ITALIA
DALL’ALTO
PATRIMONIO ARTISTICO ITALIANO
ITALIA DALL’ALTO STORIA DELL’ARTE E DEL PAESAGGIO A cura di Maria Antonietta Crippa Testi di Roberto Cassanelli Maria Antonietta Crippa Massimiliano David Pierluigi Tozzi Ferdinando Zanzottera Fotografie di Rodella
bamsphoto
Sommario
Nuova edizione 2020 International copyright © 2014 by Editoriale Jaca Book Srl, Milano All rights reserved Prima edizione italiana ottobre 2014 Questo volume è l’esito di un lavoro condiviso fra i tre autori, Dal Fabbro, Cantarelli e Montessori. Maria Giulia Montessori ha redatto i testi degli itinerari 1, 2, 3; Riccarda Cantarelli ha redatto i testi degli itinerari 4, 5, 6, 7 e la bibliografia; Armando Dal Fabbro è il curatore del volume e ha scritto il saggio di apertura. La campagna fotografica aerea è dello studio bamsphoto – Rodella Selezione delle immagini Pixel studio, Milano Copertina e grafica Jaca Book / Paola Forini
Stampa e legatura Grafiche Stella San Pietro di Legnago (VR) novembre 2020
Lo sguardo dall’alto e l’architettura di Maria Antonietta Crippa Pag. 7
Il teatro urbano (dal xvii al xviii secolo) di Maria Antonietta Crippa Pag. 197
A volo d’uccello di Roberto Cassanelli Pag. 49
Ville, palazzi, regge (dal xvi al xix secolo) di Maria Antonietta Crippa Pag. 219
Esperienze di fotografia in volo di Basilio Rodella Pag. 57
SCHEDE Pag. 243
Il paesaggio geometrico. L’impronta di Roma di Pierluigi Tozzi Pag. 59 Il paesaggio italico nell’autunno dell’antichità (dal v al x secolo) di Massimiliano David Pag. 71 Incastellamenti e città fortificate (dall’viii al xiii secolo) di Ferdinando Zanzottera Pag. 83 Monasteri, Abbazie, Conventi (dal x al xv secolo) di Maria Antonietta Crippa e Ferdinando Zanzottera Pag. 107 Grandi opere pubbliche urbane e rurali (dall’xi al xv secolo) di Maria Antonietta Crippa Pag. 135
ISBN 978-88-16-60629-6 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
Luoghi di pellegrinaggio (dal xiii al xviii secolo) di Ferdinando Zanzottera Pag. 165 Città ideali, città militari (dal xv al xviii secolo) di Maria Antonietta Crippa e Ferdinando Zanzottera Pag. 179
NOTA BIBLIOGRAFICA GENERALE Pag. 261 NOTE Pag. 264
Lo sguardo dall’alto e l’architettura Maria Antonietta Crippa
Il desiderio di cogliere paesaggi e architetture nella loro globalità, guardandoli idealmente dal cielo oppure osservandoli direttamente da postazioni alte di avvistamento, è antico quanto l’uomo. L’universo stesso è inteso da sempre come cosmos, unità percepibile e valutabile come bella. Ne sono testimonianza suggestiva le rappresentazioni, grafiche e pittoriche, dell’intero globo terrestre o di assi stradali, essenziali ai traffici e agli scambi tra economie e culture diverse, rintracciate nei resti delle più antiche civiltà del mondo. Le interpretiamo oggi come abbozzi schematici o figure simboliche, espressioni di una volontà di comprensione, di controllo, di dominio, che passa sempre, necessariamente, attraverso una sintesi d’immagine, accertata dal colpo d’occhio. Tale vasto patrimonio di figurazioni simboliche incise su lastre, in pietra o in metallo, oppure tracciate e dipinte su papiri, pergamene e carte, non sono tuttavia propriamente vedute dall’alto, cioè immagini che rimandano a un rapporto di proporzione, e quindi di diretta e individuale visibilità, tra sguardo dell’uomo e insieme di oggetti. In senso proprio una veduta dall’alto ha infatti un orizzonte definito, limitato dalla capacità della vista umana e dalle dimensioni degli oggetti sotto osservazione. Tra le cosmografie e gli itineraria picta romani e medievali, come la celebre Tabula peutingeriana, da una parte, e la cartografia sviluppata in Occidente dal Medioevo al pieno Rinascimento, dall’altra, si potrebbe istituire un rapporto analogo a quello tra corpo e volto dell’uomo. Il primo è un organismo unitario e complesso, che è interessante osservare anche analiticamente nella sua strutturazione interna ed esterna, ma a distanza ravvicinata, sufficiente a esplorarne il profilo unitario e le articolazioni che lo compongono. Il volto, invece, parte soltanto del tutto organico corporeo ma anche la più espressiva, la più comunicativa della individualità, insieme corporea e spirituale, della persona, può essere colto nella sua individualità a partire da scorci, distanze e punti di vista diversi. L’occhio è infatti, nel volto, il punto raggiante e il centro generatore di ogni rapporto, materiale e di senso, tra uomo e mondo nel quale è inserito. Del volto interessa, in generale e ovviamente se non si è specialisti, più che la strutturazione organica, l’espressività, la mimica, la allusività. 7
Le antiche cosmografie e i primi itineraria picta servivano agli uomini per rendersi ragione del carattere organico, unitario ma anche internamente strutturato grazie alle proprie attività, del mondo nel quale essi si scoprivano inseriti. La cartografia simbolica medievale, di città e di grandi complessi architettonici, così come le raffigurazioni quattro-cinquecentesche di luoghi, a veduta d’uccello o in approssimata proiezione ortogonale, sono state invece elaborate per restituire viste reali e utili, per avvicinamenti, penetrazioni, selezioni di punti di vista deboli, quindi più facilmente attaccabili, oppure di settori di grande qualità estetica e simbolica e quindi meritevoli di visita o menzione celebrativa. Allo scopo città, monumenti, paesaggi urbani vennero sintetizzati tramite figurazioni bidimensionali di facile utilizzo, nelle quali il tipo della rappresentazione non rispondeva a precise ragioni geometriche e metriche, ma piuttosto alla logica del punto di vista. Si può pertanto affermare, in linea generale, che tali viste, fissate in schemi grafici molto sommari, non siano da ritenere rappresentazioni cifrate tramite codici astrattamente elaborati, ma piuttosto rapide ed efficaci registrazioni di esperienze concrete dei luoghi, da parte di qualcuno che sapeva restituire volumi, rapporti dimensionali, relazioni tra le parti e il tutto, sufficientemente vicini alla realtà sperimentata da renderla riconoscibile e quindi agibile. L’analogia, è ovvio, regge solo entro ben definiti limiti, poiché anche una modesta parte del mondo, una piccola città ad esempio, può essere percepita e immaginata con la compiuta definitezza di un corpo. Inoltre si può applicare anche alla realtà fisica quell’esercizio che nel linguaggio viene chiamato metonimia. Tuttavia mi preme qui ricordare che lo sguardo dell’uomo è in primo luogo esperienza percettiva, relazione dinamica tra soggetto e oggetto. L’occhio e il suo senso sono all’origine dell’interpretazione della realtà esterna all’uomo, in quanto provocano ogni volta in lui quella capacità di catturare non soltanto la fisicità dei corpi, ma anche il loro ritratto, vale a dire un volto, uno dei tanti possibili, espressivo della relazione tra il soggetto sperimentante e la realtà fenomenica esterna. Ha scritto l’architetto contemporaneo Rudolf Schwarz: «Persino della superficie multicolore del mondo noi vediamo solo il lato che ci è rivolto, e anch’esso senza pieghe e profondità, in un apparente contesto compatto, che “in realtà” non sussiste affatto. L’occhio non può vedere i lati opposti delle cose, le loro profondità e insenature, l’aspetto deformato e vòlto in altra direzione; lo si può facilmente ingannare e fargli prendere lucciole per lanterne, e perciò spesso lo si è criticato come un cattivo strumento e si sono costruite teorie d’ampia portata sull’“illusione ottica”. Però queste stesse teorie sono una illusione ottica, perché si ingannano sull’occhio e il suo senso, che non è un apparato per riconoscere qualche cosa, ma la profonda e aperta risposta dell’uomo alla luce raggiante (…) Scorgere non equivale a trascegliere una singola cosa e a trasporla nel centro dell’occhio? Non equivale a inserire questa cosa trascelta come unico sole in un nuovo spazio del mondo, e a fare di se stessi, del proprio corpo, la sfera di questa cosa che emana raggi?»1. Questo libro intende essere un elogio dello sguardo, oltre che rivisitazione da un punto di vista non usuale di grandi opere e luoghi importanti dell’architettura italiana. 8
Pagine seguenti: vista sulla penisola di Sirmione (Bs), promontorio affacciato sul lago di Garda sul quale sorgono i resti delle cosiddette “Grotte di Catullo”, il più imponente e lussuoso edificio residenziale dell’Italia settentrionale.
È elogio della capacità dell’uomo di cogliere un ritratto di sorprendente bellezza, dall’alto e tramite l’ausilio di un elicottero e della macchina fotografica, di frammenti di paesaggi e organismi architettonici che costellano, in modo vario e storicamente stratificato, la penisola italiana, componendone un volto dai tratti resi incerti dalla recente, dilagante e dissennata, urbanizzazione. Il volume non intende offrire una disamina esaustiva delle vedute del patrimonio storico italiano, monumentale e non, catturato dagli scatti di una macchina fotografica. Quest’ultima, d’altro canto, è stata posizionata in modo non solo da registrare la sintetica articolazione dei volumi edilizi, ma anche da catturare, seppur parzialmente, altri due fattori essenziali alla lettura di una fabbrica. Essa ha colto la qualità compositiva dei suoi prospetti, compreso il loro riverbero “atmosferico” in minuti segni figurativi, che hanno a che fare con gli stili, con i materiali e le tecniche costruttive. Ha inoltre registrato le relazioni con l’immediato contesto, urbano o rurale, nel quale l’architettura si inserisce. Il volume, indagine non esauriente della multiforme tipologia di architetture e città italiane, è concepito secondo un ordine tematico e cronologico, con carattere quindi di sistema. Intende infatti orientare l’attenzione dei lettori a valutare sia le potenzialità interpretative di un tipo di visione dall’alto oggi facilmente accessibile, sia l’efficacia delle indagini contestuali, analitiche ma per ampi campi di visione, nella strutturazione storica del territorio italiano. Organizzato sulla base di una selezione di soglie storiche corrispondenti a ben identificate tipologie architettoniche e urbane, il volume delinea anche, in estrema sintesi, un vasto profilo della civiltà italiana dell’abitare, lasciando però sullo sfondo la casa in senso proprio e le sue diverse strutturazioni, a grappolo e in tessuti urbani e rurali. Si è privilegiata invece la concatenazione storico-geografica e tipologica delle costruzioni che più hanno inciso nella struttura insediativa della penisola, in quanto, di volta in volta, modelli, poli, fattori strutturanti. Il punto di vista dall’alto consente comunque di percepirne con evidenza la qualità abitativa, oltre che quella monumentale. La narrazione, composta in capitoli corredati da alcuni approfondimenti su scheda, offre dunque una sequenza di ritratti dei più emergenti fenomeni costruttivi della storia italiana, dall’antichità romana fino al xviii-inizio xix secolo, cioè fino alla fase che precede gli sconvolgimenti conseguenti alla rivoluzione urbana. Propone, in questo modo, una ipotesi di studio, che potrà essere ripresa con più precisione per ogni regione o per aree di minore entità, ma caratterizzate da omogeneità storico-geografica e tipologica, in pubblicazioni successive. La non esaustività per esigenza di sintesi e la coerenza logica, storico-geografica e tipologica, che strutturano il volume, hanno uno scopo preciso: configurare, entro limiti di tipi e situazioni fenomenologiche da subito dominabili, il contributo che una veduta dall’alto, come quella sopra descritta, può dare alla comprensione di organismi architettonici e urbani italiani, che la storiografia, a partire dai tradizionali punti di vista disciplinari, ha già riconosciuto rilevanti, talvolta anzi capolavori o monumenti. Immagini fotografiche del tipo di quelle qui raccolte, compaiono spesso, ma in ordine sparso, nei libri di storia, di storia dell’architettura e di storia dell’arte. 9
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Rispondono infatti a esigenze di interpretazione oggi molto avvertite. In primo luogo consentono di cogliere il carattere organico, dunque unitario e complesso insieme, di fabbriche dall’importante autografia o di grande valore memoriale. Lo sguardo, dall’esterno o dall’interno delle stesse, distoglie infatti normalmente l’attenzione critica da tale percezione di sintesi, essendo direttamente collegato alla fruizione e alla contemplazione delle sue partiture; quando mira alla sua unità, lo può fare solo a partire da punti di vista prospettici dal basso che non dominano i volumi. Tale sguardo viene inoltre spesso depotenziato dai degradi e dalle manipolazioni avvenute nel tempo, esterne o interne allo stesso complesso, tali, in alcuni casi, da impedire l’elaborazione mentale di una visione e comprensione di sintesi sgombra da riduzioni di qualità dell’insieme, prodotte nel tempo. Talvolta, anche le grandi dimensioni della costruzione oppure la vastità delle relazioni di congruenza, tra questa e il contesto spesso progettato per esserle coerente funzionalmente e simbolicamente, rendono molto difficili, se non impossibili, sintesi capaci di catturare le concezioni spaziali da cui originano, sulla base di osservazioni visive dal basso. Tali sintesi peraltro sono in genere indispensabili sul piano conoscitivo. Opportune vedute dall’alto consentono invece una immediata presa d’atto unitaria dei fenomeni complessi e di grande scala; favoriscono infatti la registrazione, senza sforzo, dell’organicità dei modi di strutturazione delle fabbriche architettoniche, sia in relazione alle membrature e ai diversi volumi che le compongono, sia in rapporto all’immediato contesto che le circonda. Fattori quali scarti volumetrici o al contrario uniformità di scala, continuità o discontinuità di percorsi, geometrie strutturanti assi visuali, collegamenti tra spazi esterni e interni, tra zone costruite e aree a verde o naturali, acquistano, da tale postazione di lettura, lampante evidenza, portando alla luce fattori progettuali di primaria importanza. Un progettista infatti, sia esso attivo al tavolo da disegno oppure davanti allo schermo di un computer, nella condizione di intervenire in un luogo sgombro, oppure essendo chiamato a modificare preesistenze importanti, in primo luogo è portato a chiarire a se stesso, pertanto a disegnare con figure e tracciati fondamentali, schemi ordinativi della fabbrica, che deve realizzare o trasformare, evidenziando immediatamente anche le sue relazioni con il contesto. Sia che prefiguri le proprie intenzioni a partire da schizzi volumetrici, prospettici o assonometrici, sia che proceda, più astrattamente, per definizioni planimetriche e di alzati, in ambedue i casi l’avvio del suo iter progettuale ha sempre carattere di sintesi grafica. Essa già comprende in nuce sia l’attenzione a problemi di razionale funzionalità che l’individuazione di tipologie, tematiche e costruttive nonché urbane o rurali, adeguate al contesto, che vengono successivamente esplicitate in rappresentazioni più analitiche. Tale iter dunque necessita sempre di una previa definizione generale dei fattori che strutturano il progetto. Quest’ultimo, solo successivamente, può essere sviluppato, in graduali specificazioni, tramite disegni tecnici alle diverse scale, fino alla più grande 1:1 per importanti particolari. 12
Pagine seguenti: Monòpoli. Il nucleo medievale addensato sul mare di Monòpoli (Bari) fu importante, per la posizione strategica, nel periodo bizantino e normanno. Al centro è la cattedrale, fondata nel xii sec. ma rifatta in forme barocche nel xviii. Sul fianco a sinistra si alza il campanile barocco.
Non è un caso che il progetto di architettura abbia spesso richiesto, per essere compreso e comunicato, l’elaborazione di modelli o plastici che ne consentissero una veduta di insieme, un pre-dominio, più che del luogo, della fabbrica a cui si stava lavorando, pre-comprensione spesso non sufficientemente garantita dall’intuito spaziale, del progettista o del committente. La veduta dall’alto, di un complesso architettonico o di un contesto ambientale, consente dunque di cogliere, in sintesi, la prima logica del progetto generale, maturata una volta per tutte oppure rielaborata, in più riprese, per successivi interventi di diverse personalità. Solo dopo aver individuato tale logica, lo studioso può avviare correttamente la decifrazione storico-critica delle valenze culturali secondo le quali architetture e luoghi sono stati concepiti. È indispensabile tener presente, inoltre, che l’iter cui ora si sta accennando risulta realmente decifrabile, nella concreta realtà delle diverse realizzazioni d’architettura, se si ricostruisce la connessione dei fattori – costruttivi, estetici, paesistici e così via – che intervengono nella definizione dell’opera e appartenenti a diversi contesti disciplinari. La loro sintesi varia in rapporto ai generali orientamenti di cultura coevi, espressi nelle diverse fenomenologie artistiche o comode famiglie stilistiche della storiografia corrente, e alle imprescindibili “poetiche” personali, oltre che a desiderata di committenze importanti. È sintesi pertanto in continuo stato di potenziale revisione, sulla base di nuovi dati storici e di inedite osservazioni della concreta consistenza delle fabbriche. Ciò che è importante, per dar ragione del taglio fotografico delle immagini del volume che presentiamo e dei testi che le strutturano in un ordine storico-geografico e tipologico, è tener presente che si intende qui dare evidenza alle potenzialità interpretative di una visione molto simile alla storica veduta a volo d’uccello di fabbriche e contesti, diversa invece dalle vedute che, dall’alto di aerei o satelliti, dominano vaste regioni, e dalle cartografie generali a esse coerenti. In tali vedute aree e satellitari, infatti, le singole e importanti emergenze architettoniche, anche quando sono percepibili, non risultano tuttavia passibili di letture analitiche, che ne colgano l’individualità storica, le qualità compositive e le relazioni di contesto. Si offrono invece in questo volume una serie di vedute dall’alto nelle quali le fabbriche sono osservate nel loro contesto e tramite sottrazione alla vista dei più vasti ambiti geografici cui appartengono. Si tratta di una posizione di avvicinamento e di selezione, che rende facile sia la concettuale messa a fuoco delle volumetrie e del loro disegno planimetrico, sia l’individuazione delle articolazioni con l’immediato intorno, in particolare le assialità principali e secondarie, i rapporti di scala, la varietà di lavorazione dei materiali costruttivi. Essa consente pertanto di cogliere con facilità quelle componenti generali di progetto che, come già si è accennato, corrispondono pressappoco alle fondamentali decisioni dell’ideatore, architetto o urbanista. 13
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Tali vedute non sono estranee a un esercizio dello sguardo da sempre noto all’uomo. Dall’alto di una torre o di un campanile, dal vertice di colline o montagne, da punti di vista privilegiati di città, punti di vista interni alle stesse quando fossero articolate in una parte alta e una bassa, tali vedute sono state registrate in numerose incisioni e disegni lungo i secoli, già lo si è segnalato. A tali rappresentazioni mancava però l’esatta ragione geometrica, che il meccanismo della macchina fotografica invece oggi implica, senza aggiunta di lavoro da parte dell’uomo. L’attuale assetto delle discipline geometriche e le possibilità offerte dai mezzi informatici consentono infatti di trasporre, con una certa facilità, in vere e proprie prospettive grafiche queste vedute dall’elicottero. Si può dunque ragionevolmente ritenere che esse possiedano pregi e limiti della prospettiva rinascimentale; ne esaltano il valore di esercizio dello sguardo e di analisi, a partire dai punti di vista che essa consente. In sintesi, hanno carattere e qualità umanistica, moderna; dilatano acquisizioni di sei secoli fa con l’ausilio di strumentazioni oggi, non allora, disponibili. Stabiliscono dunque legami solidi di continuità con quell’epoca nella quale, in una piccola ma culturalmente dinamica città come Firenze, Filippo Brunelleschi inventò la prospettiva, nonché con tutto quel patrimonio di rappresentazioni volumetriche dall’alto che la preannunciano e che sono a essa conseguenti. Come è noto, il sistema della geometria euclidea attualmente a disposizione offre, oltre alla prospettiva, un’altra importante possibilità di rappresentazione volumetrica. Si tratta dell’assonometria, messa a punto agli inizi dell’Ottocento, per ragioni militari, dagli ufficiali di Napoleone Bonaparte. Esso consente di rappresentare in maniera sintetica le masse esterne di un oggetto, oltre che, tramite sezioni opportune che danno luogo ad assonometrie esplose, di analizzarne anche la conformazione interna. Lo storico dell’architettura e ingegnere francese Auguste Choisy ha pubblicato, alla fine dell’Ottocento, una ponderosa e importante Historie de l’Architecture in due tomi, illustrata soprattutto tramite sintetici disegni assonometrici, di grande efficacia per l’interpretazione delle articolazioni delle membrature architettoniche e delle loro relazioni con i diversi sistemi costruttivi. Molti importanti protagonisti dell’arte d’avanguardia e della architettura, razionale e organica, della prima metà del Novecento – da Theo Van Doesburg a Walter Gropius, ad Alberto Sartoris, per non citarne che tre – ne hanno fatto ampio uso. Essi intendevano far emergere, nella semplicità della costruzione e dei rapporti metrici della sua terna cartesiana, la correlazione, da loro ritenuta obiettivamente valida, tra rappresentazione sul foglio del progetto e spazio fisico costruito, osservato solo nel proprio carattere oggettuale, indipendente dalla localizzazione. Tramite tale rappresentazione assonometrica, l’attenzione del progettista risultava in tal modo rivolta esclusivamente alla sintesi figurativo-volumetrica. Quest’ultima si prestava ad attrarre con grande efficacia l’attenzione su polarità compositive del tipo compattezza/disarticolazione, orizzontalità/verticalità, vuoto/pieno, gerarchizzazione/ dispersione. 16
Pagine seguenti: S. Giminiano. La città di S. Giminiano (Siena) domina la Val D’Elsa nel cuore della campagna coltivata a ulivi e vigneti. Fu centro di intensa vita comunale tra xii e xiii sec., periodo nel quale vennero innalzati i suoi più importanti edifici, le numerose torri delle famiglie patrizie in particolare, un tempo settantadue, ora quindici.
Non è neppure secondario il fatto che l’assonometria trattenga nel proprio diagramma figurativo un’importante proprietà delle figure piane, del cerchio in particolare, forme di perimetro minimo rispetto all’area delimitata. Anche grazie a questa proprietà essa risultò efficace nel rappresentare, con immediatezza, il senso di “economica” centralità e inedita evidenza di immagine, che molti architetti contemporanei vollero per le loro opere. Queste ultime infatti erano da loro concepite come frammenti di un ordine urbano futuro, da costruire integralmente ex-novo. Li offrivano a potenziali committenti come atti di fondazione, di dimore indifferenti per quanto possibile a quelle tradizionali, in ogni caso molto diverse dai luoghi consegnati al loro presente della storia occidentale europea. Nella pratica, non geometricamente, la rappresentazione assonometrica è assimilabile ad una veduta prospettica, che colga l’oggetto architettonico secondo un asse ottico proveniente dall’alto e che consenta la vista contemporanea di più facce dello stesso. Si tratterebbe di una veduta inoltre stabilita da un punto di stazione teoricamente all’infinito. Essa infine permette di cogliere, con sufficiente analiticità, il comporsi organico della fabbrica in esame tramite articolazione di pieni e vuoti. Tale evidenza stereometrica della visione, canonicamente fissata nello stile rappresentativo di tipo assonometrico di molti architetti del primo Novecento, è inoltre divenuta di largo uso, fino a oggi, nell’ambito operativo della prefabbricazione edilizia e meccanica, grazie alla sua semplicità di esecuzione, oltre che all’elementare rapporto dimensionale che lega misure grafiche e oggetto reale. Ritengo che le foto dall’alto raccolte in questo volume, in ragione di una distanza di visione che risulta ben commisurata anche all’evidenza di membrature architettoniche nei prospetti degli edifici, non siano del tutto estranee alla chiarezza stereometrica propria della assonometria. Le vedute dall’alto del volume godono, per così dire, di un valore aggiunto, in quanto le architetture vi risultano registrate come luoghi, inserite nei propri paesaggi che tuttavia, è importante ribadirlo, risultano nello stesso tempo in parte occultati, tenuti di proposito al di fuori del campo ottico scelto. Non si è voluto in questo modo inscenare finzioni o inganni, oppure nascondere deturpazioni, o cancellare il peso di “ferite” spesso irrimediabili, inferte dalla espansione edilizia incontrollata dell’ultimo secolo al paesaggio urbano o rurale. Si è inteso piuttosto fare spazio a letture dall’alto nettamente distinte da quelle di tipo paesistico. L’ambito multidisciplinare del paesaggio infatti esige proprie figurazioni e rappresentazioni, anche di tipo vedutistico, dall’alto e dal basso. Il termine tuttavia individua più propriamente luoghi vasti e policentrici, sia urbani che rurali, che non singole fabbriche edilizie o singoli contesti ambientali, caratterizzati da peculiare e autonoma configurazione. Offre un proprio paesaggio, innanzitutto, una vasta area geografica che può essere abbracciata in un’unica veduta panoramica. La fotografia, scattata sia da terra sia dall’alto, ne può cogliere uno degli infiniti e cangianti aspetti; uno schizzo o una pittura d’artista lo può interpretare emotivamente o ideologicamente. 17
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Il termine paesaggio è utilizzato inoltre in senso tipologico, quando si considera non la singola immagine panoramica, ma un sistema ecologico o antropico, di cui possono essere individuati gli elementi tra loro collegati. Si parla di paesaggio lagunare, dolomitico, rurale, urbano, megalopolitano e così via. Lo caratterizzano rilievi del suolo, materie prime, vegetazione e acque, costruzioni, volumetrie naturali e artificiali, varietà stagionali. La partecipazione degli uomini alla formazione dei paesaggi ha una durata estesa quanto la loro presenza sul pianeta Terra; il paesaggio è infatti creazione storica, potremmo dire modellazione in “artificio” di una ormai lontana natura incontaminata, la cui forma più appariscente da millenni è la città. Ne sono parte, con quest’ultima, le aree rurali, la campagna, il reticolo viario, le opere di ingegneria come terrapieni, ponti, canali, laghi artificiali. Il paesaggio può essere criticamente interpretato in chiave estetica e storica oltre che analizzato, anche in vista del suo rimodellamento, in chiave razionale. Non si vuole, in questo volume dell’Italia fotografata dall’alto, presentare una storia del paesaggio italiano dal taglio singolare, anche se nella selezione di temi d’architettura si è tenuto conto – come era del resto inevitabile – dei caratteri paesistici fondamentali della penisola. L’intenzione del fotografo e degli autori dei testi è di tutt’altro tipo, vedutistica appunto, non paesistica. Le qualità geografiche della penisola italiana incidono, tuttavia, sia pure in modo diverso, in ambedue i casi. L’Italia è un paese prevalentemente montuoso e collinare; non ha estese pianure, se si esclude quella padana solcata dal movimentato corso del Po, l’area più vasta e unitaria, favorevole pertanto ad ampie estensioni di insediamenti urbani. La sua forma allungata e stretta, protesa verso il centro del mar Mediterraneo, dà luogo a un eccezionale sviluppo lineare costiero, dalla configurazione geomorfologica e paesistica molto varia. I contesti collinari estesi e dal dolce profilo, disseminati in tutta la sua superficie, hanno ospitato innumerevoli insediamenti di piccola estensione, ma spesso di grande rilevanza storico-politica. Il fenomeno ha interessato anche alcune valli alpine e appenniniche. È indispensabile inoltre ricordare che la giovane struttura geologica della penisola la rende, da sempre a memoria d’uomo, area tutta esposta al rischio sismico, fragile anche per la naturale degradabilità dei terreni e per i delicati equilibri antropici. Il suo reticolo idrografico, frammentato in numerosi bacini, è composto da fiumi di modeste dimensioni, a esclusione del Po, oltre che dai laghi alpini di forma valliva allungata e dai pochi e non grandi laghi vulcanici laziali. Quali architetture riesce a catturare con efficacia l’obiettivo di un fotografo da un volo in elicottero dunque a distanza ravvicinata e tramite opportuni occultamenti? Come si muove questo obiettivo in un contesto naturale, frammentato e fittamente abitato per successive stratificazioni come quello italiano? Quali novità di immagine affiorano, quali fenomeni non ancora adeguatamente registrati dalla storiografia d’architettura diventano evidenti? Quali novità percettive segnalano fotografie di questo tipo, già sporadicamente attive nella memoria collettiva, ma ora proposte secondo un 20
Pagine seguenti: veduta generale della città di Como che ne coglie la collocazione geografica sull’estremità meridionale del ramo occidentale del lago omonimo, in una piccola conca circondata da boscose colline moreniche. Il centro si affaccia sul lungolago intorno alla piazza della cattedrale di origine medievale. Chiaramente leggibile nel nucleo antico il tracciato stradale dell’originario castrum romano, con mura medievali ben conservate e grandi torri di vedetta.
primo, provvisorio schema storico-geografico e tipologico, esteso per quanto possibile sull’intero paese italiano, comprese le isole? L’obiettivo dell’editore e degli autori, che fotografano e scrivono, è ambizioso: restituire un affresco di vasto respiro della multiforme architettura preindustriale italiana, che l’ha resa per secoli attraente meta di Grands Tour. Tale contesto, non solo non è ovunque deturpato, ferito, manomesso e travolto, ma possiede ancora enormi potenzialità, evidenti nelle sue principali realizzazioni, di volta in volta isolate o innestate nel tessuto urbano. Esso versa certamente in uno stato di frammentazione, non più dovuto solo alla naturale geografia italiana, che merita la massima allerta, ma che non ha condannato all’ammutolimento il profilo millenario della storia insediativa e artistica della penisola. A partire dall’Ottocento il museo è divenuto luogo indispensabile per la cura, la conservazione e la continuità di comprensione di molte opere dell’ingegno umano; l’architettura tuttavia non può essere musealizzata nella stragrande maggioranza dei casi, benché esiga di essere conservata e trasmessa. È indispensabile tuttavia che essa venga conosciuta e apprezzata nello stesso contesto nel quale è sorta, oltre che dall’interno delle modifiche che l’una e l’altro, di necessità, accolgono nel corso del tempo, per adeguarsi ai cambiamenti dei modi di vita dei suoi abitanti. È indispensabile inoltre che essa venga conservata attraverso decisioni, consapevoli e condivise dalla intera società, oltre che tramite gli strumenti di tutela delle istituzioni pubbliche, preposte allo scopo. Occorre infine che essa venga piuttosto continuamente modificata, che non vandalisticamente distrutta, nel rispetto dei suoi più significativi caratteri storico-artistici. Perché conservazione, modifiche e perdite inevitabili non risultino barbari vandalismi, ma atti di civiltà, è necessaria tuttavia una conoscenza approfondita di edifici e contesti, osservati a tal fine da molti punti di vista. Si è di recente segnalato che la funzione cognitiva della storia si mescola sempre a predilezioni affettive, poiché l’intreccio tra memoria, personale e collettiva, e costruzione storica è quanto mai complesso e, in fin dei conti, mai del tutto definito. Per questo si parla oggi di un “uso pubblico della storia”, che investe non solo gli storici in senso proprio ma ampi settori della cultura. Il patrimonio ambientale paesistico e architettonico non sfugge ovviamente a tale situazione, che presenta evidenti caratteri di rischio ma anche enormi potenzialità positive, poiché la messa a fuoco di scenari di vita collettiva di lunga durata e di ampio sviluppo dà luogo inevitabilmente a percezioni di appartenenza, di identità, di radicamento nei luoghi e di socialità. Ha infatti giustamente scritto Halbwachs: «Non c’è memoria collettiva che non si dispieghi in un quadro spaziale»2. Ma il quadro spaziale è definito da quanto uno può vedere dalla finestra alla quale decide di affacciarsi e dalla quale decide di osservare lo spazio costruito nel quale è inserito. L’ambizione del volume è quella di offrire una nuova cornice per la storia dell’architettura italiana, con l’ausilio di fotografie dall’alto, come contributo all’approfondimento della cultura dell’abitare sviluppatasi nel corso dei secoli nella penisola. 21
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Le fotografie inquadrano, in modi inediti, realtà già note, già studiate, già valutate importanti; ritagliano quadri, in un contesto nella sua totalità coinvolto dagli esiti di una rivoluzione urbana che non sarà certo di breve durata, per cogliere, a colpo d’occhio, frammenti preziosi, luoghi con forti valenze di autonomia figurativa ed estetica, oltre che poli di alto valore storico-documentario, testimoni di duemila anni di coabitazione di molte genti in un’area geografica divenuta nazione solo circa centocinquanta anni fa. Il testo, sviluppato per capitoli relativi a distinti temi o tipi architettonici, accompagna e integra la selezione delle immagini, conservando essenzialmente ossatura cronologica e linguaggio proprio della storia, su base stilistica e per grandi fenomenologie consolidate dell’architettura. Traccia pertanto un racconto la cui trama ricalca percorsi storiografici tradizionali, per tipi e grandi temi. L’ordito degli scritti è invece, necessariamente, costituito tramite concatenamenti di impressioni visive degli autori favorite dalle fotografie, che liberano da un’ottica consueta, svelando componenti, familiari finora agli studiosi soltanto, e sembianze inattese di architetture molto note. L’atto del vedere dal cielo, lo sguardo dall’alto, porta con sé, con la presa di distanza dai contesti nei quali si abita, anche la liberazione da condizionamenti fisici, fortemente limitativi, del risiedere e del camminare dentro o fuori di una architettura. Il volo, al quale tale sguardo richiama, è stato un sogno a lungo coltivato dall’uomo, anche come possibilità di ebbrezza per la liberazione del corpo dalle leggi che lo legano alla terra, oltre che come possibilità di immersione nella luce, vale a dire nella sorgente della vita. È esperienza comune lo stupore che si prova sull’aereo in volo quando, guardando dall’alto la città caotica nella quale si vive, se ne scorgono con chiarezza le componenti di regolarità, di simmetria e di armonica proporzione delle parti. Stupisce che queste balzino in primo piano nel magma insediativo, come potenzialità d’ordine non adeguatamente sfruttate e tuttavia presenti in forti segni urbani. Sappiamo che quelle componenti corrispondono a luoghi di vita, che non si tratta solo di strutturazioni geometriche. Ma si è quasi trascinati, dall’imponenza e dalla suggestione di febbrile dinamismo che suscitano certe vedute aeree, a dare validità autonoma ai caratteri volumetrici degli edifici, alla loro arditezza costruttiva e al loro assembramento, in quanto segnali di una vitalità che ci ostiniamo a chiamare progresso. Ha affermato in un colloquio con giovani allievi di architettura uno dei massimi architetti del Novecento, Le Corbusier: «Alla prova le architetture si classificano in morte o vive, a seconda che la regola del camminare non sia stata osservata, o al contrario sia stata sfruttata brillantemente». Anticipava, di pochi anni, il suo giudizio questa riflessione di un grande sociologo americano, espressa al ritorno a New York da un viaggio in Europa: «Quanto ad architettura, New York dovrebbe essere nei fatti ciò che con grande sicurezza appare a distanza: l’incarnazione più smagliante della forma moderna. Sfortunatamente non lo è. Camminando per le strade della città una volta ancora, tra questa massa di edifici nuovi o quasi nuovi, si ha una sensazione immediata di vergogna, per tutta l’energia non utilizzata e la magnificenza sprecata»3. 24
Le Corbusier dunque, nel 1943 metteva in guardia gli studenti futuri architetti dalla «illusione tutta grafica, organizzata attorno a un punto centrale astratto che pretenderebbe essere l’uomo, un uomo chimerico, munito di un occhio di mosca e la cui visione sarebbe simultaneamente circolare. Quest’uomo non esiste (…) Munito dei suoi due occhi e guardando davanti a sé, il nostro uomo cammina, si sposta, dedito alle occupazioni, registrando così lo svolgersi dei fatti architettonici che appaiono di seguito, uno dopo l’altro. Ne è prova il turbamento che è frutto delle commozioni successive»4. Quasi in controcanto e in sintonia profonda con lui, nel 1940 Mumford aveva scritto: «La buona architettura è concepita per gli esseri umani che utilizzano o osservano gli edifici, non per i pubblicitari o per i fotografi»5. Il sociologo americano, a differenza di molti nostri contemporanei, non è stato abbagliato dalle vedute aeree dei grattacieli assembrati; per ragioni diverse da quelle di Le Corbusier, li ha anzi fortemente criticati. Ha segnalato la mancanza totale, nelle città americane, di un senso organico dell’ordine, l’irrazionale celebrazione della mitologia del progresso tecnico, i falsi giochi modernisti. La sua denuncia è raccolta in molte pubblicazioni, proposta ancora pienamente attuale di un forte, polemico pensiero moderno organicista e comunitario, che gli faceva avvertire, come inaccettabili perché inospitali, i luoghi dove camminare è insicuro e disorientante. Nello sfogliare questo volume è importante non dimenticare l’ammonimento di questi due giganti del progetto e della critica alla città e all’architettura del xx secolo. I nostri sguardi di uomini contemporanei, sotto lo stimolo di un volontà di dominio irrazionale, possono orientare la creatività dei progetti contemporanei in direzioni non rispettose della nostra e altrui vita. Lo sguardo, detto in altri termini, ha da sempre un potere di inganno, oggi enormemente esaltato dai mezzi meccanici ed elettronici a disposizione. È del resto noto l’inganno provocato da molti servizi fotografici che, anziché interpretare le qualità delle architetture, nuove e antiche, con cura realistica delle loro peculiarità, ne deformano, esasperandole e distorcendole per fini del tutto estranei alla costruzione di umani contesti di vita, le percezioni reali, inseguendo effetti illusori di vastità, di colore, di atmosfera. Foto e testi di questo volume sono del tutto estranei a tali logiche; rispondono a esigenze documentarie e storiografiche. Sono offerti al lettore nella consapevolezza del loro valore introduttivo alla comprensione dell’architettura; devono necessariamente essere integrate da dirette visite in situ, perché i luoghi qui proposti manifestino tutte le loro peculiari qualità. Non si può infatti in alcun modo prescindere dalla perentoria affermazione lecorbuseriana: «L’architettura si cammina». Piuttosto si deve ricordare che lo sguardo, perché diventi intelligente attenzione, capace di stimolare pertinenti valutazioni, deve anch’esso compiere un proprio “cammino”, gli è infatti indispensabile, oltre che l’informazione, un certo lasso di tempo per distinguere, selezionare, se necessario anche eliminare. A tale “cammino” vuol introdurre il fotografo, autore degli scatti di questo volume; alla sua predisposizione intendono rispondere i saggi per exempla degli autori. Il libro non ospita sintesi interpretative e visioni dall’alto di tutti i tipi di architettura che costellano il territorio italiano; alcuni del resto non sono facilmente leggibili in una 25
vista dall’elicottero; altri, come le diverse tipologie abitative, avrebbero richiesto da sole documentazioni ed esemplificazioni troppo vaste, rispetto allo spazio qui a disposizione. Tipologie e temi qui studiati o presentati nella selezione fotografica sono, già lo si è detto, frammenti di un contesto geografico o paesistico molto vario. Tuttavia, per dar loro un riferimento a scala geografica comune in tutta la penisola italiana, si è voluto far precedere alla casistica tematico-tipologica, ordinata cronologicamente, due saggi, di Pierluigi Tozzi e di Massimiliano David, a carattere storico-paesistico. Il primo propone una breve descrizione della centuriazione romana, stabile e uniforme strutturazione territoriale, ancora riconoscibile in molte città e paesaggi italiani. Il secondo consente di comprendere come si sia determinata, nell’autunno dell’antichità, quella scomposizione degli assetti urbani e rurali della penisola, nella quale gli studiosi rintracciano il presupposto delle «diverse Italie che impronteranno poi a lungo (anche oggi) la geografia del paese». Si segnala infine che testi e immagini si integrano reciprocamente, riempiendo spesso le seconde inevitabili lacune dei primi, e viceversa. Non si può dimenticare, per concludere, che una fotografia è sempre un ritratto istantaneo, mentre l’uomo elabora, nella propria esperienza percettiva, un numero imprecisabile di immagini, instabili e variazionali, di un identico luogo.
A fronte: Ravenna. Ravenna è attraversata da una lunga strada rettilinea, sul cui fianco destro si allineano in sequenza la chiesa di S. Maria in Porto, la ex chiesa di S. Chiara e S. Apollinare Nuovo. Denominata via di Roma e prolungamento della via Cesarea, collegava il porto di Classe, costruito da Augusto sul mar Adriatico, con Roma (qui direzione verso il basso).
Cristianizzazione
Stratificazione edilizia
Tessuti insediativi
Numerosissimi furono i casi di riutilizzo, per nuove funzioni, di importanti e più o meno imponenti complessi architettonici tardo-antichi a partire dal iv-v secolo. Spesso le chiese sorsero su edifici precedenti, inglobandone parti importanti, o recuperandone singoli blocchi come spolia. Talvolta uno stesso edificio venne investito da ripetuti rimaneggiamenti nel corso dei secoli, dando luogo a complesse stratificazioni edilizie ancora oggi molto evidenti.
Sulla base di matrici romane o tramite assetti nuovi, si sono costituiti, nel corso dei secoli, contesti, sia urbani che rurali, nei quali i principali percorsi viari hanno conservato stabilità di sedime fino a oggi. Le succ essive stratificazioni edilizie, hanno invece dato luogo a tessuti residenziali stratificati, ricchi per articolazione di spazi pubblici e privati, per rapporti tra esterni e interni, per connessione con gli elementi naturali.
del territorio italiano
Pagine seguenti: Roma, chiesa di Santo Stefano Rotondo. Tra i più straordinari esempi di architettura tardoantica, fu costruita da papa Simplicio (468-483) al di sopra dell’area occupata dai Castra Peregrina. Resta oggi il corpo centrale e l’anello intermedio, mentre quello esterno sopravvive solo parzialmente nel convento.
L’ordinamento territoriale romano costituì base essenziale per lo stabilizzarsi della cristianizzazione nella penisola italiana. Dapprima evidente nelle grandi città, capisaldi della diffusione del cristianesimo grazie alla guida di autorevoli vescovi, essa affiorò presto anche nella struttura abitativa e nelle emergenze monumentali delle campagne. Pievi e monasteri, grandi e piccoli, definirono gradualmente una nuova geografia abitativa, talvolta con caratteri di continuità, talvolta invece differenziandosi, rispetto agli assetti tardo-romani.
Vedute dall’alto del Canal Grande e dell’abitato di Venezia.
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Stratificazione edilizia. Verona. Divenuta colonia romana nell’89 a.C., Verona si trovò all’incrocio di tre importanti vie: la Gallica, da Torino ad Aquileia; la Postumia, dalle Alpi Giulie al lido ligustico; la Claudia Augusta, da Roma ad Augusta al di là delle Alpi. Attorno al monumento romano dell’Arena, non l’unico benché il maggiore giunto a noi, la città è cresciuta stratificandosi nel corso dei secoli.
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Stratificazione edilizia. Lucca. Nella città toscana di Lucca, situata in una vasta piana alluvionale, colonia romana dal iii sec. a.C., è ben leggibile, nel sito dell’antico Anfiteatro romano, un anello di abitazioni, erette lungo il perimetro della sua originaria planimetria ellittica.
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Tessuti insediativi. Certaldo. L’antico nucleo di Certaldo (Firenze), su un colle toscano nei pressi della confluenza del torrente Agliena nell’Elsa, fu un tempo antico Castello dei conti Alberti; passò nel xiii sec. sotto la signoria di Firenze. La vista dall’alto evidenzia il colore rosso del cotto degli edifici, quattrocenteschi in gran parte, e della pavimentazione delle strade.
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Tessuti insediativi. Matera. Sull’orlo e nei fianchi di una stretta gravina si sviluppa la zona dei Sassi di Matera. Vi si è qui edificato un complesso di abitazioni scavate nel tufo, in gran parte attualmente abbandonate, dove hanno vissuto, dai tempi preistorici ad oggi, intere famiglie. Il tessuto edilizio è un fitto sovrapporsi di case ed edifici pubblici, in parte sotterranei, accatastati in nuclei, separati da strade strette, con scalinate e forti pendenze.
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Tessuti insediativi. Erice. Borgo medievale in posizione panoramica sulla cima di un monte isolato, Erice è un fitto agglomerato edilizio, inciso da tortuose e strette vie, costellato da importanti emergenze monumentali. Domina su tutti la chiesa Matrice, dedicata all’Assunta, del xiv sec., preceduta da un robusto campanile isolato, coronato da merlature.
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Tessuti insediativi. Termoli. Unico porto della regione del Molise, Termoli (Campobasso) conserva antiche mura, un castello, eretto nel 1247 da Federico ii, a pianta quadrata sviluppata in altezza da ampie scarpate, un nucleo abitato antico. Il tratto di costa adriatica, sulla quale la cittadina affaccia, è costellato da molte torri d’avvistamento, che segnalavano l’arrivo dei Saraceni.
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Tessuti insediativi. Bergamo. La città di Bergamo, racchiusa nella cinta cinquecentesca, è un complesso monumentale unitario di grande qualità paesistica, oltre che architettonica. Al centro, attorno a Piazza Vecchia, si alzano: il Palazzo Nuovo; il Palazzo del Podestà; il Palazzo della Ragione e l’alta Torre del Comune. Su Piazza Duomo prospettano: il Duomo, la basilica di S. Maria Maggiore, la Cappella Colleoni, il Battistero. A fronte: Tessuti insediativi. Ostuni. Distribuita su tre colli, la città pugliese di Ostuni (Brindisi) è ricca di importanti monumenti medievali e barocchi. Sulla sommità di uno dei tre colli sorge la Cattedrale quattrocentesca; poco più sotto si situa la mole del Monastero delle Carmelitane (xviii sec., in primo piano nella foto), al quale è annessa la chiesa barocca dedicata a S. Maria Maddalena, dalla elegante facciata a profilo mistilineo.
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Pagine seguenti: tessuti insediativi, Venezia. Campo San Polo, in basso a sinistra, utilizzato per i mercati settimanali e le manifestazioni pubbliche. Al centro, il complesso monumentale della chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari (xiv-xv secolo), la Scuola Grande di San Rocco (1515-60), la Scuoletta e la chiesa di San Rocco (1489-1508). In alto a destra, campo Santa Margherita deve la sua attuale conformazione all’interramento dei rii Cà Canal e della Scoazzera (1863). È delimitato alle due estremità dall’ex chiesa di Santa Margherita, costruita alla fine del xvii secolo (G.B. Lambranzi) su un’antica fondazione (metà ix secolo), e dal complesso conventuale dei Carmini (xiii secolo). La chiesa di Santa Maria del Carmelo, di impianto basilicale, è stata sopraelevata e ingrandita in epoca cinque-seicentesca. In adiacenza la Scuola Grande dei Carmini (Franco Cantello, 1627) con le facciate attribuite a Baldassarre Longhena (1668). L’interno è ornato con tele di Giambattista Tiepolo.
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Tessuti insediativi. Chioggia. Nel cuore di Chioggia, all’estremità di una piccola penisola a sud della laguna veneta poco sopra la foce del Brenta, emergono: la mole del Duomo; il robusto campanile del xiv sec. nel Campo del Duomo; la chiesa di S. Andrea, nei cui pressi è un campanile romanico isolato; la chiesa di S. Domenico con campanile trecentesco. Tessuti insediativi. Vernazza. Borgo situato nella parte alta dell’area ligure denominata Cinque Terre, Vernazza è un abitato costiero di modeste dimensioni, il cui tessuto edilizio ben conservato si è disposto nel corso dei secoli lungo il torrente Vernazzola, attualmente coperto. Il passato glorioso è ancora testimoniato dalla diffusa qualità della sua architettura, dai resti della cinta muraria e di due torri di difesa, e dal porto.
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Pagine successive: Tessuti insediativi. Radicòfani. Nel cuore della Toscana, lungo la romana via Cassia che arriva fino nel Lazio costeggiando il lago di Bolsena, Radicòfani (Siena) è un piccolo centro medievale, alle falde di una rupe basaltica di origine vulcanica, composto da basse case allineate lungo strette vie; al centro è la chiesa romanica di S. Pietro, dalla cui facciata a capanna sporge un campanile quadrangolare. Tessuti insediativi. Piazza Armerina. Piazza Armerina (Enna) sorge nei pressi della omonima Villa Romana del Casale, area archeologica con importanti resti del iii-iv sec. d.C. Circondato da boschi estesi, il borgo custodisce chiese, palazzi e giardini di diverse epoche, attorno al regolare disporsi delle piccole abitazioni lungo ripide vie; nella foto esse convergono regolari verso la cattedrale barocca dell’Assunta.
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A volo d’uccello Roberto Cassanelli
Pagina a fianco: Giotto, La cacciata dei diavoli da Arezzo, affresco; Assisi, Basilica di S. Francesco, chiesa superiore. Fine xiii sec.
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«Sotto di noi, quasi ad onorarci accompagnando il nostro cammino, la terra si svolge in un tappeto immenso, sconfinato, non se ne vede né inizio né fine, con i colori più vari fra i quali tuttavia il verde domina in tutte le sfumature e possibili combinazioni. I campi a scacchi irregolari sembrano “coperte” composte di pezze multicolori, armonizzate dall’ago paziente della massaia. Sembra che un’inesauribile scatola di balocchi sia stata sparsa a profusione su questa terra, la terra che Swift ci mostrò a Lilliput, come se tutte le fabbriche di Carlsruhe avessero dato fondo alle loro scorte. Balocchi le casette dai tetti rossi o d’ardesia, balocchi la chiesa, la prigione, la caserma, i tre edifici nei quali si riassume la nostra presente civiltà. Ancor più giocattolo quel briciolo di treno che ci trasmette dal basso lo stridulo sibilo del suo fischietto quasi a forzare la nostra attenzione, e che procede grazioso e placido – nonostante le sue quindici leghe all’ora – su invisibili rotaie, ornato dal suo esiguo pennacchio di fumo… E cos’è l’altro fiocco biancastro che vedo laggiù, fluido nello spazio? È il fumo di un sigaro? No, è una nuvola»1. Così Nadar, in Quand j’étais photographe, racconta l’emozione di librarsi in aria con un pallone aerostatico, alzando lo sguardo ad un’altezza sino a quel momento inusitata. E l’occhio di Nadar coincide con quello della sua macchina fotografica, che per prima riprende dall’alto i tetti di Parigi2 (cosa che subito ispirò alla matita caustica di Daumier la celebre vignetta accompagnata dalla didascalia «Nadar élevant la photographie à la hauteur de l’art»). Si aprivano – in una forma ancora rudimentale destinata ad affinarsi solo alcuni anni dopo – possibilità straordinarie di osservazione e rilevazione che avrebbero completamente trasformato l’approccio al territorio aprendo la strada alle moderne osservazioni scientifiche3. Questa esperienza costituiva peraltro il punto di arrivo di una storia lunga ancorché discontinua, che trovava le sue radici nel Rinascimento italiano, in un rinnovato e dinamico contesto di scambi culturali favorito dalla nascita della stampa a caratteri mobili e dalla diffusione della xilografia. La messa a punto, nel corso del Quattrocento, del dispositivo prospettico aveva infatti consentito, almeno dalla seconda metà del secolo, di realizzare piante prospettiche di città (perlopiù isolate dal territorio circostante) che abbracciavano in un solo sguardo l’intero disegno urbano, del quale si restituiva 49
contemporaneamente il tracciato topografico e la dimensione stereometrica, con una novità ed efficacia di impatto visivo del tutto straordinarie. Non che si ignorassero in precedenza modi di restituire, intuitivamente, la volumetria e la spazialità di una città o di un brano di territorio, sia nell’età romana sia in quella medievale (come ad esempio la Verona di Raterio, ix-x secolo, di cui si conosce una copia tardiva); prevalevano comunque restituzioni frontali e sintetiche, riassunte nella nitidezza di un profilo, che trova nei mosaici ravennati una prestigiosa affermazione. E la città è spesso semplicemente allusa attraverso la cifra connotante del cerchio simbolico delle mura. Così è l’“Ytalia” di Cimabue nella basilica superiore di Assisi; così è l’accrochage dell’Arezzo di Giotto, sempre in S. Francesco; mentre dal basso è osservata la bella città del “Buon Governo” di Ambrogio Lorenzetti a Siena4. Il punto di vista che si immagina nelle piante prospettiche del Quattrocento è invece molto in alto, ben sopra il sommo di una torre o di un campanile, o della cima di un monte, che avevano offerto a Leonardo stazioni vantaggiose per l’osservazione (ad esempio di Milano), a un’altezza in quel momento non raggiungibile dall’uomo. È lo sguardo della divinità, è quello del mito e della leggenda, di Giove e degli dèi dell’Olimpo, di Icaro, o dei volatili. Da qui la definizione fortunata e impropria di veduta “a volo d’uccello”, termine diffusosi molto dopo l’effettivo inizio della produzione di tali piante (che si autodefiniscono nei cartigli che recano “vero ritratto” o “descrittione”). La prima attestazione parrebbe essere in una delle Lettres familières del presidente de Brosses (1739-40), che presenta un’efficace descrizione “visiva” di un paesaggio: «du haut d’une terrasse qui fait l’entrée de la maison, on plonge à vue d’oiseau sur toute la ville, bâtie au pied du coteau»5. Un secolo dopo sarà il titolo di un volume di litografie, L’Italie à vol d’oiseau, a sancirne la fortuna6. Nel corso del Novecento è poi entrata nell’uso comune in diverse lingue, tra cui l’italiano, finendo per banalizzarsi come formula stereotipa. 50
Napoli, Galleria di Capodimonte, Tavola Strozzi, tempera su tavola, seconda metà xv sec. Pianta schematica della Tavola Strozzi, con individuazione dei punti di vista, sulla Marina di S. Giovanni a Teduccio e sul molo grande (da Furnari 1990).
Jacopo de’ Barbari, Veduta di Venezia, xilografia, Venezia, Museo Correr, 1500; particolare (a fianco) e veduta complessiva (pagine seguenti).
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Va precisato che, per quanto riguarda la produzione precedente l’invenzione della fotografia, applicare la definizione di “veduta” alla pianta prospettica appare perlomeno impropria, trattandosi di una realtà immaginata e non direttamente esperibile. È il punto di vista apparentemente unitario della pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari (1500) o di quella di Amsterdam di Cornelis Anthonisz; ma è un punto di vista impossibile, frutto di aggiustamenti e di accorgimenti particolari; una realtà mentale. Gli studi recenti, condotti in particolare sulla pianta di Venezia, della quale ad un primo sguardo colpisce l’apparentemente strabiliante fedeltà riproduttiva, ne hanno evidenziato i limiti di aderenza topografica e di inventario del costruito7. Stupisce semmai che una tale monumentale realizzazione (costituita da ben sei tavole giustapposte) non si ponga a esito di un lungo percorso di esperienze, ma ne sia quasi la pietra di fondazione, preceduta da pochi selezionati testimoni, come la veduta detta “della catena” di Firenze, attribuita a Francesco Rosselli8, o quella di Napoli dal mare (cosiddetta tavola Strozzi)9. Si tratta allo stesso tempo di “vedute” e mappe topografiche, che contemperano esigenze di rappresentazione estetica e funzioni più 54
Bottega di Domenico Fiasella, La Vergine Regina della città di Genova, olio su tela, Palermo, Museo diocesano, da S. Giorgio dei Genovesi, 1638 circa.
Marc’Antonio Dal Re, Veduta di Villa Arconati a Bollate, (da Ville di delizia, 1726-43). Milano, Civica Raccolta delle Stampe A. Bertarelli.
immediatamente utilitaristiche10 (della pianta di Jacopo de’ Barbari si è conservato un numero singolarmente alto di esemplari, che fa intuire una conservazione particolarmente accurata e di una fruizione come opera d’arte, anche in rapporto al prezzo assai elevato). Il fenomeno si esaurirà progressivamente nel corso del Seicento11 e dei primi anni del Settecento – quando troverà una sontuosa e solenne parziale applicazione a singoli monumenti, come nelle Ville di delizia milanesi dell’incisore bolognese Marc’Antonio dal Re, 1726-43) – lasciando il posto alle due distinte esperienze della veduta e della cartografia vera e propria di impianto geometrico. Sarà l’invenzione della fotografia – da cui qui si sono prese le mosse – a consentire il ritorno all’unità informativa della veduta urbana, secondo il taglio obliquo consentito dal pallone aerostatico.
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Esperienze di fotografia in volo Le immagini che accompagnano questo libro sono il frutto di vent’anni di lavoro fotografico aereo sul territorio italiano, realizzando riprese “a volo d’uccello”. Un lavoro, quello della fotografia aerea, iniziato per curiosità e per cercare di dare completezza alla documentazione sul patrimonio artistico che già svolgevo da alcuni anni. Una curiosità che ha trovato soddisfazione nel vedere colte e risolte le interrogazioni cui una “architettura camminata” non poteva dare risposta. Un tipo di riprese, per quanto mi riguarda, in gran parte “inventato” perché non esistono scuole in proposito e la bibliografia è, tranne in qualche rara eccezione, pressoché inesistente; un lavoro costruito sulle intuizioni, sulle prove e sugli errori. Un’esperienza maturata con gli anni nella ricerca del tipo di foto da realizzare, degli aeromobili più adatti, dell’attrezzatura più idonea e delle pellicole che restituissero con maggiore fedeltà le geometrie, i colori e le diverse profondità. Quale tipo di ripresa dunque? Non certo quella a 90° o zenitale, sia perché largamente disponibile, sia perché incapace di fornire quelle informazioni visive relative alle profondità, alle molteplici prospettive del “costruito” fotografato sia per coglierne le volumetrie sia per farne emergere più generali relazioni con l’ambiente, naturale o antropizzato, circostante. Quindi la ricerca del grado di ripresa più idoneo si è sviluppata fino a trovare un punto di equilibrio intorno ai 45° di inclinazione rispetto al terreno. Un tipo di ripresa che permette di vedere che cosa c’è sotto i tetti, che rileva la struttura delle facciate, che propone le armonie o le disarmonie dei vuoti e dei pieni, che relaziona l’“architettura nobile” con l’“architettura umile”. Un tipo di fotografia, quello a 45°, che deve necessariamente tenere conto della luce. Sì, perché la luce disegna le architetture, le scopre o le esalta a seconda delle stagioni o dell’ora della giornata. Per cui un complesso monumentale, se è da restituire nella sua completezza, deve essere fotografato in stagioni e in ore diverse, sia per la differente inclinazione del sole all’orizzonte sia per la fogliazione della vegetazione che può impedire certe viste. Basilio Rodella (bamsphoto) Tellaro. Piccolo borgo costiero che si affaccia sul Golfo di La Spezia; il nucleo più antico è sull’estrema punta del promontorio.
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Il paesaggio geometrico. L’impronta di Roma Pierluigi Tozzi
I Romani e la creazione del paesaggio italiano Nella storia del paesaggio dell’Italia un momento epocale è da riconoscere tra il iv e il i secolo a.C.: allora per l’avanzata e la conquista dei Romani si avviò uno straordinario processo di modificazione e di trasformazione profonda dell’ambiente con l’introduzione su ampia scala di caratteri territoriali rispondenti a uniformi e rigorosi criteri, che spesso sono ancora oggi precisamente riconoscibili. Quale fosse la condizione precedente è dalle fonti antiche suggerito per brevissimi e vaghi cenni piuttosto che precisamente indicato: esse ci propongono per frammenti immagini, in cui dominano selve ed acque, disordinatamente. Senza dubbio non mancano esempi di interventi miranti a delimitazioni o ad assetti di aree connesse con l’insediamento umano, più ampi in coincidenza con le presenze greca o etrusca, più ridotti in consolidamenti di microrealtà riferibili a età preistorica. Ma i fenomeni riguardano sempre aree limitate. A una grande trasformazione portò l’età romana con un intervento fondamentale ed estesissimo, di straordinaria portata per la creazione di un nuovo paesaggio, non solo in terra italiana, ma anche su grandi superfici europee ed africane, così da lasciare una impronta perenne di civiltà.
Pagina a fianco: Foto aerea zenitale di Imola e di parte del suo territorio. Sulla destra, in basso, appare la città di Imola. Il territorio presenta nitidamente la scansione modulare fondata su quadrati di 710 metri circa di lato: città, terre e vie si inseriscono in uno schema armonico unitario, che ispira e ordina l’insieme del paesaggio, la cui matrice risale al ii sec. a.C. Istituto Geografico Militare, Firenze.
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Caratteristiche e riconoscibilità Quali i caratteri peculiari rispetto a quelli di altre età? Distintiva è la combinazione di alcuni elementi essenziali. Gli agrimensori romani sceglievano, al fine di dividere il territorio, un punto opportuno e, «posita auspicaliter groma in tetrantem», procedevano all’orientamento generale del territorio tracciando due linee portanti perpendicolari, fondamentali della limitatio (decumanus o decimanus maximus e kardo o cardo maximus). La groma era uno strumento a forma di croce, sospeso a un sostegno (ferramentum) e recava appesi alle estremità dei bracci quattro fili, che permettevano di traguardare e di allineare i limites perpendicolari con assoluta regolarità per decine di chilometri. La teoria prevedeva una varietà totale di orientamento del decumanus, che rappresentava la linea principale: da est a ovest (originario e preferito, ma sconosciuto nell’appli59
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cazione pratica), da nord a sud (come a Capua), da sud a nord, da ovest a est, secondo il significato stesso del termine, sul sole nascente, con declinazioni astronomiche che tenessero conto delle posizioni di levata nelle diverse stagioni. Il decumano divideva il territorio in due parti, dette dextra o dextrata e sinistra o sinistrata (rispettivamente alla destra e alla sinistra del luogo del misuratore), il cardine massimo divideva il territorio in due parti, dette antica o ultrata e postica o citrata (rispettivamente davanti e dietro al misuratore). Ne risultavano quattro regioni: S(inistra) D(ecumanum) U(ltra) K(ardinem), S(inistra) D(ecumanum ) K(itra) K(ardinem), D(extra) D(ecumanum) U(ltra) K(ardinem), D(extra) D(ecumanum) K(itra) K(ardinem). Gli agrimensori procedevano quindi a tracciare, parallelamente al decumano e al cardine massimi, numerose altre linee (limites), cardini e decumani, che, incrociandosi a cadenze fisse e ad angolo retto, formavano un reticolato rigorosamente geometrico, che favoriva sia la misurazione del terreno e l’accatastamento delle proprietà, sia un ordinato assetto idraulico e la bonifica agraria.I quadrati che ne risultavano – assai più frequenti rispetto a schemi rettangolari – avevano i lati di 2.400 piedi. Poiché il piede romano oscillava sensibilmente nei valori tra cm 29,145 e cm 29,779, non essendoci un 62
Alle pagine precedenti: l’ager campanus in un rilievo cartografico dell’800 dell’Istituto Geografico Militare. Sopra: foto aerea zenitale di Cittadella che si inserisce perfettamente nel disegno del paesaggio della pianura veneta, solcato dalla via Postumia (148 a.C.). La via funge da asse fondamentale nell’organizzazione delle terre e delle acque fra i fiumi Brenta e Piave: le linee generatrici del centro storico di Cittadella ne dipendono strettamente. Royal Air Force.
Foto aerea zenitale di Lucca (sulla sinistra in alto) e di un tratto del suo territorio. L’orientamento degli assi viari cittadini è lo stesso delle grandi linee portanti del disegno agrario della colonia latina del 180 a.C. L’orientamento generale si ispira a quello astronomico con una declinazione di soli 5° rispetto ai punti cardinali. Istituto Geografico Militare, Firenze.
obbligo vincolante nella scelta, di conseguenza le diverse colonie potevano avvalersi di misure diverse, che possono essere calcolate esattamente solo sulla base della migliore cartografia o delle fotografie aeree, a conclusione finale di laboriosi e rigorosi tentativi di ricostruzione. Questi limites avevano nome e numero a partire dal decumano e dal cardine massimi, in genere esclusi dal computo: S(inistratus) D(ecumanus) I, U(ltratus) K(ardo) I, D(extratus) D(ecumanus) I, K(itratus) K(ardo) I. Ogni centuria conteneva un numero di sortes assegnate in proprietà ai coloni. Nella realtà topografica cardini e decumani non erano soltanto linee divisorie astratte, ma corrispondevano a vere e proprie strade di diversa funzione e importanza, secondo una gerarchia di misure e di valori, che gli antichi precisamente attestano, a fossati di irrigazione e di scolo delle acque, ad allineamenti di filari di alberi. La trasformazione dell’ambiente Le operazioni, spesso grandiose, potevano ispirarsi a differenti finalità che ebbero, di volta in volta, varia incidenza: alla assegnazione di terre ai coloni, a misurazioni catastali di vasti distretti, a sistemazioni idrauliche di grandi superfici. 63
Un fenomeno di tale ampiezza e complessità obbediva a ragioni di validità temporanea e locale (motivi di proprietà, politici, religiosi) o a ragioni profonde di validità durevole (soluzioni tecniche fondate su norme e principi scientifici generali, con particolare attenzione ai luoghi di applicazione)? La seconda ipotesi è persuasiva. La caratteristica di più immediata evidenza nelle divisioni agrarie romane è rappresentata dall’orientamento. Questo dipende soprattutto dalla natura del territorio, sia generale, sia particolare, tiene presente con sapienza l’inclinazione del suolo e appare principalmente una soluzione intenzionalmente mirata a un corretto e funzionale ordinamento idraulico delle terre. Le grandi pianure padane, nelle aree emiliana e veneta, e l’ager campanus, alla sinistra del fiume Volturno fra l’Appennino e il mare Tirreno, rivelano ancora oggi con chiarezza gli imponenti schemi delle limitationes spesso collegate fra loro in sistema. Le sottili connessioni tra l’impianto urbano e la divisione agraria, l’alto grado di compagine e di pianificazione complessive hanno inciso di più sulla continuità e sulla persistenza dei caratteri del paesaggio, sia di quelli fondamentali, sia spesso anche di quelli secondari e minuti, e propongono con straordinaria evidenza il disegno antico. Nelle aree centuriate i limites portanti delle divisioni antiche nel tempo agirono come tenaci fattori di insediamento e talora hanno determinato il tipo e la forma stessi dell’abitato. E alla consuetudine si accompagna e si congiunge da parte degli uomini la memoria della natura e dell’ambiente per la presenza non interrotta sui siti o accanto ai siti antichi e per la tradizione secolare delle forme e tecniche antiche di coltura della terra in una lunghissima, quasi rituale ripetizione. Pur nel mutare delle vicende storiche, degli uomini e delle loro espressioni sociali e nella straordinaria accelerazione del ritmo della vita, in grande parte della pianura secondo orientamenti e direzioni di millenaria consuetudine si muovono gli animali e spesso gli uomini, scorre l’acqua nei fossati, sono piantati ed esposti al sole e ai venti i filari degli alberi, vengono diretti i trattori. Sono queste le forme di paesaggio, in cui la continuità si svela con evidenza quasi intatta o si manifesta con nitidezza. Continuità non necessariamente significa consapevolezza. Ricostruzione del catasto antico Per la straordinaria importanza e continuità dell’assetto romano nei caratteri fondamentali del paesaggio agrario italiano ci aspetteremmo che la consapevolezza di tale debito abbia accompagnato costantemente i moderni. Ma così non è stato. La nozione dell’antico si è presentata varia nel tempo: se di taluni aspetti, relativi specialmente a uomini ed eventi, la conoscenza è stata continua, di altri aspetti, invece, frammentaria e discontinua. Fu con gli inizi dell’Ottocento che l’interesse per il passato si ampliò straordinariamente e si recuperarono in grande numero testimonianze, precedentemente trascurate o rimaste in ombra. In particolare si rinnovò l’attenzione per la scienza agrimensoria romana. Una svolta fu segnata dal grande storico Barthold Georg Niebuhr: questi, nel 1812, mentre sottolineava la scarsa conoscenza e le difficoltà dei testi degli agrimensori latini, affermava che, per quanto inavvertite dai moderni, specialmente nella campagna di Roma 64
dovevano conservarsi tracce delle antiche divisioni del suolo, le quali avrebbero consentito di chiarire le oscurità degli antichi gromatici e, mosso da ispirazione solenne e retorica, invitava il futuro editore degli agrimensores a recarsi a Roma e visitarne attentamente le terre, dove tutto era reliquia. L’attesa del Niebuhr parve compiersi dopo non molto tempo con l’esperienza di C.T. Falbe, capitano di vascello danese, il quale, rilevando topograficamente la zona attorno a Cartagine, notava la presenza sul terreno di maglie quadrate di 708 metri di lato, che esattamente riferiva alla divisione agraria romana in Tunisia. A questi viene in genere riconosciuto il merito della scoperta dei resti della centuriazione; in realtà assai più importanti si rivelano, almeno a mio giudizio, alcune ricerche, parziali o sistematiche, che, talora in connessione, talora indipendentemente, contribuirono in misura rilevante al progresso di questi studi nel corso dell’Ottocento. Premessa e condizione fu lo sviluppo e il perfezionamento della cartografia ottocentesca. Caratteristico è il fatto che la valle del Po abbia attirato prioritariamente l’attenzione degli studiosi, che di qui si mossero per rivolgere poi altrove l’indagine. Il che può spiegarsi con la migliore conservazione ed evidenza dei resti, oltre che, per alcuni, con una maggiore e diretta familiarità dei luoghi. Ciascuno di costoro si distingue per caratteristiche di metodo, sufficientemente riconoscibili. Un posto notevole occupano l’antiquario Pietro Kandler, il medioevista patavino Gloria, cui si collega Nestore Legnazzi, professore di geodesia all’Università di Padova. Nella prefazione al discorso inaugurale del 23 novembre 1885 spiegava le ragioni profonde del suo interesse ormai più che trentennale per le antiche divisioni agrarie. Di fronte alla situazione contemporanea della pluralità catastale italiana, basata su difformi criteri di valutazione, il catasto romano – fortemente idealizzato e vagheggiato – gli suggeriva la necessità di un catasto unico e la perequazione delle imposte «come splendida promessa di giustizia, di pace e di prosperità per l’Italia». Anche se la spinta iniziale “moderna” tornava nell’opera ripetutamente sotto forma di confronti dell’antico col moderno, il Legnazzi si lasciò affascinare dalle colonie romane al punto che queste occupano nel libro grande spazio. La visione diretta dei luoghi rivestiva nel metodo del Legnazzi primaria importanza: «Ma, spingendo le osservazioni ed i viaggi mi accorsi, che questo (agro) di Cesena non è che una parte di una immensa colonia, che dall’Adriatico puossi dire si estendesse fino agli Appennini… Seguendo la via Emilia fra Cesena, Forlimpopoli, Forlì e Bologna, ed eziandio qua e là nel Modenese e nel Parmigiano il viaggiatore è sorpreso nel vedere quelle strade eguali, tutte parallele, equidistanti e perpendicolari alla strada maestra. Esse sono tagliate ad angolo retto da altre strade egualmente regolari, in modo che i quadrati appaiono tutti eguali. Vedute d’estate dai contrafforti degli Appennini, queste campagne sembrano immense scacchiere di verdura e di biade biondeggianti, che non lasciano alcun dubbio». In modo del tutto indipendente giunse a rilevare la presenza delle divisioni agrarie romane l’ingegnere idraulico Elia Lombardini in uno studio di “geologia storica” condotto con rigore di scienziato. Il rilevamento delle “reticole” delle centuriazioni dei Romani non è, peraltro, fine a se stesso, ma serve al fine di ricostruire il quadro idrologico dell’alta Italia. 65
Fu lo Schulten sul finire del secolo a fornire il più alto contributo dell’Ottocento sull’argomento. Nel grande topografo tedesco l’analisi delle carte, la familiarità dei testi gromatici, l’interesse vivo per la toponomastica si saldarono in un’interpretazione spesso originale. L’alto grado cui era giunta la ricerca e l’interpretazione delle tracce delle centuriazioni proprio sul finire dell’Ottocento suggeriva grandi speranze per il futuro. Un nuovo grande progresso nelle conoscenze sulle divisioni agrarie dell’Italia settentrionale si ebbe soltanto con Plinio Fraccaro: l’interesse antico del Fraccaro per la topografia come elemento essenziale della conoscenza storica, sollecitato dalle intelligenti e originali analisi territoriali di Alessio De Bon, conobbe una straordinaria accensione in occasione della Mostra Augustea della Romanità (1937), quando, nonostante la sua posizione politica non favorevole al fascismo, ebbe per la stima e la fiducia di Giulio Quirino Giglioli e di Giovanni Gentile l’incarico di preparare una serie di rappresentazioni cartografiche degli avanzi delle centuriazioni romane nell’Italia. Per la prima volta a un esame globale apparve chiaramente la grandiosità del fenomeno delle limitationes dell’Italia settentrionale, fossero esse più e meno evidenti. Con questi studiosi non si esaurisce naturalmente l’apporto alla conoscenza delle divisioni agrarie romane, ma per essi passa certamente il contributo più originale e suggestivo. Non sono mancati, prima e soprattutto dopo il Fraccaro, studi dedicati a singoli casi di centuriazione o ad aree geograficamente ben definite o a tematiche agrarie, con approfondimenti di aspetti particolari e analisi talvolta minuziose e illuminanti, ma mi pare sia andata per lo più perduta quella visione generale del problema, che era invece ben presente sia nei maggiori studiosi dell’Ottocento, per la necessità del confronto in una fase ancora sperimentale della ricerca, sia nel Fraccaro, per il carattere stesso di inventario di tutti i resti. Cartografia e fotografia aerea Il dato forse più importante si può ravvisare nella crescente disponibilità e varietà di strumenti di indagine. Negli studiosi prima ricordati l’impiego della cartografia fu esclusivo (se si eccettua qualche episodica e piuttosto decorativa applicazione della foto aerea col Fraccaro). Da un punto di vista di funzionalità dell’uso, i Fogli consentono visioni di insieme su un grande orizzonte geografico, ma semplificano eccessivamente i caratteri che compongono il paesaggio e non possono conseguentemente essere presi come base per lo studio delle centuriazioni. A questa funzione essenziale assai più adatte si mostrano le Tavolette, che però spezzano la visione su piccole estensioni e devono essere quindi collegate, spesso con fatica e con risultati dubbi, quando, come spesso accade, appartengono a levate differenti per età e per criteri. Un forte correttivo alla soluzione di questi problemi è venuto a seguito del fatto che la cartografia si è andata spostando dal rilevamento pretoriano a quello aerofotogrammetrico, il che ha portato a uno straordinario incremento nella precisione della rappresentazione. Di fatto anche la migliore carta è necessariamente molto selettiva nella proposta dei dati rispetto alla foto aerea. La seconda guerra mondiale ha contribuito in modo impressionante allo sviluppo per finalità militari di questo mezzo, poi divulgato e appli66
cato alla conoscenza del passato, come ha splendidamente mostrato Bradford. L’Istituto Geografico Militare dispone per l’Italia delle foto di un volo fondamentale degli anni 1954-55 alla scala 1:60.000 per le zone montane e 1:30.000 circa per le zone di pianura, cui altri seguirono per tratti del territorio italiano. Su questo materiale, spesso del massimo interesse, si è fondato Giulio Schmiedt per i suoi studi esemplari. Regioni ed Enti (penso in particolare all’enel sulle aste dei maggiori fiumi) si sono dotati di coperture aeree a scale che prevalentemente oscillano tra 1:15.000 e 1:20.000, spesso illuminanti nell’analisi di singole aree limitate. I voli ad alta quota (a 11.000 metri di altezza) sull’Italia, degli anni 1988-89 e 1994-95, condotti dalla Compagnia Generale Ripreseaeree di Parma alla scala 1:75000, consentono con singoli fotogrammi la copertura di grandi superfici e quindi la possibilità di visioni d’insieme molto ampie, particolarmente adatte alla identificazione delle infrastrutture portanti di interi territori e alla corretta valutazione delle misure. Se le coperture da satellite, realizzate in tempi successivi e con tecniche in costante progresso permettono e promettono elaborazioni delle immagini che, perfezionata la capacità di risoluzione, consentano di fissare per esteso i grandi schemi delle centuriazioni, al presente la fotografia aerea svolge una funzione decisivamente primaria, specialmente in particolari condizioni del paesaggio storico. I paesaggi sepolti Vi sono regioni dove prevale la variazione dell’ambiente naturale con radicali trasformazioni e i paesaggi appaiono instabili ed effimeri, in quanto sui fattori di persistenza vincono i fattori di mutamento. Qui il peso della natura è spesso assolutamente preponderante su quello degli uomini, come nelle terre percorse da grandi fiumi, che operano instancabilmente nel modellare e rimodellare la pianura. Il paesaggio, non altrimenti dagli uomini, muore ed è sostituito da uno o più nuovi paesaggi. La stessa letteratura antica mostra talvolta consapevolezza dei paesaggi mutevoli, anche se appare attratta piuttosto dagli aspetti superficiali e spettacolari del quadro generale, che non dalle profonde alterazioni, che spesso cambiano le condizioni della vita degli uomini. Il farsi e il modificarsi del paesaggio pone agli uomini il problema essenziale del ricordo, per la trasformazione frequente e la rapida decadenza degli aspetti che cadono sotto la conoscenza. Alla lacunosa memoria dell’uomo e delle carte può allora sostituirsi la memoria della terra. Il suolo infatti conserva le tracce dei differenti momenti della vicenda umana e si offre a una possibile lettura, pur con diversa efficacia, a seconda dell’evidenza, dell’ampiezza, della incisività dei segni impressi dall’uomo. La fotografia aerea svolge allora una funzione fondamentale nel fissare i segni che il suolo conserva e consente di risalire a ritroso nel tempo fino a recuperare le linee fondamentali del paesaggio antico. Al di sotto delle linee del paesaggio moderno fortemente marcate sta la trama del paesaggio fossile (quasi paesaggio del passato distinto e distinguibile entro il paesaggio del presente). È come una memoria recuperata, dopo una lunghissima dimenticanza per lacune e interruzioni secolari, tanto più preziosa se pensiamo che la cartografia, anche perfezionata, fissa e trascrive abitualmente i segni che convengono col paesaggio moderno, più manifesto e intelligibile al disegnatore, mentre tralascia e condanna a dimenticanza i 67
segni tenui e dissimulati, che si riconducono ad antichi criteri ispiratori caduti in disuso. Terre rimaste lungamente invase e ricoperte dalle acque, per la trasformazione della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento mediante le operazioni della bonifica in nuovi schemi di terre ordinate e drenate da canali propongono in termini generali una condizione singolarmente propizia all’indagine, lasciando trasparire, come in un palinsesto, immagini di antiche organizzazioni del territorio. Ne sono splendidi esempi la zona fra i fiumi Piave e Livenza, il Polesine, le Valli Grandi Veronesi. Hanno acquisito grandi meriti nell’applicazione di questo metodo di indagine Giulio Schmiedt, Raffaele Peretto, Mauro Calzolari, Maurizio Harari, Pierluigi Tozzi. Le tracce delle divisioni agrarie romane, identificate con sicurezza o con alto grado di verosimiglianza, si presentano in Italia, se seguiamo l’ordine espositivo suggerito dalle regioni augustee, così geograficamente distribuite. Nella i Regione, Lazio e Campania (Latium et Campania), sono bene conservate la centuriazione di Terracina (Tarracina o Anxur) su piccola scala, quella duplice di Minturno (Minturnae), quelle di Sessa Aurunca (Suessa Aurunca), di Aquino (in rettangoli), di Calvi (Cales), di Alife (Allifae), di Nola, di Nocera (Nuceria). Nella ii Regione, Apulia e Calabria (Apulia et Calabria), si presentano tracce evidenti e certe a Troia (Aecae), Ordona (Herdonia), Ascoli Satriano (Ausculum), Lucera (Luceria), Canosa (Canusium) e per grandi tratti del Salento, all’estremità della Calabria. Nella iii Regione, Bruzzio e Lucania (Bruttium et Lucania), nel Vallo di Diano il territorio di Atina. Nelle regioni ii e iii, le terre che inclinano verso la grande insenatura del golfo di Taranto presentano sistemi di suddivisioni greche da Metaponto a Sibari. Nella iv Regione, Sannio (Samnium), nella pianura di Avezzano, Alba Fucens mostra varietà di tipi di divisioni agrarie. Nella v Regione, Piceno (Picenum), Potenza (Potentia). Nella vi Regione, Umbria, si riconoscono le centuriazioni di Fano (Fanum Fortunae) e di Spello (Hispellum), di Pesaro (Pisaurum) sulla costa adriatica. Nella vii Regione, Etruria, è interessante Cosa e sono notevoli le centuriazioni di Firenze (Florentia), Pisa (Pisae), Lucca (Luca), Luni (Luna), Pistoia (Pistoriae). Ma non mancano esempi di partizioni dello spazio risalenti agli Etruschi, come a Cerveteri e a Tarquinia. Nell’viii Regione, Emilia (Aemilia), sono evidenti le divisioni agrarie, spesso connesse nel disegno con la via Aemilia del 187 a.C., di Rimini (Ariminum), Cesena (Caesena), Forlimpopoli (Forum Popilii) con orientamento plurimo, Forlì (Forum Livii), Faenza (Faventia), Imola (Forum Cornelii), Bologna (Bononia), Modena (Mutina), Reggio (Regium Lepidum), Brescello (Brixellum), Parma (Parma), Piacenza (Placentia) con duplice orientamento. Nella Regione ix, Liguria, si impongono le tracce delle centuriazioni di Tortona (Dertona), di Voghera (Iria o Forum Iulii Iriensium), di Pollenzo (Pollentia), di Bene Vagienna. Nella pianura occidentale, nel distretto alpino, sono le tracce della centuriazione di Cavour (Caburrum). 68
Foto aerea zenitale di un tratto di territorio a est di Rovigo. La foto è scattata in marzo, quando la modesta crescita delle colture non ostacola la lettura dei caratteri diacronici del paesaggio. In località Fornace è evidente la traccia di un grande asse viario, definito ai lati da fossati, che si estende e si può seguire per circa 20 km dai pressi di Rovigo alla zona a sudovest di Chioggia: è il decumano massimo della centuriazione di Adria (Atria). Il paesaggio moderno della bonifica lascia nitidamente intravedere il sottostante paesaggio fossile, ordinato secondo le maglie quadrate della centuriazione e orientato secondo la linea di più favorevole deflusso delle acque, probabilmente nel i sec. a.C. Lo schema propone il disegno di insieme del paesaggio romano fossile testimoniato dalla ripresa fotografica: le lettere dm, ddi, dsi, k indicano rispettivamente Decumanus maximus, Dextra decumanus primis, Sinistra decumanus primis, Kardines.
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IL PAESAGGIO ITALICO
NELL’AUTUNNO DELL’ANTICHITÀ dal v al x secolo Massimiliano David Nella x Regione, Venezia e Istria (Venetia et Histria), le centuriazioni di Cremona, di Bergamo (Bergomum) con duplice orientamento, di Brescia (Brixia) con duplice orientamento, di Civitate Camuno (Civitas Camunnorum), di Riva, di Mantova (Mantua), di Verona, di Vicenza (Vicetia), di Este (Ateste), di Padova (Patavium) con varietà di orientamenti, di Asolo (Acelum), di Adria (Atria) con duplice orientamento, di Altino (Altinum), di Treviso (Tarvisium), di Oderzo (Opitergium), di Feltre (Feltria), di Belluno (Belunum), di Concordia (Iulia Concordia), di Aquileia, di Cividale (Forum Iulii), di Zuglio (Iulium Carnicum), di Trieste (Tergeste), Parenzo (Parentium), Pola. Nell’xi Regione, Transpadana, di Ivrea (Eporedia), di Torino (Augusta Taurinorum), di Vercelli (Vercellae), di Novara (Novaria), di Pavia (Ticinum), di Como (Comum), di Milano (Mediolanum) con pluralità di orientamenti, di Lodi (Laus Pompeia). Impronte nitide dello schema delle divisioni agrarie romane sono particolarmente evidenti in Francia nella bassa valle del fiume Rodano e nella zona di Narbona; in Dalmazia presso Zara e Salona; più modestamente in Belgio, in Olanda, in Spagna lungo il fiume Guadalquivir, in Germania, in Gran Bretagna. Impressionanti per grandiosità i resti delle centuriazioni per grandi tratti nell’Africa settentrionale, in Tunisia.
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La prima vera immagine da satellite dell’Italia è un prodotto della cultura geografica antica, anzi tardoantica. Il documento in questione è la Tabula Peutingeriana, un rotolo di pergamena composto da undici segmenti e lungo più di sette metri, attualmente conservato nella Biblioteca Nazionale di Vienna1. Per recuperare la grandiosa immagine dell’Italia qui restituita dobbiamo accostare almeno cinque segmenti: otteniamo così circa tre metri d’Italia vista a volo d’uccello dal Tirreno. Come è noto, l’utilità di questa mappa risiede soprattutto nella minuziosa descrizione degli itinerari viari e nella restituzione di una ricchissima toponomastica. Vi si leggono centinaia di nomi di regioni, fiumi, città e paesi, altri modi di chiamare terre ancor oggi abitate. Naturalmente in un contesto fortemente funzionale a questo scopo (la definizione degli itinerari e la natura del supporto) e quindi altamente convenzionale. L’Italia allungata e “stirata” della Tabula Peutingeriana elabora forme impensabili per la convenzionale idea dello “Stivale”2. Così il lungo tacco della Puglia si riduce al Salento, la “Calabria” degli Antichi; così dietro l’estremità del “Bruttius” riconosciamo l’attuale Calabria, lungo la quale è adagiata la comunque triangolare Sicilia. La coppia di isole formata dalla Sardegna e dalla Corsica ha scarsa fortuna e riconoscimento: esse si miniaturizzano davanti alle coste della Liguria. Gli elementi naturali del paesaggio italiano sono spesso schematizzati: l’Appennino è una lunga serpentina di monti che spartisce la lunga distesa di terra italica da sinistra a destra e si aggancia all’arco delle Alpi. L’arco stesso non è concepito come un tetto che protegge l’intera pianura padana. All’altezza di Bergamo si chiude spezzandosi in tre tronconi fino ad Aquileia. Il Po è disegnato come un grande albero con i rami generati da laghi e monti. Il Tevere affianca per gran parte del suo tracciato l’Appennino per poi attraversare Roma e sfociare a Ostia. La costa appare convenzionalmente ridotta ad una costante linea ondulata. Le varianti a questa semplificazione sono l’indizio di qualcosa che ha colpito l’occhio del cartografo tardoantico: esse sono dovute alla speciale bellezza della natura o all’imponenza delle infrastrutture portuali. Ecco dunque il grandioso arco del porto di Roma con i moli e la svettante torre del faro, il piccolo porto a falce di “Messana” (attuale Messina) e le straordinarie fattezze della 71
linea di costa dei golfi tra Cuma e Sorrento. L’intero versante adriatico è in gran parte caratterizzato da piccoli fiumi che scorrono quasi tutti dall’Appennino al mare. Non ci si aspetti dalla Tabula un paesaggio deltizio in pianura padana: laddove il Po si getta in mare non si vedono estese zone paludose, se non nell’area adiacente ad Aquileia. Su questa trama di linee naturali si esplica un dedalo di strade numerose e scorrevoli che sembra irrorare l’Italia irradiandosi dal cuore di Roma, l’unica città raffigurata con l’autorità di un imperatore in trono. Solo due metropoli tardoantiche come Aquileia e Ravenna appaiono capaci di rivaleggiare con Roma. Esse sono descritte a volo d’uccello cinte da mura poligonali con torri, senza indugi descrittivi sul paesaggio urbano intramurano3. Roma propone l’unico paesaggio suburbano, quello del Vaticano con la Basilica di S. Pietro. Aquileia e Aosta appaiono come vere e proprie porte dell’Italia controllando importanti vie di accesso da oltralpe. Aldilà del fiume Frigidus l’Istria appare come tagliata fuori, descritta come una penisola, ma allineata alla costa della Dalmazia. Sulla costa tirrenica spicca l’immagine di Pisa affacciata sul mare e oggi proiettata nella dimensione dell’entroterra toscano da secoli di lavorio dell’Arno4. Una lunga teoria di piccole isole sembra quasi segnare la linea mediana dell’Adriatico-Ionio. La serie delle isole sembra culminare nelle forme angolate di Cefalonia. Sullo stretto, quasi dialogando, si fronteggiano Regium e Messana. Per capire come è stato visto ed evocato il paesaggio serve ascoltare anche la voce dei testimoni oculari fissata nello scritto ed «espressa particolarmente nelle cosiddette fonti narrative»5. 72
Tabula Peutingeriana (Vienna, Biblioteca Nazionale). Immagine dell’Italia. Da sinistra a destra l’Italia settentrionale, centrale e meridionale con le appendici della Calabria e del Salento. La sagoma triangolare della Sicilia è adagiata sul fianco della Calabria. Al centro della penisola, in posizione dominante, è la raffigurazione della città di Roma.
Alla metà del iv secolo i dodici secoli di storia facevano sentire il loro peso sul mondo romano. I giochi di potere potevano tenere lontani da Roma anche gli imperatori. Nel 357 d.C. Costanzo ii entrava trionfalmente per la prima volta nella città per eccellenza. L’eccezionalità dell’avvenimento non sfugge all’occhio severo e quasi impietoso di Ammiano Marcellino: dalla sua penna esce così una sottile analisi psicologica dell’imperatore quasi sopraffatto dalla magnificenza del paesaggio urbano della capitale. «Salutato con il nome di Augusto da grida di gioia, non restò impressionato dall’eco, simile ad un tuono, dei monti e delle rive del fiume, ma appariva immobile, né più né meno che nelle province. Infatti si piegava quando passava sotto le altissime porte, pur essendo assai piccolo di statura e, come se avesse il collo chiuso in una morsa, teneva lo sguardo sempre fisso davanti a sé e non volgeva il volto né a destra né a sinistra. [...]. Entrato quindi a Roma, centro dell’impero e di tutte le virtù, rimase meravigliato alla vista dei Rostri, famosissimo foro dell’antica potenza, e dovunque volgesse lo sguardo era colpito dalla bellezza delle numerose opere d’arte. [...] Di poi, visitando le diverse parti della città, poste sulle cime, sui pendii dei sette colli o in pianura, e i quartieri suburbani, tutto ciò che vedeva per la prima volta riteneva insuperabile per magnificenza. Così il Tempio di Giove Tarpeo gli sembrava più bello degli altri monumenti, quanto le opere divine delle umane; le terme gli apparivano grandi come province; ammirava la mole dell’Anfiteatro, saldo nella struttura di travertino, alla cui sommità a fatica sale lo sguardo umano, il Pantheon, simile ad una rotonda zona di una città sollevata per mezzo di volte ad una splendida altezza [...], il tempio dell’Urbe, il tempio della Pace, il teatro di Pompeo, l’Odeon, lo 73
Stadio ed altri insigni monumenti della città eterna. Ma quando giunse al Foro di Traiano6, costruzione, a nostro avviso, unica nel suo genere, ed ammirabile anche a giudizio degli dei, rimase attonito e volse gli sguardi a quel gigantesco complesso di edifici, che non può essere descritto con parole umane né imitato da un mortale. Pertanto, poiché disperava di poter tentare qualcosa di simile, diceva di voler e di poter imitare solo il cavallo di Traiano, che, posto al centro dell’atrio, porta sul dorso l’imperatore stesso. A lui rispose con l’innata arguzia il principe Ormisda, che gli stava accanto: “Imperatore, fa’ erigere prima una stalla simile a questa, se sei capace”»7. In effetti la Roma della metà del iv secolo è una città straordinaria: tutte le grandi costruzioni che ne hanno fatto la fama mondiale erano state realizzate e in più tutti i germi della nuova dimensione cristiana vi erano ormai impiantati8. La grande cattedrale del Laterano già troneggiava a porta Asinaria9 e la mole di S. Pietro già era solidamente distesa ai piedi delle colline del Vaticano. Le armoniche basiliche circiformi si andavano a distribuire nei molteplici suburbi cimiteriali. Le periferie extraurbane avevano allora una vitalità ed un respiro monumentale inusitati: si pensi al complesso degli edifici residenziali e celebrativi di Massenzio sulla via Appia10. La magniloquente verbosità della propaganda imperiale sicuramente non stonava con il paesaggio urbano della vera capitale morale. Ben diversa era ormai la situazione nel resto dell’Italia. Probabilmente ben poche città mantenevano intatta la loro bellezza, il proprio tasso di crescita e lo stesso tenore di vita dei secoli passati. Un primo segnale ce lo offrono le meste parole di Aurelio Ambrogio. Il potente vescovo aveva lasciato Milano11 per uno strategico viaggio pastorale da una città all’altra della cosiddetta Italia Annonaria (l’Italia centro-settentrionale) e confessava in una lettera all’amico Faustino: «Or non è molto, venendo da Bologna, ti lasciavi alle spalle Claterna, la stessa Bologna, Modena, Reggio, alla tua destra c’era Brescello, davanti ti veniva incontro Piacenza, che ancora proclama nello stesso suo nome un’antica nobiltà, ed eri preso da compassione osservando alla tua sinistra le zone incolte dell’Appennino e i villaggi abitati un tempo da popolazioni prospere e ricche e ne rievocavi la sorte con dolorosa partecipazione. Tanti cadaveri di città semidistrutte e territori in rovina, che si offrono alla tua vista nello stesso tempo ...»12. Dunque negli ultimi decenni del iv secolo l’impressione di indebolimento del tessuto economico doveva essere marcata, specialmente per chi, come Ambrogio, era abituato al tenore ed ai ritmi di vita di nuove capitali tardoantiche come Milano o Aquileia. Si determinano gerarchie e distanze talvolta incolmabili tra piccole città e metropoli. Ovviamente il territorio mantiene le stesse caratteristiche impresse dal processo di romanizzazione dell’Italia. Le città sono ancora molto numerose e generalmente ben attrezzate, le campagne pianeggianti erano sistematicamente geometrizzate dalla centuriazione13, ma i terreni incolti si allargavano e lo sfruttamento del territorio si faceva via via meno intensivo (si pensi al progressivo calo nello sfruttamento delle cave). Iniziava quel processo di “inselvatichimento” del paesaggio, tanto importante per la definizione e la comprensione del mondo altomedievale. 74
Madaba (Giordania), cosiddetta Sala di Ippolito (vi sec. d.C.). Particolare con personificazione di Roma riconoscibile per l’iscrizione in greco.
Roma, Museo della Civiltà Romana. Plastico di Roma nel iv sec. (I. Gismondi). Il particolare mostra la zona centrale del Foro Romano e dei Fori imperiali. All’estremità destra il Foro di Traiano visitato dall’imperatore Costanzo ii (al centro dello spiazzo rettangolare la statua equestre di Traiano).
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Pisae Triturrita Gorgon
Vada Volaterrana Populonia Faleria
Capraria Ilva
Mons Argentarius Igilium
R
A
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Luna
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Alla fine il peso delle guerre sul suolo italico ebbe l’effetto più dirompente con Alarico che si incuneò più volte nel cuore dell’Italia fino a sfondare le porte della città eterna e riuscendo là dove neanche Annibale aveva osato14. L’eco della rovina arrivò veloce a Gerusalemme, fino alle orecchie di san Gerolamo: «... Dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro l’incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. La città che ha conquistato il mondo è conquistata!»15. Testimone oculare del precipitare della situazione militare in Italia e nel settore occidentale dell’Impero fu anche l’alto magistrato Rutilio Namaziano16. Un suo viaggio nell’autunno del 417 verso le natie Gallie divenne la materia di un accorato poemetto scritto con vero afflato amoroso verso Roma17. Il poeta leva una laica preghiera alla città regina, per lui davvero eterna anche se offuscata dal passaggio di transitorie barbarie18. «Diffondi le leggi che vivranno nei secoli e non temere, tu sola, le fatali conocchie, benché, sedici volte dieci più mille anni passati, corra per te il nono anno. Il tempo che ti resta non è soggetto ad alcun limite, finché durerà la terra e il cielo porterà le stelle. Ciò che rovina gli altri regni, ti rinvigorisce: è legge della rinascita, esser fortificati dai mali. Su dunque, cada alfin vittima la sacrilega gente: sottomettano i Goti, atterriti, il perfido collo. Ricchi tributi ti diano le terre pacificate, riempia la barbara preda le auguste pieghe della veste. Ari in eterno per te la gente del Reno, per te straripi il Nilo, nutra il mondo ferace chi l’ha nutrito. Anche l’Africa accumuli per te feconde messi, ricca del suo sole, ma più della pioggia che da te viene». I toni cupi di un grigio autunno colorano poi però la descrizione delle coste – osservate dal mare – dell’Italia tirrenica19. In Rutilio, assai freddo verso il Cristianesimo, quasi risuonano le prediche del verboso Ambrogio: «Non si possono più riconoscere i monumenti del passato: grandi mura ha distrutto il tempo edace. Restano solo tracce di mura qua e là interrotte; sotto ampi ruderi i tetti rimangono sepolti. Non indignamoci se i corpi mortali si dissolvono: vediamo dagli esempi che anche le città muoiono»20. Egli viaggiò in nave e partì dal Porto di Roma, vide Cerveteri, Pyrgi e Alsium («nunc villae grandes, oppida parva prius»), Centocelle, le antiche rovine e le mura dell’ormai desolata città di Cosa, Pisa «quam cingunt geminis Arnus et Ausur aquis» e anche Luni, ormai ombra di sé stessa. Alla metà del v secolo un tremendo colpo investe anche Aquileia21. Il passaggio degli Unni di Attila22 è rovinoso e la metropoli è ridotta a ben poca cosa. Forse allora si decide di ricostruire la città rimpicciolendola della metà. Una delle porte d’Italia è davvero scardinata. Nel panorama occidentale solo l’adriatica Ravenna poteva dirsi davvero “felix” e “nobilissima”23. Ce la descrive con ammirazione stupita uno degli illustri viaggiatori del v secolo. In un viaggio da Lione a Roma, toccando numerosi scali fluviali, Sidonio Apollinare
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Il viaggio di Rutilio Namaziano lungo le coste del mar Tirreno. Sono indicate tutte le località intercettate dal poeta tra Roma e Luni.
Ravenna, Basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico parietale con raffigurazione della città di Ravenna (fine v sec. d.C.). Si possono notare le mura che avvolgono la città e, all’estremità destra, una porta urbana con lunetta figurata, sopra la quale è indicato il nome di “civitas Ravenn(a)”. In primo piano la sede ufficiale del re. Entro le mura sono incluse le immagini degli edifici più simbolici dei due gruppi episcopali (cattolico e ariano). Pagine seguenti: Ravenna, area del Duomo. Sul fianco sinistro del Duomo è visibile la sagoma poligonale del battistero Neoniano (v sec. d.C.). Ravenna, Basilica di S. Apollinare in Classe (vi sec. d.C.). Ravenna, complesso di S. Vitale (vi sec. d.C.).
entrò a Ravenna giungendovi sulle acque di un canale derivato dal Po, «... seguendo il corso di destra, entrammo in Ravenna dove uno non saprebbe dire se la via imperiale, che si trova tra la città vecchia e il porto nuovo, li unisca o li divida. Inoltre, la città è essa stessa tagliata in due da un braccio del Po, tanto che il resto delle sue acque la bagna: il fiume, in effetti, diviso nel suo corso principale dallo sbarramento di dighe pubbliche, e ripartito entro canali di derivazione che partono dalle dighe stesse, fa a tal punto una giusta ripartizione delle acque separate che nel circondare la città esse forniscono una protezione alle mura e, penetrandovi, vi portano il commercio»24. La nebbiosa Ravenna, stretta dalle paludi e invasa dalle zanzare25, appare dunque splendidamente spartita da una via imperiale e dotata di un suo porto, ma anche protetta e percorsa da canali artificiali e naturali. All’ombra del buon governo goto d’Italia dei primi tempi felici di Teodorico il paesaggio diventa argomento di dispute letterarie come quelle tra Ennodio e Cassiodoro26. Il vi secolo sconvolge davvero tutti gli equilibri del paese. Da una parte si esaurisce definitivamente il capillare controllo romano della delicata geomorfologia italica sopravvissuto fino ad allora quasi solo per inerzia27, dall’altra il carattere degli insediamenti, provati dalle continue guerre, si conforma alle pressanti esigenze militari oltre che all’ascesa progressiva di molti centri minori28. Si consuma la fine di uno dei fenomeni più caratteristici della civiltà romana. Le grandi ville, spesso al centro di estesi patrimoni latifondistici – si pensi allo straordinario complesso della villa di Palazzo Pignano (oggi presso Crema)29 – esauriscono i loro presupposti economici e sociali30. Forse solo in questo caso si può parlare di un vero e proprio processo di “deromanizzazione”. Alla fine della guerra greco-gotica l’Italia passa sotto il controllo bizantino. Non solo l’Italia è strappata ai Goti, ma anche le isole maggiori ai Vandali. Il potere militare bizantino fa leva sul possesso del mare e delle vie d’acqua31. In realtà si vanno consumando le prime vere fratture e si va delineando la prima vera scomposizione del territorio. Gli studiosi vedono qui le origini di quelle diverse Italie che impronteranno poi 77
a lungo (anche oggi) la geografia del paese32. Come la Sardegna barbaricina era stata sempre quasi impenetrabile di fronte a tutte le colonizzazioni, anche alla romanizzazione e alla cristianizzazione33, così l’Italia interna si avviava allora a sfuggire sempre più alla sfera d’influenza del mondo mediterraneo per poi essere lasciata progressivamente nelle mani dei Longobardi34. Lungo la rete della navigazione fluviale e marittima vedono la luce nuovi insediamenti e nuove forme di occupazione del territorio (si pensi al sistema degli abitati lagunari veneti, ma si guardi anche a Ferrara)35. Parallelamente i climatologi36 hanno ormai accertato un sensibile cambiamento ambientale a partire dagli inizi del v secolo. Fin quasi al ix secolo il barometro dell’area mediterannea segna fresco e umido37. Paolo Diacono ricorda – con il consueto “colore” linguistico – terribili inondazioni in Italia alla fine del vi secolo, in particolare a Verona e a Roma, dove l’Adige e il Tevere rompono gli argini38. Cambia anche il paesaggio dei cosiddetti “Sette mari”, cioè il delta del Po. 78
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Sirmione (Bs), la chiesa di S. Pietro in Mavino.
Grado, veduta del centro storico.
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Entra in scena l’Italia dei dissesti idrogeologici: non dimentichiamo che importantissimi siti archeologici ci sono giunti proprio a seguito di cospicui eventi franosi (si pensi al seppellimento della villa di Piazza Armerina in Sicilia)39. Il quadro naturale ed umano dell’Italia di allora spinge alla ricerca di nuovi paesaggi interiori e spirituali: si afferma il monachesimo benedettino. Chi ha visitato Monte Cassino sa quale impressione di estraniamento produca l’ascesa all’altissima rupe40. Gli occhi di Gregorio Magno sono proprio quelli di un monaco, puntati dal Patriarchio di Roma sull’Italia disunita in un panorama di guerra40bis. «Chi c’è oramai, chiedo, che goda [a vivere] in questo mondo? Dovunque vediamo lutti, dovunque sentiamo gemiti. Le città sono distrutte, i castelli abbattuti, i campi spopolati, la terra è ridotta in solitudine. Nei campi non c’è nessun contadino, quasi nessun abitante è rimasto nelle città; e tuttavia le stesse, piccole reliquie del genere umano ancora quotidianamente e senza sosta sono colpite»40ter. 81
INCASTELLAMENTI E CITTÀ FORTIFICATE dall’viii al xiii secolo Ferdinando Zanzottera
Nelle città il progressivo calo demografico produce quei processi così caratteristici di “ruralizzazione” dei centri storici dove il tessuto abitato cede il passo a sempre più vaste aree verdeggianti (orti e piccole selve). Il traguardo della ricostituzione di un’entità imperiale avviene ufficialmente con l’incoronazione a Roma di Carlo Magno nell’800 d.C.41. A quell’epoca interi quartieri della città del Papa sono ridotti a distese di ruderi. I recenti scavi nei Fori imperiali ci restituiscono un’immagine spettrale per quell’epoca42. Le città marmoree dell’Italia romana sono spesso ormai città di legno; nelle campagne gli acquedotti monumentali sono spezzati. Mentre sul mare sono spariti i porti attrezzati dell’età romana43 e con essi gli alti fari di Ostia o di Classe, nelle campagne si stagliano all’orizzonte i campanili delle abbazie e delle chiese plebane44. Dove era l’antico porto di Classe ormai davvero si vedevano solo «[...] orti grandissimi pieni di alberi: da essi non pendevano vele, ma frutti»45.
Castelseprio, zona centrale del sito archeologico.
Pagine seguenti: Rovereto, Castel Beseno. Fra i più più ampi complessi fortificati del Trentino, presenta una doppia cinta muraria con differenti finiture. Menzionato fin dal 1151, il castello fu dapprima proprietà dalla famiglia dei Castelbarco per poi divenire insediamento della Repubblica Veneta.
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Il fenomeno dell’incastellamento, disseminato in varie parti del territorio italiano, a una lettura sintetica tra viii e xiii secolo presenta un’articolazione ricca, determinata sia dal sistema politico generale sia dalla vastità e varietà delle sue tipologie. Nell’arco temporale nel quale tale architettura e forma insediativa prende corpo e configurazione propria, la penisola italiana è caratterizzata da una frammentazione figurativa nelle diverse regioni geografiche, dominate da poteri differenti ed influenzate da eterogenei movimenti culturali. Il lento processo di articolazione del sistema difensivo delle città e degli insediamenti fortificati si svolse, per molti secoli, attraverso una specifica morfologia architettonica che, ancora in epoca medievale, non appare perfettamente codificata entro un’unica tradizione volumetrica e formale. L’architettura fortificata può pertanto essere ritenuta esito di un lento processo di sedimentazione culturale e ingegneristica, costantemente dipendente dalle innovazioni tecnico-militari oltre che da ragioni politiche e dai diversi assetti, topografici e storici, in cui si insedia. Le vedute aeree del territorio italiano avvertono che la sua localizzazione e sua la tipologia sono inoltre puntualmente elaborate per strutturare, in un unico complesso, molte funzioni, oltre che per corrispondere a una precisa logica difensiva. La visione aerea aiuta a delineare non solo le specificità architettoniche dei singoli episodi edilizi, ma anche il loro rapporto con il territorio circostante. L’incastellamento, infatti, diviene fenomeno pienamente comprensibile se lo si connette a una “visione sistemica”, cioè alla trama delle interconnessioni territoriali che i singoli castelli generavano sul territorio. Le torri, i ricetti, le mura difensive, le architetture fortificate e i castelli sono da ritenere differenti aspetti di un’unica modalità di controllo e difesa del territorio, osservato attraverso una rete di relazioni ottico-visive costitute da strutture stabili. Tramite la costruzione di singoli episodi architettonici, generalmente posti su alture che ne garantivano un’ampia visibilità, l’uomo si era in tal modo garantita la possibilità sia dell’osservazione a largo raggio del territorio, sia della comunicazione tra punti di stazione, come in una rete, attraverso un linguaggio codificato, basato 83
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su segnalazioni di fumo, accensione di fuochi e utilizzo di strumenti sonori (come, ad esempio, il rintocco convenzionale delle campane). Si è definita in questo modo una “triangolazione formale” stratificata nel tempo, utile ancora oggi, organizzata, sulla base dell’emergenza di alcuni edifici, che consentiva di ottenere una costante percezione orientata dello spazio e del territorio circostante, oltre che dei movimenti di uomini e cose in esso presenti. Il fenomeno dell’incastellamento si è evoluto, nella penisola italiana, secondo differenti logiche spazio-temporali. Si ritiene che un costante processo costruttivo di nuove fondazioni, a partire dalla fine del ix secolo, abbia interessato maggiormente le regioni italiane settentrionali; in Italia centrale si è prodotto invece in tempi leggermente posteriori. L’edificazione di architetture fortificate, ad esempio nel Lazio, sembra non essere avvenuta prima del 920. Nelle regioni italiane meridionali, invece, il fenomeno può essere considerato ancora più tardo. La schematizzazione geografica qui esposta, tuttavia, non è sufficiente per descrivere la complessità di modi e tempi di fondazione e successive modifiche degli incastellamenti, dal momento che in alcune aree settentrionali essi vennero edificati anche molto tardi. In Liguria, tuttavia, le incursioni saracene suggerirono la precoce costruzione di strutture difensive a castelliere. Si giunse lentamente alla definizione di una tecnica costruttiva efficace per la difesa; fu necessario infatti elaborare un’approfondita conoscenza dei materiali edili utilizzati, oltre che la capacità di utilizzo strategico delle caratteristiche del territorio circostante. Nel x secolo gli incastellamenti erano costituiti da semplici strutture difensive in legno o terra battuta, generalmente circondati da un fossato con terrapieno. La loro forma dipese del tutto anche dall’orografia naturale del terreno, finché non si riuscì a realizzare strutture complesse. Con lo sviluppo delle tecniche costruttive crebbe anche l’abilità nell’edificare incastellamenti e nel dotarli di molti apparati difensivi. Si diffuse, ad esempio, un sistema costruttivo a “chiusura multipla”, tramite un percorso obbligato, nel quale il nemico poteva essere attaccato contemporaneamente sui due lati. Tali sistemi comportarono l’accentuazione dell’apparato strutturale difensivo sul lato destro, il fianco meno difendibile perché deputato alle armi di offesa. Si riuscì in seguito a gerarchizzare le strutture di difesa e di attacco, precisando la costruzione di appositi elementi architettonici. Le fortificazioni urbane ed i castelli si dotarono, in particolare, di torri sporgenti, dalle quali dominare il territorio immediatamente circostante e combattere l’assalitore dall’alto, colpendolo anche sul fianco. Il numero delle torri, che ben presto diventarono cilindriche per respingere i colpi delle catapulte e delle bombarde nemiche, doveva corrispondere al tipo di gestione degli eserciti locali. La distanza tra una torre e un’altra dipendeva infatti dalle capacità belligeranti e difensive e dalla massima gittata delle differenti armi in dotazione. La difesa, inoltre, era affidata agli uomini che si posizionavano lungo i camminamenti di ronda, protetti da merlature o da sopralzi in pietra, che consentivano loro di colpire il nemico senza esporre il proprio corpo all’offesa. 86
Bolzano, Castel Sigmundskron. Esemplare avamposto fortificato sul territorio alpino, oggi parzialmente in rovina, il castello ha mutato il proprio aspetto nel corso dei secoli. La foto aerea evidenzia l’imponente cinta poligonale con torri semicircolari aggettanti e, nella parte inferiore, i due possenti bastioni cilindrici angolari.
Pagina a fianco: Castel Stenico. Ingloba un precedente castelliere usato come rifugio nel periodo delle invasioni barbariche. Struttura fortilizia compatta, risalente all’epoca medievale, esso è stato più volte oggetto di successive trasformazioni e ampliamenti, tra i quali i lavori eseguiti dall’Impero austriaco.
Grazie alle “ventiere”, sportelli mobili incernierati alla merlatura, la loro esposizione all’assalitore diveniva minima. Il nemico poteva essere combattuto anche col tiro piombante, eseguito attraverso un sistema di caditoie con parapetto sporgente, appoggiato su beccatelli architettonici. I sistemi difensivi articolarono i volumi edilizi con notevoli innovazioni nei castelli e nelle fortificazioni della Padania risalenti al dominio di Berengario i, soprattutto in quelli edificati nei primi due decenni del secolo. È probabile che, alla base della politica di rafforzamento berengardiano del territorio, vi fossero ragioni politiche ed economiche, oltre che il timore di nuovi 87
attacchi da parte degli Ungari, che tra l’899 e il 900 avevano disseminato il terrore nelle comunità padane urbane e rurali. Con la costruzione di nuovi castelli e fortificazioni Berengario riuscì a tenere meglio sotto il proprio controllo le popolazioni, impedendone l’emigrazione verso altre regioni. Inoltre l’accentramento dei castelli lungo le principali vie commerciali, terrestri e fluviali, permette di cogliere la volontà dei signori feudali di affermare la propria autorità su aree territoriali sempre più estese e di divulgare un’immagine del proprio dominio stabile e forte. Da questo punto di vista la politica di Berengario innestò un fenomeno culturale irreversibile, poiché implicò lo stanziamento definitivo delle popolazioni in un’area geograficamente protetta e sicura. L’intensificazione della costruzione dei castelli nella seconda metà del ix secolo, probabilmente da ascrivere al sacco di Roma compiuto dagli Arabi nell’846, fu importante stimolo a far maturare nei papi la decisione di dotare la “città eterna” delle mura leonine, come vennero chiamate dal pontefice Leone iv, che nell’853 concluse l’opera di fortificazione iniziata da Lotario i. Nel periodo ottoniano l’edificazione di nuovi castelli e cinte fortificate proseguì intensa, poiché più numerose divennero le signorie locali, che tesserono la propria 88
Castello di Fenis. Edificato tra il 1337 e il 1340, è uno dei maggiori esempi di tarda fortificazione medievale aostana. Venne più volte rimaneggiato e modificato nelle strutture originarie. Le due cinte murarie furono concepite in modo da costringere gli assalitori a un percorso interno che li lasciava scoperti al tiro delle frecce.
Castello di Montalto. Fu realizzato come struttura compatta quadrangolare, con piccole torrette circolari aggettanti poco idonee al sistema difensivo di fiancheggiamento, ma importanti per impreziosire architettonicamente la struttura muraria perimetrale e affermare il predominio dei proprietari sul territorio circostante.
preminenza territoriale proprio tramite l’erezione di castelli e fortificazioni anche all’interno dei centri abitati e dei monasteri, o in posizione limitrofa agli stessi, in ragione di fattori di controllo, orografici e agricoli. In molte regioni italiane, in modo particolare nel sud della penisola, la riorganizzazione agricola del territorio fu una delle conseguenze più rilevanti dell’incastellamento. L’edificazione di queste architetture, nelle vicinanze o in un paese esistente, ma al centro di vaste aree agricole, comportò l’attivazione di forme di governo del territorio secondo logiche economico-politiche, distinte per i diversi signori locali. Il sistema territoriale difensivo organizzato per volontà dell’imperatore Federico ii comprese anche tali logiche; seppe infatti costruire una sorta di scacchiere difensivo, composto da una rete estesa di presenze militari tra le quali si imponevano, emergenti nel territorio, i castelli di Augusta, Bari, Brindisi, Castel del Monte, Catania, Gioia del Colle e Trani. Tale rinnovata capacità di controllo implicò l’organizzazione di strutture difensive composte da serie di castelli e centri fortificati, la cui potenza consisteva soprattutto nella diffusione capillare del controllo produttivo e commerciale su vaste aree. 89
In molti casi inoltre, a partire dal xii secolo, all’interno delle mura dei castelli vennero ricavati grandi depositi agricoli, nei quali le popolazioni circonvicine portavano i propri beni da conservare e proteggere. Si tratta di soluzioni che costituiscono i prodromi di castelli, edificati nel secolo successivo, in forme grandiose da adibire a scopo di raccolta e protezione di prodotti agricoli, e che rappresentarono anche il modello ideale al quale la società del xiv secolo si rivolse per la codificazione del Ricetto (o Recetto). Questi ultimi erano assai differenti dai castelli dell’xi secolo e dai modelli importati nello stesso secolo dal nord d’Europa, in particolare dalla Normandia. Erano infatti borghi murati con funzione prettamente difensiva, entro cui la popolazione poteva rifugiarsi in caso di pericolo, portando con sé il raccolto dei campi e, forse, gli animali. Costituivano una sorta di microcosmo urbano nel quale, in molti casi, venivano edificate alcune abitazioni, generalmente a due piani, seguendo uno schema geometrico-ortogonale. Interessanti sono i ricetti piemontesi e gardesani, tra i quali si distinguono quelli di Padenghe e di San Felice del Benaco. Quest’ultimo, situato su un’altura dominante il territorio circostante, è caratterizzato da una struttura difensiva dimensionalmente ridotta, sia perimetralmente, sia in altezza. 90
Bracciano, Castello OrsiniOdescalchi. Costruito per volontà di Napoleone Orsini nella seconda metà del xv sec., il complesso fortificato ingloba l’esistente Rocca dei Prefetti. Le ampie finestre rivelano la sua vocazione di palazzo signorile ma il suo impianto esprime la volontà di affermare il predominio militare degli Orsini, che dotarono il castello di scenografiche merlature e di sei imponenti torri circolari aggettanti collegate dal camminamento di ronda.
Andria, Castel del Monte. Fondato in epoca sveva da Federico ii, ha pianta ottagona regolare, con otto torri ottagone angolari sporgenti. Alla perfezione delle forme geometriche fa riscontro la quasi totale assenza di decorazione e la liscia finitura dei volumi. Pagine seguenti: Padenghe del Garda. L’abitato, entro la struttura muraria del Ricetto già esistente nel x sec., rispecchia la rigorosa maglia planimetrica originaria, anche se sono leggibili le seguenti trasformazioni.
I ricetti persero gradualmente la propria importanza a partire dal xvi secolo: in alcuni casi è scomparsa completamente la loro conformazione difensiva originaria. Talvolta la cinta muraria venne completamente distrutta o inglobata nelle strutture edilizio-abitative: la cerchia difensiva rimase in situ in altri casi a discapito del tessuto urbanizzato interno, completamente distrutto e modificato. Storicamente infatti la scarsa integrazione tra struttura interna dei ricetti e abitato esterno più recente ha causato di fatto un blocco alla trasformazione urbana. La generalizzata mancanza di vivacità di trasformazione del nucleo antico è testimoniata anche dalla continuità di destinazione d’uso degli edifici interni alle mura difensive, che hanno mantenuto il carattere abitativo. Molti ricetti quindi hanno avuto quella stessa funzione di barriera architettonica allo sviluppo urbano, che ha caratterizzato molte grandi città italiane, tra le quali casi emblematici sono Brescia e Milano. Per molti secoli il Castello Sforzesco del capoluogo lombardo ha costituito un impedimento dello sviluppo urbanistico della città nell’intorno e nell’area a esso soprastante, in ragione della sua ampiezza e del suo valore simbolico. Lo segnala la cartografia urbana prodotta fino al xvii secolo, 91
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che orienta il disegno urbano a volo d’uccello ponendo il castello in alto, in corrispondenza di un asse centrale. Venne così valorizzata la sua emergenza architettonica, mentre l’area urbana che esso occupava, direttamente o indirettamente attraverso i servizi e le strutture fortificate, diveniva spazio collegato alla sua funzione difensiva e pertanto intangibile. Completamente differenti dai castelli urbani sono le motte, diffuse nell’Italia meridionale con l’espandersi dell’impero normanno, delle quali restano degli esempi significativi in Calabria e in Puglia. Si trattava di costruzioni molto semplici, ottenute dalla modificazione artificiale del territorio agricolo-pianeggiante, nel quale veniva realizzato un cumulo di terra battuta a forma troncoconica, come base per una torre lignea o per volumi più articolati destinati all’abitazione del signore locale. Accanto a essa si estendevano, in forma circolare, le abitazioni della sua corte che, in questo modo, si collocavano tra la sommità edificata e la palizzata o recinto (basse-cour) che precedeva il fossato. Si trattava dunque di un’architettura castellana ottenuta a costi limitati, che consentiva al signore locale di evidenziare la propria supremazia politica, amministrativa e simbolica, sul territorio da lui governato. Influssi normanni di questo tipo sono riscontrabili anche nei castelli siciliani di Adrano, di Motta Sant’Anastasia e di Paternò, i cui torrioni, edificati sopra rialzi rocciosi, richiamano i donjons romans riscontrabili nella Francia e nell’Inghilterra coeve. 94
Milano, Castello Sforzesco. Compatto volume quadrilatero difensivo, rafforzato dal grande fossato perimetrale con torri angolari circolari e quadrangolari. È costituito da tre corti distinte: la Piazza d’Armi, la Corte Ducale, il Cortile della Rocchetta.
Pagina a fianco: Rocca di Soncino. Edificata nel xv sec. su una fortificazione del xii sec., fu successivamente adattata ad abitazione sotto i marchesi Stampa. La visione aerea consente di coglierne la struttura compositiva, basata su due cortili quadrangolari affiancati e circondati da un ampio fossato.
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Nel xii secolo l’incastellamento subì radicali trasformazioni, numerose furono le influenze provenienti dal mondo arabo attraverso la visione diretta, da parte dei crociati, delle mura difensive e dei castelli della Terra Santa. Venne completamente abbandonato l’utilizzo di materiali poco durevoli, terra battuta e legno, a favore dell’impiego di pietra e mattoni. Nel successivo xiii secolo lo sviluppo delle signorie nell’Italia settentrionale e il susseguirsi di importanti dinastie nell’Italia centro-meridionale comportarono l’accentuazione del ruolo simbolico del castello e delle fortificazioni. Tale nuova situazione diede luogo a innovative forme compositive, motivate tuttavia sempre anche da ragioni di carattere meramente difensivo. Le nuove organizzazioni statali che avevano 96
Mantova, Castello di S. Giorgio (fine del xiv sec.). Ha conservato l’aspetto originario compatto attorno alla piccola corte quadrata centrale. Sorge sull’estremità superiore del complesso della Reggia dei Gonzaga. Verona, Castelvecchio. Fu edificato a partire dal 1354 per proteggere i signori sia da attacchi esterni, sia da un’eventuale “insurrezione” della popolazione urbana.
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Napoli, Maschio Angioino (o Castel Nuovo). Fu edificato dai francesi d’Angicourt e de Chaulnes, poi ricostruito da Alfonso i d’Aragona, che lo adattò a nuove concezioni militari e lo trasformò in residenza per una piccola corte di letterati e umanisti.
mutato radicalmente lo scenario politico e amministrativo italiano necessitavano infatti di una solida struttura difensiva, basata su una rete militare fortemente radicata sul territorio. Non si trattava più di affermare il proprio potere con un edificio imponente e inespugnabile, ma di creare uno scacchiere fortificato atto alla difesa politica e militare di regioni sempre più vaste. Nell’area veneta tale scenario venne consolidato per volontà di Ezzelino iii da Romano, fondatore di un inedito sistema di fortificazione e insediamento castellano, che richiese la maturazione di specializzati magistri murari, formati in apposita scuola professionale, sopravvissuta a questo momento per quasi due secoli. Impulsi alla definizione di locali assetti difensivi vennero ulteriormente dettati dagli Scaligeri, che codificarono il sistema fortificato in un modello edilizio planimetricamente rettangolare, con quattro imponenti torri angolari e intermedie. Esemplare testimonianza di questa evoluzione espressiva è il Castello di Sirmione. La struttura fortificata scaligera si compie qui nel complesso disegno pratico-concettuale basata sull’impiego di un’articolazione fortificata principale e di una cinta muraria estesa, che comprendeva anche la piazza d’armi e la darsena murata. Al xiii secolo risale la messa a punto e la diffusione del castello di tipo visconteo, caratterizzato da un’elaborazione plani-volumetrica pienamente fruibile solamente da una visione aerea e zenitale. Svincolato dalle logiche orografiche montane, perché edificato nei centri urbani pianeggianti, esso articolava i numerosi edifici destinati a differenti impieghi attorno a una grande corte centrale, in costante ottemperanza di logiche simmetrico-geometriche. 100
Rocca di Senigallia. Probabilmente di Luciano Laurana, ha struttura compatta e unitaria; dalla sua forma geometrica quadrangolare sporgono imponenti torri cilindriche angolari. Nella sua struttura sono inglobati tratti di mura repubblicane, unici elementi visibili di fortificazioni preesistenti.
Pagine seguenti: Pagine precedenti: Fortezza di Taranto. Sorge, al limitare della città vecchia, sull’isola al centro dell’attuale struttura urbana. Fu edificata da Ferdinando d’Aragona, tra il 1481 e il 1492, su una fortificazione preesistente di epoca bizantina.
Castello di Lazise. Si tratta un importante avamposto militare costruito dagli Scaligeri. Questi ultimi vollero a Lazise un semplice edificio rettangolare, con camminamento merlato, quattro torri quadrate angolari, una torre rompitratta.
Castello di Gorizia. Risale, nelle parti più antiche, all’epoca dei conti di Gorizia (xi-xv sec.). Le mura esterne, costruite dai veneziani a partire dal 1508, racchiudono una forma irregolare e compatta, attorno a un cortiletto, sul quale si affacciano la Palazzina dei Conti (xii sec.), e le prigioni seicentesche.
Rocca Scaligera di Sirmione. Edificata nel 1250 per ospitare parte della flotta scaligera, si articola in due volumi adiacenti ma autonomi, con due ingressi terrestri e uno lacustre. Il corpo centrale presenta un’alta cinta muraria merlata, con torri angolari. Al suo interno svetta il possente mastio merlato.
I Visconti codificarono un proprio linguaggio compositivo architettonico-difensivo anche attraverso la realizzazione di ampi camminamenti merlati e la costruzione di solide scarpate angolari. Queste ultime amplificarono l’efficacia bellica della difesa piombante, che fece la sua comparsa nella regione lombarda nel xiv secolo. Un analogo processo di fortificazione interessò nel xiii secolo l’area tosco-emiliana, nella quale vennero costruite importanti architetture fortificate, raggiungendo un’elevata qualità formale ed espressiva. Tra queste è il sistema fortificato di Monteriggioni, composto da una cerchia muraria con quattordici torri, ricordata anche da Dante nella Divina Commedia. Il complesso urbano, molto semplice nella sua struttura planimetrica, sfrutta l’andamento collinare della piana senese, imponendosi, come segno imperioso, nel territorio circostante. Significativa evoluzione del tipo castellano si sviluppò anche nella regione dell’Appennino tosco-emiliano nella quale ragioni politico-militari suggerirono ai governanti della Città di San Marino di potenziare nel xiii secolo le proprie difese. La città possedeva già una struttura muraria articolata, che si era adattata alla conformazione naturale del monte Titano, edificata al tempo delle invasioni degli Ungari, dei Saraceni e dei Normanni, già ampliata inoltre nel secolo xi con l’edificazione della prima delle tre Rocche denominata Guaita. L’importanza politica acquisita da San Marino con la nomina a Comune nel 1263 impose un restauro e un ampliamento dei volumi del sistema difensivo. Al xiii secolo risale la costruzione della Cesta (o Fratta o Seconda Torre), alla quale seguì, nel secolo successivo, la costruzione del Montale (o Terza Torre). 101
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MONASTERI, ABBAZIE, CONVENTI dal x al xv secolo
Maria Antonietta Crippa e Ferdinando Zanzottera
L’attuale caratteristica forma della struttura difensiva di San Marino, basata sulle Tre Torri (o Penne), è ricca di forti valori paesistici e figurativi, sicuro risultato di una lenta trasformazione architettonica, che venne elaborata in conseguenza del graduale mutamento politico e di governo del territorio circostante. Essa testimonia inoltre il legame ormai stabile e strutturato tra l’incastellamento ed il sistema territoriale nel quale esso si inserisce: evidenzia che la fortificazione è prodotto di elementi integrati, da analizzare utilizzando differenti scale di lettura.
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San Marino. Il sistema difensivo della città comprende almeno tre cinte murarie costruite fra Medioevo e Cinquecento e si basa sulla compresenza di più strutture fortificate, dette Penne, e di alte mura. Pagine precedenti: Monteriggioni. Cittadina eretta nel 1203 dai senesi, come avamposto civile-militare per la difesa del territorio contro i fiorentini, costituisce uno dei borghi fortificati più caratteristici del centro Italia.
Pagine seguenti: Abbazia di Montecassino. Fondata da san Benedetto nel vi sec., costituisce uno dei complessi monastici più importanti della cristianità. Adattandosi alle asperità del monte ha assunto una forma geometrica irregolare di grande imponenza architettonica, definendo tutti i suoi ambienti attorno alla chiesa e a cinque chiostri. Fu ricostruito dopo la seconda guerra mondiale a seguito dei pesanti bombardamenti americani.
Ogni insediamento monastico arriva a noi come esito di un processo storico di lunga durata, nel quale si sono succedute invasioni, distruzioni, soppressioni, cambiamenti politici e culturali. In qualche modo tale insediamento porta sempre le tracce della propria origine e delle variazioni succedutesi nel tempo, tracce tuttavia spesso non facilmente leggibili. Le dinamiche inerenti al rapporto che unisce il singolo episodio architettonico al proprio territorio sono le più difficili da esplorare, poiché il secondo si è modificato radicalmente, soprattutto in tempi recenti, rispondendo a esigenze del tutto distinte dalle funzioni originarie. Gli assetti agricoli di origine monastica rendevano invece l’insieme del monastero, e dei vasti contesti circostanti, un universo largamente autoreferenziale, soprattutto dal punto di vista economico. Di solito tuttavia esso non era neppure privo di rapporti di ogni tipo, a largo raggio, con le città e con altre comunità monastiche. Di solito inoltre l’insediamento monastico si è fortemente incardinato nel territorio in un lungo processo di adattamento e valorizzazione delle caratteristiche morfologiche e idrologiche dell’intorno, fino a definire un paesaggio agrario stabile. Le configurazioni raggiunte si sono, per così dire, codificate nel tempo, in ottemperanza a regole e consuetudini; la fissazione del modello insediativo ha tuttavia prodotto un affievolimento della libertà sperimentale ed espressiva degli esordi , se non altro per la necessità di allargare tale esperienza al numero sempre maggiore di persone che mostravano desiderio di esservi coinvolte. Il lavoro quotidiano, di tipo artigianale e agricolo, la lectio dei testi sacri e la celebrazione della liturgia divennero presto i capisaldi di una vita comunitaria esemplare anche per il mondo esterno, nonostante, forse anzi grazie anche al suo voluto isolamento. In particolare le comunità monastiche benedettine, segnate dal voto della stabilitas, esercitarono un forte influsso in campo economico nelle società cui appartenevano. In breve tempo infatti i loro patrimoni territoriali assunsero il ruolo anche di vaste aziende agrarie, la cui attiva gestione esigeva un forte numero di artigiani e contadini. Tuttavia ai primordi del monachesimo la stabilitas non era parte della regola; si può ritenere anzi che essa fosse persino inconcepibile, poiché era importante che ogni monaco potesse divenire discepolo di più maestri, nei più diversi luoghi. 107
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L’Italia, per la sua posizione centrale nel bacino del mar Mediterraneo e perché centro dell’impero romano, venne investita, già a partire dal iv secolo, dal movimento monastico cristiano di origine orientale. Il disegno di una vera e propria geografia monastica sull’intera superficie peninsulare, indispensabile per circoscrivere localizzazioni e caratteri da essa assunti nell’alto Medioevo, nei secoli dal x al xiv, esigerebbe l’individuazione delle successive fasi dello stanziamento monastico. Questo dovrebbe inoltre essere esaminato nella scomposizione di segmenti temporali storicamente omogenei e nelle diverse caratterizzazioni delle forme di vita degli Ordini religiosi, precisamente delineate. Per gli scopi qui perseguiti è sufficiente ricordare i fenomeni salienti al nord e al sud della penisola nel iv secolo. Al nord i primi raggruppamenti furono voluti da Eusebio, vescovo di Vercelli, che riunì i suoi chierici in strutture assimilabili a monasteri e in forme analoghe a quelle attuate in Gallia da Martino di Tours, e a Ippona nel nord-Africa occidentale da Agostino. A sud le prime fondazioni monastiche risentirono subito degli esiti della frantumazione dell’istituzione ecclesiastica orientale, conseguente a eresie quali l’arianesimo, il nestorianesimo ed il monofismo. Sulla base di modelli monastici basiliani furono fondati, in particolare e in un lungo arco temporale, i monasteri di Melfi, Avellino, Nusco, Otranto, Montevergine, Pulsano e delle Isole Tremiti. La loro matrice spaziale, non sempre ancora oggi leggibile, venne ripresa dalle laure orientali, fondate da san Basilio di Cappadocia il Grande (329-379), simili a piccoli villaggi autosufficienti, composti da celle isolate disseminate attorno ad una chiesa. In generale, tra iv e vi secolo, l’ideale ascetico monastico si diffuse in Occidente soprattutto tramite l’esempio di importanti personalità cristiane, spesso di ben distinta forza culturale. Queste lo trasmisero a uomini e donne che continuavano a risiedere nei loro luoghi di vita quotidiana, nelle città in particolare, senza dar luogo a fondazione di insediamenti specifici per la vita comunitaria di totale dedizione religiosa. Nel vi secolo emerse il fondamentale coagulo insediativo cenobitico, origine di un movimento benedettino tuttora vitale, nell’area campana, dove Benedetto da Norcia, dopo aver trascorso un primo periodo di vita eremitica al Sacro Speco di Subiaco, fondò tredici monasteri. Nel Monastero di Montecassino, infine, egli diede compiuta forma all’ideale di vita monastica occidentale per antonomasia. Le strutture architettoniche di quei primi monasteri, e di quelli presto disseminatisi in tutta la penisola italiana a loro imitazione, si sono trasformate continuamente in un processo nel quale finirono per articolarsi, in modo sistematico e in stretta e razionale correlazione con il ritmo della vita quotidiana degli abitanti, attorno al chiostro chiuso normalmente su un lato dalla chiesa. Tale assetto divenne tipologicamente definitivo tra x e xi secolo, secondo il modello cluniacense di riferimento. La grande struttura claustrata di Cluny ii, eretta da Odilone tra il 1043 e il 1048, fu infatti matrice architettonica unica del monastero romanico, che, a partire dalla metà dell’xi secolo, si diffuse in tutta Europa. In Italia l’edificazione di tale nobile cortile, disegnato tramite semplici ambulacri, internamente definiti da fronti privi di articolazioni ma armoniosamente ritmati da sequenze ininterrotte di archivolti su colonnine binate, si diffuse con maggior lentezza che in altre aree europee. 110
Milano, Basilica di S. Ambrogio. Nel secolo viii, alla basilica edificata dall’arcivescovo di Milano nel 379, fu aggiunto un monastero benedettino che segnò l’inizio di una grande trasformazione architettonica. Nei diversi secoli numerose modifiche furono apportate alla chiesa, nella quale fu edificato un imponente tiburio ottagonale. Nel xii secolo al campanile monastico, posto sul lato destro della facciata e risalente al ix sec., fu contrapposto il Campanile dei Canonici per affermare la presenza della comunità canonicale. Sul lato meridionale della basilica si stagliano i due chiostri dell’attuale Università del Sacro Cuore iniziati intorno al 1497 dal Bramante, che qui realizzò la sua ultima opera milanese.
L’adeguamento all’assetto tipologico di matrice cluniacense si sviluppò gradualmente e con molte varianti nel corso di tre secoli; interessò, ad esempio, l’Abbazia di S. Scolastica, a Subiaco, e l’Abbazia di S. Paolo Fuori le mura a Roma solo nei primi decenni del xiii secolo. Anche le collegiate ed i priorati dei canonici regolari, membri dell’istituzione ecclesiastica diocesana, si avvicinarono lentamente ai modelli monastici. In Italia ciò avvenne diffusamente su tutto il territorio nazionale, raggiungendo massima espressività negli esempi della Collegiata di S. Orso ad Aosta (1132) e in S. Giovanni in Laterano a Roma. Caso di grande rilievo è anche quello del Monastero e della Basilica di S. Ambrogio in Milano. La definizione tipologica cluniacense che dava centralità al chiostro fu dunque fenomeno, di razionalizzazione e simbolizzazione dell’insediamento monastico, attivo su un sistema ormai molto diffuso di monasteri, dal secolo x in poi. Si trattava però di un sistema geografico non unitario, sotto il profilo delle famiglie religiose e della loro storia oltre che non del tutto isolato dalle città e non uniformemente distribuito nella penisola italiana. Del resto a Roma i papi avevano voluto, fin dalle prime fasi della cristianizzazione, numerosi monasteri aggregati alle più importanti basiliche urbane. L’esperienza di isolamento di Benedetto da Norcia si era però presto imposta come esemplare modello di riferimento, sia grazie ai Dialoghi del Papa Gregorio Magno, sia per la enorme notorietà assunta dalla sua Regola. Il sintetico testo, di carattere normativo ed esortativo, ampia111
mente vagliato dalla storiografia del Novecento, individuava peculiarità e compiti della comunità monastica nelle diverse articolazioni di responsabilità e uffici gerarchici e nei rapporti verticali, tra abate e monaci, e orizzontali, tra i diversi membri, ognuno con compiti particolari, della comunità. Nella realtà dei fatti nei monasteri del basso Medioevo si diffusero diverse regole miste che, solo a partire dal ix secolo, vennero tutte tendenzialmente ricondotte al modello benedettino. Dall’Irlanda, dove il monachesimo lentamente si era delineato secondo gli insegnamenti di san Patrizio e nell’affermazione dell’ideale del “monaco guerriero” e dell’“abate condottiero”, all’inizio del vii secolo san Colombano portò un nuovo orientamento, che nell’appennino ligure, a Bobbio, ebbe il proprio centro. A questo monastero la dinastia longobarda guardò subito come avamposto di conquista della Liguria, ancora dominata dai Bizantini. Bobbio, a sua volta, determinò le numerosissime conversioni a seguito delle quali gli stessi sovrani longobardi divennero fondatori e benefattori di fondazioni monastiche. Bobbio, inoltre, divenne presto un importante centro scrittorio, luogo di incontro di diverse 112
Basilica di Aquileia. Fatta erigere dal patriarca Poppone tra il 1021 e il 1031, sorge nei pressi di un oratorio del iii sec., di un’aula cultuale teodoriana (iv sec.) e di due basiliche risalenti al iv e v sec. Essa aveva stretti rapporti con il territorio circostante e, in particolare, con le realtà monastiche sorte nelle sue vicinanze.
Abbazia di Pomposa. Sorto probabilmente nel vii sec. e molto influente fino al xiv sec., quando cominciò un lento declino, il complesso monastico è dominato dall’alto campanile edificato, come l’intero complesso, a partire dal 1063 e suddiviso in nove ordini architettonici sovrapposti. Sul fianco dell’abside si estendono i differenti ambienti che costituivano il monastero.
correnti spirituali. Fu uno dei maggiori centri di diffusione del modello colombiense, basato su una certa autonomia dei singoli monasteri dal vescovo locale. A questo, come a molti altri monasteri italiani, si riconosce anche un ruolo fondamentale nell’elaborazione e diffusione di riti che si differenziavano dalla liturgia romana. Dalla fine del vii secolo in poi la grande fioritura di fondazioni monastiche nella Tuscia, nel beneventano, nella pianura padana, e in molte altre aree peninsulari si svolse secondo un intricato intreccio di ragioni spirituali e di fattori economici, promosso da un vasto e variegato movimento di donazioni, concessioni, permute, influsso del papato o di autorità laiche nella elezione degli abati. Alcune di queste fondazioni, il monastero femminile di S. Giulia a Brescia è caso esemplare, avviarono inoltre la definitiva fusione del mondo latino con quello longobardo. Dall’Oriente giungevano nel frattempo di continuo monaci orientali, che il papato coinvolgeva nella diffusione del cristianesimo; essi furono all’origine ad esempio dell’insediamento di Castelseprio, presso Varese, in area lombarda. 113
Accanto ai loro monasteri ben presto si svilupparono altri centri religiosi cenobitici, tra i quali quelli padani di Pavia e Nonantola, di S. Sofia a Benevento e di S. Vincenzo al Volturno. Quest’ultimo è noto anche per la sua tarda adesione ai dettami tradizionali dell’architettura monastica: in esso il chiostro, ad esempio, fu edificato solamente nella seconda metà dell’xi secolo. Un vasto rinnovamento monastico interessò il complesso di Montecassino nell’viii secolo; esso ritrovò il suo splendore nel 717 a opera del longobardo Petronace, dopo essere stato distrutto nel 577 dall’invasione longobarda, che costrinse i suoi monaci a rifugiarsi a Roma, nel monastero di S. Pancrazio al Laterano. Di enorme portata furono, nel ix secolo, gli interventi di Carlo Magno in campo monastico: egli confermò in generale i privilegi dei monasteri esistenti, tra gli italiani quelli di Montecassino, Novalesa, Farfa, S. Vincenzo al Volturno, aggiungendone altri. Con l’aiuto di Benedetto d’Aniane, monaco e suo consigliere, diede inoltre luogo a una generale riforma, tramite la quale mirò a unificare le osservanze dei diversi monasteri sotto l’unica Regola di Benedetto da Norcia. Furono in questo modo poste le basi per quella cultura monastica unitaria, dalla quale presero avvio numerose riforme fra le quali quella cluniacense; cultura unitaria che consentì il diffondersi, nell’alto Medioevo, di un modello sostanzialmente unico di architettura monastica. Essa da questo momento venne solo parzialmente differenziata in varianti stilistico-funzionali e simboliche dei singoli ordini, ma ebbe sempre, come cuore, il chiostro. All’epoca carolingia risale anche la codificazione della preminenza assoluta delle celebrazioni liturgiche nella vita dei monaci e l’intensificazione, spesso per diretto impulso dei sovrani franchi, di quelle attività culturali che hanno consentito conservazione e trasmissione di gran parte del patrimonio letterario e artistico dell’Occidente antico. I monasteri di quest’epoca furono culla di importanti personalità: Paolo Diacono fu monaco cassinese e storico dei Longobardi; Ambrogio Autperto abate di S. Vincenzo al Volturno, monastero nel quale si sviluppò la devozione mariana; Ildemaro compose, nel monastero di Civate presso Como, il più antico commento alla Regola di Benedetto da Norcia, che acquisì, proprio in questi anni, il predominio rimasto fino a oggi incontrastato tra tutte le regole monastiche. Tra i monasteri alcuni divennero più rapidamente prosperi. Quello di Pomposa presso Comacchio, celebre per l’alto campanile e per l’importante ciclo di affreschi, divenne in breve tempo proprietario di possedimenti molto estesi. Nel ix secolo fu rapida la decadenza di molte strutture monastiche italiane: al centro della penisola i saraceni distrussero importanti cenobi come Montecassino e S. Vincenzo al Volturno, mentre al nord, le invasioni magiare devastavano gli ampi insediamenti della pianura padana. Il secolo successivo, detto “di ferro” a causa della generale decadenza delle istituzioni occidentali, iniziò invece con il risveglio monastico promosso dalla fondazione in Borgogna dell’Abbazia di Cluny, nel 910. Prese avvio allora una sequenza di riforme monastiche che modificò profondamente, rinnovandola, anche la geografia monastica della penisola italica. La fondazione di Cluny divenne presto un organismo religioso unitario di grandi dimensioni, del tutto autonomo 114
Brescia, complesso di S. Giulia. Il complesso di S. Salvatore (poi di S. Giulia) fu fondato come monastero benedettino femminile nel 753 da Desiderio, futuro re dei Longobardi, e da sua moglie Ansa. L’attuale complesso, sede del Museo della Città, consta di numerosi edifici distinti, tra i quali spiccano la Basilica di S. Salvatore (ix sec.), edificata sulla preesistenza di una chiesa triabsidata e di un edificio di epoca romana (i sec. d.C.), e il Sacello di S. Maria in Solario, coronato da un imponente tiburio ottagonale.
Pagine seguenti: La fondazione dell’Abbazia di Staffarda avvenne nel 1144 a opera di Celestino ii, con l’insediamento dei cistercensi nel territorio di Saluzzo grazie alla donazione di alcuni possedimenti da parte del marchese Manfredo i. Attualmente l’antica struttura monastica si situa ai margini di un articolato sistema architettonico di vocazione agricola, di cui essa rappresentò la matrice culturale ed economica. Il suo centro è costituito dalla chiesa edificata tra il 1150 e il 1210.
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dalle autorità laiche locali e da quelle religiose, in quanto sottomesso direttamente solo alla Santa Sede romana. Quando il terzo priore Aimardo (942-965) lasciò la direzione di un monstero già imponente al suo successore Maiolo (965-995), questi intensificò le opere per potere nel 981 consacrare la nuova abbazia denominata Cluny ii, a seguito di radicale ristrutturazione. A questo periodo risale anche l’invenzione cluniacense del coro a gradoni, connesso all’esigenza liturgica di possedere numerosi altari e alla sempre maggiore attenzione per il culto delle reliquie. Il Monastero di Cluny, infatti, fu un fervente propugnatore dell’importanza dei pellegrinaggi, che divennero presto anche il più ovvio e libero canale di diffusione degli stili architettonici e artistici. Da Cluny partì l’iniziativa della fondazione in tutta l’Europa di molte nuove abbazie, mentre comunità già esistenti scelsero di dipenderne, nella forma di una confederazione. Molte altre comunità monastiche, pur non direttamente confederate, adottarono le consuetudini cluniacensi; per tale scopo si raggrupparono o eressero nuovi complessi. Tra le molte abbazie e gli innumerevoli priorati cluniacensi italiani, deve essere ricordata in primo luogo quella di Cava dei Tirreni, i cui possedimenti si estendevano in gran parte dell’Italia meridionale. Da questo complesso, fondato nel 1011 dal longobardo Alfiero che era divenuto monaco a Cluny sotto il priorato di Odilone, già nel xii secolo dipendevano 29 abbazie, 90 priorati e 340 chiese, luoghi di entità diversa disseminati tra l’Italia e la Palestina, con un numero complessivo di oltre 5.000 monaci. L’esportazione del modello cluniacense del coro poliabsidato, messo a punto nella grande chiesa del monastero, dopo il suo secondo rifacimento (Cluny iii) dell’xi secolo, ebbe in Cava dei Tirreni uno dei nodi di maggiore irradiamento. Lentamente tuttavia anche le altre abbazie, benché sempre legate in qualche misura alla matrice spaziale della casa madre, svilupparono proprie peculiarità stilistiche e architettoniche. Ruolo centrale in Italia ebbe da questo punto di vista l’Ordo Cavensis, che influenzò notevolmente il sud della penisola, diffondendovi uno stile più lineare di quello cluniacense ma sempre di grande qualità scenografica. Il chiostro dell’Abbazia della Ss. Trinità di Cava dei Tirreni, per adattarlo alla conformazione del terreno, venne definito, tra xi e xii secolo, secondo una geometria planimetrica irregolare, con pavimentazioni a più livelli e archi dal profilo allungato. Il loro disegno fu, pare, matrice degli archi intrecciati, che all’inizio del xiii secolo sostituirono, nel chiostro della cattedrale e della chiesa di S. Pietro di Toczolo ad Amalfi, l’arco allungato. Nell’Italia subalpina, nuove fondazioni, come la Sacra di S. Michele delle Chiuse a Fruttuaria in Piemonte e molti monasteri nei suburbi delle città padane, divennero centri di riferimento per intensi contatti tra le comunità monastiche di tutta Europa. In generale i secoli x e xi furono, per tutta la realtà sociale dell’Occidente, tempo di esplosione di una sorprendente vitalità che investì anche le fondazioni monastiche. La fine delle grandi invasioni barbariche, da nord, e della pressione degli arabi, da sud, consentì in tutta la penisola italiana a partire dal secolo xi, una fioritura dei centri monastici senza precedenti; la prosperità e l’estensione dei loro possessi divennero enormi in un brevissimo arco temporale. 118
S. Angelo in Formis (fotografie in basso). Esistente già all’inizio del x sec. la basilica fu costruita sui resti di un antico tempio pagano. L’attuale chiesa fu riedificata nel 1073 dall’abate Desiderio di Montecassino, il quale fece erigere anche il nuovo complesso conventuale adiacente.
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Il loro arricchimento e l’aumento straordinariamente rapido del loro potere in ogni campo divennero la principale causa, come segnalano unanimemente gli studiosi specialisti, di una profonda crisi spirituale del monachesimo, che venne presto contrastata, ma debellata per un breve arco di tempo, da nuove, tempestive riforme. Sorsero ovunque, tra xi e xii secolo, ordini riformati, che recuperarono alla lettera antiche tradizioni monastiche, concentrando l’attenzione riformista su povertà, lavoro manuale, solitudine, radicalità di vita evangelica. Al contemporaneo incremento improvviso di eremiti, ritirati in grotte o piccole celle costruite nei boschi, l’istituzione ecclesiastica, preoccupata dell’insorgere di forme anarchiche e troppo soggettive di vita religiosa, rispose con l’indicazione che tali scelte venissero vissute all’interno dei complessi monastici già esistenti. Per questo, in molte abbazie, e più tardi anche nei conventi, accanto alla chiesa vennero edificate alcune celle isolate, per consentire agli “inclusi” o “reclusi”, di vivere distinti dal resto della comunità religiosa dalla quale giuridicamente dipendevano, ma di ritrovarsi a essa riuniti in tutte le celebrazioni eucaristiche. Famoso, grande “incluso”, fu san Simone l’Armeno, monaco abitante nel convento di Polirone (Mantova), dove morì nel 1016. Al xii secolo risalgono i monasteri di Fonte Avellana, Pomposa, Pereo (Ravenna) e Camaldoli, dal quale in seguito prese nome l’intera Congregazione dei Camaldolesi dell’Ordine di san Benedetto, voluta da san Romualdo. Li caratterizzava la fisica coesistenza di componenti di vita eremitica e cenobitica, evidenti anche nella organizzazione spaziale dei loro complessi. I monasteri camaldolesi vennero infatti caratterizzati architettonicamente, da una parte, da un nucleo edilizio di grandi dimensioni destinato a ospitare i momenti della vita comunitaria e comprendente la chiesa, la sala capitolare e la biblioteca, e, dall’altra, dalle residenze dei singoli monaci, completamente isolate tra loro. Ognuna di queste era composta da più camere con funzione di vestibolo, studio, cappella, legnaia e camera da letto. Esse, inoltre, si aprivano su un piccolo giardino, che era adibito a orto. Furono inoltre disseminate in ordine sparso nel territorio, senza essere organizzate attorno a un chiostro. Insigni personalità maturarono nella corrente camaldolese: da san Pier Damiani, dottore della Chiesa, a Guido d’Arezzo, compositore di musica, a Graziano da Bologna, codificatore del diritto canonico. Dai romualdini procedet120
Pagina precedente: Abbazia di S. Fruttuoso. Fondazione del vii sec. secondo la tradizione e sito certamente frequentato sin dal vi sec., l’attuale struttura monastica risale ai secoli x e xi, quando Adelaide, vedova di Ottone i, decise la riedificazione dell’abbazia. Accanto a essa svetta la cinquecentesca Torre di Guardia.
In basso: Monastero di Grottaferrata. Fondato da san Nilo e da san Bartolomeo di Rossano nel 1004, l’attuale complesso è da ascrivere a numerosi, successivi interventi papali e cardinalizi, tra i quali si colloca il progetto, voluto nel xv sec. da Giulio della Rovere per fornire al monastero una struttura difensiva e un fossato.
Pagine seguenti: Certosa di Pavia. Fondato nel 1396 il complesso, a eccezione delle dimensioni della chiesa, rispecchia fedelmente i canoni stilistici dell’architettura dell’Ordine certosino. Sul fianco destro della chiesa è il Piccolo Chiostro (xv sec.), matrice distributiva per tutto il monastero. Spicca, nella veduta aerea, il Grande Chiostro rettangolare che ha subìto numerosi rifacimenti con il passare dei secoli. Farneta, Certosa dello Spirito Santo. Il monastero si sviluppa a causa della presenza di due Grandi Chiostri: il primo fu riedificato tra il xv e il xvi sec., il secondo fu costruito agli inizi del xx sec. per ospitare la comunità della Grande Chartreuse, a seguito delle soppressioni religiose in Francia.
In basso: La certosa di Serra San Bruno (anche Certosa dei Santi Stefano e Bruno), un’abbazia certosina fondata nel 1091 da Bruno di Colonia situata nella località chiamata Torre, a 790 metri di altitudine, in provincia di Vibo Valentia.
tero inoltre diverse congregazioni, collegate in vari modi al messaggio del fondatore; vasti furono anche gli influssi che essi esercitarono sulla spiritualità e sulle espressioni artistiche di altri ordini religiosi. In epoca coeva a san Romualdo in Italia si diffuse una corrente eremitica, di origine bizantina, ispirata alla spiritualità di san Nilo da Rossano (morto nel 1004), fondatore dell’Abbazia greca di Grottaferrata, che divenne il principale centro irradiatore della tradizione monastica greca nella penisola. Le istanze eremitiche propugnate da san Romualdo furono parzialmente condivise dalla spiritualità certosina, la cui origine risale alla primavera del 1084, quando san Bruno decise di lasciare Sèche-Fontaine, vicino a Molesmes in Francia, per ritirarsi a vita claustrale insieme ad alcuni suoi compagni. Per la sua peculiarià l’Ordine non ebbe grandissima diffusione, ma annoverò in Italia alcune importanti fondazioni che divennero in molti casi veri e propri scrigni di cicli artistici di grande valore. Tra queste, quella di Pavia, in Lombardia, e quella di Padula, presso Salerno, divennero, tra Quattrocento e Cinquecento, luoghi ove furono realizzati cicli pittorici di grande estensione e di eccezionale importanza. Sull’esempio della Grande Chartreuse presso Lione, le prime case dell’Ordine certosino furono edificate in luoghi solitari. Emblematici sono i casi italiani delle Certose di Serra San Bruno in Calabria, Val Pesio e Casotto in Piemonte e di Vedana in Trentino. Solo a partire dal xiv secolo i monaci certosini edificarono i loro monasteri nelle vicinanze delle città, tuttavia mai all’interno delle loro mura, come accadde per le Certose di Milano, Bologna, Ferrara, Napoli, Pavia. Con il passare dei secoli questi complessi si articolarono attorno a due chiostri principali, strutture d’ordine razionale dei molti locali monastici. Caratteristica principale di ogni certosa è la presenza del grande chiostro al quale sono addossate le celle dei monaci, in forma di piccole abitazioni isolate a due piani. Tale chiostro, di notevoli dimensioni, venne arricchito, tra il xvi e il xvii secolo, da apparati decorativi di grande magnificenza e splendore. È questo il caso, ad esempio, della Certosa di Pavia, il cui chiostro principale in cotto è composto da 122 arcate di grande respiro; della Certosa di Roma, con il chiostro michelangiolesco; della Certosa di Garegnano (Milano), il cui chiostro fu riedificato a partire dal 1574 fino a raggiungere 500 metri di perimetro. Lo splendore delle strutture cenobitico-eremitiche certo121
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sine investì solo raramente le forme architettoniche della chiesa, fatta eccezione per le Certose di Pavia e di Napoli. Le chiese infatti non ebbero normalmente grandi dimensioni, anche a causa del numero ridotto dei membri della comunità; furono inoltre per lo più edificate su un impianto planimetrico semplice, navata unica e con cappelle laterali. In qualche caso la planimetria della chiesa ebbe forma taumata capovolta, come nella Certosa di Garegnano a Milano e in quella di Bologna, forma nella quale le braccia della croce vennero definite tramite due cappelle, che affiancavano l’ingresso della chiesa. In corrispondenza inoltre alla gerarchia sociale interna all’Ordine, composto da monaci, conversi e donati, le chiese venivano suddivise in due distinti volumi da una parete. Ai monaci era riservato il coro, posto nelle vicinanze dell’altare maggiore, mentre ai conversi era destinata l’area vicino all’ingresso della chiesa. Anche gli accessi dell’edificio di culto erano stati socialmente differenziati, di conseguenza a ognuna delle due parti della chiesa corrispondevano percorsi particolari. Esempi di questi muri divisori sono ancora ben visibili in numerose certose, quali quelle di Calci (Pisa), Firenze, Padula (Salerno) e Trisulti (Frosinone). 126
Abbazia di Fiastra. Fondata nel 1142 a opera di un gruppo di monaci cistercensi provenienti dall’Abbazia di Chiaravalle milanese, l’abbazia riprende i modelli propri dell’architettura dell’ordine. La spazialità raccolta e unitaria del Chiostro è parzialmente disturbata dalla presenza di Palazzo Bandini, edificato a meridione nei primi anni del xix sec., per l’edificazione del quale è stata distrutta una parte dell’antica struttura monastica.
Abbazia di Casamari. Fondata nell’xi, l’abbazia nel 1151 divenne proprietà dei cistercensi, che provvidero a riedificarla completamente. Imponente nella sua struttura goticheggiante essa sfruttò il dolce declivio sul quale è posta, rendendo necessaria un’ampia scalinata di ingresso alla chiesa. Essa fu realizzata tra il 1203 e il 1217 ed è affiancata dal Chiostro di epoca medievale, sul quale insistono la Sala Capitolare e il Refettorio monastico.
Diffusione maggiore di quella raggiunta dall’Ordine certosino ebbe la corrente monastica riformata dei Cistercensi, il cui programma consisteva nel ritorno a una osservanza letterale della Regola benedettina, con una drastica riduzione della liturgia cluniacense a favore di tempi dedicati ad attività pratiche. Originale fu in particolare, benché ritenuta dai promotori fedele ritorno alle origini benedettine, la loro reinterpretazione dei rapporti tra opus Dei, lectio divina e lavoro manuale. L’Ordine cistercense venne portato in Italia da Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), cui si deve la fondazione di Chiaravalle milanese. Il più antico monastero cistercense della penisola risulta però essere quello di Tiglieto, in Liguria. Altri monasteri cistercensi italiani ebbero abbazie madri francesi. Dal punto di vista artistico le Abbazie di Casamari e Fossanova sono ritenute responsabili della diffusione nella penisola italiana dello stile borgognone; ad essa contribuirono anche i monasteri di Morimondo (Milano), Staffarda (Cuneo) e Chiaravalle di Fiastra (Macerata). La spiritualità cistercense si contrappose inoltre esplicitamente, grazie alla focosa predicazione di Bernardo di Chiaravalle, a quella dell’Ordine cluniacense. 127
Oltre che nell’elaborazione di una estetica monastica e nella definizione di una qualità d’arte e d’architettura dai caratteri molto ben individualizzati per l’armonica essenzialità decorativa, i Cistercensi diedero un contributo fondamentale allo sviluppo agricolo dei siti ove si insediarono. Grazie alla regolamentazione delle acque e alla bonifica di vasti territori, essi divennero protagonisti del disegno di un paesaggio rurale ancora oggi ben riconoscibile. Il loro diretto impegno nelle opere di agricoltura e i loro forti legami con le città comunali in tutta la penisola italiana, li resero ben presto soggetti economici di primo piano. La corrente cistercense, inoltre, è stata in Italia culla di una delle più straordinarie personalità del medioevo: Gioachino da Fiore (1130-1202), nei suoi scritti annunciò il vicino avvento della terza età del mondo, quella dello Spirito, convogliando le attese escatologiche dell’intera società in un messaggio di grande successo immediato, che sarebbe presto sfumato nelle utopie di predicatori e visionari appartenenti al movimento gioachimita. La diffusione dell’Ordine cistercense fu molto rapida e alla morte di san Bernardo si contavano già 343 abbazie. Circa due secoli dopo, nel 1335, l’Ordine comprendeva oltre 700 monasteri maschili e circa 900 femminili, sparsi in tutta Europa e in Oriente. Tale enorme diffusione, durata fino alla metà del xiv secolo, contribuì in modo determinante alla maturazione in Italia di elaborazioni inedite di architettura, la cui matrice fu l’Abbazia di Chiaravalle milanese. Nell’arco temporale compreso tra xii e xiv secolo, dunque, la penisola italiana venne costellata da una nutrita schiera di grandi insediamenti monastici riformati ben visibili ancora oggi dalle riprese aeree, sia nell’articolazione e gerarchizzazione dei volumi, ove è sempre preminente la chiesa, sia nel solido accentramento attorno ai chiostri, vero cuore dei complessi. Meno evidente risulta invece, dalle attuali vedute aeree, quella separatezza della vita che si svolgeva al loro interno, rispetto alla campagna o alla vicina città. Spesso infatti l’urbanizzazione caotica e dilagante divora senza pietà gli assetti agricoli di lunga stratificazione, lasciando brandelli di verde spesso disegnati da lottizzazioni casuali. Le penisola venne percorsa in questi stessi secoli da molti pellegrini, che si recavano in Terra Santa. La sua liberazione tramite le crociate nonché i numerosi e continui pellegrinaggi necessitavano anche di una rete difensiva e organizzativa, per garantire l’incolumità dei fedeli che affrontavano enormi difficoltà. Nacquero e si diffusero rapidamente, a sostegno di tali necessità, numerosi ordini religiosi cavallereschi come i Templari la cui regola fu scritta dalla stesso san Bernardo; l’Ordine dei Fratelli Ospitalieri o di san Giovanni Battista, che ben presto assunse il nome di Cavalieri dell’Ordine di Malta e di Cavalieri dell’Ordine di Rodi; l’Ordine Teutonico, costituitosi ad Acri, e i Cavalieri di Cristo (o Fratelli della spada), fondati dal vescovo di Riga nel 1202. Essi si diffusero rapidamente in tutta Europa, senza implicare però nelle proprie architetture evidenti innovazioni spaziali. Quasi ininfluenti sull’architettura furono anche gli altri ordini religiosi cavallereschi; nonostante la grande proliferazione, la loro presenza interessò solamente limitate aree geografiche. Nei secoli xiii e xiv, con il declino delle strutture feudali e l’affermarsi di orientamenti di cultura e spiritualità del tutto nuovi, il mondo monastico venne investito da una grave crisi, segnalata dalla diminuzione numerica e dalla decadenza disciplinare oltre che dall’isolamento dei singoli monasteri dalla vita civile e religiosa del tempo. 128
Abbazia di Chiaravalle. Fu fondata nel 1135 da san Bernardo e, come altre abbazie cistercensi, fu promotrice di una sostanziale trasformazione economica e territoriale della regione circostante. Il monastero ha subìto nel corso dei secoli numerose modificazioni e alcune mutilazioni architettoniche, come la perdita di parte del Chiostro, la cui struttura originaria risale al Duecento. Integra, invece, è la chiesa che domina tutto il complesso abbaziale grazie alle sue dimensioni e alla torre nolare poligonale, che fu edificata nella prima metà del xiv sec. nel punto di intersezione del transetto con la navata.
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Contemporaneamente, nel xiii secolo, sorsero e si diffusero gli Ordini mendicanti, Francescani e Domenicani in particolare. Nel frattempo i patrimoni fondiari di molti monasteri vennero alienati a favore di signori locali. Il tracollo non impedì però ai monaci di trasmettere il proprio patrimonio spirituale ai nuovi Ordini. La devotio di san Bernardo e le attese escatologiche di Gioacchino da Fiore, in particolare, incisero segni profondi e di lunga durata. Vennero fondati in questo secolo i monaci Silvestrini, diffusi soprattutto nelle Marche; i Celestini e gli Olivetani. Tramite questi Ordini, il movimento congregazionista, che era stato avviato nel Medioevo dai Cluniacensi, venne consolidato. Lo spirito di riforma a sua volta conservò grande vitalità nel variegato mondo monastico e conventuale; ne è esempio di valore il movimento riformistico monastico partito nel secolo xv dal monastero di S. Giustina a Padova. Nel xiv secolo maturò anche il riconoscimento giuridico e istituzionale dell’Ordine agostiniano, nuovo soggetto cenobitico sorto dall’unione di diverse forme di vita eremitica del centro d’Italia. A una prima fase seguì la Grande Unione del 1256, nella quale il Papa convogliò, sotto il nome di Ordine degli Eremiti di sant’Agostino, anche le esperienze legate ad altri eremiti quali quelle di Brettino, Giovanni Bono, Montefavale e san Guglielmo. Preoccupazione esplicita della massima autorità ecclesiastica fu quella di evitare la proliferazione di gruppi eremitici autonomi, per difendere la Chiesa dalle eresie. Non avendo diretto collegamento con sant’Agostino, fondatore dell’Ordine divenne lo stesso papato romano, che prestò attenzione costante lungo tutta la sua vita agli Agostiniani. In breve tempo essi riuscirono a diffondersi sull’intero territorio nazionale. Verso la metà del xiii secolo il numero dei complessi agostiniani insediati nella penisola raggiunse le 180 unità; molti avevano elaborato forme architettoniche peculiari. Gli Agostiniani furono molto attenti al rapporto tra monastero e territorio; attuarono sempre in particolare una scelta oculata del luogo nel quale edificare le loro case maschili, definendo una ferrea tradizione. Salvo rare eccezioni, i loro monasteri venivano edificati all’esterno delle mura urbane, ma nei pressi del confine cittadino, in modo da ottenere una separazione netta dal contesto urbanizzato delle città secolari ma da rappresentarne, nel contempo, la naturale continuazione. All’interno dei loro complessi emergeva, per dimensioni e per ricercatezza decorativa l’edificio di culto. Si impose soprattutto il modello della chiesa a navata unica, con numerose cappelle laterali destinate al culto dei santi e della Vergine e adibite ad accogliere le sepolture delle famiglie nobili. Malgrado tale importante tradizione le chiese monastiche agostiniane dei grandi centri urbani vennero spesso edificate a più navate; è il caso dei complessi di S. Marco e S. Maria Incoronata a Milano, della chiesa del convento di S. Agostino a Roma, con planimetria a tre navate. Del tutto particolare è la chiesa agostiniana di Piacenza, scandita longitudinalmente da cinque navate, dal piedicroce fino al transetto, e trasversalmente da tre navate, nel capocroce. Profondo e molto radicato nel tessuto sociale urbano fu il rinnovamento promosso dagli Ordini conventuali dei Francescani e dei Domenicani. Questi ultimi, la cui regola, composta da san Domenico, venne approvata definitivamente nel 1216 da Papa Onorio iii, si ispirarono alla legislazione degli Agostiniani, arricchendola del carisma della predicazione. 130
Milano, Basilica di S. Eustorgio. Fondata secondo la tradizione nel 515 dal vescovo Eustorgio ii in onore dell’omonimo predecessore, ma di probabile edificazione precedente, la chiesa fu integralmente ricostruita nella seconda metà dell’xi sec., intorno al 1190 e in epoca successiva all’insediamento dell’Ordine domenicano (1220) e all’uccisione di san Pietro Martire avvenuta nel 1252. Dietro l’abside imponente si scorge la rinascimentale Cappella Portinari.
L’esperienza domenicana puntò meno alla povertà di quanto fece invece l’Ordine Francescano, poiché poneva l’accento soprattutto sulla missionarietà dei suoi frati, sui loro campi di insegnamento e di predicazione. Le case dell’Ordine si diffusero in tutti i grandi centri italiani, occupando vaste superfici urbane. I Domenicani, infatti, non si limitarono a edificare piccoli romitori o strutture architettoniche semplici ed essenziali come i Francescani; edificarono invece elaborati complessi conventuali, in cui inserirono grandi biblioteche e chiese di notevoli proporzioni, adatte ad accogliere grandi folle di fedeli. Il rapporto di continuità spaziale e planimetrica tra convento e monastero venne esaltato spesso tramite la costruzione, nelle loro chiese urbane, di pulpiti esterni, dai quali i frati potevano predicare ai fedeli riuniti negli ampi sagrati. Benché i Domenicani si siano sempre differenziati, nella ideazione dei loro conventi, dai Francescani, come questi ritennero prioritaria la forma di vita comunitaria per i loro 131
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membri rispetto a quella personale. Gli uni e gli altri prestarono di conseguenza grande cura all’organizzazione degli spazi nei loro conventi. La cella dei frati non indicava un luogo di separazione assoluta dal mondo, come era accaduto ad esempio nel caso certosino, ma era l’ambito nel quale il domenicano poteva studiare e riposare per riprendere con più energia e fervore il proprio rapporto missionario con gli altri uomini, abitanti delle città e delle campagne. I loro insediamenti, quindi, non necessitavano di strutture complete per ogni membro, come era accaduto nel caso dell’Ordine certosino e dell’Ordine camaldolese. Il convento viveva un rapporto sostanzialmente continuo con la città, con tutti i suoi membri ai quali la chiesa conventuale era aperta; la predicazione attivava inoltre uno scambio tra vita civile e tensione religiosa. Tale circolarità investì, in modi inediti, l’arte e l’architettura. Il convento divenne parte integrante del tessuto urbano, monumentale presenza percepita dall’esterno normalmente come un consistente volume, chiuso da alte, spesse e poco aperte murature. La sua visione dall’alto, nelle riprese aeree, consente ancora oggi di coglierne la compattezza attorno ai chiostri, l’accrescimento progressivo per giustapposizione di corpi edilizi e fusione, se necessario, di interi isolati. Pur incastonati nella città compatta, i conventi si presentano dunque con un complessivo carattere di coesione volumetrica e di coordinamento per nodi spaziali, che li rende molto simili alla generale strutturazione dei monasteri isolati, benché meno orizzontalmente sviluppati di questi su terreno libero.
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Pagine precedenti: Assisi, Basilica di S. Francesco. Fu costruita a partire dal 1228 su un progetto anonimo che prevedeva la sovrapposizione di due basiliche distinte, nell’inferiore delle quali riporre le spoglie del santo. Consacrata nel 1253 la chiesa divenne modello spirituale e matrice culturale dell’architettura francescana. La basilica inferiore è preceduta da un ampio sagrato, nel quale intorno al 1476 venne iniziato il triplice colonnato per ospitare i pellegrini che giungevano al santuario. Alla basilica superiore, invece, è anteposto un grande declivio erboso al termine del quale è posta la facciata tripartita.
GRANDI OPERE PUBBLICHE URBANE E RURALI dall’xi al xv secolo Maria Antonietta Crippa
I mutamenti negli assetti politici e le loro conseguenze sociali in tutta la penisola italiana, l’esplodere di redditizi commerci via terra e via mare, le lunghe attività cantieristiche e il graduale addensarsi dei tessuti edilizi nelle città, composero, tra xii e xv secolo, un lento ma continuo processo di transizione, che in arte e in architettura coincise col passaggio dall’età medievale alla moderna stagione umanistica rinascimentale. L’inurbamento a forti ondate delle campagne, che caratterizzò i secoli xi-xiii, comportò continue, spesso violente rivalità tra ordini religiosi, ceti nobiliari, commercianti, artigiani. Le città divennero l’ambito ristretto dei loro scontri per la conquista dell’egemonia. La storiografia che indaga ragioni e modi di tali profonde trasformazioni deve ancora metterne a fuoco in modo adeguato il rapporto con la produzione coeva d’architettura e d’arte. Urge infatti la necessità di superare la troppo schematica giustapposizione tra l’ultima stagione medievale, letta a tutto tondo come grandiosa per dinamismo politico e per imprese costruttive, all’altrettanto altisonante emergere di un nuovo umanesimo, in un equilibrio di poteri e in un ordinamento geografico peninsulare profondamente modificato. La città medievale non è stata idilliaco contesto di libertà condivise e imprese costruttive compartecipate. Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento inoltre non è stato privo di traumi e dissonanze. Di tale contradditorio trapasso danno preziosa testimonianza le vedute, aeree o dall’elicottero, di queste città, vedute che ci consegnano, negli evidenti scarti di scala, gli esiti della gara, svoltasi per circa due secoli, per conquistare spazi ed edificare imponenti volumetrie, tra le istituzioni politiche e i ceti urbani più forti. Si riconoscono facilmente, infatti, gli edificati medievali a destinazione residenziale, evidenti dove i tessuti edilizi risultano più fittamente addensati e la rete viaria è tortuosa e irregolare, composta da strade molto strette. Sono evidenti, in particolare, le caratteristiche lottizzazioni a pettine su strade e piazze, che spesso restarono intatte ben oltre il xiv secolo. In esse vennero innestati, tramite sventramenti e accorpamenti di aree, costruzioni imponenti, chiese in particolare, ma anche palazzi comunali, grandiosi edifici nobiliari, spesso in forma di tipologie emergenti dal tessuto circostante. 135
Ponte Visconteo sul Mincio, tra Verona e Mantova. Opera grandiosa di Domenico Fiorentino (1393), il ponte si sviluppa rettilineo per una lunghezza di oltre 600 m, in modo da sbarrare completamente la valle del Mincio. Si ritiene che costituisse l’elemento terminale di una gigantesca fortificazione, detta Serraglio, lunga 6 km.
A fronte: Bologna, Torri degli Asinelli e Garisenda. L’epoca comunale fu certamente la più gloriosa per Bologna. Mentre, tra xii e xiii sec., fioriva l’architettura pubblica, le famiglie nobili e potenti alzavano quasi duecento case-torri in mattoni. Le due torri Garisenda e degli Asinelli forse però furono torri di vedetta civica del governo comunale.
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È il caso ad esempio delle torri o case-torri, che ancora si vedono a San Giminiano in Toscana, a Bergamo in Lombardia, nei due esemplari noti degli Asinelli e della Garisenda a Bologna. Fungevano da residenza e da struttura difensiva, mentre segnalavano il primato delle famiglie che le possedevano. Solo nel xv secolo prese corpo tuttavia l’attenzione alla città come organismo compatto. Nel passaggio dalla “città ideale” alla città militare, tra xv e xvi secolo, tema dettagliato in un apposito capitolo successivo in questo stesso volume, le città stesse divennero, integralmente in alcuni casi, grandi cantieri. Già prima di tale fase tuttavia molte allargarono la loro estensione amministrativa, costruirono nuove mura, alzarono importanti porte d’accesso. Monumentale è ad esempio Porta Soprana di Genova, costruita tra il 1155 e il 1158 per iniziativa del Comune, composta da due svettanti torri semicilindriche che inquadrano un alto fornice a sesto acuto. Le grandi opere pubbliche in città comportarono trasformazioni di vasta scala, riordini e sventramenti di tessuti edilizi, costruzioni di vaste piazze, in grado di ospitare l’intera cittadinanza in più occasioni durante l’anno, di piazze di medie dimensioni per mercati, per svolgere funzione di sagrato di chiese. Queste ultime vennero spesso volute dai maggiorenti delle città per poter ospitare presenze significative dei nuovi ordini mendicanti, francescani e domenicani. Alcune di tali opere diedero luogo nel tempo all’emergere di molti siti con valore di centralità simbolica, trasformando l’impianto urbano da monocentrico a policentrico. Fu necessario in alcuni casi che il Comune acquisisse la proprietà di vaste aree per aprire slarghi, piazze, vaste aree per nuove costruzioni. Rilevanti opere di questo stesso periodo sono inoltre i complessi interventi voluti dai governi cittadini per la trasformazione del contado, per il cui maggior rendimento agricolo erano necessari lavori idraulici e di bonifica, costruzione di ponti in muratura 137
lungo le principali vie di transito, apertura di nuove vie commerciali o potenziamento di quelle esistenti, tra le quali non secodarie erano certamente le vie dei pellegrinaggi. Importanti furono in particolare le strade per le comunicazioni transalpine. Vennero anche fondati centri a carattere agricolo-militare, denominati “borghi franchi”. A partire dal xv secolo le maglie viarie urbane divennero più ariose e regolari, benché solo dal xvi secolo, in conseguenza della diffusione delle carrozze trainate da cavalli, le città vennero incise da ampi percorsi stradali rettilinei. Risale al xii secolo l’affermazione, in tutta la penisola italiana, di una rete di liberi comuni, rete più solida al nord e più fragile al sud, omogeneo indicatore e termine medio del passaggio da una organizzazione feudale, cui corrispondeva una fitta disseminazione di castelli fortificati isolati e di potenti poli monastici, a un sistema di governi signorili, che avrebbero stabilito equilibri del tutto diversi da quelli medievali sull’intera penisola. La battaglia di Legnano del 1176 segnò la vittoria dei Comuni lombardi contro Federico Barbarossa e la concessione delle libertà politiche alle città da parte delle autorità imperiali. A partire da questo momento in area padana il palazzo comunale assunse precise caratteristiche tipologiche, divenendo simbolo del potere civile. Chiamato per lo più 138
Perugia, piazza iv Novembre. Al centro di Perugia, la piazza è disegnata da importanti edifici: la cattedrale, gotica e rinascimentale; la quattrocentesca Loggia di Braccio Fortebraccio; il Palazzo del Seminario del tardo Cinquecento; il Palazzo Arcivescovile, che ingloba resti del precedente Palazzo del Podestà; il Palazzo dei Priori o Palazzo Nuovo del Popolo.
Padova, Palazzo della Ragione. L’edificio copre un’unica grande sala rettangolare con soffitto a volta carenata, circondata da loggia e sovrapposta al portico del piano terreno. Opera trecentesca di Fra’ Giovanni degli Eremitani si sviluppa in lunghezza fra Piazza delle Erbe e Piazza della Frutta.
broletto, poiché brolo o campo era stato lo spazio recintato nel quale venivano svolte le prime riunioni, ebbe forma di un parallelepipedo a due piani, col piano terreno porticato e il primo completamente occupato da una grande sala per le riunioni sempre illuminata, che si apriva su un piccolo balcone verso la piazza. Dal parallelepipedo si alzava spesso una torre campanaria d’angolo. Il modello milanese, ripetuto a Brescia, Padova, Cremona, Verona, Bologna e in altri luoghi, ebbe rapido successo anche perché i podestà di Milano, consultati, si recarono in molte città a prestare i loro servigi e consigli. In qualche caso venne dotato di merlature difensive o di una torre prigione. Il palazzo comunale poteva essere realizzato in una piazza apposita, oppure disposto in quella in cui si trovava la cattedrale, talvolta di fianco o contiguo al palazzo vescovile. Tale vicinanza fisica non era sempre indice di solidarietà di intenti tra istituzioni religiose e civili, spesso anzi i conflitti furono aspri. I palazzi pubblici dell’Italia centrale vennero costruiti dopo quelli padani, con più marcati intenti celebrativi dell’autonomia cittadina, tra la seconda metà del xiii e i primi decenni del xiv secolo, nella fase di più intensa attività cantieristica in tutte le città italiane. Quelli di Firenze, Perugia, Orvieto e Siena sono i più significativi. 139
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A blocco unico compatto su più piani, merlato in alto, con svettante torre entro il corpo di fabbrica, i fiorentini Palazzo dei Priori e Palazzo Vecchio esprimono, con la loro imponenza, l’autorità della amministrazione. Il secondo venne iniziato nel 1299 da Arnolfo di Cambio; il suo piano terreno era quasi completamente occupato da un dormitorio pubblico. Osservato dall’alto, il Palazzo Pubblico (1297-1348) di Siena, affiancato dai più antichi edifici della dogana e della zecca, mostra la sua doppia funzione. È innanzitutto larga e possente quinta, con altri palazzi, della piazza comunale, nel cui disegno planimetrico i senesi vollero leggere il profilo del mantello della Vergine, disteso per proteggere la città. Il palazzo comunale è inoltre composto da tre blocchi: un torrione centrale per le sale di rappresentanza; a destra un blocco più basso per il Consiglio dei Nove; a sinistra l’ala per le attività del podestà, dalla quale si stacca la sottile e alta Torre del Mangia con l’orologio meccanico medievale, mentre a terra le venne accostata una marmorea loggetta quattrocentesca. All’affermazione orgogliosa dei liberi comuni, bloccati però nella crescita sia da una concezione localistica di corto respiro sia dalle lotte interne, soprattutto tra guelfi filopapali e ghibellini filoimperiali, si affiancò presto nella penisola italiana la costituzione di due domini territoriali molto vasti: il Regno di Napoli sotto il governo degli Angiò a partire dal 1266 e il dominio papale, che si estendeva anche alle aree umbre e marchigiane. Il papato visse tuttavia già nel secolo xiv momenti di grave crisi: il disonore dell’esilio avignonese (1309-1377) in primo luogo e il trauma dello scisma d’occidente (1378-1417) come fenomeno dalle vaste risonanze. Da tempo inoltre, dopo Federico ii di Svevia (1194-1250), l’istituzione imperiale si era svuotata di effettiva capacità di controllo della situazione italiana. Emersero di conseguenza nuove forme di governo locale di carattere autoritario, in conseguenza del prevalere o di una famiglia o di figure militari; regimi signorili già affermati, all’inizio del xiv secolo a Verona, con gli Scaligeri; a Padova, con i Da Carrara; a Milano con i Visconti. Presto alla corte di queste e altre signorie sarebbero stati chiamati artisti, poeti, filosofi e scienziati. Il dominio del sapere sarebbe sfuggito all’ambito ecclesiastico, anche perché le università aperte ovunque in Europa avrebbero diffuso una nuova mentalità. Contemporaneamente ai conflitti tra i Comuni si sarebbero presto sostituiti quelli tra le signorie o tra grandi strutture politiche. A conclusione del travaglio politico qui brevemente ricordato, con la pace di Lodi del 1454 stipulata tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano, si registrò la stabilizzazione di un generale assetto politico italiano, composto da ampie aree di governo e molto semplificato rispetto alla frammentazione che si era costituita tra xii e xiv secolo. La scena italiana risultò completamente dominata da cinque grandi stati regionali: il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, la Repubblica fiorentina, lo Stato pontificio, il Regno delle Due Sicilie. Oltre a essi erano molto dinamiche e intraprendenti le signorie dei Gonzaga a Mantova, degli Este a Ferrara, dei Bentivoglio a Bologna, dei Malatesta a Rimini e a Cesena, dei Montefeltro a Urbino. 142
Gubbio, Palazzo dei Consoli (in alto e a fianco). Il palazzo si affaccia su un lato corto della piazza della Signoria. Una scala esterna in pietra consente di accedere al salone per le adunanze del popolo del libero comune, che occupa tutto il piano. Lo fronteggia il gotico Palazzo Pretorio o dei Priori, del 1349.
Pagine precedenti: Firenze. Sulla sinistra della veduta il campanile gotico della Badia e la Torre merlata del Bargello. Sul fondo spicca la facciata della arnolfiana basilica di S. Croce. A destra si erge Palazzo Vecchio o della Signoria, edificato a partire dal 1299, includendo una torre preesistente. Il primo nucleo è opera di Arnolfo di Cambio. Ampliato a fine xv sec., fu successivamente riadattato a più riprese. Accanto è la Loggia eretta per ospitare le cerimonie pubbliche della Signoria.
Alle pagine seguenti: Mantova, area del battistero paleocristiano, sostituito da altro edificio di culto.
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Già a partire dal xii e xiii secolo si rintracciano i prodromi di questa evoluzione del quadro politico italiano; alcune città italiane divennero più ampie e vissero l’alternanza di momenti di splendida autonomia e di gravi crisi. Nel xiv secolo inoltre, anche l’Italia come l’Europa, venne devastata da ricorrenti epidemie e carestie; il momento più grave fu la peste del 1348. Nell’arco temporale compreso fra xii e xv secolo vennero aperti ovunque cantieri che furono l’ambito di formazione di maestranze di eccezionale levatura, di scambi artistici e di conoscenze tecniche a scala europea, in un percorso di sperimentazione continua in pittura, scultura, architettura e arti minori, che la storia dell’arte è solita raccogliere sotto il cappello delle tre fenomenologie del Romanico, del Gotico e del Rinascimento. Come è noto, le realizzazioni italiane di grandi architetture, di chiese soprattutto, furono in questo lungo periodo contrassegnate sia da grande originalità e continuità con la tradizione classica, sia da notevole varietà di soluzioni nelle diverse aree regionali. Si costruì con cura, con ardimento e perizia, utilizzando materiali facilmente reperibili. Nella pianura padana, ove abbondavano depositi argillosi, i mattoni vennero prodotti in grandi quantità, in fornaci spesso alzate nei pressi dei cantieri. La pietra, presa da cave di varie parti d’Italia, venne abilmente lavorata in conci, messi in opera con cura e uniti tra loro tramite sottili strati di malta. Le qualità e prestazioni dei materiali stimolarono l’ingegno delle maestranze nella organizzazione del cantiere e nella libera elaborazione delle soluzioni architettoniche. L’attività edilizia fu settore trainante, con l’agricoltura e la produzione manifatturiera, dell’economia dell’ultima fase del medioevo. Nei cantieri più grandi e più vivaci si sviluppò una forma molto avanzata di organizzazione del lavoro. I committenti più vari vi furono implicati: i vescovi, i Capitoli delle cattedrali, i signori feudali, le confraternite, i reggenti comunali. Vi si affinarono i metodi di progettazione, l’architetto capo prese coscienza della propria importanza, non solo sul piano artistico ma anche in quello ingegneristico e gestionale. L’indubbia ricchezza di invenzioni, lavoro, imprenditorialità legata a tali cantieri ha spesso lasciato in ombra, o addirittura nascosto, la spropositata ambizione che sovente li animava e l’enorme dispendio economico e di energie che essi esigevano, a scapito di altre e più impellenti necessità comuni. Ruolo primario ebbero, in questo fervore d’opere e di progressi, i cantieri ecclesiastici, su alcuni dei quali soltanto si ferma l’attenzione nel quadro di questo capitolo. Si segnalano, per semplicità, le realizzazioni maggiori di cattedrali e chiese, procedendo secondo l’ordine cronologico e per aree stilistiche qualificate da una certa omogeneità. I cantieri romanici della penisola italiana divennero vere e proprie fucine di innovazioni, con caratteri molto diversificati nelle diverse aree della penisola. La pianura padana fu il crocevia e insieme fulcro propositore dei più aggiornati modelli europei. Le radicali trasformazioni romaniche della milanese basilica di S. Ambrogio (1080-inizio xii secolo) composero un unicum nell’Europa, nell’armonico raccordo tra le ristrutturazioni altomedievali della precedente Basilica Martyrum e la costruzione del nuovo volume longitudinale, concluso con il campanile dei canonici (entro il 1128) sul lato nord, la costruzione della facciata a capanna forata da grandi arcate sui due piani, e l’ampio quadriportico sul quale essa prospetta. 146
A fronte: Vigevano, la piazza commissionata da Ludovico il Moro nell’ultimo decennio del xv secolo.
Pagina seguente: Lucca, chiesa di S. Michele in Foro. Esemplare testimonianza del romanico lucchese, in particolare nella facciata alta e traforata dalle logge, la chiesa, completamente rivestita in marmo all’esterno, è al centro della piazza omonima, sulla quale affaccia anche il quattro-cinquecentesco Palazzo Pretorio, opera di Matteo, Nicolao e Vincenzo Civitali.
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La fantasia ornamentale e la bicromia dei cotti e dei marmi esalta le sobrie volumetrie esterne, mosse da plastico ma robusto vigore nel transetto e nella conclusione absidale della cattedrale. A S. Ambrogio guardarono i magistri delle cattedrali di Pavia, di Novara e di Vercelli, delle milanesi S. Babila e S. Celso. Sviluppo del modello ambrosiano furono, in Milano, le modifiche apportate alla basilica di S. Nazaro (xii sec.), e a Pavia la ricostruzione della chiesa di S. Michele (xii sec.). Nel xii secolo, venne aperto anche il cantiere per l’erezione del Duomo di Modena dove si sperimentarono organicamente le più importanti innovazioni spaziali e formali che identificano le cattedrali dell’Italia settentrionale. Iniziato per volontà del Capitolo con il sostegno dei maggiorenti della città, l’edificio era già concluso prima della fine del secolo, mentre il campanile o Ghirlandina venne innalzato tra il 1224 e il 1319. Progettata dall’architetto Lanfranco in forme basilicali, la cattedrale presenta sui fianchi esterni una sequenza continua di archeggiature tripartite, arricchite da aggetti e cavità dai forti effetti chiaroscurali e dinamici. Gli accessi alla chiesa vennero ornati da protiri sostenuti da leoni stilofori, motivo che, con quello delle logge ad archeggiature, fu qui inventato e sarebbe stato ripreso in diverse varianti in altre importanti cattedrali padane: a Cremona (1106-1117); a Parma (1090-1130); a Ferrara (1135). La facciata del duomo modenese fu concepita come specchio della organizzazione interna dello spazio. Nel suo cantiere, sotto la regia dello scultore Wiligelmo, qui attivo dal 1099 al 1110, venne messo a punto il più importante complesso scultoreo dell’Italia settentrionale della prima metà del xii secolo, distribuito in differenti cicli, all’esterno e all’interno della chiesa. Attorno a Wiligelmo si costituì una schiera di artisti di eccezionale levatura. Variante veneta della cattedrale modenese è la chiesa di S. Zeno a Verona (11201138), simile alla prima nell’impianto basilicale tripartito, reso evidente all’esterno nella facciata a salienti. Influssi veneti incisero nella modulazione plastica e pittorica delle decorazioni. Fu qui attivo, tra 1115 e 1150, il maestro scultore itinerante Niccolò, della stessa statura di Wiligelmo e Antelami. Cantieri concatenati e per diversi edifici, affacciati su un’unica piazza, vennero aperti a Parma e a Pisa. La piazza di Parma, con gli edifici monumentali che si affacciano su di essa, era invaso spaziale indispensabile per le adunanze civili e le cerimonie religiose. I tre edifici che la strutturano sono: il Duomo, il cui prospetto a capanna venne delimitato da una soltanto delle due torri, che avrebbero dovuto inquadrarlo, secondo il progetto originale; il battistero a pianta ottagonale, rivestito in marmo rosso di Verona (11961260); il Palazzo Vescovile. La veduta dall’alto della Cattedrale consente di cogliere un complesso organismo di masse cubiche e cilindriche che ruotano intorno alla cupola, all’incrocio tra navata longitudinale e transetto. Imponente e cristallino è invece il volume del battistero, progettato dall’Antelami, che fu anche fino al 1216 direttore del suo cantiere. Nel Campo dei Miracoli, a Pisa, un grande piazzale aperto verso l’esterno fu voluto come il centro monumentale e civile più importante della Toscana tra xi e xii secolo. 150
A fronte: Parma, Duomo e Battistero. Un’arte romanica di matrice lombarda presente in tutte le espressioni – dalla architettura, alla scultura, alla pittura e alle arti minori – fiorì abbondante in Parma. Lo testimonia, in particolare, il complesso del Duomo e del Battistero, in primo piano nella foto, mentre più in alto si alza l’imponente campanile di S. Giovanni Evangelista.
Pagina precedente: Piacenza. Lungo l’xi e il xiv sec. la città fu costellata da grandi cantieri, nei quali vennero realizzate importanti costruzioni: nell’xi sec. la basilica di S. Antonino (in basso nella foto); nel xii le chiese di S. Eufemia e S. Brigida, la basilica di S. Savino e il Duomo, continuato nel secolo successivo; nel xiii-xiv sec., furono costruiti il Palazzo Comunale e le chiese di S. Francesco e S. Giovanni in Canale.
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Pisa, Piazza dei Miracoli. Il complesso architettonico più ricco del romanico toscano, anche per sintesi di influssi lombardi e orientali, è costituito dall’insieme dei monumenti disposti nel Campo dei Miracoli come oggetti d’arte in dialogo tra loro: il Duomo, il Battistero (pagina a fianco), la Torre pendente e il Camposanto.
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Pisa, potente repubblica marinara in questo periodo, in grado di controllare le più importanti rotte marittime commerciali, fu città nella quale concordemente il vescovo Guido e i rappresentanti delle istituzioni civili decisero, nel 1064, di avviare la costruzione di una cattedrale dedicata a Maria Assunta. Suo primo ideatore fu l’architetto Buscheto, che vi intrecciò temi del romanico lombardo e della tradizione paleocristiana. La volumetria esterna denuncia con spettacolare evidenza l’articolazione dell’interno: la vasta planimetria a croce latina venne definita dall’incrocio tra un corpo longitudinale a cinque navate sporgente oltre il transetto per concludersi, sul fondo, con una superficie piana, dalla quale si stacca una sola ma poderosa abside centrale. Il transetto fu voluto molto grande, a tre navate e concluso anch’esso, sui fianchi corti, da due absidi perfettamente emergenti nelle ricercate decorazioni a due registri dell’alzato curvilineo. Al suo incrocio con il corpo longitudinale venne alzata una cupola a base ellittica e sezione ovoidale, di derivazione araba, racchiusa all’esterno entro un parallelepipedo, elegantemente traforato, con sovrapposto l’estradosso del settore alto della cupola ovoidale. Numerose sono nelle decorazioni le tracce dei rapporti con la cultura islamica araba e bizantina. 153
Dopo Buscheto, direttore dei lavori fu Rainaldo, cui succedette Maestro Guglielmo, fino a metà del xiii secolo. Alla coerenza costruttiva e stilistica, conservata dai tre architetti, si deve l’esito di eccezionale leggerezza dell’insieme, della facciata in particolare, reso più prezioso dalla policromia e dall’ornamentazione del paramento parietale. Nel 1153, di fronte al Duomo, su progetto dell’architetto Diotisalvi, si iniziò la costruzione di un nuovo battistero, concluso dagli scultori Nicola e Giovanni Pisano nel xiv secolo, in forme coerenti con quelle della cattedrale. Venne costruito come un robusto cilindro su pianta circolare, concluso in alto dalla calotta emisferica; è noto che si trattava di una libera interpretazione della Rotonda del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Il campanile, anch’esso a base cilindrica, è attribuito a Bonanno Pisano: è una torre isolata e resa aerea dai piani a loggiato della superficie esterna. Costruita a partire dal 1173, essa venne improvvisamente interrotta nel 1185, per un cedimento del terreno, al quale è dovuta la sua inclinazione. Nel 1278, in questa stessa piazza situata in un’area periferica a nord della città, fu infine costruito il Camposanto, in forme gotiche, secondo il progetto dell’architetto Giovanni di Simone. Importanti cantieri romanici ecclesiastici vennero aperti anche in Umbria e nelle Marche. Tra i più noti, è quello della chiesa di S. Rufino in Assisi (xii-xiii secolo) su precedente edificio basilicale, che emerge decisamente ancora oggi dal fitto e basso tessuto edilizio circostante. Il suo impianto longitudinale, la sobria e solida facciata a cuspide rilevata, il robusto e tozzo campanile in cotto, sono dall’alto visibili emergenze di una costruzione che denuncia di essere stata costruita in una fase di transizione dal Romanico al Gotico. La chiesa di S. Maria di Portonovo (1034-1048) presso Ancona offre una limpida articolazione di volumi che si alzano dalla planimetria accentrata di tipo bizantino. Il suo asse verticale centrale è disegnato dalla cupola di pianta ellittica ma non estradossata, bensì protetta da un tiburio che segnala la presenza di influssi lombardi. Collocata sulla cima di un promontorio affacciato sul mare, in posizione un tempo strategica per l’avvistamento, la cattedrale di S. Ciriaco di Ancona (xi-xiii secolo) offre l’ampia facciata a salienti, mossa dal profondo protiro cuspidato, alla città. Dal mare si può vedere invece l’articolazione volumetrica absidale, mentre visto dall’alto l’edificio svela la sua planimetria a croce greca. Nell’Italia meridionale, il dominio dei Normanni, avviato con l’arrivo dei primi nuclei familiari provenienti dal nord della Francia e diretti come pellegrini in Terra Santa, era stato facilitato, a partire dall’inizio dell’xi secolo, dalle continue contese fra i duchi longobardi, gli emirati arabi siciliani, i domini bizantini. Non appena ebbero consolidato il proprio potere, i Normanni intervennero decisamente nell’attività edilizia, non solo con la costruzione di fortezze e castelli difensivi ma, già prima della fine del secolo, divenendo committenti rispettivamente delle nuove cattedrali di Capua (1073-1081), di Salerno (1080), di Aversa (prima del 1090), di Acerenza (dal 1090), dell’Abbazia della Trinità di Venosa, mausoleo della loro famiglia più importante, gli Altavilla. 154
Ancona, Duomo di S. Ciriaco (in alto). Edificio romanico a croce greca, costruito tra xi e xiii sec., sopra il basamento di un tempio italico del iii sec. a.C.
Molfetta, Duomo vecchio (in basso). La cattedrale (xii e xiii sec.), dietro alla quale si sviluppa il borgo antico ancora di aspetto medievale, è una delle matrici del romanico pugliese.
Le cattedrali di Capua e di Salerno, in particolare, furono da loro volute prendendo come modello di riferimento la ricostruzione attuata dall’abate Desiderio a Montecassino. La grande chiesa, oggi scomparsa, del Monastero benedettino di Montecassino, centro di un vasto territorio centro-meridionale denominato Terra Sancti Benedicti, iniziata nel 1066 sul modello delle basiliche romane, in forme sontuose, venne consacrata il 1° ottobre 1071. La chiesa di S. Angelo in Formis (1066-1067) ebbe come committente lo stesso abate Desiderio, che la portò a termine probabilmente prima della chiesa abbaziale cassinese. Nelle altre cattedrali vennero invece ripresi modelli provenienti dall’Alvernia e dalla Normandia. In Puglia, come testimonia la basilica di S. Nicola a Bari, monumento principe del Romanico locale innalzato tra 1087 e 1197, la tradizione bizantina venne rinnovata dal sopraggiungere di modelli padani – della milanese basilica di S. Ambrogio, in particolare – e nord-occidentali europei. Il cantiere di questa chiesa fortezza venne diretto dall’abate benedettino Elia, che custodiva le reliquie del santo cui l’edificio, solido e compatto, era dedicato. Ben costruito con regolari conci lapidei, esso fu modello per altri cantieri ecclesiastici pugliesi: per la cattedrale di Bitonto (fine xii e xiii secolo); per quella di Barletta, conclusa negli anni a cavallo tra xiii e xiv secolo; parzialmente per quella di Trani, il cui cantiere durò per più di due secoli, a partire dal 1097. Caso a parte, perché assimilazione del modello pisano della cattedrale del Campo dei Miracoli di Pisa, fu il cantiere della cattedrale di Troia, attivo lungo tutto il xii secolo. Nei sessant’anni del regno normanno di Sicilia, tra 1130 e 1194, dal sincretismo di popoli e culture occidentali e orientali emersero capolavori monumentali, come la Cappella Palatina di Palermo (1130-1140 circa), cantiere in cui furono attive contemporaneamente maestranze islamiche e mosaicisti bizantini, probabilmente appositamente fatti venire da Costantinopoli, oltre a validissime maestranze locali succedute agli artisti bizantini. La Cappella è parte del Palazzo dei Normanni, sontuosamente ristrutturato da re Ruggero ii. Dell’enorme complesso restano in situ attualmente solo alcune parti, denominate Torre Pisana; Gioaria, con la stanza di Ruggero; le prigioni e la Torre Greca. Furono erette a Palermo in questi stessi anni anche: la chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio, detta la Martorana (conclusa nel 1185) dal nome della fondatrice dell’annesso convento, dalle decorazioni musive analoghe a quelle della Cappella Palatina; la chiesa, dal cubico compatto volume sormontato da tre cupole allineate, di S. Cataldo (del xii secolo) e quella, analoga nelle forme ma con quattro cupole, di S. Giovanni degli Eremiti (metà secolo xii). Furono importanti cantieri normanni anche quelli aperti nei dintorni della capitale per realizzare residenze, di grandi e piccole dimensioni, per i sovrani e la loro corte. Fra i più celebri sono la Zisa (1164-1180), dal cubico volume di fortezza, decorata all’interno con motivi orientale; la Cuba, dalle forme analoghe alla precedente, del 1180 circa. Il più grande e celebre cantiere normanno fu però quello del Duomo di Monreale (1172-1186), aperto sul fianco di un colle rivolto verso Palermo e la Conca d’Oro. 155
Bari, S. Nicola. La basilica sorge nel cuore del nucleo urbano antico, è orientata a est e composta da corpo longitudinale a tre navate, da un transetto leggermente sporgente e da tre absidi, nascoste da un muro esterno rettilineo. Dei quattro campanili originari restano i due ai fianchi della facciata; quelli posteriori sono stati abbattuti da un terremoto.
I lavori vennero condotti celermente per volontà del sovrano Guglielmo ii, in gara con quelli della cattedrale urbana di Palermo, voluta contemporaneaente dal vescovo Gualtiero. L’edificio a planimetria basilicale, con influssi bizantini nell’area triabsidata, che si innesta col transetto formando uno spazio ben distinto da quello dell’aula, ripete all’esterno moduli compositivi della cattedrale di Cefalù. Intensi cromatismi esaltano le decorazioni esterne, quelle absidali in particolare, contrappunto all’enorme sistema musivo che copre le superfici interne per una estensione di circa 6.400 mq, con illustrazioni di episodi biblici dominati dal solenne Pantocrator absidale. La sagoma volumetrica del duomo monregalese si staglia nitida e alta, per la lunghezza di cento metri, sul poggio panoramico, manifestando, nella vista dall’alto, la doppia matrice – centrale e longitudinale – che la struttura planimetricamente rivela. L’alto e articolato sistema absidale diviene, a sua volta, perno di riferimento di largo raggio, grazie anche all’eccezionale sviluppo in altezza della sua parte centrale. L’influsso culturale bizantino in Italia fu vivacissimo nelle Tre Venezie fino al crollo dell’Impero d’Oriente, nel 1453. I legami intensi vennero consolidati da matrimoni tra membri delle famiglie imperiale e dei dogi; Venezia, inoltre, godeva di singolari privilegi economici e doganali, per il commercio nel Mar Adriatico. Nell’xi secolo crebbe anche la sua importanza religiosa, poiché nel Concilio del 1053 la carica di metropolita venne trasferita dal patriarcato di Aquileia a quello di Grado, il cui presule risiedeva in Venezia. Il cantiere maggiore, per dimensioni e importanza, dell’area veneta fu quello aperto per l’erezione della veneziana basilica di S. Marco, iniziata nel 1063 dal doge Domenico Contarini sulle fondazioni di una precedente chiesa del ix secolo. Il Doge volle 156
A fronte: Cefalù. Sviluppata ai piedi di un’alta rupe che scende ripida sul mare, la città siciliana di Cefalù ospita una fra le più belle e importanti chiese di epoca normanna dell’isola. Spicca tra tutte, anche per la mole, la Cattedrale, iniziata da Re Ruggero nel 1131, con due campanili in facciata, un alto transetto e tre absidi sul fondo del presbiterio.
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recuperare come modello di riferimento una cappella palatina bizantina del vi secolo, l’Apostoleion di Costantinopoli, che custodiva le tombe imperiali. L’edificio fu dunque concepito come gigantesca chiesa palatina legata al governo dei dogi, musivamente rivestita all’interno, dapprima solo in parte. Vi lavorarono diverse botteghe di maestri mosaicisti provenienti da varie regioni orientali. Bizantini furono i capimastri, che presto soppiantarono i colleghi locali e trasmisero le proprie competenze a una folta schiera di maestranze, che sarebbero state attive, nel xiii secolo, oltre che a Venezia, a Roma e a Firenze. La volumetria della basilica venne presto modificata; nuove cupole a forma di bulbo, realizzate in piombo steso su un supporto di legno, celarono infatti alla vista gli estradossi delle calotte bizantine. Si rivestirono inoltre, con marmi pregiati portati in città come bottino della quarta crociata, le superfici delle parti esterne. La continua attività del cantiere marciano favorì il costituirsi di un’importante scuola di marmorari, alcuni dei quali divennero artisti di grande valore anche a seguito dell’influsso di scultori francesi, che portarono a Venezia le prime inflessioni dell’arte gotica. Altri centri urbani veneti, tra xi e xiii secolo, ebbero ricchezza e importanza tali da erigere monumentali chiese profondendovi sopprattutto decori musivi. La cattedrale di Torcello, ad esempio, venne completamente ristrutturata nell’xi secolo; dell’xi secolo è anche il Duomo di Aquileia su modelli bizantini. Nel centro della penisola Roma attuò, tra xi e xii secolo, una interpretazione del tutto originale del Romanico, legata al suo patrimonio cristiano antico. Alla costituzione, nel 1143, del Comune libero di Roma, il pontefice e la sua curia si allontanarono dalla città e si spostarono temporaneamente a Orvieto e a Viterbo, città nella quale è ancora oggi visibile un imponente Palazzo dei Papi, eretto nel 1266. Tra la fine dell’xi e il secondo decennio del xii secolo, venne costruito in Roma, su quanto restava della precedente basilica paleocristiana di S. Clemente, un nuovo edificio ecclesiale in forme romaniche, dal forte sviluppo longitudinale. Qui venne per la prima volta composta la pavimentazione in marmi colorati a disegni geometrici detta cosmatesca, poi diffusasi largamente. Il monumento romano più importante del xii secolo fu però la basilica di S. Maria in Trastevere (1140), la cui composizione volumetrica è analoga a quelle della basilica di Montecassino e di S. Angelo in Formis, costruite un secolo prima. La si ritiene espressione di un importante revival paleocristiano, per l’utilizzo di pregiati pezzi di spoglio, oltre che per la sobria solennità degli spazi, matrice di molta architettura ecclesiale romana tra xi e xiii secolo. Dall’esterno è ben leggibile l’impianto basilicale e il robusto campanile in laterizio. Nel xii secolo il chiostro, spazio monastico, per eccellenza, fu utilizzato anche come cortile porticato, di solito a pianta rettangolare, affiancato a chiese o collegi religiosi. I chiostri romani di S. Paolo fuori le mura (prima metà del xii secolo) e di S. Giovanni in Laterano (1215-1232) sono due esempi monumentali di tale nuova funzione. Entrambi edificati in occasione di una riforma interna delle congregazioni religiose dei canonici, insediate presso le basiliche, sono ornati da colonnine binate mosaicate che sorreggono le arcate perimetrali. L’estrema cura dei particolari fu merito della bottega romana dei Vassalletto, che controllò integralmente i due cantieri. 158
Trani, Cattedrale (a fianco e in basso). La cattedrale romanica di Trani (Bari), dedicata a S. Nicola Pellegrino, ha facciata a capanna a doppio spiovente rivestita in liscia pietra di colore rosato. Alla sua destra si alza un robusto e slanciato campanile a base quadrata. Un transetto molto alto chiude al fondo la chiesa, completato da tre più basse absidi semicircolari.
Ad Assisi venne aperto nel 1228 il cantiere per la costruzione di una basilica dedicata a san Francesco, l’uomo che più affascinò i suoi contemporanei, non solo nella penisola italiana. La chiesa fu voluta da subito come sovrapposizione di due grandi aule. Quella più bassa doveva assolvere alla funzione di custodia del corpo del santo, qui traslato nel 1230; la superiore fu voluta come cappella papale. La proprietà del complesso, concesso in uso ai frati minori, era della Santa Sede di Roma. Vi lavorarono maestranze di artisti francesi e tedeschi, soprattutto lasciarono importanti testimonianze del loro genio Cimabue, Jacopo Torriti, il Maestro di S. Francesco, Giotto e i giotteschi, che formarono squadre di artisti fiorentini, romani e senesi. Il nitido volume esterno della chiesa, con l’ampia e liscia facciata a capanna, si staglia col suo profilo contro il cielo come uno scrigno che protegge sotto l’unico tetto frutti di santità e di arte. Nei toni chiari della pietra del vicino Monte Subasio, si ricollega alle molte, più piccole e meno celebri, chiese romaniche dell’Umbria. Tra xii e xiii secolo vennero aperti in Italia, soprattutto in Toscana, cantieri nei quali progettisti e maestranze si trovarono impegnati a risolvere problemi complessi e di grande scala. Fu questa la situazione, ad esempio, del Duomo di Siena, causata dal sovrapporsi di concezioni spaziali diverse, che comportarono distinte fasi costruttive. Iniziato, sul sito di una precedente chiesa, nel 1226, il suo cantiere venne dapprima diretto da monaci della vicina abbazia cistercense di S. Galgano – fra’ Vernaccio, fra’ Melano, fra’ Maggio – che, tra 1245 e 1268, vennero affiancati da Nicola Pisano. Ai primi si deve la strutturazione della cattedrale secondo una planimetria a croce latina, ma con grande sviluppo dell’area presbiteriale, come nelle cattedrali gotiche del nord. Al secondo sono attribuiti il definitivo perfezionamento dell’impianto generale della fabbrica, l’erezione della cupola sulla base di un tamburo a due registri, il più alto dei quali a perimetro esagonale e il più basso dodecagonale, l’imponente apparato decorativo interno. 159
In una seconda campagna costruttiva, tra 1295 e 1296, Giovanni Pisano aggiunse al coro una campata e realizzò la parte inferiore della facciata, con originale interpretazione scultorea dei programmi iconografici delle cattedrali francesi. Per dissensi interni al Consiglio della fabbrica, Giovanni Pisano si allontanò da Siena nel 1296. La facciata venne completata a partire dal 1376, in uno stile più coloristico, da Giovanni da Lecco, che la concluse con tre cuspidi sommitali. Il potere economico e le ambizioni dei senesi, nel periodo del Governo dei Nove (1287-1355), avevano nel frattempo stimolato le maestranze del cantiere a elaborare un monumentale ampliamento della fabbrica. Nel 1317 essa venne sopraelevata e voltata la navata maggiore longitudinale e venne ampliato il coro. Nel 1339 vennero gettate le fondazioni per inserire, nel fianco sud-est della chiesa e ortogonalmente rispetto al volume già costruito, un grande corpo basilicale a tre navate. Esso avrebbe dovuto trasformare il primo nel transetto di una cattedrale gigantesca. Vi lavorarono gli architetti Lando di Pietro, autore del progetto generale, e i fratelli Giovanni e Domenico di Agostino. L’insorgere di problemi di ordine tecnico, ma soprattutto le crisi economiche causate dalla peste del 1348, indussero i senesi ad abbandonare le loro ambizioni e ad attenersi alle definizioni di progetto del 1317. La piazza centrale di Firenze venne occupata, dall’xi al xv secolo, da un susseguirsi di attività di cantiere tra i più importanti, per gli esiti raggiunti, in tutta Europa. Vi venne eretto, tra xi e inizio xiii secolo, il Battistero, in forme romaniche che fondevano una nobile e robusta classicità con suggestioni lombarde. Elevato su pianta ottagonale, tramite robusti muri quasi completamente ciechi, rivestiti all’esterno da tarsie marmoree bianche e verdi, il monumentale e sobrio volume cela, sotto la copertura del tetto a otto spioventi, una grande cupola rivestita da mosaici. La costruzione della cattedrale di S. Maria del Fiore (1296-1434) di fronte al Battistero è sicuramente espressione del massimo livello ideativo ed esecutivo raggiunto dall’architettura gotica italiana. La cattedrale attuale è versione ampliata del primo progetto, elaborato alla fine del xiii secolo da Arnolfo di Cambio, con ogni probabilità autore di molti altri edifici fiorentini, come la Chiesa di S. Croce (1294-1295) e il Palazzo dei Priori (1299). Costruita sul luogo della chiesa di S. Reparata, essa venne iniziata nel 1296; Arnolfo diresse i lavori fino alla morte (1302-1310). Il cantiere rallentò da quel momento fino al 1334, quando venne dato l’incarico di concludere la fabbrica a Giotto (1334-1337), che si occupò però quasi solo dell’attiguo campanile. Tra 1337 e 1349 venne nominato direttore del cantiere Andrea Pisano, tra 1349 e 1366 lo divenne Francesco Buontalenti. Nel 1357 quest’ultimo ingrandì l’organismo arnolfiano col prolungamento dell’aula longitudinale e l’ampliamento della vasta area presbiteriale polilobata. Iniziò anche a predisporre il rivestimento delle superfici in marmi policromi, opere concluse solo nel 1421, quando già era in costruzione la cupola brunelleschiana. La facciata rimase invece incompiuta fino al xix secolo. Dall’alto e dal basso il monumento, completamente isolato al centro di una piazza irregolare, è ben leggibile nella sua articolazione volumetrica e planimetrica. Venne qui 160
Siena, Duomo. Imponente e incompiuta cattedrale il cui cantiere fu affidato, nel 1196, a una deputazione di senesi denominata l’Opera del Duomo. Tra 1238 e 1285 la direzione dei lavori venne però assunta dai monaci della vicina comunità di S. Galgano. Il campanile romanico venne alzato incorporando una torre preesistente. Il Duomo domina sulla piazza grazie anche a una piattaforma a gradinate sulla quale appoggia.
portata a compimento la fusione tra pianta longitudinale e pianta centrale sperimentata a lungo a partire dalle prime chiese tardo-antiche e medievali. Il modello fiorentino, in particolare, era già stato tentato nella chiesa di S. Fedele a Como e nel Duomo di Siena, senza però raggiungere gli esiti di volumetria solida e compatta qui pienamente espressi. Concorse al perseguimento di tali esiti eccezionali anche la realizzazione della cupola di Filippo Brunelleschi (1337-1446), realizzata, a seguito di un concorso indetto nel 1418, tra 1420 e 1436. L’enorme volume a doppio guscio, riferimento imprescindibile 161
Amalfi. La più antica repubblica marinara della penisola italiana, si sviluppa nella Valle dei Mulini che scende ripida verso il mare. Ebbe un ruolo importante nelle lotte, lungo le coste, contro i Saraceni.
A fronte: Firenze, Duomo e Battistero. Il complesso è il cuore della città, sintesi vertiginosa di stili diversi e testimone ineguagliato di un’arte rappresentativa dei valori dell’intera penisola italiana.
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per la cupola michelangiolesca di S. Pietro in Vaticano, fu occasione per l’installazione e la gestione di un cantiere, nel quale Brunelleschi mise a frutto invenzioni di macchine e gestione dei lavori di assoluta novità. Oltre ai molti cantieri di grandi dimensioni qui sopra brevemente ricordati, si dovrebbero almeno nominare quelli meno imponenti ma non per questo meno importanti dal punto di vista storico e artistico, cantieri di chiese che implicarono sovente complesse trasformazioni anche urbane, nel corso di più secoli. A titolo esemplificativo accenno al caso di Amalfi, città libera e potenza marittima di rilievo a partire dal x secolo, situata in posizione strategica per la difesa della costa meridionale italiana dai musulmani, con i quali intrattenne rapporti commerciali con scalo a Costantinopoli. Sede vescovile, la città era centro, inoltre, di un sistema difensivo composto da cinte murate, castelli e torri. Venne conquistata nell’xi secolo dai Normanni e nel xii da Pisa, periodo nel quale venne realizzata una monumentale cattedrale affiancata da un campanile svettante, vicino ad una preesistente costruzione ecclesiale. 163
LUOGHI DI PELLEGRINAGGIO dal xiii al xviii secolo Ferdinando Zanzottera
Attorno al primo importante nucleo monumentale del x secolo, vennero avviate a partire dal Duecento continue opere di trasformazione della chiesa, della piazza circostante, della grande scalinata del palazzo arcivescovile, del Chiostro del Paradiso, fino all’assetto raggiunto all’inizio del xviii secolo, ancora oggi stabile. Con l’inizio della nuova stagione cultuale e artistica del Rinascimento, molti importanti cantieri sarebbero stati aperti, sia per costruzioni civili che per nuovi complessi religiosi. Centri propulsori sarebbero stati Firenze e Roma. In altre città italiane, invece, aspirazioni e gusti artistici ancora prettamente medievali, sia nelle inflessioni linguistiche che nei metodi costruttivi, si sarebbero intrecciate con le nuove ricerche, anche grazie all’apporto diretto di architetti che in esse avrebbero soggiornato, partendo da Firenze e da Roma. A Milano, ad esempio, sul finire del xiv secolo venne iniziata con il sostegno del Duca Gian Galeazzo Visconti, il cui nome è legato anche alla fondazione della Certosa di Pavia, la cattedrale. Iniziata nel 1386, fu voluta come locale e originale, benché tarda, realizzazione gotica. Il progetto fu esito della collaborazione di maestri locali e stranieri, soprattutto francesi, tedeschi e fiamminghi. Pochi decenni dopo, Francesco Sforza fu invece promotore di un importante complesso civile, l’Ospedale Maggiore. Iniziato a metà del xv secolo, fu impostato dall’architetto fiorentino Antonio Averulino, detto il Filarete (1400-69), su uno schema che implicava sintesi di soluzioni spaziali medievali e rigore geometrico e ritmico pienamente rinascimentale.
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Veduta della cattedrale di Milano nel contesto urbanistico, vista dal fianco sud-est.
In basso: Torri familiari nel centro di Pavia.
In continuità con la prima tradizione cristiana, nel lungo arco temporale del Medioevo si determinò un incremento continuo della pratica del pellegrinaggio, inteso come visita ai luoghi santi e alle comunità, religiose e monastiche, insediate nei loro edifici o nelle immediate vicinanze, come custodi di memorie o di reliquie e come promotori del richiamo a una vita modellata su figure ritenute esemplarmente sante. Con il passare dei secoli il vasto fenomeno impose importanti trasformazioni territoriali, in particolare diede luogo a un sistema di collegamenti viari a scala europea. Implicò anche più facili scambi commerciali, mutamenti sociali e la nascita di specifici ordini religiosi. Oltre alle pratiche della visita e della preghiera, il pellegrino esprimeva il proprio diretto rapporto col divino nei riti, ma anche baciando, toccando le reliquie e bevendo o bagnandosi alle fonti, ritenute miracolose. Il numero sempre maggiore di fedeli dediti ai pellegrinaggi e l’importanza acquisita da alcune chiese e santuari, capaci di radunare folle sterminate, furono le cause fondamentali dell’invenzione di adattamenti dello spazio interno di molte chiese alla doppia esigenza liturgica e devozionale. Da tali fattori prese origine, ad esempio, la insistita inserzione di una cappella sotterranea, o cripta, con conseguente innalzamento dell’area presbiteriale e, in altri casi, la formazione del deambulatorio. Nel Medioevo la devozione dei pellegrini si concentrò soprattutto attorno ai santuari di alcune località, legate per storia alla Terra Santa e a Gerusalemme in particolare. Santiago de Compostela e soprattutto Roma, centro della cristianità e luogo di sepoltura di san Pietro e di molti Martiri, furono i due poli centrali del sistema devozionale europeo, attivo per lunghi secoli, in forme sempre rinnovate fino a oggi. Le principali stazioni devozionali del territorio italiano fecero parte della rete di collegamento di queste due importanti mete, gerarchizzandosi e proponendo soste intermedie. Anche i luoghi di culto dotati di propria forza d’attrazione, come il celebre santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo (Foggia), non furono del tutto estranei alla trama di questi percorsi. 165
Molti monasteri promossero un’estensione e un rafforzamento dei loro possedimenti sulle vie dei pellegrini; vennero inoltre fondati alcuni ordini religiosi con lo scopo di difendere e curare i pellegrini, liberando persino quelli tra loro che fossero divenuti prigionieri degli infedeli. Tra questi si annoverano i Templari, l’Ordine dei Fratelli Ospitalieri o di San Giovanni Battista, l’Ordine Teutonico, i Cavalieri di Cristo o Fratelli della spada, l’Ordine di Calatrava, i Trinitari, i Mercedari od Ordine di Nostra Signora della Mercede e l’Ordine di Contesa. Molti di essi elaborarono proprie tipologie architettoniche, che esportarono nelle regioni di loro influenza, tra le quali anche la penisola italiana. La rete di collegamento di questo insieme con la trama delle strade di pellegrinaggio fu importante via di trasmissione e diffusione dell’arte e delle diverse tipologie di architettura ecclesiastica, oltre che canale di facile comunicazione dei valori cristiani. Lo stabilizzarsi, per lunghi secoli, di una teologia e di una spiritualità fondate su Dio interpretato come giudice, cui era legato il destino ultraterreno, di salvezza o di condanna dei credenti, comportò che la pratica del pellegrinaggio divenisse metodo comune per l’espiazione dei peccati. L’accentuarsi di tale concezione e dello stretto nesso che essa implicò tra patrimonio liturgico, ancorato ad aspetti dottrinali della traditio apostolica, e devotio carica di emotività soggettive, ha dato luogo, per l’insorgere di un contesto comunitario cristiano solido fino a tempi recenti, a una religiosità di tipo popolare. Quest’ultima venne continuamente alimentata nel corso dei secoli sia dall’istituzione ecclesiastica che da ordini religiosi e da singole personalità carismatiche. Chiese, cappelle, cippi, stazioni di pellegrinaggio locali, luoghi dedicati alla memoria di eventi, collettivi e individuali, composero, di conseguenza, una propria geografia, particolarmente ricca e varia nella penisola italiana. L’emergere di istanze riformatrici, nel xii-xiii secolo con l’insorgere degli Ordini mendicanti, le inventiones e le traslationes di reliquie e immagini sacre da una sede all’altra contribuirono alla strutturazione di poli territoriali di pellegrinaggio, quali la Basilica di S. Francesco a Paola, di S. Antonio a Padova e di S. Francesco ad Assisi, dove era possibile ricevere il Perdono di Assisi: non la remissione, ma la totale cancellazione di ogni peccato. Dalla cultura e dal sentimento religioso della società del xv secolo, che vollero avere raffigurazioni e duplicazioni dei luoghi della Terra Santa difficilmente raggiungibili da molti, scaturirono, invece, i prodromi dei Sacri Monti, che si diffusero largamente nell’Italia settentrionale e in alcune regioni europee nei secoli successivi. Essi sono composti da un complesso di cappelle, generalmente collocate sul pendio di un monte, disposte lungo un percorso che rievoca, per tappe, i momenti salienti della vita di Cristo, della Vergine e, più raramente, di un santo. La prima idea di Sacro Monte non maturò in Italia; è invece da ascrivere al padre domenicano Alvarez che, intorno al 1420, pensò di realizzare una riproposizione schematica dei luoghi cristiani di Gerusalemme, per consentire a tutti gli uomini una sorta di pellegrinaggio alla Città Santa, in quel momento dominata dai sultani mamelucchi. 166
Il santuario di S. Michele Arcangelo sorge all’interno dell’abitato di Monte Sant’Angelo, cittadina nata nel v-vi sec. attorno al santuario. Modificato e ricostruito più volte nel corso dei secoli, l’attuale santuario è preceduto dal rettangolare Piazzale della Basilica, sulla quale si erge l’alto campanile ottagono costruito tra il 1274 e il 1281.
Pagine seguenti: Sacra di S. Michele. Sorto probabilmente sui resti di un oratorio longobardo, il monastero divenne fondamentale luogo di passaggio di pellegrini in epoca medievale. Il complesso piemontese manifesta l’affascinante stratificazione subita dal complesso abbaziale nello scorrere di molti secoli e dei restauri eseguiti nell’Otto-Novecento. Padova, Santuario di S. Antonio. Fu edificato a partire dal 1232 inglobando la chiesa di S. Maria Mater Domini del xii sec. Parzialmente distrutto da calamità naturali (1394) e da due incendi (1567 e 1749) la sua costruzione, romanica e gotica, risente anche degli influssi provenienti dall’architettura araba e bizantina.
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Cinquant’anni dopo Martin Ketzel pensò di trasformare Norimberga in una nuova Gerusalemme, proponendo espliciti collegamenti, simbolici e formali, tra le due città. Trasformò parte delle architetture locali sui modelli gerosolimitani e propose un percorso che Franco Cardini definisce «fra il processionale, il turistico e il devozionale», situazione che in determinate occasioni e tramite cerimonie civili e religiose faceva di Norimberga un’autentica trasposizione di Gerusalemme. In Italia, invece, tali istanze scenografico-ricostruttive furono recepite per la prima volta da una monaca francescana a Messina che, nel chiostro del proprio convento, propose in scala ridotta la planimetria della Gerusalemme cristiana, basandosi sulle testimonianze dei crociati e dei pellegrini di ritorno dalla Terra Santa. Tali scenografie semplificate dei luoghi santi sono all’origine dei più articolati Sacri Monti dell’arco alpino italiano, il primo dei quali fu Varallo. 170
Sopra e a fronte: Sacro Monte di Varallo. Fu edificato sul finire del xv sec. sulla sommità del Monte delle Tre Croci per riproporre in Piemonte i luoghi visitati in Terra Santa da fra’ Bernardino Caimi. La sua costruzione, interrotta per una prima volta sul finire del xv e l’inizio del xvi sec. ebbe rinnovato fulgore.
In una frammistione di cultura popolare e figurazione colta, che ha dato luogo a una vera e propria antropologia cristiana del sacro, essi costituiscono sistemi architettonico-paesistici funzionali alla partecipazione dei fedeli al dramma della passione di Cristo. In un unico spazio artistico a scala ambientale, il paesaggio, la singola architettura, la scultura, la pittura, vennero coinvolti in una celebrazione offerta sia a vasti gruppi umani che alla devozione del singolo. I fedeli, attraverso l’immedesimazione in ciò che stanno visitando e guardando, utilizzando come scenario della sacra rappresentazione a più tappe il territorio circostante naturale o paesaggi appositamente disegnati, sono infatti facilitati non solo nell’immaginarsi partecipi degli eventi, narrati tramite il sistema ambientale e artistico appositamente costruito, ma anche a constatarne la veridicità. È il loro stesso atto di fede, la loro convinzione a venire corroborata. Ciò avviene nella 171
concomitanza tra azione teologico-drammatica e godimento estetico, esperienza coinvolgente e totalizzante. Il cardinale Carlo Borromeo fece di tale metodo, consono alla cultura del tempo, il proprio privilegiato strumento educativo. Il modello urbano dei Sacri Monti è Gerusalemme, la città più cara al mondo occidentale, osservata però anche attraverso la sua teologica trasfigurazione in Gerusalemme celeste. L’edificazione dei Sacri Monti fu dunque il frutto congiunto di capacità progettuali e istanze teologiche; non fu estranea alla loro configurazione la coeva ricerca archeologica. Essa non si esprimeva ancora nei termini dell’attuale filologia storica, ma come recupero dei molti racconti dei pellegrini in Terra Santa. L’articolazione spaziale per percorso dei Sacri Monti non ha mai un forte impatto monumentale perché non prevale sulle istanze devozionali, oggetto di un’attenta ricerca di artifizi prospettici. Il governo del paesaggio, l’articolazione delle singole cappelle, in adesione a un unitario progetto generale, ancora oggi ben percepibile attraverso la visione aerea, lo studio scenografico dei singoli gruppi scultorei, raccolti per lo più nel volume interno delle cappelle, concorrono nel definire l’unicità del luogo un tempo perfettamente sperimentabile. Prima del xvi secolo il pellegrino poteva entrare dentro le cappelle, divenendo egli stesso parte integrante della scena. Dopo il Concilio di Trento e in seguito alle prescrizioni borromaiche a esso ispirate, tale partecipazione diretta non fu più possibile. Le cappelle vennero anzi dotate di grate lignee e metalliche. Se si considera che erano state costruite per guidare il fedele in un cammino che ne risvegliasse la personale esperienza di fede, si comprende che le grate, alle finestre delle singole cappelle, non impediscono tale scopo. Accentuano anzi l’importanza dello sguardo, educandolo secondo una devozionalità capace di distinguere tra immaginazione e realtà. Si perseguì, inoltre, la realizzazione di cicli pittorici e scultorei all’interno delle singole cappelle dal carattere unitario e con forti richiami allo stile classico, elaborato in forme sobrie. In tal modo si intendeva dar voce alla stabile solidità della Chiesa Cattolica in tempi di continua opposizione alle tesi protestanti. I Sacri Monti, infatti, costituirono anche una sorta di baluardo di difesa dell’ortodossia della Chiesa di Roma: svolsero il ruolo di articolata rete devozionale di confine, capace di contrastare l’avanzamento delle istanze della riforma protestante e calvinista. Per questa ragione la maggior parte dei Sacri Monti venne costruita lungo la fascia alpina. Tra i principali complessi nell’area nord-occidentale, vi è quello, in Valle d’Aosta, di Arnaz; quelli piemontesi di Asti, di Arona, Belmonte sopra Valperga, Crea, Domodossola, Galliate, Graglia, Ghiffa, Montà d’Alba, Montrigone di Borgosesia, Novara, Oropa, San Giovanni d’Andorno, Varallo; quelli lombardi del Cervino, Galliate, Ossuccio, Sassella, Sondrio (ora non più esistente), Torricella 172
A fronte: il Sacro Monte di Oropa, fondato tra 1617 e 1620 su iniziativa del frate cappuccino Fedele da San Germano, è stato inserito nel patrimonio dell’UNESCO dal 2003 ed è considerato il più importante luogo di culto mariano dell’arco alpino.
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Verzate e Varese. Oltre a questi complessi è importante ricordare: il santuario della Madonna del Cavallero a Coggiola, nel quale, nei primi due decenni del xviii secolo, vennero realizzate cinque cappelle con gruppi scultorei in terracotta raffiguranti i misteri gaudiosi della preghiera popolare del rosario; i progetti del Sacro Monte di S. Maria degli Angeli nel marchesato di Masserano; l’ipotesi di edificare, nei pressi della chiesa di S. Maria di Superga, “i misteri del Santo Sepolcro simili a quelli di Varallo”; il desiderio borromaico di costruire un piccolo “Sacro Monte” all’interno della chiesa milanese del Santo Sepolcro. Il sintetico, incompleto elenco qui tracciato, consente di cogliere come il fenomeno dei Sacri Monti abbia interessato un territorio molto vasto, creando un “sistema devozionale del sacro montano” che, attraverso la realizzazione di singoli episodi, si estendeva dal nord-est della penisola italiana fino al versante delle Alpi svizzere e alla fascia appenninica padana. Alcuni di essi furono matrice dell’articolazione spaziale-paesistica di altri Sacri Monti, tramite esportazione dei modelli alpini in altre regioni italiane e in altre nazioni europee e sudamericane. A pochi anni dalla fondazione del Sacro Monte di Varallo, il padre francescano Tommaso da Firenze avviò l’edificazione di S. Vivaldo, nei pressi del capoluogo toscano, ancora oggi integro, testimonianza dell’originaria spiritualità tardoquattrocentesca. Fondamentale nell’Italia centrale è il Sacro Monte della Verna, custode della memoria di S. Francesco d’Assisi e della sua spiritualità, in quanto «terra santa serafica». Si tratta di un singolare organismo architettonico-naturale, nel quale «è un monte a essere preposto a tutti i monti del mondo», scenario in cui san Francesco rivisse in prima persona il Calvario di Cristo, fino a ricevere le stigmate. Nella seconda metà del xv secolo, per motivazioni religiose e politiche, il Sacro Monte assunse nuove funzioni legate al culto mariano, determinando numerose variazioni architettonico-liturgiche. Questo mutamento anticipava la variazione avvenuta nel secolo successivo nella maggioranza dei Sacri Monti, nei quali lentamente venne ad affievolirsi l’esplicita colleganza di memoria con i luoghi santi di Gerusalemme a favore di una teologia mariana. Fu un processo lento, testimoniato dalla creazione di numerosi percorsi ancorati alla preghiera del rosario, che trovò esemplare conclusione nel Santuario di S. Maria di Superga, costruito da Filippo Juvarra nel 1731 per desiderio di Vittorio Emanuele ii e in ottemperanza di un voto espresso dal sovrano durante l’assedio di Torino del 1706. Più ancorati alla tradizione del Calvario erano i Sacri Monti di pianura, quali il Varallino di Galliate e il complesso del Battistero di Novara, ora non più esistente. A metà strada tra questi ultimi e i Sacri Monti tradizionali si colloca quello di Oropa, realizzato su un altopiano, la cui notorietà è tuttavia legata soprattutto al santuario mariano che subì trasformazioni architettoniche sostanziali con il passare dei secoli. Questo Sacro Monte fu causa di una radicale trasformazione del paesaggio circostante, poiché, a partire dal 1728, venne spianato il colle San Francesco per esigenze scenografiche legate alla visibilità del santuario. 174
Santuario della Madonna di Caravaggio. Consacrato nel 1451, il santuario venne ampliato e ricostruito tra il xv e il xvi sec. L’attuale complesso fu progettato da Pellegrino Tibaldi; il cantiere rimase aperto dal 1575 alla fine del Settecento.
Meno impegnativi da un punto di vista delle modifiche ambientali furono i Sacri Monti di città, quali il complesso della passione nel Battistero del Duomo di Novara, distrutto intorno al 1960, e quello di Genova. Quest’ultimo era collegato all’ospedale urbano, denominato Albergo dei Poveri, la cui edificazione fu decisa nel 1651. Percorsi processionali importanti vennero eseguiti in molte città italiane; erano per lo più collegati con devozioni sentite dall’intera comunità urbana. Grandi interventi sul territorio furono eseguiti a Bologna, trasformata in un certo senso, in una città sacra attorno alla chiesa di S. Stefano, che ospita una delle più importanti riproduzioni occidentali del Santo Sepolcro. Come Norimberga, 175
anche se a scala più ridotta, la città bolognese divenne luogo di una analogia con Gerusalemme. Questa identificazione si affievolì con il passare dei secoli, lasciando il posto ad altre suggestioni devozionali, il cui apice architettonico fu raggiunto con la costruzione dell’ellitico Santuario della Beata Vergine di S. Luca, eretto nelle forme attuali tra il 1723 e il 1757, e al quale si accede tramite un portico di 665 arcate risalenti ai secoli xvii-xviii. I radicali interventi di trasformazione del tessuto urbano di molte città italiane, in gran parte ancora visibili da un’osservazione dall’alto, nel Cinquecento tennero conto di un intreccio di esigenze tra le quali furono determinanti le espressioni collettive di vita religiosa. A Venezia, ad esempio, tra il 1529 ed il 1560, vennero eseguiti interventi importanti nella piazza della Basilica di S. Marco, consacrandola definitivamente a centro del potere religioso e civile della Repubblica. Il rinnovamento urbano più significativo, sotto il punto di vista che qui interessa fu, però, quello attuato in Roma a partire dalla seconda metà del xv secolo, quando Nicolò v diede ordine di edificare i Palazzi Vaticani. Il suo intervento venne concluso dalle opere realizzate durante il pontificato di Sisto v (1585-1590), che rinnovò il volto della città facendo tracciare nuovi assi viari che organizzarono un sistema urbano di diretta connessione dei maggiori centri di culto e di pellegrinaggio. Anche l’assetto urbanistico di Milano nel xvi secolo risentì fortemente dell’impegno controriformistico e dell’adesione di san Carlo Borromeo ai dettami del Concilio di Trento. Il cardinale infatti incentivò la costruzione di alte colonne, sormontate da croci, in punti strategici delle strade urbane, affidandone la cura alle Compagnie della Santa Croce, delle quali la sola confraternita di Porta Tosa superava le 1.500 persone. Egli assegnò inoltre a ogni confraternita una colonna, ai piedi della quale gli iscritti dovevano ritrovarsi tutte le sere per pregare e dalle quali ogni venerdì gli stessi dovevano partire per recarsi processionalmente al Duomo, dove veneravano la reliquia del Santo Chiodo. In questo modo l’intera città di Milano si trasformò in una vera e propria città rituale. La pietas cinquecentesca e il cattolicesimo post-tridentino sei-settecentesco comportarono un generale rafforzamento del culto mariano, che condusse all’edificazione di nuovi santuari dedicati alla Santa Vergine oltre che all’ampliamento di quelli già esistenti. Alla fine del xvi secolo risale, ad esempio, l’edificazione dell’attuale santuario di Caravaggio (Bergamo), il cui imponente impianto plani-volumetrico è opera di Pellegrino Tibaldi (1527-1596). Nel Cinquecento venne infine attuata la trasformazione di uno dei santuari mariani principali della cristianità: il Santuario di Loreto. Secondo una importante e molto diffusa devota tradizione, quando i crociati furono costretti ad abbandonare la Palestina (1291) «per mistero angelico», molte pietre del luogo vennero trasportate in Illiria, a Tersatto, Croazia. Da lì misteriosamente giunsero a Loreto, il 10 dicembre del 1294. Gli studi archivistici hanno però documentato storicamente che le mura della Santa Casa, nucleo centrale del santuario, giunsero a Loreto per iniziativa della nobile famiglia Angeli. 176
Loreto, Santuario della Santa Casa. Costituisce uno dei principali luoghi religiosi italiani. L’attuale costruzione fu edificata a partire dal 1468 e i lavori si protrassero ininterrottamente fino al xviii sec. La chiesa è preceduta dall’imponente piazza della Madonna sulla quale si affacciano il Palazzo Apostolico, iniziato dal Bramante, il Collegio Illirico e lo svettante campanile eretto tra il 1750 e il 1754 dal Vanvitelli, il quale utilizzò come modello la torre campanaria borrominiana della chiesa di S. Andrea delle Fratte di Roma.
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CITTÀ IDEALI, CITTÀ MILITARI dal xv al xviii secolo
Maria Antonietta Crippa e Ferdinando Zanzottera
Fu il papato a intervenire direttamente come protagonista di primo piano nelle grandi opere per la realizzazione del santuario lauretano, favorendo, a partire dalla seconda metà del xv secolo, l’apertura in città di importanti cantieri a carattere civile, militare e religioso. I lavori coinvolsero importanti artisti ed architetti, quali Bramante (1444-1514), Andrea Contucci detto il Sansovino (ca. 1460-1529), Antonio Sangallo il Giovane (1483-1546), Baccio Pontelli (ca. 1450-1495) e Luigi Vanvitelli (1700-1773). Essi attuarono radicali trasformazioni che ancora oggi segnano il territorio e che influirono sull’economia di una vasta area. Accanto al santuario di Loreto, infatti, fu costruito il Palazzo Apostolico, mentre nella seconda metà del xvii secolo imponenti bastioni pentagonali furono edificati a difesa della cittadina e del suo santuario.
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Loreto, Santuario della Santa Casa. Veduta del complesso nella sua estensione longitudinale.
La doppia articolazione tematica di questo capitolo tiene conto delle importanti conseguenze del trasferimento a scala urbana, pertanto nelle trasformazioni di città esistenti o nella fondazione di quelle nuove, della teoria della rappresentazione prospettica, elaborata per la prima volta nel trattato De re aedificatoria di Leon Battista Alberti. Tale teoria, che può essere interpretata come espressione di un’unitaria e idealizzata concezione della città, diede luogo a inediti interventi di riordino o di inserimento, di frammenti urbani rinascimentali, entro contesti di disegno generale medievale. Fu inoltre il punto di partenza dal quale scattò l’attuazione di numerose nuove città militari, concepite integralmente su base geometrica, sia nella struttura viaria, dalla quale dipese la tessitura edilizia, sia nel sistema perimetrale fortificato, articolato in mura rettilinee e robusti bastioni. Si trascura di parlare qui della ampia produzione trattatistica, prodotta lungo il Quattrocento e il primo Cinquecento da architetti e umanisti di primo piano, una produzione dedicata alla letteraria prefigurazione di una città ideale, che non trovò in nessun caso attuazione integrale. Si trascurano pertanto anche tutte quelle idee, descritte in prosa o disegnate, che consentirebbero di collegare tra loro le immagini, suggerite dai molti trattati prodotti dopo quello albertiano, con le ipotesi schematiche di nuove città disegnate, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, da Leonardo da Vinci. Si ferma invece l’attenzione su due distinte fenomenologie urbane rinascimentali, che rimandano, sia pure in diverso modo, all’unica matrice della città ideale. In primo luogo si considerano quei frammenti, grandi e piccoli, di città di impronta rinascimentale, voluti nel corso di due secoli, con lo scopo di innestare nel tessuto urbano preesistente grandi complessi come chiese, palazzi patrizi, ospedali, per volontà munifica di principi, papi, ordini militari, famiglie signorili. Si esplorarono, tramite tali realizzazioni, forme insediative e di gestione di funzioni d’autorità, capaci di veicolare non solo un rafforzato o conquistato potere politico e sociale, ma anche la sua validità indiscutibile, confermata dal recupero e dalla reinterpretazione delle antiche glorie greco-romane. 179
La seconda fenomenologia qui presa in esame riguarda le città militari, la cui costruzione fu resa necessaria in conseguenza del generale riassetto territoriale degli Stati italiani, in funzione sia strategico-difensiva che economico-produttiva, a partire dai primi decenni del Cinquecento. Prototipo del primo gruppo sono i frammenti urbani di Pienza e Urbino, caratterizzati da strette connessioni tra ridisegno di un brano di città e utilizzo di aulico linguaggio rinascimentale. Il primo comportò la trasformazione del nucleo centrale nel medievale borgo di Corsignano. Quest’ultimo infatti divenne Pienza a seguito del progetto urbano e architettonico realizzato da Bernardo Rossellino (1409-1464) e voluto da Papa Pio ii, al secolo Enea Silvio Piccolomini, attorno al 1460. Nel tessuto preesistente venne aperta una grande piazza-sagrato, antistante al Duomo anch’esso di nuova costruzione, mentre nell’immediato spazio circostante furono allargate alcune strade e costruiti nuovi palazzi armonizzati con importanti preesistenze signorili. Città in forma di palazzo venne definita dal letterato cortigiano Baldassarre Castiglione la celebre trasformazione urbinate, attuata, a partire dal 1455, su progetto di 180
Pienza (in alto e a fianco). Il complesso monumentale che disegna piazza Pio ii fu progettato, come organismo unitario sotto il profilo architettonico e urbanistico, da Bernardo Rossellino. Vi si affaccia la Cattedrale, composta da volumi, delle navate e del transetto, di uguale altezza. La facciata in travertino, verticalmente strutturata in tre campi, è coronata da un timpano con al centro lo stemma di Papa Pio ii. Sul fianco si appoggia un campanile ottagonale cuspidato.
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Luciano Laurana (1420-1479) e di Francesco di Giorgio Martini (1439-1502), opera complessa, ricca di sorprese prospettiche e di articolazioni fra spazi urbani di alta qualità cortigiana e robuste strutture fortificate e di avvistamento. Iniziano inoltre nel Quattrocento, ma proseguono anche nel Cinquecento, sia la ristrutturazione di Mantova che quella, ancor più importante voluta da Ercole i d’Este, a Ferrara con l’addizione, dal suo nome chiamata erculea. Si è trattato dell’apertura, nelle due città, di grandi cantieri rinascimentali, in cui fattori di composizione architettonica fondata su scelte di regolarità e di irregolarità si sono reciprocamente intersecati, secondo una matrice complessa, garantendo una continuità del primato della geometria, innervata su assi prospettici e lunghe visuali, non rigidamente intesa, secondo una tradizione di cultura della varietà propria delle città europee e italiane. Città capitali come Milano, Firenze, Roma, Venezia, conservano ancora oggi importanti e monumentali segni di questa fase rinascimentale di trasformazione che ne ha nobilitato larghi settori. Molte città di nuova fondazione, concepite secondo unitaria e geometrica forma urbis all’inizio del Cinquecento, furono invece solo iniziate in questi modi; in seguito crebbero in forme diverse dalle originarie legate a locali interessi. Tra le più importanti Sabbioneta, avviata nel 1560 con l’ambizione di dar vita a una nuova Atene da parte di Vespasiano Gonzaga, fu solo abbozzata secondo l’originario progetto di unitaria armonia geometrica. Analogo destino toccò a una piccola città pugliese, Acaja (1535), realizzata tramite ristrutturazione di un modesto borgo, sul modello ideale del disegno di Sabbioneta. In Toscana, funzione e aspetto diverso dall’originale planimetria di matrice ideale assunsero presto le due città portuali di Livorno (1576) e di Portoferraio (Cosmopoli fu la sua prima denominazione tra il 1548 e il 1559). L’ideale forma urbis dei trattatisti fu dunque soprattutto un’idea forte, un’immagine letteraria e grafica decisamente simbolica, in grado di lasciare un fisico e non schematico imprinting nelle trasformazioni più importanti. Consentì inoltre di innestare, secondo un’idea complessiva, la costruzione ex novo di città, che sarebbero però cresciute nel tempo secondo dinamiche e assetti fisici diversi dalla matrice di fondazione. La sua notevole forza d’impatto, sull’immaginario di artisti e colti governanti della stagione rinascimentale, affondava le radici in una vagheggiata, ma nella realtà non perseguita, sintesi di urbs e civitas, di armonia cioè tra forma fisica della città e qualità di vita dei suoi abitanti. Con l’inizio del xvii secolo tale modello di riferimento sarebbe stato soppiantato del tutto da aspirazioni a modifiche urbane la cui idealità riguardava la società soltanto, la civitas, e non più l’urbs. Istanze di riforme sociali sono infatti il contenuto specifico della Città del sole (1628) di Tommaso Campanella e della Nuova Atlantide (1638) di Francesco Bacone. Dal xvi al xviii secolo l’ideale città rinascimentale avrebbe però trovato un secondo, importante, tipo di continuità estetico-formale nelle città militari, cui contribuirono anche conoscenze di ingegneria. 182
Sabbioneta. Esemplare città ideale, Sabbioneta (Mantova) fu voluta, per geometrica rielaborazione di un precedente insediamento, dal principe Vespasiano Gonzaga all’inizio del Cinquecento, che la rese sede di una coltissima corte. Il suo Palazzo Ducale o Grande prospetta sull’omonima piazza; retrostante è ben visibile il solido volume ottagonale della chiesa dell’Incoronata, cinquecentesca cappella privata dei Gonzaga. La cinta muraria a pianta esagonale (pagine seguenti, in alto) con i grandi bastioni a cuneo, fu voluta da Vespasiano Gonzaga non per ragioni difensive, ma per esaltare con valori di potenza e dominio sul sito la nuova fondazione della città. Le mura disegnano un esagono quasi perfetto, rientrante solo in corrispondenza di una rocca medievale. All’interno il reticolo viario è rigorosamente ortogonale.
Alle pagine seguenti: Sabbioneta, la città ideale con al centro la piazza principale sulla quale si affaccia la chiesa di S. Maria Assunta e il Palazzo della Ragione. Dal 2008 il sito è iscritto nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’unesco. Tra fortezza e residenza di piacere: il Castello Visconteo di Pavia.
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Il quadro politico-amministrativo italiano, già a partire dal xv secolo, aveva contribuito decisamente alla nascita e allo sviluppo di strumenti difensivi territoriali, attuati nella progettazione di tipologie fortilizie e di intere città fortificate, da edificare in opportuni luoghi, per la difesa di vaste aree geografiche. L’emergere di tale necessità fu una conseguenza dello stabile radicamento di grandi signorie urbane, che avvertirono l’esigenza di rafforzare la città ove risiedevano, perché divenisse inespugnabile oltre che temibile. Doveva inoltre emergere ed essere immediatamente percepibile la loro forza belligerante e la grandiosità della casata. Tale processo, culturale e sociale, fu fortemente influenzato anche dalle conoscenze tecnologiche e dalle capacità costruttive raggiunte in questo arco temporale. Si determinò infatti un eccezionale scatto nello sviluppo delle scienze meccaniche, nell’invenzione delle macchine militari e nella trasformazione conseguente dell’arte della guerra. Fulcro geografico di sperimentazione, anche nella fondazione di città militari come Palmanova, per citare il caso più celebre e ancor oggi ben leggibile, fu l’area nord-occidentale della penisola italiana, nella quale la Repubblica Serenissima di Venezia aveva esteso il proprio dominio. Nel xv secolo, infatti, quest’ultima si trasformò da governo marinaro dedito principalmente al commercio, in potenza continentale con una forte capacità belligerante. La caduta di Costantinopoli del 1453, la presenza dei turchi in Friuli e la crescita della potenza e dell’influenza austriaca nei territori circostanti a essa, furono le questioni più urgenti con le quali la Serenissima si dovette confrontare. Per la propria difesa, il suo governo si impegnò quindi ad aumentare la presenza dei presidi militari, nelle aree di confine e in quelle ritenute più vulnerabili. Nel xv secolo, inoltre, si assistette anche in altre aree della penisola italiana allo sviluppo del sistema difensivo come elemento essenziale della strategia militare-territoriale. Era infatti generale l’impossibilità di risolvere i grandi conflitti attraverso lo scontro diretto, in campo aperto, dei grandi eserciti. La scienza militare consentì dunque, da un lato, un progresso nel rafforzamento della capacità offensiva degli eserciti, attraverso il radicale mutamento tipologico delle armi; dall’altro, promosse l’evoluzione architettonica delle fortificazioni, che ne aumentò la capacità di “volume di fuoco”, cioè di attacco contemporaneo su più fronti con le armi da fuoco. Le città, che erano state regolamentate secondo precisi schemi geometrici quadrangolari o radiocentrici, vennero gradualmente trasformate in modo da avere il perimetro stellare, i cui bastioni fortificati esigevano imponenti lavori di regolamentazione territoriale. Già nei disegni di Antonio Averulino, detto il Filarete (ca. 1400-ca. 1469), architetto fiorentino che svolse la propria attività nel Ducato di Milano e scrisse per Ludovico il Moro un importante trattato di architettura, è possibile rintracciare alcune anticipazioni idealizzate di ciò che diverrà la struttura bastionata, codificata compiutamente da Francesco di Giorgio Martini (1439-1502) e da Antonio e Giuliano Sangallo (1443-1516). L’innovazione architettonico-militare del bastione, inserito 190
Alle pagine precedenti: Palmanova, città militare. Nella bassa pianura friulana, Palmanova (Udine) conserva integro l’impianto di città fortezza disegnato dai Veneziani alla fine del Cinquecento. Eccezionale realizzazione di ingegneria militare, è cinta da cortine con baluardi e fossato molto profondo. Entro il perimetro poligonale, in forma di stella a otto punte, si sviluppa un insediamento il cui impianto viario è rigorosamente orientato verso il centro, Piazza Grande, di forma esagonale.
nella cinta muraria delle città, infatti, non modificò solo la struttura difensiva, ma implicò un radicale mutamento dell’arte della guerra, con evidenti conseguenze urbane e territoriali. Nel corso di un processo evolutivo durato numerosi decenni, le città con cortine difensive di impianto medievale si trasformarono in più moderne macchine urbane belligeranti, nelle quali le merlature con cannoniere vennero sostituite da componenti architettoniche adeguate ai nuovi mezzi di offesa e di difesa. L’evoluzione delle armi da guerra impose altresì un rapporto più stretto tra mura difensive e territorio circostante alla città, ancora visibile in molti insediamenti tramite una visione dell’abitato dall’alto. La necessità di rendere più difficile l’avvicinamento dell’artiglieria nemica alla città, impose l’uso di costruire corpi avanzati e articolati, che consentissero di scomporre, in diversi tipi di operazioni belliche e in diverse fasi temporali di sviluppo, la difesa urbana. Fossati poligonali collocati in posizioni strategiche, colmi d’acqua oppure no, rivellini, terrapieni geometricamente complessi e “tenaglie” furono i modi più diffusi tramite i quali le fortificazioni difensive urbane si estesero sul territorio circostante. Oltre a essi e spesso come supporto al loro utilizzo, vennero organizzate, in continuità con le fortificazioni urbane, articolate reti difensive basate sull’edificazione di differenti centri fortificati che costringevano l’assalitore a ripetere più volte combattimenti e assedi. Le trasformazioni che occorsero dal xv secolo in poi nella fortificazione di molti centri cittadini, modificarono in qualche caso radicalmente l’aspetto generale delle città, non solo il loro perimetro. È il caso, ad esempio, di Bergamo, Padova, Gallipoli e Treviso, oltre che di un gran numero di centri minori. Udine fu invece interessata, nel xvi secolo, da un importante progetto, non realizzato, di rifacimento delle fortificazioni, che prevedeva l’allargamento e la demolizione di una parte delle mura esistenti per una regolamentazione anche planimetrica della città. Tale progetto mirava a una regolamentazione formale di tutta la città, basata su criteri militari aggiornati, che divenne modello per gli interventi di Giulio Savorgnàn (ingegnere militare Soprintendente generale delle fortificazioni del territorio veneto) a Nicosia, dove realizzò una struttura muraria difensiva rigidamente geometrica, nel perimetro di poligono regolare di undici lati. Si sviluppò lungo il xvi secolo, nell’area nord-orientale della penisola italiana dapprima, e successivamente anche altrove, un vivace dibattito sull’opportunità di edificare sistemi difensivi che rispettassero una serie di prescrizioni geometriche basandosi su una purezza figurativa oltre che sulle logiche militari. A tale indirizzo si contrappose la posizione di molti, teorici e architetti militari, che sostenevano la necessità di fondare l’edificazione delle nuove strutture murarie difensive sulla conformazione naturale del terreno. I rinnovamenti perseguiti da Francesco Maria della Rovere a Senigallia, gli sforzi profusi dalla Repubblica Serenissima nella trasformazione quasi secolare delle mura difensive e la struttura urbana fortificata di Bergamo sono poli rappresentativi di tali 191
opposti atteggiamenti, che consentono di cogliere gli intrecci tra cultura del progetto urbano e cultura militare. Lo scenario politico apertosi nel 1428, con l’annessione allo Stato di Venezia di molti possedimenti viscontei, pose la città di Bergamo in una condizione strategica responsabile della sua configurazione nei secoli successivi. Scartando la possibilità di una difesa della città tramite una maglia geometrica regolare interna, conclusa da regolare perimetro fortificato, si predilesse un intervento di modifica dell’edificato urbano, che poté essere concluso, almeno nei suoi elementi fondamentali, solamente nel 1588. In ottemperanza ai desideri del signore Della Rovere di proteggere i borghi produttivi e redditizi disseminati attorno al nucleo urbano antico, si attuò la difesa unitaria del territorio mediante la costruzione di una grande cerchia muraria, seguendo gli esempi già realizzati a Brescia e Verona da Andrea Gritti (1454-1538) a partire dal secondo decennio del xvi secolo. A Bergamo, tuttavia, tale rafforzamento difensivo comportò anche la demolizione di alcuni importanti monumenti storici della città, come l’antica chiesa di S. Pietro, oltre che di centinaia di edifici abitativi che, secondo recenti studi, interessarono quasi il 10% del contesto e che servirono per lasciare il posto all’articolato sistema difensivo e ai nuovi apparati scenografici urbani. L’intervento, quindi, non costituì solo un rafforzamento militare, ma fu occasione per dare a Bergamo una nuova forma, che si riteneva adeguata al controllo diretto sul vasto territorio limitrofo, in quanto potente deterrente per i nemici. L’imponenza delle opere, anche se parzialmente svilita nei suoi caratteri estetici e scenografici, è ancora pienamente percepibile in una visione dall’alto della città. 192
Cittadella, la cinta muraria. Esemplare nucleo urbano murato in collina, Cittadella (Padova) fu realizzata, nel periodo di forte contrasto tra signorie in particolare dei Padovani e dei Trevigiani, come città murata capace di fungere da locale avamposto difensivo, contrapposto alla città in posizione strategica di Castelfranco Veneto. Il reticolo ortogonale delle vie interne contrasta decisamente con il perimetro irregolare ovoidale disegnato da fossato, terrapieno e mura (xiii-xiv sec.).
Balestrate, l’antico tracciato geometrico. Nei pressi del golfo di Castellamare, si sviluppa la cittadina siciliana di Balestrate (Palermo), di antichissime origini, in epoca medievale sotto il dominio degli Aragona. La scoperta di una grande necropoli greca fa supporre l’esistenza nel vi-v sec. a.C. di una importante colonia greca. Il tracciato regolare delle strade del centro lascia spazio per una grande Chiesa Madre del 1800.
Anche la trasformazione di Padova contribuì al mutamento radicale della sua imago urbis, attraverso passaggi non indolori per i suoi abitanti, che comportarono anche l’insorgere di contestazioni interne. La volontà di rafforzarne l’apparato difensivo e l’afflusso di un esercito di notevoli dimensioni in occasione delle guerre comportò, infatti, l’erezione di edifici notevoli dove alloggiare i militari, i depositi delle munizioni, delle strutture di servizio e delle derrate alimentari capaci di sopportare un assedio. Nel 1509, ad esempio, a fronte di una città di 40.000 abitanti, in Padova entrarono 20.000 soldati, ai quali si aggiunsero presto i rifugiati del circondario. In quest’occasione la città civile divenne nel suo insieme un sistema militare. Le devastazioni dei nemici, le espropriazioni e le trasformazioni di edifici privati in caserme o consimili furono gli interventi che causarono tale, se pur temporaneo, disordinato assembramento. I problemi, inoltre, conseguenti alla convivenza tra esercito e popolazione furono le ragioni che spinsero Michele Sanmicheli (1485-1559), nella seconda metà del xvi secolo, a edificare strutture militari apposite nei pressi del perimetro murario e a trasformare il Castelvecchio in cittadella di difesa, dando luogo a una specializzazione funzionale interna alla città, sconosciuta nei decenni precedenti. La sua realizzazione, non solo costituiva una sorta di città nella città, ma rappresentava la messa a punto di un sistema difensivo anche nei confronti degli stessi abitanti della città; restii ad accettare tale mutamento urbano essi infatti non potevano però ribellarsi ai responsabili delle milizie e ai governanti inviati dalla Repubblica Serenissima di Venezia. 193
Una vasta letteratura documenta l’esistenza di un dibattito serrato sull’opportunità di trasformare grandi centri urbani in macchine da guerra. Il caso padovano finì per essere un riferimento di primaria importanza nel clima di una cultura rinascimentale italiana che alimentava le ambizioni di dominio di principi e signori del tempo, ma anche di avventurieri, alimentando una saldatura decisa tra criteri di estetica e capacità di espansione della propria potenza. Nel suo insieme, tale complesso intreccio di fattori diede luogo ad una importante modificazione dell’idea della città che, anche all’interno delle mura, doveva poter ospitare strutture militari adeguatamente progettate e che doveva essere in grado di mantenere in costante efficienza le ampie cerchie murarie e le strutture fortificate. Il dibattito segnò l’evoluzione della trattatistica militare in libri a stampa di città ideali fortificate. In generale la trattatistica cinque-seicentesca basava il disegno delle città sul numero dei bastioni, dal quale dipendeva anche il loro complessivo disegno. Quanto 194
Sviluppato sulla sinistra del fiume Musone, l’antico Castelfranco Veneto (Treviso) fu un borgo medievale spesso utilizzato in funzione difensiva per la sua posizione strategica. Sono giunti fino a noi le mura dal perimetro quadrangolare e importanti resti del castello difeso dal fossato.
maggiore infatti era il numero dei bastioni, tanto minore era l’inclinazione dei loro lati, con implicazioni sulla forma delle cortine difensive e delle scarpate interne di salita. Lo spazio interno urbano veniva duramente coinvolto in tali trasformazioni. È tuttavia evidente che la produzione dei trattati relativi alle città militari e alle città ideali ebbe la sua maggior influenza su alcuni esempi urbani realizzati unitariamente ex novo come nel caso di Sabbioneta e Palmanova, nelle cui forme planimetriche è possibile rinvenire la più avanzata ricerca innovativa della spazialità urbana. In quanto consapevole principe umanista, Vespasiano Gonzaga, tra il 1560 e il 1584, fece costruire Sabbioneta, perché risultasse degna, secondo le sue intenzioni di fondatore, di raccogliere attorno a sé una nuova corte colta, dedita allo sviluppo della scienza e alla cultura, dotata di un insieme di servizi finalizzati a questi scopi. Il suo impianto planimetrico è basato su una struttura irregolare esabastionata, sul perimetro della quale spicca per imponenza il castello. 195
IL TEATRO URBANO
dal xvii al xviii secolo Maria Antonietta Crippa
Volutamente irregolare nella sua forma geometrica, la città possiede una maglia urbana regolare, a composizione quasi ortogonale, ancora oggi facilmente leggibile. Il suo ordinamento si articola avendo come riferimento fondamentale un asse simmetrico longitudinale; ne compongono il centro due piazze, sulle quali si affacciano gli edifici pubblici principali. All’interno della città, infatti, il Gonzaga volle che venissero realizzati l’ospedale, alcune chiese, la biblioteca, la galleria dell’antichità, il teatro e il Palazzo Ducale. Poco più tarda, invece, è l’edificazione di Palmanova, costruita dalla Repubblica Serenissima tra il 1593 e il 1600. Eretta come città militare a matrice urbana, costituisce il vertice delle strutture militari radiocentriche italiane. Edificata con perimetro di poligono regolare rafforzato da nove bastioni, essa venne anche all’interno concepita integralmente per corrispondere alla funzione militare. Il piano viario è composto pertanto da strade concentriche e arterie radiali di collegamento. Il centro della città è costituito da un’ampia piazza, che rappresentava il luogo naturalmente deputato alle esercitazioni militari, sulla quale si affaccia il duomo cittadino, attribuito a Vincenzo Scamozzi (1552-1616). Palmanova non ha perso ancora la propria forma originaria; si deve però segnalare che alla prima fase costruttiva ne seguirono altre, soprattutto lungo il perimetro, che comportarono la stratificazione delle strutture difensive. Bastioni, rivellini, falsabraghe, logge e baluardi sono invece gli elementi difensivi all’interno delle mura lungo alcune specifiche direttrici, che hanno subito con il passare dei decenni alcune modificazioni. Al periodo della dominazione francese, ad esempio, è da ascrivere la costruzione delle caponiere e di nuove caserme e polveriere, progettate dal Laurent (comandante in capo del Genio in Italia) tra il 1808 e il 1813. Di origine settecentesca è Grammichele, il cui impianto urbano perfettamente esagonale a orditura centrica fu realizzato in seguito al terremoto che colpì la Val di Noto nel 1693, provocando la distruzione di Occhiolà e la morte di quasi la metà della popolazione. Per evitare una diaspora dei sopravvissuti Carlo Maria Carafa Branciforte, principe di Butera, decise di edificare una nuova cittadina la cui matrice culturale si trova nei trattati architettonici sulle città ideali e militari cinquecentesche, anche se nell’insediamento di Grammichele la funzione militare-difensiva è completamente assente. Una delle sue caratteristiche principali fu la collocazione, nella piazza centrale esagonale, di una grande meridiana con al centro uno gnomone, per porre la città in diretta corrispondenza con la “città del sole”. Il piccolo centro urbano siciliano si discosta però dalle città rinascimentali per l’inserimento, coerente con l’idea stessa originaria, del palazzo baronale e delle tre chiese di S. Anna, S. Spirito e S. Leonardo, lungo le direttrici radiocentriche. Benché risulti ancora perfettamente leggibile il suo impianto planimetrico esagonale, attualmente il suo rapporto con il territorio è variato a causa dell’edificazione settecentesca di alcuni edifici interni alla città oltre che in ragione dell’incremento demografico del secolo successivo, che hanno portato a una lenta variazione dell’andamento planimetrico originario.
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Se si osserva dall’alto un frammento di città, nel quale singoli episodi di architettura siano stati collegati tra loro in modo da comporre un’unità di luogo identificata dal grande vuoto di una piazza o di uno slargo, oppure da un tratto ben definito di strada, in qualche caso perfino da un giardino, lo si percepisce immediatamente come avvolgente scenario di molte relazioni umane, più o meno quotidiane e varie. L’insieme delle architetture, componendo uno sfondo che disegna un alzato perimetrale dal profilo rettilineo oppure mistilineo, risulta cornice di vita in rapporto non solo con le persone in movimento visibili nello spazio all’aperto, ma anche con quelle attive al loro interno. La loro presenza è segnalata dai portali, dalle finestre, dai balconi, dalle terrazze e dai cortili interni degli edifici, che, insieme alla morfologia delle componenti volumetriche, danno ragione di una loro abitabilità, colta però soltanto nelle risultanti esterne. La dimensione e la complessità morfologica dei volumi architettonici, la loro varietà tipologica, le tecniche costruttive e i materiali, benché solo parzialmente riconoscibili, consentono inoltre di cogliere i tratti sociali più generali del brano di città sotto osservazione. Si può ipotizzare quale o quali ceti vi siano presenti; si possono identificare con precisione la maggior parte delle tipologie edilizie; si può valutare, seppur solo orientativamente, l’entità dei flussi umani, importanti indicatori dell’uso dei complessi. La percezione visiva non usuale, dovuta alla veduta prospettica dall’alto verso il basso, viene in questo modo facilmente introdotta nel gioco compositivo, più o meno riuscito a seconda dei casi, dei raccordi, delle proporzioni e dei ritmi, che compone l’ordinamento di prospetti e di volumi, sia delle singole architetture che del loro insieme. Il brano di città è inoltre in questo modo percepito come lo scenario complesso, ricco nello stesso tempo di segrete articolazioni e di evidenze plastiche, di uno o di più eventi in atto. Città e piccoli nuclei abitati, grandi complessi edilizi, volumetrie architettoniche disposte in spazi di largo respiro, possono sempre essere colte come fondale scenico dello svolgersi della vita, oltre che a partire da punti di vista molto diversi. 197
Il teatro contemporaneo, abbandonando la comoda distinzione della sala degli spettacoli in platea e palcoscenico, riversandosi nelle strade della città, ha stimolato lungo tutto il Novecento, l’esperienza qui sopra tratteggiata. Tuttavia è inevitabile precisare che, per diventare spettacolo, anche l’evento rappresentato direttamente nello spazio della città chiede contesti urbani particolari; deve infatti essere percepito con chiarezza nella sua totalità, sia dal cielo che stando a terra, come fenomeno unico. Occorrono dunque sempre spazi vasti, architetture ben caratterizzate, configurazioni che consentono di percepire l’unità di luogo e di tempo che qualifica gli atti umani e che ne consente la lettura e la comunicazione. Le strette stradine, piane o ripide, di una cittadina medievale, ad esempio, assiepate attorno a importanti monumenti, viste dall’alto sembrano poco più che fessure incise in un corpo monolitico. Se invece le si percorre a piedi, si è incalzati dal susseguirsi concitato di scorci, frontali e laterali, dal sotto in su. Se un belvedere è facilmente accessibile e la cittadina è situata in posizione elevata, si può anche godere di improvvise, sorprendenti vedute panoramiche del contesto circostante; in queste è possibile la percezione di forti scarti di scala tra edifici. La sensazione dominante di chi si muove in contesti di questo tipo è comunque quella di trovarsi all’interno di un corpo complesso, non su una scena di quel corpo che dall’alto può essere rilevato, nella sua totalità, come un organismo unico. Camminando lungo le strade strette o sostando nelle piazze non molto grandi, le facciate dei palazzi e delle chiese formano cortine che scorrono rapide ai nostri fianchi, poco visibili nella loro composizione. Accessibili risultano invece frammenti di spazi interni, visibili da portoni rimasti aperti o dalle finestre. Perché un contesto urbano presenti in senso proprio un evidente carattere scenografico, è necessario che il suo progetto, tramite una o più ideazioni architettoniche tra loro diverse ma orientate a configurare una scena unitaria, consenta la doppia percezione spaziale soggettiva dell’essere dentro un contesto fisico e dell’essere di fronte ad esso. Tale doppia percepibilità non è un dato casuale; al contrario essa è sempre esito di una elaborazione estetica, capace di controllare le relazioni psico-fisiche dell’uomo tra le due condizioni di presenza, modulandone i rapporti dimensionali, le prospettive, le qualità materiche e atmosferiche. È indispensabile dunque riconoscere che un progetto di questo tipo è sviluppato secondo intenzionalità che accomunano l’architettura con un’arte, per natura produttrice di opere effimere e provvisorie, detta scenografia. Si tratta di un’arte che ha consentito una lunga catena storica di rappresentazioni drammatiche, localizzate in uno spazio apposito tramite finzione scenica, a partire dal teatro greco fino alla sala di spettacolo per l’opera lirica moderna. Tali rappresentazioni esigevano sempre un fondale fisso per l’azione drammatica in svolgimento; come è noto, quest’ultimo presto divenne occasione per ricerche spaziali illusionistiche che raggiunsero livelli virtuosistici nella tardo-antichità romana, si pensi agli affreschi di Pompei, e nell’Europa rinascimentale e barocca, raggiungendo effetti luministici e illusionistici capaci di moltiplicazione degli spazi all’infinito. 198
A fronte: Roma, il collegamento pedonale tra la basilica di S. Pietro e Castel S. Angelo (cosiddetto “passetto”) e il rione Borgo.
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Nel Rinascimento vennero dapprima messe a punto scenografie teatrali miste, definite tramite integrazione di pitture e spazi architettonici. L’arte scenografica si specializzò ulteriormente in epoca barocca; la esercitarono due professionisti distinti e complementari: l’inventore di congegni scenici e il pittore scenografo che proponeva i bozzetti. Presto inoltre essa invase le strade e le piazze grazie all’organizzazione di tornei, macchine pirotecniche, apparati pubblici civili e religiosi da parte delle autorità politiche. Fu giocoforza, tra xvii e xviii secolo, imprimere questo stesso carattere alla città, tanto più che si erano investiti gli spazi interni delle architetture dei suoi effetti dirompenti. Occorre però precisare che il tema della scenografia urbana è, in un certo senso, sempre connesso alla postura assunta dallo spettatore, abitante della città stessa; implica infatti l’assunzione in proprio di un esercizio di comprensione delle esplicite valenze rappresentative fissate in forme e colori delle architetture dai loro architetti progettisti, in sintonia con il volere dei committenti. Si tratta di sapere e di poter leggere nel paesaggio urbano i ruoli dei ceti sociali e i valori spirituali oculatamente esaltati nella conformazione generale e nel decoro delle architetture, oltre che tramite scorci prospettici e generali geometrie, fluide e avvolgenti. In generale si può ritenere che in ogni fase della storia della città occidentale sono riconoscibili episodi di qualità scenografica. Spesso infatti piazze di grandi dimensioni e punti di osservazione particolare hanno consentito la composizione di scene urbane efficaci. Tuttavia tali scenografie hanno avuto emergenza episodica, oppure hanno costituito la qualità di un solo brano di città, sono state cioè bloccate in un unico episodio, che poteva essere tuttavia molto importante, dalla forte valenza simbolica. Solo nella stagione barocca, in Roma innanzitutto, la città venne ridisegnata come un grande teatro. Percorrerla significa passare di scena in scena, spesso lungo fluidi percorsi. La sua visione dal basso esalta la varietà plastica delle forme, l’intensità chiaroscurale dei modellati delle superfici, la scattante vivacità dei profili mistilinei, morbidi o segmentati, dei profili alti delle facciate contro il cielo. Riti religiosi e imponenti festeggiamenti e cerimonie pubbliche, lungo le strade e nelle piazze, contribuirono, tra xiii e xviii secolo, a dar consistenza scenica alle città e a legare eventi, terreni e celesti, nell’unica realtà quotidiana visibile. Ciò accadde innanzitutto a Roma, capitale culturale e religiosa segnata da un primo unitario imprinting scenografico alla fine del Cinquecento, dal piano urbano di Papa Sisto v. Iniziato nel 1585, sotto la direzione del capo architetto pontificio Domenico Fontana, esso collegò i principali centri religiosi della città per mezzo di rettilinei e lunghi tracciati stradali. La grande scala urbana dell’intervento, ben leggibile nella sua razionalità se osservata planimetricamente o dall’alto, consentì di cogliere l’intero centro della capitale come visibile trama di “luoghi santi”, capace di irradiare persuasiva energia religiosa nel mondo, già cristiano o da cristianizzare. 200
A fronte: Piazza Navona, con la chiesa di S. Agnese in Agone (arch. Francesco Borromini).
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Papa Sisto v volle comprendere nel suo schema urbano anche le colonne e gli obelischi, utilizzandoli come assi di mira per lo sguardo; costruì inoltre un nuovo acquedotto per rifornire ventisette fontane d’acqua zampillante. Da poco, dalla fine del xv secolo, il mondo noto si era realmente ampliato; la colonizzazione subito avviata delle terre scoperte metteva a disposizione delle arti europee ricchezze insospettate e offriva beni naturali fino ad allora sconosciuti. La ricerca scientifica, dal carattere sempre più scopertamente sperimentale, attraeva artisti e architetti, distraendoli dalla meditazione di precostituite o segrete norme proporzionali armoniche e dall’immagine di città ideali, rigorosamente monocentriche, disegnate in planimetrie dal rigido schema unitario. Il progetto di Papa Sisto v fu modello per la costruzione di scenografie urbane a scala minore, stimolò sperimentazioni percettive ancora sconosciute delle morfologie architettoniche più consolidate, come il palazzo, la chiesa, i collegi religiosi, il tessuto residenziale. I singoli complessi architettonici, a seguito del generale scatto di liberazione soggettiva da regole trattatistiche, maturato nella cultura architettonica artistica romana attorno al 1630, divennero plastici organismi, immersi e insieme generatori di scenografie urbane, scrigni che custodivano al proprio interno scene sconfinate, grazie alla consumata perizia dei pittori quadraturisti. Talvolta, soprattutto nelle chiese, le facciate, totalmente o parzialmente scosse dall’articolazione dello spazio interno, disegnavano fondali spettacolari per la vita della città, proponendo al tempo stesso, in campiture e ritmi compositivi, un rispecchiamento esterno delle partiture volumetriche interne. Le strutturazioni gerarchiche delle membrature vennero inoltre abilmente disposte su prospetti dal profilo ora di accogliente concavità, ora di spingente convessità, spesso invece disegnato in lunghi tracciati sinusoidali o mistilinei. Nella composizione sintattica divennero importanti anche gli spigoli di collegamento dei diversi prospetti, per fondere in unità oppure per elaborare complesse corrispondenze tra piano e piano. Esemplari furono in questo senso le opere dei maggiori architetti romani – Pietro da Cortona (1596-1669), Giovanni Lorenzo Bernini (1598-1680) e Francesco Borromini (1599-1667) – e del modenese, sacerdote teatino, Guarino Guarini (1624-1683), per non citare che le massime personalità innovatrici. In una visione dall’elicottero, scompare nelle loro architetture e in quelle degli architetti che li seguirono nelle medesime ricerche compositive, quella qualità di spettacolo totale, da intendere come perseguita unità delle arti figurative, di matrice berniniana, diffusasi presto in tutta l’Europa. Balza invece in primo piano la forza della modellazione plastica dei volumi, l’importanza della cupola, sia come icona cristiana che come polo d’ordine urbano nella configurazione verticale delle sue membrature, accentuata spesso per contrastare efficacemente la prevalente orizzontalità del tessuto urbano. Il tema della cupola michelangiolesca fu ripreso infatti in innumerevoli varianti e in ogni area barocca della penisola italiana. Borromini propose anche, derivandolo 202
Piazza del Popolo e il “tridente”. In primo piano la porta Flaminia e la chiesa S. Maria del Popolo; all’inizio di via del Corso le due chiese di S. Maria di Montesanto e S. Maria dei Miracoli.
dai tiburi lombardi, lo sviluppo geometrico e sobrio di una diversa tipologia di copertura non voltata. I molti legami di continuità tra il tiburio-cupola borrominiano, che chiude all’esterno la cupola di S. Ivo alla Sapienza in Roma, e quello di Guarino Guarini nella torinese Cappella della Sindone non sono però del tutto leggibili dall’esterno; la loro peculiarità cattura piuttosto nel vertiginoso gioco di geometrie e luce percepibile dall’interno. I vuoti urbani furono, per i due secoli dominati dagli stili barocco e rococò, protagonisti di primo piano: nei momenti nei quali tali vuoti erano sgombri di persone si offrivano come il centro figurativo e geometrico del contesto edificato, che gravitava su di essi. Quando ospitavano scenografiche processioni, civili o religiose, divenivano opere di un’arte totale, che coinvolgeva nella stessa rappresentazione la città circostante, le singole architetture e le persone, con i loro costumi di cerimoniale e gli addobbi. Non occorrevano, nelle piazze, gli sfondati prospettici e le camere di luce, costruite in questi stessi due secoli dentro palazzi e chiese per dilatare gli spazi interni. Il 203
cielo era la loro naturale apertura verso l’infinito, che ne rafforzava la salda chiusura dei recinti perimetrali, oltre che la vivace e composta varietà delle sequenze prospettiche degli edifici, che su di esse si affacciavano. Dall’alto è facile constatare che tali piazze erano concepite come acme di uno sviluppo di modi urbani più o meno linearmente concatenati e coordinati in controllate gerarchie volumetriche. Già nel Cinquecento a Roma erano maturati importanti esperimenti rispondenti a queste esigenze. La rielaborazione del progetto di Michelangelo per Piazza del Campidoglio, ad esempio, compiuta da Giacomo della Porta (1533-1602) a partire dal 1564, già aveva individuato il valore scenico della connessione tra asse stradale e piazza, nella incisiva trasformazione dell’invaso michelangiolesco, chiuso in se stesso, in una piazza che fungeva da solenne quinta di un tratto viario rettilineo, che la raccordava con la sottostante città. Analogamente, la sistina Piazza del Popolo, ancora cinquecentesca, era stata concepita come perno di qualità scenica, che fungesse da raccordo tra la porta principale di ingresso alla città e i suoi quartieri, nei quali penetravano i tre assi stradali disposti a tridente, della piazza. L’assetto scenico originario venne consolidato dalla costruzione di due chiese gemelle, qui iniziate a partire dal 1662, su progetto di Carlo Rainaldi (1611-1691). Tra le piazze romane più squisitamente barocche deve essere ricordata, in primo luogo, Piazza Navona, la cui forma planimetrica ricalca l’antica planimetria dello Stadio di Domiziano, che qui sorgeva. Divenuta nei secoli sede di mercati e di giochi popolari, venne innalzata, da Papa Innocenzo x che qui aveva un proprio palazzo a essa prospiciente, in importante centro di vita civica. Con il disegno dell’ampia facciata della chiesa di S. Agnese (1652-1655) Borromini introdusse un controllato e dinamico contrappunto tra prevalente orizzontalità, dei suoi prospetti perimetrali continui, e verticalità della alta e robusta cupola, portata in primo piano tra le due torri campanarie della chiesa. Tre importanti fontane barocche inoltre ritmano il vuoto della piazza, suddividendola in quattro settori. A essa fa da suggestivo contrappunto la vicina, piccola piazza di S. Maria della Pace (1656-1657), integralmente realizzata da Pietro da Cortona, come vuoto in procinto di essere invaso e cancellato dal prorompente avanzare della chiesa stessa. Gigantesca è invece Piazza S. Pietro in Vaticano, realizzata, sotto il pontificato di Alessandro vii (1655-1667), come un vano perimetrato dal portico ellittico, che – scrisse il suo autore, Lorenzo Bernini – doveva dimostrare «di ricevere a braccia aperte maternamente i Cattolici per confermarli nella credenza, gl’Heretici per riunirli nella chiesa, e gl’Infedeli per illuminarli alla vera fede». Le piazze romane settecentesche accentuarono ulteriormente la già prorompente retorica spaziosità e la multiforme ricchezza prospettica di Roma barocca. Oltre al movimentato sistema di scalinate di porta Ripetta, distrutto verso la fine dell’Ottocento, fu realizzata nel xviii secolo l’imponente scalinata di Piazza di Spagna (1723-1726). Essa unì una delle strade provenienti da Piazza del Popolo, via del Babuino, con via Felice, un asse inciso nel sedime della città con l’attua204
A fronte: Piazza Navona, la chiesa di S. Agnese in Agone e la fontana dei Fiumi (di Gian Lorenzo Bernini).
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Piazza del Popolo e la collina del Pincio (arch. Giuseppe Valadier). In basso, l’asse viario verso l’area vaticana; a sinistra la chiesa di S. Maria del Popolo e, più oltre, i propilei d’accesso a villa Borghese (arch. Luigi Canina); sulla destra, le cupole delle due chiese di accesso al “tridente” (via del Babuino, via del Corso, via di Ripetta).
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zione del piano sistino. Dall’incontro delle due strade si staccava via Condotti, che conduceva direttamente verso la Basilica di S. Pietro in Vaticano. L’architetto Francesco De Sanctis (1693-1740) realizzò qui una scalinata a due settori orizzontali, articolati ognuno in tre rampe modellate su un volume sporgente. Dominata assialmente dalla chiesa di Trinità dei Monti e da un obelisco posto davanti a essa, la scalinata è uno dei luoghi più celebri di Roma, insieme alla Fontana di Trevi, progettata tra 1732 e 1762 da Nicola Salvi (1697-1751) come sintesi dinamica e vibrante di natura, scultura e architettura. 208
Roma, Fontana di Trevi. In una piazza di piccole dimensioni sorge la barocca fontana, iniziata da Lorenzo Bernini, ma conclusa nel Settecento da Nicola Salvi. Nel prospetto si apre un gigantesco arco di trionfo, dal cui nicchione esce la scultura di Oceano sul cocchio a conchiglia, trainato da cavalli marini.
Pagine seguenti: La Dogana da Mar, ultimo lembo di terra tra il Canale della Giudecca e il Canal Grande, dal xv secolo scalo doganale. Alle spalle, sul Canal Grande, l’edificio quadrangolare del Seminario Patriarcale (Baldassarre Longhena, 1671) anticipa la macchina barocca di Santa Maria della Salute. Sul Canale della Giudecca, più arretrato, il complesso dei Saloni, i magazzini costruiti nel xiv secolo per contenere il sale, la cui facciata neoclassica, analoga a quella della Dogana, è opera di Alvise Pigazzi (1835).
Eccezionale interpretazione della interazione fra cellule modulari spaziali è la piccola piazza romana di S. Ignazio (1726-1728), opera dell’architetto Filippo Raguzzini (1680-1771), allievo di Filippo Juvarra (1678-1736). Planimetricamente impostata sulla base delle intersezioni di forme ovali, esalta col suo modesto invaso le superfici ondulate degli edifici perimetrali e le loro delicate decorazioni. Roma barocca non può essere ritenuta un vero e proprio organismo urbano unitario. È piuttosto un insieme di nodi, di assi stradali, di piazze, che continuamente ripropongono una plastica e movimentata monumentalità. Al tema della centralità, offerta in particolare dai vuoti delle piazze nelle più varie forme, o dai pieni delle cupole che si alzano gonfie verso il cielo, il volto barocco romano aggiunge composizioni di prospettive, ora aperte, ora convergenti, entro spazi dinamizzati dalle loro tensioni. Nelle altre città della penisola italiana non si presentano situazioni di altrettanta forza complessiva, anche quando esse vengano investite da radicali rinnovamenti o siano in esse attivi architetti di grande rilievo. Torino fu oggetto di tre importanti momenti di ristrutturazione e ampliamento tra la metà del Cinquecento e la metà del Settecento, grandiosi nel loro razionale ordine geometrico. Al progetto di Carlo di Castellamonte (1560-1641) risale la formazione della quadrilatera Piazza S. Carlo, un tempo Piazza Reale, delimitata perimetralmente dai portici e da due chiese uguali seicentesche. Nel clima di vivacità edilizia seicentesco fu molto attivo in città anche il geniale Guarino Guarini, che tentò di scuoterne il saldo impianto romano a scacchiera, in particolare con Palazzo Carignano (1679), dalla fronte fortemente convessa studiata per un assetto urbano non realizzato, con la Chiesa di S. Lorenzo (1668-1680) e con la Cappella della Sindone. Di Filippo Juvarra è la imponente Basilica di Superga (1717-1731), che domina Torino da un’alta collina, oltre che residenze urbane e di campagna di enormi dimensioni. In tutte egli dimostrò di saper portare in architettura la sua perizia di scenografo, attività da lui esercitata presso molte corti europee. Genova, tra Cinquecento e Seicento, a seguito di un forte incremento demografico, fu investita da una forte ridistribuzione delle proprietà di molte aree cui conseguì la formazione di piazze e nuove strade rettilinee, oltre che un ulteriore addensamento, del tessuto edilizio minuto, attorno al porto. Nel xvii secolo vennero anche concluse le ultime e più larghe cinte murarie. Nell’insieme vi si impresse una qualità barocca negli spazi esterni appena accennata, più marcata invece, benché sempre collegata al gusto manierista, negli spazi interni. Venezia ebbe in Baldassarre Longhena (1598-1682) il suo più importante architetto barocco autore della chiesa di S. Maria della Salute, iniziata nel 1637 come ex voto per la conclusione della peste e terminata nel 1638. Edificio a pianta ottagonale sormontato da una grande cupola, essa si protende sul Canal Grande, di fronte a Piazza S. Marco, offrendo due viste del suo volume, l’una interna, l’altra esterna al canale stesso. 209
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Alla cupola principale ne venne accostata una seconda, che fece emergere una assialità orizzontale a bilanciamento della verticale, più importante, e che raccordò l’edificio ecclesiale alle costruzioni vicine. Insieme ai Palazzi Giustiniani (1629), Rezzonico (1650) e Pesaro (1652-1659), interpretazioni barocche di schemi compositivi manieristici sanmicheliani arricchiti dall’accennata ricerca di qualità cromatiche, la chiesa di S. Maria della Salute offrì a Venezia l’occasione di una pacata, seppur vibrante, continuità di forme prebarocche, più che forti dinamismi spaziali e prospettici. La lezione scenografica di Roma ha dunque ottenuto ovunque echi importanti; tuttavia accadde spesso che essa non riuscisse a tradursi in forme dall’analoga forza urbana espansiva, ma, come a Trento o a Milano, che implicasse piuttosto un riordino delle prospettive, percepibile solo dall’interno della città. Situazioni del tutto particolari e di grande originalità maturarono nel sud della penisola italiana. Nella cittadina pugliese di Lecce, a pochi chilometri dalla costa adriatica, sull’impianto viario medievale a struttura radiocentrica che strutturava un fitto tessuto edilizio anch’esso medievale, l’insieme degli edifici pubblici, religiosi e di residenza nobiliare realizzati nel secolo xviii compose un quadro più di coralità, che di vera e propria scenografia barocca. Le nobili e asciutte membrature architettoniche degli edifici vennero arricchite da fastose decorazioni, rese vibranti sotto la luce, dal color giallo ocra della tenera pietra calcarea locale. La chiesa di S. Croce dei Celestini (1579-1646) venne realizzata per intervento di tre generazioni di artisti, che nella facciata a due registri inserirono motivi romanici e gotici, esaltati nell’esuberante fantasia ornamentale del fastigio di coronamento. Nelle città della Sicilia orientale, colpite da un grave terremoto nel 1693 la ricostruzione sei-settecentesca avvenne invece secondo strutture viarie differenti nei diversi contesti. L’intera area divenne per alcuni anni un insieme di giganteschi cantieri, oltre che occasione per sperimentare le possibilità scenografiche dello stile barocco settecentesco. A Catania, ad esempio, furono tracciati due principali assi stradali tra loro incrociantisi: la via Etnea e la via di S. Giuliano. La prima, partendo da Piazza del Duomo, architettura di forme barocche progettata da Giuseppe Zimbalo detto Zingarello (1620-1670), attraversò la vasta piazza quadrilatera dell’Università, circondata da notevoli edifici di Giovanni Battista Vaccarini (1702-1769), per puntare in direzione del vulcano Etna. La seconda invece dal porto venne orientata verso il convento dei Benedettini con la chiesa di S. Nicolò, preceduta da un ampio piazzale ellittico. Noto invece venne ricostruita su un terreno a terrazze degradanti tra loro raccordate da scalinate dal grande impatto scenografico. Gli edifici pubblici dalle forti articolazioni sono opera soprattutto di Rosario Gagliardi (1690-1772), oltre che di molti altri architetti locali, attenti al gioco delle ampie prospettive e delle spettacolari scalee.
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Alle pagine precedenti: Acireale. Città siciliana dal passato leggendario, ebbe la sua attuale denominazione da Filippo iv di Spagna, che la assoggettò alla Corona. Nella piazza principale al centro della città, il Duomo ha una pittoresca facciata romanico-gotica. Sul fianco est della piazza, si alza la seicentesca basilica dei Ss. Pietro e Paolo, con campanile settecentesco. Sul fianco a sud è invece un barocco Palazzo Comunale.
Lecce, la piazza del Duomo. Il nucleo urbano antico di Lecce, in Puglia, è caratterizzato dalle molte costruzioni barocche, ricche di sculture e decori architettonici, realizzate nel compatto calcare locale. Sulla piccola piazza del Duomo si affaccia un insieme omogeneo di tali edifici; vi spicca, per l’imponente mole, l’alto campanile, a cinque piani rastremati.
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Ragusa, il nucleo antico e la Basilica di S. Giorgio. La parte più antica della città, Ragusa Ibla, venne rovinata nel 1693 da un terremoto, a seguito del quale iniziò subito un’intensa campagna ricostruttiva, che impegnò nella realizzazione di imponenti fabbricati barocchi. In una zona alta della città e appoggiata su una scalinata, fu costruita la Basilica di S. Giorgio, dalla scenografica facciata a tre ordini e alto corpo centrale convesso, edificio a pianta latina con cupola neoclassica su tamburo colonnato.
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VILLE, PALAZZI, REGGE dal xvi al xix secolo Maria Antonietta Crippa
La villa, nota come luogo di residenza e ristoro extraurbano degli aristocratici attivi nelle maggiori città, è tema architettonico e paesistico tipicamente italiano, caratterizzatosi, in diverse configurazioni edilizie e svariate correlazioni col paesaggio a essa collegato, nelle varie regioni italiane. Due, in estrema sintesi, le sue peculiarità costanti: l’unità organica di architettura e paesaggio, in forma di giardino, parco, tenuta agricola e la qualità monumentale dell’organismo edilizio, sancita non solo dall’intervento di artisti e architetti di grande valore, ma anche dai desiderata di una committenza agiata, colta e normalmente implicata in attività importanti di carattere politico e amministrativo. Le costruzioni di questo tipo sono dunque state l’occasione per elaborate sintesi di cultura artistica e stilistica; per l’acquisizione di nuove tecnologie costruttive, estese anche a componenti di ingegneria idraulica; per la messa a punto di sistemi iconografici e decori celebrativi; infine per l’organizzazione dei modi di vita, agiata e rappresentativa di privilegi e primati, delle più elevate categorie sociali. Gli esiti formali dipesero, oltre che dal genio spesso eccezionale dei loro progettisti, anche da storici e localizzati intrecci di fattori economici, politici e sociali. Tali complessi, immaginati e realizzati a grande scala, tramite precise e pianificate relazioni con la morfologia dei suoli e con gli insediamenti rurali e urbani a essi vicini, compongono attualmente un vasto e vario patrimonio italiano, che attende adeguati recuperi funzionali compatibili, di conseguenza anche restauri che ne rinnovino il primigenio splendore. Sulla base di una matrice tipologica unica, la villa romana imperiale, cui si tornò a guardare in epoca rinascimentale, fiorì nella penisola italiana in una vastissima serie, non facilmente dominabile sotto un unico modello, di ville, casini di caccia, ville-palazzi, ville-regge, lungo l’arco temporale che va dal secolo xv-xvi alla prima metà del xix secolo, arco temporale nel quale vennero raggiunti i più alti esiti architettonico-artistici e paesistici nelle diverse varianti. Con la realizzazione delle ville neoclassiche, in forma di grandi residenze signorili extraurbane, l’evoluzione del tipo può ritenersi conclusa, benché ad esse succeda una produzione eclettica e liberty di grandi residenze borghesi decisamente ancorata alla loro tipologia e organizzazione paesistica. 219
L’emergere, nella seconda metà dell’Ottocento, del villino borghese, decretò il definitivo abbandono della tradizionale villa. L’edificio residenziale, che prese questo nome a partire dai primi decenni del xx secolo e all’interno delle nuove correnti di architettura contemporanea, non aveva più nulla in comune con il glorioso patrimonio delle ville italiane. I modelli di riferimento, europei e nordamericani proposti da importanti architetti quali Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe e Frank Lloyd Wright, divennero edifici di non grandi dimensioni, solitamente concepiti per ospitare famiglie mononucleari, isolati e con aree a verde circostante, ma del tutto privi delle implicazioni estetiche ed economiche elaborate nei secoli precedenti, portatori tuttavia di forti innovazioni, nelle relazioni spaziali ed estetiche, dei vani interni. Di questo tema è stata definita con una vasta serie di pubblicazioni una geografia storica a carattere regionale. Per quanto riguarda l’Italia centrale, si è riconosciuto che in Toscana, nel corso del xv secolo, venne messa a punto la tipica impostazione della villa urbana, in stretto rapporto con la valorizzazione dell’agricoltura e del suo controllo, da parte 220
Prato, Villa di Poggio a Caiano, progettata da Giuliano da Sangallo per Lorenzo il Magnifico, come esempio di architettura rinascimentale che fondesse la lezione dei classici (in particolare Vitruvio).
Castel Gandolfo, Palazzo Papale. Sull’orlo del Lago di Albano, nei pressi di Roma, si è sviluppato il borgo di Castel Gandolfo, che ospita il Palazzo Papale seicentesco, costruito sulle rovine di un precedente castello. Sulla destra del Palazzo la chiesa a croce greca di S. Tommaso da Villanuova, conclusa da alta cupola, fu progettata da Lorenzo Bernini. Dal 1936 il Palazzo ospita la Specola Vaticana, importante osservatorio astronomico.
delle classi agiate e nobili, come scopo non secondario del soggiorno in villa, cui si univa il piacere dello svago e del riposo. Il recupero del modello romano imperiale non coincise con questa prima affermazione di una forma di vita che valorizzava cascinali preesistenti. Esso divenne determinante con l’emergere delle esigenze e del gusto umanistico presso le corti signorili e papali. A Firenze, alla corte dei Medici, la villa di concezione umanistica, che fondeva residenza, agricoltura e paesaggio in inscindibile unità, trovò la sua prima e più esatta conformazione, matrice dei successivi sviluppi. Nella Villa di Poggio a Caiano, progettata a partire dal 1480 da Giuliano da Sangallo (1445-1516) per Lorenzo il Magnifico, venne definita una evidente e organica razionalità di rapporto tra architettura e campagna. Nell’edificio, il grande salone coperto a volta e il frontone del prospetto principale appoggiato su alte colonne, denunciavano un esplicito omaggio all’antichità classica, cui si attingeva però ancora prevalentemente tramite fonti letterarie. Da questa costruzione dipesero altre realizzate nell’Italia centrale tra la seconda metà del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. 221
Da Firenze ci si deve spostare a Roma, nel Lazio e in area napoletana, per poter trovare le ville più importanti. A Roma, in particolare, con Donato Bramante (14441514) e Raffaello Sanzio (1483-1520), si giunse a una reinterpretazione libera e insieme solenne dei modi tardo antichi. La committenza era qui composta soprattutto dall’alto clero, normalmente residente in città, ma abituato anche a lunghi periodi di vita appartata, che esigevano luoghi prossimi a Roma e al contempo isolati. Tale necessità diede luogo sia all’abbellimento e alla ristrutturazione di palazzi periurbani già esistenti o di parti di palazzi urbani cui venne data forma monumentale, sia alla trasformazione di modeste case, collocate in vasti poderi nei pressi della città o al suo interno, in sontuose ville. A Roma e nel Lazio si avviò pertanto, in conseguenza di tale esigenza, una contaminazione feconda di esiti celebri e imitati in tutta Europa, fra le due tipologie del palazzo urbano e della villa. Bramante legò in una sintesi monumentale i palazzi vaticani e l’idea della grande corte-giardino della villa romana nel progetto per il vaticano Belvedere, iniziato nel 1484 per volontà di Papa Innocenzo iii. Raffaello aprì invece il cantiere di Villa Madama nel 1516, opera rimasta incompiuta alla sua morte nel 1520, dando alla costruzione forma di volume compatto, aperto al primo piano da una ariosa loggia centrale incastonata. La medesima composizione volumetrica era già stata messa a punto nella Villa o Palazzo della Farnesina, nel 1505, progettata da Baldassarre Peruzzi (1481-1536). Il tema della villa come ben definita e autonoma tipologia influenzò a partire da questo momento il resto dell’Europa, secondo soluzioni che sarebbero divenute numerose e grandiose, soprattutto nel corso del Seicento e del Settecento. In Italia centrale, accanto alle realizzazioni romane, altre si imposero per la loro capacità di coniugare i modi recenti di vita aristocratica in villa con l’articolata varietà volumetrica e decorativa di complessi edilizi preesistenti e con assialità prospettiche visive dei nuclei urbani vicini. Del primo caso è alta realizzazione il recupero e l’ampliamento di una villa, denominata Imperiale, nei pressi di Pesaro, richiesto all’architetto Gerolamo Genga (1476-1551) dalla famiglia dei Montefeltro. Al complesso architettonico, momento conclusivo di un vasto parco, Genga aggiunse, a partire dal 1529, una nuova ala per la vita di corte, composta da vani razionalmente concatenati e decorati da affreschi e iscrizioni celebrative dell’otium in villa, dettate forse dal cardinale letterato Pietro Bembo. Il tutto venne concepito entro un raffinato e unitario artificio compositivo, che integrava la villa al bosco e al giardino all’italiana, costellato di fontane e peschiere. Del secondo caso è celebre realizzazione Palazzo Te a Mantova, opera del più dotato allievo di Raffaello, Giulio Romano (1499-1546), qui attratto dal letterato Baldassarre Castiglione, per rispondere alle esigenze di Federico ii Gonzaga. La città padana venne dotata di un palazzo-villa, costruito tra il 1525 e il 15341555, ritenuto trasposizione nell’Italia settentrionale del paradigma romano. Composto su tre piani, in forma di quadrilatero chiuso, memore della domus romana di Vitruvio, Palazzo Te avebbe dovuto avere le quattro facciate esterne 222
A fronte: Roma, Villa Madama, situata sulla mezza costa della collina di Monte Mario, immersa in un bosco incontaminato ma non lontano dal Vaticano e con ai piedi il Tevere, progettata da Raffaello per il cardinale Giulio dei Medici, il futuro papa Clemente vii (1523-1534), la costruzione fu avviata a partire dal 1517 ma è rimasta, a causa della morte dell’artista (1520) e quindi del tragico Sacco di Roma (1527), allo stato di «mirabile frammento».
Pagine seguenti: al centro del Lago Maggiore, l’Isola Bella vista da sud, con lo straordinario giardino a terrazze sovrapposte di Palazzo Borromeo.
alleggerite da superfici affrescate. La loro fondamentale strutturazione sintattica, resa grandiosa e plastica dall’ordine dorico gigante e dall’uso di un bugnato a forte rilievo, venne costellata da manieristiche infrazioni ai codici strutturali e figurativi convenzionali, realizzate per soprendere lo spettatore. Le celebri decorazioni ad affresco delle sale interne esaltavano i Gonzaga, i loro destrieri, l’imperatore Carlo v, popolando lo svago dei nobili abitanti di evocazioni nostalgiche, proposte in spettacolari scorci prospettici, il cui acme è nel decoro della Sala dei Giganti. Palazzo Te, insieme alla costruzione del Duomo, alla ristrutturazione di Palazzo Ducale e alla generale sistemazione urbanistica del nucleo urbano compatto, opere tutte dello stesso genio, resero Mantova centro irradiatore, a scala internazionale, del gusto italiano cinquecentesco, colto, radicato nello studio delle antichità romane, orientato più precisamente a riproporre, nelle dimensioni, nelle forme e nei decori, la fastosa monumentalità imperiale romana. 223
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Per cogliere l’imponenza, distintamente emergente sul territorio e ben visibile dall’elicottero, delle ville-palazzi di matrice romana, sarebbe necessario tracciare un sia pur sintetico affresco di volumi e di rapporti tra architettura e paesaggio, di una catena vasta e varia di realizzazioni. Debbono comunque essere almeno ricordate: di Giovanni Lippi (morto nel 1568) la romana Villa Medici; tra le realizzazioni di Jacopo Barozzi detto il Vignola (1507-1573), il cui trattato d’architettura godette a lungo di immenso successo, il completamento nel 1559, di Villa Farnese a Caprarola iniziata da Antonio Sangallo il Giovane (1485-1546) in forma di rocca difensiva su pianta pentagonale, la villa di Papa Giulio in Roma, la Villa Lante a Bagnaia presso Viterbo; con l’architetto Carlo Fontana, le Ville Falconieri e Mondragone in Frascati. La villa più celebre, quella di Caprarola, è un compatto volume attorno al grandioso cortile centrale sul quale affacciano prospetti con doppio loggiato, sviluppato su due piani. Scenografico è il vasto accesso dalla città; grandiosi gli effetti ricercati nel riordino dei giardini all’italiana, disegnati in vaste campiture liberamente giustapposte. Molte altre ville di matrice romana vennero realizzate a Frascati e nell’area laziale fino a Seicento inoltrato, con cura crescente per le aree a parco e a giardino e per i giochi d’acqua spettacolari. La vegetazione naturale, nei giardini, veniva distribuita secondo ordini geometrici e significati allegorici, in modo da celebrare cultura e potere del proprietario della villa. La si scomponeva normalmente in tre parti distinte: il bosco, il frutteto, un’area disegnata in comparti geometrici ove venivano coltivati fiori e piante. La vegetazione definiva aree chiuse in forma di piazza, oppure labirinti vegetali con giochi d’acqua e sculture di personaggi mitologici o di personificazioni di grandi fenomeni naturali, quali un fiume o una catena di montagne. I giardini potevano essere arricchiti da laghi artificiali e da grotte o anfratti, naturali oppure artificiali, spesso articolati in catene di stanze nelle quali l’acqua veniva incanalata e mossa secondo infinite varianti, dallo stillicidio costante da rocce artificiali a scherzi di zampilli improvvisi, in percorsi popolati da sculture di ninfe, divinità e antiche rovine. In due territori dell’Italia settentrionale, il lombardo e il veneto, la diffusione delle ville è stata un fenomeno di qualificazione territoriale di grande estensione e incisività tra il xv e il xix secolo. La costruzione di ville signorili lombarde, quelle di area milanese in particolare, ha costituito un fattore determinante nella definizione degli assetti territoriali, divenuto pienamente evidente nel xviii secolo, in coincidenza con il passaggio stilistico dal rococò al neoclassico, ma preparato da decisioni di nobili e patrizi già a partire dal Quattrocento. Centro di molte attività, connesse alla economia rurale e agli aspetti della vita sociale dipendente dal governo politico e dalle istituzioni religiose, pievane e conventuali, la villa lombarda, celebrata nella letteratura cinquecentesca come luogo di delizia, di godimento dunque della natura e insieme di esercizio e controllo delle 226
Alle pagine seguenti: Villa Farnese a Caprarola, Viterbo, particolare del fronte posteriore del Palazzo e del giardino. Roma, Villa Medici. Iniziata dal cardinale Ricci di Montepulciano, vi lavorarono, tra il 1564 e il 1574, Nanni di Baccio Bigio e Giacomo Della Porta. Ancora incompleta fu quindi acquistata dal cardinale Ferdinando de’ Medici, figlio del granduca di Toscana.
Villa Giulia a Roma, voluta direttamente dal pontefice Giulio iii (1550-1555), e da lui donata nel 1553 al nipote Baldovino del Monte.
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opere agricole, venne concepita dapprima, nelle sue forme architettoniche, dagli stessi proprietari. Solo in fasi successive maturò, da parte di questi, la decisione di chiedere il contributo di architetti e artisti. Per queste ragioni la fabbrica padronale della villa lombarda venne da sempre direttamente collegata ai corpi rustici, che dovevano ospitare attrezzature e stoccaggio dei prodotti stagionali. Talvolta risultava inoltre inserita in piccoli borghi rurali; normalmente non ebbe, fino a Seicento inoltrato, forme volumetriche e decori molto elaborati. Al suo interno l’organismo architettonico venne funzionalmente organizzato secondo la medesima gerarchia delle dimore signorili urbane, che destinavano i locali per servizi e accessi al piano terreno, le stanze per il soggiorno dei proprietari al piano nobile e, al di sopra, un mezzanino per la servitù. Vasti territori coltivati e costellati di cascine e borghi, registrati nel catasto teresiano entrato in vigore nel 1760, costituivano le loro tenute; dietro il corpo padronale della villa e almeno su uno dei suoi fianchi si sviluppavano sempre giardini e parchi molto curati. Zone dove la connessione tra organismo edilizio e funzione agricola era assente nella tipologia della villa, a favore di un predominante interesse paesistico, erano quelle lungo le coste dei laghi prealpini o lungo i corsi d’acqua. Se nella prima fase costruttiva, tra Quattrocento e Cinquecento, questi complessi erano spesso privi di locali di rappresentanza, il loro fasto crebbe rapidamente, tra Seicento e Settecento. Nello stesso arco temporale, l’importanza delle vie d’acqua per la comunicazione e il trasporto delle merci diede luogo al moltiplicarsi delle ville lungo i navigli, fino a saturazione delle aree. Mondo ricco di queste nobili “case di campagna” fu anche quello veneto, nel quale esse, con i loro broli, coesistevano con il paesaggio agrario delle colline e delle prealpi, e con il fitto tessuto di castelli medievali e città murate dove l’arte rinascimentale aveva lasciato tracce rilevanti. Le città venete furono, soprattutto a partire dal xv secolo, i centri propulsori dell’organizzazione delle campagne; lo divenne anche Venezia, quando il suo ceto nobiliare, non potendo più arricchirsi con i commerci sul mar Mediterraneo soppiantati da quelli con le americhe, si volse allo sfruttamento dell’entroterra. Andrea Palladio (1508-1580) fu l’architetto inventore della villa veneta per eccellenza, funzionale sia al ritiro umanistico che alla sovrintendenza della produzione agricola. La solida tipologia organizzativa degli spazi, da lui congegnata, ebbe grande fortuna soprattutto nei paesi di madrelingua anglosassone, grazie anche alla rapida diffusione del suo trattato dal titolo I quattro libri dell’architettura, nel quale le ville erano state da lui graficamente riprodotte in forme idealizzate. L’edificio era composto da locali distribuiti su due piani, imperniati attorno a un salone principale a doppia altezza; lo schema veniva variato nei diversi casi senza però mai contravvenire a rigorose regole di proporzioni e di simmetria. Il prospetto principale veniva sempre ornato con un grandioso frontone triangolare, segno di solenne nobiltà. 232
Merate, la Villa Belgioioso con le due porzioni di giardino disposte su due diversi livelli connessi con scalinate. Un porticato e un muro riparano la parte superiore dal tessuto urbano fitto di piccole case; nella parte più ampia si dispongono due parterres a tappeto erboso, di cui il più grande, ad andamento mistilineo, ripete ed enfatizza il profilo della fontana centrale.
Alle pagine seguenti: Vicenza, Villa Almerico Capra La Rotonda.
Nella Villa Barbaro a Maser, presso Treviso, realizzata per il colto filosofo e letterato Daniele Barbaro, Palladio conciliò esigenze di rappresentanza e svago con la necessità di un ferreo controllo della produzione agricola, affiancando al corpo edilizio nobile, nelle sue forme ormai canoniche, due ali laterali più basse, a porticato continuo secondo le forme delle barchesse rurali, per il deposito degli attrezzi e la raccolta dei prodotti. Tali barchesse vennero nobilitate da due alti prospetti terminali dominati da grandi meridiane. Accanto al corpo padronale e sul lato opposto, si estendeva invece il giardino concluso dal ninfeo. Unicum nella produzione palladiana è La Rotonda, edificata nel 1550, in forma di volume compatto, con quattro identici prospetti a timpano e loggiati, che guardano sulla campagna circostante, concepiti secondo un sapiente dosaggio della grammatica classica. 233
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Bogliaco (Brescia), Villa Bettoni. Concepita secondo il grandioso progetto di Adriano Cristofali, la villa, è un lungo volume sopralzato al centro, con un fronte affacciato sul lago di Garda e l’altro allineato lungo una strada. Due ponti, scavalcando quest’ultima, la congiungono con il vasto parco retrostante, con esedra ricca di statue e grande limonaia.
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A fronte: Como, Villa Olmo, l’imponente facciata prospiciente il lago caratterizzata da una sequenza di colonne ioniche.
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Montegalda (Vicenza). Il castello Grimani-Sorlini edificato a partire dal 1176, ha perduto la funzione militare per diventare residenza nobiliare nel ‘400. Acquistato dalla famiglia Sorlini, è stato riportato all’antico splendore da un profondo restauro nel 1975.
Il luogo è così descritto dallo stesso Palladio nel trattato: «Il sito è degli ameni, e dilettevoli che si possono ritrovare; perché è sopra un monticello di ascesa facilissima (…); è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto grande theatro, e sono tutti coltivati, e abondanti di frutti (…). Onde perché si gode da ogni parte di amenissime viste, delle quali alcune sono terminate, alcune più lontane, e altre che terminano con l’Orizonte; vi sono state fatte le loggie in tutte e quattro le faccie». Con Palladio l’abitare in villa giunse a tale compiutezza, anche nell’integrazione di architettura e contesto ambientale, da costituire fondamentale e imprescindibile premessa alla composizione barocca e neoclassica delle ville regali di campagna e dei sontuosi casini di caccia italiani, dalle imponenti scenografie architettoniche e paesistiche. Inaugurato nel 1781 come padiglione di caccia per Vittorio Amedeo ii di Savoia e la sua corte, il vasto complesso denominato Palazzina di caccia Stupinigi, presso Torino, è vertice armonico di integrazione tra architettura e contesto naturale, progettato e realizzato in massima parte dall’architetto messinese Filippo Juvarra (1678-1736). L’edificio si snoda attorno a un corpo centrale, dominato dal volume poligonale che copre un grande e luminoso salone, dal quale si staccano quattro corti bracci rettilinei, in forma di croce di sant’Andrea. Sul prospetto principale, due bracci della croce sono stati allungati, fino a comporre due ali concluse da palazzine, per intervento di Benedetto Alfieri (1700-1767). 238
Lonigo, Villa La Rocca. Nella cittadina vicentina di Lonigo, sui monti Berici, sorge isolata e in posizione panoramica una villa detta La Rocca, su disegno di Vincenzo Scamozzi, che prese a modello di riferimento per la sua configurazione volumetrica La Rotonda del Palladio.
Sul prospetto opposto, i due bracci della croce si allungano in altre due ali, composte ognuna da due volumi rettangolari connessi tra loro ad angolo retto, che formano una gigantesca corte poligonale, aperta sul fondo in modo da rinsaldare l’asse principale che struttura l’insieme. A questa corte ne venne poi aggiunta una seconda semicircolare, anch’essa di grandi dimensioni. Alla luminosa ed elegante articolazione interna dell’edificio, dove non mancano momenti di sorprendente invenzione, corrispondeva una vasta organizzazione a giardini, a boschi e a colture, dell’esterno, che, come la prima, venne nel tempo radicalmente trasformata. Il rimando, tra effetti illusionistici interni e ordine paesaggistico esterno era regolato da una solida razionalità, che strutturava il tutto intorno a un percorso rettilineo, reale e visivo, che puntava dall’ingresso sul fuoco del grande salone avvolto dal volume centrale della Palazzina. Juvarra, primo architetto del re, fu di una operosità di enorme estensione e di eccelsa qualità in area torinese; si avvalse spesso della collaborazione di un folto gruppo di pittori, scultori e artisti, provenienti da ogni parte d’Italia. Contemporaneo del napoletano Luigi Vanvitelli (1700-1773), figlio del pittore olandese vedutista Gaspar van Wittel, Juvarra fu come lui protagonista della realizzazione di ville-reggia che costituiscono il culmine di una tipologia, portata in Italia, nel corso di tre secoli, al suo massimo sviluppo dimensionale e scenografico. Tale qualificazione tipologica venne inoltre fecondata da conoscenze agricole, di giardinaggio, di ingegneria idraulica, oltre che da una quasi esasperata tensione tra 239
gabbia geometrica della composizione, sia nell’edificio che nei parchi e giardini, e virtuosismi prospettici di assialità centrifughe e centripete. Massima sintesi di tale ricerca si rintraccia nell’enorme complesso del Palazzo Reale di Caserta, composto da circa 1.200 stanze, iniziato da Luigi Vanvitelli nel 1751, per volere di Carlo iii re di Napoli, e concluso dal figlio Carlo (1739-1821) nel 1774. Si tratta di un complesso circondato da un enorme giardino all’italiana che lo avviluppava e con esso dialogava in modo serrato, imprigionandolo quasi in una camicia di forza. A conclusione di questo rapidissimo excursus, si segnala che la letteratura sul tema delle ville ha spesso raccolto vedute panoramiche, in incisioni e stampe anche importanti, per collegare visivamente tra loro l’organismo architettonico principale, le aree di accesso, i giardini, il parco e la costellazione di ninfei, portici, belvedere, solaria, terrazze gradonate. Si voleva, in tal modo, restituire l’unità 240
Stupinigi, Palazzina di Caccia. Nei pressi di Torino, Filippo Juvarra edificò un grandioso e scenografico complesso architettonico a strutturazione simmetrica, come casa di caccia del re Vittorio Amedeo ii.
Racconigi, Castello Reale. Il principe Emanuele Filiberto di Savoia affidò nel 1676 a Guarino Guarini la costruzione di una villa residenziale, eseguita solo in parte sul sito precedentemente occupato dapprima da un monastero e poi da un castello.
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SCHEDE
complessiva secondo la quale il complesso, architettonico e paesistico, era stato concepito. La veduta delle ville, dei palazzi e delle regge dall’elicottero consente oggi di cogliere in una sintesi ancor più efficace tale insieme. Si possono infatti facilmente individuare, anche dove tale patrimonio è stato deturpato, il carattere unitario, stabilmente fissato anche a scala gigante, e l’ordine gerarchico, normalmente caratterizzato da decisa razionalità, secondo il quale era stato concepito nell’organica articolazione delle sue parti. Nella veduta aerea diventano inoltre efficacemente evidenti gli schemi assiali fondamentali e le simmetrie, la prevalenza di un asse sugli altri o la sua unicità. Ciò che, visto a terra, viene colto come asse prospettico e fuga visiva all’infinito, appare dall’alto linea ben evidente nella sua funzione, ordinativa e strutturante. Oltre che per ampiezza e varietà, il patrimonio italiano d’architettura è eccezionale testimonianza di civiltà e di arte anche per la durata nei secoli di molti suoi esempi, di grande o piccola scala, di eccellente valore o di qualità meno celebrata. Evoluzioni progressive di tipi edilizi, di tecniche costruttive e decorative, di forme monumentali, di configurazioni spaziali e simboliche, sono molto spesso, quasi sempre anzi, leggibili nella conformazione di un’unica costruzione. L’architettura che ci è consegnata dalla storia è infatti un palinsesto sui generis, che registra interventi geniali accanto a opere di manutenzione, lavori di lunghi cantieri oltre che improvvise e radicali trasformazioni, intrecci di influssi locali o internazionali, continuità o discontinuità di tecniche costruttive. Ciò che evidenzia l’unità della singola architettura è normalmente più un fatto di organicità complessiva, funzionale e simbolica nello stesso tempo, che non di stile o di ordinamento compositivo generale. Per queste ragioni, per l’accumulo, di volta in volta ragionato ma secondo intenzionalità non univocamente direzionate, di tracce di molte generazioni nella composizione delle strutture murarie, degli spazi e dei decori, una architettura contrassegnata da lunga storia è sempre anche luogo che trattiene in sé la memoria di una catena di eventi, di grande o piccola portata. Questa sezione conclusiva del volume raccoglie alcune schede che accompagnano lo sviluppo per capitoli del testo principale, aprendo qualche squarcio sulla pregnanza di memoria dei luoghi di lunga durata, segnalando l’impennata di eventi dovuti a genialità costruttive e il lungo, spesso incerto, ritmo delle realizzazioni. Le schede dunque intendono dar ragione di quell’intreccio di geografia e storia che sostanzia, con gli apporti di talenti e maestranze di ogni epoca, le migliori realizzazioni d’architettura.
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IL PAESAGGIO ITALICO FRA V E X SECOLO CHIESE A PIANTA CENTRALE E CHIESE A PIANTA BASILICALE DI EPOCA COSTANTINIANA Con Costantino imperatore, protagonista della prima cristianizzazione di Roma, si imposero dal iv secolo in città due differenti tipologie di edifici ecclesiali, matrici di importanti e differenziati sviluppi nelle aree occidentali e orientali dell’Impero. Sorsero infatti in Roma in primo luogo vaste basiliche allungate e a croce latina, le più numerose tra iv e v secolo, luoghi di culto destinati a ospitare comunità ampie, con le loro grandi aule, distinte dall’area presbiterale dove era collocato l’altare. Meno numerosi furono gli edifici ecclesiali cristiani su pianta circolare, eccezionali eredi della tipologia architettonica, utilizzata per la sepoltura e la venerazione di grandi personalità romane, detta heroon, monumento che segnalava il potente permanere in pietra della memoria del defunto. Prototipi del primo gruppo sono la Basilica di Costantino in Vaticano e quella di S. Giovanni in Laterano. La prima era un gigantesco volume longitudinale a cinque navate, preceduto da quadriportico cui si accedeva tramite scalinate. All’interno, il passaggio dalle cinque navate della grande aula per i fedeli al coro, che ospitava l’area presbiteriale, era scandito dall’arco trionfale, mentre una barriera, detta pergula, nascondeva gran parte delle celebrazioni eucaristiche, svolte nel presbiterio, ai fedeli. L’analoga e di poco anteriore Basilica di S. Giovanni in Laterano venne dotata anche di un battistero su base circolare ricavato al suo fianco, forse inglobando un edificio preesistente. Poco distante dalla Basilica di S. Giovanni lo stesso imperatore Costantino ne fece erigere una più piccola, all’interno del palazzo imperiale della madre Elena, riservata alla corte e denominata S. Croce in Gerusalemme perché custodiva un frammento della vera Croce di Cristo, portata dalla madre dalla Terra Santa. S. Pietro in Vaticano era in realtà anche, anzi più propriamente, un martyrium, luogo di preghiera sulla tomba di Pietro; rientrava dunque nella serie di altri analoghi edifici costantiniani, disposti quasi ad anello attorno al centro di Roma, l’ultimo ad essere cristianizzato, come la Basilica di S. Lorenzo, lungo la via Tiburtina, o quella di S. Paolo sulla via Ostiense.
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Archetipi della tipologia di chiese a pianta centrale in Roma sono invece la chiesa di S. Costanza e quella di S. Stefano Rotondo. Lo sviluppo del tipo a pianta centrale in Occidente sarebbe stato scarso, benché glorioso in importanti e monumentali soluzioni lungo il Medioevo; sarebbe inoltre stato recuperato a partire dal Rinascimento come tema architettonico di importanza fondamentale e collegato alla valorizzazione della cupola. La chiesa di S. Costanza era in origine il sepolcro di Costantina, figlia dell’imperatore Costantino: si trattava di un edificio a pianta circolare, con anello perimetrale definito da colonne, coperto da cupola ornata da mosaici nella parte centrale. Essa venne concepita da subito come volume a destinazione religiosa, annesso alla vicina Basilica di S. Agnese. La chiesa di S. Stefano Rotondo, sul Celio, fu edificata invece sui resti di un antico mercato; non è propriamente di epoca costantiniana ma dell’inizio del v secolo. Per il diretto rapporto riscontrato tra le sue dimensioni e quelle della chiesa del S. Sepolcro in Gerusalemme, gli studiosi ipotizzano che l’edificio sia stato voluto come immagine trasposta in Roma del luogo più santo della cristianità.
TORRI E CAMPANILI, EMERGENZE DI RICHIAMO NEL TERRITORIO Elemento architettonico decisamente verticale nel quale l’altezza è la dimensione prevalente, la torre venne eretta in molte forme e dimensioni anche in epoche precristiane, sia come struttura isolata di avvistamento, sia associata a mura e porte urbane, collegata quindi a motivazioni difensive. Più raramente svolse funzione di tomba. Con la cristianizzazione progressiva del territorio prevalse la sua funzione simbolica e venne dotata di campane, collocate nella sua parte più alta e aperta, in modo che il loro suono potesse diffondersi ampiamente. Il Liber pontificalis ne parla fin dai primi secoli, ma solo dall’viii secolo in poi è accertata la costruzioni di torri campanarie, isolate o incorporate ad edifici di culto, con funzione di richiamo grazie alla loro visibilità, accentuata spesso dalla collocazione di chiese, plebane o parrocchiali, scelta in modo da costituire un riferimento essenziale all’orientamento nello spazio degli abitanti del luogo.
La torre campanaria ebbe per lo più base quadrata; non mancarono tuttavia torri a base circolare o poligonale. Torri cilindriche (vi secolo) chiudono il nartece di S. Vitale di Ravenna; torri massicce a base quadrata, delle quali si ignora l’altezza originaria, sono state inserite all’esterno delle quattro nicchie del tetraconco di S. Lorenzo Maggiore di Milano (iv-v secolo) I campanili isolati di Ravenna – presso le chiese di S. Giovanni Evangelista, di S. Francesco, di S. Apollinare in Classe e di S. Apollinare Nuovo – risalgono al ix-x secolo. Gli ultimi due hanno base circolare. La tipologia del campanile isolato si sarebbe diffusa largamente nel centro e nel sud della penisola italiana. Tra basso e alto Medioevo il rapporto tra campanile ed edificio di culto ebbe svariate soluzioni. Il primo venne talvolta collocato all’estremità occidentale dell’edificio orientato a est; oppure a lato del coro; o in asse con la navata centrale; o in altre posizioni ancora. Caso singolare sono i due campanili (xi secolo) ai lati del coro di S. Abbondio in Como. Presto comparvero anche torri, con o senza campane, ai lati della facciata principale della chiesa. Anche i palazzi comunali ne sarebbero stati dotati. Nelle piccole chiese rurali inoltre le torri-campanile si sarebbero talvolta trasformate in bidimensionali e leggeri campanili a vela, innestati nel corpo degli edifici.
LA BASILICA DI S. LORENZO MAGGIORE IN MILANO Probabilmente innalzata tra iv e v secolo d.C. per opera di maestranze imperiali, nella Milano allora capitale dell’Impero d’Occidente, la Basilica di S. Lorenzo Maggiore è uno dei più importanti e grandiosi monumenti tardo-antichi che testimoniano la continuità tra tradizione costruttiva romana e prima architettura cristiana. In città erano presenti, nel iv secolo, oltre al vescovo Ambrogio morto nel 397, anche il generale Stilicone e il giovanissimo imperatore Onorio, figlio di Teodosio, del quale il primo era tutore. Gli studiosi di archeologia cristiana propendono da alcuni decenni nel ritenere la grande basilica cappella palatina del vicino Palazzo Imperiale, una delle imponenti costruzioni tardo-romane della città insieme al Teatro, al Circo Massimo, alla Zecca, all’Arena e alle Terme. Oggi il complesso si erge isolato, in un’area denominata Parco delle Basiliche che comprende anche la vicina chiesa di S. Eustorgio, nei pressi di Porta Ticinese. Af-
faccia anzi, sulla via che dalla Porta prende nome, tramite un ampio spazio chiuso da una schiera di sedici colonne in marmo, forse resti di un edificio romano del ii-iii secolo d.C. Il volume maestoso della basilica è circondato da più piccoli edifici di diverse epoche; è stato però isolato, a seguito di un importante restauro degli anni Trenta del Novecento, da un fitto tessuto residenziale medievale, distrutto completamente. La basilica ha planimetria centrale quadrilobata, sui cui quattro angoli erano state impostate quattro massicce torri di base quadrata. Il maestoso interno, un vuoto modellato a forti chiaroscuri e dall’ampio respiro, presenta un rivestimento parietale vario, in ceppo, arenaria e granito. Porta i segni di incendi e crolli. La storia ricorda tre importanti incendi, nel 1071, nel 1075 e nel 1124. A seguito del terzo, la basilica venne coperta con una cupola, oggi del tutto scomparsa perché sostituita con quella su alto tamburo, ancora oggi visibile e di disegno di Martino Bassi, dopo il crollo rovinoso del 1573, che smantellò le parti più alte dell’edificio. Si ritiene che la cupola cinquecentesca e le sistemazioni cinque-seicentesche dell’interno ne mutarono sensibilmente le originarie qualità spaziali. Mentre i tre campanili di altezze diverse visibili all’esterno appartengono all’epoca medievale, anteriori sono i tre martyria agganciati al volume basilicale maggiore. Il più antico è addossato all’abside corrispondente all’area presbiteriale, ha pianta ottagonale all’esterno e in forma di croce a bracci uguali all’interno. Dedicato ai santi Lorenzo e Ippolito, esso è forse anteriore, ma di poco, alla stessa basilica. A questa coevo è invece un secondo martyrium, anch’esso su base ottagona e più grande, denominato Cappella di S. Aquilino, voluto forse da Galla Placidia o da Onorio, entrambi figli dell’imperatore Teodosio. Esso ospita all’interno il sarcofago detto di Galla Placidia (v secolo) e importanti mosaici bizantini in due catini absidali, sul tema del Profeta Elia sul carro di fuoco e della Majestas Domini (Cristo giudice in trono). Sul lato opposto a quello della Cappella di S. Aquilino, si trova il terzo e più piccolo martyrium ottagono, dedicato a S. Sisto, risalente al vi secolo.
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INCASTELLAMENTI E CITTÀ FORTIFICATE DALL’VIII AL XIII SECOLO L’INCASTELLAMENTO COME PERNO DI UN SISTEMA TERRITORIALE Nei secoli viii-xiii la formazione e l’evoluzione della tipologia degli incastellamenti, strettamente connessa al sistema politico feudale, offre una casistica che costituisce fondamentale premessa alla successiva architettura fortificata, sviluppatasi tra xv e xvi secolo per diretto impegno di grandi personalità. La tipologia del castello prende origine dall’esigenza di costruire strutture fortificate definite architettonicamente aventi funzione difensiva, in alcuni casi anche abitativa. Il termine proviene etimologicamente dal verbo latino castrare (= tagliare), poiché richiama il concetto di forte cesura che tali realtà edilizie provocavano con il contesto territoriale circostante. Nella stagione alto-medievale, prima del x secolo, sorsero strutture fortificate definite castrum o castellum, entro le cui mura difensive erano collocati edifici abitati da modeste popolazioni ivi stanziate. Non avevano le dimensioni della città fortificata (civitates), né erano caratterizzate dal contesto abitativo più complesso degli oppida, anche se avevano un peso politico, giuridico e architettonico maggiore dei borghi o degli insediamenti non fortificati. Solamente a partire dalla seconda metà del x secolo nell’Italia settentrionale scaturì dunque un processo di identificazione del castello con la residenza signorile fortificata. Da allora si innescò una separazione tra castello e rocca, edificata, generalmente, sulla sommità di una rupe o di un monte a scopo difensivo o per il controllo di un vasto territorio. Nel xii secolo si assistette alla diversificazione tipologica dei modelli, orientandosi l’architettura fortificata verso complessi e articolati organismi castellati. Venne abbandonato lentamente il tipo dei castelli costituiti da un semplice nucleo centrale, articolato da una o più torri e circondato da un muro e da un fossato difensivo. Si concluse in questo modo l’evoluzione tipologica iniziata due secoli prima in Italia con l’utilizzo di materiali edilizi più adatti, passando da un’architettura di legno e terra battuta a solidi edifici in pietra con spessori di ragguardevoli dimensioni. Nel xiii secolo il programma di incremento delle fortificazioni voluto da Federico ii nelle terre meridionali comportò un’ulteriore evoluzione del sistema di-
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fensivo castellano. Tali costruzioni vennero localizzate lungo le principali vie di comunicazione e commercio terrestre e marittimo. Alla cultura federiciana è dunque da ascrivere la codificazione dei modelli planimetrici estremamente regolari basati su precise regole geometrico-compositive, sulla presenza di un unico cortile (sul quale si aprivano tutti gli ambienti voltati a crociera) e su mura con numerose torri sporgenti.
CASTEL DEL MONTE Castel del Monte, fatto erigere da Federico ii a partire dal 1240, costituisce un alto momento di sintesi tra cultura architettonica dell’Italia meridionale e spaziale della Svevia settentrionale, filtrata da stilemi di derivazione bizantino-orientale, giunti in Italia attraverso le crociate e gli ordini monastici militari. La sua costruzione si inserisce nel vasto quadro di realizzazioni difensive e di rappresentanza eseguito da Federico ii nella regione pugliese e siciliana. Planimetricamente impostato sulla geometria dell’ottagono, a ogni angolo del castello si alzano imponenti torri anch’esse ottagone, ciascuna con numerose esili monofore strombate, aperte a scopo difensivo. La presenza di un elaborato sistema di canalizzazione dell’acqua piovana e di cinque camini collocati nei locali superiori suggerisce un impiego del castello come maniero di caccia e come struttura preminentemente utilizzata a scopo abitativo, anche se mancano cucine e stalle. Nell’area limitrofa al castello restano tracce di alcune cinte murarie (tre, secondo il Sarlo) che circondavano completamente l’edificio. Ricercato e preponderante era il carattere simbolico del castello, il cui impatto di solida e turrita struttura cristallina è ben percepibile ancora oggi. Attualmente isolato in cima a una piccola collina, perfetto nelle proporzioni geometriche e nel rigore dell’apparato lapideo (principalmente costituito da blocchi di calcare delle Murge, di breccia locale e di marmo cipollino proveniente da edifici monumentali dell’antichità), il castello esternamente appare come un solido movimentato solo dalle torri, dalla sommessa zoccolatura di base e da un cornicione marcapiano.
Castel del Monte rappresenta, quindi, l’apice della codificazione del prototipo fortificato risalente al “governo” di Federico ii sulla Sicilia (1220-1250), perfezionatosi concettualmente attraverso l’edificazione del Castello di Augusta, di Catania e di Prato. In ragione della sua geometria il castello è collegato con la tradizione cosmogonica dell’architettura ottagona, già presente nel mondo dell’Impero romano, codificata dall’esperienza tardo-antica, dall’edilizia del primo Medioevo e dall’architettura dei battisteri e dei martyria cristiani. Influenzato dal linguaggio dell’architettura islamica, ben nota anche al sovrano, Castel del Monte mostra chiari riferimenti e legami con la Cappella Palatina di Aquisgrana, nella quale Federico ii fu incoronato re di Germania nel 1215. Castel del Monte esprime l’applicazione nell’architettura fortificata dei risultati scientifico-matematici della società europea coeva, alla quale non mancavano gli importanti apporti provenienti dalla cultura islamica e il recupero della tradizione classica. Il suo valore fortemente simbolico è legato alla celebrazione della personalità di Federico ii e al suo impegno per il recupero della tradizione imperiale romana, che lo aveva portato a coniare monete auree augustali, a pubblicare nel 1231 il Liber Augustalis e a edificare la Porta di Capua (12341239) in opposizione alla Roma papale, alla quale contrappone la magnificenza dell’Impero pagano.
CASTELLO DI FENIS Costruito nella prima metà del xiv secolo da Aimone di Challant il Castello di Fenis rappresenta in maniera esemplare l’affermazione e la scalata al potere del suo proprietario. Egli, infatti, essendo stato soprintendente alle mine e alle macchine da guerra durante l’assedio di Gex da parte di Amedeo iv e castellano di Avigliana, Bard, Castruzzone, Chambéru, Ivrea, Lanzo, Moriana, Montmélian, Sallanches, Susa e Tarantasia, decise di applicare tutte le sue conoscenze nel costruire una fortezza tecnicamente perfetta e capace di comunicare la sua importanza sociale ed economica. Tutto è da lui studiato attentamente in questa ottica comunicativa, compresa la posizione della colombaia, che costituiva il privilegio concesso solamente ai nobili più importanti. Il castello di Fenis fu restaurato più volte nel corso dei secoli. Il primo rimaneggiamento risale al Quattrocento, quando gli eredi di Aimone di Challant decisero di trasformare parte della facciata della struttura centrale
con finestre più ampie e di chiamare Giacomo Jaquerio per affrescare alcune pareti del castello e della cappella annessa. Parzialmente decaduta la casata Challant nel xvi e nel xvii secolo, il castello lentamente perse la funzione difensiva e rappresentativa fino a quando nel 1716 il feudo e la fortezza vennero vendute a Baldassarre di Saluzzo-Pesana. Per tutto il Settecento e il xix secolo continuò l’inesorabile declino architettonico che culminò nel 1863 con l’acquisto da parte di Michele Baldassarre Rosset, un contadino di Quart che trasformò la fortezza in azienda agricola e la cappella affrescata in fienile. Nel 1895 il castello fu acquistato dallo Stato italiano per interessamento e tenacia di Alfredo D’Andrade, Direttore dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria dal 1883. Egli iniziò un intervento conservativo per evitare il protrarsi del degrado e dello sfacelo di una delle più importanti manifestazioni dall’architettura fortificata aostana. A questo primo seguì un secondo intervento, dal 1935 al 1942, consistente in un “restauro stilistico” che ne modificò fortemente l’aspetto esteriore. Attualmente il nucleo centrale del castello è circondato da due cinte murarie merlate concentriche. La struttura centrale ha forma di pentagono irregolare sul cui lato orientale è collocato l’ingresso, protetto da una torre quadrangolare che serviva per la difesa piombante e da due più esili torrette circolari. Al suo interno un cortile trapezoidale con loggiato a più ordini, decorato con affreschi cavallereschi attribuiti a Giacomo Jaquerio o a un anonimo pittore piemontese del xv secolo. Sul lato opposto all’ingresso svetta l’imponente struttura quadrangolare del mastio centrale e la torre cilindrica di osservazione, che apparteneva al sistema di avvistamento-comunicazione delle fortezze della Valle d’Aosta. Le mura più interne sono caratterizzate dalla presenza di imponenti torri difensive poste in prossimità dell’ingresso, mentre le mura più esterne sono dotate di sei torri semicircolari aggettanti, cinque delle quali erano poste a difesa dell’unica via di accesso al castello.
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MONASTERI, ABBAZIE, CONVENTI DAL X AL XV SECOLO IL MONASTERO COME CITTADELLA AUTONOMA L’aggettivo “monastico” è utilizzato in senso lato come sinonimo di architettura religiosa scaturita dal desiderio di alcuni uomini di separarsi dal mondo per ricercare un contatto più diretto con Dio. In molti casi non si allude, quindi, a una particolare manifestazione edilizia riferita alla esperienza cenobitica o anacoretica, ma a tutte le strutture architettoniche delle differenti “città di Dio” contrapposte, in qualche modo, alle “città degli uomini”. In questo senso sono da considerare architetture monastiche tutti quegli episodi legati agli ordini religiosi e mendicanti che, in una lettura filologica, dovrebbero essere escluse dalla dizione di architettura monastica in favore di quella conventuale. L’accettazione di questo approccio metodologico, condiviso e chiarito in molti suoi aspetti teoretici dalla Romanini e da Leclercq, rende possibile leggere nello svolgimento di tutte le sue varianti il rapporto di monasteri, abbazie e conventi con il contesto urbano al quale essi si collegano, sia attraverso un rifiuto radicale della città, sia attraverso un inserimento. Mentre il monastero e l’abbazia si pongono in maniera isolata rispetto al territorio esistente, ben rappresentati dalle strutture medievali fortificate ed edificate in luoghi impervi come la Sacra di S. Michele, gli edifici conventuali offrono una maggiore apertura alla città, senza per questo rinunciare alle proprie peculiarità e, in un certo senso, alla loro volontaria segregazione. È a partire da questo elemento che si possono analizzare anche le diverse modalità dei rapporti economici e di controllo del territorio agricolo e fondiario da parte degli ordini, che spinsero, ad esempio, l’Ordine Certosino a condensare le proprietà attorno ai monasteri, al fine di preservarne l’isolamento. L’architettura monastica necessita imprescindibilmente anche di un’analisi attenta delle sue forme attraverso i valori teorici, materiali ed estetici rintracciabili nelle regole e negli scritti spirituali dei fondatori e della gerarchia dell’ordine, poiché le manifestazioni formali dell’edilizia monastica sono il simbolo di una particolare concezione della dimensione umana espressa dal carisma peculiare dell’ordine. Solo questa ricerca rende possibile verificare le ragioni delle differenze sostanziali esistenti tra le strutture architettoniche dei singoli ordini o congregazioni religiose (ad esempio Benedettini, Certosini ecc.) e tra le diverse manifestazione edilizie del polie-
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drico mondo francescano (ad esempio Osservanti, Conventuali, Cappuccini ecc.) o benedettino (ad esempio Camaldolesi, Cassinensi, Cistercensi, Cluniacensi, Olivetani, Ottoliensi, Silvestrini, Sublacensi, Vallombrosiani ecc.). Solo analizzando questi valori sono infatti comprensibili e fruibili le differenze architettoniche che hanno prodotto fenomeni estetici peculiari, come la torre nolare cistercense, la sfarzosità claustrale cluniacense, il grande chiostro con le celle monastiche di circa 120 mq dell’ordine certosino, alle quali contrapporre le celle conventuali cappuccine delle origini di circa 4 mq.
ABBAZIA DI CHIARAVALLE MILANESE Seconda fondazione cistercense lombarda dopo Morimondo, l’Abbazia di Chiaravalle milanese sorse per diretta filiazione dalla Abbazia francese di Clairvaux e per interesse dello stesso san Bernardo, di passaggio a Milano per ragioni politico-religiose. Qui infatti Bernardo, cui fu offerta la cattedra vescovile di Milano, soggiornò, tra novembre 1134 e gennaio 1135, per convincere i milanesi, sostenitori dell’antipapa Anacleto ii e dell’imperatore Corrado iii, a volgersi in difesa della causa di papa Innocenzo v, che aveva invece il pieno appoggio da parte dell’imperatore Lotario iii. Gli studiosi hanno ricostruito accuratamente le vicende storico-artistiche dell’abbazia, la cui chiesa venne consacrata nel 1221 dall’arcivescovo milanese Enrico Settala. Le strutture di fabbrica del complesso, portate a termine nei corpi principali tra il xii e il xv secolo, ci sono giunte molto trasformate, oltre che in parte demolite, a seguito della soppressione dell’abbazia nel 1798 e della costruzione, nel 1861, di una linea ferroviaria che ha distrutto gran parte del grande chiostro, opera quattro-cinquecentesca di sicuro valore, per la quale si è avanzata l’attribuzione a Donato Bramante. Il contesto ambientale della bassa pianura padana che circonda Milano è stato segnato per secoli dalla geometria dei canali per l’irrigazione delle marcite e dalla costellazione di piccoli insediamenti rurali alle dipendenze dell’abbazia. Quest’ultima era divenuta presto una potente impresa agricola, con possedimenti anche nel lodigiano e sulle rive del lago di Como. Al complesso abbaziale si accede, dalla strada un tempo serpeggiante tra i campi, oltrepassando un edificio sovrastato all’ingresso da una torre cinquecentesca e affiancato da due chiesette dedicate a san Bernar-
do. Una di queste è destinata alle donne, alle quali la regola cistercense proibiva l’accesso all’abbazia; l’altra, a destra, è settecentesca. La chiesa ha pianta a croce latina, con corpo longitudinale a tre navate, definite da campate non perfettamente regolari; il transetto è poco accentuato; il vasto e luminoso coro quadrilatero è a terminazione piatta, tipicamente cistercense anche nel disegno borgognone delle alte finestre. L’aula è all’interno ritmata da robusti piloni a sezione circolare, sui quali appoggiano le volte a crociera della copertura, che sostituiscono forse una copertura a capriate lignee, della prima fase costruttiva.La facciata duecentesca, dal profilo di semplice capanna a doppio spiovente con al centro bifora e rosone in cotto, venne rivestita completamente nel xvii secolo. Resta ancora in situ il portico seicentesco, cioè la parte bassa intonacata. Trecentesca è la forma esterna dell’alto tiburio della chiesa, che diventa una torre nolare o torre-guglia con base a sezione ottagona. I suoi successivi piani, digradanti in pianta e in alzato, sono sorpendentemente ritmati da bifore, trifore, loggette, cornici e pinnacoli e dalla bicromia di cotto rosso e pietra bianca. Essi si restringono lungo l’asse verticale, fino a concludersi nella svettante cuspide in cotto, segno di riconoscimento dell’abbazia ben visibile nella distesa uniforme della bassa milanese.
BASILICA DI S. FRANCESCO D’ASSISI La Basilica di S. Francesco d’Assisi rappresenta uno dei fulcri fondamentali della storia del cristianesimo occidentale, divenuta una delle sedi predilette di pellegrinaggio per migliaia di fedeli essa costituisce la matrice spazioculturale per le chiese e i conventi francescani edificati in tutto il mondo. Secondo la tradizione il desiderio di erigere una grande basilica, dove dare degna sepoltura a san Francesco, venne espresso poco dopo la sua morte (1226) da Frate Elia (Vicario Generale dell’Ordine Francescano) che si fece carico di progettare un grande tempio dove poter traslare le spoglie del santo deposte provvisoriamente nella chiesa di S. Giorgio. La sua edificazione è da ascrivere anche all’interessamento del cardinale Ugolino dei Conti di Segni, divenuto papa nel 1227 con il nome di Gregorio ix che richiese a Tommaso da Celano di redigere la storia della vita del santo, terminata nel 1228. Il santo padre, dopo aver canonizzato san Francesco il 16 luglio del 1228, il giorno successivo benedì la prima pietra del nuovo complesso architettonico, per la costruzione del quale fu scelta un’area esterna alle mura di Assisi all’estremità del Collis inferni, ribattezzato successivamente Colle del Paradiso. Accanto alla chiesa si decise di edificare im-
mediatamente anche il convento e il Palazzo Papale, divenuto oggetto nei secoli successivi di importanti e imponenti ampliamenti. La chiesa fu consacrata solamente due anni dopo e il 25 maggio del 1230 si trasportarono le spoglie di san Francesco all’interno della basilica, dove furono deposte al centro del transetto della basilica inferiore, dove rimasero inaccessibili ma visibili ai fedeli fino al 1442. Fin dalla sua origine il progetto del complesso architettonico prevedeva la sovrapposizione di due chiese, delle quali quella inferiore fu inizialmente realizzata con una pianta a croce latina a navata unica con transetto e abside poco sporgenti. Solamente in epoca successiva (xiii-xiv secolo) la chiesa inferiore fu dotata di ampio ingresso a tre navate e furono aperte le cappelle laterali. La pianta basilicale assunse, quindi, una forma assai più articolata anche per la realizzazione delle cappelle poligonali di S. Giovanni Battista e di S. Nicola volute dal cardinale Napoleone Orsini nel xiii secolo e collocate in maniera contrapposta agli estremi del transetto. Nel 1236 fu terminata anche la copertura della basilica superiore, consacrata nel 1255. Anche di questo edificio è incerta la paternità architettonica, per la quale alcuni storici propongono fra’ Filippo da Campello. La struttura della chiesa superiore, anch’essa a croce latina con transetto e abside poligonale poco sporgenti, si erge maestosa al termine di un declivio erboso protetto fin dal 1246 dal comune, che vi proibì qualsiasi edificazione. Ancora in epoca medievale fu costruito l’alto campanile quadrangolare terminato nel 1239, la cui antica cuspide ottagona fu demolita nel xvi secolo. Oggetto di numerose modificazioni che si protrassero per molti secoli, sul lato prospiciente la pianura si erge imponente il Sacro Convento, con il loggiato-porticato trecentesco denominato Calce. Il complesso conventuale si articola intorno a due ampi chiostri-cortili quadrangolari dei quali il più importante è il Chiostro Grande (o Chiostro di Sisto iv) a doppio loggiato, che fu edificato per volere papale e che venne probabilmente terminato da Antonio da Como nel 1476. Posto sul fianco destro della basilica, ove oggi si scorgono alti cipressi parzialmente occlusi alla visione aerea dal muro perimetrale del piazzale superiore, sorgeva un terzo piccolo chiostro che fungeva da cimitero, caratterizzato dalla struttura romanico-gotica a due ordini sovrapposti. Centro della spiritualità francescana e del rinnovamento della Chiesa per molti secoli la Basilica di S. Francesco ha rappresentato il luogo in cui l’arte si è manifestata ai più alti livelli qualitativi e formali, dando origine a una struttura unitaria, nella quale le differenti espressioni dell’operosità umana si sono fuse in un’unica esperienza artisticoarchitettonica.
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GRANDI OPERE PUBBLICHE DALL’XI AL XV SECOLO PALAZZI PUBBLICI DI ETÀ COMUNALE I mutamenti sociali e politici della tarda epoca medievale spinsero i comuni a consolidare la loro vocazione mercantile e borghese, affermando sempre più la propria autonomia amministrativa e le proprie istituzioni di governo e di gestione della giustizia. La necessità da loro avvertita di testimoniare il proprio predominio territoriale e di autolegittimarsi come soggetti autorevoli nel processo di governo delle regioni circostanti i centri maggiormente urbanizzati, provocarono l’invenzione di edifici capaci di rispondere alle nuove istanze politiche. Nelle città settentrionali del xiii secolo si ebbe, quindi, l’edificazione dei primi broletti (ad esempio Como, 1215; Milano, 1228-1233) e palazzi pubblici (ad esempio Piacenza, 1280). Erano generalmente edifici a pianta rettangolare con un loggiato voltato o con soffittatura piana, nella sua parte inferiore, e una grande aula unica adibita alle riunioni degli organi governativi della città, nel piano superiore. Nell’Italia centrale, invece, si sviluppò la tipologia del palazzo pubblico nel quale era assente il loggiato inferiore e si inserì un’alta torre dalle multiple funzioni. In molti casi sia i broletti che i palazzi pubblici vennero edificati in prossimità della cattedrale per simboleggiare la parità tra il potere laico e il potere della Chiesa. Si crearono, così, fulcri urbani che rappresentavano i valori della nuova società. Esemplare rimane Piazza del Campo e il Palazzo Pubblico di Siena (1298-1310), al quale Filippo Menni, tra il 1338 e il 1348, aggiunse una torre con un’altezza pari a quella della cattedrale urbana. Nelle città tre-quattrocentesche lentamente si cominciarono a edificare grandi palazzi privati per le famiglie nobili, che dovevano mostrare il potere economico e politico dei loro proprietari.
IL CANTIERE PER LA CUPOLA DI S. MARIA DEL FIORE A FIRENZE La costruzione della cupola di S. Maria del Fiore, simbolo oggi di Firenze e del precoce Rinascimento fiorentino, è l’opera che ha consacrato, per la conduzione del cantiere e per l’esito di eccezionale valore architet-
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tonico e simbolico, Filippo Brunelleschi (1337-1446) come architetto fautore di insuperata sintesi tra pratica di cantiere, fondata su scienza e tecnologia, e genio artistico. Le opere per la realizzazione del grande Duomo fiorentino erano state iniziate a partire dal 1296; Arnolfo di Cambio era stato il primo direttore dei lavori del nuovo complesso, voluto dalla città come chiesa che doveva superare, dimensionalmente e per bellezza, quelle di tutte le città rivali. Essa doveva inoltre essere posta di fronte all’importante battistero romanico e nel sito della precedente e più piccola S. Reparata, nel cuore della città e come volume completamente isolato. Tale in effetti è rimasta fino a oggi, al centro di una piazza che, per molti secoli, è stata percorsa da processioni devozionali, che nel Battistero e nel Duomo avevano i due nodi principali del proprio sviluppo. Il cantiere brunelleschiano durò dal 1420 al 1436, arco temporale nel quale venne realizzata la cupola a doppio guscio da lui ideata. Lanterne e tribune morte, anch’esse quasi integralmente disegnate dal Brunelleschi, vennero però costruite da altri. L’Opera del Duomo di Firenze aveva indetto un concorso, nel 1418 per la copertura a cupola della chiesa, il cui tamburo aveva larghezza massima di 42 metri. Lo vinsero, a pari merito, Lorenzo Ghiberti (1378-1455) e Filippo Brunelleschi, ma quest’ultimo con l’astuzia riuscì a essere l’unico responsabile della ideazione e costruzione della grande chiusura cupolata del tamburo all’incrocio tra navata longitudinale e transetto. Brunelleschi seppe dimostrarsi qui straordinario uomo di cantiere, competenza nella quale portò tutta la propria cultura di umanista e di tecnico inventore di macchine, attuando una saldatura esemplare, su basi umanistiche, tra cantiere gotico e invenzione rinascimentale dell’architettura. La grandiosità dell’impresa fiorentina trovò in lui infatti l’inventore di un inedito sistema di ponteggi e di macchine da cantiere e il geniale maestro d’opera. La più importante sintesi della cultura tecnologica per l’edilizia del tempo venne raccolta nel trattato De ingeneis, del senese Mariano di Jacopo Vanni (1381-1453) detto il Taccola, suo amico. L’opera inaugurò la trattatistica ingegneristica del Rinascimento. Brunelleschi e Taccola furono capostipiti di quella dinastia di artisti ingegneri toscani il cui vertice è rappresentato da
Francesco di Giorgio Martini (1439-1502) e da Leonardo da Vinci (1452-1519). Il biografo Antonio Manetti, contemporaneo di Brunelleschi, ha lasciato memoria delle meditazioni condotte dall’architetto e artista fiorentino mentre si aggirava tra i ruderi romani insieme a Donatello che con lui misurava le costruzioni, ma «sanza mai aprire gli occhi alla architettura». Il primo, una volta ritornato da Roma a Firenze, geloso delle proprie conquiste intellettuali e tecniche riuscì a mettere a punto, nel cantiere della cattedrale della sua città, «e modi delle centine e delle armature, e così dove si potessi fare sanza esse pè risparmi delle spese e delle comodità». In continuità con i magistri gotici, Brunelleschi utilizzò, come strumento fondamentale del proprio progetto, il modello in scala, al quale anche Leon Battista Alberti esplicitamente riconobbe, nel trattato De re aedificatoria, la funzione di strumento rivelatore della firmitas, di quella stabilità che era stato tema di studio fondamentale, se non principale, dei costruttori di cattedrali. L’esito fu una cupola composta da struttura a doppio guscio perché risultasse la più leggera possibile, chiusa in alto da serraglio ad anello. La sua costruzione procedette con l’aiuto di poche impalcature in legno, sia all’interno che all’esterno, queste ultime collocate sulle nervature in costruzione. Realizzò un’opera così «ampla da coprire tutti e’ popoli toscani», disse l’Alberti. La storiografia ha riconosciuto che si è di scatto qui consolidato il nuovo statuto sociale dell’architettura rinascimentale, innalzatasi, senza mediazioni di alcun tipo, alla condizione di ars liberalis da quella precedente di ars mechanica.
tutte le espressioni – dalla architettura, alla scultura, alla pittura e alle arti minori –, fiorì abbondante in città, in cantieri ove maestranze locali e straniere mescolarono i loro apporti in originali sintesi. Lo testimonia, in particolare, il complesso monumentale del Duomo e del Battistero. Il primo, cattedrale dedicata a S. Maria Assunta, venne iniziato nel 1046; devastato nel 1117 da un terremoto, fu ricostruito lungo tutto il xii secolo. Il suo robusto campanile venne eretto nel 1294 in coincidenza con l’aggiunta delle cappelle laterali, sul fianco destro della chiesa. Altre cappelle, sul fianco sinistro, vennero costruite nel secolo xiv. La grande e liscia facciata a capanna della cattedrale è alleggerita in alto da tre ordini di loggette. Dei tre portali, quello centrale è protetto da un protiro sovrastato da edicola. Molte le sculture: nei capitelli zoomorfi, nei leoni stilofori del protiro, nei sottarchi con le figurazioni dei mesi, nell’architrave delle porte. La possente massa muraria del complesso è ben leggibile dall’alto nella evidente strutturazione costruttiva ad archi rampanti del corpo longitudinale, nell’alto transetto e nelle cupola estradossata con basso tamburo. Il cristallino volume ottagonale del vicino Battistero, iniziato nel 1196 e concluso nel 1216, è elegante costruzione completamente rivestita in marmo rosso di Verona, con arcate cieche a terra, quattro ordini sovrapposti di logge aperte, e un quinto, conclusivo ordine a logge cieche. La celebre decorazione scultorea è quasi integralmente opera di Benedetto Antelami e aiuti.
IL COMPLESSO MONUMENTALE DEL DUOMO E DEL BATTISTERO DI PARMA La città di Parma, situata nel cuore della pianura emiliana e lungo la via romana Emilia alla confluenza di due torrenti, Baganza e Parma, ebbe nel Medioevo complicata vita di libero comune e, nel Rinascimento, non meno difficile situazione di aggregazione a signorie diverse in lotta tra loro. Solo a Cinquecento inoltrato divenne capoluogo del piccolo ducato dei Farnese, che la governarono fino alla prima metà del Settecento. Un’arte romanica di matrice lombarda, presente in
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SANTUARI E SACRI MONTI dal XIII al XVIII SECOLO UNA GEOGRAFIA DI SEGNI SACRI NEL TERRITORIO ITALIANO Come indica l’etimologia, il termine Santuario identifica un luogo carico di sacralità, percepito pertanto come emergenza nell’omogeneità di un contesto che in esso trova un punto di orientamento, non semplicemente geografico o paesistico, ma simbolico, in quanto manifestazione del legame tra mondo spirituale e mondo materiale dei popoli, tra visibile e invisibile, tra umano e divino. Il cristianesimo ha recepito tale termine dalle culture in cui si è innestato, non propriamente al fine di identificare i luoghi di culto, le ecclesiae per la raccolta delle assemblee cristiane, ma per qualificare aspetti devozionali legati al sentimento religioso popolare, alla coscienza e alla memoria collettive. Per queste infatti eventi o fatti eccezionali, che legano terra e cielo, tempo storico ed eternità, trovano in un oggetto preciso – una reliquia – oppure in un luogo – nel quale si edifica come segno identificativo e memoriale un santuario – uno stabile riferimento. Il territorio cristianizzato è stato pertanto costellato sia dal sistema cultuale e istituzionale delle pievi, con le chiese parrocchiali e i battisteri, che fa capo alle cattedrali centro delle diocesi, tutte riferite alla prima delle basiliche, quella papale vaticana, sia da santuari, segni e sacri percorsi collegati a devozioni che col tempo spesso si sono intrecciate al culto pur essendone distinte per origine. Chiese e cattedrali infatti possono avere anche attributo di santuari; questi ultimi, tuttavia, così come i segni sacri, ad esempio cippi o cappellette devozionali, e i percorsi, come i sacri monti e i tracciati di pellegrinaggi, segnalano l’emergere di un dato antropologico religioso distinto dalla liturgia cristiana. Attualmente il santuario cristiano è luogo identificato direttamente della santa sede; è un luogo di memoria di un evento miracoloso che ha ingenerato un cospicuo afflusso di pellegrini. Isolato o inserito in strutture abitate più o meno articolate, in molti casi esso è stato anche l’occasione per lo sviluppo di importanti città, come è avvenuto per i santuari di Loreto o di San Michele Arcangelo. Soprattutto in epoca medievale celebri santuari importanti divennero mete di pellegrinaggio: in Terra Santa; in particolari luoghi d’Europa, come presso la tomba di san Giacomo di Galizia, a Santiago de Compostela; in varie parti d’Italia, segnata anche da percorsi
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che li collegavano tra loro. L’intensa devozione popolare per i fondatori degli ordini mendicanti causò nella penisola italiana l’immediata promozione a santuario, tra xiii e xiv secolo, dei loro luoghi di sepoltura, come nel caso della Basilica di S. Francesco ad Assisi o di S. Antonio a Padova. La devozione mariana del xv secolo promosse l’erezione di nuovi santuari da ascrivere a visioni miracolose, come nei casi del santuario della Madonna di Caravaggio, o di Loreto, Oropa e Pompei. Dal Medioevo a oggi inoltre, le città italiane hanno spesso svolto funzione di unitario fondale scenico per sacri percorsi, processioni, feste confraternali. Celebri sono i casi di Roma, in occasione dei giubilei, o della seicentesca Milano borromaica, segnata nelle sue vie da molte croci stazionali e penitenziali, oltre che da innumerevoli altari.
IL SANTUARIO DI LORETO Il santuario di Loreto è legato alla tradizione medievale crociata, secondo la quale, quando nel 1291 l’esercito cristiano fu costretto ad abbandonare la Palestina, le pietre che costituiscono la Santa Casa furono miracolosamente trasportate da alcuni angeli in Illiria (Croazia) e, il 10 dicembre del 1294, nei pressi di Recanati. A seguito della presenza di ladri e briganti e di un litigio tra i fratelli possessori del terreno sul quale la casa si era miracolosamente collocata, la Santa Casa fu più volte spostata dagli angeli, che la depositarono nelle vie urbane di Loreto. Essa costituisce il perno attorno a cui nei secoli successivi fu edificato l’attuale santuario mariano. Studi archivistici compiuti in questi ultimi anni hanno rivelato che le mura della Santa Casa furono condotte a Loreto per iniziativa della nobile famiglia Angeli, poiché appartenevano alla dote nuziale di Ithamar (figlia di Neceforo Angeli e sposa dell’angioino Filippo di Taranto). Attorno alla Santa Casa ben presto si sviluppò il “quartiere” denominato Villa Santa Maria, trasformato in un borgo-castello fortificato dopo la costruzione di mura difensive volute da Leone x nel primo quarto del xvi secolo. L’attuale costruzione basilicale ebbe inizio nel 1468 e racchiuse al suo interno la Santa Casa, liberata dai portici e da una primitiva chiesa che la circondavano. Essa fu voluta dal cardinale Pietro Barbo, successivamente
divenuto papa con il nome di Paolo ii. I lavori furono affidati a Marino di Marco Cedrino (dal 1471) e a Giuliano da Maiano (dal 1476), ai quali susseguirono numerosi architetti che diedero il loro personale contributo all’edificazione della chiesa e alla gestione del cantiere. La basilica mariana, a croce latina triabsidata e con transetto sporgente poliabsidato, possiede una struttura facilmente leggibile a una visione aerea, che lascia percepire la composizione spaziale interna e la forma delle cappelle laterali progettate dal Bramante all’inizio del xvi secolo. L’imponenza della chiesa è accresciuta dalla cupola brunelleschiana edificata da Giuliano Sangallo tra il 1498 e il 1500 e rinforzata in seguito da Francesco di Giorgio Martini, Andrea Sansovino e Antonio da Sangallo il Giovane. Anche l’ampio sagrato (Piazza della Madonna) favorisce l’emergere della chiesa nella spianata basilicale sulla quale si affacciano il Palazzo Apostolico, iniziato dal Bramante, il Collegio Illirico e lo svettante campanile eretto tra il 1750 e il 1754 dal Vanvitelli, il quale utilizzò come modello la torre campanaria borrominiana della chiesa romana di S. Andrea delle Fratte. Nella parte prospiciente all’abside è ben visibile il bastione del Sangallo, parte dell’apparato difensivo costruito attorno al santuario riorganizzato più volte con il passare dei secoli. Tra i differenti mutamenti si annovera quello voluto da Innocenzo viii sul finire del xv secolo, che affidò a Baccio Pontelli l’incarico di munire le mura esistenti di un camminamento di ronda ancora esistente e di fabbricare ampi locali, destinati a ospitare i soldati posti a difesa del santuario.
IL SACRO MONTE DI VARALLO Il Sacro Monte di Varallo fu edificato per ideazione di fra’ Bernardino Caimi che, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, promosse la costruzione di un monte santo sul quale riproporre in distinte cappelle gli episodi evangelici salienti. Egli iniziò i lavori nel 1491 incentivandone personalmente la costruzione fino al 1499, anno della sua morte. Terminata questa prima fase di edificazione del Sacro Monte i lavori ripresero nel 1517; l’incarico di eseguire le decorazioni delle cappelle venne affidato a Gaudenzio Ferrari, il quale realizzò sia gli affreschi che le opere scultoree. Conclusasi anche questa fase nella seconda metà del xvi secolo si ebbe un nuovo impulso edilizio favorito da san Carlo Borromeo, che visitò il santuario con le cappelle nel 1578 e lo definì Nova Jerusalem. Sulle istanze rinnovatrici del Concilio di Trento (1563) l’arcivescovo mila-
nese intese promuovere l’ampliamento del complesso di Varallo poiché espressione di una religiosità drammaticamente percepibile dai fedeli che, attraverso il percorso scenografico e la visione dei “quadri” della Passione compartecipavano alle vicende dolorose della Passione e alla storia salvifica dell’uomo. Credendo fortemente nelle potenzialità espressive e comunicative dei sacri monti, san Carlo Borromeo riprese il progetto di ampliamento del complesso monumentale studiato da Galeazzo Alessi nel 1562, modificandolo e adattandolo alle nuove necessità pastorali. Ripresi i lavori nella seconda metà del xvi secolo, il cantiere del Sacro Monte continuò a fasi alterne fino al 1765, con l’apporto di molti artisti di rinomata fama. Nel corso dei secoli si susseguirono numerosi architetti, tra i quali vi fu anche Pellegrino Tibaldi, autore della Porta Maggiore edificata nel 1584 come imponente ingresso della salita al Sacro Monte. L’attuale complesso è composto da 44 cappelle dislocate lungo le pendici del Monte delle Tre Croci, nelle quali sono presenti circa 600 statue e 4.000 figure dipinte. Esse sono precedute dalle Cappelle della Madonna del Riposo, di S. Gerolamo, di Cesare Maggi e del Signore Bianco, che non appartengono prettamente al complesso monumentale ma ne costituiscono in qualche modo un prodromo architettonico. Al santuario, invece, appartiene la Basilica dell’Assunta, costruita grazie alle offerte dei pellegrini e all’interessamento di Agostino Beccaria. Rimaneggiata più volte nel corso del xvii e xviii secolo, la chiesa fu terminata una prima volta nel 1649 e una seconda nel 1728. La facciata, invece, fu realizzata tra il 1891 e il 1896 su progetto di Giovanni Ceruti. Nascosto parzialmente nella vegetazione, il Sacro Monte costituisce un interessante complesso della cristianità occidentale che si dipana su un percorso tortuoso accuratamente studiato. Costituito da edifici e cappelle autonome, che si concentrano verso la sommità del colle, esso è composto da piccole emergenze architettoniche ben visibili anche dalla visione aerea. Tra i differenti monumenti si impongono all’attenzione: l’edificio contenente la Scala Santa, fedele riproduzione della scala custodita presso la basilica romana di S. Giovanni in Laterano; la cappella posta nelle immediate vicinanze della Basilica dell’Assunta con la raffigurazione di Gesù inchiodato alla Croce, costruita tra il 1589 e il 1640 e contenente le sculture di 60 uomini e 12 cavalli; la cappella seicentesca raffigurante Ponzio Pilato che si lava le mani, con 17 statue del xvii secolo di Giovanni d’Enrico; la circolare Cappella della Trasfigurazione, posta sul punto più alto della montagna, contenente 17 statue di due differenti artisti.
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CITTÀ IDEALI, CITTÀ MILITARI DAL XV AL XVIII SECOLO EVOLUZIONE DEL MODELLO DI CITTÀ IDEALE NEL RINASCIMENTO Le nuove istanze sociali e culturali del xv e xvi secolo comportarono, con l’emergere di forme di vita nuova, tipologie edilizie e urbane innovative. In questo periodo, ad esempio, Vicenza si dotò di un sistema di palazzi e case allineate su fronti di 14 metri. Ampie strade vennero proposte da Andrea Palladio ne I quattro libri dell’architettura, con il fine di poter spostare facilmente l’esercito all’interno delle città. Accanto ai grandi edifici di rappresentanza e ai monumenti pubblici cominciarono a essere edificati quartieri o aree urbane per un solo ceto sociale, come nella Roma cinquecentesca d’inizio secolo. Importanti famiglie detentrici di grande potere stimolarono l’ideazione di molte città ideali, con le quali si cimentarono i maggiori architetti del xvi-xvii secolo. Alcuni progetti vennero sviluppati secondo un’impostazione prettamente militare; tra le numerose città edificate ex novo nel xvi secolo si annoverano “Terra del Sole”, costruita presso Forlì da Cosimo de’ Medici nel 1564, e Palmanova, eretta dalla Repubblica Veneziana a partire dal 1593 su progetto di Giulio Savorgnan. Altre città ideali nacquero dalla trasformazione urbana di cittadine già esistenti ridisegnate secondo lo schema e l’impostazione dei nuovi signori. Nell’Italia meridionale la connotazione agricola ebbe il sopravvento sulla progettazione meramente ideale e portò alla fondazione di strutture urbane con una maglia fortemente organizzata e gerarchizzata. Queste città, tra le quali sono degni di nota i borghi agricoli settecenteschi di Vittoria e Granmichele, costituirono il vertice di un più vasto sistema di controllo territoriale fondato sul latifondismo di tipo baronale. Alla diffusione del tema della “città ideale” contribuirono i numerosi trattati teorici di città e fortezze ideali, che costituirono la matrice di riferimento per molti architetti del xvi e xvii secolo. In questo senso fondamentali risultarono: gli apporti cinquecenteschi della città ideale a carattere militare a sette punte di Giovanni Battista Bellucci; la città ottagonale di Girolamo Maggi, ottenuta dalla compenetrazione di due quadrati ruotati di 45 gradi; la città ideale ottagonale con sedici radiali concentriche di Pietro Sardi; la città fortificata a dodici bastioni di Francesco de Marchi; la città
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ideale a maglia ortogonale a sette bastioni di Pietro Cataneo; e l’ottagona città ideale di Giorgio Vasari il Giovane. CITTADELLA Cittadella sorge nei pressi dell’incrocio tra due importanti antiche arterie stradali: la medievale strada che congiungeva Treviso con Vicenza e quella che univa Padova a Bassano. La sua particolare posizione la poneva in prossimità dello sbocco delle vie commerciali e militari provenienti dalla Germania e nelle vicinanze della cittadina di Castelfranco, con la quale ebbe rapporti contraddittori dipendenti dai differenti scenari politici ed economici. La struttura fortificata attuale risale al xiii secolo, allorquando i padovani decisero di cingere con una cerchia difensiva Cittadella e di costruirvi un castello per fronteggiare i trevigiani, che nel 1199 avevano edificato il borgo murato di Castelfranco. Per difendersi da un ipotetico attacco e per utilizzare la città come avamposto contro i nemici, oltre che per rendere palese la supremazia militare ed economica dei signori di Padova, le merlate mura urbane furono dotate di 32 torri quadrangolari sporgenti prive di merli e attraversate dal cammino di ronda. Esse furono probabilmente progettate da Benedetto da Cartura e si inserirono in un più vasto programma di controllo territoriale. Cittadella, infatti, fu dotata fin dalla sua fondazione di un imponente giurisdizione fondiaria e godette di privilegi di governo attraverso la redazione di statuti propri. La poligonale cinta muraria fu realizzata su un alto terrapieno artificiale al quale fu anteposto un vallo con fossato riempito da acqua sorgiva. La struttura delle mura rispecchia la conformazione del terreno. Quattro torri principali sono poste in corrispondenza delle porte urbane, mentre 12 torri quadrangolari sporgono dalla muratura perimetrale. I rimanenti 16 torresini furono realizzati con medesimi materiali e tecnica costruttiva, ma con minor aggetto verso l’esterno della città. Differenze stilistiche e funzionali si possono scorgere anche nelle diverse porte urbane, tra le quali spiccano la settentrionale Porta Bassano, articolata in cinque ordini di fortificazione, e Porta Padova, nel cui complesso difensivo Ezzelino iii da Romano nel 1251 fece erigere la Torre di Malta, per imprigionare i nobili padovani.
Nella sua estrema semplicità la struttura urbana testimonia la volontà dei suoi ideatori di edificare un borgo, nel quale inserire tutte le strutture necessarie alla vita di un’articolata comunità, assoggettata alla potenza dei signori di Padova. All’impianto vagamente centrico delle mura corrisponde uno sviluppo urbano basato sull’intersezione perpendicolare delle due vie principali. All’incrocio delle due arterie stradali fu realizzata una piazza rettangolare sulla quale ancora oggi si affaccia il Duomo, ricostruito in stile neoclassico, oltre che il Palazzo della Loggia o del Podestà, ricostruito nella prima metà del xv secolo dopo la conquista di Cittadella da parte della Repubblica Veneziana avvenuta nel 1406. La maglia interna dell’abitato urbano è dunque caratterizzata da una scacchiera ortogonale con isolati quadrati di 1.600 mq. L’impianto urbano misto (centrico-ortogonale) forse rispecchia la supremazia teoretica delle conoscenze militari padovane duecentesche rispetto a quelle trevisane della fine del xii secolo. Tale struttura urbana non costituisce comunque un unicum nel panorama delle fortificazioni europee, poiché richiama una tipologia assai diffusa nei territori germanici.
PALMANOVA Voluta da Venezia come fortezza militare strategicamente posta sul confine del suo territorio, Palmanova fu iniziata il 7 ottobre del 1593, in occasione del ventiduesimo anniversario della vittoria di Lepanto. La sua edificazione si inserisce nel quadro del rafforzamento delle difese terrestri della Repubblica della Serenissima, che nella prima metà del xvi secolo aveva condotto attenti studi sulla necessità di aumentare le proprie difese, e aveva iniziato la costruzione del Forte di S. Andrea a Venezia e aveva rafforzato le fortificazioni di Bergamo. Probabilmente progettata da Giulio Savorgnan, generale di artiglieria e soprintendente all’ufficio delle fortificazioni di Venezia, come una cittadina ideale stellare a 9 punte, essa si basa su precise regole geometriche, ancora oggi ben visibili a una visione aerea. Palmanova segue una struttura poligonale regolare con baluardi fortificati sporgenti agli angoli. Questi possedevano due piazze di cannoniere ciascuno, allo scopo di difendere simultaneamente i due fianchi delle difese urbane che da essi dipartivano. Per la costruzione di Palmanova furono impiegati molti uomini poiché la natura geologica del luogo non poteva fornire i materiali da costruzione necessari, che dovettero essere
quindi trasportati con grande dispendio economico. Anche la preparazione del terreno e lo scavo della prima cortina difensiva comportarono ingenti lavori, per i quali nel gennaio del 1594 furono chiamati quasi 4.000 uomini. Una prima parte della struttura difensiva urbana fu terminata già nel 1599, anche se per assistere alla completa edificazione della prima cerchia si dovette attendere fino al 1623. Nella seconda metà del xvii secolo l’ufficio delle fortificazioni della Repubblica della Serenissima decise di rafforzare le difese realizzando degli avamposti tra i baluardi esistenti, oltre che camminamenti sotterranei esterni alla cinta, già realizzata, per poter consentire spostamenti protetti alle proprie truppe. A questa prima modificazione si aggiunsero quelle apportate tra 1806 e il 1809 dall’esercito napoleonico, che distrusse i villaggi di Palmata, Ronchis e San Lorenzo che ne impedivano l’ampliamento con la realizzazione della terza cerchia fortificata. Palmanova, dunque, attualmente possiede tre cerchie bastionate, con 27 postazioni difensive, 9 avamposti fortificati e fossati che anticamente erano parzialmente riempiti di acqua. Particolare attenzione era stata posta fin dalla sua fondazione all’approvvigionamento idrico, che doveva servire per scopi militari e civili. La città, infatti, era circondata da una fossa allagata che raccoglieva anche le acque sporche dell’urbe, che vi confluivano attraverso due piccole aperture seminascoste poste nei pressi di Porta Aquileia. L’acqua per uso civile, invece, giungeva attraverso l’acquedotto realizzato da Alvise Molin nel 1665. Palmanova è costituita entro le mura da una rigida maglia urbana al cui centro si apre l’esagonale Piazza Grande, sulla quale si affaccia il Palazzo dei Provveditori Generali (ora Municipio), la Loggia dedicata ai Caduti e il Duomo, edificato a partire dal 1615 su progetto di Baldassarre Longhena o dello Scamozzi. Nella parte più esterna della città sono ancora visibili le ampie caserme napoleoniche e le tre polveriere francesi, che sostituirono quelle venete.
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IL TEATRO URBANO DAL XVII AL XVIII SECOLO CUPOLE E PIAZZE BAROCCHE Già in epoca romana la cupola, membratura architettonica che esige particolare perizia costruttiva e sapienza statico-strutturale, ebbe dimensioni e forme diverse e venne utilizzata con significati e rimandi simbolici precisi. Presente anche nella prima architettura cristiana (in battisteri, cappelle e martyria), divenne tema di centrale importanza nelle chiese bizantine. Nella cattedrale romanica e gotica venne introdotta per risolvere la copertura dell’incrocio tra navata longitudinale e transetto; talvolta non fu estradossata, ma coperta all’esterno da tiburio o da torre. Ridivenne un tema di centrale importanza nel Rinascimento, a partire dalla grande cupola della cattedrale fiorentina di S. Maria del Fiore di Filippo Brunelleschi, iniziata nel 1420. Il progetto di Michelangelo per la Basilica Vaticana fissò un modulo compositivo dell’organismo a cupola a partire dal quale scattarono le molte e diverse invenzioni barocche. In alcuni casi la cupola, estradossata, assunse forme inedite all’esterno, completamente diverse dalla sua configurazione intradossale. È il caso, ad esempio, della cupola borrominiana della romana S. Ivo alla Sapienza (1642-1662): qui la tensione della sua spazialità interna si stempera dapprima nel morbido ed elegante tamburo esterno, per riprendere forza nell’alta lanterna conclusa da cuspide, con decorazioni a rilievo spiraliformi, figura emblematica del trionfo della luce divina sulla babele umana. È il caso anche della guariniana cupola della Cappella della Sindone (1667-1670) nella quale l’illusionismo luministico del suo intradosso è contrastato dal gioco dal tono decisamente meno altisonante del curioso estradosso cuspidato. In altri casi la tensione e il dinamismo di spazi cupolati interni quasi non è percepibile all’esterno, come nella berniniana chiesa di S. Andrea al Quirinale (1658-1661) su base ellittica. La facciata infatti la sovrasta per raccordarsi con gli edifici ai lati, come accade in molti altri casi, ad esempio per S. Maria della Pace (1656-1658) di Pietro da Cortona o per il S. Carlo alle Quattro Fontane (1634-41 e 1664-7) di Francesco Borromini.
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Più complesso è il gioco borrominiano tra possente cupola su tamburo e prospetto ondulato della chiesa di S. Agnese in Piazza Navona (1653-1655). Più plastico e paesaggistico quello messo a punto da Baldassarre Longhena per la veneziana S. Maria della Salute (1631-1687). Alla verticalità della cupola barocca, rimando emblematico alla spaziosità dell’incavo interno captatore di luce, fa da efficace controcanto in molte realizzazioni della stessa epoca, l’articolato e raccolto invaso a cielo libero della piazza, disegnata dal profilo alto dei palazzi che su di essa affacciano. Spazio pubblico per eccellenza, quest’ultima diventa nel Seicento un contesto scenografico di grande potenza rappresentativa, stimolo per la composizione di facciate che tendono a configurarsi in modo autonomo rispetto agli spazi interni che racchiudono.
PIAZZA NAVONA A ROMA Fra le piazze barocche di Roma, Piazza Navona ha qualità singolari, benché come le altre componga uno straordinario e dirompente fondale scenografico allo svolgimento della vita quotidiana. La sua geometrica forma di rettangolo allungato, arrotondato sui lati corti, ricalca il perimetro dello stadio dell’imperatore Domiziano, da lui inaugurato nell’86 d.C. Il vuoto della piazza conservò la sua forma lungo tutto il Medioevo e il Rinascimento, mentre i resti delle costruzioni romane circostanti vennero liberamente inglobati nelle case qui costruite. La piazza fu a lungo teatro di feste popolari. A seguito di radicali modifiche del contesto in epoca rinascimentale, Papa Sisto iv (1471-1484) la destinò a ospitare un importante mercato. Solo nel Seicento, tuttavia, essa acquisì il valore tuttora evidente di invaso, che calamita, come un centro attrattivo, gli spazi circostanti, non perché integrati con essa da un coerente sistema stradale barocco, ma in quanto subordinati alla sua matrice di spazio autonomo, centro di vita civica. Il passo fondamentale in questa direzione venne compiuto da Papa Innocenzo x Pamphili (1644-1650), proprietario di un palazzo che si affacciava su di essa. Il Papa lo rese un centro vivo di incontri, esaltando quello spazio allungato a luogo con propria fisionomia.
Esso venne sapientemente ridisegnato soprattutto attraverso l’organizzazione del suo vuoto attorno al centro, individuato dalla fontana berniniana dei Quattro Fiumi. Quest’ultima tuttavia risultò subordinata al possente intervento borrominiano nella facciata di S. Agnese, vero centro della piazza che, polarizzata dai due importanti episodi, divenne una vasta sala a cielo scoperto, completamente chiusa lungo il perimetro dalla cortina continua di edifici semplici ed eleganti. Gli stretti intervalli degli sbocchi delle strade irregolari ribadivano tale chiusura. La borrominiana facciata della chiesa di S. Agnese (1653-1655), a sua volta, offriva un lungo sviluppo ondulato che rispettava la continuità della cortina muraria, introducendovi però una plastica articolazione evidenziata con forza dallo slancio verticale della massiccia cupola, portata in primo piano e quindi direttamente sulla piazza, grazie all’arretramento del muro sottostante. L’orizzontalità generale del luogo risultava pertanto potentemente contrastata dalla massa massiccia della cupola. L’invaso della piazza, a sua volta, ritmato da tre fontane che lo scomponevano in quattro aree, era però unitariamente organizzato attorno a un unico centro, fissato dalla sottile lama dell’obelisco che, svettando nella fontana berniniana dei Quattro Fiumi (1648-1651), rimandava alla plastica verticalità della cupola di S. Agnese. L’obelisco egiziano, concluso dalla colomba dello Spirito Santo simbolo della famiglia Pamphili, sovrastava un complesso scultoreo composto da una grotta, popolata da piante e animali esotici, e dalle personificazioni dei quattro fiumi dei diversi continenti (il Nilo, il Danubio, il Gange, il Rio de la Plata) che esaltavano il trionfo della Chiesa sul mondo intero. La vivace mobilità dell’acqua zampillante in vari modi nella vasca, la gestualità ampia delle personificazioni dei fiumi, scuotevano l’assetto chiuso e compatto del luogo, contrapponendosi anche al più lento e solenne movimento dell’architettura borrominiana.
LA CHIESA DI S. MARIA DELLA SALUTE A VENEZIA All’architetto Baldassarre Longhena (1598-1682), allievo del manierista Vincenzo Scamozzi (1548-1616), si devono gli interventi più apertamente barocchi per qualità scenografica in Venezia. Sono suoi infatti, oltre che la chiesa di S. Maria della Salute (1631-1687), i Palazzi Pesaro (del 1652) e Rezzonico (del 1667) lungo il Canal Grande. La chiesa fu voluta come ex voto dal
senato veneziano di fronte alla Piazza S. Marco, nel punto di confluenza del Canal Grande con il Canale della Giudecca e in rapporto visivo con due importanti chiese palladiane: il S. Giorgio e il Redentore alla Giudecca. Vincitore del pubblico concorso, Longhena concepì un organismo, a pianta centrale ottagonale, suddiviso all’esterno e all’interno in tre distinti volumi. Il volume cilindrico ottagonale di base è articolato all’esterno tramite la sporgenza di sei cappelle radiali a base rettangolare e coperti da cupola. All’interno un deambulatorio profondo si apre, oltre che sulle sei cappelle, verso un presbiterio rettangolare biabsidato sui lati corti e a sua volta aperto sul coro, e verso l’ingresso, segnato in facciata da un arco trionfale scandito da colonne giganti su robusti plinti. Lo spazio interno presenta pertanto una controllata articolazione orizzontale dei tre volumi (ottagono, presbiterio, coro), rimarcati in verticale dalla sequenza degli archi. Viene in tal modo esaltata la percezione orizzontale dello spazio, felicemente contrastata dalla verticalità accentuata del volume più ampio dell’ottagono, concluso dalla cupola. Analoga composizione, ma con modulazione diversa, è ottenuta all’esterno. L’ottagono, composto da due volumi tra loro raccordati da ampie volute e sovrastato dalla cupola chiusa da una lanterna che riprende a scala più piccola i motivi del corpo più grande, aggancia il volume del presbiterio, sovrastato anch’esso da una cupola su tamburo. Dietro quest’ultimo, lateralmente concluso da alte absidi, due campaniletti, anch’essi conclusi da piccole cupole, chiudono la composizione verticale. In basso e dietro di essi, poco visibile, sporge il volume parallelepipedo del coro. Longhena interpreta qui, nella originale sequenza delle cupole e tramite le loro successive riduzioni dimensionali, il tema bizantino della pluralità di cupole a copertura di un edificio. La composizione, nel contrasto trattato con grande prudenza tra sviluppo orizzontale del coordinamento dei volumi e accentuazione dei singoli spazi in verticale, esalta il dinamico emergere del complesso architettonico come polo visivo proteso sull’acqua e saldamente collegato, nello stesso tempo, alla terra. Il moto rotatorio dell’ottagono, ancorato all’ambiente costruito retrostante, viene felicemente e insistentemente ribadito dalle rigonfie e plastiche volute a chiocciola che raccordano ottagono di base a tamburo e cupola. Le forme, più neocinquecentesche che non propriamente barocche dell’insieme, vengono in tal modo investite dalla luce in un gioco di chiaroscuri dall’andamento scenografico, tra azzurro del cielo e colori cangianti della laguna.
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VILLE, PALAZZI, REGGE DAL XVI AL XIX SECOLO DALLA VILLA ALLA REGGIA La matrice tardo romana della villa, elaborata in forme oiginali, nella modernità quattro-cinquecentesca italiana e poi diffusa in tutto l’Occidente, è doppia. Nell’età imperiale si erano diffuse sia ville rurali, centro di grandi tenute agricole, che ville urbane dalle enormi dimensioni composte da un grande numero di edifici tipologicamente diversi. Tra i casi più celebri dell’uno e dell’altro tipo sono la Villa Adriana a Tivoli e la Domus Aurea di Nerone a Roma. Con l’insorgere dell’Umanesimo e del Rinascimento, la casa di campagna nobiliare, già diffusa nelle varie regioni d’Italia come sede saltuaria di ritiro e centro di controllo della produzione agricola, venne nobilitata con un fasto simile a quello antico. Scattò allora l’elaborazione di un colto rapporto tra progetto dell’organismo edilizio e disegno delle aree a verde, giardini e parchi, in scenografie di grande suggestione, che sancirono una fondamentale unità tra architettura e paesaggio. In conseguenza di tale assunto e in stretto rapporto con le tecnologie costruttive e i caratteri stilistici delle diverse epoche, i consistenti corpi del volume principale della villa assunsero efficace valenza di alta rappresentanza, esaltata dalle dimensioni e dalle decorazioni dei locali interni. La configurazione planimetrica del corpo centrale ebbe articolazione varia in relazione anche ai caratteri del sito. Talvolta fu eretto un blocco compatto, con o senza sviluppo lineare oppure con il volume centrale emergente; in altri casi, al blocco centrale vennero aggiunte ali laterali, di solito di altezza diversa e non allineate con esso. In altri ancora venne sviluppato un edificio quadrilatero attorno a un cortile chiuso, oppure aperto in forma di U. Due corpi rettangolari compatti potevano essere accostati tra loro ortogonalmente, oppure l’edificio poteva comporre, nella forma planimetrica ad H, due cortili aperti. Culmine infine di questo processo, a Caserta, è l’articolazione di blocchi compositi: nella villa casertana infatti il quadrilatero edilizio principale ospita al suo interno un volume a croce, che scompone lo
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spazio vuoto interno in quattro cortili chiusi, della stessa dimensione.
LA REGGIA DI CASERTA Essendo Carlo iii di Borbone insicuro nella sua residenza ai Portici di Napoli, incaricò Luigi Vanvitelli di realizzargli, a 30 chilometri circa dalla città e in un’area pianeggiante e verde dominata dal monte Tigata, una Reggia a Caserta, sul modello della francese residenza reale di Versailles, da collegare come questa, tramite un rettifilo, alla città. La più grandiosa residenza extraurbana costruita nella penisola italiana, era dunque stata concepita per adempiere sia a funzioni rappresentative che a esigenze amministrative, militari e politiche. Il saldo volume quadrilatero, completato all’interno da una crociera, venne realizzato, in mattoni e travertino, secondo uno stile classicista ancora carico di sensibilità tardo barocca che alleggerì e rese elegante il gigantesco complesso, privo di articolazioni, sviluppato in altezza su sei piani fuori terra e due interrati. I prospetti esterni vennero saldamente strutturati, oltre che da un alto basamento bugnato, dal ritmico ordine gigante delle colonne. Un arco trionfale, alto quanto il basamento bugnato, segnò l’ingresso alla Reggia dalla città; sopra questo, un secondo arco allungato ospitò nel centro una finestra, dalla quale il re poteva osservare l’arrivo degli ospiti e affacciarsi. La struttura verticale ad archi venne conclusa da un enorme timpano che profilò in alto la facciata. Gli spazi della villa corrisposero, nel loro ordine, alle simmetrie della sua maglia geometrica regolare. Al centro della crociera centrale, al piano terreno, un vano ottagonale aperto consentì il raccordo diretto, tra le quattro corti chiuse interne, tramite brevi passaggi allineati sulle loro diagonali. Ai piani superiori i loggiati che correvano sui prospetti interni consentivano il collegamento diretto di tutte le stanze periferiche con il nucleo centrale. Nella Reggia trovavano posto anche una sfarzosa cappella, collegata all’atrio centrale di ingresso tramite uno scenografico scalone d’onore, e un piccolo teatro, la cui sala ebbe forma planimetrica a ferro di ca-
vallo, direttamente accessibile anche dall’esterno della Reggia. Dietro questa si sviluppò un gigantesco parco all’italiana impostato secondo un rigido schema geometrico. La sua direttrice principale fu disegnata da un largo canale di acqua corrente, che collegò direttamente la Reggia con una cascata d’acqua ad alti gradoni, di forte impatto scenografico. Per questa, e per i sorprendenti giochi d’acqua ovunque diffusi, venne appositamente realizzato un acquedotto e una rete di canalizzazioni coperta e scoperta, che penetrava nel sistema delle grotte artificiali e alimentava le numerose e grandiose fontane zampillanti, sparse nel giardino. Fontane, punti di sosta, percorsi e grotte erano popolati da sculture che componevano narrazioni figurate di antichi miti, secondo un programma iconografico il cui tema centrale era il ricordo del Giardino delle Esperidi. La geometria a scacchiera della Reggia venne ripresa anche nel vasto giardino, secondo una corrispondenza esaltata sia dagli arredi e dai decori dei locali dell’edificio, che dall’organizzazione e dal sistema iconografico, vegetazionale e di giochi d’acqua, dei parterres. Nelle stanze, infatti, i decori delle pareti e i disegni delle pavimentazioni vennero concepiti in modo da far percepire agli abitanti una forza centripeta che, dall’esterno, cioè dal giardino, era volta verso il nucleo più interno della Reggia. Secondo questa stessa regola venne concepito l’ordinamento di ognuno dei parterres del giardino, al cui centro ampie vasche d’acqua, circondate da movimentati cicli scultorei, dovevano essere, per forza figurativa e dimensionale, perno di autonoma centralità, che lasciava sullo sfondo il complesso architettonico, nonostante le sue gigantesche dimensioni.
LA VILLA REALE DI MONZA La Villa di Monza, progettata e realizzata a partire dal 1778 dall’architetto Giuseppe Piermarini (17341808), giovane allievo e assistente di Vanvitelli attivo a Napoli e autore della Reggia di Caserta, fu voluta, dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria, come residenza di campagna per il quarto figlio, l’arciduca Ferdinando, suo rappresentante in Lombardia. Costruita in un’area non molto distante dalla residenza cittadina imperiale nel Palazzo Reale di Milano e un
tempo luogo di caccia dall’ottimo clima, la Villa sorse nei pressi di Monza, nobile borgo di notevole importanza commerciale. Insieme ai giardini e al parco successivo (1805) l’importante costruzione vi impose una scala dimensionale maestosa. Il limpido impianto planimetrico riprende lo schema a corte aperta di ascendenza sei-settecentesca delle ville di delizia lombarde, organizzandone la visione lungo un asse di perfetta simmetria. Prendendo inizio dallo stradone alberato di accesso lungo due chilometri, tale asse attraversa la corte d’onore, in origine priva di diaframmi con l’esterno, per sfociare nel giardino retrostante. Un cannocchiale visivo aperto collega, in questo modo, i volumi della villa al contesto. Lungo tale asse il Piermarini coordinò la graduale riduzione della volumetria dell’edificio, a partire dal blocco principale composto dal corpo nobile centrale e dalle due ali, cui aggiunse i corpi di servizio laterali, le serre e le scuderie. L’effetto ottenuto fu quello di una gigantesca e apparentemente semplice strutturazione volumetrica, qualificata da prevalente orizzontalità, le cui pareti vennero omogeneamente lavorate, con sapiente pacatezza, nel ritmo delle modanature, delle paraste, delle cornici e delle trabeazioni, di matrice classica. L’efficace studio di ombre e luci, dalle chiare e delicate coloriture, risultò più pacato nelle superfici verso la corte d’onore, più plastico e deciso nella facciata verso il giardino, la cui raffinata eleganza acquisì sapore accentuatamente privato. Il corpo centrale della villa, articolato su tre lati attorno alla corte d’onore quasi quadrata, venne sviluppato tutto alla stessa altezza. Il volume mediano fu composto da due piani nobili soltanto, che ospitavano i locali di rappresentanza; nelle ali, simmetriche a questi, i due piani, di minore altezza, vennero raddoppiati con piani ammezzati di servizio. Due avancorpi cubici, fortemente autonomi, chiusero le due ali. Quello a sinistra ospita una Cappella di corte, a pianta a croce greca e col capocroce coperto da cupola, con decorazioni di Albertolli, Knoller, Levati, Traballesi pervenuteci solo in parte. L’avancorpo opposto venne concepito come Cavallerizza. Il fabbricato agganciato alla cappella e parallelo al corpo centrale della villa ospitò un teatrino piermariniano ad anfiteatro, non individuabile dall’esterno. All’estremità di questo fabbricato e ortogonalmente a esso, una cilindrica Rotonda si raccordava con la lunga originaria serra di limoni, oggi nota come Serrone.
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La Rotonda, celebre per gli affreschi di Appiani sul tema di Amore e Psiche, venne collegata, tramite lunghi corridoi, con gli appartamenti arciducali. Sul lato opposto, rispetto all’asse centrale di simmetria, vennero alzati i corpi edilizi destinati ad ospitare servizi vari, il maneggio, le scuderie. Gli Austriaci abbandonarono la villa all’ingresso di Napoleone in Milano, nel 1796. Occupata dapprima dalle truppe francesi, venne presto riadattata a sede politica e di governo oltre che di residenza, sotto la direzione dell’architetto Luigi Canonica. Nel 1803 vennero aggiunte le cancellate, che delimitano il primo cortile e la corte d’onore, e piccole costruzioni. Fu mutato anche l’assetto viario del contesto circostante, per il collegamento con Monza e Milano. Con l’annessione della Lombardia al Regno d’Italia nel 1859, la villa divenne proprietà dei sovrani; per volontà dei Savoia vi si realizzarono ampie modifiche. A seguito dell’uccisione del re Umberto i a Monza nel luglio del 1900 essa venne però completamente abban-
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donata dai sovrani e dalla corte. Ebbe allora inizio la sua lunga fase di progressiva e crescente decadenza tuttora in corso. Il complesso Villa-Giardino-Parco di Monza è ritenuto uno straordinario patrimonio unitario di storia, arte e natura, importante testimonianza di interessi estetici, scientifici, ricreativi e celebrativi del potere politico fino al xix secolo, un monumento unitario e inscindibile, strutturato secondo un preciso disegno paesaggistico di vegetazione, architetture, aree arborate e agricole, manufatti architettonici, assi viari e rete idrica. Il Parco di Monza, inoltre, è l’unica area verde storica, “in scala” con la complessità e la vastità dell’area metropolitana milanese. Ai primi decenni del secolo xx risalgono le imponenti trasformazioni del parco, soprattutto la costruzione dell’autodromo (1922), che ha provocato il disboscamento di gran parte della antichissima Selva dei Gavanti e ha inciso sulla continuità dei suoi lunghi viali, delle sue prospettive e dei suoi cannocchiali ottici.
NOTA BIBLIOGRAFICA GENERALE Non sono molti i testi di sintesi storica dell’architettura italiana, concepiti autonomamente rispetto a più ampie e vaste storie dell’arte e a inquadramenti storico-stilistici di carattere europeo. La storiografia architettonica del resto si è sviluppata come disciplina a sé in epoca recente; il fatto spiega l’enorme prevalenza di monografie e studi particolari rispetto a grandi sintesi. Inoltre la storia dell’architettura italiana non è propriamente identificabile come fenomeno con caratteri unitari fino a tempi molto vicini a noi. Non è neppure facile inseguire pubblicazioni che restituiscano unitariamente l’arco cronologico e tematico del presente volume, a carattere misto storico e geografico, oltre che compreso tra prima cristianizzazione del territorio italiano, sulla base della centuriazione romana, e neoclassicismo sette-ottocentesco, con esclusione quindi delle trasformazioni territoriali conseguenti alle rivoluzioni industriale e urbana. Dall’opera è stata espunta anche la tematica abitativa, a parte qualche eccezione, e il tessuto insediativo rurale. Molto facile è invece trovare ampi squarci di costruzione storiografica pertinenti ai temi trattati in questo volume in Enciclopedie e Repertori di storia dell’Arte e di artisti, in importanti inquadramenti di storia dell’arte, in più volumi e con contributi rimasti celebri e ancora oggi indiscussi per molti aspetti. Esistono anche album fotografici di architetture e paesaggi; numerosi testi d’orientamento bibliografico; scritti antichi e trattati più volte ristampati, utili come fonti; opere di critica e di teoria; diari di viaggi e guide. L’architettura è inoltre spesso studiata per epoche, per aree geografiche, per centri urbani, in rapporto a problemi di tutela, in dipendenza da grandi personalità di architetti o di scuole e tendenze. A titolo orientativo si ricordano qui alcune raccolte fondamentali esclusivamente italiane e per la sola architettura, ancora facilmente reperibili e utili. Tra le enciclopedie: P. Portoghesi (diretto da), Dizionario enciclopedico di architettura e urbanistica, Roma 1968-9, 6 voll.; Macmillan Encyclopedia of Architects, London-New York 1982, 4 voll. Tra le collane: F. Dal Co (diretta da) Storia dell’architettura italiana, in più volumi ognuno dei quali curato da importanti studiosi: F.P. Fiore (a cura di), Il Quattrocento, Milano 1988; A. Bruschi (a cura di), Il primo Cinquecento, Milano 2002; C. Conforti e R.J. Tuttle (a cura di), Il secondo Cinquecento, Milano 2001; A. Scotti Tosini (a cura di), Il Seicento, Milano 2003; E. Kieven, G. Curcio, Il Settecento, Tomo I, Milano 2000. Tra le opere di sintesi: L. Grassi, Medioevo Rinascimento Manierismo Barocco, Milano 1965; D. Yarwood, The Architecture of Italy, London 1970; C. Brandi, Disegno dell’architettura italiana, Torino 1986. Molte le sintesi parziali o tematiche di grande valore, delle quali si citano solo alcune esemplifi-
cative, per epoche storiche a partire dalla prima cristianizzazione del territorio della penisola: R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 3121308, Roma 1981; P. Verzone, L’architettura religiosa dell’alto Medioevo nell’Italia settentrionale, Milano 1942; L. Fraccaro De Longhi, L’architettura delle chiese cistercensi italiane, Milano 1958; C.A. Quintavalle, Vie dei pellegrini nell’Emilia medievale, Milano 1977; G. Agnello, L’architettura civile e religiosa in Sicilia nell’età sveva, Roma 1961; A.M. Romanini, L’architettura gotica in Lombardia, Milano 1969, 2 voll.; P. Murray, Architettura del rinascimento, Milano 1971; W. Lotz, Studi sull’architettura italiana del Rinascimento, Milano 1989; R. Bonelli, C. Bozzoni, V. Franchetti Pardo, Storia dell’architettura medievale, Bari 1988; G. Masson, Italian Villas and Palaces, London 1959; A. Blunt, C. De Seta, Architettura e città barocca, Napoli 1978; G. Mezzanotte, L’architettura neoclassica in Lombardia, Napoli 1966; R. Gabetti, L’architettura italiana del Settecento, Torino 1982. Caso a sé è la raccolta di volumi sulle ville, tra le quali si segnalano: J. Ackermann, La villa. Forma e Ideologia, Einaudi, Torino 1992; P.F. Bagatti Valsecchi, A.M. Cito Filomarino, F. Süss, Ville della Brianza, I, Milano 1978; R. Cassanelli (a cura di), Ville di delizia nella provincia di Milano, Milano 2003. Si segnalano qui di seguito per capitoli alcuni testi guida sui temi trattati nei capitoli stessi. Si tratta di una selezione solo esemplificativa, che tralascia volutamente molta produzione di valore, proponendosi solo come prima guida d’orientamento nella sterminata produzione letteraria, spesso dedicata a un solo edificio o a un insieme di edifici di un’area regionale, oppure a carattere più turistico che scientifico, o più storico documentario che artistico-architettonico. La situazione qui brevemente proposta rispecchia l’attuale stato della ricerca storico-artistica-architettonica italiana, più frammentata nella filologica ricostruzione di singoli o localizzati fenomeni, che impegnata in grandi sintesi che reinterpretino classiche categorizzazioni generali. Per questa ragione vengono anche segnalati, nella suddivisione per capitoli, alcuni testi di sintesi non molto recenti, ritenuti riferimento ancora importante per la storia dell’architettura. CAPITOLO SECONDO Volumi di sintesi generale, o per aree geografiche o per tematiche: L. Crema, L’Architettura romana, Torino 1959; B.M. Apollonj-Ghetti, Problemi relativi all’origine dell’architettura paleocristiana, in Atti del ix Congresso di Archeologia cristiana, Roma 1975; G. De Angelis d’Ossat, Realtà dell’architettura. Apporti alla sua storia 1933-78 (a cura di L. Marcucci, D. Imperi), vol. I p.te seconda: Sul paleocristiano e bizantino, Roma 1982; C. D’Angela, A.M. Giuntella, L. Pani Ermini (a cura di), Mediterraneo tardoantico e medievale: scavi e ricerche, Taranto 1985; P. Demeglio, C. Lambert, La ‘civitas christiana’: urbanistica delle
città italiane fra tarda antichità e altomedioevo: Aspetti di archeologia cristiana, i Seminario di Studio, mediterraneo tardo-antico e medievale, «Quaderni», n. 1 1992; G.P. Brogiolo, L. Castelletti, Il territorio tra tardo-antico e altomedioevo: metodi di indagine e risultati, in iii Seminario sul tardoantico e l’altomedioevo nell’area alpina e padana, Como 1991; F. Cardini (a cura di), La città e il sacro, Milano 1994; M.A. Crippa, M. Zibawi, L’arte paleocristiana. Visione e spazio dalle origini a Bisanzio, Milano 1998. Volumi su singoli temi, località o monumenti: R. Krautheimer, Corpus Basilicarum Cristianarum Urbis Romae, i-iv, Città del Vaticano 193780; G. Brusin, P.L. Zovatto, Monumenti romani e cristiani di Iulia Concordia, Pordenone 1960; E. Arslan, Milano e Ravenna: due momenti dell’ architettura paleocristiana, «Corso di Studi di Arte Lombarda», viii, 1961; B. Agnello, La Pompei giudaico-cristiana, Cava dei Tirreni 1964.; aa.vv, Da Aquileia a Venezia, Una mediazione tra l’Europa e l’Oriente dal ii secolo a.C, al vi secolo d.C., Milano 1980; M. Mirabella Roberti., Il battistero paleocristiano di Como, in: aa.vv., Archeologia urbana in Lombardia, catalogo della mostra, Como 1984; G.A. Dell’Acqua (a cura di), La basilica di San Lorenzo in Milano, Cinisello Balsamo 1985; C. Bertelli (a cura di), Il millennio ambrosiano. La città del vescovo dai Carolingi al Barbarossa, Milano 1988; aa. vv, Milano capitale dell’Impero romano, 286402 d.C., Milano 1990; aa.vv, Milano capitale dell’impero romano, Album storico-archeologico, Milano 1991. CAPITOLO TERZO Volumi di sintesi generale, o per aree geografiche o per tematiche: aa . vv ., Storia illustrata dei castelli italiani, Genova 1967; A. Natali (a cura di), Castelli e fortificazioni, Milano 1974; A. Bruschi, G. Miarelli Mariani, Architettura sveva nell’Italia meridionale: repertorio dei castelli federiciani, Prato, Palazzo Pretorio, maggio-settembre 1975, Firenze 1975; P. Marconi, F. P. Fiore, G. Muratore, E. Valeriani, I castelli: architettura e difesa del territorio tra Medioevo e Rinascimento, Novara 1978; G. Caciagli, Il castello in Italia: saggio d’interpretazione storica dell’architettura e dell’urbanistica castellana, Firenze 1979; C.A. Willemsen, I castelli di Federico ii nell’Italia meridionale, Napoli 1979; C. Perogalli, M.P. Ichino, S. Bazzi, Castelli italiani: con un repertorio di oltre 4.000 architetture fortificate, Milano 1979; T. B. Batcheller, Ville e castelli d’Italia, Milano 1980; A.A., Settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana: popolamento, potere e sicurezza fra ix e xiii secolo, Napoli 1984; R. Bazzoni (a cura di), Il libro del fai, Milano 1990; G. M., Tabarelli, Castelli, rocche e mura d’Italia, Busto Arsizio 1992; F. Conti, Praesidia itineris: la difesa delle vie commerciali tra il Mediterraneo e il Mare del Nord, Vigevano 1995; G.P. Brogiolo, Nuove ricerche sui castelli altomedievali in Italia settentrionale, Firenze 1996; G. Arena,
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A. Raggio, P. Visocchi, Monastero e castello nella costruzione del paesaggio: i Seminario di geografia storica, atti, Perugia 2000; E. Hubert, L’incastellamento en Italie centrale: pouvoirs, territoire et peuplement dans la vallée du Turano au Moyen Age, Rome 2002; F. Posocco (a cura di), Mura da salvare: catalogo delle città murate d’Italia, Albania, Malta, San Marino e Vaticano, Milano 2003. Volumi su singoli temi, località o monumenti: L. Santoro, Castelli angioini e aragonesi nel Regno di Napoli, Milano 1982; M. Tabanelli, F. Fleetwood, Castelli, rocche e torri dei Malatesta, Brescia 1983; C. Wickham, Il problema dell’incastellamento nell’Italia centrale: l’esempio di San Vincenzo al Volturno, studi sulla società degli Appennini nell’alto Medioevo, Firenze 1985; P. Favole, Città murate di Lombardia, Como 1992; R. Licinio, Castelli medievali, Puglia e Basilicata: dai normanni a Federico ii e Carlo i d’Angiò, Bari 1994. Riviste e periodici: «Castelli; Archeologia dei castelli: rivista di studio, documentazione e ricerca sulle opere fortificate», Roma dal 1984. CAPITOLO QUARTO Monasteri e abbazie: volumi di sintesi generale, o per aree geografiche o per tematiche: G. Fallani, G. Zander, Abbazie e conventi, Milano, 1973; M.T. Balboni, Abbazie di Lombardia, Como 1980; G. Picasso (a cura di), Monasteri benedettini in Lombardia, Milano 1980; G. Spinelli (a cura di), Monasteri benedettini in Emilia Romagna, Milano 1980; C. Carluccio, Il monastero e la città, Salerno 1983; aa.vv., Insediamenti benedettini in Puglia: per una storia dell’arte dall’xi al xviii secolo, Galatina 1985; Franco Caresio, Abbazie in Piemonte, Biella 1988; L.J. Lekai, I Cistercensi: ideali e realtà, con appendici di G. Viti, I Cistercensi in Italia e L. Dal Prà, Abbazie cistercensi in Italia, Pavia 1989; aa.vv., Le abbazie cistercensi nel Lazio: i loro legami con le francesi di Bernardo di Clairvaux, Roma 1992; aa.vv., Le abbazie delle Marche: storia e arte, Cesena 1992; R. Bosi, Monasteri italiani, Bologna 1992; G. Viti (a cura di), Architettura cistercense: Fontenay e le abbazie in Italia dal 1120 al 1160, Firenze 1995; aa.vv., Abbazie e monasteri d’Italia: viaggio nei luoghi della fede, dell’arte e della cultura, Milano 1996; L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano, Monasteri italo-greci e benedettini in Basilicata, Matera 1996; A. Conte, Il disegno degli ordini: monasteri, conventi, abbazie e grancie della Basilicata, Potenza 1996; C. Bozzo Dufour, A. Dagnino (a cura di), Monasteria nova: storia e architettura dei cistercensi in Liguria, sec. xii-xiv, Genova 1998; G. Arena (a cura di), Monastero e castello nella costruzione del paesaggio, Perugia 2000; G.M. Grasselli, P. Tarallo, Guida ai monasteri d’Italia: storia, arte, ospitalità, attività culturali e religiose, Casale Monferrato 2000. Monasteri: volumi su singoli temi, località o monumenti: L. Bramante, Monasteri benedettini nella diocesi di Urbino dal secolo ix al xv, Urbania 1965; aa.vv., Storia e architettura di antichi conventi,
262
monasteri e abbazie della città di Vercelli, Vercelli 1976; C. Filangeri, Monasteri basiliani di Sicilia: mostra dei codici e dei monumenti basiliani siciliani, Palermo 1980; aa.vv., I monasteri benedettini di Subiaco, Milano 1982; aa.vv., Monasteri e conventi in Lombardia: ricerca e documentazione dalle origini al 1500, Milano 1983; aa.vv., Monasteri benedettini nella laguna veneziana, Venezia 1983; G. Bognetti, C. Marcora, L’abbazia benedettina di Civate, Civate 1985; aa.vv., Le abbazie: architettura abbaziale nelle Marche, Ancona 1987; A. Marcolin, Tra castelli, torri ed abbazie del Friuli Venezia Giulia, Trieste 1988; F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Sala Bolognese 1990; G. Romano (a cura di), La Sacra di San Michele: storia arte restauri, Torino 1990; P. Piva, San Benedetto a Polirone, l’abbazia, la storia, San Benedetto Po 1991; D. Varino, A. Boccazzi-Varotto, Castelli e abbazie nella provincia di Torino, Ivrea 1992; G. Spinelli (a cura di), Il monastero di Pontida tra Medioevo e Rinascimento, Bergamo 1994; M. Incerti, Il disegno della luce nell’architettura cistercense: allineamenti astronomici nelle abbazie di Chiaravalle della Colomba, Fontevivo e San Martino de’ Bocci, Firenze 1999; W. Pocino, Abbazie, cattedrali e santuari della Provincia di Roma, Roma 2003. Conventi: volumi di sintesi generale, o per aree geografiche o per tematiche: G. Rossini, L’architettura degli ordini mendicanti in Liguria nel Due e Trecento, Bordighera 1981; B. Giordano, Oasi domenicane: monasteri domenicani italiani, Cortona 1987; P. Roselli, Itinerari della memoria: badie, conventi e monasteri della Toscana, Firenze 1987; C. Romano, Guida ai conventi in Italia, Milano 1992; F. P. Dotti, Architettura religiosa francescana, Padova 1995; L. Monatti, S. Chistè, Architettura cappuccina, Trento 1995. Conventi: volumi su singoli temi, località o monumenti: aa.vv., Il Francescanesimo in Lombardia, Milano 1983; A. Mosconi, I conventi francescani del territorio bergamasco: storia, religione, arte, Milano 1983; G. Crocetti, Conventi agostiniani nella antica diocesi di Fermo, Fermo 1987; D. Iannone, Insediamenti francescani in Bari: chiese e case religiose dentro e fuori le mura, Bari 1987; A. Barilaro, Conventi domenicani di Calabria, Soriano Calabro 1989; P. Lippini, La vita quotidiana di un convento medievale: gli ambienti, le regole, l’orario e le mansioni dei frati domenicani del tredicesimo secolo, Bologna 1990; A. Mazza, Monumenti bresciani: i conventi, Bergamo 1990; M. Castelli, Chiostri e conventi di Firenze fuori le mura, Firenze 1991; P. Corsi (a cura di), Monasteri e conventi del Gargano: storia, arte, tradizioni, San Marco in Lamis 1998; F. Merelli (a cura di), I frati cappuccini di piazzale Velasquez in Milano, Milano 1998; L. Temolo (a cura di) Camillo Kaiser, un cappuccino fra gli artisti dell’800 lombardo, Milano 2001. Certose: volumi su singoli temi, località o monumenti: A. Raule, La Certosa di Bologna, Bologna 1961; L. Beltrami, Storia documentata della Certosa di Pavia, Milano 1896; aa.vv., La Certosa di Pavia, Milano 1968; I. Principe, La Certosa di S. Stefano del Bosco a Serra S. Bruno: fonti e documenti per
la storia di un territorio calabrese, Chiaravalle 1980; G. Alliegro, La reggia del silenzio: Certosa di San Lorenzo in Padula, Napoli 1981; C. Chiarelli, G. Leoncini, La Certosa del Galluzzo a Firenze, Milano 1982; V. e A. Bracco, La Certosa di Padula, disegnata, descritta e narrata dal prof. Sac. A. Sacco, Salerno 1982; aa.vv., Certose e Certosini in Europa, Napoli 1990; G. Gritella, La Certosa di S. Stefano del Bosco a Serra S. Bruno, Cuneo 1991; C. Di Francesco (a cura di), Ferrara: la Certosa: rilievi e restauri, Padova 1992; A.M. Giusti, La Certosa di Pisa a Calci, Pisa 1993; aa.vv., Certosa in nuova luce. Quattro percorsi inediti di arte, storia e architettura sulla Certosa di Garegnano, Milano 1994; A.M. De Leonardis, La Certosa reale di Torino a Collegno e i luoghi di devozione per la città, Torino 1998; G. Pesci (a cura di), La Certosa di Bologna, Bologna 2001; C. Capponi (a cura di), La Certosa di Garegnano in Milano, Milano 2003. CAPITOLO QUINTO Volumi su singoli temi, località o monumenti: L. Grassi, La Ca’ Granda: storia e restauro, Milano 1958; A.C. Quintavalle, Il duomo di Modena, Modena 1965; S. Giordano (a cura di), Monreale: la Cattedrale e il Chiostro, Palermo 1976; L. Cocchetti Pratesi, La Cattedrale di Parma e la crisi della cultura romanica nell’Italia Settentrionale, Roma 1979; M. Pericoli (a cura di), Piazze e palazzi comunali di Todi, Todi 1979; E. Brivio, A. Majo, Il Duomo di Milano nella storia e nell’arte, Milano 1980; aa.vv., La Ca’ Granda: cinque secoli di storia e d’arte dell’Ospedale maggiore di Milano, Milano 1981; C. Tubi, La cattedrale pitagorica: geometria e simbolismo nel duomo di Ferrara, Ferrara 1989; E. Carli (a cura di), Il Duomo di Pisa: il Battistero, il Campanile, Firenze 1989; P. Marconi, Il Broletto di Brescia: filologia e progetto: la riabilitazione di un palinsesto architettonico degradato ma prezioso, Brescia 1990; aa.vv., La Ca’ granda di Milano: l’intervento conservativo sul cortile richiniano, Cinisello Balsamo 1993; T. Verdon (a cura di), La Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze 1993; A. Peroni (a cura di), Il Duomo di Pisa, Modena 1995; C. Acidini Luchinat, R. Dalla Negra (a cura di), Cupola di Santa Maria del Fiore: il cantiere di restauro, Roma 1995; aa.vv., Domus clari Geminiani: il Duomo di Modena, Modena 1998; N. Giandomenico, P. Rocchi (a cura di), Basilica patriarcale di San Francesco in Assisi: il cantiere dei restauri, Milano 1999; E. Vio (a cura di), La basilica di San Marco a Venezia, Antella 1999; A. Tomei (a cura di), La Cattedrale di Cremona: affreschi e sculture, Casalmorano 2001; F. Canali, The Basilica of San Francesco in Assisi, Firenze 2001; G. Bonsanti (a cura di), La Basilica di San Francesco ad Assisi, Modena 2002; S. Di Pasquale, Brunelleschi: la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore, Venezia 2002; G.M., Jacobitti, La basilica benedettina di Sant’Angelo in Formis, Napoli 1992; V.M. Valente, Il Duomo di Molfetta e la Basilica di S. Marco a Venezia: genesi e studio di due architetture a cupola, Bari 1992; R. Cecchi (a cura di), La basilica di San Marco: la costruzione bizantina del ix secolo. Permanenze e trasformazioni, Venezia 2003.
CAPITOLO SESTO Volumi di sintesi generale, o per aree geografiche o per tematiche: A. Mangiarotti, Dizionario degli Architetti ed Ingegneri militari italiani, Roma, 1935; H. Roseman, Ideal city, Bristol 1959; H. De La Croix, Military Architecture and the Radial City Plan in Sixteenth Century Italy, in «The Art Bulletin», n. 263-290, xlii, 1960; L. Mumford, La città ideale nella storia, Firenze 1963; V. Mazzucconi, La città a immagine e somiglianza dell’uomo, Milano 1967; P. Marconi, Una chiave per l’interpretazione dell’Urbanistica rinascimentale. La cittadella come microcosmo, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», serie xv, fasc. 85-90, Roma 1968; C. Perogalli, Città e cittadelle bastionate quali espressioni tipiche dell’architettura e dell’urbanistica del Seicento europeo, dispense Museo Poldi Pezzoli, Milano 1973; Q. Hughens, Military Architecture, London 1974; G.C. Sciolla (a cura di), La città ideale nel Rinascimento, Torino 1975; J.R. Hale, Renaissance Fortifications. Art or Engineering?, London 1977; aa.vv., L’architettura militare veneta del Cinquecento, Milano, 1988; F. Choay, L’urbanisme, utopie et réalités, Paris 1980; A. Mauri (a cura di), Sforzinda e dintorni, Firenze 2002; H.W. Kruft, Le città utopiche: la città ideale dal xv al xviii secolo fra utopia e realtà, Bari 1990; V. Vercelloni, Atlante storico dell’idea della città ideale, Milano, 1994; aa.vv., La città dell’utopia: dalla città ideale alla città del terzo millennio, Milano, 1999. Volumi su singoli temi, località o monumenti: S. Bortolotti, Palmanova, la più grande fortezza d’Europa eretta contro i turchi e contro l’Austria, Udine 1913; P. Damiani, Palmanova, arte e storia, Udine 1965; A. Falaschini, Le fortificazioni di Osoppo e Palmanova nelle lettere e negli ordini di Napoleone, Udine 1967; Q. Bordignoni, Palma e il suo distretto, Udine 1869; A. Guachi, Novae Palmae Civitas. Introduzione alla lettura di Palmanova, Trieste 1972; aa.vv., Il restauro della città ideale di Urbino, Urbino 1978; aa.vv., Palmanova, 3 voll. (La storia, Da fortezza veneta a fortezza napoleonica, Borghi e monumenti), Udine 1982. Riviste e periodici: «Edilizia militare: rivista tecnica quadrimestrale della Direzione generale lavori demanio e materiali del Genio», Roma. CAPITOLO SETTIMO Volumi di sintesi generale, o per aree geografiche o per tematiche: C. Cecchelli, Sanctuaries d’Italie, Roma 1932; aa.vv., Mille santuari mariani d’Italia illustrati: raccolta dei santuari mariani d’Italia, Roma 1960; G. Meriana, Santuari in Liguria, Genova 1987; M. Centini, I Sacri Monti dell’arco alpino italiano: dal mito dell’altura alle ricostruzioni della Terra Santa nella cultura controriformista, Ivrea 1990; P.F. Gasparetto (a cura di), Samuel Butler (1835-1902). Alpi e santuari: viaggio curioso di un grande scrittore inglese tra valli, campanili e tradizioni, Casale Monferrato 1991; R. Brunelli, Alle soglie del cielo: pellegrini e
santuari in Italia, Milano 1992; L. Vaccaro, F. Riccardi, Sacri monti: devozione, arte e cultura della Controriforma, Milano 1992; A. Ravaglioli, Santuari cristiani del Lazio, Roma 1992; R. Bosi, Santuari italiani, Bologna 1997; U. Dovere (a cura di), Santuari della Campania, Napoli 2000; E. Angiolini (a cura di), Gli archivi dei santuari in Emilia Romagna, Modena 2000; L. e P. Zanzi (a cura di), Atlante dei Sacri Monti prealpini, Milano 2002; aa.vv., Il paesaggio dei miracoli: devozione e mecenatismo nella Toscana medicea da Ferdinando i a Cosimo ii, Ospedaletto 2002. Volumi su singoli temi, località o monumenti: L. Magnani, Santuario di Nostra Signora di Loreto, Genova 1979; S. Genuini (a cura di), La “Gerusalemme” di San Vivaldo e i sacri monti in Europa, Montaione 1989; M. Vianelli, La nuova Gerusalemme: il sacro monte di Varallo in Valsesia, Bologna 1995. CAPITOLO OTTAVO Volumi di sintesi generale, o per aree geografiche o per tematiche: aa.vv., Barocco europeo, barocco italiano, barocco salentino, i, Centro di Studi Salentini, Lecce 1970; A. Blunt, C. de Seta, Architettura e città barocca, Napoli 1978; P. Giansiracusa, Il barocco siciliano: architettura, urbanistica, scenografia, Roma 1984; M. Fagiolo, M. Madonna, Barocco romano e barocco italiano: il teatro, l’effimero, l’allegoria, Roma 1985; M. Manieri Elia, Barocco leccese, Milano 1989; G. Leone, Il barocco in Sicilia: la rinascita del Val di Noto, Milano 1991; aa.vv., Studi sul Seicento e Settecento in Sicilia e a Malta, Roma 1995; M.L. Gatti Perer, Barocco lombardo: per una definizione dell’architettura nel Settecento, Milano 1995; A. Leon, Il barocco: architettura e urbanistica, Milano 1995; B. Boscarino, Sicilia barocca: architettura e città 16101760, Roma 1997; aa.vv., Itinerario barocco nel Salento, Bari 2000; R. Bosel, C.L. Frommel, Borromini e l’universo barocco, Milano 2000. Volumi su singoli temi, località o monumenti: G.L. Marini (a cura di), Il barocco torinese, Torino 1961; G. Giansiracusa, Il barocco minore: documentazione di immagini per una ricerca sul territorio e sull’architettura dell’altipiano Ibleo, Noto 1990; G. Cantone, Napoli barocca, Roma 1992; P. Portoghesi, Roma barocca, Roma-Bari 1998; B. Azzaro, M. Bevilacqua, G. Coccioli, A. Roca de Amicis (a cura di), Atlante del Barocco – Lazio I: Provincia di Roma, Roma 2002; aa.vv., Le città tardo barocche della val di Noto, Sicilia sud orientale, Ragusa 2003. Riviste e periodici: «Annali del barocco in Sicilia, Centro internazionale di studi sul barocco in Sicilia», Roma 1994. CAPITOLO NONO Volumi di sintesi generale, o per aree geografiche o per tematiche: M.R. Bigi (a cura di), Il palazzo italiano, Milano 1975; M.R. Bigi, Le corti italiane, Milano 1977; G. Lise (a cura di), Castelli e palazzi d’Italia, Milano 1982; aa.vv., A Torino: le ville reali,
Roma 1988; S. Valtieri (a cura di), Il palazzo dal Rinascimento a oggi: in Italia, nel Regno di Napoli, in Calabria: storia e attualità, Roma, 1989; F. Gianazzo di Pamparato (a cura di), Famiglie e palazzi: dalle campagne piemontesi a Torino capitale barocca, Torino 1997. Volumi su singoli temi, località o monumenti: M. Fagiolo, Funzioni simboli valori della reggia di Caserta, Roma 1963; G.G. Bascapé e C. Perogalli, Palazzi privati di Lombardia, Milano 1965; G.G. Bascapé, Il “Regio Ducal Palazzo” di Milano dai Visconti ad oggi, Milano 1970; aa . vv ., I palazzi fiorentini: quartiere di San Giovanni, Firenze 1972; G. Alisio, Siti reali dei Borboni: aspetti dell’architettura napoletana del Settecento, Roma 1976; L. Puppi e F. Zuliani, Padova: case e palazzi, Vicenza 1977; Giuseppe Mazzariol, I palazzi del Canal Grande, Novara 1981; G. Caronia, La Zisa di Palermo: storia e restauro, Roma-Bari 1982; G. Gianighian, P. Pavanini, Dietro i palazzi: tre secoli di architettura minore a Venezia 1492-1803, Venezia 1984; R. Festi, I palazzi rinascimentali di Trento al tempo del cardinale Bernardo Cles, 1485-1539, Trento 1985; E. Bassi, Palazzi di Venezia: admiranda urbis Venetae, Venezia 1987; G. M. Erbesato, Il Palazzo Te di Giulio Romano, Mantova 1987; L. Castellucci, C. Bargellini, I palazzi del potere: storia delle strutture pubbliche delle province di Firenze, Lucca, Pistoia e Pisa, Firenze 1991; aa.vv., Il Palazzo ducale di Modena, Modena 1992; C. Di Biase, Strada Balbi a Genova: residenza aristocratica e città, Genova 1993; G.M. Jacobitti e A.M. Romano, Il Palazzo Reale di Caserta, Napoli 1994; L. Azzolini, Palazzi del Quattrocento a Cremona, Cremona 1994; aa.vv., Alcuni palazzi demaniali in Roma: il Quirinale, Palazzo Madama, Montecitorio, Palazzo Chigi, Roma 1995; M. De Marco, Architetture leccesi: i palazzi del rinascimento, del barocco e del rococò, Lecce 1995; R. Bernabei, Residenze sabaude, Roma 1996; L. Azzolini, Palazzi del Cinquecento a Cremona, Cremona 1996; L. Azzolini, Palazzi e case nobiliari: il Seicento a Cremona, Cremona 1998; G. De Nitto, La reggia di Caserta, Firenze 1998; L. Azzolini, Palazzi e case nobiliari: il Settecento a Cremona, Cremona 1999; aa.vv., Palazzi bolognesi: dimore storiche dal Medioevo all’Ottocento, Zola Predosa 2000; P. Fabbri, Palazzi a Firenze, Venezia 2000; L. Azzolini, Palazzi e case nobiliari: l’Ottocento a Cremona, Cremona 2001; A. De Rose, I palazzi di Napoli: dall’edilizia rinascimentale fino all’architettura del primo Novecento, arte, storia, aneddoti e curiosità dei grandi edifici della metropoli partenopea, Roma 2001; A. Buccaro, Storia e immagini del Palazzo Reale di Napoli, Napoli 2001; C. Burroughs, The Italian Renaissance palace facade: structures of authority, surfaces of sense, Cambridge 2002; Riviste e periodici: «Le dimore storiche: periodico dell’Associazione dimore storiche italiane», Roma dal 1985; «Historic houses & gardens open to the public in Italy», fai, Fondo per l’ambiente italiano; adsi, Associazione dimore storiche italiane, Milano dal 1996.
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NOTE LO SGUARDO DALL’ALTO E L’ARCHITETTURA Maria Antonietta Crippa Cfr. R. Schwarz, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell’architettura sacra, Morcelliana, Brescia 1999, pp. 45-46. 2 Cfr. M. Halbwachs, La memoria collettiva (a cura di P. Jedlowski) Unicopli, Milano 1987, p. 147. 3 Cfr. sia per la citazione di Le Corbusier a p. x che per quella di Mumford a pag. 64, il testo: L. Mumford, Passeggiando per New York. Scritti sull’architettura della città, Donzelli, Roma 1998. 4 Cfr. Ibidem, p. x. 5 Cfr. Ibidem, p. 234. 1
A VOLO D’UCCELLO Roberto Cassanelli Nadar, Quando ero fotografo, ed. it. a cura di M. Rago, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 54. L’edizione originale apparve nel 1900 ed è stata più volte ristampata. 2 Nadar. Les années créatrices: 1854-1860, Réunion des Musées Nationaux, Paris, 1994, p. 170, fig. 129 (quartiere dell’Etoile, 1868). A Nadar si deve anche il saggio Le droit au vol, apparso nel 1865 (Nadar, ii, Dessins et écrits, a cura di J.-F. Bory, Hubschmidt, Paris 1979, pp. 915-965). Sul fenomeno del volo in aerostato v. M. Majrani, Aerostati, Edizioni dell’Ambrosino, Milano 1999. 3 Lo sguardo di Icaro. Le collezioni dell’Aerofototeca Nazionale per la conoscenza del territorio, a cura di M. Guaitoli, Campisano, Roma 2003. Per l’Italia svolse una funzione di pioniere per la rilevazione dei siti archeologici Giacomo Boni. 4 Ancora fondamentale su questo tema C. Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagini nel medioevo, Einaudi, Torino 1983. 5 V. per tutta la questione e la fortuna del “genere” L. Nuti, Ritratti di città. Visione e memoria tra Medioevo e Settecento, Marsilio, Venezia 1996. 6 H. Etiennez, L’Italie à vol d’oiseau, dessinée par A. Guesdon, ou histoire et description sommaire des principales villes de cette contrée accompagnée de quarante vues générales dessinées d’après nature, Paris 1849. 7 J. Schulz, La cartografia tra scienza e arte. Carte e cartografi nel Rinascimento italiano, Panini, Modena 1990; A volo d’uccello. Jacopo de’ Barbari e le rappresentazioni di città nell’Europa del Rinascimento, a cura di G. Romanelli, S. Biadene, C. Tonini, Arsenale, Venezia 1999. 8 Firenze e la sua immagine. Cinque secoli di vedutismo, a cura di M. Chiarini e A. Marabottini, Marsilio, Venezia 1994. 9 All’ombra del Vesuvio. Napoli nella veduta europea dal Quattrocento all’Ottocento, Electa, Napoli 1990. 10 L’Europa moderna. Cartografia urbana e vedutismo, a cura di C. De Seta e D. Stroffolino, Electa, Napoli 2001. 11 L. Nuti, “Il mondo della rappresentazione”, in Storia dell’architettura italiana. Il Seicento, a cura di A. Scotti Tosini, Electa, Milano 2003, i, pp. 18 sgg. 1
IL PAESAGGIO GEOMETRICO. L’IMPRONTA DI ROMA Pierluigi Tozzi Per indicazioni di metodo sullo studio della agrimensura e delle centuriazioni si vedano specialmente A. Schulten, s. v. Centuriatio, in Dizionario Epigrafico di Antichità romane, ii, 1, pp. 189-192; E. Fabricius, s. v. Limitatio, in Real Encyclopädie der classischen Altertumwissenschaft xiii, 1, Stuttgart
1926, coll. 672-701; P. Fraccaro, s. v. Agrimensura, in Enciclopedia Italiana, i, Roma 1929, pp. 983-90; F. Castagnoli, s. v., Limitatio, in Dizionario Epigrafico di Antichità romane, iv, 3, Roma 1964, p. 1379 ss.; O.A.W. Dilke, The Roman Land Surveyors. An Introduction to the Agrimensores, Newton Abbott 1971, trad. ital. Gli agrimensori di Roma antica. Teoria e pratica della divisione e dell’organizzazione del territorio nel mondo antico, Bologna 1979, passim; P. Tozzi, La riscoperta del passato nell’Ottocento. Ricerche sulle divisioni agrarie romane dell’Italia settentrionale, in «Rivista Archeologica dell’Antica Provincia e Diocesi di Como», f. 161, 1979, Como 1980, pp. 215-39, ripreso, con variazioni, in Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano, Catalogo della Mostra, Modena 11 dicembre 1983-12 febbraio 1984, Modena 1984, pp. 33-38. Per i testi degli agrimensori possiamo ricorrere a diverse edizioni: la migliore è quella di P. Blume, K. Lachmann, T. Mommsen, A. Rudorff, Die Schriften der römischen Feldmesser (Gromatici Veteres), i: Text; ii: Erlaüterungen, Berlin, 1848-52; si veda anche C. Thulin, Corpus Agrimensorum Romanorum, Leipzig 1913. La bibliografia storica sui problemi del catasto romano può indicarsi come segue: E.N. Legnazzi, Del Catasto Romano, Padova 1885; E. Lombardini, Studj idrologici e storici sopra il grande estuario adriatico, in Memorie del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Classe di Scienze Matematiche e Naturali, vol xi, 1870, spec. c. xiii. Colmamento della Padusa, ossia della Laguna Ravennate, e tracce della divisione di terreni assegnati alle antiche colonie romane, pp. 54-58; Appendice B. Sulle reticole tracciate nelle carte topografiche dell’Alta Italia, indicanti le divisioni di terre assegnate ad antiche colonie romane, pp. 70-74 (in realtà la memoria fu letta in adunanze diverse, tra il 1867 e il 1868. Lo studio apparve dapprima in «Il Giornale dell’Ingegnere-Architetto» xvi, 1868, p. 14 ss., 115 ss., 209 ss., 396 ss., 520 ss.); A. Schulten, Die römische Flurteilung und ihre Reste, Abhandl.der Kön. Gesellschaft der Wissensch. zu Göttingen, Phil.Hist. Klasse, N.F., Band. 2, n. 7, Berlin 1898; P. Fraccaro, Opuscula iii, 1 e 2, Pavia 1957 (in cui sono raccolti molti studi fondamentali sulle centuriazioni romane, specialmente dell’Italia settentrionale). Importanti anche i numerosi studi di F. Castagnoli, di cui si può soprattutto vedere Le ricerche sui resti della centuriazione, Roma 1958; di R. Chevallier, tra i quali Cité et territoire. Solutions romaines aux problèmes de l’organisation de l’espace, in anrw, ii, 1, p. 694 ss.; di G. Chouquer, F. Favory, di cui, per esempio, Contribution à la recherche des cadastres antiques, Paris 1980. Imponente per l’uso sistematico della fotografia aerea, dopo il saggio magistrale di A. Bradford, Ancient Landscapes. Studies in Field Archeology, London 1957, si segnala la ricerca di G. Schmiedt, di cui è esemplare l’Atlante aerofotografico delle Sedi umane in Italia, parte i. L’utilizzazione delle fotografie aeree nello studio degli insediamenti, Istituto Geografico Militare, Firenze 1964; parte ii. Le sedi antiche scomparse, Firenze 1970; parte iii. La centuriazione romana, Firenze 1989. Sui caratteri del paesaggio antico, sia di quello manifesto in superficie, sia di quello sepolto, si vedano soprattutto: P. Tozzi, Introduzione. Per la storia del paesaggio agrario italiano, in Saggi di topografia storica, Firenze 1974, pp. 7-13; Idem, Memoria della terra. Storia dell’uomo, Firenze 1987, p. 11 ss.; Idem, La via Emilia in età romana, in Aemilia. Una via, una regione, Parma 1989, pp. 28-37; Idem, Il libro del Po. Storie di terre, di acque, di uomini, Como 1993; P. Tozzi, M. Harari, Tempi di un territorio. Atlante aerofotografico delle Valli Grandi Veronesi, Parma 1990, pp. 23-26; R.
Peretto, Ambiente e strutture antropiche nell’antico Polesine, in L’antico Polesine. Testimonianze archeologiche e paleoambientali, Padova 1986, pp. 83-97; R. Peretto, E. Zerbinati, Il territorio polesano, in Il Veneto nell’età romana, ii, Verona 1987, pp. 269300; M. Calzolari, Territorio e insediamenti nella bassa pianura del Po in età romana, Verona 1986; Idem, Padania romana. Ricerche archeologiche e paleoambientali nella pianura tra il Mincio e il Tartaro, Mantova 1989; R. Ferri, M. Calzolari, Ricerche archeologiche e paleoambientali nell’area padana. Il contributo delle foto aeree, San Felice del Panaro 1989. Per una conoscenza di base e divulgativa si possono consultare i volumi Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano, Modena 1984; Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984; Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso mantovano, Modena 1984. IL PAESAGGIO ITALICO NELL’AUTUNNO DELL’ANTICHITÀ Massimiliano David K. Miller, Itineraria romana. Römische Reisewege an der Tabula Peutingeriana, Stuttgart 1916; A. Levi – M. Levi, Itineraria picta. Contributo allo studio della Tabula Peutingeriana (Studi e materiali del Museo dell’Impero romano), Roma 1967; L. Bosio, La Tabula Peutingeriana. Una descrizione pittorica del mondo antico (I monumenti dell’arte classica, 2), Rimini 1983. 2 Per una straordinaria rassegna di materiali cartografici e fotografici sull’Italia antica cfr.: G. Schmiedt, Atlante aereofotografico delle sedi umane in Italia, Firenze 1964-1989; aa.vv., Lo sguardo di Icaro. Le collezioni dell’Aerofototeca Nazionale per la conoscenza del territorio, a cura di M. Guaitoli, Roma 2003. 3 Sulle raffigurazioni del paesaggio urbano ravennate cfr. G. Ricci, Ravenna e la sua immagine, in Storia illustrata di Ravenna, i: Dall’antichità al medioevo, Milano 1989, pp. 1-16. 4 Su Pisa cfr. aa.vv., Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici, a cura di M. Tangheroni, Milano 2003. 5 V. Fumagalli, Il paesaggio delle campagne nei primi secoli del Medioevo, in L’ambiente vegetale nell’alto Medioevo (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 37), Spoleto 1990, pp. 19-53 (passim). 6 Sul Foro di Traiano cfr. J. E. Packer, The Forum of Trajan in Rome. A study of the monuments, Berkeley – Los Angeles – Oxford 1997. 7 Ammiano Marcellino, Storie, xvi, 10, passim. 8 aa.vv., Aurea Roma: dalla città pagana alla città cristiana, a cura di S. Ensoli ed E. La Rocca, Roma 2000; aa.vv., Roma dall’Antichità al Medioevo. Archeologia e storia, a cura di M.S. Arena, P. Delogu, L. Paroli, M. Ricci, L. Saguì e L. Vendittelli, Milano 2001; aa.vv., Roma dal iv all’viii secolo: quale paesaggio urbano? Dati da scavi recenti (atti della seduta dei seminari di archeologia cristiana: Roma, 13 marzo 1997), a cura di P. Pergola, Roma 1999. 9 aa.vv., Il palazzo apostolico lateranense, a cura di C. Pietrangeli, Firenze 1991; aa.vv., San Giovanni in Laterano (Chiese monumentali d’Italia), a cura di C. Pietrangeli, Firenze 1997. 10 G. Pisani Sartorio, R. Calza, La villa di Massenzio sulla via Appia: il palazzo, le opere d’arte, (Monumenti romani, 6), Roma 1976; R. De Angelis Bertolotti, G. Ioppolo, G. Pisani Sartorio, La residenza imperiale di Massenzio: villa, mausoleo e circo, Roma 1988; aa.vv., La villa di Massenzio sulla via Appia: il circo, a cura di G. Ioppolo e G. Pisani Sartorio, Roma 1999. 1
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11 Su Milano: aa.vv., Milano capitale dell’impero romano. 286-402 d.C. (catalogo della mostra: Milano, 24 gennaio-22 aprile 1990), Milano 1990; aa.vv., Milano capitale dell’Impero romano, 286-402 d.C. Album storico archeologico, Milano, 1991; aa.vv., L’impero romano tardo-antico e Milano capitale. 286-402 d.C. (Gli incontri del Museo archeologico), Bergamo 1991; aa.vv., Felix temporis reparatio (atti del convegno archeologico internazionale “Milano capitale dell’Impero romano”: Milano, 8-11 aprile 1990), Milano 1992; aa.vv., La città e la sua memoria. Milano e la tradizione di sant’Ambrogio, Milano 1997 (da accompagnare con la lettura di M. David, Ambrosiana tradita, Aquileia nostra, lxviii, 1997, cc. 269-274); aa.vv. 387 d.C. Ambrogio e Agostino, le sorgenti dell’Europa (catalogo della mostra: Milano, 8 dicembre 2003-2 maggio 2004), a cura di P. Pasini, Milano 2003. 12 Ambrosius, Epist., vii, 3. Cfr. M. Bollini, Semirutarum urbium cadavera, «Rivista storica dell’Antichità», I (1971), pp. 163-176. 13 Sulla centuriazione in Italia cfr.: aa.vv., Misurare la terra. Centuriazione e coloni nel mondo romano, Modena 1983 (con volumi successivi dedicati a singole aree geografiche: Modena, Mantova e Roma). 14 Cfr. S. Lusuardi Siena, Sulle tracce della presenza gota in Italia: il contributo delle fonti archeologiche, in Magistra barbaritas. I barbari in Italia, Milano 1984, pp. 509-558; aa.vv., I Goti, Milano 1994. 15 Gerolamo, Lettere, 127. 16 F. Corsaro, Studi rutiliani, Bologna 1981. 17 De reditu, I, 93-96: «Enumerar gli eccelsi monumenti coi mille trofei, sarebbe ugul fatica di chi volesse enumerar le stelle. I templi lucenti confondono lo sguardo che vaga smarrito: così sono le sedi degli dei!». 18 De reditu, I, 48-50: «Exaudi, regina tui pulcherrima mundi, / Inter sidereos, Roma, recepta polos! / Exaudi, genitrix hominum genitrixque deorum: / Non procul a caelo per tua templa sumus». 19 Per un’indagine, nell’ottica archeologica, sulla storia del paesaggio nell’ambito della Tuscia cfr.: T. W. Potter, Storia del paesaggio dell’Etruria meridionale. Archeologia e trasformazione del territorio (Studi nis archeologia), Roma 1985. 20 i, 409-412: «Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris: / Grandia consumpsit moenia tempus edax. / Sola manent interceptis vestigia muris; / Ruderibus latis tecta sepulta iacent. / Non indignemur mortalia corpora solvi: / Cernimus exemplis oppida posse mori». 21 Su Aquileia cfr.: aa.vv., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l’Europa e l’Oriente dal ii secolo a.C. al vi secolo d.C. (Antica madre), Milano 1980. 22 aa.vv., Attila e gli Unni (catalogo della mostra), Roma 1995; aa.vv., Attila. Flagellum Dei? (atti del convegno internazionale di studi storici sulla figura di Attila e sulla discesa degli Unni in Italia nel 452 d.C.), a cura di S. Blason Scarel (Studia historica, 129), Roma 1994. 23 Su Ravenna tardoantica cfr.: G. Bovini, Saggio di bibliografia su Ravenna antica, Patron, Bologna 1968; F. W. Deichmann, Ravenna Hauptstadt des spätantiken Abendlandes, Wiesbaden 1969-1989; G. Bovini, Ravenna, città d’arte, Ravenna 1970; R. Farioli, Ravenna romana e bizantina, Ravenna 1977; aa.vv., Storia di Ravenna, Ravenna, 19901996; aa.vv., Storia illustrata di Ravenna, a cura di P. P. D’Attorre, Milano 1989-1990; V. Manzelli, Ravenna (Atlante tematico di topografia antica. Supplementi, 8)(Città romane, 2), Roma 2000. 24 Sidonio Apollinare, Epistulae, i, 5. A Loyen (a cura di) 1970. 25 Cfr. V. Neri, Cesena tardoantica: lineamenti di storia economica ed amministrativa della città e del suo territorio, in Storia di Cesena. I: L’evo antico, a cura di G. Susini, Rimini 1982, pp. 157-169. 26 Cfr. M. David, ‘Tantis muneribus compta’. Urbanistica e architettura del primo Cristianesimo a Como, in Prime pietre. Gli esordi del Cristianesimo a Como: uomini, fonti e luoghi, Como 2001, pp. 89-107. 27 Sulla capacità di sopravvivenza per “legge
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d’inerzia” di certi paesaggi e, più in generale, per i tuttora stimolanti suggerimenti: E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano (Biblioteca universale Laterza, 69), Roma – Bari 1982. 28 Si pensi ai risultati fondamentali per gli studi tardoantichi e medievistici ottenuti dalla ricerca archeologica sviluppata in insediamenti minori come Castelseprio, Ibligo Invillino, Garlate, Monte Barro, Trino Vercellese, San Vincenzo al Volturno ecc. 29 aa.vv., Antiquarium della villa tardoantica di Palazzo Pignano, a cura di L. Passi Pitcher, Milano 2002; M. David, Battisteri e vasche battesimali in Lombardia. Elementi di riflessione tra ‘vecchi’ e ‘nuovi’ scavi, in L’edificio battesimale in Italia. Aspetti e problemi (atti dell’viii congresso nazionale di archeologia cristiana: Genova – Sarzana – Albenga – Finale Ligure – Ventimiglia, 21-26 settembre 1998) (Atti dei convegni dell’Istituto internazionale di studi liguri, 5), Bordighera 2001, pp. 675-684. 30 aa.vv., La fine delle ville romane. Trasformazioni nelle campagne tra tarda antichità e alto medioevo, a cura di G. P. Brogiolo (Documenti di archeologia, 11), Mantova 1996. 31 aa.vv., I Bizantini in Italia (Antica madre), Milano 1982. 32 E. Zanini, Le Italie bizantine. Territorio, insediamenti ed economia nella provincia bizantina d’Italia, vi-viii secolo (Studi storici sulla tarda antichità, 10), Bari 1998. 33 aa.vv., Ai confini dell’Impero. Storia, arte e archeologia della Sardegna bizantina, a cura di P. Corrias e S. Cosentino, Cagliari 2002. 34 aa.vv., I Longobardi, a cura di G. C. Menis, Milano 1990; N. Christie, Invasion or invitation? The Longobard occupation of Northern Italy, a.d. 568-569, in Romanobarbarica, 11 (1991), pp. 79108; aa.vv., Italia longobarda, a cura di G.C. Menis, Venezia 1991; aa.vv., L’Italia centro-settentrionale in età longobarda (atti del colloquio: Ascoli Piceno, 6-7 ottobre 1995), a cura di L. Paroli (Biblioteca di Archeologia medievale, 13), Firenze 1997; aa.vv., Il futuro dei Longobardi: l’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno. Saggi, a cura di C. Bertelli e G.P. Brogiolo, Milano 2000. 35 aa.vv., Ferrara nel Medioevo. Topografia storica e archeologia urbana, a cura di A.M. Visser Travagli, Bologna 1995. 36 Per un inquadramento della storia climatica nel Mediterraneo e in Europa cfr. P. Alexandre, Le climat en Europe au Moyen Age, Paris 1987; H.H. Lamb, Climate. Past, present and future, London 1972-1977; aa.vv., Climate and history. Studies in interdisciplinary history, a cura di R.I. Rotberg e T.K. Rabb, Princeton 1981. 37 M. Pinna, Il clima nell’alto Medioevo. Conoscenze attuali e prospettive di ricerca, in L’ambiente vegetale nell’alto Medioevo (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 37), Spoleto 1990, pp. 431-451. 38 Paulus Diaconus, Historia langobardorum, iii, 23-24. 39 G.V. Gentili, La villa imperiale di Piazza Armerina, Roma 1963 (5ª ed.); A. Carandini, A. Ricci, M. De Vos, Filosofiana: la villa di Piazza Armerina. Immagine di un aristocratico romano al tempo di Costantino, Palermo 1982; aa.vv., La villa romana del Casale di Piazza Armerina (atti della 4ª riunione scientifica della Scuola di perfezionamento in archeologia classica dell’Università di Catania: Piazza Armerina, 28 settembre – 1° ottobre 1983), a cura di G. Rizza e S. Garraffo, Catania 1988. 40 aa.vv., Dall’eremo al cenobio. La civiltà monastica in Italia dalle origini al’età di Dante (Antica madre), Milano 1987. 41 Cfr. aa.vv., Carlo Magno a Roma, Roma 2001. 42 Tra le tappe fondamentali della ricerca archeologica sul paesaggio si vedano: aa.vv., Archelogia del paesaggio (iv ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia: Certosa di Pontignano, 14-26 gennaio 1991), a cura di M. Bernardi, Firenze 1992; F. Cambi, N. Terrenato, Introduzione all’archeologia dei paesaggi, Roma 1998.
43 Lo straordinario porto fluviale sull’Auser recentemente scoperto a Pisa sembra esaurire la sua attività intorno al v sec. d.C. (cfr. aa.vv., Le navi antiche di Pisa, ad un anno dall’inizio delle ricerche, a cura di S. Bruni, Firenze 2000). Con la tarda antichità la città di Olbia sembra perdere un bellissimo approdo attrezzato ora rivelato da recentissime e quasi inedite ricerche archeologiche. Il mare dell’alto Medioevo ha sommerso gli apprestamenti portuali di Pozzuoli. Anche il porto di Roma si insabbiò progressivamente in epoca altomedievale. 44 Il suono delle campane si diffonde in Occidente nel vii secolo (cfr. aa.vv., Il Medioevo europeo di Jacques le Goff, a cura di D. Romagnoli, Cinisello Balsamo – Milano 2003, passim). Più recente è l’affermarsi dei campanili, da non confondersi con le torri scalari o le costruzioni turriformi congeniali all’architettura cristiana fin dai primi tempi. 45 Iordanes, Getica, 29 (Iordanis de origine actibus Getarum, a cura di F. Giunta e A. Grillone, Roma 1991).