IRAN ARTE ISLAMICA
IRAN ARTE ISLAMICA Testi di GIOVANNI CURATOLA
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SOMMARIO
Prima edizione italiana novembre 2018 INTRODUZIONE pag. 7 L’ARTE ISLAMICA DELL’IRAN pag. 13
FANGO, MATTONE E TURCHESE L’ARCHITETTURA PERSIANA pag. 21
ILLUSIONE E REALTÀ: LA DECORAZIONE ARCHITETTONICA pag. 83
Copertina e impaginazione Break Point/Jaca Book
TERRA, ACQUA, FUOCO OVVERO DELL’ARTE CERAMICA pag. 115
Fotolito Target Color, Milano
Stampa e legatura Stamperia scrl, Parma novembre 2018
FIGURE SENZA TEMPO LA MINIATURA PERSIANA pag. 147
FIORI DI LANA I TAPPETI PERSIANI pag. 175
FIGURE SENZA TEMPO LA MINIATURA PERSIANA pag. 147
LA PERSIA TRA BAROCCO E NEOCLASSICO pag. 193
ISBN 978-88-16-60569-5
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
UNO SGUARDO DAL PASSATO VERSO IL FUTURO pag. 203
Note e bibliografia pag. 207
Indici dei nomi, deil luoghi e dei monumenti pag. 218
Introduzione
Alla memoria di Gianroberto Scarcia, con affetto e gratitudine
Scrivere di Iran è necessario. Si tratta di un paese – anche se sarebbe meglio dire di una civiltà – che chi scrive, orientalista di professione, frequenta da oltre quarant’anni. Con una formazione giovanile di studi e ricerche incentrata sull’Asia non solo vicina, ma anche quella più estrema, per non dire della magmatica India, il primo incontro con quella realtà non fu facile, ma mediato da un viaggio di apprendistato geografico graduale: Venezia quale punto di partenza obbligato, dal Medioevo in poi, e quindi la Yugoslavia, la Grecia con la Salonicco che a lungo è stata città ottomana (ma soprattutto ebraica) per eccellenza, e l’approccio a Istanbul. Anche se i ricordi talvolta si accavallano e intrecciano con altri itinerari, come quello attraverso la Bulgaria (marmellata di petali di rose), e le sagome improvvise (quasi uno scenario di cartapesta, finto, montato solo per compiacere alle attese del turista, più o meno colto) delle moschee di Edirne, un gioiello di città, già capitale ottomana, e certamente fra i luoghi più impegnativi ed emblematici dell’Europa balcanica e turca. Da Istanbul la lunga cavalcata attraverso l’Anatolia; anche quella compiuta tante volte con itinerari, spazi e strade – un tempo, niente affatto rimpianto, molto sterrate, ovvero “bianche” – completamente diversi da quelli odierni, né migliori né peggiori. Per giungere poi a quel tardo miracolo d’architettura e di sincretismo (che diveniva un’introduzione quando doveva essere una sintesi …), che è Dogubayazit, oppure alla Van urartea e armena, e di lì passare in Iran. Lunga, imprescindibile, necessaria introduzione. Perché come mi ha detto qualcuno una volta, non va bene volare da un posto all’altro, dal momento che quello che chiamiamo jet lag altro non è che lo spaesamento dell’anima rispetto al corpo, spirito che resta indietro, incapace di adattarsi così bruscamente alla nuova spiritualità. Si purgavano i bambini dalla città al mare, cinquant’anni fa; oggi si salta tutto, ma non è che capiamo poi tanto di più! Itinerario complesso, anche se non soprattutto intellettualmente, favorito dalla sensibilità di un qualunque Maestro (meglio se bravo), motore indispensabile come sanno bene in tutte le confraternite gnostiche o sufi che si rispettino, siano esse strutturate o meno. Inizio di un’avventura non ancora conclusa. Ma quanto sto scrivendo non è per uno stucchevole protagonismo o per una frustrata aspirazione memorialistica, bensì perché quelle prime sensazioni si sono poi col tempo andate affinando, precisando, esaltando, anche mutando di sicuro, e sono il patrimonio da cui attingere oggi, la premessa alla visione che è sottesa e permea tutto questo lavoro. Allora, arrivando, ho provato una certa delusione. Ma come, l’Oriente era davvero questo, così simile a me, così normale e na-
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turale, quasi ovvio, e non avventuroso, favolistico, magico e soprattutto “esotico” come me l’ero immaginato (e come tante letture mi avevano fatto credere che dovesse essere), magari poi andandolo a cercare più in là, in India, Cina, Giappone…; insomma, tutto qui? Ricordo di essermi fatto sfuggire un commento, la definizione di un “Oriente all’acqua di rose”, accolto con lucida pazienza, tutt’affatto privo di condiscendenza. Per un po’ mi sono vergognato di quella definizione e di quell’idea, sebbene l’acqua di rose di Kashan, ma anche quella un po’ più pungente di Kirman, siano giustamente rinomate per la loro purezza e qualità, che non è esotica e nemmeno stucchevole, come, invece, è troppo spesso quella più comune indiana… Più avanti ho capito, o almeno così mi pare, che quelle sensazioni erano assolutamente corrette e appropriate. L’Iran, quel mondo là, non solo non era estraneo, lontano, esotico (un pizzico di ciascuna di queste componenti in realtà c’è come in ogni buona ricetta, anche culturale), ma questi erano fattori soprattutto marginali, mentre il resto è parte integrante della nostra storia, ineludibile specchio, in una parola fravashi, per dirla alla persiana. Se guardiamo una carta geografica, un atlante storico, delle culture e civiltà antiche e la facciamo parlare – cioè invece che raccontare la storia la stiamo ad ascoltare – non possiamo non renderci conto di come questa regione sia al centro del mondo, sospesa fra il Mediterraneo e l’Asia più estrema, con al suo settentrione e meridione altri territori, non secondari, ma che di fatto fungono da corollari. Lo abbiamo scritto sempre e lo ripetiamo: terra di contatti e incroci, ma anche di elaborazione. Qui nasce – se nasce – Zoroastro, e qui si elabora quella dottrina che sta alle spalle e influenza (non ho scritto determina!) lo sviluppo dei tre canonici monoteismi mediterranei, ma anche un po’ desertici. Ovvio che poi uno si senta a casa. Una “cuna di civiltà”, ma senza l’acqua dispensatrice di vita. L’Egitto si sviluppa attorno e grazie al Nilo, e Gange e Indo sono fondamentali per la nascita e lo sviluppo della cultura indiana, così come lo sono il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro per la Cina (almeno questi due, ma anche altri centri probabilmente sono esistiti là); il Tigri e l’Eufrate fanno la Mesopotamia, appunto la terra fra i due fiumi; certo, ci sono anche il Danubio e il Volga, l’Arasse e l’Oxus, ma difficilmente si è in grado di citare un fiume iraniano, se non lo Zayande di Isfahan, il quale, però, paradossalmente – ma nemmeno tanto a pensarci bene – mai raggiungerà un mare. E a proposito di mari i nomi non mentono (Nero, Bianco, Rosso, Verde/Azzurro), nella definizione delle direzioni cinesi, con i quattro punti cardinali, più il quinto del centro (il giallo) che poi, da noi, potrebbe semplicemente essere il deserto, con una simbologia che viene dall’Asia dritta dritta in Europa. Dunque uno stato nazione con forte componente ideologica religiosa che nasce non in assenza di contesto o antecedenti, soprattutto se pensiamo alla Jiroft del iii millennio1 e all’importanza di quella cultura non ancora perfettamente indagata e dunque compresa. Considerazioni che valgono anche per un’altra area geografica persiana – il Sistan – nella quale ricerche archeo logiche sono state condotte nel secolo scorso, ma che ha enormi potenzialità, probabilmente essendo stata una zona cruciale del mondo iranico antico. Dal Sistan facciamo provenire i Magi e sistanica è, fra l’altro, la divinità forse più interessante del pantheon iranico, quello Zurvan rappresentato come Tempo (di qui le tre età, non a caso quelle della tradizione dei Magi), un tempo increato ma non immutabile e con lo Spazio misurato dal Vento, una concezione filosofica assai moderna e che molto può ancora raccontarci. L’impero achemenide con Ciro il Grande ebbe ad assoggettare l’impero neobabilonese (539) e, com’è ampiamente noto, favorì il ritorno ebraico a Gerusalemme; fu, in ogni caso, un impero sì centralizzato, ma capace di lasciare ampia autonomia di governo locale, evitando di fare l’errore fatale delle moderne armate nel permettere la soprav-
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vivenza più o meno intatta delle strutture burocratiche e garantendo entro una certa misura la libertà di culto… Quindi quello del policentrismo politico è una costante destinata a riaffermarsi nel mondo iranico, una caratteristica importante e peculiare. Studiare l’Iran vuol dire studiare un caso politico (e ovviamente anche artistico) che non solo non ci deve, ma non ci può proprio, essere estraneo. Anche oggi. Col mondo greco ellenistico e quello circonvicino ellenizzato lo scontro (e anche l’incontro) fu notevole; gli Achemenidi sconfissero Babilonia ma penetrarono anche nell’Arabia meridionale (controllando il commercio delle spezie e soprattutto dell’incenso), e a Oriente conquistarono le antiche regioni della Drangiana, Aracosia, Partia, Sogdiana, Proftasia e Battriana e Corasmia, insomma tutti quei territori dell’Asia centrale (come Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan, per usare i nomi contemporanei) da una parte e le regioni mesopotamiche e caucasiche dall’altro, tutto un mondo che in un modo o in un altro per secoli ha subito l’influsso iranico. Altra questione assai rilevante, immancabilmente notata ed evidenziata dagli storici, è il fatto che le fonti su cui possiamo basare le nostre conoscenze sono pressoché tutte di parte, parte avversa, non va dimenticato. È su Erodoto, per fare un nome, che ci basiamo. Balza agli occhi come già nel periodo Achemenide sia fortemente marcata l’esigenza di raccogliere e unificare motivi e anche popoli diversi, assoggettandoli, certo, ma anche assimilandoli orgogliosamente. A questa ideologia sono dovute le immagini dei popoli tributari sulla scalinata dell’Apadana di Persepoli, e anche nella tavola di fondazione di quella stessa struttura possiamo osservare il compiacimento per le disparate provenienze dei materiali e degli artigiani2: un’aspirazione universalistica spesso riconfermata. Dario unificherà pesi, misure, monete; e se quella iranica antica è civiltà stanziale (con grandi centri: Susa ed Ecbatana, Persepoli, Pasargade…), il confronto con i vicini nomadi è un’altra costante della cultura persiana. Certo questa circostanza non è appannaggio esclusivo iranico, ché i nomadi erano un po’ dappertutto; però questo aspetto non va assolutamente sottovalutato, soprattutto in relazione con quanto avverrà quando la Persia sarà costretta a confrontarsi col mondo islamico che del nomadismo – sia pure con elementi mitigati, finché si vuole, ma pur sempre riaffioranti in un contesto tribale mai del tutto superato (in tale ottica, esagerando forse un po’, è leggibile financo lo scontro sunniti/sciiti) o abbandonato – non rinnegherà mai alcuni apporti fondanti. Discorso complesso e che non è possibile liquidare in poche battute, ma che andrebbe tenuto ben presente, per esempio quando si venga a trattare, antropologicamente, l’assimilazione islamica dei Turchi d’Asia centrale, su un versante, o quella dei Berberi in tutt’altro quadrante geografico. La struttura di mediazione tipica del consesso tribale (il majlis, ma anche la diwaniyya ne sono prove ancora oggi presenti in varie parti dell’Oriente vicino e medio), e la sua conseguente organizzazione, anche militare (pensiamo alla ghaziyya), sono solamente semplici spie di quanto stiamo argomentando. Così anche la straordinaria propensione all’oralità e alle tramandate regole mai canonizzate da un’unica autorità, suscettibili, nel solco della tradizione, di interpretazioni difformi, ma non per questo invalide. Una riflessione attenta e non pregiudizialmente prevenuta sarebbe necessaria oggi più che mai anche per comprendere e sconfiggere le pulsioni profonde di quello che siamo soliti etichettare come “terrorismo islamico”. Per tornare alla storia dell’Iran, poco, troppo poco, conosciamo del dominio arsacide, durato più o meno quattro secoli, prima e dopo Cristo, e poi colpito dalla sistematica damnatio memoriae sasanide. Ancora una volta i documenti sono di parte – quasi un gioco di parole. Se però analizziamo alcuni dati archeologici, nel campo dell’architettura e delle arti visive, possiamo osservare come talune strutture, quali l’ivan (sala con un lato aperto su una corte, generalmente
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voltato a botte o cupolato), se non origine, trovino in questo periodo una diffusione notevole nel vasto mondo iranico. E gli intrecci artistici con l’Occidente (quello che siamo abituati a ritenere tale, ma che potremmo anche chiamare l’altro Oriente…) sono forti, radicati e sistemici. Forse, ma solo forse, anche con esiti maggiori e più diffusi di quanto non si creda; ancora una volta è una digressione che ci porterebbe lontano, ad analizzare, tanto per dire, quanto dell’ellenismo classico si possa ritrovare in Cina (magari in un cavallino Tang se non già Han… un altro libro!), sempre con la mediazione/filtro di quell’Iran (o più ristretto: Khorasan), che poi è lo stesso ellenismo che non ci turba o stupisce affatto se trattiamo di Gandhara. Già, perché non ci stancheremo mai di ripeterlo, appunto come un mantra, non viaggiavano solo le merci e le iconografie (ovvero le sempre preziosissime sete), non transitavano nei fasci di itinerari più o meno sicuri solo le spezie e le materie prime, ma anche un’imponente massa di donne e uomini, di pensieri, di abitudini, di idee, di superstizioni. E tutti, proprio tutti, sono transitati dall’Iran. Ci sono anche diversi pregiudizi, o meglio imprecisioni, i primi da sfatare, le seconde da correggere. La nozione della “fuga” zoroastriana dall’Iran verso l’India è probabilmente anche corretta, ma, come dire?, la sua importanza è stata amplificata, quasi esagerata, in virtù del ruolo assai importante svolto dalle comunità Parsi nel subcontinente, soprattutto oggi più che ieri. I tempi della Storia sono diversi da quelli della propaganda, pure se quest’ultima in una fase storica nella quale la colpevole smemoratezza domina non solo i mass media ma anche certa parte dell’industria culturale (termine scelto non a caso; sappiamo bene che più che una specie di ossimoro è una bestemmia…), anche accademica, sembra prevalere. I Parsi – torniamo a loro – certamente hanno avuto un ruolo, sostanzialmente autoconservativo, nell’India dominata da identità religiose, e politiche, forti – Indù e Musulmani in primis – ma tale ruolo è stato enormemente accresciuto a posteriori nella stampa, nella letteratura, nei saggi accademici, in virtù di un potere economico notevolissimo messo assieme da quella comunità, molto minoritaria e quasi marginale, nell’India contemporanea. Ma non possiamo affatto essere certi che il peso dell’emigrazione zoroastriana in India (e ci stiamo riferendo all’epoca preislamica, non a quanto avvenne intorno al Mille) sia stato culturalmente e politicamente più rilevante di quello per certi versi simmetrico e speculare del Buddhismo in Iran: quello dell’epoca Sasanide, completamente offuscato al limite della rimozione3, non quello degli Ilkhanidi di tanti secoli dopo. I Buddhisti – gli uni e gli altri appena citati – sono qui a rammentarci un’altra caratteristica e costante peculiare dell’esperienza iranica quale civiltà storica evoluta: la sua straordinaria capacità di assimilazione e rielaborazione di spinte, anche ideologiche, contrastanti, con una sapiente opera di trasformazione (una cultura “ruminante”, e non suoni offensivo!) e di progressivo riallineamento. Insomma quella iranica, Achemenide, Partica, Sasanide, Islamica, non è la stessa cultura, ci mancherebbe, però il contatto con quel mondo si rivela certamente contagioso. La sedimentata civiltà iranica, anche sul piano religioso se non soprattutto su quello, costituisce un sostrato, un humus, assai particolare, che tendenzialmente non sempre si mimetizza, ma sempre riemerge, sia pure con una variante inaspettata che non smentisce la tradizione, anzi la riafferma, ma con uno scarto e un avanzamento4. Nel gioco degli scacchi quello persiano è certamente l’andamento del cavallo. Roma si scontra con l’impero Sasanide (e così farà anche Bisanzio) e di certo le ragioni di supremazia commerciale hanno avuto la loro importanza: e sono scontri succedutisi con caparbia continuità. Le vicende più interessanti sono spesso quelle periferiche o di situazioni “cuscinetto”, come nel Caucaso5. La Bishapur di fondazione Sasanide è un caso studio particolarmente interessante; la città, ancora da scavare, ha un’organizzazione spaziale che è difficile etichettare
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come orientale. Infatti se consideriamo la tipologia urbanistica precedente di Firuzabad (anch’essa indagata solo parzialmente dal punto di vista archeologico), palesemente circolare con richiamo evidente a impianti partici, osserviamo come quella di Bishapur risulti chiaramente inscritta in una griglia ippodamea, con al centro dell’asse ortogonale viario di una “piazza” o Foro commemorativo che reca colonne monolitiche (iscritte in pahlavi bilingue, partico e sasanide), una sormontata da una statua del re – celebrazione di netta impronta romana – comunque con tratti tipici locali. L’Iran è proprio così, storicamente. Assorbe quanto circola, ma rielaborando e facendo emergere, con costanza, elementi autoctoni. Sempre a Bishapur, località simbolo di una volontà e di una realtà imperiale, il Tempio di Anahita, stupendo nei volumi della sua essenziale linearità, è solo iranico, dialogando perfettamente con il passato Achemenide (anche quello costruttivo strutturale e tecnico), mentre il Palazzo o quel che è, poco lontano, è iranico nei quattro ivan (che poi ritroveremo quale impianto privilegiato delle moschee a partire dall’xi secolo in poi, l’epoca dell’assorbita invasione dei Turchi Selgiuchidi), ma ornato con elementi desunti dal linguaggio internazionale. Sono i mosaici; già la scelta del materiale è di fatto molto significativa: «In realtà i mosaicisti siroromani hanno realizzato a Bishapur un’opera tanto romana quanto persiana, che sarebbe molto più iranica, se si accettasse l’ipotesi che l’orlatura costituisse, insieme col centro del pavimento, la copia di un tappeto persiano dell’epoca»6. Annotazione assolutamente condivisibile; sempre a Bishapur, luogo simbolicamente assai significativo, essendo una capitale di nuova edificazione, troviamo sulle rocce che si fronteggiano lungo il corso d’acqua, via d’accesso resa monumentale dai rilievi rupestri, numerose raffigurazioni trionfali dei sovrani sasanidi (come pure a Naqsh-i Rustam e altrove), secondo un programma propagandistico rappresentativo che è analogo a quello achemenide di Dario a Bisutun, solo per citare l’esempio più celebre7. La triplice Vittoria di Shapur i, plastica rappresentazione su un pannello dall’ampia superficie opportunamente lisciata concava, quasi uno schermo cinematografico, con i registri di cavalli e cavalieri, popoli sottomessi e portatori di tributi e il sovrano a cavallo trionfante sui Romani – è stato giustamente avvicinato, mutatis mutandis, alla colonna di Traiano a Roma8 –, documenta bene quella lezione greco-romana opportunamente rivisitata in Asia, e pazienza se Brandi non lo ha capito9, trovando egli più originali la toreutica e l’arte tessile, forse perché di lettura più difficile, più estranee, e in teoria più esotiche, quindi apparentemente genuine.
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L’arte islamica dell’Iran
1. La Persia islamica (adattato da W.C. Bryce, An Historical Atlas of Islam, 1981).
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Nell’universo dell’arte islamica, multiforme, complesso e variegato, all’interno della sua inconfondibilità, un ruolo di primo piano spetta a una costante elaborazione artistica iranica. Su questa affermazione, che non è certo una novità, sarebbe vano discutere, e infatti la tendenza è stata spesso quella di dare per ovvio e acquisito tale dato, sì da rivolgere poi altrove la propria specifica attenzione1. Ormai anche fra gli “addetti ai lavori” si è diffuso un certo imbarazzo nel parlare di “arte islamica”, come del resto di Islam tout court, essendo chiaro, non da oggi, come dando senz’altro per scontati alcuni punti fermi irrinunciabili (non molti forse, ma fortemente condivisi, con un senso di comune appartenenza al di là delle diversità storiche o contingenti: che è una di quelle cose che l’Occidente stenta, con conseguenze nefaste, a comprendere2), le sfaccettature siano notevoli e importanti. Insomma, Islam non va declinato al singolare, bensì al plurale. E a prescindere dalle divaricazioni, si danno nell’Islam macroregioni culturali come la Spagna e il Maghreb (a cui può essere affiancata la Sicilia), l’Egitto e la Siria, il mondo turco (altro interessante terreno di esperienze sincretiche), l’Iran e l’Asia centrale (quest’ultima ancora poco conosciuta e studiata, e di sicuro non semplice appendice della Persia), e un’assai mistiforme India. Sono diversità e analogie che affondano in un sostrato tenace, su cui si stende il manto unificante dell’Islam simboleggiato dal suo precetto più vitale e dinamico: il pellegrinaggio alla Mecca, straordinaria occasione di scambio e veicolo di acculturazione, accanto al movimento continuo, e al conseguente travaso, delle energie mercantili e intellettuali. In questo scacchiere l’Iran – sia nell’accezione ristretta di “paese iranico”, sia in quella più vasta di “mondo iranico” come lumeggiato in apertura di queste pagine – ha una posizione di duplice centralità: geografica e culturale. E va ricordato che, immenso altipiano con deserti e vaste pianure, e montagne, tante montagne, alcune fra le più alte del mondo, anche l’Iran in senso stretto ha climi e regioni del tutto diversi. La zona caspica, per esempio, è caratterizzata da intense precipitazioni qua e dalla steppa là: e vi si formeranno “sacche” culturali che avranno riflessi artistici notevoli, come testimoniato, per un significativo esempio, da alcune produzioni fittili figurate da Nishapur3, antico stanziamento urbano di una certa importanza nel Khorasan. All’altro capo di questo Iran, il Fars, la regione che dà il nome tradizionale all’intero paese dei persiani, a rigore Iran, è zona ricca, e relativamente prossima al mare, e via mare Hormuz e le isolette vicine si proiettano da una parte in direzione della penisola arabica e dall’altra verso il subcontinente
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indiano. E qui sarà esemplare (ma forse soprattutto perché abbastanza recenti scavi archeologici ce ne hanno rivelato l’importanza, così come Nishapur era stata “scoperta” negli anni ’30 del Novecento) la posizione del centro portuale di Siraf4, importante emporio commerciale cui si attribuisce la responsabilità di una quasi mitica espansione verso l’Africa Nera5. Ma quanti altri siti del genere sono ancora da documentare? La vivacità geografica è sempre stata madre di vivacità culturale. Già nell’antichità l’Iran è una cerniera fra Asia centrale, India e Oriente Estremo e bacino del Mediterraneo, quindi luogo di transito per eccellenza, ma al contempo non è passivo spettatore di quanto avviene altrove, bensì sede privilegiata di elaborazione che trae forza dagli incontri (e dagli scontri) con le altre civiltà, da cui viene condizionata ma che a sua volta influenza, in un reciproco gioco di specchi. Se i Magi evangelici vengono da oriente6, sacerdoti o comunque rappresentanti o portavoce di una cultura religiosa altra, ma la cui leggenda non è che la parabola della migrazione dei grandi temi religiosi dall’Iran al Mediterraneo, c’è da chiedersi
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2. Veduta d’insieme della cittadella di Bam, dominata dalla rocca. La città vecchia è stata completamente distrutta da un terremoto nel 2003.
chi sia il destinatario finale di tanta ricca saggezza. Certo è che con l’Islam l’irradiazione vive un momento di spinta contraria, perfettamente sintetizzata nell’Iran musulmano. Insomma, se il grande fiume iranico è andato a sfociare nel Mediterraneo – rendendo ragione della lapidaria frase di Alessandro Bausani secondo cui la storia culturale dell’Iran è un movimento, come quello del sole, di occidentalizzazione – questo fiume è poi tornato arricchito verso le sue sorgenti. È allora su una civiltà già “universale” che si affacciano i “beduini” (termine un po’ impropriamente usato nella medesima accezione con cui si sono connotati i “barbari” invasori di Roma), gli arabi della penisola da poco uniti dalla comune fede musulmana e soprattutto militarmente organizzati in modo tale da superare un istintivo egoismo tribale – pur spesso riemergente con pericolosi ritorni di fiamma – e consapevoli della possibilità, anzi del dovere, di non fermarsi alla guerra di razzia, ma di dominare stabilmente vasti territori. L’impatto è fortissimo. Si è spesso scritto, ed è vero, che l’espansione araba si è rivolta a occidente verso l’impero bizantino e a oriente verso
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i Sasanidi, più o meno contemporaneamente ma con esiti diversi. Se infatti l’impero bizantino, sconfitto e ridimensionato, rimarrà un contropotere importante e influente (per esempio, quale modello organizzativo statale e in parte per ciò che concerne fasto, etichetta e ritualità di corte), il mondo sasanide andrà incontro a una disgregazione pressoché totale. Sconfitto e umiliato sul piano politico, il mondo iranico si prende però la sua rivincita, lenta ma inesorabile, su quello culturale e in particolare artistico. Le resistenze, certo, saranno notevoli, e si avranno anche importanti flussi migratori, come quello degli zoroastriani che se ne andranno in India, dando qui origine alla comunità detta “parsi”. Ma la complessità della cultura iranica – profondamente assimilata come capita solo nei casi in cui un processo sia durato secoli adattandosi e mutandosi secondo le esigenze – viene a riemergere con prepotenza, non già mascherata da Islam, come sostiene certo nazionalismo, ma trasformata in Islam; un po’, in fondo, come con altre componenti occorre nella Roma cristiana. Cosa possibile non solo perché la tradizione autoctona iranica, fortemente radicata, si è affinata col tempo, ma anche perché l’Islam è un sistema complesso: un sistema duttile e in grado (una volta affermato l’unico semplice e “moderno” dogma
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3. Il Registan, incorniciato dalle tre madrase, era il cuore dell’antica città di Samarcanda (odierno Uzbekistan), dell’epoca Timuride.
dell’unicità assoluta di Dio) di assimilare e far propri usi, costumi, abitudini le più disparate. Meglio, di unificare il tutto. Va ribadito: l’Islam è plurale. Un esempio clamoroso è intorno al Mille quello dello Shah-nama (1009-1010) di Firdusi, preziosa rievocazione romanzata, ma nelle forme e nello spirito di un annalista musulmano, della gloria dei re dell’antichità persiana (pieno di indicazioni importanti anche sul piano filologico e ricco di indizi storici che lo rendono, oltre che un romanzo epico, fonte, se studiata con critica cautela, non secondaria), il quale diviene un grande “best seller” e il prototipo del libro miniato d’epoca islamica (se ne parlerà diffusamente nel capitolo sulle miniature). Non è forse neanche un caso che sia nel Khorasan (Firdusi [935 ca.-1025/26] era nativo della provincia di Nishapur) che il testo è stato concepito e vede la luce. Lo Shah-nama sembra documentare come il paradigma iranico, e in particolare il periodo sasanide come s’è visto ricco di collegamenti e addentellati, lungo le famose “vie della seta”, ben oltre i confini naturali iranici, divengano culturalmente patrimonio comune mitico e pregnante per tutti, a prescindere dalla realtà storica. Il testo segna in maniera inequivocabile la necessità psicologica di una radice ideologica comune. Ma nel contesto della
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storia e della sua “illustrazione”, cioè delle miniature, non va dimenticato un Nizami (1141-1209), con la sua Khamsa. Un altro motivo ricorrente e quasi ritmico nella storia iranica, con una spinta costante, sono le invasioni da oriente. Arabi a parte, una sola, quella ottomana, viene, se proprio lo vogliamo, da occidente, in quanto si tratta di Turchi che, fatta dell’Anatolia e dei Balcani la loro patria d’adozione, tornano verso l’interno dell’Asia. L’Iran conoscerà le invasioni dei Turchi Selgiuchidi (xi-xiii secolo), dei Mongoli diventati poi Ilkhanidi (xiii-xiv secolo), dei Timuridi (xiv-xv secolo) e, nella prima metà del Settecento, persino degli Afghani. Quella iranica è, da gran tempo (di una “preistoria” pastorale si è parlato a suo luogo), una solidissima civiltà agricola e urbana che, a seguito di sommovimenti militari e politici, diviene ripetutamente preda di ceppi tribali nomadi. Ma è poi l’incontro delle due (e anche più...) culture che contribuisce a far crescere la società in modo originale. Le trasformazioni cui l’Iran e la sua gente, e i suoi più significativi monumenti, andranno soggetti nei secoli sono degnamente rappresentate dalla storia degli interventi architettonici occorsi nella moschea Jum‘a di Isfahan, uno dei più insigni e importanti edifici del mondo islamico. L’ivan è una struttura partica, quello che precede la cupola è già sasanide; lo stucco, materiale decorativo di straordinario successo, e in Iran di grande qualità (vanno certamente bene i marmi policromi, ma lo stucco è più malleabile, di rapida esecuzione, costa meno e se accuratamente pitturato non differisce poi molto per esito finale da un pannello marmoreo), è già massicciamente impiegato dai Sasanidi, però saranno i musulmani a farne un materiale diffusissimo. Inoltre lo stucco (miscela a base gessosa, molto resistente) ben si integra come materiale decorativo con il pisé, il mattone di fango cotto al sole, largamente impiegato nell’edilizia civile abitativa minore, ma anche per edifici più impegnativi. Ricoperto da una scialbatura di fango liquido misto a paglia (kahgil) a mo’ di intonacatura se non interviene una decorazione più complessa, esso è tecnologicamente perfetto per aree in cui le precipitazioni possono essere molto intense ma di breve durata; il mattone crudo, ottimo isolante in paesi dalle incredibili escursioni termiche fra inverno ed estate, offre per di più, essendo elastico, una buona difesa in caso di terremoto, e in una regione attraversata da un’importante faglia sismica ciò non è poco. Si scriveva, più sopra, delle invasioni da oriente; una delle caratteristiche più salienti del mondo iranico è proprio quella di assorbire, diciamo pure di “iranizzare”, le popolazioni con cui entra in contatto. Occorre con gli Arabi nel vii secolo, occorre con i Mongoli nel xiii secolo. Questo secondo momento storico è, anzi, fra i più interessanti dell’intera storia artistica persiana. I Mongoli Ilkhanidi non sono sulle prime musulmani; praticano una sorta di buddhismo sincretico misto a induismo e sciamanesimo di cui restano tracce materiali nella regione intorno a Sultaniyya (il “monastero” di Viar con lo splendido drago scolpito in pietra7, le grotte di Behistan8) e sono aperti alle influenze più disparate. Le spose dei sovrani possono essere cristiane nestoriane e un loro vizir di eccezionale acume come Rashid al-Din ha ascendenze ebraiche. Con loro i temi e le mode estremo orientali penetrano profondamente nel tessuto centrasiatico prima e persiano poi (spingendosi fino alla Siria e all’Egitto mamelucco pur mai soggiogato dai Mongoli; così, però, si spiegano i tratti decorativi alla cinese riscontrabili fin nella moschea/madrasa di Sultan Hasan [1357] a Il Cairo9). Già alla fine del Duecento, comunque, la controspinta si fa sentire e gli Ilkhanidi si islamizzano in tutte le varianti, dalle tentazioni sciite di un Oljeitu all’istinto persecutorio – i convertiti dell’ultima ora sono spesso più realisti del re! – di un intollerante Ghazan. Un altro periodo fondamentale della storia persiana è il Cinquecento, con il formarsi della dinastia safavide ad opera di Shah Isma‘il e l’adozione della Shi‘a quale ideologia di stato. È in
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questa fase, infatti, che si viene affermando quanto di più simile conosciamo, laggiù, a un sentimento di identità nazionale, in senso protomoderno. Certo le tappe – che non possiamo in questa sede commentare in dettaglio – sono state numerose, e i presupposti per tale processo hanno radici nel passato, ma la svolta si produce proprio adesso, e non è certamente un caso che più o meno contemporaneamente, a ovest e a est, vengano a consolidarsi due grandi poteri imperiali concorrenti: gli Ottomani e i Moghul. Accesa rivalità, anche territoriale, con i primi (questi forti altresì, dal primo quarto del xvi secolo, del controllo di più o meno tutti i luoghi sacri musulmani, a cui i Persiani, con un geniale Shah ‘Abbas [1587-1629] risponderanno con il potenziamento di alternative locali: Qom, ma anche Mashhad e Ardabil, quest’ultima in una sorta di autocelebrazione dinastica) e più agevole coesistenza con i secondi, per quanto siano state studiate le tracce di una non casuale penetrazione sciita nella regione del Deccan10. Potere imperiale fortemente accentrato, dunque, e sua rappresentazione artistica attraverso un programma preciso di ostentazione, in chiave nazionale, che sfrutta il linguaggio precedente e la monumentalità ereditata dalla grandeur di un Timur a Samarcanda, a Shahr-i Sabz, a Turkestan... e ne fa uno spettacolo: percorso chiarito da una sorta di rivoluzione urbanistica, spiccatamente teatrale, che trasforma la capitale, Isfahan, e ne fa una delle più belle città del mondo di quei tempi. Tale spinta verso l’identità nazionale non è però richiusa in se stessa, anzi si proietta con forza all’esterno; è nel Seicento che l’Europa “scopre” non episodicamente la Persia e si moltiplicano i viaggi e le missioni in quelle terre; scoperta che metterà capo all’idealizzazione delle Lettres Persanes di Montesquieu (1721) e alla fascinazione di un Rousseau. Tuttora poco noto e studiato è l’Ottocento iranico, epoca di grandi trasformazioni e di enorme interesse; da un lato si assiste a una decisa e massiccia penetrazione europea (per esempio, viene introdotta la pittura a olio), ma dall’altro è il momento del gusto “neoclassico” che, pressoché spontaneamente, assume le forme del neo-achemenide. Ancora una volta il processo non è estemporaneo, ma si inserisce nella costante tentazione iranica ad arcaicizzare, come già testimonia la struttura (neoachemenide se non neourartea o neokhorasmiana!) delle moschee lignee11 di Shah Tahmasp, nella zona di Maragha (Persia nord-occidentale) e degli stessi talar (patii esterni colonnati) di ‘Ali Qapu e Chihil Sutun, tanto per fare due citazioni clamorose. Si affermano le ta’ziye, “sacre rappresentazioni” ispirate al martirio di Husain, il nipote del Profeta; un’originale forma di teatro, che sopravvive a tutt’oggi, versione popolare del sentimento di rivolta contro l’ingiustizia che anima il movimento sciita. Affrontare un tema così vasto come l’arte islamica di Persia vuol dire necessariamente compiere delle scelte, anche difficili. Significa sottolineare ed enucleare alcuni periodi e monumenti a discapito di altri, spesso non meno meritevoli in sé di attenzione; nel percorrere questo itinerario chi scrive ha cercato di attenersi per quanto possibile a un equilibrio di fondo che, offrendo una panoramica generale, non trascurasse di focalizzare anche singoli episodi chiave, tali da poter essere considerati casi emblematici, atti perciò a illuminare l’insieme. Il pericolo principale insito in tale scelta è quello di non riuscire a rendere giustizia all’ampiezza delle soluzioni adottate (viene in mente la cittadella di Bam con la sua stupefacente architettura in crudo: vero e proprio repertorio enciclopedico di architettura, la cui conoscenza dovrebbe essere resa obbligatoria a chi voglia intraprendere, appunto, la professione di architetto!), e che i molti monumenti e le molte opere menzionate restino solo dei nomi. Non era questo, di certo, l’intento. Al lettore il compito, seguendo le tracce suggerite, di viaggiare attraverso una delle culture più complesse ed esteticamente appaganti ed elevate che la storia dell’umanità abbia saputo produrre.
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Fango, mattone e turchese L’architettura persiana
1. Il fronte dell’ivan Sud, inquadrato da due minareti, della moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a) di Isfahan. 2. Colonna buide della moschea congregazionale di Isfahan.
I primi secoli La prima grande sconfitta dell’impero sasanide ad opera dei musulmani fu quella subita da Yazdagird iii nella battaglia di al-Qadisiyya del 635, che seguiva una serie di incursioni secondo una tecnica ben sperimentata, tipica della “guerra di razzia” cara alle tribù seminomadi beduine. La sconfitta definitiva delle armate persiane fu segnata, nel 642, dalla battaglia di Nihawand. Dire definitiva è forse un po’ troppo, ché il trapasso del potere fu graduale, e non omogeneo nelle diverse località conquistate. I dati cronologici sono peraltro importanti perché documentano come il collasso del grande impero persiano sia avvenuto ad appena dieci anni di distanza dalla morte del Profeta Maometto, un lasso di tempo troppo breve perché la nuova fede potesse già stabilire un suo inequivocabile e sicuro linguaggio artistico; e ciò soprattutto se il confronto si pone con le due grandi realtà sconfitte (Bizantini e Sasanidi), le quali, infatti, contribuiranno enormemente a costruire le fondamenta su cui poi sarà eretto l’intero edificio artistico ed estetico islamico1. Insomma, per un lungo periodo, l’Islam iranico sembra soprattutto impegnato nella conversione di strutture preesistenti in siti accettabili per un’ideologia trionfante che, proprio per quanto concerne l’architettura, non doveva essere particolarmente chiara neppure ai nuovi dominatori. Poco sappiamo infatti delle strutture create ex novo, in parte anche perché quelle delle località più importanti hanno subito nei secoli pesanti rifacimenti, lasciandoci con la falsa impressione determinata dai monumenti (spesso periferici e di non grande impegno) che oggi sopravvivono. In ogni caso sappiamo di templi del fuoco trasformati in sale cupolate con funzione di moschea (Yazd-i Khast, x secolo è un buon esempio), di isolati ivan (elemento, come sappiamo, non solo sasanide ma già partico; un ivan è un ambiente chiuso su tre lati, aperto sul quarto, e generalmente voltato a botte; in epoche più tarde la copertura può fare largo impiego delle muqarnas, struttura a stalattiti o nicchie plurime ad alveoli di cui l’esempio superstite più precoce può ritrovarsi nel mausoleo di ‘Arab Ata [977-978] a Tim2 in Transoxiana, l’odierno Uzbekistan), come a Niriz, e, ovviamente, di moschee di nuova fondazione. Quella di costruire un santuario, o comunque un edificio adatto allo svolgimento di riti e funzioni religiose, sulle
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fondamenta di un monumento già esistente, è pratica talmente diffusa e universale da non avere bisogno né di spiegazione né di commento. Lo stato attuale delle nostre conoscenze ci permette di contare, fino grosso modo all’anno Mille, su non più di una trentina di siti islamici in Persia, davvero troppo pochi se consideriamo che si tratta di un periodo di circa tre secoli e che le fonti non autorizzano a pensare che si sia data in qualche modo una stasi nell’attività costruttiva. Il tipo di moschea che si afferma è quello con sala di preghiera a copertura ipostila, corte centrale e riwaq, o porticati, sugli altri lati, con ingresso assiale rispetto al mihrab (regola non sempre seguita) e minareto accorpato all’edificio centrale, ovvero autonomo. Abbiamo scritto di copertura ipostila, ed è vero, anche se questa è spesso generata da un insieme di archi che sostengono piccole cupole, una tipologia in parte ripresa dalla pratica architettonica sasanide e in parte imposta (ma ciò vale anche per i Sasanidi...) da ragioni climatiche: l’Iran è un altopiano che raramente scende sotto i mille metri di altezza e in inverno le nevicate sono molto abbondanti; il peso della massa nevosa, se non opportunamente distribuito – e in questo archi e cupole sono fondamentali – porta ineluttabilmente al crollo del tetto piatto.
La moschea congregazionale di Isfahan summa delle grandi epoche dell’architettura persiana Un monumento architettonico chiave della Persia è la moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a) di Isfahan, ormai abbastanza conosciuta anche nelle sue fasi meno palesi grazie alle sistematiche indagini archeologiche condotte da un’équipe italiana3 e, soprattutto, grazie ai lavori di restauro guidati da Eugenio Galdieri, che ha svelato questa strepitosa, ma ugualmente complessa, architettura sin nei minimi particolari4. Monumento emblematico che, nelle varie
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3. Pianta della moschea congregazionale di Isfahan: sono evidenziate le diverse fasi costruttive. Da U. Scerrato, Antica Persia. I tesori del Museo Nazionale di Tehran e la ricerca italiana, 2001. 4. Quinconce selgiuchide della moschea congregazionale di Isfahan.
fasi che hanno caratterizzato la sua costruzione, ben si presta ad esemplificare la varietà tipologica dell’architettura islamica persiana: una descrizione di questo edificio ci permetterà, dunque, di compiere un viaggio significativo e paradigmatico nel tempo e nella storia. Gli scavi archeologici condotti nella parte sud della moschea (nella grande sala cupolata selgiuchide, su cui si veda poco oltre, che ospita il mihrab principale, e nei settori contigui) hanno riportato in vista una poderosa colonna sasanide con decorazione in stucco, unico indizio concreto di un importante edificio preesistente alla moschea, la quale sorse in uno di quei borghi (Yahudiyya) che successivamente si trasformarono in Isfahan e le cui tracce copiose (parte di un villaggio costruito in mattone crudo) sono state rinvenute dagli archeologi. Una fonte letteraria (Abu Nu‘aym) sostiene che la moschea fu costruita sopra una chiesa di rito nestoriano. Della prima moschea edificata in epoca abbaside (la datazione è al 772, agli ultimi anni del califfato di al-Mansur, il celebre ideatore e fondatore della Baghdad circolare, e dunque precedente di una sessantina d’anni la costruzione di Samarra), restano solo cospicue tracce archeologiche. La circostanza che il calcolo della direzione qibli – cioè dell’orientazione di rito verso la Mecca – di questa prima moschea sia risultato errato costituisce per noi un colpo di fortuna, perché ha permesso di ritrovare le tracce di un primo mihrab con lacerti di decorazione in stucco, faticosamente leggibili e artisticamente quasi insignificanti, ma fondamentali storicamente. La parte sinistra del muro qibli in mattone crudo è andata persa oltre i confini perimetrali dell’edificio attuale, mentre sul lato destro sono state scavate – da chi scrive queste note – due porzioni del muro, e (nella campagna del 1977) è stato raggiunto l’angolo
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5. Il porticato (riwaq) settentrionale della moschea congregazionale di Isfahan. 6. Il mihrab in stucco fatto costruire dal sovrano mongolo Oljeitu, 1310.
7. Veduta dal tetto dell’ivan Ovest e delle nervature incrociate che sostengono le muqarnas della cupola di copertura della sala sottostante.
della moschea che possiamo pertanto misurare in un’ampiezza di circa 100 cubiti (un cubito tradizionalmente misura 50-52 centimetri), ossia un po’ più di 50 metri, per uno sviluppo longitudinale, al momento solo ipotizzabile, che non è esagerato calcolare a circa il doppio, ovvero 200 cubiti. Le porzioni di muro che sono state recuperate intatte, miracolosamente risparmiate da coloro che hanno operato le successive trasformazioni (in particolare il “taglio” prodotto dalle fondazioni dei grandi pilastri selgiuchidi della cupola di Nizam al-Mulk appare millimetrico) recano, a differenza del mihrab, una decina di pannelli decorati in stucco con motivi floreali (ciascuno largo circa un cubito: 50 cm per un’altezza di quasi un metro). È un repertorio estremamente interessante e, che ci risulti, pressoché unico. In basso corre una balza con un motivo continuo di quattro foglie incrociate a x che formano, con la tangente, un disegno a losanghette concentriche con al centro un piccolo disco forato, il tutto orlato da una fascetta continua a nastro di perle forate. Ma eccezionali sono i pannelli. Il repertorio è floreale naturalistico con grandi forme a foglia di palmetta, lanceolata o meno; si individua il motivo classico dell’arbusto che si piega su un lato, e si osservano i tralci di vite arricciati in cerchio con foglie aperte, oppure motivi floreali tendenzialmente simmetrici. Com’è ovvio che sia, questi stucchi risentono di un duplice livello di influenza: da una parte il repertorio sasanide e dall’altra uno stile più mediterraneo. Un parallelo interessante è istituibile con le decorazioni scolpite in pietra del palazzo omayyade della cittadella di Amman. Si tratta, in ogni caso, di materiale davvero importante, perché viene a colmare una grossa lacuna nelle nostre conoscenze, abbastanza limitate per ciò che concerne l’arte islamica dello stucco prima
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di Samarra. La pianta della sala di preghiera di questa prima moschea abbaside era, certamente, ipostila. Con la successiva moschea, sempre di epoca abbaside e databile secondo le fonti agli anni 840-841 (col califfato di al-Mu‘tasim), l’allineamento del muro qibli viene corretto secondo la giusta direzione corrispondente a quella attuale. La seconda moschea è sempre ipostila e, dunque, del tipo cosiddetto a “maglia araba”, con riwaq e sahn (porticato e corte centrale). La sala di preghiera era fondata su pilastri in mattone, mentre il muro perimetrale risultava in mattoni crudi, esattamente come lo era quello della prima moschea. L’intervento successivo è del periodo buide (a Isfahan fra il 932 e il 1028), prima però del 979-980, stando all’autorevole descrizione di Abu’l Shayh che in quell’anno morirà, e consiste in un rifacimento (con restringimento della corte su tutti e quattro i lati) delle facciate portate a vista con motivi ornamentali di mattoni cotti disposti secondo un gioco geometrico sulla superficie di una semicolonna che è la parte terminale di un pilastro: intervento messo in luce dalla puntuale opera di restauro (e conservazione) del Galdieri, che documenta una fase architettonica altrimenti invisibile. Ma la trasformazione più significativa, ancora largamente leggibile e che ha dato un carattere pressoché definitivo all’impronta architettonica in una pianta complessa come quella che stiamo discutendo, è avvenuta a seguito dei lavori selgiuchidi durante il regno di Malik Shah (1072-1092). Il vizir Nizam al-Mulk (1018-1092) fece costruire davanti al mihrab un’imponente sala cupolata (1086-1087) che in un primo momento doveva (se i dati archeologici forniti dallo Scerrato sono esatti) sorgere a una campata di distanza dal mihrab medesimo: progetto poi abbandonato a favore di un grande padiglione (quanto di più ambizioso sino ad allora concepito nell’Islam) a pianta quadrata, inglobante il mihrab, svincolato su tre dei quattro lati e in qualche modo inserito nell’impianto ipostilo abbaside,
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8. Particolare della parete e dell’impostazione della cupola di Nizam al-Mulk, della moschea congregazionale di Isfahan, 1080. 9. La cupola di Taj al-Mulk, a nord dell’ivan Nord della moschea, 1088.
Nella doppia pagina seguente: 10. La decorazione del soffitto dell’ivan Est della moschea congregazionale.
non senza aver dovuto affrontare serie problematiche tecniche ingenerate dal tentativo di far convivere, e armonizzare, concezioni architettoniche piuttosto differenti. Sarà in un secondo momento, ancora nel periodo selgiuchide, ma non contemporaneamente, che verrà costruito il grande ivan (assieme ad altri tre, sempre ovviamente a metà dei porticati e prospicienti la corte), realizzando una struttura – ivan che precede una cupola – già largamente impiegata in età sasanide. La moschea a quattro ivan diverrà, dal periodo selgiuchide in poi, il modello planimetrico preferito, se non esclusivo, in tutta la regione iranica, facendosi preciso punto di riferimento per tutta la successiva architettura islamica persiana. Al 1088/1089 è datata, da un’iscrizione cufica, la costruzione a nord dell’ivan Nord di un altro padiglione cupolato, voluto dal rivale di Nizam, Taj al-Mulk, le cui funzioni non appaiono del tutto chiare, ma che assai probabilmente serviva da vestibolo nobile per l’ingresso del sovrano nella moschea. Queste due cupole, ambedue costruite in semplici mattoni cotti, costituiscono uno dei vertici assoluti dell’architettura, non solo islamica. Leggiamo la descrizione che ne fa Robert Byron: «Le due stanze cupolate della moschea del Venerdì sottolineano questa eccellenza con la loro diversità. Furono entrambe costruite pressappoco nella stessa epoca, alla fine dell’xi secolo. Nella maggiore, che è il principale luogo di culto, dodici pilastri enormi sostengono una lotta prometeica con il peso della cupola. La vittoria ne è annebbiata, in realtà: occorre, per percepirla, un interesse preesistente per l’ingegneria medioevale o il carattere dei Selgiuchidi. Si faccia ora il confronto con l’ambiente più piccolo [...]. L’interno misura all’incirca dieci metri di lato per venti di altezza, e il volume è suppergiù un terzo di quello della maggiore. Mentre però quest’ultima mancava dell’esperienza necessaria per le sue dimensioni, la seconda dà corpo a quel raro momento fra la troppa e la troppo poca esperienza in cui gli elementi costruttivi sono alleggeriti del peso superfluo, eppure resistono alle lusinghe della grazia superflua, sicché ciascun elemento, come i muscoli di un atleta ben allenato, svolge la sua funzione con precisione calibrata, senza nascondere lo sforzo come fa la raffinatezza eccessiva, ma adattandolo invece al più alto grado di significazione intellettuale. In ciò consiste la perfezione architettonica, ed è raggiunta per mezzo non tanto delle forme degli elementi – che appartengono alla convenzione – quanto del loro ideale rapporto di equilibrio e proporzione. Questo piccolo interno si avvicina alla perfezione più di quanto avrei ritenuto possibile fuori dell’Europa classica. Il materiale usato è un segno di economia: sono piccoli mattoni duri color grigio topo, che nella loro puritana unicità di intenti smorzano l’ornamentazione di testi cufici e di intarsi di stucco»5. Dunque, con l’epoca selgiuchide si fissano alcuni punti fermi nell’architettura iranica; sappiamo da un’iscrizione che un portale di accesso alla moschea è datato al 1121-1122. Più tarda, con una complessa cronologia, è la sala confinante con l’ivan Ovest, eseguita in più riprese. Selgiuchide è un pannello murario di passaggio laterale dell’ivan Est con sigilli in stucco contenenti i novantanove nomi di Dio e invocazioni sciite6. E, a proposito di iscrizioni, è interessante osservare e segnalare che fra queste vi è anche un verso del celebre poeta shirazeno Hafiz (ca. 1325-ca. 1390). È qui, nella sala dietro l’ivan Ovest, che troviamo il più significativo intervento di epoca ilkhanide, il mihrab in stucco voluto da Oljeitu e datato 13107. La qualità della lavorazione di questo mihrab è davvero eccezionale, interamente basata nel repertorio sui tre pilastri decorativi su cui si fonda l’ornato islamico: calligrafia, motivi geometrici e arabeschi, qui mirabilmente
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fusi in un insieme di perfetta armonia cui non doveva togliere forza la policromia di cui resta qualche pallida traccia (policromia attestata, comunque, da vari frammenti in stucco trovati dagli archeologi nel corso dei lavori). È interessante notare come il mihrab di Oljaeitu (eseguito da tal ‘Adub b. ‘Ali al-Mastari) non rechi iscrizioni coraniche, bensì formule che esaltano il ruolo del sultano. Il contesto delle iscrizioni e dell’ubicazione (in un ambiente secondario, decentrato) suggerisce un intento probabilmente non di tipo religioso, ma eminentemente autocelebrativo: lasciare, cioè, un’impronta, il segno del proprio passaggio su uno dei più clamorosi manufatti architettonici islamici, in un momento, poi, in cui Oljeitu si avvicina alla confessione sciita. Ilkhanide è anche l’intervento sulla grande cupola di Nizam al-Mulk; evidentemente non fidandosi della statica, lo spazio fra i pilastri centrali che supportano la cupola è stato tamponato, e quello del cubo di base, fino all’impostazione della cupola, ricoperto da una scialbatura di stucco bianco, con sensibili alterazioni morfologiche anche nei raccordi (triplici nicchie sovrapposte che non corrispondono all’impostazione originale). È merito non piccolo della sensibilità dell’architetto Eugenio Galdieri se questo intervento è stato documentato, e nelle fasi di restauro conservato per metà in un ambiente riportato peraltro all’originale (selgiuchide) livello pavimentale. Gli interventi della dinastia muzaffaride (1314-1393, ma a Isfahan col regno di Sultan Mahmud fra il 1358 e il 1375) sono stati sia strutturali – con la costruzione di una madrasa sul lato Est – sia di abbellimento8 con pannelli ceramici nell’ivan Sud, in cui si segnala il restauro del soffitto dovuto all’Aq Qoyunlu Uzun Hasan nel 1475-1476. Più limitata, forse prevalentemente decorativa, l’opera timuride che si segnala per il bellissimo pavimento in onice dell’ivan Sud e della Cupola di Nizam al-Mulk (rimosso per procedere agli scavi e ricostruito nella parte Sud-Ovest della moschea, la più recente) e una zoccolatura, sempre in onice, della corte con pilastrini angolari di squisita fattura. Timuride potrebbe essere anche lo shabestan (sala di preghiera invernale), ricordato in un’iscrizione datata 1447, posto dietro l’ivan Ovest, con splendidi arconi ribassati, che però è generalmente attribuito al regno safavide9. Safavidi sono numerose iscrizioni sulle ceramiche che ornano le facciate sulla corte, con i nomi di Shah Tahmasp (1531-1532) e, soprattutto, di Shah ‘Abbas ii (1642-1667), e anche i due sottili minareti che fiancheggiano la cupola Sud, posti ai lati della facciata dell’ivan. Ovviamente numerosi gli interventi – più spontanei che coordinati – occorsi nell’Ottocento, prima dei sistematici lavori italiani del decennio fra il ’70 e l’80 del Novecento.
Dall’epoca abbaside a quella buide È tenuto conto di questa complessità architettonica, di stili, materiali, interventi diversi, che possiamo ora procedere a un resoconto relativo alle grandi epoche dell’architettura persiana. La moschea Tarik Khana di Damghan10 è di epoca abbaside (viii secolo), ed essendo probabilmente la più antica moschea persiana ancora in piedi costituisce un ottimo punto di partenza. La pianta è molto semplice, con corte e porticato e sala di preghiera ipostila a tre campate davanti al mihrab (la navata centrale è più ampia e rialzata rispetto al resto) e mostra una tipica planimetria “araba”, ma espressa con un linguaggio – i poderosi pilastri/colonna circolari in laterizio ricoperto da stucco, gli archi ogivali che paiono appena accennati – ancora fortemente intriso di elementi sasanidi, in linea con una continuità espressiva sulla quale non è superfluo richiamare ancora una volta l’attenzione. E, quanto a colonne di massiccia
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11. Le colonne lignee della moschea congregazionale di Khiva.
12. I potenti pilastri della sala della moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a) di Semnan, nel Khorasan. I recenti restauri hanno rivelato una struttura assai prossima a quella della moschea di Damghan.
fattura, non possiamo non citare la moschea di Degaran nel villaggio di Hazara (Transoxiana), anch’essa databile intorno al Mille. L’antichissima tradizione dell’architettura ipostila in Asia centrale – pensiamo alla Corasmia – è testimoniata dalla persistenza di un monumento importante quale a Khiva la moschea congregazionale (x secolo, ma fortemente rimaneggiata nel xviii), caratterizzata da bellissime colonne lignee11. Anche più ad oriente, per esempio in Kazakhstan, è dato osservare strutture lignee con colonne – come nel mausoleo di Arestan Bab12 – che, seppure datate al xiii o xiv secolo, hanno un aspetto decisamente più antico, frutto di un conservatorismo accentuato o della tendenza alla consapevole arcaicizzazione che a intermittenza compare in tempi e luoghi fra loro lontani. Per tornare all’Iran in senso stretto, diversa – meno monumentale anche perché nella sede di una piccola comunità – è la moschea di Fahraj13 (nei pressi di Yazd): probabilmente di poco posteriore, a pianta similare, ove il minareto è cilindrico e posto a lato di uno dei lati lunghi porticati della corte, costituisce una rara testimonianza – assieme alla paradigmatica Isfahan – della planimetria importata dai musulmani in Iran allorché si trattava di costruire ex novo una moschea. Un caso analogo è la distrutta moschea di Dezful che, comunque, era già stata profondamente modificata. È ad Oriente – un Oriente inteso come Khorasan, Afghanistan e Asia centrale, che sarà sempre più importante in questa fase – e cioè nell’“Iran esterno”, che troviamo i documenti di maggiore interesse. La moschea di Hajji Piyade a Balkh14 (odierno Afghanistan settentrionale, non lontano dalle vallate dell’Amu Darya, l’antico Oxus), o meglio quel che ne rimane, è semplicissima: quadrata, tre lati chiusi e uno aperto opposto al mihrab, poggia su sedici massicci pilastroni circolari su cui si impostano gli arconi e le coperture – oggi assenti – cupolate. Ancora una volta la colonna poderosa rimanda al periodo sasanide, ma è cu-
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rioso osservare come architettonicamente l’analogia più vicina (anche temporalmente, essendo quella di Balkh della fine del ix secolo o degli inizi del x secolo) sia, lontanissima nello spazio, nella moschea/oratorio di Bab-i Mardom a Toledo (chiesa di Cristo de la Luz nel 1085). Si è accennato alle vicende storiche che hanno portato l’Iran a subire spesso invasioni da oriente, in ondate successive. La dinastia dei Buidi fu estremamente importante in Iran, perché si tratta del primo caso in cui emerge un potentato locale dopo il dominio direttamente esercitato dai dominatori arabi, una sorta di intermezzo “nazionale” prima dell’arrivo dei Turchi Selgiuchidi provenienti dall’Asia centrale. I Buidi dominarono complessivamente il paese fra il 932 e il 1055, ma con alterne vicende e fortune a seconda della regione, in uno schema non unitario (per esempio, Isfahan sarà sotto controllo buide fra il 932 e il 1028). Potentati rivali saranno i Samanidi nel Khorasan e in Transoxiana fra l’819 e il 1005 e quello dei Turchi Ghaznavidi (977-1186)15 in Khorasan, Afghanistan e in India e dei Ghuridi (Afghanistan nord-occidentale, fra il 1000 e il 1214). Situazione fluida, dunque, ma con un dato chiaro e incontrovertibile: l’importanza sempre maggiore che vengono ad assumere nei califfati i territori orientali. Fra i più celebrati monumenti d’Asia centrale, ma di cultura iranica, spicca il mausoleo del samanide Isma‘il a Bukhara (943 ca., secondo una lapide che cita as-Sa‘id Nasr ii [914-943])16, interamente costruito in mattone cotto. È bene spendere qualche parola sull’edificio in sé, un mausoleo; il precedente più illustre è la Qubbat as-Sulaibiya a Samarra17, che si vuole sia stata la prima costruzione usata nell’Islam a questo scopo, dal momento che il Profeta sembra condannare una pratica di ostentazione di pompa sepolcrale (a partire proprio dalle disposizioni
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13-14. Il mausoleo di Isma‘il a Bukhara e, a fronte, particolare della facciata.
riguardanti la propria sepoltura), pur non essendo mai stato proclamato un esplicito divieto in proposito. La pianta del mausoleo di Bukhara è quadrata – con quattro porte a metà di ciascun lato (questo, secondo la tradizione, sarebbe un artificio per non esautorare l’idea che la tomba debba trovarsi in uno spazio “aperto”) – e cupolata; agli angoli esterni sono semicolonne incassate, marcate in alto da cupolette, mentre sui quattro lati all’esterno corrono finestre che all’interno corrispondono a una galleria interna. L’aspetto severo, di cubo massiccio, è mitigato dalle colonne angolari e dalle finestrelle, ma soprattutto dal sapiente gioco dei mattoni a faccia vista, incorniciati da un motivo di cerchi forati (le perline degli stucchi e delle stoffe sasanidi, ma qui ovviamente su scala superiore) con un effetto che ricorda trama e ordito dei tessuti e ancora di più gli intrecci in vimini o paglia. L’interno utilizza il medesimo repertorio di decorazione dei mattoni e la soluzione angolare del passaggio dal cubo della pianta alla cupola è offerta da un elegante archetto tripartito; come sinteticamente ed efficacemente osservato da Robert Hillenbrand, si tratta di un “tempio del fuoco in veste islamica”18, e il pensiero corre in particolare a Konar Siyah. Interessante e significativa è l’assenza dello stucco, reso superfluo dall’impiego decorativo del mattone. La moschea congregazionale di Nayin19 (Iran centrale) risale al periodo buide (x secolo) e si presenta ancora abbastanza leggibile in pianta, nonostante gli interventi successivi. La corte centrale (che presenta una scaletta da cui si accede al qanat20 [canale] sotterraneo da cui arriva l’acqua dalle montagne secondo un poderoso meccanismo di ingegneria idraulica) suggerisce come l’edificio sia stato ampliato sui lati, pur conservando la pianta originale “araba” e un minareto che forse è il più antico d’Iran (poi modificato). I lavori di consolidamento a cui l’edificio è stato sottoposto hanno “liberato”, sulla facciata della corte, semicolonne circolari decorate con intrecci di mattoni, un tipico impiego buide, documentato anche nella Masjid-i Jum‘a di Isfahan. Ma l’aspetto più esaltante di questa moschea è la decorazione in stucco del
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15. La moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a) di Nayin, x secolo.
16. Particolare della decorazione a stucco di una colonna della moschea con evidenti richiami all’arte sasanide.
mihrab, delle colonne di sostegno degli archi della sala di preghiera e degli intradossi degli archi stessi. I motivi sono quelli del repertorio epigrafico (nel mihrab) e floreali; le minute foglioline di vite della lunetta sopra la nicchia che indica la qibla e i motivi sulle imponenti colonne (con foglie di vite e grappoli stilizzati entro schemi geometrici a nastro con contorni di perline, reminiscenti, queste, dei tessuti) ancora una volta sono legati alla persistente tradizione sasanide, anche se non è da trascurare un apporto più genuinamente abbaside, come risulta chiaro da un confronto con gli stucchi di Samarra (nei cosiddetti primi due stili)21. Bui de per datazione e per impianto decorativo è quanto si conserva (sostanzialmente il portale) della moschea Jurjir a Isfahan22, che possiamo datare al 985 circa. L’uso del mattone cotto in intrecci di straordinaria fantasia è maturo preludio e premessa indispensabile alla grande stagione dei Selgiuchidi. Nella Persia orientale, in quello che ora si chiama Gonbad-i Qabus, è localizzato uno dei più straordinari, ed eccentrici, monumenti del Medioevo islamico23. È il mausoleo del signore ziyaride Qabus ibn Wushmagir ibn Ziyar, uomo di conclamata crudeltà, ma anche poeta, calligrafo e soprattutto astronomo, alla cui corte si rifugiarono due celebri personaggi quali Avicenna e al-Biruni. Si tratta di una torre cilindrica (alta 51 metri), in mattoni con copertura conica, perfettamente liscia se non per dieci contrafforti esterni di sezione triangolare con due bande di iscrizioni cufiche, in alto (sotto il tetto) e in basso. Struttura davvero singolare che ha dato origine a svariate credenze e leggende; una vuole che gli “spigoli” esterni respingano e tengano lontani i jinn (geni anche maligni di cui Salomone conosceva il linguaggio e spesso citati nel Corano), e l’altra che la bara fosse in cristallo, sospesa in aria e illuminata a mezzodì da un raggio di sole, di sicuro un omaggio alla straordinaria fama raggiunta da Qabus come astronomo. La forma di questo mausoleo ha ispirato la costruzione di due minareti a Ghazni24 (Afghanistan centrale), voluti il primo da Ma’sud iii (1114-1115) e il secondo da Bahram Shah (1118-1152), entrambi sovrani ghaznavidi, unici resti di due moschee assai imponenti. Il materiale impiegato – con fantasia e abilità – è ancora una volta il mattone cotto, usato per virtuosistici giochi di intrecci geometrici; molto belle sono anche le iscrizioni. Ancora in Afghanistan è il cosiddetto minareto di Giam, che sorge presso la riva di un torrente ed è apparentemente isolato25. Alto 65 metri, poggia su una base ottagonale e ha all’interno una doppia scala spiraliforme. La decorazione appare molto elaborata, sontuosa e riflettente un’idea di horror vacui, con un repertorio prevalentemente geometrico26 ed epigrafico che ci informa del nome del committente, Ghiyath al-Din Muhammad (sovrano ghuride fra il 1163 e il 1203). Molto importante è la circostanza che in questo minareto – appena sotto la corona di muqarnas che segna il passaggio dal primo al secondo “stadio” del fusto – sia leggibile un’iscrizione realizzata con inserti di ceramica turchese. Fra l’altro questo genere di minareti/ torre (che sono i logici antecedenti del Qutb Minar di Delhi del 119927) poteva far parte di un complesso sistema di avvistamento, come recentemente proposto28. In tale contesto è anche da segnalare il minareto di Kirat (Khorasan meridionale, xi secolo)29 con alta base ottagonale e fusto cilindrico, tipologicamente assai simile a quello di Giam, anche con tracce di decorazione in stucco. Ancora, sempre a proposito di minareti, dobbiamo ricordare quello selgiuchide della moschea congregazionale di Save (1110)30 e quello celeberrimo di Bukhara31, sempre in mattone cotto e alto ben 46 metri, datato al 1127. L’importanza dei siti afghani è confermata dai resti dei palazzi di Mas’ud iii a Ghazni32 e di Lashkari Bazar33, ove nelle strutture palatine si impiega lo schema (adoperato anche sul
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17. Il mausoleo di Qabus ibn Wushmagir ibn Ziyar a Gonbad-i Qabus. 18. Il minareto di Ma’sud iii a Ghazni, Afghanistan centrale.
versante mesopotamico, per esempio a Ukhaydir) a ivan assiali intorno alla corte. Inoltre, a Lashkari Bazar le mura interne del palazzo erano rivestite di stucco e da una teoria di personaggi dipinti sulle pareti: la parte inferiore del corpo vista di profilo, il busto frontalmente e il volto di tre quarti, secondo uno schema classico preislamico. Si tratta di una delle più importanti testimonianze pittoriche murali figurate che ci restino nell’ambito artistico persiano34.
I Selgiuchidi Il nuovo potere che si affaccia intorno all’anno Mille in Asia (Tughril i prende il potere nel 1038) proviene da oriente, da quell’Asia centrale che abbiamo visto fiorente non solo nelle architetture (non dimentichiamo che Firdusi dedicherà il suo Shah-nama, “Libro dei Re”, al ghaznavide Mahmud, e uomini come Avicenna e al-Biruni saranno a corte nel Khorasan...) e si riversa sulle terre iraniche con forza assolutamente inusitata. Si trattava di popolazioni nomadi turche, ben strutturate in clan, con notevole coesione politica e militare; purtroppo non abbiamo fonti turche su queste stirpi e le relazioni storiche, arabe o persiane che siano, appaiono di parte. Sappiamo che la tribù era organizzata per discendenza in linea maschile e spesso governava i territori attraverso la figura di un atabeg (in teoria capo militare, “tutore” di principi selgiuchidi, ben presto governatore autonomo, non di rado resosi indipendente trasmettendo il titolo in asse ereditario e dando avvio a vere e proprie dinastie; nasceranno così, per esempio, gli Zanghidi, gli Ildegizidi o i Salghuridi); i Selgiuchidi hanno avuto un ruolo politico importante, ma hanno portato cambiamenti anche in ambito religioso. I Buidi erano
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questa foto può slittare a pag successiva e appaiarsi alla cupola
20. Veduta del caravanserraglio di Ribat-i Sharaf, Khorasan, 1114 e 1154.
A fronte: 19. Ingresso del caravanserraglio di Ribat-i Sharaf, Khorasan, 1114 e 1154.
sciiti e così i Fatimidi in Egitto (909-1171), mentre con i Selgiuchidi si assiste a una reazione di stampo sunnita conservatore, poco tollerante delle forme ereticali della fede. L’invasione dei territori iranici fu rapida e Baghdad (sede del califfato) fu presa nel 1055; poi (1071) i Selgiuchidi sconfissero i Bizantini un po’ più a occidente, a Manzikert (nei pressi del lago di Van, nell’Anatolia orientale) e si aprirono la via del Mediterraneo. Furono, in ogni caso, regnanti molto accorti, capaci di catalizzare attorno a sé le migliori energie intellettuali; un grande sovrano come Malik Shah (regnò fra il 1072-1092) adottò titolature regali arabe, persiane e turche, proponendosi come monarca universale, in questo aiutato dall’espansione di un grande impero. Anche la scelta dei vizir, come il già menzionato Nizam al-Mulk, fu indovinata, con una classe dirigente perfettamente in grado di mantenere una politica equilibrata fra elementi culturali turchi e islamici. Non altrettanto felice l’azione dei successori, se è vero che i dodici figli di Nizam al-Mulk pretendevano una “venerazione” di tipo quasi religioso! Una figura come quella del teologo, giurista e filosofo Abu Hamid Muhammad al-Ghazali (1059-1111), che rese accettabile la dottrina mistica sufi alla sunna più intransigente, fu favorita dal clima politico che, invece, portò alla reazione nei confronti degli sciiti, una cui corrente (asserragliata soprattutto ad Alamut sui monti non lontani dal Caspio), gli Ismailiti Nizari – altrimenti noti come “Assassini” –, condusse un’attiva resistenza con metodi oggi qualificati come terroristici, fino a che non fu debellata dai Mongoli (1256). Un’altra personalità di spicco – la cui importanza in sede letteraria è stata forse esagerata dalla critica occidentale – fu quella di Omar Khayyam, uomo di scienza molto apprezzato dal più grande dei sultani selgiuchidi, Malik Shah. Felice abilità dei Selgiuchidi fu quella di aver capito l’importanza delle comunicazioni fra le varie province dell’impero, rendendo agibili grandi vie commerciali con l’istituzione di una rete di caravanserragli atti a proteggere uomini e beni durante i lunghi spostamenti. Infatti, nonostante la centralizzazione del potere, ampi settori turchi erano rimasti assolutamente indifferenti al richiamo della sedentarizzazione, di fatto nomadi, con una spiccata propensione per la guerra di razzia. Ma è anche chiaro che, nonostante tutti i limiti segnalati (non ultimo una tassazione troppo alta delle rendite agricole, che sarà uno dei motivi di un collasso che possiamo ritenere fin troppo precoce), quella selgiuchide è stata una grande epoca in cui, sul piano culturale e artistico, ci troviamo di fronte a una notevole massa di materiale, specie se paragonata al relativo “vuoto” dei secoli precedenti. Il caravanserraglio di Ribat-i Sharaf35 nel Khorasan orientale, datato al 1114 (con un restauro del 1154), posto su una direttrice carovaniera fondamentale che conduce a Bukhara e a Samarcanda, è un edificio notevole di fondazione regale. Si tratta di una costruzione in mattoni cotti con
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21. La corte centrale (sahn) e i due ivan, Ovest e Nord, della moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a) di Ardistan.
23. Il mausoleo di Pir-i ‘Alamdar a Damghan.
22. La cupola decorata in stucco della sala del mihrab della moschea congregazionale di Ardistan.
un alto muro perimetrale che dà il senso della fortificazione, e in pianta presenta due corti: una prima, più piccola, era probabilmente destinata ad alloggio per una guarnigione discretamente folta, mentre la seconda – organizzata su uno schema assiale di quattro ivan affacciati sulla corte – presenta anche ambienti cupolati adatti a una breve residenza del sultano. Il portale esterno di accesso ha due contrafforti sagomati a mihrab, di modo che chi avesse a giungere dopo la chiusura delle porte potesse ugualmente ottemperare al precetto della preghiera. Dal punto di vista decorativo, è un tripudio di motivi ornamentali in mattoni, terracotta e stucco, usati a piene mani con grande gusto e con disegni e tecniche che sono da considerarsi un’evoluzione nella continuità rispetto a quanto abbiamo descritto sinora. È un monumento chiave dello sviluppo architettonico iranico in cui è perfettamente attestata la tipologia a quattro ivan assiali.
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Nella doppia pagina seguente: 24. I mausolei gemelli di Kharraqan, 1067 e 1086. Notevolissimi esempi di architettura funeraria selgiuchide, forse ispirati alle tende dei nomadi, sorprendono per la qualità e la fantasia degli intrecci geometrici ottenuti con semplici mattoni posati a faccia vista.
Una conferma del fatto che questa organizzazione spaziale a quattro ivan trova nell’architettura civile, forse prima che in quella religiosa, una piena e pronta applicazione è data dal caravanserraglio di Dayakhatun (xi-xii secolo)36, fra Bukhara e Khiva sull’Oxus, a pianta quadrata e mura in mattoni con torrette angolari semicircolari, tipiche dell’architettura militare; e a questa categoria appartiene la severa e geometrica monumentalità – oggi superstite nel solo, restaurato, portale – del Ribat-i Malik37 (1078) fra Bukhara e Samarcanda. A Dayakhatun i quattro ivan assiali sono uniti fra loro da un porticato, mentre lungo i lati perimetrali si aprono gli ambienti residenziali e di magazzinaggio; la decorazione è ottenuta dalla giustapposizione di mattoni piani. Nella regione circostante Isfahan, di cui fanno parte anche la Nayin su cui abbiamo già scritto e la Natanz su cui scriveremo, sono due interessantissime moschee congregazionali,
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splendida e maestosa – all’esterno svela perfettamente l’impostazione del cubo di base seguito da un tamburo ottagonale su cui è appoggiata la copertura, mentre all’interno è un gioco di nicchie e sguinci. Più tormentata da interventi precedenti e successivi (era forse stata una cosiddetta “moschea chiosco” sorta sulle basi di un tempio del fuoco sasanide), pur se oggi perfettamente in linea con quanto abbiamo descritto di Zavareh, è la moschea di Ardistan. Imponente, considerando che ancora ai giorni nostri Ardistan è poco più di un grosso villaggio, è la cupola sopra il mihrab in stucco datato 1158, mentre l’ivan che la precede ha una data di due anni posteriore (1160), e copertura voltata a botte con un disegno floreale a palmette in stucco ispirato al repertorio tessile. Piuttosto interessante è anche la decorazione (assegnata alla seconda metà del ix secolo [!?]40) dell’intradosso di un arco, con quadrati dipinti a scacchi contrapposti in uno stile che ricorda i tessili popolari e in particolare i kilim.
quella di Zavareh (1135-1136)38 e quella di Ardistan39, probabilmente di poco posteriore nell’impianto che conosciamo. È possibile che queste due costruzioni siano servite da modello per la realizzazione della Grande Moschea Congregazionale di Isfahan. Zavareh è, dunque, la prima moschea a quattro ivan costruita ex novo in Iran, capostipite di una lunga e gloriosa tradizione. La pianta è rettangolare e leggermente allungata, con l’ingresso sull’angolo di nord-est, mentre il mihrab a sud è segnalato da una grande cupola preceduta da un ivan; la datazione è contenuta in un’iscrizione cufica in mattone e stucco nella corte. I rimanenti tre ivan sono più piccoli di quello qibli e sono uniti fra loro da arcate con ambienti posti su un doppio livello. Esterno alla moschea, sul lato ovest, è il minareto, un massiccio cilindro con tracce di inserti ceramici, non sappiamo se originali o frutto di un successivo restauro. Il mihrab è decorato a stucco e ai due lati della sala cupolata sono tre navate parallele al muro qibli; la cupola – semplice ma
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25. Resti di un palazzo della città di Marv (oggi Turkmenistan).
Quasi un capitolo a parte meriterebbero i mausolei, che, dopo l’esempio di Bukhara, divennero una delle strutture architettoniche favorite, e non solo in Iran41. Il mausoleo di Pir-i ‘Alamdar a Damghan42 è quasi, nella sua forma cilindrica (con copertura rifatta), un largo minareto; notevoli, in ogni caso, gli intrecci di mattoni. Di tipologia e planimetria diverse, a Yazd, il mausoleo di Davazdah Imam (“Dodici Imam”) del 103743 ha un aspetto esterno particolarmente severo, su base quadrata, tutto giocato sui volumi solidi con precise corrispondenze fra esterno e interno, nel quale i soprarchi delle lunette cieche hanno iscrizioni in un bellissimo e originale cufico intrecciato. A Kharraqan (nella piana di Qonqorolong non lontano da Qazvin) sono stati “scoperti” non molti anni or sono due mausolei gemelli44, rispettivamente datati al 1067 e al 1086, dunque in piena età selgiuchide. La forma è ottagonale con semicolonne agli spigoli e copertura con cupola e, come ha osservato Hillenbrand, «molti dettagli della struttura e dell’ornamentazione evocano la yurta o tenda dei nomadi turchi»45. La capacità di creare complessi motivi geometrici con semplici mattoni è qui esaltata con un repertorio che, seppure non infinito, tale sembra: nella tomba del 1086 si contano non meno di 70 diversi disegni geometrici. Del resto, anche le cupolette selgiuchidi del Masjid-i Jum‘a di Isfahan sono, nel numero e nella varietà, un’altra testimonianza di come con maestria inusitata il semplice e piano mattone cotto possa divenire strumento di raffinate interpretazioni artistiche. E non è certo un caso che questo avvenga in Iran, dove a lungo si è coltivata la tecnica in questione. En passant notiamo, infatti, che gli stessi Selgiuchidi, in Anatolia (dove regneranno fra il 1077 e il 1307), saranno ugualmente grandi costruttori, ma privilegeranno la pietra, secondo una tradizione locale cristiana (bizantina anche nelle varianti armena e georgiana) attestata da diversi secoli. Dei mausolei di Kharraqan c’è anche da dire qualcosa a proposito delle pitture degli interni; non semplici iscrizioni (che ovviamente non mancano), ma anche raffigurazioni di lampade da moschea (con l’iscrizione baraka li-sahibihi, “fortuna al possessore”), alberi di melograno con uccelli e medaglioni con pavoni affrontati dai colli intrecciati, simbologia di tipo paradisiaco che ben si adatta alla funzione sepolcrale dell’edificio46. Malik Shah fu l’ultimo grande sovrano selgiuchide con sede stabile in territorio persiano, essendo Isfahan la capitale. Il suo successore Mu‘izz al-Din Sanjar, dopo aver governato sull’Iraq, il Fars e il Khuzistan, lasciò le tre province ai nipoti e spostò la capitale a Marv (importante località e nodo carovaniero del Khorasan, oggi nel Turkmenistan). La città, posta in un’oasi non lontana dal fiume Murghab, era enorme, e le sue rovine47 offrono ancora oggi al visitatore
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un colpo d’occhio decisamente impressionante da cui emerge, anche a distanza, il mausoleo del medesimo Sanjar, costruito nel 1157. Marv fu distrutta dai Mongoli e solo l’eccezionale mole del mausoleo lo ha salvato dalla cancellazione, sebbene i danni del tempo si siano fatti sentire pesantemente, assieme a qualche restauro condotto senza appropriata metodologia. Il monumento è in mattoni cotti, a base quadrata con mura possenti, e l’idea bukhariota di una galleria esterna è ripresa e sviluppata di modo che la severa massa sia alleggerita in alto, costituendo una transizione equilibrata verso la grande cupola un tempo ricoperta di mattoni smaltati e visibile da chilometri di distanza. Gli archi della galleria sono impreziositi da frammenti di ornati in stucco48 che rimandano alla tradizione abbaside samarrena del taglio obliquo, presente anche nei motivi in stucco dei pilastri di sostegno della cupola di Nizam al-Mulk a Isfahan. Splendido, nella sua maestà, è il mausoleo di Mumina Khatun a Nakhchivan (Azerbaigian caucasico), datato al 118649, in cui sul mattone cotto compare una decorazione con inserti di ceramica invetriata. Abbiamo accennato al fatto che col periodo selgiuchide si assistette a uno sviluppo notevole delle arti; in particolare le realizzazioni ceramiche furono di grandissima qualità, sia in ambito architettonico (e ci piace ricordare il mihrab a lustro metallico già riutilizzato nella Masjid-i Meidan di Kashan, eseguito da al-Hasan ibn al-Arabshah [datato 1226], con iscritti i nomi dei 12 Imam sciiti, oggi a Berlino)50, sia in quello del vasellame, in cui spicca la tecnica del mina‘i o haft rangi (sette colori). Costosa e raffinata stagione, purtroppo assai breve, di eccezionale potenza figurativa51.
Il periodo mongolo: gli Ilkhanidi La debolezza interna del regno selgiuchide e la non mai completamente risolta dicotomia fra impulsi nomadi e certezze stanziali hanno costituito un grave pericolo per la coesione politica, aggravata da varie circostanze (non ultime l’alta tassazione sulle rendite fondiarie, una corruzione piuttosto diffusa, la sufficienza della classe dominante), con la conseguenza di una generalizzata impreparazione a fronteggiare un pericolo esterno. Già agli inizi del Duecento il nuovo potere mongolo che si andava coagulando in Asia attorno alla straordinaria figura di Genghis Khan (1167-1227) veniva a scontrarsi con i musulmani a partire dall’Asia centrale; Otrar si arrenderà nel 1219, l’anno seguente saranno prese Samarcanda e Bukhara, nel 1221 Balkh. La conquista del territorio iranico fu delegata al nipote Hulagu (nato nel 1217, regnò fra il 1256 e il 1265), che ebbe ragione degli Assassini nel 1256 (inizio formale del suo dominio) con la presa di Alamut, ed entrò a Baghdad nel 1258 (morte dell’ultimo califfo, solo nominale, al-Musta‘sim), e quindi fu ad Aleppo e Damasco (1260), finendo però la sua armata sconfitta dai Mamelucchi d’Egitto. Lo sconvolgimento fu epocale e leggendario con massacri (a Marv, ma anche altrove come a Rayy, allora fiorente centro artistico con una produzione di tessuti e ceramiche, che più non si riprese) rimasti nella memoria come tra i più feroci della storia dell’umanità. Certo seguì la pax mongolica, con la possibilità di contatti facilitati fra Oriente e Occidente come mai era avvenuto prima, ma per un’ottantina di anni all’incirca l’Iran fu devastato e sconvolto, con una ovvia stasi edilizia, per quel che ne sappiamo, che tuttavia non ebbe conseguenze a livello di conoscenze tecniche, perché la sapienza costruttiva legata all’uso del mattone cotto non fu persa. Il periodo mongolo – con la straordinaria e indispensabile introduzione selgiuchide – fu infatti vivacissimo. I nuovi dominatori erano del tutto estranei alla cultura islamica e portarono con sé
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26-27. Il mausoleo detto Gonbad-i Kabud (Azerbaigian), veduta d’insieme e particolare della decorazione.
credenze sciamaniste, induiste, buddhiste e cristiane nestoriane; soprattutto le donne furono talora devote cristiane, come la sposa di Abaqa Khan (Maria Paleologina, figlia di Michele vii Paleologo e sorella di Andronico ii [1282-1328], che alla morte del consorte [1281] tornò a Costantinopoli fondando la chiesa di Santa Maria dei Mongoli, divenendo suora nel 1307 e contribuendo con la committenza degli stupendi mosaici alla gloria della bizantina basilica di San Salvatore in Chora), mentre un personaggio di origini ebraiche come Rashid al-Din fu un illuminato vizir. Il repertorio artistico subisce profonde trasformazioni con l’introduzione di elementi tipici del mondo estremo orientale: draghi, fenici, loti e peonie52 vengono rapidamente assimilati e avranno d’ora in poi un ruolo fondamentale nell’arte non solo persiana, ma islamica in genere, com’è documentato dalla decorazione siro-egiziana mamelucca. Questi ornati estremo orientali entrano già nella decorazione che Abaqa Khan (1265-1281) utilizza nel suo sontuoso palazzo di Takht-i Sulayman, un sito paesaggisticamente e storicamente strepitoso. Già luogo sacro agli Achemenidi, che vi conservavano uno dei tre fuochi sacri nazionali (e a Cosroe ii, che vi avrebbe fatto portare la “Vera Croce” da Gerusalemme), il cono spento del vulcano con al centro un perenne lago blu di insondabile profondità, è circondato da una cinta di mura d’età sasanide in molti punti perfettamente conservata con rovine palatine sui cui resti il sovrano mongolo fece erigere il suo palazzo53. Il cambiamento più importante che si registra col periodo mongolo è, appunto, l’uso sempre più insistito della decorazione con inserimenti di ceramica smaltata (soprattutto di un bellissimo colore turchese molto brillante), come possiamo osservare nella città di Maragha. Qui il più antico mausoleo (Gonbad-i Sorkh, 1147)54 presenta la classica pianta quadrata con
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decorazioni di mattoni intrecciati, non dissimile da quanto già visto a Kharraqan, anche se il portale ha un accenno di inserti ceramici. Il Gonbad-i Kabud (1196)55, con la sua forma ottagonale e semicolonne aggettanti, è nel suo genere un piccolo capolavoro. Qui si dispone su tutta la superficie una rete decorativa di mattoni cotti rossastri e nei soprarchi (con muqarnas appena accennate) il ricorso all’uso della ceramica è molto più pesante: percorso che sembra quasi compiuto nel Gonbad-i Ghaffariyah (dell’epoca di Abu Said Bahadur Khan, 1316-1335)56. A Maragha non può passare sotto silenzio l’osservatorio astronomico diretto dal grande astronomo e filosofo Nasir al-Din Tusi (1201-1274; è divertente osservare come egli fosse un opportunista voltagabbana: ora sunnita, ora sciita a seconda della convenienza...), con almeno dieci strumenti scientifici di grande precisione57; su un fianco della collina su cui sorgeva l’osservatorio vi sono delle grotte interessanti, forse usate come alloggio dagli scienziati, pure interpretabili come un monastero nestoriano. L’ilkhanide Arghun (1284-1291) fu una personalità notevole (egli non si convertì all’Islam e praticò una sorta di sincretismo religioso con base buddhista), che diede particolare impulso alla regione del Qonqorolong (“la piana dei cavalli fulvi”), una zona che evidentemente ricordava ai Mongoli le pianure dell’Asia centrale, ottimo terreno da pascolo (si dice che vi si potessero trovare più di centomila cavalli!), dove fu fondata la residenza di Sultaniyya58. Tutto il territorio circostante fu intensamente colonizzato dai Mongoli59 e, probabilmente, già ad Abaqa Khan è da assegnare il sito di Viar col suo imponente (e cinese) drago rupestre60, testimonianza unica di un “monastero” buddhista (anche l’etimologia di Viar potrebbe derivare dal sanscrito vihara) islamizzato da un incongruo – e mai terminato – mihrab, tra l’altro posto in direzione errata. Ghazan Khan (1295-1304) si convertì all’Islam ed è passato alla storia come esempio di intolleranza, sebbene abbia permesso, per esempio, il completamento della
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28-29. Due particolari della decorazione della moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a) di Natanz.
30. Vecchi tronchi di platano rinascono dal ceppo di un antichissimo e maestoso albero di fronte all’ivan di accesso del complesso monumentale di Natanz, 1307. In Iran spesso si trovano alberi secolari piantati in prossimità della tomba di personaggi religiosi molto venerati.
cattedrale di Giovanni Battista a Maragha e abbia sposato la vedova di suo padre, coerente con i costumi tribali turcoaltaici, ma in netto contrasto con i precetti coranici. Ghazan stabilì la propria capitale a Tabriz e diede impulso alle arti anche per tramite del suo già ricordato vizir Rashid al-Din, che trasformò la città in un vivace centro internazionale e vi costruì un suo quartiere, a lui purtroppo non sopravvissuto di molto61. La moschea congregazionale di Natanz sorge accanto a una khanqah (fondazione pia religiosa, in questo caso sviluppatasi sulla tomba di un personaggio molto venerato, con ospitalità per i pellegrini, in genere mistici sufi) ed è datata al 130762. Lo schema della moschea è quello classico a quattro ivan, ma nella sala cupolata si è potuto osservare, a seguito di un terremoto che ha fatto cadere parte dell’intonaco e delle malte, frammenti di un’iscrizione cufica composta con mattoni opportunamente predisposti e di uno stile che è indubbiamente selgiuchide, mentre mongole sono le belle iscrizioni coraniche in stucco negli intradossi degli archi degli ivan. Il portale della khanqah presenta una decorazione in cui l’uso dei mattoni smaltati (associati a parti in terracotta non invetriata) in blu, bianco, nero e turchese assume caratteristiche di notevole originalità. Il repertorio, oltre alle iscrizioni (fra queste è particolarmente elegante un cufico geometrico quadrato il cui uso è probabilmente derivato dai sigilli cinesi), presenta motivi di intrecci a base poligonale armoniosi ed equilibrati. Ormai la superficie decorata in policromia – anche se è prevalente il turchese – è un risultato acquisito, e sembrerebbe che a Natanz si siano fatte le prove generali per quello che è uno dei più notevoli edifici islamici, il mausoleo di Sultaniyya63, voluto da Oljaitu (1304-1316) e datato al 1313-1314. Oljaitu è stata una personalità singolare: «prima sunnita e originariamente cristiano e buddista, secondo alcune fonti si sarebbe riconvertito al sunnismo [dopo essere stato sciita intorno al 1310] prima della morte»64. È lui che volle questo monumento (con una cupola che raggiunge i 53 metri di altezza), forse nel periodo in cui aveva aderito allo sciismo, con il progetto di farvi traslare i corpi di ‘Ali e di Hosayn, i primi martiri sciiti, per una città di nuova fondazione destinata a divenire capitale imperiale.
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31. Il mausoleo di Oljaitu a Sultaniyya, 1313-14. È costruito su un’ampia piattaforma con contrafforti semi cilindrici. Tale pratica diverrà diffusa nei mausolei islamici dell’India Moghul (xvi secolo). Questa sembra essere una delle testimonianze più antiche di tale impostazione architettonica.
32. Il monumento a Pir-i Bakran a Linjan, interno, 1303-1312.
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34. Moschea congregazionale (Masgid-i Jum‘a) di Yadz.
33. Particolare della decorazione interna del monumento a Pir-i Bakran.
Recenti scavi archeologici hanno mostrato come il mausoleo sia stato costruito su un’alta piattaforma (di cui restano il muro di contenimento con torrioni semicircolari), una caratteristica comune nell’architettura islamica dell’India moghul, ma che non ci risulta per l’Iran. La pianta è sui generis; si basa su un quadrato regolare (con gli angoli smussati) per tre lati, mentre il quarto è composto da due parti aggettanti che danno origine a un ambiente rettangolare. Come a Marv, sopra i massicci muri di base vi è un porticato/galleria esterno (di forma ottagonale) sormontato da otto sottili torrette o minareti, che letteralmente coronano una cupola ovoidale un tempo ricoperta con mattonelle turchesi. Interessantissimo l’interno bianco con semplici iscrizioni65; a lungo è stato pensato che si trattasse di un intervento tardo, mentre invece è palese (dal contenuto e dallo stile delle scritte) che ci troviamo di fronte a un ripensamento, probabilmente avvenuto intorno al 1315. La primitiva decorazione, in parte recuperata con un pluriennale restauro affidato a maestranze locali sotto la direzione di un’équipe italiana guidata da Piero Sanpaolesi, è particolarmente ricca e sontuosa, con motivi di intrecci geometrici in terracotta non invetriata, ma lavorata a stampo, combinata con mattoni smaltati. Splendide sono anche le pareti e le volte delle gallerie con stucchi e pitture oltre che con l’inserzione di malta fra due mattoni e una punzonatura impressa con un sigillo a tracciare scritte stilizzate (in realtà questa tecnica è già stata impiegata in epoca selgiuchide; ad Isfahan nella Masjid-i Jum‘a sono molto eleganti le pareti dell’ivan Est che ricorrono a questa tecnica semplice e pulita ma molto efficace). È un monumento imponente che ha fatto scuola: «Che la metafora della corona [gli otto minareti] sia da intendere o meno letteralmente, l’idea fu copiata con entusiasmo in edifici più tardi molto diversi fra loro come le moschee ottomane e il Taj Mahal»66. A Linjan (piccolo paese trenta chilometri a sud-ovest di Isfahan) sorge un monumento interessante, dedicato a Pir-i Bakran (definito talora un sufi, ma sul quale mancano testimonianze e notizie precise), databile nelle sue varie fasi fra il 1299 e il 131267, dunque all’epoca
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di Oljaitu. In realtà, si tratta di un monumento poco organico che sembra nascere più o meno nella stessa epoca ma senza un disegno preciso, anzi per sovrapposizioni e giustapposizioni. Vi è una camera quadrata con due sepolture che dà accesso a un ambiente cupolato con un’interessante pittura68, un grande ivan e un dalan (corridoio di accesso). Se il fulcro religioso dell’edificio è la tomba, quello architettonico è l’ivan, a cui si accede dal passaggio sul fianco aggiunto in un secondo tempo, e il cui lato aperto è stato tamponato da un muro che ospita un bellissimo mihrab in stucco69, procedimento alquanto insolito per non dire sbalorditivo. Ma tutto l’insieme risulta un po’ singolare, nonostante la qualità degli ornati sia di primissimo livello, non solo negli stucchi (che mostrano un campionario davvero notevole: pare che l’artista abbia voluto dimostrare una grande versatilità non accontentandosi di un solo stile), ma anche nei rivestimenti ceramici. Il sospetto è che si sia “inventato” un santuario musulmano – bello come pochi – per bilanciare e ridimensionare la pregnanza ebraica del luogo, famosa meta di pellegrinaggio, e non solo da tutto l’Iran, per l’omaggio a una possibile tomba della biblica Esther. Sempre nella provincia di Isfahan – anch’essa, come Sultaniyya, con una massiccia presenza mongola – è da citare la moschea di Ashtarjan70, che presenta due minareti ai lati del pishtaq (portale monumentale) di ingresso, una caratteristica che troviamo anche a Isfahan nel mausoleo di Amu Abdullah, con la coppia dei cosiddetti minareti oscillanti. A Tabriz il monumento più imponente è la moschea di ‘Ali Shah (1315 ca.)71, una gigantesca parete in mattone cotto che avrebbe dovuto rivaleggiare con il celebre ivan di Ctesifonte. Al contrario perfettamente proporzionata è la moschea di Varamin, costruita fra il 1332 e il 133672 in mattoni cotti e con planimetria a quattro ivan assiali, di cui quello qibli precede la cupola sotto la quale è un mihrab in stucco con grandi fioriture “barocche”. La fine prematura di un uomo come Rashid al-Din (1318) avrebbe dovuto suonare come un campanello d’allarme per il potere ilkhanide; l’ultimo sovrano fu Abu Sa‘id (1316-1335) e, dopo di lui, l’impero si disgregò in vari potentati fra i quali quello che più ci interessa nel presente contesto fu quello dei Muzaffaridi, signori nelle province meridionali di Kirman e del Fars fino ai confini dell’odierno Iraq. La moschea del venerdì di Kirman è datata al 134973 e presenta alcuni restauri posteriori. La pianta è molto semplice, dotata di un’ampia corte centrale su cui si affacciano i quattro ivan: quello qibli è molto più vasto e alto degli altri e non precede una sala di preghiera cupolata o meno. L’uso dell’ivan come sala di preghiera non è nuovo (si ricordi Niriz), ma qui sembra notarsi una segnata enfasi monumentale. Tutti gli studiosi sono concordi nel sottolineare come nel periodo in esame (cioè la seconda metà del Trecento) venga a svilupparsi una tecnica ceramica destinata al rivestimento architettonico estremamente raffinata: non si tratterà più semplicemente di smaltare parti di un mattone, ma di creare un vero e proprio mosaico ceramico. Con questa tecnica74 la superficie architettonica acquisterà uno spessore e una materialità del tutto nuove: è una rivoluzione che sarà sfruttata in pieno nei periodi successivi da Timuridi e Safavidi. È comunque sorprendente il grado di perfezione raggiunto in pochi anni dai ceramisti persiani, come documentato dalla moschea congregazionale di Yazd. La pianta di questa moschea (databile intorno al 137575 ma con ampi interventi successivi) è abbastanza eccentrica, a cominciare dal suo accesso marcato da un altissimo pishtaq (con in basso un arco di accesso e, su un doppio registro, una copertura a muqarnas con una finestra che “sfonda” lo spazio creando un appropriato gioco di luce, una tipologia già vista a Natanz, ma qui molto più slanciata), con doppi
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35. Moschea del venerdì di Yadz. L’ivan della moschea congregazionale è coronato da due minareti, i più alti dell’Iran.
minareti anch’essi svettanti, il tutto ricoperto da nicchie cieche smaltate in mosaico ceramico, sì da far scomparire l’idea stessa di struttura come veniva invece esaltata solo due secoli prima dagli intrecci in cotto. La corte è molto ampia e circondata da un porticato lasciato opportunamente bianco a contrastare l’impatto del grande ivan (uno solo in questo caso) che precede la cupola sotto cui è il mihrab. Ai fianchi di questa struttura centrale (ivan più cupola) sono due ampi ambienti rettangolari, che richiamano alla mente la concezione sasanide del triplo ivan, così popolare nei palazzi dell’epoca. Dal punto di vista decorativo, nonostante l’impiego diffuso dei mattoni smaltati e dei pannelli in mosaico ceramico, l’effetto finale è, negli interni, molto sobrio, e soprattutto la sala del mihrab trasmette un sentimento di intensa spiritualità. Più o meno contemporaneo della moschea di Yazd è il mausoleo di Tughtabeg Khatun a Kunya Urgench (1370 ca.)76. Di forma ottagonale (salvo la parte posteriore con la camera sepolcrale, e l’accesso) si segnala per un grande pishtaq (privo di minareti) che si raccorda con un lato del mausoleo formando un primo ambiente o vestibolo; le pareti esterne sono alternate fra spazi aperti con finestre e ambienti a nicchia cieca profonda (quasi dei piccoli ivan o pishtaq), creando un movimento molto gradevole. È una tipologia di intervento architettonico che anticipa quanto sarà in voga nei palazzi timuridi e soprattutto safavidi, ma anche in India dove questo schema, importato come sempre su scala maggiore, avrà larghissima fortuna. La decorazione interna ed esterna (questa molto rovinata) era caratterizzata da rivestimenti ceramici così fini da essere considerati fra i più belli del periodo assieme a quelli, già menzionati, di Yazd.
I Timuridi Con l’epoca timuride si ripete il cliché dell’invasione da oriente. Della figura di Timur Lang (Timur lo zoppo, che in Europa divenne Tamerlano) e delle intricate vicende dinastiche si parla nel capitolo sulla miniatura. Anche se qua e là una certa tendenza al monumentale era più volte affiorata (si pensi alla moschea di Tabriz e alla stessa Sultaniyya), con i Timuridi essa non solo si rafforza, ma pare divenire un tema dominante77. Uno dei monumenti più interessanti fatti costruire da Timur è il mausoleo di Ahmad Yasavi a Turkestan (1399)78, che permette di comprendere quale fosse la politica e l’ideologia del grande condottiero e sovrano. Ahmad Yasavi era stato un mistico vissuto nel xii secolo (morì nel 1166), fondatore di una confraternita che prende il suo nome, e popolarmente è considerato colui che ha convertito i Turchi all’Islam. La penetrazione della fede musulmana in queste vastissime pianure non fu impresa facile, venendosi essa a scontrare con libere forme di religiosità incentrate sulla figura dello sciamano, popolarissimo e carismatico “sacerdote” di rituali molto antichi. L’esaltazione di Ahmad Yasavi attraverso la costruzione di un edificio mastodontico (si pensi che il santuario ha un ivan di accesso largo 50 metri, mentre la cupola ha un diametro di 18,2 metri e un’altezza di 37,5) risponde al duplice fine di presentarlo come erede e paladino di un Islam con connotazioni fortemente popolari e al contempo di stabilire un solido e relativamente vicino centro atto a fungere da santuario in qualche modo surrogatorio di Mecca e Medina. È infatti curioso osservare che se quelle due città restano a segnare il principale luogo sacro dell’Islam (Gerusalemme è il secondo) e al terzo posto di questa strana classifica c’è Hebron (con la “tomba di Abramo” e altri Profeti), per la quarta piazza ciascuno avanza la propria candidatura, da Kairuan in Tunisia all’Ayyub (turchizzato
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36. Gur-i Mir, il complesso funerario di Timur a Samarcanda (Uzbekistan).
in Eyup) a Costantinopoli, a Karbala e a Najaf per gli sciiti (ed eventualmente a Qom e a Mashhad in Iran) fino alla Tekke di Umm Haram a Cipro, oggi nei pressi dell’aeroporto di Larnaca79. Ovviamente non poteva mancare un luogo simile in Asia centrale e Timur, da accorto politico, colmò la lacuna. Dal punto di vista decorativo il mausoleo è interessante per l’uso di mattoni smaltati che all’esterno formano epigrafie, per la lapide tombale in diaspro verde, per le splendide porte lignee intagliate con i battenti in bronzo e l’enorme kazan (calderone) in bronzo datato 139980 ed eseguito da un maestro di Tabriz: ha un diametro di due metri e quarantatré cm per un’altezza di un metro e cinquantotto! La stessa monumentalità traspare dalla costruzione (fra il 1399 e il 1404) della moschea di Bibi Khanum81 che con i suoi 177 metri per 109 di lato (e una corte di 87 per 63 m) è una delle più grandi del mondo, iranicamente impostata sui quattro ivan assiali con quello qibli che precede la cupola sopra il mihrab. Purtroppo la cura nella costruzione fu carente – magari a causa della fretta imposta da Timur – e in una zona sismica l’esito fu disastroso, con la conseguenza che questo enorme edificio fu abbandonato per tempo (anche se attualmente sono in corso lavori che più che di restauro possiamo definire di rifacimento visto l’impiego massiccio del cemento armato!); e se ancora oggi suscita grande impressione, questa non è paragonabile a quel che doveva provocare agli inizi del Quattrocento. Timur volle Samarcanda come capitale del suo impero, e la rifondò82, utilizzando artigiani, architetti, decoratori e artisti portati dalle città conquistate e devastate di modo che questi uomini non potessero contribuire alla ricostruzione dei loro paesi. La preziosa e contemporanea testimonianza di Rui Gonzalez de Clavijo, ambasciatore del re di Castiglia83, ci dice anche che
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37. Il grande pishtaq del mausoleo del Gur-i Mir, Samarcanda (Ukbekistan).
Nella doppia pagina seguente: 38. Veduta della necropoli di Sah-i Zinda a Samarcanda.
grandissima parte della concezione urbanistica di Timur era riservata a parchi, giardini, orti e frutteti84. Timur morì, a causa di una polmonite fulminante, nel 1404 ad Otrar sulla via di una delle sue straordinarie imprese belliche: la conquista della Cina. Fu seppellito nel Gur-i Mir85, un complesso funerario voluto dallo stesso sovrano per ospitare le spoglie del nipote Sultan Muhammad, vittima delle ferite riportate durante la battaglia di Ankara del 1402. Si tratta di una serie di edifici che, oltre alla tomba, comprendono una madrasa e una khanqah, e altri ambienti di disimpegno. Il mausoleo vero e proprio (introdotto da un grande pishtaq privo di minareti) si segnala per la cupola costolata “a zucca” posta su un altissimo tamburo, che reca iscrizioni in cufico geometrico. Il tutto è ricoperto di mattoni policromi. L’alto tamburo e la cupola a costoloni sono una caratteristica distintiva dell’architettura timuride e presuppongono una copertura a doppio scafo, una interna e una esterna, non una novità assoluta perché tale espediente viene già usato nel periodo mongolo, per esempio a Sultaniyya ma non solo86. L’interno è piuttosto piccolo e raccolto, ma decorato sontuosamente a muqarnas, e per i raccordi della cupola non scarseggiano l’oro, i marmi e i colori vivaci, in contrasto con la lastra tombale di Timur di giada (nefrite) verde scuro tendente al nero87. Fra i monumenti patrocinati da Tamerlano si segnala il palazzo, ormai in rovina, ma di proporzioni maestose, fatto costruire a Shahr-i Sabz (egli era nativo di un villaggio vicino) nel 1379-1396 e detto Ak Saray88; i resti, attualmente visibili, raggiungono altezze vertiginose, ed è stato calcolato che originariamente doveva superare i 50 metri, per un’ampiezza di più di 20. La decorazione con la tecnica detta del banna’i (rivestimento parietale di mattonelle smaltate combinate con altre non invetriate), con iscrizioni, pannelli geometrici e floreali in turchese, verde, blu, bianco, nero e giallo è fine come un merletto, miniaturistica; è, infatti, probabile che maestri calligrafi siano intervenuti nell’elaborazione del progetto. La tendenza alle grandi dimensioni è confermata in edifici della necropoli nota come Shah-i Zinda89 che presenta una serie di mausolei (principalmente di fine Trecento, salvo quello, precedente, di Qusama ibn ‘Abbas che ha reso il luogo in qualche modo sacro), che si affacciano su entrambi i lati di una strada, introdotti da una grande scalinata – fatto molto raro nell’architettura islamica ad eccezione di quella indiana – e da un pishtaq fatto costruire da Ulugh Beg (nipote di Tamerlano e attivo governatore di Samarcanda) nel 1434-1435. È forse la più bella necropoli del mondo, con oltre una ventina di mausolei (quasi sempre a base quadrata sormontata da una cupola, liscia o costolata, su un alto tamburo), in virtù degli splendidi rivestimenti parietali in ceramica smaltata. I tre mausolei che chiudono il percorso (Tumar Agha [1405], uno anonimo e quello di Khoja Ahmed [1360-1361]) dispiegano una tale ricchezza di elementi epigrafici e geometrici da lasciare letteralmente sbalorditi per l’inventiva, il colore (predomina un brillantissimo turchese), la raffinatezza degli accostamenti. Un capolavoro. Ulugh Beg intervenne nell’urbanistica di Samarcanda con la costruzione di una piazza o, meglio “arena”90, il Rigistan, su cui fece costruire una madrasa (1417-1420) e di fronte a questa una khanqah con a nord un caravanserraglio; degli edifici originali sopravvive solo la madrasa, mentre gli altri sono stati rimpiazzati dalla madrasa Shir Dar del 1646-1647 e dalla madrasa Tala Kari 1659-1660 ad opera del governatore uzbeco Bahadur Khan. La madrasa ha un classico impianto a quattro ivan sulla corte centrale con ambienti disposti su due piani, utili per più di cento allievi oltre ai docenti; vi veniva impartito anche un insegnamento scientifico. L’esterno è segnato da un enorme pishtaq che è praticamente un ivan (con copertura a botte e privo di muqarnas), ma senza minareti, che sono invece posti agli angoli della struttura, ornata
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con una zoccolatura di marmo, pannelli di mosaici ceramici molto fini, in particolar modo nei muri laterali del portale. Queste caratteristiche sono replicate nelle altre due madrase aggiunte, sebbene con un ornato molto più vistoso. A Ulugh Beg va anche assegnata la costruzione, su una collina ai margini della città, di un grande osservatorio astronomico, a riprova che più che al governo egli era dedito ai suoi importanti studi91. Come risulta evidente, con i Timuridi l’asse politico si spostò decisamente a oriente e dal punto di vista architettonico sono le città in quella parte di mondo ad averne beneficiato di più. Infatti l’attività più cospicua sarà nel Khorasan, in città come Mashhad e Herat che Shah Rukh eleggerà a sua capitale. A Mashhad l’intervento timuride si concretizzò nella grande moschea di Gawhar Shad (1419)92 a quattro ivan, con quello meridionale che precede la cupola. I minareti non partono più dal parapetto dell’ivan, ma lo fiancheggiano dalla base, una caratteristica indiana che Timur porta dalla sua campagna di Delhi del 1398 e che sperimenta nella moschea di Bibi Khanum. La Gawhar Shad è perfettamente equilibrata in ogni suo elemento e il rivestimento ceramico, analogo a quelli messi in opera a Samarcanda, è luminoso nei toni brillanti del turchese. Nonostante l’impianto, come lo si vede oggi, sia essenzialmente timuride in questo edificio – vasto e polifunzionale con madrasa, khanqah ecc. – hanno qui fatto costruire strutture Oljaitu, Shah Tahmasp, Shah ‘Abbas e anche Nadir Shah e Fath ‘Ali Shah, oltre, naturalmente, a Shah Rukh e sua moglie Gawhar Shad. Herat, nel periodo in esame, conobbe una straordinaria fioritura non solo nell’arte della miniatura, ma anche in architettura; in particolare ricordiamo la madrasa e mausoleo di Gawhar Shad (1437)93. La pianta è a quattro ivan; il mausoleo (completato nel 1432), con cupola a triplo scafo, è posto nell’angolo occidentale. Esso ospita le spoglie di Baysunghur, grande mecenate delle arti. La cupola interna è alta una decina di metri e fa un uso interessante degli archi traversi che corrispondono ai sedici lati del tamburo, creando un effetto stellare rafforzato dalla decorazione in blu, rosso, oro e bianco e suscitando una notevole impressione. Va da sé che la decorazione ceramica è all’altezza della migliore tradizione timuride. Gazar Gah94, terminato nel 1425, è il santuario dedicato al sufi ‘Abdallah Ansari (scomparso nel 1089) e costruito per volere di Gawhar Shad dal medesimo architetto shirazeno (Qivam al-Din), autore della sua madrasa nella vicina Herat. L’edificio ha subito almeno tre importanti restauri: ha una pianta molto particolare che combina su un’ampia corte un dispositivo a quattro ivan con un ivan più grande (che non precede alcuna cupola) nella parte opposta all’ingresso, mentre dall’ingresso e solo fino ai due ivan trasversali sono disposte celle per i pellegrini. L’accesso è dominato da un imponente pishtaq fiancheggiato da minareti e da ambienti laterali molto ampi. Stupenda e ricca la decorazione in stucco, dipinta e in ceramica banna’i. Un monumento che in planimetria rasenta la perfezione formale è la madrasa Ghiyyathiyyeh di Khargird (1445)95. I quattro ivan assiali si affacciano su una corte centrale quadrata (con gli angoli smussati che danno accesso agli ambienti angolari, cupolati, e alle sale che conducono ai piani superiori); i locali dell’ingresso sono tripartiti e cupolati con un’articolazione ottimamente risolta fra spazi pieni e vuoti e con la capacità di isolare gli ambienti residenziali pur mantenendo un circuito di libero accesso. R. Hillenbrand, uno dei massimi studiosi dell’architettura islamica persiana, così si esprime a proposito della madrasa di Khargird: «La transizione fra le successive funzioni è trattata in modo piano e naturale dall’architetto; la sua è un’arte che nasconde l’arte»96. Sono state notate analogie con il Gazar Gah, e quel poco che rimane della decorazione ceramica testimonia una manifattura di superba qualità. Purtroppo è stato com-
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39. Una delle vie che si snodano tra i monumenti del complesso di Sah-i Zinda a Samarcanda.
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40. Moschea/mausoleo di Abu Nasr Parsà, 1460 circa, Balkh.
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promesso da un terremoto alla metà del secolo scorso (1948) il complesso di Jamal al-Din ad Anau (1446-1457)97, che comprendeva una moschea, una madrasa, una khanqah, oltre a vari ambienti per l’alloggio dei pellegrini, trattandosi di un luogo di grande devozione popolare. Le vecchie foto mostrano un altissimo (20 m) pishtaq che oscura e nasconde la retrostante cupola. Il particolare che più ha attirato l’attenzione degli studiosi è la decorazione a mosaico ceramico del timpano del pishtaq, che mostra – nella medesima posizione e disposizione che più tardi avranno le tigri nella madrasa Shir Dar di Samarcanda – due enormi draghi affrontati, in bianco su uno sfondo floreale blu scuro98. Architettonicamente sono da segnalare i due ambienti affiancati al pishtaq che portano verso due corpi laterali dell’edificio, un accorgimento che sarà raccolto dai Moghul in India. A Balkh la moschea/mausoleo di Abu Nasr Parsà, databile a circa il 146099, ricorda il mausoleo di Tughtabeg a Kunya Urgench di un secolo prima, almeno a confrontarne le piante (anche se quella era a base ottagonale e questa a base quadrata) e riprende uno stile in voga nel Khorasan, come a Tayabad (1444), ove un grande pishtaq ormai diroccato doveva in parte coprire una cupola a costoloni su un alto tamburo cilindrico finestrato. Torniamo a Samarcanda col mausoleo di ‘Ishrat Khana (1464)100 voluto con un waqf (legato pio o fondazione caritatevole) per la sepoltura delle donne del sovrano timuride Abu Sa‘id (nato nel 1424, regnò fra il 1449 e il 1469), ricordato soprattutto come valente agronomo. Il grande pishtaq di ingresso (privo di minareti) non è certo una novità, mentre più inconsueta è la tripartizione dello spazio con una serie di ambienti laterali cupolati e, al centro, uno spazio quasi cruciforme sormontato dalla cupola. Concludiamo questa rassegna centrasiatica con due monumenti più tardi rispetto all’epoca timuride ma sostanzialmente in linea con quella impostazione, entrambi a Bukhara, una città che ancora oggi mantiene una bella atmosfera tardomedievale solo in parte offuscata dai banchetti dei souvenir per turisti massificati. La moschea Kalan (“Grande”), vicina all’omonimo splendido minareto duecentesco, è databile al periodo shaybanide101 e fu completata nel 1514. A pianta classica con quattro ivan, ha un ritmo molto armonioso, dato dalla scansione delle arcate sulla corte, e nella sua classicità sostituisce l’ivan che precede la cupola con una specie di pishtaq. È vastissima (si dice possa contenere addirittura 120.000 fedeli) e in questo degna erede della monumentalità timuride. La madrasa Abd al-Aziz Khan (1645-1680)102 è abbastanza tarda e molto grande; nell’accesso tripartito e nelle brevi diagonali che tagliano la corte sembra ispirarsi a Khargird di cui, comunque, non raggiunge l’equilibrata armonia. Il pishtaq ha le consuete nicchie cieche laterali e un frontone con decorazione di ceramica; a questo proposito si segnala l’uso più frequente del colore giallo. Nell’Iran propriamente detto gli interventi timuridi non sono stati particolarmente importanti (anche se le fonti ci dicono che furono costruiti molti padiglioni) e per il Quattrocento ci limitiamo a segnalare due monumenti di notevole rilevanza. Ad Ardabil (città a nord di Tabriz) il santuario dedicato al mistico Shaykh Safi al-Din al-Ardabili (1252-1334), dalla cui confraternita prese il nome la dinastia dei Safavidi, ha un significato notevole non solo sul piano architettonico ma anche su quello politico103. Il santuario ha una pianta complessa dovuta a vari interventi successivi che abbracciano un arco di tempo che va dal xv al xvii secolo. La tomba è di forma cilindrica con una copertura a cupola, e tutta la superficie è ricoperta da mattoni smaltati che formano il nome di Dio in stile cufico. L’aspetto allungato del mausoleo ricorda, appunto, la tipologia timuride. Accanto a questo mausoleo ne sono sorti altri, e un pishtaq con un bel rivestimento in ceramica turchese e una lunga sala davanti alla tomba armonizzano un insieme che nasce in
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modo piuttosto disordinato. Notevolissima è l’aggiunta safavide di una sala (la Chini-Khana, ovvero “casa della porcellana”) costruita appositamente per ospitare la collezione di oltre 1.100 porcellane cinesi donata da Shah ‘Abbas i nel 1611104, con una zoccolatura in ceramica invetriata e nicchie costruite in gesso e sagomate in modo tale che potessero esservi esposti i pezzi. Notevole è anche il grande giardino quadripartito (ovvero un chahar bagh105) che costituisce parte integrante, e rilevante, del complesso. Sebbene sia stata a lungo in stato di rovina, la Moschea Blu di Tabriz (completata nel 1465)106 è un monumento fra i più importanti della seconda metà del Quattrocento. Fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso si vedevano soltanto alcune strutture, e il parziale restauro – protrattosi per anni – ha reso leggibile il monumento, anche se la ricostruzione ex novo delle cupole può suscitare legittime perplessità, soprattutto in assenza di una traccia per stabilirne la curvatura. L’accesso alla moschea è garantito da un grande portale (ben leggibile anche nelle decorazioni in mosaico ceramico) che si affaccia su una prima sala cupolata, con mihrab, e circondata su tutti e tre i lati da ambienti voltati o cupolati: una sorta di riwaq o porticato attorno alla corte centrale che è coperta dalla cupola. Dietro questa sala, a cui si accede da due passaggi al lato del mihrab, ve ne è un’altra, più piccola, anch’essa con mihrab. Si tratta di una sorta di pianta a t rovesciata, che è abbastanza comune in Turchia (e non dimentichiamo la posizione geografica di Tabriz), motivata anche da ragioni climatiche. Le decorazioni parietali interne sono molto eleganti e originali, trovando riscontri stilistici importanti nei contemporanei tappeti (si veda il capitolo relativo); la sala di preghiera ha mattonelle di un blu oltremare intenso, ravvivate da motivi in oro. Indubbiamente l’atmosfera
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41-43. Il complesso funerario di Shaykh Safi al-Din ad Ardabil (Iran), veduta dell’insieme e particolari.
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stato persiano108. Troppo impegnato nelle attività di conquista, rafforzamento e organizzazione del potere, non si ricordano realizzazioni importanti dovute alla committenza di Shah Isma‘il nel campo dell’architettura. Del successore Shah Tahmasp e del suo lungo regno (1524-1576), ricordiamo un gruppo di moschee nella zona di Maragha109, caratterizzate da struttura ipostila sostenuta da colonne lignee con capitelli a muqarnas dipinti con motivi soprattutto floreali.
raccolta di questa moschea con le sue decorazioni (verde, blu e oro sono anche agli inizi del Quattrocento a Bursa – e mattonelle blu e bianche nella Muradiye di Edirne [1435] – sempre a firma di artigiani tabrizeni, come di Tabriz era l’architetto della moschea di Sultan Selim a Costantinopoli), discrete eppure spettacolari, è qualcosa di unico e costituisce una splendida introduzione ai fasti dell’epoca safavide.
I Safavidi Nel 1501 sale al potere in Iran il quattordicenne Shah Isma‘il i (1487-1524), individuo dotato di straordinario carisma, che creò un vasto dominio e si batté soprattutto in opposizione all’aggressiva azione dei Turchi Ottomani, non disdegnando la possibilità di un’alleanza con gli stati europei: ricevette inviati di Luigi ii d’Ungheria e di Carlo v, oltre a messi veneziani fra i quali era conosciuto come il Sofì107; proclamò la shi‘a duodecimana religione ufficiale dello
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44. La grande piazza voluta da Shah ‘Abbas a Isfahan e, sullo sfondo, la moschea che porta il suo nome.
All’inizio del Seicento è da datare la piazza di Kirman voluta dal governatore Ganj ‘Ali Khan110 che può essere servita da modello per la rivoluzione urbanistica di Isfahan voluta da Shah ‘Abbas i (1588-1629), che vi trasferì la capitale dell’impero nel 1597111. Egli, assecondato dai suoi architetti, concepì una radicale trasformazione della realtà urbana112 che doveva amalgamare e far convivere almeno quattro diversi gruppi etnici e culturali: un nucleo antico (più o meno corrispondente alla città medievale in un quadrante di nord-est; avendo come riferimento e asse portante il fiume Zayanda-Rud), costituito dalle comunità musulmane di più antico insediamento; un settore nord-occidentale denominato Tabrizabad (a ricordare la vecchia capitale, nome preferito a quello imposto dal re di Abbasabad), con immigrati provenienti dall’Azerbaigian (prevalentemente di origine e lingua turca), musulmani, ma con una minoranza di cristiani (siriani e georgiani i gruppi più numerosi); gli Armeni, deportati in massa e con enormi sofferenze da Julfa sull’Arasse, ebbero il loro quartiere, chiamato Nuova Julfa113, nell’area di sud-ovest; l’ultima comunità, i gabri o kafir (infedeli, ovvero zoroastriani), doveva risiedere nel quartiere di sud-est. L’Isfahan di Shah ‘Abbas era una grande città e vi era anche un’importante comunità ebraica (gli eredi di quella Yahudiyya su cui, abbiamo visto, era stata fondata la Masjid-i Jum‘a), ma erano presenti anche europei e indiani di fede induista, provenienti in gran parte dal Gujarat. Per attuare questo suo progetto, Shah ‘Abbas operò soprattutto in due modi: con la crea zione di una grande piazza114 e con un nuovo asse viario e di giardini, il Chahar Bagh, che raggiungeva un ponte, traversava il fiume e proseguiva. I due progetti erano legati fra loro da una vastissima zona, principalmente verde, in cui erano concentrati gli edifici della corte imperiale. La grande piazza (500 m di lunghezza per 150 di larghezza) è il nuovo fulcro della città. Vi sorgono quattro monumenti, quale la grande moschea di Shah ‘Abbas sul fondo della piazza (1612-1637)115, che fronteggia sul lato opposto il portale monumentale di accesso al bazar su cui doveva affacciarsi un talar (grande terrazza porticata) panoramico; su questo venivano portati, dopo un percorso di vicoli e parti di un bazar se non tortuoso abbastanza stretto, i visitatori illustri per godere del formidabile colpo d’occhio della piazza come una inaspettata visione scenografica. A interrompere i lati lunghi, ma non a metà, bensì più in basso, con la prospettiva di creare uno “schiacciamento” illusionistico e una lontananza apparentemente ancora maggiore (una sorta di effetto “teleobiettivo”), sono due edifici l’uno di fronte all’altro: la moschea palatina di Shaykh Lutfallah e il padiglione/portale/talar di ‘Ali Qapu. I monumenti sono uniti fra loro da una serie di ambienti su due piani con nicchioni rientranti su entrambi gli ordini, adibiti ad attività artigianali e commerciali. La piazza aveva un doppio utilizzo: mercato in alcuni giorni e teatro di giochi di abilità a cavallo (come quello del polo di cui, ancora oggi, sono visibili in situ le “porte”), e una sorta di Campo di Marte atto alle sfilate di truppe e ad altre attività osservate dal sovrano e dai suoi ospiti dal talar di ‘Ali Qapu116. Quest’ultima è probabilmente la struttura più interessante (anche se probabilmente esistevano antecedenti timuridi) anche in virtù di una molteplicità di funzioni, e introduceva
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ai grandi giardini reali connessi con il Chahar Bagh. Questo era un grandissimo parco, lungo quasi un chilometro e mezzo, con otto filari di platani, concepito anche come asse viario (oggi, a parte il viale centrale ancora alberato, vi sono due doppie corsie per automobili), con spazi verdi, fontane e canali d’acqua. Curiosamente un giorno alla settimana questa passeggiata (dal padiglione reale di Chihil Sotun fino al fiume e oltre) era riservata alle donne. Nella grande piazza, la prima struttura costruita fu la moschea di Shaykh Luftallah (1617)117, un oratorio privato della corte, e come tale privo di cortile e minareto. Per rispettare l’asse viario su cui era destinata a sorgere la piazza, l’orientamento del pishtaq di accesso (decorato con uno splendido mosaico ceramico, così come la cupola, questa in delicate sfumature nocciola con l’inserzione di arabeschi in bianco e tocchi di turchese che le hanno guadagnato l’appellativo di “la cremosa”) differisce da quello della sala di preghiera. Appena entrati, un muro obliquo sulla destra obbliga a percorrere un corridoio che svolta a gomito a 90 gradi e conduce alla porta di accesso di fronte al mihrab della sala quadrata con copertura a cupola. La decorazione, interamente in mosaico ceramico, è splendida, con otto grandi arconi esaltati da semicolonne
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45-46. Il palazzo di ‘Ali Qapu e particolari della decorazione, inizi del xvii secolo.
tortili in un brillante color turchese. In basso sono pannelli arabescati con motivi apicati verdi, semimedaglioni bianchi su sfondo blu scuro e motivi in giallo. Perfette sono le calligrafie in stile thuluth bianco su sfondo blu. La cupola è un miracolo di equilibrio, e se si ha la sensazione di un disegno familiare è perché effettivamente, in moltissimi tappeti persiani con medaglione, è stato riprodotto tale motivo. Al centro vi è una complessa forma stellare a base ottagonale che si allarga a formare una stella a sedici e poi a trentadue punte, da cui hanno origine altrettanti pendenti a goccia sfalsati, che vanno a diventare più grandi dal centro verso la periferia. La Moschea dello Shah, voluta da ‘Abbas e fatta costruire fra il 1612 e il 1637118, è certamente l’edificio più impegnativo dal punto di vista formale e strutturale che il genio dell’imperatore abbia richiesto agli architetti. Si apre sul fondo a sud della piazza con un “invito” che conduce al bellissimo pishtaq a muqarnas e due minareti laterali, con mosaico ceramico di qualità sopraffina. Il diverso allineamento della piazza rispetto alla direzione di preghiera ha imposto agli architetti (come già nel Shaykh Lutfallah) di far compiere una rotazione all’intero edificio, che ha una classica pianta a quattro ivan assiali. Con l’ivan Nord e i passaggi laterali
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che lo circondano, questa difficile sfida è abilmente risolta, tanto è vero che lo spostamento avviene in modo quasi impercettibile. La moschea è molto grande e l’ivan Sud (anch’esso con due minareti laterali) precede la cupola bulbosa, mentre ai lati della sala col mihrab sono due ulteriori cortili aperti e una madrasa. L’intera superficie di questo monumento è coperta di ceramiche, in questo caso mattonelle, che compongono intricati pannelli floreali di grandissima suggestione visiva. Se con la Masjid-i Jum‘a di Isfahan si tocca la perfezione formale a livello di struttura e pulizia di linee, con la moschea dello Shah si compie la scelta, altrettanto felice, di far prevalere il colore, e la luce che si diffonde sugli smalti colorati crea un’atmosfera di sospensione e attesa tutt’affatto particolare. Di ‘Ali Qapu119 abbiamo descritto la posizione e l’uso “pubblico” del talar sostenuto da alte colonne lignee con capitelli a muqarnas (una caratteristica che rimanda a Maragha, ma anche – volendo – alle antichissime apadana achemenidi) e la natura “mista”; portale di accesso ai giardini regali120 e palazzo/padiglione ornato con splendide pitture121 e con una “stanza della musica” con pareti sagomate in gesso dipinto molto simili a quelle della Chini Khana di Ardabil. Abbiamo già scritto che dietro ‘Ali Qapu si apriva una vastissima area verde – un po’ sul modello dei parchi di Samarcanda all’epoca di Timur, come li conosciamo dalle descrizioni del già citato Clavijo122 – comprendenti al suo interno padiglioni, vasche e canali, sale e altre strutture come l’harem, magazzini, biblioteche, cucine e laboratori: insomma, una piccola (e nemmeno tanto) città nella città123. Il più famoso e celebrato di tali padiglioni – probabilmente costruito da Shah ‘Abbas ii (1642-1666) – va sotto il nome di Chihil Sutun (40 colonne)124, nome dovuto al fatto che davanti all’edificio (che ha un portico con venti altissime colonne lignee con capitello a muqarnas) vi è un bacino d’acqua nel quale le colonne si rispecchiano,
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47. La moschea dello Shah ‘Abbas a Isfahan, particolare del vestibolo e, sullo sfondo, il pishtaq a muqarnas con i due minareti laterali.
48. La moschea dello Shah ‘Abbas a Isfahan, veduta di un interno riccamente decorato da mattonelle colorate.
50. Il padiglione detto “delle quaranta colonne”, Chihil Sutun, a Isfahan. Il nome deriva dal fatto che le venti colonne del porticato principale si specchiano nell’ampia vasca prospiciente il palazzo.
A fronte: 49. La moschea dello Shah ‘Abbas a Isfahan, 1612-37, particolare della decorazione in mattonelle.
creando così l’illusione del raddoppio. I giochi d’acqua, le fontane, i canali sono caratteristiche portanti dell’architettura safavide; a Chihil Sutun s’è data un’integrazione notevole fra spazi esterni e interni, incentrati su una grande sala rettangolare (tripartita in copertura con tre cupole) e ambienti di raccordo. L’accesso è garantito da uno spazio quadrato con un bel soffitto a specchi (non è escluso che si tratti di materiale fatto venire da Venezia), mentre le pareti ospitano una serie di rappresentazioni floreali, ma anche personaggi vestiti all’europea, forse olandesi o portoghesi. Padiglioni di questo tipo dovevano essere disseminati un po’ ovunque e non solo a Isfahan. In questa città, capitale storica, orgogliosa della propria bellezza (Isfahan nisf-i jahan; “Isfahan è la metà del mondo”) si segnala un altro palazzo/padiglione, quello di Hasht Bihisht (“Gli Otto Paradisi”, xvii-xviii secolo), a pianta centrale con quattro piccoli ivan che portano all’esterno (è il padiglione che più si avvicina alla contemporanea architettura dell’India moghul), con una bella decorazione di mattonelle ceramiche nei frontoni degli archi125. Tornando alla Piazza Reale, il quarto “segno” è il portale di accesso al vasto – e ben conservato – bazar coperto che, attraverso un articolato percorso di un paio di chilometri (costellato da madrase, moschee, bagni ma soprattutto caravanserragli), giunge alla Moschea del venerdì. Purtroppo le moderne esigenze di viabilità automobilistica hanno operato un taglio (quasi uno sventramento),nei pressi della moschea, con l’apertura, una cinquantina di anni fa, di una grande strada, interrompendo la preziosa continuità del percorso.
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In una città caratterizzata dalla presenza di un fiume importante, lo Zayanda-Rud, i ponti sono fondamentali non solo come opere d’uso, ma perché attraverso essi si dispiegò compiutamente il progetto urbanistico di Shah ‘Abbas. Il più antico è il Si-o-se Pol (ponte delle trentatré arcate), già di fondazione sasanide, utile anche per irreggimentare le acque, ma il più particolare è indubbiamente il Pol-i Khwaju (epoca di Shah ‘Abbas ii, metà del xvii secolo)126. Questo è disposto su due piani, con quello superiore destinato a carreggiata con un percorso per pedoni, voltato, piccoli ivan in serie regolare che si affacciano sull’acqua, e anche grandi padiglioni adatti a una sosta più prolungata. Il piano inferiore, a livello dell’acqua, permette il controllo del flusso della medesima attraverso paratie e si compone di una serie di scalinate a gradini (separati fra loro da canali) che permettono alle persone una benefica e rinfrescante sosta. Una concezione di grande modernità, soprattutto in virtù dei due piani, che assimila il Pol-i Khwaju ai grandi ponti italiani, come il Ponte Vecchio a Firenze o quello di Rialto a Venezia. La genialità di Shah ‘Abbas i è desumibile anche da un altro suo intervento effettuato nelle campagne intorno alla capitale, con la costruzione di centinaia, se non migliaia, di imponenti Borj-i Kabutar (letteralmente, Torri dei piccioni o piccionaie)127, eleganti e strutturalmente complessi edifici che potevano ospitare e proteggere centinaia di uccelli ciascuno, il cui guano raccolto (i piccioni, nell’Islam, non si mangiano) veniva usato come fertilizzante, in particolare
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51. Isfahan, padiglione di Chihil Sutun. La volta a muqarnas con mosaico di specchio dell’ambiente di accesso alla sala di ricevimento.
52. Chihil Sutun, parete dell’ambiente di accesso alla sala di ricevimento con specchiature e mosaici di specchi. I materiali furono importati da Venezia e i frammenti conseguenti le rotture avvenute durante il lungo viaggio, vennero recuperati per fare i mosaici.
Nella doppia pagina seguente: 53. Il ponte Pol-i Khwaju a Isfahan.
nella coltivazione dei meloni. Lo Shah faceva costruire tali edifici a spese dello stato, e questi venivano poi dati in concessione pluriennale, con il risultato di un notevole incremento delle entrate fiscali. Shah ‘Abbas si fece anche promotore di modifiche ed espansione di due delle “città sante” iraniane: Qom (che il viaggiatore veneziano Contarini ribattezza curiosamente Como!) e Mashhad, con lo scopo di lanciare una sorta di turismo religioso interno, in opposizione a quello ufficiale a Mecca (e per gli Sciiti a Karbala e Najaf), tutti luoghi che erano sotto il controllo ottomano128. Da ricordare, infine, che in quest’epoca furono costruiti fra i più grandi e importanti giardini persiani129, e in particolare furono safavidi le costruzioni reali di Ashraf e Farahabad130. Non sono molto numerose le strutture civili non regali di cui abbiamo testimonianza, e fra queste la casa safavide scoperta a Nayin non molti anni or sono131 spicca per buono stato di conservazione e originalità. La disposizione degli ambienti è attorno a una corte centrale con numerosi vani, alcuni dei quali hanno decorazioni parietali dipinte, fra cui, molto significativi, medaglioni con draghi e fenici alla cinese, e scene con personaggi alati, alberi e giardini con una iconografia che ricorda molto da vicino la contemporanea miniatura. Con il periodo safavide e la stupenda Isfahan si può considerare conclusa un’epoca ricchissima di opere importanti e una stagione felice per l’arte persiana.
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Illusione e realtà: la decorazione architettonica
1. Pannello decorativo in stucco da Nishapur, Iran, x secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
Accanto alle fasi salienti delle grandi realizzazioni edili è importante tracciare un profilo delle decorazioni architettoniche, un settore nel quale l’Iran è terra d’avanguardia, potendo vantare, nel periodo islamico, soluzioni diverse e originali che molto più che altrove ne caratterizzano lo sviluppo. Sebbene una distinzione fra regioni votate all’impiego della pietra (Grande Siria e bacino Orientale del Mediterraneo, Egitto, limitatamente a Cairo) e altre più legate alla terra, cruda, con i mattoni di fango cotti al sole (adobe o pisé) e con i mattoni cotti (Mesopotamia e Iran), sia valida e rispondente alla realtà fattuale, più difficile è immaginare o sostenere che tali differenziazioni siano anche di attitudine religiosa (il “solito” contrasto sunniti/sciiti), sensazione ingenerata da una falsa prospettiva storica. Anche gli Omayyadi (656-750) erano discreti costruttori i quali, in ogni caso, privi di una solida cultura materiale architettonica ben si adattarono nelle conquiste alle usanze locali, bizantine o sasanidi che fossero. Il dato incontrovertibile che balza agli occhi è quello della continuità reinterpretata. Iran compreso. Le vicende di Susa (che è stata scavata solo in minima parte), o quelle di Pasargade o Persepoli e zone limitrofe, evidenziano bene come le strutture architettoniche fossero complesse e ben articolate. Certo vi erano pavimenti in pietra (di insuperata bellezza quelli di Pasargade, con le lastre perfettamente lisciate, anzi levigate, squadrate e allineate), e plinti, colonne e capitelli nello stesso materiale, ma anche legno per le trabeazioni e mattone crudo per i muri perimetrali, senza dimenticare i materiali tessili, più o meno pesanti, di copertura. Poca architettura sasanide ci resta; ma se pensiamo a uno dei più celebri dei monumenti, l’ivan di Ctesifonte (Cosroe ii, 591-628), non possiamo non rimanere impressionati da quel miracolo architettonico (26 metri di luce e 31 di altezza), interamente in mattoni cotti e senza centina portante. Miracolo principalmente dovuto a una malta gessosa e a presa rapida di ottima qualità. Diverse sono in Iran le strutture di Firuzabad con il Palazzo di Ardashir e il Qale-i Dokhtar (iii secolo d.C.), con muri a riempimento a sacco, oppure di Bishapur, fino al sasanide o proto islamico padiglione di Sarvestan. Ognuno di questi edifici nella sua individualità racconta molto e la capacità di tirar su cupole straordinarie è di certo una delle prerogative che fanno, anche nella successiva epoca islamica, dell’architettura d’Iran un modello da studiare. Va da sé che poco ci resta sul piano decorativo. Però all’estremo Nord dell’attuale confine iraniano con il Turkmenistan l’ancora poco noto complesso templare
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sasanide di Bandian (v secolo d.C.) (nei sobborghi della cittadina di Dargaz) presenta sulle pareti uno straordinario ciclo decorativo in stucco, forse il più esteso e intatto – oltre che importante – di tutto l’Iran1. I soggetti raffigurati sono presumibilmente (solo la parte inferiore di una grande zoccolatura si è conservata) scene di caccia, di guerra e personaggi stanti nei pressi di un altare (fra i quali sta un personaggio femminile, Anahita?, che versa acqua), il tutto scolpito con estrema cura. La continuità con l’arte dei Sasanidi è ben attestata dai pannelli in stucco del palazzetto (di datazione incerta, ma probabilmente protoislamico) di Chal Tarkhan-Eshqabad (Rayy)2, fra i quali figura anche la scena della classica caccia all’onagro di Re Bahram Gur (al Museo Iran Bastan, Tehran), ben prima che l’episodio divenisse celebrato nelle opere di Firdusi e Nizami3. Fra i siti più interessanti, in virtù degli estesi scavi del secolo scorso, figura Nishapur4 e la sua architettura. Nonostante una solida tradizione letteraria asserisca l’origine sasanide della città (e questo, in verità, è comune a molte altre località persiane, e non possiamo che considerarlo logico…), le approfondite ricognizioni archeologiche non hanno trovato traccia di quella fase; ma questo può essere semplicemente fortuito, soprattutto in un’area sì geograficamente strategica ma anche flagellata da frequenti terremoti, che hanno costretto le popolazioni a numerose ricostruzioni più o meno limitrofe. La grande epoca di Nishapur fu quella fra il x e il xii secolo e fu bruscamente interrotta dall’invasione mongola (1221) dalla quale la città non si riprese mai del tutto; sorte che la accomuna a Rayy5, ma anche ad altre città, non solo a quelle del Khorasan, le più esposte, trovandosi lungo l’itinerario che dalle steppe d’Asia portava a Occidente. Negli scavi del centro abitato di Nishapur è stata riscontrata una presenza notevole di pannelli in stucco di ottima consistenza, talvolta dipinti in policromia e con disegni modulari continui e ripetuti, dai motivi prevalentemente geometrici astratti e di arabeschi; sono frequenti anche frammenti di iscrizioni in cotto. Sulle pareti intonacate si trovavano anche pitture a tempera; i soggetti sono anche animali e non mancano volti umani oltre a una pregevole rappresentazione di caccia (ix secolo). Dalla tape di Sabz Pushan vengono dei frammenti di sguincio architettonico a semplice muqarnas (tipico elemento architettonico a nicchia sagomata anche con più alveoli), in gesso bianco dipinto in policromia e col motivo di vasi fioriti. Fra i siti da segnalare per le loro decorazioni architettoniche vi è indubbiamente Ghazni (col palazzo di Masud iii, inizi del xii secolo, scavato da una missione archeologica italiana a metà del secolo scorso) con la sua eccezionale zoccolatu-
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2. Parte di un fregio calligrafico in terracotta da Nishapur, Iran, xi secolo. La scritta dice: “La sovranità appartiene a Dio”. Metropolitan Museum of Art, New York.
3. Pannello decorativo in stucco dipinto da Nishapur, Iran, ix secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
ra in pannelli di marmo, alcuni dei quali sono conservati al Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma6. Sono stati studiati e catalogati abbastanza recentemente anche parte delle decorazioni in stucco e mattone cotto, oltre a una tipologia di piccole mattonelle quadrate smaltate con una vivace monocromia e il motivo centrale di un animale a rilievo7. Parimenti in Afghanistan sono i resti del Palazzo di Laskhari Bazar (ovvero Bust), probabilmente attribuibile al ghaznavide Mahmud (998-1030), studiato dalla missione archeologica francese8, e le interessanti pitture murali della sala principale (delle udienze o del trono) con una serie di personaggi stanti allineati in fila prospettica col volto nimbato posto di tre quarti e i piedi di profilo. Molto probabilmente, date le ricche vesti e acconciature di stampo centroasiatico comparabili a quelle di Afrasiyab/Samarcanda (vii sec. d.C.), i personaggi sono una sorta di guardia d’onore del sovrano. Un famoso pannello di stucco9 scavato nei pressi di Rayy alla fine degli anni ’20 del Novecento (ora al Philadelphia Museum of Art), e sulla cui autenticità si è a lungo discusso (sorte analoga ai tessuti rinvenuti nella stessa campagna), presenta la scena di un sovrano (Tughril iii, 1176-1194) assiso sul trono e una serie di attendenti su un bellissimo sfondo con pannelli floreali astratti stellari ottagonali alternati ad altri cruciformi (come anche a Siraf v. infra; un “classico” anche della decorazione parietale ceramica a mattonelle), databile alla seconda metà del xii secolo. Potrebbe forse essere considerata la trasposizione in materiale diverso, più elaborato e costoso, delle pitture murali con scene di corte. Le pitture murali, soprattutto se non strettamente figurative, ovvero decorative, non dovevano costituire un’eccezione, almeno stando alle fonti letterarie, sebbene i riscontri in materia
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4. Frammento decorativo in marmo da Ghazni, Afghanistan, xii secolo. Linden-Museum, Stuttgart. 5. Decorazione parietale in marmo, da Dargaz (Khorasan), sito di Bandiyan, di epoca sasanide.
siano assai limitati. Quello che invece è possibile documentare abbastanza bene è lo sviluppo della decorazione in stucco degli interni – e talvolta, ma un po’ più raramente – anche degli esterni degli edifici. A Isfahan gli scavi italiani degli anni ’70 hanno messo in luce il muro qibli (con tracce del mihrab) della prima Moschea del Venerdì (772 d.C.; ved. Cap. architettura), ornato con pannelli in stucco alti circa un cubito (50 cm.) e con un repertorio floreale più simile ad esempi omayyadi (pensiamo agli scuri/portelloni di al-Aqsa a Gerusalemme, 715, ora nel locale Museo Archeologico Rockfeller), che non ai celeberrimi stucchi di Samarra. Mattone crudo, ma anche mattone cotto, si integrano perfettamente con le decorazioni in stucco10, il che non si potrebbe sostenere delle strutture in pietra, e questa è una delle ragioni della così ampia diffusione nelle regioni iraniche di questo materiale estremamente duttile e adattabile, che, opportunamente colorato (blu, rosso, [rosa], giallo e molto spesso oro), offriva soluzioni tecniche e artistiche di primo livello. Intorno al 960 è databile la Moschea Congregazionale di Nayin, nell’Iran centrale, nella quale si dipana una decorazione interna muraria in stucco che non si limita al punto divenuto focale della nicchia qibli, il mihrab, ma che si estende alla parete circostante, agli intradossi degli archi e anche alle colonne. Pure a Yazd stucchi analoghi ornavano una moschea (ora distrutta), ma documentata nel monumentale lavoro A Survey of Persian Art (a cura di A.U. Pope e Ph. Ackermann; 1938). Gli scavi di Siraf11, nel Golfo Persico, hanno anch’essi trovato frammenti di stucco provenienti dalla ricognizione nella Grande Moschea Congregazionale (ix-x secolo), a ulteriore conferma che questo materiale venne impiegato con successo sin dalle prime fasi del nuovo corso islamico. Il repertorio è insieme geometrico e floreale con foglie di vite entro una cornice di perline forate (così anche molti tessuti, eredi della tradizione sasanide e bizantina), e anche – in una casa databile agli inizi del secolo xi – un pannello con esagoni e stelle a sei punte. Interessanti sono i resti della moschea di Mashhad-i Misriyan (già Dihistan in Turkmenistan), datata al 1108, documentata da una missione archeologica sovietica, con il mihrab ornato da stucchi.
L’architettura in mattone cotto L’architettura in mattone crudo (adobe o pisé) ha continuato a essere praticata come prevalente fino ad almeno il x secolo: il che non vuol dire che sia poi stata del tutto abbandonata. Lungo la via carovaniera fra Tehran e Isfahan, soppiantata adesso da una modernissima autostrada, fino a una quarantina d’anni fa non era raro imbattersi nei resti di articolati caravanserragli ottocenteschi, ben costruiti, i quali sono poi andati rapidamente deteriorandosi in mancanza di un’adeguata manutenzione, consistente nel rifacimento dell’intonacatura in caghel (fango abbastanza liquido, argilla e molta paglia). Il mattone cotto è attestato da sempre ma già nel ix-x secolo sembra prevalere anche in virtù di una malta con alta percentuale di gesso: quella che oggi chiameremmo “a presa rapida”, in grado di permettere agli abilissimi mastri murari passaggi tecnici arditi, spesso autoportanti, e notevole solidità di impianto. Trattandosi di materiali piuttosto costosi – soprattutto se paragonati ai mattoni crudi, mai disprezzati per la loro economicità, superiore capacità isolante e flessibilità in aree altamente sismiche – è normale che le architetture in cotto fossero quelle d’uso pubblico più importanti: moschee, mausolei, caravanserragli regali, ma pure hammam e ponti. Il mausoleo cosiddetto di Isma’il il Samanide a Bukhara12 (inizi del x secolo; certamente pre 943) è uno dei primi monumenti
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funerari islamici (poco conta la contrarietà espressa dal Profeta per sepolture “importanti”; il dettato fu presto ignorato e lo è ancora se si pensa allo “Holy Shrine” dell’ayatollah Khomeini a sud di Tehran), e ci consente qualche considerazione13. Architettonicamente e per planimetria – dentro e fuori – può anche avere qualche relazione con i templi del fuoco zoroastriani, ma la tessitura decorativa in mattone cotto è assolutamente originale. Paragoni ce ne sarebbero anche, ma sono davvero troppo lontani (come il complesso di Ukhaydir in Iraq [775-76 ca.], e certamente quello che vediamo è frutto di un uso sapiente – non improvvisato – di una tecnica; punto di arrivo e di partenza al contempo, come avviene a pochi altri monumenti [si parva licet… Haya Sofia]); ci si riferisce all’uso decorativo del mattone cotto, anche opportunamente sagomato, per esempio con profili stondati. Tutto il periodo fra il x secolo e la fine del xii, e in particolare l’epoca Selgiuchide (in Iran 1040-1194), è caratterizzato da una splendida decorazione architettonica (talvolta, negli interni, felicemente associata – come s’è detto – a lavori in stucco), solo con mattoni faccia vista14. Sulle pareti esterne, ma talvolta anche negli interni, i mattoni sono sagomati in modo tale da lasciare fra l’uno e l’altro un vuoto quadrato che era riempito con malta e poi punzonato con un semplice sigillo impresso. Ovviamente questo poteva avvenire a intervalli regolari, oppure secondo uno schema predisposto, con l’esito finale di creare delle semplici composizioni epigrafiche, spesso ripetute: Allah, Muhammad, ‘Ali sono i più frequentemente impiegati. Una disamina anche superficiale delle decorazioni selgiuchidi in mattone cotto non rientra nei nostri scopi, anche se il repertorio visivo che ne deriverebbe sarebbe molto, molto importante e di certo comporterebbe la possibilità di qualche passo avanti nella conoscenza critica. Decorazioni di ottimo livello sono anche quelle del mausoleo di ‘Arab ‘Ata a Tim (nella regione di Samarcanda, Uzbekistan), datato 977-78, e quelle del caravanserraglio di Ribat-i Malik (sulla carovaniera fra Bukhara e Samarcanda), 107815. Nell’estremo oriente dell’attuale Iran, al confine col Turkmenistan, e lungo una delle direttrici commerciali più importanti dell’epoca medievale16 fra est e ovest (Merv-Mashhad, ma anche a sud verso Zahedan, volendo anche Herat, e a nord in direzione di Charjew dove è situato un altro importante caravanserraglio, quello di Akcha-Kala, xii secolo), è situato, oggi praticamente nel nulla, il sito di Ribat-i Sharaf17, degli inizi del Millecento, ma restaurato a metà del xii secolo (1154) per volere del sultano selgiuchide Sanjar (1085-1157; regnò fra il 1118 e l’anno della morte). La complessità delle decorazioni di questo edificio, nel combinato equilibratissimo fra disposizione geometrica dei mattoni (anche in funzione strutturale), sigilli parietali e stucchi (mihrab), ne fa non solo un luogo affascinante ma anche, in virtù di una delle prime planimetrie a quattro ivan, un capisaldo nella storia dell’architettura islamica dell’Iran. Lo stesso sultano Sanjar del resto volle per sé un mausoleo18 nella capitale Merv (datato all’epoca della scomparsa del medesimo, 1157), massiccio e con consistenti lavori di restauro che hanno rivelato, per esempio nelle finestre della galleria esterna, la presenza di ornati in stucco. Tutta l’epoca selgiuchide è costellata da monumenti con pregevoli decorazioni in cotto a faccia vista19; le due torri funerarie di Kharraqan20 (Iran, nella pianura fra Qazvin e Soltaniyya) presentano un’architettura con influenze turche, e una sapienza decorativa davvero superba nel padroneggiare il repertorio geometrico. La datazione è al 1067 e al 1093; colpisce anche la circostanza del loro isolamento, non essendoci nei pressi nessun villaggio o centro urbano. Il connubio fra mattone cotto e stucchi si rivela ovunque particolarmente felice; è quanto meno da citare il Davazdah Imam di Yazd (1037).
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6. Ribat-i Sharaf (Khorasan), 1154. Piccolo mihrab con decorazione a girali floreali e iscrizione in stile cufico su sfondo floreale (cornice) e aste intrecciate con nodi senza fine, sempre su sfondo floreale, nella trabeazione.
Dai Selgiuchidi ai Mongoli A Maraghah21 (Iran occidentale) la Gonbad-i Sorkh (1148) ha nel piccolo portaletto di accesso una novità: l’inserzione di mattoni smaltati in monocromia turchese, confermata nella stessa città nella Gonbad-i Qabud (1196), nella quale, oltre a una decorazione in cotto con due griglie di motivi geometrici sovrapposti (di semplice concezione, forse, ma comunque di eccezionale esito artistico), l’inserzione di mattoni smaltati, sempre in turchese, si fa decisamente più precisa e programmata, coinvolgendo tutta la parte superiore del mausoleo22. Così sono ornate le nicchie a muqarnas piatta, e i soprarchi di ciascuno degli otto lati dell’edificio, oltre alla fascia iscritta e alle muqarnas aggettanti di copertura. Agli inizi del xiii secolo l’Iran fu sconquassato dall’invasione dei Mongoli Ilkhanidi e si assistette a una stasi politica e
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dunque anche artistica e architettonica. I Mongoli sono artefici di continuità e accelerazione nell’innovazione. La continuità è nell’uso del mattone cotto e dei sigilli di “interpunzione”, come abbiamo visto nel periodo precedente; viene anche naturale l’evoluzione successiva con la sostituzione dei sigilli con cubetti, ovvero tasselli, con una faccia smaltata, e conseguente decorazione, spesso a carattere geometrico o epigrafico (già nel soffitto dell’ivan Sud della Moschea del Venerdì di Isfahan)23. La tecnica del lustro metallico (per la quale e anche per le altre qui menzionate si veda il capitolo sulle ceramiche) venne estensivamente applicata ai rivestimenti parietali degli interni dei mausolei e anche ad altre strutture, nel periodo a cavallo fra il xii e il xiii secolo. Non si tratta di una produzione qualitativamente omogenea e il repertorio artistico è piuttosto ampio. Una delle tipologie più impiegate è quella della mattonella a forma stellare (in genere ottagonale) intercalata con altre cruciformi (con i quattro bracci appuntiti), esattamente dello stesso tipo che compare anche nei pannelli di stucco. Come s’è accennato, il repertorio è piuttosto vario ed è doveroso segnalare come non compaiano solo motivi geometrici o floreali, ma anche rappresentazioni umane figurative di varia natura. Molto spesso, ma non è una regola sempre rispettata, tali mattonelle presentano una cornice esterna con un’epigrafia che sovente è coranica, oppure ispirata a un contenuto religioso. Brani poetici paiono più rari. La scrittura è quasi sempre in un corsivo piuttosto frettoloso, non privo di errori. Il principale centro produttivo di mattonelle nella fase medievale in Iran è certamente Kashan24, anche se ancora troppo poco conosciamo rispetto a tali officine; per certo le fornaci dovevano essere sparse un po’ ovunque sul territorio. I principali musei del mondo ospitano importanti collezioni di mattonelle iraniche25; le forme e le decorazioni erano fra loro molto diverse e senza dubbio dobbiamo ritenere questi materiali dei grandi prodotti artistici per la cura del dettaglio, ma
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7. Veduta panoramica del sito di Takht-i Sulayman, Iran occidentale. Cinta muraria d’epoca sasanide e resti delle strutture Ilkhanidi di Abaqa Khan della fine del xiii secolo.
8. Mattonella eseguita a stampo a rilievo e decorata in blu e turchese sotto l’invetriatura e a lustro metallico con una fenice in volo ripresa dal repertorio cinese. Da Takht-i Sulayman, Iran occidentale, fine del xiii secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
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industriali (magari non di massa) per la quantità. Già agli inizi del xiii secolo troviamo attestata la fabbricazione di interi mihrab eseguiti con la tecnica del lustro metallico. Uno dei più imponenti (ma ce ne sono parecchi) e meglio conservati è ai Musei di Berlino ed è datato al 1226, provenendo da Kashan. Le singole parti venivano decorate e cotte separatamente e poi assemblate fra loro. Sono opere di grandi dimensioni e molto impegnative sia sotto il profilo tecnico, sia sotto quello artistico, con un repertorio soprattutto epigrafico con sfondo di arabeschi. Nel loro genere si tratta di capolavori assoluti dell’arte ceramica. Esistono anche mihrab più piccoli, sempre a lustro metallico con parti sagomate a rilievo, divisi in due o tre sezioni poi unite fra loro. Se gli esterni di moschee, madrase e mausolei presentavano le caratteristiche decorative alle quali abbiamo accennato, gli interni erano ornati con mattonelle a lustro, monocrome a rilievo (blu cobalto o turchese), monocrome piatte, con profilatura in cotto solo parzialmente smaltato. Non mancano mattonelle nella tecnica mina’i (rare) o in quella cosiddetta lajvardina a fondo turchese o blu, in genere dorate, piatte o a rilievo. Una campionatura davvero notevole, per non dire eccezionale, in epoca Ilkhanide, di mattonelle con tecniche e decorazioni assai raffinate è quella offerta dal sito di Takht-i Sulayman26, nel quale il figlio del fondatore della dinastia Hulegu, Abaqa Khan (r. 1265-1282) fece costruire un sontuoso palazzo. In particolare va ricordato che il sovrano non si convertì all’Islam, anzi ebbe forti simpatie cristiane, a lui trasmesse dalla madre nestoriana e dalla moglie, figlia naturale di Michele viii Paleologo, e incoraggiò il sincretismo decorativo. Accanto ai classici arabeschi e motivi geometrici, il fiore di loto e di peonia, il drago e la fenice vennero mutuati (in verità in molti casi esattamente copiati) dal repertorio centroasiatico e più alla lontana cinese27. Al 1307 è datato il complesso funerario (santuario e khanqah di ‘Abd al-Samad) di Natanz28; la planimetria si presenta abbastanza complicata e la sala circolare ora inglobata nella moschea dietro l’ivan Sud mostra un’iscrizione in mattoni precedente il periodo mongolo, come si osserva facilmente dato che in quella fase nell’intradosso dell’ivan Nord l’iscrizione – invero molto fluida e bella – è in stucco e con caratteri corsivi su sfondo floreale. Ipotizziamo, dunque, che la sala circolare sia stata in un primo tempo il luogo di sepoltura dello shaykh, poi accomodato nel più lussuoso (anche in virtù di un rivestimento con mattonelle a lustro metallico) mausoleo-torre, con portale di accesso separato. In ogni modo le decorazioni di Natanz sono estremamente significative alla luce della progressiva trasformazione degli ornati da mattoni a faccia vista a decorazioni con smaltatura. In realtà, si tratta di un procedimento abbastanza semplice, almeno da un punto di vista tecnico. Venivano prodotti mattoni di varie misure (talvolta opportunamente sagomati per favorirne l’inserimento; tecnica ripresa da quella della sigillatura con punzone), smaltati su un lato e poi assemblati: lo facevano già gli Achemenidi… – un po’ come un lavoro di mosaico con tessere di misura diverse – seguendo disegni predisposti, geometrici ed epigrafici, tendenzialmente a schema aperto, ovvero riproponibile all’infinito, secondo un uso che è caratterizzante di tutta l’arte islamica. Allo stesso
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9. Natanz, complesso di ‘Abd al samad, 1307 circa. Pittura murale con la spada zulfiqar a doppia punta, tradizionalmente associata con Ali, il primo Imam sciita.
10. Pir-i Bakran a Linjan (Iran centrale), 1299-1312. Particolare del mihrab in stucco con più piani decorativi sovrapposti di palmette e iscrizioni, con labili tracce della policromia originale. 11. Pir-i Bakran a Linjan (Iran centrale), 1299-1312. Particolare di una iscrizione in stile thuluth con sfondo floreale.
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tempo, a Natanz, sono cotti separatamente anche elementi a rilievo eseguiti a stampo, non invetriati, che andavano a comporre motivi sovrapposti a girandola, i cosiddetti girih (cinque elementi geometrici che si integrano perfettamente fra loro e divengono intercambiabili). Dopo la stasi seguita dall’invasione, la fine del Duecento e il Trecento vede una straordinaria ripresa dell’attività edilizia. Un caso notevole – sia per le vicende architettoniche, sia per la ricchezza della decorazione (stucchi e mattonelle) – è quello del santuario dedicato al misterioso ed enigmatico sufi Pir-i Bakran a Linjan29 (1299-1312), nel distretto di Isfahan e già sede di un grande cimitero ebraico nel quale sarebbe seppellita la biblica Sarah, figlia di Asher e nipote di Giacobbe, la cui importanza è plausibile che i neoconvertiti Mongoli volessero ridimensionare. La profusione e varietà delle decorazioni, soprattutto in stucco (come il monumentale mihrab dipinto in policromia, uno dei più sontuosi di tutto l’Iran) e mattonelle monocrome blu e turchese, fa di questo ivan trasformato in moschea uno degli edifici più interessanti dell’epoca. Come sempre, però, è quando ci troviamo di fronte a una committenza regale che gli edifici acquistano, per struttura, mole, importanza decorativa, quella rilevanza che ne fa pietre miliari nella storia dell’architettura. È il caso della cupola di Sultaniyya30, voluta dal mongolo Oljaitu (1304-16; dopo la conversione noto anche come Muhammad Khodabandeh), il quale fece costruire l’edificio (1304 ca.-1313) nella città da lui fondata di Sultaniyya, sua nuova capitale, al centro di una grande pianura, qonqorolong, ottimo pascolo per i cavalli della sua armata, parte dei quali (fra i cento e i duecentomila…) ebbe a promettere a papa Clemente v per una nuova crociata. Secondo la tradizione il sovrano, simpatizzante sciita, avrebbe fatto costruire il mausoleo per ospitarvi le spoglie degli Imam, per poi, fattosi sunnita, rinunciarvi e trasformare l’edificio (con la sua cupola di 53 metri di altezza uno dei più imponenti di Persia, e non solo) nel proprio sepolcro. A questa non improbabile volubilità caratteriale è da imputare forse anche il cambiamento di carattere decorativo, davve-
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12. Pir-i Bakran a Linjan (Iran centrale), 1299-1312. Particolare di un pannello iscritto in cufico quadrato contenente i primi 63 fra i “Più Bei Nomi di Dio”.
13. Sultaniyya, Mausoleo di Oljaitu (1304-16). Volta della galleria superiore esterna del mausoleo con decorazione di mattoni e sigilli in stucco di varia tipologia.
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ro sontuoso e ricchissimo nella prima fase nella quale mattonelle, stucchi, parti dipinte, elementi non invetriati eseguiti a stamp, concorrono a creare una ricchezza che ha davvero pochi raffronti, e che ancora oggi abbaglia e stupisce per qualità, maestria, fantasia. E anche Oljaitu deve esserne rimasto abbagliato, se è vero che ordinò di coprire quell’immane sfarzo (del resto i suoi antenati, una generazione prima, erano inumati in “tombe segrete”) con stucco e gesso bianco, poi dipinti con tralci arabescati e iscrizioni, che gli parvero decori più consoni a una struttura funeraria! Un notevole repertorio di motivi geometrici (e stucchi) è quello che decora la galleria esterna del mausoleo (probabilmente una ripresa della tipologia di tomba di Sanjar a Merv, anche se quello era su base quadrata e questo, grosso modo, ottagonale con aggiunte), dove ancora troviamo l’uso decorativo dei sigilli e in qualche punto si è pure conservata memoria dell’antica policromia, con prevalenza del rosso. Più o meno coevo è anche il complesso funerario – molto meno imponente – ma di notevolissima, seppur difforme, qualità esornativa – del questa volta sì famoso sufi Bayazid Bastami a Bastam31 (1306-13); anche in questo caso, oltre alle iscrizioni in cotto (così come la lavorazione di semicolonne incassate), troviamo elementi non invetriati (lavorati in stampi a bassorilievo), ravvivati da cornici di splendidi intrecci geometrici, svastiche comprese, in una stupenda gradazione di intenso color turchese, quello della pervinca, avrebbe chiosato Cesare Brandi. Il potere centralizzato dei Mongoli iniziò a vacillare e frammentarsi, sotto la solita spinta delle rivalità familiari, già nel xiv secolo, ed è alla dinastia Muzaffaride che dobbiamo assegnare la ricostruzione della Moschea Congregazionale di Yazd (1324-1365), nella quale l’uso dell’inserimento dei mattoni invetriati diviene sempre più marcato e preciso (in particolare nel grande ivan e
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14. Sultaniyya, Mausoleo di Oljaitu (1304-16). Medaglione circolare in stucco con stella a cinque punte (al centro la scritta “Allah”) su una volta della galleria superiore esterna del monumento.
15-16. Complesso funerario del sufi Bayazid Bastami a Bastam (1306-13). Esempi di decorazione geometrica su due livelli: sullo sfondo in terracotta stampata e non invetriata; in primo piano in ceramica invetriata in varie tonalità di turchese.
nella sala cupolata che sovrasta il mihrab), come si osserva anche nella contemporanea madrasa annessa alla Moschea del Venerdì di Isfahan. Là muzaffaridi sono anche i pannelli che formano la zoccolatura alta dell’ivan Sud qibli, assai simili ad altri nella citata Moschea di Yazd. Uno dei problemi tecnici che si trovavano ad affrontare gli artigiani fabbricanti di mattonelle è stato quello della difficoltà di poter operare in policromia su una stessa superficie, dal momento che i diversi pigmenti derivati dagli ossidi metallici reagivano in modo differente durante la cottura. Il blu cobalto e il verde rame (che in atmosfera predisposta diventa turchese) hanno una tenuta piuttosto labile e se il calore è eccessivo – esattamente come quello necessario alla buona cottura della terracotta – tendono a spandersi a macchia e a sovrapporsi agli altri colori, come s’è ampiamente documentato nel capitolo sulle ceramiche (v. xxx). Ovviamente esistevano strumenti per intervenire; per esempio, con cotture successive (come nel mina’i, però con oneri piuttosto pesanti) e anche attraverso le invetriature, che avevano la capacità di bloccare i flussi. L’inserzione di mattoni o tessere monocrome permetteva di eseguire motivi decorativi del repertorio epigrafico oppure geometrico, ma non quei disegni dominati dalle forme floreali astratte e dagli arabeschi che sono necessariamente curvilinei e che venivano invece dipinti a tempera sulle pareti, oppure eseguiti con grandissima abilità e fantasia in stucco. Pensiamo al mihrab di inizio Trecento fatto eseguire da Oljaitu nella Moschea del Venerdì di Isfahan, indubbiamente uno dei più equilibrati – e belli – di tutta la vasta casistica iraniana. La soluzione trovata o inventata dai maestri ceramisti, e non necessariamente di Kashan (anche se i mattoni ancora oggi si chiamano kashi), fu quella di produrre
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grandi lastre monocrome che, opportunamente sagomate, potevano formare qualsiasi disegno, anche curvilineo. Il motivo, anche se non soprattutto floreale, proprio perché gli arabeschi erano parte essenziale del repertorio artistico islamico, era tracciato a terra su un cartone in negativo e le tessere, irregolari, curvilinee, sottili o larghe, erano poste a coincidere col disegno con la parte smaltata e tenute insieme da una scialbatura di gesso quale collante sul retro; questo si applicava anche a superfici non piatte, con opportuna armatura, e anche alle cupole, oppure agli intradossi degli archi e alle muqarnas32. Questa tecnica – mosaico ceramico – che coniugava grande specializzazione con una notevole e assai numerosa mano d’opera, con il Quattrocento, l’epoca della dominazione Timuride (1370-1507), dopo l’ennesimo periodo di grande turbolenza delle campagne militari di Tamerlano (1370-1405), trova ubiqua applicazione, andando via via raffinandosi. Gli esempi possibili sono davvero innumerevoli; ci limitiamo a citare due monumenti a nostro avviso emblematici. La perfetta madrasa di Ghiyat ad-Din a Khargird33 (1444), nella parte meridionale del Khorasan iranico (non molto distante da Herat, dove pure quest’arte si è esercitata al massimo livello), scelta per la felice convivenza fra la “vecchia” tipologia decorativa (mattoni smaltati in blu e turchese a formare iscrizioni o motivi geometrici) e la miniaturistica applicazione del mosaico. L’altro esempio è la cosiddetta Moschea Blu di Tabriz34 (1465), fatta erigere dal Qara Qoyunlu Shah Jahan sul finire del suo regno (più o meno vassallo di quello Timuride), nell’allora sua capitale. Anche in questo caso abbiamo un mosaico ceramico piuttosto fine, con eleganti iscrizioni e un repertorio di arabeschi floreali complesso, frutto di una lunga e lenta elaborazione, non solo in ambito decorativo architettonico, uno stile conosciuto come stile Timuride internazionale, che si basa
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17. Complesso funerario del sufi Bayazid Bastami a Bastam (1306-13). Elementi in stucco decorato con motivi floreali e geometrici a formare le muqarnas del portale di accesso monumentale al mausoleo del venerato mistico.
18-19. Dettagli della decorazione architettonica in mattonelle della moschea congregazionale di Yazd, Iran.
su una straordinaria bottega artistica (più consono dell’oggi in voga atelier), con competenze diverse nei vari settori delle arti decorative, in particolar modo le arti del libro. Non tanto i miniaturisti – che facevano abbastanza gruppo a sé stante – quanto gli esecutori delle copertine o rilegature; ma anche i tessuti, i tappeti, le pitture murali, nell’ambito di una strettissima collaborazione fra artigiani/artisti di provenienze regionali diverse, emigrati a Samarcanda e Herat e poi a Tabriz, non certo volontariamente, ma per volontà del condottiero, conscio del fatto che portare alla corte grandi artisti (ma faceva lo stesso con scienziati, poeti, filosofi …) non solo gli avrebbe dato lustro, ma avrebbe anche privato quelle terre di una intellighenzia che poteva sempre trasformarsi nel primo motore di una resistenza o di una ribellione, come la Storia ci insegna un po’ ovunque. In Asia centrale – di certo nella Timuride Samarcanda, ma ovviamente anche altrove – troviamo sviluppata la tecnica, a quanto ci risulta mai applicata a materiali ceramici d’uso, cosiddetta cuerda seca (nome iberico perché in quella terra se ne fece largo impiego, e proprio grazie a mastri vasai musulmani; uso, tuttavia non esclusivo: cuerda seca è attestata anche in Anatolia in epoca Ottomana, xv secolo), che ovviava al problema della sovrapposizione dei colori su
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20. Grata in mosaico ceramico a intrecci geometrici sulla facciata della moschea congregazionale di Yazd. 21. La splendida decorazione della camera-santuario della moschea di Yazd. La cupola è squisitamente decorata con maioliche a mosaico e l’alto mihrab, datato 1365, è uno dei migliori esempi del suo genere.
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22-23. In Iran esiste una solida tradizione di mausolei costruiti in mattone cotto a forma di torri funerarie. Ne esistono svariati già in epoca Selgiuchide, architettonicamente declinati in varie tipologie. La torre di Radkhan a Chenaran (detta anche Akhangan) nel Khorasan – da non confondersi con un’altra ominima e nella stessa regione – sorge non lontano da Mashhad e Tus. È databile al tardo xiv secolo. Su un basamento in pietra ottagonale è in mattone cotto e di forma cilindrica marcata da otto semicolonne aggettanti. Il tamburo supporta una cupola a ombrello, certamente restaurata. L’intera superficie della torre è coperta da una griglia regolare nella quale erano alloggiate mattonelle smaltate in blu e turchese con una singolare, e inedita, decorazione palmettiforme, delle quali si trovano tracce residue nel tamburo della torre.
24. Portale di accesso della Moschea Blu di Tabriz, 1465. La lavorazione in mosaico ceramico è fra le più fini e stilisticamente eleganti in questa dispendiosa tecnica.
singole mattonelle35. Con un materiale oleoso o grasso refrattario si tracciavano delle sottili linee di demarcazione fra i colori in modo da limitarne i flussi e gli “sconfinamenti”. Si era a lungo pensato che tale “margine” fosse marcato da una cordicella imbevuta di olio o grasso che con la temperatura di cottura sarebbe poi del tutto scomparsa. Caratteristiche d’Asia centrale sono anche mattoni e mattonelle sagomate in profondità (tanto da sembrare quasi scolpite) e dipinte in più colori: bianco, turchese, blu, verde, nero. Il repertorio è pressoché infinito e una visita allo Shah-i Zinda a Samarcanda (una fra le più notevoli necropoli musulmane, con edifici datati fra il xiv e il xv secolo, seppure ve ne siano di precedenti e posteriori) permette di valutare correttamente la potenzialità della tecnica e i valori artistici raggiunti nel consueto triplice repertorio: epigrafico, geometrico, floreale astratto.
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25. Interni della Moschea Blu: fino alla metà degli anni ’70 sopravvivevano solo alcuni tronconi originali privi di copertura. La cupola è un necessario intervento di restauro recente.
28. Dettaglio decorativo della necropoli di Sah-i Zinda a Samarcanda.
A fronte: 26-27. Madrasa di Ghiyat ad-Din a Khargird, 1444. L’edificio è uno dei meglio conservati nella regione del Khorasan meridionale: una grande architettura ben studiata e una straordinaria decorazione in mosaico ceramico, purtroppo in parte caduta.
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Safavidi e Qajar Il periodo successivo è quello Safavide (1501-1722), nel quale l’Iran diviene ufficialmente di confessione sciita. I mosaici ceramici hanno, per almeno un secolo, uno straordinario sviluppo, centrato soprattutto sul consueto triplice dettato decorativo: epigrafico, geometrico, floreale astratto (arabeschi). Un monumento chiave è il santuario/mausoleo di Ardabil36 nell’Iran nordoccidentale – luogo simbolo della dinastia Safavide per essere il sito di sepoltura dello shaykh Safi-ad-din Is’haq Ardabili (m. 1334), fondatore della confraternita mistica della Safaviyya, da cui poi il nome dinastico – ma anche della sepoltura di Shah Isma’il, fondatore della dinastia. Un alto pishtaq (portale monumentale) introduce a un’architettura molto articolata, classica nei suoi elementi costitutivi, e quasi perfetta nell’integrazione con la decorazione in mosaico ceramico. Possiamo qui osservare come nell’evoluzione architettonica islamica in Iran, nel giro di qualche secolo, si sia passati dalla pura forma strutturale, quella in mattone cotto (Selgiuchide, ma non solo), a quella nella quale di fatto l’architettura si fa semplice scheletro, ossatura necessaria per l’esaltazione dell’unica cosa che importa: la decorazione. Il caso più clamoroso è quello della Moschea di Shayikh Lotfollah degli inizi del ’600 nella Isfahan37 di nuovo capitale con Shah ‘Abbas (1587-1629). Il caso di Isfahan è particolarmente interessante, perché l’altro grande monumento dell’epoca d’oro di Shah ‘Abbas porta con sé un’importante novità. Si producono mattonelle in policromia. Questa è probabilmente anche una delle ragioni per le quali la Moschea è così vasta: non che il “gigantismo” non abbia avuto cittadinanza nell’Islam iranico. Ricordiamo, per esempio, l’Arg di Tabriz (1318-1339), oppure in ambito Timuride il portale di Shahr-i Sabz (1380 ca.) o la Moschea di Bibi Khanum a Samarcanda (inizi del Quattrocento). Il tentativo di produrre mattonelle policrome ha importanti antecedenti in Asia centrale, appunto con la tecnica della cuerda seca, come abbiamo già detto. Shayikh Lotfollah è un vero e proprio gioiello decorativo oltre che architettonico: nella decorazione si
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31. Particolare di pittura murale, Chihil Sutun.
A fronte: 29-30. Shayikh Lotfollah, Isfahan. Dettagli della decorazione parietale in mosaico ceramico.
alternano assai sapientemente il mosaico ceramico (per la zona del portale di accesso e per la fascia iscritta e le decorazioni parietali interne e del mihrab) e le mattonelle a cuerda seca per lo spazio o slargo di invito ricavato nei portici della grande piazza e nella zoccolatura interna. Immensa è la Grande Moschea dello Shah (superfluo segnalare che si tratta di ‘Abbas) che letteralmente troneggia sulla grande piazza. Anche in questo caso il portale di accesso è in mosaico ceramico (e incorniciato – come già nella moschea precedente – da una bellissima triplice costolatura ceramica a tortiglione spiraliforme in un vivacissimo turchese), veramente elegante e di qualità superiore. Ma lo sforzo produttivo maggiore fu indubbiamente riservato a quella che sarebbe diventata la nuova moschea Congregazionale. È difficile anche solo immaginare il cantiere della costruzione con il sovrano che insisteva per vedere l’opera completata, cosa che quasi gli riuscì, prima della morte nel 1629. Un’impresa grandiosa, proprio sul fronte decorativo, oltre che su quello strutturale. Le fornaci dovettero funzionare notte e giorno; sebbene a un’analisi attenta si possano percepire qualità diverse nella produzione, l’esito finale è superbo, dominato da un colore azzurro molto intenso, cangiante a seconda della luce, ma che nonostante le dimensioni dà sempre l’impressione della traslucenza e leggerezza di una bolla di sapone sospesa nel cielo. Interessante è poi un pannello di restauro (xviii secolo) a fondo giallo nel quale sono rappresentati anche diversi animali, secondo lo stile in voga nei margini dei manoscritti o nelle rilegature coeve; l’uso di tale repertorio in una moschea è abbastanza raro. Un altro importante monumento con buona profusione di ceramiche è la madrasa Madar-i Shah (1706-14) sempre a Isfahan sulla Chahar Bagh, l’asse viario/giardino concepito da Shah ‘Abbas e i suoi architetti per rivitalizzare l’urbanistica della città. I padiglioni regali, ‘Ali Qapu, Chihil Sutun, Hasht Bihisht (databili al xvii-xviii secolo), recano decorazioni diverse fra loro, ma tutte interessanti. ‘Ali Qapu presenta pregevoli pitture murali figurative e una cosiddetta “stanza della musica”, con nicchie e alveoli che riprendono la struttura della Chini Khane voluta da Shah ‘Abbas come aggiunta al santuario di Ardabil per ospitarvi il suo dono, la collezione di porcellane cinesi. Di Chihil Sutun si apprezzano il gusto sobrio, le pitture murali ancora una volta figurative (come miniature riprodotte su scala molto maggiore), anche esterne, fra le quali spiccano anche piacevoli quadretti di gusto e stampo europei. La soffittatura a specchi del Talar di accesso è fatta con materiali importati da Venezia, e il riutilizzo dei frammenti in un inedito mosaico di specchietti avrà una fortuna notevolissima
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33. Moschea Vakil, Shiraz (1751-1773). L’interno della sala di preghiera della moschea è caratterizzato da colonne in pietra con decorazione tortile e capitelli con foglie d’acanto stilizzate.
A fronte: 32. La navata centrale e il mihrab della Moschea Vakil sono caratterizzati da una vivace policromia (sul soprarco d’accesso anche con colori caratteristici quali il rosa e il giallo, tipici dell’epoca) con inserti di piccoli mattoni monocromi smaltati con disegni geometrici ed epigrafici.
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quale tipologia decorativa preferita nei santuari sciiti, da Qom a Mashhad, ma anche in Iraq con la Khadimiyya di Baghdad e il santuario di Najaf. Il padiglione di Hasht Bihisht ha una classica impostazione seicentesca (con forti richiami ai precedenti Timuridi): nelle strutture di copertura e nei soprarchi esterni vi sono originali composizioni con pannelli di mattonelle policrome38. Quanto il gusto classico persiano delle decorazioni, quello in voga nei tappeti (si veda il capitolo relativo), sia ormai affermato con un suo linguaggio discernibile e anche adattabile, lo documentano e testimoniano gli ornati della cattedrale Armena di Vank (1664) a Nuova Julfa39, con mattonelle a cuerda seca con figure di angeli in mezzo a tralci floreali (ma anche draghi linizzanti nei cantonali), intradossi degli archi con motivi identici a quelli tessili di bordura o dei tappeti e, ovviamente, dipinti con scene dal Vecchio e Nuovo Testamento. Non un guazzabuglio, per carità, anzi, uno stile che si adatta perfettamente alle diverse esigenze. Le ultime due dinastie furono gli Zand di Shiraz per un cinquantennio (1750-1794) e poi i Qajar (1783-1924). Va comunque detto che queste ultime fasi furono precedute dal breve periodo di regno di Nadir Shah (1736-1747), un geniale condottiero militare, ultimo grande sovrano e condottiero d’Iran. Le sue campagne militari lo portarono a riconquistare gran parte dei territori del Caucaso, della Mesopotamia e dell’Asia centrale che erano sfuggiti al controllo del debole regno Safavide dopo l’invasione delle tribù afghane. Anche l’India – Delhi cadde in sua mano nel 1739 – fu conquistata e, sebbene la presenza di Nader sia stata di soli pochi mesi, il bottino riportato da quella conquista è rimasto leggendario. Se l’Iran ebbe a influenzare l’India Moghul con gli artisti che Humayun portò con sé dall’esilio a metà Cinquecento, saranno le arti indiane (che già avevano subito una certa influenza europea) a essere prese a modello dai Persiani. Nader Shah rimescolò a metà Settecento – un periodo cruciale della storia – il mondo iranico, con le sue campagne militari e le grandi e piccole migrazioni di popoli che caratterizzano sempre le catastrofi umane, le guerre. Questa rivoluzione è alla base degli ultimi fuochi artistici. Gli Zand
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35-36. Shiraz, casa Qavam, conosciuta anche come Narenjestan (Aranceto). Si tratta di una abitazione nobiliare della fine del xix secolo (1879-1886). Particolare di pannelli con vivaci scene di caccia.
a Shiraz li ricordiamo per un gusto neoclassico (ovvero neoachemenide: si veda il capitolo dedicato) e per alcune pregevoli mattonelle policrome nel quale si trova una più complessa paletta coloristica in cui prorompe prepotentemente un colore poco usato in precedenza: un rosa carico accompagnato da un maggior utilizzo del giallo. In tutto il Settecento e l’Ottocento in Iran la produzione ceramica per l’architettura ebbe una produzione di buon livello; le due maggiori tecniche già in voga nel periodo Safavide, ossia il mosaico ceramico e le mattonelle a cuerda seca, ebbero continuità esecutiva, seppure le mattonelle si siano imposte per la loro maggiore rapidità ed economicità di messa in opera. La paletta coloristica si arricchì di nuovi colori e sfumature, e soprattutto le decorazioni, oltre al consueto repertorio classico (geometrico e floreale, ed epigrafico), complice anche un influsso europeo (già Safavide e con gli Zand mediato dall’India di Nader Shah), videro svilupparsi motivi figurativi tratti dal repertorio letterario di sempre (scene tratte dallo Shah nama di Firdusi o dalla Khamsa di Nizami) e per certi versi anche da scene e personaggi della vita quotidiana, come i soldati vestiti alla cosacca. Lo si riscontra nei tratti somatici dei personaggi che spesso hanno nei ritratti virili occhi ovali esageratamente grandi e altrettanto grandi baffoni. Non sono rari
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34. Moschea Vakil, Shiraz (1751-1773). Decorazione dell’ivan Nord con motivi floreali influenzati dall’arte europea.
i particolari paesaggistici di stampo europeo (come ville e cittadine) posti come sfondo al tema prediletto della battuta di caccia, non più con arco e frecce, ma con fucili. A Shiraz il padiglione ottagonale di Karim Khan Zand (metà Settecento) presenta un’architettura in mattone cotto col contrasto di vivaci pannelli ceramici (sempre nei soprarchi e anche in parte dei lati) con motivi che a noi oggi sembrano un po’ naive. Molto belle sono le mattonelle della Moschea di Piazza a Kashan, con piccoli boteh (motivo che si trova frequentemente anche nei tessuti e nei tappeti) e fioriture di rose e altri fiori sui cui rami cinguettano uccellini, a rigore usignoli. Lo stesso motivo lo si vede anche in alcuni ambienti della Moschea e santuario Khadimiyya a Baghdad, non a caso molto caro agli sciiti e forse per questo decorato anche con gusto iranico. Ancora a Shiraz è la Moschea Vakil (1751-1773), nei pressi dell’antico bazar della città, con un pregevolissimo portale di accesso con pannelli di mattonelle dal disegno floreale molto arioso, incorniciati da elementi a mosaico ceramico geometrico. Anche nell’ivan Nord sono esuberanti pannelli floreali. Da rammentare è anche il più tardo padiglione del Bagh-i Iram, sempre a Shiraz, con colorati pannelli ceramici figurativi di suggestione europea, in una struttura che si integra perfettamente con quello che oggi è un bellissimo giardino botanico, nel quale spicca un roseto con esemplari di rosa di ceppo antico, il fiore celebrato dai grandi poeti persiani, come Sa’di (1184-1291). Per il periodo Qajar è da segnalare il tumultuoso sviluppo della nuova capitale Tehran e la costruzione di numerosi edifici pubblici (come portali di accesso monumentale) ma anche privati. Certamente il monumento più significativo in tale contesto è il Palazzo del Golestan, a Tehran, il luogo di residenza dei sovrani Qajar. È un complesso architettonico con una ventina di edifici, corti, giardini, vasche e fontane, e deve gran parte della disposizione anche attuale all’opera di Nasir al-Din Shah (r. 1848-1896) e ai lavori condotti a partire dal 1867 e protrattisi fino quasi alla morte del sovrano. Fra le molte altre decorazioni sono anche inserite mattonelle di svariate tipologie, fra le quali spiccano forse per originalità quelle tratte dai repertori fotografici in voga all’epoca. Il Golestan è un’antologia dell’arte del secondo Ottocento, fra Oriente e Occidente, fra tradizione e ostentato kitsch.
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Terra, acqua, fuoco, ovvero dell’arte ceramica
1. Ciotola “slip painted”, Nishapur, fine x-inizi xi secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
Chiunque abbia a visitare una mostra o un museo nel quale siano conservati reperti relativi alla cultura e civiltà iranica – siano esse le sale pre-islamiche o quelle più recenti – non può non fare a meno di stupirsi e spesso entusiasmarsi nell’osservare la qualità delle opere, in particolar modo quelle ceramiche1. Il materiale fittile è il fedele compagno dell’archeologo da sempre, per sempre e ovunque. Non che in Europa e nel bacino Mediterraneo le civiltà classiche siano state restie a lasciarci tracce importanti dell’industria ceramica; anche in questo caso è sufficiente girare per le sale di un qualsiasi museo con antichità classiche per essere sommersi da opere di qualità eccelsa. L’Iran, dunque, come le altre grandi civiltà. Tape Siyalk, per esempio è certamente un caso clamoroso, per il notevole livello artistico raggiunto2. L’arte ceramica, come tutte le arti, ha anche una componente tecnica che è imprescindibile, sebbene l’osservatore sia talvolta ignaro di essa. Per dire, Michelangelo lavorava il marmo di Carrara e aveva una conoscenza intima – pressoché soprannaturale – di quel materiale, che poteva piegare ai suoi voleri con maestria e genialità. Ma erano necessarie le cave delle Apuane. A Siyalk, saltando un po’, ma non di palo in frasca, l’abbondanza di acqua sorgiva e la tipologia del terreno hanno favorito la formazione di considerevoli masse di argilla anche “ready made”, le quali, opportunamente depurate e quindi lavorate, hanno permesso lo sviluppo di un sapere collettivo diffuso (favorito anche da importanti depositi metalliferi nelle aree circostanti), e di una vera e propria industria ceramica che, per qualità e soprattutto continuità – con ovvi e inevitabili ampi intervalli – ha pochi paragoni al mondo.
Gli inizi È estremamente complesso, per non dire impossibile, in assenza di riscontri archeologici stratigrafici certi, differenziare e datare con sicurezza la ceramica del tardo periodo Sasanide da quella della fase Omayyade in Iran (secoli vii-viii); questo perché è comunque prevalente una ceramica non invetriata e acroma, talvolta con decorazione impressa o incisa la quale, appunto, ha una abbastanza ovvia continuità di produzione. Nemmeno con quella invetriata monocroma (i colori prevalenti sono il verde, una tonalità abbastanza scura di turchese, un
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marrone abbastanza carico) abbiamo più successo, sebbene la tipologia più comune sembri essere quella dell’orcio, anche ansato, ad alto collo dritto, o della giara con anelli intorno all’apertura atti alla sospensione dell’oggetto, e spesso decorazione stampata e applicata sulla superficie. Dunque ancora troppo poco sappiamo del primo periodo islamico in Iran per poter azzardare una classificazione.
Nishapur La situazione si fa molto più chiara con l’epoca Abbaside e in particolar modo con gli scavi di Nishapur, nel Khorasan occidentale, condotti da archeologi americani per conto del Metropolitan Museum of Art di New York (negli anni fra il 1935-1940, con un’ultima spedizione nel 1947); nel corso delle missioni sono emerse infatti numerose ceramiche, di tipologie diverse, assegnabili soprattutto al ix-x secolo3. Quanto importanti siano stati i traffici carovanieri e gli scambi commerciali fra l’Asia più interna e il mondo iranico, appunto attraverso il Khorasan, lo dimostrano i reperti ceramici di Afrasiyab (denominazione settecentesca – derivata dal nome di un eroe dello Shah-nama – dell’antico sito pre-islamico nei pressi dell’odierna Samarcanda e all’epoca una delle città più importanti della Sogdiana), città scavata fra il 1908-13 e il 1925-27, e poi dal Terenozkin (1945-48), che hanno molto più che un’affinità con alcune ceramiche di Nishapur4. Il sito è un capisaldo dell’archeologia in Iran, essendo uno dei pochi a essere stato scavato estensivamente (anche Siraf, nel Golfo, ha dato ottimi esiti5), e dunque non si può prescindere da questa città che fu capitale provinciale di una vasta regione, falcidiata da numerosi e ricorrenti terremoti. La tipologia più caratterizzante di Nishapur è la cosiddetta ceramica “slip painted”, ovvero dipinta con argille liquide (piuttosto dense con la consistenza di uno smalto), in nero e rosso su un fondo ingobbiato di un bianco molto denso. Il corpo ceramico è in genere una terracotta rossa, in prevalenza con forme aperte di coppe e piatti di notevoli dimensioni (40 cm. di diametro e oltre) e spessori della ceramica estremamente sottili. Gli esemplari più preziosi – prodotti da fornaci con una produzione industriale nella quantità, ma di grande arte nella qualità – sono dipinti in nero (con pochissimo, prezioso rosso brillante; il rosso non era un colore tecnicamente facile da preparare), con un repertorio che è sostanzialmente epigrafico e in stile cufico6. Le iscrizioni, arabe, sono spesso motti o proverbi a carattere pio o edificante, spesso connessi all’idea di ospitalità (l’equivalente del nostro “mangia e bevi e ringrazia Iddio”), e talvolta espressioni attribuite al Profeta Muhammad. Mai, però, brani del Corano; affidare la Parola di Dio a un materiale che facilmente poteva rompersi doveva apparire blasfemo! Date e firme sono praticamente assenti, mentre al centro di numerosi pezzi sono stati reperiti dei disegni, praticamente un logo, come l’uccello con le ali a palmetta in genere ritenuto la firma di una particolare bottega, che poteva essere anche imitato o contraffatto… Esattamente come nelle griffe odierne. Dal punto di vista estetico, più d’uno studioso – ma pure la massa dei comuni osservatori – ha segnalato come queste
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2. Ciotola “slip painted”, Nishapur, x-inizi xi secolo. Collezione al-Sabah, Kuwait (LNS 1093C). 3-4. Dall’alto: Ciotole “slip painted”, Nishapur, x secolo. Metropolitan Museum, New York. La prima, dall’alto, è caratterizzata da una fine decorazione calligrafica in nero su fondo bianco; la seconda ha decorazioni policrome su fondo nero.
5-6. Pagina a fronte, ceramiche a “camoscio” da Nishapur, ix secolo. Metropolitan Museum of Art, New York. 7. A lato, ciotola “a camoscio”, Nishapur, x secolo. Metropolitan Museum of Art, New York. Comuni, tra le ceramiche di questo stile che recano figure umane, sono quelle ritratte nell’atto di bere. Il giallo e il verde caratteristici di questa tipologia si sono conservati particolarmente bene.
8. Coppetta con decorazione a macchie da Nishapur, x secolo. Collezione privata.
ceramiche abbiano una qualità altissima, tutta giocata sulla semplicità delle forme (che talvolta sembrano ispirarsi ai coevi materiali metallici; argenti, purtroppo conservatisi in rari esemplari, anch’essi decorati con potenti e vigorose iscrizioni cufiche, ravvivate dal niello) e sull’eleganza delle iscrizioni: pura forma e asciutta essenzialità della scrittura, la sublimazione dell’arte islamica e della sua raffinatezza. Sono materiali preziosi, pur tuttavia prodotti non per contemplazione ma per un uso pratico, come appunto confermano i contenuti prevalentemente benaugurali delle iscrizioni. In ogni caso la produzione di Nishapur è differenziata. Accanto alla classe con decorazione calligrafica (la più nota, cospicua, caratterizzante), un sottogruppo può essere individuato in manufatti di dimensioni più ridotte e anche con più forme chiuse, nei quali l’ornamentazione è più articolata, con motivi arabescati e disposizione geometrica; si nota anche un più consistente uso del colore rosso. “Ceramica a camoscio” (buffware) è una categoria ceramica che prende il nome dal corpo ceramico caratterizzato da tale colorazione e decorato in prevalenza con nero, verde, giallo, bruno/melanzana, rosso (molto poco frequente), sotto un’invetriatura trasparente incolore. Sono opere che contrastano nettamente con le altre tipologie precedenti, in parte anche nella tecnica (spessori assai più consistenti e assenza dell’ingobbio), e che usano abbastanza liberamente lo spazio con figurazioni umane (dai tratti del volto molto particolari, che oggi definiamo picassiani), di animali – soprattutto quadrupedi e uccelli – e geometrie. Spesso vi sono pseudoiscrizioni e l’insieme non ha l’austera eleganza delle opere calligrafiche, semmai un tono talora definito “paesano”, rozzo, ma illuminato da una fresca inventiva e una vivacità espressiva molto accattivante. Nonostante la quantità di frammenti trovati negli scavi di Nishapur non lasci dubbi sull’esistenza di fornaci locali, ci si è spesso esercitati a cercare localizzazioni diverse o quantomeno ad attribuirne la
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9-10. Due esemplari della cosiddetta tipologia Sari. A lato: Iran, regione del Caspio (Sari), x secolo. Collezione privata, Milano. Sotto, da Amul, x secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
Seta”, appariva prevalentemente logica e naturale. Intanto, il fatto che il san cai cinese è una tipologia esclusivamente funeraria9. Poi la circostanza – consequenziale alla specializzazione del prodotto – che negli scavi archeologici medioorientali non siano stati trovati frammenti tipologicamente riconducibili a fabbricazione estremo orientale, e che le forme delle opere “a macchia” da Nishapur siano locali e assolutamente non comparabili con le cinesi. Eppure le analogie sono troppo forti e le datazioni diciamo pure sospette per considerare del tutto casuale il fiorire in Iran di questa ceramica. Molto probabilmente sono stati ceramisti cinesi migrati a Occidente ad avere insegnato la tecnica ai vasai persiani. Un’ultima annotazione relativa a Nishapur; i ceramisti dipingevano anche oggetti in rosso, marrone, verde oliva, giallo scuro su un ingobbio bianco con invetriatura piombifera (ma con una percentuale di stagno per rendere opaca la superficie), a imitazione del lustro metallico di importazione mesopotamica.
L’epoca selgiuchide
committenza a comunità non musulmane (in primis zoroastriani e manichei, oppure cristiani nestoriani), senza tuttavia trovare elementi concreti a suffragio di tali ipotesi. Di certo è, in ogni caso, una ceramica di aspetto gradevole e che va collegata al cosiddetto gruppo di “Sari”7 (piccola cittadina sulle sponde del Caspio, non lontanissima da Nishapur, ma ancora più vicina a Gurgan8, un centro importante nella produzione di ceramiche decorate con la tecnica del lustro metallico, per cui si veda oltre). La tipologia “Sari” presenta grandi volatili dipinti in policromia al centro della coppa (non conosco forme chiuse), e tecnicamente è assai simile al vasellame a camoscio. Sempre a Nishapur appartiene un’altra categoria ceramica, quella con decorazione “a macchie”, con ossidi gialli e verdi lasciati correre liberamente su un fondo bianco. La superficie di questi oggetti può essere stata preventivamente incisa, e questo con due scopi: quello decorativo e quello pratico di frenare o in qualche modo incanalare la colata o sbavatura del colore. Questo fenomeno occorreva in quanto la temperatura richiesta per la cottura nella fornace della terracotta è più alta del punto di fusione del colore che, conseguentemente, tende a squagliarsi. Ceramiche con questa tipologia sono state fatte in Cina durante la dinastia Tang (618-907), ed erano note come san cai (tre colori); abbastanza ovviamente è stata proposta una filiazione diretta dei materiali islamici da quelli cinesi. Ma ci sono diversi fattori che sembrano contrastare questa ipotesi che, visti i grandi traffici lungo le famose “Vie della
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11. Ceramica cosiddetta Aghkand, xi-xii secolo. Decorazione a tre colori (verde rame, giallo ferraccia, e tocchi di bruno manganese) con al centro un uccello fantastico e sfondo di girali. Museo del vetro e della cermaica, Teheran.
Probabilmente quella Selgiuchide (in Iran 1040-1194, sebbene la successiva invasione Mongola e la conquista avvengano nella prima metà del xiii secolo) è stata l’epoca d’oro della ceramica islamica in Iran. L’inventiva e la vitalità di questo periodo possono essere solo definiti come straordinari10. Dal punto di vista tecnico, in questa fase storica si assiste a una vera e propria invenzione, quella del corpo ceramico in pasta artificiale (in inglese ora è invalso l’uso di chiamarla “stonepaste”), detta anche “fritta” e che sostanzialmente è composta da un’alta percentuale di silice, argilla bianca, plastica finissima, fritta (quarzo polverizzato mischiato a soda estratta da ceneri vegetali), e che di fatto permetteva una buona imitazione, anche negli spessori e nella consistenza, delle porcellane cinesi11. Questo impasto non sempre era plastico sebbene sempre malleabile e duttile, però lavorabile più facilmente a stampo che non al tornio, sempre comunque impiegato. Fra le tipologie in voga in epoca selgiuchide (e che spesso e convenzionalmente prendono il nome da località dove sono stati trovati frammenti con una certa abbondanza o prevalenza, ma ben lungi dall’essere centri di produzione esclusiva o monopolistica), citiamo Amol con una ceramica sgraffita, una variante di quella incisa, che agisce direttamente sul corpo ceramico. L’ingobbiatura bianca viene graffita via secondo un preciso disegno, lasciando emergere il corpo in terracotta rossa. L’invetriatura, trasparente e incolore o monocroma colorata, crea effetti ornamentali molto belli. Non poi così dissimili – ma con varianti tecniche – sono le tipologie conosciute come Aghkand e quella cosiddetta Garrus, termini assai convenzionali. Le prime sono ceramiche con una doppia linea incisa a tracciare il disegno, spesso animalistico, e con i colori (verde, giallo, bruno/porpora) stesi entro questi confini incisi a limitare l’effetto di sbavatura. Numerosi frammenti di questo vasellame provengono dalla regione dell’Azerbaigian. La tipologia Garrus, dal nome di un’area dell’Iran nord-occidentale, è stata anche denominata Gabri (“adoratori del fuoco”: denominazione del tutto fantasiosa e campata in
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aria): sono oggetti col corpo di terracotta rossa ingobbiati e non semplicemente incisi (come una categoria affine) ma con ampie parti dell’ingobbio rimosso, quasi scolpito, e poi con invetriature colorate (molto belli quelli verde brillante, con la porzione rimossa che è quasi nera) a svelare il motivo esornativo. Semplice ma di notevole effetto! Si accennava poco sopra alla pasta artificiale e al vasto impiego di stampi appositamente predisposti – ovviamente in negativo – per la fabbricazione di multipli. Superbi sono i monocromi (bianchi, blu, talvolta turchesi), talora, se il fondo è bianco, ravvivati da strisce di blu cobalto. Nei pezzi con la parete più sottile, rimuovendo e traforando piccole parti del corpo non ancora completamente seccato (cosiddetta consistenza cuoio), la densità dell’invetriatura andava poi a coprire il vuoto, creando una decorazione “segreta” perfettamente visibile controluce. È il medesimo principio della nota porcellana cinese “a chicco di riso”, una tecnica originariamente persiana e ripresa in Estremo Oriente. In questo contesto sono tuttavia da citare almeno altre due tipologie decorative: i lustri a riflesso metallico12 e i cosiddetti mina’i13. La tecnica della ceramica a lustro metallico consiste in almeno una doppia cottura: la prima avviene con un oggetto (il cui corpo può essere indifferentemente in terracotta o pasta artificiale) ingobbiato, eventualmente dipinto, in nero, verde, blu e turchese, sotto l’invetriatura con alta percentuale di stagno. Su questi oggetti si dipingevano le decorazioni con un colore denso (tant’è che una volta seccato poteva essere anche graffito), ovvero un ossido di argento o di rame, o un misto fra i due con zolfo, un di-
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12. Ceramica di tipo “Garrus”, Iran, xii-xiii secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
13-14. Particolari di un mihrab in lustro metallico. Kashan, xiii-xiv secolo. Mashhad, Museo del Mausoleo dell’Imam Riza.
luente acido e terra ocra a protezione e anche per accelerare la reazione chimica che avveniva durante la seconda cottura nella fornace con atmosfera riducente, e cioè togliendo l’ossigeno con l’immissione di materiale fumogeno e con gli sfiatatoi chiusi, salvo quello centrale che assicurava il tiraggio. La reazione chimica dell’ossido – parte metallo e parte ossigeno –, se privata della seconda componente, lasciava sulla superficie del pezzo una impalpabile e permanente pellicola metallica dai riflessi cangianti. Tale procedimento, già sperimentato su vetro nell’Egitto faraonico, fu riscoperto, o meglio reinventato, nel periodo Abbaside in Iraq nel ix secolo. Il successo di queste opere è sancito anche dalle imitazioni tentate a Nishapur e la diffusione della tecnica è stato estremamente rapida, tanto che lustri ceramici sono stati eseguiti in Siria e in Egitto (particolarmente raffinati e di livello artistico elevato sono quelli Fatimidi), e naturalmente in Iran. Sono numerosi i centri in Iran nei quali sono state prodotte ceramiche, anche a lustro, sebbene il primato della produzione (vero anche per numerose altre tipologie) spetti alla città di Kashan, nella quale, assai probabilmente, erano eseguiti i mina’i. A lungo si è pensato, per le ceramiche a lustro metallico, anche a un’importante produzione a Rayy (oggi un sobborgo di Tehran), ma non vi sono conferme, mentre gli scavi di Gurgan hanno dimostrato l’esistenza di una manifattura locale14. Sono due gli stili prevalenti dei cosiddetti lustri: uno stile “monumentale”, con motivi figurativi a largo disegno al centro di piatti e coppe, spesso in bianco risparmiato su fondo a lustro, forse una derivazione da modelli Fatimidi, e uno stile detto “miniaturistico”, con figure
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15-17 Ceramiche dipinte a lustro metallico. In alto e al centro: coppa da Gurgan, xii-xiii secolo, con decorazione astratta a compartimenti di palmette e semipalmette. Esemplare da Kashan, xiii secolo: al centro, su uno sfondo floreale, una coppia di personaggi. Iscrizioni corsive nell’anello centrale e sul bordo, pseudo cufiche sulla parete. Tehran, Museo del Vetro e delle Ceramiche. In basso, coppa a lustro con cavallo alato, tardo xii secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
18. Mattonella “a lustro” a forma di stella, da Kashan. Al centro è raffigurato un sultano circondato dai membri della sua corte. Nella cornice sono riprodotti i versi di un componimento poetico che data il manufatto al 1211-12. Metropolitan Museum of Art, New York.
più minute, disposte su registri orizzontali, esattamente come nella coeva arte del libro. Un terzo stile, che viene etichettato come “Kashan”, presenta una sintesi dei due precedenti. È abbastanza interessante notare come i lustri a riflesso metallico iranico presentino, oltre a moltissime varianti di forme (tuttavia con prevalenza di quelle aperte, coppe e piatti, su quelle chiuse, brocche e bottiglie), una gamma artistica davvero ampia. Si va da opere di enorme complessità, firmate e datate, ad altre assolutamente comuni per non dire dozzinali, il che ci induce a ritenere che la produzione dei lustri, ancorché piuttosto costosa in virtù delle due cotture, doveva essere di massa e non ristretta a una pur presente e importante élite. Va comunque ricordato come i ceramisti non fossero affatto separati dalle altre categorie di artigiani e artisti: il rapporto con l’arte vetraria e con quella della lavorazione dei metalli è sempre stato intenso e lo si riscontra nell’uso di forme analoghe15. Sempre a Kashan sono attribuite le ceramiche cosiddette mina’i, sebbene non vi siano prove archeologiche, ma basandosi soprattutto sulla straordinaria importanza del sito e a una ricorrente nisba (luogo di origine, provenienza, come da Vinci nel caso di Leonardo) kashani fra i ceramisti, evidente segno di prestigio del luogo. Il termine mina’i, ormai affermatosi, vuol dire “smaltato” e non è una buona definizione; nella letteratura li troviamo descritti come haft rangi (“a sette colori”), designazione di fatto più aderente alla tipologia. Queste ceramiche hanno quasi esclusivamente un corpo in pasta
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19 Frammento di fregio architettonico modellato a basso rilievo e decorato a lustro, da Kashan, seconda metĂ del xiii secolo. In primo piano, al centro della composizione, due cavalieri si affrontano con spade sguainate. Sullo sfondo, motivi vegetali e uccelli in volo richiamano una natura rigogliosa. I dettagli sono messi in risalto da accenti turchesi e blu cobalto. Metropolitan Museum of Art, New York.
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20 Il pannello a lustro a forma di mihrab decorava la tomba del Sufi shaik ’Abd alSamad, a Natanz. Realizzato a Kashan nel primo quarto del xiv secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
21. Questa coppa appartiene alla tipologia “haft rangi”. La scena raffigura una cerionia di investitura del sovrano in trono, attorniato dai dignitari di corte. Kashan, Iran, tardo xii-inizio xiii secolo. Brooklyn Museum, New York.
artificiale e sono anch’esse, come i lustri, sottoposte a più cotture. Su un fondo opaco sono fissati con un’invetriatura incolore alcuni colori, in particolare il blu, il turchese, e anche il verde, che hanno la tendenza a spandersi, mentre gli altri (rosso, certo verde, nero, bruno/ marrone, giallo) venivano stesi con cotture successive – in una muffola – rispettando il grado di fusione di ciascun materiale. A freddo poteva essere applicata una doratura. Procedimento complesso e dunque costoso, come s’è visto. Fra l’altro la tecnica stessa, con frequenti ricotture, ha facilitato di molto la falsificazione di numerosi esemplari. Stilisticamente i mina’i sono quanto di più vicino alle miniature (addirittura spesso anticipandole) sia stato creato in ambito iranico16. Sono pezzi leggiadri (termine forse un po’ stantio, ma adatto a descrivere una certa leziosità degli ornati), indubbiamente molto ricercati anche nei motivi, fra i quali spiccano spesso vere e proprie piccole narrazioni con figure umane (cavalieri, scene di banchetto), con volti tondi, occhi allungati, sopracciglia unite, naso aquilino e bocca piccola – tratti somatici centroasiatici o mongolici che bene incarnano l’ideale di bellezza dell’epoca. Simili, anche in questo, ad alcuni lustri. L’invasione mongola già avanzata in Iran nel 1220 creerà devastazioni spaventose nel paese e per circa una quarantina d’anni, almeno a giudicare dagli esemplari datati, la produzione dovette subire, se non un completo arresto, quantomeno un serio ridi-
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22. Coppa mina’i, Iran, inizi xii secolo. Al centro è raffigurato un cavaliere e nei lobi otto figure stanti. All’esterno iscrizione in stile corsivo. Metropolitan Museum of Art, New York.
23. Bacile mina’i, Iran, inizi xii secolo. Bacile ceramico ispirato nella forma ai contemporanei metalli. Il corpo, eseguito a stampo, è a rilievo con motivi di arabeschi con doratura a freddo. All’esterno iscrizione in stile corsivo. Metropolitan Museum of Art, New York.
mensionamento. Una fonte molto preziosa e autorevole è quella di Abu’l Qasem ‘Abd-Allah Kashani (membro della famiglia Abu Taher, ceramisti a Kashan da quattro generazioni), che nel 1301 nell’ambito di un trattato sulle pietre preziose dedica un capitolo, informatissimo, alle tecniche e ai materiali della fabbricazione e decorazione delle ceramiche17. È lui a raccontarci – una volta interpretata la non semplice terminologia medievale – la “ricetta” dei lustri e anche a farci sapere che la tecnica e la produzione degli haft ranghi (così chiamati e non mina’i) era ormai abbandonata e desueta, non essendosi più ripresa dopo l’invasione Mongola, vuoi per una mancanza di capacità tecnica, vuoi per un cambiamento di gusto nella committenza.
24. Ciotola appartenente alla rara tipologia lajvardina, Iran, tardo xiii-inizi xiv secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
Mongoli, Timuridi e Safavidi Con i Mongoli effettivamente la produzione ceramica conobbe inizialmente un momento di stasi, conseguente all’invasione e all’assestamento del nuovo stato, anche considerando il fatto che fino alla fine del Duecento essi non si convertirono all’Islam,, ma l’influenza estremo orientale portò importanti innovazioni anche iconografiche18. Peraltro, le devastazioni ebbero in seguito un’ovvia conseguenza: la ripresa di una frenetica attività edilizia che portò all’espansione dell’industria ceramica destinata al restauro dei vecchi edifici e alla edificazione di nuovi. La produzione di mattonelle (e mihrab) a lustro ebbe un notevole incremento, del quale diamo conto nel capitolo sulla decorazione architettonica. S’è già detto che in ogni
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25. Bottiglia lajvardina, Iran, xiii secolo. Yale University Art Gallery, New Haven.
modo il mina’i scomparve, anche se è stato suggerito che a tale tecnica siano da ricondurre le ceramiche cosiddette lajvardina. Il termine, come spesso avviene, è fuorviante e convenzionale, essendo stato assai popolare fra i collezionisti di ceramica persiana nel secolo scorso; lajvardina in persiano significa “lapislazzulo”, e la denominazione non si riferisce all’uso del prezioso minerale polverizzato come colorante (questo è l’impiego occidentale in pittura nel Medioevo e nel Rinascimento, col blu d’oltremare o turchino), ma al colore di fondo di queste ceramiche – un blu molto intenso ottenuto dal cobalto, oppure un altrettanto vivace turchese – che per certi versi ricordano quei minerali semipreziosi, con importanti giacimenti nel Khorasan per la turchese; sono celebri le miniere delle montagne vicino a Nishapur, mentre il lapislazzulo veniva cavato nel Badakhshan, odierna provincia orientale dell’Afghanistan. Sul corpo, indifferentemente in terracotta o impasto artificiale, colorato – blu o turchese – venivano applicate sopra l’invetriatura opaca (e in questo sta l’analogia con i mina’i) decorazioni mai figurate ma che attingevano al repertorio arabescato o geometrico, in bianco, rosso, nero,
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26 Ciotola lajvardina, Iran, tardo xiii-inizi xiv secolo. Yale University Art Gallery, New Haven.
27 Piatto appartenente alla tipologia Sultanabad, decorato da figure di quadrupedi in corsa. Iran, prima metà del xiv secolo. Cincinnati Art Museum.
oltre alla doratura. Anche queste opere vanno spesso soggette a restauri/rifacimenti pesanti. Una classe ceramica tipica dell’età mongola è la cosiddetta tipologia Sultanabad (l’attuale cittadina di Arak, odierno importante snodo industriale, nella Persia centrale non lontanissimo da Qom), per la cui denominazione siamo costretti a ripetere le considerazioni fatte in casi analoghi: si tratta di un’etichettatura convenzionale originata dal ritrovamento superficiale di una certa quantità di frammenti ceramici fra loro omogenei. Ancora una volta, però, forse le fornaci furono quelle di Kashan. Su un corpo ceramico in pasta artificiale si stende uno spesso ingobbio poi dipinto in blu, turchese e nero sotto un’invetriatura trasparente e incolore, molto densa e alcalina. Questa invetriatura è alternativa a quella con ossido di piombo ed è ottenuta con ossido di potassio, ma ha il difetto col tempo e soprattutto a contatto con la terra o altri elementi di alterarsi sulla superficie con sfogliatura e forte iridescenza. Una variante della tipologia cosiddetta Sultanabad, con coppe dal fondo grigio e decorazioni risparmiate in bianco e disegni di animali un po’ sinizzanti (un singolo cervo, oppure due o tre fenici in volo
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ad ali spiegate) è attribuita al centro di Bujnurd (però anche a Juvayn e Isfarayin); imitazioni di questa classe ceramica furono prodotte anche altrove, e segnatamente frammenti di tale fattura sono stati ritrovati nelle regioni sotto il dominio, sempre Mongolo, dell’Orda d’Oro, in Crimea e attorno al Volga. Abbastanza logicamente nel repertorio artistico Ilkhanide fanno la loro comparsa elementi decorativi desunti dall’arte cinese: gli esempi più clamorosi sono quelli del drago alla cinese (laddove all’epoca Selgiuchide si rappresentavano solo classici serpenti)19, del fiore di loto e delle nuvolette nastriformi; motivi che saranno adottati e poi sviluppati in modo autonomo divenendo, comunque, una componente essenziale dell’arte islamica, non solo iranica (infatti troviamo questi stessi elementi anche negli ornati turchi ottomani del xv-xvi secolo). Le coppe cosiddette Sultanabad sono morfologicamente caratterizzate da un bordo arrotondato con ampio orlo piatto aggettante. Gli ornati sono anche figurativi, con personaggi stanti, coppie di animali o animali singoli; due o tre uccelli (fenici) in volo ad ali spiegate sono uno dei temi prediletti. Le iscrizioni, in verità spesso un po’ tirate via, sono in corsivo. Un altro motivo assai apprezzato era la suddivisione della superficie interna di una coppa in spicchi triangolari radiali dal centro e poi campiti con disegni minuti ripetuti e arabeschi o geometrie. Una notevole dimostrazione di originalità e rinnovamento di un’arte che
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28. Ciotola appartenente alla tipologia Sultanabad, decorato da figure di dervisci danzanti. Iran, prima metà del xiv secolo. Cincinnati Art Museum.
29-30. A sinistra, elemento architettonico in ceramica monocroma turchese. Iran, xii secolo. Collezione al-Sabah, Kuwait (LNS 189C). A destra, bottiglia (collo restaurato) monocroma con decorazione incisa ispirata da modelli cinesi. Iran, xii-xiii secolo. Collezione al-Sabah, Kuwait (LNS1096C).
vantava una solida e affermata tradizione produttiva. Questo per dire come la società iraniana del tempo abbia certamente subito l’invasione mongola come un forte sconquasso, ma come la successiva “pax mongolica”, ovvero il controllo non più solo nominale o fittizio su gran parte delle arterie commerciali dell’epoca, unita al bisogno della ricostruzione, abbia dato una forte spinta, soprattutto materiale ma non solo, a una società frammentata sul piano politico. Ancora da Oriente verranno i nuovi impulsi, attraverso l’opera di un sovrano certamente crudele e sanguinario (ma chi non lo era?) quale Tamerlano (regna fra il 1370 e il 1405), il quale fu dotato anche di una visione tutt’altro che provinciale, tant’è che il suo regno, e quello dei successori, è ricordato nell’ambito artistico per la creazione e affermazione di un linguaggio e di uno stile raffinati che vanno sotto il nome, appunto, di “Stile Timuride Internazionale”20. Le principali arti decorative e l’architettura riflettono tale situazione, anche se nella ceramica questa svolta è probabilmente meno avvertibile. La contingenza politica internazionale, l’asse politico spostato a Oriente (pensiamo a Samarcanda o Herat capitali dell’impero, prima del riequilibrio a Occidente con Tabriz – già capitale Mongola – prima Ak Koyunlu e poi Safavide) e la grande e riaffermata potenza cinese dei Ming (1368-1644; ma, ricordiamolo, Tamerlano muore – di una subitanea malattia – proprio a capo di una spedizione militare alla conquista
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31. Ciotola appartenente alla tipologia Sultanabad. Iran, prima metà del xiv secolo. Al centro una coppia seduta su sfondo floreale turchese. Sulla parete cartigli apicati con fiori turchesi e sfondo sempre floreale. Metropolitan Museum of Art, New York. 32. Coppa ceramica in pasta fritta decorata con motivo di tralci di foglie palustri con quattro spirali a voluta centrali che si raddoppiano nella parte superiore. Kashan, Iran, xii-xiii secolo. Collezione al-Sabah, Kuwait (LNS 4C).
33. Coppa di porcellana blu e bianca con al centro un drago imperiale. Cina, xvi-xvii secolo. Donazione di Shah ‘Abbas i al santuario di Ardabil. Teheran, Museo Nazionale Islamico.
della Cina) rafforzano le condizioni per una ancora più marcata influenza dell’arte estremo orientale. Perfino logica nel campo specifico della ceramica, se pensiamo che la porcellana, tecnicamente quanto di più avanzato per sottigliezza e resistenza e prescindendo ovviamente dalle qualità estetiche, in Cina si inizia a produrre già in tarda epoca Han (206 a.C.-220 d.C.), e certamente era esportata via mare in quantità industriali durante il dominio Tang (618-907), proprio e soprattutto nel Medio Oriente. Insomma la porcellana cinese – di inarrivabile qualità e con una formula chimica che ebbe a resistere ai tentativi di imitazione fino agli inizi del 1700, quando a Meissen un alchimista e un fisico/matematico misero a punto una formula equivalente che poi si diffuse nel resto del continente… – creò una sorta di “complesso di inferiorità”, peraltro giustificatissimo, nelle botteghe ceramiche del resto del mondo21. In particolare la porcellana bianca e blu. È divertente ricordare come agli esordi questa produzione sia stata bollata dai mandarini cinesi, avvezzi alle raffinatissime e praticamente impalpabili e quasi evanescenti porcellane monocrome d’epoca Sung (960-1279), come la tipologia Ting o quella un po’ meno nobile Ch’ingpai (“bianco con leggera sfumatura verde” o “ombra di verde”) o i Luan pai (“bianco guscio d’uovo”), associate nella definizione poetica anche al colore della luna, come “volgare” e “pacchiana”. Altra “curiosità” è la circostanza storica che, appunto in barba all’estetica dei cinesi di stirpe Han, i primi grandi vassoi con il blu cobalto di importazione persiana (guarda caso dalle montagne di Qamsar, non lontano da Kashan, come ci avverte Abu’l Qasem), furono fatti nei porti della Cina meridionale a imitazione dei grandi piatti in metallo islamici e per una committenza anch’essa musulmana, forse per l’epoca volgare! Per la cronaca i Ch’ing pai citati poc’anzi furono soppiantati nelle fornaci dai blu e bianchi, il cui successo fu assolutamente travolgente e universale. Non riuscirono mai, invece, a fare adeguatamente dei pezzi rossi e bianchi.
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34 Piatto appartenente alla tipologia Kubachi, proveniente probabilmente da Tabriz, seconda metà del xv secolo. La decorazione è ottenuta con pittura nera (sgraffita sull’orlo e nel centro) su ingobbio bianco e invetriatura turchese. L’equilibrio degli ornati rende l’opera molto elegante e raffinata. Metropolitan Museum of Art, New York.
35 Piatto Kubachi, Iran nord-occidentale, inizi xvii secolo. Ceramica dipinta in policromia sotto invetriatura trasparente. Una figura a mezzo busto ispirata alle contemporanee pagine miniate safavidi campeggia al centro con uno sfondo floreale. Cincinnati Art Museum.
La storia dei blu e bianchi cinesi (prodotti per primi dai Mongoli, stranieri e usurpatori, ma senza le fisime dei locali e aperti all’innovazione) è affascinante, ma lo è altrettanto quella del suo collezionismo (e pure qui c’è lo zampino islamico; le più importanti collezioni storiche al mondo di blu e bianchi sono quella Ottomana del Topkapi di Istanbul e quella Safavide di Ardabil, ora depositata in prevalenza al Museo Nazionale d’Arte Islamica di Tehran), e forse ancora di più quella degli innumerevoli tentativi di imitazione. Dove? Dappertutto! In Asia centrale, Iran, Siria ed Egitto, in Turchia e in mezza Europa, a cominciare dalla fabbrica voluta a Firenze da Francesco i de’ Medici nel 1575. L’Asia centrale e l’Iran, in epoca Timuride (ovvero per tutto il xv secolo), non fecero eccezione e l’imitazione, o per meglio dire l’ispirazione dai modelli cinesi, sarà solo un’anticipazione di ciò che avverrà più tardi con i Safavidi.
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36. Formella ottagonale con busto di donna in stile Kubachi. Iran, fine xvi-inizi del xvii secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
37. Piatto Kubachi con motivo a draghi intrecciati. Iran, Kirman.1660 circa. Metropolitan Museum of Art, New York.
38. Piatto Kubachi con due leoni che combattono. Iran, probabilmente Mashad, 1635 circa. Metropolitan Museum of Art, New York.
39. Ciotola Kubachi, evidente imitazione della porcellana cinese bianca-blu. Iran, probabilmente Mashad, xvii secolo. Metropolitan Museum of Art, New York.
Una parola va spesa per la produzione cosiddetta di Kubachi, un villaggio attualmente in Dagestan (ma culturalmente iranico), dal quale apparentemente (non tutti gli studiosi concordano sulla provenienza, ma ancora una volta il nome si è ormai convenzionalmente affermato) proviene una tipologia ceramica in parte di imitazione cinese ma più spesso nei pezzi più antichi (metà del Cinquecento) con piatti a orlo sagomato, appunto d’ascendenza cinese, e decorazioni dipinte in nero su ingobbio bianco e invetriatura colorata in verde o turchese. Altri pezzi di Kubachi (anche mattonelle) presentano volti umani in policromia, compreso un rosso/bruno, sotto un’invetriatura trasparente con evidente cavillatura (craquelé). Fra l’altro da Kubachi provengono anche interessanti oggetti in metallo, e dunque nel passato si deve essere trattato di un centro manifatturiero di una qualche importanza. Si diceva, comunque, della massiccia imitazione dei bianchi e blu di porcellana cinese con il periodo Safavide e in due principali e distinti centri produttivi (Mashhad e Kirman; forse eco delle due diverse vie commerciali d’accesso dalla Cina, terrestre e marittima, quest’ultima attraverso Hormuz, a lungo piazzaforte portoghese) e probabilmente in coincidenza con il passaggio dinastico fra Ming e Ch’ing (1644 ca.) con la chiusura delle principali fornaci e grandi opportunità commerciali per gli intraprendenti persiani22. I quali ebbero un successo clamoroso con le loro imitazioni/copie, soprattutto nel Nord Europa: è più che probabile che molte delle porcellane cinesi che compaiono nelle seicentesche nature morte fiamminghe siano in realtà ceramiche persiane. Con i Safavidi, fra l’altro, si assiste a un fenomeno interessante che è il “revival” della ceramica a lustro metallico, una tecnica abbandonata alla fine dell’età Mongola; si tratta di un recupero interessante perché non è un meccanismo antiquario o nostalgicamente imitativo. Si riscopre una tecnica e la si impiega su forme e con motivi ornamentali coerenti con l’epoca. I Qajar – l’ultima grande dinastia – sono interessanti soprattutto per la produzione di mattonelle per le architetture, e a quel capitolo si rimanda per qualche commento.
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Figure senza tempo La miniatura persiana
Testimonianze pittoriche dai Sasanidi ai Selgiuchidi Il capitolo riguardante le miniature è certamente uno dei più significativi dell’intera produzione artistica islamica persiana. Come anche per l’architettura, dobbiamo lamentare l’assenza di significative opere per un lungo periodo, ovvero fino all’epoca selgiuchide. Un vuoto importante che deve far riflettere, tanto più che ciò avviene in una delicata fase storica di transizione. Di sicuro libri illustrati dovevano esistere già in epoca sasanide, così come l’uso di decorare con pitture le pareti dei palazzi è antichissimo e universale. Quanto diffuso sia stato lo stile sasanide lo dimostrano le influenze che esso ha esercitato fin nella lontana Cina dei Tang1; probabilmente solo l’assenza di significativi reperti (non è secondaria la circostanza che grandi campagne di scavo – come a Nishapur2, Ghazni3 Lashkari Bazar4, Takht-i Sulayman5, Siraf6 – sono state episodiche in Iran dove, fino a pochi anni or sono, si sono privilegiati gli importanti siti preislamici) ci spinge ad associare la pittura sasanide all’Asia centrale dove gli scavi sovietici di importanti località (Afrasiyab, Pandzikant, Varahsha7) hanno rivelato cicli pittorici di contenuto epico e favolistico collegabile a due testi fondamentali per la miniatura quali lo Shah-nama e il Khalila wa Dimna. È questo stile internazionale sasanide che ha immensa fortuna, anche se la sua documentazione appare oggi più facilmente riscontrabile in periferia che non al centro dell’impero, dove l’invasione araba, se non ha portato distruzioni (ahinoi molto probabili), ha certamente determinato una stasi artistica e talora ha spinto verso la mera ripetizione di modelli prestabiliti8. Un altro elemento da non sottovalutare è quello dell’impiego di stucchi policromi per la decorazione degli edifici. Il passaggio dalla pietra allo stucco è già sasanide (lo si incontra a Kish9, a Ctesifonte10 e a Damghan11 e in quel monumento ibrido che è il palazzetto di Chal Tarkhan12), e non abbiamo elementi per credere che l’uso sia diminuito con l’avvento del l’Islam, anzi. Gli scavi di Nishapur13 hanno portato alla luce un’enorme quantità di ceramiche di tipologie diverse ma databili intorno al x-xi secolo; le più celebrate, e giustamente, per la loro qualità sono quelle decorate con iscrizioni in cufico a spina di rosa in blu cobalto e verde
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ramina (l’innovazione tecnica consisteva nel mischiare coloranti con argille liquide, artificio che rendeva molto stabile e netta la decorazione) ispirate dai coevi esemplari di Samarra. Ma troveremo anche ceramiche a tre colori e graffite, la cui analogia con i prodotti cinesi Tang (ma in quel caso si tratta di ceramica funeraria il cui commercio appare perlomeno strano14) è palmare e va attribuita alla migrazione di ceramisti estremo orientali. Ma qui ci interessa un altro tipo di vasellame, quello cosiddetto “figurato”, caratterizzato da rappresentazioni umane di cavalieri o figure stanti, con un corpo ceramico color camoscio e ornati in nero, verde, bruno manganese e giallo ferraccia. È interessante come a differenza dei motivi epigrafici, che ritroviamo anche ad Afrasiyab e in altri siti sempre d’Asia cntrale, più o meno di identica fattura, le ceramiche figurate siano più esclusive dell’area khorasanica iranica. Lo stile decorativo è molto fresco – quasi naïf – seppure non possa essere definito popolare (come la tipologia di Sari15, con disegni ornitomorfi), e forse nelle iconografie si avvicina a un passato preislamico non solo non del tutto scomparso e dimenticato, ma forse addirittura rivendicato. Non saremmo sorpresi se tali opere venissero viste come ispirate da modelli zoroastriani. È con il periodo selgiuchide che entriamo, finalmente, nel vivo della questione, sempre senza dimenticare gli antecedenti, in particolar modo la pittura sogdiana. L’uso della rappresentazione si fa più insistito – nelle ceramiche, nei tessuti, nelle pitture murali – ed emerge una tipologia umana dalle caratteristiche somatiche affatto diverse da quelle precedenti. Cioè un volto di forma tondeggiante (l’ideale di bellezza è “lunare”) dagli occhi con un accentuato taglio obliquo (mentre in precedenza gli occhi sono più tondi), bocca piccola, naso aquilino e sopracciglia talvolta unite. Frammenti di pittura murale da Rayy e Nishapur (conservati a Tehran al Museo Nazionale16 e al Metropolitan a New York17) chiariscono il mutamento di indirizzo; restano, quali caratteristiche tipologiche, le figure viste frontalmente con il volto a tre quarti che erano anche a Lashkari Bazar (inizi del secolo xi) – là più legate ai modelli sogdiano sasanidi nel panneggio delle vesti –, la parsimonia degli elementi di sfondo o paesaggistici, e la spazialità in registri orizzontali, che ritroviamo anche nelle ceramiche mina‘i. Questo vasellame figurato è molto interessante perché costituisce – stanti le nostre conoscenze – una fonte iconografica importante e pressoché unica per ciò che riguarda la pittura, vista la mancanza di manoscritti. Un grande piatto (diam. cm 47,8) dipinto in questa tecnica e conservato alla Freer Gallery of Art di Washington (inv. n. 43.3)18, databile a circa il 1230 e con una scena di assedio nella quale i personaggi hanno una “didascalia” iscritta con il proprio nome, si pone nel solco della tradizione più antica e riprende tematiche popolari dell’epica. Pur in un’organizzazione dello spazio particolare e, invero, un po’ caotica, si nota anche in quest’oggetto la disposizione dei personaggi in fasce orizzontali, una caratteristica che è tipica della decorazione ceramica mina‘i19. Per inciso osserviamo come dal trattato sull’arte ceramica scritto nel 1301 dal maestro ceramista Abu’l Qasim di Kashan20 si apprenda come questa raffinata tecnica21 non risulti più in uso, conseguenza tangibile delle devastazioni subite a seguito dell’invasione mongola. Sono stilisticamente un po’ diverse, invece, le ceramiche decorate a lustro metallico22, che troveremo anche nel periodo mongolo e che danno ampio spazio alla rappresentazione umana, ma con uno stile pittorico più monumentale, a testimonianza che in un medesimo periodo storico convivevano scuole e tradizioni autonome.
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1. “Gulshah uccide il nemico del suo amato”, dal Varqa u Gulshah, 1200 circa. Topkapi Saray, Istanbul, H. 841 f. 22a.
Il primo manoscritto di cui ci occupiamo è quello del Varqa u Gulshah23, tormentata e tragica storia d’amore di due giovani, datato a circa il 1200, con testo in lingua persiana e con una miniatura che reca la firma di tal Shaykh Abd al-Mu’min ibn Muhammad e la nisba, ovvero il luogo di origine del Nostro, di al-Khuwayyi (cioè di Khuy, località dell’Azerbaigian persiano). Due ragioni (testo persiano e firma), oltre all’impianto stilistico, che indicano una produzione persiana in alternativa a quella anatolica suggerita dal fatto che Abd al-Mu’min compare fra i testimoni di un atto legale a Konya nel 1252-1253. Lo spazio per le illustrazioni è una fascia, stretta e allungata, ma non solo in questo consistono le analogie con la ceramica mina‘i: le descrizioni sono abbastanza vivaci e i personaggi rappresentati hanno il capo marcato da un’aureola, proprio come nel vasellame figurato.
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La vivacità del periodo ilkhanide Interessanti, dal punto di vista storico e documentario, queste prime miniature persiane (e ci comprendiamo anche le ceramiche) sono però, dal punto di vista artistico, davvero ben poca cosa, non solo in assoluto, ma anche in rapporto a quanto si veniva contemporaneamente producendo in altri ambiti sempre musulmani24. Insomma, in questa fase, niente lascia presagire gli spettacolari sviluppi dei secoli successivi. Possiamo, dunque, archiviare il periodo selgiuchide con un certo senso di delusione (soprattutto se pensiamo, invece, a quanto è stato fatto in architettura) e diviene abbastanza sorprendente, per contrasto, la straordinaria vivacità sperimentata durante il periodo ilkhanide. Ciò ha ragioni precise che riteniamo di poter individuare nel mutato clima che si respirava a corte e, passata la fase dell’acquisizione del potere e del suo rafforzamento (quindi nella seconda metà del Duecento; ricordiamo che la presa di Baghdad con la fine formale del califfato abbaside è del 1258), nel cosmopolitismo imperante, e nei contatti con la Cina, soprattutto, ma anche col resto del mondo25. Lo si osserva in un manoscritto, un “Bestiario”, ora a New York26, eseguito a Maragha a fine Duecento (1291 oppure 1297 o 1299) e caratterizzato da stili diversi; due miniature, rispettivamente rappresentanti un leone e una leonessa27 e due elefanti28, sono eseguite con molta vivacità, considerando che si tratta di un’opera scientifica (gli elefanti sembrano ballare!) e mostrano un analogo trattamento della flora (con uccelli) che contestualizza il soggetto principale. Diverso appare lo sfondo della miniatura “Giumenta seguita da uno stallone”29 con un albero, forse un salice, con tronco nodoso reso in modo quasi impressionistico, di chiarissima e inequivocabile ascendenza cinese. E proprio l’Estremo Oriente – ma non solo, come vedremo fra breve – è all’origine di un cambio
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2. “Giumenta seguita da uno stallone”, dall’Utilità degli animali di Ibn Bakhtishu, 1290 circa, Pierpoint Morgan Library, New York, ms. M500, f. 28r. 3. “Coppia di aquile”, ibidem, Metropolitan Museum of Art, New York.
4. “I due elefanti”, ibidem, Pierpoint Morgan Library, New York, ms. M500, f. 13r.
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di stile che matura nell’ambito di una società profondamente mutata, in cui gli apporti culturali sono molteplici. I Mongoli sono buddhisti30, ma sono anche estremamente aperti. Interprete e figura di spicco di questa situazione politica sarà il vizir Rashid al-Din, che servirà sotto due sovrani mongoli quali Ghazan (convertito all’Islam e intollerante fino al persecutorio) e Oljeitu (di sospette simpatie sciite), per i quali sovrintenderà alla compilazione di un’opera monumentale quale il Jami al-Tawarikh (“Storia Universale”) ovvero un compendio storico31 nel quale si esaltasse il ruolo dominante degli Ilkhanidi ma anche grandi figure del passato (Buddha, Maometto, re cinesi, profeti biblici ecc.), con un testo in arabo e persiano e copie destinate ai principali centri dell’impero. Ci restano due esemplari di tali manoscritti, datati al 130732 e al 1314-131533. Il formato è ancora una volta stretto e allungato, e i colori riempiono pacatamente la traccia in nero molto netta. Sembra, per dirlo con la Fontana, che siano «disegni colorati, più che pitture»34, e questo risponde esattamente a uno stile calligrafico proprio dell’Estremo Oriente, stile, però, al quale è estraneo il panneggio degli abiti, desunto invece dall’Occidente bizantino, come si osserva in un foglio a Londra35. Il legame con il “Bestiario” citato sopra è ben stabilito dall’immagine del “Sacro albero di Buddha”36, un disegno privo di presenza umana in cui il trattamento nodoso dei tronchi è analogo all’esempio sopra menzionato. L’influenza cinese è indubbiamente fortissima, ma lo è anche quella occidentale (e si intenda bizantina) a riprova che a Rashidiyya (sobborgo di Tabriz fondato dal vizir di cui assunse il nome) lavorava un’eterogenea, per provenienza e tradizione, équipe di pittori, calligrafi, legatori, scienziati e studiosi di storia, tutti al servizio di un’opera di propaganda “di regime” giustamente considerata fondamentale. La distanza dal periodo selgiuchide con i suoi stentati balbettii è fortissima.
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5. “Maometto, Abu Bakr e un gregge di capre”, dalla Storia Universale di Rashid al-Din, 1314-15. Edinburgh University Library, ms. 20 f. 57r.
6. “Il compianto sulla bara di Alessandro Magno”, dal Grande Shah-nama Mongolo, 1335 circa. Freer Gallery of Art, Washington, inv. 38.3. La composizione, di grande forza drammatica, ha elementi (il panneggio delle vesti e i tendaggi, per esempio) che segnalano la vicinanza a modelli occidentali bizantini.
In questo contesto viene prodotto, sempre a Tabriz e con ogni probabilità intorno al 1335, quello che, a nostro giudizio, è il più spettacolare manoscritto dell’intera produzione artistica islamica, noto come Grande Shah-nama Mongolo37. Le cinquantotto pagine miniate individuate (su un totale, presunto, di 190 illustrazioni su 300 di testo) dimostrano una qualità pittorica davvero eccezionale, un vero e proprio salto di qualità i cui presupposti stanno nell’internazionalismo mongolo. A Washington alla Arthur M. Sackler e Freer Gallery of Art si conserva una delle più famose immagini di questo celebre manoscritto, il “Compianto sulla bara di Alessandro Magno”38. La scena, fortemente drammatica, si svolge in un interno segnato da due portali merlati simmetrici da ciascuno dei quali pende una lampada; su una piattaforma (come nell’uso imperiale cinese...), sul pavimento coperto di tappeti e circondata da quattro candelieri metallici, è adagiata la bara coperta da un drappo sotto una preziosa lampada da moschea. In primo piano, in basso, un gruppo di donne (prefiche) viste di spalle o di profilo, letteralmente si strappano i capelli e si lamentano, con davanti a loro, di spalle e inginocchiata, la madre dell’eroe defunto. A destra e sinistra due gruppi di personaggi maschili tutti con i lunghi capelli sciolti in segno di lutto e con espressioni del volto tristi e sconsolate, quando non addirittura stravolte da una smorfia a testimonianza del dolore. Dietro la bara, sullo sfondo, due personaggi maschili: uno di essi è Aristotele, precettore e maestro del sovrano. Non meno drammatica e riuscita è la pagina intitolata “Il lutto di Faridun all’arrivo della bara di Iraj”39, questa volta all’aperto (simboleggiato dalla personificazione del sole in un cielo nuvoloso alla maniera di Cina); il sovrano e anziano padre dell’eroe ucciso viene sorretto dopo essere caduto da cavallo mentre festoso si recava ad accogliere il rientro del figlio pre-
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7. “Bahram Gur uccide il drago”, dal Grande Shah-nama Mongolo, 1335 circa. The Cleveland Museum of Art, 1943.658.
diletto Iraj (a sinistra i suonatori ricordano l’appuntamento gioioso) e aver improvvisamente e drammaticamente saputo della morte del giovane, peraltro assassinato dai fratelli. Di straordinaria potenza espressiva sono anche altre due pagine che vogliamo qui commentare. La “Lotta di Alessandro con il Kharg”40 presenta l’eroe in una delle classiche scene di combattimento col mostro; a destra un folto numero di cavalieri assiste il sovrano che è al centro dell’immagine, pronto a colpire con la scimitarra sguainata e ben saldo sul suo destriero bianco, che ha un realistico scarto alla presenza dell’orrido animale. Questo ha corpo e zampe leonine, fauci spalancate di lupo, ali (quasi da fagiano!) e un unico enorme corno, un perfetto animale ibrido (si tratta di un unicorno?41). Molto suggestivo è il paesaggio dello sfondo a cui viene concesso molto spazio e che è rappresentato da aspre montagne a più livelli con conifere, una convenzione cinese rivisitata, ma neanche tanto, in chiave islamica. L’uccisione (che poi non è mai veramente tale) del drago è tema prediletto della pittura degli Shah-nama; nel foglio conservato al Cleveland Museum of Art42, è Bahram Gur (identificato come il re sasanide Bahram v43) che, sceso da cavallo, fronteggia un mostro serpentiforme che è già stato colpito con delle frecce e viene affrontato con una spada. Il drago questa volta è ispirato a modelli cinesi44, come se l’artista avesse solo visto diverse opere estremo orientali. L’animale sconfitto, attorcigliato a un albero nodoso, è davvero interessante e alcuni particolari (come gli artigli, la cresta lungo il dorso, le corna ecc.) depongono a favore di una marcata e decisiva influenza dal Catai, come anche il paesaggio montano (picchi ben definiti con alberi contorti) e la roccia bucata in primo piano sotto al destriero45. Va chiarito, comunque, che non vi sono contatti con la pittura mandarina cinese di corte come la conosciamo attraverso le opere del periodo Sung, per esempio. Sembrano molto più vicine ai materiali Tang e questo si spiega col fatto che assai probabilmente gli artisti a cui i musulmani si rifacevano furono pittori professionisti, quali quelli che hanno lavorato nelle grotte di Dun Huang (ma anche ad Ajanta in India), piuttosto che non i celebrati pittori letterati i cui lavori non uscivano da una ristretta cerchia di élite. La parte meno felice è, probabilmente, la rappresentazione del cavallo, troppo manieristica e, nonostante la zampa sollevata, del tutto estraneo al dramma in atto. Occorre, a questo punto, soffermarsi sul testo dello Shah-nama di Firdusi46 e sull’enorme diffusione che l’opera avrà nei secoli seguenti, soprattutto a partire dall’epoca selgiuchide. Lo Shah-nama è un poema epico (di cinquantacinquemila versi) che indubbiamente raccoglie e integra leggendarie tradizioni orali – le quali continueranno a circolare, circostanza molto importante e da tenere presente, soprattutto quando qualche rappresentazione artistica, miniata e non, si discosta dal racconto che conosciamo – e si basa in parte su un testo pahlavi oggi perduto. Dall’età dell’oro dell’inizio del mondo con il sovrano Gayomars al Dario achemenide, passando per Alessandro Magno e fino ai Sasanidi (ma non i Parti) come Bahram Gur e Cosroe ii Parviz (e la bella Shirin, quasi un romanzo nel romanzo), per chiudersi con l’invasione musulmana: «l’era di Omar era arrivata; portò una nuova religione e sostituì il trono con il pulpito»47 e con parole che suonano amare per il supremo cantore dell’iranicità. E proprio quello dell’iranicità dell’opera – con eroi che sono iranici quali Zal, oppure Rustam, Isfandyar, i rivali Ardavan e Ardashir e il nemico turanico, cioè turco per eccellenza, Afrasiyab – è caratteristica talmente lampante da far venire spontaneo alla mente un quesito: perché mai tanti sovrani “stranieri”, sicuramente i Mongoli48 che sono i principali responsabili della diffusione se non del testo delle copie miniate, ma anche i Timuridi,
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hanno fatto di questo volume l’opera principe delle loro biblioteche? E i Safavidi, con Shah Isma‘il ufficialmente sciiti, come mai patrocineranno con Shah Tahmasp il più clamoroso manoscritto miniato persiano49? La questione è decisamente importante e non nuova50, ma molto lontana da avere una risposta che non sia pura ipotesi. C’entrano, sicuramente, ma non per forza nell’ordine, il desiderio di legittimazione di questi sovrani51 e la ricerca di una accettazione presso una cultura sentita come superiore. Contrasta con questa spiegazione la circostanza che il libro è in realtà un fatto “privato”, non legato a una pubblica ostentazione o a creare “immagine”, come diremmo oggi. Si veda, a questo proposito, la penetrante analisi di Oleg Grabar52, dove si sostiene un uso di rappresentanza (con altri sovrani, ambasciatori ecc.) del testo e anche dell’altrettanto diffusa opera di Nizami, materiali dei quali ci si appropria con disinvoltura; è comunque da segnalare la persistenza a livello popolare (ma anche colto) di racconti legati alle imprese epiche di sovrani che non solo sconfinano nel mito, ma sono il mito stesso. Sia come sia lo Shah-nama avrà, dall’epoca mongola in poi, un successo sconfinato, primato insidiato soltanto dalle opere liriche di Nizami (Abu Muhammad Nizami di Ganja [Azerbaigian] 1141-1209), autore di un classico letterario come la Khamsa53. Se con il Grande Shah-nama Mongolo abbiamo il vero inizio della scuola pittorica persiana su livelli artistici di assoluta eccellenza, la tradizione legata al piccolo formato a striscia orizzontale del Varqa u Gulshah continua negli atelier che saranno attivi in diversi centri dopo la morte di Abu Said (1335), l’ultimo sovrano ilkhanide, e la successiva frammentazione dell’impero. Le principali città legate a questa fase e le corti furono quella inju di Shiraz e quella gialairide con alternanza fra Tabriz e Baghdad. Il periodo è stato ben studiato54 e, nonostante la freschezza di molte rappresentazioni, la qualità delle opere non è, per usare un eufemismo, delle più elevate. A circa il 1370 e attribuite alla scuola gialairide di Tabriz, si possono far risalire una serie di opere conservate in alcuni album ad Istanbul (fogli da uno Shah-nama disperso e forse da un Mi‘rajnama [Viaggio ultraterreno del Profeta] ugualmente disperso), biblioteca del Topkapi Sarayi55, e direttamente collegate con il Grande Shah-nama Mongolo. Nell’album di Istanbul contrassegnato dalla sigla H. 2154 (Hazine, tesoro), si conserva il testo di Dust Muhammad, egli stesso un artista del libro, bibliotecario del principe Safavide Bahram Mirza, figlio di Shah Isma‘il, al quale dedicò un album nel 1544 che contiene uno scritto sui “Pittori di ieri e di oggi”, importante fonte documentaria56, insieme al testo di Qadi Ahmad del 160657. Vi si citano, fra gli altri, gli artisti Ahmad Musa e il suo allievo Shams al-Din, cui sono anche attribuite, forse dallo stesso Dust Muhammad, alcune pitture ora a Istanbul (ad Ahmad Musa la celebre immagine con “L’offerta di una città al Profeta Maometto”58); la città è stata variamente interpretata come Costantinopoli, Medina, Gerusalemme. A Shams al-Din è attribuita, invece, la miniatura che ha per soggetto “Isfandyar uccide un lupo”59. Per quanto interessanti, queste opere storiche vanno considerate con una certa cautela; infatti il loro linguaggio è talvolta immaginifico e ampollosamente celebrativo60, per esempio nel paragone con Mani, il fondatore della corrente religiosa manichea, al quale il mito riconosceva doti insuperate di pittore. Un manoscritto eseguito a Baghdad, datato al 1396, dei tre poemi di Khwaju Kirmani61 reca nove miniature di cui una “Le nozze di Humay e Humayun”62, con la firma del pittore Junayd a cui sono attribuite anche le restanti. Nello spazio di poco più di settant’anni la mi-
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8. “L’offerta di una città al Profeta Maometto”, da un Mi‘raj-nama disperso, 1370 ca. Topkapi Saray, Istanbul, H. 2154 f. 107r. È interessante notare come fino al tardo Trecento gli artisti abbiano rappresentato anche il volto del Profeta.
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niatura persiana raggiunge una qualità compositiva, di stile, di eleganza, di equilibrio, pressoché perfette. A questo ideale, a questo genere di rappresentazioni si ispireranno gli artisti almeno sino alla fine del Cinquecento in piena epoca safavide. Dunque non sarà privo di interesse analizzare tali esiti e comprendere quali siano i meccanismi messi in atto da Junayd e che faranno scuola. Anzitutto va sottolineato come la miniatura sia parte integrante di un testo e da esso non vada disgiunta; l’illustrazione, anche nel procedimento fisico dell’esecuzione, non è parte a sé stante, ma si integra, completa la parte testuale, magari copiata da un celebre calligrafo. È appena il caso di ricordare come nell’arte islamica – e la Persia non fa eccezione – il copista sia spesso il vero protagonista del libro; abbiamo, del resto, memoria di tanti più calligrafi che non pittori, a significare il ruolo preminente di quest’arte. Testo e immagine si chiariscono e completano a vicenda in una simbiosi che forse non ha eguali nell’arte occidentale. Spesso, se non proprio sempre, nelle miniature scorrono alcune righe di testo. La posizione del miniaturista – nonostante l’opera sia essenzialmente privata, ricordiamolo – è abbastanza delicata63, stante non certo la “proibizione delle immagini” o iconoclastia, ma comunque una certa prudenza necessaria a non essere accusati di aver voluto rappresentare la realtà e così usurpare il ruolo creatore che spetta a Dio solo. Qui si assiste a una scissione ideologica di grande interesse che meriterebbe studi approfonditi. Alcune caratteristiche sono piuttosto chiare: l’assenza di ombra rende le figure non realistiche, e l’intrecciarsi dei piani prospettici (ad esempio, nella miniatura di Junayd citata sopra), con la protagonista vista frontalmente, l’architettura di scorcio, i tappeti dall’alto e le donne dell’harem che si affacciano da una finestra e le scale che hanno prospettiva creano un insieme assolutamente irrealistico, cioè non naturalistico. Per contro abbondano gli elementi realistici, addirittura veristici, come nell’abbigliamento, nelle lampade, nel vaso (un celadon cinese? se è così, non è certo inventato), nei tendaggi e nei tappeti e quasi certamente anche nel rivestimento ceramico dell’architettura. Non i volti, standardizzati e immobili, sebbene la fanciulla si copra pudicamente la bocca mentre le donne esaminano il suo verginale lenzuolo. C’è una sintesi notevole fra movimento e staticità. Il modello è prevalentemente statico, quasi idealmente platonico; c’è bisogno che l’osservatore – il quale è un singolo, dedito a un esame personale – intervenga con la sua conoscenza del testo, con la sua lettura e con la sua fantasia per aggiungere quei particolari che non sono omessi per distrazione o dimenticanza, ma perché devono essere inseriti solo dal fruitore. Ed è così anche in altri materiali artistici; chi guardi un mihrab in stucco, o un minbar di legno, ornati con motivi geometrici o arabeschi, ha tutte le possibilità di scelta del percorso visivo da seguire (ecco perché si è parlato per l’arte islamica di effetto caleidoscopico), anche se l’artista non esita a suggerire il suo punto di vista. Un’altra miniatura del medesimo manoscritto “Humayun al cancello del palazzo di Humay”64 chiarisce perfettamente l’ideale arcadico a cui si ispira il maestro e il rapporto con la natura. Inoltre, se non inizia qui e ora la pratica di far emergere elementi (un albero, una cupola, una roccia) oltre il limite deputato dalla cornice per la pagina, questa pratica viene perfezionata e resa indispensabile. È un modo per ricordare che non c’è niente di finito, di chiuso, di definitivo, che, insomma, tutto continua, tutto è frammento di una realtà che è infinita, di cui possiamo percepire solo un attimo, perché l’infinito è solo di Dio. Una terza, e ultima, miniatura di questo eccezionale documento artistico “Combattimento di Humay e Humayun”65 ci conferma quanto si diceva in relazione al rapporto con la natura e all’uso di alcuni elementi ricorrenti (la circolarità della scena, il ruscello posto in basso, le rocce che
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9. Junayd, “Il combattimento di Humay e Humayum”, da Tre poemi di Khwaju Kirmani, 1396, British Library, Londra, Add. 18113 f. 31r.
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paiono personificate66, la teoria di uccelli); sebbene questa miniatura forse manchi di forza espressiva e di carattere (quelli che vi aggiungerà un Bihzad, per questo giustamente celebrato come il più grande di tutti) e abbia un carattere lievemente accademico (lo scontro fra i cavalli che replica quello degli eroi sembra una coreografia di Djagilev!), questa e le altre sono una pietra miliare di quest’arte.
La miniatura nel periodo timuride Col periodo timuride si assiste a uno straordinario impulso all’arte della miniatura, frutto di una stagione politica abbastanza stabile, ma anche di una serie di sovrani e principi accaniti bibliofili, che hanno lasciato un segno importante nella storia culturale e artistica dell’Iran. Merito soprattutto di un geniale condottiero, Timur (il Tamerlano degli occidentali, 1336-1405), di origini centroasiatiche e capo di un clan che pretendeva di essere mongolo (naturalmente Timur faceva discendere la propria genia da quella di Gengis Khan), ma in realtà era turco, il quale dalla nativa regione di Samarcanda guidò l’ennesima invasione verso occidente assoggettando l’altopiano iranico in una quindicina d’anni (a partire dal 1380; le campagne militari furono anche costellate di stragi, come il massacro compiuto nella riottosa Isfahan che, si dice, costò la vita a 70.000 persone), per poi spingersi ancora più a ovest con campagne nel Caucaso (e da lì raggiungere Mosca), in Siria (il sacco di Damasco è del 1401), in Anatolia (dove nel 1402, in una battaglia nei pressi di Ankara, sconfisse e catturò il sultano ottomano Bayazit, per giungere sulle rive del Mediterraneo a Smirne), in India, dove prese Delhi, per poi tornare a Samarcanda, nemmeno troppo stanco, dal momento che da quella sua base aveva intenzione di attaccare la Cina. La morte coglierà Timur sulla via di questa impresa a Otrar nel 1405. Un’interessantissima fonte su Timur e sulla sua corte è il resoconto che fa della sua visita (e del suo peregrinare: “insegue” Timur per almeno due anni) l’ambasciatore di Enrico iii di Castiglia, Ruy Gonzalez de Clavijo, che ci mostra in un vivido racconto l’Oriente di allora67. La storia68 della guerra di successione vedrà prevalere il figlio di Timur, Shahrukh (nato nel 1377; regno 1409-1447), che sposterà la capitale dell’impero da Samarcanda a Herat (mossa che entrerà nel gioco degli scacchi col termine “arrocco”) e segnerà un periodo piuttosto lungo, quasi tutto il Quattrocento, in cui alla frenesia della conquista, che caratterizzò la vita di Tamerlano, fecero seguito una serie di sovrani e principi che si divisero il potere – seguendo uno schema familiare ereditato dalla concezione mongola del comando, ma senza la potente centralizzazione politica sostanziale di quell’impero – e alle cui corti fiorirono le arti, la poesia e la scienza. Fra i nipoti di Timur sono da ricordare Ulugh Beg (1394-1449) – che governò Samarcanda fino al 1449 –, grandissimo matematico e astronomo, e suo fratello Baysunghur (1397-1433), prima a Tabriz e poi a Herat, straordinario uomo di lettere, fra l’altro responsabile di un’edizione critica dello Shah-nama (1426) su cui si basano ancora le versioni del testo che usiamo correntemente. Corti importanti per l’arte della miniatura furono anche quella di Pir Muhammad (1393-1400), poi di Iskandar (1409-1415), quindi del di lui cugino Ibrahim Sultan (figlio di Shahrukh; 1415-1435), tutti a Shiraz, e, successivamente, quella di Herat durante il regno di Abu Sa‘id (1451-1469) e di Sultan Husayn Mirza Bayqara (1470-1506). Il dominio di Abu Sa‘id fu messo in forse da scontri violenti con i potentati rivali dei turcomanni69 Qara Qoyunlu (“Quelli del montone nero”; occuparono Herat con Jahanshah nel 1458) e
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10. Muhammad Siyah Qalam, “Campo di nomadi”, inizi del xv secolo, Topkapi Saray, Istanbul, H. 2153 f. 8v. Opera di ambiente centrasiatico (con forti influenze cinesi) del più emblematico artista musulmano.
Aq Qoyunlu (“Quelli del montone bianco”; sopravvento a Herat nel 1470 con Uzun Hasan, sovrano molto attivo sul piano militare ma anche politico e diplomatico; ricordiamo un suo tentativo di alleanza in chiave antiottomana, con Venezia, alleanza che rimase sulla carta, ma sancita anche da qualche dono diplomatico di cui resta traccia nel Tesoro di San Marco70). Durante il regno di Husayn Bayqara si distinse in particolar modo il suo vizir (primo ministro e in pratica vero gestore degli affari pubblici) Mir ‘Ali Shir, noto come Nava’i (“il melodioso”, 1441-1501), poeta e scrittore bilingue in turco (la sua stirpe era di origine chagatay e dunque non parte dell’aristocrazia turco-mongola, bensì risalente alla classe dei bakhshi, scribi, uiguri71) e persiano, nonché mecenate di un atelier pittorico con a capo l’artista Hajji Muhammad; è in questa Herat, capitale cosmopolita, da cui si trasferì a Tabriz, che sarà presente e attivo il pittore Kamal al-Din Bihzad, universalmente celebrato come fra i più grandi, se non il più grande, miniaturista islamico. Dal punto di vista artistico questo periodo, grossomodo il Quattrocento, si segnala per lo spostamento, non sempre spontaneo, delle maggiori scuole e botteghe dell’arte del libro dall’occidente persiano (Tabriz e financo Baghdad) all’oriente khorasanico e centrasiatico (Samarcanda, Herat e poi la corrente autonoma chiamata “scuola di Bukhara”). A un ambiente dell’inizio del secolo xv (al più tardi al 1425), centrasiatico (ma se Herat, Samarcanda o altro centro più orientale non è dato sapere), sono da assegnare alcune pitture eccezionali, sia per qualità pittorica, sia per soggetto, contenute in due dei quattro album istambulioti già citati (H. 2153; H. 2160) e che per di più recano una firma o attribuzione
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all’Ustad Muhammad Siyah Qalam (ovvero il maestro Muhammad Penna Nera)72, personalità di spiccata individualità, quanto del tutto misteriosa. Le pitture, su fogli staccati, sono certamente influenzate dall’arte cinese (a questo punta anche la forma di alcune, dipinte su rotoli di seta), e sono diseguali per contenuto e ambientazione. Le più interessanti, e diremmo anche inquietanti, sono un gruppo di opere che sembrano ritrarre scorci di vita nomade e gruppi di sciamani (o jinn?), talvolta vere e proprie figure mostruose, intenti in cruenti combattimenti oppure in scene rituali. Non è stato finora rintracciato alcun testo di cui queste pitture potrebbero essere un’illustrazione. La forza descrittiva, che non prevede mai alcuna forma di sfondo, con le immagini libere di fluttuare nello spazio e nel tempo, è accresciuta dall’amore per i particolari, dal contrasto fra la nudità dei soggetti (incredibilmente pelosi)
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11. “Il viaggio del profeta Maometto all’inferno”, da un manoscritto del Mi‘raj-nama, 1430-1440 circa. Bibliothèque Nationale, Parigi, Suppl. Turc. 190 f. 67r.
e i gioielli d’oro di preziosa fattura che li abbelliscono, e da un’abilità tecnica decisamente superiore alla media. Anche alcune pitture di chiara filiazione cinese, come il “Corteo nuziale notturno”73, non sono di agevole interpretazione, non tanto per il soggetto rappresentato, quanto per l’identificazione dei protagonisti che sono descritti con tale precisione da non lasciare dubbi circa il fatto che si tratti di un episodio realmente accaduto (una principessa cinese o mongola in viaggio nuziale scortata da turchi), ma quale? Della scuola di Shiraz ai tempi di Jalal al-Din Iskandar ibn ‘Omar Shaykh ibn Timur, citiamo volentieri un foglio “Iskandar visita di notte un eremita” di un manoscritto della Khamsa di Nizami (l’Iskandar nama), eseguito a Shiraz nel 1410-141174, che rappresenta degnamente l’evoluzione di un’arte che tiene ben presenti le lezioni della Baghdad gialairide e della stessa Shiraz muzaffaride. Accanto ad alcune tematiche convenzionali (il ruscello in basso, l’albero nodoso, le rocce astratte che nascondono personaggi umani o animali pietrificati75), vediamo come le figure tendano ad allungarsi e la qualità compositiva ad essere più vivace rispetto a una certa freddezza accademica dei manoscritti di fine Trecento. Di questa pagina vogliamo anche segnalare l’eleganza del testo, scritto in diagonale e con una raffinata cornice che termina a punta. La continuità di questo laboratorio durante il regno di Ibrahim Sultan sembra confermata da un’“Antologia” dedicata al fratello minore Baysunghur, oggi a Berlino76, anche se il testo più interessante prodotto grazie al patrocinio di questo principe è lo Zafar-nama (“Libro della Vittoria”, testo storico celebrativo delle imprese di Timur e, dunque, opera per così dire in “presa diretta”), datato al 1436 e oggi purtroppo disperso in varie collezioni77. Uno dei Kitabkhana più attivi fu quello di Herat, sede del potere di Shahrukh, il quale vi nominò reggente il figlio preferito Baysunghur e, dopo la morte prematura di questi a soli 37 anni (1433), il settimo figlio Muhammad Giuki, che morì due anni prima del padre (1445). A Herat confluirono miniaturisti da ogni angolo dell’impero, soprattutto all’epoca di Baysunghur (il padre, Shahrukh, fu più interessato alla storia; fu egli, infatti, a commissionare un’“Antologia” degli scritti storici di Hafiz-i Abru e, probabilmente, a far pervenire a corte copie del Jami al-Tawarikh mongolo di Rashid al-Din, testo che servì da modello), il più illuminato e bibliofilo dei principi timuridi, egli stesso un valente calligrafo se è vero, come sostengono le fonti, che la calligrafia cufica e thuluth per i mosaici ceramici della moschea fatta costruire dalla madre Gawhar Shad a Mashhad è opera sua. Del periodo in cui Baysunghur fu governatore a Tabriz restano tracce di stile gialairide nella pittura e forse anche nell’organizzazione del laboratorio, come ci è raccontata da Ja‘far al-Baysunghuri, sovrintendente dell’atelier, nel manoscritto datato 1427 (con quattro calligrafi, sei decoratori, due decoratori/pittori, due pittori, tre rilegatori, un marginatore e due disegnatori), laboratorio che si andava via via specializzando. Un’“Antologia” timuride datata 26 luglio 1427 fu acquistata dal noto storico dell’arte Bernard Berenson, ed è conservata a villa “I Tatti” a Settignano78; qualche studioso ha addirittura voluto vedere intenti ritrattistici in queste miniature, ma va chiarito che si tratterebbe di un ritratto ideale79, e quel che colpisce in queste opere è l’assoluto rigore formale. Alla morte di Baysunghur il controllo della bottega di corte passò al fratello Muhammad Giuki, anche se pare che l’effettivo andamento dei lavori fosse nelle mani del nipote, il principe Ala al-Daula, che fece venire a Herat da Tabriz un importante artista, il pittore Ghiyath al-Din. Lo stile imposto da Baysunghur continuerà anche oltre la sua scomparsa, come dimostrano un manoscritto del Mi‘raj-nama ora a Parigi80, fra i più belli mai eseguiti, e uno Shah-nama alla Royal Asiatic Society di Londra81. Quel che ci preme sottolineare è come nella prima metà del Quattrocento si assi-
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sta, grazie a numerosi mecenati e forse anche alla concorrenza fra di loro, al fiorire di un’arte matura, piena di vitalità e soluzioni originali e raffinate. Il canone artistico è ormai sancito e gli artisti possono dare pieno sfogo al proprio talento. Una possibilità sfruttata in pieno e che vedrà, ancora una volta, lo Shah-nama come testo principe in tale contesto82; una fase in cui la produzione di manoscritti sembra essere stata pratica comune, quasi frenetica, e caratterizzata da un altissimo standard qualitativo. È in questo quadro che appare la figura straordinaria di Kamal al-Din Bihzad83, il pittore di genio, colui che firmerà i capolavori di quest’arte. I giudizi su di lui sono perfino imbarazzanti, leggiamone uno: «Il maestro Kamal al-Din Bihzad. Egli ci ha mostrato forme meravigliose e la unicità dell’arte; la sua tecnica [del disegno], che è come il pennello di Mani, ha fatto sì che il ricordo di tutti i pittori del mondo sia cancellato [...]. Un tocco del suo pennello, attraverso la sua maestria, ha dato vita a forme inanimate»84. Il Kitabkhana patrocinato da Husayn Bayqara era diretto da Mawlana Mirak Naqqash e annoverava più di un maestro famoso; interessante è la circostanza che il vizir Mir ‘Ali Shir Nava’i avesse un suo studio, con il pittore Hajji Muhammad quale sovrintendente. In ogni caso la figura di Bihzad, attivo a Herat nell’ultimo quarto del Quattrocento e poi sovrintendente a Tabriz e responsabile di quella che diverrà la scuola safavide, è figura chiave non solo storicamente85, ma artisticamente fondamentale nel saldare – più che idealmente – l’ultimo periodo timuride con gli esordi del periodo safavide. Ovviamente, data la notorietà del maestro già in vita, molte opere recano la firma di Bihzad e non tutte sono di sua mano; anche se un corpus definitivo non è ancora stato stabilito, gli studiosi concordano su alcuni lavori, e fra questi vi è il Bustan “Giardino” di Sa‘di (grande poeta shirazeno del xiii secolo), eseguito a Herat nel 1488 per Sultan Husayn Bayqara, conservato alla Biblioteca Nazionale del Cairo86. La composizione del “ricevimento di corte”, disposta su due pagine, chiarisce perfettamente come Bihzad, pur nel solco della tradizione precedente, renda l’intera opera più libera, meno formalmente “ingessata”, dando naturalezza ai personaggi (che pure non sono ritratti e nemmeno realistici) e in effetti creando un’aspettativa che spezza la cristallizzazione precedente; laddove prima bastava un’occhiata per percepire appieno il senso della rappresentazione, Bihzad ci prende per mano e ci mostra i particolari e i dettagli, le scenette di genere e ci fa partecipare attivamente all’evento, pur nel rispetto assoluto delle convenzioni storicamente stabilite. Il “ricevimento a corte” del Cairo nella parte sinistra presenta due personaggi su un tappeto (sotto una tenda cupolata e un’altra copertura con un motivo ornamentale a mezza strada fra il tappeto e la rilegatura di un manoscritto o, più semplicemente, un arazzo o tessuto) intenti a una conversazione, mentre sulla terrazza – sapientemente e prospetticamente circoscritta da un muro e da una torre esagonale – di fronte ad essi musici e servitori preparano la festa, di cui sembra di percepire la sottile atmosfera di eccitazione mista ad attesa. Nella pagina di destra, una grande terrazza (forse un talar, anche se mancano le colonne) si affaccia sul paesaggio circostante (e vi troviamo alberi d’alto fusto e una collina erbosa fiorita) e su di essa sono persone che bevono, altre che ballano, servi che portano cibi. Splendido è il portale sulla destra, descritto con dovizia di particolari e assolutamente realistico: dalla porta socchiusa esce un servo che minaccia di colpire un ospite indesiderato in procinto di intrufolarsi nella festa. Ed è proprio questo insieme, deliberato, di classicità, descrizione quasi realistica, bozzetti ironici e spezzoni di vita quotidiana, a rendere il lavoro di Bihzad unico. In una Khamsa di Nizami (Herat 1494), già appartenuta al sovrano moghul dell’India
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12. “Il sultano Husayn Bayqara presenzia a un banchetto” dal Bustan (“Giardino”) di Sa‘di, istoriato da Kamal al-Din Bihzad, 1488. Biblioteca Nazionale del Cairo.
pastore. Grandi capacità tecniche associate a una fantasia inesausta e a uno studio attento del particolare (architettonico, cromatico, umano) sono le qualità migliori di questo pittore di genio.
La miniatura nel periodo safavide
Jahanghir (1605-1627), il quale di suo pugno attribuisce a margine sedici miniature a Bihzad, ora alla British Library87, la straordinaria vena artistica del pittore è pienamente affermata, sia nelle rappresentazioni per così dire più classiche di interni (fol. 214r), come nell’“Iskandar e i sette saggi”, con una complessa architettura, un paesaggio esterno idilliaco, i sette personaggi resi con abiti e caratteristiche somatiche diverse, e, infine, con scenette di genere, fra cui il guardiaporta seduto sulla soglia che scruta annoiato i passanti. Sia in un classico esterno come l’incontro di “Sanjar con una vecchia” (fol. 16), con un equilibrio perfetto e un ritmo della composizione (la vecchia al centro, il sovrano a cavallo seguito da tre attendenti a destra e sull’altro lato, a bilanciamento, quattro cavalieri; il paesaggio appena accennato che non rinuncia all’ambientazione di uno spazio circolare); oppure è classico perfino il genere più eccentrico, “Il califfo Ma’mun al Bagno” (fol. 27v) e la “Costruzione della fortezza di Khawarnaq” con stupendi bozzetti di vivaci scene di vita quotidiana. Rappresentazioni che costituiscono il fulcro dell’opera di Bihzad; in un’altra Khamsa di Nizami88, databile al 1490 circa, nella replica della scena di “Sanjar con una vecchia”, oltre a un paesaggio roccioso che anticipa le più complesse architetture naturalistiche safavidi, osserviamo un personaggio che, sceso da cavallo, riempie una brocca dalla sorgente che zampilla alla base delle rocce, mentre poco più in alto un agnellino succhia il latte dalla madre sotto l’occhio attento del
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13-14. Bihzad, due miniature tratte da un manoscritto della Khamsa di Nizami, 1494-95. British Library, Londra. La prima, “La costruzione della fortezza di Khawarnaq” (Or. 6810 f. 154v.), eseguita con eccezionale perizia tecnica, raffigura un episodio che attinge a tematiche della vita quotidiana. Nella seconda (Or. 6810 f. 225v.), Iskandar è raffigurato in una ricca scena di esterni.
Tabriz, con le sue alterne vicende storiche, anche durante gli anni del dominio timuride, con l’asse politico e culturale spostato verso oriente, rimase sempre un importante centro artistico. Qui, territorio per eccellenza di frontiera, il dominio non è mai stato particolarmente stabile e nel Quattrocento furono le dinastie turcomanne dei Qara Qoyunlu e degli Ak Qoyunlu89 a contendersi il potere e a scontrarsi con l’impero timuride. Shahrukh sconfisse i Turcomanni di Qara Yusuf, ma fu abile a lasciare al governo i di lui figli, Iskandar e soprattutto Jahanshah, finché nel 1467 Uzun Hasan (un Aq Qoyunlu) non ne fece la sua capitale, la cui eredità passò nel 1478 al figlio Ya‘qub. Un potente clan di origini curde ma di lingua turca si affaccia, agli inizi del Cinquecento, alla ribalta storica persiana. Personaggio chiave di questa ascesa sarà Isma‘il i (nato nel 1487 e a soli 14 anni proclamato Shah dopo aver sconfitto gli Aq Qoyunlu nel 1501; regnerà fino al 1524), il quale legherà le sorti della sua dinastia allo Shaykh Safi al-Din al-Ardabili (12521334), il fondatore dell’ordine mistico dei Safavidi, del quale Isma‘il si dirà discendente. Con Isma‘il i la Persia diverrà ufficialmente sciita duodecimana e si vedrà costretta a fronteggiare spesso i potentati rivali: gli Ottomani a occidente (da cui il Nostro fu sonoramente sconfitto nel 1514) e gli Shaybanidi a oriente (dal 1512 Herat passerà sotto il controllo safavide, dopo un’aspra battaglia a Marv [1510] che spianò le vie dell’Oriente). La capitale dell’impero fu dapprima Tabriz, esposta però ai pericolosi attacchi ottomani (la città fu occupata da Selim i nel 1514; è qui e in questo periodo che i Turchi vennero a contatto con la porcellana cinese. Infatti, sono da riferire a questi anni le prime importanti registrazioni di questi materiali nella guardaroba sultaniale del Topkapi), quindi fu trasferita a Qazvin (capitale con Shah Tahmasp dal 1555) e da là in posizione ancora più centrale a Isfahan per volere di Shah ‘Abbas i (1597). Dal punto di vista artistico Shah Isma‘il, come del resto tutti o quasi i fondatori di grandi imperi, non ha lasciato molte tracce, impegnato, come fu, in continue campagne militari. Quindi a Tabriz la scuola miniaturistica di corte (attiva per tutta la prima metà del Cinquecento) non si distinguerà granché, sulle prime, dalle esperienze turcomanne di Ya‘qub Beg, che è ricordato in associazione a una Khamsa di Nizami90. Un carattere distintivo safavide saranno i turbanti (taj-i haydari)91 con un pennacchio rosso (da cui il termine turco Qizil bash – testa rossa), che la leggenda vuole siano apparsi in sogno al capo della confraternita mistica safavide, lo Shaykh Haydar (1456-1488; padre di Shah Isma‘il); si tratta di un alto copricapo con dodici lati (a ricordo dei dodici imam sciiti) con al centro un pennacchio rosso, immancabilmente ritratto dai pittori. Ma un primo periodo d’oro dell’arte miniaturistica safavide è legato al nome di Shah Tahmasp i (nato nel 1514, regnò dal 1524 al 1576), che giunse a Tabriz (dopo essere stato governatore nominale – aveva solo due anni! – di Herat) più o meno contemporaneamente a Bihzad che, forse ormai anziano e non più attivo come artista, dal 1522 divenne sovrintendente della Biblioteca Reale, portandovi il proprio indubbio prestigio e anche lo stile e i modi del tardo periodo timuride a Herat.
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Il più importante manoscritto prodotto in Iran sotto il patrocinio di Tahmasp (anche se è possibile che l’impresa sia stata voluta da Shah Isma‘il) è una sontuosa (760 fogli, 47 x 32 cm, e 256 miniature) copia dello Shah-nama, noto come “Grande Shah-nama di Shah Tahmasp”92, a cui hanno concorso numerosi artisti, anche se si è soliti dividere l’opera in tre fasi; una prima con Sultan Muhammad (“coordinatore” del progetto), una seconda con Mir Musavvir e una terza con Aqa Mirak, almeno dando credito a Dust Muhammad93. A tali artisti andrebbero comunque aggiunti i nomi di Mirza ‘Ali, Muzaffar ‘Ali, Shaykh Mhammad, Mir Sayyid ‘Ali, Abd al-Samad, e di almeno altri cinque pittori secondari, per un lavoro durato certamente almeno una dozzina di anni; l’unica data riportata è il 1527-1528, e, probabilmente, fu terminato nel 1535. Va da sé che il livello artistico è disuguale. La più famosa miniatura di questo celebre manoscritto è opera di Sultan Muhammad e si intitola “La corte di Gayomars”94; si tratta di una pagina piena, densa di virtuosismi pittorici e spunti narrativi. Il foglio è incorniciato e i margini sono decorati con una spugnatura dorata. L’impaginazione è semplice e accurata, con due coppie di “blocchetti” orizzontali di testo in basso e altri due in alto, a sinistra un doppio “blocchetto” singolo e a destra due coppie di linee sovrapposte. Ci siamo soffermati su questo particolare perché esso non è affatto secondario nel determinare il ritmo della composizione, che procede in modo ordinato, seppure con una simmetria volutamente interrotta. Tre lati della cornice, e cioè, ad eccezione del quarto lato in basso, tutti gli altri, mostrano uno “sfondamento” decorativo della medesima, con particolari realistici: rocce e alberi nodosi e contorti che emergono con sicurezza. La scena si svolge in un esterno, in un paesaggio aspro ma idilliaco, con un cielo a fondo oro su cui si stagliano convenzionali nuvolette alla cinese. Al centro del paesaggio roccioso la figura del re, Gayomars, seduto a gambe incrociate su uno sperone di roccia, mentre ai lati – quasi una Trinità –, anch’essi su picchi montani ma un po’ più in basso, altri personaggi, l’uno stante e l’altro seduto. La metà inferiore della miniatura reca la rappresentazione, a destra e sinistra, di due ali di folla disposte a semicerchio con al centro un bellissimo paesaggio, molto verde, determinato da una cascatella d’acqua95, con animali di tutte le specie, ma soprattutto selvatici, anch’essi soggiogati dalla pace straordinaria che regna in questo paradiso terrestre. Il cromatismo è deciso e molto sfumato, con colori estremamente vari, ricchi di contrasti ben risolti in una vera e propria sinfonia di immagini. I personaggi, ancora una volta abbastanza allungati, sono coperti con vesti di pellicce animali e definiti con sobria eleganza96. Sultan Muhammad è un notevole interprete, capace di fondere assieme magistralmente la scuola di Tabriz con quella di Herat, anche se qua e là affiora un certo accademicismo o manierismo, non lontano da quella freddezza di esito che abbiamo visto nella Khamsa di Nizami del 1396, già discussa e attribuita a Junayd. Molto interessante è anche il confronto con una miniatura di Sultan Muhammad “Sanjar con una vecchia”97, ovvero con lo stesso tema trattato da Bihzad e che abbiamo citato poco sopra. La rappresentazione è posta all’interno di uno spazio che è reso circolare (una convenzione già incontrata in precedenza, ma che adesso sembra prediletta in modo particolare) in basso dal consueto ruscello (con anatre) e da un crescendo di rocce che, debordando dalla cornice, salgono verso l’alto; rocce rese in modo sempre più astratto alla cui sommità (lo spazio descrive una collina o una montagna) sono degli alberi (fra cui si riconoscono un platano e un cipresso) con sullo sfondo il cielo di nuvolette cinesi e un sole dai raggi dorati in alto a sinistra. La vecchia che afferra un lembo della veste del sovrano è pressoché identica nella posizione e nella composizione, ma mentre
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15. Sultan Muhammad, “La corte di Gayomars”, dallo Shah-nama di Shah Tahmasp, 1525-153. Collezione del principe e della principessa Sadruddin Agha Khan, f. 20v. La pagina è dipinta con tale ricchezza di particolari e complessità di impostazione da essere considerata uno dei capolavori assoluti dell’arte miniaturistica persiana e islamica.
Bihzad98 fa piegare realisticamente il sultano verso il basso per prestare attenzione alla donna, qui l’insieme – tecnicamente dipinto benissimo – risulta molto più freddo e controllato. Da ricordare, nell’ambito della miniatura, è anche il fratello di Tahmasp, Abu’l Fath Bahram Mirza, esperto calligrafo (almeno secondo l’opinione di un terzo fratello, Sam Mirza) e patrocinatore dell’album99 che contiene la più volte menzionata prefazione del pittore (di Herat) Dust Muhammad, completato nel 1544, quando l’artista era anche direttore della Biblioteca Reale e del suo atelier. Ed è giusto rendere onore a costui anche come pittore con un’opera firmata (datata 1540 ca.), compresa nel Grande Shah-nama di Tahmasp100 e intitolata “Storia di Haft-
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vad e del baco gigante”, un soggetto poco rappresentato, in cui l’artista dimostra di avere ben assorbito la lezione del maestro (Bihzad) nelle scene di genere, e di possedere una sua specifica, e un po’ contraddittoria, personalità che si esprime nei forti contrasti di linee ma anche con motivi e temi scontati e un po’ ripetitivi alternati a innovazioni geniali. Intorno al 1540 gli artisti non solo sono coinvolti in grandi progetti librari, ma dipingono anche singole pagine, delle specie di ritratti, alle volte idealizzati, come in un’opera di Aqa Mirak101, altre probabilmente più rispondenti al vero, come il foglio con “Sarkhan (?) Beg” ora a Londra102. S’è detto che quella di Tahmasp è stata una figura controversa, magari non “uomo codardo e spregevole”103, ma di sicuro personalità problematica che pare essere stato colpito, verso la metà del suo lungo regno, da una potente crisi che lo portò a riconsiderare le priorità della vita. Già negli anni ’40 del Cinquecento, allorché l’indiano Humayun, anch’egli rifugiatosi alla corte di Tabriz, al momento di tornare in patria (che raggiunse nel 1555), chiese di portare con sé alcuni artisti di grido quali Mir Musavvir, lo Shah non fece alcuna obiezione, segno evidente di un subentrato disinteresse. Oltre al già ricordato Mir Musavvir seguirono Humayun in India anche Mir Sayyid ‘Ali, Abd al Samad, a cui si aggiunse forse anche un non invitato Dust Muhammad che, si dice, non potesse vivere senza il vino ormai proibito dal re104. Nel 1548 Shah Tahmasp spostò la capitale a Qazvin e nel 1556 promulgò il famoso “Editto del Sincero Pentimento”, che mutò sensibilmente il clima a corte, se non impedendo, di certo limitando molto l’opera degli artisti e sicuramente smorzandone l’entusiasmo. Ma come abbiamo visto, ed è una costante in questo racconto sulle miniature in Persia, non esisteva un solo Kitabkhana, ma molti, e così gli artisti che non seguirono Humayun in India (quelli, va detto sia pure per inciso, hanno pesantemente segnato il percorso artistico della miniatura Moghul) trovarono rifugio in altri luoghi, il più importante dei quali fu la corte di Ibrahim Mirza (nipote di Tahmasp) a Mashhad. Fra questi i più noti sono Shaykh Muhammad, ‘Ali Asghar, Abdallah-i Muzhahib, che lavorarono a un manoscritto del Haft Aurang (“I sette troni”) di Jami (1414-1492; grande poeta e mistico, visse alla corte di Husayn Bayqara a Herat), con ventotto miniature completate nel corso di nove anni, oggi conservato alla Freer Gallery of Art di Washington. La miniatura “Due amanti raggiungono l’isola della Beatitudine”105 dichiara pienamente tutte le proprie ascendenze da una grande scuola pittorica. Certo gli elementi convenzionali sembrano prevalere sia sul piano morfologico che su quello grafico: le nuvole alla cinese, che adesso vantano un buon paio di secoli di tradizione alle spalle, sono quasi delle spirali (e giustamente Basil Gray le paragona a quelle, addirittura più stilizzate, che si trovano sui tessili cinesi), e il platano è ancora leggermente nodoso e contorto, ma ha un’innaturale alternanza di foglie gialle e verdi. Le rocce, infine, sono molto più appiattite e al termine di un lungo processo di estraniamento tornano ad essere quasi naturalistiche. Naturalmente il trasferimento della capitale safavide (prima a Qazvin e poi a Isfahan, come s’è già scritto) ha comportato il più o meno automatico spostamento anche degli atelier di corte. Così avremo una produzione assegnata a Qazvin, la cui opera più importante sembra essere un Garshasp-nama (ovvero “Libro di Garshasp”) di Asadi (x secolo), conservato a Londra presso la British Library106. Anche Shah ‘Abbas i per dieci anni manterrà la capitale nel Nord e seguirà la norma patrocinando una copia dello Shah-nama, eseguito fra il 1587 e il 1597, parzialmente conservato alla Chester Beatty Library di Dublino107, con miniature firmate da un importante artista quale Sadiqi. Senza ombra di dubbio laboratori provinciali erano ancora attivi in quei centri dove le scuole pittoriche avevano a lungo prosperato, per esempio Shiraz e Herat.
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16. Sanwlah, “L’arrivo dell’indiano Humayun alla corte di Shah Tahmasp”, British Library, Londra.
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Ma una svolta decisiva sarà data dallo spostamento alla fine del Cinquecento della capitale a Isfahan, e dalla politica sociale, economica, diplomatica e artistica di Shah ‘Abbas (si vedano anche i capitoli sui tappeti e l’architettura), che porteranno a una grande stagione pittorica, l’ultima prima del declino safavide. La scuola di Isfahan è legata al nome del pittore Riza, attivo già alla fine del Cinquecento e probabilmente in competizione, anche generazionale, con l’anziano Sadiqi, alla cui morte (1609), diverrà incontrastato dominatore della scena artistica, ricevendo l’appellativo onorifico di ‘Abbasi. Nel trattato sulla pittura di Qadi Ahmad108 si nomina il pittore Aqa Riza (figlio dell’artista ‘Ali Asghar da Kashan) e per molto tempo è stato vivo l’equivoco se questi e Riza ‘Abbasi siano stati in realtà la medesima persona, come sembrerebbe logico viste le troppo numerose coincidenze. Riza ‘Abbasi creò una sua scuola, già con il figlio Muhammad Shafi‘ ‘Abbasi (appellativo non ereditato, ma, stavolta, da ‘Abbas ii, 1642-1667) e altri allievi come Mu‘in, ma pure Muhammad Qasim, Muhammad Yusuf e Muhammad ‘Ali, tutti continuatori, in un modo o in un altro, del suo particolare stile. Riza ‘Abbasi non lega il suo nome (fra l’altro la sua firma più comune era la seguente frase: “Disegno dell’umile Riza ‘Abbasi”109) a un particolare manoscritto, bensì a una serie di opere su fogli singoli, della tipologia dei ritratti in auge già dal 1540 con Aqa Mirak. In genere le pitture di Riza ‘Abbasi sono estremamente curate nei particolari, con figure slanciate e leggermente incurvate110, su sfondi molto spesso dipinti in color oro, con piante e nuvolette cinesi, seguendo l’uso ormai frequentissimo di decorare le parti marginali dei fogli miniati dei manoscritti. Due pitture, entrambe celebri, di Riza ‘Abbasi ci offrono lo spunto per qualche riflessione e commento. “Giovane in abito blu”111 rappresenta un classico ritratto ideale di un giovane alla moda, ed è curatissimo nei dettagli, come il turbante bianco che riprende la fusciacca bassa in vita. Caricaturale è, invece, l’altra immagine, conservata nel medesimo museo112 intitolata “L’arciere Nashmi”; il personaggio ha caratteristiche somatiche piuttosto particolari (niente a che vedere col “bello” della pittura precedente), con mascella quadrata, naso a punta e bocca piuttosto larga. Inoltre, la veste non nasconde uno stomaco prominente da buona forchetta o forte bevitore, e se con la sinistra tiene un arco, con la destra fuma una pipa (un qalian) sulla cui base, in vetro o ceramica, è dipinto un frate francescano! Entrambe queste pitture sono dei classici, così come lo diverranno le coppie di amanti abbracciati, le fanciulle e i fanciulli distesi su un prato in pose languide, talvolta solo sensuali o più marcatamente erotiche in qualche più tardo epigono. Per chiudere il capitolo degli artisti che in Persia si sono dedicati alla miniatura, manca il nome di Muhammad Zaman, attivo nella seconda metà del Seicento e personalità di spicco di quel periodo; egli è, però, uomo molto sensibile al fascino dell’arte europea e sarà dalla sua opera che prenderemo le mosse per lo studio dell’arte iraniana di Ottocento e Novecento, che in quel passato affonda le proprie radici.
Resta ancora da scrivere qualche riga circa le tematiche ricorrenti nella pittura persiana. Se ci rivolgessimo alla pittura murale113, e ad eccezione soprattutto degli hammam (gli stabilimenti termali114), troveremmo che le decorazioni di gran lunga prevalenti sono quelle epigrafiche e geometriche115, oppure ad arabeschi. Se invece consideriamo i testi, ci accorgiamo come la narrativa epica (Shah-nama di Firdusi e Khamsa di Nizami su tutti) abbia una presenza soverchiante tutte le altre, compresi i manoscritti scientifici e quelli a contenuto moraleggiante (come il Khalila wa Dimna). Esistono anche testi a esplicito contenuto religioso, e fra questi i più celebri possono essere considerati i manoscritti del Mi‘raj-nama
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17. Riza ‘Abbasi, “Giovane in abito blu”, 1585, Arthur M. Sackler Museum, Harvard University Art Museums, inv. 1936.27. 18. Riza ‘Abbasi, “L’arciere Nashmi”, 1630, Arthur M. Sackler Museum, Harvard University Art Museums, inv. 1960.197. È un ritratto con forti venature ironiche, quasi una caricatura. Da notare l’immagine di un frate francescano alla base della pipa, probabilmente un ulteriore messaggio ludico.
(viaggio ultraterreno del Profeta), ma quello che nel contesto iranico è più interessante osservare è se troviamo opere di palese contenuto sciita. Oleg Grabar ha scritto che: «It is clear, with the single exception of the Ascension of Muhammad, Persian painting did not develop what one could call a sacred history in images, such as the Buddhist and Christian worlds did»116. In effetti, opere a soggetto religioso esistono in vari periodi e a vario titolo nella miniatura araba, persiana, turca o indiana117, ma sebbene con l’epoca safavide si assista a un interessante svilupparsi di questa tematica118, soprattutto in relazione all’affermarsi dei drammi religiosi delle ta‘ziya (letteralmente “cordogli funebri”, del martirio di Hosayn), uno studio attento e dettagliato sull’argomento condotto una decina d’anni fa da Maria Vittoria Fontana119 sembra chiarire che le immagini (non solo nelle miniature) riferibili a un contesto sciita certamente esistono e sono importanti e “curiose” iconograficamente, ma non hanno una rilevanza tale da caratterizzare alcuna scuola, luogo o periodo preciso.
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Fiori di lana I tappeti persiani
Frammenti e documenti fino alla fine del xv secolo
Pagine seguenti: XXXIV a, b, c. «Il Signore di Las Limas», vista frontale, di profilo e particolare con il volto, cultura olmeca, Las Limas, Jesús Carranza, Veracruz, Preclassico Medio o Tardo, pietra verde, 55 x 42 cm, Museo di Antropologia della Università Veracruzana, Xalapa, Veracruz.
L’arte tessile, e in particolare quella dei tappeti, ha un’enorme importanza nell’ambito della produzione artistica islamica persiana. Tanto è vero che nell’immaginario collettivo, anche odierno, un’idea di lusso, di sfarzo, di sontuosità è associata ai tappeti ai quali, non di rado, per rafforzarne il senso di preziosità è aggiunto l’aggettivo “persiani”, che da solo lascia immaginare mondi fatati e lontani, in una parola il massimo dell’esotismo, una tentazione a cui è difficile resistere. Non sappiamo dove abbia inizio la storia del tappeto, e l’altopiano iranico potrebbe essere una di quelle regioni (come il Caucaso o l’Asia centrale) in cui si è formata e sviluppata questa tecnica. Ragioni climatiche, ma anche aspetti culturali importanti, sono alla base di questo assunto. Il tappeto separa uno spazio comune e indistinto da un altro. Probabilmente uno spazio che deve essere preservato, purificato e circoscritto per una ragione rituale: il tappeto è un altare, risponde all’impellente necessità di avere un luogo in cui un sacerdote – con facilità uno sciamano1, figura chiave della religiosità, non solo popolare, d’Asia, in particolare di quelle tribù turche e mongole che tanta parte hanno avuto nella definizione dell’arte iranica – compia il suo servizio “al sicuro” da influenze esterne. La stessa sicurezza che ciascuno di noi pretende per il proprio luogo di soggiorno abituale, abitazione o tenda che sia. E diciamo tenda perché la dimensione nomade è tutto meno che casuale, anzi rappresenta una costante storica da cui è impossibile prescindere, canonizzata dal Corano nello strumento del pellegrinaggio. Sicurezza e sacralità sono proprie del tappeto e si trasferiscono all’edificio (meglio, a una parte dell’edificio: la sala di preghiera) preposto all’accoglienza della comunità: la moschea. Il terreno di questa non è mai sacro, ma diviene tale il punto in cui si appoggiano le coperture che di fatto limitano lo spazio profano (oggi calpestato da calzature) e lo distinguono da quello deputato alla funzione religiosa dell’edificio. È quindi chiaro come non tutta la moschea sia “luogo di culto” ma solo quella parte – che può variare, per esempio, per ragioni climatiche (in Iran con gli inverni particolarmente rigidi si usano sale coperte e riscaldate dette shabestan, mentre per contro in estate è in voga la musalla, spazio di preghiera all’aperto) – segnalata da una copertura pavimentale. Artisticamente il tappeto appare come un mosaico di lana; Shapur i (241-272), il grande re sasanide, fa eseguire dai prigionieri romani nella nuova città da lui fondata mosaici pavimenta-
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li2; i sovrani musulmani, meno inclini alla stanzialità, useranno dei mosaici tessuti in lana e seta allo scopo di abbellire le loro tende e i padiglioni. Tradizione che è molto antica. Uno dei più famosi tappeti di cui ci parlano le fonti fu la cosiddetta “Primavera di Cosroe”3, un manufatto di straordinaria qualità posto a coprire l’impiantito dell’ivan di Ctesifonte, residenza imperiale. In realtà, stando alle descrizioni, non si trattava di un vero e proprio tappeto annodato in seta o lana, ma di una specie di stuoia intessuta nella quale erano disposte pietre preziose (smeraldi, rubini, zaffiri e acquamarine) a simulare ruscelli, fiori e piante che mai si sarebbero seccati o sarebbero appassiti. Questa prodigiosa opera fu fatta a pezzi e i brandelli furono bottino delle truppe arabe trionfanti nel 642. Il concetto stesso di tappeto giardino, quindi chiaramente alludente al Paradiso, è degno di attenzione – ma non è patrimonio peculiare islamico, perché sappiamo bene che la tradizione certo non è esclusiva del Corano, ma riflette credenze specifiche ben anteriori, in specie mesopotamiche ma anche indiane, con cui, semmai, il testo musulmano si mette in una linea di continuità4 –, non solo perché spiega, in parte, la predilezione per un repertorio figurativo floreale largamente impiegato, ma anche perché costituisce una sorta di legame, di filo ininterrotto tra passato preislamico e conquista araba, uno di quegli elementi e motivi che qua e là riaffiorano – talora inconsapevolmente, talaltra in maniera voluta – in tutta l’esperienza artistica islamica persiana e ne fanno un caso a sé stante e interessantissimo nel complesso e variegato mondo dell’arte del Vicino e Medio Oriente. Potremmo facilmente riempire diverse pagine con citazioni letterarie dove si menzionano numerosi centri manufatturieri in cui venivano annodati tappeti nell’antichità5, ma ciò non potrebbe comunque in ogni caso nascondere la realtà di un’assenza di manufatti che siano con ragionevole certezza attribuibili a periodi anteriori al xvi secolo. Fra le eccezioni più notevoli la stuoia, nota come zilu6, acquistata non molti anni fa (1985) dal Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo e attribuita da A. Ivanov, soprattutto su basi epigrafiche, al xiv secolo7. Dunque, a parte pochissimi frammenti di discutibile catalogazione, quel che conosciamo dei tappeti – citazioni letterarie a parte, molto avare di descrizioni – lo dobbiamo a una fonte secondaria come le miniature, che peraltro non ci aiutano per le fasi più antiche. Rimandiamo ad altro capitolo la discussione sull’attendibilità o meno delle miniature quali fonte iconografica, per concentrarci sulle risultanze di un’analisi dei principali motivi decorativi. Già dallo studio di A. Briggs sui tappeti nelle miniature timuridi8 – ormai un po’ datato anche se l’osservazione di altri manoscritti e miniature rispetto a quanto da lei studiato non porta sostanziali modifiche al quadro d’insieme allora tracciato – risulta evidente come le tipologie usate appartengano al repertorio degli intrecci di origine geometrica. Con largo uso delle figure semplici: cerchi, quadrati, esagoni e ottagoni, figure stellari e cruciformi variamente incrociate e sovrapposte fra di loro. Derivate dalle figurazioni geometriche, e comunque con schemi a queste ispirate, sono anche le ornamentazioni più marcatamente floreali. Se ne ha una conferma da un frammento (65 x 30 cm) conservato al Museo Benaki di Atene, per il quale è stata suggerita una datazione al xv secolo9. Molto probabilmente i tappeti persiani dal periodo selgiuchide a quello timuride non sono molto differenti dai coevi tappeti turchi di cui abbiamo qualche esemplare (trovati nella moschea di Ala ad-Din a Konya10). Si tratta di uno schema a motivi geometrici ripetuti; il che rendeva abbastanza semplice l’esecuzione di tappeti anche di grande formato senza l’ausilio di un disegno di base preparatorio. Un’idea dei tappeti in voga nel xiii e xiv secolo possiamo farcela attraverso la pittura italiana, che non ha disdegnato di mostrare tali opere, in genere in un contesto mariano (ai piedi della Vergine) a rammentarci la sacralità dell’oggetto anche in un contesto tutt’affatto diverso11. Per
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1. Particolare della decorazione dell’ivan Sud della moschea congregazionale di Yazd.
inciso notiamo come, nonostante la grande e universale fama goduta dai tappeti persiani (per esempio, l’ambasciatore veneziano Josafat Barbaro in visita a Tabriz nel secondo Quattrocento ne è entusiasta12), questi non compaiano nella pittura europea se non a partire dal primissimo Seicento (e soprattutto in opere fiamminghe, dove di frequente fanno da sfondo a sontuose tavole con nature morte), in coincidenza col grande impulso commerciale e l’apertura all’Occidente voluta dal sovrano safavide Shah ‘Abbas i (1587-1629). Un’interessante chiave di lettura di queste decorazioni geometriche che campeggiano sui tappeti può essere ravvisata nelle coeve ornamentazioni architettoniche che paiono procedere di pari passo. Come abbiamo avuto modo di osservare, a partire dal periodo ilkhanide (in realtà già alla fine del xii secolo, come documenta il mausoleo di Mu’mina Khatun [1186] a Nakhchivan13, e più diffusamente alla fine del Duecento e agli inizi del Trecento) si assiste all’uso sempre più massiccio dell’inserto di ceramica smaltata nel contesto degli edifici; si vedano la moschea di Natanz (1307-1308)14, ma anche il mausoleo voluto da Oljeitu a Sultaniyya (1313/1314-1316)15, per proseguire in pieno Trecento con i motivi floreali che incontriamo nella moschea di Yazd (1375 ca.)16. Ebbene, tali motivi geometrici corrispondono abbastanza bene fra loro, e suggeriscono, se non modelli comuni (in cui la preminenza spetterebbe all’arte del libro; torneremo fra breve su questo punto), almeno una comunanza di spirito. Una conferma interessante ci è data dall’interno della cosiddetta moschea blu di Tabriz (1465)17; va detto, comunque, che tale moschea appare in planimetria poco persiana. In essa gli ornati parietali appaiono in grande sintonia con i tappeti, ancora una volta, ahinoi, turchi!
L’innovazione safavide Quella che K. Erdmann, il più autorevole studioso di tappeti del secolo passato, ha definito una vera e propria rivoluzione18 si compie con il periodo safavide (1501-1722) e, per fortuna, sopravvivono abbastanza esemplari da permetterci di farci un’idea di questa storica produzione. Il meccanismo è abbastanza semplice ma geniale: scompare gradatamente il disegno geometrico ripetuto, sostituito da uno schema con medaglione centralizzato e quarti di medaglione negli angoli. A ben vedere, non è affatto abbandonata l’idea dell’infinita possibilità di replica del
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motivo, più semplicemente si è allargata, e di molto, la scala dell’opera. Un esempio di superba fattura è il tappeto del primo conservato alla Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona (530 x 222 cm) e già nelle collezioni imperiali degli Asburgo19. Che ci si trovi in presenza di un’opera di transizione è reso evidente dall’ampiezza del medaglione centrale, sproporzionato in quanto troppo largo rispetto al resto del campo, come per contro sono troppo piccoli i cantonali; medaglione che, comunque, si basa su una stella ottagonale centrale e campiture fiorite. Il resto del campo, invece, è coperto da un’ariosa serie di tralci vegetali terminanti in semipalmette, sovrapposto a una griglia geometrica; discretamente risolto, ma senza simmetrie e omogeneità, è il disegno del bordo, spesso assai difficile da interpretare (in assenza di un cartone millimetrato), per via del cambiamento di direzione dei due lati. Per quanto la concezione del disegno sia sperimentale, la tecnica di annodatura è di altissimo livello e la paletta dei colori magistralmente dosata, facendo di questo raffinato tappeto un’opera, appunto, imperiale. Si è detto di una fase di transizione, rapidissima. Infatti, il celebre tappeto dei duchi di Anhalt, ora al Metropolitan Museum of Art di New York (808 x 414 cm; ordito in seta, trama in cotone, pelo in lana con nodo asimmetrico)20, che si dice essere stato parte del bottino catturato ai Turchi nel loro sfortunato assedio di Vienna (1683), pur mancando dei cantonali, presenta subito un perfetto equilibrio fra l’ornato del medaglione centrale e lo sfondo – vertiginosamente spiraliforme su tre differenti livelli di disegno – su cui si stagliano coloratissimi pavoni; il motivo del bordo sembra riprendere quello del fondo del campo del tappeto di Lisbona. Forse il più celebre tappeto del mondo è quello cosiddetto di Ardabil21 (invero una coppia – fenomeno non infrequente – di identici esemplari: l’uno, completo, acquistato nel 1893 [per l’allora notevole cifra di 2.000 sterline] dal Victoria & Albert Museum di Londra con una pubblica sottoscrizione patrocinata da William Morris, l’altro [noto a partire dal 1914] – in parte usato per restaurare il gemello – nella collezione Getty del County Museum, Malibu, Los Angeles), firmato e datato all’anno 946 dell’egira (1539-1540) e di ragguardevoli proporzioni (1051,5 x 553,5 cm), perfettamente risolto ed equilibrato in ogni sua parte. Vale la pena di soffermarsi su questo tappeto che la tradizione considera proveniente dal santuario dello Shaykh al-Safi di Ardabil22 (qualche dubbio sussiste dato che le imponenti dimensioni dei due mal si accordano con gli spazi del mausoleo, mentre potrebbe più agevolmente rapportarsi a un altro grande edificio a uso religioso, il sepolcro dell’Imam Reza a Mashhad): presenta un medaglione centrale polilobato circondato da sedici ovali dei quali i due lungo l’asse verticale reggono due lampade da moschea. Agli angoli cantonali perfetti, mentre il fondo, di un intenso blu indaco, è punteggiato da una miriade di boccioli floreali sostenuti da sottili racemi curvilinei. Il bordo, perfettamente disposto, alterna cartigli allungati ad altri polilobati. L’iscrizione recita: «Non ho rifugio al mondo che la Tua soglia Non c’è protezione per la mia anima se non questo portico Opera del servo del Luogo Santo Maqsud Kashani nell’anno 946». I versi sono di uno dei massimi poeti di Shiraz, Hafiz. Purtroppo non sappiamo niente dell’artefice che, verosimilmente, è stato il soprintendente dell’opera che ha impiegato una numerosa équipe per almeno tre anni di lavoro. Il manufatto è assegnato a Tabriz su basi stilistiche e per la vicinanza con Ardabil (o in alternativa a Kashan a causa della nisba [provenienza] di Maqsud) e senza dubbio è stato fatto seguendo, almeno in parte, un cartone con i punti millimetrati. Stilisticamente segnaliamo l’uso insistito di nastri arrotolati (chi-chi), un
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2. Tappeto di caccia, da Tabriz, 1542-1543, Museo Poldi Pezzoli, Milano.
motivo di chiara ascendenza cinese, già attestato a partire dall’epoca mongola, ma che sarà poi presente in tutto il repertorio artistico islamico dai Safavidi fino agli Ottomani, ma anche fra i Mamelucchi di Siria ed Egitto. A Milano, presso il Museo Poldi Pezzoli (in prestito dalla Villa Reale di Monza), si conserva un altro capolavoro23, annodato a Tabriz e datato (1542/1543) e firmato (Giyath al-Din Jami, ma non lo stesso Giyath che firma numerosi tessuti e lavora fra Yazd e Isfahan), un tappeto imperiale con medaglione centrale e scene di caccia. Tecnicamente è simile al tappeto di Ardabil, con ordito in seta, tre trame in cotone (l’esemplare del V&A ha trame di seta) e pelo in lana, annodato con nodo asimmetrico. Le dimensioni, comunque ragguardevoli (680 x 365 cm) ne fanno un serio candidato a ospitare il trono del sovrano. I tappeti, infatti, hanno una loro logica e un modo d’uso, ovvero devono essere contemplati sedendocisi al centro, il che permette di apprezzare appieno i motivi decorativi dalla giusta distanza. Il tappeto di Milano ha un sobrio medaglione centrale a otto lobi con un cartiglio e pendenti, replicato nei cantonali, e uno sfondo fiorito su cui si stagliano figure di cavalieri impegnati in una battuta di caccia. Il tappeto è simmetrico e speculare rispetto al centro, vale a dire che il cartone originale era grande un quarto del tappeto attuale e veniva fatto opportunamente ruotare per raggiungere lo scopo desiderato. È da sottolineare come il tema della caccia sia tradizionalmente associato già prima dell’Islam (si pensi solo alla caccia nella palude di Taq-i Bustan) al potere regale. A una tipologia intermedia appartiene un altro tappeto, databile alla seconda metà del xvi secolo, conservato sempre al Museo Poldi Pezzoli di Milano (inv. n. 424; 507 x 227 cm)24 con ordito e trama in seta e pelo di lana broccato in argento. Al centro vi è un piccolo medaglione polilobato su fondo blu con fiori e uccelli. Sul fondo rosso del campo, disposti in modo molto
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equilibrato e simmetrico e speculare rispetto al centro, troviamo due vasi, figure angeliche, animali affrontati (pantere o meglio tigri), draghi che da sotto un albero minacciano una coppia di uccelli, animali in combattimento (un vero e proprio leone che attacca un chi-lin cinese), il tutto in un tripudio di fiori e foglie sostenuti da girali floreali molto armoniosi. Stupendo è anche il bordo con una serie di motivi floreali (boccioli e foglie) disposti con grande gusto e su cui si stagliano vari animali; la fascia interna fra il bordo e il campo reca una lunga iscrizione poetica (ancora mal tradotta) in cui si cita il “Dario del tempo”, formula in uso per lo Shah. Ci troviamo, dunque, di fronte a un tappeto probabilmente tessuto per Tahmasp, ma certamente anche collegato con i cosiddetti tappeti Sanguszko di cui parleremo tra breve. Si veda anche il tappeto della Khalili Collection di Londra (248 x 199 cm) in lana broccata d’argento25 con un grande medaglione centrale e quarti di medaglione, leoni rampanti, motivi floreali su ricco fondo blu indaco e, soprattutto, dieci bande elegantemente iscritte fra il bordo e il campo. Ai musei di Berlino26 si conserva un altro grande tappeto con medaglioni e animali della seconda metà del Cinquecento (427 x 225 cm; ordito e pelo in lana, trama in cotone); curiosa è l’iconografia del bordo con pesci e anatre; l’insieme, col medaglione e il bordo con fondo blu scuro e il campo rosso intenso e i cantonali bianchi, ha una qualità decisamente alta pur non raggiungendo i vertici toccati da alcuni degli esemplari discussi sopra. Più armonico appare il tappeto alla National Gallery of Art di Washington27 (cm 437 x 224 cm; struttura con ordito in seta, trame [3] in lana e cotone la centrale, pelo in lana), in cui il disegno del medaglione e gli animali su fondo di tralci fioriti sono completamente integrati. Se possibile ancora più raffinato degli esemplari di cui sopra, è il cosiddetto tappeto reale svedese con temi di caccia in seta broccata d’argento (555 x 285 cm; collezione reale, Stoccolma, inv. n. 447)28 databile alla fine del Cinquecento. L’ornato è semplicemente perfetto: il centro è segnato da un medaglione centrale a stella ottagonale con cartiglio e pendente, perfettamente replicato agli angoli, mentre sul campo, di un bellissimo e intenso rosso, fra nastri di nuvole alla cinese (cosiddetti chi-chi), sono cacciatori appiedati con le loro prede: leoni, mentre altri animali sono disseminati nel campo. Non mancano draghi e fenici. Il bordo è altrettanto sontuoso e anche in questo caso il termine “capolavoro”, per un tappeto di sicura committenza imperiale, è l’unico appropriato. Notevole per concezione è un altro tappeto cinquecentesco (cosiddetto “Chelsea” dall’omonimo quartiere londinese dove fu acquistato presso un antiquario nel 1890 dal V&A di Londra29; 541 x 315 cm; ordito e trama [3] in seta, pelo in lana annodato asimmetricamente), che non si basa su un unico medaglione centrale (come i casi discussi in precedenza), ma su una molteplicità di questi (otto: due interi, due metà e quattro in quarto), sfalsati e legati fra loro da ovali di connessione. I medaglioni hanno un intenso fondo blu indaco su cui sembrano muoversi gli animali e sbocciare i fiori. Lo schema a motivi diagonali sfalsati e ripetuti è proprio anche di un tappeto attualmente al Metropolitan di New York (un altro esemplare simile è a Lione)30, in cui la griglia è alternata nei colori e le campiture presentano draghi e fenici affrontate, un palese richiamo alla Cina. Si tratta di uno schema classico (già timuride), forse documentato da una miniatura attribuita al grande Bihzad e datata 1487-148831. A Kashan, cittadina della Persia centrale non lontana da Isfahan, la terza capitale safavide dopo Tabriz e Qazvin, nota non solo per i tappeti, ma anche per la produzione fittile, sono assegnati tappeti interamente eseguiti in seta. La preziosità dei materiali impiegati (con la seta si possono ottenere altissime densità di nodi che vanno a tutto vantaggio della chiarezza, mi-
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3. Tappeto con animali e medaglioni, seconda metà del xvi secolo. Staatliche Museen zu Berlin – Preussischer Kulturbesitz, Museum für Islamische Kunst, inv. i 7/56.
niaturistica, del dettaglio; inoltre, anche i colori risultano assai brillanti, in particolare il giallo fatto con il costoso zafferano) e la qualità dei disegni ne fanno il punto zenitale in quest’arte, ovunque e per sempre. Il fatto è che con i Safavidi non solo cambia l’idea di disegno, ma anche l’approccio concettuale al mondo dei tappeti. Questi da oggetti d’uso, più o meno materiale esclusivo di arredamento per tante popolazioni, stanziali come nomadi, diviene opera d’arte, pensata, studiata e fabbricata come tale. Le conseguenze sono di portata incalcolabile. Come per ogni opera d’arte, a ogni latitudine, sono molteplici i fattori che contribuiscono al nascere e allo svilupparsi di un movimento. Indubbiamente la committenza è di grande importanza: col Cinquecento nasce in Persia quello che possiamo definire un sentimento nazionale alimentato da una forte componente religiosa32. Con probabilità la figura e il periodo chiave sono quelli del lungo regno di Shah Tahmasp (1524-1576), personaggio enigmatico e bifronte; dopo un periodo di mecenatismo ad altissimo livello, una crisi mistica lo portò negli ultimi anni di regno a disinteressarsi all’arte, ma ormai la semina era stata ultimata e i frutti non tarderanno a essere raccolti. La secolare e ininterrotta tradizione artigianale nella fabbricazione dei tappeti costituisce il solido presupposto tecnico per un oggetto che nel Cinquecento si vuole perfetto. La divisione del lavoro era abbastanza importante; la selezione delle lane e la loro cardatura precedeva l’operazione forse più complessa e specialistica: la tintura. Questa, sia che si trattasse di lane sia di seta (per la quale erano previsti coloranti specifici, molto vari), era fatta con materiali perlopiù organici tratti dal mondo minerale e vegetale, ma anche animale (dopo la scoperta delle Americhe giungerà anche in Oriente il rosso ottenuto con la cocciniglia) ed era una professione che veniva tramandata di generazione in generazione. Non è da sottovalutare neanche l’aspetto della ricerca; confrontando le miniature quattrocentesche, i tappeti turchi più classici (che s’è detto essere in tutto simili ai coevi esemplari persiani) e i più antichi reperti nomadi (i pochi esempi precedenti l’introduzione dei coloranti chimici che giungono verso la fine dell’Ottocento), non può sfuggire all’osservatore lo straordinario incremento di colori e sfumature dei medesimi impiegato in età safavide. Questo elemento, spesso poco stimato o del tutto ignorato, ci appare invece decisivo per fornire al disegnatore dei cartoni una possibilità di scelta non illimitata ma assai vasta e non più confinata ai due colori di base, il rosso e il blu. E veniamo ai disegni. Se prendiamo in esame il tappeto in seta, sempre da Kashan, con scene di caccia conservato a Vienna al Museo Angewandte Kunst33 (680 x 380 cm) non si può non rimanere folgorati dal suo splendore e anche al più sprovveduto e distratto osservatore verrà in mente di paragonarlo a una miniatura, una splendida miniatura. E infatti il nome di uno dei maestri più illustri dell’epoca – Sultan Muhammad (si veda il capitolo sulle miniature) – è spesso accostato a questo tappeto e a lui attribuito, su basi stilistiche, il disegno preparatorio. Tutto logico e rigoroso, ma c’è un “ma”. La tecnica dell’annodatura è abbastanza complessa: anche se in un tappeto in seta con altissima densità di annodatura (s’è detto circa 12.700 per dm2) le possibilità di resa aumentano considerevolmente, il nodo non ha la stessa ampiezza in orizzontale e in verticale (è più largo che alto, anche se per riportare equilibrio si può intervenire, per esempio, con la trama), per cui spesso si assiste a un fenomeno di schiacciamento, dovuto al pettine di ferro che serve a serrare i nodi, e a una distorsione del disegno. Insomma, nei tappeti raramente due più due fa quattro (cioè due nodi orizzontali e due verticali non formano un quadratino), e il disegno più intricato per essere “messo in carta”, ossia reso su carta millimetrata (un punto = un nodo) ha bisogno dell’intervento di un tecnico che funga da mediatore
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4. Tappeto con scene di caccia, da Kashan, MAK - Österreichisches Museum für Angewandte Kunst, Vienna. Il cartone preparatorio per questo tappeto, interamente in seta, è attribuito a uno dei più grandi miniaturisti musulmani d’età safavide: Sultan Muhammad.
fra il mero annodatore e il disegnatore. Dunque lavoro di équipe altamente specializzato, con tutte le implicazioni del caso sul piano economico, sociale, nonché artistico. Sempre al Cinquecento sono da assegnare altre due tipologie di tappeti interamente in seta di dimensioni più contenute, ben rappresentate da un esemplare del Museo del Louvre a Parigi34 e da uno del Metropolitan di New York. Nel primo caso (109 x 124 cm; inv. n. 6741) si osserva un disegno direzionale (cioè il tappeto ha un suo verso dal quale può essere visto, circostanza che incontriamo per la prima volta e che sarà molto popolare in India fra i tappeti floreali di età moghul35) con animali, anche fantastici, di derivazione cinese, come il mitico chi-lin, singoli o in lotta fra loro (l’eterno tema del felino, leone o pantera, che attacca un bue o una gazzella), su uno sfondo di rocce – ancora una volta sinizzanti – e fiori. L’altro tappeto (245 x 168 cm; inv. n. 14.40.715) è un perfetto esempio di tappeto con un equilibrato medaglione centrale quadrilobo su raffinato sfondo floreale. Entrambi hanno punti di contatto con l’arte del libro in generale e in particolare con quella della rilegatura36; il tappeto con animali può essere proficuamente paragonato alle copertine laccate come quella della Keir Collection di Londra, firmata Rida e datata al 161237. Lo stesso si può dire del tappeto del Metropolitan che segue uno schema diffusissimo per le rilegature in pelle incisa e dorata, un disegno che sarà ampiamente ripreso anche per i piatti delle copertine rinascimentali italiane38. Questo ci porta alla teoria secondo la quale questa svolta artistica sarebbe avvenuta su impulso e sotto la supervisione degli atelier di corte deputati all’esecuzione dei manoscritti miniati, arte tenuta in grande considerazione dai sovrani; ipotesi convincente per ciò che riguarda questi tappeti di piccolo formato. Meno convincente, ci pare, per ciò che concerne gli esemplari imperiali e non, di grande formato, in cui un’associazione anche con la grande arte della decorazione architettonica (in mosaico ceramico, ma anche in pittura, stanti le scarse tracce che di questa ci restano) non va assolutamente sottovalutata. Fermo restando che il milieu
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artistico era il medesimo, e che i vari artisti lavoravano gomito a gomito sotto la supervisione di funzionari appositamente preposti, quando non direttamente alle dipendenze dello Shah – una certa autonomia era pur sempre garantita anche all’interno del naqqashkhana (letteralmente: casa del disegno) – e che i tappeti di grande formato, pensati per la sala di preghiera di una moschea o per un padiglione/palazzo (in questo caso risultano appropriati i temi animalistici o della caccia) erano probabilmente intesi come pendant rispetto alle pareti o alle cupole. Un tappeto che rispecchia appieno questo sentire è quello già nella collezione parigina del principe Roman Sanguszko39 (640 x 322 cm), capostipite di un “gruppo” che nella letteratura specialistica ha, per l’appunto, assunto quel nome. Si tratta di un tappeto in lana (eseguito a Kirman secondo la tecnica “a vaso”, su questa si veda oltre) dall’impianto decorativo complesso (rigorosamente simmetrico e speculare rispetto al centro), quasi che tutti gli stili di moda nel Cinquecento vi fossero compendiati: a medaglione centrale e quarti di medaglione, con scene di caccia, combattimento di animali, e sfondo floreale. Il medaglione centrale ovale e sottilmente polilobato presenta una losanga centrale con animali in combattimento e due coppie di ovali allungati con, rispettivamente, coppie di figure angeliche stanti e suonatori seduti separati da un cipresso, mentre il resto dello spazio è campito da nastri arcuati intrecciati. Il cartiglio sot-
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5. Tappeto con decorazione di animali, da Kashan, xvi secolo. Museo del Louvre, Parigi, inv. n. 6741.
6. Tappeto, da Kashan. Museo Poldi Pezzoli, Milano, inv. 424.
tostante ospita due figure sedute di suonatori di liuto e il pendente a goccia ha figure angeliche anch’esse sedute. In ciascun cantonale, più esteso del quarto di medaglione, sono tre cavalieri a caccia, mentre la metà del cartiglio è qui metà di un fiore di loto con un piccolo pesce e la metà di pendente ospita un pavone. Il resto del campo è di un intenso blu indaco su cui sono tracciati minuti disegni di tralci vegetali con boccioli fioriti e singoli animali, e coppie (fantastiche, sinizzanti e non) in combattimento. Assai particolari due coppie di gazzelle affrontate azzurre che, d’altronde, non costituiscono un unicum, dato che compaiono anche su un tappeto ad animali al Fogg Art Museum di Harvard40. Il bordo non può che essere all’altezza di tanta magnificenza. Negli angoli sono piccoli medaglioni con animali in combattimento e al centro un medaglione con due figure stanti di cui una alata, il tutto su sfondo rosso in cui si confrontano poderosi draghi e fenici, chiara allusione cinese. Questa lunga descrizione si giustifica col fatto che, anche in questo caso, il termine “capolavoro” non appare né esagerato né abusato. Su basi tecniche l’esecuzione a Kirman è certa. E in quella città – nella piazza principale che in qualche modo anticipa la grande piazza reale di Isfahan – esiste un monumento, il caravanserraglio41, voluto dal governatore (dal 1596) Ganj ‘Ali Khan (e datato 1598), intimo amico, seguace e alleato di Shah ‘Abbas, nel quale le decorazioni architettoniche in mosaico ceramico
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e in mattonelle si integrano perfettamente con quelle del tappeto. Se si aggiunge che Ganj ‘Ali Khan aveva a lungo soggiornato nell’Iran orientale (Khorasan) e che una persistente tradizione, in parte confortata da ritrovamenti archeologici, vuole che la locale produzione ceramica blu e bianca (di ispirazione estremo orientale) sia stata impiantata a Kirman dall’immigrazione di trecento ceramisti cinesi42, il cerchio pare chiudersi. La tecnica “a vaso” di Kirman è stata individuata e descritta per prima da May Beattie43, che ha osservato come in questi tappeti (floreali, che possono o meno avere un vaso nel disegno, da cui il nome) un filo dell’ordito sia sollevato e quasi sovrapposto a quello contiguo, permettendo così un’annodatura in lana molto fitta (con notevole dispendio di materiale e, dunque, con un prodotto finale molto solido e pesante e di conseguenza costoso) con una superficie del pelo compatta e vellutata. È interessante notare come lo schema decorativo, basato su losanghe floreali sfalsate, ma non la tecnica, siano impiegati nel Settecento anche nella Persia nord-occidentale e nel Caucaso. Non è possibile tracciare una sia pur sintetica storia dei tappeti safavidi senza parlare di Shah ‘Abbas i. Questo geniale sovrano porterà a piena maturazione, nel segno della continuità, l’opera intrapresa dai suoi predecessori e in più eleverà l’arte del tappeto a livello di vera e propria industria artistica. Lo sviluppo delle arti e del commercio, per di più con una netta apertura sul piano internazionale, sarà infatti parte di un suo preciso programma politico ed economico. Ne
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7-8. Insieme e particolare del tappeto con medaglioni e animali dalla collezione del principe Roman Sanguszko, Miho Museum, Tokyo, xvi-xvii secolo. I motivi dei cantonali sono molto simili alle ceramiche sui soprarchi del caravanserraglio di Ganj ‘Ali Khan a Kerman.
9. Tappeto, Musée des Tissus, Lione, inv. 25423. La griglia decorativa di questo tappeto è particolarmente complessa. I draghi e le fenici che si confrontano sono un motivo estremo orientale di derivazione mongola ormai assimilato nel repertorio musulmano.
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sono testimonianza, per esempio, i tappeti che invierà agli inizi del Seicento (1603) a Venezia come dono a seguito di un’ambasceria44. Sono tappeti in seta broccati in argento (prodotti dai telai di Kashan e Isfahan di formato standard (250 x 180 cm), con delicati motivi floreali (non privi di qualche incongruenza decorativa, tipica di un’arte non ancora del tutto assestata) che hanno pienamente colpito la fantasia dei destinatari dell’omaggio45. Anche i kilim (o gelim o ghilim), tessuti piatti privi del pelo (indubbiamente sentiti in Europa come arazzi orientali), furono nobilitati e trattati alla stregua di opere d’arte. Fra questi ricordiamo quello in seta broccata in argento con al centro lo stemma del re di Polonia Sigismondo iii Vasa46 che un mercante armeno commissionò (ed è interessante notare come l’inserzione dello stemma sia costato cinque corone supplementari) e portò in patria, oggi conservato a Monaco, Residenz Museum (246 x 135 cm; inv. WC3). Un altro “arazzo” in seta broccata d’argento è al Metropolitan Museum di New York47; nel medaglione centrale ovale polilobato (con cartiglio e pendente) vi è un cavaliere che affronta un poderoso drago, mentre il campo reca animali singoli, in combattimento, e fiori. Nei cantonali la rappresentazione, celeberrima, di Laila e Majnun dall’opera di Nezami, un tema reso popolare anche dai tessuti di Yazd firmati dal maestro Ghiyath, noto artista che si dice sia stato anche a Isfahan al servizio di Shah ‘Abbas, insegnandogli le tecniche e i segreti della tessitura. Nel 1878 alla fiera mondiale di Parigi, nel padiglione polacco, furono esposti alcuni tappeti appartenenti alla nobile famiglia dei Czartoryski e, nonostante la loro origine sia persiana, il termine “tappeto polacco” (ovvero “polonaise”) è entrato di prepotenza nella letteratura dedicata ai tappeti. Di formato piuttosto piccolo (all’incirca due metri per uno e mezzo), col pelo in seta, presentano sontuose decorazioni floreali – con o senza medaglione – e una scelta di calde tonalità in abbinamenti gradevolissimi; da molti specialisti sono stimati fra i più bei tappeti mai prodotti, anche se, talvolta, sembra intravedersi quasi una dose di autocompiacimento che li rende un po’ leziosi. Un tappeto “polacco” di grande formato in seta (con trame in cotone; 483 x 215 cm) è conservato a New York al Metropolitan Museum48 e presenta un ornato molto più complesso rispetto all’esemplare donato a Venezia, con una sorta di losanga centrale (con uno stemma nobiliare europeo) e un campo con ariose forme floreali; la datazione è a metà Seicento, quando, appunto, le botteghe producono a pieno ritmo tappeti di grandissimo livello. “Strano” può essere qualificato, in virtù della sua asimmetria di disegno del campo, il tappeto broccato in argento (231 x 167 cm; inv. vt-1045) conservato all’Ermitage di San Pietroburgo e già appartenuto al barone Stieglitz. Il campo è caratterizzato da medaglioni ottagonali (più propriamente si tratta di quadrati modificati) con campiture floreali, legati a cartigli rettangolari (anch’essi con quattro punte supplementari) e piccoli medaglioni circolari quadrilobi. La notevole impressione che suscita il tappeto – peraltro dotato di un classicissimo bordo floreale – è data dal disegno che è frammentario, ripetuto e decentrato. Classici tappeti in seta cosiddetti polacchi di piccolo formato (indubbiamente una produzione seriale con altissime qualità tecniche e decorative) sono, per esempio, gli esemplari del Cleveland Museum of Art49 e quello dei duchi di Buccleuch e Queensberry50, che documentano, insieme a molti altri esemplari, la grande capacità produttiva persiana del secolo xvii. Raggiunto l’apogeo tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, la società e l’arte safavide andranno incontro a un lento declino culminato nel 1722 con l’ennesima invasione orientale: questa volta ad opera di tribù afghane. A metà Settecento emergerà una figura importante nel panorama persiano: Nadir Shah51, un capo tribù di origini khorasaniche che promuoverà numerose campagne militari, dall’India (sarà lui a portare in Iran il famoso
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10. Tappeto di seta broccato in argento inviato in dono a Venezia da Shah ‘Abbas i nel 1603. Basilica di San Marco, Venezia, inv. n. 26.
“trono del pavone”, ma anche artigiani esperti in varie arti [si veda il cap. seguente]) al Caucaso, con un incessante via vai di saccheggi ed eserciti in azione che ha fortemente sconvolto il tessuto sociale e profondamente mischiato le carte anche nella produzione dei tappeti (tecniche e disegni sono passati da una parte all’altra del paese a seguito di migrazioni più o meno forzate), la quale, dall’Ottocento in poi, sarà anche fortemente condizionata dal gusto e dalla richiesta europea52.
Simboli e motivi
11. Velluto broccato, Museo Civico Correr, Venezia, inv. Cl. xxii, n. 37. Si tratta di un’opera a soggetto cristiano (forse una variante della Vergine con Bambino), un motivo non estraneo alla cultura artistica persiana safavide dell’epoca di Shah ‘Abbas i.
Questo capitolo, niente di più che un rapido excursus in un mondo affascinante e complesso, non può dirsi completo senza almeno un accenno a un tema importante quale quello della simbologia dei motivi impiegati. Questione intricata e non lineare. Un filone costante, il più semplice da rilevare, è quello dei disegni floreali. A partire dalla più o meno mitica “Primavera di Cosroe”, l’idea di fiore, di giardino, entra prepotentemente e stabilmente nell’ambito artistico dei tappeti. L’importanza degli spazi verdi, coltivati o meno (troppo facilmente sintetizzati dal termine bustan, giardino, che di volta in volta sta per prato, parco, orto, frutteto, bosco...) si perde nella notte dei tempi e viene sentita coscientemente come una citazione dei “paradeisos” e del mitico giardino di Elam53. Dall’antica India al nostro paradiso terrestre è letteralmente tutto un fiorire di giardini. Non fa eccezione la cultura islamica che nel Corano usa l’immagine idealizzata del giardino quadripartito (il persiano chahar-bagh che tanta importanza urbanistica avrà, per esempio, a Isfahan, ma anche in India con i grandi mausolei, di Humayun [concepito da un architetto persiano], o Akbar, Itimad ad-Dawla o lo stesso Taj Mahal..., per non parlare dei giganteschi bagh voluti
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dai sultani moghul, a Kabul ma anche e soprattutto nel Kashmir) per definire il Paradiso dei Giusti, con i quattro fiumi (latte, miele, vino e acqua), gli alberi da frutta, il verde cupissimo, i grappoli d’uva (non le hurì!) e per finire i cuscini e i tappeti su cui riposare e contemplare l’Eterno54. Tematica, quella floreale, connessa col Paradiso, da subito centrale nell’esperienza artistica musulmana: si pensi ai mosaici della Cupola della Roccia a Gerusalemme, a quelli della grande moschea di Damasco, a quanto la vegetazione nelle sue infinite forme sia stata di ispirazione e riprodotta nelle arti, dalla Spagna alla Cina. Dunque, fiori policromi, e veri e propri tappeti giardino quadripartiti, come quelli del xix secolo (indubbiamente essi ricalcano esemplari più antichi), tradizionalmente assegnati alla zona del Kurdistan, cioè all’Iran di Nord-Ovest55. Probabilmente non prima della fine del Seicento si diffonde in Persia (principalmente nei tappeti, ma anche nelle stoffe e poi nella decorazione architettonica in mattonelle smaltate) il disegno del boteh56, una sorta di mandorla con la punta delicatamente ripiegata su se stessa, forse ispirata dal cipresso, sempreverde amatissimo in tutto l’Oriente e particolarmente venerato in Iran (lo si associa al culto zoroastriano, ma anche a quello di più o meno famosi “santi” locali). Motivo che avrà larghissima fortuna non solo in Persia, nei tappeti, ma si diffonderà anche ad Oriente, in India, per essere impiegato nel campo o nei bordi degli shawl 57 (i nostri scialli), per finire il suo percorso a Occidente (i Paisley58) ed essere ai giorni nostri reinterpretato (sempre che sia possibile inventare qualcosa) da stilisti di grido per foulard e cravatte alla moda. Per lunghi periodi, abbiamo scritto, il campo dei tappeti è stato dominato da disegni geometrici ripetuti. Oltre che dai già citati motivi pratici legati alla facilità dell’esecuzione, questo si sposa bene col sentire islamico che vede nel fluire dell’ornato un continuum, una prova dell’infinita creazione divina. Ancora una volta ci soccorre l’esempio turco, nel quale questi emblemi (sono, per intendersi, quelli dei celebrati tappeti centrasiatici raggruppati sotto il nome di Bukhara, non a caso annodati con nodo asimmetrico persiano...), forse schematizzazioni totemiche legate all’emblema della tribù, sono chiamati in turco gül (fiore, il fiore per eccellenza essendo la rosa59). Diverso il caso dei tappeti safavidi nei quali, oltre a un mutamento sostanziale di impianto, si è voluta trovare una differente filosofia decorativa, legata soprattutto a una pretesa influenza dei sufi 60 (ovvero dei mistici) nell’elaborazione dei progetti esornativi. È soprattutto allo studioso S. van Cammann61 che dobbiamo una siffatta interpretazione. Per quanto la sua analisi risulti argomentata e dettagliata (per esempio, il tappeto di Ardabil è considerato – anche in base ai versi dell’iscrizione – una porta per accedere alle sfere dei cieli superiori; vero è, comunque, che le lampade pendenti del medaglione evocano immediatamente la celebre “Sura della Luce” [xxiv] e il versetto 35), pare di cogliere nel ragionamento una sorta di suo “peccato originale”. Van Cammann è stato, prima di appassionarsi ai tappeti orientali, un finissimo interprete dell’arte cinese (in particolare di tessuti, a cui ha dedicato almeno un magistrale saggio62) e di quell’arte, com’è noto altamente e pervasivamente simbolica, adotta il metodo d’indagine, trasferendolo su una realtà diversa quale quella della mistica islamica, in particolare avvalendosi del conforto della lirica persiana. Questa è, infatti, fortemente simbolica (si veda la straordinaria lettura che A. Bausani dà di un celebre componimento di Hafiz63), e anche connotata da una massiccia dose di ambiguità: nell’esaltare fanciulli, prima ancora che fanciulle, riccioli, nei e labbra di corallo, e perfette chiostre di perle, nel cantare l’amore appassionato dell’usignolo per l’amatissima rosa (bella, ma altera e indifferente) che con la sua spina gli trafiggerà il cuore, siamo costantemente in bilico fra amore sacro e amore profano.
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Con questo non vogliamo negare che un certo simbolismo sia celato all’interno dei disegni dei tappeti, perché del resto in talune circostanze siffatte influenze sono certamente presenti64, ma si tratta di esempi circoscritti e abbastanza riconoscibili: vogliamo semplicemente mettere in guardia rispetto a facili interpretazioni – figlie di un esotismo basso basso, da mercante di tappeti dal nome accattivante che sul preteso “mistero” d’Oriente ha costruito fortune considerevoli – secondo le quali tutto è riconducibile a una simbologia mistica di origine sufi. La caccia, per esempio, è uno di quei motivi di legittimazione del potere, dei piaceri “laici” di corte (insieme alla danza e al banchetto), che troviamo solidamente attestato nel periodo preislamico e che in Persia – ma non solo qui – avrà una continuità storica formidabile. Più semplice e trasparente lo scontro e lotta fra animali65, anch’esso tema assai longevo, senza dubbio legato a una simbologia classica di principio solare (l’animale predatore, soprattutto il leone – a sua volta sconfitto dal sovrano che lo caccia e dunque si pone su un piano superiore – ma anche l’aquila, la pantera o “cheetah”), maschile (anche se, curiosamente, sappiamo bene che sono le leonesse a procurare il cibo al branco...), in una parola il bene, che sopraffà il principio lunare (e l’animale è quasi sempre un bue, o una gazzella con le corna che indicano il crescente), in questo caso negativo. Non va comunque sottaciuta l’influenza cinese, solo sul piano iconografico, quando un drago attacca una fenice (ribaltamento di valore perché il drago in Iran diviene simbolo ctonio e l’uccello – anch’esso con una lunghissima e gloriosa storia alle spalle – solare e positivo; ma anche in questo caso c’è poi, spesso, l’eroe di turno che si legittima nel colpire – non viene mai veramente ucciso, non si vedono cadaveri di draghi! – l’essere mostruoso), laddove in Estremo Oriente possiamo parlare solo di confronto, di equilibrio, di bilanciamento in cui lo yang (maschile) e lo yin (femminile) devono convivere in perfetta armonia. Allora, nessuna simbologia sicura? In realtà qualcosa ci sarebbe, più o meno costante e riscontrabile soprattutto nei prodotti più popolari, come i kilim, ma anche in tanti di quei tappeti provenienti da telai cittadini o di villaggio che molto meno hanno risentito del passaggio dell’oggetto da manufatto d’uso ad opera d’arte. Si è già detto della sacralità dello spazio di un tappeto; in questo senso i bordi – come giustamente sottolineato da van Cammann – rappresentano una sorta di limite, di confine, una “porta” che introduce a una dimensione diversa. Tutto questo va difeso, in particolar modo dai jinn (“geni”, spiritelli benigni o maligni di cui spesso si fa menzione nel Corano), i quali, per ragioni che sarebbe troppo lungo analizzare qui66, sono respinti da punte acuminate o angoli acuti. Curiosamente è questa (cioè la protezione contro i jinn) la spiegazione che localmente ci hanno dato a Gonbad-i Qabus per giustificare la caratteristica e unica forma esterna del celebre mausoleo. Ecco che nei bordi di molti tappeti troviamo uno zig-zag, oppure linee spezzate; addirittura si potrebbe ipotizzare che anche i motivi floreali ad andamento sinuoso (un disegno di sovente chiamato “in-and-out” nella letteratura specialistica) rispondano a tale logica, che di rado è oggi compresa.
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La Persia fra Barocco e Neoclassico
Pagine seguenti: XXXIV a, b, c. «Il Signore di Las Limas», vista frontale, di profilo e particolare con il volto, cultura olmeca, Las Limas, Jesús Carranza, Veracruz, Preclassico Medio o Tardo, pietra verde, 55 x 42 cm, Museo di Antropologia della Università Veracruzana, Xalapa, Veracruz.
Dopo l’invasione afghana del 1722 il paese attraversò un periodo di forti turbolenze dalle quali emerse la notevole personalità di Nadir Shah Afshar (nato nel 1688, regnò fra il 1737-1747), originario di un piccolo villaggio a nord di Mashhad, e grande condottiero1, che sconfisse l’indiano Muhammad Shah e portò da Delhi un enorme bottino (fra cui il famoso Trono del Pavone e il diamante detto koh-i nur, “montagna di luce”), ma soprattutto costrinse alla migrazione forzata verso l’Iran un gran numero di artigiani e artisti indiani. Questo fu un elemento decisivo per i successivi sviluppi dell’arte persiana. In India si era infatti prodotto un fenomeno di grande interesse; se già con Humayun erano giunti a corte artisti persiani (soprattutto miniaturisti, come riferiamo nel capitolo relativo), imperatori quali Jahangir (16051627) e Shah Jahan (1628-1657) furono poi molto sensibili alla cultura europea (che giunse attraverso splendidi erbari inglesi e anche stampe popolari – queste portate dai gesuiti – oltre che da fonti diverse), la quale fu rapidamente assimilata2. È questa Europa, già filtrata attraverso uno spiccato gusto orientale, quello indiano, che Nadir Shah fa propria nel suo edificio di Kalat-i Nadiri, come si vede all’esterno del palazzo (un ottagono di base, con un altissimo tamburo scanalato “a zucca”, oggi privo di copertura), con bellissimi rilievi che abbiamo voluto definire “barocchi”, certo non in senso spregiativo3; gli interni dipinti, viceversa, sono in linea con la produzione safavide, quale la si vede nel padiglione di ‘Ali Qapu a Isfahan. Con questo non vogliamo negare che l’influenza europea sia giunta in Persia già nel xvii secolo, ma solo avvertire che gli intrecci decorativi possono essere più complessi di come appaiano a prima vista. Tale movimento si affermerà soprattutto nel sud della Persia, a Shiraz con la dinastia degli Zand (1750-1794), fondata da Muhammad Karim Khan, e sarà la necessaria premessa al periodo qajar (1799-1923). Dal punto di vista architettonico il periodo zand e quello qajar non portarono significative innovazioni planimetriche: la moschea sarà, più o meno sempre, a quattro ivan assiali, con quello qibli a precedere una cupola. Il monumento più importante è il Masjid-i Vakil a Shiraz (1750-1779), opera di Karim Khan4, costruita in una pietra rosa salmone reminiscente, appunto, dell’India (la moschea sarà restaurata nel 1825), che si segnala per le colonne dai fusti tortili a sostegno di capitelli a foglia d’acanto. La moschea presenta solo due ivan ed è decorata sulle
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2. Particolare della decorazione del padiglione di Karim Khan Zand, a Shiraz, xviii secolo. 3. Particolare dell’interno della moschea di Nasir al-Molk a Shiraz, fine del xix secolo.
pareti, e negli archi, da bellissime mattonelle in un tripudio floreale dominato dal colore rosa: la rappresentazione dei fiori è quasi naturalistica e forse è servita come fonte di ispirazione per i contemporanei tappeti, cosiddetti “mille fiori”. Ispirata a quella del Vakil è, sempre a Shiraz, la moschea di Nasir al-Molk, costruita fra il 1880 e il 1890 dall’architetto Mohammad Hasan; volte, intradossi e cupolette presentano l’inserzione di mattoni smaltati, richiamando alla memoria le tipologie ornamentali selgiuchidi e del primo periodo ilkhanide. Il Masjid-i Maidan di Kashan5, pur di fondazione molto più antica, presenta una serie di aggiunte posteriori molto interessanti, come la novità di un doppio livello della corte, trovandosi quella inferiore (che ospita una vasca con acqua) tre metri sotto al piano di calpestio, con effetti del tutto particolari. Notevoli sono anche i rivestimenti ceramici parietali – ormai definitivamente e stabilmente passati all’uso esclusivo delle mattonelle – che avranno una paletta di colori molto efficace in cui spiccano il largo impiego del giallo carico e del rosa. Il più prolifico committente di architetture dell’epoca qajar sarà Fath ‘Ali Shah (nato nel 1771, ebbe un lungo regno fra il 1797 e il 1834), costruendo grandi moschee a Qazvin, Burejird, Zanjan e Tehran (divenuta la capitale della dinastia). I Qajar furono anche molto attivi nei lavori di “abbellimento” delle moschee e negli ingrandimenti e rifacimenti. Con particolare riguardo per le città “sante” di Qom e Mashhad, nei cui importanti santuari le cupole vennero ricoperte con mattoni placcati in oro. Ovviamente la realizzazione in grande scala, già presente con i Safavidi, per esempio nel Masjid-i Shah di Isfahan, non venne abbandonata, e un tratto distintivo sarà l’accentuazione della forma bulbosa della cupola, un po’ all’indiana. S’è detto che una caratteristica di questa fase è la copertura con mattonelle policrome, spesso eseguite con la tecnica cosiddetta della cuerda seca6, già impiegata dai Timuridi (per esempio, a Herat nel mausoleo di Gawhar Shad), ma anche dai Safavidi nello Hasht Bihisht di Isfahan e nei rivestimenti – molto belli e particolari nelle loro raffigurazioni di angeli – della cattedrale di Nuova Julfa a Isfahan7, una tecnica, comunque, che col periodo qajar vivrà una stagione assai fortunata8. Fra le realizzazioni più fresche e originali (e gustose per l’uso ingenuo di tematiche orientali rielaborate in chiave europea) annoveriamo il padiglione di Karim Khan Zand a Shiraz (metà del xviii secolo) con le classiche tematiche della caccia regale (motivo sempre ricorrente nell’arte persiana), ma con architetture e paesaggi di ispirazione occidentale e caratterizzazione dei volti dei personaggi (gli uomini hanno quasi sempre barba o ampi baffoni, occhi ovali – e
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1. Il palazzo di Kalat-i Nadiri, fatto costruire da Nadir Shah nel suo paese natale, xviii secolo.
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non più allungati come nella tradizione più antica, centrasiatica – sopracciglia folte e lunghi capelli arricciati sulla nuca) prettamente ottocentesca. A Shiraz uno degli edifici in migliore stato di conservazione è il Naranjestan (“Aranceto”), residenza patrizia della famiglia Qavam, costruita da Mirza Ibrahim Khan intorno al 18701880, in piena epoca qajar, di cui rappresenta bene l’architettura civile e le influenze straniere (anche russe, seguendo le sfere d’influenza politica dell’epoca) che l’hanno accompagnata. Da un padiglione di accesso, all’interno rivestito di mattonelle ceramiche molto vivaci, si entra in un bel giardino (come è consuetudine in tutte le case persiane tradizionali, importanti o meno), ovviamente con aranceti e altre piante odorifere, fra cui non mancano le rose. Fra i pannelli esterni sono di grande interesse alcune lastre in pietra ad alto rilievo, ornate con scene di stampo neoachemenide, palesemente ispirate agli esemplari della non lontana Persepoli; è un atteggiamento di tipo neoclassico, una moda seguita in tutta la Persia di cui, purtroppo, oggi sono visibili solo poche residue tracce. La pianta della casa, su due piani, dà ampio spazio a sale di ricevimento, ma l’ambiente più suggestivo è il portico di ingresso, con colonne e una decorazione del soffitto a “mosaico di specchio”, ispirato a Chihil Sutun, ora di un gusto decisamente più chiassoso. Specchi come elemento decorativo architettonico – accanto allo stucco, ormai completamente europeizzato nella tecnica e nei motivi – compaiono molto spesso: a Shiraz ricordiamo il santuario (aperto anche ai non musulmani) di Shah Cheragh (“Sovrano della luce”), il principale centro di pellegrinaggio del Sud del paese e luogo della sepoltura del Sayyid Amir Ahmad, fratello dell’ottavo Imam sciita, ‘Ali al-Rida, sepolto nell’omonimo complesso a Mashhad. È un santuario, questo, di un’architettura tradizionale con migliaia di piccoli specchi che riflettono la luce solare, con un effetto non proprio sobrio. Tale ornamentazione a
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4. Particolare degli interni del santuario di Shah Cheragh a Shiraz, xix secolo.
5. Portico d’ingresso rivestito di mosaico a specchio del Naranjestan, residenza patrizia della famiglia Qavam, fine xix secolo.
specchi è diffusa e profusa nei santuari più importanti dell’Iran, come quello dell’imam Reza a Mashhad o quello di Hazrat-i Ma‘sume, la sorella di lui, a Qom (deceduta nei pressi sulla via di una visita all’imam Reza), ma si ritrova pure in luoghi assai meno celebrati: come, a Kashan, nell’Imamzada Shahzada Ibrahim (xix secolo). Anche nell’architettura civile compaiono mosaici di specchietti: nella casa Kharrazi a Isfahan troviamo anche stucchi e vetrate policrome, mentre in quella di Nasir al-Molk a Shiraz (1883) sono soprattutto stucchi e vetrate, ma anche specchi, associati a pitture floreali. La combinazione dei tre elementi (specchi, stucchi, vetri) si ritrova nella decorazione della Hosayiniyya9 Amini di Qazvin (1873-1878)10, articolata in tre grandi sale attorno a una corte centrale. Nell’Ottocento hanno una grande diffusione le ta‘ziya, i già menzionati drammi a contenuto religioso sciita11 imperniati sul sacrificio di Hosayin e della sua famiglia a Karbala, e nelle grandi città si costruiranno spazi adatti a tali rappresentazioni. Fra questi la Takiyya Mo‘aven al-Molk a Kirmanshah (Iran di Nord-Ovest), divisa in tre parti, ciascuna dedicata a una fase della tragedia di Karbala: la prima, detta ‘Abbasiyya, era un cortile col muro rivestito di piastrelle policrome12, in cui si svolgevano le azioni drammatiche concernenti Hazrat ‘Abbas, fratello minore di Hosayin; lo Hosayiniyya prende il nome dall’imam figlio di ‘Ali (e nipote di Maometto), e consta di un locale cupolato raccordato con alcuni ambienti ricordati come Zainabiyya (da Zainab, sorella di Hosayin). Il cortile dell’‘Abbasiyya ha interessanti pitture murali con raffigurazioni di dervisci dai lunghi capelli e attributi del loro costume, quale il qashqul (la ciotola per elemosine, oggetto di antichissime ascendenze13). S’è detto che una delle caratteristiche dell’architettura qajar è costituita dalle decorazioni parietali in mattonelle policrome. A Kirman ricordiamo la madrasa di Ibrahim Khan (cugino
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e genero di Fath ‘Ali Shah), databile al 1816-1817, con pannelli di mattonelle eseguiti a cuerda seca, con vasi e fioriture (soprattutto rose), ma anche l’angelo del sacrificio di Abramo, nei caldi colori del giallo, verde, rosa e bianco. Notevole è pure la decorazione – sempre in mattonelle policrome – del limitrofo hammam, in cui su uno sfondo scuro troviamo un’esplosione di fiori bianchi e gialli con foglie turchesi, oltre a papere affrontate e uccelli addorsati. Anche l’ingresso dell’hammam sulla grande piazza seicentesca (vicina al bazar) reca all’esterno nella nicchia di accesso un’interessante decorazione pittorica14. Ancora a Shiraz è da segnalare il Bagh-i Iram, splendido parco a nord della città, voluto da Mohammad Qoli Khan Ilkhani, un capotribù del gruppo seminomade dei Qashqa’i, che ne fece uno spazio di grande suggestione con ruscelli d’acqua e varie specie di piante, esotiche e non, tra cui molti cipressi. Un’ottantina di anni più tardi il già menzionato architetto Mohammad Hasan vi costruì, su commissione di Nasir al-Molk, un grande padiglione tripartito su più piani, con un condotto d’acqua che attraversa il piano inferiore e contribuisce a rinfrescare gli ambienti. Le coperture presentano lunette decorate con mattonelle molto vivaci, con scene di caccia e rappresentazioni di animali in lotta, secondo uno schema già commentato in precedenza. Notevolissimo e di sicuro gusto è l’abbinamento dei colori. Di Shiraz, infine, ricordiamo il pannello ceramico della Hosayiniyya Mushir, con soggetto religioso15. La nuova capitale Tehran (dal 1788 per volere di Agha Mohammad Khan) fu, ovviamente, al centro degli sviluppi architettonici della nuova dinastia. L’edificio più rappresentativo fu il palazzo del Golestan (“Roseto”) nella cittadella, allora nella zona settentrionale della città. Secondo il costume tradizionale persiano, il complesso degli edifici è posto in un parco con
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6. Veduta dell’edificio del Sole, palazzo del Golestan, Tehran, 1865.
7. La raffigurazione di Fath ‘Ali Shah nella grotta di Taq-i Bustan, inizi del xix secolo.
grandi platani, cipressi e pini. Il Talar, o porticato esterno, è sostenuto da due colonne tortili in pietra prese a Shiraz, così come il grande trono di marmo portato dal palazzo di Karim Khan Zand, che serviva per le udienze pubbliche e per le principali festività quali il nouruz (Capodanno primaverile persiano). Il soffitto è a specchi e nelle pareti sono ancora specchiere e dipinti a olio dei sovrani qajar. Molti lavori di restauro e ingrandimento di questa “reggia” sono dovuti all’opera di Nasir al-Din Shah (1867-1892) e in quegli anni la decorazione in mattonelle policrome fu estesa a gran parte dei padiglioni16, con soggetti vari, fra cui scene di vita quotidiana militare. Nello stesso Golestan, ancora agli inizi del Novecento (all’epoca di Muzaffar al-Din Shah; 1896-1907), furono eseguiti lavori: fra l’altro una serie di piastrelle in bicromia bianca e nera (datate 1899), chiaramente ispirate all’arte fotografica, con soggetti anche neoclassici quali ritratti di sovrani parti e sasanidi ripresi dall’antica monetazione. Altre importanti realizzazioni furono il palazzo di Sultanabad, e, naturalmente, la moda di queste costruzioni neoclassiche (ma con un occhio al passato e uno a certa architettura europea, russa in particolare) fu seguita in molti palazzi nobiliari e in quelli dei maggiorenti della corte. Alla tipologia della casa nobiliare appartiene anche quella della famiglia Burujerdi di Kashan17, con un bel giardino centrale munito di grande vasca, un corpo di accesso, due ali laterali con ambienti vari (anche di servizio) e una bellissima sala di ricevimento con un’ingegnosa copertura cupolata che ricorda le volte del Timche di Amin al-Dawla nel bazar di Kashan. Decisamente particolari – ma non eccezionali se pensiamo alla contemporanea evoluzione artistica a Tehran – sono gli stucchi, fra i cui soggetti si trovano soldati (del corpo dei cosacchi), cacciatori e altre raffigurazioni riprese da “classici”. Quanto persistenti siano state queste tipologie decorative, soprattutto in stucco, è documentato da un curioso edificio dei primi del
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Novecento (il forte di Bandar-i Tahiri, nell’estremo meridione del paese, non lontano da Siraf)18 nel quale i pannelli in stucco (almeno una ventina) rappresentano episodi della grande epopea dello Shah-nama, compresa una raffigurazione di Mahmud di Ghazna (998-1030) in trono! Abbiamo già accennato alla figura di Fath ‘Ali Shah e al suo lungo regno (1797-1834), caratterizzato da un’attività edilizia particolarmente intensa; egli è anche il fautore e patrono principale dell’apertura sempre più ostentata, da una parte, alle arti europee e dall’altra a un gusto neoclassico. Di quest’ultimo è clamoroso esempio l’idea di farsi ritrarre in una scultura in pietra in uno dei massimi siti dell’arte sasanide, la grotta di Taq-i Bustan. Infatti, sulla parete di destra, sopra la bellissima caccia al cinghiale nelle paludi, lo Shah ha voluto far scolpire la propria effige (in trono con attendenti e iscrizioni celebrative), per fortuna senza spingere la propria presunzione agli estremi di un egizio Ramsete che, com’è noto, ha coperto con i suoi tratti quelli di molti illustri sovrani a lui precedenti. Che non si sia trattato di un caso isolato lo conferma la scultura voluta dal medesimo sovrano sulla roccia sopra la Cheshme-i ‘Ali (“Sorgente di ‘Ali”) nei pressi di Ray (oggi sobborgo meridionale di Tehran, un tempo fiorentissima città, distrutta dall’invasione mongola e mai più riavutasi da quella devastazione), luogo pittoresco perché vi vengono lavati i tappeti, messi poi ad asciugare sulle rocce circostanti. Fath ‘Ali Shah – facilmente identificabile per la sua lunghissima barba; quand’anche il nome non risultasse a chiare lettere – è accompagnato da un attendente che reca un parasole imperiale (come un soldato achemenide, salvo che l’acconciatura di capelli è tipicamente ottocentesca) e tiene sul braccio destro un superbo falco da caccia. Di Fath ‘Ali Shah sono anche famosi alcuni ritratti a olio (su tavola o tela), come quello eseguito dall’artista di corte Mihr ‘Ali e ora conservato nel Museo del Nigaristan a Tehran19, che attestano, attraverso l’uso di una tecnica prettamente occidentale, le nuove tendenze artistiche persiane fra Ottocento e Novecento. Il fenomeno, tuttavia, non è nuovo e occorre fare un piccolo salto all’indietro per documentarlo compiutamente. Infatti è già nella seconda metà del Seicento che la “moda europea” prende piede e si afferma decisamente in Iran, costituendo la premessa necessaria alla fase che stiamo ora commentando. L’artista di maggior spicco in questo contesto è Muhammad Zaman20, accreditato perfino di un soggiorno in Italia (e lo si vuole addirittura convertito al cristianesimo), che ha lasciato una serie importante di opere eseguite con tecniche e soggetti occidentali, quali un Sacrificio di Abramo (1684-1685) o una Discesa dello Spirito Santo su Cristo, Maria e Giuseppe (1682-1683), oppure un Venere e Cupido (16761677)21, in cui con mano sicura si indica una plausibile sintesi fra Occidente e Oriente. Non possiamo nemmeno dimenticare, sempre nella seconda metà del Seicento, le grandi pitture a soggetto storico che ornano i palazzi di Isfahan; a Chihil Sutun, sulla parete occidentale della sala delle udienze, l’opera intitolata Shah Tahmasp di Persia riceve Humayun Pasha dell’India22, sebbene forse ritoccata successivamente, è molto interessante perché combina tematiche europee (come il paesaggio che si vede dalla finestra posta fra i due sovrani) e tipologie indiane – in omaggio all’ospite –, ma arrivano anche i grandi baffi dei funzionari e dignitari persiani (immancabili qualche tempo dopo), oltre alle ballerine in primo piano, un tema certamente già attestato perfino a Samarra, ma trattato con una vivacità e un movimento che ne faranno uno dei soggetti preferiti dei pittori nei secoli a venire. La brezza europea dei secoli xvii e xviii diventerà un vento stabile nell’Ottocento, in cui si affermerà una personalità notevole come Abu’l Hasan Ghaffari, nativo di Kashan23, forse il più
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8. Portatori di offerte, particolare della decorazione a bassorilievo del padiglione di Karim Khan Zand a Shiraz.
dotato di talento fra i pittori di corte qajar (“pittore laureato”, lui sul serio, che ebbe a studiare in Italia, mandatovi da Muhammad Shah [1834-1848]), con una predilezione particolare per le nature morte. Accanto alla pittura a olio (spesso di dimensioni ragguardevoli) e ad affreschi, anch’essi molto estesi, come quelli del Palazzo del Nigaristan24, due nuovi generi furono affrontati: la pittura su papier maché e gli smalti policromi su metallo. Nel primo caso non si tratta a rigore di una novità (la pittura sotto uno strato di vernice trasparente o lacca è già praticata a partire dal classico periodo safavide), bensì di una diffusione incredibile della tecnica applicata non solo alle coperture dei manoscritti, ma anche a specchi, scatole, portapenne e oggetti vari, in migliaia di esemplari e con soggetti che vanno dal ritratto, ai fiori (diffusissimi), ai temi classici delle miniature quali episodi dallo Shah-nama, a vedute di città, fatti storici e persino falsi francobolli25. Più legati all’Europa (ma non va dimenticata neanche la Cina, che in questo settore vanta una tradizione solidissima) sono gli smalti cloisonnée che nell’Oriente islamico non godettero (fino, appunto, all’Ottocento) dell’apprezzamento loro riservato dai cugini musulmani d’Occidente26. Iconograficamente questi oggetti – fra cui molti qaliyan (base della pipa ad acqua) – sono perfettamente in linea con le opere laccate e le ceramiche, con grande uso del colore rosa.
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Uno sguardo dal passato verso il futuro
1. Torre Azadi (Torre della Libertà), precedentemente nota come Shahyad Aryamehr (Torre commemorativa del Re) segna l’ingresso a Tehran, di cui è simbolo. Fu commissionata da Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo Shah dell’Iran, per celebrare i 2500 anni dalla fondazione dell’impero achemenide da parte di Ciro il Grande.
L’Iran è un paese culturalmente molto antico e antropologicamente giovanissimo. La rivoluzione islamica, iniziata nel 1978 e conclusasi un anno dopo con la nuova costituzione e il cambiamento della natura giuridica (da monarchia a Repubblica Islamica dell’Iran), ha mutato non solo gli equilibri geopolitici e la politica internazionale, ma anche la percezione che di quel mondo si è avuta in seguito. La rivoluzione islamica iraniana ha avuto conseguenze importanti sulla “presa di coscienza” di una possibile identità islamica in larghi strati delle popolazioni vicino orientali, con conseguenze che determinano anche oggi buona parte della politica in quelle cruciali regioni. La tragica guerra contro l’Iraq (1980-1988) ha avuto un peso enorme nella ridefinizione degli equilibri regionali e con l’alto numero di vittime di quel conflitto ancora oggi gli iraniani devono fare i conti. L’Iran di oggi ha avuto una notevole fiammata demografica (si superano gli ottanta milioni di cittadini), con una popolazione perlopiù molto giovane e con buoni livelli di istruzione. Corollario di questa espansione demografica e delle mutate circostanze sociali ed economiche – in parte anche imposte dalla politica di isolamento più o meno forzato che ha colpito l’Iran a seguito delle recenti e meno recenti vicende politiche che non è il caso di rievocare in questa sede – è stata una grande mobilità interna. Si pensi solo al pellegrinaggio a Mashhad e alle conseguenze che la facilità dei trasporti – la rete viaria già ai tempi di Reza Pahlavi era ottima, ma adesso è infinitamente migliorata – ha avuto sull’urbanistica di quella città e dell’intera regione… Oggi in Iran esiste un ricco turismo locale interno, acculturato e sempre più interessato alle vicende storiche e al passato, artistico e archeologico. La consapevolezza del passato di una civiltà forte e con caratteristiche peculiari – ovvero non rapportabili unicamente alla natura islamica… c’è negli iraniani sempre un qualcosa di ulteriore, di specifico – è da sempre ben presente nella coscienza e identità collettiva del popolo iraniano. I timori affacciatisi strumentalmente in Occidente durante la rivoluzione islamica e nei primi anni della Repubblica, di un settarismo confinante col fanatismo religioso islamico (e in questo la “vocazione al martirio” sciita certo non ha aiutato) che avrebbe potuto portare a gesti gravi (alla Bamyan dei talebani, con la folle distruzione dei Buddha, per intendersi) sul patrimonio artistico (e archeologico) preislamico, si sono rivelati assolutamente infondati. Dei 23 siti “patrimonio dell’umanità” della lista unesco, pur sempre un indicatore, anche se non certo l’unico, di un’attenzione al passato, ben sette sono preislamici, una decina islamici e gli
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altri paesaggistici o di altra natura (fra questi spicca, comunque, il complesso degli insediamenti monastici armeni nell’Iran nord-occidentale). I cambiamenti e le mutazioni urbane, non sempre ordinati, sono stati massicci e non sempre ben controllati; proprio il contesto urbanistico nel quale sorge il santuario dell’Imam Riza a Mashhad, per esempio, in meno di cento anni ha subito trasformazioni notevoli (inimmaginabili e probabilmente anche inevitabili). Allo scorso anno (2017) appartiene la forse tardiva proclamazione quale “Patrimonio dell’Umanità” del centro storico di Yazd (che già aveva entusiasmato decine e decine di viaggiatori, financo Marco Polo…), con la sua straordinaria architettura in mattoni crudi e le tipologie di edifici peculiari (come le ghiacciaie o le cisterne sotterranee alimentate dai qanat, il sistema di conduzione idrico sotterraneo vecchio di millenni – anch’esso ha ricevuto il riconoscimento unesco – oppure le torri di ventilazione), che l’attitudine moderna e le diverse condizioni sociali hanno rischiato di mutare e mutilare, se non distruggere. Il “progresso”, cinquant’anni fa, consisteva nell’abbattere muri in crudo e cupolette di copertura – necessarie a distribuire il peso della neve durante i rigidi inverni dell’altopiano – con strutture in “eternit”! La storia dello studio dei monumenti e del suo restauro ha una lunga tradizione in Iran e non è venuta meno neanche dopo la rivoluzione islamica di trent’anni fa. In particolare, gli archeologi iraniani hanno collaborato con le scuole e le missioni archeologiche dei principali paesi europei. Particolarmente attiva è stata l’Italia attraverso l’Ismeo (Istituto per il Medio ed Estremo Oriente), l’ente voluto nel 1933 da Giovanni Gentile e sviluppato da Giuseppe Tucci. L’Ismeo non è stato presente solo sul versante archeologico, ma anche su quello dei restauri architettonici, con eminenti personalità quali Eugenio Galdieri e Giuseppe Zander, attivi soprattutto nello studio e valorizzazione dei monumenti della città e regione di Isfahan. In ogni caso, scavi archeologici, anche di missioni straniere, continuano ancora oggi, sia su siti preislamici sia su quelli islamici. Anche i musei, sotto la supervisione dell’Iranian Cultural Heritage Organization, hanno un ruolo importante nella vita culturale iraniana. Il più antico museo è il Muze-ye Iran-e Bastan (Museo dell’Iran Antico) a Tehran, ora ribattezzato Museo Nazionale Archeologico dell’Iran, istituzione voluta e costruita su progetto del grande iranista francese André Godard (1937); adesso si è sdoppiato, dal momento che le collezioni islamiche sono state trasferite in una nuova sede limitrofa (su tre ampi piani), inaugurata nel 1996 e dotata di criteri museologici inappuntabili. Il Museo del Vetro e della Ceramica ha sede nella casa di primo Novecento di un notabile cittadino, Ahmad Qavam (poi fu ambasciata d’Egitto, e quindi acquistato dalla famiglia Diba), ed è stato inaugurato nel 1980. Offre una notevole scelta di vetri e ceramiche disposti secondo un criterio cronologico: importante la collezione. Notevoli sono anche i reperti, che spaziano dal ii millennio a.C. al xix secolo, esposti nel piccolo (e non particolarmente conosciuto e pubblicizzato) museo Riza Abbasi, inaugurato nel 1977 e poi, con alterne ristrutturazioni e chiusure, reso disponibile al pubblico dal 2000. Agli stessi anni (e su impulso e per volontà di Farah Diba Pahlavi, assurta al ruolo di shahbanu [imperatrice] nel 1967) risalgono anche l’istituzione del Museo Nazionale del Tappeto, con una piacevole architettura, ma certo non all’altezza, per qualità dei reperti, degli antichi fasti e splendori dell’arte dell’annodatura persiana, e quella del Museo di Arte Contemporanea, sempre a Tehran (1977), il progetto più ambizioso e riuscito, se si considera che è una delle più prestigiose raccolte d’arte (moderna e contemporanea) fuori d’Europa e Nord America. Anche in alcuni altri importanti centri urbani sono stati aperti musei archeologici o artistici. Il museo di
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Persepoli si segnala soprattutto perché è nella casa della missione archeologica tedesca di Ernst Herzfeld (che già aveva recuperato una struttura antica), e ha qualche significativo reperto. Anche il museo di Susa ha pregevoli opere, sebbene in entrambi i casi i reperti più importanti siano a Tehran. A Tabriz il museo adiacente alla Moschea Blu è disposto su due piani e ha una buona scelta di opere con alcune porcellane cinesi della donazione di Ardabil di Shah ‘Abbas i. Positivamente sorprendenti sono alcuni piccoli musei provinciali o legati a specifici monumenti (come quello di Sultaniyya). La serie di opere raccolta nel complesso dell’Imam Riza a Mashhad è di notevole interesse e buon livello, anche se viene fatto di pensare che in un così illustre santuario, meta di pellegrinaggi (e di doni…) da secoli, ci si aspetterebbero molte più opere – ma non sappiamo cosa sia eventualmente conservato nei depositi –. Isfahan deve ancora dotarsi di un museo all’altezza della sua importanza culturale, storica e, oggi, anche turistica. Quello che ancora non esiste – nonostante non manchino gli specialisti iraniani giovani e meno giovani in grado di assolvere degnamente il compito di redigere cataloghi sistematici delle collezioni – è qualcosa di analogo alla serie Ganjnameh: Cyclopaedia of Iranian Islamic Architecture, la quale documenta accuratamente e secondo criteri scientifici la storia dell’architettura islamica dell’Iran, dividendo l’immenso materiale per tipologie. Iran, un paese ricco di storia e di futuro.
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Note e Bibliografia NOTE Introduzione 1 Civiltà ancora in fase di studio e con acquisizioni archeologiche importanti (soprattutto i materiali in clorite con raffigurazioni fantastiche di animali, uomini e mostri, frutto di una mitologia ancora sconosciuta e da interpretare, comunque di grande raffinatezza; Madjidzadeh 2004; Perrot 2003, pp. 97-113. 2 Stierlin 2016. 3 Esattamente come “rimossi” sono stati i Buddha di Bamyan: un evento tragico. Altrettanto tragica è stata la rimozione, ben anteriore all’azione scellerata dei Taliban, della complessità politica e sociale che il Buddhismo Iranico (Bamyan è culturalmente Iran) ha incarnato. 4 Lettura, questa, tutt’altro che univoca e scontata. Non è d’accordo con questa visione Brandi 2002, capitolo “I Sassanidi», pp. 45-57. Probabilmente egli scontava un pregiudiziale eurocentrismo e fors’anche un certo provincialismo, pur essendo stato uno dei pochi grandi storici dell’arte a essersi cimentato con quei monumenti e ad averne tentato un’analisi. 5 Certamente il ruolo armeno (ma anche georgiano) quale filtro e trasmettitore di esperienze artistiche è stato importante; molto è stato scritto, ma un testo di sintesi sarebbe davvero necessario. 6 Ghirshman 1962, p. 146. Intuizione, quella dei tappeti, tanto più felice e notevole oggi che disponiamo, per i tappeti, di qualche dato più preciso: Spuhler 2014. 7 Anche là, ancora una costante, il rilievo appare sulla montagna – irraggiungibile e coraggiosamente documentato dal Rawlinson – ma con un’irrinunciabile fortissima componente ierogamica data dall’acqua della sorgente, e in posizione di strategica “cartellonistica” stradale. 8 Ghirshman 1962, p. 158, fig. 200. 9 Brandi 2002, pp. 49-52.
L’arte islamica dell’iran 1 Anche in uno dei testi che più acutamente hanno studiato il formarsi e l’evolversi dell’arte islamica l’apporto iranico, pur se non ignorato, è forse un poco sottovalutato; cfr. Grabar 1989. Attualissima per rigore formale e acume filologico è la lezione di Ettinghausen 1972. 2 Abbiamo ben in mente le idee di Said 1978, per ciò che concerne il modo “coloniale” di osservare il cosiddetto Oriente. 3 Wilkinson 1973. 4 Whitehouse 1980, con ampia bibliografia. 5 Pope, Ackerman 1938-1939. 6 Monneret de Villard 1942; Scarcia 1987, pp. 273-285 e 2000, pp. 171-227; in part. pp. 175-180. 7 Su Viar si veda Scarcia 1975, pp. 99-104; sull’iconografia di quel drago, Curatola 1982, pp. 45-63. 8 Curatola 1979, pp. 7-11. 9 Rogers 1969, pp. 385-403. 10 Scarcia Amoretti, B. (1990) 1991. 11 Curatola (1985) 1987, pp. 77-93.
L’architettura persiana 1 Sempre attuale l’opera di Grabar 1989. Sul problema di un’estetica musulmana, anche sul versante figurativo, si veda il saggio Scarcia 1995.
Finster 1994. La missione archeologica a Isfahan ha lavorato dal 1972 al 1978 con la direzione del prof. Umberto Scerrato. Si veda il recente intervento di Scerrato 2001, pp. xxxvii-xliii. 4 La bibliografia di Eugenio Galdieri su Isfahan (non solo sulla moschea congregazionale) è molto vasta; si veda Bernardini, Cresti, Fontana, Noci, Orazi 1995, pp. xi-xxii. Sulla moschea in oggetto restano fondamentali i tre volumi: Galdieri 1972; 1973; 1984. Sulla moschea si consulti anche il volume di Grabar 1990. 5 Byron 1993, pp. 239-240. 6 Ventrone 1977, pp. 85-107. 7 Van Berchem 1909, pp. 367-378. 8 È interessante notare come nelle numerose iscrizioni che costellano questo monumento si trovino il termine ta‘mir (riparare, restaurare) e anche quello ta’zin (abbellire), differenza non da poco. 9 Nei lavori di rifacimento delle coperture (fra l’altro proprio il tetto ospitava in quella posizione una musalla [oratorio all’aperto] come documenta un mihrab) sono stati ritrovati frammenti di ceramica bianca e blu prodotta sia nel periodo timuride sia in quello safavide. Un attento esame di questo materiale potrebbe sciogliere il dubbio. 10 Adle, Melikian Chirvani 1972, pp. 229-297. 11 Deniké 1935, pp. 69-83; Voronina 1958. 12 aa.vv. 1994, p. 133. 13 Zipoli, Alfieri 1977, pp. 41-76. 14 Golombek 1969, pp. 23-31. Melikian Chirvani 1969, pp. 3-20. Pugachenkova 1970, pp. 241-250. 15 Sull’importanza dei Ghaznavidi si cfr. Bosworth 1968, pp. 23-31. 16 Rempel’ 1936, pp. 198-208. 17 Tomba del califfo al-Muntasir (fatta edificare dalla madre, greca) morto nel giugno dell’862; Creswell 1966, pp. 317-319. 18 Hillenbrand 1989, pp. 81-107, p. 83. 19 Fleury 1930, pp. 43-58. 20 Gobolot 1979. 21 Sugli stucchi di Samarra si veda il classico studio di Herzfeld 1923. 22 Su Jurjir, cfr. Godard 1938, pp. 3100-3103; si veda anche Grabar 1990, pp. 47-48, figg. 44-46. 23 Bartol’d 1921; Bivar 1965, p. 1139. 24 Sourdel-Thomine 1953, pp. 110-121; PinderWilson 1985, pp. 89-102. 25 Maricq, Wiet 1959. Tronsdale 1965, pp. 102108. Moline 1973-74, pp. 131-148. 26 L’analogia decorativa con la metallistica è stata osservata in uno splendido e documentatissimo saggio di Giuzalijan 1978, pp. 53-83. 27 Su questo specifico argomento si veda Maricq 1959, pp. 65-67. 28 Ball 2002, pp. 21-45. Nello stesso volume è utile anche il saggio di Flood 2002, pp. 102-112. Sui minareti isolati si veda O’Kane 1984, pp. xxxxx. Moline 1978-79, pp. 95-102. I minareti selgiuchidi sono stati studiati approfonditamente da Hutt 1974 (tesi di dottorato inedita). Si vedano anche Azarpay 1981, pp. 9-12 e Daneshvari 1986. Infine, sull’architettura ghaznavide e ghuride, si rimanda per bibliografia e approfondimenti all’esauriente lavoro di Hillenbrand 2000, pp. 124-206. 29 Burkett 1973, pp. 43-49; Hutt 1995, p. 255. 30 Hutt 1995, p. 256. 31 Crowe 1995, p. 260. 32 Scerrato 1959; purtroppo manca una pubblicazione definitiva su questo importante scavo. 33 Schlumberger 1952, pp. 251-270 e 1978. 34 Fontana 2002, pp. 84-86. 35 Kleiss, Kiani 1995, pp. 370-371. Kiani 1981. 36 Pribytkava 1953, pp. 92-106. 37 Umnyakov 1923, pp. 179-192. 2 3
Godard 1936, pp. 283-309. Ferrante, Galdieri 1968, pp. 475-483. 39 Shirazi 1980, pp. 6-78. 40 Per la pittura ad Ardistan, Fontana 2002, p. 73, tav. 31 e nota 131. 41 La tesi di dottorato di Robert Hillenbrand, purtroppo mai pubblicata integralmente, resta l’opera più completa in materia: Hillenbrand 1972. Si consulti anche Hillenbrand 1994. 42 Su questo monumento si veda Pope 1936, pp. 139-141. 43 Holod 1974, pp. 255-288. 44 Stronach, Cuyler Young 1966, pp. 1-20. 45 Hillenbrand 1999, p. 107. 46 Oney 1979, pp. 400-408; Daneshvari 1994, pp. 192-200. Si veda anche Fontana 2002, pp. 75-76, figg. 34-35, tavv 40-41. 47 Hermann 1999. 48 Kröger 2001, pp. 47-50: 49 Su Nakhchivan si veda sub voce, a cura di C.E. Bosworth, in Encyclopaedia of Islam. 50 Berlino, Staatliche Museen zu Berlin. Preussischer Kulturbesitz, Museum für Islamische Kunst. 51 Si veda il capitolo sulle miniature. 52 Rawson 1984; il v capitolo è dedicato a «Chinese Motifs in Iranian and Turkish Art», pp. 146198. 53 Naumann 1969, pp. 35-65. 54 Godard 1934 e 1936a, pp. 125-160. 55 Daneshvari 1982, pp. 287-295. 56 Vedi nota 54. 57 Bausani 1977, p. 161. Sugli osservatori astronomici musulmani si veda Sayili 1960. In specifico sull’osservatorio di Maragha si vedano Bretanickij, Salamzade 1956, pp. 61-85; Varjavand 1979, pp. 527-536; Bausani 1982, pp. 125-151. 58 Blair 1986a, pp. 139-151. 59 Sui Mongoli e Sultaniyya è stato scritto molto. La situazione religiosa è stata ottimamente documentata da Scarcia 1981, pp. 159-172. Si vedano anche Bausani 1968, pp. 538-549; Zipoli 1979, pp. 15-35; Curatola 1979, pp. 7-11. 60 Curatola 1982, pp. 45-63. 61 Blair 1984, pp. 67-90. 62 Sull’architettura ilkhanide il testo di riferimento è quello di Wilber 1955. Su Natanz si veda Blair 1986b. Sul periodo ilkhanide in generale si veda ora anche Komaroff, Carboni 2002. 63 Wilber 1955, n. 47, pp. 139-141, figg. 69-86. 64 Scarcia 1981, p. 165. 65 Blair 1987, pp. 43-96. 66 Hillenbrand 1989, p. 94. 67 Su Pir-i Bakran, cfr. Wilber 1955, pp. 121-124; Paone 1995, pp. 265-278. 68 Fontana 2002, p. 94, tav. 53. 69 Sugli stucchi, davvero preziosi e molto diversi gli uni dagli altri per tipologia, si veda il saggio di Grube 1981, pp. 85-96. 70 Miles 1978, pp. 89-98. 71 Sull’Arg ‘Ali Shah di Tabriz si veda Mechkati 1974, n. 170, p. 6. 72 Krachkovskaja 1931, pp. 25-58. 73 Un’ottima rassegna fotografica è in Izadpaneh 1993, figg. 131-147. 74 Sulla tecnica si veda Wulff 1966, pp. 117-125. Il problema che si trovavano ad affrontare i ceramisti è, in realtà, piuttosto semplice: gli ossidi colorati hanno punti di fusione abbastanza diversi e a mettere i colori gli uni accanto agli altri si corre il rischio di sovrapposizioni non volute o sbavature. Ricorrendo a lastre monocrome poi opportunamente tagliate e riassemblate per creare il motivo decorativo non esistono più controindicazioni tecniche, se non la laboriosità del procedimento. Naturalmente con gli anni le capacità tecnologiche saranno affinate e dun38
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que sarà possibile produrre mattonelle policrome. Si vedano anche Wilber 1939, pp. 16-47, e più recentemente Hillenbrand 1979, pp. 545-554. Ottime immagini anche in Mirfendereski, Zonuzi 1992. 75 Su Yazd si utilizzi Bonine 1975. 76 Golombek, Wilber 1988, pp. 231-232. 77 Sull’architettura timuride il repertorio più utile e completo è quello di Golombek, Wilber 1988 citato alla nota precedente. Sul periodo in generale si veda l’ottimo catalogo di Lentz, Lowry 1989. Inoltre, O’Kane 1987. 78 Man’kovskaya 1985, pp. 109-127; Golombek, Wilber 1988, pp. 284-288; Masson 1999. 79 Qui, secondo la storia, Umm Haram, per alcune fonti una parente del Profeta Maometto, per altre addirittura sua nutrice, cadde da un asino e morì. 80 Molto interessanti sono i contenuti dell’iscrizione sul calderone; il versetto 19 della sura ix: “O che forse dar da bere ai pellegrini e servire il Tempio Sacro li mette alla pari col merito di chi ha creduto in Dio e nel Giorno Estremo e ha lottato sulla Via di Dio? No, non sono uguali agli occhi di Dio, e Dio non guida al Bene la gente degli Empi”, e un hadith profetico: “Per colui che costruisce per ragioni religiose un luogo dove bere, Dio costruirà per lui vasche enormi in Paradiso”. 81 Ratiia 1950. Si veda anche Golombek, Wilber 1988, pp. 255-260. 82 Cuneo 1986, pp. 286-289. 83 Le Strange 1928. 84 Wilber 1979, pp. 127-133; Bernardini 1994, pp. 237-248. 85 Golombek, Wilber 1988, pp. 260-263. 86 Monneret de Villard 1921, pp. 315-324; Sanpaolesi 1971, pp. 3-64. 87 Semenov 1949, pp. 49-62. 88 Su Ak Saray, Kouzmina 1985-86; Golombek, Wilber 1988, pp. 271-275. 89 Bulatova 1965;. Nemtseva, Shvab 1979; Golombek, Wilber 1988, pp. 233-252. 90 Si veda la nota 82; Pugachenkova, Rempel 1968; Masson 1926 e 1950; Golombek, Wilber 1988, pp. 263-265. 91 Sugli osservatori astronomici si veda la nota 57. Liebe-Harkort 1968, pp. 160-164; Kennedy 1986, pp. 578-580. 92 Su Gawhar Shad a Mashhad, O’Kane 1987, pp. 119-130; Golombek, Wilber 1988, pp. 328-331. 93 Su Gawhar Shad a Herat, O’Kane 1987, pp. 167-177; Golombek, Wilber 1988, pp. 305-307. 94 Su Gazar Gah si veda Golombek 1969b. 95 O’Kane 1976, pp. 79-92. 96 Hillenbrand 1989, p. 98. 97 Il lavoro più completo è quello di Pugachenkova 1959. 98 Cfr. Curatola 1989, pp. 77-78 e bibliografia relativa. 99 Crowe 1995, p. 263. 100 Pugachenkova 1963, pp. 177-189; Golombek, Wilber 1988, pp. 268-270. 101 Sull’architettura di Bukhara si vedano: Shishkin 1936; Dimitriyev 1950. Sulla moschea Kalan, Golombek, Wilber 1988, pp. 228-230. 102 Sulla madrasa di Abd al-Aziz Khan, cfr. Nikiforov 1930. 103 Dibaj 1968, pp. 147-166; Morton 1974, pp. 3164 e 1975, pp. 39-58; Golombek, Wilber 1988, pp. 362-364. 104 Pope 1956. 105 La letteratura sui giardini persiani è abbastanza vasta; si veda, comunque, il classico saggio di Wilber 1962 e i saggi pertinenti in Petruccioli 1994. 106 Tabataba’i 1968. 107 Scarcia Amoretti 1979; Membrè 1969. 108 Per un inquadramento storico del periodo safavide si legga Savory 1980. 109 Curatola (1985) 1987, pp. 77-93. 110 Bastani Parizi 1976, pp. 13-20; Scarcia 1978, pp. 387-391 e 1980, pp. 57-82.
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Su Isfahan esiste molta letteratura. Si veda Holod 1974b. 112 Cuneo 1986, pp. 342-347. 113 Carswell 1968; Karapetian 1974. 114 Galdieri, Orazi 1969; Galdieri 1970, pp. 60-69. 115 Golombek 1972, pp. 5-14. 116 Galdieri 1979. 117 Ferrante 1968a, pp. 421-440. 118 Vedi la nota 115. 119 Vedi la nota 116. 120 Bellissima è la Planographia Sedis Regiae del Kaempfer (1712) che, secondo gli studi del Galdieri, è piuttosto attendibile. Cfr. Galdieri 1990, pp. 377388. 121 Grube 1974, pp. 511-542. 122 Vedi la nota 83. 123 Galdieri 1974, pp. 380-405. 124 Ferrante 1968b, pp. 293-322. 125 Ferrante 1968c, pp. 399-420; Luschey-Schmeisser 1978. 126 Luschey 1985, pp. 143-151. 127 Beazley 1966, pp. 105-109 e 1989, pp. 109-117. 128 Cuneo 1986, pp. 347-352. 129 Wilber 1962. 130 Alemi 1994, pp. 201-216. 131 Luschey-Schmeisser 1969, pp. 183-192 e 1972, pp. 309-314. 111
Illusione e realtà la decorazione architettonica Rahbar 1998, pp. 213-250 e 2004, pp. 7-30. Thompson 1976; Kröger 1982. 3 Fontana 1986. 4 Wilkinson 1986. 5 Keall 1979, pp. 537-543; Rante 2007, pp. 16180; Treptow 2007. 6 Bombaci 1959; Scerrato 1959, pp. 23-55. 7 Giunta 2003; Artusi 2009, pp. 117-130; Rugiadi 2010, pp. 297-306. 8 Schlumberger, Sourdel-Thomine 1978. 9 Canby, Beyazit, Rugiadi, Peacock 2016, n. 16, pp. 76-77 (M. Rugiadi). 10 Pope 1934, pp. 321-332. 11 Whitehouse 1968-74 e 1980. 12 Grabar 1966, pp. 7-46. 13 Daneshvari 1986. 14 Hillebrand 1974, pp. 40-59. 15 Nemtseva 1982, pp. 112-142. 16 Siroux 1949 e 1974, pp. 134-149. 17 Godard 1949, pp. 7-68; Kiani 1982. 18 Gye, Hillenbrand 2001, pp. 53-64. 19 Un monumento assai interessante (ma molti altri andrebbero citati, col rischio di fare un lunghissimo e sterile elenco…) è, sempre nel Khorasan, oggi in Turkmenistan, il mausoleo a Minha, con notevoli decorazioni, in mattone cotto, stucco e parti dipinte; si veda Harrow 2005, pp. 197-215. 20 Stronach, Cuyler Young 1966, pp. 1-20. 21 Godard 1934. 22 Lu, Steinhardt 2007, pp. 1106-1110. 23 Wilber 1939, pp. 16-47 e 1955. Hillenbrand 1979, pp. 545-554. Per le tecniche di lavorazione resta ancora insuperata l’opera di Wulff 1966. 24 Blair 2008, pp. 155-176. 25 Masuya 2000, pp. 39-54. 26 Naumann 1969, pp. 35-62 e 1976; Naumann, Huff, Schnyder 1975, pp. 109-204; Masuya 1997. 27 Rawson 1984; Soucek 1999, pp. 125-141. 28 Blair 1983, pp. 69-94 e 1990, pp. 35-49. 29 Wilber 1955. Da ultimo si veda l’importante studio di Grbanovic 2017, pp. 43-83. 30 Blair 1986, pp. 139-151. 31 Blair 1982, pp. 263-286; Hillenbrand 1982, pp. 237-261. Encyclopaedia Iranica, sv Bestam (Adle 1989). 32 Con questa tecnica sono stati eseguiti mihrab di notevolissima qualità artistica; Crane 1940, pp. 96100; Shepherd 1962, pp. 179-185. 1 2
O’Kane 1976, pp. 79-92. Golombek, Wilber 1988; Aube 2008, pp. 241277. 35 Golombek 1996, pp. 577-586. 36 Morton 1974, pp. 31-64 e 1975, pp. 39-58. 37 La letteratura su Isfahan è molto consistente. Si vedano, nel contesto che qui ci interessa, almeno i seguenti testi: Gabriel 1974, pp. 380-405; Hillenbrand 1986, pp. 759-842; McChesney 1988, pp. 103-134; Babaie 1994; Blake 1999. 38 Luschey-Schmeisser 1978. 39 Haghnazarian in Encyclopaedia Iranica, xv, 3, pp. 238-240. 33 34
Terra, acqua, fuoco, ovvero dell’arte ceramica Per un sommario ma interessante sguardo d’insieme: Jenkins 1983, pp. 1-52. 2 Il sito di Tape Siyalk è stata scavato e studiato soprattutto dal grande archeologo Ghirshman. Si veda: Ghirshman 1938. Più recentemente: Malek 2002. La collina di Siyalk è attualmente inglobata nella città di Kashan, il più importante centro ceramico medievale islamico in Iran. Va da sé che una continuità storica è impensabile, ma, ciononostante, la tradizione della lavorazione ceramica al più alto livello è attestata nella regione. 3 Wilkinson 1973. 4 Wilkinson 1961, pp. 102-115. 5 Whitehouse 1969, pp. 39-62. 6 Gouchani 1986. 7 Zick-Nissen 1975, pp. 217-231. 8 Bahrami 1949; Kiyani 1984 e 1978. 9 Watson W. 1970. 10 Una buona panoramica relativa all’arte dei Selgiuchidi è offerta dal catalogo della mostra Court and Cosmos, 2016. Sulla produzione ceramica si veda anche Curatola 2006. 11 Allan, Llewellyn, Schweizer 1973, pp. 165-173; Rugiadi 2011, pp. 233-248. 12 Su questa tecnica la bibliografia è davvero molto ampia. Si vedano almeno: Lane 1947; CaigerSmith 1985; Watson O. 1985. Una discreta sintesi delle produzioni, non solo iraniche, è in Peck 1997, pp. 16-35; Mason 1997, pp. 103-135 e 2004. 13 Watson O. 2004b, pp. 517-539. Un importante mina’i della collezione della Freer Gallery di Washington è stato soggetto di un interessante articolo: Holod 2012, pp. 194-219. 14 Vedi nota 8. 15 Tabbaa 1987, pp. 98-113. 16 Hillenbrand 1994, pp. 134-141. 17 Allan 1973, pp. 111-120. 18 Crowe 1985, pp. 47-55. 19 Curatola 1989; Kuehn 2011. 20 Golombek 1996, pp. 577-586. 21 Assai avvincente è il racconto di De Waal 2016, che della porcellana racconta molte storie, compresa l’invenzione (e la scoperta europea), senza peraltro toccare l’ambito islamico, dal momento che quello sull’imitazione della porcellana è un capitolo a parte, estremamente complesso e altrettanto avvincente. 22 Golombek, Mason, Proctor 2001, pp. 207-236. Fondamentale, comunque, Crowe 2002. 1
La miniatura persiana Spunti importanti, a questo proposito, in Schafer 1963; Rogers 1970, pp. 67-80; Gray 1963, pp. 1318; le influenze, comunque, non sono mai esercitate in una sola direzione: Watson W. 1973. 2 Gli scavi a Nishapur furono condotti in Iran negli anni ’30 e ’40 del Novecento da una missione americana del Metropolitan Museum di New York, e i reperti sono divisi fra New York e il Museo Iran Bastan a Tehran; Wilkinson 1973 e 1986; Kroger 1995. 1
Bombaci, Scerrato 1959, pp. 3-55; Scerrato 1962, pp. 263-272; Bombaci 1966; Giunta 2003. 4 Lashkari Bazar, nell’odierno Afghanistan, è stato oggetto di scavi francesi; Schlumberger 1952, pp. 251-270 e 1978. 5 Su Takht-i Sulayman cfr. Naumann 1969, pp. 35-65. 6 Whitehouse 1980, con ampia bibliografia. 7 Su Afrasiyab, Albaum 1973; su Varahsha, Shshkin 1963, oltre a numerosi articoli di B.I. Marshak. Più accessibili il classico testo di Bussagli 1963 e Azarpay 1981. 8 Questo, per esempio, occorre nella metallistica. Su alcuni piatti in argento di tipologia sasanide sono state notate alcune incongruenze iconografiche: “They are, rather, a continuation of Sasanian royal tradition and were, in all likelihood, made in regions free from Umayyad control”, Harper, Meyers 1981, p. 141. Sul periodo di transizione in Iran fra tradizione sasanide e nuovo modello islamico si veda Bosworth 1973, pp. 51-62. 9 Harper 1979, pp. 75-79. 10 Kroger 1977 (tesi di dottorato). 11 Schmidt 1937. 12 Thompson 1976. 13 Vedi la nota 2. 14 Watson W. 1970, pp. 41-47. 15 Non esiste, a quanto ci risulta, uno studio specifico di questo vasellame; cfr. Fehervari 1985, p. 98. 16 Fontana 2002; pp. 77-83, fig. 37 (da Nishapur, «Vineyard» tepe, sec. ix); pp. 88-89, fig. 46 (da Rayy, sec. xii). 17 Fontana 2002; figg. 38-42 (Nishapur), e fig. 47 e tav. 43 (Rayy). 18 Atil 1973, n. 50, pp. 112-115. 19 Argomentazione sviluppata in un saggio di Simpson 1981, pp. 15-24. 20 Allan 1973, pp. 111-120. 21 “L’apogeo della ceramica dipinta viene raggiunto in Persia con il vasellame mina’i o a haft rang, prodotto, a giudicare dai pezzi datati, fra il 1179 e il 1242. [...] La dispendiosità insita nelle cotture plurime [...] ne fa un prodotto dei più raffinati”; Curatola, Scarcia 1990, p. 124. 22 Caiger Smith 1985; Watson O. 1985. 23 Istanbul, Topkapi Sarayi, inv. H. 841; Melikian Chirvani 1970, pp. 1-262. 24 Un esempio fra tutti, più o meno coevo, è il frontespizio del Kitab al-Diryaq (Pseudo Galeno) alla Bibliothèque Nationale, Parigi (ms. arabe 2964) datato al 1199 ed eseguito a Mosul; Grube 1980, fig. 1 a colori. 25 Lockhart 1968, pp. 23-31. 26 Manafi al Hayawan di Abu Sayyid Ubaydallah Ibn Bakhtishu; Pierpont Morgan Library (ms. M. 500); Gray 1961; Canby 1993; Grabar 2000. 27 M. 500, fol. 11r; Gray 1961; a colori a p. 20. 28 M. 500, fol. 13r; Fontana 1998; fig. 22 a colori. M. 500, fol. 28r; Gray 1961, fig. a colori a p. 21; Grabar 2000, fig. 12. 29 M. 500, fol. 28r; Gray 1961, fig. a colori a p. 21; Grabar 2000, fig. 12. 30 Scarcia 1981, pp. 159-172 e Grube 1981, pp. 101-158. 31 Boyle 1971, pp. 19-26. 32 Collezione privata, Londra; già conservato presso la Royal Asiatic Society di Londra; Gray 1978. 33 Edimburgo, Biblioteca Universitaria; Rice 1976. 34 Fontana 1998, p. 65. 35 Fol. 47v; «Abramo riceve tre stranieri con Sara nella tenda»; Gray 1961; figura a colori a p. 25. 36 Londra, Khalili Coll., fol. 36v; Gray 1961; fig. a colori a p. 24. 37 Questo manoscritto è stato a lungo conosciuto come Shah-nama Demotte; Georges Demotte fu l’antiquario parigino che in possesso del testo (o parte di esso) lo ha ulteriormente smembrato vendendo le singole pagine miniate a collezioni pubbliche e private. Sui modi e tempi dell’acquisizione della raccolta di 3
Henri Vever (ora a Washington, Arthur M. Sackler Gallery), si veda Lowry 1988, pp. 31-37. Per uno studio del testo e delle miniature, si veda Grabar 1980. Robert Hillenbrand ha in preparazione un volume specificamente dedicato a questo manoscritto. 38 Inv. n. 38.3; Gray 1961, p. 32, a colori; si vedano anche, sempre a Washington, gli otto fogli già nella collezione Vever; Lowry, Nemazee 1988, nn. 7-14. 39 Lowry, Nemazee 1988, pp. 76-77. 40 Boston, Museum of Fine Arts, inv. n. 30.105 Gray 1961, p. 28 a colori. 41 Su questa iconografia si veda Ettinghausen 1950. 42 Inv. n. 43.658; Grube 1980, fig. 6 a colori; per un’analisi iconografica dettagliata: Curatola 1989, p. 74, fig. 66. 43 Fontana 1986. 44 Non copia direttamente, come avverrà proprio a partire dall’epoca ilkhanide, in vari materiali; Curatola 1989, pp. 66-76, figg. 52-68. 45 Una roccia analoga con albero nodoso (e funghi alla cinese sulla corteccia) è nella bella miniatura intitolata «Zav in trono», Washington, Freer Gallery S86.0107; Lowry, Nemazee 1988, p. 82, fig. a colori a p. 83. 46 Abu al-Qasim Firdusi di Tus (Khorasan), 935ca.-1025/26; l’opera è dedicata al sovrano ghaznavide, turco, Mahmud nel 1009/10. In italiano esiste una bella traduzione, anche se ormai «storica», a cura di Pizzi 1886-88. 47 Grabar 2000, p. 100. 48 I Mongoli e lo Shah-nama sono oggetto di numerosi e corposi studi di Melikian Chirvani 1984, pp. 249-337; 1988, pp. 39-46; 1991, pp. 33-148 e 1996. 49 Cosiddetto Houghton Shah-nama; manoscritto purtroppo smembrato tra vari musei e collezioni private; Welch, Cary, Dickson 1981. 50 Grube, Sims 1989, pp. 200-223, in part. pp. 220-223. 51 Qualcosa di molto simile, del resto, avviene in Cina, sempre con i Mongoli Yuan; Lee, Ho 1968. 52 Grabar 2000, pp. 99-104. 53 Quintetto, composto da cinque poemi in rima baciata (masnavi): Makhzano’l Asrar (il magazzino dei segreti); Khosrow-o-Shirin (Cosroe e Shirin); Laila-o-Majnun (Laila e Majnun); Haft Peikar (Le sette principesse); Eskandar-nama (Il libro di Alessandro); si veda l’introduzione di Bausani 1982, pp. 5-32. Ottima edizione anche quella curata da Chelkowski 1975. Su Haft Peikar si veda anche Martin Al-Awadhi 2001. Per l’ideologia di Nizami si cfr. McDonald 1963, pp. 97-101. 54 Lukens Swietochowski, Carboni 1994; Simpson 1979; si veda anche per una sintesi Fontana 1998, pp. 68-71. 55 Sugli album e il loro contenuto si veda Islamic Art, i, 1981, a cura di E.J. Grube, numero monografico interamente dedicato a questo affascinante e misterioso gruppo di opere. 56 Chagatai 1936. 57 Minorsky 1959. 58 Istanbul, Topkapi Sarayi, H. 2154, fol. 107r; ottima riproduzione a colori in Grube 1980, fig. 9. 59 Istanbul, Topkapi Sarayi, H. 2153, fol. 73v; a colori in Grube 1980, fig. 11. 60 Grube, Sims 1989, pp. 208-209. 61 British Library, inv. Ms. Add. 18113; si veda Canby 1993, p. 44. 62 Fol. 45v; a colori in Grabar 2000, fig. 21. 63 L’importanza delle iconografie delle miniature nel più generale contesto delle arti islamiche è stata esagerata dalla critica occidentale; giustamente Grabar 2000, p. 128, ci ricorda che all’epoca non esistevano mostre e musei; inoltre la struttura della società con la sua straordinaria mobilità, se da una parte ha favorito il confronto, dall’altra l’organizzazione sociale, tutto sommato piuttosto rigida, deve aver spinto all’accettazione di modelli e moduli decorativi tradizionali.
64 British Library, Ms. Add. 18113, fol. 18v; Canby 1993, fig. 24 a colori. 65 British Library, Ms. Add. 18113, fol. 31r; Gray 1961, fig. a colori a p. 47. 66 O’Kane 1991, pp. 219-246. 67 Ruy de Clavijo 1928. 68 Questo periodo si presenta abbastanza intricato; un ottimo studio complessivo e recente è quello di Soucek 2000, in part. pp. 123-148. 69 Tapper 1966, pp. 61-84. 70 Curatola 1993, scheda n. 26. 71 Soucek 2000, p. 134. 72 Ipshiroghlu 1976; Karamagarali 1984. 73 Istanbul, Topkapi Sarayi, H. 2153, foll. 3v-4r; H. 2160, fol. 77v; a colori in Fontana 1998, fig. 36. 74 Londra, British Library, Ms. Add. 27261, fol. 230r; Canby 1993, fig. 28. 75 Vedi la nota 66. 76 Ms. i. 4628; Fontana 1998, p. 85. 77 Sullo Zafar-nama si vedano i lavori di Sims che per molti anni ha studiato quasi esclusivamente questo soggetto: Sims 1973 (New York University; tesi di dottorato); 1991, pp. 175-217 e 1992, pp. 132-143. 78 Si veda la scheda n. 221 di Sims in Curatola 1993. 79 Ibidem. 80 Bibliothèque Nationale, suppl. turc. 190; Robinson 1991, p. 8, fig. 2 (fol. 67v). 81 Ms. 239; Robinson 1991, p. 8, fig. 3 (fol. 28v). 82 Molto interessante, a questo proposito, è il lavoro di Davis, Norgren 1969. 83 Lo studio sinora più completo è Bahari 1996. 84 Khwandamir, Halib al-Siyar; citato in Grube, Sims 1989, p. 208, n. 7. 85 Nell’opera Libro degli uomini illustri, già citata, dello storico Khwandamir, suo contemporaneo, che non è comunque un Vasari, sono contenute alcune utili annotazioni. 86 Ms. Adab Farsi 908; a colori il doppio frontespizio in Grabar 2000, figg. 65-66. 87 Ms. Or. 6810; Gray 1961, fig. p. 146 (fol. 154v); Canby 1993, p. 75, fig. 47 (fol. 214r); Grabar 2000, pp. 115-118, figg. 61-62 (foll. 27v, 16). Le riproduzioni indicate sono tutte a colori. 88 Londra, British Library, Ms. Add. 25900; Grabar 2000, p. 118, fig. 63 (fol. 18). 89 Vedi la nota 69. 90 La biblioteca del Topkapi Sarayi di Istanbul ne conserva 19 miniature (H. 762), mentre 3 sono nella collezione Keir di Londra; cfr., rispettivamente, Stchoukine 1966, pp. 1-16 e Robinson 1976. La travagliata storia di questo manoscritto merita un cenno, perché risulta illuminante circa gli itinerari compiuti, talvolta, da queste opere. Il manoscritto fu commissionato da Babur (figlio del celebre Baysunghur), ma al momento della morte (1457), non terminato, passò dopo il sacco di Herat nelle mani di Pir Budaq (principe Qara Qoyunlu figlio di Jahanshah, governatore di Shiraz dal 1456, poi inviato a Baghdad dal 1460) e quindi, dal 1476, del Aq Qoyunlu Khalil (figlio di Uzun Hasan e governatore di Shiraz dal 1471 al 1478), per giungere al già citato Ya‘qub Beg che, infine, provvide a completarlo. Senonché Shah Isma‘il fece aggiungere alle composizioni di Shaykhu e Darwish Muhammad undici miniature del giovane pittore Sultan Muhammad, che si affermerà in seguito tra i protagonisti assoluti della scuola safavide. 91 Schmitz 1984, pp. 103-112. 92 Purtroppo anche questo manoscritto, donato da Shah Tahmasp nel 1567 al sultano ottomano Selim ii in occasione della sua ascesa al trono della sublime Porta, già proprietà di un barone Rothschild e poi passato ad Arthur Houghton Jr., è attualmente diviso fra numerosi musei e collezioni private. Recentemente un’ottantina di miniature sono state acquisite dal Museo di Arte Contemporanea di Tehran in cambio di un grande quadro, peraltro mai esposto, di De Kooning. Su questo capolavoro si veda lo studio dettagliato di Dickson, Welch 1981.
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Vedi le note 56 e 57. Fol. 20v; Collezione principe Sadruddin Aga Khan, Ginevra; riprodotta a colori innumerevoli volte, da ultimo si veda Grabar 2000, p. 137, figg. 72-73. 95 Da confrontare con uno dei paesaggi più straordinari mai dipinti (forse proprio da Sultan Muhammad) in uno Shah-nama fatto a Tabriz nel 1515 (British Library, oa 1948 12-11.023; Canby 1993, fig. 49) con “Rustam addormentato” e una varietà di flora e rocce davvero stupefacente (non inattesa se pensiamo all’Antologia di Istanbul del 1398 eseguita a Shiraz; Gray 1961, p. 69, fig. a p. 68 [fol. 26r]), un festival rigoglioso ed “esotico” che fa venire in mente l’opera, qualche secolo più tardi, del Doganiere Henri Rousseau (1844-1910). 96 Dust Muhammad (cfr. la nota 56) parla di Sultan Muhammad e di questa pittura in cui ci sono “uomini vestiti di pelle di leopardo”, opera così sconvolgente nella sua bellezza che gli altri artisti “chinano il capo per la vergogna”; cfr. Soudavar 1992, p. 159. 97 Khamsa di Nizami, Tabriz 1539-43; Londra, British Library, Or. 2265, fol. 18r; Canby 1993, p. 82, fig. 50. 98 Khamsa del 1490, Add. 25900, fol. 18; cfr. nota 88. 99 Istanbul, Topkapi Sarayi, H. 2154. Si veda la nota 58. 100 Welch 1979; fol. 521v, collezione privata. 101 Attribuita. Washington, Arthur M. Sackler Coll. Freer Gallery of Art, inv. s86.0300; Lowry, Nemazee 1988, fig. 65. 102 British Library, oa 1930 11-12.02; Canby 1993, pp. 82-83, fig. 52. 103 Questo sorprendente giudizio – probabilmente legato al fatto che Tahmasp cedette alle richieste ottomane e in cambio di 400.000 pezzi d’oro fece giustiziare il principe Bayazit rifugiatosi alla sua corte in Iran – è di Monneret de Villard 1962, pp. 450-652, p. 547. 104 Su questo interessante periodo storico si veda ora l’ottimo saggio di Soudavar 1999, pp. 49-66; in particolare sul disamore di Tahmasp nei confronti delle arti (ma senza alcuna esplicita proibizione nei confronti della pittura), si vedano le pp. 51-52, e sulla diaspora degli artisti safavidi le pp. 52-54. 105 Fol. 147; Gray 1961, p. 145, fig. a p. 143. 106 Or. 12985; Canby 1993, p. 86, fig. 54. 107 Ms. P.277; Fontana 1998, p. 117. 108 Si veda la nota 57. 109 Fontana 1998, p. 121. 110 Una caratteristica che troveremo anche in altri materiali; si vedano, per esempio, i celebri velluti figurati safavidi, ispirati proprio al maestro; un bellissimo esempio è il broccato d’argento a Toronto, Royal Ontario Museum, inv. n. 962.60.1; Allgrove McDovell 1989, p. 166, fig. 25. 111 Datato al 1595; Arthur M. Sackler Museum, Harvard University Museums, Cambridge (Mass.) (inv. 1936.27); cfr. Grabar 2000, fig. 37. 112 Datato al 1630; inv. n. 1960.17; Grabar 2000, fig. 38. 113 Esiste un solo studio complessivo (peraltro ottimo), limitato alla fine del Trecento, su questo argomento; Fontana 2002, in part. pp. 73-97. 114 Luoghi particolari, di confine, per eccellenza – si entra impuri, si esce puri – in cui erano consentite, se non consigliate, immagini anche umane e naturalistiche escluse, come sappiamo, in altri contesti; si veda Arnold 1928, p. 88; per un esempio, tardo, di tali pitture murali per un bagno si veda Curatola 1978, pp. 143-151. 115 Si veda, in ogni caso, nel capitolo sull’architettura il sito selgiuchide di Kharragan. 116 Grabar 2000, p. 95. 117 Utile il testo di Brosh, Milstein 1991. 118 Sempre basilare è il magistrale saggio di Rogers 1970, pp. 125-139. 119 Fontana 1994.
I tappeti persiani
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Si veda il classico lavoro di Eliade 1974. Ghirshman 1956. 3 Curatola 1981, p. 34. 4 Sull’importanza del Paradiso nell’arte islamica si veda il testo di Piotrovsky 2000, pp. 87-93. 5 La letteratura in proposito è molto vasta. Si veda, fra tutti, Gantzhorn 1991, pp. 13-45. 6 In Iran è esistita una categoria di oggetti tessuti in due colori (bianco e blu) nota come zilu, fatti, con dei telai più o meno meccanicizzati, espressamente per coprire le sale di preghiera delle moschee; spesso riportano il nome del committente/donatore, dell’artigiano, la data e il luogo di esecuzione, e il nome della moschea per cui venivano fabbricati. Essi costituiscono un’importante fonte documentaria, purtroppo poco nota, e in via di progressiva distruzione, essendo gli zilu ritenuti prodotti popolari e non degni di conservazione e studio. Sugli zilu si vedano: Wulff 1966, pp. 210-212; Gluck, Hiramoto 1977; Vogelsang-Eastwood 1988, pp. 225-240; Afshar 1992, pp. 31-36; Ittig 1992, pp. 37-42. 7 Ivanov 1990, n. 61, pp. 24-25; vi sono iscritti un brano coranico (sura cxii), e la firma dell’artigiano, il maestro ‘Ali Nushabadi. Un esemplare di zilu datato (Rabi ii d.E. 808 / ottobre 1405) firmato da tal ‘Ali Baidak ibn Hajj Maibudi, è conservato nella moschea congregazionale di Yazd: ibid. 8 Briggs 1940, pp. 20-54 e 1946, pp. 146-158. 9 Cfr. Lentz, Lowry 1989, pp. 220-221, cat. n. 119. 10 Su questo celebre gruppo di tappeti si veda Martin 1908; sono anche da ricordare i tappeti della moschea Eshrefoghlu di Beyshehir segnalati dal Riefstahl 1931, pp. 177-220. 11 Mills 1975 e 1983, pp. 11-23. Da ultimo si veda anche Curatola 2003, pp. 168-179. 12 Lockhart, Morozzo della Rocca, Tiepolo 1973, p. 126. Barbaro esalta i tappeti persiani come superiori a quelli turchi ed egiziani: “... et al basso tapedi bellissimi, tra i quali e quelli del Cairo e de Borsa (al mio iuditio) è tanta differentia, quanta è tra li panni di lana francescha e quelli de lana del signor Matheo”. 13 Hillenbrand 1999, p. 108, fig. 80. 14 Su Natanz si veda Wilber 1955; Blair 1983, pp. 69-94. 15 Wilber 1955, n. 47, pp. 139-141, tavv. 69-86; Blair 1987, pp. 43-96. 16 Hutt 1978, pp. 257-258. 17 Pope, Ackerman 1938-39, tavv. 452-456. 18 Erdmann 1960, p. 32. 19 Ottima immagine a colori in King, Sylvester 1983, n. 58, pp. 85-86. Sempre a medaglione centrale e di analogo formato (46 x 184 cm) è un tappeto del Textile Museum di Washington (inv. R. 33.i.2) in cui sono omessi i cantonali, ma il medaglione è arricchito da cartiglio e pendente. Lo sfondo presenta un disegno di tralci e volute floreali un poco più complesso che non l’esemplare precedente. 20 King, Sylvester 1983, n. 62, pp. 88-89. 21 Stead 1974; Curatola 1981, n. 67. 22 Morton 1974, pp. 31-64 e 1975, pp. 39-58. 23 Ottime riproduzioni a colori di questo tappeto, fra i più celebri al mondo, in Balboni Brizza 1993, n. 6, pp. 40-51. Purtroppo il testo non è sempre adeguato: Giyath al-Din Jami viene considerato “probabilmente un miniaturista della corte Safavide” e confuso con l’altro Giyath. 24 Curatola 1981, n. 70; Balboni Brizza 1993, n. 7, pp. 52-57, con splendide fotografie a colori. 25 Piotrovski 2001, n. 219, p. 262. 26 Spuhler 1987, n. 78, pp. 80-81; foto a colori a p. 220. 27 Torchia 1997, pp. 89-97, p. 92. 28 King, Sylvester 1983, n. 65, p. 91. 29 Housego 1989, pp. 123-124, fig. 6. 30 Per il tappeto del Metropolitan si veda la ri1 2
produzione a colori in Curatola 1981, n. 48 (498 x 340 cm; ordito e trama in seta, pelo in lana e nodo asimmetrico con densità di quasi diecimila nodi per dm2); per il tappeto di Lione (inv. n. 25.423; 800 x 400 cm) si veda King, Sylvester 1983, n. 61, p. 87. 31 King, Sylvester 1983, n. 61, p. 87. 32 La formazione di uno stato sciita in Persia è ovviamente avvenimento importantissimo che in questa sede non può essere né sfiorato né tantomeno affrontato; rimandiamo per l’ideologia di Shah Isma‘il alle considerazioni di Bausani 1959, pp. 360-365. Una breve, sintetica, introduzione all’arte safavide è in Curatola 1993, pp. 417-423. 33 Curatola 1981, n. 92; la densità di annodatura di questo tappeto è particolarmente elevata: 12.700 nodi per dm2. 34 Immagine a colori in Bernus Taylor 2001. Molto simile è un tappeto al Metropolitan di New York; Curatola 1981, n. 93 (238 x 180 cm). 35 Walker 1997, nn. 19-20, pp. 168-169, figg. 8889. In realtà anche un celebre tappeto floreale conservato al Philadelphia Museum of Art (525 x 359 cm; ordito e trama in cotone, pelo in lana) e databile al xvii secolo, con alberi (cipressi, platani, ciliegi ecc.) dai colori primaverili e autunnali, presenta un disegno direzionale; cfr. Curatola 1981, n. 73. 36 Già in epoca timuride le legature hanno disegni floreali di estremo interesse in questo contesto; Bernus Taylor 2001, n. 122, p. 173 (rilegatura di un Divan di Jami eseguita a Herat a fine Quattrocento [Parigi, Bibliothèque Nationale, Supp. Pers. 2050]). Il complesso disegno floreale con figurazioni animali viene in genere interpretato come il mitico albero di waq-waq. 37 Bernus Taylor 2001, n. 137, p. 198. 38 Sulle legature islamiche non ci sono moltissimi studi organici; si veda Bosch, Carswell, Petherbridge 1981; Raby, Tanindi 1993. Sui rapporti fra legature islamiche e legature italiane – un settore ancora pochissimo studiato – si veda il saggio di Hobson 1989, pp. 111-123. Un esempio fra i tanti di rilegatura con schema simile a quello dei tappeti con medaglione centrale è conservato alla Arthur M. Sackler Gallery, Washington, e pubblicato a colori in Lowry, Nemazee 1998, n. 74. 39 Una discreta immagine a colori è in Housego 1989, fig. 12, pp. 125-126. Un’interpretazione simbologica di tali tappeti è stata tentata da van Cammann 1974, pp. 181-208. 40 Harvard, Fogg Art Museum. 41 Scarcia 1978, pp. 387-391 e 1980, pp. 57-82. 42 Lockhart 1960, p. 116. Purtroppo non siamo riusciti a rintracciare la fonte su cui lo studioso basa la sua asserzione. 43 Beattie 1976; Beattie, Housego, Morton 1977, pp. 455-471. 44 Curatola 1993, scheda n. 277. Del resto non solo Venezia ebbe questo onore, cfr. Ferrier 1973, pp. 75-92. 45 Sebbene nel messaggio di accompagnamento essi fossero destinati al Tesoro di San Marco, la cui fama di importanza e bellezza era giunta fino in Oriente, quali degni supporti per l’esposizione del medesimo, almeno uno dei tappeti finì, invece, nella cappella privata quale inginocchiatoio del Doge. 46 King, Sylvester 1983, n. 73, pp. 95-96. Foto a colori in Housego 1989, fig. 21. 47 King, Sylvester 1983, n. 72, p. 95. 48 King, Sylvester 1983, n. 69, p. 93. 49 Curatola 1981, n. 101; 206 x 142 cm; seta broccata in argento. 50 King, Sylvester 1983, n. 70, p. 94. 51 Curatola 1983, pp. 1-62. 52 Seyf 1992, pp. 99-105. 53 Paradiso e giardini sono intimamente connessi. Sull’arte dei giardini islamici (e dei risvolti architettonici, urbanistici e artistici) si vedano: Petruccioli 1994 e Petruccioli, Matteini 2001. 54 Corano (trad. it. a cura di A. Bausani, Firenze
1978), lv, 76: “E vi staranno adagiati su verdi cuscini e tappeti splendidi”. 55 Per certi versi tappeti giardino, o antecedenti di questi, possono essere considerati anche quello del Philadelphia Museum of Art (vedi nota 35) o il frammento di tappeto con medaglione centrale di Parigi, Musée des Arts Décoratifs (400 x 345 cm), illustrato a colori in Curatola 1991a, n. 34, p. 136 (scheda di R. Gilles). Fra i più antichi esemplari dei tappeti dell’Iran di Nord-Ovest si annovera il tappeto in lana cosiddetto Wagner (Glasgow, Burrell Collection, 581 x 432 cm), illustrato a colori in Beattie 1976, tav. i, cat. n. 1, pp. 33-34. Più comune il disegno del tappeto conservato nel Kuwait (Jenkins 1983, p. 143; splendida riproduzione a colori in Denny 1999, pp. 16-19), simile a un esemplare del Metropolitan Museum di New York (Housego 1989, n. 23). Si veda anche Grant Ellis 1982, pp. 1117, e Curatola 1986, pp. 90-97. 56 Su questo popolarissimo motivo si veda il capitolo che gli dedica Ford 1981, pp. 52-73. 57 Lévi-Strauss 1986. 58 Rossbach 1980. 59 Con quell’ambigua derivazione filologica e semantica europea, sancita negli inventari degli archivi rinascimentali, per cui i tappeti venivano definiti “a roda”; non si sa se si alluda ai rosoni, come quelli delle cattedrali romaniche o a più semplici ruote, suggestione quest’ultima resa possibile da certi disegni a “girandola”. Cfr. Rogers 1986, pp. 13-28. 60 Sui sufi nel contesto safavide si veda il bel saggio di Newman 1999, pp. 95-108. 61 “Dio è la Luce dei cieli e della terra, e si rassomiglia la Sua Luce a una Nicchia, in cui è una Lampada, e la Lampada è in un Cristallo, e il Cristallo è come una Stella lucente, e arde la lampada dell’olio di un albero benedetto, un Olivo né orientale né occidentale, il cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco. È Luce su Luce; e Iddio guida alla Sua Luce chi Egli vuole, e Dio narra parabole agli uomini e Dio è su tutte le cose sapiente”. 62 van Cammann 1951, pp. 1-9 e 1952. 63 Bausani 1959, pp. 312-322. 64 Curatola 1996, pp. 229-236, nel quale si commenta un’iconografia probabilmente di origine sufi bektashi che compare su una porta del santuario del mistico Amir Nuruddin Ni‘matullah, a Mahan (nei pressi di Kirman). 65 Fra tutti si veda il breve ma essenziale lavoro di Roux 1981, pp. 5-11. 66 Un accenno a questo problema è in Curatola 1991b, pp. 155-166. Fra Barocco e Neoclassicismo Su Nadir Shah e il suo monumento più significativo si veda il nostro contributo: Curatola 1983a, pp. 1-62. 2 Skelton 1982. 3 Curatola 1983b, pp. 227-232. 4 Hutt 1978, p. 256. 5 Meshkati 1974, pp. 235-239. 6 Il termine è ovviamente spagnolo. “Tecnica di decorazione ceramica che consisteva nel tracciare i contorni dei motivi ornamentali con grasso e manganese mescolati in modo da arginare le diverse vetrine colorate che campivano gli ornati stessi. La cuerda seca fu adoperata in Spagna e nel Maghreb o Africa Settentrionale a partire dal secolo xiv; ebbe comunque una diffusione, sia pur limitata, anche in altre aree islamiche, per esempio in Asia centrale durante il dominio timuride (1369-1500)”, Fontana 1985, p. 226. Mifrendereski, Zonuzi 1992. 7 Carswell 1968. 8 Sull’arte qajar della ceramica si vedano soprattutto i lavori di J.M. Scarce e in particolare: Scarce 1976, pp. 278-288; 1979a, pp. 75-86; 1989, pp. 270294, con relativa bibliografia. 1
Le Hosayinniyya sono edifici particolari costruiti come opera di beneficenza, nei quali avvenivano delle riunioni di confraternite per ascoltare le storie dei martiri raccontate dai rauza-khvani (cantastorie che potevano recitare anche aiutati da pitture dipinte su tavola o tela). Da non confondersi con le Husayinniyya o Nakhl, grandi strutture lignee a forma di picca portate in processione per ricordare il martirio di Husayin e conservate in caravanserragli. Tra le più celebri fra queste ultime “macchine”, quelle di Yazd. 10 Su questa Hosayiniyya si veda Mechkati 1974, n. 377, pp. 223-224. Sull’iconografia sciita è fondamentale il saggio di Fontana 1994, in particolare, per quel che ci concerne qui, le pp. 47-56, oltre all’ottima bibliografia. 11 Chelkowski 1971. 12 Peterson 1979, pp. 143-151. 13 Melikian Chirvani 1991, pp. 3-111. 14 Curatola 1978, pp. 143-151. 15 Fontana 1994, p. 53, fig. 58. 16 Scarce 1979b, pp. 635-641. 17 Scarcia 1962a, pp. 83-93. 18 Scarce 2002, pp. 181-193. 19 Il ritratto è pubblicato da Robinson 1989, pp. 224-231, fig. 1. Sulla pittura qajar e in genere sul periodo storico si vedano: Scarcia 1963, coll. 213-221; Falk 1972; Robinson, Guadalupi 1982; Robinson 1983, pp. 291-310; Ansari 1986, e, da ultimo, il catalogo della mostra di New York a cura di Diba 1999, con ampia e dettagliata bibliografia. 20 Muhammad Zaman b. Hajji Yusuf Kuni lavorò fra il 1675 e il 1688 alla corte di Shah Sulayman (regnò fra il 1666 e il 1694). Sull’artista si veda Martinovich 1925, pp. 106-109; Ivanov 1969, pp. 65-70. Sul fratello di Muhammad Zaman, anch’egli pittore, si legga Adle 1980. 21 Le opere menzionate, insieme ad altre tre, sono conservate nel Muraqqa (“Album”) dell’Istituto di Studi Orientalistici dell’Accademia Russa della Scienza di San Pietroburgo. Cfr. Akimushkin 1994. 22 Sims 1979, pp. 408-418. 23 Scarcia 1961, pp. 198-203. 24 Purtroppo andati perduti. Le fonti coeve ci dicono che in questa vera e propria Galleria pittorica erano conservati “no less than 118 full-lenght portraits” (Browne 1926, p. 105), di cui una copia è conservata all’India Office Library and Records (cfr. Robinson 1989, fig. 5) e un’altra – con l’indicazione in persiano dei personaggi raffigurati – è a Bologna. Per quest’ultima rara testimonianza si veda Pudioli 1991, pp. 15-19. 25 Notevolissima è la collezione d’arte qajar di Tbilisi: Scarcia 1962b, pp. 203-209. Alcuni oggetti in lacca di ottima qualità sono conservati a Firenze presso la casa-museo di Federigo Stibbert. 26 Gonzalez 1994. 9
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217
Indice dei nomi, dei luoghi e dei monumenti ‘Abbas, v. Shah ‘Abbas i ‘Adub b. ‘Ali al-Mastari, 143 ‘Ali, 166, 238 ‘Ali al-Rida, 237 ‘Ali Asghar, 212, 214 ‘Arab Ata, 137 Abaqa Khan, 162, 163 Abbasabad, 181 Abd al-Samad, 210, 212 Abdallah Ansari, 176 Abdallah-i Muzhahib, 212 Abramo, 172, 238, 242 Abu Bakr, 196 Abu Hamid Muhammad al-Ghazali, 153 Abu Nu‘aym, 140 Abu Sa‘id, timuride, 177, 204 Abu Sa‘id Bahadur Khan, 163, 169, 200 Abu’l Fath Bahram Mirza, 212 Abu’l Hasan Ghaffari, 242 Abu’l Qasim, 192 Abu’l Shayh, 142 Afghanistan, 147, 152 Afrasiyab, 191, 192, 198 Africa, 130 Agha Mohammad Khan, 238 Agra / Sikandra, Mausoleo di Akbar, 233 Mausoleo di Itimad ad-Dawla, 233 Ahmad Musa, 200 Ahmad Yasavi, 172 Ajanta, 198 Ala al-Daula, 208 Alamut, 153, 162 al-Biruni, 150, 152 Aleppo, 162 Alessandro Magno, 196, 197, 198 al-Hasan ibn al-Arabshah, 161 al-Khuwayyi, v. anche Khuy, 192 al-Mansur, 140 al-Mu‘tasim, 141 al-Musta‘sim, 162 al-Qadisiyya, 137 Americhe, 224 Amin al-Dawla, 240 Amman, 141 Amu Abdullah, 168 Amu Darya, fiume, v. anche Oxus, 147 Anatolia, 22, 27, 35, 42, 44, 52, 53, 54, 75, 85, 133, 153, 161, 202 Anau, 19, 177 Jamal al-Din, 177 Andronico ii, 162 Ankara, 173, 202 Aq Qoyunlu Uzun Hasan, 146 Aqa Mirak, 210, 212, 214 Aqa Riza, 214 Arasse, fiume, 13, 181 Ardabil, 135, 178, 186, 220, 221, 233 Chini Khana, 186 Complesso funerario di Shaykh Safi al-Din, 178, 220 Ardashir i, 15, 55, 76, 79, 80, 81, 92, 101, 102, 104, 120, 198 Ardashir Khurra, 93 Ardavan, 198 Ardistan Moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a), 155, 156 Arghun, 163 Aristotele, 197 Asadi, 214 Ashkabad, 50, 55 Ashraf, 190 Ashtarjan Moschea, 168 Asia, 49, 51, 67, 133, 152, 162, 217
Asia Centrale, 6, 7, 11, 13, 18, 28, 39, 50, 51, 55, 56, 58, 62, 68, 70, 71, 72, 80, 81, 82, 84, 96, 102, 112, 113, 117, 118, 122, 129, 130, 146, 147, 148, 152, 162, 163, 172, 191, 192, 217 as-Sa‘id Nasr ii, 148 Atene, 28, 112, 113, 218 Avicenna, 123, 124, 150, 152 Ayyub, v. anche Eyup, 172 Azerbaigian, 12, 13, 19, 22, 58, 72, 79, 93, 161, 163, 192, 198 Azerbaijan, 181 Baghdad, 7, 15, 93, 122, 140, 153, 162, 194, 200, 204, 205 Bahadur Khan, 176 Bahram v Gur, 82, 88, 118, 119, 197, 198 Bahram Mirza, 200 Bahram Shah, 152 Balcani, monti, 133 Balkh, 24, 147, 162, 177 Moschea di Hajji Piyade, 147 Moschea/mausoleo di Abu Nasr Parsà, 177 Bam, 126, 132, 135 Bandar-i Tahiri, 241 Barbaro, Josafat, 100, 218 Bausani, Alessandro, 47, 124, 131, 233 Bayazit, 202 Baysunghur, 176, 204, 206, 207, 208 Beattie, May, 227 Behistan, 134 Behzad, 207 Berenson, Bernard, 207 Berlino, 161, 206, 222 Bihzad, v. Kamal al-Din Bihzad, 202, 204, 208, 209, 210, 212, 222 Briggs, A., 218 Bryce, W.C., 129 Buccleuch, 232 Buddha, 194, 196 Bukhara, 7, 18, 89, 124, 147, 148, 152, 155, 156, 160, 162, 177, 204 Madrasa di Abd al-Aziz Khan, 177 Mausoleo di Isma‘il, 89, 148 Moschea Kalan, 177 Burejird, 236 Bursa, 180 Byron, Robert, 143 Cairo, 134, 208 Moschea/madrasa di Sultan Hasan, 134 Carlo v, 181 Castiglia, 172 Catai, 198 Caucaso, monti, 6, 11, 79, 84, 93, 202, 217, 230, 232 Chal Tarkhan-Eshkabad, 98, 191 Cina, 173, 191, 194, 197, 204, 222, 233, 242 Cipro, 76, 172 Clavijo, v.Ruy Gonzáles de Clavijo Contarini, 190 Corasmia, 146 Cosroe ii Parviz, 162, 198, 218, 232 Costantinopoli, 162, 172, 180, 200 Basilica di San Salvatore in Chora, 162 Chiesa di Santa Maria dei Mongoli, 162 Moschea di Sultan Selim, 180 Ctesifonte, 168, 191, 218; v. anche Seleucia / Ctesifonte Cupido, 242 Damasco, 162, 202, 233 Moschea, 233 Damghan, 146, 147, 156, 160, 191 Mausoleo di Pir-i ‘Alamdar, 156, 160 Moschea Tarik Khana, 146, 147 Dario i il Grande, 198, 222
Dayakhatun Caravanserraglio, 155 Deccan, 135 Degaran, Moschea, 146 Delhi, 152, 176, 204, 235 Mausoleo di Humayun, 233 Qutb Minar, 152 Taj Mahal, 166, 233 Dezful, 147 Diaghilev, 202 Dublino, 214 Dun Huang, 198 Dust Muhammad, 200, 210, 212 Edirne Muradiye, 180 Egitto, 134, 153, 162, 220 Elam, 232 Enrico iii, 204 Erdmann, K., 219 Esther, 168 Europa, 135, 143, 172, 235, 242 Eyup, v. anche Ayyub, 172 Fahraj, 123, 146 Farahabad, 190 Faridun, 197 Fars, v. anche Perside, 129, 161, 169 Fath ‘Ali Shah, 176, 236, 238, 240, 241, 242 Firdusi, 133, 152, 198, 215 Firenze Ponte Vecchio, 190 Fontana, Maria Vittoria, 196, 216 Galdieri, Eugenio, 138, 142, 146 Ganj ‘Ali Khan, 181, 227 Ganja, 198 Garshasp, 214 Gawhar Shad, 176, 207 Gayomars, 198, 210, 211 Genghis Khan, 162 Gengis Khan, 202 Gerusalemme, 162, 172, 200, 233 Gesù Cristo, 242 Ghazan Khan, 134, 164, 194 Ghazni, 152, 153, 191 Minareto di Ma‘sud iii, 153 Ghirshman, Roman, 96, 100, 119 Ghiyath al-Din Jami, 220, 221 Ghiyath al-Din Muhammad, 152, 208, 231 Giam Minareto, 152 Giuseppe, 242 Gonbad-i Ghaffariyah, 163 Gonbad-i Qabus Mausoleo di Qabus ibn Wushmagir ibn Ziyar, 150, 153, 234 Grabar, Oleg, 198, 216 Gray, Basil, 214 Gujarat, 181 Gulbyan 113 Gulshah, 193 Hafiz, 143, 220, 233 Hafiz-i Abru, 207 Haftvad, 212 Hajji Muhammad, 204, 208 Harvard, 226 Hazara, 146 Hazrat ‘Abbas, 238 Hazrat-i Ma‘sume, 238 Hebron, 172 Hecatompylos, 49, 51, 70, 74 Herat, 16, 176, 177, 204, 206, 208, 209, 210, 211, 212, 214, 236
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Ghuzar Gah (santuario), 176, 177 Mausoleo di Gawhar Shad, 176, 236 Hillenbrand, Robert, 148, 161, 177 Hosayin, 238 Hosayn, 216 Hoseyn, 135 Hulagu, 162 Humay, 200, 202 Humayun, 7, 200, 202, 212, 213, 235, 242 Husayn Bayqara, v. Sultan Husayn Mirza Bayqara Huzun Hasan, 204 Ibn Bakhtishu, 194 Ibrahim Mirza, 212 Ibrahim Sultan, 204, 206 India, 129, 130, 132, 147, 170, 177, 187, 198, 204, 209, 212, 224, 232, 233, 235, 242 Iraj, 197 Iraq, 161, 169 Irlanda, Repubblica d’, v. Eire Isfahan, 130, 134, 135, 137, 138, 140, 142, 146, 147, 150, 156, 161, 166, 168, 180, 181, 186, 187, 190, 202, 210, 214, 221, 222, 227, 230, 231, 233, 235, 236, 238, 242 ‘Ali Qapu, 135, 181, 182, 183, 186, 235 Casa Kharrazi, 238 Cattedrale e quartiere di Nuova Julfa, 181, 236 Chahar Bagh, 181, 182 Chihil Sutun, 135, 182, 187, 237, 242 Hasht Bihisht (palazzo/padiglione), 187, 236 Mausoleo di Amu Abdullah, 168 Moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a), 134, 137, 138, 140, 142, 143, 150, 156, 161, 166, 181, 186, 190 Moschea di Shah ‘Abbas, 181, 183, 186, 236 Moschea Jurjir, 150 Moschea palatina di Shaykh Lutfallah, 181, 182, 186 Pol-i Khwaju (ponte), 187, 190 Si-o-se Pol (ponte), 130, 190 Isfandyar, 198, 200 Iskandar, 204, 209 Istanbul, 193, 200, 204 Italia, 242 Ivanov, A., 218 Ja‘far al-Baysunghuri, 207 Jahanghir, 209 Jahangir, 235 Jahanshah, 204, 209 Jalal al-Din Iskandar ibn ‘Omar Shaykh ibn Timur, 205 Jami, 212 Julfa, 181 Junayd, 200, 202, 211 Kabul, 233 Kairuan, 172 Kalar Dasht, 19 Kalat-i Nadiri, 235, 237 Palazzo di, 237 Kamal al-Din Bihzad, vedi Bihzad Karbala, 172, 190, 238 Kashan, 18, 19, 161, 192, 214, 220, 222, 224, 226, 230, 236, 238, 240, 242 Imamzada Shahzada Ibrahim, 238 Masjid-i Meidan (Maidan), 161, 236 Kashmir, 121, 233 Kazakhstan Mausoleo di Arestan Bab, 146 Kerman, 227 Caravanserraglio di Ganj ‘Ali Khan, 227 Kharg, 197 Khargird, 177, 178 Madrasa di Ghiyyathiyyeh, 177 Kharraqan Mausolei gemelli, 156, 161, 163 Khawarnaq, 207, 209 Khiva, 146, 156 Moschea congregazionale, 146
220
Khorasan, 129, 133, 147, 152, 155, 161, 176, 177, 227 Khuy, v. anche al-Khuwayyi, 192 Khuzistan, 13, 19, 115, 161 Khwaju Kirmani, 200, 202 Kirat Minareto, 152 Kirman, 169, 181, 225, 227, 238 Madrasa di Ibrahim Khan, 238 Moschea del venerdì, 169 Kirmanshah, 238 Takiyya Mo’aven al-Molk, 238 Kish, 92, 98, 191 Konar Siyah, 148 Konya, 192, 218 Moschea di Ala ad-Din, 218 Kunya Urgench Mausoleo di Tughtabeg Khatun, 170, 177 Kurdistan, 233 Larnaca, 172 Lashkari Bazar, 152, 191, 192 Linjan Monumento a Pir-i Bakran, 166, 168 Lione, 222, 227 Lisbona, 219 Londra, 202, 207, 208, 212, 213, 214, 220, 222, 225 Los Angeles, 220 Luigi ii d’Ungheria, 181 Ma‘sud iii, 152, 153 Ma’mun, 209 Maghreb, 129 Magi, 130 Mahmud di Ghazna, 152, 241 Malik Shah, 142, 153, 161 Mani, 80, 88, 200, 208 Manzikert, 153 Maometto, v. anche Muhammad, 137, 194, 196, 200, 206, 238 Maqsud Kashani, 220 Mar Caspio, 153 Mar Mediterraneo, 130, 131, 153, 204 Maragha, 135, 162, 163, 164, 181, 186, 194 Cattedrale di Giovanni Battista, 164 Gonbad-i Kabud, 163 Gonbad-i Sorkh, 162 Maria Paleologina, 162 Maria Vergine, 242 Marv, 160, 161, 162, 166, 209 Mashhad, 135, 172, 176, 190, 207, 212, 220, 235, 236, 237, 238 Moschea di Gawhar Shad, 176 Sepolcro dell’Imam Reza, 220 Mawlana Mirak Naqqash, 208 Mecca, 129, 140, 172, 190 Medina, 172, 200 Michele vii Paleologo, 162 Milano, 220, 221, 226 Mileto, 27 Mir ‘Ali Shir, detto Nava’i, 204, 208, 242 Mir Musavvir, 210, 212 Mir Sayyid ‘Ali, 210, 212 Mirza ‘Ali, 210 Mirza Ibrahim Khan, 237 Mohammad Hasan, 236, 238 Mohammad Qoli Khan Ilkhani, 238 Monaco, 231 Montesquieu, 135 Monza, 220 Morris, William, 220 Mosca, 202 Mu‘in, 214 Mu‘izz al-Din Sanjar, 161 Muhammad ‘Ali, 214 Muhammad Giuki, 206, 208 Muhammad Karim Khan, 235 Muhammad Qasim, 214 Muhammad Shafi‘ ‘Abbasi, 214
Muhammad Shah, 235, 242 Muhammad Yusuf, 214 Muhammad Zaman, 215, 242 Muhammad, v. anche Maometto, 7, 216 Murghab, 161 Muzaffar ‘Ali, 210 Muzaffar al-Din Shah, 240 Nadir Shah Afshar, 176, 232, 235, 237 Nahavand, 86 Najaf, 172, 190 Nakhchivan, 161, 219 Mausoleo di Mumina Khatun, 161, (Mu’mina Khatun) 219 Nashmi, 214 Nasir al-Din Shah, 240 Nasir al-Din Tusi, 163 Nasir al-Molk, 238 Natanz, 156, 164, 169, 219 Moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a), 164, 219 Nayin, 150, 156, 190 Moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a), 150 New York, 192, 194, 220, 222, 224, 231, 232 Nezami, 231 Nigaristan, 242 Nihawand, 137 Niriz, 137, 169 Nishapur, 129, 130, 133, 191, 192 Nizam al-Mulk, 141, 142, 143, 146, 153, 161 Nizami, Abu Muhammad, 133, 198, 205, 207, 209, 210, 211, 215 Oljaitu, 164, 166, 168, 176 Oljeitu, 134, 140, 143, 194, 219 Omar Khayyam, 153, 198 Otrar, 162, 172, 204 Oxus, fiume, v. anche Amu Darya, 147, 156 Pandzikant, 191 Parigi, 206, 208, 224, 226 Persepoli, 107, 237 Pir Muhammad, 204 Pir-i Bakran, 168 Polonia, 231 Qabus ibn Wushmagir ibn Ziyar, 150, 152 Qadi Ahmad, 200, 214 Qal’a-i Qahqaha, 117 Qara Yusuf, 209 Qazvin, 161, 210, 212, 214, 222, 236, 238 Hosayiniyya Amini, 238 Qivam al-Dim, 176 Qom, 7, 135, 172, 190, 236, 238 Qonqorolong, 161, 163 Queensberry, 232
173, 176, 177, 186, 202, 204 Gur-i Mir (complesso funerario), 173 Madrasa Shir Dar, 176, 177 Madrasa Tala Kari, 176 Mausoleo di ‘Ishrat Khana, 177 Mausoleo di Khoja Ahmed, 176 Mausoleo di Kutlug Agha, 176 Mausoleo di Qusama ibn ‘Abbas, 173 Mausoleo di Tumar Agha, 176 Moschea di Bibi Khanum, 172, 176 Necropoli di Shah-i Zinda, 173, 176 Rigistan (piazza), 176 Samarra, 140, 141, 148, 150, 191, 242 Qubbat as-Sulaibiya, 148 San Pietroburgo, 108, 218, 232 Sanguszko, Roman, 225, 226 Sanjar, 209, 212 Sanpaolesi, Piero, 166 Sanwlah, 213 Sari, 192 Save Moschea congregazionale, 152 Sayyd Amir Ashmad, 237 Scerrato, Umberto, 142 Selim i, 209 Semnan Moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a), 147 Settignano, 207 Shah ‘Abbas i, 135, 176, 178, 180, 181, 183, 190, 210, 214, 219, 227, 230, 231 Shah ‘Abbas ii, 146, 187, 190, 214 Shah Isma‘il i, 134, 181, 198, 200, 209, 210 Shah Jahan, 235 Shah Rukh, 176 Shah Tahmasp i, 135, 146, 176, 181, 198, 210, 211, 212, 213, 222, 224, 225, 242 Shahr-i Sabz, 135, 173 Ak Saray (palazzo), 173 Shahrukh, 204, 206, 209 Shams al-Din, 200 Shapur i, 217 Shaykh Abd al-Mu’min ibn Muhammad, 192 Shaykh Haydar, 210 Shaykh Muhammad, 210, 212 Shaykh Safi al-Din al-Ardabili, 178, 209, 220 Shiraz, 200, 204, 205, 214, 220, 235, 236, 237, 238, 240, 241
Karim Khan Zand, 236, 237, 240, 241 Masjid-i Vakil, 235 Moschea di Nasir al-Molk, 236, 238 Naranjestan, 237 Santuario di Shah Cheragh, 237 Shirin, 198 Sicilia, 129 Sigismondo iii Vasa, 231 Siraf, v. anche Bandar Tahiri, 130, 191, 241 Siria, 129, 134, 202, 220 Smirne, 204 Spagna, 129, 233 Stieglitz, 232 Sultan Hasan, 134 Sultan Husayn Mirza Bayqara, 204, 208, 212 Sultan Mahmud, 146 Sultan Muhammad, 173, 210, 211, 212, 224 Sultanabad, 240 Sultaniyya, 134, 163, 164, 166, 168, 172, 173, 219 Mausoleo di Oljaitu, 164, 166 Mausoleo di Oljeitu, 219 Tabriz, 164, 168, 172, 178, 180, 196, 200, 204, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 218, 219, 220, 222 Moschea Blu, 178 Moschea di ‘Ali Shah, 168, 172 Tabrizabad, 181 Taj al-Mulk, 142, 143 Takht-i Sulayman, 86, 162, 191 Tamerlano, v. Timur Lang Taq-i Bustan, 221, 240, 241 Tarik Khana, 146 Tayabad, 177 Tehran, v. anche Rayy, 138, 192, 236, 238, 240, 241, 242 Palazzo del Golestan, 238, 240 Tekke, 172 Tim Mausoleo di ‘Arab Ata, 137 Timur Lang, Tamerlano, 135, 172, 173, 176, 186, 202, 204, 206 Tokyo, 226 Toledo Moschea/oratorio di Bab-i Mardom, 147 Transoxiana, 137, 146, 147 Tughril i, 152 Tunisia, 172
Turchia, 180 Turkestan, 135, 172 Mausoleo di Ahmad Yasavi, 172 Turkmenistan, 160, 161 Ukhaydir, 152 Ulugh Beg, 176, 204 Umm Haram, 172 Ustad Muhammad Siyah Qalam, 204 Uzbekistan, 137, 173 Uzun Hasan, 209 Vakil, 236 Van, lago, 153 Van Cammann S., 233, 234 Varahsha, 191 Varamin Moschea, 168 Venere, 242 Venezia, 120, 187, 190, 204, 230, 231, 232 Basilica di San Marco, 230 Rialto, 190 Viar, 134, 163 Monastero, 134 Vienna, 220, 224 Washington, 192, 196, 197, 212, 222 Ya‘qub Beg, 209, 210 Yahudiyya, 140, 181 Yazd, 146, 160, 169, 170, 219, 221, 231 Mausoleo di Davazdah Imam, 160 Moschea congregazionale (Masjid-i Jum‘a), 169, 170, 219 Yazd-i Khast, 137 Yazdigard iii, 137 Zainab, 238 Zal, 26, 198 Zanjan, 236 Zavareh Moschea congregazionale, 156 Zayanda Rud, fiume, 130, 181, 190
Ramsete, 241 Rashid al-Din, 134, 162, 164, 169, 194, 196, 207 Rashidiyya, 196 Rayy, v. anche Tehran, 162, 192, 241 Reza, 238 Ribat-i Malik Caravanserraglio, 156 Ribat-i Sharaf Caravanserraglio, 155 Rida, 225 Riza ‘Abbasi, 214 Roma, 131, 132 Rousseau,J.-J., 135 Rustam, 198 Ruy González de Clavijo, 172, 187, 204 Sa‘di, 208 Sadiqi, 214 Sadruddin Agha Khan, 211 Salomone, 152 Sam Mirza, 212 Samarcanda, 7, 120, 122, 135, 155, 156, 162, 172,
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Crediti fotografici