ITALY AND FLANDERS IN THE 15TH CENTURY PAINTING

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ITALIA e FIANDRA

nella pittura del quattrocento


Liana Castelfranchi Vegas

ITALIA E FIANDRA

nella pittura del quattrocento


Nuova edizione maggio 2021

I ndice

© 1983 by Editoriale Jaca Book Srl, Milano Tutti i diritti riservati Edizione speciale per L.A.C. 1988

Copertina e grafica Jaca Book / Paola Forini

Stampa e legatura Grafiche Stella Srl San Pietro di Legnago (VR) aprile 2021

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Capitolo primo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Masaccio e Van Eyck: due approcci alla realtà

Capitolo secondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 1440-1450: collezionismo, storiografia, viaggi

Capitolo terzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71 La prima testa di ponte del fiammingo a Napoli. Antonello da Messina, pittore italiano e fiammingo

Capitolo quarto .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119 Piero della Francesca e l’apice del gusto fiammingo a Urbino nel decennio 1465-75

Capitolo quinto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 Il fiammingo nel Veneto e il suo ruolo nella pittura di Giovanni Bellini

Capitolo sesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 I fiamminghi a Firenze

Capitolo settimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209 L’aria «ponentina» in Lombardia

ISBN 978-88-16-60645-6

Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 – 342 5084046 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it

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Capitolo ottavo .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235 Epilogo: Italia e Fiandra tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento

Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259

Bibliografia generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275

Indice delle illustrazioni .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285

P remessa

Questo libro è l’esito di un cammino di ricerca che ha preso l’avvio nel lontano 1966, con due saggi apparsi sulla rivista «Paragone»: uno di questi scorgeva l’esistenza di una trama continua di rapporti tra pittura fiamminga e pittura italiana nel corso del Quattrocento e tentava di tracciarne i primi lineamenti, collegando quelle tangenze che qua e là venivano segnalate nei saggi di alcuni studiosi italiani e stranieri. Da allora, si può dire, il tema non ha cessato di affascinarmi nei suoi vari aspetti, fin quando in un corso universitario del 1977-78, questa trama cominciò ad assumere maggiore organicità e verifica storica. Il caso dei rapporti tra Italia e Fiandra si presenta, in realtà, come assai peculiare rispetto a quelli che si stabilirono tra pittura fiamminga e altre aree artistiche in Europa, dove l’impatto fiammingo fu assimilato in modo vistoso. In Italia la pittura fiamminga non giunse mai ad alterare il corso storico o a determinarne la fisionomia, proprio perché l’Italia fu a sua volta nel Quattrocento teatro di fatti pittorici di altissimo livello, che nascevano da un profondo e globale ripensamento della realtà pittorica. Ancor più singolare quindi il fatto che l’Italia rappresentò, la prima e più ricca area di committenza della pittura fiamminga, sia mercantile sia aristocratica, fenomeno che assunse talora le proporzioni di una moda esotica; e spettano all’Italia, nel Quattrocento, anche i primi documenti storiografici sulla pittura fiamminga, carichi di elogi. Soprattutto la conoscenza diretta di esemplari fiamminghi esercitò su molti dei nostri pittori – specie su alcuni dei massimi esponenti del nostro Quattrocento – un così forte fascino da tradursi in un nuovo arricchimento nella resa pittorica della realtà. È questa ricerca del reale, si sa, che accomuna entrambe le civiltà pittoriche; ed è noto che, alla lenta esplorazione di realtà analitiche propria della pittura fiamminga, condotta sul tessuto pittorico 7


delle cose, si contrappone, specie in Toscana, una conquista di questa realtà attraverso la definizione dello spazio e della forma e la loro lucida sintesi. Dunque, un ponte venne gettato tra questi due universi pittorici, a nord e a sud delle Alpi. Il caso limite del siciliano Antonello era ben noto sin dai tempi del Vasari: pittore quasi bilingue, italo-fiammingo, che arrivò a raggiungere la suprema sottigliezza del tessuto fiammingo e a calarlo, al contempo, in altrettanto suprema lucidezza di spazio e di forma italiani. Fu, la sua, sintesi vera e mentale e non il semplice risultato dell’adozione del mezzo tecnico oleoso dei fiamminghi, come il Vasari fece credere. E anche Piero della Francesca, anche Giovanni Bellini furono affascinati da quella prolungata visione delle cose attraverso la luce e la introdussero come un innesto prezioso nel loro linguaggio già maturo. Ma, accanto a questi grandi esponenti, vi fu ancora il peso segreto che il fiammingo ebbe nella vasta costellazione di artisti più periferici, così da entrare come componente nordica nella cultura pittorica di intere regioni. È qui che si colloca quello che ritengo il maggior sforzo di questo lavoro: radunare e coordinare per la prima volta in un quadro storico d’insieme questa molteplicità di tangenze; ricostruire, cioè, la mappa storica di questa circolazione fiamminga in Italia, configurandone i tempi, i modi e gli intrecci: dalla prima testa di ponte a Napoli verso la metà del Quattrocento sino all’altissima congiuntura storica tra il 1465 e il 1475 che raccoglie Piero della Francesca, Antonello e Giovanni Bellini in un nodo stretto anche dalla componente fiamminga, fino alla seconda ondata di presenze fiamminghe in Liguria e ai suoi riflessi in Lombardia tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Si tratta, insomma, di mezzo secolo del nostro Quattrocento rivisitato, quasi alla lettera, alla luce dei fiamminghi. Liana Castelfranchi Vegas

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Capitolo primo

Masaccio e Van Eyck: due approcci alla realtà

Il lentissimo, splendido crepuscolo del mondo gotico in un’Europa di fatto internazionale sotto il profilo dell’arte, si prolunga fino al terzo decennio del Quattrocento, allorché a nord e a sud delle Alpi Van Eyck e Masaccio, con una contemporaneità davvero singolare, inaugurano con la loro pittura una rinnovata visione della realtà, che dichiara chiuso il mondo gotico. In materia di periodizzazioni si sa che è sempre possibile discutere, e con buone ragioni, su quando cadono gli inizi di un fenomeno artistico; in questo caso non vi è dubbio che nel giro di pochissimi anni, nel decennio 1420-30, si verifica un salto storico, un punto di non ritorno, anche se nel periodo immediatamente successivo queste conquiste pittoriche resteranno praticamente prive di una diretta continuità. Assai diversa fu tuttavia la consapevolezza, a nord e a sud delle Alpi, di questa storica svolta. Nel caso di Masaccio essa apparve chiara ai contemporanei e ne è prova l’elogio che gli tributa, a pochi anni dalla sua morte, Leon Battista Alberti nel prologo del suo trattato Sulla pittura (1436). Invece la collocazione storica di Van Eyck fu spesso sentita, da ultimo ancora con lo Huizinga1, come l’ultimo splendido frutto del Medioevo morente, cui l’apparenta il realismo minuto e scintillante. Analogamente se qui in Italia il termine di Rinascita è attribuito all’arte del Quattrocento sin dal Vasari, esso è riservato nei Paesi Bassi alla pittura del primo Cinquecento2, a una pittura cioè aperta alle inflessioni italiane e che preludono già alla nuova circolazione internazionale della Maniera. Ai pittori del Quattrocento fiammingo invece toccò in sorte quella curiosa denominazione di “primitivi”, che è in uso ancora ai nostri giorni e che verosimilmente si ricollega all’antica distinzione introdotta dal Van Mander, di marca evoluzionistica e di matrice vasariana, tra la maniera 9


“oude-moderne” (antico-moderna) iniziata appunto da Van Eyck e quella “moderna” legata alle cognizioni scientifiche acquisite soprattutto attraverso l’Italia all’inizio del Cinquecento. Ma quali furono, ai tempi nostri, le reazioni storiografiche a questi formidabili eventi, artisticamente fratelli e cronologicamente quasi gemelli? Da un lato la gloriosa vicenda toscana del primo Rinascimento ebbe agli occhi dei nostri storici un valore così inconfondibilmente unico da renderli meno attenti ai contemporanei avvenimenti d’oltralpe, di fronte ai quali, anzi, le categorie mentali italiane di “forma” e di “prospettiva” finivano per essere una sorta di schermo critico o di filtro negativo a intendere il linguaggio formale dei fiamminghi. Valga per tutti l’esempio del nostro grande Cavalcaselle, che pure aveva scritto, lui italiano, nel 1857, una storia dell’arte fiamminga3, concepita per la prima volta con moderni criteri filologici; tuttavia egli non rinunciava a giudizi di matrice rinascimentale italiana, rammaricandosi spesso dei difetti di prospettiva e di proporzione che viziavano, secondo lui, i dipinti fiamminghi. Dal canto loro, i maggiori studiosi stranieri del fenomeno fiammingo non poterono veder­lo se non come una fondamentale esperienza storica a sé stante. Non sfuggì loro, ovviamente, l’enorme forza propulsiva e quindi il vasto irraggiamento che esso conobbe nel primo mezzo secolo, massime in Francia, in Germania e in Spagna, così da dar luogo a uno stile franco­-fiammingo, tedesco-fiammingo e iberico-fiammingo. Solo in anni recenti si comincia a cogliere il fenomeno nel suo storicizzarsi, ossia nel suo rifrangersi in varie tradizioni, dando luogo a un fenomeno di circolazione europea, spesso per molteplici passaggi e per mediazioni indirette. È significativo che, ancora in tempi relativamente recenti, esposizioni nate all’insegna del tema Fiandra-Italia o Fiandra-Europa abbiano dato risultati così modesti, palesemente immaturi sotto il profilo critico4. In particolare i rapporti Italia-Fiandra ebbero a soffrire della pregiudiziale già menzionata e furono limitati quasi esclusivamente a quelli del Cinquecento, cosicché i grandi fatti del Quattrocento pittorico italiano e fiammingo finirono per isolarsi in due emisferi culturali separati. Solo in anni relativamente recenti la questione dei riflessi fiamminghi sulla pittura italiana nel Quattrocento ha cominciato a essere oggetto di ricerche settoriali sempre più frequenti da parte di studiosi italiani; viene così a emergere la peculiarità dei rapporti tra questi due fenomeni perfettamente originali e in sé globali. Se, cioè, per gli altri territori si può parlare di un influsso fiammingo decisivo per la maturazione di uno stile non più gotico (anche se difficilmente catalogabile come rinascimentale) il caso Italia-Fiandra è profondamente diverso: da un lato la pittura fiamminga non incise ovviamente sull’originalità del nuovo linguaggio pittorico italiano, non giunse mai a deviarne il corso; dall’altro la conoscenza diretta di esemplari fiamminghi attraverso il massiccio fenomeno del collezionismo italiano, propose ad alcuni dei massimi esponenti del nostro Quattrocento un nuovo e ineludibile problema, un problema non necessariamente, né tanto meno esclusivamente, connesso con la tecnica della pittura a olio, come si usava dire, ma quello assai più profondo e quasi misterioso di come attingere quella suprema sottigliezza luminosa delle “cose”, pur continuando poi a calarle in unità di forma e di spazio italiani. 10

In altri casi il fiammingo giungerà in regioni come quelle dell’Italia settentrionale, e in particolare la Lombardia, portatovi dal vento “ponentino” delle regioni limitrofe e rappresenterà il sigillo di una Stimmung nordica propria di quelle regioni e che per tanta parte ne diversifica la storia rispetto a quella dominante del Quattrocento dell’Italia centrale. È questa affascinante trama di rapporti, ancora per buona parte inesplorati, che vorremmo tentare di ricostruire: rintracciare gli itinerari fiamminghi in terra italiana, i tempi e i modi di questi itinerari che per mezzo secolo e oltre attraverseranno le strade pittoriche del nostro Quattrocento. Prima di intraprendere questo viaggio sulle orme del fiammingo nella penisola converrà risalire alla radice di questa storia, riflettendo sulla profonda organicità del linguaggio pittorico dei due artisti che si possono a buon diritto considerare i grandi iniziatori della nuova pittura del Quattrocento in Italia e in Fiandra, ossia Masaccio e Van Eyck. Una organicità che nasce da un dato modo di “vedere” la realtà, che è poi uno dei modi più alti in cui una cultura storica si cala e s’esprime. Si tratterà quindi, innanzi tutto, di cogliere nel loro momento sorgivo questi due linguaggi visivi, di fissare i punti nodali di questa ricerca; segnalare, insomma, questo diverso procedere e questo uguale ricercare, all’insegna di una fascinosa dialettica, ricca di puntuali confronti, di somiglianze ingannevoli, di convergenze e di divergenze, di mezzi e strumenti assai diversi fra loro, usati per mete spesso simili o parallele, di substrati culturali diversi e tuttavia inseriti in un medesimo processo storico. E cominciamo, appunto, dai contesti culturali che furono il teatro di questi eventi pittorici. L’immagine di una Firenze spalancata al vento di un rinnovamento rivoluzionario è stata dagli studi più recenti ampiamente ridimensionata: in realtà, l’impetuosa spinta rinnovatrice operata dal Brunelleschi e subito raccolta sia da Donatello sia da Masaccio si fa strada in stretta contiguità di fama e di committenze con artisti apprezzatissimi che rinascimentali non sono, come Masolino e soprattutto il Ghiberti, per non parlare della vasta schiera degli “internazionalisti” come un Parri Spinelli o il Maestro del Cassone Adimari. Chi non ricorda la spiritosa distinzione del Longhi, tra coloro che videro Masaccio, in sbalorditi, sventati, indifferenti e confusi, a significare che «la storia della cosiddetta rinascenza si è svolta persino a Firenze in modo assai più tortuoso e inceppato di quanto non sembri»5? Ancora è poco noto a certa cultura corrente che la gloriosa conquista di nuovi orizzonti artistici iniziata dal Brunelleschi, già a partire dagli anni Trenta, morto prematuramente Masaccio, si trova a scontrarsi, come dice il Gombrich e già aveva intuito l’Antal6, con una cultura sostan­zialmente conservatrice, caratterizzata da un intensificarsi del tardogotico antichizzante, e cioè da un parziale riflusso verso le formule di un Lorenzo Monaco o di un Gentile da Fabriano, ovvero della cultura degli anni 1410-30. Bisognerà attendere Domenico Veneziano e Piero del­la Francesca perché il cammino riprenda di nuovo, e anch’essi saranno capiti da pochi. Abbiamo di proposito insistito, nel tratteggiare a grandissime linee la situazione fiorentina nella quale esplode il fenomeno Masaccio, sulla reale situazione di convivenza tra vecchio e nuovo, anziché sull’immagine più consueta e nota di una avanguardia artistica vittoriosa e do­minante, perché 11


questa situazione reale risulta meno lontana, anche se molto diversa, da quella in cui Van Eyck si trova a operare quella che potremmo definire la sua intelligente e sottile “ri­forma” pittorica: ché infatti, tale appare la sua posizione di sutura con la tradizione, a confronto con la decisa e rivoluzionaria frattura provocata da un Brunelleschi e da un Masaccio. Jan Van Eyck prende infatti le mosse della sua pittura in stretta continuità culturale, storica e di strumenti espressivi con la generazione precedente e ancora vitale, la gloriosa generazione dei miniatori e pittori franco-fiamminghi di un Broederlam, di un Malouel e soprattutto dei fratelli Limbourg. Gli inizi vaneickiani nel campo della miniatura hanno dunque un significato emblematico, sul quale studi recenti e recentissimi non cessano opportunamente di fare luce7; ma in questo continuum storico, apparentemente quasi intatto, Van Eyck opera, invece, un salto storico, altrettanto decisivo, altrettanto “fondante” di quello che andava operando nei me­desimi anni Masaccio a Firenze. Sarebbe certo ingenuo ignorare che la Firenze di Masaccio è cosa diversissima dall’ambien­te nel quale si trovava Van Eyck, la corte di Filippo il Buono, conte di Fiandra e Duca di Bor­gogna, che gareggiava con la sfarzosa corte parigina di Carlo v. Prima di Filippo il Buono, il duca Giovanni di Baviera, pur con minori mezzi a disposizione, aveva già intrapreso una simile politica culturale, quando era riuscito a impossessarsi della contea di Olanda e a installarsi all’Aja nel 1419. È per Giovanni di Baviera (fratello del defunto Guglielmo vi, conte di Olanda, Zelanda e Hainaut) che, secondo attestazioni documentarie ormai ritenute universalmente cer­te, Jan Van Eyck lavora tra il 1422 e il 1424 nelle celebri Ore di Torino, così che risulta con­fermata l’antica notizia del Summonte che «Maestro Johannes... prima fé l’arte di illuminare libri, sive ut hodie loquimur miniare»8. Sono note le fortunose vicende di questo libro d’Ore, di cui un frammento superstite anti­ camente pervenne a Torino e fu in seguito riunito a un altro gruppo di fogli proveniente dal­la collezione Trivulzio di Milano. Due sole miniature di certa mano vaneickiana – La Natività del Battista e la Messa dei morti – sono attualmente sopravvissute all’incendio della Biblioteca di Torino del 1904; altre tre, che appartengono sicuramente a Van Eyck ci sono note nella ri­produzione fotografica che il Durrieu fece fare dell’intero manoscritto nel 1902. Questi pochi fogli superstiti ci permettono tuttavia di valutare la portata delle novità introdotte da Van Eyck nel cuore stesso della tradizione miniaturistica, cariche di intuizioni assolutamente personali che hanno il valore di un’autentica scoperta. Nei bas de page della Natività del Battista e della Preghiera del principe sulla spiaggia si spalancano davanti ai nostri occhi brani di paesaggio affascinanti per tenerezza di luci mobili e diffuse a svelare lontananze d’acque e castelli, primi piani di spiaggia e sentieri umidi di piog­gia; e di questo spazio fanno parte integrante i personaggi. Quest’ultima novità, altrettanto grande quanto la prima per ciò che concerne un radicale rinnovamento del senso dello spazio, segna forse il maggiore discrimine tra Van Eyck e i suoi più prossimi predecessori, forse anche suoi maestri di bottega, i Limbourg. Ma il confronto fra i fogli smaglianti delle Ore Chantilly che pure s’aprivano a paesaggi lontani, dove i castelli svet­tavano tra foreste e 12

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Pagina precedente: 1. Jan Van Eyck, Natività del Battista e Battesimo di Cristo, f. 93v., Libro delle Ore di Torino, Museo Civico d’arte antica di Palazzo Madama, Torino. 14

2. Jan Van Eyck, L’Adorazione dell’agnello, particolare del Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand. 15


3. Masaccio, Il Tributo, Cappella Brancacci, 1425 ca., affresco, 255×598 cm, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze. 16

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4. Jan Van Eyck, Madonna del Cancelliere Rolin, 1435 ca., olio su tavola, 66×62 cm, Museo del Louvre, Parigi. 5. Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand. 18

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6. Masaccio, San Pietro guarisce con la propria ombra, particolare, 1425-27 ca., affresco, Cappella Brancacci, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze. 7. Jan Van Eyck, Corteo dei Santi, particolare del Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand. 20

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8. Masaccio, La Trinità, 1425-27, affresco, basilica di Santa Maria Novella, Firenze. 22

9. Jan Van Eyck, Disegno per il ritratto di Niccolò Albergati, 1431, punta d’argento, Kupferstich-Kabinett, Dresda. 23


10. Masaccio, Adorazione dei Magi, 1426, tempera su tavola, 21×26 cm, Staatliche Museen, Berlino. 24

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11. Jan Van Eyck, Madonna del Canonico Van der Paele, 1436, olio su tavola, 122,1×157,8 cm, Groeningenmuseum, Bruges. 26

12. Domenico Veneziano, Pala di santa Lucia de’ Magnoli, 1445, tempera su tavola, 209×216 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 27


13. Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, sportelli esterni, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.

14. Jan Van Eyck, Adamo, particolare del Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand. 15. Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, 1424-25, affresco, 214×88 cm, Cappella Brancacci, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze. 28

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16. Jan Van Eyck, Madonna con il Bambino nella chiesa, 1425-30, olio su tavola, 32×14 cm, Gemäldegalerie, Berlino. 17. Masaccio, Madonna Casini, detta anche Madonna del solletico, 1426-27, tempera su tavola, 24,5×18,2 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 30

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18. Fra’ Beato Angelico, Il Giudizio universale, 1431 ca., tempera su tavola, 105×210 cm, Museo nazionale di San Marco, Firenze. 32

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19. Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, olio su tavola, 81,8×59,4 cm, National Gallery, Londra. 20. Jan Van Eyck, Annunciazione, 1434-36, olio su tela, 90,2×34,1 cm, National Gallery of Art, collezione Andrew W. Mellon, Washington. 34

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campi arati, con le Ore Torino vaneickiane non fa che mettere in evidenza la forza innovatrice di queste ultime. Le figurette del Cristo e del Battista sembrano germinare dal paese verde e azzurro così come gli indimenticabili personaggi del bas de page della Preghiera sulla spiaggia. Nel mar­gine di quest’ultimo foglio, per quel che ci consente di scorgere dalla riproduzione fotografica, il gruppo di figure a cavallo, immobili contro il cielo strisciato di nubi e di sereno e il gruppo di astanti fermi sulla striscia di pianura zuppa di pioggia, all’orizzonte la chiesa del villaggio, sono brani di pittura senza tempo. Si dovrebbe sostare a lungo davanti a queste pagine, ai flutti del mare solcati dalla barchet­ta a vela nel Viaggio di San Giuliano e Santa Marta, al notturno illuminato dalle fiaccole nella Cattura di Cristo per cercare di cogliere non solo la carica poetica che doveva pervaderli e lo stupore suscitato da quel tenero microcosmo, ma la sostanziale novità pittorica della modula­zione della luce, che percorre la vastità del paesaggio conferendogli una verità mai vista, entro il quale prendono posto figure delicatamente modellate dall’ombra e si saldano a esso, in un’unità anch’essa inedita. Gli anni 1422-24 sono gli stessi anni dell’esordio masaccesco nel Trittico di San Giovenale (Uffizi) e nella Sant’Anna Metterza (Uffizi): entrambe opere di collaborazione10 che rivelano, più di quanto non si sia soliti pensare, come Masaccio si inserisca direttamente nella tradizione fiorentina e toscana più consueta e anzi in via di esaurimento, quella appunto della pala o del polittico d’altare a fondo oro. Ed è all’interno di questa tradizione obbligata che Masaccio rive­la, come Van Eyck, la forza di aprire una nuova rotta pittorica, per l’energia delle forme già portatrice di una nuova concezione della figura umana e insieme per il concentrato rigore inte­riore cui essa s’atteggia; una nuova umanità, dunque, fa qui la sua apparizione, nella quale non v’è traccia dell’asciuttezza un po’ “piagnona” delle tante Madonne dei vari Gerini e Jacopo di Cione, né la ritmica eleganza di un Masolino o di un Lorenzo Monaco. Possiamo affermare con questo che la carica innovatrice di Masaccio e quella di Van Eyck, all’interno di una tradizione ancora in atto, siano sostanzialmente simili, che entrambe muova­no nella stessa direzione, quella della ricerca di una realtà concreta e tangibile? È questo un problema complesso, al quale cercheremo di dare una risposta nelle pagine che vengono. Limi­tiamoci per ora a notare, quasi paradossalmente che, mentre alle spalle di Masaccio vi è il for­midabile precedente del Brunelleschi ed è attraverso il varco aperto della sua scoperta prospet­tica che passa tutta la novità artistica del primo Quattrocento e di Masaccio in particolare, Van Eyck sembra invece avventurarsi da solo, come un solitario esploratore, negli inesauribili sen­tieri che conducono alla scoperta della realtà. Questa posizione innovatrice di Van Eyck apparirà tanto più singolare se si pensa che egli opera per molti anni all’interno di un ambiente aristocratico e in perfetta integrazione con es­so: dapprima come valet de chambre a Bruges e nello stesso palazzo ducale di Bruxelles; poi come protagonista di missioni segrete che lo conducono in «lontani paesi» (1429-30) e di altre missioni ufficiali come quella del 1429 in Portogallo a negoziare il matrimonio di Filippo il Buono con la principessa Isabella11. 36

Eppure questo mondo aristocratico non entra nei suoi quadri se non nel lusso profuso delle figure religiose, cariche di gioielli e di stoffe preziose, nelle quali appunto avviene una trasposi­zione dello stesso ambiente di corte. E d’altra parte la profusione di oggetti lussuosi ridiventa per Van Eyck occasione di quella inesauribile ricerca della verità visiva di un oggetto che è la dominante mentale, l’autentico “segreto” della pittura vaneickiana. Del resto, la maggior parte delle opere di Van Eyck ebbero committenti borghesi, a comin­ciare dallo scabino Joos Vyd, che s’addossò le spese per il completamento dell’Agnello Mistico di Gand; come borghesi furono i committenti di Masaccio, perché a Bruges, come a Firenze il ceto mercantile rappresentava la società influente del tempo e il rapporto tra committente e artista, a stare ai pochi documenti rimastici, doveva essere retto dagli stessi modelli di transa­zione commerciale. La differenza se mai, e grande, sta in un modello culturale profondamente diverso, che vede a Firenze il nascere di una dignità dell’artista legata alla cultura umanistica alla quale l’ar­tista partecipa. Mi sembra sempre illuminante in proposito la descrizione che il Vasari ci fa del perduto affresco della Sagra ossia della consacrazione della Chiesa del Carmine: quella sfilata solenne di «cittadini in mantello e cappuccio»12, ove figurano artisti, mercanti e letterati dichiara l’intento di Masaccio di raffigurare la società reale del suo tempo e di conferirle insieme un valore ideale, nella rappresentatività dei personaggi che lo compongono. Oppure si pensi all’i­dea quasi polemica di introdurre nel rado corteo dell’Adorazione dei Magi (Berlino, Musei di Stato), privo di ogni connotato esotico o di lusso, i due personaggi borghesi, appunto due «cit­tadini in mantello e cappuccio». Lo stretto contatto tra artisti, umanisti e scienziati, che con­trassegna come un fatto nuovo la cultura fiorentina del primo Quattrocento (basta pensare al so­dalizio tra Brunelleschi e il matematico Paolo del Pozzo Toscanelli) conferma una nuova posi­zione dell’artista nella società, di cui certamente il giovane Masaccio doveva essere consapevole. Ora, per riprendere il discorso, è pur sempre la conquista della realtà la forza maieutica dell’arte nuova, a nord e a sud delle Alpi; è sul tipo di questa realtà, sul diverso modo di conce­pirla, che verte il problema. Il realismo di Masaccio è, come dice il Previtali13, un realismo di «struttura» e cioè sintetico, ha come sua base unificante e caratteristica propria la visione pro­spettica della realtà stessa; l’appassionata ricerca di Masaccio di una essenziale realtà è insepa­rabile da una visione della realtà stessa intesa razionalmente, realtà di forme e spazi saldamen­te congiunti nell’unità della prospettiva. E non pare dubbio che una siffatta concezione della realtà sia improntata a un primato dell’intelletto, sul quale si fonda la civiltà artistica toscana del primo Quattrocento e sia legata a una cultura sostanzialmente laica e razionale. Altrettanto indubbio – e la distinzione è ormai celebre e di uso fin troppo corrente – che la realtà vaneickiana è all’opposto analitica, muove cioè da tutt’altra visione della realtà, quella fe­ nomenica delle cose, così come esse si presentano all’occhio che le contempla. E più l’occhio è sottile ed esercitato, più l’analisi sarà squisitamente epidermica. La natura vaneickiana, lentico­lare e microcosmica sembra raggiunta solo da una prolungata visione che la intensifica in ogni minimo aspetto, le conferisce un plus di natura e la conquisterà infine attraverso infinite ad­dizioni di aspetti 37


fenomenici di questo reale. Questa operazione visiva sembra avere un puntuale corrispettivo nella tecnica pittorica mediante la quale questa visione si realizza, quella tecnica che comunemente viene chiamata a olio e che veniva menzionata dal Vasari come un grandissimo segreto. Oggi noi siamo assai meno sicuri del Vasari che il segreto della pittura di Van Eyck dipendesse dal medium dell’olio, mentre tutte le analisi di laboratorio conducono a una tecnica basata appunto sulla sovrapposizione di numerosi strati di colore trasparenti, capa­ci di rendere la epidermide delle cose stesse14. La realtà dipinta da Masaccio sarà al contrario il frutto di un’operazione mentale di sintesi, di un deliberato ripudio del superfluo, o se si vuole di una spietata selezione operata proprio su quel grazioso et ornato che il Landino attribuiva a Filippo Lippi15, ma che si possono facil­mente estendere come categorie fondamentali di gran parte della pittura fiorentina contemporanea. Questa profonda divergenza fra Masaccio e Van Eyck, quasi di ordine filosofico, che com­porta una globale impostazione della visione della realtà e dei mezzi atti a esprimerla do­vrebbe, a mio vedere, scoraggiare quelle operazioni critiche tentate anche da illustri studiosi stranieri, come il Meiss o lo Sterling16, rivolte a indagare possibili accostamenti, a creare para­goni a scorgere imprestiti tra la pittura del fiorentino e del fiammingo. Anche il parlare di uno «stringente parallelismo» fra le due ricerche (Meiss), se preso alla lettera, può dare adito ad ambiguità, senza riconoscere quanto fatalmente diversa sarà la realiz­zazione di una visione del mondo che io chiamerei sub specie pulchritudinis per Van Eyck e sub specie mentis et hominis per Masaccio. Quando, per fare qualche esempio e rendere il discorso meno teorico, il Meiss insiste nella parallela ricerca di un nuovo naturalismo basato sulla luce, «che è, più della prospettiva linea­re, la grande conquista della pittura del vi secolo, una conquista che Masaccio e Van Eyck divi­dono equamente...»17, egli coglie con grande acutezza uno dei problemi chiave della svolta pit­torica della pittura del Quattrocento, sul quale torneremo; ma l’esemplificazione adottata è deludente e quasi incomprensibile, ponendo a confronto il celebre Matrimonio degli Arnolfini di Londra e la predella masaccesca di Berlino con la Crocifissione di Pietro. Proprio queste due opere potrebbero infatti illustrare in modo addirittura didascalico non tanto l’analogo ruolo che la luce ha in esse quanto la diversa interpretazione dello spazio: come ambiente nel caso fiammingo, come realtà tridimensionale che alberga le figure, nel caso ita­liano. Se poi si tratta di spazio esterno, ecco che per un fiammingo esso si qualificherà assolu­tamente come paesaggio, mentre per un toscano esso sarà se mai “natura”, ossia l’ordinato di­sporsi prospettico di elementi naturali. Per restare sempre ad esempi universalmente noti, basterà confrontare la deliziosa conca verdeggiante di innumerevoli esemplari botanici in cui si muovono i vari cortei verso l’Agnello Mistico a Gand con il solenne anfiteatro di uomini del Tributo masaccesco del Carmine che si salda al digradare dei tronchi e dei colli scarni. E non capiterà mai a Masaccio, come avviene a Van Eyck nella Madonna nella Chiesa di Berlino, di descrivere l’interno di una chiesa con una moltitudine di elementi architettonici perfettamente resi, salvo poi conferire loro significato simbolico; l’unico interno architettonico di Masaccio che ci resta, quello della Trinità in Santa Maria 38

Novella, è pensato come un solenne teorema matematico, quintessenza del sistema prospettico, quasi in accordo con l’assoluta verità del dogma raffigurato. Nulla, infine, si potrà paragonare alla stupefacente precisione topografica del paesaggio che si apre alle spalle del cancelliere Rolin nella Madonna che da lui prende il nome (Louvre); per avere in Italia simili stupefacenti lontananze bisognerà aspettare il dittico malatestiano di Piero della Francesca (Uffizi) e si tratterà allora di una evidente congiuntura italo-fiamminga. A proposito della esattezza delle lontananze vaneickiane, esse non hanno cessato di sbalor­dire gli studiosi attraverso i secoli, da quando Bartolomeo Facio verso la metà del Quattrocento notava le... «minuscole figure di uomini, montagne, boschetti, paesini e castelli resi con tanta abilità che li crederesti distanti cinquantamila passi gli uni dagli altri»18 a quando il Panofsky paragonava il miracolo eickiano al calcolo infinitesimale («questa tecnica raggiunge l’omoge­neità in tutte le forme visibili come il calcolo ottiene la continuità di tutte le quantità numeri­che»); e anche osservava che «l’occhio di Van Eyck opera come un microscopio e come un te­lescopio insieme», donde quella «simultanea realizzazione e in un certo senso, riconciliazione di due infiniti», aggiungendo che questo sarebbe «il segreto che intrigò gli Italiani e che sem­pre li eluse»19. In realtà la «simultanea realizzazione» dei fiamminghi non potrà mai sboccare in quella solenne riconciliazione della forma e dello spazio che fu, anch’esso, il grande segreto del nostro Quattrocento. Eppure di fronte al commento tutto “italiano” di un Longhi: «Si tratta poi di vedere se gli Italiani non furono più umani non cadendo in quell’inganno, quanto si voglia commovente, ma senza sbocco»20, ci si dovrà pur chiedere se, in fondo, l’«inganno» di Van Eyck – la trasforma­zione d’ogni dettaglio di un paesaggio in un microcosmo del mondo visibile – non sia altrettan­to valido, sul piano dell’arte, dei nudi e perentori spazi masacceschi, dove le forme si collocano per continua intersezione della “piramide visiva”: uno spazio matematicamente calcolato e in certo modo non esistente in natura. È stato notato che Van Eyck doveva essere a conoscenza almeno della Perspectiva commu­nis del Peckham21 e quindi di una organizzazione dello spazio su basi matematiche rudimentali; e giustamente lo Châtelet ha parlato di un «realismo spaziale» insistito nell’unità che governa gli sportelli esterni del polittico di Gand (travature, cornici architettoniche, ombre portate). Ma il genio poetico vaneickiano, che procede sempre per la calcolata e sensibilissima empiria della sua tecnica pittorica, sta nella possibilità di conquistare non solo l’illusoria realtà delle cose ma addi­ rittura di intensificarla attraverso la resa micrografica del luminoso “tessuto” delle superfici. Esso non sta tanto nell’amorosa attenzione (tutt’affatto nordica) al particolare analitico della realtà ma nella resa stupendamente fedele di essa, attraverso la carezzevole e mobile luminosità delle varie superfici. Anche là dove il pennello non riuscisse più a incalzare la minutissima realtà delle cose, questa mutevolezza delle luci, ottenuta con la moltiplicazione degli strati pittorici e delle velature, riuscirebbe pur sempre a suggerire l’incresparsi dell’acqua o il brulichio di un prato. Questa straordinaria resa analitica della realtà spinta sino all’illusionismo, dice il Gom­brich22, può essere vista con sospetto, come il segno di una cultura “borghese” o addirittura di incultura; e 39


in particolare per un italiano, il quale difficilmente potrà accettare di attribuire uguale valore formale e poetico ai due approcci alla realtà, il dilettoso scrutare dell’epidermide variegata di tutte le cose, frutto di una mentalità fenomenica ed empirica e la volontà di strin­gerla «nel pugno di cristallo della prospettiva» (Longhi) come è proprio di una mentalità raziocinante. Si citava poco fa la singolare affermazione del Meiss, il quale sosteneva la preminenza, nel­la pittura del Quattrocento, della conquista della luce su quella della prospettiva lineare. Il tema è stato affrontato in un modo assai diverso e con straordinario vigore speculativo, in uno stu­dio di E.H. Gombrich23, che rappresenta un apporto del tutto nuovo alla discussione critica sul confronto Italia-Fiandra. Afferma il Gombrich che, sì, per i Toscani la nuova volontà di rende­re la realtà si esprime totalmente nella intuizione della resa tridimensionale dello spazio, retto da leggi matematiche; ma che per Masaccio questa resa tridimensionale dello spazio includeva ovviamente la luce dell’ambiente individuata e rivolta a rendere l’immagine, il senso del rilievo delle superfici delle cose: è appunto quello che un toscano chiamerebbe la resa del “lume” (un termine che dal Cennini passa all’Alberti e a Leonardo). Per Van Eyck la grande conquista non fu quella semplicemente del lume ma, per usare un termine leonardesco, del “lustro”, ossia quel potenziamento luminoso delle superfici pittoriche che ne svela la qualità particolarissima, la tessitura (texture) inconfondibile; come a dire che là dove la luce raggiunge questo potere evocativo, grazie alla tecnica pittorica, la stoffa diventa stoffa, la pelle pelle, la roccia roccia. Ci sentiamo perfettamente concordi con il Gombrich nel ritenere che questa vera e propria esplorazione ottica fu il proprium della pittura fiamminga, che l’analisi della realtà fa tutt’uno con l’analisi del “tessuto” luminoso delle cose; e, aggiungiamo soprattutto, che l’analisi della realtà, compiuta in termini essenzialmente luminosi, coglie a essa la sua carica contenutistica e le conferisce dignità di “forma” poetica. Il Gombrich esamina la Madonna del Canonico Van der Paele di Van Eyck (Bruges, Mu­seo) e nota che lo scintillio dei gioielli, la rigidezza dei broccaci, la morbidezza del tappeto, e così via, insomma la magica evocazione di ogni tipo di sostanza e di superficie «è tutta fatta di specchi perché Van Eyck è supremamente consapevole che lo scintillio è composto di immagi­ni a specchio», tanto è vero che possiamo persino scorgere in alcuni punti dell’armatura di San Giorgio i riflessi del mantello rosso della Vergine24. In sostanza, dunque, la vera scoperta, il vero segreto dell’illusionismo fiammingo sta nell’introdurre una nuova ricchissima gamma di differenziazione dall’opaco al luminoso, ottenuta unicamente attraverso la distribuzione della luce. La potenzialità di questo mezzo che il Gom­brich chiama appunto “lustro” è dunque di rivelare il tessuto delle cose; non solo quelle che bril­lano ma anche le opache. Non si potrebbe rendere meglio la differenza tra questa quasi impercettibile resa e distri­buzione della luce fiamminga e quella di un toscano che con l’esempio brillantemente scelto dal Gombrich: egli accosta la figura del San Donaziano, nella stessa Madonna Van der Paele di Van Eyck a quella del San Zanobi nella Pala di Santa Lucia in Magnali di Domenico Venezia­no (Uffizi), analogamente 40

carica di meticolose osservazioni: gioielli, dalmatica, mitria, eccetera. L’accostamento sorprende per la sua ingannevole somiglianza; il reputato nordicismo di Do­menico Veneziano sembrerebbe a prima vista trovare qui una delle sue conferme più probanti e gareggiare in minuzia con l’oreficeria e le stoffe fiamminghe. Ma, a ben guardare, nel San Zanobi di Domenico Veneziano, ogni minuta realtà assorbe quel tanto di luce capace di esalta­re la forma, ossia quella che il Berenson avrebbe detto il suo valore tattile. L’uso della luce di Domenico, per usare la terminologia del Gombrich, è oggettiva illuminazione della realtà, il “lume”, non il “lustro”. «Per i pittori fiorentini l’incrociarsi di mobili, lampeggianti riflessi sulla superficie delle cose doveva apparire come un rumore confuso, al quale essi non prestavano at­tenzione nella loro ricerca della forma»25. Dopo esserci soffermati sul significato centrale che la luce ha per i fiamminghi, come la forma per i fiorentini, altri aspetti ancora restano da esaminare di questo diverso approccio alla realtà, che in parte ne derivano in parte ne sono complementari. Penso, per esempio, al diver­so collocarsi di Masaccio e di Van Eyck di fronte all’individuo. Parve al Meiss26 che Van Eyck avesse tratto da Masaccio in certi suoi ritratti una nuova potenza di volume e di spazio, in par­ticolare in quello, stupendo, detto l’Uomo col turbante della National Gallery di Londra, del 1433. Mi pare evidente, invece, che la rappresentazione dell’individuo diventa immediatamente per Van Eyck un “ritratto” e quindi tale per certe caratteristiche minutissime che lo rendono unico e irripetibile, mentre spesso per Masaccio l’individuo tende irresistibilmente a configu­rarsi come ideale esemplare dell’umanità, ossia come tipo. Non si nega, ovviamente, la potenza fisionomica dei personaggi masacceschi, ad esempio i poveri e gli apostoli che circondano San Pietro che guarisce con l’ombra nella Cappella Brancacci. Ciascuno di essi è il memorabile personaggio di un dramma; ma al tempo stesso essi so­no tutti, per Masaccio, esemplari di un’umanità nuova e rinata, di cui l’archetipo è Cristo stes­so, come l’accolta degli Apostoli intorno al Cristo nel Tributo esprime benissimo. Anche nei due soli ritratti, in senso proprio, che Masaccio ci ha sicuramente lasciato, i due committenti dell’affresco della Trinità in Santa Maria Novella, che pure si spingono fino alla soglia di una fisionomia individuale irripetibile con dettagli in genere obliterati da Masaccio, il rigore d’impianto dei loro profili è tale che l’immagine sembra esistere unicamente in funzione della loro collocazione nell’inflessibile telaio tridimensionale dello spazio. Nessuno potrà negare a Van Eyck la qualifica di “padre della ritrattistica fiamminga”: da­vanti ai suoi personaggi egli si pone con quello sguardo non mai sazio di scrutare, raggiungen­do in quei volti la stessa intensificazione della realtà, o supernatura che egli persegue in ogni aspetto della realtà, calando infine su quei volti un invisibile sigillo di impassibilità e di quiete, che è altresì il contrassegno di una umanità nuova e sottilmente diversa da quella che abbiamo noi sotto gli occhi. Questo processo, per così dire, di “desensibilizzazione” del personaggio si può scorgere nelle sottili differenze che passano tra il disegno preparatorio del ritratto del cosiddetto Cardinale Albergati (Dresda)27 e il ritratto stesso (Vienna): sul viso appassito di buon vecchio mite si è stesa come 41


una lievissima patina di nobiltà (si veda anche la regolarizzazione del naso) che non riusciremmo a individuare se non conoscessimo il disegno. Lo stesso discorso del ritratto s’applica alla figura umana. Innumerevoli esempi si potreb­bero fare trascegliendo nella quasi illimitata varietà umana che compone gli stupendi cortei del polittico dell’Agnello Mistico; ma basterà il confronto tra l’Adamo vaneickiano nello stesso polittico di Gand e quello masaccesco del Peccato Originale alla Brancacci. Quasi indicibile è la carica di vitalità dell’Adamo di Van Eyck, di questo nudo virile che avanza in luce dalla penom­bra della nicchia, pressocché a grandezza naturale. Formidabile, a volte spietata è l’acutezza di indagine fisiologica che svela il gioco dei muscoli in relazione al movimento che il corpo com­pie per uscire dalla nicchia, persino la vitalità dei selvatici capelli e certi minimi dettagli come quello della pelle abbronzata dal sole sul dorso della mano. Infinitamente più povero di connotati è l’Adamo di Masaccio, concepito secondo la sintesi eternamente classica di ideale e reale, mentre la luce che lo investe pialla ogni dettaglio e lo blocca nel gesto di disperazione. E dunque si potrebbe quasi dire che Van Eyck ha inteso darci il ritratto immaginario di un Adamo vivo e vero e Masaccio la sua realtà umana, anche se en­trambi in Adamo vedevano la creatura umana nella sua concreta realtà fisica. Certamente per Masaccio questa realtà fisica reca il sigillo di una superiore dignità umana che è il segno di una nascente civiltà di valori centrata sull’uomo; sarebbe tuttavia estremamente riduttivo e antisto­rico, nel 1420-30, parlare in proposito di una cultura laica, in senso moderno, ignorandone la carica etico-religiosa. Si affaccia qui un altro motivo di confronto, in genere più trascurato della pittura van­eickiana. Essa infatti, al contrario di quella di Masaccio è tutta naturaliter religiosa e appartie­ne di fatto ancora a una cultura in cui l’arte è al servizio della fede. Ma il genio irripetibile di Van Eyck intreccia in modo inseparabile realismo e visione trascendente. Di qui viene la gioia che Van Eyck vuole comunicarci, quasi una mistica jubilatio: ovvero la visione del mondo na­turale che reca il segno miracoloso della presenza divina creatrice; e la luce, naturale e sopran­naturale insieme, scruta e rivela gli infiniti aspetti di questa presenza. lo splendido manto di gioiosa bellezza che riveste ogni più piccolo aspetto del reale appare come un doveroso tributo di lode al Creatore: tutto il polittico di Gand e in particolare l’Adorazione dell’Agnello reca il segno di questa singolarissima identità di bellezza naturale e realtà soprannaturale; A questo s’aggiunge l’alto contenuto simbolico e allegorico presente in quasi rutti i dipinti di Van Eyck che l’apparenta ancora con la grande tradizione medioevale. È noto l’influsso eser­citato su Van Eyck dal movimento popolare rigorista della devotio moderna fondato da Geert Groote negli ultimi decenni del Trecento e allora al suo apice, con il suo messaggio di semplicità e fervore di fede. Meno noto forse e più importante è la dottrina religiosa di Van Eyck, la sua docta pietas, generalmente considerata appannaggio del severo rigorismo quasi pre-calvinista proprio a Rogier van der Weyden. Con il termine docta pietas mi riferisco alle sottili allusioni simboliche e teologiche presenti nei dipinti vaneickiani e che i recenti studi iconologici non cessano di mettere in evidenza. Prendiamo ancora una volta quell’universo pittorico che è il polittico di Gand, seguendo al­ cune fini osservazioni che recentemente gli ha dedicato un conoscitore profondo come A. Châtel42

et28. Nel polittico, infatti, la complessità e la sottigliezza dei significati allusivi che lo percor­rono è altrettanto intensa della fitta trama iconografica di quest’opera monumentale, con la sua doppia lettura a sportelli aperti e chiusi. Si veda, per esempio, come le cornici dei pannelli esterni siano dipinti a imitazione della pietra, quelli interni invece dorati: le prime infatti in­quadrano il mondo dei personaggi terrestri, le altre il mondo paradisiaco. E ancora: è già allu­sivo il fatto che Profeti e Sibille sormontanti l’Annunciazione figurino in realtà come sculture policrome; ma assai più sottile è il fatto che anche i ritratti dei due donatori – Jos Vyd e la mo­glie, due ritratti di palpitante realismo – siano qui evocati non come ritratti di persone ma co­me equivalenti pittorici degli ex voto scolpiti e policromati, e questo spiega anche la loro pre­senza in nicchie, secondo una consuetudine iconografica che risale all’Alto Medioevo. Quale letterato moderno non gusterebbe questa continua ambivalenza tra realtà e finzione? Anche la presenza frequente dello specchio nella pittura di Van Eyck e di altri fiamminghi si può collegare a questa affascinante ambiguità. Certamente lo specchio ha una funzione di trucco ottico per svelare altri spazi del quadro non visibili (già il Facio osservava ammirato che, nel perduto quadro di Van Eyck, raffigurante delle Donne al bagno «una di queste mostra solo il volto e il petto ma egli ha raffigurato in uno specchio anche le parti posteriori»29. Nel celebre Matrimonio degli Arnolfini di Londra, lo specchio sul fondo della camera svela ciò che non si vede e che sta fuori del quadro, di fronte ai personaggi ritratti. Si sa, grazie alla lettura iconografica del Panofsky30, che la scena non raffigura semplicemente il doppio ritratto degli Arnolfini ma il momento del giuramento matrimoniale fides levata e cioè con la mano destra levata in segno di giuramento, tra Giovanni Arnolfini e Giovanna Cenami; ma tutta la realtà che circonda i due protagonisti e che all’occhio appare come un delizioso ambiente bor­ghese, una tranche de vie dell’epoca è in realtà saturo di allusioni simboliche: la candela accesa attesta la presenza divina, il cane è simbolo di fedeltà; persino gli zoccoli, abbandonati sul pa­vimento, vero e proprio brano di natura morta, sono lì a rammentare la prescrizione di Dio a Mosè sul monte Sinai di levarsi i sandali, perché quello è un luogo sacro. E si potrebbe natu­ralmente continuare l’elenco. È vero che anche nella Firenze del primo Quattrocento il Brunelleschi si era servito per dipingere le sue famose e perdute tavolette prospettiche dell’immagine riflessa su specchi di argento brunito; del resto la pratica di controllare l’effetto dell’immagine dipinta in uno spec­chio è consigliata dall’Alberti nel suo De pictura (...«come le cose ben dipinte abbino nello specchio grazia»). Ma è evidente il significato diverso e addirittura opposto che lo specchio as­sume nei casi citati: là dove per l’Alberti lo specchio è verifica e correzione e per il Brunelleschi lo specchio ha la funzione di accertare la visione prospettica dello spazio, per Van Eyck lo specchio può assumere significati diversi e assai sottili: anzitutto, riflettendo la realtà rappre­sentata, esso si identifica con la pittura tout court, intesa appunto come “specchio della realtà” nel senso cui alludono le parole di Vincent de Beauvais (sec. xiii) «vitrum propter transparen­tiam melius recipit radios»: la pittura cioè, al pari dello specchio può intensificare la luce e la luce a sua volta intensifica la realtà; analogamente lo specchio doveva apparire come simbolo dell’occhio stesso del pittore, la presenza frequente dello 43


specchio appare comunque legata al­l’importanza significante della parola speculum31 nella cultura medioevale, intesa come sostanza del sapere in un determinato argomento (ad es. lo Speculum Majus di Vincent de Beauvais e lo Specchio dell’eterna salute di Ruysbroek) o legata al concetto assai diffuso di una creazione, specchio del creatore. Una vera erudizione teologica governa lo stile e le decorazioni architettoniche nei dipinti vaneickiani, persino la raffinata crittografia del pavimento dell’Annunciazione del Museo di Washington allude alla prefigurazione della vita di Cristo e i segni zodiacali sono collocati in preciso rapporto con le figure della Vergine e dell’angelo32: davvero l’elogio del Facio, rivolto a Van Eyck, «litterarum non nihil doctus», lungi dall’essere un elogio di prammatica, doveva in­dicare una vasta e sottile conoscenza anche letteraria e cioè filosofica, allegorica, teologica. In un altro caso, e cioè nella Madonna adorata dal canonico Van der Paele (Bruges) la quasi folle minuzia di particolari realistici che la compongono è in funzione della raffigurazione di una vi­sione improvvisa, esterna al quadro, là dove è rivolto sia lo sguardo emozionato del Canonico sia l’imbarazzato gesto non privo d’ironia, del S. Giorgio che si toglie l’elmo33. E fuori del quadro, dunque anch’esso a una visione, è rivolto lo sguardo del cancelliere Rolin nella Madonna del cancelliere Rolin al Louvre. Si pensi infine al significato simbolico e alla dottrina teologica sottesa a quel piccolo giovanile gioiello che è la Madonna nella Chiesa del Museo di Berlino, poco più grande di una mi­niatura: la deliziosa fragile figura della Madonna grandeggia nella navata gotica concepita come scrigno-reliquiario architettonico. L’equivalenza tra figura e architettura esprime l’identità tra la Vergine e la Chiesa, tra la Mater Dei e la Mater Ecclesiae; e la luce che penetra dal lato nord della Chiesa, come ha osservato il Panofsky34, non è quella del sole che scalda, ma del sole della giustizia, immateriale presenza divina. Nulla di più remoto da questa soave immagine, con il suo garbo aristocratico e il morbido hanchement d’avorio francese, della piccola Madonna col Bimbo di Masaccio in Palazzo Vec­chio. L’accostamento è ancora più eloquente sia per la pratica contemporaneità dei due dipinti (1426) sia per l’insolito piccolo formato della tavoletta masaccesca, di evidente destinazione privata. Il gesto abbozzato dalla mano della Vergine sulla gola del Bimbo («Madonna del solle­tico» la battezzò il Longhi che la identificò)35 si traduce in una «nuova, umana e laica medita­zione». Il calibro esile della figura, eppure fermissimo nelle clausole del mantello, il volto assorto dalle labbra smunte danno a questa immagine una forza di sincerità commovente. Tanto Van Eyck carica le sue Madonne dei più splendidi attributi della loro regalità, trofei di gioielli e stoffe preziosissime, altrettanto Masaccio veste le sue Madonne (Londra, Uffizi) del semplice mantello gettato a ricoprire il capo, come le domine classiche di Nicola Pisano e di Giotto. Ma come si diceva all’inizio, ogni antitesi tra Masaccio e Van Eyck è subito soggetta a una dialettica vitale e quindi a una convergenza. La naturalezza di Van Eyck, profondamente re­ligiosa, ossia la sua tenera sensibilità per ogni bellezza terrena non è forse anch’essa la prova di una fede profonda nel reale, la sua incessante indagine della realtà non è forse il primo moven­te anche della pittura di Masaccio? Entrambi muovono alla ricerca della realtà con la volontà di non scostarsene mai. È qui che entrambi trovano la loro fisionomia di fondatori. 44

21. Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare della Vergine, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand. 45


Entrambi, infine, condividono un destino storico di relativo isolamento. La perentoria indi­ cazione dei termini di spazio e di forma, l’altrettanto perentoria qualità dei personaggi di Ma­saccio non hanno praticamente seguito in Firenze, così come a Bruges non lo ha il sublime e distaccato realismo di Van Eyck. È stato detto talvolta che il mondo inaugurato da Van Eyck si trova di colpo all’apice della sua complessità formale. Per questo, osserva il Friedlander36, egli non avrà eredi diretti ma un seguace soltanto, Petrus Christus, poiché erede è solo colui che è in grado di raccogliere un patrimonio di idee artistiche e di farlo fruttare. Si è già detto che la situazione non appare diversa nella Firenze impoverita artisticamente dalla morte prematura di Masaccio nel 1429. Di fatto il solo Angelico subito dopo il 1430 appare in grado di intendere la lezione di Ma­saccio alla Cappella Brancacci, come notava acutamente il Vasari che lo nomina fra i primi che vi si recarono ad apprenderne la lezione. Ma l’Angelico questa lezione la calerà intelligente­mente all’interno della propria cultura fascinosamente mista. Se si pone mente all’apparte­nenza storica e sociale dell’Angelico, nel cuore di una tradizione gotica e di un ambiente mona­stico a essa ancora fervidamente legato, e in particolare all’eredità viva del patrimonio miniaturistico di un Lorenzo Monaco, si avrà chiara la geniale capacità dell’Angelico di “ristrut­turare” questo bagaglio culturale sul filo della novità prospettica e formale con gli straordinari risultati che conosciamo di nitore lineare, di splendore cromatico, di purezza cristallina della forma in rapporto con lo spazio. Mi sembra che questa singolare capacità di saldare il nuovo mondo con il vecchio senza strappi né cattive cuciture, la religiosa ammirazione per una bellezza che reca l’impronta del divino fanno dell’Angelico in certo modo un autentico corrispettivo italiano di Van Eyck37. In particolare i due artisti ci sembrano legati da quel ruolo primario della luce nella loro pittura, che è insieme rivelazione di realtà e visibile riflesso della creazione divina. Su quest’ultimo tema ci sono d’ausilio ancora alcune acute osservazioni del già citato saggio del Gombrich38. Egli nota che l’Angelico applica strettamente alcune raccomandazioni dell’Al­ berti nel De Pictura (1435) su come segnare il discrimine luce-ombra sulla forma e in particolare il suggerimento di dividere con cura un corpo in due metà di luce e di ombra (vedi soprat­tutto la predella vaticana con Storie di San Nicola). Il Gombrich si chiede persino se questa straordinaria conoscenza degli effetti della luce sulle cose non derivi all’Alberti da una diretta conoscenza della pittura fiamminga nel corso del suo soggiorno transalpino tra il 1429 e il 1431, aggiungendo subito che, tuttavia, la cosa ha in sé importanza irrilevante: il fatto vera­mente notevole è che negli anni di Van Eyck, dell’Angelico e di Domenico Veneziano, il pro­blema della intensità e della mutevolezza della luce sulle superfici e dei suoi riflessi fossero già oggetto di ricerca scientifica in Italia. Certamente, dopo aver sottolineato questo parallelo interessante bisognerà pur sempre ritornare a quella sottile ma capitale discriminazione già notata dal Gombrich, fra il “lume” fio­rentino e il “lustro” fiammingo. Come nel confronto fra il San Zanobi di Domenico e il San Donaziano di Van Eyck, così l’aiuola paradisiaca dell’Angelico nel Giudizio Universale di San Marco non potrà mai gareggiare con la verità botanica stupefacente dell’Agnello Mistico; non tanto per le più sobrie indicazioni di realtà nell’Angelico ma appunto perché la verità vaneick­iana sorge soprattutto dalla 46

mobile miriade di riflessi luminosi, che arriva a suggerire la realtà anche là dove il pennello non arriva più a scoprirne i dettagli. Tuttavia certe Madonne dell’Angelico, come quella del Tabernacolo dei Linaioli, è pure sempre quanto di più vicino si pos­sa immaginare a qualche Madonna vaneickiana, per esempio a quella di Dresda, così come il San Zanobi di Domenico rispetto al San Donaziano di Van Eyck. Vogliamo dire con questo che se Masaccio è con Van Eyck l’autentico fondatore di un nuo­vo corso della pittura, furono Domenico Veneziano e l’Angelico a rappresentare un’autentica ricerca parallela, pur nell’ambito di una cultura fiorentina marcata dalla presenza di Masaccio. E certamente non è senza significato che la “civiltà dell’Angelico e di Domenico”, come si suole chiamarla, sia destinata ad avere, tra il 1440 e il 1450, un irraggiamento così importante in area mediterranea da dare vita alle altissime congiunzioni pittoriche di un Quarton e di un Fouquet; a loro volta, si badi, già lambiti dalle prime novità fiamminghe.

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Capitolo secondo

1440-1450: collezionismo, storiografia, viaggi

Il decennio 1440-50, morto appena Van Eyck (1444) e in piena attività Rogier van der Weyden, vede già i nuovi “miracoli” imporsi a un mercato artistico entusiasta; fatto ancora più notevole, la nuova esperienza pittorica viene subito esportata in Francia, Spagna, Italia e Germania, in pratica in tutta l’Europa occidentale e in modo particolare nei centri maggiori dell’area mediterranea. Quella che noi oggi chiamiamo pittura fiamminga proveniva in realtà dai Paesi Bassi del sud (grosso modo, il Belgio odierno) con i suoi maggiori centri di Gand, Bruges, Ypres, da un territorio che ricomprendeva cioè le due contee di Fiandra – i paesi fiamminghi propriamente detti –, e inoltre lo Hainaut, il Brabante e altri territori ancora, che talvolta ebbero importan­za anche maggiore delle stesse Fiandre nella vita artistica dei Paesi Bassi. Il termine comune di Fiandra o di fiammingo sarebbe dunque improprio, da un punto di vista di geografia artistica, o meglio rappresenta la parte per il tutto. Nonostante questo, a par­tire già dal xv secolo esso viene speso comunemente in un’accezione sempre più vasta che ri­comprende da subito anche alcune zone della Francia e dell’attuale Olanda, con una generaliz­zazione che rivela l’egemonia artistica di questa pittura. Tuttavia può essere interessante ricordare che nello stesso Quattrocento e nel Cinquecento troviamo invece usati altri termini a indicare artisti o dipinti di provenienza fiamminga: per esempio, “alemana” può essere una pit­tura tedesca o fiamminga; Johannes Gallicus viene chiamato Van Eyck dal Facio; per un lom­bardo del Quattrocento, fiammingo o “fiandresco” sta a indicare anche un dipinto francese; il Vasari annovera il grande Dürer tra i fiamminghi; il Summonte, nella famosa lettera a Mar­cantonio Michiel, parla di un fiammingo nato in Lombardia e chiamato Joan Todeschino; e co­sì via. Sulla scena storica, che per comodità continueremo semplicemente a chiamare fiamminga, domina la notevole figura di Filippo il Buono, conte di Borgogna e di Fiandra, il grande mece­nate di 49


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51 I paesi fiamminghi raffrontati ai confini degli odierni stati.

Cartina storico-artistica dei paesi fiamminghi nel sec. xv.


Van Eyck. Attraverso una abile politica di conquiste e di eredità egli riuscirà pratica­mente a raggruppare sotto la sua protezione oltre i Paesi Bassi del Sud anche i Pays de pardeçà cioè la contea di Olanda e di Zelanda. Per tutto il corso del Quattrocento le vicende arti­stiche del nord e del sud resteranno così sostanzialmente comuni anche se, come studi recenti stanno mettendo in luce, nello stesso secolo xv si possono scorgere i primi segni di un “genio” specifico delle province del nord1. Tuttavia sarà solo al termine di un lungo processo storico che, alla fine del Cinquecento, l’Olanda, che allora costituiva le province del Nord, diventerà un paese culturalmente assai diverso dal Belgio odierno, allora le province del Sud. Si aggiunga infine che l’amministrazione di quello che è stato chiamato il Commonwealth della Casa di Borgogna godrà per tutto il Quattrocento di un notevole successo, garantito dal­l’equilibrio tra il governo centralizzato e il peso politico delle corporazioni sia commerciali sia artigiane, nonché quello delle tradizioni locali, specie delle province nordiche. Gran parte di questo sistema politico si incarna nella istituzione della figura del Cancelliere; ora, per com­prendere lo sfondo sociale della nuova pittura si pensi che dal 1422 al 1462, nei quattro decen­ni decisivi per il suo sviluppo, il posto di Cancelliere fu occupato senza interruzioni da quel Ni­colas Rolin che figura nel celebre quadro di Van Eyck al Louvre, inginocchiato davanti alla Madonna col Bimbo, e che commissionò a Rogier van der Weyden la monumentale tavola del Giudizio Universale nell’Ospedale di Beaune. È noto che a garantire la floridezza commerciale dei Paesi Bassi contribuiva la loro posi­zione geografica strategica: il porto di Bruges (con i porti esterni di Damme e di Sluis) e in se­guito il porto di Anversa aperto sul Mare del Nord, offrivano sbocco verso l’Inghilterra e i Pae­si Baltici. Navi fiamminghe solcavano l’Atlantico e il Mediterraneo raggiungendo la Spagna, l’Italia meridionale e settentrionale. Bruges e Anversa diventano così i cardini del commercio europeo accanto a Venezia, Genova e Lubecca. Si trattava soprattutto di un commercio di transito che funzionava attraverso banche e numerose filiali, mediante commissioni trattate da finanzieri e mercanti a livello internaziona­le: come i fiamminghi Vjd e Moreel, gli italiani Arnolfini, Villa, Portinari, Tani, e altri ancora, valenzani come Johan Gregari, castigliani e così via2. Tutti costoro costituiscono un’opulenta borghesia internazionale stanziata nei Paesi Bassi del sud tanto stabilmente da essere perfet­tamente assimilata e da rivestire cariche pubbliche di prestigio3. Sono proprio i mercanti italiani e specie i toscani, agenti dei Medici, con i loro “banchi” a dettare legge in campo di economia finanziaria, creando e perfezionando metodi d’avanguardia, come lettere di credito e ordini di pagamento tra diverse filiali internazionali. E sono proprio costoro a diventare i più pronti e fervidi committenti di opere fiamminghe. Non i soli, certo: tuttavia il fenomeno della committenza mercantile straniera fu in genere molto vistoso nel ca­so della pittura fiamminga e possiamo credere a uno studioso come il Friedlander quando af­ferma che il numero dei committenti stranieri – fra cui eccellevano gli italiani – superava di gran lunga quello dei committenti locali. Se il carattere cosmopolita dell’economia commerciale così fiorente allora nei Paesi Bassi spiega in parte il fenomeno da un punto di vista appunto di prestigio economico, resta pur sempre da sottolineare il fatto che la committenza borghese in questo caso scavalca forse per la prima volta quella aristocratica. Sarebbe interessante ricavare da qualche lettera o documento le ragioni di 52

un’adesione così pronta ed entusiastica; certo non mancarono motivi di “moda” o di investimento finanziario. Ma alla base vi fu indubbiamente una vera e propria scelta dettata da un gusto: forse che la forma mentis empirica fosse portata ad apprezzare quella resa estre­mamente oggettiva della realtà che caratterizzava soprattutto la nuova pittura? Lasciando da parte le ipotesi psicologiche, resta il singolare fatto che si diceva e cioè che in un paese politicamente retto da un potere aristocratico la committenza borghese supera quella aristocratica, un fenomeno di tale portata che, mutatis mutandis, mi arrischierei a paragonare all’ondata del collezionismo americano della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento: il che non esclude, beninteso, la presenza di importanti committenti nell’alto clero come il cano­nico Van der Paele, che figura nella celebre tavola vaneickiana di Bruges (Bruges, Groeninge­museum), o Jean Chevrot che commissiona a Rogier van der Weyden il trittico dei Sette Sa­cramenti ora al Museo di Anversa; e poi giuristi come il già citato Cancelliere Rolin, artisti come il misterioso Timoteo di Van Eyck (Londra), che il Panofsky propone di identificare con il grande musicista Gilles Binchois. Il ruolo che il ceto mercantile assume nei confronti della nascente pittura fiamminga assu­me un peso ancora più grande per il fatto che gli stessi mercanti si facevano spesso mediatori di committenze destinate ai loro paesi d’origine e la mediazione si concludeva con il trasporto materiale dell’opera sui loro vascelli carichi di mercanzie. Di questi interventi a vari livelli del ceto mercantile italiano possiamo tentare di dare qualche esempio a campione, limitandoci a dipinti di Van Eyck, per i quali disponiamo di un maggior numero di fonti. Un primo tipo di intervento è rappresentato dalle commissioni di opere da parte di italiani residenti in Fiandra, per quadri, quindi, destinati a restare in Fiandra. È il caso del finanziere lucchese Arnolfini che si fece ritrarre da Van Eyck nell’atto di contrarre matrimonio con Gio­vanna Cenami (1434, Londra, National Gallery) e successivamente in un ritratto (Londra, Na­tional Gallery). Giovanni Arnolfini veste in perfetta moda fiamminga, come anche quel Miche­le Giustiniani di Genova che compare come donatore nell’importante trittico della Madonna in trono con il Bambino e due Santi del Museo di Dresda4. Una seconda categoria è rappresentata da quei committenti, altrettanto numerosi, di quadri destinati all’Italia: un posto d’onore spetta al genovese Battista di Giorgio Lomellini, che risulta in rapporto d’affari con Bruges ma che non risulta essersi mai recato in Fiandra5. Come è noto, il trittico Lomellina, composto da un’Annunciazione nel pannello centrale, da un San Gerolamo nello studio e da un San Gio­vanni Battista nelle ali è purtroppo perduto, ma esso occupa ugualmente un posto privilegiato nella primissima storiografia dei rapporti Italia-Fiandra. Portato a Napoli dallo stesso Lomelli­na e dal Facio nel 1444 nel corso dei negoziati tra Napoli e Genova, l’importante dipinto entrò a far parte delle collezioni di Alfonso d’Aragona. E la descrizione che il Facio ci ha lasciato del trittico resta a tutt’oggi6 il documento più diretto di un giudizio critico di uno scrittore italiano su un dipinto fiammingo, sul quale torneremo fra breve. Un terzo tipo di mediazione commerciale è rappresentato dalla Madonna di Lucca, ora nel­ l’Istituto Stadel di Francoforte, proveniente dalla collezione del Marchese Cittadella di Lucca e commissionata probabilmente da un membro della colonia lucchese di Bruges7, poi eventual­mente riportata in patria dallo stesso mercante che lo aveva commissionato. 53


Infine, per quanto riguarda l’ultimo tipo di intervento mercantile, quello del trasporto ma­teriale delle opere fiamminghe, vale la pena di ricordare l’interessante caso del galeone genovese chiamato Negrona, caso pazientemente rintracciato sui documenti dal Weiss: risulta dun­que che il galeone Negrona sbarcava a Napoli nel 1445 un dipinto di Van Eyck, oggi perduto, raffigurante un San Giorgio da alcuni studiosi identificato con una tavoletta ora alla Galleria di Washington. Si concludeva così una complessa ma probabilmente tipica operazione commer­ciale iniziata nel 1444 (l’anno di morte di Van Eyck) quando cioè il re Ferdinando diede l’ordi­ne al mercante valenzano Johan Gregori di “assicurarsi” sul mercato fiammingo un Van Eyck. Per l’appunto un San Giorgio con il drago era in vendita a Bruges e fu pagato il prezzo consi­derevole di 2000 soldi reyals8. Le circostanze di committenza e di mediazione mercantili do­vettero essere molteplici e assai diverse fra loro. Si pensi al caso delle Stimmate di San France­sco di Van Eyck, dipinte per Anselmo Adorno9, il quale, avendo due figlie, fece eseguire una seconda copia del dipinto, non forse da Van Eyck ma da un suo stretto collaboratore, lasciando poi i due dipinti per testamento alle figlie (ora a Torino e a Philadelphia). Certamente non si trattò di fenomeno passeggero se, per la sola Firenze, è possibile segui­re una vicenda di committenze che si protrae per tutto il Quattrocento, destinate spesso ad ar­ricchire cappelle gentilizie; destinato a Firenze era il trittico del Giudizio Universale di Mem­ling, ordinato da Angelo Tani, caricato su un vascello diretto in Italia nel 1473 e saccheggiato al largo di Danzica da una nave pirata; mentre il celebre trittico della Natività ordinato a Hugo van der Goes da Tommaso Portinari per la Chiesa dell’Ospedale di Santa Maria Novella giun­se a Firenze nel 1483. Ma non è necessario moltiplicare gli esempi; piuttosto dedurne la conclusione: che già ne­gli anni Quaranta, e cioè assai per tempo, numerosi italiani apprezzavano e possedevano qua­dri fiamminghi in Fiandra o in Italia e quindi era nato un collezionismo di opere fiamminghe. Più importante ancora rilevare che il ruolo della classe mercantile includeva una attiva media­zione tra la nuova pittura fiamminga e la stessa committenza aristocratica. Il caso del Trittico Lomellina e del San Giorgio col drago di Van Eyck, entrambi acquistati da Alfonso d’Aragona nel 1444-1445, l’uno dal Lomellina stesso, l’altro per il tramite del mercato ar­ tistico, mi sembra esemplare. Per quanto riguarda però Alfonso d’Aragona, sappiamo che questi prima di prendere possesso del Regno di Napoli aveva manifestato già in patria il suo entusias­mo per la pittura fiamminga, tanto da inviare in Fiandra alla data precocissima del 1431 il pittore Luis Dalmau, per acquisire conoscenze di tecnica pittorica. Né è da escludere che Alfonso avesse avuto occasione di incontrare di persona Van Eyck, quando questi nel 1427 era venuto a Valencia con l’ambasceria borgognona10. Che poi lo stesso Alfonso trovasse a Napoli il terreno culturale più propizio a questa sua inclinazione è noto: ancora viva era la temperie culturale creatavi nei brevi anni del regno (1438-1442) dallo sfortunato Renato d’Angiò, coltissimo letterato e finissimo conoscitore di tutte le novità pittoriche d’oltralpe. Fu proprio Renato che dovette certamente in­contrare direttamente e distesamente Van Eyck quando questi lavorava nel 1433 nel palazzo duca­le di Bruxelles, ove si trovava lo stesso re Renato, “prigioniero” del cugino11. Per questa particolare situazione storica, nessuna delle altre corti italiane può rivaleggiare con il collezionismo aristocratico napoletano, che possedeva numerose opere di Van Eyck e di Rogier 54

55 Cartina dei quadri fiamminghi presenti in Italia nel sec. xv.


van der Weyden. All’incirca negli stessi anni, e precisamente nel 1449, Lionello d’Este risulta possedere un trittico di Rogier van der Weyden, di cui Ciriaco d’Ancona e il Facio ci hanno lasciato una minuta descrizione12. Alla corte di Giovanni Sforza di Pesaro figuravano, in un inventario redatto nel 1500, alcune opere di Rogier, superstiti di un incendio e precisamente una «tavoletta di Cristo in croce cum li paesi di man di Ruggeri», un ritratto di Alessandro Sforza e uno di Giovanni di Borgogna13. Sarebbe azzardato, data la scarsezza di dati pervenutici, notare che la stragrande maggio­ranza di dipinti di Rogier, presenti ab antiquo in Italia, fosse di collezione aristocratica e quin­di dedurne una preferenza del collezionismo di corte verso la pittura spiritualmente aristocrati­ca e sentimentalmente patetica di Rogier. È possibile, però, che anche agli occhi dei contemporanei risultasse la profonda differenza della loro personalità, sottolineata dal Fried­lander con lapidaria concisione: «Jan van Eyck è uno scopritore, Rogier un inventore». Da un lato l’inesauribile ricerca vaneickiana di ogni molecola vivente del reale; dall’altro l’inflessibile volontà formale di Rogier, rivolta a calare la realtà in sempre nuovi schemi complessi e sor­prendenti, a riversare l’intensità del sentimento nella pura “forma” di un minimo lembo accar­tocciato di panneggio, della tersa sfera di cristallo di una lacrima, dello snodo di nervose falan­gi. Resta invece certo che Rogier, anche per il suo viaggio in Italia nel 1450, dovette essere ben noto negli ambienti di corte, a Ferrara, a Napoli, a Urbino, a Milano; e da Milano nel 1460 fu inviato il ritrattista di corte Zanetto Bugatto a perfezionarsi nella bottega di Rogier a Bruxelles, accompagnato da una deferentissima lettera al pittore da parte di Bianca di Savoia. Tutte queste sparse notizie sulla prima pittura fiamminga in rapporto all’Italia che il tem­po ci ha tramandato rappresentano naturalmente solo degli indizi di quello che fu un fenome­no certamente vistoso. Ma è interessante notare che le più antiche e importanti notizie ci giungono da storiografi contemporanei, gravitanti intorno alle corti italiane e di cultura umani­stica. Ed è una circostanza singolare che i primi scritti in assoluto che noi abbiamo sulla pittura di Van Eyck e di Rogier siano di fonte italiana, ossia che un fenomeno come la pittura fiam­minga, così profondamente estraneo alla tradizione classica, venga elogiato da umanisti italiani nel più pretto stile umanista degli “elogi”, con il bagaglio di schemi e criteri estetici desunti da­gli autori classici, Plinio in testa. Una simile anomalia è tuttavia spiegabile col fatto che questi elogi riflettono in genere una precisa adesione al gusto dei principi e alla loro cultura umanisti­ca, quando non erano addirittura sollecitati dai principi stessi. Nel caso più importante e frequentemente citato, quello di Bartolomeo Facio14, è senz’altro da tenere presente l’acuta ipotesi del Baxandall, che il libretto del De viris illustribus contenen­te i “profili” di Van Eyck e di Rogier, sia nato nell’ambito di quella specifica iniziativa letteraria di Alfonso d’Aragona che riuniva i cortigiani per una “ora del libro”, ossia una serata di letture e discussioni. Sarebbe utile per questo leggere non solo i profili degli artisti ma tutto il volu­metto e in particolare le premesse cosiddette di metodo. Mi sembrano illuminanti, per esempio, le frasi di ricordo oraziano con le quali questo lette­ rato, allievo del Guarino, insiste sui rapporti poesia-pittura. Altrettanto illuminante la frase che si trova all’inizio della parte del libretto dedicata ai pittori, nella quale il Facio dichiara – ancora una 56

citazione di Plutarco – che sarebbe stato più opportuno parlare dei pittori dopo aver parla­to dei poeti: «...neque enim est aliud pictura quam poema tacitum»15, la pittura non è che un poema senza parole, ed entrambe, pittura e poesia hanno in comune l’inventio e la disposi­tio, le due figure della retorica classica. È proprio del buon pittore, prosegue il Facio, «rappresentare le proprietà dei soggetti co­me essi esistono nella realtà» (in rerum ipsarum proprietatibus effigiandis: e anche se queste res ipsae si riallacciano al significato classico di verità, esse nel contesto s’adattano non meno bene all’oggettiva resa della realtà della pittura fiamminga. Analogamente la frase successiva sulla necessità e difficoltà del buon pittore di esprimere sentimenti ed emozioni (interiores sensus ac motus) perché il dipinto possa sembrare vivo, anche se è riferibile alle Imagines di Filostrato16, sembra attagliarsi benissimo alla inclinazione patetica di Rogier. Comunque, il Facio esprime la precisa volontà di non parlare se non di cose viste e cono­sciute personalmente e quindi si comprende che la lista dei pittori ritenuti illustri non com­prenda che quattro nomi, due fiamminghi, Van Eyck e Rogier, e due italiani, Pisanello e Genti­le da Fabriano. Una scelta comunque che fa riflettere: se l’inclusione del Pisanello è legata anche alla sua presenza autorevole, in quegli anni (1449), alla corte di Alfonso d’Aragona, quel­la di Gentile si giustifica probabilmente a sua volta con l’ammirazione nutrita per lui dal Pi­sanello. Ciò che importa sottolineare, però, è che si tratta di pittori che si collocano entrambi in quello stretto e raffinatissimo crinale tra vecchio e nuovo, di realtà micrografiche e contenuti cavallereschi e feudali, esplorati nel caso di Gentile con raffinata soavità di luci, nel caso del Pi­sanello con una linea sottilmente scrutatrice. Ma a parte il fatto che il Pisanello dovette cono­scere direttamente opere fiamminghe17, resta comunque che il testo del Facio ci restiruisce l’immagine di un’Italia pittorica completamente diversa da quella toscana nel 1450 e che l’area meridionale e particolarmente napoletana (in parte legata con Ferrara) rientra in una cultura tutt’affatto diversa e nordica, quasi immemore di fatti rinascimentali. Dopo questa premessa, che mi sembra utile, sul contesto culturale in cui nascono «gli uomini illustri» del Facio, resta ovviamente da sottolineare l’importanza che rivestono i suoi giudizi, trattandosi di opere perdute e viste personalmente. Infine il Facio ci consente di cono­scere un tipo di giudizio circolante sulle opere fiamminghe e di comprendere le ragioni del lo­ro successo. Per quanto riguarda «Johannes Gallicus» (Van Eyck) è importante anzitutto l’acuta sotto­ lineatura del Facio sulle sue conoscenze della proprietà dei colori; anche se rapportata a Plinio, secondo l’uso umanista, essa comunque punta subito al proprium della pittura vaneickiana. E qui il Facio mostra di vedere bene, apprezzando nei quadri visti la somma delle raffinatezze ot­tiche dei dipinti vaneickiani, il raggio di luce che si insinua a illuminare i volti dei Lomellina e, nelle Donne al bagno, la lucerna ardente, la trasparenza della carne, lo specchio che riflette da dietro le immagini18. La seconda fonte d’ammirazione è per il Facio la stupefacente nitidezza dei “lontani”: ancora nel quadro delle Donne al bagno egli osserva infatti ammirato le «minu­scole figure d’uomini, montagne, boschetti, paesini e castelli resi con tanta abilità che li crede­resti distanti cinquantamila passi gli uni dagli altri». Con questi due tipi di osservazioni il Facio ci conduce al cuore stesso della novità fiamminga, il miracoloso potenziamento della realtà, operato essenzialmente dalla tessitura luminosa. 57


22. Rogier Van der Weyden, Jean Wauquelin presenta a Filippo il Buono la traduzione delle Cronache di Hainaut, 1447, miniatura dal Ms. 9242, fol. 1r., Bibliothèque Royale, Bruxelles. 58

23. Rogier Van der Weyden, Compianto e sepoltura di Cristo, 1450 ca., olio su tavola, 96×110 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 59


24. Fra’ Beato Angelico, Cristo deriso, 1438-1440, affresco, 195×159 cm, Museo di San Marco, Firenze. 60

25. Rogier Van der Weyden, Madonna con il Bambino e quattro santi, 1460-64, olio su tavola, 61,7×46,1 cm, Staedelches Kunst Institut. 61


26. Rogier Van der Weyden, Crocifissione, olio su tavola, 325×192 cm, Nuevos Museos, El Escorial. 62

27. Fra’ Beato Angelico, Cristo coronato di spine, tempera su tavola, 55×39 cm, Cappella del Santissimo Sacramento, Duomo di Livorno. 63


28. Rogier Van der Weyden, Cristo coronato di spine, retro di ritratto femminile, 1460 ca., olio e tempera su tavola, 37×27 cm, National Gallery, Londra. © The National Gallery, Londra/Scala, Firenze. 64

Non meno acutamente, parlando di Rogier (Rogerius Gallicus) il Facio insiste sulla resa dei sentimenti, le smorfie del riso dei giovani che spiano una donna che esce dal bagno19, e so­prattutto lo strazio della Vergine nella scena della Deposizione20, vista negli appartamenti del principe di Ferrara, aggiungendo finemente che «la dignità è preservata in mezzo al flusso di lacrime»; infine le diverse reazioni al dolore nelle scene della Passione degli arazzi di Napoli. Ritengo in sostanza che la cultura classica abbia fornito al Facio degli utili schemi di sup­porto, nonché il lessico verbale, per dei giudizi di autentica critica e per delle impressioni vivis­sime e personali. L’importanza che questi “profili” dei due grandi pittori fiamminghi esercita­rono sulla letteratura artistica successiva si possono dedurre persino dal perpetuarsi delle inesattezze ivi contenute, come quella che fa di Rogier un allievo di Van Eyck; e viceversa dal peso che conserva nella storiografia successiva la notizia riportata per la prima volta dal Facio delle ricerche compiute da Van Eyck sulle proprietà del colore; una notizia che alla luce degli studi più recenti assume un’importanza rilevante. A ribadire, infine, l’importanza del Facio basterà il confronto con le notizie e i giudizi scrit­ti da Ciriaco d’Ancona sulla Deposizione di Rogier van der Weyden vista esattamente l’8 luglio 1449, la stessa che anche il Facio aveva visto qualche tempo prima. La minuta e ammirata de­scrizione delle stoffe e dei gioielli, anche se provengono da un appassionato raccoglitore di an­ticaglie qual era Ciriaco e curioso viaggiatore, non ci riportano infatti, che la pelle e non la so­stanza del quadro di Rogier, dove anche la sottolineatura patetica è vista come “verosimiglianza del sentimento”, con una sfumatura ben diversa da quella proposta dal Facio, sempre sul calco classico. Ciriaco d’Ancona apre, è vero, degli spiragli interessanti sull’influsso esercitato da Rogier sull’ambiente ferrarese del tempo e in particolare sull’adozione della famosa e quasi mitica tecnica a olio da parte del pittore senese Angelo Maccagnino, operoso a Belfiore; notizia cer­to interessante per la precocità di un possibile influsso fiammingo su un centro come Ferrara, ma scarsamente verificabile sulle opere sinora attribuite al Maccagnino e al gruppo dei pittori gravitanti intorno alla decorazione dello Studio di Belfiore, iniziato nel 144721. Per cui, nono­stante la presenza di un’opera certamente importante come la Deposizione di Rogier a Ferrara e nonostante le informazioni di Ciriaco non si può istituire, come è stato proposto, una sorta di parallelismo tra la situazione napoletana e quella ferrarese, quanto a influssi fiamminghi sulla pittura locale22. La questione della tecnica a olio, così come viene sbrigativamente ricordata dal Filarete23 nel suo Trattato di architettura (1461-64), che ne esalta l’eccellenza dell’uso in Van Eyck e Ro­gier, comincia a delinearsi come un contrassegno meramente tecnico, e quindi riduttivo del se­greto splendore dei quadri fiamminghi; e su questa linea, nella seconda edizione delle Vite va­sariane nascerà in toni di romanzo la vicenda pittorica di Antonello da Messina. Queste spuntature sulla situazione storiografica in Italia intorno agli anni Cinquanta, ci consentono, pur nella loro frammentarietà, di poter confermare che la pittura fiamminga era, come si suol dire, sulla cresta dell’onda, che se ne parlava negli ambienti culturali e la si acqui­stava come la grande novità del momento. A questa situazione storica desunta dalla storiogra­fia e dalla committenza artistica, si può aggiungere ancora un terzo fatto, anch’esso noto solo per tracce, ma non meno importante, e cioè la presenza di pittori fiamminghi in Italia. 65


Il viaggio di Van Eyck in Italia, pur mancando di documenti precisi appare per lo meno probabile. Come hanno sottolineato gli studiosi più recenti del problema24 tutta la vita di Van Eyck è punteggiata da notizie di viaggi segreti e importanti, oltre quelli noti in Portogallo e in Spagna; di questi uno almeno doveva essere diretto in Terra Santa e includere nell’itinerario l’Italia: è del 1425 infatti la notizia di un certain pèlerinage e di un certain lointain vo­yage secret. Per lo Sterling le montagne scintillanti di neve all’orizzonte del pannello con la Crocifissione del Metropolitan Museum di New York rappresenta una prova di un pae­saggio alpino attraversato per entrare in Italia, mentre le rocce della Verna in Umbria col­limano con quelle delle Stimmate di San Francesco. Da tempo poi si è detto che la flora mediterranea di cipressi e aranci presente nell’Adorazione dell’Agnello potrebbe essere an­ch’essa vista in Italia, ma non rappresenta un unicum come il paesaggio della Verna o delle Alpi. Tuttavia la questione del viaggio in Italia, di per sé, non farebbe che aggiungere un dato biografico, per quanto interessante, alla nostra conoscenza di Van Eyck. La vera questione è di sapere se Van Eyck abbia tratto degli influssi dalla pittura che ebbe occasione di vedere in que­sto viaggio italiano. Già si è detto come il Meiss25 scorga nel Ritratto di uomo col turbante del­la National Gallery di Londra effetti di volume e di massa plastica nella stupefacente tridimen­sionalità del turbante, quasi al limite dell’astratto, come i “mazzocchi” di Paolo Uccello; ancora il Meiss vede nello sporgere del piede di Adamo nel Polittico di Gand l’eco del “sott’in su” masac­cesco; e lo Sterling trova altri echi della tavola dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano nei Profeti e Sibille del Polittico di Gand; come pure verrebbe da Gentile da Fabriano l’uso va­neickiano di firmare e datare i propri dipinti26. Ciascuna di queste ipotesi è certamente interessante. Ma esse appaiono di una sostanziale tenuità di fronte alla formidabile somma di conoscenze pittoriche di Van Eyck che fanno delle sue opere un vero e proprio “sistema” artistico mirabilmente coerente e compatto; e altrettan­to può dirsi di Masaccio. Questo o quel dettaglio nulla possono mutare di questo universo pit­torico, tanto che si può dire che il viaggio italiano, che anch’io ritengo verosimile, non abbia la­sciato praticamente traccia e che, se mai, Van Eyck abbia potuto guardare più a Gentile che non a Masaccio, come d’altronde il Facio indirettamente suggerisce; a un artista, cioè, del vec­chio mondo internazionale, eccezionalmente dorato di sensibilità luminosa. Altrettanto si dovrebbe dire per quel che riguarda la pittura di Rogier, più lontana, anzi, che mai nello spirito e nella lettera dal nostro primo Rinascimento. Tuttavia il caso è diverso, anzitutto perché abbiamo testimonianze sicure (Facio, Ciriaco) del suo viaggio in Italia in occa­sione del Giubileo (1450), in secondo luogo perché alcune opere di Rogier sono sicuramente ispirate alla pittura italiana. Giova rammentare che a quell’epoca Rogier aveva già fornito al­cune prove del suo genio complesso e patetico, dalla celeberrima Deposizione del Prado del 1435, gigantesco reliquiario dove una catena di figure si snoda con sconvolgente effetto di alto­rilievo, al cosiddetto Trittico Miraflores (Granada-New York), dove lo scavo psicologico si fa più intenso e quasi sfiorato da sottile nevrosi. Nulla sappiamo delle tappe del viaggio italiano di Rogier, forse assai breve. Sicura è sempre stata ritenuta, oltre naturalmente Roma, meta del viaggio, una sosta a Ferrara; esiste infatti un documento pubblicato dal Cavalcaselle27, un ordine di pagamento per Rogier ordinato da Lionel­lo d’Este 66

ed eseguito nel 1450, che gli studiosi ritengono riferirsi alla Deposizione più volte cita­ta. Fu commissionata in Fiandra da Lionello? Fu portata da Rogier personalmente a Ferrara? Ma il nocciolo del problema resta sempre quello di scoprire se e quali echi della pittura italiana intorno al ’50 si possano scorgere nelle opere di Rogier successive al viaggio italiano. Da tempo due opere di Rogier sono comunemente ritenute ispirate a dipinti italiani: una Deposizione del Museo degli Uffizi e la Madonna col Bambino e Quattro Santi dell’Istituto d’Arte Städel di Francoforte, anticamente proveniente da Pisa. L’opera che ha ispirato la Deposizione degli Uffizi è palesemente il pannello centrale della predella della pala di San Marco (ora nella Pinacoteca di Monaco), probabilmente installata nel 1443 in occasione della consacrazione dell’altare maggiore di San Marco: il particolare della porta rettangolare inserita nel sepolcro appa­re addirittura come una citazione precisa. Mi sembra tuttavia che in questi casi la semplice derivazione iconografica abbia di per sé un mero significato filologico; più significativo mi sembra il modo in cui Rogier ha “visto” l’Angelico ritraducendo la fonte al punto di travisarla. I propositi centralizzati e simmetrici del­l’Angelico appaiono infatti sottilmente deviati; la pietra del sepolcro, posata di sbieco come per un esercizio di prospettiva, sbilancia la composizione lungo un asse diagonale che dalla Madda­lena si prolunga sino al San Giovanni. La figura tanto rogeriana della Maddalena vista come dall’alto si sviluppa in una torsione governata non dalla plasticità reale ma dal vortice del pan­neggio. Lontana è la pietà meditativa dell’Angelico nei volti piangenti, angosciati; lontana la freschezza del paesaggio, qui mero fondale separato dai personaggi. Più problematica è la derivazione italiana della Madonna col Bimbo e i Santi Pietro, Giovanni Battista, Cosma e Damiano (Francoforte) detta anche Madonna Medici per lo stemma col giglio fiorentino posto al centro della tavola in basso. Nonostante alcuni caratteri vistosa­mente fiamminghi come la tenda circolare a padiglione, memore del Maestro di Flémalle, tut­t’affatto insolita per un fiammingo è la disposizione di personaggi in pose incerte e inattive in­torno alla Vergine, secondo un’iconografia che in Italia ha assunto il termine di Sacra Conversazione. Senza soffermarci sulle tante ambiguità e travisamenti intenzionali del tema­per esempio l’accentuata disposizione a piramide dei personaggi quasi in rima con la tenda, o i santi italianissimi Cosma e Damiano vestiti alla fiamminga – ci si chiede quale possa essere la fonte italiana di Rogier, se essa fu specifica o più generalizzata. Il Panofsky28 ritiene che la fonte specifica possa essere stata la Pala di Santa Lucia de’ Magnoli di Domenico Veneziano (Uffizi), allora da pochi anni visibile nella piccola chiesa fioren­tina, recante la grande novità della abolizione delle partizioni a polittico. Manca totalmente tut­tavia nella pala di Rogier il proprium della composizione di Domenico, il cristallino contrappunto di figure e architetture. Mi domando allora se, nonostante le nordiche minuzie di Domenico, certamente interessanti per Rogier, la fonte dell’Angelico non si riveli altrettanto verosimile. Penso alle numerose pale dell’Angelico con la Vergine in trono e Santi, tra i quali proprio Cosma e Damiano29 e in particolare la cosiddetta Pala Annalena al Museo di San Marco. Non è solo la presenza dei Santi fiorentini, ovviamente, che fa pensare all’Angelico, ma un’innegabi­le vicinanza, del resto già sottolineata, tra il mondo dell’Angelico e quello fiammingo; il tappe­to erboso su cui 67


posano i personaggi della Pala Annalena e di quella Medici può rappresentare per esempio un indizio interessante. A queste due opere, da tempo note, altre di Rogier si sono recentemente aggiunte, per le quali è stata chiamata in causa una fonte italiana e proprio dell’Angelico: e precisamente le due Crocifissioni di Rogier a Nuevos Museo dell’Escorial e al Museo di Philadelphia. Proprio perché in questo caso la derivazione è meno evidente e, anzi, i due dipinti sono intensamente ro­geriani, è interessante seguire l’analisi che la Howell Jolly dedica ai due dipinti, proponendone la derivazione dall’Angelico30. La studiosa nota il particolare del panno che scende dal muro dietro il Cristo, uguale nelle due composizioni e soprattutto la qualità delle gamme cromatiche, per Rogier del tutto ecce­zionale: abbandonato infatti l’abituale cromatismo squillante, le due Crocifissioni di Rogier si distinguono per i toni soffici, le figure quasi in grisaille, i rosa e i turchini pallidi dei panneggi; solo il rosso squillante del panno, quasi liturgico, che scende dal muro interrompe la sommessità delle tinte. Analoga, infine, è l’interpretazione del tema: soppressa l’azione, la scena senza tempo né azione, i personaggi isolati creano l’atmosfera dominante di contemplazione che è sottilmente affine a quella degli affreschi dell’Angelico nel convento di San Marco e in particolare al Cristo deriso. A queste opere italianizzanti di Rogier vorrei ora aggiungerne un’altra che ancora ci rinvierebbe all’Angelico: alludo alla preziosa tavoletta del Cristo coronato di spine del Museo di Livorno, che richiama il Cristo coronato di spine, dipinto da Rogier sul retro del Ritratto femminile della National Gallery di Londra, purtroppo guasto ma ancora leggibile. La singola­rità del volto di questo Cristo paziente di Rogier è immediatamente percepibile non solo nel corpus del pittore di Tournai ma addirittura in tutta la pittura fiamminga, sia per la rinuncia a ogni analisi formale, che rende paradossalmente più “nordica”, in apparenza, l’analisi dello strazio nel Cristo dell’Angelico, il sangue rappreso, le lacrime e le pungenti spine; a tutto ciò si deve aggiungere in Rogier l’adozione del tipo dell’aureola crociata e dorata del tutto italiano. Non per nulla il Longhi, pubblicando questo Cristo dell’Angelico nel lontano 1928, notava acu­tamente che magari l’Angelico l’avesse preso da qualche prototipo di Petrus Christus31. In realtà, ciò che rende abbastanza misteriosa l’immagine del Cristo coronato di spine del­ l’Angelico è l’adozione di un’iconografia, questa sì, squisitamente fiamminga, che assomma cioè il Cristo regale e mezzo busto frontale con il Cristo paziente, un’iconografia usata da Petrus Christus proprio nel Cristo coronato di spine, ora al Metropolitan Museum. Ma la data del Cri­sto dell’Angelico intorno al 1438 e quindi certamente anteriore a Petrus Christus rende piutto­sto verosimile, invece, che Rogier abbia potuto vedere l’immagine dell’Angelico e conservarla nei suoi ricordi. Infine è da ricordare la viva ammirazione di Rogier di fronte ai perduti affreschi di Gentile da Fabriano in San Giovanni in Laterano, tanto da farglielo ritenere il maggiore tra i pittori italiani. Il fatto, riferito dal Facio, non fa che confermare quella vicinanza mentale tra la pittura di Gentile e quella fiamminga, alla quale abbiamo già accennato. Così pure gli imprestiti di Rogier da opere dell’Angelico, forse suggeriti dalla profonda pietas dell’Angelico stesso, con­fermano che, agli occhi di un nordico, questi potesse apparire più interessante e comprensibile di Masaccio. 68

29. Fra’ Beato Angelico, Pala Annalena, 1430 ca., tempera su tavola, 180×202 cm, Museo di San Marco, Firenze. 69


Quanto poi all’addolcimento stilistico e in genere ai ricordi italiani che secondo alcuni stu­diosi, tra cui il Panofsky, emergerebbero nelle opere di Rogier successive al suo ritorno dall’Ita­lia, non mi sembra vi siano elementi sufficientemente probanti per ravvisarle32. Ché infatti l’ultimo tratto del percorso di Rogier non devìa sostanzialmente dall’inflessibile coerenza stili­stica che la caratterizza e anzi, se mai, tende a involversi in un sospetto di formalismo. Ciò che a noi interessa rilevare, al termine di questa digressione su “Rogier e l’Italia” è la portata storica che Van der Weyden ebbe nelle vicende iniziali dei rapporti Italia-Fiandra. Non solo perché il numero delle opere rogeriane presenti ab antiquo in Italia o commissiona­te in Fiandra da italiani risulta solo di poco inferiore a quelle di Van Eyck, ma perché gli echi delle iconografie di Rogier, del suo dolente e rigoroso pietismo continueranno ad agire più tar­di per il tramite delle forme addolcite di Memling, apprezzatissimo dagli italiani, e di quelle di Van der Goes, il quale pure eserciterà uno straordinario influsso nella Firenze dell’ultimo Quattrocento.

Capitolo terzo

La prima testa di ponte del fiammingo a Napoli. Antonello da Messina, pittore italiano e fiammingo

Studi recenti e recentissimi non cessano di fare luce sulla stagione singolarmente fervida sotto il profilo degli scambi culturali, che Napoli visse nei tre o quattro lustri ricompresi tra il soggiorno di Re Renato d’Angiò a Napoli e quelli del successivo regno di Alfonso d’Aragona, ricchissimi di iniziative artistiche1. Anzi la ricostruzione di quegli eventi, pur nell’incompletez­za dei dati, lascia intendere che Napoli godesse in quel momento della situazione artistica più internazionale d’Europa, poiché a Napoli approdava in quegli anni la prima ondata di espe­rienze nate dalla circolazione della nuova pittura fiamminga in area mediterranea. Napoli di­venta così la prima testa di ponte del fiammingo in Italia o più precisamente la prima area sperimentale e di verifica di una circolazione di fatto internazionale che, provenendo dalle co­ste provenzali e da quelle iberiche, qui si ricongiunge e si rimescola. Il testo della famosa lettera scritta dal napoletano Pietro Summonte a Marcantonio Mi­chiel2 sui fatti artistici napoletani più eminenti, datata 20 marzo 1524, principia appunto da quel nodo di eventi, antichi ormai di settant’anni, ricordati con la freschezza e l’entusiasmo del­le cose memorabili, i cui documenti, le opere d’arte, erano ancora sotto gli occhi di tutti in città. Al centro di questo fitto crocevia di novità culturali il Summonte pone la figura di Colantonio, tracciandone il profilo con una biografia d’una felicità narrativa degna del Vasari; la suggestio­ne di quelle pagine, che sono sempre state ritenute illuminanti anche dal punto di vista della situazione storico artistica napoletana, impone tuttavia una verifica puntuale. Quando il Summonte riferisce che Colantonio voleva recarsi in Fiandra ad apprendere l’ar­te fiamminga ma che ne fu dissuaso da Re Renato, il quale lo istruì egli stesso, avendo a sua volta appreso “quei modi” in Borgogna, egli ci reca una verità storica, che sembra quasi avere un deli70

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zioso sapore di allegoria. In realtà la prima eco della pittura fiamminga giunta a Napoli con Renato d’Angiò recava il segno della cultura protoeickiana circolante già nel quarto decen­nio in Borgogna e in Provenza. Quattro appena furono gli anni di re Renato a Napoli, dal 1438 al 1442: solo una personalità versatile, e protesa alle novità culturali, arricchite anche da una vita avventurosa e drammatica, poteva lasciare una traccia così profonda da imprimere ad­dirittura una svolta storica all’arte locale. L’avere Renato conosciuto in prima persona Van Eyck nel 1433 quando era regale ostaggio del cugino Filippo il Buono a Bruxelles3 dovette rappresentare per lui, letterato, poeta e pitto­re, un’esperienza incancellabile, carica di novità, che al tempo stesso s’innestava su altre a lui note personalmente, legate al mondo della miniatura franco fiamminga di un Broederlam, di un Coëne. Un’esperienza che dovette a lungo meditare negli anni della successiva prigionia a Digione tra il 1435 e il 1437, questa volta a contatto con un altro protagonista del nuovo corso dell’arte europea, lo scultore Sluter. A Digione, poi, il varco al fiammingo era già aperto allora con la presenza di opere importanti di un altro pittore fondatore, il Maestro di Flémalle, alias Robert Campin4, che coniugava l’analisi fiamminga con la più aggressiva ricerca della fisica plasticità d’ogni oggetto nello spazio. Tutto questo ci offre una base abbastanza concreta e non meramente ipotetica per intende­re di quale cultura fosse portatore a Napoli Re Renato, quando finalmente poté raggiungere Napoli dalla prigione digionese, tre anni dopo la morte della regina Giovanna ii. E in questa cultura è implicato direttamente, come adombra la parabola artistica del Summonte, tutto il primo tratto dell’attività di Colantonio, che il Tutini dice attivo già nel 14365. l’opera centrale che domina questo primo tratto è il San Gerolamo nello studio, già in San Lorenzo Maggiore e ora al Museo di Capodimonte a Napoli, databile al 1445. Parlare quindi, come ancora distrattamente si fa, di un’eventuale ispirazione del San Gero­lamo dal trittico lomellino di Van Eyck, ha poco senso, sia perché questo soggetto era già noto a quel tempo in esemplari protoeickiani, tratti dal foglio con il San Gerolamo nello studio delle Ore di Torino o come il San Gerolamo nello studio di Detroit, sia perché il primo fiammingo di Colantonio ci appare in tutto legato a fonti provenzali. Già la raffigurazione dello studio del Santo, dal Pane felicemente definita «essenziale come nella cabina di una nave»6, per quello stiparsi tettonico di arredi, di strumenti, di libri e oggetti minutissimi, la prospettiva compressa e quasi abbreviata del tavolo, del tronetto curvilineo dall’intaglio profondo, ci riporta proprio nella sua aggressiva plasticità alla matrice fiamminga flemalliana. La contemporanea apparizione, appunto nel 1445 a Aix-en-Provence, di quel capolavoro che è il Trittico dell’Annunciazione, dipinto da un anonimo al quale un tempo veniva attribuita anche la tavola del San Gerolamo napoletana, è un’altra conferma che il primo affacciarsi del fiammingo sulle sponde occidentali del Mediterraneo dalla Provenza a Napoli recasse la forte impronta della interpretazione vigorosamente realistica e plastica tramandata sia dalla scultura borgognona sia da quella della pittura di Campin. In altre parole né nel San Gerolamo di Napoli né nell’Annunciazione di Aix-en-Provence si ritrovano rinvii diretti al patrimonio vaneickiano. E anche se i due splendidi Profeti Geremia e 72

Isaia (Bruxelles e Rotterdam) dipinti a modo di statue viventi nelle nicchie rammentano quelli degli sportelli esterni del polittico di San Bavone a Gand, nei profeti provenzali in luogo della sottile analisi luminosa vaneickiana del tessuto pittorico, vi è uno svariare mediterraneo della luce nei colori ridenti, che già preannuncia Quarton. Così negli splendidi brani di natura morta presenti nelle ali del trittico provenzale, gli azzurri e i gialli paglierini contrastano con i toni bruciati e canditi che, quasi come una composizione monocroma, dominano nella natura morta del San Gerolamo napoletano, imprimendo ad ogni cannuccia, cartuccia, clessidra, ecce­tera, la loro luce e ombra esatte. Questa parentela, quasi un parallelo, già da tempo notata, tra la prima fase della vicenda di Colantonio e quella del Maestro dell’Annunciazione di Aix7 torna negli studi recenti a fornire nuove indicazioni storiche. Penso all’interessante proposta dello Sterling8 di identificare il Mae­stro della Annunciazione di Aix con quel Barthélemy de Clerc o d’Eyck, che rimase per tren­t’anni addirittura nell’entourage di re Renato, quindi sin dagli anni napoletani; oppure alle af­finità con la cultura di re Renato e indirettamente con Colantonio che presenta un codice, miniato negli anni Quaranta, dal Maestro dell’Annunciazione di Aix e da Enguerrand Quar­ton9. Del resto, in tempi non troppo lontani, una seconda opera attribuita a Colantonio, il Ri­tratto virile del Museo di Cleveland, rafforzava nel Demonts10 la convinzione, sia pure erronea, che il Maestro dell’Annunciazione di Aix e Colantonio fossero la stessa persona; e in effetti le tangenze tra questo ritratto e i Profeti del trittico di Aix sono tanto innegabili, da confermare la storicità di un rapporto tra il pittore provenzale e quello napoletano; basti vedere nel Ritrat­to virile di Colantonio la mensola con la natura morta dove posa la stessa scatola rotonda di sottile legno paglierino del profeta Isaia; tipico di Colantonio, invece, è quello stiparsi nel cubi­colo ad angolo, della persona e degli oggetti e l’espressività un po’ greve del volto, niente affat­to analitico ma certamente penetrante e con un tocco d’umorismo. L’appartenenza del San Gerolamo nello studio al medesimo complesso di cui fa parte an­che la Consegna della Regola francescana, secondo la ricostruzione condotta dal Bologna11 sulla scorta del Tutini, non fa che confermare – proprio per l’altrimenti inspiegabile divario stilistico fra le due parti – la pronta disponibilità di Colantonio ad adeguarsi alla nuova svolta culturale introdotta da Alfonso d’Aragona, pur sempre nell’ambito di rotte mediterranee, e cioè del crocevia napoletano tra Fiandra e Spagna. La Spagna, del resto, era entrata nel circuito della pittura fiamminga con prontezza pari se non maggiore della Francia del sud. Basti pensare alla presenza di Van Eyck nel 1428 e 1429 a Barcellona e Valenza, in qualità di incaricato di Filip­po il Buono – ma anche di pittore – nel corso delle trattative di matrimonio con Isabella del Portogallo, nipote di Alfonso: un incontro che possiamo facilmente intuire decisivo per i gusti regali se pochi anni dopo, nel 1431, come abbiamo già ricordato, il re inviava il suo pittore Luis Dalmau in Fiandra a istruirsi; il quale Dalmau, tornato nel ’36, dipingeva a Barcellona tra il 1443 e il 1445 quella Madonna dei Consiglieri ora al Museo di Barcellona, che è il più importante e intelligente documento di assimilazione eickiana in terra spagnola. Nel 1439, poi, giungeva a Valenza il pittore bruggense Luis Alimbrot; mentre da Valenza Jacomart Baço, pittore del re per tutte le terre della corona, cominciava dal 1442 a fare la spola tra Na73


poli e Valenza. Da Barcellona, infine, il sovrano chiamava il grande scultore Sagrera a decorare l’Arco di Castelnuovo, il quale Sagrera giungeva a Napoli nel 1447. Già si è detto co­me, sin dai primi anni della sua presenza a Napoli, Alfonso arricchisse la sua collezione di notevoli pitture di Van Eyck e di Rogier. Di questo cospicuo patrimonio – certo la maggiore col­lezione privata di fiamminghi esistente in Italia – tutto è andato disperso certamente assai per tempo e ogni supposizione circa l’identità e l’aspetto delle opere perdute resta un esercizio puramente gratuito. C’è, è vero, la straordinaria descrizione del San Giorgio di Van Eyck12 scritta dal Summonte per comprovare l’incredibile perizia, quasi da falsario, di Colantonio nell’imitare la tavoletta persino nella ruggine dell’arcione del cavallo, fino alla civetteria di mutare con un albero più locale come il castagno il nordico rovere. Ma mi vado via via sempre più chiedendo quale cre­dito reale meritino non tanto le informazioni del Summonte su Colantonio, quanto gli apprez­zamenti sulla sua destrezza nell’imitare il metodo analitico dei fiamminghi. E sta bene che, come osserva il Longhi, la biografia del Summonte sia una delle «vite più intelligenti... tra quel­le del Ghiberti e quelle del Vasari»13, ma, scritta circa settant’anni dopo i fatti in questione, non può avere quel carattere di testimonianza di cose viste che costituisce il fascino e l’importanza dei fatti descritti dal Facio. E vale altrettanto l’osservazione del Pane che «il limite del giudizio critico del Summonte si manifesta in ciò che sappiamo essere peculiare dell’amatore dilettante di tutti i tempi: l’ammirazione per gli effetti del virtuosismo imitativo14». Ma torniamo alla Consegna della regola francescana, che fa corpo con il San Gerolamo nel­lo studio; scena tutta scivolata in verticale, proprio come una tavola valenzana, su un pavimen­to di mattonelle valenzane con lo stemma aragonese e lo scudo reale di Alfonso, quasi che Co­lantonio fosse a conoscenza delle 13.458 mattonelle commissionate a Valenza dal re per Castelnuovo e giunte a Napoli nel 144615. Ora si diceva che questa Consegna della Regola non può che testimoniare il pronto adattamento di Colantonio alle inflessioni iberiche sul tipo di Jacomart (il quale aveva dipinto nel 1443-44 un retablo per la chiesa di Santa Maria della Pa­ce), inflessioni ben visibili nel gruppo dei volti maschili, dove spicca, tra l’altro, quello tra ma­linconico e nevrotico del San Ludovico, come pure nel disporsi stereometrico dei fiotti di pie­ghe delle tuniche; per non parlare di altri particolari, che pure sanno di iberico, come le aureole dorate a intagli profondi. Quanto poi al gruppo delle Beate francescane non si potrà non ammirare il bel gioco che fa il “girare” dei cappucci e delle cappe bianche e brune. Proprio da questo gruppo di Beate francescane il passaggio alla misteriosa Vergine Annunciata del Museo di Como è così stretto che essa appare quasi la sorella più bella del gruppo, uscita dal quadro della Regola. Tutto quello che vi è di colantoniano in questa Annunciata (e la si confronti anche con il gruppo delle donne che ascoltano la predicazione di San Vincenzo nel­l’omonimo polittico) appare però sollevato a un livello di finezza pittorica mai raggiunto da Colantonio stesso. Basti osservare la qualità dell’apparato decorativo, dei ramages nel fondo oro, del cartiglio a grossi caratteri gotici che funge da parapetto. Soprattutto la finezza dell’in­carnato supera tutto quanto ci è noto di Colantonio, fino a raggiungere sfumature da miniatore nel rosa delle guance e delle labbra, nei rialzi di luce come rivoli nelle bende monacali e nel mantellone color prugna. 74

Si capisce allora perché il Bologna abbia, per questa Annunciata, pronunciato il nome di Antonello16, scorgendovi quasi l’opera prima del grande pittore siciliano a Napoli, anzi la te­stimonianza sinora mai avuta del suo alunnato presso Colantonio, tramandatoci dal Summon­te. È un’ipotesi invitante, che tuttavia preferirei tenere ancora tra parentesi; non tanto perché la tavoletta del Museo di Como risulta proveniente anticamente dalla Spagna17, ma perché questa Annunciata appare, nonostante la sua levatura, lontana da tutto ciò che abbiamo di An­tonello; lontana, a mio parere, anche da quella Annunciata o meglio Vergine leggente della col­lezione Forti di Venezia, che pure le somiglia nel taglio compositivo e persino nell’inflessione iberica e che rappresenta certamente uno dei numeri più antichi di Antonello. Nel caso del­l’Annunciata di Como la profilatura nitida, la tipologia del volto, dagli occhi pungenti e ravvi­cinati e dal nasetto appuntito, hanno invece una accentuazione iberica assai più schietta. Ad un’analoga equidistanza mentale tra Colantonio e Antonello sta anche il Ritratto di Monaco della collezione Kister di Meerburg, che il Lauts riferiva a Colantonio, rilevandone la vici­nanza con i Beati francescani, mentre il Longhi (1953) lo passava ad Antonello giovane, per l’indagine più sottile e puntuale del volto icastico. Un’ultima opera ancora incerta del catalogo colantoniano è quella Crocifissione già Henschel e poi nella collezione von Thyssen, che per il Longhi18 rappresenterebbe il momento più intelligentemente fiammingo del pittore napoletano, tra il 1450 e il 1455. Non è difficile, invero, riconoscere la remota matrice eickiana di questa Crocifissione, che ci riconduce in particolare al pannello del Metropolitan Museum di New York (proveniente an­ticamente dalla Spagna): l’idea, cioè, di una gran scena drammatica, folta di personaggi e di episodi, che s’incontra più volte nelle rotte mediterranee della diffusione fiamminga, come il pannello dello stesso soggetto di Alimbrot al Prado. Non è stata notata la notevole vicinanza compositiva della Crocifissione Thyssen anche alla Crocifissione perduta di Petrus Christus, già a Dessau, dipinta forse in area meridionale, perché su legno tenero e appartenente probabil­mente già al quarto decennio. Ora, nel nostro esemplare e cioè nella Crocifissione Thyssen , la scena anziché inerpicarsi in verticale si apre su uno dei più straordinari paesaggi che si possano trovare fuori di Fiandra a quell’epoca, per vastità di orizzonte e fantasia; un anfiteatro montano di rocce friabili, una delle interpretazioni più alte e precoci dei lontani fiamminghi. L’attribuzione della tavoletta a Colantonio, avanzata dal Longhi, è stata ancora recentemente rifiutata e riportata in area iberi­ca, come già aveva proposto il Post19. E invero, a parte l’osservazione in sé non decisiva, che nulla di partenopeo vi sia nel paesaggio arido e brullo20, e nemmeno nella città, il riesame della qualità stilistica della tavoletta, rientrata recentemente dall’America in Europa, mi ha consenti­to un giudizio diretto: la qualità appunto della materia pittorica, compatta e liscia, di sapore quasi miniaturistico, l’intensità dei moti spesso triangolati, il linguaggio concitato dei gesti, le fisionomie non riconducibili a quelle colantoniane e ancor più l’insistenza su fogge e armature curiose ed esotiche, come già in Van Eyck, ma qui con varianti che mi sembrano iberiche (si veda, per tutte, la figura di schiena all’estrema sinistra) sono argomenti sufficienti, mi sembra, a riaprire il dibattito sulla provenienza del pittore, che per il Post e lo Sterling è senza dubbio valenzana. 75


D’altra parte l’alternativa stessa tra Valenza da un lato e Napoli-Colantonio dall’altro non fa che confermare lo spessore e la varietà di quegli intrecci culturali, ora intuibili dalle poche opere che ci rimangono21. Altrettanto e forse ancora più evidente questo intreccio nella Deposizione in San Domenico Maggiore di Colantonio: ricordi rogeriani, forse desunti dagli arazzi con Storie della Passione presenti a Napoli, affiorano nel gesto del Cristo deposto a braccia spalancate, alla quale fonte rogeriana si mescolano, come ha giustamente rilevato il Bologna, imprestiti direttamente mutuati dalla Deposizione di Petrus Christus del Museo di Bruxelles22, nella donna piangente ritta, in piedi sulla destra. Mi sembra, dunque, che questa Deposizione di Colantonio intorno al 1455 possa davvero essere esemplare, quanto a grado e tipo, del famoso fiammingo di Colantonio stesso: un fiammingo lontano da quella destrezza quasi favolosa che gli attribuisce il Summonte e di levatura in genere non eccezionale, ma di un impasto culturale rivelatore della situazione internazionale napoletana e con cadenze napoletane, di intensità quasi espressionistica nei tratti e nelle mimiche “saracine”dei personaggi, nei contorni grevi quasi di nerofumo. Che poi questa intensificazione di tratti fiamminghi nelle opere più tardive di Colantonio sia spiegabile, se­condo il Bologna, con una seconda venuta di Antonello a Napoli, tra il maggio 1457 e il 1460, è un’ipotesi intelligente che rimane aperta anche ad altre osservazioni23. Una seconda venuta a Napoli di Antonello, infatti, potrebbe essere responsabile, all’opposto, di quel maggior grado di formalità italiana che emerge soprattutto nella parte centrale dell’ulti­ma opera a noi nota di Colantonio, il Polittico di San Vincenzo Ferrer nella Chiesa di San Pietro Martire, di probabile datazione tarda intorno al 1460. Ma dal punto di vista della vicenda italo­fiamminga di Colantonio, le storiette laterali dello stesso Polittico ci offrono molti spunti interessanti e ricapitolatori di tutta la questione: per esempio, il pannello della Predica del Santo sul­lo sfondo di un paesaggio pittoresco di scogli dirupati e di foreste, dove tra i gruppi maschili e femminili figurano alcuni dei ritratti più saporosi di Colantonio; o il Miracolo del bambino de­capitato che si svolge in un “basso” napoletano dove i curiosi si affacciano dalla strada; o La guarigione dell’ossessa che nel ritmo narrativo e nella inquadratura ricordano Jaume Huguet. Credo che a queste storiette possa aver guardato Antonello appunto, nel dipingere le storie laterali del perduto gonfalone di San Nicola, noto ormai solo dalla copia del Giuffré. E per concludere: proprio nella predella della stessa pala di San Vincenzo, la scena della Regina Isabella in preghiera con i figli nella gotica cappella reale, fasciata di addobbi e di tap­peti nelle più varie gamme del rosso, richiama con molta evidenza il pannello anonimo pro­venzale e d’analogo soggetto (Marsiglia, Museo Grobet Labadié) con il Duca Giovanni di Calabria e la consorte in preghiera nella cappella, come pure i pannelli dipinti da Jorge Inglés raffiguranti Don Inigo Lòpez de Mendoza, marchese di Santillana in preghiera e la moglie (dal retablo di Buitrag della collezione Duque de Infantado a Madrid): tre esemplari che ci offrono un campione di quella circolazione mediterranea, in cui si rifrange, meticciandosi con le caden­ze locali, il gusto fiammingo. È soprattutto a Napoli che questa mescolata cultura si darà con­vegno nel decennio a cavallo della metà del 76

Quattrocento, non solo attraverso la presenza di dipinti ma anche probabilmente delle persone fisiche di alcuni artisti rappresentativi, come Witz, Fouquet e Petrus Christus24. Che negli ultimi anni di questo fecondo decennio e cioè intorno al ’57, il giovane Antonello facesse ritorno a Napoli per un aggiornamento sui nuovi arrivi fiamminghi e valenzani dovet­te certo contribuire all’accrescimento della sua cultura già orientata all’aria “ponentina”. Ma è sufficiente immaginare come luogo della sua complessa formazione la sola Napoli? O non fu, invece, Napoli il trampolino primo necessario per risalire in avventurosi viaggi tutta la peniso­la e probabilmente varcarne i confini alpini, per conoscere alle radici quel vento ponentino? È questa una delle tante questioni che ancora si pongono allo studioso che affronta lo straordina­rio iter pittorico del grande messinese. «Quando nel 1456 ci giunge la prima notizia siciliana di Antonello, pittore già munito di allievi, non possiamo immaginargli altra cultura di quella della Napoli di Colantonio». Così af­fermava il Longhi nell’importante saggio25 in cui ricostruiva la crescita pittorica del giovane Antonello. Che il primo dei numerosi viaggi in continente del giovane siciliano, nato intorno al 1430 e forse qualche anno prima26, provenendo da una Sicilia ancor piena di immagini «sbarrate e ierocratiche» (Longhi) come quelle di un Tommaso da Vigilia, approdasse a Napo­li alla ricerca di una cultura continentale, è cosa tanto logica che la notizia del Summonte sulla presenza di Antonello alla bottega di Colantonio ci appare quasi scontata. E tuttavia il primo decennio di attività di Antonello, quello che il Longhi definì lo «studio­so corso», rivolto a impadronirsi delle due culture pittoriche dominanti ai suoi giorni, quella fiamminga e quella rinascimentale e a fonderle in misteriosa unità, come a nessun altro riuscì, resta a tutt’oggi fitto di problemi di difficile, se non impossibile, soluzione. Gli stessi curatori del recente catalogo della Mostra di Antonello del 198127, pur stringendo da presso il problema con acutezza critica e precisione filologica, sottolineano le insidie di un percorso biografico e pittorico, devastato dal tempo: due sole opere, appartenenti agli anni 1473-74 sono superstiti, sulle sedici documentate dagli archivi, che risultano compiute nell’arco di vent’anni per ceneri della Sicilia orientale e per Reggio Calabria. Ancora: quasi quattro quinti della quarantina di opere che si possono ragionevolmente attribuire ad Antonello appartengono agli ultimi sei-ot­to anni di attività. Tutto questo non può non scoraggiare dal tentare ricostruzioni precise e consigliare invece di avviare la ricerca per ipotesi prudenti. Il che non toglie che la bontà della ricerca, come ha dimostrato ancora recentemente il catalogo della Mostra citata, sarà in grado di allargare il campo delle ipotesi e quindi l’ambito delle nostre conoscenze su Antonello. Per quanto riguarda le possibili opere antonelliane che risentono direttamente dell’ambien­te napoletano, già abbiamo citato il Ritratto di monaco della collezione Kister di Meerburg, at­tribuitogli dal Longhi, di impianto strettamente colantoniano, ma arricchito da un quid di maggiore intensità e forza di indagine. Abbiamo anche ricordato la recente ipotesi del Bolo­gna28 che appartenga ad Antonello l’anonima Vergine Annunciata del Museo di Como, che da un lato è singolarmente vicina alle Beate francescane di Colantonio, dall’altro le sovrasta per sottigliezza di scrutinio pittorico. 77


Lasciamo queste due opere per ora nell’ambito delle fondate proposte e rivolgiamoci al gruppetto di dipinti che sono in genere concordemente dati al pri­mo tempo di Antonello e cioè al suo primo decennio di attività, ma che non cessano di suscita­re problemi e interrogativi circa la loro collocazione cronologica all’interno di questo decennio. Pur proponendoci di entrare anche nel merito del problema cronologico, ci sembra ancor più importante di provare a riesaminare queste opere da un’ottica un poco diversa e forse me­no sottolineata: dal fatto, cioè, che esse, ciascuna e nel loro insieme, rivelano un diramato ven­taglio di ricerche e di esperienze, che le rende in sostanza relativamente poco omogenee fra lo­ro; un ventaglio di ricerche che va dalle prime esperienze napoletane e quindi anche fiamminghe (intese quest’ultime a loro volta nelle diverse qualità di fiammingo presenti a Napoli nel sesto decennio del secolo) fino alle prime esperienze formali di marca italiana e più specificamente pierfranceschiana. Vorrei così ricuperare, almeno per cenni, un filo conduttore di quelle esperienze e cioè un itinerario mentale – come tale non strettamente legato a una sequenza cronologica stretta­che le opere rimasteci di quegli anni ci consentono ancora di ricostruire con tutta l’approssima­zione che la loro rarità impone; e che ci dovrebbe dare almeno un’immagine della esperienza culturale straordinariamente libera e complessa che Antonello condusse da solo alla conquista del proprio linguaggio pittorico. La Crocifissione di Bucarest resta, a mio vedere, il caso più palese di questa molteplicità di istanze e di echi culturali che caratterizzano gli inizi di Antonello. E aggiungo subito che mi trovo fra coloro che ritengono vi sia un divario di alcuni anni, e non pochi, tra parte inferiore, più antica, e parte superiore29. Non vi è dubbio infatti che un’avanzata esperienza formale e spaziale governi la gran conca luminosa del cielo dove si dispongono, con un calibro che è quel­lo già eternamente classico, i nudi appesi alla croce; mentre la parte inferiore reca il sigillo di una cultura nordicizzante, che sostanzialmente collima con la cultura già importata a Napoli da Re Renato e dunque protoeickiana nella sua matrice; la stessa che avevamo ravvisato nella Crocifissione della Collezione Thyssen. I pochi anni che presumibilmente separano le due Crocifissioni, quella Thyssen e quella di Bucarest, accentuano il divario mentale che le separa, appartenendo la prima definitivamente all’orbita delle rotte mediterranee del fiammin­go, la seconda già sottilmente legata anche all’esperienza del nostro Rinascimento. Ora a me sembra molto significativo, anche se altrettanto misterioso, che fra le tante va­riazioni sul tema della crocifissione di matrice fiamminga circolanti nel sud, quella di Antonello somigli, più che a ogni altra, alla piccola Crocifissione dipinta circa vent’anni prima da Konrad Witz (Musei di Berlino)30, e cioè intorno al 1455: entrambe aperte non sulla città di Gerusalemme ma su un paesaggio vero, nel quale le lontananze di acque e di rocce sono inter­pretate con analoga soluzione meridionale, dove cioè la gran luce abbrevia l’analisi; entrambe, dal punto di vista iconografico più Calvari che Crocifissioni, rappresentano la scena post fac­tum, quando, allontanatasi la folla, rimangono ai piedi della Croce pochi fedelissimi. In en­trambe, infine, le rade figure sembrano somigliarsi: disposte liberamente in tralice nei pressi della Croce, insaccate nei pesanti mantelli borgognoni, i 78

visi appuntiti e seminascosti, i gesti lievi, esse ci parlano di una cultura circolante appunto dal Basso Reno all’Alta Savoia e giunta fino a Napoli31. Se dovessi ora, per abituale prassi cronologica, trascegliere, tra le poche opere rimasteci di Antonello, quella che mi sembra situarsi in un momento immediatamente successivo a questa Crocifissione, mi rivolgerei alla Vergine leggente della collezione Forti, ma anticamente pro­veniente da Palermo32; vi si scorge infatti una mescolanza diversa di fiammingo questa volta aggiornata su di una cultura iberica, per cui la matrice rogeriana del bel viso, dai tratti affilati da una aristocrazia spirituale, è filtrata attraverso una tipologia e un gusto aragonesi; così come tra rogeriane e iberiche sono le bende monacali di un bianco pastoso e gli angeli che la sovrastano. L’accostamento e il confronto di questa Vergine leggente Forti con la Madonna col Bambino (Madonna Salting) della Galleria Nazionale di Londra e la Vergine leggente di Baltimora offrono la prova più eloquente di come, a distanza di pochi anni, lo stesso tema possa prestarsi a soluzioni stilistiche tra loro diverse e tradire echi culturali molteplici. Più affascinante appare la stratificazione culturale nella Madonna di Londra: la forza plastica tutta borgognona e pro­venzale del largo e maestoso svoltare del mantello, dei gioielli di ricchezza pari a quelli della Annunciazione di Aix en Provence si contamina con il gusto iberico delle gamme bruciate; la tornitura quasi esasperata del viso ci riporta agli antichi ovali delle Madonne siciliane di un Tomaso da Vigilia, persino nell’acconciatura dei capelli, ma appunto con un rigore formale del tutto nuovo e personale. Quasi improvvisa ci appare la straordinaria naturalezza della posizione delle mani, e l’analisi fisica con cui sono rese; queste mani suonano già come uno straordi­nario anticipo di quella sintesi di analisi fiamminga e di forma italiana, che sarà poi l’esito di tutto l’apprendistato artistico di Antonello. La Vergine leggente di Baltimora chiude questa breve serie di opere, aprendo già il varco non solo a tratti di formalità pierfranceschiana, come è già stato rilevato più volte, nella bellis­sima testa di trasparente luminosità, ma anche a una inedita sonorità di colore, quasi che An­tonello avesse già assimilato la cultura dell’Angelico e di Domenico, diffusasi al nord tra il ’40 e il ’50, e cioè filtrata da un Quarton o da un Fouquet. Fra le tante perdite subite dal corpus di opere antonelliane, particolarmente grave per la ricostruzione dell’itinerario formativo di Antonello è quella del polittico di San Nicola, di cui parlavano i documenti del 146333 e a noi noto ormai solo attraverso le descrizioni del Di Mar­zo, l’antica copia di Antonino Giuffré nella Chiesa di Milazzo e infine, le pagine e i disegni glossati di note del Cavalcaselle. Da questi ultimi, particolarmente, ci è possibile ricostruire almeno in parte l’esito stilistico raggiunto da Antonello nel Polittico e la complessità dei pro­blemi affrontati: anzitutto la solenne impostazione architettonica del trono sul quale si alloga la figura del Santo di un ampio e vigoroso respiro, alla Piero della Francesca; poi i colori e la luce «alla fiamminga», e infine la felice e audace sommarietà di composizione e di tecnica delle storiette laterali. Appunto le osservazioni del Cavalcaselle sui pannelli del perduto Polittico di San Nicola34 mi sembra possano adattarsi assai bene anche alle due tavolette del Museo di Reggio Calabria, pure esse verosimilmente parti di un perduto polittico, guidandoci così anche alla loro collocazione 79


cronologica non lontana dal polittico di San Nicola. Nella tavoletta del San Gerolamo in penitenza il mantello cardinalizio rosso fiamma steso sul terreno, ruota come in uno “studio di panneggio alla fiamminga”; la valle serpeggia inoltrandosi fino all’orizzonte, secondo un modulo fiammingo, ma si stempera in soffici masse luminose e con uguale dolcezza la luce lambisce il torso del Santo e tornisce quello del Crocifisso. E poiché osservazioni analoghe si possono fare per la tavoletta dei Tre Angeli, mutilata della figura di Abramo (ma nota nella sua integrità compositiva attraverso una copia più tarda ora a Denver) le due tavolette reggine dovrebbero appartenere ai medesimi anni, al termine cioè del primo decennio di attività di Antonello, che si chiude con il 1465, quando i documenti che riguardano il pittore in Sicilia tacciono per molti anni, fino al 1471, lasciando supporre nuovi, lontani e anche lunghi viaggi in continente. Ora, tornando per un momento sulla tavo­letta dei Tre Angeli, dove, tra le morbide quinte luminose della valletta, l’esercizietto prospetti­co del tavolino in prospettiva, e la striscia d’erbe e fiori in primo piano alla fiamminga, compa­re per la prima volta nelle tre figure degli Angeli un riferimento abbastanza preciso a tipi usati da Petrus Christus. E poiché il nome del pittore fiammingo appare in testa alle possibili fonti fiamminghe di Antonello35 e viene speso sempre più spesso con facilità a proposito di queste fonti, sarà utile esaminare con una certa attenzione la sua figura e in particolare i possibili rap­porti fra Petrus e l’Italia. Il nome di Petrus Christus, in questo contesto, fu fatto per la prima volta in occasione di un noto documento, pubblicato dal Malaguzzi Valeri, riguardante le liste dei pagamenti del du­ca Sforza relativi a servizi resi nel 1453 (anche se il documento è del 1457). Ora in queste liste figurano anche i nomi di un “Antonello de Sicillia” e di un “Piero de Burges”. Che si trattasse proprio dei due pittori resta assai dubbio, anche perché alcuni di questi elenchi dovevano ri­guardare mercenari che avevano prestato servigi militari («provvisionati» in senso stretto)36. Tuttavia, indipendentemente dal documento discusso, proprio intorno a quegli anni una serie di fatti pittorici riguardanti sia Petrus sia Antonello inducono a ritenere non impossibile un loro incontro, nell’Italia meridionale o altrove, nel corso del primo viaggio in continente di An­tonello, che nulla vieta possa essersi spinto ben più a nord di Napoli37. Prima di venire ai fatti che riguardano Petrus, sarà bene rammentare che la sua figura sulla base degli studi recenti appare assai più complessa di un tempo, quando era relegata nell’ambi­to di un modesto continuatore di modelli eickiani. La sua attività e il suo stile lo denotano piut­tosto come un geniale indipendente, in posizione di revisione critica dello stile dei padri fon­datori del fiammingo, pur con oscillazioni che rendono ancora oggi difficile la ricostruzione del suo itinerario stilistico38. In un saggio dedicato soprattutto alla ricostruzione degli esordi di Pe­trus Christus, lo Sterling avanza l’ipotesi di un suo precoce viaggio al Sud e precisamente nel­l’area del basso Reno, intorno al 1433-34, dove avrebbe dipinto la Crocifissione già a Dessau (che risulta infatti su legno tenero) e dove avrebbe avuto il ruolo di fondamentale conoscenza del gusto fiammingo, specie per Konrad Witz39. Ma ecco, nel decennio seguente, stringersi rapporti ancor più evidenti, ancorché misteriosi, tra Petrus e i territori meridionali e specificamente italiani, come risulta da un gruppo di opere assegna80

bili agli anni Cinquanta. È in queste opere che si manifesta quella singolare deviazione dalla analisi micrografica fiamminga che sempre ha intrigato e, in fondo, deluso la critica tradi­zionale d’oltralpe: e cioè, una crescente semplificazione della forma, che appunto appariva un impoverimento, accompagnata da una organizzazione dello spazio che, come osserva il Pa­nofsky40, giunge all’applicazione del principio prospettico del punto di fuga, sia pure su basi empiriche. Si spiega così quel certo sapore italianizzante, pur nell’iconografia nordica, che caratterizza un’opera come la Morte della Vergine, proveniente dalla collezione Santocanale di Palermo e ora a San Diego di California: la composizione è infatti ariosa nell’interno vasto e disadorno, inondato dalla luce proveniente dai finestroni aperti sul paesaggio; i personaggi si aggirano si­lenziosi, misurati nei gesti e nei sentimenti. La data generalmente accettata di questa tavola di insolite dimensioni è intorno al 1457, la stessa data dunque, della Madonna in trono e Santi del Museo di Francoforte, che nella bilanciata composizione e nella limpida impaginazione archi­tettonica ha il sapore di una “Sacra conversazione” fiamminga. A queste due opere si deve affiancare la solenne Pietà del Louvre, che si distingue dai molti esemplari fiamminghi dello stesso tema per l’ampiezza formale dei personaggi e la misurata scansione. Infine il Ritratto virile di Los Angeles presenta evidenti tangenze con la ritrattistica di Antonello. A riprova del gusto fiammingo di queste tavole si deve rammentare che il Pa­nofsky esitava a includerle nel catalogo di Petrus Christus, ritenendole appunto più meridiona­li che non fiamminghe e alcune specificamente italianizzanti41. L’ipotesi dunque di un viaggio in Italia di Petrus Christus, come già Rogier nel ’50 e, molto probabilmente Van Eyck alla fine degli anni Venti, è da considerare molto seriamente. La re­cente segnalazione del Bologna di una ‘citazione’ evidente di Colantonio di una tratta dalla Pietà di Petrus a Bruxelles42 è la più vistosa di queste tangenze elusive eppure reali tra Petrus e la pittura napoletana intorno agli anni Cinquanta43. Si aggiunga infine che la presenza ab antiquo in Italia di tre o quattro opere di Petrus44 in un corpus non particolarmente fol­to può forse significare un maggior credito che questo pittore godeva in Italia che non in pa­tria, tanto che il padre della storiografia fiamminga, il van Mander, neppure lo nomina nel suo Schilder-Boeck, a differenza del Vasari e del Guicciardini. Non vogliamo qui soffermarci sul problema, ancora tutto da indagare, su quali potessero essere le fonti italiane di questa inclinazione italiana di Petrus; in questa sede ci interessa piut­tosto cercare di stringere più da vicino il rapporto Petrus-Antonello, sempre invocato ma di so­lito senza verifiche più puntuali; ovvero di capire se e in quale misura la pittura di Petrus (o magari Petrus in persona) abbia influito sulla formazione del linguaggio fiammingo di Antonello. Si è detto che le figure dei Tre Angeli di Reggio Calabria possono richiamarsi a tipologie di Petrus Christus; e specificherei subito l’accostamento sia con gli angeli del pannello dell’Annunciazione dei Musei di Berlino sia con quelli della Natività di Washington. Un altro preciso riscontro iconografico è stato segnalato dal Longhi tra alcuni apostoli della Morte della Vergine di Petrus e i personaggi del Miracolo di San Nicola che libera i tre prigionieri del per­duto stendardo di San Nicola di Antonello45. Assai più genericamente il nome di Petrus è stato più volte invocato per il Salvator 81


Mundi di Londra e anche per l’Ecce Homo di New York, chiamando in causa un’opera perduta di Petrus, quel Christo in majestate46 che il Summonte ricorda presente in casa Sannazzaro a Napoli. Mi sembra possibile, in questo caso, approfondire una così vaga indicazione e rilevare che ci troviamo probabilmente di fronte a una concreta collimazione tra Petrus e Antonello. Ma occorre prima rifarsi a una situazione iconografica della pittura fiamminga, e cioè al fatto che l’immagine frontale e iconica del Cristo a mezzo busto (detta anche Rex regum) viene mutua­ta anche per quella del Cristo coronato di spine47. Il caso più evidente e interessante per noi è la sicura derivazione del Cristo coronato di spine di Petrus Christus già in collezione Timken, ora al Metropolitan Museum di New York, dal Rex Regum di Van Eyck, il cui originale si trovava in collezione privata inglese, ma di cui si hanno copie antiche a Monaco e a Bruges48: infatti l’impostazione d’insieme e molti particolari, come la tipica aureola dorata a forma di croce, ritornano nella tavoletta di Petrus. Ora, non è affatto da escludere che la prima probabile versione dei molti Ecce Homo di Antonello, e cioè quella del Metropolitan Museum di New York, alla quale è assegnabile una data intorno al 1470, possa ispirarsi a esemplari fiammin­ghi, sul tipo di quello di Petrus a New York. Nell’esemplare di New Jork Antonello, passando dal tema del Cristo coronato di spine a quello più specifico e frequente dell’Ecce Homo trasforma genialmente l’originaria imposta­zione frontale iconica (che, come vedremo, permane nel Salvator mundi di Londra) mediante la torsione del braccio sinistro dietro la schiena, che imprime a tutto il busto una lenta rota­zione su se stesso. Le varie repliche successive dell’Ecce homo, caratterizzate, in genere, da un intensificarsi dei dettagli patetici e, contemporaneamente, da una ricerca formale quasi assil­lante (specie nell’Ecce homo del Collegio Alberoni a Piacenza, firmato e datato 1473) ci restituiscono nel modo più evidente il momento stilistico di Antonello a quella data ed evidenziano l’avvenuta e perfetta fusione tra analisi luminosa fiamminga e sintesi formale italiana. In questo intrecciato contesto iconografico conviene includere il Salvator mundi di Londra, che non è inverosimile pensare potesse ispirarsi anche al Christo in majestate di Petrus Chri­stus, menzionato dal Summonte, ammesso si trovasse già a Napoli dal secolo precedente. Re­sta però il fatto che il più preciso riscontro del Salvator Mundi di Antonello è il Cristo benedicente di Memling anticamente nella collezione Hamilton Rice e poi passato alla racc. Knoedler di New York. Tutta la composizione di Antonello vi collima perfettamente, persino le mi­sure. Si noti soprattutto che nel Cristo di Memling, la mano benedicente, alzata verticalmente e con le dita leggermente incurvate e lo scollo della veste appaiono uguali a come li aveva dipinti Antonello (secondo quanto ha rivelato la radiografia) prima della famosa correzione che ruo­tava prospetticamente la mano e duplicava lo scollo della veste con una piega trasversale. Ora, poiché il Cristo benedicente di Memling, secondo la testimonianza del Friedlander, era datato sulla cornice perduta 1478, esso è sicuramente posteriore a quello di Antonello (anche accet­tando come esatta, la lettura del cartellino 1475, come recentemente ha provato il Previtali, e non quella 1465)49. Entrambi gli esemplari debbono dunque rifarsi a qualche prototipo perdu­to che non è difficile immaginare, pensando, per esempio al Cristo benedicente nel Trittico Braque di Rogier van der Weyden o al Cristo benedicente e la Vergine di 82

30. Colantonio, San Francesco e San Gerolamo nello studio, 1445-46, olio su tavola, 151×178 cm, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli. 31. Colantonio, San Gerolamo nello studio, particolare, 1445-46, olio su tavola, 151×178 cm, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli. 83


Robert Campin, del­la collezione Johnson di Philadelphia, dove risulta anche il particolare della mano destra ap­poggiata al davanzale. Tornando al Salvator Mundi di Antonello, vorrei tuttavia sottolineare il fatto che la correzione in senso così insistentemente prospettico e formale della mano benedi­cente, tipica delle ricerche più avanzate di Antonello, lascia adito alla supposizione che non po­chi anni siano intercorsi tra una prima stesura e la correzione stessa. A ben guardare, infatti, il volto del Cristo colpisce per una sua tipologia piuttosto inconsueta in Antonello e vagamente vicina a Petrus nei piccoli occhi affioranti un poco a mandorla, ma soprattutto per il minor scrutinio della fisionomia, che corrisponde a ricerche più antiche. Dopo questo excursus iconografico, converrà tornare a esaminare il momento in cui, ap­pena varcati gli anni Settanta, Antonello mostra ormai di dominare interamente quella dupli­ce radice del suo stile, la fiamminga e l’italiana, e di sapere magistralmente giocare su questo doppio pedale. Accanto alla serie degli Ecce Homo, la splendida sequenza dei ritratti rappre­senta la più convincente testimonianza di questo bilinguismo pittorico, tanto che il Cavalcaselle già insisteva sulla tecnica bruggense con la quale erano dipinti. Apre la serie (è infatti generalmente ascritto a una data verso il 1470) il Ritratto virile del Museo di Cefalù, che un recente restauro ha restituito in tutto il suo splendore di neri vellutati e di bianchi di neve. La quasi aggressiva vitalità del personaggio, così siciliano nei tratti, la stu­penda sicurezza dei tagli formali – l’arco del berretto sulla fronte, lo scollo del vestito, risvolti della giacca – nulla tolgono al carattere intensamente fiammingo del ritratto stesso. Non solo l’ispirazione ritrattistica è fiamminga, e cioè la posizione di tre quarti del personaggio sullo sfondo scuro, ma soprattutto fiamminga è l’analisi luminosa del tessuto pittorico, sino al det­taglio della luce nelle pupille. Accanto a questo capolavoro metterei il raffinatissimo Ritratto virile della collezione Thyssen, probabilmente più tardo di qualche anno, di un’indagine fisionomica inten­sa, concentrata nello sguardo inquisitore e nel naso tagliente. Vicino, a sua volta, a quest’ultimo, pur nell’impianto formale più massiccio, è il Ritratto virile della National Gallery di Londra, così simile al Ritratto virile di Petrus Christus nel Museo di Los Angeles, da sembrare, di primo acchito, la sua immagine speculare. Già si è detto come il Panofsky escludesse questo ritratto dal catalogo delle opere di Petrus50, proponendone una data sensibilmente più tarda, sempre sulla base dei suoi caratteri italianizzanti. Questa intensa somiglianza dei due ritratti non fa che confermare il carattere fortemente fiammingo della ritrattistica antonelliana, ma rende più fitto il mistero di una derivazione del ritratto di Antonello da quello di Petrus, che parrebbe ovvia. Infatti mentre il ritratto di Anto­nello si inserisce agevolmente in tutta la sequenza della sua ritrattistica di derivazione pretta­mente eickiana, quello di Petrus, invece, curiosamente, presenta caratteri diversi dagli altri suoi ritratti, caratterizzati quasi sempre da un’inquadratura architettonica più o meno accentuata. La profonda vicinanza di questi due ritratti, in realtà cronologicamente distanti di quasi vent’anni, non può dunque, ancora una volta, trovare una semplice spiegazione nella deriva­zione di Antonello da Petrus. Ma essi rappresentano pur sempre un caso limite di affinità fra i due pittori e ci invitano, quindi, a qualche riflessione conclusiva su queste tangenze Petrus-Antonello. 84

32. Barthélemy d’Eyck, Il profeta Geremia, particolare del Trittico dell’Annunciazione, 1443-45, tecnica mista su tavola, Musée Royaux des Beaux Arts, Bruxelles. 85


33. Colantonio, Crocifissione, 1450-1460, olio su tavola, 44,8×34 cm, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid. 86

34. Rogier Van der Weyden, San Giorgio a cavallo, 1432-35, National Gallery of Art, A. Mellon Bruce fund, Washington. 87


35. Antonello da Messina (attrib.), Virgo advocata, 1452, olio su tavola, 57×39 cm, Pinacoteca di palazzo Volpi, Como. 88

36. Jorge Inglés, Don Inigo de Mendoza in preghiera nella cappella, particolare del Retablo di Buitrago, xv secolo, collezione Duque de Infantado, Madrid. 89


37. Petrus Christus, Deposizione, 1425 ca., olio su tavola, 98×188 cm, Musées Royaux des Beaux Arts, Bruxelles. 90

38. Colantonio, Deposizione, 1455-60, olio su tavola, 149×295 cm, Museo di Capodimonte, Napoli. 91


39. Colantonio, La predica del Santo, particolare del Polittico di san Vincenzo Ferrer, xv secolo, Museo di Capodimonte, Napoli. 92

40. Antonello da Messina, Crocifissione di Sibiu, 1463-65, tempera e olio su tavola, 39×22,5 cm, Muzeul Naţional de Arta al României, Bucarest. 93


41. Konrad Witz, Crocifissione, 1444, tempera su tavola, 26×34 cm, Staatliche Museen, Berlino. 94

42. Antonello da Messina, Madonna Salting o Vergine con il Bambino, 1460-1469, olio su tavola, 43,2×34,3, National Gallery, Londra. 95


43. Antonello da Messina, La vergine Maria che legge, 1461 ca., olio su tavola, 43×43,5 cm, The Walters Art Museum, Baltimora. 96

44. Antonello da Messina, San Gerolamo in penitenza, 1460 ca., olio su tavola, Museo della Magna Grecia, Reggio Calabria. 97


45. Petrus Christus, Crocifissione, olio su tavola distrutto nel 1945. 98

46. Petrus Christus, Madonna in trono con il Bambino e due santi, 1457, olio su tavola Staedelsches Kunstistitut, Francoforte. 99


47. Petrus Christus, Compianto del Cristo morto, Museo del Louvre, Parigi. 100

48. Petrus Christus, Morte della Vergine, 1457, olio su tavola, 171×138 cm, Timken Art Gallery, collezione Putnam Foundation, San Diego. 101


49. Testa di Cristo, copia da Vera Icona di Jan van Eyck, 1438-40, olio su tavola, 50×37 cm, Alte Pinakothek, Monaco. 50. Hans Memling, Cristo benedicente, 1478, olio su tavola, 38×28,2 cm, Norton Simon Art Foundation, Gift of Mr. Norton Simon. 51. Petrus Christus, Cristo coronato di spine, 1445, olio su tavola, 14,9×10,8 cm, Metropolitan Museum, New York. 102

52. Antonello da Messina, Salvator mundi, 1465-1475, olio su tavola, National Gallery, Londra. 103


53. Antonello da Messina, Ecce Homo, 1475, olio su tavola, 48,5×38 cm, Collegio Alberoni, Piacenza.

54. Petrus Christus, Ritratto d’uomo, 1475 ca., olio su tavola, 47,6×35,2 cm, County Museum of Art, collezione Balch, Los Angeles. 55. Antonello da Messina, Ritratto d’uomo, 1475-76, olio su tavola, 25,5×35,5 cm, National Gallery, Londra. 104

105


56. Antonello da Messina, Ritratto d’uomo in nero, 1475-76, olio su tavola, 28×21 cm, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid. 106

57. Antonello da Messina, Rittratto d’uomo, 1465-76, olio su tavola, 31×24,5 cm, Museo Mandralisca, Cefalù. 107


58. Antonello da Messina, Crocifissione, 1475, olio su tavola, 41,9×25,4 cm, National Gallery, Londra. 108

59. Antonello da Messina, Crocifissione, 1475, olio su tavola, 59,7×42,5 cm, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten di Anversa. 109


60. Antonello da Messina, San Gerolamo nello studio, 1474-1475 ca., olio su tavola, 45,7×36,2 cm, National Gallery, Londra. 110

61. Antonello da Messina, Annunciazione, 1474, olio su tavola, 180×180 cm, Museo regionale di Palazzo Bellomo, Siracusa. 111


62. Antonello da Messina, Polittico di san Gregorio, 1473, tempera grassa su tavola, 194×202 cm, Museo regionale, Messina. 112

Queste riflessioni mi sono state suggerite dalla lettura di una pagina molto acuta e poco nota scritta dal Friedlander, a chiusura del primo volume della sua opera monumentale, dedica­to a Van Eyck51. Contro l’opinione allora corrente, il grande studioso affermava che pur essen­do il fondatore della pittura fiamminga, Van Eyck non aveva avuto veri seguaci. Se per segua­ce, infatti, si intende semplicemente colui che entra nel solco aperto da un grande maestro, l’unico seguace di Van Eyck poteva dirsi Petrus Christus; ma se per seguace s’intende, in senso più profondo, l’erede, colui che riceve un patrimonio di idee pittoriche, lo fa proprio e lo tra­smette arricchito, allora si poteva parlare di un solo erede di Van Eyck, appunto Antonello da Messina. Questa affermazione, che ritengo tanto sorprendente quanto illuminante, da parte di un così profondo conoscitore quale il Friedlander, ci aiuta, al di là delle ipotesi filologiche e stori­che, a cogliere quello che io ritengo essere il senso più profondo di questo nesso Petrus-Anto­nello, che indubbiamente esiste, nonostante la minore statura artistica del primo e la natura profondamente italiana del secondo. Ritengo infatti che alla base di questo rapporto stia la fondamentale e comune matrice va­ neickiana. Questa affermazione, ovvia per Petrus Christus, meno ovvia per Antonello, rinvia immediatamente all’altro problema altrettanto fondamentale: se cioè la conoscenza della pittu­ra fiamminga che Antonello rivela possa, anzi debba, far supporre un suo viaggio in Fiandra. L’assimilazione dello stile fiammingo che Antonello mostra in molte sue opere supera per qualità e sottigliezza quella di tanti altri pittori nell’Europa del Quattrocento e va molto al di là di quella adozione di composizioni, iconografie, tecnica, gusto che contrassegna tanta pittura europea del Quattrocento; è appunto questa assimilazione dall’interno di un linguaggio forma­le, che induce a riprendere la vecchia e screditata affermazione del Vasari di un viaggio in Fiandra di Antonello, ereditata, si sa, da errori grossolani, quale la presunta, diretta conoscen­za di Van Eyck (già morto nel 1444) e da versioni romanzesche come quella del segreto della tecnica a olio, carpito e quasi trafugato da Antonello in Italia. Lasciata definitivamente cadere all’inizio del nostro secolo, l’ipotesi tende, tuttavia, a riaffiorare in studi recentissimi52. Infatti mano a mano che il panorama degli scambi pittorici nel Quattrocento si rivela assai più ricco e movimentato di quanto non si pensasse, non si vede perché debba essere scartata a priori questa ipotesi solo perché la versione che ne dava il Vasari era inaccettabile e anche perché si riteneva, forse in modo eccessivo, che la sola cultura fiamminga della Napoli quattro­centesca fosse di per sé sufficiente a spiegare una così specifica inclinazione fiamminga di Antonello. Poiché, come è noto, dal 1465 al 1471 tacciono i documenti siciliani su Antonello e poiché si suole interpretare questo silenzio come un’assenza del pittore dalla Sicilia, impegnato in viaggi nel continente, non è da escludere che, nel corso di questi anni, un artista così assetato di conoscenza e intrepido viaggiatore sin dagli anni della giovinezza, si sia spinto sino in Fiandra. Tanto più che sono anni, quelli del settimo decennio, di intensificati rapporti internazionali tra Napoli, la Lombardia e la Fiandra. Cadono in questi anni il viaggio del lombardo Zanetto Bu­gatto a Bruxelles, di Giovanni di Giusto da Napoli a Bruges (1469-1470), mentre il Laurana da Napoli si reca in Provenza Nicolas e dalla Provenza Froment raggiunge la Fiandra. 113


Si aggiunga, infine, che proprio intorno al 1465 e per oltre un decennio la fortuna del fiammingo in Italia sembra toccare il suo apice, penetrando come un innesto prezioso nel cuo­re di una circolazione tra le più alte del nostro Rinascimento; intendo dire quella che coinvolge Giovanni Bellini, Piero della Francesca e Antonello stesso, come avremo occasione di vedere nei prossimi capitoli. Che negli anni tra il 1465 e il 1471 Antonello si trovasse di nuovo al nord, avvalora, si dice­va, l’ipotesi di un suo soggiorno a Venezia, precedente quello noto e documentato del 1475-76 e forse anche a Milano, dove Antonello era già più che celebre secondo la testimonianza del Mauroli­co. Nella nota lettera con la quale il duca Galeazzo Maria Sforza richiede Antonello a Milano si afferma, tra l’altro, che il mercante Cagnola è «informatissimo» sul pittore53. Si sa che poi An­tonello rimase, invece, a Venezia per terminare la Pala di San Cassiano; da tempo, tuttavia, sono state sottolineate alcune singolari affinità di modi tra i pannelli di un perduto polittico di Anto­nello, raffiguranti i Santi Gregorio, Gerolamo e Agostino (Palermo, Galleria Nazionale della Si­cilia) e i Santi di un polittico smembrato lombardo, con al centro la Madonna con il Bimbo e gli angeli della collezione Cagnola di Gazzada (Varese), attribuito a Zanetto; e invero, il bellissimo San Gregorio di Antonello appare quasi una variante, per splendore di colori e nitidezza formale del Sant’Ambrogio del polittico di Zanetto Bugatto (Londra, racc. Matthiesen). La Madonna in trono, al centro del Polittico di San Gregorio del Museo di Messina denuncia reminiscenze fiamminghe assai più forti di quanto non si sia soliti rilevare: il superbo dilatarsi del mantello sontuoso, i biondi capelli sparsi sulle spalle la collocano ancora vicina ai prototipi eickiani ripresi da Petrus Christus. Ha così inizio con il polittico di Messina o subito dopo quella tendenza degli ultimi anni pittorici di Antonello che si potrebbe definire di affettuosa rivisita­zione, quasi venata di arcaismi, di iconografie fiamminghe, oramai travasate in forma, spazio e luce italiani: e infatti nel polittico di Messina la nota dominante resta la nitida rilegatura spaziale del polittico mediante il giro dello scalino che s’arrotonda impeccabile davanti al tronetto. Questa miscela di fiammingo e di rinascimento italiano o meglio questo Rinascimento italiana rivestito di fiammingo è ancor più intenso nella Annunciazione dipinta per Palazzolo Acreide nel 1474 e ora al Museo di Siracusa. Il gusto d’interno ombroso, le finestrelle crociate e il paesaggino che vi si scorge attraverso, la bella natura morta sparsa ovunque ci rinviano an­cora all’antica composizione di Petrus Christus nell’Annunciazione di Berlino. Ma solo che lo sguardo si addentri tra le vastissime e irreparabili cadute del colore, scorgerà una fitta trama di lucidissime indicazioni spaziali, gradini, mensole, stipiti, travature, tutte scandite dalla lama dell’alta luce solare. Infine, la rilegatura della scena entro una cornice architettonica in grisaille rammenta l’uso di Rogier van der Weyden, ma è improntata a una raffinata grammatica clas­sica e a una scansione di spazi a sezione aurea; tuttavia l’intera prospettiva della scena risulta sottilmente deviata rispetto all’asse della scena con un effetto di prospettiva plurima non unifi­cata all’italiana. Tale è l’intelligente trascorrere di Antonello fra i due linguaggi pittorici. Ad analoghe osservazioni si presta anche il San Gerolamo della Galleria Nazionale di Londra, anticamente proveniente da Venezia, dove il Michiel l’aveva ammirato e acutamente s’in­terrogava 114

63. Petrus Christus, Annunciazione, 1452, olio su tavola, 134×56 cm, Staatliche Museen, Berlino. 115


sulla paternità fiamminga o italiana dell’opera, oscillando tra Memling, van Eyck e Jacometto. L’analisi delle molteplici componenti della tavoletta potrà dare un contributo alla dibattuta questione della sua datazione, spaziante tra i primi anni dell’attività di Antonello­visto l’acuto fiamminghismo di cui è permeata e il suo soggiorno veneziano del 1475. Anzi­tutto il tema: largamente diffuso già ai tempi della primissima circolazione fiamminga (ne è prova anche la tavola di Colantonio) esso si presenta qui in una interpretazione inedita e assai diversa da tutte le precedenti, incentrate sui primi piani dell’ambiente angusto sovraccarichi di natura morta. Con Antonello, invece, il tema si dilata di colpo per la prima volta in una straordinaria ricchezza di motivazioni spaziali e di fughe prospettiche in un contrasto addirittura violento con le esigue misure della tavoletta (46×36,5). I triplici arconi gotici dell’ambiente va­stissimo e misterioso – per metà stanzone e per metà chiesa a triplice nave – la fuga obliqua delle arcatelle gotiche, la carpenteria insistentemente geometrizzante del bancale di studio po­sato sul pavimento a piastrelle, infine la rilegatura dell’intera scena entro l’arcata d’ingresso di gusto aragonese, conferiscono a tutto l’insieme il senso di una continua raffinata coniugazione dello spazio sul filo del gioco prospettico con vocaboli tratti dall’antico lessico napoletano. Ecco dunque riapparire quella ricchezza di soluzioni spaziali unita a una sottile contaminazione prospettica, come già nell’Annunciazione di Palazzolo Acreide; essa appare in contrasto con la stupenda prospettiva centrale e il respiro monumentale, tutti italiani, del San Sebastiano e del­la Pala di San Cassiano, opere legate al soggiorno veneziano e quindi contemporanee a questo San Gerolamo nello studio. A far pendere definitivamente la bilancia per una data assai avan­zata basterebbe il calibro monumentale del San Gerolamo, di profilo come una medaglia, ma allogato tridimensionalmente nello scanno; non più immagine del dotto medioevale ma del­l’umanista rinascimentale. Prima di lasciare l’argomento del soggiorno di Antonello a Venezia, converrà fare almeno un cenno alla vexata quaestio dei rapporti fra Antonello e Bellini, che da tempo affatica tanti studiosi, se cioè fu maggiore e prioritaria l’azione esercitata da Bellini su Antonello o viceversa. Anche se il soggiorno veneziano di Antonello e in particolare la conoscenza di Giovanni Belli­ni fu certamente fondamentale per l’ultimo suo tratto stilistico, ritengo che la complessa bilan­cia dei debiti e dei crediti fra i due pittori vada quasi in pareggio. E infatti: non v’è dubbio che la maggiore opera veneziana di Antonello, la Pala di San Cassiano, nasce sul solco di quella di­pinta dal Bellini per la Chiesa di San Giovanni e Paolo (1464-68) e anche il Cristo sul sepolcro del Museo Correr è certamente da collegare con il tema tanto amato e replicato dal Bellini, sia pure con l’inequivocabile aggiunta del paesaggino alla fiamminga; ma è altrettanto vero che la vena nordica del Bellini, da lungo tempo fermentante nella sua pittura, come avremo occasione di vedere, non poté non ricevere dalla presenza di Antonello un impulso decisivo, anche di or­dine tecnico, destinato a fruttificare in soluzioni personali altissime in ogni direzione e non so­lo nella ritrattistica, come si suole ripetere. Per usare le parole più semplici: nell’uno e nell’al­tro l’incontro lasciò una traccia incancellabile e recò nella loro pittura un approfondimento stilistico decisivo. 116

Si giunge così alle esperienze estreme della pittura di Antonello, ormai tornato in Sicilia, nei pochi anni che lo separano dalla morte prematura nel 1479. Su queste esperienze ha fatto luce recentemente il Previtali, insistendo giustamente sul carattere di intensa ricerca plastica e ana­tomica che le caratterizzano54. Vorrei a questo proposito suggerire che a queste ricerche così squisitamente italiane, Antonello applica anche un gusto per la verità minuta, analitica, che gli proviene pur sempre dall’antico bagaglio fiammingo della sua cultura. Vi è inoltre da considera­re, come appunto ha messo in luce il Previtali, il problema degli interventi di bottega e in parti­colare del figlio Jacobello in opere che pure recano il sigillo del suo altissimo genio, come il Cristo in pietà del Museo del Prado e forse anche la Madonna con il Bimbo (Madonna Benson) della Galleria di Washington, che recherebbe dunque una data tardiva intorno al 1475-76. Di queste estreme ricerche la Crocifissione del Museo di Anversa rappresenta forse la più alta testimonianza ed è da ritenersi quindi un poco posteriore alla Crocifissione di Londra, come ha proposto il Previtali55, capovolgendo l’ordine tradizionale. Soprattutto lo studio dei due ladroni tesi e inarcati nello spasimo dell’agonia presenta una così infallibile scienza plastica ne­gli scorci, un’invenzione così nuova di idee dinamiche da presagire addirittura certa pittura del primo Cinquecento e in particolare di Michelangelo. Al contrario, nella Crocifissione di Londra tutto concorre a una quiete e a un’armonia quasi da primo Raffaello e massime lo schema ovoidale, la scansione spaziale, la solare luminosità. Ma dal punto di vista iconografico le due Crocifissioni ripropongono un’ultima volta l’antico tema fiammingo del Calvario, concludendo così un itinerario cominciato con la Crocifissione di Bucarest: anzi, con fedeltà perfino maggiore nella rappresentazione minutissima dei primi piani e includendo nel fondo la città di Geru­salemme e il motivo delle figure che s’allontanano. Questa fedeltà alle fonti iconografiche è un ultimo tratto che lega Antonello alla pittura fiamminga. Infatti nel corso di tutto il Quattrocento due e anche tre generazioni di pittori fiamminghi, successive a Van Eyck e a Rogier van der Weyden, da Dirk Bouts a Memling, da Van der Goes a Gerard David ritorneranno incessantemente sulle antiche tematiche: un aspet­to singolare e in genere meno noto della pittura fiamminga del Quattrocento.

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Capitolo quarto

Piero della Francesca e l’apice del gusto fiammingo a Urbino nel decennio 1465-75

Fu certamente Piero della Francesca il tramite maggiore, per Antonello, alla conoscenza del rigore formale; ed è ormai correntemente accettata l’ipotesi che il primo incontro di Anto­nello con Piero dovette risalire già al 1460 a Roma1. Meno comune è la riflessione sull’impron­ta che poté lasciare Antonello su Piero della Francesca, un’impronta che dovette essere partico­larmente decisiva tra il settimo e l’ottavo decennio del secolo, in anni, cioè, che coincidono a Urbino e anche a Venezia con un apice del gusto fiammingo. Ne deriva, in certo modo, una conferma di quanto asseriva il Vasari, sull’introduzione del grande “segreto” fiammingo in Italia da parte di Antonello, in senso beninteso assai diverso da quello meramente tecnico del Vasari. In questo decennio, infatti, prima Piero poi Bellini mostrano una adesione alle sottigliezze lu­minose del fiammingo, unita all’adozione – o forse al perfezionamento – di una tecnica mista a olio; a queste esperienze non dovette essere estraneo il loro incontro con Antonello. Per quanto riguarda Piero della Francesca, è noto già da tempo che il periodo cosiddetto tardo della sua carriera (interrotta in realtà verso i sessant’anni dalla cecità) appare dominato dalla ricerca di ardui problemi pittorici; essa riflette certamente il suo instancabile ardore spe­culativo, che brillerà di lì a poco, nella trattatistica sulla prospettiva. Ma quasi tutte le ultime opere pittoriche di Piero rivelano invece che egli è ora particolarmente sollecitato dai più sotti­li problemi degli effetti luminosi sui colori. Si può anzi affermare che il problema dominante dell’ultimo decennio pittorico di Piero sia rivolto alla conquista del tessuto epidermico della re­altà, quale viene svelato dalle diverse reazioni alla luce di tutte le cose: questo significa l’adesio­ne di Piero al “segreto” della pittura fiamminga, innestandolo perfettamente al lucido rigore della sua forma e ai suoi metafisici silenzi. 119


Da tempo si accenna a questo innesto fiammingo nella tarda pittura di Piero2, a spiegare il quale è sempre sembrato sufficiente citare l’antico alunnato presso il “nordico” Domenico Ve­neziano e la presenza a Urbino di opere fiamminghe, già dagli anni Cinquanta. In realtà, una volta riconosciutolo, poco ci si è soffermati sull’entità effettiva di questo inne­sto fiammingo: ci si è piuttosto limitati a ritenerlo una variante coltivatissima della sua teorematica sintesi di forma-colore, ossia un raffinamento estremo se così si può dire, del problema assoluto della forma. Si presenta ora l’occasione di riflettere sul fatto che, in Piero, l’adozione di una analisi di tipo fiammingo fu invece un fatto maggiore di quanto si è soliti pensare, in virtù del quale Piero unisce forma italiana e analisi fiamminga con un’operazione analoga quindi a quella di Antonello, anche se ovviamente con tutt’altro percorso mentale. Questa fusione non è il risultato, come per Antonello, di una lunga alternanza sperimentale, di un doppio binario imboccato sin dagli inizi. Piero fiammingo nasce in età matura e quasi d’improvviso, intero, dopo i presagi delle preziosità del Polittico di Perugia; e nasce, precisamente, nel Dittico dei Montefeltro agli Uffizi e nella Madonna di Senigallia. Molto acutamente il Previtali3 riallaccia queste nuove ricerche di Piero alla problematica dell’Alberti nel trattato Della pittura, libro che fu in effetti da sempre una sorta di viatico per Piero. Partendo da un’intuizione longhiana («la creazione di Piero, a differenza dell’arte di ispirazione [tiene] per così dire opposto cammino e [pone] come abbozzo del quadro invece proprio un teorema che viene poi dolcemente a rivestirsi e come a intiepidirsi di uno spettaco­lo»), il Previtali osserva che il problema pittorico emergente in Piero dopo gli affreschi di Arezzo corrisponde al terzo punto della partizione albertiana: disegno, commensuratio e co­lorare: il colore dunque e soprattutto il modo in cui i colori «piglino variazioni dai lumi» sarà d’ora in poi il problema maggiore di Piero della Francesca. Anzitutto il brano albertiano4 sembra collimare in alcuni punti con tanta precisione con le ricerche ottiche e tecniche dei fiamminghi da non escludere l’ipotesi, come ha osservato il Gom­brich5, che l’Alberti avesse direttamente conosciuto la pittura fiamminga. Colpisce in particolare la raccomandazione relativa a ottenere superfici luminose: «Così farebbono: prima quasi come leggerissima rugiada per insino all’orlo... e poi sopra a questa un’altra e poi un’altra...»: parole che sembrano rifarsi direttamente al noto procedimento eickiano di sovrapporre diversi strati di colore destinati a ottenere toni scuri, medi e traslucidi. L’esperienza di Domenico Veneziano, nella Pala di Santa Lucia in Magnali (Uffizi) non sarà passata inosservata a Piero, poiché in essa si poneva per la prima volta a Firenze il problema di come recuperare all’interno della scienza prospettica fiorentina la qualità analitica della realtà; sebbene si rammenti in proposito l’acuta osservazione del Gombrich, che l’analisi di Domenico resta pur sempre nell’ambito delle varia­zioni dell’ombra e della luce, senza raggiungere quell’«ultimo lustro di una forbitissima spada» (Alberti) che è invece l’esito estremo dell’analisi luminosa dei fiamminghi. Non si dimentichi, ancora, che Piero aveva incontrato per tempo opere fiamminghe nei suoi itinerari: una prima volta a Ferrara, già nel fatidico anno 1450, poi a Urbino dove il gusto per il 120

fiammingo era andato precocemente crescendo in parallelo con Ferrara; senza contare quello che Piero poté assorbire dall’incontro con Antonello, sia esso collocabile nel 1460 o in altro anno. Resta infine il tema importante della tecnica cosiddetta a olio o mista a olio, che risultereb­be usata da Piero specie nelle opere tarde; su di essa, tuttavia, poco sappiamo ma, come affer­ma Chastel6, dovette essere stata sviscerata scientificamente da Piero e profondamente assimi­lata. Tutto questo complesso processo pittorico giunse a maturazione negli anni intorno al 1465, dato che, come si diceva, il polittico di Perugia, dipinto intorno al 1460, rivela insolite sottigliezze di ricerca luminosa sui marmi e sui tessuti. Più scopertamente nel Dittico di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza, Piero adotta soluzioni di sapore acutamente fiammingo; sul davanti e sul retro delle tavolette i paesaggi hanno lontananze remote alla fiamminga, più micrografiche di quelle di Antonello; né manca­no alcuni elementi tipici del paesaggio fiammingo come il fiume serpeggiante con i navigli. Ma ciò che soprattutto “fa fiammingo” è l’accostamento e l’equiparazione tra l’infinitamente vicino e l’infinitamente lontano, secondo l’espressione del Panofsky7, ovvero la stessa nitidezza del visus è nei primi e negli ultimi piani. Nel retro delle tavolette i carri rusticani con le Allegorie e le Muse che celebrano i Trionfi dei duchi muovono su un terrapieno aperto all’infinito del paesaggio; Piero realizza così quella visione a due livelli o “a terrazza”, che il Meiss ha identificato come un tipo di visione cara so­prattutto a Van Eyck (vedi la Santa Barbara di Anversa o la Madonna Rolin del Louvre) pro­prio per consentire all’occhio dello spettatore di spaziare all’infinito come da un parapetto in primo piano. Ma è bene subito aggiungere che Piero rapisce l’idea di questo infinito micrografico solo per restituircela così intrisa di luce che ogni dettaglio d’alberi, mura, monti vi si stempera nella sua identità e talmente si salda a ogni altro dettaglio da fondersi ancora in una unità assoluta. Anche nel famoso Ritratto di Federico da Montefeltro che è inequivocabilmente orientato alla ricerca superanalitica del fiammingo e qui davvero epidermica in senso proprio, la forma ita­liana vince e stravince nonostante il profilo. E infatti il profilo, inquadrato nell’immaginaria fi­nestra entro due zone di colore uguale, assume un valore così corposo ed “emisferico” come già notava il Longhi (1927), che l’altra metà della testa sembra suggerita quasi «per esigenza di simmetria» dal gioco sottilissimo delle opposizioni. Ma è nella Madonna di Senigallia, dipinta probabilmente verso il 1470 che questa fusione tra una poesia della parte geometrica e quindi razionale e una poesia della luce si fondono in­cantevolmente. Il gruppo sembra essere stato allogato in una delle stanze più appartate di quel palazzo che Federico aveva da poco fatto costruire, tale è il nitore del vano architettonico, dove i bianchi e i grigi sfumano in un tono lavanda. Questa nitida calma di geometrie si rispecchia nella totale immobilità della Madonna e degli angeli guardiani: metafisica pierfrancescana dei sentimenti. Ma dal vano adiacente si diffonde liquida la luce che entra a fiotti dalle finestre aperte, in giochi di sole e penombra sui battenti spalancati, da far presagire Vermeer. In questo concate­nato rapporto di spazi interni di nuovo si fondono Italia e Fiandra, purissime geometrie di sti­piti e nature morte 121


di panni nella cesta, e la luce, raggiunte le figure, fa crepitare di scintille luminose i capelli degli angeli e trafigge le gemme come fossero gocce d’acqua colorate. Qui davvero Piero sembra raggiungere «quell’ultimo lustro di una forbitissima spada» di cui diceva l’Alberti. Fu il Meiss8 a notare quasi con commosso stupore che «solo un pannello vaneickiano come la Vergine nella Chiesa di Berlino poteva avere ispirato le pozze di calda luce solare sul muro e sugli stipiti striati dall’ombra delle finestre a scomparti»9. E il Meiss aggiungeva che l’arte va­neickiana veniva qui colta da Piero della Francesca nella sua più intima profondità perché l’in­terazione tra luce e colore e l’analisi minutissima del tessuto pittorico raggiungevano un rea­lismo visivo quasi eickiano. A Millard Meiss siamo debitori anche di un lucido saggio10, scritto in occasione del restauro della Pala con la Madonna e Santi (1474) della Pinacoteca di Brera. Già lo studioso aveva pre­ cedentemente chiarito che il solenne gruppo che circonda la Vergine non occupa il coro della bella chiesa dalle forme albertiane-bramantesche, come si pensava, ma lo spazio antistante e cioè la navata che idealmente continua oltre la cornice. Ora questo rapporto tra figura e architettura, così fondamentale in Piero, si carica molto probabilmente anche di un significato simbolico abbastanza comune sia a Van Eyck sia a Ro­gier van der Weyden, al quale abbiamo già avuto occasione di accennare11; un’interpretazione ignota tra noi italiani, ma che nel giro di pochi anni, si affaccerà tanto in Antonello quanto in Giovanni Bellini. Maria è qui Mater Ecclesiae, si identifica con l’azione salvifica della Chiesa, e la chiesa materiale che la contiene non fa che adempire la funzione simbolica del mantello aperto sui fedeli nella giovanile Madonna della Misericordia di Borgo san Sepolcro. Pur concepita come una splendida composizione matematica di erette figure e per di più classicamente isometriche, la trama pittorica della pala di Brera risulta dominante nella com­plessa problematica dell’opera: lo splendido gioco di zone in penombra e di zone in luce, il di­verso rapportarsi delle figure in funzione della luce (quelle in penombra collocate davanti alle pareti luminose e viceversa), l’accostamento delle tinte studiato in modo da esaltarne la lumi­nosità, tutto ci parla di quelle ricerche sui colori suggerite dall’Alberti: l’«amicizia dei colori... che l’uno giunto con l’altro li porge dignità e grazia»; il modo di compartire luce e ombra («e notino che sempre contro la luce da altra parte corrisponda l’ombra») e soprattutto di come «i colori» piglino «variazioni» dal lume che vi batte12. Solo dopo aver sottolineato questa dominante ricerca luminosa spinta alle più sottili raffi­natezze si potrà notare l’accrescersi nella pala di minuzie di sapore fiammingo: stoffe, marmi, gioielli13, sono tutte indagini del reale che passano attraverso la ricerca pittorica di cui si diceva. Sulla qualità fiamminga della Natività di Londra tutto o quasi sarebbe ancora da dire, perché lo stato di probabile incompletezza e i problemi connessi finirono per catalizzare la discus­sione critica. Infatti, anche se non fosse stata oggetto, come propendeva il Longhi, di uno scia­gurato restauro e fosse quindi completa così, essa suggerisce pur sempre un certo effetto di slegatura; Piero, solitamente compatto come un teorema nelle sue composizioni, ci lascia qui una struttura «suggerita per via di accenni e di sbalzi intuitivi... indicazioni sparsamente legate, rapite dal lume» (Longhi)14. 122

Mi chiedo se queste «indicazioni sparsamente legate», questa «poesia dei minimi» non provenissero a Piero, come forse intendeva alludere la intensa pagina longhiana, dal suggeri­mento della pittura fiamminga, inestricabilmente mescolate a una sorta di arcaica semplicità solenne; a ben guardare, infatti, i “vocaboli” della composizione, la capannuccia sbreccata, i ciuffi d’erba e la gazza, il bimbo coricato sul terreno, la Madonna inginocchiata di fronte, il coretto d’angioli, le bestie, il San Giuseppe contadino appartengono tutti al glorioso patrimonio della tradizione fiamminga sin dai suoi primi inizi; quasi un’antologia di brani che possiamo ricono­scere nella Natività digionese del Maître de Flémalle, o in quella di Petrus a Berlino e a Wa­shington. Forse è superfluo aggiungere che Piero toglie di colpo a ciascuno di questi dettagli iconografici la loro specifica qualità aneddotica o comunque di insistente e quasi curioso realismo. Basti guardare ai pastori solenni come rustici profeti e al San Giuseppe assiso sul basto del­ l’asino come su un faldistorio classico. E chissà che magari qualche cenno di queste iconografie non fosse tratto dai disegni della Natività di Hugo van der Goes, che Giusto di Gand doveva possedere a Urbino15. Piero infatti era in Urbino e in piena attività pittorica, quando Giusto di Gand, o, alla fiamminga, Joos van Wassenhove, detto Joos van Ghent, attendeva alla tavola della Comunione degli Apostoli, commissionatagli dal duca negli anni 1473-74, come risulta dai documenti. La storia di questa tavola, che nei documenti è detta «tavola de la Confraternita», risaliva or­mai a una decina d’anni prima, quando Paolo Uccello portava a termine, nel 1467-68, la famo­sa predella con il Miracolo dell’Ostia (Museo di Urbino). Perché Piero non accettasse di esegui­re la pala cui era destinata la predella e cioè appunto la Comunione degli Apostoli, pur essendo venuto a vedere la taula, ossia il legno commissionato per la medesima, non ci è noto. È pro­babile che la commissione della Pala Braidense e il lavoro non ancora portato a termine per la Pala di S. Agostino per Borgo San Sepolcro, rendessero problematica la sua accettazione. È noto, comunque, che il duca Federico, per «non trovare maestri a suo modo in Italia che sapessi­no colorire a olio, mandò infino in Fiandra per trovare un maestro solenne e farlo venire a Urbino, dove fece fare molte pitture di sua mano solennissime...»16. Brano certamente da se­gnalare per quella preferenza, oramai dominante, data alla pittura a olio, curiosamente acco­stata a quella esigenza di solennità che nella pittura di Piero l’aveva probabilmente soggiogato. Sarebbe interessante conoscere se la tavola di Giusto di Gand fosse o meno di soddisfazione del duca; ché infatti anche se la tavola era di pertinenza della Confraternita del Corpus Domini, doveva stargli appunto moltissimo a cuore. Così come ci appare, la tavola risulta sovraccarica di un programma iconografico, complesso e insolito17, per contenere il quale erano state forse previste le insolite grandiose dimensioni (283×305): insolite per l’Italia e del tutto eccezionali per un fiammingo. Il tema della Comunione degli Apostoli, già di per sé raro nell’iconografia fiamminga, è qui raffigurato all’interno di una chiesa romanica, all’incrocio del transetto con la nave, sullo sfon­do di un coro a deambulatorio. Secondo l’interpretazione del Panofsky18, la struttura della chie­sa romanica sta a rappresentare, da Van Eyck in poi, la nuova Gerusalemme celeste, la Chiesa escatologica. 123


64. Piero della Francesca, Ritratto di Federico da Montefeltro, 1467-72, olio su tavola, 47×66 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 124

65. Piero della Francesca, Trionfo di Federico da Montefeltro, 1473-75 ca., olio su tavola, 47×33 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 125


66. Piero della Francesca, Pala con la Madonna e santi, e particolare, 1472-1474, tempera e olio su tavola, 251×173 cm, Pinacoteca di Brera, Milano. 126

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67. Piero della Francesca, Natività, 1470-75, olio su tavola, 124×122,6 cm, National Gallery, Londra. 128

68. Piero della Francesca, Madonna di Senigallia, 1474, olio su carta riportata su tavola, 61×53,5 cm, Galleria nazionale delle Marche, Palazzo Ducale Urbino. 129


69. Giusto di Gand, Trittico del Calvario, 1465, olio su legno, cattedrale di San Bavone, Gand. 130

70. Giusto di Gand, Allegoria della Musica, 1480 ca., olio su tavola, 156,3×97,4 cm, National Gallery, Londra. 131


71. Pedro Berruguete, Federico da Montefeltro e il figlio Guidobaldo detto “Doppio ritratto”, 1476-77, olio su tavola, 138,5×82,5 cm, Galleria nazionale delle Marche Palazzo Ducale, Urbino. 132

72. Giusto di Gand, Sant’Ambrogio, 1472-76, olio su tavola, Galleria Nazionale delle Marche Palazzo Ducale, Urbino. 133


L’evento della comunione degli apostoli si svolge dunque in un’architettura simbo­lica ossia nella nuova Chiesa nata, appunto, dalla comunione col pane e col vino consacrati, en­trambi in evidenza così spiccata sulla tavola apparecchiata da far pensare a un intenzionale ri­ferimento alla comunione sotto le due specie, secondo il rito ortodosso. L’insolita iconografia punta dunque sia sul sacerdozio di Cristo, che in piedi dietro l’altare distribuisce la comunione, sia sul concetto della comunione-koinonìa secondo l’uso ortodosso. Il forte accento trascendentale dell’evento – sottolineato dalla presenza degli angeli – rispecchia evidentemente un dettato teologico della Confraternita del Corpus Domini, mentre ancora a Federico, alla sua famiglia e persino a eventi diplomatici della sua corte si riferisce tutto il gruppo di figure e di personaggi sulla destra del dipinto. Forse schiacciato da tanta mole icono­grafica, dalla vastità delle dimensioni e anche dalla brevità dei tempi di esecuzione, Giusto di Gand riesce qui a risultati assai più modesti di quelli che lasciava intravedere la sua opera mag­giore precedente, il grande Calvario per la Chiesa di San Bavone a Gand, dipinto nel 1465. Lì era all’opera un maestro potenzialmente non meno grande di Van der Goes, al quale lo stesso Van der Goes guardava per la novità di un neo-patetismo aggiornato rispetto a quello rogeria­no e per la grandiosità compositiva, non disgiunta da una nuova ricerca di decorum. Proprio l’unità compositiva e una reale grandiosità falliscono nella Comunione degli Apo­stoli per l’incertezza formale delle figure, quasi oscillanti, mentre persino la tessitura pittorica appare incerta tra l’intensità e la sfumatura: tutto nell’opera sembra sfuggire dalle mani dell’ar­tista, forse straniato dalla patria e calato in un ambiente così diverso dal proprio. Se questo mio giudizio non è troppo limitativo, ne consegue un poco paradossalmente, che l’opera destinata a documentare l’indice più alto della moda fiamminga a Urbino e della personale predilezione di Federico per i Fiamminghi, diventasse invece l’anello più debole di una catena storica della fortuna del fiammingo a Urbino, iniziatasi già prima del 1450 e proseguita con le geniali so­luzioni di Piero tra il 1465 e il 1475; essa tuttavia riprenderà negli anni immediatamente suc­cessivi a quest’episodio tutto sommato negativo, con un gruppo di opere a tutt’oggi di incerta attribuzione ma legate intensamente a tutta la vicenda italo-fiamminga. Mi riferisco anzitutto alla famosa serie di Uomini Illustri, filosofi, teologi, poeti, giuristi, che in ventotto tavole ornavano lo studiolo di Federico, come una viva summa della sua prediletta cultura umanistica e che ora sono divisi equamente tra il Louvre e la Pinacoteca di Urbino. A questi si devono aggiungere il Ritratto di Federico seduto davanti al leggio (Urbino) e il Ritratto di gruppo nel quale Federico ascolta una conferenza (Windsor, Collezioni reali) e infine la serie, purtroppo mutila, delle Arti Liberali, di cui le sole superstiti sono la Musica e la Retorica nella Galleria Nazionale di Londra. La sostanziale omogeneità di questo gruppo di opere e al tempo stesso la mescolata cultura che tutte presentano costituisce la loro affascinante contraddizione che ha schierato su opposte sponde attributive gli studiosi. Per quanto riguarda il gruppo più vistoso, quello dei ventotto Uomini Illustri a mezzo busto, tutti convengono nel riconoscervi una spiccata componente me­lozziana nell’im134

pianto formale dilatato e intensificato dal punto di vista leggermente scorciato e dall’angustia degli spazi architettonici. Su questa base italiana si sovrappone un gusto fiammingo di fondo, evidente nella acutezza delle fisionomie e nella cura dei dettagli. Dico semplicemente gusto fiammingo perché ritengo che difficilmente l’esecuzione degli Uomini Illustri appartenga in toto a Giusto di Gand, sebbene alcune tipologie rechino in particolare il suo segno. Una ragionevole soluzione di classico compromesso è che i ventotto Uomini Illustri furono avviati da Giusto di Gand (dando credito anche all’antica testimonianza di Vespasiano da Bi­sticci20), e furono prontamente proseguiti dallo spagnolo Pedro Berruguete; questi risulterebbe, infatti presente a Urbino nel 1477. Forse questo doppio intervento spiegherebbe non solo i dislivelli di qualità ma anche l’oscillante indirizzo stilistico tra l’uno e l’altro dei ritratti. Ecco così entrare in scena anche la Spagna in questa circolazione italo-fiamminga; e infatti Pedro Berruguete, sbarcato probabilmente a Napoli21 intorno al 1470, porterà nelle sue ope­re l’eco di una impronta culturale italiana, sovrapposta alla matrice iberica, tale da far di lui, se­condo lo Sterling, addirittura una specie di parallelo spagnolo di Antonello da Messina. Nulla vieta però di ritenere che l’impronta lasciata da Giusto di Gand nell’avviare la serie degli Uomini Illustri sia, a un esame più attento, più marcata di quanto non sembri; poiché è probabile che Giusto, come afferma il Friedlander, abbia profondamente risentito, negli anni urbinati, della cultura melozzesca e italiana in genere, così è altrettanto probabile che con la stessa base melozziana il Berruguete si inserisse nell’opera avviata, tanto da creare un vero continuum stilistico, difficilmente ormai da distinguere22. Nonostante però l’importanza dei ventotto Uomini Illustri – forse un poco dilatata, vista la non buona conservazione generale dei ritratti e la qualità in genere non eccelsa dello stile – il problema più intrigante resta quello delle altre opere del gruppo già menzionato e cioè il Duca di Montefeltro che legge e il Ritratto di gruppo con il Duca che ascolta una conferenza e so­prattutto la serie mutilata delle Arti Liberali. Il Duca che legge, armato di tutto punto sotto il ricco mantello rosso e con ai piedi il bastone di comando e l’elmo, fa quasi corpo con la serie degli Uomini Illustri, e quindi il quesito del suo autore resta in bilico tra Giusto e Berruguete, con lo stesso schieramento tra gli studiosi che lo rivendicano all’uno o all’altro (sebbene io ri­tenga più probabile che qui sia all’opera il solo Berruguete, sia per ragioni stilistiche sia per ra­gioni cronologiche); per le altre opere, invece, emerge l’ombra di un grande anonimo, di un “terzo uomo”, come lo chiama lo Chastel, di una cultura affine a quella berruguetiana anche se, mi sembra, di timbro più eletto. Una cultura, quindi, che mescola in percentuali quasi uguali, una componente italiana di spazio e di forma e una componente fiamminga tinta di iberico. Nei due esemplari di Londra23 e nei due perduti di Berlino delle Arti liberali l’intento compositivo era simile ed era basato su un punto di vista fortemente scorciato e anche latera­le; una serie di gradini portava al tronetto, sul quale la figura femminile simbolica riceveva l’omaggio di una persona inginocchiata sui gradini. Nell’Allegoria della Musica di Londra un giovane con il tipico costume di corte (quale si poteva vedere negli affreschi di Schifanoia a Ferrara o del Palazzo ducale 135


di Mantova) indica con gesto elegantissimo della mano aristocrati­ca il modelletto di organo posato di sbieco sui gradini, come un bell’oggetto di natura morta. Per quanto lo consente la conoscenza ancora relativamente scarsa che si ha del Berruguete, e la mia in particolare, non escluderei del tutto che l’autore delle Arti Liberali possa essere Berru­guete in persona, nel suo momento più italianizzante e felice e che egli abbia portato qui alla sua tensione più alta la propria doppia cultura spagnola e italiana, arricchita di gusto fiammingo. Appare comunque evidente il profondo mutamento che l’intreccio italo-iberico-fiammingo ha subìto nel Berruguete nel corso di un quarto di secolo e cioè dai tempi di Colantonio e di Antonello a Napoli. L’apporto italiano, di un’area dell’Italia centrale e cioè di un gusto formale alla “Melozzo-Perugino-Signorelli” appare ormai la componente dominante. Si può, in conclu­sione, sottolineare l’importante fatto che a Urbino nell’ottavo decennio del Quattrocento, con Giusto di Gand e Berruguete, si ha un primo e precoce esempio di un rapporto tra nord e sud, caratterizzato da un nuovo rimescolarsi di culture sulle coste mediterranee; un capitolo destina­to a crescere nel corso degli ultimi anni del secolo e dei primi del Cinquecento e sul quale tor­neremo a conclusione di tutta la vicenda dei rapporti Italia-Fiandra.

Capitolo quinto

Il fiammingo nel Veneto e il suo ruolo nella pittura di Giovanni Bellini

Dopo Antonello e dopo Piero della Francesca Giovanni Bellini è il terzo grande protagoni­sta del nostro Rinascimento, nella cui pittura la componente fiamminga entra come un ele­mento costante lungo quasi tutto il suo lungo iter pittorico. È questo certo l’aspetto meno no­to, tra gli studiosi italiani, della sua fecondità stilistica; possono quindi suonare sorprendenti le affermazioni di un Millard Meiss o di uno specialista belliniano come il Robertson1, che indi­cano la pittura di Giovanni Bellini come la sintesi più alta tra Fiandra e Italia; tra i nostri stu­diosi il solo Brandi fa un breve cenno alla «sorprendente fecondazione fiamminga, ancor più importante in Giovanni Bellini che in Antonello»2. Ma l’incontro tra Bellini e Antonello, an­che a prescindere dall’annosa questione dei reciproci debiti e crediti, cade nel 1475 o al massi­mo pochi anni prima. A quell’epoca la “questione fiamminga” era aperta nel Veneto già da qua­si quarant’anni, con la presenza di alcune opere che costituiscono le primizie assolute della pittura fiamminga in Italia, precedenti anche quelle di Napoli. La famose segnalazioni di Marcantonio Michiel sulle numerose presenze di opere «po­ nentine» in collezioni private venete, anche se raccolte nei primi decenni del Cinquecento e anche se talora di dubbia lettura nell’identità degli artisti fiamminghi e delle date3 restano ca­pitali a documentare l’esistenza di un vivace collezionismo nel Veneto; un collezionismo né aristocratico né mercantile, ma piuttosto di un patriziato veneto e di una fascia sociale dotta. Si pensi al Grimani, a Pietro Bembo; oppure a quel Marco Barbarigo, console veneziano nel 1449 e doge nel 1485, il cui ritratto, ora nella National Gallery di Londra, dipinto da uno stretto se­guace vaneickiano e per di più a Londra, come è indicato nel quadro, fu probabilmente da sempre presente nella famiglia, e cioè nel Veneto4. È merito pure del Michiel aver coniato 136

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quell’aggettivo di “ponentino” criticamente molto felice e destinato ai giorni nostri a una grande fortuna, per indicare “cose di gusto nordico” e quindi assimilabili al fiammingo. Nessuno studioso si è ancora avventurato alla ricerca dei plausibili motivi storici di una pe­netrazione tanto precoce nel Veneto del fiammingo. La sola spiegazione, invero un poco automatica, sarebbe quella di un logico aggiornamento di quel gusto nordico così spiccato in alcuni pittori veneti dell’area umbratile tra il Trenta e il Quaranta. Di questa educazione nordica dovette fruire anche Domenico Veneziano, come si vede nell’Adorazione dei Magi, circa il 1435, quando già ambiva saldare quella cultura nordica con la struttura ragionata dei fiorentini. Quanto al Pisanello, il passaggio decisivo dal linearismo tardogotico a una micrografia fondata soprattutto sulla linea e a un sospetto di realismo pseudorinascimentale, specie in molti disegni di ritratti5, farebbe propendere per una sua possibile conoscenza diretta di esemplari fiamminghi. Per fare un esempio fra i tanti: dove trovare altrove in Italia, nel quinto decennio del secolo, un oggetto così puntigliosamente indagato nella sua fattura realistica, di intensità vi­siva quasi flemalliana, come il gran “sombrero” di paglia intrecciata del San Giorgio nella tavola della National Gallery di Londra? Forse l’annosa questione, eternamente oscillante, sul reali­smo del Pisanello, se di marca tardogotica ovvero protorinascimentale, può arricchirsi di una ulteriore ipotesi: che si tratti, cioè, di un realismo di marca nordica, che nel Veneto, a quel tempo, poteva già significare “ponentino” o fiammingo. È importante comunque sottolineare che il Veneto registra già nel quarto decennio del se­colo alcuni esemplari di opere fiamminghe e svariati echi di quello stile. Mi riferisco alla tavoletta della Ca’ d’Oro, raffigurante una Crocifissione o meglio un Calvario, a prima vista identico al Calvario delle Ore di Torino, che recentemente lo Chatelet, con buone ragioni, ha assegnato al più stretto collaboratore di Van Eyck, denominato “Maestro H”6. Ed è lo stesso Chatelet ad attribuire sempre al “Maestro H” anche la tavoletta della Ca’ d’Oro, avanzando con prudenza l’ipotesi, assai importante, che questa Crocifissione della Ca’ d’Oro sia stata eseguita in Italia e addirittura in loco, sulla base di certi dati esterni, come le architetture dello sfondo, più meri­dionali che nel foglio delle Ore di Torino; e che ivi sia restata sino ai nostri giorni. Dello stesso Calvario esistono infatti, come è noto, alcune varianti nostrane, di cui una, segnalata sempre dallo Chatelet e conservata nel Museo di Padova, è dichiaratamente fedele al modello della Ca’ d’Oro, anche se di mano non fiamminga. Su quella scia si può collocare tutta una serie di Croci­fissioni, che compaiono nel Veneto e in zone di cultura limitrofa, nel corso degli stessi anni: quella della Accademia di Venezia, attribuita dal Longhi a Nicola di Maestro Antonio7, e quella, pure al Museo della Ca’ d’Oro dell’umbro Giovanni Boccato, databile come le altre nel quinto decennio, splendidamente brulicante di ori e di preziosità, ancora più prossima iconograficamente, per la folla di cavalieri e di soldati, al grande prototipo vaneickiano, il pannello con la Crocifissione del Metropolitan Museum di New York8. Non mi risulta che sia mai stato notato che anche Jacopo Bellini nel suo celebre Libro dei disegni conservato al Louvre torna più volte sullo stesso schema compositivo e particolarmente 138

73. Giovanni Boccati, Crocifissione, 1440-60 ca., tempera su tavola, 33×24,5 cm, Ca’ d’Oro, Venezia. 139


sul motivo del cavallo sulla destra e del cavaliere in atto di allontanarsi dal Calvario9. Ma il discorso intorno a eventuali tematiche fiamminghe di un artista così eclettico e complesso co­me Jacopo è ancora tutto da fare. Sul dettaglio iconografico degli armati a cavallo che si allontanano, sottolineando l’indiffe­ renza al dramma della Crocifissione, si è soffermato il Meiss, ritenendolo un particolare impor­ tante; altrettanto importante è la collocazione delle Crocifissioni eickiane su una sorta di altura, secondo uno schema à plateauche, secondo il Meiss, fu mutuato dal Mantegna per la Crocifissione della predella della Pala di San Zeno (Louvre). Il Meiss ritiene per certo che il Mantegna l’abbia ricavato da qualche esemplare di Calvario fiammingo, insieme ad altri particolari iconografici, che lo inducono a concludere che il più “archeologico” pittore dell’Italia del nord doveva conoscere opere vaneickiane. Per quanto sorprendente possa apparire l’affermazione e per quanto infido sia sempre il terreno degli accostamenti iconografici è pur sempre importante seguire la traccia di queste indicazioni. Sulla scorta di queste ci si sorprenderà a notare che l’impostazione della tarda Madonna delle Cave del Mantegna degli Uffizi (1489) richiama quella della Santa Barbara di Van Eyck del Museo di Anversa: soprattutto il fortissimo contra­sto fra la piattaforma di roccia, su cui siede la figura in primo piano e la gigantesca torre sullo sfondo dove s’affaccendano gli operai, si ripete nel Mantegna, passando ex abrupto della Ma­donna alla gran roccia verticale delle “cave”. Seguendo questa traccia, vorrei allora segnalare come, con ancor maggiore evidenza, la gio­vanile Orazione nell’orto della stessa predella di San Zeno (Museo di Torino) presenti forti analogie con l’Orazione nell’orto delle Ore di Torino, attribuite alla mano del “Maestro H”. Ma anche senza dilatare oltre misura questi spunti e attenendoci alle cose fondamentali, re­sta il fatto conclusivo che nel Veneto, già prima che Giovanni Bellini iniziasse la sua attività, si erano affacciati i primi echi delle novità fiamminghe e che Giovanni poteva appunto vederli o direttamente o filtrati nei disegni del padre e cioè nei famosi libri di disegni di Londra e so­ prattutto di Parigi. Tuttavia è solo con Giovanni Bellini che si verificherà l’importante innesto della pittura fiamminga nella pittura veneta, in diversi modi e momenti della sua lunga carriera. Alla luce di quanto si è detto, non stupirà che i primi accenti fiammingheggianti facciano la loro appari­ zione assai per tempo nella pittura del Bellini, già intorno al 1450, ai tempi del suo precoce esordio, in precisa concomitanza con la predella di San Zeno. Di queste precoci congiunture tra Mantegna e Bellini, un caso meno noto è quello di un prezioso manoscritto, datato 1453, Vita e Passione di San Maurizio, (Bibl. dell’Arsenale, Parigi, ms. 940). Il ritratto del generale veneziano Jacopo Marcello, da taluni (Meiss) attribuito al Mantegna e da altri (Robertson) al Bellini presenta alcuni elementi nordici, come il parapet­to inciso, di ricordo eickiano; anche un altro foglio, il Congresso dei Cavalieri è ambientato in un interno di generico gusto “ponentino”. E sebbene io ritenga che almeno il ritratto di Jacopo Marcello sia più verosimilmente attribuibile al Mantegna10, vale comunque la pena ricordare la 140

74, Giovanni Bellini, Crocifissione, 1455-60, tempera su tavola, 55×30 cm, Museo Correr, Venezia. 141


storia del manoscritto. Esso fu inviato da Jacopo Marcello a Jean Cossa, siniscalco di Provenza e consigliere di Re Renato d’Angiò, il quale era sul punto di invadere l’Italia nel tentativo di ri­conquistare Napoli: un piccolo e quasi casuale esempio del fitto intreccio storico che passa at­ traverso le vicende dell’arte e che testimonia i continui contatti artistici su scala internazionale. Si diceva dunque che alcune giovanilissime opere di Giovanni Bellini già prima del 1460, la cui lettura più consueta è solo in chiave mantegnesca o del padre Jacopo, possono già rivelare qualche traccia nordica e specificamente fiamminga. Penso alla Crocifissione del Museo Correr o alla Trasfigurazione del medesimo museo e, soprattutto, alla Preghiera nell’orto di Londra. Nella prima i dislivelli del terreno e i sentieri simili a gigantesche venature del legno, già ac­ quistano dolcezze di luci e d’acqua riflesse in lontananza, assolutamente nuove per quel tempo. E mi sembra anche che il dato mantegnesco non possa essere in questo primo tratto della pittura belliniana così appariscente come si usa dire, se la stupenda gamma cromatica dei mantelli degli apostoli nella Trasfigztrazione diventa tanto più importante dell’impianto geologico e la luce lievita così da dare al paesaggio incantevoli toni serotini. Il caso della Preghiera nell’orto è più indicativo; il riferimento alla predella del Mantegna, come fonte iconografica, è scontato, sebbene entrambe possano agevolmente discendere dal fo­glio del Libro delle Ore di Torino. Nell’esemplare belliniano la “lettura” può procedere tutta sull’onda dolcissima del degradare della luce nel cielo e del suo riflettersi sull’accidentato terreno. Come e più che nella Trasfigu­razione, la funzione della luce è inseparabile dal tono lirico ed emotivo delle tavolette. Sin dagli esordi, dunque, la luce è per Bellini il “divino” elemento che fonde in una unica temperie sen­timentale personaggi e spazi. «La realizzazione della funzione formale e spirituale della luce è la vera essenza della con­ quista belliniana»11. Questa affermazione del Robertson ci sembra cogliere esattamente il pun­ to di congiuntura tra pittura fiamminga e belliniana, quasi una naturale convergenza di intenti: la preminente funzione della luce nella visione e nella resa della realtà; di una luce che, fer­ mentando il colore, suggerisce una più sensibile qualità epidermica delle cose. Questa preminente funzione della luce e l’accento lirico del paesaggio collegano dunque di­ rettamente o indirettamente, la pittura del giovane Bellini alle fondamentali ricerche vaneic­ kiane e contemporaneamente lo contraddistinguono dal cognato Mantegna. Un secondo gruppo di opere giovanili di piccolo formato, nelle quali la figura è nettamente dominante, tavolette destinate alla devozione privata e verosimilmente nate entro il sesto decennio, ci mostra il Bellini sensibile anche alla seconda grande matrice del fiammingo, quella della “pietà” patetica ro­geriana: mi riferisco alla piccola Pietà dell’Accademia di Bergamo, al Cristo benedicente del Louvre, al Sangue Redentore di Londra, nei quali è facile riconoscere una intensificazione della grafia patetica più affine a ben guardare alla linea rogeriana, che non a quella mantegnesca. Ma la qualità patetica resta dominante ed è quella che conferisce un timbro nordico a queste opere e un’eco specificamente rogeriana. 142

Certamente è impossibile sapere se e quali furono per Giovanni Bellini i canali di cono­ scenza di opere rogieriane avesse o no visto, per esempio, a Ferrara l’importante Deposizio­ne di Rogier o appunto, qualche tavoletta di devozione privata; certo è che questo momento “rogeriano” si protrarrà per un decennio e oltre nella pittura belliniana. Il grafismo sottile e do­lente della Pietà dell’Accademia di Bergamo, con le tre figure affacciate al parapetto in una sequenza rigorosa di pose e di gesti, preludio alla Pietà di Brera, richiamano fortemente lo scavo psicologico dei personaggi di Rogier, ma quasi in “diminutivo”, con un’intimità semplice, placata, ricondotta cioè, nell’alveo della tradizione veneta. Un rogerismo più acuto emana dal Cristo benedicente del Louvre, di una rara sottigliezza psicologica e iconografica. L’esilità macerata del Cristo, la pietosa dolcezza del sorriso, l’inanellarsi preciso dei capelli ariosi sono già tratti poco italiani; vi s’aggiungono la preziosità della tunica d’un bianco ghiaccio splendente e di sapiente geometria di pieghe, la natura morta del libro, l’accentuata insistenza sui particolari dolorosi del sangue e delle piaghe. Il paesaggino basso sotto l’alto cielo striato di nubi ha già boschetti d’alberi a palla spruzzati di luce, “tipi” d’alberi che cominciano ad apparire in Rogier. Sarebbe troppo affermare, allora, che ci troviamo davanti ad una tavoletta dipinta “al modo ponentino” per qualche aficionado veneto del fiammingo? Questo giovanile apice ponentino non sarà più rinnovato dal Bellini fino alla Pietà di Brera, dove riapparirà arricchito di novità: Giovanni vi adotta lo schema, già usato e destinato a numerose repliche, del parapetto con “cartellino”, ma il quasi violento affacciarsi delle figure in primo piano consente una visione ravvicinata dello strazio fisico e morale, esposto quasi alla meditazione dello spettatore. La visione ravvicinata mette anche in evidenza sottigliezze epi­ dermiche, che solo un uso prodigiosamente raffinato della tempera poteva ottenere: cosicché si potrebbe dire che la tempera viene usata qui dal Bellini implicitamente con tutte le finalità del­la pittura a olio. A queste osservazioni si deve aggiungere qualche parola sulla comparsa del parapetto12 (già presente, abbiamo visto, nella piccola Pietà di Bergamo, ma qui arricchito dal “cartellino”). Esso funge come una sorta di diaframma tra spazio reale e spazio pittorico, tra lo spettatore e il modello. Così inteso già da Van Eyck e adottato per la prima volta nel ritratto del cosiddetto Timoteo (Londra, National Gallery), esso passa nella pittura veneta, al pari del “cartellino”, di marca illusionistica. Ma ciò che mi preme far notare è che l’uso frequente di questo schema compositivo introduce un rapporto tra primo piano e sfondo paesistico remoto, che fa pure pensare a un riflesso fiammingo e che verrà adottato frequentemente nelle Madonne belliniane. La straordinaria frequenza di questo tema, nel Bellini certamente connessa con fattori di committenza e di gusto locale, è tale da non potersi paragonare a nessun altro pittore italiano, anche tenendo conto delle possibili collaborazioni e del problema delle copie. Ora, questa serie di Madonne belliniane nelle continue variazioni di gesti e di affetti ha invece una singolare corrispondenza nell’alto numero di Madonne con il bambino presenti nella pittura fiamminga, che discendono dalla pietà mariana di Rogier van der Weyden, seguitata soprattutto da Mem­ling. 143


Vedremo anzi come siano riscontrabili anche più strette affinità tra alcune Madonne bel­ liniane e memlinghiane. Poche opere del Bellini ci restano ancora da segnalare, per la loro qualità fiamminga, pri­ma di arrivare al grande spartiacque della grande Pala dell’Incoronazione di Pesaro e all’incon­tro di Giovanni con Antonello da Messina. Citerei precisamente il San Cristoforo del Polittico di San Vincenzo Ferreri13 della Basilica dei Santi Giovanni e Paolo (1464-68): gigantesco, a mezzo il guado, sullo sfondo inargentato dalla brezza e di un’iconografia assai più nordica che nostrana. Oppure il bel frammento delle Mani giunte (Ravenna, coll. Cavalli), pure squisita­mente nordico o il retro della tavoletta raffigurante un Teschio (Firenze, coll. privata) posto delicatamente su un piano, ingentilito, nella sua precisa orridezza, dalla luce, proprio come il retro di qualche tavoletta di Memling14. Ed ecco che, appena varcati gli anni Settanta, si giunge a quel discrimine della carriera pit­ torica di Giovanni Bellini, segnato da grandi capolavori e dall’impiego iniziale della tecnica a olio. Non occorre ripetere quanto generico sia questo termine, dietro al quale stanno variazioni e applicazioni tecniche difficilmente identificabili, per quanto riguarda l’impiego di altri mate­ riali, oltre all’olio, in particolare di vernici. Ma certamente il passaggio all’uso dell’olio dovette significare per Giovanni Bellini l’acquisizione di uno strumento preciso per raggiungere quella graduata intensità di luci che gli consentirà di fondere il vicino e il lontano, i valori minimi e massimi della luce e di unire infine a una forma sempre più monumentale e classica i pas­saggi cromatici più sottili. Tutti gli studiosi, a cominciare dal Cavalcaselle, non dubitarono mai che fosse Antonello il grande mediatore del nuovo strumento belliniano: «Se non abbiamo letto invano il progresso dell’arte di Giovanni Bellini nel corso di una dozzina d’anni dopo l’arrivo a Venezia di Anto­ nello da Messina, egli non abbandonò un istante i suoi sforzi nel padroneggiare questo mez­ zo»15. Come ho già avuto occasione di accennare, mi sembra che questo risarcisca un valore di verità di fondo alle affermazioni vasariane, purtroppo ammantate di leggendario. Ma se Gio­vanni dovette apprendere da Antonello in persona questo procedimento pittorico e usarlo già nella Pala di Pesaro, oscillante tra il 1471 e il 1475, sarà necessario ipotizzare una presenza a Venezia di Antonello qualche anno prima del 1475, ipotesi sulla quale molti studiosi ormai convengono. Si verificherebbe allora in quei primi anni dell’ottavo decennio, una delle congiunture pit­ toriche più alte del nostro Quattrocento, essendo la Pala di Pesaro il documento più alto di un un Bellini che ha appreso a fondo la lezione di Piero della Francesca, mentre l’incontro con Anto­nello lo aveva aggiornato sugli strumenti più idonei a un raffinamento ottico alla fiamminga. È infatti verissimo, secondo le parole del Longhi, che «nell’Incoronazione di Pesaro si pe­ netra finalmente per magia di spazio... in una completa coralità di architettura misurata, di umanità dolce e grave e di libera natura. Su questa chiave canterà ormai il Bellini per più di un 144

quarto di secolo»16. Ma è pur anche vero che questa “magia di spazio” non è solo il frutto della scoperta di Piero, ma anche di quella conquista pittorica che è la fusione di spazio e figure nella luce (una meta, in fondo, sempre perseguita dal Bellini) e di far risplendere attraverso la lumi­ nosità ogni qualità di materia e di saldare ormai ogni dettaglio nel “largo” sinfonico del colore. Questa doppia chiave di lettura con la quale è ormai possibile leggere molte delle grandi opere del Bellini nell’ultimo quarto del secolo rinnova, dopo Antonello, la sintesi geniale di Ita­lia e di Fiandra; ma, come già Piero, con un più profondo ancoraggio delle proprie radici cultu­rali in Italia: sia per Piero sia per Giovanni, cioè, la scoperta del “segreto” fiammingo non ap­porterà in sostanza se non un potenziamento della loro visione, arricchendo di quella sottilissima indagine luminosa una forma che rimaneva eternamente italiana. «Libera natura», diceva il Longhi a proposito della Pala di Pesaro; e io sottolinerei che in Giovanni Bellini è soprattutto il paesaggio a rivelare il mutamento che si è prodotto. A partire dagli anni Settanta, infatti, esso si arricchisce di minuzie vegetali e di verità botaniche, di conno­ tati topografici remoti e di presenze umane lontane; d’altro lato esso resta inscindibilmente lega­ to ai personaggi dell’evento rappresentato, non come il telaio prospettico dei fiorentini ma in virtù della vicenda mutevole della luce che tutto rilega, come neppure in Fiandra si vedrà mai. Nell’Incoronazione della Vergine, al centro della Pala di Pesaro, questo lucido e caldo pae­ saggio resta tuttavia in posizione subordinata alla figure; inquadrato dalla finestra (un poco “alla fiamminga”?) che si apre alle spalle del gruppo, esso non arriva a creare, a mio parere, un vero rapporto tra spazio interno ed esterno, come vorrebbe il Meiss e come invece avviene nella predella. Nella stupenda Pietà che ne formava la cimasa, ora ai Musei Vaticani, il Bellini ci offre una variazione sul tema che, a mio parere, si presta a essere confrontata con gli ultimi sviluppi della pittura fiamminga: l’incastro delle figure in diagonale e in linea ascendente e tutte incombenti in primissimo piano ha ancora punte patetiche degne della tradizione rogeriana e post ro­geriana, come la silenziosa carezza della Maddalena alle mani del Cristo. Prova ne sia che il sen­timento e l’idea generale di questa Pietà non sono lontani dal Dittico di Granada di Memling (Capilla Réal), in particolare dal pannello con le Pie donne dolenti, dei Musei di Berlino. Anche la bellissima Pietà in grisaille degli Uffizi (sia essa finita o ultimo stadio di un disegno prepara­torio) rivela lo stesso pathos calato in pura forma italiana. Già si è detto che la questione dei reciproci debiti e crediti tra Antonello e Bellini ci sembra un poco oziosa, poiché l’incontro dovette essere per entrambi fecondissimo; anche la Pala di San Cassiano di Antonello non si spiegherebbe senza il precedente della perduta pala belliniana per la Chiesa di San Giovanni e Paolo; né il San Sebastiano senza la fusione della doppia matrice pierfranceschiana e belliniana. Aggiungiamo ancora che la Pietà del Museo Correr di Antonello non è in fondo che una ritraduzione, con l’aggiunta del paese alla fiamminga, di un terna molto caro al Bellini e di cui esistono molte versioni precedenti, come quella bellissima della National Gallery di Londra, molto vicina all’esemplare antonelliano. D’altro lato, la grande lezione di Antonello per il Bellini non si dovette limitare al dato strumentale, per sé 145


75. Hans Memling, Dittico della discesa dalla Croce e del compianto delle donne, olio su tavola, Capilla Real, Granada. 146

indubbiamente impor­tante, della tecnica a olio, ma si estende a tutta una serie di mutamenti e di novità, prima di tutto, anche cronologicamente, nella ritrattistica. Il ritrattino belliniano di Jörg Fugger (Firenze, Contini Bonacossi), datato 1474, apre questa serie della ritrattistica belliniana di gusto fiammingo e potrebbe così confermare che il varco della pittura antonelliana nell’Italia settentrionale dovette avvenire già prima del 1475 e anzitutto per il tramite della sua apprezzatissima ritrattistica alla fiamminga. Non è senza significato che esista, negli stessi anni del ritrattino Fugger, un gruppetto di ritratti che un tempo erano dispu­tati tra Bellini e Antonello, come il Ritratto di umanista del Museo del Castello di Milano, il Ritratto di giovane dell’Accademia Carrara o il Ritratto virile dei Musei di Berlino, tutti su sfondo rigorosamente scuro e dipinti verosimilmente intorno al 1475; un gruppo quindi più antico di quelli nei quali s’aprirà il cielo alle spalle del personaggio, come una variante veneto-belliniana non lontana, come vedremo, da quella adottata da Memling. Ma per tornare ai grandi capolavori che si scalano, l’uno dopo l’altro, nel fecondissimo de­ cennio che segue il 1475, essi recano tutti il segno di questa straordinaria fecondazione fiam­minga, sinora raramente notata; a eccezione delle Stimmate di San Francesco (o San Francesco in estasi) della collezione Frick di New York, che fu l’oggetto di un minuto e appassionato stu­dio del Meiss17. È appunto il Meiss a sottolineare la straordinaria contrapposizione tra la enci­clopedica, minutissima varietà di erbe e piante nei primi piani e la struttura fortemente geome­trica delle quinte rocciose salienti: una contrapposizione che per lo studioso realizza l’eccezionale connubio tra Fiandra e Toscana, «così da diventare una specie di summa dell’espressione pitto­rica del Quattrocento»18. In realtà nessun pittore italiano ci aveva mai dato una così stupefacente varietà di natura (tanto che il nostro pensiero corre al Polittico di Gand), amorosamente osser­vata nell’ambiente reale abitato da San Francesco: il pergolato di vite, la fenditura di roccia che alberga il leggio, il giovane lauro vigoroso, il canneto; a questi s’aggiungono altri dettagli signifi­cativi, come gli zoccoli abbandonati sul terreno (forse con significato simbolico, come nel doppio ritratto degli Arnolfini?) e il foglietto infilato nella cintura, che potrebbe alludere al Cantico delle Creature19. La dominante grandiosità della natura, nell’economia del dipinto, è ribadita dalla esile figura del Santo immobile nella luce altissima. Ciò che caratterizza la qualità della luce di questo capo­ lavoro e lo isola nella produzione belliniana è la progressione dei toni da quelli freddi dei primi piani a quelli caldi degli ultimi piani. Nella Resurrezione dei Musei di Berlino, forse di poco precedente e, più ancora, nella Trasfigurazione di Napoli (che con il San Francesco forma una triade di capolavori serrati nel giro di pochissimi anni), la luce raggiunge una trionfale unità nel paesaggio. La Resurrezione, benché meno legata compositivamente, ha momenti di strepitosa bellezza nel paese imbevuto di una luce rosata, come riflessa dal primo sole dell’alba, nel cielo striato di nubi. Contro questo cielo si staglia un Cristo di splendido rigore formale; e basti guardare al gioco fermissimo e cristallino dei lembi e delle pieghe del perizoma, per chiederci se questa intensità formale non rappresenti un omaggio al gusto “ponentino”. 147


Ma che dire di fronte alla “legatura” quasi musicale della luce nella Trasfigurazione di Napoli? Dopo un avvio “costruito”, di diagonali e di steccati, il paesaggio dilaga corale, in una suprema dolcezza davvero virgiliana. Di questo paesaggio diceva il Cavalcaselle: «È qui che troviamo Giovanni Bellini infine grande come pittore a olio»20; e concludeva (cito il testo inglese perché la frase suona quasi come il verso di un poeta romantico inglese): «One sees that summer is gone, an autumn day is broken»; che dice benissimo con quel «si vede», l’indicibile verità dell’o­ra, della luce e della stagione, di cui solamente Bellini sembra avere il segreto. Queste spuntature sul fiammingo di Giovanni Bellini sarebbero incomplete se non facessi­ mo cenno ancora ai suoi sviluppi tardivi. Che l’attenzione al fiammingo di Giovanni Bellini si protraesse sino ai primi anni del Cinquecento, lo dimostra la bellissima Crocifissione o meglio Calvario della collezione Niccolini da Camugliano (Firenze), che tra minuzie fiamminghe dei primi piani e remote lontananze di paesaggio, si riallaccia alle due ultime Crocifissioni di Anto­ nello (Londra, Anversa), ma qui nella più desolata solitudine del crocifisso, innalzato sul pae­ saggio, solo, con un’iconografia molto rara. Ma è soprattutto nel campo delle Madonne e dei ritratti che è possibile attingere alcune nuove affinità con toni memlinghiani, che forse casuali non sono. Infatti, della preferenza ac­ cordata dal collezionismo veneto a opere di Memling, ci informano le “notizie” del Michiel21. E possiamo intuire che l’addolcita Pietà di Memling potesse piacere ai veneti e incontrarne il fa­vore, per una sensibilità in fondo affine; altrettanto si può dire della sua ritrattistica che, come si sa, era ambitissima da tutta la colonia italiana di Bruges. Non si può negare, infatti, un certo sapore italiano e talvolta quasi veneto ad alcuni ritratti memlinghiani, come il noto Uomo con la medaglia del Museo di Anversa. Ci troviamo così di fronte ad altre significative tangenze che s’aggiungono a quelle già notate tra Antonello e Bellini. È anzi molto significativo che, in passato, due ritratti memlinghiani, il Ritratto virile della Galleria Corsini e il Ritratto virile dell’Accademia di Venezia fossero un tempo attribuiti ad Antonello. Anche il Ritratto di giovane della Galleria di Washington databile 1480-90, sullo sfondo di un cielo variegato di nubi parve al Longhi «a mezza strada tra Antonello e Mem­ ling». Sembra dunque assai verosimile che la prima inclinazione alla ritrattistica fiamminga sia avvenuta in Bellini per il tramite di Antonello; né si può escludere che questa si sia arricchita anche di qualche esemplare memlinghiano. Ovvero che in Giovanni Bellini l’attenuazione del­ l’indagine fisionomica intensissima di Antonello si avvicinasse, per ciò stesso, alla ritrattistica di Memling, il quale pure aveva attenuato l’acutezza strepitosa di Van Eyck. Tutta belliniana sembra l’idea di aprire il cielo alle spalle delle persone, adottando un pun­to di vista leggermente ribassato, che rappresenta un interessante passaggio a una collocazione d’esterno (Ritratto di giovane di Washington e del Museo Civico di Padova, entrambi del nono decennio). Di fatto, solo il cosiddetto Ritratto di Pietro Bembo (Hampton Court, Collezioni reali) colloca il personaggio sullo sfondo di un paesaggio, – siamo intorno al 1505 – di tipica dolcezza 148

tardobelliniana e quasi protogiorgionesca; così che si può dire che il ritratto di composizione più schiettamente memlinghiana (non mancano né il parapetto né il cartellino) sia anche di gusto e qualità intensamente belliniani. Altri esemplari di ritrattistica veneziana di spirito memlinghiano sono quelli del misterioso Jacometto22 (attivo dal 1472 al 1498), lodatissimo dal Michiel, che avanzava il suo nome persino per il San Girolamo nello studio di Antonello. Si tratta dei due ritratti, visti appunto dal Michiel in casa Contarini e identificabili con quelli di Alvise Contarini e di Una Monaca (New York, Metropolitan Museum), il cui carattere palesemente fiammingheggiante e specificamente memlinghiano è accentuato dal bellissimo daino sul retro del Ritratto Contarini; la squisita fattura miniaturistica di questo daino rivela l’eminente statura di Jacometto miniatore, confer­mata dalle poche opere che di lui ci sono pervenute23. Intensamente nordico, infine, il Ritratto virile del giovane Lotto all’Accademia Carrara di Bergamo. La fusione di Antonello e del Bellini si carica, nella luce fortissima, di una qualità espressionistica. La questione, ancora tutta da indagare, delle tangenze Bellini-Memling presenta altri aspet­ti interessanti anche al di fuori del campo della ritrattistica. Già il Brandi osservava che con Memling l’ambiente fiammingo tende a “precipitare” nello spazio italiano24, riferendosi alle soluzio­ni semplificate dei paesaggini memlinghiani, dove la natura non appare più scrutata e individuata, specie per specie. Ma vi è di più: per quanto la cosa riesca difficilmente spiegabile, non si può nega­re che alcune Madonne tarde di Memling, come, per esempio, la Madonna della collezione Wernher di Londra o la Madonna con sfondo di tenda della National Gallery di Londra, si prestano ad essere accostate al gruppo delle Madonne belliniane dell’ultimo ventennio del Quattrocento, sia nel­la composizione sia nella interpretazione. Mentre è facilmente pensabile che il Bellini abbia potuto vedere qualche Madonna di Memling, resta invece misterioso il fatto che è piuttosto Memling che sembra risentire nelle sue Madonne tarde di elementi italianizzanti; come nelle due Madonne sopra citate e ancor più nelle tavole con Madonne, Santi e Angeli (Madonna di Jacob Floreins del Lou­vre), dove compaiono elementi decorativi di marca italiana rinascimentale. Questo maggiore equilibrio compositivo e una nuova imponenza formale nelle figure che avvicina certe opere del più maturo Memling a un respiro quasi italiano, è particolarmente evidente, per esempio, nei laterali del Trittico Moreel del 1484 (Bruges) e anche nel Trittico di Lubecca del 1491; i quattro Santi che formano i doppi sportelli centrali del trittico di Lubec­ca sono congiunti da un unico ambiente interno dove pavimento, pareti e finestre sono rilegati da una prospettiva tridimensionale, una soluzione spaziale di tipo italiano, ancorché trasposta in un ambiente interno di una lucidezza ombrosa e ornata, come, negli stessi anni, potrà con­cepire il lombardo Bergognone. E viceversa, come spiegare che il Cristo benedicente di Gio­vanni Bellini, a Ottawa, ancorché di dolcezza quasi giorgionesca, non è che una variante ancora del Cristo benedicente di Memling nella raccolta Knoedler? 149


76. Jan van Eyck o bottega, Crocifissione,1430-50 ca., olio su tavola, 46×31 cm, Ca’ d’Oro, Venezia. 150

77. Andrea Mantegna, Crocifissione, 1457-1459, tempera su tavola, 67×93 cm, Museo del Louvre, Parigi. 151


78. Giovanni Bellini, Orazione nell’orto, 1459, tempera su tavola, 81×127 cm, National Gallery, Londra. 152

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79. Giovanni Bellini, Trasfigurazione, 1455-1460, tempera su tavola, 143×68 cm, Museo Correr, Venezia. 154

80. Giovanni Bellini, San Cristoforo, particolari del Polittico di san Vincenzo Ferrer, 1464-1470, tempera su tavola, 275×194 cm, basilica dei SS. Giovanni e Paolo, Venezia. 155


81. Giovanni Bellini, Pietà (Cristo morto sorretto da Maria e san Giovanni Evangelista), 1455, tempera su tavola, 52×42 cm, Accademia Carrara, Bergamo. 156

82. Giovanni Bellini, Cristo benedicente, 1460, tempera su tavola, 58×44 cm, Museo del Louvre, Parigi. 157


83. Giovanni Bellini, Pietà, 1465-70, tempera su tavola, 86×107 cm, Pinacoteca di Brera, Milano. 158

84. Giovanni Bellini, Incoronazione di Maria (Pala Pesaro), 1472-74, olio su tavola, 262×240 cm, Musei Civici, Pesaro. 159


85. Giovanni Bellini, Compianto del Cristo morto, 1473-76, olio su tavola, 107×84 cm, Musei Vaticani, Roma. 160

86. Giovanni Bellini, Compianto del Cristo morto, 1485-95 ca., olio monocromo su tavola, 73×119 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 161


87. Giovanni Bellini, Trasfigurazione, 1478-79, olio su tavola, 116×154 cm, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli. 162

88. Giovanni Bellini, Resurrezione, 1475-1478, olio su tavola trasferita su tela, Gemäldegalerie, Berlino. 163


89. Jacometto, Ritratto di Alvise Contarini, Metropolitan Museum of Art, New York. 90. Jacometto, Daino alla catena, retro del Ritratto di Alvise Contarini, 1485-95 ca., olio su tavola, Metropolitan Museum of Art, New York. 91. Jacometto, Ritratto di suora, 1485-95 ca., olio su tavola, Metropolitan Museum of Art, New York. 164

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92. Giovanni Bellini, Ritratto di Jörg Fugger, 1474, olio su tavola, 26×20 cm, collezione Norton Simon Musueum, Pasadena. 166

93. Giovanni Bellini, Ritratto di Pietro Bembo, 1505-10 ca., olio su tavola, 43×34 cm, Royal Collections, Hampton Court Palace, Londra. 167


94. Hans Memling, Ritratto d’uomo con medaglia romana, 1480 ca., olio su tavola, 31×23,2 cm, Musée Royal, Anversa. 168

95. Hans Memling, Ritratto di giovane, 1435-40, olio su tavola, 26×20 cm, Galleria dell’Accademia, Venezia. 169


96. Hans Memling, Trittico Moreel, 1484, olio su tavola, 141×174 cm, Groeningemuseum, Bruges. 170

97. Giovanni Bellini, San Francesco in estasi, 1480, olio su tavola, 124,4×141,9 cm, collezione Frick, New York. 171


99. Giovanni Bellini, Ritratto di giovane, 1500 ca., olio su tavola, National Gallery of Arte, collezione Samuel H. Kress, Washington. 98. Hans Memling, Madonna con il Bambino, 1470, olio su tavola, 71×131, 30 cm, National Gallery, Londra. 172

110. Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane, 1500 ca., olio su tavola, 34,2×27,9 cm, Accademia Carrara, Bergamo. 173


Tutto quanto siamo andati dicendo non pretende di produrre nuovi documenti storici, ma ci si sforza di segnalare delle convergenze abbastanza singolari tra Memling e l’Italia emergenti nel nono decennio del Quattrocento. A quella data la pittura fiamminga, pur restando fedelis­ sima alla lettera della prima tradizione fiamminga, comincerà a mutarne lo spirito, inclinando a soluzioni formali italianizzanti, che nel giro di pochi anni emergeranno con chiarezza e im­ primeranno una svolta nel corso storico del fiammingo. E qui terminerebbe questa breve perlustrazione del fiammingo nel Veneto, di cui la perso­na chiave resta sino all’ultimo il grande patriarca Giovanni Bellini. I molti belliniani, ci sembra, poco o nulla aggiungono al problema che ci interessa. Ma in tema della circolazione tra nord e sud, ovvero dei rapporti tra Veneto e Fiandra, bisognerà almeno segnalare che essa è destinata a riaprirsi, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, ma questa volta con la Ger­ mania in veste di mediatrice o di interlocutrice. Come una nuova impetuosa ventata la forte espressività dei tedeschi, il loro sentimento della luce non realistico ma fantastico colpirà l’im­ maginazione di alcuni veneti, in primis Jacopo de’ Barbari e il giovanissimo Lotto. Si sa che il varco aperto a questa ventata coinciderà con la presenza di Dürer a Venezia sin dal 1505; la sua amicizia con Jacopo de’ Barbari, la stretta collaborazione di questi con il giovane Lotto fa di Jacopo l’uomo di punta di questi nuovi rapporti, e quasi, a termini invertiti e minori, un altro Dürer. «Jacomo de Barberino veneziano che andò in Alemagna e Borgogna e fece molte cose»: così già lo rammentava il Michiel e infatti egli rappresenterà il tramite maggiore di scambi tra Germania e Italia così evidenti, per esempio, in tanta ritrattistica veneta, come quella di Bartolomeo Veneto, talora quasi più tedesca che italiana.

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Capitolo sesto

I fiamminghi a Firenze

Partiti, nel nostro viaggio attraverso la penisola, da Firenze, per rilevare quanto l’impeto nuovo di Masaccio nell’affrontare la realtà si discostava dall’approccio sensibilissimo e minutis­simo di Van Eyck, vi ritorniamo ora con opposto intento: quello di riconoscere anche nella pit­tura fiorentina posteriore a Masaccio le tracce di un influsso fiammingo, che, anche attraverso il collezionismo mediceo, sarà destinato a crescere nel corso del secolo, sino ad assumere nel­l’ultimo quarto del Quattrocento un peso assai rilevante. La Toscana, sotto questo profilo, manca di un grande protagonista che, come Antonello, Piero della Francesca e Giovanni Bellini, sapesse innestare il microcosmo fiammingo nella forma italiana. E tuttavia la Toscana è anche il territorio in cui nella pittura degli ultimi ven­t’anni del secolo sono rilevabili molti accenti di gusto fiammingo nei paesaggi, negli interni, nei ritratti e nelle nature morte: un fenomeno che attende ancora di essere approfondito e che assume addirittura l’aspetto di una convergenza tra realismo nordico e realismo fiorentino. Quest’ultimo, infatti, nel corso di mezzo secolo aveva lentamente mutato la sua ricerca di pla­sticità, trasformandola in una indagine linearistica mobile e sottile, spesso con una crescente at­tenzione al problema albertiano della “ricezione dei lumi”. Ma per rifarci agli inizi della storia del gusto fiammingo a Firenze, e cioè intorno al 1440, non sarà inutile sottolineare brevemente il peso che questo gusto ebbe nel collezionismo medi­ceo e i caratteri che distinguono questo collezionismo. Un testo molto amato dal Warburg, che vi allude frequentemente1, è una lettera di Fruosino, agente dei Medici a Bruges, indirizza­ta nel 1448 a Giovanni de’ Medici, fratello di Piero. Fruosino era stato incaricato di trovare a Bruges degli arazzi da appendere (“panni fiandre­schi”) e li aveva inutilmente cercati alla fiera di Anversa, perché troppo grandi per le misure avute delle 175


stanze medicee. È probabile che il gusto per questi “panni fiandreschi” fosse stato introdotto a Firenze dai mercanti fiorentini di stanza a Bruges e che queste tele da appendere, raffiguranti scene di vita elegante o popolare, precorritrici delle scene di genere della pittura dei Paesi Bassi, rappresentassero un surrogato meno costoso del carissimo arazzo di corte. A questo collezionismo relativamente modesto i Medici, a cominciare da Piero, univano una vera passione per gli oggetti di oreficeria e di antiquariato, per i quali invece nutrivano un gusto aristocratico, mutuato probabilmente dai loro clienti borgognoni: gemme, monete, gioiel­li ai quali Piero con un «tocco dannunziano» (Gombrich) aggiungeva le edizioni rare del suo Cicerone, del suo Plutarco, del suo Plinio e Aristotele. Cifre cospicue venivano pagate per que­sti oggetti; la famosa Tazza Farnese costò la somma sbalorditiva di diecimila fiorini. Cifre cer­tamente molto più modeste vennero pagate per i quadri, sempre che, su questo punto, si possa far fede ai documenti relativi alle collezioni medicee2. È in questi elenchi e precisamente nell’inventario della collezione di Lorenzo dei Medici, redatto l’anno di sua morte, il 1492, che risulta un San Gerolamo di Van Eyck3 (ricordato an­che dal Vasari e che oggi alcuni studiosi sono inclini a identificare con una tavoletta di stile eic­kiano del Museo di Detroit), recante la data 1442 e pagato solo trenta fiorini; inoltre «una ta­voletta dipintovi di una testa di dama franzese cholorita a olio, opera di Pietro Cresti da Bruggia»4, pagata quaranta fiorini e che si può identificare con il delizioso Ritratto di Dama dei Musei di Berlino, di Petrus Christus, quella che il Longhi definì «quasi una Gioconda del nord»5. Quando queste opere entrarono nella collezione medicea non è dato, purtroppo, di sa­pere; non è escluso fossero acquistate da Lorenzo, anche se si trattava di artisti ormai antichi di quasi mezzo secolo. Ma per tornare alla situazione pittorica della Firenze degli anni Quaranta, si sa che, morto precocemente Masaccio, i veri capifila della pittura fiorentina erano ormai l’Angelico, soprat­ tutto, e Domenico Veneziano, i quali, come abbiamo avuto occasione di osservare, erano assai meno lontani dalla pittura fiamminga che non Masaccio: la pittura “copiosissima” di un Angeli­co, l’attenzione ai colori amichevoli e ai “lumi” di Domenico li rendevano certamente più ap­prezzabili di altri italiani agli occhi di qualche nordico come Rogier o Fouquet. Già nella Firenze degli anni Trenta, inoltre, sono da segnalare gli splendidi affreschi del Chiostro degli Aranci in Badia, con le Storie di San Benedetto, dipinte probabilmente dal por­ toghese Gonsalvo di Cordova tra il 1436 e il 1439, nei quali la prospettiva dell’Angelico giova­ ne s’unisce a una lucidezza ottica di timbro fiammingo6. Ma più significativa è la testimonianza del giovane Lippi, tornato nel 1434 dal soggiorno padovano durato tre anni. È soprattutto il Meiss7 che ha sostenuto che alcune soluzioni icono­ grafiche del Lippi non possono essere attribuite se non a un incontro diretto con qualche opera fiamminga, vista appunto a Padova. In specie la Madonna di Corneto Tarquinia del 1437 (Roma, Galleria Nazionale) presenta non solo il primo “cartellino” della pittura italiana ma un interno domestico, un paesaggino visto dalla finestra e un gusto per i gioielli, di derivazione fiamminga. 176

Altrettanto interessante, in questo senso, è l’enigmatico Doppio ritratto del Lippi del Me­ tropolitan Museum di New York, nel quale la dama di profilo è collocata in un interno di gu­sto fiammingo, sullo sfondo di una finestra che inquadra un paesaggio. Vorrei infine citare, benché più tarda, la ben nota Annunciazione della Galleria Nazionale di Roma, di cui si ammi­ra il fluttuare già nuovo dei veli e l’ingegnoso incastro di spazi; meno notata è la presenza dei due donatori, incastrati a forza e quasi dimezzata dall’inginocchiatoio a scatola; il realismo di quei volti non è lontano dai due misteriosi Ritratti anonimi di membri della famiglia Medici, come risulta dalle armi dipinte a tergo, forse Piero e Giovanni (Zurigo, Landolt Haus) e che il Longhi segnalò come probabili copie di Petrus Christus8. Sarei però restia a collocare questi ri­tratti oltre la metà del secolo, data l’impaginazione di tipo fiammingo “antico” su sfondo scuro e di tre quarti e vista anche la loro vicinanza mentale a certi noti ritratti fiorentini di profilo, va­riamente collocati tra Masaccio e Paolo Uccello (Washington, Boston, Chambéry). Altrettanto non giurerei sulla loro paternità fiamminga, di recente ancora avanzata9 perché, come appunto notava il Longhi, la loro matrice fiorentina si manifesta anche nella luce intensa, che mette in evidenza la plasticità dei visi. L’incastellatura dei copricapi, poi, è tipicamente fiorentina e uni­sce allo studio toscano della forma un’indagine luminosa di sapore fiammingo. Ma il caso certamente più rilevante e affascinante di questi nordicismi fiorentini del quarto e quinto decennio del secolo resta quello della pittura di Domenico Veneziano, un caso, tutta­via, strettamente legato all’incognita, praticamente insolubile, della sua formazione avvenuta al nord. Anche il Longhi lasciava saggiamente il problema in sospeso dopo aver proposto per l’Adorazione dei Magi di Berlino, di accertata provenienza fiorentina, la data precocissima del 1430-35. Di questo tondo Longhi definiva la singolare mescolanza stilistica con parole, ancor oggi insuperate: Domenico «si dimostra pari ai fiamminghi nella verità lenticolare... pari a Masaccio nella presa di possesso dello spazio, pari all’Angelico nei colori amichevoli e in tutto grazioso, copioso e vario»: proprio, si noti, secondo quanto raccomandava l’Alberti nel suo trattatello sulla pittura, probabilmente sotto l’influsso, egli stesso, dell’educazione ricevuta al nord. Lo stesso Longhi coglieva questo rapporto dicendo: «Se è vero che del fascio di tendenze del decennio 1430-40 Domenico fu lo sperimentatore più acuto, il dilettante supremo, non è troppo sconveniente dire che la meditazione dell’Alberti è semmai nella pratica d’arte affine a quella di Domenico»10. La doppia radice culturale dell’Adorazione dei Magi ci rinvia dunque alla misteriosa educa­zione pittorica di Domenico. Fra le varie ipotesi sarà da tenere in conto quella recentemente ripresa e sostenuta con varietà di argomenti dal Wohl11, secondo la quale Domenico sarebbe stato avviato alla pittura da Gentile da Fabriano, recatosi, come si sa, nel Veneto e con il quale Domenico sarebbe giunto a Firenze. Scrutata da vicino e spassionatamente, non si potrà nega­re che la “historia copiosissima” della Adorazione dei Magi si lega abbastanza facilmente a qual­che pagina miniata eickiana e anche delle più antiche; quasi ancora limbourghiana appare la minuzia del tocco e della fattura, oltre che lo sfarzo tutto “internazionale”, per il quale Domeni­co avrà anche potuto ispirarsi a qualche foglio del Pisanello, itinerante per le corti settentrionali. 177


Dunque, di fiorentino, in questa Adorazione dei Magi rimane – ed è certo fondamentale­quel «pugno di cristallo della prospettiva» (Longhi) che rilega insieme tanta varietà di uomini e di fauna. Del resto non si dimentichi che a Firenze stessa, negli anni Trenta fiorivano “casso­ni”, forzieri, deschi da parto nel più puro gusto “internazionale” o, se si vuole, tardogotico, tutta una produzione lontana dagli intenti severi dei novatori; e che anche Domenico eseguirà due di questi cassoni per le nozze tra Marco Parenti e Caterina Strozzi12. Al punto più alto del lacunoso curriculum di Domenico sta il grande capolavoro della Pala di Santa Lucia de’ Magnoli (Uffizi), dipinta probabilmente tra il ’40 e il ’50. In essa Domenico si presenta come il campione della fiorentinità più pura per la splendida sequenza prospettica dei marmi nella loggia ariosa. E tuttavia si sa che la poesia della pala, più ancora che nella pro­spettiva, sta nel fendente di luce che attraversa tanta purezza di marmi colorati (come farà an­che Piero della Francesca nella Pala Braidense) nel mutare dei colori in rapporto alla “ricezione dei lumi” e nella “amistà” dei colori stessi. Ed è poesia anche la suprema limpidezza luminosa che esalta ogni più piccolo dettaglio di gioielli, di tappeti e di vesti: il piviale sontuoso di San Zanobi, vero capolavoro dell’arte della tessitura, e la tiara coperta di perle gareggiano con quelli del San Donaziano di Van Eyck nella Pala del Canonico Van der Paele di Bruges. È il caso a questo punto di ricordare ancora una volta, l’accostamento avanzato dal Gom­brich13 tra il San Zanobi di Domenico e il San Donaziano di Van Eyck, notando la sottile ma fondamentale differenza che separa i “valori tattili”, in ultima istanza fondamentali, del San Zanobi dalla formidabile tessitura luminosa del santo vaneickiano; quella differenza che in lin­guaggio fotografico passa tra il “lucido” e l’opaco. Ma questa differenza è dovuta semplicemen­te all’uso della tempera da parte di Domenico e dell’olio in Van Eyck? Equivarrebbe, dice il Gombrich, a dare credito alla romantica e tenebrosa leggenda vasariana, quella di un “segreto” della pittura a olio, di cui Domenico era entrato in possesso e che fu la causa per cui fu assas­sinato da Andrea del Castagno. Questo confronto offre piuttosto la conferma di come l’impiego dell’olio nella pittura non sia in sé tanto essenziale quanto la tecnica pittorica della sovrapposizione di velature usata dai fiamminghi; la differenza verte, quindi, non tanto sul mezzo usato, quanto sulla radicale diversità dei fini cui è rivolta quella tecnica. Volendo ora continuare a segnalare una sequenza di fatti che interessano la nostra vicenda sulla scena fiorentina, il più saliente degli anni Sessanta riguarda la presenza a Firenze del grande Trittico del provenzale Froment, raffigurante la Resurrezione di Lazzaro (Uffizi), ese­guito dopo il soggiorno di Froment stesso a Bruxelles, nel 1460-61, quando, guarda caso, vi giungeva da Milano Zanetto Bugatto: un trittico provenzale e insieme furiosamente fiammin­go. Il committente ne era il legato pontificio Francesco Coppini, a sua volta in stretto contatto con il duca di Milano. Fu lo stesso Coppini a portare il Trittico a Prato al suo ritorno nel 1462, passando da Milano e a farne dono per ragioni di politica e d’amicizia a Cosimo de’ Medici, il quale a sua volta ne fece dono al Monastero di San Francesco al Bosco nel Mugello, poco prima della sua morte nel 146414. È probabile che il Trittico, con l’esasperata mimica facciale dei personaggi, le anatomie an­golose, le composizioni affollate, non piacesse al vecchio Cosimo e difficilmente, crediamo, sa­rebbe piaciu178

to al pubblico fiorentino. Tornato in Provenza, lo stesso Froment eseguirà nel 1476 per re Renato d’Angiò il famoso Trittico del Roveto Ardente, carico di allegoria ma di­stribuito in un paesaggio così luminoso e di così sapiente orchestrazione prospettica, pur nella meticolosità dei dettagli, da far pensare che egli avesse potuto conoscere qualche esemplare fio­rentino del Pollaiuolo o del Baldovinetti: un’opera, dunque, che fonde ancora nord e sud, se­condo le antiche predilezioni del grande committente. Giunti così all’ottavo decennio del secolo, si verifica, come risulta dai pochi documenti ri­masti, una nuova ondata di committenze di rilievo, che hanno come protagonisti principali da un lato Tommaso Portinari dall’altro Memling. Questo fatto non è certamente da interpretare alla stregua della prima entusiastica reazione verso le novità fiamminghe, ma come un preciso orientamento di gusto e per di più di gusto locale fiorentino. Un fenomeno che assunse pro­porzioni rilevanti specie nella ritrattistica e che raggiunse il suo apice con il sensazionale arrivo a Firenze della grande pala con l’Adorazione dei Magi di Hugo van der Goes. Tra i committenti fiorentini di cose fiamminghe, si diceva, Tommaso Portinari occupa una posizione di primissimo piano, difficilmente paragonabile a quella di altri committenti italiani. Tommaso Portinari era giunto a Bruges nel 1460 e, da collaboratore di Jacopo Tani, capo della filiale del Banco mediceo, era diventato lui stesso capo del Banco nel 1465. Il suo nome è legato per la prima volta alla tavola con la Passione di Cristo di Memling, ora alla Galleria Sabauda di Torino, dove Tommaso figura di fronte alla moglie, Maria Maddalena Baroncelli. La tavola de­stinata all’Ospedale di Santa Maria Nuova, passò poi in proprietà di Cosimo, come ricorda an­che il Vasari15. Una seconda volta Tommaso si fece ritrarre con la moglie in acconciatura fiamminga pochi anni dopo il loro matrimonio nel 1470, in un dittico, ora al Metropolitan di New York, che doveva recare al centro il gruppo della Vergine con il Bimbo; tutta la famiglia Portinari al completo sarà, infine, raffigurata nelle ali del grande Trittico di Van der Goes. È ancora Tommaso Portinari a essere implicato nel noto e malaugurato episodio del Giudizio Universale di Memling. La grande tavola, commissionata da Jacopo Tani per Firenze na­vigava, infatti, su un galeone di proprietà di Tommaso; assalito dai pirati, depredato il galeone al largo di Danzica, il trittico non giunse mai a destinazione e si trova ancora oggi nel Museo di Danzica. Questo episodio coincise con l’inizio di una serie di fallimenti finanziari che indus­sero Lorenzo de’ Medici a separarsi da Tommaso nel 1480; Tommaso dovette lasciare l’impo­nente casa di Bruges in Rue des Aiguilles, comperata da Piero de’ Medici16 e gli succederanno nel Banco i nipoti Folco e Benedetto17. Ma a quella data Tommaso aveva già fortunatamente legato il suo nome alla commissione forse più importante in assoluto fatta da un italiano di un’opera fiamminga, e cioè il trittico con al centro la grande Natività, ordinata a Hugo van der Goes nel 1476 e probabilmente con­dotta a termine nel 1478, destinata a Firenze, dove giunse felicemente nel 1483. Ma prima di occuparci di questo capolavoro vogliamo soffermarci sugli anni della maggior fortuna della ritrattistica memlinghiana e sui probabili riflessi di questa a Firenze. Sui motivi della 179


gran fortuna di Memling come ritrattista già si è detto: egli da un lato appariva in questo campo l’erede di Van Eyck e di Rogier, pur senza l’altissimo scrutinio del primo né la quasi fe­roce dicotomia tra spirito e corpo che caratterizzava il secondo. Egli era piuttosto l’inventore di una formula di gradevole e dignitoso realismo, di qualità professionalmente sapiente e soprat­tutto di una serie di varianti compositive destinate a evitare la monotonia della vasta galleria dei suoi ritratti; il tema del personaggio nell’ambiente, interno o paesistico, arricchisce infatti la tematica anche rispetto a Petrus Christus e a Dirk Bouts, che pure avevano già inserito mo­tivi del genere. Esiste appunto tutta una serie tardiva di ritratti memlinghiani, intorno agli anni Ottanta, in cui il soggetto è raffigurato su uno sfondo arioso di paesaggio: un genere che dovette ri­scuotere particolare favore presso i committenti italiani. Un gruppetto di ritratti agli Uffizi presenti probabilmente, ab antiquo, a Firenze, sono la riprova della preferenza dei fiorentini verso Memling. Fra tutti spicca il bellissimo Ritratto di Giovane della Galleria Corsini di Fi­renze, quasi italiano per la monumentalità dell’impianto e la bellezza dello sfocato sfondo di paese. Accanto a questo porrei il meno noto Ritratto virile della collezione Frick di New Jork, che colpisce per l’intensità del bel volto sensibile, lo sguardo vivace e i tratti fortemente ita­liani del volto. Alcuni studiosi, tra i quali il Pope-Hennessy e il Panofsky18 sostengono la tesi di un in­flusso italiano sulla ritrattistica di Memling, massime nei paesaggi, che hanno spesso accenti di tipo peruginesco. È difficile tuttavia precisare le vie di questi imprestiti italiani, perché tutti i numerosi documenti relativi all’infaticabile attività di Memling a Bruges non consentono di collocare con verosimiglianza un suo viaggio in Italia e occorre quindi limitarsi all’ipotesi di una sua conoscenza in Fiandra di esemplari italiani. Assai più facile, invece, è verificare alcune evidenti tracce della ritrattistica memlinghiana in quella fiorentina dell’ultimo quarto del secolo. Occorre però premettere che nel corso di circa mezzo secolo la stessa pittura fiorentina era andata mutando la sua visione della persona umana, raffigurandola meno ideale o eroica e via via più caratterizzata in una sua specificità, per il mutare del processo culturale, filosofico e morale. Si capisce quindi che la ritrattistica memlinghiana rispondesse alla nuova inclinazione; e in particolare che l’inclusione dello spa­zio interno ed esterno nel ritratto stesso rispondesse perfettamente alla tradizione pittorica fiorentina. Fra gli artisti fiorentini che più precocemente introdussero nella ritrattistica nuove formule di gusto fiammingo, anche se interpretate con profonda originalità, fu il Botticelli. Uno dei suoi più antichi ritratti (1471), quello di Smeralda Brandinelli, o Donati (Victoria and Albert Museum) si riallaccia a quelli precocemente fiamminghi di Filippo Lippi: il modello è inqua­drato in uno sfondo architettonico estremamente raffinato e astratto, di imposte socchiuse e di doppie finestre, di giochi di luce su pareti chiare e oscure: il suggerimento probabilmente fiammingo, della persiana viene qui utilizzato con giochi di luce a specchio quasi metafisici. Quanto poi al Ritratto di giovane con medaglia (Uffizi) dei primi anni del Settanta, la sua affinità con il Ritratto virile con medaglia di Memling19 è tanto esplicita da poter quasi trarre in inganno su quale dei due rappresenti un precedente dell’altro. Infatti il motivo del personaggio che reca in 180

mano un oggetto prezioso si ripete più volte in Botticelli, come nel Ritratto di per­sonaggio mediceo (già a Firenze, Galleria Corsini) che stringe nella mano l’anello a punta di diamante, emblema privato dei Medici, un motivo, questo, che ha a sua volta parecchi prece­denti famosi nella tradizione fiamminga20. Sempre in tema di ritrattistica fiorentina ci si imbatte, a una data precoce, già forse prima del 1475, nella Ginevra Benci di Leonardo, ora nella Galleria Nazionale di Washington. Essa ci appare sorprendentemente fiammingheggiante nella qualità sottilissima dell’incarnato pallido, nel disegno pure sottilissimo dei tratti, dei capelli; e se tutta leonardesca è l’idea di collocare un simile pallore sullo sfondo buio di un intrico di foglie come un paravento di gusto japonisant, a destra il paesaggio ha nordiche lontananze, ancorché soffuso di azzurrine velature leonarde­sche. Proprio a proposito della Ginevra Benci, il Gombrich afferma che «nelle opere giovanili di Leonardo vi è una prova evidente che egli fu un appassionato studioso di pittura nordica»21. E prosegue... «In ogni caso vorrei proporre che egli [Leonardo] studiò quel campo particolare dei nordici, il loro dominio nella composizione paesaggistica, con un’attenzione assai maggiore di quanto non si sia mai supposto. Il suo disegno più antico, del 1473 [Uffizi], è stato general­mente descritto come il frutto di una passeggiata con schizzi nei dintorni di Firenze. Mi sem­bra debba essere considerato come uno studio condotto sulla pittura fiamminga»; e precisa­mente, sostiene il Gombrich, sembra uno studio condotto sullo sfondo roccioso dell’altare di Gand oppure delle Stimmate di San Francesco di Van Eyck. L’affermazione di uno studioso come il Gombrich ci conforta a riconsiderare questo aspetto del tutto inedito della pittura di Leonardo, soprattutto l’uso della luce e degli effetti atmosferici come strumenti di trasforma­zione fantastica di paesaggi reali, nella Gioconda, nella Sant’Anna o nella stessa Vergine delle Rocce. Dopo questa breve digressione leonardesca, che naturalmente rinvia a uno studio più spe­cifico, vogliamo concludere che tutta la gamma di soluzioni fiamminghe sono presenti nella ri­trattistica fiorentina: dal ritratto su fondo scuro, come il bellissimo Ritratto di Giovane di Bot­ticelli della Galleria Nazionale di Washington, al “ritratto con paesaggio” abbastanza comune nella ritrattistica fiorentina più tarda. Di quest’ultimo tipo sono i due noti ritratti di Piero di Cosimo del Rijksmuseum di Amsterdam raffiguranti Giuliano da Sangallo e Francesco Giammberti, dei primi anni del Cinquecento; non è eccessivo osservare che il realismo quasi spietato dei volti illuminati in primissimo piano, il paesaggio ricco di episodi e di architetture lontane, la bellissima natura morta in primo piano superano in ricchezza gli stessi esemplari fiamminghi. Certamente è difficile spiegare la somiglianza di certi sfondi di paesaggio memlinghiani (vedi il Ritratto virile degli Uffizi) con quelli di certi ritratti del Perugino (ad esempio il Francesco delle Opere) o di pittori perugineschi (come il Matteo Sassetti della Raccolta Linsky a New York attribuito di recente a Fra Bartolomeo)22. Ed è anche opportuno ricordare, in propo­sito, che un Perugino e un Signorelli usarono servirsi anche della tecnica a olio. Questa ondata di gusto ritrattistico va vista, non da ultimo, sullo sfondo di una Firenze un po’ provinciale e quasi narcisistica, che vuole riconoscersi nei suoi personaggi più in vista. Questi traboccano nelle pale e negli affreschi, con un crescendo quasi illimitato: dal gruppo di ritratti del grande e misconosciuto Filippino Lippi (1484) 181


nella scena della Resurrezione del figlio di Teofilo, della Cappella Brancacci alle vere e proprie “foto di gruppo” dei celebri affreschi del Ghirlandaio in Santa Maria Novella; mentre una posizione più raffinata e inquieta occupano le folle di perso­naggi che il Botticelli colloca nelle sue Adorazioni dei Magi (Londra, Washington, Uffizi). Per molti anni si è detto, e si va ancora ripetendo, che l’arrivo a Firenze di una pala come l’Adorazione dei Magi di Hugo van der Goes, commissionata da Tommaso Portinari e destinata alla Chiesa di Sant’Egidio dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, ebbe una risonanza tale da essere ritenuta direttamente responsabile, essa sola, di tutta l’inclinazione fiamminga nella pit­tura fiorentina successiva. Nonostante l’effettiva portata storica della presenza di una pala sif­fatta e di tale levatura nel cuore di Firenze e sotto gli occhi di tutti, la questione è più comples­sa. E anzitutto, la questione cronologica: sulla base della presunta età dei figli Portinari presenti nelle ali del Trittico, si riteneva che esso fosse giunto a Firenze circa il 1476 o al mas­simo il 1480 (Warburg). Mentre uno studio recente23 ha potuto appurare che il monumentale Trittico, spedito da Bruges, come di consueto, per mare e passando per la Sicilia giunse a Pisa; risalito l’Arno fino alle porte di San Frediano, fece il suo ingresso a Firenze il 28 maggio 1483. Nella Cappella Portinari di Sant’Egidio, cui era destinato, il Trittico veniva a inserirsi tra i cicli affrescati da Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e Alessio Baldovinetti e dunque accanto alla più prestigiosa e tipica tradizione fiorentina, per cui l’accostamento del fiammingo ai fiorentini consacrava un gusto che aveva a Firenze già solide basi. In altre parole, l’opera di Van der Goes non veniva a inaugurare un gusto nuovo ma a confermare una tradizione e ad accelerarne se mai il corso, promuovendo sempre più quella tendenza minuta, aneddotica della realtà, unita al gusto per il paesaggio remoto. Analogamente dovrà essere corretta l’altra comune convinzione che il Ghirlandaio sia stato il massimo se non l’unico interprete di questa ventata di gusto fiammingo promossa dalla pre­senza del Trittico Portinari: il Ghirlandaio fu in realtà l’interprete più prolisso e superficiale di tale gusto nei fin troppo celebri affreschi in Santa Maria Novella, con le Storie della Vergine, ricche di costumi e di descrizioni d’ambiente. Ben altri artisti e opere, come vedremo, erano già apparsi a Firenze, superiori al livello del Ghirlandaio. Ma, a questo punto, è bene esaminare più da vicino quello che è considerato in assoluto uno dei maggiori capolavori della pittura fiamminga e quasi una cerniera tra l’antica tradizione dei padri fondatori del fiammingo e un prossimo nuovo corso della pittura fiamminga. Hugo van der Goes era un pittore disceso dal grande albero genealogico rogeriano; ma in questa tra­dizione compatta e fedele anche se profondamente diversificata, egli apre una sorta di incrina­tura vistosa, imprime una sorta di accelerazione in una direzione che si potrebbe definire, ap­punto, moderna. Già la sua tavolozza fredda, quasi opalescente, diverge dagli splendori cromatici fiamminghi, con un effetto che Valéry avrebbe chiamato «un étrange lueur concra­diccoire»; una tavolozza che il Panofsky ritiene appresa da Van der Goes in Francia e precisa­mente, dall’incontro con la pittura di Fouquet24. 182

101. Filippino Lippi, La resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra, particolare, 1427-80, affresco, 230×599 cm, chiesa del Carmine, Firenze. 183


Ma al di là di questa prima impressione e delle sue eccezionali misure (la sola tavola cen­trale misura tre metri per due e mezzo) ciò che più colpisce nel Trittico è il suo ritmo composi­tivo, del tutto diverso da quello tradizionale: da un lato all’altro del dipinto appaiono incrociarsi forze dinamiche, traiettorie di figure che emergono dal fondo ai primi piani o che si immergo­no nello spazio, non tanto secondo le leggi della lontananza prospettica, quanto per creare l’il­lusione di distanze incommensurabili all’uomo. In tutto questo flusso di moti, la Vergine e il Bambino al centro appaiono quasi isolati in un cerchio di solitudine, intorno al quale premono gli splendidi angeli dalle tuniche bianche cangianti in azzurro e i pastori colti da una pietas patetica di inedita, sconvolgente violenza. E vi sarebbe da soffermarsi molto sulla squisita e colta simbologia floreale e vegetale: vasi di ireos, tralci di gigli scarlatti e di aquilegie (quindici di numero, – con palese riferimento ai misteri della Vergine), il fascio di spighe che allude alla parola Betlemme – casa del pane25. I personaggi della Natività sono segnati da una melanconia e da una sorta di instabilità psichica, che sembra sancire l’avvento di una umanità diversa da quella supremamente serena di Van Eyck, come dall’ascetico rigore di Rogier: domina qui un sentimento che direi umano­troppo umano, quale lo potevano forse intendere per affinità elettiva, artisti come un Botticelli o un Filippino Lippi o un Piero di Cosimo. Vorrei ancora soffermarmi un istante su quelle figure straordinarie che sono la Vergine Annunciata e l’Angelo, dipinti, secondo l’uso antico, in grisaille sugli sportelli esterni del trit­tico: la Vergine sembra sul punto di svenire, turbata alla vista dell’Angelo, che le si presenta impugnando un pesante scettro. Con finezza critica e poetica il Panofsky dice che esse sono «così intensamente animate... da sfidare ogni distinzione tra sculture simulate e pitture vere; sembra cioè che abbiano subìto una duplice metamorfosi, come se degli esseri umani fossero stati mutati prima in pietra e poi riportati alla vita». Ora, per intendere il successo certamente strepitoso di una tavola come questa, torno a dire che la sua stessa presenza a Firenze è il frutto di una serie di fatti culturali e artistici precedenti o in fieri. A quella data del 1483, per esempio, era stata dipinta già da vent’anni quella Natività del Baldovinetti nel chiostrino dell’Annunciata, che suona veramente come preludio di una stagione fiammingheggiante, per il suo paesaggio all’infinito e l’edera verissima in primo pia­no. Ma tutto il decennio 1470-80 è ricco di fatti significativi: in esso cade, anzitutto, il momen­to saliente della bottega del Verrocchio (che in genere si tende mentalmente a spostare più tardi); e cadono quindi in questi stessi anni la formazione dei migliori ingegni dell’ultima ge­nerazione, Leonardo, prima di tutto, e il Perugino. Dei primi anni del ’70 è ancora il Battesimo del Verrocchio, cui partecipò Leonardo nel paesaggio indefinito, mentre, sempre del Verroc­chio, negli stessi anni, è la Madonna col Bambino del Courtauld Museum, di tipo vagamente fiammingo e ricco di ricerche sottilmente luministiche, ottenute con tecniche miste a olio26. Ancora nel decennio ’70-’80 furono dipinte quelle Fatiche d’Ercole del Pollaiuolo, la cui micro­grafia paesistica ha un inconfondibile sapore fiammingo; questo tema del paesaggio visto come dall’alto, che si ripete anche nel lirico Apollo e Dafne di Londra, di 184

uno spazio che andava or­mai assumendo il tipo della descriptio terrarum ricca di accidenti naturali, segna il definitivo distacco da una natura intesa fiorentinamente solo come spazio prospetticamente misurabile e soprattutto legato all’azione dell’uomo27. Anche per Sandro Botticelli alcuni capolavori nei quali il paesaggio assume parte integrante, precedono il 1480 . Penso soprattutto all’Adorazione dei Magi di Londra, che è dipinta con una tecnica sottile, a molti strati di gesso, cui si sovrappongono strati di toni scuri o chiari, che fa pensare una diretta assimilazione delle tecniche fiamminghe28. Qualche anno più tardi il Botticelli lascerà altri segni di una sua eventuale interpretazione di motivi fiamminghi: per esempio lo sfondo della composizione della Madonna Bardi con l’intrico fittissimo di cedri, cipressi, palme, olivi e rose è del tutto eccezionale per l’esattezza dello studio botanico e per il significato simbolico delle piante in ordine alla pietà mariana, dunque due tipici valori fiamminghi29; anzi il riferimento preciso è alla devozione dell’Immaco­lata Concezione, la cui festa liturgica era stata sanzionata da Sisto iv nel 1477. Quanto poi al Redentore benedicente dell’Institute of Arts di Detroit, la sua vicinanza con gli esemplari dello stesso soggetto di Memling e di Bouts mi pare così evidente da dover sup­porre la conoscenza di qualche esemplare del genere, poiché è assai più improbabile che il Bot­ticelli fosse a conoscenza del Salvator Mundi di Antonello30. Da tutto quanto si è andato dicendo, si ricava che, prima e dopo l’apparizione del Trittico Portinari di Van der Goes, nel decennio 1480-90, erano ormai entrati stabilmente nel linguag­gio pittorico fiorentino elementi che venivano in qualche modo suggeriti dalla pittura fiam­minga, come l’analisi fisionomica, la sottigliezza di luci scorrevoli e le micrografiche lontananze di paesaggio. Fra i molti esempi che si potrebbero citare scegliamo gli indimenticabili donatori della Pala Nerli (Firenze, Santo Spirito), del sensibilissimo Filippino Lippi, che ga­reggiano con i migliori ritratti fiamminghi del tempo; e ancora, dello stesso Filippino, i due bellissimi tondi del Museo di San Gimignano con l’Annunciata e l’Angelo annunciante, con la loro incantata atmosfera d’interno, dove la luce accarezza gli oggetti e profila le grandi ruote dentate dell’orologio a contrappesi. Inoltrandoci nell’ultimo decennio del secolo, bisognerà ancora registrare il grande successo del Perugino presso i fiorentini, che si inquadra nel contesto della nuova, strettissima circola­zione tra fiorentini ed extra fiorentini dopo la grande impresa della decorazione romana della Sistina, che li aveva accomunati; a questo gruppo di artisti si aggiungono i numerosi allievi della bottega del Verrocchio, come un Lorenzo di Credi o il giovane Fra Bartolomeo. Fra tutti co­storo il dialogo sarà fittissimo, tanto da generare frequenti esitazioni attributive: ma in tutti co­storo una delle componenti stilistiche sarà, appunto, un dettaglio, un accento fiammingo oramai quasi “naturalizzato”. Basterà un solo esempio a illuminare questa situazione e cioè il tondo con la Natività di Palazzo Pitti, attribuito generalmente a Cosimo Rosselli, ma per Faye opera giovanile di Fra Bartolomeo sul finire del secolo31: il sentimento fiammingo che lo pervade, dai primi piani di erbe grasse alle lontananze lacustri è così evidente da far annovera­re Fra Bartolomeo fra i pittori più sensibili al fiammingo. Sempre E. Faye attribuisce a Fra Bartolomeo una Madonna col Bimbo del Metropolitan 185


102. Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi, 1439-1441 ca., tempera su tavola, 84×84 cm, Gemäldegalerie, Berlino. 186

103. Filippo Lippi, Madonna di Corneto Tarquinia, 1437, tempera su tavola, 114×65 cm, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma. 187


104. Filippo Lippi, Annunciazione, 1440-1445, tempera su tavola, 155×144 cm, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, Roma. 188

105. Domenico Veneziano, Pala di Santa Lucia de’ Magnoli, 1445, tempera su tavola, 209×216 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 189


106. Hans Memling, Ritratto di ignoto, 1480 ca., olio su tavola, 38×27 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 190

107. Hans Memling, Ritratto d’uomo, 1470-75 ca., olio su tavola, 33,5×23 cm, collezione Frick, New York. 191


108. Hans Memling, Tommaso Portinari e moglie, 1470, olio su tavola, 42,2×32,1 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 192

193


109. Leonardo da Vinci, Ritratto di Ginevra de’ Benci, 1474-78, olio su tavola, 38,8×36,7 cm, National Gallery of Art, Washington. 194

110. Sandro Botticelli, Ritratto d’uomo con la medaglia di Cosimo il Vecchio, 1474-75, tempera e stucco dorato su tavola, 57,4×44 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 195


111. Hugo Van der Goes, L’Adorazione dei Magi, Trittico Portinari, 1477-1478, olio su tavola, 253×608 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 196

197


112. Hugo Van der Goes, Vergine annunciata e Angelo annunciante, 1478, olio su tavola, 274×652, sportelli esterni del Trittico Portinari, Galleria degli Uffizi, Firenze. 198

113. Alessio Baldovinetti, Natività e annuncio ai pastori, 1460, affresco con parti a secco, 390×488 cm, chiostro dei Voti, basilica della Santissima Annunziata, Firenze. 199


114. Filippino Lippi, L’Annunciata, 1483-84, olio su tavola, Museo di San Gimignano. 200

115. Fra’ Bartolomeo, Madonna con il Bambino, 1497, 58,4×43,8 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 201


116. Piero di Cosimo, Ritratto di Giuliano da Sangallo, 1500-05, olio su tavola, 47,5×33,5 cm, Rijksmuseum, Amsterdam. 202

117. Piero di Cosimo, Venere e Marte, 1490 ca., olio su tavola, 72×182 cm, Gemäldegalerie, Berlino. 118. Piero di Cosimo, Morte di Procri, 1495 ca., olio su tavola, 65×184 cm, National Gallery, Londra. 203


119. Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne, 1470-1480, olio su tavola, 29,5×20 cm, National Gallery, Londra. 204

120. Sandro Botticelli, Madonna Bardi, (Madonna tra i santi Giovanni Battista e Giovanni evangelista), 1485 ca., tempera su tavola, 185×180 cm, Gemäldegalerie, Berlino. 205


121. Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi, 1470-75 ca., tempera su tavola, National Gallery, Londra. 206

122. Hans Memling, Madonna in trono con due angeli, 1490-91, olio su tavola, 57×42 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 207


Museum di New York, evidentemente ispirata alla Madonna Benois di Leonardo; ma il paesaggio che si scorge dalla finestra è lette­ralmente copiato dal paesaggio di una pala di Memling agli Uffizi, raffigurante la Madonna con due angeli; il che oltretutto documenta la presenza ab antiquo a Firenze anche della pala fiamminga32. Morti, prima dello scadere del secolo, il Pollaiuolo, il Verrocchio, il Ghirlandaio; sopravvis­suto, ma dimenticato il Botticelli; morto prematuramente anche Filippino Lippi, mentre Fra Bartolomeo e l’Albertinelli si avviano all’eloquenza del “grande Rinascimento”, resta ormai co­me figura eminente di artista operoso a cavallo fra i due secoli, il solo Piero di Cosimo, che è anche il più straordinario campione di questi venti anni di intelligente sperimentalismo fioren­tino, nel quale il fiammingo era entrato come componente. L’arrivo del trittico Portinari di Van der Goes dovette anzi rappresentare per Piero di Co­simo un evento più decisivo che non per altri33, nel senso di liberare la sua fantasia e di rivolgerla agli inserti più irrazionali e fantastici, pur in una sintassi compositiva ancora legata lar­gamente alla tradizione fiorentina. L’adesione al naturalismo fiammingo di Piero di Cosimo appare assoluta quando egli carica di una sorta di inquietante iperrealismo le nature morte, la botanica dei primi piani, il gusto quasi maniacale dei gioielli. La Visitazione e Santi della Galle­ria Nazionale di Washington, di incerta attribuzione cronologica, ma probabilmente degli anni Ottanta, raduna tutti questi motivi e raggiunge apici di illusionismo nelle palle d’oro coi riflessi a specchio, nella cartapecora ingiallita e nel tralcio di violacciocche, collocati sui gradini. Un preciso accento vandergoesiano, poi, risuona nell’Adorazione dei pastori un tempo a Berlino, dipinta forse nel 1385 e quindi, in questo caso, sotto il diretto influsso del grande trit­tico Portinari. Già si è detto dei due intensissimi ritratti di Giuliano da Sangallo e Francesco Giamberti con i tipici contrassegni di un realismo a oltranza, quali le vene turgide, la pelle grinzosa. Si stenta ad annoverare fra i ritratti la celebre Simonetta Vespucci del Museo di Chantilly (che infatti il Vasari, pur attribuendola a Francesco da Sangallo, chiamava «testa bel­lissima di Cleopatra») dai capelli quasi anguicriniti e con un serpente vero al collo annodato al cerchio d’oro; ma anche qui le lontananze di paese sono fiamminghe e fiamminghi, in genere, sono i paesaggi delle numerose pale religiose e allegoriche. In queste pale allegoriche, la solitaria strada poetica di Piero di Cosimo trova la sua vena più personale e più liricamente accesa, ovunque frammischiando sottigliezze visive alla fiam­minga nel contesto del Rinascimento paganeggiante fiorentino, che qui anzi celebra i suoi trionfi. In quest’ultima morente stagione che sfiora i primi anni del Cinquecento Piero tocca però anche i toni dell’idillio in due fra i più incantevoli dipinti di tutta la pittura italiana del se­colo: mi riferisco all’ovidiana Morte di Procri, abbattuta fra le erbe grasse e fiorite, su un litorale deserto popolato solo d’animali, in un continuo incontro di piani remoti e prossimi, e a quel Venere, Cupido e Marte, che il Vasari felicemente descriveva quasi con sorridente ironia: «Un quadro dov’è una Venere ignuda con Marte parimenti che spogliato nudo dorme su un prato pieno di fiori... evvi un bosco di mirti ed un Cupido che ha paura di un coniglio...»34. 208

Capitolo settimo

L’aria “ponentina” in Lombardia

Se vi è una pittura, alla quale si addice il termine di “ponentino”, nel senso acutamente estensivo in cui l’usava il Michiel, per indicare quella particolare inclinazione nordica che la percorre quasi segretamente, questa è proprio la pittura dell’area lombarda e dei territori a es­sa aggregati, la Liguria prima di tutto e il Piemonte. La storia di questi contatti nordici è tuttavia forse più difficile da rintracciare nella pittura lombarda che altrove, perché essi appaiono più mescolati alla genuina tradizione locale e an­che più sporadici. Eppure l’appartata e quasi ombrosa collocazione della pittura lombarda nel panorama della pittura italiana del secondo Quattrocento è in parte legata anche a queste in­flessioni nordiche che la percorrono; ma si tratta, il più delle volte, di inflessioni non collegabili a una fonte determinata, in quanto sono il frutto di contatti e mediazioni diversi, come in fondo, era avvenuto sempre nella sua tradizione remotissima. La Provenza occupa, in questo senso, un ruolo di primo piano, affacciandosi in Lombardia, per il varco ininterrottamente aperto della Liguria e portandovi le sue precoci esperienze fiamminghe. Non è facile dunque nel tessuto ora prezioso e ora dimesso della poetica lombarda scevera­re quel filo franco fiammingo che vi si intreccia: e che può essere talora un imprestito icono­grafico, una modulazione della luce, la sottigliezza del reale; ancor più difficile in quanto manca per la Lombardia il supporto di qualche dato documentario, di qualche fatto storico (a ecce­zione della vicenda di Zanetto Bugatto) a suffragare questi contatti col nord e con la Fiandra in particolare. Per la vicina Liguria, invece, alcuni fatti pittorici a cavallo della metà del secolo, e quindi a una data molto precoce, ci orientano in questa direzione: fu il Longhi a dichiarare che la Crocifissione della Pinacoteca di Savona del pavese Carlo Braccesco era «più amica di Van Eyck e di Petrus Chri209


stus che non di Masaccio»1: un’intuizione quanto mai stimolante a penetrare il se­greto di quest’opera che resta in quegli anni, e cioè prima del 1451 (data di morte del pittore), del tutto isolata nel panorama della pittura lombarda, impigliata allora nelle secche di una tra­dizione miniaturistica ormai svuotata. Opera emblematica, questa Crocifissione, per quel modo che si diceva, quasi segreto, con il quale la pittura lombarda utilizza accenti nordici. E infatti, se nello scrutinio doloroso del volto bellissimo del Cristo sembrano risuonare già i primi echi del­le più recenti novità fiamminghe, e se il paesaggio si apre in orizzonti lontani di picchi nevosi, altri aspetti ci riportano all’area lombarda, e per di più di antica estrazione trecentesca: quasi una ripresa, semplificata, delle Crocifissioni che popolavano gli oratori gentilizi della campagna lombarda. Nella Crocifissione di Savona, v’è, infatti, un rifiuto netto di ogni calligrafia tardogo­tica che non si può spiegare, come è stato proposto2, come un’eco della nobile semplicità toscana. La stessa eccezionale grandezza di questa Crocifissione (238×163 cm), la sua altrettanto ecce­ zionale esecuzione su tela – non mai sottolineata in genere – sono agli antipodi dei primi ri­flessi in Italia di opere eickiane di piccolo formato e fanno di quest’opera monumentale una sorta di equivalente di un arazzo (quei “panni fiandreschi” che pure cominciavano a circolare in Italia). E ancora: la nobile scritta dorata che ne circonda i quattro lati con un’invocazione a Ma­ria rammenta una tipica consuetudine di opere eickiane, e altrettanto il cartiglio con la firma, piantato sul terreno. A quella data a Genova, comparivano intanto già i primi capolavori fiamminghi, opere di Van Eyck e di Rogier, ordinate dai ricchi mercanti genovesi, i Lomellino, i Giustiniani, come sappiamo dalle preziose testimonianze del Facio. E proprio del 1451, firmata e datata da uno Justus de Allemagna, è l’Annunciazione di Santa Maria di Castello a Genova, fulcro di tutta una serie di affreschi importanti che decorano i chiostri dell’antico convento domenicano. L’identità del pittore è stata ormai chiarita3 con quella di Joos (o Giusto) Ammann di Raven­sburg, ricordato in alcuni documenti d’archivio genovesi, il quale nel 1445 aveva affrescato l’in­terno del Duomo di Costanza. La provenienza di Giusto di Ravensburg da quell’area culturale, tra l’Alto Reno e il lago di Costanza, che aveva già visto una delle più precoci e intelligenti in­terpretazioni meridionali del fiammingo nel grande Konrad Witz, si rivela qui con un’accen­tuazione che io direi ancor più flémalliana che non rogeriana: le raffinate grisailles sugli archi che rilegano la composizione, la prospettiva inerpicata e soprattutto la ricerca in ogni oggetto di una concentrata plasticità, sono tutti infatti aspetti flémalliani, ancorché riletti in chiave di luminosità meridionale: nello scaffale posano persino le stesse scatole di legno paglierino oblunghe e tonde, che nei medesimi anni nascevano negli sportelli laterali del Trittico del Mae­stro dell’Annunciazione di Aix. Difficile dire se e in che misura Giusto di Ravensburg si sia impegnato anche negli affre­schi delle cinque crociere con Profeti e Sibille, forse tra loro legati da un’unica trama iconografica4. Ciò che interessa sottolineare è che il tratto culturale dominante nella maggior parte di questi affreschi ci rinvia a una cultura fortemente simile a quella dell’ultimo Jaquerio a Ran­verso, come pure a quella di Bapteur e in genere alla cultura pittorica dell’arco alpino. E mi sembra interessante aggiungere che nello stesso loggiato e in quello superiore (costruito tra il 1452 e il 1455) altri affreschi rivelano 210

la presenza di pittori lombardi di spicco e, se non vado errata, anche di artisti transalpini o subalpini e forse di iberici o napoletani. Basterebbe vedere, per esempio, quel San Pietro martire collocato entro una cappella poligonale dipinta: una figura che sta tra Colantonio e il maestro portoghese degli affreschi del Chiostro degli Aranci a Firenze; oppure i gruppi di Profeti di gusto witziano del secondo chiostro, per capire che qui, a Santa Maria di Castello5, si è consumata nel sesto decennio del secolo una delle vicende internazionali più composite del Quattrocento, sulla quale non è stata ancora fatta luce completamente; una vicenda alla quale parteciparono anche i lombardi, mas­sime quello anonimo dell’importante e rovinatissimo affresco di San Vincenzo Ferrer che predica davanti a Benedetto xiii, o il pittore della cosiddetta Incoronazione di Maria, di cui si dirà oltre. Fin dunque agli inizi del settimo decennio è la Liguria a tenere i contatti col nord. Ma pro­prio nel 1460 da Milano, la duchessa Bianca Maria Sforza manda al duca di Borgogna una let­tera, nella quale manifesta la volontà di appoggiare il giovane pittore e ritrattista Zanetto presso la bottega di Rogier van der Weyden a Bruxelles; un fatto che cade improvviso nel quadro della pittura lombarda, che a quell’epoca poteva contare al massimo sull’ironica elegan­za del Bembo o degli Zavattari. Ma l’episodio si inquadra, tuttavia, abbastanza bene nell’infit­tirsi di rapporti internazionali di quegli anni, come pure sullo sfondo di una crescente fortuna della ritrattistica fiamminga; non è quindi necessario riferire il fatto a un’ipotetica so­sta di Rogier a Milano, nel viaggio italiano del 1450. Al ritorno di Zanetto a Milano, la duchessa ringrazia «magistro Rugerio de Tornay» (que­sta volta con esatta dizione)6. Nessuna delle molte opere documentate di maestro Zanetto7 è giunta a noi e neppure possiamo conoscerlo attraverso le grandi imprese scomparse, alle quali aveva collaborato, come la celebre “ancona delle reliquie” nella Cappella del Castello di Pavia, accanto, tra gli altri, al Foppa8. Quasi incredibile, poi, appare l’impossibilità di identificare uno dei molti suoi ritratti documentati9, alcuni certamente famosi, se si pensa che, per eseguire un ritratto al naturale Zanetto veniva inviato in Francia nel 1465 e che nel 1468 un suo ritratto del duca di Milano e del figlio veniva acquistato dal re di Francia10; e, infine, che alla sua morte nel 1476 (ancora giovane, si presume, se giovanissimo fu inviato a Bruxelles nel 1460) il duca Sforza chiedeva all’ambasciatore Leonardo Botta di far venire a Milano da Venezia Antonello da Messina (uno pictor ceciliano) per sostituire Zanetto «il quale retraseva dal naturale in singulare perfectione»11. Il primo consistente tentativo di ricuperare un’opera di Zanetto si deve all’acume di Ferdi­nando Bologna, che nel 1954 proponeva di ravvisare la mano di Zanetto in una piccola tavoletta raffigurante San Gerolamo nell’Accademia Carrara12: e, in effetti, il Santo appare tratto con la massima fedeltà dal San Gerolamo dello sportello destro del Trittico Sforza di Rogier van der Weyden del Museo di Bruxelles, nel quale il giovane discepolo Memling dava le prime prove della sua «candida e quasi classicistica attenuazione del patetico di Ruggero». Alcuni anni più tardi lo stesso studioso compiva un ulteriore e più importante recupero, avanzando con molta cautela l’ipotesi che Zanetto fosse l’autore di alcune splendide disiecta membra di un polittico lombardo già segnalato dal Longhi (1942)13. Centro del polittico è la Madonna in trono con il Bambino e angeli della Fondazione 211


Cagnola (Gazzada, Varese), nella quale il pittore si presenta con «il talento e l’autorevolezza di un autentico Antonello del nord»14. Ma in tutto il polittico il fulgore degli ori di fondo a ramages (che in Lombardia erano anticamente di casa) e delle gamme cromatiche, la limpidezza della forma, la profusione delle gemme hanno un acuto profumo franco-fiammingo, tanto da rappresentare, come ho avuto recentemente occa­sione di osservare, un vero e proprio caso limite nella storia dei rapporti fra Italia e Fiandra. E infatti Zanetto, nel «trasporre in terra lombarda la sua mescolata cultura, riduce al minimo quei filtri propriamente lombardi sia di luci basse e strisciate, sia di sommesso e ombroso rea­lismo, che pure non mancano alle punte del nordicismo lombardo più avanzato, quali si trovano nel Braccesco o un certo Foppa o un certo Bergognone». Ora, la sorprendente fusione di una matrice culturale fiammingo-rogeriana nella Madonna e di una seconda matrice francese, quest’ultima quasi sovrastante la prima, non dovrebbe darci altro nome se non quello di Zanetto, il solo che avesse conosciuto de visu le due culture. In questo caso, il polittico sarebbe stato dipinto subito dopo il ritorno dalla Francia, tanto è vivo in esso il ricordo di quella pittura e in particolare della lucentezza fouquettiana. Seduta sul ban­cale di classica fattura a dentelli, la Madonna Cagnola presenta reminiscenze rugeriane nell’at­teggiarsi del volto, nell’aristocrazia forbita delle mani spinta quasi all’affettazione, nel replicato frangersi del manto. Ho avuto occasione di recente di pubblicare una Madonna fiamminga di collezione privata genovese15, dipinta intorno al 1460, che presenta con la Madonna Cagnola sottili e misteriose tangenze; essa appare anzi a mezza strada tra il pittore della Madonna Ca­gnola e Petrus Christus sia per la tipologia del volto sia per l’addolcimento dello stile rogeria­no. E notavo anche che proprio nella Madonna Cagnola gli angeli coristi sul fondo oro erano quanto di più simile si possa immaginare a quelli della Natività di Petrus a Washington, an­corché dipinti con una fattura morbidissima lombarda. Passando invece ai pannelli che un tempo fiancheggiavano la Madonna e a quelli minori che la sovrastavano (il polittico, nella ricostruzione del Bologna e dello Zeri, doveva essere un pentittico a due ordini), la qualità lombarda si fa più marginale e risuona inconfondibile solo nei volti umanissimi del Sant’Ambrogio e del San Giovanni Battista. Anzi, nelle tavolette del secondo ordine, la bilancia tra nord e sud sembra decisamente propendere per il nord: il San Cristoforo, per esempio, ha un’iconografia, soprattutto nel viso, di tipo rogeriano (o boutsiano) e così pure il Bimbo che regge nella mano il piccolo globo diafano di luce; il Santo Stefano, poi, è creatura di stretta discendenza fouquettiana e, infine, il San Gerolamo «stretto come un’assicella percorsa da angoli acuti e di tratti fisionomici quasi violenti... sembra inserirsi agevolmente in un’area franco-provenzale»16. Perdute come si diceva, o non identificate, finora, le opere che i documenti ci tramandano come dipinte da Zanetto, solo o in collaborazione, non resta che chiedersi in quale modo e misura Zanetto potesse trasmettere qualcosa della sua aria ponentina al maggiore dei pittori lombardi del tempo, Vincenzo Foppa, il quale ebbe ripetutamente vicino Zanetto nelle sue imprese pittoriche di Pavia e di Milano. Ed è questa una delle tante questioni aperte sul genio grande e un po’ sacrificato del lombardo Foppa. 212

123. Roger van der Weyden, San Gerolamo, dal Trittico Sforza, 1460 ca., olio su tavola, 53,5×19 cm, Musée Royaux des Beaux Arts, Bruxelles. 213


Passando subito a considerare le prime e precoci prove del talento pittorico del Foppa e cioè i Tre Crocifissi dell’Accademia di Bergamo e il San Gerolamo della stessa Galleria, non vi è dubbio che esse diano già la prova di un’indipendenza mentale sorprendente, anche nei con­fronti della vicina Padova, verso la quale in genere si ritiene il Foppa fin troppo debitore. Piuttosto, il suo primo viaggio in Liguria nel 1461 dovette probabilmente aprirgli nuovi orizzonti culturali e fargli respirare l’aria di Provenza, che in Liguria spirava da sempre, e forse anche farlo incontrare con qualche esemplare fiammingo. Di nuovo ci si imbatte nella difficoltà di identificare questi accenti non lombardi nell’unità di un linguaggio coerentissimo e, appunto, profondamente lombardo. Si aggiunga che la cronologia della lunga attività quarantennale del Foppa è ancora oscillante attorno a poche date sicure e questo non facilita il compito di rico­struirne il percorso. Ritengo però che le più antiche tracce di accenti ponentini si possano cogliere in una stu­penda e relativamente poco nota tavoletta con un Cristo in pietà di collezione privata inglese; le piccole dimensioni e il carattere di oggetto di devozione domestica le conferiscono già un ca­rattere nordico, ribadito dall’iconografia del Cristo sull’avello, già italiana nel Trecento, poi tra­smigrata sui manoscritti nordici e rimasta al nord. Tutta la tavoletta è dominata da calibrate misure e gli oggetti della Passione sono disposti secondo calcolati intervalli; ma la spugna sfo­racchiata, la catena intrecciata, anello per anello, sono esaminate con un’attenzione realistica che fonde l’antico gusto lombardo con l’analisi fiamminga. O, per dirla in termini longhiani, si intuisce, sin da questa sola opera, come il Foppa abbia appreso dai Fiamminghi sin dai primi anni Sessanta, non la “lettera” della pittura finitissima, ma la vicenda del lume; dunque un’ana­lisi tutta ricavata per via di tocchi luminosi e di grumoli d’ombra. Il torso del Cristo è ricavato unicamente per rapporti di luci e ombre quasi macchiati ed è, con il San Gerolamo della Carrara, una delle affermazioni più alte del giovane Foppa. È questo procedere che stacca decisa­mente il Foppa dalle ricerche toscane di disegno o di forma e fa di lui un “nordico”. Si ag­giungano, infine, alcuni dettagli iconografici del tutto nordici, come la mandorla a raggera dietro al corpo del Cristo, identica a quella del Cristo in Pietà di Petrus Christus della Galleria di Edimburgo e la corona di grosse spine acuminate. Procedendo un poco oltre nel settimo decennio, il pannello di polittico del San Cristoforo di Washington, già Kress colpisce per una sua intima vicinanza con il San Cristoforo che ap­parteneva al Polittico Cagnola; vicinanza che non credo sia mai stata notata e che è invece così palese da chiedersi se essa non sia dovuta a un influsso di Zanetto stesso, ancorché tradotto nei bagliori asprigni e quasi metallici del Foppa. E ci si chiede anche se, come è stato proposto, i due bei pannelli di polittico con i Santi Teodoro e Agostino del Museo del Castello di Mila­no non potessero fare corpo, con il San Cristoforo Kress, del medesimo perduto polittico17. Non si può negare, infatti, una stretta parentela tra questi Santi foppeschi, dove il Foppa rivela insospettate qualità di prezioso e acceso cromatismo, e i Santi del polittico Cagnola, ai quali li accomuna anche l’impaginazione nei pannelli slanciati, di contro al basso muretto di fondo; ba­sterà, per esempio, accostare il Sant’Agostino del Foppa al Sant’Ambrogio di Zanetto per con­fermare che i documentati rapporti di collaborazione tra Foppa e Zanetto, dovettero lasciare tracce sensibili sul pittore bresciano. 214

124. Donato de’ Bardi, Crocifissione, 1448, olio su tela, 165×238 cm, Pinacoteca civica, Savona. 215


125. Giusto di Ravensburg, Annunciazione, 1451, affresco, chiostro della chiesa di Santa Maria di Castello, Genova. 216

126. Zanetto Bugatto (attrib.), San Gerolamo che leva la spina al leone, 1460-70, tempera e olio su tavola, 58×38 cm, collezione Guglielmo Lochis, Accademia Carrara, Bergamo. 217


127. Vincenzo Foppa, Madonna con il Bambino e un angelo, 1479-80 ca., tempera su tavola, 41×32,5 cm, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano. 218

128. Dirk Bouts, Madonna con il Bambino, 1455-60 ca., olio su tavola, 21×16,5 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 219


129. Vincenzo Foppa, Sant’Agostino, 1466-68 ca., tempera e olio su tavola, 46×19 cm, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano. 130. Vincenzo Foppa, San Teodoro, 1466-68 ca., tempera e olio su tavola, 46×19 cm, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano. 131. Vincenzo Foppa, Ritratto di Francesco Brivio, 1495 ca., tempera su tavola, 36,7×46,5 cm, Museo Poldi Pezzoli, Milano. 220

221


132. Vincenzo Foppa, Madonna con il Bambino, 1460-70 ca., olio su tavola, 57×41 cm, Staatliche Museen, Berlino. 133. Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Madonna che allatta o Madonna del Latte, 1485 ca., tempera su tavola, 22,5×29 cm, Museo Poldi Pezzoli, Milano. 134. Autore sconosciuto, Ritratto di fanciulla di profilo, 1480-90 ca., olio su tavola, 45×31 cm, Rijksmuseum, Amsterdam. 222

223


135. Braccesco, Trittico dell’Annunciazione, 1490-1500, tecnica mista su tavola, 158×107 cm, Museo del Louvre, Parigi. 224

136. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Sant’Ambrogio in cattedra e quattro santi, 1514 ca., olio su tavola, Musei Civici, Pavia. 225


137. Vincenzo Foppa, Pala Bottigella, 1477-87, tempera su tavola, Musei Civici, Pavia. 226

138. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Madonna in trono fra le due Sante Caterine, olio su legno di pioppo, National Gallery, Londra. 227


Un altro segno di questo rapporto si potrebbe scorgere in due ritratti, la cui attribuzione al Foppa resta ancora legata a qualche riserva e di datazione piuttosto tardiva: il penetrante ritratto di profilo di Francesco Brivio del Museo Poldi Pezzoli di Milano e il delizioso profilo di Giovanetta, quest’ultimo attribuitogli dalla Wittgens, di contro alla attribuzione tradizionale, assai improbabile ad Ambrogio De Predis, con la quale ancora figura al Rijksmuseum di Am­sterdam. Si sarebbe tentati di dire che, nella sfortunata perdita di esemplari di Zanetto, questi due ritratti possono restituircene quasi l’idea, anche se più tardi, specie il secondo, di grande ni­tidezza formale nel profilo del busto e di sottile eleganza nell’acconciatura. E veniamo al gruppetto delle Madonne foppesche, scalabili all’incirca nel ventennio 1460-80, di solito considerate, un po’ frettolosamente, gravitanti nell’ambito delle Madonne bellinia­ne. La più antica di esse, quella del Museo del Castello di Milano, è tutta profusa di luminosi ori lombardi; circondata da una scritta dorata, di sapore fiammingo, s’inquadra come nella pa­gina di un libro miniato, ma aperta sul cielo. Un’intonazione fiamminga precisa si coglie invece nella Madonna della Raccolta Contini Bonacossi, che collocherei nell’ottavo decennio, perché l’idea di rinserrare il gruppo in un vano angusto e cassettonato, stretto tra il davanzale e la fi­nestrella e chiuso da una tenda marezzata, appena tirata, ha già un’eco bramantesca. Il davanzalino di legno a venature appare quasi gremito di natura morta: il libro, il cuscino, il rustico cestino d’uva. Sul capo della Vergine il manto scivola indietro scoprendo una testa di disadorna umiltà. Di questa – e di altre Madonne – si può dire, parafrasando il Longhi che esse sono più amiche di Rogier e di Bouts che non del Bellini18. Amiche, soprattutto di Dirk Bouts perché la versione poeticamente dimessa e quasi popolare delle Madonne boutsiane (New Jork, Firenze, Francoforte), appunto, le collocano singolarmente vicine a quelle del Foppa: per quella «mistura di morbido e di aspro in un viso di donna invecchiata», secondo la bella espressione del Friedlander19, che potrebbe essere trasferita senza modifiche a tante Madonne del Foppa. E al Bouts accenna anche il Longhi attribuendo una deliziosa Madonna che allatta del Museo Poldi Pezzoli al Foppa, «in atto di interpretare un modulo fiammingo boutsiano»20. Quando, poi, negli anni successivi, verso l’80, Foppa aprirà a lato di qualche sua Madonna gli sfondi di paesaggio, di nuovo sembrerà ispirarsi al Bellini, ma è altrettanto legittimo pensare che possa aver visto qualche esemplare dello stesso genere fiammingo. Per esempio: la Madonna del Museo di Berlino, in atto di porgere al Bimbo una mela (simbolo del peccato origi­nale) è affatto identica nel gesto a una Madonna di Memling, in particolare quella del trittichetto Portinari del 1487; e tra memlinghiano e lombardo, ma non veneto, è anche il pae­saggio con il viottolo e gli alberetti a palla spruzzati di luce. Tutto questo lascia aperto il pro­blema della cronologia di questa Madonna, che io ritengo non dovrebbe superare l’ottavo decennio. L’ottavo decennio appare dominato dal grande Polittico di Brera, dipinto, si ritiene, poco dopo il 1476, anno di morte di Zanetto e dopo un rinnovato contatto con la Liguria. Un’eco, infatti, dei grandi retabli liguri-provenzali risuona nella struttura del polittico a più ordini di tavole, rilegate da 228

cornici dorate dove i Santi sono allogati in vani architettonici cassettonati, una versione rinascimentale delle antiche nicchie, dove gli ori lombardi rifulgono accanto alle novità prospettiche portate dal Bramante in Lombardia. Ora, mi sembra da sottolineare il fatto che l’antica eleganza profana dei lombardi si è tra­mutata in un’analisi di costumi e di ritratti: l’opulenza del piviale del San Bonaventura non è da meno di quella di qualche santo memlinghiano; il saio di Santa Chiara ha squisiti accosta­menti tonali e un partito di pieghe di solenne plasticità degna di Borgogna. Quanto poi alla acutezza fisionomica ma soprattutto psicologica di questi Santi diremo che essi preludono al migliore Braccesco, quello che segue il giovanile polittico a partiture plurime del Santuario di Montegrazie (1478). Il Braccesco, appunto: «Un grande pittore di minimi, il più alto colloquio tra nord e sud». Così terminavano i veloci appunti e le commosse spuntature che il Longhi aveva steso davanti alla tavola, allora anonima, dell’Annunciazione del Louvre, ammirandola per la prima volta nel 1920. A questo apice del nordicismo lombardo il grande storico dedicherà poi(1942) alcune memorabili pagine, ricostruendone l’originaria composizione con i pannelli laterali, pure al Louvre. Non saprei dire se l’idea di collocare la scena in un loggiato, sia pure di gusto decorativo lombardo “fine secolo”, aperta sul paesaggio, sia mutuata da celebri esempi della pittura fiamminga, eickiani e rogeriani; resta il fatto che il rapporto interno-esterno appare qui stu­pendamente bilanciato e raccolto nell’unità della gran luce meridiana che «trema assopita fra gli acquitrini e i cespugli» del Ticino, «col ponte coperto, il castello e la cattedrale bramante­sca»21: una soluzione che sarà poi quella del Bergognone, e cioè di fissare la verità del giorno e dell’ora di luoghi conosciutissimi e amati. «Il fatto è – dice il Longhi – che qui si tratta di modulazione piuttosto che di modellazio­ne»22: giudizio, che nell’apparente gioco di parole, esprime con straordinaria essenzialità il pro­cedimento pittorico del Braccesco (in questo uguale al Foppa), che lo rende tanto sottilmente amico dei nordici: un procedimento appoggiato esclusivamente ai valori della luce nel definire la realtà. È questa modulazione luminosa che rende preziosi i quattro santi dei laterali del trit­tico, Benedetto, Agostino, Stefano e Alberto, sullo sfondo di un sontuoso damasco porpora cangiante: è la «continua pesatura di valori e toni, bigi e avana, ori e rossi, neri e azzurri» e a questa s’aggiunge la modulazione psicologica di questi Santi, così sottile, così “moderna”. Ora ciò che a noi interessa sottolineare è che l’opera del Foppa si intreccia continuamente con questi “apici” nordici che sono Zanetto e Braccesco. Per esempio: nel rovinatissimo affresco di Santa Maria di Castello, noto comunemente come una Incoronazione di Maria (ma in realtà raffigurante San Domenico e i Santi Domenicani in Paradiso)23, attribuito in genere al Bracce­sco (Castelnovi, Zeri), il gruppo dei Santi in Paradiso ha cadenze foppesche evidenti, accanto al rogerismo stretto del gruppo centrale, da far quasi pensare alla presenza di due mani. L’attri­buzione alternativa (Bologna) di questo affresco a Zanetto, anche se improbabile, esprime bene questo interscambio di valori nordici. E sta anche a indicare che la consegna del più acuto fiamminghismo in Lombardia passa quasi intatta da Zanetto a Braccesco, sempre auspice, e magari mediatore, il grande Foppa. 229


A favore, tuttavia, della paternità dell’affresco genovese al Braccesco stanno alcuni fattori, finora poco notati. La Vergine, nel curioso gesto di sorpresa e nel subitaneo ritrarsi, preannuncia la psicologia mossa e sospesa dell’Annunciata del Louvre. E altrettanto si può dire dei Santi, che hanno tipi fisionomici assai vicini alle figure di due pannelli di un polittico smembrato del Braccesco, nella Chiesa parrocchiale di Levanto, raffiguranti i Santi Cosma, Damiano, Agostino e Benedetto: eccezionalmente dipinti su tela e a tempera, essi hanno gesti forbiti e si collocano su sfondi di campagna ondulata, animata da mulini, palazzetti e ponti. È dunque da credere che nei suoi rinnovati contatti con la Liguria, intorno al nono decen­nio, il Foppa abbia potuto ammirare il Braccesco e possa averne anche mutuato qualche tratto nordico, per esempio nella delicatissima Annunciazione della collezione Vittadini di Arcore, che è come una versione umile e povera dell’Annunciazione del Braccesco al Louvre. Nella Pala Bottigella, poi, del Museo Civico di Pavia e più ancora nella Presentazione al tempio della raccolta Gerli di Milano, entrambe collocate in interni di cappelle lombarde, il realismo dei volti e dei gesti, le sottigliezze luminose e le accensioni cromatiche parlano di rinnovate esperienze franco-fiamminghe. In questi anni, e cioè nel nono decennio, era già attivo in Lombardia Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, che arricchirà la pittura lombarda di nuovi legami col nord. Sembrò in passato, addirittura, che il Bergognone con la sua estrema finitezza decorativa e con la quieta dolcezza dei sentimenti rappresentasse una sorta di Memling di Lombardia. E non si nega che l’accostamento abbia talvolta una sua suggestiva verosimiglianza, ma che attiene più ai caratteri esteriori e che, anche per ragioni cronologiche, non ha fondamento storico; mentre è più in profondità che occorre riannodare il Bergognone ai fiamminghi. Quasi tutta la sua attività, infatti, si colloca entro l’area storica di una nuova circolazione di idee pittoriche e di cultura, che, a partire dall’ultimo decennio del Quattrocento, farà fruttare in una nuova koiné mediterranea l’eredità dei grandi padri fondatori del fiammingo. È sullo sfondo di questa circolazione culturale che buona parte dell’opera del Bergognone può, anzi, deve essere vista, per cui egli apparirà singolarmente vicino ad un francese del nord, come il Maître de Moulins, ad un provenzale come Josse Lieferinxe o a un fiammingo come Gerard David o a uno spagnolo come Juan de Borgoña. Sotto questo profilo, la vera fisionomia fiamminga del Bergognone, da intendere, quindi, ancora una volta nel senso lato del termine ponentino, è ancora in parte da esplorare e anzi ritengo che la sua portata storica, a prescindere dalla sommessa e un poco monocorde poesia per cui è conosciuto, sia, all’interno di questo fenomeno di circolazione culturale, più estesa di quanto non si immagini. Si può anzi arrischiare a chiedersi se il famoso soprannome di Ber­gognone, che compare a partire solo dal 1500 circa (Magister Ambrosius de Fossano pictor fi­lius domini Steffani mediolanensis dictus Bergognonis è detto chiaramente solo in uno stru­mento pavese rogato nel 1512)24 debba proprio essere considerato come un soprannome indicante l’origine piemontese (“bergognoni” o “brentatori”, ovvero portatori di vino erano chiamati coloro che provenivano dal Piemonte); o invece, se non si possa del tutto escludere che il soprannome alluda, come in altri casi del genere, a una familiarità con la pittura dei pae­si di Borgogna, sempre inteso il termine in senso lato. 230

È comunque indubbio che il suo più giovanile capolavoro, la piccola Pietà della collezione Cagnola (Gazzada, Varese) abbia un sapore acutamente provenzale: gli oggetti pavesati della Passione, il certosino inginocchiato richiamano il Retable de Boulbon (Louvre), lo stupendo brano di paesaggio quello della celebre Pietà di Villeneuve (Louvre), nel controluce del crepu­scolo violetto. Questa Pietà giovanile resta una delle vette poetiche del Quattrocento lombardo e in particolare del Bergognone, che raramente negli stessi anni giovanili otterrà tanca sponta­nea commozione25; forse la piccola Madonna tra due angeli del Museo Poldi Pezzoli ha una sua primaverile freschezza di ori, di rosso e di bianchi cremosi, che fa pensare a una Madonna memlinghiana, tradotta in lingua lombarda. Negli anni subito successivi il Bergognone troverà il suo timbro poetico più tipico, quella compostezza sentimentale cerimoniosa e quella sovrabbondanza decorativa, disciplinata da un gemmeo cesello, che si manifesterà per la prima volta nelle due pale con Madonna in trono e Santi della Pinacoteca Ambrosiana di Milano e della Chiesa collegiata di Arona. Dai giorni del gotico internazionale non si era mai più visto né tanto lusso, né una fattura quasi miniaturisti­ca trasposta su scala grande. Tutto questo renderà il Bergognone meno affine alla poetica om­brosa del Foppa e, ancorché attivo sempre in terra lombarda, lo avvicinerà più tardi alla forbi­tezza un po’ irrealistica dei piemontesi da Spanzotti a Defendente Ferrari. Quanto poi alla sua dolcezza di sentimenti pietosi, v’è da osservare che essa s’accorda a una intensificazione sen­timentale comune alla generazione di pittori francesi, iberici e fiamminghi, attivi alla fine del Quattrocento e negli anni seguenti. Ma di quanta poesia possa essere anche capace questo mondo sentimentale un po’ rinserrato e artificioso, stanno a testimoniare opere come la Madonna in trono fra le due Sante Cateri­ne della Galleria Nazionale di Londra. Nell’architettura già bramantesca, la veduta di sotto in su sembra essere scelta per dare più ampio spazio all’alto plinto circolare e al trono di niveo, cesellato splendore, mentre, accanto alla Vergine, le due Sante hanno una fragile bellezza ari­stocratica e sguardi schivi, che non hanno paragoni altrove in Italia, salvo appunto in Piemon­te, che è già marca di confine. Questa bellissima tavola non sarà cronologicamente lontana da­gli anni fecondi e felici dell’attività pittorica del Bergognone per la Certosa di Pavia. La pala monumentale raffigurante Sant’Ambrogio in cattedra e quattro Santi (e notiamo, per inciso che il tema del “Santo in cattedra” è, negli ultimi decenni del Quattrocento, frequente in tutta l’area mediterranea, anche meridionale) ci trasmette uno dei più lucidi, ombrosi interni di tutta la pittura italiana del Quattrocento: non una smagliatura nell’ordito fittissimo di dettagli, che va dal pavimento a scacchiera bianconera alle finestre a rondelle aperte sul cielo. Come non avvicinarla mentalmente a qualche polittico memlinghiano, per esempio ai quattro Santi del Trittico di Lubecca? Tutto nel sant’Ambrogio del Bergognone ha una fissità di cerimoniale litur­gico e insieme l’eleganza, la profusione degli ori dei Santi del Braccesco al Louvre, ma senza trasalimenti psicologici, né scarti, né gesti sospesi. Accanto a questa sommessa poesia di sentimenti e di interni (che è ben altra cosa della dolcezza pietistica che tanto piaceva ai romantici) si sa che il genio del Bergognone brilla più alto ancora nei suoi famosi “lontani”, ossia nei riquadri di paesaggio che sbucano quasi all’im­provviso alle spalle 231


delle figure in primo piano. “Lontani”, perché osservati da lontano e quindi, per forza sommari, deliziosamente sfocati dalla lontananza, visti e presi con occhio istantaneo. E qui mi sembra dover chiarire che la vicinanza tanto invocata del Bergognone ai Fiamminghi, proprio a proposito di questi paesaggi, rivela piuttosto il punto di massima indipendenza men­tale del pittore e quindi, come si diceva, il suo proprio genio. Il realismo del Bergognone, infatti vi appare diversissimo non solo da quello di Van Eyck, geografo e botanico ultrapreciso, con la famosa equivalenza tra punti remoti e punti prossimi, ma anche da quello più di maniera di Rogier, di Petrus e di Memling. Nessuno di questi pae­saggi fiamminghi ha il carattere impressionistico di quelli del Bergognone, poiché la verità di quei canali, di quelle piazze, di quelle aie sta, appunto, nell’impressione assai più che nella precisione e sarà quindi una verità di atmosfera, una bellezza “meteorologica”, quotidiana e assaporata. In questa ottica bergognonesca ci sfilano davanti brani bellissimi di città e di campagna, dai pochi centimetri quadri dei paesaggi di predella (come nella Pavia quattrocentesca che s’apre alle spalle del sant’Ambrogio che scaccia Teodosio, dell’Accademia Carrara di Bergamo) a quelli più vasti della Crocifissione o del Cristo portacroce della Certosa di Pavia. E poiché nella Crocifissione il paesaggio sullo sfondo lascia intravedere la città di Gerusalemme e la folla che si al­lontana dal Calvario, dove restano le pie donne e Giovanni, il richiamo all’iconografia fiamminga è palese, pur con tutti gli adattamenti lombardi; mentre nel Cristo portacroce l’avere collocato, su un grande spuntone di roccia a picco, la grande fabbrica della Certosa in costru­zione, fitta di operai ci riporta allo straordinario sfondo della Santa Barbara di Van Eyck. Siamo con queste opere già alla soglia di quell’ultimo decennio del Quattrocento, durante il quale è in atto e fiorisce la seconda koiné mediterranea. Tutto il seguito della vicenda nordica in Lombardia, del Bergognone e del Foppa, dovrà dunque essere visto anche sotto questo aspetto, non solo per esigenze di periodizzazione artistica ma perché la Lombardia avrà, come tosto vedremo, un ruolo rilevante nella variegata composizione di questa koiné.

139. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Cristo portacroce, particolare, 1491 ca., olio su tavola, 166×118 cm, Musei Civici, Pavia. 232

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Capitolo ottavo

Epilogo: Italia e Fiandra tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento

Il fenomeno di una nuova ondata di circolazione artistica che, a distanza di oltre mezzo se­colo dalla prima, e cioè sul finire del Quattrocento, lambisce i paesi che s’affacciano sul Medi­terraneo, è un fenomeno noto agli studiosi, anche se la complessa vicenda non è stata ancora sistematicamente studiata. L’ampiezza del suo raggio e la ricchezza di intrecci che la contraddi­stinguono fu individuata dal Bologna sin dal 1953, come «una nuova koiné che riaffiata le par­late pittoriche di Provenza, di Castiglia, dell’Italia centromeridionale, dell’Andalusia, con lo spargersi di una cultura di provenienza lombarda, ma questa volta spiccatamente braman­tesca...»1. Non rientra nel nostro tema di rintracciare anche solo i punti salienti di questo fenomeno: esso ci interessa tuttavia direttamente perché funge da sfondo all’epilogo storico della vicenda dei rapporti Italia-Fiandra e può chiarire alcuni aspetti di questi rapporti nel loro trapasso dal Quattro al Cinquecento. Anzi l’esito dei rapporti Italia-Fiandra non si potrebbe intendere ap­pieno se non sullo sfondo di questa koiné mediterranea, alla quale essi stessi appartengono per più di un aspetto. Avviene così che l’epilogo rispecchi in parte quelli che furono gli inizi della diffusione fiamminga al sud, quando, verso il 1450, sotto la spinta delle novità fiamminghe, pittori dell’a­rea mediterranea-provenzale, valenzani, napoletani diedero di queste novità una versione sostanzialmente omogenea, di tipo meridionale, all’interno delle rispettive parlate locali. Ciò che invece distingue questa seconda koiné dalla prima è il fatto singolare, sin qui non sottoli­neato, che in essa sono compresenti in diversi dosaggi e miscele entrambe le maggiori espe­rienze pittoriche dell’Europa del Quattrocento, quella italiana e quella fiamminga. All’amico e sempre perdurante gusto per la ricchezza analitica e pittorica si associa ora una crescente ten­denza alla regolarizzazione della forma, alla sua plasticità e monumentalità, all’armonia com­positiva: fattori tutti, ovviamente, “italiani”. 235


Si potrebbe dunque dire che per tre decenni circa a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento, la bilancia tra nord e sud raggiunga un singolare e provvisorio pareggio, prima che, attraverso la breccia aperta in Francia nel quarto decennio del secolo, il Rinascimento italiano si propa­ghi per tutta l’Europa e quindi anche in Fiandra. Il fatto stesso che gli artisti di questa koiné mediterranea guardino a un tempo sia all’Italia sia alla Fiandra appare come un suo elemento caratterizzante. Un secondo elemento caratterizzante è la mescolata cultura di questi artisti in parte reso possibile dall’infittirsi dei viaggi e, in particolare, dall’altro fenomeno, abbastanza insolito, del frequente stabile trasferimento degli artisti in un territorio diverso da quello d’origine, e preci­samente dal nord al sud: un fenomeno che assume quasi l’aspetto di una vera calata di nordici. Per citare solo alcuni nomi di primo piano, è il caso di Juan de Borgoña, presente in Spagna già tra il 1480-90, dove riappare dopo un lungo viaggio di studio in Italia; è il caso dei due pit­tori di educazione bruggense, Juan de Flandes e Michel Sittow (questi di origine baltica) opero­si per la regina Isabella la Cattolica nell’ultimo decennio del Quattrocento; di Josse Lieferinxe attivo in Provenza, ma nativo nel nord della Francia; di Jean Hay (il probabile Maître de Mou­lins), di origine fiamminga ma operoso in Borgogna. Pur meno vistoso, vi fu anche il fenome­no inverso, di artisti dell’Italia settentrionale trasferitisi al nord; come Andrea Solario, Jacopo de’ Barbari, Ambrosius Benson. Da quanto si è detto si può trarre una prima conclusione; e cioè che in questo internazionalismo di fine secolo Italia e Fiandra entrano come partecipanti ma non più come protagoniste a sé stanti. E per cominciare appunto con il contributo italiano a questo rimescolio stilistico, vi è quel­lo indicato dal Bologna come determinante fattore di coagulo, ossia la cultura bramantesca di Lombardia. La vasta area di diffusione del gusto bramantesco, sviluppatasi in Lombardia dopo l’ottavo decennio, si rispecchia fedelmente nell’itinerario artistico di uno dei primi e maggiori suoi protagonisti, Juan de Borgoña, il quale appunto si incontra tre volte con questa cultura bramantesca: dapprima nella Roma di Melozzo e di Sisto iv, poi nel suo passaggio in Lombar­dia; infine, rientrato in Spagna, in Castiglia, dove l’aveva importata Pedro Berruguete, reduce da Urbino. Il Longhi, ricostruendo l’itinerario italiano di Juan de Borgoña lo giudica «il più grande de­gli italianizzanti spagnoli e in particolare zenaliano schietto»2: definizione quanto mai precisa, nella quale vale la pena di sottolineare soprattutto il riferimento a Bernardo Zenale. Questa in­teressante personalità si colloca, infatti, al centro del crocevia culturale lombardo di fine secolo3 e s’accresce anche di un possibile credito, tutt’altro che trascurabile, verso la koiné mediterra­nea, rispetto alla quale sarebbe stato uno dei tramiti più importanti della cultura bramantesca. Basta accostare un’opera certamente centrale nel suo curriculum, come il Trittico con la Pente­coste Contini Bonacossi e ai lati i Santi Vittore e Giovanni Battista del Museo di Grenoble a qualche esemplare di Juan de Borgoña, per avvertirne gli interni legami e tangenze, nella for­bita elezione dei gesti, nella tendenza a ovalizzare i volti, negli inserti di architettura classicheggiante. L’ampia eco spagnola di questa cultura bramantesca ci consentirà di coglierla in parecchi maestri di ottima levatura, come il catalano Anie Bru (un tedesco ispanizzato autore del Martirio di San Cugat del Museo di Barcellona), Juan de Flandes (v. il Cristo coronato di spine di Detroit) o il Mae236

stro di Santa Clara di Palencia, il cui catalogo è stato utilmente ampliato dal Laclotte, con opere già attribuite a pittori provenzali4. Proprio il Maestro di Santa Clara di Palencia dimostra come Catalogna e Provenza siano più che mai vicine in questo scorcio di secolo. Ritroveremo, dunque, anche in Provenza la componente culturale di lucido braman­tismo nel protagonista di questa generazione, Josse Lieferinxe, già noto come il Maestro di San Sebastiano, dall’opera sua maggiore, il Polittico con Storie di San Sebastiano, diviso tra Filadelfia, Baltimora, Leningrado e Roma5. La sua lucidezza formale, il suo fulgore cromatico rinnovano a mezzo secolo di distanza gli accordi franco-italiani del grande Quarton, cui s’ag­giunge la spazialità sonora delle architetture bramantesche. L’interno di chiesa della Presen­tazione al tempio del Museo Calvet di Avignone, per esempio, ha strutture che arieggiano quelle del San Satiro di Milano. Il polittico di San Sebastiano era stato commissionato a Lieferinxe nel 1497, in collabora­zione con il piemontese Simondi, che risulta morto l’anno seguente. Anche se del tutto ignota è la sua personalità e la parte avuta nel polittico, la notizia ci consente comunque di aggiungere un’altra tessera al mosaico di questa vicenda internazionale, ovvero il contributo del Piemonte, che da sempre, ma specie nel Quattrocento, dai tempi di Jaquerio e di Bapteur, era stato marca di confine artistica, spingendosi con i suoi territori savoiardi fino al Rodano. L’episodio più notevole, intorno agli anni Ottanta, di questa situazione piemontese è offerto dalla Trinità del Museo Civico di Torino (che è al contempo un Dieu de Pitié): una grande tavola di palese, antica discendenza flémalliana, per quanto riguarda l’iconografia e, stilistica­mente, squisita opera di koiné lambita dalla cultura bramantesca. L’anonimo pittore è con tutta verosimiglianza di provenienza francese e probabilmente borgognone, come sostiene lo Sterling6, che ne ha avviato la ricostruzione storica. Di queste mescolanze nordiche nella pittura piemontese è delizioso portavoce, sul versante italiano, il casalese Marcino Spanzotti, che nel primo tratto della sua attività, fin verso il 1490, appare quasi un alter ego, più dimesso, del grande Braccesco, ma anche con singolari affinità con artisti stranieri, come l’anonimo autore della Pietà del Museo Civico di Torino, or ora cita­to, o come il provenzale Nicolas Dipre. Del nordicismo spanzottiano di questo primo periodo, ricorderemo la qualità sentimentale trattenuta e grave della Pietà del Santuario di Tavoleto, per non parlare del tono franco-lombardo del noto Trittico della Madonna tra i Santi Ubaldo e Sebastiano della Sabauda di Torino. Nel periodo successivo, quando lo Spanzotti sarà pittore di corte di Carlo ii, emergerà nel suo stile una cifra espressiva sottilmente grafica, che ancora più lo apparenterà ai nordici, specie nelle opere tarde di piccolo formato. La luminosità fragile e fantasiosa, il gusto per le composizioni affollate daranno a questo nordicismo un connotato te­desco che si ripresenterà più forte in Defendente Ferrari, in senso iperrealistico e luministico insieme. Da tutto quanto si è detto, si viene a configurare il fitto scambio e l’omogeneità culturale, anche per quanto ha tratto ai nordicismi, dell’area settentrionale di ponente: Lombardia, Pie­monte e Liguria, in duplice senso, dunque, ponentina. La Liguria, appunto, continua a giocare il suo ruolo di transito culturale tra Provenza, Lombardia e Piemonte e di area di committenza di opere fiam237


minghe. Un ruolo insieme importante e subalterno, rappresentato, tuttavia, da modeste personalità propriamente liguri, come il prolifico e monocorde nizzardo Ludovico Brea, pronto assimilatore, decoroso ma passivo, delle sollecitazioni che si incrociavano sulla sua terra; così il noto Calvario di Palazzo Bianco è da un lato ancora memore dell’antica Crocifissione savonese di Donato de’ Bardi, dall’altro vicino al Calvario di Josse Leferinxe al Louvre. Ma nella tarda, affollatissima pala del Paradiso (1513) in Santa Maria di Castello a Genova, il Brea mostra di volersi aggiornare sulle ultime presenze fiamminghe a Genova7. Queste, infatti, sono così cospicue negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento e fino al secondo decennio del Cinquecento, da far persino avanzare al Suida l’ipotesi che esistesse a Genova una colonia di pittori fiamminghi8. Il fenomeno resta rilevante anche se doveva trat­tarsi di un semplice intensificarsi dell’antico fenomeno della committenza mercantile, mai d’al­tronde venuto meno; una committenza che non trascurava di dotare edifici religiosi della città e della costa con opere importanti come, per citare solo le più note, il Trittico di San Lorenzo alla Costa (Santa Margherita Ligure) del 1499, attribuito dal Longhi a Quentin Metsys9, il Polittico del Monastero della Cervara di Gerard David (ora con le tre tavole superstiti al Palazzo Bianco) del 1506, e il Trittico dipinto per il conte Stefano Raggi da Joos Van Cleve durante il suo soggiorno genovese, per la chiesa di San Donato a Genova. Non vi è dubbio che il raggio d’influenza di questa massiccia presenza fiamminga si sia fatta sentire in molti modi nei territori vicini. Altrettanto, non è difficile scorgere in questi stessi pittori fiamminghi dell’ultima generazione del Quattrocento alcuni segni della stessa cultura bramantesca, di cui si è parlato. Proprio nel trittico di San Lorenzo alla Costa il Longhi rileva­va oltre alla cultura bramantesca persino cenni bramantineschi; e il Bologna, a proposito di Jan Gossaert, detto Mabuse, notava che, giunto a Roma verso il 1508, «vi poteva incontrare il Bramante e le idee bramantesche quando non erano state ancora soverchiate dall’arte di Raffa­ello»; e lo studioso aggiungeva che la cosa non doveva stupire se Andrea Solario «più braman­tesco che leonardesco andrà a lavorare nella Francia del nord»10. Con i due nomi di Quentin Metsys e di Gossaert siamo rientrati in area propriamente fiamminga e anzi nel suo versante già propriamente cinquecentesco. E qui, tuttavia, è subi­to necessaria una precisazione: la generazione attiva a cavallo dei due secoli e rappresentata soprattutto da Metsys e Gossaert è correntemente considerata come la generazione che apre le porte al Rinascimento italiano con l’introduzione vistosa di elementi italianizzanti decora­tivi come ghirlande, putti e colonne classiche. Il fenomeno è invece, del tutto secondario, e anzi la stessa generazione è piuttosto impegnata, curiosamente, in un’operazione di recupero delle fonti originarie, saldando queste con alcuni prestiti italianizzanti: un fatto che fu piut­tosto un modesto preludio al cosiddetto Rinascimento di quei paesi, ovvero alla pittura moderna. Appartenente allo stesso movimento in parte arcaizzante è anche Gerard David, originario di Oudewater, dove nacque circa il 1460, ma attivo sempre dal 1484 a Bruges, ormai in declino; egli è in pratica contemporaneo di Metsys (1466-1530); ma nella tradizionale partizione crono­logica, 238

David è considerato come l’ultimo pittore del Quattrocento, Metsys il primo del Cinque­cento. Dice acutamente Panofsky11 che però «David recava un senso del futuro nella città del passato [Bruges], Metsys un senso del passato nella città del futuro [Anversa]». Capovolgendo dunque la periodizzazione consueta il più moderno tra i due è ancora David perché, come dice anche il Friedlander12, egli riesce a rivivere le esperienze del passato con un eccezionale senso della forma solidamente strutturata, con una sensibilità dinamica dello spazio e con un uso del­la luce che talvolta sembra avvicinarsi allo sfumato di Leonardo. D’altra parte Gerard David è anche l’ultimo erede della grande tradizione “non patetica” bruggense. La vitalità di questa tradizione si coglie al meglio nell’opera maggiore di un grande anonimo, la Madonna con il calamaio del Museo Jacquemart André, dalla quale trae il suo nome provvisorio di “Maestro della Madonna André”13. Passato e presente vi si fondono stupen­damente: del tutto inedito è il calibro monumentale della figura che incombe in primo piano, il getto scultoreo delle pieghe del mantello rosso; sul davanzale la povera natura morta – una noce spaccata, una mela – ha l’assolutezza luminosa di una natura morta secentesca, mentre il pa­esaggio sullo sfondo semplifica l’antica precisione. Gerard David, si diceva, è il maggiore erede della pacata religiosità eickiana, alla quale lo inclinavano probabilmente la sua origine olandese e la pittura del suo compatriota Geertgen tot Sint Jans. È certamente importante ricordare che da tempo è stata sostenuta l’ipotesi di un soggiorno di David a Genova, tra il primo e il secondo decennio del Cinquecento14. Per Geno­va, infatti, era stato dipinto il Polittico della Cervara già citato, le cui tavole superstiti con la Vergine e il Bimbo e i Santi Gerolamo e Bernardo si iscrivono perfettamente, pur con il loro accento fiammingo, nell’ambito della koiné mediterranea, in particolare per il lucido assetto spaziale e formale dei due Santi laterali, facilmente accostabili a qualche santo del Maître de Moulins o del Bergognone. La tranquilla armonia di sentimenti e di composizione propria a David si leva a toni di alta elegia nello stupendo Calvario di Palazzo Bianco a Genova. Un nuovo senso di spazio si esplicita nel gioco sottile dei tre quarti delle figure, sulle quali incombe la gran calotta del cielo tra­gicamente marezzato di nubi. Queste e altre opere, come la Vergine col Bimbo tra quattro Santi della coll. Duveen di New York, sono pensate e nate da un fiammingo, il cui baricentro geografico e stilistico si è decisamente spostato verso l’area meridionale. Il pareggio della bilancia tra nord e sud, e più specificamente tra Italia e Fiandra, che è, come si diceva, uno degli elementi caratterizzanti di questo momento di circolazione medi­terranea, vedrà la Francia in posizione di tradizionale equidistanza mentale, oltre che geo­grafica, come già era stato ai tempi di Fouquet e di Quarton. E se l’eredità di Quarton si ri­flette nella schietta luminosità provenzale di Josse Lieferinxe, quella di Fouquet riappare in Borgogna nel Maître de Moulins. Un minuzioso studio della Sterling ha identificato ormai questo nobile maestro con il pittore Jean Hay15, ben noto e apprezzato dai contemporanei, tanto che il Lemaire nel 1509 lo colloca addirittura accanto a Leonardo. E Jean Hay è il pit­tore che firma nel 1494 la tavoletta dell’Ecce Homo del Museo di Bruxelles; dall’iscrizione che si legge sul retro della tavola, il nome dell’autore è specificato 239


come egregius magister teutonicus, una qualifica che non sta a indicare tanto l’origine germanica del pittore, quanto, come ha chiarito il Panofsky16, un artista originario dei Paesi Bassi, dove si parla il basso­alemanno (dietsch). In questo Ecce Homo l’antica iconografia del “Cristo in pietà” s’arricchisce di una nuova ampiezza formale e di un equilibrio classico, ma la tessitura luminosa dell’epidermide rigata di sangue denuncia le ascendenze vandergoesiane del pittore. Questo Ecce Homo è da raffrontare con quello del Foppa della coll. Chéramy di Parigi (probabilmente anteriore di alcuni anni): le due opere suonano profondamente affini nella comune matrice fiamminga, ma il Foppa sotto­linea l’equilibrio compositivo nelle mani ritmicamente incrociate, nel trasporre i particolari cruenti in sofferente umiltà lombarda. In tanta dimessa umanità un occhio attento coglierà pe­rò la preziosità pittorica della tunica purpurea sbiancata di luce. Ma i richiami culturali del Maître de Moulins sono molteplici, a nord e a sud. Per esempio l’Annunciazione di Chicago o, più ancora, la Madonna col Bimbo tra angeli, al centro del Tritti­co della Cattedrale di Moulins (un’opera del 1498-99, che ha dato al pittore il nome provviso­rio) tutta splendente di fulgido cromatismo d’antica estrazione francese, hanno una dolcezza sentimentale, un calmo abbandono, un ritmo formale che le collocano esattamente equidistanti tra Gerard David e il nostro Bergognone. E anzi, a proposito del Bergognone: perché non avventurarsi a dire che il Maître de Moulins risulta, assai più che non Memling, il vero parallelo transalpino del Bergognone, per lucidezza formale e ornata? Un parallelo anche cronologico e che, oltretutto, sembra quasi spiegare il soprannome del pittore lombardo. In particolare, la Madonna di Moulins precede di pochi anni l’Incoronazione di Maria, affrescata dal Bergognone nell’abside di San Simpliciano sui primi anni del Cinquecento: la fitta siepe multicolore di angeli inarcata a strombo d’ogiva sulle tre figure centrali suona come un inequivocabile ricordo di cattedrale gotica francese, trasposta in pittura. Quanto al tema, sappiamo quanto esso fosse d’antica estrazione francese. Con quest’opera del Bergognone e l’Ecce Homo del Foppa, siamo così tornati in Lombar­dia, dove è giusto che terminino queste brevi spuntature sulle vicende Italia-Fiandra, che ave­vamo lasciato sospese nel capitolo precedente, per concluderle appunto sullo sfondo dei molte­plici contatti pittorici che attraversano l’Europa sul morire del secolo e all’inizio del Cinquecento. In questa luce l’ultimo tratto del Bergognone appare più degli altri coinvolto in questo dialogo transalpino, in più direzioni. Se la Presentazione al Tempio di Lodi con il suo complesso bramantismo architettonico e la sua aulica regia rientra benissimo nella koiné me­diterranea, una vena tardiva di cui fanno parte per esempio, certe Madonne contro spalliere di rose (Raccolta Borromeo) o l’Agonia nell’orto della National Gallery, arieggiano a tematiche tedesco-olandesi. Accanto al Bergognone, il grande Foppa ormai quasi ottantenne allo scadere del secolo mostra di aggiornarsi, assai più che sulla cultura leonardesca, su quella nordica. Già nel nono decennio, un’opera come il Presepe della chiesa di Santa Maria Assunta, Brescia, umile e regale, è una riedizione di vecchi temi franco fiamminghi, ma con l’inserto d’architettura bra­mantesca. Più ancora, 240

140. Josse Lieferinxe, Crocifissione, olio su tavola, 170×126 cm, Museo del Louvre, Parigi. 241


141. Juan de Flandes, Incoronazione di spine, 1505 ca., olio su tavola, 21×16 cm, Institute of Arts, Detroit. 242

142. Maestro della Trinità, Pietà, 1465-70, tempera e oro su tavola trasportata su tela, 172×82 cm, Museo Civico, Torino. 243


143. Gerard David, San Gerolamo dal Polittico di San Gerolamo della Cervara, 1505-10, olio su tavola, 152,5×64 cm, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, Genova. 144. Gerard David, San Mauro dal Polittico di San Gerolamo della Cervara, 1506-10, olio su tavola, 152,5×64 cm, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, Genova. 244

145. Gerard David, Vergine con il Bambino dal Polittico di San Gerolamo della Cervara, 1506-10, olio su tavola, 153×89 cm, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, Genova. 245


146. Gerard David, Crocifissione, 1506-10, olio su tavola, 102×88 cm, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, Genova. 246

147. Juan de Borgoña, Natività della Vergine, 1509, affresco, Cattedrale di Toledo. 247


148. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Presentazione di Gesù al Tempio, 1510 ca., olio su tavola, cappella di san Paolo della chiesa dell’Incoronata, Lodi. 248

149. Jean Hay, Ecce Homo, 1494 ca., olio su tavola, 39×30 cm, Musée Royaux des Beaux Arts, Bruxelles. 249


150. Vincenzo Foppa, Natività (Presepe), 1492 ca., tempera su tavola, 172×82 cm, chiesa di Santa Maria Assunta, Brescia. 250

151. Quentyn Metsys, Compianto sul corpo di Cristo, 1507-08, olio su tavola, 260×504 cm, Musée Royaux des Beaux Arts, Anversa. 251


152. Jean Hay, Annunciazione, 1490-95, olio su tavola, 72,5×50 cm, The Art Institute, Chicago. 252

153. Jean Hay, Vergine gloriosa e angeli dal Trittico di Moulins, 1498-99, olio su tavola, Cattedrale di Moulins. 253


154. Gerard David, Madonna col Bambino e quattro angeli, 1510-15, olio su tavola, 63×39 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 254

155. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Incoronazione di Maria, 1515 ca., affresco, catino absidale della chiesa di San Simpliciano, Milano. 255


nella Natività Fischer di New York una serie di soluzioni ci riportano al­l’area della circolazione mediterranea degli ultimi due decenni del Quattrocento, fecondata dalla stessa cultura bramantesca. Ad anni ormai tardissimi, nel 1510, appartiene invece la grande Pietà, purtroppo perduta, già dei Musei di Berlino, che documenta la vitalità del Foppa. Essa, infatti, pur intonata ad antiche tradizioni nordiche (il gesto di Giovanni che toglie con delica­tezza la corona di spine è ancora identico a quello della Pietà di Villeneuve del Louvre) si ag­giorna nella complessa articolazione delle figure e nelle quinte arboree del paesaggio tanto da risultare straordinariamente affine alle soluzioni della Pietà di Quentin Metsys di Anversa (1509) e a quella di Juan de Borgoña di Toledo (1510 circa). L’accostamento di queste tre Pietà, cronologicamente contemporanee presenta al vivo la circolazione culturale di cui andiamo parlando. È da credere che l’intensificarsi di presenze fiamminghe a Genova si rifletta subito in un intensificarsi di rapporti lombardi con la Fiandra. Non è un caso che Andrea Solario, veneziano di nascita ma lombardo di educazione, si rechi nel 1507 in Normandia e poi a Malines, dove sarà il responsabile forse maggiore dei leonardismi di Quentin Metsys. In talune opere, specie giovanili, di Metsys (Vergine in trono di Bruxelles) l’interpretazione dello sfumato leo­nardesco non è lontana da quella dei leonardeschi lombardi17. Nei quali, viceversa, alcune soluzioni, come il bel Cristo giovinetto del Museo Lazaro Galdiano di Madrid, attribuibile al Boltraffio (o allo pseudo Boltraffio) danno appunto una versione sottilmente più nordica del leonardismo. Le ultimissime battute di questo lungo dialogo quattrocentesco tra Italia e Fiandra si consumeranno proprio qui in Lombardia, nei primi due decenni del Cinquecento e nel campo della ritrattistica. È noto che il catalogo dei cosiddetti leonardeschi lombardi, come il De Predis, il Boltraffio, il Solario è ricchissimo di ritratti; occorrerebbe un ampio saggio per dimo­strare l’evidente convergenza, quasi confluenza, tra la ritrattistica di un Metsys o di un Joos van Cleve giovanile e, per esempio il Ritratto di Gentiluomo della Pinacoteca di Brera di Andrea Solario, o gli splendidi Due committenti di Brera un tempo attribuiti al Boltraffio ma restituiti al cremonese Gian Francesco Bembo18. Occorrerà tuttavia tenere presente che proprio nella ri­trattistica tra Italia e Fiandra era nel frattempo entrata l’arte tedesca come interlocutrice e me­diatrice, soprattutto di Holbein. La diffusione in Italia degli influssi düreriani ed anche altdorfe­riani inizierà allo scadere del secolo e attraverso il varco di Venezia dilagherà nell’Italia settentrionale, raggiungendo il Piemonte di Defendente Ferrari e l’Emilia dell’Aspertini o del Mazzolino. Ma questa sarebbe un’altra storia, ancora da scrivere, e che esorbita da queste brevi spuntature di un complesso epilogo.

156. Giovanni Antonio Boltraffio, Cristo giovinetto, 1490-95, olio su tavola, 25×18 cm, Museo Lázaro Galdiano, Madrid. 256

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note

Capitolo primo Cfr. J. Huizinga, Asti unno del Medioevo, trad. it. Firenze 1942, p. 371: «Con l’arte dei Van Eyck la rappresentazione pittorica della storia sacra ha raggiunto un grado di precisione e di naturalismo che, nella scoria dell’arce, può forse figurare come un prinapio ma che nella storia della cultura rappresenta una conclusione... Per tale ragione il naturalismo dei Van Eyck che gli storici dell’arte sogliono considerare come un elemento foriero del Rinascimento, va piuttosto preso come il compiuto sviluppo dello spirito del tardo Medioevo... L’arte dei van Eyck è, in quanto contenuto, ancora tutta medioevale. Essa non porta idee nuove; è un termine, un punto finale». 2 Cfr. quanto dice P. Philipot, Pittura fiamminga e Rinascimento italiano, Torino 1970, p. 9 – «non può accettarsi la tesi che applica all’arte dei primitivi fiamminghi il termine Rinascimento». E infatti l’opera del Philipot è dedicata ai rapporti tra Italia e Fiandra nella pittura del Cinquecento. 3 G.B. Cavalcaselle – J.A. Crowe, Notices of thè li-ves and Works oftbe early Flenùsh Pointers, Londra 1

1857. Ed. originale italiana Firenze 1889, con il titolo Storia dell’antica pittura fiamminga. 4 Mi riferisco in particolare alla Mostra I fiamminghi e l’Italia, Bruges, Musée Communal 1951 e alla Mostra‚ Les Primìtifs méditerranéens, Bordeaux 1952. 5 R. Longhi, Fatti di Masolino e Masaccio, in Critica d’Arte xxv-xxvi 1940. (Ristampato nelle Opere complete, vol. vili, i. Fatti di Masolino e Masaccio e altri studi sul Quattrocento, Firenze 1975, p. 36 e sgg. 6 Cfr. E.H. Gombrich, The Early Medicis as Patrons of Art, in Italian Renaissance Studies: a Tribute to the late Cecilia M. Ady, I960; F. Antal, Fiorentine Painting and its social Background, Londra 1947 (trad. it. La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino 1960). 7 Tra i più recenti e importanti studi sull’attività miniatoria di van Eyck v. la Prefazione di A. Chatelet alla riedizione dell’opera di Paul Durrieu: Les Heures de Turin, Torino 1967 e C. Sterling, Jan Van Eyck avant 1432, in Revue de Kart, 1976, 33. V. anche la parte riservata all’argomento nella breve e lucida monografia di

A. Chatelet, Van Eyck, Bologna 1979, nella quale lo studioso sviluppa l’interessante tesi di un permanente rapporto mentale e tecnico fra la miniatura e la pittura in tutta l’opera di Van Eyck. 8 Cfr. F. Nicolini, L’arte napoletana del Rinascimento e la lettera di Pietro Summonte a Marco Antonio Michiel, in Napoli nobilissima 1925. 9 P. Durrieu, Heures de Turin, quarante-cinq feudlet s provenani dei Très Beiles Heures de Jean de France, due de Berry, Paris 1902. Le ere miniature vaneickiane perite nell’incendio raffiguravano La preghiera del Sovrano, La cattura di Cristo, e II viaggio di San Giuliano e Santa Marta. 10 Senza entrare qui nella complessa vicenda critica del trittico, proveniente da Reggello, sono infatti fra coloro che ritengono l’intervento di Masaccio limitato al pannello centrale e al San Giovenale. 11 Cfr. su questi viaggi il più recente contributo nell’ampio e denso saggio citato di C Sterling, Jan Van Eyck avant 1432. 12 Vasari, Le Vite..., ed. a cura di P. Della Pergola, L Grassi, G. Previtali, Milano 1962, p. 232. 13 G. Previtali, Lx periodizzazio259


ne della storia dell’arte italiana, in Storia dell’arte italiana. Questioni e Metodi, vol. i, Torino 1979, p. 38. 14 Sulla tecnica di Van Eyck si veda in sintesi chiara e precisa l’appendice al volumetto di A Châtelet, Van Eyck, op. cit., 1979. 15 C. Landino, Fiorentini excellenti in pictura et sculptura, in Coment o di Christoforo Landino fiorentino sopra la comedia di Dante Alighieri poeta fiorentino, Firenze 1481, p. iv r. Vedine il testo con trascrizione critica e commento in M. Baxandall, Painting and experience in Fifteenih Century Italy, Oxford 1972 (trad. it. Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Torino 1978). 16 Cfr. C. Sterling, Jan Van Eyck avant 1432... op. cit., p. 31; più ampiamente M. Meiss, Jan Van Eyck and thè lialian Renaissance, in Venezia e l’Europa, Atti del xviii Congresso Internazionale di Storia dell’Arte, Venezia 1955, pp. 60-2. 17 M, Meiss, Jan Van Eyck... op. cit., 1955, p. 60. 18 Cfr. M. Baxandall, Bartbolomaeus Facius on Painting, (edizione critica, traduzione e commento del testo del De Viris illustribus), in «Journal of the Warburg and Courtauld Institute», 27 (1964). 19 E. Panofsky, Early Netherlandish Painting, Cambridge (Mass.), 1958, pp. 181-2. 20 R. Longhi, Crocifissione di Colantomo, in «Paragone», 63 (1965), p. 10. 21 Cfr. A. Parronchi nel saggio Le misure dell’occhio secondo il Ghiberti, in «Paragone» 133, 1961, pp. 34-5 e nota 21 p. 43, dove propone uno schema dell’Agnello Mistico organizzato secondo le re260

gole della perspectiva communis del Peckam, ovvero uno schema prospettico bioculare con doppio punto di fuga, corrispondenti in questo caso agli incensieri degli angeli. 22 A. Châtelet, Van Eyck, op. cit., 1979, p. 60. 23 Cfr. E.H. Gombrich, Light, Form and Texture in XVth Century Painting, in «The Journal of thè Royal Society of Arts», (1964), pp. 826-49, ripubblicato in The Heritage ofApelles, Oxford 1976, pp. 31-2. 24 V. nota precedente. 25 E.H. Gombrich, ibid., p. 30. 26 Cfr. M. Meiss, Nicholas Albergati and thè Chronology of Jan Van Eyck’s Portraits, in «The Burlington Magazine», (1952), p. 139. 27 Contro la presunta identità del personaggio raffigurato nel Cardinale Albergati, v. R. Weiss, Jan Van Eyck’s Albergati Po rtrait, in «The Burlington Magazine» xcvii (1955), pp. 145-7 28 A. Châtelet, Van Eyck, op. cit., 1979 pp. 19 e sgg. 29 Cfr. M. Baxandall, Bartbolomaeus Facius... op. cit., p. 103. 30 E. Panofsky, Early... op. cit., pp. 201-3. 31 Cfr. C. Limentani Virdis, Il quadro e il suo doppio, Modena 1981, p. 36. 32 Cfr. Panofsky, Early... op. cit. pp. 138-9. La disposizione di questi segni permette di dedurre che il segno zodiacale sotto la figura della Vergine è quello della Vergine e il segno sotto l’Angelo è quello dell’Ariete corrispondente alla data dell’Annunciazione (25 marzo) mentre il segno sotto il libro è quello del Capricorno e si riferisce alla data della Natività. 33 Cfr. anche sull’argomento e in

genere sulla cultura «mariana» di Van Eyck, l’interessante volume di C J. Purtle, The Marian Paintings ofjan Van Eyck, Princeton 1982, e A. Châtelet, Van Eyck, op. cit., p. 43 e 46. 34 E. Panofsky, Early..., op. cit., pp. 135-40 35 R. Longhi, Recupero di un Masaccio, in «Paragone», 5 (1950), p. 3 e sgg. 36 M.J. Fiedlander, Die Altniederlandische Malerei, i, Berlino 1924, p. 129 e sgg. 37 Il Longhi ebbe una volta a dire che Gentile da Fabriano rappresentava un autentico parallelo italiano di Van Eyck (cfr. Il tramonto della pittura medievale nel nord Italia. Lezioni tenute all‘Università di Bologna 1935-36, pubblicate in «Opere Complete», vol. vi, Firenze 1973, p. 92). L’osservazione che, nel contesto ha anche un sapore polemico, è al solito assai acuta, se si pensa alla particolare posizione di Gentile nella Firenze del 142526 e al suo lento ricercare l‘epidermide luminosa delle cose con il pellegrinare continuo. Tuttavia la posizione storica di Gentile, nonostante la disponibilità mentale verso le novità fiorentine di Masolino e soprattutto del Ghiberti rimane nell’ambito dell‘internazionalismo più raffinato. 38 E.H. Gombrich, Light, Form and Texture, op. cit., p. 29. Capitolo secondo 1 V. soprattutto la recente monografia di A. Châtelet, Les primitifs hollandass, Friburgo 1980. 2 Sull’argomento esiste il solo studio complessivo di R. De Roover,

Banking and Credit in Medieval Bruges, Cambridge (Mass), 1948. V. inoltre: M. Del Treppo, 1 mercanti catalani e l’espansione della corona d‘Aragona nel sec. xv, Napoli 1972 e R. Roover, The Rise and Fall of thè Medici Bank (13971494), Cambridge, Mass., 1963 (trad. it. Il Banco Medici dalle origini al declino - 1397-1494, Firenze 1970). 3 Questo tipo di trattazione commerciale con spunti protomoderni sarebbe all’origine della parola bourse francese, poi borsa italiana, dal nome della famiglia Van der Bouree; la cui residenza a Bruges veniva usata come luogo d’incontro di mercanti, anche italiani. Cfr. Introduzione al Catalogo della mostra Flanders in the Fifteenth Century: Art and Civilization, Detroit I960, p. 34. 4 I Weiss attraverso ricerche d’archivio ha verificato che nessun Michele Giustiniani risiedeva a Bruges, dove tuttavia altri membri della famiglia risultavano residenti nel sec. xv (cfr. R. Weiss, Jan Van Eyck and thè Italians, in «Italian Studies» xv 1954, p. 2). Tuttavia il vestito indossato dal Giustiniani garantisce, secondo il Weiss, che il Giustiniani abbia vissuto in Fiandra, sìa pure per breve tempo; una petizione dello stesso Giustiniani per venire ad abitare a Genova, nel 1430, non rappresenta per il Weiss, un termine ante quem del dipinto. 5 L’identificazione di baptista lomelinus spetta ancora al Weiss, op. dt., Jan Vati Eyck... 1954, pp. 2-3 e 9-10. Battista di Giorgio Lomellini era un membro di una famiglia genovese in rapporti commerciali con Bruges e amico del Facio. Il

Lomellino si trovava con il Facio nell’ambasceria genovese a Napoli del 1444. Fu in quell’occasione che il trittico Lomellini dovette essere acquistato da Alfonso. 6 Nel libretto De Viris lllustribus\ cfr. il testo sull’edizione critica di M. Baxandall, Bartholomaeus Facius on Painting. A Fifteenth Century Manuscript of the De vins Illusiribus, in «The Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 27 (1964). 7 E. Panofsky, Early Netherlandish Painting, op. , i, 129. 8 R. Weiss, Jan Van Eyck... op., p. 11. Il dipinto in questione viene descritto con abbondanze di particolari dal Summonte nella sua lettera a Marco Antonio Michiel (cfr. F. Nicolini, L’arte napoletana del Rinascimento e la lettera di P. Summonte a M. Michiel, Napoli 1925, p. 162). Da tempo se ne riconosce una copia nel San Giorgio di Pedro Nisard (cfr. C.R. Post, A History of Spanish Painting, vol. parte 2, Cambridge, Mass. 193846, p. 620). Recentemente è entrata alla Galleria Naz. di Washington, proveniente dal mercato inglese, una tavoletta raffigurante San Giorgio e il drago attribuita dal Friedländer (xiv, 84) a Rogier van der Weyden e da Panofsky a Maître de Flémalle (p. 425); ma esposta più volte sotto il problematico nome di Hubert van Eyck. 9 Anselmo Adorno è il tipico cittadino di famiglia genovese ma di cittadinza bruggense e di elevatissimo rango sociale, Sire di Corthuy, Rotisele e Ghendbrugge, borgomastro di Bruges nel 1475. Il testamento che lasciava in eredità le due versioni delle Stimmate di San Francesco, a condizione che

vi fossero aggiunti i ritratti suo e della moglie sulle ali (cfr. R. Weiss, Jan van Eyck, p. 6) risale al 1470 e le due versioni si trovano a Torino, nella Galleria Sabauda e a Philadelphia, coll. Johnson, Già il Panofsky dubitava che la versione di Philadelphia fosse di mano di Van Eyck; recentemente A. Châtelet l’ha attribuita al maestro denominato “Maestro della mano H”, collaboratore di Van Eyck nella Ore Torino (cfr. Châtelet, Jan van Eyck, op. p. 56. 10 Per queste notizie cfr. R. Weiss, Jan Van Eyck... op. p. 9. 11 Sul ruolo avuto da Re Renato in seno alla cultura pittorica napoletana, v. il saggio di F. Sricchia Santoro, L’ambiente di formazione di Antonello; la cultura artistica a Napoli negli anni di Renato d’Angiò (1438-1442) e di Alfonso d Aragona (1443-1458), contenuto nel Catalogo della Mostra dedicata ad Antonello da Messina, Roma 1981, pp. 61-71. Sulla figura di re Renato, v. soprattutto O. Pacht, René d’Anjou Städten, in «Jahrbuch der Kunsthist. Samml. in Wien», lxix, 1973. 12 Per il Facio, cfr. M. Baxandall, Bartholomaeus Facius, op. cit., p. 105. Le notizie fomite da Ciriaco d’Ancona sono riportate dal Colucci in Antichità Picene, Fermo 1786. Il trittico di Rogier recava al centro la Deposizione dalla Croce e negli sportelli laterali il probabile ritratto di Lionello d’Este e le due figure di Adamo ed Èva. 13 La norma risulta dall’Inventario de picture e retracti che erano in libraria, redatto il 21 ottobre 1500 in seguito a un incendio che aveva gravemente danneggiato la colle261


zione della biblioteca di Giovanni Sforza duca di Pesaro; l’inventario fu pubblicato da A. Vernarecci, La libreria di Giovanni Sforza duca di Pesaro, in «Archivio storico per le Marche e per l’Umbria», (1896), pp. 501-23. G. Mulazzani ritiene di poter identificare questa Crocifissione con la parte centrale del celebre trittico Sforza di Rogier van der Weyden, del Museo di Bruxelles, il cui donatore, uno Sforza appunto dallo stemma, era stato in passato ritenuto del casato milanese della famiglia Sforza. Si tratta invece di Alessandro Sforza, che da una Cronaca di Anonimo Veronese (1446-88) risulta essere stato in Borgogna, Fiandra e Bruges per otto mesi e di ritorno nel 1458. L’identificazione è particolarmente importante per le connessioni artistiche tra Pesaro e Urbino, cfr. G. Mulazzani, Observation! on tbe Sforza Triptycb in thè Brussels Museum, in «The Burlington Magazine», (1971), pp. 252/3. 14 Si veda l’edizione critica con traduzione e testo a fronte in M. Baxandall, 1964, contenente numerose correzioni sulla precedente edizione del Mehus. È del Baxandall la datazione dello scritto, 1456, sinora ignota. Per l’ipotesi riferita più sotto sulle circostanze della nascita del De Viris illustribus, cfr. Baxandall, Bartholomaeus Facius, op. cit., pp. 91-2. 15 Cfr. Plutarco, Moralia 346 E, dt. in M. Baxandall, loc. cit., p. 98, n 2. 16 Cfr. Philostratus, Imagines, Proemium 3; cit. in M, Baxandall, loc. cit., p. 98, n. 4. 17 Non è stato sinora sufficiente262

mente sottolineato che Pisanello, presente alla corte di Napoli nel 1449 dovette sicuramente vedere la collezione reale di fiamminghi; né è stato valutato quale ne potè essere l’eco eventuale nelle sue opere. Il Paccagnini {Pisanello e il ciclo cavalleresco di Mantova, Milano 1972, pp. 242-3) cita tra l’altro il bellissimo disegno di negro, Louvre 2324, a sostegno di un possibile influsso fiammingo. L’inaertezza cronologica e spesso anche attributiva del corpus di disegni pisanelliani non consente che qualche ipotesi: per esempio il gruppo di disegni di stile intensamente grafico e marcato, di epoca generalmente considerata napoletana (cfr. Degenhart, Pisanello, Torino 1945, p. 78) può aver risentito dell’acuto grafismo rogeriano. 18 Si tratta di un dipinto di proprietà di Ottaviano Ubaldini della Carda, nipote e consigliere di Federigo da Montefeltro, che risulta assai per tempo disperso da Urbino, forse in seguito al sacco di Cesare Borgia nel 1502. 19 Nonostante il soggetto del tutto insolito del dipinto ed anche l’insolita genericità del Facio nellindicare solo la sua presenza a Genova, si può tuttavia prestare fede anche questa volta all’esattezza dell’informazione, aggiungendo che l’opera poteva rappresentare in realtà una Betsabea al bagno; cfr. infatti la Betsabea al bagno di Memling al Museo di Stoccarda, che presenta anche tratti fòrtemente rogeriani. 20 Si tratta della stessa Deposizione vista e descritta da Ciriaco da Ancona nel 1449. Il Panofsky (Early Netherlandish Painting, i,

p. 273 e n. 4) sostiene sia da identificare con la tavola oggi agli Uffizi, che egli ritiene sia a sua volta quella indicata nell’inventario della Villa Medici a Careggi come «el sepolcro di Nostro Signore schonfitto di Erode e cinque altre figure». (Cfr. A. Warburg in Gesammelte Schriften i, Leipzig-Berlin 1932, p. 215 e sgg.). 21 Sull’argomento assai intricato dei pittori gravitanti intorno alla decorazione dello Studio di Belfiore l’ultimo contributo di notevole importanza e lucidità è quello di M. Boskovits, Ferrarese Painting about 1450: some new Arguments, in «The Burlington Magazine» (1958), p. 373 e sgg). Vedi in particolare quanto vi è detto sul Maccagnino a p. 377, n, 24 e 25 e sulle attribuzioni precedenti del Longhi (1956) e del Salmi (1958). Resta tuttavia da sottolineare la singolare inclinazione internazionale di Ferrara intorno al 1450: la accertata presenza di Fouquet che vi eseguì il ritratto del buffone Gonella (cfr. O. Pacht, Die Autorschaft des Gonella-Bildnisses in «Jahrbuch der kunsthist. Sanimi. in Wien», lxx, (1974), pp. 39-88 e quella di Rogier. Ricordiamo inoltre la presenza nello studiolo di Belfiore di un Maestro Alfonso spagnolo, segnalata per la prima volta da A. Venturi, I primordi del Rinascimento artistico a Ferrara in «Rivista storica italiana», 1884, il quale vi riceveva compensi maggiori di Rogier. Ricordiamo inoltre che il Cittadella in Notizie relative a Ferrara, Ferrara 1864, pp. 62 e 74-79, cita un certo «Simone de la Magna» come l’orefice più di moda e un tale «Zanin de Pranza» per i ricami dei paramenti sacri.

Infine vorrei segnalare che tra i miniatori preferiti di Lionello, documentati a Ferrara dal 1441, vi era anche un Giorgio d Allemagna, Georgius de Alemania pictor, che io ritengo possa riferirsi, come dizione frequentemente usata, ad un artista fiammingo, (cfr. A. Venturi, loc. cit., [18841, p. 710). 22 Cfr. F. Bologna Napoli e le rotte mediterranee della pittura, Napoli 1977, p. 147 e sgg., dove a Napoli viene appunto data la funzione di «cinghia di trasmissione tra Spagna e Ferrara» (p. 149). Vi si citano a sostegno anche le tavolette assai raffinate divise tra Brera e il Museo Correr di Venezia con Storie di San Gerolamo che già il Longhi (Nuovi Ampliamenti all’officina Ferrarese, in Opere Complete di Roberto Longhi, vol. v, Firenze 1956, p. 177) segnalava come di gusto fiammingheggiante, quasi un intenso parallelo della cultura di Colantonio nel nord; opere, che pur nel loro singolare intreccio stilistico, non sembrano, tuttavia, specificatamente orientate a un gusto analogo a quello napoletano intorno al 1450. 23 Antonio Averulino, detto il Filarete, Trattato di architettura, a cura di A.M. Finoli e L. Grassi, Milano 1972, p. 265, nel libro xxiv, trattando di colori ad olio, ricorda l’eccellenza di questa tecnica nella pittura di Van Eyck e Rogier (già citati nel l. ix). 24 L’ipotesi di un viaggio di Van Eyck in Italia è stata ancora recentemente ripresa con nuovi argomenti da C. Sterling, Jan van Eyck avant 1432, op. cit., p. 31. V. anche sui viaggi di Van Eyck, Châtelet, Van Eyck, op. cit., 1979, p. 37 25 Cfr. nota 26 del primo capitolo.

Cfr. C Sterling, Jan van Eyck avant 1432, op. cit., p. 31. 27 Il Cavalcasene (Storia dell’antica pittura fiamminga, op. cit., p. 277) citando un documento d’archivio a proposito di un pagamento fatto a Maestro Roziero il 31 dicembre del 1451, non mette in dubbio la sosta a Ferrara di Rogier. Non così il Kantorowicz (E.H. Kantorowicz, The Este Portrait by Rogier van der Weyden, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», in (19391940), p. 165 e segg. alla cui opinione si assoda il Panofsky (Early... op. cit., i, p. 467, n. 2) ritenendo che Rogier sia giunto a Roma via Bologna e Firenze. Il Kantorowicz ha anche chiarito definitivamente che il presunto ritratto di Lionello d’Este del Metropolitan Museum, che si supponeva Rogier avesse dipinto a Ferrara, raffigura invece Francesco d’Este, figlio illegittimo di Lionello, inviato nel 1444 alla corte di Borgogna. 28 Cfr. E. Panofsky, Early... op. cit. i, p. 275. 29 Cfr. per esempio l’affresco in San Marco nel corridoio superiore di San Marco e la pala d’altare della chiesa del Bosco ai frati. Anche P. Howell Jolly (v. nota seguente) ritiene possibile la derivazione della tavola di Franoofbrte dalla Pala Annalena dell‘Angelico. 30 P. Howell Jolly, Rogier van der Weyden’s Escorial and Philadelphia Crucifixions and their relation to Fra Angelico and San Marco, in «Oud Holland» 3 (1981), p. 113. 31 Cfr. R. Longhi, Un Angelico a livomo, in «Pinaootheca» 3 (1928) pp. 158-9, ripubblicato in Opere 26

Complete di Roberto Longhi, vol. iv, p. 37 e sgg. Firenze 1968. 32 Sull’influsso italiano presente nelle opere di Rogier successive al viaggio in Italia, v. A,M. Schultz, The Columba Altarpiece and Rogier van der Weyden Stylistic Development in «Münchner Jahrbuch der Bildenden Künste» xxii (1971), pp. 63-116; e J. Penny Howell, op. cit., n. 16, p. 124. Capitolo terzo Ci limitiamo a citare le recenti, ricchissime monografie di R. Pane, U Rinascimento neU’Iìalia Meridionale, 2 voll., Milano 1975-77 e di F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee nella pittura di Alfonso d’Aragona e Perdonando il Cattolico, Napoli, 1977. Inoltre la lucida sintesi di F. Sricchia Santoro, nel già citato saggio L’ambiente di formazione di Antonello... Roma, 1981. Per il quadro delle relazioni commerciali napoletane, v. il cit. vol. di M. Del Treppo, I mercanti catalani... Napoli 1972. 2 II testo della lettera fu pubblicato da F. Nicolini, L’arte napoletana e la lettera di Pietro Summonte a Marco Mscbiel in «Napoli nobilissima», 1925. Lo stesso testo accompagnato da una rilettura critica si trova nel primo volume della citata opera di R. Pane, Milano 1975, p- 65 e sgg. 3 Cfr. il saggio di O. Pacht, René d Anjou et les Van Eyck, in «Cahiers de l’Association internationale des Etudes françaises», 1956, p. 41 e sgg. 4 Non è qui possibile neppure accennare al problema, tuttora 1

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largamente aperto, relativo al ruolo avuto da Robert Campin nella diffusione della pittura fiamminga al sud, specie nei territori francesi. Per quanto riguarda la sua fortissima personalità, ci limitiamo a ricordare il lungo e accidentato percorso critico degli studi, che portò all’identificazione generalmente accettata del Maestro di Flémalle con Robert Campin dì Tournai, compagno più anziano di Rogier van der Weyden, al cui periodo giovanile furono lungamente riferite le opere del Campin stesso. 5 Per il testo di C. Tutini, De’ pittori, scultori architetti... napolitani, circa del 1642, pubblicato dal Croce in «Napoli nobilissima» vin (1908), vedi il testo in O. Morisani, Letteratura artistica a Napoli tra il ’400 e il ’600, Napoli 1958. 6 R. Pane, II Rinascimento... op. cit., Napoli 1972. i, p. 74. 7 Il San Gerolamo nello studio fu attribuito al Maestro dell’Annunciazione di Aix da L. Demonts, Le Mastre de l’Annon- ciation de Aix, in «La Revue de l’Art», 1928, 5; mentre G. Aru ascriveva persino l’Annunciazione di Aix a Colantonio (Dedalo xi, 1931). 8 Cfr. C. Sterling, La Pietà de Tarascon, in «Revue du Louvre», 5, 1955, p. 35 e sgg. e in «Propyläen Kunstgeschichte» vii, 1972, p. 184. Appare d’altra parte verosimile l’ipotesi avanzata dal Pächt {René d’Anjott et les Van Eyck, op cit. 1956, p. 41 e in René d’Anjou Studien, op. cit., 1973) che lo stesso Re Renato e il miniatore noto col nome di “Maestro di Re Renato” siano la medesima persona. 9 Il codice (ms. 358 della Pierpont 264

Morgan Library) fu pubblicato da F Avril, Pour l’enluminure provençale: Enguerrand Quarton, peintre des manuscripts, in «La Revue de l’art», 35,1977. 10 Cfr. L. Demoni» in «Melange; Hulin de Loo», 1931, p. 123 e sgg. 11 F. Bologna, Il Maestro di Giovanni di Capestrano, in «Proporzioni» iii (1950), p. 92. 12 Sul San Giorgio dì Van Eyck cfr. la nota 8 al capitolo ii. 13 R. Longhi, Una Crocifissione di Colantonio, in «Paragone» 63 (1955), p. 6. 14 R. Pane, Il Rinascimento... op. cit., 4 p. 73. 15 Cfr. F. Bologna, Napoli e le rotte... op. cit., p. 64. 16 F. Bologna, Napoli e le rotte.:, op. dt., p. 89-90. 17 Cfr. Collezioni Civiche di Como. Proposte. Scoperte. Restauri, Milano 1981, scheda a 45 (a cura di P.L. De Vecchi). 18 Per queste due attribuzioni, cfr. R. Longhi, Una Crocifissione di Colantonio, in «Paragone» 63 (1955), p. 3 e segg. e Frammento siciliano, in «Paragone» 63 (1955) p. 3 e segg. 19 Cfr. G. Post, Flemish and Hispano-Flemish Paintings in the Crucifixion, in «Gazette des Beaux Arts», 1952, p. 234 e segg.; dello stesso parere è G Sterling, Jan Van Eyck avant 1432, op. cit., p. 32. Personalmente avevo aderito alla attribuzione del Longhi (cfr. I rapporti Italia-Fiandra n in Paragone n. 201, p. 44) prima di poter conoscere direttamente l’opera. 20 In realtà, come ha notato il Longhi (Una Crocifissione, di Colantonio, art. cit. p. 9), Colantonio ripete quasi alla lette-

ra questo tipo di paesaggio nello sfondo della Deposizione dalla Croce in San Domenico. 21 Su queste opere napoletane ha ampiamente fatto luce il Bologna nell’opera più volte citata Le rotte mediterranee... Napoli 1977, spede nel cap. iii. A queste opere vorrei aggiungere una tavola, pubblicata dal Friedländer (Die Altniederländische... ii, p. 130 e fig. 121) come probabile copia spagnola di Rogier, collezione Cernuschi, Parigi, raffigurante la Madonna con San Giuseppe e un Santo. A parte la datazione «ca. 1500» che mi sembra troppo tardiva, vorrei notare il forte sapore misto di fiammingo-iberico e napoletano della tavola. 22 Cfr. F. Bologna, Napoli e le rotte... op. cit., p. 93-4. 23 Cfr. F. Bologna, Napoli e le rotte..., p. 95. 24 Per la dibattuta questione della verosimile presenza di Fouquet a Napoli avanzata dal Bologna già dal 1950, (Il maestro di san Giovanni da Capestrano, art. cit., pp. 92-3) essa è ripresa con nuove precisazioni dal Bologna ne Le rotte... op. cit., p. 65 e sgg. (vedi anche la bibliografia). Per l’ipotesi di un soggiorno del Witz a Napoli, e il suo rapporto con Fouquet giovane e Colantonio, v. lo stesso Bologna, p. 74 e segg. 25 R. Longhi, Frammento siciliano, in art. cit., p. 21. 26 Cfr. l’ipotesi affacciata da F. Sricchia Santoro in La prima attività di Antonello: documenti e ipotesi, p. 73 del già citato catalogo della mostra Antonello da Messina, Roma 1981, secondo la quale la data di nascita del pittore potrebbe oscillare tra il 1420 e il 1430; ipo-

tesi non senza conseguenze sulla diversa collocazione del soggiorno napoletano, più a ridosso dell’arrivo di Alfonso d’Aragona. 27 Antonello da Messina, a cura di Alessandro Marabottini e F. Sricchia Santoro, Roma 1981. 28 Cfr. nota 18. 29 L’ipotesi fu affacciata dal Longhi, in Frammento siciliano, art, cit., pp. 27-8; il Bologna (Napoli e le rotte... op. cit., p. 90) accettando la distinzione fra i due tempi, ha anticipato fortemente il primo, fino a farlo coincidere con il primo soggiorno napoletano; proposta che mi trova pienamente concorde. Per il Previtali invece la Crocifissione cadrebbe forse nella seconda metà degli anni Sessanta (Da Antonello da Messina a Jacopo di Antonello, in «Prospettiva» n. 20, 1980, p. 30. 30 L’accostamento della Crocifissione di Antonello a quella del Witz fu proposto dal Lauts, Antonello da Messina, Vienna 1940, pp. 9-10 e da me condiviso nel saggio I rapporti Italia-Fiandra li, in «Paragone» 201 (1966) p. 47. 31 Fra le opere più alte e misteriose di questa cultura circolante, rammentiamo la Pietà della collezione Miss Helen Frick di New York. Cfr. G. Ring, A Century of French Painting, 1400-1500, London 1949, p. 224, fig. 37; v. anche quanto è detto nel mio saggio I rapporti Italia-Fiandra, art. cit. p. 57. 32 A questo proposito mi sembra estremamente interessante la notizia (riportata dal cit. Catalogo Antonello da Messina, p. 84) di un appunto manoscritto del Fiocco, conservato presso la Fondazione Cini, nel quale si legge: «La radiografia [della Vergine leggente

Cini] ha rivelato sulla tavola il disegno per la Crocifissione dì Hermannstadt [già a Bucarest]». Ne verrebbe rafforzata l’ipotesi di una contiguità fra i due dipinti. 33 II documento del 1463 relativo a un gonfalone di San Nicola, commissionato ad Antonello fu collegato dal Longhi (Frammento Siciliano, art. cit., p. 25) al San Nicola in cattedra, perduto nel terremoto di Messina del 1908 e a noi noto dalla copia di Antonino Giuffré per la Cattedrale di Milazzo, mentre è stato verificato (cfr. Antonello da Messina, Catalogo della Mostra, op. cit., pp. 90-4) che la copia del Giuffré, e quindi anche il polittico visto dal Cavalcasene, si riferisce ad altro polittico perduto e destinato alla Chiesa di San Nicola alla montagna. 34 Cfr. J.A. Crowe, G.B. Cavalcasene, A History of Painting in North Italy, Londra 1871, p. 87; e cfr. anche il disegno relativo alla tavola, conservato a Venezia, Cod. Marc. It. iv, 2032 (= 12273) fasc. i, riprodotto nel Catalogo Antonello da Messina, Roma 1871, p. 90. 35 Sul problema delle fonti fiamminghe di Antonello e in particolare suite posizione di Petrus Christus, v. M.G. Paolini, Problemi antonelliani – rapporti con la pittura fiamminga, in «Storia dell’Arte» 1980, 38-40, pp. 151-166 e L Castelfranchi Vegas, Osservazioni sulle fonti fiamminghe di Antonello, in «Atti del Convegno internazionale di studi su Antonello da Messina», Messina novembre 1981 (in corso di stampa). 36 Per il documento in questione, cfr. F. Malaguzzi Valeri,

Pittori lombardi del Quattrocento. Ricerche, Milano, 1902; il documento, contestato dalla Wittgens (in Storia di Milano, vol. vii 1956, pp. 751-2) sulla base del termine provvisionato, che indicherebbe solo coloro che prestavano servizio mercenario, fu attentamente studiato da G. Consoli Ancora sull’Antonello de Sicilia in «Arte lombarda» i, 1967, p. 109 e segg.), il quale rettificando il significato di «provvisionato» chiariva che i pagamenti del documento si riferivano ai servizi resi nel 1453 e concludeva riproponendo la verosimiglianza dell incontro fra i due pittori. 37 Recentemente, J. Wright, Antonello da Messina, The Origins of Style and Technique, in «Art History», 3, 1980 ha avanzato l’ipotesi che Antonello si sia recato in Fiandra già nel periodo della sua formazione e ivi si sia incontrato con Petrus Christus. 38 La ricostruzione dell’attività pittorica di Petrus Christus fu inaugurata da M.J. Friedländer (Die Alìniederlandische... op. cit., i, pp. 142-60, che appunto gli riservava una collocazione tutto sommato modesta di seguace di Van Eyck. Il Panofsky (Early... op. cit., pp. 308-313) ne riconsiderava l’originalità della posizione nei confronti dei padri fondatori del fiammingo. Recentemente G Sterling (Observations on Petrus Christus) ricostruiva in modo sensibilmente nuovo gli esordi del pittore. Pochi anni or sono è comparsa la prima monografia sull’artista (P. Schabacker, Petrus Christus Utrecht 1974) e ancora più recentemente la monografia di M. Panhaus-Bühler, 265


Eklektizismus und Originalität im Werk des Petrus Christus, Wien 1978. 39 Cfr. C Sterling, Observations on Petrus Christus, art. cit., p. 9. 40 E. Panofsky, Early... op. cit., 1, p. 310. 41 E. Panofsky, ibid. p. 311, nota 8 a p. 489-90. 42 F. Bologna, Napoli e le rotte... op. cit., pp. 94-5. 43 Per un contributo a queste tangenze, v. l’articolo di L. Castelfranchi Vegas, Una Madonna fiamminga intorno al 1460 e il problema della Madonna Cagnola, in «Paragone» 381 (1982) pp. 3-9. 44 Oltre alte Morte della Vergine in coll. Santocanale a Palermo e al perduro‚ Christo in majestate citato dal Summonte l’inventario mediceo del 1492 menziona una dama francese di Pietro Cretti da Bruggia che il Panofsky (Early... p. 313, nota 7) ritiene identificabile con lo splendido ritrattino femminile dei Musei di Berlino. Una quarta opera potrebbe essere quel San Gerolamo nello studio menzionato nello stesso inventario mediceo come di Van Eyck, e che molti studiosi identificano con la tavoletta ora all’Institute of Art di Detroit attribuendola a Petrus Christus (ma assegnata anche al Maestro H. da Châtelet, in Van Eyck, op. cit., p. 56). 45 Cfr. Longhi, Frammento siciliano, art. cit., p. 162-3. 46 Cfr., per es., S. Bonari, Antonello da Messina, Milano 1953, p. 16 e p. 90. 47 A proposito del tema iconografico del Cristo coronato di spine, cfr. quanto già detto a pag. 87 del secondo capitolo. 266

L importante tavoletta fu pubblicata dal Friedländer (i, p. 116 e segg.) quando si trovava in collezione privata a Newcastle. Lo studioso la riteneva originale e probabile prototipo delle copie dell’Alte Pinakothek di Monaco e del Groeningemuseum di Bruges. 49 G. Previtali, Da Antonello da Messina a Jacopo di Antonello, i La. data del Cristo benedicente della National Gallery di Londra, in «Prospettiva» n. 20 (1980), pp. 27 e segg. 50 E. Panofsky, Early... op. cit., i, p. 311 e nota 8 della medesima pagina. 51 M.J.Friedländer, Altniederländische... op. cit., i, p. 161-2. 52 Volendo qui solo accennare alle vicende storiografiche relative alla ipotesi di un viaggio in Fiandra di Antonello, ricordiamo brevemente che essa fu sostenuta dal Vasari (Vite... ed. cit., i, p. 132, p. 434 e segg.) ma accompagnata da dati inaccettabili. L’ipotesi vasariana, purgata dei grossolani errori, fu accolta dal Cavalcasene (Storia dell’antica pittura fiamminga, Firenze 1899, pp. 229-39), definitivamente demolita dal punto di vista documentario dal Gronau (Die Quellen der Biographie des Antonello da Messina, in «Rep. f.K.w. xx, 1897, p. 347 e segg.) e nuovamente respinta da L Venturi (sub voce in «Thieme Becker Kunstlerlexicon» i, 1907, p. 567) ma riammessa da A. Venturi (Storia dell‘Arte italiana, vol. vii, parte iv, p. 4 e segg.); infine di nuovo negata dal Lauts (Antonello da Messina in «Jahrbuch d. Kunsth. Samm. in Wien», N.F. vii, 1933, p. 15 e segg.). Così l’incontro di 48

Antonello con la pittura fiamminga fu avviato sulla pista napoletana. L’ipotesi del viaggio in Fiandra avanzata recentemente da J. Wright (J. Wright, Antonello da Messina. The Origini of Style and Technique, in «Art History», 3, 1980) e da chi scrive nella relazione tenuta al Convegno internazionale di Studi su Antonello da Messina, affiora anche nei già citati studi del catalogo della Mostra di Antonello da Messina, Roma 1981. 53 V. il testo della lettera del duca Galeazzo Maria Sforza, conservata nell’Archivio di Stato di Milano in Antonello da Messina, Catalogo della Mostra, Roma 1981, p. 236. 54 G. Previtali, Da Antonello da Messina a Jacopo di Antonello, u, II Cristo deposto del Museo del Prado, in «Prospettiva», 1980, n. 21. 55 G. Previtali, Da Antonello da Messina a Jacopo di Antonello. La data del Cristo benedicente della National Gallery di Londra, in «Prospettiva» 20 (1980), p. 29. Capitolo quarto Cfr. A. Marabottini, Antonello: la vita e le opere, nel Catalogo della Mostra Antonello da Messina, op. cit., p. 34 e ivi F. Sricchia Santoro, La prima attività dì Antonello: documenti e ipotesi, p. 79. 2 I primi illuminanti cenni ai tratti fiamminghi nella pittura di Piero si hanno in R. Longhi, Piero della Francesca, Milano 1927, p. 99. Nella scarsa bibliografia sull’argomento segnaliamo soprattutto le osservazioni molto importanti contenute nel saggio di M. Meiss, Jan van Eyck 1

and the Italian Renaissance, op. cit., pp. 63-65 e nel saggio dello stesso Meiss, La Sacra Conversazione di Piero della Francesca, in «Quaderni di Brera», i, Firenze, 1971; cfr. anche G. Previtali, Piero della Francesca, Milano 1963. 3 G. Previtali, loc. cit., v. nota precedente. 4 L.B. Alberti, Della Pittura (1436), in Prosatori volgari del Rinascimento in vol. xiv de La Letteratura italiana. Storia e testi diretta da Mattioli, Pancrazi, Schiaffini, vol. xiv, Milano-Napoli 1955, p. 520 e segg.; la parte relativa alla dottrina dei lumi è a p. 539 e segg. 5 E.H. Gombrich, The Heritage of Apelles, op. cit., p. 30; cfr. anche quanto detto nel capitolo primo di questo volume a p. 37 e 38. 6 Cfr. A. Chastel, Le grand atelier d’Italia, Parigi 1965 (trad. it. La grande Officina, Milano 1966, p. 284). V. anche quanto è accennato da P.L. De Vecchi in Tutta la pittura di Piero della Francesca, Milano 1966, p. 85. 7 Cfr. E. Panofsky, Early... op. cit., i,. 3. 8 M. Meiss, Jan Van Eyck and thè Italian Renaissance, op. cit., p. 6365. 9 Ibidem p. 64. 10 M. Meiss, La Sacra Conversazione di Piero della Francesca, Quaderni di Brera, J, Firenze 1971. 11 L’interpretazione simbolica di Maria raffigurata nella Chiesa, è stata in questo caso applicata alla Sacra Conversazione di Brera da M. Aronberg Lavin, Piero della Francesca’s Montefeltro Altarpiece: a Pledge of Fidelity, in «Art Bulletin», 1969, p. 367 e segg., e ripresa dal Meiss, loc. cit.

Mi sembra interessante la segnalazione del Meiss (art. cit., nota 3) che l’esame dei raggi x ha rivelato che in uno stadio precedente la Madonna portava sulla fronte un grosso gioiello; un particolare che mi sembra a quel tempo di tipico gusto fiammingo (cfr. le Madonne di Rogier, di Bouts e di Memling). 12 Cfr. L.B. Alberti, Della Pittura, ed. cit., p. 542 e 540. 13 Già il Longhi aveva supposto (1927) che il volto, le mani e l’armatura di Federico da Montefeltro fossero dovuti all’intervento di Pedro Berruguete. L’opinione è condivisa ormai generalmente, salvo che per Tannatura (cfr. Aronberg Lavin, op. cit., 1969); sulla presenza di Federico in questa pala v. l’interpretazione del Meiss, art. cit., (1971). 14 Longhi, Piero della Francesca, Milano 1927, p. 99. 15 L’ipotesi è avanzata da M. Aronberg Lavin, The Altar of Corpus Domini in Urbino: Paolo Uccello, Joos van Ghent, Piero della Francesca, in «Art Bulletin» 1967, p. 388, nota 141, p. 22. 16 La notizia è contenuta nell’opera di Vespasiano da Bisticci, libraio amico di Federico (1421-1498), Virorum illustrium qui saeculo xv extiterunt vitae, ed. da P. d’Ancona e E. Aeschlimann, Milano 1951, p. 209. 17 Per quanto concerne la complessa iconografia della tavola e l’identificazione dei personaggi che circondano il duca cfr. la minutissima analisi che ne fa la Aronberg Lavin, art. cit., (1967). 18 Cfr. E. Panofsky, Early... op. cit. i, pp. 136 e sgg. 19 Nella vasta letteratura concer-

nente la paternità di questo gruppo di opere, v. anzitutto Bombe, Justus van Ghent in Urbino, in «Mitteilungen d. kunsthist. Instituts in Florenz, 3 (1909), p. 111 e segg., cui si deve la prima ricostruzione della intiera decorazione con gli Uomini Illustri. Per la loro attribuzione a Giusto di Gand, furono J. Lavalleye, Juste de Gand, peìntre de Frédéric de Monlefetro, Lovanio 1936, p. 157 e segg.; M.J. Friedländer, Dre Altrùederldndische... op. cit., in, p. 74 e segg. L’attribuzione della serie a Pedro Berruguete, avanzata per la prima volta dal Gamba in Dedalo vii, 1926-7, p. 638 fu avallata da Longhi, Piero della Francesca, 1927, p. 183 e ripresa da G. Briganti, Su Giusto di Gand in «Critica d’Arte», xv, 1938, p. 104 e segg.; Hulin de Loo, Berruguete et les portraìts d’Urbin, Bruxelles 1947 ritiene che la serie iniziata da Giusto sia stata terminata da Pedro Berruguete; su questa linea è anche sostanzialmente A. Chastel, La grande Officina, op. cit., pp. 280-1; inoltre il Catalogo della Mostra Juste de Gand, Berruguete et la Cour d’Urbin, Gand 1957, e J. Lavalleye, Le Palais Ducal d’Urbin (Les primitifs flamandes, Corpus) 1964, che prospetta una soluzione a più mani, tra cui il Berruguete. Cfr. sulla questione l’ampia scheda del Davies su Giusto di Gand nel Catalogo, Early Netberlandish School, della National Gallery, Londra 1968; per il Davies tutto il gruppo, comprese le Arti liberali, sono da attribuire a Giusto di Gand, pp. 70-8. 20 Vespasiano da Bisticci, Descrizzione del Palazzo ducale d’Urbino, Roma 1724, p. 57. Il 267


nome di Giusto di Gand sparisce dai documenti dopo il 1476. 21 Per l’ipotesi di una presenza napoletana del Berruguete, cfr. F. Bologna, Napoli e le rotte... op. cit., p. 175; la presenza del Berruguete a Urbino si basa su un documento, riferito dal Pungileoni nel 1822, a un Pietro Spagnolo, pittore, presente a Urbino nel 1477 (documento non più rintracciabile). Un’ulteriore conferma della presenza del Berruguete a Urbino proviene dalla testimonianza diretta dello storico spagnolo Pablo de Céspedes che in uno scritto del 1604 asseriva che «le teste» eseguite nel palazzo d’Urbino sono eseguite da un pittore spagnolo (cit. da J. Allende Salazar, Pedro Berruguete en Italia, in «Archivio Espanol de Arte y Arquelogia», in, 8, 1917, p. 133). È stato notato anche che il libro retto tra le mani di Alberto Magno reca uno scritto in spagnolo (cfr. Sanchez Cantón in «Archivio Espanol», 1933, pp. 146-8). 22 Cfr. Propyläen, vol. vii, 1972, sub voce P. Berruguete di C. Sterling. 23 Per un’accurata descrizione e discussione critica di tutta la serie e in particolare dei due esemplari londinesi attribuiti a Ioos van Ghent, cfr. Davies Early Netberlandish Painting, cat. cit. pp. 71-78; i due esemplari perduti dei Musei di Berlino, la Dialettica (?) e l’Astronomia, recavano, particolarmente quello dell’Astronomia, i più forti caratteri berruguetiani. Nel Catalogo berlinese del 1931 erano attribuiti a Melozzo da Forlì. Capitolo quinto 268

G. Robertson, Giovanni Bellini, Oxford 1968; M. Meiss, Giovanni’s Bellini St. Francis in the Frick Collection, New York 1964. 2 C Brandi, Spazio italiano e ambiente fiammingo, Milano I960, p. 31. 3 Le preziose notizie del Mìchiel furono, come è noto, pubblicate da Jacopo Morelli col titolo Notizie d’opere di disegno nella prima metà del secolo xvi esistenti in Padova, Cremona, Milano, Pavia, Bergamo, Crema, Venezia, scritte da un anonimo di quel tempo, Bassano 1800; riedite da G. Frizzoni, Bologna 1884, Talora il Michiel sembra confondere tra Van Eyck e Memling, come nel caso del quadretto in casa Lampugnano a Milano, «un quadretto a mezze figure del patron con el fattori», datato 1440, «de Zuan Heic, credo Memelino Ponentino». Il ritratto di Isabella d’Aragona dato al Memling e datato 1430, non può trattarsi evidentemente di Memling ma di una copia del ritratto di Jan van Eyck a Isabella d’Aragona, dipinto nel 1429. 4 Sul Ritratto di Marco Barbarigo, di anonimo, cfr. l’accuratissima scheda di M. Davies, nel catalogo Early Netherlandish Painting della National Gallery, Londra 1968, pp. 55-6; la iscriptio del ritratto si riferisce a un 1443 o a un 1448 e la parola londonis in basso a sinistra sembra indicare un’esecuzione a Londra, dove peraltro nessun seguace di Van Eyck ha lavorato. Il ritratto risultava nei precedenti Cataloghi attribuito a Petrus Christus. 5 Mi riferisco in particolare agli studi di teste virili contenute nel 1

Codice Vallardi del Louvre che il Degenhart gli attribuisce assegnandoli al quarto decennio circa; come la testa di negro n. 2324 (contraria la Fossi-Todorow all’attribuzione) e in particolare la testa di vecchio n. 2336, quasi degna del disegno per l’Albergati di Van Eyck (Dresda) per forza di penetrazione realistica. 6 A. Châtelet, Un collaborateur de Van Eyck en Italie, in «Rélations artistiques entre les Pays Bas e l’Italie à la Renaissance, Etudes dédiéés à Suzanne Sulzberger», in «Etudes d’Histoire de l’Art publiées par l’Institut historique belge de Rome», Bruxelles, t. iv (1980), p. 57. Lo Châtelet che già in precedenti studi aveva ricostruito con acume la figura del miniatore anonimo, designato come Mano H, aggiunge in questo studio l’ipotesi assai interessante che questo miniatore possa identificarsi con Jacques Coene. 7 R. Longhi, Calepino Veneziano vi, G7 inizi di Nicola di Maestro Antonio di Ancona, in «Arte Veneta» 1945, pp. 158-9. L’attribuzione è messa in dubbio da M. Meiss, Jan van Eyck... art. cit., pp. 66-7. 8 F. Zeri, in Due dipinti, la filologia e un nome: il Maestro delle tavole Barberini, Torino 1961, p. 57, segnala altre versioni dello s cesso tema e dello stesso fioccati (Perugia, e Venezia, coll. Gni) e ne sottolinea l’antica matrice vaneickiana, supponendo che il Boccati labbia appresa da Domenico Veneziano a Perugia. 9 Cfr. soprattutto la Crocifissione (f. 36) del Libro dei Disegni del Louvre. 10 Cfr. M. Meiss, Andrea Mantegna

as illuminator. An Episode in Renaissance Art, Humanisme and Diplomacy, New York 1957. Cfr. anche G. Robertson, Giovanni Bellini, op. cit., pp. 17-21; G. Mariani Canova, La miniatura veneta del Rinascimento, Venezia 1969, pp. 16,141; JJ. Alexander, Italian Renaissance Illuminators, Londra 1977, pp. 55-59. 11 G. Robertson, Giovanni Bellini, op. cit., p. 33. 12 Sulla presenza del parapetto nella pittura veneta, cfr. M. Meiss, Andrea Mantegna as Illuminator, op. cit., p. 27. Tra le prove di echi fiamminghi a Padova, il Meiss, (Jan van Eyck and the Italien Renaissance, op. cit., p. 62), cita la Madonna di Corneto Tarquinia di Filippo Lippi del 1437, che presenta il primo cartellino della pittura italiana e ha altre caratteristiche eickiane che fanno ritenere al Meiss che siano state apprese dal Lippi direttamente a Padova durante il suo soggiorno del 1434. Sempre sull’origine fiamminga del cartellino, il Meiss segnala, prima del Bellini, la Madonna dello Squardone del Museo JacquemartAndré di Parigi. Dato che i primi cartellini di Antonello non sono precedenti il 1474, non è da escludere, a mio parere, che questo uso sia stato mutuato da Antonello a Venezia in un suo primo verosimile soggiorno prima del 1475. 13 A proposito del polittico Ferrer vale la pena di segnalare l’osservazione del Robertson, Giovanni Bellini, op. cit. p. 44, che l’insolita forma del polittico e in particolare i pannelli quadrati alla sua sommità con L’Annunciata e l’Angelo annunciante richiamano quelli di Antonello da Messina nel politti-

co del 1473 (Messina). Secondo il Robertson Antonello avrebbe visto appunto a Venezia il polittico di San Vincenzo Ferreri e ne avrebbe tratto spunto per i pannelli superiori del polittico di Messina. 14 L’uso di dipingere sul retro di una tavoletta una natura morta è abbastanza frequente in Memling. Per il pannello con un Teschio in una nicchia, cfr. lo stesso soggetto nell’altare portatile di Memling nel Museo di Strasburgo. 15 J.A. Crowe-G.B. Cavalcasene, A History of Painting in North Italy, Londra 1871, parla a più riprese della progressiva ed intensamente perseguita assimilazione della tecnica a olio da parte del Bellini, che raggiunse risultati perfetti, secondo il Cavalcasene, solo negli anni Ottanta. 16 R. Longhi, The Giovanni Bellini Exhibition, in «The Burlington Magazine» 1950, p. 281. La frase da noi citata è riportata in italiano in nota. 17 M. Meiss, Cribra»»* Bellini’s St. Francis in the Frick Collection, op. cit, nota 1. La minuziosa lettura iconografica del Meiss si conclude con l’ipotesi che il quadro rappresenti Le stimmate di San Francesco, personalmente, anche sulla base di molti dettagli sottolineati dallo stesso Meiss, propenderei piuttosto per L’Estasi di San Francesco. 18 M. Meiss, loc. cit., p. 14. 19 Gli zoccoli abbandonati sul pavimento, nel doppio Ritratto degli Amolfini di Londra, alludono (Panofsky) alla prescrizione fatta sul Sinai a Mosè di togliersi i sandali perché il luogo era sacro. Qui il tema della visione del divino e il lastrone di roccia, potrebbero

giustificate questo significato simbolico. 20 J.A. Crowe – G.B. Cavalcasene, A History of Painting in North Italy, op. cit., p. 161. 21 Di Memling il Michiel cita in casa Bembo a Padova un dittico con San Giovanni Battista e «la nostra Donna» (oggi rispettivamente a Monaco e a Washington); il Friedländer ritiene che il Battista possa identificarsi con la tavoletta prestata dal Bembo a Isabella d’Este nel 1502. Inoltre, di mano di Memling, il Michiel segnala in casa del cardinale Grimani un autoritratto, il ritratto di due coniugi, «molti altri quadretti de Santi con portelle innanzi» e infine delle miniature; segnalazione, quest’ultima, assai importante come testimonianza dell’attività miniatoria di Memling; il Cavalcasene (Storia dell’antica pittura fiamminga, op. cit. p. 371) ritiene certo trattarsi di una partecipazione di Memling al celebre Breviario Grimani. Il ritratto di Isabella d’Aragona, sempre in casa del cardinale Grimani, reca invece l’impossibile data 1450; come abbiamo detto, potrebbe trattarsi di una copia del ritratto di Isabella eseguito da Van Eyck nel 1429. 22 II Michiel ricorda con grandi elogi varie opere di Jacometto, tutte di miniatura. Fra le poche opere a noi pervenute attribuibili a Jacometto sono i due frontespizi stupendi del primo e secondo volume delle Opere di Aristotele (New York, Pierpont Morgan Library E.41.A, E2.78.B) cfr. J.J.G. Alexander, Italian Renaissance Illwninations, Londra 1977, ill. 17 e 18, che lo confermano miniatore fra i più alti 269


Gli stessi ritratti di Alvise Contarini e della Suora (New York) hanno misure estremamente esigue; e degli stessi personaggi esistono due miniature, pressoché identiche alle tavolette, nella coll. Lichtenstein. A questo gruppo si può aggiungere il Ritratto di Fanciullo della National Gallery di Londra, che risulta a metà strada tra Antonello e Giovanni Bellini, ma con un’intensificazione di dettagli e di tecnica propria della miniatura. 23 C Brandi, Spazio italiano e ambiente fiammingo, op. cit., p. 31. 24 Su questo affascinante capitolo, ancora tutto da esplorare, di questo nuovo rilancio dell’atmosfera ponentina nella pittura veneta, ma questa volta di matrice tedesca, v. gli interessanti cenni di E. Castelnuovo, L’Europa all’aprirsi del Cinquecento, Milano 1963. Capitolo sesto A. Warburg, Arte fiamminga e Rinascimento fiorentino, in la Rinascita del paganesimo antico, Firenze 1966. Su questo argomento, cfr. anche E.H. Gombrich, The Early Medicis as Patrons of Art: a Sitrvey of Primary Sources in kalian Studier. A Tribute to thè Late Cecilia M. Ady, I960, p. 298 e segg. e G. Gaye, Carteggi inediti su artisti, Firenze 1839. 2 Questi documenti furono raccolti da E. Muentz, Les Collections des Médiàs au xv siècle, Parigi 1888. 3 E. Muentz, op. cit. p. 78. 4 Ibidem, p. 79. 5 R. Longhi, I Fiamminghi e l’Italia (recensione alla mostra), in «Paragone» 25 (1952), p. 50. 6 Cfr. R. Longhi, Il Maestro di 1

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Protovecchio in «Paragone» 35 (1952), pp. 34-35, ripubblicato, in ‘Opere Complete vol. viii, p. 119. 7 M. Meiss, Jan Van Eyck and thè Italian Renaissance, art. cit., p. 62 e segg. 8 R, Longhi, di Masolino e Masaccio, in «La Critica d’Arte», luglio-dicembre 1940, p. 145 e segg., ripubblicato in Opere Complete vol. viii, i, Firenze 1975, p. 48. 9 H. Wohl, The Paintingi of Domenico Veneziano. A Study in Fiorentine Art of the Early Renaissance, Londra 1980, p. 195. 10 R. Longhi, Il maestro di Pratovecchio, in «Paragone» 35 (1952), p. 13 e p. 11. 11 H Wohl, The pcùntings of Domenico Veneziano... op. cit., pp. 8-11. 12 H. Wohl, ibidem, pp. 20-1. 13 EH. Gombrich, Light, Form and Texture in Fifteentb Century Painting, op. cit, p. 20. 14 L’interessante ricostruzione di questa vicenda così tipicamente intemazionale è stata condotta da M. Spears Grayson, The Northern Origin of Nicolas Froment’s Resurrection of Lazarus Altarpiece in thè Uffizi Gallery, in «Art Bulletin», sept. 1976, pp. 350-51. 15 La tavola della Galleria Sabauda di Torino è generalmente identificata con quella ricordata dal Vasari nella prima edizione delle Vite come presente nella villa medicea di Careggi. Dall’età presunta del committente, il Friedländer la riteneva non molto posteriore al 1470. 16 Nell’agosto 1480 venne firmato raccordo die scioglieva la società fra Tommaso e il Banco dei Medici. Cfr. R. De Roover, The Rise and Decline of the Medici Bank, 13971494 Cambridge, (Mass.), 1963, p.

35317 Anche Benedetto Portinari si fece in seguito ritrarre da Memling in un trittichetto datato 1487 (Firenze, Uffizi) con San Benedetto (Uffizi) e al centro la Madonna con il Bambino (Berlino, Musei di Stato). 18 Cfr. Pope-Hennessy, The Portrait in the Renaissance, Princeton 1966, p. 60 e p. 310; E. Panofsky, Early Netherlandish Painting, op. cit., i, p. 349. 19 Per l’ampia discussione relativa all’identità de L’uomo con la medaglia, e l’identificazione proposta con Giovanni di Candida, medaglista italiano alla corte di Borgogna, v. la scheda riassuntiva di G. Faggin, in Tutta la Pittura di Memling, Milano, 1969, n. 96. 20 Cfr. anche, sempre del Botticelli, il bellissimo ritratto di Giovane con medaglione (in realtà, più che di un medaglione, sembra trattarsi di un frammento di antichissima tavola di stile cimabuesco su fondo oro) della Royal Academy di Londra. 21 Per queste osservazioni sul fiammingo di Leonardo, v. E.H. Gombrich, Light, Form and Texture... op. cit. p. 33 e segg.; in particolare sul fìamminghismo della Ginevra Benci, v. anche C.H. Smyth, Vertice and the Emergerne in Florence, in Florence and Vertice: Comparisons and Relations, Atti del Convegno tenuto alla Villa I Tatti 1976-77, Firenze 1979, i, 242, nota 142. 22 Cfr. E Faye, The Earliest tvorks of Fra Bartolomeo, in «Art Bulletin» (1969), p. 148. 23 La ricostruzione della data d’arrivo a Firenze del Trittico Portinari è stata compiuta sulla base di documenti d’archivio da

B. Hatfield Strens, L’arrivo del Trittico Portinari a Firenze, in «Commentari», xix, 1968, p. 315 e segg. 24 La citazione di Valéry è in Panofsky, Early Netherlandish Painting, op. cit. p. 334, ma vedi tutte le pagine assai belle di commento al trittico, pp. 331-335. 25 Ibidem p. 332-33. 26 Cfr. J. Shearman, A Suggestion for the Early Style of Verroccbio, in «The Burlington Magazine», 108 ( 1978), i, p. 24 27 Sulla crescente importanza della pittura di paesaggio qua talis e quindi sui suoi riflessi nel collezionismo, v. E.H. Gombrich, La teoria dell’arte nel Rinascimento e l’origine del paesaggio, in Norma e Forma (trad. it.), Torino I960, pp. 159-60. Questa forma di collezionismo, ricordata negli elenchi del Michiel ed emergente anche dai cataloghi delle collezioni di Margherita d’Austria, cade tuttavia probabilmente non prima dei primi decenni del Cinquecento. Cfr. in proposito anche la sprezzante frase del Vasari nella nota lettera a Benedetto Varchi sul paragone delle arti, dove dice che «ogni ciabattino si vede avere in casa tele fiamminghe». 28 Su questa tecnica usata dal Botticelli, e risultante da analisi di laboratorio,«v. R. Lightbrown, Botticelli, 2 voll., Londra 1978, i, p. 24. 29 Sul significato simbolico e sui riferimenti biblico-scritturali delle varie piante presenti nella della Madonna Bardi, v. R. Lightbrown, op. cit, Londra 1978, pp. 10-12. 30 Sulla conoscenza di Antonello a Firenze, v. F. Zeri, Un riflesso di Antonello da Messina a Firenze,

in «Paragone» 99 (1958), p. 16 e sgg., che riguarda la possibile presenza a Firenze dell’Annunciata di Antonello da Messina a Mònaco. 31 E. Faye, The Earlìesi Works of Fra Bartolomeo, art, cit., p. 147. 32 Questa curiosa mescolanza di Leonardo e di Memling in Fra Bartolomeo si rinnova nell’Ecce Homo della Galleria Borghese. 33 Cfr. M. Bacci, Piero di Cosimo, Milano 1966, p. 26; v. anche, nella stessa monografia, i ripetuti accenni agli elementi fiamminghi nell’opera di Piero di Cosimo. 34 Vasari, Le Vite..., ed. dt., Milano 1963, vol. viii, p. 449. Capitolo settimo 1 R. Longhi, Carlo Braccesco, Mila-

no 1942, p. 19. 2 M. Salmi, Masaccio e Vincenzo Foppa, in «Commentari» xxv (1974) 1-2, p. 24. 3 L’identificazione di Justus de Allemagna’ si deve a F. Winkler, Jos Ammann von Ravensburg, in «Jahrbuch der Berliner Museen», i, 1959, pp- 51-118. 4 II Winkler, art. cit., attribuisce le cinque crociere con figure di Profeti e di Sibille allo stesso Giusto di Ravensburg; concorda con il Winkler A. Griseri, Jaquerio e il realismo gotico in Piemonte, Torino, s.d. p. 40, 123 e nota 59, ritenendo anzi che Giusto di Ravensburg abbia influito sulla pittura piemontese del tempo. Pier un attribuzione a Giusto è anche M. Migliorini, Appunti sugli affreschi del Convento di Santa Maria di Castello a Genova in «Argomenti di Storia dell’Arte – Quaderno

della Scuola di perfezionamento in Archeologia e Storia dell’arte dell’Università di Genova», 19719. L’esame stilistico delle cinque crociere ancorché non del tutto unitarie mi sembra rivelare le maggiori affinità, soprattutto nei partiti decorativi a larghi racemi spinosi, con gli affreschi jaqueriani di Ranverso, specie nella Sacristia e sarei propensa a vedervi la collaborazione di più artisti. Memore delle tipologie jaqueriane mi sembra anche il San Domenico che incontra San Francesco affrescato nella loggia superiore. 5 Limitandomi qui solo a qualche breve spuntatura sull’insieme molto composito degli affreschi dei chiostri di Santa Maria di Castello, mi sembra di scorgere un artista di gusto fortemente iberico nel San Pietro Martire che fa pendant, sul lato opposto della loggia, con il San Domenico che invita al silenziose cosi pure di gusto tra iberico e napoletano ma di data sensibilmente più tarda, mi sembra la Flagellazione di Cristo nel loggiato superiore. Nel loggiato superiore oltre ai Profeti che, nel testo, ho chiamato witziani, quasi nulla purtroppo è dato di scorgere di quello che doveva essere un affresco molto importante, raffigurante I Santi Pietro e Paolo che affidano ai domenicani il compito della predicazione, se non l’impaginazione dell’affresco e l’impianto delle figure che non sembrano italiani. Assai importante e di finissima fattura nei pochi superstiti frammenti ancora leggibili doveva essere raffresco del primo loggiato con la Predica di San Vincenzo Ferrer davanti a Bonifacio via, che invece sembra di mano 271


lombarda e che meriterebbe un attento studio. Lombardo infine e attribuito al Braccesco è l’affresco noto con la dizione Incoronazione di Maria per il quale rinviamo oltre nel testo e alla nota 25. 6 V. il testo delle due lettere in Malaguzzi Valeri, Pittori lombardi del Quattrocento, 1902, p. 126 e segg. 7 Nei molti documenti che lo riguardano, il pittore è sempre indicato con il solo nome di Zanetto o Zaneto, salvo due sole volte con il cognome Bugatti. 8 G. Consoli, Una nuova traccia per Zanetto Bugatti, in «Arte Lombarda», ritiene di poter rintracciare la mano di Zanetto in affreschi ormai praticamente scomparsi in un oratorio sforzesco presso Vigevano, che sulla base di documenti risultava affrescato da Bonifacio Bembo, Leonardo Ponzone e Zanetto. Lo stesso Consoli ritiene di mano di Zanetto anche L’Annunciazione della Cappella Castiglioni a Pavia. 9 Tuttavia F. Wittgens indica come «esempio fondamentale» della ritrattistica di Zanetto il Ritratto di profilo di Galeazzo Maria Sforza, già Trivulzio ora nel Museo di Castello di Milano (cfr. in «Storia di Milano» Milano, vii, p. 786, fig. 252). A Zanetto era stato un tempo attribuito dal Salmi il finissimo ritrattino di tre quarti di Giovane del Museo del Castello di Milano (M. Salmi, Bernardo Botinone, in «Dedalo» 1929-30, p. 354); l’attribuzione veniva ritenuta improbabile da F. Bologna, Un San Gerolamo lombardo del Quattrocento, in «Paragone» 49, 1954, p. 50, che ne rilevava i caratteri non italiani (per la Wittgens, pittore della Piccardia). Lo stesso 272

ritratto è stato recentemente attribuito a Michel Sittow, (cfr. Trizna, Michel Sittow, Bruxelles, 1976). 10 La notizia, tratta da documenti d’archivio, è riportata da P. Durrieu, in «Rassegna d’Arte», 1911, p. 11. 11 La lettera inviata dal duca Galeazzo Maria Sforza a Leonardo Botta oratore a Venezia fu pubblicata da L. Beltrami in «Archivio storico dell’arte», 1894. Il testo è riportato in appendice al Catalogo della Mostra «Antonello da Messina», op. cit, 1981. 12 F. Bologna, Un San Gerolamo lombardo del Quattrocento, in «Paragone» 49 (1954), p. 45 e sgg. Il trittico Sforza del Museo di Bruxelles, dal quale deriva il San Gerolamo di Zanetto è stato oggetto di lunghe questioni attributive e fu un tempo anche assegnato a Zanetto, sulla base di una errata identificazione dei committenti con gli Sforza di Milano (v. anche la scheda di G. Faggin, in Tutta la pittura di Memling, p. 95, Milano 1969)- La Wittgens (Storia di Milano, p. 787) attribuisce il trittico Sforza non a Rogier, ma alla collaborazione tra Memling e Zanetto. Un committente, come invece ha dimostrato in modo conclusivo il Mulazzani (Observations on the Sforza Tryptich in the Brussels Museum, in «The Burlington Magazine» 1971, pp. 252-3) è Alessandro Sforza di Pesaro, che nel 1458 era rientrato da un viaggio in Borgogna e in Fiandra, e che dai documenti risultava in possesso di opere fiamminghe. 13 Il polittico era stato segnalato per la prima volta dal Longhi come di «un altro nobilissimo anonimo lombardo» (Carlo Braccesco,

Milano 1942, p. 17); venne poi ricostituito da F. Bologna, Una Madonna lombarda del Quattrocento, in «Paragone» 93 (1957), p. 3 e segg. e da F. Zeri, Un’aggiunta al problema della Madonna Gagnola in «Paragone» 93 (1957), p. 11 e segg. Il polittico così ricostituito si presentava come un penritrico a due ordini con la Madonna al centro, i Santi Ambrogio e Giovanni Battista (Londra, Matthiesen Fine Arts Ltd.), San Giorgio e San Gregorio (Toledo, Ohio, Museo) ai lati; nell’ordine superiore San Gerolamo, San Cristoforo e San Lorenzo (ubicazione ignota). Mancante il pannello centrale, che Zeri ritiene dovesse raffigurare una Crocifissione (cosi come nel polittico di Montegrazie del Braccesco) e anche il pannello destro (?) con il quarto santo. 14 F. Bologna, Una Madonna lombarda... art. cit., p. 11. 15 L. Castelfranchi Vegas, Una Madonna fiamminga intorno al 1460 e il problema detta Madonna Gagnola, in «Paragone» 381 (1981), p. 3 e segg. 16 Ibidem, p. 6. 17 Cfr. C. Baronì-Samek Ludovici, La pittura lombarda del Quattrocento, Messina-Firenze 1952, pp. 150-1. 18 Cfr. nota 1 di questo capitolo. 19 M.J. Friedländer, Die Altniederländische... op. cit., in, p. 47. 20 L’attribuzione longhiana, in forma di comunicazione scritta, è contenuta nella scheda del Catalogo del Museo, redatto da F. Russoli, Milano 1955, p. 156. Per il Russoli, la stessa Madonna è del Bergognone, «vicino al

Foppa». R. Longhi, Carlo Braccesco, op. cit., p. 10. 22 R. Longhi, ibidem, p. 12. 23 Per l’interpretazione del tema dell’affresco v. F. Migliorini, Appunti sugli affreschi di Santa Maria di Castello, art. cit., p. 54 e E. Poleggi, S. Maria di Castello e il romanico a Genova, Genova 1973. L’affresco fu attribuito al Braccesco da G.V. Castelnovi, Un affresco del Braccesco, in «Emporium» iv, 1951; indine invece, a trasferire l’affresco a Zanetto è F. Bologna, Una Madonna lombarda... art. dt., 1957, p. 10. 24 Cfr. I.M. Sacco, La ‘matricola’ dell’arte dei pittori milanesi nel 1481 ed il Bergognone, in «Bollettino della Sezione di Cuneo della R. Deputazione Subalpina di Storia Patria», a 16 (1937), p. 26. 25 Considerata opera giovanile del Bergognone è anche la piccola Deposizione del Museo di Budapest, certamente esemplata su iconografie fiamminghe dell’ultimo Quattrocento. Ma poiché appunto l’iconografia mi sembra assai tarda, i dati sti- listid non omogenei e poiché soprattutto non conosco l’opera ‘de visu* non mi pronuncerei sull’attribuzione né sulla datazione. 21

Capitolo ottavo 1 F. Bologna, Les primìtifs meditérranéens (recensione alla, Mostra), in «Paragone», 37 (1953), pp. 51-2. 2 R. Longhi, Per Juan de Borgona, in «Paragone» 189 (1965), pp. 6870. 3 Per una ricostruzione della per-

sonalità e dell’iter stilistico e del corpus di opere di B. Zenale, v. l’ampio saggio di M.L. Ferrari, Lo Pseudo Civerchio e lo Zenale, in «Paragone» 127 (I960), pp. 3469; v. anche il Catalogo Zenale e Leonardo della recente Mostra al Museo Poldi Pezzoli, Milano 1983. 4 Cfr. M. Laciotte, Le Maître de Santa Clara de Polendo, in «Bulletin des Musées et Monuments Lyonnais», 1964, p. 35 e segg., dove vengono date al Maestro le due note tavole, solitamente ritenute francesi, del Museo di Lione raffiguranti la Morte della Vergine e [L’Incoronazione della Vergine, nonché il gruppo di opere riunite sotto l’anonimo Maestro di Santa Maria del Campo. 5 L’identificazione dell’anonimo Maestro di San Sebastiano e la ricostruzione del polittico che gli dà il nome spetta a G Sterling, Josse Lieferinx, peintre provençal, in «Revue du Louvre», 1,1964, pp. 1-22. 6 C. Sterling, Le Maître de la Trinité de Turin, Etudes Sovoyardes ii, in «L’Oeil», 215 (1972), p. 14 e segg. Precedentemente lo stesso pittore era stato ritenuto un pittore provenzale da E. Castelnuovo, Ragguaglio provenzale, «Paragone» 131 (1960), pp. 42-3. 7 Cfr. W. Suida, Genua, Lipsia, 1906, p. 85. Sulla presenza cospicua di opere fiamminghe a Genova e nei dintorni, il saggio più recente e completo è quello di G.J. Hoogewerff, Pittori fiamminghi in Liguria nel sec. xvi, in «Commentari» 1961, pp. 185191. 9 L’attribuzione a Quentin Metsys

del trittico di San Lorenzo alla Costa è stata avanzata da Longhi, 7 Fiamminghi e l’Italia’ (Bruges, Venezia, Roma), in «Paragone» 25 (1952), pp. 47-50. Il polittico era stato attribuito dal Friedländer ad un anonimo Maestro bruggense del 1499 (stante la scritta Andrea de Costa fecit fieri Brugis 1499). Per il polittico di Gerard David a Cervara v. la ricostruzione proposta da G.V. Castelnovi Il polittico di Gerard David nell’Abbazia della Cervara in «Commentari», 1952, pp. 14-19. Il viaggio in Italia del David era stato già supposto dallo Hoogewerff, Vlaamische Kunst en Italianische Renaissance, MalinesAmsterdam, 1934, p. 92 e segg. Sul soggiorno di Joos van Cleve a Genova tra il 1515 e il 1520 cfr. Friedländer, ix Berlino 1931, pp127-30. 10 F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee... op. cit., p. 220. 11 E. Panofsky, Early... op. cit., i, p. 353. 12 Su questa distinzione tra una pittura più arcaica del Metsys e più moderna di Gerard David, cfr. Friedländer, Die altniederlandtsche... op. cit., vol. vi, 1934, pp. 112-3. Sulla periodizzazione della pittura fiamminga in questa generazione, v. ancora Friedländer nell’introduzione al vol. vii 1934, p. 9 e segg. 13 Di questo raro maestro sono note oltre la Madonna del calamaio del Museo Jacquemart-André, solo due altre opere: la Madonna con il Bimbo e angeli musici della coll. Thyssen di Lugano e la Madonna col Bimbo del Museo Everhart di Scranton. Il Friedländer, Die Altniederlandtsche... op. cit., iv, pp. 95-6,153, raggruppò le tre 273


opere chiamando il loro autore Seguace e erede di Van Eyck. 14 II viaggio di David a Genova fu ipotizzato dallo Hoogewerff (op. cit., 1934, p. 92 e segg.) tra il 1511 e il 1515; ma potrebbe essere collocato secondo il Castelnovi (cfr. Il Quattro e il primo Cinquecento in A.A.V.V. La pittura a Genova e in Liguria, 1970 p. 173) tra il 1502 e il 1507. Da Genova proverrebbe pure la Deposizione di Gerard David della collezione Frick, assai prossima al Calvario di Palazzo

274

Bianco. 15 L’identificazione del Maître de Moulins con Jean Hay, già ritenuta verosimile da G. Ring, (A Century of Frenoh Painting, 1949, cat. n. 291), contro la vecchia identificazione con Jean Pérreal, fu condotta con argomenti convincenti da C. Sterling, Jean Hey, Le Mastre de Moulins, in «Revue de l’Art», 1-2,1968, p. 27 e segg. 16 E. Panofsky, Jean Hay’s Ecce Homo. Speculations about its author, its donor and its iconography,

in «Bulletin des Musées Royaux des Beaux Arts», Bruxelles sept.dec. 1956, pp. 95-125. 17 Sull’influenza della scuola lombarda ad Anversa e specialmente su Quentin Metsys cfr. S. Sulzberger, Vinfluence de Léonard de Vinci et ses repercussions à Anverses, in «Arte Lombarda», 12, 1955, p. 105 e segg. 18 Cfr. M. Gregori, Altobello e Gian Francesco Bembo, in «Paragone» 93 (1957), p. 30.

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indice delle illustrazioni

1. Jan Van Eyck, Natività del Battista e Battesimo di Cristo, f. 93v., Libro delle Ore di Torino, Museo Civico d’arte antica di Palazzo Madama, Torino. 2. Jan van Eyck, L’Adorazione dell’agnello, particolare del Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand. 3. Masaccio, Il Tributo, Cappella Brancacci, 1425 ca., affresco, 255×598 cm, chiesa del Carmine, Firenze. 4. Jan van Eyck, Madonna del Cancelliere Rolin, 1435 ca., olio su tavola, 66×62 cm, Museo del Louvre, Parigi.

10. Masaccio, Adorazione dei Magi, 1426, tempera su tavola, 21×26 cm, Staatliche Museen, Berlino. 11. Jan van Eyck, Madonna del Canonico Van der Paele, 1436, olio su tavola, 122,1×157,8 cm, Groeningenmuseum, Bruges. 12. Domenico Veneziano, Pala di santa Lucia de’ Magnoli, 1445, tempera su tavola, 209×216 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 13. Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, sportelli esterni, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.

5. Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.

14. Jan van Eyck, Adamo, particolare del Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.

6. Masaccio, San Pietro guarisce con la propria ombra, particolare, 1425-27 ca., affresco, Cappella Brancacci, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze.

15. Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, 1424-25, affresco, 214×88 cm, Cappella Brancacci, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze.

7. Jan van Eyck, Corteo dei Santi, particolare del Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.

16. Jan van Eyck, Madonna con il Bambino nella chiesa, 1425-30, olio su tavola, 32×14 cm, Gemäldegalerie, Berlino.

8. Masaccio, La Trinità, 1425-27, affresco, basilica di Santa Maria Novella, Firenze.

17. Masaccio, Madonna Casini, detta anche Madonna del solletico, 1426-27, tempera su tavola, 24,5×18,2 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze.

9. Jan van Eyck, Disegno per il ritratto di Niccolò Albergati, 1431, punta d’argento, Kupferstich-Kabinett, Dresda.

18. Fra’ Beato Angelico, Il Giudizio universale, 1431 ca., tempera su tavola, 105×210 cm, Museo nazionale di San Marco, Firenze. 285


19. Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, olio su tavola, 81,8×59,4 cm, National Gallery, Londra.

31. Colantonio, San Gerolamo nello studio, particolare, 1445-46, olio su tavola, 151×178 cm, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli.

43. Antonello da Messina, La vergine Maria che legge, 1461 ca., olio su tavola, 43×43,5 cm, The Walters Art Museum, Baltimora.

20. Jan van Eyck, Annunciazione, 1434-36, olio su tela, 90,2×34,1 cm, National Gallery of Art, collezione Andrew W. Mellon, Washington.

32. Barthélemy d’Eyck, Il profeta Geremia, particolare del Trittico dell’Annunciazione, 1443-45, tecnica mista su tavola, Musée Royaux des Beaux Arts, Bruxelles.

44. Antonello da Messina, San Gerolamo in penitenza, 1460 ca., olio su tavola, Museo della Magna Grecia, Reggio Calabria.

21. Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare della Vergine, 1426-1432, olio su legno di quercia, 375×258 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.

33. Colantonio, Crocifissione, 1450-1460, olio su tavola, 44,8×34 cm, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid.

22. Rogier van der Weyden, Jean Wauquelin presenta a Filippo il Buono la traduzione delle Cronache di Hainaut, 1447, miniatura dal Ms. 9242, fol. 1r., Bibliothèque Royale, Bruxelles.

34. Rogier van der Weyden, San Giorgio a cavallo, 1432-35, National Gallery of Art, A. Mellon Bruce fund, Washington.

23. Rogier van der Weyden, Compianto e sepoltura di Cristo, 1450 ca., olio su tavola, 96×110 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze.

35. Antonello da Messina (attrib.), Virgo advocata, 1452, olio su tavola, 57×39 cm, Pinacoteca di palazzo Volpi, Como.

24. Fra’ Beato Angelico, Cristo deriso, 1438-1440, affresco, 195×159 cm, Museo di San Marco, Firenze.

36. Jorge Inglés, Don Inigo de Mendoza in preghiera nella cappella, particolare del Retablo di Buitrago, xv secolo, collezione Duque de Infantado, Madrid.

25. Rogier van der Weyden, Madonna con il Bambino e quattro santi, 1460-64, olio su tavola, 61,7×46,1 cm, Staedelches Kunst Institut. 26. Rogier van der Weyden, Crocifissione, olio su tavola, 325×192 cm, Nuevos Museos, El Escorial. 27. Fra’ Beato Angelico, Cristo coronato di spine, tempera su tavola, 55×39 cm, Cappella del Santissimo Sacramento, Duomo di Livorno. 28. Rogier van der Weyden, Cristo coronato di spine, retro di ritratto femminile, 1460 ca., olio e tempera su tavola, 37×27 cm, National Gallery, Londra. © The National Gallery, Londra/Scala, Firenze. 29. Fra’ Beato Angelico, Pala Annalena, 1430 ca., tempera su tavola, 180×202 cm, Museo di San Marco, Firenze. 30. Colantonio, San Francesco e San Gerolamo nello studio, 1445-46, olio su tavola, 151×178 cm, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli. 286

37. Petrus Christus, Deposizione, 1425 ca., olio su tavola, 98×188 cm, Musées Royaux des Beaux Arts, Bruxelles. 38. Colantonio, Deposizione, 1455-60, olio su tavola, 149×295 cm, Museo di Capodimonte, Napoli. 39. Colantonio, La predica del Santo, particolare del Polittico di san Vincenzo Ferrer, xv secolo, Museo di Capodimonte, Napoli. 40. Antonello da Messina, Crocifissione di Sibiu, 1463-65, tempera e olio su tavola, 39×22,5 cm, Muzeul National de Arta al României, Bucarest. 41. Konrad Witz, Crocifissione, 1444, tempera su tavola, 26×34 cm, Staatliche Museen, Berlino. 42. Antonello da Messina, Madonna Salting o Vergine con il Bambino, 1460-1469, olio su tavola, 43,2×34,3, National Gallery, Londra.

45. Petrus Christus, Crocifissione, olio su tavola distrutto nel 1945. 46. Petrus Christus, Madonna in trono con il Bambino e due santi, 1457, olio su tavola Staedelsches Kunstistitut, Francoforte.

1475-76, olio su tavola, 28×21 cm, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid. 57. Antonello da Messina, Rittratto d’uomo, 146576, olio su tavola, 31×24,5 cm, Museo Mandralisca, Cefalù. 58. Antonello da Messina, Crocifissione, 1475, olio su tavola, 41,9×25,4 cm, National Gallery, Londra. 59. Antonello da Messina, Crocifissione, 1475, olio su tavola, 59,7×42,5 cm, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten di Anversa.

47. Petrus Christus, Compianto del Cristo morto, Museo del Louvre, Parigi.

60. Antonello da Messina, San Gerolamo nello studio, 1474-1475 ca., olio su tavola, 45,7×36,2 cm, National Gallery, Londra.

48. Petrus Christus, Morte della Vergine, 1457, olio su tavola, 171×138 cm, Timken Art Gallery, collezione Putnam Foundation, San Diego.

61. Antonello da Messina, Annunciazione, 1474, olio su tavola, 180×180 cm, Museo regionale di Palazzo Bellomo, Siracusa.

49. Testa di Cristo, copia da Vera Icona di Jan van Eyck, 1438-40, olio su tavola, 50×37 cm, Alte Pinakothek, Monaco.

62. Antonello da Messina, Polittico di san Gregorio, 1473, tempera grassa su tavola, 194×202 cm, Museo regionale, Messina.

50. Hans Memling, Cristo benedicente, 1478, olio su tavola, 38×28,2 cm, Norton Simon Art Foundation, Gift of Mr. Norton Simon.

63. Petrus Christus, Annunciazione, 1452, olio su tavola, 134×56 cm, Staatliche Museen, Berlino.

51. Petrus Christus, Cristo coronato di spine, 1445, olio su tavola, 14,9×10,8 cm, Metropolitan Museum, New York. 52. Antonello da Messina, Salvator mundi, 14651475, olio su tavola, National Gallery, Londra. 53. Antonello da Messina, Ecce Homo, 1475, olio su tavola, 48,5×38 cm, Collegio Alberoni, Piacenza.

64. Piero della Francesca, Ritratto di Federico da Montefeltro, 1467-72, olio su tavola, 47×66 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 65. Piero della Francesca, Trionfo di Federico da Montefeltro, 1473-75 ca., olio su tavola, 47×33 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 66. Piero della Francesca, Pala con la Madonna e santi, e particolare, 1472-1474, tempera e olio su tavola, 251×173 cm, Pinacoteca di Brera, Milano.

54. Petrus Christus, Ritratto d’uomo, 1475 ca., olio su tavola, 47,6×35,2 cm, County Museum of Art, collezione Balch, Los Angeles.

67. Piero della Francesca, Natività, 1470-75, olio su tavola, 124×122,6 cm, National Gallery, Londra.

55. Antonello da Messina, Ritratto d’uomo, 1475-76, olio su tavola, 25,5×35,5 cm, National Gallery, Londra. 56. Antonello da Messina, Ritratto d’uomo in nero,

68. Piero della Francesca, Madonna di Senigallia, 1474, olio su carta riportata su tavola, 61×53,5 cm, Galleria nazionale delle Marche, Palazzo Ducale Urbino. 287


69. Giusto di Gand, Trittico del Calvario, 1465, olio su legno, cattedrale di San Bavone, Gand.

82. Giovanni Bellini, Cristo benedicente, 1460, tempera su tavola, 58×44 cm, Museo del Louvre, Parigi.

70. Giusto di Gand, Allegoria della Musica, 1480 ca., olio su tavola, 156,3×97,4 cm, National Gallery, Londra.

83. Giovanni Bellini, Pietà, 1465-70, tempera su tavola, 86×107 cm, Pinacoteca di Brera, Milano.

71. Pedro Berruguete, Federico da Montefeltro e il figlio Guidobaldo detto “Doppio ritratto”, 1476-77, olio su tavola, 138,5×82,5 cm, Galleria nazionale delle Marche Palazzo Ducale, Urbino. 72. Giusto di Gand, Sant’Ambrogio, 1472-76, olio su tavola, Galleria Nazionale delle Marche Palazzo Ducale, Urbino. 73. Giovanni Boccati, Crocifissione, 1440-60 ca., tempera su tavola, 33×24,5 cm, Ca’ d’Oro, Venezia. 74, Giovanni Bellini, Crocifissione, 1455-60, tempera su tavola, 55×30 cm, Museo Correr, Venezia. 75. Hans Memling, Dittico della discesa dalla Croce e del compianto delle donne, olio su tavola, Capilla Real, Granada. 76. Jan van Eyck o bottega, Crocifissione,1430-50 ca., olio su tavola, 46×31 cm, Ca’ d’Oro, Venezia.

84. Giovanni Bellini, Incoronazione di Maria (Pala Pesaro), 1472-74, olio su tavola, 262×240 cm, Musei Civici, Pesaro. 85. Giovanni Bellini, Compianto del Cristo morto, 1473-76, olio su tavola, 107×84 cm, Musei Vaticani, Roma. 86. Giovanni Bellini, Compianto del Cristo morto, 1485-95 ca., olio monocromo su tavola, 73×119 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 87. Giovanni Bellini, Trasfigurazione, 1478-79, olio su tavola, 116×154 cm, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli. 88. Giovanni Bellini, Resurrezione, 1475-1478, olio su tavola trasferita su tela, Gemäldegalerie, Berlino. 89. Jacometto, Ritratto di Alvise Contarini, Metropolitan Museum of Art, New York.

95. Hans Memling, Ritratto di giovane, 1435-40, olio su tavola, 26×20 cm, Galleria dell’Accademia, Venezia.

olio su tavola, 33,5×23 cm, collezione Frick, New York.

96. Hans Memling, Trittico Moreel, 1484, olio su tavola, 141×174 cm, Groeningemuseum, Bruges.

108. Hans Memling, Tommaso Portinari e moglie, 1470, olio su tavola, 42,2×32,1 cm, Metropolitan Museum of Art, New York.

97. Giovanni Bellini, San Francesco in estasi, 1480, olio su tavola, 124,4×141,9 cm, collezione Frick, New York.

109. Leonardo da Vinci, Ritratto di Ginevra de’ Benci, 1474-78, olio su tavola, 38,8×36,7 cm, National Gallery of Art, Washington.

98. Hans Memling, Madonna con il Bambino, 1470, olio su tavola, 71×131, 30 cm, National Gallery, Londra.

110. Sandro Botticelli, Ritratto d’uomo con la medaglia di Cosimo il Vecchio, 1474-75, tempera e stucco dorato su tavola, 57,4×44 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze.

99. Giovanni Bellini, Ritratto di giovane, 1500 ca., olio su tavola, National Gallery of Arte, collezione Samuel H. Kress, Washington.

111. Hugo Van der Goes, L’Adorazione dei Magi, Trittico Portinari, 1477-1478, olio su tavola, 253×608 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze.

110. Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane, 1500 ca., olio su tavola, 34,2×27,9 cm, Accademia Carrara, Bergamo.

112. Hugo Van der Goes, Vergine annunciata e Angelo annunciante, 1478, olio su tavola, 274×652, sportelli esterni del Trittico Portinari, Galleria degli Uffizi, Firenze.

101. Filippino Lippi, La resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra, particolare, 1427-80, affresco, 230×599 cm, chiesa del Carmine, Firenze. 102. Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi, 1439-1441 ca., tempera su tavola, 84×84 cm, Gemäldegalerie, Berlino.

113. Alessio Baldovinetti, Natività e annuncio ai pastori, 1460, affresco con parti a secco, 390×488 cm, chiostro dei Voti, basilica della Santissima Annunziata, Firenze.

77. Andrea Mantegna, Crocifissione, 1457-1459, tempera su tavola, 67×93 cm, Museo del Louvre, Parigi.

90. Jacometto, Daino alla catena, retro del Ritratto di Alvise Contarini, 1485-95 ca., olio su tavola, Metropolitan Museum of Art, New York.

78. Jacopo Bellini, Orazione nell’orto, 1459, tempera su tavola, 81×127 cm, National Gallery, Londra.

91. Jacometto, Ritratto di suora, 1485-95 ca., olio su tavola, Metropolitan Museum of Art, New York.

103. Filippo Lippi, Madonna di Corneto Tarquinia, 1437, tempera su tavola, 114×65 cm, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma.

79. Giovanni Bellini, Trasfigurazione, 1455-1460, tempera su tavola, 143×68 cm, Museo Correr, Venezia.

92. Giovanni Bellini, Ritratto di Jörg Fugger, 1474, olio su tavola, 26×20 cm, collezione Norton Simon Musueum, Pasadena.

104. Filippo Lippi, Annunciazione, 1440-1445, tempera su tavola, 155×144 cm, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, Roma.

80. Giovanni Bellini, San Cristoforo, particolari del Polittico di san Vincenzo Ferrer, 1464-1470, tempera su tavola, 275×194 cm, basilica dei SS. Giovanni e Paolo, Venezia.

93. Giovanni Bellini, Ritratto di Pietro Bembo, 150510 ca., olio su tavola, 43×34 cm, Royal Collections, Hampton Court Palace, Londra.

105. Domenico Veneziano, Pala di Santa Lucia de’ Magnoli, 1445, tempera su tavola, 209×216 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze.

117. Piero di Cosimo, Venere e Marte, 1490 ca., olio su tavola, 72×182 cm, Gemäldegalerie, Berlino.

94. Hans Memling, Ritratto d’uomo con medaglia romana, 1480 ca., olio su tavola, 31×23,2 cm, Musée Royaux, Anversa.

106. Hans Memling, Ritratto di ignoto, 1480 ca., olio su tavola, 38×27 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze.

118. Piero di Cosimo, Morte di Procri, 1495 ca., olio su tavola, 65×184 cm, National Gallery, Londra.

107. Hans Memling, Ritratto d’uomo, 1470-75 ca.,

119. Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne, 1470-

81. Giovanni Bellini, Pietà (Cristo morto sorretto da Maria e san Giovanni Evangelista), 1455, tempera su tavola, 52×42 cm, Accademia Carrara, Bergamo. 288

114. Filippino Lippi, L’Annunciata, 1483-84, olio su tavola, Museo di San Gimignano. 115. Fra’ Bartolomeo, Madonna con il Bambino, 1497, 58,4×43,8 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 116. Piero di Cosimo, Ritratto di Giuliano da Sangallo, 1500-05, olio su tavola, 47,5×33,5 cm, Rijksmuseum, Amsterdam.

289


1480, olio su tavola, 29,5×20 cm, National Gallery, Londra. 120. Sandro Botticelli, Madonna Bardi, (Madonna tra i santi Giovanni Battista e Giovanni evangelista), 1485 ca., tempera su tavola, 185×180 cm, Gemäldegalerie, Berlino. 121. Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi, 147075 ca., tempera su tavola, National Gallery, Londra. 122. Hans Memling, Madonna in trono con due angeli, 1490-91, olio su tavola, 57×42 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze. 123. Roger van der Weyden, San Gerolamo, dal Trittico Sforza, 1460 ca., olio su tavola, 53,5×19 cm, Musée Royaux des Beaux Arts, Bruxelles. 124. Donato de’ Bardi, Crocifissione, 1448, olio su tela, 165×238 cm, Pinacoteca civica, Savona. 125. Giusto di Ravensburg, Annunciazione, 1451, affresco, chiostro della chiesa di Santa Maria di Castello, Genova. 126. Zanetto Bugatto (attrib.), San Gerolamo che leva la spina al leone, 1460-70, tempera e olio su tavola, 58×38 cm, collezione Guglielmo Lochis, Accademia Carrara, Bergamo. 127. Vincenzo Foppa, Madonna con il Bambino e un angelo, 1479-80 ca., tempera su tavola, 41×32,5 cm, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano. 128. Dirk Bouts, Madonna con il Bambino, 1455-60 ca., olio su tavola, 21×16,5 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. 129. Vincenzo Foppa, Sant’Agostino, 1466-68 ca., tempera e olio su tavola, 46×19 cm, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano. 130. Vincenzo Foppa, San Teodoro, 1466-68 ca., tempera e olio su tavola, 46×19 cm, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano.

290

131. Vincenzo Foppa, Ritratto di Francesco Brivio, 1495 ca., tempera su tavola, 36,7×46,5 cm, Museo Poldi Pezzoli, Milano.

San Gerolamo della Cervara, 1505-10, olio su tavola, 152,5×64 cm, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, Genova.

132. Vincenzo Foppa, Madonna con il Bambino, 1460-70 ca., olio su tavola, 57×41 cm, Staatliche Museen, Berlino.

144. Gerard David, San Mauro dal Polittico di San Gerolamo della Cervara, 1506-10, olio su tavola, 152,5×64 cm, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, Genova.

133. Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Madonna che allatta o Madonna del Latte, 1485 ca., tempera su tavola, 22,5×29 cm, Museo Poldi Pezzoli, Milano. 134. Autore sconosciuto, Ritratto di fanciulla di profilo, 1480-90 ca., olio su tavola, 45×31 cm, Rijksmuseum, Amsterdam. 135. Braccesco, Trittico dell’Annunciazione, 14901500, tecnica mista su tavola, 158×107 cm, Museo del Louvre, Parigi. 136. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Sant’Ambrogio in cattedra e quattro santi, 1514 ca., olio su tavola, Musei Civici, Pavia. 137. Vincenzo Foppa, Pala Bottigella, 1477-87, tempera su tavola, Musei Civici, Pavia. 138. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Madonna in trono fra le due Sante Caterine, olio su legno di pioppo, National Gallery, Londra. 139. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Cristo portacroce, particolare, 1491 ca., olio su tavola, 166×118 cm, Musei Civici, Pavia. 140. Josse Lieferinxe, Crocifissione, olio su tavola, 170×126 cm, Museo del Louvre, Parigi. 141. Juan de Flandes, Incoronazione di spine, 1505 ca., olio su tavola, 21×16 cm, Institute of Arts, Detroit. 142. Maestro della Trinità, Pietà, 1465-70, tempera e oro su tavola trasportata su tela, 172×82 cm, Museo Civico, Torino. 143. Gerard David, San Gerolamo dal Polittico di

politan Museum of Art, New York. 155. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Incoronazione di Maria, 1515 ca., affresco, catino absidale della chiesa di San Simpliciano, Milano. 156. Giovanni Antonio Boltraffio, Cristo giovinetto, 1490-95, olio su tavola, 25×18 cm, Museo Lázaro Galdiano, Madrid.

145. Gerard David, Vergine con il Bambino dal Polittico di San Gerolamo della Cervara, 1506-10, olio su tavola, 153×89 cm, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, Genova. 146. Gerard David, Crocifissione, 1506-10, olio su tavola, 102×88 cm, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, Genova. 147. Juan de Borgoña, Natività della Vergine, 1509, affresco, Cattedrale di Toledo. 148. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Presentazione di Gesù al Tempio, 1510 ca., olio su tavola, cappella di san Paola della chiesa dell’Incoronata, Lodi. 149. Jean Hay, Ecce Homo, 1494 ca., olio su tavola, 39×30 cm, Musée Royaux des Beaux Arts, Bruxelles. 150. Vincenzo Foppa, Natività, 1492 ca., tempera su tavola, 172×82 cm, chiesa di Santa Maria Assunta, Brescia. 151. Quentyn Metsys, Compianto sul corpo di Cristo, 1507-08, olio su tavola, 260×504 cm, Musée Royaux des Beaux Arts, Anversa. 152. Jean Hay, Annunciazione, 1490-95, olio su tavola, 72,5×50 cm, The Art Institute, Chicago. 153. Jean Hay, Vergine gloriosa e angeli dal Trittico di Moulins, 1498-99, olio su tavola, Cattedrale di Moulins. 154. Gerard David, Madonna col Bambino e quattro angeli, 1510-15, olio su tavola, 63×39 cm, Metro291



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