IL COLORE NELL’ARTE
IL COLORE NELL’ARTE Saggio introduttivo di Massimo Carboni Testi di Alice Barale, Ivan Bargna, Roberto Cassanelli, Giovanni Curatola, Christine Kontler, Ronald W. Lightbown, Tania Velmans, Angela Vettese, Giorgio Zanchetti
indice
Nuova edizione 2021 International copyright © 2006 by Editoriale Jaca Book Srl, Milano All rights reserved © by SIAE, 2021 per le opere dei seguenti artisti: Ad Reinhardt, James Rosenquist, Brice Marden, Lucio Fontana, Jean Fautrier, Antoni Tàpies, Franz Kline, Jackson Pollock, Josef Albers, Yves Klein, Mark Rothko, Henri Matisse, Giacomo Balla © Succession H. Matisse/SIAE 2021 per le riproduzioni delle opere di Henri Matisse © Fondazione Lucio Fontana/SIAE 2021 per la riproduzione dell’opera di Lucio Fontana Prima edizione italiana settembre 2006
Copertina e grafica Jaca Book / Paola Forini
Stampa e legatura Grafiche Stella San Pietro di Legnago (VR) gennaio 2021
RIFLESSIONI SUL COLORE un’introduzione Massimo Carboni
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IL COLORE NELL’ARTE AFRICANA Ivan Bargna
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IL COLORE NELL’ARTE CINESE Christine Kontler
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ISLAM E COLORI Giovanni Curatola
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IL SISTEMA CROMATICO DELLA PITTURA BIZANTINA Tania Velmans
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LE CATTEDRALI DEL MEDIOEVO ERANO BIANCHE? dal cromatismo architettonico allo spazio-colore Roberto Cassanelli
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IL COLORE NEL QUATTROCENTO Ronald W. Lightbown
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«AZIONI E PASSIONI» DELLA LUCE
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il colore dalle teorie ottocentesche all’ultimo matisse
Giorgio Zanchetti
ARTE E COLORE
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alcune linee di sviluppo nel dopoguerra
Angela Vettese
ISBN 978-88-16-60636-4 Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
IL VIAGGIO DEL COLORE: BREVE NOTA FILOSOFICA Alice Barale
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NOTE 247 ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI 255
RIFLESSIONI SUL COLORE UN’INTRODUZIONE Massimo Carboni
I contributi raccolti in questo volume fanno il periplo storico e geoculturale dell’impiego del colore nelle arti del mondo, soprattutto in pittura; hanno così modo di lasciar emergere sia le costanti sia le variabili che nei vari secoli e nelle diverse epoche stilistiche accompagnano l’esperienza cromatica sub specie artistica. Quella tra arte e colore è a tutta prima una relazione immediata, quasi intuitiva; o almeno così siamo abituati a pensarla. In questi saggi, invece, il tentativo è quello di interrogare quel rapporto apparentemente evidente, di revocare in questione ciò che sembra andar da sé, di trasformare il dato in un problema. È quello che faremo anche in questa Introduzione. La sfida impossibile «Sono infinite le cose appartenenti al colore e impossibili a esplicare con parole» Paolo Pino, Dialogo di pittura «Da che tempo è tempo è stato piuttosto pericoloso parlare del colore» Wolfgang Goethe, La teoria dei colori
Riguardo al tema del colore, i due exerga ci indicano non tanto i problemi da risolvere quanto i perimetri conoscitivi e soprattutto le condizioni discorsive che ne modellano l’approccio. Ci parlano di un’inquietudine, di un disagio nel fronteggiare l’esigenza posta dal colore. Ci parlano di una sua eccezionale instabilità, di una sua strana inafferrabilità, di una sua singolare indeterminatezza. Perché forse niente più del colore sfida il linguaggio. Ne era già perfettamente consapevole Platone
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Il colore nell’arte
Riflessioni sul colore
quando nel Teeteto Socrate e Teodoro pongono l’uno all’altro domande radicali: «È mai possibile enunciare un qualsiasi colore così da chiamarlo come si dovrebbe? […] o come predicarne altro, se tutto, fluendo perennemente, sfugge sempre a chi tenta di parlarne?» (182d). E nel Timeo, il grande dialogo dedicato alla natura, la proporzione reciproca dei colori mescolati insieme «neppure se la si sapesse, sarebbe prudente dirla, poiché nessuno sarebbe capace neanche a un dipresso di indicarne né una qualsiasi necessità, né alcuna probabile ragione» (68c). Il colore − «ancor più della forma difficile a significar per verba», diceva Roberto Longhi − è ciò che meno si lascia descrivere poiché eccede in modo qualitativamente specifico la sfera logico-discorsiva rappresentando, anzi mettendo alla prova più severa la problematicità-impossibilità di “dire” il visivo1. Non è un caso se Kant, nell’Antropologia pragmatica, quando
deve precisare che l’immaginazione produttiva è sì exhibitio originaria dell’oggetto − e dunque precedente all’esperienza − ma non per questo è creatrice, cioè non può produrre una rappresentazione sensibile, fa proprio l’esempio del colore: «A colui, che fra i sette colori non abbia mai visto il rosso, non si potrà mai rendere concepibile questa sensazione, e al cieco nato non si potrà mai dare l’idea di nessun colore affatto»2. Le combinazioni possibili tra lunghezza d’onda, brillanza e saturazione danno in via teorica un risultato di circa sette milioni e mezzo di cambiamenti percettibili di colore, rispetto alle quali le categorie verbali con cui dovremmo descriverli sono estremamente ridotte quindi largamente insufficienti, anzi “ontologicamente” inabili al compito. Secondo alcuni studi, le categorie verbali universali dicono il nero, il rosso, il verde, il giallo, il blu, il marrone, il porpora, il rosa, l’arancione e il grigio. Ma quanti neri ci sono nel Nero, quanti rossi nel Rosso e così via? Sembra che in qualche modo la percezione del colore, di quel colore singolo, determinato nella sua assoluta specificità e singolarità, debba restare allora, per dir così, rinserrata in se stessa, sigillata nella sua mobilissima ma intrasmissibile ipseità. L’ostensione diretta dell’exemplum, il rinvio puntuale, indexicale alla presenza immediata, al fenomeno flagrante, appare indispensabile: «Non posso spiegare che cosa sia “colore”» − scrive quel Wittgenstein che dal 1950 fino alla morte lavorò proprio su questo tema − «che cosa la parola “colore” significhi, se non sulla base di un campione cromatico»3. È mediante la forma, dunque mediante il disegno, che la pittura si articola − in una certa misura − alla discorsività: il Bergotte proustiano non muore forse perché non riesce a trovare un equivalente letterario del giallo, di quel giallo, il celebre petit pan de mur jaune, che lo cattura, che lo affascina, che lo paralizza nella Veduta di Delft4? L’elemento del colore (a meno che, con un’operazione del tutto artificiale che si limita alla pura istanza metodologica, non venga assiologicamente codificato ex post) molto difficilmente può prendere il suo posto all’interno del sistema formale della pittura, e certamente pone problemi insolubili alla sua interpretazione semiologica che la pensa e cerca di teorizzarla come una “lingua”: l’economia della funzione artistica è toto caelo diversa da quella della comunicazione. I nomi dei colori sono indeterminati, dunque, perché estremamente problematica è la loro concettualizzazione, soprattutto tenendo conto del fatto che lo spettro non è altro che un continuum scalare di gradazioni, di differenze (torneremo su questo punto), e di conseguenza gli stessi nomi coprono gamme cromatiche mobili, diverse, fluttuanti, sia pure innestate sulla base dei tre primari fondamentali e delle loro combinazioni: il colore corrispondente alla lunghezza d’onda di 600 millicron, per esempio, viene designato almeno con otto definizioni nominali diverse. Non c’è colore senza contingenza, senza accidentalità, senza supplemento di una sostanza che non esiste. Da questo punto di vista (è davvero il caso di dirlo), non soltanto non ha senso credere o pretendere un concetto “puro” di colore, ma quel che è proprio del colore sembra indicibile: il colore letteralmente de-nomina, si potrebbe affermare, nel senso che toglie al nome la sua capacità referenziale di designare, di predicare univocamente l’essente che ha davanti5. Forse è per questo che Wittgenstein scriveva che «i colori stimolano alla filosofia», perché «sembrano presentarci un enigma»6. Questo enigma non va “risolto”. Va percorso fin dove è possibile.
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1. Jan Vermeer, Veduta di Delft, 1660-1661, olio su tela, 96,5 × 115,7 cm, Mauritshuis, L’Aia.
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Il colore nell’arte
Riflessioni sul colore
Tutto è colore «Il colore è il primo visibile» Plotino, Enneadi «Questa grande sinfonia del giorno, eterna variazione della sinfonia di ieri, questa successione di melodie, ove la varietà sgorga sempre dall’infinito, questo inno complicato ha nome colore» Charles Baudelaire, Salons del 1846 Ma che cosa rende incircoscrivibile il fenomeno del colore? Precisamente la sua assoluta prossimità. Inaccostabile perché troppo vicina. Dobbiamo interpretare la sentenza di Plotino sul colore come primo visibile nel senso più radicale. Noi sentiamo il colore (è un fatto di aisthesis, di sensibilità, non di valutazione logico-razionale) come un dato inaggirabile, intrascendibile, che fa parte integrante della nostra originaria e predecisa fede percettiva implicita in quel nucleo grezzo e latente ove soggetto e oggetto, indistinguibili, si avvolgono l’uno nell’altro. Il colore è Urphänomen, fenomeno originario. Come la luce da cui deriva, il colore è precondizione insieme assoluta e contingente di cui non si può venire a capo e di cui non si sanno tracciare i confini. Parte inestirpabile dell’autoevidenza dell’essere, è preliminare ad ogni nostro atto, anticipa ogni nostra descrizione. Questo è tanto vero che, così come il cuore della luce non è luminoso, l’unica cosa non colorata non è altro che ciò che ci permette di vedere i colori. Scrive il Cusano: Il colore è afferrato solo dalla vista; e, poiché possa cogliere liberamente ogni colore, il centro della vista è senza colore. Perciò secondo la sfera del colore, la vista è nulla piuttosto che qualcosa. La sfera del colore non coglie l’essere al di fuori della sua sfera, ma afferma tutto ciò che è nella sua sfera […] Eppure è proprio la vista che, mediante la sua facoltà di distinguere, attribuisce un nome a ciascun colore7.
Senza residui, dunque, il colore inerisce al mondo. Letteralmente tutto è colorato. Ed ecco la ragione per la quale Wittgenstein può affermare nel suo Tractatus che «la macchia nel campo visivo può non essere rossa, ma un colore non può non averlo» (2.0131). Tutto è colorato, anche il disegno − suo storico antagonista nella teoria delle arti − che in fondo, come riconosce quasi obtorto collo Rousseau, «è solo una combinazione di colori»8. E se è vero che ciò che più conta nell’arte di colorire sono i rapporti (verremo anche su questo punto), allora è proprio grazie ad essi che un disegno − dichiara Matisse, che negli ultimi anni disegnava nel colore − «può essere colorato intensamente senza bisogno di metterci del colore»9. Nella fase del cubismo analitico, Braque e Picasso separano il colore dell’oggetto dalla sua forma: vediamo una toppa marrone con le venature del legno e accanto la sagoma di un violino. Ma questa, concettualmente acromatica, non ci si può non presentare comunque colorata. Che Quatremère de Quincy abbia già dal 1814 smentito, ne Le Jupiter Olympien, la bianca classicità dell’arte greca documentando filologicamente l’adozione della policromia (e del polimaterismo: legno, oro, avorio) nell’architettura e nella scultura elleniche, non significa che
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2. Kazimir Malevi/, Quadrangolo nero, 1915 (datato sul retro 1913), Museo di Stato russo, San Pietroburgo, Russia.
ciò che di essa, conclusasi la sua epoca, conosciamo, sia “senza colore”. Semplicemente è monocroma: bianca. Per questo appare singolare (e, a dirla proprio tutta, perfino per certi versi risibile) la discussione sull’attribuzione o meno della qualifica di colore al bianco e al nero. Come se il Quadrato nero su fondo bianco di Malevi/ − uno dei riti e dei miti del Moderno non soltanto in pittura − non presentasse senza rappresentarlo il vincolo luminoso degli opposti, non esibisse la contrapposizione tra il massimo ed il minimo luminoso che soltanto ed unicamente nel colore può offrirsi. Come se non fosse un lucido naufragio nel colore l’avvicinamento al Nero assoluto delle campiture sempre più scure dei quadri di Ad Reinhardt, approdo drammaticamente asintotico, mai compiuto per-
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Il colore nell’arte
ché forse incompibile. In quei bianchi, in quei neri non è forse compresa, intuita la mirabile iridescenza dei colori del mondo? Il colore si identifica toto caelo con la percezione del visibile tanto che, per così dire, esso include, implica in sé anche l’illusione che produce su se stesso. Nessun occhio naturale è garantito contro le illusioni del colore. È impossibile vedere i colori indipendentemente dalle loro variazioni illusorie: che non sono colori-di-oggetto, ma se il nostro occhio le percepisce significa che il colore che ad esse nella nostra visione soggettiva effettualmente corrisponde, esiste. In una delle celebri lettere al fratello Theo (soltanto un esempio tra i tanti, quella del 22 giugno del 1888), van Gogh descrive gli elementi naturali incontrati durante una passeggiata notturna in riva al mare esclusivamente dal punto di vista del colore, quasi come se non percepisse né le forme né gli oggetti − ne menziona alcuni solo per ragioni comunicative − che quel colore definiscono: Il cielo di un azzurro profondo era punteggiato di nuvole d’un azzurro più profondo del blu base, di un cobalto intenso, e di altre nuvole d’un azzurro più chiaro, del lattiginoso biancore delle vie lattee. Sul fondo azzurro scintillavano stelle chiare, verdi, gialle, bianche, rosa chiare, più luminose delle pietre preziose […] il mare era d’un blu oltremare molto profondo, la spiaggia di un tono violaceo, e mi pareva anche rossastra, con dei cespugli color blu di Prussia10.
Sembra dunque in nessun modo possibile prendere distanza dall’esperienza cromatica. Eppure l’etimologia sembra contraddire questa evidenza. Il latino color viene da celare: il colore, già nella sua accezione lessicale e semantica, è pensato come qualcosa che nasconde, copre o ricopre qualcos’altro su cui viene applicato, come qualcosa che si “adegua” alla superficie con la quale viene a contatto. La riprova è che di norma l’indicazione verbale del colore è assimilata a quella dell’oggetto colorato. Ciò, con
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Riflessioni sul colore
3a e 3b: da sinistra, Ad Reinhardt, Abstract Painting, 1960-1961, olio su tela, 152,4 × 152,4 cm, MoMA, New York; Abstract Painting, 1963, olio su tela, 152,4 × 152,4 cm, MoMA, New York.
ogni evidenza, sul presupposto che prima dell’intervento del colore quel qualcos’altro non sia colorato, quella x sia radicitus acromatica. Bene. Ma quale aspetto potrebbe mai avere una superficie, un oggetto non per metafora ma letteralmente incolore, se sappiamo che ogni percetto non può non darsi, ben più che “attraverso” il colore, come colore? Avrebbe forse lo stesso aspetto dell’Idea, «vera essenza spoglia di colore» di cui parla Platone nel Fedro (247a)? D’altra parte è vero che − così come facciamo difficoltà a concepire il “sorriso senza gatto” di Lewis Carroll − facciamo difficoltà non solo a concepire una superficie “precromatica”, ma anche, al contrario, ad immaginare un colore privo di un portatore determinato oggettualmente, cioè senza una forma che lo accolga assegnandogli dei margini. Ma ciò, appunto e di nuovo, presuppone la precedenza logica di una fase, di un assetto in cui la superficie sia letteralmente non-colorata. Ora, questa fase esiste. Ma non nella realtà esterna. Esiste nelle circonvoluzioni neuronali del nostro cervello. Dobbiamo lasciar interagire la nostra originaria fede percettiva nell’inaggirabilità fenomenica del colore con gli straordinari risultati degli studi e degli esperimenti neurofisiologici sul cervello visivo, secondo i quali i colori non sono “là fuori” nel mondo in attesa che noi li registriamo, non sono oggettive proprietà della natura, ma elementi derivati, interpretazioni, costruzioni del nostro cervello (aveva davvero ragione Nietzsche: non ci sono fatti ma solo interpretazioni?)11. In parte lo aveva già intuito lo stesso Isaac Newton quando nell’Ottica afferma che in realtà (e qui la locuzione è davvero significativa) i raggi di cui si compone lo spettro non sono in sé stessi colorati («A rigore, i raggi non hanno colore. In essi non c’è altro che la capacità e la predisposizione a generare la sensazione di questo o di quel colore») piuttosto lo sono virtualmente, mostrano la capacità, la predisposizione a generare in noi la sensazione cromatica, che si rivela quindi una proprietà empirica e operativa del cervello che elabora le informazioni ricevute dall’esterno. Al colore deve dunque venire sottratta quella caratteristica di immediatezza irrisalibile e predecisa che andavamo ipotizzando? Cerchiamo di precisare meglio la questione. Che non possiamo percepire nulla di non colorato trova ragione nel fatto che sempre e senza eccezione alcuni nostri circuiti cerebrali attribuiscono (dato naturale irrisalibile) una marca cromatica ai fenomeni del mondo esterno, ai quali è inerente ed intrinseca non l’esperibilità cromatica “in sé”, ma la conditio sine qua non affinché essa si espliciti. Il cervello esegue certe operazioni per “costruire” il colore partendo dalle informazioni che gli pervengono dal concreto reale. Perciò ogni atto o stimolo ottico-percettivo, ogni ispezione visuale del mondo è completamente saturato dalla presenza, dalla flagranza cromatica, anche se in essi vivono altre dimensioni − la forma, il movimento − analizzabili (ma appunto, in quanto analisi, ex post) separatamente dal colore. Completamente saturati, a meno di consistenti patologie neuronali del cervello visivo come la discromatopsia e l’acromatopsia, cioè la difficoltà grave o addirittura la totale incapacità di percepire i colori. Eppure l’alternativa non è così drastica (e non lo è come tutte quelle che si presentano tra salute e malattia) quale apparirebbe a tutta prima. Tutti i segnali visivi che riceviamo passano prima attraverso una zona della corteccia cerebrale chiamata V1. In questa zona sono attive le cellule e i coni sensibili alla lunghezza d’onda. Le cellule delle aree chiamate V4 (non più grandi di un fagiolo) sono invece preposte alla codifica del colore. Le aree V4 ricevono gli impulsi dalla V1 ed ecco che − attraverso
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Riflessioni sul colore
una complessa serie di passaggi sinaptici calcolati in millisecondi − quegli impulsi vengono ulteriormente elaborati con il risultato finale di costruire la sensazione del colore. La riprova è che il colore può essere generato sperimentalmente, “creato” in laboratorio mediante l’opportuna stimolazione dell’area V4. Siamo convinti di vedere con gli occhi, ma è un’illusione; in realtà, vediamo con il cervello. Lo diceva già Malevi/. L’acromatopsia, causata da una lesione in V4, è quella condizione patologica per cui non si riescono a tradurre e trasformare in sensazioni di colore le lunghezze d’onda percepite, elaborate ed inviate dalla V1: si rimane a metà strada, il percorso non si conclude. Ora, noi viviamo una vita fisiologicamente normale in quanto e per quanto non siamo consapevoli dell’infinità di microprocessi cerebrali che soppalcano le nostre percezioni. Noi percepiamo il prodotto, ma saremmo di colpo annientati se fossimo “condannati” a percepire anche i mezzi e i processi tramite i quali quel prodotto viene creato. Saremmo probabilmente nella stessa situazione di quel personaggio di Borges rinchiuso nella sua prodigiosa memoria, destinato a ricordare tutto, a ricordare il Tutto, privo di quell’ancora di salvezza rappresentata dall’oblio. Da questo punto di vista, è precisamente il reale, il realissimum che ci è più fisiologicamente, biologicamente vicino, che ci è più proprio, ad essere per noi impossibile. Per un soggetto dalla capacità visiva normale, infatti, l’elaborato ancora grezzo della V1 non potrà mai venire sperimentato come tale: non soltanto è invisibile, è letteralmente inconcepibile. Resta impercepito a vantaggio della percezione12. L’acromatopsico − che invece si arresta alla fase intermedia − “vede” avvalendosi dell’elaborato parziale della sola V1, dunque è come se avesse una sorta di percezione “interna” dei propri processi neurobiologici. Nel libro gamma della Metafisica Aristotele dichiara che «la sensazione non è affatto sensazione di sé stessa» (1010b, 35), bensì deve esercitarsi, per risultare davvero tale, su qualcosa di anteriormente dato che la «muove». Nel caso dell’acromatopsia sembra verificarsi proprio la situazione sensoriale esclusa da Aristotele. È come se si avesse, del tutto paradossalmente, sensazione dei sensi stessi, oppure come se si potesse “vedere” quella luce che, in quanto radiazione elettromagnetica, già Newton riconosceva non avere di per sé alcun colore, poiché nei raggi dello spettro naturale (quelli che hanno il potere di conferire al cervello la capacità di generare il colore) non troviamo, appunto, altro che la potenzialità dei colori. L’acromatopsico sarebbe alle prese − dunque sarebbe per dir così patologicamente consapevole − con l’attualizzazione anticipata e intempestiva di una virtualità non ancora abbastanza elaborata per passare all’atto percettivo fisiologicamente cosciente. Dovremmo forse concludere che in questa particolare patologia il soggetto sarebbe in grado di produrre una misteriosa visione di quella superficie precromatica che evocavamo all’inizio, cioè di quell’inconcepibile status (esattamente come l’elaborato parziale dell’area V1) in cui si troverebbe il conduttore della sensazione di colore prima di venir colpito dallo spettro luminoso? L’acromatopsico, insomma, sarebbe l’unico individuo capace di “vedere” l’Idea platonica «spoglia di colore»? Naturalmente non è così. Basta vedere i disegni dei soggetti in questione (pubblicati ad esempio negli studi di Oliver Sacks), che non sono affatto “non colorati” o “incolori” (termini a rigor di logica soltanto metaforici) ma inequivocabilmente colorati. Si tratta di tinte cineree e spente, dasaturate e scialbe, prive di ogni vigorìa luminosa: grigiastri, bianchi
sporchi, sfumature giallognole. Quelli applicati non corrispondono ai colori “naturali” dell’oggetto disegnato. Ma di colori − anche all’interno di tali forti anomalie della percezione visiva − comunque e in ogni caso si tratta. E non potrebbe non trattarsi se “tutto è colore”. Essi infatti ci si donano in un’imminenza toto caelo pari a quella in cui si danno normalmente i colori più vividi, luminosi, saturi; un’imminenza alla quale non è possibile sfuggire, ma che al contempo si rivela la fonte stessa di quella libertà estetica e più fondamentalmente antropologica e percettiva che al massimo grado si sviluppa nella pratica artistica.
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Disegno/colore: tra etica ed estetica «L’interesse e il sentimento non derivano dai colori; i tratti di un quadro toccante ci commuovono anche in una stampa; togliete questi tratti dal quadro, i colori non faranno più niente» Jean Jacques Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue «Non è sangue, è rosso» Jean-Luc Godard
Il carattere di immediatezza ed inafferrabile prossimità dell’esperienza cromatica appare strettamente connesso al fatto che essa mostra un’attinenza particolarmente intima con la sfera del sensibile, delle passioni e del corpo nella sua più elementare datità. Nel Timeo i colori vengono descritti piuttosto tempestosamente come quegli strani, inquietanti elementi che contraggono e dilatano l’occhio e la vista, e che causano «quell’insieme di fuoco e d’acqua che chiamiamo lacrime» (68b). Di Tiziano si diceva che “costui dipinge come respira”, e ultraottentenne, con ogni probabilità, si serviva anche delle dita per stendere il colore. Merleau-Ponty, nella Fenomenologia della percezione, afferma che i colori, ancor prima di essere percepiti visivamente, si annunciano attraverso certe posture del corpo, così che in certo modo noi viviamo il colore, incarnazione ed amplificazione anticipata della nostra motilità13. D’altra parte sono state sperimentalmente provate le reazioni corporee al colore: ad esempio la luce colorata aumenta la forza muscolare e la circolazione sanguigna. Molto più della forma − che ha commercio con l’Idea, con la vista teorica − il colore (anche perché il bambino, nel suo sviluppo fisiologico, lo percepisce prima della forma, e sembra prima degli altri il blu) si impone come il correlato di carichi pulsionali profondi e ingovernabili legati al narcisismo primario, dunque al principio di piacere, mentre al principio di realtà è connesso il disegno con la sua capacità di identificazione oggettuale. L’esperienza cromatica fa risalire il soggetto ad una fase arcaica della sua costituzione: non già ego speculare rispetto al mondo esterno, localizzato riflessivamente, inserito nell’ordine simbolico, ma nodo pre-identitario e confusivo di pulsioni e istinti, spinte emotive ed impulsi ancora implicati e “trattenuti” nelle basi materne e biologiche. Certamente è per questa ragione che il discorso sul colore ha frequentemente avuto a che fare con l’eros e con la sessualità. Può darsi che sia un caso fortuito dovuto alla retorica espositiva del dialogo, fatto sta che nel Menone fin da principio la definizione del colore si intreccia con il riferimento alla bellezza fisica ed alla capacità di attrarre «giovani amanti» (76c). E che cosa fa perdere i modelli a van Gogh gettandolo ancor più nel-
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Riflessioni sul colore
la disperazione e nell’indigenza? Lo scrive al fratello nell’agosto del 1888: è la scelta di fare «quadri pieni di colore», così da destare scandalo tra «le brave puttane» che temevano di compromettersi (!?) se i loro ritratti − per i quali sulle prime posavano− si fossero visti in giro14. Il pittore che ha un senso acuto del colore, mentre lavora − osserva Denis Diderot− tiene la bocca socchiusa, ansima, suda. Ben più che difficile, rendere l’incarnato è un compito infinito, forse incompibile. E se è proprio l’incarnato nel suo continuo fremito, nel suo impalpabile trascolorare, nelle sue fuggevoli trasparenze, l’indice più manifesto e incontrollabile del vivente che pulsa, allora la vita stessa, scrive Diderot, è «la disperazione del colorista». Egli deve infatti restituire sulla tela il colore delle passioni dal momento che il colore stesso è una passione, ad esempio quello che si effonde sul volto di una donna «in attesa del piacere, tra le braccia del piacere»15. Diderot aveva appena alle spalle la violenta querelle della seconda metà del Seicento tra poussenistes e rubenistes, che riprendeva i termini della disputa tra la “linea toscana” fondata sul disegno e la “linea veneta” imperniata sul colore, che ebbe luogo in Italia un secolo prima. Ebbene la metafora erotica pervade il lessico delle argomentazioni di entrambi i contendenti16. Da una parte, guidati da Charles Le Brun, i custodi della tradizione accademica siglata dal disegno che rappresenta e misura, diletta ed istruisce orientato dalla raison; dall’altra, i fautori, Roger De Piles in testa, di una pittura che trova nel colore il suo caposaldo e la sua specificità, e che tramite questo deve non instruire e nemmeno soltanto delectare, ma deve movere, cioè attrarre, rapire, travolgere i sensi (siamo già ad un’estetica della libertà del genio e del sublime) contribuendo in tal modo a superare la dicotomia classica tra raison e plaisir. I coloristi sono i perversi, i libertini, gli edonisti additati come i responsabili della deriva sensualistica della pittura e della sua corruzione morale. Il colore − esattamente come la passione − dona un piacere che eccede, già lo abbiamo visto, la sfera “istituzionale” della discorsività, si sottrae all’ordine linguistico; con il suo potere seduttivo provoca una défaillance della parola, un collasso dell’enunciazione. Connesso alla frammentazione del desiderio, non offre alcuna possibilità ad una sintesi delle rappresentazioni. Il colore − che, come non bastasse, attraverso il fard, il trucco non soltanto femminile ci presenta corpi prostituiti − è paragonato dagli accademici ad una subdola lena, una ruffiana, un’ambigua adescatrice che con le sue lusinghe e le sue indecenti tentazioni svia la raison dal suo retto cammino. De Piles si approprierà di tale appellativo, lo farà suo e − rovesciandone l’intento accusatorio per traformarlo in definizione interpretativa − lo applicherà all’intera arte pittorica considerata come vera e propria festa dei sensi, ritenuta in dovere di affascinare e avvincere, stregare e sedurre. L’estetica del colore è l’etica del libertino poiché è attraverso di esso che il corpo si espone e si offre allo sguardo, ed è con esso che se ne restituisce la morbidezza, il fremito momentaneo, i delicati passaggi umbratili o luminescenti: stimolando in tal modo il desiderio di accedere ad un’altra e più immediata sfera sensoriale e toccarlo, quel corpo, cedendo alla forza della finzione, consegnandosi alla potenza dell’illusione, che tuttavia non è menzogna poiché non pretende di convincerci al Vero ma di abbandonarci al miraggio spettacolare della carne. L’incrocio tra condanna etica e rilevazione estetica del colore ha probabilmente radici profonde, che attengono forse all’arché della sua natura e che sembrano per certi versi trovare motivazione nella sua stessa eti-
mologia. Lo abbiamo già ricordato: “colore” viene da celare. È dunque originariamente connesso a qualcosa che copre e nasconde. Il rosso che applico su di una superficie di legno certo la copre e la “nasconde”. Ma appunto: il colore del legno stesso quale altro colore coprirebbe celandolo alla vista? Non è un caso se Adolf Loos raccomandava di tingere il legno di qualsiasi colore tranne che del “color legno”. Ciò significa che il colore fin dall’inizio è pensato come supplemento. Vale a dire come un pharmakon, da cui ‘farmaco’, ‘medicinale’, ma che significa appunto anche ‘colore’: lo stesso termine con il quale si indicano gli ingredienti di cui si servono gli stregoni per operare i loro malefici e le loro frodi seducendo e illudendo con l’inganno e la mera apparenza. Non è un caso se quello dell’ergasterion, del tintore, sia ad Atene, assieme a quello del conciatore, considerato un mestiere immondo da relegarsi ai margini della città “civile”17. Se la magia illusionistica della pittura è «quella di un belletto che nasconde il morto sotto l’apparenza del vivo»18, non è forse il colore ad operare questa ingannevole trasformazione che pretende di restituire al cadavere − dall’alba dei tempi fino alla tanato-estetica attuale − l’aspetto del vivente? Non è forse anche questa «pittura d’illusione» e cioè «arte dei ciarlatani come tanti altri trucchi simili» (Repubblica, 602d; cfr. anche 420c)? E nel Gorgia i colori sono messi in opposizione a ciò che è o appare fisiologicamente “atletico”-naturale, a ciò che non ha bisogno di alcun artificio, di alcuna techne estranea, e associati all’impudicizia, alla scostumatezza, all’immoralità lussuriosa: «la toeletta, pratica viziosa, frodolenta, ignobile, indegna d’un uomo libero, che per via di trucchi, di colori, di lisciature e di abbigliamenti inganna così che la gente, rivestendosi di una bellezza che non le appartiene, trascura quella che le è propria, e che è procurata dalla ginnastica» (465) Lo Stato comincia a «gonfiarsi di umori» e addirittura a decomporsi non appena i suoi cittadini necessitano del lusso e del superfluo, del supplemento. E tra questi desideri impropri c’è appunto la pittura, praticata da quegli imitatori che si avvalgono per la loro opera ingannatrice dei colori, come gli «artefici di suppellettili d’ogni sorta, specialmente per la toeletta femminile» (Repubblica, 373c-d). Nella Critica della facoltà di giudizio − al paragrafo 14 dell’Analitica del bello − Kant si ricollega alla tradizione platonica di sospetto e presa di distanza nei confronti del colore che abbiamo appena evocato. Esso è semplicemente un’esca dell’attrattiva sensibile (non è forse tale la subdola lena?) che può suscitare sensazioni, emozioni, ma che non può essere oggetto di un giudizio puro. Unicamente il colore puro, non mescolato, può essere considerato formalmente bello. Qui Kant fa letteralmente eco a Platone (non disse forse Whitehead che la storia della filosofia non è altro che un’ininterrotta serie di note a piè di pagina a Platone?) che nel Filebo afferma che «il più bello tra tutti i bianchi» è quello in cui «non v’inerisca nessun’altra particella di nessun colore» (53a-b). Ma la condizione decisiva per l’accesso alla kantiana purezza del giudizio è quella di togliere, di astrarre dalla qualitas della sensazione cromatica e formalizzarne le determinazioni. O meglio: anche il colore può venire ammesso, ma soltanto dopo essersi mostrato disponible ad un passaggio o ad un’istanza formalizzante, ad un trasferimento semiotico dal continuo al discreto. L’importante è che si possano percepire i colori non soltanto mediante i sensi, ma soprattutto con il contributo determinante della riflessione che li pensa come «gioco regolare delle impressioni» (corsivo nostro). Ed è notevole che qui Kant, al fine di mantenere il “punto” della forma, letteralizzi
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la metafora (ma è poi davvero una metafora?) del linguaggio concettuale anche a costo di rendere banale la sua argomentazione: il colore sottoponibile al giudizio puro è proprio il colore “puro”, quello cioè non mescolato ad altre tinte in senso materiale, fisico, tecnico. La condizione sine qua non si dimostra quella di astrarre dalla qualità della sensazione (cioè in pratica dalla caratteristica specifica del colore) per poter poi ipotizzare un oggetto semplice in grado di produrre una sensazione semplice, cioè «non turbata ed interrotta da alcuna sensazione estranea»: appartenente unicamente alla forma. Soltanto i colori puri, semplici, soddisfano questa condizione; quelli misti non hanno tale proprietà. Infatti solo disegno e composizione costituiscono l’oggetto dei giudizi puri di gusto. I colori (così come i suoni) sono ammissibili nell’ambito del Bello soltanto nella misura in cui vengono sottoposti ad un processo di matematizzazione, ad una regolarità calcolabile che li priva delle qualità sensibili misurandoli e riducendoli a quantità discrete padroneggiabili intellettualmente. Altrimenti, scrive Kant, «il gusto resta sempre barbarico, quando abbia bisogno di unire al piacere le attrattive delle emozioni». Come semplice «materia della rappresentazione», il colore resta barbarico. E si sa che i barbari, assieme alle donne e ai bambini, non possiedono, secondo Aristotele, il dono della phone semantike, della “voce significante”. Ed è qui che emerge ancor più in chiaro il confronto tra colore e disegno. Pur se il colore e la forma − nonostante il loro intimo collegamento − vengono elaborati dal cervello in modo indipendente l’uno dall’altro, «risulta molto difficile − quasi impossibile − separare completamente la forma dal colore, salvo in rari casi patologici»19. Sebbene il colore non possieda una forma propria ma si adegui a quella della superficie oggettuale che ricopre, ciò non ha impedito che la dissociazione tra disegno e colore fosse un locus classicus della teoria e della pratica delle arti. Dal momento che la tragedia deve essere mimesi di azione e di vita, di persone che agiscono, è la fabula, l’intreccio, il suo elemento decisivo, vale a dire − questo è il punto − quello che le attribuisce un significato, un vettore di senso che va verso lo scioglimento, e che la rende verosimile rispetto ai fatti rappresentati e quindi fonte di diletto per lo spettatore. Per chiarire questo suo assunto, nella Poetica (1450, 38a-4b) Aristotele propone un’analogia con la pittura: Dunque la favola è l’elemento primo e come l’anima della tragedia; in seconda linea vengono i caratteri. Qualche cosa di simile accade anche nella pittura: che se uno difatti imbrattasse, fosse pur dei colori più belli, una tela, ma senza un disegno prestabilito, costui non potrebbe dilettare allo stesso modo che se disegnasse in bianco i soli contorni della figura.
Sta probabilmente in questo inappellabile giudizio la radice di quel plurisecolare privilegio accordato al disegno quale operatore del significato e della imitatio nei confronti del colore considerato materia di mere sensazioni. Privilegio che si è sempre associato alla tradizione classica, ai suoi fautori storici, al gusto accademizzante, e che la pittura moderna lato sensu e i suoi teorici non hanno mai smesso di contestare. Le grandi opposizioni binarie che sottofondano una cultura strutturandone gli assi valoriali (anima/corpo, ragione/piacere) e di cui anche la coppia derivata disegno/ colore fa a suo modo parte, hanno per definizione lunga vita, e così, due millenni dopo Aristotele − e dopo, naturalmente, ampia parte della tratta-
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4. Vincent van Gogh, Radici d’albero, 1890, olio su tela, 50 × 100 cm, Van Gogh Museum, Amsterdam.
tistica rinascimentale − ritroviamo in Rousseau le medesime considerazioni quando leggiamo che «i sentimenti suscitati in noi dalla pittura non provengono affatto dai colori», giacché è «il disegno, l’imitazione che conferisce a questi colori vita e anima: sono le passioni da essi espresse che suscitano il risvegliarsi delle nostre; sono gli oggetti da esse rappresentate che ci colpiscono»20. Come nel canto la pura melodia è corrotta dall’armonia, così l’arte del disegno è declassata, degradata, viziata quando la mera fisica dei colori prende il sopravvento. Non è il corpo del segno che imita, rappresenta e perciò commuove, ma ciò a cui il segno rinvia; non è l’espressione di per sé ma il contenuto espresso l’elemento decisivo sia secondo un’estetica razionale sia secondo un’estetica delle passioni. È solo il tratto che permette l’imitazione, cioè permette ai contenuti di apparire come fenomeni distinguibili dotati di senso21. Il colore senza il disegno è fuori dall’ordine semantico, dal regime mimetico-raffigurativo, tanto che solamente il caso, la combinazione più fortuita ed improbabile (quindi ammessa unicamente dal punto di vista logico ma in pratica esclusa da quello fattuale) possono assegnare al solo colore la funzione rappresentativa e significante per sua stessa natura posseduta invece dal disegno: come quando nella Naturalis Historia di Plinio o negli Schizzi pirroniani di Sesto Empirico (e poi, diversamente, nel Trattato leonardesco) l’impronta prodotta da una spugna imbibita e gettata contro una superficie forma sorprendentemente un’immagine riconoscibile, una eikon. Ma ciò significa anche che unicamente il disegno, come già abbiamo visto, garantisce l’articolazione della pittura alla discorsività, che fissa e localizza gli oggetti visivi definendone la forma, con ciò consegnandoli alla possibilità della verbalizzazione, all’integrazione della pittura nel sapere discorsivo. Non è certo un caso se alla crisi di riconoscibilità percettiva apertasi nell’ètimo stesso dell’arte moderno-contemporanea a partire dall’Impressionismo che dissocia la forma dal colore, corrisponda in maniera direttamente proporzionale una crisi della nominabilità stessa delle opere e del loro statuto. La consapevole liberazione del colore dall’oggetto, la sua separazione dalla componente figurativo-oggettuale della rappresentazione, è certa-
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mente uno dei risultati non soltanto più evidenti ma anche più concettualmente importanti e significativi della pittura moderna. Se già Goethe nell’Introduzione alla Farbenlehre del 1808 affermava che «l’occhio non vede alcuna forma, in quanto soltanto chiaro, scuro e colore stabiliscono insieme ciò che distingue un oggetto dall’altro e la parte di un oggetto dalle altre»22, e se, come scrive Hegel nella sua Estetica, «è il colore, il colorito, quel che fa del pittore un pittore»23, è Vincent van Gogh − colui che voleva dipingere da «colorista arbitrario»24 − il primo a disgregare lo spazio plastico attraverso un investimento cromatico che eccede la forma. In van Gogh il colore è redenzione dal dolore del mondo: nel giallo estremo del grano maturo c’è la morte del seme e la macerazione che il grano subirà perché il pane avvenga. Come il conatus di Spinoza è potenza di essere, sforzo di perseverare nell’esistenza che coincide con l’esistenza attuale della cosa, così in van Gogh il colore è la vita e la verità profonda, il realissimum della cosa, anche della più umile, della più prosaica, che la spinge dall’interno fino all’estremo delle sue possibilità perché questa persista nel visibile. È qui, nella conquista del colore in quanto valore espressivo autonomo rintracciabile come tale, sganciato dall’oggetto che “ricopre”, che si collocano gran parte dei vettori profondi della modernità artistica che prolunga la sua gittata nella nostra contemporaneità. In pittura ma più in generale nell’elaborazione estetico-artistica, dunque anche nel cinema. E basti ricordare le straordinarie riflessioni e le fondamentali ricerche di Ejzenštein − teoriche, tra cui quelle rivolte ai suoi studenti di cinematografia, testimonianza di una didattica di altissimo profilo, e operative: l’episodio a colori della seconda parte di Ivan il Terribile − sull’espressività cromatica cui viene conferito non solo uno statuto estetico definito ma anche, e di conseguenza, una specifica funzione testuale e poietica. Quando il regista russo, l’unico ad avere esposto una teoria organica del colore filmico, scrive che «se non impariamo a vedere in tre arance su un pezzo di terreno erboso non solo tre oggetti poggiati sull’erba, ma anche tre macchie arancioni su uno sfondo comune verde, sarà impossibile pensare a una qualunque composizione a colori»25, fa eco al celebre “avvertimento” di Matisse secondo il quale quando mette sulla tela del verde non vuole dire “erba” e quando mette del blu non vuol dire “cielo”. Il superamento della datità empirica astretta all’oggetto, la dissociazione del colore dal suo portatore rappresenta il primo passo per assegnargli una funzione autonoma, specifica, indelegabile all’interno della costruzione drammaturgica.
sono strettamente connessi all’economia del pulsorio e alla fisicità del corpo proprio, dall’altra si articolano alle costrizioni culturali e ideologiche del tempo acquisendo valori indiziali, designativi, simbolici. Il continuum cromopercettivo viene piegato ad una codificazione più o meno rigida, parcellizato, segmentato e reso in tal modo materia per una grammatica e una sintassi volte a scopi comunicativi. Proprio qui viene in chiaro appunto come il colore giochi sempre su un doppio livello o registro: quello dell’investimento pulsionale, della condensazione emotiva, dell’urto sulla sfera dei sensi, e quello della sua codifica all’interno dei paradigmi simbolici che una data cultura innesta sull’esperienza cromatica. Gli esempi sono ovviamente innumerevoli, ed i pochi qui richiamati valgano soltanto da promemoria. Nella tradizione islamica, offrire a qualcuno un oggetto verde al mattino significa augurargli una buona giornata. Presso gli Egizi il rosso è maledetto e gli scribi intingevano lo stilo nell’inchiostro di questo colore per la scrittura geroglifica che significava situazioni di cattivo auspicio legate a Seth, il dio del male. Per molti indiani d’America l’est è bianco, il nord è giallo, l’ovest è azzurro e il sud è rosso. Nell’arte cristiana, spesso il bianco è il colore del Padre, della purezza; il blu, del Figlio; il nero, della penitenza. In alcune culture agrarie dell’antica Europa, una volta terminata la mietitura, si dipingeva sull’ultimo covone, come segno beneaugurante, una testa nera con le labbra rosse, che originariamente erano i colori che simboleggiavano l’orgasmo femminile dunque la fertilità. Il colore può inserirsi come elemento strutturale in una grammatica più complessa. Gli Hagen della Nuova Guinea − come tante altre società autoctone prive di scrittura − utilizzano la decorazione del corpo come forma di comunicazione nelle occasioni sociali come le feste di corteggiamento, gli scambi cerimoniali, i riti funebri oppure le guerre. Si tratta di una vera e propria grammatica della comunicazione visiva allo stadio rudimentale, costruita su opposizioni binarie. L’elemento di significazione privilegiato è proprio il colore, soprattutto il rosso, il nero e il bianco nelle loro diverse gradienze tonali, codificati attraverso regole strutturali di opposizione e solidarietà, e variamente combinati in modo da indicare tutto un ventaglio di diverse situazioni e atteggiamenti sociali. Ad esempio, il corpo cosparso di argilla bianca e foglie fresche nelle feste di fidanzamento o nelle transazioni matrimoniali significa bellezza e salute. Il rinvio mimetico è alla pelle lucida e grassa del maiale, l’oggetto di scambio cerimoniale più importante tra gli Hagen, del cui allevamento sono chiamate ad occuparsi le donne. Se però l’argilla, prima di venire applicata sul corpo, è impastata con la cenere, allora è simbolo di malattia, ed infatti è utilizzata nei riti funebri, mentre in guerra il corpo del combattente viene decorato con l’aggiunta di foglie secche dai toni spenti e grigiastri. L’opposizione strutturale primaria si colloca qui sull’asse brillante vs opaco della medesima tinta; il singolo colore non viene reso pertinente come tale ma solo in quanto − opportunamente lavorato − suscettibile di differenziarsi, dunque di essere utilizzato sull’asse paradigmatico secondo le diverse tonalità più o meno luminose. Se il corpo decorato con tinte opache indica un moto centripeto inerente all’individuo appartenente al gruppo, cioè l’azione tattica di ritrarsi, di nascondersi alla vista fino alla mimetizzazione in alcuni casi necessaria al combattente, il corpo lucido e brillante, allora, è all’opposto un’indicazione di tipo centrifugo, un richiamo esplicito, un’esibizione libidinale, un ostentato desiderio di contatto con l’altro, di sfida o di partecipazione. Vi sono
Codici «Il più nascosto ha una luce verde» Mistica islamica «L’azzurro è il colore tipicamente celestiale. Implica un approfondirsi infinito in quegli stati d’animo di serietà che non hanno fine e non possono averla» Vassilij Kandinsky, Lo spirituale nell’arte
È noto che in tutte le civiltà, le religioni, le culture di ogni epoca, i colori sono stati e continuano ad essere tra i supporti primari e decisivi del pensiero simbolico e delle sue pratiche. Essi dunque, se da una parte
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poi delle invarianti come in ogni assetto strutturale. Gli uomini Hagen si dipingono il viso di nero per comunicare o meglio per simboleggiare la loro discendenza dagli antenati del gruppo in un processo di identificazione totemica, e ciò avviene sia nei pacifici scambi cerimoniali sia nelle azioni di guerra. In questo caso non è l’asse oppositivo brillante vs opaco inteso come vettore delle variabili semantiche a comunicare simbolicamente, ma il colore nero stesso in qualsiasi intensità o gradazione tonale o impasto materico si manifesti. Si tratta quindi di un caso di ambivalenza strutturale, tanto più significativa perché innestata sull’opposizione speculare pace vs guerra. D’altra parte il giallo, che − è un’osservazione che Goethe fa quasi di sfuggita nella Farbenlehre − può simboleggiare l’invitta, splendente e radiosa luce solare, con un impercettibile slittamento tonale si trasforma nel colore del disgusto, del malessere, del pus che cola dalla piaga purulenta (non era forse gialla la stella degli ebrei nei campi di sterminio?). Ed è noto che il genere letterario e cinematografico del thriller in italiano è il “giallo”, in francese è il noir. Esempio analogo potrebbe essere il bianco così come viene codificato in molte culture autoctone africane. È il colore dei morti, ma nello stesso tempo, e proprio per questo (siamo di fronte alla duplicità oppositiva che spesso connota l’elemento arcaico, sia esso parola o immagine) serve anche ad allontanare la morte (il colore, abbiamo visto, come pharmakon: rimedio e veleno) e dunque gli viene attribuita una grande potenza curativa nell’ambito delle pratiche magiche. Certo, il bianco è il colore puro delle vesti degli angeli e dei santi raffigurati nelle icone, dei monaci del deserto e delle guardie imperiali della corte bizantina. Ma basta leggere lo straordinario, “metafisico” capitolo 42 di Moby Dick, dove è «l’abominevole bianchezza della balena albina» ad innalzare il terrore fino ai suoi estremi limiti, per comprendere la stridente contradictio in adiecto di cui anche il bianco si fa portatore: «simbolo maggiormente significativo di ciò che è spirituale» e nello stesso tempo «agente intensificatore di ciò che maggiormente atterrisce l’umanità», tanto che in esso è latente «qualcosa che istilla più panico all’anima della rossezza che atterrisce nel sangue». Ed è interessante ritrovare, secondo Gilles Deleuze, lo stesso «carattere terrificante, mostruoso» e «gelido» del bianco nel cinema di Dreyer, di Bresson, di von Sternberg26. Resta che la codificazione del colore non appare sufficiente a fissare la sua realtà mobile e in continuo, immanente divenire, non basta a distanziare, “ammansire” la sua immediatezza incategorizzabile. Come se la sua presenza non potesse ridursi alla completa semiotizzazione, alla devoluzione in segno-significato, alle costrizioni ideologiche e storico-culturali e alle loro necessità designative o simboliche27.
La presenza del colore, coestensiva al visibile, è intessuta di differenze, si partecipa come continuo differire. Come la sfumatura chiara di blu non è più Blu, così non siamo mai davanti al Giallo, ma all’ininterrotta variazione dei gialli, dei loro tempi: nella loro distinta e irriducibile, trascolorante qualitas. Cogliere nuances, saper distinguere la minima screziatura, diventare maestri del minimo passaggio, secondo il Nietzsche della prefazione a Gaia scienza, era la vera grandezza dei Greci «superficiali per profondità». Il fatto che ad un oggetto sia attribuita la qualità di chiaro o di scuro non dipende automaticamente dal numero di fotoni che l’oggetto riflette, bensì dal contrasto con la luce riflessa dagli oggetti circonvicini nello stesso contesto percettivo. Il colore è visibile in quanto e per quanto la differenza empirica che lo contraddistingue ne singolarizza la qualità; la sua natura è intuita via differenza: è così che si offre alla vista ed è così che viene percepita la sua ecceità. Nell’incessante danza dei riflessi e delle ombre, dei toni e delle luminescenze, i colori, scrive Baudelaire, «non possono definirsi in modo assoluto: esistono solo in rapporto»28. Il materiale grezzo che giunge attraverso l’occhio al cervello visivo è frazionato e distribuito attraverso un incessante fluire di scale cromatiche. Risale agli anni Cinquanta del Novecento la conferma scientifica di ciò che i pittori sapevano intuitivamente già da tempo, e cioè che il fenomeno del colore non è (come ancora credeva Newton) puntuale ed assoluto, intrinseco all’oggetto dato, ma dipende dal continuo confronto − una sorta di giudizio percettivo in servizio permanente − tra le lunghezze d’onda della luce riflessa localmente e quella riflessa dalle aree visive circostanti. Se così non fosse, non vi sarebbe stata alcuna base né fisiologica né lato sensu estetica alla scelta intuitiva degli impressionisti di applicare sulla tela tocchi ravvicinati di giallo e di blu invece di stendere direttamente il pigmento verde. La percezione di ogni colore viene alterata (e ciò avviene sempre: si tratta quindi, a ben vedere, di una “alterazione originaria”) da quella del contesto che lo accompagna perché le cellule cerebrali allo scopo adibite modificano la loro reazione a seconda dello sfondo contro il quale appare il colore per il quale sono selettive. È questa la base neuronale della scoperta del chimico Michel Chevreul che nel 1839 pubblicò De la loi du contraste simultané des couleurs, diventato in seguito, come noto, la “Bibbia scientifica” degli Impressionisti e dei Post-impressionisti. D’altra parte la specializzazione neuronale è così alta che le cellule dell’area V4 stimolate dal verde sono inibite dal rosso e viceversa, ed il medesimo principio di complementarietà si riscontra sperimentalmente anche tra bianco e nero, giallo e blu. Per van Gogh, la riuscita dell’opera dipende toto caelo dalla sua capacità di percepire nella realtà e riprodurre sull’altra realtà della tela le infinite variazioni, le illimitate differenze delle tonalità all’interno di una stessa famiglia di colori. «Uso i colori più semplici», dichiara Matisse, «non sono io a trasformarli, se ne incaricano i rapporti. Si tratta di far valere le differenze, di farle risaltare»29. Matisse che vedeva come oggetti solidi gli intervalli tra gli oggetti, che raccomandava di osservare attentamente, come fanno gli Orientali, i vuoti che stanno tra i rami, che scrive: «Io non dipingo le cose, dipingo le differenze tra le cose»30. L’emozione del colore di cui ha bisogno l’artista vive del rapporto, del confronto incessante e del differenziale d’intensità che da esso si genera: come trovasse la sua verità altrove, fuori di sé. D’altra parte lo spettro è luce che si frantuma discretizzandosi, è luce diacritica che si fenomenizza in un continuum di discontinuità iridescenti come quelle attraverso cui si manifesta l’arcobaleno: non altro che pura,
Differenze, tempi «Il candore verginale del suo corpo si è soffuso di rosa: così una tenda di porpora, in un atrio marmoreo, trasmette al bianco come un velo d’ombra» Ovidio, Metamorfosi «Troppo spesso si è inclini a dimenticare che gli antichi lavoravano solo coi rapporti» Henri Matisse, Scritti e pensieri sull’arte
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maestosa ostensione della qualità differenziale della luce. Ed il soggetto recupera l’investimento pulsionale inerente al colore in questa perpetua, costitutiva dilazione. Si potrebbe forse avanzare un parallelismo. Se è attraverso il colore che la pittura si affranca prima dal codice prospettico poi da quello rigidamente mimetico-raffigurativo, allora per certi aspetti l’elaborazione cromatica vale quanto il ritmo per il linguaggio poetico: comporta la declinazione del senso in una gamma di differenze sensibili. Non si tratta di annichilire il senso, ma semmai di giocare su di un surplus di senso indotto dalla pulsione che (esattamente come per i valori ritmico-musicali del testo poetico e letterario) lo disidentifica, lo pluralizza e ne trasferisce le potenzialità all’interno di una logica sovrasignificante, che eccede la funzione denotativa e semanticoreferenziale di riconoscimento dell’oggetto (o della parola), inscrivendo nel processo espressivo resti pulsionali non simbolizzati né codificati, che appaiono relativamente liberi dalle convenzioni storiche e dalle costrizioni stilistico-culturali del tempo. È ciò che accade nella straordinaria, visionaria, allucinata Deposizione del Pontormo, ove sembra davvero che sia la necessità ideologico-stilistica di rispettare il codice iconografico tradizionale a suscitare o comportare la sua stessa trasgressione nei colori aerei, trasparenti, luminosissimi, irreali, del tutto “liberati” dal mandato di restituire gli oggetti e i corpi rappresentati pure riconoscibilmente presenti, come se fosse l’esasperazione del significante a far deragliare il significato. D’altronde è il colore che permette alla pittura la presentazione nell’efficacia realissima dell’illusione (e non nella rappresentazione più o meno adeguata del reale) le iridescenze e le screziature delle superfici, tutto ciò che appare instabile, mobile, sovranamente impercettibile: tutto ciò che differisce nella doppia accezione di qualcosa − che non è una “cosa” − che scivola sempre nell’altro da sé e di qualcosa che (si) rimanda, rinvia, dilaziona. Siamo allora nel dominio di ciò che istitutivamente eccepisce, nel dominio della qualitas incalcolabile. Soltanto il trascolorare del colore può “tradurre” l’impermanente, non ciò che sta ma diviene, che può rendere visibile l’invisibile delle emozioni, del sentimento: dunque del tempo, in ciò che esso esprime di irriducibilmente qualitativo come vivente experiri. Il colore si direbbe la fenomenizzazione spaziale ma non rappresentativa del tempo. Al di là del suo convenzionale irretimento codificante nel simbolico, esso in prima istanza non significa, ma rende-presente: qui e ora, in un tempus che non è disincarnata categoria a priori né memoria né accumulo cronologicoquantitativo proiettato verso il futuro, bensì irriducibile qualitas, insorgenza soggettiva, estasi, “bergsoniana” durata vivente e inobbiettivabile. Nel superamento di ogni residuo di natura plastico-tattile (per usare le categorie del grande Alois Riegl), di ogni atemporale assolutezza della forma propri della tradizione greca, i “linguaggi” dell’arte imperiale romana (architettura, scultura, pittura, ognuna nell’ambito delle sue possibilità espressive) arrivano alla risoluzione ottico-cromatica − cioè temporale, inserita nel flusso del divenire − dell’immagine. Mentre i modelli iconografici greci testimoniavano essenzialmente della scelta tecnico-stilistica del disegno colorato, cioè di una tinta che riempie parti e sezioni linearmente preordinate della superficie, la pittura romana di paesaggio si affida ad una pratica espressiva che tende a liberare il colore dall’impianto plastico-figurativo, rivelandone così la capacità di costruire l’immagine in termini di continuità spazio-temporale (gli stessi in cui si articola l’architettura romana e poi paleocristiana e bizantina, che deve
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5. Jacopo da Pontormo, Trasporto di Cristo o Deposizione, 1526-1528 ca., tempera a uovo su tavola, 313 × 192 cm, Chiesa di Santa Felicita, Firenze.
essere non “contemplata” ma percorsa). Il colore sigla questo continuum che non fissa l’immagine nella stabilità parmenidea dell’essere, nella sua «ben rotonda verità»; piuttosto la immerge nel flusso eracliteo dell’esistere e la fa voce del tempo, così come voce del tempo erano i segni inviati dagli dèi nella coeva religio romana. Nel colorismo delle scene dell’Odissea nella Casa dell’Esquilino o nei freschi di Stabia, le figure vengono erose dalle atmosfere
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7. Tiziano Vecellio, Supplizio di Marsia, 1570-1576, olio su tela, 212 × 207 cm, Museo arcivescovile di Kroméríž, Repubblica Ceca.
A fronte: 6. Da sinistra in senso orario: Leda, i secolo, affresco, 44 × 32 cm, Museo archeologico nazionale, Napoli; Medea, i secolo, affresco, 38 × 26 cm, Museo archeologico nazionale, Napoli; affresco, Villa di Carmiano, Antiquarium, Castellammare di Stabia; affresco, villa presso S. Marco, Antiquarium, Castellammare di Stabia.
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cromatiche e la narrazione si scandisce in un fluido tessuto di pulsante ed inafferrabile mobilità, la pittura “impressionista” di tocco e di macchia apre e temporalizza l’immagine, la risolve in dato e fatto d’esperienza vivente in fieri, non contemplata ma internamente partecipata. Nella «gloria del perfetto colorire» che Lodovico Dolce riconosce a Tiziano nel Dialogo della pittura, vi è il pulsare di un tempo acronico, liberato dalla successione irreversibile degli istanti che fuggono entropicamente verso la Fine. Soprattutto nelle opere del Tiziano estremo − opere, scriveva il Vasari nel capitolo dedicato a “Tiziano da Cador” nelle Vite, «condotte di colpi, tirate via grosso e con macchie», ad esempio nel Supplizio di Marsia, è alla presenza epifanica e irrefutabile del colore, al suo evento, che è affidata la costruzione qui e ora dell’immagine negli ingorghi che avvampano, nei rivoli, nei grumi di materia. Così quel tempo del colore imminente e irriducibile alla forma viene recuperato come concretezza esistenziale, esperienza di un differire qualitativo della sensibilità: quasi un tempo messianico dentro il tempo cronologico.
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IL COLORE NELL’ARTE AFRICANA Ivan Bargna
1. Ornamento/pettinatura maschile. Karamajong, Kenya/Uganda. Agglomerato argilloso, policromia, capelli, ferri, piume. Collezione V. Carini, Bergamo.
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Porre la questione del colore nell’arte africana significa interrogarsi in primo luogo sul nostro rapporto con l’Africa e su come questa relazione interculturale sia mediata dal colore. Come si può subito intuire, il colore – a cominciare da quello della pelle – vi ha giocato una funzione centrale1. È solo a partire da questo sfondo che, in un’ottica antropologica ed etnoestetica, ha senso porsi poi la questione del colore nell’arte. Il colore e l’arte vi appaiono come costruzioni culturali, storiche e interpretative che rimandano non solo alle società africane ma anche ai nostri rapporti con esse. Nell’immaginario occidentale il nesso fra Africa e colore è segnato da un’apparente duplicità: variopinta e pittoresca l’Africa fa colore e però nel contempo, come Africa nera, è luogo dell’assenza di colore. Ma se per il primo aspetto l’Africa non è che una costola dell’Oriente, un’appendice dell’esotismo orientalista2 che ritroviamo nella pittura di Gérôme, Ingres e Delacroix, il secondo aspetto ne segna invece la specificità: pur essendo il sole a fare da padrone (e dunque la luce, che è condizione perché vi sia colore), l’Africa è vista come un luogo di tenebre, in cui è assente la luce e con essa il colore. A dominare è il nero3. È l’Africa di Conrad in cui alle savane assolate subentra il cuore di tenebra di una foresta avvolta su se stessa ed entro la quale si sprofonda nella notte dell’umanità, nelle profondità dell’inconscio4. In questa contrapposizione fra tenebre e incontinenza cromatica che accompagna l’Africa si può però scorgere, su un altro piano, un’affinità essenziale: entrambe convergono infatti nell’indicare l’assenza di equilibrio razionale e il prevalere dell’eccesso pulsionale, così definendo l’Altro della razionalità occidentale nel suo carattere seduttivo e repellente. Al nero delle tenebre e alla sensualità del colore l’Occidente contrappone il nitore della ragione, quello delle statue classiche spogliate del colore che le rivestiva5.
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Il sapere etnoantropologico si nutre dell’esperienza del viaggio, del carattere contingente e imprevedibile degli incontri che rimettono in discussione ogni nostra consolidata certezza. E allora, quando si tratta del colore, quel che non possiamo dare per scontato è proprio la possibilità di trasferire in Africa la nostra nozione di «colore», attribuendogli la consistenza di un’entità obiettiva che permanga inalterata nell’attraversamento delle culture: come se si trattasse semplicemente di estendere il nostro raggio di conoscenza annettendo via via le zone inesplorate. Un allargamento quantitativo della nostra esperienza del colore che aggiunga alla nostra paletta cromatica i colori africani. Ma di questo in realtà non c’è bisogno: nella nostra società c’è sovrabbondanza di colori e nel confronto la paletta africana rischia di apparirci desolatamente povera. Anzi potremmo forse dire che il nostro problema è proprio quello inverso di un’eccessiva esposizione al colore, di una sovrastimolazione che produce effetti anestetizzanti. Se ha senso rivolgersi altrove e affrontare la fatica di un viaggio è solo per trovare qualcosa di diverso rispetto a quello che già si ha e si è: fare l’esperienza qualitativa di uno scarto. Da questo punto di vista la prima mossa non può che essere una sospensione della credenza sull’esistenza del «colore». Non si tratta di un’affermazione retorica ma della presa d’atto di una diversa segmentazione del mondo in unità significative: le popolazioni africane non hanno nelle loro lingue parole per indicare «il colore». Certo questo non significa che siano affette da daltonismo ma che il colore non viene isolato e concettualizzato in quanto tale come entità a sé stante. Sulla base di una fisiologia comune si fanno esperienze culturalmente diversificate che producono sensotipi differenziati6. Questo vuol anche dire che quando andiamo a caccia dei colori altrui lo facciamo, inevitabilmente, a partire dalla nostra esperienza personale che si è formata e si modifica nell’incontro con gli altri. Da questo ne deriva che, se non possiamo postulare un’identità assoluta (il carattere invariante dell’esperienza), dobbiamo però anche evitare di tagliare tutti i ponti finendo con l’irrigidire gli altri in un «altro» privo di qualsiasi connessione con noi. Queste connessioni ci sono e stanno nella fisiologia e nella storia. Se noi abbiamo il concetto del «colore» e loro no dipende forse dall’incidenza della scrittura sul pensiero, sulla possibilità di concettualizzare in termini astratti l’esperienza slegandola dall’immediatezza del vissuto7. È solo a partire da questo presupposto culturale che Marcel Griaule poteva prevedere nella tabella che correda Dieu d’eau, il celebre libro sulla cosmologia dei Dogon, una casella per il «colore» come topica a sé stante; così facendo Griaule non si limitava a un rilievo empirico ma interpretava e traduceva il sapere orale dei Dogon dentro le coordinate della nostra cultura scritta rendendocelo familiare e comprensibile8. Paradossalmente però proprio questa assenza del colore come campo semantico distinto ne farebbe qualcosa di pervasivo: proprio perché non possono parlare del colore (isolandolo in quanto tale ma anche riducendolo a una qualità secondaria) gli africani parlano attraverso di esso classificando le cose colorate9. Così le popolazioni degli allevatori di bestiame nilotici (Nuer, Dinka, Atuot e Mandari del Sudan meridionale), che non hanno tradizioni nelle arti visive, possiedono un’estetica che poggia sui colori dei bovini con diverse decine di termini che non si riferiscono a colori puri o a sfumature di colore ma a pattern e configurazioni associati alla stazza delle bestie e alla forma delle corna10.
Venendo all’«arte» anche qui la cautela si impone11 poiché parlare del «colore» nell’«arte africana» vuol dire innanzitutto cercare di comprendere le modalità attraverso cui ci raffiguriamo la questione. Se ai nostri occhi spesso l’Africa fa colore, quando si tratta dell’arte mostriamo, invece, curiosamente, una certa avversione per la cromia. Il colore nell’arte africana ci appare spesso secondario. Ancora una volta però non abbiamo a che fare con un dato immediato ma con un «distillato» che è il risultato di una duplice riduzione: quella che riconduce prima l’arte alla scultura monocroma e poi la scultura alla forma, astraendo dal colore12. Quest’approccio si spiega con il fatto che, mancando in Africa il quadro, e cioè la pittura in senso stretto, l’occhio occidentale ha selezionato fra le varie forme di espressione visiva quelle che con più facilità potevano essere assimilate alla scultura: le figure tridimensionali antropomorfe e, sia pur con maggior difficoltà – perché vincolate nella forma alla funzione di rivestire la testa o il volto –, le maschere. La specificità dell’arte africana – così distinta e contrapposta al carattere più «pittorico» e «decorativo» dell’arte oceanica13 – è stata quindi rintracciata nella sua capacità di trattare i volumi piuttosto che le superfici, facendo cadere il colore nell’inessenziale e nel periferico14. Solo in anni recenti, a partire da una nozione d’arte più allargata, sono state recuperate le arti cosiddette minori o applicate (in particolare i tessuti) e, svincolando l’arte africana dall’imperio della scultura, il colore ha guadagnato spazio15. Se l’occhio del collezionista ha insomma tradizionalmente rifiutato il colore è stato perché questo mal si adattava a un’idea di «autenticità» dell’opera che era stata di fatto fabbricata in Occidente. Idea cui peraltro non mancava un sostegno percettivo: in Europa in effetti gli oggetti appaiono spesso privi di colorazione ma questo semplicemente perché stinti. Una condizione di deterioramento che, però, nel momento in cui viene assunta come indice dell’«antichità» e «primitività» del pezzo e dunque della sua «autenticità», acquista una portata discriminante e normativa che fa del colore un intralcio alla «corretta» percezione estetica dell’oggetto. Talora si è anche intervenuti direttamente sul colore eliminandolo: le figure sono state ad esempio private del loro colore una volta spogliate degli indumenti perché si vedeva in essi solo un impedimento alla percezione della pura forma scultorea. Nel fascino tutto occidentale per la rovina che fa del colore la sua vittima, il colore appare di preferenza solo come traccia residuale; e se vi è traccia di diverse e successive applicazioni ancor meglio perché, quanto più numerosi gli strati, tanto maggiore l’«antichità» del pezzo16. Quando il giudizio estetico tocca il colore, a essere privilegiata, in particolare nelle statue, è la monocromia, nelle tinte del legno naturale oppure del nero; figure colorate in bianco come quelle dei Fante del Ghana incontrano con più difficoltà il gusto del collezionista proprio perché il «bianco» è avvertito come poco «africano». Gli si preferiscono ad esempio le «classiche» figure Luba del Congo o quelle Baulé della Costa d’Avorio. Per ragioni non dissimili sono spesso rifiutati oggetti dipinti con colori sintetici importati dall’Occidente. Troppo «bianchi» e troppo poco «neri» non corrispondono alla nostra idea di «tradizione africana». Tuttavia, anche se amiamo spesso ancorare gli africani a una tradizione senza tempo sospingendoli nel passato, gli studi etnoestetici ci indicano, al contrario, una tradizionale diffusa attrazione per la novità17.
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Alle pagine seguenti: 2. Portatrice di coppa. Luba, Congo. Legno. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren. 3. Tessuto Kente, seta, cotone. Ashanti, Ghana. Collezione privata. 4. Figura da altare raffigurante uno spirito della brousse (boscaglia). Fante, Ghana. Collezione privata, Bergamo. 5. Figure «tradizionali» e «coloniali». Baulé, Costa d’Avorio. Legno, pigmenti e vernici sintetiche. Linden Museum Stuttgart.
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Alla base di questa nostra avversione per l’uso di colori sintetici nell’arte africana sta anche un apprezzamento di tipo estetico: l’uso che se ne fa ci sembra chiassoso e smodato. In quella che sentiamo come una dissonanza, un eccesso decadente o infantile, si esprime forse la «cromofobia» dell’Occidente: quel che ci disturba è l’apparente balzare in primo piano del colore, il suo sottrarsi ai vincoli del disegno, della composizione e della forma per mostrarsi in quanto colore18. In quest’opposizione fra scultura e colore, fra sostanza e accidente, è all’opera anche una certa concezione dell’oggetto artistico come di un’opera chiusa e compiuta nel momento stesso in cui lascia le mani dell’artista; un’idea che riduce ogni successivo intervento a sfregio o restauro19. In realtà in molti casi gli oggetti africani prevedono istituzionalmente un lavoro a più mani, mai concluso, cui lo scultore dà solamente il via: la figura diviene il supporto permanente di diverse e successive applicazioni di colore fatte da coloro che la utilizzano, in occasione di situazioni cerimoniali e rituali. Un ripristino periodico che riattiva il potere della figura e a cui spesso si lega l’idea di rinnovamento e di gioventù, l’apprezzamento per il carattere effimero delle cose della vita. Questi ripetuti interventi sull’oggetto che ne articolano la biografia facendone il mediatore di relazioni sociali tra antenati e discendenti, tra uomini e divinità, comportano una continua modificazione del colore della figura e ci obbligano ad estendere il concetto di colorazione al di là dell’atto del dipingere includendo le patine sacrificali (oleose o crostose), quelle dovute all’uso, al tempo e agli agenti atmosferici e anche ogni sorta di materiale applicato alla figura (tessuti, chiodi, lame, conchiglie, perline eccetera). Il corpo, in Africa come altrove, è il primo volume da modellare e la prima superficie da dipingere. Il colore veste il corpo. Il colore è innanzitutto quello del corpo stesso anche se è bene rimarcare, ancora una volta, che non si tratta di un dato naturale ma di un costrutto culturale. Su di esso cadono giudizi che sono al contempo etici, medici, religiosi ed estetici. Prendiamo il caso dei Mende della Sierra Leone. Sebbene facciano della «moderazione» il loro criterio estetico privilegiato, quando si tratta della pelle del corpo, a essere enfatizzato è l’estremo e la predilezione va alla pelle più nera20. Contrariamente però a quello che forse potremmo pensare, la nerezza è associata alla chiarezza e alla visibilità: una pelle nero-lucente e levigata è richiamata dalla superficie delle maschere casco bundu dell’associazione femminile sande che intendono proprio rappresentare l’ideale della bellezza femminile. Una bellezza che non è un dato naturale di partenza ma il risultato di una cura del corpo che si esprime attraverso la pulizia e la cosmesi. Diversamente, le preferenze dei Bakongo della Repubblica Democratica del Congo sono per una colorazione intermedia fra gli estremi, entrambi negativi, di un colore troppo scuro che rende l’uomo simile al gorilla, e di uno troppo chiaro che lo avvicina al «meticcio»21. Fra gli Yoruba della Nigeria la scarificazione del corpo mira a ottenere un equilibrio compositivo (idogba) che è tanto tattile che visivo e che risulta dall’alternanza e combinazione di superfici lucide ed opache, levigate e ruvide, perché debitamente incise e lavorate: il nero del pigmento usato nelle scarificazioni modera la lucentezza della pelle modificandone il colore22.
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A fronte: 6. Maschera del tipo moshambwooy. Cuba, Congo. Tessuto, fibre vegetali, pelle, cauri e perline. Collezione Giorgio Bargna, Como. Alle pagine seguenti: 7. Maschera del tipo agbogho mmuo, Igbo, Nigeria. Collezione Giorgio Bargna, Como. 8. Maschera del tipo bundu. Mende, Sierra Leone. Legno. Musée des arts d’Afrique et d’Océanie, Parigi.
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Presso gli Igbo, infine, la carnagione più apprezzata è quella che corrisponde al tipo meno frequente, quello con la pelle chiara: le maschere bianche Agbogho Mmuo degli spiriti-fanciulla ne sono la celebrazione23. Quelli che abbiamo visto brevemente sono solo alcuni esempi ma nella loro grande diversità ci mostrano come sia difficile parlare degli «Africani» in generale, presupponendo una sostanziale omogeneità di fondo, e come quindi sia difficile anche parlare, nello specifico, di «arte africana». Se l’Africa può apparirci come la notte in cui tutti gli africani sono neri, dipende insomma solo dai limiti culturali cui è soggetto il nostro sguardo. E tuttavia questa limitazione non va intesa semplicemente come un offuscamento della vista, ma come una delle modalità attraverso cui siamo entrati in relazione con gli altri, attraverso cui abbiamo riconfigurato la nostra e l’altrui identità: il nero non è mai stato così nero come quando ha incontrato il bianco. È proprio in rapporto agli Europei che gli Africani divengono neri, portando su di sé lo sguardo altrui. Victor Turner riferiva di come fra gli Ndenbu del Congo la polarità bianco/nero operasse al loro interno per distinguere gli Ndenbu stessi in bianchi e neri sulla base delle sfumature della pigmentazione della pelle e come molti protestassero quando venivano classificati come «neri» perché questo comportava una connotazione morale negativa24. Anche presso i Fon del Benin gli uomini onesti e in buoni rapporti con tutti sono detti uomini dal «cuore bianco» e dal «ventre bianco» mentre, al contrario, malvagi e disonesti sono identificati come uomini dal «cuore nero» e dal «ventre nero»25. Visto che molte popolazioni africane hanno tradizionalmente ordinato il mondo proprio contrapponendo alla positività del bianco la negatività del nero, è facile immaginare che l’incontro con i «bianchi» abbia potuto costituire uno shock culturale e un duro colpo all’identità collettiva, in particolare in situazioni di dominazione coloniale26. Tutta una serie di miti e di racconti ci mostra in effetti il tentativo di ridurre questa dissonanza cognitiva davanti all’inatteso cercando una spiegazione che ridia senso alle cose. Abbiamo così miti genetici che spiegano la differenza di colore come un incidente della creazione o come un atto arbitrario di Dio, o ancora come la punizione divina inflitta agli antenati per una trasgressione da loro commessa, o che, infine, vi vedono la conseguenza della maggior intelligenza del bianco. Altri testi poi, di tipo profetico, annunciano l’arrivo dei bianchi come punizione o liberazione o al contrario ne prevedono la partenza27. Gli Yoruba della Nigeria ad esempio spiegano la superiorità tecnologica dei bianchi come conseguenza del fatto che la dea del mare Olokun, bianca come un’europea, e madre di tutto il genere umano, è stata sposata per tre anni con i bianchi, conferendo loro il potere di fare cose che ai neri sono precluse28. È vero che ideologie come quelle della negritudine prima e del black power poi hanno cercato di capovolgere i giudizi di valore formulati sul colore29 ma l’odierno enorme mercato dei decoloranti per la pelle lascia pensare che la loro influenza sia stata tutto sommato limitata. Vi sono però anche casi che mostrano come l’avvertita diversità dei bianchi non facesse di loro qualcosa di realmente estraneo e come anzi proprio il colore servisse per stabilire un’imprevedibile prossimità. Quando i portoghesi nel 1482 sbarcarono sulle coste del Kongo non apparvero in realtà alle popolazioni africane come completamente nuovi e la loro estraneità venne ridotta grazie a una collocazione all’interno della concezione locale del mondo: furono visti come morti ritornati in
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vita30. L’«altro» vestiva così i panni e il colore dell’antenato. A favorire comprovare quest’associazione, una serie di loro indizi, tra cui promercato deie decoloranti per la pelle lasciatutta pensare che la influenza sia stata tutto prio il colore: come i morti venivano dal mare, parlavano una lingua insommato limitata. comprensibile, avevano un potere superiore ed erano bianchi. E bianche Vi sono sono peròappunto anche casi che mostrano come l’avvertita diversità deibianco bianchi non fale maschere e le statue funerarie dei Bakongo come cesse di loro di realmente estraneoinecui come anzimuoiono proprioritualmente il colore servisse per è ilqualcosa colore usato nei riti d’iniziazione i giovani per poi rinascere prossimità. adulti. Un percorso di maturazione stabilire un’imprevedibile Quando i Portoghesiche nelavviene 1482 dentro sbarcarono sulle una cornice ciclica del tempo in cui gli estremi si toccano: i morti e i bamcoste del Kongo non apparvero in realtà alle popolazioni africane come completamenbini che vengono dall’altro mondo condividono il colore bianco (si noti te nuovi e peraltro la loro come, estraneità venne ridotta grazie a una collocazione all’interno della alla nascita, i bambini africani abbiano effettivamente la 30 concezionepelle locale del mondo: furono visti come morti ritornati in vita . L’«altro» vestipiuttosto chiara). 9. Maschera Kongo, la polarità bianco/nero, positivo/negativo è peròquest’associazione, necessavaLegno cosìe i panniNel e trattare il colore dell’antenato. A favorire e comprovare Congo/Zaire. rio considerare come il valore assunto sia ampiamente contestuale va- mare, parpigmenti. Musée royal de tutta una serie di indizi, tra cui proprio il colore: come i morti venivanoe dal riabile. Non solo, come ricordano gli Igbo della Nigeria, ciò che è bianco l’Afrique centrale, lavano lingua une potere superiore ed diverse erano bianchi. E Tervuren.unafuori , ma bianco nero assumono valenze puòincomprensibile, essere nero dentro31avevano
13. Maschera Kongo, Congo/Zaire. Legno e pigmenti. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren.
bianche sono appunto le maschere e le statue funerarie dei Bakongo come bianco è il colore usato nei riti d’iniziazione in cui i giovani muoiono ritualmente per poi rinascere adulti. Un percorso di maturazione che avviene dentro una cornice ciclica del 41 tempo in cui gli estremi si toccano: i morti e i bambini che vengono dall’altro mondo condividono il colore bianco (si noti peraltro come, alla nascita, i bambini africani abbiano effettivamente la pelle piuttosto chiara).
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in rapporto alle situazioni: se l’avere il fegato «nero» rimanda alla malvagità e alla stregoneria, l’avere la pelle «nera» può invece rinviare allo status normale della persona, al suo essere nero come gli altri. Non diversamente da quanto accade agli europei che, pur considerando l’essere «bianchi» la norma, vedono poi in un eccesso di pallore il segno della malattia32. Come sottolinea Jack Goody, «nero è bello così come è malvagio»33, quella tra bianco e nero è una relazione ambivalente e polisemica in cui il riferimento pertinente è attivato di volta in volta su base contestuale. E in questo quadro occorre anche richiamare l’importanza, sottolineata da Turner, dell’ambiente ecologico nell’attivazione delle qualità dei colori: il nero ad esempio nelle società di lingua bantu può indicare tanto la fecondità quanto la sterilità; la probabilità che assuma una valenza positiva aumenta nelle zone povere d’acqua dove le nuvole nere cariche di pioggia sono le benvenute34.
con l’essere tacciato di reticenza, perché si sospetta sia mosso dalla volontà di non rendere partecipe l’altro delle proprie esperienze39. In realtà non esisterebbero i colori in sé ma sempre delle esperienze di colori in rapporto a questo o quell’oggetto e in relazione a individui, luoghi e circostanze particolari. Questo aspetto contingente dell’esperienza del colore presso i Fon sarebbe esplicito e consapevole: il colore non è visto come una proprietà intrinseca degli oggetti ma come qualcosa che essi acquisiscono o perdono a seconda dell’«acqua colorante» in cui le circostanze sociali li immergono: posizione e identità relazionale ne determinano il colore. Victor Turner ha invece studiato il valore simbolico della tricromia bianco-rosso-nero presso gli Ndenbu del Congo per poi rilevarne la presenza presso altre popolazioni africane e spiegare infine questa costante interculturale con il radicamento psicobiologico dell’esperienza umana del colore40. Il riproporsi di bianco, nero e rosso e il loro spessore simbolico sarebbero cioè in primo luogo radicati nell’universalità dell’esperienza corporea del piacere e del dolore quali sono sperimentati nel parto e nell’allattamento, nell’accoppiamento e nell’ostilità; tutte situazioni in cui al piacere e al dolore sono associati liquidi, secrezioni e rifiuti del corpo umano. È così che il rosso diviene simbolo del sangue, il bianco, simbolo del latte materno e dello sperma (e talvolta del pus) e il nero, delle feci e dell’urina (che però in alcune società è messa in relazione allo sperma e quindi al bianco). Secondo Turner i colori possiedono una qualità distintiva che oltrepassa le convenzioni sociali: la bianchezza è positiva, la rossezza ambivalente e la nerezza negativa. Bianco e nero nella loro polarità esprimono il contrasto tra bontà e cattiveria, vita e morte, salute e malattia, purezza e impurità. Il bianco del latte materno, dello sperma e della farina di cassava è associato al nutrimento e alla procreazione ma anche alla verità che si scopre alla bianca luce del sole e alla pulizia rituale. In linea generale il bianco indica il carattere appropriato e legittimo del posto che si occupa e quindi l’armonia nelle relazioni con gli altri e in primo luogo con i defunti. Il nero, viceversa, allude al lato oscuro, pericoloso e difficilmente padroneggiabile dell’esistenza e quindi in primo luogo alla morte. Questo spiega perché sia presente nei materiali e negli oggetti usati dagli stregoni ma relativamente assente in altri contesti della vita sociale degli Ndenbu: impiegare il nero equivarrebbe a evocare la morte, la sterilità, la stregoneria. Il nero appare allora solo nei contesti iniziatici di morte rituale laddove richiama la nozione opposta di rinascita, mentre per il resto è presente proprio nella sua assenza (che è la forma più appropriata di manifestazione dell’oscuro, del segreto, dell’ignoto). Si passa così da un sistema ternario a uno apparentemente binario in cui il rosso diviene l’antitesi del bianco. Occorre però rilevare come altri studi condotti in altre parti del Congo non abbiano confermato il carattere interculturale di queste associazioni. Anita Jacobson-Widding ad esempio, non ha rilevato fra le popolazioni del Basso Congo alcuna connessione fra rosso e sangue, fra bianco e latte o sperma e fra nero ed escrementi. Piuttosto, il rosso rimanderebbe al desiderio sessuale, alla forza fisica e alla vulnerabilità, al potere magico, alla mediazione, alla paternità e, in particolari contesti, alla sensibilità, alla femminilità, al pericolo e alla potenza sessuale maschile. Il bianco significherebbe invece il giusto ordine, la ragione, la verità, la generosità, la
La concezione africana del colore non si può però ridurre alla polarità bianco/nero. La classificazione più diffusa è in realtà quella tripartita in cui al bianco e al nero si aggiunge il rosso che funge da elemento di mediazione fra i primi due. Il fatto che i colori siano tre e che spesso non esistano termini per indicarne altri non deve però portarci a concludere che gli africani soffrano di un deficit fisiologico-percettivo, o farci pensare che la paletta degli artisti africani si riduca a questi tre colori. Accade piuttosto che la lingua ritagli, nel continuum percettivo dello spettro cromatico, questi tre colori in quanto semanticamente rilevanti, considerando gli altri (quelli che per noi sono altri colori) delle varianti. Peraltro è bene sottolineare che l’individuazione di bianco, rosso e nero come colori base non è una particolarità africana ma è presente in molte altre regioni del mondo35. I colori hanno quindi un’identità che non è puramente visiva ma simbolica senza che questo costituisca una prerogativa esclusivamente africana. In realtà quando paragoniamo l’arte africana a quella classica e post-rinascimentale, la contrapposizione fra un uso «naturalistico» del colore e uno «simbolico» può anche sembrarci pertinente, ma non dobbiamo tuttavia dimenticare che, da un lato, qualsiasi forma di rappresentazione – anche la più «naturalistica» – ha carattere convenzionale36 e che, dall’altro, la qualifica di «simbolico» (l’indisponibilità a «prendere alla lettera» quanto ci si dice e ci si mostra) rivela in primo luogo la nostra incredulità, la nostra estraneità a quella particolare comunità di credenti37. Nell’esaminare la terminologia dei colori dei Fon del Benin, Georges Guedou e Claude Coninckx rilevano come, oltre alla serie chiusa che designa i tre colori fondamentali, ve ne sia un’altra, aperta, di «colori secondari o vissuti»38 che sono indicati con il nome della sostanza utilizzata nella colorazione; così, per esempio, quel che noi chiamiamo «giallo» sarà indicato con il termine kokloio, «grasso di pollo», mentre il «verde» è detto amamu, «foglia cruda». Questa concretezza esperienziale coinvolge peraltro anche i tre colori fondamentali per i quali, ai termini generici di we, wi e mya (bianco, nero e rosso), si preferiscono riferimenti più corposi come hwe (caolino bianco) o avi (fuliggine nera) che, oltre a indicare con precisione la varietà del colore cui ci si riferisce, rimandano al contesto religioso e rituale dentro il quale la sostanza è impiegata. Al cospetto di questa ricchezza semantica, l’uso dei termini generici finisce
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Alle pagine seguenti: 10. Maschera del tipo mbangu. Pende, Congo. Legno, pigmenti, fibre vegetali. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren. 11. Figura npungu. Nkanu, Congo. Legno, fibre, erbe, cauri, pelle animale, noci di cola, lucchetti, pigmenti. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren.
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fortuna, l’invulnerabilità, il dominio, l’intelligenza e altro ancora. Il nero infine alluderebbe all’errore, alla colpa, all’invidia, al dolore, all’intenzione di uccidere, al disordine sociale e alla ribellione41. L’esperienza simbolica dei colori attiene in particolare ai riti di iniziazione in cui i passaggi di status sociale divengono delle vere e proprie mutazioni d’essere in cui si muore per rinascere. Le maschere mbuya dei Pende della Repubblica Democratica del Congo sono usate nei riti d’iniziazione mukanda in cui i giovani vengono circoncisi. Queste maschere utilizzano unicamente il nero, il bianco e il rosso secondo delle combinazioni predeterminate: questi colori possono apparire tutti e tre contemporaneamente ma le maschere monocrome potranno essere solo nere e mai bianche e quelle bicolori potranno essere bianco-nere, rosso-nere ma mai bianco-rosse42. In linea generale il rosso è il colore della vita, il nero, il colore della prova d’affrontare e il bianco, il colore degli spiriti dei morti, ma poi ogni colore assume significati specifici in rapporto a maschere particolari. Nella maschera Mbangu (lo stregato o l’epilettico) il volto deformato, con la bocca e il naso disposti obliquamente, è diviso in due metà asimmetriche, l’una bianca e l’altra nera. Tratti fisici e colore indicano la minaccia portata dalla malattia (il nero) alla salute e la morte (il bianco) come partenza del moribondo per il mondo degli antenati; il fatto che vi sia il bianco piuttosto che il rosso (simbolo del benessere fisico) mostra come alla salute del corpo si leghi anche una più ampia lotta del «bene» contro il «male»: infatti una delle ragioni per cui il male fa la sua comparsa nella regione del bene (la stessa metà bianca delle maschere risulta spesso punteggiata di nero) è la cupidigia che cova nell’uomo e che fa di ciascuno nel contempo un potenziale stregone (nganga) e la sua vittima43. Anche presso i Bamana del Mali alla dialettica dei colori si associa il rapporto fra salute e malattia così che, operando con i colori, si interviene terapeuticamente sul corpo: attraverso un tessuto colorato si libera l’energia (nyama) dell’individuo e lo si protegge dai pericoli; l’efficacia dei colori dipende dalla loro combinazione su di una striscia di cotone (buguni) e dal punto in cui viene applicata sull’indumento. Il loro potere protettivo risiede nel realizzarsi di una combinazione analoga a quella fra salute e malattia: il bianco (i fili dell’ordito) tiene prigioniero il nero (i fili della trama) allo stesso modo in cui pace e fertilità impediscono lo scatenarsi del male e della sfortuna44. Questo radicamento corporeo dell’esperienza del colore tocca da vicino anche l’esperienza sensibile (e dunque estetica) che in Africa si fa di quegli «oggetti» che noi chiamiamo «opere d’arte»: se «le cose rosse hanno potere» è perché «il sangue è potere, perché un uomo, un animale, un insetto o un uccello devono avere il sangue, altrimenti muoiono. Le statuette di legno (nkishi) non hanno sangue e perciò non possono respirare, parlare, cantare, ridere, conversare insieme – non sono altro che intagli nel legno. Ma se alle statuette usate dai fattucchieri (aloji) viene dato sangue, possono muoversi e uccidere le persone»45. Il colore dunque o, meglio, la sostanza colorata non si limita a significare, né semplicemente sollecita delle sensazioni ma contribuisce a determinare l’identità delle cose nella loro capacità di incidere sulla realtà complessiva. Presso gli Yoruba della Nigeria, alla triade bianco-rosso-nero si aggiunge il blu, colore molto apprezzato sia nell’Africa del nord che in quella sub-sahariana, in particolare nei tessuti stampati a riserva46. Fra
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12. Tessuto, Gambia, stampa a riserva. The British Museum, Londra.
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Yoruba è proprio il bluviene indaco a porsi comepossono punto d’equilibrio se alle statuette usateglidai fattucchieri (aloji) dato sangue, muoversi efra 45 la luminosità abbagliante del rosso e l’assenza di luce del nero per sugidere le persone» . gerire una vitalità controllata, improntata all’ideale della moderazione47. Il colore dunque o, meglio, la sostanza colorata non si limita a significare, né sempliMentre il rosso indica la presenza della forza vitale (ashe) ed è il colore mente sollecita delle associato sensazioni ma contribuisce a maschere determinare l’identità delle cose e ai guerrieri come nelle oro efe e all’imprevedibile la loro capacità di incidere sulla realtà complessiva. iroso dio del tuono Shango, il blu appare in continuità con il bianco che è segno di purezza e rimanda al buon carattere (iwa rere), ilsinonimo Presso gli Yoruba della Nigeria, alla triade bianco-rosso-nero si aggiunge blu, co-di calma e generosità, di bellezza interiore. Se associato alla donna, il biane molto apprezzato sia nell’Africa del nord che in quella sub-sahariana, in particolaco (come46nel caso delle maschere notturne delle madri nelle cerimonie . Fraalla glipadronanza Yoruba è interiore proprio femminile, il blu indaco a porsi dicome nei tessuti stampati agelede) riservaallude espressione poteri 48 nto d’equilibrio fra lanascosti luminosità delconferita rosso edallo l’assenza dimenopausa luce del nero . e dellaabbagliante purezza rituale stato di 47 Ashe (il rosso della forza vitale), iwadella rere (ilmoderazione bianco del buon carattere) . Mentre suggerire una vitalità controllata, improntata all’ideale 49 e itutu coolness mistica integrano nel formare la persona è il sicolore associato ai guerrieri co- . osso indica la presenza della(laforza vitale (ashe)deledblu) Diversamente le figure di Eshu, dio briccone e messaggero degli dei, pree all’imprevedibile e iroso dio del tuono Shango, il blu appanelle maschere oro efe sentano associazioni instabili e ambigue di colori che esprimono il suo n continuità con il bianco che è segno di purezza ile suo rimanda carattere (iwa carattere disordinato e creativo, potere al dibuon far accadere e moltiplie generosità, di bellezza interiore. Se associato alla donna, il e), sinonimo di calmacare le cose, di oltrepassare le definizioni statiche della realtà. Così Eshu veste maschere un cappellonotturne che è perdelle metà madri nero e nelle per metà rosso provocando gelede) al-fra nco (come nel caso delle cerimonie gli uomini insensateespressione discussioni sul fatto che sia nero o rosso: Eshu si e alla padronanza interiore femminile, di poteri nascosti e della purezza pone agli incroci mostrando il punto in cui gli opposti si dipartono e si 48 uale conferita dallo stato di menopausa . confondono, quindi la loro unità. Ashe (il rosso della forza vitale), iwa rere bianco dele buon carattere) e itutunon (lava Questo significa che (il la distinzione opposizione dei colori 49 lness mistica del blu)vista si integrano nel formare la persona . Diversamente le figure in modo statico ma dinamico. La negatività del nero allora non di può essere assolutizzata la morteassociazioni non è che uninstabili periodo etransitorio hu, dio briccone e messaggero degli dei,perché presentano ambiguedi fra duedisordinato stati di vita:e ogni nuovail fase vitadicomporta colori che esprimonoimpotenza il suo carattere creativo, suo della potere far acca- la morte della precedente e il passaggio all’altro mondo prelude al ritorno e e moltiplicare le cose, di oltrepassare definizioni statiche della realtà. Cosìassociato Eshu in terra nel ciclo dellelereincarnazioni. Il nero per altro è spesso te un cappello che è agli peranziani metà nero e perpotere metàoscuro rosso eprovocando franel glicaso uomini e al loro temibile come delleinmaschere igbo. sate discussioni sul fatto che sia nero o rosso: Eshu si pone agli incroci mostrando il Il carattere edinamico della vitaquindi segnata nto in cui gli opposti si dipartono si confondono, la dal lorotransito unità. e dal ritorno è espresso in particolare dal rosso, il colore del sangue, fonte di vita nell’uQuesto significa che la distinzione e opposizione dei colori non va vista in modo stanione di padre e madre e che quindi partecipa della dimensione procreo ma dinamico. La negatività del nero può perché oladi ativa del bianco ma allora anche non colore del essere sangueassolutizzata versato dall’assassino rte non è che un periodo transitorio di impotenza fra due stati di vita: ogni nuova faquello succhiato dalle streghe, sangue cattivo che rimanda alla nerezza. Fon del Benin, il «rosso» (mya) è all’altro così opposto all’asse «biandella vita comporta laPresso mortei della precedente e il passaggio mondo prelude co-nero» Il rosso èIlla nero lucentezza che offende la associato vista, la passione itorno in terra nel ciclo delle (we-wi). reincarnazioni. per altro è spesso agli che acceca, che espone al rischio e al pericolo. Ma anche «bianco» e iani e al loro potere oscuro e temibile come nel caso delle maschere igbo. «nero» vanno intesi dinamicamente in rapporto a contesti sempre speIl carattere dinamico cifici: della vita segnatapiccolo, dal transito e dal ritorno è espresso in particoil bambino ad esempio, ha la carne «bianca», fragile e e dal rosso, il colore del sangue, fonte di vita nell’unione di padre e madre e quinfessurata e verrà irrobustito attraverso decotti di foglie che loche renderanno più «nero» colmando buchi. «bianco» passa il segno della partecipa della dimensione procreativa deli suoi bianco maIlanche colore delsotto sangue versanegatività indicando la fragilità e il «nero» sotto quello della positività dall’assassino o di quello succhiato dalle streghe, sangue cattivo che rimanda alla nerimandando alla solidità50. è così opposto all’asse «bianco»-«nero» za. Presso i Fon del Benin, il «rosso» (mya) Se una conclusione si può trarre al termine del percorso che abbiamo e-wi). Il rosso è la lucentezza offende la vista,e la passione cheinacceca, tracciato,che è che la percezione l’uso dei colori Africa, che tantoespone nell’ambitoanche che noi definiremmo «artistico» nelle situazioni più ischio e al pericolo. Ma «bianco» e «nero» vannoquanto intesi dinamicamente indiverse rapvita quotidiana, modellati nonhasolo dalla fisiologia to a contesti sempredella specifici: il bambinoappaiono piccolo ad esempio la carne «bianca»,ma dall’ambiente, dalla cultura e dalla storia; questo avviene sia quando, per gile e fessurata e verrà irrobustito attraverso decotti di foglie che lo renderanno più analogia, rimandano a un referente organico, sia quando traggono il loro ero» colmando i suoi buchi. Il «bianco» passa sotto il segno della negatività valore sociale e comunicativo dagli scarti differenziali che iindicando colori stabi50 . ragilità e il «nero» sotto quello dellaUna positività rimandando allalungi solidità liscono fra loro. dinamica simbolica che, dal fissarsi nell’astraun codice, si ridefinisce continuamente in rapporto a contesti Se una conclusione sizione puòditrarre al termine del percorso che abbiamo tracciato, è
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17. Scettro di Shango. 13. Scettro di Shango. Collezione Collezione privata, privata, Bergamo. Bergamo.
mutevoli, modularsi della biografia dei definiremmo singoli 14. Testa di danza che la percezionespecifici e l’usoe dei coloriconsentendo in Africa, iltanto nell’ambito che noi raffigurante Ebotita, simbolismo sociale «artistico» quantosulnelle situazioni piùcondiviso. diverse della vita quotidiana, appaiono modellala Procreatrice. Congo. La consapevolezza della complessità, della ricchezza, ma anche dell’imLegno, patinatibruna, non solo dalla fisiologia dall’ambiente, dalla cultura e dalla storia; questo possibilità ma di determinare in maniera rigidamente classificatoria i coloriavviene policromia, borchie di sia quando, per analogia, rimandano a un referente organico, sia quando traggono africani, può rendere più articolata la nostra percezione estetica delle ope- il lootte. Collezione d’arte africane, dagli proprio nell’assumere la distanza ci separa da esse. fra loV. Carini, Bergamo. ro valore sociale erecomunicativo scarti differenziali che iche colori stabiliscono
18. Testa di danza raffigurante Ebotita, la Procreatrice. Congo. Legno, patina bruna, policromia, borchie di
ro. Una dinamica simbolica che, lungi dal fissarsi nell’astrazione di un codice, si ridefinisce continuamente in rapporto a contesti specifici e mutevoli, consentendo il modu49 larsi della biografia dei singoli sul simbolismo sociale condiviso. La consapevolezza della complessità, della ricchezza, ma anche dell’impossibilità di determinare in maniera rigidamente classificatoria i colori africani, può rendere più ar-
Il colore nell’arte
IL COLORE NELL’ARTE CINESE Christine Kontler
Colori e dualità del mondo: il drappo funerario di Mawangdui
1. Drappo funebre, tomba Han n. 1 di Mawangdui, Changsha, ii secolo a.C. Museo Provinciale dello Hunan, Changsha.
Da cinquant’anni l’archeologia ha rivoluzionato la nostra conoscenza dell’arte cinese. I nuovi reperti hanno confermato o, viceversa, invalidato i dati raccolti in numerosi testi scritti, tra i quali, in primo piano, figurano i Classici della Cina1. La scoperta e lo scavo tra il 1972 e il 1973 delle tombe inviolate della casa Dai, nel luogo detto di Mawangdui, nella periferia di Changsha, capitale dello Hunan, furono una rivelazione; una rivelazione per l’arte principesca della Cina Classica incarnata dalla dinastia degli Han dell’ovest (206 a.C.-8 d.C.), per l’arte funeraria del centro-sud dell’impero che seguì le antiche tradizioni del regno di Chu (vi-iii secolo a.C.), infine per l’arte religiosa nella sua nuova dimensione della conquista dell’immortalità. L’oggetto più rilevante per il suo stato di conservazione, la sua qualità estetica e il suo valore cosmologico è un drappo di seta dipinto, alto un po’ più di due metri, che presenta la forma di una T e che, nell’inventario della tomba, è denominato «vestito volante » o «abito per prendere il volo» (feiyi). Il drappo si trovava sull’ultimo sarcofago interno che conteneva le spoglie della marchesa di Dai, con la superficie rivolta verso la defunta, nella stessa direzione. Nella sua disposizione, che obbedisce a una simmetria armoniosa, l’insieme ha dato luogo a molteplici letture. Tutte concordano nel vedervi un’immagine del mondo, con la defunta in seno, suddivisibile in tre parti: dal basso verso l’alto si possono vedere il mondo sotterraneo delle Sorgenti Gialle2, quello dei viventi e, infine, il mondo degli immortali. I motivi, i personaggi mitologici e divini, gli animali emblematici, psicopompi o guardiani, gli oggetti sacri si distaccano con nettezza dal fondo liscio del tessuto di seta di tipo juan, che era, secondo quanto raccomandato nei testi delle prescrizioni rituali, colorato in un rosso-terra molto caldo, oggi brunito. Il colore partecipa sia della qualità della pittura sia del
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suo complesso simbolismo. Esistono dei contrasti sottili tra i motivi uniformi e quelli screziati, tra i colori applicati a tinta piatta e quelli sovrapposti all’interno dei contorni realizzati a inchiostro nero, infine tra le linee sottili, nette e fluide, e i tratti più spessi e modulati, frutto del lavoro del pennello. Oltre al nero dell’inchiostro (mo), che si ricava dal nerofumo – ottenuto per calcinazione di resina di pino la cui fuliggine viene mescolata alla colla – i colori dominanti sono il rosso vermiglione di cinabro (zhusha), il blu indaco (huaqing), l’ocra rossa (zheshi), il giallo gommagutta (tenghuang), il bianco d’ostrica o di conchiglia (gefen), puro o mischiato, e la polvere d’argento che dà luminosità alle altre tinte. Questi colori esaltano tutta la vitalità, tutte le forze di un universo concepito in movimento e fondato sull’alternanza dei principi opposti e complementari dello «scuro» o yin e del «luminoso» o yang. Ne Il Libro delle Odi, uno dei cinque Classici, lo yin designa infatti il versante in ombra di una montagna e lo yang, quello soleggiato. Queste potenze sono all’opera nei mondi dipinti che raccolgono e dirigono le anime della defunta verso le terre dell’immortalità. Così vediamo che i due draghi, nello stare uno di fronte all’altro e nell’incrociarsi, inquadrano le scene inferiori, strutturando l’insieme della composizione. L’unità dello yang è mostrata dal drago che ha il corpo rosso vermiglione e una vitalità che sembra scaturire dall’interno, mentre la dualità dello yin è mostrata dal drago blu e bianco, dalla compresenza della vitalità contenuta e concentrata del blu e dell’esteriorizzazione della virtù splendente del bianco. Dei vapori bianchi e rossi vengono esalati e si condensano intorno ai loro corpi; la lingua e l’interno della gola è resa da un semplice nastro di colore rosso, emanazione dei soffi vitali puri3. Yin e yang non esistono che l’uno per l’altro, e l’uno nell’altro. Bianco è ugualmente lo spicchio di luna con i suoi effluvi chiari, con il suo rospo blu scuro e la lepre bianca che giocano sotto il suo chiarore notturno; rosso, al contrario, il cerchio del sole con il suo uccello nero, supporto della sua potenza – e come bruciato dalla sua vicinanza – che rappresenta un punto di ripiegamento dello yin nel mezzo dell’espansione dello yang. Fra di loro, al centro, troneggia un personaggio celeste, forse il dio Taiyi, il Grande Uno. Il suo corpo rosso, simbolo dell’animazione dello yang, è rivestito di un abito in tinta unita blu, che esprime l’immobilità dello yin e rappresenta l’origine cosmica degli esseri, l’unione suprema degli uomini con gli dei e i soffi del cosmo4. Il rosso e il nero: esaltazione delle vitalità Incassati gli uni negli altri, i sarcofagi della medesima tomba sono in legno laccato e dipinto; si oppongono avviluppandosi. Uno dei due è nero, colore della morte e dello yin e la sua nerezza sembra rischiarata dall’interno dal materiale stesso: la lacca. Obbedendo al simbolismo della vitalità cosmica, questo sarcofago si orna di meravigliosi arabeschi, nubi stilizzate, soffi ed energie chiamate qi, dove dei geni del mondo invisibile compiono delle evoluzioni. Questo sarcofago contrasta con quello che lo contiene sul quale sono dipinti degli animali fantastici neri su fondo rosso cinabro, colore della vita, del sangue e dello yang. Un medesimo materiale, il legno ricoperto di lacca dipinta, e una medesima associazione cromatica si incontrano già nel sarcofago del marchese Yi di Zeng (tomba n. 1 a Leigudun, distretto di Suizhou nello Hubei, che risale alla metà del v secolo a.C.). Dei
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2. Dettaglio del drappo funebre di Mawangdui.
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motivi quasi geometrici di intreccio o di quadrati a crociera si alternano con figure sorprendenti di uomini-uccello ritti che portano alabarde e con uccelli dal corpo e dal collo squamosi. Sono dipinti in nero su fondo rosso. In altre tombe del medesimo regno, i sarcofagi laccati sono anche dipinti. Col tempo si nota un arricchimento della tavolozza cromatica a consonanza rituale e religiosa. Oltre al rosso e al nero, appaiono sulle figure dei draghi e degli uccelli un giallo dorato e un ocra chiaro. Lo stesso avviene per molteplici figure di bestie fantastiche, draghi, serpenti intrecciati, uccelli favolosi dalle corna di cervi, felini dal corpo sinuoso, con teste girate all’indietro che l’archeologia degli Stati Combattenti (secoli v-iii a.C.) ci ha rivelato. Contemporanee o risalenti al tempo degli Han (ii secolo a.C.- ii secolo d.C.), le lacche scoperte a centinaia nelle tombe, oggetti di uso quotidiano, legati ai banchetti, al gioco, al mobilio e alla toilette e offerti alla morte, si valgono principalmente e similmente di un cromatismo che oppone e associa il nero – che talvolta vira al marrone-cioccolato – al rosso. Il loro contrasto costituisce la dominante della decorazione come avviene sui tessuti di seta lavorati e sulle sete ricamate: dei motivi rosso vermiglione si staccano su un fondo marrone chiaro o, al contrario, motivi nero e oro si staccano su un fondo rosso, in una medesima ispirazione, esaltazione e manifestazione di tutte le vitalità. Nello stesso modo, le pitture murali delle tombe Han contrappongono e riuniscono gli sposi defunti in scene di banchetti. L’uomo, il più delle volte, indossa una veste rosso cinabro, yang, e sua moglie, una veste chiara
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3. Terzo sarcofago della tomba di Mawangdui. Legno dipinto su fondo rosso cinabro. 4. Secondo sarcofago della tomba di Mawangdui, dettaglio del lato corto posteriore. Legno laccato e dipinto su fondo nero.
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o nera, yin. Si può incontrare anche l’opposto come se lo yin, la donna, e lo yang, l’uomo, avessero scambiato nella morte i loro attributi. Più in generale, nelle decorazioni dipinte di queste tombe, il nero sembra spesso riservato alla vita quotidiana dell’aldilà e contrasta con il rosso cinabro, riservato alle divinità o agli esseri straordinari che popolano il mondo dell’«In Alto». Tra gli oggetti di comunione con le potenze del mondo etereo figurano i bruciaprofumi, detti boshanlu, ugualmente scoperti nelle tombe Han. Raffigurano l’universo con le sue distese d’acqua e le sue montagne, ma suggeriscono anche il dinamismo dei suoi soffi con le loro incrostazioni in volute. La combinazione del rosso e del nero è celebrata attraverso il loro uso come nel poema di Liu Xiang, letterato studioso di alchimia, che scrive nel i secolo: «All’interno degli aromi: fuoco rosso e fumo nero; finemente scolpito da tutti i lati, esso (il bruciaprofumi) permette di comunicare con il cielo azzurrino». Rosso incarnato e nero profondo, riuniti, ma non mescolati, formeranno un colore paradossale, chiamato xuan, che prenderà, nei testi classici, il senso corrente di «scuro». Xuan è il nome del mistero del Daodejing, Il Libro della Via e della Virtù, che canta, con il principio supremo e non conoscibile, la meraviglia dell’esistenza dell’uomo nel mondo5.
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5. Vaso in legno laccato. Tomba Han n. 1 di Mawangdui, Changsha, ii secolo a.C.
6. Pittura della tomba cim 120 di Luoyang, dinastia Han dell’Est.
La tradizione taoista considera le gru simboli di immortalità; cavalcature di geni e di spiriti prendono, in mille anni, il colore del cielo azzurrino e, passati ancora mille anni, diventano «scure», xuan, del colore misterioso del Cielo profondo. Questo «colore» designerà correntemente il Cielo, origine del mondo, mentre nei Classici come nel Shijing, Il libro delle Odi, e nel Yijing, Il Libro delle Mutazioni, il suo opposto o simmetrico, la Terra6, è giallo, del colore del loess, la sabbia proveniente dai lontani deserti che ha ricoperto per millenni il suolo delle province della Cina del nord. Il colore nelle correlazioni simboliche: i Quattro Spiriti protettori degli Orienti Nei testi contemporanei al drappo funerario di Mawangdui, si inizia a evidenziare una rete virtuale simboleggiante un universo che palpita costantemente per il gioco creatore dello yin e dello yang; essi vengono evocati in vari modi per favorire il ritorno delle loro fasi. Poiché la tomba, dimora sotterranea, contiene lo yin a oltranza, – le Sorgenti Gialle dove risiede il defunto sono un mondo chiuso, oscuro e freddo – per un gioco di compensazione, vengono esaltate le variazioni attorno allo yang. Si rap-
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presenta così, in maniera figurata o metaforica, la sua forza luminosa, come la luminosità reale delle lampade e degli specchi, gli «oggetti luminosi» (mingqi) e le immagini che evocano la brillantezza, il calore, lo splendore della vita, come, ad esempio, quella dell’Uccello rosso (zhuque). Con altre tre potenze del mondo animale, questo uccello è associato a un punto cardinale, il Sud, a una delle stagioni dell’anno, l’estate, e a un colore, il rosso vivo o vermiglione. Si contrappone alla Tartaruga-serpente nera del Nord e dell’inverno, chiamata talvolta «il guerriero scuro» (xuanwu), perché, come l’uomo che indossa un’armatura, la tartaruga possiede un carapace. Una seconda coppia opposta e complementare è formata dalla Tigre bianca (baihu) dell’Ovest e dell’autunno e dal Drago blu-verde (qinglong) dell’Est e della primavera. Portatori delle virtù efficaci del loro luogo d’origine, questi animali o questi Quattro Spiriti protettori del mondo (siling, sishen o sigong), che suddividevano e raggruppavano in quadranti anche le stelle dello zodiaco, sono dipinti sui muri delle tombe Han o scolpiti sui pilastri funerari in modo da mettere l’insieme del monumento in relazione con lo spazio orientato della Terra e del Cielo. Essi sono anche realizzati in terracotta e raffigurati in gruppi con il loro conduttore all’inizio del vi secolo, momento che vede la rinascita, nelle arti della Cina del nord, delle concezioni cosmogoniche tradizionali riguardanti la vitalità del mondo. Altre rappresentazioni delle potenze guardiane degli Orienti furono scoperte incise sugli epitaffi dei sarcofagi dei nobili e degli aristocratici dell’epoca. Talvolta le troviamo incise su mattoni policromi che contrappongono il verde al rosso vermiglione come nelle tombe di Dengxian nello Henan nel 500 circa. Altre volte infine, i Quattro spiriti compaiono sul retro degli specchi di bronzo o sono dipinti su delle grandi giare. In queste rappresentazioni, l’Uccello rosso non si distingue quasi dal Fenghuang o Fenice, essere immortale e ibrido che vive nelle più alte regioni del cielo. Magnifici esempi di questi animali appaiono nelle tombe dei Tang (618907), scoperte dopo il 1961 nei pressi della capitale, oggi Xi’an, che si trova nello Shaanxi: Guerriero scuro e Uccello rosso delle tombe di Su Sixu (670-745) o Yang Xuanlue (802-863); Drago blu-verde di fronte alla Tigre bianca, dipinti sui muri est ed ovest del corridoio di accesso alla tomba della principessa Yongtai (685-701). Personalizzate nel taoismo, diventeranno rispettivamente, i signori della Tigre bianca e del Drago verde, raffigurati nei templi, per esempio in quello di Yongle Gong a Ruicheng nello Shaanxi che risale al xiii-xiv secolo, e situati rispettivamente a ovest e a est nella sala dei Tre Puri. La geomanzia, insieme di conoscenze popolari in tutte le classi della Cina imperiale, li utilizza a sua volta nell’archetipo dei suoi paesaggi di montagna, detti Tigre e Drago, che inquadrano idealmente a ovest e a est una collina centrale, particolarmente propizia per la costruzione di edifici, perché essi possano identificarsi con le virtù sublimi di questi animali. I Cinque elementi e l’arte rituale di Corte Altri raggruppamenti interessano le correlazioni fra i Cinque elementi (Fuoco, Terra, Legno, Acqua e Metallo) che sono modalità dello yin e dello yang e gli esseri e le cose suscettibili di suddivisione in queste cinque categorie7. Così si stabilirono delle corrispondenze tra le quattro stagioni e la stagione intermedia del cuore dell’estate, i punti cardinali e il centro, i
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7. Signore della Tigre bianca. Pittura murale del tempio Yongle Gong, secoli xiii-xiv.
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Il colore nell’arte cinese
orientamento
est
sud
centro
ovest
nord
elementi
legno
fuoco
terra
metallo
acqua
colori
blu-verde
rosso
giallo
bianco
nero
fine estate inizio autunno
autunno
inverno
Tigre bianca
Tartaruga nera
stagioni
primavera
estate
animali emblematici
Dragone verde
Uccello rosso
fattori climatici
vento
calore
umidità
secchezza
freddo
sapori
acido
amaro
dolce
piccante
salato
passioni
collera
gioia
simpatia
tristezza
paura
organi principali
fegato
cuore
milza
polmoni
reni
organi legati ai precedenti
vescica biliare
intestino tenue
stomaco
intestino crasso
vescica
semi nella dietetica
grano
riso
mais
avena
piselli e farinacei
carni nella dietetica
pollame
pecora
bue
cavallo
maiale
colori, i sapori e gli odori, le note musicali e i numeri, gli astri e i pianeti, ma anche fra le parti del corpo umano, fra le qualità, le attitudini morali e i sentimenti. Se varia nelle sue applicazioni, il principio cosmico delle corrispondenze, integrato con i valori morali del confucianesimo ufficiale, non fu mai messo in causa. Perdurerà lungo tutto il periodo imperiale, influenzando numerose correnti di pensiero e ispirando tutte le arti al servizio dell’apparato imperiale. Così, secondo il Lijing, Il Libro dei Riti, prendendo come esempio solo le prescrizioni relative alle vesti ufficiali: «I Cinque colori che servono a dipingere i sei tipi di immagini sulle dodici specie di tuniche ufficiali, si susseguono (durante il corso dell’anno) e ciascuna predomina a suo turno ed è come il fondamento delle altre». Qing, il blu-verde, il primo dei Cinque colori principali, è il più ricco. Corrisponde alla primavera e domina in questa stagione; è il colore della natura, delle foglie, dell’erba, delle messi giovani, del cielo azzurrognolo, del mare, delle zone erbose delle montagne. Esso corrisponde a una gamma cromatica molta estesa che ingloba il blu e il verde, ma anche il glauco, il verdastro, il bluastro, l’azzurro, i blu acciaio e marina, il grigio e il nero. Chi, il rosso colore del cinabro, corrisponde all’estate e domina in questo periodo. È il colore del fuoco, tradotto talvolta con vermiglio, scarlatto, persino incarnato o più correntemente con vermiglione. Huang, il giallo, è correlato a tutte le stagioni, bai, il bianco, all’autunno e hei, il nero, all’inverno. Notiamo che i colori dominanti sono Cinque fra i 214 chiave o elementi grafici significativi che entrano nella composizione dei numerosissimi caratteri della lingua scritta. Ai colori primari corrispondono quelli intermedi, la cui nomenclatura è difficile da tradurre: lu, verde, fra il blu-verde e il giallo; hong, il rosso chiaro, tra il vermiglio e il bianco; bi, verde-blu pallido, fra il blu-verde e il bianco; zi, porpora, violetto o marrone, fra il vermiglio e il nero (o, secondo altre fonti, fra il blu scuro e il rosso chiaro); liu, marrone, fra il giallo e il nero.
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8. Tavola che illustra il principio cosmico delle corrispondenze. 9. Taglio di tessuto per un abito di corte. Inizio della dinastia Qing, xvii secolo. Tessuto broccato d’oro. Collezione Myrna Myers, Parigi.
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L’insieme di questi colori obbediva a usanze determinate dai riti: colori primari per i vestiti esterni degli uomini o che coprivano la parte superiore del corpo, colori secondari per gli indumenti intimi o che coprivano la parte inferiore del corpo. I Dialoghi di Confucio fanno eco a queste prescrizioni rituali, utili per i gentiluomini: «Essi non portino vesti orlate di colore scuro, violetto o carminio (il primo riservato ai giorni di astinenza, il secondo al lutto) ed evitino il rosso chiaro o il porpora negli indumenti intimi (colori secondari, troppo vicini a quelli riservati alle donne)» (Lunyu, I dialoghi, x, 6). In assenza di conferme archeologiche, rimane difficile sapere se questi precetti del rituale furono seguiti alla lettera nel periodo antico o classico. In compenso, furono in auge, benché largamente modificati, circa due millenni più tardi, al tempo dell’imperatore Qianlong (r. 1736-1796) della dinastia Manciù dei Qing (1644-1911). Apparve allora, nel 1759, un decreto dal titolo «La descrizione illustrata degli oggetti rituali della nostra sublime dinastia» o Huangchao liqi tushi, che distingueva gli abiti di corte ufficiali (chaofu) dai semiufficiali delle feste (jifu) – di cui facevano parte i famosi abiti da drago (longpao e mangpao) – e dagli abiti ordinari (changfu). Diversi motivi come i draghi e i Dodici simboli, ma anche determinati colori – il giallo chiaro, il blu cielo, il rosso e il bianco – erano strettamente riservati all’imperatore. I motivi e le nubi presenti sugli abiti imperiali dovevano essere realizzati, ricamati o tessuti con l’aiuto dei Cinque colori dominanti, citati precedentemente e correlati ai vari simboli, per mostrare la predominanza della figura dell’imperatore sul mondo degli uomini e della natura. L’etichetta non riguardava solamente l’imperatore e l’imperatrice, i loro abiti, i loro ornamenti, le loro acconciature o i loro attributi, ma dominava tutta la vita degli aristocratici e dei funzionari di Corte. Considerando il solo esempio degli abiti ufficiali di Corte, notiamo che il giallo chiaro era riservato all’imperatore il quale indossava, però, abiti blu al momento dei sacrifici nel tempio del Cielo. Il giallo albicocca era attribuito al principe ereditario, il giallo oro ai figli del sovrano, tutti i colori, salvo il giallo e l’arancio, potevano essere indossati dai principi dal primo al quarto rango e dai sovrani imperiali. Il blu-nero era attribuito ai sovrani cinesi, agli ufficiali civili (primo-terzo rango), agli ufficiali militari (primo e secondo rango) e alla guardia imperiale di prima classe. Gli abiti di Corte delle donne e delle mogli rispettavano le medesime regole. Se la dinastia Manciù dei Qing regnò adottando come proprio colore il giallo, colore del Centro e della Terra, il cui carattere huang è omofono del carattere che significa «augusto» o «imperiale», la dinastia precedente dei Ming (1368-1644) regnò scegliendo per sé il rosso. Il cinabro naturale sembra essere stato riservato ai dipinti relativi alla famiglia imperiale e si dice che il grande maestro Dai Jin, attivo all’inizio del xv secolo, fosse stato espulso dall’Accademia perché aveva dipinto l’abito di un semplice pescatore in rosso, colore riservato ai più alti funzionari dello Stato. Ai sovrani Ming si deve anche la sistemazione, all’inizio del xv secolo, della famosa città porpora proibita di Pechino, situata nel Centro della loro capitale ideale. La sua pianta era fondata sul simbolismo delle correlazioni e dei Cinque elementi. Davanti al palazzo imperiale, la collinetta quadrata dell’Altare del Sole era formata dalla terra che proveniva dai quattro punti cardinali dell’Impero: la terra verde-blu dello Shandong per l’Oriente; la terra rossa degli Er Guang (Guangxi e Guangdong) per il Mezzogiorno; la
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10. Palazzo dell’armonia suprema (Taihedian), Palazzo imperiale, Pechino, dinastie Ming e Qing, inizio xv-xix secolo.
terra bianca dello Shaanxi per l’Occidente; la terra nera di Pechino per il Settentrione. Queste terre erano dominate al centro da quella dell’imperatore, dalla terra gialla della provincia dello Henan, culla della civiltà. Il Sishenci o Tempio del Giardino imperiale fu consacrato, nello stesso modo, ai quattro personaggi dei punti cardinali. Nella Città Proibita, l’attribuzione del colore porpora si rifarebbe al gruppo delle stelle Ziweiyuan, che costituiscono la prima della triplice cinta di mura celesti. Secondo altre fonti letterarie, il colore porpora sarebbe quello attribuito alla stella polare, che brilla nel centro del cielo, immutabile nel suo centro, simile in questo alla virtù del perfetto sovrano8. L’impiego del colore si conformava alla teoria dei Cinque elementi all’interno come all’esterno delle costruzioni: il giallo della Terra, sede dell’imperatore, era onnipresente grazie alle tegole e agli elementi decorativi in terracotta verniciata dei tetti; il rosso del Fuoco e della chiarezza dominava a sud e appariva anche sui muri tra le colonne che sostenevano la travatura degli edifici. Situato a est, lo studio del principe ereditario aveva una copertura di tegole del colore verde-blu della primavera, mentre a nord, mura e tetti erano neri.
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Giochi delle metamorfosi e variazioni sottili: alchimia, cinabro e oro, patina dei bronzi e arte della giada L’arte cinese valorizza i materiali, i minerali e i metalli di base, prodotti dall’interazione del tempo e delle energie cosmiche. Li esamina soprattutto nelle loro trasformazioni e nelle loro variazioni infinite di colore. Il più importante materiale, già presente nel drappo funerario di Mawangdui e utilizzato nel contesto funerario dopo il Neolitico, è il cinabro (dan), solfuro di mercurio, naturale (zhusha) o artificiale (yinzhu). La sua raffinazione o la sua preparazione fu oggetto di ricerca da parte degli alchimisti cinesi. Del resto le loro pratiche portavano il suo nome: cinabro, oro-cinabro (jindan) o, ancora, giallo e bianco (huangbai) in riferimento all’oro e al mercurio. Il cinabro possiede la proprietà di trasformarsi con il fuoco in mercurio e di trasformarsi nuovamente in cinabro, passando dal rosso al bianco e dal bianco al rosso. Applicato alle lacche per tinteggiare i fondi o i motivi, rinforza il valore di un materiale imparentato con le sostanze protettrici e con i principi quintessenziali degli elisir di Lunga vita. Il suo potere di evocazione fu tale che ancora oggi, il rosso è il colore della buona sorte, della gioia, del matrimonio; al contrario, l’assenza di colore denota il ritorno alla natura originaria, al grezzo che è abbinato alla disgrazia e al lutto. Sin dall’antichità una delle fonti maggiori dell’arte cinese fu l’interazione o l’emulazione reciproca nella lavorazione dei metalli, bronzo e oro, che ispireranno a loro volta la grandezza e l’ornamentazione della giada. Anche se l’oro aveva un grande valore – l’alchimista dell’imperatore Wudi degli Han (145-87 a.C.) diceva che lo stampo di un piatto in oro era in grado di dare alle pietanze la virtù di procurare la Lunga vita – la civiltà cinese classica, tuttavia, non gli accordò mai il posto privilegiato che riveste in Occidente. Conviene tuttavia notare l’eccezione buddhista, vasta corrente religiosa e artistica proveniente dall’India, che si insediò durevolmente in Cina a partire dall’era cristiana. Nel mondo del buddhismo cinese, l’oro, per le sue qualità – purezza, durezza e brillantezza eccezionali –, rappresenta il principio supremo che agisce nei fenomeni del mondo in continua mutazione. È anche, e soprattutto, uno dei trentadue segni maggiori della perfezione del Buddha, il cui corpo era d’oro, il colore al di là di ogni colore, abitualmente rappresentato nell’iconografia dall’aureola e dalla mandorla che mostrano la saggezza che irradia dalla sua persona e che illumina i mondi. Nel corso dei secoli gli artigiani produrranno delle immagini di Buddha o di bodhisattva con differenti materiali, utilizzando principalmente il bronzo dorato, ma anche il legno, la lacca, la pietra o la terracotta ornati di pigmenti colorati e di foglie d’oro. Anche la preziosità degli ornamenti, delle vesti e degli attributi, traduce con precisione, nelle arti religiose cinesi, il carattere sacro delle rappresentazioni. Collezionisti d’arte e amatori, lungo i secoli, sono stati sedotti dalla varietà dei colori dei bronzi dell’alta antichità. Essi hanno celebrato la loro patina, dovuta alla reazione del metallo con i sali minerali del suolo, che può essere rossa, verde (malachite) o blu (azzurrite). Già nel ii secolo a.C. al momento dell’esumazione di un bronzo celebre, si evocava la sua patina «brillante, untuosa e iridata come un drago». Essa materializzava, dava un nuovo significato estetico agli oggetti, staccandoli dal loro contesto rituale o funerario. Questa sensibilità nuova era lungi dal prediligere il valore della luminosità dorata del metallo all’origine, che
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Alle pagine seguenti: 11. Statue rappresentanti un bodhisattva ed il discepolo Ananda. Nicchia della parete ovest della grotta 328 del santuario di Mogao, Dunhuang, Gansu. Dinastia Tang, viii secolo. Statue modellate in terracotta e dipinte (altezza del bodhisattva 1,90 m). 12. Calice libatorio gu. Dinastia Shang, xiv-xi secolo a.C., Musée national des Arts asiatiques-Guimet, Parigi. 13. Vaso da vino quadrangolare fanglei. Dinastia Shang, c. 1300-1030 a.C. Bronzo. Museo di Shanghai.
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alcuni letterati amavano moltissimo e che si preoccupavano di preservare pulendo i pezzi della loro collezione con del grasso o della cera. Nessun vocabolario è così ricco come quello che gli studiosi dell’arte cinese hanno riservato alla giada (yu), pietra nobile per eccellenza, circondata da un’aura religiosa, considerata la pietra dell’immortalità e quasi magica. I cinesi furono sensibili sia alla perfezione delle sue forme, alla sua sonorità, alla sensualità della sua struttura, della sua levigatezza o della sua grana, sia all’armonia dei suoi colori o alle accidentali irregolarità della sua superficie. Il suo colore dipende da molti elementi: puro, è un bianco più o meno intenso, la cui luminosità può addolcirsi e che rappresenta il valore supremo. Il cromo, distribuito in vene irregolari o sparso su fondi uniformi, dà la maggior parte delle colorazioni verdi, a partire dal grigio-verde, dal verde del mare e dell’erba al verde degli spinaci, della lattuga o del cetriolo sino al verde smeraldo (feicui), molto ricercato. Le tinte scure, grigie, nere o marroni, rivelano la presenza del ferro e dei suoi derivati. La nefrite presenta numerose sfumature di giallo e d’arancio, mentre la giadeite è a volte color lavanda. Ciascuna di queste sfumature può essere anche, in parte o totalmente, modificata da un lungo contatto con l’acqua o con la terra oppure ottenuta in modo artificiale. Sotto i Qing, età d’oro dell’arte della giada, apparvero differenti tecniche che avevano lo scopo di valorizzare le inclusioni, le masse o le nervature colorate. Si rafforza artificialmente il colore di certe pietre o le si tratta con il calore per dare loro un aspetto
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14, 15. Disco e tubo in giada. Cultura neolitica di Liangzhu, c. 3200-2000 a.C. Museo nazionale del Palazzo, Taipei. 16. Tavoletta circolare, giada, Dinastia Zhou dell’Ovest, x secolo a.C. Musée national des Arts asiatiques-Guimet, Parigi.
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antico o per richiamare altri materiali. Molte giade furono ad esempio tinte e incrostate con piccolissime pagliuzze di rame per imitare il prezioso lapislazzuli. La via del sobrio e del colore: la ceramica e la pittura L’arte dei ceramisti tenderà a riprodurre le tonalità sottili della giada bianca con la porcellana e quelle infinite della giada verde con i céladon che i cinesi collegavano al mondo del qing o del «colore delle cose della natura» e la cui età d’oro risale al x secolo. A questa via del sobrio, che rappresenta una corrente e un’ispirazione mai estinta, corrisponde la via del colore, audace nelle sue contrapposizioni e vigorosa nelle sue associazioni. Vi sono dapprima i «Tre colori» (sancai) dei Tang (618-907) le cui vetrificazioni molto fluide scorrono e si compenetrano, producendo dei toni marroni, gialli, verdi, blu o bianchi. L’epoca seguente degli Yuan (1277-1367) vede l’introduzione del «blu mussulmano» o blu cobalto, importato dall’Iran, che permette di ottenere il genere nuovo dei «blu e bianchi» (qingbai). Poi vengono i potenti smalti monocromi dei Ming (1368-1644), giallo-uovo o rosso di pietra preziosa, i loro colori «contrastati» (doucai) e i loro Cinque colori (wucai). Sotto i Qing (1644-1911) si hanno le porcellane policrome: la «famiglia verde» o «colori vivi» (yincai) con i suoi otto toni di verde; la «famiglia rosa» con i suoi «colori strani o pallidi» (yangcai o fencai) che vede declinare tutti i toni dal rosso-ferro al corallo, all’arancio e a tutte le tonalità del rosa. Tratti dalla «porpora di Cassio», rosa di cloruro d’oro, questi smalti appaiono in Cina verso il 1720. Il gusto per i monocromi splendenti e vivi perdura con il «sangue di bue» (langyao), il «rosso sacrificale» (jihong), la «pelle di pesca» o il «fagiolo rosso» (jiangdou hong), il «bianco di Cina», il «nero-specchio» (zujin), il blu pallido o «chiaro di luna» (yuebai o tianlan), il violaceo o porpora melanzana (ziyou), il verde pallido, il marrone «caffellatte» e tutti i gialli imperiali. La pittura classica seguì le stesse vie. Il suo nome antico era «arte del cinabro e del blu-verde» (danqing), origine che rimanda ai due colori complementari e ai principi yin e yang del mondo. Essa mostra di avere una radice comune con l’alchimia. La tradizione definisce il grande maestro dei Tang, Yan Liben, morto nel 673, come «colui che trasmuta divinamente il cinabro e la malachite». Numerosi dipinti sono legati alla ricerca dell’Immortalità come certi paesaggi conosciuti con l’appellativo «blu e verde» (qinglü) o «oro e verde-blu» (jinbi shanshui). La prospettiva aerea vi è espressa tramite gradazioni di colori che vanno dal verde malachite al blu azzurrite. A questa pittura di per sé sontuosa si aggiunge talvolta l’impiego dei tratti dei contorni o dei fondi impolverati d’oro. La tradizione di paesaggi riccamente colorati proseguirà nel tempo, mentre si svilupperanno in parallelo i paesaggi dai colori dolci come quelli all’«ocra leggera» (qianjiang shanshui) o i monocromi all’inchiostro. Se il pennello designa, nei testi estetici, il disegno o il grafismo, l’inchiostro esprime i valori tonali che non sono meno ricchi, nella loro nomenclatura, dei colori primari o secondari. Il peggiore errore denunciato dai manuali resta la «mancanza di inchiostro» o il suo impiego monotono. I pittori cinesi hanno esplorato tutte le virtù «colorate» dell’inchiostro e tutte le sue sfumature di consistenza. Tra le molteplici tecniche citiamo
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17. Dettaglio della pittura parietale della grotta 329 del santuario di Mogao, Dunhuang, Gansu. Dinastia Tang, viii secolo.
l’impiego dello sfumato che si contrappone alla maniera audace di lanciare «l’inchiostro che cola» in masse spesse per rendere i toni profondi. All’inchiostro «secco» o poco diluito si contrappone «l’inchiostrazione violenta» che conferisce spessore, fermezza e potenza. L’arte dell’inchiostro valorizza anche la tecnica di colorare con inchiostro di china molto leggero, sparso sul fondo senza lasciare la traccia del pennello, per evocare le nebbie o le parti luminose di un paesaggio con delle tinte evanescenti e quasi impercettibili che lasciano solo indovinare l’inchiostro. L’arte dell’inchiostro va sino al «bianco volante» utilizzato per disporre sul fondo, colorato con un leggero inchiostro di china, una riserva bianca per delimitare le forme. Molto considerata
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dalla tradizione letteraria, questa pittura si fonda su un’estetica la cui parola-chiave è «l’essere insipido» (dan), in un’accezione del tutto positiva perché mira a dare alla pittura lo stesso valore della calligrafia, considerata l’arte suprema della Cina, perché capace di rivelare il vero Sé. Essa risponde come a un’eco al capitolo dodicesimo del Daodejing, Il Libro della Via e della Virtù: «I Cinque colori accecano l’occhio / Le Cinque note assordano l’orecchio / I Cinque sapori guastano la bocca / ... / I Santi / Rifiutavano l’esteriore / E si attenevano a se stessi»9. È chiaro che, per i cinesi, lo splendore del colore e della luce appare come un carattere che risiede nella bellezza delle cose, siano esse create dalla natura o dagli uomini. Esso costituisce, insomma, il caso particolare di uno splendore universale.
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18. Gu Heqin, foglio estratto dall’album Sedici vedute intorno alla villa di M. Xu Nuage-Rivière, 1820. Inchiostro e colori su carta. Museo di Zhenjiang. 19. Guo Xi, Paesaggio d’inizio primavera, 1072. Inchiostro su carta di soia. Museo nazionale del Palazzo, Taipei.
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ISLAM E COLORI Giovanni Curatola
1. Moschea congregazionale di Yazd (Iran), particolare decorativo in mosaico ceramico, c. 1375.
Come si fa a definire un colore? Non si tratta di un problema secondario né scontato. Infatti la percezione che abbiamo di un dato colore varia di volta in volta secondo una serie di parametri geografici, storici, politici e culturali. Una prima antichissima visione sembra legata al manto degli animali, almeno linguisticamente, e alla distinzione tra creature che possiamo definire «a tinta unita» e altre che invece hanno una pelle disuguale, screziata, a macchie. Viene subito in mente la ii Sura del Corano, la «Sura della vacca», laddove un animale da sacrificare viene identificato in tutti i dettagli, compreso il colore: «E dissero: “Prega ancora per noi il tuo Signore che ci dica di che colore ha da essere!” Ed egli [Mosè] rispose: “Iddio dice che ha da essere di colore giallo che rallegri la vista!”»1. Oppure si pensi alla percezione del colore nelle immense distese dell’Asia Centrale in cui alcuni esperimenti scientifici condotti sulle popolazioni locali qualche decennio fa hanno dato risultati sorprendenti, con difformità notevolissime su alcune specifiche tonalità. Dunque, la definizione stessa della questione rappresenta un problema. Questo è tanto più vero in un territorio, quale quello iranico, che è cerniera privilegiata fra Oriente e Occidente, terra vasta per orizzonti geografici e culturali e luogo di elaborazione culturale nel quale si sono incontrati e scontrati mondi diversi e differenti sensibilità. La Cina, per esempio, codifica le cinque direzioni in altrettanti colori: il giallo per il Centro, il nero per il Nord, il bianco per l’Occidente, il rosso per il Sud e il verde per l’Oriente. È l’Islam turco centroasiatico che riprende la questione – ma può questo essere accaduto lasciando l’Iran, protagonista di tanti legami con l’Asia profonda, indenne? – con i nomi dei quattro mari: il nero a nord, il rosso a sud, il bianco (Ak Deniz, e cioè il Mediterraneo) a ovest, e il verde-blu a est (che possono essere il Caspio oppure il lago-mare d’Aral). La Persia islamica, notoriamente, eredita la cultura e la sapienza di un mondo, quello achemenide-partico-sasanide, vinto militarmente ma non sopravanzato culturalmente, come possono dimostrare tanti episodi artistici. Gli zoroastriani sono adoratori del fuoco, il
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fuoco perenne dei templi, che rappresenta sulla terra la scintilla-luce solare. Ma come rappresentare, nel colore, il fuoco, non le braci ma la fiamma stessa? Rosso, giallo oppure verde-blu (in persiano l’ambiguità è resa dal termine abi, la tonalità dell’acqua, condizionata dal cielo, tanto che i due colori non solo si rassomigliano ma si confondono), come taluni riflessi sembrano indicare, colore che troverebbe peraltro una sua logica spiegazione nel «raggio verde» solare, l’ultimo che «esce» dal sole prima che questo scompaia e lasci spazio alla luna, anch’essa di un pallidissimo verde. Per questo, probabilmente, a conquista avvenuta, gli Arabi, nel distinguere cromaticamente le varie comunità, assegnano ai seguaci di Zoroastro il colore rosso simbolo del fuoco (ma taluno sostiene che anche il bianco fosse parte della tradizione; per esempio a Varzaneh, nei pressi di Isfahan, le donne indossano un adesso inusuale chador bianco, localmente spiegato con la loro origine zoroastriana...). Gli ebrei saranno contraddistinti dal giallo – una costante anche europea la cui origine sembra proprio essere nell’Islam se tale scelta venne seguita anche nel Concilio Laterano del 1215 – forse in virtù del fatto che la moderna psicologia ravvisa in questo colore quello più adatto a segnalare un pericolo, il più brillante (assieme all’arancione) e distintivo; poco importa che la minaccia sia reale o immaginaria, è la percezione di questa che conta. I cristiani, l’ultima comunità dhimmi (genti di altre fedi rivelate alle quali i musulmani accordarono uno status speciale di ospitalità e protezione, sorta di clientes, beninteso ove riconoscessero il dominio e la sovranità islamiche e pagassero le relative imposte...), sono accreditati del blu turchino, per via del colore degli occhi, segno negativo stando alle affermazioni emblematiche del Corano: «Il giorno quando squillerà la Tromba e aduneremo gli scellerati, quel giorno, cogli occhi colorati d’azzurro»2. È anche uno dei colori del lutto. Occhi azzurri, ma anche bianchi (dunque ciechi) o in lacrime; questa non è caratteristica esclusivamente musulmana perché anche nella fisiognomica greca il glauco non ha segno positivo. Sembra di coglierne una conferma in uno dei più grandi miniaturisti musulmani, Siyah Qalam («Penna Nera»), artista quattrocentesco di ambito centroasiatico, autore di inquietanti scene legate al mondo nomadico e ai jinn, spiriti con sembianze umane schiavi di re Salomone raffigurati con tondi occhi celesti e grandi nasi aquilini, oltre alla chioma riccioluta: tutte allusioni a un tratto somatico «mostruoso», non sorprendentemente assimilabili a una caricatura degli occidentali. Il caso persiano, comunque, è bene tenerlo a mente, si presenta in modo emblematico, proprio in virtù dei suoi trascorsi culturali, anche in ambito musulmano, prestandosi al contempo a qualche conferma ma anche a smentite. «Islam e colori» è un tema importante ma non troppo frequentato dagli specialisti, seppure qualche punto fermo lo si possa trovare. «Ben nota è anche la circostanza che una certa predilezione per il bianco, il nero e il verde risale ai primissimi tempi dell’Islam, agli anni in cui il Profeta stesso mostrava di gradire particolarmente questi colori»; così scriveva vent’anni or sono Pier Giovanni Donini in un suo acuto saggio sulla gerarchia dei colori nell’Islam. Il bianco e il nero sono considerati colori elementari e acromatici ed il primo in particolare viene generalmente considerato – in molte culture – simbolo di purezza; pure in questo, l’Islam non fa eccezione. Per esempio, i pellegrini che si recano alla Mecca per ottemperare al precetto dello Hajj sono vestiti di bianco: sia gli uomini con due pezze di stoffa – l’una (izar) dalla vita alle caviglie e l’altra (rida’) sopra la spalla sinistra – sia le donne che indossano una veste non disegnata e un
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2. Muhammad Siyah Qalam, Scena di danza (particolare), inizi del xv secolo. Topkapi Sarayi, Istanbul.
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copricapo (ma nessun velo). Insomma, il bianco è reputato colore allegro e benaugurale. Anche il nero gode di grande considerazione e sarà assunto come colore dinastico dagli Abbasidi; ancora oggi il nero del turbante di un religioso segnala la sua discendenza in linea diretta dal Profeta. Ma è indubbiamente il verde (che nell’Islam sembra assumere alcune valenze che in altre culture sono proprie del bianco) il colore più tipico nell’Islam, come attesta fra l’altro la sua alta frequenza nelle bandiere dei Paesi del vicino e medio Oriente. Maometto avrebbe detto: «La vista del colore verde è gradevole all’occhio quanto la vista di una bella donna». Considerando l’ambiente geografico montagnoso, aspro e desertico, in cui ha origine il mondo musulmano, la predilezione per questa tonalità è assolutamente naturale. La vegetazione è di questo colore e tale appare anche l’acqua e il cielo può essere anch’esso verde (e rammentiamo ancora una volta – non sarà l’ultima – l’ambiguità della definizione e la sovrapposizione/scambio tra verde e azzurro). In Iran, tradizionalmente, la figura di Zoroastro è paragonata a quella di un cipresso, non a caso un sempreverde che, con uguale simbologia di vita eterna, circonda i nostri campisanti. Verde è il basilico (reyhan) il cui aroma è segnalato come uno dei profumi del Paradiso, dove i beati indosseranno vesti verdi. Innumerevoli, nel Corano, le citazioni del Paradiso metaforicamente descritto come un luogo verdissimo e con abbondanza d’acqua: «E quelli che avran creduto e avranno operato il bene, in un prato fiorito saran rallietati»3. Verde come colore del giardino del Paradiso e quindi dell’eternità. Primavera, rinnovamento e vita sono sempre verdi, anche nell’accezione di acerbo, immaturo, giovane. Lo stendardo di battaglia del Profeta era verde e così la tunica di ‘Ali (il turbante verde è riservato alla sua famiglia) e i pasha ottomani indossavano di sovente un abito di quel colore. Anche in questo caso non si sfugge a una certa ambiguità: abbiamo detto dell’interscambiabilità con l’azzurro a cui si aggiunge il nero con un forte grado di parentela. In ambito sciita, per esempio, secondo una tradizione risalente al x Imam (‘Ali al-Naqi), il verde è associato al nero nella scala dei colori e rappresenta il mondo dello spirito-anima, immediatamente sopra il nostro mondo che invece è nero. Un episodio, riferito ad ‘Aisha (la sposa prediletta di Maometto) ci illustra un suo commento nel quale ella definisce il colore della pelle delle donne musulmane «più verde dei loro abiti»; in realtà gli Arabi del vii secolo sembrano autodefinirsi neri (aswad) in contrapposizione con il colore degli stranieri, il rosso (ahmar). Legata al colore verde è anche una figura emblematica e un po’ misteriosa del Corano: al-Hidr (letteralmente «Il Verde»), personaggio dalle connessioni messianiche, talvolta identificato con Elia e al quale, al pari del Cristo, è risparmiata la morte. Al-Hidr è la guida di Mosè in un noto passo coranico (xviii, 59-81), veste di verde, vive su un’isola verde, trova la sorgente dell’Acqua di Vita (che beve raggiungendo, appunto, l’immortalità) e ne diviene il custode nel Paese delle Tenebre. Sul terreno che calpesta fa crescere l’erba, e se appare in sogno il fatto è molto positivo. Bausani (note al Corano) sostiene che probabilmente è da considerarsi come la personificazione di un’antichissima divinità della vegetazione e del rinnovamento primaverile. Su Elia e al-Hidr (nella variante turca di Hizir) sono molto interessanti le parole di Yashar Kemal, uno dei più grandi scrittori turchi viventi:
i due santi si incontrano ogni anno in questa notte. Se, per disgrazia, non riuscissero a farlo, la terra non sarebbe più terra e i mari non sarebbero più mari. Il mare non avrebbe più onde, né luci, né pesci, né colori, e si prosciugherebbe. La terra non fiorirebbe più, non avrebbe più api né uccelli, le messi non rinverdirebbero, le acque non scorrerebbero più, né ci sarebbe più pioggia. [...] Se Hizir e Elia non riuscissero a incontrarsi significherebbe che è giunto il Giorno del Giudizio. [...] Ogni anno Hizir e Elia si incontrano da qualche parte nel mondo. E là dove questo accade, la primavera esplode più lussureggiante che mai, i fiori sono più abbondanti e tre o quattro volte più grandi del normale. [...] Quando Hizir e Elia si incontrano si vedono spuntare due stelle, una a ponente, l’altra a levante, che scivolano nel cielo e si vengono a fermare sopra il luogo del loro incontro4.
È la notte tra il 5 e il 6 di maggio. Questa notte Elia, patrono delle acque, e Hizir, patrono della terra, si incontreranno. Da che mondo è mondo,
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Dunque il verde è colore fra i più importanti, legato all’idea di fertilità; in un altro contesto e in un’altra epoca, un grande cubo di pietra verde nella capitale ittita di Bogazkoy/Hattusha è ritenuto portatore di ricchezza, fortuna e abbondanza, ovviamente anche di fertilità, sinonimo di benessere. Anche il Mahdi (il Messia della tradizione escatologica islamica, colui che, alla fine del mondo, tutti convertirà alla vera fede attraverso la giustizia) è caratterizzato dal colore nero nella versione araba, mentre l’elemento iranico è accreditato di un colore brillante. Il verde, infine, è uno dei tre colori – con il giallo e il rosso – che compare nell’arcobaleno nella letteratura classica; la divisione in sette è infatti moderna. La letteratura
Alle pagine seguenti: 3. Khamsa di Nezami, Herat, 1431. Hermitage, San Pietroburgo. Bahram Gur nel Padiglione nero, f 272. 4. Bahram Gur nel Padiglione giallo, f 295a. 5. Bahram Gur nel Padiglione blu, f 294. 6. Bahram Gur nel Padiglione bianco, f 310b.
La simbologia del colore ha uno spazio immenso nella letteratura persiana, e un accenno a questa tematica è senz’altro doveroso. L’abbondanza dei materiali è soverchiante, ma un autore e un testo si prestano particolarmente bene a un’esemplificazione: Nezami di Ganjè e il suo Haft Peikar («Le sette effigi» o «Le sette principesse», quarto poema, datato 1197, in rime baciate masnavi della Khamsè o «Quintetto»). È la narrazione dell’incontro del re sasanide Bahram v (regnò fra il 421 e il 439) con sette principesse – ognuna in un giorno diverso della settimana, nei sette padiglioni fatti costruire per loro – le quali gli raccontano ciascuna una diversa storia. I padiglioni, le principesse e il re sono caratterizzati dal colore astrologico del pianeta che domina quel giorno. Il testo è un capolavoro letterario di grande spessore nel quale non solo l’invenzione linguistica, l’iperbole, la metafora, l’immagine, scorrono con rapidità e fantasia inesausta, ma i richiami tradizionali, le citazioni dotte, lo spessore dottrinario, si rincorrono incessantemente in un quadro d’insieme di rigida disciplina, stretto in un impianto nel quale il riferimento simbolico-astrologico è costante. Bellissimo, ma non sempre di agevole comprensione per le citazioni e i rimandi talvolta criptici, almeno per noi. Nezami indica i colori dei pianeti raccontando del celebre miraj (viaggio ultraterreno del Profeta): Quando Mohammad, con la danza delle zampe di Boraq [mitica cavalcatura alata con la testa di donna; creatura fantastica interessantissima sotto l’aspetto iconografico e simbolico], ebbe percorso tutte le carte di quel quaderno, prese la via della porta del mondo, si allontanò dal volge-
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(in persiano bahar con un gioco di parole e consonanza col termine vihara, tempio buddhista o monastero). Domenica è la volta della fanciulla bizantina e il colore è il giallo: «Quando il collare del monte e il manto della valle si riempiono d’oro versato dalla bilancia dell’Alba...», evocato anche con le rose e lo zafferano. Il lunedì (il giorno della luna) Bahram «innalzò il parasole verde fino alla luna» e «si trasferì nel padiglione verde consegnando il cuore a gioia e letizia, e quando il giardino delle stelle ebbe scosso foglie di primavera su quella verzura smeraldina...» la figlia del re del terzo continente (Khwarezm) iniziò la sua storia. «Martedì, cuore della settimana, giorno sacro al pianeta Marte e dal marziale colore [...] apprestò un’acconciatura di rosso su rosso e di primo mattino si recò al padiglione rosso» dove lo attendeva la principessa slava, figlia del sovrano del quarto continente. Il mercoledì è dedicato al turchese e alla fanciulla che viene, quasi ovviamente, dall’Occidente; su quel colore così Nezami: «L’azzurro è quel colore migliore del quale, a vestirsi, non trovò seta la volta del cielo». Il padiglione del giovedì è color sandalo (ovvero una tonalità di marrone) e la ragazza è la «bambola della Cina», il sesto continente. «Il giorno di venerdì, quando questo arcuato salice imbiancò la casa di sole, il Re, con bianchi ornamenti, maestosamente si recò nel padiglione bianco, mentre Venere, con sede nella quinta costellazione, intonava il quintuplo inno regale a salutarlo [Venere nella quinta costellazione vuol dire nel segno del leone, un accenno alla regalità di Bahram!]». Ecco come il simbolismo dei colori sia intimamente connesso con i pianeti, l’astrologia e un mondo poetico, quello di Nezami (ma siamo in linea di continuità con un altro grande poeta quale Firdusi) che apparentemente si volge al passato sasanide pur essendo radicato nell’Islam. Infatti, nelle varie letture che dell’Islam si possono dare, quella iranica è certamente di notevole interesse e peculiarità. Non la sopravvivenza di un ipotetico – e in realtà mai dimostrato – nazionalistico «spirito iranico», ma una continuità di esperienza culturale davvero singolare. Architettura e arti tessili re del firmamento, intagliò nelle dimore del cielo una via regia verso l’ali degli angeli; alla Luna, nel suo immenso nastro, rinfrescò di verde il volto con la sua immagine; su Mercurio, con l’argentea operazione della sua mano, impresse un colore da plumbea fornace; col chiaro di luna tessè un velo bianco a Venere, mentre la polvere della sua via, per l’assalto del firmamento, depose una corona d’oro sulla testa del Sole, e, pur vestito di verde come il Califfo di Siria, pose una veste rossa su Marte; vide Giove da capo a piedi tormentato dall’emicrania e divenne stemperatore di sandalo, e quando la corona di Saturno baciò il suo piede avvolse il suo stendardo in negrezza d’ambra5. (Nella fedele e poetica traduzione di Alessandro Bausani).
Bahram, quindi, chiede e ottiene in moglie le sette principesse dei sette continenti; il sabato si reca nel padiglione nero, ovvero dalla cupola del colore del muschio e «quando la notte imitando le vesti del Re, gettò sulla bianca seta il muschio nero», iniziò ad ascoltare il racconto della principessa del primo continente, l’India. Ella proviene dal Kashmir, la regione famosa per i suoi giardini, e dunque ha a che fare anche con la primavera
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7. Khamsa di Nezami, Shiraz, Iran, 1410. Bahram Gur introdotto nella Stanza delle Sette effigi. Calouste Gulbenkian Foundation Museum, Lisbona.
Nelle arti plastiche e figurative la questione è altrettanto interessante e, anticipando la conclusione, possiamo affermare che ci si trova di fronte a una dicotomia fra basi teoriche e possibilità pratiche di mettere a profitto i principi medesimi. Il colore verde ne sarà un ottimo esempio. Di colori, peraltro, è pieno il paesaggio naturale persiano: chi abbia viaggiato in quel Paese attraverso le varie stagioni sa di potersi trovare in una gamma di tonalità praticamente infinita, anche nelle semplici rocce. L’architettura in questo è emblematica. Le prime fasi, quelle dell’affermazione del potere musulmano, ci riservano strutture in mattone crudo (e poi cotto) con una prevalenza della terra dai toni chiari atti a confondere le strutture con i deserti circostanti e gradazioni del nocciola (chiaro e scuro), del giallo e del rosso. Questo per una fase – che abbiamo definito iniziale – che ci porta fino all’anno Mille con l’invasione da Oriente dei Turchi Selgiuchidi. Sino ad allora il dominio musulmano è certamente forte ma ancora non ci troviamo di fronte a un «pensiero unico», ma a una pluralità di posizioni. È nel Mille che, probabilmente, gli zoroastriani si sposteranno a Oriente dando vita alle comunità parsi ancora oggi così significative nel subcontinente indiano. Sono i Mongoli a far compiere il salto; è con il loro arrivo (sono buddhisti, non va dimenticato, ma con grandi simpatie, fra le donne,
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per la chiesa dell’eretico Nestore, e rispetto pure per l’ebraismo con un vizir quale Rashid ad-Din) che avviene la trasformazione da un’architettura che è pura forma strutturale (cupole di Nizam al-Molk e Taj al-Molk nella moschea congregazionale di Isfahan) a una che avrà come esito, quasi all’opposto, la pura decorazione, in cui il colore gioca un ruolo fondamentale: sempre ad Isfahan, nella piazza regale, la moschea di Shaykh Lotfollah e quella di Shah ‘Abbas ne sono un’esemplificazione clamorosa. Naturalmente, il processo è ben più complesso di quanto non appaia in uno schema che, seppur fondato, è nondimeno abbastanza rozzo. Il colore dominante non è però il verde, come pure potremmo logicamente aspettarci, bensì il turchese. Iniziano i Selgiuchidi, forse, con timide inserzioni di mattonelle monocrome smaltate, ma certamente gli Ilkhanidi (xiii secolo), con l’inserimento di ben più corposi tocchi colorati nei minareti (a formare iscrizioni), danno la svolta per poi, piano piano, coprire tutta la superficie. Si va da Natanz (1307) a Yazd (1375) per poi passare alla gloria timuride (xv secolo) del Gur-i Mir e di Samarcanda, prima dell’apoteosi definitiva celebrata, appunto, ad Isfahan. In persiano questo colore, il turchese, è chiamato firuz e il nome Peroz, della medesima radice (classico fra
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8. I mausolei gemelli di Kharraqan, 1067 e 1086. Architettura funeraria selgiuchide. 9. Il mausoleo di Pir-i ‘Alamdar a Damghan.
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quelli propri già in epoca sasanide, dinastia che si afferma a partire dalla città di Ardashir-Khurra, poi, non a caso, ribattezzata Firuzabad...), ha il significato di «vittorioso». È, dunque, un colore trionfale che ben si adatta alle caratteristiche dell’architettura Safavide di fine Cinquecento, quando il sovrano volle fare della città di Isfahan una vera capitale cosmopolita, la mitica naqsh-i jahan («metà del mondo») di un motto popolare. Di quella tonalità Cesare Brandi ci ha lasciato una poetica – e perfettamente calzante – descrizione:
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10, 11. La moschea di Shah ‘Abbas a Isfahan, Iran, 1612-1637.
I portici [della Piazza regale] sono piuttosto bassi, rispetto all’estensione, ma conservano un passo squisito e un colore tenue, appena rialzato di mattonelle azzurre, questo colore divino delle mattonelle di Isfahan, che non è celeste e non è turchese, ma celeste e turchese insieme, con la sfocatura dell’azzurro delle pervinche e il leggero tono appassito delle violette di campo quando perdono il profumo. Codesto celeste si fonde nell’aria come l’acqua nel vino, di una straordinaria vibrazione cromatica nell’atmosfera [...]6.
Colore più sfumato nella moschea di Shaikh Lotfollah (detta, per la sua cupola esterna, la «cremosa») dove il turchese si staglia netto, negli interni, sul fondo ocra del mattone naturale, con la straordinaria decorazione della cupola interna nella quale i medaglioni a goccia si irradiano da un’intricata foresta di arabeschi (motivo ripreso virtuosisticamente
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nei famosi tappeti oggi noti come a disegno isfahanì) con una superba cascata di stelle o, nell’opinione dei locali, un’immensa circolare coda di pavone, nella quale il verde e soprattutto il turchese si stemperano in virtù della luce in un bagno dorato. Non da meno, la Grande Moschea che di Shah ‘Abbas il Grande per secoli ha portato il nome, perfetta per proporzioni architettoniche, ormai assimilate e limate attraverso un esercizio di almeno cinquecento anni, nei suoi quattro ivan, e ricoperta totalmente di mattonelle, come una preziosa glassa unificante, luogo di irreale e struggente intensità (non a caso Pasolini vi ha girato la conclusione del suo Il fiore delle Mille e una Notte, proprio perché evocativa di molte visioni oniriche per noi simbolo stesso della fantasia islamica), sintesi di un’alta e originale concezione dello spazio. E non sono mattonelle solo turchesi: vi si trovano tonalità bianche, blu, verdi, molto giallo, eppure l’effetto – che ci si posizioni all’interno dell’ariosa corte o sotto la cupola della sala del mihrab – è quello di un estraniamento, di un sogno, appunto, come trovarsi al centro di una bolla di sapone dai mille riflessi (ma vi prevale sempre l’azzurrino-blu-turchese) e aspettarsi che essa si muova e noi ci si sposti con essa, a dispetto della solidità delle strutture. Persia. Un ponte di turchese era il titolo di un volume fotografico di Roloff Beny, pubblicato trent’anni fa e accompagnato da brani poetici scelti da S.H. Nasr, a significare quanto quella terra fosse intimamente connessa con quella pietra semipreziosa (vi si trovano le turchesi forse più belle del mondo) e quel colore magico e ben augurale, vittorioso appunto (è il trionfo dell’iranicità pur nell’ampia veste dell’Islam?), con le cupole svettanti verso il cielo con cui gareggiano in purezza e luminosità. La questione che sorge spontanea è se in architettura il colore verde (che è essenzialmente alide, anche nell’attuale, modernissima, iconografia del genero e cugino del Profeta) non fosse usato per ragioni tecniche di impossibilità o incapacità produttive, come per esempio nei tessili (si veda poco oltre). In verità non è così: il turchese si ottiene con l’ossido di rame e con lo stesso materiale si può ottenere il verde impiegato diffusamente già nella ceramica di Nishapur (x-xi secolo), poi dagli Ilkhanidi e pure in seguito. Allora la ragione è un’altra, forse da far risalire a quella continuità culturale alla quale abbiamo anche qui accennato, oppure a una scelta artistica ponderata nella quale interagiscono fattori diversi e disparati. In architettura il turchese è il colore persiano per eccellenza. Diversa è la vicenda dei tessili e in particolar modo dei tappeti, uno dei manufatti artistici con cui si identifica la Persia, non da oggi. Anche in questo caso il periodo Safavide – già dal primo Cinquecento, ossia durante il regno di Shah Tahmasp (1524-1576) e forse anche del predecessore Shah Isma‘il i – è centrale, in quanto è in quest’epoca che si realizza quella che Kurt Erdmann ha definito una «rivoluzione» nel settore. Il tappeto diviene, da oggetto artigianale e d’uso comune – per quanto pregevole e financo raffinato –, opera d’arte, pensata e realizzata come tale. Lo stimolo è duplice: da una parte l’arte del libro (in particolar modo i riquadri decorativi delle pagine iniziali dei Corani e le copertine in cuoio – ma anche laccate – dei manoscritti) e dall’altra le decorazioni parietali, e delle cupole interne, delle moschee e dei palazzi. L’esito sarà di stupefacente qualità. Vengono impiegati i migliori materiali e sono i miniaturisti più famosi a dettare i motivi i quali, tuttavia, necessitano di un adattamento da parte di un tecnico che sappia conciliare, attraverso la «messa in carta», il puro disegno con le esigenze legate alla maggiore
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12. Tappeto di caccia da Tabriz, 1542-1543. Museo Poldi Pezzoli, Milano.
Alle pagine seguenti: 13. Tappeto. Musée des Tissus, Lione. 14. Tappeto con animali e medaglioni, seconda metà del xvi secolo, Staatlische Museen zu Berlin.
rigidità dovuta all’annodatura fatta sul telaio. In questa fase storica la committenza imperiale e di corte si fa sempre più esigente: a fronte delle poche tonalità dei tappeti quattrocenteschi a schema modulare geometrico ripetuto, che erano perlopiù in rosso, blu, bianco e varie tonalità di marrone, la gamma coloristica aumenta di molto, tanto da poter contare in alcuni casi moltissime sfumature. Ma il verde è quasi sempre assente, non certo per ragioni simboliche o iconografiche, ma essenzialmente tecniche. Il verde è un colore difficile da ottenere. Il modo di gran lunga più adoperato è quello della doppia tintura: prima un bagno nel giallo (per esempio con la curcuma; lo zafferano – costosissimo – era riservato in esclusiva alla seta) e poi una tintura con l’indaco (estratto dalla pianta della indigofera tinctoria). Il verde ottenuto però non è particolarmente stabile, in quanto il giallo tende a sbiadire e molto spesso non abbiamo più un colore brillante ma un ibrido tendente al bluastro. Il metodo che prevedeva l’uso del solfito di rame dava sì un verde Nilo, ma la fibra di lana tendeva rapidamente a corrodersi. Anche nel Seicento, l’epoca au-
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lica dei tappeti persiani, le calde tonalità del rosso e del blu saranno le preferite per gli sfondi e il verde – per eccellenza il colore islamico, ma solo in teoria! – sarà relegato a ruoli secondari. Per finire
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15. Sultan Muhammad, La corte di Gayomars, dal manoscritto noto come «Grande Shah-nama di Shah Tahmasp», 1525-1535.
La simbologia dei colori è ovviamente sempre presente, anche nel mondo contemporaneo. I colori della bandiera persiana sono il bianco, il rosso e il verde. Visitando il moderno mausoleo costruito alla periferia sud di Teheran per ospitare le spoglie dell’ayatollah R. Khomeini, al di là delle forme architettoniche particolari (un misto fra una struttura aeroportuale e la «Cupola della Roccia» di Gerusalemme), colpiscono alcuni particolari cromatici. Il cenotafio è racchiuso in un grande parallelepipedo in spessi cristalli trasparenti posti a protezione del luogo, cristalli marcati, all’altezza di circa un metro e ottanta da terra, da una striscia di una quarantina di centimetri, brillantemente colorata di verde che indica una separazione fra due vetri, sufficiente per l’inserzione di offerte in denaro. La cupola vetrata ha i colori della bandiera nazionale e un motivo che ricorda in qualche modo una corona di tulipani rossi che nascono da un prato. Oltre alla tradizione letteraria nella quale il tulipano ha un ruolo importante, dobbiamo ricordare come questo fiore sia stato assimilato, nelle complesse vicende della rivoluzione islamica iraniana, alla simbologia del martirio. I colori dei fiori sono parte essenziale della poetica persiana e del suo messaggio artistico, in ogni fase storica. Così il grande Hafiz (xiv secolo), in uno dei suoi più celebri ghazal qui reso nella traduzione di A. Bausani: All’alba sperando profumo di fiori, me n’andai nel Giardino, folle d’amore per sanare il cuore mio stanco, come Usignolo Guardavo le mosse graziose della Rosa di Tiro che nella notte oscura pareva Lampada e luce Tanto fiera era e lieta di sua giovinezza e bellezza che in mille modi rapiva ogni pace al Cuore dell’amante Usignolo Per nostalgia il tenero Narciso aveva l’occhio pieno di lacrime di Rugiada e il Tulipano, per melanconia, cento Marchi di fuoco aveva sul petto e sul cuore Il Giglio allungava a rimprovero, come spada, la Lingua l’Anemone apriva la bocca, come uomo che sempre borbotta. L’uno, come gli adoratori del Vino, un Fiasco aveva in mano l’altro, Coppiere degli ebbri, porgeva in pugno il Calice Di letizia giovinezza e piacere profitta, orsù, come il Fiore o Hafiz, ché il profeta non altro fa che portare un messaggio!7
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Prima di parlare del colore nelle opere d’arte bizantine, bisogna a mio avviso ricordare il particolare rapporto esistente fra disegno e colore, un rapporto che assumeva vero e proprio significato teologico. La cosa più importante è il segno grafico, considerato spesso come impronta miracolosa tanto che, a proposito delle icone, si parla di «immagini non fatte da mani umane». Comunque, qualsiasi categoria di opere si prenda in esame, è sempre il disegno a fissare i lineamenti dei personaggi sacri, mettendo così il visibile in rapporto con l’invisibile, l’immagine, col suo prototipo. Secondo Giovanni Crisostomo1, questo modo di procedere spiega anche il rapporto fra Antico e Nuovo Testamento stabilito dai teologi che paragonano l’Antica Legge all’ombra e la Nuova alla luce. Nel momento in cui è rivestita di colori, l’immagine diventa il luogo nel quale si realizza il passaggio dagli scritti veterotestamentari – ombra e presagio della verità – alla verità stessa (Nuovo Testamento)2. Perciò il colore deve essere splendente, mentre il fondo d’oro gli conferisce un’ulteriore luminosità. L’oro come equivalente della trascendenza
1. Nerezi, Macedonia, S. Panteleimon, Deposizione, xii secolo.
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Il fondo d’oro uniforme dei mosaici bizantini dal vi al xiii secolo è in gran parte vuoto, così che i personaggi vi sono, per così dire, immersi; è, al tempo stesso, l’unico spazio di cui essi dispongono. Uniforme, senza confini precisi, ma scintillante, tale spazio aveva tre funzioni essenziali: indicare il luogo nel quale si colloca l’azione, definirne la qualità o la natura, e rendere evidente che i personaggi sacri appartengono ad un mondo diverso dal nostro, quello della trascendenza. Tuttavia, malgrado il ricorso all’astrazione in vista di una sublimazione delle forme e l’introduzione del nimbo e dell’aureola, era difficile esprimere il concetto di santità solo attraverso la figura. Lo splendore dorato del fondo contribuiva, dunque, a creare l’illusione di un’emanazione luminosa dovuta alla presenza dei
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santi, più precisamente ai loro volti e ai loro corpi. Quest’effetto è particolarmente evidente nella decorazione dell’abside di Hosios Lukas (Grecia, x secolo) dove la Vergine col Bambino si staglia su un ampio fondo d’oro che il pittore è riuscito a rendere più luminoso attorno alla figura di Maria, come se la luce emanasse da lei. Il Bambino sulle sue ginocchia, tutto vestito d’oro e circondato dal maphorion scuro della madre, costituisce il punto focale della decorazione dell’abside e risplende davvero, attirando immediatamente l’attenzione dello spettatore. Inoltre, per rendere l’oro del fondo ancor più luminoso, s’inseriscono qua e là delle tessere bianche e gialle molto chiare che, pur essendo troppo piccole per essere notate, aumentano lo splendore di sfondi già sfavillanti. Spesso, poi, l’oro è presente nelle figure stesse, sulle loro vesti, completandone la smaterializzazione. Lo spazio rappresentato dal fondo d’oro, che si può immaginare come illimitato, crea un legame fra i personaggi isolati, alludendo così all’apporto di ogni categoria di santi all’ordine ideale che regna nel mondo celeste e nella Chiesa, suo fedele riflesso, come affermano Massimo il Confessore e lo pseudo-Germano3. D’altro canto, il fondo d’oro abolisce qualsiasi riferimento spazio-temporale; quindi i protagonisti della storia della salvezza, proiettati fuori dallo spazio terreno e dal tempo razionale, in altre parole nell’infinito e nell’eternità, acquistano una dimensione fondamentalmente diversa dalla nostra, quella del sacro. Se l’oro contribuisce a conferire ai personaggi una sembianza di trascendenza, esso esprime anche un altro concetto legato alla santità, quello della gloria. Come si vede bene nella Processione delle sante martiri di Sant’Apollinare Nuovo (vi secolo) dove, malgrado la presenza delle palme che ritmano il corteo, l’uso dell’oro per lo sfondo e per gli abiti delle sante, unito alla smaterializzazione delle figure dovuta all’assenza del modellato, assume una funzione trasfigurante. Ciò che si cerca di esprimere in questo modo corrisponde all’ulteriore definizione di san Giovanni Damasceno (675-741) il quale, a proposito dei martiri, afferma: «Essi sono rappresentati nello stato di beatitudine, rivestiti dello splendore divino che è loro proprio dopo il martirio. Raffigurarli nello stato corporeo che avevano sulla terra significa togliere loro l’onore del quale godono davanti a Dio da quando dimorano presso di lui»4. Il luogo evocato da questo spazio ideale, creato esclusivamente dal colore, è sicuramente identificabile: si tratta della luce divina che si diffonde nell’infinito, come testimoniano diversi testi. Fu l’Antichità a trasmettere al pensiero cristiano l’associazione fra i concetti di luce e di attributo divino: l’imperatore Giuliano osservava che l’oro evoca la purezza perfetta5 e Proclo affermava che lo spazio non è altro che la luce più diafana. Il Trattato dell’anima di Aristotele non solo afferma che Dio è luce e sorgente di luce, ma altresì che «secondo la capacità più o meno perfetta della luce di essere diafana, essa poteva entrare in contatto con l’immateriale ed accogliere, come ricetto infinitamente perfettibile, lo spirito»6. L’influsso della filosofia dell’antica Grecia sul pensiero dei Padri della Chiesa è ben noto, dunque queste considerazioni di Aristotele, così vicine ad un approccio mistico, non possono aver lasciato indifferenti i Bizantini. Quando le tessere dei mosaici erano colpite dalle scintille di luce e le rifrangevano, i loro riflessi venivano interpretati come una penetrazione della materia ad opera di essenze spirituali. Dal canto suo, san Basilio il Grande è molto vicino agli Antichi quando considera l’oro come «una bellezza semplice e indivisibile... la più vicina a quella di Dio»7.
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2. Hosios Loukas, Katholikon, mosaico absidale, Vergine con Bambino, xi secolo.
Si intuisce immediatamente che il sistema di rappresentazione proprio dei mosaici si applica anche alle immagini mobili e agli oggetti di culto. Nell’icona della Crocifissione dell’xi-xii secolo custodita nel monastero di santa Caterina del Sinai, il Crocifisso, la Vergine e san Giovanni sono proiettati su un fondo d’oro uniforme, senz’alcuna indicazione spaziale. Cielo e terra si confondono, e così pure presente, passato e futuro, come se fossimo già al Regno della fine dei tempi. Questo fondo si estende anche alla cornice dove i rappresentanti delle diverse categorie di santi sono dipinti a mezzo busto per formare nell’insieme un’immagine della Chiesa ideale. Nelle migliori decorazioni del periodo classico (x-inizio xi secolo), attorno ai personaggi compare solo, o quasi, il fondo d’oro, il più possibile libero da ogni riferimento alla realtà. Così, nella Lavanda dei piedi di Hosios Loukas nella Focide (x secolo), la panca sulla quale stanno seduti gli apostoli è rappresentata solo da un asse trasversale e da un elemento verticale. volte si giungerà ad eliminare persino la linea del pavimento, non solo nel caso di personaggi isolati, cosa ovvia, ma anche nelle raffigurazioni degli episodi biblici. L’Annunciazione della chiesa della Dormizione della Vergine a Dafni (Grecia, xi secolo) fluttua nello spazio senza alcun punto di appoggio ed è così anche nella Crocifissione di Hosios Loukas.
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Come abbiamo già osservato, nel vi secolo, a Ravenna, l’oro invade anche l’interno dei personaggi e delle scene, sempre per accentuarne il carattere trascendente. Nella Natività di Dafni, dove la presenza della grotta ha costretto a rappresentare qualche elemento naturalistico, esso copre tutto il primo piano, forma dei ruscelli che s’insinuano nel paesaggio, avanzano verso Maria e sommergono il suo giaciglio. L’uso dell’oro su tutto il campo pittorico è molto diffuso nelle icone di metallo e nei grandi piatti di legatura incrostati di smalto, di cui un magnifico esemplare con l’arcangelo Michele a mezzo busto (xi secolo) è conservato nel Tesoro di San Marco a Venezia8. Qui l’oro è in un certo senso materializzato, palpabile, quasi a confermare la realtà del cielo, e diffuso ovunque: sulla veste, le ali, il volto e le mani del messaggero celeste. A prescindere dal valore simbolico che spesso attribuivano all’oro, i Bizantini erano maestri inarrivabili nella tecnica che il suo uso comportava. Rappresentare dei nimbi dorati su sfondi dello stesso colore, grazie a particolari riflessi conferiti ai primi, era un procedimento comune. D’altronde quest’abilità arriva ben oltre. Così, nell’icona dell’Annunciazione del monastero di Santa Caterina del Sinai, risalente al xii secolo ed evidentemente di fattura costantinopolitana, tutto è d’oro: il fondo, il raggio con la colomba dello Spirito Santo e la colomba stessa, il sedile e la predella della Vergine, le architetture, il drappeggio che avvolge l’arcangelo Gabriele e le aureole; le uniche macchie di colore sono il maphorion porpora di Maria e, sul bordo inferiore dell’immagine, il fiume azzurro. Ciascun elemento dorato è descritto e perfettamente visibile, senza nulla togliere all’armonia dell’insieme.
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3. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo, Corteo di Sante Martiri, vi secolo. 4. Monastero di Santa Caterina del Sinai, Annunciazione, xii secolo.
Alle pagine successive: 5, 6. Monastero di Dafni, Chiesa della Dormizione della Vergine, Annunciazione, particolari, xi secolo.
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Il virtuosismo tecnico di quest’icona non deve tuttavia nasconderci il significato simbolico dell’eccessivo uso dell’oro che abbiamo appena sottolineato. Per quanto riguarda lo spazio, cioè il fondo, sappiamo ormai come interpretarlo. Tuttavia l’oro è anche segno della verginità e dell’incorruttibilità9. La Vergine indossa il tradizionale maphorion porpora ma è circondata da mobili ed edifici d’oro, allusione alla sua verginità; l’arcangelo è per definizione incorporeo e, dunque, incorruttibile, qualità che del resto i teologi medievali attribuiscono anche al corpo di Maria. Dietro la Vergine dell’icona si vede un edificio con una porta aperta e una tenda. La costruzione allude certamente alla Chiesa, mentre la porta aperta con la tenda evoca il tempio. Tuttavia il loro splendore dorato ci fa pensare ad un’altra interpretazione: accogliendo l’annuncio di Gabriele, la Vergine diventa la porta verso il regno futuro aperta all’umanità. Come si vede, tutto un tessuto simbolico complesso, perché polisemico, viene qui espresso con mezzi cromatici. I colori del mosaico diversi dall’oro I principali accordi cromatici con l’oro sono realizzati mediante il blu cobalto intenso e il bianco, come si vede, per esempio, nella citata Annunciazione di Dafni10. Il primo, considerato come un’adeguata espressione della purezza e della spiritualità, è utilizzato specialmente per il maphorion
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7. Santa Sofia, Istanbul, Vergine con Bambino affiancati dall’imperatore Giovanni ii Comneno e dall’imperatrice Irene, 1118 circa.
8. Hosios Loukas, Katholikon, Discesa al Limbo, xi secolo.
della Vergine, ma è presente in altri casi: in particolare citiamo i ritratti dell’imperatore Giovanni ii Comneno e dell’imperatrice Irene in Santa Sofia a Costantinopoli (1118 circa). Il bianco associato all’oro è particolarmente luminoso, perciò si addice perfettamente alle vesti di Cristo e a quelle dell’arcangelo Gabriele nell’Annunciazione. Il porpora scuro, colore per eccellenza della regalità, è tipico anche del maphorion di Maria, regina dei cieli, come nel caso dell’icona dell’Annunciazione di Ohrid (xiv secolo), o nel mosaico in miniatura di un dittico dell’Opera del Duomo di Firenze che rappresenta le Dodici Grandi Feste dell’anno liturgico11. Sempre per il suo carattere di colore regale, la porpora, a volte mischiata al bruno, è usata, fino al x secolo circa, per il colobium (la lunga tunica) di Cristo nella Crocifissione, a ricordarne il titolo di «Re dei Giudei». Il bianco, simbolo di purezza e d’innocenza ma anche di luce, è di rigore per le vesti di Cristo nelle scene trionfali, come la Discesa al Limbo, la Trasfigurazione o l’Ascensione. Altri colori spesso presenti nei mosaici sono l’ocra e il viola, il bruno, il verde scuro, il rosa intenso screziato di grigio, oppure molto pallido e tendente al bianco. Questi colori s’incontrano quasi tutti nella Discesa al Limbo di Hosios Loukas. Gli accordi cromatici di quest’immagine della risurrezione e della redenzione risuonano veramente come squilli di tromba sul fondo dorato e sottolineano il senso trionfale dell’immagine. Nei grandi centri artistici dell’Impero, come Costantinopoli o Tessalonica, la decorazione musiva è ancora in uso all’epoca della Rinascenza dei
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Paleologhi (secoli xiii-xv) e conserva la stessa tavolozza con l’aggiunta di alcuni mezzitoni supplementari, per esempio il grigio ed il malva, come si vede nella chiesa dei Santi Apostoli a Tessalonica (1315) o, solo su piccole superfici, a Kahrie Djami, conosciuto anche come il monastero di San Salvatore in Chora (1315-1320). Inoltre, l’azzurro-cielo è più frequente che in passato.
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9, 10. Sopo0ani, Serbia, chiesa della Santa Trinità, Dormizione della Vergine, affresco del naos (corpo centrale) con dettaglio dell’Apostolo Pietro, xiii secolo.
Chiese e icone dipinte dal xiii al xv secolo Quando a Bisanzio si annunciò la rinascenza precoce detta dei Paleologhi (secoli xiii-xv), il prestigio del mosaico era ancora intatto, come dimostrano le tessere dipinte sul fondo ocra nella chiesa dell’Ascensione di Mileyeva (Serbia, 1220 circa)12. Si voleva così far credere che si trattasse di mosaici e non di pitture. Ma il mosaico era molto caro, l’arte bizantina si era diffusa su vasti territori e i donatori non erano più solo gli imperatori e i re o ecclesiastici di alto rango, ma anche diversi dignitari, piccoli feudatari, mercanti e semplici preti. Il fondo d’oro venne sostituito dall’azzurro del cielo, ma era un azzurro misto di grigio e bruno, che non evocava un cielo veramente realistico. La stesura dei colori seguiva alcune regole importanti per ottenere gli effetti desiderati. Così, il primo strato era il più scuro e veniva schiarito progressivamente dai successivi, terminando con quelli più chiari. Le parti dorate venivano realizzate in foglia d’oro oppure in polvere d’oro e richiedevano grande abilità. Alla fine del Medioevo, si trovavano molto spesso due
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11, 12. Kahrie Djami, Istanbul, Le nozze di Cana, xiv secolo.
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tonalità sovrapposte, la prima delle quali traspariva sotto la seconda, una tecnica usata spesso da Andrej Rublëv, in particolare nella celebre icona della Trinità (cfr. infra). Quanto allo spazio, esso veniva rappresentato in altri modi, più concreti ma non realistici. Gli edifici che inquadrano i personaggi hanno, infatti, forme derivate da modelli antichi ma modificate seguendo una tendenza all’astrazione ed usando colori fantastici. Nel Ritorno della Sacra Famiglia dall’Egitto dipinta a Kahrie Djami (1315-1320 circa), la città è fatta di case rosa, azzurre e viola13 perché i loro colori dovevano accordarsi al fondo d’oro e differenziarsi da quelli degli edifici reali. Il piano di calpestio è indicato di solito da una stretta fascia verdastra, mentre compaiono molti nuovi colori come il blu acciaio, il rosso rosato, l’ocra dorato tendente al giallo chiaro ed il verde oliva, tutte tonalità che ritroviamo nella Dormizione della Vergine nella chiesa della Trinità di Sopo0ani (Serbia, 1265), dove sono una cosa insolita il nimbo verde-bottiglia di Cristo e la sua aureola bianca. Il verde tenero, il verde intenso e il lilla violento, più rari, sono presenti in Santa Sofia di Trebisonda (Turchia, 1260 circa)14. Come i volti, i corpi acquistano ormai una salda volumetria e, per rappresentarli così, si ricorre al modellato che richiede a sua volta tonalità intermedie, soprattutto nella gamma degli ocra, dei grigi e dei verdi. Un’altra novità della rinascenza dei Paleologhi è l’illuminazione dei personaggi che non proviene mai da un’unica fonte di luce, ma da una luminosità diffusa nello spazio. Le figure ricevono la luce sui drappeggi che le avvolgono e sui volti. Il contrasto fra le parti in ombra e quelle illuminate è piuttosto marcato sulle pieghe delle tuniche e più morbido, più sfumato, sui volti dove le ombre sono di solito nei toni dell’ocra scuro, del bruno o di un verde screziato di grigio. I pittori usano, per le parti in luce, l’ocra chiaro sul quale applicano piccoli tocchi molto tenui e, a volte, quasi bianchi, che consentono di mettere in risalto le zone prominenti e vengono usati anche per il paesaggio, in particolare per la forma delle rocce, dove le estremità più o meno aguzze dei massi danno all’insieme un aspetto instabile e dinamico. Questi effetti luminosi sono di solito molto più evidenti nella pittura parietale che nelle immagini mobili e contribuiscono a darle un aspetto vagamente impressionista, come si può vedere nelle chiese di Mistrà (Peloponneso, secoli xiv-xv), o in diversi volti come quelli di certe icone e degli affreschi del monastero di Marko (Macedonia, xiv secolo)15. Questo trattamento a piccoli tocchi luminosi giustapposti è particolarmente suggestivo nella Lotta di Giacobbe con l’Angelo in Santa Sofia di Trebisonda16. Benché tutto il sistema figurativo bizantino punti a creare un mondo trascendente il reale, il confronto con i modelli antichi che caratterizza la rinascenza dei Paleologhi si rivela anche nell’illuminazione di alcuni oggetti. È il caso, per esempio, del Miracolo di Cana a Kahrie Djami, dove le giare in primo piano sono modellate con quattro toni diversi di colore mentre il loro collo è di una tonalità uniforme, come se non appartenesse agli stessi recipienti, il che dimostra che non siamo di fronte ad un’osservazione diretta ma alla copia di un modello mal compreso. Nelle icone dipinte in questo periodo troviamo sia la gamma cromatica dei mosaici, sia le nuove tonalità comparse nei dipinti ad affresco che abbiamo sopra citato; tuttavia gli incarnati sono più scuri. Un’icona bilaterale della Galleria Nazionale di Sofia, di origine costantinopolitana, presenta su una faccia la Vergine Katafyghé (cioè rifugio) in maphorion blu cobalto e san Giovanni in azzurro-grigio su fondo oro e, con questi accordi, rimanda ai
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13. Madre di Dio Odigitria, icona con rivestimento in argento, dalla chiesa della Peribleptos di Ohrid, Museo Nazionale di Belgrado, xiv secolo.
Alle pagine seguenti: 14, 15. Icona bilaterale di Poganovo: su un lato la madre di Dio Katafyghé (cioè «rifugio») e san Giovanni Teologo; sull’altro, la visione del profeta Ezechiele, xiv secolo.
mosaici, mentre sull’altra faccia la Visione del profeta Ezechiele si svolge in un paesaggio idilliaco, dipinto in una gamma pastello che si estende anche ai personaggi e si rivela, dunque, completamente diversa dalla prima. La tecnica a monocromo, generalmente nelle tonalità del grigio chiaro, viene usata per indicare la compresenza di una realtà colorata e materiale e di un’altra monocroma e molto chiara perché spirituale e celeste. In un’icona del monte Sinai con la Madonna col Bambino circondata dai santi Giorgio e Teodoro, il primo piano con Maria ed i santi presenta vari colori, mentre in secondo piano la mano divina, il fascio di luce che essa emette e due angeli sono dipinti a monocromo nei toni del grigio tendente al bianco. In questo modo si rappresentano anche gli angeli presso le porte aperte del cielo che compaiono spesso nel Battesimo, per esempio nella chiesa della Vergine Ljeviska a Prizren (xiv secolo)17, nella Dormizione della Vergine, in particolare a Staro Nagori/ino18 e nell’icona della Discesa al Limbo d’Ohrid19. In questo periodo compaiono sulle icone dei rivestimenti di metallo dorato o argentato che coprono sempre il fondo e, spesso, anche l’intero personaggio raffigurato, ad eccezione del volto e delle mani. Questi rivestimenti, particolarmente frequenti nelle icone di Cristo e della Vergine, sono ornati con motivi decorativi incisi o scolpiti. Quella, bilaterale, del Museo di Ohrid, con Maria a mezzo busto (xiv secolo), ha un aspetto particolarmente gradevole. Il tono freddo del rivestimento d’argento contrasta felicemente con le tinte calde del volto e del maphorion purpureo della Vergine, come pure col drappeggio d’oro del Bambino che lascia trasparire il colore più scuro dell’abito di sua madre. In quest’icona i tocchi luminosi si mantengono molto discreti, limitati a pochi tratti paralleli, ma bisogna notare,
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cosa rara, che il manto di Maria getta un’ombra che non potrebbe essere più realistica sulla sua fronte e i suoi occhi20. Le miniature
16. A fronte: La madre di Dio tra i santi Teodoro Stratilate e Giorgio. Monastero di Santa Caterina del Sinai, vi secolo. 17. Vangelo di Rossano, dettaglio con la Lavanda dei piedi. vi secolo, Tesoro della Cattedrale.
Non abbiamo fin qui accennato alle miniature perché il loro eclettismo cromatico renderebbe inaffidabile qualsiasi considerazione di carattere generale. In esse ritroviamo, infatti, tutti gli aspetti che abbiamo osservato fin qui, ma anche altri; quindi, le nostre osservazioni si limiteranno a questi ultimi. Un piccolissimo gruppo di manoscritti illustrati di epoca molto antica si distingue per il color porpora della pergamena che costituisce anche lo sfondo delle immagini. Nel Vangelo di Rossano (Tesoro della cattedrale, vi secolo), le miniature sono caratterizzate da una decisa prevalenza dell’azzurro chiaro a cui si aggiungono dei luminosi grigi-verdi e diverse tonalità di rosa ciclamino21. La ristretta gamma di toni freddi dipende evidentemente dal fondo porpora e bisogna riconoscere che l’effetto d’insieme è dei più gradevoli. Durante il ix e x secolo, nel campo della miniatura e degli avori, alcuni dei quali sono molto vicini a modelli della Tarda Antichità, ha luogo la cosiddetta rinascenza macedone. Alcune miniature a tutta pagina presentano sinfonie di colori audaci e, al tempo stesso, particolarmente felici. Nella Visione di Ezechiele dei Sermoni di Gregorio di Nazianzo (Paris. gr. 510), realizzata verso l’880, il profeta in piedi si staglia contro un cielo luminoso di un rosa infuocato che fa pensare ad un’alba, o meglio ad un tramonto. In un famoso salterio della Biblioteca Nazionale di Parigi (gr. 139), miniato nel x secolo, dominano l’azzurro intenso ed il rosa, ma vi sono anche dei gialli molto pallidi, dell’arancione e, sul foglio con la rappresentazione del Passaggio del Mar Rosso, le fitte ombreggiaure dei cavalli sono violette22. Nelle miniature è presente anche l’oro che fa da sfondo all’immagine e, al tempo stesso, è parte delle vesti dei personaggi. Esso dà splendore e maestà all’imperatore Basilio ii Bulgaroctono, che indossa una corazza di questa preziosa materia e si staglia su uno sfondo dello stesso colore nella miniatura che lo rappresenta in piedi, come trionfatore sui Bulgari vinti, nel Salterio Imperiale della Biblioteca Marciana a Venezia (gr. 17)23. Anche nelle miniature riscontriamo la predilezione per l’accordo fra il blu e l’oro caratteristico dei mosaici. In un caso l’artista usa questi due colori per rappresentare la Trasfigurazione che diventa, malgrado questa voluta limitazione, un’immagine equilibratissima. Si tratta del fol. 92 v. del manoscritto di Giovanni Cantacuzeno (Parigi, Biblioteca Nazionale, gr. 1242), dipinto nel 1370-137524. La pittura d’icone a Novgorod e Mosca
Alle pagine seguenti: 18. Sermoni di Gregorio di Nazianzo, Visione di Ezechiele, c. 880, Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi. 19. Salterio, Passaggio del Mar Rosso. x secolo, Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi.
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Le tonalità delle immagini mobili della scuola di Novgorod sono originali rispetto a quelle adottate dai Greci e dagli Slavi e colpiscono per la loro vivacità, per la presenza frequente di colori stesi «a corpo» e di sfondi rossi o giallo pallido. Altre caratteristiche sono la frequenza del bianco opaco e l’accostamento di bianco e rosso. Si tratta, nell’insieme, di una gamma più gioiosa di quella costantinopolitana, ma anche un poco ingenua e rispondente al gusto delle popolazioni del nord. Novgorod e la sua regione, risparmiate dalle orde mongole che nel xiii secolo avevano invaso quasi tutta la Russia, restarono separate dai centri artistici di Kiev e Costantinopoli, il che spiega
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la relativa indipendenza di questa scuola. In città abitavano ricchi mercanti che amavano comperare e commissionare icone, alcune delle quali sono molto vicine all’arte della capitale bizantina ma, per quanto molto belle, non rientrano nell’ottica del nostro discorso. Una delle più rappresentative della regione è l’icona, realizzata nel xiv secolo25, con san Giorgio che uccide il drago, circondato da scene della sua vita. Il cavallo bianco galoppa su uno sfondo rosso vivo; il primo piano è color crema tendente al giallo e comprende la principessa in tunica rossa che tiene al guinzaglio il drago di un verde acido. Le scene della vita del santo che decorano la cornice si svolgono su sfondo bianco. Nell’icona del Miracolo dei santi Floro e Lauro, della fine del xv secolo, nella quale si esprime perfettamente la sensibilità degli artisti di Novgorod, si notano degli accordi cromatici tanto inattesi quanto piacevoli. Nella parte superiore della composizione, i due santi protettori delle greggi e, soprattutto, dei cavalli, stanno ai lati di un angelo dall’atteggiamento protettivo. Tutti e tre sono vestiti di rosso e verde scuro, colori forti che contrastano col giallo dorato del fondo e producono un effetto decorativo. Nella parte inferiore della scena i molti cavalli grigi, verdi, rossi, bruni, bianchi e neri, rappresentati senza rilievo, assomigliano a dei collages. Si direbbe che Matisse sia passato di qui, o piuttosto il contrario. La scuola di Mosca, che nasce solo nel xiv secolo, è influenzata sia dalla pittura di Costantinopoli sia da quella di Novgorod. Gli artisti moscoviti derivano dalle icone di Novgorod la predilezione per gli accordi di rosso e bianco, come si vede in due immagini mobili dei santi Boris e Gleb del xiv secolo26; ma traggono ispirazione anche da opere costantinopolitane di Teofane il Greco, artista originario della capitale bizantina ed allora attivo in Russia, o da altri dipinti conservati a Vladimir. Un’icona della Madonna col Bambino di questo tipo proviene direttamente dalla bottega di Teofane il Greco. Si tratta della Vergine dell’intercessione della Galleria Tretjakov (xiv secolo)27, che ha un rivestimento d’argento decorato e rappresenta Maria vestita di un maphorion porpora col Bambino avvolto in un mantello dorato. Andrej Rublëv dipinse icone di ispirazioni diverse: quella della Crocifissione del Museo Andrej Rublëv a Mosca (xiv secolo)28, con fondo giallo dorato, è abbastanza vicina alle opere costantinopolitane, anche se un pittore della capitale bizantina non avrebbe mai dipinto dello stesso color rosso bruno la croce, le vesti della Vergine e di san Giovanni e persino il corpo di Cristo, che è solo di una tonalità più chiara. Nella tavola con Cristo in Maestà dell’iconostasi della cattedrale della Dormizione a Vladimir (1408)29 la gamma cromatica, con i suoi rossi vivi accostati al giallo dorato e al bruno, è simile a quella delle immagini mobili di Novgorod. L’icona più celebre del pittore è però la Trinità della Galleria Tret’jakov (1411 circa), un’opera certamente nata da una lunga meditazione tanto sulla composizione delle forme quanto sul colore. Gli angeli che simboleggiano la Trinità sono riuniti attorno ad una tavola color crema. Nelle vesti di questi messaggeri del cielo, dalle ali color arancio screziate d’oro, si notano tre tonalità di blu. Tuttavia non è vero che Rublëv abbia scelto per quest’opera solo colori freddi, come si è voluto affermare. Il mantello dell’angelo a destra, infatti, è di un verde pallido con riflessi di giallo, quello dell’angelo a sinistra, color rosa cenere, è in parte trasparente e lascia intravedere la tunica azzurra, mentre l’angelo al centro indossa una tunica purpurea. Questi tre toni caldi – ai quali bisogna aggiungere anche l’arancio dorato delle ali e dei sedili e l’ocra luminoso dei volti – occupano insieme una superficie più ampia della tonalità fredda del blu acciaio, mentre neppure il verde tenero
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20. Il miracolo dei santi Floro e Lauro. Fine xv secolo, Galleria Tret’jakov, Mosca.
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del fondo, in parte perduto, può dirsi un colore freddo. Sarebbe forse più giusto dire che Rublëv ha cercato di ottenere un raffinato equilibrio fra tonalità fredde e calde, equilibrio che contribuisce, del resto, all’armonia dell’insieme. Per concludere, ricordiamo alcune caratteristiche generali che contraddistinguono il sistema cromatico della pittura bizantina: il rapporto con l’insieme di valori nati dall’esegesi dei teologi bizantini; l’uso dell’oro per indicare lo spazio, «santificare» i personaggi sacri ed esprimere l’attribuzione di valori simbolici a qualche altro colore; la presenza di numerosi toni diversi dello stesso colore e la varietà di tonalità usata durante la rinascenza macedone (miniature) e al tempo dei Paleologhi (decorazioni parietali ed icone); la voluta non conformità della tavolozza dei pittori rispetto a quanto si osserva in natura.
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21. Andrej Rublëv, Cristo in maestà, icona dalla cattedrale della Dormizione di Vladimir. 1408, Galleria Tret’jakov, Mosca.
22. Andrej Rublëv, Trinità. C. 1411, Galleria Tret’jakov, Mosca.
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LE CATTEDRALI DEL MEDIOEVO ERANO BIANCHE? DAL CROMATISMO ARCHITETTONICO ALLO SPAZIO-COLORE
Roberto Cassanelli
Nel 1937, l’anno dell’esposizione internazionale di Parigi, Le Corbusier, a breve distanza di tempo dalla pubblicazione de La ville radieuse, dà alle stampe Quand les cathédrales étaient blanches. Voyage au pays des timides, sorta di manifesto programmatico (in gran parte sotto forma di reportage di viaggio tra Europa e Stati Uniti) concepito in logica binaria: Parigi-New York, Europa-America, Medioevo-modernità. È un giorno d’estate, a mezzogiorno; percorro a tutta velocità i quais della Rive gauche, verso la Torre Eiffel, sotto l’ineffabile cielo blu di Parigi. Il mio occhio fissa per un istante un punto bianco nell’azzurro: il campanile nuovo di Chaillot. Mi blocco, contemplo e piombo improvvisamente nella profondità del tempo: sì, le cattedrali furono bianche, completamente bianche, splendenti e giovani – e non nere, sporche, antiche. L’epoca intera era giovane e fresca… E l’oggi, ebbene sì!, anche l’oggi è giovane, è fresco, è nuovo. Anche oggi il mondo ricomincia…1.
1. Evangeliario di Bernward, fra x e xi secolo. Diözesanmuseum, Hildesheim, ms 18, f. 16v.
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Il titolo del volume è estratto a tutta evidenza da un brano fin troppo celebre della Cronaca di Raoul Glaber (Rodolfo il Glabro, 985 c.-post 1044), monaco di Auxerre in Borgogna; brano tanto citato da essere divenuto “topos” assiomatico del rinnovamento, non solo architettonico, ma civile, economico, religioso e culturale, seguìto immediatamente al tornante dell’Anno Mille. Trasformazione epocale e cardine cronologico riassunti in una formula per la verità singolare, sulla quale la critica, dopo anni di passiva accettazione e fruttuoso, talvolta ammiccante, utilizzo proiettivo, a sigillo folgorante dell’emergente stagione “romanica”, ha iniziato solo da qualche anno a riflettere2. Anche se la fonte non viene esplicitamente – o almeno immediatamente – dichiarata, una rapida scorsa al testo di Le Corbusier non lascia dubbi a proposito3. Ma quanto sono corrette lettura e interpretazione che di quel testo si sono generalmente offerte, e quanto possono servire ad introdurre efficacemente un discorso sul cromatismo nell’architettura del Medioevo?
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Conviene a questo punto provare a rileggere il testo nel dettato originale proponendone di seguito la possibile traduzione: Infra supradictum millesimum tertio jam fere imminente anno, contigit in universo pene terrarum orbe, praecipue tamen in Italia et in Gallia, innovari ecclesiarum basilicas, licet pleraque decenter locatae, minime indiguissent. Aemulabantur tamen quoque gens christicolarum adversus alteram decentiore frui. Erat enim instar ac si mundus ipse, excutiendo semet, rejecta vetustate, passim candidam ecclesiarum vestem indueret. Tunc denique episcopalium sedium ecclesias pene universas ac coetera quoque diversorum sanctorum monasteria, seu minora villarum oratoria, in meliora quique permutavere fideles4. [Ci si avvicinava ormai al già ricordato anno 1003 quando, in tutto il mondo, ma soprattutto in Italia e Gallia, si cominciarono a rinnovare gli edifici ecclesiastici, sebbene fossero perlopiù convenientemente ubicati, e non ve ne fosse quasi per nulla bisogno. Ma le popolazioni cristiane gareggiavano le une con le altre per farne di più belli. Era infatti come se il mondo, scuotendosi da se medesimo, rigettando la vetustà, qui e là si rivestisse di una candida veste di chiese. Allora dunque i fedeli presero a mutare in meglio quasi tutte le cattedrali, nonché le chiese monastiche dedicate a diversi santi, ed anche le cappelle dei villaggi].
Italia e Gallia vengono elette a epicentri di una trasformazione il cui avvio, in contrasto con la cadenza chiliastica, coincide grosso modo con la morte di Ottone iii, il cambio di dinastia e la salita al trono di Enrico ii, e che investe tutti gli edifici religiosi, anche quelli non necessariamente diruti o bisognosi di restauri. Raoul ha sicuramente presente la grande tradizione costruttiva carolingia e ottoniana, nei confronti della quale afferma l’emergere di un nuovo e diverso linguaggio, rinnovata fioritura di un raffinato sapere costruttivo potentemente radicato nel territorio, dalle chiese cattedrali a quelle monastiche, sino agli oratori campestri. Dal suo osservatorio privilegiato – le abbazie di Saint-Germain di Auxerre prima, Saint-Benigne di Digione poi e infine Cluny –, è testimone diretto del processo5 che in Borgogna vede all’opera prestigiosi abati committenti come Guglielmo da Volpiano e Odilone di Cluny6. Se la fitta trama della “candida veste” che ricopre l’Europa può suggestivamente richiamare alla mente il pullulare di nuove fondazioni ecclesiastiche e la parallela, capillare diffusione, a scala appunto europea, dell’ordine cluniacense, fu proprio Guglielmo a condurre con sé Raoul in Italia nel 1024, fatto che corrobora l’impressione che le riflessioni del monaco siano basate su esperienze effettive e riscontri diretti. La polarità Italia-Gallia può così persuasivamente tradursi in Borgogna-Lombardia, territori effettivamente all’avanguardia nell’elaborazione del linguaggio architettonico dell’xi secolo. «Le cattedrali erano bianche – chiosa Le Corbusier – perché erano nuove. Le città erano nuove: se ne costruivano di tutte le misure, ordinate, regolari, geometriche, secondo dei progetti precisi. La pietra di Francia, fresca di taglio, era splendente di candore, così come erano state lucenti di granito levigato le piramidi d’Egitto»7. Ma cosa intendeva il cronista, all’alba del millennio, per «candidam ecclesiarum vestem»? Erano proprio «bianche», o biancheggianti, le chiese costruite o nuovamente decorate attorno al Mille? Le Corbusier non pare dubitarne, anche se con acutezza articola, tripartendola, l’aggettivazione «bianche, splendenti e giovani», e vi contrappone, sempre seguendo
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2. Blocco absidale del duomo di Spira, chiesa dinastica della dinastia salica, xi-xii sec.
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una logica binaria, la parallela serie negativa «nere, sporche, antiche», che marca lo stato nel quale le chiese sono giunte nel xix secolo, il secolo del restauro storicistico “in stile”; restauro che ha anche significato il livellamento cromatico di interni ed esterni secondo malintesi indirizzi puristici di derivazione accademica, che non possono non richiamare subito alla mente gli equivoci di Winckelmann sulla coloritura della statuaria classica8. Di ciò lo stesso architetto è specialmente avvertito, soprattutto nel caso di Saint-Front de Périgueux, che viene con passione rievocato: «Credo alla pelle delle cose (...). A Saint-Front hanno raschiato, ritoccato, rifatto tutto, centimetro per centimetro. Hanno falsificato tutto: bugiardi, falsari»9. Sappiamo d’altra parte quanto il colore abbia pesato nelle sue creazioni architettoniche (per non parlare della meno conosciuta attività pittorica). Va notato, per tornare al dettato del testo originale, che per Raoul è la veste ad essere «candida» e non le chiese; è l’insieme, cioè, che rende un tale effetto, che si svela nella sua valenza sostanzialmente metaforica, sulla quale ha gravato a lungo la traduzione banalizzante di «candidus» con «bianco». Ma il termine latino è da intendersi, come già Le Corbusier avvertiva intuitivamente, piuttosto nel senso di “candido”, cioè «splendente», come mostra con efficacia, tra i numerosi riscontri possibili, un verso di Claudiano, che così esprime il riverbero lontano degli edifici, tecta deae quae candida lucent10. La cosa non è d’altra parte risolvibile in modo troppo semplicistico, perché molti hanno lavorato e riflettuto, sempre in chiave metaforica, come ad esempio Georges Duby, sull’associazione tra la «bianca veste» e la simbologia della purezza, forzando inevitabilmente l’intepretazione11. In ogni caso, appare evidente che Raoul intendeva affermare che nel suo tempo gli edifici sacri, piuttosto che ad un generico biancore di superfici, aspiravano ad uno «splendore» di finiture formali, interne ed esterne, memori di una tradizione molto antica che pareva in qualche misura perduta e che veniva in quel momento, almeno in parte, recuperata. Chiese non semplicemente «bianche», ma piuttosto «splendenti» di rutilanti decorazioni12. E di ciò dovevano assicurarlo i cantieri aperti sotto i suoi occhi, nelle abbazie nelle quali aveva vissuto o operava: da Saint-Germain di Auxerre13 a Saint-Bénigne di Digione – la cui grandiosa rotonda venne promossa da Guglielmo da Volpiano14 – a Cluny nella sua seconda fase15. È noto come la crisi che accompagnò e seguì la fine del mondo antico – in quella che un po’ affrettatamente si definisce “età delle invasioni” – abbia segnato in campo architettonico un forte elemento di discontinuità rispetto alla grande tradizione costruttiva romana16, con l’abbandono dell’estrazione di pietra da taglio e di marmi dalle cave, anche per le difficoltà del trasporto e la mancanza di sicurezza delle vie di comunicazione, e il sempre più incisivo ricorso al reimpiego di materiali di spoglio, dai semplici mattoni da riutilizzare nelle murature sino ai marmi preziosi di rivestimento (le statue finirono invece perlopiù nei forni per produrre la materia prima per la realizzazione dello stucco, largamente utilizzato nel complemento decorativo)17; e con il parallelo, amplissimo il ricorso al legno, più economico e facile da lavorare. In tale situazione era indispensabile sovrammettere ad un’apparecchiatura muraria incerta e approssimativa uno strato di intonaco sul quale fingere eventualmente con la pittura la perduta regolarità delle commessure, o simulare la ricchezza del complemento plastico. Non semplice surrogato, peraltro, ma in qualche misura rimeditazione “colta” di modelli antichi. Non è evidentemente un caso che,
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3. S. Stefano Rotondo, Roma. Braccio di croce nordorientale, particolare del pavimento marmoreo del v secolo.
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ancora nel xii secolo, Ottone di Frisinga apprezzi le commessure perfette dei corsi di pietra della porta Romana di Milano realizzata, secondo le sue parole, «ad similitudinem Romani operis»18. Nello stesso modo si ricoprono con più economici affreschi le pareti delle chiese, surrogando gli antichi mosaici, dei quali si era in gran parte rarefatta o perduta la raffinata competenza tecnica, e con i quali comunque non si rinunciava a rivaleggiare in fatto di qualità esecutiva, come mostrano i casi esemplari di San Vincenzo di Galliano (Cantù, Milano) e di Sant’Angelo in Formis in Campania, abbazia dipendente da Montecassino. Tra le risorgive della nuova era, il mosaico parietale troverà un proprio autonomo spazio di affermazione in particolare a Venezia, Roma e nella Sicilia normanna, connotandosi come un grandioso e fecondo trapianto di cultura bizantina19. Il giganteggiare sugli abitati di alcune grandi cattedrali dell’xi-xii secolo, rivestite all’esterno di pietra da taglio o di marmi (come Spira, Modena o Pisa), può aver fornito una suggestione agli interpreti di Raoul (certamente a Le Corbusier), ma si tratta di casi tutti posteriori alla sua epoca. È da osservare che ciò non ha comunque costituito un sufficiente correttivo a tanti restauri pseudo-medievali, recenti o meno recenti, certamente dis-
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4. Il profeta Geremia, Basilica di san Vincenzo di Galliano, inizi del xi secolo. Particolare del ciclo di affreschi commissionato da Ariberto. 5. «Pace» di Ariberto, xi secolo. L’oggetto originariamente fungeva da coperta di una cassetta di evangeliario donata dal vescovo Ariberto alla cattedrale di Milano. Tesoro del Duomo, Milano. Alle pagine successive: 6. San Giovanni Fuorcivitas, Pistoia, fianco sinistro, xii secolo.
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seminati sul territorio, così intesi proprio per lo scorticamento e messa a nudo di superfici murarie di cui era viceversa prevista la copertura e la protezione mediante la finitura a intonaco20. Affreschi, mosaici, marmi preziosi: tutto coopera allo splendore della casa di Dio, definizione da non intendersi come un banale luogo comune, ma come una «realtà che ispirava timore reverenziale»21, uno «spazio dell’anima» in cui cielo e terra si incontrano visibilmente22. Un ruolo di speciale rilievo era svolto in tal senso dalla suppellettile liturgica: dai calici alle patene, dalle legature dei libri sacri ai paliotti d’altare, sino ai reliquiari, realizzati in materiali preziosi e disseminati di gemme vivacemente colorate, come mostra con efficacia riassuntiva il dipinto con la Messa di sant’Eligio della National Gallery di Londra23. Tutti oggetti confluiti nei tesori delle chiese, e oggi in parte dispersi perlopiù nei musei24, che attirarono lo stupore e l’ammirazione dei contemporanei, che giunsero talvolta a ipotizzarne un’origine miracolosa, come nel caso del Libro di Kells, secondo il racconto della Descrizione dell’Irlanda di Giraldo Cambrense:
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7. Tarquinia, S. Maria di Castello. Vasca del fonte battesimale (primo quarto del xii secolo). 8. Battistero di Firenze, mosaici della cupola. Seconda metà del xiii secolo. Scrigno di arte bizantina nel cuore di Firenze.
Tra tutti i miracoli di Kildare, nessuno mi sembra più meraviglioso di quel libro ammirevole che dicono sia stato composto ai tempi della vergine Brigida sotto la dettatura di un angelo. Il libro contiene la concor-
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danza dei quattro Vangeli secondo Girolamo. Vi sono quasi tante figure diverse quante sono le pagine, assolutamente straordinarie per varietà di colori. Qui vedrai raffigurato il volto della maestà divina, là le mistiche immagini degli evangelisti, ora con sei, ora con quattro, ora con due ali: qui l’aquila, là il bue, qui la faccia di un uomo, là quella di un leone, e altre quasi innumerevoli figure che, a guardarle superficialmente e, come siamo soliti, con poca attenzione, sembrano più una macchia di colore che un intreccio, e non vi noterai sottigliezza alcuna, laddove invece non v’è altro che sottigliezza; ma se ti predisporrai con tutto l’acume degli occhi ad osservarli più attentamente e penetrerai con calma e a fondo nei segreti di quell’arte, potrai notare delle trame così delicate e sottili, così compatte e serrate, annodate e strettamente connesse, e dipinte con colori tanto freschi, che davvero dovrai dire che tutte queste cose sono state realizzate, piuttosto che dalla diligenza degli uomini, dallo zelo degli angeli25.
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9. Messa di sant’Eligio. Il dipinto, del xv secolo, raffigura l’interno dell’abbazia di Saint-Denis con l’antependium di Carlo il Calvo e la Grande Croce, entrambi perduti con la Rivoluzione francese. The National Gallery, Londra. 10. Libro di Kells, fol. 114r: L’arresto di Cristo, viii secolo. Trinity College Library, Dublino.
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Una lettura così intensa e profonda del valore semantico della pagina miniata (che dapprima appare come un insieme di macchie colorate, per disvelare poi la propria serrata logica compositiva) fa giustizia di tutte le aporìe sul senso profondo del colore nel Medioevo, «sostanza» fisica nella riflessione dei teologi e fondamentale elemento generatore di sensazioni, in chiave percettiva ed estetica, per i fedeli26. In questa trama di stretta cooperazione tra strutture architettoniche e apparati decorativi, è dunque decisivo il ruolo dell’arredo e delle suppellettili per la captazione e l’intensificazione della luce, così come non è possibile scindere gli aspetti percettivi dello spazio e degli oggetti dalla dosata regìa delle fonti di illuminazione, naturali e artificiali, dalla luce del sole che penetra dalle finestre secondo modalità gerarchizzate e attentamente calibrate, alla luce mutevole e direzionale generata dai candelabri e dai grandi lampadari a «corona di luci»27. Sin dalle prime civiltà, d’altra parte, la luce – nella sua qualità di elemento incorporeo e sostanza spirituale – è stata intesa come simbolo privilegiato ed emanazione del divino: fonte della vita umana, fondamentale elemento regolatore del tempo, strumento di conoscenza della realtà28. La simbologia della luce coinvolge pressoché tutte le religioni e le civiltà, caratterizzando in particolare le teologie mistiche cristiane e musulmane, e costituisce uno degli elementi fondativi del pensiero medievale29. Nella ramificata galassia semantica di sinonimi, derivazioni e aggettivazioni (splendore, lucentezza, chiarore eccetera) di cui è nucleo propulsore, la luce è intesa come espressione visibile di una realtà metafisica; flagrante, inesprimibile tensione tra simbolo e cosa significata. Alla radice dell’approccio medievale alla visione e alla rappresentazione – che non intende fermarsi alla pelle, alla superficie delle cose, ma rinvia ad un al di là misterioso ed enigmatico –, sta l’affermazione di san Paolo (i Cor.) «videmus nunc per speculum in aenigmate», nel senso in cui si mosse anche Macrobio (iv-v secolo) nel Somnium Scipionis, intendendo cioè le cose come specchi che riflettono la bellezza della divinità. Tale pensiero è esemplarmente espresso nella mistica cristiana dall’opera del filosofo neoplatonico pseudo-Dionigi l’Areopagita (v-vi secolo) e dei suoi continuatori. La sua teofania luminosa passa in Giovanni Scoto Eriugena (ix secolo), raffreddandosi razionalmente nel pensiero di san Tommaso e della Scolastica. Ed è proprio dagli scritti dello pseudo-Dionigi che trae sostanza propositiva Suger, abate di Saint-Denis (1081-1151), la grande abbazia regia alle porte di Parigi, quando decide, verso la metà del xii secolo (1140-47), di ricostruirne radicalmente l’antica venerata struttura, segnando così la nascita di una nuova forma d’arte30. Diversamente da san Bernardo, che bandisce dalle chiese del suo ordine (quello cistercense) – pur essendone profondamente affascinato – ogni tipo di decorazione figurata, plastica e pittorica, affidandosi ad un’elementare grammatica geometrica, secondo schemi modulari semplificati che legano l’intero organismo architettonico31, Suger, autorevole consigliere dei re di Francia, ne esalta il valore di lode e omaggio prezioso a Dio. Ad esempio, così si esprime descrivendo l’altare maggiore della basilica: Se anfore e fiale d’oro, piccoli mortai aurei era uso servissero, per volere di Dio o ordine del profeta, a raccogliere il sangue di capre e vitelli o della giovenca rossa: tanto più vasi d’oro, pietre preziose, e tutto ciò che più ha valore tra le cose create, devono essere usati, con continua reverenza e pie-
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Le cattedrali del Medioevo erano bianche?
11. Basilica di Saint-Denis. Transetto settentrionale. Lo spazio sacro trasfigurato dal colore nell’abbazia di Suger, xii secolo. 12. Monastero di Le Thoronet, navata centrale verso est. La spoglia essenzialità dell’architettura cistercense. Seconda metà del xii secolo.
na de vozione, per accogliere il sangue di Cristo! […] I detrattori obiettano anche che una mente santamente ispirata, un puro cuore, un’intenzione piena di fede, dovrebbero bastare per questa sacra funzione; e anche noi esplicitamente e risolutamente affermiamo che queste sono le cose essenziali. Ma noi siamo convinti che si debba rendere omaggio anche mediante l’esteriore ornamento della sacra suppellettile […]. Poiché è sommamente giusto e conveniente che noi serviamo il nostro Salvatore in tutte le cose, integralmente…32.
In un brano famoso, Suger rievoca lo stato quasi di ipnosi al quale lo condusse la contemplazione delle pietre preziose che sfavillavano sulla grande Croce di Sant’Eligio e sull’Escrain de Charlemagne: Quando – con mio grande diletto nella bellezza della casa di Dio – l’incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne, e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, sulla diversità delle sacre virtù: allora mi sembrava di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell’universo che non sta del tutto chiusa nel fango della terra né è del tutto librata nella purezza del cielo; e mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per via anagogica33.
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Le parole usate sono tratte, quasi alla lettera, dal commento di Giovanni Scoto Eriugena al De Cœlesti Hierarchia dello pseudo-Dionigi e disvelano un’esperienza religiosa – e non, come potrebbe apparire ad un’impressione superficiale, psicologica –, fondata su un dato percettivo. Nello stesso senso, nell’iscrizione che sancisce la costruzione del nuovo coro e ne rivela le conseguenze sull’intero organismo architettonico, coesistono almeno due livelli di significato, estetico e anagogico, nel vorticoso, quasi ossessivo intrecciarsi di riferimenti alla luce e alla luminosità: Pars nova posterior dum jungitur anteriori, / Aula micat medio clarificata suo. / Claret enim claris quod clare concopulatur, / Et quod perfundit lux nova, claret opus / Nobile34. Nella raffinata, diafana nuova intelaiatura strutturale, particolare valore assume il tema della vetrata, che di fatto tende a sostituirsi al muro, rendendo lo spazio sacro un involucro trasparente e colorato penetrato dalla luce, e offrendo una nuova, suggestiva superficie per la narrazione evangelica e la riflessione teologica. Per tutto l’arco dell’alto Medioevo è testimoniato nelle fonti l’uso di chiudere con vetri le finestre degli edifici; pochissimi però sono i resti sopravvissuti anteriori al xii secolo, perlopiù allo stato di slabbrato frammento35. Qualche cautela va avanzata anche sulla presunta anteriorità dell’Occidente nello sviluppo della tecnica, in relazione ai frammenti di vetri e piombi ritrovati nella chiesa del Pantokrator a Costantinopoli36. La vetrata costituisce infatti un manufatto del tutto particolare, e si distingue dalla semplice chiusura di finestre con lastre di vetro legate da un telaio di legno, proprio perché formata da una serie di vetri, colorati o monocromi, stretti in una trama di righelli di piombo come una sorta di gigantesco smalto cloisonné. Sembrerebbe potersi arguire, sempre dalle fonti, che una tale novità sia stata introdotta in età carolingia, con una battuta d’arresto intorno al x secolo e una ripresa tra l’xi e il xii secolo. Teofilo, monaco tedesco che scrive, celandosi sotto pseudonimo, all’inizio del xii secolo la sua Schedula diversarum artium, lascia intravedere una tradizione ormai consolidata del genere37. Di fatto i più antichi cicli conservati risalgono proprio a quel secolo, in Francia e Germania, e la ragione è da rintracciare nella mutata esperienza architettonica, che fa ora privilegiare edifici con coperture in muratura, più resistenti agli incendi e alle intemperie. È in questo scenario che si inserisce l’opera di Suger che affida alla vetrata, nel suo valore di schermo prezioso animato dalla luce, un rilievo del tutto particolare in chiave teologica. Alla partitura distributiva delle vetrate di Saint-Denis corrisponde infatti una precisa scelta e organizzazione di temi, secondo una presentazione “tipologica” di confronto tra Antico e Nuovo Testamento. Ci guidano in quest’interpretazione le parole stesse di Suger, che ha lasciato due brevi quanto preziosi testi sulla sua attività di committente nei quali si diffonde sul programma iconografico, sulla qualità della raffinata e costosa materia e sul convergere nella basilica di maestri «di differenti nazioni»38. Lo spazio sacro, per l’abate, è un luogo vivacemente colorato, sfolgorante di gemme e smalti (gli arredi liturgici), reso “parlante” dalle vetrate (e in questa teologia della luce si appoggia alla falsa identificazione tra il filosofo neoplatonico pseudo-Dionigi l’Areopagita e san Dionigi-Denis, protettore di Francia e titolare dell’abbazia). Cominciava la grande stagione della vetrata dell’Occidente medievale39. Grande Bibbia diafana, narrazione multicolore di eccezionale forza e coinvolgimento, la serie delle vetrate della cattedrale di Chartres costitu-
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13. Basilica di Saint-Denis, Il viaggio dei Magi e l’Adorazione del Bambino, vetrata, xii secolo.
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isce senza dubbio il complesso più esteso e celebre del Medioevo. Malgrado gli innumerevoli interventi di restauro, le tre finestre della facciata occidentale, sopravvissuta al rovinoso incendio del 1194, conservano sostanzialmente la loro integrità e la collocazione originaria. Esse si collocano intorno al 1150-1155 e costituiscono l’immediato riflesso delle vetrate di Suger a Saint-Denis, oggi profondamente alterate e in parte disperse in diversi musei. La finestra maggiore, in posizione centrale, presenta Storie dell’infanzia di Cristo; le altre due, l’Albero di Jesse e Storie della Passione. In quest’ultima sequenza, il programma “tipologico” di Suger viene abbandonato a vantaggio di una successione narrativa degli avvenimenti. La fama di Chartres è però legata alle nuove vetrate realizzate dopo l’incendio, per lungo tempo ritenute il punto più alto e significativo dell’intera storia della vetrata medievale. Studi recenti hanno ridimen-
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14. Cattedrale di Chartres, La tentazione di Cristo. xiii secolo. 15. Cattedrale di Chartres, L’albero di Jesse. xiii secolo.
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sionato questo ruolo egemone, a vantaggio di altre aree stilisticamente più compatte (come il nord-est della Francia) e di altri centri; la cattedrale resta comunque la testimonianza straordinaria di un ineguagliabile fervore realizzativo e di un incontro e scambio tra le più diverse tendenze culturali40. Insieme a Chartres, il complesso più importante di vetrate medievali francesi è costituito dalla serie realizzata per la Sainte-Chapelle di Parigi, la cappella-reliquiario fatta costruire da Luigi ix nel cuore della capitale, presso il palazzo reale sull’Ile de la Cité, per contenere le reliquie della Passione41. Acquistata dai veneziani nel 1239 la Corona di spine, il re si procura direttamente da Baldovino ii, nel 1241, frammenti della Vera Croce, i Chiodi, il Sangue, la Lancia, la Spugna, il Sudario, il Mantello di porpora e la Croce della Vittoria. La cifra impegnata fu enorme: la sola Corona di spine costò 135.000 lire tornesi, tredici volte la somma lasciata alla figlia ancora nubile Agnese; per la cappella si spesero 40.000 libbre, e altre 100.000 per le casse-reliquiario. Ma l’impresa non riguardava la sola sfera religiosa e l’indiscutibile pietà del sovrano42, perché l’idea stessa di regalità si incardinava nel Medioevo nella figura di Cristo, dalla quale era inscindibile43. Non conosciamo con certezza il nome dell’architetto al quale fu dato l’incarico di realizzare la struttura destinata a ospitare il preziosissimo nucleo (si sono ipotizzati i nomi di Jean de Chelles, di Pierre de Montreuil o di un anonimo Maestro di Saint-Denis). Organizzata su due piani e scandita da poderosi pilastri, venne raccordata da una galleria al palazzo per consentire al re l’accesso in ogni ora del giorno e della notte. Il piano inferiore fu dedicato alla Vergine, mentre quello superiore fu destinato a custodire le reliquie. Per la Corona si ideò un’apposita struttura a baldacchino nella tribuna absidale. Il 26 aprile 1248 la cappella venne consacrata. Il programma iconografico fu studiato coerentemente in funzione dell’esaltazione della Passione di Cristo, e coinvolse pittura, scultura e soprattutto superfici vetrate. La sequenza delle vetrate si svolge quindi in senso orario, da nord, e assume in quella assiale, l’ottava, dedicata alla Passione, il suo perno fondamentale e “fuoco” semantico. Le sette settentrionali sono dedicate alla storia del popolo ebraico, dalla creazione alla morte di Giosué. Quella centrale è fiancheggiata da due cicli dedicati a Giovanni Evangelista e a Giovanni Battista, mentre nelle meridionali riprendono le storie bibliche, con una selezione che è stata letta come un omaggio alla madre del re, Bianca di Castiglia, l’esaltazione della monarchia (Libro dei Re) e infine le vicende delle reliquie della Passione. A sigillo, sulla parete occidentale si apre il grande rosone con l’Apocalisse. Al di là della ricchezza di temi e dell’apparente incoerenza di sviluppo, il senso generale del programma va individuato nella volontà di rappresentare la prima e seconda venuta di Cristo, di cui la Corona di spine costituisce l’elemento di congiunzione (anche dal punto di vista liturgico, come testimonia l’Ufficio di Sens). Compito del re di Francia era di custodirla sino alla fine dei tempi, nell’attesa di Cristo, che sarebbe disceso nel palazzo reale di Parigi. Il popolo francese è dunque il nuovo popolo eletto, un nuovo Israele che ha rinnovato il patto con Dio e si prepara alla nuova missione affidata, quella della Crociata.
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16. Sainte-Chapelle, interno verso l’abside e la tribuna delle reliquie, xiv secolo.
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IL COLORE NEL QUATTROCENTO Ronald W. Lightbown
1. Zeusi dipinge il ritratto di Elena, miniatura. Gand, Universiteitsbibliothek, ms. 10 f. 69v, secolo xv.
Il xv secolo ereditò tre principali tradizioni pittoriche, ognuna con le sue speciali tecniche ed effetti coloristici: l’arte della miniatura insieme alla doratura, per la decorazione dei libri, la pittura su tela o tavola e la pittura murale. La miniatura era divenuta in quel periodo il prodotto della coordinazione di molteplici attività specializzate realizzate da artigiani qualificati, anche se un certo numero di artisti importanti, specialmente in Francia e nei Paesi Bassi, lavorarono anche come miniatori, ad esempio Simon Marmion e Jean Fouquet. Talvolta, il disegno delle miniature era assegnato ad un gruppo di artigiani specialisti e la colorazione ad un altro, ed i libri trascritti in un monastero a volte erano miniati in una bottega laica. Il commercio era controllato dai venditori di carta e libri (libraires), ed in alcuni casi (forse in molti) essi fornivano i pigmenti necessari ai miniatori che lavoravano per loro. Gli studi recenti hanno contribuito a chiarire il sistema con cui si suddivideva il lavoro tra gli scribi, i miniatori subordinati che realizzavano capolettera e fregi decorativi, gli artisti specializzati nel disegno delle iniziali e i miniatori che dipingevano scene o parti di esse – Christine de Pisan ci parla, agli inizi del Quattrocento, di una tale Anastasia, specializzata tra l’altro nell’esecuzione di champagnes o sfondi paesaggistici. Spesso a uno stesso manoscritto lavorava più di un miniatore: dato il sistema, non ci sorprende scoprire che un libraire dell’università di Parigi, André Le Musnier, era padrone di un repertorio di «pourtraitures, histoires et vignettes» (fregi decorativi) che gli consentivano di regolamentare la decorazione dei libri che commissionava. Vi è anche la conferma che, dalla metà del xv secolo, nelle Fiandre vi fossero alcuni miniatori – è il caso di Simon Marmion – che eseguivano singole miniature da accludersi nei manoscritti, in particolare nei Libri delle Ore, che avevano schemi decorativi prestabiliti. È chiaro che, ad eccezione dei manoscritti prodotti a cura di un singolo grande maestro e della sua bottega, è spesso assente in tali opere un’unitarietà stilistica o
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cromatica, sebbene si trovi comunque una certa armonia imposta dallo stile in auge in un particolare luogo o periodo o da una determinata scuola. Un’importanza particolare è rivestita da alcuni manoscritti prodotti alla fine del xiv e nel primo xv secolo dai miniatori fiamminghi e francesi, come le Très Riches Heures, prodotte dai fratelli Limbourg per il duca Jean di Berry, e Les Heures du Maréchal Boucicaut del Maestro di Boucicaut, in quanto nelle loro miniature essi anticipano espedienti, particolarmente nel trattamento e nel colore del paesaggio, che avranno grande influenza sull’arte fiamminga. La pittura su muro, su tavola o su tela fu dominata nel Quattrocento dall’arte fiamminga e da quella italiana, ma nella Francia del xv secolo, specialmente a Parigi, la pittura di miniature mantenne un ruolo altrettanto importante. Nel Nord la pittura parietale era generalmente eseguita su intonaco di calce o mescolando calce con pigmenti, o anche usando l’olio come legante. In Italia una nuova tecnica si affermò dai primi anni del Trecento e divenne dominante: si trattava della tecnica del «buon fresco», in cui un cartone o schizzo preparatorio era abbozzato sul muro, e poi eseguito a colori mescolati solo con acqua su di un nuovo strato di intonaco steso fresco ogni giorno su una parte del disegno preparatorio, la cui sezione ricoperta era poi ritracciata sul nuovo fondo prima della campitura. Tale tecnica preveniva il distacco del colore, che era assorbito dall’intonaco come asciugava. Alcuni passaggi tonali, specialmente di nero o azzurro, e dettagli più fini, erano eseguiti o accentuati applicando colori mescolati con uovo e colla, in una tecnica detta «a secco». Dal Libro dell’Arte del fiorentino Cennino Cennini, scritto a Padova verso il 1397, apprendiamo che per l’affresco si utilizzavano anche colori temperati nell’olio di semi di lino, su di un intonaco applicato su superficie continua, non porzione a porzione, e poi ripassati con una tempera legata con uovo e latte di fico. I passaggi eseguiti a secco hanno sofferto molto a causa degli affronti del tempo, dei restauri o dei distacchi. La pittura su tavola o tela era la tecnica più ammirata del Tre e Quattrocento: Cennini chiama la pittura su tavola e le pale d’altare «la più dilettevole e pura parte di tutta l’arte nostra», e sottolinea quanto fosse importante padroneggiarla prima di apprendere l’arte di dipingere su muro. Al suo aspirante pittore consiglia un apprendistato di dodici anni, durante il quale imparerà a disegnare, a comporre i vari colori con i leganti, a dorare e a colorare, praticando nel contempo ogni giorno il disegno. Le tavole erano preparate ingessandole con strati di un composto ottenuto mescolando il gesso con colla o gelatina. Questa base di gesso bianco aggiungeva alle tonalità una luminosità molto apprezzata, come vedremo, nella pittura del xv secolo. Il gesso poteva essere applicato abbondantemente in più strati, e poteva essere inciso, modellato o stampato per creare gli sfondi riccamente dorati ancora frequenti nei dipinti del xv secolo, soprattutto nelle pale d’altare. In Italia la tavola era spesso rifinita con una superficie liscia di «gesso sottile» applicato in più strati. A volte una tela incollata su tavola serviva da fondo. Gli esemplari sopravvissuti di pittura del xv secolo su tela, italiani e nordici, non sono numerosissimi, ma da inventari e altri documenti emerge chiaramente che erano più apprezzati e più frequentemente utilizzati nella decorazione delle stanze di quanto non si supponesse:
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2. Jan Van Eyck, Il battesimo di Cristo, dal Libro delle Ore di Torino, Torino, f. 93v.
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la scarsità dei pezzi aveva causato l’erronea impressione che il loro uso principale fosse quello di stendardi processionali. Nel 1604 Karel van Mander (1548-1606) afferma che grandi composizioni storiche dipinte a tempera su tela erano usate nel xv secolo al posto degli arazzi nelle case fiamminghe; attribuisce alcuni di quelli da lui visti a Bruges a Rogier van der Weyden e in tempi recenti altri dipinti del genere sono stati attributi a Hugo van der Goes, incluso una Vergine e Bambino con gli strumenti della passione (in prestito alla Alte Pinakothek di Monaco) in cui è utilizzato il costoso blu oltremare. Pallade e il Centauro di Botticelli (c. 1482) e la sua Nascita di Venere (c. 1486) sono eseguiti su tela, e nell’Italia del Nord-Est i Trionfi di Cesare del Mantegna iniziati verso il 1486, divennero una serie di nove ambiziosissime e ammiratissime grandi tele. Nelle Fiandre, altre pitture, presumibilmente meno costose, erano eseguite con colori ad acqua su tela e simili dipinti, eseguiti a guazzo, si trovano anche in Italia, come un’Adorazione dei Magi a Berlino, ora attribuito allo Spagna ma acquistato come opera giovanile di Raffaello. Con la sola importante eccezione degli affreschi e delle pale d’altare che si trovano ancora in situ, siamo abituati a vedere i dipinti tardomedievali e del primo Rinascimento appesi alle pareti dei musei o, se di piccole dimensioni, conservati in vetrine. Nel xv secolo, sebbene di fatto fossero appesi alle pareti, i dipinti su tavola o tela potevano anche essere incastonati in mobili ovvero inseriti in una pannellatura; forse l’ultimo ciclo pittorico fiorentino a sopravvivere in una simile collocazione fu la Storia di Nastagio degli Onesti, quattro dipinti del Botticelli realizzati nel 1483 per una stanza di palazzo Pucci, venduti nel 1868. I Trionfi del Mantegna furono concepiti per essere inseriti in un’incorniciatura dorata sui muri di un salone, un destino che per sette delle nove opere si realizzò tra il 1507 e il 1512 in una sala di Palazzo San Sebastiano a Mantova. Altri dipinti, come piccoli dittici devozionali o ritratti su tavole di ridotte dimensioni, a volte dipinte su ambo i lati, erano molto spesso conservati in custodie ed estratti o aperti per la preghiera personale, o per essere apprezzati da vicino. A ogni buon conto, qualunque fosse la dimensione o la tecnica, la luce più piena e potente alla quale erano ammirati era quella diurna, amplificata unicamente dalla luce dei ceri, in casa come in chiesa. Alcuni artisti modificavano la loro tecnica del colorito per i quadri di piccole dimensioni realizzati per un apprezzamento ravvicinato: è il caso di Jan van Eyck, artista sempre di esecuzione ricercata, che usa per questo tipo di dipinti sottili pennellate di colore. Il gusto del tardo Medioevo e del primo Rinascimento apprezzava moltissimo le colorazioni brillanti, chiare, ben definite: Dante fa un celebre riferimento alla lucentezza dei migliori miniatori quando dice che «più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese». Ancora, verso il 1447 Ghiberti loda il fiorentino Buffalmacco, attivo nei primi anni del Trecento, che colorava «freschissimamente». Una caratteristica enfatizzata nei trattati italiani sull’arte – le principali fonti che possediamo per il tardo Trecento e per il Quattrocento – è l’importanza data alla creazione del rilievo, ossia all’illusionismo, come simulazione convincente del volume in una superficie piana e delle relative profondità simulate. Ciò si doveva ottenere grazie a un disegno corretto, dipingendo luci ed ombre in accordo con la luminosità esterna, attraverso una
modulazione di colori confacente alle gradazioni di luce, e con altri artifici minori, come il modellare la base di gesso e accorgimenti quali le aureole in rilievo. Quest’ultimo accorgimento, di ispirazione scultorea, usato in maniera abbondante e cospicua in certi dipinti italiani del primo Quattrocento, è ancora utilizzato con parsimonia dal Mantegna per esaltare alcuni dettagli nella sua Adorazione dei Magi dei primi anni Sessanta del xv secolo. Nei suoi scritti sull’arte, Leonardo esplora ostinatamente le forme ed i mezzi per ottenere effetti illusionistici di rilievo dalla corretta osservazione della natura. L’intento di ottenere effetti di «sommo rilievo», secondo il Vasari, era l’ispirazione per la sua ricerca di neri ancora più scuri, col risultato che «infine riusciva questo modo tanto tinto che, non vi rimanendo chiaro, avevan più forma di cose fatte per contrafare una notte che una finezza del lume del dì». Il suo sfumato purtroppo avrebbe condotto a produrre un’unione di figure e sfondi che era l’opposto della marcata nettezza dei contorni dei suoi predecessori italiani.
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La natura, nel senso delle forme della natura, – per quanto il pittore potesse esaltarle con le sue linee e i suoi colori, fino a trasformarle in creazioni della sua fantasia portandole così al superamento della natura stessa – definì i confini dell’arte del xv secolo. Una sola eccezione: quando al pittore veniva richiesta la rappresentazione del divino; ma qui era la teologia a venire in suo aiuto, affermando che l’uomo è fatto a immagine di Dio, e giustificando dunque la rappresentazione in forma corporea e naturalistica di Dio Padre e della sua corte di angeli e santi. Precisamente, l’ortodossia sosteneva che i santi potessero mantenere in cielo la loro forma umana e persino le tracce delle loro sofferenze terrene, ma come trasfigurate nella gloria. La grande ambizione di raggiungere una simulazione naturalistica – che si esprimesse attraverso la descrizione illusionistica di singoli motivi o l’invenzione di prospettive geometriche, e più tardi della prospettiva dal «di sotto in su» in Italia e di quella aerea nelle Fiandre – era un principio fondamentale dell’arte del xv secolo; ma solo un principio, in quanto la composizione ed i motivi che vi si trovano erano inventati e colorati seguendo l’imposizione di altri ideali. Ghiberti, nato nel 1378, dichiara attorno al 1447 nei suoi Commentari: Conciosiacosa ch’io abbia sempre i primi precetti, ò cercato di investigare in che modo la natura procede in essa ed in che io mi possa appressare ad essa, come le specie venghino all’occhio e quanto la virtù visiva opera e come [le cose] visuali vanno.
Pertanto il disegno, più del colore, era considerato l’abilità principale dell’artista e il colore era steso in forme già chiaramente delineate sulla parete, sulla tela o sulla tavola, con contorni neri o rossi (quest’ultimi chiamati sinopie). Sia nella versione latina sia in quella italiana del suo trattato sulla pittura, Alberti dedica molta più attenzione a regolare il disegno in tutti i suoi aspetti, dalla descrizione precisa alla riduzione delle forme per la distanza, che non al colore. Per lui il pittore deve sempre iniziare col tracciare accurati contorni sulla superficie che intende colorire, e le sue istruzioni riguardanti la piramide visiva o cono, i triangoli visivi ed altri fondamenti della sua prospettiva sono guidati dal
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principio secondo il quale il pittore diventerà un eccellente artista solo quando «bene intende le proporzioni e agiugnimenti delle superficie; qual cosa pochissimi conoscono». Leonardo aveva una scarsa opinione di coloro che pensavano più al colore che al disegno. Similmente il poeta Jean Lemaire de Belges scrive verso il 1510 la Couronne margaritique in cui esalta Hugo van der Goes, il pittore della Pala dei Portinari molto ammirato a Firenze ove giunse nel 1483, come «Hugues de Gand, qui tant eut les tretz netz». Proprio a causa dell’importanza che i Fiorentini attribuivano alla correttezza e alla facilità nel disegno, il Vasari poté definire Firenze come scuola del disegno e respingere con qualche sdegno la predominanza che i Veneti iniziavano ad attribuire al colore. In una simile concezione della pittura, il colore diventa accessorio alla rappresentazione e viene steso su forme già definite alle quali aggiunge un’illusione più completa e un adeguato ornamento, elemento quest’ultimo che godeva della più grande considerazione nel xv secolo. Il naturalismo assunse una gran varietà di forme nell’arte del xv secolo, ma il riepilogo di Ghiberti riguardo alla rivoluzione apportata da Giotto nel primo Trecento alla «maniera greca» è ancora valido come definizione di tale arte: «Arrecò l’arte naturale e la gentilezza con essa, non uscendo dalle misure». La «gentilezza» che egli sottolinea è una chiave essenziale all’uso del colore in quest’epoca, quando il suo scopo era attirare ed affascinare l’occhio e dare ornamento alle forme. Vi è ben poco realismo assoluto, nel senso più crudo del termine, nella pittura del Quattrocento, tranne in forme particolari, come le rappresentazioni di teschi e della Morte nei memento mori, e anche in questo contesto i pittori non giungono mai al feroce realismo delle tombe dette «cadaveriche» della scultura nordica. Sia in Italia sia nel Nord, i pittori, come più tardi i teorici e gli artisti del Barocco classico, scelsero dal repertorio della Natura e da quello dell’Antichità forme e motivi che erano plasmati in forme perfette; negli sfondi erano accresciuti idealmente seguendo il comune denominatore di un pittoresco romantico, e nell’architettura erano ispirati dalla magnificenza classica in Italia, dalla maestosità romanica nelle Fiandre, e in entrambe, da altre forme moderne monumentali. L’arte riusciva anche ad arricchire la già ricca architettura gotica e l’ornato dell’epoca in un intrico decorativo che la realtà non poteva fornire. Ugualmente, la rappresentazione della forma umana era modellata dagli ideali della perfetta bellezza fisica o da quelli dell’acuta espressività. Il colore dunque, come al solito – ma come vedremo non sempre – plausibile in termini di obbedienza alla natura, come i motivi a cui è applicato, obbedisce a un’estetica in cui la natura è selezionata, elaborata e abbellita, in maggiore o minore misura. Dobbiamo notare come già Cennini guardasse la rappresentazione di sfondi architettonici sia negli affreschi sia su tavola come un «bel membro dell’arte nostra, e vuolsi fare con diletto», e la cura che era riservata al disegno e al colore, fosse il motivo architettonico semirealistico o fantastico, è evidente nella pittura del xv secolo. Ciò spiega in parte l’attenzione dedicata, nella Firenze del primo Rinascimento, ai problemi della prospettiva geometrica. Per quanto riguarda la figurazione del colore, vi era un riconoscimento universale sull’importanza della luce. Sebbene l’assoluta chiarezza e separazione nella definizione resti un principio fondamentale della rappresentazione fino a Leonardo, i pittori si sono ben presto resi
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3. Sandro Botticelli, La Calunnia, tempera su tavola. Galleria degli Uffizi, Firenze.
conto dell’importanza del modo in cui cade la luce, sia come fonte d’illuminazione sia come origine delle ombre – dopotutto fu nell’Italia del xiv secolo che oggetti e figure furono per la prima volta rappresentati come corpi proiettanti ombre. La rappresentazione naturalistica di luce e ombre, di colori modulati sia esteriormente che localmente dalla luce, era una preoccupazione dei teorici dell’arte – Alberti e Leonardo dedicarono molta attenzione a queste tematiche. Nel 1430, Alberti notava che secondo i filosofi tutte le cose visibili sono illuminate e colorate e che la visibilità del colore dipende dalla luce: a differenza di Aristotele, che pensava che ci fossero solo due colori, il bianco e il nero, le cui varie mescolanze componevano i sette colori primari, egli affermò che i colori primari erano quattro, e li collegò ai quattro elementi: rosso come il colore del fuoco, azzurro come il colore del cielo, verde come quello dell’acqua e grigio cenere come il colore della terra. Da questi, aggiungendo il bianco o il nero, era possibile ottenere innumerevoli colori, alcuni più scuri e altri più chiari. Come Leonardo sessant’anni dopo, non pensava al bianco e al nero come colori primari: per Leonardo infatti il bianco era semplicemente la causa di tutti i colori, e il nero la loro negazione. Nel xv secolo gli artisti continuarono a cercare di ottenere una buona resa delle ombre proiettate dagli oggetti solidi o dalle pieghe delle stoffe, in maniera forse più consistente nei singoli motivi che nello spa-
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zio pittorico complessivo, dove evidente era la cura per non ridurre la luminosità, così essenziale alla scena, con troppe ombre scure. Quando quest’ultime sono enfatizzate, come nelle Storie di Lucrezia di Botticelli (opera del 1490), sono volutamente usate per creare un’atmosfera di sinistra violenza. Il trattamento della luce nei Fiamminghi assunse forme più avanzate. Il primo grande risultato del Maestro di Flémalle, solitamente identificato con Robert Campin di Tournai, consisteva nell’immergere gli interni in una luce modulata naturalisticamente, in cui le nitide definizioni dei singoli motivi risultavano attenuate, anche nelle figure che così divenivano parte della scena concepita in un’atmosfera naturale e non come un’aggregazione di elementi. I colori più scuri e le ombre continuarono ad essere usati dai Fiamminghi con particolare abilità per suggerire le luci smorzate degli interni. Rogier van der Weyden inaugurò persino un’anticipazione dell’Impressionismo sfocando la consueta definizione marcata degli ornamenti nei ricchi panneggi, ove le pieghe o la caduta della luce creavano profonde ombre scure. Il suo esempio fu imitato da alcuni italiani nella seconda metà del secolo, in particolare da Piero della Francesca e da Carlo Crivelli.
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4, 5. Rogier van der Weyden, La deposizione dalla Croce. Museo Nacional del Prado, Madrid.
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La distribuzione di luce e ombra era già percepita nel xiv secolo come un fattore in grado di interferire sui colori modificandoli. Il Ghiberti ormai vecchio dedicò buona parte del suo Commentario terzo alla definizione della luce. Già Cennini, scrivendo il Libro dell’Arte quarant’anni prima come erede della tradizione giottesca, dice che la regola d’oro per il controllo di luce e ombre nel disegno e nel colore per dare «rilievo» alle figure è seguire la direzione della luce che cade naturalmente. Infatti, come è noto, tranne nel caso in cui la collocazione finale dell’opera imponesse loro un’illuminazione da destra, solitamente i pittori la facevano provenire da sinistra. Una certa imposizione della luce vera nello spazio reale è già implicita in questa concezione, e quasi tutti i pittori del xv secolo, italiani e fiamminghi, erano attenti a colorire e ombreggiare le loro composizioni in armonia con tali leggi, con le lumeggiature realizzate in bianco, tranne dove la presenza del divino richiedesse l’oro, e l’ombra in nero o colori localmente più scuri. I Fiamminghi, vivendo nel freddo Nord, erano interessati alla rappresentazione di una luce diurna pallida e fredda con colori slavati e invernali: i grigi ardesia di una tavola come l’Anima di san Bertino portata in Paradiso di Simon Marmion sono inconcepibili per l’arte italiana. Le gradazioni di puro colore richieste per produrre le sue variazioni di luce e ombra erano ottenute variando la quantità di bianco aggiunto ad un determinato pigmento – una tecnica già impiegata nel tardo Trecento a Firenze e a Roma. Le ombre erano prodotte scurendo le tinte, mentre quelle più chiare, spesso con lumeggiature bianche, sottolineavano le parti in rilievo, soprattutto nei panneggi. Questo sistema si vede ben chiaramente nella Deposizione della Croce di uno dei più brillanti coloristi del Quattrocento, Beato Angelico. Dal Trecento uno speciale accorgimento dei pittori italiani fu l’uso di colori cangianti per rappresentare luce ed ombre sui tessuti, specialmente di seta, che sembrano cambiare colore a seconda della direzione della luce. I pittori del xv secolo e i loro committenti comunque erano consapevoli della presenza di due mondi, quello terreno, con le sue sfere, e quello celeste, al loro vertice, che ci pare reso in maniera immediata dalla pala di Francesco Botticini Assunzione della Vergine, dipinto tra il 1475 e il 1477 per la cappella dell’umanista fiorentino Matteo Palmieri in San Pier Maggiore. In basso, al centro, Palmieri e sua moglie Nicolosa Serragli si inginocchiano di fronte alla tomba vuota della Vergine: dietro a Palmieri si apre un paesaggio realistico di Firenze e Fiesole e di fattorie viste a volo d’uccello, mentre dietro a Nicolosa si estende, reso in maniera simile, un paesaggio della Val d’Elsa, dove possedeva alcuni poderi. Vi è un acuto contrasto tra le loro smorte tonalità terrene e la cupola dorata irraggiante dell’empireo che sovrasta Dio Padre, la Vergine che ascende e le nove schiere degli angeli, suddivise in tre ordini. L’uso dello sfondo dorato per rappresentare l’oro della volta celeste risale ai tempi antichi e persiste nella pittura italiana sino alla fine del secolo. Nell’imponente Assunzione della Vergine dipinta nel 1474 dal senese Matteo di Giovanni per Sant’Agata di Asciano, nel Senese, lo sfondo è interamente dorato, e il paesaggio marrone chiaro sul fondo della tavola sembra illuminato dai suoi bagliori. Nel 1492 l’oro è ancora lo sfondo paradisiaco dell’Immacolata Concezione di Carlo Crivelli, dipinta per San Francesco di Pergola. Come già vedemmo, tali sfondi dorati erano talvolta lavorati con decorazioni incise o punzonate, a volte ad imitazione dei ricchi damaschi molto ammirati all’epoca.
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6. Simon Marmion, L’anima di san Bertino portata in Paradiso. Olio su pannello di quercia. The National Gallery, Londra.
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Sarà l’arte fiamminga che per prima inizierà ad abbandonare lo sfondo oro nelle rappresentazioni della Vergine e dei Santi, forse sull’esempio di Jan van Eyck, anche se la doratura del fondo continuerà a essere usata in alcuni dipinti dai suoi contemporanei, come il Maestro di Flémalle e Rogier van der Weyden. Forse non è sorprendente che tali dorature persistano più a lungo nelle immagini devozionali: così il Cristo con la corona di spine di Dirk Bouts (c. 1415-75) ha uno sfondo dorato estesamente ombreggiato attorno all’aureola e poi sfumato con nero intenso per formare l’aureola vera e propria. Nei dipinti religiosi dai quali fu bandito l’oro, prevalse ora l’estetica di un naturalismo omnicomprensivo, con il conseguente sovvertimento della coerenza e dell’espressività teologica. Così il cancelliere Nicolas Rollin di Van Eyck venera la Vergine e il Bambino in una camera che d’ordinario sarebbe stata una stanza celeste, ma invece si apre su di un paesaggio terreno popolato da gente in carne ed ossa. L’oro era anche usato nei motivi decorativi già menzionati, modellati in rilievo sullo sfondo, che rimasero un aspetto del repertorio artistico, sebbene con sempre minor frequenza, protrattosi a lungo nel secolo, tranne che nelle Fiandre. A volte erano accuratamente stabiliti nei contratti di pittura, come in quello rescisso del 1429 per una pala che doveva essere eseguita a Loreto per il duca Giangaleazzo Visconti da Aliguccio, pittore anconetano. Questi motivi decorativi erano pregiati sia perché accentuavano l’effetto scultoreo del rilievo, così apprezzato nella pittura, sia per la preziosità che conferivano al quadro. Naturalmente richiamavano l’attenzione sulla grandezza e l’agiatezza 156
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7. Francesco Botticini, Assunzione della Vergine, tempera su tavola. The National Gallery, Londra. 8. Dirk Bouts, Cristo con corona di spine. Olio con tempera nel mantello rosso e nell’incarnato. The National Gallery, Londra.
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9. Jan Van Eyck, Madonna del canonico Joris Van der Paele, particolare, Groeningenmuseum, Bruges. 10. Beato Angelico, Deposizione dalla croce, tempera e oro su tavola, Museo di San Marco, Firenze.
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del committente, e la moderna popolarità dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano (dipinto nel 1423 per il ricco banchiere fiorentino Palla Strozzi) è la riprova di quanto possano ancora affascinare gli occhi del grande pubblico. Le aureole della Vergine e del Bambino spesso continuarono a essere modellate con un rilievo più o meno alto, dorate e decorate con finte gemme, come richiedeva la tradizione, ma la tendenza al naturalismo sostituì gradualmente questi nimbi semiscultorei con semplici tondi o cerchi d’oro. Al contempo, le aureole dorate iniziarono a scomparire dall’arte sacra delle Fiandre – sono già assenti in alcune opere del Maestro di Flémalle, di Jan van Eyck e di Rogier van der Weyden – ad esempio nel Retablo di Mérode del Maestro di Flémalle. Presentate nel Quattrocento come solide placche d’oro e proiettanti un’ombra, come in Andrea del Castagno, o raffigurate come spesso nel Mantegna come delicate irradiazioni di luce attorno al capo, sin dai primi tempi dell’arte cristiana le aureole o nimbi erano state insegne distintive di santità. Le ragioni della loro abolizione da parte dei pittori sono oggi difficili da rintracciare ed è sorprendente che una tale innovazione fosse accettata tanto di buon grado dai committenti ecclesiastici. La sua giustificazione artistica era senz’altro il naturalismo predominante, che portò alla graduale scomparsa dell’aureola dall’arte sacra italiana nel Cinquecento – già nelle prime opere di Raffaello iniziò a divenire un pallido circoletto dorato. Con la sua sparizione, il senso del mistico e del visionario, della presenza o irruzione del divino, sarà nei secoli che seguono simboleggiato al meglio da semplici raggi d’oro o da posizioni ed espressioni estatiche, come già nel Sant’Agostino di Botticelli dipinto verso il 1480-1481. Alberti, nel suo De Pictura del 1435, aveva dimostrato un atteggiamento ambivalente nei confronti dei pittori che facevano un eccessivo
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11. Maestro di Flémalle, Trittico di Mérode. Olio su pannello. The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters Collection, New York.
12. Andrea Mantegna, Orazione nell’Orto, The National Gallery, Londra.
Alle pagine seguenti: 13. Giovanni Bellini, Madonna col Bambino e i santi Niccolò, Pietro, Benedetto e Marco. Chiesa di S. Maria Gloriosa dei Frari, Venezia. 14. Sandro Botticelli, Sant’Agostino, affresco, Chiesa di Ognissanti, Firenze.
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uso dell’oro: «Truovasi chi adopera molto in sue storie oro che stima porga maestà: non lo lodo». Bisogna sottolineare ch’egli non sembra disapprovare il suo uso nelle immagini devozionali, ma solo nelle «istorie», cioè nei dipinti narrativi. Preferisce che l’oro sia simulato dai colori, dato che su di una tavola piatta l’oro vero produce luci abbaglianti e distorce la diffusione di luce e ombre, spesso sembrando più scuro quando dovrebbe apparire luminoso e luminoso quando dovrebbe essere scuro. Già una quarantina di anni prima Cennini aveva dichiarato che l’oro brunito «sembra quasi nero del suo lustro» e consigliava ai pittori di usare l’oro brunito come scuro e soltanto l’oro puro come luce. Simulando l’oro con il colore – Alberti dichiara – il pittore mostra più arte. Infatti vi erano, e ciò non sorprende visti gli alti costi, molti materiali sostitutivi dell’oro, che solitamente era ottenuto dai pittori (e dagli orafi del resto) dalle monete d’oro, ducati o fiorini: tra questi surrogati vi era lo stagno laccato giallo. L’oro era utilizzato sia in foglie – le foglie d’oro del tardo Medioevo erano più spesse di quelle moderne – stese solitamente su di uno strato di bolo rosso armeno, sia in polvere e in questa forma lo si poteva impiegare come colore. La polvere aurea era utilizzata nella pittura narrativa del xv secolo con squisito gusto e maestria. Per quel che ci risulta, il suo uso comparve per la prima volta, forse ispirato dalle miniature, dove era già una decorazione comune, nell’arte di Gentile da Fabriano (c. 1385-1427) che lavorò a Venezia dal 1408 al 1413. Jacopo Bellini lo utilizzò nella sua Madonna dell’Umiltà e più tardi fu usato da Andrea Mantegna e Giovanni Bellini. L’oro, sia per la sua luminosità e irradiazione sia come reale luce dorata, fornì a questi artisti veneti uno strumento poetico con il quale suggerire l’immanenza della divinità, come nel San Francesco riceve le stimmate di Gentile, nella luce che proviene dalla stella divina nella sua Adorazione dei Magi o nel Cristo nel giardino del Getsemani del Mantegna. Nell’arte profana era usato anche per esprimere l’irruzione del divino, come nella Nascita di Venere di Botticelli (c. 1486) dove l’avvicinarsi della dea alla spiaggia è segnalato dai lumeggiamenti dorati sulle foglie degli alberi. Poiché sono sciolti in acqua, i colori dell’affresco risultano più pallidi rispetto a quelli utilizzati su tavola. Cennini, che era pittore, negli anni Novanta del Trecento ci informa che un legante molto usato per la pittura su muro dai «tedeschi» – senz’altro si riferisce tanto ai Fiamminghi quanto ai Tedeschi – era l’olio. Karel van Mander parla nel 1604 di un dipinto su muro di Davide e Abigail eseguito a olio da Hugo van der Goes, che egli vide su di un caminetto in una casa a Ghent. Secondo Ghiberti, che loda il genio polimorfo di Giotto e i suoi molti talenti, Giotto († 1337) dipingeva già a olio, apparentemente negli affreschi. Nel Trecento italiano l’olio era impiegato prevalentemente se non esclusivamente nell’affresco, e nel Quattrocento gli affreschi di Paolo Uccello in San Miniato al Monte furono eseguiti a olio. Vasari attribuisce l’invenzione della pittura a olio su tavola a Jan van Eyck (c. 1395-1441), il più famoso dei Fiamminghi; pur non essendo corretta tale attribuzione, Jan è sempre considerato colui che ha inventato, o perlomeno portato a perfezione, un legante a olio sufficientemente fluido da consentire la lavorazione sui più minuti dettagli, e una vernice abbastanza stabile da preservare i suoi bei colori quasi inalterati. «Era», scrive Karel van Mander nel 1604, «secondo la tradizione di Bruges, un
uomo educato, molto versato nella sua arte, che studiava le proprietà dei colori e a questo scopo si dedicò all’alchimia e alla distillazione». Dopo che un dipinto a tempera che aveva messo ad asciugare al sole, secondo l’uso, si era spaccato, decise di ricercare una vernice che potesse seccare all’interno. In seguito continuò a sperimentare soluzioni che confermarono che l’olio di semi di lino e l’olio di noce asciugavano meglio e più rapidamente, e infine scoprì che i colori si mescolavano con gli oli meglio di quanto non facessero con l’uovo o la colla; fondendo bene gli uni con gli altri, si rafforzavano asciugandosi, erano impermeabili e risplendevano di lucentezza propria senza bisogno di vernice, così le striature della pittura a tempera non erano più necessarie. Le moderne analisi ci hanno mostrato che dopo il disegno preparatorio su di uno strato di gesso, con l’uso di tratteggio per le ombre a volte inscurito da una passata di inchiostro o acquarello, Van Eyck iniziava modellando le forme con uno strato di grigio traslucido, e completava il tutto con l’applicazione di velature di colore a olio che lasciavano passare la luce al fondo grigiastro. Fino a sei velature potevano essere stese le une sulle altre in successione, per rafforzare il modellato e accentuare l’effetto luministico. I suoi dipinti, con questo nuovo legante, erano la meraviglia dell’epoca, ed erano assai ricercati dai mercanti per essere venduti in altri Paesi, dove erano considerati dagli artisti locali prodigi artistici. Secondo Van Mander, un dipinto inviato ad Alfonso di Napoli attirò un nugolo di artisti che invano cercarono, servendosi del tatto e dell’olfatto, di individuare il segreto del forte olezzo emanato dai pigmenti e dal loro legante. Esaltando i colori del grande trittico Adorazione dell’Agnello a Ghent, egli dichiara: «Il blu, il rosso e il cremisi sono rimasti invariati, e così belli da far pensare di essere stati applicati appena ieri». L’olio rendeva i pigmenti più trasparenti, cosicché il verde-terra, il bianco, il nero-carbone e il marrone-terra iniziarono a essere utilizzati solo per i contorni e i dettagli. L’antica tecnica della tempera, però, nonostante la sua tediosa lentezza, era ancora la tecnica più in voga nella pittura su tavola. Van Mander dice che anche Hubert e Jan van Eyck produssero molti dipinti a tempera, utilizzando un legante solitamente derivato dal giallo dell’uovo, ma a volte anche dall’albume, o la colla. Quando il giallo, diluito in acqua, è mescolato ai colori in polvere, e questi sono stesi in sottili strati usando solo pennelli morbidi su di uno strato di gesso, si forma un mantello spesso e duraturo di pigmento opaco, che asciuga quasi immediatamente assumendo toni più chiari. Grazie a questa rapida asciugatura, si sviluppò una tecnica che imponeva la modellatura a tratteggio e che consisteva nell’aggiungere sopra la tempera velature trasparenti o semitrasparenti formate da pigmenti in polvere mescolati a olio, in modo da creare una pellicola sottile e liscia in superficie. L’idea della velatura ancora una volta venne dalle Fiandre dove, come abbiamo visto, Campin, Van Eyck e Rogier van der Weyden applicavano la velatura a olio su colori sottostanti più chiari per ottenere toni più ricchi, e variando lo spessore della velatura, ottenevano mutamenti tonali più sottili e naturalistici, e dunque un più delicato naturalismo nella rappresentazione. Nelle opere di dimensioni maggiori, Van Eyck aveva già iniziato a dipingere con pennellate che in ultimo formavano una superficie levigata. Tutto ciò produsse il fenomeno conosciuto in Italia come «tecnica mista», che avrebbe avuto una lunga vita nelle bot-
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teghe dei pittori del Rinascimento, sicuramente fino a Rubens: tuttavia la tempera pura continuò a essere usata, in parte perché le sue superfici meno brillanti consentivano ai dipinti di essere visti da ogni direzione. Da molto tempo le velature ad olio erano state usate efficacemente su superfici d’oro e d’argento, per le ragioni già note, e sui loro sostituti di livello inferiore, soprattutto lo stagno che, una volta lucidato con il giallo, era molto utilizzato come surrogato dell’oro. Esempi di velature a olio su metallo sono il rosso su oro usato da Paolo Uccello nella sua Battaglia di San Romano (c. 1450), e l’interno della cupola nella pala d’altare dei Frari di Giovanni Bellini, che fu in un primo tempo dorato e poi ombreggiato con velatura a olio. L’introduzione dell’uso di velature (ma anche delle vernici) è rimasto a lungo un punto oscuro nella storia dell’arte. Cennini, altrove così prodigo di informazioni, non ci ha lasciato alcuna ricetta sulla loro composizione, e semplicemente nota come la vernice sia sostanza forte che, se stesa su di una tavola, preferibilmente dopo che i colori si sono asciugati e stabilizzati – affinché non penetri nella pittura fresca – li fa risaltare rendendoli «freschissimi e begli», brillanti e vividi a lungo. Ancora una volta emerge l’enfasi che l’epoca pose sulla luminosità e sui suoi effetti. C’era però un espediente servendosi del quale «in corto tempo il tuo lavoro paia inverniciato e non sia»: bastava pennellare la chiara d’uovo ben montata sul quadro, e la pittura appariva come verniciata, ancora più che se lo fosse realmente. Le vernici tradizionali del Medioevo erano composte da resine disciolte in olio, solitamente olio di lino. Alla fine del secolo, i pittori avevano a disposizione vernici appositamente preparate che potevano essere acquistate già pronte. Per il Parnaso del Mantegna del 1497 e il suo Minerva che scaccia i Vizi del 1502, Lorenzo da Pavia fu incaricato di acquistare vernici a Venezia. Applicate su tutta la superficie, tali vernici aggiungevano due effetti ricercatissimi nel xv secolo: l’intensità e la luminosità. In Italia, verso la metà del secolo, i pittori iniziarono ad utilizzare la tempera con nuovi leganti all’olio, apparentemente con una preferenza per l’olio di noce rispetto all’olio di lino preferito al Nord, che sembrava produrre una base più veloce nell’asciugatura sulla quale aggiungere le velature a olio. Alcuni pittori, ad esempio Botticelli, a volte aggiungevano un po’ di olio essiccante a questa tempera, producendo la cosiddetta «tempera grassa». Secondo il Vasari, la cui autorità è ancora accettata da moderni studiosi, la tecnica fiamminga della pittura a olio, o meglio di pittura velata a olio sopra sottili strati di pittura traslucida – fu introdotta in Italia per la prima volta da Antonello da Messina (c. 1430-79). Vasari lo dice discepolo di Jan van Eyck, ma nel 1525 Pietro Summonte, fonte più antica, fa risalire la sua conoscenza della tecnica alla lezione di Niccolò Colantonio di Napoli (c. 1420-post 1460) suo primo maestro, che fu di fatto profondamente influenzato dai primi Fiamminghi e particolarmente da Van Eyck, di cui sappiamo che copiò alcuni quadri, e da Rogier van der Weyden. Summonte dice che Colantonio apprese la tecnica dell’olio alla corte di Renato d’Angiò, durante il breve regno di questi su Napoli, dal 1438 al 1442. Le date certe della carriera di Antonello non fanno chiarezza sul problema, e i più recenti studi sulla sua formazione avvalorano la più profonda influenza del Van Eyck nelle sue prime opere. Lavorò a Venezia verso il 1475-1476, ma questa data non è esattamente coincidente con l’adozione dell’olio da
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15. Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, particolare. Galleria degli Uffizi, Firenze.
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parte di Giovanni Bellini tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70 del Quattrocento, ancora come tecnica di velatura sopra strati sottostanti di tempera all’uovo. L’umanista ferrarese Ludovico Carbone scrive, in una poesia composta a Ferrara negli anni Quaranta del xv secolo, che il pittore senese Angelo Maccagnino «miscelava olio con colori bellissimamente», e l’utilizzo dell’olio è stato riscontrato anche in dipinti ferraresi coevi. Dato che alla corte di Ferrara, come a quella di Napoli, si acquistavano in quel periodo dipinti di Rogier van der Weyden, qualche prima imitazione della tecnica all’olio fiamminga può essere plausibilmente accreditata a queste due città. Inoltre, anche per il fatto che moltissimi pittori passavano dalla sua bottega, l’adozione dei colori ad olio da parte di Bellini avrebbe portato ad un cambiamento fondamentale nella pittura veneziana – Venezia nel Cinquecento darà vita a una serie di potenti e originali maestri del colore – ma i suoi esperimenti, come spesso avviene, hanno lasciato un certo numero dei suoi lavori più tardi in uno stato di conservazione peggiore rispetto a quello delle sue opere precedenti. Nel xv secolo, e accadrà anche in seguito, gli esperimenti dei grandi maestri non garantivano successi: lo sfaldamento del grande affresco del Mantegna per la Camera degli Sposi del marchese Ludovico Gonzaga e di sua moglie, figli e cortigiani (c. 1470) è stato attribuito alle sperimentazioni troppo rischiose del maestro. Alcuni maestri italiani da principio trovarono la tecnica a olio difficile; Vasari ci dice che Perugino non comprese subito che il primo strato di colore a olio doveva asciugare bene prima di poter applicarne un secondo ed un terzo, e che ciò comportò screpolature nelle sue ombre. Alla fine però Perugino divenne eccellente maestro del colore a olio. Il progresso della pittura a olio sembra essere stato lento: Piero della Francesca e Crivelli sono passati entrambi attraverso la tecnica mista, ma Ghirlandaio (1448/9-1494) aderì unicamente alla tempera. Al contrario, Francia (c. 1450-1517) iniziò dipingendo a olio, probabilmente verso il 1485, e la Medusa di Leonardo (oggi perduta) fu realizzata a olio attorno al 1485. Per i suoi pigmenti, un pittore del xv secolo aveva a disposizione ciò che Cennini chiama i «sette colori naturali», quattro terre pure – nero, rosso, giallo e verde – e tre che dovevano essere migliorate artificialmente – bianco, blu (oltremare o azzurrite) e il giallo che chiama giallorino –. Le terre d’ombra non sembrano essere entrate nelle grazie dei pittori sino alla fine del secolo, e di fatto Mantegna usa un espressivo “marroneterra” per la figura scimmiesca nel suo Minerva che caccia i vizi. I colori erano prima preparati usando un mortaio e un pestello di pietra: Cennini dà per assodato che il pittore prepari i propri colori, ma già verso gli anni Novanta del xiv secolo alcuni colori potevano essere acquistati già pronti, sebbene vi fosse il rischio di adulterazioni con pigmenti di qualità inferiore. Per ogni colore Cennini indica le sostanze con le quali è possibile ottenerlo – così il nero si può ottenere da una pietra, da tralci di vite bruciati, da noccioli di pesca o gusci di mandorle bruciati o raschiando la fuliggine prodotta da una lampada a olio. Vi erano poi varietà di rosso – il cinabro usato per le sinopie era eccellente per gli incarnati ed era molto ricercato a Firenze, e forse esclusivo della città. Cennini consiglia ai pittori di chiedere le ricette ai frati, dopo averne conquistato l’amicizia: «Se ti vorrai affaticare, ne troverrai assai ricette, e spezialmente pigliando amistà di frati»; forse si riferisce ai Ca-
maldolesi, che ne facevano largo uso per rubricare i manoscritti, ma anche i Gesuati fiorentini, produttori di vetrate, erano reputati miscelatori di colori. Il rosso cinabro era più indicato per la tavola, giacché dopo lunga esposizione su parete virava al nero: per lo stesso motivo anche il rosso minio era adatto solo per la pittura su tavola. Un rosso violaceo chiamato «amatisto» era ottenuto da una pietra (diaspro rosso), e Cennini rifiutava il rosso chiamato «sangue di drago», usato dai miniatori, perché inadatto alla tavola. Vi erano varie ricette per il rosso-lacca, ma era preferibile acquistarlo già pronto per evitare problemi – il migliore era ricavato da una gomma. Venezia è, secondo le fonti, il mercato a cui ricorre Mantegna per l’acquisto di pigmenti alla fine del Quattrocento. Il giallo classico era l’ocra – Cennini specifica che aveva molti usi, specialmente nell’affresco – per gli incarnati, i capelli, gli abiti, e per la rappresentazione di montagne ed edifici. Tra i gialli artificiali, il giallarino e l’orpimento, il cui vantaggio era la somiglianza con l’oro, ma che era adatto solo per scudi e lance la cui decorazione era una preoccupazione costante in un mondo cavalleresco dedito ai tornei e alle battaglie. Mescolato all’indaco di Baghdad, però, forniva un buon verde per erba e piante: nondimeno era tossico, come il giallo chiamato «realgar». Il giallo zafferano invece sbiadiva troppo velocemente ma, miscelato col verderame, dava il migliore dei verdi. La lista di verdi del Cennini ha al vertice il verde-terra, eccellente per i volti e i vestiti e come colore base – la base di verde sotto i colori dell’incarnato fu una tecnica molto duratura nella pittura a fresco italiana. Un azzurro-verde ottenuto miscelando azzurrite, il meno caro dei due blu migliori, e un’altra sostanza a base di rame, forse malachite, era utile per la pittura a secco, sia per le basi sia per lo sfondo verde, specialmente se temperato col giallarino. Due parti di orpimento e una di indaco facevano un altro verde, adatto per le pareti delle stanze e per scudi e lance, mentre il giallarino mischiato all’azzurrite e temperato con il giallo d’uovo dava un bel verde, purché non lo si esponesse all’aria – già si era compresa la natura effimera del verde. Un verde adatto alle tavole, ma non alla pittura su muro, si poteva ottenere mescolando blu oltremare con orpimento: per l’azzurro più leggero si usava più orpimento, mentre si aggiungeva oltremare per un blu carico. Un altro verde buono per le tavole si poteva ottenere dal verderame, ma lo si doveva tenere lontano dalla biacca di piombo, la quale poteva però essere mescolata col verde-terra o con un bianco di biacca per ottenere un utile verde. Cennini chiama un bianco fiorentino ottenuto dal grassello di calce «bianco sangiovanni», e lo considera eccellente per l’affresco; il suo unico utilizzo possibile era nella pittura murale, perché non si amalgamava alla tempera. Anche il bianco di piombo era adatto alla pittura su muro, ma dato che scuriva col tempo, il pittore avrebbe fatto meglio ad evitarlo. Il blu occupava, nel xiv e xv secolo, una posizione privilegiata tra i colori. Il vero indaco era importato durante il Medioevo dall’India, sua terra natale, a volte passando per Baghdad, per cui era noto anche come indaco di Baghdad. Un sostituto più scuro, anch’esso chiamato indaco, era ottenuto da piante tintorie – Borgo Sansepolcro, patria di Piero della Francesca, era un centro dell’industria del guado – e, a causa della sua relativa economicità, era molto più utilizzato del costosissimo pigmento orientale, generalmente in forma schiarita. Il migliore di tutti i blu era l’oltremare: Cennini lo chiama «nobile, bello e più
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perfetto tra tutti gli altri colori». Quando usato insieme all’oro «che rende tutta l’opera della nostra arte, su tavola o su muro fiorente», era davvero splendente. Era ottenuto dal lapislazzuli macinato, allora come oggi estratto principalmente dalle miniere di Badakhshan, in Afghanistan, e sottoposto a un lungo procedimento di raffinazione. Era costosissimo, e Vasari ci riporta un divertente aneddoto su come il Priore dei Gesuati fiorentini, che eccelleva nella sua manifattura, sorvegliasse Perugino ogni qualvolta questi lo utilizzava per i quadri che dipingeva per il convento, e lo centellinava personalmente e con parsimonia dalla sua borsa. Per risparmiare, il colore era a volte principiato con la più economica azzurrite, un minerale blu importato dalla Germania, e poi rifinito con l’oltremare. Vi erano anche altri tipi di blu, alcuni più chiari di altri, ma nessuno era a buon mercato, e negli affreschi, per larghe zone di blu o azzurro, spesso si preferiva eseguire il primo strato rosso o marrone per poi rifinirlo con un blu miscelato a tempera. Per i pittori era normale ricevere dai committenti una caparra per l’acquisto dell’oro e dei colori necessari al dipinto. L’arte di adulterare i colori, già praticata nell’antichità, continuò a fiorire, come ci è chiaro dalle stipule dei contratti che insistono sul fatto che il pittore debba usare solo oro vero e buoni colori. Cennini raccomanda ai giovani pittori di abituarsi all’uso di buoni materiali, e non di surrogati economici come stagno dorato al posto dell’oro. In particolare era necessario dipingere con oro vero e buoni colori la figura della Madonna: se si fosse obbiettato che nessuna persona povera avrebbe potuto affrontare tali spese, la risposta sarebbe stata che, lavorando bene, dedicando tempo alla sua opera e usando buoni colori, il pittore avrebbe ottenuto grande stima e così i ricchi clienti avrebbero compensato per quelli più poveri. Un maestro con la reputazione di usare buoni colori poteva guadagnare due ducati a figura, invece di un ducato come gli altri: inoltre, anche se non fosse stato adeguatamente pagato, sarebbero stati Dio e la Vergine a provvedere alla sua anima e al suo corpo. Tranne nel caso di buon fresco, i pittori del primo Rinascimento lavoravano con tecniche di disegno, di preparazione dei colori e di esecuzione che, sebbene non così lente come a volte si è pensato, erano complesse e potevano comportare ritardi, anche quando questi non erano occasionati da un’avversione o temporanea mancanza d’interesse nel pittore – sono ben note le difficoltà d’Isabella d’Este con gli artisti che voleva ingaggiare per la decorazione del suo Studiolo nell’ultima decade del xv secolo. Cennini, dopo lunghe e precise indicazioni per la preparazione di una o più tavole e della loro superficie, invita i suoi lettori a dipingere su di esse, considerando questa pratica la parte più raffinata dell’arte: «Sappi che lavorare di tavola è proprio da gentile uomo, ché co’ velluti indosso puoi fare ciò che vuoi». Di fatto, in Italia, pochissimi artisti del Quattrocento hanno lavorato esclusivamente su tavola. Gli artisti di Venezia, la cui aria salmastra era inadatta all’affresco, sono l’eccezione più notevole – non abbiamo affreschi di Bellini, di Antonello da Messina o di Carpaccio. Nella pittura su tavola, secondo Cennini, il pittore deve iniziare stendendo le parti più scure del soggetto, già disegnato sul fondo; quindi deve rilevare i toni medi con colori più chiari, con particolare attenzione alle pieghe del panneggio e al chiaroscuro creato dalla luce. Successivamente deve prendere i colori più luminosi e stenderli nelle parti più chiare, rilevando
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16. Bernardino Butinone e Bernardo Zenale, Polittico di Treviglio, tempera su pannello con fondo dorato, particolare: santa Lucia, santa Caterina d’Alessandria, santa Maria Maddalena. san Martino, Treviglio.
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gli elementi in risalto e le loro ombre. Poi deve passare su tutto con questi tre tipi di colore, unendoli tramite delicate transizioni tonali. Infine, dopo aver ritemprato i colori più brillanti affinché siano più luminosi, ritoccherà con questi le parti in massimo rilievo, segnando le lumeggiature con bianco di piombo. Darà anche profondità ai colori scuri e ripasserà le parti scure con essi. Dopo aver colorito in questo modo gli abiti, gli alberi, gli edifici e le montagne del suo quadro, dovrà colorire i volti e le parti nude delle membra, iniziando con due strati di verde-terra unito al bianco, sul quale si pongono gli incarnati, come abbiamo già visto. Cennini, inoltre, dice di evidenziare gli occhi e i lineamenti con contorni neri. Dal suo trattato sembrerebbe che la scelta dei colori appartenesse in larga misura alla libertà del pittore, ma di fatto era sempre indirizzata o influenzata da vari fattori. È notissimo come rinascimentale il precetto di Orazio secondo il quale i pittori e i poeti hanno la licenza di lasciar vagare la fantasia, ma è meno noto che già verso il 1290, Guillaume Durand lo cita nel Rationale divinorum officiorum per invitare i committenti ecclesiastici a non limitare i pittori con troppa severità. E nessuna frase è stata più spesso citata per sottolineare la libertà dell’artista nel Rinascimento di quella rivolta da Giovanni Bellini al messo d’Isabella d’Este, quando gli disse che invece di seguire pedissequamente i precetti del committente, egli preferiva lasciare vagare la sua fantasia. Nella realtà, nemmeno la libertà pittorica nei confronti dell’uso del colore fu mai sconfinata. L’unico autore del Rinascimento che ce lo lascia intendere è Alberti, che fu pittore dilettante e non professionista. Egli si rifiutò di dare ricette o fonti dei colori, a differenza dell’architetto classico Vitruvio ma, affermando di essere il restauratore dell’arte della pittura sia attraverso il recupero del passato sia deducendo i suoi precetti per ispirazione divina, richiese ogni «diletto e grazia» al pittore – quella «gentilezza» tanto ammirata in Giotto da Ghiberti. Ciò che vuole dal colore è ciò che esige negli altri aspetti della composizione, una gradevole varietà in una gradevole armonia. Sembra prendere in considerazione solo l’arte profana – come esempio suggerisce una rappresentazione di Diana e il suo seguito di ninfe: una di queste dovrebbe indossare vesti verdi, la sua vicina bianche, la successiva rosse e un’altra gialle; le restanti dovrebbero vestire con i colori chiari e scuri sempre in contrasto: «Sia a questa ninfa panni verdi, a quella bianchi, all’altra rosati, all’altra crocei, e così a ciascuna diversi colori, tale che sempre i chiari sieno presso ad altri diversi colori oscuri». La grazia e la bellezza nel colore sono potenziate quando colori chiari e scuri sono in contrasto – il rosso posto tra blu e verde, il bianco accostato non solo al cenere e al giallo, ma vicino ad ogni colore, giacché li rende tutti lieti all’occhio. In quel momento Diana e le sue ninfe, sebbene destinate a un bel futuro di popolarità, non furono senz’altro soggetto di tavole o affreschi. È però vero che i soggetti allegorici e mitologici lasciavano al pittore maggiore libertà nella scelta dei colori. Per contro, nella pittura sacra, sia che si trattasse di pale d’altare che di immagini per la devozione personale, i colori erano vincolati dalle tradizioni pittoriche della rappresentazione. Gli stessi ecclesiastici riconoscevano che una tradizione iconografica degna di rispetto era stata tramandata nelle botteghe dei pittori. Nel tardo xiii secolo, il francescano Salimbene parla delle fisionomie accreditate di san Pietro e san Paolo e dell’abito bianco per gli
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17. Antonello da Messina, Madonna col Bambino, olio e tempera su pannello. National Gallery, Washington.
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Apostoli come tradizioni pittoriche. Vi erano anche ritratti tradizionali di Cristo, e altre tradizioni dettavano il colore dell’abito indossato dai santi, ad esempio il giallo per san Giovanni Evangelista, le pelli non conciate per san Giovanni Battista, il manto scarlatto per la Maddalena. Il rosso, a volte descritto come porpora, era il colore della regalità e l’azzurro, il colore del cielo; solitamente Dio Padre e la Vergine erano dipinti con un abito o una veste rossa sotto un mantello blu o, a volte, Dio Padre era raffigurato con un manto rosso per indicare la maestà celeste. A parte gli errori dei pittori, così severamente censurati dalla Riforma Cattolica, sicuramente gli artisti cercarono di mantenersi conformi a ciò che credevano essere l’autentico vestito e i colori opportuni. Anche i colori degli abiti dei vari ordini religiosi erano immutabili, mentre le vesti liturgiche, abbastanza ricche nella realtà, erano rappresentate con cura, anche se spesso erano più decorate di quelle reali e fittamente ricamate d’oro. La moda laica, di una grazia fantasiosa nell’epoca del Gotico Internazionale, e sempre ricca anche nelle età che seguirono, diede spazio
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18. Andrea Mantegna, La corte. Affresco della Camera degli Sposi di Palazzo Ducale, dettaglio, Mantova.
19. Piero della Francesca, Flagellazione. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
alla fantasia del pittore, che però anche in questo caso era a volte obbligato a seguire le convenzioni araldiche dell’Italia dei feudi e dei principati. Il rosso ad esempio, indossato dal duca Federico di Urbino nel famoso ritratto di Piero della Francesca, proclama che la sua nobiltà era di origine imperiale. L’azzurro era il colore della monarchia di Francia e quindi il colore degli Angiò di Napoli. Di conseguenza, dopo che Muzio Attendolo Sforza fu investito del titolo nobiliare dal re Ladislao di Napoli, il blu divenne il colore della livrea degli Sforza, ed è indossato da Francesco Sforza nella Flagellazione dipinta da Piero della Francesca. Allo stesso modo, il colore delle livree dei Gonzaga e degli Estensi vincola parte dello schema cromatico degli affreschi del Mantegna nella Camera degli Sposi. A emulazione del rosso imperiale, i papi e la curia indossarono il rosso, come possiamo vedere nelle rappresentazioni di Pio ii per mano del Pinturicchio nella cattedrale di Siena. Lo scarlatto è indossato da cittadini importanti e le donne sono spesso rivestite dalle sete e dai velluti che tanto erano apprezzati.
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Le analisi agli infrarossi hanno rivelato almeno una guida usata dai pittori come memento per i colori da utilizzare per essere fedeli alla natura. Il ritratto virile di Jan van Eyck detto (erroneamente) del Cardinal Albergati fu eseguito partendo da un disegno preliminare nel quale Van Eyck aveva scritto annotazioni sul colore riguardo al modello. Anche nel ritratto del Gonella, il giullare di corte di Nicolò iii d’Este, attribuito a Jean Fouquet, gli infrarossi hanno rivelato sotto al disegno finito annotazioni in francese fatte sul primo schizzo. Un famoso disegno di Leonardo (n. 659, Bayonne, Musée Bonnat) dell’impiccato Bernardo Baroncelli, condannato per la congiura dei Pazzi nel 1479, riporta una nota dettagliata nella scrittura rovesciata di Leonardo, per l’immagine infamante che doveva affrescare sui muri del Bargello. La prima prova che abbiamo dell’uso di disegni colorati in preparazione di un lavoro dipinto è di Paolo Uccello per l’affresco di Giovanni Acuto (sir John Hawkwood) realizzato nel 1436 nel duomo di Firenze: un disegno è colorato solo con tinta porpora e lumeggiature a guazzo e segnato dalla quadrettatura per il trasferimento sul muro. Nel Quattrocento il metodo italiano corrente per le proiezioni pittoriche fu la prospettiva geometrica, mentre nelle Fiandre si utilizzava la prospettiva aerea per suggerire la distanza. A differenza della prospettiva geometrica, essenzialmente matematica, la prospettiva aerea è empirica, e consiste nella riduzione dei particolari e delle figure mano a mano che si allontanano rispetto all’osservatore e nella tendenza dei colori a divenire bluastri a distanza – tale accorgimento ebbe immediati predecessori nei manoscritti di corte prodotti a Parigi, come le Ore di Boucicaut. Naturalmente la prospettiva aerea interessava maggiormente l’arte delle Fiandre, ove venne studiata per prima, e dove il paesaggio reso con naturalismo divenne il tema principale, tanto che le tradizionali relazioni tra figure e sfondi vennero infine invertite. I Fiamminghi attribuivano l’invenzione del paesaggio a Harlem, e in particolare ad Albert van Ouwater fl. (c. 1440-1465) e a Dirk Bouts (c. 1415-1475) i quali si trasferirono poi a Louvain. Non ci è noto nessun paesaggio del Ouwater. Comunque, lo sfondo paesaggistico, se spesso dipendeva in ultima analisi, nelle Fiandre del Quattrocento, dagli scenari naturali noti al pittore, solo raramente era la resa riconoscibile di una scena reale – e quando paesaggi veri venivano rappresentati, lo si doveva normalmente a scopi devozionali. Si utilizzarono piuttosto compositi paesaggi verdeggianti bucolici e pittoreschi, inserendo montagne, rocce, alberi, vallate e fiumi che scorrono, per creare sfondi o vedute che per gli abitanti delle piatte pianure fiamminghe erano profondamente romantici. In Italia un simile romanticismo, ispirato soprattutto dagli sfondi con rocce stilizzate ereditate dall’antichità classica che furono a lungo il fondo convenzionale nell’arte bizantina ed italiana, lasciò posto all’introduzione, specialmente nella Padova degli Squarcioneschi, di romantiche forme rocciose, rese in maniera naturalistica, per creare le eremitiche solitudini o i paesaggi della Terra Santa tanto cari alla pia immaginazione del xv secolo. Dirk Bouts, celebrato a un secolo dalla morte come grande innovatore nella pittura di paesaggi rurali, da buon Fiammingo era sensibile alle atmosfere che gli effetti di luce in differenti ore del giorno possono produrre nel paesaggio. Il giovane Mantegna e il giovane Giovanni Bellini mostrarono un’eguale sensibilità al valore drammatico delle scene crepuscolari, come vediamo nell’Agonia
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20. Jean Fouquet, Gonella. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
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nell’orto di Bellini, con una luce serale, ombre scure e un sole al tramonto, e nell’Agonia di Mantegna, nel cielo scuro. Nell’ultimo quarto del secolo il morbido paesaggio verdeggiante di Memling ebbe una chiara influenza sulla pittura umbra e toscana, quando il gusto dell’epoca iniziava a virare verso effetti di soavità. Comunque, i distanti azzurri aerei fecero la loro comparsa in Italia solo più tardi, nel dittico di Piero della Francesca con i ritratti di Battista Sforza e Federico da Montefeltro, in Crivelli verso il 1480 e in Mantegna negli anni ’90. L’uso di forme e colori imprecisi per suggerire la distanza nel paesaggio non fu molto incoraggiato dalle teorie del disegno che dominavano a Firenze. Qui prevaleva una certa indifferenza verso il paesaggio come tema per il pittore, come si evince dal commento di Leonardo su Botticelli, il quale considerava il suo studio una perdita di tempo: «Che tale studio era vano perché solo col gittare d’una spongia piena di diversi colori in un muro, esso lasciava in esso muro una machia dove si vedeva un bel paese». Leonardo aggiunge: «Egli è ben vero che in tale machia si vedono varie invenzioni di ciò che l’hom vuol cercare in quella, cioè teste d’huomini, diversi animali, battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi, et altre simili cose, è fa come il sono delle campane nelle quali si po intendere quelle dire quel ch’a te pare». Le parole di Leonardo non sono veramente riferibili all’opera di Botticelli, e devono essere intese come mezzo per ottenere idee pittoriche per un paesaggio efficace più che come un modo di creare forme pittoriche. Ma questa frase ci fa ricordare che la spugna, come il pennello, era un mezzo usato per porre il colore nella pittura del Quattrocento italiano. La ricerca del contrasto forte fra colori caldi e freddi è riscontrabile nella pittura degli Squarcioneschi di Padova, ed in alcuni artisti da loro influenzati. In particolare, in Cosmè Tura di Ferrara si riscontra una repulsione al colore dal vero e la preferenza per la violenza irreale del colore e per i contrasti cromatici che rasentano la dissonanza. Per il resto i pittori del xv secolo considerano la luminosità parte della ricerca di uno stile vario e decorativo, mantenendo però, come negli affreschi di Masaccio in Santa Maria Novella e in alcune opere tarde di Mantegna, il potere di creare pitture eloquenti rese con una manciata di accordi tonali scuri. E infatti, sebbene il colore fosse molto apprezzato nel xv secolo, si evolse anche la raffinata tecnica della monocromia, nota anche come «grisaille», nella quale gradazioni di bianco e nero sostenute da un lieve uso di colore sono utilizzate per creare le forme. Nella pittura su muro tale tecnica è nota per la prima volta nella cappella degli Scrovegni dipinta da Giotto (1303-1306), dove l’ocra e la terra verde sono i pigmenti monocromi dominanti. La grisaille fu utilizzata con grande eleganza lineare nella Francia del xiv e xv secolo, e l’Italia dell’Umanesimo le conferì la sua approvazione. Alberti, negli anni ’30 del Quattrocento, annotava che bianco e nero erano sufficienti al pittore per esprimere luce ed ombra: «Tutti gli altri colori essere al pictore come materia a quale agiugnesse più o meno ombra o lume». Egli sottolinea come nella Grecia antica i pittori Polignoto e Timante usassero solo quattro colori, e come Aglaofone ne usasse solo uno. Dal canto suo, però, egli pensa che la ricchezza e la varietà dei colori siano di gran lunga preferibili. La tecnica venne in uso nel xv secolo nelle Fiandre per simulare le architetture e le sculture in pietra. Già nella pala di Ghent dei fratelli Van Eyck (c. 1423-1432) le rappresentazioni delle statue di santi sono monocro-
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21. Cosmè Tura, Madonna con Bambino e angeli musicanti, olio e tempera su pannello, centrale della Pala Roverella.The National Gallery, Londra.
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me, e la luce brillante che contrasta con lo sfondo accuratamente ombreggiato dà pieno valore al loro volume tridimensionale. Il xv secolo era molto più interessato alla vividezza della simulazione che non alla stretta logica scultorea di tali figure, e l’ammirazione che suscitarono creò una moda. In Italia la monocromia fu utilizzata anche per simulare la scultura servendosi della pittura come di una tecnica più economica, le cui capacità illusionistiche potessero costituire un’alternativa meno costosa alla bellezza del marmo lavorato. I monumenti equestri dipinti da Paolo Uccello per Giovanni Acuto (1436) e da Andrea del Castagno per Niccolò da Tolentino (1456) sono i grandi esempi di questa tecnica. I piccoli quadri a grisaille dipinti da Andrea Mantegna verso la fine del secolo erano sicuramente percepiti anche come sostituti di rilievi scultorei, che committenti dal gusto umanistico potevano inserire nelle pareti dei loro studioli: quasi certamente erano anche intesi come emulazione dei perduti capolavori monocromi dei pittori della Grecia antica. Per vari aspetti il tardo xiv e il xv secolo furono epoca di sofisticati virtuosismi tecnici. La repentina sensibilità alla luce e all’atmosfera del Gotico internazionale, che era uno degli aspetti dell’amore per il naturalismo e l’illusionismo, condussero nel xv secolo alla comparsa dei notturni, già perfettamente resi verso il 1410 nella scena del Getsemani delle Très Riches Heures del duca di Berry. Nella Natività di Geertgen Tot Sint Jans la scena si svolge di notte, e l’unica fonte di luce è la radiazione dorata che emana dal Bambino. Nella pittura profana La battaglia di San Romano (Firenze, Uffizi) Paolo Uccello sfrutta un drammatico sfondo notturno per amplificare l’azione violenta che si svolge in primo piano. La resa degli effetti di trasparenza era un’esibizione di capacità tecnica, ad esempio nella simulazione del colore sotto una veste bianca o trasparente – come nel velo della Vergine che ricade sulle spalle. I materiali trasparenti erano di per sé una prova, superata brillantemente nell’arte di Hugo van der Goes e di altri Fiamminghi, della capacità di rappresentare recipienti di vetro e cristallo. La rappresentazione dei fiori raggiunge una miracolosa bellezza nell’arte di questo maestro e in quella di Carlo Crivelli.
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22. Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, tempera con velature a olio su metallo. Galleria degli Uffizi, Firenze.
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«AZIONI E PASSIONI» DELLA LUCE IL COLORE DALLE TEORIE OTTOCENTESCHE ALL’ULTIMO MATISSE Giorgio Zanchetti
La riflessione sulle potenzialità e sui mezzi del colore e della luce che caratterizza una parte significativa delle esperienze delle avanguardie artistiche del primo Novecento immerge le proprie radici in profondità, fino al momento formativo del pensiero e della cultura che ancor oggi ci ostiniamo a chiamare contemporanea: cioè nel lungo e tortuoso passaggio, della seconda metà del xviii e del primo decennio del xix, dall’Età dei lumi a quella neoclassica e del primo Romanticismo. Come sottolineava nel luglio del 1810 un precoce critico della Teoria dei colori di Johann Wolfgang Goethe: «[…] era quasi prestabilito che la nuova teoria dei colori sarebbe stata romantica, poetica e per nulla prosaica, e che noi non avremmo potuto aspettarci altro che una spiegazione, travestita nell’artificioso linguaggio del trascendentalismo, delle note manifestazioni di natura»1. Questi gli auspici sotto i quali si apriva la complessa e ambivalente tradizione del “pensiero artistico” ottocentesco sulle manifestazioni fisiche del colore in natura e sulle sue valenze espressive e simboliche nella pittura, che si dimostrava da subito articolata attorno a due poli contrapposti e apparentemente inconciliabili: il razionalismo e lo scientismo della teoria fondativa di Isaac Newton (sviluppatasi tra il 1671 e il 1704)2 sulla «manifestazione di natura» della luce, scomposta nello spettro cromatico, venivano programmaticamente “contestati” da Goethe3 che, partendo dal presupposto di una più stretta adesione all’osservazione empirica degli «effetti» della luce, della quale i colori rappresentano testualmente le «azioni e passioni», approdava di necessità all’assolutizzazione di una prospettiva soggettivistica e psicologica4: 1. Philipp Otto Runge, Sfera cromatica, 1810. Acquerello. Hamburger Kunsthalle, Amburgo.
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Ancor oggi vi è tra i pittori timore e, perfino, antipatia decisa dinanzi a ogni considerazione teorica intorno al colore e alle sue proprietà, senza tuttavia che li si possa di ciò incolpare. Quanto finora è stato definito come teorico era infondato, incerto e rinviava all’empiria5.
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Eppure, nonostante questa paternalistica giustificazione dello stesso Goethe, è proprio un artista, Philipp Otto Runge, ad elaborare, in stretta sintonia con la prospettiva di filosofia della natura del pensatore di Weimar, una delle più efficaci e fruttuose sintesi teoriche sul colore, dispersa in numerosi frammenti e nel suo ricco epistolario e soltanto in parte condensata nel noto scritto che prende il nome dall’immagine diagrammatica de La sfera del colore6. In essa, Runge sembra fornire, oltre al modello geometrico e operativo della riflessione artistica sul colore, un vero e proprio esempio di come la creazione pittorica possa a pieno titolo entrare in un dialogo paritario con la speculazione filosofica7, lavorando insieme ad essa per dare forma sensibile anche alle concezioni astratte. La sua trattazione dei «nessi tra i colori elementari», modestamente indirizzata a «scopi di pubblica utilità, in quanto essi permettono all’artista e all’artigiano la formazione di un giudizio più definito»8, si presenta fin dal principio come «una dottrina o una didattica della pittura a carattere scientifico, dalle quali possa poi risultare qualche produttiva regola», rivendicando la necessità di una meditata teoria che sostenga il “fare” in cui conoscenza e scienza, fisica e poetica, si integrino vicendevolmente. In tal senso l’autore propone una scienza empirica «del disegno» che riunisca la «conoscenza della forma, della proporzione, dei rapporti prospettici e dell’illuminazione degli oggetti», sostenendosi concretamente «sulla scoperta delle leggi secondo le quali gli oggetti divengono visibili all’occhio umano, ma non sulla conoscenza dei corpi e delle loro forme in sé e per sé». «Concentrandoci sul colore», prosegue Runge, «vorremmo ora tentare di indagare secondo questo spirito i nessi dei colori tra di loro, e rispetto alla loro purezza, e rispetto alle leggi che ne governano la mescolanza e in questo modo, di più ancora, determinare le impressioni che la loro combinazione produce su di noi nonché la modificazione del loro aspetto nelle mescolanze, e ciò allo scopo di poterle ogni volta riprodurre con il nostro materiale»9. Non gli sfugge, però, l’impossibilità di attingere, nella pratica e nella manipolazione della materia, al grado di purezza postulato da ogni teoria astratta del colore e della luce10. Proprio questa rincorsa ad un tono di colore puro e assoluto (e quindi «teorico») finisce per suggerire la distinzione tra mescolanza additiva e mescolanza sottrattiva dei colori attraverso l’attributo della trasparenza:
te enunciata, per salire al registro di una partecipazione cosmica e di una dimensione spirituale puntualmente espresse attraverso un uso mistico e allegorico dei modi della visione e degli elementi della sfera del colore. La sfera stessa genera «il fiore dell’esistenza, il colore»13. Mentre, parallelamente, ancora Goethe metteva in evidenza l’«azione morale» oltre che «sensibile» del colore, sottolineandone il ruolo fondamentale per le espressioni caratterizzanti i più diversi livelli culturali e sociali. Introducendo l’idea di «stato d’animo» e dell’influsso cromatico su di esso, spostava quindi la riflessione, sempre in termini di generalizzazione, verso una possibile psicologia collettiva e individuale del colore14. E finiva per far discendere senza mediazioni, con uno spericolato salto argomentativo, la funzione estetica del colore messo in mano all’artista da questa sua peculiare azione «sensibile e morale»15, considerando del tutto necessario, quasi in uno sviluppo fisiologico, il passaggio dal disegno alla pittura e finanche a quella scultura colorata, che tanto dibattito susciterà nelle accademie e nei salon ottocenteschi per approdare alle polemiche primitiviste ed espressioniste delle avanguardie del primo Novecento:
Se cercassi il rosso teorico avrei, da un lato, un rosso che quando lo si stende si mostra più o meno trasparente, dall’altro, un rosso che è in sé semplicemente non trasparente senza che io possa dire che il rosso vero e proprio è questo piuttosto di quello, e la stessa cosa capita anche nei fenomeni della natura. […] Posto che il rosso è rosso, questa parola esprime la cosa nel senso che esprime l’essenza e non la materia. […] Se quindi considero un rosso che non tende né verso il giallo né verso l’azzurro, e che ci è dato nella forma del vetro, della pietra, delle nuvole, o in una polvere, le differenze e i cambiamenti sono tali e tanto evidenti che certamente non posso dire: solo questo è il rosso, o solo quello, perché il rosso si trova in tutti questi corpi […]11.
L’approdo – se non della trattazione data alle stampe da Runge, almeno, indubbiamente, delle sue aspirazioni più squisitamente speculative12 – travalica però il limite fisico e la finalità strettamente operativa, inizialmen-
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[…] Un’opera d’arte in bianco e nero può presentarsi raramente in pittura. […] Ma appena l’artista si abbandona al proprio istinto, si annunzia subito un elemento di colore. […] In arte del resto, in tutti i tempi, gli uomini tendono per istinto al colore. È quotidiana esperienza che gli appassionati del disegno passano dall’inchiostro di china o dal gessetto nero su carta bianca alla carta colorata, usando poi diversi tipi di gessetto e arrivando infine al pastello. Oggi si vedono ritratti, disegnati con punta d’argento, ravvivati con guance rosse e abiti colorati e, perfino, silhouettes in uniformi variopinte. Paolo Uccello dipingeva figure incolori in paesaggi colorati. A quest’impulso non seppe resistere nemmeno la scultura antica. Gli Egizi coloravano i loro bassorilievi. Alle statue davano gli occhi di pietre colorate, a teste ed estremità di marmo aggiungevano vesti di porfido, usavano lo spato calcareo multicolore per i listelli dei busti. I gesuiti non mancarono di comporre così il loro san Luigi a Roma e, nella recente scultura, si distingue la carnagione dai drappeggi mediante una tintura16.
Esplicitamente interessato ai principi teorici dell’ottica e della riproduzione del reale, anche William Turner fonda la propria apocalittica trasfigurazione della natura connotata dall’uomo e dalla storia su una diretta conoscenza della teoria goethiana del colore, disciplinarmente affrontata – accanto alla sua materia d’insegnamento, la prospettiva – nelle «Lectures» tenute a partire dal 1811 presso la Royal Academy di Londra17. Nel 1843, poi, presentando il suo noto dittico di Shade and darkness e Light and colour, integrerà i complessi richiami simbolici ed escatologici di questa seconda opera esplicitando nella titolazione stessa il rimando al cerchio cromatico del filosofo di Weimar, qui di nuovo coerentemente inteso, senza mediazioni, come espressione di un’esasperata sensibilità soggettiva e del sopravvento dello stato d’animo su ogni possibile dottrina della percezione visiva. Alla Sera del giorno del Diluvio, cui rimanda il sottotitolo di Ombra e tenebra, si contrappone, nel secondo quadro, una visione altrettanto turbinosa e fisicamente instabile in cui il sole, che sorge abbagliante nel Mattino dopo il Diluvio, genera un’iride circolare ed espansa, che allude, insieme col serpente bronzeo di Mosè che campeggia al centro, al rinnovato patto di salvezza tra Dio e l’uomo, ma al tempo stesso riafferma
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l’inafferrabilità e l’impersistenza della natura e del mondo fisico. Ormai, nel cuore dell’Ottocento, l’autonomia, la razionalità e il sapere scientifico lungamente perseguiti sono messi in scacco proprio attraverso la significativa metafora della luce dell’alba dell’ultimo giorno, con un’anticipazione della sensibilità del Simbolismo assai più incisiva di quella, già troppe volte suggerita, nei confronti del colore atmosferico impressionista. In Delacroix – per restare a uno dei massimi esponenti del Romanticismo e della pittura di storia, ripetutamente invocato come capostipite di una tradizione di colorismo approdata poi al naturalismo percettivo degli Impressionisti – l’interesse per una nuova e più libera resa dei valori cromatici matura grazie all’ostinata pratica della ripresa dal vero del reale e al fascino (profondamente intriso di suggestioni romantico-letterarie) della luce esotica e in qualche modo originaria del Marocco, visitato nel 1832. Lo stesso fascino che più tardi agirà, significativamente, su Matisse e su Klee. Nello stesso anno Balzac, ne Il capolavoro sconosciuto, aveva risparmiato dall’ostinato furore della stesura coloristica di Frenhofer – vera «muraglia di pittura», «caos di colori, tonalità, sfumature indecise» che profetizzano con centoventi anni di anticipo la ribellione dell’informale – solo il minuto e vivissimo frammento anatomico di un piede femminile18. Nell’interminabile e viziata polemica intorno al primato del disegno, disceso da quel Poussin di cui Balzac aveva fatto il proprio imbambolato protagonista fino a David e Ingres, Delacroix non può evitare di farsi paladino della stirpe di Tiziano e di Rubens, in nome di un’autonomia e di una capacità d’espressione del colore che è tutta soggettiva: L’impressione profonda che mi hanno suscitato i quadri di Lesueur non mi impedisce di rendermi conto del grado di forza che il colore può aggiungere all’espressione. Contro l’opinione del volgo, vorrei dire che il colore ha in sé una forza ben più misteriosa e forse più potente; essa agisce per così dire a nostra insaputa19.
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2. Joseph Mallord William Turner, Cerchi cromatici, 1810-1827 circa, matita e acquerello su carta. British Museum, Londra.
3. Joseph Mallord William Turner, Luce e colore (La teoria di Goethe) – Il mattino dopo il diluvio – Mosè scrive il libro della Genesi, esposto nel 1843, olio su tela. Tate Gallery, Londra.
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L’accostamento non più soltanto intuitivo – almeno dopo la diffusione degli studi di M.E. Chevreul su La legge del contrasto simultaneo dei colori (1839) – dei complementari, testimoniato anche dalla presenza di uno schizzo di diagramma triangolare dei colori proprio su uno dei taccuini nordafricani del 1832, ravviva e sostanzia le accensioni dei filamenti cromatici di rossi infuocati e di verdazzurri metallici già desunte dalla tradizione dei veneziani e dallo studiatissimo Rubens. Ma il Marocco è anche la terra vagheggiata, idealmente vergine di ogni civile convenzionalismo, in cui la sensibilità cromatica può liberarsi, sotto il sole africano, in pura sensualità, alleggerendosi anche della tradizione poetico-romanzesca del Romanticismo gotico e brumoso: i cortei gioiosi e le sfolgoranti tenute multicolori appuntati sugli Album20 sembrano quasi voler confermare la predilezione per i contrasti squillanti e per i toni fiammeggianti del rosso e dell’oro indistintamente attribuita da Goethe a «selvaggi, popoli primitivi, fanciulli». Ne emerge, peraltro, anche un’immagine spaziale del paesaggio, costruito per contrapposizioni di tonalità, piuttosto che per chiaroscuro, che parrebbe quasi anticipare la rigorosa tavolozza e il colore formativo di un certo Cézanne: 10 aprile. […] Bel paese, montagne davvero blu, violette a destra; montagne violette il mattino e la sera, blu durante la giornata. Tappeto di fiori gialli, viola prima di arrivare al corso del Wad-el-Maghzen. […] A destra, bellissime montagne blu, a sinistra, pianura a perdita d’occhio, tappeto di fiori bianco, giallo chiaro, giallo cupo, viola21.
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4. Eugène Delacroix, Paesaggio nei dintorni di Algeri, 1832, acquerello e mina di piombo su carta. Musée du Louvre, Parigi.
5. Paul Signac, Concarneau. Pesca della sardina. Opus 221, 1891, olio su tela. The Museum of Modern Art, New York.
L’idea tradizionale, cui si è fatto cenno, di Delacroix come patriarca della genealogia impressionista e postimpressionista in Francia non riposa soltanto sull’indubbia influenza da lui esercitata, attraverso e oltre la stagione del Realismo di Courbet, sui giovani che si affacciano all’arte negli anni Sessanta. Ormai allo scadere del secolo, è uno dei protagonisti dell’ultima generazione impressionista a rilanciarne dall’interno l’autorità essenziale, ponendolo a capo di una presunta catena ininterrotta che, ribadita da Monet, Pissarro e Renoir, giunge a Seurat e al pointillisme. Pubblicando nel 1899 il suo Da Eugène Delacroix al neoimpressionismo22, Paul Signac dimostra chiaramente di volersi proporre come garante, dopo la morte prematura di Georges Seurat, di una tradizione del nuovo che fa risalire appunto al Colorismo del grande maestro romantico e – ma con minor ricchezza e lucidità argomentativa – all’irrinunciabile Turner, filtrato non a caso attraverso l’occhio e il pensiero di John Ruskin23. Malgrado tutti i suoi «sforzi e gli scrupoli scientifici», Delacroix esce però battuto, in termini di «luminosità e intensità cromatica», dal confronto diretto con gli impressio-
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nisti e con i neoimpressionisti: significativo è, per questo aspetto, il paragone istituito, sempre da Signac, tra l’Ingresso dei crociati a Costantinopoli e due opere esemplari delle due differenti fasi della nuova pittura francese, come la Colazione dei canottieri di Renoir e Il Circo di Seurat. Benché sia riuscito «a spremere dalla tavolozza romantica, sovraccarica di colori talora brillanti, più spesso terrosi e cupi, tutto ciò che questa poteva dargli», al maestro romantico sarebbe mancata, nella prospettiva autocelebrativa del pointillisme, «una tecnica più adeguata». «Ma altri pittori», continua, alzando i toni, Signac, «stanno ormai per compiere un ulteriore passo in avanti verso la luce, risolvendosi a dipingere con i soli colori dell’iride. […] I pittori destinati a prendere il posto di Delacroix come paladini del colore e della luce sono coloro che, più tardi, verranno chiamati impressionisti […]». Tra essi ricorda espressamente, in questo passo, Renoir, Monet, Pissarro, Guillaumin, Sisley, Cézanne e Jongkind «loro ammirevole precursore», identificando, in conclusione, quale tratto distintivo della nuova età artistica la capacità dell’Impressionismo di svecchiare l’intera pittura ottocentesca attraverso un’originale «concezione del colore»24. Tuttavia, questa gloriosa rincorsa dell’Impressionismo, appare giocoforza, a Signac, frenata a pochi passi dal raggiungimento della meta, proprio a causa della disorganicità nell’applicazione del metodo della scomposizione cromatica: […] essi non hanno saputo avvantaggiarsi completamente della loro tavolozza luminosa e semplificata. Ciò in cui gli impressionisti sono riusciti è la limitazione della tavolozza ai soli colori puri; ciò in cui non sono riusciti, e la cui realizzazione è stata affidata ai loro successori, è l’assoluto rispetto, in qualunque circostanza, della purezza di questi colori25. Resta così aperto un ampio spazio per gli ulteriori conseguimenti del nuovo Impressionismo, propriamente e rigorosamente «scientifico», proposto da Seurat e dallo stesso Signac: Osservanza delle leggi del colore, uso esclusivo di tinte pure, rinuncia a tutti i tipi di mescolanza suscettibili di abbassare l’intensità dei colori impiegati, relazione equilibrata e metodica fra gli elementi: sono queste le mete che gli impressionisti hanno indicato ai pittori desiderosi di continuare le loro ricerche. Se questi pittori, la cui denominazione più appropriata sarebbe quella di cromo-luminaristi, hanno scelto di chiamarsi neoimpressionisti, non è stato per ricercare il successo (gli impressionisti erano ancora tutt’altro che affermati), ma per rendere omaggio allo sforzo dei precursori e mettere in evidenza, sia pure nella diversità dei procedimenti, il fine comune: la luce e il colore26.
Al termine della linea di amaro ripensamento sul fallimento e sull’inadeguatezza dell’artista e del letterato, inaugurata dal Frenhofer di Balzac e rilanciata al declinare della parabola impressionista da L’oeuvre di Zola, Marcel Proust farà morire il povero Bergotte – con un estetismo di una crudeltà solo in parte giustificata dall’identificazione autobiografica sottostante a quest’episodio – davanti a quella che è, fondamentalmente, la rivelazione ultima del colore come somma sensibilità luministica, ormai non più raggiungibile, cioè il giallo solare incastonato da Vermeer nel piccolo
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6. Georges Seurat, Il circo, 1890-1891, olio su tela. Musée d’Orsay, Parigi.
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lembo di muro della sua Veduta di Delft. Ma, in apertura della Recherche, Proust aveva dedicato una pagina di profonda partecipazione e di corrispondenza quasi testuale alle grandi Ninfee di Monet, in un cortocircuito di sensibilità e sentimento tra l’amata Auteuil, il giardino di Illiers, la Combray del romanzo e il ritiro monetiano di Giverny:
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ne, sembreranno voler illustrare, in chiave di pura armonia musicale, «l’eternità» del «mare mescolato col sole», già cantata dall’entusiasta maestro della corrispondenza cromatica in poesia, Arthur Rimbaud:
7. Claude Monet, Ninfee (Le Matin aux Saules), 1915-1926, olio su tela. Musée de l’Orangerie, Parigi.
Enfin, ô bonheur, ô raison, j’écartai du ciel l’azur, qui est du noir, et je vécus, étincelle d’or de la lumière nature. De joie, je prenais une expression bouffonne et égarée au possible: ‘Elle est retrouvée! / Quoi? l’éternité. / C’est la mer mêlée / Au soleil’29.
[…] le grandi ombre degli alberi davano all’acqua un fondo che appariva perlopiù verde cupo, ma che a volte, rincasando in certe sere rasserenate dopo un temporale pomeridiano, ho visto d’un azzurro tenue e crudo, che sconfinava nel viola, rifinito come uno smalto e di gusto giapponese. Qua e là, sulla superficie, un fiore di ninfea dai bordi bianchi e dal cuore scarlatto rosseggiava come una fragola. […] mentre un po’ più in là si sarebbe detto che delle viole del pensiero, strette l’una contro l’altra in una sorta di piattabanda galleggiante, fossero venute dai giardini a posare come farfalle le loro ali azzurrognole e candite sull’obliquità trasparente di quell’aiuola d’acqua; aiuola celeste, anche, giacché il colore che creava in sottofondo ai fiori era più prezioso, più commovente di quello stesso dei fiori; e […] sembrava che li avesse fatti fiorire in pieno cielo27.
Nonostante l’accanimento con cui persegue la propria giustificazione ottico-fisiologica, integrando la divulgata teorizzazione di Chevreul con le più recenti traduzioni degli scritti di Rood e con l’«estetica scientifica» di Henry28, è proprio sulla posizione di una vera partecipazione panica alla natura del mezzogiorno francese, compenetrata da un rilancio vitalistico non privo di sfumature neoromantiche e decadenti, che il neoimpressionismo si attesta, contraddicendo in buona parte gli ultimi assunti dello stesso Seurat, e giungendo infine a saldarsi, nel Matisse di Lusso, calma e voluttà, con i primi esiti dell’avanguardia espressionista novecentesca. Agli opposti capi di questo filo, l’evocazione baudelairiana – valida, a dire il vero, un po’ per tutte le stagioni, da Delacroix a Manet, fino a Moreau, a Rodin e, perché no?, a Magritte – de L’invito al viaggio echeggerà ancora nell’oro della luce di Matisse o nelle barbare visioni dell’età delle origini proposte da Derain; mentre, con più stretta consequenzialità, Le Isole d’Oro di Cross, a un passo dal definitivo superamento della figurazio-
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Alle pagine seguenti: 8. Claude Monet, Ninfee (Le Matin aux Saules) particolare, 1915-1926, olio su tela. Musée de l’Orangerie, Parigi. 9. Henri Edmond Cross, Le Isole d’Oro, 1891-1892, olio su tela. Musée d’Orsay, Parigi.
Più strutturate sul piano della costruzione narrativa e, propriamente, allegorica, ma ugualmente permeate da questo entusiasmo di dissoluzione, si dimostreranno, in questo stesso volgere d’anni, le più varie soluzioni del Simbolismo internazionale: dagli scenografici tagli di luce di Moreau alle visioni fantastiche di Redon, fino all’idealizzazione dei fondi oro e delle tessiture decorative di Klimt. Né si può trascurare la situazione atipica, ma altrettanto emblematica, dei divisionisti italiani, che tanto peso avranno, con la loro programmatica lettura mitica o simbolica della luce solare (propria si noti, non soltanto di Previati, ma anche della vera e propria religione sociale proposta dal Pellizza de Il sole o della serie che culminerà con Il quarto stato), nell’informare, attraverso la suggestione tecnica delle tinte divise e del tratteggio dinamico e ondulatorio, la nuova mitologia dell’energia meccanica e biologica del Futurismo di Boccioni e di Balla: gli «stati d’animo»30 del primo, così come le iridescenze dovute all’elettricità o alla rifrazione del secondo, sviluppano sul nuovo piano di un mondo fisico fittamente permeato di onde energetiche, e percepito come tale, l’adesione emotiva alle manifestazioni del reale che aveva caratterizzato la teoria romantica del colore. Non è un caso se proprio dalla rivalutazione, in senso antipositivista, della tradizione romantica tedesca sul colore e sulla luce come elementi simbolici dello stato d’animo o della dimensione spirituale, operata da Rudolf Steiner a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, prende l’avvio la nodale stagione operativa, teorica e didattica intrapresa da Kandinskij e Klee, dapprima, con Marc e Schönberg, sulle pagine del «Cavaliere azzurro», poi, con maggior organicità, nelle aule-laboratorio e nel cenacolo
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10. Gaetano Previati, Il carro del sole, pannello centrale del trittico Il giorno, 1907, olio su tela. Camera di Commercio di Milano.
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dei docenti del Bauhaus. Già nel 1913, Kandinskij apriva il suo Sguardo al passato, pubblicato a Berlino per le edizioni dello Sturm, con una raffinata e precisa genealogia cromatica del proprio percorso biografico e creativo: I primi colori che mi fecero una forte impressione furono il verde chiaro vivace, il bianco, lo scarlatto, il nero e il giallo ocra. I miei ricordi risalgono fino al terzo anno di vita. Vidi questi colori in vari oggetti che oggi non stanno più dinanzi ai miei occhi così nettamente come i colori stessi31.
Attraverso il filtro di una memoria fatta quasi esclusivamente di colore, all’immagine del borgo medievale di Rothenburg sul Tauber si sovrappone quella di Mosca, in una complessa orchestrazione percettiva, psicologica e compositiva che, partendo da un’adesione immediata alla realtà fenomenica, apre la strada a quella che si avvia a diventare un’astrazione lirica
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11. Paul Klee, Ricordo di un giardino, acquerello e matita su cartoncino, 1914. Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf.
12. Vasilij Kandinskij, Composizione vi, 1913, olio su tela. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
ed armonica. A detta dell’autore, il profilo di Rothenburg rievocato, dallo studio monacense, ne La città vecchia «è pieno di sole e i tetti sono di un rosso abbagliante come solo potevo farli in quel periodo». Il suo tentativo era però quello di rievocare il proprio stato d’animo in «un’ora particolare, che era e rimane sempre l’ora più bella delle giornate di Mosca. Il sole è già basso e ha raggiunto la sua massima forza, dopo averla cercata per tutto il giorno, dopo essersi proteso verso di essa per l’intera giornata. Questo aspetto non dura molto: pochi minuti ancora e la luce del sole diventerà rossa per lo sforzo, sempre più rossa, dapprima fredda e poi sempre più calda»32. Questa progressione è descritta da Kandiskij attraverso un ampio e pertinente ricorso al lessico e alla metafora musicale, indice di un atteggiamento panico e sinestetico, che – in parziale convergenza con le autonome vie verso il superamento dell’aderenza alla mimesi indagate da altri
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sperimentatori, come \iurlionis, Marc, Schönberg, Kupka, Robert e Sonia Delaunay, Survage, Russolo, Balla e Severini – interpreta la vibrazione cromatica e quella sonora come stringenti correlativi di un moto interiore, sia esso psicologico o propriamente spirituale33. A questa profonda commozione, quasi estatica, di fronte allo spettacolo della realtà percepita attraverso il colore, succede, all’inizio del percorso pittorico di Kandiskij, un turbamento profondo e uno scoramento, nell’incapacità di giungere, per il momento, alla «soluzione semplice che i fini (e quindi anche i mezzi) della natura e dell’arte sono essenzialmente, organicamente e storicamente diversi, e ugualmente grandi e dunque anche ugualmente forti»34. Questa soluzione mi liberò nuovi mondi. (…) Tutte le cose mi svelavano il loro volto, la loro natura più intima, l’anima segreta che tace più spesso di quanto non parli. Così per me ogni punto immobile e ogni punto in movimento (=linea) diventavano vivi e mi manifestavano la loro anima. Ciò mi bastò per “capire” con tutto il mio essere, con tutti i miei sensi, la possibilità e l’esistenza dell’arte che oggi viene chiamata “astratta” in contrapposizione a quella “oggettiva” o “figurativa”35.
E l’artista ricorda tre episodi esemplari come fondamentali snodi del suo percorso verso una nuova idea della pittura – l’annientamento della sua fiducia nella ragione scientifica, seguito alla «scoperta della divisione dell’atomo»; l’intuizione degli enormi «poteri» dell’arte, grazie al trascinante esempio del Lohengrin wagneriano; e infine la rivelazione della pittura impressionista e in particolare della dissoluzione della forma nel colore operata da Monet36. Il passaggio all’astrazione si è compiuto per le ragioni intrinseche e per l’autonoma «incredibile» forza di un unico elemento simbolico, eletto come assoluto: il colore. E in stretto parallelismo con le indipendenti teorizzazioni, destinate ad ampia risonanza nell’Europa e negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, di altri determinanti docenti del Bauhaus, come Johannes Itten, Josef Albers e László Moholy-Nagy, l’interesse per l’approfondimento scientifico e per la suggestione psicologica e simbolica del colore sarà lungamente al centro del lavoro di Mondrian e De Stijl (fino alla formicolante liberazione luminosa dei suoi quadri americani degli anni Quaranta), del Suprematismo di Malevi/ e di molto Costruttivismo internazionale. In una lettura parallela del lavoro di George Grosz e Paul Klee, Leopold Zahn scriveva, nel 1920, sulle pagine di «Valori Plastici»: […] mentre Kandinskij concentra la sua attività nel trasformare direttamente, senza ambagi naturalistici, gli elementi emotivi in forma e in colore, il Klee imposta un problema ben differente e molto più complicato. Kandinskij diede comunque l’esempio radicale di un’arte introspettiva, animata e autonoma, che basta a se stessa e non ricorre, per farsi intendere, agli oggetti della natura. Ma Kandinskij è pittore puro, pittore in senso eccessivo, che dà di piglio ai colori nella loro genuina materialità da tavolozza, che ricerca il tono forte, per così dire naturalistico del colore e ne scopre il “pathos” drammatico. […] In tutti questi punti il Klee è precisamente l’opposto; egli non può fare a meno del mezzo grafico, combatte la materialità del colore, è liricamente intonato, e, a malgrado d’ogni suo avvicinamento
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13. Giacomo Balla, Compenetrazione iridescente n. 7, 1912, olio su tela. Galleria d’arte moderna e contemporanea, Torino.
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al misticismo orientale, egli pur rimane figlio del secolo ventesimo occidentale, per cui la sua personalità si appresenta in sommo grado differenziata. […] Il campo artistico del Klee abbraccia l’infinito: mondi morti, presenti e futuri, la vita nel fondo del mare e sugli astri37.
È ancora Klee che – nell’ambito dell’aspra polemica artistica contro l’insegnamento scolastico della teoria del colore del premio Nobel per la chimica Wilhelm Ostwald – scrive al critico Hans Hildebrandt, animatore, nell’ambito del Werkbund, del Freie Gruppe für Farbkunst:
Pur nella sua ostinata ricerca di un fondamento metodologico per la propria arte, capace di garantirne tanto l’aspirazione alla libertà e all’assoluto quanto la strutturale necessità di una regola rigorosa, anche Paul Klee può identificare il proprio «essere pittore» nella fusione panica con il manifestarsi del colore nella natura. In un’annotazione del diario del suo viaggio in Tunisia, nell’aprile del 1914, scrive:
Ciò che la maggior parte degli artisti ha in comune, l’avversione al colore come scienza, diventò per me comprensibile quando, poco tempo fa, lessi la teoria dei colori di Ostwald. […] Gli scienziati trovano spesso nelle arti qualcosa di puerile. Ma in questo caso le posizioni s’invertono. […] Io posso vedervi soltanto un aiuto pratico. Un aiuto analogo è la scala dell’industria chimica dei colori. Certo noi l’adoperiamo da un pezzo, ma non abbiamo affatto bisogno di una teoria dei colori. Tutte le infinite mescolanze non producono mai un verde di Schweinfurt, un rosso saturno o un viola cobalto. Da noi un giallo scuro non viene mai mescolato con il nero perché altrimenti dà nel verde. Inoltre la chimica dei colori trascura tranquillamente tutte le mescolanze trasparenti (velature). Per non parlare poi della completa ignoranza riguardo alla relatività dei valori cromatici. Ritenere che la possibilità di armonizzare mediante una tonalità di uguale valore debba diventare una norma generale significa rinunciare a tutta la ricchezza psichica. Grazie mille!42.
Il colore mi possiede; non ho bisogno d’andarne in cerca. Mi ha sempre e io lo so. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo una cosa sola. Sono pittore38.
Ma i suoi interessi si orientano ben presto (anche in aperta diffidenza rispetto alle suggestioni e alle aperture “psicologistiche” di Rudolf Steiner) verso un accostamento empirico al «colore come scienza»39, sulla base dei determinanti esempi degli autori che hanno sin qui guidato il nostro percorso: la teoria del venerato Goethe, quella «più vicina a noi pittori» di Runge, l’esempio di Delacroix e del Kandinskij de Lo spirituale nell’arte. Nel tentativo di dirci «qualcosa di utile sui colori», di costruire per noi «un’ideale cassetta dei colori, in cui questi siano disposti secondo un ordine ben fondato; una specie di stipetto degli arnesi», Klee riparte dallo spettro solare, assunto però come elemento simbolico attraverso la sua identificazione nel fenomeno dell’arcobaleno:
Alla fine del 1911, Ernst Goldschmidt non poteva trattenere il proprio stupore contemplando la grande tela dello Studio rosso di Matisse, calata quasi «in abisso», nel contesto dello stesso spazio che essa riproduce. Dalla ripresa (ormai in chiave di cifra stilistica, assai più che di espediente ottico-percettivo) della scomposizione cromatica di Seurat e compagni, dalle accensioni belluine degli incarnati e dei paesaggi, il pittore è approdato ad un colore che fa tutt’uno con la luce, dando vita a un’assoluta astrazione concettuale ed emozionale che non rinuncia però alla rappresentazione visiva delle cose:
La natura ci offre gran copia di stimoli cromatici […]. Ma c’è un fenomeno che sta al di sopra di tutte le cose colorate, l’astrazione d’ogni applicazione, elaborazione e combinazione di colori, la pura astrazione cromatica: questo fenomeno è l’arcobaleno. È significativo che questo caso singolare d’una scala di puri colori non appartenga del tutto all’al di qua, ma al regno intermedio terrestre-cosmico dell’atmosfera; di conseguenza esso possiede un certo grado di perfezione, ma non il massimo, giacché appartiene all’al di là solo a mezzo. […] Noi supponiamo che quanto ci si manifesta solo in parte e come apparenza imperfetta sia, in qualche luogo, senza imperfezioni […]. I colori puri son cosa dell’al di là; il regno dell’atmosfera che fa da intermediario è tanto benevolo da comunicarceli, non però nella forma ch’essi hanno nell’al di là, la quale deve essere di natura infinita, ma in una forma intermedia40.
State cercando il muro rosso – m’ha detto Matisse, notando come io osservassi gli oggetti rappresentati nel quadro, paragonandoli con quanto potevo vedere nello studio – ma quel muro non esiste! Su questi schizzi, o studi, se volete, potete vedere che avevo dipinto gli stessi mobili contro un muro dello studio di un corretto colore azzurro-grigio; ma come quadri non mi convincono. […] Trovo che tutte queste cose, fiori, mobili, il cassettone, diventano veramente quello che sono per me solo quando li vedo tutti insieme con il colore rosso43.
E l’artista giunge alla conclusione, solo apparentemente paradossale, che la natura debba e possa mantenere intatto il proprio primato di ricchezza ed eccitazione cromatica, anche rispetto alla più libera e spregiudicata delle ricerche artistiche sul colore, che non arriverà mai a rendere le ineffabili qualità luminose, tattili e persino olfattive del suo rigoglioso giardino mediterraneo:
Tale collegamento, al tempo stesso atmosferico e trascendentale, con il cielo potrà essere ricondotto alla prassi e alla regola del diagramma, attraverso la sovrapposizione dei poli delle radiazioni rosso-violetto e blu-indaco, ricostituendo ancora una volta il cerchio dei colori: Il carattere cosmico dei colori puri ha trovato nel cerchio la sua adeguata rappresentazione. Il fenomeno dei colori puri percettibile sulla terra nell’arcobaleno, il quale era soltanto il riflesso d’una totalità prima sconosciuta, ci sta ora davanti in una forma sintetica che si richiama al grande tutto dell’al di là. Davanti ai nostri occhi sta ora il disco cromatico41.
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Alle pagine seguenti: 14. Henri Matisse, La danza, 1909-1910, olio su tela. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
Questa bordura non è più bella del più bel tappeto persiano antico? Guardate i colori, come sono distinti uno dall’altro e nello stesso tempo si fondono armoniosamente. […] Qualche volta le grandi ditte d’orticoltura mi mandano i loro cataloghi illustrati; se vi trovo una pianta che mi pare bella, ordino quel seme e lo coltivo, prima in serra e poi nel giardino. È
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istruttivo vedere la differenza tra le riproduzioni un po’ grossolane del vivaio e il fiore così come si sviluppa. E poi anche i miei quadri, paragonati ai colori che sono qui, non son tanto meglio delle riproduzioni. L’intensità di questi colori, la loro materia è inarrivabile. A volte tengo i fiori vicino, a fianco dei miei quadri – come diventano poveri e sordi allora i miei colori! Come si può trasporre nei quadri un bianco profumato e leggero come questo44?
Henri Matisse traghetterà oltre la metà del secolo il suo, personalissimo, senso del colore assoluto, nelle silhouette brillanti di luce propria delle grandi gouaches ritagliate, nelle campiture architettoniche delle sue anatomie e dei suoi fondali di paesaggio (determinanti per lo sviluppo delle grandi superfici vibranti dell’Espressionismo astratto, ad esempio, di Rothko), fino alla pura luce colorata (contrapposta al più severo disegno in nero su bianco) delle vetrate per la cappella del Rosario di Vence. Proprio in margine a quest’ultima realizzazione, consegnerà, ormai nel 1951, questo ripensamento sul suo intero percorso creativo: Ogni generazione artistica vede in modo diverso la produzione della generazione precedente. I quadri degli impressionisti, costruiti con colori puri, hanno fatto vedere alla generazione successiva che questi colori, se possono servire a descrivere le cose ed i colori della natura, hanno anche in sé, indipendentemente dagli oggetti che servono a esprimere, un’azione importante sul sentimento di chi guarda. Così i colori puri possono agire sul sentimento intimo con tanta maggior forza in quanto sono colori semplici. Un blu, ad esempio, accompagnato dall’irradiarsi dei suoi complementari, agisce sul sentimento come un energico colpo di gong. Lo stesso accade per il giallo o il rosso e l’artista deve poterli giocare secondo le necessità. Nella cappella il mio scopo principale era equilibrare una superficie di luce e di colori con un muro pieno, dal disegno nero su bianco. Questa cappella è per me il risultato di tutta una vita di lavoro e la fioritura di uno sforzo enorme, sincero e difficile45.
Prostrato per le difficoltà progettuali e organizzative del lavoro di Vence e amareggiato per le sprezzanti critiche ideologiche mossegli, tra gli altri, da Picasso46, il vecchio Matisse appare talvolta sfiduciato al padre domenicano Marie-Alain Couturier che lo accompagna in quest’impresa, ma subito si riprende, per risolvere ogni rallentamento e ogni difficoltà con l’inserimento di una semplice macchia di colore puro47. E in un questionario pubblicato, nell’agosto 1953, sulla rivista americana «Look» – quasi infastidito dalla vastità impadroneggiabile dei quesiti proposti dall’interlocutore – alla domanda: «Che direzione prenderà l’arte moderna secondo voi?» risponde sinteticamente: «La luce»48.
127. Henri Matisse, Lo studio rosso, 1911, olio su tela. The Museum of Modern Art, New York.
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15. Henri Matisse, Lo studio rosso, 1911, olio su tela. The Museum of Modern Art, New York.
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18. Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie. Olio su tela, 1942-1943, The Museum of Modern Art, New York.
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Cromofilia/Cromofobia La cultura occidentale ha mostrato una profonda ambivalenza nei confronti del colore: da un lato ha continuato a studiarlo, dall’altro lo ha ritenuto quasi un effetto destinato a sensibilità infantili o dominate dall’emotività. Di tale ambivalenza parla in maniera esemplare, in architettura, il dominio del bianco e nero e del materiale a vista come cemento, acciaio, legno, contrapposto al fiorire di inediti cromatismi dovuti alla diffusione delle plastiche. Come sostiene David Batchelor, siamo attorniati da una cromofobia diffusa: Il colore è pericoloso, o è banale, o l’una e l’altra cosa insieme (è tipico dei pregiudizi fondere in uno il sinistro e il superficiale). In entrambi i casi, comunque, il colore è di solito escluso dalle più elevate occupazioni della Mente. È altro rispetto ai più alti valori della cultura occidentale. O forse è la cultura che è altro rispetto ai più alti valori del colore. O il colore è la corruzione della cultura1.
1. Marc Rothko, Nero, Ocra, Rosso su Rosso, acrilico su tela, 1957. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza.
Julia Kristeva ha sostenuto che il colore è una minaccia per l’ego, in quanto simboleggia una rottura dell’unità2 e Le Corbusier che «è ora di bandire una crociata a favore del bianco calce»3. Mai come dalla seconda metà del Novecento, però, il colore ha trovato possibilità scientifiche e tecniche di realizzazione. I risultati della ricerca chimica si sono riversati in un cromatismo senza precedenti, che ha connotato l’arredo soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Nuovi polimeri hanno reso i colori più vari, più permanenti, meno suscettibili agli agenti che li modificano. A comprovare questo sviluppo del colore e il suo ingresso trionfale nel nostro quotidiano è sufficiente ricordare l’evoluzione della fotografia a colori: solo da pochi anni essa è in grado di promettere e mantenere le stesse caratteristiche di quella in bianco e nero. Hanno reso possibile questa rivoluzione le evoluzioni della carta fotosensibile, della pellicola e del supporto digitale: fo-
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tografie colorate di grandi dimensioni come quelle di americani come Cindy Sherman e di Andres Serrano, di canadesi come Jeff Wall, di tedeschi come Thomas Ruff, Thomas Struth, Candida Höfer, Andreas Gursky, di giapponesi come Yasumasa Morimura e Mariko Mori, non sarebbero mai state possibili senza la rivoluzione chimica del colore. Non solo, ma non sarebbero probabilmente mai state accettate nell’ambito dell’arte visiva, per rimanere invece confinate nel settore «Fotografia» dei musei, che sovente ha minore prestigio di quello dedicato alla pittura. Il passaggio è avvenuto perché questi e altri autori hanno potuto finalmente realizzare opere non solamente di dimensioni considerevoli, ma anche colorate e con pigmenti stabili nel tempo. Questa dicotomia tra detrattori e fautori del colore è così forte da far giungere a una conclusione quasi ovvia: la paura del colore aumenta in modo direttamente proporzionale alla disponibilità dei colori e delle modalità del loro utilizzo. Con un’estrema semplificazione – e tutte le carenze che comporta – si può asserire che le correnti di maggiore attenzione agli aspetti razionali o di impegno ideologico dell’arte, da un certo minimalismo al concettuale fino all’arte povera, sono state tendenzialmente cromofobe. Le correnti con maggiore propensione all’emotività e alla spiritualità, di qualsiasi natura essa fosse, dalla religiosità laica di Rothko o di Yves Klein all’eccitazione superficiale cara alla Pop art, sono state soprattutto cromofile. Fisica e simbolismo del colore Un’altra premessa fondamentale per comprendere l’evoluzione del colore dal secondo Novecento parte da lontano, ma realizza molto tardi alcune delle sue indicazioni implicite proprio perché è possibile, finalmente, pensare a un’arte non figurativa. Se la pittura perde la sua necessità di rappresentare, conserva invece l’inclinazione a emozionare e a far pensare. Nel suo studio fondamentale, Goethe aveva compreso come il colore si prestasse a questi compiti più ancora degli elementi figurali. Per Goethe, in contrasto con Newton, non si può comprenderne appieno la natura se si parte dalle sole caratteristiche fisiche della luce. Occorre invece indagare sulle reazioni emotive che ogni colore è in grado di generare, sia da solo sia secondo gli effetti di contrasto cromatico, sia come oggetto in sé sia come parte della natura: di qui gli studi sulle ombre colorate, già descritte tra Sei e Settecento da Otto von Guericke e da Buffon. Per Goethe, addirittura, il colore svolge una funzione psicagogica tale da porre la mente in attività. Il poeta mise anche in luce gli effetti di postimmagine e di immagini consecutive che nascono senza apparente stimolo sensoriale, evidenziando la capacità dell’occhio di agire e rispondere. Molta parte delle disamine successive avrebbe accettato la distinzione tra colori attivi (giallo, arancio, rosso), in cui la luminosità si espande verso l’esterno, e colori passivi (azzurro, indaco, violetto), in cui prevale l’ombra e l’accenno all’interiorità. Nel Novecento molti artisti hanno tratto spunto da queste ricerche, a partire dalle indagini intuitive del Cubismo e del Futurismo, modi di rendere l’immagine nel quadro che girano intorno all’oggetto come a volerne ritrarre diversi piani percettivi nello spazio e nel tempo. In particolare l’indagine del colore è stata condotta a fondo da movimenti figli del Costruttivismo russo, di Kandinskij, dell’Astrattismo olandese (Mondrian e De Stijl) e di quello legato al Bauhaus. Si pensi all’attenzione prestata da quest’ultima scuola alla
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2. Yves Klein, IKB 54, vaso di porcellana, 1957. Collezione privata.
teoria del colore considerata come base di qualsiasi formazione alla creatività, fosse anche diretta verso progetti di architettura o di disegno industriale. Nella scuola inventata da Gropius tutti dovevano seguire le lezioni propedeutiche di Johannes Itten. Combattuto tra un’impostazione mistica e una tecnico-scientifica, così introduce il suo trattato sul colore: I più profondi ed essenziali segreti del cromatismo restano impenetrabili agli occhi e si possono cogliere solo col cuore. L’essenziale sfugge quindi a ogni formulazione concettuale.
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Arte e colore. Alcune linee di sviluppo nel Dopoguerra
Ma, nelle arti e nel campo dell’estetica, vigono veramente leggi e principi rigorosi oppure la valutazione estetica dei colori è esclusivamente soggettiva? Questa domanda mi è stata posta assai spesso dagli allievi e sempre ho risposto: Se lei, d’intuito, riesce a creare dei capolavori coloristici, può procedere ignorando le leggi cromatiche. Ma se ignorandole non crea dei capolavori, deve impegnarsi nel loro studio.
È in quest’ambito che si è sviluppato l’intenso interesse per il colore dimostrato da artisti come Josef Albers e in seguito Max Bill, Richard Lohse e altri, con una produzione importante anche sul piano teorico: del primo ricordiamo le lezioni pubblicate per la prima volta negli Stati Uniti nel 1971. In esse vengono illustrate le prove, le esercitazioni, la convinzione dell’autore che l’apprendimento si debba fondare sulla percezione diretta e sull’esperienza; anche qui è facile vedere una sottile dicotomia tra un’arte (e dunque un impiego del colore) concepita come «spirito» e «rivelazione » e una pratica artistica intesa come legata alla logica. È stato grazie ad atteggiamenti come questi che l’arte ha seguito da vicino le conquiste scientifiche, malgrado gli scarsi strumenti di comprensione di una disciplina sempre più sperimentale e specialistica. Dopo iniziatori come Newton e Goethe, la scienza è giunta a indagare la natura della luce, la struttura dell’occhio e dei fotorecettori che danno sensibilità (bastoncelli) e acuità visiva (coni), e ancora la struttura delle aree visive, lo spazio visivo e la sua profondità; questi studi si sono intrecciati con quelli riguardanti gli aspetti del sistema visivo nel sistema nervoso centrale e dunque il funzionamento dei neuroni deputati al riconoscimento del colore. Ne sono nate opposte teorie interpretative, debitrici soprattutto dell’ambito della Gestalt (psicologia della forma). Nel frattempo si è sviluppato un pensiero storico-artistico specifico, capace di tenere conto anche della pratica del ready-made e in generale della tendenza a immettere nelle opere oggetti che posseggono già di per sé un loro colore. A questo proposito, commenta Philip Ball, un chimico che ha dedicato riflessioni illuminanti al modo in cui scienza e arte si combinano nel colore: Per un artista che desidera dipingere in modo non figurativo, il colore è un alleato infido, poiché anche gli oggetti reali sono colorati e non ci si può sbarazzare facilmente di quest’associazione. Secondo lo storico dell’arte Philip Leider “dipingendo quadri astratti bisogna assicurarsi che i colori non suggeriscano o assumano la qualità di soggetti non astratti, come cielo, erba, aria o ombra (si provi con il nero, oppure, se è troppo poetico, con il rame e l’alluminio)”4.
Questo è vero persino per la pittura figurativa, in cui il colore inizia a perdere la sua necessaria coesione con il dato reale e approfondisce il suo aspetto simbolico, sia nel tono sia nel modo in cui esso si stende: il filosofo Gilles Deleuze ha notato come la campitura, nei quadri di Francis Bacon, assuma il significato simbolico dell’eternità del tempo, in contrasto con il “qui e ora” delle parti che designano carne e corporeità. Negli sfondi il colore raggiunge «un massimo di luce come all’eternità di un tempo monocromo, cromocronia»5. Sempre in bilico tra una versione scientista e una, appunto, venata di simbolismo, l’impiego del colore – o la scelta di non impiegarlo – ha cambiato vivacemente la sua natura negli ultimi cinquant’anni.
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3. Josef Albers, Omaggio al quadrato, 1959. Galleria nazionale d’arte moderna, Roma.
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re questi colori forti, decisi e dall’aspetto di pellicole di plastica, fu il loro tempo breve di asciugatura. Di qui il loro grande successo presso coloro che non pensavano alla pittura come a un metodo di rimeditazioni continue, di velature, di chiaroscuri. In particolare vennero amati da protagonisti della Pop art come David Hockney, Andy Warhol, Claes Oldenburg e Roy Lichtenstein che riuscì a farsi creare dalla ditta Golden Artist Colour una gamma allargata di toni. La maestra inglese della corrente optical Bridget Riley sottolinea come l’artista non possa prescindere dal fatto che il colore sia una materia e che questa sia dotata di una specifica modalità di reazione alla luce. Racconta:
I cambiamenti del colore in quanto sostanza chimica Per capire come si evolve l’utilizzo del colore non può essere sottovalutato il fatto che nel 1953 fecero la loro comparsa le emulsioni acriliche, più economiche dell’olio e capaci di sovvertire il lessico tecnico della pittura. È interessante notare come, complice appunto la grande dimensione raggiunta dai quadri, molti artisti fossero interessati a utilizzare colori di carattere industriale o comunque queste nuove paste acriliche, non solo per spirito innovativo, ma anche sulla base di considerazioni economiche. Per esempio, nell’ambito della corrente americana denominata «Colour Field», pittori come Rothko, Barnett Newman, Kenneth Noland, Morris Louis utilizzarono colori di marca Magna in tubetti, che potevano essere mescolati con colori a olio e che, ricchissimi di pigmento, potevano essere diluiti fino quasi a diventare delle tinture. L’evoluzione modernista del quadro, spinta verso la superficie piatta e sostenuta dal critico Clement Greenberg, impersonata da un colore-gettato come nelle opere di Jackson Pollock o da un colore-colato come nei quadri a bande simmetriche e fluide di Morris Louis, non sarebbe nata senza il nuovo genere di prodotti. Conquiste teoriche e possibilità pratiche hanno continuato a incrociarsi: se Helen Frankenthaler si appassionò all’utilizzo di colori acrilici per la loro mancanza di risvolti sentimentali, Kenneth Noland li preferì per non spendere. Frank Stella li usò in bande uniformi per ribellarsi ulteriormente al sentimentalismo, scegliendo provocatoriamente quelli per uso domestico nei negozi che li vendevano scontati. In alcuni casi il motivo per abbraccia-
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4. Claes Oldenburg, Tennis shoes (1962), Fragment of Candies in a Box (1961), A Brown Shoe (1961), Breakfast Table (1962), Pentecostal Cross (1961). Smalti su gesso. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza.
5. James Rosenquist, A lot to like (1962), Shave (1964). Oli su tela. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza.
Per i pittori il colore non è soltanto in tutte le cose che chiunque può vedere, ma anche, in modo affatto straordinario, nei pigmenti sparsi sulla tavolozza; e qui, fatto decisamente singolare, sono semplicemente e unicamente colore. Nell’arte del dipingere questo è il primo elemento importante da comprendere. Tali pigmenti vividi e lucenti non continueranno tuttavia a rimanere sulla tavolozza come colori puri in sé, ma verranno adoperati… il pittore ha a che fare con due sistemi ben distinti di colore: uno fornito dalla natura, l’altro richiesto dall’arte… il colore percepito e il colore pittorico. Entrambi saranno presenti, e il lavoro dell’artista dipende dall’enfasi che egli pone prima sull’uno e poi sull’altro6.
Non c’è storia del colore come espressione senza storia del colore come sostanza.
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Il colore nel Dopoguerra americano Per rinascere a nuova vita e sviluppare tutte le problematiche di cui sa essere portatore, come si è già intravisto, il colore dovette prima essere svincolato dalla sua dipendenza rispetto alla rappresentazione. Assolse al compito l’avvento dell’Astrattismo nell’Europa del Nord e dell’Est: il primo strappo fu di \iurlionis e Kandinskij, che liberarono il quadro dalla figura; in seguito, in Olanda Piet Mondrian incominciò una riflessione che lo condusse a evitare tutti i complementari; in Russia Kazimir Malevi/ giunse al Quadrato bianco su fondo bianco (1917), Aleksandr Rod/enko dipinse opere enfaticamente incentrate sul «colore puro» (1921) e Władysław Strzeminski teorizzò i primi monocromi definendoli «unisti» (1928). Libera dall’obbligo di rappresentare, complice la fotografia che avocò il compito a sé, l’opera superò la condanna di Aristotele per «chi buttasse giù i colori a casaccio».
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6. Jackson Pollock, Numero 34, 1949, smalto su carta montata su pannello, 1949. Munson, Williams, Proctor Arts Institute, Utica, New York.
7. Franz Kline, Monitor, olio su tela, 1956. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza.
Un fattore decisivo fu l’evoluzione della teoria del colore presso la già citata scuola del Bauhaus. Catalizzatrice di quasi tutte le ricerche più importanti sul colore e sul suo impiego in pittura, quella scuola seminò un terreno di riflessioni senza precedenti e destinate a creare un doppio binario, quello della cultura artistica europea e quello nato in America. In quest’ultimo caso fu di particolare rilievo l’arrivo di Josef Albers negli Stati Uniti, al Black Mountain College del North Carolina. Chiamato dal suo primo direttore, l’illuminato John Price, Albers iniziò le sue serie di Omaggi al Quadrato che abbandonavano il senso ritmico e l’interesse compositivo degli anni Venti. Dagli anni Cinquanta, in particolare, il pittore si dedicò soprattutto ai rapporti tra colori che stendeva sulla tela in modo quasi impersonale; a testimonianza del vivo interesse non solo per la loro risonanza emotiva, ne annotava sul retro la composizione e gli aspetti quantitativi. Accanto a lui fu chiamato a insegnare teatro anche Xanti Schawinsky, che in seguito sarebbe stato attirato dal nuovo Bauhaus fondato a Chicago
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da Moholy Nagy. Non è irrilevante ricordare come Schawinsky pensasse la scena sulla base di un’interazione tra luce, forma, movimento, suono eccetera. La prima importante realizzazione al Black Mountain College fu Spectrodrama, nella quale un quadrato giallo si spostava mostrando in successione un triangolo, un cerchio e un quadrato bianco. Molti giovani arrivarono in questo contesto. Negli anni ’50 anche Willem De Kooning, Franz Kline, Robert Motherwell insegnarono al Black Mountain. Vi studiarono Cy Twombly, Kenneth Noland, Robert Rauschenberg. Arrivò anche il musicista John Cage, che aveva precisato le sue innovative idee sulla musica già nel ’37, col manifesto Il futuro della musica. In questo testo si rivaluta il trascurato orizzonte quotidiano dei fenomeni sonori, sostenendo che sono musica anche il motore a scoppio, il vento, il battito cardiaco. I riferimenti di Cage vanno dal rumorismo del futurista Luigi Russolo, all’idea di ready made e di introduzione dell’elemento casuale nell’arte di Marcel Duchamp. In quest’ambito, parzialmente influenzato dall’idea zen del vuoto come pienezza, anche il silenzio diventava suono significante e si poneva come colore non-colore: la sua immediata filiazione nell’arte visiva furono i monocromi di Robert Rauschenberg, rossi dapprima e poi bianchi. Questi ultimi vennero fatti pendere dal soffitto, nel 1952, nell’ambito della prima performance collettiva organizzata sempre al College da Cage, il pianista Tudor, il danzatore Cunningham e altri, tutti coinvolti nella medesima concezione dell’opera come assemblaggio di eventi casuali e di tempo in cui scorrono: un vuoto da riempire, un bianco da colmare con la vita e il suo alternarsi di eventi eccezionali o normali. Il Black Mountain College fu un mondo insieme coerente e contraddittorio, nel quale si passò dalla severità di Albers al laissez faire di Cage. La vitalità del dibattito, del resto, ne fece una delle esperienze più significative del mondo statunitense; possono essere considerati fenomeni nati anche grazie a quell’esperienza, fatti salvi forti rapporti con New York e l’insegnamento di Hoffmann, sia il lato meditativo dell’Espressionismo astratto, rappresentato dalla Colour Field Abstraction di Barnett Newman, Clyfford Still, Morris Louis, Rothko, sia quello più mondano, rappresentato dall’Action Painting di Jackson Pollock e Willem De Kooning. Entrambi scelsero un uso del colore totalizzante, consapevole delle sue capacità espressive anche nello sparire della figura, disposto in modo apparentemente casuale, senza centro né periferia, grazie a stesure all over; capace insomma di proporsi in superfici di dimensioni enormi e tali da dare all’osservatore l’impressione di essere entrato in un ambiente accerchiante. Va ricordato che la spontaneità esibita era molto maggiore di quella realmente usata dagli artisti. Nel caso di Rothko, l’accento cadde sull’espressione della spiritualità. I neri, i rossi, le contrapposizioni di campi chiarissimi e scuri nel medesimo grande quadro, paiono modi per cercare il trascendente attraverso la materia cromatica: «Rothko ha cercato il sublime in una forma di purezza attraverso un fondamentale uso del colore»7. Il gesto era solamente in apparenza lasciato al caso o sbavato dall’incuria: chi vide lavorare l’artista ne ricorda l’acribia con cui saliva su alte scale pur di correggere anche un particolare minimo. Identico atteggiamento per Franz Kline, che mostra gesti rabbiosi e naturali ma che esegue le sue bande bianche e brune rifinendole dopo la prima stesura.
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8. Robert Ryman, opere esposte al Museum für Gegenwartskunst (Basilea, novembre 1980, giugno 1981). The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York, Collezione Panza.
L’astrazione va a braccetto con la causalità, sia per l’Espressionismo astratto americano sia per l’informale europeo, ma si tratta di un caso domato. Da queste basi la pittura americana si sviluppò in direzione di colori stesi in modo deciso e impersonale, come nelle forme geometriche slanciate, irregolari ma cromaticamente piatte, del cosiddetto hard edge di Ellsworth Kelly, nelle bande quasi parodistiche del menzionato Frank Stella, fino al minimalismo di artisti come Agnes Martin e Robert Ryman. Di questi ultimi occorre ricordare una nuova unione tra la stesura manuale e il rigore poi raggiunto dalla superficie, con un atteggiamento che si ripresenta più tardi in autori come Max Cole o Ruth Frankenthaler. La pittura analitica di Ryman, in particolare, cerca il bianco con una tessitura regolare di segni, all’incrocio tra un’estrema disciplina del gesto e la brillantezza del bianco: la pennellata diventa un mantra sempre ripetuto, identico a se stesso ed eseguito in uno stato di concentrazione estrema. Una simile dichiarazione di rigore, ma espunto da ogni gestualità e quindi da ogni espressione soggettiva, si incontra nelle opere di un altro minimalista, Ad Reinhardt. Colui che ha dichiarato di aver dipinto l’ultimo quadro nella storia, crea campiture piatte il più possibile vicine al nero: un colore che non si raggiunge mai e che risulta dall’incrocio di quadrati marroni, blu e viola. Era aperta così la strada sia per la negazione più totale della presenza del colore nell’opera, come si nota nel rapporto di filiazione riconosciuta tra il lavoro di Reinhardt e quello di Morris, Andre, Smith e altri minimalisti che abolirono ogni
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colore sovrapposto al materiale d’origine. Anche la severità cromatica del concettuale, come nelle opere di Joseph Kosuth, fu ampiamente debitrice di Reinhardt. Il colore nel Dopoguerra europeo Nel frattempo, in Europa, si diffondevano aspirazioni simili. Mentre si sviluppava l’assemblage nelle opere di informali come Antoni Tàpies e Alberto Burri, o la pittura di sabbia e trouvailles di Jean Dubuffet, un purista come Jean Fautrier imparò a utilizzare il colore a olio come fosse una crema alimentare da stendere su piccoli quadri e da vedere seccare nel tempo: esattamente come sarebbero seccati i corpi di quegli «ostaggi», di quei cadaveri morti nei campi di internamento, che incominciò a dipingere dopo la sua personale esperienza di guerra. Dal 1947 Lucio Fontana iniziò quel cammino che lo avrebbe portato dai primi buchi che squarciavano fogli di carta bianca ai crateri scavati da un punteruolo nella pittura a olio, fino alle rose di buchi, quasi pizzi che ricordano il cielo stellato, che connotano i quadri ovali e spesso di colori accesi detti Fine di Dio, per arrivare alla severità dell’installazione alla Biennale del 1966: la sua ultima prova magistrale era un ambiente ovale progettato in collaborazione con Carlo Scarpa e interrotto da tele autoportanti, rigorosamente bianche, indurite grazie a sostanze elastiche, dipinte unifor-
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9. Jean Fautrier, Dépouille, tecnica mista su tela, 1946. Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza.
10. Antoni Tàpies, Sable-Ochre, tecnica mista su tela, 1957. Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza.
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memente con pittura industriale, tagliate al centro da una lama precisa: nel taglio, il bianco si converte verso il nero e suggerisce un viaggio verso uno spazio infinito. Giovani vicini a Fontana portarono il linguaggio del colore verso altre esasperazioni: Piero Manzoni volle arrivare ad abolirlo intitolando achrome i suoi monocromi fatti di lenzuola, panni, stoffe crude. La lezione di John Cage era nota sia a lui sia al compagno di strada Castellani, con cui editò due fascicoli della rivista Azimuth. Nel primo, uscito alla fine del 1959, venne ospitato il resoconto di un concerto di Cage intitolato Spazio vuoto e spazio pieno. Yves Klein, non lontano da questo contesto umano e culturale, centrò la propria poetica sulla ricerca del vuoto. Un vuoto che diventava monocromo e un monocromo che diventava blu, anzi quell’International Klein Blu che era stata una sua invenzione: è una miscela di pigmento puro e di un solvente detto rodopac, capace di non coprire e ingiallire il colore. Quando progettò la sua mostra dedicata al vuoto, nel 1958, una parte saliente avrebbe dovuto essere l’obelisco di Place de la Concorde dipinto da luci blu. Con il suo ikb copriva ragazze, tele, spugne, nell’intento di avvicinare l’arte al cielo, ma soprattutto di recuperare un rapporto tra arte e spiritualità mediato appunto dal colore. In Europa si è andata sviluppando, con più rigore scientifico che in America, una modalità di impiego del colore vicina alla scienza e lontana dall’emotività personale. È in quest’ambito che nacquero il Movimento Arte Concreta, l’arte cinetica e programmata, la cosiddetta Nuova Tendenza e ancora una vasta messe di esperienze tese all’indagine della risposta percettiva che il moma di New York coagulò nella mostra The Responsive Eye (1965). Si recuperarono elementi dalle avanguardie progettuali e costruttive come il Cubismo, il Costruttivismo, l’Astrattismo geometrico, abbandonando però il progetto di migliorare le condizioni di vita attraverso il miglioramento estetico dei suoi prodotti industriali. Gli artisti cercavano soprattutto lo studio del modo di percepire, fino al punto che alcuni protagonisti, come il milanese Mario Ballocco, si trovarono a lavorare fianco a fianco con eminenti psicologi della forma come Kanizsa. La visione lucida del colore e la comprensione dei fenomeni fisici nascondeva il desiderio di comprendere le vie attraverso le quali si può giungere dalla percezione alla conoscenza fino al pensiero critico. La tendenza ebbe tra i suoi più importanti protagonisti artisti differenti per presupposti e risultati ma uniti nel rifuggire ogni espressione soggettiva. Da una matrice inaugurata da Alexander Calder, che proponeva un rapporto molto forte tra movimento e colore, nacquero esperienze sofisticate come quelle di Richard Anuszkiewicz, Richard Lohse, Max Bill, Enzo Mari, Yaacov Agam, Enrico Castellani, Francesco Lo Savio, Piero Dorazio, il Gruppo T con Gianni Colombo, il Gruppo N di Padova, il Gruppo Zero il grav (Groupe de Recherches d’Art Visuel) con Julio Le Park. Nell’opera di questi artisti, il colore diventa generalmente sistema per smascherare le capacità del sistema occhio-mente di strutturare un campo percettivo coerente, anche a costo di favorire l’illusione ottica (purché foriera di una struttura ordinata) al disordine del dato grezzo. Luce, colore e forma appaiono come dati mutevoli e dipendenti dall’osservatore. Victor Vasarely, il massimo esponente dell’arte ottico-cinetica o Op-art, trasforma l’opera in un campo di colore mobile e ambiguo, in cui per esempio cerchi della medesima dimensione appaiono differenti in ragio-
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11. Lucio Fontana, Concetto spaziale, La fine di Dio, olio su tela, 1964. Collezione privata.
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ne dello sfondo su cui si stagliano. Jesús Rafael Soto introduce griglie e cortine di fili o bacchette mobili, elementi sovrapposti che creano effetti cinetici di visione e percezione del colore fortemente ambigui. Queste correnti non mancarono di interessare intellettuali come Umberto Eco e curatori come Pontus Hultén (mostra Le Mouvement, Parigi 1955), Udo Kultermann (mostra Monochrome Malerei, Leverkusen 1960) o lo stesso Eco (mostra Arte Programmata, Milano 1963) e molti altri. Fu in quegli anni e su questo stesso sfondo, del resto, che incominciarono a nascere le prime difficoltose ricerche in direzione di un colore generato da macchine, prodromi delle figure nate dal computer. Questa tendenza scientista, però, non poteva a un certo punto che sgonfiarsi: i suoi confini con la ricerca scientifica, sia nei campi della neurologia, fisiologia, psicologia, sia nel campo della tecnologia informatica, divennero tanto sfumati da dovere lasciare il campo appunto ai ricercatori di queste specifiche discipline. L’emergere del monocromo Abbiamo continuamente sfiorato una questione scottante, quella dell’emergere del monocromo come palese manifesto del colore in quanto elemento capace, già da solo, di farsi interprete di emozioni e asserzioni. Si tratta forse della maggiore novità del xx secolo. A prima vista e purtroppo anche in riproduzione, la pittura monocroma è tutta uguale. Attentamente osservata, essa si rivela invece un territorio fertile e duttile. Ogni monocromo ha i suoi motivi e, soprattutto, un modo suo di apparire: ciò dipende dalle dimensioni del quadro, dalla trama più o meno liscia, più o meno visibile del supporto (tela o tavola), dalla maniera in cui è steso il colore. A condurre verso lo svuotamento della superficie del quadro fu innanzitutto l’Astrattismo, che aprì le porte a un’attenzione condotta solo sul colore, tolse di mezzo il problema del soggetto e, con esso, dell’identificazione nel quadro di un primo piano, di un centro, di una periferia. Progressivi avvicinamenti al monocromo puro furono il Quadrato bianco su fondo bianco di Kazimir Malevi/, in cui era riconoscibile solo la linea di confine della figura geometrica; i quadri che Aleksandr Rod/enko dipinse nel 1921, per mostrare il «colore puro» prima di smettere completamente di dipingere; i quadri definiti «unisti» dal russo-polacco Władysław Strzemi’ski, dipinti attorno al 1928; alcune opere di Joan Miró, nelle quali comparivano solo piccole macchie di colore contrastante col fondo. Nel secondo Novecento si giunse al monocromo vero e proprio. È possibile identificare una linea di pittori per i quali il monocromo serve ad annunciare la fine della pittura come luogo in cui si raccontano delle storie, come sede di un’attività narrativa. Abbiamo già visto il rilievo che assume una tale scelta di semplicità cromatica assoluta nelle opere di Reinhardt, Ryman, Fontana, Klein, Manzoni e altri. È importante sottolineare che quest’esigenza non si è persa ma ha continuato a operare in artisti di entrambi i lati dell’Atlantico: l’americano David Simpson crea quadrati che, ricoperti da una pellicola cangiante, mutano il loro colore di fronte a un osservatore che si muove: dal verde al viola, dagli azzurri ai rosati. Lawrence Carroll, anch’egli americano, si serve di vecchie lenzuola, di legno, di coperte che uniforma coprendole appunto di bianco, in modo da dar loro una nuova vita che ricorda soprattutto le nostre mura
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12. David Simpson, Dear to Saturn (Sapphire) e Quicksilver Shift (acrilico su tela, 1994) esposti nella Villa Menafoglio Litta Panza, Varese. Fondo per l’Ambiente Italiano, Collezione Panza.
domestiche e la biancheria con cui proteggiamo il corpo. Ettore Spalletti copre semicolonne, superfici orizzontali, quadri che aggettano in senso obliquo dal muro con pigmenti bianchi, rosati, azzurri e in generale, tali da ricordare i colori della mattina. Casi particolari della pittura monocroma orientata a contenuti esistenziali possono essere riconosciuti in certa arte ambientale californiana degli anni Settanta. I piani di luce ottenuti da James Turrell ne sono probabilmente l’esempio maggiore: l’osservatore ha l’illusione di trovarsi di fronte a una superficie invalicabile, a un quadro immenso dipinto senza lasciare tracce soggettive, che in realtà è il risultato immateriale di una lama di luce soffusa, ottenuta con fari invisibili. Effetti simili nascono nelle opere di Maurizio Mochetti ottenute con raggi laser e quindi colorazioni rossastre, che possono coinvolgere un solo punto o illuminare sfere intere. Un altro ambito di considerazioni meriterebbe il colore in pigmenti sciolti, che dopo Klein ricompare nelle prime opere dell’anglo-indiano Anish Kapoor8: il colore blu resta evocativo di esperienze spirituali, nonostante l’artista tenga a precisare il suo atteggiamento laico e la sua radice che intreccia aspetti indiani, cristiani ed ebrei. Ricordiamo anche certe colature di Ann Hamilton, come quando, al Padiglione americano della Biennale di Venezia del 1999, un colore rossastro che cadeva sui muri
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13. Ettore Spalletti, Fonte dei Passeri, impasto di colore su legno bianco, 1989. Museo Cantonale d’Arte, Lugano, Collezione Panza.
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14. James Turrell, Virga, opera ambientale con luce naturale e artificiale, 1976. The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York, Collezione Panza.
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ricordava grumi di sangue. Alfonso Fratteggiani Bianchi tiene insieme pigmenti quasi senza legante, con un procedimento ancora più radicale di quello inventato da Yves Klein e sottolineando al contempo la preziosità e la fragilità del colore come metafora della vita. Osserviamo un ultimo caso particolare: siamo abituati a vedere il colore come qualcosa che si mescola alla polvere e che con essa convive, fino al punto che talvolta la simula: il riferimento più ovvio corre alle notorie bottiglie impolverate dipinte da Giorgio Morandi. Le superfici pulite di certa Pop art e del Minimalismo ne negano invece l’importanza e la espellono dalle opere. Se in effetti pensiamo alle superfici assolutamente linde di un volume monocromo come quelle del minimalista McCracken, dobbiamo ammettere che nel tempo degli ambienti disinfettati, asettici e igienizzati, la polvere non può che sparire da alcune opere d’arte ma al tempo stesso non può che divenire, in altri casi, un importante oggetto di riflessione. Nella nostra epoca sono tra l’altro incominciate ricerche che vedono nella polvere un nemico gravissimo, soprattutto in relazione alle nanotecnologie per le quali è essenziale creare delle «camere bianche»: luoghi
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15. Ettore Spalletti, Vaso (impasto di colore su centina di legno, 1988), Tutto Tondo (impasto di colore su tavola, 1989), Vaso (impasto di colore su centina di legno, 1992). Fondo per l’Ambiente Italiano, Collezione Panza.
16. Brice Marden, Passage, olio e cera su tela (3 pannelli), 1973-1974. Collezione Panza.
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nei quali il pulviscolo atmosferico interferisce il meno possibile con particelle analogamente piccole, sensibilissime e dalla funzione precisa. Il moltiplicarsi di monocromi grigi è come se sottolineasse la presenza della polvere e questa sua nuova importanza: pensiamo non solamente all’«allevamento di polvere» creato da Marcel Duchamp e fotografato da Man Ray nei primi anni del Novecento, ma anche al grigio insistito in certi quadri di Gerhard Richter, Brice Marden, Robert Morris, Alan Charlton, Richard Artschwager, Agnes Martin e altri. La festa del colore nell’Espressionismo e nel Postmoderno Ovviamente non tutta l’arte del Novecento è sfociata nell’astratto, nel monocromo e tantomento nel grigio. La libertà di utilizzare colori di nuova brillantezza è penetrata nelle correnti figurative, soprattutto in quelle di matrice espressionista e in quelle legate alla sensibilità postmoderna. Occorre infatti ricordare con quanta gioia cromatica sono state realizzate le opere, per esempio, del Gruppo Cobra dai tardi anni Quaranta. Karel Ap-
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17. James Rosenquist, Vestigial Appendage, acrilico su tela, 1962. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza.
pel e Asger Jorn, in particolare, dipinsero personaggi fatti di verdi violenti, di rossi sonori, di gialli squillanti. Negli artisti di matrice espressionista, la stesura del colore assumeva una tale pregnanza performativa da indurre per esempio Georges Mathieu a riunire un piccolo pubblico dietro di sé mentre, con i tubetti nelle mani e una velocità da calligrafo, stendeva segni sulla tela. In alcuni dipinti Alberto Burri ha cercato l’effetto craquelé fino a esasperarlo, dando origine a «cretti» in cui la pasta del colore, asciugandosi, si è ritirata e riempita di piccole rughe. Altri artisti si sono trovati a sedimentare strati su strati di colore, come nel caso dei visi dipinti da Francis Bacon in contrasto con la piattezza dei suoi fondali. Una grande ubriacatura di colore usato a scopi del tutto figurativi, questa volta realistici o iperrealistici, si ebbe con la Pop art e i fenomeni a essa vicini: ricordiamo le bandiere americane dipinte da Jasper Johns, le superfici di immagini da poster pubblicitario realizzate da James Rosenquist, la fioritura di colori violenti che caratterizzò la Factory di Andy Warhol; ma pensiamo anche al nuovo uso dell’aerografo che consentì realizzazioni fotorealiste impressionanti come quelle di Richard Estes. Un’ulteriore esplosione di colore si è verificata dalla fine degli anni Settanta nell’ambito delle correnti neoespressioniste: in contrapposizione con la cromofobia del concettuale, si dispiegarono le stanze trasformate in campo di fiori negli ambienti di Nicola De Maria, vennero realizzati gli acquerelli dal cromatismo indianeggiante di Francesco Clemente, i quadri di Enzo Cucchi e di Mimmo Paladino in Italia; i paesaggi caricaturali di Jörg Immendorff o le stesure astratte accesissime di Gerhard Richter in Germania; le superfici di stoviglie rotte e colorate di Schnabel, i collage di scene diverse di David Salle in America. Prodromi, questi, di un’esplosione di colore ancor più forte dovuta all’estendersi dei graffiti e portata a compimento dai colori fluorescenti usati da Keith Haring con pennelli ma anche con pennarelli e bombolette spray. Questa festa di colori non stupisce quando si pensa che quelli erano gli anni di architetture coloratissime come la Piazza d’Italia di Charles W. Moore a New Orleans, di un design che riprende le pennellate postimpressioniste come la poltrona Proust di Alessandro Mendini, di musei che si connotavano all’esterno per profilature rosa, verdi e celesti come la galleria di Stoccarda firmata da James Stirling e Michael Wilford: si era nel mezzo di un desiderio di colore che stava a significare protesta contro ogni limite posto all’emozione, all’invenzione anche incontrollata, alla citazione e soprattutto alla decorazione. Colori senza pigmento Questa breve ricognizione non può prescindere dal modo di lavorare il colore fuori dalla pittura. All’inizio si è accennato a un’arte realizzata con materiali che recano il loro colore naturale, tendenzialmente legata al minimalismo e al concettuale. Ma sarebbe un errore un’eccessiva generalizzazione: Donald Judd, per esempio, pur evitando il colore come pigmento sovrapposto alle sue sculture, si definiva un colorista9; a riprova di questa sua caratteristica, l’amico Dan Flavin intitolò a «Judd colorista» una sua opera. In tempi assai più recenti l’artista inglese Tony Cragg ha utilizzato il colore di pezzi di plastica trovati e assemblati come se si trattasse di pigmenti: consapevole del suo nuovo modo di trattare il colore, giunse a intitolare una distesa di giocattoli colorati che formava una sorta di spettro New Tones
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– Newton’s tones. Questi due soli autori servano come esempio per far notare come il colore dei materiali e delle cose venga sovente utilizzato dagli artisti come una sorta di tavolozza. Un altro vasto capitolo si aprirebbe se si cercassero tutti gli artisti che hanno usato il colore senza il suo aspetto materiale, generando ambienti più che quadri. A Villa Panza di Biumo, James Turrell ha aperto un buco nel soffitto per mostrarci il cambiare del cielo circondato da una cornice quadrata e mentre siamo completamente immersi nel bianco della piccola stanza: Douglas Wheeler ha giocato sull’idea rinascimentale di quadro-finestra, aprendo un varco dalla cornice stondata in un muro che porta a notare e ad amare i cambiamenti di colore della natura al variare delle stagioni; Maria Nordman, nelle sue stanze buie, impone alla nostra retina un passaggio lento e quasi doloroso dal nero a un grigio che ci consente di orientarci; Dan Flavin ha creato un corridoio di emozioni attraverso dei tubi fluorescenti: «L’uomo che camminava nel colore», secondo Georges Didi-Hubermann10, ha fatto della luce elettrica il suo unico vocabolario. Una diversa maniera di costruire ambienti attraverso una luce elettrica colorata e cangiante è quella messa in scena con la complicità di una colonna sonora straniante da La Monte Young e Mirian Zazeela, che da anni riallestiscono e adattano la Dream House che hanno costruito a casa loro (1962-2004). La serenità quasi forzata legata al colore soffice di quel luogo si contrappone ad altre tipologie di ambienti concepiti con i medesimi mezzi, come quelli che la giapponese Yayoi Kusama ha concepito con cromatismi allucinati: un salotto, per esempio, si vede nella penombra e si anima di pallini fluorescenti policromi, disposti ovunque come fossero cicatrici del luogo. Più in generale, ricordiamo l’ampio utilizzo che ha trovato il colore sotto forma di luce elettrica, prefigurato dai futuristi nei loro manifesti ma realizzatosi solo quando è stato tecnicamente agevole. Lucio Fontana o Mario Merz, in Italia, in America artisti di estrazioni diverse come Douglas Wheeler, Jenny Holzer, Bruce Nauman, lo hanno piegato a sistema comunicativo cogente. Si ricordino per esempio gli abbacinanti verdastri dei corridoi allestiti da quest’ultimo, luoghi pensati per far sentire a disagio chi li percorre, o ancora la parete apparentemente festosa in cui scritte al neon di colori vari pongono chi le guardi di fronte alla continua alternativa tra vita e morte: una lista di verbi, alcuni dei quali banali, altri meno consueti, è associata alla parola live o die quasi a dirci che qualsiasi scelta compiamo è sempre senza ritorno. La giocosità sinistra dell’opera è sottolineata dall’alternarsi dei colori dei neon, che danno all’inquietante contenuto del lavoro una forma da Luna-Park. Un capitolo di ampiezza ormai ragguardevole è quello che racconta l’evoluzione del colore nelle opere concepite per lo schermo, che si tratti di videoproiezioni o di opere su monitor e, in questo secondo caso, di televisione o di computer. La distinzione rilevante è a questo punto tra il risultato di un fascio di luce che arriva sullo schermo, appunto la proiezione, e il colore che invece nasce da schermi predisposti a generare immagini. In entrambi i casi l’arte visiva ha trovato modo di cambiare la formazione e la percezione del colore. Ci sono registi cinematografici rivelatisi profondamente innovatori nella maniera di utilizzare il colore e di arrivare persino al monocromo: si pensi a Derek Jarman11, che nel film Blu ha raccontato l’esperienza dell’Aids attraverso una voce accompagnata dalla sola proiezione di un blu fisso. Tuttavia il cinema, nella
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18. Dan Flavin, Monument for those who have been killed in Ambush (for PK who reminded me about death) 2/3, luce rossa fluorescente, 1966; sul fondo, Green crossing Green (to Piet Mondrian who lacked green), luce verde fluorescente, 1966.
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maggior parte dei casi, non ha potuto prescindere dal realismo a cui è legato dalle esigenze della narrazione. Per questo ciò che nasce come video-arte gode di libertà sperimentali maggiori. Il ciclo di Matthew Barney intitolato Cremaster, benché parzialmente girato su pellicola, data l’audience ristretta a cui si rivolge, può esasperare i colori fino a un uso del rosa shocking, del blu elettrico, dei gialli e di rossi fuoco. L’immagine filmata è concepita come un quadro che ha alle spalle la liberazione cromatica nata dall’Espressionismo. Quanto al colore nato dallo schermo e secondo tecnologie digitali, molti artisti si sono esercitati proprio a cercare gli effetti cromatici più innovativi cui questo nuovo mezzo dava accesso. L’americano Bill Viola ha incominciato dai primi anni Ottanta a lavorare sulla possibilità di proiettare da schermi elettronici, di sempre maggiore precisione, delle immagini profondamente sacrali veicolate a colori brillanti. La svizzera Pipilotti Rist alla metà degli anni Ottanta ha incominciato a utilizzare l’errore meccanico e l’esagerazione a fini espressivi degli effetti dei pixel. L’inglese Angela Bulloch ha ingrandito i pixel di film nati per il cinema fino a farne delle composizioni astratte di luce, movimento e geometria. Il colore nell’era del digitale può dare luogo a sorprese senza precedenti che non possiamo che attendere con curiosità; d’altra parte il lavorìo degli artisti sulla pasta cromatica, sul colore-materia, sull’atto del dipingere o del generare colore manualmente, non sembra affatto arrestarsi. Nonostante gli entusiasmi generati da una tecnologia in continua evoluzione, occorre dunque continuare a guardare in ogni direzione possibile, senza cadere in una dipendenza eccessiva né dal tecnologismo né, al contrario, dalla tradizione. Proprio nell’equilibrio di questi poli, novità scientifica e sapienza antica, il colore nell’arte può ancora avere un futuro imprevedibile.
IL VIAGGIO DEL COLORE: BREVE NOTA FILOSOFICA Alice Barale
«I don’t believe in the gold at the end of the rainbow, but I do believe in the rainbow» Derek Jarman, The last of England
Capre bianche e mare nero: dove finisce il colore? «“Avanti! Ancòra avanti!” urlai. Il vetturale si voltò. “Signore”, mi fece. “Più avanti non ci sono che i campi”» Giorgio Caproni, I campi
Uno sfondo nero da cui si dipartono sottili fili gialli, che rappresentano le stelle. Più sotto, un altro sfondo completamente nero, senza luci: il mare. Di contro, il contorno bianco e squadrato di alcune capre, appena accennate nei loro contorni di filo eppure decise, con barba e codini ben dritti. Si tratta di un piccolo arazzo che la cooperativa tessile sarda Su Marmuri, che collaborava da anni con l’artista Maria Lai, ha realizzato per il novantesimo compleanno di quest’ultima, nel 2019. Un’opera che mi è sembrata particolarmente appropriata per aprire questa postfazione, per sottolineare un elemento prezioso che questo libro porta al lettore: la capacità di seguire il colore nelle sue strade più diverse, anche quelle meno note e conformi ai nostri “codici di colore”1 dominanti. Maria Lai aveva aperto nel suo paesino natale, sperduto tra i monti della Sardegna, un piccolo museo di arte contemporanea. Il viaggiatore può vedere tutt’ora un cartello che ne annuncia inaspettatamente la presenza, a una svolta della strada tra i campi2. A queste svolte impreviste è dedicata questa postfazione, come invito al lettore a scoprirle e riconoscerle nei testi che la precedono.
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Certo, però, le capre sono bianche, e il cielo-mare è tutto nero… Dov’è finito il colore? Si tratta forse di quella cromofobia che David Batchelor ha denunciato essere propria del nostro mondo occidentale?3 Se ci inoltriamo tra le pagine di questo libro, scopriamo che l’opposizione tra la coppia cosiddetta “acromatica” bianco-nero e gli altri colori riguarda solo alcuni contesti, o alcuni dei codici che applichiamo ai colori. Vale certo per l’arte contemporanea, in particolare, come ci spiega Angela Vettese nel saggio finale di questo volume, tra «le correnti di maggiore attenzione agli aspetti razionali o di impegno ideologico dell’arte, da certo minimalismo al concettuale fino all’arte povera», tendenzialmente «acromatiche», e «le correnti con maggiore propensione all’emotività e alla spiritualità, di qualsiasi natura essa fosse, dalla religiosità laica di Rothko o di Yves Klein all’eccitazione superficiale cara alla Pop art», «soprattutto cromofile»4. La stessa opposizione tra bianco-nero e colore non sembra valere però, ad esempio, per l’arte africana, che – ci spiega nel primo saggio del volume Ivan Bargna – non è affatto nera, come spesso la pensiamo, né oppone in modo assoluto il colorato al non colorato. Il colore, contrariamente alla nostra idea classica e occidentale di opera, è qualcosa che si può apporre anche successivamente, che viene rinnovato di tempo in tempo, in «un ripristino periodico che riattiva il potere della figura e a cui spesso si lega l’idea di rinnovamento e di gioventù, l’apprezzamento per il carattere effimero delle cose della vita»5. Né, per altri motivi, si oppongono nero e colori nell’arte cinese, in cui spesso rosso e nero si alternano dinamicamente l’uno con l’altro come colori principali6. Ma per viaggiare e sondare i limiti dei codici di colore, non occorre necessariamente andare così lontano. Lo storico del colore Michel Pastoureau ci spiega che bianco e nero hanno acquisito un posto “a parte” rispetto agli altri colori soltanto con l’avvento della fotografia e del cinema, ma per i pittori sono sempre stati colori a tutti gli effetti7. Bianco e nero, quindi, possono essere usati non soltanto per negare o superare il colore, ma anche per intensificarne la forza espressiva, o per cercarne una sintesi, un “concentrato”8. Se mescolo tutti i colori, cosa ottengo? E se li faccio girare, come su un disco in movimento? Dove
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1. Cooperativa Tessile Su Marmuri, La Fiaba della capretta, arazzo, 135 × 55 cm.
2. Museo di arte contemporanea Stazione dell’arte, Ulassai, Nuoro.
finisce il colore? O anche, come si chiede nel 1963 Ettore Sottsass, «di che colore sono le tenebre?». In quell’anno, durante un viaggio negli Stati Uniti insieme alla moglie Fernanda Pivano, l’artista si ammala gravemente ed è costretto in ospedale per parecchi mesi. Così nasce il suo progetto delle Ceramiche delle Tenebre. Ceramiche che non sono nere, ma di diversi colori, tutti quelli che le tenebre possono assumere, come Sottsass ci spiega in un passo in cui la forza musicale delle parole è pari forse quasi a quella delle immagini: Più penso alle tenebre, meno so come sono e più difficile diventa definirle. Si scende nelle tenebre attraverso la luce viola del corridoio dell’ospedale? O si passa attraverso barriere roventi? […] Forse sono bianche di gesso. Perché in fondo non è detto che le tenebre siano nere. E non è neanche detto che siano arancione. Che le tenebre siano nere è un’idea retorica fabbricata in Occidente e forse le tenebre invece sono bianche come vuole l’idea retorica dell’Oriente. Possono essere bianche come quella balena, come le mura di Lima, come le ossa, come i mari in bonaccia, come le ghiaie morte dei monti silenziosi, come i lenzuoli che coprono i cadaveri, come i fiori delle barelle sul Gange. Io non so come sono le tenebre9.
Nelle tenebre si esprime l’idea di “minaccia” che insidia ogni cosa bella e sensata nella sua fragilità, come le antiche ceramiche, che resistono per secoli alle violenze delle guerre. Per questo le Ceramiche delle Tenebre sono nere e grigie, ma anche gialle e blu, con strani e inquietanti occhi, come gli uccelli che «popolavano le notti blu delle campagne»10. A spingere Sottsass a interrogarsi sui codici più consueti che applichiamo al colore è qui un viaggio, al tempo stesso reale e immaginario. Quello attraverso le pagine di Moby Dick e le rappresentazioni di Lima, ma anche quello reale in Oriente, compiuto a più riprese durante la sua vita, e soprattutto quello negli Stati Uniti, dove si ritrova prigioniero in ospedale. Un viaggio, quest’ultimo, soltanto apparentemente meno esotico, se è vero che già durante la sua prima visita negli States, diversi anni prima, l’artista
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3. Ettore Sottsass, Ceramiche delle Tenebre, 1963.
annota nei minimi dettagli tutti i colori dei treni e dei loro arredamenti11. La descrizione può risultare disorientante per il lettore, che si perde nel labirinto delle sfumature cromatiche registrate per ogni singola parte dei vagoni e degli interni. O meglio disorientante, forse, soltanto per il lettore-filosofo, con la sua mania di cercare una sintesi, un significato unico in tutto. Del resto, come notava già Wittgenstein, esistono i colori ma «il concetto puro di colore non esiste»12. I colori si danno soltanto nella loro disorientante molteplicità, come tessere del vestito di arlecchino. Allora, però, a cosa serve il filosofo? Intermezzo: ma che ne sanno i filosofi del colore? Rispetto ai diversi modi di pensare il colore «i filosofi» scrivono David Kastan e Stephen Farthing nel loro recente libro On Colour «funzionano un po’ come le truppe di pace della nato quando pattugliano i confini: hanno successo soprattutto quanto restano decisamente neutrali e pensano ai loro interessi, che poco importano alle parti in causa»13. Non migliore è il giudizio del famoso storico dell’arte John Gage, che afferma che «benché il colore abbia offerto molto ai filosofi, la filosofia [...] ha poco da offrire alla comprensione del colore». E di Barry Maund, una delle principali voci della filosofia del colore contemporanea, Gage scrive che il lettore può imparare molto di più sul colore dall’ultimo scritto del regista e pittore Derek Jarman, Chroma, che dai suoi libri14.
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Perché allora questo volume sul colore nell’arte è introdotto dal saggio di un filosofo, e si chiude ora la con la postfazione di un’altra esponente del poco utile gruppo? A che scopo dare la parola ai filosofi, se la filosofia non serve alla comprensione del colore? Credo, in verità, che l’Introduzione di Massimo Carboni sia sufficiente a dimostrare il contrario: i filosofi hanno molto da dire sul colore, proprio perché non riescono a dire nulla di definitivo su di esso. Proprio in questo, del resto, consiste la filosofia: nel cercare risposte che portano a sempre nuove domande15. Nel caso del colore, questo avviene con particolare evidenza. Come scrive Wittgenstein, «i colori ci inducono a filosofare»16. Questo significa, quindi, che il colore è inafferrabile? Anche a questo credo che l’Introduzione abbia già risposto, chiarendo che non è così17. È troppo facile etichettare quello che non si riesce a spiegare come inafferrabile o ineffabile18. Il colore è piuttosto qualcosa che va afferrato di volta in volta nella sua complessità, nel suo intreccio di elementi: tra dimensione personale e culturale, come abbiamo appena visto nel passo di Sottsass, tra storia e natura, ma anche, come proveremo a vedere tra poco, tra visibile e dicibile, immagine e parola. L’indagine filosofica sul colore è quindi, come ogni indagine filosofica che si rispetti, indagine che si sporge verso il mondo, verso i materiali concreti con cui di volta in volta ha a che fare. Per tentare di capirli, o meglio di indagarli più a fondo. Quanto questo riesca, non è mai garantito. Di certo nessuna postfazione filosofica farà mai sì che non occorra voltarsi indietro, per tornare ogni volta ai materiali colorati che prova a indagare. Il filosofo Denis Diderot parlava, nella sue analisi dei Salons di Parigi, di «entrare» nei quadri19. È in un certo senso qualcosa di questo tipo che proveremo qui a fare, solo entrando non in quadri, ma in opere di arti “minori”, panni o cassoni a cui culture lontane hanno affidato la loro pittura e il loro senso del colore. Una veste per prendere il volo (non soltanto da morti) Nell’arte centroasiatica del millequattrocento, ci spiega Giovanni Curatola nel suo saggio20, è diffusa la rappresentazione dei jinn, demoni dalle sembianze umane che danzano mostruosi e hanno quelli che noi chiameremmo… bellissimi occhi azzurri! Gli occhi azzurri, nel mondo asiatico (islamico, ma anche ebraico), avevano a quel tempo una connotazione negativa. Una sorte analoga e contraria spetta al nero in alcune regioni dell’Africa, dove il clima particolarmente torrido porta a considerare i nuvoloni particolarmente benvenuti21. Il lettore di questo libro incontrerà moltissime di queste inversioni e trasformazioni simboliche del colore, che lo porteranno a chiedersi, come Sottsass dal suo letto d’ospedale, «di che colore sono le tenebre?». A cambiare, tuttavia, non sono soltanto i significati dei diversi colori, ma le parole stesse che li esprimono. In Cina, ci spiega nel suo saggio Christine Kontler, i colori intermedi sono particolarmente difficili da tradurre. Tra questi: «lu, verde, fra il blu-verde e il giallo; hong, il rosso chiaro, tra il vermiglio e il bianco; bi, verde-blu pallido, fra il blu-verde e il bianco; zi, porpora, violetto o marrone, fra il vermiglio e il nero (o, secondo altre fonti, fra il blu scuro e il rosso chiaro); liu, marrone, fra il giallo e il nero»22.
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Se guardiamo le immagini straordinarie di cui il saggio tratta, ci sembra quasi di acquisire anche noi un nome per questi colori. Lo stesso senso di scoperta proviamo quando, nel primo saggio, veniamo a sapere che in Africa a essere nominati sono di solito soltanto tre colori: nero, bianco e rosso23. Questo non ci deve far concludere, spiega l’autore, che gli africani soffrano di un deficit percettivo», né che «la palette dei pittori si riduca a questi tre colori»24. Eppure è successo, che si pensasse questo. Nella seconda metà dell’Ottocento alcuni studiosi di testi classici si sono accorti che gli antichi greci non avevano un termine univoco per indicare il blu25. La conclusione che ne hanno tratto è che essi non fossero ancora in grado non solo di nominare, ma neppure di percepire e distinguere il blu. Da qui, si è teorizzato che la percezione dei colori avvenisse per gradi evolutivi: prima il nero e il rosso, poi il giallo, per arrivare al verde e da ultimo al blu26. Tutto questo si verificava all’interno di un clima culturale evoluzionistico, che tendeva a individuare uno sviluppo costante e progressivo per tutti popoli. Con la fine dell’Ottocento, e l’inizio della moderna antropologia, il clima era destinato a cambiare. Attraverso l’antropologia di Boas, Sapir e Whorf si affermava il valore e la particolarità di ogni cultura e dei suoi modi propri di identificare e di dire il colore. Questo, per quanto riguarda il colore, era destinato tuttavia a porre un problema. Lo spettro luminoso, infatti, è un continuum. Come accade che lo suddividiamo nei diversi colori? E soprattutto, il modo in cui lo suddividiamo è davvero del tutto arbitrario e variabile a seconda delle diverse culture? Se fosse così, vedremmo effettivamente colori del tutto diversi, a seconda della nostra appartenenza linguistica e culturale. Eppure, questo sembra andare in qualche modo contro il senso comune, che ci parla di una “comunicabilità” del colore. Nella seconda metà del Novecento sono stati intrapresi diversi studi per dimostrare la presenza costante nelle diverse culture di alcune categorie cromatiche fondamentali. L’antropologo Brent Berlin e il linguista Paul Kay hanno ipotizzato un certo numero di “termini base di colore” (basic color terms), uguali per tutti, attorno ai quali si formano tutti gli altri nella loro variabilità27. Questa teoria è stata molto criticata: la si è accusata di portare le nostre categorie cromatiche occidentali all’interno del mondo primitivo o non occidentalizzato. Un rischio indubbiamente presente. Come scrive Ivan Bargna nel primo saggio di questo volume, «quando andiamo a caccia dei colori altrui lo facciamo, inevitabilmente, a partire dalla nostra esperienza personale che si è formata e si modifica nell’incontro con gli altri»28. Si è giunti così a una seconda ricerca, il World Colour Survey, condotta su uno spettro molto più ampio di lingue, scritte e non scritte. Il World Colour Survey ha confermato la presenza di alcune importanti somiglianze nel modo in cui le diverse culture individuano i confini tra i diversi colori. Al tempo stesso, però, ha corretto la rotta delle ricerche sui “termini base di colore”, mostrando come lo sviluppo che porta dalla percezione del colore alla parola che lo esprime possa darsi non in un unico ma in molti modi. Non ci sono cioè, alcuni “termini base di colore” che sono il risultato, come si credeva, di una maggiore «salienza percettiva» di quei colori29. I vocaboli che esprimono il colore sono il risultato di un processo di astrazione che può svolgersi secondo modalità estremamente variabili. Spesso, nelle lingue cosiddette primitive, i termini di colore sono mescolati con altri tratti o oggetti (sembra essere questo il caso del famoso “mare color
del vino” degli antichi greci). Oppure, come ci mostra Bargna in questo volume, in alcuni casi gli oggetti stessi sostituiscono i termini astratti di colori: «le popolazioni degli allevatori di bestiame nilotici (Nuer, Dinka, Atuot e Mandari del Sudan meridionale), che non hanno tradizioni nelle arti visive, possiedono un’estetica che poggia sui colori dei bovini con diverse decine di termini che non si riferiscono a colori puri o a sfumature di colore ma a pattern e configurazioni associati alla stazza delle bestie e alla forma delle corna»30. Come, da questo insieme di esperienze, emergerà la parola specifica che dirà il colore, dipende da molti fattori, che sono naturali e percettivi, ma anche ambientali, pratici, sociali e linguistici. C’è uno spazio, quindi, che si apre tra l’esperienza pre-linguistica del colore – presente, ad esempio, nei bambini molto piccoli, che non sanno ancora parlare ma riescono già a distinguere i colori31 – e il colore come parte della cultura e del linguaggio. Questo ha una conseguenza importante sulla questione del valore simbolico dei colori, a cui prima si accennava. Significa, infatti, che nel colore l’elemento codificato (il significato culturale consolidato del colore) deve sempre fare i conti, come ci ha mostrato Massimo Carboni nella sua Introduzione, con quello instabile e aperto della percezione. Uno degli aspetti più interessanti del colore è proprio il suo riunire in sé due caratteri apparentemente contraddittori: da un lato la convenzionalità – il colore si fa portatore di significati fissi che, come si è visto, possono variare anche di molto nelle diverse culture – e, dall’altro, la capacità di mettere invece in causa gli schemi preesistenti. C’è un passo del pittore Paul Klee, citato nel saggio che Giorgio Zanchetti dedica in questo volume alle diverse teorie del colore, che mostra particolarmente bene questo secondo momento. L’artista è in viaggio in Marocco e finalmente il colore diventa qualcosa di suo, o meglio lui e il colore diventano una cosa sola:
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Il colore mi possiede; non ho bisogno d’andarne in cerca. Mi ha sempre e io lo so. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo una cosa sola. Sono pittore32.
Diventare tutt’uno con il colore significa rompere i confini stabili tra sé e l’altro, mettere in gioco la propria identità e quella delle cose nello spazio di possibilità che il colore rappresenta. Da vestito esterno delle cose, fatto di molte tessere tra loro estranee, come il vestito di Arlecchino, il colore diventa qualcosa di unito e di interno33, un «vestito per prendere il volo». È questo il nome della veste funebre trovata nella tomba cinese di Mawangdui, sito archelogico destinato, come ci spiega Christine Kontler in questo volume, a rivoluzionare le nostre conoscenze sulla pittura cinese. Non si sa precisamente chi dovesse «prendere il volo» indossando questo vestito, se la morta stessa o, com’è più probabile, l’anima di coloro che celebravano la cerimonia funebre, e avevano il compito di riacchiappare l’anima della defunta e ricondurla nella tomba34. Di certo la dimensione del «prendere il volo» si esprime con grande forza per chi osservi queste pitture e altre coeve. Da un lato, infatti, esse contengono un simbolismo dei colori estremamente ricco, articolato e precisissimo: […] si stabilirono delle corrispondenze tra le quattro stagioni e la stagione intermedia del cuore dell’estate, i punti cardinali e il centro, i colori, i sapo-
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ri e gli odori, le note musicali e i numeri, gli astri e i pianeti, ma anche fra le parti del corpo umano, fra le qualità, le attitudini morali e i sentimenti35.
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4. Derek Jarman, locandina del film Wittgenstein.
Dall’altro lato, c’è in queste pitture una serie di vortici, rappresentazione delle energie vitali e delle forze della natura, che salgono come venti colorati, si snodano e si intrecciano in forma di draghi e di persone, dando forma concreta all’idea che ognuno di questi colori e degli elementi che gli corrispondono scaturisca dall’altro36. È questo elemento di sorpresa che il colore custodisce, e che si racconta molte volte nelle immagini di questo volume. L’essere tutt’uno con il colore di cui parla Klee, da questo punto di vista, è solo l’altro lato della medaglia del percepirlo come nuovo e come alieno. Nel film di Derek Jarman su Ludwig Wittgenstein, il regista ha rappresentato il filosofo bambino che dialoga con un bellissimo marziano verde, simbolo di tutto quello che del colore non si comprende e ci sorprende. Una sorpresa che sembra giungerci dal mondo dell’infanzia, quando ci soffermiamo a lungo sul colore di una cosa, sinché la cosa scompare e resta solo il colore, come possibilità per la cosa stessa di trasformarsi, di legarsi a nuove e inaspettate cose possibili. Non è questo, quindi, un momento che appartiene solo agli artisti. Né è un momento che ci isola dal mondo, che ci rende soli. Come ci mostra la pittura del «vestito per prendere il volo», il colore già noto, il colore come mezzo di orientamento nel mondo (il verde come primavera, il rosso come estate…), coesiste già sempre con il colore come possibilità, messa in causa dell’orientamento stesso (i colori come vortici, che si scambiano l’uno con l’altro). Ma questo momento di sorpresa, di sovvertimento degli schemi che il colore permette, giunge davvero per caso?37 Di certo può essere un momento cercato, ma in nessun caso può essere un momento inventato: è qualcosa che accade. Cercherò di spiegare quest’ultimo punto con un breve racconto. Al primo piano dell’arcobaleno Nel romanzo di Gottfried Keller Martin Salander, la moglie del protagonista, Frau Marie Salander, deve assistere assieme ai suoi bambini allo spettacolo dei proprietari della locanda che gestisce con la sua famiglia che consumano le ultime vivande rimaste in dispensa. In quel momento, nel paesaggio che si intravvede dalla finestra, spunta un bellissimo arcobaleno e la madre inizia a raccontare una storia per distrarre i figli. Sotto gli arcobaleni si nasconde di solito una comunità di gnomi che celebra un banchetto speciale. Le popolazioni di gnomi sono solite infatti, quando vedono che stanno per estinguersi, oppure quando gli uomini vicino a cui vivono diventano cattivi, decidere di lasciare i luoghi dove hanno abitato sino ad allora. Prima di farlo, però, danno un grandioso festino sotto a un arcobaleno, o meglio al primo piano di esso. Il primo piano dell’arcobaleno è un grande salone, che riluce di tutti i colori. Lì, gli gnomi mangiano in piatti d’oro vivande prelibate, che la signora Salander descrive in dettaglio. Poi, quando il banchetto è finito, se ne vanno e scompaiano, nessuno sa dove. Rimane solo una piccola gnoma non ancora sposata, di due o trecento anni, che per noi equivarrebbero all’incirca a venti, che ha il compito di
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rimettere tutto a posto. Dopo aver lavato le stoviglie, le mette tutte in una cassa, che seppellisce nel terreno dove c’era l’arcobaleno. Tiene però il suo piatto d’oro e le sue posate, le mette in uno zaino, e con quello in spalla parte verso popolazioni di gnomi lontane. «Si dice», conclude la signora Salander, che «sia capitato anche» che la viaggiatrice «si sia sposata, lontano, presso una popolazione più giovane»38. È stato più volte notato tra i critici lo strano carattere di questa fiaba39, che contrariamente a ciò che avviene di solito nelle fiabe non si conclude con un lieto fine, ma con un addio (gli gnomi che partono, o addirittura
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5. Gottfried Keller, A Swiss Lakeside Village with Figures, Mountainous Background, olio su tela, 47 × 69 cm, collezione privata.
NOTE RIFLESSIONI SUL COLORE un’introduzione Massimo Carboni Campo problematico, questo del confronto tra logos e visione, dicibile e visibile sul quale abbiamo a lungo e a più riprese lavorato, cfr. L’Impossibile Critico. Paradosso della critica d’arte, Roma, Kappa, 1985; Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Roma, Castelvecchi, 1999, in part. pp. 149-84; L’occhio e la pagina. Tra parola e immagine, Milano, Jaca Book, 2002; Il visibile (in)dicibile, in A.A.V.V. Immagine e scrittura, a cura di M.G Di Monte, Roma, Meltemi, 2006; La dissoluzione delle immagini. Astrazione pittorica e linguaggio, in A.A.V.V., Ripensare le immagini, a cura di G. Di Giacomo, Milano, Mimesis, 2009. 2 I. Kant, Antropologia pragmatica (1798); trad.it. Laterza, Roma. Bari, 1969, p. 53. 3 L. Wittgenstein, Pensieri diversi (1977); trad. it. Adelphi, Milano, 1980, p.153. Il libro sulla logica dell’esperienza cromatica al quale ci si riferisce è naturalmente Osservazioni sui colori. Una grammatica del vedere (1977); trad. it. Einaudi, Torino, 1981. Per una lettura filosofica d’impostazione analitica del problema del colore, cfr. A. Barale, Il giallo del colore. Un’indagine filosofica, Jaca Book, Milano, 2020. 4 Cfr. sul celebre episodio de La prigioniera il ns. L’occhio e la pagina, cit., seconda edizione 2018, pp.159-67. 5 Scrive Sergio Bettini: «Anche le figure e i paesi sono travolti dal colore che è in sé indicibile; strutture pittoriche siffatte sembrano sfuggire alla traduzione in strutture elocutorie, a cominciare dai segni più elementari, che son quelli che nominano le cose: che, così sfaldate, stemperate nelle ultime opere di Tiziano, quasi non hanno più nome», (Forma e colore in Tiziano, in Tempo e forma. Scritti 1935-1977, Quodlibet, Macerata, 1996, p.270. 6 Op. cit., p.127. 7 N. Cusano, Dialogo di un gentile ed un cristiano su Dio nascosto, in Opere filosofiche, trad. it. utet, Torino, 1972, p. 310. Cfr. anche, nello stesso volume, La ricerca di Dio. 8 J.J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, trad.it. Guida, Napoli, 1984, p.101. Cfr. il lungo e circostanziato commento che dell’Essai fa Jacques Derrida in Della grammatologia (1967); trad. it. Jaca Book, Milano, 1969. 9 H. Matisse, Scritti e pensieri sull’arte (1972), trad. it. Einaudi, Milano, 1979, p.156. 1
si estinguono). La leggenda della pentola d’oro che gli gnomi seppellirebbero ai piedi dell’arcobaleno è un classico della tradizione popolare. Alla cassa piena delle preziose stoviglie si unisce, però, il motivo predominante dell’estinguersi del popolo di gnomi e del loro doversene andare. L’unica nota positiva, il matrimonio della giovane gnoma tra le genti straniere, è lasciata volutamente in forse: dev’essere capitato («es soll schon vorgekommen sein»), dice la narratrice, ma nulla è garantito. Torniamo al carattere instabile del colore, alla sua capacità di farsi improvvisamente carico di significato, di non essere più il colore esterno che troviamo già pronto e codificato, ma di essere tutt’uno con noi, come spiega Paul Klee – che non a caso, come ci ricorda Giorgio Zanchetti nel penultimo saggio, attribuiva una grande importanza all’arcobaleno40. La leggenda della pentola d’oro cerca in qualche modo di compensare l’instabilità di questo momento: dove l’arcobaleno sparisce, resta un tesoro ben custodito nelle profondità della terra. La favola della signora Salander, però, fa passare in secondo piano questo elemento. Gli gnomi devono scomparire e l’ultima gnoma rimasta partire. Non c’è tragedia in questo: dobbiamo immaginarci la scena nel paesaggio sereno e nitido della Svizzera dello scrittore (e, cosa meno nota, pittore dilettante) Keller – la «Svizzera omerica», come la chiama Walter Benjamin nel suo saggio su Keller41. Fatto sta, però, che il momento dell’arcobaleno come «fenomeno che sta al di sopra di tutte le cose», secondo il passo di Klee – unione irripetibile tra il visibile e l’invisibile, tra il mondo come è e il mondo come potrebbe essere42 – non può essere conservato. Può essere, però, festeggiato, nella grande sala dai molti colori e cibi, e si può poi cercarne un altro. Senza garanzie, certo, e rimettendosi in viaggio, con solo un piattino e un cucchiaino d’oro pronti nello zaino.
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V. van Gogh, Lettere a Theo sulla pittura, trad. it. tea, Milano, 1994, p. 119. 11 Per la parte che segue cfr. S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello (1999); trad. it. Boringhieri, Torino, 2003; O. Sacks, Il caso del pittore che non vedeva i colori, in Un antropologo su Marte (1995); trad. it. Adelphi, Milano, 1995. Per ciò che riguarda la dimensione scientifica del colore, abbiamo tenuto presenti R.L. Gregory, Occhio e cervello (1966); trad. it. il Saggiatore, Torino, 1979; R. Arnheim, Arte e percezione visiva (1954); trad. it. Feltrinelli, Milano, 1962; L. Maffei, L. Mecacci, La visione, Mondadori, Milano, 1979; A. Frova, Luce colore visione, Editori Riuniti, Roma, 1984. 12 Ovviamente ignorando le risultanze scientifiche che qui andiamo evocando perché ancora di là da venire per molti anni, Merleau-Ponty aveva perfettamente intuìto la dimensione filosofica del problema in alcune straordinarie pagine del suo ultimo libro, rimasto incompiuto ed uscito postumo assieme alle mirabili Note di lavoro nel 1964, Il visibile e l’invisibile. Condizione dell’operatività empirica della percezione è che essa si nasconda il suo stesso operare: «la percezione è di per sé ignoranza di sé come percezione selvaggia, impercezione, tende di per sé a vedersi come atto e a dimenticarsi come intenzionalità latente» (trad. it. Bompiani, Milano, 1969, p. 246). Nella misura in cui la percezione si identifica con l’atto è soltanto atto, e non può non fare ombra a sé stessa. Husserl, comunque, aveva già colto lo status quaestionis nel suo Esperienza e giudizio. 13 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945); trad. it. il Saggiatore, Milano, 1965, cfr. in particolare pp. 285-92. 14 V. van Gogh, Op. cit., p. 134. 15 D. Diderot, Sulla pittura, trad. it. Aesthetica, Palermo, 2004, pp. 46 e 48. 16 Su questi motivi, cfr. J. Lichtenstein, La couleur éloquente.Rhétorique et peinture à l’âge classique, Flammarion, Paris, 1999, in part. al cap. Le conflit du coloris et du dessin ou le devenir tactile de l’idée. 17 Cfr. M. Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino, 1983, p. 17. 18 J. Derrida, La farmacia di Platone, trad. it. in “Tel Quel” edizione italiana, 1968, ora in Id. La disseminazione (1972); trad. it. Jaca Book, Milano, 1989, p. 170. 19 S. Zeki, Op. cit., p. 223. 20 J.J. Rousseau, Op. cit., p. 101. 21 Cfr. su questo motivo il ns. Del tratto, in “aut-aut”, 220-221, 1987. 10
J.W. Goethe, La teoria dei colori, trad. it. il Saggiatore, Torino, 1978, p. 1. 23 G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. Einaudi, Torino, 1972, p. 935. 24 V. van Gogh, Op. cit., p. 132. 25 S.M. Ejzenštein, Il colore, trad.it. Marsilio, Venezia, 1982, p.83. Cfr. anche l’Introduzione di P. Montani per il parallelo ejzenšteniano tra l’elemento musicale e l’elemento cromatico e per quella che si può chiamare una vera e propria drammaturgia del colore come linea interna alla drammaturgia complessiva dell’opera filmica. Sulla funzione espressiva del colore nel cinema, cfr. L. Venzi, Il colore e la composizione filmica, ets, Pisa, 2006 e Tinte esposte. Studi sul colore nel cinema, Pellegrini, Cosenza, 2018. 26 G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1 (1983); trad. it. Ubulibri, Milano, 1984, p. 137. 27 Sul simbolismo dei colori declinato secondo le avventure e gli esiti della pittura moderno-contemporanea, cfr. A. Boatto, Di tutti i colori, Laterza, Roma-Bari, 2008. 28 C. Baudelaire, Salon del 1846, in Opere, trad. it. Mondadori, Milano, 1996, p. 1019. 29 H. Matisse, Op. cit., p. 159. 30 Op. cit., p. 165, nota 17. 22
IL COLORE NELL’ARTE AFRICANA Ivan Bargna F. Affergan, Exotisme et alterité. Essai sur les fondements d’une critique de l’anthropologie, puf, Parigi 1987 (trad. it. Esotismo e alterità. Saggio sui fondamenti di una critica antropologica, Mursia, Milano 1991, pp. 148-159). 2 E.W. Said, Orientalism, Pantheon Books, New York 1978 (tr. it. Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1991). 3 C.L. Miller, Blank Darkness, University of Chicago Press, Chicago 1985. 4 J. Conrad, Heart of Darkness, 1899 (trad. it. Cuore di tenebra, Garzanti, Milano 1990, p. 47). 5 D. Batchelor, Chromophobia, Reaktion Books, Londra 2000 (tr. it. Cromofobia. Storia della paura del colore, B. Mondadori, Milano 2001); A.A.V.V., I colori del bianco. Policromia nella scultura antica, Musei Vaticani, De Luca Editori d’Arte, Roma 2004. 6 D. Howes, The Variety of Sensory Experience, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 1991. 7 J. Goody, The Anthropology of the Senses and Sensations, in «Erreffe. La ricerca 1
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folklorica», 45, 2002 (numero monografico sull’antropologia delle sensazioni, a cura di V. Matera). 8 J. Goody, The Domestication of the Savage Mind, Cambridge University Press, Cambridge 1977 (trad. it. L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Franco Angeli, Milano 1990, p. 72). 9 D. Turton, La Catégorisation de la couleur en Mursi (Ethiopie), in S. Tornay, a cura di, Voir et nommer les couleurs, Université de Paris-x Nanterre, Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie comparative, 1978. 10 J. Coote, “Marvels of Everyday Vision”: The Anthropology of Aesthetics and the Cattle-Keeping Nilotes, in J. Coote, A. Shelton, Anthropology, Art and Aesthetics, Oxford University Press, Oxford 1982, pp. 245-273. 11 I. Bargna, Arte africana, Jaca Book, Milano 2003, pp. 7-14. 12 L. Stéphan, Couleur des sculptures noires, in C. Falgayrettes-Leveau, L. Stéphan, Formes et couleurs. Sculptures de l’Afrique noire, Dapper, Parigi 1993, pp. 97-170. 13 W. Rubin, Primitivismo modernista. Un’introduzione, in Idem, a cura di, Primitivismo nell’arte del xx secolo. Affinità tra il tribale e il moderno, Mondadori, Milano 1985, p. 41 (ed. or. “Primitivism” in 20th Century Art. Affinity of the Tribal and the Modern, The Museum of Modern Art, New York 1984). 14 C. Einstein, Negerplastik, 1915, Wolft, Monaco 1920. 15 R. Sieber, African Textiles and Decorative Arts, The Museum of Modern Art, New York 1972. 16 M. Augé, Le temps en ruine, Galilée, Paris 2003 (trad. it. Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004); S. Settis, Futuro del “classico”, Einaudi, Torino 2004, pp. 82-91; A. Appiano, Estetica del rottame. Consumo del mito e miti del consumo nell’arte, Meltemi, Roma 1999. 17 W. Van Damme, A Comparative Analysis Concerning Beauty and Ugliness in Sub-Saharian Africa, Africa Gandensia, Gent 1987, pp. 47-49. 18 D. Batchelor, op. cit., pp. 17-56. 19 L. Shiner, The Invention of Art, University of Chicago Press, Chicago 2001. 20 S.A. Boone, Radiance from the Water: Ideals of Feminine Beauty in Mende Art, Yale University Press, New Haven 1986. 21 L. Perrois, La statuaire fang, orstom, Parigi 1977. 22 H.J. Drewal, Beauty and Being: Aesthetics and Ontology in Yoruba Body Art, in A. Rubin, a cura di, Marks of Civilization. Artistic Transformations of the Human Body, Regents of University of California, Los Angeles 1988. 23 H. Cole-C. Aniakor, Igbo Art. Community and Cosmos, University of California Press, Los Angeles 1984.
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V. Turner, The Forest of Symbols. Aspects of Ndenbu Ritual, Cornell University Press, Ithaca e Londra 1967 (trad. it. La foresta dei simboli, Morcelliana, Brescia 1976, 1992). 25 G. Guedou-C. Conickx, La dénomination des couleurs chez les Fon (Bénin), in «Journal des africanistes», 1 (1986), pp. 72-73. 26 F. Fanon, Peau noire masques blancs, Seuil, Parigi 1952 (trad. it. Pelle nera maschere bianche, Tropea Editore, Milano 1996). 27 J. Chevrier, Les blancs vus par les Africains, Favre, 1998; V. Gorog-Karady, Noirs et Blancs. Leur image dans la littérature orale africaine, Selaf, Parigi 1976. 28 E.M. Mc Clelland, The Cult of Ifa among the Youruba, Ethnographica, Londra 1982. 29 R.J. Powell, Black Art and Culture in the 20th Century, Thames and Hudson, Londra 1997. 30 W. MacGaffey, Religion and Society in Central Africa: the Bakongo of Lower Zaire, Chicago 1986, p. 54; S. Preston Blier, Imaging Otherness in Ivory: African Portrayals of the Portoguese, ca. 1492, in «The Art Bullettin», 75, 3 (1993). 31 H. Cole-C. Aniakor, op. cit. 32 D. Zahan, Couleurs et peinture corporelles en Afrique noire. Le problème du “half-man”, in «Diogène», 90 (1975). 33 J. Goody, op. cit., p. 81. 34 V. Turner, op. cit. 35 B. Berlin-P. Kay, Basic Color Terms: Their Universality and Evolution, University of California Press, Berkeley 1969. 36 H. Gombrich, Art and Illusion, Pantheon Books, New York 1965 (trad. it. Arte e illusione, Einaudi, Torino 1965). 37 C. Pignato, Atti e parole efficaci. Usi antropologici di un modello linguistico, in «Etnoantropologia», 1, 1993. 38 G. Guedou-C. Conickx, op. cit. 39 Ibid., pp. 76-77. 40 V. Turner, op. cit. 41 A. Jacobson-Widding, Red-White-Black as a Mode of Thought: a Study of Triadic Classification by Colours in the Ritual Symbolism and Cognitive Thought of the Peoples of Lower Congo, Acta Universitatis Upsaliensis, Uppsala 1979; recensito in R. Needham, Colour Symbolism in the Lower Congo. A Review Article, in «Ethnos », 3-4 (1979). 42 M.G. Mudiji, Le language des masques africains. Etude des formes et fonctions symboliques des Mbuya des Phende, Facultés catholiques de Kinshasa, Kinshasa 1989, pp. 77-78. 43 M.G. Mudiji, op. cit., pp. 213-214. 44 D. Zahan, Les couleurs chez les Bambara du Soudan français, in «Notes africaines», 50 (1951). 45 V. Turner, op. cit. 46 C. Bouilloc, a cura di, Afrique bleue. Les routes de l’indigo, Musés du tapis et des arts textiles de Clermont-Ferrand, Edisud, Aix-en-Provence 2000. 47 R.F. Thompson, Black Gods and Kings. 24
Yoruba Art at UCLA, University of California Press, Los Angeles 1971. 48 H.J. Drewal-M. Thompson Drewal, Gelede. Art and Female Power among the Yoruba, Indiana University Press, Bloomington 1983. 49 R.F. Thompson, Flash of the Spirits African and Afro-American Art and Philosophy, Vintage Books, New York 1994. 50 G. Guedou-C. Conickx, op. cit., pp. 74-75. IL COLORE NELL’ARTE CINESE Christine Kontler 1 Testi canonici compilati prima di Confucio (551-479 a.C.) e, secondo la tradizione, da lui rivisti; hanno sempre avuto un valore sacro per i Cinesi che li ritengono di ispirazione celeste. Raccolgono la tradizione orale più antica riguardante le origini della storia cinese, gli insegnamenti sapienziali, le forme letterarie, la cosmologia, i riti. Essi sono: Shujing, Il Libro della Storia; Shijing, Il Libro delle Odi; Yijing, Il Libro delle Mutazioni; Liji, Il Libro dei Riti; Chunqiu, Cronache delle Primavere e degli Autunni, (ndt). 2 Le Sorgenti Gialle, huang quan, sono la sede dei defunti nelle profondità della Terra, (ndt). 3 Il termine soffi è una delle traduzioni del termine cinese qi che, nelle lingue occidentali può anche essere tradotto con energia. Il qi è ciò che, in stato di maggiore o minore condensazione, costituisce tutta la realtà. Per la filosofia cinese antica tutta la realtà è energia in costante movimento e mutazione, (ndt). 4 Per un’analisi dettagliata delle figure che appaiono sul drappo funerario e sul loro valore simbolico si veda: C. Kontler, L’arte cinese, Jaca Book, Milano 2000, pp. 103-105 e C. Larre, E. Rochat de la Vallée, I simboli cinesi di vita e di morte nelle pitture del drappo funerario di Mawangdui, Jaca Book, Milano 2004, (ndt). 5 Cfr.: Lao Tseu, Tao Te King, Il Libro della Via e della Virtù commentato da Claude Larre, Jaca Book, seconda edizione, Milano 1999, (ndt). 6 Per i concetti di Cielo e Terra nell’antica cultura cinese si veda: C. Larre, Alle radici della civiltà cinese, Jaca Book, Milano 2005, pp. 35-46, (ndt). 7 Secondo il pensiero cinese antico i Cinque elementi sono categorie con cui leggere la realtà in un preciso ordine spazio-temporale in continua trasformazione ed evoluzione; sono cinque fasi secondo cui viene analizzata l’unità del movimento vitale. Non sono affatto i costituenti ultimi della materia o dell’universo come potrebbe pensare chi applicasse i criteri della filosofia greca antica al pensiero cinese. Ogni realtà vivente può essere scomposta e analizzata secondo questo modello elementare per una miglior
comprensione. Ogni elemento circoscrive una classe di funzioni e di qualità fra loro correlate. La classificazione dei fenomeni all’interno di queste cinque categorie avviene secondo criteri analogici tra i fenomeni stessi e l’elemento specifico. Così al Fuoco è associato il sud, considerato il punto di massimo calore, l’estate e il mezzogiorno; ad esso è abbinata la fase di massima espansione: è lo stato del «grande yang». All’Acqua, che in natura è per lo più fredda e spesso si presenta sotto forma di ghiaccio o neve, è associato il nord, punto di massimo freddo, l’inverno, la mezzanotte; ad esso furono abbinate tutte le funzioni che sono nel riposo e nella quiete e stanno per ritornare all’attività: è lo stato del «grande yin». Al Legno, che simboleggia il germogliare delle piante, è abbinato l’Est, punto cardinale del sorgere del sole, la primavera, tempo della germinazione e, per i cinesi, inizio dell’anno e l’alba; a esso sono abbinate tutte le funzioni che sono in fase di crescita: è lo stato dello yang in crescita e dello yin in diminuzione, del «piccolo yin». Al Metallo sono correlati l’Ovest dove il sole tramonta, la fine del giorno (fine dello yang) e l’autunno (fine del periodo yang dell’anno). È lo stato dello yin in crescita e dello yang in diminuzione, del «piccolo yang». La Terra rappresenta il Centro, l’equilibrio yin/yang nello spazio e nel tempo. (ndt) 8 A questo proposito si veda C. Kontler, L’arte cinese, op. cit., pp. 227 ss, (ndt). 9 Cfr.: Lao Tseu, op. cit., cap. xii, pp. 52 s. ISLAM E COLORI Giovanni Curatola 1 Corano, a cura di A. Bausani, Firenze 1966, ii, 69. 2 Ibid., xx, 102. 3 Ibid., xxx, 15. 4 Y. Kemal, Binbogalar Efsanesi, Istanbul 1971; trad. it. Il canto dei mille tori, a cura di C. Zonghetti, Milano 2001, pp. 20-21. 5 Nezami, Le sette principesse, intr. e trad. di A. Bausani, Milano 1982. 6 Brandi C., Persia Mirabile, Roma 2002, p. 32. 7 In A. Bausani, Persia religiosa, Milano 1959, p. 311.
nota bilibliografica
Corbin, H., “Réalisme et symbolisme des couleurs en cosmologie shi‘ite”, in The Realms of Colour, Eranos Jahrbuch, xli 1972-74, pp. 109-176. Curatola, G.-Scarcia, G., Le arti nell’Islam, Roma 1990. Curatola, G.-Scarcia, G., Iran. L’arte persiana, Milano 2004. Donini, P.G., “Note preliminari sulla gerarchia dei colori nell’Islam”, in Studi in onore di Roberto Rubinacci nel suo settantesimo compleanno, a cura di C. Sarnelli
Cerqua, Napoli 1985, i, pp. 261-268. Donini, P.G., “Sulla fortuna del rosso nell’Islam”, in Annali di Ca’ Foscari, xxiv, 3 (S.O. 16), 1985, pp. 33- 40. Gnoli, G., “Un particolare aspetto del simbolismo della luce nel mazdeismo e manicheismo”, in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, xii, 1962, pp. 102 ss. Lewis, B., Race and Color in Islam, Londra 1971. Morabia, A., “Recherches sur quelques noms de couleurs en arabe classique”, in Studia Islamica, xvi (1964), pp. 61-99. Morabia, A., s.v. “Lawn”, in Encyclopédie de l’Islam, 2a ed., V, Leiden-Parigi 1983, p. 711. Piemontese, A.M., “Note etimologiche e morfologiche su al-Buraq”, in Annali di Ca’ Foscari, xiii, 3 (S.O. 5), 1974, pp. 109-133. Scarcia Amoretti, B., “Lunar green and solar green: on the ambiguity of function of a colour in Islam”, in Acta Orientalia, xxxiii (3), 1979, pp. 337-343. Zilio-Grandi, i., “Un esempio di interpretazione dei sogni nell’Islam: il colore verde”, in Annali di Ca’ Foscari, xxvi, 3 (S.O. 18), 1987, pp. 53-66.
viji, Belgrado 1975, figg. 89-90. D. Talbot Rice, op. cit., tav. viii. 17 Cfr. R. Hamann-Mac Lean, H. Hallensleben, Die Monumentalmalerei in Serbien und Makedonien, Giessen 1963, fig. 208. 18 Cfr. B. Todic, Staro Nagori/ino, Belgrado 1993, fig. 26. 19 Cfr. T. Velmans, a cura di, Il viaggio, riprod. p. 165. 20 Cfr. K. Weitzmann, in A.A.V.V., Frûhe Ikonen, Vienna-Monaco 1965, tav. 171. 21 Cfr. A. Grabar, La peinture byzantine, riprod. pp. 162, 163. 22 Cfr. ibid., riprod. p. 169. 23 Cfr. D. Talbot Rice, Art byzantin, tav. xi. 24 Cfr. ibid., tav. xxxix. 25 Cfr. T. Velmans, a cura di, Il viaggio, riprod. p. 75. 26 Cfr. V. Lazarev, Les icônes de Moscou, Mosca 1969, tav. 3. 27 Cfr. ibid., tav. 17. 28 Cfr. ibid., tav. 18. 29 Cfr. ibid., tav. 27. 16
LE CATTEDRALI DEL MEDIOEVO ERANO BIANCHE? dal cromatismo architettonico allo spazio-colore
IL SISTEMA CROMATICO DELLA PITTURA BIZANTINA Tania Velmans 1 Cfr. Omelia sull’Epistola agli Ebrei, PG, t. 63, col. 1. 2 Cfr. Marie-José Mondzain, Image, icône, économie, Parigi 1996. 3 Cfr. A. Grabar, Martyrium ii, Parigi 1946, p. 399. 4 Cfr. ibid., p. 63. 5 Cfr. M.A. Crippa-M. Zibawi, introd. J. Ries, L’arte paleocristiana, Milano 1998, p. 10. 6 A. Vassiliu, Le mot et le verre, in «Revue Roumaine d’Histoire de l’Art», série BauxArts, xxx, Bucarest 1993, p. 27. 7 Cfr. S. Averincev, L’or dans le système des symboles de la culture protobyzantine, uscito la prima volta in russo in Byzance, les Slaves du Sud et l’ancienne Russie (Mélanges en l’honneur de V.N. Lazarev), Mosca 1973, pp. 47-67. 8 Cfr. K. Weitzmann, in A.A.V.V., Icone, Belgrado 1983; riprod. p. 62. 9 Cfr. S. Averincev, op. cit., p. 62. 10 Cfr. T. Velmans, a cura di, Il viaggio dell’Icona, Milano 2002, fig. 38. 11 D. Talbot Rice, Art Byzantin, Parigi 1959, tavv. xxxvi-xxxvii. 12 Sv. Radojcic, Mileyeva, Belgrado 1963, p. 23. 13 A. Grabar, La peinture byzantine, Ginevra 1953, riprod. p. 135. 14 D. Talbot Rice, The Church of Hagia Sophia at Trebisond, Edimburgo 1964, tav. iii. 15 Cfr. V. Djuric, Vizantijske Freske u Jugosla-
Roberto Cassanelli 1 Le Corbusier, Quand les cathédrales étaient blanches. Voyage au pays des timides, Paris 1937 (trad. it. conforme all’ed. or. francese: Quando le cattedrali erano bianche. Viaggio nel paese dei timidi, Christian Marinotti, Milano 2003, p. 3). Sul viaggio negli Stati Uniti, che costituisce una fondamentale premessa al volume, forniscono preziose informazioni le lettere, di cui v. una scelta in Le Corbusier, Choix de lettres, sélection, introduction et notes par J. Jenger, Birckhäuser, Basel-Boston-Berlin 2002. 2 A. Peroni, Le cattedrali medievali erano bianche?, in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, a cura di F. Alessio e A. Stella, Il Saggiatore, Milano 1979, pp. 10-22. 3 Le Corbusier non si perse certo in questioni filologiche a proposito del testo di Raoul. Ad esempio, nessuno ha provveduto a segnalare nella recente riedizione italiana del volume l’incongruenza del testo francese, a suo tempo opportunamente rilevata da A. Peroni (1979, p. 16), che presenta a mo’ di epigrafe del prologo (Quando le cattedrali…, p. 45) la seguente fantasiosa, e clamorosamente errata, traduzione del passo: «[…] si sarebbe detto che il mondo intero, di comune accordo, avesse scosso le ceneri della sua antichità per indossare un bianco abito da chiesa [sic]» (v. per la restituzione corretta la nota seguente e la nota 7 per la fonte francese). 4 Cfr. Rodolfo il Glabro, Cronaca dell’anno Mille, a cura di G. Cavallo e G. Orlandi, Fondazione Valla, Milano 1992.
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A questa trasformazione è dedicata l’ampia rassegna Le paysage monumental de la France autour de l’An Mil, sous la direction de X. Barral i Altet, Picard, Paris 1987; cfr. anche Before and after the end of time. Architecture and the year 1000, a cura di C. Smith, Harvard Design School-George Braziller, Harvard-New York 2000 e The white mantle of churches. Architecture, liturgy, and art around the Millennium, ed. by Nigel Hiscock, Brepols, Tournhout, 2003. 6 H. Focillon, L’An Mil, Paris 1952; trad. it. L’Anno Mille, prefazione di C. Bertelli, Neri Pozza, Vicenza 1998, pp. 69 ss. 7 Le Corbusier [1937], 2003, p. 8. In francese la locuzione utilizzata da Raoul viene resa, nella traduzione di M. Prou, «robe blanche d’églises». Sulle edizioni e traduzioni di R. Glaber v. R.C. Van Caenegem-F.L. Ganshof, Introduction aux sources de l’histoire médiévale, Brepols, Tournhout 1997, pp. 61-62. 8 I colori del bianco. Policromia nella scultura antica, redazione scientifica di P. Liverani, De Luca-Musei Vaticani, Roma 2004, in part. A. Prater, Il dibattito sul colore. La riscoperta della policromia nell’architettura greca e nella plastica nel xviii e nel xix secolo, pp. 341 ss. 9 Ibid., pp. 22-23. 10 Per un’ampia casistica v. Peroni 1979, pp. 12 ss. 11 G. Duby, L’anno Mille, trad it., Einaudi, Torino 1976, p. 163. 12 Per tale motivo Alain Erlande-Brandenburg, ribaltando i termini tradizionali, ha intitolato un suo libro sulla costruzione e decorazione delle chiese medievali Quand les cathédrales étaient peintes (Gallimard, Paris 1993). 13 Archéologie et architecture d’un site monastique v-xx siècles. 10 ans de recherches à l’abbaye Saint-Germain d’Auxerre, sotto la direzione di C. Sapin, Centre d’Etudes médiévales-cths, Auxerre-Paris 2000. 14 W. Schlink, Saint-Bénigne in Dijon. Untersuchungen zur Abteikirche Wilhelms von Volpiano (962-1031), Mann, Berlin 1978. Cfr. la testimonianza biografica di Raoul in Storie dell’anno Mille. I cinque libri delle storie di Rodolfo il Glabro e Vita dell’abate Guglielmo, a cura di G. Andenna e D. Tuniz, Jaca Book, Milano 2004. Sul ruolo degli ecclesiastici committenti nel Medioevo v. G. Binding, Der früh und hochmittelalterliche Bauherr als sapiens architectus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1996. 15 C. Heitz, De Chrodegang à Cluny ii: cadre de vie, organisation monastique, splendeur liturgique, in Sous la règle de saint Benoît. Structures monastiques et sociétés en France du moyen âge à l’époque moderne, atti del convegno (abbaye bénédictine Sainte-Marie de Paris, 23-25 octobre 1980), Genève-Paris 1982 («École Pratique des Hautes-Études, ive Section, Sciences 5
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Historiques et Philologiques, 5» [Hautes études médiévales et modernes, 47]), pp. 491-497; A. Baud, Cluny, un grand chantier médiéval au coeur de l’Europe, Picard, Parigi 2003. 16 R. Hodges-D. Whitehouse, Mohammed, Charlemagne and the origins of Europe, Duckworth, Londra 1983; Il Mediterraneo e l’arte da Maometto a Carlomagno, a cura di E. Carbonell e R. Cassanelli, Jaca Book, Milano 2001. Il Memoratorium de mercedes Commacinorum costituisce in tal senso una fonte capitale ed eloquente (Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara e S. Gasparri, Viella, Roma 2005, pp. 245-250). 17 L. Pasquini, La decorazione a stucco in Italia fra tardo, antico e altomedioevo, Longo, Ravenna 2002. 18 Gesta Friderici i imperatoris, a cura di G. Waitz e B. Von Simson, mgh, Scriptores rerum Germanicarum (1912), xlvi, Hannover 1978, p. 216. 19 La difficoltà di trovare maestranze adatte per la realizzazione di mosaici parietali è frequentemente testimoniata dalle fonti. V. ad es. quanto afferma Leone Marsicano a proposito della ricostruzione dell’abbazia di Montecassino alla metà dell’xi secolo (Cronaca di Montecassino, iii, 26-33, a cura di F. Aceto e V. Lucherini, Jaca Book, Milano 2001). Sulla produzione medievale di mosaici v. la voce di sintesi di A. Monciatti, Mosaico i. Parietale, in Arti e storia nel medioevo, ii; Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Einaudi, Torino 2003, pp. 522-539. 20 A. Peroni, op. cit., 1979, p. 15. 21 O. von Simson, The Gothic Cathedral, (1962), trad. it. La cattedrale gotica. Il concetto medievale di ordine, Il Mulino, Bologna 1988, p. 4. 22 M. Bacci, Lo spazio dell’anima. Vita di una chiesa medievale, Laterza, Roma-Bari 2005, che però si fonda su una troppo ristretta e orientata, sotto il profilo cronologico e territoriale, selezione di fonti. 23 Il dipinto, del xv secolo, raffigura l’interno dell’abbazia di Saint-Denis con l’antependium di Carlo il Calvo e la Grande Croce, entrambi perduti con la Rivoluzione francese (Le trésor de Saint-Denis, Réunion des musées nationaux, Paris 1991). 24 Sui tesori ecclesiastici medievali cfr. J. Von Schlosser, Raccolte d’arte e di meraviglie del tardo Rinascimento [1907], Sansoni, Firenze 1974; H. Swarzenski, Monuments of romanesque art. The art of Church treasures in north-western Europe, University of Chicago Press, Chicago 1967 (ii ed.); Trésors et routes de pèlerinages dans l’Europe médiévale, Centre européen d’art et de civilisation médiévale, Conques 1994; Ornamenta Ecclesiae, Schnütgen Museum, Köln 1985; Les Trésors de sanctuaires de l’Antiquité à l’époque romane, sous la di-
rection de J.-P. Caillet avec la collaboration de P. Bazin, Université de Paris X-Nanterre, Paris 1996; Treasure in the Medieval West, a cura di E.M. Tyler, York Medieval Press, Woodbridge 2000; Von Goldenen Gebeinen. Wirtschaft und Reliquie im Mittelalter, a cura di M. Mayr, Studien Verlag, Innsbruck-Wien-München 2001; Tesori. Forme di accumulazione della ricchezza nell’alto medioevo (secoli v-xi), a cura di S. Gelichi e C. La Rocca, Viella, Roma 2004. Una rapida sintesi in P.J. Geary, Oggetti liturgici e tesori della Chiesa, in Arti e storia nel medioevo, iii; Del vedere: pubblici, forme e funzioni, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Einaudi, Torino 2004, pp. 275290. 25 Giraldo Cambrense, Agli estremi confini d’Occidente. Descrizione dell’Irlanda (Topographia Hibernica), a cura di M. Cataldi, utet, Torino 2002, p. 74. L’importanza del passo non è sfuggita ad un conoscitore della miniatura medievale come Otto Pächt. Sul manoscritto cfr. J. O’Reilly, Le livre de Kells, in Histoire de l’écriture, de l’idéogramme au multimedia, sous la direction d’A.M. Christin, Flammarion, Paris 2001, pp. 304-306. 26 M. Pastoureau, Une histoire symbolique du moyen âge occidental (2004), tr. it. Medioevo simbolico, Laterza, Roma-Bari 2005, in part. pp. 121 ss. 27 Si veda la recente attenta analisi dell’illuminazione di Santa Sofia di Costantinopoli di M.L. Fobelli (Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di Costantinopoli e la Descrizione di Paolo Silenziario, Viella, Roma 2005). 28 Nel tardo impero si diffusero l’astrolatia e l’astralismo, fenomeni di origine orientale molto graditi, per la commistione tra filosofia e religione, alle classi colte di quella che è stata definita un’«età di angoscia» (ne è un esempio il discorso Al re Sole di Giuliano l’Apostata). Ancora tra ix e x secolo l’astrologo persiano Sa’dan Abu Sa’id Shadan esaltava (in un’operetta poi tradotta in latino e diffusa in Occidente) il sole e la luna come principi vitali di tutti gli esseri viventi, sviluppando un tema che attraverserà l’intero Medioevo occidentale giungendo a Pietro d’Abano (xiii sec.), per approdare infine all’Umanesimo (si pensi al “manifesto visivo” costituito dal ciclo di Schifanoia a Ferrara). 29 Sulla luce e il colore nel Medioevo v. il contributo di sintesi di M. Pastoureau (cit. a nota 25), nonché gli atti delle giornate di studi Il colore nel medioevo. Arte simbolo tecnica, Istituto Storico Lucchese-Scuola Normale Superiore di Pisa-Corpus Vitrearum Medii Aevi, Lucca 1996-2001, 3 voll. 30 Sulla sua figura v. la monografia di M. Bur, Suger abbé de Saint-Denis (1991), trad. it. L’abate Sugero, presentazione di I. Biffi, Jaca Book, Milano 1995, e gli studi raccolti in Abbot Suger and Saint-Denis. A
Symposium, P. Lieber Gerson, The Metropolitan Museum of Art, New York 1986, che affrontano ogni aspetto della sua attività. Il convegno si tenne in occasione della mostra ai Cloisters, The Royal Abbey of Saint-Denis in the time of abbot Suger (1122-1151), con catalogo a cura di S. McKnight Crosby, J. Hayward, C.T. Little, W.D. Wixom, The Metropolitan Museum of Art, New York 1981. Sulla storia architettonica dell’edificio v. S. McKnight Crosby, P.Z. Blum, The Royal Abbey of Saint-Denis from its beginnings to the death of Suger, 475-1151, Yale University Press, New Haven-London 1987. 31 Nella celebre Apologia ad Guillelmum. Sulla sua figura v. H. Bredero, Bernard de Clairvaux (1091-1153). Culte et histoire, de l’impénétrabilité d’une biographie hagiographique, Brepols, Turnhout 1998. 32 Abbot Suger on the abbey church of Saint-Denis and its art treasures, edizione curata e tradotta da E. Panofsky, 2ª ed., G. Panofsky-Soergel, Princeton University Press, Princeton 1979, p. 16 (la traduzione qui riportata è tratta dalla sola introduzione, separatamente edita in E. Panofsky, Meaning in the Visual Arts (1955), trad. it. Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1962, pp. 107 ss., p. 122). 33 Cit. in Panofsky 1962, p. 129. 34 «Ora che la nuova parte di fondo si congiunge a quella anteriore, la chiesa rifulge illuminata nella sua parte mediana. Viva luce infatti illumina ciò che luminosamente si unisce a ciò che è luminoso, e luminoso è il nobile edificio che è profuso di luce nuova», Panofsky 1962, p. 130 e n. 1. 35 Sulla vetrata altomedievale v. in particolare F. Dell’Acqua, “Illuminando colorat”. La vetrata tra l’età tardo imperiale e l’alto medioevo: le fonti, l’archeologia, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 2003. 36 Su tutta la questione v. E. Castelnuovo, Vetrate medievali. Officine tecniche maestri, Einaudi, Torino 1994. 37 Per il testo di Teofilo v. E. Brepohl, Theophilus Presbyter und das mittelalterliche Kunsthandwerk. Gesamtausgabe der Schrift De diversis artibus, Böhlau, Colonia. [etc.] 1999, e la trad. it. Teofilo monaco, Le varie arti. Manuale di tecnica artistica medievale, a cura di A. Caffaro, Palladio, Salerno 2000. V. anche M. Collareta, Teofilo, “qui et Rugerus”: artista e teorico dell’arte, in Artifex bonus. Il mondo dell’artista medievale, a cura di E. Castelnuovo, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 50-55. 38 La più recente edizione critica degli scritti di Suger è in Abt Suger von Saint-Denis ausgewählte Schriften. Ordinatio De consecratione De administratione, herausgegeben von A. Speer u. G. Binding, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2000. 39 Una rassegna recente ottimamente illustrata dei principali complessi è Vetrate me-
dievali in Europa, a cura di X. Barral i Altet, Jaca Book, Milano 2003. 40 B. Kurmann-Schwarz, P. Kurmann, Chartres. La cathédrale, Saint-Léger- Zodiaque, Vauban 2001; C. Lautier, Les vitraux de la cathédrale de Chartres. Reliques et images, in «Bulletin Monumental», 161, 2003, fasc. 1, pp. 1-96. 41 Le trésor de la Sainte-Chapelle, catalogo della mostra a cura di J. Durand e M.P. Laffitte, Réunion des musées nationaux, Paris 2001; A.A. Jordan, Visualizing Kingship in the windows of the Sainte-Chapelle, Brepols, Turnhout 2002. 42 J. Le Goff, San Luigi, tr. it., Einaudi, Torino 1996. 43 C. Mercuri, Corona di Cristo corona di re. La monarchia francese e la corona di spine nel Medioevo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2004. IL COLORE NEL QUATTROCENTO Ronald W. Lightbown nota bibliografica
La bibliografia sulle tecniche pittoriche, inclusi i colori, è ampia e in continua crescita, in un ambito in cui molti studi devono ancora essere svolti. Per i codici miniati ho usato il libro di R. Watson, Illuminated Manuscripts and their Makers, V&A Publications, Londra 2003. Opera classica sulle tecniche del Quattro e Cinquecento è quella di Cennino Cennini, Libro dell’Arte, citato qui nell’edizione di F. Brunello, Neri Pozza, Vicenza 1982, che contiene un’eccellente bibliografia. L’opera è stata tradotta in inglese, con un valido apparato di note, da D.V. Thompson Jr.: The Craftsman’s Handbook: The Italian “Il libro dell’Arte”, Yale University Press, 1913, e riedita dal 1954 presso Dover Books, New York. È inoltre importante citare D.V. Thompson Jr., The Materials and Techniques of Medieval Painting, con una presentazione di Bernard Berenson, Allen and Unwin, Londra 1956, opera poi riedita presso Dover Books, New York. Fonti antiche per l’arte italiana sono: Lorenzo Ghiberti, I Commentari, a cura di O. Morisani, Ricciardi, Napoli 1947; L.B. Alberti, De Pictura, citato qui dall’edizione a cura di C. Grayson, Leon Battista Alberti: On Painting and On Sculpture. The Latin texts with traslations, introduction and notes, Phaidon, London 1972; L.B. Alberti, Della Pittura, a cura di L. Mallè, Sansoni, Firenze s.d. (ca. 1950); Vasari, Vite, passim, e specialmente la Vita di Pietro Perugino in Vite, a cura di G. Milanesi, iii, 1878, pp. 574-575 e la Vita di Leonardo, in Vite, iv, pp. 26-27. Per l’arte fiamminga si veda Jean Lemaire de Belges, La Couronne Margaritique, come citato in Crowe e Cavalcaselle, Les anciens peintres flamands, tr. O. Delapierre, curato e commentato da A. Pinchart e Ch.
Ruelens, Brussels-Parigi 1862; Karl van Mander, Het Schilderboek, tr. H. Hymans come Le livre des peintres, specialmente vol. i, 1884, pp. 27, 44, 49. Per ricerche recenti si veda: J. Dunkerton, From Giotto to Dürer, National Gallery, Londra 1990. The Macmillan Dictionary of Art (1996) contiene una serie di eccellenti voci sulle tecniche in generale e sulle tecniche dei singoli artisti, nelle voci dedicate a questi ultimi. Ho usato in particolare: J.C. Bell, Chiaroscuro, vi, 1996 e Colori cangianti, vii; C. Hassel, Oil Painting, xxiii; J. Dunkerton, Tempera, xxx; J. Dunkerton, Glazes, xii; M. Krueger, Grisaille, xiii; J. Kirby, Varnish, xxii; A. Hagopian van Buren, Eyck, Jan van, x, pp. 711-2; O. Lehmann-Brockhaus, Jacopo Bellini, iii. Lo studio delle antiche tecniche pittoriche è in pieno sviluppo e la conoscenza si arricchisce quasi ogni anno. Si veda per esempio S.J. Campbell et al., Cosmè Tura, 2002. Per le inscrizioni ne Il Gonella di Jean Fouquet si veda O. Pächt in Jahrbuch der Kunsthistorisches Sammlungen in Wien, xx, 1974, pp. 39-88. «AZIONI E PASSIONI» DELLA LUCE Giorgio Zanchetti Recensione anonima alla Teoria dei colori di Goethe, luglio 1810, pubblicata in J.W. Goethe, Die Schriften zur Naturwissenschaft. Leopoldina Ausgabe, a cura di D. Kuhn, R. Matthei, G. Schmidt et al., ii, vol. 4, Böhlau, Weimar 1973, pp. 208 ss. La citazione è riportata da R. Troncon in appendice alla sua edizione di J.W. Goethe, La teoria dei colori. Lineamenti di una teoria dei colori. Parte didattica, Il Saggiatore, Milano 1979, 1993. Questa edizione di Troncon è relativa alla sola «parte didattica» della Farbenlehre goethiana, completata nel 1808 ed edita nel 1810 insieme con i Materialien zur Geschichte der Farbenlehere, anch’essi pubblicati in trad. it. a cura di R. Troncon: J.W. Goethe, La storia dei colori, Luni Editrice, Milano-Trento 1997. 2 I. Newton, A Letter (…) Containing His New Theory about Light and Colors. Sent by the Author to the Publisher from Cambridge, Febr. 6. 1671/72; In Order to be Communicated to the R. Society, in Philosophical Transactions of the Royal Society, 80, pp. 3075-3087; Id., Opticks, or a Treatise of the Reflections, Refractions, Inflections & Colours of Light, Londra 1704. 3 «[…] Mostriamo invece l’inconsistenza della teoria di Newton, che finora, in virtù della considerazione di cui gode, ha ostacolato fortemente una libera visione delle manifestazioni dei colori. Contestiamo un’ipotesi che, per tradizione, nonostante venga trovata inutilizzabile, ancora ottiene credito tra gli uomini. […] Quest’ottava meraviglia del mondo ci pare piuttosto 1
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un’antichità che minaccia il crollo e, senza troppe cerimonie, cominciamo a smantellarla a partire dal comignolo e dal tetto, cosicché il sole finalmente entri a far luce in quel nido di topi e civette». J.W. Goethe, La teoria…, op. cit., pp. 7 e 9. 4 «Tentiamo invano, in realtà, di esprimere l’essenza di una cosa. Prestiamo invece attenzione agli effetti: la loro storia completa ne abbraccerebbe senz’altro l’essenza. […] I colori sono azioni della luce, azioni e passioni. Ogni guardare si muta in un considerare, ogni considerare in un riflettere, ogni riflettere in un congiungere. Si può quindi dire che noi teorizziamo già in ogni sguardo attento rivolto al mondo» J.W. Goethe, La teoria…, op. cit., pp. 5 e 7. 5 J.W. Goethe, La teoria…, op. cit., sez. vi, 900, p. 211. 6 P.O. Runge, Die Farbenkugel, Amburgo 1810, tr. it. in Id., La sfera del colore e altri scritti sull’«arte nuova», a cura di R. Troncon, Il Saggiatore, Milano 1985, pp. 147-161. 7 Si veda, a questo proposito, la lettera di Runge a F.W.J. Schelling del 1° febbraio 1810, in Id., La sfera…, op. cit., pp. 184188. 8 P.O. Runge, lettera a H. Steffens, Amburgo, primavera del 1809, in Idem, La sfera…, op. cit., pp. 162-163. 9 P.O. Runge, Die Farbenkugel, cit., in Id., La sfera…, op. cit., pp. 148-149. 10 «Se saremo così avanti da far uso della teoria che abbiamo delineato con la nostra sfera e considereremo i diversi generi della pittura, scopriremo presto dove si trova il vuoto che la teoria non riempie. Il nostro materiale infatti non è composto di colori puri». P.O. Runge, Intorno alle composizioni e alla loro armonia. Frammenti (1809), in Id., La sfera…, op. cit., pp. 163-177. 11 Ibid. 12 «Mi è stato impossibile – poiché non volevo rinunciare a essere artista, passo al quale neppure ora intendo decidermi – discutere in maniera soddisfacente, con parole, il nesso essenziale tra luce e tenebra, tra colore e materia corporea poiché ogni volta che ho compiuto il tentativo ho dovuto imboccare una direzione del tutto diversa da quella che ritenevo necessaria per cogliere in figure le forme delle manifestazioni viventi della creazione. Se nei quadri ciò mi è spesso riuscito con pregnanza, non appena mi accingevo a questo compito prendendo le mosse dalla mia conoscenza finivo per ritrovarmi in una condizione innaturale e assai poco adatta al lavoro.» P.O. Runge, prima redazione della lettera a Schelling, op. cit., p. 186. 13 P.O. Runge, frammento, 2 febbraio 1808, in Id., La sfera…, op. cit., pp. 188-189. 14 «L’esperienza insegna che ogni singolo colore dona un particolare stato d’animo. […] selvaggi, popoli primitivi, fanciulli, mostrano una forte propensione per il
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colore nella sua massima energia e, quindi, specialmente per il rosso-giallo, nonché una certa tendenza al variopinto. […] Se, però, si trova questo equilibrio o per istinto o per caso, ne risulta un effetto piacevole. Ricordo che un ufficiale dell’Assia, che veniva dall’America, si dipinse il volto al modo dei selvaggi; risultandone una sorta di totalità tutt’altro che sgradevole. […] Se i colori producono stati d’animo, d’altro lato si adattano a stati d’animo e condizioni di vita. Popoli vivaci come i francesi amano i colori intensi […]. Popoli misurati come inglesi e tedeschi prediligono il paglierino e il giallocuoio su cui portano dell’azzurro scuro. […] Le giovani donne inclinano al rosa e al verdemare, gli anziani al viola ed al verde scuro. La bionda tende al viola e al giallo chiaro, la bruna all’azzurro e al rosso-giallo e, tutto sommato, con ragione.» J.W. Goethe, La teoria…, op. cit., sez. vi, 762, 835, 838, 840, pp. 190, 201-202. 15 «[…] Dall’azione sensibile e morale dei colori, presi singolarmente o in composizione, come l’abbiamo fin qui esposta, deriviamo per l’artista la loro azione estetica.» J.W. Goethe, La teoria…, op. cit., sez. vi, 848, p. 203. 16 J.W. Goethe, La teoria…, op. cit., sez. vi, 862, 863, 865, 866, pp. 205-206. 17 L’ambiente scientifico londinese, intorno alla Royal Society, era, lungo tutta la prima metà del xix secolo, all’avanguardia nella ricerca sulla fisica e sulla fisiologia del colore, grazie agli approfondimenti e alle comunicazioni di alcuni dei pionieri di questi studi, da Thomas Young e William Herschel, fino a Clerk Maxwell. 18 H. de Balzac, Le chef-d’oeuvre inconnu, Parigi 1832 (trad. it. di C. Montella e L. Merlini, Passigli, Firenze 1995, p. 65). 19 Eugène Delacroix, Journal. 1882-1863, a cura di A. Joubin, Plon, Paris 1931-32, 19963, “Venerdì 6 giugno 1851”, p. 279. L’annotazione è indicizzata dall’artista stesso alla voce “Colore” nel suo progetto di Dizionario di Belle Arti, avviato a partire dal 1857 (cfr. Id., Dictionnaire des beaux-arts, a cura di A. Laure, Hermann, Parigi 1996, pp. 42-43. 20 «Martedì 21 febbraio. […] Di fianco al violino, bella donna ebrea; gilet, maniche, oro e amaranto. Si stacca, metà sulla porta, metà sul muro. Più avanti, un’altra più vecchia con tanto bianco, che la nasconde quasi per intero. Le ombre piene di riflessi, c’è bianco nelle ombre. […] Le donne a sinistra messe in fila come vasi di fiori. Il bianco e l’oro dominano e i loro fazzoletti gialli. […] Sabato 24. […] Uomo in caffettano rosso nel mercato che si attraversa. Altro venditore di frittelle. Il portiere del quartiere ebraico in rosso. […] Ebrei sulle terrazze si staccano su un cielo leggermente annuvolato e azzurrato alla Paolo Veronese.» Eugène Delacroix, 1832, note dagli Album aggiunte al Journal..., op. cit., pp. 97-98, 107.
E. Delacroix, 1832, op. cit., p. 109. P. Signac, D’Eugène Delacroix au néo-impressionnisme, Ed. de la Revue Blanche, Parigi 1899 (Id., Da Eugène Delacroix al neoimpressionismo, tr. it. a cura di E.M. Davoli, Liguori, Napoli 1993). L’anno precedente, il testo era già apparso, in tre parti, sulla «Revue Blanche», nn. 118, 119, 122. 23 P. Signac, Da Eugène Delacroix…, op. cit., pp. 103-105. 24 Ibid., pp. 55-64. 25 «Bisogna anche sottolineare che, per quanto riguarda l’impiego della mescolanza ottica, gli impressionisti rifiutano ogni metodo preciso e scientifico. Come uno di loro ha detto in modo assai felice, “essi dipingono allo stesso modo in cui un uccello canta”. […] La mancanza di metodo fa sì che, sovente, l’impressionista sbagli nell’applicare il contrasto. […] Gli impressionisti si comportano poi in modo altrettanto arbitrario, quando procedono alla frammentazione delle stesure cromatiche. […] In questa ressa di colori vi sono elementi tra loro incompatibili, che, neutralizzandosi a vicenda, offuscano tutto l’insieme del dipinto» P. Signac, Da Eugène Delacroix…, op. cit., pp. 64-78. 26 P. Signac, Da Eugène Delacroix…, op. cit., pp. 68-61. 27 M. Proust, Du côté de chez Swann, Grasset, Parigi 1913 (tr. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1983, pp. 206-207). Cfr anche: Id., Sur la lecture, in «La Reinassance latine», 15 giugno 1905; Id., Les Eblouissements par la comtesse de Noailles, in «Le Figaro», 15 giugno 1907. 28 O.N. Rood, Modern Chromatics with Applications to Art and Industry, Kegan, Londra 1879 (la traduzione francese del testo, Théorie scientifique des coleurs, apparve a Parigi, nel 1881); C. Henry, Introduction à une esthétique scientifique, Ed. de la Revue contemporaine, Parigi 1885. 29 «Infine, oh felicità, oh ragione, scartai dal cielo l’azzurro, che è un nero, e vissi, scintilla d’oro della luce natura. Dalla gioia, assumevo un’espressione il più possibile buffonesca e smarrita: / È ritrovata. / Che? L’eternità. / È il mare / alleato del sole». Arthur Rimbaud, Délires ii, da Une saison en enfer, Poot, Bruxelles 1873 (trad. it. di Dario Bellezza, Garzanti, Milano 1977). 30 Per la poetica boccioniana degli stati d’animo, anche in relazione all’influenza di Previati e alla teorizzazione dell’Astrattismo nel contemporaneo ambiente artistico di area tedesca, si veda Ilaria Schiaffini, Umberto Boccioni. Stati d’animo. Teoria e pittura, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002. 31 V. Kandinskij, Rückblicke 1901-1913, in Kandinsky 1901-1913, Der Sturm, Berlino autunno 1913, trad. it. L. Sosio, Sguardo al passato (1901-1913), in V. Kandinskij, Tutti gli scritti, a cura di P. Sers, Feltrinelli, Milano 1974, ii (pp. 153-180), p. 153. 21 22
Ibid., p. 155. Il quadro al quale il pittore si riferisce è Alte Stadt, del 1902, donato da Nina Kandinskij al Museo Nazionale d’Arte Contemporanea del Centre Pompidou di Parigi. 33 «Mosca si fonde in questo sole in una macchia che mette in vibrazione il nostro intimo, l’anima intera come una tuba impazzita. No, non è quest’uniformità in rosso l’ora più bella! Essa è soltanto l’accordo finale della sinfonia che avviva intensamente ogni colore, che fa suonare Mosca come il fortissimo di un’orchestra gigantesca. Case e chiese rosa, lillà, gialle, bianche, azzurre, color verde pistacchio, o rosso fiamma – ciascuna canta un canto a sé –, cui uniscono le loro voci l’erba di un verde incredibile, gli alberi dal brusio profondo, la neve dalle mille voci canore o l’allegretto dei rami spogli, la cinta rossa, rigida, silenziosa delle mura del Cremlino e sopra tutto, tutto sovrastando, come un grido di trionfo, […] la testa dorata della cupola, che fra le stelle dorate e multicolori delle altre cupole è il sole di Mosca», ibid., pp. 155-156. 34 Ibid. 35 Ibid., p. 156. 36 «Fino ad allora avevo conosciuto soltanto l’arte realistica […]. D’improvviso, per la prima volta, vidi un quadro. Il catalogo mi diceva che si trattava di un pagliaio, ma non riuscivo a riconoscerlo. Questa incapacità di riconoscere il soggetto mi turbò. Pensai anche che il pittore non ha diritto di dipingere in modo così confuso. Sentii oscuramente che in questo quadro mancava l’oggetto. E notai con stupore e con perplessità che il quadro non soltanto catturava lo spettatore ma si imprimeva indelebilmente nella memoria e continuava sempre, in modo inatteso, a fluttuare dinanzi agli occhi fin nei particolari minimi. Tutto ciò rimaneva confuso nella mia mente e io non fui in grado di trarre le semplici conseguenze di quest’esperienza. Ciò che però mi riuscì perfettamente chiaro fu la forza incredibile, a me prima ignota, della tavolozza, che andava oltre tutti i miei sogni. (…) Senza che me ne rendessi ben conto era screditato ai miei occhi l’oggetto come elemento indispensabile del quadro.», ibid., pp. 157-158. 37 L. Zahn, George Grosz-Paul Klee, in «Valori Plastici», ii, 7-8 (1920), pp. 88-89. 38 Kairouan, 16 aprile 1914, in P. Klee, Tagebücher 1898-1918, a cura di F. Klee, Colonia 1957, trad. it. P. Klee, Diari 18981918, a cura di G.C. Argan, Il Saggiatore, Milano 1960. 39 Questo è il titolo di un suo precoce contributo teorico sulla materia, apparso nell’ottobre del 1920 su «Das Werke», periodico pubblicato dal Deutscher Werkbund. 40 P. Klee, L’ordine nell’ambito dei colori, Martedì 28 novembre 1922, da Contributi 32
alla teoria della forma. v. L’ordine e l’essenza dei colori puri, manoscritti per le lezioni al Bauhaus, trad. it. di M. Spagnol e F. Saba Sardi, in P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 465-470. 41 Ibid. 42 P. Klee, Lettera a H. Hildebrandt, (1920), op. cit. in P. Klee, Teoria…, op. cit., pp. 522523. 43 E. Goldschmidt, Strejtog i Kunsten – Henri Matisse, in «Politiken», Copenaghen, 24 dicembre 1911, trad. it. di M.M. Lamberti in H. Matisse, Scritti e pensieri sull’arte, a cura di D. Fourcade, Einaudi, Torino 1979, pp. 293-295. 44 Ibid. 45 H. Matisse, in Chapelle su Rosaire des Domenicaines de Vence, Venezia 1951, trad. it., in Id., Scritti..., op. cit. 46 «Picasso era furioso che io facessi una chiesa – “Perché non fare piuttosto un mercato? Vi potreste dipingere frutta, verdura”. Ma io me ne infischio completamente: ho dei verdi più verdi delle pere, e degli arancioni più arancioni delle zucche. Allora a che pro? - Picasso era furioso» Testimonianza di Marie-Alain Couturier, Se garder libre (Journal 1947-1954), Editions du Cerf, Parigi 1962, trad. it. in H. Matisse, Scritti…, op. cit., p. 231. 47 «[…] Matisse ha, per la seconda volta, abbandonato il grande cartone della vetrata dietro l’altare per Vence, […] è chiarissimo, non ha niente in testa, non sa più assolutamente cosa finirà per fare. Gli chiedo come andrà avanti. Mi dice: “Probabilmente metterò una macchia di colore, poi tutto seguirà”». Ibid., p. 233. 48 Matisse answers twenty questions, in «Look», 25 agosto 1953, tr. it. in H. Matisse, Scritti..., op. cit., pp. 245- 247. ARTE E COLORE alcune linee di sviluppo nel dopoguerra
Angela Vettese 1 D. Batchelor, Cromofobia, storia della paura del colore, tr. it. Milano 2001, p. 19. 2 J. Kristeva, Giotto’s Joy, in Desire of Language, Oxford 1982. 3 Le Corbusier, Essential Le Corbusier, Oxford 1988, p. 135 (ed. or. L’Esprit Nouveau Articles, L’art decoratif d’aujourd’hui, Parigi 1925). 4 P. Ball, Colore: una biografia, trad. it. Milano 2002, p. 328. 5 G. Deleuze, Nota sul colore in Francis Bacon, in L. Corrain, a cura di, Semiotiche della pittura, pp. 127-137, trad. it. Roma 2004, p. 129. 6 T. Lamb-J. Bourriau, Colour, art and science, Cambridge 1995, pp. 31-32. 7 L.M. Herbert, Regarding Spirituality, in Art 21, New York 2001, pp. 68-109. 8 D. Von Drathen, Vortex of Silence. Prop-
osition for an art criticism beyond aesthetic categories, Milano 2004, p. 192. 9 D. Elger, a cura di, Donald Judd, Colorist, Ostfildern-Ruit 2000. 10 G. Didi-Huberman, L’homme qui marchait dans la couleur, Paris 2001, p. 42. 11 D. Jarman, Chroma, trad. it. Milano 1995. altre indicazioni bibliografiche:
J. Albers, Esercizi per imparare a vedere, trad. it. Milano 2005. M. Barney, Cremaster, New York 2002. J. Berger, Questione di sguardi, Milano 1998. P. Birren, History of colour in painting, New York 1965. M. Brusatin, Storia dei colori, Torino 1999. C. Blotkamp, De Stijl, Nascita di un movimento, Milano 1989. A. Frova, Luce colore visione, Milano 2000. J. Gage, Colour and Culture, Londra 1989. J. Gage, Colour and meaning, Londra 1999. J.W. Goethe, Zur Farbenlehre (1810), trad. ingl. Theory of Colours (1840). E. Grazioli, La polvere nell’arte, Milano 2004. C. Greenberg, Arte e Cultura, trad. it. Torino 1993. J. Itten, L’arte del colore, Milano 1997. G. Kanizsa, Grammatica del vedere, Bologna 1997. V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, trad. it. Milano 1989. K. Nassau, a cura di, Color for Science, Art and Technology, Amesterdam 1997. A. Nigro, Estetica della riduzione: Il minimalismo dalla prospettiva critica all’opera, Padova 2003. P. Rookes, J. Wilson, La percezione, Bologna 2002. H. Rossotti, Colour, Princeton 1983. W. Rotzler, Constructive Concepts, New York 1977. O. Sacks, L’isola dei senza colore, Milano 1997. H. Wettemeier, Yves Klein, Colonia 1995. A.A.V.V., Il sentimento del colore. L’esperienza cromatica come simbolo, cultura, scienza, Como 1990. A.A.V.V., The Spiritual in Art Abstract Painting 1890-1985, catalogo della mostra al Los Angeles County Museum of Art (novembre 1986 - marzo 1987), New York 1986. A.A.V.V., Sonnes & Lumières, catalogo della mostra al Centre Pompidou, settembre 2004 – gennaio 2005, Parigi 2004. IL VIAGGIO DEL COLORE: BREVE NOTA FILOSOFICA Alice Barale 1 È questo il titolo di un importante libro di C. A. Riley, Color Codes. Modern Theories of Color in Philosophy, Painting and Archi-
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tecture, Literature, Music, and Psychology, University Press of New England, 1995. Sulla questione dei “codici” di colore cfr. l’Introduzione di M. Carboni, infra, pp. 20-22. 2 Ringrazio Giulia Frailich e Mario Marche per avermi fatto scoprire questa straordinaria artista e un po’ della sua storia. 3 D. Batchelor, Chromophobia, Reaktion Books, 2000 London. 4 Infra, p. 212. 5 Infra, p. 36. 6 Infra, p. 54-56. 7 M. Pastoureau, Il piccolo libro dei colori, Salani, Milano 2017, pp. 87-89. 8 Un posto a parte, all’interno di questo tipo di considerazioni, meriterebbe quel gesto istitutivo dell’arte contemporanea che è il quadrato nero di Malevi/. Cfr. su questo M. Carboni, Malevi/. L’ultima icona, Jaca Book, Milano 2019; M. Cacciari, Icone della legge, Adelphi, Milano 1985; G. Di Giacomo, Malevi/. Pittura e filosofia dall’astrattismo al minimalismo, Carocci, Roma 2014. 9 E. Sottsass, Le ceramiche delle Tenebre, in Id., Scritti, a cura di Milco Carboni e B. Radice, Neri Pozza, pp. 18-29. 10 Ivi, pp. 130-131. 11 E. Sottsass, Treni americani, in Id., Per qualcuno può essere lo spazio, Adelphi, Milano 2017, pp. 11-17. 12 L. Wittgenstein, Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino 2000, iii, par. 255. 13 D. Kastan, S. Farthing, On Colour, Yale University Press, 2018, Introduction; trad. it. Sul colore, Einaudi, Torino 2019. 14 J. Gage, Colour and Meaning, Art, Science and Symbolism, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1999, p. 8. 15 Cfr. su questo tema M. Donà, A. Gatto, Senso e origine della domanda filosofica. Un itinerario nella filosofia, Mimesis 2015. 16 L. Wittgenstein, Culture and Value, ed. G. H. von Wright, Blackwell, Oxford 1980, p. 66. 17 Cfr. in particolare infra, pp. 22-23. 18 Su questo punto cfr. F. Desideri, La percezione riflessa, Cortina, Milano 2011, pp. 135-157. 19 Cfr. M. Mazzocut-Mis (a cura di), Entrare nell’opera, i Salons di Diderot. Selezione antologica e analisi critica, con la collaborazione di Michele Bertolini, Rita Messori, Claudio Rozzoni, Paola Vincenzi, Le Monnier, Milano 2012. 20 Cfr. infra, p. 76. 21 Cfr. infra, p. 42. 22 Infra, p. 60. 23 Infra, p. 42. 24 Ibidem 25 Ho ricostruito la vicenda in modo più dettagliato in A. Barale, Il giallo del colore. Un’indagine filosofica, Jaca Book, Milano 2020, capitolo iv. 26 È questa la teoria diel filologo e filosofo tedesco Lazarus Geiger, On Colour Sense
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in Primitive Times and its Development (1867), in Id., Contribution to the History of the development of Human Race, Trübner & Co., Londra 1880. 27 B. Berlin, P. Kay, Basic color terms: Their universality and evolution, University of California Press, Berkeley 1969. 28 Infra, p. 30. 29 È questa la cosiddetta ipotesi della salienza percettiva: cfr. E. Rosch Heider, Natural categories, in «Cognitive Psychology», 4, 1973, pp. 328- 350. Altri riferimenti bibliografici sono disponibili nel mio già citato, Il giallo del colore, cap. iv. 30 Infra, p. 10. 31 È questo un aspetto molto interessante del dibattito: cfr. A. Franklin, M. Pilling, I. Davies, The nature of infant color categorization: Evidence from eye movements on a target detection task, in «Journal of Experimental Child Psychology», 91 (3), 2005; A. Franklin, J. Maule, Color Categorization in Infants, in «Current Opinion in Behavioral Sciences», 30, 2019, pp. 163-168; A. Franklin, Development of color categorization, in A. Franklin, A.J. Elliot, M.D. Fairchild, Handbook of Color Psychology, pp. 279-294; D. Dedrick, Bornstein’s paradox (redux), in W. Anderson, C.P. Biggam, C. Hough, C. Kay (eds.), Colour studies: A broad spectrum, pp. 181-199. Cfr. anche Id., Colour Categorization and the space between perception and language, in «Behavioral and Brain Sciences», 20, 1997, pp. 187-188. 32 P. Klee, Diari 1898-1918, a cura di G.C. Argan, Il Saggiatore, Milano 1960, 16 aprile 1914; cit. infra, p. 202. 33 È Cezanne che parla di colore come espressione di una natura che è «più in profondità che in superficie»: cfr. M. Doran, Cézanne. Documenti e interpretazioni (1975), trad. it. di N. Zandegiacomi, Donzelli, Roma 1995, p. 125. 34 Cfr. M. Silbergeld, Mawangdui, Excavated Materials, and Transmitted Texts: A Cautionary Note, “Early China”, Vol. 8 (1982–83), pp. 79-92. 35 Infra, p. 58. 36 Cfr. infra, p. 60. 37 È questa una discussione che ho avuto di recente con Andrea Mecacci, a un convegno in cui quest’ultimo aveva fatto un bellissimo intervento sul colore partendo dalla traduzione dell’Antigone di Hölderlin. L’intervento dovrebbe uscire a breve sulla rivista Itinera (https://riviste.unimi.it/ index.php/itinera), 21, 2021. 38 G. Keller, Martin Salander (1886), Springer, 1989, cap. 3 (trad. it. di A. Barale). 39 Cfr. J. B. Lyon, Out of Place: German Realism, Displacement and Modernity, Bloomsbury, Londra 2013, pp. 191-92 e la relativa bibliografia. 40 Cfr. infra, p. 202. Attorno all’arcobaleno, tra i filosofi del colore, si è scatenata negli ultimi cinquant’anni una propria guerra.
“Svelare l’arcobaleno”, infatti, era il sottotitolo dell’opera di C. L. Hardin, Colour for Philosophers, che è stata tra le prime a inaugurare il dibattito filosofico sul colore. La tesi di Hardin era, non a caso, che i colori non esistono nel mondo reale (una posizione detta “eliminativismo”, molto diffusa nella filosofia anglo-americana contemporanea), ma soltanto nel funzionamento del nostro cervello. Nel suo intento di “svelare l’arcobaleno”, Hardin citava una poesia di John Keats, Lamia, in cui il poeta descrive il tentativo della fredda filosofia di dissolvere ogni incanto sensibile: «Do not all charms fly/ At the mere touch of cold philosophy?/ There was an awful rainbow once in heaven:/ We know her woof, her texture: she is given/ In the dull catalogue of common things./ Philosophy will clip an Angel’s wings./ Conquer all mysteries by rule and line,/ Empty the haunted air, and gnomed mine/ Unweave a rainbow». 41 W. Benjamin, Gottfried Keller. Zu Ehren einer kritischen Gesamtausgabe seiner Werke (1927), in Id., Gesammelte Schriften. Hg. von Rolf Tiedemann und Hermann Schweppenhäuser, vol. ii. 1, Suhrkamp, Francoforte 1977, pp. 283–295. 42 P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 465470; cit. infra, p. 202.
ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI
IN COPERTINA: Lucio Fontana, Concetto spaziale, La fine di Dio, olio su tela, 1964. Collezione privata. RIFLESSIONI SUL COLORE un’introduzione
1. Jan Vermeer, Veduta di Delft, 1660-1661, olio su tela, 96,5 × 115,7 cm, Mauritshuis, L’Aia. 2. Kazimir Malevi0, Quadrangolo nero, 1915 (datato sul retro 1913), Museo di Stato russo, San Pietroburgo, Russia. 3a e 3b: da sinistra, Ad Reinhardt, Abstract Painting, 1960-1961, olio su tela, 152,4 × 152,4 cm, MoMA, New York; Abstract Painting, 1963, olio su tela, 152,4 × 152,4 cm, MoMA, New York. 4. Vincent van Gogh, Radici d’albero, 1890, olio su tela, 50 × 100 cm, Van Gogh Museum, Amsterdam. 5. Jacopo da Pontormo, Trasporto di Cristo o Deposizione, 1526-1528 ca., tempera a uovo su tavola, 313 × 192 cm, chiesa di Santa Felicita, Firenze. 7. Tiziano Vecellio, Supplizio di Marsia, 15701576, olio su tela, 212 × 207 cm, Museo arcivescovile di Kroméríž, Repubblica Ceca. 6. Leda, i secolo, affresco, 44 × 32 cm, Museo archeologico nazionale, Napoli; Medea, i secolo, affresco, 38 × 26 cm, Museo archeologico nazionale, Napoli; affresco, Villa di Carmiano, Antiquarium, Castellammare di Stabia; affresco, villa presso S. Marco, Antiquarium, Castellammare di Stabia. IL COLORE NELL’ARTE AFRICANA 1. Ornamento pettinatura maschile. Karamajong, Kenya Uganda. Agglomerato argilloso, policromia, capelli, ferri, piume. Collezione V. Carini, Bergamo. 2. Portatrice di coppa. Luba, Congo. Legno. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren. 3. Tessuto kente, seta, cotone. Ashanti, Ghana. Collezione privata. 4. Figura da altare raffigurante uno spirito della «brousse» (boscaglia). Fante, Ghana. Collezione privata, Bergamo. 5. Figure «tradizionali» e «coloniali». Baulé, Costa d’Avorio. Legno, pigmenti e vernici sintetiche. Linden Museum Stuttgart. 6. Maschera del tipo moshambwooy. Cuba, Congo. Tessuto, fibre vegetali, pelle, cauri e perline. Collezione Giorgio Bargna, Como. 7. Maschera del tipo agbogho mmuo, Igbo, Nigeria. Collezione Giorgio Bargna, Como. 8. Maschera del tipo bundu. Mende, Sierra Leone. Legno. Musée des arts d’Afrique et d’Océanie, Parigi.
9. Maschera Kongo, Congo/Zaire. Legno e pigmenti. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren. 10. Maschera del tipo mbangu. Pende, Congo. Legno, pigmenti, fibre vegetali. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren. 11. Figura npungu. Nkanu, Congo. Legno, fibre, erbe, cauri, pelle animale, noci di cola, lucchetti, pigmenti. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren. 12. Tessuto, Gambia, stampa a riserva. The British Museum, Londra. 13. Scettro di Shango. Collezione privata, Bergamo. 14. Testa di danza raffigurante Ebotita, la Procreatrice. Congo. Legno, patina bruna, policromia, borchie di ottone. Collezione V. Carini, Bergamo. IL COLORE NELL’ARTE CINESE 1. Drappo funebre, tomba Han n. 1 di Mawangdui, Changsha, ii secolo a.C. Museo Provinciale dello Hunan, Changsha. 2. Dettaglio del drappo funebre di Mawangdui. 3. Terzo sarcofago della tomba di Mawangdui. Legno dipinto su fondo rosso cinabro. 4. Secondo sarcofago della tomba di Mawangdui, dettaglio del lato corto posteriore. Legno laccato e dipinto su fondo nero. 5. Vaso in legno laccato, tomba Han n. 1 di Mawangdui, Changsha, ii secolo a.C. 6. Pittura della tomba cim 120 di Luoyang, dinastia Han dell’Est. 7. Signore della Tigre bianca. Pittura murale del tempio Yonglegong, secoli xiii-xiv. 8. Tavola che illustra il principio cosmico delle corrispondenze. 9. Taglio di tessuto per un abito di corte. Inizio della dinastia Qing, xvii secolo. Tessuto broccato d’oro. Collezione Myrna Myers, Parigi. 10. Palazzo dell’armonia suprema (Taihedian), Palazzo imperiale, Pechino, dinastie Ming e Qing, inizio xv-xix secolo. 11. Statue rappresentanti un bodhisattva ed il discepolo Ananda. Nicchia della parete ovest della grotta 328 del santuario di Mogao, Dunhuang, Gansu. Dinastia Tang, viii secolo. Statue modellate in terracotta e dipinte (altezza del bodhisattva 1,90 m). 12. Calice libatorio gu. Dinastia Shang, xiv-xi secolo a.C. Musée national des Arts asiatiques-Guimet, Parigi. 13. Vaso da vino quadrangolare fanglei. Dinastia Shang, c. 1300-1030 a.C. Bronzo. Museo di Shanghai. 14, 15. Disco e tubo in giada. Cultura neo-
litica di Liangzhu, c. 3200-2000 a.C. Museo nazionale del Palazzo, Taipei. 16. Tavoletta circolare, giada, Dinastia Zhou dell’Ovest, x secolo a.C. Musée national des Arts asiatiques-Guimet, Parigi. 17. Dettaglio della pittura parietale della grotta 329 del santuario di Mogao, Dunhuang, Gansu. Dinastia Tang, viii secolo. 18. Gu Hequin, foglio estratto dall’album Sedici vedute intorno alla villa di M. Xu Nuage-Rivière, 1820. Inchiostro e colori su carta. Museo di Zhenjiang. 19. Guo Xi, Paesaggio d’inizio primavera, 1072. Inchiostro su carta di soia. Museo nazionale del Palazzo, Taipei. ISLAM E COLORI 1. Moschea congregazionale di Yazd (Iran), particolare decorativo in mosaico ceramico, c. 1375. 2. Muhammad Siyah Qalam, Scena di danza (particolare), inizi del xv secolo. Topkapi Sarayi, Istanbul. 3. Khamsa di Nezami, Herat, 1431. Hermitage, San Pietroburgo, Bahram Gur nel Padiglione nero, f 272. 4. Khamsa di Nezami, Herat, 1431. Hermitage, San Pietroburgo, Bahram Gur nel Padiglione giallo, f 295a. 5. Khamsa di Nezami, Herat, 1431. Hermitage, San Pietroburgo, Bahram Gur nel Padiglione blu, f 294. 6. Khamsa di Nezami, Herat, 1431. Hermitage, San Pietroburgo, Bahram Gur nel Padiglione bianco, f 310b. 7. Khamsa di Nezami, Shiraz, Iran, 1410. Bahram Gur introdotto nella Stanza delle Sette effigi. Calouste Gulbenkian Foundation Museum, Lisbona. 8. I mausolei gemelli di Kharraqan, 1067 e 1086. Architettura funeraria selgiuchide. 9. Il mausoleo di Pir-i ‘Alamdar a Damghan. 47, 48. La moschea di Shah ‘Abbas a Isfahan Iran, 1612-1637. 10. Tappeto di caccia da Tabriz, 1542-1543. Museo Poldi Pezzoli, Milano. 11. Tappeto. Musée des Tissus, Lione. 12. Tappeto con animali e medaglioni, seconda metà del xvi secolo, Staatlische Museen zu Berlin. 13. Sultan Muhammad, La corte di Gayomars, dal manoscritto noto come «Grande Shah-nama di Shah Tahmasp», 1525-1535. IL SISTEMA CROMATICO DELLA PITTURA BIZANTINA 1. Nerezi (Macedonia), S. Panteleimon, Deposizione, xii secolo.
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2. Hosios Loukas, Katholikon, mosaico absidale, Vergine con Bambino, xi secolo. 3. Ravenna, Sant’Apollinare Nuovo, Corteo di Santi Martiri, vi secolo. 4. Monastero di Santa Caterina del Sinai, Annunciazione, xii secolo. 5, 6. Monastero di Dafni, Chiesa della Dormizione della Vergine, Annunciazione, particolari, xi secolo. 7. Santa Sofia, Istanbul, Vergine con Bambino affiancati dall’imperatore Giovanni ii Comneno e dall’imperatrice Irene, 1118 circa. 8. Hosios Loukas, Katholikon, Discesa al Limbo, xi secolo. 9, 10. Sopo0ani, Serbia, chiesa della Santa Trinità, Dormizione della Vergine, affresco del naos (corpo centrale) con dettaglio dell’Apostolo Pietro, xiii secolo. 11, 12. Kahrie Djami, Istanbul, Le nozze di Cana, xiv secolo. 13. Madre di Dio Odigitria, icona con rivestimento in argento, dalla chiesa della Peribleptos di Ohrid, Museo Nazionale di Belgrado. xiv secolo. 14, 15. Icona bilaterale di Poganovo: su un lato la madre di Dio Katafyghé (cioè «rifugio») e san Giovanni Teologo; sull’altro la visione del profeta Ezechiele. xiv secolo. 16. La madre di Dio tra i santi Teodoro Stratilate e Giorgio. Monastero di Santa Caterina del Sinai. vi secolo. 17. Vangelo di Rossano, dettaglio con la Lavanda dei piedi, vi secolo, Tesoro della Cattedrale. 18. Sermoni di Gregorio di Nazianzo, Visione di Ezechiele, c. 880, Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi. 19. Salterio, Passaggio del Mar Rosso. x secolo, Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi. 20. Il miracolo dei santi Floro e Lauro. Fine xv secolo, Galleria Tretjakov, Mosca. 21. Andrej Rublëv, Cristo in maestà, icona dalla cattedrale della Dormizione di Vladimir. 1408, Galleria Tretjakov, Mosca. 22. Andrej Rublëv, Trinità. C. 1411, Galleria Tretjakov, Mosca. LE CATTEDRALI DEL MEDIOEVO ERANO BIANCHE? dal cromatismo architettonico allo spazio-colore
1. Evangeliario di Bernward, a cavallo fra x e secolo. Dom und Diözesan Museum, Hildesheim, ms 18, f. 16v. 2. Blocco absidale del duomo di Spira. 3. S. Stefano Rotondo, Roma. Braccio di croce nordorientale, particolare del pavimento marmoreo del v secolo. 4. Il profeta Geremia, Basilica di San Vincenzo a Galliano, inizi del xi secolo. Particolare del ciclo di affreschi commissionato da Ariberto. 5. «Pace» di Ariberto, xi secolo. Tesoro del Duomo, Milano. 6. San Giovanni Fuorcivitas, Pistoia, fianco sinistro. xii secolo. 7. Tarquinia, Santa Maria di Castello. Vasca xi
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del fonte battesimale (primo quarto del xii secolo). 8. Battistero di Firenze, mosaici della cupola. Seconda metà del xiii secolo. 9. Messa di sant’Eligio, xv secolo. The National Gallery, Londra. 10. Libro di Kells, fol. 114r: L’arresto di Cristo. viii secolo. Trinity College Library, Dublino. 11. Basilica di Saint-Denis. Transetto settentrionale. xii secolo. 12. Monastero di Le Thoronet, navata centrale verso est. Seconda metà del xii secolo. 13. Basilica di Saint-Denis, Il viaggio dei Magi e l’Adorazione del Bambino, vetrata. xii secolo. 14. Cattedrale di Chartres, La tentazione di Cristo. xiii secolo. 15. Cattedrale di Chartres, L’albero di Jesse. xiii secolo. 16. Sainte-Chapelle, interno. xiv secolo. IL COLORE NEL QUATTROCENTO 1. Zeusi dipinge il ritratto di Elena, miniatura. Gand, Universiteitsbibliothek, ms. 10, f. 69v, secolo xv. 2. Jan Van Eyck, Il battesimo di Cristo, dal Libro delle Ore di Torino, Torino, f. 93v. 3. Sandro Botticelli, La Calunnia, tempera su tavola. Galleria degli Uffizi, Firenze. 4, 5. Rogier van der Weyden, La deposizione dalla Croce. Museo Nacional del Prado, Madrid. 6. Simon Marmion, L’anima di san Bertino portata in Paradiso. Olio su pannello di quercia. The National Gallery, Londra. 7. Francesco Botticini, Assunzione della Vergine. Tempera su tavola. The National Gallery, Londra. 8. Dirk Bouts, Cristo con corona di spine, olio con impiego di tempera. The National Gallery, Londra. 9. Jan Van Eyck, Madonna del canonico Joris Van der Paele, particolare, Groeningenmuseum, Bruges. 10. Beato Angelico, Deposizione dalla croce, tempera e oro su tavola, Museo di San Marco, Firenze. 11. Maestro di Flémalle, Trittico di Mérode, olio su pannello. The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters Collection, New York. 12. Andrea Mantegna, Orazione nell’Orto, The National Gallery, Londra. 13. Giovanni Bellini, Madonna col Bambino e i santi Niccolò, Pietro, Benedetto e Marco. Chiesa di S. Maria Gloriosa dei Frari, Venezia. 14. Sandro Botticelli, Sant’Agostino, affresco, Chiesa di Ognissanti, Firenze. 15. Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, particolare. Galleria degli Uffizi, Firenze. 16. Bernardino Butinone e Bernardo Zenale, Polittico di Treviglio, tempera su pannello con fondo dorato, particolare. San Martino, Treviglio. 17. Antonello da Messina, Madonna con Bambino, olio e tempera su pannello. Na-
tional Gallery, Washington. 18. Andrea Mantegna, La corte. Affresco della Camera degli Sposi di Palazzo Ducale, dettaglio, Mantova. 19. Piero della Francesca, Flagellazione. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. 20. Jean Fouquet, Gonella. Kunsthistorisches Museum, Vienna. 21. Cosmè Tura, Madonna con Bambino e angeli musicanti, olio e tempera su pannello, centrale della Pala Roverella. The National Gallery, Londra. 22. Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, tempera con velature ad olio su metallo. Galleria degli Uffizi, Firenze. «AZIONI E PASSIONI» DELLA LUCE il colore dalle teorie ottocentesche all’ultimo matisse
1. Philipp Otto Runge, Sfera cromatica, 1810. Acquerello. Hamburger Kunsthalle, Amburgo. 2. Joseph Mallord William Turner, Cerchi cromatici, 1810-1827 circa, matita e acquerello su carta. British Museum, Londra. 3. Joseph Mallord William Turner, Luce e colore (La teoria di Goethe) - Il mattino dopo il diluvio - Mosè scrive il libro della Genesi, esposto nel 1843, olio su tela. Tate Gallery, Londra. 4. Eugène Delacroix, Paesaggio nei dintorni di Algeri, 1832, acquarello e mina di piombo. Musée du Louvre, Parigi. 5. Paul Signac, Concarneau. Pesca della sardina. Opus 221, 1891, olio su tela. The Museum of Modern Art, New York. 6. Georges Seurat, Il circo, 1890-1891, olio su tela. Musée d’Orsay, Parigi. 7. Claude Monet, Ninfee (Le Matin aux Saules), 1915-1926, olio su tela. Musée de l’Orangerie, Parigi. 8. Claude Monet, Ninfee (Le Matin aux Saules), particolare, 1915-1926, olio su tela. Musée de l’Orangerie, Parigi. 9. Henri Edmond Cross, Le Isole d’Oro, 1891-92, olio su tela. Musée d’Orsay, Parigi. 10. Gaetano Previati, Il carro del sole, 1907, olio su tela. Camera di Commercio di Milano. 11. Paul Klee, Ricordo di un giardino, acquerello e matita su cartoncino, 1914. Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf. 12. Vasilij Kandinskij, Composizione vi, 1913, olio su tela. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo. 13. Giacomo Balla, Compenetrazione iridescente n. 7, 1912, olio su tela. Galleria d’arte moderna e contemporanea, Torino. 14. Henri Matisse, La danza, 1909-1910, olio su tela. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo. 15. Henri Matisse, Lo studio rosso, 1911, olio su tela. The Museum of Modern Art, New York. 16. Henri Matisse, La Cappella del Rosario. Vence, 1948-51.
17. La cappella di Vence. Esterno con le nove finestre del coro. 18. Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie. Olio su tela, 1942-43. The Museum of Modern Art, New York. ARTE E COLORE alcune linee di sviluppo nel dopoguerra
1. Marc Rothko, Nero, Ocra, Rosso su Rosso, acrilico su tela, 1957. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza. 2. Yves Klein, ikb 54, vaso di porcellana, 1957. Collezione privata. 3. Josef Albers, Omaggio al quadrato. Galleria nazionale d’arte moderna, Roma. 4. Claes Oldenburg, Tennis shoes (1962), Fragment of Candies in a Box (1961), A Brown Shoe (1961), Breakfast Table (1962), Pentecostal Cross (1961). Smalti su gesso. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza. 5. James Rosenquist, A lot to like (1962), Shave (1964). Oli su tela. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza. 6. Jackson Pollock, Numero 34, 1949, smalto su carta montata su pannello, 1949. Munson, Williams, Proctor Arts Institute, Utica, New York. 7. Franz Kline, Monitor, olio su tela, 1956.
moca,
Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza. 8. Robert Ryman, opere esposte al Museum für Gegenwartskunst (Basilea, novembre 1980, giugno 1981). The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York, Collezione Panza. 9. Jean Fautrier, Dépouille, tecnica mista su tela, 1946. Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza. 10. Antoni Tàpies, Sable-Ochre, tecnica mista su tela, 1957. Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza. 11. Lucio Fontana, Concetto spaziale, La fine di Dio, olio su tela, 1964. Collezione privata. 12. David Simpson, Dear to Saturn (Sapphire) e Quicksilver Shift (acrilico su tela, 1994) esposti nella Villa Menafoglio Litta Panza, Varese. fai (Fondo per l’Ambiente Italiano), Collezione Panza. 13. Ettore Spalletti, Fonte dei Passeri, impasto di colore su legno bianco, 1989. Museo Cantonale d’Arte, Lugano, Collezione Panza. 14. James Turrell, Virga, opera ambientale con luce naturale e artificiale, 1976. The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York, Collezione Panza. 15. Ettore Spalletti, Vaso (impasto di colore su centina di legno, 1988), Tutto Tondo (impasto di colore su tavola, 1989), Vaso (impa-
sto di colore su centina di legno, 1992). fai, Collezione Panza. 16. Brice Marden, Passage, olio e cera su tela (3 pannelli), 1973-1974. Collezione Panza. 17. James Rosenquist, Vestigial Appendage, acrilico su tela, 1962. moca, Museum of Contemporary Art, Los Angeles, Collezione Panza. 18. Dan Flavin, Monument for those who have been killed in Ambush (for pk who reminded me about death) 2/3, luce rossa fluorescente, 1966; sul fondo, Green crossing Green (to Piet Mondrian who lacked green), luce verde fluorescente, 1966. IL VIAGGIO DEL COLORE: BREVE NOTA FILOSOFICA Alice Barale 1. Cooperativa Tessile Su Marmuri, La Fiaba della capretta, arazzo, 135 × 55 cm. 2. Museo di arte contemporanea Stazione dell’arte, Ulassai, Nuoro. 3. Ettore Sottsass, Ceramiche delle Tenebre, 1963. 4. Derek Jarman, locandina del film Wittgenstein. 5. Gottfried Keller, A Swiss Lakeside Village with Figures, Mountainous Background, olio su tela, 47 × 69 cm, collezione privata.
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CREDITI FOTOGRAFICI
RIFLESSIONI SUL COLORE un’introduzione 1. Mauritshuis, L’Aia; 2. Museo di Stato russo, San Pietroburgo, Russia; 3a e 3b: MoMA, New York © by SIAE, 2021; 4. Van Gogh Museum, Amsterdam; 5. Chiesa di Santa Felicita, Firenze; 7. Museo arcivescovile di Kroméríž, Repubblica Ceca; 6. Museo archeologico nazionale, Napoli; S. Marco, Antiquarium, Castellammare di Stabia.
LE CATTEDRALI DEL MEDIOEVO ERANO BIANCHE?
IL COLORE NELL’ARTE AFRICANA Archivio dell’autore: 3, 4, 6, 7, 13; The British Museum, Londra: 12; Collezione V. Carini: 1, 14; Linden Museum Stuttgart: 5; Musée des arts d’Afrique et d’Océanie, Parigi,Foto J.G. Berizzi: 8; Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren, foto R. Asselberghs: 2, 9, 10, 11
IL COLORE NEL QUATTROCENTO Archivio Jaca Book/ Mauro Magliani: 3, 15, 16, 18, 19, 22; Mercatorfonds, Anversa: 4, 5, 11; The National Gallery, Londra: 6, 7, 8
IL COLORE NELL’ARTE CINESE Archivio dell’autore: 4, 12, 14, 15; Cultural relics publishing house, Pechino: 3, 5; Musée national des Arts asiatiques Guimet, Parigi: 11; Museo di Zhenjiang: 17; Museo nazionale del Palazzo, Taipei: 18; Myrna Myers: 8; Claude Sauvageot, Parigi: 1, 2; Shanghai Museum: 12
dal cromatismo architettonico allo spazio-colore
Alinari/Bridgeman: 15; Archivio Jaca Book/BAMS Photo Rodella, Montichiari (Brescia): 6, 7, 8; Achim Bednorz: 11; Belzeaux/Zodiaque: 10; Dom und Diözesan Museum, Hildesheim: 1; Henri Gaud, Moisnay: 12; Veneranda Fabbrica del Duomo, Milano: 5
«AZIONI E PASSIONI» DELLA LUCE il colore dalle teorie ottocentesche all’ultimo
Matisse Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz, Berlin: 1; Camera di Commercio di Milano: 10; Fondazione Torino Musei: 14; The Museum of Modern Art, New York/ Scala, Firenze: 5, 17; Photo RMN/Hervé Lewandowski: 9; Angelo Stabin: 15, 16 ©Succession H. Matisse/SIAE 2021 per le riproduzioni delle opere di Henri Matisse
ISLAM E COLORI Archivio dell’autore: 1, 10, 11; L. Mozzati, Milano: 8, 9; Musée des Tissus, Lione: 13; Museo Poldi Pezzoli, Milano: 12; Staatlische Museen zu Berlin: 14; The State Hermitage Museum, San Pietroburgo: 3, 4, 5, 6; Topkapi Sarayi Müzesi, Istanbul: 2
ARTE E COLORE
IL SISTEMA CROMATICO DELLA PITTURA BIZANTINA Archivio Jaca Book/Iskusstvo, Mosca: 19, 20, 21; BAMS Photo Rodella, Montichiari (Brescia): 7, 11, 12; Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi: 17, 18; Foto «Vlado», Skopje, Macedonia: 1; Kostantin Tanchev, Sofia: 14, 15
IL VIAGGIO DEL COLORE: BREVE NOTA FILOSOFICA 1. Cooperativa Tessile Su Marmuri, La Fiaba della capretta, arazzo, 135 × 55 cm; 2. Museo di arte contemporanea Stazione dell’arte, Ulassai, Nuoro; 3. Ettore Sottsass, Ceramiche delle Tenebre, 1963; 4. Derek Jarman, locandina del film Wittgenstein;
alcune linee di sviluppo nel dopoguerra
Panza Collection (Foto Giorgio Colombo, Milano): 6, 10, 11, 13, 14; Panza Collection (Foto Brian Forrest, Los Angeles): 2, 3, 5, 8; Panza Collection (Foto Gian Sinigaglia, Milano): 7, 15
5. Gottfried Keller, A Swiss Lakeside Village with Figures, Mountainous Background, olio su tela, 47 × 69 cm, collezione privata. Le altre immagini qui non menzionate provengono dall’Archivio Jaca Book © by SIAE, 2021 per le opere dei seguenti artisti: Ad Reinhardt, James Rosenquist, Brice Marden, Lucio Fontana, Jean Fautrier, Antoni Tàpies, Franz Kline, Jackson Pollock, Josef Albers, Yves Klein, Mark Rothko, Henri Matisse, Giacomo Balla. © Succession H. Matisse/SIAE 2021 per le riproduzioni delle opere di Henri Matisse © Fondazione Lucio Fontana/SIAE 2021 per le riproduzioni delle opere di Lucio Fontana