certezza vengono attribuite ai fratelli tebani Giorgio e Frangos Kontarés, che decorarono con i loro affreschi chiese dell’Epiro e delle Meteore, nel terzo quarto del xvi secolo66. Queste opere, inferiori a quelle di Frangos Katelános e di altri affreschi non firmati della bottega tebana, si distinguono per i volti ascetici uniformi, il modellato contrastato su un colore di base molto scuro, i corpi slanciati, l’interpretazione piatta. L’influenza della bottega tebana è evidente negli affreschi e nelle icone di gruppi di pittori imparentati, provenienti da Linotópi e altri villaggi di Kastoriá, ma anche dall’Epiro, attivi in Macedonia occidentale e in Epiro nella seconda metà del xvi e nella prima del xvii secolo. Si tratta di un’interpretazione popolare dell’arte cittadina dei pittori tebani. A una bottega greca settentrionale è attribuita una grande icona di San Giorgio che colpisce il drago, datata 1623 [t. 42]. La gamma cromatica si limita quasi al rosso e al grigio-verde, il modellato è contrastato con un intenso chiaroscuro, il profilo del cavallo molto evidenziato, l’aureola in rilievo. Per il suo forte carattere anticlassico, l’icona, esempio caratteristico dell’arte delle botteghe macedoni, si colloca agli antipodi della scuola cretese. Barnaba, dal disegno maldestro e con paramenti sovraccarichi di decorazione vegetale, commissionata nel 1691 dallo stesso arcivescovo di Cipro, Iakobos. Vi fu una bottega locale anche a Rodi, fino al 1522, quando terminò il governo dei cavalieri di San Giovanni, che intrattennero ottimi rapporti con il contesto ortodosso locale. Si sono conservate diverse icone, alcune delle quali con lo stemma dei cavalieri, dove gli elementi bizantini si combinano con altri occidentali, secondari. Molte icone dell’isola di Patmos, datate al xvi e xvii secolo – il periodo di rigoglio del monastero di San Giovanni il Teologo e dell’isola – sono opera di pittori locali, che ripetevano i temi di precedenti icone cretesi, presenti nell’isola.

Nella stessa epoca sono attivi in Albania due pittori omonimi. Il più significativo dei due è Onufri, arciprete della metropoli di Neocastro (Elbasan), che, alla metà del xvi secolo, affrescò chiese nella regione di Berat e a Kastoriá ma viene riconosciuto anche come autore di diverse opere pittoriche portatili67 [t. 43]. Sono tipiche della sua arte le figure sottili e allungate, con un dolciastro aspetto standardizzato. Si è ipotizzata l’influenza della scuola cretese e dell’arte della regione di Kastoriá nel xv-xvi secolo. Le iscrizioni dei suoi affreschi sono in greco impeccabile, e tracciate con lettere eleganti, un indizio della sua educazione e forse anche della sua origine.

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A fronte: 45. Longino, Re Stefano Uroy e scene della vita, monastero di De/ani.

riodo successivo alla conquista turca e alla soppressione del patriarcato di Pe0, fino alla sua restaurazione nel 1557, non fu propizio per la creazione artistica. Dopo i turbolenti decenni successivi alla conquista, ci fu la ripresa di una qualche timida attività. Nelle regioni occidentali operavano pittori provenienti da Ragusa; in Macedonia settentrionale erano greci mentre a nord si rinsaldarono i legami con la Valacchia. L’influenza greca si mantenne viva tra le popolazioni slavofone grazie alle incisioni di arte cretese che decoravano i libri serbi stampati a Venezia alla fine del xv e all’inizio del xvi secolo71 e tramite i rari artisti greci documentati nella regione. Questi ultimi non furono solo frescanti ma anche pittori d’icone, come una Vergine in trono circondata dai profeti che ne predissero la venuta, della metà del xvi secolo nel Museo ecclesiastico di Belgrado, proveniente dal monastero di Kruyedol, nella regione della Fruyka Gora, in Serbia settentrionale72. Nel monastero è conservata l’iconostasi originaria in legno scolpito e dorato, con le sue icone dipinte nel 1509-1512. La grande Deesi con i personaggi a figura intera – Cristo, la Panagía, san Giovanni Battista, due arcangeli e i dodici apostoli suddivisi in nove icone – è ispirata allo stile della scuola cretese ma non è opera di un pittore greco, come testimoniano le iscrizioni slave e le scelte cromatiche. Si potrebbe trattare di un pittore giunto dalla Valacchia, se teniamo presenti i legami di parentela esistenti in quello stesso periodo tra il fondatore, l’arcivescovo Maximos, e i sovrani della Valacchia73. Dopo la restaurazione del patriarcato di Pe0 nel 1557 e fino alla fine del xvii secolo, i pittori più significativi sono monaci. Si distingue tra tutti Longino, che fu anche amanuense e poeta, menzionato tra il 1563 e il 159774. Decine di sue icone sono conservate a Pe0, De/ani, Piva e altrove. Come anche altri pittori suoi contemporanei, si sforzò di creare un linguaggio basato sulla pittura serba del xiv secolo. I suoi colori sono luminosi e intensi. Alle sue opere più importanti appartiene la grande icona (1,50 per 0,94) del re serbo Stefano iii De/anski (1321-1331), che molto soffrì e fu tormentato durante la vita e fu proclamato santo pochi anni dopo la morte. L’icona fu commissionata nel 1577 dai monaci di De/ani, dove si trova la sua tomba [t. 45]. Stefano domina al centro, seduto sul trono; Cristo, dal quale origina il suo potere, lo benedice dall’alto e gli angeli gli portano i simboli della regalità. Sui lati e in basso sono raffigurate diciassette scene della sua vita, scritta all’inizio del xv secolo dall’igumeno di De/ani Gregorio Camblak75. Nelle sue opere tardive il chiaroscuro è marcato, il disegno più secco e pare di scoprire l’influenza della pittura russa. Questa influenza, che si spiega con la massa di icone russe spedite in Serbia come

Il pittore che si firma “mano di Onufrios di Cipro / cheir Onufríou Kypríou” abbandonò evidentemente la sua patria dopo la conquista turca per stabilirsi nella regione dell’odierna Albania meridionale68. Le sue opere, datate all’ultimo decennio del xvi e al primo quarto del xvii secolo, sono influenzate dai madonneri e da Onufri. Nella graziosa icona della Panagía proveniente dalla chiesa di San Nicola a Sarakinista, presso Argirokastro, utilizza abbondante oro nelle stoffe e, con lo stucco sul fondo, imita il rivestimento metallico [t. 44]. Al di fuori delle regioni grecofone, erano attive botteghe locali che seguivano, in gradi diversi, i modelli greci postbizantini che, tra gli ortodossi, mantennero il ruolo esemplare svolto in precedenza dall’arte di Bisanzio. In Serbia e in Montenegro fu rilevante l’influenza delle incisioni dei libri slavi stampati a Venezia, che discendevano in linea diretta dalla pittura cretese. In Dalmazia, dove nel xiv e nella prima metà del xv secolo aveva dominato lo stile gotico, nel xvi secolo si segnala un ritorno ai modelli bizantini, ma con una morfologia influenzata dal Rinascimento. A questa svolta contribuì la diffusione delle icone cretesi, che venivano importate dalle regioni greche dove viaggiavano navi dalmate oppure, più raramente, che erano opera di pittori cretesi attivi in Dalmazia69. Pittori di Ragusa imitarono ad esempio la Madonna della Passione di Andreás Rítzos a Ston, in Dalmazia, interpretandone tuttavia le caratteristiche con un modellato più morbido e abbigliandola con lussuose stoffe italiane70. Le icone tradizionali venivano particolarmente apprezzate dai cattolici amanti della tradizione della regione, oltre che, naturalmente, dagli ortodossi. Il più notevole dei pittori influenzati dall’iconografia e dallo stile bizantini è Frano Matkov. Figlio di un pittore ragusano, fu educato nella tradizione locale e viaggiò in Italia meridionale; associava nelle sue opere elementi bizantini e rinascimentali, come facevano i pittori cretesi suoi contemporanei. La sua opera più importante è una grande pala d’altare tripartita nella chiesa di Santo Stefano nel villaggio di Sustjepan nella Rijeka Dubrova/ka, datata al 1534-35, con iscrizio­ni greche. La Vergine col Bambino in trono al cen­tro appartiene a un tipo noto nelle icone cretesi; anche san Giovanni il Teologo, a destra, è dipinto secondo lo stile e l’iconografia bizantina. Santo Stefano, al contrario, si conforma all’iconografia occidentale nella decorazione dei paramenti sacri e negli attributi. Matkov si allontana dal modello bizantino anche per i colori chiari e allegri, che solitamente utilizza. In Serbia, Montenegro e Macedonia settentrionale, il pe-

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46. Annunciazione, porte dell’iconostasi della chiesa degli Arcangeli di Ku/eviyte, Galleria d’arte, Skopje.

A fronte: 47. Battesimo di Cristo, da Slimnica, Museo archeologico, Skopje.

doni in quest’epoca, è evidente anche in altre opere, come Santa Febronia e scene della sua vita, commissionata nel 1607-1608 dal metropolita di Gra/anica, Viktor. Le figure sono piatte, i colori sono molto chiari, alcuni edifici sono evidentemente russi76. Nel xvii secolo diviene di nuovo più evidente l’influsso della pittura cretese, dovuto in parte ai monaci di Chilandari, ai quali erano familiari gli affreschi e le icone dei cretesi sul Monte Athos. Il rappresentante più noto di questa tendenza è il monaco di Chilandari Giorgio Mitrofanovi0, attivo nel secondo e terzo decennio del xvii secolo77. Il suo modellato è abitualmente scarno, il disegno duro. La sua opera migliore è l’icona despotica della Panagía, di grandi dimensioni (1,33 per 0,93) conservata nel monastero di Mora/a, in Montenegro, datata 1616-1617. Al centro è collocata la Vergine col Bambino in trono, che ricorda l’icona di Andreás Rítzos a Patmos, dove però la Theotókos e il Cristo sono frontali. La incorniciano i profeti che presentano gli oggetti che l’avevano prefigurata e i cartigli con le relative profezie, e gli innografi Cosma di Maiuma, Giovanni Damasceno e Giuseppe, che composero inni ecclesiastici in suo onore78. Nel secondo quarto del xvii secolo prende forma uno stile influenzato dai modelli serbi del tardo xiv secolo. Ne è un esempio il pittore Jovan, attivo nel terzo e quarto decennio del secolo; lo caratterizzano il solido modellato, con luci a raggiera attorno agli occhi, e i colori caldi. Il pittore Kozma, attivo nel secondo quarto del xvii secolo nei monasteri di Mora/a e di Piva, prosegue la tradizione di Jovan. Si distingue per la luminosità dei colori e per l’espressività dei volti dei santi che dipinge. È notevole anche l’opera dello ieromonaco Andrea Raj/evi0, che è influenzato dalle incisioni dei libri liturgici serbi a stampa e dalle miniature russe. Nella seconda metà del xvii secolo spiccano come pittori più importanti lo ieromonaco Avesalom Vuji/i0 e Radul. Nelle loro opere domina l’elemento lineare, le ombre si confondono con i profili, ma nello stesso tempo mantengono la predilezione dei pittori della generazione precedente per i colori vivaci. Rappresenta un modello della loro arte l’icona dell’evangelista Luca che dipinge la Vergine, con quattordici scene della sua vita, opera di Avesalom Vuji/i0, nel monastero di Mora/a, datata al 1672-1673. Poco più a sud, nelle botteghe locali della regione di Skopje, si dipingevano icone che, malgrado alcune goffaggini nel disegno, il modellato duro e la rigidità sche-

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48. San Giorgio, dal monastero di Kremikovci, Galleria nazionale d’arte, Sofia.

A fronte: 49. Cristo Pantocratore, da Mesembria, Museo archeologico, Sofia.

Ungheria meridionale, temendo rappresaglie turche in conseguenza del favore ampiamente dimostrato agli Austriaci durante la guerra austro-turca. I pittori che lavorarono per la metropoli di Karlovci adottarono il barocco, che nei primi decenni arricchirono con elementi della tradizione bizantina. Nelle città greche del mar Nero, oggi appartenenti alla Bulgaria, si è conservato un gran numero di icone, alcune delle quali hanno la data e il nome del donatore, nessuna invece il nome del pittore o del luogo dove è stata dipinta. Spesso di grandi dimensioni, seguivano lo stile cretese con un’interpretazione più piatta, gioco di pieghe e modellato più schematici. Dal lato dei soggetti, la maggior parte delle icone pubblicate si limita al Cristo, alla Madre di Dio Brefokratousa, alla Deesi e ad alcuni santi isolati. È estremamente probabile che siano state dipinte sul posto. Le più importanti sono state trasferite a Sofia79 [t. 49]. Le icone dell’interno della Bulgaria hanno solitamente un carattere folclorico, con una resa perfettamente piana e lineare e colori molto vivaci80 [t. 48]. In altre regioni soggette al governo turco, come in Tracia meridionale e in Macedonia settentrionale, l’arte, praticata da artisti incolti e provenienti dall’ambiente rurale, ha un carattere popolare. Si intende che i grandi monasteri delle regioni soggette al governo turco, come quelli del Monte Athos e delle Meteore, chiamavano pittori riconosciuti delle botteghe cretesi e da Tebe non solo per affrescare le loro chiese e refettori ma anche per dipingere icone.

La Grecia continentale e le isole nel xviii secolo Dopo la caduta di Creta emergono come centri artistici minori le isole Ionie, dove governa Venezia, anzitutto Zacinto e Corfù, con minor rilievo Cefalonia e Leucade. Non solo vi giungono gli artisti cretesi, principalmente nelle prime due isole, ma vengono trasferite qui molte opere d’arte da Candia. L’arte di queste isole ha comunque significato locale e non sostituisce la scuola cretese nel suo ruolo di riferimento per l’oriente ortodosso. I migliori pittori continuarono la tradizione di Emanuele Tzánes. Corfù avrebbe seguito una strada diversa da quella delle altre isole. Vi sono consueti temi iconografici come l’Allegoria della Divina Comunione81 e grandi quadri con numerose scene dell’Antico Testamento. Le iconostasi sono di pietra e sulle loro porte sono raffigurati il Cristo e i santi a figura piena, introdotti probabilmente da Emanuele Tzánes [t. 32, 52]. A Zacinto, Cefalonia e Leucade le iconostasi sono lignee e sovraccariche di decorazione vegetale scolpita. I battenti delle loro porte sono

matica delle pieghe, si sforzano di mantenere alcuni elementi dello stile e della tradizione iconografica più antica. Così, nel prezioso angelo della porta del presbiterio della chiesa degli Arcangeli a Ku/eviyte, del 1607, l’estremità del manto che ondeggia leggermente ricorda le rappresentazioni bizantine del xii secolo [t. 46], mentre nell’icona del Battesimo di Cristo, del xvii secolo, proveniente dal monastero di Slimnica, Cristo vestito da un perizoma, che schiaccia un drago sotto il piedestallo sul quale si erge, ripete uno schema iconografico presente nella pittura paleologa della Macedonia [t. 47]. È caratteristica della regione la decorazione in legno scolpito con nastri intrecciati leggermente incavati. Il regolare sviluppo della pittura serba fu interrotto nel 1690 quando decine di migliaia di Serbi, sotto la guida del patriarca, emigrarono dalle terre avite del Kossovo e della Metohija in

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50. Il profeta Giona, Museo di Zacinto.

52. Stefanos Tzankarólas, San Giacomo, fratello del Signore, Museo Benaki, Atene.

51. Nikolaos Kallérges, Angelo che sorregge il Cristo morto, Museo di Zacinto.

delle chiese. Una graziosa Allegoria della Confessione, dell’inizio del xviii secolo, è una delle poche icone di questo genere che furono dipinte nelle terre soggette al dominio veneziano [t. 54]. Nei primi decenni del xviii secolo, nelle isole dello Ionio, ai cretesi della diaspora successero artisti locali formatisi al loro contatto. In essi le influenze del barocco si fanno via via più intense, a causa della vicinanza e degli stretti rapporti con l’Italia. In molte raffigurazioni tale influsso si rende evidente nell’espressione della tristezza e del dolore, come nelle opere di Nicola Kallérges (documentato nel periodo 1715-1747). La porta della Panagía Arseniotissa oggi al Museo di Zacinto è datata al 1732 [t. 51]. Contemporaneamente si manifesta una tendenza all’abbandono della tradizione bizantina e all’imitazione incondizionata della pittura italiana. Iniziatore di questa tendenza è Panayotis Doxarás (1662-1729) [t. 55]. Pittore originario del Peloponneso e militare al servizio di Venezia, risedette per un certo periodo a Zacinto, tradusse i manuali di pittura di Leonardo da Vinci e di Leon Battista Alberti, e pubblicò il proprio manuale Sulla pittura; a Corfù dipinse il soffitto della chiesa di San Spiridione (1727)85. Va osservato che questo movimento è contemporaneo alla tendenza all’imitazione della pittura bizantina del xiv secolo, che si manifesta principalmente sul Monte Athos e trova il proprio manuale nella Guida della pittura del monaco Dionisio di Fournás, originario della Grecia centrale. Mise in pratica i principi di Panayotis Doxarás il figlio Nicola (m. 1775), che studiò a Venezia, fu impiegato della Serenissima e negli anni ’50 decorò il soffitto della chiesa della Panagía Faneromeni a Zacinto [t. 56]. Non è certo che i santi isolati delle pareti laterali, più luminosi e dipinti più liberamente, siano opera di Nicola Doxarás o di un aiuto86. Discepolo di Nicola Doxarás, il sacerdote Nicola Koutoúzes (1741-1813), conosciuto anche per i suoi poemi satirici, utilizza i forti chiaroscuri della scuola di Caravaggio nei suoi Crocifissi e nelle scene della vita di Cristo. Nicola Kantoúnes (m. 1834) ha una tavolozza più luminose ed evita i chiaroscuri troppo contrastati [t. 57]. Nel xix secolo dominerà ormai nella pittura d’icone dell’Eptaneso lo stile italiano.

cui icone sono datate tra il 1699 e il 173283. Segue il modo di Tzánes ma con un modellato più rigido, pieghe artefatte e volti standardizzati. Alcuni suoi quadri, influenzati dalle calcografie occidentali, si distaccano completamente dalla tradizione bizantina. Interessanti anche per l’attenta rappresentazione dei particolari architettonici e dell’abbigliamento sono due icone votive, dove vengono raffigurati la grazia ricevuta e il santo alla cui intercessione essa è dovuta, come l’icona con il figlio del pittore salvato dall’apostolo Luca, all’esterno della chiesa di Sant’Eleuterio, che esiste ancor oggi a Corfù [t. 53]. Le icone votive, che conobbero grande diffusione in Europa occidentale, erano molto usuali anche nelle terre greche, tra il xvii e il xix secolo. In maggioranza raffigurano la salvezza di colui che aveva formulato il voto da una burrasca o dall’assalto dei pirati84. Nel tardo periodo postbizantino conoscono grande diffusione, specie nelle regioni governate dai Turchi, anche i soggetti edificanti, tanto nelle icone quanto negli affreschi sul nartece

traforati e spesso abbelliti da patetici angeli che presentano il corpo di Cristo morto o gli strumenti della Passione [t. 51] mentre sui plutei lignei al di sotto delle icone despotiche sono raffigurate di solito scene dell’Antico Testamento [t. 50]. Tra i pittori attivi a Corfù, il sacerdote Stefano Tzanka­ ró­las era originario di una grande famiglia cretese rifugiata nell’isola82. Eclettico quanto ai suoi soggetti, si distingue per la fermezza e la precisione del suo disegno. L’influenza di Tzánes è evidente nel minuzioso modellato lineare, nella resa meticolosa dei tessuti italiani e nella passione per i particolari. È influenzato dal manierismo e dal barocco, sia quando ne utilizza gli elementi decorativi in composizioni tradizionali, come nella porta con san Giacomo fratello del Signore proveniente da Corfù [t. 52], sia quando copia integralmente un quadro occidentale, come la Madonna della seggiola di Raffaello per la Panagía dell’iconostasi del monastero ortodosso di Sission a Cefalonia. A Corfù risiedeva anche Costantino Kontarínes, le

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In questa stessa epoca, nelle regioni soggette al governo turco, continua la produzione d’icone di mediocre livello, da parte di una quantità di botteghe di rilievo locale, che seguivano la tradizione bizantina, senza che alcuna di esse acquistasse la preminenza 87. Nella prima metà del xviii secolo avviene uno sforzo consapevole di ritorno allo stile del xiv secolo, il cui principale rappresentante

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53. Costantino Kontarínes, Miracolo di san Luca, Libreria Gennadeion, Atene.

54. Allegoria della Confessione, chiesa della Panagía ton Xenon, Corfù.

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55. Panayotis Doxarás, Cristo, Museo di Zacinto.

A fronte: 57. Nikolaos Kantoúnes, Deposizione, Museo di Zacinto.

56. Nicola Doxarás, Natività della Vergine, Museo di Zacinto.

fu lo ieromonaco Dionigi di Fournás, villaggio montuoso della Grecia centrale, vissuto per un certo periodo anche sul Monte Athos. Oltre alla decorazione ad affresco di diverse chiese a Karyes, sul Monte Athos, e nella regione di Fournás, ci ha lasciato alcune icone. È tuttavia conosciuto principalmente come autore, attorno al 1730, della Guida della pittura, un manuale relativo alla pittura delle immagini sacre che riguarda tanto il lato tecnico quanto l’iconografia, basato su opere precedenti. Era nato intorno al 1670 e viene ricordato fino al 1744 88. Un altro dotto ecclesiastico contemporaneo che rappresenta la stessa tendenza è David, di Selinítza presso Avlon/Valona, ma le sue opere certe sono affreschi e gli viene attribuita una sola icona89. Il suo stretto collaboratore Cirillo Foteinós trasmise l’arte di Dionigi a Chio, da dove era originario.

Nel xviii secolo in Epiro, Macedonia occidentale e Albania, ma anche in regioni lontane, sono all’opera famiglie di artisti epiroti. L’Epiro e la Macedonia occidentale produssero il maggior numero di artisti, certo di mediocre capacità: la loro notorietà è parzialmente dovuta anche alla preferenza manifestata per loro dai monaci athoniti nel xviii secolo. I più validi sono i pittori di Kapésovo, nella regione montuosa dello Zagóri, a nord di Giannina. Lavoravano principalmente come frescanti ma dipinsero anche icone. Il più produttivo fu Giovanni Athanasíou, che è documentato tra il 1773 e il 180690. Nella sua opera segue iconografia e stile tradizionali ma si verificano anche deviazioni, come nella Panagía inginocchiata con le mani incrociate nella Dormizione della chiesa della Panagía a Gorantzi nell’Epiro [t. 58] o nelle pieghe della veste di Dio Padre nell’icona del Museo bizantino di Giannina.

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con il Cristo sommo sacerdote, del tipo del tronco di vite, e la Vergine col Bambino in trono, nella composizione conosciuta come Dall’alto i profeti [t. 60]. L’icona è stata dipinta nel 1729 dal pittore Costantino di Smirne a spese di Giuseppe, figlio di Pasquale, di Cesarea di Cappadocia. La tradizione medievale dell’arte religiosa dei Balcani viene abbandonata nei primi decenni del xix secolo, quando gli artisti seguono le correnti della pittura europea anche nella decorazione delle chiese e nelle icone. Nello stato greco di nuova formazione sono attivi Costantino Fanéllis (17911863) che sembra aver studiato in Italia, e il bavarese Ludwig Thiersch (1825-1909), diplomato all’Accademia di Belle Arti di Monaco che, nei suoi affreschi e nelle icone, oleografiche nella realizzazione, si ispirano a composizioni bizantine e postbizantine, che vengono però migliorate e corrette se-

Alla fine del xviii secolo e all’inizio del seguente, sono attivi in Albania centrale i pittori della famiglia Tzetíri o Tzitéri. Il più importante è Giovanni, che nacque a Grabovo, attualmente in Albania, intorno al 1720. Aveva come lingua principale il greco ma conosceva anche altre lingue balcaniche e affrescò chiese in Albania, Serbia, Ungheria e Valacchia91. Le sue icone sono conservate a Tirana [t. 59] e a Berat. Il suo disegno è tollerabile e mostra una particolare predilezione per le sfumature rosse e azzurre. Nelle lontane province dell’Asia Minore orientale, si osserva dal xviii secolo una limitata ripresa dell’ellenismo, che viene documentata anche nelle icone, come un grande quadro che misura 1,27 per 0,77 dove venti scene evangeliche, la Santa Trinità, gli apostoli e numerosi santi, rinchiusi in compartimenti rettangolari, incorniciano le due raffigurazioni centrali,

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58. Giovanni Athanasíou, Dormizione della Vergine, Istituto per i Monumenti culturali, Tirana.

59. Giovanni Tzetíris, San Demetrio e scene della sua vita, Istituto per i Monumenti culturali, Tirana.

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60. Costantino di Smirne, illustrazione dell’inno “Dall’alto i profeti”, Museo Bizantino, Atene.

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STORIA, ICONOGRAFIA E STILE DELL’ICONA IN RUSSIA DOPO LA CADUTA DI BISANZIO Karl Christian Felmy

condo la loro sensibilità, in accordo con l’arte accademica europea occidentale dell’epoca. Thiersch lavorò anche a San Pietroburgo e nelle comunità greche di Vienna, Manchester e Parigi. Realizzò le icone dell’iconostasi della cattedrale di Atene un altro tedesco, L. Seitz, che ebbe l’ambizione di combinare l’arte bizantina con le opere di Giotto! L’imitazione dei neoraffaelliti domina fino all’inizio del xx secolo. In

Serbia, Bulgaria e sul Monte Athos i pittori imitano la pittura religiosa russa contemporanea. Dagli anni ’20 del xx secolo si palesa in Grecia un movimento di ritorno alla tradizione bizantina e postbizantina, il cui principale rappresentante fu Fotis Kóntoglou, da Kydoníes/Ayvalik, in Asia minore (18951965), che influenzò l’arte religiosa tanto in Grecia che nei Paesi circostanti.

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del miracolo dei santi Floro e Lauro e le icone dell’iconostasi della chiesa della Dormizione (Uspenskaja) a Volotovo Pole [t. 16] mostrano ancora caratteristiche essenziali della scuola pittorica di Novgorod, mentre invece le “tavolette” (ta­bletki, icone di piccolo formato dipinte direttamente su tela intonacata da entrambi i lati) della cattedrale di Santa Sofia di Novgorod a cavallo tra il xv e il xvi secolo [t. 17] provano la crescente assimilazione allo stile moscovita, innanzitutto nelle scene con molti personaggi, secondo la nuova tendenza moscovita a una costruzione più complessa. Nel 1570 Ivan iv il Terribile eliminò l’ultima residua autonomia di Novgorod, mentre a Pskov, l’altra città-stato indipendente collegata con la Hansa nella Russia occidentale, concesse un’autonomia maggiore, e nel 1579/80 pose termine a un’azione militare contro la città, impedendo l’atteso bagno di sangue. Nella pittura d’icona Pskov conservò perciò più a lungo di Novgorod tratti tipici che si differenziano dall’iconografia moscovita. Al tempo di Ivan il Terribile risalgono molte importanti decisioni ecclesiastiche che riguardavano immediatamente l’iconografia1. Il sinodo dei Cento Capitoli del 1551 consolidò la tradizione pittorica delle icone, dichiarando tra l’altro canonica l’icona della Trinità di Andrej Rublëv. Le decisioni del Sinodo influenzarono indirettamente la comparsa di manuali di pittura, dei quali tuttavia esistevano già dei modelli in Occidente (i cosiddetti “exempla”), come in Oriente2. Per l’iconografia è ancora più importante il sinodo del 1553/54, con il procedimento contro l’alto funzionario (d’jak) Ivan Michajlovi/ Viskovatyj3. Il d’jak aveva protestato contro le nuove tipologie iconografiche che manifestavano la preferenza, crescente alla fine del xv secolo e rafforzata nel xvi, per immagini formalmente e contenutisticamente più complesse. Nelle icone che si basavano su visioni di profeti o idee teologiche Viskovatyj vedeva, con qualche ragione, minacciato alla base il principio dell’iconografia fondato sull’incarnazione. Nel confronto con lui un ruolo speciale rivestì l’icona quadripartita nella cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca, creata dai maestri di Pskov [cfr. t. 47]. Sotto Ivan iv acquistarono maggiore importanza il nord della Russia e l’est fino alla Siberia. Nel xiv secolo emerse la famiglia Stroganov, di origine contadina, che fra l’altro dominava l’industria del sale e il commercio di pellicce e favorì la conquista della Siberia. Alcuni dei suoi membri dipinsero icone e tutti, anche quanti non dipinsero, furono mecenati di pittori di icone differenti fra loro per molti aspetti, e tuttavia caratterizzate nell’insieme tra l’altro dalla raffinata delicatezza

Storia Quando, all’inizio del xv secolo, gli Ottomani minacciavano al cuore la stessa capitale dell’Impero romano bizantino, Costantinopoli vide l’ultima possibilità di salvezza nel realizzare l’unione con Roma. Questa fu conclusa nel 1439 al concilio di Ferrara-Firenze, cui aveva preso parte anche il metropolita di Mosca Isidoro. Due anni dopo, quando il metropolita fece proclamare solennemente a Mosca i documenti dell’Unione, il granduca Vasilij Vasil’evi/ lo fece arrestare e deporre. Nel 1448 il granduca insediò un nuovo metropolita, per la prima volta senza attenderne la conferma da parte del patriarca di Costantinopoli, che di regola sarebbe stata necessaria. Secondo Mosca infatti il patriarca, con la stipula dell’unione, era decaduto dall’ortodossia e aveva quindi perso ogni diritto di giurisdizione sulla Russia. La chiesa ortodossa russa data perciò l’inizio della propria autocefalia dall’anno 1448. Nell’inverno del 1480 Ivan iii, senza altri combattimenti, riuscì a scrollarsi di dosso definitivamente il dominio dei Tartari. Con la caduta di Costantinopoli la Russia si trovò nella condizione di essere l’ultimo stato guidato da un sovrano ortodosso, ma contemporaneamente cessò l’influsso costantinopolitano sull’arte sacra russa. In realtà, gli antichi modelli bizantini rimasero determinanti per la pittura d’icone, anche se in seguito nuovi impulsi provennero non più da Costantinopoli, ma piuttosto dalla Russia stessa, che visse ancora un momento di fioritura nell’arte di Dionisij e della sua scuola, al passaggio dal xv al xvi secolo [tt. 21-26]. Conseguenze di vasta portata per la vita culturale ebbe la cosiddetta “Riunificazione dei territori russi”. Nel 1474 le terre del principato di Rostov, ancora indipendenti, passarono a Mosca; nel 1478 Ivan iii riuscì a sottomettere al proprio dominio Novgorod e quindi gli immensi territori della regione a nord del Volga, la cui cultura, fortemente influenzata da Novgorod, presentava tuttavia anche tratti propri [tt. 1, 2]. In generale le caratteristiche di Novgorod si mantennero nella Russia del nord addirittura più a lungo che nella stessa Novgorod [tt. 3, 5, 6, 27], sebbene anche lì emergessero ancora nel xvi secolo caratteristiche tradizionali. Esse andarono sempre più scomparendo, perché gli spostamenti dei ceti dominanti della popolazione favorirono l’omologazione. Nel 1485 Ivan iii riuscì ad annettere al regno di Mosca il suo più feroce avversario, il principato di Tver’ con i suoi territori. Alla sottomissione politica seguì quella culturale. Le pitture della chiesa di San Simeone Teoforo a Novgorod, della metà del xv secolo, l’icona dell’orante di Novgorod del 1467, il dipinto

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Nelle due pagine precedenti: 1. I santi Pietro e Nicola, dalla Deesis della chiesa del villaggio di Astaf’evo (Kargopol’), Museo delle Arti Figurative, Archangel’sk.

3. L’apostolo Paolo, dalla Deesis di Kem’, Museo di Petrozavodsk. A fronte: 4. Scuola di Novgorod, I santi Giacomo di Gerusalemme, Nicola di Mira e Ignazio di Antiochia, da Novgorod, Museo Russo, San Pietroburgo.

2. San Giovanni Crisostomo, Museo delle Arti Figurative, Archangel’sk.

del tratto pittorico e dal ricco uso dell’oro, specialmente nella rappresentazione di vesti spesso ricercate e preziose [cfr. tt. 9, 32, 44]. Ivan iv non riuscì a conquistare un porto libero dai ghiacci nel mar Baltico, divenne quindi sempre più importante l’itinerario verso i porti nel nord della Russia. Lo zar concluse patti con gli Inglesi, che favorirono il traffico commerciale a nord sul mar Bianco. La città di Jaroslavl’, che si trovava su questa via commerciale, poteva competere con Mosca quanto a ricchezza. Si deve soprattutto ai mecenati di Kostroma e di Jaroslavl’ se nel xvii secolo “in nessun Paese, inclusa l’Italia, si può trovare un numero così fantastico di affreschi dipinti in così breve tempo” come in Russia4. Nelle icone e negli affreschi il nord della Russia, finché non fu toccato da questa fioritura, rispecchia una propensione al “primitivo” e al­l’“arretrato” che ha i suoi inconvenienti ma anche il suo speciale fascino [tt. 8, 28, 53]; d’altra parte però, quando fu raggiunta da questa fioritura, soprattutto nel xvii secolo, si fece strada l’inclinazione, riscontrabile nella pittura degli Stroganov e nella scuola di Kostroma e Jaroslavl’ [tt. 12, 50, 52], a una delicatezza più lussuosa e raffinata e all’accoglienza relativamente precoce di tratti barocchi. Il periodo tardo del regno di Ivan iv, con le esplosioni di irrazionalità del suo comportamento, ha lasciato le sue tracce nell’iconografia, con un crescente formalismo e con la tristezza dei volti visibile in molte icone di quest’epoca, che lasciano intuire il terrore del suo dominio [tt. 49, 57]5. Dopo la morte di Ivan iv e di suo figlio Fëdor i, l’illuminato governo di Boris Godunov, eletto da un’assemblea regionale, consentì al Paese esausto una transitoria tranquillità. Fra l’altro, una serie di cattivi raccolti fece tramontare la stella del suo governo ancor prima della sua morte improvvisa nel 1605, e gettò il Paese in una crisi di cui la Polonia approfittò per intervenire in Russia. Gli eserciti polacco e lituano riuscirono a penetrare in profondità, oltre Mosca. Quest’epoca, indicata come “periodo dei Torbidi” (smutnoe vremq), poté concludersi solo nel febbraio 1613, quando un’assemblea nazionale elesse zar il giovane Michail Fëdorovi/ Romanov. Quando, verso la metà del xvii secolo, la Russia si era in certa misura ripresa dal terrore dei “Torbidi”, si abbatté sulla chiesa russa una catastrofe le cui conseguenze sarebbero continuate fino ai nostri giorni. Fin dal 1653 il patriarca Nikon, senza alcun riguardo, aveva cercato di modificare le consuetudini della chiesa ortodossa russa per adattarla alla prassi greca, che egli presumeva fosse più vicina alle origini, da ogni punto di vista. Anche quando, poco dopo, egli venne in conflitto con

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5-6. Frammento della Deesis e, sotto, porte regali, dalla chiesa della Risurrezione di Lazzaro, in precedenza monastero di Murom sull’Onega, Museo Kizi.

A fronte: 7. I patimenti degli Apostoli, pittura del soffitto del diakonikon della cattedrale dell’Annunciazione a Sol’vy/egodsk.

lo zar, le sue riforme liturgiche rimasero in vigore, suscitando tuttavia la protesta di una minoranza dell’ordine di milioni di fedeli, da essa derivarono i Vecchi credenti, esistenti ancor oggi. All’inizio non è riscontrabile un diverso atteggiamento verso le icone fra la chiesa di stato e i Vecchi credenti. Di fatto tuttavia solo i Vecchi credenti si sono mantenuti nella loro totalità fedeli alla tradizione pittorica della Russia antica e hanno preservato nel tempo fino a oggi un’iconografia vivente legata ad essa. I villaggi di iconografi Palech, Mstëra e Choluj non erano abitati solo da Vecchi credenti, tuttavia le tradizioni pittoriche della Russia antica e dei Vecchi credenti vi furono mantenute fino alla rivoluzione d’ottobre del 1917. Qui furono dipinte nel xviii e nel xix secolo le migliori icone russe dell’epoca [tt. 42, 55, 58). Molte altre celebri icone del xviii e del xix secolo furono di fatto prodotte nell’ambiente dei Vecchi credenti [t. 10]. Il cosiddetto Grande Concilio del 1666/67 confermò la deposizione, nel frattempo intercorsa, del patriarca Nikon, ma anche le sue riforme. Riguardo alla pittura d’icone il concilio assunse una posizione in sostanza corrispondente a quella, respinta un secolo prima, del d’jak Viskovatyj. Essa vietava la rappresentazione, nel frattempo divenuta molto frequente, di Dio Padre come un vecchio o come l’ “Antico dei giorni” (cfr. Dn 7,9 lxx), nonché la rappresentazione dello Spirito Santo come colomba, a eccezione dell’icona del battesimo di Cristo, in cui lo Spirito Santo effettivamente apparve nella figura di una colomba. Solo poche icone però attestano una transitoria osservanza delle norme del concilio [t. 48]. Nonostante tutte le decisioni sinodali l’iconografia seguì la sua strada. I grandi maestri di

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8. I miracoli di Floro e Lauro, da Kargopol’, Museo delle Arti Figurative, Archangel’sk.

A fronte: 9. Scuola degli Stroganov, Il giudizio universale, Museo di Storia e Arte, Sol’vy/egodsk.

Jaroslavl’ e Kostroma prima di tutto si proposero di rielaborare modelli occidentali, fra l’altro le incisioni in rame della Bibbia detta di Piscator (Berna 1684), e tradurli nel linguaggio figurativo delle icone. Questo processo ricorda in parte la pseudomorfosi della teologia russa, tuttavia era essenzialmente più fecondo e molto più creativo e innanzitutto preservava l’icona dall’irrigidimento [tt. 11, 35, 38]. Un percorso diverso seguirono i pittori di Mosca sottoposti allo zar, fra cui innanzitutto Simon Uyakov [tt. 36, 37]. Essi si rivolgevano a modelli occidentali molto più decisamente che i pittori del nord, quali Semën Spiridonov [tt. 33, 34], Gurij Nikitin, Sila Savvin e altri maestri della scuola di Kostroma e Jaroslavl’ [tt. 12, 50, 52]; crearono perciò opere eccellenti, ma contribuirono alla dissoluzione dell’iconografia tradizionale. Nel 1707 Pietro il Grande separò la pittura d’icone dall’arte mondana, relegandola così nell’ambito di un ricercato artigianato artistico e sbarrando la strada ai tentativi di intraprendere la via di un confronto con i modelli occidentali. È quasi un miracolo che in queste condizioni la pittura d’icone degradasse solo raramente al livello che in occidente sta sotto il concetto di “arte popolare”6. Anche nei villaggi di iconografi, dove si lavorava artigianalmente, l’iconografia è di gran lunga superiore a questo livello. In questo ambiente non potevano certo più formarsi maestri celebri, del rango di un Dionisij o anche di un Gurij Nikitin. È uno dei paradossi della storia che la ricchezza e la bellezza dell’iconografia nella Russia antica fossero riscoperte solo pochi anni prima della distruzione di massa delle icone perpetrata nel segno del terrore sovietico7. Dopo la fine della persecuzione della Chiesa anche l’icona vive un rinascimento: accanto a una scadente produzione di massa si realizzano oggi di nuovo icone di eccellente fattura, tanto che la qualità delle nuove icone in altri Paesi ortodossi raramente raggiunge o addirittura supera la qualità delle moderne icone russe. L’esempio che qui portiamo di una nuova icona dell’archimandrita Zinon, originario del monastero delle Grotte di Pskov [t. 13], mostra però anche che la pittura delle icone in generale finora è raramente andata oltre la semplice ripresa dei più riusciti esempi precedenti.

con una tendenza predominante, ma non unica né decisiva, all’unificazione. All’inizio la scuola pittorica di Novgorod conservò alcune sue particolarità, come la preferenza per i colori vivaci e complementari e in parte anche le marcate macchie di bianco sui volti, soprattutto sui nasi un po’ rigonfi. Prima di assimilarsi pienamente allo stile pittorico moscovita, essa dette ancora una volta prova della sua potenza carica di luce, come mostrano le icone dell’iconostasi della chiesa della Dormizione della Madre di Dio a Volotovo Pole. Nella discesa agli Inferi [t. 15] e nella Trasfigurazione [t. 14] il Cristo, rivestito di bianche vesti splendenti, si staglia sull’aureola blu, scura al centro e via via più chiara in cerchi concentrici verso l’esterno, dalla cui profondità scaturiscono raggi dorati. Si riconosce qui non solo la mano di un grande maestro, ma anche un livello straordinariamente alto di riflessione teologica. Soltanto poche

L’evoluzione stilistica della pittura d’icone L’evoluzione politica, come già accennato, ebbe innanzitutto per conseguenza che in certa misura le scuole pittoriche si rinnovarono, alcune sparirono, altre ne nacquero di nuove,

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A fronte: 10. I santi Alessio e Giovanni Battista, collezione privata, Bamberga.

11. Stepan Dement’evi/ Narykov, Madre di Dio, dall’iconostasi della chiesa della Presentazione della Madre di Dio al Tempio di Sol’vy/egodsk.

icone esprimono con maggiore chiarezza l’inconoscibilità dell’essenza di Dio e la partecipazione delle sue energie. Tutto ciò corrisponde alle esigenze centrali della teologia esicasta, il cui influsso sulla pittura russa delle icone – contrariamente alla moda degli ultimi decenni – non riuscirebbe del resto ad essere eccessivamente sopravvalutato. In queste icone rimangono caratteristici di Novgorod – e ciò costituisce il loro particolare fascino – i colori nettamente definiti, spesso complementari, e la semplicità della composizione, che a quest’epoca a Mosca cede invece già a una più complessa molteplicità di figure. Ai volti delle icone di Novgorod manca per contro la dolcezza che caratterizza le icone moscovite, con le quasi impercettibili velature di colore. Le “tavolette” della cattedrale di Santa Sofia a Novgorod [t. 17], in cui gli influssi moscoviti si mostrano già più evidenti che nelle icone di Volotovo Pole, sono tuttavia in generale ancora prodotti tipici della scuola di Novgorod. Nel disegno dei volti accusano certo la mancanza della naturalezza avvincente delle prime icone di Novgorod, ma di queste presentano ancora il fascino dei colori decisi con una predilezione per il rosso brillante e le forti lumeggiature di bianco. Questo stile misto, con una preminente influenza di Novgorod, caratterizza l’icona di san Giorgio, ispirata alle prime icone novgodoriane di san Giorgio, già presente nella collezione Morozov [t. 16]. L’icona dei santi Giacomo di Gerusalemme, Nicola di Mira e Ignazio d’Antiochia della fine del xv secolo [t. 4] rivela un’influenza moscovita ancor maggiore nei volti allungati e nella stesura dei colori, non più sonora e brillante e perciò tanto più elegante. In molte icone del xvi secolo, come per esempio la Madre di Dio Gruzinskaja dalla collezione Gleser nel Museo delle Icone di Reckling­hausen [t. 19]8, si mostra uno “stile complessivo” russo, nel quale non è più possibile determinare senza ombra di dubbio la provenienza da una delle scuole tradizionali. La particolarità dei dipinti di Pskov, per i motivi politici già ricordati, è riconoscibile più a lungo che non quella delle icone di Novgorod. Per lungo tempo rimane caratteristica la rappresentazione particolarmente frequente di perle bianche [t. 20] e di punti di luce bianca. In confronto però i colori, specialmente quelli degli incarnati, diventano più pallidi e più cupi. La preziosa icona di Pskov, apparsa intorno al 1570 a Kalbensteinberg nella media Franconia [t. 18], lascia ancora trasparire tradizioni autonome di Pskov. Risalta il colorito discreto nei contrasti, ma finemente sfumato, all’interno delle zone rossa e verde preferite dagli pskoviani. Ciò diventa caratteristico dell’iconografia di Pskov nella seconda metà del xvi secolo, con variazioni e semplificazioni insignificanti, spesso

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legate alla mancanza dei toni del blu. Le quinte montuose hanno qui toni piuttosto variegati, saturi e profondi come in numerose icone della serie delle festività di Pskov, dalla metà al terzo quarto del xvi secolo; proprio come in ciascuna di queste icone il maestro evita i contrasti tonali nel paesaggio in riferimento ai singoli motivi a margine9. Soprattutto nella tarda pittura di Pskov i colori diventano in genere più opachi e la loro luminosità si indebolisce10. La scuola iconografica moscovita ebbe il suo momento di massima fioritura senza dubbio fra il primo apparire di Teofane il Greco e l’attività di sant’Andrej Rublëv. A questo culmine non seguì tuttavia una repentina decadenza, bensì un periodo in cui la pittura di icone e affreschi si mantenne ad alto livello, fino a raggiungere ancora una volta un apice con il maestro Dionisij.

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A fronte: 12. L’evangelista Luca, da Jaroslavl’, Museo delle Icone di Recklinghausen.

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13. Archimandrita Zinon, San Sergio di Radonez, monastero della Dormizione, Pskov.

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14. Trasfigurazione, da Volotovo Pole, Museo di Storia e Architettura, Novgorod. A fronte: 15. Discesa agli inferi (Risurrezione), da Volotovo Pole, Museo di Storia e Architettura, Novgorod.

L’icona moscovita della Trasfigurazione di Cristo, esposta nel 1997/98 allo Schirn di Francoforte11, evidenzia chiaramente, accanto agli influssi della già recensita icona della Trinità di Novgorod attraverso l’arte moscovita, la differenza fra le “autentiche” icone moscovite e quelle di Novgorod. Le differenze iconografiche (la stella invece dei cerchi concentrici) sono piuttosto casuali: l’una e gli altri si trovano sia nella scuola pittorica di Mosca che in quella di Novgorod. Al contrario, la differenza nella stesura del colore è tipica. Invece dei colori complementari brillanti l’icona di Mosca predilige leggere velature di strati di colore sottilissimi applicati l’uno sull’altro, che nell’icona che stiamo osservando concentrano l’attenzione sul Cristo vestito di bianco nella stella blu profondo. Tutto ciò è più raffinato, ma meno vivace e brillante che nell’icona di Novgorod. Il maestro Dionisij è l’ultimo dei grandi iconografi russi. Sia nella stesura del colore nei suoi dipinti che dal punto di vista iconografico egli continua le tradizioni di Rublëv. Gli strati sottilissimi di colore stesi uno sull’altro nelle sue opere non sono meno delicati che in Andrej Rublëv, e i colori appaiono non meno ricercati. Ma Dionisij condivide l’amore per il particolare, crescente dalla fine del xv secolo – per esempio nelle scene marginali delle icone dei metropoliti di Mosca Peter e Aleksij [t. 21] –, per una struttura più complessa e per rappresentazioni ispirate agli inni. Ad esempio i suoi affreschi a Ferapontovo, apparsi nel 1502-1503, costituiscono un commentario all’inno Akathistos. Egli rappresenta addirittura più volte il Theotokion dell’ottavo tono “In te si rallegra, piena di grazia, ogni creatura”, nella parete nord della chiesa di Ferapontovo [t. 25] e su una famosa icona [t. 24]. Per lui l’eleganza è più importante dell’immediatezza, e ciò influenza in modo particolare i suoi dipinti della Madre di Dio, raffigurata talvolta insolitamente “come una signora” [tt. 22, 26], quanto la sua tendenza a una sublime “solennità”. Altre tradizioni moscovite sono riconoscibili nell’icona della Madre di Dio di Jaroslavl’ dalla collezione di I.S. Ostrouchov nella galleria Tret’jakov di Mosca, con il suo bel tratto e le pennellate delicatamente fuse insieme, grazie alle quali il sovrapporsi di luci e ombre non è quasi più percepibile12. La Russia a nord e nord-est del Volga è stata in un primo tempo fortemente influenzata da Novgorod [per esempio, t. 2], con una tendenza alla campitura, a tonalità più discrete di terre, spesso però anche con dei blu particolarmente belli [tt. 1, 27, 53] e un primitivismo talvolta molto attraente. Nello sviluppo dell’iconostasi divenne abituale nel nord sostituire l’icona del Pantokrator nella serie locale con il Mandylion, di cui si trovano nella Russia del nord straordinari esempi [t. 27].

Tuttavia nella Russia del nord appaiono precocemente anche icone di qualità eccellente come per esempio la Deposizione dalla croce e la Sepoltura, nella serie delle feste dell’iconostasi di Gorodec. Questi dipinti “sono molto più delicati, molto più perfetti nella stesura del colore” delle altre icone nella Russia del Nord. “Nella Sepoltura il tema del grande dolore è espresso con una inaudita profondità di sentimenti”13. Anche le icone di Solovki, il grande monastero sul mar Bianco, si differenziano dalle icone spesso piatte e dipinte con colori spenti, che caratterizzano in maggioranza l’arte del nord. Sembra che non ci sia stata una scuola propria di Solovki, anche se qui si produssero icone eccellenti, come per esempio la Madre di Dio di Bogoljubovo [t. 30] del 154514. Non solo i

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16. San Giorgio e il drago, Galleria Tret’jakov, Mosca. A fronte: 17. San Giovanni Battista, tavoletta di Novgorod, Museo Russo, San Pietroburgo.

santi Zosima e Savvatij si ergono dietro alle figure dell’epoca di Andrej Bogoljubskij, ma il margine dell’icona è illustrato con scene della vita di questi due santi. Il luogo dell’azione è spostato da Bogoljubovo presso Vladimir su un’isola, appunto quella di Solovki. Nell’insieme l’icona nella sua finezza e nella delicata stesura del colore ricorda piuttosto un’icona di Mosca che una del nord. Un esempio dello stesso stile è anche l’icona della Madre di Dio di Vladimir, proveniente dal monastero di Solovki, della fine del xvi secolo, con il suo incarnato cupo, tipico non di una determinata scuola pittorica, ma della fine del secolo xvi15. L’icona dei Santi Zosima e Savvatij della fine del xvii secolo, parte della collezione di icone di Richard Mayer a Bamberga [t. 28], con la sua coloritura scura e terrosa e le proporzioni ridotte delle figure dei santi, testimonia quale fosse l’aspetto delle icone del nord dedicate ai due santi. Un’icona datata al 1711, di forme barocche, con la flotta di Pietro il Grande nel mar Bianco e una tendenza didattica resa palese dai numerosi testi [t. 29], testimonia le ripercussioni del gusto occidentale di Pietro sulle icone destinate al monastero di Solovki. La tendenza a un affinamento della pittura, che prosegue dopo Dionisij a Mosca e più tardi anche in altre località della Russia, è evidente nell’icona della Protezione e dell’Intercessione della Madre di Dio [Pokrov Bo’iej Materi, t. 31]. Caratteristici di questa tendenza sono la rappresentazione, già abbastanza realistica, di una chiesa russa a cinque cupole e il numero molto più alto di santi che intercedono sulle nuvole realistiche, con la loro squisita eleganza e le loro figure molto allungate. Alla fine del xvii secolo nelle icone compaiono anche stanze interne, rappresentate piuttosto realisticamente in prospettiva cen­trale, e in esse figure dipinte in modo del tutto tradizionale, trascurando la prospettiva – in un certo senso due contesti culturali nello stesso dipinto16. Nella cosiddetta scuola degli Stroganov la tendenza al raffinamento raggiunge il suo primo culmine. Sottili filamenti d’oro, che sostituiscono le lumeggiature bianche [t. 44], dimostrano ricchezza ed eleganza. Un manierismo del movimento, come il boia che danza nell’icona della Decapitazione di Giovanni il Precursore [t. 32], mostra che l’eleganza diventa più importante del simbolo reale delle icone precedenti o dell’espressività, che spesso le icone raggiungevano proprio grazie alla loro essenzialità. Nelle icone della scuola degli Stroganov si rafforza una tendenza, osservabile già in precedenza [t. 30] e continuata nell’iconografia di Jaroslavl’, a un decorativismo sempre più marcato soprattutto delle iscrizioni dei titoli [tt. 28, 32, 33, 44]. Scopo di queste iscrizioni non è più di leggere

un testo che definisce l’icona, bensì la raffinatezza e l’ostentazione del lusso. Le icone degli Stroganov mostrano anche una tendenza al privato, in quanto la maggioranza di questi dipinti si immagina più facilmente collocata in un soggiorno privato piuttosto che in una grande cattedrale. Questo corrisponde a una tendenza riscontrabile anche nella costruzione delle chiese, che nel xvii secolo conduce a edificare piccole chiese private riccamente arredate per mercanti benestanti (a Mosca per esempio la chiesa della Santa Trinità a Nikitniki, costruita nel 1634). Questa tendenza al privato riguarda però anche il contenuto. In molte icone degli Stroganov sono rappresentati i patroni celesti della famiglia, oppure membri della famiglia appaiono sullo sfondo dell’icona, per esempio rappresentano i fedeli laici nel dipinto del Grande Ingresso nel Centro Stroganov di Sol’vy/egodsk17. Il paesaggio ha un ruolo più importante, con alberelli sottili come miniature e più realistici rispetto alle icone precedenti [t. 44].

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A fronte: 18. San Teodoro Stratilate, da Pskov, chiesa parrocchiale di Kalbensteinberg, Franconia. 19. Madre di Dio Gruzinskaja, Museo delle Icone, Recklinghausen, lascito permanente della collezione privata Gleser.

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20. Discesa agli inferi (Risurrezione), Museo Russo, San Pietroburgo.

A fronte: 21. Dionisij, Sant’Alessio e scene della vita, Galleria Tret’jakov, Mosca.

però sono i suoi affreschi [tt. 50, 52], fra gli altri a Pereslavl’Zalesskij, Rostov, Jaroslavl’ e Kostroma, in particolare quelli ben conservati nella cattedrale di Sant’Elia a Jaroslavl’, e quelli magistralmente restaurati a Kostroma. La ricerca sovietica ha messo in evidenza soprattutto l’aspetto innovativo delle scene di genere, in cui essa riconosceva un’attenzione particolare al popolo lavoratore. Più degni di nota sono i tentativi di Nikitin di recuperare, con l’aiuto di modelli occidentali, la prospettiva centrale evitata nell’arte bizantina e antico-russa. La rappresentazione della guarigione di Naaman il Siro mostra ancora nello sfondo le tradizionali quinte degradanti di montagne; la presenza di cavalli e carri denota tuttavia un tentativo di prospettiva, sia pure non del tutto riuscito. Gurij Nikitin rivela però tutta la sua abilità nei dipinti nella zona dell’altare: il Grande Ingresso nella chiesa di Sant’Elia a Jaroslavl’ [t. 50] e la rappresentazione dell’inno “In te si rallegra” nella calotta absidale della chiesa della Trinità, nel monastero Ipat’ev di Kostroma [t. 52]. Accanto a molti tratti iconografici finora inconsueti, dei quali si dovrà ancora parlare, è evidente la tendenza ad aumentare il numero di personaggi nelle scene, già caratteristica nella pittura degli Stroganov, nonché la propensione all’idillio, che ricorda anch’essa la scuola degli Stroganov [t. 52; cfr. t. 44], e al tempo stesso a una accentuata drammaticità e comunque a un maggior dinamismo. Nei dipinti nella chiesa della Santa Trinità nel quartiere moscovita di Nikitniki si segnalano già immediati prestiti iconografici da motivi della cosiddetta Bibbia di Piscator18. Di regola ne deriva una trasformazione nel linguaggio formale che dai risultati appare tipicamente orientale, nonostante lo sfondo occidentale. Rispetto alla scuola di Kostroma e Jaroslavl’, la cui attività penetra molto nel nord della Russia, la pittura nelle botteghe degli zar a Mosca ha avuto rapporti più stretti con i modelli occidentali. Ciò è evidente nelle icone di Fëdor Zubov (morto nel 1689; t. 35). Le sue prime opere, con la preferenza per la pittura miniaturistica, l’uso dell’oro invece di lumeggiature bianche e la rappresentazione di vesti preziose, si differenziano appena da quelle della scuola di Jaroslavl’; nelle sue icone più tarde invece le figure guadagnano quanto a profondità delle ombre e tenerezza di espressione. Un Cristo come quello raffigurato nella tavola 35 con la sua dolcezza lieve, quasi molle, prima di lui sarebbe stato impensabile nell’iconografia russa. Un ultimo passo audace, anche se non troppo, verso la ricezione di modelli occidentali, fu compiuto dal pittore moscovita Simon Uyakov (1626-1686; tt. 36, 37). Nella bibliografia che lo riguarda viene lodato con entusiasmo in parte eccessivo19. Infatti egli seguì un

La tendenza alla raffinatezza miniaturistica cresce dopo la fine della Smuta (periodo dei Torbidi), sia a Mosca sia nella pittura della Russia del nord, soprattutto nella scuola di Jaroslavl’ e di Kostroma. Le grandi icone, di formato in parte superiore alla media, dei maestri Gurij Nikitin (intorno al 1630-1691) e Semën Spiridonov [tt. 33-34] lasciano cadere ogni monumentalità e nelle icone di Cristo e dei santi raggiungono il culmine della loro maestria non nelle figure centrali dei santi, ma nei quadri di vita miniaturistici che circondano l’immagine centrale e denunciano spesso un influsso occidentale già forte, per esempio nella forma degli edifici e delle navi. Alla mano di Gurij Nikitin si devono icone eccellenti. Ancora più degni di nota

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22. Bottega di Dionisij, Madre di Dio Odigitria, Galleria Tret’jakov, Mosca.

A fronte: 23. Dionisij, Crocifissione, Galleria Tret’jakov, Mosca.

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24. Bottega di Dionisij, In Te si rallegra, Galleria Tret’jakov, Mosca.

A fronte: 25. In Te si rallegra, affresco del monastero di Ferapont.

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A fronte: 26. Scuola di Dionisij, Madre di Dio Odigitria, Galleria Tret’jakov, Mosca.

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27. Mandylion, dalla Russia settentrionale, collezione privata, Bamberga.

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28. I santi Zosima e Savvatij, dalla Russia settentrionale, collezione Richard Mayer, Bamberga. 29. I santi Zosima e Savvatij, Museo delle Arti Figurative, Archangel’sk. A fronte: 30. La Madre di Dio di Bogoljubovo con i santi Zosima e Savvatij, con scene della vita, Museo del Cremlino, Mosca.

struttura del mantello è data da sottili linee dorate, che ricordano un assist, anche se non ne riprendono affatto il simbolismo. Hanno un valore puramente decorativo e – come in particolare in alcune icone della scuola di Jaroslavl’ – sostituiscono semplicemente le schiariture altrimenti ottenute mescolando il bianco. Allo stile del tardo xvii secolo corrisponde anche il drappeggio, così descritto per quest’epoca da Pavel Florenskij: “Le pieghe si fanno più arrotondate, si curvano sempre più, cadono in disordine e tendono sempre più chiaramente al ‘naturale’, ovvero – come aggiunge criticamente Florenskij – a restituire visibilità al sensibile, invece che fungere da simbolo del sovrasensibile”20. Questa icona ricalca le forme dei ritratti barocchi del sovrano anche perché Cristo, invece del vangelo, porta nella sinistra quale simbolo di potenza regale la sfera del mondo, con l’equatore e i meridiani in forma di croce. Nelle icone dell’iconostasi nella chiesa della Presentazione della Madre di Dio al Tempio, a Sol’vy/egodsk, dell’ultimo

percorso che non ebbe alcun futuro nell’iconografia. Tutto lo sviluppo della pittura d’icone, nel periodo da noi considerato ma anche in precedenza, mostra che evoluzione e cambiamento erano già presenti: l’allineamento fedele ai modelli classici, come prescriveva il sinodo dei Cento Capitoli, si era rivelato ormai un ideale piuttosto che una realtà. Uyakov tuttavia, con i suoi dipinti indubbiamente validi, ha passato il Rubicone fra la ripresa vivente della tradizione e la rottura con essa, e non ha dato alcun impulso al futuro dell’iconografia che attraversava una fase critica. Ciò vale anche per molti eccellenti pittori, non altrettanto famosi, alla svolta fra xvii e xviii secolo, per esempio il pittore dell’icona di Cristo nella corona regale [t. 39]. Come in un ritratto regale barocco, il Pantocratore è raffigurato a mezzo busto su uno sfondo molto chiaro, incorniciato da una ghirlanda con piccole bacche rosso scuro che ricorda incisioni occidentali. Il colore della tunica è mutato dall’abituale porpora al rosa. La

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31. Pokrov, Museo Russo, San Pietroburgo.

decennio del xvii secolo, l’influsso della pittura occidentale è già dominante [t. 11] e l’icona si è completamente svincolata dalla tradizione della pittura russa antica. Questa diviene la regola per la pittura d’icone nella chiesa di stato russa, dominante nel xviii e xix secolo, si produssero tuttavia ancora opere di qualità eccellente. A titolo di esempio, ricordiamo l’iconostasi della chiesa della Trinità a Gleden presso Velikij Ustjug, prodotta un secolo dopo l’iconostasi di Sol’vy/egodsk di cui abbiamo parlato [t. 38]. Rimane tuttavia ben poco che giustifichi la designazione di questi dipinti, pur pregevoli, come icone in senso tradizionale. Da quando Pietro il Grande separò la pittura profana da quella ecclesiastica, la pittura d’icone fu condannata al provincialismo. Ciò non escludeva in linea di principio che si raggiungesse un livello artistico elevato, ma certo privava l’iconografia di nuovi impulsi e nuove idee. Mentre la pittura ecclesiastica si sviluppava verso un’imitazione sentimentale di modelli occidentali, nei villaggi di iconografi di Palech, Mstëra e Choluj prendeva forma un’arte elevata, di crescente finezza, che superava veramente di molto quella che in Occidente viene chiamata arte popolare, pur mostrando tratti di essa nella sua accentuata artigianalità. L’arte di Jaroslavl’ del xvii secolo, con la sua tendenza alla pittura elegante e raffinata, esercitò un influsso particolarmente accentuato su queste scuole [tt. 42, 58]. Le migliori icone dei villaggi di iconografi, soprattutto quelle di Palech, ricordano il giudizio che il diacono antiocheno Paolo di Aleppo pronunciò nel xvii secolo sull’iconografia delle scuole di Jaroslavl’ e di Mosca: “Peccato che uomini con mani simili siano mortali!”21. Poiché i lavori di Palech godevano della fama migliore tra le creazioni dei villaggi russi, oggi si tende ancora troppo spesso a offrire icone del xix secolo, dipinte come miniature, come se fossero di Palech. Possono essere associate alla scuola di Palech tutt’al più le icone che prediligono i colori freddi [t. 42]22. Tuttavia anche al di fuori dei villaggi di iconografi furono create icone tradizionali di buona qualità. Ciò vale per esempio per i Due profeti della collezione Richard Mayer di Bamberga [t. 41] del xviii secolo. Il colore che ricorda il lampone della veste del profeta Nahum e, in Zaccaria, la tendenza barocca a sfondare il limite della cornice con i lembi delle vesti e con le mani denunciano l’influsso occidentale anche su icone dipinte in maniera così tradizionale. Per il resto è evidente che anche le calligrafie di pittori che lavorano gli uni accanto agli altri si differenziano fra loro. Lo stesso formato, qui insolitamente piccolo per figure della serie dei profeti, rivela, nonostante le differenze, la comune origine.

32. Scuola degli Stroganov, La decapitazione di san Giovanni Battista, Museo delle Icone, Recklinghausen.

Nelle pagine seguenti: 33-34. Semën Spiridionov, Il profeta Elia e scene della vita e particolare con il sogno del Profeta, Museo d’Arte, Jaroslavl’.

Anche l’icona dei due Santi Alessio e Giovanni Battista dell’inizio del xix secolo [t. 40], originaria dell’ambiente dei Vecchi credenti, mostra che anche al di fuori dei villaggi di iconografi si producevano valide icone in miniatura con una tanto più insolita espressività dei volti (ciò vale soprattutto per il Precursore).

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35. Fëdor Zubov, Cristo, particolare di un’icona del monastero Novodevi/ij, Mosca.

A fronte: 37. Simon Uyakov, Trinità dell’Antico Testamento, Museo Russo, San Pietroburgo.

36. Simon Uyakov, Mandylion, Galleria Tret’jakov, Mosca.

La crocifissione di Dionisij in realtà, se paragonata alle raffigurazioni occidentali della crocifissione e a icone e affreschi del xvii secolo, segue ancora le regole canoniche. Tuttavia rispetto a dipinti precedenti, nei quali spesso appaiono solo il Crocifisso, la Madre di Dio e il Discepolo Amato, la crocifissione di Dionisij [t. 23] è piuttosto ricca di personaggi, con altre tre donne e il centurione Longino. La sinagoga portata via da un angelo e la chiesa condotta verso la croce da un altro angelo si trovano certo già anche nel celebre dipinto della crocifissione nella chiesa della Madre di Dio di Studenica, ma non rientrano nella tradizione iconografica russa sulla crocifissione. La rappresentazione del Giudizio universale era molto ricca di personaggi già nei più antichi esempi bizantini conosciuti, come il Giudizio nel vestibolo di Aghios Stefanos a Kastoria e una tavola in avorio del Victoria and Albert Museum di Londra. Nel xvii secolo nella rappresentazione del Giudizio universale [t. 9] si rende esplicita la tendenza a una struttura più complessa e all’inserimento di elementi didattici, come le didascalie ricche di parole e elementi narrativi con allusioni

Lo sviluppo dell’iconografia Alla fine del xv secolo si intensificò in Russia la tendenza, già presente nella pittura monumentale serba, a una maggior complessità della struttura figurativa e a un maggior numero di personaggi nelle tavole dipinte. In questo periodo, fino alla fine del xvii secolo, sorgono molti tipi figurativi prima sconosciuti. Fra quelli che qui non trattiamo per motivi di spazio citiamo a titolo di esempio i seguenti: la cosiddetta Trinità neotestamentaria; Cristo-Angelo del beato silenzio; “l’occhio onnivedente del Signore”23; rappresentazioni dell’Apocalisse; “lodate il Signore del cielo”, “i frutti della passione di Cristo”; ricostruzione della chiesa della resurrezione; le icone della Madre di Dio Monte non tagliato da mano d’uomo; porta del cielo; sorgente di vita; “come dobbiamo chiamarti?”; “è veramente giusto”; la visione del profeta Ezechiele al torrente Chebar; la visione di sant’Eulogio e la visione di Tarasij e altri. Inoltre anche i tipi figurativi tradizionali vengono arricchiti, rielaborati e modificati.

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38. Aleksej Kolmogorov, San Nicola, dall’iconostasi del monastero della Trinità Gledenskij presso Velikij Ustjug.

A fronte: 39. Cristo nella corona regale, collezione privata, Bamberga.

risurrezione, che mostra il Cristo mentre esce dalla tomba (un passaggio che del resto non è descritto in nessuno dei vangeli), esercitava grande fascino sugli iconografi russi. L’icona “classica” di Volotovo Pole [t. 15] si limitava ancora a rappresentare la discesa agli Inferi secondo la tradizione orientale, mentre dal xvii secolo i pittori cercarono in diverse maniere di accostare a quella orientale classica la rappresentazione occidentale, teologicamente non del tutto affermata [t. 43]. Uno dei più eccellenti pittori della scuola degli Stroganov, il maestro Michail, creò una variante del tema in cui la resurrezione dalla tomba di stile occidentale, con la schiera dei soldati dormienti, completava la discesa agli Inferi nell’angolo dell’icona in basso a destra di chi guarda, finché non si impose un’altra maniera di combinare tipologie orientali e occidentali24. La Deesis è un motivo molto diffuso nella pittura bizantina, essenziale per la comprensione della Divina Liturgia25. Sotto l’influsso del monastero di Solovki nacque una variante di questo tipo iconografico particolarmente amata nel xix secolo, nella quale i santi che pregano Cristo non stanno più, come all’origine, in una serie a destra e a sinistra del Cristo in trono (nel xvi secolo per lo più, sotto l’influsso moscovita, secondo il tipo “Spas v silach”)26, bensì circondano Cristo. In questo modo, in corrispondenza alla tradizione della Deesis, la Madre di Dio e Giovanni Battista stanno a destra e a sinistra di Cristo, mentre gli angeli Michele e Gabriele, gli apostoli Pietro e Paolo e gli altri santi lo circondano tutt’intorno in un cerchio. Ai piedi di Cristo si vedono i santi Zosima e Savvatij del monastero di Solovki, a volte affiancati da sante, che adorano Cristo con una grande metania. Il soffitto del diakonikon della cattedrale dell’Annunciazione a Sol’vy/egodsk è decorato con una pittura risalente al 1600 circa, al tempo dello zar Boris Godunov, che rappresenta “le passioni degli apostoli”. In alto troneggia il ‘Dio Sebaoth’ che benedice con entrambe le mani come un vescovo ortodosso, in una verde aureola di nubi che non corrisponde così più alla consueta iconografia antico-russa, nella quale – ancora in modo del tutto tradizionale – sono inseriti cherubini monocromi con sei ali. A destra e a sinistra lo incornicia la comunione degli apostoli, divisa in due scene separate, della quale è difficile dire se fa parte della composizione complessiva. Nel registro inferiore del dipinto si vede Cristo in croce con la Madre di Dio e Giovanni il Precursore ai lati, a destra e a sinistra. Ancora sotto, Cristo Signore universale tende le mani benedicenti sulle scene, allacciate da nastri bianco-bruni, che rappresentano il martirio degli apostoli. Insieme con il Crocifisso, anch’esso

alla contemporaneità. La Russia era già pronta a intrattenere rapporti commerciali con i Paesi occidentali, ma dal punto di vista culturale e spirituale gli occidentali le rimanevano così lontani da venir rappresentati con le loro vesti straniere fra i dannati. Già in precedenza i quattro regni della visione del profeta Daniele erano comparsi nelle icone del Giudizio, ma la loro presenza si adatta molto bene alla tendenza delle icone del xvii secolo a uno stile narrativo largamente affermato. La Gerusalemme celeste in alto a sinistra nel dipinto e il conferimento al Figlio di Dio del compito di giudicare corrispondono alla preferenza della tarda pittura russa per le rappresentazioni miniaturistiche. Anche altre scene tradizionali vengono ampliate in senso narrativo già dalla fine del xv, e soprattutto nel xvii secolo, spesso anche “arricchite” con elementi dottrinali e figurativi dell’occidente. Evidentemente l’immagine occidentale della

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40. San Giovanni Battista, particolare dell’icona dei santi Alessio e Giovanni Battista di pagina 112, collezione privata, Bamberga.

A fronte: 41. I profeti Zaccaria e Naum, collezione privata, Bamberga.

stabilire se questo ampliamento corrisponde alla Comunione degli apostoli nel dipinto di Sol’vy/egodsk e se quindi il dipinto ha fin dall’inizio un riferimento eucaristico28. L’iconografia russa ha ripreso dalla Serbia il tema della Sapienza divina [tt. 44, 45], di cui però ha presto prodotto varianti autonome29. La più antica immagine della Sapienza in trono, spesso indicata come “Sapienza di Novgorod”, è datata da Lev Lifyic alla seconda metà del xiv secolo, forse troppo presto. Lev Lifyic con buoni motivi vuol vedere nel primo esempio una variante dell’icona della Trinità e nel Cristo posto al centro la Sapienza divina (1 Cor 1,24), ma in riferimento agli esempi più tardi ciò non è così sicuro. Un testo in un manoscritto del xvii secolo30 spiega il volto rosso della Sofia31 come segno di pudore verginale. Sofia viene così interpretata al femminile, ma ciò non è affatto originario, né propriamente adeguato al suo abbigliamento tipicamente angelico. Si deve d’altronde tenere conto di variazioni dell’interpretazione, come prova un altro manoscritto di poco posteriore, dell’epoca della reggenza di Sofija, la sorellastra di Pietro il Grande, secondo il quale la Sofia sarebbe il modello della omonima reggente32. Sull’icona degli Stroganov [t. 44] il tema della Sapienza è collegato al salmo 44 (lxx), di cui si leggono come titolo i vv. 2-3 e sul margine del dipinto i vv. 6 e 15. Il v. 10, “la regina sta alla tua destra”, non funge da titolo, sebbene la Madre di Dio incoronata e alata e il Precursore incoronato e alato33 si trovino su un’icona di Deesis chiamata Sta la regina alla tua destra34. Come nella Deesis di Solovki, Michele e Gabriele stanno dietro la Sofia. Al centro del margine superiore del dipinto appare, affiancato da un cherubino e un serafino, l’“Antico dei giorni”, per incarico del quale a sinistra un angelo vuota una ciotola sopra la Sofia, mentre dall’altra parte un altro angelo innalza una torre verso Dio. In alto a destra e a sinistra appaiono Davide e Salomone come angeli interpretes, sono cioè i Salmi di Davide (Sal 44)35 e i Proverbi di Salomone (Pr 9,1ss.), sui quali si fonda l’icona Sta la regina alla tua destra, qui combinata con l’icona della Sapienza. Al di sotto del giovane Salomone stanno i nonni di Cristo Gioachino e Anna, sotto Davide le vergini e le compagne di giochi (Sal 44,15). A terra giacciono i guerrieri, colpiti dalle frecce del re (Sal 44,6). Più che nel “semplice” tipo cosiddetto di Novgorod che le sta alla base, in questa icona, ampliata con le allusioni a un salmo che già la tradizione bizantina riferiva alla Madre di Dio, la Sofia-Sapienza corrisponde alle interpretazioni mariologiche o meglio “theotokologiche”, come quelle sostenute innanzitutto da Pavel Florenskij. Si accentua anche la variabilità nell’in-

allacciato dal nastro, è qui raffigurato una specie di fiore, con al centro il capo del Cristo benedicente. Il motivo è stato raramente copiato. Un’icona sullo stesso tema, probabilmente del xviii secolo, si trova nella chiesa della Risurrezione nella boscaglia (xram Voskresenq na debre) a Kostroma. L’icona probabilmente più antica di questo tipo figurativo è (o era) esposta nella chiesa della Porta dei Dodici apostoli nel Cremlino di Mosca. Infine mi è nota una variante del primo terzo del xix secolo27, nella quale però manca il Signore Sebaoth. In questa variante invece della crocifissione è raffigurata la resurrezione, perciò il titolo dell’icona è Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. Eccezionalmente il nimbo della croce di Cristo è incoronato da tre stelle sovrapposte, con molte punte. Nel piano inferiore del dipinto si aggiunge un altare con calice, diskos e suppellettili liturgiche. Solo un confronto con altri esempi dello stesso tipo figurativo permetterebbe di

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A fronte: 42. Scuola di Palech, Annunciazione al pozzo, Museo delle Icone, Recklinghausen.

la figura a sinistra nell’aureola, malgrado sia femminile, come allegoria del “Cristo crocifisso” – “Potenza di Dio e Sapienza di Dio” (1 Cor 1,24). Al tempo stesso, nell’aureola sospesa al centro del dipinto sulla destra si trova la Madre di Dio, venerata anche nel primo troparion del canone del Giovedì Santo e poi nella nona ode. La raffigurazione in alto della chiesa a sette cupole, dei sette concili ecumenici e dei sette angeli con i rotoli contenenti i testi della Sapienza di Salomone, mostra il carattere composito di questa icona, il cui primo modello si trova nella chiesa di Volotovo Pole presso Novgorod e che fu ripresa in alcune piccole icone a rilievo del xvii secolo. Accanto a queste tipologie di icone della “Sapienza di Dio” ne sono state create anche altre, in particolare la cosiddetta Sapienza di Jaroslavl’39, con una variante di Kiev più decisamente riferita alla Madre di Dio.

terpretazione, non così evidente nelle prime icone dell’epoca classica precedenti al xv secolo. Inoltre sembra che le icone appartenenti a questo nuovo genere più complesso non fossero più ben comprese, o in ogni caso fossero interpretate diversamente da come erano in origine gli stessi tipi iconografici. Lo indica la presenza, già in epoca relativamente antica, di differenti letture. L’icona della scuola degli Stroganov del resto non è rimasta un caso isolato. “La costruzione dell’immagine è identica, salvo differenze minime, a uno schizzo della prima collezione Filimonov”36. Questi schizzi servivano fondamentalmente da modelli, certo più volte copiati. Un altro modello più raro di Sapienza trova la sua più bella e celebre espressione in un’icona prodotta nel 1548, proveniente dal monastero Kirillov di Novgorod [t. 45]37. Il dipinto pone in risalto il riferimento liturgico delle icone, già chiaramente evidente nella fase tarda dell’arte bizantina38. L’uso del termine “liturgico” nella tradizione orientale rinvia innanzitutto alla Divina Liturgia, la celebrazione eucaristica. Comunque anche nel senso occidentale del termine, che comprende ogni celebrazione regolata da disposizioni ecclesiastiche, le icone tarde sono sempre più “liturgiche”, in quanto si riferiscono sempre più a testi innici cultuali. Entrambi i sensi si adattano all’icona del monastero Kirillov di Novgorod. Essa si riferisce all’eucaristia, ma lo fa attraverso la mediazione fra un testo veterotestamentario e uno innico. Il testo veterotestamentario è Pr 9,1ss. “La Sapienza si è costruita la casa…”. Al centro del dipinto Salomone si affaccia da una torre tenendo in mano un rotolo che contiene l’incipit del testo. Nell’angolo a destra Cosma di Maiuma, rivestito di un turbante, ha in mano un rotolo su cui si può leggere l’incipit del primo troparion del canone del Giovedì Santo: “La Sapienza infinita, fondamento e creatrice della vita, si è costruita la casa dalla santa vergine Madre”. Il riferimento all’eucaristia e insieme all’icona si chiarisce specialmente, anche se non solo, nel troparion seguente: “Consacrando i suoi amici nei misteri, la Sapienza veritiera di Dio prepara la tavola che nutre le anime. Essa prepara il calice misto d’ambrosia”. In corrispondenza nell’icona, dal margine del dipinto a destra di chi guarda, sette giovani si slanciano verso altri sette giovani a sinistra che distribuiscono con animata gestualità i calici da bere, preparati da un ottavo giovane. Le allusioni al testo veterotestamentario sono ancora più evidenti. Vi si trova la macellazione del bestiame (v. 2) nell’angolo in basso a sinistra, la tavola imbandita e la preparazione del vino che il canone riferisce all’eucaristia. L’iscrizione “Potenza di Dio e Sapienza di Dio” induce a interpretare con tutta evidenza

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Il modello figurativo “Cristo – Occhio che veglia” [t. 46]40 nacque fuori dalla Russia già prima della caduta di Costantinopoli e si trova dalla fine del xiii secolo nella pittura monumentale in Serbia e sul Monte Athos. In Russia invece lo si trova dall’inizio del xvi secolo, spesso quale pittura parietale, come in Grecia e nei Balcani, più spesso ancora quale dipinto su tavola, come non avviene mai in Grecia né nei Balcani. È notevole che dipinti di questo tipo abbiano diverse denominazioni in Grecia e nei Balcani, senza differire sostanzialmente l’uno dall’altro dal punto di vista iconografico. In Grecia e nei Balcani l’icona si chiama Ð `Anapšswn (colui che si è sdraiato, Gn 49,9) e talvolta reca come titolo l’intero versetto: “Si è sdraiato, si è accovacciato come un leone e come una leonessa; chi oserà farlo alzare?”, mentre le icone e gli affreschi russi della stessa tipologia figurativa sono stati intitolati “Occhio che veglia”, cui talvolta si aggiunge l’iscrizione: “Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele” (Sal 120,4 lxx). I due passi scritturistici non vengono abbinati in nessuna delle icone conosciute dell’ “Occhio che veglia”. Una combinazione dei due passi si trova invece nel Capitolo del leone del Physiologus, così che questo, come ha dimostrato Eva HausteinBartsch, può ben essere considerato la base comune delle diverse iscrizioni e quindi anche delle diverse interpretazioni. Nella maggior parte delle raffigurazioni di questo modello figurativo appare un angelo con gli strumenti della passione, tuttavia l’immagine, soprattutto nella sua variante russa, si caratterizza per un carattere idillico del tutto inusuale nelle icone. Gli alberelli su fondo bianco nell’iconografia di stampo bizantino simboleggiano la sfera del paradiso. Sul dipinto del Museo delle Icone di Recklinghausen gli alberi sono per di più

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A fronte: 43. Maestro Michail, Discesa al limbo o Risurrezione, Museo Russo, San Pietroburgo.

sulle traverse della croce con l’armatura di un cavaliere solo a fatica può essere inteso come una raffigurazione del passo “che hai annientato la morte con la morte” o “che fosti crocifisso, Cristo Dio”. Il mietitore pallido che cavalca davanti ai morti nello strato più basso dell’icona, il motivo “Non piangere su di me, madre” appena al di sotto del centro del dipinto; i due angeli a destra e sinistra davanti a una chiesa oppure alla quinta di un edificio; gli angeli che reggono il sole e la luna – tutto ciò non ha nulla a che fare con l’inno “Figlio Unigenito”. Di fatto il dipinto originario potrebbe riferirsi anche a uno stichiron del Sabato santo43, come ha proposto Ol’ga Podobedova44, sebbene anche qui non poche questioni rimangano aperte. Potrebbe anche darsi che l’icona non intenda illustrare niente di più che le parole “Figlio Unigenito”. Inoltre si devono fare i conti con prestiti dall’icona del Giudizio, che anche altrove si è rivelata un’inesauribile riserva di particolari iconografici. Icone più tarde del tipo “Figlio Unigenito”, specialmente con i loro titoli, confermano invece chiaramente il riferimento all’inno attribuito a Giustiniano. Si tratta tuttavia di correlazioni diverse, che operano arbitrariamente e spesso riguardano solo parti dell’icona, come mostra una discrepanza fra inno e dipinto, che solleva più problemi di quanti ne risolva. Un’icona Figlio Unigenito prodotta poco dopo il 1668 nel Palazzo delle Armi di Mosca [t. 48] tuttavia non solo denuncia stilisticamente l’impronta fortemente occidentale della scuola iconografica del Palazzo delle Armi di Mosca, ma rivela nell’impianto iconografico chiare tracce delle decisioni del Sinodo del 1666/67, di solito stranamente poco osservate. Le intitolazioni confermano che l’icona Figlio Unigenito del Palazzo delle Armi di Mosca intende effettivamente raffigurare l’inno cantato nella Divina Liturgia. È strano però che solo una parte delle scene raffigurate nel dipinto si riferisce a passi dell’inno, non per esempio l’Anastasi in basso a sinistra di chi guarda, dove l’influenza occidentale emerge dall’assenza dell’importante scena della salvezza di Adamo. Per il modo di sentire dei russi di quest’epoca l’Anastasi orientale non era più sufficiente a esprimere adeguatamente il mistero della Pasqua. La “completa” la resurrezione dal sepolcro dipinta di fronte, in cui le sentinelle sono in parte ancora addormentate, in parte violentemente spaventate [cfr. la t. 43]. Il passo dell’inno: “… per la nostra salvezza diventare carne dalla santa Madre di Dio e sempre vergine Maria…”, come su alcune altre icone dello stesso tipo iconografico, corrisponde all’annunciazione della nascita di Cristo, cui è correlata a destra la raffigurazione della natività in una forma marcatamente occidentale – senza la scena del bagno e senza Giuseppe dubbioso. A differenza degli

stracarichi di fiori e frutti. Come in un paesaggio paradisiaco, uccelli posano fra i rami o volano nell’aria. Il Cristo-Emanuele che sta al centro inferiore del dipinto, guarda pensieroso verso il basso e talvolta addirittura dorme, non ha alcuna notizia degli strumenti della passione. E la Madre di Dio allarga le sue mani protettrici su di lui. Avviene così che il “Pastore di Israele”, il protettore, in questo dipinto è diventato egli stesso il protetto. Abbiamo visto che al Sinodo di Mosca del 1553/54 fu discusso il caso del d’jak Ivan Michajlovi/ Viskovatyj che aveva protestato contro i nuovi modelli iconografici. Svolse qui un ruolo importante un’icona quadripartita dei pittori di Pskov, che si trova ancor oggi nella cattedrale dell’Annunciazione (Blagove]enskij sobor) del Cremlino di Mosca41. Tre dei campi figurativi si riferiscono senza dubbio a inni poetici. Il campo in alto a destra rispetto a chi guarda è stato molto spesso copiato e tutte le copie recano l’iscrizione “Figlio Unigenito” [t. 47]42. Con queste parole inizia anche uno degli inni più importanti, attribuito all’imperatore Giustiniano i (527-565) e inserito nella Divina Liturgia durante il suo regno. Il d’jak Viskovatij si era scagliato contro le rappresentazioni simboliche già respinte dal can. 82 del concilio Trullano, che aveva anche vietato di rappresentare il Cristo incarnato come un agnello. Inoltre scandalizzava il d’jak anche la raffigurazione del primo articolo della confessione di fede nicenocostantinopolitana, poiché Dio Padre, il creatore, è invisibile e perciò non rappresentabile. Il d’jak protestò anche contro la rappresentazione di Cristo come un angelo ovvero come un serafino crocifisso, come “Antico dei giorni” o come cavaliere, come avviene nel campo in alto a destra dell’icona quadripartita [t. 47], e probabilmente anche contro le rappresentazioni di angeli. Nell’insieme egli si presenta come l’esponente di una concezione critica della tradizione, per la quale non è sufficiente che una soluzione iconografica sia in uso da alcune generazioni per considerarla parte della santa tradizione. L’inno a cui di regola viene collegato il modello di icona suona: “Figlio Unigenito e Verbo di Dio, che sei immortale, e a cui è piaciuto, a motivo della nostra salvezza, diventare carne dalla santa Madre di Dio e sempre vergine Maria, che sei diventato uomo, senza cambiarti, e che fosti crocifisso, Cristo, Dio, che hai annientato la morte con la morte, che sei uno della santa Trinità, glorificato insieme con il Padre e lo Spirito santo, salvaci”. La figura Figlio Unigenito nel corso del tempo è stata sempre più adattata a questo inno. Anche in questi casi l’icona non è mai diventata sovrapponibile all’inno. Il Cristo che cavalca

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44. Scuola degli Stroganov, Sofia, la Sapienza divina, Museo delle Icone, Recklinghausen.

A fronte: 45. La Sapienza ha costruito la sua casa, icona proveniente da Novgorod, Galleria Tret’jakov, Mosca.

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46. Cristo Occhio che veglia, Museo delle Icone, Recklinghausen.

A fronte: 47. Il Figlio Unigenito, dall’icona quadripartita della cattedrale dell’Annunciazione di Mosca.

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48. Il Figlio Unigenito, dal Palazzo delle armi di Mosca, Galleria Tret’jakov, Mosca.

A fronte: 49. San Giovanni il Precursore, angelo del deserto, Museo Andrej Rublëv, Mosca.

fine dell’impero bizantino una crescente indicazione liturgica e eucaristica45, rafforzata sempre più in Russia dalla fine del xv secolo. Il campo figurativo del “Figlio Unigenito” dell’icona quadripartita di Mosca non fa ancora risaltare questa impronta eucaristico-liturgica. Tuttavia in pitture più tarde dello stesso tipo iconografico diventano più evidenti gli accenni all’eucaristia, per esempio nell’icona Figlio unigenito della prima metà del xvii secolo nel Museo delle Icone di Recklinghausen46. Questa crescente impronta eucaristica si evidenzia anche nell’icona di Giovanni il Precursore. Antiche icone del Battista lo mostrano con un piatto in cui è deposta la sua testa mozzata [t. 17]. La scritta sul rotolo della Scrittura nella sua mano recita: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino” (Mt 3,1). Al carattere penitenziale della predicazione del Precursore accenna anche la scure alla base dell’albero, nell’angolo dell’icona a sinistra di chi guarda, che rinvia alle parole: “Già la scure è posta alla radice degli alberi” (Mt 3,10) riferite alla vicinanza del Giudizio collegato con la venuta del Regno di Dio. L’icona dell’epoca di Ivan iv il Terribile [t. 49] si distingue dalle precedenti icone classiche del Battista non solo per i suoi colori cupi, ma anche dal punto di vista iconografico. Così, in riferimento al testo della lxx di Mal 3,1 (“Ecco, io manderò il mio angelo a preparare la via davanti a me”), gli sono cresciute delle ali. Albero e scure, anche se fortemente ridotti, sono ancora ben visibili sullo sfondo a destra. Tuttavia il testo molto lungo sul rotolo della Scrittura del Battista [cfr. anche la t. 40] accenna già al riferimento eucaristico, che segnerà ancor più chiaramente successive icone del Precursore: “Io ho visto e ho reso testimonianza… ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo…” (Gv 1,34 e 29). Su molte icone del Precursore apparse dopo la metà del xvii secolo il piatto con la sua testa è trasformato in un diskos eucaristico, che conferisce un significato inequivocabilmente eucaristico all’accenno a Cristo Agnello di Dio47. Sul diskos ora non è più deposta la testa del Precursore, bensì Cristo sotto forma di un fanciullo48, un motivo teologico-letterario che si trova già in una sezione degli Apophthegmata Patrum riconducibile al v o vi secolo, e che dal xvii secolo è entrato nella pittura russa delle icone e degli affreschi49. Inoltre l’icona proveniente dalla cattedrale della Dormizione (Uspenskij sobor) di Jaroslavl’50, distrutta in epoca sovietica, è improntata al crescente interesse biografico e alla sempre maggiore tendenza narrativa del tardo xvii secolo. Originariamente icone con scene delle vite dei santi, come gli affreschi nelle chiese, erano suddivise in diversi registri, separati da strisce colorate; alla fine del xvii secolo si fa strada invece la

esempi più recenti, la Crocifissione che rappresenta il passo “che fosti crocifisso, Cristo Dio” occupa la posizione centrale che le compete nell’inno “Figlio Unigenito”. È però anche evidente che, nonostante le numerose differenze iconografiche, l’icona dipende dagli esempi più antichi, che tutti si riconducono all’icona quadripartita della cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca, come mostrano il sole e la luna nel margine superiore del dipinto e la morte pallida al centro in basso. La sepoltura, che non trova alcuna corrispondenza nell’inno, si riferisce probabilmente al motivo iconografico “Non piangere su di me, Madre” nell’icona quadripartita e nelle sue copie [t. 47]. Risulta ancor più evidente che l’icona evita di rappresentare la Trinità, che sulle altre icone dello stesso modello iconografico corrispondeva bene al passo dell’inno “… che sei uno della santa Trinità”. Evidentemente agiva qui il divieto, da parte del Sinodo tenuto poco prima della produzione dell’icona, di raffigurare Dio Padre come un vecchio. È inutile anche cercare nell’icona il motivo del Cristo che siede armato come un cavaliere sulle traverse della croce, così irritante per un realismo storico-incarnatorio. Anche qui si suppone l’influenza indiretta del grande Sinodo di Mosca. Se l’icona “Figlio Unigenito” è chiaramente riferita alla Divina Liturgia, anche altre icone e affreschi mostrano già alla

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50. Gurij Nikitin, Inno dei cherubini, affresco nella cattedrale di Sant’Elia a Jaroslavl’.

51. La leggenda di Anfilochio, affresco nella chiesa di S. Giovanni il Precursore a Tol/kovo, Jaroslavl’.

eucaristica preminente della chiesa ortodossa russa divenne nel xvii secolo la rappresentazione del Grande Ingresso nella Divina Liturgia. Dalla scuola degli Stroganov di Sol’vy/egodsk proviene una raffigurazione del Grande Ingresso che porta come titolo scritto in miniatura il testo dell’inno dei cherubini51. È rappresentato Cristo davanti (ovvero in) a una chiesa a cinque cupole dietro (ovvero davanti) all’altare, circondato, a sinistra di chi guarda, da un serafino e tre angeli rivestiti di abiti diaconali, nonché dai santi Giovanni Crisostomo, papa Gregorio Magno, Basilio il Grande e un altro santo prelato, a destra ancora da un serafino e da angeli diaconi, ma con accanto dei vescovi con il klobuk, il copricapo bianco che li qualifica come appartenenti alla gerarchia russa. A destra e a sinistra, dietro agli alti prelati, gli angeli tengono per mano Cristo fanciullo e accennano così tra l’altro al compimento della proskomidia. Nel registro inferiore angeli vestiti da preti

tendenza a riunire in un solo campo figurativo eventi di tempi diversi. L’icona di Jaroslavl’ riunisce così in un unico dipinto diverse scene della vita del Precursore: alla base, a sinistra di chi guarda, l’annuncio della sua nascita e la nascita stessa, a destra la predicazione penitenziale del Battista davanti a Erode, la sua decapitazione e la figlia di Erodiade, Salomè, che danza con la sua testa nella bacinella. Si vedono a sinistra scene dell’infanzia del Battista, a destra la sua attività di battezzatore; stranamente manca il battesimo di Cristo, di solito invece un tema importante nella pittura russa delle icone e degli affreschi, rappresentato anche nell’icona, probabilmente di Palech e posteriore al 1800, ampiamente elaborata con l’aggiunta di altre scene della vita di Gesù. Accanto alla Comunione degli apostoli, solo raramente assente anche nei più tardi programmi iconografici russi, ma che andò via via perdendo di importanza, l’immagine

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secondo la quale tutte le opere della santa Trinità sono indivisibili e tutte le ipostasi della Trinità vi prendono parte ciascuna nel proprio modo. Al tempo stesso la presenza della Trinità e la partecipazione degli angeli alla liturgia rinvia alla fede ortodossa della chiesa antica secondo cui il culto della chiesa sulla terra è partecipazione al culto celeste, perché nel culto i confini fra cielo e terra vengono superati. Molto più spesso che negli affreschi e nelle icone, correlati all’inno dei cherubini, compaiono icone che si riferiscono all’altro inno, cantato solo una volta l’anno al Grande Ingresso del Sabato santo. Fra i numerosi esempi53 accenniamo solo al capolavoro di Gurij Nikitin nella zona dell’altare della cattedrale di Sant’Elia a Jaroslavl’ del 1680/81 [t. 50]. La Divina Liturgia è qui chiaramente intesa come l’irruzione dell’aldilà nell’al di qua, il superamento dei limiti di spazio e tempo nel culto, come viene spiegato nell’inno: “Taccia ogni carne umana e stia con timore e tremore e

e diaconi compiono l’introito, in cui il Cristo, in abiti vescovili come è d’uso nella liturgia pontificale ortodossa, riceve le offerte. Mentre nel registro superiore appare la Trinità secondo il tipo della “paternità”, in quello inferiore a destra sono rappresentati membri della famiglia Stroganov in preghiera. L’icona subì una volta dei danni nel suo margine inferiore. Nel restauro che si rese necessario furono rappresentate in posizione eretta figure in precedenza inginocchiate. Questo spiega le loro proporzioni raccorciate. Per comprendere l’icona è importante, quasi quanto l’inno dei cherubini, un passo della preghiera silenziosa che il prete rivolge a Cristo come il vero e proprio celebrante della Divina Liturgia: “Poiché tu sei l’offerente e l’offerta e il ricevente e il somministrato, Cristo nostro Dio”. Nell’icona di Sol’vy/egodsk il Cristo viene rappresentato due volte come vescovo celebrante in base alla concezione espressa in questa preghiera52. La Trinità nella zona superiore del dipinto esprime la dottrina ortodossa

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52. Gurij Nikitin e Sila Savvin, In Te si rallegra, affresco della cattedrale della Trinità del monastero Ipat’ev, Kostroma.

53. Sinassi della Madre di Dio, dalla chiesa della Natività della Madre di Dio di Luda (Archangel’sk), Museo delle Arti Figurative, Archangel’sk.

o la cosiddetta Trinità neotestamentaria, da cui si comprende che le decisioni del 1666/67 non avevano avuto conseguenze. Ciò non stupisce particolarmente per icone dell’ambiente dei Vecchi credenti.

allontani da sé ogni pensiero terreno. Poiché il Re dei re e il Signore dei signori54 avanza, per essere macellato e darsi come cibo ai credenti. Davanti a lui procedono i cori angelici con tutti i principati e le potestà, i cherubini dai molti occhi e i serafini dalle sei ali55, che coprono il loro volto e cantano l’inno: Alleluia, alleluia, alleluia”.

Dall’epoca precedente la caduta di Costantinopoli proviene anche la cosiddetta Sinassi della Madre di Dio [t. 53], correlata a uno stichiron della vigilia di Natale in cui si dice che tutte le creature, anche la natura inanimata, portano le loro offerte a Cristo: “La terra una grotta, il deserto una mangiatoia, e noi la Madre-Vergine”. È degno di nota che la figura della Sinassi è stata poco attuale all’epoca in cui si svilupparono notevolmente altri tipi iconografici, così che non ci sono molte varianti dopo l’epoca di Dionisij.

La tendenza narrativo-didattica dell’iconografia del xvii secolo, nuovamente ripresa nel xix, produsse anche in alcuni casi la rappresentazione di crude storie di miracoli eucaristici, a volte con una tendenza antiebraica. Questi motivi vennero rappresentati con particolare abbondanza nelle chiese di Jaroslavl’ e, sempre qui, in parte con eccellente gusto artistico, nella chiesa di Giovanni il Precursore a Tol/kovo, dipinta prevalentemente nel 1694-1695 [t. 51]. L’illustrazione mostra una scena dalla cosiddetta leggenda di Amphilochios, secondo la quale costui, re dei Saraceni, fu convertito a Gerusalemme dalla visione della “macellazione” del Cristo fanciullo eucaristico, nonché una delle storie di profanazione allora circolanti, secondo la quale una particola della comunione fu sotterrata con intenzione sacrilega. Informato di ciò, “un prete purificò questa fossa. Ed ecco, vi si trovò un bel fanciullo, che in una luce indescrivibile si alzò al cielo dalla mano del prete”56. Già prima della caduta di Costantinopoli erano presenti in Russia numerose e diverse tipologie di icone della Madre di Dio. Il loro numero cresce ancor oggi. Con la diffusa tendenza a icone complesse aumentò anche il numero di icone della Madre di Dio poste in relazione con un inno. Già all’epoca bizantina erano conosciute figure relative al Theotokion del tono ottavo “In te si rallegra, piena di grazia, ogni creatura”57, cantato nella liturgia di Basilio al posto dell’usuale “È degno”. A differenza dalla maggioranza delle altre icone inniche, sono diffuse anche fuori dalla Russia icone su questo inno, che tuttavia si allontanano notevolmente da quelle russe, quando non dipendono da modelli russi come nella Moldavia romena58. In Russia non si incontrano troppo di frequente icone di questo tipo. Tuttavia la tendenza a una narrazione più estesa, a un’eloquenza didattica e all’inserimento di molte figure non solo costituì un orientamento chiaramente visibile nelle icone e nelle pitture parietali di questa tipologia [cfr. tt. 24, 25, 52], ma contribuì a trasformare l’immagine tradizionale della Madre di Dio negli affreschi absidali sostituendola nelle pitture più tarde con il tipo iconografico “In te si rallegra”, in particolare nelle chiese di Jaroslavl’ [t. 52]. Il testo dell’inno recita:

“In te si rallegra, piena di grazia, ogni creatura, la schiera degli angeli e il genere umano, tempio santificato e paradiso spirituale, gloria delle vergini. Poiché da te prese carne Dio. Poiché il nostro Dio, che è da prima dei tempi, è diventato un fanciullo. Poiché egli ha fatto del tuo grembo un trono e ha reso il tuo corpo più vasto che il cielo. In te si rallegra, piena di grazia, ogni creatura. Gloria a te”. Il riferimento di questo stichiron all’icona è particolarmente stretto. Quasi tutti gli elementi nominati nell’inno si trovano nel dipinto: “la schiera degli angeli” che circonda la Madre di Dio; “il genere umano” nei cori dei santi, fra i quali non manca mai il coro delle vergini ricordato nell’inno (nell’icona della bottega di Dionisij a destra al di sopra degli altri cori); il paradiso con i suoi piccoli alberi, come d’abitudine su sfondo bianco; il tempio sotto forma di una chiesa russa a cinque cupole; il trono su cui siede la Madre di Dio, per far troneggiare Cristo sul suo grembo. Spesso è rappresentato anche il cielo, che secondo 1 Re 8,27 non può contenere Dio perché il corpo della genitrice

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Molto probabilmente rinvia a modelli bizantini anche il motivo Lode della Madre di Dio con Akathistos [t. 54] che, come tutte le icone inniche, ebbe maggior diffusione in Russia nel xvi secolo. In una predica per la festa della Dormizione della Madre di Dio Giovanni Damasceno aveva raccolto le interpretazioni, già saldamente ancorate nella tradizione del suo tempo, degli oggetti e dei dati veterotestamentari sulla Madre di Dio59. La Madre di Dio troneggia al centro dell’icona e al di sopra di lei sta il Cristo-Emanuele. Essa è circondata a destra e a sinistra da dieci profeti aureolati; sotto di lei, per lo più senza il nimbo che ha però nell’icona del monastero di Kirillov sul mar Bianco, in uno strano movimento di danza si trova Balaam, colui che contro la propria volontà aveva pronunciato parole di benedizione su Israele (Nm 22-24). I profeti portano rotoli scritturistici con i loro vaticini e oggetti che simboleggiano in diverse maniere la Madre di Dio. A sinistra di chi guarda, Abacuc porta una montagna (Ab 3,3), a destra di fronte a lui Ezechiele la porta chiusa (Ez 44,2), più sotto a sinistra Geremia le tavole della nuova legge (Ger 31,32s.), a destra Giacobbe la scala (Gn 28,12), a sinistra in basso Aronne il bastone fiorito (Nm 17,20), a destra di fronte a lui Gedeone il vello (Gdc 6,36s.). Sotto, Mosè porta il roveto che non si consuma (Es 3,2), a destra di fronte Daniele il monte da cui non per mano d’uomo precipitò un sasso che rase al suolo il colosso dai piedi d’argilla (Dn 2,34), sotto a sinistra Davide l’arca dell’alleanza (Sal 131,8 lxx). Di fronte a lui sta Isaia con le molle che tengono i carboni ardenti (Is 6,6). Il dipinto centrale è circondato da 24 piccoli riquadri che introducono in Russia la tradizione della illustrazione dell’Akathistos, già presente in Grecia. I modelli iconografici rinve-

di Dio, che racchiudeva Cristo-Dio, è più vasto del cielo. Infine trova posto nel dipinto anche Giovanni Damasceno, cui viene attribuito l’Ottoeco (Ñkto»oj b…bloj) con lo stichiron*. Le varianti più tardive rimangono fondamentalmente simili nella struttura, si differenziano però per il maggior numero dei santi nei cori, che rappresentano il genere umano. L’ampliamento che più colpisce e più costante è che il Precursore Giovanni, sempre dotato di ali e spesso con il Cristo fanciullo sul diskos, diventa la figura principale nel registro inferiore del dipinto. Al margine superiore appare l’Antico dei giorni

* Nel rito bizantino ortodosso a ognuno degli otto toni ecclesiatici è associato un ciclo di testi per tutti i giorni festivi e feriali, che inizia nella seconda domenica dopo Pentecoste e dura fino alla quinta domenica del grande digiuno quaresimale. In esso ogni giorno feriale ha un nuovo tema, variato per ogni tono, mentre le domeniche sono dedicate alla Risurrezione. I testi degli otto toni ecclesiastici sono raccolti nell’Oktoichos, il libro degli otto toni.

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54. Lode della Madre di Dio, icona di origine moscovita, Museo Russo, San Pietroburgo.

A fronte: 55. Villaggio dei pittori, Madre di Dio, gioia degli afflitti, collezione privata, Bamberga.

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A fronte: 56. Madre di Dio, Roveto ardente, Museo Distrettuale Kolomenskoe, Mosca.

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57. Il Redentore nelle schiere angeliche, Museo di Petrozavodsk.

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A fronte: 58. Scuola di Palech, iconostasi domestica, Museo delle Icone, Recklinghausen.

come per esempio si dice nel Theotokion all’ottava ode del canone del martedì nel settimo tono: “Tu sei rimasta incombusta, quando hai ricevuto nel grembo materno il fuoco che non si può reggere, o Vergine”. Il motivo figurativo ebbe diversi modelli iconografici62. Possiamo qui accennare solo brevemente ad alcune particolarità notevoli del tipo iconografico: quasi sempre, soprattutto nei primi esempi, Cristo non è rappresentato solo fanciullo in grembo alla madre, bensì ancora un’altra volta o due; nell’icona del Museo-comprensorio Kolomenskoe una seconda volta come Cristo adulto con in capo una mitra o una corona. In questa icona inoltre egli appare ancora sulla testa di un angelo in alto a sinistra. Gran parte delle scene laterali e dei simboli possono essere ricondotti alle profezie, che erano anche tema dell’icona Lode della Madre di Dio [t. 54], mentre le figure in mano agli angeli che circondano la Madre di Dio non sono state finora mai spiegate in modo soddisfacente. L’iscrizione che si legge in molti esempi di questo tipo iconografico, “Fai dei venti i tuoi angeli e delle fiamme guizzanti i tuoi ministri” (Sal 103,4 lxx), ha fatto sì che l’icona fosse prediletta come protezione dal fuoco e dalle tempeste. Ciò ha influito non solo sulla sua grande diffusione, ma anche sull’iconografia e spiega probabilmente per esempio il mantello di nubi della Madre di Dio, le fiamme di fuoco in mano all’angelo a sinistra in alto e la grandine (?) accanto all’angelo in alto a destra della nostra icona. L’icona naturalmente è importante soprattutto come espressione della mariologia ortodossa63. Essa mostra la Madre di Dio in una stella a otto punte, altrove riservata a Cristo “Redentore nelle schiere angeliche” [t. 57], poiché ella ha portato Dio dentro di sé e lo custodisce sul suo grembo. L’immagine dei petali di rose che circondano la Madre di Dio è probabilmente di origine occidentale, dato che in oriente la rosa non è conosciuta come simbolo mariano. Non si può però neanche dimenticare che dopo la caduta di Costantinopoli non solo l’iconografia continuò a evolversi, ma furono sempre dipinte anche icone del tutto corrispondenti agli antichi modelli. È interessante che molti di questi antichi modelli sono confluiti in una nuova tipologia sorta nel xix secolo, quella della iconostasi domestica [t. 58]. Si manifesta così la solidità della tradizione e al tempo stesso il suo continuo evolversi.

nuti in Russia hanno avuto ripercussioni anche in Romania e caratterizzano fra l’altro il ciclo dell’Akathistos del monastero di Moldoviwa. Fra i tardi motivi iconografici preferiti c’è l’icona Madre di Dio – gioia di tutti gli afflitti [t. 55]. La prima icona di questo tipo nella chiesa della Trasfigurazione sulla Bol’yaja Ordynka divenne celebre quando nel 1688 le fu attribuito un miracolo. Poiché la chiesa disponeva di una cappella (pridel) dedicata a san Varlaam di Chutyn’, non c’è nessun esempio di questo tipo d’icona in cui questo santo non sia rappresentato. Malgrado i tratti occidentali, che spesso ricordano la venerazione mariana romano-cattolica, come la “Madonna” incoronata, a volte perfino senza Cristo Bambino – totalmente in contrasto con la tradizione ortodossa –, anch’essa è strettamente collegata a un testo innico, lo Stichiron cantato nel secondo tono nei Piccoli Vespri del Sabato: “Gioia di tutti gli afflitti e protezione di coloro che soffrono ingiustamente, nutrimento dei miseri, invito agli stranieri, bastone per i ciechi, visita dei malati, rifugio e accoglienza dei bisognosi, soccorso degli orfani, Madre dell’Altissimo sei tu, tutta pura! Affrettati, ti preghiamo, a salvare i tuoi servi”. In corrispondenza allo stichiron, nella maggioranza delle icone di questo tipo degli angeli a sinistra di chi guarda sostengono per incarico della Madre di Dio una copertura sopra mendicanti ignudi. Dall’altro lato, un altro angelo nutre gli affamati e sorregge gli zoppi, talvolta raffigurati anche mentre camminano con stampelle. Nell’icona che stiamo illustrando, l’evento è spiritualizzato nel senso che al posto dei sofferenti elencati nello stichiron avanzano diversi cori di santi60. Così i bisognosi e gli ignudi, la cui nudità è coperta da un angelo, sono diventati gli “stolti a causa di Cristo”, che secondo la tradizione vengono mostrati nudi. La struttura figurativa chiara, e per questo anche un po’ monotona, dell’icona dipinta con estrema finezza, in cui i cori dei santi costituiscono come due colonne a destra e a sinistra della Madre di Dio, è caratteristica dello stile di alcune icone del xix secolo. Il significato dell’icona è stato trasformato dalle stesse variazioni iconografiche e si è avvicinato a quello dell’icona della Protezione della Madre di Dio. L’icona del Roveto ardente [t. 56]61, una creazione puramente russa, è diventata la preferita fra tutte le tipologie iconografiche “complesse” della Madre di Dio. C’erano già rappresentazioni del roveto a Costantinopoli, per esempio nel monastero di Chora, ma vi era raffigurato un roveto ardente in cui appare la Madre di Dio con il Cristo-Emanuele sul petto. Nelle icone russe invece il roveto è solo una scena marginale. Nel campo centrale siede la stessa Madre di Dio, è lei il roveto,

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LE ICONE RUMENE Tania Velmans

sionalmente, lavorano in Valacchia alcuni pittori greci, come il famoso Costantino il quale prese parte alla decorazione del monastero di Hurezu, che comprendeva diverse chiese. Del resto, egli non fu l’unico artista balcanico a emigrare in Romania, dove gli archivi e le opere hanno conservato la traccia di pittori serbi e bulgari, molti dei quali lavorarono insieme nelle botteghe di Hurezu2. Vale la pena ricordare ora un’icona valacca interessante ma assolutamente non rappresentativa del xvi secolo, proveniente dalla chiesa di Curtea de Argex e conservata al Museo di Belle Arti di Bucarest. È un esempio delle influenze occidentali che penetrano nello spazio sacro dell’icona, al di fuori di quelle introdotte dalla scuola cretese. Rappresenta una Deposizione dalla croce dipinta nello stile tradizionale ma seguendo un’iconografia simile a quella che si vede in alcune opere del gotico tardivo. La parte destra dell’immagine mostra la Vergine che ha tra le braccia il Cristo morto, appena staccato dalla croce, affiancata da san Giovanni, mentre Maria Maddalena è seduta ai piedi del Signore. Fin qui siamo nello schema tradizionale ma le cose cambiano totalmente nella parte sinistra dell’immagine, di dimensione più ridotte, dove si trova la sovrana Despina con in braccio il figlio morto, Teodosio. Si stabilisce così un parallelismo inconsueto tra le due madri dolorose. Una delle icone di tipo narrativo dipinte in Valacchia nel xvii secolo è quella con San Giorgio che uccide il drago del Museo di Belle Arti di Bucarest3, nella quale si uniscono tradizione e immaginazione creatriva. Secondo la leggenda, il santo era morto martire ma, prima, aveva compiuto molti miracoli, fra i quali la vittoria su un mostro che assediava la città di Lasa e che pretendeva, in cambio della sua partenza, che gli fosse consegnata la figlia del re4. Nella nostra icona il santo, su un cavallo bianco, affonda la lancia nelle fauci spalancate del drago. Un po’ in disparte, vediamo la principessa in preghiera e, in secondo piano, un angelo che incorona il santo mentre la famiglia reale sta dietro il muro di cinta. Il re offre le chiavi della città a san Giorgio al suono delle trombe che ne annunciano la miracolosa vittoria. Rispetto alle icone bizantine con lo stesso tema, quella valacca si distingue per la profusione dei particolari narrativi e per un gusto spiccato per l’ornamentazione. La scelta dei colori e la qualità del modellato rivelano un influsso greco. L’icona dell’Ascensione (1680 ca.), proveniente dalla chiesa del monastero di Cotroceni, in Valacchia5, è molto più tradizionale e, probabilmente, è stata realizzata dal pittore greco Costantino. Qui troviamo i volti tondeggianti tipici della pittura greca contemporanea, come pure l’armonia delle tonalità calde e le ombre a volte verdi, a volte violette, che rivelano

Cenni storici Il cristianesimo si diffuse in Romania solo a partire dal ix secolo, ma una vera fioritura dell’arte religiosa non fu possibile prima della fine del xiii secolo o, addirittura, del xiv. Queste datazioni tarde si spiegano con le invasioni turco-mongole (x-xiii secolo), che devastarono il paese, e con la conquista della Transilvania da parte dell’Ungheria (xiii secolo). Inoltre, fu nel xiii secolo che si formarono i principati ortodossi di Moldavia e Valacchia. Per tutto il periodo postbizantino apparvero chiese con decorazioni dipinte, preziosi tessuti ricamati con rappresentazioni figurate, e diverse icone. La lingua liturgica, come quella della letteratura religiosa, è lo slavone. Durante l’avanzata ottomana, questi principati opposero una feroce resistenza agl’invasori, cosa che valse loro la possibilità di restare liberi, anche se soggetti al pagamento di un tributo. Qui, nel xvi e xvii secolo, si sviluppò un’intensa attività culturale a cui la Russia diede un forte contributo e dalla quale trassero vantaggio i paesi balcanici vicini. Ma nel xviii secolo si presentò un grave problema perché i Turchi misero a capo di questi principati dei fanarioti, personaggi nati da grandi famiglie greche i quali, tradizionalmente, occupavano posti importanti nell’amministrazione dell’Impero ottomano. Solo con la guerra russo-turca e la vittoria dei Russi queste zone riacquistarono la libertà.

Le icone In Moldavia, la pittura d’icone inizia nel xv secolo, quando l’Impero bizantino si avvia alla sua fine, ma alcuni pezzi molto belli di pura tradizione costantinopolitana vengono realizzati in questo periodo e nel secolo seguente, come dimostra la ieratica icona della Vergine col Bambino del monastero di Govora1, eseguita in Valacchia e conservata nel Museo d’Arte Romena di Bucarest. Nel xvii secolo si stabiliscono stretti legami tra la Moldavia ed il Monte Athos dopo che Matej Besarab, signore del principato, vi fondò un monastero. Perciò in molte icone moldave si avvertono influssi athoniti mentre altri, cretesi, penetrano in Moldavia e Valacchia sempre tramite la Santa Montagna e introducono nell’arte locale dei particolari derivati dalla pittura veneziana. Per tutto il periodo postbizantino la pittura russa esercita una sorta di fascinazione sugli artisti di questi principati, che vi trovano una formidabile possibilità di arricchimento del repertorio iconografico, rispetto a quello bizantino. Occa-

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1. Pietà e Despina che sorregge il figlio morto, Museo nazionale d’arte, Bucarest.

Nelle due pagine seguenti: 3. Ascensione, icona di provenienza valacca, Museo nazionale d’arte, Bucarest.

A fronte: 2. San Giorgio e il drago, Museo nazionale d’arte, Bucarest.

4. Trasfigurazione, icona di provenienza valacca, Museo nazionale d’arte, Bucarest.

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A fronte: 5. Il profeta Elia e scene della vita, icona di provenienza moldava, Museo nazionale d’arte, Bucarest.

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6. I santi Basilio il Grande, Giovanni Crisostomo e Gregorio il Teologo, dal monastero di Arnota (Valacchia), Museo nazionale d’arte, Bucarest.

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L’ICONA POSTBIZANTINA NELL’ORIENTE CRISTIANO Tania Velmans

grotta creano un piacevole contrasto con l’oro del bordo che fa risplendere così il ricordo delle vite esemplari dei santi eremiti. Il bel volto dai tratti nobili del profeta Elia fa pensare ad un modello bizantino o russo. Fu l’abate del monastero di Arnota (Valacchia) a commissionare un’icona realizzata nel 1713-17148 a gloria dei Padri della Chiesa – vescovi, teologi e liturgisti – nelle persone di Basilio il Grande, Giovanni Crisostomo e Gregorio il Teologo. In un colpo solo, l’abate ricorda così il ruolo della Chiesa nell’economia della salvezza. Al centro vediamo i tre santi vescovi assisi in trono che reggono dei libri con alcuni passi dei loro scritti e benedicono. In questo modo il pittore sottolinea l’attività pastorale dei prelati che, più in alto, compaiono una seconda volta in piedi, contro un cielo bordato di nuvolette schematiche la cui fila, simile ad una collana di perle, è sorretta da due angeli. Si tratta di un’ingenua rappresentazione della ricompensa celeste riservata ai tre grandi dottori. Infine, nel registro inferiore dell’icona, è rappresentata una visione di uno di loro. Se l’intenzione che traspare dallo schema iconografico del dipinto è molto interessante, lo stile, che mostra dei volti stereotipati e senza alcun segno di nobiltà né di elevazione spirituale, cui corrispondono atteggiamenti assolutamente identici dei tre personaggi, appare rigido ed eccessivamente grafico, il che induce a classificare l’opera come provinciale.

un’influenza athonita. Appartiene circa allo stesso periodo ed ha la stessa provenienza l’icona della Trasfigurazione6, forse anch’essa opera di Costantino. Si tratta di un dipinto molto accurato, in cui il paesaggio è arricchito da tocchi luminosi, mentre lo sfondo è dorato. Il Cristo, tra i profeti Mosè ed Elia, appare sulla cima del monte Tabor al centro di un’enorme gloria luminosa. In primo piano, gli apostoli sono stati gettati a terra dalla luce abbagliante che li ha investiti: gli atteggiamenti molto diversi, benché convenzionali, esprimono il loro smarrimento; quello dell’apostolo Giovanni, al centro, è fuori dall’ordinario perché egli fissa lo spettatore, e questa è certo una trovata del pittore. Nelle opere bizantine su tavola, dal xiii secolo in poi compaiono spesso figure di santi circondati da scene della loro vita. Un’icona moldava del xvii secolo, attualmente al Museo di Belle Arti di Bucarest7, adotta la struttura formale di queste opere rinnovandone però il contenuto. Nella cornice, infatti, non troviamo la rappresentazione della vita di un santo, ma diversi eremiti. Si tratta di una glorificazione dell’ascesi che presenta, al centro del campo pittorico, il profeta Elia in preghiera nella grotta mentre, come vuole la leggenda, un corvo gli porta il suo magro pasto. Due angeli in volo vegliano su di lui. All’interno della cornice sono rappresentati sei grandi asceti. I toni piuttosto scuri della

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In Egitto, le icone giunte fino a noi sono per la maggior parte di stile popolare, tranne qualche pezzo di alto livello con le raffigurazioni di Cristo e della Vergine. Quelle dipinte in Etiopia risalgono per la maggior parte alla fine del xv e al xvi secolo, un periodo durante il quale il paese fu occupato dai musulmani solo per poco, dal 1527 al 1543, mentre la mancanza d’icone nei due secoli successivi si spiega facilmente con le invasioni di popoli pagani e con le lotte sanguinose fra signori feudali. In Siria le opere conservate risalgono generalmente al xvi-xvii secolo. Diverso è il caso dell’Armenia dove le icone, che non sembrano aver fatto parte delle pratiche religiose del paese, furono sostituite da uno straordinario fiorire della miniatura, un fatto sorprendente se si pensa alle molteplici funzioni dell’icona che non solo era parte integrante del culto e decorava l’iconostasi, ma era anche considerata dall’ortodossia come la mediazione per eccellenza fra l’uomo e Dio.

Introduzione Solo una trentina d’anni fa si pensava che, per tutto il periodo del dominio turco, l’arte bizantina fosse sopravvissuta solo nelle regioni autonome come la Russia e i principati di Moldavia e Valacchia. Per tutto il resto dell’antico mondo bizantino, compresa la periferia orientale – con la Georgia, l’Armenia, l’Asia Minore, la Siro-Palestina e l’Egitto – occupata in gran parte dagli Arabi, in campo artistico si vedeva solo “il nulla o quasi”1. In seguito si sono fatti grandi progressi grazie alla scoperta di molte chiese dipinte e di icone del tutto ignote fino ad epoca recente. L’esistenza di queste opere ci obbliga ad interrogarci sulle condizioni di vita delle minoranze cristiane d’Oriente e sui mezzi di cui disponeva la creazione artistica. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 e la conquista dei Balcani, i Turchi Ottomani, già padroni di tutto il Medio Oriente, si diressero verso nord-est occupando anche i paesi caucasici che, però, furono costretti a spartire coi Persiani. Come le popolazioni balcaniche, i cristiani d’Oriente approfittarono della disposizione del diritto canonico musulmano che riconosceva loro la qualifica di “detentori della Scrittura”; fu così che le Chiese nazionali furono tutelate ed ebbero un ruolo importante per la conservazione della memoria del passato, della religione e dell’educazione. I patriarcati di Costantinopoli, Gerusalemme, Alessandria e Antiochia sopravvissero e mantennero strette relazioni non solo fra loro, ma anche con la Russia, la Valacchia e la Moldavia, paesi nei quali i monaci si recavano spesso. In queste regioni, le comunità cristiane continuarono dunque a costruire chiese, a decorarle e a dipingere o scolpire icone. I cristiani consideravano queste opere d’arte al servizio della religione come offerte a Dio, ma anche come testimonianze della propria identità nazionale. La produzione d’icone è stata particolarmente abbondante e con opere di altissima qualità in Georgia, l’unico paese dell’Oriente bizantino nel quale abbraccia tutto il periodo tardo, dal xv al xix secolo. Anche in Siria e Libano si trovano delle icone melchite di grande qualità datate dal xvii al xix secolo, come si vede nelle pagine seguenti, ma, secondo quanto affermano le fonti scritte, in questi paesi la produzione d’icone non deve essersi mai interrotta2. Sappiamo per esempio che nel 1587 il patriarca Giovacchino v Daou donò un’icona della Madonna col Bambino a Giorgio Movila, vescovo di Radaut¸i in Moldavia, mentre il suo successore, Giovacchino vi Ziada, nel 1598 commissionò un’icona di sant’Eliano per donarla alla chiesa del santo, Mar Elian, a Homs3.

La Georgia La Georgia fu conquistata nel 1555 e spartita fra l’impero ottomano e la Persia che non smisero mai di contendersene il territorio, ma conservò una Chiesa indipendente. Un progetto di unione delle Chiese proposto da Roma nel xvii secolo abortì dopo un breve successo e la pubblicazione, da parte del Vaticano, del primo vocabolario georgiano (1629). Tuttavia, l’attività missionaria della Chiesa di Roma diede origine ad una piccola comunità cattolica che rimase stabile. Nel 1712 il paese fu liberato dall’occupazione turco-musulmana. Per tutto questo periodo la produzione d’immagini non s’interruppe, ma si tratta quasi esclusivamente di icone di metallo lavorate a sbalzo, come già accadeva, anche se in misura minore, in epoca bizantina (ma questa tradizione risale addirittura ad epoca pre-cristiana). Le icone più comuni sono d’argento lavorato a sbalzo e montate su un’anima di legno; le più prestigiose sono ornate da medaglioni in smalto, motivi a niello ed incrostazioni di pietre preziose. Di stile bizantino, rivelano spesso una leggera influenza islamica che si manifesta quasi solo nei motivi decorativi che coprono le superfici lasciate libere dalle figure, una particolarità, questa, evidente soprattutto nella Georgia orientale. È esattamente quello che si nota nel grande trittico di Alaverdi, realizzato in Kahetia (xvi secolo)4, in argento dorato, decorato con rubini e turchesi e montato su un’anima di legno [t. 1]. Qui il programma iconografico presenta un compendio

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1. Trittico di Alaverdi. Nelle due pagine seguenti: 2. La decollazione del Battista, Museo d’Arte Georgiana, Tbilisi 3. Cristo paziente, Nesperi.

delle scene che, tradizionalmente, decorano la cupola e l’abside delle chiese, spazi entro i quali si concentrano immagini che traducono in linguaggio plastico i dogmi principali della fede. Nella lunetta del pannello centrale troneggia il Cristo Signore del mondo adorato da due angeli mentre negli angoli, al di sopra della lunetta, stanno altre due figure angeliche a mezzo busto, entro medaglioni. Più in basso è rappresentata la Vergine, in piedi, secondo il tipo dell’Odigitria, che regge il Bambino sul braccio sinistro. Simbolo dell’Incarnazione, Maria è qui anche la mediatrice che implora il perdono per i peccati del genere umano; infatti alza la mano destra in direzione del Figlio che, di rimando, la benedice. Sullo sfondo si vede un muro di cinta mentre, in primo piano, un arco sorretto da due colonne incornicia le figure dando loro un aspetto solenne che ricorda come la Madre di Dio (Theotókos) sia anche un simbolo della Chiesa. Tutt’intorno a Maria sono disposte delle pietre preziose. Le figure di Cristo e della Vergine, giu­stap­poste in questo modo, devono essere considerate, fra l’altro, come un’allusione alle due nature, umana e divina, uguali e inscindibili, di Gesù, secondo la definizione del concilio di Calcedonia5. Sui due pannelli laterali vediamo, in alto, l’arcangelo Gabriele e la Vergine, protagonisti dell’Annunciazione – altro richiamo all’Incarnazione – e, nel registro inferiore, i dodici apostoli disposti in quattro file di tre personaggi ciascuna. Le varie incorniciature che sottolineano la forma del trittico e parti delle superfici superiori non occupate da personaggi sono decorate con un motivo floreale pieno di una grazia e di una freschezza derivate dalla tradizione islamica. Nella parte bassa del pannello centrale un’iscrizione in lettere maiuscole (asomtavruli) ci dice che il trittico fu offerto dal maresciallo della corte del re di Kahetia Filippo, alla chiesa di Kvareli, della quale era il donatore. Altre iscrizioni sul retro danno informazioni sui diversi proprietari dell’opera6. È un motivo persiano quello che copre il fondo di un’altra icona del xvi secolo realizzata in Kahetia (Museo d’Arte Georgiana, Tbilisi), nella quale è rappresentata la decollazione del Battista7 [t. 2]. L’icona, d’argento, coperta da una foglia d’oro e con una cornice di turchesi e rubini, è stata conservata a lungo nel monastero rupestre di David Gareja, che sorge in una zona desertica molto isolata. Solo i volti dei personaggi erano dipinti. Il boia, che tiene san Giovanni quasi in ginocchio, brandisce la sciabola preparandosi a tagliare la testa del Precursore, incoronata di pietre preziose; più in basso, dove la copertura di metallo è scomparsa, sulla base di legno si vede un medaglione al centro del quale è la testa tagliata. Questo medaglione ha

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A fronte: 4. Yusuf al-Musawwir, Discesa al limbo, collezione Abou Adal.

ma questa origine non è mai evidente perché l’immagine è una perfetta sintesi di tutti i vari temi. Si rappresenta generalmente il Cristo a mezza figura, morto o morente, con gli occhi chiusi o semichiusi e appoggiato alla croce, solo o con la Vergine addolorata. L’immagine a mezza figura era particolarmente adatta al soggetto perché non è realistica e, di conseguenza, neppure storica. Nelle versioni bizantine il sepolcro, che appartiene all’iconografia occidentale, compare di rado. Esso è tuttavia presente nella nostra icona sulla quale vediamo il Cristo in piedi, che esce dal sepolcro fino all’altezza delle anche, con le mani incrociate sul petto e gli occhi semichiusi (quest’ultimo particolare è raro, anche se lo vediamo in un affresco del xv secolo a Kaleni0, in Jugoslavia)13. L’aureola è bordata di pietre preziose. Lo stile è un po’ semplificato e schematico, ma si tratta di una stilizzazione estremamente coerente ed unitaria. Purtroppo la doratura del metallo è rovinata. Lo sfondo presenta delle volute di racemi decorativi; la cornice è cosituita da palmette di gusto persiano.

una cornice che lo isola dal resto del racconto, trasformandolo in un’icona dentro l’icona. Il boia ha un berretto a punta alla moda persiana, un sistema per indicare un nemico della fede cristiana. La volumetria dei corpi, le loro proporzioni, come pure la morbidezza dei movimenti dei personaggi, indicano un’ispirazione classica, trasmessa senza dubbio da un modello bizantino dell’epoca dei Paleologhi (xiii-xv secolo). Il discorso cambia completamente per l’icona della vergine di Kharagauli (xvi secolo)8, caratterizzata da una stilizzazione tipicamente orientale e georgiana, ma di una grande bellezza pervasa da una sorta di austero lirismo. Non si tratta di un’Odigitria come afferma il catalogo di una mostra di Vienna9: infatti, la Vergine in trono regge il Bambino col braccio destro e sposta le gambe leggermente verso sinistra10. Ai lati, all’altezza delle sue spalle, stanno due piccoli angeli in volo rappresentati a mezzo busto. Ai suoi piedi, i donatori, Garesevan Mikhetsidze e sua moglie, Antonina Abachidze, vestiti secondo la moda del tempo, pregano in ginocchio a sinistra e a destra della Theotókos. Per essere più sicuri che la loro preghiera sia ascoltata, hanno fatto incidere i loro nomi nella zona inferiore dell’icona. Lo sfondo presenta un motivo a palmette tipico del repertorio ornamentale persiano e la tecnica usata è nuova perché la decorazione è incisa sulla placca dorata, una tecnica particolare che esalta la qualità estetica dell’opera. L’argento dorato, infatti, fa sì che i riflessi stessi assumano la funzione di barbagli di luce. Si ha quindi l’impressione che i personaggi siano illuminati dall’interno e quasi trasparenti, come se la materia di cui sono formati fosse già investita dalla gloria della seconda Parusia. Non troviamo la stessa maestria e neppure la stessa ispirazione nell’icona di Nesperi (xvi secolo, t. 3) che, però, presenta un soggetto relativamente raro, il Cristo Paziente e non “che esce dal sepolcro”, secondo la definizione del catalogo di una mostra di Ginevra11. Si tratta di un tema molto particolare: la vittoria sulla morte di Gesù crocifisso divenuto, così, principe della vita, secondo le parole del tropario del sabato santo12. Del resto l’espressione “con la sua morte ha vinto la morte” ritorna spesso nella liturgia ed il sacerdote la ripete anche davanti ai doni. Il Cristo Paziente bizantino, che passò in seguito in Occidente (la Pietà) con un significato diverso, rappresenta il mistero della morte che genera la Vita eterna. La traduzione pittorica di un concetto tanto complesso doveva evitare di inserire il Salvatore in un contesto storico, per quanto evangelico, e trasporre la rappresentazione su un piano simbolico. Così l’immagine s’ispira alla Crocifissione, alla Deposizione dalla croce, all’Epitaphios (Cristo morto sull’altare) e al Compianto,

Un’icona proveniente da Alaverdi è un chiaro esempio delle manipolazioni a cui venivano sottoposte alcune di queste immagini nel corso dei secoli. Essa è composta di un pannello centrale con una Vergine Odigitria in piedi, l’aspetto severo e ieratico, che dovrebbe risalire al x secolo, inserita in una placca del xviii lavorata a sbalzo con la rappresentazione dell’Albero di Jesse. Le scene e le figure isolate che stanno ai lati sono, invece, del xvii secolo14. Attorno a Maria si dispiega l’Albero di Jesse, un tema raro in questo genere di opere – ma che compare già in un’icona georgiana dipinta databile al xiv secolo15 – e che raffigura la genealogia di Cristo attingendo alle profezie messianiche dei profeti, soprattutto di Isaia (11,1-10 e 7,14), del quale si leggono alcuni brani durante i Vespri Solenni di Natale. A proposito degli antenati di Cristo, il profeta evoca un albero: “Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici” (Is 11,1). Il versetto è spesso commentato nelle omelie, fra l’altro in quelle di Giovanni Crisostomo, Andrea di Creta, Giuseppe l’innografo16 e Giovanni Damasceno17, ma è citato anche nelle letture degli uffici delle feste mariane e, più volte, in quello della Natività di Maria18. La festa degli antenati di Cristo si celebra due domeniche prima di Natale e Matteo cita i loro nomi all’inizio del suo Vangelo (Mt 1,1-17). I teologi si sono posti il problema delle origini umane di Cristo soprattutto dopo l’iconoclastia: i difensori delle immagini, infatti, avevano dato risalto all’Incarnazione per giustificare la rappresentazione di Cristo ricordandone le origini organicamente e storicamente legate all’umanità attraverso la madre, malgrado la sua natura

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A fronte: 5. Yusuf al-Musawwir, La Vergine Odigitria e figure di santi, collezione Abou Adal.

divina. Fu così che il richiamo all’Albero di Jesse venne introdotto nella liturgia e, in un secondo tempo, nel programma iconografico delle chiese.

La Siria e il Libano In Siria e Libano, che formavano allora una sola regione, si diede il nome di “melchiti” ai cristiani ortodossi, cioè a coloro che non seguivano la dottrina monofisita21 diffusa in Oriente, ma la dottrina ufficiale della Chiesa bizantina sulle due nature umana e divina di Cristo22. Nel 1724 i melchiti si divisero in due comunità: ortodossi e cattolici. I pittori d’icone, tuttavia, appartenevano ad entrambe le comunità e generalmente firmavano le loro opere in arabo. Anche le iscrizioni sono per la maggior parte in arabo e, a volte, in greco, senza che l’uso dell’una o dell’altra lingua abbia alcun significato rispetto all’origine dell’immagine. D’altro canto, iscrizioni in greco e arabo erano normalmente presenti nella stessa icona. Nel xvii e xviii secolo la Siria conobbe quella che è stata chiamata “rinascenza melchita”, il cui centro fu Aleppo dove Yusuf al-Musawwir al-Halabi, pittore, traduttore e copista, ne fu uno degli esponenti più famosi. Egli fondò una bottega e, al tempo stesso, una dinastia di pittori, che durò per quattro generazioni. Altri pittori ed alcuni scrittori contribuirono alla rinascita: basterà citare, fra i letterati, i metropoliti di Aleppo Melatios Karma (1612-1634) e Malatios Za’im Karma (1635-1647) che in seguito, fra il 1634 e il 1672, furono anche patriarchi di Antiochia23.

Nell’icona di Martvili lo schema dell’Albero si rifà alle composizioni più semplici della rappresentazione di questo tema: Jesse è seduto su un monticello e, dai suoi fianchi, sembra uscire un albero che stende i suoi rami all’interno dei quali si vedono i profeti che hanno predetto la venuta del Messia, predizione che i teologi hanno interpretato come l’annuncio dell’avvento di Cristo. Intorno al pannello centrale si dispongono le dodici feste dell’anno liturgico con la raffigurazione degli episodi più importanti del vangelo, più la Dormizione della Vergine. Si susseguono dunque sull’icona l’Annunciazione, la Natività, la Presentazione di Cristo al tempio, il Battesimo, la Trasfigurazione, la Resurrezione di Lazzaro, l’Ingresso di Gesù in Gerusalemme alla vigilia della Passione, la Crocifissione, la Discesa di Cristo al Limbo che illustra, oltre alla sua vittoria sulla morte, la redenzione, poiché egli trae a sé Adamo ed Eva portandoli fuori dagl’Inferi, l’Ascensione, la Pentecoste e la Dormizione della Vergine. Malgrado il piccolo formato delle scene, lo scultore è riuscito ad inserirvi elementi del paesaggio ed architetture dando loro un carattere narrativo e, a volte, pittoresco molto gradevole, anche se – per lo spirito che le impronta – in contrasto con la rappresentazione simbolica del pannello centrale. La cornice dell’icona comprende i dodici apostoli in piedi, ciascuno inquadrato da un arco (parti laterali) e, nella zona orizzontale superiore, sette medaglioni che formano una Deesis. Questa parola greca significa preghiera; si tratta, infatti, della preghiera d’intercessione che la Vergine e il Precursore rivolgono a Cristo perché perdoni i peccati del genere umano. A volte, come nel caso della nostra icona, a loro si aggiungono degli angeli e dei santi. Nella parte inferiore della cornice corre una lunga iscrizione in georgiano che cita il metropolita di Tchkondidi (Martvili) Eudemon Anakidze, che commissionò l’opera nel 1644. Sul retro del pannello centrale un’altra iscrizione in georgiano ci fa sapere che l’icona è stata “abbellita” nel 1784 dal signore di Odiyi, Ketsia Dadiani e da sua moglie.

L’iconografia delle icone siriane è in genere perfettamente bizantina con qualche particolare, qua e là, proveniente dal mondo latino. Quanto allo stile, vi si notano diverse componenti; esso è infatti essenzialmente bizantino ma non s’ispira all’ultima fase, quella cioè della rinascenza dei Paleologhi (xiiixv secolo), bensì a quella del xii secolo che, grazie all’influsso dell’esicasmo24, fu accolta da molte chiese nella seconda metà del xiv e nel xv secolo. Anche il linguaggio figurativo delle icone melchite risente dell’influenza dell’arte occidentale attraverso le icone cretesi, delle quali si trova ancora in Libano un nucleo abbastanza importante25. Gli elementi derivati dalla tradizione arabo-musulmana sono scarsi e riguardano soprattutto alcuni particolari, come turbanti, l’abbigliamento di qualche personaggio secondario e motivi decorativi. La gamma cromatica, su tonalità particolarmente calde, predilige il rosso cinabro e il giallo che, con lo sfondo d’oro, danno luogo ad immagini luminose che a volte evocano lo splendore dello smalto.

Se la maggioranza delle icone georgiane postbizantine è in metallo, ce ne sono altre dipinte su tavola, come quella dell’Ascensione del monastero di Yiomgvime (xvi-xvii secolo)19 o quella della Presentazione di Cristo al tempio proveniente dall’iconostasi della chiesa di Kackhi (xvii-xviii secolo)20 e vicina all’arte dell’epoca dei Paleologhi.

Uno degli esempi più celebri di questo stile è l’icona con la Discesa al Limbo datata 1645 ed attribuita a Yusuf alMusawwir26 [t. 4]. Qui il Cristo, al centro di una mandorla

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A fronte: 6. Yusuf al-Musawwir, San Simeone il Vecchio e san Simeone il giovane, collezione Abou Adal.

(Mt 3,2) e “Già la scure è posta alla radice degli alberi” (Mt 3,10). Davanti al santo un bacile con la sua testa che Salomè aveva chiesto. Così, con una sola figura e l’iscrizione sul rotolo, si mostrano tutte le funzioni di san Giovanni e la sua importanza: egli è cioè Precursore, Battista, Angelo e, infine, martire. L’ultimo santo di questa fila è Nicola, in abiti vescovili. La serie di santi nella parte inferiore della cornice ci mostra un vescovo non identificato, santa Barbara con la ruota strumento del suo supplizio e santa Caterina, che ha in mano una torre in miniatura, allusione a quella in cui fu imprigionata dal padre. Queste ultime figure, volte una verso l’altra, sono entrambe riccamente vestite ed incoronate ad indicare il rango principesco che occupavano prima di affrontare il martirio per la fede. Si tratta di sante particolarmente venerate in Oriente, come dimostrano numerosissimi affreschi. La data e la firma dell’artista – “Prete Yusuf”, il famoso pittore di Aleppo già indicato come Yusuf al-Musawwir – sono in greco.

azzurra attraversata da raggi dorati, ha appena abbattuto le porte dell’inferno per vincere la morte e il male il cui simbolo è il diavolo, e salvare il genere umano, come narra il vangelo apocrifo di Niccodemo. Sotto i suoi piedi si vedono le porte scardinate e i chiodi divelti, mentre Satana spunta tra le fiamme. Cristo ha preso per mano Adamo ed Eva, ancora per metà immersi nelle tenebre dell’Ade, e li trae a sé ad indicare la loro redenzione. Ai lati del Salvatore stanno alcuni santi e profeti, mentre due angeli con gli strumenti della Passione volano nel cielo dorato. Completa la composizione un paesaggio di rocce. Nel programma iconografico delle chiese bizantine questa scena era rappresentata al posto della Resurrezione; il significato è evidente: col suo sacrificio sulla croce e la sua resurrezione Cristo ha vinto la morte e il male, di cui è simbolo il demonio, salvando così l’umanità. Sul fondo d’oro dell’icona si legge, in greco, Anastasis (resurrezione), mentre la dedica scritta in arabo ci dà il nome del pittore e la data d’esecuzione dell’opera, oltre al nome dell’arcivescovo cattolico Kyr Malatios che ne è, probabilmente, il donatore.

In Oriente, ma anche altrove, si rappresentavano spesso due grandi asceti che trascorsero la vita in Siria, appollaiati su una colonna, ed esercitarono una fortissima attrattiva sui contemporanei: Simeone Stilita il Vecchio (389-459) la cui colonna s’innalzava sulla montagna di Qal‘at Sim‘an nei pressi di Aleppo, e Simeone il Giovane (521-592) che visse su una colonna eretta sul Monte Mirabile nella regione di Antiochia. In un’icona del 1666 attribuita a Yusuf al-Musawwir29, i due santi sono rafigurati insieme sullo sfondo dello stesso paesaggio, in spregio alla cronologia [t. 6]. Nella pittura bizantina, infatti, il tempo non era sentito come una realtà dal momento che i santi vivevano in una dimensione diversa da quella temporale, in quella cioè delle essenze spirituali, ormai partecipi dell’eternità. D’altro canto, il pittore s’ispira probabilmente agli scritti dei suoi contemporanei, perché è in quel periodo che Makarios Za’im trascrisse alcuni passi della vita di Simeone il Vecchio e centonovantotto capitoli della vita di Simeone il Giovane; inoltre, si recò più volte in pellegrinaggio al santuario del Monte Mirabile30. Nell’icona, gli stiliti sono visibili fino alle anche e stanno ciascuno sulla rispettiva colonna, di fronte allo spettatore. I loro filatteri, dispiegati, sono coperti di iscrizioni arabe; si tratta di preghiere che implorano la clemenza divina e chiedono, senza dubbio in parte anche per loro stessi, “pazienza e resistenza”. Simeone il Vecchio lascia penzolare la gamba sinistra dalla colonna, una soluzione comune che lo caratterizza e ricorre in un’altra icona melchita forse del 1637 nella quale vediamo il santo sulla colonna e, più in basso, la veglia funebre dei monaci

L’icona della Vergine Odigitria circondata da santi, datata 1650, è conservata nel Museo Nicolas Sursock a Beirut27 [t. 5]. Maria, rappresentata a mezza figura, è al centro della composizione e regge col braccio sinistro il Bambino, in clamide d’oro e tunica bianca. I due volti sono severi, asciutti e rivelano un forte grafismo tipico del periodo dei Comneni (xii secolo); quello di Gesù ha i tratti di un adulto. La mano destra della Madre, protesa verso il figlio, e quella del Bambino benedicente sono sulla stessa diagonale, come se stessero per toccarsi. Il gesto indica una conversazione: Maria implora il perdono per il genere umano e Gesù accetta la sua intercessione. Vediamo qui la rappresentazione della divina armonia e della grazia. I due personaggi sono al centro di una cornice particolarmente larga, nella quale sono quattro santi cavalieri posti sui lati, in modo da formare una sorta di guardia d’onore della Madre di Dio. Tre di loro trafiggono altrettanti simboli del male: san Giorgio uccide un drago, san Teodoro un serpente e san Demetrio un soldato nemico della fede. Il quarto, san Martino che dà metà del mantello a un povero, deriva dall’iconografia occidentale. Nella parte superiore si trovano, da sinistra a destra, il profeta Geremia, l’arcangelo Michele, Giovanni “il Precursore”, chiamato così nell’iscrizione. Quest’ultimo è rappresentato alato perché era considerato pari agli angeli28; l’iscrizione araba sul filatterio che egli tiene aperto nella destra accosta due versetti di Matteo che precedono il racconto del battesimo: “Convertitevi, perché il Regno dei Cieli è vicino!”

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A fronte: 7. Hanna al-Qudsi, La Domenica dell’Ortodossia, collezione Abou Adal. Pagine seguenti: 8. La Vergine Odigitria, monastero di Notre-Dame de Balamand, Kura, Libano. 9. Deesis, collezione privata, Libano.

al culto delle icone, san Teofane e san Teodoro Studita che sorreggono, insieme, l’immagine del Cristo Pantocratore a indicare come il trionfo dell’icona sia anche quello di Cristo e della Chiesa. Attorno a loro altri santi, detti “confessori” dalle iscrizioni che ne indicano il nome, uno dei quali ha un filatterio con la scritta, in arabo: “Vergine, Madre di Dio e di tutti gli ortodossi”. All’estremità sinistra sant’Anastasia con un’icona del Cristo Emmanuel. La giustapposizione lungo l’asse centrale del campo pittorico della Vergine, simbolo dell’Incarnazione, e del Pantocratore, che rappresenta il Cristo-Dio, è un’altra allusione alle due nature, divina e umana, del Salvatore, definite dal v secolo e spesso messe in evidenza dagl’iconofili per combattere gli argomenti dei loro avversari. L’icona, che risente dell’influsso della pittura cretese, riprende lo schema iconografico di un’opera del xvii secolo, realizzata dal pittore greco di origine cretese Tzan­fournaris36.

attorno alla sua spoglia31. Il suo omologo più giovane regge una corda alla cui estremità è attaccato un paniere nel quale una donna ha messo del cibo, un accenno ad una pratica normale. Ai piedi delle colonne e separate fra loro dalle asperità del terreno, si dispongono delle piccole scene tratte dalle Vite dei due santi nelle quali si ricordano i loro miracoli32. La disposizione delle scene, come l’idea di inserire i santi in un’unica composizione, deriva da un tema che apparve in epoca tarda nell’iconografia bizantina: la Dormizione di sant’Efrem il Siro. Un’icona con lo stesso soggetto e identico schema iconografico a quelli della nostra si trovava nella chiesa dei Santi Costantino ed Elena a Gerusalemme33; è datata alla seconda metà del xv secolo e fu realizzata dal grande pittore cretese Andrea Pavías. Nella versione siriaca il paesaggio di rocce rosso vivo ha una parte notevole; inoltre, dall’alto dei cieli Cristo benedice gli asceti, benedizione scritta in arabo sulle pergamene che Egli ha in mano. Quest’icona è identica a quella che si conserva nel monastero di Nostra Signora di Balamand in Libano, pubblicata anni fa da Jules Leroy34 e dipinta nel 1699 da Ne’meh al-Musawwir, probabilmente figlio di Yusuf. Sembra dunque che l’icona di Pavías o una delle sue varianti fosse nota in Siria e copiata molte volte, visto il tema di particolare interesse per i Siriani.

Le icone siriache di tipo aulico rivelano spesso un’influenza di Creta. Come mostrato nel relativo capitolo di questa seconda parte, nell’isola l’unione fra tradizione bizantina ed elementi provenienti dall’arte occidentale, in particolare tardogotica, aveva prodotto opere originali di una tale bellezza che il loro influsso si diffuse nella maggior parte del mondo ortodosso. In Oriente, tale diffusione è diseguale e riguarda soprattutto le opere provenienti da centri urbani o monastici in contatto con Creta e col Monte Athos. È il caso, per esempio, di un’icona della Vergine col Bambino del tipo dell’Odigitria, detta dall’iscrizione “Guida”, che fu dipinta una prima volta nel 1318, in piena epoca paleologa, poi ridipinta nel xviii e nel xix secolo37 [t. 8]. Si potrebbe pensare che la prima versione abbia influenzato le successive, ma generalmente non è così. In questi restauri, che di fatto sono delle nuove creazioni, si rispetta quasi sempre l’iconografia ma lo stile, che non è evidente in opere deteriorate, corrisponde solo di rado alla concezione di pittori di un’altra epoca. Comunque, l’icona siriaca della Vergine col Bambino è assolutamente fedele ai modelli bizantini, che variano di poco perché gli artisti erano tenuti a riprodurre i prototipi38. Si pensava infatti che le figure dei personaggi sacri riproducessero i loro primi modelli, santificati dalle origini leggendarie; esse erano state donate agli uomini attraverso immagini acheropite (non dipinte da mano umana) e, per quanto riguarda la Vergine, la leggenda ne attribuiva il ritratto a san Luca. Benché nella nostra icona i volti della madre e del bambino siano modellati con gradazioni finissime di ombre e luci, vi si avverte qualcosa di convenzionale. È evidente che il pittore si sente molto più

Un’altra icona siriaca ci obbliga a fare un passo indietro perché rappresenta un evento che fu importante per la Chiesa ortodossa e per l’evoluzione della pittura. Durante la crisi iconoclasta (726-843), le dottrine degl’iconofili influenzarono di fatto il programma iconografico delle chiese e il successivo sviluppo dello stile. La crisi finì con la vittoria dei difensori delle icone a seguito della quale nacque una festa detta la Domenica dell’Ortodossia (843). L’icona del xviii secolo attribuita ad Hanna al-Qudsi è una rappresentazione simbolica di questa festa e reca un’iscrizione greca che la identifica35 [t. 7]. Nella parte superiore la Vergine col Bambino del tipo dell’Odigitria ornata, come spesso accadeva, di un lungo velo che scende fino a terra, è sorretta dagli arcangeli Michele e Gabriele. A destra stanno il patriarca Metodio, ardente difensore delle immagini e autore di testi redatti a questo scopo, un prelato non identificato e due monaci; a sinistra compaiono l’imperatrice Teodora e suo figlio Michele iii, a nome del quale ella mise fine al movimento iconoclasta. I personaggi, rappresentati in maniera tradizionale, sono in contrasto col pavimento le cui lastre sono disegnate secondo la prospettiva lineare del Rinascimento italiano. Al centro del secondo registro sono altri due paladini del ritorno

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10. Cristo gran sacerdote, Museo copto, Cairo.

11. Trittico della crocifissione, Museo copto, Cairo.

l’Apocalisse (1,114), che a Bisanzio è interpretato come Dio Padre visto attraverso i tratti del Figlio. In questo caso, però, la testa rappresentata non è in tutto simile a quella dell’Antico di giorni con barba e capelli bianchi, ed assume piuttosto le caratteristiche della figura di Dio Padre secondo i canoni del Rinascimento italiano. Egli è circondato da angioletti di tipo occidentale e seguito dalla colomba dello Spirito Santo, cosa che fa assumere alla composizione connotazioni trinitarie. Il fondo d’oro presenta un motivo decorativo di origine islamica. Infine, ai piedi degl’intercessori, stanno i donatori in atteggiamento di supplica. Un numero ristretto di immagini su tavola, come quella della Madonna col Bambino che calpesta il serpente, dipinta nel 1736 da Anania di Aleppo40 secondo uno schema iconografico occidentale e in uno stile vicino al Rinascimento italiano, attesta la presenza di una minoranza cattolica piuttosto attiva, sorta in Siria nel xviii secolo in seguito a diverse missioni e all’istituzione di una Chiesa “unionista”.

libero quando dipinge le teste degli angeli che glorificano Maria dall’alto dei cieli. Il trattamento dei loro volti è privo di qualsiasi linearismo, mentre gli occhi sottolineati dall’ombra delle orbite, le labbra carnose e rosse sono in netto contrasto con quelle della Vergine e di suo figlio. Un’altra icona di provenienza siriaca, attualmente in una collezione privata libanese39, presenta una Deesis meno tradizionale [t. 9]. In questa preghiera d’intercessione della Vergine e di san Giovanni per il perdono degli uomini peccatori, vediamo i due intercessori in atteggiamento di supplica ai lati del Cristo il quale è in posizione frontale e indossa un abito vescovile che ne sottolinea la funzione di Grande Sacerdote. Egli ha in una mano un libro aperto con iscrizioni arabe e con l’altra benedice. Il suo trono, che assomiglia ad un sedile barocco, è sorretto da due cherubini mentre altri due volano sopra. Più in alto, nel cielo, compare la testa dell’Antico di giorni secondo Daniele (7,9) e

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A fronte: 12. Abramo lo scriba, Arcangelo Michele, Deir el-Syriani, Wadi Natrun, Egitto.

di edifici al posto delle semplici mura merlate di Gerusalemme. Le aureole decorate con motivi ornamentali e il grafismo marcato e rigido sono tipici degli stili d’ispirazione popolare.

L’Egitto Dal punto di vista stilistico, come da quello iconografico, le immagini dipinte dai copti – i cristiani d’Egitto – sono molto diverse da quelle prodotte in Siria e in Libano, perché qui prevale un’espressione d’ispirazione popolare. Si rappresentano soprattutto santi isolati o la Vergine col Bambino – anche i santi cavalieri suscitano l’interesse dei pittori – mentre le scene evangeliche sono rare e le immagini simboliche non esistono. Il Salvatore è spesso in trono, circondato dai quattro animali dell’Apocalisse, come nell’icona di Cristo Gran Sacerdote del Museo copto del Cairo41 [t. 10], dove il Cristo ha tutte le insegne episcopali: la corona, una tunica azzurra, un manto rosso e l’omoforio che, però, non è rappresentato correttamente. Il Cristo, il trono ed i quattro animali sono all’interno di un’enorme mandorla dorata. Si tratta della traduzione in linguaggio figurato dei versetti con la visione di Ezechiele (1,68 e 10,14-22) ripresi anche dall’Apocalisse di Giovanni (1,14). I teologi cristiani hanno interpretato i quattro animali come i simboli degli evangelisti, ma in Egitto, dove si seguiva la liturgia giacobita42, essi avevano acquistato un’importanza particolare ed erano considerati dei santi ai quali era anche dedicata una festa particolare. Tuttavia, questa variante nell’interpretazione dei simboli non ha importanza per la nostra icona, nella quale il pittore si rifà all’antichissima tradizione di rappresentare nell’abside la Visione di Ezechiele sostituendo all’Eterno dell’Antico Testamento il Cristo del Nuovo. Nelle immagini che vediamo nei conventi di Bawit e Saqqara (vi-viii secolo)43 il Cristo a mezzo busto è al centro di una mandorla di luce che corrisponde a quello che il profeta chiama “un turbine di fuoco”, circondato dai quattro animali. Nel Medioevo, la figura a mezzo busto è sostituita dal Cristo in trono, sempre circondato da altre forze angeliche ricordate da Ezechiele, Isaia e dall’Apocalisse.

Nell’icona dell’Arcangelo Michele dipinta da Abramo lo Scriba nel xviii secolo e attualmente nel monastero dei Siriani nello Wadi al-Natrun44, in Egitto, il santo è in posizione frontale, con le ali spiegate e in abiti guerrieri [t. 12]. Ha in una mano la croce astata e nell’altra la bilancia del Giudizio finale. La figura è visibile fino all’altezza delle ginocchia, una particolarità che la distingue da quella dell’icona quasi identica datata 1467 e, attualmente, nella chiesa di al-Adra ad-Damshirakh al Cairo Vecchio. In entrambi i casi l’arcangelo porta il diadema. Bisogna riconoscere che, se la concezione di queste opere è ingenua e l’esecuzione maldestra (basta osservare, ad esempio, gli occhi), l’insieme è gradevole e rivela un innegabile fervore religioso.

L’Etiopia L’Etiopia era cristiana fin dal iv secolo, ma nel v la Chiesa, che dipendeva dal patriarcato di Alessandria, adottò, come l’Egitto, il monofisismo45. Tuttavia questa dottrina, definita come eretica dai Bizantini, non ebbe alcun effetto sulla pittura; la liturgia etiopica risente invece delle tradizioni africane e giudaico-cristiane. Nel paese, in preda a diverse e quasi continue invasioni, sono due i periodi in cui l’arte ebbe particolare sviluppo: il primo va dal xiii al xv secolo e il secondo, meno fulgido, cominciò nel 1541 quando l’aiuto dei Portoghesi contribuì a liberare il paese dagli assalti musulmani appoggiati dall’impero ottomano, per continuare fino al xviii secolo, quando ci furono delle invasioni di popolazioni pagane particolarmente devastanti. I temi delle icone etiopiche postbizantine sono ancora più limitati di quelli dell’Egitto copto. In queste opere si esaltano la Vergine col Bambino, i dodici apostoli, i santi cavalieri, gli arcangeli Michele e Gabriele e, a volte, alcuni santi isolati. Quanto allo stile, è certo fondamentalmente bizantino, modificato però da forti tradizioni locali oltre che da influssi indiani ed africani. Il più grande pittore etiope di icone è senza dubbio Fre Seyon del monastero di Debre Gwegwebwen, attivo fra il 1434 e il 1468. Le sue opere, o almeno un certo numero di esse, sono raccolte nel monastero della Vergine a Daga Estifanos. I committenti erano la corte e la nobiltà, il cui gusto doveva essere appagato dalla raffinatezza, dall’eleganza e dalla grazia di questi dipinti46. Tutte queste qualità caratterizzano l’icona della Vergine

Il trittico della Crocifissione (1783) del Museo Copto del Cairo è un’opera ingenua ma, nello stesso tempo, attraente [t. 11]. Il pannello centrale è occupato dal Crocifisso con la Vergine e san Giovanni, mentre i due ladroni occupano i due pannelli laterali. L’iconografia è arcaizzante, poiché Cristo ha gli occhi aperti, come prima dell’iconoclastia; dunque è vivo. Anche la Vergine ha un volto impossibile, ma avvicina un fazzoletto agli occhi, un gesto che non compare prima dell’xi-xii secolo. I due ladroni sono crocifissi con le gambe incrociate, un particolare che appartiene all’arte post-bizantina. A quest’epoca si ricolloca anche il paesaggio sullo sfondo, dove sono raffigurati diversi tipi

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13. Fere Syon, Vergine che allatta e tre santi in piedi. I due frammenti fanno parte della stessa icona, Debre Daga Estifanos.

14. San Giorgio e il drago, collezione privata, Parigi.

suo cavallo bianco, conficca la lancia nelle fauci aperte del drago ai suoi piedi ma, stranamente, l’asta passa dietro al cavallo per non attraversare il corpo del santo. Malgrado l’estre­m a povertà di mezzi, l’artista è riuscito a dare al drago una testa veramente spaventosa, con gli occhi fuori dalle orbite, e a san Giorgio la bellezza giovanile che tradizio­n al­m ente lo caratterizza. Un angelo assiste alla scena dall’alto del cielo. Come dimostra questo breve testo, l’icona bizantina che, in genere, si pensa sia presente solo in Russia, nei paesi balcanici e in Romania, non solo è sopravvissuta nell’Oriente cristiano, ma vi si è sviluppata, evolvendosi in modi ogni volta un po’ diversi a seconda delle regioni e dando luogo, in alcuni casi, a delle vere fioriture, come vediamo in Georgia ed in Siria. La differenza rispetto alle icone greche e slave nelle quali continuano a regnare – malgrado le molte differenze regionali messe in luce dagli studiosi – un linguaggio ed una regola comuni, è un’espressione più accentuata del gusto e delle mentalità nazionali anche se, all’epoca, in Oriente non esistono più nazioni indipendenti. Tuttavia diversi pezzi, influenzati dalle opere dei pittori cretesi, sono molto vicini a quanto si produceva nella parte occidentale del mondo ortodosso dopo la caduta di Bisanzio.

che allatta47 [t. 13]. Lo schema di Maria che offre il seno al figlio nasce nel iv secolo nell’Egitto cristiano e si ritrova in Siria nel xii secolo, nella chiesa dei Santi Sergio e Bacco del monastero di Qara48, forse voluta dai crociati. Il soggetto fu rappresentato anche a Bisanzio dove, però, ebbe scarso successo, tanto che non divenne mai comune. Nella nostra icona la Vergine è riccamente vestita di tessuti ricamati e dalla pieghe avvolgenti e ridondanti. Il semplice maforion della tradizione bizantina è ormai ben lontano. Ella regge il bambino con la destra con la quale gli porge al tempo stesso il seno, mentre con la sinistra fa un gesto lezioso da dama di mondo. Quanto a Gesù, ha in mano un uccellino, un particolare derivato dall’arte occidentale. Nel secondo registro dell’icona compaiono tre santi in piedi: il diacono Stefano, Pietro e Paolo. Un dittico opera dello stesso pittore49 ha sulla valva sinistra la Vergine che tende un fiore al figlio, uno stilema che appartiene alla tradizione occidentale della quale il pittore subisce la suggestione, e sulla destra i dodici apostoli, due santi cavalieri e altri due santi. Qui lo stile è più schematico, pur restando straordinariamente espressivo. Infinitamente più ingenua è un’icona di san Giorgio cavaliere (xviii secolo, Parigi, collezione privata, t. 14) 50, realizzata probabilmente in ambiente rurale. Il santo, sul

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LA PITTURA D’ICONE IN UCRAINA OCCIDENTALE E BIELORUSSIA XV-XVI SECOLO Solomiya Tymo regionali e dell’iconografia. Entro la fine del xv secolo esse rivelano pienamente le originalità di stile e d’iconografia tipiche di una scuola artistica matura9, pur restando ampiamente debitrici della tradizione dell’arte religiosa bizantina, sia in termini ideologici che formali.

Introduzione generale La tradizione iconografica nelle terre ucraine e bielorus­se1 che iniziò con la ricezione del cristianesimo da Bisanzio tra la fine del x e l’inizio dell’xi secolo, continua fino a oggi2. Tuttavia, in alcuni casi questa tradizione fu eterogenea e in qualche momento il suo sviluppo storico si interruppe. Nel corso di oltre dieci secoli ha conosciuto fortissimi cambiamenti di tecnica, stile e livello di professionalità, riuscendo sempre a conservare una fondamentale continuità, basata sul suo profondo radicamento nella vita ecclesiale ortodossa, sui suoi legami con l’ambiente culturale bizantino e sulla sua organica connessione con la cultura della regione. Il periodo del xv-xvi secolo, a cui si riferisce questo capitolo, appartiene senza dubbio alle pagine più originali della storia plurisecolare della scuola iconografica locale3. Di quest’epoca si è conservato un numero considerevolmente grande di opere, incomparabilmente maggiore che non per i secoli precedenti e la loro qualità artistica è particolarmente elevata. Quanto al loro luogo d’origine, le icone di cui trattiamo provengono dalle regioni rutene occidentali4 (il loro territorio corrisponde attualmente all’Ucraina occidentale, alla Polonia sudorientale, alla Slovacchia orientale e alla Bielorussia)5. È un quadro geografico che può in qualche misura disorientare ma ha una ragione nella complessa storia della regione e della popolazione locale, i Ruteni, antenati degli ucraini e dei bielorussi di oggi. I locali principati ruteni perdettero la loro sovranità nel xiv secolo, quando furono assorbiti dagli stati confinanti. Alla fine del processo la regione di Haly/ (Haly/ ina) divenne parte dello stato polacco6; la Volinia (Volyn’) e la Russia bianca furono incorporate nel granducato di Lituania7 mentre le regioni transcarpatiche vennero riunite all’Ungheria. Tuttavia l’unità linguistica, religiosa e culturale delle popolazioni rutene permise loro di superare questo difficile periodo storico, caratterizzato dalla divisione politica e dall’espansione del cristianesimo occidentale. La Chiesa rimase l’unica istituzione che conservò le memorie di questa integrità politica e culturale. Dal punto di vista ecclesiastico, i Ruteni dipendevano dalla sede metropolitana di Kiev, che nella seconda metà del xv e nel xvi secolo aveva otto eparchie nella regione (sei sono oggi in Ucraina e due in Bielorussia). I metropoliti, i vescovi e, più tardi, anche i laici attivi riuniti in confraternite religiose8, facevano appello con molta decisione ai “diritti ancestrali” per salvaguardare la propria identità religiosa e politica contro la completa assimilazione. Questo clima sociale e culturale favorì la fioritura delle tradizioni

È un compito difficile presentare in un breve testo una scuola iconografica eminente eppure ancora poco nota. Scegliendo alcuni aspetti che paiono essere maggiormente rappresentativi, presenteremo l’ambiente liturgico al quale le icone erano destinate (l’interno della chiesa, l’iconostasi), alcuni caratteri compositivi (i tipi più ragguardevoli della rappresentazione di Cristo e della Madre di Dio, caratteristiche particolari delle icone dei santi), specificità dello stile e della tecnica locali, ed infine i rapporti di questa scuola con gli altri centri artistici10. Confido che questo persorso mi aiuterà a delineare un quadro delle caratteristiche proprie della tradizione iconografica locale.

L’iconostasi Per comprendere in modo adeguato il ruolo avuto dalle icone nella topografia liturgica della chiesa, occorre anzitutto ricordare che, nel xv-xvi secolo, la maggior parte delle chiese nella regione era in legno. Il sistema bizantino di decorazione iconografica dello spazio liturgico venne adattato al particolare interno di queste chiese11. Le strutture principali dell’interno erano l’iconostasi e due icone monumentali: quella del Giudizio universale [t. 8] e quella della Passione, collocate entrambe nella navata. Questa impostazione caratteristica delle chiese ucraine occidentali rimase in uso fino al xix secolo12. Questo spiega perché la maggior parte delle icone del xv-xvi secolo che si sono conservate, con l’eccezione di quelle della Passione e del Giudizio universale, provengono da iconostasi, un fatto che ne determina temi, dimensioni e spesso anche la soluzione artistica formale delle singole opere. Le iconostasi rutene occidentali di questo periodo erano piuttosto basse, costituite solo di due o tre ordini. Ne abbiamo conoscenza grazie ai frammenti sopravvissuti di alcune di esse (poche del xv secolo e più numerose del secolo seguente) e ad alcune fonti scritte. Queste ultime documentano l’esistenza di diverse variazioni dell’iconostasi. La versione più ridotta, della quale è un esempio l’iconostasi della cappella del castello di Kremenec in Volinia, poteva contenere solo poche icone. Un altro esempio è l’iconostasi di Yuskivci in Volinia (1600) che consiste di quattro icone: tre nell’ordine inferiore (detto

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A fronte: 1. Porte regali, Museo nazionale di Przemysl, Polonia.

tradizionalmente namisnyi ryad, ordine locale) e l’immagine acheropita del Sacro Volto di Cristo nell’ordine superiore13. Oltre alle porte regali, l’iconostasi rutena occidentale aveva spesso anche una porta diaconale. Le icone dell’ordine locale spesso risaltano per la loro dimensione considerevole (tra 100 e 140 cm in alteza per 60 a 120 in larghezza; cfr. ad esempio le tt. 6, 7, 9, 10, 12, 14-16). La porta regale, tradizionalmente decorata con l’Annunciazione e i Quattro evangelisti [t. 1], poteva presentare anche le immagini dei Santi gerarchi (gli autori delle Divine Liturgie, i santi Basilio il Grande e Giovanni Crisostomo) mentre le porte diaconali, se ce n’erano due, erano decorate con le icone degli arcangeli Michele e Gabriele oppure dei sommi sacerdoti dell’antico Testamento, Melchisedek e Aronne. L’Acheropita era posta sopra la porta regale, come è provato da numerose icone sopravvissute e da fonti documentarie. È un tratto distintivo dell’iconostasi ucraina fino ad oggi. Al di sopra dell’Acheropita era posta la Deesis: originalmente era dipinta su un’unica tavola (il cosiddetto templon con l’epistylion), negli ultimi secoli su tavole separate. Originalmente la Deesis poteva includere diversi tipi di santi ma dopo la metà del xvi secolo vi compaiono solo i dodici apostoli, spesso raggruppati a coppie su tavole distinte [tt. 2, 5]. La concentrazione sugli apostoli è giustamente considerata uno dei tratti distintivi delle alte iconostasi ucraine dal tardo xvi secolo ad oggi. Al volgere del xv-xvi secolo, al di sopra dell’ordine locale venne introdotto un secondo ordine, chiamato “ordine delle feste”, con le icone delle dodici principali feste liturgiche. Alla fine del xvi secolo l’icona dell’Ultima Cena appare su quest’ordine in posizione centrale, quindi al di sotto dell’icona centrale della Deesis. L’“ordine profetico”, che aveva al centro l’icona della Vergine del Segno (Znamenie) prese forma non più tardi della metà del xvi secolo. È tuttavia difficile giudicare della sua diffusione prima dell’inizio del xvii secolo, poiché in pratica non ci sono rimaste icone di questo tipo. Nel xvii secolo troviamo a volte un ulteriore ordine, nel quale è raffigurata la Passione di Cristo, che si sviluppò dall’icona della Passione già ricordata quando le sue singole scene marginali si trasformarono in icone distinte. Al passaggio del xv-xvi secolo si diffuse la pratica di coronare l’iconostasi con la Crocifissione (il Cristo in croce opure l’intero gruppo, comprendente la Madre di Dio e l’evangelista Giovanni). Di regola si trattava di profili di figure, ritagliati da singoli pezzi di legno. Così, essendosi sviluppata secondo questa dinamica nei secoli precedenti, nelle regioni rutene occidentali l’iconostasi alta raggiunse la sua forma definitiva al passaggio tra xvi e xvii secolo, come è attestato da alcune iconostasi integralmente conservate14.

Iconografia L’iconografia del Cristo Nell’arte rutena occidentale di questi due secoli sono presenti almeno otto diversi tipi di rappresentazione iconografica di Cristo; qui presteremo attenzione più specifica ai tre più comuni15. L’Acheropita, il Pantocratore e il Cristo in Maestà a figura piena godettero la maggiore popolarità nell’iconografia ucraina occidentale. (Lo si può spiegare con il fatto che a queste icone era attribuito un posto importante nello schema tradizionale dell’iconostasi). Le icone rutene occidentali seguono di regola il canone bizantino nella raffigurazione del Volto del Signore ma, nel caso dell’Acheropita, si seguiva una composizione diversa da quella canonica dipingendo il Santo Volto su un lino bianco fiancheggiato da due arcangeli. Di regola si dipingevano ai due lati del tessuto Michele e Gabriele, a volte nell’atto di reggerlo; potevano però anche comparire Uriele e Raffaele, un particolare piuttosto raro, documentato in due icone del xv secolo, Vanivka (Museo Nazionale di Lviv/Leopoli, mnl) e una di provenienza sconosciuta, ora nel Museo di Cracovia. Il velo appeso e piegato compare in occidente nella seconda metà del xiii secolo e la rappresentazione degli arcangeli è un motivo preso a prestito dall’arte rinascimentale e assoggettato ad alcuni mutamenti creativi per adattarlo ai concetti dell’arte religiosa orientale16. Quasi quindici icone del Pantocratore a figura piena con il libro aperto, del xv e della prima metà del xvi secolo, offrono un materiale ricco e valido per uno studio di questo tipo17. Le icone del Pantocratore godettero di una considerevole diffusione a Bisanzio (ricordiamo prima dell’iconoclasmo il Cristo Chalkita, l’immagine raffigurata sopra le porte bronzee munumentali del palazzo imperiale) e, di conseguenza, nell’arte della Rus’ di Kiev e di Haly/-Volinia18. Secondo V. Svietsitska queste icone alte e strette, simili alle icone dipinte sui pilastri ai lati del cancello dell’altare, erano destinate all’ “ordine locale” dell’iconostasi19. Il terzo tipo – il Cristo in Maestà – appare nelle terre rutene occidentali prima della metà del xv secolo20 e si sviluppa parallelamente all’iconografia moscovita dello stesso tipo21. Possediamo un certo numero di icone di questo tipo della seconda metà del xv secolo, tanto in Galizia che in Volinia. In quest’ultima regione è ben documentata la penetrazione e l’ampia diffusione nell’arte popolare religiosa di questa composizione, teologicamente complessa22. All’interno della

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2-5. Iconografo Lavrysh Pukhalo (?), Deesis con gli apostoli, da Nakone/ne (Ucraina), Museo Nazionale di Lviv. Sono successivamente raffigurati: Cristo tra due angeli; Giacomo e Andrea; Simone e Bartolomeo; Filippo e Tommaso.

L’iconografia dei santi

chiesa questa icona occupava una posizione centrale nella Deesis. Le più fini dal punto di vista artistico e le più significative iconograficamente sono due icone: una appartiene alla scuola di Peremyshl’ e proviene dal villaggio di Novosilci (fine del xv secolo, Museo storico di Sianok), la seconda è della Volinia e proviene dal villaggio di Cepcevychi (fine del xvi secolo, mnl).

I santi più popolari della regione erano san Michele Arcangelo, san Nicola di Mira e i martiri san Giorgio (Yuriy) e santa Parasceve (‘Pyatnycia’). Il loro culto risale alla Rus’ di Kiev, nell’età precedente la conquista mongola, e nel corso dei secoli è stato sempre ampiamente praticato in tutta la chiesa di Kiev. Si sono conservate numerose icone di questi santi: alcune di queste sono icone appartenenti all’“ordine locale”, con scene della vita sui bordi; altre erano parte del gruppo della Deesis. Era abbastanza comune anche la devozione per padri monastici come sant’Onofrio il Grande29, Antonio e Teodosio del monastero delle Grotte di Kiev30, i principi martirizzati Boris e Gleb, e ancora Gioacchino ed Anna, Cosma e Damiano. Le icone ucraine con scene della vita dei santi sono diverse da quelle bizantine o russe per la collocazione delle scene sui tre lati (più raramente su due) della superficie centrale, che risulta leggermente incavata (kov/eh), in corrispondenza all’uso italiano del Duecento e del Trecento. Oltre alle icone dedicate a un santo, anche alcune icone delle feste potevano essere incorniciate da scene narrative della vita di Cristo o della Madre di Dio (per esempio la Presentazione al Tempio con scene della vita di Maria, xiv secolo, da Stanyliv, mnl; La scoperta e l’esaltazione della Santa Croce con scene della vita di Gesù, inizio del xv secolo, da Zdvyzen’, mnl, t. 7). La composizione della Passione, unica nell’arte della Rus’, aveva tutti e quattro i bordi dipinti, un fatto molto eccezionale, dovuto probabilmente al gran numero di scene rappresentate31. Il Giudizio Universale, un tema molto popolare nell’arte dell’Ucraina occidentale tra il xv e il xvii secolo, richiama un’attenzione particolare per la composizione molto complessa, su numerosi ordini. Questo tipo si basa sulla commistione, carica di espressività, di una visione tradizionale e popolare del mondo (immagini di vita quotidiana, rappresentazioni stereotipate delle altre nazioni, credenze escatologiche rudimentali) con temi classici, biblici ed apocrifi. Il caso più antico conosciuto risale all’inizio del xv secolo (da Vanivka, mnl). In termini generali il suo modello imita un prototipo di Novgorod, con al centro la figura del serpente che si attorciglia.

L’iconografia della Madre di Dio L’arte del periodo che stiamo esaminando conobbe almeno sette modi per presentare la Vergine con il Bambino. Sulla maggior parte delle icone essi sono raffigurati circondati dalle figure dei profeti o degli apostoli, da Gioacchino e Anna, e dagli innografi liturgici bizantini. Questa caratteristica, insolita nella Rus’ nordorientale e piuttosto rara tra gli slavi meridionali e tra i greci, è propria dell’iconografia rutena occidentale23. Il gruppo più numeroso delle icone della Madre di Dio è quello con la raffigurazione della Lode dell’Odigitria [t. 6]24. Gli studiosi elencano venti varianti possibili quanto alla disposizione dei personaggi attorno ai diversi tipi di Vergine con il Bambino. Se il tipo fin qui descritto è comune a tutta la regione, la Madre di Dio sul trono, raffigurata di profilo, è caratteristica solo di una subregione particolare. Tre icone del distretto di Lemko (all’estremità occidentale della regione) sono giunte fino a noi per testimoniare questo fenomeno inusuale. Quella di Florynka (prima metà del xvi secolo, Museo storico di Sianok) è notevole anche per la raffigurazione della Madre di Dio “in Maestà”: le figure della Vergine e del Bambino sono disposte su sfondi sovrapposti che si espandono: una mandorla blu a forma di uovo collocata in un diamante rosso su uno sfondo d’oro. Su entrambi i lati del diamante sono raffigurate quattro coppie di profeti a figura piena, con i loro simboli25. Rara quanto all’iconografia e unica per la sua funzione è l’icona d’altare (zaprestol’naya) della Grande Panagía, che raffigura la Vergine con il Bambino nascosto sul suo petto nelle pieghe del maphorion26. Questa icona della metà del xvi secolo, proveniente da Zhydachiv (chiesa della Santa Risurrezione), era collocata originalmente dietro la mensa dell’altare. Troviamo testimonianze storiche di una collocazione simile della Panagía anche in altri due casi27. Tra gli altri tipi iconografici popolari, deve essere menzionato il Sobor della Theotókos. È una composizione che si diffonde ampiamente all’inizio del xv secolo e resta molto comune per tutto il xvi secolo28.

A questa breve delineazione delle caratteristiche dell’iconografia è naturale aggiungere una nota sui modelli iconografici seguiti dai pittori locali. Certamente un artista poteva ricorrere a due espedienti: usare dei modelli esemplari (prorysy) prestabiliti oppure rifarsi, come prototipo, a un dipinto di elevata qualità. In generale, entrambe le opzioni erano tipiche

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6. Lode della Madre di Dio Odigitria, da Pidhorodec (Ucraina), Museo Nazionale di Lviv.

dell’arte bizantina e postbizanti­na32. L’esistenza di modelli esemplari specifici potrebbe essere provata dall’esistenza di due icone di San Giorgio praticamente identiche, provenienti l’una dal villaggio di Stanyli (mnl), l’altra da Staryi Koprivnyk (Collezione del monastero Studita, Leopoli), entrambe datate alla fine del xiv secolo33. Quanto invece all’imitazione, in termini di schema iconografico, di un prototipo sul quale si concentravano le preferenze, ne troviamo testimonianza nella maggior parte delle icone dell’Odigitria del xv-xvi secolo. Ne sono un buon esempio due icone, quella da Pidhorodec [t. 6] (regione di Drohobych, Ucraina occidentale) della metà del xv secolo, e quella di Dubenec (regione di Brest, Bielorussia), del xvi secolo [t. 16]. Dalla fine del xv secolo (1491), libri stampati in cirillico svolsero la funzione di una sorta di Hermeneia. Il materiale illustrativo che essi contenevano seguiva il modello delle incisioni europee occidentali, di solito tedesche e olandesi; così questi libri – stampati a Cracovia, Leopoli, Vilnio, Kiev, Praga e Venezia – favorirono la penetrazione dell’iconografia occidentale nell’arte della chiesa d’Oriente34.

Proprietà stilistiche Tre fattori decisivi contribuirono a forgiare le caratteristiche dello stile della scuola iconografica dell’Ucraina occidentale. Il primo fu la penetrazione della cultura artistica bizantina, sofisticata e di elevato livello stilistico. A volte questa infiltrazione avvenne per via diretta ma più spesso raggiunse la regione tramite le tradizioni artistiche della Rus’ di Kiev e della Rus’ di Haly/-Volinia35, ma anche attraverso la Serbia, la Bulgaria e la Moldava. Il secondo fattore fu la vitalità considerevole – rispetto all’arte della Rus’ premongolica – mostrata dagli artisti popolari locali, con il loro “modo di dipingere… arcaico e rudimentale”36. La relazione specifica di questi fattori merita un commento particolare: gli artisti popolari tentarono spesso di appropriarsi dell’arsenale stilistico dei “professionisti”, così che nella scuola locale non si individua una netta divisione tra pittori d’icone “professionisti” e “dilettanti”, ma tra i due estremi vi fu tutta la gamma degli stadi intermedi. Questo fenomeno fu reso possibile solo dalla diffusione molto ampia della pittura d’icone, dall’esistenza di numerosi centri artistici e di singole botteghe destinate a soddisfare una forte domanda d’icone37.

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Da ultimo, il terzo fattore fu la coesistenza della cultura ortodossa orientale tradizionale e di quella cristiana occidentale. Gli stili che dominarono l’arte europea occidentale in questo periodo si riflessero nell’opera di alcuni iconografi della regione. Anche se l’imitazione degli esem­pi occidentali si esprimeva principalmente nell’imprestito di alcuni elementi stilistici e di modelli di decorazione, essa lasciava un’impronta molto forte sull’opera d’arte e ne cambiava il carattere d’insieme. Volendo tentar di descrivere il carattere stilistico delle icone rutene occidentali di quest’epoca, con un certo grado di generalizzazione e trascurando minori differenze particolari all’interno delle scuole, che pure esistettero, dovremmo enfatizzare l’alto grado di espressione ottenuto

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7. Iconografo di Vanivka e Zdvyzen’, La scoperta e l’esaltazione della Santa Croce, da Zdvyzen’ (attualmente in Polonia), Museo Nazionale di Lviv. Sul bordo, da sinistra a destra, sono raffigurati: Ingresso a Gerusalemme, Trinità dell’Antico Testamento, Trasfigurazione, Pentecoste, Crocifissione, Battesimo di Cristo o Teofania, Deposizione dalla croce, Sepoltura e lamentazione, Discesa al limbo, Ascensione, Natività di Cristo.

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A fronte: 8. Il Giudizio universale, da Stanylia (Ucraina), Museo Nazionale di Lviv.

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9. Battesimo di Cristo (Teofania), da Radruz (Ucraina), Museo Nazionale di Lviv.

A fronte: 10. I santi Giorgio e Parasceve, da Kor/yn (Ucraina), Museo Nazionale di Lviv.

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A fronte: 11. Trasfigurazione, da Vil’shanycia (Ucraina), Museo Nazionale di Lviv.

dell’assenza del peso dell’oro, la colorazione delle icone rutene occidentali del periodo dà un’impressione di levità, di sottigliezza, di gioiosa pienezza.

usando il minimo di mezzi artistici. Dall’inizio del xv al primo xvii secolo gli iconografi locali si mossero alla ricerca dell’equilibrio tra il colore e la linea. Lo attestano le opere più eminenti del xv e xvi secolo. Tuttavia, alla fine del xvi secolo, questo equilibrio andò lentamente perduto, a favore di un rapporto nel quale “la forma domina sul contenuto”38. Quest’ultimo viene espresso principalmente aumentando gli elementi ornamentali, specie nella decorazione dello sfondo e nell’abbigliamento. Un altro esempio della perdita del precedente equilibrio nelle icone del tardo xvi secolo è il predominio della linearità, proveniente dall’arte popolare.

La tecnica Come per lo stile e per l’iconografia, anche le caratteristiche tecniche della pittura d’icona rutena occidentale sono simili alla tecnica pittorica medievale in generale. C’erano però alcune differenze nei particolari, alcune delle quali potevano ripercuotersi sulla percezione estetica complessiva dell’icona. Tavole di legno di 2-3 centimetri di spessore costituivano il materiale di base44. Come in altre scuole iconografiche, le tavole avevano sul lato anteriore la parte centrale incavata (kov/eh) per l’immagine più importante, mentre sul retro erano tenute assieme da due listelli orizzontali. Di regola la proporzione tra altezza e larghezza dell’icona era 5:3 (la sezione aurea). Di regola il formato delle icone era maggiore di quello delle immagini religiose nelle locali chiese di rito occidentale45. Nelle icone del xv secolo di regola si poneva un lino sulla tavola e lo si ricopriva poi del cosiddetto levkas, una miscela bianca di calce e colla. Nel xvi secolo il lino veniva spesso posto sulle tavole solo quando esse erano giunte insieme. Sul lato anteriore le icone erano incorniciate da una stretta banda dipinta in rosso più o meno scuro, larga 0,5-1,5 cm. A volte questa cornice poteva essere di diversi colori (due o tre contrastanti). A partire dal xvi secolo i margini, il fondo e le aureole potevano essere decorati con motivi decorativi incisi o stampati. Nello stesso periodo iniziò a diffondersi l’uso di rivestire il fondo con una foglia d’argento ricoperta da una lacca speciale per imitare l’oro. Anche quando dipingevano, gli iconografi potevano utilizzare la lacca mescolata con pigmenti organici per creare nuove sfumature di alcuni colori, come il verde-blu. Una volta conclusa la pittura, la superficie dell’icona veniva ricoperta con una lacca resinosa, come in Europa occidentale, non con olio come in Russia. Le lacche resinose sono conosciute per la loro maggior stabilità e la miglior trasparenza, due qualità che permisero loro di conservare meglio la pittura e di non scurirsi con il tempo.

Nelle icone del xv secolo, a differenza di quelle successive, la raffigurazione monumentale prevale sulle scene complesse a molti personaggi, e la figura domina sul contesto. I corpi umani sono raffigurati nella proporzione di 1 a 6 e non di 1 a 9 come era comune nell’arte paleologa39. Uno dei tratti più notevoli dell’iconografia del periodo che abbraccia xv e xvi secolo, è la coloritura sorprendentemente vivida e brillante degli oggetti e anche dello sfondo. La gamma coloristica, piuttosto limitata, è però caricata dal forte sforzo espressivo, caratteristico della tarda arte paleologa, ottenuto con il forte contrasto dei colori, che vengono armonizzati solo nel quadro d’insieme dell’icona [cfr. ad es. le tavv. 9 e 14]. La caratteristica unica della scuola locale è lo sfondo multicolore, invariabilmente presente nelle opere del xv e in parte in quelle del xvi secolo, che distingue le icone della Rutenia occidentale da quelle di Bisanzio e della Rus’ di Kiev, dove la regola era il fondo dorato40. Questo tratto specifico non deve essere visto come una deviazione dalla regola canonica, come alcuni studiosi suggeriscono41. Piuttosto, questa pratica testimonia la percezione viva, non puramente formale e l’assimilazione delle prescrizioni ecclesiastiche tradizionali relative all’arte sacra. Nella situazione di marginalizzazione politica e sociale nella quale la popolazione rutena si trovò in quell’epoca, né la maggior parte delle comunità né i singoli individui erano in grado di affrontare l’acquisto di oro per adornare le icone. Di conseguenza, gli iconografi risolsero il problema utilizzando solo colori semanticamente equivalenti all’oro42 e luminescenti (il bianco, il rosso e il verde). L’intenzionalità di queste scelte è provata dal fatto che a volte l’iconografo mescolava ai colori del fondo un pigmento speciale43 che produceva l’effetto di luminescenza e consentiva di ottenere, almeno in una certa misura, lo stesso effetto che dava l’utilizzo del fondo d’oro. Inoltre, a causa

I rapporti con altre scuole iconografiche La pittura d’icona della Rutenia occidentale in età postbizantina ha legami caratteristici con l’iconografia greca, bulgara,

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12. Trasfigurazione, da Kuray (Volinia, Ucraina), Museo Nazionale di Lviv.

A fronte: 13. Ascensione, da Pidhorodec (Ucraina), Museo Nazionale di Lviv.

della Natività della Madre di Dio da Vanivka (mnl, tav. 165) e dell’Arcangelo Michele da Dal’ova (mnl). Parallelamente, un numero molto elevato di icone non costituisce nulla più che semplici “citazioni visive” di forme iconografiche mature della tarda arte bizantina. Per esempio, nei ritratti dei profeti sul bordo di alcune icone della Lode della Madre di Dio, vediamo repliche di alcuni importanti prototipi e ripetizioni di forme stilistiche compiute, ma poca creatività e originalità (Odigitria da Berehy Dolishni, della seconda metà del xv secolo e quella da Hrushiv, del primo terzo del xvi secolo, collocate entrambe nel mnl). Le influenze greche penetrarono nella Rus’ occidentale per opera di iconografi itineranti che vennero a lavorare qui oppure tramite icone importate. Un buon esempio del primo caso è l’icona del Cristo Pantocratore con gli apostoli46 (da Richnytsia, 1500 circa, Rivne, Museo regionale) mentre il secondo caso è ben rappresentato dall’icona dell’Eleusa da Maloryt (xv secolo circa, Museo dell’antica cultura bielorussa a Minsk)47. Allo stato attuale della ricerca è difficile determinare in che misura la presenza di pittori greci influenzò la scuola locale, abbiamo però prove chiare che questa influenza vi fu. Quanto al suo rapporto con le altre scuole slave orientali, la pittura d’icona della Rutenia occidentale è nettamente distinta dalla scuola moscovita e da altre scuole russe, e nello stesso tempo è strettamente correlata con la tradizione di Novgorod. Tuttavia, numerose analogie nello stile e nell’iconografia, osservate da diversi autori, non sono ancora divenute oggetto di studi specifici. Di regola, la loro presenza è spiegata con l’eredità della tradizione artistica ereditata dalla Rus’ di Kiev, con certi parallelismi di sviluppo storico (ad esempio stretti contatti con la cultura occidentale) e relazioni economiche e culturali diffuse. L’influenza della Bulgaria (molto precoce e più ovvia in campo letterario) e della Moldavia (come mediatore delle influenze athonite, balcaniche e anche della scuola italo-cretese) si esercitarono sulla tipologia iconografica in generale e su singoli dettagli, più che sullo stile o sulla tecnica48. Abbiamo anche alcune testimonianze storiche sulla permanenza nella regione di alcuni iconografi bulgari, serbi e moldavi. Recentemente si è formulata l’ipotesi che l’iconografia della Lode della Madre di Dio sia da mettere in relazione con le polemiche anti-bogumile e sia giunta in Ucraina attraverso la Moldavia49. Un altro caso di imprestito di un tipo iconografico specifico può essere trovato nel gruppo di icone con la Madre di Dio intronizzata, già ricordate per la regione di Lemko. Nella regione il suo prototipo si trova nelle pitture murali di Lavriv, che riproducono

serba e moldava, ma presenta anche un’interessante vicinanza alla scuola di Novgorod. In un’altra direzione, è stata sempre soggetta a forti influenze occidentali – del mondo gotico e del Rinascimento italiano – che penetravano nella regione attraverso la Polonia e le terre ceche. Cronologicamente si può dire, con un certo grado di generalizzazione, che le icone del xv e dell’inizio del xvi secolo presentano maggior vicinanza con l’iconografia tardo-bizantina e con quella di altre parti della Rus’, mentre dalla metà del xvi secolo compaiono maggiori somiglianze con la pittura d’icone balcanica, specie con quella moldava. In entrambi i secoli le influenze occidentali furono per lo più limitate a imprestiti di elementi formali minori. L’arte tardo-bizantina del periodo dei Paleologhi trovò numerose espressioni creative e originali nell’arte della Rutenia occidentale. Gli esempi più notevoli sono le icone del xv secolo

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A fronte: 14. Iconografo di Vanivka e Zdvyzen’, Natività della Madre di Dio, da Vanivka (attualmente in Polonia), Museo Nazionale di Lviv.

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15. Madre di Dio Odigitria, da Krasiv (Ucraina), Museo Nazionale di Lviv.

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A fronte: 16. La Madre di Dio Odigitria, da Dubenec (attualmente in Bielorussia), Museo nazionale d’arte della repubblica di Belarus, Minsk.

I contatti con la cultura ecclesiastica occidentale ebbero anche una componente che si mosse in direzione opposta: in Polonia la straordinaria popolarità del tipo bizantino tradizionale dell’Odigitria nell’arte religiosa cattolico-romana fu dovuta all’imitazione di esempi iconografici ruteni52.

iconograficamente le pitture murali di Humor, in Moldavia (oggi Romania, 1535)50. Le pitture tardo gotiche fornirono agli iconografi locali un modo per decorare i fondi e alcuni particolari modelli ornamentali51. Nella seconda metà del xvi secolo in alcuni centri artistici legati a grandi centri urbani, furono create alcune icone che mostrano chiaramente l’influenza del proto-Rinascimento e del Rinascimento italiano. Queste opere d’arte si caratterizzano per lo sforzo di sostituire alla rappresentazione iconografica tradizionale un modo di rappresentazione più naturalistico. In esse vengono introdotte proporzioni realistiche, forme in tre dimensioni e una rappresentazione più naturalistica dell’ambiente. Più spesso l’imitazione si riferiva ai dettagli e alla decorazione, come l’abito della Vergine, gli ornamenti sulla veste del Cristo-Emmanuele e il fondo blu scuro.

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Nei secoli xvii e xviii l’arte dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia conosce un nuovo stadio di sviluppo, legato all’assimilazione degli influssi del Rinascimento e del Barocco. È un fenomeno tipico anche di altre regioni europee tradizionalmente ortodosse. Queste trasformazioni fecero comparire sintesi artistiche di elevata qualità tra l’iconografia tradizionale e gli stili d’Europa occidentale. Contemporaneamente, le antiche tradizioni medievali di pittura d’icone continuarono ad esistere nell’arte popolare, praticata da non professionisti.

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bibliografie e note

Parte prima Le prime icone Procedimento pittorico nel quale vengono utilizzati colori sciolti nella cera fusa. 2 Si tratta di una tecnica pittorica che utilizza colori stemperati in sostanze organiche (anticamente rosso d’uovo, lattice di fico, oggi colle animali). 3 Per un approfondimento, vedere i capitoli sull’iconoclastia e sullo stile. 4 Sul modo di spiritualizzare questi volti considerandoli al tempo stesso come ritratti autentici. 5 Su questa evoluzione del pensiero nella Roma della decadenza e sulle sue conseguenze per l’arte, vedere G. Rodenwaldt, Griechische Porträts aus dem Ausgang der Antike, Berlino 1919; V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino 1967, pp. 30-33; R. Bianchi Bandinelli, Roma, la fine dell’arte antica (Coll. Il mondo della figura), Milano 1970, p. 16 segg. 6 Cfr. ibid. p. 19. 7 Cfr. A. Grabar, Les voies de la création en iconographie chrétienne, Parigi, 1979, p. 65 (traduzione italiana Jaca Book, Milano 1983 e 1999). 8 Cfr. Eusebio, Historiae ecclesiasticae, vii, xviii, Migne, pg, t. xx, col. 680. 9 In questa tipologia, la Vergine regge il Bambino sul braccio sinistro (cfr. infra). 10 Cfr. N.P. Kondakov, Ikonografia Bogoma­ te­ri, San Pietroburgo 1911, t. ii, p. 154. 11 Cfr. L. Ouspensky, Théologie de l’icône dans l’Église orthodoxe, Parigi 1980, p. 39. 12 Vedere anche Styger, Die römische Kata­ komben, Berlino, 1933. 13 Cfr. W. Seston, L’église et le baptistère de Doura Europos, in «Annales de l’École des Hautes Études de Gand» Gand, 1937; M. Rostovtzeff, The Excavations at Doura Euro­ pos. Preliminary Report of the Fifth Season of Work, New Haven 1934. 14 Fra le altre, citiamo le immagini del Buon Pastore e di altri personaggi, le allegorie dell’anima, episodi dell’Antico Testamento interpretati come antecedenti biblici della salvezza, l’Adorazione dei Magi, il Battesimo e l’Ultima Cena – versioni evangeliche dei due sacramenti più importanti della Chiesa –, i Miracoli (Cfr. A. Grabar, Les voies, p. 12 ss.). 15 Cfr. A. Grabar, Martyrium. Recherche sur le culte des reliques et l’art chrétien antique, Parigi 1946, pp. 10-11. 16 Cfr. M. Andaloro, Arte e iconografia a Roma, Milano 2000, figg. 32, 33. 17 Cfr. A. Grabar, Les voies, fig. 26. 18 R. Bianchi Bandinelli, Roma, fig. 65. 19 Cfr. ibid., p. 66. 1

Cfr. M. Andaloro, Arte, pp. 45-46. Per esempio quello dei Due Fratelli nei Musei Vaticani (cfr. M.A. Crippa, M. Zibawi, L’arte paleocristiana, Milano 1998, fig. 123). 22 Per esempio in Sant’Ambrogio di Milano (cfr. A. Grabar, Les voies, p. 71) e, più tardi, nelle chiese del Medioevo. 23 Cfr. A. Grabar, Le premier art chrétien (Coll. L’Univers des formes) Parigi 1966, fig. 273. 24 Cfr. ibid., fig. 207. 25 Cfr. A. Grabar, Les voies, p. 69. 26 Cfr. M. van Berchem, E. Clouzot, Mo­ saïques chrétiennes du iv au x siècle, Ginevra 1924, p. 107 segg., fig. 120. 27 Sedile semicircolare posto nel bèma, sul quale si sedevano i vescovi. 28 Per esempio il mosaico di Socrate circondato dai sapienti di Apamea (cfr. A. Grabar, Les voies, fig. 51). 29 Cfr. M. van Berchem, E. Clouzot, Mo­ saïques, p. 63 segg., fig. 66; G. Matthiae, Il mosaico romano di S. Pudenziana, in «Bollettino d’Arte», 1938, pp. 418-425. 30 Cfr. ibid., p 83 segg., fig. 94. 31 Cfr. G. Ostrogorski, Histoire de l’État byzantin, Parigi 1977, p.87. Per le diverse eresie e conflitti di pensiero, cfr. ibid., p. 85 segg. 32 Cfr. K. Holl, Der Anteil der Styliten am Aufkommen der Bildverehrung, in «Philotesia für Paul Kleinert», 1907, pp. 51-66; E. Kitzinger, The Cult of Images in the Age before Iconoclasm, in dop, viii, 1954, pp. 94, 117-118. 33 Su queste ampolle vedere A. Grabar, Les ampoules de Terre Sainte, Parigi 1958, passim. 34 Si tratta dell’impronta del volto di Cristo su un tessuto che egli aveva premuto contro il proprio viso per donarlo all’inviato del re Abgar. La leggenda ha avuto molti sviluppi dei quali non è possibile parlare qui; fra essi i miracoli della reliquia, la sua scomparsa e ricomparsa, il suo acquisto e il trasporto a Costantinopoli da parte degli imperatori Costantino Porfirogeneto e Romano i (cfr. E. Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen zur cristlichen Legende, Lipsia 1899, 2 ed., 1931, passim). 35 Cfr. Migne, pg, t. 86, col. 2745-2748. 36 Cfr. L. Ouspensky, Théologie de l’icône dans l’Église orthodoxe, Parigi, 1982, p. 34; Ch. von Schönborn, L’icône du Christ. Fon­ dements théologiques, Friburgo 1976, p. 75. 37 Cfr. K. Weitzmann, From the Sixth to the Tenth Century in the Monastery of Saint Catherine at Mounth Sinai: The Icons, i, Princeton, N.J., 1976, pp. 13-15, tavv. i-ii; AA.VV. Ikone, Belgrado 1981, capitolo di K. Weitzmann, fig. p. 10. 20 21

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Cfr. G. Bovini, Chiese di Ravenna, Novara 1960, fig. p. 134 39 Vedere la bibliografia completa nella scheda di E. Roslavec, in Aurea Roma, dalla città pagana alla città cristiana (ed. S. Ensoli e E. La Rocca) Roma 2000, p. 660. 40 Vedere il capitolo sullo stile. 41 Cfr. M. Andaloro, in Aurea Roma, p. 661, tav. 420 e segg. 42 Cfr. O. Demus, Romanische Wandmale­ rei, Monaco 1968, tav. xii e fig. 33. 43 Cfr. M. Andaloro, in Aurea Roma, p. 663. 44 Cfr. ibid. 45 C. Bertelli, Pittura in Italia durante l’ico­ noclasmo: le icone, «Arte cristiana» 75, 1988. 46 Cfr. M. Andaloro, Aurea Roma, p. 661. 38

L’iconoclasmo bizantino F. Bœspflug, N. Lossky, Nicée ii. 787­1987. Douze siècles d’images religieuses, Les Éditions du Cerf, Paris 1987.
 G. Dagron, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique, Gallimard, Paris 2007. E. Fogliadini, L’immagine negata. Il concilio di Hieria e la formalizzazione dell’icono­ clasmo, Jaca Book, Milano 2013.
 E. Fogliadini, L’invenzione dell’immagine sa­ cra. La legittimazione ecclesiale dell’icona al secondo concilio di Nicea, Jaca Book, Milano 2015.
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 S. Gero, Byzantine Iconoclasm during the reign of Leo iii, Louvain 1973. A. Grabar, L’iconoclasme byzantin, Flammarion, Paris 2011.
 M.J. Mondzain, Immagine. Icona economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo, Jaca Book, Milano 2002. Lo stile dell’icona 1 Cfr. L. Ouspensky, Théologie de l’icône dans l’église orthodoxe, Parigi 1982, p. 61. 2 Cfr. ibid., p. 62. 3 Platone, La Repubblica, vii, 542c. 4 Cfr. E. de Bruyne, Études d’esthétique médiévale i, Bruges 1996, pp. 348-356. 5 Cfr. K. Onasch, Die Ikonenmalerei, Lipsia, p. 11. 6 Cfr. Ch. Delvoye, L’art byzantin, Parigi 1967, p. 102. 7 Cfr. ibid., p. 102. 8 Cfr. A. Grabar, Plotin et les origines de l’esthétique médiévale, in «L’art de la fin de


l’Antiquité et du Moyen Age», Parigi 1968, vol. i, pp. 15-30. 9 Cfr. Martyrium. Recherches sur le culte des reliques et l’art chrétien antique, Parigi 1946, p. 63. 10 Cfr. ibid., pp. 63-64. 11 Cfr. ibid., p. 64. 12 Cfr. G. Bovini, Chiese di Ravenna, Novara, 1960, p. 134. 13 Cfr. Migne, pg, t. 29, col. 45. D’altra parte, san Basilio il Grande pensa alla luce come alla bellezza più vicina a Dio (cfr. A. Alföldi, Die Ausgestaltung des monarchischen Zeremoniells am römischen Kaiserhofe, in «Röm. Mitteil.», 49, 1934, pp. 35, 37-38, 63, 100. 14 Cfr. K. Weitzmann, M. Chatzidakis, K. Miatev, Sv. Radoj/i0, Frühe Ikonen, ViennaMonaco 1965, tav. 1. 15 Cfr. Teodoro Studita, Epistolae, i, 17, Migne, pg, t. 99, col 961. 16 Il definitivo ritorno al culto delle immagini, detto anche «Vittoria dell’ortodossia», ebbe luogo l’11 marzo 843, giorno che in seguito venne festeggiato come la Domenica dell’ortodossia. L’evento si verificò a Costantinopoli per volere dell’imperatrice Teodora che regnava in nome del figlio Michele iii e con la collaborazione del patriarca Metodio e dei vescovi iconoduli. 17 Il Concilio di Calcedonia (451) pose fine alle dispute cristologiche dichiarando che le due nature, divina ed umana, di Cristo erano inscindibili. 18 Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tavv. 14 e 15. 19 K. Weitzmann, G. Babi0, M. Chatzidakis ed altri, Ikone, Belgrado, 1981, figg. 40, 41. 20 Cfr. ibid., tav. 44, destra. 21 Cfr. ibid., tav. 16. 22 Cfr. D. Talbot Rice, Art Byzantin, Bruxelles 1959, tav. 101. 23 Cfr. ibid., tav. 143. 24 Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tav. 20. 25 Cfr. ibid., tav. 23. 26 Sulla lenta elaborazione dell’iconostasi e sulle icone che la ornano, vedi M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône aux 11e-13e siècles et la transformation du templon, in «xve Congrès International d’Études Byzantines, Rapports et co-Rapports», iii, Atene 1976, pp. 159-191. Vedere anche, in questo volume, le pagine 128 ss. del capitolo di P.L. Vocotopoulos. 27 Nelle miniature del iv secolo Cristo è rappresentato con gli occhi aperti, cioè vivo sulla croce, come si vede nel Vangelo siriaco di Rabula (cfr. J. Leroy, Les manuscrits syriaques à peintures, Parigi 1964, tav. 32). Un tipo in cui l’aspetto trionfale della Crocifissione è messo ancor più in evidenza si trova sulle ampolle palestinesi di olio benedetto di Monza, dove il busto di Cristo compare al di sopra di una croce vuota (cfr. A. Grabar, Les ampoules de Terre Sainte, Parigi 1958, tav. 14, per es.). 28 In questo periodo, il Cristo è rappresentato sulla croce morto, accompagnato solo dalla Vergine e da san Giovanni disposti in maniera perfettamente simmetrica ed irreale. 29 K. Weitzmann et al., Ikone, tav. 55.

30 L’icona fu inviata da Costantinopoli a Kiev, verso il 1130, al principe Andrea Bogoljubski che la portò con sé nel 1155 quando decise di stabilirsi a Vladimir. 31 Cfr. From Byzantium to El Greco, catalogo della mostra, Londra, Royal Accademy of Arts, 1987, n. 13, 14. 32 Questo stile in realtà si afferma durante il regno di due dinastie, quella dei Comneni (1081-1185) e quella degli Angeli (11851204). 33 Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Iko­ nen, tav. 30; Id. Eine spätkomnenische Ver­ kündigungsikone des Sinai und die zweite byzantinische Welle des 12. Jahrhunderts, in «Festschrift für Herbert von Einem», Berlino 1965, pp. 299 ss. 34 Sull’acqua della Vita, cfr. il Salmo 42 (43) e l’Apocalisse di Giovanni (22,2). Sul legame fra la Vergine e l’acqua della Vita eterna, cfr. T. Velmans, L’iconographie de la Fontaine de Vie éternelle dans la tradition byzantine à la fin du Moyen Age, in Synthronon, Parigi 1968, pp. 119-134. 35 Cfr. T. Velmans, La peinture murale byzantine à la fin du Moyen Age, Parigi 1977, pp. 31 ss. 36 Cfr. Gregorii Cyprii Sermo res suas conti­ nens, pg, t. cxlii, col. 22. 37 Cfr. J. Yev/enko, Théodore Métochites, Chora et les courants intellectuels de l’époque, in «Art et société à Byzance», Parigi, 19, pp. 13-40. 38 Vasilievski, Epirotica saeculi xiii, in «Viz. Vrem.», t. iii, 1896, p. 234. 39 Cfr. T. Velmans, Byzanz, Fresken und Mosaike, Düsseldorf 1999, p. 182. 40 Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tav. 39 (cap. N. Chatzidakis). 41 Cfr. ibid., tav. 99. 42 Cfr. ibid., tav. 169. 43 Cfr. R. Hamann-Mac Lean e H. Hallensleben, Die Monumentalmalerei in Serbien und Makedonien, Giessen 1963, pp. 151-181. La chiesa è indicata con l’attuale nome di San Clemente. 44 Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tav. 55 (cap. N. Chatzidakis). 45 Cfr. ibid., tav. 65 (cap. N. Chatzidakis). 46 Cfr. K. Weitzmann, G. Babi0 et al., Ikone, tav. 188. 47 Cfr. K. Weitzmann, Frühe Ikonen, tav. 67. 48 Cfr. ibid., tavv. 161-165 (cap. Rodojcic). 49 Questi elementi si trovavano già nelle miniature occidentali dell’xi secolo (vedi il libro della Pericope di Salisburgo, v. 1040, Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Am. 4456, fol. iv) ed erano diffuse in Italia nel xiii secolo come dimostra, fra l’altro, la pala di Santa Cecilia dipinta a Firenze nella quale degli angeli sono posti nella stessa posizione – fra le colonne e l’architrave – delle cariatidi di Ohrid (cfr. T. Velmans, Infiltrations occi­ dentales dans la peinture murale byzantine au xiv siècle et au début du xv siècle, in «L’école de la Morava et son temps», Belgrado, 1972, fig. 8). Le cariatidi e altre statuette, poste in cima alle colonne o ai troni a frontone, sono particolarmente numerose nel ciclo di san Francesco in Santa Croce a Firenze, opera

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di Giotto (cfr. P. Toesca, Storia dell’Arte italiana, ii, il Trecento, Torino 1964, p. 493, fig. 447). Le cariatidi associate a teste di leone scolpite sono frequenti in Italia a partire dal xii-xiii secolo (cfr. A.C. Quintavalle, Duomo di Modena, collana «Forma e colore» n. 50, tav. 28; S.R. Guidetti, Modena, duomo, collana «Tesori d’arte cristiana», n. 17, tav. 471. 50 Tranne le miniature del Menologio di Basilio ii, v. 985 (cfr. Il Menologio di Basilio ii, Cod. Vat. gr. 1613, Torino, fol. 46 e 74). 51 Cfr. T. Velmans, Infiltrations, pp. 38 ss. 52 Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tavv. 102-105 (art. Kr. Mijatev). 53 Cfr. A. Grabar, A propos d’une icône byzantine du xiv siècle au Musée de Sofia, in L’art de la fin de l’Antiquité et du Moyen Age, Parigi 1968, pp. 847. L’autore nota che l’epiteto Katafygé indicava anche un ambiente sotterraneo della chiesa della Vergine Acheiropòietos a Salonicco che, secondo la leggenda, era servito da rifugio a san Demetrio. Del resto l’autore ricorda la Visione profetica sul verso dell’icona che reca l’iscrizione: «Gesù Cristo, quello del miracolo di Latomos» e allude al noto mosaico del v secolo nella chiesa di Cristo Latomos a Salonicco in cui è rappresentato lo stesso soggetto. Alcuni elementi comuni permettono di accostare le due opere. 54 La somiglianza fra lo schema iconografico del mosaico e quello dell’icona non è perfetta, soprattutto se pensiamo all’immutabilità di tali schemi nell’arte bizantina. L’iscrizione (vedi nota 53) cita, infatti, il miracolo avvenuto nella chiesa di Salonicco (vedi il racconto della Diegesis del monaco Ignazio, edita da A. Papadopoulos Kerameus in Varia graeca sacra, San Pietroburgo 1909, pp. 102 ss.), ma è possibile che esistessero delle copie del mosaico del v secolo in qualche icona o miniatura costantinopolitane. Infine, l’imperatrice Elena ha voluto certamente vedere l’icona che aveva commissionato prima di mandarla al convento fondato da suo padre, il despota Costantino Dejanovi0, a Poganovo. 55 Ne esistono delle buone riproduzioni in A. Grabar, La peinture byzantine, Ginevra 1953, pp. 98, 99, 110, 112. 56 Cfr. P. Underwood, The Kariye Djami, 2, New York 1966, tav. 1, pp. 19 ss. 57 Talbot Rice, Art byzantin, tav. xxv. 58 Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tav. 51 (cap. N. Chatzidakis). 59 Per le diverse ipotesi e bibliografia, cfr. A. Grabar, A propos d’une icône, p. 849. 60 Cfr. ibid., p. 850. 61 Mi limito a citare solo l’elemento più importante della leggenda. Per altri particolari, cfr. ibid., p. 850. 62 Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tav. 83 (articolo di Chatzidakis). 63 Cfr. San Marco. Il Tesoro e il Museo, 1971, cap. di A. Grabar, «L’oreficeria e le altre arti suntuarie bizantine», tavv. xvi-xvii. 64 Cfr. Sv. Radoj/i0, The Icons of Serbia and Macedonia, 1963, tav. 17. 65 Cfr. K. Weitzmann, et al., Frühe Ikonen, tav. 171 (art. Sv. Radoj/i0). 66 Cfr. K. Weitzmann, G. Babi0 et al., Ikone, tav. 64, in alto.

Cfr. ibid., tav. 64, sinistra. Cfr. K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tav. 72. 69 Cfr. K. Weitzmann, G. Babi0 et al., Ikone, tav. 76, p. 44. 70 K. Weitzmann et al., Frühe Ikonen, tav. 113. 71 Cfr. V. Lazarev, L’arte russa delle icone, Milano 1996, tav. 5. 72 A proposito di questa leggenda e dell’ufficio del Mandylion, cfr. E. Dobschütz, Christus­bilder. Untersuchungen zur christli­ chen Legende, i e ii, Lipsia 1889, passim. 73 San Germano, patriarca di Costantinopoli, scriveva al vescovo iconoclasta Tommaso: «La rappresentazione nelle icone dell’immagine del Signore in aspetto umano serve a confondere gli eretici che sostengono che Egli si sia fatto Uomo solo apparentemente, non in realtà». (cfr. Migne, pg, T 98, col. 173B). 74 Cfr. l’ufficio del 16 agosto, ibid., ii, pp. 60-61. 75 Il vescovo Germano è considerato l’autore di questo canone che sottolinea il Mistero dell’Incarnazione (cfr. E. Dobschütz, Chris­ tusbilder, ii, pp. 107 ss., 43, 114. 76 La prima omelia è attribuita a Costantino Porfirogeneto o a un membro del clero di corte (cfr. ibid., pp. 160 ss.). 77 La prima icona nota in questa zona è del x secolo e si trova nel monastero di Santa Caterina del Monte Sinai (cfr. K. Weitzmann, The Mandylion and Constantine Porphyroge­ netos, in «Cah. Arch.», xi, 1960, pp. 163-184). 78 L’ufficio si celebrava la prima domenica di Quaresima (cfr. Dobschütz, Christusbilder, i, p. 146). 79 Cfr. Y. Amiranayvili, Istorija gruzinskoi monumentaljnoi Zivopisi, Sekheljami 1957, pp. 23-30. 80 Cfr. A. Grabar, La Sainte Face de Laon, «Seminarium Kondakovianum», Praga 1931; T. Velmans, L’église de Khé en Géor­ gie, in «Zograf», p. 74 e, in una versione più ampia, in L’art médiéval de l’Orient chrétien, pp. 117 ss.; Ead. Valeurs sémantiques du Mandylion selon son emplacement ou son association avec d’autres images, in «Studien zur byzantinischen Kunstgeschichte, Festschrift für Horst Hallens­leben zum 65. Geburtstag», Amsterdam 1995, pp. 173-184. 81 Cfr. Onasch, Ikonenmalerei, p. 25. 82 Cfr. Mansi, xiii, 244 B. 83 Paolo, i Cor. 15, 35-46. 84 Cfr. N.V. Lazarev, L’arte russa, tav. 5. 85 Cfr. ibid., p. 41, n. 4. 86 Cfr. Id. Novgorodian Icon-Painting (testo russo e inglese), Mosca 1969, p. 10. 87 Cfr. Id., L’arte russa, pp. 139, 140, n. 2 e 3. 88 Cfr. Id., Icon-Painting, p. 9. 89 Cfr. Id., L’arte russa, pp. 160, 161, n. 18. 90 Cfr. N.V. Rozanov, Rostov-Suzdal’ Pain­ ting of the xii-xvi centuries, Mosca 1970, tavv. 3 e 4; Lazarev, L’arte russa, p. 164, n. 21. 91 J.N. Voeikova e V.P. Mitrofanov, Art in Ancient Jaroslavl, Leningrado 1973, tav. 2; N.V. Lazarev, L’arte russa, p. 165, n. 21. 92 Cfr. N.P. Kondakov, Ikonografija Bogo­ materi, San Pietroburgo 1911, t. ii, pp. 105123. 67 68

Cfr. N.V. Rozanov, Rostov-Suzdal’, p. 9. Cfr. N.V. Lazarev, Icon-Painting, tav. 11. 95 Cfr. ibid., tav. 15. 96 Nella regione di Novgorod si nota, infatti, una grande differenza di stile fra la pittura murale e quella di icone. 97 Cfr. ibid., tav. 16. 98 Cfr. ibid., tav. 23. 99 Cfr. ibid., tav. 49. 100 Cfr. ibid., tav. 51. 101 Cfr. ibid., tav. 69. 102 Su Snetogorsk, cfr. O. Popova, Ascesi e Trasfigurazione, Milano 1996. 103 Per esempio, l’icona della Madre di Dio Odigitria del monastero della Vergine protettrice a Suzdal’ o quella della Trinità del 1411 alla Galleria Tret’jakov. Altri esempi in O. Popova, Ascesi, p. 83. 104 Cfr. V.N. Lazarev, Les icônes de l’école de Moscou (testo russo e francese), Mosca 1980, tav. 3. 105 Vedere l’ottimo ingrandimento della testa di Gleb (cfr. ibid., p. 5). 106 Cfr. ibid., tav. 18. 107 Cfr. ibid., tav. 27. 108 Cfr. ibid., tav. 39. 109 Cfr. ibid., tav. 35. 110 Il racconto della Genesi parla dell’arrivo dell’Eterno sotto la forma di tre uomini alle querce di Mambre, davanti alla tenda di Abramo che accoglie gli ospiti e sgozza un vitello per offrire loro un pasto. L’Eterno predice a Sara che avrà un figlio dalla cui discendenza nascerà una nazione potente. Gli esegeti cristiani interpretarono il vitello sgozzato come una prefigurazione del sacrificio della Croce e dell’Eucarestia. 93 94

La periferia orientale del mondo Bizantino 1 Vedere il capitolo sull’iconoclastia in questo stesso volume e, più in breve, le pagine all’inizio del capitolo sullo stile. 2 Nel corso del iv e v secolo, in Oriente sorsero violente dispute cristologiche e diverse dottrine proposero varie spiegazioni sulla natura di Cristo, uomo e Dio. Fra queste, il monofisismo affermava che, dopo l’Incarnazione, le due nature divina e umana di Cristo avevano formato una sola natura divina. Nel 551 l’imperatore Marciano convocò a Calcedonia un concilio ecumenico che risolse la questione: in Cristo natura divina e umana coesistono in parti uguali, inseparabili e inconfondibili. 3 Dal 574 la Chiesa georgiana si separò da quella armena che rimase monofisita (cfr. Y. Amiranayvili, Istorija gruzinskogo iskusstva, Mosca 1950, p. 81. 4 Cfr. W.F. Volbach – J. LafontaineDosogne, Byzanz und der christliche Osten, Propyläen Kunstgeschichte, vol. 3, p. 360, tav. 405. 5 Cfr. P. du Bourguet, S.J., L’art copte, Parigi 1967. 6 Sulle pitture murali contemporanee di questo monastero, vedi J. Clédat, Le monas­ tère de la nécropole de Baouît, t. i-iv, Il Cairo 1904.

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7 Sulle icone di questo pittore: E. Heldman, The Marian Icons of the Painter Fre Seyon, Wiesbaden 1994. 8 Cfr. K. Weitzman, Eine vorikonoklas­ tische Ikone des Sinai mit der Darstellung des Chairete, in Studies in the Art of Sinai, Princeton 1982, pp. 105 ss, tav. 80. 9 Cfr. ibid., tav. 82 b. 10 Cfr. ibid., tav. 83. 11 Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs géor­ giens, Parigi 1971, pp. 8 ss. 12 Le analisi di queste sostanze hanno dimostrato che la pasta dello smalto conteneva estratti di piante locali. 13 Lo smalto cloisonné richiede un’abilità maggiore di quello a champlevé e en creux a causa delle sottilissime lamine di metallo che definiscono il disegno delle figure, quindi lo spazio in cui viene colato lo smalto colorato. 14 La parola Deesis significa «preghiera» in greco. Si tratta della preghiera d’intercessione che la Vergine e san Giovanni rivolgono a Cristo per ottenere il perdono all’umanità. A volte vi si associano angeli e santi. 15 Per la datazione, cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, p. 50, fig. 26. 16 Questo tipo si caratterizza per la posa della Vergine che porta il Bambino sul braccio sinistro. 17 Y. Amiranayvili (L’art des ciseleurs, p. 62) parla del «gruppo umanissimo di una madre col suo lattante» e, più avanti: «Dalla Madre di Dio [...] si diffonde un sentimento intimo [...]. Il Bambino, rivolto verso il viso di Maria, cerca con tutto se stesso di rannicchiarsi contro il seno di lei». 18 Cfr. T. Velmans, Le miroir de l’invisible, Parigi 1996, tavv. 8, 9, 13, 14; Ead. Byzanz, Fresken und Mosaike, Zurigo e Düsseldorf 1999, tav. 22 (stessi riferimenti per la traduzione francese: Le rayonnement de Bysance). 19 Cfr. G. Alibegayvili, A. Volskaja, in Grusinjske ikone, Ikone, Belgrado 1981, riproduzione tav. 87. 20 A Bisanzio san Giorgio trafigge il drago oppure lo doma miracolosamente. 21 Cfr. T. Velmans, Fresken, cap. ii. 22 Cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, fig. 96. 23 Si tratta di una vasta area della Georgia orientale dove fu creato l’emirato di Tbilisi. 24 Cfr. Au pays de la toison d’or, catalogo, Parigi 1982, pp. 150-151. 25 Cfr. G. Alibegayvili, A. Volskaja, Ikone, riproduzione p. 105. 26 Sul ruolo degli angeli, vedi: J. Daniélou, Les anges et leur mission d’après les Pères de l’Église, Chevtogne 1953 (2a ed.); K. Onasch, Liturgie und Kunst der Ostkirche in Stichwor­ ten, pp. 98 ss.; E. Peterson, Das Buch von den Engeln, Monaco 1955. Sulla loro rappresentazione: M. Tatic-Djuric, Das Bild der Engel, Recklinghausen 1962. 27 Su questa eresia: M. Loos, Dualist Heresy in the Middle Ages, Gottinga 1898. 28 Cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, fig. 51. 29 Cfr. ibid., fig. 52. 30 Cfr. ibid., figg. 43-52.


31 Cfr. T. Velmans, Le miroir, passim e conclusione, pp. 167 ss. 32 Cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, fig. 54. 33 Cfr. ibid., fig. 67. 34 Sul trittico di Khakhuli e la posa della Vergine nell’icona centrale, cfr. N.P. Kondakov e D. Bakradze, Opis Pamjatnikov drevno­ sti i nekotorikh Khrama i manastirjakh Grusii, San Pietroburgo 1892, pp. 83 ss., disegno 37. Per il confronto con l’icona di Khobi, cfr. D. Gordeev, K voprosu o razgruppirovanii emalei Kharkhulskogo skladnja, in Mistecvoznastvo, i, Cracovia 1928, p. 158; più recente: L. Khuskivadze, Gruzinskije emali, Tbilisi 1981, pp. 77 ss. 35 Cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, p. 110. 36 Cfr. ibid., fig. 71. 37 Vedere, per esempio, la croce processionale detta di Davide Kuropalate (cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, fig. 31). 38 Cfr. J. Spatharakis, The Portrait in Byzan­ tine illuminated manuscripts, Leida 1976, fig. 70. 39 Cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, fig. 76. 40 Cfr. ibid., pp. 118, 128. 41 Cfr. La toison d’or, p. 178, con bibliografia. 42 Cfr. T. Velmans, Le rôle du décor archi­ tectural et la représentation de l’espace dans la peinture des Paléologues, in «Cah. Arch», xiv, 1965, pp. 183-216. 43 In generale si tratta solo della purificazione di Maria, ma il Vangelo di Luca cita anche Giuseppe. 44 Questa processione è testimoniata soprattutto nella Chiesa cattolica in quanto venne istituita da papa Gelasio nel 494 (cfr. K. Onasch, Liturgie und Kunst..., p. 81). 45 Cfr. V. Talin, Sretenie Gospodne, Istorija prazdnika i ego smysl, in zup, 1967, 2, 68 bis71; rbk, 1, pp. 1134-1145. 46 Cfr. Ikone, riproduzione p. 114. 47 Cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, tav. 75. 48 Cfr. Ikone, p. 120 (destra). 49 Cfr. T. Velmans, L’icône géorgienne de la Vierge de Tendresse avec le cycle des grandes fêtes, in L’art de l’Orient chrétien, Sofia 2001, pp. 295 ss., fig. 237. 50 L’iscrizione, in asomtavruli (capitali), è una preghiera rivolta alla Vergine Regina affinché interceda presso Cristo in favore di molti membri della nobile famiglia dei Laklakidze, e dei loro due figli Mirian e Sasan Kurdia. 51 G.N. \ubinayvili (L’art géorgien du repoussé du viii au xviii siècle, Tbilisi 1957, in russo, p. 21) suppone che il tipo della Vergine della Tenerezza, noto soprattutto per l’icona costantinopolitana della Vergine di Vladimir (1130), potrebbe essere stato creato in Georgia nell’xi secolo, cosa evidentemente assurda. 52 E. Mepisayvili e V. Tsintsadze (Die Kunst des alten Georgiens, Lipsia 1977, p. 228) riprendono questa teoria, come anche Y. Amiranayvili (L’art des ciseleurs, p. 114) e A. Grabar (Les revêtements en or et en argent

des icônes byzantines du Moyen Age, Venezia 1975, tav. B, pp. 21-22) che si limita a citare questa icona. 53 Cfr. nota 49. 54 Cfr. G. Millet, Recherche sur l’icono­ graphie de l’Évangile au xiv, xv et xvi siècles, Parigi 1916, pp. 415-416. 55 Cfr. ibid., p. 146. 56 Cfr. ibid., fig. 432. 57 Cfr. ibid., figg. 441, 474. 58 Cfr. I. Reissner, La Géorgie, Turnhout 1990, vedere la serie d’immagini senza numerazione fra le pagine 45 e 130. 59 Cfr. Millet, Évangile, fig. 248. 60 Cfr. ibid., fig. 244 61 Cfr. A. Grabar, Les revêtements, pp. 4950, figg. 47-52, n. 21. 62 Cfr. ibid., pp. 52-53, figg. 53-54, n. 22. 63 Vedere, per esempio, l’affresco della Natività nella chiesa della Peribleptos di Mistrà dove lo schema è diverso dal nostro, ma sulla sinistra sono presenti quattro angeli (cfr. M. Chatzidakis, Mistra, Atene 1981, tav. 47). Nell’affresco del monastero di San Paolo sul Monte Athos (xv secolo), la legione di angeli è rappresentata quasi come nella nostra icona (cfr. Millet, Recherches, fig. 37), e così pure nell’icona della Natività dell’inizio del xv secolo conservata a Londra nella Collezione M. Peraticos (cfr. From Byzantium to el Greco, catalogo, Londra 1987, tav. 30, pag. 166). 64 Vedere, per esempio, il trittico di An/iskhati (cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, tav. 80). 65 Vedere i rivestimenti del xiv secolo delle icone di san Giovanni Crisostomo a Chilandari (cfr. A. Grabar, Les revêtements, pp. 55-56, fig. 62, n. 26; pp. 49-50, fig. 48, n. 21) e quello del 1410 dell’icona di Vladimir (cfr. ibid., pp. 70-72, fig. 56, n. 80). 66 Cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, tav. 77. 67 Cfr. E.I. Privalova, Rospis Timotesubani, Tbilisi 1980, disegno n. 36. 68 Cfr. V. J. Antonova N.E. Mneva, Katalog drevnorusskoi Zivopisi, i, Mosca 1963, figg. 29, 93. 69 Cfr. V. Djuri0, Sopo0ani, Belgrado 1963, tavv. xxx, xxxviii-xl 70 Riproduzione in Ikone, p. 94 e Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, tav. 38. 71 Cfr. ibid., p. 76. 72 Cfr. Ikone, p. 89. 73 Cfr. ibid., riproduzione p. 187. 74 L’iscrizione di quest’icona chiama la Vergine Kikkotissa. Accade spesso che l’epiteto dato alla Vergine nell’iscrizione di un’opera bizantina non corrisponda esattamente al tipo iconografico. 75 Cfr. A. e G. Stlyanou, The Painted Chur­ ches of Cyprus, Londra 1985, fig. 85. 76 Si tratta del xiii-xv secolo, quando nella pittura bizantina compaiono delle tendenze narrative, i gesti vengono caratterizzati e i valori affettivi intensificati. 77 Non si tratta di pittura ad encausto nella quale i pigmenti vengono diluiti a caldo (cfr. Y. Amiranayvili, L’art des ciseleurs, p. 76). 78 Cfr. Ikone, riproduzione p. 110 (a sinistra).

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79 Cfr. V.N. Lazarev, Old Russian Murals and Mosaics, Londra 1966, fig. 63; cfr. Id., Drevneruskije mozaiki i freski, Mosca 1973, tavv. 162-165. 80 Cfr. Stylianou, Cyprus, riproduzione fig. 87. 81 Cfr. Ikone, riproduzione p. 110 (a destra). 82 Cfr. Ikone, riproduzione p. 109, in alto. 83 Cfr. Millet, Évangile, pp. 470-471, figg. 494-497. 84 Cfr. ibid., pp. 491 ss. 85 Possiamo seguire l’evolversi dell’immagine a partire dalla Sepoltura del Tetravangelo della Laurenziana (Laur. vi 23) della fine dell’xi-inizio del xii secolo (cfr. T. Velmans, Le Tétraévangile de la Laurentienne, Parigi 1971, figg. 122, 178, 265). 86 A Spas Mirozski a Pskov (1156-1158) (cfr. T. Velmans, Byzanz, tav. 63). 87 Cfr. Ead., La peinture murale byzantine à la fin du Moyen Âge, Parigi 1978, fig. 100. 88 Riproduzione a colori in Ikone, p. 113; studio dell’icona e datazione al xiii secolo in T. Velmans, Une icône du Musée di Mestia et le thème des Quarante Martyrs en Géorgie, in L’art médiéval de l’Orient chrétien, Sofia, 2001, pp. 279-293 (i edizione dell’articolo in «Zograf», 14, 1983, pp. 40-51). 89 Cfr. ibid., fig. 233; Ikone, p. 31. 90 Sul carattere di questa rinascenza, vedere il capitolo sullo stile dell’icona in questo stesso volume. Le mie osservazioni e riflessioni sulla questione sono state condotte in maniera indipendente, ma ora mi accorgo che concordano in parte con quelle di H. Belting (Kunst oder Objekt-Stil? Fragen zur Funktion der «Kunst» in der «Makedonischen Renaissance», in Byzanz und der Westen, p. 65). Fra gli studi più importanti su questa rinascenza: K. Weitzmann, The Joshua Roll, Princeton 1948; idem, Geistige Grundlagen und Wesen der Makedonischen Renaissance, Colonia-Opladen 1963. 91 Cfr. La toison d’or, riproduzione p. 185. 92 Su questa rinascenza vedere l’ultima parte del capitolo sullo stile. 93 Cfr. T. Velmans, Le miroir; Ead., Byzanz, cap. vii.

Funzioni e tipologia delle icone A. Grabar in Il tesoro di San Marco, Firenze 1971, pp. 23-27, nn. 16-17. A. Blank, Byzantine Art in the Collections of Soviet Museums, Leningrad 1977, p. 308, tavv. 192-195. M. Chatzidakis, Une icône en mosaïque de Lavra, Jahrbuch der Öster­ reichischen Byzantinistik, 21, 1972, pp. 73-81. 2 Cfr. l’icona del periodo della dinastia tardopaleologa dei santi Pietro e Paolo a Vienna: K. Kreidl-Papadopoulos, Die Ikone mit Petrus und Paulus in Wien. Neue Aspek­ te zur Entwicklung dieser Rundkomposition, Deltion tis Christianikis Archaiologikis Etai­ reias (d’ora in poi dchae), 1980-1981, pp. 339-356. 3 Come a Ba/kovo (v. Lazarev, Storia del­ la pittura bizantina, Torino 1967, figg. 346, 351) e nella chiesa di Hagioi Anagyroi a Ka1

ii,

storia (S. Pelekanidis-M. Chatzadikis, Kasto­ ria, Athens 1984, p. 49, fig. 29). 4 Per esempio nel Salterio di Teodoro del 1066; si veda S. Der Nersessian, L’Illustra­ tion des Psautiers grecs du Moyen Age, ii, Paris 1970, fig. 137. 5 Un’icona, di santa Caterina di forma circolare, è menzionata a Creta in un testamento del 1436: M. Manoussacas, Il testa­ mento di Angelos Acotantos (1436), scono­ sciuto pittore cretese (in greco), dchae, 2, 1960-61, p. 148.33. 6 Si veda, ad esempio, il testamento di Eustathios Boïlas del 1059, in P. Lemerle, Cinq études sur le xie siècle byzantin, Paris 1977, p. 24; l’inventario del monastero tou Xylourgou sul Monte Athos del 1142, in P. Lemerle - G. Dagron-S. 1irkovi0, Actes de Saint-Panté­léè­môn, Paris 1982, pp. 73, 76; e l’inventario del 1449 del monastero della Vergine Eleousa nella Macedonia del Nord, in L. Petit, Le Monastère de Notre-Dame de Pitié en Macédonie, Izvestija Russkogo Arhe­ logi/eskogo Instituta v Konstantinopole, vi, 1900, p. 120.4. 7 N. Oikonomides, The Icon as an Asset, Dumbarton Oaks Papers (d’ora in poi dop), 45, 1991, pp. 39-43. 8 L. Majeska, Russian Travelers to Con­ stantinople in the Fourtheenth and Fifteenth Centuries, Washington, d.c., 1984, pp. 207209, 211, 215-216, 218-219, 224-225, 228, 229. 9 Ibid., pp. 280-282, 304-306. 10 P. Gautier, Le typikon du Christ Sau­ veur Pantocrator, Revue des Études Byzanti­ nes (d’ora in avanti reb), 32, 1974, pp. 3741; cfr. H. Belting, Likeness and Presence. A History of the Image before the Era of Art, Chicago-London 1994 (d’ora in avanti Belting, Likeness and Presence), pp. 227229, 515-516; J. Darrouzès, Sainte-Sophie de Thessalonique d’après un rituel, reb, 34, 1976, pp. 45-78. 11 Belting, Likeness and Presence, pp. 225-233. 12 P. Lemerle - G. Dragon - S. 1irkovi1, Actes de Saint-Pantéléèmôn, Paris 1982, p.74. 13 J. Cotsonis, Byzantine Figural Processio­ nal Crosses, Washington 1994, pp. 32-37. 14 T. Velmans, Rayonnement de l’icone au xiie et au début du xiiie siècle, Actes du xve Congrès International d’Études Byzanti­ nes (d’ora in poi Actes xve Congrès Études Byzantines), Athens 1979, pp. 406-409. 15 T. Velmans, Rayonnement de l’icone, op. cit., p. 407, tav. lix.9. 16 M. Vassilaki (ed.), Mother of God. Representations of the Virgin in Byzantine Art, Milano 2000 (d’ora in avanti Mother of God), pp. 388-389, n. 54, con ulteriore bibliografia. 17 A. Frolow, La «Podéa», un tissu décora­ tif de l’église byzantine, Byzantion, 13, 1938, pp. 461-504. V. Nunn, The Encheirion as adjunct to the Icon in the Middle Byzantine Period, Byzantine and Modern Greek Stu­ dies, 10, 1986, pp. 73-102. 18 L. Petit, Le Monastère de Notre-Dame

de Pitié en Macédoine, v. supra n. 6, p.123. M. Manoussacas, Il testamento di Ange­ los Acotantos (1436), v. supra n. 5, p. 148, 34-36. 20 Si veda A. Grabar, La peinture du Mo­ yen Age en Bulgarie, Paris, 1928, pp. 64-66. A. Orlandos, I monumeni bizantini di Kasto­ ria (in greco), Archeion Byzantinon Mnime­ ion Ellados, 4, 1938, pp. 36, 75. V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino 1967, pp. 222, 224-225. H. Grigoriadou-Cabagnols, Le décor peint de l’église de Samari en Messénie, Cahiers Archéologiques, xx, 1970, pp. 185-188. T. Velmans, Actes xve Congrès Études Byzantines, i, pp. 382-383. i. Djordjevi0, Die Freskoikonen des Mittelalters bei den Serben, Zbornik za Likovne Umetnosti (d’ora in poi zlu), 14, 1978, pp. 77-96. 21 V. Lazarev, L’arte russa delle icone dalle origini all’inizio del xvi secolo, Milano 2021 (Jaca Book), pp. 33-34, 361-363, nn. 1, 2, 4. 22 A. Papageorgiou, Icons of Cyprus, Nicosia, 1992, pp. 62-64, figg. 39-41. A. Weyl Carr, A Palaiologan Funerary Icon from Gothic Cyprus, Praktika tou tritou Diethnous Kyprologikou Synedriou (Actes of the Third International of Cypriot Studies), ii, Nicosia 2001, pp. 599-607. 23 A. Papageorgiou, Icons of Cyprus, Nicosia 1992, p. 67, fig. 48. 24 J. Lefort - N. Oikonomides, Actes d’Ivi­ ron, Paris 1990, p. 179. H. Belting, Likeness and Presence, p. 519. Riguardo alla tomba del sebastocratore cfr. N.P. Yev/enko, The Tomb of Isaak Komnenos at Pherrai, Greek Orthodox Theological Review, 29, 1984, pp. 135-139. 25 C. Mango, The Art of the Byzantine Empire 312-1453, Englewood Cliffs 1972, p. 184. Sul ritratto di san Cirillo a San Clemente si veda S. 1ur/i0, Proskynetaria Icons, Saints’ Tombs, and the Development of the Iconostasis, in: A. Lidov (ed.), Icono­ stasis. Origins-Evolution-Symbolism, Mosca 2000 (d’ora in poi A. Lidov, ed., Iconosta­ sis), p. 136, figg. 6-7, con bibliografia anteriore. 26 N.P. Yev\enko, Servants of the Holy Icon, Byzantine East, Latin west. Art-Histo­ rical Studies in Honor of Kurt Weitzmann, Princeton 1995, p. 547. 27 Mother of God, pp. 379, 385, 388-389, n. 54, con ulteriore bibliografia. Rappresentazioni paleologhe della processione dell’icona sono opportunamente riunite nell’articolo di N.P. Yev/enko, Icons in the Liturgy, dop, 45, 1991, figg. 9-15. 28 L. Majeska, Russian Travelers to Con­ stantinople in the Fourteenth and Fifteenth Centuries, Washington, D.C., 1984, p. 36. Questa e altre testimonianze sono opportunamente raccolte da N.P. Yev/enko, Ser­ vants of the Holy Icon, v. supra n. 26, pp. 548-549. 29 Riguardo a quest’icona si vedano, tra gli altri, A. Grabar, L’Hodigitria et l’Elou­ sa, in: ZLU, 10, 1974, pp. 3-14: I. Tognazzi Zervou, L’iconografia e la «Vita» delle mira­ colose icone della Theotokos Brefokratoussa: Blachernitissa e Odighitria, Bollettino della 19

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Badia Greca di Grottaferrata, s.l., xl.2, 1986, pp. 219-220, 228-229, 233-262, 283-287. L. Majeska, op. cit., v. supra n. 28, pp. 363-366: C. Angelidi - T. Papamastorakis, The Vene­ ration of the Virgin Hodigitria and the Ho­ degon Monastery, Mother of God, pp. 373385. Sulle processioni dell’Odigitria si veda anche R. Janin, La géographie ecclésiastique de l’empire byzantin. i. Le siège de Constan­ tinople et le patriarcat oecuménique, 3. Les églises et les monastères, ii ed., Paris 1969, pp. 203-206. 30 Gli affreschi di De/ani, Mateji0 e Markov Manastir, l’icona del British Museum ed alcune miniature sono opportunamente messi a confronto da N.P. Yev/enko, Icons in the Liturgy, dop, 45, 1991, figg. 8-15. 31 E. von Dobschütz, Maria romaia. Zwei unbekannte Texte, Byzantinische Zeitschrift, 12, 1903, pp. 173-214. C. Angelidi - T. Papamastorakis, v. supra n. 29, p. 382. 32 Il funerale di Nemanja è dipinto a Studenica e a Sopo0ani (G. Babi0, Chapelles latérales des églises serbes du xiiième siècle et leur décor peint, L’art byzantin du xiiie siècle, Belgrade 1967, p. 185, figg. 19-22). 33 M. Acheimastou-Potamianou, Icons of the Byzantine Museum of Athens, Athens 1998, pp. 114-115, n. 31. 34 J.-R. Viellefond, Les pratiques religieu­ ses dans l’armée byzantine d’après les traités militaires, Revue des Études Anciennes, 37, 1935, p. 322. A. Weyl Carr, The Mother of God in Public, The Mother of God, pp. 330332. C. Angelidi-T. Papamastorakis, The Monastery ton Hodegon and the cult of the Virgin Hedegetria, ibid., p. 382. 35 N.P. Yev\enko, Icons in the Liturgy, dop, 45, 1991, p. 46, fig. 1. 36 Niketas Choniates (Van Dieten), p. 19, 158 (= Bonn, pp. 26, 205-206). 37 N.P. Yev\enko, op. cit., p. 46. C. Angelidi - T. Papamastorakis, The Veneration of the Virgin Hodigitria and the Hodegon Mo­ nastery, Mother of God, p. 383. 38 N. Oikonomides, The Icon as an Asset, dop, 45, 1991, p. 38. 39 C. Mango, The Art of the Byzantine Empire, v. supra n. 25, pp. 138-139. 40 Si veda per es. C. Mango, op. cit., pp. 212-214 e N. Oikomedes, op. cit., p. 35. 41 Si veda, per es., P.L. Vocotopoulos, L’illustrazione del canone per coloro che si trovano a lottare con la morte nell’Horolo­ gion n. 295 del monasero di Leimonos (in greco), Symmeikta, 9, 1994, pp. 98-99, figg. 3, 7. 42 N. Oikonomides, op. cit., pp. 36, 38. 43 N. Oikonomides, Actes de Docheiariou, Paris 1984, p. 264. Riguardo al valore delle icone, si veda N. Oikonomides, The Icon as an Asset, dop, 45, 1991, p. 38. 44 G. e M. Sotiriou, Icones du Mont Sinaï, Athens 1956-58 (d’ora in avanti Sotiriou, Icones du Sinaï), pp. 52-55, figg. 39-41. K. Weitzmann, Byzantine Miniature and Icon Painting in the Eleventh Century, Studies in Classical and Byzantine Manuscript Illu­ mination, Chicago-London 1971 (d’ora in poi Weitzmann, Eleventh Century), p. 293,


figg. 293-294. I. Furlan, Le icone bizantine a mosaico, Milano, 1979, pp. 81-82, n. 30. K. Weitzmann, Fragments of an Early St. Nicholas Triptych on Mount Sinai, dchae, 4, 1964-1965, p. 22, tav. 10 (ristampato in Id., Studies in the Arts at Sinai, Princeton 1982, n. viii). 45 F. Miklosich - J. Müller, Acta et Diplo­ mata graeca medii aevi sacra et profana, vi, Vienna 1890, p. 84. 46 Sotiriou, Icones du Sinaï, pp. 59-62, fig. 43. K. Weitzmann, Studies in the Art of Si­ nai, Princeton, 1982, p. 431, nota alla p. 21, n. 5. K. Manafis (ed.), Sinai. Treasures of the Monastery of Saint Catherine, Athens 1990 (d’ora in poi Treasures of Sinai), pp. 100101, fig. 18. 47 K. Weitzmann, The Mandylion and Constantine Porphyrogennetos, Cahiers Ar­ chéologiques, xi, 1960, pp. 163-184 (ristampato in Id., Classical and Byzantine Manu­ script Illumination, Chicago-London 1971, pp. 224-246). Sui trittici in generale cfr. le osservazioni di K. Weitzmann, Fragments of an Early Triptych on Mount Sinai, dchae, 4, 1964-1965, pp. 18-23 (ristampato in Id., Stu­ dies in the Arts at Sinai, Princeton 1982, n. viii). 48 Treasures of Sinai, p. 112, fig. 54. Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 175-176, fig. 193. Un trittico in argento con Cristo nel pannello centrale e vari santi su entrambi e le facce delle ante è citato in un elenco di icone e oggetti liturgici del monastero costantinopolitano del Cristo Panoiktirmon, stilato nel 1077: P. Gautier, La Diataxis de Michel At­ taliate, reb, 39, 1981, p. 89. 49 N. Chichinadze, Some Compositional Characteristics of Georgian Triptychs of the Thirteenth through Fifteenth Centuries, Ge­ sta, xxxv/1, 1996, pp. 66-74. 50 G. AlibegaYvili e A. Volskaya in K. Weitzmann et alii, Les icônes, Paris 1982, pp. 11, 118, 122. Il trittico di Ubisi, con il riquadro mancante, appartiene ad un gruppo di icone composite, sulle quali, v. infra. 51 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 90-92, figg. 76-79. K. Weitzmann, Eleventh Centu­ ry, pp. 304-306, figg. 304-307. Treasures of Sinai, p. 108, fig. 28. 52 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 189-190, figg. 208-212. P. L. Vocotopoulos, Icone bi­ zantine, Atene 1995 (in greco), pp. 215-216, fig. 105-108. 53 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 121123, 125-130, figg. 136-139, 146-150. Weitzmann, Eleventh Century, pp. 297-304, figg. 301-304. 54 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 190-191, figg. 213-217. Treasures of Sinai, p. 121, fig. 72. 55 Sulle icone calendariali si veda principalmente Weitzmann, Eleventh Century, pp. 284-285, 296-312. Id., Icon Programs of the 12th and 13th Centuries at Sinai, dchae, 12, 1984 (d’ora in poi Weitzmann, Icon Pro­ grams), pp. 107-113. H. Belting, Likeness and Presence, pp. 249-260. H. DeliyanniDoris, Menologion, Reallexikon zur byzanti­ nischen Kunst, vi, coll. 188-193, 195-196.

Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 121123, 125-130, figg. 136-139, 146-150. Weitzmann, Eleventh Century, pp. 297-304, figg. 301-303. Il polittico comprendeva sei ante, delle quali le quattro centrali erano dedicate al calendario, mentre le altre due rappresentavano scene del Vangelo e il Giudizio universale. 57 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 123-125, figg. 144-145. Weitzmann, Eleventh Centu­ ry, pp. 285, 296-297. Weitzmann, Icon Pro­ grams, pp. 108-109, fig. 38. Sulle tavolette di Novgorod, si veda V. Lazarev, The DoubleFaced Tablets from the St. Sophia Cathedral in Novgorod, Moscow, 1983. 58 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 119-120, figg. 131-135. Treasures of Sinai, p. 100, fig. 17. 59 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 117-119, figg. 126-130. Weitzmann, Icon Programs, pp. 108-110, fig. 37. Treasures of Sinai, p. 108, fig. 30. Le icone con i dodici mesi citate nell’inventario (1142) del monastero di Xylourgou sul Monte Athos erano verosimilmente icone calendariali; si veda P. Lemerle-G. Dagron-S. 1irkovi0, Actes de Saint-Pantéléèmôn, Paris 1982, p. 76. 60 Weitzmann, Icon Programs, pp. 108109, fig. 38. 61 Treasures of Sinai, p. 112, figg. 43-44. 62 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 194-195, fig. 221. Treasures of Sinai, pp. 123-124, fig. 76. 63 N. Oikonomides, The Icon as an Asset, dop, 45, 1991, pp. 37-38. 64 A. Grabar, Les revêtements en or et en argent des icônes byzantines du Moyen Age, Venice 1975. 65 P. Gautier, La Diataxis de Michel Atta­ liate, reb, 39, 1981, p. 89. M. Chatzidakis, Icons of Patmos, Athens, 1985, pp. 44-45, n. 1, tav. 1. 66 P. Gautier, loc. cit. 67 A. Grabar, v. supra n. 64, figg. 3, 14, 15, 64, 65. 68 Ch. Bakirtzis, The basilica of St. De­ metrius, Thessaloniki 1988, p. 45, tav. 22. M. Andaloro, I mosaici parietali di Durazzo o dell’origine costantinopolitana del tema iconografico di Maria Regina, Studien zur spätantiken und byzantinischen Kunst Frie­ derich Wilhelm Deich­mann gewidmet, Bonn 1986, iii, p. 104, tav. 36.3. 69 D. Talbot Rice, Cypriot Icons with Plas­ ter Relief Backgrounds, Jahrbuch der Öster­ reichischen Byzantinistik, 12, 1972, pp. 269278. M. S. Frinta, Raised Gilded Adornment of the Cypriot Icons, and the Occurrence of the Tech­nique in the West, Gesta, xx, 1981, pp. 333-347. 70 K. Weitzmann, The Monastery of Saint Catherine at Mount Sinai. The Icons, i. From the Sixth to the Tenth Century, Princeton, 1976, pp. 101-102, n. B.61. Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 95-96, fig. 83. P. L. Vocotopoulos, Byzantine Icons, v. supra n. 52, pp. 194-195, nn. 14-15. 71 P.L. Vocotopoulos, op. cit., pp. 198, 201, nn. 29, 46, con ulteriore bibliografia. E. Tsigaridas, La peinture à Kastoria et en 56

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Macédoine grecque occidentale vers l’année 1200. Fresques et icones, Studenica et l’art byzantin autour de l’année 1200, Belgrade 1988, pp. 315-316, figg. 30-31. 72 A. Grabar, Les revêtements en or et en argent, v. supra n. 64, pp. 21-22, n. 1, tav. A.W. Seibt-T. Sanikidze, Schatzkammer Georgien, Vienna 1981, nn. 3, 26, 32, 39, figg. 3, 19, 25, 30. K. Weitzmann et alii, Les icônes, Paris, 1982, pp. 94, 97-102. 73 P. Gautier, La Diataxis de Michel Atta­ liate, reb, 39, 1981, p. 89. 74 K. Weitzmann, The Monastery of Saint Catherine at Mount Sinai. The Icons, v. supra n. 70, p. 102. 75 V. Lazarev, L’arte russa delle icone, Milano 2021 (Jaca Book), nn. 9, 11-13, 14, 17, 132. 76 Questo gruppo è stato discusso principalmente da Nancy P. Yev/enko nei suoi articoli Vita Icons and «Decorated» Icons of the Komnenian Period, in: B. Davezac (ed.), Four Icons in the Menil Collection, Houston 1992, pp. 57-69, e The Vita Icon and the Painter as Hagiographer dop, 53, 1999, pp. 149-165. Sui pannelli del Sinai si veda K. Weitzmann, Icon Programs, pp. 94-102, 113. Non c’è consenso riguardo alla data di un’icona di santa Marina a Cipro, conservata in cattive condizioni, che è stata variamente datata all’viii o ix, agli inizi dell’xi o alla fine del xii secolo. Si veda N. P. Yev/enko, The Vita Icon and the Painter as Hagiographer, dop, 53, 1999, p. 150, n. 2. 77 Sulla Vergine col Bambino di Zarzma: W. Seibt-T. Sanikidze, Schatzkammer Ge­ orgien, Vienna, 1981, n. 31, fig. 24. K. Weitzmann et alii, Les icônes, Paris 1982, pp. 87, 103. L’inventario del 1077 delle icone del monastero del Cristo Panoiktirmon elenca tre icone di questo tipo. Si veda P. Gautier, La Diataxis de Michel Attaliate, reb, 39, 1981, pp. 89, 91. 78 K. Weitzmann, Icon Programs, pp. 102106, figg. 31, 32, 35. 79 A. Papageorgiou, Icons of Cyprus, Nicosia 1992, pp. 46-55, tavv. 31-32. 80 Cfr. le icone di san Giorgio a Struga, del terzo quarto del xiv secolo (V. Djuri0, Icônes de Yougoslavie, Belgrade 1961, pp. 31, 102, n. 29, tav. xlii) e quelle provenienti da Ubisi (W. Seibt-T. Sanikidze, Schatzkam­ mer Georgien, Vienna, 1981, p. 123, n. 44, fig. 35). 81 The Glory of Byzantium, New York, 1997, pp. 484-486, n. 320, con bibliografia anteriore. N.P. Yev/enko, The Vita Icon and the Painter as Hagiographer, dop, 53, 1999, pp. 152-153, fig. 3. 82 Si veda V. Lazarev, L’arte russa delle icone, Milano 2021 (Jaca Book), nn. 30, 33, 58, 68, 85, 86, 110, 117, 119, 120, 130, 133, 138, 143. 83 S. Petkovi1, The Icons of Monastery Chilandar, Monte Athos 1997, pp. 32, 102. 84 Sulla storia del templon si veda in primo luogo M. Chatzidakis, Ikonostas, in Realle­ xikon zur byzantinischen Kunst, iii, coll. 326353; Id., L’évolution de l’icone aux 11e-13e siècles et la transformation du templon, Actes

Congrès Études Byzantines, i, pp. 333363; C. Walter, A New Look at the Byzanti­ ne Sanctuary Barrier, reb, 51, 1993, pp. 203228; Id., The Byzantine Sanctuary – A Word List, Byzantinorossica, 1, 1995, pp. 95-106. A. Lidov (ed.), Iconostasis, con ulteriore bibliografia. 85 J.-P. Sodini, La sculpture médio-byzanti­ ne: le marbre en ersatz et tel qu’en lui-même, C. Mango-G. Dragon (ed.), Constantinople and its Hinterland, Aldershot 1995, pp. 294-306. 86 Le parole en to templo, per esempio, possono essere usate per significare sia sull’architrave di un templon, sia tra le sue colonne. Cfr. C. Walter, A New Look at the Byzantine Sanctuary Barrier, reb, 51, 1993, p. 214. 87 C. Mango, On the History of the Tem­ plon and the Martyrion of St. Artemios at Constantinople, Zograf, 10, 1979, pp. 40-43. 88 L. Schennikova, The Russian High Iconostasis at the turn of the 15th centu­ ry: results and prospects of research, in A. Lidov (ed.), Iconostasis, pp. 392-408; L. Evseeva, Eschatol­ogy of the year 700 and the origins of the high iconostasis, ibid., pp. 411-427; V. Sorokatyi, The festival tier of the Russian iconostasis: The iconographical programmes of the 15th and 16th centuries, ibid., pp. 465-489. 89 M. Chatzidakis, Ikonostas, in Realle­ xikon zur byzantinischen Kunst, iii, coll. 335343. Id., L’évolution de l’icône, v. supra, n. 84, pp. 337-339, 343-352, 362-363. C. Walter, A New Look at the Byzantine Sanctuary Barrier, reb, 51, 1993, pp. 214-223. J.-M. Spieser, Le développement du templon et les images des Douze Fêtes, Bulletin de l’Insti­ tut Historique Belge de Rome, lxix, 1999, pp. 131-159. 90 C. Walter, A New Look at the Byzantine Sanctuary Barrier, op. cit., p. 223. 91 Sul Dodekaorton si veda soprattutto C. Walter, A New Look at the Byzantine Sanctuary Barrier, op. cit., pp. 217-223 e J.-M. Spieser, Le développement du templon, op. cit., pp. 139-158, con bibliografia anteriore. 92 Sull’epistilio di sant’Eustrazio al monastero del Monte Sinai: K. Weitzmann, Illu­ strations of the Livres of the Five Martyrs of Sebaste, dop, 33, 1979, pp. 108-110. Sull’epistilio di san Giovanni Battista nel monastero del Cristo Panoiktirmon: P. Gautier, La Diataxis de Michel Attaliate, reb, 39, 1981, p. 89. 93 K. Weitzmann, The Monastery of Saint Catherine at Mount Sinai. The Icons, v. supra n. 70, pp. 91-93, n. B 56. Dubbi sono stati avanzati da C. Walter, A New Look at the Byzantine Sanctuary Barrier, op. cit., p. 222. 94 P. Gautier, Le typikon du sébaste Grégoire Pakourianos, reb, 42, 1984, p. 121. 95 M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône, op. cit., pp. 338, 349, tav. xxxiv.2. K. Weitzmann, Icon Programs, p. 80. 96 J.-M. Spieser, op. cit., pp. 137-138. T. Totev, L’atelier de céramique peinte du monastère royal de Preslav, Cahiers Ar­ chéologiques, 35, 1987, pp. 73-78. Byzance. xve

L’art byzantin dans les collections publiques françaises, Paris 1992, pp. 388-389. 97 M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône, op. cit., p. 339. 98 Ibid., p. 345. Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 112-114, fig. 117. Weitzmann, Icon Pro­ grams, pp. 68-70, fig. 3. 99 Come nel monastero di Chilandari, risalenti al terzo quarto del xiv secolo (S. Petkovi0, The Icons of Monastery Chi­ landar, Monastero di Chilindari, Monte Athos 1997, pp. 27-28, tavv. 83-95), o a Calendzikha in Georgia (W. Seibt-T. Sanikidze, Schatzkammer Georgien, Vienna, 1981, pp. 130-131, nn. 69-75, figg. 54-56, 93-96). Sulla possibile esistenza di epistili con figure singole nel corso del xii secolo cfr. Weitzmann, Icon Programs, p. 82. 100 Weitzmann, Icon Programs, pp. 64-86, 93, 112-113. Treasures of Sinai, pp. 105107, figg. 20-22, 25-27, 31-33. Hiera me­ giste Mone Vatopaidiou (in greco), Monte Athos 1996 (d’ora in poi Mone Vatopai­ diou), ii, pp. 354-362, figg. 296-306. A. Bank, Byzantine Art in the Collections of Soviet Museums, Leningrad 1977, p. 316, figg. 239-241. Th. Papazotos, Le icone bi­ zantine di Veroia (in greco), Nea Smyrni 1995, pp. 39-42, 54-56, 65-66, tavv. 39-42, 48-52, 83-88. A. Papageorgiou, Icons of Cyprus, Nicosia, 1992, pp. 55-59, 64-67, 88-89, figg. 37, 42-43, 55. 101 T. Velmans, Rayonnement de l’icône, op. cit., p. 402, tav. liii.12. V. Lazarev, L’ar­ te russa delle icone dalle origini all’inizio del xvi secolo, Milano ult. ed 2021 (Jaca Book), pp. 35, 363, n. 6. 102 A. Papageorgiou, Icons of Cyprus, Nicosia 1992, pp. 88-89, fig. 55. M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône, op. cit., pp. 347349, tav. xlii. 103 Sotiriou, Icônes du Sinaï, Athens 19561958, pp. 75-77, figg. 57-61. Weitzmann, Eleventh Century, pp. 306-309, fig. 308. P. L. Vocotopoulos, Byzantine Icons, v. supra n. 52, p. 195, fig. 18. 104 Mone Vatopaidiou, ii, pp. 382-386, figg. 323-326 (E. Tsigaridas). I pannelli con Cristo e l’arcangelo Gabriele misurano m 1,38 e 1,39 d’altezza, quelli con san Giovanni Battista e san Giovanni Teologo m 1,19. 105 Ciò è attestato da Paolo Silentiarius nella sua descrizione di Santa Sofia a Costantinopoli. Una croce in metallo nel monastero di Santa Caterina del Sinai con scene della vita di Mosè è stata interpretata come la croce che decorava la sommità dell’epistilio della chiesa principale del monastero; si veda K. Weitzmann-I. Yev/enko, The Moses Cross at Sinai, dop, 17, 1963, pp. 385-398 (ristampato in K. Weitzmann, Studies in the Arts at Sinai, Princeton, 1982, pp. 81-94). 106 K. Weitzmann, Three Painted Crosses at Sinai, Kunsthistorische Forschungen Otto Pächt zu seinem 70. Geburtstag, Salzburg 1972, pp. 23-31, ristampato in Id., Studies in the Arts at Sinai, Princeton 1982, pp. 409-417. 107 Eikones tis Monis Pantokratoros (in

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greco), Monte Athos, pp. 74-78, fig. 33 (T. Papamastorakis). 108 M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône, op. cit., p. 340. T. Velmans, Rayonnement de l’icône, op. cit., pp. 402-406. Weitzmann, Icon Programs, pp. 86-94, 112-113. C. Walter, A New Look at the Byzantine Sanctuary Barrier, op. cit., pp. 213-214. 109 G. Babi1, La décoration en fresques des clôtures de choeur, zlu, 11, 1975, pp. 3-41 (in serbo, con sommario in francese nelle pp. 41-49). M. Chatzidakis, L’évo­ lution de l’icone, op. cit., pp. 336-337. T. Velmans, Rayonnement de l’icone, op. cit., pp. 384-389. I. Sinkevi0, The Church of St. Panteleimon at Nerezi, Wiesbaden 2000, pp. 91-92. S. 1ur/i0, Proskynetaria Icôns, Saints’ Tombs, and the Development of the Iconostasis, in: A. Lidov (ed.), Iconostasis, pp. 134-142. 1ur/i0 suggerisce che le icone proskynetaria del templon abbiano avuto origine dai ritratti dipinti sopra le tombe dei santi in vicinanza del templon, e che le loro sommità arcuate fossero ispirate dalle canopie sopra le tombe. Le raffigurazioni dipinte potevano essere rimpiazzate da rilievi, come in quelle dei santi Pietro e Paolo del xii secolo provenienti da \epina in Bulgaria, ora all’Ermitage: J.-P. Sodini, La sculpture médio-byzantine: le marbre en ersatz et tel qu’en lui-même, C. Mango-G. Dragon (ed.), Constantinople and its Hinter­ land, Aldershot 1995, p. 306, figg. 11-12. 110 S. Pelekanidis - M. Chatzidakis, Kasto­ ria, Athens, 1984, p. 32, fig. 10. 111 Si veda ad es. Mone Vatopaidiou, ii, figg. 311-312. S. Petkovi0, The Icons of Mo­ nastery Chilandar, Monastero di Chilindari 1997, p. 24 e tavv. 67, 69; p. 25 e tavv. 7475. 112 M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône, op. cit., p. 342, tav. xxxvii. 113 M. Chatzidakis, Ikonostas, Reallexikon zur byzantinischen Kunst, iii, coll. 344-345. Id., L’évolution de l’icône, op. cit., p. 342, tav. xxxvi. G. Babi0, v. supra n. 109. 114 M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône, op. cit., pp. 354-356. T. Sizonenko, The Old Testament symbolism of the Royal Doors of the Russian iconostasis, in: A. Lidov (ed.) Iconostasis, pp. 501-517. 115 H. Omont, Miniatures des plus anciens manuscrits grecs de la Bibliothèque Nationa­ le du vie au xive siècle, Paris 1929, tav. lx. 116 Alcuni begli esempi di Porte Sacre con l’Annunciazione sono conservati sul Sinai e sul Monte Athos. Si veda, per esempio, Sinai, Byzantium, Russia, London 2000, p. 236, n. S55; K. Weitzmann, Fragments of an Early St. Nicholas Triptych on Mount Sinai, dchae, 4, 1964-1965, p. 17, tavv. 8.13 (ristampato in Id., Studies in the Arts at Sinai, Princeton 1982, n. viii); Mone Vatopaidiou, ii, figg. 307. 333-334; e P.L. Vocotopoulos, Byzantine Icons, v. supra n. 52, p. 217, fig. 116. Riguardo alle porte delle Meteore si veda G. Suboti0 - J. Simonopetris, L’icono­ stase et les fresques de la fin du xive siècle dans le monastère de la Transfiguration aux Météores, Actes xve Congrès Études Byzan­


tines, iib, Athens 1981, pp. 754, 756-758, fig. 3; sulle porte del Sinai con Mosè ed Aronne, vedasi Treasures of Sinai, p. 110, fig. 35. Le Porte Sacre scolpite della fine del Trecento, ora a Belgrado, sono state pubblicate da M. 1orovi0-Ljubinkovi0, Les bois sculptés du Moyen Age dans les régions orientales de la Yougoslavie, Belgrade 1965, p. 146, fig. 5, tavv. ivc-via. 117 M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône, op. cit., p. 363. 118 Gosudarstvennaja Tret’jakovskaja Gale­ reja, Katalog Sobranija, i, Mosca 1995, pp. 73-74, 132-133, nn. 17, 57. V. Lazarev, L’arte russa delle icone dalle origini all’ini­ zio del xvi secolo, Milano, ult. ed 2021 (Jaca Book), pp. 38, 366 e 120, 395, nn. 16, 142. 119 Gosudarstvennaja Tret’jakovskaja Gale­ reja, op. cit., pp. 184-186, n. 90. Vizantija, Balkani, Rus’, Mosca 1991, p. 258, n. 102. 120 Come nell’icona dei Cinque Martiri di Sebaste nella Grande Lavra (M. Chatzidakis, A Dated Byzantine Icon in the Monaste­ ry of the Great Lavra (in greco), Byzantium. Tribute to Andreas Stratos, i, Athens 1986, pp. 230-231, figg. 2-3; l’anno 1197 si riferisce al rinnovamento del pannello), e nel caso delle icone di Cristo Pantocratore a Ohrid del 1262/3 e di san Giorgio a Struga del 1267 (V. Djuri0, Icônes de Yougoslavie, Belgrade 1961, pp. 18-19, 83-84, nn. 2-3, tavv. ii; iii). Il nome del pittore, il monaco Ioannes, è scritto in epigrammi sul retro dell’esittico nel monastero del Sinai; vedi supra, p. 118. 121 D. Mouriki, A Thirteenth-Century Icon with a Variant of the Hodigitria in the Byzantine Museum of Athens, dop, 41, 1987, pp. 404, 413-414, fig. 3. The Glory of Byzantium, New York 1997, pp. 119, 377379, nn. 66, 248. P.L. Vocotopoulos, Three Thirteenth-Century Icons at Moutoullas, Medieval Cyprus. Studies in Art, Architectu­ re and History in Memory of Doula Mouriki, Princeton 1999, p. 162, figg. 2, 4, 11. 122 The Glory of Byzantium, op. cit., p. 379, n. 249. 123 M. Chatzidakis, L’évolution de l’icône, op. cit., pp. 350-351, figg. 13, 15. The Glory of Byzantium, op. cit., pp. 375-377, nn. 246247. 124 K. Weitzmann, Fragments of an Early St. Nicholas Triptych on Mount Sinai, dchae, 4, 1964-1965, p. 4, fig. 2 (ristampato in Id., Studies in the Arts at Sinai, Princeton 1982, n. viii). M. AchimastouPotamianou, The Virgin ‘H’ Αληjινä: A Palaiologan Icon from the Gerokomeiou Monastery in Patras, Byzantine East, Latin West. Art-Historical Studies in Honor of Kurt Weitzmann, Princeton 1995, p. 472. The Glory of Byzantium, op. cit., p. 374, n. 245. C. Baltoyanni, Conversation with God, Athens 1998, p. 57, n. 5. 125 Piccole icone dipinte su ambedue i lati, appese agli impianti d’illuminazione detti choroi, non sono inclusi in quest’indagine. 126 Doukas, Istoria Turco-Bizantina (ed. V. Grecu), Bucarest 1958, pp. 363.6-8. C. Angelidi-T. Papamastorakis, The Veneration of

the Virgin Hodigitria and the Hodegon Mo­ nastery, Mother of God, p. 385. 127 Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, ms. 78A9. Si veda, per esempio, H. Belting, Das illuminierte Buch in der spätbyzantinischen Gesellschaft, Heidelberg 1970, pp. 72-75, fig. 1; Id., Likeness and Presence, pp. 75-77, fig. 24; Mother of God, p. 385. 128 Sull’icona di Novgorod si veda V. Lazarev, L’arte russa delle icone dalle origini all’inizio del xvi secolo, Milano, ult. ed 2021 (Jaca Book), pp. 37, 365, n. 12, e T. Velmans, Rayonnement de l’icône, op. cit., p. 398; sull’icona di Gerusalemme si veda P. L. Vocotopoulos, Two Palaeologan Icons in Jerusalem, dchae, 20, 1998, pp. 291-297; su quella di Corfù, Id., Eikones tis Kerkyras (Icone di Corfù, in greco), Athens 1990, pp. 4-6, n. 3, figg. 4, 67. 129 Sull’icona di Tessalonica si veda N. Chatzidakis et alii, Contribution des métho­ des physicochimiques d’analyse à l’étude de 13 icônes appartenant au Musée Byzantin d’Athènes (in greco con sommario in francese), dchae, 13, 1985-1986, pp. 215, 221, 222, figg. 9-10. N. Chatzidakis, A Fourte­ enth-Century Icon of the Virgin Eleousa in the Byzantine Museum of Athens, in: Byzan­ tine East, Latin West, v. supra n. 124, pp. 495-498. Sul pannello di Gerusalemme si veda P.L. Vocotopoulos, v. supra n. 128, pp. 291-297, figg. 1-2. 130 Holy Image, Holy Space, Athens 1998, n. 16. 131 Affreschi e icone dalla Grecia, Atene 1986, pp. 65-66, n. 28. 132 Per esempio l’icona della Vergine «roccia inamovibile» su un lato e san Sabba dall’altro nel monastero atonita di Chilandari è serba (S. Petkovi0, The Icons of Monastery Chilandar, op. cit., pp. 30, 99), quella con la Vergine sul recto e i santi Paolo e Natalia sul rovescio al Museo di Architettura a Novgorod è russa (V.N. Lazarev, L’arte russa delle icone dalle origini all’ini­ zio del xvi secolo, Milano, ult. ed 2021 (Jaca Book), p. 365, n. 12), mentre la tavola con la Vergine che tiene il Bambino col braccio destro da un lato e Cristo dall’altro nella chiesa di san Giacomo a Barletta è italiana (Icone di Puglia e Basilicata, Milano, 1988, pp. 131-132, n. 35). 133 Splendori di Bisanzio, Milano 1990, n. 52. R. Cormack, Painting after Iconoclasm, in: A. Bryer - J. Herrin (ed.), Iconoclasm, Birmingham, 1977, pp. 151-153, figg. 3435. The Glory of Byzantium, op. cit., pp. 7677, n. 35, con ulteriore bibliografia. 134 Byzance. L’art byzantin dans les collec­ tions publiques françaises, Paris 1992, n. 367. 135 Mother of God, p. 320, n. 30. 136 M. Chatzidakis - D. Sofinos, The Gre­ at Meteoron. History and Art, Athens 1990, pp. 25, 33, 55. 137 S. Petkovi1, The Icons of Monastery Chilandar, op. cit., pp. 21, 24, tav. 72. B. Todic, in: Monastery Hilandar, Belgrade 1998, p. 220.

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138 Splendori di Bisanzio, Milano 1990, n. 42, con ulteriore bibliografia. 139 Un dittico con sei immagini per ogni anta, contenente reliquie degli stessi santi; un’icona di san Paolo di Latros contenente reliquie del santo; un’icona dei santi Giorgio e Demetrio, che contiene un frammento della Vera Croce: C. Mango, The Art of the Byzantine Empire, v. supra n. 25, pp. 238239. Due icone d’oro smaltato contenenti frammenti della Vera Croce sono elencate nel typikon del monastero della Vergine Petritzonitissa (Ba/kovo), datato 1083: P. Gautier, Le typikon du sébaste Grégoire Pa­ kourianos, reb, 42, 1984, p. 119. 140 La pittura nel Veneto. Il Trecento, Milano 1992 (Electa), ii, fig. 460. 141 Sotiriou, Icônes du Sinaï, pp. 162-163, fig. 175. I. Kalavrezou-Maxeiner, Byzantine Icons in Steatite, Vienna 1985, pp. 106-107, n. 14, tavv. 10-11. 142 Sinai, Byzantium, Russia, London 2000, n. B 124 (Y. Piatnitsky). 143 N. Chichinadze, Some Compositional Characteristics of Georgian Triptychs of the Thirteenth through Fifteenth Centuries, Ge­ sta, xxxv/1, 1996, pp. 67-69, figg. 3-4. 144 G. AlibégaYvili, Deux triptyques d’Ou­ bissi: Icônes géorgiennes du style des Paléo­ logues, Byzantine East, Latin West, v. supra n. 124, pp. 479-483, figg. 1-3, 6-8. Si veda anche W. Seibt-T. Sanikidze, Schatzkammer Georgien, Vienna, 1981, p. 122, n. 40, fig. 31. K. Weitzmann et alii, Les icônes, Paris, 1982, pp. 91, 122. G. Alibégayvili-V. Beridze-A. Volskaja-L. Xudiskivadze, I tesori della Georgia, Milano, 1983, p. 161, fig. a p. 155. T. Sanikidze, Art Museum of Georgia, Tblisi, Leningrad 1985, fig. 25. 145 N. Chichinadze, Some Compositional Characteristics of Georgian Triptychs of the Thirteenth through Fifteenth Centuries, Ge­ sta, xxxv/1, 1996, pp. 71-73, figg. 10-11. Ulteriori esempi di trittici compositi georgiani sono elencati a p. 76, n. 34. 146 L. Milyaeva, The Icon of Saint George, with Scenes from His Life, from the Town of Mariupol’, Perceptions of Byzantium and Its Neighbours (843-1261), New York 2000, pp. 102-117. Sugli esempi provenienti dalla Macedonia occidentale cfr. N. Moutsopoulos, Il rilievo ligneo di san Giorgio nell’o­ monima chiesa di Omorphokklesia e alcune altre icone in rilievo di quella regione (in greco), Klironomia, 25, 1993, pp. 33-61. 147 E. Tsigaridas, Icone portatili in Mace­ donia e sul monte Athos durante il xiii secolo (in greco), dchae, 21, 2000, pp. 149,151, fig. 39. 148 G. Majeska, Russian Travellers to Con­ stantinople in the Fourteenth and Fifteenth Centuries, Washington d.c., 1984, pp. 3638, 249. 149 M. Acheimastou-Potamianou, Icons of the Byzantine Museum of Athens, Athens 1998, pp. 26-28, n. 5. 150 M. 1orovi1-Ljubinkovi1, Les bois sculptés du Moyen Age dans les régions orientales de la Yougoslavie, Belgrade 1965, p. 146, tavv. ivc-via.

Iconografia bizantina * Sreten Petkovi0 è autore dei seguenti capitoli: Introduzione, Ciclo delle Grandi Fe­ ste, Ciclo della Passione, Icone con scene della vita di santi (salvo san Nicola e san Giorgio), Arcangeli, Icone menologio, Icone con scene dell’AnticoTestamento. Elka Bakalova è autrice dei seguenti capitoli: Iconografia di Cristo, Iconografia della Vergine, Iconografia dei santi, Vita di san Nicola e Vita di san Giorgio nel capitolo «Icone con scene della vita di santi», Iconografia dei santi di diversi paesi ortodossi, L’illustrazione della poesia liturgica, Il Giudizio Universale.

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P. L. Vocotopoulos in Il viaggio dell’icona cit., pp. 144-146. 12 Ibid, pp. 140-144. 13 P. L. Vocotopoulos, E kónev tñv Kerkúrav, Atene 1990 (d’ora in poi Vocotopoulos, E kónev Kerkúrav), p. 8. In precedenza si riteneva che Creta fosse succeduta a Costantinopoli come principale centro artistico del mondo ortodosso solo dopo la caduta del 1453. 14 Per la pittura a Creta nel primo periodo (xv-xvi secolo), cfr. in particolare: M. Chatzidakis, “Essai sur l’école dite ‘italo-grecque’ précédé d’une note sur les rapports de l’art vénitien avec l’art crétois jusqu’à 1500”, in A. Pertusi (a cura), Venezia e il Levante fino al secolo xv, Firenze 1974, ii, pp. 69-124; M. Constantoudaki, “Testimonianze su opere pittoriche a Candia in documenti del xvi e xvii secolo [in greco, con riassunto in italiano]”, Thesaurismata, pp. 35-136; N. Chatzidaki, From Candia to Venice. Greek Icons in Italy. 15th-16th Centuries, Atene 1993. 15 La costruzione di San Giorgio dei Greci iniziò nel 1539 e si concluse nel 1577. Cfr. Ersi Brouscari, La chiesa di San Giorgio dei Greci a Venezia, Atene 1995 [in greco con riassunto in italiano]; Eadem, “La chiesa di San Giorgio dei Greci a Venezia e l’architettura”, in I Greci a Venezia. Atti del Convegno internazionale di studio, Venezia 2002, pp. 533-554. 16 M. Cattapan, “Nuovi elenchi e documenti dei pittori di Creta dal 1300 al 1500”, Thesaurismata 9, 1972, pp. 211-215. 17 Come la maggior parte delle raffigurazioni della Madonna presenti nel catalogo a cura di G. Pavan, Icone dalle collezioni del Museo Nazionale di Ravenna, Ravenna 1979. 18 M. Constantoudaki-Kitromilides, “Enthroned Virgin” cit., pp. 285-301. 19 Per la porta del presbiterio di Patmos, cfr. M. Chatzidakis, Icons of Patmos, Atene 1985, n. 11, tavv. 80 e 81. Per i polittici veneziani cfr. P. Humfrey, The Altarpiece in Renaissance Venice, New Haven-Londra 1993, tavv. 35, 39, 115, 144, 146, 148, 158, 208. 20 La minuziosa descrizione della Passione nelle Meditationes Vitae Christi, che furono scritte intorno al 1300 in Toscana da un frate francescano e furono attribuite a san Bonaventura, influenzò decisamente la raffigurazione della Crocifissione in Occidente, che da allora comprende molti episodi complementari affollati di persone, dapprima in Italia (dal terzo quarto del xiii secolo) e dal xiv secolo in Germania. Cfr. Elisabeth Roth, Der Volksreiche Kalvarienberg in Li­ teratur und Bildkunst des Spätmittelalters, seconda edizione, Berlino 1967. A Creta, la più antica crocifissione di questo tipo, con molti personaggi, datata con certezza è un affresco del 1360 a Ag­ía Pelagía di Viannos (R. Theocharopoulou, “‘O toicografikóv diákosmov toû naoû tñv ‘Agíav Pelagíav Biánnou”, Prepragména toû Z´ Diejnoñv Krhtologikoû Sunedríou, 2.I, Rethymno 1995, pp. 289-292). 21 Vocotopoulos, E kónev Kerkúrav, p. 9, 11

Parte seconda Iconografia e stile nel Mediterraneo e nei Balcani In rari casi, come in un registro delle precoci iconostasi di Patmos, importate da Creta – ad esempio l’iconostasi della cappella della Panagia nel monastero di San Giovanni, raffigurata nella t. 1 – l’architrave ha solo una decorazione vegetale intagliata. 2 M. Kazanaki-Lappa, “The carved wooden cross of the Evangelistria of Leghorn (1643) and the crosses on the epistyles of Cretan iconostases” (in greco con un riassunto in inglese), E frósunon. ’Afiérwma stòn Manólh Catzhdákh, Atene 1991, i, pp. 219-237; Ead., “Le croci dipinte d’iconostasi cretesi e i loro modelli veneziani”, Il contri­ buto veneziano nella formazione del gusto dei Greci (xv-xvii secolo), Venezia 2001, pp. 105-112. 3 Ead., “The carved wooden cross of the Evangelistria of Leghorn” cit. 4 P.L. Vocotopoulos, in T. Velmans (ed.), Il viaggio dell’icona, Milano 2002, pp. 138140. 5 P.L. Vocotopoulos, “’Idiomorfíev stæn diakósmhsh tøn kerkuraïkøn témplwn”, Kefallhniaká Croniká, 5, 1986, pp. 152156. 6 In un affresco postbizantino di Sucevita, in Moldavia, è raffigurata l’immagine della Panagía al di sopra della santa mensa con il ciborio (T. Velmans, “Rayonnement de l’icône”, Actes du xve Congrès International d’Etudes Byzantines, Atene 1979, i, 407, tav. lix 24) e, in una miniatura della fine del xvi secolo del pittore cretese Giorgio Klóntzas, compare l’immagine con la Deesis nella stessa posizione (A. Paliouras, ‘O zwgráfov Geårgiov Klóntzav (1540ci.-1608) kaì ai ™ mikrografíai toû kådikov a toû, Ate-ne 1977, p. 142, tav. 316). 7 Cfr. M. Constantoudaki-Kitromilides, “Enthroned Virgin and Christ-Child with Saints. A composite work of Italo-Cretan Art” [in greco con riassunto in inglese], Deltíon Cristianikñv ’Arcaiologikñv ‘Etaireíav, 17, 1993/1994, pp. 294-298. 8 M. Constantoudaki-Kitromilides, “ai™ krhtikoì zwgráfoi kaì tò koinó touv: ‘H ∫antimetåpish tñv técnhv touv stæ Benetokratía”, Krhtiká Croniká, 26, 1986, pp. 253-254. 9 P. L. Vocotopoulos in Il viaggio dell’icona cit., pp. 119-122; N. Patterson Yev/enko, “Marking Holy Time: the Byzantine Calendar Icons”, in M. Vassilaki (ed.), Byzantine Icons. Art, Technique and Technology, Heraklion 2002, pp. 51-56. 10 P. L. Vocotopoulos, “Composite Icons”, Griechische Ikonen. Beiträge des Kolloquiums zum Gedenken an Manolis Chatzidakis in Recklinghausen, 1998, Atene-Recklinghausen 2000, pp. 5-10. 1

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con bibliografia precedente. Per gli influssi occidentali sulla pittura di Creta in generale, cfr. M. Kazanaki-Lappa, “Painting on Crete (1350-1669): The Byzantine Tradition and the Influence of Western Art” [in greco, con riassunto in inglese], Cretan Studies, 6, 1998, pp. 51-67. 22 Su questo tipo di Ingresso a Gerusalemme, cfr. P. L. Vocotopoulos, “An early Cretan Icon of the Entry into Jerusalem at Leukas” [in greco, con riassunto in inglese], Deltíon Cristianikñv ’Arcaiologikñv ‘Etaireíav, 9, 1977-1979, pp. 309-323. 23 Su san Giorgio uccisore del dragone cfr. Vocotopoulos, E ìkónev Kerkúrav, p. 23; per il Noli me tangere, ibidem, p. 81. 24 Ibidem, pp. 19-22. 25 Sulla calcografia, cfr. A. M. Hind, Early Italian Engraving, Londra 1948, v p. 27 n. 21, vi tav. 519; J. Levenson - K. Oberhuber - J. Sheehan, Early Italian Engravings from the National Gallery of Art, Washington, pp. 228-229, n. 85. Sul quadro di Mantegna: S. M. Bellonci - N. Garavaglia, L’opera comple­ ta del Mantegna, Milano 1967, pp. 117-118, n. 91. 26 D. Medakovi0, Die Graphik der serbi­ schen Drucke vom xv. bis zum xvii. Jahrhun­ dert, Belgrado 1958 [in serbo, con riassunto in tedesco]. 27 Su Angelos, cfr. in particolare M. Vasilaki-Mavrakaki, “‘O zwgráfov ºAggelov ’Akotántov, tò ›rgo kaì ä diajäkh tou (1436)”, Thesaurismata, 18, 1981, pp. 290298; M. Chatzidakis, ‘Ellhnev zwgráfoi metá tän ‘Alwsh, 1, Atene 1987 (in seguito Chatzidakis, ‘Ellhnev zwgráfoi, 1), pp. 147-154. 28 M. Chatzidakis-E. Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi metá tän ‘Alwsh, 2, Atene 1997 (in seguito Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2), pp. 324-332, con la precedente bibliografia. 29 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 333-334. 30 Tali formule si incontrano in opere italiane del Quattrocento, cfr. M. Kazanaki-Lappa in Deltíon Cristianikñv ’Arcaiologikñv ‘Etaireíav, 22, 2001, pp. 144-145. 31 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 259-264 con la precedente bibliografia. 32 Su Tzafouris, cfr. Chatzidakis, ‘Ellhnev zwgráfoi, 1, pp. 292-294; ChatzidakisDrakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, p. 434. 33 M. Chatzidakis, “Recherches sur le peintre Théophane le Crétois”, Dumbarton Oaks Papers, 23-24, 1969-1970, pp. 309352; Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 381-397, con la precedente bibliografia. 34 Chatzidakis, “‘O zwgráfov E‹frósunov”, Krhtiká Croniká, 10, 1956, pp. 273-291. 35 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 397-399 con la precedente bibliografia; P. L. Vocotopoulos, “Two probable works by Markos Bathas” [in greco con riassunto in inglese], in Topics in Post-Byzantine Painting in memory of Manolis

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Chatzidakis, Atene 2002, pp. 35-43. M. Achimastou-Potamianou, “Domenicos Theotocopoulos: The Dormition of the Virgin, a Work of the Painter’s Cretan Period”, in El Greco of Crete, Proceedings of the International Symposium, Iraklion, Crete, 1-5 September 1990, Iraklion 1995, pp. 29-44. 37 Chatzidakis, ‘Ellhnev zwgráfoi, 1, pp. 241-254, con la precedente bibliografia; Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, pp. 38-61. 38 Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, pp. 44-45. 39 Ibidem, pp. 48-50. 40 A. Pallucchini, “Echi della battaglia di Lepanto nella pittura veneziana del ’500”, in Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, Firenze 1974, pp. 279-287. 41 Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, pp. 51-53. 42 Su Klóntzas, cfr. A. Paliouras, O zwgráfov Geårgiov Klóntzav (1540ci.1608) kaì aì mikrograf ìai toû kådikov a ùtoû, Atene 1977; Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, pp. 62-63; Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 83-96; J. Vereecken - L. Hadermann-Misguich, Les oracles de Léon le Sage illustrés par Georges Klontzas, Venezia 2000, pp. 71-84. 43 Vocotopoulos, E ìkónev Kerkúrav, pp. 63-66. 44 P. L. Vocotopoulos, “A hitherto un­ known Triptych by George Klontzas”, in East Christian Art, catalogo di mostra, Londra 1987, pp. 88-95. 45 M. Chatzidakis, Icônes de Saint-Georges des Grecs et de la collection de l’Institut, Venezia 1962, pp. 75-77. 46 P. L. Vocotopoulos, “Le triptyque d’Osimo”, Jahrbuch der österreichischen Byzanti­ nistik, 44, 1994, pp. 431-438. 47 M. Chatzidakis, “Tò a¢rgo toû Qwmâ Baqâ h¢ Mpaqâ kaì ä divota maniera greca”, Thesaurismata, 14, 1977, pp. 239-250; Chatzidakis-Drakopoulou, ’Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 215-218 con la precedente bibliografia. 48 Cfr. al riguardo M. Kazanaki-Lappas, “Pittori di Candia durante il xvii secolo. Notizie da documenti notarili” [in greco, con riassunto in italiano], Thesaurismata, 18, 1981, pp. 177-267. 49 Chatzidakis-Drakopoulou, ’Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 267-272. 50 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 141-149. 51 Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, pp. 86-87; Chatzidakis-Drakopoulou, ’Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 429-433. 52 Chatzidakis, ‘Ellhnev zwgráfoi, 1, pp. 175-177. 53 M. Aspra-Vardavaki, “‘H e„kóna toû zwgráfou Neílou mè tò Bío toû ’Iwsäf kaì oi‘ dutikév phgév thv”, Deltíon Cristianikñv ’Arcaiologikñv ’Etaireíav, 21, 2000, pp. 173-187. 54 Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, pp. 104-108; Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 409-423. 55 P. L. Vocotopoulos, “‘Idiomorfíev stän diakósmhsh twn kerkuraïkøn témplwn”, 36


Kefallhniaká Croniká, 5, 1986, pp. 153156. 56 A. Tsitsas, Dúo ’Estaurwménoi toû ’Emmanouäl ‘Ieréwv Tzáne toa‘ Mpounialñ stæn Kérkura, Corfù 1980. 57 I. Rigopoulos, ‘O a‘ giográfov Qeódwrov Poulákhv kaì ä flamandikä calkografía, Atene 1979; ChatzidakisDrakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 307-317. 58 Cfr. al riguardo P. L. Vocotopoulos, “Tò lábaro toû Fragkískou Morozíni stó Mouseío Correr tñv Benetíav”, Thesaurisma­ ta, 18, 1981, pp. 273-275; e anche Idem, Eì kónev Kerkúrav, p. 134. 59 Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, pp. 78-80, n. 53, fig. 172. 60 P. L. Vocotopoulos, “To lábaro toû Fragkískou Morozíni” cit., pp. 268-275. 61 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 363-368, con la precedente bibliografia. 62 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 198-203. 63 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 355-359. 64 Sulla pittura d’icone cipriota del xv-xviii secolo, cfr. A. Papageorgiou, Eìkónev tñv Kúprou, Nicosia 1991, pp. 107-208. 65 A. Tourta, “Icons by Frangos Katelanos in Thessaloniki” [in greco con riassunto in inglese], in Topics in Post-Byzantine Painting. In memory of Manolis Chatzidakis, Atene 2002, pp. 287-297. 66 P. L. Vocotopoulos, “The Calendar Icons of the Great Meteoron”, in Euphrosynon. Stu­ di dedicati a Manolis Chatzidakis [in greco, con riassunto in inglese], 1, Atene 1991, pp. 78-90. 67 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 256-258; H. Buschhausen C. Chotzakoglou, in Percorsi del sacro. Icone dai Musei albanesi, Milano 2002, pp. 32-33, 112. 68 H. Buschhausen - C. Chotzakoglou, cit., pp. 33-34. 69 V. Djuri0, Icônes de Yougoslavie, Belgrado 1961, pp. 56-57, 59-60. 70 V. Djuri0, op. cit., pp. 52-53. 71 Cfr. la nota 26. 72 V. Djuri0, op. cit., pp. 61 e 118, n. 55. 73 L. Mirkovi0, “Deisis kruyedolskog ikonostasa”, Starinar, n.s., iii-iv, 1955, pp. 93-104; V. Djuri0, op. cit. pp. 63-64 e 124-125, n. 67. 74 G. Babi0 in K. Weitzmann et al., Les icônes, Parigi 1982, pp. 306-308. 75 V. Djuri0, Ikona svetog kralja Stefana De/anskog, Belgrado 1985. 76 V. Djuri0, Icônes de Yougoslavie cit., pp. 66-67 e 131-132, n. 79. 77 Z. Kajmakovi0. Georgije Mitrofanovi0, Sarajevo 1977. 78 V. Djuri0, Icônes de Yougoslavie cit., pp. 67 e 132-133, n. 80. 79 I. Akrabova-Zandova, Ikoni v Sofijskija Arheologi/eski Muzej. Datirani ikoni, Sofia 1965; K. Paskaleva, Die bulgarische Ikone, Sofia 1981, pp. 25ss. 80 T. Matakiewa -Lilkowa, Die Ikonen in Bulgarien, Sofia 1994. 81 P. L. Vocotopoulos, “’Idiomorfíev stän

diakósmhsh tøn kerkuraïkøn témplwn”, Kefallhniaká Croniká, 5, 1986, pp. 149152. 82 Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, p. 158; Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 426-428. 83 Vocotopoulos, Eìkónev Kerkúrav, p. 163; Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, pp. 104-106. 84 A. Stavropoulou, “Storie devozionali nella pittura post-bizantina”, in C. Maltezou (a cura), Il contributo veneziano alla formazione del gusto dei Greci (xv-xvii secolo), Venezia 2001, pp. 147-163. 85 Chatzidakis, ’Ellhnev zwgráfoi, 1, pp. 280-281, con la bibliografia precedente. 86 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, p. 266. 87 Cfr. al riguardo la trattazione di M. Chatzidakis nella ‘Istoría toû ‘Ellhnikoû ºEqnouv, 11, Atene 1975, pp. 244-266, che è stata ripubblicata in ‘Ellhnev zwgráfoi, 1, pp. 99-132. 88 Chatzidakis ‘Ellhnev zwgráfoi, 1, pp. 235-237, con la precedente bibliografia. 89 H. Buschhausen - C. Chotzakoglou, in Percorsi del sacro cit., pp. 37-38. 90 Chatzidakis ‘Ellhnev zwgráfoi, 1, pp. 336-337. 91 Chatzidakis-Drakopoulou, ‘Ellhnev zwgráfoi, 2, p. 438; E. Moutafov, “Ioannes Tsetiris from Grabovo or Jovan Chetirevi/ Grabovan?”, in Topics in Post-Byzantine Painting cit., pp. 217-228. Storia, iconografia e stile dell’icona in Russia A zzaro Giuseppina Cardillo e Pierluca, Sophia. La Sapienza di Dio, Milano 1999. Bentchev Ivan e Eva Haustein-Bartsch, Muttergottesikonen, Recklinghausen 2000. B ornheim Bernhard, Ikonen. Russische Feinmalerei zwischen Orient und Okzi­ dent. Eine Kulturgeschichte in Bildern, Augsburg 1998. Deschler Jean-Paul, Die Ikone “Nichtverbrennender Dornbusch”, in K.Ch. Felmy e E. Haustein-Bartsch, Die Weisheit baute... 113-157. Felmy Karl Christian, Das Buch der Christis Ikonen, Friburgo-Basilea-Vienna, 2004. F elmy Karl Christian, Die Deutung der Göttlichen Liturgie in der russischen Theologie. Wege und Wandlungen rus­ sischer Liturgie-Auslegung, Berlin-New York 1984. Felmy Karl Christian, “Es schweige alles menschliche Fleisch”. Der Große Einzug und die “Schlachtung des Christus­knaben”, in K.Ch. Felmy e E. Haustein-Bartsch, Die Weisheit baute..., pp. 251-291. Felmy Karl Christian, La teologia ortodossa contemporanea. Una introduzione, Brescia 1999, 122ss. [Die orthodoxe Theo­ logie der Gegenwart. Eine Einführung, Darm­stadt 1990] Felmy Karl Christian, Der mehrfach darge­

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5 L’icona risale al 1600 circa, rispecchia però – come spesso le icone nordiche – lo stile della generazione precedente. 6 Cfr. O.{. Tarasov, passim. 7 G.I. Vzlornov, Russkaq “uvonuc;, passim. 8 Viktor Michajlovi/ Sorokatyj ha avanzato il sospetto che questa icona sia un falso moderno. Anche in questo caso sarebbe un capolavoro! 9 Viktor Sorokatyj, Ikona »Feodor Stratilat v ‘itii« v Kal;benwtajnberge, Ferapontovskij Sbornik VI, Moskva 2002, 190-222. 10 V. Ivanov, Das Große Buch der russischen Ikonen, p. 88. 11 M.B. Wolter, Zwischen Himmel und Erde, fig. 5. 12 V.N. Lazarev, L’arte russa delle icone, p. 105. 13 V.N. Lazarev, L’arte russa delle icone, p. 67. 14 H. Maqsova, passim. 15 M.B. Wolter, Zwischen Himmel und Erde, fig. 40. 16 P. Hauptmann, p. 30. 17 V.G. Br[sova, “ivopis; 17 Veka, fig. 73. 18 E.C. Obhinnikova, pp. 118s.; A. Silkin, passim. 19 K. Onasch, Ikonen, p. 26. 20 Pavel Florenskij, Die Ikonostase, p. 132. 21 K. Ch. Felmy, Des Bericht der Archidia­ kon Paul von Aleppo über seine Reise nach Moskau in den Jahren 1652-1656, in preparazione. 22 Non a caso quest’icona, dal punto di vista sia stilistico che iconografico, corrisponde a un’icona del xvii secolo nella cattedrale dei Vecchi credenti dedicata alla Protezione e all’Intercessione di Maria nel cimitero di Rogozˇskoe a Mosca: Dpevnue ukony, fig. 37. 23 K.Ch. Felmy, Das Buch der ChristusIkonen, pp. 136-181. 24 V.G. Br[sova, Russkaq “uvonuc;, tav. 65. 25 K.Ch. Felmy, Die Verdrängung der escha­ tologischen Dimension, passim. 26 K.Ch. Felmy, La teologia ortodossa, pp. 122s., in dettaglio K.Ch. Felmy, Das Buch der Christus-Ikonen, pp. 48-55. 27 B. Bornheim, Ikonen, p. 323. 28 Le speculazioni di Bernhard Bornheim (pp. 321-324), condotte senza una conoscenza della tradizione del significato della liturgia bizantina e russa, in ogni caso non aggiungono molto. 29 Lev Lifyic, Die Ikone “Sophia” – Weis­heit Gottes, passim. 30 Ms. n. 1102 della raccolta Egorov (f98), fol. 168v-170v. 31 Nella prima icona di questo tipo iconografico il volto della Sofia non è ancora rosso. Sulla spiegazione citata v. anche G.C. e P. Azzaro, n. 98. 32 Ms. n. 1504 Sof. (fine xvii secolo), fol. 85v.-96v. 33 Sulle ali di Giovanni Battista v. sotto. Per la Madre di Dio il senso originario di questo attributo è incomprensibile. La corona della


Madre di Dio invece deriva dall’interpretazione mariologica del Sal 44 (lxx), tradizionale nella teologia ortodossa. 34 V.N. Lazarev, L’arte russa delle icone, p. 374. 35 Nella Settanta manca il riferimento a Salomone come autore. 36 H. Skrobucha, Meisterwerke, p. 262. 37 K.Ch. Felmy, “Die unendliche Weis­ heit…”, specialmente le pp. 53-66. 38 T. Velmans, Byzanz, cap. vii. 39 K.Ch. Felmy, “Die unendliche Weis­ heit…”, pp. 46-53. 40 Mi appoggio qui quasi esclusivamente a E. Haustein-Bartsch, “Siehe, der Hüter Israels…” passim. 41 Natalija Markina, passim. 42 K.Ch. Felmy, Die Ikone “Eingeborener Sohn”, passim. 43 Lo stichiron recita: “Il grande Mosè ha prefigurato questo giorno in immagine, quando disse: ‘E Dio benedisse il settimo giorno’. Poiché questo è il Sabato benedetto. È il giorno del riposo, in cui il Figlio unigenito di Dio cessò tutte le sue opere. A causa del piano di salvezza che comportava la sua morte, egli riposò nella carne e tornò nuovamente ciò che era. Con la risurrezione ci donò la vita eterna, perché egli solo è benevolo e amico degli uomini”. 44 O.I. Podobedova, pp. 47-52. 45 T. Velmans, pp. 241, 257. 46 K.Ch. Felmy, Die Ikone “Eingeborener Sohn”, p. 98, fig. 2, tav. 7. 47 K.Ch. Felmy, Die Deutung, pp. 55-57. 48 Questo motivo appare in una serie di nuovi tipi iconografici, apparsi in parte già nei Balcani prima della caduta di Costantinopoli, in parte in Russia innanzitutto nel xvii secolo, che qui non possono essere trattati per motivi di spazio (v. K.Ch. Felmy, “Es schweige…”, specialmente le pp. 259-272, 290). 49 Cfr. anche K.Ch. Felmy, “Es schweige…”, passim. 50 V.G. Br[sova, “ivopis; 17 Veka, tav. 68. 51 K.Ch. Felmy, “Es schweige…”, pp. 284s.; V.G. Br[sova, “ivopis; 17 Veka, fig. 73. 52 Una copia in piccolo formato di questo tipo iconografico fu esposta a Roma nel 1999 nella mostra “Sofia. La Sapienza di Dio”: G.C. e P. Azzaro, Sophia, n. 70. 53 K.Ch. Felmy, “Es schweige…”, pp. 273291. 54 1 Tim 6,15. 55 Cfr. Is 6,2. 56 K.Ch. Felmy, Die Deutung, pp. 72s. 57 T. Velmans, p. 295. 58 K. Weitzmann, M. Chatzidakis, S. Radoj/i0, pp. 118s. 59 Giovanni Damasceno, Hom. i in Dormi­ tionem B.M.V.: pg 96, 712c-723b. 60 Ciò avviene occasionalmente anche altrove, per esempio K. Sommer, p. 122 (fig. 33). Un’icona contemporanea, che mostra anch’essa santi al posto dei sofferenti, è la cosiddetta “Charbinskaja” nella chiesa sinodale della Chiesa Ortodossa Russa all’Estero a New York: HdoÄvornye ukony;, pp. 111, 112s.

J.-P. Deschler, passim; K.Ch. Felmy, Der mehrfach dargestellte Christus, passim. 62 K.Ch. Felmy, Der mehrfach dargestellte Christus, p. 161-165. 63 K.Ch. Felmy, La teologia ortodossa, pp. 132-164. 61

Le icone rumene K. Weitzmann, M. Chatzidakis, S. Radoj/i0, Ikone, Belgrado 1983 (il contributo sulla Romania è di T. Voinescu), riproduzione a p. 385. 2 Ibid., p. 379. 3 Eikones tis Romanias (in greco, catalogo di esposizione), Atene 1993, n. 17, pp. 65-66. 4 Sulla vita di san Giorgio, vedere: K. Krumbacher, Der heilige Georg in der gri­ echischen Überlieferung, Monaco 1911; sul miracolo del drago: J.B. Aufhauser, Das Drachenwunder des heiligen Georg, Lipsia 1911. 5 Eikones cit., n. 21, pp. 72-73. 6 Ibid., n. 19, pp. 68-69. 7 Ibid., n. 50, pp. 118-119. 8 Ibid., n. 27, pp. 83-84. 1

L’oriente cristiano Cfr. A. Grabar, L’Art du Moyen Âge en Europe orientale, Parigi 1968. 2 Cfr. Icônes grecques, melkites, russes (catalogo di esposizione), Parigi 1933, pp. 34-35. 3 Cfr. O. Tafrali, «Le monastère de Sucevitza», in Mélanges offerts à Charles Diehl, vol. ii, Parigi 1930, p. 225. 4 Cfr. Schatzkammer Georgien (catalogo di esposizione), Vienna 1981, tav. 100. 5 Il Concilio, che si svolse a Calcedonia nel 451, definì il dogma delle due nature perfette, indivisibili e inconfondibili di Cristo, mettendo fine a lunghe dispute cristologiche. 6 Ci danno notizie sugli spostamenti dell’icona e su coloro che via via ne sono stati proprietari. 7 Cfr. Schatzkammer, tav. 118. 8 Cfr. ibid., tav. 98; Au pays de la toison d’or, catalogo, Parigi 1982, tav. 107. In questo catalogo l’icona è indicata come ‘Vergine di Choragaouli’. 9 Cfr. ibid., p. 198. 10 La Vergine Odigitria tiene il Bambino sul braccio sinistro. 11 Cfr. T. Sanikidze e G. Abramisvili, Orfèvrerie géorgienne, catalogo, Ginevra 1979, tav. 66. 12 Cfr. ibid., p. 66. 13 Cfr. Draginja Lazar, Kaleni0 et la dernière période de la peinture byzantine, Skopje 1995, pp. 85ss. 14 Cfr. Au pays…, p. 121. 15 Cfr. T. Velmans, «Un triptyque avec l’arbre de Jessé et deux autres images mobiles conservées en Géorgie», in Art de l’Orient chrétien, Parigi-Sofia 2002, pp. 325ss. 16 Cfr. A. Watson, The early iconography of the Tree ef Jesse, Londra 1934, pp. 3-4. 17 Giovanni Damasceno, Omelie sulla Na­ 1

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tività e la Dormizione, Sources Chrétiennes, Parigi 1961, p. 75. 18 Cfr. R.P.E. Mercenier, La prière des égli­ ses de rite byzantin, ii, 1, Fêtes fixes, Parigi 1962, pp. 79 e 83 19 Cfr. Schatzkammer, tav. 104. 20 Cfr. ibid., tav. 115. 21 I monofisiti sostenevano che dopo l’Incarnazione le due nature di Cristo avessero formato una sola natura divina. Per una sintesi delle dispute sulla natura di Cristo e sulla dottrina monofisita, vedere: G. Ostrogorsky, Histoire de l’État byzantin, Parigi 1977, pp. 85-87 (trad. it. Storia dell’impero bizantino, Torino 1968). Il monofisismo fu condannato come eresia dal concilio di Calcedonia nel 451. 22 In contrasto coi monofisiti, i melchiti erano definiti come i cristiani d’Oriente che erano rimasti fedeli alla “vera fede”, a quella, cioè, definita dal concilio di Calcedonia e sostenuta dalla Chiesa bizantina. 23 Cfr. Icônes melkites, p. 172. 24 Si tratta di un movimento mistico contrario all’umanesimo della rinascenza dei Paleologhi e ai modelli antichi ai quali essa s’ispirava. In seguito alla sua influenza buona parte dei pittori è ritornata al grafismo ed alle forme piuttosto dure del xii secolo. 25 Cfr. Icônes melkites, p. 45ss. 26 Cfr. Ibid., p. 204, tav. 62. 27 Cfr. Ibid., p. 208, tav. 63 28 Cfr. Sophronius, in Migne pg lxxxvii, coll. 351-352 bc, e Cirillo d’Alessandria, ibid., lxxiii, coll. 105-106 c. Vedere anche J. Lafontaine-Gosogne, «Une icône de l’Angélos et l’iconographie de saint JeanBaptiste ailé», in Bulletin des Musée Royaux d’Art et d’Histoire, 118, 1976, Bruxelles, 1978, pp. 121-144. 29 Cfr. Icônes melkites, p. 216, tav. 66. 30 Cfr. Ibid., p. 218. 31 Cfr. Ibid., pp. 190-191, tav. 57. 32 Su questi miracoli vedi: Icônes melkites, catalogo, Beirut 1969, pp. 140ss. 33 Cfr. M. Zibawi, Orienti cristiani, Milano 1995, p. 96. 34 Cfr. J. Leroy, «L’icône des Stylites de Deir Balamend (Libano) et ses sources d’ispiration», in Mélanges de l’Université SaintJoseph, t. xxxviii, 1962, pp. 333-358. 35 Cfr. Icônes melkites, p. 262ss., tav. 84 36 Cfr. Ibid., p. 262. 37 Cfr. M. Zibawi, Orienti cristiani, riproduzione: Siria, tavv. 20, 21. 38 Il prototipo è una prima immagine esemplare che riunisce tutte le caratteristiche di una serie. Può essere paragonata ad una forma che sta all’origine di una serie. 39 Cfr. M. Zibawi, Orienti cristiani, riproduzione : Siria, tav. 24. 40 Cfr. Ibid., fig. 58. 41 Cfr. P. Van Moorsel, Catalogue général du Musée copte. The Icons, Il Cairo, 1994, p. 29, tav 6, n. 23. 42 Per questa liturgia vedi F.E. Brightman e C.E. Hammond, Liturgies Eastern and Western, Oxford, 1965, 1967, pp. 111ss. 43 Per le decorazioni di questi conventi vedi Quibell, Excavations at Saqqara, Il Cairo

1909; J. Clédat, Le monastère et la nécropole de Baouït, Il Cairo 1904. 44 Cfr. M. Zibawi, Orienti cristiani, riproduzione: Egitto, tav. 70. 45 Per questa dottrina vedere la nota 21. 46 Cfr. Marilyn E. Heldman, The Marian Icons of the painter Fre Seyon, Wiesbaden 1994. 47 Cfr. Ibid., tav. i. 48 Cfr. T. Velmans, «Observations sur quelques peintures murales en Syrie et Palestine et leur composante byzantine orientale», in L’Art médiéval de l’Orient chrétien, raccolta di studi, Parigi-Sofia 2002, pp. 403-404. 49 Cfr. M.H. Heldman, Icons, tav. vii. 50 Cfr. M. Zibawi, Orienti cristiani, riproduzione: Etiopia, tav. 88.

in

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in

La pittura d'icone Ucraina Occidentale e Bielorussia

L’appartenenza di Ucraina e Bielorussia alle regioni di cultura postbizantina è stata riconosciuta e affrontata negli studi solo molto recentemente: cfr. ad esempio Popova O. 1995, Komashko N. 2002. Ne è causa maggiore il fatto che questi paesi hanno riconquistato la propria indipendenza solo dopo il collasso dell’Unione Sovietica mentre in precedenza, e per secoli, erano stati dominati politicamente e culturalmente da centri stranieri, specie Russia e Polonia. Questo produsse dimenticanza della cultura propria e spesso anche usurpazione delle loro realizzazioni culturali da parte dei vicini. Per la prima volta il fenomeno dell’iconografia locale e il suo legame con la tradizione bizantina furono portati alla luce e fatti oggetto di uno studio scientifico nel 1936, per opera di Ilarion Svientsitsky (Svientsitsky I. 1936). 2 Ne è un buon esempio lo stile neobizantino della cosiddetta “scuola Boychuk”, una corrente artistica presente in Ucraina all’inizio del xx secolo (Kovalska L., Prystalenko N. 1991; Rypko O. 1991). 3 Come indicato in bibliografia, questo articolo si basa sui lavori di studiosi polacchi, ucraini, bielorussi, slovacchi e russi. La storia degli studi dell’iconografia dell’Ucraina occidentale è iniziata nel 1885, con l’esposizione di Leopoli (Wystawa archeologiczna 1885); quella delle opere bielorusse con un analogo evento a Minsk (Ippel A. 1918). 4 Con l’espressione “Ruteni occidentali” intendo designare i territori occidentali della Rus’ di Kiev durante il x-xiii secolo, ovvero: i principati di Haly/-Volinia (oggi Ucraina occidentale, Transcarpazia, Slovacchia orientale, parte della Polonia orientale e Moldavia settentrionale), Polock, \ernihov-Siversk (solo la parte settentrionale) e Turovo-Pinsk (l’attuale Bielorussia). Nel xv-xvi secolo questi territori facevano già parte di altri stati da lungo tempo ma avevano conservato la loro identità e i legami con le tradizioni della Rus’ di Kiev. Esiste un certo disaccordo riguardo al nome corretto della scuola iconografica locale nei secoli xv-xviii: a volte è detta “ucraina”, a volte “carpatica” o “slovacca” (a seconda dell’area), o “rutena occidentale” (per la discussione dettagliata del problema e la critica del termine equivoco “iconografia carpatica” cfr. GreYlík V. 1988, 1999; Alexandrovych V. 1999; Deluga W. 2001; Kots’-Hryhorchuk L. 2002). Qui usiamo il termine “rutena occidentale” – in riferimento alla pittura d’icona sia ucraina che bielorussa – in quanto designazione maggiormente adeguata e 1

storicamente corretta della popolazione della regione dalla quale provengono le icone di cui parliamo, unita religiosamente, perché ortodossa ed etnicamente, perché rutena. Il termine è usato come sinonimo dei moderni etnonimi “ucraino” e “bielorusso”. 5 Di regola queste icone sono conservate nelle collezioni dei musei di: Leopoli/Lviv, Kiev/Kyiv, Kharkiv, Ivano-Frankivsk, Droho­ bych, Rivne, Lutsk (tutti quanti in Ucraina); Minsk (Bielorussia); Sanok, Cracovia/ Kraków, Przemysl, Lancut, Nowy Sa¸cz (tutti nell’attuale Polonia); Svidnik, Bardejov, Bratislava (in Slovacchia); Praga. La collezione più ricca tra queste, quella del Museo Nazionale di Leopoli (d’ora in poi mnl) attende ancora di venir pubblicata. La distribuzione geografica delle icone che si sono conservate è diseguale: la maggioranza delle icone sopravvissute del xv-xvi secolo provengono dalle eparchie storiche di Peremyyl e di Haly/-Lviv; una ventina (riscoperte negli ultimi decenni) proviene dalla Volinia/Volyn’ e una decina soltanto dalla Bielorussia. 6 Nel tardo xiv secolo (1385ca) e, in modo definitivo, nel 1434. 7 Nel corso del xiv secolo, quando fu creato il “Granducato di Lituania, Rus’ e Zmud’”. Il novanta per cento del ducato era costituito da territori etnicamente ruteni (ucraini e bielorussi), che fino alla metà del xvi secolo godettero di una incontestata superiorità culturale e anche di una certa autonomia. Nel 1569 fu creato il Commonwealth polacco-lituano, che portò la Volinia sotto il diretto governo polacco. L’influenza politica e culturale polacca divenne allora predominante anche nei territori governati dai principi lituani. 8 Nei secoli xvi e xvii confraternite religiose (o “fraternità”) erano diffuse nella regione di Haly/ e in Volinia, raggiungendo anche Kiev. Il loro compito principale era la difesa della fede, del rito e delle “tradizioni ancestrali”. A cominciare dalla fine del xvi secolo esse attuarono un’ampia gamma di iniziative culturali ed educative, fondarono e gestirono scuole, tipografie e biblioteche. Quella più antica e, forse, la più prolifica fu la Confraternita di Leopoli, fondata presso la chiesa della Dormizione negli anni precedenti il 1463. Dopo l’Unione di Brest del 1596 cominciò il declino per la maggior parte delle confraternite, che limitarono la loro attività a questioni puramente ecclesiastiche (Isayevic Y. 1966). 9 V. Lazarev ritiene che il xiv secolo fu caratterizzato dalla “rapida cristallizzazione delle scuole locali e nazionali “, cfr. Lazarev V. 1986, vol. 1, p. 157. La connessione tra le icone ucraine e bielorusse è stata stabilita sulla base della loro unità stilistica (Biskupsky R. 1971, 1982, 1985, 1991b; Grza¸ndziela R. 1974, 1994; Svientsitska V. 1967, 1971, 1977; Yarema V. 1986, 1994; e altri). Nell’ultimo decennio del secolo scorso tale legame è stato confermato da numerose prove documentarie trovate negli archivi locali (cfr. Alexandrovych V. 1987, 1992, 1993). Nel xv-xvi secolo, accanto all’unità iconografica e stilistica della scuola regionale,

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al suo interno esistono anche numerose differenze basate su tradizioni locali particolari, usi e circostanze di ogni singolo circolo artistico. Questi ‘sottogruppi’ si potrebbero distinguere seguendo linee di suddivisione etnografiche (regione di Boyko o Lemko) oppure storico-geografiche (Haly/ina, Volinia). Di conseguenza, nel mio testo utilizzo questi toponimi per designare specifici fenomeni artistici associati con essi. 10 Date le dimensioni ridotte di questo studio e i limiti dello spazio disponibile per il materiale illustrativo, non ci soffermeremo su analisi troppo dettagliate dei vari fatti ed ipotesi relativi ai maggiori centri e circoli artistici, né sui maggiori iconografi della scuola. Nella Bibliografia si troveranno i riferimenti agli studi specifici. 11 Di regola, le chiese di legno ucraine di quel periodo avevano un’unica navata ed erano prive di pitture parietali. 12 Questo tratto distintivo della tradizione iconografica locale fu osservato da V. Alexandrovy/ (Alexandrovych V. 1996a, p. 133 e 1996b, p. 44). 13 Alexandrovych V. 1994, pp. 23-24. 14 Sull’iconostasi alta cfr. Dukhan I. 1988 per la Bielorussia; K onstantynowicz I. 1930, Yarema V. 1959, Yarema V. 1972, Taranushchenko S. 1994, Alexandrovych V. 2001 per l’Ucraina. 15 In dettaglio: sei tipi di rappresentazione “diretta” di Cristo (Acheropito, Pantocratore – a tutta figura, a mezza figura e sul trono – Cristo in maestà, Cristo Emmanuele) e due di tipo simbolico (l’Antico di giorni e Cristo, Saggezza di Dio o Sofia). 16 Cfr. P ucko V. 1997, p. 41. Sul Cristo Acheropito nell’iconografia rutena: Grza˛dziela R. 1974; Svientsitska V. 1977 p. 278; Klekot E. 1992. 17 La più tarda icona conosciuta di questo tipo risale all’inizio del xvii secolo: Svientsitska V. 1983 pp. 17-18. 18 Questo tipo iconografico è conosciuto a Novgorod e in Moscovia (Salvatore di Smolensk) solo a partire dall’inizio del xvi secolo: Svientsitska V. 1983, p. 17; Pripachkin I. 2001, pp. 78-81. 19 Svientsitska V. 1983 p. 17. Sfortunatamente non è giunta fino a noi alcuna icona analoga della Madre di Dio in piedi a figura piena, che si sarebbe potuta considerare la controparte delle icone del Pantocratore. Un’ipotesi di spiegazione del fenomeno in Alexandrovych V. 1993a. 20 Il primo caso, datato 1418, appare nelle pitture murali della cappella della Santa Trinità a Lublino, in Polonia. 21 Putsko V. 2001b, p. 17. R. Biskupski (Biskupski R. 1985, p. 159) attribuisce la comparsa di questo tipo a influenze moscovite, a quella di Rublëv in particolare. L’affermazione non pare però suffragata da alcuna seria prova e suscita numerose obiezioni da parte di altri studiosi (Yarema V. B. 1994b; Putsko V. 2001b). 22 Putsko V. 2001b, pp. 17-18. 23 M. Kruk ha calcolato che cinquanta delle settantacinque icone da lui studiate presen-


tano questa caratteristica; quarantacinque hanno dei profeti sui margini: Kruk M. 2000, p. 13. 24 È un titolo iconografico di origine liturgica, dovuto al fatto che la Vergine è rappresentata rinchiusa nella cornice di profeti e innografi che con le loro profezie e inni ne cantano le lodi. Accanto al tipo dell’Odigitria possono anche esserci icone dell’Eleussa o della Madre di Dio sul trono. 25 Svientsitska V. 1983, p. 18. 26 Vuytsyk V. 1995. 27 In un’icona di Drohobych e in una delle chiese in Volinia. 28 Svientsitsky-Sviatytsky I. 1929, tavv. 72, 113, 115. 29 La diffusione del suo culto tra gli slavi orientali iniziò dalla regione di Haly/ (Mytsko I. 1998, pp. 33-36). 30 Questo fatto testimonia l’unità religiosa della regione con la Rus’ di Kiev. 31 Ci potevano essere oltre venti scene marginali (kleyma), che potevano essere disposte su due file. 32 Per lo studio dei problemi della regola canonica nell’iconografia delle feste di quell’epoca, cfr. Janocha M. 2001 pp. 31-101. 33 La possibilità dell’esistenza di alcuni modelli (su carta o pergamena) usati dai pittori della regione è stata esaminata dallo studioso russo A. Rogov in riferimento agli affreschi del ciclo Akathisto a Lavriv (Rogov A. 1973, p. 346). 34 Deluga W. 2000, pp. 106-130. Il capitolo si intitola “Prototipi grafici nella pittura ecclesiastica del xvi-xvii secolo”. 35 Alexandrovych V. 1999 è lo studio più recente sull’iconografia di Haly/-Volinia. In totale qui si sono conservate circa dieci icone che risalgono al xiv secolo; furono probabilmente create dopo la soggezione del principato al principe Casimiro nel 1340. Queste icone documentano: a. gli stretti legami esistenti tra la scuola locale e l’arte dell’epoca paleologa; b. l’intensa assimilazione e la riformulazione di modelli paleologhi da parte degli iconografi locali; c. l’esistenza di una tradizione iconografica

locale capace di recepire in modo ceativo modelli artistici bizantini e anche di modificarli, come prova l’icona della Trasfigurazione da Busovyska (xiv secolo, mnl) con i suoi singoli elementi compositivi gotici, un uso particolare del colore e uno strumentario artistico ripreso dalla scuola kieviana di miniature di manoscritti (salterio di Kiev del 1379). Per i particolari, cfr. Putsko V. 2001a. 36 Svientsitska V., Otkovych V. 1991, p. 9. 37 Putsko V. 2001a, p. 29. 38 Kruk M. 2000, p. 242. 39 Svientsitski I. 1914, p. 73. Fanno eccezione le icone della Crocifissione, che spesso hanno la proporzione di 1 a 11. 40 Anche a Bisanzio e in altri paesi del mondo orientale ortodosso si trovano icone con il fondo multicolore, ma sono un fenomeno piuttosto raro. 41 Cfr. ad esempio Deluga W. 2000, p. 25. L’autore si sbaglia anche nella datazione della comparsa dello sfondo multicolore nell’iconografia rutena occidentale, che attribuisce alla svolta tra xv e xvi secolo, mentre questo tipo di fondo è prevalente in quasi tutte le icone del periodo precedente. 42 Nella maggioranza dei casi il fondo era bianco (ottenuto con ocra mescolata con bianco). Teologicamente esso simbolizzava la Natura Divina invisibile e le energie increate che emanano da essa (si pensi alla veste di Cristo durante la Trasfigurazione). Il secondo colore per frequenza erano diverse tonalità di rosso (i pigmenti usati per produrre il colore erano l’ocra rossa, suryk più alcuni altri). Simbolicamente rappresenta il “fuoco splendente” della divinità, secondo lo Pseudo-Dionigi, Gerarchia celeste 15,2. Il verde significa la vita, donata dallo Spirito Santo, il “Donatore della Vita”. Per ottenere questo colore si usava normalmente una tintura vegetale blu mescolata con del pigmento giallo. Un buon esempio di un’icona con il fondo bianco è l’Ascensione dello Spirito Santo da Radruzh (prima metà del xv secolo,

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mnl );

per il rosso si può vedere l’Odigi­ tria di Hrushiv, la cui datazione oscilla tra il primo xv e il xvi secolo al più tardi ( mnl); per il verde l’Odigitria sul trono da Krampna, nella regione di Lemko, datata al xv o all’inizio del xvi secolo (mnl). Sul simbolismo del colore, cfr: B ychkov V. 1977; S endler E. 1999. Le informazioni relative ai materiali utilizzati nella pittura d’icona sono state ottenute dai restauratori delle pitture a tempera del mnl, alla cui guida, fino al 2002, fu P. Petrushak. A lui dobbiamo molte importanti scoperte relative al modo per determinare la composizione dei pigmenti usati, e per restituire alle icone il loro aspetto originario. Si tratta di notizie non pubblicate finora e sono grata al signor P. Petrushak e ai suoi colleghi per avermele voluto comunicare. 43 Pigmentum auri, acido di solfuro che non è ridotto in polvere come la maggior parte degli altri minerali e pigmenti usati nella pittura d’icona ma rimane in minuscoli cristalli che creano uno speciale effetto di ‘mosaico’ che irradia la luce all’esterno. 44 Per una concisa guida degli aspetti tecnici della pittura d’icona in Rutenia occidentale, cfr. Peschansky V., Svientsitsky I. 1932; Svientsitska V. 1967, p. 211; Vysotskaya N. 1986, p. 11; Kruk 2000, pp. 43-48 (quest’ultimo con molti errori). 45 Kruk M. 2000, pp. 43-44. 46 Putsko V. 1995, p. 6; 2001a, p. 29. 47 In Volinia erano presenti numerose ricche famiglie nobili, in grado di finanziare progetti artistici di questo tipo, cfr. Alexan­ drovych V. 1994, pp. 23-24. 48 Rogov A. 1973, p. 349. 49 Cfr. Kruk M. 2000. Resta oscuro perché questo tipo d’icona conobbe una diffusione tanto ampia proprio in questa regione. 50 Rogov A. 1973. 51 Deluga 2000, p. 27. M. Drahan trova l’origine del fondo con decorazione ornamentale nella tradizione bizantina e kieviana di ricoprire le icone con un rivestimento metallico (Drahan M. 1970 p. 40). 52 Mroczko T., Dab-Kalinowska B. 1966.


Crediti fotografici

I numeri si riferiscono alle pagine, quelli tra parentesi alle illustrazioni.

Parte prima

Parte seconda

Archivio dell’Arte Luciano Pedicini, Napoli: 13(3)

Archivio Scala: 301

Archivio Jaca Book/E.V. Gippenreiter: 114(18)

Arciconfraternita della Purificazione, Livorno: 204

Archivio Jaca Book/Iskusstvo, Mosca: 39, 52-69, 98, 110, 116-118, 124, 144, 153(15), 154, 181(42), 186, 188(49), 189

Arnaldo Vescovo: 210, 211

Archivio Scala, Firenze: 128-129, 138-139, 184(44)

Assessorato per i Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana. Galleria Regionale di Palazzo Bellomo, Siracusa: 235

B.N. Marconi, Genova: 21, 161

Bakur Sulakauri Publ., Tbilisi, Georgia: 336-339

Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz, Berlin: 72, 159

Benaki Museum, Athens: 209, 231, 259

Comune di Sassoferrato (An), Sala Perottina: 181(41)

Cameraphoto Arte, Venezia: 200

Diözesanmuseum, Freising: 167

Ekdotike Athenon: 205, 218(14), 220, 224, 233, 234, 241

Ekdotike Athenon, S.A.: 34, 96, 102-105, 112, 115, 120-123, 125, 134, 149, 155-157, 168-169

Foto “Vlado”, Skopje, Macedonia: 254, 255 Gennadius Library, American School of Classical Studies at Athens/foto Elias Eliadis: 260

179(39), 185

KHM, Wien: 207

Georgian Cultural Heritage Lab./Bakur Sulakauri Publishing: 74-93, 109, 132-133, 153(14) Kostantin Tanchev, Sofia, Bulgaria: 40, 48-49, 164(25), 177(36), 183

Ministry of Culture, Greece/foto Elias Eliadis: 217, 226-230, 236, 238, 244, 261

Musei Vaticani: 12, 13

Museum of Zakynthos: 219, 258, 262, 263

Museo del Bargello, Firenze, su concessione dei Beni e delle Attività Culturali (foto N. Orsi Battaglini): 52

Muzeul Nawional de Arta al Romaniei: 199, 328-333

Museum Catharijneconvent, Utrecht: 33

Russia Cristiana, Seriate: 268, 269, 271, 274, 275, 281, 283, 284, 287, 288, 290, 291, 295-297, 303, 309, 311, 313-315, 319, 320, 322

Photo M2 di Sergio Martucci, Venezia: 215, 231, 237, 240

Pinacoteca Provinciale, Bari: 113

Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico di Parma e Piacenza: 220

RMN, Paris (foto Arnaudet): 32, 147 Rolf Schrade, Prof.Dr.Phil., D – Mahlov: 77

The National Museum of Western Art, Tokyo: 222

Tesoro di San Marco, Venezia: 31(5), 50, 51

Ursula Held, Ecublens/Lausanne: 341-347

Vlado Kiprijanovski, Skopje: 42, 45, 114(17), 140, 141, 151

399



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